Anno XXXVIII (2010), Fasc. IV, N. 149

Anno XXXVIII (2010), Fasc. IV, N. 149

  1. Saggi
    • MARIO AVERSANO

      Su Pietro da Eboli e Dante. Parte seconda* – pp. 627-653

      By drawing attention to further affinities with Dante’s Beatrice, the author completes the picture of Costanza d’Altavilla sketched by Pietro da Eboli and underlines new similarities between the two poets, especially as far as their “Italian ideology” is concerned. Pietro da Eboli’s work is also analysed in order to restore three lectiones of the Divina Commedia.

    • CIRO PERNA

      I capitoli di Romano Alberti tra satira e burlesco – pp. 654-688

      The unpublished collection of lyrics by Romano Alberti contains fifteen poems in terza rima in which satirical elements clearly derived from Ariosto coexist with cues drawn from Berni’s literary lusus. The satirical and burlesque genres appear to be mingled in them, as other works written towards the close of the sixteenth century also demonstrate.

    • DANIELA DE LISO

      “Così potess’io, mia dolce amica, mostrarti, scrivendoti, tutta tutta la mia anima”. Foscolo tra le Lettere d’amore e l’Ortis. – pp. 689-708

      The massive corpus of letters written by Ugo Foscolo has always been of great interest for literary critics. The same cannot be said, however, of the love letters the poet addressed to different women in different places and times. This essays aims at underlining their importance from a documentary and literary viewpoint.

    • AGATA IRENE DE VILLI

      «La cosa nuova»: una lettura di Eva ultima – pp. 709-724

      The essay is based on a metatextual reading of one Bontempelli’s most puzzling and circuitous works. Published in 1923, Eva ultima marks a borderline between the two narrative models typical of Bontempelli. This is proved by the heuristic tension triggered by the coexistence of an anti-mimetic and deconstructive marvellous, in itself ironic and intellectual, and a mimetic and ‘realistically magic’ one, which paves the way for the fantastic tale in its wellknown twentieth-century form.

  2. Meridionalia
    • PAOLO PROCACCIOLI

      Per Tansillo giocoso. In margine all’edizione dei capitoli – pp. 725-736

      The edition of Capitoli gioiosi gives the author the chance of sketching the history of the text, contemporarily underling its stylistic features and comparing it with other works by Tansillo. Most of all, the essays aims at emphasising the importance and significance of terza rima in a double-faced genre which the Capitoli take into account both from a satirical (Ariosto) and a burlesque (Berni) perspective. The author also discusses the compatibility of burlesque poetry with the public role played by Tansillo at the court of Don Pedro de Toledo.

    • DANILO ROMEI

      Per “Satire” e “Caprici”: Tansillo, Berni (ed altri) – pp. 737-749

      Luigi Tansillo’s Capitoli take Ariosto and Berni as their models. Some influences from Aretino are also to be taken into account, as we can infer from the program implicit in the sentence «dir ben del bene e mal del male». However, the poet’s major choice is not to be seen in his use of paradox or denunciation, but in the humble though dignified way he hold talks with those in power: a sort of Horatian deminutio sui.

  3. Contributi
    • MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY

      Il fascino del mondo orientale in L’Oasi di Leda Rafanelli – pp. 750-776

      Marta Tantawy analyses Leda Rafanelli’s L’oasis by focusing her attention on the figures of outstanding men and women Rafanelli made acquaintance with during her eastern wanderings and her ‘subversive’ period. This allows Marta to point out and compare life in Europe and the East.

    • GIULIA CACCIATORE

      Nel laboratorio di Bufalino – pp. 777-799

      The essay aims at reconstructing the genealogy of Bufalino’s works by tracing in his second novel, Argo il cieco (published in 1984), the nucleus from which Qui pro quo, Tommaso e il fotografo cieco and the unpubl i shed Gua z z a bugl i o or iginat ed. The phys i c ian-pat i ent relationship on which Argo is based allows the author to maintain that La coscienza di Zeno is the “ideal model” of Bufalino’s novel.

  4. Recensioni
    • «Collettanee» in morte di Serafino Aquilano, edizione a cura di Alessio Bologna, Lucca 2009 (leonardo Terrusi) – pp. 800-805

    • NICOLÒ FRANCO

      Epistolario (1540-1548) Ms. Vat. Lat. 5642, a cura di Domenica Falardo, NY 2007 (Milena Montanile) – pp. 806-809

    • CLAUDIA CARELLA

      “Umana cosa picciol tempo dura”. Leopardi, Saffo e il mondo greco, Roma 2010 (Valeria Giannantonio) – pp. 809-811

    • La parola e il luogo, a cura di Antonio Di Grado, Palermo 2010 (Ambra Meda) – pp. 811-813

    • STEFANO CARRAI

      Il caso clinico di Zeno e altri studi di filologia e critica sveviana, Pisa 2010 (Stefania Capuozzo) – pp. 813-816

    • L’oeuvre ou la vie. Mots d’Antonia Pozzi. L’opera e la vita. Parole di Antonia Pozzi, a cura di Laura Oliva e Ettore Labbate, Bern, Berlin, Bruxelles. Frankfurt am Main-New York, Oxford, Wien 2010 (Valeria Giannantonio) – pp. 816-817

    • ROSAMARIA LORETELLI

      L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, Roma-Bari 2010 (Stefano Manferlotti) – pp. 817-820

    • LUDOVICO FULCI

      Ethos e mythos. Poesia e impegno civile nel Novecento italiano, Roma 2010 (Domenico Alvino) – pp. 821-824

Saggi MARIO AVERSANO Su Pietro da Eboli e Dante. Parte seconda* By drawing attention to further affinities with Dante’s Beatrice, the author completes the picture of Costanza d’Altavilla sketched by Pietro da Eboli and underlines new similarities between the two poets, especially as far as their “Italian ideology” is concerned. Pietro da Eboli’s work is also analysed in order to restore three lectiones of the Divina Commedia. I Ancora sulla «gran Costanza», e altro 1. La regina e la donna Ma il sintagma «gran Costanza» – eccezionale come risulta, s’è veduto, allo spoglio delle ricorrenze degli aggettivi gran e grande nella Commedia, uniti a un nome proprio o a un soprannome – si giustifica anche con tutto l’altro che il carme di Pietro da Eboli offre a illustrare la grandezza di questa regina. Pietro comincia battendo sul magnum della sua famiglia («a magnis natalibus veniens»), e sul matrimonio col magnus Enrico, e chiamandola Augusta (l’appellativo che per Dante tocca anche alla moglie del suo alto Arrigo). E qui capita peraltro l’occasione di tornare con qualche elemento più affidabile al discusso «secondo vento di Soave» (Enrico VI): per il vento ben ci può essere dipendenza dal veniens di Pietro, invece che (come si vorrebbe) dal ventum biblico. Converrebbe spiegare, dunque: “secondo venuto di Svevia” (dopo il primo, Federico Barbarossa). Un “avvento”, dunque, come quello sacro e fatale di Pietro e Paolo: «Venne Cefas, e venne il gran Vasello/ de lo Spirito Santo» (Pd XXI, 127). A sostegno può essere addotto il già citato verso 1363 del Liber, che reimpiega il venire in riferimento a Costanza per la nascita di Federico II, dunque nel senso di partorire: «Venit Experia nativi palma triumphi». * La prima parte di questo articolo è apparso nel n. 148/2010, pp. 419-449. 628 MARIO AVERSANO [2] In questo campo lessicale rientra tutta una serie di titoli da cui esce ben delineata la persona di Costanza in quel che esprime innanzitutto il dominium (è domina mundi: v. 1041)47, quale appare all’esterno e come è sentito e vissuto “dentro”. Ma poi la virtus, a leggere tutto il distico in cui si trova, viene bilanciata – e questo, fa intendere l’autore, ugualmente come eredità “genetica” – con requisiti più propriamente femminili: «Virtutem virtus, docilem proba, casta pudicam,/formosam peperit pulchra, beata piam» (vv. 17-18). Allora: costanza-coraggio sì, innanzitutto, e dominium; ma anche docilità, pudicizia, bellezza fisica, pietà. Trapela fin d’ora un che del ritratto di donna che verrà realizzato nella maggiore completezza, con un’abbondanza di linee e di colori quali pochi ne vanta la produzione in versi non solo del Medievo. Esso pare che coincida per più aspetti con quello che di Beatrice è presente nella Commedia. E conviene ricostruirlo al completo, perché nulla c’è di meglio per comprendere appieno il perché della scelta di Dante, e il primato che egli le conferisce nel cielo della Luna. La sua “grandezza” viene a giustificarsi, ancora, col requisito della “sapienza” atta a tradursi in comportamento di governo: nella scia, si può dire, di quella che bisogna riconoscere a Sapia senese – consigliera anch’essa, nel bene (dell’intelligenza) e nel male (dell’invidia)48 – che savia non fu, ad onta del nome. Di regine “consigliere” – ho già mostrato più volte – Dante propone una lista non breve. A ricordarne qualcun’altra, dopo Sapia: Cunizza da Romano e Maria di Brabante; o, anche, la buona Gualdrada e la cattiva: quella che con i suoi conforti (=consigli) indusse Buondelmonte a rompere il patto di sposalizio con una giovane Amidei, generando la divisione tra le due famiglie e la fine della pace in Firenze (Pd XVI, 140 ss.). La Costanza del Liber – dice espressamente Pietro – “consulit” sempre mossa dal fine primo del buon Consiglio: quello di “pacificare”. La troviamo in questo ruolo quando si rivolge ai ribelli salernitani: «Si pugnare licet, superest michi miles et aurum:/ ’inpropriam redeat, consulo, quisque domum’»(vv. 605-606). Ed eccola, a v. 1038, Consigliera dello stesso Imperatore, “unica” per di più a saper trovare le giuste parole della pacificazione: «‘ipsa suum poterit pacificare virum’». Al tema dà molta visibilità finanche 47 L’appellativo di Domina corre per tutto il Liber: cfr., tra gli altri, i vv. 723, 743, 793, 885, 888, 963. 48 Così nella nostra lectura del canto XIII del Purgatorio tenuta in Firenze, per la «Società Dantesca Italiana», il 14 novembre 2002. [3] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 629 il suo rivolgersi a Dio, con tutto che l’oratio è intitolata pro vindicta. Questo ai versi 640-641: «‘da pacem, gladios divide, scinde manus,/ arma cadant, arcusque teras, balistra cremetur’». Scinde manus: uno “scisma” in prospero, evidentemente opposito a quello che sorge dopo la morte di Guglielmo («scismatis exoritur semen»). È, quello di Costanza, lo stesso sogno di pace, in effetti, che alimenta il cuore e la fantasia di Pietro, e costituisce la molla più nobile della scrittura del Liber. Il Meridione è in guerra, ai suoi tempi. Egli non solo la vede infuriare nelle grandi città del Regno – Palermo, Salerno, Napoli, Capua – ma la sconta nel piccolo di Eboli e di Campagna. Se Costanza predilige la guerra – dice l’Arcotico nella Particula XV, ai vv. 400 ss. – da quelle parti potrà ben trovarla; ed è guerra anche di denaro, cioè di usura dei Campagnesi a danno degli Ebolitani: «‘Est prope Campanie castrum, specus immo latronum,/ quod gravat Eboleam sepe latenter humum’». Che di usura si tratti è provato dalla biblica aggettivazione di “gravità” (gravat), a cui aderisce anche Dante (cfr. la «grave usura» di Pd XXII, 79), e ancora dal latenter, l’avverbio che nei Padri designa l’acquattarsi-arrotolarsi da serpi degli usurai: ne è segno in If XIV, 23, dove stanno sotto il fuoco del cielo raggomitolati, ad offrire il minor bersaglio («si sedea tutta raccolta»). Ma più ancora li designa per tali lo specus (unito a latronum): che fuori dalla necessità del verso sarebbe stato spelunca. È la spelunca latronum dei Vangeli (Matth XXI, 13; Marc XI, 17), a cui i Padri della Chiesa concordemente danno la glossa di luogo dove si pratica l’usura mala. Tra le ripercussioni di questa colpa, allora, c’è anche quella che essa provoca odio e spaccature nella società: mette in pericolo la sua pace. Pietro predica la necessità di un quieto vivere tra i cittadini con una veemenza che ha di quel che troveremo poi in Dante. Le invettive del quale, a nostro avviso, potrebbero aver dietro anche l’esempio dell’Ebolitano. Basti vedere quella che, nella Particula XXXII, è lanciata contro il primo responsabile dello scisma nel Regno, il bigamo Matteo d’Aiello; e ci sono gli stessi appoggi scritturali che troviamo nelle alte grida di Dante. Questi i versi 969-971: «O Sodomea lues, o Gomorrea propago, vixeris urbanis morsque ruina tuis. Vas, va, peccati, veteris vetus amfora fraudis». Come negare – anche alla luce di quant’altro constateremo – che da questo vas … fraudis Dante abbia potuto cavare il suo vasel d’ogni froda (If XXII, 82), detto di frate Gomita, dunque di uno che, come 630 MARIO AVERSANO [4] il d’Aiello, ha che fare con la religione? Ed ecco, ai vv. 984 ss., l’accusa di nemico della pace, ancorata al biblico exultant in rebus pessimis (Prov II, 14): exultans odiis, contraria pacis amasti, Ecclesiae stimulus seu rationis honus, iusticiam viduis, viso non ere, negasti, multotiens sociis causaque litis eras… Ma vediamo daccapo (vv. 965-967): Sic scelus eructat, scelerum sic fumat abyssus, thuraque mortiferi sulfuris olla vomit. Sic vetus exalat fumum putredinis antrum … Non è intravedibile qui già san Pietro che si sgomenta di Roma fatta da Bonifazio VIII «cloaca del sangue e della puzza» (Pd XXVII, 25-26)? Allora: «Quelli che usurpa in terra il loco mio» può aver preso l’abbrivo dai vv. 1001 ss. di questa Particula: «Quem, miser, extollis, qui ius usurpat et omen,/qui male consortes precipitando ruet!». Distico che prima ancora combacia – circostanza, questa, di chiara probatività – con tutto Pg XI, 67-89: Io sono Omberto, e non pur a me danno superbia fè, ché tutti i mie’ consorti ha ella tratti seco nel malanno. Il superbia è calettabile sullo extollis; il malanno sul male; il consorti sul consortes; il tratti sul precipitando ruet. E si veda anche, a v. 973, il pendant di Lucifero, il perverso, che si placa nel tempio di Dio dove siede Bonifacio VII: «Templum Luciferi, qui noctem Lucifer odit». Tutto questo evidenziamo anche perché tacciano le accuse rivolte a Pietro di esagerazione “partitica”, difesa ad oltranza del proprio particulare e scarso buon gusto nelle tirate, orribili, con cui assale Tancredi e i Tancredini, nemici dell’Imperatore. 2. Costanza e Beatrice Cronache e leggende guelfe, si sa, hanno addensato sul capo dell’ultima erede dei Normanni ombre cupe, diffondendone la nomea di sposa, madre e regina colpevole di gravi delitti, come l’infedeltà coniugale, la propensione agli intrighi e agli attentati, la [5] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 631 smania di potere, l’odio-disprezzo-disistima per l’elemento “tedesco” allogatosi nel Regno, l’estraneità-rivolta alla politica e alla persona del marito: del quale avrebbe fin procurato la morte. E la storiografia, non esclusa quella più recente, dà talora per vere-verisimili queste imputazioni. Al loro diffondersi e persistere, perciò – oltre che, s’intende, al molto o poco che di lei Pietro stesso ebbe modo di sperimentare de visu – va anche ascritto (quale defensio memoriae, in atto e preventiva) il molto e il bello delle cose che di lei vengono riferite nei distici del Liber: dalla nascita, al matrimonio, alle vicissitudini della guerra civile, alla prigionia, all’insediamento come regina e imperatrice, fino al parto di un erede, Federico II, e al dolce ruolo di madre. Non c’è da stupirsi, vogliamo dire, che l’effige “complessiva” di regina, di moglie e di donna quale ci trasmettono le Particulae risponde ai canoni di una superiorità che ha insieme dell’elettivo e del fatale, e che, pur calata interamente nel contesto storico, è poi tesa a librarsi nell’assoluto del modello, e dunque a proporsi nei termini dell’esemplarità. Questo non comporta alcunché di inattendibile e di convenzionale, perché la mano di Pietro è sempre affettuosa, e delinea un’immagine che persegue indubbiamente il “sublime”, ma che nulla concede all’astratto e al generico. Ciò grazie a un saldo equilibrio giocato tra piani ideali e concretezza di particolari “umani”: Costanza non è mai sradicata dai luoghi, dai fatti e dal tempo in cui visse. Di qui, allora, anche l’oltranza (rispetto all’economia dell’opera) che ne contrassegna quantitativamente l’identità. Di Costanza ci viene discoperto quanto non avremmo sperato: linee, colori, espressioni e moti del volto e della persona, sorrisi, crucci e sdegni, loquele e silenzi, affetti, pensieri, gioie e affanni, invocazioni, preghiere, allocuzioni e arringhe, consigli, decisioni, ingressi ed esiti di scena, gesti, modi di incedere, abiti, ornamenti, e, non ultimo, il genere di letture e conoscenze culturali acquisite. Tale essendo la copia dei dati, non perciò ne traspaiono soggiacenze acritiche agli stereotipi antichi e coevi del genere. La fantasia pittrice del magister di Eboli, che è suddito e devoto del trono, nel mentre punta a effetti “formali” di risalto e di coerenza raffigurativa, atteggia poi la propria idea del feminino regale all’indice della naturalezza e della spontaneità; sicché in ogni momento e fino all’ultimo ci viene incontro non un thypus, ma una creatura viva, per nulla artefatta, e con una sua “aria” che si accosta o marcia nei domìni della poesia. Tutto da godere, per esempio, è questo “interno con donna in lacrime”, ai vv. 621-621: 632 MARIO AVERSANO [6] Illa, genu flexo, pansis ad sidera palmis, plenaque singultu fletibus uda suis, sic orans loquitur, clausi hic inde fenestris, – fecerat ambiguam clausa fenestra diem – … Si può affermare, pertanto, che qualità e virtù pubbliche di Costanza – e, tra queste, massime l’amore per la giustizia-concordiapace – coincidono e si fondono con quelle private della “donna” che non ha chi la eguagli. I dovuti riguardi per le “essenze”, in altre parole, non cancellano gli aspetti peculiari del vissuto, anche intimo. Basti osservare come Pietro affronta il tema – delicato, per le dicerie di cui supra – del suo amore coniugale. Gli accenti sono schietti e commossi: Costanza nelle sue preghiere chiama Enrico dulce maritum (v. 657), e non chiede a Dio solo di favorirne le imprese (v. 651: «conserva Cesaris actus»), ma anche di proteggerlo e di riportarglielo a casa (vv. 653-654: «‘Romanum protege solem/ ut repetat patriam sospite mente suam’»), perché – confessione davvero toccante, e forse con singolare cenno alla famiglia trinitaria – lontano lui ella se ne muore: «qui regnas in tribus unus/ redde virum famule, que perit absque vivo» (vv. 661-662). Per lo sposo Costanza è pronta a dare la vita; salvo lui, tutto le parrà senza tristezza, anche la prigionia: «‘Si pereo, per eum pereo, quia Cesare vivo/ triste nichil patiar, dum modo capta ferar’» (vv. 665-666). E, finalmente, ecco adombrata una figura di coniuge-angelo, quantunque appena di riflesso: «‘coniugis angelicum fac redeuntis iter’» (v. 660). A un parallelo, auspicabile, con eroine (amanti-castellane-reginespose) e donne d’ogni altra provenienza (non escluso il territorio “sacro”), quali si riscontrano in tutto l’arco della produzione letteraria medievale, è da credere che la bilancia penderebbe più volte a favore della regina che vediamo stagliata nel Liber: e potrebbe non essere infruttuosa un’indagine sui contatti e sulle trame intertestualiinterdiscorsive che corrono tra le due sponde, la latina e la romanza. Certo poco o nulla in Pietro residua di quello che appartiene alla sfera muliebre per l’aspetto dell’inquietudine sentimentale: Costanza è “costante”, come s’è veduto; e in quanto tale, è sempre armata della ratio (la dantesca “costanza della ragione”), e non condiscende alle passioni, agli impulsi e alle insanie della mente, del cuore e dei sensi. Ai suoi occhi la mobilità-fragilità emotivo-caratteriale, come che se ne configuri la marca, è sinonimo di piccolezza-indegnità; e quanti ne sono affetti le suscitano disprezzo e noncuranza: «non ragioniam di lor», ella direbbe con Dante. Basti vedere il “tratta[ 7] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 633 mento” che riserva a Tancredi, il suo vile nemico: lo licenzia rifiutandone la venia, e con un gioco su questo termine che fa venire in mente quelli del canto di Pier della Vigna49, o di Sapia: «Pauca quidem loquitur: ‘Veniam, Tancrede, Panormum,/ et veniam, veniam non aditura tuam» (vv. 687-688). Analogo il comportamento che ella tiene in casa dell’antagonista-carceriera, la pseudo-regina Sibilla: la inonda di indifferenza lasciandola nell’inferiorità ed esprimendole – sottile nota psicologica – anche il fastidio di essere amata (v. 892: fastidit amari). Quest’ultima ne rimane colpita al segno che le “saltano i nervi” e cede all’isteria (Particulae XXX-XXXI). Pietro in tal modo vuole accreditare un’individualità di sovrana e donna che ha regole e principi così alti come intrasgredibili, osservati non per imperativi eteronomi, ma per convinzione sincera, con gioia e senza che questo comporti rinunzie: la lista, in fondo, dei diritti-doveri “imperiali”, solennizzati con le acque della fede religiosa. In mezzo a tali parametri un suo spicco ha quello del breve loqui (rientra in esso anche il silenzio), affine all’“onestà” dell’incedere: nel che c’è pieno accordo con la poetica-etica di Dante50. S’è citato or ora il Pauca quidem loquitur; e si veda anche, per un altro esempio, il luogo dove è espressa la consapevolezza che di sé, in tema, ha la loquente: «pauca loquar, multo pondere verba tamen» (v. 588). Al consuntivo questa “perfezione” etico-civile-spirituale, unita a quella “sapienziale”, ci permette di additarla come una delle poche donne della letteratura che s’incontri in qualche modo con la Beatrice di Dante. In sintesi: anche Costanza è nemica d’ogni bassezza, sferza la cupidigia, l’ingiustizia, i seminatori di discordie, gli usurpatori, il fariseismo, il tradimento, e tutti i simili mali, e invoca la vendetta divina contro chi li perpetra; per contro ama e protegge i suoi “fedeli”51, ed è anch’essa ben capace di motti e sentenze volte a consigliare e ad ammaestrare. A coronamento, e non ce l’aspetteremmo, vengono fuori anche zampilli “metafisici”: una competenza 49 Cfr. If XIII, 72 («ingiusto fece me contra me giusto») e 25 («Cred’io ch’ei credette ch’io credesse»). 50 Cfr. If X, 39: «‘Le parole tue sien conte’»; Pg XIII, 77-78: «‘Parla, e sie breve e arguto’». Nella Commedia la “brevità” è tra i segni distintivi del Consigliere, insieme alla “sbrigatività”; cfr. M. Aversano, Brunetto Latini sbrigativo? Macché, in «Agire» (Salerno), 18 luglio 2004, p. 8. 51 Molta premura per i suoi combattenti Costanza mostra ai vv. 689-690: «Protinus obiecit pactum: ‘Gens annuat’, inquit, ’ut meus hinc salvo pectore miles eat». 634 MARIO AVERSANO [8] de divinis che non è di seconda mano (frutto anche, si capisce, quanto alla genesi poetica, della dottrina di Mastro Pietro), e che la fa un poco antesignana di quella madonna Teologia che sarà Beatrice. Ha proprio il suo piglio quando rivolge a Dio, con memoria del Giovanni apocalittico, queste parole: «specta, collige, scribe, nota» (v. 642). C’è possibilità di richiamare – come si vede – in primo luogo il tema dantesco del “volume di Dio” (che però è di quelli interdiscorsivi) quale si rinviene, ad esempio, a proposito di un re che con la Sicilia ebbe a che fare in malo, Carlo II d’Angiò, e in un passo che accoglie una espressa menzione dell’isola (v. 131: l’isola del foco): «‘Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme/ segnata con un I la sua bontade,/ quando ’l contrario segnerà un emme’» (Pd XIX, 127-129). Ma poi non sarà illegittima la suspicio che gli imperativi scribe e nota possano essersi insinuati nella memoria di Dante, e sdoppiati per bocca di Beatrice nelle due unità terminali della seconda Cantica, prima a Pg XXXII, 105 («fa che tu scrive»), poi a Pg XXXIII, 52 («Tu nota»): anche se per tali verbi Dante, come Pietro, ha come suggeritore maior, e autorizzante, l’ultimo Giovanni. Che Costanza sia molto preparata quanto alle divine Lettere è ben manifesto massime nelle Particulae XXII e XXIII. Un cenno solo, per ora: flagrante è la biblicità degli attacchi nell’una e nell’altra preghiera (pro vindicta e salutaris). Il primo proviene da Apoc I, 8, XXI, 6; e XXII, 23 («Alfa Deus, Deus O»), il secondo da Isa XLI, 4 («Ex oriente Deus»). Quanto al già citato «‘qui regnas in tribus unus’», questa teologia fa venire in mente quella di Pd XIII, 57: «…che non si disuna/ da lui, né da l’amor ch’a lor s’intrea». Ma l’indicazione di tali convergenze – che sono recepibili in ogni momento con una scorsa “orientata” del Liber – rimarrebbe pur anche nei confini congetturali quando ci si fermasse qui, e non si andasse alle concordanze che affluiscono con una più decisa valenza persuasiva, quelle – ripetiamolo – che sono tematiche e linguisticofigurative insieme. È su tale piano che meglio si discopre la parentela di Beatrice con la gran Costanza. Si può andare alle verifiche con la lettura dei versi che descrivono la “venuta” della Gentilissima nel Paradiso terrestre, al di là del fiume Letè: Io vidi già nel cominciar del giorno la parte oriental tutta rosata, e l’altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vapori l’occhio la sostenea alcuna fiata: [9] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 635 così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel, cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto, vestita di color di fiamma viva. (Pg XXX, 22-33) In premessa è bene interrogarsi sul fatto che Dante poco prima – a esternare gli effetti immediati dell’incontro con la sua donna – induca la gran potenza (v. 35) dell’antico amore. È un sintagma da cui siamo portati di nuovo alla «gran Costanza» che generò «l’ultima possanza» (Pd III, 118-120): dalla gran potenza dell’amore riacceso da Beatrice alla gran…possanza della terzina che riguarda Costanza. L’ipotesi di contatto volontario è confortata anche da quanto s’è già visto degli impieghi del termine possanza. Si tralascia qui di far notare il simile che concerne i rispettivi moduli della “comparsa”- ”apparizione” (il pare del celebre Tanto gentile, e il m’apparve di v. 32 ora citato), e ci si limita a dire che sul modo con cui Costanza mostra le sue fattezze, al segno della generale meraviglia o invidiaodio, Pietro torna di continuo, e come si trattasse di “qualità” risapute. Ne trapela un poco già dalla frase con cui l’Archoticon la annunzia: «tua nobilis uxor/ sublimis sedeat» (vv. 396-397). Qualche importanza rivestono poi le omologie e le prossimità che fanno riscontrare la lingua e lo schema di alcuni riquadri dell’uno e dell’altro versante (quello dov’è posta Beatrice impegna gli ultimi quattro canti del Purgatorio): Pietro a v. 571 della Particula XX ha due parole guerresche – balistra vel arcum – che Dante può aver volto in balestro e arco (Pg XXXI, 16-17). Così lo «amovit umbras» di Pietro (v. 418) sembra che abbia del comune con «la terra che perde ombra» di Pg XXX, 89. Dante fa precedere l’epifania di Beatrice da una processione in cui è intonato l’Osanna (Pg XXIX, 51: «e ne le voci del cantare Osanna!»); e Pietro a v. 419 ss. racconta che all’ingresso di Costanza in Salerno la città corre ad applaudirla con quello stesso canto: «urbs ruit, et domine plaudit osanna sue». Ancora: Beatrice sopraggiunge su un carro, quello della Chiesa (Pg XXX, 101), e sullo stesso viaggia fino a che ne discende (Pg XXXI, 25 ss.); anche su un carro, sempre nella Particula XVI, alcune fanciulle vanno ad accogliere la regina: «pars sedet acta rotis» (v. 421). In quel contesto Pietro fa uso del vocabolo cantica: «cantica nemo silet» (v. 431); e Dante inserisce cantica proprio e unicamente nella sezione finale del Purgatorio interamente votata a Beatrice: «…le carte/ ordite a questa cantica seconda» (Pg XXXIII, 140). 636 MARIO AVERSANO [10] Ma tutto questo poco direbbe se non fosse che contorna dei punti di più ammissibile convergenza. Bisogna andare alla “tela” che di Costanza dipingono i vv. 681-686: At domine vultus, pallescere nescius unquam, immodicum pallens, lumina crispat humo. Nec mora pallor abit: proprii rediere colores. Simplicibus ludunt lilia simpla rosis, ut tenuis quandoque diem denigrat amictus et subito, lapsa nube, diescit humus. E poi al corollario dei vv. 701-710: O nova consilii species! Prudentia maior! Induit auratos ut nova nupta sinus, induit artiferos preciose vestis amictus, ornat et impinguat pondere et arte comas! Aurorant in veste rose nec aromata desunt, forma teres Phebi pendet ab aure dies. Pectoris in medio coeunt se cornua lune; ars lapidum vario sidere ditat opus. Coniugis amplexus tanquam visura novellos Fausta venit, navem scandit et illa volat. La prima concordanza che viene all’occhio concerne la resa del volto delle rispettive donne, ottenuta dall’uno e dall’altro autore col ricorso a un identico paragone naturalistico. Pietro invita a riportare alla mente un fenomeno non inconsueto, quello del velarsi-coprirsi del cielo per il passaggio di una nuvola; è così che perde colore il volto di Costanza, per poi ritrovarlo: ut tenuis quandoque diem denigrat amictus et subito, lapsa nube, diescit humus. Di una stessa ombra in Dante è velata la faccia di Beatrice, come quella del sole quando nasce “ombrata”: «e la faccia del sol nascere ombrata…». Ma dal «tenuis…amictus», che in sé vale “copertura” – velo o mantello che sia – hanno avuto di che generarsi non solo l’ombrata, ma anche il vel e il manto della stessa raffigurazione. In più vanno calcolate le uguaglianze nuvola-nube, ricadeva-lapsa, giàquandoque, adorno-ornat, e – soprattutto – quella dell’abito, che per Beatrice è di fiamma viva, e per Costanza dello stesso colore, come si evince dalla forza dell’aurorant («aurorant in veste rose») messo a capo dell’esametro: un verbo, quest’ultimo, a cui il Georges-Calonghi [11] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 637 dà il significato di «splendere in rosso fiammante». E che l’“aurorare della rosa” indichi anche per Dante il rosso più vivo, il “vermiglio”, si deduce dalle terzine della Commedia dove proprio di questo colore, vermiglie, sono le guance della bella Aurora nella fase più splendente, prima che divengano range (Pg II, 7-8). Erano altri tempi, quanto a purezza dei colori del cielo. E abbiamo già veduto che al fiore della rosa Dante riconosce la maggior possanza: il che potrebbe anche ingenerare il dubbio di un nesso tra Beatrice e Cristo, la supprema possanza, per il tramite del colore rosso, allusivo del sangue sparso per gli uomini. Infine: Dante forse non risparmia nel suo dialogare con Pietro neanche il denigrat. Non è difficile ammettere che esso abbia trovato accoglienza nei «rami nigri», che spargono con le foglie «un’ombra smorta», a Pg XXXIII, 109-110. È così che questa “negrezza” arborea dell’Eden non ci lascia più scontenti e sospettosi che abbia un che di “stonato”, come è parso ed effettivamente pare quando la si prenda in sé e per sé: un recupero “estetico”, reso forse possibile dalla mediazione di Pietro, il quale la porge nel senso non dell’annerimento, ma dello stesso “ombrare” che Dante ha riferito all’effetto dei vapori del mattino. A riprova si può addurre che subito l’operazione intertestuale di Dante – memore del pannello che conserva il ritratto più fine di Costanza – va oltre, e aggredisce anche il distico conclusivo di questa Particula (la XXIV):«Coniugis amplexus tanquam visura novellos/ fausta venit, navem scandit et illa volat». Qui Pietro si avvale, a quanto sembra, di Apoc XXI, 2: «… paratam sicut sponsam ornatam viro suo». Nella Commedia, si ricorderà, c’è tra l’altro – e in area implicata con l’apparizione di Beatrice – una similitudine che reca gli stessi termini: sempre nel Paradiso terrestre Dante pellegrino scorge delle alte cose (facenti parte della succitata processione), che si movieno incontr’a noi sì tardi, che foran vinte da novelle spose. (Pg XXIX, 59-60) È pensabile che anche per questi endecasillabi, come per il distico di Pietro, abbia congiurato in prima istanza il paragone apocalittico della sposa che va incontro al suo uomo. Ma una volta riconosciuto questo, non deve sfuggire la presenza di un atomo lessicale che non è comune a tutti e tre gli autori. Diciamolo subito: dal raffronto dei passi emerge che alla sponsa dell’Apocalisse manca l’attributo precipuo della nupta che si vede in Dante e in Pietro: il suo essere “novella”. Tale riscontro induce a credere che Dante si sia mosso da 638 MARIO AVERSANO [12] Giovanni (ma non è certo), salvo poi che per il «novelle spose» abbia rivolto l’occhio all’«amplexus … novellos» di Pietro: il che oltretutto è accreditabile con l’argomento della presenza della “novità” nuziale poco prima, a v. 702. Costanza, infatti, «induit auratos ut nova nupta sinus». Altro conforto si può trarre dal constatare come il passo di Pietro abbia fatto da sostrato anche a un altro luogo della Commedia, e precisamente a Pd XIV, 90-93: … qual conveniesi a la grazia novella. E non er’anco del mio petto essausto l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi esso litare stato accetto e fausto. Qui ricorre, insieme a novella, un vocabolo – fausto – che nella Commedia non c’è più (e, ripetiamolo, in Dante l’hapax è di norma altamente segnalativo): come negare la possibilità di un ascendente nel fausta legato al novellos nella chiusa della nostra Particula XXIV? Tanto più che lo si ritrova, sempre riferito a Costanza, ancora a v. 563 («fausto ore») e a v. 894 («fausta sedens»). Infine non è senza importanza il fatto che per Dante, come per Pietro, l’incedere lento è distintivo di nobiltà, e di grande dignità e “onestà”. Si ricordi Pg III, 10 ss.: «Quando li piedi suoi lasciar la fretta,/ che l’onestade a ogni atto dismaga…». Tale è la “camminata” di Costanza, che Pietro altra volta definisce “imperiosa”, e – vedremo – da “italiana”: «Post hec in talamos patrios se leta recepit/ Italicos mores imperiosa gerens» (vv. 740-741)52. Ma non è ancora tutto. A questa Particula sono riportabili non tanto il novo consiglio di Pg I, 47 (cfr. «O nova species consilii» di v. 701), e il «folle volo» di Ulisse (per il volat della nave di Costanza), quanto il Virgilio che atterra gli occhi dinanzi alla città di Dite: Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogni baldanza, e dicea ne’ sospiri: «Chi m’ha negate le dolenti case». (If VIII, 118-120) La possibilità che ci sia dietro il «lumina crispat humo» di v. 682 (terra=humo) aumenta con la considerazione che all’inizio del canto successivo appuriamo che Virgilio è anche impallidito: 52 Si ricordi: «Regalmente ne l’atto ancor proterva» è Beatrice a Pg XXX, 70; e regalmente anche san Francesco si muove al cospetto di Innocenzo III (Pd XI, 91). Sono – altro dato sintomatico – gli unici due impieghi dell’avverbio nella Commedia. [13] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 639 Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. (If IX, 1-3) Orbene, null’altro è detto di Costanza, all’attacco della Particula, se non che, oltre ad abbassare gli occhi, impallidisce: At domine vultus, pallescere nescius unquam, immodicum pallens, lumina crispat humo. Nec mora pallor abit: proprii rediere colores. Già qui, a fare i conti, lo spettro delle coincidenze risulta tale da rendere più che probabile la sussistenza d’una volontà e d’una strategia intertestuale che Dante ha condotto senza esitazioni, anzi come a rendere un lungo omaggio a questo autore del corno d’Ausonia. Non si riscontra solo la perfetta uguaglianza dei contenuti (l’atterrare gli occhi e l’impallidire, cui si deve aggiungere la “novità” della reazione), ma anche quella dei vocaboli: Quel color=colores; suo novo=nescius unquam; più tosto=nec mora; tornar=rediere. Ma infine: tutto induce a credere che il motivo dell’improvviso “cambiar colore”, nei modi in cui Pietro lo ha svolto, possa aver suggerito a Dante anche dell’altro. La sua eco, infatti, è percepibile in un luogo del Poema a cui siamo portati per circolarità intratestuale, e cioè dai segnali che partono da alcuni termini di cui s’è già provato il valore pregnante: possanza ed ecclissi. Bisogna tornare alla sequenza che li contiene, e fermarsi là dove Beatrice, al suono delle terribili rampogne con cui san Pietro sferza le indegnità del papa Bonifacio VIII e dei pastori divenuti lupi rapaci, trasmuta la sua sembianza: E come donna onesta che permane di sé sicura, e per l’altrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane, così Beatrice trasmutò sembianza; e tale eclissi credo che ’n ciel fue quando patì la supprema possanza. (Pd XXVII, 31-36) Gli interpreti non hanno ancora trovato un accordo sull’entità di questa “trasmutazione”, parendo alla maggioranza che Beatrice si faccia «turbata e arrossita per pudicizia»53, ad altri che sbianchi. Il 53 Così intende V. Russo, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, s. v. “timida”. 640 MARIO AVERSANO [14] percorso intratestuale non fornisce indicazioni sicure: a Cv IV, XXV, 7 il ragionamento sul pudore non reca lumi, perché ivi è detto che per esso «tutti si dipingono ne la faccia di palido o di rosso colore»; e a conferma è allegata la Tebaide di Stazio, dove si legge che «le vergini palide e rubiconde si fecero». E qui forse capita una delle volte in cui – come detto in premessa – è il modello che apre la via per intendere il testo di Dante, e guida alla scelta buona tra le proposte esegetiche avanzate. Poiché i versi di Pietro indicano con chiarezza i due effetti che si vedono nel volto di Costanza allorché le si impone di partire per Palermo, e cioè l’impallidire e l’abbassare gli occhi, potranno avere ragione i commentatori che il medesimo vedono in Beatrice colpita dalle parole di san Pietro. Del resto alla timidezza che “atterra” l’occhio e il muso Dante ha dato chiaro spazio nel noto paragone delle innocenti pecorelle che escon del chiuso (Pg III, 79-81): come procedono gli orgogliosi scomunicati, nel canto stesso in cui si incontra – altro indizio – lo svevo Manfredi. 3. Pietro da Eboli, Pier della Vigna e il Veltro Ma ci sono coincidenze che fanno anche più pensare: quella, ad esempio, che riguarda il Veltro, uno degli enigmi più “forti” della Commedia. Abbiamo già detto54 che bisogna distinguere tra il salvatore d’Italia, il Veltro, e il Salvatore di tutta l’umanità. Il primo dovrebbe essere Cangrande della Scala, il secondo forse Cristo stesso. Ora si dà il caso che Pietro da Eboli nell’esaltare il Cancellarius Corrado, dice che tra le alte mansioni ha quella di “diserrare i cancelli”: cancellos reserans; anche il dantesco Pier della Vigna, come è noto, ha le chiavi per “serrare e diserrare”; ed è egli pure Cancelliere del suo segnor, Federico II: «Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi. La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non tolse li occhi putti, morte comune, de le corti vizio, 54 Cfr. M. Aversano, Firenze e il Veltro: prove di filologia dantesca, «Critica Letteraria», XXX (2002), n. 114, pp. 6-10. [15] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 641 infiammò contra me li animi tutti; e li n’fiammati infiammar sì Augusto, che’ lieti onor tornaro in tristi lutti. L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. Per le nove radici d’esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno». (If XIII, 58-75) Questa la scheda “intertestuale” che si può cavare, accanto alle altre proposte in merito dalla critica: 1) serrando e diserrando: cfr. il cancellos reserans della Particula XLIX (v. 1553). Si noti come la coincidenza interessi anche il modo e il tempo verbale (participio presente in entrambi i luoghi); 2) soavi: è in linea col «vento di Soave», che di Federico è padre; 3) secreto: cfr. i secreta di v. 1336; 4) fede portai: la fedeltà, il primo requisito dell’uomo di corte; cfr. il fidelis di Pietro nella dedica del libello ad Enrico VI; 5) ne perde’ li sonni e’ polsi: è l’“infaticabilità”, il non curar … d’affanni che Pietro, si vedrà, ascrive a merito dei regnanti svevi (v. 1600: «nec eis cura quietis erat»), e Dante al Veltro e a Cangrande della Scala; 6) Cesare … Augusto: son i titoli che correntemente Pietro – tutto preso dal sogno della romanità imperiale – dà a Guglielmo II, a Enrico VI e a Federico II; così poi Dante, con lo stesso sogno, ad Arrigo VII, nelle Epistole; 7) de le corti vizio: cfr. i vizi da cui Enrico imperatore monda il suo ospizio: «a viciis mundat sacrata palacia regum» (v. 1309); 8) onor …onor: è l’honor di Pietro, che significa anche – come una volta in Dante, a Pg III, 116 («l’onor di Cicilia e d’Aragona») – la cosa che onora, non le persone (Giacomo di Sicilia e Federico d’Aragona nel Poema sono reputati dei sovrani indegni); cfr. v. 14 («per quam Romani cresceret orbis honor), e v. 405 (l’urbis honor di Eboli); 9) ingiusto …giusto: il Cancelliere Corrado è «iuris servator et equi» (v. 1551): l’ideale della giustizia per la cui affermazione – nell’etica politico-teologica sia di Pietro che di Dante – ogni buon Consigliere deve operare. Si ricordino almeno «il giusto Mardoceo»55 e il giusto Romeo di Villanova56; 55 Cfr. la nota ad l. in M. Aversano, Dante daccapo, cit., p. 42; e Id., La quinta ruota, cit., pp. 18-21. 56 Cfr. la nota ad l. in Aversano, Dante daccapo, cit., p. 13. 642 MARIO AVERSANO [16] 10) vi giuro: richiama il giuramento di fede di cui s’è detto a proposito della Costanza-constantia di Pietro; 11) gia mai: come il già mai di Costanza che abbiamo già sottolineato (fedeltà assoluta al vel del cor); 12) non ruppi fede: stilema virgiliano che assimila il rapporto dei sudditi col sovrano a quello delle api con la loro regina; cfr. quanto è detto supra sulla fides; 13) mio segnor: è il possessivo che Pietro impiega per Enrico VI (v. 1657: «meus Henricus») e Dante per Arrigo VII (Ep VIII, 5: «suus Henricus»). A chiudere, si può anche metter nota al lieti: nella Particula XLI, dov’è la “purificazione dai vizi”, si trova «regia letatur». È da cogliere un’antitesi, dunque, fra la letizia e l’invidia: quale del resto già evidenziano i Padri, e poi Dante nelle unità del Purgatorio dedicate agli Invidiosi (canti XIII-XIV). Pier della Vigna, questo prototipo di Cancelliere=Consigliere, che reclama di figurare al gradino stesso di Corrado, Cancellarius di Enrico VI, contribuisce a gettar luce sull’officio che il Consiglio dovrà svolgere a lato del Veltro: di fedeltà, sapienza, ed opera di giustizia e di pace. Ebbene, Corrado è dipinto proprio come il “salvatore” dantesco. Custode del diritto e della giustizia («iuris servator et equi», s’è veduto), anch’egli «non ciberà terra né peltro» (If I, 103): «nulla fames auri, sitis illi nulla metalli» (vv. 1555). E sarà un messo nutrito di «sapienza, amore e virtute» (If I, 104): «mens sua numen habet…angelus in multos necnon paracletus in omnes/ mittitur, et missi fatur in ore deus» (vv. 1556 ss.). Il circolo viene a chiudersi allorché si fa conto che la virtute di Cangrande sarà «in non curar d’argento né d’affanni» (Pd XVII, 84): proprio il «nec eis cura quietis erat» di Pietro, detto di due imperatori, Federico I e il figlio Enrico (v. 1600). Il Veltro dantesco, pertanto, non potrà non essere un uomo d’arme, assistito dalla “sapienza” propria (il propio studio di Cv IV, VI, 20) o dei suoi Consiglieri: nella lupa che egli ucciderà – ho proposto altra volta57 – Dante condanna la cupidigia dei cattivi Consiglieri. Si noti, infine, come egli inserisca il motivo dell’“infaticabilità”, e dell’accanimento che dura fino a che l’impresa di salvezza dell’umile Italia non sia stata compiuta, ben tempestivamente, in quel che enumera le virtù-qualità del Veltro: 57 Cfr. M. Aversano, Dante, la lupa e il Buon Governo, «Agire», 16 gennaio 2005, p. 8. [17] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 643 Questi la caccerà per ogni villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, là onde invidia prima dipartilla. (If I, 109-111) Né può essere un caso che nel Purgatorio, trattando dell’Accidia, il vizio contrario all’affanno, Dante induca il buon Barbarossa (Pg XVIII, 119) e faccia ricorrere per due volte, e a breve distanza l’uno dall’altro (Pg XVIII, 105 e 108), il ben far, che già in Brunetto Latini e senza eccezioni nella Commedia è sintagma tecnico del buon governo e del buon consiglio; senza dire, poi, che anche Pietro fa coincidere la bruttezza-deformità del corpo col mal fare (a proposito di Tancredi (nemico di Enrico VI), nato male, al modo che nello stesso canto si legge: «‘perché suo figlio, mal del corpo intero,/ e de la mente peggio, e che mal nacque’» (Pg XVIII, 124-125). II L’ideologia “italiana” in Pietro e in Dante 1. Costanza e gli Svevi: primi italiani? Pietro elogia Costanza – s’è veduto – per il “parlare” e per il comportamento. Ma interessa vedere come li definisca non già propri di una normanna o di una siciliana, ma di una “italiana”. Dopo aver “sistemato” il suo nemico Tancredi di Lecce con nobili parole di giustizia, ella si ritira lieta nelle sue stanze, «italicos mores imperiosa gerens». Ebbene, una chiara eco di questa rettitudine e nobiltà italiane, e in particolare dei mores, si riscontra nel De vulgari eloquentia, là dove (I, XII) Dante afferma che i prìncipi della penisola non vivono «heroico more» al modo che fu degli Svevi, e non ne hanno la nobilitatem ac rectitudinem, qualità che resero la lingua della Trinacria la più bella, diventata perciò lingua di tutta la penisola: Et primo de siciliano examinemus ingenium; nam videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis asciscere, eo quod quicquam poetantur Ytali sicilianum vocatur, et eo quod perplures doctores indigenas invenitur graviter cecinisse (…). Sed hac fama trinacrie terre si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in opbroprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more, sed plebeis secuntur superbiam. Siquidem illustres heroes, Fredericus cesar et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem hac rectitudinem 644 MARIO AVERSANO [18] sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati enherere tantorum principum maiestati conati sunt, ita quod eorum tempore quicquid excellentes animi latinorum enitebantur, primitus in tantorum coronatorum aula prodibat; et quia regale solium erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum voc(ar)etur; quod quidem retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt. Racha, racha. Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azzonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi «Venite carnifices; venite, altriplices; venite avaritie sectatores? Lo heroes e lo heroico more, che possono sembrare non molto calibrati, un po’ lo divengono quando se ne ipotizzi la provenienza da Pietro da Eboli. Ai suoi occhi Enrico VI è un “eroe” fin dal primo affacciarsi alla ribalta; anzi, un pius…heros: «A vice, Petre, tua pius introducitur heros». È il verso 274 della Imperialis unctio. Cui segue, a v. 305, l’ingresso non meno “eroico” nel Regno di Sicilia: «En movet imperium mundi fortissimus heros». Ma è il ponte Sicilia-Italia, qui gettato con robusti materiali eticopolitico- linguistici, che si può vedere già costruito nel Liber di Pietro. L’“italianità” vi è espressa in lingua ora esplicita, ora indiretta, a cominciare dal v. 541, che definisce “italiano” l’esercito di Enrico VI: «Labor est Itala castra sequi». E prima l’Arcidiacono di Enrico piange del dover abbandonare l’Italia, così esprimendo la sua fedeltà (vv. 542-544): Quem non matris amor, nec presens gloria rerum nec fratrum pietas, nec grave vicit iter, imperium sequitur, sub alta mente labores. E qui ancora un dubbio: è pensabile che di questi versi Dante conservi l’eco per il personaggio di Ulisse, quando gli fa dire quello che tutti sanno, prima che si metta per l’alto mare aperto? Controlliamo: né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore; [19] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 645 ma misi me per l’alto mare aperto … (If XXVI, 94 ss.) Colpisce innanzitutto l’uguaglianza del percorso grammaticalesintattico, scandito dalla serie delle particelle negative: non, nec, nec, nec=né, né, né. Poi l’identità di fondo degli agenti, che sono tutti “familiari”: matris amor=debito amore; nec fratris pietas=né la pièta/ del vecchio padre. Poi lo sbocco delle azioni dei soggetti nello stesso verbo, “vincere”: nec vicit=né…vincer potero. Infine l’“altezza”: che è della decisione in Pietro (alta…mente), e del mare (e poi del passo) in Dante. E vorremmo tirarci anche il “seguire”: «sequitur imperium»=«seguir virtute e canoscenza»; ma sarebbe troppo, potendo peraltro anche il dilemma famiglia-gloria rientrare tra i luoghi comuni. Giova invece tornare all’“italianità”. Con questo concetto “nazionale”, nuovo e precorritore, che è sposato con la “totalità”- universalità dell’Impero, Pietro supera l’ideologia particolaristica (brevior) di un Tancredino, Elia di Gesualdo, quale traspare dalle parole con cui egli vorrebbe dissuadere Costanza (vv. 677-678): «Sic tibi, dum velles totum, quod volvitur evo,/contigit, et regno pro breviore cadis». Per contro a v. 1016 Costanza è definita nei termini più inequivocabilmente “italiani”, di “sole esperio”: «Ausus es Experiam detinuisse diem?». E italico, in forza della nascita da tale madre, Pietro dice l’infante che sta per nascere, Federico II, a v. 1363: «Venit ab Esperia nativi palma triumphi». Così, per uscire d’imbarazzo quanto alla sua ascendenza maschile, a v. 1378 Pietro inventa una fusione di “geni” normanni e tedeschi. Federico II sarà da una parte un secondo Ruggiero, dall’altra un secondo Barbarossa (ex hinc Rogerius, hinc Fredericus eris), per concludere poi, a v. 1407, con l’appartenenza all’Italia: «Vive, puer, decus Ytalie». Che comporta, s’intende, l’eredità “romana”, come è scolpita a v. 1411: «Vive, Iovis proles, Romani nominis heres». La compatibilità dei titoli già in Enrico è sancita anche per le sedi, la Sicilia e Roma; così a v. 1470: «Siciliam repetens, Rome reget aurea sceptra». Né manca l’accento forse più “patriottico”, che sembra anticipare il Dante dell’umile Italia «per cui morì la vergine Cammilla,/ Eurialo e Turno e Niso di ferute» (If I, 106-108): «Cui cruor Ytalicus potus et esca fuit» (v. 1644). Pietro è forse tra i primi, dunque, non solo a prospettare, ma a dare per fatta un’unità dell’Italia che è insieme di razza, di lingua e d’altare, ma anche di nazione: e Dante approva. 646 MARIO AVERSANO [20] III Un aiuto per restaurare Dante 1. Pg VI, 105: «che ’l giardin de lo ’mperio fia deserto» Ma infine: con l’aiuto del Liber ad honorem Augusti noi arriviamo delle volte a fare buona ectodica, a stabilire, cioè, quali vocaboli siano usciti effettivamente dalla penna di Dante: controllo indispensabile, perché della Commedia, si sa, non abbiamo né l’autografo, né una copia egemone, ma una selva di manoscritti di non pacifica attendibilità. Bisogna chiedersi: al verso 105 del canto VI del Purgatorio, qual è il lemma che ha vergato Dante? Il congiuntivo “sia” («che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto»), come a tutt’oggi si preferisce? O, invece, ha scritto fia («che ’l giardin de lo ’mperio fia diserto»), com’è in alcuni dei codici più antichi? Tutti ci vedono il passivo di “disertare”, nel senso di “abbandonare”, e spiegano: “tu, o imperatore Alberto, e tuo padre Rodolfo, avete sopportato che il giardino dell’Impero, l’Italia, sia abbandonato”. Ma così avremmo poi un’inutile ripetizione, perché egli ha già detto prima: «O Alberto tedesco ch’abbandoni/ costei…». Altra glossa daremo, invece, seguendo Pietro da Eboli, che ci suggerisce «fia diserto»: diserto come sostantivo. Quindi: “divenga un deserto”. Nel Liber, infatti, il Vicecancelliere Matteo d’Aiello non solo chiama il Regno meridionale “giardino di rose”, ma anche teme che, rimasto privo di reggenza, possa andar bruciato per brutti climi: «ne Nothus aud Boreas, ne gravis urat yemps» (v. 117); che è come dire: “si trasformi in un deserto”. Ne riesce così implicato anche il canto VIII del Paradiso, che è per tanta parte “siciliano”, coi venti (v. 22) e con l’Euro da cui il golfo tra Pachino e Peloro riceve maggior briga (vv. 67 ss.). E questo è tra l’altro, ora vedremo, un passo a cui Pietro da Eboli fa giungere lumi per una corretta lezione-interpretazione testuale. Ma se a riguardo dell’Italia che diventa un deserto ancora dubbi possono esserci, ecco un altro indizio a favore: Dante condivide con Pietro anche il verbo principale della terzina deprecativa dell’inerzia imperiale. Lo avete…sofferto, infatti, che vuol dire “avete tollerato”, imputato com’è a due “tedeschi”, è leggibile come traduzione del “tolerare” che ricorre nel su citato luogo del poema di Pietro, riferito anch’esso a un monarca “teutonico”: «Teutonicam rabiem quis tolerare potest?». A conferma ultima può venire il riscontro “sacro”: in Isaia (LXIV, 10) – che Dante ben conosce – ricorrono sia il fia, sia il diserto: «Sion facta est deserta». [21] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 647 2. Pd VIII, 62: «‘di Bari, di Gaeta e di Catona’» Ma Pietro aiuta a sciogliere, ci sembra, anche un altro nodo testuale della Commedia, riguardante la lectio di Pd VIII, 62, il su citato canto di Carlo Martello; un canto “siciliano”, ma che è conseguentemente proiettato nella geografia politica europea: «Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi ch’è misto con Sorga, per suo segnore a tempo m’aspettava, e quel corno d’Ausonia, che s’imborga di Bari, di Gaeta e di Catona, là ove Tronto e Verde in mare sgorga. (…) E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo, ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: ‘mora mora’». (Pd VIII, 58 ss.) Si sa che a verso 62 altri preferisce leggere «di Bari, di Gaeta e di Crotona», che è anche presente nei primi codici: Catona sostituito con Crotona, siccome Crotone è città più grande e più nota. Così alcuni dei primi commentatori (Pietro di Dante, Benvenuto) e di altri poi, non meno illustri (Landino, Lombardi, ecc.). Ma qui il poeta nativo di Firenze è andato a consultare la toponomastica letteraria (giacché non appare molto verisimile una sua peregrinatio nell’Italia meridionale, pure da alcuni adombrata): e prima fra tutte quella di Pietro. Nel Liber c’è un verso, l’83 della Particula III, che può far dirimere la questione, e pendere la bilancia tutta dalla parte di Catona, borgo che si trova alla punta dello Stivale: «Imperii cornu iungat utrumque sui». Pietro nomina due “corni” (cornu…utrumque), intendendo i due “triangoli” della Sicilia e del Meridione peninsulare. È da questo verso che Dante ha potuto mediare il corno d’Ausonia. Lo proverebbe anche la presenza del dimostrativo, che serve a specificare tra due o più entità58: «quel 58 Così, ad es., a Pg XVI, 47-48: «e quel valore amai/ al quale ha or ciascun disteso l’arco». Che significa: “e amai quello, tra i valori, a cui tutti non mirano 648 MARIO AVERSANO [22] corno». Di qui, allora, la menzione dell’altro corno, indicato ugualmente in termini topografici: Pachino e Peloro, cui segue Palermo, che supplisce al capo Lilibeo. Essendo dunque nell’intenzione del poeta riferirsi ai due corni d’Ausonia, sarà senz’altro da scartare Crotone, che dista molti chilometri da Reggio Calabria: accogliendo Crotona, cancelleremmo il primo corno, che invece viene a formarsi quando si assume Catona a indicare la sua punta. Il vocabolo Trinacria (d’origine greca) voleva dire, nella vulgata, proprio “tre punte”. E può entrarci anche il cornua della Particula XXIV (v. 707), riferito a un gioiello onde Costanza adorna il petto, forse con intenzione simbolica, a proclamare il suo duplice dominio: «Pectoris in medio coeunt se cornua lune». Fatto sta che anche a v. 1021 (Particula XXXIII) il cornua è impiegato in accezione politica: «Quam geris inclusam, trans Alpes cornua fundit,/ sollicitans solem regia luna suum». Ma lo stesso Trinacria può appartenere al Liber (v. 1179), in quanto unito con bella: così non è nelle altre fonti generalmente additate. Pietro più volte decanta la bellezza della Sicilia. Abbiamo appena veduto la denominazione di “guardino di rose”, che riceve da Euro (e da Noto) «maggior briga». Gioverà ricordare che è la stessa briga di Pg XVI, 115-120, quella che s’ebbe Federico I: menzione fatta al centro della Commedia, e per bocca di un grande Consigliere, Marco Lombardo. Anche è risaputo, dicevamo, che per Dante a tale briga bisogna far risalire la fine della pace in Italia. Il che comporta, tra l’altro, che non a caso nell’Epistola VI vengono indotti i “fulmini” di Federico I; sono gli stessi di cui già parla il nostro Pietro: «Hic Frederici ales fulminat ense procer» (v. 1596). Ma a quello del roseto fanno seguito anche altri incisi di bellezza naturale e artistica. Così l’apostrofe a Palermo di v. 194, che ha l’invitante termine paradisus: «Altera mellifluens paradisus dulce Panormum ». Anche richiedono citazione i vv. 1231-1232 della Particula XXXIX, dov’è lo stupore e il diletto di Enrico VI all’ingresso in Sicilia: «Fabariam veniens, socerum miratus et illam,/delectans animos nobile laudat opus». Quest’idea di “paradiso siciliano” – corrente nel Medioevo anche oltre Italia – agisce nella fantasia di Dante forse anche in quel che collega la mitica Sicilia di Proserpina al “suolo” che fa da luogo deputato (altro dal locus amoenus) di Matelda nel Paradiso terrestre: più”. È Marco Lombardo a parlare; e per presentarsi dice che in vita amò sopra tutto – da buon Consigliere qual volle essere – la giustizia, di cui non c’è più chi abbia sete. [23] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 649 Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera. (Pg XXVIII, 49-51) Beatrice poi, a Pg XXX, 75, redarguisce il suo fedele ricordandogli la “felicità” dell’Eden; che ci sia consonanza – stanti le cose fin qui vedute – con quella che regnava nel Meridione con Guglielmo II? Ma non è da insisterci. Molto di vero c’è ad ogni modo – per le ragioni storico-politico-linguistico-paesaggistiche che sono affiorate da questa ispezione – nelle parole che Pascoli volle dire in una conferenza all’Università di Messina, sul principio del secolo XX: «alla Sicilia tendeva il cuore di Dante». La Sicilia terra dove Proserpina cantando coglieva fiori, come la Matelda di Dante. Ma il mito, si sa, ci consegna una dea triforme: Proserpina degli Inferi è anche Diana delle selve e Trivia del cielo, la luna. Che riluce con Febo, come Costanza con Enrico59. Chissà che non si debbano leggere con la mente alla “serenità” siciliana, per via del sereni, di Trivia e del Sol, anche i versi di Pd XXIII, 25 e segg., dov’è il più incantato plenilunio che si conosca: Quale ne’ pleniluni sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingono ’l ciel per tutti i seni, vid’io sopra migliaia di lucerne un Sol che tutte quante le accendea, come fa il nostro le viste superne … Ciò stanti anche le coincidenze cui s’è accennato, per il tema della benignità, nel paragrafo riguardante il Veltro. 3. If XXXI, 67: «‘Raphel maì amècche zabi almi’» Altre cose ancora andrebbero agitate, e qualcuna non proprio ordinaria. Si pensi, per un esempio, all’ugual valore che il termine “almo” ha in Pietro e in Dante: sempre connesso col concetto politico dell’unire e del pacificare. In accordo con gli impieghi di Pietro l’«alma Roma» di If II, 20 potrà indicare la Roma che ridusse il 59 Si rivada al Phebi …lune del Liber (vv. 706-707), il passo dove – si faccia caso – Costanza fausta venit, sfolgorante in tutta la sua bellezza, per veleggiare proprio verso Palermo! 650 MARIO AVERSANO [24] mondo in pace con la creazione dell’Impero ad opera del buon Augusto. Enea «‘… fu de l’alma Roma e di suo impero/ne l’empireo ciel per padre eletto». Lo alma …padre, col resto del distico, sembra essere fiorito dallo Alme pater …pacis iter della Particula V (vv. 112- 114), cui tien bordone lo almipater della Particula XV (v. 410). Ne scatta una conseguenza non trascurabile. Lo “almo” è rarissimo nella Commedia, avendo solo tre impieghi. Uno di essi – con ogni evidenza, allora, programmato – si riscontra a If XXXI, 67, nel verso-grido di Nembrotte, l’ideatore della torre di Babele: «Raphèl maì amèch zabi almi» Ho trascritto almi (e non almì, come vorrebbero alcuni) non perché così si ottiene una rima non forzata con salmi, ma perché il vocabolo – dato il numero eccezionalmente scarso delle ricorrenze: cosa che in Dante sempre invita a “collegare” – è da mettere con sicurezza in relazione con lo alma riferito a Roma. In che modo, forse già si sarà intuito. Il commento secolare reputa, con generale concordia, che lo almi posto nella fiera bocca del gigante biblico non abbia alcun significato: al modo degli altri lemmi (che Dante avrebbe buttato giù più o meno “a casaccio”): meri fonemi contrari ad ogni altra logica che non sia dell’inespressività (ciò, beninteso, salvo il valore che Nembrot certo voleva dare alle sue parole, e sul quale i dantologi si accaniscono da sempre, con le più disparate ipotesi). Il verso conterrebbe, in altri termini, un’accozzaglia di sillabe sconnesse, ideata come contrappasso analogico della confusione-incomprensibilità degli idiomi che conseguì a Babele. Invece, a conti fatti, la sostanza delle cose – e Pietro contribuisce a svelarla – potrebbe essere un’altra: il contrappasso va certo richiamato, ma nel senso che da Nembrotte scaturirono delle conseguenze contrarie a quelle che provennero dall’alma Roma. Egli divise linguaggi e popoli, laddove Roma li unì e pacificò. La torre di Babele comportò la rottura della concordia e della pace, e non solo linguistiche. Prova di tutto questo sia anche la “gestione” dell’altro solo impiego di almi: esso ricorre a Pd XXIV, 138, per lo Spirito santo che, disceso sugli Apostoli, avviò la loro predicazione e fece sì che tutti la capissero; una riunione delle lingue, dunque, e dei cuori: «poi che l’ardente Spirto vi fè almi…». Ma a ritornare, col punto fermo di almi, sul resto del verso, si può tentare di decrittarne qualche altro lemma, ad es. il maì (o mai). Lo si prenda alla lettera, come una negazione assoluta: un corrispet[ 25] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 651 tivo del mai di cui s’è detto per la “fede” di Pier della Vigna e di Costanza d’Altavilla. Lo si congiunga poi con l’almi: ne viene fuori “mai almi”, nel senso di “mai operatori di pace”. Lo almi, prospettandosi con sufficiente evidenza (almeno nel calcolo delle probabilità) come un plurale, implica che il rapporto non è riferibile a un unico soggetto: gli agenti grammaticali dovranno essere almeno due. Due, è pensabile, quanti sono coloro ai quali Nembrotte si rivolge “gridando”: Virgilio e il suo discepolo. Nel verso, allora, potrebbe essere indicata un’altra persona (quantunque non necessariamente tramite un nome proprio), che si accompagna a Raphèl: il quale, ci sembra abbastanza pacifico, altri non può essere che l’Angelo Raffaele. Di un secondo individuo è difficile che ci possa essere agnizione nello amèch (nel senso di “amico”): a cui forse è da preferire amècche, per il parallelismo (ben sospettabile) con lo alèppe, che è volgarizzazione di aleph (sul tipo: Ioseph-Giuseppe), e si trova in un altro cominciamento “salmodico”: il «Pape Satàn, Pape Satàn, aleppe» di Pluto (If VII, 1). Quest’ultimo verso, intanto, già mostrammo che ha molto di quello che Nembrod grida: al meno, in entrambi i casi potrebbe esserci il tentativo di cantare, e addirittura un salmo60. Ne consegue che, a poter fare “duo” con l’Angelo Raffaele, rimane il bisillabo zàbi (cui, anticipando, diamo subito il maiuscolo: Zabì). Lo amècche potrebbe essere (ma ai fini di quanto qui si ipotizza non è importante) un rafforzativo di maì: maì amècche verrebbe a suonare come uno stravolgimento fonico del già mai ora detto. Ma, a pensarci ancora, il verso potrebbe essere ricostruito – e forse meglio, in ordine al secondo soggetto che lo almi esige: magari con la congiunzione “e” da porre tra lo amécche e lo Zabì – in quest’altro modo: Raphèl maì amècche (e) Zabì almi. Ne uscirebbe un “grido” ottuso e smozzicato, ma pur sempre avente un che di referenziale. Ma tutto dipende da un controllo: se e dove la Bibbia dia luogo a Raffaele – di cui Virgilio si va profilando come l’alter – nel compito di “maestro e duca” inviato dal Cielo per altrui campare. Dal censimento emergono due dati: 1) la presenza protagonistica dell’Angelo si riscontra solo nel Libro di Tobia; 2) in esso il suo ruolo è duplice: quello di “guaritore”, e quello di guida. Tutte e due le risultanze, ognuno già lo intravede, sono più che significative. La prima consiglia e induce a trovare il motivo della presenza nel testo 60 Il termine convenire (v. 69) è musicale, come corno (vv. 12 e 71) e passion (v. 72); e va congiunto col disconvenevole di If XXIV, 66: a lume della nota convenientia di cui nel De vulgari eloquentia. 652 MARIO AVERSANO [26] sacro di Raphèl (e non d’altri), come figura soterica. Andando al controllo, vediamo che il Signore mette alla prova Tobìa, novello Giobbe, con la povertà, la persecuzione, l’esilio e infine con la cecità. E Raffaele in tanto è inviato a liberazione da questi mali, in quanto ciò è conforme al significato che al suo nome bisogna dare, come dice san Girolamo (glossando Dn VIII, 16): Raphel = “medicina di Dio”. E qui deve subentrare una presa d’atto che costituisce l’elemento di prova intratestuale. Proprio in questo canto di Nembrotte, e nella prima terzina, si registra l’unico impiego del termine “medicina” nella prima Cantica: «e poi la medicina mi riporse» (If XXXI, 3). Poiché a porgerla è Virgilio, ecco riaffacciarsi la possibilità di accostare Virgilio a Raffaele. Questi, per guarire il vecchio Tobia dalla cecità, accompagna in un viaggio fino a Rages dei Medi un giovane, Tobia figlio, prendendolo sotto scorta, e istruendolo ad ogni tappa. Ecco la spiegazione del secondo dato, del viaggiare-guidare, che riconvoca Virgilio: lui – come Raffaele-guida – da una parte; Dante – come Tobia iunior-guidato – dall’altra. A questo punto non rimane che un atto solo da compiere: l’assunzione dello Zabì (o Zobì: ove qualcosa del genere non sia pure nei codici) come deformazione di Tobìa. A chi obiettasse che Dante parla di “confusione” e basta, e che dunque non è il caso di perderci altri sonni e polsi, converrà ricordare che la testualità del canto consiglia in altro modo. Virgilio dice con chiarezza che Nembrotte compie con le sue “parole” un’autoaccusa: «‘Elli stesso s’accusa’» (v. 76); e ciò significa che il duca ha ben compreso il contenuto della sentenza emessa dalla fiera bocca del nemico, ad onta della “confusione” fono-morfologica con cui è stata espressa: come ha compreso il verso uscito dalla voce chioccia di Pluto. Non è verisimile che Nembrotte “si accusa egli stesso” per il fatto che parla in modo incomprensibile (non sarebbe un’autoaccusa). È più ragionevole intendere, ci sembra, che egli ricordi la propria colpa (come tanti altri personaggi del Poema), e che la confessi, sia pure obliquamente, per quella che è: colpa di aver disunito – e cioè resa “non alma” – la propria comunità. “Sì, ho diviso il mio popolo”, egli ammette, “ma lo stesso hai fatto, e farai sempre, tu Dante, che ti credi menato da un Angelo. Consigliere perverso, io (mal coto); ma tale sei anche tu”. In conclusione, Nembrod apostroferebbe Virgilio e Dante con questo canto-grido: Raphél maì amécche Zabì almi; e le parole andrebbero così “tradotte”: Raffaele giammai e Tobìa almi (operatori di pace). In altri termini: “Voi due, novelli [27] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE. PARTE SECONDA 653 Raffaele e Tobia, non sarete mai guaritori-pacificatori di popoli”. Con un sottinteso, presente già nelle parole di Minosse (If V, 19: «guarda com’entri e di cui tu ti fide»), e implicito in quelle di Pluto: “non fidarti troppo di Virgilio e della sua scienza”. Superfluo ricordare come e in che misura Dante voglia essere, con l’aiuto di Dio, “medicina” per l’Italia e per tutti i viventi. E qui, finalmente, possono giungere in perfetta chiave due altri conforti: l’intestazione della quinta Epistola, e le sue righe iniziali. Essa offre il quarto ed ultimo impiego dantesco del termine “almo” riferito ancora a Roma, e si chiude con quello di “pace”, la pace che Dante invoca in veste di gran Consigliere: «Universis et singulis Ytalie Regibus et Senatoribus alme Urbis nec non Ducibus Marchionibus Comitibus atque Populis, humilis Ytalus Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus orat pacem». Quanto all’avvio della Lettera, esso ripropone, e in chiusa a un esclamativo, ancora e sempre la pace: «‘Ecce nunc tempus acceptabile’, quo signa surgunt consolationis et pacis». A questa interpretazione potranno venire altri riscontri dimostrativi, quando ci si dia a una più vasta ricerca. Converrà muovere, a ogni modo, sempre da una considerazione: Virgilio non avrebbe reagito con tanta violenza verbale («‘Anima sciocca…’»), se gli accenti emessi da Nembrotte, infelici conati di salmi (“non convenienti”) 61, fossero semplice flatus vocis, e non comportassero offesa per la sua persona e per il suo alunno. Il savio gentil che tutto seppe ne ha ben compreso il significato negativo, e risponde come il superbo ideatore di Babele si merita. Mario Aversano CIRO PERNA I capitoli di Romano Alberti tra satira e burlesco The unpublished collection of lyrics by Romano Alberti contains fifteen poems in terza rima in which satirical elements clearly derived from Ariosto coexist with cues drawn from Berni’s literary lusus. The satirical and burlesque genres appear to be mingled in them, as other works written towards the close of the sixteenth century also demonstrate. Mi basta sol che ’l vitto io mi proveggia con quel poco che so del mio mestieri, che ricco è quei ch’alcun non lo dileggia1. Ser Zero ha monna Nulla per consorte, né teme come gli altri maritati, ch’ella gli faccia mai le fusa torte2. Il canzoniere di Romano Alberti (1540ca.-1600ca), testimoniato esclusivamente dal codice xiii D 54 della Biblioteca «Vittorio Emanuele iii» di Napoli3, è caratterizzato da una bipartizione strutturale corrispondente a due tradizioni letterarie diverse, antitetiche per 1 R. Alberti, Presto mastro di casa or or sia detto, con didascalia Al signor Ottaviano Vittoria scultore, vv. 94-96 (Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele iii», ms. xiii D 54, d’ora in avanti N, c. 107v). Tutte le citazioni albertiane saranno trascritte con criteri conservativi, che prevedono comunque taluni necessari interventi di ammodernamento grafico, al fine di agevolarne l’approccio, quali: 1) eliminazione delle maiuscole a principio di verso e di quelle enfatizzanti nelle iniziali di nomi comuni o aggettivi; la maiuscola è conservata nelle personificazioni; 2) eliminazione dell’h etimologica e paretimologica nei sostantivi, aggettivi, avverbi e nelle forme graficamente desuete del verbo avere; 3) resa con zi del gruppo ti + vocale; 4) scioglimento delle abbreviazioni e contrazioni senza indicazioni in loco; 5) ammodernamento nei casi di ch o gh davanti a vocale posteriore o consonante. 2 Id., Dimostrò pur d’esser un uom leggiero, con didascalia Allo eccellente signor dottor Giovanni Vergici capitolo in lode del Zero, vv. 70-72 (N, c. 85v). 3 Per approfondite notizie sulla vicenda biografica e intellettuale dell’Alberti, nonché sul codice N, sia consentito il rinvio a C. Perna, Romano Alberti e un [2] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 655 certi aspetti: nella prima parte sono raccolti, infatti, 84 sonetti, 49 madrigali, 3 componimenti in ottave e 2 canzoni, mentre la Seconda parte delle Rime di Romano Alberti nella quale si contengono satire e bernieschi scritte a diversi signori e patroni4, consta di 15 capitoli in terza rima e 6 sonetti, di cui 5 caudati. Fatta eccezione per le ottave, di chiara ascendenza ariostesca, i testi della prima parte risultano pienamente ascrivibili a quel petrarchismo di maniera tardocinquecentesco, caratterizzato da una riproposizione centonistica di abusati topoi e vuoti stilemi, ossia quegli «[…] unquanco, pallide vïole, / e liquidi cristalli e fere snelle» a cui il Berni chiedeva di tacere5. Se i 6 sonetti della seconda parte sono chiaramente riconducibili alla pratica comico- bernesca, i 15 ternari si inseriscono, invece, nell’alveo di una tradizione relativamente giovane, ma che a quell’altezza cronologica aveva già percorso una lunga linea evolutiva: nel giro di circa mezzo secolo dalle contemporanee prove ariostesche e bernesche, infatti, la satira e il burlesco non avevano proceduto in direzione di una netta specializzazione in generi, quanto piuttosto verso una sfumatura delle idiosincrasie, generata da sempre più ampie interferenze tematiche, oltre che stilistiche e favorita da innegabili affinità strutturali. I capitoli in terza rima, dunque, assumevano «liberamente caratteri tematici e formali dell’uno e dell’altro codice, rimescolandoli e assoggettandoli ad una nuova grammatica compositiva»6. Sia ammettendo che la dicitura satire e bernieschi nella didascalia di c. 70r fosse indistintamente riferita ai 15 capitoli e ai 6 sonetti, sia, come più verosimile, attribuendo il termine satire ai primi e l’aggettivo bernieschi ai sonetti7, sarà comunque il caso di parlare di ibridismo. I componimenti albertiani in terza rima, infatti, manifestano, come vedremo, espliciti momenti di sovrapposizione dei codici: al di là della qualifica livellante di satire, come già accaduto ad sonetto attribuito a Torquato Tasso, «Filologia e Critica», xxxii (2007), n. 2, pp. 275- 89, e Id., La «verace maniera artificiosa»: due satire inedite di Romano Alberti in difesa della Gerusalemme Liberata, «Filologia e Critica», xxxiv (2009), n. 2, pp. 77-115. 4 Didascalia rilevabile a c. 70r di N. 5 F. Berni, Padre a me più che gli altri reverendo, con didascalia A fra’ Bastian del Piombo, vv. 29-30, in Id., I Capitoli, a cura di R. Dusi, Torino, UTET, 1926, p. 110. 6 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, p. 241. 7 A sostegno di questa ipotesi concorre la didascalia di c. 108v, Sonetto bernesco all’eccellente signor Dottor Giovanni Vergici, relativa al sonetto caudato Signor Vergici mio tanto saputo (N, cc. 108v-109r). 656 CIRO PERNA [3] esempio nelle sillogi di Pietro Nelli o di Agostino Cazza8, la raccolta palesa una fisionomia cangiante, in cui il registro di conio orazianoariostesco è mescidato a quello burlesco (e a quello lirico), anche nell’ambito dei singoli testi. La trascrizione di questi ultimi nel codice N segue un’ordine che non risponde a criteri cronologici né tematici o strutturali: i: Al gentilissimo signor Girolamo Magagnati [vv. 211, cc. 71r-75v]; ii: Allo eccellente signor dottor Giovanni Vergici [vv. 220, cc. 76r- 80v]; iii: Al clarissimo signor Marco Ruggiero. Capitolo in lode del mezo [vv. 155, cc. 81r-83v]; iv: Allo eccellente signor dottor Giovanni Vegici. Capitolo in lode del zero [vv. 118, cc. 84r-86v]; v: Alle magnifiche melensaggini e alle melense magnificaggini dei motteggievoli signori Accademici della Crusca [vv. 298, cc. 87r-93v]; vi: Alla bellissima e gentilissima signora Erminia Andovina [vv. 279, cc. 94r-100v]; vii: Al signor Salustio Maffei [vv. 172, cc. 102r-105v]; viii: Al signor Ottaviano Vittoria scultore [vv. 115, cc. 106r-108r]; ix: Al clarissimo signor Carlo Berengo mertissimo secretario del Gran Consiglio dei Dieci Capi di Venezia [vv. 202, cc. 111r-114v]; x: Al signor Anastasio Giusberti [vv. 199, cc. 115r-118v]; xi: Contra alcuni insolenti [vv. 135, cc. 119r-121v]; xii: All’eccellentissimo signor Abbate Gio.Battista Attendolo [vv. 106, cc. 122r-124v]; xiii: Al signor Gasparo Burgi fiscale di Campidoglio [vv. 147, cc. 125r-129r]; xiv: All’illustrissimo signor don Gasparo Toralto [vv. 256, cc. 130r- 136r]; xv: Alla bellissima e gentilissima signora Erminia Andovina [vv. 238, cc. 137r-142r]. Tutti i destinatari dei componimenti appartengono ad ambienti determinati localmente, cronologicamente e socialmente, con i quali l’Alberti è entrato in contatto nell’arco delle sue tortuose vicende 8 Si tratta delle Satire alla Carlona di messer ANDREA DA BERGAMO, Venezia, per Pauolo Gherardo, 1546 e le Satire et capitoli piacevoli di messer GIOAN AGOSTINO CAZZA gentilhuomo Novarese, Milano, s.n.t., 1549, per cui cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., pp. 239-41 e P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 138-57 e 163-67. [4] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 657 biografiche: premesso che per nessuno dei 15 ternari è stato individuato, allo stato attuale delle ricerche, alcun riferimento esterno al testimone N9, sarà possibile proporre, dunque, talune ipotesi cronologiche esclusivamente sulla base delle notizie (allusive in alcuni casi, di cronachistica precisione in altri) fornite dall’autore all’interno dei versi. Agli anni del soggiorno napoletano (1585-1587) andranno certamente ascritte le satire in difesa della Gerusalemme Liberata, come in altra sede dimostrato10, ossia i componimenti v, xii e xiv, nonché il capitolo xiii, indirizzato al maceratese Gaspare Burgi, procuratore fiscale capitolino. Al periodo veneziano (1587-1588) sono riconducibili, invece, il componimento i a Girolamo Magagnati, l’xi contra alcuni insolenti, il xv ad Erminia Andovina, datato «sedici d’aprile / de l’Otantotto» (vv. 1-2, N., c. 137r), e, con qualche dubbio, il ix per Carlo Berengo e il x ad Anastasio Giusberti. I ternari ii e iv a Giovanni Vergici, il iii a Marco Ruggiero, nonché il vi, ancora indirizzato alla Andovina e esplicitamente datato «di Candia il primo de l’Ottantanove» (v. 279, N., c. 100v), sono collocabili nel difficile periodo cretese (1588-1591ca), quando l’Alberti era arruolato tra le truppe veneziane di stanza negli avamposti dell’Egeo. Mancano di qualsiasi riferimento utile ad una collocazione cronologica, invece, i componimenti vii e viii, indirizzati rispettivamente a Sallustio Maffei e allo scultore Ottaviano Vittoria: si tratta, infatti, di testi in cui il motivo misogino (vii) o della reprimenda degli eccessi dei ricchi (viii) non è corredato da circostanziati riferimenti alla realtà quotidiana. Poco o nulla, per di più, conosciamo dei due destinatari, a parte la provenienza romana del primo, come specificato dall’Alberti a c. 146v, nell’elenco di personaggi noti che chiude il codice (cc. 146v-147v), nonché il sonetto Roman solo il tuo nome altrui discopre, che reca la didascalia Del signor Sallustio Maffei a Romano Alberti, trascritto in N a c. 145v. Da una sommaria lettura delle didascalie si evince immediatamente come, esclusi il capitolo v, impostato piuttosto come spazio di riflessione poetico-letteraria in difesa dalle accuse cruscanti alla Liberata11, e il 9 L’unica eccezione è la cursoria citazione del componimento per gli accademici della Crusca nell’introduzione alle lettere tassiane della prigionia del curatore ottocentesco Cesare Guasti. Cfr. C. Perna, La «verace maniera artificiosa»: due satire inedite di Romano Alberti in difesa della Gerusalemme Liberata, cit., p. 84. 10 Cfr. Ivi, pp. 82-86. 11 Il testo accademico con cui polemizza l’Alberti in vari luoghi del ternario è la Stacciata Prima di Leonardo Salviati. Per tutta la questione cfr. Ivi, pp. 89-102. 658 CIRO PERNA capitolo xi, aspra invectiva rivolta a indefiniti «insolenti» veneziani, tutti gli altri componimenti manifestino il carattere privato dell’esperienza satirica, affidata, tra l’altro, a una circolazione esclusivamente manoscritta, ordinata a posteriori nel codice N e priva di alcun progetto certo di edizione a stampa. Scrivendo a pochi, l’autore circoscrive e seleziona il codice comunicativo, rendendolo così sfumato e meno accessibile, «nel senso che i suoi comportamenti, e in definitiva la sua morale, si intendono condivisibili solo da coloro ai quali egli sta parlando»12. Attraverso l’indicazione dei corrispondenti è testimoniata, inoltre, la circostanzialità di quel messaggio, ovvero l’esistenza di un’occasione puntuale a monte dei versi inviati, che palesano a più riprese i tratti di una «autobiografia minima»13. L’assenza di testimonianze esterne non consente di capire se i testi siano stati effettivamente inviati o piuttosto se siano giunti a destinazione: la sola presenza dei destinatari è, tuttavia, sufficiente a designare «una zona ed un livello della società coeva»14, in cui viene rappresentata una rete di relazioni fondata sulla testimonianza di scelte esistenziali, sull’enunciazione di principi e giudizi, sul resoconto di situazioni di fatto o, al limite opposto, sul lusus letterario. Questa circolazione di idee è sovente ritratta con cura estrema della verosimiglianza, che ha reso questi testi documenti fondamentali per la ricostruzione della vicenda biografica albertiana, tenuta naturalmente conto della mediazione letteraria ad essi sottesa15. Tra vissuto e narrato, tra fictio e veritas il limite è, infatti, estremamente sottile: ogni dato andrà accolto, dunque, con cautela e discrezione, alla luce di quella «inevitabile trasformazione che ogni elemento della realtà, soprattutto se interiore, subisce nel processo di rappresentazione fantastica»16, e considerato, poi, l’atteggiamento particolare che l’autore imprime su ciò che un’urgenza, una necessità o uno sfogo personale hanno imposto di dire. Lo speaker satirico è portato dalla potenza del sentimento a seguire le varie contingenze 12 A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Roma, Vecchiarelli, 1999, p. 9. 13 G.M. Stella Galbiati, Per una teoria della satira fra Quattro e Cinquecento, «Italianistica», xvi (1987), n. 1, p. 15. 14 P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, cit., p. 19. 15 Cfr. C. Perna, Romano Alberti e un sonetto attribuito a Torquato Tasso, cit., pp. 275-279. 16 G. Fatini, Umanità e poesia dell’Ariosto nelle “Satire”, «Archivium Romanicum», xviii (1933), n. 4, p. 504. [5] [6] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 659 della vita, piegandole alla forza rielaboratrice, innovatrice della letteratura. Attraverso una sistematica prassi allocutiva, che in tutti i casi prevede l’utilizzo del voi e che ribadisce «l’individualità esistenziale dell’io che parla»17, l’Alberti coinvolge i destinatari in queste urgenze, instaurando un dialogo che, lungi dalla complessità ariostesca, assume piuttosto un carattere univoco, monodirezionale, nella quale acquista valore la riflessione anche risentita sugli eventi e sulle difficoltà del presente. La struttura dialogica non è impostata su un effettivo scambio dialettico con gli interlocutori: a questi ultimi, infatti, l’autore non attribuisce obiezioni, dubbi, insinuazioni, ma richiede ascolto, comprensione, rispetto a ciò che attraverso un vero e proprio monologo si accinge a esprimere. Mittente e destinatario sono sul medesimo piano in una comunicazione orizzontale, ma è lo speaker con la sua voce, la sua storia, il suo mondo, il protagonista indiscusso dei versi. Il realismo dei componimenti consiste innanzitutto nell’esposizione a un interlocutore preciso di un punto di vista soggettivo, di un personale modus vivendi. Manca tra le realizzazioni del rapporto io/tu alla base del modello ariostesco18, dunque, il tu rivolto all’autore dai destinatari o da una voce anonima, salvo rare eccezioni: fedel mio caro qual demon sì pronto 165 fu a disturbar nostri commun diletti? Alberti mio, chi t’ha da me disgionto? In qual parte ora sei? Dove m’aspetti? Certa ch’in mille rischi sei trascorso quanti ho del viver tuo fieri sospetti. 170 […] La tua diletta Erminia (ahi cieli ingrati perché ufficio sì giusto e pio vietarmi?) gli ultimi baci non t’avrà donati19. Ben rappresentati, invece, i rapporti io/tu che si figurano come «finzioni di secondo grado»20, ossia il tu con cui l’autore apostrofa ed è apostrofato da personaggi da lui evocati: 17 C. Segre, Struttura dialogica delle “Satire” ariostesche, in Id., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, p. 119. 18 Ivi, p. 120. 19 vi, vv. 165-179, N, c. 98r. 20 C. Segre, Struttura dialogica delle “Satire” ariostesche, cit., p. 120. 660 CIRO PERNA [7] con mia gran meraviglia apunto quando entro, veggo il barbier ch’in terra getta 5 un libro tutto irato borbottando: «oh che ottava oscura e maledetta21, venga il morbo a chi a leggerlo m’indusse», poi mi raccolse e fece di beretta. Io vago di saper che libro fusse 10 gliel’ chiesi et ei rispose: «egli è ’l Tassino che gli venghin’ov’è mille ghiandusse». «Oh», gli diss’io, «questi non è il divino Arïosto del qual prende piacere ogne artegiano, ogni oste, ogni facchino»22. 15 Ad un livello che potremmo definire metadiegetico appartengono, invece, i tu con cui interagiscono i personaggi protagonisti di favole fittizie o di racconti esemplari: infin quanto vorrei lodar non posso il capitan Lorenzo de’ Sostegni, capitan fiorentino grande e grosso. 90 Questi un giorno per certi suoi disegni sovra un picciolo scoglio andò a fermarse con un battello de’ suoi grossi legni, quando uno spagnolicco in riva apparse e, visto il burchio ov’era il marinaro, 95 a lui venne ancor voglia d’imbarcarse e con un viso di caldarostaro gridò: «oh buscïaron de la barchiglia, chiero passar di là, vien qua somaro». Alora il capitano alzò le ciglia 100 e si fece veder da quel marrano, sì ch’ei si vide scorso a molte miglia e, per scusarsi, co· ’l capello in mano disse: «vuessa mestè non miri a cheglio ch’e’ diccio pour ablar con est’hermano». 105 Il capitan, per attaccarla meglio, risponde: «venga pur vosignoria» e fa spinger la barca verso d’eglio23. Alla tradizione propriamente satirica, con particolari affinità rispetto al modello ariostesco e ai suoi successivi risvolti, bentivoleschi innanzitutto, andranno ricondotti i ternari vii e viii, indirizzati ri- 21 Il verso è ipometro se si esclude una (improbabile) dialefe tra che e ottava. 22 xii, vv. 4-15, N, c. 122r. 23 xiii, vv. 88-108, N, c. 127r-v. [8] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 661 spettivamente a Sallustio Maffei e Ottaviano Vittoria, nonché il x per Anastasio Giusberti. Se per i primi, come anticipato, non è possibile proporre ipotesi di datazione, risultando completamente svincolati da qualsiasi riferimento al quotidiano, per l’ultimo si può cautamente avanzare una collocazione cronologica nel periodo veneziano, in ragione di un (labile) indizio: nella salutatio l’Alberti fa riferimento ad una «sventura» (v. 2) di cui sembrerebbe rattristarsi il suo interlocutore veneziano24 e che potrebbe probabilmente significare l’improvvisa fuga in laguna con il conseguente abbandono dei suoi affetti, di cui spesso è fatto riferimento nelle rime:25 Giusberti, da che voi per grazia vostra vi condolete de la mia sventura e molta cortesia m’avete mostra, io mi consolo sì, perché non dura il mal come il bene anco et al fin viene 5 il chiaro dì dopo la notte oscura26. Gli argomenti delle tre satire manifestano una piena aderenza ai topoi etici della tradizione oraziana-ariostesca: il rapporto con le donne, non senza punte misogine (vii), gli eccessi dei ricchi e la vacuità del loro vivere (viii) e i vizi del mondo generati dall’avarizia (x). Di fronte a queste tematiche lo speaker si pone generalmente con atteggiamenti di saggezza epicurea, nonostante un evidente disagio che in certi casi sembra generare un vero e proprio sfogo in versi: «Presto, mastro di casa, or or sia detto al cuoco che mi faccia qualche nuovo intingolino o ver manicaretto. Lo stomaco sì sconcio mi ritrovo che, per ricuperare l’appetito, 5 mastico ciò che voglio e in van mi provo. Fà ch’una volta mi si porti un dito di vin che fresco sia, fà ch’una volta mi s’agghiaccino i denti: haimi tu udito? 24 Anastasio Giusberti è ricordato dal Foscarini tra i vari intellettuali autori di lettere d’encomio stampate nella prima edizione della PETRII JUSTINIANI patritii Veneti Aloysii F. rerum venetarum ab urbe condita historia (Venezia, apud Comino de Tridino Montisferrati, 1560). Cfr. M. Foscarini, Della letteratura veneziana ed altri scritti intorno ad essa, Venezia, co’ Tipi di Teresa Gattei, 1854, p. 293. 25 Cfr. C. Perna, Romano Alberti e un sonetto attribuito a Torquato Tasso, cit., p. 277. 26 x, vv. 1-6, N, c. 115r. 662 CIRO PERNA [9] Mi s’è di dietro una stringa disciolta, 10 chiama sti paggi, che nessuno appresso mai me ne veggo, tutti vanno in volta». Oh degni d’esser gettati in un cesso fatevi udir, alzate pur la voce, che quanto dite v’è per buono ammesso27. 15 Trincerato nei confini di un’aurea (e spicciola) mediocritas, lo speaker si abbandona alla rappresentazione del vizio, attraverso un andamento incostante ed errabondo, ispirato senza dubbio alla fisionomia aperta e divagante della satira ariostesca: quando a tavola state otto ore parvi di far, mi penso, una solenne prova attendendo benissimo a inzepparvi. Vogliono da l’un lato uno che mova 70 sul lïuto la man concordemente, da l’altro alcun che conti qualche nova. Ruffiani, parasiti e simil gente fanno sguazzare in casa loro, intorno se li voglion veder continuamente. 75 Virtuosi tener gli sarïa scorno, perché sanno ch’un animo gentile non può star dove un sozzo fa soggiorno. E se talora gli entra nel cortile alcuno che per Dio lor chieda aita, 80 per la sua povertà mendico e vile, «scacciatelo, toglietegli la vita» gridan, «s’un’altra volta egli ci appare», con voce ch’a vendetta il cielo irrita28. L’Alberti si commisura al vizio, sostenendo, alla maniera bentivolesca, «un’autarkeia realizzata contro lo sfondo della dismisura e della volgarità altrui»29: è esibita, dunque, una dimensione contrastiva, di antitesi tra l’io (e la ristretta cerchia di destinatari) versus il mondo. Il linguaggio satirico è inteso innanzitutto come luogo della rivendicazione del sé, autocompiaciuta celebrazione nel proprio limitato orizzonte. L’autoritratto dell’io che parla, una sorta di eroe del quotidiano, è frutto di una contrapposizione, ovvero di un capovolgimento dei vizi inteso come ritorno alla rectitudo: 27 viii, vv. 1-15, N, c. 106r. 28 Ivi, vv. 67-84, N, c. 107r-v. 29 P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, cit., p. 134. [10] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 663 mi basta sol che ’l vitto io mi proveggia con quel poco che so del mio mestieri, 95 che ricco è quei ch’alcun non lo dileggia. Son le mani i miei paggi, i pie’ staffieri, mi sto, cammino e quel ch’io voglio faccio senza chiamar Gianni, Michele o Nieri e senza dare a’ miei parenti impaccio, 100 l’Italia ho per mia casa, ov’io son nato: spasseggio in questa, in questa dormo e giaccio. S’in Roma, in Siena, in Napoli son stato, ne la mia patria, in Venezia, in Vicenza il mio bisogno non mi ci è mancato, 105 ch’in quanto a me non faccio differenza di vivere in qualunque modo io vivo, in Bergamo, in Ferrara od in Fiorenza30. La saggezza non è più nella riflessione dialettica, nella «macchia di pazzia»31, dal momento che non incombe affatto nelle scelte personali la minima traccia della contraddizione. Il modello ariostesco risulta, così, semplificato, ridimensionato: resta «l’uomo da bene […] costretto ad una lamentosa difesa di spazi minimi, garantiti dall’ideologia di un’autarkeia astratta»32. Lo speaker sostiene con fermezza di essere distante dalla “follia” del mondo e ben pronto ad affrontarne la mutevolezza: l’animo mio costante non si muta, cadon le foglie incontro a Borea algente, ma la quercia riman, benché sbattuta. Questa fortuna pur tanto possente 25 ci la facciam da noi medesmi, ch’ella si trova buona dov’è bona gente: se l’età nostra sì maligna e fella non fosse ai virtüosi, la fortuna divenirebbe di tiranna ancella. 30 Rara bontà negli uomini o nessuna si scorge: ogn’uno avaro chiude e serra quanto per mille torte vie raguna33. 30 viii, vv. 94-108, N, cc. 107v-108r. 31 L. Ariosto, Satira ii, v. 149, in Id., Satire, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987, p. 17. 32 P. Floriani, Protostoria delle satire ariostesche, «Rivista della letteratura italiana », i (1983), n. 3, p. 496. 33 x, vv. 22-33, N, c 115v. 664 CIRO PERNA [11] La reprimenda nella gemella satira x è organizzata con il medesimo dettato apparentemente incostante, brachilogico in alcuni casi, realistico in altri, in cui le pause, gli incisi, il sopravvenire casuale di elementi eterogenei sembrano mimare il tipico andamento di un’epistola familiare34. Non soltanto, dunque, la convocazione di personaggi reali o l’episodio di vita vissuta come pretesto del componimento (almeno per le satire vii e x), ma anche la struttura espositiva e l’organizzazione del messaggio lasciano intravedere nei testi una connotazione epistolare. Con questa impostazione viene ancora rappresentata l’inconciliabile antitesi tra il sé e il mondo, la distanza assoluta tra osservatore saggio e realtà afflitta dall’errore, tra «buoni essempi» e «vizii armati»: oh insensati ricchi, oh scïocchi avari, 40 l’onor che vi vedete far intorno non a voi ma si fa ai vostri denari. Fate ribalderie la notte e ’l giorno, stupri, assasinamenti, sacrilegi, che sopra voi non cade pena o scorno. 45 Voi pieni di virtù, d’animo egregi siete chiamati da l’adulatore, onde a lui sol donate premi e fregi. Ma verrà tempo che ’l pazzo furore, la discordia insolente, scatenati, 50 vi faran ravveder del vostro errore, ché quando la virtù dai vizii armati è posta sotto, essi fra lor discordi pongon poi tutti sottosopra i stati. Ma chi non dice cosa che s’accordi 55 co· ’l vivere scorretto ch’oggi si usa, sono fatti per lui gli uomini sordi. Io mi sto con la mente sì confusa, che vorei per onor de’ nostri tempi trovar simile al vero qualche scusa, 60 ma non accade ch’a far ciò m’attempi, che peggiorando il mondo tuttavia, non curerebbe i nostri buoni essempi. Lasciam correre il fiume a la sua via: peggiori ’l mondo pur quanto gli piace, 65 ch’io non ci voglio por più fantasia e già ch’opressa la virtù si giace, 34 Cfr. P. Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, cit., pp. 79-88. [12] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 665 poco parlando e comportando assai, ben posso anch’io vivere oppresso in pace35. Nonostante l’indubbio disordine espositivo, in entrambe le satire è individuabile, comunque, un percorso che può essere agevolmente schematizzato in tre fasi: 1) esposizione del vizio, della follia del mondo; 2) biasimo, ovvero inoppugnabile condanna; 3) rappresentazione del sé, ossia della saggia alternativa. Tra i tre momenti non sussiste, tuttavia, un rigido rapporto consequenziale, ma piuttosto un’irregolare alternanza, specchio della libera successione di pensieri. Molto più compatta, invece, la satira vii, ispirata da un singolare episodio di vita vissuta che coinvolge mittente e destinatario: una donna contesa dall’Alberti e dall’amico romano Sallustio Maffei scelse di accontentare un terzo incomodo e fuggire via con lui, lasciando i due litiganti nel rimpianto di inutili indugi: io mi credea (né però n’avea duolo) che quelle membra così delicate 20 ve le godeste voi sotto il lenzuolo. Per lo contrario voi vi credevate, ch’io le godessi e l’uno e l’altro infine, oh scioccheria, non l’abbiam pur toccate et un poi ch’è venuto dal confine 25 d’Italia e Schiavonia in tanta malora ne l’ha portata fuor d’este marine. Infatti egli è pur ver: chi s’inamora e vuol’andar con creanze e rispetti, entra un più audace et ei resta di fuora. 30 Che siano mille volte maladetti li giorni e l’ore che ci abbiam perdute, senza venir da le burle agli effetti36. L’opportunismo e la spregiudicatezza di questa donna offrono il pretesto per riflessioni poco lusinghiere sul sesso femminile, che andranno ascritte al trend misogino di ascendenza giovenaliana, sistematicamente praticato nella scrittura satirica e canonizzato dall’illustre precedente ariostesco37: 35 x, vv. 40-69, N, c. 116r-v. 36 vii, vv. 19-33, N, c. 102v. 37 Cfr. G. Manacorda, Notizia intorno alle fonti di alcuni motivi satirici ed alla loro diffusione durante il Rinascimento, «Romanische Forschungen», xxii (1908), 666 CIRO PERNA [13] perfida infame, ingannatrice ria, 70 segui ’l bel drudo che t’hai scelto a prova, seguilo co· ’l malan che Dio ti dia. Che meraviglia è se l’uom si ritrova ingannato alla fin, se sotto aspetto angelico il dïavolo si cova. 75 Sangue di me, ch’io voglio a mio dispetto tener ciascuna donna per fallace e da quello ch’io son ve lo prometto. Se l’uomo le vuol bene e a lei dispiace, in guai sempre ti tiene e in precipizio 80 ti mena se saziarti ancor le piace38. Il denominatore comune delle tre satire vii, viii e x, da cui per altro risulta evidente il peso del modello ariostesco, consiste nell’utilizzo di apologhi, che «stabiliscono la trasposizione della riflessione morale dall’esperienza personale all’universo narrativo della favola»39. Solo in un caso, ovvero nella satira per il Maffei, l’apologo assume, tuttavia, il canonico carattere di fabula; la breve deviazione diegetica non ha fini propriamente esemplari, ma metaforici: è intervenuto a noi, fate pensiero, come a que’duo golosi ch’appiattati stavan di notte per spogliare un pero. L’un non sapea de l’altro; quando alzati 10 ambeduo a un tempo, per salirvi suso, non così presto s’ebbero mirati, che l’un patron l’altro credendo, a l’uso de’ ladri in fugga si rivolser ratti, l’uno verso la costa e l’altro in giuso. 15 Così que’ peri alor restaro intatti, ma un altro ladro che poi venne solo tutti se li godè maturi e fatti40. Ancora introdotti ex abrupto nel procedere delle terzine indirizzate al Vittoria e al Giusberti, ma dal registro morale, parenetico, sono gli altri due apologhi, che, a differenza del precedente, dovranno situarsi piuttosto nella sfera della historia. In entrambi i casi, infatti, l’Alberti pp. 746-47. Cfr., inoltre, A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, cit., pp. 39-47. 38 vii, vv. 70-81, N, c. 103v. 39 A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, cit., p. 19. 40 vii, vv. 7-18, N, c. 102r. [14] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 667 sembra attingere dal vissuto, dalla (presunta?) veritas autobiografica, per la rappresentazione di exempla di carattere didascalico e insegnativo: protagonisti dei due apologhi sono, infatti, un contadino della «val di Capresa»41 (località poco distante da Borgo Sansepolcro, città natale dell’Alberti) e un «giudice ch’avea prattica mia»42. Ai semplici gesti, alle parole icastiche configurate quasi come dei motti arguti del contadino presiede una rilevante carica esemplare, sottolineata dallo speaker nei versi immediatamente successivi alla divagazione narrativa: un contadino di val di Capresa zappava nel terren d’uno avaraccio, che non fu mai veduto entrare in chiesa. Al miserone dava grande impaccio il vederlo mangiar ad ora ad ora 35 e vuotar di buon vino un boccalaccio. E non potendo al fin far più dimora, sborrò con la saliva in su le labbia: «ben col malanno sè tu sazio ancora? Io credo, certo, che per farmi rabbia 40 tu mangi tanto: altri ha pur qui zappato senza che tanta spesa dato m’abbia». Il contadino subito inchinato prese due zuppe di terreno in mano e stringendo la bocca da l’un lato, 45 disse: «gnaffè, patron mio bel, pian piano non vi pigliate collora perch’io voglio mostrarvi che gridate invano. Ciò ch’io v’impongo fatelo per Dio, tenete questa zuppa voi nel seno 50 vostro e quest’altra io la terrò nel mio». Ciò detto a franger ritornò il terreno, e poi che s’ebbe affaticato assai, disse al patron che si sedea sul fieno: «ben, la zuppa ch’in grembo io vi lasciai 55 a che termine sta»? Rispose: «intiera, né più né meno com’io la pigliai». Soggiunse il contadin: «la mia leggiera s’è fatta molto, a mano a man zappando m’è sdrucciolata giù de la panciera. 60 Or sappiate patron che, lavorando, il pane e ’l vino ancor ch’in corpo metto 41 viii, v. 31, N, c. 106v. 42 x, v. 109, N, c. 117v. 668 CIRO PERNA [15] si viene in questo modo consumando». Che sia quel Capresano benedetto: imparate ricconi a essercitarvi, 65 non state insino a mezo giorno in letto43. L’apologo inserito nella satira per il Giusberti costituisce un corredo alla rappresentazione del vizio dalla indubbia forza iconica, ponendosi, dunque, come utile sostegno all’impianto espositivo. La meschinità del giudice è un esempio della distorsione del mondo e delle estreme conseguenze cui può condurre e rappresenta solo uno dei casi limite di cui l’Alberti ha avuto testimonianza diretta. Al di là della prevedibile enfatizzazione, il dato autobiografico risulta, infatti, esplicitamente dichiarato nella chiosa conclusiva44: a un giudice ch’avea prattica mia, un meschin, per riavere un castelletto, 110 ch’in vero di ragione le venia, dopo lungo contrasto al fine astretto, per vedersi di già la borsa manta, la propria figlia gli condusse in letto. Con tutto ciò (sentite se fu bella) 115 perché la parte avversaria più ricca donò tanti bei ricci di copella, ha la sentenza contra, ond’ei si ficca in tal desperazion ch’indi si parte e di sua mano subito s’appicca. 120 Il giudice ancor vive ed in tal arte persevera anco senza che rimorso di conscienzïa ne ’l rimova in parte. A dirvi questa sola io son trascorso, che ve ne potrei dir de le più grandi, 125 a le quali io medesmo sono occorso45. Non come discontinue operazioni mimetiche del registro epistolare, ma come vere e proprie «lettere in capitoli»46 sono strutturati i ternari i (al Magagnati), ii (al Vergici), vi (alla Andovina), xiii (al Burgi) e xv (alla Andovina). L’interferenza tra satira e burlesco si 43 viii, vv. 31-66, N, cc. 106v-107r. 44 Anche per l’Alberti, alla luce dei tre componimenti finora analizzati e con le dovute proporzioni, è possibile, dunque, parlare di satire concepite come un «libro di note e memorie autobiografiche con sparse riflessioni satiriche e morali » (S. Debenedetti, Intorno alle satire dell’Ariosto, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», lxii (1945), n. 122, p. 115). 45 x, vv. 109-126, N, c. 117v. [16] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 669 realizza in maniera evidente in questo genere di componimenti: l’«assunzione di un interlocutore amico e familiare», la «sua presenza non solo nello spazio extra testuale, ma all’interno stesso della scrittura», la «continuità del dialogo che ricopre tutta l’estensione del teso»47, sono, infatti, «un elemento di strutturazione»48 del modello satirico ariostesco e costituiscono, al contempo, i caratteri peculiari delle lettere in capitoli dei vari Berni, Mauro, Bini o Franzesi. Ai dati base individuati, andrà aggiunto poi un elemento di novità esclusivo dell’epistola burlesca in terza rima: il fenomeno, cioè, dell’insistita riproposizione di formule stereotipe tipiche delle missive. A conferma dell’ibridismo dei ternari albertiani di cui abbiamo accennato, si registra nei cinque capitoli-epistola la compresenza di tutti gli elementi, compresa la frequenza di queste formule, a cominciare innanzitutto dalla salutatio: signor Gasparo Burgi, che fiscale sete di Campidoglio, io vi saluto con una riverenza principale. Sempre per mio patron vi ho conosciuto per fare in parte dunque il mio dovere 5 vi mando questa lettera in tributo49. Proprio come in una normale lettera in prosa, si riscontra nel capitolo per il Magagnati, poi, la caratteristica chiusa colloquiale e affettuosa, in cui saluti e ossequi si susseguono in un «rosario di terzine fitte di nomi e di cerimonie di cortesia»50. Il destinatario assume, così, la funzione di un mediatore, di anello di congiunzione con una molteplicità di destinatari di secondo grado: fra tanto salutate a nome mio il mio signor don Gasparo Toralto, che grandemente riveder desio. Al signor don Vincenzo ch’è troppo alto 190 rispetto a voi che siete assai grandino con una scala darete un’assalto. 46 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 182. L’espressione (con il singolare «lettera») fu utilizzata dal Berni in un’epistola a Blosio Palladio del 31 dicembre 1534. 47 Ivi, pp. 186-87. 48 C. Segre, Struttura dialogica delle “Satire” ariostesche, cit., p. 121. 49 xiii, vv. 1-6, N, c. 125r. 50 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 190. L’autrice fornisce numerosi esempi in cui si riscontra tale prassi. 670 CIRO PERNA [17] Ditegli ch’io sin di qua me gli inchino: così al signor abbate Attendol nostro et al signor Camillo Pellegrino. 195 Mi racommando51 poi di buono inchiostro al Barbarito, al Marotta, al Montano, che tanto è mio quanto voi siete vostro. Al mio parente baciate la mano signor Giacomo Alberti, a cui la vita 200 sono ubligato come al Capitano. Di voi non dico, ch’ella era spedita per me se voi insieme co’ sopradetti pronto non eravate a darmi aita. Al Riccardi e al Caputi, due sogetti 205 rari, dite ch’io son lor servitore e che lo mostrerò un dì co· gli affetti. Al mio nemico poi che fa l’amore sì con se stesso, cioè a Carlo Noce, farete intender ch’io di tutto cuore 210 prego Dio di vederlo un giorno in croce52. Un altro evidente tratto di marcata riproposizione di formule epistolari consiste nell’apporre generalmente nella chiusa del capitolo, oltre ai saluti abituali, la data o la firma dello scrivente. Sulla scorta di illustri antecedenti (Aretino, Domenichi, Mauro)53, Romano Alberti segue questa prassi nelle due missive per la Andovina. Nella prima la firma è apposta in incipit: Romano, quel sì caro antico vostro servo, Erminia gentil, questa vi scrive sparsa di pianto assai più che d’inchiostro, e la data in explicit: «Di Candia il primo de l’Ottantanove»54. Nella seconda, invece, datazione e firma sono collocate in posizioni invertite, laddove la terzina introduttiva è: da Venezia alli sedici d’aprile de l’Otantotto mando questi versi a voi signora Erminia mia gentile, mentre i versi conclusivi ospitano la firma: 51 La formula, frequente nei burleschi, fu canonizzata dal Berni in un capitolo per Sebastiano del Piombo. Cfr. ivi, pp. 190-92. 52 i, vv. 187-211, N, c. 75v. 53 Cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., pp. 195-97. 54 vi, vv. 1-3, N, c. 94r e v. 279, N, c. 100v. [18] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 671 e perché già veggo la carta piena 235 vi lascio e prego (quando ch’io lo merti) che mi vogliate ben. Schiavo in catena de la vostra beltà, Romano Alberti55. I capitoli epistolari sviluppano esplicitamente il versante privato dei rapporti di amicizia e sono depositari di una ricca aneddotica personale, di «detti e fatti non esemplari ma eminentemente transeunti »56: è soprattutto in questi testi che si realizza la piena consonanza tra autore e destinatario, proiettati in momenti comuni di vita quotidiana. Esistono nei cinque testi albertiani due tematiche preferenziali, entrambe determinate dal motivo del viaggio: il disagio generato dalle difficoltà spesso patite e lo stupore suscitato dall’approccio a realtà sconosciute, stili di vita differenti, tradotto in una sorta di diario in versi, in cui si susseguono liberamente giudizi lusinghieri o espliciti improperi. I due ternari scritti a Creta e indirizzati a Giovanni Vergici (ii) e a Erminia Andovina (vi) sono lo specchio della difficile vita sull’isola, che diviene, dunque, elemento essenziale del capitolo. Dei destinatari conosciamo pochissimo: il primo, erudito cretese di origini veneziane, è autore di una inedita Historia della peste nella città di Candia, databile intorno alla metà degli anni ’90 e tràdita dal codice It. VII 657 (7481), cc. 118r-179r, della Biblioteca Marciana di Venezia57, nonché del madrigale D’amor l’arco e gli strali (con didascalia Del signor dottor Vergici) e del sonetto Quel mezo lucidissimo e divino (con didascalia Dello eccellente Signor dottor Giovanni Vergici), trascritti in N rispettivamente alle cc. 56v e 146r58. Di Erminia Andovina non vi sono tracce esterne al codice N: sulla scorta degli indizi interni, è tuttavia ipotizzabile collocare l’incontro con l’Alberti negli anni romani, precedenti al soggiorno napoletano59. Erminia è 55 xv, vv. 1-3, N, c. 137r e vv. 235-38, N, c. 142r. 56 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 202. 57 Cfr. G.C. Persio, La nobilissima barriera della Canea. Poema cretese del 1594, a cura di C. Luciani, Venezia, Istituto ellenico di studi bizantini e postbizantini, 1994, p. 145. 58 Il sonetto costituisce, come vedremo, un elogio al Capitolo in lode del mezo, inviato dall’Alberti a Marco Ruggiero, altro intellettuale probabilmente cretese. È facilmente ipotizzabile un proficuo scambio di rime con il Vergici, come testimoniato dai due caudati indirizzatigli, ossia il già citato Signor Vergici mio tanto saputo (N, cc. 108v-109r), nonché Sopra un massiccio di pietra focaia (N, c. 136v). 59 Cfr. C. Perna, Romano Alberti e un sonetto attribuito a Torquato Tasso, cit., p. 276. 672 CIRO PERNA [19] destinataria di numerosi componimenti della prima parte del canzoniere e compare altresì in un madrigale di Marco Ruggiero per l’Alberti, ove è definita «cagion de’ tuoi gran danni»60. Il capitolo epistola per il Vergici rappresenta il resoconto di una notte brava vissuta in casa di quest’ultimo, in occasione di una festa da ballo, ed è evidentemente motivato dalla richiesta di aiuto per le amare conseguenze sopraggiunte, efficacemente collocata in ouverture: signor dottore or sì mi fa mestiero del vostro aiuto, ché sto sotto pena di morte seguestrato nel quartiero. Per Dio fui pur un pazzo da catena a non restar secondo il mio costume 5 per quella sera in casa vostra a cena61. L’Alberti propone a questo punto la sua versione dei fatti, cercando di seguire pedissequamente la naturale successione degli eventi. Il racconto prende avvio, perciò, dall’antefatto, ossia dalla cena e dall’organizzazione della festa, mediante icastiche terzine in cui il (burlesco) realismo culinario o l’espediente onomatopeico (v. 28) assumono particolare rilevanza fonico-ritmica: giunto a casa ch’io fui: «misser Romano ceniam presto, che dopo un bel festino vo’ che facciam», mi disse il capitano. «I’ ho già ’nvitato ogni nostro vicino: non ne mancherà al solito chi suoni 20 la citera, il lïuto e ’l vïolino». Ciò detto una lepretta, due piccioni, una torta e qualche altra cosa appresso mangiammo prestamente in due bocconi. Il bicchiero s’empia poco ma spesso, 25 secondo la dottrina di Galeno, che Dio ’l sa s’egli acettò per se stesso. Tic toc, s’apre l’uscïo, et ecco in meno ch’io lo dico il salotto di soldati, di femine e di maschere fu pieno62. 30 Nella concitazione delle danze un gruppo di «due o tre di questi che fanno il gradasso» (v. 89) guastò l’armoniosa atmosfera con 60 Dal madrigale Fu la bella Indovina, con didascalia Del clarissimo signor Marco Ruggiero a Romano Alberti, v. 2 (N, c. 144r). 61 ii, vv. 1-6, N, c. 76r. 62 Ivi, vv. 16-30, N, c. 76r-v. [20] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 673 irriverenti atteggiamenti. La reazione dell’Alberti nei confronti del «capo» (v. 91) del drappello fu inizialmente solo verbale, ma costituì il preludio al disastroso epilogo: io, perché aver a fare co’ balocchi non si credesse, lo aviso che taccia e che non entri dove non gli tocchi; egli avampando tutto d’ira in faccia, 100 subito a tu per tu con me venuto, si pensò, credo, di darmi la caccia. Ond’io c’ho un cervellaccio risoluto, «se tu non sai parlar», dissi altrimenti, «per te assai meglio sarebbe esser muto». 105 Ei replicommi digrignando i denti, «che di’ tu, bestia? Alora io co· ’l bastone ti mostrerò fuor di qui che tu menti»63. All’uscita, infatti, le bastonate dell’Alberti arrivarono puntuali, prima della rocambolesca «ritirata in un cantone» (v. 177), ovvero nel luogo stesso in cui dichiara di comporre i suoi versi. Esaurito il flashback, il racconto torna, dunque, a situarsi nel presente ed è chiuso con il motivo del disagio, «componente primaria della tradizione burlesca»64, dei problemi pratici del quotidiano: io sto in una stanza fredda e scura, dove passeggio tutta la giornata 200 e questa ha una fenestra mal sicura, perché senza catorcio, ben tarlata, da la via che gli’è dietro ove si tente, agevolmente altrui può dar entrata. La porta ancora non saria possente 205 contra un calcio, ché qua non si fan porte né case all’uso nostro di ponente. In somma io vivo ogn’ora co· la morte sugli occhi, né mi basta tener carche sempre in mano pistole un palmo corte, 210 ché, se crudeli voranno le Parche troncar il fil che naspan di mia vita, in van formo cavalli in aria e barche. Almeno facess’io la rïuscita 63 Ivi, vv. 97-108, N, c. 78r-v. 64 D. Romei, Il “doppio gioco” dei poeti burleschi del Cinquecento, in Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo. Atti del convegno di Pienza, 10-14 sett. 1991, Roma, Salerno Editrice, 1992, I, p. 400. 674 CIRO PERNA [21] di Dedalo, ch’in questo regno l’ale 215 mettendo, anch’io quinci farei partita. Ma pensato ho a la fin per minor male pria de venir in man de’ miei nemici di trapassar me stesso co· ’l pugnale. Vi do l’ultimo a Dio, signor Vergici65. 220 L’epistola indirizzata a Erminia Andovina sviluppa allo stesso modo il motivo del malessere, delle difficoltà patite in una terra così lontana, in cui l’Alberti stassi a forza di sua fiera sventura privo (può dirsi) di commercio umano, ché, se bene hanno d’uomini figura, 10 i veri paesani d’esto loco per lo più sono di bestial natura. Questi a rinegar Dio pronti per poco, vivendo a lor capriccio, il Papa e veri santi decreti suoi prendonsi a gioco. 15 Non son di Roma qua gli agi e i piaceri, le guglie, i mausolei di marmi fini, i regii tempii e i gran palagi alteri. Di Farnese e di Medici i giardini, Tivoli non son qua né Caprarole, 20 opre di rari ingegni pellegrini; non son d’amor qua le soavi scole, dotte academie de’miglior poeti, ch’oggidì sian per quanto gira il sole. Gli Attendoli, i Caselli, i Sadoleti, 25 i conti Gottifredi sonmi accorto, che qua non sono i gran Tassi e i Mureti66. Lungi dal risolversi, però, in una sorta di monotono enueg o di stucchevole repertorio di antitesi, il componimento sembra porsi piuttosto in un orizzonte elegiaco, dove il malessere, il disagio, è inteso innanzitutto come pena d’amore, determinata dalla lontananza dell’amata. Già in una lettera indirizzata nel 1504 a Isabella d’Este, Vincenzo Calmeta ammetteva un possibile «officio de la elegia» per i componimenti in terza rima: or essendo a li moderni poeti piaciuto volere che ’l terzetto faccia de la canzone l’officio e in quello, secundo li èlegi latini, flebili affetti e 65 ii, vv. 199-220, N, c. 80v. 66 vi, vv. 8-27, N, c. 94r-v. [22] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 675 amorose lamentazioni esprimere e talvolta ancora per missive epistole operarli, doveriano da quello effetto che fanno el nome sortire, a ciò che li stili meno se venessero a confundere67. In linea, dunque, con una già datata prassi, l’Alberti scelse di impostare la sua «missiva epistola» innanzitutto come «amorosa lamentazione», offrendo tra le pieghe del ternario momenti di languido lirismo dalle sfocate tinte petrarchesche: «Beato chi la mira e con lei tratta» alcuno esclama: alor (da che perduta io vi ho) pensate come il cor mi batta. S’ella è in pittura sì beltà compiuta, 120 che stupore esser dee a vederla viva ne la cittade ov’ella è conosciuta? Quindi un novo pensier mi soprarriva, ch’ond’io non trovi altra a voi par, m’incline mia stella a gir così di riva in riva68. 125 Le pene d’amore sono canonicamente stemperate nel ricordo, che sembra concedere una breve apertura all’orizzonte del plazer, attraverso spunti lirici di retrogusto tassiano: passato è il tempo ch’Amor per diporto l’un dopo l’altro a Napoli ne spinse, città de le delizie antico porto. 30 Là, più ch’altrove, i nostri cori ei strinse in vita giocondissima e beata, qual de l’età de l’oro alcun dipinse. Ora dov’è per me quella spalmata felluca, che fra dolci suoni e canti 35 a solazzo era di portarne usata? Paradiso terrestre degli amanti, Posilipo, ove or son tue regie scene in ripa al mar fondate per incanti? Romano a diportarsi or più non viene 40 a’ tuoi scogli, felici antri amorosi, alberghi di Nereide e di Sirene. Gli occhi, ch’a ragion porto or lagrimosi ben sanno in cotal luogo a’ tempi estivi quanti io scoprissi ampii tesori ascosi. 45 Qual dolcezza a me sol fu veder quivi 67 V. Calmeta, Prose e lettere edite e inedite (con due appendici di altri inediti), a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, p. 54. 68 vi, vv. 117-25, N, cc. 96v-97r. 676 CIRO PERNA [23] sembrar, ben mio, voi nuda in mezo a l’acque, neve ch’alor alor dal cielo arrivi. Il sole a cui quel dì mostrar vi piacque, a prova fatto avea sereno il cielo, 50 sì di mirarvi nuda ei si compiacque. Qual più lucente egli si mostra in Delo tutto invaghito non puotè soffrire nuvola alcuna gli facesse velo. Taccia chi di Dïana osasse dire, 55 o d’altra: «mai, mai da più belle braccia liquido argento non si vide aprire»69. Le immagini evocate proiettano gli amanti in una dimensione rarefatta, fragile, naturalmente fuggevole: dipingere (e riprodurre in versi) il ritratto dell’amata rappresenterà, dunque, il tentativo di fissare per sempre il bello, di possederlo, di accedervi nella contemplazione attraverso la mimesi pittorica (e poetica)70. Nei vv. 72-113 è descritto con dovizia di particolari, così, il ritratto di Erminia, «quanto ho potuto più simile al vero» (v. 74), con una costante riproposizione di immagini di ascendenza petrarchesca, al contempo fondanti del canone poetico cinquecentesco: la «bella gola discoperta / […] cinta di perle» (vv. 81-83), le «guance liete» (v. 89), il «ritondetto mento / che candido qual neve sorge in fuore» (vv. 91- 92), i «begl’occhi ov’armato / amore aventa mille dardi ai cori» (vv. 97-98), il «bel naso affilato / qual puro avorio candido e gentile» (vv. 100-101), la «natural corona del bel crine» (v. 106), le «trecce odorose, angeliche, divine» (v. 108), rappresentano topoi dalla chiara matrice lirica che irrompono in un territorio generalmente renitente come quello del capitolo burlesco. Con il solito procedere rapsodico del ternario è rappresentato un ritorno alla realtà quanto meno traumatico, poiché l’assenza della donna amata è solo uno dei tristi aspetti del quotidiano: io sono in Candia, onde sì ben tornaro ricchi in Italia i ladri e le bardasse, è forza pur ch’io parli schietto e chiaro. 200 […] Basta ch’insino ad ora io non ci vedo strada ov’io possa incaminarmi a bene 69 Ivi, vv. 28-57, N, cc. 94v-95r. 70 Dall’imponente bibliografia sull’argomento mi limito a citare L. Bolzoni, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2008, in cui è analizzata la diffusa pratica cinquecentesca di descrivere in versi i ritratti di donna. [24] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 677 e ’l vitto apena sol mi ci provedo. E questo se lo voglio mi conviene 210 armato di celata e d’arcobugio star a la soldatesca in mille pene. La paga di San Marco è il mio rifugio, poveri studi dove sete scorsi, e chi non può aspettar, crepa d’indugio71. 215 Fascinazioni petrarchesche e modalità elegiaca riaffiorano con evidenza nel capitolo epistola indirizzato alla Andovina da Venezia (xv): il ternario presenta una struttura chiaramente bipartita, laddove i vv. 1-117 ripropongono il motivo della disperazione per la lontananza dell’amata, del travaglio d’amore attenuato dalla pallida speranza di un incontro o dalla canonica fuga nel ricordo: e tanto il duolo mi travaglia e incalza, che se non ch’io di rivedervi spero, 20 gettato mi sarrei già d’una balza. Pur la Dio grazia mi conservo intero, se pur intero è un uom che senza core vive d’amor sotto ’l crudele impero. S’io mi sto dentro in casa o vado fuore 25 con voi sempre ragiono, con voi tratto, voi miro e voi vagheggio a tutte l’ore: cagion amor, che non ha legge o patto, in ogni cosa vi contemplo al vivo, se ben mi si parasse avanti un gatto. 30 E così adentro nel pensiero arrivo, ch’io grido spesso che mi sente ogn’uno, «son pur d’ogni mio ben rimaso privo»! Mi rammento i piaceri ad uno ad uno, ch’io sentia ’n goder voi bella e cortese 35 nuda ne le mie braccia a l’aer bruno. Poi maledico l’ora, il giorno e il mese, che mi fu forza di partir da voi e trasportarmi in sì lontan paese72. Il ricorso manieristico a stilemi petrarcheschi risulta a tratti fittissimo, addirittura congestionante, ossessivo, in terzine dal vago sentore madrigalistico: i capei vostri di finissimo oro veggio in alcuna, in altra il rilevato 71 vi, vv. 198-215, N, cc. 98v-99r. 72 xv, vv. 19-39, N, c. 137r-v. 678 CIRO PERNA [25] bel petto vostro, in altra il bel decoro, 90 il parlar amoroso e delicato, il dolce collo candido e ritondo trovo in alcuna il bel rossore amato, in altra quel ghignetto almo e giocondo; ma, per cercar, non trovo già in nessuna 95 i bei vostri occhi unichi e soli al mondo. Di qui voi no· ’l avete pari alcuna, ché le bellezze in mille donne sparse tutte sono raccolte in voi sol’una73. Con un’improvvisa interruzione delle amorose lamentazioni si dichiara apertamente l’abbandono del tono elegiaco: ma da me mille volte avete intese tai cose: alcun raguaglio io vi vo’ dire di questo giocondissimo paese74. 120 I vv. 118-120 costituiscono, dunque, lo spartiacque del componimento e segnano il passaggio al motivo diaristico, al racconto di viaggio, in cui l’Alberti propone una libera successione di immagini relative al luogo da cui scrive. La straordinaria conformazione geografica di Venezia, «che sopra l’acque dagli Angeli a nuoto / alzata fu per permission divina» (vv. 173-174), il particolare modo di vestire dei pubblici amministratori, «con maniconi di larghezza onesta, / con una calza su la spalla manca, / con un berrettin tondo negro in testa» (vv. 127-129), l’inconfondibile profilo delle gondole «leggiere, lunghe e strette, / tutte in un modo coperte di negro» (vv. 196-197), offrono all’autore variegati spunti descrittivi. Un fondo di meraviglia sembra sotteso ai versi, dal quale trapela l’entusiamo di colui che, straniero in terra straniera, percepisce la varietas del mondo: s’andate ne la piazza di San Marco, v’udite tanti e sì vari sermoni, che par di tutte le nazioni il parco: turchi, arabi, giudei, greci, schiavoni, 220 fiamminghi, inglesi, tedeschi, franciesi spagnoli, armeni, squizzeri e grigioni, tutti vestiti a l’uso dei paesi loro: cosa sì vaga da vedere, che molti a posta stan qua gli anni e i mesi75. 225 73 Ivi, vv. 88-99, N, c. 139r. 74 Ivi, vv. 118-120, N, c. 139v. 75 Ivi, vv. 217-225, N, c. 141v. [26] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 679 Venezia è al centro della narrazione nel coevo capitolo indirizzato a Girolamo Magagnati, che apre la seconda parte del canzoniere albertiano. Al destinatario, probabilmente in partenza per Napoli o già alle falde del Vesuvio76, alla luce dei saluti in chiusura di componimento poc’anzi esaminati, l’Alberti invia un capitolo epistola in cui celebra la città e i cittadini con le solite entusiastiche descrizioni. L’impareggiabile scenario che accoglie il viaggiatore sembra addirittura trascendere le sue fantasie: oh Dio, signor Girolamo, fratello, che mirabil Vinezia è questa vostra? Io straluno, per Dio, né son più quello. La natura con l’arte a gara giostra per abbellirla: di quanto io credevo 5 mille volte più bella mi si mostra. Perdon vi chieggio se talor dicevo ch’era impossibil ch’ella fusse tale come di bocca vostra l’intendevo. Non è città nel mondo a questa eguale 10 né in pensier si potrebbe megliorare: canchero vegna a chi ne dice male77. L’elogio dei veneziani procede, poi, «per contrario» (v. 71) rispetto ai romani e soprattutto ai napoletani: oh malanaggia lo napoletano, con quel chiamarsi gentiluom di Seggio, di quattro quarti co· le mosche in mano. 60 E non si può veder al mondo peggio d’un che la tiri più che non si stende, che si pasca di fumo e di spasseggio. Tutte l’entrate sue ’l meschino spende per comparir fra gli altri cavallieri 65 in drappi che di là a poco rivende. 76 Per notizie dettagliate sulla biografia nonché sulla produzione letteraria del Magagnati si rinvia a Lettere a diversi del Signor Girolamo Magagnati, a cura di L. Salvetti Firpo, Firenze, Olschki, 2006. Il sodalizio con l’Alberti risale almeno agli anni romani: nel Trattato della nobiltà della pittura. Composto ad istanzia della venerabil Compagnia di S. Luca e nobile Accademia, elaborato dall’Alberti nei primi anni ’80 e stampato a Roma nel 1585 presso Francesco Zanetti, compaiono due sonetti del Magagnati in apertura, ovvero Grazie ch’a pochi ’l ciel largo destina, con didascalia Sonetto transferito dal Petrarca di Girolamo Magagnati all’Autore e Giovane a cui la terra e ’l ciel scoperse, con didascalia Dell’Istesso (trascritto anche in N, c. 144v). 77 i, vv. 1-12, N, c. 71r. 680 CIRO PERNA [27] Quindici paggi, quaranta staffieri il sauro, il baio, la chinea, ’l gianetto, né in casa han poi da far rosso un bicchieri. Ma il viniziano, sia egli benedetto, 70 per contrario modesto nel vestire tien ben fornita la casa in asetto. Voi lo vedete a passi gravi gire co· la sua veste lunga sino al piede, che par un religioso si può dire78. 75 L’operazione denigratoria (e la conseguente esaltazione degli integerrimi veneziani) si avvale anche di cursori inserti dialettali dall’«intento palesemente mimetico»79, che contribuiscono a sottolineare l’inettitudine dei napoletani: ma tu sier napoliello dove vai? 85 A Banchi novi a giocar al pallone o fra le dame a far lo sguaitaguai. Sul corsiero a frusciare lo cauzone tutto lo iuorno; ma il pranso e la cena poi si riduce in una collezzione80. 90 Se il rapporto con i letterati di Napoli fu cordiale e soprattutto di totale sintonia critica81, l’ambientamento umano nella città fu tutt’altro che positivo, come dimostrato dal capitolo epistola indirizzato a Gaspare Burgi, fiscale di Campidoglio82: oh questo sì che è novo e bel sentire, signor Gasparo a Napoli correte se re bramate a un tratto divenire. Che state in Roma a mangiar fave e biete? S’a Napoli venite, io vi prometto 25 che similmente Papa diverrete. Voi darete in alcun talor di petto, 78 Ivi, vv. 58-75, N, c. 72r-v. 79 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 223. 80 i, vv. 85-90, N, c. 72v. 81 Cfr. C. Perna, La «verace maniera artificiosa»: due satire inedite di Romano Alberti in difesa della Gerusalemme Liberata, cit. 82 Scarse e incerte le notizie relative al Burgi, citato nell’elenco di personaggi noti in chiusura del codice N come originario di Macerata (c. 146v). Un Gaspare Burgi di Macerata è segnalato nel regesto allestito da Vincenzo D’Avino tra i vescovi della diocesi di Atri e Penne (cfr. Cenni storici sulle chiese arcivescovili, vescovili e prelatizie del Regno delle due Sicile raccolti, annotati e scritti per l’Ab. VINCENZO D’AVINO, Napoli, delle Stampe di Ranucci, 1848, p. 534). [28] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 681 che vi dirà, come se fuste il Papa, «vi bacio ’l piede» e ’l mostr’anco in effetto. Come vi lascia poi tutto s’incapa 30 e, a qualche suo mostrandovi, gli dice: «vì chillo è ’no romano mangiarapa». E s’a sorte ei vi può far infelice, lo fa di buona voglia, verbi grazia vi darebbe la spinta a una pendice. 35 Gente che di far male non si sazia, gente ch’ai forestier si mostra grata, poi sottomano gli malmena e strazia; gente come una raspa delicata, gente che per lo più, anzi ciascuno, 40 fa proffession di vivere d’entrata, né si cura però di star digiuno pur che vada vestito a la spagnola, Dio sa poi quel ch’e’ fanno a l’aer bruno83. Il poco lusinghiero ritratto dei napoletani è completato, poi, dagli ingiuriosi endecasillabi riservati ai dominatori spagnoli, responsabili della rovina della città: spagnoli in viso affumicati et arsi, che voglion far del principe con tutti, né altro san far che tutto ’l dì vantarsi: questi pascon di foglie gli altri e i frutti 75 serban per loro, questi i cavallieri napolitani fanno star destrutti. Ogni uffizio che vaca essi i primieri sono a tomarlo et un boccon che grasso sia no· ’l lasciano già sovra ’l taglieri. 80 Questi se ’n vanno per Toledo a spasso con la squarciglia a canto e co· ’l pugnale, facendo con chi scontrano il gradasso84. Se ai versi denigratori rivolti ai napoletani o agli spagnoli sembra presiedere un ironico distacco, l’astio che si evince dall’aspra invettiva contra alcuni insolenti risulta certamente dettato da un reale malessere (oltre che da una precisa motivazione). Scritto a Venezia, probabilmente di getto e certamente dopo la Pasqua del 1588 («Io pazïente, riverendo il loco / e ’l tempo, ch’era pur Pasqua maggiore », vv. 12-13), all’insegna di uno spiccato giovenalismo, il capitolo 83 xiii, vv. 21-44, N, cc. 125v-126r. 84 Ivi, vv. 72-83, N, c. 127r. 682 CIRO PERNA [29] rappresenta, infatti, una stizzata risposta alle ingiurie rivoltegli da taluni insolenti per futili motivazioni: persona forestiera che procura di far bene in Venezia, dunque, in chiesa 25 il dì di Pasqua non può star secura? Che cosa avevo in me c’avesse resa materia a voi di riso? Vita o veste io no· l’ho degna d’esser vilipesa. Vi mosse a riso perché vi credeste 30 a la favella ch’io fossi romano: oh che insolenzia, oh che infamia, oh che peste! Un bel parlare è il vostro veneziano, bello da vero, da che vi ridete e dileggiate il favellar toscano85. 35 L’Alberti dà libero sfogo all’indignatio, alla vituperatio, attraverso una cadenzata successione di insulti, che procede con ripetitività sino alla conclusione del capitolo: oh villani peggiori de le fiere, che se ne possa spegner la semenza, 40 cori da dare in pasto a lo sparviere. La toga ch’altri porta a riverenza del nobil sangue e de le sue virtudi dunque portate per far insolenza? Che vale avere in banco quattro scudi 45 et esser poi non sol di virtù privi, ma d’ogni umanitade a fatto ignudi? Per altro non si sa che sete vivi se non per qualche insulto o furberia: che ’l boia su le spalle un dì v’arrivi. 50 Seguite pur l’incomminciata via, andatene in malora furbi infami, andate co· ’l malan che Dio vi dia. Perché la vite (dove no· ’l si brami) afatto non divenga infruttuosa, 55 e’ bisogna troncar via questi rami. Qual cagion è così possente ascosa, che da tre o quattro infami puzzolenti s’abbia a lasciar corrompere ogni cosa?86 Con i ternari indirizzati al Ruggiero in lode del mezo, al Vergici in lode del zero e a Carlo Berengo, secretario del Gran Consiglio dei Dieci, 85 xi, vv. 24-35, N, c. 119v. [30] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 683 risulta esplicita la pratica albertiana del lusus letterario: i tre componimenti palesano, infatti, delle caratteristiche certamente affini al genere burlesco, da cui sembrano, al contempo, distaccarsi per taluni elementi di novità. Peculiare, senza dubbio, della poesia burlesca «il vezzo degli autori […] di rimandare indefinitamente dall’uno all’altro, in un cerchio che si richiude su se stesso»87: in due casi l’Alberti è in linea con questa prassi, rivendicando il carattere innovativo del suo encomium nel panorama letterario, dal quale pure estrapola un preciso ascendente. Nelle prime terzine del capitolo in lode del zero è sottolineata, infatti, l’originalità del tema in rapporto al Capitolo di noncovelle di Francesco Beccuti il “Coppetta”88, anche mediante l’utilizzo di una metafora tipicamente burlesca come l’“unto”89: dimostrò pur d’esser un uom leggiero quei che più tosto volse noncovelle lodar, che ’l suo cugino misser Zero. Ei ne fu ben rimorso in pelle in pelle, pur se ne tolse giù e del zero infatti 5 si posson dire cose assai più belle. Or i’ho caro che gli altri sciocchi e matti m’abbian lasciato un sì grasso boccone: unger me ne voglio or sino gli usatti90. Sulle medesime rivendicazioni è impostato l’incipit del capitolo per Carlo Berengo in lode del sudore: clarissimo signore e patron mio, quando io ci penso farei grand’errore non adempiendo un giusto mio desio. Vogl’io ’l primo beccarmi un grande onore, ché veramente in questi versi io canto 5 cosa non mai più tocca da scrittore91. 86 Ivi, vv. 39-59, N, cc. 119v-120r. 87 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 138. 88 Il ternario del Beccuti, composto tra il 1546 e il 1553 fu edito per la prima volta nella silloge Il secondo libro delle opere burlesche di M. FRANCESCO BERNI, del MOLZA, di M. BINO, di M. LODOVICO MARTELLI, di MATTIO FRANCESI, dell’ARETINO, et di diversi Autori. Nuovamente posto in luce et con diligenza stampato, in Fiorenza, apresso li heredi di Bernardo Giunti, 1555, cc. 20r-21v. Cfr., inoltre, Le antiche memorie del nulla, a cura di C. Ossola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 20073, p. xi. 89 Cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., pp. 75-78 90 iv, vv. 1-9, N, c. 84r. 91 ix, vv. 1-6, N, c. 111r. 684 CIRO PERNA [31] Ancora prettamente burlesco è l’atteggiamento pseudo-epico generalmente evidente nel topos dell’inadeguatezza della celebrazione, che, «espresso in forme vistosamente iperboliche»92, innesca particolari effetti di scompenso tra il tono e la materia dell’encomio. Emblematica a tale proposito la conclusione del capitolo per il Ruggiero: anzi il mio canto (e questo mi contrasta più ch’altro) il mezo istesso temo sdegni, ché ’l drizzar a sì nobil mezo l’asta e’ non è cosa da mezani ingegni93, 155 o l’esagerata invocazione alle muse in apertura del capitolo in lode del zero: muse venite tutte in processione 10 a darmi aita, sì ch’io possa dire le gran lodi del zero a le persone94. Manca, invece, nei burleschi albertiani una caratteristca fondante del genere, ovvero il sottofondo erotico, il gioco di doppi sensi95: mai si ricorre, infatti, all’equivoco osceno negli endecasillabi, a parte cursorie aperture alla licenziosità (nient’affatto velate): e la maggior dolcezza che si prova, l’uomo nel mezo de la donna e in mezo de l’uom scambievolmente ella ritrova: tutti quanti noi siam da questo mezo 40 usciti al mondo e tutti per natura cerchiam di reficcarci in questo mezo. Quand’io ’l provo per mia buona ventura vorrei poter reficcarmici tutto quant’io sono in persona et in figura96. 45 Si leggano inoltre i vv. 154-162 del capitolo per Carlo Berengo (N, c. 114r): quanti piacer, quante consolazioni, quante allegrezze in questo mondo abbiamo, 155 92 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 217. 93 iii, vv. 152-155, N, c. 83v. 94 iv, vv. 10-12, N, c. 84r. 95 Cfr. J. Toscan, Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello à Marino (XIe-XVIIe siècles), Lille, Presses Univesitaires, 1981. 96 iii, vv. 37-45, N, cc. 81v-82r. [32] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 685 tutte son del sudor favori o doni. E quando quel piacer dolce pigliamo, che sen con sen, lingua con lingua unisce, tanto più piace quanto più sudiamo; come söavemente si languisce, 160 come confusamente si sospira e come quel sudor n’intenerisce. Che si presenti, insomma, «di bassa statura o con le membra stirate in modo anomalo, con aria naturale o un pò selvatica e incolta »97, questa poesia si caratterizza per un gioco di sproporzioni o eccessi. Una figura di eccesso è senza dubbio la digressione, intesa come lungaggine, fastidioso sproloquio, prolissità insistita: l’autore sembra voler porre un freno in certi frangenti al flusso sregolato delle terzine attraverso il topos dell’egestas calami: oh illustre mezo, io ti loderei ancora, ma aver mi converria lingua d’acciaio e ragionar de le tue lodi ogn’ora. 135 Per or mi basti averne detto un paio, ch’in vero anzi di dirle tutte quante mi mancheria la penna e ’l calamaio98, oppure mediante autoironici propositi, quale la dichiarata brevità in apertura dell’encomio del sudore (a cui saranno invece riservati circa 200 versi): piaccia a vosignoria ascoltarmi alquanto, ché brevemente le vo’ far vedere le lodi del sudor, la gloria e ’l vanto99. Come, dunque, i capitoli-epistola e (in parte) i componimenti di matrice propriamente satirica, i burleschi albertiani procedono con una libera quanto disordinata successione espositiva. Contraddistinte da una notevole varietas tematica, le lodi si susseguono a cascata, senza soluzione di continuità: la strategia albertiana consiste nel fornire i più disparati elementi probatori della eccezionalità di ciò che ha scelto di elogiare. Se lo zero e il sudore sono concetti emblematici per l’elogio paradossale, inteso innanzitutto come possibilità di rovesciamento della realtà, di «inversione di segno dal nega- 97 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 216. 98 iii, vv. 133-138, N, c. 83v. 99 ix, vv. 7-9, N, c. 111r. 686 CIRO PERNA [33] tivo al positivo»100, il mezzo non può essere ascritto a nessuna delle due categorie oggetto di lusus, ovvero le «cose indegne perché moralmente censurabili o perché oggettivamente nefaste» o quelle «di poco conto e di poco valore»101. Nel capitolo per Marco Ruggiero102 è praticato, perciò, un elogio alla maniera burlesca di una tematica prettamente satirica, ossia la medietas: non al paradosso, non alle nugae, dunque, ma a una seria veritas l’Alberti rivolge le sue lodi, percorrendo ancora una singolare via di ibridismo letterario. Con uno sfrenato e (apparentemente) incontrollato ricorso a tematiche eterogenee e bizzarre, che sovente non occupano nemmeno lo spazio di una terzina, prende forma, così, l’encomio in un ritmo frequentemente inarcato: quando almeno dipinto ci abbattemo a contemplar un campo ben armato in mezo il general sempre vedemo. Mirisi quando da uno a l’altro lato 85 si trasportano l’api, ch’il re loro in mezo a tutte è per onor portato. Il Papa e tutti i coronati d’oro imperatori, re, duchi, marchesi od altri che possieda territoro, 90 per l’ordinario in mezo a lor paesi stanziano e quivi in mezo de’ vasalli si stanno, perché sian meglio diffesi. In mezo ai prati i liquidi cristalli scorron più vaghi e dal timone il cocchio 95 è tratto messo in mezo a due cavalli. E quella chiesa non vale un finocchio 100 S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, cit., p. 166. 101 Ivi, pp. 154-55. 102 Nulla conosciamo del Ruggiero per la sostanziale assenza di testimonianze esterne al codice N, a parte una cursoria citazione in Iter Italicum. Accedunt alia itinera: a finding list of uncatalogued or incompletely catalogued humanistic manuscripts of the Renaissance in Italian and other libraries, a cura di P.O. Kristeller, London, The Warburg Institute, 1983-, iv (alia itinera ii), p. 85, nella descrizione del cod. London, British Library 8640 (xvi-xvii sec., ff. 50), dove compare tra gli autori di sonetti in appendice ad un’orazione di Andrea Cornaro per l’Università di Candia. Probabilmente originario dell’isola, è destinatario in N, oltre che del ternario in lode del mezzo, del sonetto caudato In fede mia gli è pur un caso strano, con didascalia Al clarissimo Marco Ruggiero (c. 109v), nonché autore del già citato madrigale Fu la bella Indovina (c. 144r). Il capitolo del mezzo fu letto anche dal Vergici che indirizzò a sua volta all’Alberti il già citato sonetto d’encomio Quel mezo lucidissimo e divino (N, c. 146r). [34] I CAPITOLI DI ROMANO ALBERTI TRA SATIRA E BURLESCO 687 che non abbia per dar dentro buon lume nel mezo de la sua facciata un occhio. Et è d’ogni architetto che presume 100 d’esser pregiato, in mezo de la casa far far la porta antico e bel costume103. Con un procedimento analogo si intessono le lodi dello zero, laddove il tono pseudo-scientifico del ricorso a prove storiche o matematiche estremizza la pratica del paradosso: quel gran Cesar, che tanti avea domati popoli e regni, giunto per le poste là dove i nostri padri sono andati, dentro un zero sue ceneri fur poste 85 sopra una guglia, com’ han visto molti, prima ch’elle ne fussero deposte. Perché a consiglio i romani raccolti non parve loro altro loco più degno a quei grand’ossi in cenere rivolti. 90 Quello abachista di sì grand’ingegno, che sol per via di numeri insegnava cose da far star i Platoni a segno, il zero a gran ragion tanto stimava, ch’oltre seicento mila millïoni 95 de’ millïon co· ’l zero numerava104. Il fiume di elogi per il sudore nel capitolo indirizzato a Carlo Berengo rappresenta l’apoteosi dell’eccesso, della sproporzione: le terzine sembrano poter moltiplicarsi all’infinito, ponendosi come la realizzazione di un rapsodico flusso di idee. L’Alberti sfrutta le potenzialità semantiche della parola “sudore” (dal prodotto di attività fisica alla pioggia, dalla rugiada alla linfa), realizzando, così, un variegato sistema encomiastico, compattato in alcuni casi solo dal prevedibile ricorso a terzine capfinide: perché a la lotta et al pallon si gioca Se non che per sudar, rendersi forti, perché lo star in ozio non ci nuoca? […] Suda anco il cielo a lo spuntar dei rai del sol: l’erbetta se ne inaffia e ’l piano 140 e se ne spruzzan gli augelletti gai. 103 iii, vv. 82-102, N, cc. 82v-83r. 104 iv, vv. 82-96, N, cc. 85v-86r. 688 CIRO PERNA [35] Senza il sudor la vita nostra invano si manteria, senza il sudor la terra rimarria come una pianta di mano. […] Mille alchimisti affumicati e neri non attendono ad altro ch’a trar fuora 185 questi sudor con lambicchi e bicchieri. E i bicchieri e le tazze onde s’onora tanto Muran, come ornerian le mense senza il sudor di quei che li lavora105? Il lusus è praticato, dunque, dall’Alberti non senza spunti di novità, perché se da un lato condivide l’impianto formale ormai istituzionalizzato, dall’altro evita, alla maniera tansilliana, «adesioni tout court alle implicazioni ideologiche proprie dei cosiddetti berneschi e delle loro istanze eversivamente polemiche»106. Nella raccolta albertiana risulta oramai concretizzata la contaminazione dei generi satirico e burlesco, più che per una indistinta mescidazione di elementi di codici diversi, per un tentativo di mimesi poetica con i differenti risvolti del quotidiano. Ciro Perna (Napoli – Univ. “Federico II”) 105 ix, vv. 26-28, N, c. 111v; vv. 139-144, N, c. 113v; vv. 178-189, N, cc. 114v. 106 C. Boccia, Edizione critica dei “Capitoli giocosi e satirici” di Luigi Tansillo, Tesi di Dottorato di Ricerca in Filologia Moderna, xxi ciclo (2005-2008), tutor T.R. Toscano, Napoli, Università degli Studi “Federico II”, 2009, p. 9. DANIELA DE LISO “Così potess’io, mia dolce amica, mostrarti, scrivendoti, tutta tutta la mia anima”. Foscolo tra le Lettere d’amore e l’Ortis. The massive corpus of letters written by Ugo Foscolo has always been of great interest for literary critics. The same cannot be said, however, of the love letters the poet addressed to different women in different places and times. This essays aims at underlining their importance from a documentary and literary viewpoint. Come scriveva Vittorio Alfieri nelle pagine introduttive della sua Vita: «Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di se stesso»1. Chiunque scriva di sé difficilmente può sottrarsi alla tentazione mitopoietica. Perciò l’autobiografia, consegnata ad un romanzo o ad un epistolario, non racconta quasi mai l’uomo reale, ma piuttosto l’immagine che l’autore intende offrire di sé. I confini tra l’uomo ed il personaggio sono spesso così labili da impedire al lettore quanto al critico di tracciare una netta linea di demarcazione tra vita e poiésis. A questa tentazione mitopoietica, senza alcun dubbio, cede Ugo Foscolo, che nasconde, dietro ognuno dei suoi personaggi, da Ortis ad Aiace, a Didimo, all’autore del Sesto tomo dell’Io, la smania dell’autobiografismo2. 1 V. Alfieri, Vita, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, p. 5. 2 Cfr. F. Flora, La mente e l’anima di U. Foscolo, in Storia della letteratura italiana, IV, Milano, Mondadori, 1959; M. Fubini, Ugo Foscolo, Firenze, La Nuova Italia, 1962; C. Varese, Introduzione a U. Foscolo, Autobiografia delle lettere, Roma, Salerno, 1979; P. Fasano, La vita e il testo: introduzione a una biografia foscoliana, «La Rassegna della Letteratura italiana», 1980. Sul problema dell’autobiografia si vedano anche: J. Starobinski, Lo stile dell’autobiografia e Stendhal pseudonimo, in Id., L’occhio vivente, Torino, Einaudi, 1973; R. Scrivano, L’ottica autobiografica, in Id., Biografia e autobiografia. Il modello alfieriano, Roma, Bulzoni, 1976; M. Gu690 DANIELA DE LISO [2] La critica foscoliana ha scritto da tempo la parola definitiva intorno alla natura autobiografica dell’Ortis ed ha, ampiamente ormai, sin dalla pubblicazione del corposo Epistolario nell’Edizione Nazionale delle opere dell’autore per i tipi di Le Monnier, stabilito l’importanza dell’epistolografia per la comprensione dell’intera opera foscoliana3. Dunque, un’indagine unicamente volta a rintracciare gli inserti autobiografici presenti nelle Lettere d’amore e trasfusi nelle varie edizioni delle Ultime lettere di Iacopo Ortis apparirebbe quanto meno oziosa e, se pure riuscisse a suggerire nuove consonanze intertestuali, probabilmente poco aggiungerebbe alla ricostruzione dell’universo foscoliano. Perciò questa lettura parallela delle Lettere d’amore e dell’Ortis, lungi dal ricordare ciò che altri, prima e meglio di me, hanno dimostrato4, intende solo evidenziare alcuni dei volti di quell’«anima» che «tutta tutta», come scrive in una lettera ad Antonietta Fagnani Arese, l’uomo e lo scrittore Foscolo intendono consegnare alla posterità. Come suggeriva il Varese, in uno studio datato, ma importante, il nostro autore, sin dall’Ortis e dai primi sonetti autobiografici, «si è fermato spesso a guardarsi e a definirsi», quasi che avvertisse l’esigenza di «assicurarsi» periodicamente della propria identità di uomo e di scrittore, per poterla poi contrapporre, in una continua e letteraria sfida, al mondo a lui contemporaneo5, proprio come un glielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi, 1977. 3 «Egli medesimo si descrisse e si narrò più volte, specie nelle Lettere ove è tanta parte della sua più romita anima, e del suo pensiero, e dalla più segreta lirica; qui, meglio che nel ritratto Solcata ho fronte, egli svela la sua anima folgorante e mesta» (F. Flora, La mente e l’anima di U. Foscolo, cit., p. 29). 4 Il riferimento è, ovviamente, ai curatori dell’Edizione Nazionale dell’Epistolario (Plinio Carli, per i voll. I-V; Giovanni Gambarin e Francesco Tropeano, per il vol. VI; Mario Scotti per i voll. VII-VIII); in relazione alle lettere di argomento amoroso si sono cimentati nell’impresa prima Giovanni Pacchiano, nella curatela di U. Foscolo, Lagrime d’amore. Lettere a Antonietta Fagnani Arese, Milano, Serra e Riva, 1981, poi Guido Bezzola, nella curatela di U. Foscolo, Lettere d’amore, Milano, Bur, 1983 (d’ora in poi Lettere d’amore). Per le Ultime lettere di Jacopo Ortis si utilizzerà l’edizione curata da G. Ioli, (Torino, Einaudi, 2004), d’ora in poi Ortis. 5 «Didimo Chierico è un Ortis ricordato, ma non rifiutato: Ortis è un Foscolo che si vuole tutto nel presente immediato della passione. Quando lo scrittore nelle sue lettere o nei suoi progetti si ripropone come Ortis o pensa di trarre il racconto di un altro Ortis dalle ripetute e pur modificate situazioni della sua esperienza, vive e sente se stesso in un nuovo confronto, in un’aggiunta, in uno spostamento. Ortis e Didimo sono due centri di richiamo e di riferimento, anche [3] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 691 eroe tragico sull’orlo di una sempre apparentemente imminente katastrofhv6. Naturalmente la lettera costituisce lo strumento più idoneo ad ospitare le passioni di questa anima, in realtà, borghese e, per certi aspetti, ordinaria, ma impegnata a costruire una turbolenta rappresentazione di sé. Le lettere di Foscolo in particolare, come egli stesso suggerisce nelle pagine londinesi del suo Gazzettino del bel mondo7, anche quelle apparentemente composte di getto, nel turbine delle passioni8, non necessariamente veicolano un messaggio al destinatario esplicito; più spesso, invece, sembrano guardare ad un destinatario implicito, un immaginario lettore che in quelle lettere vorrà rintracciare nuovi aspetti dell’anima dell’autore, un lettore, insomma, al quale esse possano apparire una sorta di «poesia minore», come ha scritto Fubini9. Parlare di sé, definirsi, descriversi, narrarsi10, quasi volendo prese ognuno in distinti aspetti, ma, pur predominando, non escludono altri nomi di autori o di personaggi che ritornano in un intreccio dove scelte biografiche e letterarie si connettono. Per chiarire e difendere la sua identità in una dimensione universale e molteplice e tuttavia con una preferenza indicativa, il Foscolo vagheggia con una particolare e affettuosa insistenza don Chisciotte, come antenato e amico, e insieme Parini, l’amicissimo suo Montaigne, Lorenzo Sterne, Socrate e, negli anni inglesi, talvolta l’amico Amleto; né mancano altri nomi» (C. Varese, Introduzione a U. Foscolo, Autobiografia delle lettere, cit., pp. 10-11). 6 Il senso tragico del Foscolo, in particolare nell’Ortis, è stato oggetto di molti studi, tra i quali vanno almeno ricordati: M. Fubini, Ugo Foscolo, cit.; E. Raimondi, Le pietre del sogno, Bologna, Il Mulino, 1985; M. Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo, Napoli, Liguori, 1994, pp. 1-20. 7 «Ma a studiarle bisogna più lavoro che a comporre un trattato, e le riescono peggiormente noiose. Perché quando i letterati prevedono che un loro bigliettino alla loro innamorata sarà per essere aggiunto alla serie delle lor opere, lo scrivono appunto con lo stile di Plinio e di Voiture» (U. Foscolo, Il Gazzettino del Bel-Mondo, in Id., Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, vol. V dell’Edizione Nazionale delle Opere di U. F., Firenze, Le Monnier, 1953, p. 429). 8 «Sul carattere di “primo getto” di molte opere foscoliane (non a caso spesso ancorate al modulo epistolare: l’Ortis e le Lettere d’Inghilterra) che ha appunto assai spesso l’epistolario hanno richiamato l’attenzione molti. Forse sarà il caso di precisare meglio: l’epistolario di Foscolo è metodologicamente il sostrato organico della sua opera, al di là dei riporti a volte letterali, comunque spesso consistenti, tra i due livelli di scrittura» (P. Fasano, La vita e il testo: introduzione a una biografia foscoliana, cit., p. 163). 9 Sulla prosa epistolare si veda: P. Ambrosino, La Prosa epistolare del Foscolo, Firenze, La Nuova Italia, p. 4. 10 «Il Foscolo ha sempre ricordato modificandoli e adattandoli, i suoi vari 692 DANIELA DE LISO [4] venire contemporanei giudici e futuri biografi11, sembra una sorta di ossessione, che induce l’uomo a vestirsi delle maschere di molti personaggi12: Ortis, ma anche l’amico editore Lorenzo, Didimo e Yorick, l’autore del Sesto tomo dell’Io, Lauretta, che dal precoce Piano di studi attraversa, nascosta in chiaroscuro, quasi tutta la scrittura foscoliana. A ben guardare nessuno dei suoi personaggi sa essere immune dal contagio autobiografico, con ognuno di essi egli avverte il bisogno di contaminarsi, come se scrivere di altri rappresentasse l’unico modo per giungere alla gnoseologia dell’io13. Né i numerosi amori, che contribuiscono a nutrire il mito della sua eterna giovinezza, sono immuni da questa contaminazione: le donne amate non esistono se non nello specchio del suo amore e nessuna di esse ha voce, se non quella che l’autore modula per lei. Non è un caso, dunque, che la critica foscoliana non sia stata sempre benevola nei riguardi delle lettere d’argomento amoroso14, autoritratti, che nel corso degli anni si trasmutano, si coloriscono, acquistano o perdono ombre lungo il filo di una interna memoria protagonista, che conserva e rinnova» (C. Varese, Introduzione a U. Foscolo, Autobiografia delle lettere, cit., p. 9). 11 «Anche dopo la morte il Foscolo sembra richiedere ai suoi lettori una partecipazione intera ai suoi sentimenti, ai suoi odi e ai suoi amori: di qui le simpatie e le antipatie profonde […] Parlare pacatamente del Foscolo fu per tutto il secolo scorso, si può dire, impossibile: distinguere tra i suoi vizi e le sue virtù, tra la vita pratica e la sua poesia, sembra non facile neppure oggi: ancora oggi il Foscolo si presenta a noi come un contemporaneo, che non ci chiede tanto un giudizio, quanto una dedizione intera, che non ci offre un’opera compiuta, e facilmente isolabile dalla sua persona, ma un incessante travaglio a cui noi stessi dobbiamo partecipare» (M. Fubini, Ugo Foscolo, cit., pp. 77-78). 12 «[…] il Foscolo non sapeva andare molto al di là di se stesso o delle proprie proiezioni eroiche, nel momento di creare dei personaggi; non per nulla il romanzo sulla letterata ferrarese Olimpia Morati, che egli aveva ideato nel 1795, stando a quanto più tardi ne scrisse al Monti, non fu mai composto, mentre forse furono stese (almeno in parte, e non ne sapremo mai con esattezza i rapporti profondi on l’Ortis) le lettere intitolate Laura cui si accenna nel Piano di studi del 1796» (G. Bezzola, Introduzione a Lettere d’amore, p. 10). 13 Sull’argomento si vedano almeno: M.A. Terzoli, Con l’incantesimo della parola. Foscolo scrittore e critico, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007; M. Palumbo, Foscolo, Bologna, Il Mulino, 2010. 14 Scriveva l’Apollonio: «E ritornando infine a quelle lettere amorose che una curiosità biografica troppo elementare colloca nella memoria divulgata dei più, vorrei notare qui soltanto la povertà del tema fondamentale e la ricchezza delle modulazioni preliminari e successive all’amoroso incontro. Una squallida povertà denuda i sentimenti quando domina la passione; mentre la ricchezza della vita degli affetti umani si moltiplica quando, ora dispettoso, ora svagato, ora [5] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 693 considerandole le meno interessanti del ricchissimo Epistolario, e che un esame complessivo di esse, forse proprio per questo atteggiamento pregiudiziale, non sia stato ancora compiuto, se non in ossequio ad una curiositas puramente biografica. Al di là della curiositas, in realtà, la lettura di queste lettere, estrapolate dalla mole dell’Epistolario foscoliano, (impresa resa semplice dall’edizione curata da Guido Bezzola, per Rizzoli nel 1983), consente di costruire, anche grazie al confronto con passi omologhi del libro «del suo cuore»15, l’Ortis, uno dei molteplici ritratti che il Foscolo scrive di sé nella sua opera. Se si eccettua un unico biglietto amoroso che, nel 1795, Foscolo indirizza ad Isabella Teotochi Albrizzi, all’epoca ancora moglie del nobile Carlo Marin16, bisognerà attendere il 1801 e l’amore per la nobildonna fiorentina Isabella Roncioni perché le lettere comincino a costruire la trama d’un romanzo, che, come accadrà anche per buona parte del carteggio con la Arese, impiegherà un intreccio, per così dire, ed un lessico molto vicini all’Ortis che in quegli anni l’autore sta scrivendo, dopo la rinnegata edizione del 1798. L’amore tra la Roncioni ed il Foscolo fu impedito dai parenti di lei per fondati motivi economici e, poco dopo la partenza del giovane esule da Firenze, la ragazza avrebbe sposato, in quello stesso sazio, dall’amore entra nella cerchia dell’amicizia. Capovolgimento del suo Petrarca […]» (M. Apollonio, Foscolo, in Fondamenti della cultura italiana moderna. Storia letteraria dell’Ottocento, I, Vite di poeti, Firenze, Sansoni, 1948, p. 164). Ed ancora si legga Fubini: «Appena la passione si fa dominante e lo scrittore vuole persuadere o gridare, meno schietta suona la sua voce: perciò di tanto inferiori a quelle dirette ad Isabella Albrizzi sono quelle dirette all’amica Antonietta, in cui è troppo spesso il linguaggio esagerato e convenzionale della passione amorosa, perciò nell’epistolario foscoliano stona la lettera del 19 agosto 1809 alla Giovio, così oratoria e studiata. Tanto pura è la vena lirica di questo epistolario, che facilmente è dato distinguervi i momenti di ispirazione da quelli oratorii o smodatamente appassionati» (M. Fubini, Ugo Foscolo, cit., p. 81). 15 In una lettera ad un’ignota, nel 1802, Foscolo scrive: «Allora io ti darò il libro; io lo amo assai perché è il libro del mio cuore; ne scriverò de’ migliori forse per gli altri; ma niuno mi farà sentire tanto quanto questo» (Lettere d’amore, p. 50). 16 Non restano nell’Epistolario tracce di questo amore, importante investitura amorosa per il giovane intellettuale, trasfuso poi nelle pagine del Sesto tomo dell’Io, dove della nobildonna si parlerà come di Temira, appellativo già conferitole dal Pindemonte. Il gruppo di lettere del 1806, indirizzate all’Albrizzi in occasione di un riaccendersi della relazione, è assai poco sentimentale e testimonia di una liaison effimera che si esaurì senza drammi per entrambe le parti coinvolte. 694 DANIELA DE LISO [6] 1801, Pietro Leopoldo Bartolommei. In una lettera indirizzata ad Eleonora Nencini, intermediaria tra i due, emerge chiara l’idea d’amore del Foscolo, che qui appare un giovane appassionato, dimidiato tra le ragioni del cuore e quelle della mente: E che mai potrà placare i miei mali nei paesi dove non potrò né vederla né udirla? Unica mia occupazione sarà piangerla sempre… giacché l’ho perduta senza speranza. Ma se anche io tornassi in Firenze, oserò io più vederla? No, no! Ch’io mora nel mio dolore, innanzi ch’io le sia cagione di una lagrima sola. […] Ella è sposa… – e se pure nol fosse, io non oserei mai offrir la mia mano ad una donna più ricca di me. La delicatezza in ciò supererebbe l’amore. – ma non per altro che per gettarmi più presto nel sepolcro17. Al di là della scoperta intonazione ortisiana18, nel riferimento al sepolcro come remedium doloris, sin da questa lettera è evidente che l’idea d’amore di Foscolo è strettamente connessa all’ineluttabilità del dolore. È un amore impossibile non solo perché Isabella è promessa ad un altro, ma anche perché ha le sembianze di un pàthos che consuma e distrugge; è un sentimento totale, che fagocita in sé ogni spazio vitale. La costruzione del testo sembra concepita per unire, in una sorta di concordantia ad sensum, infelicità amorosa e disavventure di un esilio, che, in maniera volutamente ambigua, potrebbe qui essere effetto della disillusione d’amore quanto indicare la realtà biografica dell’autore, esule politico, come il suo sventurato alter ego Ortis. Mi sembra anche interessante soffermarsi sull’iterazione dei nessi negativi, che, oltre a richiamare allusivamente alla memoria i notissimi versi del celeberrimo sonetto dedicato all’isola natìa, ribadiscono l’esigenza di trasformare l’amore in esperienza lacerante, dalla quale non sia possibile guarire se non scegliendo di conciliare gli opposti della dialettica tra e[ro” e qavnato”. È già chiaro, in questo primo stralcio epistolare, che la donna amata, qui la Roncioni, è ridotta al ruolo di semplice comprimario: Foscolo ama ardentemente, Foscolo sceglie di partire, Foscolo sceglie di 17 Lettere d’amore, pp. 44-45. 18 In una lettera datata Rovigo, 20 luglio Ortis scrive: «Cos’è più l’universo? Qual parte mai della terra potrà sostenermi senza Teresa? E mi pare d’esserle lontano sognando. […] Fuggo e con che velocità ogni minuto mi porta ognor più lontano da lei. E intanto? Quante care illusioni! Ma io l’ho perduta. Non so più obbedire né alla mia volontà, né alla mia ragione, né al mio cuore sbalordito: mi lascerò strascinare dal braccio prepotente del mio destino» (Ortis, p. 102). [7] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 695 «piangerla sempre», Foscolo potrebbe scegliere, se dovesse essere causa di dolore ad Isabella, la strada del sepolcro. Alla giovane donna viene sottratta anche la possibilità di versare lagrime: solo in una postilla conclusiva e fugace l’autore ricorda di chiedere alla Nencini, destinataria della lettera, di essere rassicurato intorno alla reciprocità dei sentimenti di Isabella. La morte remedium amoris è, del resto, periodicamente invocata nell’epistolario amoroso, giungendo a costituirne un imprescindibile leit motiv. In questa lettera all’Arese si legge: […] noi ci amiamo, e lealmente, ardentemente: non basta? Devo io dirti il mio unico voto? …quando i tuoi sospiri si trasfondono nella mia bocca, e mi sento stretto dalle tue braccia… e le tue lacrime si confondono alle mie… e …sì: io invoco la morte! Il timore di perderti mi fa desiderare che la vita in quel sacro momento si spenga in noi insensibilmente, e che un sepolcro ci serbi congiunti per sempre19. Il motivo quasi sacrale20 della morte apparirà nuovamente, attingendo questa volta a piene mani da un luogo analogo dell’Ortis21, in una lettera del 1813 a Lucietta Frapolli, amata con la stessa intensità dell’Arese e forse anche con maggiore dedizione, per l’evidente corresponsione sentimentale da parte della nobildonna22: Così avendo tutto perduto, ed errando in un esilio continuo lontano da te, dovrei cercar la mia vera pace, e lasciarti insieme la perpetua certezza ch’io non turberò più la tua. […] se la mia religiosa com- 19 Lettere d’amore, p. 69. 20 Cfr. M.A. Terzoli, Il libro di Jacopo. Scrittura sacra nell’Ortis, Roma, Salerno, 1988. 21 Si legge nell’Ortis: «E mentre tu m’ami, e io t’amo, e sento che t’amerò eternamente, ti lascerò per la speranza che la nostra passione s’estingua prima de’ giorni nostri? No, la morte sola, la morte. […] Che se il Padre degli uomini mi chiamasse a rendimento di conti, io gli mostrerò le mie mani pure di sangue, e puro di delitti il mio cuore. Io dirò […] Ho amato! […] Consolati, Teresa, quel Dio a cui tu ricorri con tanta pietà, se degna d’alcuna cura la vita e la morte di una umile creatura, non ritirerà il suo sguardo neppure da me. Egli sa ch’io non posso resistere più; egli ha veduto i combattimenti che ho sostenuto prima di giungere alla risoluzione fatale… ed ha udito con quante preghiere l’ho supplicato, perché mi allontanasse questo calice amaro» (Ortis, pp. 168-169). E più avanti: «Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri. Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. – Ora tu accogli l’anima mia» (Ivi, pp. 172-173). 696 DANIELA DE LISO [8] passione fosse superata dall’immenso dolore a cui non so come un cuore umano possa resistere; se nella veemenza de’ miei tristi delirj la ragione non potesse più opporsi, e a me non rimanesse altra forza fuorché l’estrema di troncare i miei giorni, sono sicuro che dio, se tutto non perisce con noi, egli che vede i miei lunghi combattimenti e l’irresistibile necessità che mi ha precipitato infermo e cieco al sepolcro, dio mi sarà clemente ed avrà pietà dell’anima mia. E tu, mia cara amica, non incolparti mai, te ne prego, né della tormentata mia vita, né dell’infelice mio fine. Da te, donna divina e fatale per me, come ho tratte le angosce più acerbe, così anche ho avute le illusioni più dolci e più care de’ giorni miei. Ti ringrazio anche della forza che tu mi hai saputo infondere con le tue lettere; e del disprezzo ch’io rileggendole sento sempre più per la vita. Quando mi giungevano io le accoglieva come prove care dell’amor tuo: oggi nel rivederle sovente, ritrovo in esse molte e sacre lezioni di Morte23. D’intonazione anche più ortisiana24 – la corrispondenza è quasi letterale – è la lettera alla Roncioni, di cui mi sembra utile riprodurre uno stralcio: Il mio dovere, il mio onore, e più di tutto il mio destino mi comandano di partire. Tornerò forse; – se i mali e la morte non m’allonta- 22 In realtà anche in una lettera del 1806, indirizzata a Francesca Giovio, Foscolo invoca la morte come remedium amoris, ma in questo caso l’intonazione retorica è ben più evidente: «Nell’ora della morte d’innanzi al tribunale d’Iddio io dirò che vi amo con tutta la tenerezza e la lealtà; e potesse la mia morte farvi felice! Questo è il miglior premio ch’io possa sperare al mio misero amore; e sarebbe ad un tempo d’espiazione al mio fallo, ed io troverei la tranquillità che la natura del mio nascere non mi promette che nel sepolcro. Oh sì! Potesse la mia morte farvi felice! Ma finché io vivrò non sarò mai traditore; e voi non sarete la moglie d’un uomo che può in faccia al mondo apparire d’avervi acquistata con la seduzione e l’ingratitudine» (Lettere d’amore, p. 372). 23 Ivi, p. 445. 24 Il passo dell’Ortis è omologo: «[…] Mandami in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. […] nelle ore fantastiche del mio dolore e delle mie passioni, annojato di tutto il mondo, diffidente di tutti, con un piè su la sepoltura, mi conforterò sempre baciando dì e notte la tua sacra immagine, e così tu m’infonderai da lontano costanza per sopportare ancora questa mia vita. Farà men angosciose le mie notti, e meno tristi i miei giorni solitari, que’ pochi ch’io potrò vivere senza di te. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio ultimo sospiro, io verserò su te tutta l’anima mia, io ti porterò con me, nel mio sepolcro, attaccata al mio petto. […] Ho l’unica tua lettera che mi scrivesti quand’io era a Padova; felice tempo! Ma che l’avrebbe mai detto? Solo e sacro testimonio del mio dolore e dell’amor mio non mi abbandonerà mai, mai. O mia Teresa, questi sono delirj; ma l’uomo sommamente misero non ha altra consolazione» (Ortis, p. 99). [9] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 697 neranno per sempre da questo sacro paese, io verrò a respirare l’aria che tu respiri, ed a lasciare le mie ossa alla terra ove sei nata. M’era proposto di non più scriverti, e di non più vederti. Ma… – io non ti vedrò, no. Soffri soltanto queste due ultime righe che io bagno delle più calde lagrime. Fammi avere in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. Se un sentimento di amicizia e di compassione ti parlano per questo sventurato…non mi negare il piacere che compenserebbe tutti i miei dolori […] io nelle fantastiche ore del mio cordoglio e delle mie passioni, annoiato di tutto il mondo, diffidente di tutti, malinconico, ramingo, con un piè sulla fossa, mi conforterò sempre baciando dì e notte la tua sacra immagine […] Morendo, io ti volgerò le ultime occhiate; io ti raccomanderò il mio estremo sospiro, io ti porterò con me nella mia sepoltura, con me… attaccata al mio petto… –25 L’insistita anafora iniziale è abbastanza eloquente in merito alla considerazione che l’amante attribuisce all’amata. «Il mio dovere, il mio onore, il mio destino»,«io verrò a respirare»,«io non ti vedrò», «io ti porterò con me»: non esiste un noi nel presente e non esiste nel passato o nel futuro. C’è piuttosto un io solitario che diviene una monade inoppugnabile, quando, con il ritratto di lei «attaccato al petto», scenderà nella sua sepoltura. Sebbene il gusto moderno ed il buon senso delle donne, atavicamente avvezze alle promesse e profferte degli uomini innamorati, riconoscano in queste righe un’enfasi retorica talvolta leziosa, il dovere del critico che si propone di leggere i testi, ricostruendo il più possibile le categorie di gusto e pensiero del tempo in cui l’autore vive, è quello di riconoscere nell’io di queste righe il fil rouge di quel forte sentire, che alfierianamente intesse tutta la scrittura foscoliana. Tornano il riferimento alle lagrime d’amore, all’andare ramingo per altri paesi e alla quasi ineluttabilità della morte che sono poi motivi dominanti dell’Ortis, ma anche delle successive lettere ad Antonietta Fagnani Arese26, la nobildonna milanese, molto meno ingenua ed indifesa della giovane Isabella che non rinunciò mai per Foscolo alle lusinghe dei suoi molti ammiratori. 25 Lettere d’amore, p. 46. 26 Anche all’Arese Foscolo-Ortis chiederà il ritratto per le medesime motivazioni: «Per carità: dammi il tuo ritratto, il tuo solo ritratto; io me ne anderò in campagna, a Venezia. Dove mi strascinerà il mio destino; ti lascerò tranquilla e libera. Porterò con me la mia tremenda passione, le tue lettere, tutte tutte le tristi e care memorie del tuo amore… o il tempo e le sventure mi saneranno, o morirò lontano da te per non funestarti con la vista delle mie ultime sventure» (Ivi, p. 99). 698 DANIELA DE LISO [10] Edoardo Sanguineti, nella Premessa alle Lagrime d’amore curate da Giovanni Pacchiano, definisce le lettere ad Antonietta Fagnani Arese «un romanzo scritto non volendo», un po’ abbozzo dell’Ortis in elaborazione perpetua, un po’ di un secondo possibile o vagheggiato romanzo27. Questa «suite ad una voce», per citare Jean Rousset, (delle lettere della Arese a Foscolo non restano che due biglietti), guida il nostro autore alla costruzione di un ben definito ego eroico, ospitando in molti luoghi i modelli capitali anche per l’Ortis, dal Goethe del Werther al Rousseau del mito supremo della trasparenza assoluta («mostrarti, scrivendoti, tutta tutta l’anima mia»), senza dimenticare ovviamente Sterne. Tuttavia, accanto a questo eroe, così simile al suo Jacopo e, quindi frutto della fictio letteraria, fa capolino l’uomo libertino, amante dei salotti e delle loro beghe civettuole, l’uomo insicuro, che attende alla moda delle passeggiate al corso e delle soirées teatrali, solo per affermare la propria presenza in un ceto sociale cui non appartiene per nascita, ma che sente affine. Perciò, se la passione per Antonietta svela da un lato l’eroe che ama con un’intensità fuori dal comune, dall’altro denuda l’anima dell’uomo, tremante davanti all’evidente mutevolezza dei sentimenti dell’amata. Anche questo amore, come quello per la Roncioni è impossibile, poiché la Arese è sposata ad un uomo che il Foscolo ritiene una «buona persona», proprio come l’Odoardo di Teresa nell’Ortis ed anche in questo caso la vittima predestinata al dolore è l’uomo amante, ben consapevole della mutevolezza dei gusti e delle passioni della donna amata e della non eternità dei sentimenti di lei, che egli non può che accogliere come un «bel dono», bagnando di «lagrime riconoscenti» le lettere di lei che confessano l’amore. Sin dagli esordi di questo love affaire Foscolo dichiara la propria consapevolezza della superiore intensità del suo amore: Come mai ci siamo amati noi? Io non lo so; io guardo questa avventura come un dono del cielo. Ma s’io potessi un giorno narrarti tutta la storia della mia passione per te, e come ti ho conosciuta, e come ti ho amata tremando, e a quali ripieghi… io ti farei ridere e avere a un tempo pietà del tuo Foscolo28. Al di là dell’enfasi retorica di quella prima interrogativa si nasconde un giovane ventiquattrenne innamorato, che dichiara, secondo un tòpos della scrittura d’amore, la propria incredulità di fronte 27 E. Sanguineti, Premessa a U. Foscolo, Lagrime d’amore, cit., p. 11. 28 Lettere d’amore, p. 53. [11] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 699 alla donna bellissima, ricca, nobile ed ammirata che sceglie lui, il letterato di belle speranze, esule, non bello (come si affretta a chiarire nei suoi numerosi autoritratti) e poco incline, per atteggiamento, più che per reale intendimento, alle beghe degli ambienti alla moda. Vorrebbe narrarle la storia del suo innamoramento, ma, in realtà, proprio in quel periodare di anafore polisindetiche incapaci di dire i modi dell’amore, ne svela un’ineffabilità, forse più sincera di molte parole. Questa dichiarazione d’incapacità narrativa è la più certa garanzia di autenticità del sentimento amoroso, che, tuttavia, nell’enfasi retorica della scrittura, non sempre è immune da trasposizioni mitopoietiche. Questa è anche la fase in cui il giovane intellettuale utilizza le armi della scrittura per redigere un ritratto di sé all’amante, che poco lo conosce e che certamente, come si desume dalle lettere, mostra sentimenti altalenanti nei suoi confronti, passando da una passione smodata a disattenzioni clamorose che lo gettano nello sconforto, ponendo spesso in discussione la reciprocità dei sentimenti. Per Foscolo Antonietta non è solo un’avventura licenziosa – gli occhi di lei, più di ogni altra parte del corpo, sono irresistibili per lui –, e, dunque, vuole che la sua donna abbia stima dell’uomo, accanto alla passione per l’amante: Quante volte io prendo la penna per narrarti ogni minima mia azione, e per farti, per così dire, un giornale di tutti i miei pensieri! Così potess’io, mia dolce amica, mostrarti, scrivendoti, tutta tutta l’anima mia; io sono sicuro che tu m’ameresti assai più e oso dire che se qualche volta in te languisse l’amore per me, ti resterebbe sempre un’amicizia candida, eterna29. Foscolo ritiene che solo se Antonietta riuscisse a conoscere la sua anima, le sue idee, il suo modo di stare al mondo, potrebbe amarlo al di là delle passioni brucianti, ma effimere del cuore. Alla base di questa convinzione c’è, dunque, una idea molto alta di sé: egli non è un uomo comune, ma è, talvolta, costretto a nascondersi tra gli uomini comuni, che, ovviamente, non sono in grado di apprezzarlo, perché non sanno amare se non ciò di cui anch’essi si sentono capaci. Poiché egli non è ricco e non ama il gran mondo, potrà essere amato solo da una donna del gran mondo che sia disposta a riconoscere la sua “straordinarietà” di uomo, dietro la maschera di una quotidianità ordinaria. Così l’io dell’uomo si fa io letterario, anima 29 Ivi, p. 60. 700 DANIELA DE LISO [12] bella che attinge al reale solo per migrare in maniera più netta nell’ideale: Ma quando io mi vedo importunato da una turba di volpi e cani, e di tutte le bestie adulatrici e maligne della società, io per farle fuggire conviene che mandi un ruggito da leone. Tra costoro e me non vi può essere tregua; perch’io mi sento un’anima sublime e sdegnosa d’imbrattarsi nel fango di quella nobile e galante canaglia. Hanno dunque ragione s’io son brutto per essi, perché non devono credere bello che chi loro somiglia. Mi sono fedelmente dipinto con tutte le mie follie nell’Ortis, e spero che tu nel mio carattere trovi molte cose strane, ma nulla di brutto30. Foscolo vorrebbe che Antonietta fosse in grado di cogliere la differenza che egli sente tra sé, il «Mondo Grande» ed il «mondo piccolo» dell’amata, popolato da «uomiciattoli» privi di quell’ingegno e quell’onestà che invece sono, nella realtà, sue caratteristiche precipue ed, in letteratura, quelle dell’Ortis31, le cui opinioni sul mondo a lui contemporaneo, non si discostano, infatti, molto da quelle del suo demiurgo. In una delle lettere a Lorenzo scritte da Padova, (in cui, a partire dall’edizione del 1802, furono inseriti molti stralci delle lettere all’Arese, relativi alla contesa tra Foscolo ed un altro amante dell’Antonietta, Angelo Petracchi), Ortis non sa nascondere il disprezzo per l’ignoranza dilagante, per la presunzione arrogante dei ricchi e dei nobili: Onde se v’ha taluno nelle cui viscere fremano le generose passioni, o le deve strozzare, o rifuggirsi come le aquile e le fiere magnanime ne’monti inaccessibili e nelle foreste lungi dalla invidia e dalla vendetta degli uomini. Le sublimi anime passeggiano sopra le teste della moltitudine che oltraggiata dalla loro grandezza tenta di incatenarle o di deriderle, e chiama pazzie le azioni che essa immersa nel fango non può, non che ammirare, conoscere32. 30 Ivi, p. 54. 31 «Dopo quello che io ho veduto nel Mondo grande e nel tuo mondo piccolo, e negli uomiciattoli che fanno da satelliti al tuo pianeta, sai tu cosa ho ricavato? Che Werther e Ortis sono i due più galantuomini della terra, e che io trovo ogni dì più ragione di stimarmi superiore alla galante gentaglia che parla assai male che non fa bene perché non ha virtù, e che non fa male perché non ha coraggio. Eppure Werter e Ortis, malgrado il loro cuore, il loro ingegno e la loro onestà, non sono preferiti a certi sciagurati che fanno il ruffiano alle donne per isfamare la loro libidine, e che vendono il proprio onore agli uomini per fomentare i loro vizi» (Ivi, pp. 193-194). 32 Ortis, p. 39. [13] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 701 È abbastanza evidente che, se Lorenzo è per Ortis l’interlocutore ideale cui rivelare le proprie idee di superiorità morale, Antonietta non può avere lo stesso ruolo per Ugo, perché, pur essendo una donna colta e sensibile, fa felicemente parte di quel mondo – né è, anzi, in molti casi animatrice –, verso il quale il suo amante vorrebbe farle provare disgusto. Per questa splendida regina dei salotti milanesi Foscolo è, purtroppo, solo uno dei satelliti che è avvezza a veder gravitare intorno a sé ed a lui chiede, in base all’umore del momento, una passione bruciante o un amore discreto: per Antonietta Ugo non è l’uomo della vita. E se, in taluni improvvisi attimi di “sobrietà sentimentale”, il nostro mostra di esserne consapevole33, nella maggior parte delle lettere si profonde in giuramenti appassionati sull’unicità di questo suo amore: Intanto odilo; niuna donna può vantar si di essere stata tanto amata da me. Ho amato, è vero, ma non sapeva di poter amare tanto; i miei passati amori hanno avuto o i caratteri romanzeschi, o con qualche donna del gran mondo, quei del libertinaggio; ma con tanta passione, con tanta ingenuità, con tanta verità di amore non ho amato mai. E non amerò più! Io te lo ripeto, o Antonietta, questo giuramento: tu sarai l’ultima donna ch’io amerò e dopo di te non mi avrà che la solitudine, o la sepoltura34. Ovviamente Antonietta non fu affatto l’ultima donna amata da Foscolo e nessuna sepoltura ospitò il poeta quando, avendo incontrato un nuovo amore, la donna celeste decise di dargli il benservito, ma i suoi sentimenti sono autentici. Esattamente come le sue idee sul mondo, sugli uomini, sull’Italia sono inderogabili, indiscutibili, i suoi sentimenti sono assoluti; in lui si incarna perfettamente l’ideale dell’eroe tragico del forte sentire. Per questo, nel momento in cui scrive, egli sente tutta la veridicità di promesse che all’orecchio smaliziato dei più suonano necessariamente false. Foscolo ama indipendentemente dalla persona amata, la forza dei suoi sentimenti 33 «Io t’amo ardentemente e credo di non essere amato. Tu me l’hai predetto che la morte mi è necessaria, ed io nelle mie afflizioni e nella tua condotta vedo ogni giorno di più che mi conviene abbandonare tutte le speranze della vita. Ma v’è ancora un solo mezzo che mitigherebbe i miei mali. O il tuo amore di prima, o la tua schietta confessione. Forse nella disperazione di più possederti potrei darmene pace, e certamente ti lascerei quieta […] Se hai bisogno di un nuovo amore io sono pronto a lasciarti libera, e morire, ma lasciarti libera» (Lettere d’amore, p. 95). 34 Ivi, p. 71. 702 DANIELA DE LISO [14] non si nutre dell’amore dell’altra, ma attinge alla fonte del mito dell’amore, quale forza primigenia che travolge corpo ed anima. Antonietta, dal canto suo, mette spesso in discussione i sentimenti di Ugo, lo chiama il suo «romanzetto ambulante»35, gli chiede promesse di amore eterno per nutrire la vanità femminile, quel desiderio civettuolo di sentirsi apostrofata come l’unica donna mai amata da un uomo; utilizza tutte le armi in suo potere per destare di continuo nell’amante quello «spirto guerrier», che, lungi dal temere la morte, ne fa il suggello verbale dell’amore36: […] ho tirato dritto e sono andato al boschetto; e ho passeggiato; e mi sono sdraiato sopra uno di que’ sedili, illudendomi per tre ore continue. Io ti vedeva venire verso di me, così semplicemente vestita come ti vidi ieri mattina… e come un pellegrino ho visitato que’ luoghi dove noi abbiamo passeggiato, e dove ti sei seduta, e il sito di quel bacio… (o anima mia! Io mi sento ancora le labbra umide e odorose)… Non v’ha riparo. Questo fuoco divoratore, immenso, non può starmi più dentro il petto. Me lo sento scoppiare da tutti i sensi, dagli occhi, dalle mani…37 Il Foscolo Ortis scrive queste righe: Antonietta e Teresa sono “semplicemente” vestite nei pensieri di Ugo e di Jacopo; entrambi gli amanti si recano spesso in quel boschetto che è il luogo memorabile del loro più importante incontro. L’impossibilità di tenere 35 Cfr.: «[…] – Che vuol dire romanzetto ambulante? – O Antonietta; vuol dire ch’io non era immensamente innamorato e che il tempo vinse la passione… perché…, a dirtela, la passione non era più forte del tempo. Confesso che in altri casi non avrei avuto tanta costanza» (Lettere d’amore, p. 62); «La mia esistenza, i miei pensieri, tutto è consacrato a te sola. […] Chiamami romanzo, ed hai forse ragione; ma non lo sono per elezione… io devo alla natura questa ardente immaginazione e questo cuore, che mi hanno fatto soffrire tanti tormenti, ma che non sono stati mai domati, né dall’esperienza, né dalle sventure» (Ivi, p. 66). 36 Cfr.: «Io unirei il mio cadavere al tuo per non sopravvivere nel pianto, circondato dalle perfidie e dalle sciocchezze degli uomini. Se un onnipotente destino ci separasse, se le circostanze domestiche esigessero in me una vittima della pace di tutta la tua famiglia, e se il rispetto per la tua fama, che a me è più cara della tua stessa bellezza, mi costringesse a …oh sì! Io mi abbandonerei alle lagrime e alla disperazione» (Ivi, p. 63); «Ma poss’io farti felice? Oh mia dolce amica! Lo credi tu? Ti senti capace di darmi tutta la tua anima, di abbandonarti a me solo; di amarmi… e di non sentire in tutto l’universo che me solo, com’io non sento che te? Pensa; ed esamina profondamente il tuo cuore: egli è un capriccio o una passione quella che tu hai concepita per me? – Io tremo. – Ma tu no… non temere… io sono già tua vittima… io non posso più ritirarmi… e dopo che tu mi avrai abbandonato io non avrò altro rifugio che la sepoltura» (Ivi, p. 87). 37 Ivi, p. 72. [15] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 703 a freno i propri sentimenti è descritta proprio come in tragedia si descrive la condizione del furens, perché Ugo e Jacopo non amano come uomini comuni, amano come eroi, in cui forza, ingegno, sentimento, passione convivono al massimo grado, non sempre riuscendo a rientrare negli argini della normale quotidianità. Non è un caso che Foscolo ami più furiosamente solo donne che, in qualche modo, non possono essere completamente sue. Una relazione normale lo costringerebbe all’assunzione di responsabilità, che egli, facendosi scudo della sempre precaria condizione economica e di quella altrettanto precaria di esule, rifugge ogni volta. L’amore sincero per la Roncioni è tanto più forte, quanto più gli risulta chiaro che non potrà mai ambire a sposare la più ricca e nobile Isabella; quando, invece, nel 1809, farà innamorare di sé la bella Francesca Giovio, che, con qualche riserva della famiglia, legata per altro al Foscolo da rapporti di stima ed amicizia, avrebbe forse potuto sposare, le indirizza una lunga lettera, in cui la studiata costruzione retorica non riesce ad occultare la sua chiara indisponibilità a diventarne lo sposo. Nella lettera del 19 agosto 1809 egli si finge costretto a lasciare la donna amata, utilizzando il più classico dei cliché, che potremmo riassumere nel “non ti merito”: È un anno ormai ch’io sopporto le angosce del silenzio, e ch’io mi struggo nell’ardore secreto che mi consuma, e che sarà di rimorso e di lagrime a tutta la vita che mi rimane: è un anno ch’io vo combattendo con me stesso; e forse la lunga abitudine di sacrificarmi a’ miei principj e all’altrui pace m’avrebbe conceduto di vincermi. Ma come potrò io obbedire a’ miei doveri, e lasciarvi ad un tempo nel dubbio ch’io vi ho abbandonata più per indifferenza che per virtù, e ch’io pago di ingratitudine un cuore che mi si mostra sì spassionato e sì nobile? No, mia cara amica: non vi lascerò senza prima accertarvi che voi siete riamata; amata caldamente, teneramente. La riconoscenza a’ vostri sentimenti spontanei verso di me, la pietà per la vostra gioventù, la stima alle doti dell’animo vostro fanno puri ed ardenti, faranno sacri e perpetui quei palpiti che la vostra bellezza e le vostre grazie mi hanno eccitato nel cuore dal primo giorno che vi ho veduta. – Felice giorno! Ma per quanti sentieri di desiderj, di pentimenti e d’affanni vo errando miseramente dopo quel tempo! E sempre, sempre senza la speranza di possedervi mai; e solo mi sostiene e m’illude la certezza d’essere amato: eppure da questa certezza nacque e crebbe e si nutre il mio disperato dolore38. 38 Ivi, pp. 367-368. 704 DANIELA DE LISO [16] L’amante appassionato che scrive ad Antonietta di «preparargli un migliaio di baci», affinché possa «succhiarli» dalle sue labbra, che scrive ad un’ignota di non averle inviato dei fiori perché non voleva «far quest’onore ai fiori» del suo giardino, l’amante che scrive alla Martinengo di non poter resister un giorno di più senza vederla e alla Frapolli di sospirare i suoi baci e «succhiare una sua lagrima», non c’è in queste righe per la Giovio. A ben guardare tra lagrime d’inchiostro e blandi combattimenti con se stesso fa capolino solo il fantasma raziocinante di un amante da tragedia, che ha dimostrato, invece, altrove di non conoscere razionalità in amore. Quanto è triste quella rassicurazione di reciprocità dell’amore, quanto poco foscoliana è l’evocazione di quella «pietà» per la gioventù dell’amata39 o di quella «stima alle doti dell’animo», più adatte ad un’amica bruttina che alla donna amata! Il grigio è il colore di questa lettera, che esprime «compassione» più che amore40, per una donna, che, come dimostra la bella risposta di Francesca41 a questa brutta pagina del Foscolo amante, era intellettualmente in grado di competere con l’uomo di cui sventuratamente si era innamorata42. Che siamo di fronte ad una pura prova di letteratura, più che ad una confessione d’amore sincera, lo dimo- 39 Si legga anche: «Così i sentimenti del malaugurato amor mio, della mia tenera riconoscenza al vostro cuore, che mi si è dato spontaneo, della mia pietà all’età vostra, del dolore a cui sentiva di abbandonarvi dopo di avervelo esulcerato io medesimo, combattevano fieramente, ostinatamente co’ miei principj, co’ pensieri sulla mia sorte povera ed incertissima, con le opinioni della vostra famiglia, co’ miei doveri verso la mia, con l’amicizia ch’io aveva giurata a vostro fratello; l’amore insomma con tutti i suoi delirii, l’onore e i suoi rimorsi mi laceravano: voi frattanto, voi povera innocente, eravate la causa e la vittima» (Ivi, p. 373). 40 Cfr. «Io guardava la vostra bella fisionomia, quasi ringraziando il cielo che me l’avesse offerta d’innanzi per consolare gli occhi miei, che da molti anni si vanno disgustando ognor più di tutte le cose del mondo; ma nel tempo stesso l’amore per vostro fratello e le gentilezze di vostro padre e la coscienza del mio povero stato vi rendevano meno pericolosa al mio cuore, che volgevasi a voi, ma senza timore, né rimorso. Vedeva, è vero, talora gli occhi vostri fissarsi sopra di me, vi vedeva sul volto e più sulle labbra un silenzio mesto e soave; ma io non aveva avuto ancor tempo di distinguere il linguaggio dei vostri sguardi; forse, io diceva a me stesso, gli occhi suoi si volgono sempre così e naturalmente sopra di tutti, e quella mestizia è carattere; e chi sa! Fors’anche quel cuore geme in qualche passione. – Così io vi compiangeva, e senza accorgermi incominciava forse ad amarvi» (Ivi, pp. 368-369). 41 Cfr., Ivi, pp. 386-387. 42 Cfr. Ivi, pp. 386-388. [17] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 705 stra anche il suo attingere a piene mani, e piuttosto scopertamente, ai luoghi in cui Jacopo chiede perdono a Teresa della sua inevitabile fuga, adducendo come excusatio la volontà di salvaguardare la pace dell’amata e della sua disgraziata famiglia43. La letteratura soccorre la vita. Effettivamente doveva essere difficile per Ugo addurre motivi validi alla sua fuga: nel tempo di questa liaison Francesca non era legata ad un altro uomo ed egli era in buoni rapporti con tutta la famiglia di lei, che, probabilmente, dopo un veto pregiudiziale, non si sarebbe opposta ad un’unione matrimoniale tra i due44. Ma il matrimonio e, dunque, la realizzazione dell’amore, l’avventura di un progetto di vita in due sono responsabilità che l’eroe fugge, perché la felicità raggiunta non gli consentirebbe di muoversi nei luoghi che gli sono più familiari, quelli dell’eroe tragico appunto: solo tra gli uomini a vivere le più atroci sofferenze e solo destinato ad una morte salvifica, che non è fuga dal mondo, ma sacrificio di sé di fronte alle brutture, riconosciute come insanabili, della società. Il matrimonio è ammesso solo, come si legge nelle ultime righe della lettera alla Giovio45, che egli evidentemente non ama, se si presenta come gesto salvifico, una sorta di sacrificio di sé, cui l’eroe è disponibile per sottrarre l’amata a peggiori sciagure, come un’infermità grave, un nubilato irrimediabilmente lungo, una vecchiaia che ha cancellato ogni residua bellezza. Non c’è da sorprendersi, perciò, se, alcuni anni dopo, tra il 1813 ed il 1814, nelle lettere a Lucietta Frapolli torna l’amante appassionato della Roncioni e dell’Arese. Questo nuovo amore, nato in oc- 43 Nell’Ortis si legge: «Perdonami Teresa; io ho funestato la tua giovinezza, e la pace della tua casa; ma fuggirò. Né io mi credeva dotato di tanta costanza. Posso lasciarti, e non morir di dolore; e non è poco: usiamo dunque di questo momento finché il cuore mi regge e la ragione non mi abbandona affatto. Pur la mia mente è sepolta nel solo pensiero di amarti sempre, e di piangerti. Ma sarà obbligo mio di non più scriverti, né di mai più rivederti se non quando sarò certissimo di lasciarti quieta davvero» (Ortis, p. 99). 44 Cfr. «Amandovi, sarei stato ingrato con la vostra famiglia; e lusingandomi d’amore, sarei stato ridicolo a me medesimo. Vi giuro, mia cara amica, ch’io avrei sognata tutt’altra speranza, fuor che d’essere amato da voi; avrei temuta ogni sventura, non mai d’amarvi disperatamente, e di vedermi obbligato a persuadervi al maggiore e al più necessario dei sacrifizi» (Lettere d’amore, p. 369). 45 «Se l’infermità, se gli anni, se gli accidenti vi rapiranno la beltà e gli agi; se sarete padrona di voi, se sarete disgraziata; se vi mancasse nel mondo un marito, un amico, io volerò a voi: io vi sarò marito, padre, amico, fratello. Ma non sarete mia moglie finché potrò comparire vile d’innanzi a me, seduttore verso i vostri parenti, e crudele con voi» (Ivi, p. 380). 706 DANIELA DE LISO [18] casione di un viaggio a Milano compiuto probabilmente dal nostro autore nel 1813, ha, sin dall’inizio, le caratteristiche da lui predilette: la donna amata è più ricca, ha dei figli e sta per sposare il generale Fontanelli, del quale Foscolo sarà ufficiale di stanza, trovandosi così “costretto” a vivere nella stessa casa della donna, che, dopo una prima fase di innamoramento ed una intermedia di passione contrastata, lo allontanerà. Le quattordici lettere alla Frapolli costituiscono, nell’ambito dell’epistolario amoroso, un corpus interessante per la continua commistione di sincerità passionale e letterarietà: la vicenda amorosa con Lucietta dovette apparire, infatti, a Foscolo, per molti aspetti analoga a quella di Jacopo e Teresa e questa intuizione, ovviamente, doveva anche involontariamente suggerirgli continui riferimenti alla vicenda romanzesca o, come, in un articolo del 1957, ipotizzava suggestivamente Cesare Federico Goffis, sollecitare nell’autore l’idea di un nuovo romanzo epistolare, di cui questo compatto carteggio avrebbe potuto costituire il nucleo fondante46. Al di là delle ipotesi, comunque, le lettere a Lucietta restano un piccolo capolavoro di genere, in cui armoniosamente si incontrano vita e letteratura a dimostrare ancora una volta che anche il Foscolo più maturo non intende fare alcuna distinzione tra l’uomo e lo scrittore o almeno desidera che ai suoi lettori sia esplicito il nesso inscindibile tra l’uomo ed i suoi alter ego letterari. Sulla base del nuovo ordinamento delle lettere proposto dal Goffis, rispetto a quello che il Gambarin aveva dato loro nell’edizione Nazionale, nel carteggio potrebbero essere distinte tre fasi, la prima delle quali coincide con l’esaltante scoperta dell’amore e della sua corresponsione, momento che nasconde già la consapevolezza dell’impossibilità dell’amore: O bella giovine, io t’amo teneramente – questo sentimento solo, – ma quando è solo mi conforta d’un diletto profondo indicibile, e d’una mestizia soave; […] O amami; amami come puoi; amami quand’anche io fossi condannato a un esilio perpetuo lungi da te; – oh, se fossi sicuro che tu non ti dimenticheresti di me, che mi ameresti quand’anche il mio cuore non mi battesse più dentro il petto, quand’anche gli occhi miei non potessero più aprirsi a vederti, e ad amarti, ad adorarti – sì, ad adorarti, – non è espressione romanzesca per me – e ti se’ avveduta sovente ch’io ti stava vicino in una tacita adorazione; e quanto tu mi parevi bellissima, tanto più io nascondeva il mio amore infelice; – sì, bella donna, sì se io fossi certo che tu 46 C.F. Goffis, L’Ortis non scritto, «Nuova Antologia», XCII (1957), 1873, pp. 53-84. [19] FOSCOLO TRA LE LETTERE D’AMORE E L’ORTIS 707 m’ameresti anche morto, oh come mi sarebbe dolce l’andare ad aspettarti chi sa dove! Ma quando pure si perdesse ogni senso di vita in quell’ultima ora, oh come la morte mi sarebbe dolce nella certezza che tu serberesti il tuo cuore pieno di me47. In quell’«io t’amo teneramente» ci sono ad un tempo «un diletto profondo, indicibile» ed una ossimorica «mestizia soave», cioè convivono, già ab origine, proprio come accadeva nell’Ortis, basti pensare alla corrispondente scena del bacio48, i semi di e[ro” e qavnato”: l’amore sembra essere, per Foscolo, tanto più intenso e smisurato quanto più esso esplicita i caratteri del contrasto e dell’impossibilità. La sincerità dei sentimenti del poeta è anche in quella preventiva assicurazione «non è espressione romanzesca», laddove nelle lettere all’Arese, ad esempio, accettava di buon grado gli appellativi vezzosi di «romanzo », «romanzetto ambulante», evidentemente ispirati ad Antonietta dai modi e dai discorsi da eroe drammatico dell’amante. Con la Frapolli, che, probabilmente, mette in dubbio, secondo il gusto civettuolo delle donne, la sincerità di così grandi ed esaltate profferte amorose, Foscolo vuole affrancarsi da ogni possibile fraintendimento. Ed in realtà gli echi diffusi del romanzo epistolare in questo carteggio non sono indice di insincerità o di vacuo compiacimento retorico, piuttosto esplicitano ancora una volta l’indissolubile connubio tra vita e letteratura nel Foscolo amante, che non sa amare se non attraverso i modi della letteratura. Bisogna riconoscere, che, nonostante l’evidente enfasi retorica, queste lettere, sono forse le più intense del Foscolo, anche nella fase finale del rapporto amoroso, quando Lucietta, combattuta, ma in realtà già determinata a scrivere l’ultimo atto della relazione, chiede a Foscolo di allontanarsi da lei, di smettere di amarla, perché ella non potrà più essere sua: – Ma ch’io non t’ami, ch’io non sia mal mio grado costretto a trascorrere in una adorazione superstiziosa, quand’io penso a un tuo bacio; ch’io non pianga, e fremendo, e illudendomi, e delirando; ch’io non mi ricordi di te per amarti e sempre di più, e per sapere insieme ch’io ti ho disperatamente perduta per sempre – nessuna di queste cose mi potranno essere più impedite. – Nell’amore io non 47 Lettere d’amore, pp. 435-436. 48 Cfr.: «Teresa giacea sotto il gelso –ma e che posso dirti che non sia tutto racchiuso in queste parole? Vi amo. A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci! Deh! A che non venne la morte e l’ho invocata. Sì, ho baciato Teresa» (Ortis, p. 77). 708 DANIELA DE LISO [20] conosco che Amore, e in questa parola tutti i desiderj più forsennati contemporaneamente alle più lunghe e dolorosissime privazioni49. Chiedere ad un uomo innamorato di non amare più è forse l’unico modo per legarlo indissolubilmente all’oggetto del suo amore. L’amante, accusato più volte dalle donne che lo «avevano amato» di libertinaggio, di infedeltà, ora vorrebbe «essere infedele almeno con l’immaginazione», giunge a desiderare la «compassione» della donna amata, vede lei sola, ne rievoca in sogno i baci, le membra celesti50. Siamo nel 1814, sono passati gli anni dell’irruenza giovanile, e, se Foscolo non è vecchio, gravano comunque su di lui il fardello di un esilio, vissuto ormai come condizione permanente dell’anima51, la suggestione incombente del suicidio, che, nonostante l’esempio dei fratelli, riesce ad allontanare proprio attraverso la continua evocazione apotropaica di esso. Come dimostrano, dunque, le lettere d’amore, anche le ultime a Quirina Mocenni Magiotti o a Veronica Pestalozzi, forse meno belle dal punto di vista letterario, ma di notevole interesse documentario, se l’amore per il Foscolo Ortis ha solo i contorni del dolore e del sacrificio ineluttabile di sé, l’amore per l’uomo più maturo, su cui ormai agisce anche l’esempio sterniano, è ragione di vita, più che concausa di morte. In una lettera a Sebastiano Trechi dell’agosto 1812, Ugo scriveva: Quando non s’è né mercatanti, né soldati, né preti, né ambiziosi, né gelati, quando s’ha un’anima, mio caro Trechi, […] non si può vivere senza una donna che t’ami, che t’inondi l’anima di voluttà con un bacio, che ti alimenti nel cuore la generosità, e la dolcezza, e che tempri tutte le fiere passioni delle quali la natura ha voluto dotarci, senza lasciarci verun contravveleno fuorché l’amicizia e l’amore52. Un po’ Teresa e un po’ Antonietta è, insomma, la donna ideale, condicio sine qua la vita non val la pena d’essere vissuta, soprattutto, se non hai più una patria, se non hai una rendita, se di nobile hai solo un cuore ormai stanco di vivere in un mondo che non sa accettare la prepotente passione che ti «rugge dentro». Daniela De Liso (Napoli – Univ. Federico II) 49 Lettere d’amore, pp. 433-434. 50 Cfr. Ivi, pp. 459-460. 51 Cfr. V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi, 1990. 52 U. Foscolo, Epistolario, vol. IV dell’Ed. Nazionale, cit., p. 101. AGATA IRENE DE VILLI «La cosa nuova»: una lettura di Eva ultima The essay is based on a metatextual reading of one Bontempelli’s most puzzling and circuitous works. Published in 1923, Eva ultima marks a borderline between the two narrative models typical of Bontempelli. This is proved by the heuristic tension triggered by the coexistence of an anti-mimetic and deconstructive marvellous, in itself ironic and intellectual, and a mimetic and ‘realistically magic’ one, which paves the way for the fantastic tale in its wellknown twentieth-century form. Io ho avuto, anni sono, ho avuto dalla sua stessa bocca le confessioni di Eva, già bianca e quasi prossima alla morte; e m’hanno servito di fondo nello stendere questo racconto della sua ultima avventura. Ricordo che ancora ella si maravigliava, dopo tanti anni, considerando come sùbito le fosse scomparso ogni stupore per la stranezza delle cose che le accadevano, pensando la piena confidenza con cui le aveva accettate e vi si era immersa. S’era in certo modo avveduta solo più tardi […] del maraviglioso che le era passato a portata di mano […] pure io stesso m’accorgo che accingendomi, e poi continuando, a scrivere, quasi sempre ho accolto ogni cosa con molto candore: solo qua e là mi traluce il fondo misterioso di quelle avventure […]; come mi vi abbandono, tutto mi si rifà piano, e il mio animo è sgombro da ogni perplessità. Vero è che sempre e dappertutto, nell’intero corso della vita, e nei fatti suoi più quotidiani come nei più singolari, l’uomo fondamentalmente ignora che cosa sia strano e che cosa comune: il mirabile e l’usuale si confondono facilmente agli occhi di chi guarda con attenzione verso il fondo delle cose1. Questa riflessione, con la quale Bontempelli interviene direttamente nella narrazione, interrompendone il flusso, sembra testimoniare a chiare lettere il carattere metatestuale di Eva ultima, un ro- 1 M. Bontempelli, Eva ultima, in Id., Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Milano, Mondadori, 1978, pp. 408-409. 710 AGATA IRENE DE VILLI [2] manzo che, per quanto «enigmatico e labirintico»2, offre non poche indicazioni di poetica, ponendosi come una sorta di «tirocinio magico » attraverso il quale lo scrittore, pur avvalendosi ancora una volta del filtro dissacrante dell’ironia, pone già, implicitamente, le premesse teoriche della sua peculiare declinazione novecentista del racconto fantastico. Nella prima fase della narrativa bontempelliana l’ironia agisce come principio anti-natura, disautomatizzando la percezione del lettore attraverso continui rovesciamenti prospettici. La meraviglia, l’acquisto conoscitivo è in genere veicolato dal personaggio maschile, per lo più coincidente col narratore pseudoautobiografico: il mago modernista3, cerebrale e disincantato, produce per mezzo di un estro ingegnoso un prodigio di natura intellettuale, teso a decostruire l’apparente compattezza del reale. Straniata ironicamente l’illusione naturalistica di una conoscenza ‘positiva’, Bontempelli, tuttavia, non indugia in un puro gioco nichilista, in una passione collezionistica per il frammento: non a caso, già nel ’23, anno di pubblicazione di Eva ultima, dichiara che «i periodi d’avanguardia corrispondono ai periodi morti, di produzione frammentaria, di decadenza e di preparazione »4. L’ironia, che nella fase dello sperimentalismo avanguardistico era servita come macchina per fare il vuoto, cede allora il passo ad una nuova forma di realismo che, affiancando al dato di realtà l’elemento magico, preserva e amplifica lo scarto tra reale e immaginario, nel tentativo – inverso e tuttavia complementare all’idea di scrittura come sommo artificio – di recuperare la facoltà mimetica, nel senso aristotelico del termine, proprio attraverso una rappresentazione residuale. «Il realismo», scrive Bontempelli, «è stato ed è interessante soltanto dove, senza accorgersene, tradisce se stesso»5. La strada novecentista per giungere alla meraviglia presuppone, difatti, uno sguardo diametralmente opposto, che non strania il reale, esorcizzando l’inquietudine derivante dall’enigma attraverso le risorse dell’ironia, ma si abbandona fiducioso ad esso, «obbedendo », per usare le parole di Jacobbi, «alle sue segrete trasformazioni 2 P. Pinto, Introduzione a M. Bontempelli, Eva ultima, Roma, Lucarini Editore, 1988, p. VII. 3 Cfr. in proposito, seppure su altro piano prospettico, il recente saggio di S. Micali, Candide eroine: la magia al femminile in Bontempelli, «Transalpina», 2008, n. 11, pp. 103-117. 4 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura di R. Jacobbi, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 67. 5 Ivi, p. 56. [3] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 711 che bisognava portare alla luce»6. Dententrici di questa «intelligenza elementare»7 sono, questa volta, le donne, eroine candide8, capaci di assecondare il perpetuo divenire degli eventi e per questo in grado di cogliere la magia insita nella «mobilità perpetua»9 del reale stesso. Eva ultima costituisce, in questo orizzonte, una tappa fondamentale dell’itinerario bontempelliano, come testimonia la problematica tensione conoscitiva innescata dalla compresenza, nel suo composito organismo, di un meraviglioso che potremmo definire antimimetico e decostruttivo, prodotto dall’ingegno e filtrato dall’ironia, e di un meraviglioso mimetico, realisticamente magico, che si rivela spontaneamente ad uno sguardo candido. Le due modalità del fantastico bontempelliano si scontrano, qui, in una sorta di duello figurativo, attraverso i personaggi antitetici e tuttavia complementari di Evandro ed Eva. Si tratta di una contesa di saperi che mette in campo in cifra allegorica due modalità completamente diverse di rapportarsi al reale. In essa Bontempelli esplicita la propria scelta in favore di uno sguardo ‘candido’, apportando una variazione rilevante allo schema che caratterizza tutta la sua prima produzione narrativa, all’incirca dal primo dopoguerra alla metà degli anni Venti: in Eva ultima, infatti, il personaggio focalizzante non è più il mago cerebrale ed ironico, alter ego dell’autore, bensì il personaggio candido femminile. Il deuteragonista, Evandro, il cui nome rimanda chiaramente ad una complementarità speculare della componente maschile (Eva + anèr/ andròs), è certamente un mago, e però la sua è una magia tutta intellettuale e ironica, che non desta stupore, ma tende, piuttosto, a demistificare gli ‘abbandoni’ sentimentali e conoscitivi della donna; è la magia, traslucida e senza incanto, di un raisonneur: Vuoi che metta ai tuoi piedi gli uragani? Che evochi una corte di amadriadi da collocare al tuo servizio? No. […] La mia magia è troppo irrimediabilmente intelligente per evocarti un corteo di mostri10. 6 R. Jacobbi, Introduzione a M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. X. 7 L’espressione è dello stesso Bontempelli che nella nota esplicativa a Minnie la candida scrive: «La Minnie del racconto può anche essere una sciocca, la Minnie del dramma con la sua intelligenza elementare soverchia e semplifica tutto il mondo che le sta intorno», in M. Bontempelli, Minnie la candida, in Id., Opere scelte, cit., p. 957. 8 Cfr. S. Micali, Candide eroine: la magia al femminile in Bontempelli, cit., pp. 103-117. 9 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. 89. 10 «Tu non mi turbi, ma mi isterilisci» replica Eva, «Se sei un mago, lo stile è assurdo. Profani il soprannaturale» (Id., Eva ultima, cit., p. 390). 712 AGATA IRENE DE VILLI [4] Evandro è «irrimediabilmente» pervaso dal disincanto modernista e pertanto incapace di qualsiasi abbandono. Eva è, invece, l’ultima discendente delle eroine romantiche, perfetto esemplare di donna fatale11 che ha inscritto nel suo nome il destino della tentatrice; ma, a voler seguire la trama nei suoi interstizi metatestuali, Eva è anche la «prima donna», capace di quella magia che non nasce da uno sforzo volontaristico e cerebrale, dalla tèchne, ma dal recupero di uno sguardo primitivo, elementare, che, sottraendosi al dominio e all’arbitrio della logica, lascia che il latente si disveli, che le irragioni vengano alla luce. Alla scoperta della «cosa nuova» annunciata dalla veggente, Eva perviene non attraverso l’argomentazione dialettica ma, piuttosto, attraverso una estrema condizione di disponibilità, che la spinge ad abbandonarsi agli eventi, lasciando che sia il caso a regolare il suo cammino. Quando mai mi son io rifiutata all’avventura? Sono stata sempre disposta ad accogliere in qualunque momento l’impreveduto, ho amato sempre la mutazione improvvisa. Era tutta così la mia vita, pronta in ogni ora agli abbandoni più impensati12. L’abbandono non va visto, tuttavia, come rassegnazione all’indeterminatezza conoscitiva, né tanto meno come slancio irrazionale, ma al contrario come recupero di una nuova forma di razionalità critica. Potremmo dire che proprio la consapevolezza della multiforme impermanenza del reale, della Necessità che governa gli eventi, spalancano alla nostra eroina la possibilità di un ‘potenziale’ dominio estetico e conoscitivo sulla realtà. Detto altrimenti, Eva accetta con spirito dionisiaco l’imponderabile e sfida il divenire proprio attraverso una continua metamorfosi. D’altra parte, il candore che Bontempelli intende recuperare non è «la fede candida passiva dei primitivi», ma «uno stupore attivo e dominatore»13. A differenza di Evandro, Eva non è pervasa dal disincanto modernista che limita la sua magia, per lo più, ad un puro atto decostruttivo. La mutazione, lungi dal rappresentare per la nostra eroina una dolorosa fatalità, esprime, al contrario, la volontà di superare la costrizione del dimorare. Allorché Evandro le chiederà: «Non vuoi che questa casa sia per te un porto?», Eva senza esitazione risponderà: «Vuoi dire che 11 Per una lettura dell’opera in tal senso si veda S. Micali, Bontempelli e la dissoluzione della femme fatale, «Italica», 1996, vol. 73, n. 1, pp. 44-65. 12 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 361 (corsivi miei). 13 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 21. [5] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 713 ho molto navigato? È vero. Ma non ho mai desiderato un porto»14. Affrancata dall’illusione di una meta da raggiungere, Eva possiede la capacità di smarrirsi nell’infinito divenire del reale, come un navigante, o meglio come un naufrago, che non domina le acque, ma vi si abbandona. Eva non decide a priori quale cammino intraprendere. «Avventura», d’altronde, «vuol dire sforzarsi ogni giorno di uscire dal quotidiano» e «la più grande avventura dell’uomo è il pensiero»15. Essa non conosce mete prestabilite, ma necessita del coraggio dei giocatori, degli eroi delle grandi scoperte, che si affidano al caso, curiosi di tutte le deviazioni possibili. L’indovina in cui Eva si imbatte all’inizio del suo viaggio pone, difatti, per ben tre volte, l’accento sul coraggio: «venga chi ha cuore, e un po’ di futuro: […] ma ci vuole coraggio»16. Eva, come la maggior parte dei personaggi bontempelliani, magnifici giocatori di vita, assillati dal «demone del gioco»17, è un’eroina moderna che declina la sua istanza conoscitiva come propensione a smarrirsi, a inoltrarsi al di là delle rassicuranti frontiere cognitive per precipitare in «un abisso infinito »18. «Ti porta fuori del mondo», annuncia la veggente, «se sopra la soglia avrai dormito un giorno e una notte»19. Sin dalle prime battute del romanzo è possibile scorgere in filigrana, dietro l’avventura di Eva alla scoperta della propria identità, un’avventura più ampia che riguarda l’idea stessa di conoscenza come scoperta dell’omesso, come sapere liminare che oscilla tra concetto e immagine, tra razionale e irrazionale, tra il lato diurno e il lato notturno dell’esistenza20. «L’interpretazione candida della realtà », scrive infatti Bontempelli, «sale in quella zona in cui pensiero e immagine sono fatti della stessa sostanza.»21. Un’altra importante indicazione in proposito ci viene offerta, ancora una volta, attraverso le parole dell’indovina: 14 Id., Eva ultima, cit., p. 368. 15 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 352. 16 Id., Eva ultima, cit., p. 347. L’ammonimento si ripete dopo poche battute: «Venga, venga chi vuole, ma ci vuole coraggio»; e ancora: «Ci vuole coraggio per venire dalla Tricomante» (Ivi, p. 350). 17 M. Bontempelli, La vita intensa, in Id., Opere scelte, cit., p. 118. 18 Id., Eva ultima, cit., p. 362. 19 Ivi, p. 351. 20 Si veda in proposito O. Pelosi, Tra donna-sole e donna-notte. L’anima junghiana in Breton, Bontempelli e Savinio, «Gradiva», 1996, n. 14, pp. 33-49. 21 Così Bontempelli definisce il candore nella nota esplicativa a Minnie la candida (M. Bontempelli, Minnie la candida, cit., p. 957). 714 AGATA IRENE DE VILLI [6] – Perché non vedesti mai il mare sotto il tuo sguardo calmarsi imbiancarsi teneramente nella modestia dell’alba. Per questo domani dopo la cosa nuova morrai, o nascerai. – Quale cosa nuova, indovina? – domandò Eva con ansia. – Nuova e impossibile e vera22. L’oracolo annuncia la scoperta de «la cosa nuova», espressione niente affatto casuale, che sembra rimandare chiaramente ad un pensiero narrativo, in perenne divenire, che non approda al raggiungimento della cosa, di una realtà ultima e definitiva, ma solo ad una metamorfosi di realtà. Conoscere, dunque, è smarrirsi per ritrovare «la cosa nuova». Cancellando ogni meta e quindi ogni ricognizione del reale condotta a partire dal presupposto che se ne dia, e ne sia predicabile, un senso ultimo, l’avventura conoscitiva si fa miracolo, disoccultando mondi che giacevano in uno stato di latenza. Eva giungerà, pertanto, all’acquisizione solo de «la cosa nuova», alla consapevolezza di una verità mobile, ad un sapere che può darsi solo come ermeneutica interminabile e che nell’antica Grecia nasce proprio sotto forma di arte dei poeti e degli oracoli, che si fanno portavoce dei messaggi degli dei, senza capirne il senso. La nostra indovina è, non a caso, una veggente cieca come Tiresia. La verità può essere solo oggetto di allusione – non c’è un consequenziale percorso narrativo che porti ad essa – e la narrazione procede, infatti, sin dall’inizio, per repentine alternanze di apparizioni e scomparse: al rumore festante della fiera subentra improvvisamente il silenzio di un bosco che fa da sfondo all’apparizione inaspettata della Tricomante col suo carro, il quale poi improvvisamente scompare, trasformandosi in una moderna autovettura. Distruggendo qualsiasi gerarchia di valore, Bontempelli pone sullo stesso piano elementi descrittivo-quotidiani ed elementi fantastico-visionari, straniando l’elemento reale, mentre l’irreale finisce per assumere lo statuto dell’avvenimento. La stessa entrata in scena di Eva è rappresentata come una rivelazione che ha del meraviglioso: Allora tra i primi alberi dello sfondo, come venendo da un sentiero coperto, si intravide un movimento dei rami, e poi agitarsi qualcosa e avanzando prendere forma e colore, e una signora vestita di rosso apparve, uscita dalla macchia del bosco, sull’altro lembo della radura23. 22 Id., Eva ultima, cit., p. 351 (corsivo mio). 23 Ivi, p. 349 (corsivo mio). [7] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 715 Tutte le esperienze vissute non consistono in altro che in apparizioni, rivelazioni improvvise. «La conoscenza», come è stato acutamente rilevato in proposito, «è azionata dal flusso iconologico»24 che conduce la nostra eroina verso qualcosa che allude sempre ad altro. Bontempelli mette in scena una noesi dell’immagine. Il viaggio intrapreso dalla nostra eroina è un viaggio conoscitivo attraverso il mito che, come sottolinea Kerényi, è l’apparizione di una immagine, un’iconofania attraverso la quale un mondo latente diventa visibile25. In questo flusso magmatico spesso la consequenzialità viene interrotta ed emergono situazioni o personaggi ‘immotivati’ nell’economia del racconto di primo livello, ma fondamentali nel ribadire come il racconto, la narrazione non soggiace a nessuno schema e non è custodita da alcuna teologia di valori e di senso. A divenire tematica, perciò, è la forma stessa del narrare. La fabulazione della cosa prende, per così dire, il posto della cosa. A propiziare l’entrata dell’eroina nell’orizzonte del multiversum è la stessa atmosfera con cui si apre il romanzo. «La festa del paese, con fiere, giostre, baracche, bersagli, indovinamenti, balli»26 richiama chiaramente le atmosfere carnevalesche27, dove sono annulati i rigidi confini tra vita e morte, reale e irreale, animato e inanimato. Lo scenario iniziale lascia già presagire metamorfosi, rovesciamenti, eventi che non potranno che collocarsi sulla soglia, al confine tra due mondi. Il viaggio ha infatti inizio con l’apparizione magica di un’autovettura, «il mezzo meno magico, più moderno, più comodo» che ci sia, ma ben presto si trasforma in un’avventura inquietante e sinistra, dove il bosco assume un’importanza preponderante: Il bosco era una pineta fitta […] Il sole penetrava a stento per oblique vie, a chiazze violacee, entro quel verde oscurissimo qua e là disegnando reti d’ombre sottili come aghi, ma verso l’intreccio delle cime s’addensava in bagliori sanguigni28. 24 U. Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità dalle pareti lisce, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2001, p. 185. 25 C.J. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. di A. Brelich, Torino, Bollati Boringhieri, 1972. 26 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., pp. 343-344. 27 Si veda in proposito V. Giordano, Lo spirito carnevalesco, in Ead., Dalle «Avventure» ai «Miracoli». Massimo Bontempelli fra narrativa e metanarrativa, Leicester, Troubador Publishing, 2008, pp. 119-120. 28 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 360. 716 AGATA IRENE DE VILLI [8] Ricordiamo che il bosco per Propp costituisce una tappa obbligata da attraversare per uscire dal mondo consueto e raggiungere «l’altro mondo»29, «una delle regioni più sorprendenti»30, il cui nome non è lasciato al caso dal nostro raffinatissimo costruttore di jeux intellectuels. «L’altopiano del Duiblar»31 costituisce, non solo, una sorta di altopiano dell’ironia, una zona più alta delle altre dalla quale è possibile guardare le cose con una certa distanza, evitando una «aderenza troppo minuta con le superfici delle cose»32, ma esso rimanda anche, in maniera esplicita, all’idea del doppio. Non è difficile scorgere nell’altopiano del Duiblar una figura allegorica del doppio regno dell’arte, dove non a caso, le cose «non hanno nome»33 e sono illuminate da uno sguardo che sta tra il sonno e la veglia, da una «luce lunare» che le lascia essere, portandone in superficie il lato oscuro. L’ipotesi è confermata dalla stessa reazione di Eva, che viene prima colta da uno stato di smarrimento conoscitivo, che la priva della capacità di riconoscere lo stesso Evandro, insinuandole nella mente quello che Bontempelli definisce «il genio dell’interrogazione »34 («Che le aveva detto la Tricomante? […] Chi era Evandro? […] Mi ha parlato. Che cosa mi ha detto?»35), fino alla conquista di uno sguardo doppio. Il conoscere in Eva, in quanto inscindibile dal sentire, è erranza, perpetuo ripresentarsi di aporie e contraddizioni; tuttavia, proprio smarrendosi nel regno dell’errore, Eva riuscirà a cogliere le cose nella loro intima dualità: A un certo punto ero convinta che io ed Evandro ci conoscevamo da tempo; ma qui appare una contraddizione, perché io possedevo due certezze: di conoscerlo allora per la prima volta, e insieme di conoscerlo da un pezzo; pure io allora non vedevo che fosse una contraddizione, ricordo bene che questa cosa non mi parve per nulla assurda36. 29 V.J. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, tra. it. di C. Coïson, Torino, Boringhieri, 1972, pp. 92-93. 30 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 343. 31 «La conoscenza del paese», chiarisce l’autore, «può essere utile per intendere meglio la verità del racconto. Per questa ragione i miei più attenti lettori saranno coloro che conoscono l’altopiano del Duiblar, scena della mia storia, una delle regioni più variate e sorprendenti d’Europa» (Ibidem). 32 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 15. 33 Id., Eva ultima, cit., p. 369. 34 Id., Il neosofista e altri scritti, Milano, Mondadori, 1928, pp. 116-117. 35 Id., Eva ultima, cit., pp. 360-362, passim. 36 Ivi, pp. 361-362 (corsivo mio). [9] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 717 Il viaggio di Eva sembra richiamare il processo stesso della scrittura, «la letterarietà» come atto di spaesamento, come allontanamento dai meccanismi percettivi abituali in un confronto con l’ignoto, che sottrae l’eroina all’automatismo del «riconoscimento», permettendole finalmente di «vedere»37. La conoscenza di Evandro scaturisce da una dialettica oppositiva tra percezioni antitetiche, attraverso la quale Eva addiviene per contro ad una visione che trova la sua unità proprio nella relazione tra i due termini. Allo sguardo candido, ‘poetico’ di Eva, le due modalità antitetiche di percezione del soggetto cessano di contrapporsi l’una all’altra, conciliandosi in una visione figurale. In Bontempelli, d’altra parte, non c’è mai una verità del senso. La dualità costituisce l’essenza stessa della cosa, «il punto di partenza e il punto di arrivo»: Il diavolo ha bisogno che l’uomo non creda alla dualità: perché dalla dualità nasce il concetto di punto di partenza e punto di arrivo, di mezzo e di fine, peccato e salvazione. Per qualche tempo la cosa gli è riuscita per mezzo del materialismo e poi del suo luogotenente il positivismo […] La nostra è dunque un’impresa contro il diavolo38. Il viaggio di Eva ha origine, non a caso, con le profezie di una veggente mascherata. La verità originaria, dunque, non esiste, è anch’essa una maschera. Postulare un inizio, d’altronde, significherebbe legittimare un assoluto. La stessa avventura di Eva può essere sì vista come un percorso di riappropriazione dell’infanzia, ma un’infanzia, per così dire, non pre-adamitica ma post-adamitica. Gli artisti dovevano «tornare in qualche modo dei primitivi […]. S’intende che dobbiamo tuffarci in un primitivismo cosciente visto che alla incoscienza e alla tabula rasa non ci si può ridurre. Adamo non ha un passato. Non possiamo tornare Adami. Siamo dei primitivi con un passato»39. Eva è certamente un nome che rimanda all’origine, all’essere primitivo, ma esso è connotato, ossimoricamente, da un aggettivo assai rilevante nel sistema semantico dell’autore. «Ultimo », scrive infatti Bontempelli, «è il punto della terra in cui caddero dal cielo gli angeli cacciati, e nacque la storia. Quegli angeli caduti furono chiamati “uomini”»40. Va ricordato, inoltre, che per 37 V. Sklovskij, L’arte come procedimento, in T. Todorov, I formalisti russi, con prefazione di R. Jakobson, Torino, Einaudi, 1968. 38 M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. 28. 39 Ivi, p. 188. 40 Id., L’«Ideario» di Bontempelli, inedito pubblicato in «Il caffé illustrato», 2004, n. 19-20, p. 39. 718 AGATA IRENE DE VILLI [10] «questo angelo caduto uomo […] con la condanna alla fatica, al delitto, alla guerra, al dominio, alla storia»41, la «elementarità» non è «nativa […] per l’uomo consociato essa sarà il frutto di una formazione graduale, un faticoso raggiungimento»42. E lo stupore rappresenta «un modo per rifarsi le ali»43, che nasce proprio dalla consapevolezza di una caduta, dalla perdita di un principio unico capace di comprendere il mondo in un tutto pieno di significato. All’origine, pertanto, resta la dualità. La stessa personalità di Eva è connotata da una serie di aggettivi che scandiscono l’intima duplicità dell’io: «anima sempre avida e sempre stanca […] sempre corsa e inabitata prigioniera e liberata […] non nata mai eppure non immortale »44. Eva è latrice di quel sapere «a mezz’aria»45, demonico, che oscilla tra «una necessità divina e diabolica»46, è la «regina» di quel regno di mezzo che è lo spazio dell’immagine, «il regno», come lo definiva Paul Klee, «dei non nati e dei morti, il regno di ciò che può e vorrebbe venire, un regno intermedio47». Per quanto la nostra eroina appaia animata da una profonda disposizione euristica, in questo viaggio verso l’ignoto il timore del nuovo spesso la sovrasta ed Eva sembra risalire verso «l’assolutezza dello spavento infantile »48 che la induce a chiudere gli occhi e «fingere il sonno»: Questa domanda la afferrò di colpo con un’angoscia mortale. Un sudore freddo le salì sino alla fronte, la gola le si strinse d’affanno. Prima di potersi trattenere, si torse nel suo angolo, le uscì un breve gemito di tra i denti serrati. Udendolo s’impaurì, si rifece inerte e muta. […] dominandosi continuò a fingere il sonno49. «L’apprensione d’ignoto»50 – per applicare qui la pregnante formula di Francesco Orlando – ci fa, tuttavia, perdonare gli svenimenti di Eva, le sue strategie d’evasione, soprattutto perché, subito dopo, 41 Id., Leopardi l’«uomo solo», in Id., Opere scelte, cit., p. 857. 42 Ivi, p. 842. 43 Ivi, p. 831. 44 Id., Eva ultima, cit., p. 351. 45 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 189. 46 Id., La vita intensa, cit., p. 143. 47 Traggo la citazione da P. Fossati, Nota a F. Melotti, Lo spazio inquieto, Torino, Einaudi, 1971, p. 118. 48 F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi, 1994, p. 175. 49 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 361. 50 F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit., p. 175. [11] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 719 la nostra eroina decide di «non abbandonarsi a paure infantili» e di «cessare la finzione del sonno»: Ora dunque d’improvviso qualcosa manca nella catena. Questa mattina la continuità s’è spaventosamente spezzata […]. In questo interno tumulto, si scosse. Allora si comandò chiaramente di cessare la finzione del sonno […]. S’impose di aprire gli occhi. La sorprese una riluttanza. Oscuramente temeva il possibile séguito di un tale atto. Domò il nuovo timore. Come fanno i suicidi all’estremo istante, […] vinta la breve lotta aprì gli occhi di colpo […] sciogliendosi dalla coperta che la proteggeva. Ma d’un tratto la maravigliò il cambiamento di luce ch’era avvenuto intorno a lei. I pini si erano fatti più radi, più ampia la via […] ora dall’intrico pioveva un diffuso chiarore […] filtrava sul mondo uno stupefatto languore51. Eva si accorge che «qualcosa manca nella catena» causalistica degli eventi, che «la continuità s’è spaventosamente spezzata», e tuttavia lo spavento non frena il suo desiderio di conoscenza. Eva procede nel suo viaggio «fuori dal mondo», al di là delle abituali frontiere percettive, per approdare in un regno dai confini mobili. «Benvenuta signora» «Grazie» rispose Eva. «C’è sempre tanto sole a…Come si chiama qui?» […] «Non ha nome, signora. È il paese più bello del mondo» «È come fuori dal mondo, signora» aggiunse il giardiniere. La contadina disse a Eva: «Ci vuole coraggio, signora, per arrivare fin qua.» Eva rabbrividì52. Vale la pena qui notare come le parole con le quali la contadina accoglie Eva riprendano chiaramente quelle pronunciate dalla coccinella nella sezione Viaggi del Purosangue, dove il poeta, come Eva, abbandonando il «mondo chiaro delle cose nitide […] dove tutte l’acque sono liquide» e «tutte le pietre son dure al tocco»53, «rivuo[le] l’imprevisto l’assurdo l’impossibile / […] e riviaggi[a]»54, calandosi nuovamente nell’«intrico» delle apparenze fenomeniche, nel «groviglio degli eventi»55 guidato solo da un misero insetto: 51 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., pp. 362-363 (corsivi miei). 52 Ivi, p. 369. 53 Id., Il purosangue, in Id., Opere scelte, cit., p. 928. 54 Ivi, p. 929. 55 Id., Introduzione all’Apocalisse, Milano, Chimera, 1941. 720 AGATA IRENE DE VILLI [12] […] ove l’intrico è più fitto. La coccinella racconta: «Quasi nessuno ci viene con me fin qui in mezzo sono i luoghi più belli del mondo ma ci vuole coraggio»56. Occorre coraggio per smarrirsi, lo aveva già più volte sottolineato la veggente, tuttavia è proprio smarrendosi che Eva si ritrova nuova («Sono tutta riposata»/ «E nuova»57). Il compito dell’arte è sottrarre la realtà all’immobilità di un’idea fissa per ricollocarla nella «mobilità perpetua» del reale. «Se Platone bandì i poeti dalla perfetta repubblica», scrive Bontempelli nel Neosofista, «si è perché […] è del tutto simile all’Idea e com’essa immutabile, mentre sapeva che il poeta, creando nuovi miti, ci avrebbe condotto il desiderio e il genio del mutamento»58. Nuova è anche la dimensione temporale in cui Eva si imbatte. Dal tempo noto e familiare si giunge «fuori del tempo»59. «Accanto a voi», sostiene l’amico di Evandro, «ogni facoltà misurativa, esaminativa, giudicativa, si abolisce. Il tempo diventa un giocattolino e lo spazio una burla»60. Tutto appare altro agli occhi di Eva: «È straordinario e terribile. […] Non vi pare che l’aria, la luce, siano diversi? […] diversi dall’aria e dalla luce di tutto il resto del mondo»61. Il reale, tuttavia, appare fuori dall’ordinario solo agli occhi di uno sguardo non irrigidito. L’accompagnatore di Eva, infatti, «non vede nulla di straordinario all’infuori di lei»62. Su questo sfondo misterioso dove ogni immagine crea stupore e straniamento, si compie quello che è l’evento più significativo, l’apparizione della marionetta Bululù, attraverso cui Eva viene in contatto con l’altro da sé, col suo doppio. Eva. Qui tutti e due? Dunque tutti e due nello stesso luogo? Dove? Per qualche tempo ho creduto di essere prigioniera. Bululù. E poi? Eva. Poi tu sei venuto, e non ci ho pensato più. Forse siamo prigionieri insieme, della stessa prigione? […] Forse le nostre sorti sono molto più vicine che tu non creda, Bululù. 56 Id., Il Purosangue, cit., p. 930. 57 Id., Eva ultima, cit., p. 373. 58 Id., Il neosofista e altri scritti, cit., pp. 116-117. 59 Id., Eva ultima, cit., p. 381. 60 Ibidem. 61 Ivi, p. 383. 62 Ibidem. [13] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 721 Bululù. Le nostre sorti? È così, se ella lo dice. E le nostre nature? Eva. Meccanica, dicevi? Qual è, Bululù, la meccanica che ti fa fare queste domande così sottili? Tu sei curioso della tua natura? Bululù. Un poco, signora, lo confesso. Eva. E della tua sorte? Bululù. Meno. Forse è la stessa cosa. Ma sarebbe pericoloso. Eva. Perché? Bululù. Perché se ella e io avessimo la stessa natura, davvero avremmo la stessa sorte63. L’arte offre la possibilità di salvarsi dall’indeformabilità delle abitudini, suggerendo paralleli e inversioni che violano qualsiasi confine che pretenda di imporsi come definitivo e immutabile. L’umano, allora, si confonde col meccanico, ed Eva, sbeffeggiata e ridicolizzata da Evandro per la sua carica passionale, finisce per sentirsi legata da un affetto sempre più profondo alla marionetta, tant’è che essa stessa pare subire un processo di marionettizzazione, che la induce a compiere gesti ripetitivi e spezzati, esprimendosi con un linguaggio che sembra diventare anch’esso alogico, materico, fatto di «qualche incomprensibile sillaba»64. La marionetta, invece, si umanizza, mostrandosi come «la persona più chiara e umana e naturale» che Eva avesse mai incontrato. Il punto culminante di questa compenetrazione si realizza, non a caso, durante un momento ludico, quando Eva, nel bosco, chiede a Bululù, fantoccio fatto di legno, di nascondersi dietro un albero e di chiamare con la sola voce il nome unico di Eva, «nella sua essenza nominale, affettiva e speculare»65. Eva. È curioso sentire la tua voce sola. Sembra degli alberi. Sembra di tutte le cose della terra, che mi chiamino. Pare una voce sola, che viva da sé, senza corpo, non che venga da una creatura umana66. Attraverso questo doppio meccanico, Eva entra in contatto con l’altro da sé e, come guardandosi in uno specchio, scopre quanto anch’essa risulti essere un mero congegno agito da forze oscure e incomprensibili – e tutta l’intera umanità, che le era passata accanto, 63 Ivi, p. 397-398. 64 Ivi, p. 399. 65 L. Fontanella, Bontempelli tra mito e metafisica: una lettura di «Eva ultima», in Massimo Bontempelli scrittore e intellettuale, Atti del convegno, Trento, 18-20 aprile 1991, a cura di C. Donati, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 106. 66 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 402. 722 AGATA IRENE DE VILLI [14] le appare, ora, come una turba di larve meccaniche mosse da una miriade di fili: Ed ella prima si sentì sola d’un tratto come se dal mondo fosse deposta e abbandonata in un altro universo ignoto, e tutto vacuo […] da tutti i punti del pallido orizzonte, fin dalle estreme lontananze, fluide folle di larve silenziosamente vennero rapide sino a lei: uomini, e fanciulli, e donne; […] D’un tratto le pareva vedere l’aria scialba corsa da una specie di obliqua pioggia rigida dal cielo fin sopra le teste delle larve, le quali non sembravano accorgersene, e quella massa di fili ogni tanto crollare. Come in tal modo l’uno contro l’altro i fili s’urtavano, ella pensava che stessero per dare qualche suono: ansiosamente lo attendeva, ma nulla sentivasi nell’infinto se non quel gelato interminato silenzio per tutta la landa terrestre67. Attraverso l’incontro con la marionetta la nostra eroina scopre la verità del suo essere mortale. Eva è come travolta in una sorta di horror vacui. La «landa terrestre» le appare come uno spazio immenso dai confini indiscernibili, abitato da una serie di automi mossi al comando di un vegliardo «che a cenni riordinò quelle torme di larve, e le fece volgere, e disposte in lunghe file lentamente le avviò »68. La marionetta si fa qui metafora della condizione umana, di un apparente libero arbitrio dietro cui si celano le mani di un grande marionettista. «Definire l’anima» di un essere come Bululù «è molto difficile. Forse è impossibile»69, ma «altrettanto impossibile», ammette Evandro, è definire la natura degli uomini. «Qual è, allora, la differenza?» chiede la marionetta. «Ognuno recita la sua parte»70. Mescolando vita e artificio Bontempelli dichiara l’impossibilità di sfuggire alla maschera che regna sovrana nella vita quanto nell’arte. D’altra parte lo stesso autore è solo un falso depositario del racconto di Eva. Bontempelli, come sottolinea Bouchard, istituisce la finzione nel momento stesso in cui simula di negarla. Il presunto valore di testimonianza del racconto viene, difatti, negato, non solo attraverso la costruzione di un mondo arbitrario rispetto alle convenzioni realistiche, ma anche attraverso un processo di manipolazione dell’opera, che coinvolge nella finzione lo stesso io narrante, destinato a ridursi anch’esso a personaggio di se stesso71. Nel theatrum 67 Ivi, pp. 403-404. 68 Ivi, p. 405. 69 Ivi, p. 400. 70 Ivi, p. 401. 71 Si veda in proposito F. Bouchard, Eva ultima, du roman à l’autobiographie [15] «LA COSA NUOVA»: UNA LETTURA DI EVA ULTIMA 723 mundi ogni essere umano deve recitare il ruolo che gli viene imposto. Siamo di fronte, dunque, ad una declinazione tutta terrestre della marionetta72, che ha già perso la grazia della puppe kleistiana, degradandosi in fantoccio. Essa assume così un significato tragico di matrice schopenhaueriana, incarnando la miseria creaturale dell’essere umano. Spezzati i fili che legavano l’uomo al divino e al senso, Eva si sente «abbandonata in un universo ignoto e tutto vacuo». Il reale resta qualcosa di enigmatico e incomprensibile. Non a caso, subito dopo, Bululù avanza una domanda: «Perché ci tiene tanto a conoscere e capire le cose del mondo?»73. «Eva cercava come rispondere», ma alla fine sa solo dire che «conoscere gli uomini è una commedia a tristo fine […] ma ci si ricade sempre»74. È il momento più significativo di questa favola metafisica, sicché Bontempelli decide di intervenire direttamente nella narrazione, ribadendo l’inadempienza del viaggio estetico-conoscitivo. Occorre osservare con modestia, e con fedeltà tenere a mente, quanto più possiamo delle vicende di questo mondo; e non fare giudizi; e credere che quando saremo morti, la nostra rassegnazione ci avrà meritato di conoscere e giudicare, soltanto allora, la verità75. La morte rappresenta il privilegio metafisico per eccellenza. Il velo delle apparenze si lacera, permettendo all’uomo «di conoscere e giudicare soltanto allora la verità». Al di qua della linea della morte, «occorre osservare con modestia e non fare giudizi», poiché «la rassegnazione» rappresenta il solo modo in cui si può tenere aperto il senso delle cose ed è, pertanto, l’unica autentica apertura al mistero. In Bontempelli c’è una profonda consapevolezza della tragicità dell’esperienza storica, della caduta che ha «innestato l’uomo nel tempo»76. La stessa scelta della marionetta, piuttosto che del burattino, non è casuale. La marionetta, caratterizzata da un doppio statuto, celeste e terreno, è, difatti, a differenza del burattino, soggetta a caduta; essa costituisce, dunque, il modello di un sapere di mezzo, di una perenne tensione dialettica tra alto e basso, tra tragifictive, in Écritures autobiographiques, a cura di G. Isotti Rosowsky, Saint-Denis, Presses Universitaries de Vincennes, 1997, pp. 79-94. 72 Cfr. F. Bartoli, La marionetta grottesca: un topos del Novecento, in Il mito dell’automa, a cura di U. Artioli e F. Bartoli, Firenze, Artificio, 1991, pp. 54-61. 73 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 405. 74 Ivi, p. 407. 75 Ivi, p. 409. 76 Id., Leopardi l’«uomo solo», cit., p. 838. 724 AGATA IRENE DE VILLI [16] co e comico. «La maggior colpa che tutti facevano alla mia vita – pensava sconsolatamente [Eva] – è stata la frivolezza; e non sanno che la mia peggiore disgrazia è di prendere tutto sul serio»77. Quello di Bontempelli è un riso amaro, che sembra testimoniare la consapevolezza di come la conoscenza non possa che darsi in residuo: e tuttavia alla verità tragica questa «favola metafisica» si accosta con la levità e la malinconia di un clown. Il gioco della conoscenza, come afferma leopardianamente78 Eva, «è una commedia a tristo fine» nella quale però «si ricade sempre». Eva, difatti, riprende il suo viaggio. Fatta esperienza della «cosa nuova», «il passato le appar[e] inutile»79, già inservibile. Significativamente, a proposito del «giocare», ne Il Bianco e il Nero, Bontempelli scrive: «l’esperienza non ha mai insegnato niente a nessuno. L’esperienza appena nasce, subito è morta, vanisce»80. Non a caso nell’ultimo capitolo – dal titolo, «Dissolvimento», trasparentemente metanarrativo – Eva si lascia alle spalle le esperienza passate, immergendosi nuovamente «con abbandono nell’attimo presente»81. «Camminava, e non si domandava perché. Era un ritorno ma ella sapeva di non tornare verso il passato»82. Se di ritorno può parlarsi, si tratta, dunque, di un ritorno al viaggio, che ricomincia ancora una volta con l’apparizione di «un carro remoto». L’avventura di Eva si pone, pertanto, come una Invitation au voyage, ad andare oltre i confini del mondo conosciuto per ritrovare la magia de «la cosa nuova». «La nuova arte», d’altra parte, «vuole essere», nel dispiegamento tematico della poetica novecentista, «un viaggio ininterrotto traverso la natura, o la vita, o l’animo umano – ma viaggio sempre, movimento, invenzione, e soprattutto coraggio; non contentarsi mai di quel che si è veduto o scoperto, non stagnare mai»83. Agata Irene De Villi (Univ. di Bari) 77 Id., Eva ultima, cit., p. 409. 78 Cfr. G. Leopardi, Zabaldone, 16-18 settembre 1823, pp. 3448-3460; in particolare p. 3451: «La naturalezza e la verimiglianza è maggiore assai ne’ drammi di tristo che in quelli di lieto fine». 79 M. Bontempelli, Eva ultima, cit., p. 443. 80 Id., Il Bianco e il Nero, Napoli, Guida Editori, 1987, p. 84. 81 Id., Eva ultima, cit., p. 443. 82 Ibidem. 83 Id., L’avventura novecentista, cit., p. 352. Meridionalia PAOLO PROCACCIOLI Per Tansillo giocoso. In margine all’edizione dei capitoli The edition of Capitoli gioiosi gives the author the chance of sketching the history of the text, contemporarily underling its stylistic features and comparing it with other works by Tansillo. Most of all, the essays aims at emphasising the importance and significance of terza rima in a double-faced genre which the Capitoli take into account both from a satirical (Ariosto) and a burlesque (Berni) perspective. The author also discusses the compatibility of burlesque poetry with the public role played by Tansillo at the court of Don Pedro de Toledo. 1. Parrebbe un destino. Non so se è scritto nel cielo di Luigi Tansillo o in quello di Tobia Toscano, ma i due nomi sembrano proprio destinati a figurare insieme sotto il cartiglio delle iniziative che portano alle loro conclusioni naturali le belle incompiute. Qualche anno fa la staffetta era stata con Erasmo Percopo, che aveva portato a buon punto ma non aveva completato l’edizione del “canzoniere”; ora, sempre nel nome di Tansillo, questa volta il Tansillo dei Capitoli1, il testimone è arrivato nelle mani di Toscano da quelle di Scipione Volpicella. In quest’ultima circostanza però lo studioso ha scoperto le carte: il suo scopo, ha dichiarato, va oltre la chiusura di questo e degli altri cantieri del passato e mira esplicitamente al recupero e alla riproposta degli opera omnia del poeta. Il gioco, va detto, non era poi così velato. È una vita, una vita di studi, che Toscano è sulle tracce di Tansillo: ne ha sondato le scansioni della biografia; ne ha ricostruito pezzo per pezzo stagioni e ambienti; ne ha seguito i destini delle opere; ne ha soppesato la parola. Il progetto ora avviato, al quale ha messo mano con una pattuglia di giovani collaboratori – nella circostanza si tratta di Carmine Boccia – educati al gusto del testo e del documento, è 1 L. Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T.R. Toscano, Nola, l’arcael’arco, 2010. Tansilliana 726 PAOLO PROCACCIOLI [2] l’approdo naturale per lui e per la sua squadra, e anche la più confortante delle prese d’atto per il lettore di cose cinquecentesche. È confortante già la scelta di muovere a quel recupero partendo dai capitoli, cioè da un’opera e da un genere che la convenzione critica ha voluto troppo a lungo destinati alle sezioni appendicolari delle ricostruzioni storiografiche e dei panorami di volta in volta legittimati. Sarà senz’altro un caso, pure non è un buon segno il fatto che il nome di Tansillo non figuri neanche una volta nella pur ampia perlustrazione critica della satira di matrice ariostesca condotta da Piero Floriani e che ricorra solo in una serie nelle pagine pionieristiche di Silvia Longhi sul capitolo giocoso2. A dire che anche i loci critici deputati al recupero del genere, loci acuti e penetranti, hanno potuto tralasciare l’apporto del nostro autore alla tranche cinquecentesca di quella storia3. A dire anche che ha preso nel segno l’“eminet quod latuit”, l’impresa all’insegna della quale si apre ora il progetto di Toscano. Sembrerebbe cogliere nel vero chi sostenesse che il destino di tali testi era un destino in minore già agli occhi dello stesso autore, ma sappiamo bene che quella ‘sfortuna’ non va letta come un gioco maligno della sorte, piuttosto andrà intesa come signum di una scelta compiuta per tempo dalla cultura (direi, dalla civiltà) del nostro come di ogni classicismo4, e che voleva il ‘basso’ e il comico come momento sì previsto, ma appena tollerato. Una scelta che parrebbe leggibile anche alla luce della disaffezione per il metro dichiarata allorché l’autore si pose di fronte alla sua produzione lirica per offrirne una selezione; nella circostanza, è noto, lasciò scritto: “di queste rime mie l’intentione mia è che tutti li capitoli si squarcino”5. Ma poi, a voler dar conto accanto alla linearità delle dichiarazioni esplicite anche della realtà complessa e contraddittoria attestata dalla 2 Alludo, rispettivamente, a P. Floriani, Il modello ariostesco, Roma, Bulzoni, 1988, e a S. Longhi, Lusus, Padova, Antenore, 1983. 3 E anche dove, come nella Satira di Cian, si fa un qualche spazio – e lo si fa per ragioni quasi notarili, dato l’impianto repertoriale dell’opera e della collana – la conclusione va nel senso di un’estraneità dei versi tansilliani a quella scrittura. 4 E tradotto a lungo in prese di posizione ad excludendum a esemplificazione delle quali ricordo, con i curatori, la definizione dei capitoli berneschi come di un “immenso monte di letame” data da Settembrini e ripresa e fatta propria da Croce (è richiamata da Carmine Boccia a p. 27 della sua Introduzione). 5 La disposizione, che riguarda i capitoli lirici, si legge nella carta d’apertura del Codice Casella e è ricordata da Toscano nella sua ‘Premessa’, a p. 14. [3] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 727 natura e dalla successione dei comportamenti, i fatti dicono che in quella stessa stagione il confronto con il ‘basso’ era momento necessario (e complementare, non alternativo) alla formazione del letterato, di pressoché ogni letterato ‘alto’ (e a riprova basti il rinvio agli esordi di un Bembo o di un Della Casa). Insomma, l’impressione è che siamo stati troppo ligi nel prendere in parola sia il nostro poeta che i suoi modelli e sodali, e ci siamo rassegnati a una dieta punitiva, che alla fine ci ha penalizzato non solo dal punto di vista della varietas, ma della stessa sostanza poetica. Questo, mi pare, un primo importante elemento di problematizzazione connesso all’edizione. E è una problematizzazione forte, associata alla storia stessa dei Capitoli giocosi per come ora, per la prima volta, viene raccontata al lettore tansilliano. Nessun dubbio certo che sulla produzione satirica e burlesca in capitoli gravi da sempre la scelta degli autori (a cominciare da Ariosto e Berni) di non prendersi cura del destino di quei testi; ma dovrebbero esserci ancor meno dubbi sul fatto che quegli stessi autori continuarono per tutta la vita a comporre e spedire capitoli. Il caso di Tansillo, per questo particolare aspetto, è assolutamente canonico. Ricordo accanto al suo quello del Lasca, col quale condivise la sorte di essere recuperato nello stesso giro d’anni (il primo dal già evocato Volpicella nel 1870, l’altro da Carlo Verzone nel 1882). Tra le ragioni della mancata pubblicazione dell’una e dell’altra serie si potrebbe indicare anche il fatto che si trattava di testi compromessi in una misura molto significativa con la realtà locale. Vi si faceva poesia oltre che della biografia dei poeti e dei destinatari o dedicatari dei loro versi anche della cronaca e della topografia. Una circolazione manoscritta, per quanto ristretta, era senz’altro all’origine, e dovette sembrare poi a lungo, esito tale da garantire la diffusione dei testi presso i loro destinatari primi e naturali, amici e sodali di corte o d’accademia che fossero. Ma quell’esito era anche, o almeno sembrava, il solo in grado di consentire una loro lettura piena. La Longhi per i burleschi ha parlato opportunamente di quella circolazione come di una diffusione “più circoscritta ma storicamente più significativa” 6, che è notazione esatta e da sottoscrivere in toto. Ma che non dovrebbe essere intesa come una condanna. Dalla ricostruzione puntuale della storia dei singoli capitoli, l’insistenza sulla quale è uno dei punti di novità e di forza di questa edizione, risulta confermato che il Tansillo patrigno dei suoi versi 6 S. Longhi, Lusus, cit., p. 31. 728 PAOLO PROCACCIOLI [4] non si curò di quelli neanche dopo che, a metà degli anni Quaranta, il genere satirico nella sua versione volgare e personale aveva conquistato la ribalta editoriale. Era accaduto con le edizioni prima di Pietro Nelli (1546) e di Ercole Bentivoglio (1546), poi con i testi di Gabriele Simeoni (1549) e di Giovanni Agostino Caccia (1549), per finire col Ruscelli del Fuso (1554). Tra l’altro a questo proposito potrebbe essere esercizio non ozioso chiedersi se sia proprio un caso che nessun libro di satire volgari sia stato stampato a Napoli. Senza dimenticare che dal Quattrocento il genere risultava quanto mai negletto nel Regno. Al punto che si è potuto concludere che per tutta quella stagione “i capitoli si contano sulla punta delle dita”7. Tutto ciò detto, sarà chiaro alla fine che il risarcimento rappresentato dall’edizione che abbiamo sotto gli occhi, doveroso oltre che sacrosanto, non comporta automaticamente la trasformazione di Tansillo in vittima. Non c’è nessun vulnus da sanare, semmai una scelta da comprendere e comunque su cui riflettere. Quella che ha indotto l’autore a prefigurare un destino carsico e irrelato per una parte della sua produzione. Un destino comune che però, va anche detto, per non pochi altri autori venne compensato – in tempo reale o con una minima sfasatura cronologica – dall’interesse degli attivissimi antologisti coevi. 2. Il commento a questo tipo di testi è notoriamente arduo, intessuti come sono, per statuto, di fila che rimandano ai materiali alti e altissimi della tradizione – qui soprattutto Ariosto e Orazio –, come tali immediatamente riconoscibili, ma anche con rinvii continui alle ‘occasioni’ all’origine dei vari testi. Con riferimenti minuti e talora minutissimi, e anzi con un dippiù di allusività alla realtà biografica anche spicciola che ora sembra frutto di un esercizio virtuosistico di cripticità. Per cui leggere le terzine dei capitoli, come fa scrupolosamente Boccia, alla luce del contesto che le ha prodotte, un contesto inteso nella sua specificità propriamente politica, sociale, amicale, topografica, cronologica, non vuol dire sacrificare la parola all’extraletterarietà, al contrario vuol dire prenderla per quella che è, assecondandone la natura centrifuga e esaltandola nella sua compiutezza, a cominciare naturalmente dalla lettera. Cosa necessaria sempre, ma d’obbligo, ora come allora e come inevitabilmente sempre, nel caso del testo comico. 7 M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, p. 261. [5] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 729 In questa chiave proprio il fatto che Tansillo continuasse a comporre capitoli senza porsi il problema della pubblicazione vorrà dire che la destinazione naturale di quei versi era il circuito della corte toledana o il giro dei ‘continui’ o qualcuna delle altre sodalitates accademiche o amicali, tutte realtà all’interno delle quali la condivisione delle esperienze (delle aspettative, delle urgenze, delle idiosincrasie, dei timori…) era piena. Anche quella di Tansillo è insomma una poesia ‘in situazione’, per dirla con Floriani8. Allo stesso modo in cui mi pare gli possa essere riferita un’altra osservazione dello stesso critico, quella in base alla quale è stata proposta per il Bentivoglio un’interpretazione ‘aperta’: […] quanto, di questa riduzione della dialettica drammatica che dà nerbo alla satira oraziana ed ariostesca, sia dovuto alla materiale ‘autarkeia’ del Bentivoglio, cioè alla sua posizione sociale di membro di una famiglia ricca e potente malgrado la perdita di Bologna, e quanto invece ad una chiave di poetica che, in presenza della nuova imponente produzione burlesca, tende all’unificazione sotto l’etichetta del ‘comico’ di tutte le poesie di registro familiare, globalmente opposte all’‘insieme’ della poesia ‘seria’, è difficile dire. L’uno e l’altro motivo appare, al suo livello, valido: è vero che tematicamente lo ‘speaker’ bentivolesco non vive la sua comunicazione come comunicazione di un disagio profondo; è vero anche che linea satirica e linea burlesca confluiscono fino a confondersi (al ribasso, rispetto alla complessità dei modelli) in una linea del ‘piacevole’ denunciata fin dal titolo della raccolta (“Satire et altre rime piacevoli”) 9. Adesso dunque che la ditta Boccia-Toscano ci ha “messo innanzi” il testo, sta a noi “cibarcene”. E cioè recuperare, per riannodarle, le fila che questa poesia del ‘disimpegno’ – di un disimpegno solo apparente, come accade con ogni poesia giocosa – intesse con i discorsi del suo tempo, dal momento che, teste Daniele Barbaro, i “poeti giocosi, / […] tengono nascosi / I veri sentimenti, Sott’i loro figmenti. / Onde poi l’uomo saggio / Segue miglior viaggio»10. Nessuna meraviglia che nei capitoli si trovi eco di dibattiti che potevano anche aver avuto una genesi molto lontana nel tempo e che erano destinati 8 Nel senso in cui l’espressione è usata a proposito di Ariosto, il quale “discioglie ogni elemento di tradizione in un’elocuzione strettamente funzionale alla definizione caratterizzata di un personaggio ‘in situazione’” (P. Floriani, Il modello ariostesco, cit., p. 72). 9 Ivi, p. 138. 10 D. Barbaro, La predica dei sogni, Venezia, Marcolini, 1542, c. 6r. 730 PAOLO PROCACCIOLI [6] a riprese non univoche. Dibattiti che è nostro dovere determinare nei loro termini esatti pena una lettura viziata da una genericità sterile. Il che comporta, all’origine, una messa a punto della cronologia dei testi. È uno dei punti centrali del lavoro dei curatori, che (anche) per questo aspetto si sono messi sulle orme di Scipione Volpicella riprendendone, discutendone e integrandone conclusioni e ipotesi. Condivido e sottoscrivo la decisione di organizzare i testi secundum calendarium, e non, per esempio, per destinatario o per argomento o per etichetta (‘satira’, ‘epistola’ o ‘capriccio’ che fosse); con il che, oltre a marcare la successione delle stagioni di quella poesia, si consente di leggerla in parallelo con la storia della Napoli toledana, col risultato di accorgersi che può accadere che siano ora le parole dei documenti a chiarire il poeta, ora invece i versi a commentare da vicino la cronaca o anche la storia tout court. Un’esemplificazione rapida: la materia del capitolo a Simone Porzio “in laude di colloro che si tingono la barba e il capo”, il settimo, non è poi così esclusivamente leggera e burlesca se solo si ricorda che dagli anni Venti sia Giovan Matteo Giberti che Gian Pietro Carafa tuonavano dai loro altissimi pulpiti contro i preti barbuti e più di una volta avevano sollevato la reazione dei satirici. Quella di un Anton Lelio, per esempio, e cioè di uno dei caposcuola riconosciuti del pasquinismo (“Sapesse riformar cervelli / reformerebbe il suo de insania pieno, / e non gli abiti altrui, barbe e capelli”)11, o del Berni del Rifacimento, altro e non meno acuto osservatore del costume romano e pretesco (“il padrone [id est Giberti] / aveva con le barbe aspra quistione” [III VII 43]). A dire che le implicazioni religiose del tema sono importanti e di lunga tradizione. Né credo sia senza ulteriori implicazioni una tirata come quella che riporto: Né mi daria stupor se qualche santo di costor, ch’a lo spirto si danno ora, fesse al suo bianco pelo un negro manto. Persona, che del cielo s’innamora, si sforza diventar bella e gentile non solamente dentro, ma di fuora; s’ingegna, quanto può, farsi simíle al cielo, ove ella ha posto ogni suo aviso 11 Son. “Lo episcopo de Chieti”, citato in P. Paschini, San Gaetano Thiene, Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari Teatini, Roma, Lateranum, 1926, p. 55. [7] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 731 e fugge ciò ch’è brutto e ciò ch’è vile. Come non è vecchiezza in paradiso, cosí chi in paradiso have il suo zelo non vuol che sia vecchiezza nel suo viso. Quando un uomo da ben si tinge il pelo mostra che ’n terra elli disia parere de l’età che son quei che stanno in cielo, come anima, che in cielo ha da godere, inanzi tempo a tanto onor s’accinge e non può cosa mesta in sé vedere. (VII 34-51) E mentre, sempre per restare in argomento, non darei particolare peso a interventi testuali del tipo della variante “quel che si fe’ de la veste di Cristo” > “quel che si fa d’un vestimento tristo” di XI 153, attestata nell’importante codice marciano e registrata in apparato, la cui genesi è più che comprensibile nei decenni non proprio sereni del secondo Cinquecento, sono al contrario altamente sospette, per la loro stessa presenza prima ancora che per i contenuti, le due menzioni esplicite di Gian Pietro Carafa, quella di XII 99 (il testo è datato all’incirca al 1545), dove lo si richiama come personaggio facile alla reazione scandalizzata, e quella di XVII 270 (del ’47), in cui “il cardinal di Chieti” è compreso per antifrasi nella lista dei praticanti del gioco del “malcontento”. Due menzioni se non proprio irridenti di certo non in tutto lusinghiere di quello stesso Carafa al quale, una volta diventato papa e promulgato l’Indice romano, si ricorderà che Tansillo avrebbe richiesto invano, con la canzone “Eletto in ciel, possente e sommo Padre”, la cancellazione del suo nome dal catalogo inibitorio. 3. Un indugio sulle specificità dell’edizione. La prima notazione, rapida ma doverosa, riguarda il corpus testuale. Che registra le integrazioni intervenute rispetto alla tradizione nota, quella fissata da Volpicella nel 1870. Si tratta di due unità: l’attuale capitolo XXVI, che era stato recuperato dallo stesso Volpicella nel 1872; e il capitolo XXIV “Per la liberazione di Venosa”, tra l’altro l’unico edito da Tansillo (nel 1551), che nonostante fosse stato riproposto nel 1757 era rimasto sconosciuto all’editore ottocentesco. Se dunque per questo aspetto più che di incremento si dovrà parlare di recupero e di risistemazione di lacerti del corpus, per un altro, la ricostruzione e l’analisi della storia editoriale dei capitoli, la Nota al testo muove su un terreno vergine e segna un passo in avanti importante. Utile non tanto ai fini della discussione della lezione, dal momento che il testo non pone particolari problemi editoriali (e questo, mi pare, a confer732 PAOLO PROCACCIOLI [8] ma ulteriore di una permanenza ridotta di quelle carte sul tavolo di lavoro), quanto piuttosto per la definizione prima e la penetrazione poi di tempi e scansioni della fortuna del nostro autore. Con la descrizione accurata dei codici censiti e della serie delle stampe Boccia e Toscano danno conto infatti del particolare svolgimento e della localizzazione delle occasioni di lettura di quei testi, e permettono di ricostruire in maniera affidabile, coi tempi e i modi, anche le ragioni della loro tesaurizzazione cinque- e secentesca e della loro più tarda proposta editoriale. Ne viene illustrato un dialogo a distanza che, salvo un isolato episodio bolognese (1888) legato al recupero di tre lettere e di un capitolo (è il XVIII), sembra destinato a coinvolgere solo Napoli e Venezia. Col risultato di fare della Venezia dei primi decenni dell’Ottocento uno dei luoghi di più viva curiosità per la parola tansilliana, e in particolare proprio per la sua parola giocosa. Dove poi il dettaglio che tre delle quattro edizioni primoottocentesche sono plaquettes per nozze parrebbe indicare che quando ancora mancava un’edizione complessiva la cifra dell’occasionalità sembrava rimanere l’unica compatibile con quella poesia. E dove il fatto che l’edizione di Alvisopoli del 1834, l’ultima della pattuglia considerata, fosse condotta sulla base del codice Marciano IX 174 (= 6283), del quale riportava gli otto capitoli completi presenti (tralasciava infatti lo spezzone del XVIII), indicava la genesi tutta locale delle iniziative editoriali. I materiali illustrati nella Nota al testo dicono anche che quando nella canzone a Paolo IV sopra richiamata il poeta difendeva i suoi versi dall’effetto Vendemmiatore, e diceva quest’ultima operetta giovanile composta per “scherzar fra il Liri e ’l Sarno / non già ch’il Tebro l’ascoltasse e l’Arno”, indicava una geografia che era e sarebbe stata poi a lungo la stessa anche per i capitoli. I criteri in base ai quali è stata condotta la trascrizione, improntati al rispetto della facies grafica cinquecentesca, sono illustrati nitidamente e pienamente condivisibili, in linea con una sensibilità sempre più diffusa che induce a una valorizzazione delle specificità delle scritture del passato, anche per quanto riguarda il mantenimento di esiti poi superati. Ne risulta un dettato storicamente plausibile, non stravolto da insofferenze e appiattimenti. A voler forzare un po’ il nuovo standard si sarebbe potuto evitare di intervenire sulla grafia delle preposizioni articolate, che in qualche caso finiscono per dare vita a un balletto tra trascrizione analitica e sintetica che forse sarebbe stato più economico, e anche più rispettoso della storia non lineare dei testi, evitare, optando per l’aderenza alle for[ 9] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 733 me tràdite (penso per esempio all’effetto prodotto a I 19 dalla successione “s’a le terre et ai capi che son saggi’; o anche, a III 185, al “furatevi a le noie et ai negotii”). Del resto l’epoca prevedeva ancora ampiamente l’oscillazione grafica, e addirittura in pieno Seicento un librino aureo – cui sono da sempre affezionato, e che ora finalmente è stato recuperato, Il torto e ’l diritto del non si può del padre Bartoli – sottolineava con garbo ma con la logica implacabile dei fatti l’inutilità di tante antiche e nuove logomachie. 4. L’edizione naturalmente è soprattutto l’occasione per un accostamento ulteriore alla struttura e ai temi del testo (o meglio dei testi, dato che le ragioni metriche e retoriche che legittimerebbero una lettura unitaria non possono né negare né annullare quelle della storia). Per recuperare vecchie domande e, coi curatori, muoverne delle nuove. Per tesaurizzare spunti, mettere a fuoco dettagli, cogliere analogie o difformità. A cominciare da fatti puntuali come lo statuto dei dedicatari. Sarà un caso, verrà allora da chiedersi, che mentre la maggior parte dei componimenti di Ariosto e di Berni – e richiamo di proposito i nomi dei due capofila dei sottogeneri più rappresentativi del capitolo cinquecentesco, quello satirico e quello burlesco – e anche di quelli degli altri autori studiati dalla Longhi e da Floriani, sono diretti a amici e colleghi, quelli di Tansillo li vediamo indirizzati per lo più a signori o padroni? Non indica questo fatto, se considerato insieme al disinteresse per la pubblicazione e al ricorso all’implicito e all’allusività, la scelta di una destinazione che era anche una finalizzazione forte? A caratterizzare in senso proprio quelle terzine può essere utile l’indugio su alcuni elementi di dettaglio. Per esempio non si potrà non rilevare che mentre nel resto della tradizione comica primocinquecentesca (in Ariosto e in Aretino, ma anche nei burleschi) l’inserto linguistico spagnolo è introdotto a ridicolizzare mode e comportamenti, e in fondo a esprimere insofferenza, colla rottura dell’unità linguistica, per il nuovo orientamento politico, in Tansillo, e proprio perché quegli inserti sono interni a un discorso rivolto direttamente quando non esclusivamente ai padroni, il ricorso all’una e all’altra lingua è – sembra diventare – un tratto di legittimazione culturale di una realtà politica bipolare. E anche una legittimazione della propria biografia, almeno così come risulta dichiarata dal noto passaggio del secondo capitolo (vv. 154-168) nel quale il poeta confessa che a forza di frequentare gli spagnoli è diventato spagnolo anche lui e non sa più quale sia la sua lingua. 734 PAOLO PROCACCIOLI [10] Né saprei come ignorare le sollecitazioni dei commentatori a considerare la particolare geografia, una geografia del potere e degli affetti, che di capitolo in capitolo viene a stringere in un nodo strettissimo gli itinerari della militanza politica e quelli della memoria personale. Col risultato di aprire di volta in volta intorno al nostro poeta un doppio orizzonte: che per il Tansillo soldato è quello sterminato rappresentato dal Mediterraneo e dalle sue sponde; mentre per il cortigiano è quello più ristretto del Regno a fare da scenario alla mondanità e alle amicizie e ai riti connessi. Per cui a seconda delle circostanze l’occhio si poserà ora sulle coste tunisine o della Grecia, ora su Napoli, su Nola (coi suoi 12 riferimenti e coll’elogio dei vv. 155 ss. del capitolo XXIV), e su Venosa (la cui “liberazione”, ricordo, è il tema del capitolo XXIV). Senza che da questo, sia detto chiaramente, risulti una gerarchizzazione delle tre città, che non sono mai né in competizione né in alternativa, sì che a Tansillo non si potrebbe attribuire nessun dilemma del tipo “Romae Tibur amem, Tibure Romam”. Un’ultima notazione, sull’impianto delle satire. Per questo aspetto potrebbe essere utile mettere a frutto un altro spunto di lettura di Floriani, che invita a guardare ai componimenti satirici anche dal punto di vista della loro estensione. Lo studioso infatti distingue nel capitolo cinquecentesco, e sulla sola base del numero dei versi, una misura grande e una breve. La breve (120-150 vv.) è quella vicina al modello bernesco, la grande (oltre i 150 vv.) è invece più ariostesca. A voler applicare la distinzione al corpus tansilliano, nel quale i capitoli oscillano tutti tra i 151 versi del XIV e i 442 del IX12, i risultati sono univoci, e ribadiscono il dominio assoluto della campitura più estesa. Quale che sia il punto di vista dal quale si parte, la centralità (non l’unicità) del modello ariostesco, dichiarata e illustrata da Toscano in un passaggio nitidissimo della Premessa, rimane confermata. 5. Alla storia di forme e di temi raccontata dalla critica negli anni Ottanta del secolo scorso e più volte richiamata, storia che avrebbe dovuto tradursi subito in un recupero testuale di quella particolare tradizione come ovvia operazione di verifica degli assunti proposti, ha fatto seguito un evidente disinteresse per la materia. E gli autori 12 Nel dettaglio: sono tra i 150-200 vv. i capitoli XI, XIII, XIV, XX, XXIII; tra 201-250: II, III, V, VI, VII, X, XV, XVI, XVIII; tra i 251-300: I, IV, XXI, XXV, XXVI; 301-350: XVII, XIX; 351-400: XII, XXII, XXIV; oltre 401: VIII, IX. i capitoli III e XX sono giunti mutili. [11] PER TANSILLO GIOCOSO. IN MARGINE ALL’EDIZIONE DEI CAPITOLI 735 e i testi chiamati in causa dalla Longhi e da Floriani sono rimasti ancora in gran parte affidati alle cinquecentine. Quasi che, rovesciando gerarchie e priorità, le riflessioni sul sistema e sul genere abbiano chiuso e non aperto il problema, e quasi che il corpus testuale sia stato un pretesto per un esercizio di lettura e non lo scopo ultimo e vero del lavoro critico. Per questo, anche per questo, all’edizione dei Capitoli bisogna guardare con occhio grato e compiacersi del fatto che a aprire la serie delle pubblicazioni tansilliane e a ricordare il poeta nel quinto centenario della morte sia proprio questo volume. Per quanto, paradossalmente, si tratti di un volume mai immaginato come tale dal poeta e per il quale non disponiamo neanche di un titolo d’autore. Caso o no, sia di buon auspicio per una visione meno convenzionale del pieno Cinquecento il fatto che proprio le terzine giocose e satiriche aprano la strada che porterà presto – così dice il programma editoriale – al lirico delle Rime e al cantore delle Lagrime di san Pietro. Insieme al corpus dei capitoli, alla ricostruzione della loro tradizione testuale, al loro commento puntuale e aggiornato, Toscano e Boccia danno al lettore anche nitide prospettive di analisi dei materiali da loro editi. Lo fanno rispettivamente nella ‘Premessa’ e nell’‘Introduzione’. La prima mentre ripercorre le stagioni della fortuna critica dell’autore riflette sulle ragioni di una presenza tanto defilata nei panorami otto- e primonovecenteschi delle patrie lettere. Richiama le urgenze ideali e ideologiche di De Sanctis; allude alle insofferenze di Croce; ma anche, a registrare il modificarsi progressivo del punto di vista, sottolinea le sollecitazioni di Dionisotti a muovere finalmente verso una perlustrazione piena e non pregiudiziale degli scenari, coll’invito conseguente a censire voci e presenze in vista di una valutazione più consapevole e più storicamente fondata. Insieme, rievoca i destini antichi e moderni delle carte e delle testimonianze tansilliane. Il tutto, e è dettaglio che vale di per sé una lezione, nella consapevolezza dei debiti contratti con chi nel tempo si è accostato agli stessi argomenti: “è buona norma che la filologia dei nipoti, anche quando proceda oltre, tratti con rispetto la filologia degli antenati” (p. 14). Boccia, che apre la sua Introduzione colla messa a fuoco dello scenario napoletano, recupera poi i termini propri del precedente satirico ariostesco. Richiama, e è indicazione preziosa proprio ai fini della penetrazione del dettato tansilliano, le acquisizioni della critica più avvertita in merito alla natura specifica delle Satire rispetto al 736 PAOLO PROCACCIOLI [12] Furioso. In particolare in materia di destinazione del testo, che nei ternari è circoscritta senza essere del tutto privata, mentre è allargata e pubblica nelle ottave; non a caso testi destinati il primo a una circolazione manoscritta e il secondo alla stampa. Ma Tansillo non è solo satira, e accanto a Ariosto Boccia recupera la sollecitazione bernesca. Nota anche che non è l’unico a modulare l’uno e l’altro canto, ma è tra i non molti a farlo in contemporanea. E questo quasi che la sua tela non potesse limitarsi alla tessitura di un solo filo, e che, al pari di quella ‘alta’, anche la sua visione ‘bassa’ delle cose avesse bisogno di una dialettica di registri e di prospettive e con essi di forme e di toni. Alla quale tela, a guardarla con occhio meno irenicamente consentaneo, si dovrà dire che erano preclusi, con ogni spazio di critica aperta, anche ogni forma di messa in discussione del potere e delle sue incarnazioni. Al punto che non sarebbe fuori luogo concludere dall’attraversamento della poesia giocosa tansilliana che la Napoli toledana pur senza essere del tutto agelasta tollerava il riso solo nelle forme di una corrispondenza privata e occasionale. Quella appunto testimoniata oltre che dalle scelte tematiche e lessicali delle terzine anche dalla storia e dallo stesso destino dell’intera serie dei Capitoli, nessuno dei quali infatti deroga dai principi del “natural rispetto” e della “vergogna” dichiarati al principe di Bisignano (cap. XI 89) e, si converrà, fondamento irrinunciabile di ogni classicismo, soprattutto di quello svolto in veste comica. Paolo Procaccioli (Università di Viterbo) DANILO ROMEI Per “Satire” e “Caprici”: Tansillo, Berni (ed altri) Luigi Tansillo’s Capitoli take Ariosto and Berni as their models. Some influences from Aretino are also to be taken into account, as we can infer from the program implicit in the sentence «dir ben del bene e mal del male». However, the poet’s major choice is not to be seen in his use of paradox or denunciation, but in the humble though dignified way he hold talks with those in power: a sort of Horatian deminutio sui. Vorrei iniziare con una constatazione banalissima, che però credo non sia mai stata formulata. Il Tansillo è il solo poeta “bernesco” meridionale del Cinquecento1. È una singolarità (come dicono gli astronomi) e come tale non dovrebbe esistere. Veramente non esiste neppure un “libro” del Tansillo intitolato Capitoli. Come, del resto, non esiste un “libro” intitolato Rime o Canzoniere. Il libro che noi leggiamo fu inventato da Scipione Volpicella nel 18702, con un addendum del 18723. Intendo dire che – per quanto si sa – l’autore non ha mai concepito un progetto organizzato di capitoli ternari satirico-giocosi. La tradizione del testo sembra anche indicare che non si sia mai dato pena di raccogliere e ordinare quello che aveva scritto4. Siamo di fronte a componimen- 1 A dire il vero Vincenzo Di Maria dà notizia di un Capitolo in lode della torta (in lingua) che sarebbe stato scritto da Mariano Bonincontro, poeta dialettale panormitano. Vedi I poeti burleschi dal 1500 al 1650 ordinati e annotati con nuovi criteri storico-filologici. Introduzione, profili critico-biografici e traduzione a fronte in versi italiani di V. D. M., Catania, Tringale («Collana di letture siciliane»), 1978, p. 88. Ma non se ne sa nulla di più. 2 Capitoli giocosi e satirici di Luigi Tansillo editi ed inediti, con note di S. Volpicella, Napoli, Libreria di Dura, 1870. I precedenti editoriali sono trascurabili dal punto di vista del nostro discorso. 3 Capitolo dell’ospite di Luigi Tansillo, «Rendiconto delle giornate dell’Accademia Pontaniana», xx (1872), pp. 15-26. 4 L’autore ha pubblicato, vivente, il solo Capitolo per la liberazione di Venosa, [Napoli, M. Cancer], 1551, che ci è pervenuto in un solo esemplare acefalo posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Napoli. 738 DANILO ROMEI [2] ti “spicciolati”, dispersi, che non si aggregano in un ordine superiore (e nemmeno posteriore), ma al massimo in combinazioni di due o tre pezzi. E infatti di solito i capitoli del Tansillo hanno un titolo e una dedica5. Se hanno un titolo sono lettere, satire o capricci. Se non hanno un titolo ma solo una dedica sono lettere. Si badi, per altro, che i titoli sono in qualche misura intercambiabili. Le lettere e le satire (nell’accezione oraziana e ariostesca in cui le concepisce il Tansillo) lo sono per definizione. Anche satira e capriccio sono in qualche modo intercambiabili, come avviene nel Capriccio al signor Mario Galeota… nel quale si prova che non si debba amar donna accorta, che risulta partito in due satire. Basterebbe questo a dimostrare che non siamo imprigionati in un genere letterario rigido, canonico, codificato: prevedibile se non proprio precettivo. Del resto è noto a tutti che la produzione satirico-giocosa del Tansillo orbita attorno a due fuochi: la satira ariostesca e il capitolo bernesco6. Le date sono illuminanti. Le Satire dell’Ariosto vengono pubblicate nel 1534: nel 1537 circa il Tansillo scrive la sua prima satira. I Capitoli del Berni (e del Mauro) vengono pubblicati per la prima volta nel 1537: nel 1540 il Tansillo esordisce con lettere e capricci. Il primo di quei fuochi aveva un’autorizzazione classica forte: quell’Orazio venosino tanto amato dal Tansillo. Però apparteneva nello stesso tempo alla zona più tormentata, polemica e oscura dell’opera ariostesca. Non per caso le Satire furono “nascoste” dall’autore e pubblicate soltanto dopo la sua morte. Il secondo fuoco (quello bernesco) era perturbato – come dicono gli astronomi – dall’interferenza gravitazionale del primo. In parole povere il Berni e i berneschi non ignoravano le Satire inedite dell’Ariosto, le apprezzavano, le mettevano a frutto nelle loro scritture. Il capitolo epistolare bernesco va nella direzione di una colloquialità più affabile e quotidiana, meno amara e risentita di quella ariostesca, ma le convergenze non si possono spiegare invocando soltanto una comune matrice oraziana7. Tuttavia, accanto all’epistola in versi, la 5 Fanno eccezione, ovviamente, i capitoli acefali (iii e xx), che non hanno né l’uno né l’altra. 6 Un sistema con due fuochi, occupati entrambi da una sorgente gravitazionale, è un sistema instabile. Rischia derive imprevedibili, se non finanche il collasso. 7 Del resto il Berni mostrava di conoscere le Satire dell’Ariosto già nel Dia[ 3] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 739 componente più specifica del nucleo bernesco resta quella del capitolo paradossale, che il Berni in persona aveva chiamato capriccio, parlando familiarmente al cuoco maestro Piero Buffet: […] va’, leggi ad uno ad uno i capitoli miei, ch’io vo’ morire se gli è suggetto al mondo più digiuno. Io non mi so scusar se non con dire quel ch’io dissi di sopra: e’ son capricci ch’a mio dispetto mi voglion venire, come a te di castagne far pasticci8. A me incombe ragionare proprio di questo nucleo. Dopo questa tiritera cerchiamo di procedere con ordine. Credo che il Tansillo nomini il Berni una volta sola nei suoi scritti. Cominciamo da qui, ovvero dal capitolo xi Al prencipe di Bisignano, dove si legge: Se tanto io vivo ch’a imbiancar le vegna, [le chiome] fra questo mezzo non vi spiaccia ch’io giochi con questo stil che ’l tempo insegna, e lassando l’usato camin mio ne vada un poco dietro al Bernia e al Mauro, per domandar a voi quel che disio9. Come si vede, al Berni si affianca senz’altro Giovanni Mauro d’Arcano. Siamo verso il 154510 e a quest’altezza il binomio non può logo contra i poeti, pubblicato quasi certamente nel 1526. Vedi in proposito D. Romei, Tre episodi di un dibattito minore: Giraldi, Ariosto, Berni, in Id., Berni e berneschi del Cinquecento, Firenze, Edizioni Centro 2P, 1984, pp. 5-47; e poi in Id., Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534), Manziana, Vecchiarelli Editore («Cinquecento», Testi e Studi di Letteratura Italiana / Studi, 21), 2007, pp. 151-180. 8 Capitolo il laude d’Aristotele, vv. 100-106. Cito da F. Berni, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia («G.U.M.», 63), 1985, p. 152. Si noti tuttavia che il Berni non ha mai utilizzato capriccio nei suoi titoli. 9 Cito da Luigi Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T.R. Toscano, Nola, l’arcael’arco edizioni, 2010. 10 Questa è la data proposta da Erasmo Pèrcopo in L. Tansillo, Il canzoniere edito ed inedito secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe con introduzione e note di E. Pèrcopo, i, Poesie amorose, pastorali e pescatorie, personali, famigliari e religiose, Napoli, Tipografia degli Artigianelli («Biblioteca di scrittori meridionali», 1), 1926 [rist. anast. a cura di T.R. Toscano, Napoli, Consorzio Editoriale Fridericiana – Liguori Editore («Fridericiana historia»), 1996], p. clv, senza per altro addurre pezze d’appoggio alla datazione. Non ne aveva detto 740 DANILO ROMEI [4] meravigliare: in quegli anni si disputava precisamente a chi spettasse il primato nella poesia giocosa, se al Berni o al Mauro11, con i toscani che levavano sugli scudi il Berni per la sua “naturalità” e i lombardi che anteponevano il Mauro per la sua “leggiadria”. Al contesto torneremo. Mi preme adesso citare un altro passaggio (fondamentale per il nostro discorso) che riveste per molti aspetti una funzione inaugurativa. Si tratta del capitolo iv, Capriccio in laude della galera: il primo, appunto, dei capricci. Siamo nel 1540. Al suo acre paradosso Tansillo premette (ai vv. 28-36) una puntigliosa prec i s a z i o n e : Non è il mio de’ capricci e de le vene che corron sí per Roma oggi e tra preti, di che, piú che del mar, nausia mi viene. Vorei che i buon scrittori e i buon poeti dicesson ben del bene e mal del male, come appertiene agli uomini discreti. Chi celebra il pistel, chi l’orinale, et a suggetto spendono gli inchiostri ch’a l’onor poco, a l’utile men vale. Di chi parla il Tansillo? Parla del primo gruppo di berneschi che fiorì a Roma negli anni trenta. Ad esso il Berni in persona assegnava il titolo impegnativo di «accademia»12. Questo gruppo si conosce con il nome tradizionale di “Vignaiuoli”. In realtà il nome nasce da un equivoco. Nel Settecento il benemerito Francesco Saverio Quadrio, nella sua sterminata sistemazione della poesia italiana, confuse questo gruppo informale con un’accademia inventata dal Doni nei Mondi13. Da allora l’equivoco si è perpetuato. A dire il vero quest’«accanulla Scipione Volpicella nella sua edizione; tuttavia, collocando il capitolo tra il capitolo x Al signor Bernardino Martirano (datato ante 1546) e il xii Al signor Giulio Cesare Caracciolo (datato probabilmente al 1545), mostrava di reputarlo ascrivibile a questa età. 11 Vedi in proposito D. Romei, Roma 1532-1537: accademia per burla e poesia “tolta in gioco”, in Berni e berneschi, cit., pp. 49-135 (in part. le pp. 69-70); e poi in Da Leone X a Clemente VII, cit., pp. 205-266 (in part. le pp. 226-228). 12 Lettere a Giovan Francesco Bini del 27 dicembre 1533 e del 12 aprile 1544 e a Carlo Gualteruzzi del 7 maggio 1535 in F. Berni, Poesie e prose, a cura di E. Chiorboli, Ginevra-Firenze, Olschki («Biblioteca dell’“Archivum Romanicum”», i, 20), 1934, pp. 344-345, 351, 366. 13 Vedi A.F. Doni, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, Introduzione di M. Guglielminetti, Torino, Giulio Einaudi Editore («I millenni»), 1994, pp. 20-22. [5] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 741 demia» non aveva una sede, non aveva uno statuto, non aveva rituali, non aveva scadenze solenni, non aveva pseudonimi. Si sa soltanto di saltuarie riunioni conviviali in ville suburbane, che la facevano somigliare piuttosto a una sodalitas umanistica che a un’accademia propriamente intesa. La poesia del Berni era rimasta solitaria per un decennio. Improvvisamente, a Roma, all’inizio degli anni trenta, al Berni si affianca un gruppo di emuli-imitatori che rispondono ai nomi di Francesco Maria Molza, Giovanni Della Casa, Giovanni Mauro d’Arcano, Giovan Francesco Bini, Agnolo Firenzuola, Mattio Franzesi, Gandolfo Porrino, con presenze significative di non poetanti come Annibal Caro e Carlo Gualteruzzi, per non dire dei minimi. I nomi non sono da poco. Il gruppo, oltre a influire sull’ultima fase della poesia del Berni, fece da filtro alla ricezione nazionale del bernismo, divulgando le proprie scelte. È per la selezione operata da questo gruppo se il bernismo è fatto quasi soltanto di capitoli (con la preterizione del sonetto e della sonettessa) ed è fatto di capitoli concepiti in un certo modo: il capitolo di lode paradossale (con la filiazione del capitolo di biasimo) e il capitolo epistolare (con frequenti sviluppi narrativi). Questi personaggi, se non sono proprio dei «preti» (come dice il Tansillo), sono comunque dei “chierici”: o vivono di rendite ecclesiastiche o sono al servizio di alti prelati o si annidano – in ogni caso – nelle propaggini della gerarchia cattolica e risiedono nella capitale della cristianità. All’esterno il loro prodotto poetico più clamoroso non poteva non apparire quella variante del paradosso che si fondava sull’equivoco sessuale. In verità nella poesia dei cosiddetti “Vignaiuoli” si celavano ben altri veleni, come quelli che serpeggiano in molti versi del Mauro, sospettabile di un eretico nicodemismo, o come quelli che traspaiono da molti versi del Berni, che corse tutta la vita sul filo di rasoio che separa i reprobi dagli eletti. Ma certo risultavano assai più appariscenti (anche se alquanto più banali) le fave e i fichi, il mal francese e il legno santo, la salsiccia e le mele, in quest’ultimo carnasciale romano, incuneato tra il selvaggio mattatoio del sacco del 1527 e la scientifica epurazione programmata dal concilio di Trento. Era questo che scandalizzava il poeta pentitissimo (ma era vero?) del «giovenile errore» delle Stanze di coltura sopra gli orti delle donne. Tuttavia, a guardar bene, quella poesia romana, che stimolava gli appetiti e gli sdegni del Tansillo e che gli appariva di stretta attualità, era già in via di esaurimento, se non addirittura liquidata 742 DANILO ROMEI [6] del tutto. A Roma, nel 1540, quando scrive il Tansillo, sono in auge accademie assai più composte, se non proprio impettite: lo Sdegno, la Vitruviana, la Nuova Poesia. Come si vede, è già un’altra storia. Oltre a ciò, il gruppo romano non è il solo che si deve convocare a riscontro dei versi del Tansillo, anche se lui non dice nulla di esplicito. Tuttavia a un occhio esercitato non sfuggirà il v. 32 del brano che abbiamo appena letto: Vorei che i buon scrittori e i buon poeti dicesson ben del bene e mal del male […]. Vi compare una citazione quasi letterale, che ritorna quasi alla lettera al v. 31 del capitolo ix, ovvero la Satira seconda al signor Mario Galeota della donna accorta (che si è già nominata): S’a ragionar di ciò fussero entrati Lucilio, Oratio, Persio, Giovenale, e quanti ne saranno e ne son stati che dican ben del bene e mal del male, non avriano in due satire, ma in cento stesa la tela d’un soggetto tale. Ebbene, la formula del «dir ben del bene e mal del male», che diventerà la bandiera di combattimento della satira italiana, compare per la prima volta – che io sappia – al v. 225 del capitolo Al Re di Francia di Pietro Aretino: so dir bene del bene e mal del male14. Il capitolo, datato dicembre 1539 (vv. 239-240), era appena stato pubblicato, in quello stesso 1540, nei Capitoli del S. Pietro Aretino, di M. Lodovico Dolce, di M. Francesco Sansovino, e di altri acutissimi ingegni, [Venezia], per Curzio Navó e Fratelli, mdxl. Ora, com’è noto, l’Aretino e il Berni erano nemici mortali. L’Aretino, per giunta, aveva più volte espresso pubblico disprezzo per la poesia bernesca. Però la pubblicazione dei suoi Capitoli nel 1540 portava con sé la stampa nello stesso volume dei berneschi veneziani, in particolare di Lodovico Dolce e di Francesco Sansovino, che andranno acquisiti agli atti. Ma il punto che importa di più non è 14 Cito da P. Aretino, Poesie varie, a cura di G. Aquilecchia e A. Romano, tomo i, Roma, Salerno Editrice («Edizione nazionale delle opere di Pietro Aretino», i), 1992, p. 157. [7] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 743 tanto l’ampliamento dell’anagrafe culturale del Tansillo, quanto un interrogativo che sorge spontaneo. Che cosa vuol dire che in contrapposizione all’oscena e squalificata poesia dei «preti» romani il Tansillo inasti una bandiera aretiniana, che sventolerà di nuovo in coda all’elenco dei più accreditati satiristi latini? Vuol dire forse che il Tansillo ripudia il bernismo per adottare una “poetica” che guarda almeno alle dichiarazioni di principio del “flagello dei principi”? La risposta non può essere semplice e sarà per il momento accantonata. Voglio invece completare il quadro della cultura bernesca del Tansillo con altri due paragrafetti. Primo: come si sa, il Tansillo era in corrispondenza con i fiorentini. Mi pare probabile che conoscesse i versi berneschi di Benedetto Varchi; probabilmente conosceva qualcosa di Agnolo Bronzino15; non so se potesse conoscere qualcosa di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca: doveva in ogni caso conoscere la celebre antologia giuntina del 1548 che fu da lui curata e che fu, tra l’altro, ristampata tre volte. Secondo: fra i poeti che coniugarono nei loro versi Ariosto e Berni si deve accreditare almeno il bolognese-ferrarese Ercole Bentivoglio, al quale compete – fra l’altro – il primato cronologico. La stampa delle sue terze rime si attenderà fino al 154616, però non mi sembra impossibile che i versi sdegnati che il Bentivoglio scrisse sull’assedio di Firenze fossero noti a chi scrisse pochi anni dopo versi non meno sdegnati sulla guerra di corsa nel Mediterraneo. Infine è senza dubbio significativo che un gruppetto di autori di satire alla bernesca (per adottare un titolo emblematico) corra le sue modeste fortune in parallelo al Tansillo. Tuttavia non trovo riscontri puntuali che possano provare una reciproca familiarità. E ora vediamo di stringere il discorso. Nessuno – ovviamente – si meraviglia se il Tansillo ostenta noncuranza o persino vergogna (i 66) di questi suoi versi. Altro non sono che baie e ciancie17, pazzie18 e strane fantasie senza merito e senza costrutto: 15 Non mi pare, tuttavia, che ci siano rapporti evidenti fra i due capitoli della galera del Bronzino e i due capitoli della galera del Tansillo. 16 Le satire et altre rime piacevoli del Signor Hercole Bentivoglio. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, mdxlvi. Fa eccezione il capitolo Al S. Abbate Zambeccaro, già comparso nei citt. Capitoli dell’Aretino del 1540, cc. 44v-47v. 17 «Queste baie ch’io scrivo e queste ciancie […]» (xix 274). 18 «Piú tosto una fiumana di pazzia / dal capo esser potrà che mi si scioglia, / che un picciol ruscellin di poesia» (i 184-186). 744 DANILO ROMEI [8] Una assai strana e nova fantasia io scrissi al Galeota, e non so come m’entrò nel capo quella bizzarria. Già non sperava d’acquistarne nome, ché per condurre a fin questa speranza bisogneria sudar sotto altre some. Piú per conversation che per baldanza, anch’io con gli altri presi la viola e sonar volsi a questa nova usanza. Io fei come fa quel de la Fragòla, che sona il Conde d’Haro e canta l’Appia per far come fan gli altri a la spagnuola. E non cantai le fave o i torsi o l’appia, ma mostrai con essempi e con ragione che non si debba amar donna che sappia […]. (x 1-15) È vero che si può rivendicare un dettato che non è destituito d’ogni regola d’arte («so ben esser rettorico e poeta» [ix 11]), tuttavia lo stile resta irrimediabilmente pedestre (come la musa minore di Orazio). In conclusione sono capricci che bisogna in ogni caso sfogare, perché non guastino gli umori: Èmmi un desio ne l’animo venuto, o vogliam dir capriccio, il piú sollenne che mai si sia né letto, né saputo. Simil capriccio in testa d’uom non venne, abbia pur tempie anguste e capel riccio, da che fur le parole e fur le penne. Mi scuoto il naso e gli occhi mi stropiccio, per veder s’io son desto o s’egli è sogno e trovo pur alfin ch’egli è capriccio. Trovo ch’egli è capriccio e ch’è bisogno ch’io il ponga in carte, e non mi giova scusa che d’usar stil pedestre io mi vergogno. Insomma vuol la mia giocosa Musa, fra l’altre cose strane ch’ella narra, lodar la Gelosia che ’l mondo accusa. Non sarà questa cosa men bizarra che fu il lodar ch’io fei de la galera e il maledir de’ cocchi e de le carra. E son questi capricci di manera, ch’a tenerli entro al cor non è gran fatto ch’uom talor se n’ammali e se ne pèra. (xxi 55-75) [9] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 745 Il copione è scontato: nient’altro diceva il Berni o dicevano i berneschi delle loro «filastrocche e tantafere». Al massimo si può proclamare la novità e l’ardimento del paradosso: L’intento mio fu dir novo pensiero, che provandol riporta maggior laude, quanto piú lunge se ne va dal vero. Per la sua novità, non per la fraude, stimai che fusse il preso tema buono, poi ch’a la novitade il mondo applaude19. Ma non è la componente paradossale l’aspetto dei Capitoli che m’interessa di più. La pregnanza ideologica dei paradossi tansilliani appare di solito modesta. Mi sembra assai più interessante il fatto che allo stile pedestre (che è nello stesso tempo oraziano, ariostesco e bernesco) e alla poesia dello scherzo o comunque del colloquio familiare si deleghi una forma speciale di comunicazione con il potere (in occasioni liete e festive, ma soprattutto in circostanze spinose). Il dialogo del servitore con il padrone passa anche di qui. Nessuno deve prendere in mala parte i termini che ho usato (servitore/padrone): sono i soli che siano adeguati alla società e alla cultura del Cinquecento. Del resto il servire (con i suoi impegni, i suoi disagi, la sua fede, il suo premio) è uno dei temi preminenti dei Capitoli. A me interessa come il servire si esprime. Diciamo subito che, in una cultura molto più cerimoniosa e incline all’iperbole di quanto non sia tollerato dalle consuetudini attuali, l’encomio del padrone non solo rientra nella buona creanza ma è un dovere del servitore. Del padrone si dice bene per forza. Viceversa non si può dir male. Chi dice male del suo padrone non soltanto si rende colpevole di una imbarazzante malcreanza, ma si macchia di un vero e proprio tradimento, ovverosia di un’azione altamente disonorevole. È vero che ci sono persone sciagurate che del tradimento hanno fatto una norma di vita. Il Berni, per esempio. Ha tradito prima i Bibbiena; poi ha tradito due volte il vescovo di Verona Giovan Matteo Giberti; poi ha tradito il cardinale Ippolito de’ Medici; infine ha tradito Alessandro de’ Medici, primo duca di Firenze, suo legittimo signore, rifiutandosi di propinare il veleno per conto suo al cardinale Giovanni Salviati. Ne è stato giustamente punito, finendo avvelenato a sua volta. Almeno così si dice20. La cosa non è certa, 19 Capitoli x 40-45. E vedi viii 51: «questo mio sí bravo paradosso». 20 Vedi Francesco Berni. Con documenti inediti, per A. Virgili, Firenze, Successori Le Monnier, 1881, pp. 491-507. 746 DANILO ROMEI [10] ma verisimile. A dire il vero aveva tradito anche un amasio fanciullo che si era ammalato di peste, scappando a gambe levate. È il solo tradimento di cui si sia accusato. Va da sé che ogni tradimento comportava una fuga: un’altra azione altamente disonorevole. Ma il Tansillo era un soldato e i veri soldati tengono in ben altra considerazione la fede, la disciplina e l’onore. E a chi poteva rinfacciargli di servire gli spagnoli rispondeva di non avere alternative21. Nel suo paese i soldati dipendevano dal viceré, che li comandava in nome del re di Spagna, legittimo signore. Che altro poteva fare? Dunque il programma della satira (dire «ben del bene e mal del male» come fecero «Lucilio, Oratio, Persio, Giovenale» [x 29]) è per principio dimezzato. Il Tansillo, che ovviamente non si astiene dal dir bene, non si permette mai di dir male dei grandi (si permette di dir male soltanto dei piccoli)22. Con una (perniciosissima) eccezione: i «preti» in generale e in particolare Giovan Pietro Carafa, vescovo di Chieti, che diverrà nel 1555 papa Paolo iv, nominato due volte in modo assai poco riguardoso23. Forse gli appariva ancora piccolo (e risibile). A proposito. Tutti sanno che l’indice dei libri proibiti del 1559, voluto proprio da Paolo iv, condannava in solido «Aloysij Tansilli 21 Vedi Capitoli ii 161-165: «Il viver con Spagnuoli, il gire in volta / con Spagnuoli m’han fatto uom quasi novo / e m’hanno quasi la mia lingua tolta. // Non pecco se da’ nostri io mi rimovo: / poiché ’l bisogno mio da lor non aggio / è forza ch’io me ’l pigli da chi ’l trovo». E al vicerè diceva: «Signor, send’io spagnolo d’affettione / piú che di patria voi […]» (xxiii 160-161). 22 E già questo, a metà del secolo, è in controtendenza. Infatti, se l’Ariosto rischiava addirittura di rubare il mestiere al Pistoia e all’Aretino (vedi Satire vi 94-96), non negandosi affatto una nominale maledicentia, nel 1565 il casertano Lodovico Paterno pubblicava una Lettera dove si discorre della Latina, et Thoscana Satira: et s’insegnano alcuni avvertimenti necessarij intorno allo scrivere delle moderne Satire, enunciando un prudente principio di referenza impersonale: «I nomi delle persone, che si mordono, io per me terrei sempre a bene, che si stessero, quanto si può, celati: il che riuscirà comodissimo, o si togliano a caso, o sotto significative voci d’altri nomi, sì perché militiamo nella Cristiana religione, sì eziandio per li pericoli infiniti, ne’ quali, facendosi il contrario, precipitosamente si potrebbe incorrere. A’ morti perdoneremo pazientemente […]» (cito per comodità da Satire di Iacopo Soldani… ed altri, Londra [ma Livorno, Masi], 1787, pp. 182-183). A partire da questa data il principio dell’“impersonalità” della satira si afferma universalmente in Italia. 23 Prima a xii 99 («O che m’urti, o m’allordi, o ’l passo vieti, / schivar non posso, o altro che farebbe / scandalizzar il cardinal di Chieti») e poi a xvii 270 («E m’han giurato piú di quattro preti / che non passa mai giorno, et ora forse, / che non vi giochi [al gioco del malcontento] il cardinal di Chieti»). [11] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 747 carmina» (c. [Aiij]r) e «Tansilli Aloysii Poemata» (c. [Hiij]r)24. Sarà un caso? In ogni modo la canzone A papa Paolo quarto, che il Tansillo si precipitò a comporre, proclamava la più stretta osservanza, manifestava la più umile contrizione, prometteva la più fervida lode, purché, sacrificato il Vendemmiatore, si salvasse il resto della sua poesia. Ma di certo nessuno avrebbe potuto salvare i Capitoli, che forse non erano ignoti a chi di dovere e che erano molto più pericolosi di quei giovanili versi licenziosi. E qui si precisa la distanza da Pietro Aretino e dal programma che si poteva cavare dai suoi versi. Nella sua roccaforte di Venezia il «secretario del mondo», l’«uomo libero per grazia di Dio», il «flagello dei principi» riuscì a patteggiare fino all’ultimo la sua (condizionata) indipendenza. (Se fosse vissuto qualche anno di più sarebbe finito male). Quell’indipendenza era la premessa necessaria per praticare non un astratto moralismo, ma concrete e proficue transazioni. Il verso dell’Aretino andrebbe così completato: «so dir bene del [mio] bene e mal del [mio] male»: so celebrare chi mi favorisce e denigrare chi mi ignora o mi nuoce. Non per nulla era un ammonimento al re di Francia. L’indipendenza il Tansillo non l’ha avuta mai. Per giunta come servitore scontava un verecondo pudore, un’onesta vergogna – come dice lui – del dire, del chiedere, del protestare: Qual il debito sia, qui non lo scrivo, dirollo a bocca, s’il rossor nol vieta, che m’ha talor della parola privo. Sia cosa buona, o mala, o trista, o lieta, quando de’ fatti miei parlar bisogna io son mal orator, peggio poeta. Chi il crederà, benché non sia menzogna, che spesso ho per parlar la lingua mossa e sempre m’ha tenuto la vergogna? La carta si sòl dir che non arrossa. Meglio è dunque ch’io scriva quel che voglio, perché l’intento mio seguir si possa. Poiché mal volontier la lingua scioglio, datemi gli occhi in vece delli orecchi: l’ufficio della lingua faccia il foglio. 24 Vedi J. Martinez De Bujanda, Index des livres interdits, avec l’assistance de M. Richter, 11 voll., Sherbrooke/Montréal-Genève, Éditions de l’Université de Sherbrooke / Médiaspaul – Librarie Droz (Centre d’Études de la Renaissance de l’Université de Sherbrooke), 1984-2002, vol. Index de Rome 1557, 1559, 1564. Les premiers index romains et l’index du Concile de Trente, 1990. 748 DANILO ROMEI [12] Proprio questo pudore gli rimproverava amichevolmente l’Aretino in una lettera che non ci è pervenuta. E il Tansillo, mostrando di scusarsi di questo suo «difetto», in realtà pungeva la leggendaria sfrontatezza e la spregiudicata autocelebrazione del corrispondente, che in nessun modo gli si poteva attagliare: Non è gran tempo che me ne riprese con una lettra sua Pietro Aretino, che questo vitio mio per fama intese. Io gli risposi: – Pietro mio divino, e qual uom si può togliere un difetto datoli da natura o da distino? Io so che nòce a me questo rispetto via piú che ’l suo contrario a voi non giova. Ma non ne posso far altro in effetto, piú d’una volta già n’ho fatto prova. – (ix 94-103) E si capisce bene come la citazione aretiniana non potesse essere per il Tansillo né un programma né una onorevole bandiera di combattimento. Al contrario tornava al proposito la deminutio sui, l’umiltà autoironica che avevano insegnato Orazio, Ariosto, Berni. Un’umiltà, ben inteso, che non escludeva affatto la fermezza quand’era necessario e che aveva un suo risvolto di scaltrezza. Per comunicare con il potere al Tansillo giovava assumere, se non proprio una maschera buffonesca come piaceva fare al Berni, almeno vesti tutt’altro che curiali, uno stile pedestre, un’apparenza di scherzo familiare. Giovava per la richiesta (la moglie [xviii], il cavallo [xxiii], la liberazione di Venosa dalle servitù militari [xxiv]), giovava per il dono (xvi, xxv), giovava per gli intrattenimenti e i giochi di società (vi, xvii). Giovava soprattutto quando il rapporto con il potere rischiava di esplodere in un conflitto rovinoso, quando l’«enoscio» del padrone innescava una naturale «temenza» (xiii 15). Era, anzitutto, una scelta di dignità, escludendo per principio le forme più ostentate e indecenti di piaggeria. L’aveva insegnato l’Ariosto, quando, per dar voce alla sua amarezza di cortigiano deluso e al suo risentimento contro il cardinale Ippolito d’Este, non aveva intonato lacrimevoli elegie, ma, «appiattando» il «capo calvo» sotto il «cuffiotto»25 – in vesti comiche anziché curiali –, aveva affidato le sue ragioni a un oraziano stile pedestre. E non diversamente 25 Satire i 217-219. [13] PER “SATIRE” E “CAPRICI”: TANSILLO, BERNI (ED ALTRI) 749 aveva fatto il Berni, che, richiesto dal suo prossimo padrone di dar saggio di acconci encomi a guisa di caparra del futuro servizio, aveva promesso incontanente di dar fiato alle trombe del giudizio e aveva levato alle stelle il suo nano26. È questo uno dei punti di più flagrante contatto tra Berni e Tansillo, che, com’è noto, non si negò a celebrare il «signor Sanseverino nano favoritissimo del signor Principe di Bisignano» nel Capriccio in laude del giuoco del malcontento (Capitoli xvii), debitore nondimeno della Primiera bernesca. Era nello stesso tempo una scelta difensiva. I giullari di ogni tempo e paese sanno bene che non ci si può adirare con chi parla per scherzo, neppure se dice cose sgradevoli. Il gioco instaura una specie di zona franca, in cui le regole degli ordinari portamenti sembrano allentarsi (non certo cancellarsi) e predisporre a un riso conciliante piuttosto che a una collera precipitosa. Al Tansillo capita di dire cose sgradevoli, parole rispettose ma decise; ovviamente un gentiluomo non può vestire le vesti di un qualunque pazzariello, ma può invocare lo statuto di questa zona franca e rimpicciolendosi, facendosi pusillo, può contare su un ascolto meno irrigidito dalle convenzioni sociali, meno congelato dagli orgogli di casta. In un certo senso le parole del gioco hanno il privilegio di passare sotto gli steccati. Naturalmente altro ci sarebbe da dire sugli ingranaggi che addentellano i Capitoli con la poesia bernesca, ma ci possiamo fermare qui. Però non posso trattenermi dall’aggiungere un minimo paralipomeno. Il Tansillo che dice «io voglio il corpo» (ix 174) non è troppo distante dal Berni che grida «per l’amor di Dio, dacci del cardo» (ix 91), cioè del ‘cazzo’. Com’è noto il Berni era omosessuale. Ma qui le strade si dividono. Danilo Romei (Università di Firenze) 26 Cfr. il Capitolo al cardinale de’ Medici (Non crediate però, signor, ch’io taccia) e il Capitolo di Gradasso (Voi m’avete, signor, mandato a dire). Contributi MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY Il fascino del mondo orientale in L’Oasi di Leda Rafanelli Marta Tantawy analyses Leda Rafanelli’s L’oasis by focusing her attention on the figures of outstanding men and women Rafanelli made acquaintance with during her eastern wanderings and her ‘subversive’ period. This allows Marta to point out and compare life in Europe and the East. 1. Fin dai tempi remoti, precisamente dagli Ottomani, prevale un’immagine stereotipata della donna araba, che il mondo occidentale ha scelto a scapito di altre immagini più brillanti. Nell’immaginario occidentale, infatti, prevale una sorta di caricatura della donna araba e musulmana, vista alternativamente come un’odalisca compiacente dell’harem del sultano o come la povera donna velata, reclusa e soggiogata, privata dei suoi diritti e alla quale viene impedita la partecipazione alla vita sociale. È un po’ come guardare la fotografia di una persona, che non sempre è fedele al suo aspetto reale. L’immagine a cui mi riferisco è, nell’immaginario occidentale, deforme, pallida e scura, una figura massiccia o panciuta, dai capelli neri e ricci, priva del diritto della propria libertà. L’idea comune è quella d’una donna completamente sottomessa alla volontà dell’uomo (o, per meglio dire, del marito), coperta di nero, costretta a restare in casa ed a subire una serie d’angherie. Sono pensieri e punti di vista occidentali, che rischiano, tuttavia, di dare per scontate molte cose. La mia ricerca nasce, perciò, dalla volontà di demistificare una gamma di malintesi e paradossi, relativi alla donna araba, la cui figura alimenta, spesso, il sospetto generale; e d’altro canto vorrei gettare una luce chiarificatrice su Leda Rafanelli, una donna dotata di una personalità sovversiva, multiforme e misteriosa, le cui scelte di vita sono espressioni naturali del suo temperamento e del suo modo di pensare. Amante del viaggio e dell’avventura, vive come una nomade e, affermando d’essere nata “millenaria”, scrive: [2] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 751 Ho sangue arabo nelle vene: mio nonno materno era figlio naturale di uno Zingaro Tunisino […] Tutti i miei personali “ricordi”, i sogni, le aspirazioni, i desideri, erano basati, sistemati, orientati verso l’Antico Egitto, mia Patria d’elezione1. È una figura della quale cerco di evidenziare contraddittorietà, intelligenza, esotismo da un lato e, dall’altro, la sua idea pratica e teorica di donna. A dir la verità, l’ambiente culturale in cui vivo mi ha indotto a rilevare, essendo araba musulmana ed avendo rapporti con donne europee, che è facile che nelle donne occidentali, privilegiate e libere, agisca in un modo o nell’altro, sia sul piano psicologico che reale, la suggestione della figura di donna araba ed orientale. Nel mondo occidentale c’è chi si sente attratto dall’Oriente, dalle oasi, dalle isole, dalle terre desertiche oppure dai monti e dalle tradizioni variamente connaturate alle nostre terre. Ignorando, però, spesso il significato religioso della vita e delle tradizioni in Oriente, si propaganda ancora in Occidente l’idea che la donna sarà veramente libera solo a misura del modello occidentale, cioè quello di una donna cresciuta nelle società tecnologicamente avanzate, che appare libera, autodeterminata, potente, soddisfatta di sé, piena di diritti e privilegi. Da questo modello derivano, paradossalmente, non pochi fenomeni d’oppressione e di sfruttamento di cui sono vittime le donne. L’Oasi, oggetto del presente studio, è un’opera che focalizza l’attenzione sulle figure di donne e uomini d’eccezione, rappresentando principalmente vari aspetti significativi della vita europea e di quella orientale ed evidenziando tutti i contrasti che esistono tra di esse. Leggendo, per la prima volta, il romanzo mi è venuto il desiderio di rileggerlo tutto d’un fiato per godere il fascino particolare, che non ho solo provato durante la mia lettura, ma anche immedesimandomi nell’animo di “Sitti”, della padrona di quest’opera preziosa. L’analisi del romanzo mira ad analizzarne il contenuto, che accoglie fenomeni sostanziali delle società occidentale ed orientale, smentendo le opinioni alimentate da interpretazioni errate dei vari avvenimenti storici, ed infine, a soffermarsi su temi, motivi e situazioni, intessuti sul complesso intreccio tra problemi contemporanei, ricor- 1 Djiali, Memorie di una chiromante, dattiloscritto inedito, s.d., Fondo LRMonanni – Romanzi inediti di Leda Rafanelli 12 – Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia, p. 2 e p. 9. Rivolgo i miei più sentiti ringraziamenti alla signora Fiamma Chessa, curatrice dell’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, che mi ha fornito diverso materiale prezioso riguardo alla vasta e profonda opera di Leda Rafanelli. 752 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [3] di e fantasia, che fa della Rafanelli, nel panorama letterario del Novecento italiano, una protagonista anomala e originale. 2. Il primo viaggio di Leda Rafanelli (nasce il 4 luglio 1880 a Pistoia e muore nel 1971 a Milano) inizia, a quanto s’è detto per più versi, al principio del secolo scorso ad Alessandria d’Egitto, a vent’anni, per motivi economici. Rimasta lì per un certo periodo, s’incontra con gruppi di anarchici esuli e perseguitati con cui stabilisce intime amicizie e soprattutto con un libraio anarchico che diventerà poi suo marito: Luigi Polli. Senza precisarne le motivazioni, (non esistono al riguardo documenti o testimonianze), Leda si converte all’Islam2. Ma quello che doveva accadere accadde, come diciamo noi arabi, e da quel giorno Leda crede “alla fatalità”. In una delle sue composizioni ritmiche, dedicata all’unico figlio, che per lei era un dono di Allah, scrive: Allah, può far trovare un tesoro faraonico in mezzo alle sabbie del deserto […] A me ha fatto trovare il più bel giovane uomo d’Oriente tra la grigia, morta folla di un suk di sobborgo d’Occidente3. La permanenza in Egitto resta, infatti, il segno radicale della trasformazione di tutta una vita piena d’impegni politici, lotte sociali, sacrifici e stravaganze. Tale viaggio fecondo va inteso, dunque, in senso simbolico di desiderio, tensione di conoscenza e di ricerca. L’attrazione di Leda verso le antiche civiltà egizie, il suo studio della lingua araba e l’interesse crescente per le scienze occulte, la magia, e l’astrologia la spingono verso il mondo orientale. Se il viaggio viene concepito per più versi come una metafora della vita, come nella Commedia di Dante Alighieri esso rappresenta una metafora per l’esistenza umana e per la redenzione dei peccati, per la Rafanelli costituisce la tappa fondamentale di un’esperienza di crescita interiore e di formazione. L’anima della scrittrice anela 2 Alcune informazioni si riferiscono ad una disgrazia familiare, altre a difficoltà economiche della famiglia, ma certo, fin dal tempo dello scavo del canale di Suez (1859-1869), l’Egitto era una terra fertile ed ospitale per molti lavoratori e artigiani italiani che vi sono, poi, rimasti per svolgere vari commerci. Enrico Pea, inoltre, fonda, ad Alessandria d’Egitto in via Hammam-El-Zahab, la “Baracca Rossa”, che diventa il rifugio per gli emigrati italiani ed amici transfughi della vita, di tendenze socialiste e anarchiche e la rievoca insieme agli anni lì vissuti nella sua opera Vita in Egitto (1947). 3 L. Rafanelli, La più bella pagina d’amore. Il figlio dello Sceikka, Fondo LR. – Monanni. [4] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 753 ad una libertà individuale, superiore ad ogni tipo di legge o autorità, trova sfogo nelle sue credenze, nelle cose, nei costumi conservati e nei ricordi nostalgici. Perciò, si sente addolorata e sola in mezzo a “cose estranee” quando se ne allontana come «il cammello stanco che vorrebbe solo distendere il collo sulla sabbia per morire in pace»4. Mi sono soffermata sul tema del viaggio per interpretare la vicenda esistenziale della scrittrice, oltre al rimpianto d’un passato perduto ed al richiamo inafferrabile d’un paradiso che probabilmente ha trovato nelle proprie scelte peculiari. Come si è detto sopra, l’Egitto viene considerato come il seme del suo primo legame con la tendenza anarchica e del suo esotismo. Questo carattere esotico spicca nel suo abbigliarsi all’araba (da bambina, Leda sdegna i vestiti ricamati e cuciti in maniera comune, preferendo avvolgersi in lembi di tela e vecchia stoffa di color giallo o rosso), nel mangiare cibi orientali e nel giocare stranamente (basti pensare alla sua attrazione “pericolosa” per bisce, lucertole e serpenti). Tutto un mondo di vivere che, se da un lato è stravagante per una donna nata nell’Ottocento, si può trovare nella prassi della quotidianità in Oriente. L’itinerario atipico della sua vita si svincola da ogni limite o oppressione, che rientrino in uno schema, in una cultura o in una religione. A proposito, Pier Carlo Masini asserisce che la Rafanelli nel suo mondo «fantasticamente si riconosce e si muoveva come in uno specchio o in un globo di vetro»5. Del resto, ella immagina, fin dall’età infantile, d’imbarcarsi per “mari lontani”; e, da grande, va istintivamente verso la calma e la bellezza delle oasi dell’Est. Porta tutti i suoi costumi arabi con sé (valori, usanze, regole, stile di vivere), e non vi rinuncia mai fino agli ultimi anni della sua vita; conservando, però, la propria originalità (le piace sempre essere se stessa). Molti la chiamavano “zingarella” per il suo aspetto: a Leda piaceva vestirsi sempre fuori moda con abiti neri comodi, molte collane esotiche al collo, portare alle orecchie grossi cerchi d’oro. Il mondo arabo con i suoi simboli, cioè, ha agito nell’immaginario e nella realtà di questa donna occidentale. 3. Va, peraltro, ricordato che l’Occidente subisce l’influenza della civiltà orientale e musulmana in diversi campi: nell’arte, nelle forme 4 Ead., Lettera a Carlo Molaschi, 22 maggio 1918, in Ead., Lettere D’Amore E D’Amicizia, La corrispondenza di Leda Rafanelli, Carlo Molaschi, Maria Rossi (1913- 1919), a cura di M. Granata, Pisa, BFS edizioni, 2002, p. 91. 5 P.C. Masini, Introduzione a Leda Rafanelli, in Id., Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1975, p. 8. 754 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [5] architettoniche, nella coltivazione di certe piante, nella letteratura e negli aspetti decorativi. La maggior parte degli strumenti musicali è d’origine araba e la filosofia giunge verso i Paesi occidentali per opera di una larga serie di traduzioni realizzate, in Spagna, del patrimonio dei filosofi greci e degli scienziati ellenisti nell’epoca dei califfi abbasidi. L’Oriente è, dunque, vivo tanto nella memoria che nella scrittura della Rafanelli: in una lettera mandata all’amico Bosio nel 1967, lo prega di leggere il suo romanzo migliore, L’Oasi, nel quale scrive le proprie idee e «cose vere» da lei vissute, sconfessando coloro che parlano di «noi musulmani» senza «conoscerci»6. Nella prefazione dell’opera in analisi descrive il fascino particolare che il Paese ed il suo popolo esercitano sull’autore Etienne Gamalier: la loro bellezza, potenza e generosità. L’Oriente per lui, aggiunge, «e specialmente l’Africa e l’Egitto – è la sola terra dove si può correre in piena libertà l’avventura della vita»7. Pubblica il romanzo con uno dei suoi vari pseudonimi durante la repressione del regime fascista, collocando gli eventi ed i personaggi in un ambiente arabo, in Tunisia: è un palcoscenico di buoni sentimenti e passioni, di spazi infiniti fuori del tempo che spiccano in una vita istintiva e spontanea dell’Africa “barbara”. Il che si contrappone politicamente e socialmente all’Occidente moderno: la vita beduina pura ed ospitale e la gente dall’anima segreta che si affida fedelmente al “Maktub” (cioè, tutto è scritto dal Destino) sono in pieno contrasto con l’Europa superiore e colonialista. Due mondi, insomma, inconciliabili: l’uno non sarà mai comprensibile all’altro giacché l’abisso che esiste tra di essi è incolmabile. Le lotte sociali, le propagande interventistiche e militaristiche e lo sfruttamento delle nazioni colonialiste non vanno d’accordo con la saggezza e la naturalezza d’un popolo succube, nato, però, per vivere in libertà. Dietro la fioritura di queste immagini malinconiche si può cogliere una denuncia del colonialismo europeo che cerca d’imporre ingiustamente la cultura, la civiltà ed il modo di vivere ai Paesi occupati: Io credo alla devota sottomissione degli indigeni. Essi sono lieti e orgogliosi di essere guidati, comandati e protetti da noi […] Questo aggregarsi di territori costa sacrifici e ingenti spese militari. E il dare a questa 6 L. Rafanelli, Lettera a Gianni Bosio, 23 ottobre 1967, Genova, in Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, Arte e Politica in Un Incontro Ormai Celebre, a cura di A. Ciampi, Venezia, Centro Internazionale della grafica di Venezia, 2005, p. 15. 7 E. Gamalier, Introduzione dell’autore, in L. Rafanelli, L’Oasi, trad. di L. Rafanelli, Milano, Casa Editrice Monanni, 1929. D’ora in poi L’Oasi. [6] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 755 gente uno scopo, l’amore per il lavoro, delle idee razionali sull’igiene e la morale, con l’esempio e l’istruzione, è già un’opera santa8. È la mentalità di Henry che personifica l’uomo europeo-moderno, e direi anche, la filosofia mistificante dei colonizzatori, che giustifica le alte ragioni politiche e sociali allo scopo d’impadronirsi d’altre terre lontane e farne colonie della “Madre Patria”. Anche l’Italia, come tutti i Paesi europei, giustifica la formazione del proprio dominio coloniale nell’Africa orientale, asserendo di aver trovato solo alcune aree povere e scarse di risorse minerarie e naturali nella regione settentrionale, dove si erano già sgretolati i vecchi Stati arabi. Una politica estera più aggressiva, voluta da molti settori della classe dirigente, guida l’Italia a puntare decisamente all’Etiopia, alla Libia, dopo Somalia e Eritrea. In un altro romanzo intitolato Una donna e Mussolini, la figura del capo del regime fascista (già direttore de «L’Avanti», quotidiano socialista cui collaborava anche la Rafanelli9), rappresenta l’Occidente in termini d’oppressione, minacce e propagande illusorie. L’opera è considerevole in quanto evidenzia il contrasto tra Mussolini e il personaggio di Leda che appare come l’Africa barbara (da lei tanto ammirata e desiderata) con la sua fonte di valori preziosi: la pace e la serenità. Nel linguaggio, nella comunicazione, nella scrittura istintiva Leda assapora il profumo e l’atmosfera orientale. A quanto s’è detto, è subito da aggiungere il lavoro assiduo della scrittrice come tipografa con cui esercitava «l’arte alchemica della trasformazione della calligrafia alla pressione, ma con i ritmi che discendono dal suo modo di sentire»10. Così porta nella sua produzione narrativa le calde oasi dell’Africa d’oro, il piacere spirituale della scrittura araba, l’amore del Dolore e del Destino anche se crudeli, in termini d’una felicità trionfante. Del resto, il fascino dei miti egizi non la abbandona tanto nello 8 Ivi, p. 9. 9 Tra Benito Mussolini e la scrittrice ci fu una fitta corrispondenza (dal 1913 – fino al 1914) che Leda pubblicherà dopo la guerra. I rapporti amichevoli tra i due saranno interrotti per una diversità inconciliabile d’idee: «[…] mio amico, – ma col quale ruppi ogni rapporto quando tradì il Socialismo […] Io contro tutte le guerre, Mussolini quello che fu, il traditore di tutti e tutto» (L. Rafanelli, Lettera a Egregio Sidi Gianni Bosio, 28 agosto 1967, Genova, in Ead., Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un Romanzo, cit., p. 14). È da osservare che Mussolini otteneva da Leda le sue conoscenze riguardo all’Islam ed incaricò come consulente del governo fascista per le questioni islamiche, Enrico Insabato, ex-anarchico dalla Rafanelli conosciuto durante la sua permanenza in Egitto. 756 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [7] stile di vita quanto nella sua poesia: quando parla dell’avvenimento di due eclissi, accenna al giorno in cui succede la prima, quella del Sole, non sapendo, però, dove e quando avverrà la seconda, quella della sua Stella. Si domanda il perché della vita, affermando: E quando la Stella mia, Vega, potrà ritornare, e aprire nel cuore di pietra, col raggio segreto, il chiuso “Mastaba”, ove dorme la Mummia Speranza?11 Il termine arabo scritto con la maiuscola indica l’anticamera del cubicolo dove viene rinchiusa la mummia del faraone nelle tombe12. Uno dei personaggi secondari dell’Oasi si chiama Mohamed, un vecchio cieco ed infermo, che possiede una conoscenza istintiva del mistero della vita ed il suo pensiero è ricco d’esperienze: egli può rispondere alla domanda che la scrittrice si pone nella poesia sopraccitata. Con la sua calma e pazienza, va un giorno a consolare una sua compaesana lacerata per la morte crudele del proprio figliuolo, così ragionando: […] non ci sono morti terribili: la morte è una sola, ed è la pace, la fine di ogni lotta. Terribile è la vita, sorella. Ora il piccolo Ahmed, è in una Valle luminosa, e le sue labbra bevono il latte della conoscenza; ora i suoi occhi vedono i fiori più belli, le forme più armoniose. Soffre la sua povera madre, che ancora vive, non lui, che è già morto. Lui non soffre più13. Ho scelto questo passo perché ha il vantaggio di condensare in poche righe la saggezza espressa da uno dei beduini, ignorante, che conduce una misera vita allo stato naturale. 4. Tutti coloro che vanno a trovare la scrittrice negli ultimi anni prima della sua scomparsa, la definiscono come una donna nobile, 10 A. Ciampi, I canoni estetici di riferimento, in Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia, a cura di F. Chessa, Biblioteca Panizzi, Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Atti della giornata di studi, Reggio Emilia, 2007, p. 73. 11 L. Rafanelli, Due eclissi di sole e di stella, una poesia inedita, 15 febbraio 1961, Genova, Fondo LR – Monanni. 12 Fino ad oggi, “Mastaba” viene usata, nel mondo arabo, per indicare la panchina costruita davanti ad alcune case, come luogo d’incontro, e ci si siede per parlare o bere specialmente nelle serate d’estate. È interessante cogliere nei suoi testi (prosaici e poetici) l’uso delle maiuscole quando si tratta di termini ed oggetti quali non solo hanno valore per lei, ma piuttosto perché rappresentano il mondo rafanelliano privato ricco di conoscenze d’istinto ed esperienze profonde. 13 L’Oasi, pp. 39-40. [8] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 757 trasparente, seduta sotto un grande pannello con i 99 nomi di “Allah”. I suoi compagni anarchici le perdonano la religiosità peculiare che non stona, però, con quella commistione originale fra l’attività anarchica e la pratica della preghiera e la credenza nei precetti coranici. La questione della sua fede islamica è del tutto personale, lasciamo che sia lei a dirlo: […] sono musulmana […] E – tra qualche giorno, comincia il sacro mese di Ramadan – e spero che Allah mi permette di fare i 30 giorni di digiuno14. Non beve il vino perché è proibito dalla religione musulmana, e per quanto riguarda il velo risponde al suo amico anarchico Carlo Molaschi: Credi che voglia prendere il velo, o pronunziare i voti di castità? […] Il velo – quando lo metterò – sarà una sapiente astuzia per… fingermi più giovane […] E la mia religione è di conquista della gioia, non di rinunzia15. Credo più conveniente dire che il compito essenziale del mio studio, che tocca da vicino la personalità eccentrica e bizzarra della Rafanelli, è quello di rivelare il suo individualismo nell’abbracciare concezioni filosofiche e religiose incompatibili16. È vero che la filosofia anarchica sente l’influenza dell’idealismo tedesco, in particolare della filosofia di Hegel il quale considera che la storia del mondo «non è altro che lo sviluppo del concetto della libertà»17, di Nietzsche ed altri, riguardo alla storia, al regno di Dio, al concetto dell’inquietudine, della libertà assoluta, e della rinascita dell’uomo moderno. D’altro canto, l’amore per la verità, per il superuomo (Über-Menzch) nietzschiano, e il distacco della modernità dalle suggestioni normative del passato, sono concetti lontani dalla religione islamica. Non esiste il Dio di Abramo, di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto: la fede si basa piuttosto sull’uomo libe- 14 Ead., Lettera a Egregio Sidi Gianni Bosio, cit., p. 13. 15 Ead., Lettera a Carlo Molaschi, 5 settembre 1915, in Ead., Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 56. 16 Non vorrei, in questa sede, analizzare la questione del velo attualmente divenuto un fenomeno saliente e prosperoso di molte ricerche; sottolineo soltanto che esso ha, infatti, varie forme che puntano su questioni di ordine principalmente religioso, poi sociale e culturale (hijab, abaya, burqa, ecc.). 17 G.G.F. Hegel, Filosofia della storia, compilata dal Dott. E. Gans, trad. di G.B. Passerini, Capolago, Cantone Ticino, Tipografia e Libreria Elvetica, 1840, p. 460. 758 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [9] ro che può sviluppare la sua umanità in cooperazione con i suoi simili per un mondo nuovo, fondato sull’aiuto reciproco, sulla pace e rispetto senza il bisogno di sottomettersi alla volontà del Signore. Leda Rafanelli, scrittrice anarchica, mette al centro delle sue concezioni la libertà di pensiero, l’aiuto generoso degli altri, l’amore per l’umanità, l’«allegra disponibilità» per i cambiamenti; ed infine, il rispetto delle altre religioni ed ideologie. Inoltre, comprendere la realtà e conoscere le cose della vita la distaccano dai problemi economici e pratici, dalle lotte per il potere; in breve, da tutto ciò che riguarda le cose terrene. Si è detto che il suo anarchismo è «istintivo », e potrei aggiungere che la sua religiosità è anch’essa istintiva «appartenevo all’Islam, per costume, discendenza e Religione»18. Ciò non vuol dire, però, che Leda nei suoi scritti fa propaganda della sua religione musulmana, come lo fa per l’attività anarchica e rivoluzionaria, bensì mette in rilievo la contrapposizione tra la saggezza dell’Islam ed il mondo occidentale tecnologico, disumanizzato e schiavo del denaro, oltre alla rappresentazione della città di Milano (rumore, sport, arte, abilità, contrasti, ecc.)19. Dal punto di vista della Shari’a, le regole islamiche generali richiedono all’uomo e alla donna d’osservare i precetti religiosi, perseguire nobili qualità morali (la generosità, la sincerità, l’altruismo, la gentilezza), e di contribuire al benessere dell’umanità. Il che non si contrappone alla tendenza anarchica-individualistica della scrittrice la quale sostiene sempre che per far avanzare l’umanità, vanno profondamente cambiate certe idee prestabilite di cui viene confermata l’invalidità. Leda prende subito le distanze dalle concezioni di tipo dogmatico o terroristico in nome del suo credo libertario. Pratica l’Islam, come credente, con rispetto e libera adesione ai precetti divini nel percorso della propria vita. La grande Oasi, tuttavia, presenta un palcoscenico di pratiche religiose in cui tutto il creato ringrazia nella preghiera Allah per la grazia, la fecondità e la bellezza della Terra che spande su di esso: le bestie riposano, i cammellieri si raccontano tra di loro delle storie meravigliose, mentre i coloni europei lavorano 18 L. Rafanelli, Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, cit., p. 64. 19 Ead., Il rabdomante, «La Libertà», 5 maggio 1914. A proposito, la Rafanelli, col suo pseudonimo Bruna, scrive sulla «Sciarpa Nera» (n. 2, giugno 1909, p. 33): «Noi non siamo indulgenti […] Amiamo più la franca e rude parola che rimprovera […] andremo dicendo su uomini e cose, su fatti e avvenimenti, su teorie e pensieri, su punti polemici […] ogni parola ed ogni pensiero scritto deve essere l’espressione di un pensiero o di un sentimento di bontà e di forza […] La vita è realtà e non teoria». [10] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 759 con calma in armonia con la pace calda dell’ambiente desertico. Il concetto della libertà come uno dei fondamenti islamici la Rafanelli lo coglie con grande sensibilità sia a livello intellettuale che sociale in modo che il percorso della sua vita resterà a lungo scevro da forme organizzative di «tipo coattivo e proselito». Si è fatta una religiosità tutta peculiare come un suo perfezionamento interiore: il suo islamismo è personale, si sa infatti che Leda era una sufi che salvaguardava molto la sua sfera intimista e privata, forse un poco folkloristica, ma pur sempre coerente con se stessa. Detto questo, vorrei sottolineare che malgrado i risentimenti di alcuni verso l’Islam, l’“Oriente islamico” come viene definito da Luca Scarlini20, ha attirato fin dal XVIII secolo molti altri occidentali fra pittori, professori universitari, egittologi e scrittori. Con i suoi tentativi militanti, la Rafanelli è riuscita a conciliare le valenze anarchiche con i precetti islamici sul piano esistenziale e dottrinario, sognando di costituire una società fondata su due istanze fondamentali: libertà e amore. L’Amore è la freccia che colpisce il cuore ferito di Jeanne, trasferitasi per sempre in una delle belle Oasi del Marocco, in seguito ad una storia amorosa dolorosamente fallita, legata ad un servo giovanissimo messo da Dio sulla sua strada (per usare le stesse parole della scrittrice), povero ma devoto, che resta l’essere a lei più fedele fino alla morte. Jeanne è il personaggio più importante dell’opera rafanelliana, una donna europea forte e serena, che trova nell’aiuto altrui e nell’amore per vecchi e bambini il segreto della propria felicità. Essendo fatalista anche lei, riconosce che Allah o Dio le ha donato quel mondo pieno d’esseri buoni e sinceri di cui fanno parte le vedove povere, i bambini abbandonati ed i giovani malati, che sono diventati come suoi figli. Quel popolo creato per essere libero e felice non ha bisogno del gioco illusorio dei colonizzatori che fingono d’essergli leali amici, ma «sono sempre i primi a rallegrarsi quando la madre patria, cioè la loro, schiaccia e disperde un nucleo di “ribelli”»21. Dio, ch’è “Rabb Al- alamin”, cioè l’onnipotente di tutto il Creato22, è una dottrina che non permette all’uomo l’idea libertaria di agire da solo grazie alle sue capacità umane, come regola di vita. Riguardo all’aspetto originale e paradossale della personalità della 20 L. Scarlini, A Oriente, in Id., Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia, cit., p. 45. 21 L’Oasi, p. 194. 22 «Egli è Dio, non v’ha altro dio che lui, Conoscitore dell’Invisibile e del 760 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [11] Rafanelli si può cogliere che se, da una parte, ella piega alcuni precetti religiosi alle sue scelte personali che vanno d’accordo con la sua interpretazione “assai elastica”, dall’altra appartiene ugualmente a se stessa, concetto, questo, del tutto estraneo all’Islam. L’Islam è, in una parola, il “tawid” che significa la completa sottomissione all’unicità di Dio, e tutti i credenti devono vivere sotto il cielo della “umma” cui appartengono divenendo tutt’uno con esso. L’Islam non vede di buon grado le figure intermediarie fra l’uomo e Allah e le pratiche magiche derivanti dal mondo pre-islamico. Tali figure sono rappresentate, tuttavia, nell’opera rafanelliana con uno stile diretto ed immediato, proprio della cultura popolare, quando, ad esempio, la scrittrice mette in luce la lugubre profezia di una fattucchiera che sa leggere nell’avvenire tanto sulla sabbia che nel fumo del suo braciere, tanto nelle linee della mano che nell’iride delle conchiglie: È un nembo, lontano ancora, ma che si avanza, fatalmente […] Lo vedo […] Sembra l’Angelo della Morte! […] si riversa sulle terre di Occidente, come un castigo, come una vendetta! Ma tutto il mondo avrà la sua parte di lacrime da versare […] E anche tu, povera Gamra!23 Quella vecchia donna detta Mabruka (nome arabo che significa benedetta) che non sbaglia mai – lo dicono tutti – compie un peccato secondo i precetti islamici, indovinando l’avvenire perché tutto è già scritto dall’Onnisciente. 5. Se si vuol tracciare uno schema del modello idealizzato della donna auspicato dalla Rafanelli, si dovrebbero prima mettere in risalto le caratteristiche della sua personalità già definita bifronte, capricciosa e proteiforme. Per usare un suo modo d’esprimersi, ella si dà il nome “Djali” oltre il «bel nome» che porta, perché esso significa «di me stessa»24 ed è fra i suoi pseudonimi preferiti. Aveva, infatti, per ogni tipologia di scritti uno pseudonimo diverso: per le fiabe Zagara Sicula, per il «Corrierino dei piccoli» usava frequentemente Adamo, Adem, Ida o Ida Paoli (il nome e cognome della cognata), Nada per alcuni romanzi, Djali per prose ritmiche e novelle. La nipote afferma che la famiglia si era abituata alla sua eccen- Visibile, il Clemente, il Misericordioso […] il Re, il Santo, la Pace, il Fedele […] Suoi sono i Nomi Bellissimi […] egli è il Possente» (La Sura del Bando (Medinese, 24 versetti), in Il Corano, Introduzione, Traduzione e Commento di A. Bausani, Milano, Rizzoli, 1988, p. 418). 23 L’Oasi, p. 54. 24 Ead., Memorie di una chiromante, cit., 1 maggio 1948. [12] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 761 tricità e che neppure la parola nonna era da lei preferita, ma voleva solo essere chiamata “Leda”25, fino alla sua scomparsa. Si ha, quindi, l’immagine d’una donna che sapeva vivere fino all’ultimo, anelante alla libertà individuale, superiore ad ogni legge ed autorità; ben convinta di poter dare di più e di non dover scomparire dalla scena. La questione femminile, che ispira tanta parte dei suoi scritti sia a livello politico-sociale che letterario, è tenuta in considerazione dal movimento anarchico. Anzi, nonostante gli anarchici siano per essenza ideologica atei o al massimo agnostici, all’interno del movimento, il suo essere musulmana è stato sempre tollerato, perché comunque è stata una buona militante. L’attività anticoloniale ed antimilitarista in Leda si coniuga sempre con l’impegno instancabile nei confronti delle problematiche femminili non solo occidentali, ma anche orientali. Partendo da un’idea di letteratura come di luogo preferito nel quale può «far liberamente giocare interrogativi, problemi, conflitti, tipici dell’esistenza femminile»26, la Rafanelli si immerge pienamente in vivaci contraddizioni e lotte per la libertà contro l’ordine prestabilito. Secondo lei le donne hanno insito corpo e anima, sentimenti spirituali, sensualità ed amore, devozione e maternità, potenzialità che costituiscono le virtù femminili. L’esempio di Leda ci permette, del resto, di disegnare una piramide a base triangolare che ha tre lati fondamentali: 25 Marina Monanni sottolinea l’estrema generosità della nonna con lei e tutti i nipoti e racconta dell’arte particolare con cui affascinava diversi uomini (Leda aveva rapporti con uomini di diverse credenze religiose) come se tessesse con una forza straordinaria una tela sottile di era l’unico fulcro. Ricorda, inoltre, che «Leda è Djali e niente può descriverla meglio […] Il suo modo di essere donna e femmina, estremamente affascinante, femminista ante litteram, ma soprattutto Donna tout court» (M. Monanni, Ricordo, in L. Scarlini, Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia, cit., p. 15). 26 T. Pironi, Da Occidente a Oriente. La ricerca interiore di Leda Rafanelli, “Storie di donne. Il viaggio come formazione”, Convegno organizzato dalla Facoltà di Scienze 762 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [13] Essendo rivoluzionaria e versatile, è sicura che con le trasformazioni radicali di certe categorie di pensiero, si verificheranno mutamenti che condurranno anche al superamento di alcune problematiche femminili. La Rafanelli desidera una vita quale gioioso godimento e dono di sé e resta sempre fedele, sognando un mondo più giusto altrove, al suo Oriente mitico. Parlando di sé, afferma di conoscersi profondamente come anima e corpo, cuore e pensiero e: […] che il destino, privandomi di una bella maschera, aveva voluto mettere a prova la mia intelligenza e la mia forza; aveva voluto sfidarmi nelle difficili prove della vita27 Leda, nel suo “Harem”, canta la storia delle “sorelle”, e raccogliendo i ricordi si mette ad osservare, sempre nel suo “Impero senza sudditi”, momenti di felicità ed infelicità, vittoria e fallimento, bontà e malvagità: «Rievoca, prima, le Creature di Luce e di Amore, – le Creature di Bontà e di Dolore, quelle che ha messo sull’altare, nel suo cuore»28. Il termine harem ha suscitato le fantasie degli occidentali, soprattutto quelli vissuti in Turchia, spingendoli a raccontare storie sulla vita dell’harem, che rappresenta condizione e luogo in cui venivano a trovarsi le donne arabe. La parola harem è connessa con hara|m, cioè, uno spazio proibito e custodito con le sue norme; e harem per l’uomo orientale significa luogo dove la sua donna e la sua famiglia devono essere protette. È un luogo comune credere che l’harem rappresenti una fortezza nella quale vengono chiuse le odalische pigre, passive e a volte in contrasto tra loro per conquistare il cuore del loro padrone. Tale spazio realmente limitato viene definito come una “terrazza proibita” da Fatema Mernissi nel suo libro intitolato L’Harem in Occidente29. Ho aperto, però, questa parentesi nel tentativo di precisare che l’harem può diventare un luogo qualsiasi confinato, ricco di calore e creatività, ma dotato sempre di rispetto; una tradizione araba con certe degenerazioni negative, insomma, ma degna di grande rispetto. Leda Rafanelli gode il silenzio e la solitudine ardente del deserto, in una giornata di digiuno, e si mette, superba com’è, a intessere le vicende di “donne e femmine” giacché ne conosce tutti gli aspetti della Formazione (Univ. di Firenze, Polo decentrato di Livorno, 26-27 settembre 2008), p. 5. 27 Djali, Memorie di una chiromante, cit. 28 Ead., Ricordo, in Donne e Femmine, Milano, Casa Editrice Sociale, 1922, p. 7. 29 F. Mernissi, L’Harem in Occidente, Firenze, Giunti, 2000. [14] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 763 più complicati e più reali mascherati sotto le apparenze di indifferenza o menzogna, di semplicità o grandezza. Ella è, in Donne e femmine, l’io-narrante, onnisciente perché appare «come la vita», e nel momento in cui disprezza le donne mediocri, quelle “pure e vere”, di tipo forte, dotate di un certo carattere, meritano il suo umile “inginocchiarsi”. In quest’opera riesce a passare in rassegna una vita intera, affabulando i suoi lettori, come aveva fatto la Shahrazàd araba nei tempi antichi, protagonista di Mille e una Notte30, che rappresenta tutt’altro che il modello dell’odalisca sensuale e passiva, caro all’immaginario occidentale. 6. Per comprendere meglio il tema in oggetto, occorre comprendere il termine odalisca: dal punto di vista religioso e filosofico, la donna e l’uomo sono due esseri “morali”, vale a dire godono di un’intelligenza e d’una libertà di pensiero. La donna non può fare un esame della propria esistenza se non rapportandola a quella delle persone con cui è in rapporti ed esaminando questi rapporti medesimi. Non ci sono, poi, prove scientifiche che evidenzino l’inferiorità biologica della donna rispetto all’uomo. Dunque gode del pieno diritto di disporre liberamente dei beni di sua proprietà e dei ruoli in armonia con la sua natura femminile e della sua dignità umana, nella vita personale come in quella sociale. Non va considerata un oggetto di piacere ad uso e consumo dell’uomo: entrambi devono compiere lo stesso cammino di conoscenza, di impegni, contribuendo al benessere generale. Leda, oltre ad essere attivista e fatalista, non può rinunciare alla sua pietà di donna ribelle contro il collettivo macello di creature ignare, non delle donne, non rinuncia alla vita sociale, alla protezione delle madri e dei bambini, alla campagna per 30 Le mille e una notte (titolo originale in arabo è Alf laila wa laila) è un’opera vastissima – potrei dire – la più celebre e la più tradotta della tradizione letteraria nel mondo arabo. Shahrazàd sta nel suo regno a raccontare, con tanta sapienza ed alta intelligenza, storie della vita, piene di sentimenti, amori e gelosie, violenza e salvezza. Ella riesce ad opporre alla logica maschile della forza la magia della parola, e mediante il dialogo e l’ascolto vince il regime cieco e tirannico del re Shahriyàr. Questi, di giorno in giorno, rimanda l’esecuzione, incantato dalla bellezza della donna e dalla lucidità e bravura con cui tesse ogni notte trame di racconti avvincenti. In realtà Shahrazàd è una donna attiva, abile ed astuta, artefice della propria salvezza e di quella delle altre donne, capace di suscitare amore nel sultano e di conservare vivo in lui questo amore (Le Mille e Una notte, a cura di F. Gabrieli, Torino, Einaudi, 2006). 764 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [15] l’aumento delle nascite, al lavoro extradomestico ed al voto, andando, in tal modo, anche oltre le rivendicazioni dell’emancipazione femminile del suo tempo. Affrancandosi dal suo essere spesso oggetto di abuso, la donna (come la presenta la Rafanelli nei suoi scritti) ha bisogno di salvaguardare la propria autonomia, avere il diritto all’amore e alla maternità. La complessità dell’anima di Leda sta proprio in quel tentativo costante di risolvere il contrasto insanabile «presente nella (sua) coscienza femminile, tra la parte di sé più profonda, naturale, istintuale (l’eros, i sentimenti) e quella nazionale, cosciente, emancipata, che vive in prima persona l’impegno politico e sociale»31. Si può affermare che l’attualità dell’opera rafanelliana risiede tutta nella rappresentazione di una femminilità, che giunge al suo compimento attraverso una visione originaria della donna araba. Ogni personaggio di Leda ha un valore emblematico: grazie alla contrapposizione di due civiltà (o di razze, parola ripetuta decine di volte), le due eroine, la tunisina Gamra e la Signora Jeanne, la francese, rappresentano la dicotomia donna/femmina all’interno delle loro rispettive società32. Se la scrittrice, nel percorso della sua complessa esistenza, così difficile da catalogare nel quadro della letteratura novecentesca, costituisce il modello della donna tenace, fuori dagli schemi e ricca di contraddizioni, le immagini di donna che appaiono nelle sue opere hanno diverse sembianze: la dolce ed obbediente, la gelosa ed infedele, l’indipendente e passionale. La tunisina è una giovane beduina che rinuncia alla sua vita in tribù e alla sua fede, illudendosi di trovare la felicità con l’amante europeo in una sottomissione totale all’interno delle mura domestiche (una capanna modesta nell’oasi). Il significato del nome della ragazza in arabo è, infatti, espressivo: esso indica una brace, e Gamra difende, con ardore, il suo amore fino all’ultimo, ché non si sente mai colpevole, consapevole del diritto d’amare e d’essere amata dal suo padrone. Vive profondamente l’esperienza amore-passione, diventando man mano una madama, come la chiamano le altre berbere, e si sente allegra dentro di sé ed orgogliosa del proprio amore ardente per il suo signore. Non si sente più la docile schiava che dovrebbe essere felice «solo se il piede dello sposo si appoggia sul suo petto», essendo tuttavia convinta d’essere «la sposa unica, la 31 T. Pironi, Da Occidente a Oriente, cit., p. 7. 32 Cfr. C. Guidoni, Leda Rafanelli: Donna e femmina, in Les femmes – écrivains en Italie (1870-1920): Ordres et liberté, Chroniques Italiennes, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1994. [16] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 765 sola amata, la compagna di vita del suo sposo!»33. La protagonista prova i sentimenti naturalmente femminili (la gelosia, l’amore, e più tardi la maternità), non pensando alla sua indipendenza, anche se il desiderio di libertà la colpisce, di tanto in tanto, come una «dolorosa sete». È lontana da impegni sociali e, priva di contraddizioni, non s’accorge d’aver violato con la sua scelta la legge sia della vita che della religione (nemmeno la sfiora un istante di pentimento per tutta la sua storia angosciosa). Analizzando la sua personalità, direi che la giovane donna, affascinata da una libertà apparentemente assoluta, quella delle donne d’oltremare, sfugge al suo destino avendo fede nell’uomo delle terre lontane, in quella figura gentile e nobile che non fa lavorare la sua donna come una “bestia”, né la batte lasciandola libera d’andare sola per la strada e di parlare con chi incontra perché la ama e rispetta. Tutto ciò lo ripete tante volte a se stessa ed alle donne indigene come se «recitasse una lezione mandata a memoria»34, diventando schiava del suo amore ed accettando di giocare il ruolo di «femme animale» senza chiedersi mai il perché. L’autrice, nel cogliere tutta la naturalità e fecondità del personaggio, aderisce a certi valori della cultura araba in modo da concretare alternative alla vita politico-sociale del mondo e del pensiero occidentali. Gli avvenimenti drammatici, aggiungerei, sia a livello privato che storico (la morte dei genitori, il rapporto interrotto con Giuseppe Monanni, la guerra mondiale, il colonialismo, la repressione del Regime) giocano un ruolo essenziale nel rifiuto di un presente inaccettabile e nella ricerca di un rifugio altrove. 7. L’altra eroina de L’Oasi è la signora francese: Jeanne è simbolo della donna eccezionale nel modo di vita; in lei è facile cogliere i caratteri peculiari della personalità della scrittrice. D’estrazione borghese, dal padre eredita il carattere sicuro; è colta e superba della sua intelligenza al pari d’un uomo, anche se consapevole della sua modesta bellezza. Veste il burnus indigeno compagno, agendo come se fosse un uomo con la forza virile innata dentro di sé. Si sente, però, donna nel vero senso della parola: […] sono stata donna, elegante, raffinata, gentile […] appassionata e ardente, fidente nel mio destino, se pure un istinto segreto mi ren- 33 L’Oasi, p. 127. 34 Ivi, p. 150. 766 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [17] deva quasi consapevole che la mia fede doveva essere messa a dura prova di fronte alla crudele realtà della vita35. Nonostante la sua indipendenza, si è costruita una vita nuova, abbandonando i valori occidentali per quelli dell’Oriente e dell’Islam, perché ama un egiziano, in cui ritrova la fede, la patria e la famiglia. In amore non si avverte mai la diversità di razza e, essendo innanzitutto donna/femmina, Jeanne non vede contraddizioni nelle sue scelte, perché la sua femminilità «passa al di sopra di ogni altra realtà»36. La Rafanelli, che lotta per tutta la vita per la sua libertà e per quella delle altre donne, difende la solidarietà femminile tra le due donne, che, rimaste sole dopo la scomparsa tragica dei loro uomini, decidono di allevare un piccolo orfanello. Il destino, peraltro, diventa generoso mandando loro quella creatura innocente che le spinge a cominciare un’altra vita, in un avvenire che non sarà più oscuro. La tunisina e la francese appartengono ormai a quella gente incapace di discutere teorie astratte o temi letterari o di analizzare idee e sentimenti, ma che gode la propria mentalità serena e libera che «dona troppe cose belle»; di fronte a tanta bellezza gli stranieri non fanno altro che prendere e sfruttare come «rapaci». Ma non si può vivere per sempre da stranieri, anzi ci si deve adattare allo stile di vita perché, se si cerca di dominare o sottomettere coloro che sono nati in una terra, essi preparano le loro «vendette». La scrittrice, non a caso, appare molto severa nei confronti delle signore borghesi, soprattutto quelle che sono più femmine che donne. Ella grida all’uguaglianza ed alla libertà per le donne proletarie, il cui lavoro faticoso viene sprecato nella vita lussuosa e brillante di quelle marionette eleganti. Sono i pensieri di una donna sovversiva che si ribella in modo che «sappia conquistare il benessere al quale gli dà diritto la legge naturale della vita»37. Modello della donnacivetta è, nel romanzo, la francese Annetta: simboleggia la donna desiderosa d’avventure e denaro, la cui volontà sta soltanto nel soddisfare la propria bellezza e le sue passioni. È la moglie ipocritamente onesta per eccellenza, gode la sua libertà tradendo il marito, colonnello francese e ricco mercante, durante i suoi viaggi. Sen- 35 Ivi, p. 62. 36 L’Oasi, p. 101. 37 Ead., Ad una signora borghese, Lettera aperta, Firenze, s.d., Libreria Rafanelli – Polli E C. Firenze, p. 6. [18] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 767 tendosi padrona di ciò che vuole, prova un gran disprezzo per quella bruna beduina, una donna sudicia e cupida. Usufruendo di tutte le sue malizie e menzogne, e sotto apparenze falsamente subdole, cerca di conquistare il padrone della ragazza araba, un suo indigeno: «[…] la bruna Beduina era limpida, chiara, sincera, buona come la luce solare, – e la bionda e pallida francese era oscura e insidiosa come la notte stessa»38. Il confronto tra le due donne di differente estrazione non avviene solo sul piano della bellezza, ma soprattutto della passione di ognuna di loro. Tutte e due sanno che cosa fare, ma diversamente: se la straniera è consapevole del potere delle sue parole lusinghiere per tendere una trappola ai due amanti, l’indigena beduina è perfettamente consapevole della menzogna della commedia, (lo straniero che non tiene mai fede al suo amore per lei, ma piuttosto ai propri desideri ed ambizioni), di cui fa parte diventando «un animale mimetico» per eccellenza senza accorgersene. Annetta prova la gelosia per un amore sbagliato, Gamra è gelosa perché è convinta che l’amore sia tutta la sua vita. Grazie ad esso quest’ultima non sarà più oggetto di lusso o di piacere, mai più una concubina, tale da essere abbandonata con disonore, giacché il suo Sidi è tanto forte che «saprà vincere anche il cattivo destino». Il carattere selvaggio la spinge a difendere il suo bene anche fra calde lacrime ed amare gelosie ché si sente superiore alle altre indigene, le quali provano diversamente gli stessi suoi sentimenti. La beduina, con la propria scelta, appare tutt’altro che superiore: rappresenta una figura pallida e marginale in confronto a Jeanne, perché accetta d’essere solo una femmina e dentro di sé è convinta della sua inferiorità rispetto alle altre donne d’oltre mare. Quanto s’è detto concerne un’arte particolare, che la scrittrice definisce “istintiva” e potrebbe essere proficua non solo per le donne musulmane, ma anche per tutto il genere femminile: Prima di tutto la convinzione, profonda e sentita, della superiorità maschile, il bisogno di obbedire all’uomo, di amarlo […] Il desiderio di dargli gioia […] e, infine di apprezzare la felicità che solo un Amante può dare. Inoltre non chiedere mai niente oltre l’Amore […] di dare sempre senza misura […] Un uomo è sempre superiore ad una Donna, anche se la donna è saggia e intelligente come lo ero io39. 38 L’Oasi, p. 218. 39 Ead., Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, cit., p. 130. 768 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [19] 8. Come ho già avuto modo di osservare, il segreto della felicità per lei non consiste nella bellezza femminile (si sa che Leda era magra e bruna e modesta di “plasticità” simile ad una “stilizzata statuetta egizia”), né nel desiderio di lusso o nel denaro, ma piuttosto nel provare la soddisfazione della conquista mediante la forza e la volontà. Tutti noi aneliamo al raggiungimento della felicità, molti percorrono inconsapevolmente il cammino della loro esistenza. Quando si comprende dove sia la felicità, è ormai troppo tardi, perché essa è nel cuore dell’uomo, è proprio il suo essere e non sta, come credono in molti, nelle ombre, cioè nelle cose temporanee. Distinguere fra il bene e il male, il peccato e la virtù, il giusto e lo sbagliato può condurre allo scopo principale. Perciò, i sufi chiamano Dio l’Amato e lo vedono in tutti gli esseri dell’universo: essi vivono in uno stato di perfetta serenità con le proprie anime, avendo trovato ormai la pace, scopo ultimo della vita. Anche Leda seguiva una sua stella per essere guidata verso l’Isola Felice, in cerca di bagliori di luce per trovare la via della felicità prima del suo tramonto definitivo. Quasi antitetica appare la figura d’una delle sue eroine, che va contro corrente come una piuma in balìa del vento, galleggiando dietro la felicità che in realtà non possiede, finché non perderà le forze per sempre. Un altro tema che si può essenzialmente collegare alla felicità è quello dell’amicizia, unico mezzo per fuggire dalla noia e dal cerchio chiuso d’una vita. In diverse occasioni la Rafanelli parla delle sue amicizie sia nella sua corrispondenza che nei racconti e romanzi: l’amicizia esprime, per lei, bei momenti in cui si stringe un legame di sangue fra fratelli o padri, Sahib (in arabo: amico) o Qalbi (in arabo: cuor mio), compagni d’idee e d’affinità intellettuali. È un rapporto che va al di sopra dell’affetto e dell’amore (che può essere in certi casi nemico della pace del cuore come dice Leda). Si dice che tra uomo e donna non possa esistere l’amicizia, ma per Leda non è stato così, poiché «non tutti gli uomini sono come te né le Donne come me. Anzi, nessuno lo è all’infuori di noi»40. I rapporti amichevoli che instaurava con i compagni di vita la conducevano a costruire sempre un vero e proprio nucleo familiare. La casa ammobiliata all’uso orientale, in viale Monza a Milano, ospitava i suoi sahib nella piccola stanza di “harem”, per trascorrervi serate più 40 Ead., Lettera di L. Rafanelli a Carlo Molaschi, 25 marzo 1918, in Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 83. [20] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 769 possibilmente lontane dalle lotte, dai momenti dolorosi, in cerca di pace e di serenità. Il valore della vera amicizia si basa sulla verità e non sull’ipocrisia e dissimulazione. Ciò avviene nel momento in cui Henry, lo straniero “infedele” «si sentiva quasi diminuito di fronte a sé stesso […] che non si sarebbe mai potuto assimilare a gli indigeni»41. Malgrado sia più civile, più moderno e più pratico, questo artista francese è incapace di descrivere come quegli uomini nomadi siano umili come “mendicanti” ed al tempo stesso fieri come “principi”, né di capire la diversità di idee ed opinioni che lo separa sostanzialmente da loro. E non solo, il suo pensiero compara, in una notte insonne sotto il cielo sereno, l’atteggiamento d’una beduina con il marito fisicamente indebolito, con la reazione della moglie francese nei confronti del suo uomo stanco. Egli va col pensiero alla libertà «immorale» che gode la donna europea e le permette d’attendere con pazienza e consolazione la guarigione del marito malato, prendendosi, però, un amante «non stanco» sotto il tetto coniugale. La sposa orientale non appagata dall’amore del coniuge, lo sfugge invece di restargli accanto ingannandolo. Henry scopre d’essere molto lontano dall’anima degli arabi, e, caduta l’illusione del primo entusiasmo, si pente di tutto. Due istinti sono fondamentali nella natura di donna o femmina che sia: la maternità e la sensualità. Questi sentimenti istintivi sono da Leda evocati per più versi nei termini di diritto ed uguaglianza fra uomo e donna. Le protagoniste dei suoi scritti, come s’è già visto, s’interrogano sulle loro passioni ed i loro sentimenti dal momento che tutte, anche le meno belle, hanno diritto all’amore felice e all’espressione dei propri desideri. Il concetto della maternità, del resto, viene inteso dalla scrittrice «come dono d’amore»: è da ricordare la vicenda della povera berbera che vuole legare a sé il suo uomo europeo tanto amato avendo da lui un bambino. Tale dono diventa tragicamente una catena da spezzare: non più la gioia serena di sentirsi madre, ma il malessere fisico e spirituale fa di Gamra «la femmina sfiorita per la maternità», la cui giovinezza fresca e sorridente sparirà per sempre. L’angelo della morte, come le diceva sempre la vecchia fattucchiera, ha travolto non solo le terre dei “rumi”, ma anche tanti altri innocenti ne sono colpiti. Le altre donne beduine sono, invece, felici d’avere bambini legali dai loro padroni. La maternità, che si configura come doloroso sentimento di 41 L’Oasi, p. 205. 770 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [21] tristezza e disperazione per questa piccola ragazza, viene positivamente interpretato in diversi scritti rafanelliani come vita serena e sicura, una missione semplice ma immensa, pure con tutte le difficoltà che possono presentarsi. Lasciamo che sia lei a descriverlo nel suo racconto intitolato Una mamma: Ella assomigliò, in quell’istante, alla Madonna di un artista celebre, una Madonna umana, viva, splendente nella sua aureola di maternità […] finì la sua vita non come una vecchia stanca, ma come una sacra donatrice di vita42. Leda, inoltre, si occupa della poligamia del mondo arabo beduino, criticandola aspramente ed osservando come le due spose, creature deboli, d’un fellah si sacrifichino molto nei viaggi per il suo servizio, invece d’essere da lui protette. Con l’Islam la pratica di avere molte mogli, già presente nella società, fu regolata facendo assumere agli uomini delle responsabilità nei confronti delle loro mogli. L’uomo deve originariamente capire che il matrimonio è un contratto sacro così come la famiglia. Se le donne oggi non hanno più bisogno di un “protettore” che le faccia apprezzare in società, sono colte, lavorano, possono mantenersi, regolare la loro vita produttiva, il Corano sancisce esplicitamente l’obbligo di equità e giustizia verso le spose affermando: «e se temete di non essere giusti con loro, una sola»43. La poligamia islamica si giustifica dunque con l’esigenza di giustizia sociale e col bisogno di non essere preda delle proprie passioni. L’idea della famiglia va intesa come unità coniugale all’interno della quale i legami tra i due coniugi, genitori e figli svolgono un ruolo fondamentale. Modello della collaborazione fra due donne è rappresentato da Nigma, la moglie invecchiata del nomade pastore e Warda, la giovane sposa forte, che vivono insieme in un intimo accordo e s’aiutano nel campo del loro padrone. È questo, come afferma il dottor François Marcel, il dovere della donna araba, non contaminata dall’emancipazione in uso nel mondo occidentale del tempo. 9. Il dottor François Marcel viene considerato il più interessante fra i personaggi maschili dell’Oasi: la sua eccezionalità non consiste soltanto nell’essersi convertito ad un’altra religione, ma piuttosto nel cambiamento totale del suo aspetto fisico e spirituale. È venuto 42 Ead., Una mamma, in Donne e femmine, cit., pp. 39-40. 43 La Sura delle donne (Medinese, versetto: 3), in Il Corano, cit., p. 54. [22] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 771 in Africa al seguito di una spedizione scientifica e governativa per ordine dello Stato e non ritornerà più in patria. Lavora il suo orto come un povero fellah indigeno, e, dopo aver speso tutta la sua ricchezza per i bisognosi, sposa una berbera avendone due figli. Il suo aspetto di Pascià non cela la simpatia che ispira agli arabi i quali l’hanno soprannominato “Sidi – el- kerim”, cioè il signore generoso, dote peculiare e cara che risale al Generoso, uno dei più bei nomi di Allah. Egli rappresenta la saggezza popolare sicché sembra al suo connazionale un indigeno intransigente e ribelle contro la protezione francese: Ho amato l’Oriente non attraverso il sorriso e le carezze di una donna, ma conoscendolo palmo a palmo, ammirandone la bellezza naturale, le impronte secolari del genio umano, imparandone la favella, adottandone i costumi, osservando la sua Religione che è Legge di saggezza virile e di libera carità44. Da ciò si può capire che la convivenza con quella gente soddisfatta del proprio destino e pacificata con se stessa, lo conduce alla scoperta di ricchezze più preziose, alla comprensione più libera della vita ed alla visione di una civiltà più umana. Parla della sua razza come di una maledizione, sulla quale si abbattono insaziate sete di guadagno ed inquietudine illusoria di conoscenza; e contempla la semplicità e la serenità d’un popolo disarmato, ugualmente dignitoso della fede, che lascia fare a Dio. Riassume la saggezza araba in poche ma grandi parole, affermando che il veleno della dominazione e dello scetticismo occidentali non può corrompere la tranquillità del loro “el- hamdullillah e insciallah”. Il concetto della donna del dottor François Marcel è, inoltre, eccezionale rispetto a quello occidentale: la moglie è una brava e buona donna che deve essere rispettata e che deve amare il suo uomo e servirlo con devota obbedienza. Come ricompensa, egli le procura il cibo, l’ospitalità e la soddisfazione della sua sensualità. Trova una cosa normale sposarne più d’una, ma gli basta una sola compagna di vita, il che fa capire quanto sia forte l’influenza che esercita quella vita, da lui definita bella e seducente, sulla sua persona. Non è per lui, quindi, questione d’esotismo o di sogni di lontani orizzonti, egli è riuscito a vedere «l’anima dietro le parole», dipingendo un quadro in cui s’oppongono chiaramente due modelli di vita, di donne ed uomini. 44 L’Oasi, p. 185. 772 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [23] La Rafanelli descrive un tipo d’uomo semplice che conduce una vita non contaminata dalla tecnologia moderna, come se vivesse fuori del tempo senza ansia del futuro perché ciò che vale per lui è la sua realtà presente. La diversità fra le due civiltà viene rappresentata in diverse occasioni ed è rappresentata mediante il sentimento di straniamento e distacco che prova Henry durante lo scoppio del primo conflitto mondiale, trovando la reazione dei suoi connazionali uguale a quella del popolo sottomesso. Nessuno può essere d’accordo con i principi e valori apparentemente nobili che egli propaganda riguardo al colonialismo delle Nazioni civili: «che si agonizzino tra di loro i bravi soldati e lascino tranquilli i paesi che non chiedono altro che di essere lasciati in pace!»45. È l’unico che giustifica, con l’ipocrisia dei propagandisti letterati, la prospettiva paternalistica del protettorato, lo sfruttamento della ricchezza delle colonie, l’asservimento degli indigeni, pur nutrendo un certo interesse e simpatia per quella gente ed un sentimento d’amore per una ragazza beduina. Tutto sarà, però, vano: «sono come la goccia d’olio agitata in un bicchiere d’acqua […] avete voglia di agitarla, di mescolarla! resta la goccia d’olio nell’acqua!»46. L’uomo europeo non può vivere in armonia con quell’ambiente, data la sua smania di sapere tutto, la mancanza di fede e la tensione verso il futuro. La dura denuncia, che si può cogliere nei discorsi fra queste coppie di personaggi opposte, non va d’accordo con certe idee principalmente anarchiche che la Rafanelli abbracciava come la proiezione verso l’avvenire, la fede nel progresso e nella ragione dell’essere umano libero, l’importanza della modernità con lo sviluppo scientifico e tecnologico. Risulta evidente, del resto, che la scrittrice non poteva contemporaneamente rinunciare né alla sua militanza in favore della liberazione dei popoli oppressi, occupandosi essenzialmente della solidarietà verso quella gente, tanto da farne, anche attraverso i suoi scritti, la primaria essenza della propria vita, né alla sua profonda passione per l’Oriente. Le sue convinzioni pacifiste la tengono a distanza dalla propaganda per l’interventismo (definiva esecrato l’“armiamoci e partite”) e dall’intento di monopolizzare potere e cultura. Vive un’esistenza “irregolare e caotica” andando per la sua strada contro corrente, assicurando pur tuttavia di trovarsi bene anche se il Destino la tiene lontana, insomma, dai suoi 45 Ivi, p. 268. 46 Ivi, p. 190. [24] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 773 cari (Terra, Mare, Deserto)47. La sua è, dunque, una vita complicata e difficile, ricca di ricordi, avvenimenti e sconvolgimenti, noti soprattutto «per quanto di romanzesco ed affascinate essi rappresentano »48. Abbraccia l’anarchismo individualista, ma a modo suo, e, fedele alle sue idee politiche e convinzioni religiose, Leda attende alle sue molteplici attività ed impegni (è da ricordare il suo assiduo e faticoso lavoro di pubblicista49 e tipografa), animata dall’ideale di libertà che illuminava il suo cammino. La sua vita specialmente nella maturità è stata dolorosa e difficile, ma è stata sempre pronta ad affrontarla con grande forza d’animo. Queste sue caratteristiche evocano la figura di quei figli del deserto che vivono fieri e nobili i loro giorni; ciò che conta per loro è la realtà d’oggi ché di domani non sono sicuri: è nelle mani di Dio. La natura inquieta, associata ad una buona memoria, le permette, nella sua produzione letteraria, di intrecciare momenti salienti della storia d’Italia ed avvenimenti significativi della sua vicenda personale. La scrittrice rimane volutamente estranea ai fatti narrati, ai personaggi direttamente conosciuti ed incontrati nella sua vita, in modo che i suoi scritti siano considerati soprattutto per i contenuti storici e letterari. A tal riguardo Alessandra Pierotti pone in rilievo il valore storico che assume la sua vita, rilevandone l’«autentica testimonianza storica»50. 10. Fra realtà ed immaginazione, Leda assume le sembianze del serpente simbolico di Nietzsche, strisciando sulla terra, e distesa al sole, per accennare «le insidie degli abissi che chi guarda in alto non scorge»51. Gli oggetti che raccoglie nella sua stanza privata continuano ad avere un valore fino alla sua scomparsa: trova aderente ai suoi desideri uno scarabeo in terracotta visto in una libreria. L’oggetto, che viene percepito come esterno, può essere considerato 47 L. Rafanelli, Lettera di L. Rafanelli a Sidi Aurelio Chessa, Genova, 21 settembre 1965, in Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 11. 48 M. Granata, Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 25. 49 Con il suo compagno di vita, per un certo periodo, Giuseppe Monanni, Leda dirigeva una delle case editrici più importanti del primo Novecento e la più importante iniziativa editoriale degli anarchici dell’epoca, che diffondeva ampiamente opere e scritti di grandi scrittori ed intellettuali stranieri ed italiani. 50 A. Pierotti, Le pagine di Leda Rafanelli, in Leda Rafanelli tra letteratura e anarchia, cit., p. 36. 51 L. Rafanelli, Lettera di L. Rafanelli a Carlo Molaschi, 25 marzo 1918, in Ead., Lettere D’Amore E D’Amicizia, cit., p. 83. 774 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [25] come un’entità effettivamente separata da noi, ma può essere considerato anche come qualcosa che interagisce “affettivamente” con l’individuo. Secondo gli Egizi, a mo’ d’esempio, lo scarabeo viene identificato con la divinità che dona la vita, cioè il Sole, poiché nel compiere il tragitto per depositare il proprio seme, compie esattamente lo stesso percorso del Sole: muore ad Ovest, per poi ricomparire il giorno seguente ad Est. Ho aperto questa parentesi per porre in rilievo che l’immagine è di per sé un linguaggio indeterminato, evocativo, e dotato di segni che assumono valore simbolico in relazione al significato che attribuiamo a ciò che osserviamo o al valore pragmatico degli scopi della comunicazione. A questo riguardo, vale la pena soffermarsi sulla scena in cui l’autrice descrive vivamente gli oggetti preziosi che la vecchia fattucchiera prepara per leggere ciò ch’è scritto nel destino della ragazza beduina: Mabruka tornò ad allungare il braccio verso le gulle; ne prese una che era piena di sabbia. Non però della sabbia insipida e grigiastra del litorale, ma una sabbia fine, dorata, preziosa: sabbia che veniva certo dalla sacra terra dei Faraoni […] sembrava versasse dell’oro52. Gli elementi di sabbia, fuoco e fumo, che appaiono qui, fanno parte dell’immaginario che rappresenta l’arte antica con cui si pretende d’intuire ed interpretare il destino grazie ad una virtù particolare ed una forza ignota agli altri uomini comuni. L’insieme del clima, del comportamento e dell’abito dell’indovina (galabiàh nera e lunga, braciere, benzoino, conchiglie) dipingono, invece, il quadro di una realtà vissuta, la vita quotidiana e la somma delle esperienze di quell’individuo. Già da quanto emerso, appare evidente che le immagini da cui Leda è colpita le si fermano nel cervello e con la sua inconscia fantasia, cioè la capacità di creazione, cerca un mondo da contrapporre come alternativa a quello moderno dell’imperialismo, del potere, delle macchine. Le sue attività molteplici non si limitano, però, a scrivere articoli dai toni fortemente polemici sul piano delle lotte sociali, ma anche si appuntano sulle differenze di classe, con la speranza viva di redenzione umana e riscossa sociale. Leda attacca, con la propria consapevolezza e sensibilità umana, i ricchi ed i grattacieli, le ville, 52 L’Oasi, p. 52. [26] IL FASCINO DEL MONDO ORIENTALE IN L’OASI 775 i palazzi costruiti solo per loro; mentre i poveri vivono senza tetto soffrendo la schiavitù e l’ingiustizia, in un periodo storicamente disorientato e di disagio. Il suo pensiero anarchico non significa, peraltro, odio o ribellione, condanna o sdegno: essendo anarchica dovrebbe essere “superiore”, come sostiene, per natura. Ciò ch’è giusto, bello e morale, oppure civile, umano ed indispensabile nelle società attuali, lo vede, insieme ai ribelli e rivoluzionari, come ingiustizia, menzogna e schiavitù. Scrive, ben convinta del suo orientamento diverso dal nichilismo: Più vicina all’animo umano e più sincera è la concezione opposta, quando l’individuo aspira al bene, alla pace e alla bontà e sente tutte le forze contrarie opporsi alla sua ascesa verso la perfezione53. Leda non era il tipo di donna che lottava per l’uguaglianza fra uomo e donna né per ottenere, per le donne, gli stessi posti da sempre riservati all’uomo. È contro-corrente e contro il dogma (a lei piace dirlo) perché trova ingiusti certi tribunali e leggi, oscure le celle delle prigioni, ed immani le fatiche e le sofferenze degli operai e proletari. La festa del primo maggio viene da lei criticata come ritualizzazione dell’evento ed afferma, in uno dei suoi opuscoli antimilitaristi, che ci sarà una festa per il proletariato quando verrà liberato dallo sfruttamento del capitalismo e dall’oppressione del dogma54. Il mondo si presenta, secondo le sue idee particolari, sotto due aspetti: uno viene visto dalla classe ricca borghese, l’altro lo vede a rovescio la classe povera ed umile. La visione del mondo è, in effetti, qualcosa che resta sempre soggettiva: per me, come per gli altri, vedere il mondo serve a capire quel poco che è possibile capire; per la Rafanelli, invece, la cosa è diversa. Il fascino di questa scrittrice rivoluzionaria non deriva tanto dalle sue capacità intellettuali, quanto dal suo interesse ed impegno verso le cose semplici e piccole d’una realtà complessa e dai contatti diretti ed attivi col mondo esterno. Tutto nella vita è carico di significati: il che chiarisce lo stile diretto ed efficace con forti toni ad effetto dei suoi scritti. Negli ultimi anni si guadagnava da vivere dipingendo calligrafie islamiche, facendo l’insegnante di lingua araba e scrivendo alcuni articoli per la rivista anarchica «Umanità Nova». Negli ambienti 53 Per un’informazione più dettagliata si veda Ead., Noi, Nulla, «Nichilismo», 5-20 aprile 1920, in FLR. 54 Ead., Primo maggio, Firenze, Rafanelli-Polli e C., s.d. 776 MARWA ABDEL MONEIM ABDEL RAOUF TANTAWY [27] sovversivi e in quelli della sinistra milanese, la Rafanelli veniva considerata fra gli ingegni, “un personaggio” che ha il merito d’essere stimato per le sue idee e per l’impegno nei diversi campi della società presente. Scompare lentamente pronunciando qualche parola incomprensibile per la nipote che le stava vicina («sarà stata un’invocazione ad Allah? Probabilmente sì»55), dopo aver indossato una “gellabja” gialla che Leda conservava fra altri oggetti cari nella sua stanza privata o per meglio dire nel proprio harem. In un giorno vicino alla sua morte la Rafanelli ha pensato d’essere un personaggio immortale e, direi, lo è, alla fine d’un lungo percorso creato da se stessa, insistendo nell’essere sempre protagonista delle sue scelte. Aveva scoperto con una profonda soddisfazione che nella sua vita libera ciò che valeva non erano più i dolori e le delusioni o le fatiche e le malattie, ma piuttosto la buona amicizia fatta con i compagni di strada, dai più umili ai più illustri, che erano i soli a darle la luce ed il calore nella vita. Essere buoni, giusti e pazienti, tenere la testa a posto sono gli ingredienti per la saggezza d’una donna in gamba che fra ribelli, refrattari ed individualisti è rimasta semplicemente “Lei”. Marwa Abdel Moneim Abdel Raouf Tantawy (Università “Ain Shams” – Egitto) 55 M. Monanni, Post-fazione, Leda Rafanelli – Carlo Carrà. Un romanzo, cit., p. 24. GIULIA CACCIATORE Nel laboratorio di Bufalino The essay aims at reconstructing the genealogy of Bufalino’s works by tracing in his second novel, Argo il cieco (published in 1984), the nucleus from which Qui pro quo, Tommaso e il fotografo cieco and the unpublished Guazzabuglio originated. The physician-patient relationship on which Argo is based allows the author to maintain that La coscienza di Zeno is the “ideal model” of Bufalino’s novel. Bufalino1 donò al Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei dell’Università di Pavia, nel 1989, i materiali preparatori di Diceria dell’untore (1981), Museo d’ombre (1982), Argo il cieco ovvero i sogni della memoria (1984), e la raccolta di racconti L’uomo invaso (1986). Sebbene gli autografi, manoscritti e dattiloscritti, siano grosso modo completi, ovvero contengano tutti i testi realmente pubblicati, in una lettera del 25 ottobre 1988 indirizzata a Maria Corti, l’autore precisa di non aver accluso alle stesure di Diceria e Argo tutta la documentazione in suo possesso: «ho recuperato il materiale da un caos di vecchie carte, sono dunque assenti porzioni di testo e precedenti stesure chissà dove smarrite»2. Del secondo romanzo Argo il cieco, oggetto privilegiato del mio studio, sono presenti al Fondo Manoscritti tre cartelle: la prima ri- 1 Le citazioni dei romanzi di Bufalino provengono dal volume G. Bufalino, Opere 1981.1988, a cura di M. Corti e F. Caputo, Milano, Bompiani, 20012. Per ciascuna opera sarà riportata l’abbreviazione seguita dal numero di pagina: Diceria dell’untore (DU); Argo il cieco (AC); mentre la sigla degli autografi ACS sta per Argo il Cieco Scartafaccio come indicato dal catalogatore. Per le opere di Svevo, Senilità (S) e La coscienza di Zeno (CZ), il testo di riferimento è I. Svevo, Romanzi, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 1969; il romanzo incompiuto Il vegliardo (V), invece, è citato da I. Svevo, Romanzi e «Continuazioni», a cura di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004. 2 La lettera è riportata integralmente da Francesca Caputo in appendice al volume Gesualdo Bufalino e la scrittura felice, a cura di A. Sichera, Ragusa, EdiArgo, 2006. 778 GIULIA CACCIATORE [2] porta sul frontespizio la dicitura autografa «ARGO IL CIECO/Fiaba/ Guazzabuglio/Capitoli già fatti 1-2-3-4-19/Roba inutile/ (N.B: Fiaba nera/primo titolo di/Argo il cieco)» ed è costituita da circa 250 fogli, tutti sciolti, sia dattiloscritti che manoscritti, testimonianti una stesura “magmatica” nonché intermedia rispetto alla lezione a stampa. La seconda è composta da circa 140 carte, perlopiù bifoli3, corrispondenti ad una fase già avanzata del romanzo mentre l’ultima, la terza, consta di due fascicoli entrambi in fotocopia (l’originale del primo è conservato presso la Fondazione Bufalino di Comiso), dattiloscritti e rilegati che raccolgono rispettivamente i capitoli da I a VIII bis il primo, da IX a XVIII ter il secondo. Mancano dunque i primitivi materiali dell’opera. La trama di Argo, com’è noto, è costruita sui ricordi inventati di Gesualdo che ricorre alla scrittura per guarire la sua nevrosi; egli compone dunque un “memoriale” rivolgendosi al suo interlocutore immaginario, il lettore. Dalla “prima” stesura magmatica, si ricava che l’idea iniziale del romanzo non si basava sulla dialettica narratore/ lettore bensì prevedeva, quale destinatario delle proprie memorie, un medico, chiamato ironicamente «Herr Doktor». Diverso era anche il nome del protagonista: Serafino. Questi due elementi rimandano inevitabilmente ad un racconto apparso lo stesso anno di Argo, il 1984, e confluito dopo due pubblicazioni precedenti4 nella raccolta L’uomo invaso con il titolo Dossier Lo Cicero. Il protagonista, Serafino Lo Cicero, è in cura presso la clinica “Robert Walser” diretta dal dottor Fritz Bernasconi per rimuovere gli impulsi suicidi cui è soggetto, dovuti ad evidenti disturbi psichici. Il dottor Bernasconi presenta ad un congresso il “romanzo” scritto a scopo terapeutico da Lo Cicero durante il periodo 3 Lo scrittore usava la carta copiativa per ottenere due copie pulite sulle quali lavorare: sulla prima apponeva le correzioni mentre lasciava intonsa la seconda. Se le modifiche riguardavano, invece, porzioni di testo più estese, Bufalino riscriveva il frammento corretto per poi ritagliarlo e incollarlo con lo scotch sul foglio dattiloscritto o manoscritto. 4 La prima sulla rivista letteraria «Acquario» con il titolo Relazione del dottor Fritz Bernasconi accompagnata dall’“avvertenza”, probabilmente di mano dello stesso autore poiché l’articolo non è firmato, «Si pubblica qui il primo capitolo del romanzo ancora incompiuto di Gesualdo Bufalino, Il Guazzabuglio»; la seconda il 6 gennaio 1985 sul quotidiano «La Sicilia» intitolato Nel guazzabuglio di Bufalino, con un sottotitolo più articolato, tuttavia riconducibile allo stesso autore, «Il primo e finora unico capitolo di un romanzo incompiuto di Gesualdo Bufalino, Il guazzabuglio. Nessuno e nemmeno l’autore, sa se lo scrittore in un improvviso ritorno d’ispirazione darà un seguito a queste pagine». [3] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 779 di degenza affinché il pubblico di «esperti e medici dell’anima»5 ne analizzi il caso clinico. L’omonimia con il personaggio del Dossier e la tematica del confronto malato/dottore non sono occasionali ma pervadono la “prima” stesura di Argo il cieco e si sviluppano, propagandosi, all’interno di capitoli chiave come quelli della fuga di Maria Venera, dell’innamoramento di Serafino per quest’ultima oltre che per Cecilia e, infine, anche in quello conclusivo. Nel terzo capitolo, fondamentale nell’economia del romanzo poiché dà inizio all’azione, Serafino aiuta il nonno di Maria Venera a ricondurre a casa la ragazza fuggita con l’avvocato Virgadaula: Allora non potei che cominciare a carezzarle i capelli, piano, come si fa con l’anziana micia di casa, e poi tutto il viso, secondo che lo indovinavo al buio e riconoscevo a memoria la fronte, larga, bianca, su d’una coppia d’occhi callidi e misteriosi, con un’aria, nel guardare, di cocciutaggine e sazietà. Come di chi abbia un pensiero solo e non voglia dividerlo con nessuno; poi quel naso così perfidamente affilato, le labbra che sembravano fare all’amore fra loro… Me ne veniva, devo dirlo? una languidezza, un rimescolìo… Serafino, ma che succede?6. Il giovane s’innamora di Maria Venera ma anche di Cecilia, una bellissima calabrese compagna del ricco barone Sasà Trubia; indeciso fra le due, Serafino cerca conforto in Amalia, sua confidente e amante occasionale, che gli consiglia di sposarsi: Serafino, qui dobbiamo spiegarci. Io ti vedo dimagrire come una sarda. E so che non è colpa mia, di queste pochezze che facciamo. Diceva buonanima mia chi fa l’amore s’ingrassa, chi lo vede fare si scassa. E aveva ragione, queste cose mettono sangue. Ma tu, la tua quartara è da un’altra parte che perde. Tu hai la mente sparpagliata, il cuore farfarello, a questo punto ti conviene sposarti7. Infine, come il Serafino del Dossier, anche il Serafino di Argo scrive il suo libro di memorie felici nella clinica “Robert Walser”, da quanto si evince in un fascicolo8 contenente quello che doveva essere il finale del libro: 5 G. Bufalino, Dossier Lo Cicero, in Id. Opere 1981.1988, cit., p. 543. 6 Il passo si trova in ACS, 281 n.d.c.; 18 n.d.a. 7 ACS, 323 n.d.c., 18 n.d.a. Il nome Serafino verrà cambiato in quello definitivo di Gesualdo proprio in un rifacimento di questo brano, esattamente a p. 44 n.d.a. 8 Il fascicolo è costituito da un insieme di bifoli classificati ACS, 76-82 non 780 GIULIA CACCIATORE [4] Supino qui, stanotte, a sessant’anni e passa, ragionevole età per morire, non altrettanto per scrivere, in una matrimoniale del Robert Walser [poi corretto in Hotel Sole] dove aspetto l’alba, sommando, come monete d’avaro, parole, con una penna esausta sul rovescio d’una pianta di città9. In un rifacimento dello stesso capitolo, inoltre, il protagonista racconta di essere scampato alla morte perché avvertito da un messaggio anonimo che gli preannunciava che sarebbe stato investito: Non so chi […] aveva aggiunto di frodo a conclusione di tutto una sin troppo esplicita coda di nota obituaria con tanto di testimonianze di vigile al Largo di Santa Susanna e contro deduzioni dell’AR, Assicurazioni Romane, essendo che la polizza escludeva dal beneficio le vittime del decesso artificiosamente voluto. Cassato dalla lezione a stampa, questo episodio è confluito nell’edizione definitiva del Dossier in cui, appunto, Serafino troverà la morte proprio perché investito al Largo di Santa Susanna10. Il rapporto fra il dottore ed il paziente, inoltre, è presente sia in questa stesura di Argo che in quella pubblicata sull’Antologia del Campiello11 nel 1981 con il titolo Di un’estate felice (corrispondente, salvo coincidenti con la numerazione dello scrittore. Tuttavia è interessante notare che la prima di queste numerazioni d’autore fosse 19 e richiama quindi i «capitoli già fatti» [1-2-3-4-19] indicati sul frontespizio della cartella ARGO IL CIECO/ Fiaba/Guazzabuglio. 9 Questo passo, come tutto il contenuto del capitolo, confluirà senza grandi cambiamenti nella lezione a stampa. 10 Nella stesura originaria del Dossier, proprietà del Fondo Manoscritti di Pavia, Lo Cicero non muore ma abbandona la clinica Robert Walser; mentre in quella posseduta dalla Fondazione Bufalino, completa e definitiva, salvo poche varianti, il dottor Bernasconi annuncia la morte di Serafino. Il legame tra il racconto e Argo è confermato anche dallo stato delle carte: quelle del primo, infatti, si presentano molto ingiallite rispetto alle altre che costituiscono i lavori preparatori de L’uomo invaso in cui il Dossier è accluso e, sul verso, riportano tre poesie dattiloscritte de L’amaro miele: Malincuore, il giorno del santo; “Intermittence” in via Rosolino Pilo; Risorgimento. Le stesse poesie e lo stesso progressivo ingiallimento della carta ritroviamo anche per alcune carte di Argo che, a ben vedere, sono proprio quelle in cui il protagonista risponde al nome di Serafino. 11 Subito dopo aver vinto il Campiello con Diceria dell’untore, Bufalino pubblicò questo come altri frammenti inediti (Umoresca del non dormire poi in Cere perse del 1985 nella sezione Svaghi; un passo da La passione del personaggio; qualche poesia da L’amaro miele e, infine, qualche traduzione di Baudelaire) in una sezione chiamata Miscellanea dai vecchi cassetti. L’Antologia raccoglie, inoltre, [5] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 781 alcune varianti, ai primi due capitoli di Argo) in cui il racconto del protagonista è intervallato dal dialogo con il suo medico: Alt, che ne dici signor specialista? A te preme che io racconti di tenerezze e contentezze lontane, no? T’importa poco il genere e il modo, purché la cosa, medicina o placebo, funzioni. […] Herr Doktor, va bene così? Artefatto e fatuo abbastanza?. Questa dialettica, dunque, si rivela centrale nell’elaborazione di Argo soprattutto perché s’inseriva nei capitoli cosiddetti “bis” aventi la funzione di sorreggere l’impalcatura romanzesca poiché in essi l’io narrante interrompeva i ricordi della sua giovinezza modicana per tornare al «nero presente», quello della cura psicoanalitica12, e rivolgersi al suo dottore. Il primo sviluppo di Argo, i due capitoli che ne anticipano la pubblicazione (Di un’estate felice) e parte del Dossier, erano dunque amalgamati in un’unica complessa materia cui Bufalino aggiungeva progressivamente sostanza fino a farne una miscela di vari generi: ora falso memoriale ora pseudo autobiografia ora una sorta di giallo in cui il paziente avrebbe dovuto indagare chi tramava per ucciderlo, per poi scoprire che l’assassino era il paziente stesso; tutto ciò tenuto insieme da una “babele” di citazioni sia nascoste nel testo che dichiarate apertamente (si pensi all’evidente suggestione sveviana del rapporto medico/paziente). Nel novembre 1982, però, Bufalino decide di suddividere questo “nucleo romanzesco” in due parti, come risulta dal seguente appunto: «Copia di lavoro (novembre 1982)/ Dividere Guazzabuglio da Fiaba/ Utilizzare per entrambi vecchio Guazzabuglio/ Decisione nov. ’82»13. L’indicazione autografa è fondamentale innanzi tutto gli scritti dei finalisti del Premio tra cui Tonino Guerra e Anna Banti. Cfr., Antologia del Campiello, a cura dell’Associazione degli industriali della provincia di Venezia, 1981, pp. 61-68. La minuta del testo è conservata presso la Fondazione Bufalino di Comiso mentre è in fotocopia, e priva di correzioni, al Fondo Manoscritti di Pavia. Il titolo, come si ricava dall’originale, doveva essere Di un’estate felice, nel ’51 che rimanda inevitabilmente sia all’incipit di Argo che a questo suo frammento: «Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima, né dopo: quell’estate». 12 A conferma che il metodo fosse quello psicoanalitico, in ACS 114 si legge: «Dopotutto – oh le interminabili sedute, lo stretto lettino, le domande, le risposte! – dopotutto la tua diagnosi era stata: perdita d’aggressione, sindrome servile ». 13 L’appunto, in un foglio sciolto catalogato ACS 282, consente a Francesca Caputo di datare l’opera: «L’avvio dell’elaborazione, stando a una indicazione 782 GIULIA CACCIATORE [6] per chiarire che la datazione di Argo non risale, come sinora sostenuto, al 1982, poiché a questa data parte dell’opera esisteva già nel Guazzabuglio e, in secondo luogo, perché consente di individuare il “nucleo” generatore degli altri romanzi via via pubblicati: il “vecchio” Guazzabuglio (che identificheremo con Guazzabuglio A), infatti, dà vita ad un altro Guazzabuglio, il “nuovo”, (che chiameremo Guazzabuglio B) rimasto inedito ma dal quale discendono a loro volta sia il terzultimo che l’ultimo romanzo di Bufalino, Qui pro quo (1991) e Tommaso e il fotografo cieco ovvero Il Patatràc (1996)14. È necessario, quindi, tentare una revisione cronologica del Guazzabuglio A e, con esso, di Argo il cieco. In una cartella conservata dalla Fondazione Bufalino, contenente la stesura del Guazzabuglio B, si trova un documento15, un foglio protocollo sciolto sul quale è incollato un dattiloscritto con correzioni autografe, riportante una data, 12 gennaio, una numerazione, 3 bis16, il titolo Dell’autore sul libro che sta scrivendo. Presunzioni e Pensieri e un’annotazione sul margine superiore «Dal quaderno del ’70 intitolato e interrotto subito dopo una settimana». Dal raffronto fra quanto contenuto in questo dattiloscritto e la versione a stampa di Argo si può constatare la quasi totale assenza di cambiamenti; inoltre, la numerazione 3 bis implica l’esistenza di capitoli precedenti: da ciò s’intuisce che Bufalino doveva aver progettato nel ’70 un autografa […] dovrebbe risalire al novembre ’82». Cfr., Note ai testi, in G. Bufalino, Opere 1981.1988, cit., p. 1354. Come abbiamo visto nell’indicazione autografa apposta sulla cartella contenente questo materiale, Fiaba nera è il primo titolo di Argo il cieco. 14 Bufalino era solito riutilizzare, oltre ai nomi di alcuni personaggi, anche i titoli come nel caso de Le menzogne della notte per il quale pensò a Qui pro quo adottato invece per l’opera successiva, così come lo stesso Guazzabuglio, che doveva dapprima essere usato per Argo e poi adoperato per un capitolo de Le menzogne (Il racconto del soldato ovvero Il guazzabuglio) e, infine, come vedremo, per l’inedito (Guazzabuglio B); è proprio questa malleabilità dei titoli e dei personaggi a rendere maggiormente difficoltosa una ricostruzione dei rapporti fra i testi. 15 La presenza di questo foglio protocollo all’interno della cartella contenente il giallo inedito il Guazzabuglio (B), non ne implica necessariamente l’appartenenza poiché lo stesso Bufalino, come abbiamo visto, specifica nella lettera a Maria Corti di non aver donato al Fondo tutta la documentazione esistente delle stesure di Diceria e di Argo. 16 Il «3 bis» dovrebbe indicare un capitolo, non un numero di pagina giacché il titolo del documento rimanda a quello della lezione a stampa di Argo (Primo dubbio dell’autore sul libro che sta scrivendo) anch’esso rispondente alla sezione III Bis. [7] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 783 romanzo su un’idea ben precisa, interrotto, come indicato nell’annotazione, dopo una settimana. L’incipit («Alt, sto sbagliando tutto»)17, inoltre, rimanda non solo a quello di Di un’estate felice precedentemente analizzato, ma, addirittura, a due appunti autografi, da me individuati, in due stesure preparatorie del primo romanzo di Bufalino, Diceria dell’untore. Il primo è rintracciabile nella stesura classificata D, da considerare intermedia poiché si situa fra quella G risalente, secondo la datazione autografa apposta alla fine del romanzo, al Dicembre 1971, e quella catalogata E sul cui frontespizio Bufalino scrive «Ultima redazione (estate ’77)»18. In D, sul verso di pagina 3 (n.d.a.), si rinviene un ampio brano di mano dell’autore: Alt, sto sbagliando tutto. Ego scriptor, senza paragone più ipocrita di te, mio dissomigliante e caino lettore. Mio inesistente doppio, a cui sussurro dal fondo di uno specchio. O da un camino spento. Sto sbagliando e non me ne importa, questa sera del sessantaquattro, in una stanza d’albergo del “Central Corona”, mentre aspetto una prostituta./ Io sono un’abile ciarlatano. In E19, infatti, Bufalino richiama quanto scritto in D: «(Intercalare altro brano?) Alt, sto sbagliando tutto. (?)». Non è privo di fondatezza, dunque, supporre che il Guazzabuglio A, di cui Argo il cieco è parte integrante, sia stato abbozzato nei primi anni ’70, elaborato lungo tutto questo decennio e poi ripreso nell’81 per la pubblicazione di Di un’estate felice e, infine, suddiviso nel novembre 1982. Argo e il Dossier saranno pubblicati mentre il Guazzabuglio B rimarrà inedito e assolverà alla funzione di libro “canovaccio” da cui Bufalino trarrà materiale e ispirazione per i successivi romanzi. 17 Per ovvi motivi legati ai diritti d’autore e nel rispetto della volontà manifestata dallo scrittore di lasciare inedita l’opera, non saranno citati, come in questo caso e salvo pochi frammenti, passi estratti da il Guazzabuglio B. 18 Nelle Note ai testi relative a Diceria, Caputo inverte la stesura G e quella E poiché considera la prima, la G, quale «ultima stesura» (senza tuttavia riportare la datazione autografa «Dicembre 1971») e la seconda, la E, come «stesura completa » adducendo a suffragio di quanto asserito la dicitura autografa «Terzultima redazione», anziché «Ultima redazione» (non credo siano possibili fraintendimenti poiché l’annotazione «Ultima» è scritta da Bufalino con la lettera maiuscola e, inoltre, il testimone è ben conservato e non sussistono macchie o sbavature d’inchiostro che possano pregiudicarne una chiara lettura). Cfr. Note ai testi, in G. Bufalino, Opere 1981.1988, cit., pp. 1326-1331. 19 Il passo si trova anch’esso, come il precedente, a p. 3 n.d.a., stavolta sul recto. 784 GIULIA CACCIATORE [8] Il motivo tematico centrale, la dialettica medico/paziente, è presente anche in Diceria la cui stesura, risalente com’è noto ai primi anni ’50, viene sottoposta ad una continua revisione dal ’70 in poi. Il rapporto conflittuale fra l’io narrante ed il medico della Rocca, il Gran Magro, vi riveste un’importanza strategica poiché scandisce anche il ritmo dello svolgimento narrativo: dalla complicità dei due nei primi giorni di degenza del protagonista al sanatorio, all’ostilità causata dall’amore di entrambi per la ballerina Marta, alla riappacificazione finale dopo la morte di lei. Diverso però è l’approccio di Bufalino con la materia romanzesca, che con Argo segna una nuova fase non più caratterizzata dalla parabola della “scrittura necessaria” di Diceria, volta ad esorcizzare l’esperienza drammatica della malattia tramite il potere consolatorio della parola20, ma contraddistinta dalla “scrittura ludica”, incentrata sul valore duplice della letteratura di trucco e di frode. Dopo averne ricostruito la cronologia, vediamo cosa ha comportato la suddivisione del Guazzabuglio A. Nella «locandina» (così Bufalino intesta il riassunto della trama) di Guazzabuglio A è condensato il contenuto sia di Argo che del Dossier Lo Cicero: Uno scrittore malato di nervi racconta al medico, per terapia, una stagione della sua giovinezza. E la immagina, la inventa felice. Però più procede nel racconto, più ogni memoria gli si stravolge in favola, in fanfaluca. Falso e vero s’intrecciano, salute e malattia giocano a scambiarsi le parti, una tentazione di morte volontaria affiora sotto la penna21. Il richiamo ad Argo è ovvio, ma anche all’originaria stesura del Dossier, la cui trama non prevedeva, come abbiamo visto, la morte 20 Carlo De Matteis parla di «“apprendistato di morte” giacché la morte è in sostanza il nodo centrale dei romanzi di Bufalino» che si esorcizza solo attraverso la scrittura «che guarisce, al di là della salute fisica, l’autore della Diceria, che salva dalla disperazione del ricordo il narratore di Argo, che realizza, oltre la morte, il progetto di libertà dei quattro condannati de Le menzogne, che, infine, cura terapeuticamente, nell’ideazione di un cerebrale divertissement, l’autore-narratore di Qui pro quo» in Id., L’invenzione romanzesca di Bufalino, «Lettera dall’Italia», Istituto della Enciclopedia Italiana, a. VI, n. 24, ottobre/dicembre 1991, pp. 8-9. 21 L’appartenenza di questa locandina al Guazzabuglio A è confermata dal fatto che, dopo la suddivisione del novembre ’82, Bufalino esegue uno «Spoglio del Guazzabuglio», come si legge in un foglio sciolto manoscritto contenuto nella cartella di Argo, nel quale egli rimanda all’«Ipotesi di Digest», titolo, appunto, di questa locandina. [9] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 785 di Lo Cicero. Un riscontro sulla provenienza di B da A si ottiene paragonando la medesima locandina a quanto dichiarato dall’autore in un’intervista, concessa a Salvatore Signorelli per il quotidiano «Il Mattino» del 24 gennaio 1985, in merito proprio al primo capitolo (il Dossier appunto) del Guazzabuglio B: In realtà ho scritto solo il primo capitolo. Si tratta di un’idea che ancora non ho sviluppato. Non so se ne avrò il tempo, la voglia e la salute. L’idea si riallaccia a questa di «Argo». Il titolo sarebbe «Il guazzabuglio»: racconta ancora di uno scrittore: recatosi in cura presso una clinica svizzera, poi scappato via e, sembra, morto suicida, dopo aver lasciato frammenti di un romanzo. Allora il medico curante, uno specialista, presenta questi frammenti ad una assemblea di colleghi. Il resto non l’ho ancora scritto. Chissà se lo farò mai? Per ora è solo un’ipotesi. Non so proprio che cosa ne verrà fuori…22. Il Guazzabuglio B, dunque, si riallaccia all’idea di Argo non solo perché protagonista è ancora una volta uno scrittore ma anche, come abbiamo visto, per lo sviluppo narrativo della dialettica dottore/ paziente già sperimentata proprio nella prima elaborazione di Argo. Nel 1996, alcuni anni dopo, Bufalino invece afferma: Poco dopo Diceria dell’untore scrissi di getto un romanzo sperimentale, Il guazzabuglio, che però considero una miniera da cui trarre pagine per altri libri23. Apparentemente discordanti fra loro, le due dichiarazioni (quella del 1985 e del 1996) sono entrambe esatte e veritiere poiché, a ben guardare, l’equivocità risiede nei titoli: Bufalino, infatti, con «romanzo sperimentale» e Guazzabuglio, indica sicuramente il primo 22 S. Signorelli, La controfigura della memoria, «Il Mattino» (Napoli), 24 gennaio 1985. Il titolo dell’inedito è Il guazzabuglio ma, per ovvi motivi di chiarezza, ho preferito omettere l’articolo ed indicare l’opera come Guazzabuglio B e distinguerla così da Guazzabuglio A. 23 La dichiarazione è riportata nella Nota ai testi, in G. Bufalino, Opere 1988.1996, a cura di F. Caputo, Milano, Bompiani, 2007, p. 1425; non sono specificati però l’autore ed il titolo dell’articolo. L’unica informazione fornita è la testata giornalistica e la data: «Il Gazzettino», 7 gennaio 1996. Nello specifico, l’autore dichiara che Argo il cieco «è un romanzo di strutture e di segni, un romanzo semiologico» e, in questa prospettiva, si potrebbe considerare l’opera “sperimentale”, in quanto forse persegue lo sviluppo e lo svolgimento del romanzo coevo. Cfr., G. Bufalino, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, Taormina, Associazione Culturale Agorà, 1989, p. 60. 786 GIULIA CACCIATORE [10] (Guazzabuglio A) ma, implicitamente, si riferisce anche al secondo, B, inedito che ha mantenuto il nome del primo perché da esso deriva intrattenendovi evidenti legami. Il Dossier, dunque, diventa “cornice” del Guazzabuglio B la cui parentela è avvalorata a sua volta non solo dal nome del protagonista, Serafino Lo Cicero, ma anche dallo svolgimento dell’intreccio che il Dossier stesso anticipa: su consiglio del Dottor Bernasconi il paziente scrive un giallo il cui sviluppo è elaborato nell’inedito24: Lo Cicero e l’amico Paolo Iaccarino tentano, a proprio rischio, di recuperare una pellicola che li scagionerebbe dall’accusa per l’assassinio di una ragazzina avvenuto durante una festa scabrosa con politici e uomini dell’alta borghesia romana. La storia si trova in Tommaso e il fotografo cieco ovvero Il Patatràc, l’ultimo romanzo di Bufalino il quale attinse sicuramente al Guazzabuglio B giacché, confrontandone il dattiloscritto con la lezione a stampa di Tommaso, è possibile individuare nell’inedito porzioni di testo evidenziate in penna rossa con due linee verticali sul margine del foglio ed effettivamente confluite nel libro invece pubblicato. Con lo stesso procedimento, Bufalino ricava dall’inedito parte di alcuni dialoghi che confluiranno anche in Qui pro quo25. La 24 L’inedito Guazzabuglio (B) è costituito da un dattiloscritto incompleto con correzioni di mano dell’autore di 97 fogli conservati in una cartella con dicitura autografa «Guazzabuglio». 25 Ad oggi l’unica ipotesi riguardo i rapporti fra l’inedito e le altre opere è stata delineata da Giuseppe Traina in una nota (a p. 118) contenuta nel saggio L’uomo invaso (ed altre considerazioni), in Simile a un colombo viaggiatore, a cura di N. Zago, Comiso, Edizioni Salarchi Immagini, 1988, pp. 103-124. Secondo Traina il Guazzabuglio inedito «doveva essere un romanzo giallo, la cui stesura precedette certamente la pubblicazione dell’Uomo invaso ma anche di Argo il cieco: come si ricava dal dattiloscritto conservato presso la biblioteca Bufalino di Comiso, Bufalino utilizzò stralci, temi, idee e personaggi di questo lungo racconto per la stesura di Argo il cieco, Qui pro quo e Tommaso il fotografo cieco; […] da questo grande “semenzaio” deriva anche Dossier Lo Cicero». Traina sostiene dunque che il dattiloscritto il Guazzabuglio B, ovvero il poliziesco di Lo Cicero, sia servito a Bufalino quale spunto per la stesura di Argo il cieco, Qui pro quo, Tommaso e il racconto/cornice Dossier Lo Cicero confluito, appunto, ne L’uomo invaso. Aggiunge poi che «la provenienza [del Dossier Lo Cicero] dal “Guazzabuglio” spiega anche perché questo racconto rechi tracce anche del finale di Tommaso e il fotografo cieco (la morte di Lo Cicero pedone per investimento stradale) e di Qui pro quo [mi venne di suggerirgli (ma in forma più di celia e di ricreazione che d’altro) di scrivere, lui scrittore tanto interiore, un poliziesco d’azione]». L’argomentazione di Traina prende le mosse dall’analisi sia del dattiloscritto che del materiale contenuto nella cartella del Guazzabuglio B ma, probabilmente, non dalla documentazione riguardante le stesure di Argo il cieco, che proverrebbe proprio da questo inedito di cui non fornisce però, a differenza [11] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 787 struttura a incastro, una cornice entro la quale si inserisce e sviluppa il racconto del protagonista, è costante nella narrativa bufaliniana da Tommaso a Argo il cieco a Le menzogne della notte (1988). È evidente dunque come Bufalino continuasse a lavorare al Guazzabuglio B parallelamente alle opere che invece andava via via pubblicando, in parte derivanti da questo incompiuto, nel quale, come è possibile constatare dai materiali contenuti nella cartella ad esso relativa, raccoglieva idee e appunti sparsi da poter riutilizzare, talvolta rimanipolati, in altre sedi. Riportare alla luce il Guazzabuglio A, retrodatarlo di un decennio, e con esso Argo il cieco, aiuta a comprendere ancor meglio la poliedricità di Bufalino che, durante la stesura e la successiva revisione di Diceria, attendeva anche a questo romanzo e, com’è noto, si cimentava altresì con la poesia, la saggistica, la traduzione accumulando con estrema proficuità un corpus di scritti del tutto eccezionale «testimonianti una vocazione letteraria di antica data»26. Ancor prima dell’esordio clamoroso, l’autore aveva dunque progettato quello che doveva essere un romanzo “nuovo”, sperimentale, costruito sulla mescolanza di generi letterari amalgamata a vecchi e nuovi espedienti narrativi, un romanzo che contenesse in sé tutte le premesse di quelle tematiche in seguito sviluppate. Questo dei gialli Tommaso e Qui pro quo, indicazioni o citazioni esemplificative in merito. Questa ipotesi ha senz’altro il vantaggio di offrire una prima indicazione per approcciarsi ad una “genealogia” delle opere, sebbene non contempli l’esistenza del Guazzabuglio A. Francesca Caputo invece, partendo proprio dalle affermazioni di Traina, rintraccia la corrispondenza onomastica con il personaggio dell’inedito «Paolo Iaccarino che, conservandone nome e tratti caratteriali, diventerà il collega-filosofo di Argo il cieco» (La Caputo è incappata in una svista poiché, nel citato romanzo, il «collega-filosofo» risponde al nome di Pietro e non di Paolo: «Era il mio amico più amico, dei due colleghi che ho detto, il già quarantenne poeta e filosofo Pietro Iaccarino») (AC, 255). Le identità onomastiche, tuttavia, non mi sembrano ragioni così forti da consentire una possibile ricostruzione dei rapporti fra i testi, essendo anch’esse espedienti cari allo scrittore siciliano: in Calende greche, infatti, torna Pietro Iaccarino (AC), in Tommaso è nominato Licausi (AC), in Argo c’è il Gran Magro (DU), e solo per fare qualche esempio, la stessa Caputo cita Mundula, Minchia, Cesare, Ines, Rosa per lo stesso Tommaso. Cfr., Note ai testi, in G. Bufalino, Opere 1988.1994, cit., p. 1426. 26 C. De Matteis, in L’invenzione romanzesca di Bufalino, cit., p. 8, colloca la narrativa bufaliniana, analizzandone i tratti salienti, e soffermandosi in particolar modo su quelli linguistici, in quella feconda «“linea siciliana” la cui specificità letteraria, al di là della tematica isolana, consiste nella tensione sperimentale e nell’accentuata espressività linguistica dei testi che contribuiscono a costituirla». 788 GIULIA CACCIATORE [12] “groviglio”, come lo stesso titolo Guazzabuglio evoca, si snoderà, infine, in tutte le opere che, sebbene pubblicate, si rivelano ancora oggi, per molti aspetti, del tutto inesplorate. Io mi considero uno scrittore anomalo […] mi accingo alla pubblicazione con l’eterno rimorso di consegnare un’incompiuta alle stampe. Nel senso che considero l’opera alla quale sto lavorando come una specie di opus perpetuum, il cui sigillo dovrebbe essere posto dalla morte dello scrittore. Stabilito questo, per me non c’è mai un’edizione definitiva ne varietur, e io soffro questa ambivalenza fra parola e silenzio, questa oscillazione fra logorrea e omertà, questo negarmi e offrirmi insieme: ciò che io chiamavo, in una mia lontanissima poesia27, “gogne guardinghe del cuore”. Ebbene, le mie opere, prima di pubblicarle, le considero sempre semplici prove, prime stesure, che mi vengono poi strappate dalle mani dalla vita, continuando a vivere come creature imperfette. […] Per me l’opera è sempre aperta e cammina in progresso, verso un futuro naturalmente segnato dalle stelle, che è la fine della mia scrittura, coincidente con la fine della mia vita28. 1) Ascendenze sveviane in Argo il cieco Il rapporto medico/paziente emerso dalla “prima” stesura di Argo il cieco e, di conseguenza, nel Guazzabuglio A, suggerisce inevitabilmente una lettura in chiave sveviana giacché molti sono i rimandi alla narrativa di Svevo e tante le criptocitazioni bufaliniane. «Io prescrivo, tu scrivi» è, infatti, l’imperativo con il quale il medico esorta il paziente in Di un’estate felice a scrivere e suona come l’incitamento dello stesso Dottor S. a Zeno: «Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi tutto intero»29. Nonostante il personaggio del medico sia stato poi cambiato in quello del «connivente» e «succube» lettore, l’ascendenza sveviana continua ad essere centrale influenzando sia le tematiche della scrittura come terapia, del ricorso alla memoria, della menzogna a danno del lettore/dottore sia la caratterizzazione e il sistema dei personaggi. Se per il primo aspetto, quello tematico, Bufalino trae ispirazione dai romanzi La coscienza di Zeno e l’incompiuto Il vegliardo, per il secondo, per delineare il profilo dei personaggi, trova un fecondo modello in Senilità. Com’è noto, la narrativa sveviana descrive la parabola di un’esistenza soffermandosi dapprima sulla vicenda fallimentare del giovane 27 La poesia è Suasoria, in G. Bufalino, L’amaro miele, Torino, Einaudi, 19963. 28 Id., Cur?, cit., pp. 146-148. 29 CZ, 602. [13] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 789 Alfonso Nitti, poi sulla svogliata emancipazione sentimentale di Emilio Brentani per approdare alla cura psicoanalitica dell’adulto Zeno Cosini e poi concludersi, infine, con la vecchiaia dello stesso Zeno coincidente con un bilancio esistenziale, un consuntivo, del tempo passato. La stessa evoluzione del personaggio si ritrova anche in Argo, sebbene “intermittente”, in cui Gesualdo è “fratello” di Emilio nei capitoli dedicati al ricordo dell’«estate felice del ’51» mentre assomiglia ai “due” Zeno in quelli bis legati al presente. Al di là delle evidenti differenze stilistiche, il dato più macroscopico è l’inattendibilità del narratore «un narratore che alterna verità e reticenza, che coincide solo parzialmente con quanto vorrebbe far dire alle sue parole e, anche, con quanto le sue parole dicono alle sue spalle e contro le sue censure»30. Tuttavia Bufalino dedicò allo scrittore triestino un solo contributo31, il ritratto di Zeno Cosini nel Dizionario dei personaggi di romanzo del 1982, che, compilato come un repertorio dei personaggi più importanti della storia della letteratura, l’autore definì il libro dei libri, registro di un romanzo ideale e infinito, voce delle migliaia di personalità di carta che occupano il nostro immaginario letterario. Nell’Introduzione, innanzi tutto, egli rammenta la caratteristica del compilatore di crestomazie «individuo nocivo, da fidarsene poco»32 che, mentre seleziona, esercita la propria tirannia sul testo nonché sulla sua ricezione. Fatta questa premessa, Bufalino passa ad illustrare le varie “fasi evolutive” del personaggio, facendo riferimento, fra gli altri, proprio a Zeno Cosini. Ecco dunque la descrizione del protagonista de La coscienza: I personaggi dell’Ulysses, parola di Svevo, camminano “col teschio scoperchiato”. Diversamente lui, Zeno Cosini, uomo cosa, uomo di troppo, quanto più sembra frugarsi e svelarsi, tanto più si nasconde dietro preziose malefedi e schermi d’umore, coltivando – in guerra col medico che potrebbe, magari, guarirla – la sua nevrosi come un privato vizio da camera. Eroe rovesciato di un’esistenza d’atti man- 30 M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Torino, Einaudi, 2002, p. 221. 31 L’assenza nel repertorio bufaliniano di contributi in merito all’opera sveviana non va letta come indice di scarso interesse ma, al contrario, come un’omissione volta a confondere le possibili interpretazioni dei suoi libri, essendo quello delle criptocitazioni uno dei tanti giochi che egli amava sottoporre al lettore. 32 G. Bufalino, Dizionario dei personaggi di romanzo, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 1. È interessante che quest’opera sia stata composta negli anni ’70, cioè proprio nello stesso periodo in cui Bufalino elaborava, come abbiamo visto, anche Argo il cieco. 790 GIULIA CACCIATORE [14] cati e disguidi, al quale rimane un sogno soltanto, di giudizio e salvezza universale: la terra che galleggi, esplosa e vacante d’uomini, nel silenzio degli spazi purificati33. La nevrosi, infatti, porta Zeno da un lato a mentire, dall’altro a praticare la scrittura come vizio solitario e come antidoto contro il proprio malessere, pertanto, il movente che spinge alla scrittura sia Zeno che Gesualdo è la malattia. Ma qual è la patologia che affligge i due personaggi? Definirla sembra quasi impossibile. È un disagio mentale, talvolta descritto in chiave ironica, scaturito da un irreversibile sentimento della sconfitta personale, dal senso di frustrazione per le occasioni perdute cui si aggiunge un progressivo disgregamento fisico e mentale causato dall’invecchiamento: la “degenerazione”. La senilità diventa, per entrambi, non solo una condizione propria dell’età ma un malessere che agisce anche sulla mente ed è vissuta, quindi, come un castigo al quale i due personaggi non intendono arrendersi. Emblematico, per fare un esempio, è il dolore all’anca che coglie Zeno nei casi, e solo in quelli, di particolare tensione psicologica. Zeno è certamente un «malato immaginario», come sostiene Augusta, sa che nessuno è in grado di guarirlo, prova sfiducia e diffidenza nella scienza medica ma persevera tenacemente nella ricerca di una cura rivolgendosi sospettosamente a più specialisti sebbene ritenga fallimentari, a priori, i loro rimedi; Gesualdo si descrive35 come «metastasi da capo a piedi», non solo per il propagarsi del tumore ma per lo sconfinamento del male nella mente e ricerca anch’egli rimedio nella scrittura. Nella primitiva stesura di Argo anche Serafino rivelava: «La gamba è di nuovo pesante, la trascino come morta, un ghiaccio. Verrà comodo alibi al Largo di Santa Susanna…». La zoppia altro non è che una manifestazione fisica di un disagio psicologico; ecco perché il paziente comincia a sentire dei benefici dopo le cure psicoanalitiche: «Pareva un gioco salvifico, per un po’ ha funzionato, ripeto. Cessarono le emicranie, la paura della folla, la paura di stare solo: ricominciavo a muovere la gamba»35. 33 Ivi, p. 419. 34 «Una sessantina d’anni, una settantina di chili, la vecchiezza dietro la porta; biancheria che odora di creolina […] polso lento, senile […] dentro l’orecchio un fruscìo di pioggia che non cessa mai […] puntini senza numero mi ballano davanti nel buio. […] E soprattutto, giorno e notte, quel dolore, quella volpe qui, dove premo la mano» (AC, 398). 35 ACS, 110 e 115. [15] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 791 Corpo e mente costituiscono per entrambi un meccanismo, un ingranaggio che il tempo sottopone ad usura: Perché dunque ieri, in filobus, quel sentimento di sinistra letizia quando il pungiglione all’ipocondrio destro mi disse che nel gregge delle mie fibre qualcuna disobbediva? E perché un disappunto, e quasi rancore, ogni volta che davanti a me un congegno qualunque funziona? (AC, 315). Il rancore per un congegno funzionante è dovuto al rifiuto dell’inerzia, a un meccanismo che procede autonomamente, insensibile alla volontà dell’uomo che, invece, vorrebbe dominarlo, esserne padrone. L’inerzia appartiene anche alla salute in quanto non richiede alcun intervento per essere corretta ma procede in un flusso lineare (a tal proposito, si pensi alla falsa invidia provata da Zeno nei confronti della “sana” Augusta che, invece di occuparsi della propria salute, si dedica alla casa, ai figli) e se i due protagonisti riuscissero ad ottenerla, se guarissero, si vedrebbero costretti ad abbandonare definitivamente la cura, a posare la penna ed è proprio questo motivo che li spinge a cercare, a invocare quasi, la malattia. I passi scelti da Bufalino per il suo Dizionario sono estratti dai capitoli Il fumo e La moglie e l’amante: entrambi appaiono d’obbligo per chiunque voglia accostarsi alla lettura de La coscienza di Zeno, ma perché proporre il viaggio di nozze di Zeno e Augusta invece, per fare un esempio, delle più note vicissitudini legate al corteggiamento delle sorelle Malfenti? Bufalino privilegia qui il sentimento della morte affiorato per la prima volta in superficie nelle memorie di Zeno: «Mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire»36. La paura della morte avvicina Zeno e Gesualdo alla scrittura che, sola, può fermare il tempo e cristallizzarlo consentendo ai due di vivere dopo la morte. Questo potere di rivivere, dunque, è appannaggio solo dell’atto scrittorio, non è un beneficio appartenente alla natura umana: Scorrere in un tempo fermo, tuttavia, è possibile mai? E, viceversa, ricchi solo di parole, armati solo di parole, come sospendere il tempo? Scrivendolo, forse? Parole mi servivano, dunque: magari più aggettivi che sostantivi (AC, 306). 36 CZ, 729. 792 GIULIA CACCIATORE [16] È quello che Bufalino ha chiamato «il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere»37 parodiando il celebre “Essere o non essere” shakespeariano. La morte è dunque lo spettro da esorcizzare, la malattia non è che un’anticipazione, anzi, la nascita stessa, addirittura, implica irrimediabilmente la morte, preannuncia l’inevitabile degenerazione38. Zeno, il vegliardo, prende in giro la mania di suo padre di tenere sempre nel taschino un taccuino sul quale annotare i progetti futuri mentre egli sceglie di tornare alla scrittura perché consente di registrare quel presente altrimenti destinato a diventare passato e la sua abitudine di annotare date, eventi, ricorrenze altro non è che la volontà di agire sul tempo per fermarlo e così si spiega il secondo passo introdotto da Bufalino nel Dizionario: «Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna»39. Come lui Gesualdo dichiara espressamente di voler costruire una «storiella balocco», una fiaba con la quale distrarsi dalla malattia ingannando il presente perché, ci dice, è inutile guardare lontano e cercare il futuro quando non resta che poco tempo. Svevo crea un ponte con La coscienza proprio attraverso la decisione di Zeno di tornare alle sue carte40: il vegliardo si rende conto che il proprio passato esiste solo in quelle memorie, in quelle pagine, ed egli stesso esiste solo perché testimoniato nella scrittura. Nel passaggio dall’età adulta alla vecchiaia, Gesualdo è più simile a Zeno: Ed è proprio vero ch’io più intensamente rivolgo il mio pensiero al passato come per correggerlo – anzi un evidente tentativo di falsarlo – piuttosto che all’avvenire su cui il pensiero non sa come adagiarsi non vedendone chiaro il piano che non è ancora formato (V, 1102). 37 DU, 81. 38 Si pensi alla riflessione di Zeno sull’infanzia nel Preambolo: «E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la culla» (CZ, 601). Bufalino parafrasa in Calende greche (organizzato in sezioni corrispondenti alle età dell’uomo: Nascita, Infanzia e Pubertà, Giovinezza, Maturità, Vecchiaia e Morte corrispondenti a sezioni suddivise in capitoli): «Guardatelo: già insegna ai polmoni le meraviglie del respiro, li espande, li contrae, torna ad espanderli; inaugura gloriosamente l’aria e le sue misture nutrienti…/ È nato. Ha cominciato a vivere, ha cominciato a morire» (G. Bufalino, Calende Greche, in Id., Opere 1988.1996, cit., p. 10). 39 CZ, 607. 40 Cfr. G. Contini, Il quarto romanzo di Svevo, Torino, Einaudi, 1980. [17] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 793 Come nota Gabriella Contini, Zeno ormai vecchio non guarda al futuro perché significherebbe volgere lo sguardo verso la morte e alla fine definitiva della scrittura. Ci troviamo inevitabilmente a parlare della scrittura e del significato di «recupero del tempo», nell’accezione intesa da Debenedetti, implicato all’atto dello scrivere poiché scrittura e memoria si muovono sullo stesso piano, il passato rinasce nel momento in cui viene riesumato sulla carta e può quindi rivivere nei segni lasciati su di essa. Gesualdo è solo in una camera d’albergo, e solo è il vecchio Zeno nel suo studio, la morte è dietro l’angolo e la giovinezza è oramai lontana Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele, poi s’allontana in una processione sempre ordinata di giorni, di mesi, di anni, ma quando è lontano tanto da sottrarsi alla nostra vista scompone i suoi ranghi. Ogni ora cerca il suo posto in qualche giorno ed ogni giorno in qualche altro anno (V, 1224-1125). Zeno continua introducendo il tema della memoria: È così che nel ricordo qualche anno sembra tutto soleggiato come una sola estate e qualche altro è tutto pervaso dal brivido del freddo. E freddo e privo di ogni luce è l’anno in cui non si ricorda proprio niente al suo vero posto: Trecentosessantacinque giorni da ventiquattr’ore ciascuno morti e spariti. Una vera ecatombe (Ibidem). Anche Gesualdo è afflitto dalla stessa metaforica cecità, dall’impossibilità di “vedere” il passato, Argo è ormai cieco. Non ricordando più nulla, Gesualdo inventa l’estate a Modica nel ’51 che non ha vissuto e di cui è stato forse parzialmente partecipe, ma quel tempo non gli appartiene: Fui dunque giovane e felice, quell’estate del cinquantuno. Giovane e felice. Giovane e…Macché, non è vero, mi sono vantato. […] Ma che dovrei fare? Aspettare un’estate felice per scrivere d’un estate felice? (AC, 349). Zeno non sarà mai così esplicitamente “sincero”, preferisce caricare il racconto di significati sottesi alla parola pronunciata, scopre le sue carte solo a metà sebbene ripercorra anche lui il passato per inseguire la gioventù: Non solo il dottore ma anch’io avrei desiderato di essere visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventù, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto motivo di costruire. Visto che 794 GIULIA CACCIATORE [18] accanto al dottore non venivano più, tentai di evocarle lontano da lui. Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica a una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre. Le avevo già avute; perché non riaverle? (CZ, 934). Il personaggio vuole il piacere del ricordo, anche se non autentico, così come Gesualdo inventa un’estate felice in un giorno di ottobre: «rose di Maggio in Dicembre» appunto. La memoria è un autoinganno per entrambi, una «depauperazione del fatto ricordato»41, come la definisce Debenedetti, ovvero il progressivo ricoprire il passato con l’immaginazione: nel momento in cui si ricorda inevitabilmente si mente, non è possibile riportare alla luce un evento accompagnato dalla nitidezza di ciò che realmente fu. Sia Zeno che Gesualdo sanno perfettamente in cosa consista ricordare: inventare, immaginare. «Una confessione in iscritto è sempre menzognera!»42 dichiara Zeno al suo medico nel momento in cui decide di sottrarsi alla cura e Gesualdo gli fa eco rivolgendosi al lettore/terapeuta: «Né smetto un attimo, frattanto, con colori grassi e magri, gabellando le bugie per ricordi, scambiando i ricordi per sogni, di raccontarmi» (AC, 314). Mentendo, i personaggi perdono dietro di sé anche la quantità di verità che il ricordo ancora possiede e il passato viene così interamente coperto dall’invenzione. Alla vecchiaia non resta che l’attaccamento al ricordo, al bagliore dei giorni mai stati e al definitivo congedo dall’erotismo della giovinezza. Nei suoi sogni erotici, Gesualdo riesuma le fattezze delle donne amate e possedute, le rivede giovani e fresche come dee o ninfe dell’amore che, da lontano, lo chiamano sorridenti avanzando sulle acque, mentre Zeno, prima di abbandonare definitivamente le pratiche amorose, «prende un’amante», Felicita, con la quale divide, dietro compenso, gli ultimi riflessi di gioventù. Se la sessualità vien meno, non così il desiderio che invece stenta a spegnersi e resiste nella loro mente43. 41 G. Debenedetti, Il romanzo del novecento, Milano, Garzanti, 1998, p. 554. 42 CZ, 928. 43 Valga per Gesualdo quanto appena detto per Zeno in riferimento alla penultima parte del quarto romanzo, Il mio ozio, nella quale egli crede di rivedere in una fanciulla sconosciuta una sua presunta, e inattuata, conquista del passato. Zeno prova per lei un forte slancio sessuale sottolineato da Svevo con la descrizione della ragazza per “porzioni” di corpo, richiamando così la “malattia” giovanile del suo personaggio di voler possedere le donne “a pezzi” e non interamente: «Fui sincero come in confessione: La donna a me non piaceva [19] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 795 Questo discorso ci porta inevitabilmente fuori dalla cornice dei capitoli bis, ai quali abbiamo finora fatto riferimento parlando di Argo il cieco, per condurci nella materia del ricordo: la figura di Gesualdo giovane. Se l’indecisione di Gesualdo, come nota Nunzio Zago44, fra Maria Venera, Cecilia e Isolina fa pensare al corteggiamento delle sorelle Malfenti ad opera di Zeno, la caratterizzazione di queste figure femminili evoca piuttosto l’avvenente Angiolina di Senilità di cui Maria Venera e Cecilia sembrano incarnare uno sdoppiamento. Le relazioni amorose, in Argo, sono imperniate sull’inganno ordito dai personaggi femminili, in particolar modo da Maria Venera che fugge con Liborio Galfo per nascondere la maternità dovuta, invece, al cugino Sasà Trubia. Le esperienze sentimentali e passionali della ragazza però, non suscitano in Gesualdo alcuna reazione negativa se non una testarda cecità dinanzi alla quale neanche i tentativi dell’amico Iaccarino, come Stefano Balli per Emilio, riusciranno a dissuaderlo dalla convinzione di essere ricambiato dalla donna. Il protagonista anzi mantiene salda, contro ogni evidenza, l’idea angelica cui il nome rimanda: […] il mio più recente carme in lode di Venera. A MARIA VENERA era il titolo in cima, in grandi lettere a stampatello. E io, per impulsivo atto di fede, dove il lenzuolo del foglio serbava ancora uno spazio bianco, un A MARIA VERGINE aggiunsi, cubitale altrettanto (AC, 278). Il nome Maria richiama la castità e la purezza della Madonna, mentre il secondo, Venera, evoca ovviamente Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fertilità, cui il personaggio bufaliniano, per le sue capacità di seduzione, allude. Assistiamo ad una falsificazione dell’immagine della donna così come Emilio aveva creato mentalmente l’identità fittizia di Ange innamorandosi di quella proiezione. Entrambi capiranno solo nell’epilogo la vera indole delle rispettive amate ma, mentre Emilio idealizzerà l’immagine di Ange sublimandola con quella della sorella scomparsa Amalia, il “mito” di Maria Venera cadrà in seguito ad una nuova fuga, con un regista, nella speranza di ottenere notorietà45. intera ma…a pezzi! Di tutte amavo i piedini se ben calzati, di molte il collo esile oppure anche poderoso e il seno se lieve, lieve» (CZ, 609). 44 N. Zago, Per rileggere Argo il cieco, in Gesualdo Bufalino e la scrittura felice, cit., p., 17. 45 La fuga di Angiolina con un uomo facoltoso e quella di Maria Venera con 796 GIULIA CACCIATORE [20] Veniamo ora a Cecilia. La donna vende la propria compagnia a Don Nitto, il mafioso della zona, e all’ignaro Gesualdo che, come si scoprirà solo nel finale, è stato in realtà vittima di un inganno ordito proprio da Don Nitto che la paga per sedurlo ed estorcergli un favore. Cecilia e Maria Venera sono l’una l’opposto dell’altra: la prima è elegante e raffinata, la seconda, invece, è sempre vestita di nero come Angiolina che Svevo, per sottolinearne la doppiezza, camuffa sotto vesti scure e dimesse quando si reca dai fantomatici Deluigi, appariscente ed elegante negli incontri con Emilio. Cecilia è solare, è incarnazione della sessualità, dell’amore erotico, come Angiolina per Emilio, la sua figura è associata all’estate, al mare e Gesualdo la paragona ad una dea, all’isola Ferdinandea emersa dalle acque, simbolo di fecondità. La descrizione fisica della donna non prende le mosse dal viso bensì, altro espediente sveviano, dai suoi «piedi elegantemente calzati»: […] accanto alle mie [scarpe] di povera pelle due altre, femminili, di chagrin bianco, che sembravano due piccole colombe. Di lì, salendo su su e adagio con gli occhi, ecco le belle caviglie di eterea seta, e una gonna di satin nero, e una camicetta d’organza bianca, e una mano nuda lungo il fianco e, d’un colpo, tutt’insieme, l’alto seno e la melliflua gola […] (AC, 316). Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia sul suo corpo s’annullava. Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po’ la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare Carmen dall’ambiente, l’avrebbe poggiata sul nero di lacca (CZ, 830)46. Cecilia è descritta come un’apparizione: la raffinatezza nel vestire, la giovinezza al suo apice, il timbro “violetto” della voce, attraggono Gesualdo che si lascia trascinare dalla donna in quella “calda il regista francese si inscrivono nello stesso motivo di aspirazione sociale determinata dalla volontà di affermarsi in un ambiente altrimenti inaccessibile. 46 Per quanto concerne, invece, la descrizione delle calzature di Angiolina, Svevo ne introduce la prima descrizione soltanto nel X capitolo dedicato al primo rapporto sessuale fra la donna ed Emilio; ed è proprio la vista delle scarpe ad accendere il desiderio dell’uomo: «Una sera, accanto al Giardino Pubblico, la vide camminare dinanzi a sé. La riconobbe al noto passo. Ella teneva sollevate le gonne per preservarle dalla fanghiglia, e, alla luce di un gramo fanale, egli vide rilucere le scarpe nere di Angiolina. Ne fu subito turbato » (S, 5277). [21] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 797 vita” a lui fino ad allora sconosciuta così come Angiolina coinvolge Emilio in una relazione dominata dalla passione. Nel finale Gesualdo e Emilio, disillusi, riprendono la loro quotidianità ormai liberi dall’inganno ma anche dall’amore e, per consolarsi del rifiuto subito, costruiranno un meccanismo mentale di auto-difesa attraverso il quale si riterranno artefici dello stesso raggiro di cui sono stati vittima: «Finora, me ne venivo convincendo, non avevo realmente amato, ma soltanto voluto amare. E, per giunta, scegliendo solo immagini falsificate» (AC, 378). Ancora una volta Bufalino sembra parafrasare Svevo, stavolta nell’epilogo della vicenda del giovane Gesualdo: «D’ora in poi avrei sempre preferito una quieta infelicità a una felicità minacciata» (AC, 381), che, come Brentani «traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità»47, torna alla sua serenità nel ricordo dei giorni che gli regalarono, nella sua vita di giovane vecchio, una stagione di spensierata gioventù. L’avventura, «ginnastica igienica»48, termina situandosi nel passato e andando a costituirsi come ricordo. Il giovane Gesualdo si rivela, infine, spettatore e non protagonista dell’estate modicana raccontata poiché inetto all’azione e il suo atteggiamento di inconcludenza lo riporterà in quella tana in cui la passività si configura come l’unico “moto” di cui egli è capace. Nonostante lo scrittore voglia rievocare un’estate di passioni e spensieratezza, a vincerla sulla fantasia del racconto è lo stato d’inerzia, la condizione passiva di Gesualdo. Torniamo, prima di concludere, ai capitoli bis. Ho parlato della scrittura come mezzo per cristallizzare i ricordi contraffatti dei due narratori Zeno e Gesualdo: ciò che in definitiva viene narrato sono dunque delle invenzioni, delle visioni scaturite dalla trasfigurazione del passato; i due protagonisti infatti, mentono e nel farlo inventano storie. Nell’ultimo capitolo della Coscienza, Psico-analisi, Zeno, ritenendosi guarito, decide di abbandonare la terapia col Dottor S. e, per la prima volta, torna sulle sue carte con il patto implicito di sincerità; in questo slancio euforico egli dichiara: «È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna»49. 47 S, 433. 48 Qui è Bufalino che parla, non Svevo; la criptocitazione è evidente. Cfr. AC, 264. 49 CZ, 929. 798 GIULIA CACCIATORE [22] L’invenzione, dunque, è l’arte di creare con le parole una realtà parallela poiché la «confessione in iscritto è sempre menzognera», appartiene all’esperienza artistica di colui che scrive e non alla sua vita e anche Gesualdo vede nella menzogna una creazione artistica: […] un’impostura, insomma, una bagattella comica, che faccia velo fra me e quella tentazione antica che sai; e mi svogli l’animo dall’arcinero, dall’arcizero, dall’arciniente […] O chiamala Sceneggiata, chiamala come vuoi, purché sappia farmi vece di vita. L’arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale […] perché questo a me serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno, la notte (AC, 263). La menzogna, chiamata truffa, falsificazione, invenzione creativa, è la protagonista dei ricordi e, di conseguenza, della narrazione giacché la parola è l’unica via d’uscita dalla malattia, è un’arma con la quale affrontare le difficoltà del presente: Zeno inganna il dottore, Gesualdo il lettore/terapeuta, entrambi rimangono però invischiati nell’autoinganno. Zeno anziano, che non ricorda quasi nulla del passato, va a rileggersi le proprie annotazioni così come Gesualdo arricchisce il racconto con delle immagini fittizie. La menzogna investe gli stessi personaggi che la pronunciano fino a dissolverli in un fioco bagliore. La scrittura è, per entrambi, un’invenzione che può essere interrotta e ripresa poiché il processo della creazione rende lo scrittore padrone di letteraturizzare il mondo, di vivere in una realtà che ammette varianti all’infinito. Ecco perché nel Dizionario Bufalino parla di Zeno Cosini come colui che «possiede insieme una doppia natura di larva e di dio»: Zeno è emblema di inettitudine ma anche manifestazione “vivente” del potere immenso che la scrittura e la letteratura esercitano sulla realtà. Anche se la scrittura non riuscirà a guarire Gesualdo e Zeno, entrambi nutrono la fede nel suo potere trasfigurante della realtà orrida e dolorosa, poiché dà loro la possibilità di essere qualcun altro. Gesualdo, infine, dichiara di amare la vita, nonostante la difficoltà ad affrontare il suo presente “malato”, e con essa la scritturapanacèa in grado di rileggere se stessa regalandogli l’illusione di un’eterna giovinezza: Ed ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi. Oh! L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. [23] NEL LABORATORIO DI BUFALINO 799 La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e a studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura ma si ripeterà si correggerà si cristallizzerà. Almeno non resterà quale è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno eguale all’altro a formare gli anni, i decennî, la vita tanto vuota, capace soltanto di figurare quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora (V, 1116, 1117). Da questa analisi, che potrebbe essere ulteriormente ampliata, emerge chiaramente quanto la narrativa sveviana incida su alcuni temi bufaliniani influenzandone lo sviluppo. Svevo dunque va annoverato fra quelle letture predilette, come Proust, cui Bufalino s’ispira trasponendole nei suoi romanzi e la cui suggestione, a oggi mai approfondita, si rivela, infine, profondamente radicata. Vorrei chiudere con le parole di Saccone riferite a Zeno, ma che sembrano suggellare, nella loro pertinenza, quella poetica con la quale rinsaldare il legame fra Bufalino e Svevo che ho tentato di dimostrare: […] più in profondo sembra – e non meraviglia, soprattutto chi pensi allo statuto ambiguo del ricordo – che agisca qui il sospetto della cristallizzazione [della scrittura], della morte delle interpretazioni. E si affermi, in un gesto di scongiuro verso il circolo che si chiude, il gesto dell’arte, che apre chiudendo, che chiude per aprire: l’augurio di una scrittura che corregga infinitamente se stessa50. Giulia Cacciatore (L’Aquila) 50 E. Saccone, Commento a «Zeno», Bologna, Il Mulino, 1973, p. 41. Recensioni «Collettanee» in morte di Serafino Aquilano, edizione a cura di Alessio Bologna, Lucca, Istituto Abruzzese di Storia Musicale – Libreria Musicale Italiana, 2009, pp. XI + 532, tavv. 4. Il 10 agosto del 1500 moriva di febbre «tertiana», a Roma, dov’era al servizio di Cesare Borgia, Serafino Ciminelli alias Aquilano, rimatore capace di coprire l’interezza dei generi lirici della produzione cortigiana, sino a divenirne «compendio» (Contini). Della sua perdurante fama post-mortem, oltre a 54 edizioni delle rime fino al 1568 e a un influsso che giunge a lambire Wyatt e Cervantes, testimoni precoci sono le Collettanee allestite nel 1504 da Giovanni Filoteo Achillini, mai più edite (ad eccezione di singoli microtesti), anche per le difficoltà implicate dall’ibridismo linguistico dei suoi ben 333 componimenti, in volgare italiano e in latino (ma talora anche in greco e castigliano), con rispettiva prevalenza di sonetti e distici elegiaci. Giunge ora l’edizione curata da Alessio Bologna, che si fonda sulla riproduzione di un esemplare della princeps conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze e appartenuto agli esponenti della famiglia Ricciardi, Tommaso e Pietro, giureconsulto Cinque-seicentesco, al quale sono ascrivibili alcune postille vergate sull’esemplare. La densa Introduzione del curatore (pp. 5-64) si sofferma anzitutto sulla girovaga biografia di Serafino, dall’Aquila, dov’era nato nel 1466, presso le principali corti italiane: a Napoli presso Antonio de Guevara, a Roma al seguito di Ascanio Sforza, nuovamente a Napoli da Ferrandino per tre anni in cui frequenta l’Accademia pontaniana; a Urbino da Elisabetta Gonzaga-Montefeltro, a Mantova da Isabella d’Este; a Milano da Beatrice d’Este, e poi in vari spostamenti lungo tutta la penisola, fino al fatidico agosto romano. Oggetto di culto Serafino era anche a Bologna, nel cenacolo bentivolesco che vedeva tra i suoi massimi rappresentanti l’Achillini, coetaneo del poeta, autore in proprio e appassionato di antiquaria e musica. Tutti elementi che vengono opportunamente ricollegati all’iniziativa delle Collettanee, non solo a giustificarne la localizzazione bolognese (presso lo stampatore Caligola Bazalieri, RECENSIONI 801 presente anche con un suo sonetto), ma anche per meglio comprendere il culto achilliniano per un poetamusico come Serafino nonché per la «vena collezionistica» (p. 16) che informa la raccolta, capace di aggregare 174 autori di varia provenienza, riservando al curatore il ruolo di complessivo organizzatore testuale, attraverso le rime di risposta ad altri componimenti. Il genere prescelto, della raccolta obituaria, conosceva precedenti umanistici (tra cui funge da modello quella approntata nella stessa Bologna, nel 1498, per la morte di fra Mariano Della Barba da Genazzano); ma inedita è la presenza massiccia di testi volgari e l’utilizzo della stampa, che dimostra la destinazione a un pubblico nuovo, pur senza rinnegare la tradizione, richiamata dalla collocazione iniziale dei testi latini. Una funzione strategica assume anche la dedica a Elisabetta Gonzaga, figlia del marchese di Mantova, e, dopo il matrimonio con Guidubaldo Montefeltro, animatrice della corte urbinate, dove accoglie personaggi come Bembo, Castiglione e lo stesso Aquilano (l’incontro con il quale è narrato nella Vita del Calmeta che apre le Collettanee): essa serve a sostenere le ambizioni achilliniane, ma la stessa duchessa doveva aver cara «la possibilità di riassumere post mortem il patrocinio dell’Aquilano, che le avrebbe conferito, visto il grande credito popolare del poeta abruzzese, un nuovo titolo di magnanimità» (p. 22). Se il livello di testi e autori appare assai disomogeneo (da cui il giudizio poco benevolo espresso a suo tempo dal D’Ancona), la raccolta si configura come documento rappresentativo del panorama letterario coevo, utile a fotografarne la vera essenza media e diffusa. La mappatura degli autori proposta da Bologna mostra uno spaccato storico-culturale assai interessante: pur nella loro eterogeneità, a prevalere come aree di provenienza sono quelle chiave dell’attività poetica centro-settentrionale, la feltresco-romagnola e la lombarda, segnatamente quella emiliana e anzi bolognese, con rare presenze centro-meridionali e straniere. Passandone in rassegna i nomi, alcuni paiono oggi famosi (Bibbiena, Calmeta, Molza, Tebaldeo, Angelo Colocci, Niccolò da Correggio, ecc.), ma la più parte minori o minimi; molti intellettuali, alcuni uomini d’arme, oltre a chierici e artisti: di tutti, il volume propone in appendice un’utile scheda biobibliografica. Uno spazio a sé meritano nell’Introduzione alcuni di essi, come Domenico Foschi detto Fosco da Rimini, la cui voce è apparentemente dissonante rispetto al pressoché indiscriminato coro di elogi rivolto all’Aquilano. Tra i sei componimenti a sua firma presenti nelle Collettanee vi è infatti un sonetto che sembra intaccare l’assetto celebrativo nel criticare il poeta ascrivendogli anzi, testualmente, ignoranza e vicio. Ma Bologna intuisce il legame con il sonetto immediatamente precedente del Bibbiena, che «illustra l’eredità di Serafino in modo burlesco» attribuendo agli epigoni i suoi stessi vizi e virtù: il testo di Fosco s’inserirebbe intenzionalmente in questa scia «e perde così il suo possibile carattere aggressivo» (p. 34). Realmente polemici furono semmai quei poeti, aggiunge lo stu802 RECENSIONI dioso, come i veneti Augurelli o Prestinari, che non parteciparono affatto alle Collettanee, facendo così intuire l’esistenza di una linea di poesia alternativa a quella qui celebrata: un petrarchismo più rigoroso che, oltre ai ‘napoletani’ Cariteo e Sannazaro, vedeva già l’astro nascente di Bembo. Uno spazio è dedicato alla sparuta presenza straniera: sei autori di cui si ricostruisce la biografia, rilevandone il prevalente utilizzo del «genere metrico più semplice e tradizionale, il distico elegiaco », e del latino, «lingua internazionale dell’epoca» (p. 45). A far eccezione è il castigliano Iacobo Velazques, presente con componimenti nella sua lingua e con strutture metriche più elaborate. La circostanza, sommata alla preminenza spagnola tra gli stranieri delle Collettanee (tre sui sei), trova spiegazione nella vasta fama che l’Aquilano aveva conseguito nel contesto del Siglo de Oro, ma anche nel radicamento culturale spagnolo a Bologna dove operava l’Achillini. Tra gli altri autori, l’Introduzione si sofferma sul firmatario dell’ultimo testo, il Theatro dil Novo Paradiso, poemetto in terzine già studiato da Davide De Camilli (Studi paralleli, Milano, Marzorati, 1980, pp. 9-42): un «Christofero Melantheo fiorentino» sinora resistente ad ogni tentativo di identificazione. L’indagine di Bologna parte dall’escussione delle risonanze dello pseudonimo prescelto, Melanteo, che sembrerebbe sulle prime inviare all’Odissea, in cui il nome è assegnato al pastore alleato dei Proci ucciso da Ulisse al ritorno a Itaca. Ma conta qui semmai la sua etimologia di ‘fiore nero’, decisiva per l’identificazione con un frate Cristoforo de Florentia, attivo a Bologna, con allusione allo stemma (il giglio) dell’ordine religioso di appartenenza, i Servi di Maria, virato al ‘nero’ in virtù dell’evento luttuoso qui celebrato. Un’analisi è riservata anche ai giochi verbali cui è sottoposto il nome di Serafino in vari testi. Bologna mostra come essi rimandino a una tradizione agiografica che lo associava a quello di San Francesco e ovviamente all’omonima categoria di angeli uniti a Dio da una devozione ‘ardente’ (etimologicamente, data la derivazione dall’ebraico saraf ‘ardere, bruciare’), da cui l’allusione frequente alla «natura celestiale» del poeta. Questi e altri giochi onomastici (come le paronomasie Sera fine/ serà fine/Serafino di Ercole Pio e Giovanni Cristofori, rinvianti «a un concetto di finitezza, relativo alla vita e al dolore», p. 53) mostrano che «il nome, le varie denominazioni e definizioni del poeta» risentono qui «della tradizione cristiana e più in generale biblica», ma «anche di quella classica» (p. 58), con duplicità tipica dell’epoca. L’analisi dei 134 testi in volgare italiano ci offre l’occasione per alcune osservazioni. Se i loro nuclei tematici o motivi ricorrenti (l’appello al viator/pellegrino dal sepolcro del poeta, l’allocuzione alla Morte, i richiami al pantheon classico, le personificazioni dei luoghi di nascita e di morte, il non omnis morietur) sono ripetuti per lo più con impercettibili variazioni, sul piano stilistico evidenti appaiono le suggestioni dantesche e petrarchesche, provate, suggerisce il curatore, dalla preminenza di forme metriche come il sonetRECENSIONI 803 to e dalla collocazione in rilievo dei ternari nell’explicit dell’opera. L’impressione è confermata dal riecheggiamento continuo dei due modelli, spesso virati, si chioserà, secondo schemi tipici del petrarchismo del tardo ’400, come mostra la locuzione artificiosa della sestina del Paolini (cccxix, v. 31): «Fior, fiere, antri, hydri, onde, angui, aspe, aspi e vento » (o «…aspe, alpi e vento»? come legge D’Ancona, Studi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano, Treves, 1891, p. 157), che amplifica sì Petrarca, RVF, cccv, v. 3 («Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi»), ma è da confrontarsi con analoghe filiere, espressione di un «horror vacui tardogotico» (P.V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, Olschki, 1963, p. 233), della poesia padana coeva, come ad esempio, il v. 14 del son. 241 di Panfilo Sasso: «monti, fiumi, aspi, tigri, pietre e mare» (in M. Malinverni, Note per un bestiario lirico tra Quattro e Cinquecento, «Italique», 2, 1999, pp. 7- 31: 11). Di particolare rilievo appaiono i cinque componimenti terminali, gli unici composti in terzine incantenate, «la cui concentrazione è da ritenersi intenzionale, ovvero rispondente alla precisa volontà dell’Achillini di nobilitare il volgare attraverso l’impiego» (p. 426) di un metro connotato in senso dantesco e petrarchesco (dei Trionfi s’intende). Ma in un più determinato genere, quello dei Viaggi fantastici e ‘Trionfi’ di poeti, per dirla col titolo di un ancor prezioso saggio di Francesco Flamini (in Nozze Cian/Sappa-Flandinet, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1894, pp. 281-99), s’inseriscono gli ultimi due, di Bartolomeo Nebbio e del Melanteo, che descrivono la ‘visione’ di un paradiso/Parnaso che ospita Serafino assieme ad altri poeti volgari, antichi e soprattutto moderni, in più di un caso ancora viventi, anzi, si noterà, coincidenti con autori delle Collettanee (in Nebbio: Dante, Petrarca, Luigi Pulci, il «ferrarese» – il Tebaldeo? – e quei Marco Cavallo e Panfilo Sasso che ricompariranno nelle analoghe rassegne dei canti xlii e xlvi del Furioso; in Melanteo: Borso mantovano, cioè Gatto da Borso, Giuliano de’ Medici, Niccolò da Correggio, Giambattista da Osimo, un Alceo da Firenze, il Calvicio, Sannazaro, Sasso, Bernardo Accolti, il Tebaldeo e il Calmeta). Ma si tratta anche, in un certo senso, di una sorta di mise en abyme dell’intera operazione compiuta dall’Achillini (autore del Viridario e del Fedele, comprendenti anch’essi elenchi di poeti volgari), che usa la celebrazione di Serafino per coagulare un ‘canone militante’ con la rassegna dei poeti inclusi nella raccolta. Tra i motivi di interesse del volume v’è anche quello di recuperare all’attenzione degli specialisti figure minori, talora attestandone prove meno note. Si segnalerà ad esempio la riemersione di un’inedita testimonianza di un tipico «letterato di corte », dato sinora come attivo tra Ferrara e Mantova nei due decenni successivi: Lelio Manfredi, noto quale traduttore della Cárcel de Amor di Diego de San Pedro (1514), e del Tirant lo Blanch di Joanot Martorell e (forse) Martí Joan de Galba (1514- ’19, ma in stampa nel 1538), oltre che autore di opere come un Poemetto e due commedie in volgare, il Paraclitus e la Philadelphia, databili 804 RECENSIONI tutti al secondo decennio del ’500, ed editi solo modernamente (i primi due da Carmelo Zilli in Manfrediana, un poema e una commedia inediti del primo Cinquecento italiano, Biblioteca di Filologia Romanza, Bari, Adriatica, 1991, la terza da chi scrive nella stessa collana, nel 2003). Suo è un distico delle Collettanee (xciv), che sviluppa il motivo dell’immortalità poetica serafinesca, riassunto nell’incipit «Defunctum quisquis Seraphinum credit oberrat» (motivo ricorrente in tutta la silloge, con espressioni vicinissime a quelle manfrediane nei testi volgari di Candia, ccxlviii, e soprattutto Zanessi, cclxii: «Mente chi dice “Seraphino è morto”»). Segnalo altresì che, quasi a marcare l’importanza della partecipazione alle Collettanee nell’esperienza futura di Lelio, il distico delle Collettanee sarà riecheggiato nella terzina dedicata all’Aquilano del suo Poemetto (vv. 43-45), all’interno di una visione/rassegna di poeti appartenente al genere suddetto (di cui costituirebbe anzi per Flamini uno degli esempi più rappresentativi): «Ecco qua l’Acquilano Serafino, / del vulgo in tanta opinïon transcorso, / che quasi in terra lo estimò divino» (ed. Zilli, p. 122). Un giudizio meno lusinghiero di quello del distico, se si condivide l’opinione del Flamini, secondo cui Manfredi non spenderebbe qui vere parole di lode, «anzi s’esprime in modo, da far sospettare che sul conto di Serafino non la pensasse come i più» (op. cit., p. 290); ma l’aggettivo divino, pur ascritto all’opinione del vulgo, sembra richiamare un concetto espresso in un verso del distico («Nam rebus divis non nocet atra lues»). Utile può rivelarsi l’edizione anche sotto il profilo storico-linguistico, per la possibilità di disporre di un regesto rappresentativo della lirica di koinè padana, ancor florida in quel primo squarcio di ’500, e il cui lascito confluirà in certe successive teorie di lingua ‘cortigiana’ (di cui sarà tardo epigono nel 1536 proprio l’Achillini con le sue Annotationi della volgar lingua), in particolare per la valutazione, all’interno del mescidato impasto linguistico, dell’elemento locale o ‘dialettale’: ingrediente «intenzionale» (cfr. M. Vitale, Il dialetto ingrediente intenzionale della poesia non toscana del secondo Quattrocento, «Rivista italiana di dialettologia », X [1986], p. 10), o più che altro inerziale? (M. Tavoni, Storia della lingua italiana. Il Quattrocento, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 85-91). Al fondo locale sono riconducibili fenomeni come la mancata anafonesi di o di qualonque (Foschi, cxcvi), longo (Bicardi, ccvii), assompto (Poggi/ o, cclxix), noncio (da Petra Rubbio, cccv), defonto (Nebbio, cccxxviii) (assente è invece tra gli autori settentrionali quella relativa ad e, che compare nei pochi testi dei centro-meridionali: benegno, Cristofori, ccxcvi, sospento, Astemio, cccxi, strenger, Flavio, cci); i vari esiti con assibilazione di masone ‘magione’ (Zanessi, cclxiii), sintilla (Torelli, cccvii), diserne (Gozzadini, cccxxvii), zelosìa (Poggi/o, cclxii), zeloso (Andalò, cclxiii); l’epentesi di parangon (Paltroni, ccxxiii, Valtellina, cccxii; riscontrabile in Boiardo, Serafino, Tebaldeo, Visconti: cfr. Vitale, op. cit., p. 14); l’articolo davanti a s implicata di il spirito (ivi), il stile (Ercole, cclxi), il strepito (Andalò, cclxxiii), un stil RECENSIONI 805 (Sasso, ccxvii), e, nella preposizione articolata, col stame (Argele, cccxiv); nella morfologia verbale, all’indic. pres. il passaggio m > n nella 1a pers. plur. di piangian (Montecalvo, cclxxv), alla 2a pers. plur. le forme in -i di cognosceti, spargeti (Foschi, cxcv), havreti, sapeti (Valtellina, cciv), pensati (Sasso, ccxix) (Mengaldo, op. cit., p. 119); con chiusura metafonetica in piangite (da Mare, cciii), e nel condiz. fariste (Postumo, ccxcix); al perfetto la forma forte poti ‘potei’ (Ercole Pio, cxcvii, cxcviii; cfr. G. Contini, Un manoscritto ferrarese quattrocentesco di scritture popolareggianti, «Archivum Romanicum », XXII [1938], pp. 283-319: 316), e, da habui, have ‘ebbe’ (Formaglini, cclxxxv) (Mengaldo, op. cit., pp. 127-28). Più caratterizzanti, ma anche più isolati, fenomeni prettamente dialettali come ciunque ‘chiunque’ (Filosseno, ccxxxvii; da mettere in relazione con l’incertezza grafica delle scriptae del nord nella resa delle affricate palatali, e con grafie di tipo opposto come chiascuno ‘ciascuno’?), l’apertura di u in o di orge ‘urge’ (Achillini, ccxcviii; in rima con gorge ‘fiume’), la sonorizzazione della palatale di giascuna (Correggio, cxci); la -n > -m di ognium (Corimbo, ccxli; ricorrente nell’area emiliano-veneta: Mengaldo, op. cit., p. 98), il dileguo dell’alveodentale in parone (Sasso, ccxi); la palatalizzazione di -ll- di cavagli (Postumo, ccxcix; correlabile all’ipercorrezione settentrionale di gli per iod interno: Mengaldo, op. cit., p. 90 n. 4, che cita bagli ‘balli’); la forma enclitica el del pronome all’accus. di senza el (Valtellina, cciv; frequente nel Boiardo: Mengaldo, op. cit., p. 110), la forma declinata dell’indefinito di qualchi dì (Tebaldeo, ccxiii; cfr. D. Trolli, La lingua delle Lettere di Niccolò da Correggio, Napoli, Loffredo, 1997, p. 122). Per aciunque (Montecalvo, cclxxvii) non escluderei l’errore per adunque. Singolare appare la cifra linguistica della terza rima del novarese Nebbio, con forme quasi ‘polifilesche’ come clade, collutto, la rima spirtu : myrtu, e voci come affando ‘affanno’ (attestato, con falsa restituzione di d reattiva al passaggio -nd- > -nn-, in testi semmai dell’Italia centro-meridionale), del resto in rima con scando ‘scanno’, e, sempre in rima, fuce ‘foce, fiume’ (attestato in Jacopone, 51, 45, ed. Ageno, ma anche relitto mediolatino), e buffai ‘bufali’, in cui potrebbe configurarsi il passaggio settentrionale da -lli a -i (passando per un buffalli, forma attestata ad esempio in Niccolò de’ Rossi, 295, 7). Trascurando le opzioni individuali, l’impressione è tuttavia che l’elemento locale si configuri nel complesso comunque come minoritario, anche nelle serie sopracitate, rispetto a una maggioranza di forme legittimate da usi di lingua poetica o di aperta ascendenza toscaneggiante: impressione che andrebbe ovviamente verificata e precisata attraverso uno spoglio più esaustivo. Anche queste ultime osservazioni confermano dunque come il volume curato da Alessio Bologna valga ad arricchire la conoscenza di un periodo ricco di fermenti e ancora in gran parte da esplorare, grazie alla riscoperta e all’illustrazione rigorosa di un testimone prezioso come le «Collettanee» in morte di Serafino Aquilano. Leonardo Terrusi 806 RECENSIONI Nicolò Franco, Epistolario (1540- 1548) Ms. Vat. Lat. 5642, a cura di Domenica Falardo, Forum Italicum Publishing, Stony Brook, NY, 2007, pp. 7-654. Sospinto senza riserve nella schiera di poligrafi e ‘avventurieri della penna’ che hanno attraversato la scena letteraria cinquecentesca, Nicolò Franco (1515-1570) ha sofferto a lungo del giudizio riduttivo della critica nonostante l’ampia produzione letteraria, in parte dispersa, e in parte a stampa anche per il clima repressivo imposto dalla Controriforma. Sicuramente un destino di emarginazione che si è protratto nel tempo e di cui è responsabile una storiografia letteraria attenta piuttosto alle grandi linee e alle grandi questioni e poco incline a considerare autori ritenuti a torto periferici o marginali, sicuramente fuori dai percorsi comunemente battuti e più spesso in conflitto con norme o regole riconosciute e accettate. Indubbiamente Nicolò Franco, autore prolifico in latino e in volgare, fu personalità controversa, il suo spirito corrosivo e polemico che non risparmiava personaggi di rango, anche nell’ambito della Curia, gli procurò noie di ogni genere, fino alla morte a Roma per impiccagione nel 1570. La sua vita, turbolenta e inquieta, fu segnata da fughe, attraversamenti, ritorni, un’inquietudine che segnò anche profondamente i suoi rapporti e le sue amicizie intellettuali, mi riferisco alla clamorosa rottura con l’Aretino, altro personaggio singolare e spregiudicato, che diede vita a una polemica tinta di toni violenti nei due volumi delle Rime contro Pietro Aretino e Priapea, poi finiti all’Indice nel ’59. Certo una personalità singolare, a tratti controversa, interprete discusso di un’epoca di crisi e di profonde contraddizioni, sulla quale si è avviato solo nel secolo scorso un lavoro più attento di scavo e di recupero (mi riferisco ai contributi di De Michele, Badaloni, R. L. Bruni, Martelli, Toscano, Boccia, e a parte il caso di Enrico Sicardi che fu il primo nel 1895 a segnalare agli studiosi l’importanza di questo codice). L’epistolario del Franco, un ingente corpus di 847 epistole, è trasmesso dal codice cartaceo Vat. Lat. 5642, un copialettere autografo, unico testimone, e già ben noto agli studiosi che a tratti, e in tempi diversi, se ne sono avvalsi per una più completa ricostruzione della vita e della formazione intellettuale dell’autore. Interessante l’aspetto grafico di questo codice dove le «numerose cancellature, le correzioni currenti calamo», le parole scritte in interlinea, gli appunti presenti a margine» quasi una sorta di pro memoria, per eventuali correzioni o integrazioni, e ancora «le carte di dimensioni variabili e, in qualche caso, interfogliate», la presenza di carte bianche o contenenti solo l’intestazione di missive poi non trascritte «conferiscono al testo il carattere di una minuta, di una redazione provvisoria e illuminano sulle varie fasi del processo elaborativo e sulla prassi compositiva dell’autore» (p. 8). Si tratta sicuramente di un corpus di particolare rilevanza ai fini di una più corretta ed esaustiva ricostruzione del percorso umano e intellettuale del Franco, che getta poi nuova luce, per RECENSIONI 807 le caratteristiche stesse del ‘genere’, su aspetti diversi dell’intricato universo cinquecentesco. Tra i numerosi interlocutori («il Franco è mittente di 554 e destinatario di 293 lettere »), figurano «letterati, prelati, uomini di potere e loro segretari, mecenati, principi, il fratello Vincenzo, figure femminili delle quali è taciuto il nome, tipografi e librai». E non mancano lettere indirizzate a destinatari fittizi, o, secondo una formula già consolidata, a personaggi illustri del passato. I temi trattati sono numerosi e vari: «Confessioni e progetti di carattere letterario, notizie relative alle opere che non ci sono pervenute, scambi di idee con amici, pareri su testi sui quali è chiamato ad esprimersi, riflessioni sulle convenzioni sociali e su disagi e problemi relativi alla vita quotidiana, critica e ironia contro vizi e privilegi, echi dei tempestosi avvenimenti dell’epoca, denuncia dei mali della Chiesa … dichiarazioni d’amore e di dissenso », oltre, s’intende, agli scontri con l’Aretino e ai consueti attacchi «contro vecchi e ormai logori schemi e termini di giudizio», dove toni e livelli di scrittura «si intrecciano e si sovrappongono» a seconda della tipologia degli interlocutori confermando il sicuro possesso da parte del Franco della tipologia epistolare cinquecentesca. A confermare il carattere singolare di questo codice la presenza, «in coda ad alcune missive» di componimenti in versi: «diciotto sonetti – pubblicati in minima parte nelle Rime antiaretiniane e tre madrigali». La complessa strutturazione del ms. (di cui la Falardo fornisce un’accurata e minuta descrizione) ricorda per certi aspetti, e fatte salve le dovute differenze di ‘genere’, la singolare fisionomia di un altro testo coevo, di pertinenza lessicografica, mi riferisco al Vocabulario del napoletano Fabricio Luna, un altro nome non estraneo all’intricata trama di amicizie e scontri che segnò il primo soggiorno a Napoli del Franco. Dell’ampio epistolario che copre quasi un ventennio (dal 1540 al 1559) la Falardo procura l’edizione delle prime 351 lettere (quelle relative agli anni 1540-1548), corrispondenti grosso modo agli anni del soggiorno a Casal Monferrato «prima tappa di un viaggio che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto avere come meta la Francia» (p. 17), e al biennio mantovano dove il Franco fu ospite della famiglia Arrivabene. A Casal Monferrato, come sappiamo, era approdato dopo la breve parentesi napoletana e il successivo e turbolento approdo nella città lagunare dove «sconosciuto e assai mal in arnese » fu ospitato dapprima da Benedetto Agnello, ambasciatore dei Gonzaga, entrando presto in rapporti con l’Aretino. Il Franco partì da Venezia nel 1540, e la Falardo ricostruisce bene con l’ausilio di fonti attentamente documentate e discusse alla luce di queste lettere, le vicende che dall’iniziale sodalizio portarono alla clamorosa rottura. Certo l’Aretino «abile e influente operatore culturale, profondamente legato al mondo delle tipografie» costituiva per i giovani intellettuali desiderosi di ben integrarsi nella città lagunare, un punto di riferimento sicuro. L’amicizia, agevolata da una singolare affinità tra i due tempera808 RECENSIONI menti «non poteva durare a lungo» e si trasformò presto in aperta ostilità proprio in occasione della pubblicazione nel 1539 delle Pistole vulgari, una raccolta di lettere, in tre libri, con la quale il Franco, a un anno appena dalla pubblicazione del primo libro delle Lettere dell’Aretino, sembrò aprire un confronto con il suo maestro misurandosi con lui proprio sul terreno della satira per dar vita a uno scontro acceso che degenerò presto in aperta ostilità fino a rasentare l’ingiuria, se non addirittura l’aggressione fisica. L’Aretino «probabilmente non tollerava il fatto che il beneventano, a cui aveva offerto ospitalità, gli facesse concorrenza in un genere – che succedeva, rinnovandola, all’epistola tardo- umanistica – del quale si considerava l’iniziatore» (p. 13). È anche verosimile, come osserva la Falardo che il Franco «oltre a risentire di una certa rivalità letteraria fosse rimasto deluso dal comportamento del maestro, nel quale aveva visto, come molti altri letterati, il fautore di una battaglia morale affrontata con serietà e impegno» (p. 13). Il Franco, si diceva, partì da Venezia nel 1540 lasciando dietro di sé l’eco vivissima di questi scontri, e a Casal Monferrato, dove visse fino al 1546, poté godere della protezione del governatore Sigismondo Fanzino e del favore dei letterati locali. Certo un periodo «di relativa stabilità» considerati il temperamento di Franco, i continui spostamenti e la precarietà che caratterizza l’ultimo tormentato ventennio della sua esistenza; un periodo su cui fa ben luce questo carteggio: sono gli in anni in cui il Franco, conquistato ormai un proprio spazio nella società letteraria del tempo, si mostra «meno preoccupato della propria immagine di intellettuale » svelando una spontaneità e un’immediatezza estranea alle Pistole. Anche il successivo trasferimento a Mantova, dove visse per circa due anni, fino al 1548 (e dove approdò prima della partenza per Basilea) fu «probabilmente» risultato di una condanna subìta a Casale Monferrato «per aver reagito con un’aggressione a un’offesa»; e le lettere scritte in questi anni ci confermano l’inclinazione vera dello scrittore: è proprio di questi anni il Cartello di M. Nicolò Franco per li Cortigiani alle gentildonne di Mantoa, segnalato dalla Falardo: «un testo singolare » in cui Nicolò affrontava «con intento parodistico e dissacratorio» il tema diffuso in quell’età delle complesse regole che disciplinavano il duello e le questioni d’onore, regole poi riproposte nel Duello, «uno scritto di probabile carattere satirico lasciato in forma manoscritta » (p. 29). Sulla scorta di queste lettere la Falardo ridisegna le fasi più delicate del percorso umano, esistenziale e letterario del Franco individuando il filo sottile che lega queste lettere ad altri scritti, ai Dialogi e soprattutto alle Rime. Le lettere informano anche sulla genesi di alcune sue opere; è il caso della lettera a Bartolomeo Grosso, scritta da Casale Monferrato il 6 agosto 1545, e ricordata dalla Falardo, che contiene chiari indizi sulle fasi di elaborazione di una raccolta di sessanta sonetti, pubblicati a Mantova in volume nel 1547 (Dialogi maritimi di M. Gioan Iacopo Bottazzo et alcune rime maritime di M. Nicolò Franco, et RECENSIONI 809 d’altri diversi spiriti dell’Accademia de gli Argonauti). Tra i numerosi corrispondenti, in genere principi o intellettuali più o meno in vista della società letteraria del tempo, figurano personaggi diversi: Ludovico Domenichi, Bernardino Moccia, Annibale Brancazzo, Giovanni Iacopo Bottazzo, Antonio Ravino, Giovanni Ronchegallo, Francesco Alunno, il fratello Vincenzo, Cesare Fregoso, Antonio Castriota, Giuseppe Cantelmo, Sigismondo Fanzino, Leonardo Arrivabene, Isabella di Capua, e ancora i conterranei Giovanni Antonio Mansella, Vincenzo Cautano, per citarne solo alcuni; interessante la fitta corrispondenza intrecciata dall’ottobre del 1541 al giugno del 1543 con Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, governatore dello Stato di Milano e cultore di poesia. L’edizione di questo epistolario, che si segnala per la cura filologica e la sobrietà dell’indagine critica, costituisce indubbiamente un punto fermo per gli studiosi dell’opera del Franco: un lavoro attento di trascrizione e di edizione condotto con criteri in massima parte conservativi e di cui la Falardo dà conto in una circostanziata Nota al testo. Certo un terreno arduo, ricco di insidie – considerata la complessa fisionomia del codice – sul quale la curatrice si muove con prudenza dimostrando una buona padronanza in tema di ecdotica dei carteggi, sostenuta anche da una frequentazione non occasionale dell’opera del Franco, mi riferisco a una serie di interessanti ‘incursioni’ sulle Rime, pubblicate in sedi e occasioni diverse, a riprova quanto meno di una continuità di interessi e di ricerca1. Il volume è corredato da un’aggiornata bibliografia critica e dagli indispensabili indici (Indice delle epistole; Indice dei corrispondenti; Indice dei nomi citati nelle epistole). Milena Montanile Claudia Carella, “Umana cosa picciol tempo dura”. Leopardi, Saffo e il mondo greco, Roma, Universitaria, 2010, pp. 352. L’idea di uno studio dei rapporti tra Leopardi e il modello classico, pensata e realizzata da una giovane, ma promettente studiosa, Claudia Carella, mira a ricostruire il rapporto di Leopardi con gli antichi, oltre che in ambito poetico, entro margini di competenza filosofica. La studiosa si muove sulle orme dello Zibaldone, per dimostrare la profondità del classicismo leopardiano, mentre una delle punte cardine della riflessione del mondo greco degrada L’ultimo canto di Saffo. L’incontro di Leopardi con la grecità avvenne verso il 1813-1814, anno dell’apprendimento del sacro, in parti- 1 Cfr. D. Falardo, Rime di Nicolò Franco, in Le forme della poesia, VIII Congresso dell’ADI (Siena 22-25 settembre 2004), a cura di R. Castellana e A. Baldini, Università degli Studi di Siena 2006, pp. 151-159; Per l’edizione delle Rime di Nicolò Franco: recenti acquisizioni, in La letteratura italiana a congresso. Bilanci e prospettive del decennale (1996-2006), a cura di R. Cavalluzzi, W. De Nunzio, G. Distaso, P. Guaragnella, Lecce, Pensa MultiMedia, 2008, pp. 317-323. 810 RECENSIONI colare della lingua, entro una consistenza di poetica classica e romantica. Un paragrafo è dedicato al Saggio sopra gli errori degli antichi, del 1815. L’ambiente in cui visse i primi anni di formazione furono quelli di Recanati. Il suo insegnante fu quello che influenzò nelle forme gesuitiche la sua prima formazione. Nel 1812 Leopardi aderì sempre di più alle idee illuministe e razionaliste. L’opposizione alla cultura antica è espressa nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Intorno al 1815 maturò la “conversione letteraria”. Molte furono le traduzioni di questo periodo, dall’Odissea all’Eneide. Ma la vera conversione avvenne tra il 1817 e il 1819, e fu caratterizzata da esperienze di vita. La più riuscita delle traduzioni fu quella della Batracomiomachia, in cui si ispirò a Mosco. Negli anni compresi tra il 1814 e il 1818, si accinse a comporre il Discorso intorno alla poesia romantica e tra le prime forme pagane dello Zibaldone la più citata fu quella di Mosco. Elemento importante, ma trascurato dalla critica, fu il rapporto con Esiodo, all’interno della traduzione della titanica materia. La polemica del Leopardi era rivolta ai puristi milanesi, mentre la sua attenzione fu presto volta alla traduzione della Titanomachia di Esiodo. Leopardi tradusse solo la parte bellica e cosmica dell’opera di Esiodo. La crisi del 1817 fu resa possibile dall’incontro col Giordani e con l’Alfieri, oltre che dall’amore per Gertrude Cassi. Pietro Giordani fu animato da idee antirestauratrici e anticlericali, e avvicinò maggiormente Leopardi al classicismo, venato di sensismo. Il rapporto antichi-moderni è esposto nello Zibaldone tra il 1820 e il 1821. Gli autori a lui cari furono Omero, Pindaro, Anacreonte, Luciano, Lucrezio, Cicerone, Virgilio, Orazio. Gli antichi erano come fanciulli, ma mancavano di naturalezza e di semplicità, mentre la poesia moderna si fondava sul contatto tra poesia e filosofia. Anche nella canzone Ad Angelo Mai l’elemento portante è l’opposizione antichi-moderni, mediata dal rinvenimento del De repubblica ciceroniano. La canzone A un vincitore nel pallone del 1821 affronta temi civili e morali. Il modello della grecizzazione entrò in crisi nell’Ultimo canto di Saffo, mentre si intensificò nello Zibaldone. La lingua latina fu superiore alla greca, ma il più illustre degli epici fu, senza ombra di dubbio, Omero, accomunato agli altri, come Dante, Petrarca, Ariosto, sotto la categoria degli antichi. Il tema della compassione e della misericordia, presente in Omero, data intorno agli anni 21- 22. Nell’opera Lepardi analizza i rapporti con la lingua omerica. Leopardi riprese ad affrontare la questione omerica nel 1828: tra i poeti greci più amati spicca Anacreonte. Il teatro, perché si allontana dalla natura, non è vera poesia. L’evocazione della poesia greca è presente in opere come Alla fiamma, L’ultimo canto di Saffo, L’Inno ai Patriarchi. All’interno dell’intelaiatura tematica di A Silvia, la Carella individua le fonti omeriche. I Canti si aprono con una citazione della canzone All’Italia e si concludono con due citazioni di Simonide. La sensazione di dolore è, sempre, in Saffo connessa a quella della giovinezza, mentre il mito alimenta la poesia dell’innocenRECENSIONI 811 za e della leggerezza. Il testo si conclude con una finissima analisi dell’Ultimo canto di Saffo, del notturno, in cui l’aggettivo “placida”, di ascendenza quintilianea, crea un’atmosfera di infinita serenità, che fa da sfondo all’inquietudine della protagonista. Una bellissima e appropriata citazione conclude il pregevole lavoro della Carella:”Il linguaggio di Saffo è divino, perché sente che la vita di ogni essere è arcana e sacra”. In questo contesto di purificazione e di sacralizzazione, le figure muliebri leopardiane sembrano incarnare la poesia del divino, coinvolgendo il Leopardi in un afflato quasi mistico, che lo rende ancora oggi poeta molto attuale e imitato, nonostante il suo rapporto con l’Antichità. Il volume di Claudia Carella ha l’indubbio merito di avere indagato un problema critico di cui molto si è discusso, ma poco si è analizzato. L’entusiasmo della giovane studiosa, che si è cimentata in un argomento tanto arduo, non solo denota una familiarità straordinaria con la cultura classica, quanto anche una sensibilità particolare nell’approccio all’interpretazione critica dei Canti e dello Zibaldone. Valeria Giannantonio La parola e il luogo, a cura di Antonio Di Grado, Palermo, Kalòs, 2010, pp. 94. Il titolo di questo volumetto antologico, La parola e il luogo, prende spunto da quello di una rubrica eponima pubblicata qualche tempo fa sul periodico «Kalòs», nella quale venivano ospitati periodicamente saggi incentrati sui luoghi degli scrittori siciliani e sulle modalità con le quali essi avevano saputo trasfigurarli. Dopo essere apparsi negli anni in modo discontinuo, questi articoli sulle ambientazioni di Verga, Pirandello e Borgese, di Francesco Lanza, Brancati e Quasimodo, di Vittorini, Sciascia e Bufalino sono stati ripescati da Antonio Di Grado ed assemblati in un «piccolo e prezioso atlante» (p. 11), al quale sono poi stati aggiunti tre saggi inediti sulla Sicilia di De Roberto, Lucio Piccolo e Sebastiano Addamo. Da questa sorta di mappa letteraria emerge un ritratto della regione siciliana quanto mai variegato, che spazia dalla Catania di tradizione borghese e democratica, per la quale De Roberto nutriva un sentimento di attrazione e repulsione, alla Palermo aristocratica di Tomasi di Lampedusa, dalla provincia messinese affrescata da Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo al centro assolato delle miniere e del latifondo descritto da Francesco Lanza, fino alla Sicilia amara della mafia e della morte analizzata da Sciascia. Accanto a queste rappresentazioni più o meno realistiche si pongono poi quelle delle altre «cento Sicilie» inventate dagli scrittori nel tentativo di difendere la loro terra da una realtà «tralignata e mortificante». Si tratta delle celebri Ràbbato e Roccaverdina, di Calinni, Regalpetra e Trezza, toponimi di località fantastiche, immaginate dai letterati come «schermo alla nostalgia o riparo allo scherno» (p. 10). Il paese dei Malavoglia, «ostrica abbarbicata a una statica dimora 812 RECENSIONI isolana» dove ripararsi dai «marosi della modernizzazione» (p. 21), presenta, ad esempio, caratteri del tutto estranei ai borghi marinari di quegli anni, che vengono desunti semmai dalle memorie autoriali relative alle comunità rurali dell’interno. In questo modo, la geografia reale si fonde con gli spazi simbolici o visionari creati dagli scrittori per rappresentare e universalizzare l’ambiente insulare, che viene «promosso a macrocosmo» (p. 13) e adottato come chiave di lettura della condizione umana. Come aveva già intuito Borgese nel ’33, nella sua Introduzione al volume Sicilia del Touring Club, la Sicilia è infatti un’«isola non abbastanza isola», la quale, nonostante il suo isolamento, costituisce un elemento «direttivo» della «cultura nazionale », «essenziale» per la «costruzione del nuovo mondo e del nuovo io» (p. 15) della società italiana. In ambito letterario, il rapporto fra l’uomo e l’ambiente serve insomma ad analizzare sotto una prospettiva differente il classico rovello sulle dissonanze e le convergenze fra io e mondo. Scrittori come De Roberto – che dal ’27 tiene una rubrica sulle bellezze architettoniche di Catania sul «Giornale dell’Isola» –, come Borgese – autore di una lucida introduzione al volume siciliano del TCI – o come Bufalino, convinto che la Sicilia, «prima di essere un’anagrafe geografica», sia essenzialmente «una condizione morale» (p. 91), hanno preceduto le tendenze di ricerca della critica ufficiale, che solo di recente ha accettato «l’appartenenza dell’opera letteraria allo spazio » (p. 9). Attraverso i testi è possibile decriptare l’idea di mondo racchiusa in un determinato paesaggio e riconfigurare lo spazio assemblando dati della realtà oggettiva e suggestioni intime, dando luogo a rappresentazioni inedite, utili a definire «l’umano consorzio» (p. 9) che anima i luoghi. Gli scrittori, insomma, non si limitano ad una esatta rappresentazione della realtà, ma vanno alla ricerca dei suoi aspetti metaforici per rintracciare nel paesaggio le caratteristiche della società che li vive; per scoprire, come Bufalino, che la condizione dell’isola influenza e determina la «fierezza magnanima» e il «furor malinconico» (p. 91) dei suoi abitanti; o per comprendere, come aveva fatto Borgese, che la «psiche individuale» dei siciliani si basa sul «complesso di inferiorità e lo spirito di grandezza» già intessuti a loro volta «nel destino storico e naturale » della loro terra (Sicilia, p. 10). Nella Premessa alla prima edizione della sua Isola di carta. Incanti e inganni di un mito (Siracusa-Palermo, Lombardi, 1996) del 1984, Antonio Di Grado si era già soffermato sul mito letterario della Sicilia, definendo questa terra come un luogo privilegiato per porsi interrogativi sui «destini collettivi e su miti e ideologie di largo consumo», come un «rancoroso rifugio atto ad alimentare il risentimento dell’isolato e a proteggerlo» nel contempo dagli «spaesanti traumi della modernità» (p. 9). Queste due immagini contraddittorie della Sicilia emergono anche dalle rappresentazioni che ne hanno dato i suoi scrittori, i quali, di volta in volta, l’hanno dipinta, come ha fatto Quasimodo, come un locus amoenus esclusivo e conchiuso, doRECENSIONI 813 tato di una doppia forza «centrifuga e centripeta», dove «si è chiusi dal mare» eppure «si evade» per poi farvi ritorno infinite volte «con l’animo » (p. 48); o come una «terra promessa », che, per dirla con Borgese, «scapiglia […] la fantasia solo se vista da lontano» (p. 38), poiché, se osservata da vicino, essa «chiude la bocca e il cuore», e dunque, per amarla, occorre limitarsi, come suggerisce Francesco Lanza, a cantarla «sulle bianche carte, nei libri e nei film» (p. 41). I letterati siciliani sono insomma lacerati, come Gesualdo Bufalino, fra l’orgoglio di appartenere ad una terra amena e generosa ed il senso di riprovazione per le sue storture e per il deperimento provocato dalla brama di possesso dell’uomo, pronto a distruggere il paesaggio pur di convertire «un carrubeto infruttifero in un seminato venale» o ad appiccare incendi per «estorcere alla Regione danari per rimboschire» (p. 89). Tuttavia, pur essendo una «terra difficile», la Sicilia non ha «eguali al mondo» (p. 92) a dire dell’autore delle Menzogne della notte, che ha legato indissolubilmente la sua opera a questo luogo contraddittorio, in bilico fra il senso di «autosufficienza felice» per via del suo isolamento e la «solitudine amara» dovuta alla sua «segregazione» (p. 91). Riflettendo sui macrotemi del radicamento, dell’esilio e del desiderio di fuga e interrogandosi sull’identità di quest’ «isola non abbastanza isola» – come l’aveva definita Borgese nel ’33 –, e su quella dei suoi abitanti, gli scrittori finiscono con l’attribuire alla propria terra uno spessore simbolico, e, trasformando i luoghi in un elemento chiave per interpretare ed esprimere il rovello esistenziale novecentesco, essi confermano che il paesaggio è davvero, come aveva ipotizzato Giorgio Caproni nel ’56 su «La Fiera letteraria», il «più lucido geroglifico della nostra desolata anima contemporanea». Ambra Meda Stefano Carrai, Il caso clinico di Zeno e altri studi di filologia e critica sveviana, Pisa, Pacini, 2010, pp. 136. Se è vero che la Coscienza di Zeno deve la propria origine ad un «attimo di forte travolgente ispirazione»1 dell’autore, è altrettanto vero, ovviamente, che l’urgenza della scrittura non poteva prescindere, per Svevo, dal confronto continuo e insistito con gli umori culturali del proprio tempo. È alla ricerca delle possibili matrici letterarie e filosofiche del terzo romanzo sveviano che Stefano Carrai dedica Il caso clinico di Zeno, primo dei saggi che compongono un volume nato, in parte, per rendere esplicito al lettore il filo che lega ricerche distribuite nell’arco di un trentennio e, di fatto, per inserire ulteriori e preziosi elementi nel quadro estesissimo della critica sveviana. Sei degli otto capitoli del libro sono, infatti, stati pubblicati in passato, ma vengono qui riattraversati, organizzati diversamente e inseriti all’interno di un ragionamento più complesso. I restanti due lavori ri- 1 I. Svevo, Profilo autobiografico, in Id., Racconti, Milano, Mondadori, 2004, pp. 811-812. 814 RECENSIONI sultano del tutto inediti ed aggiungono, per questo, nuovi tasselli al quadro delle indagini sulla produzione letteraria di Svevo. Della Coscienza lo studioso pone subito in risalto il carattere di antiromanzo, di testo dall’impianto complesso che mette in scena «la disgregazione del vissuto e della psicologia del personaggio » (p. 11). A partire da questo dato, egli prova ad individuare le fonti letterarie di tale prospettiva e ricostruisce, innanzitutto, la rete di rimandi che i critici contemporanei di Svevo tracciano tra le pagine dell’autore triestino e quelle dei più forti modelli letterari dell’epoca. Dopo aver citato, pur mantenendone le distanze, la lettura di Benjamin Crémieux, che considerava Svevo quasi un «secondo Proust» (p. 13) per la sua sottile capacità di percorrere i sentieri della memoria, Carrai si sofferma sulla possibilità di stabilire delle connessioni tra la scrittura sveviana e quella di Musil, Kafka, Joseph Roth e Schnitzler. Il richiamo a queste letture non può affiorare nel romanzo di Zeno sotto forma di influenze dirette, ma emerge, nella proposta di Carrai, almeno per la presenza di «costanti insite nello spirito del tempo» (p. 14). Più avanti, l’attenzione è rivolta all’attrazione che sull’autore possono aver esercitato Rilke, Jean Paul e Joyce, scrittore, quest’ultimo, che Svevo, com’è noto, conosceva personalmente. Non avendo riscontrato alcun rapporto imitativo tra la scrittura sveviana e quella dei testi presi in esame, lo studioso può giustamente affermare che «tanto l’ideazione della Coscienza quanto la sua dispositio vanno considerate come il frutto dell’originalità e della creatività del suo autore » (p. 17). Piuttosto, maggiormente fecondo risulta il confronto con la produzione freudiana. Carrai non manca di ricordare che Svevo è stato traduttore di Über den Traum e ritiene che il contatto con le teorie psicanalitiche abbia procurato una «somiglianza stringente» (p. 19) tra il modo in cui Freud descrive le vicende dei propri pazienti e quello in cui si racconta la vita del protagonista della Coscienza. Il romanzo diventa, insomma, la storia del caso clinico di Zeno. La sua struttura rovescia quella dei testi di riferimento, che si concludono con la guarigione del paziente, e rivela, dunque, rispetto ad essi una chiara «intenzione antifrastica » (p. 22). In quest’ottica, diventa allora pienamente condivisibile l’idea che il modello della scrittura psicanalitica abbia suggerito a Svevo una «decostruzione in chiave freudiana della trama tradizionale del romanzo» (p. 23). Alle pagine della Coscienza Carrai dedica anche il secondo dei segmenti che compongono il volume, che si intitola, significativamente, Come nacque la Coscienza di Zeno. Questa volta l’intenzione è quella di indagare, dopo aver fissato i precisi termini cronologici entro i quali Svevo lavora al proprio romanzo, la logica sottesa al montaggio del testo. Ritenendo che esso funzioni come la ricostruzione di «cinque lunghe sedute di autoanalisi (o se si vuole di autocoscienza) incorniciate da un doppio prologo e da una conclusione » (p. 30), il critico sottolinea la presenza di una frattura tra i capitoli centrali e lo sfondo costituito da PreRECENSIONI 815 fazione, Preambolo e Psico-analisi. Tuttavia, egli dissente da chi ha ritenuto la Coscienza frutto dell’assemblaggio di materiali preesistenti e procede evidenziando tutte le tracce a favore di un progetto unitario della scrittura. Così, all’interno di una narrazione aggregata per blocchi tematici, ad essere posti in risalto sono soprattutto i segnali di coesione: temi ricorrenti, rinvii da un capitolo all’altro, immagini che ritornano. In quest’ottica, anche il dottor S. non appare un personaggio di sfondo, ma un «elemento di rilievo nella grana finissima del testo» (p. 47), una presenza velata e insieme incombente su tutta la vicenda narrata. Sulla sua identità Carrai si interroga nel terzo capitolo, allontanando definitivamente le proposte interpretative che leggevano nel nome abbreviato l’indizio della fisionomia di Freud o di quella dello stesso Svevo e ricordando che l’abitudine di indicare il nome di un medico con la sola iniziale è caratteristica della narrativa ottocentesca incentrata «sulla figura dello scienziato temerario» (p. 51). A partire dal quarto saggio, Svevo scrittore distratto: da Una vita alla Coscienza, da Corto viaggio sentimentale a Il vegliardo, Carrai amplia la prospettiva di indagine e introduce nell’ottica del proprio ragionamento gli altri testi della produzione sveviana. Attraverso il filtro della distrazione, considerata quasi una categoria comportamentale nell’indole dell’autore, l’argomentazione procede analizzando tutte le antinomie, le contraddizioni, le suture imperfette presenti nei romanzi come nei racconti e negli scritti teatrali. Lungi dal ritenere le incongruenze rilevate nei testi il risultato di operazioni consapevoli di demistificazione della scrittura, Carrai considera ciascun elemento un segnale preciso della maniera in cui Svevo lavora. Ad emergere è l’idea di una gestazione dei testi lunga, stratificata, nella quale le più scarne redazioni iniziali acquistano spessore per l’introduzione nella psicologia dei personaggi di dettagli più precisi. Da questo punto di vista, risulta di particolare interesse l’analisi della pagina di Corto viaggio sentimentale in cui Svevo dà la definizione, cruciale nell’intero sistema della sua narrativa, di «poeta travestito»2. Gli interventi compiuti sulla prima stesura del testo tendono a mettere in luce la «finezza d’ingegno […] del protagonista » (p. 73), che appare, inizialmente, tratteggiata in maniera meno esplicita. La scrittura sveviana si mostra, allora, «tumultuosa, tesa al continuo superamento di se stessa per lo strenuo rifacimento da parte di uno scrittore incontentabile» (p. 78). Passando dalla produzione strettamente narrativa ai testi di altro genere, nel quinto capitolo Carrai discute il caso del Profilo autobiografico, ricostruendo le posizioni della critica più recente che ne ha messo in dubbio l’autenticità. Il testo, decisivo per l’interpretazione della fisionomia privata ed intellettuale di Svevo, appare invece allo studioso di sicura attribuzione. Malgrado l’ipotesi di una manipolazione successiva alla morte dell’autore, esso resta una «fonte insostituibile» (p. 2 I. Svevo, Corto viaggio sentimentale, in Id., Racconti, cit., p. 549. 816 RECENSIONI 88) per sondare i percorsi della sua biografia e della sua narrativa. Alcune riflessioni non marginali sono riservate, nei due saggi che seguono, ai carteggi con Crémieux e Marie Anne Comnène, per i quali si avanzano nuove ipotesi di datazione, e ad alcune lettere scritte da Svevo a Giovanni Comisso. In questo caso, la questione relativa all’assenza di data viene felicemente risolta grazie alla perizia filologica dello studioso, che permette di risalire al giorno esatto della sua stesura. Il lavoro posto a chiusura del volume, inedito come quello che attraversa le pagine del Profilo, segue un percorso poco indagato, ma non per questo secondario nella definizione delle prospettive di Svevo. Si tratta del ruolo che assumono, nel suo orizzonte culturale, alcuni autori della tradizione letteraria italiana. In particolare, accanto a qualche breve cenno sulla presenza di Dante, Boccaccio, Machiavelli e Guicciardini nelle pagine di Una vita, Carrai si ferma a considerare quale sia stato il ruolo svolto da Petrarca nell’articolazione della narrativa sveviana. Le conclusioni a cui egli approda permettono di ritenere che il poeta sia uno dei grandi riferimenti dell’autore. Petrarca non affiora, di fatti, dalla pagina di Svevo solo per il canonico rimando al suo amore per Laura, come pure accade in Terzetto spezzato, ma diventa il centro di un dibattito sull’autenticità delle sue lettere in Una vita. Richiamare la questione, affrontata anche dal Foscolo esule in Inghilterra e presentata a Svevo, secondo Carrai, da Attilio Hortis, diventa il segno di una conoscenza «completa e complessa» (p. 123) della sua intera esperienza intellettuale e dichiara, più in generale, la natura multiforme della scrittura sveviana. Stefania Capuozzo L’oeuvre ou la vie. Mots d’Antonia Pozzi. L’opera e la vita. Parole di Antonia Pozzi, a cura di Laura Oliva e Ettore Labbate, Bern, Berlin, Bruxelles Frankfurt am Main-New York, Oxford, Wien, 2010, pp. 214. La restituzione di una parte di liriche della raccola Parole di Antonia Pozzi, ad opera di Laura Oliva ed Ettore Labbate, per i tipi di Peter Lang, con la traduzione francese di Ettore Labbate, riporta alla luce la cifra esistenziale di una poetessa, per la quale il viaggio, l’erranza, scandiscono i momenti di un cammino verso un senso ineluttabile di dolore. Nata a Milano il 13 febbraio 1912, da una famiglia benestante, che per parte materna discende da Tommaso Grossi, trascorse la sua estate a Pasturo. Il punto cruciale della biografia della Pozzi è l’incontro con il suo professore di latino e greco, Antonio Cervi. L’amicizia con Vittorio Sereni, Rino Formaggio e Giulio Preti fu fondamentale per la sua formazione poetica. Si laureò con una tesi su Flaubert nel 1935. L’estate del 1938 con la promulgazione delle leggi razziali, lascia precipitare, come anche per Saba, il dramma esistenziale della poetessa, che, a soli 26 anni concluse la propria vita il 2 dicembre 1938. La consapevolezza della fine è un elemento di fondo caratterizzante un itinerario umano e poetico, di natura autobiografica. RECENSIONI 817 L’edizione del 1964, ad opera di Vittorio Sereni, riconferma un’adesione, come sottolinea la Oliva, alla vita, nella quale è sempre presente la crisi delle certezze, conseguente al fallimento del positivismo. È d’altronde, come sottolinea la Oliva, la stessa visione malinconica del D’annunzio notturno, che non solo nella fase terminale della propria esistenza, ma anche nell’arco di tutta la vita alternò al culto della bellezza, il senso incombente della morte e l’ossessione dello scorrere del tempo. Però, al contrario del D’Annunzio malinconico, assai bene messo in luce da Gianni Oliva, nel suo D’Annunzio e la malinconia, la parabola verso la morte della Pozzi si impregna di un desiderio di pace, come redenzione dal dolore. Il senso di estraneità alla realtà umana e naturale proietta l’esistenza della Pozzi, nel sogno, unica dimensione di vita, che ripropone il motivo assai moderno dell’onirismo, del nomade senza approdo di terra, comune con lo Sbarbaro di Mediterranee. Tra i giorni del pianto e i giorni della pace, l’invocazione al Signore della lirica Preghiera, e agli elementi primigeni della natura, dai quali la poetessa cerca di trarre alimento di vita, esemplifica, al tempo stesso, la desertificazione della coscienza. Il binomio classico leopardiano amoremorte appare riproposto dalla Pozzi nelle movenze macabre di una vita che entra nella bara. La sottolineatura nella lirica Fine della “fine notturna” diluisce nel senso incombente della morte lo scorrere del tempo e della vita, restituendo così un’immagine visiva di un travaglio esistenziale, tanto isolato nel contesto storico-politico del proprio tempo, quanto riflesso nella solitudine dello spegnimento della vita. Il merito di Laura Oliva ed Ettore Labbate è quello indubbio della pubblicazione di alcune poesie di Parole della Pozzi, con un ampio e documentato commento iniziale. La pubblicazione di Poesie della Pozzi si pone a suggello di un connubio ormai datato tra l’Università di Caen in Normandia e l’Università D’Annunzio di Chieti. Valeria Giannantonio Rosamaria Loretelli, L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 262. Molto è stato detto e scritto sul romanzo moderno e sulle sue scaturigini e anche oggi che le nuove potenzialità espressive offerte dall’ipermedialità minacciano di mettere in discussione il suo statuto egemonico in ambito letterario, il dibattito critico sul genere narrativo per eccellenza appare lungi dall’essersi esaurito. Anzi, forse è proprio la consapevolezza di vivere una vorticosa rivoluzione tecnologica paragonabile, per l’impatto esercitato sulle modalità di scrittura e lettura dei libri, a quella di Gutenberg, che ci spinge da un lato ad interrogarci sulla necessità per la narrativa di rinnovare le proprie forme, e dall’altro a riconsiderare il romanzo nei termini di un approdo, nient’affatto definitivo, di quel flusso in perenne mutamento che è la comunicazione letteraria. Del resto, come ha osservato a suo tempo Marshall McLuhan, la storia del pensiero umano è anche la sto818 RECENSIONI ria delle forme e dei mezzi che, in diverse epoche e in diverse culture, menti e corpi in situazione hanno elaborato per raccontarsi e per trasmettere informazioni. Di ciò si mostra ben consapevole Rosamaria Loretelli, che in questo suo meditato saggio stila un’avvincente storia del libro e della lettura connessa all’evoluzione delle forme narrative, rintracciando i mutamenti più significativi intervenuti nelle pratiche di elaborazione e di fruizione del récit a partire dall’antichità classica sino al Settecento, periodo su cui la sua indagine si sofferma con particolare cura. Nel lungo processo che vede il progressivo affrancarsi, in letteratura, della parola scritta dall’oralità, il secolo dei Lumi costituisce un momento peculiare in cui, osserva l’autrice nel primo capitolo, “l’incremento delle trasformazioni quantitative supera la soglia di non ritorno che dà origine al salto di qualità” (p. 6). I cambiamenti avvenuti nella forma materiale dei testi e nelle modalità di ricezione, iniziati con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, ma diffusisi su larga scala solo nel diciottesimo secolo, determinarono la nascita di un nuovo tipo di narrativa che per catturare l’interesse e suscitare emozione nei suoi destinatari non privilegiava più il contesto esterno. Il romanzo moderno, sostiene la Loretelli, si pone infatti nella storia della letteratura come una vera e propria invenzione programmatica, come una precisa risposta fornita dagli scrittori del Settecento alle esigenze di un pubblico che acquisiva sempre più dimestichezza con la lettura silenziosa, privata ed intimista. Si tratta di una situazione comunicativa del tutto inedita, in cui il lettore è per la prima volta “solo di fronte alla pagina stampata, che scorre con gli occhi a una velocità sintonizzata con l’andamento del suo pensiero e delle sue emozioni” (p. 60). Mentre nel Seicento la lettura costituiva ancora una pratica essenzialmente orale e collettiva, legata alla presenza umana e allo scambio verbale, dalla seconda metà del diciottesimo secolo in poi sarà la sola pagina scritta a farsi carico di tutto il portato emotivo e di significato la cui trasmissione veniva in precedenza delegata al contesto di enunciazione. Il romanzo moderno prende forma “da un continuo andirivieni tra proposte ‘narratologiche’ e prassi narrative” (p. 146), entrambe stimolate dai nuovi standard della comunicazione letteraria: prima ancora di ospitare nel suo universo ambienti sociali e caratteri umani in precedenza assenti o non rappresentati, esso soddisfa “un’esigenza cognitiva che si stava determinando a seguito del radicarsi dell’alfabetizzazione in un numero sempre maggiore di persone, a seguito della standardizzazione delle lingue e a seguito dei perfezionamenti tecnologici” (p. 146). L’indagine a tutto campo della Loretelli, che si avvale dell’analisi di un numero considerevole di fonti, restituisce un’immagine della lettura come prassi storicamente determinata, come gesto nient’affatto immutabile che nel corso delle epoche si è compiuto secondo modalità differenti e che ha perseguito obiettivi sempre nuovi: “lungi dall’essere una capacità già predisposta negli individui nei modi in cui l’acquisiamo oggi RECENSIONI 819 durante l’infanzia”, puntualizza l’autrice nel secondo capitolo, “questa pratica è andata cambiando anche proprio in quegli aspetti che a noi parrebbero più vicini alla natura, sia fisica che psichica” (p. 27). Si tratta di uno dei punti cardine della riflessione sul legame tra la diffusione di nuove tecnologie della parola e l’evolversi dell’atteggiamento cognitivo del pensiero umano di cui, nel quarto capitolo, la Loretelli discute in relazione al radicale rimodellamento, nella narrativa del diciottesimo secolo, delle categorie della temporalità e della causalità. Attraverso un’accurata analisi delle opere teoriche e creative di quegli autori che, influenzati in misura diversa dalle idee sulla comunicazione esposte da David Hume nella Ricerca sull’intelletto umano (1748), contribuirono a mettere a punto una nuova estetica del racconto, la Loretelli dimostra come gli scrittori del Settecento fossero ben consci del fatto che l’impossibilità di adeguare i modelli narrativi del passato alle nuove condizioni di fruizione del testo derivava principalmente dall’esistenza di una più accentuata sfasatura temporale tra l’esperienza dei personaggi del racconto e l’esperienza del lettore, la quale a sua volta ostacolava l’induzione nei destinatari di tensioni ed emozioni, per così dire, forti. I grandi romanzieri come Henry Fielding e Samuel Richardson, ricorda la Loretelli, avanzarono diverse proposte per ovviare a tale problema, e tuttavia occorse un lasso di tempo piuttosto lungo prima che il romanzo giungesse ad una soluzione soddisfacente. L’autrice ripercorre accuratamente tutti i passaggi che segnarono questo processo: di notevole interesse sono le sue osservazioni relative all’uso nelle prime edizioni dei romanzi settecenteschi di un ricco apparato grafico in funzione significante ed emotiva, un aspetto della storia del romanzo verso il quale la critica ha mostrato fino ad ora scarso interesse, se si esclude il caso del Tristram Shandy (1760-67) di Sterne. Trattini, asterischi, ornamenti floreali, spazi bianchi e pagine abbrunite non costituiscono, a parere della Loretelli, elementi esterni e del tutto accidentali, bensì il tentativo “di segnalare discontinuità temporali – interruzioni, pause, reticenze, silenzi – collegate con la tensione emotiva e l’ansia dei personaggi” (p. 155). Con l’inserimento di uno spartito in Clarissa (1748), Richardson, ad esempio, mira a “riprodurre l’atmosfera musicale, non rappresentandola simbolicamente o ricreandone l’effetto con altri mezzi, […] ma facendo scivolare delle note musicali pari pari tra le parole del testo stampato”, rivelando quindi il desiderio “di risarcire la narrazione della perdita del suono e del contatto tra chi legge e chi ascolta” (p. 149). Lo sperimentalismo grafico dei primi romanzi, tuttavia, si rivelò presto inadeguato a rallentare il flusso del racconto e a riprodurre sulla pagina stampata quella “durata” indispensabile a far protendere con inquietudine il lettore verso lo scioglimento dell’intreccio narrativo. La Loretelli attribuisce al romanzo gotico, ed in particolare a The Mysteries of Udolpho (1794) e The Italian (1797) di Ann Radcliffe, il merito di aver battuto fino in fondo il sentiero che, 820 RECENSIONI in Inghilterra, Aphra Behn a fine Seicento e Henry Fielding, Samuel Richardson e Tobias Smollett intorno alla metà del Settecento, aprirono nel campo della manipolazione narrativa del tempo: se il romanzo alessandrino e quello barocco ritardavano il ritmo del racconto per mezzo dell’inserimento cospicuo di digressioni e di episodi a sé stanti, il romanzo gotico gestisce la suspense senza mai stornare l’attenzione del lettore dal filo narrativo principale. In tal modo, conclude l’autrice, il racconto induce “il desiderio di conoscere il futuro testuale, e per non soddisfarlo troppo presto […] dilata le maglie del racconto, metabolizzando le descrizioni, scomponendo i fatti e intersecando tra loro attese diverse” (p. 170). Il decisivo passaggio dall’organizzazione paratattica del racconto, fatta di giustapposizioni di eventi e storie, a quella ipotattica, mirante invece a stabilire connessioni logiche tra gli episodi principali della trama, fu inoltre utile ad attivare in maniera efficace la memoria dei destinatari i quali, non disponendo più degli ausili mnestici garantiti da una situazione comunicativa orale, necessitavano di nuove forme di ripasso per rammentare i particolari indispensabili ai fini della comprensione del racconto. La Loretelli ipotizza quindi una connessione tra l’affermarsi del realismo narrativo e le mutate esigenze di memorizzazione dettate dai tempi della lettura interiorizzata: “il romanzo introduce ambientazioni accurate, atteggiamenti, dilemmi, indecisioni, previsioni, pensieri, che forniscono molto alle sedi della memoria e fanno ricordare la storia perché la collegano a un maggior numero di esperienze già in memoria” (p. 177). Diversamente dalla narrativa antica e, in misura minore, da quella del sedicesimo e del diciassettesimo secolo, il romanzo moderno, mentre progredisce nella trama, “induce anche il recupero mnestico di tutta una serie di informazioni pregresse, mediante il riferimento a indici di archiviazione” (p. 180) che rimandano ad avvenimenti narrati in precedenza. Dall’indagine della Loretelli emerge con forza l’idea che le vistose innovazioni formali introdotte nella narrativa del Settecento furono in sostanza il frutto della continua attenzione che i romanzieri rivolsero alla lettura in quanto pratica e agli effetti che essa esercitava sulla mente dei lettori e fu in base ad una simile prospettiva che essi misero a punto un nuovo tipo di unità, che l’autrice chiama “coesione narrativa” (p. 183), intesa non come caratteristica oggettiva del testo, ma come esito del rapporto tra testo e lettore. Tale convenzione si rivelò una risposta ai problemi sollevati dalla nuova situazione comunicativa talmente efficace da imporsi a lungo come unico modo valido per raccontare una storia lunga. E tuttavia, osserva l’autrice in chiusura di saggio, essa costituisce una “forma simbolica di una esperienza del tempo storicamente (antropologicamente) determinata” (p. 195), che ci rende consapevoli di come “le tecnologie della parola”, oltre che “immagazzinare ciò che abbiamo conosciuto per altra via”, contribuiscono anche “a modellarlo, in un modo spesso inaccessibile alla coscienza” (p. 196). Stefano Manferlotti RECENSIONI 821 Ludovico Fulci, Ethos e mythos. Poesia e impegno civile nel Novecento italiano, Roma, Edizioni Libreria Croce, 2010, pp. 206. Sorprende il tema, ed è comprensibile, dopo quanto se ne disse tra Vittorini, Alicata e Togliatti, agli inizi della Repubblica, ed anche dopo, in diversi contesti da vari schieramenti, politici più che letterari, che l’intellettuale, sia scrittore sia cronista, deve sempre e in ogni caso essere schierato politicamente: senza pensare che, dovendo il desso stare aggiogato alla balia di un’unica e sola campana, c’è il rischio che ne rintocchi anche lui di riflesso e si metta a dire che il bene è sempre da quella parte lì, perché dall’altra la natura ha stabilmente allocato il rovescio, il nero e il male e il brutto. Molto meglio lo diceva Breton, in un suo scritto del ’52, Come in un bosco, pigliando attrito dall’epoca, secondo lui, «d’inumanesimo, così forte che quasi tutti gli scrittori tengono molto all’onore d’impegnarsi, e cioè optano, in spregio di tutto quanto potrebbe qualificarli spiritualmente (la libera testimonianza, nell’assoluto rispetto del senso delle parole) per uno dei due campi a confronto, il quale medita soltanto lo sterminio dell’altro…». In questo volume il Fulci dimostra che intellettuale è il poeta. Vi si legge, per es., che l’impegno civile, a cui “porta” la poesia, è innanzitutto nella “serietà e affidabilità nei confronti del pubblico” (p. 12). E ciò mi pare significhi fuori di dubbio che questo in primo luogo l’intellettuale deve intellegere: quale sia il bene pubblico e da che parte politica esso, nel presente, venga coltivato realmente. Ma proprio in quanto l’intellettuale è qui rappresentato dal poeta, il discorso di Fulci si solleva a dire che “ogni poesia dovrebbe contenere se stessa” (p. 13). Ed ecco qui una bella trovata: la poesia deve stare in sé, deve farsi del suo sé. Non perché essa non abbia nulla a che fare col mondo, e questo resti fuori d’essa, confinato nelle zone basse; è pressappoco ciò che di sé poeta dice il Magrelli a p. 22 (“bruciare sulla carta lentamente/ e nella carta restare/ in altra nuova forma suscitato”) o a p. 23 il Pagliarani (“ma se ha forza incisiva sulla nostra/ corteccia questa pioggia nel parco/ da scavare una memoria – compresente/ il pieno d’assedio cittadino in tutto il quadrilatero –”). Ma sembra che lo dica più aperto il Saba a p. 18, Terza fuga (a due voci): “Ascolta, Eco gentile, ascolta il vero/ che viene dietro/ che viene in fondo ad ogni mio pensiero/ più tetro”. Qui le due voci sono interpretabili appunto come l’una del mondo e l’altra, che ne è l’eco, della poesia. Ma si può anche intendere, come intende Fulci, secondo cui Saba suggerirebbe “che la poesia sia l’eco di se stessa”. Gli è che nel suo in-sé la poesia è fatta di mondo, l’intero mondo che si ritrova in interiore homine1 se ne compone e riveste, se ne munisce ed arma, e così armata e munita, se ne fa strumento per cambiarlo dal suo interno. Ma non il pensiero del mondo essa dice, o il 1 Cfr. F. Fortini, Diario linguistico, a p. 34: “Non conoscerò che me stesso/ ma tutti in me stesso. La mia prigione/ vede più della tua libertà”. 822 RECENSIONI suo chiacchiericcio molesto, com’è spesse volte quello della politica; anche quando il poeta si ribella “all’ovvio, alle sconcertanti banalità e ai pregiudizi”, anche quando “deve in certi momenti fare scandalo, suscitare scalpore” (p. 14), oggetto del suo dire è ciò che vi si nasconde dietro o al fondo, l’alètheia, quod prius latebat, ed ora non più, benché serbi tracce del suo precedente nascondimento, magari in un timore, nell’esser restia a mostrarsi, come in latino la veritas, parola così palesemente legata a vereor, “io temo”, da generare, solo per qualche intralcio fonologico, il durissimo silenzio che vi oppongono gli etimologi2. Ma se alètheia fosse interpretabile come “divina follia”3, essa si farebbe più vicina alla natura della poesia, che va oltre, dice Fulci, nel senso, noi aggiungiamo, che essa torna alla ragione naturale, che è quella dei folli e la stessa di Dio quando creò il mondo abbandonandosi al suo estro libero che gli vagava fuori di mente4. “Interrompere un silenzio e iniziare una poesia”, dice infatti Fulci (p. 17), e noi siamo invitati a vedere, invece della congiunzione, una copula, sicché iniziare una poesia equivalga a rompere un silenzio. Dal silenzio, appunto, gravido di oscuri fermenti e lampi e urti incoativi, erompe la creazione senza sapere il che il come e il dove. Perché nasca la poesia, bisogna far silenzio dentro, come il credente s’immagina lo abbia fatto Dio in sé nel momento del fiat. Ma quel silenzio si spiega, più terrenamente, con il fatto che “il problema [della creazione poetica] è tutto nel rapporto dello scrittore con la lingua” (p. 26), così discendendo d’un grado la scala della degnità. Salvo poi a risalirla a p. 28, dove richiama il “Taci” de La pioggia nel pineto dannunziana, ove il silenzio non è delle parole umane ma quello più vasto ed assoluto appunto che precede la creazione e al quale l’incipit montaliano de I limoni, (“Ascoltami”) non riesce a inerpicarsi. Tutto ciò porta a intendere sì il solito valore del verbo nel processo creativo, ma con l’importante aggiunta che questo verbo torni a stanziarsi 2 In realtà gli etimologi sembrano restii a prendere in considerazione questa parola. I dizionari etimologici delle lingue neolatine si limitano a rimandare a veritas quale etimo della parola moderna, senza mai andare oltre; di quelli latini e quelli greci, solo lo Chantraine si sofferma bastantemente su alètheia nell’ambito del verbo lanthàno, mentre gli altri, compreso il Pokorny, ignorano addirittura le due parole, come se temessero di compromettersi. Ciò è bene arieggiato nella poesia “La verità” di Piera Mattei a p. 33. 3 Pare che da qualcuno s’ipotizzi all’origine anche il gr. ajvlh, il vagare, come in ajlavomai, io vago, e in ajluvw/ ajluvssw, (“bin außer mir”, “son fuori di me”, annota J. Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, Bern 1959, p. 27, ma senza alcun riferimento ad alètheia), l’uscir fuori di sé e qei`o”, divino, onde l’insieme verrebbe ad essere “divina follia”, difficilmente condivisibile. 4 Di ciò è un’eco, a p. 38, la poesia di G. Giudici, Preliminare di accordo: “La verità non coincide con la saggezza (la ragione civile)/ Stanno contro il disordine alcune regole del gioco/… la verità ti divora”. RECENSIONI 823 nel silenzio originario, al di là di ogni blatero poetese ed ogni stantio chiacchiericcio della retorica tradizionale, fattasi con gli anni strumento di politiche capziose e propagande plagiarie. In un tempo di antilirismo, si capisce come sotto l’accusa di Fulci non sia tanto il “lirichese”, quanto la lirica, gettando così nel mondezzaio tutta la millenaria tradizione della lirica mondiale, con tutti i suoi grandiosi nomi, i cui altissimi esiti non è riuscito né riesce né riuscirà a maculare di un fiato il critico più acribico e criticone che sia vissuto, viva o possa vivere nel futuro. Ovviamente, in un libro che porta questo titolo, è chiaro che a Fulci interessi il senso civico, e per lui il senso civico si può manifestare, non attraverso la lirica, ma solo attraverso la poesia civile, che “è scritta per suscitare disappunto, sgomento, talvolta perfino rabbia” (p. 39). Ebbene, le tre poesie che cita come esempi di poesia civile (I morti amici di U. Saba, Bagnoli non è sotto il Vesuvio di G. Fiordelisi, I sogni del furbo di C. Francavilla) sono poesia lirica pura e schietta, dato che nel suo commento egli è obbligato a estrarne un sovrassenso che non è esplicito nel testo referenziale, ma giace in fondo all’animo del poeta, e di là, attraverso una serie infinita di risorse tecniche (ne sono esempi, indicati dallo stesso Fulci, il “tu” di Saba al posto dell’io; “l’incipit leopardiano e magno-greco” di Fiordelisi; il “tono medio-basso” di Francavilla) si travasa di soppiatto nell’animo del lettore, mutandolo insieme alle infinite operazioni che compie occultamente la poesia. Ora tutto ciò è appunto la caratteristica della poesia lirica, in primo luogo, e poi di tutta la poesia, che a lungo andare se ne è contagiata, tant’è che solo a questa condizione un testo si specifica come poesia, distinguendosi dalla scienza, dalla filosofia, dalla cronaca e dalle causeries du lundi, che hanno solo parole a fior di labbra e nessun sottofondo, nessuna occulta operazione di poesia, e se l’hanno per rara eccezione, allora cambiano di statuto e diventano poesia. Si vedrà poi (p. 59) che il Fulci non condivide questo modo operativo della poesia, che tutt’al più può essere un semplice stratagemma, adoperato dal poeta per aggirare i recensori pedanti, direttamente “invocando nel gioco che propone la complicità dei lettori” (p. 45). Ed eccoci alla censura. Così com’è allargata in Fulci la nozione di poesia civile, similmente è allargato il concetto di censura, che copre “tutto quello che impedisce al poeta la libera espressione della sua arte” (p. 45). Fulci dà anche qualche piccola dritta per aggirarla, con ironia, finte incertezze, reticenze. Ma un’osservazione interessante la fa sulla censura ideologica, la quale è messa in relazione col vizio che hanno gli intellettuali – tranne la classe medica – di schierarsi con una parte politica, mentre sarebbe auspicabile che un giornalista, per esempio, mantenesse un tal grado di indipendenza intellettuale da potersi permettere talvolta di scrivere anche per un giornale della parte avversa (p. 49). Un’altra osservazione a p. 53, presa in prestito da Beppe Manfredi, secondo cui Rondismo ed Ermetismo furono modi per sfuggire ad un as824 RECENSIONI servimento culturale al potere, poteva essere occasione per segnalare come la censura, benché in se stessa non sia in nessun caso auspicabile, curiosamente a volte generi grandi stagioni culturali e letterarie, che sotto regimi liberali magari non sarebbero mai nate. Ma Fulci ha preferito giustamente rilevare le pecche del fascismo che, volendo “l’omologazione dei giudizi e la rinuncia alla critica”, non permise agli italiani di partecipare alla costruzione di una “casa comune” (p. 56). In una pagina di “approfondimento” anzi dice che è censorio “perché cattedratico, professorale, proprio l’atteggiamento ermetico, che promette l’accesso alla poesia solo per coloro che sappiano […] andare oltre quel che viene palesemente detto”(p. 59). Così dicendo egli dimentica di aver detto, sulla scorta di Saba, che “la poesia è l’eco di se stessa”(p. 24). Qualunque cosa ciò voglia dire, stabilisce comunque un’alterità fra referenza e ciò che se ne suscita e penetra clandestinamente in chi legge, che non deve necessariamente essere una persona d’alto livello intellettuale, visto che il processo – organico non solo all’ermetismo ma alla poesia d’ogni luogo e tempo, come ad ogni tipo d’arte – è di natura estetica, vale a dire che si avvale dell’àisthesis e si svolge per lo più inconsciamente. Se non la si pensa così, resta in campo la definizione del poeta di p. 17, come colui che “si studia innanzitutto di fare arrivare agli altri la sua voce nella quale il suo messaggio prende forma” (Un banditore? Un erbivendolo?). E restano altresì inosservate le interpretazioni talvolta pregevoli che compie Fulci di certe poesie riportate nel suo libro (per es., di Bellezza, p. 65; Ripellino, p. 67; Pasolini, p. 68) ove s’ingegna di estrarre dai testi ciò che non vi è detto o non vi appare esplicitamente in atto (solo certe osservazioni ad Ungaretti, Quasimodo e Accrocca, a pp. 108-9, e quelle a Raboni e Damiani a p. 112 risultano un po’ difficili da comprendere). A p. 119 dice che “Il poeta a volte ha il torto di far poetico quel che per sua natura non è”, ove di nuovo nega ciò che lui stesso dimostra a mezzo di quelle interpretazioni, e cioè che non è un torto ma un compito proprio del poeta quello di render poetico ciò che poetico non è, e poeticizzare qualcosa vuol dire appunto farne strumento e mezzo onde la poesia se ne serva per compiere operazioni, che son cose altre e diverse da quelle poeticizzate. L’analisi di Fulci non si limita alla poesia civile stricto sensu, ma si allarga all’intera problematica, ne discute questioni anche scarsamente attese nella tradizione critica. Ciò gli consente di portare a luce poeti che la critica ignora, e che invece danno visibilità e respiro di poesia a condizioni, processi, circostanze della vita su cui solitamente la poesia non si sofferma. E questo non è un merito da poco. Domenico Alvino