Anno XXXVIII (2010), Fasc. III, N. 148

Anno XXXVIII (2010), Fasc. III, N. 148

  1. Saggi
    • MARIO AVERSANO

      Su Pietro da Eboli e Dante – pp. 419-449

    • NOEMI CORCIONE

      L’autobiografia in Vittorio Imbriani. Svelamento ed occultamento del sé – pp. 450-465

    • VALERIA GIANNANTONIO

      Storia e cronistoria dell’esilio. “Ultime cose” di Umberto Saba – pp. 466- 484

    • GIOVANNI LO PRESTI

      Montale, Contini e una variante trascurata – pp. 485-490

    • PASQUALE TUSCANO

      Fortunato Seminara inedito e postumo – pp. 491-509

    • SABELLA PUGLIESE

      Ai margini del mondo: il “Cottolengo” di Italo Calvino – pp. 510-533

    • ROBERTO SALSANO

      ‘Humanitas’ e orizzonti del moderno in Mario Verdone – pp. 534-547

  2. Meridionalia
    • ALESSIA PIRRO

      Il “secondo mestiere” di Michele Prisco – pp. 548-573

  3. Contributi
    • SILVIA FREILES

      “La discesa al trono” come storia di una catabasi: il dantismo di Bartolo Cattafi – pp. 574-591

    • ALESSANDRO GAUDIO

      Mai bruciati dalla Cosa. Parole, figure e oggetti dell’inattualità alle origini della Poesia Visiva in Italia – pp. 592-611

  4. Recensioni
    • GIORGIO CAVALLINI

      Registri stilistici. Da Dante a Pirandello e altri del Novecento, Genova 2009 (Noemi Corcione) – pp. 612-615

    • VINCENZO CAPUTO

      La «bella maniera di scrivere vita». Biografie di uomini d’arme e di stato nel secondo Cinquecento, Napoli 2009 (Fiorina Izzo) – pp. 614-615

    • LEONARDO ACONE

      La Sila dei briganti. Sulle novelle di Biagio Miraglia, San Cesario di Lecce 2009 (Raffaele Messina) – pp. 615-617

    • GIROLAMO ROVETTA

      I disonesti, a cura di Fabio Pagliccia, Lanciano 2009 (Valeria Giannantonio) – pp. 617

    • TONI IERMANO

      Le ambiguità del moderno. Identità e scritture nell’Italia fra Otto e Novecento, Napoli 2009 (Antonio Catalfamo) – pp. 617-620

    • ROBERTO SALSANO

      Scrittori critici, Caltanissetta-Roma 2009 (Michelangelo Fino) – pp. 621-623

Saggi MARIO AVERSANO Su Pietro da Eboli e Dante The use of «semiosi obbligata» (i.e. Author’s theory/method) as a critical method allows us to maintain that Dante knew the Liber ad honorem Augusti (1195-1196) by Pietro from Eboli from his early youth, and that he derived from it materials and ideas for images, themes, characters’ profiles (especially Costanza di Altavilla and Guglielmo II), as well as stylistic and linguistic features. I Pietro da Eboli e la «Vita nova» Uno dei debiti più antichi della cultura italiana è verso Pietro da Eboli, chierico e magister della Scuola medica salernitana, noto specialmente come autore del Liber ad honorem Augusti (1195-1196), poema dedicato a Enrico VI di Svevia1. I risultati di una ricerca condotta – com’è la presente – in obbedienza alla “semiosi obbligata” (la teoria-metodo a cui chi scrive ricorre da decenni per ogni lavoro critico-filologico2) autorizzano a un’affermazione che al pri- 1 Questo il titolo ormai acclarato: nel quale, però, non c’è segno vivo della materia di cui tratta, come invece era in quello della prima edizione moderna che si conosca, a cura di S. Engel (Basilea 1746): Carmen de Motibus siculis. Pietro da Eboli è anche autore del De Balneis Puteolanis, poemetto sulle qualità terapeutiche delle acque di Pozzuoli (che ha vieppiù confortato la tesi della formazione e dell’appartenenza di Pietro alla Scuola di Salerno, messe talvolta in dubbio). Nella dedica si fa anche menzione di un De miris Federici gestis, perduto: «Suscipe, sol mundi, tibi quem praesento libellum; / de tribus ad dominum tertius iste venit./ Primus habet patrios civili marte triumphos; / mira Federici gesta secundus habet…». 2 Cfr. almeno M. Aversano, Caron dimonio e l’Angelo nocchiero. Per un principio di filologia dantesca, Roma, il Calamaio, 1996. Per le citazioni dal testo della Commedia operiamo con indipendenza, tenute presenti la Dantesca e le edizioni 420 MARIO AVERSANO [2] mo gusto può lasciare increduli, ma che troverebbe forse grazioso loco in quanti avessero la pazienza di ascoltare fino all’ultimo rintocco le campane dimostrative, per deboli che esse appaiano in principio. Affermiamo che più d’un tratto della Divina Commedia non sarebbe com’è, se Dante non avesse incontrato, o “cercato” (If I, 84)3, anche il volume dell’intellettuale ebolitano, e deciso di profittarne. Non si vuol dire che nel contatto siano implicati il generale del poema sacro (la struttura, il disegno dell’Oltretomba, la concezione politica e l’ideologia, il sistema dei valori, il criterio selettivo dei personaggi e le preferenze nella loro iscrizione al ruolo esemplificativo e pedagogico, e così poi dottrina, princìpi, programmi, aspettative); ma ci sembra cosa dovuta chiamare in ballo quanto meno la sfera “tecnica” della poesia: forme e qualità dell’immaginario, tratteggi psico-fisici dei personaggi, impianti iconografici e, quel che più importa, invenzioni-soluzioni di lingua e di stile. Va aggiunto che – come sempre accade le volte in cui la fenomenologia dell’intertestualità appare dispiegata a largo raggio – dalla ricostruzione di questo “dialogo” non ci guadagna unicamente la critica dantesca: i vantaggi piovono non solo su chi riceve, l’imitatore, ma anche su chi dà, l’imitato. Anche in questa vicenda capita, cioè, che i due autori si mandino lumi scambievoli: Pietro è utile nella prassi annotatoria della Commedia – vedremo – per l’intelligenza di tematiche centrali oltre che di singole voci, e in certi casi anche per l’ectodica restitutiva della lezione testuale; ma Dante a sua volta può aiutare per l’esatta interpretazione-traduzione del Liber di Pietro. È bene che di questo debito-credito di cultura e d’arte si dia preliminarmente un diretto e concreto cenno (anche per un abbozzo- griglia delle riprove che bisognerà effettuare), con delle domande. Non è Pietro da Eboli che, per esempio, ha posto a condizione del “buon governo” – e con una risolutezza che balza evidente non solo dai versi del poema in onore dell’Augusto Enrico, ma anche da del Petrocchi, e confrontatele con le più recenti. Così per il testo delle altre opere di Dante. 3 Questo canone di poetica – la “ricerca” (If I, 84) degli auctores per il giudizio etico-ideologico, per la sistemazione nel quadro dell’Oltretomba e per le inserzioni “poetiche” – risulta osservato per la Commedia senza eccezioni. Cfr. M. Aversano, Dante cristiano, Roma, il Calamaio, 1994, pp. 5 segg. e passim. Cfr. anche – per un precedente nella poesia in volgare – M. Aversano, Alle origini del teatro italiano: personaggi, luoghi e scene in “Donna de Paradiso” di Iacopone da Todi, «Critica Letteraria», XXIX (2001), n. 111, pp. 211-214. [3] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 421 gran parte dell’apparato didascalico-figurativo che lo illustra (certamente da Pietro ideato e diretto, se non anche manualmente eseguito) – la piena laicità, purché connessa con la Sapienza da un lato, e con le Virtù cardinali e teologali dall’altro? Proprio questo sarà giocoforza riconoscere a Dante, come poi al Lorenzetti della “Sala della Pace”4. E chi batte con altrettale passione e coerenza, prima di Dante e di Lorenzetti5, sull’indispensabilità del buon Consiglio e di buoni Consiglieri, senza i quali non ci sarebbero né giustizia, né verità, né concordia, né pace tra gli uomini? Inoltre: non è Pietro a sostenere, prima di altri e con idea non sfiorata da dubbi, il diritto alla felicità terrena, e – come Dante nella Monarchia – l’inammissibilità “politica” (perché non piace a Dio) del numero pari? Chi predica con più fermezza – non senza allegare, come poi farà il Dante della Commedia e della Monarchia, l’autorità dei testi sacri – che per il bonum commune il Reggitore deve essere unus et solus? E chi, di conseguenza, che l’Impero è di origine divina, e che il potere spirituale (Papato) non deve confondersi con quello temporale, perché diversamente la Chiesa di Roma «cade nel fango e sé brutta e la soma» (Pg XVI, 129)? È l’infangarsi medesimo di un arcivescovo che, nel Liber, confuse la spada col pastorale, e così, dimenticata la religione, sporcò (polluit) le sue mani: «At miser Antistes succingitur ense,/ polluit oblita religione manus» (vv. 387-388). Il più “centrale” Consigliere dantesco, Marco Lombardo, tale iattura constata e depreca – si badi bene e si tenga la coincidenza nel debito conto – con l’invocazione del Barbarossa, il padre di Enrico (entrambi protagonisti del Liber), e della “sicurezza” che regnava in Italia prima che egli avesse briga6. Ma l’inchiesta sull’opera di Pietro può risultare feconda anche per la resa di un capitolo chiave: l’idea e la rappresentazione storico- poetica dell’Italia meridionale. Più volte affrontato dagli studiosi, 4 Cfr. M. Aversano, Dante e il suo ritratto nel “Buon governo” di A. Lorenzetti, negli Atti del LXXVI Convegno Internazionale della Società Dante Alighieri (Siena 2003), Roma, 2005. 5 Da ricordare che l’ubicazione dell’affresco del “Buon Governo” è nella Sala del Consiglio del Palazzo pubblico di Siena, dove si riunivano i Nove responsabili del Governo della città. 6 Il tema della securitas è ben diffuso nella trattatistica medievale, ma trova in Dante e in Ambrogio Lorenzetti i suoi più convinti interpreti. Cfr., ad es., Pg XVI, 118-120: «Or può sicuramente ivi passarsi/ per qualunque lasciasse, per vergogna,/ di ragionar coi buoni, o d’appressarsi». E alla Securitas il Lorenzetti dedica una assai bella immagine, con relativa didascalia. 422 MARIO AVERSANO [4] non perciò questo argomento può dirsi a tutt’oggi esaurito. E ciò può essere dipeso dal mancato apprezzamento del Liber ad honorem Augusti, e di chi lo scrisse. Una prima valutazione, all’occhio, porta a sospettare che l’acqua del poeta di Eboli irrighi quasi ogni opera dantesca, a cominciare dalla Vita nova7; e conviene che da questo libello – problemi dei ritorni dell’autore sul testo giovanile8 e della suddivisione interna dei capitoli a parte9 – l’indagine prenda avvio, meglio se dal capitolo finale (il XLII, secondo l’edizione barbiana tuttora accolta10), che reca conclusivamente una frase latina: «E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui, qui est per omnia secula benedictus». Il «qui est per omnia secula benedictus» sembra, generalmente parlando, riportabile alla pura interdiscorsività liturgica, ha cioè sapore di frase comune; di qui, probabilmente, il disinteresse della critica alla sua occorrenza. Molta attenzione, invece, questo modo di mettere punto a una fatica compositiva può reclamare quando se ne riconosca la marca – forte, ma non ultima, si vedrà – che riceve grazie allo “spaccio” che ne ha fatto san Paolo. Basti andare a Rom IX, 5: «qui est super omnia Deus benedictus in secula»; ma si veda anche 2 Cor XI, 31: «Deus et pater Domini nostri Iesu Christi, qui est benedictus in secula, scit quod non mentior». Bisognerà dar peso all’ultimo impiego11 per una ragione di prospettiva: le parole rivolte ai Corinti valgono un solenne giuramento 7 Per l’opzione nova (invece che il tradizionale nuova), cfr. M. Aversano, La Vita nova come prologo della “Commedia”, in A. Sughi, La “Vita nuova” di Dante, a cura di A. Masi, Roma-Milano, 2003, pp. 19 segg. 8 Cfr. Cv I, I, 16: «E se la presente, la quale è Convivio nominata, e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene» (a c. di F. Chiappelli e E. Fenzi, Torino, Utet, 1986). 9 M. Aversano, La Vita nova come prologo della “Commedia”, cit., passim. 10 Ivi, pp. 20 ss., per una diversa paragrafazione. 11 E ne richiederebbe di più il primo della Lettera ai Romani, per la sua sostanza contenutistica (e massime teologica): a considerare che, come chiosava già A. Martini (ed. Prato, 1850), esso debella quattro eresie, dei Manichei, dei Valentiniani, di Nestorio, e di Ario. [5] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 423 “su Dio”, di fede come affermazione di verità (non mentior); e in quanto tali acquisiscono un che di tipologico, e come una potenzialità a far canone nella memoria dei destinatari. Di qui la domanda che sorge spontanea: che significato riveste la loro inserzione in un prodotto – la Vita nova – che può dirsi, volendo, anche “religioso”, ma che ha pur sempre una specificità letteraria, a cominciare dal genere e dalla poetica che sottende12? E perché esse cadono in un luogo di tanto privilegio qual è per comune avviso l’explicit di un’opera? Certo è pensabile che Dante abbia scomodato il Vas d’elezione per conferire un crisma di “verità” giurata alla propria istoria con Beatrice. Una sorta di suggel che ogni omo sganni (If XIX, 21), per intenderci, a confessare i termini “veraci” di una giovanile erranza, dopo il rinsavimento (si ricordi che qualcosa del genere è anche nel Convivio13): con proposito di temporanea rinuncia a “dire” della Gentilissima e speranza di poterlo fare in seguito nel modo più degno (che è preannunzio, si sa, della Commedia), e di rivederla in cielo14. Una promessa, allora, che è di impegno laudativo ma anche di “fedeltà”15, nel senso, come sarà chiarito nel Purgatorio, di mai più “togliersi a lei e darsi altrui”16. Ma per il tema ricerca-confessione della “verità”, che è dei centrali nella Commedia, non si può parlare di decollo già nella Vita nova. Più convincerebbe l’ipotesi della ripresa volontaria di un topos, e cioè che la nominazione del Figlio di Dio a termine di un lavoro letterario, cominciata chissà quando, abbia nell’età di mezzo fatto tendenza e acquisito un po’ valore di consuetudine; e che pertanto nell’“agiografo” di Beatrice l’appello finale a Colui che è benedetto nei secoli non avvenga per spinta sorgiva e irriflessa, ma, con tutta l’implicanza autobiografica che si voglia, come riporto culturale. 12 Anche se, ad onor del vero, si potrebbe dire, ove non risultasse ancora detto, che lo schema del prosimetro potrebbe avere ascendenza nella Bibbia: si pensi ai non pochi “Cantici” che riprendono il racconto in prosa (cfr., ad es., quello di Debora a Iud V, 1, che Dante utilizza per il canto V del Purgatorio). 13 Cfr. Cv I, III, 3. 14 Sempre nel capitolo finale della Vita nova: «vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei […] io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto di alcuna». 15 Cfr., infra, quanto si dirà in proposito. 16 Cfr. Pg XXX, 124-126: «Sì tosto come in su la soglia fui/ di mia seconda etade e mutai vita,/ questi si tolse a me e diessi altrui». E si potrà integrare con Pg XXVII, 42-43, dov’è la professione di “tenuta” di quell’amore senza mai alcuna dimenticanza: «udendo il nome/ che ne la mente sempre mi rampolla». 424 MARIO AVERSANO [6] Questo ammesso, non perciò potremo derogare a un obbligo che ne consegue: quello dell’individuazione dei dettanti, uno al minimo. Ed è qui che fa capolino Pietro da Eboli. Il suo Liber ad honorem Augusti, fatica palesemente letteraria (e dunque d’intenzione né sacra, né sacrata), si giova delle stesse parole di san Paolo, e le spende nell’uguale funzione di sigillo che hanno nel libro dantesco. Esse compaiono nel tratto finale dell’ultima Particula, la 54 (147)17, e compiono, insieme a un triplice amen, la dedica ad Enrico VI: «Ego magister Petrus de Ebulo, servus imperatoris et fidelis, hunc librum ad honorem Augusti composui. fac mecum, Domine, signum in bonum, ut videant Tancredini et confundantur18 in aliquo beneficio michi provideat Dominus meus et Deus meus, qui est et erit benedictus in secula. Amen, amen, amen»19. Non siamo qui legittimati, evidentemente (e non lo saremo per tutto quanto riguarderà la Vita nova), a giurare sull’effettività del rapporto Dante-Pietro, anche per la piega di formula che, ridiciamolo, la proposizione relativa di san Paolo poteva aver preso nel tempo; ma la coincidenza rende poi proclivi a non restare contenti al quia, e a vederci più chiaro. Si è motivati a dei controlli a largo raggio, per l’intera produzione dantesca, e non senza aver censito tutto il censibile, per interdiscorsivo che possa essere (e quasi certamente lo è), in ordine al libello giovanile. Chi ritorni a compulsare la Vita nova, questa volta daccapo, potrà facilmente prendere atto che il servus e il fidelis autoreferenziali di Pietro corrispondono ai “servo” e ai “fedele” sparsi per il libello dantesco; ma di ciò al momento non è il caso di far verbo, perché queste parole in volgare sono correnti nel dizionario “poetico” delle Origini di cui è noto il processo dalle radici (incerte) alle fronde (sicure) della lirica occitanica20. Con qualche attenzione ci si dispor- 17 Seguo la numerazione dell’ed. di G.B. Siragusa (Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1906). Miei tutti i corsivi dati, e le traduzioni. 18 Tale “confusione” è da Ps LXXXVI, 16: «Fac mecum signum in bonum ut videant qui me odio habent et confundantur». Pietro non teme di assimilarsi a un personaggio biblico di gran rilievo, Davide: è un’audacia che può aver costituito per Dante un esempio da seguire. 19 Trascrivo com’è nella cit. edizione del Siragusa. 20 Ma si tenga conto che nel prosimetro gli impieghi dei due vocaboli non attengono esclusivamente alla “servitù” e alla “fedeltà d’amore”, quali sono a Vn XII, 14 e XXXIII, 4, e specie a Vn III, 10-12 («A tutti li fedeli d’amore»), che – è noto – insieme a Vn XXIV, 4 («Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele») ha stimolato a fantasie d’una appartenza di Dante a una non bene [7] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 425 rà, invece, al prefigurarsi di una nuova consonanza, che riguarda un tema divenuto anch’esso topico nell’età di mezzo: quello degli eventi apocalittici che alla scomparsa d’un soggetto d’eccezione investono il cielo e la terra. È un filone scaturito, si sa, dai Vangeli che narrano gli sconvolgimenti della natura prodottisi alla morte di Gesù Cristo. Sentiamo, cominciando da Matteo: «A sexta autem hora tenebrae factae sunt super universam terram usque ad horam nonam […] et terra mota est, et petrae scissae sunt. Et monumenta aperta sunt: et multa corpora Sanctorum, qui dormierant, surrexerunt» (XXVII, 45 e 51-52). Così poi, più succintamente, Marco: «Et facta hora sexta, tenebrae factae sunt per totam terram usque in horam nonam» (XV, 33). Ma prima, a XIII, 24-25, quantunque su differente motivo: «Sed in illis diebus post tribulationem illam sol contenebrabitur, et luna non dabit splendorem suum. Et stellae coeli erunt cecidentes, et virtutes, quae in celis sunt, movebuntur». Infine Luca (dacché Giovanni in proposito non dà notizie): «Erat autem fere hora sexta, et tenebrae factae sunt in universam terram usque in horam nonam. Et obscuratus est sol» (XXIII, 44-45)21. Ora tutti ricordano che nella Vita nova cose analoghe avvengono, ma non alla dipartita reale della gentilissima, sì a quella che di lei il poeta “immagina” in sogno. Ci si porti alla canzone Donna pietosa, che è nel XXIII capitolo: Poi vidi cose dubitose molte, nel vano imaginare ov’io entrai; ed esser mi parea non so in qual loco, identificata setta dei “Fedeli d’amore”. In un caso, riguardando la ragione e il consiglio (Vn II, 9: «lo fedele consiglio de la ragione»), c’è contiguità col significato etico-politico reperibile in Pietro, e poi nella Commedia, proprio a proposito di un Consigliere “siciliano” (Pier della Vigna); lo stesso Pietro batte sulla ratio e sul consilium davvero tanto nel suo poema. 21 L’eco di questi passi, è anche noto, viene raccolta, ma per altra tematica, da san Giovanni ad Apoc. VI, 12-13, nella descrizione di quanto accade all’apertura del sesto sigillo: «et ecce terraemotus magnus factus est, et sol factus est niger tamquam saccus cilicinus; et luna tota facta est sicut sanguis. Et stellae de coelo ceciderunt super terram». Cfr. anche Apoc. IX, 1: «et vidi stellam de coelo cecidisse in terram […] et obscuratus est sol, et aer de fumo putet»; e Apoc. VIII, 12 e 13 (per il vae che, mostreremo, Dante ha ricalcato in lingua volgare): «et percussa est tertia pars solis, et tertia pars lunae, et tertia pars stellarum, ita ut obscuretur tertia pars eorum, et diei non luceret pars tertia, et noctis similiter. Et vidi, et audivi vocem unius aquilae volantis per medium coeli, dicentis voce magna: vae, vae, vae habitantibus in terra…». 426 MARIO AVERSANO [8] e veder donne andar per via disciolte, qual lagrimando, e qual traendo guai, che di tristizia saettavan foco. Poi mi parve vedere a poco a poco turbar lo sole ed apparir la stella, e pianger elli ed ella; cader li augelli volando per l’are, e la terra tremare, ed omo vidi scolorito e fioco, dicendomi: – che fai? non sai novella? Morta è la donna tua ch’era sì bella. È utile sentire, ai fini di un accertamento completo, anche il pendant della prosa, sempre dallo stesso capitolo: «e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi facean giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti». La ragione dell’arte, ma anche – è da credere – quella della prudenza (unita agli scrupoli dell’ortodossia) inducono il poeta a evitare l’assimilazione di Beatrice a Cristo in modo diretto ed esplicito. Di qui la trasposizione degli eventi nella fantasia dell’incubo insorto per una dolorosa infermitade, e nel suo “errare”; e di qui anche le “variazioni”, rese in tal modo ricevibili, rispetto al modello sacro. Che è con evidenza lo stesso da cui è scaturito l’immaginario di Pietro da Eboli, e – cosa non irrilevante – in un’opera d’intenzione laica, franca da ogni condiscendenza ecclesiale. Si vada al passaggio con cui termina la seconda Particula e a quello che dà principio alla terza, l’uno e l’altro impegnati a cantare la morte di Gugliemo II. Questo il primo: Post miseros morbos, post regis triste necesse, nocte sub oscura, sole latente, pluit. Postquam dimisit rex, res pulcherrima, mundum, inglomerant sese proelia, preda, fames, furta, lues, pestes, lites, periuria, cedes, infelix regnum diripuere sibi. Sol hominum moritur, superi patiuntur eclipsim, anglica Sicilidem luna flet orba diem. Solis ad occasum commotus eclipticat orbis, Di flent, astra dolent, flet mare, plorat humus. (vv. 46 segg.) E questo il secondo, di prosecuzione: [9] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 427 Hactenus urbs felix, populo dotata trilingui, corde ruit, fluitat pectore, mente cadit: ore, manu, lacrimis clamant, clamoribus instant cum pueris iuvenes, cum iuniore senes; […] cum viduis caste plorant, cum virgine nupte. Quid moror in lacrimis? Nil nisi questus erat! […] Per loca, per vicos, per celsa palacia plorant. Desiccat lacrimas nona peracta dies. (vv. 56 segg.) Di una cosa va fatto pronto rilievo: senza dire della diversa manipolazione dell’intertesto biblico quanto ai soggetti (Beatrice in Dante, Guglielmo in Pietro, nell’identità dell’assimilazione a Cristo), noteremo che né l’uno né l’altro narrante si tengono fermi alle poste evangeliche. Essi da un lato ne ripropongono la zona “centro” (l’oscurarsi del sole e il terremoto, essenzialmente), ma dall’altra tessono in completa autonomia per le cose di “periferia”. Ed è dall’analisi parallela dei loro elementi tematico-linguistici che è possibile cogliere tra l’Ebolitano e l’Alighieri concordanze e contiguità aventi un timbro del cui peso lasciamo il parere, per debita cautela, a chi legge. Va guardata, dunque, la gestione che del Libro di Dio fanno Pietro e Dante nel rappresentare l’uno la morte di Beatrice (presagita), l’altro quella di Guglielmo II. È bene darne, per comodità e chiarezza di esposizione e di verifica, un quadro sintetico. Questo il comportamento del poeta di Beatrice: 1) ricalca ad verbum, rispettivamente sull’obscuratus est sol di Luca e sull’et terra mota est di Matteo, il suo lo sole oscurare (in versi: turbar lo sole), e lo e la terra tremare (prosa: grandissimi tremuoti); 2) lascia perdere la luna e il “moto” delle virtutes in cielo, forse anche perché, s’è visto, non riguarda direttamente il capitolo della Crocifissione; 3) accoglie le stelle (apparir la stella; prosa: «le stelle si mostravano»); 4) ma non le fa cadere, come vogliono, extravagantes, prima Marco («et stellae coeli erunt cecidentes) e poi il Giovanni dei Novissimi; 5) in casus pone invece, e di proprio, gli uccelli: cader li augelli (prosa: «e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti»); 6) delle stelle aggiunge il pianto: «elle mi facea giudicare che piangessero» (in poesia, coinvolgendo il sole: e pianger elli ed ella). Come s’è regolato invece Pietro da Eboli, un secolo prima? Anch’egli impernia la rappresentazione di tutto quanto accade alla 428 MARIO AVERSANO [10] morte di Guglielmo II sull’oscurarsi del sole e sul terremoto, ma non tralascia né le tenebrae evangeliche (nocte) – che anzi le replica (eclipticat orbis) – né l’ora del giorno (solis ad occasum). E di suo mette la pioggia: «nocte sub oscura, sole latente, pluit […]. Solis ad occasum commotus eclipticat orbis». Tirando le somme, viene a galla un dato molto significativo: a parte le omissioni quanto ai facta, che poco dicono in questo ambito d’indagine, la novità grossa dello scenario dantesco è costituita dal “pianto”, che nelle pagine bibliche manca del tutto: alla morte di Gesù non vanno in lacrime né la natura, né gli esseri animati22. E a piangere per Beatrice non sono unicamente le stelle. Lo spoglio del capitolo vitanoviano porta a riscontrarne le tracce in più parti, a cominciare – per limitarsi alla prosa – dall’“ambiente” del sogno, occupato da visi di donne che piangono: «e ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate […] Così cominciando ad errare la mia fantasia […] vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, meravigliosamente triste». Senza dire della donna giovane e gentile che, al «doloroso singulto di pianto» dell’infermo, «con grande paura cominciò a piangere». Ma il piangere del poeta nel “farnetico” si ritrova prima e dopo; e, come dire, con una spettacolarità che meraviglia. Eccone la sequenza principale (ma ce n’è tant’altro): «…cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: ‘Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia’. Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lacrime […] e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo cominciai a dire con verace voce: ‘Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede’». Certo non è indispensabile chiedersi chi abbia suggerito e avallato tante lacrime; e ricordare che la medesima ostinazione tematica si trova già in Pietro, sempre per la morte di Guglielmo il formosus (v. 35): e verrebbe di chiamarlo il “Gentilissimo”. Tanto si può vedere anche dai verbi dei passaggi or ora riportati: flet … flent … dolent …flet …plorat…lacrimis clamant… plorant… quaestus… plorant. C’è finanche un punto in cui sembra che in lacrime si sciolga Pietro stesso: «quid moror in lacrimis?». Non superfluo parrebbe, invece, 22 Neppure nel riferimento giovanneo a Maria: è silenzio di lacrime anche nel corrispettivo dantesco, che parla solo di “cambio alla croce” (Pg XXXIII, 6). [11] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 429 indagare sull’ascendenza del pianto delle stelle, perché – ripetiamolo – non se ne riscontra alcuna traccia nei Vangeli, e neanche nell’Apocalisse. E qui è lecito (ma non d’obbligo) pensare a Pietro da Eboli, che su Guglielmo morto fa converso per la pietà non solamente «il cielo e il sole»23, ma tutte le creature; tra le quali, dopo gli dei, vengono proprio le stelle: di flent, astra dolent… Il discorso sul rapporto con la Vita nova si fa più legittimo quando, dal prosieguo dell’inchiesta, vediamo affiorare anche altre movenze uguali-simili, e con la garanzia – che un po’ dice – della conformità tematica. Il primo collegamento degno di rilievo è nella considerazione della “necessità” della morte, che nell’uno e nell’altro poeta appare disposta dal cielo, ascritta al volere divino. Quella di Guglielmo è un «triste necesse»; e parimenti quella di Beatrice è data per “necessaria”, negli stessi termini dell’ineluttabilità: «Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: ‘Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia’». La studiatezza di tale “convenire” si evince anche dal suo ritorno nella relativa canzone: «per che l’anima mia fu sì smarrita,/ che sospirando dicea nel pensero:/ ‘Ben converrà che la mia donna muora’» (vv. 32-34). Una constatazione un poco ‘in chiave’ si può fare subito dopo: Dante, nell’allegare in altro luogo l’oscurarsi del sole alla morte di Cristo, ricorre a un vocabolo, “eclissi”, che manca nei Vangeli24. Così a Pd XXVII, 36-37: «e tale eclissi credo che ’n ciel fue/quando patì la supprema possanza». L’eclisse è invece bene attestato in Pietro, che – sempre per la morte di Guglielmo – ne cava, s’è veduto, anche il verbo, “eclipticare”: «Sol hominum moritur, superi patiuntur eclipsim/ […] Solis ad occasum commotus eclipticat orbis». Ma c’è dell’altro: a proposito della possanza, che nella Commedia ha una parabola circoscritta al Paradiso, e breve, dacché ricorre solo quattro volte. L’impiego appena visto con supprema è l’ultimo, e definisce la seconda Persona quando fu crocifissa; così anche il penultimo, a Pd XXIII, 37: «la possanza/ ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra». Un canto prima, a Pd XXII, 57, la possanza – terzo impiego – riguarda la rosa e le parole che Dante pellegrino rivolge a san Benedetto: «L’affetto che dimostri […] / così ha dilatata mia fidanza/ come ’l sol fa la rosa quando aperta/ tanto divien quant’ella ha 23 Così T. Tasso nella Gerusalemme liberata, per la morte di Clorinda: «e in lei converso/ sembra per la pietate il cielo e il sole» (XII, 139-140). 24 Esso è perciò impegnativo, considerate le dispute che del fenomeno si trovano nella Patristica, a Dante certo non ignote. 430 MARIO AVERSANO [12] di possanza». E qui l’orecchio ci fa attenti alla rima con fidanza. A guardarla in sé, parrebbe tirato oltre il buon senso ogni filo che la volesse annodare con la fides di cui tanto parla – come si vedrà – il nostro Pietro. Ma ad agevolare l’ipotesi del contatto sopravviene una coincidenza. La detta parabola ha inizio a Par. III, 120, ed ivi possanza sta ad indicare proprio la serie di regnanti cantata nel poema di Pietro: Federico II, col padre Enrico e con l’avo Federico Barbarossa. La gran Costanza, tutti ricordano, «del secondo vento di Soave/ generò il terzo, e l’ultima possanza». Inoltre: a riguardo della rosa, la possanza collude col politico già nella Bibbia, e in movenze che rievocano l’ombra di Pietro da Eboli. Un excelsus rex, Simone, è un Sole: quasi sol refulgens, come il Gugliemo di Pietro (Sol hominum), e come poi Enrico VI (v. 653: «Romanorum protege solem»). Ed anche i dati degli “aloni” combaciano, in quanto sia l’uno che l’altro accolgono le note della gloria, della cura della propria gente, dell’estensione dei domìni: «Qui praevaluit amplificare civitatem, qui adeptus est gloriam in conversatione genus […]; et quasi sol refulgens, sic e ille effulsit in templo Dei. Quasi arcus refulgens inter nebulas gloriae, et quasi flos rosarum in diebus vernis […] et consummatione fulgens in ara, amplificare oblationen excelsi regis» (Eccli L, 5 ss.) Senza contare che, peraltro, l’Ebolitano ha tenuto a mente questo luogo sapienziale anche per l’“unzione” di Enrico VI (Particula X), potrà essere individuato un ennesimo punto d’incontro: piccolo, ma che nell’insieme può fare la sua parte. Carlo Martello nell’ottavo del Paradiso – un canto che gioverà interrogare perché è non meno invischiato con la “sicilianità”: a favore dell’ipotizzato rapporto intertestuale Dante-Pietro – pronunzia, per comunicare il titolo regale avuto in terra, lo stesso verbo, “fulgere”, che tanto spicca nella sequenza scritturale (refulgens-effulsit-fulgens); e ciò – ne vedremo subito il movente – insieme a corona: «Fulgeami già in fronte la corona …» (Pd VIII, 64). Si sarà fatto caso che nella Commedia la possanza è sempre espressiva della maggiore sovranità, quale è quella che in riferimento a Cristo è variata col sostantivale possente, e legata all’“incoronazione”: «Rispuose: «Io era nuovo in questo stato,/quando ci vidi venire un possente,/con segno di vittoria coronato» (If IV, 52-54). È il tronco stesso da cui dirama la «nimica podesta» di If VI, 96: hapax anch’esso riferito a Cristo. La stessa cosa è data di vedere in Pietro, il quale intitola la Particula XLI all’Imperator che «occupat triumphans regiam»; e ai vv. 1307-1308 congiunge in modo esplicito la potentia con la “regalità sacra” quale s’è trasmessa da Carlo Magno in poi: [13] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 431 «Cesar ut accepit sceptrum regale potenter,/multiplicat Carolis nomen et omen avis». E si veda poi la potestas di v. 326, che può dirsi il corrispondente della podesta dantesca: «Plena potestatis fastidit ymago triumphos». A metter fuori dubbio, del resto, che nel Liber la potentia designi la più alta dignità regia vale la replica – con passaggio all’aggettivo, potens, che è uguale al possente dantesco – nella Particula LII, intitolata alla Sapientia del sommo Padre. Pietro induce anche il “trono” di Salomone, e così fornisce un più chiaro attestato che, come poi Dante, considera l’Imperium di origine divina. Ai vv. 1658-1659 si legge: «Nam meus Henricus materna sede sedebit,/in qua rex Salomon sedit in orbe potens». Perciò, quando Pietro ai vv. 564 ss. dà lo schizzo della folla che grida a Costanza «quem tociens fausto iactabas ore potentem,/dic, ubi bella gerit, qui sine crine iacet…?», sarà meglio tradurre il potentem non con generici qualificativi di valentìa, ma con richiamo al titolo di “legittimo imperatore”; prova ne potrà essere, infine, la presenza laterale del fausto, che significherà “da regina”25. Proprio Dante, infatti, consiglia di porre il faustus in relazione col titolo imperiale, dacché mediante lo stesso vocabolo, e al superlativo, egli qualifica due volte un altro “Cesare”, il suo Enrico VII, nella clausola delle Epistole VI e VII: «faustissimi cursus Henrici Cesaris ad Ytaliam anno primo». Ma anche per tutto questo è invocabile, naturalmente, l’interdiscorsività. Di qui, intanto, potremmo andare alle altre titolazioni “imperiali” dell’opera dantesca, a cominciare da quelle del canto I dell’Inferno (cfr. almeno il v. 121: «chè quello imperador che là su regna»), che fa da proemio a tutta l’opera. Ma è tempo di concludere i rilievi sul tema vitanoviano in parola. E rimandando di qualche pagina quello che concerne l’impiego del termine “costanza” (splendido apax riservato proprio e solo alla Vita nova), che richiama la qualifica di Costanza imperadrice, ci limitiamo a porre in fila – dando il corsivo al latino di Pietro – il séguito degli incroci che è possibile evidenziare dal confronto coi passi della morte di Beatrice. La omologia del quadro che ne risulta – già di per sé sintomatica per il quantum statistico – può a questo punto essere ritenuta non causale: misere-miseria triste-tristizia 25 Né può avere il significato, di “favorevole, propizio”, perché Costanza viene a confrontarsi con un suo nemico. 432 MARIO AVERSANO [14] pulcherrima-bellissima patiuntur-soffersi corde ruit-lo cuore, ove era tanto amore; nel mio cuore…non hai valore; piansemi Amor nel core, ove dimora; / perché l’anima mia fu sì smarrita; smagati fluitat pectore – errare, dubitose molte clamant…clamoribus…questus – traendo guai per loca, per vicos – per via desiccat lacrimas nona peracta dies – consumato ogni duolo II Pietro da Eboli e le altre opere dantesche 1. Guglielmo II, prototipo del giusto rege Abbiamo risolto di proporre innanzi agli altri – in limine alla ricognizione delle concordanze che potranno essere individuate fra il testo del Liber e quello della Commedia – due riscontri piuttosto singolari. Il primo concerne l’intertestualità che è indiziabile nella cerniera tra i canti V e VI dell’Inferno, e cioè nello «e caddi come corpo morto cade» (If V, 141), cui segue: «Al tornar de la mente» (If VI, 1). Dalla loro addizione si evince che a “cadere” è stata la mente, la quale “torna” dopo che se n’era partita. Così poste le cose, in tale scavalco parrebbe di avvertire un che del mente cadit di Pietro, cioè del passo già citato a proposito della morte di Beatrice nella Vita nova: con qualche conforto che può venire dall’isomorfismo incentrato sul tema del dolore-pietà. Ma è cosa davvero tenue, ammettiamolo. Il secondo riscontro invece – sempre a trarre dai luoghi citati per l’intertesto della Vita nova – è più proponibile, e riguarda la parte che nella Commedia è concessa a Guglielmo II, il padre (o, secondo altri, il nipote) della gran Costanza, prima anima con cui Dante personaggio dialoga in Paradiso26. Dante autore non solo colloca il 26 Al modo che Manfredi – in corrispondenza di canto, il terzo della cantica seconda – è il primo penitente stabile che s’incontra in Purgatorio. Casella infatti – canto secondo – fugge con gli altri, e non sappiamo dove, mentre in Inferno bisogna arrivare al sesto cerchio e al canto decimo per trovare un “siciliano”, Federico II: e questo, sommato a quel che emergerà dal presente studio, prova che a ragione si afferma – come è stato fatto, quantunque in tornata celebrativa – che nessuna delle «case regnanti tra il secolo XII e il secolo XIII ha tanto rilievo nell’opera di Dante come quella degli Svevi» (B. Lucrezi, Gli Svevi nella [15] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 433 sovrano del Regno meridionale tra gli Spiriti giusti, nel cielo di Giove, ma ne sottolinea il merito al punto da mostrarcelo nell’arco formante il ciglio dell’Aquila, l’uccel divino (cfr. il Romana … aves, e i tanti altri riferimenti all’Aquila imperiale del Liber) che della Giustizia è l’emblema. Guglielmo figura, si pensi, accanto: 1) a Traiano e a Costantino, i massimi imperatori dopo il buon Augusto; 2) a quell’Ezechia con la menzione del quale comincia il poema sacro27; 3) a Rifeo, il più giusto (iustissimus) dei Troiani per sentenza di Virgilio; 4) a Davide, che dell’aquila forma la pupilla. Tale disposizione comporta che Guglielmo assurga al rango di uno dei sei mortali più giusti mai vissuti. Questi i versi: E quel che vedi ne l’arco declivo, Guglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo: ora conosce come s’innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora. (Pd XX, 61-66) Non si vuole affermare che – dovendoci pur essere una ragione per cui è qui apertamente indotto il tema della giustizia pubblica (fondamentale nella Commedia) saldato a quello dell’“innamoramento del cielo” per Guglielmo: privilegio che non tocca agli altri cinque personaggi eletti – ci sia un’imbeccata di Pietro da Eboli, il quale afferma, l’abbiamo sentito, che insieme al Sole anche gli Dei piangono (e sono lacrime d’amore appunto) la sua morte: Di flent. Né può dirsi probante la circostanza che Pietro leghi il numero 6, dato per magico, al “suo” Enrico VI, facendo di lui l’eroe della giustizia, della pietà e della pace “augustea”. Ma non ci sembra ininfluente rilevare che l’«esser giusto e pio» (Pd XIX, 13) dell’Aquila formata dagli Spiriti giusti ha il gemello nel «preiustum … pium» che caratterizza i mores di Federico II già nel ventre della madre (v. 1622 della Particula LI). E bisogna pur chiedersi: chi ha autorizzato Dante a porre Guglielmo nel cielo del Sole, e a lasciarci di lui un flash tanto lusinghiero (che lo sbalza a “tipo” del giusto rege)? Pietro da poesia di Dante, in Dante e la cultura sveva, Atti del Convegno di Studi, Melfi 1969, Firenze 1970, p. 129). Cfr. anche P. Renucci, Dante e gli Svevi, in Dante e l’Italia meridionale, in Atti del II Congresso nazionale di studi danteschi, Firenze 1966, p. 131, e passim. 27 Cfr., infra, quanto emerge sul valore “politico” del lemma buon. 434 MARIO AVERSANO [16] Eboli dedica all’ultimo dei Normanni ben tre Particulae, quelle iniziali del suo poema (con riflesso acuto, si vedrà, sulle successive), e tutte per esaltarne l’opera grande e bella, e le virtù “divine”, tali – s’è visto – che tutti piangono in lui il perduto «Sole degli uomini». E qui è il momento di dire che non va più consentito a chi fa critica storica e letteraria un parlare men che dignitoso a riguardo di queste lodi (quali pioveranno anche sul successore Enrico VI), o giudizi che le riducano a un esercizio di retorica encomiastica: quando non si arriva addirittura a classificarle, come è pure accaduto, tra i documenti della più stomachevole piaggeria28. Tutti vedevano e sentivano, e Pietro più degli altri, che dopo la morte di Guglielmo II la vita del Regno non era più la stessa, e che s’era appannata la “felicità” di cui esso aveva goduto per lungo tempo. Felicità, va precisato, nel senso “tecnico” che il termine riveste in Pietro, e che concorda con quelli presenti nella Commedia per la Fiorenza antica di Cacciaguida: «Fiorenza […] / si stava in pace, sobria e pudica./ […] In così riposato, in così bello/ viver di cittadini…» (Pd XV, 99 ss.). La giustizia, che Dante vede incarnata in Guglielmo, è per lui come per Pietro il presupposto irrinunziabile della “pace”. 2. La pax romana in Pietro e in Dante La giustizia e la pace: ecco il binomio che più accomuna Dante e Pietro. La Commedia – bisogna dirlo, anzi gridarlo come non s’è mai fatto – vuol essere definito il poema della Pace: allo stesso modo che lo è il Liber di Pietro. Basti a prova leggere la Particula XLIV, intitolata ai presagia di una nuova età dell’oro (v. 1407). Vi si parla di reformatio orbis et imperii (v. 1412) ad opera di Enrico VI e Federico II: né più né meno di come prevede Dante, e specie nelle Epistole che ardono di entusiasmo per la venuta in Italia di Arrigo VII. Le corrispondenze di temi e di lessico non sono poche: Dante può aver letto Pietro e deciso di assumerlo quale modello autorevole contro i successori non “eroici” degli Svevi. Perciò non è vero che l’Epistola VII sia unica nella sua arditezza quanto alla caratterizzazione sacrale dell’Imperatore29; più ancora ardite sono le parole di Pietro. Qualche esempio di coincidenze-affinità: «iubar solis» (v. 1409)=cum 28 Cfr. soprattutto T. Toeche, Keiser Heinric VI, Lipsia, 1867, p. 448. 29 Così A. Jacomuzzi, Epistole in Dante. Opere minori, Torino, Utet, 1986, p. 350. [17] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 435 primum jubar ille vibraverit» (Ep V, 3); «nova temporis etas» (v. 1407)= «dies nova» (Ep V, 1); «venit Titan» (v. 1419)=«Titan exoriens pacificus» (Ep V, 4); e pacificus come l’Arrigo di Dante è anche quello di Pietro: «urbem pacifico milite Cesar adit» (v. 1256). In Dante c’è attesa e gioia: «gaudium expectatum» (Ep V, 3); «Titan praeoptatus» (Ep VII, 5); e così già in Pietro: «spectata dies» (v. 1239); «spectati muneris» (v. 1510). Con quest’ultimo incrocio siamo alla Particula XLVIII, intitolata Pax tempore Augusti; e in essa Pietro afferma le cose che leggiamo in Dante, e con gli stessi riferimenti culturali, all’età di Saturno, quando Giustizia non era ancora fuggita dal consorzio umano. Così allo «Iam redit aurati Saturnia temporis etas» di Pietro fanno eco i Saturnia regna di Ep VII, 6, insieme a quelli di Pg XXII, 70, e di Mon I, XI, 1. D’obbligo allora una domanda: è tutto da ricondurre al Virgilio della quarta egloga? Enrico VI e Federico II sono gli eredi di Ottaviano Augusto: il dantesco baiulo che segue Cesare. Ed è Cesare che prende il regno mortale: «per voler di Roma il tolle» (Pd VI, 57), Ora ci si dovrà chiedere: è appena un caso che tale verso di Dante riecheggi un tratto del distico leggibile nel codice di Berna contenente il Liber di Pietro? Esso è ivi scritto tre volte, in caratteri che risalgono tutti a un tempo non posteriore a quello in cui visse Dante: «Cesar regna capit». Ma a farci sospettare anche qui una frequentazione del Liber diretta, e non da copia (peraltro non ne abbiamo) – a parte quanto s’è fin qui raccolto – potrebbe bastare un’altra coincidenza sulle stesse righe tematiche. Per Dante il buon Augusto (buono=pacificus) «pose il mondo in tanta pace/ che fu serrato a Iano il suo delubro» (Pd VI, 80-81). E Pietro non si limita a intitolare la Particula XLVIII «Pax tempore Augusti», ma nella Carta 48 (141), che ne illustra il contenuto (vv. 1504-1537), pone queste parole: «Tanta pax est tempore Augusti quod in uno fonte bibunt omnia animalia». La coincidenza di tanta pace con tanta pax, come si vede, è perfetta, come anche il riferimento al tempo di Augusto. A questo tempus recante pace è riportabile il tempo di pacificazione dantesco, nel testé citato riferimento a Cesare: «Poi presso al tempo che tutto ’l ciel volle/ redur lo mondo a suo modo sereno,/ Cesare per voler di Roma il tolle». Non c’è dubbio che a suo modo sereno voglia dire “in una pace simile a quella che regna in cielo” (cfr. «l’etterna pace» di Pd XXXIII, 8). Ma le coincidenze intertestuali di norma sono a catena. Così presto giunge all’occhio che anche questa “serenità” ha il precedente nella suddetta Particula, e che il sereno dantesco ha lo stesso significato del serenus di Pietro (v. 1511), di “senza guerre”, nella pace che 436 MARIO AVERSANO [18] regna in Paradiso: «Mane serena dies venit» Che non altro significato debba toccare al vocabolo si evince anche dalla Particula XXXIX. Qui Pietro narra che una delegazione proveniente da Palermo porta il saluto all’Augusto svevo, assicurandolo di trovarsi fra gente pacifica, che ha «animos …mentesque serenas» (v. 1235). Così, del resto, Dante anche ad Ep V, 2-3: «et auspicia gentium blanda serenitate confortat». Questa luminosa serenità è, si capisce, il contrario delle nubi e delle tenebre. Sempre nello stesso luogo (v. 1239) Enrico è il Sole a cui i legati dicono all’unisono: «Tu regni tenebras armata luce fugabis». Similmente poi, a v. 1305: «tenebrarum nube fugata» (v. 1305). Ecco il corrispettivo dantesco: a Ep V, 2 il nuovo giorno che nasce con Arrigo VII «tenebras diuturnae calamitatis attenuat». Allora il simile di Pg XXVII, 112, «le tenebre fuggian da tutti i lati», potrà significare, in trasparente allegoria, non solo la liberazione dal peccato all’alba del novo giorno, ma lo stare di nuovo in pace con Dio, come gli spiriti salvi: «a Dio pacificati» (Pg V, 56). L’Enrico di Pietro, dunque, odia chi semina discordie: «qui lites diligit, odit» (v. 1435); e lo stesso può dirsi dell’Arrigo di Dante. Ma entrambi, poi, sono inclini alla pietà e alla clemenza. Così del primo: «Cesaris oceanum superat clementia magnum […] vivit in Augusto pietas et gratia crescens» (vv. 1439 e 1443). E Dante, a Ep V, 4: «clementissimus Enricus»; e a Ep VIII, 5: «ad Auguste clementiam sine ulla esitatione recurro». Il peggio che possa capitare a una comunità è indicato da entrambi nella mancanza di amore tra la gente (Pg VI, 115: «Vieni a veder la gente quanto s’ama!»), e nella discordia tra i cittadini, che prima o poi sbocca nel “sangue” (If VI, 64-65: «‘Dopo lunga tencione/ verranno al sangue…’»). Allora: per intendere nel modo più corretto e imparziale il poema de rebus siculis bisogna muovere dall’indicazione che Pietro stesso fornisce nella dedica del De Balneis: «Primus habet patrios civili marte triumphos…». Siamo invitati a leggerlo come racconto della “guerra civile” (che effettivamente si scatenò dopo la morte di Guglielmo il Buono: “buono”, perciò, nel senso dantesco di “costruttore di pace”, come fu il buon Augusto). Essa comportò – e Pietro lo recita subito – la fine di quella felicità-prosperità e sicurezza pubblica che la politica di Gugliemo aveva creato e mantenuto favorendo la pacifica convivenza fra genti di tre lingue (latina, greca, araba) e di più razze. Questo si legge fin dal principio nella Particula III: «Hactenus urbs felix, populo dotata trilingui,/ corde ruit, fluitat pectore, mente cadit./[…] Hactenus ibat [19] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 437 ovans solus per opaca viator; /hactenus insidiis nec locus ullus erat» (vv. 56 ss.). E la Particula IV comincia con l’accusa del trapasso – che Pietro presenta in modo davvero brusco: dato sintomatico – dalla sepoltura di Guglielmo alla guerra civile: «Post lacrimas, post esequias, post triste sepulchrum/scismatis oritur semen in urbe ducum» (vv. 84-85). È sul segmento scismatis oritur semen che l’occhio deve appuntarsi. C’è da credere che Dante lo abbia “captato” all’istante, grazie anche alla sua magistrale brevitas (la “contezza” della Commedia): tre parole per una cosa tanto grave! Una sua eco è potuta pervenire in quella zona dell’Inferno che svolge la tematica della discordia, e toccare If XXVIII, 35: «seminator di scandalo e di scisma». Chi scrive30 ha già risposto a quanto Maria Corti ebbe a sostenere a proposito di questo verso: «Dante sembra divertirsi nel canto XXVIII allorché mette in bocca a Maometto quanto nel Libro al par. 199 Gabriele spiega a Maometto a proposito di coloro qui verba seminant ut mittant discordias. Non certo casuale l’evento e la ripresa della metafora del seminare…». La verità a noi sembra questa: né il Libro della Scala, né altre fonti – la Bibbia e i Padri, che recano il “seminare”, e poi (ma da esso disgiunti) il sectarum scandala, la scissura, lo scismaticos … scandala31 – hanno influenzato Dante più di Pietro; perché – anche a non contare che c’è la stessa tematica, quella delle discordie civili, direttamente vissuta dai due autori – gli altri passi allegati non possono vantare la giunzione del “dividere” e del “seminare” che si trova nello scismatis semen del luogo sopra citato. Di questa ipotizzata dipendenza di Dante dal Liber è producibile anche la prova che in questi casi è la più stringente: la coincidenza d’ordine non solo tematico, ma anche lessicale. Essa è offerta proprio dalla Particula che descrive le “reazioni” alla morte di re Guglielmo. Si guardi al passo in cui è attestato il pianto della terra di Sicilia: plorat humus. Questa briciola linguistica ci permette l’acquisizione di un dato obiettivo, costituito dal fatto che la Commedia, sempre a proposito di Guglielmo e della Sicilia, parla innegabilmente la stessa lingua: «Guglielmo fu, cui quella terra plora» (Pd XX, 62). Dunque: terra plora=plorat humus. E qui è giusto chiedersi se a riguardo si possa onestamente invocare la casualità. 30 Cfr. Aversano, Caron dimonio e l’Angelo nocchiero, cit., pp. 81-82. 31 Ibidem. 438 MARIO AVERSANO [20] 3. Sulla felicità terrena Piangere è di chi ha perduto la felicità: «Hactenus urbs felix». S’è già detto del senso che in Pietro hanno i termini “felice”-”felicità”. L’altrettale si trova in Dante, e con ogni probabilità per suggerimento del poeta-ideologo di Eboli. Bisogna andare per la verifica a tutto quello che Dante ragiona nella Monarchia circa i duo ultima, i due fini che l’uomo è chiamato a raggiungere, la “felicità” appunto, in terra prima che in cielo: «beatitudinem scilicet huius vitae […] et beatitudinem vitae ecternae» (Mn III, XV, 7 ss.). La beatitudo è con evidenza sinonimo della felicitas; a riguardo si può citare il noto passo della Lettera a Cangrande sui fini della Commedia: «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Ep XIII, 15). Ma più ancora è probativo Cv IV, IV, 1: «Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice». E si veda anche l’«humanum genus … felix» di Mn I, XVI, 2. Felicità raggiungibile, dunque, “in questa vita”. Su tali affermazioni, come è noto, i sostenitori dell’Umanesimo di Dante (dal Foster al Gilson, per fare dei nomi) hanno fatto leva per individuarlo nella sua teoria della felicità terrena: teoria coraggiosa, dacché gli assertori della preminenza del Papato (Sole) sull’Impero (Luna), con la scorta di alcuni Padri e Dottori magni – Agostino su tutti, ma anche Tommaso – negano che la felicità possa essere conseguita dai viventi ad opera di formazioni politiche. Teoria coraggiosa, quella di Dante, ma non proprio originale. Infatti, l’abbiamo visto, è Pietro da Eboli a propagandare per prima, e con una sicurezza che impedisce ogni tentativo di farne disputa, il diritto alla felicità terrena: conseguibile attraverso il “ben fare” di chi governa i popoli, ma anche dei Consiglieri che gli stanno a lato. Dante – sostenni in una lontana lectura del canto XVII del Purgatorio32 – «trovava nella Bibbia il galateo per il principe e per la corte»: nel quale è previsto l’indispensabilità del Consiglio. L’Artaserse del Libro di Ester – il grande Assuero di Pg XVII, 28 – «interrogavit sapientes, qui ex more regio semper ei aderant, et illorum faciebat cuncta consilio, scientium leges ac iura maiorum» (Esth I, 12-13). Colpisce il cuncta: nulla il grande sovrano fa senza il Consiglio dei Sapienti! Queste parole echeggiano in un passo del Convivio, riferite 32 Tenuta in Roma, alla «Casa di Dante», il 3 febbraio 1985; poi in M. Aversano, La quinta ruota, Torino, Tirrenia Stampatori, 1988, pp. 11-38. [21] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 439 proprio ai “miseri” successori degli Svevi: «Oh miseri che al presente reggete! e oh miserrimi che retti siete! che nulla filosofica autoritade si congiunge con li vostri reggimenti né per propio studio né per consiglio […] – e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni –; e guardate chi a lato vi siede per consiglio» (Cv IV, VI, 20). Dante eleva la sapienza (che richiede lo studio: oggi diremmo la “cultura”) a stella polare per la rotta politica. E alla Sapienza – ora ciò si comprende meglio – Pietro risolve di dare nel Liber tanto spazio di versi quanto pochi o nessuno prima e dopo, eleggendola a presenza eminente nell’intero terzo libro (con non minore evidenziazione nelle miniature e nelle loro scritte): che comincia con il titolo Sapientiam invocat poeta, e termina con Sapientia convicians Fortune. E qui di nuovo è Pietro che può spianarci il significato di un luogo della Commedia, quello in cui Dante invoca una non ancora individuata diva, la quale fa gloriosi gli ingegni e longevi i regni: O diva Pegasea che li ’ngegni fai gloriosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e i regni, illustrami di te… (Pd XVIII, 82) Alcuni elementi che dovrebbero spingere a identificarla con Minerva, figura della Sapienza, sono già nel mio Dante daccapo33. Ora, a lume della Particula XLVII – nella quale il poeta, licenziando Calliope, Pean, Clio e Apollo, si rivolge alla Sapienza divina – quella tesi viene a fortificarsi, essendo ben prospettabile che sia stato questo Pietro “sapienziale” a suggerire a Dante un’ennesima invocazione, diretta adesso a un’ispiratrice di più alto tribo, più che le Muse di If II, 7, e Calliopè di Pg I, 9: invocazione che cade in uno dei canti della Giustizia; sicché ne viene calamitato il tema del Consiglio, con le sue parole canoniche (in Dante come in Pietro): ’ngegni, gloriosi, città, regni. Questo gloriosi andrà affiancato, con evidenza, al «glorioso offizio» a cui il cancelliere Pier della Vigna portò sempre fede. Allora il «glorioso porto» che un altro grande cancelliere, Brunetto Latini, pronostica al suo alunno (al quale ha “insegnato” come l’uom s’etterna: e “insegnare” nella Commedia ha solo e sempre accezione politica) non potrà non essere quello di 33 Cfr. M. Aversano, Dante daccapo, Atripalda, WM Group srl, 2000, p. 32. 440 MARIO AVERSANO [22] una sapientia impegnata nel servizio a un Reggitore di popoli. Dante con la sua opera, d’impegno insieme civile e culturale-spirituale, aspira ad essere chiamato nei Consigli più alti, non esclusi quelli che nel Liber sono detti “cesarei”: al modo – è da credere – di Pietro stesso, che non senza ragione nella Carta 46 (139) si fa ritrarre a lato di Corrado Cancellarius che lo introduce all’aula di Enrico. Pietro dona all’imperatore il suo Liber, chiedendogli un beneficium. Esso – invocato, s’è visto, con la lingua del Profeta (Ps LXXXVI, 16) – mal potrebbe riguardare cose materiali (si pensa generalmente, ma a torto, che la richiesta, e il riscontro di Enrico, riguardino un mulino, il molendinum de Albiscenda). Quel che Pietro si attendeva era un ufficio degno del magister che egli era, e di un fidelis (cultore della fidelitas egli si mostra in tutto il Liber): ufficio di Consigliere. Questa interpretazione recherebbe di riflesso un altro indizio a favore dell’autenticità della Lettera a Cangrande, con la quale l’autore è innanzitutto volto a dedicare allo Scaligero il suo Paradiso. In tale dedica, allora, potrà vedersi ugualmente sottintesa la medesima richiesta “curiale” di Pietro: si sa quanto il ghibellin fuggiasco tenesse a farsi Consigliere di corti aventi potenza di incidere sul governo di Firenze e d’Italia. Tornando infine sulla corda della gloria, andremo al Libro di Ester per vedere se il termine non stia già lì, rapportato al Consiglio; e puntualmente lo si incontra che occupa tutta una sequenza di tematica consiliare. Assuero lamenta che i cattivi Consiglieri – le dantesche molte genti che la lupa fè già viver grame (If I, 51) – non sanno reggere tale gloria, e sono capaci di voltarla contro chi gliela ha concessa. Il colpo è vibrato contro il pessimo Aman, che anche in Dante è il prototipo del mal Consiglio (come il giusto Mardoceo lo è del buono): «Multi bonitate principum, et honore, qui in eos collatus est, abusi sunt in superbiam. Et non solum subiectos regibus nituntur opprimere, sed datam sibi gloriam non ferentes, in ipsos, qui dederunt, moliuntur insidias» (Esth XVI, 2-3). Oggi, a conclusione, le carte ci invogliano a congetturare che sia stato anche Pietro da Eboli a condurre Dante a questi luoghi della Scrittura; luoghi che, per la loro “autorità”, soli potevano essere rammentati ai prìncipi e agli uomini di potere quando declinavano o asservivano il Consiglio. E si vede bene che nel Liber Enrico VI si comporta al modo del biblico e dantesco Assuero: «Cesar cesareum vocat ad se more senatum» (v. 1053). È il more regio del Libro di Ester; del quale Pietro ha tenuto in mente anche lo scientium leges ac iura, tramutandolo – a merito di Corrado di Querfurt – in «iuris servator et equi». Ne parleremo tra poco. [23] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 441 4. Costanza donna “costante” A vedere “lo stato dell’arte”, lascia perplessi il fatto che né la dantistica – anche quella espressamente impegnata a trattare dell’Italia meridionale, della Sicilia e della cultura sveva in Dante34 – né gli studiosi intrigati a vario titolo col Liber di Pietro da Eboli abbiano mai ipotizzato elementi di contatto intertestuale con la Commedia. Procediamo sulla scia di quanto è venuto fin qui a giorno. Conviene riandare al terzo del Paradiso, uno dei canti più letti nelle scuole. Tra le anime che mancarono ai voti si trova “relegata” – ne abbiamo appena fatto cenno – la gran Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI, che, si ricordi, a Pg III, 113 è già presentata “in tondo”, come imperadrice (e non come semplice regina del Regno), per bocca del nipote Manfredi. Ora la domanda, opportuna se non indispensabile (ma che generalmente non ci si pone), è questa: che cosa o chi ha indotto l’autore della terza Cantica a darla per “grande”, nonché a designarla come l’anima più luminosa del primo cielo? Gioverebbe una diversa decodifica, per l’intendimento del vero messaggio dantesco, nell’affrontare le terzine, ben quattro, in cui Piccarda ce la “mostra”35: «E quest’altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s’accende di tutto il lume de la spera nostra, ciò ch’io dico di me, di sé intende; sorella fu, e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta. Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò il terzo e l’ultima possanza». (Pd III, 109) Ed anche del séguito che ci offre una lezione di Beatrice: «e poi potesti da Piccarda udire/che l’affezion del vel Costanza tenne …» (Pd IV, 97-98). 34 Cfr. Dante e la cultura sveva, cit. 35 Ma non sarà che Costanza stessa si mostra al poeta perché egli ne predichi in terra la raggiunta salvezza, un po’ come ha fatto Manfredi (Pg. III, 142)? 442 MARIO AVERSANO [24] Il primo dato che salta agli occhi – e che i commenti colgono, ma non chiariscono – è la diversità-privilegio di condizione, nella gerarchia della letizia celeste, che il poeta riserva a Costanza, atteggiandola in effetti come la Domina del cielo della Luna: la diremmo la donna che qui regge, ricorrendo a una battuta di If X, 80, dove così Dante chiama Proserpina-Ecate, “regina”-guardiana degli Eretici nel sesto cerchio infernale36. Viene in mente la donna del ciel (Pd XXXII, 29), Maria. Ma sappiamo che la Vergine madre è la più grande delle donne (Pd XXXIII, 13), e che occupa nella candida rosa in cui si mostrano i Beati il seggio più alto. Dirimpetto a lei – ci si faccia attenti – è il maggiore dei nati da femmina (Matth XI, 11): Giovanni Battista, il «gran Giovanni» di Pd XXXII, 31. Maria e Giovanni, dunque, sono per Dante – che sempre si tiene al Libro di Dio – i due poli della grandezza umana. Per tali presupposti etico-teologici, di conseguenza, nessuno potrà esimersi dall’interrogativo che ipso facto rampolla nella mente: poteva l’autore della Commedia chiamare “grande” Costanza d’Altavilla solo in ragione del titolo di imperatrice, o della stima nutrita per Guglielmo II, per Federico I e II e per Manfredi (le sole attestate nella sua opera), o per avere di lei ben “sentito”? L’obbligo di scartare definitivamente queste ipotesi – oltre che dal buon senso – ci viene dall’elemento statistico, che di regola nell’ermeneusi dantesca concede l’ultima parola. Ed esso è “scioccante”: risulta che a nessuna donna nel poema sacro è attribuita la “grandezza”, tranne che a Maria Vergine e a Costanza d’Altavilla; e che l’attributo “grande” è rarissimo a trovarsi anche per il genere maschile. Ma torniamo ai versi. La forza di quel tutto che accompagna il lume di cui Costanza si accende è inequivocabile, e lascia credere che richia- 36 Cfr. M. Aversano, Un nuovo Dante. Il realismo teologico dell’“Inferno”, Istituto di Scienze religiose, Atripalda, il Calamaio 1992, p. 142, dove si dice che Proserpina non “regge” tutto l’Inferno, ma solo il sesto cerchio. E qui si può andare oltre il dubbio che dietro questo nesso “regale” posto all’insegna della “luna” debba essere riconosciuto l’appellativo di Luna che Pietro riserva dapprima alla madre di Costanza, in quanto vedova che succede a Guglielmo, il Sole siciliano («anglica Sicelidem luna flet orba diem»: v. 53), e poi a Costanza stessa: «sollicitans solem regia luna suum». Potrebbe entrarci anche il fatto che proprio in questo cerchio è castigato per eresia Federico II, da lei “generato”. Cfr. anche l’indiretto nome di Luna, sempre in coppia col Sole (Phebus) – i due occhi del cielo di cui parla Dante a Pg XX, 130 – che si ricava dai vv. 706-707, dove sono elencati gli ornamenti di cui si fregia Costanza: «Forma teres Phebi pendet ab aure dies./ Pectoris im medio coeunt se cornua lunae». Cfr., ultra, i “corni” danteschi di Pd VIII, 61 ss., e la nota 59. [25] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 443 mi quanto s’è già riscontrato del fulgore speciale che ha il padre di lei, Guglielmo, nel cielo dei Giusti: fulgore anch’esso da riportare, è probabile, al fulgere biblico di cui s’è detto nel paragrafo precedente. Il sottosegno dell’affezione tracciato da Beatrice poco dopo, inoltre, dà conferma che sussistono delle gradualità all’interno dello stesso cielo, in rapporto al maggiore o minor “piegarsi” della voglia alla forza esterna, alla violenza di uomini «a mal più che a bene usi». Questo, infatti, è chiarito in modo definitivo a Pd IV, 77 segg.: «che volontà, se non vuol, non s’ammorza/ […]. Per che, s’ella si piega assai o poco,/ segue la forza; e così queste fero/ possendo rifuggir nel santo loco». Conclusione: il poeta fa di Costanza l’anima più luminosa perché a differenza della stessa Piccarda non ebbe mai alcun cedimento nella “fedeltà” interiore (a quella esterna, invece, venne meno), e seppe ogni volta – cohacta che fosse – rimaner ferma, resistere nella sua vocazione: per dirla con due vocaboli che Pietro coniuga con la “fedeltà” (la religio fidei con cui s’intitola la Particula XX), ai vv. 603 e 613. Ora attenti: la parola fides trascorre tutto il Liber, fino a porsi come distintivo irrinunciabile del buon comportamento. Si pensi al fatto che il personaggio antagonista di Costanza e degli Svevi, Tancredi di Lecce, dipinto come un monstrum fisico, tale è anche nell’animo suo: corrotto al punto che egli giunge a ritenere lecita – Machiavelli ante litteram37 – ogni azione, e la fides ben trasgredibile, quando è in gioco il potere: «Nec te, si qua fides, nec te periura tardent: /gloria regnandi cuncta licere facit» (vv. 156-157). Scetticismo pragmatico, questo, quale è riaffermato nella Particula XXIX, a v. 862: «Tam sibi quam mundo credit abesse fidem». Del tutto “fedele” nel cuore allo Sposo, invece, Costanza, anche se con manco di voto; fedele al grado che evidentemente non seppe raggiungere alcuna anima del primo cielo: dovrà pur contare il fatto che essa è additata come colei che «non fu dal vel del cor già mai disciolta». Il verso, che ha l’accento ritmico più squillante (e uno dei più forti che s’incontrino nella Commedia) nel già mai, dove si scarica l’intero peso tonico della terzina – e si pensa a come principia il più 37 Cfr. anche il v. 1243: «Quis rex, quis princeps, quis dux tua iussa recusat?». Sono un po’ gli stessi interrogativi retorici che si leggono nel capitolo finale del Principe: «quali populi gli negherebbano la obedientia? quale invidia se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l’ossequio?» (XXVI, 7). Fa impressione, si capisce, il cenno all’“italianità”: ma è difficile che Machiavelli sia incappato nel Liber ad honorem Augusti. 444 MARIO AVERSANO [26] noto “pezzo” del siciliano Rinaldo d’Aquino: «Già mai no mi conforto » – altro non può voler dire che Costanza, in virtù del significato del proprio nome, non peccò in alcun momento della sua vita di “incostanza”, di “mancanza” all’intimo proposito monacale. Né può essere un caso che Dante riadoperi il già mai per un altro Cancellarius della corte siciliana, Pier della Vigna, per la stessa ragione di fedeltà sempre mantenuta: «già mai non ruppi fede/ al mio signor…» (If XIII, 74-75). Altro motivo, allora, per cui non è allegabile – a spiegare la troppa “preferenza” che Dante mostra per la regina di Sicilia divenuta imperatrice, e di una lode così alta – la sola “simpatia” politica, che pure fu grande: l’autore della Commedia non è intellettuale che si pronunzi con tanta risolutezza senza aver prima cercato, raccolto e vagliato ogni notizia utile per un imparziale giudizio etico-politico sulle persone. E qui sta il punto, cruciale: a dargli le più esaltanti informazioni e garanzie su Costanza altri non c’era e non c’è – a quel che storicamente ne sappiamo – che provveda più e meglio di Pietro da Eboli, il quale col suo Liber gli rivela quanto nessun altro, ma in primo luogo la corrispondenza fra il nome Costanza e la “costanza” che caratterizzò in ogni frangente l’erede illustre dei Normanni38: Illa tamen constans, ut erat de nomine Constans39, et quia famosi Cesaris uxor erat, hostes alloquitur audacter ab ore fenestre. (vv. 583-585) Una costanza, evidentemente, “destinata”, della marca che fu propria – secondo Pietro – di un imperatore, Costantino. È quel che si trova già nella prima Particula, ai vv. 19-20; essi preparano in tal modo ad ascoltare di lei meraviglie di un comportamento fermo e risoluto e, per dirla con Dante, “baldo e lieto”: «Nascitur in lucem de ventre beata beato,/de Constantini nomine nomen habens». Siamo incoraggiati a trascinare qui l’unico impiego che del lemma “costanza” (nella forma constanzia) si ha in Dante, che riconduce alla Vita nova, e precisamente a XXXIX, 2, dove è molto significativo che faccia coppia con ragione (ne verremo appurando il perché), e nel rapporto del poeta con Beatrice: 38 Si veda, per un esempio, Pd XII, 79-81: «Oh padre suo veramente Felice!/ O madre sua veramente Giovanna,/ se interpretata, val come si dice!». Anche per Dante, si sa, come per tutto il Medioevo, nomina sunt consequentia rerum. 39 Diamo il maiuscolo a Constans, perché si evidenzi il nesso tra nome e cosa. [27] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 445 «lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia de la ragione; e discacciato cotale malvagio desiderio, sì si volsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice». Non si può negare, vediamo bene, che tale costanza “razionale” ha il peso di un imperativo che implica il concetto etico della “fedeltà”, anche se, nella fattispecie, l’accezione è “amorosa”, riguardando il patto che stringe a Beatrice il suo “fedele d’amore”. Per ciò stesso non conviene disbrigare come dubbia, al modo che ancora si fa, la portata semantica dell’aggettivo “costante” nell’opera dantesca. Esso non può non derivare dal sostantivo di provenienza, e non prendere spicco ugualmente in forza del numero davvero minimo degli impieghi: solo due in tutto Dante, di cui uno, quello di Rime CII, 13 («io che son costante più che petra/in ubbidirti»), fa trasparire con chiarezza il valore di “fedele”40. L’altro, di Pd XI, 70, che tutti rammentano, tocca i rapporti di Madonna Povertà con Cristo, e propriamente la sua fedeltà al vincolo matrimoniale: «Né valse esser costante, né feroce41,/ sì che, dove Maria rimase giuso,/ ella con Cristo salse42 in su la croce». Così, per questa via, a chi fa ricerca intertestuale arride il beneficio di intravedere una bella e, ch’io sappia, mai notata corrispondenza – e sarà una delle volte sopradette in cui la fonte di Pietro illumina per un migliore intendimento della pagina dantesca – tra la ferocia- costanza all’ideale della povertà mantenuta da Francesco, e l’impeto con cui Domenico – detto, non sfugga, l’amoroso drudo: dunque marito anch’egli, della fede cristiana (Pd XII, 55-56) – “aiutò” l’orto cattolico. Ciò in quel contesto dove, con altro esplicito richiamo del principio nomen-omen, è affermata un’appartenenza “totale”, e dunque una altrettanta totale “fedeltà”, del campione di Calaroga a Cristo: quinci si mosse spirito a nomarlo del possessivo di cui era tutto. Domenico fu detto; e io ne parlo 40 Così A. Mariani, in E.D., s.v. “costante”: «Io sono fermo come una roccia, incrollabile nella mia fedeltà alle tue leggi, disposto ad ubbidirti comunque». 41 Levo la virgola tradizionale, che toglie nerbo: «feroce/ sì che…» 42 Il salse è da preferire al pianse petrocchiano: non solo per quanto è detto in M. Aversano, Dante daccapo (cit. p. 20), ma anche per dare ragione della costanza-ferocia, che il “salire” rende meglio del “piangere”. 446 MARIO AVERSANO [28] sì come de l’agricola che Cristo elesse a l’orto suo per aiutarlo. (Pd XII, 68-72) Ora a sostegno della tesi che la “costanza” dantesca abbia l’ascendente in quella di Pietro da Eboli giocano parecchi e diversi elementi, di cui il primo è che egli, quando apre la scena a Costanza, batte ogni volta sulla fides, la fedeltà che impone di non trasgredire un patto giurato-consacrato: costi pure, ciò, la vita o l’esilio. Anche solo a sbirciare nelle righe del Liber, l’impressione è che uno spoglio radicale porterebbe a risultati incredibili per il numero delle repliche. Qui è sufficiente uno sguardo alla sola Particula che accoglie l’equazione Constantia=costanza, dove fides è già al secondo verso: «Ospes in ignota dimicat orbe fides» (in qualità di ospite la fedeltà lotta in una terra sconosciuta). Seguono: 1) v. 593: «Ad mentem revocate fidem»; 2) vv. 603-604: «Est igitur virtus quandoque resistere verbis/ et dare pro fidei pondere menbra neci»; 3) vv. 611-613: «Gens pure fidei mediis exquirit in armis/ velle meum […] multo licet hoste cohacta; 4) vv. 589-590: «Gens magne fidei, rationis summa probate,/ que sim, que fuerim, nostis, et inde queror». La mia posposizione di quest’ultimo passo agli altri, quanto alla serie, è strumentale a un’evidenziazione: dal suo interno ognuno può così dedurre (facendosi guidare dai corsivi dati alle parole) il nesso della costanza con la fedeltà, ed anche con la “costanza della ragione” che abbiamo incontrato nel Dante della Vita nova, non contraddetto da quello della Commedia e delle Rime. Il tema è peraltro visibile nelle parole con cui l’Augusta afferma di sé che all’oggi, nel ben fare, non è cambiata, è rimasta quale fu: «que sim, que fuerim, nostis». Ed anche da questa specifica professione di tetragonìa all’“incostanza” l’autore della Commedia può avere attinto, sia per il valore in prospero che per quello in malo. A esemplificare un poco, per il primo basti Pd XII, 121-123 (estensivo degli altri passi “domenicani” or ora citati), che concerne la fedeltà alla regola dell’Ordine: «‘Ben dico, chi cercasse foglio a foglio/nostro volume, ancor troverìa carta/u’ leggerebbe: ‘i mi son quel ch’io soglio’». Per il secondo, invece, andrà citato If XIV, 51: «gridò: ‘Qual fui vivo, tal son morto’». Fedeltà di Capaneo, in questo caso, a una religio blasfema: Dio, che della religio fidei è garante, c’entra comunque. Va sottolineato, inoltre, che la ratio forma uno dei temi lunghi [29] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 447 del Liber proprio in quanto opposta agli impulsi dei sensi, e imparentata con la “costanza”. Si salti, per un altro esempio, alla quinta Particula, ai vv. 113-115, dove emerge anche il rapporto – sul quale converrà tra breve riflettere – col “Consiglio” e con la “Pace”, oltre che col “Vero”: Sic ait: «Alme pater, lux regni, gloria cleri, utile consilium, pastor et urbis honor,/ pacis iter, rationis amor, constantia veri43, respice consiliis regna relicta tuis». Il grande filone della “costanza” intesa come “fedeltà” caratterizza anche le allocuzioni dei capi della parte sveva, con un fervido apice ai vv. 802-803, dove Corrado (il cancellarius più prestigioso del Liber, che farà da modello per il personaggio di Pier della Vigna) così arringa i cittadini di Capua: «Vos, precor, ospitibus non temerate fidem./ Augusto servate fidem». E giunge infine a toccare, nel solco di quella del poeta stesso (abbiamo visto come egli nella dedica del Liber ad Enrico VI si proclami servus Imperatoris et fidelis), anche la sua patria, Eboli. Essa è indicata da Costanza, a riguardo, come terra che dà esempio degno di premio e di sequela (vv. 615-618): «Huius ad exemplum, cives, concurrite gentis, que sit in Ebolea, discite, gente fides. Ebole, ni peream, memore tibi lance rependam, pectoris affectus, que meruere boni». Il corsivo che qui si dà a fides, e insieme ad affectus, risponde – si sarà capito – all’obiettivo di mostrare, e ci sembra con diritto, come Pietro abbia potuto trasmettere a Dante il vocabolo medesimo, affezion, con cui Beatrice nel passo già visto chiarisce il più alto merito dell’imperadrice, dopo le parole di Piccarda. Siamo invogliati così a unire l’«affezion del vel» e il precedente «vel del cor». I due sintagmi vanno glossati – è tempo di dirlo – con memoria della “ferocia” che la Povertà sposa di Francesco ebbe nella fedeltà al primo marito, Cristo: «‘Né valse esser costante, né feroce…’». Avere “ferocia” è quel che noi diremmo “avere un coraggio” (denominale di “cuore”), e che Pietro rende con pectus, non senza che insorga il dubbio d’una implicanza autobiografica, dacché il riferimento è a tutti gli Ebolitani: «pectoris affectus». C’entra insom- 43 A v. 98 ratio è unito con magister: «rationis uterque magister». 448 MARIO AVERSANO [30] ma, è palese, il ferox latino accepito in bono, che indica ostinatezza nell’operare, fierezza, sprezzo dei pericoli e animo indomito44. Conseguentemente, allora, la Costanza del Liber, in forza del proprio nome, mai si piega a minacce, né a ingiuste pretese, alieno come ha il cuore da ogni viltà: e così riemerge il profilo della Povertà di Dante, sicura anche alla voce di colui, Cesare, che fé paura a tutto il mondo (Pd XI, 67-69); e quello di Francesco a cui non gravò le ciglia viltà di cuor (Pd XI, 88) dinanzi a Papa Innocenzo, e al Sultano d’Egitto. Come prova esegetica immediata può servire l’audacter di v. 585, che riassume il contegno con cui la regina affronta i rivoltòsi di Salerno. È un tema di complemento, che vuol essere colto in nuce, a ben vedere, in quella virtus con cui Pietro connota la figlia di Beatrice di Reteste già dal tempo della nascita: «Virtutem virtus…peperit» (vv. 17-18). Il senso di questa virtus, riallacciabile certamente alla catena di significati che il termine riceve dagli usi antichi, è chiarito e determinato ai vv. 603-604, che conviene riallegare: «Est igitur virtus (…) dare pro fidei pondere menbra neci». Pietro indica esattamente il coraggio portato al limite estremo, all’offerta della vita. E qui è bene avvisare che molto c’entrerebbe la stessa fides-fedeltà che, s’è accennato, Dante molto sottolinea – con il già mai e con ben tre impieghi di fede: caso limite nell’Inferno – quando costruisce l’episodio di Pier della Vigna (dunque per un altro personaggio invischiato con la Sicilia e con gli Svevi): nel cui suicidio si coglie lo stesso principio, quantunque mal praticato, della fedeltà fino alla morte. A concludere sul tema Costanza-costante gioverà mettere in risalto che una volta Pietro da Eboli affronta il punctum dolens del parto tardivo di Costanza, da cui, come è noto, mossero le denigrazioni di parte avversa, prima fra tutte quella (desunta da Gioacchino da Fiore) che si fosse avverata la profezia della nascita dell’Anticristo, Federico II, da una anziana smonacata45. Ebbene, di quel ritardo Pietro parla come di un fatto prospero, riconducendolo all’ordine fatale stabilito per Costanza, e la definisce, in virtù del nome, «constantior arbor». È come se Costanza non avesse mai dubitato di poter dare al mondo un figlio, destinato a continuare le idealità del ricostituito Impero. Ecco il passo (vv. 1363-1368): Venit ab Experia nativi palma triumphi/ pernova, felicis signa 44 È il ferox, si può dire, che Pietro distingue dal ferus a v. 828, e dalla “ferocia” della ricca Iconia nel resistere al Barbarossa (v. 1595) 45 Per la storia, Costanza partorì a quarant’anni; ma c’è chi dice a trenta. [31] SU PIETRO DA EBOLI E DANTE 449 parentis habens./ Duxerat in gemitum presentis secula vite,/ quod fuerat fructus palma morata suos./ Serior ad fructus tanto constantior arbor/ natificat tandem sicut oliva parens. Del resto non è il solo Pietro a toccare la corda etimologica della costanza dell’ultima erede dei Normanni. Lo fa, ma a scopo di lagnanza e denigrazione, anche il Falcando, per il quale meglio sarebbe stato per il Regno se non ne avesse avuta alcuna46. Mario Aversano (Salerno) 46 Cfr. la sua Epistola ad Petrum Panormitanae ecclesiae thesaurarium, in Fonti Ist. Stor. Ital. XXII, Roma, 1897, a cura di G.B. Siragusa, 174. NOEMI CORCIONE L’autobiografia in Vittorio Imbriani. Svelamento ed occultamento del sé The author tries to demonstrate that in Foscolo’s novels the autobiographical form emphasizes ironically the new way consider love relationships. This is achieved through a deconstruction of the eighteenth century sentimental novel. The essay sheds new light on Foscolo’s psychological and sentimental world and shows how, in spite of his autobiographical tone, Foscolo tends to disguise himself and his feelings. 1. Nella scrittura narrativa di Vittorio Imbriani, come spesso anche in quella critica, poetica e giornalistica, le vicende biografiche e quelle intellettuali appaiono strettamente legate tra di loro1, imperniate intorno alla virtuosistica figura di uno scrittore anticonformista e dirompente, difficile e fecondo che solo l’intuizione esegetica continiana ha riproposto ad una nuova scoperta al di là di quella caratterizzazione di autore bizzarro che troppo spesso il Croce volle attribuirgli2. 1 Benito Iezzi parla, addirittura, della «sostanza eminentemente autobiografica d’ogni pur vago scritto imbrianesco», in Idem, Codicillo (rispettoso ma non serio) in R. Zagaria, Vittorio Imbriani e la donna, Pomigliano d’Arco, Lions Club, 1986, p. 33. 2 Presentando il profilo di Vittorio Imbriani nella raccolta antologica Letteratura dell’Italia unita, Gianfranco Contini scrive: «Gli storici della letteratura hanno imbalsamato l’Imbriani sotto la comoda etichetta di “spirito bizzarro”, e lo stesso Croce, cautamente riesumandolo, intitolò una ristampa dei suoi scritti Studî letterarî e bizzarrie satiriche. E certo l’Imbriani fece di tutto per meritarsi la qualifica», aggiungendo «bisognerà rivalutare la sua posizione culturale», in Idem, Letteratura dell’Italia unita. 1861-1968, Firenze, Sansoni, 2000, p. 223. Il titolo che il Croce scelse per la raccolta di interventi dello scrittore napoletano («Ecco raccolti alcuni dei tanti scritti di Vittorio Imbriani, che rimangono sparsi in opuscoli tirati a pochi esemplari, o in riviste e giornali divenuti quasi tutti rarissimi», B. Croce, Prefazione in V. Imbriani, Studi letterari e bizzarrie satiriche, a cura di B. Croce, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1907, p. V) vuole riassumere «le varie forme dell’attività letteraria dell’Imbriani. Accanto, dunque, ai lavori di [2] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 451 Se la biografia di Imbriani delinea un percorso di vita inquieto, vagante, instabile, dal primo allontanamento dal nucleo familiare all’età di nove anni al seguito del padre Paolo Emilio costretto all’esilio prima a Genova poi a Ginevra, a Nizza e infine a Torino a causa del ritorno al governo dei Borbone, fino ai soggiorni di studio in Francia, Svizzera e Germania, agli spostamenti al seguito delle campagne militari del 1859 e del 18663 e alle vicissitudini che lo condurranno a Firenze, Roma, Napoli, anche le opere che più direttamente vedranno un intrecciarsi di motivi relati alla sfera privata dell’autore risentono di un andamento frastagliato, sfuggente, moltiplicativo. I temi intorno ai quali sono imperniati i romanzi qui analizzati, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi4 e Dio ne scampi dagli Orsenigo5, dunque, sebbene sottoposti ad un vigile controllo da parte di Imbriani, risultano attorniati da una serie di racconti paralleli, digressioni, intermezzi che disorientano il lettore, facendogli perdere quella direzione narrativa, quel motivo centrale che, estetica e di alta critica, e alle indagini di storia e di erudizione, vi si troveranno curiosità letterarie, novelle, ghiribizzi, e versi bizzarri», in Idem, Prefazione, in V. Imbriani, Studi letterari e bizzarrie satiriche, cit., pp. V-VI. Anche Antonio Palermo, a proposito dell’attività accademica del Nostro, si rifà ad un tratto ormai divenuto costitutivo nella critica imbrianesca: «[…] finché aveva potuto, Imbriani aveva insegnato con una appassionata partecipazione, insospettabile in uno scrittore ‘bizzarro’ per antonomasia», in Idem, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, Napoli, Liguori, 2000, p. 76. Tale caratterizzazione è denunciata anche da Fabio Pusterla, il quale parla di «un giudizio lacerato [che] accompagna da sempre Vittorio Imbriani: ogni volta che si è parlato della sua figura e della sua opera si è fatto ricorso all’antitesi racchiusa, secondo l’implicito suggerimento crociano, nel titolo della prima e principale silloge postuma, Studî letterari e bizzarrie satiriche (1907), che inagurava la sua tiepida rivalutazione novecentesca, studioso, quindi, e insieme scrittore bizzarro, outsider fastidioso e mordace», in Idem, Introduzione, in V. Imbriani, I Romanzi, a cura di F. Pusterla, Milano, Garzanti, 2006, p. IX. 3 Nel maggio del 1859 Imbriani abbandonò Zurigo per partecipare come volontario, insieme al fratello minore Matteo Renato, alla II guerra d’indipendenza; nella primavera del 1866, invece, si arruolò nel corpo dei volontari garibaldini, combattendo nel corso della III guerra d’indipendenza. «Questa volta, a differenza del ‘59, gli riuscì alfine di combattere sul campo (fu anche fatto prigioniero), egli che fin allora aveva solo abbondato in duelli», in A. Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, cit., p. 78. 4 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, a cura di R. Rinaldi, Roma, Carocci, 2009. 5 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, in Idem, I Romanzi, cit. 452 NOEMI CORCIONE [3] leciti in un prodotto letterario, non possono quasi mai darsi nell’esistenza di un uomo. Nelle due opere prese in considerazione la categoria della finzione e quella dell’autobiografia si intrecciano continuamente determinando una serie di piani di lettura che investono l’analisi delle ragioni di una scrittura, lo studio di sé e delle passioni umane attuato attraverso la confessione ironica o il racconto distaccato e disincantato, la destrutturazione del romanzo sentimentale ottocentesco. Del resto, sia nel caso di Merope IV che di Dio ne scampi dagli Orsenigo, Imbriani antepone un capitolo iniziale a mo’ di avvertenza che mette subito in guardia i lettori: alle vicende narrate, ed eventualmente accadute, si darà sempre un riscontro fantastico, quasi che la realtà non possa esistere al di fuori dell’immaginazione e della versione che di essa ne fornisce l’Autore; e se la scrittura di quest’ultimo è essa stessa un fatto reale, ecco che realtà e scrittura si intrecciano e si con-fondono continuamente. L’Autore, allora, si ritrova ad incarnare la duplice funzione dell’artifex, di artista e attore, scrittore e personaggio, creatore e fingitore, in una dicotomia costante che riguarda più in generale l’arte, la letteratura, l’attività dello scrivere ed il vivere scrivendo. 2. Pubblicata parzialmente nel corso del 1866 nelle appendici dei quotidiani «La Patria» e «Il Secolo» e in seguito a Pomigliano d’Arco nel 1867, Merope IV narra la storia autobiografica dell’amore tra il sottotenente Quattr’Asterischi, pseudonimo già utilizzato da Imbriani in alcune prove giornalistiche e poetiche6, ed Eleonora Bertini, 6 Tale pseudonimo fu scelto dall’Autore per la raccolta di poesie 1863-1864. Versi di ****, Napoli, Stabilimento tipografico delle Belle Arti, 1864, e per firmare sia gli articoli di critica d’arte raccolti ne La Quinta Promotrice, 1867-1868. Appendici di Vittorio Imbriani. Ristampa non corretta nèd accresciuta, Napoli, Tipografia napolitana, 1868 (ora in Idem, Critica d’arte e prose narrative. Prefazione, note e saggio bibliografico a cura di G. Doria, Bari, Laterza, 1937) che le corrispondenze da Roma inviate tra «la fine del 1871 e il principio del ‘72, a un giornalucolo politico napoletano [si tratta de «La Sentinella, giornale politico della sera»], che le pubblicò nelle sue Appendici» (N. Coppola, Premessa in V. Imbriani, Passeggiate romane ed altri scritti di arte e di varietà inediti o rari, Napoli, Fiorentino, 1967). I caratteristici asterischi sono immediatamente presentati da Imbriani nell’avvertenza iniziale del romanzo, Al lettore, nella quale si viene informati del duello che la pubblicazione di Merope IV è costata al suo Autore, «V.*** I.***» per l’utilizzo dell’«avverbio “repubblicanescamente”»; il duello fu richiesto come riparazione per quanto riportato da Marziano Capo sul quotidiano «Popolo d’Italia » il 10 gennaio 1867: «V.*** I.*** fece chiedere per mezzo de’ suoi amicissimi [4] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 453 moglie del ricco nobile Luigi Rosnati, di Gallarate7. Nora e Vittorio si incontrarono, in giugno, durante la campagna militare del 1866 nella quale il giovane si era arruolato volontario al seguito dell’eser- R.*** S.*** e G.*** de’ T.*** ritrattazione delle parole offensive al signor M.*** C.*** che si riconobbe Direttore del Popolo d’Italia e scrittore di quelle. Negata la ritrattazione ebbe luogo uno scontro alla sciabola nel quale il C.*** fu assistito dai signori G.*** M.*** e C.*** M.*** e che finì con una ferita al capo riportata da V.*** I.***», V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 31. Nel corso della sua esistenza, Imbriani ricorse a numerosi pseudonimi che rispecchiassero la propria biografia nei diversi campi (giornalistico, romanzesco, poetico) in cui volle provare la sua poliedrica intelligenza. Tali pseudonimi sono: Ugo di Napoli, W.H.Y. o W.Y., Quattr’Asterischi, Il Misantropo, Il Misantropo napolitano o napoletano, Prof. Bove, L’Orco, Un Italianissimo, Un Monarchico, Jacopo Moeniacoeli. Per una trattazione particolareggiata dell’uso degli pseudonimi nell’opera di Imbriani si legga R. Giglio, Il giornalismo di Vittorio Imbriani, in Studi su Vittorio Imbriani. Atti del «Primo Convegno su Vittorio Imbriani nel Centenario della morte» Napoli, 27-29 novembre 1986, a cura di R. Franzese e E. Giammattei, Napoli, Guida, 1990. Il Giglio, inoltre, nel puntualizzare che «la scelta della forma [dei diversi pseudonimi] rispecchiava dei motivi ben precisi e quasi sempre attinenti a vicende autobiografiche» (Ivi, pp. 410-411), annota che quello di Quattr’Asterischi «dovette essergli particolarmente caro se coniò la forma Quattrasterischessa per la moglie, Quattrasterischina per la figlia e Quattrasteriscopoli per Pomigliano d’Arco» (Ivi, p. 411). Per un catalogo ragionato delle forme pseudonimiche adottate dall’Autore si rimanda, ancora, a B. Iezzi, Vittorio Imbriani: uno, nessuno, centomila ovvero del buon uso dello pseudonimo, «Il Mattino», 2 aprile 1985, ripreso in L’eredità culturale di Vittorio Imbriani nel centenario della morte (Itinerario della Mostra Bibliografica), Biblioteca Universitaria di Napoli, 1986, ed infine in Idem, Giunte e Mende alla Bibliografia imbrianesca di Gino Doria, Napoli, Edizioni Cancroregina, 1986. Lo pseudonimo di Quattr’Asterischi, inoltre, fu utilizzato dall’Autore anche per firmare alcune missive, come quella indirizzata a Gherardo Nerucci del 29 agosto 1967 (V. Imbriani, Carteggi II, Gli hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, a cura di N. Coppola, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1964, p. 293). Infine, ricordiamo come nel racconto Baldoria tedesca compaia anche un «Principato di Treppuntini» (V. Imbriani, Racconti e prose (1877-1886), a cura di F. Pusterla, Parma, Fondazione Pietro Bembo – Guanda, 1994). 7 In una lettera all’amico Gherardo Nerucci del 16 febbraio 1867 Imbriani scrive: «Guarda, in Merope, ho voluto spesso ritrarre la donna dell’alta Italia e l’uomo della meridionale, quali sono: e perché avessero più campo a dimostrarsi nella loro nudità ho scelta la forma autobiografica. Non per questo io approvo. Io dico: le cose stanno così, non biasimo, non encomio, ciascuno tiri le conseguenze da sé. Ove le cose stiano male, coraggio e correggiamoci; ma sappiate che così si vive e si sente e si pensa» (V. Imbriani, Carteggi II, Gli hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, cit., p. 288). Questa stessa presa di distanza dal narrato è continuamente ribadita in Dio ne scampi dagli Orsenigo, in cui l’Autore protesta il distacco oggettivo della propria scittura: «Io sono istorico: narro, non giudico» (Ivi, p. 369) in un «riflettersi di impersonalità» quale «sottra454 NOEMI CORCIONE [5] cito garibaldino, mentre la donna era «una delle dame del Comitato ivi sorto [a Gallarate] per offrire al Reggimento la bandiera di combattimento e festeggiare i volontarî»8. La vicenda riporta le fasi del corteggiamento della donna che fugge, rassegnata e civettuola ad un tempo, le avances dell’innamorato, la sua conquista e l’allontanamento dei due amanti. Il testo, presentato dall’Autore come «mezzo realista e mezzo fantastico»9 in una lettera del febbraio 1867 indirizzata ad Alessanzione del vantaggio che mette in vita la persona del narratore» (T. Pomilio, Iperletteratura e artificio della passione, in Studi su Vittorio Imbriani, cit., p. 367). 8 Commento di Nunzio Coppola in V. Imbriani, Carteggi I. Lettere familiari e diari inediti, a cura di N. Coppola, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1963, p. 177. 9 Cfr. Vittorio Imbriani, lettera ad Alessandro D’Ancona del febbraio 1867, in Idem, Carteggi II, Gli hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, cit., p. 230: «Verso i primi del prossimo Marzo riceverete un mio racconto mezzo realista e mezzo fantastico; secondo alcuni immorale, e come vedrete, monco ed amputato. Io vi prego di farlo annunziare da qualche giornale fiorentino e s’è possibile di fargliene riprodurre un capitolo come saggio: c’è un sacco d’episodî che stanno di per sé. Capisco che il lavoruccio vi parrà forse più degno di biasimo che di lode: e sia! Io amo forse più quel che un francese ha chiamato L’applaudissement fauve et sombre des huées che gli applausi encomiastici. Del resto, è un saggio, e m’importa di avere il parere de’ pochi intelligenti, di que’ tali happy few, su questa quistione: s’io abbia in me gli elementi di un buon narratore. Talvolta mi par di sì, talvolta di no; sto infraddue. In questi dubbi si cerca l’opinione altrui p. arbitra». Nella missiva che il Coppola classifica come immediatamente successiva a questa del febbraio 1867, il giovane scrittore richiama ancora una volta l’attenzione del D’Ancona sul suo romanzo: «Ho indugiato per qualche giorno a scrivervi sperando di potervi mandare la povera Merope IV; ma è cosa d’un’altra quindicina. Ve la raccomando e perché me ne diciate schietto il parer vostro e perché la raccomandiate al vostro amico antologico [si tratta del professor Protonotari, direttore della «Nuova antologia»], perché la catalogizzi nel suo erbario, e poco male se avesse a registrarla tra fiori puzzolenti o velenosi. Un biasimo non può mai far male e può talvolta tornare utilissimo, il che non può dirsi certo della lode. E poi un lavoro terminato è divenuto indifferente ed estraneo all’autore, come l’opera d’un terzo; ed egli che sogna d’esser progredito non si picca del vituperio di quella; ed essendosene nojato ha caro che un altro la malmeni e tartassi, quasi facesse le sue vendette» (Ivi, pp. 230-231). E così continuerà a fare nelle epistole successive: «Nel corso della prossima settimana vi manderò la Merope; ma vi raccomando di raccomandarla al vostro amico antologo» (Ivi, p. 232), sollecitando un parere da parte dell’illustre Professore: «E Merope? Ve l’ho mandata fin dal 19» (Ivi, p. 233), così come un interessamento per una maggiore conoscenza e diffusione del romanzo: «Siavi nuovamente raccomandato di raccomandar la povera Meropuccia al v/o amico antologo» (Ivi, p. 234) e «Ho mandato a voi direttamente un’altra Merope: giacché siete tanto buono di accollarvi questa seccatura, accollatevela tutta; saprete a chi ri[ 6] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 455 dro D’Ancona, «si muove tutto sul discrimine fra l’appassionata partecipazione sentimentale del narratore a un’esperienza vissuta e il provocatorio allontanamento parodico dal narrato»10; e in questo ci soccorre lo stesso Imbriani scegliendo come citazione di apertura nella Dedica del romanzo il brano conclusivo delle Confessioni (1782) di Jean-Jacques Rousseau: «Non ci poteva essere distanza troppo grande dal luogo dove mi trovavo al primo Paese dei Sogni, che non mi fosse agevole stabilirmici»11. La forte carica autobiografica inizialmente dichiarata, che costituisce una sorta di patto che l’Autore stringe con il lettore (egli scrive di voler raccontare la sua storia «quantunque possa costarmi»12), incontra un primo ostacolo nella gestione dei personaggi: perché vi sia autobiografia, infatti, occorre trovarsi di fronte ad un racconto intimo in cui vi sia «identità tra l’autore, il narratore e il personaggio»13 principale. Ebbene in Merope IV effettivamente Imbriani propone una narrazione autodiegetica ma attribuendosi il nome di Quattr’Asterischi, di per sé ambiguo e disorientante nell’ironica carica nullificante che lo investe. Nello scarabbocchiar questa novella, francamente, non ho pensato a nessuna altra cosa che alla novella; ho creato due personaggi, ho detto loro di levarsi e camminare; poi quel che vidi io scrissi. Sono ben lungi dall’approvare ogni loro azione, di consentire in ogni loro opinione. Dato e non concesso che sian cattiva gente, che c’entro io? […] Se col narrare alcune loro vicende farò sì che Merope14 e Quatmetterla con qualche parola che valga ad ottenerne l’intento» (Ibidem). La richiesta di un simile interessamento è presente anche nella corrispondenza tenuta dall’Autore con l’amico Gherardo Nerucci (Cfr. V. Imbriani, Carteggi II, Gli hegeliani di Napoli ed altri corrispondenti letterati ed artisti, cit., pp. 285-292). 10 Commento di Rinaldo Rinaldi in V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 33. Il Rinaldi indica come tale «oscillazione distingua Merope IV da tante altre novelle più tarde di Imbriani, dove lo schema convenzionale della trama è pura occasione per un divertimento stilistico. E la distingua perfino da Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876 e 1883), dove la scrittura è più distaccata e meno radicata nella vicenda biografica» (Ibidem). 11 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 33. 12 Ivi, p. 52. All’espressione di Quattr’Asterischi fa da contrappunto (quasi ulteriore rispecchiamento dell’animo stesso di Imbriani) quella di Merope, la quale, ricordando al suo innamorato il desiderio di mantenere la promessa fattagli divenendone l’amante, gli dice: «Non ho mai mancato ad una parola, ancorché avventata, checché dovesse costarmi, io» (Ivi, p. 259). 13 P. Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 13. 14 Ricordiamo che il gioco degli pseudonimi vale anche per il personaggio femminile del romanzo che viene presentato non con un nome autonomo bensì con un prestito letterario adottato quale soprannome (con evidente alterazione 456 NOEMI CORCIONE [7] tr’Asterischi vivano un istante nella mente del lettore, e che l’interesse per questi esseri ideali superi un momento quello per la prosa della vita, e ne faccia dimenticare, per un attimo la sconsolata miseria, non potrò dire di aver raggiunto lo scopo dell’Arte, e che mi resta a desiderar di più?15 Se, dunque, nell’autobiografia l’enunciazione è a carico dell’autore del testo, nella finzione romanzesca tale autore può assumere tanti volti o uno, come questo di Quattr’Asterischi che pare, irrisoriamente, immettersi in una dimensione sfuggente, nel vago, nell’incognita da decriptare, nel rifiuto di sé, nella frode dell’identità. Viene, in questo modo, a costituirsi una sorta di pseudonimia che lambisce l’anonimia e che pone l’esistenza stessa dell’Autore in bilico. Lo spazio autobiografico pare subito ridursi ed il patto stretto con il lettore viene a configurarsi come «fantastico»: è la difesa che Imbriani adotta per sottrarsi alla confessione disarmata di un’esperienza che lo ha profondamente segnato, per dare l’illusione di un viaggio letterario che travalichi la narrazione stessa. Lo sdoppiamento operato dall’Autore nei confronti del personaggio che è stato fa sì che il testo stesso parli una doppia lingua: da una parte vi è il racconto che si arricchisce via via di nuovi particolari, dall’altra l’occultamento sistematico e consapevole di quegli stessi particolari attraverso la loro amplificazione e frammentazione in tanti episodi apparentemente extravaganti16. Un procedimento, questo, per mettere pudicamente una distanza tra il lettore e la descrizione di un episodio centrale della propria vita amorosa; procedimento che, a suo modo, continua ad essere veritiero: quella di Imbriani infatti è una finzione non una menzogna, tanto che lo stesso problema della fedeltà ai fatti narrati non risulta necessariamente legato alla questione dell’autenticità espressa attraverso il nome dell’autore del testo. dell’identità); Imbriani, infatti, attribuisce alla donna il nome di Merope perché ella «presentandogli la figlioletta, recitò con un mesto sorriso quel verso d’Alfieri: Di sventurate nozze ultimo pegno» in V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 46. 15 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., pp. 38-39. 16 Si pensi, ad esempio, alla lunga serie di sogni che attraversa il romanzo (Sogno fantastico, Sogno idillico, Sogno drammatico, Sogno postumo, Sogno patologico, Sogno giudiziario, Sogno ecclesiastico) così come ai vari intermezzi, interludi e racconti affidati a personaggi secondari. Del resto, ricordiamo che un vero e proprio brano autobiografico si legge in una delle digressioni del romanzo sottoforma di orazione funebre nel capitolo XVI. [8] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 457 Merope IV può essere definita allora come un romanzo-specchio che però non rimanda mai, né potrebbe, l’immagine univoca di una passione per una donna «bellissima sempre»17 e «desideratissima»18, della lunga attesa sognante del protagonista e di una fine consumata in un «addio senza lacrime»19 anche se, biograficamente, il distacco da Nora fu doloroso (checché ne dica l’Autore) e mai consumato realmente se è vero che Imbriani continuò a recarsi nel corso degli anni presso Villa della Costa, residenza della donna sulla collina di Crenna, fino al matrimonio celebrato con la secondogenita di quest’ultima, Gigia, nel 1878. Venne dunque il momento dell’addio, e quell’addio non fu doloroso: andò scevro ed immune di pianto e di rimpianto. Ci separammo senza rimorsi del passato, senza speranza dell’avvenire. Io fui trascinato dalla locomotiva verso mezzogiorno, ed ella si sdrajò con un romanzetto in mano sul canapè di quel salottino dove io non le sederò più accanto. Ameremo di nuovo? – Perché no? Siamo giovani ancora d’animo e di corpo: perché dunque non dovremmo incontrare un’altra volta io una donna, essa un uomo siffatti da illuderci di veder pienamente incarnati in essi i nostri ideali, quegl’ideali ne’ quali la nostra fede pei ripetuti disinganni non è spenta? Io spero che la cosa accada. Possa l’illusione durar molto tempo! e noi giunger tardi al convincimento che il nostro nuovo amore discrepa dal concetto che di bello abbiamo in mente! e possa ogni nostro nuovo affetto esser degno come quello che ci ha ravvicinati20. Ma poi, speranzoso e disarmato, aggiunge: Ci ritroveremo? Chi sa! Forse quando accadrà di rivederci il tempo ci avrà siffattamente mutati, che ci stuzzicheremo reciprocamente la curiosità e l’immaginazione; ed allora non potrebbe avverarsi che da questa brace male spenta che c’è rimasta in cuore, divampasse un’altra fiamma? e forse maggiore della precedente? Nihil obstat!21 Il romanzo è percorso da una malinconia continuamente mascherata da distaccato cinismo, dall’amarezza per un amore che si connota come mancanza, come modo di vivere la propria solitudine, dal desiderio di continuare a godere di quel sogno, di quell’ «idolo» che la fantasia ha creato e l’animo non vuole abbandonare. 17 V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 258. 18 Ivi, p. 34. 19 Ivi, p. 383. Si tratta del titolo del XXIII capitolo. 20 Ivi, pp. 397-398. 21 Ivi, p. 398. 458 NOEMI CORCIONE [9] […] di quelle tante memorie che fanno una vita, questa [di Merope] è a me carissima, e sacra più d’ogni altra qualunque. E se il pensare involontariamente e spesso ad una lontana, l’esser pronto a ricordarsele graditamente a qualsiasi follia, il sognarne anche dormendo allato ad altra; il rammentare con compiacenza le voluttà seco godute; se questo è amore (e se non è, cosa dunque sarebbe? e cosa diremo amore?) io perduro e persevero ad amarla22. In tale ottica, la dichiarazione finale: Non affrettarti ad invidiarmi, umanissimo lettore, e Lei, cara lettrice, non si affretti a stupire del cattivo gusto della Merope, e della buona ventura di questo sciocco Quattr’Asterischi. Ahimè! di quanto narrato sin qui, sull’onor mio, non è accaduto nulla, nulla, a me Quattr’Asterischi; v’ho ammannito un sacco di bugie23 presentando il ribaltamento di quanto fino a quel momento è stato detto, risulta come una sorta di occultamento ambiguo di sé e di cio che avrebbe potuto «essere e non è stato»24, elemento diacronico fonte di cambiamento dell’immagine e sottrazione dello specchio riflettente come mezzo di conoscenza. Il finale di Merope IV apre dunque uno spazio vuoto che il lettore non può colmare, venendogli meno la trama ed i motivi appena trattati, ed Imbriani, che non 22 Ivi, p. 399. Riflettendo sulla mutevolezza dell’animo umano e sulla inesplicabile necessità avvertita dai due amanti di prendere le distanze da un amore che è pur divenuto «carne e […] sangue» (Ivi, p. 383), Imbriani ribadisce la tenacia del suo affetto per Merope: «Gli affetti sono come l’acqua del mare, come la superficie terrestre; mutano faccia ogni giorno, si alterano, si modificano, si trasformano e transustanziano: di veramente immobile non c’è che la sterilità, il vuoto, il nulla. Anche l’amore è sottoposto a questa legge fatale d’esplicazione e di cambiamento; perché non dovrebb’essere? Perché deplorarlo? Talvolta e’ vien meno, sembra estinguersi del tutto, e non lascia altro vestigio che una dolorosa esperienza […]. Talvolta finita la passione rimangono due indifferenti che si odiano e si fuggono, mutilati in fondo al cuore, con due piaghe sopravvissute all’affetto che le aperse […]. Ma io non parlo di queste e di simiglianti catastrofi; non parlo di amori che muojono; quello che mi allacciava alla Merope era di salda tempra, e non sarà forza di tempo o d’avvenimenti che valga a soffocarlo; né amori nuovi per quanto numerosi e profondi, potranno diminuirlo o cancellarlo!» (Ivi, p. 387). 23 Ivi, p. 421. 24 Ivi, p. 424. «Ma quel che ho narrato e non è accaduto, avrebbe potuto accadere, perché no? Nihil obstat. Avrei potuto conoscere la bella ignota, presenziare alla sua toletta, ottenerne il dolcissimo amore, vederla al mio capezzale, cader ferito per la patria come il maggior Lombardi per insipiente baronal comando… E perché poteva essere e non è stato, m’accoro» (Ivi, pp. 423-424). [10] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 459 fornisce più appigli alla comprensione della vicenda, si ritira in un silenzio malinconico e sornione che lo occulta allo sguardo del lettore. D’altronde, la negazione biografica, in un certo senso, fa sì che la storia non si inveri mai realmente (quasi fosse uno di tanti sogni ricorrenti nel romanzo), sfugga in continuazione e, soprattutto, non esaurisca la sua carica ideale e desiderante, permettendo la mistificazione e la perenne metamorfosi dell’idea stessa di amore. La donna, così, continua ad esistere, segretamente avvolta nell’esclusività dell’animo del suo amante. In un’ottica autobiografica va collocato anche il personaggio di Pietro De Mulieribus, vero e proprio doppio dell’Autore, compagno d’armi di Quattr’Asterischi, ingenuo e mediocre poeta, fiducioso amante dell’arte e di una donna «Signora e Padrona»25. Nei suoi confronti il protagonista «provava una secreta invidia per quell’uomo che amava tanto, quantunque d’infelice amore e la sua donna e la poesia, da non saperle dimenticare neppure fra le armi, da perdurare nelle sue illusioni erotiche ed artistiche. La sua posizione aveva del buffo, come quella di chiunque ama e fa fiasco, tenta e non riesce; ma quel buffo aveva una lieve tintura di sublime!»26. A tale personaggio Imbriani affida ironicamente la paternità dei propri versi (in cui, afferma De Mulieribus con una perfetta mise en abyme, «m’è d’uopo nascondere il mio nome ed il suo [della donna amata] »27) che egli ascolta declamare all’amico prima dell’inaspettato incontro con Merope in abito da contadina. De Mulieribus, che in tale occasione appare del tutto inconsapevole dell’afflizione patita dal protagonista a causa della lontananza dalla donna amata, ricompare alla fine del romanzo quando, consumata ormai la relazione tra i due protagonisti, incontra Quattr’Asterischi in una tappa del viaggio di ritorno a Napoli, mentre contempla su una spiaggia gli esiti di un terribile naufragio. Qui, dopo l’ennesima declamazione di versi amorosi, segue la presa di distanza da essi di Quattr’Asterischi che, lontano ormai dagli entusiasmi sentimentali nutriti nel corso delle vicende narrate, non può più consentite alle illusioni a cui quei versi danno vita. Il soprannome Pietro De Mulieribus era già stato utilizzato dal padre di Imbriani, Paolo Emilio, che aveva dedicato ad un personaggio reale, il pittore olandese Pieter Mulier, «una monodia d’into- 25 Ivi, p. 242. 26 Ivi, pp. 253-254. 27 Ivi, p. 243. 460 NOEMI CORCIONE [11] nazione byroniana, narrandovi romanticamente le vicende della vita di lui»28. Vittorio stesso aveva poi parlato dell’artista nelle Lettere artistiche del 1868 raccolte nelle Passeggiate romane29. «Il nome italianizzato (o latinizzato) dell’amico di Quattr’Asterischi» afferma Rinaldi «allude al motivo centrale di Merope IV: il problematico rapporto con la donna, evocato anche dalla drammatica biografia del pittore. Ma al tempo stesso il nome del personaggio è un omaggio al padre, una sorta di presa in carico della sua eredità intellettuale […]. Che su questo curioso alter ego paterno si stenda poi un giocoso velo d’ironia, conferma la presa di distanza di Imbriani dal suo passato familiare e personale»30. 3. Il passaggio da Merope IV a Dio ne scampi dagli Orsenigo31 si consuma tutto sotto l’egida di un ironico e scettico labor limae, attraverso il quale Imbriani giunge ad una nuova definizione non solo dei rapporti che legano gli amanti ma anche della propria autobiografia, investita ora, in maniera molto più discreta e segreta, da un bisogno costante, esteso, quasi inconsapevole di configurare e consumare continuamente il processo mutevole dell’esistenza, della propria immagine e del proprio rapporto con il lettore-spettatore che assiste alla metamorfosi, nel tempo, del concetto di passione32. Anche in questo romanzo l’attenzione è dedicata all’analisi dissa- 28 Commento di Nunzio Coppola in V. Imbriani, Carteggi I. Lettere familiari e diari inediti, cit., p. 142. 29 V. Imbriani, Passeggiate romane ed altri scritti di arte e di varietà inediti o rari, cit., pp. 151-163. 30 Commento di Rinaldo Rinaldi in V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 148. Ricordiamo, inoltre, che i diversi sogni riportati nel corso del romanzo possono, nel loro insieme, assumere la funzione di ennesimo alter ego dell’Autore. 31 Il romanzo, pubblicato dapprima sul «Giornale napoletano di filosofia e lettere», fu stampato a Napoli nel 1876, presso lo stabilimento tipografico A. Trani, con il titolo Iddio ne scampi dagli Orsenigo, in soli 100 esemplari; nel 1883 l’Autore approntò una nuova versione del testo che pubblicò presso l’«estrosoavventuroso » (A. Palermo, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, cit., p. 95) editore Sommaruga, a Roma, con il titolo definitivo di Dio ne scampi dagli Orsenigo. 32 Nel ribadire il nodo biografico e tematico che lega le due opere, Palermo nota che il decennio che va dagli anni Sessanta ai Settanta vede non solo un intensificarsi dell’attività letteraria di Imbriani ma anche una circolarità sentimentale nella vita dello scrittore che scandisce le tappe compositive dei due romanzi: «Questo decennio, tra l’altro, è segnato all’inizio e alla fine dai due maggiori eventi della vita amorosa dell’Imbriani: nel 1867, legato alle vicende del tenente [12] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 461 crante e beffarda dell’adulterio borghese e ai «meccanismi che entrano in gioco e determinano la sconfitta dell’uomo»33: Almerinda Scielzo, sposata all’anziano e «sonnacchioso»34 «commendatore Don Liborio Ruglia, Consigliere di Cassazione»35 e amante del capitano Maurizio Della Morte (giovane «meno terribile del suo cognome»36), decide, su suggerimento dell’amica Radegonda Salmojraghi Orsenigo, di troncare la relazione con l’ufficiale per dedicarsi alla vita familiare. Ma, in seguito alla lettura del carteggio amoroso intercorso tra i due, in Radegonda nasce il «desiderio di sapere come si ama»37, tanto da sedurre e divenire, caricatura dell’eroina romantica, l’amante di Maurizio il quale sarà costretto a recitare con la donna un ruolo che non gli appartiene, sopportando per il resto dei suoi giorni una relazione non desiderata e frutto di un tremendo equivoco. «Caro lettore, sappia vossignoria Illustrissima, che la mia fantasia è poca, e pigra; sarà, presto, esaurita; e, se non mi ajutano, mi ripeterò maledettissimamente»38 afferma l’Autore nel riprendere non solo un tema già affrontato in Merope IV, come del resto in altre prove narrative, ma anche il doppio sguardo, reale e fantastico, che attraversa il testo: «L’amore, anch’esso, è manifestazione della fantasia; la facoltà di amare è cognata alla virtù poetica»39. Se, allora, Imbriani, vi è l’adulterio con la nobildonna milanese Eleonora Bertini Rosnati; nel 1878, il matrimonio, felice ma subito segnato dalla scomparsa del promogenito, con la giovane figlia di Eleonora, Gigia Rosnati. Negli stessi anni nasce e si realizza più copiosamente la sua vena di narratore. Anzi, si sarebbe portati a non limitarsi a sottolineare una coincidenza, visto che la sua prima prova narrativa, il romanzo Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’asterischi (1867) non solo rispecchia largamente la autobiografica vicenda adulterina, ma funge anche da vero e proprio cartone per uno dei più riusciti testi di Imbriani, l’altro romanzo, Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876 e 1883)» (Idem, Ottocento italiano. L’idea civile della letteratura. Cattaneo, Tenca, De Sanctis, Imbriani, Capuana, cit., pp. 78-79). 33 F. Spera, Il principio dell’antiletteratura. Dossi, Faldella, Imbriani, Napoli, Liguori, 1976, p. 113. 34 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, cit., p. 305. 35 Ivi, p. 296. 36 Ivi, p. 305. 37 Ivi, p. 352. 38 Ivi, p. 415. Anche in questo romanzo, come in Merope IV, Imbriani ricorre allo schermo metaletterario dello «schema fantastico» (Ivi, p. 340). 39 Ivi, p. 293. Già nel 1866 Imbriani si era occupato della «fantasia favoleggiatrice » soffermandosi sul ruolo del critico («un poeta mancato») e sulla sua attività dedita non solo all’interpretazione di un’opera d’arte ma anche alla creazione, con essa, di un ulteriore oggetto letterario, nel corso delle lezioni tenute come libero docente presso la cattedra di Letteratura tedesca nell’Università di 462 NOEMI CORCIONE [13] fine del romanzo è quello di «smascherare la realtà dell’apparenza »40 Imbriani lo persegue celandosi dietro un’analisi impietosa della materia narrativa, presentata con l’abituale, aggressiva ironia; tuttavia, anche qui, l’amarezza prende il sopravvento e, alla fine, nulla si salva, tutto è travolto e stravolto da un’intelligenza lucida e intransigente, da una personalità dolente che vuole liberarsi, distruggendola, di un’esperienza d’amore finito. L’elemento autobiografico in Dio ne scampi dagli Orsenigo è suggerito dai numerosi train-d’union che legano Vittorio e Nora al Della Morte e a Radegonda: Maurizio è, come l’Autore, napoletano e di «famiglia liberale »41, figlio di un emigrato del 1849, volontario e ferito in battaglia, «bel giovane e di cuore»42, sebbene «attaccabrighe e sciabolatore »43, talvolta «cupo, ipocondrico, smorto, convulso, come chi non può risanare da un morbo occulto, che il consumi»44; anch’egli, incline al duello come Imbriani, vorrebbe viaggiare tra «Parigi, Brusselle, Berlino»45. Così, attraverso le parole di Almerinda che cerca di allontanare a sua volta, come gesto di risconoscenza, la Radegonda dal Della Morte, l’Autore ci offre questo ritratto del capitano, nella scia di un amaro atteggiamento autocommiserativo tipico dello scrittore: «[…] questo signor Della Morte, allora, poteva, forse, aver qualche prestigio, allora. Giovane, franco, ardito, onesto, coraggioso, puntiglioso, prometteva. Ora, è maturo e dive- Napoli. Tali lezioni furono poi raccolte nel volume Dell’organismo poetico e della poesia popolare italiana. Sunto delle lezioni dettate ne’ mesi di febbraio e marzo MDCCCLXVI, nella Regia Università Napoletana da Vittorio Imbriani, Napoli, s. t., 1866. Egli scrive: «La fantasia favoleggiatrice e la fantasia critica hanno il medesimo punto objettivo che è il fantasma poetico: quella lo crea, gli dà la vita e il moto; questa lo spiega, lo analizza, e cerca di renderlo evidente e chiaro al giudizio, alla riflessione, e non solo più all’immaginazione; quella da un bell’aspetto lascia presupporre tutta una macchina interna, questa espandendo tutta la macchina interna vi dà conto della bella apparenza che avete ammirata. Se il voler mettere ordine e gradi di nobiltà fra le facoltà umane non fosse quasi una mezza scioccheria e facessimo baronessa la poetica, dovremmo porre almeno fra le duchesse questa minor sorella critica» (Ivi, pp. 8-9). 40 F. Spera, Nota introduttiva in V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, introduzione di F. Spera, Milano, Rizzoli, 1975, p. 7. 41 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, cit., p. 305. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 353. Irene Imbriani Scodnik, in un profilo dedicato al cognato, ricorda come egli fosse «in fondo un grande infelice, malcontento di sé e degli altri» (Eadem, I fratelli Imbriani, Benevento, Cooperativa Tipografi, 1922, p. 11). 45 Ivi, p. 412. [14] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 463 nuto… che? cos’han mantenuto le promesse? Dimmelo tu! Da quel bozzolo misterioso, cos’è sfarfallato?»46. Allo stesso modo, la Orsenigo, come Merope, è milanese, sposata, benestante, madre di una bambina, dalla reputazione limpida, inesperta di amori infedeli e, come l’eroina del romanzo precedente, dedicherà in qualità di infermiera le sue cure all’amato dopo che questi è stato ferito in un duello sorto per salvaguardare la reputazione dell’Orsenigo stessa. Tuttavia il personaggio di Nora appare scisso nelle due protagoniste del romanzo, e se Radegonda incarna la donna che vuole farsi amante, spinta da suggestioni sentimentali non a lei indirizzate, l’«indimenticabilissima»47 Almerinda incarna, invece, l’ideale amoroso del protagonista: come la Bertini è paragonata alla Merope di Maffei, Voltaire e Alfieri, così ella è avvicinata alla Fedra di Racine; per lei il protagonista prova amore («Ho amato? Ed amo pur troppo…»48) e «dolori senza nome»49 che lo portano al pianto e alla non rassegnazione di fronte alla brusca fine della relazione: E, se non altro, sa quanto io l’ami, oh sel sa bene! E Lei, cara signora Radegonda, suppone, ch’io possa, mai, dimenticare il passato e quella donna? È un oltraggio […]. Dimenticarla, io? Oh no! La non Le ha detto, dunque, come le cose sono andate, e quanto tempo io l’ho seguita e corteggiata ed amata, prima di osar, solo, dirle, che l’amavo? […]. E tutto sarebbe finito? cesserebbe tutto? Parli per sé, lei. Per me, non è così, tutt’altro, il sento: quest’incendio non si spegne, come una candela, che basta soffiarvi su…50. 46 Ivi, p. 462. Se Quattr’Asterischi e Maurizio Della Morte sono proiezioni dell’Imbriani, i due personaggi non possono non avere, a loro volta, caratteristiche comuni rintracciabili, ad esempio, nell’evidente affinità psicologica con cui essi vivono il rapporto con il femminile, l’impossibilità di una relazione armoniosa con le donne amate, l’idiosincrasia e lo sfasamento del desiderio e delle aspettative che destinano gli uomini a rimanere sostanzialmente soli. La condizione della solitudine d’amore, del resto, è un tratto che accomuna a Quattr’Asterischi e al Della Morte anche altri protagonisti di novelle imbrianesche, quali, ad esempio, il capitano Leonardo Cuzzocrea (Il vero motivo delle dimissioni volontarie del capitano Cuzzocrea) e lo Spinosista (Fuchsia). 47 Ivi, p. 430. 48 Ivi, p. 345. 49 Ibidem. 50 Ivi, p. 349. In Merope IV Imbriani aveva scritto: «Ah! Quando si è amato una davvero, ma proprio davvero, non si può mai guarir per modo che al vedersela d’improvviso davanti non si provi turbamento alcuno: così una buona ferita, come questa che ho addosso, ancorché perfettamente risanata, dà sempre fastidio quando vuol piovere, duole acutamente se la tocchi troppo e da rozzo» (V. Imbriani, Merope IV. Sogni e fantasie di Quattr’Asterischi, cit., p. 47). 464 NOEMI CORCIONE [15] L’autobiografia, in Dio ne scampi dagli Orsenigo, si maschera, si altera, tende nuovamente a celasi per mezzo di una parola scritta che risistema, riscrive, tradisce, ridisegna, modifica una storia d’amore in nome di una viva mutabilità del pensiero e delle esigenze dell’Autore. «È inevitabile» sostiene Novajra «che nell’uso stesso di strumenti critici come la parodia, l’ironia e il fantastico l’immagine della realtà sia per nulla univoca»51, metamorfizzata da una tensione amorosa irrisolta e irrolvibile in una storia del pensiero d’amore e delle sue conseguenze indesiderate e nefaste, scevra da un’urgenza psicologica ed emotiva che in precedenza aveva spinto la scrittura verso l’espressione di un’amarezza irrecuperabile. La distanza così acquisita si nota anche attraverso l’uso della prima persona in Merope IV e della terza in Dio ne scampi dagli Orsenigo dove, a voler allontanare l’attenzione da lunghe riflessioni sulla passione, l’adulterio e la volubilità dell’animo umano, Imbriani tende, di tanto in tanto, a chiamare in causa il lettore, seppur fittiziamente («Se l’ipotetico mio lettore, volesse e sapesse insegnarmi… »52) con l’intento di smarrire lo stesso «empirico lettore, […] invitato […] ma insieme scoraggiato dal collaborare con l’Autore, e costretto pure a perdere il filo del racconto, per non ritrovarlo se non al prezzo di una volontà integrativa, frustrato nella sua tentazione all’identificazione nella storia»53. È come se l’Autore volesse, di colpo, e in maniera più evidente, meno sottile, distinguere il problema della persona da quello dell’identità, lì dove se «a livello di referenze» ci spiega Lejeune «[…] l’identità è immediata, […] è subito percepita e accettata dal destinatario come un fatto; a livello di enunciato, si tratta di una semplice relazione…enunciata, cioè di un’asserzione come un’altra, cui si può credere o no»54. Si potrebbe aggiungere che in Dio ne scampi dagli Orsenigo vi sia un ulteriore sdoppiamento che pone in crisi la semplice confessione ed è appunto l’ulteriore rottura della conformità tra autore e personaggio che porta Imbriani a giocare continuamente con l’identità, volendo, in ultima analisi, sottrarla e problematizzarla attraverso una costante identificazione-sottrazione di sé nel discorso. Tutto ciò 51 A. Novajra, Il sogno dell’ideale fra amore e politica, in Studi su Vittorio Imbriani, cit., p. 312. 52 V. Imbriani, Dio ne scampi dagli Orsenigo, cit., p. 414. 53 T. Pomilio, Iperletteratura e artificio della passione, in Studi su Vittorio Imbriani, cit., p. 367. 54 P. Lejeune, Il patto autobiografico, cit., p. 19. [16] L’AUTOBIOGRAFIA IN VITTORIO IMBRIANI 465 induce lo scrittore a recitare la parte di se stesso (e dunque ad occultarsi) secondo le regole dell’egotismo letterario già enunciate da Valéry. Scrivere di sé, proiettandosi in una serie di alter ego, in altre vite parallele, letterarie e fantastiche, permette ad Imbriani, da un lato, di attribuire valore al proprio Io e alle proprie esperienze, vedendosi vivere perennemente, dall’altro, perdendo il compiacimento e la teatralizzazione propri inizialmente della sua scrittura, di essere libero nel delineare lo spazio autobiografico nel quale egli vuole che la sua opera venga letta. Tale spazio, nei testi presi in considerazione, si inscrive significativamente nell’ambito del romanzo nel quale il concetto di finzione più agevolmente permette di mascherare i desideri, i sogni e la verità di un’anima. Noemi Corcione (Università Federico II – Napoli) VALERIA GIANNANTONIO Storia e cronistoria dell’esilio: Ultime cose di Umberto Saba The peculiarity of Gadda’s collections of poems Parole and Ultime cose depends on an interaction between several themes: for example, the autobiographical sedimentation of the author’s condition as an eternal exile and the historical background of the infamous fascist racial laws. In his poems the search for a consolatory poetry is intertwined with an itinerarium animae that is not experienced as an evolutionary process of becoming but as a temporality seen as an absolute and based on birth and destruction. L’evoluzione di un poeta è una trama di pensieri e di azioni, che si dipanano in un intreccio di relazioni, in cui i contrasti, assai spesso, più che inerire a opposizioni di vedute, rivelano l’interscambiabilità del reale e delle forme. Romanzo di una vita, il Canzoniere di Umberto Saba esprime una complessa identità di uomo e di poeta, non tanto e non solo nelle procedure diacroniche della storia di una coscienza, quanto anche e soprattutto nell’itinerario sincronico di epifanie metaromanzesche, giocate di rimessa con l’esercizio di una vita. E allora il paradosso critico diventa quello di chiarire il rapporto tra le implicazioni culturali e ideologiche e gli elementi autobiografici di un’esistenza rovesciata, in cui la senescenza appare vissuta come cifra di un disagio giovanile e la giovinezza come la condizione permanente dell’età adulta. Se con Ultime cose, secondo quanto l’autore ebbe a sentenziare in Storia e cronistoria del Canzoniere, «Saba pensava veramente di congedarsi dall’arte e dalla vita»1, in una sorta di consuntivo umano e morale della propria esistenza e del proprio esercizio di scrittura, il fascino della raccolta poggia ancora oggi, dopo decenni di interventi critici, sull’ambiguità di una poesia, che «si intensificava da una parte 1 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondadori, 1948, p. 276. [2] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 467 e rarefaceva dall’altra»2. La sedimentazione autobiografica e psicologica vi appare come il segno del perpetuarsi di una vicenda di dolore, direttamente collegata alla storia esterna del poeta in quegli anni che preludono all’esilio, eppure vi filtra come dimensione antinomica della giovinezza, in un crescendo che non vuole dire divaricazione di esperienze, ma assolutizzazione del vissuto, elevato a mito dell’essere, e non interpretato come materia dell’esistente e dell’esistito. È questo della ricomposizione sul piano esistenziale della dicotomia tra il Saba autobiografico e il Saba orizzontale, partecipe di un sentimento cordiale della vita, il tratto più coinvolgente di una raccolta, che salda l’uomo vecchio a quello nuovo, il passato al presente, e che interpreta il disagio ideologico dell’antisemitismo razziale come condanna a una vita pervasa dal senso della colpa e del peccato, in limine exilii. E allora la classicità della svolta di Parole e di Ultime cose coincide con la tramatura esistenziale di una vicenda perenne dello spirito e della coscienza, ben oltre il disagio contingente di una crisi di certezze, quasi che il dolore, invece che inasprire, avesse agevolato un rinnovellamento della psiche, entro strategie comunicative rarefatte in poesia e introiettate nel cammino di un’anima Il riscatto del vissuto in poesia detta in Saba atteggiamenti ambigui nei confronti di un esercizio, che se da un lato rarefa il contenuto, dall’altro serba le contraddizioni dell’essere, per qualificare un’esperienza, che è interpretazione e testimonianza della vita, ma anche consapevolezza di uno scarto e di una separazione dalle cose. Circa un ventennio fa Giorgio Bàrberi Squarotti ebbe a osservare che in Saba la vita conta ed «è vissuta soltanto in quanto traducibile nella parola poetica, non in quanto visibile e attuabile perfettamente in una comune vicenda d’amore, in un’azione normale, in normali rapporti, anche nei dolori inevitabili, che la vita porta in sé»3, ma forse, per la raccolta di Ultime cose, il nodo da sciogliere è proprio quello di quanto la coscienza del presente e l’esperienza del passato abbiano inciso sulla configurazione umana di un itinerario di poesia, troppo originale per confondersi e identificarsi tout court con il percorso anteriore dell’autore, eppure così imbevuto di pregnanza autobiografica. La questione fondamentale inerisce al rapporto tra storia e poesia, quasi che il segno della modernità, interpretabile come dato di rifondazione di una vita e come fondamento ideologi- 2 Ivi, p. 272. 3 G. Bàrberi Squarotti, Poesia come autobiografia: Saba, in Id., La poesia del Novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1985, pp. 186. 468 VALERIA GIANNANTONIO [3] co di un’inettitudine esistenziale, non comportasse la rinuncia a una visione cordiale del vissuto e del vivente, ma anzi si avvalesse proprio di quel significato autentico, oggettivamente impegnato, dell’incontro con la classicità. Ci sembra anzi di potere convincentemente asserire che, se per Alessandra Galletto all’altezza degli anni ’40 fosse «ben determinata la volontà di Saba di mascherare quelle presenze tardoottocentesche rinvenute e sottolineate dalla critica, a partire da Debenedetti, e di far risaltare invece l’impronta classicopetrarchesca e leopardiana della propria musa giovanile»4, ciò non significò in realtà rinuncia alla storicità dei testi, ché anzi la «diversità maggiore fra Saba e i suoi contemporanei, specialmente fra Saba e alcuni francesi (Valéry)» consistette proprio nell’assenza di un «divorzio fra la poesia e la vita, fra il poeta e la sua Musa dai semplici panni»5. Ripensare il passato, in questa prospettiva, non comporta il celebrare un percorso culturale e autobiografico, ma semplicemente inserirlo in una trama di implicazioni esistenziali, che dipana, malgrado la marginalità geografica delle esperienze, il fondo tradizionalista di una certificazione umana: E quanto poco hanno capito gli italiani di questo “periferico” che fuper sua ventura e sventura- e malgrado le venatura nordiche ed orientali della sua poesia- il più italiano dei poeti italiani della sua generazione6. Lo sfondo politico di una raccolta scritta «in quegli atroci anni che vanno dalla guerra etiopica all’armistizio e all’invasione tedesca »7 filtra, allora, in Ultime cose, come itinerario culturale, più che ideologico, di un disagio umano, che interpretò la triestinità e l’appartenenza semita come anime della senescenza e come crisi di coscienza. 2. Il disagio autobiografico L’itinerario poetico di Saba, che come ha notato Romano Luperini, «si svolge sotto il segno di una continuità che esclude fratture e 4 A. Galletto, Saba-Carimandrei: “Cronistoria” di una classicità consapevole, «Studi novecenteschi», a. XXII (giugno 1995), n. 49, pp. 119. Il riferimento è anche a G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 128. 5 U. Saba, Storia e cronistoria, cit., p. 278. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 272. [4] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 469 sorprese»8 attiene, dunque, a quel complesso di implicazioni umane e mentali, che segnano la condanna dell’autore a un certo tipo di psicologismo, che, secondo quanto ebbe ad argomentare il Debenedetti sul «Convegno», evidenziava strette affinità tra la passività e l’inettitudine sveviane e l’ebraismo delineato dal Weininger9. Ché anzi la «coscienza ebraica» del mondo, nell’ambito della cerchia dei solariani, fu avvertita proprio, secondo quanto ha osservato Giorgio Luti, come «testimonianza dell’inquietudine europea»10. Il percorso della memoria, coerente con quel «lavoro di illimpidimento e di scavo» iniziato dal poeta già all’altezza di Parole11 appare in Ultime cose allora come il frutto di un ricongiungimento alla vita, piuttosto che come una forma di congedo da essa, nonostante che il terrore delle persecuzioni razziali facesse sì che l’opera non apparisse mai in Italia in edizione separata. Nel quadro dell’europeismo delle Giubbe Rosse e dell’elevazione di Gide e Valéry, a numi tutelari dei nuovi procedimenti letterari e poetici, l’assenza del divorzio tra l’arte e la vita, in Saba, si impone come attingimento di verità ontologiche, entro un viaggio nella memoria, che non è rimpianto, e che non si colora delle tinte malinconiche del rammarico, ma indica l’approfondimento di una certo tipo di spiritualità, collegata a una precisa idea di poesia. L’identità biografica di liriche come Amico, I morti amici, Ultimi versi a Lina filtra come restituzione di un sapore presente alle memorie del passato: La memoria amica come l’edera alle tombe, cari frammenti mi riporta in dono (Ultimi versi a Lina) nello stupore di una vita che corre inesorabile, e in cui anche «il mio rimpianto è vano» (In treno). Il disagio dell’uomo Saba è in sintonia con un senso di esclusione e di diversità, che non si circoscrive nel tempo, ma è condizione permanente della vita, coerente 8 R. Luperini, La cultura di Saba, in Il punto su Saba, Trieste, LINT, 1985, pp. 19. 9 G. Debenedetti, Svevo e Schmitz, «Il Convegno», X, 1-2, 1929, pp. 50-53, ora in Opere II: Saggi critici. Seconda serie, a cura di C. Garboli, con la collaborazione di R. Debenedetti, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 81-82. Su questo argomento cfr. anche G. Langella, Da Firenze all’Europa. Studi sul Novecento letterario, Milano, Vita e pensiero, 1989, pp. 156-157. 10 G. Luti, La letteratura del ventennio fascista 1920-1940: cronache letterarie fra le due guerre, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 98. 11 U. Saba, Storia e cronistoria, cit., p. 271. 470 VALERIA GIANNANTONIO [5] con un principio puro dell’arte, che demistifica ogni intrusione soggettiva e che fa coincidere l’età matura con un’epoca di ripensamento della propria diversità. L’esilio, che si profila, più che come una condanna, è una risposta a un latente stato di insoddisfazione e a una diffusa inquietudine, in cui cogliere le avvisaglie del recupero di un’identità comune. La diversità, insomma, è una colpa, laddove la serenità è il frutto dell’adeguamento a sentimenti comuni. Di qui si comprende il senso di frasi come: Nessuna novità presentano Ultime cose: la loro novità è solo nel ‘tono’. Ed anche questa novità, dopo Parole, è relativa12. Il senso e la paura dell’esclusione dalla vita, indotti da pensieri di morte o di delusione amorosa, rinviene in Ultime cose, proprio all’interno di un tale stato d’animo angoscioso e doloroso, il termine di riqualificazione della vita («Ed è il pensiero/della morte che, infine, aiuta a vivere», Sera di febbraio), quasi che, come per la stessa funzione della poesia, il poeta ritrovi nel distacco dal mondo una più complessa identità di uomo. La separazione dalla vita non è solo un’imposizione esterna, ma anche una forma interna di apparentamento col mondo e con le cose, perché le stesse persecuzioni politiche si trasformano in coscienza di un peccato e di una diversità da aborrire e da condannare. In tale cupezza di sentimenti era il segno di una colpa, perpetrata ai danni delle zone buie dell’anima, che univa in una stessa esecrazione tanto il dolore, umanamente connaturato all’uomo, quanto una condizione storica di emarginazione e di sofferenza, nel momento del riscatto stesso dell’uomo dalla desertificazione della coscienza. E certo le immagini del violino, della fontanella, dell’«erta solitaria che nel mare /precipita», del «bianco panorama di Trieste», del tavolo del bar, dei colombi in cerca di refrigerio dall’arsura, della piazza, della finestra, del porto e della foglia morta, se partecipano, da un lato, della polemica tra oggettivisti ed ermetici di quegli anni Trenta13, si impongono, diversamente ad esempio che in Betocchi14, per l’attribuzione ad esse di 12 Ivi, p. 276. 13 Sull’argomento cfr. G. Langella, Maritain, Bo, Betocchi. Il dibattito sulla poesia degli anni Trenta, in Id., Da Firenze all’Europa, cit., pp. 221-297. 14 Sulla mancanza di attribuzione, in Betocchi, di un valore assoluto della poesia, in considerazione, comunque, di una frattura fra la vita e la letteratura e della sua inferiorità rispetto alle altre attività umane cfr. G. Betocchi, Sulla poesia consolatrice, «Il Frontespizio», a. V (1936), n. 5, p. 4 [6] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 471 un valore assoluto e simbolico, all’interno di un’alta considerazione del messaggio poetico. L’atto di umiltà della poesia era il segno di una rifondazione religiosa della stessa, entro una sete di riscatto, che nel mentre si allontana dalle cose, desidera sancire anche l’imprescindibilità dalla loro purezza e da una loro funzione umanamente consolatoria. Un’ansia religiosa, dall’oscurità alla pace, serpeggia nei versi di Ultime cose, nella riconduzione dell’ebraismo alla stessa matrice e fisionomia storiche, come immagine della condizione interiore del poeta e della poesia, imbevuti di sofferenza. La concezione profondamente umana, e aggiungerei religiosa, della poesia, che ha fatto scorgere ad Antonio Pinchera nel saggio Quello che resta da fare ai poeti dell’autore «la matrice ideale del discorso di Saba su Parole e su Ultime cose», tanto che «la poesia di Parole e Ultime cose abbia messo in mano a Saba la carta buona, quella finalmente vincente15 esprime un senso di comunione con la vita, proprio laddove la diversità sembra escludere dal mondo, entro quella onestà dalla quale Saba ricava, come ha sempre notato il Pinchera nella poesia Il poeta, «la sua intima forza di verità, quel sentimento che Il poeta esprime della vita accettata e vissuta con uguale passione nella sempre meravigliante diversità degli eventi»16 Il binomio vita/morte, sostitutivo di quello vita/dolore, segna il percorso di un’anima ormai estranea alle lusinghe della vita, in cui la religione perde la sua connotazione sociale, per acquistare una funzione palingenetica di autenticità spirituale e morale. L’esclusione viene vissuta come sradicamento dal mondo delle origini, ma non dai sentimenti della vita, come fuga da una città e da un ambiente, cioè Trieste, nel quale, come aveva avuto a scrivere il 2 novembre 1932 Saba a Sandro Penna, «non guadagno abbastanza da vivere, e dove sono considerato meno di nulla»17, e in una fuga che avrebbe dovuto significare riappropriazione di una propria identità di uomo, mediata dal supporto della psicanalisi: Ho quindi il progetto di venire a stabilirmi a Roma, dove- fra l’altroc’è la sola persona alla quale possa rivolgermi qualche volta per aiuto e consiglio: il Dott. Weiss18. 15 A. Pinchera, Carducci fra Pascoli e D’Annunzio nei giudizi di Saba, «La rassegna della letteratura italiana», a. 86 (gennaio-agosto 1982), n. 1-2, pp. 232. 16 Ibidem. 17 Umberto Saba. Lettere a Sandro Penna (1929-1940), Roma, Archinto, 1997, p. 6. 18 Ibidem. 472 VALERIA GIANNANTONIO [7] La fiducia nella psicanalisi («l’unica mia medicina per la mia nevrosi, ma anche la sola cosa al mondo che veramente m’interessasse, superavo con essa i conflitti abominevoli dell’epoca presente, e intravedevo qualcosa del mondo nuovo. Oltre alla profondità dell’Es, mi riappariva l’azzurro del cielo»)19 era stata attesa di una guarigione e di una rinascita, che si era accompagnata a un desiderio di distacco da una realtà ambientale (sempre a Penna il 16 dicembre 1932 Saba ebbe ad esclamare: «La mia venuta a Roma è ancora un desiderio»)20 per inseguire sogni di ristabilimento psichico («Perché tu non sai cosa ho perduto col malaugurato trasloco di Weiss da Trieste a Roma»)21, entro, però, una sana consapevolezza di recupero della propria personalità umana, e dunque anche dei fantasmi del passato. La psicanalisi, aveva affermato Saba, in una lettera a Comisso: può, dopo una lunga disciplina, portare alla coscienza dei fatti, o meglio, dei sentimenti rimossi; e dare quindi alla coscienza dell’uomo una maggiore estensione in profondità22. Se una speranza poteva esserci negli anni torbidi e successivi aperti da quell’infausto 14 luglio 1938, quando fu pubblicato il manifesto fascista sulle leggi razziali, essa poggiava in Saba su un proposito di liberazione, coincidente con una condizione psicologica, da «quella particolare malattia nervosa, che ha origini ereditarie, ed è stata acquita [sic] dall’angoscia di cui ha sofferto mia madre (abbandonata dal marito e quasi in miseria) durante la mia gestazione »23. E allora la colpa dell’ebraismo apparve, agli occhi del poeta, come l’idea di una separazione dall’utero materno, nel fondamento ancestrale di un legame da recidere, in vista di un distacco, identificantesi con la dimensione dell’esiliato: Sono un poeta italiano che, per essere nato da madre ebrea, sarò – così all’improvviso – tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho tanto amato24. 19 Lettera del 4/1/1933 indirizzata da Saba da Trieste a Penna (Ivi, pp. 11-13). 20 Lettera del 16 dicembre 1932 a Sandro Penna (Ivi, p. 10). 21 Ivi, p. 11 22 Lettera del 1° settembre 1929[Saba Svevo Comissso (lettere inedite)], a cura di M. Sutor, Presentazione di G. Pullini, Padova, Gruppo di Lettere Moderne, 1968, p. 25 23 Lettera a Comisso del 4 febbraio 1929 (Ivi, pp. 21). 24 Lettera a Penna del 23 luglio 1938, inviata da Trieste (Umberto Saba. Lettere a Sandro Penna, cit., pp. 40-41). [8] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 473 Ed ancora, in altra sede, torna il lamento di una condizione subita dalla nascita, e irrimediabilmente legata a una condanna ab origine: io, perché la mia povera madre era ebrea [dovetti] nascondermi in Italia come un pericoloso nemico della patria, e un terribile delinquente, condannato in contumacia alla più ignominiosa delle morti25. Da cui scaturisce lo scambio arte-vita, nella risoluzione tutta avventurosa e inverosimilmente romanzesca della propria esistenza («È proprio vero che nessun romanzo, nessuna “invenzione” può riuscire più inverosimile, più “romanzesca” della vita»)26. Non solo, cioè, un’arte che rispecchia la vita, ma una vita che si atteggia in forme artistiche. L’amore-odio per Trieste e per la propria identità biografica divenne il segno di una divaricazione e di una frantumazione della personalità, in nome di un dolore, che, come ha opportunamente segnalato il Luperini, si era convertito «in una angoscia», in un «prodotto della malattia e della nevrosi»27. Il binomio erosthanatos veniva inerendo a una lacerazione esistenziale, tanto profonda da recuperare le forme ancestrali e istintive di una specularità interna, agevolate da una escavazione psicologica, che non era meditazione consapevole, ma mediazione del rimosso, e dunque conquista di una condizione pura dell’essere. E perciò abbandonare significava ricongiungersi alle radici di se stesso, immergersi nello slancio vitale di una macerazione interiore, per colpe più interne, che gli avvenimenti esterni avevano consentito di fare venire alla luce. Da tali condizioni ci sembra dovere muovere, per immergersi nella lettura di Ultime cose, segno, sì, di una svolta nella poesia sabiana, ma forse più della decantazione di un lirismo, che nella separazione trovò la forza di testimoniare e di riscattare una piena appartenenza alle radici stesse della poesia e della vita. 3. Passato e presente Nonostante la continuità e la normale evoluzione di una dolorosa condizione psichica, è innegabile che lo stato di angoscia del 25 Prefazioni e Discorsi (Prefazione a «Poesie» di F. Almansi), in Id., Prose, a cura di L. Saba, Prefazione di G. Piovene, Nota critica di A. Marcovecchio, Milano, Mondadori, 1964, pp. 681. 26 Ibidem. 27 R. Luperini, La cultura di Saba, cit., p. 37. 474 VALERIA GIANNANTONIO [9] poeta si venne rafforzando proprio negli anni della composizione delle liriche di Ultime cose. In una lettera a Nora Baldi, inviata da Trieste il 6 ottobre 1955, Saba espressamente notò: quando il Dott. Weiss partì da Trieste per Roma, stavo molto meglio: se non che, subito dopo, sopravvennero i noti fatti che accrebbero la mia angoscia. Quello che guadagnai dalla psicanalisi fu di aver fatto qualche passo avanti nella conoscenza degli altri e di me stesso: fu, subito dopo l’analisi, che scrissi Parole28. La determinazione psichica della condizione di déracinement dell’autore si era venuta approfondendo, in quegli anni, in un senso di oppressione, avvertito, in termini ambientali, come percezione di una realtà angosciante. In una lettera, infatti, inviata da Roma sempre a Nora Baldi, il 22 aprile 1953, Saba parlò di «angosce che sono legate a Trieste», specificando più avanti: «Ho troppo sofferto in quella città da sempre inquieta e sono troppo vecchio perché essa non sia per me piena di spettri»29. L’escavazione psicologica, che non ci sembra tanto connotare un atteggiamento conseguente a una cordiale immersione nella realtà e nel vissuto, quanto piuttosto definire «quell’immanenza della divisione che la cultura della città propone (discontinuità economiche, contrasti di razza, mescolanza di lingue»), su cui ha insistito Giuliana Morandini30, e che poggia su dinamiche dolorose di scissione e di integrazione, determina, insomma, nel Saba un approfondimento di una condizione atavica, legata alla storia stessa del poeta, e dunque non definita e percepita in termini esterni. Ché anzi, come opportunamente notato da Alberto Cavaglion, «il testo di Weininger servì ad alimentare e a consolidare edipicamente l’antica tenzone fra le due razze»31. E ciò avvenne, aggiungiamo noi, non solo in riferimento a un contrasto interiore, ma anche in ragione di una considerazione tutta psicologica degli avvenimenti esterni e della vita dell’uomo. Procedendo a un confronto di queste argomentazioni con la poesia di Ultime cose viene, dunque, da chiedersi quanto la rarefazione del 28 U. Saba, Lettere a un’amica. Settantacinque lettere a Nora Baldi, Torino, Einaudi, 1966, p. 119. 29 Ivi, pp. 37. 30 G. Morandini, Coscienza infelice a Trieste, in Umberto Saba. Trieste e la cultura mittleuropea, a cura di R. Tordi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1986, pp. 80. 31 A. Cavaglion, Saba e Weininger, in Umberto Saba. Trieste e la cultura, cit., p. 80. [10] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 475 dettato lirico nella parola, di suggestione ermetica, coerente con il livello di delucidazione ontologica, definito dallo scandaglio psicologico, fosse ugualmente in linea con quella intensità e chiarezza individuate da Montale nella poesia di Saba in una lettera a Sandro Penna32. Gli è, infatti, che la questione dell’originalità di Parole e di Ultime cose affonda le radici in un’idea consolatrice della poesia, che se rifiuta il carattere lenitivo di un esistenzialismo religioso, concepito in termini tutti ebraici di attesa della salvezza, aderisce all’idea bremondiana della catarsi poetica, come itinerario dall’angoscia alla pace. Posta nella coscienza e nell’escavazione psicologica, l’essenza classicistica, e insieme moderna, della poesia di Ultime cose era affidata a un ideale di purezza, che, più che poggiare sulle potenzialità religiose di significazione, restituisse il senso arcano di una complicità con la vita, in un sentimento accorato, ma pacificato del vivere. Il contrasto tra l’uomo di un tempo («Un tempo/la mia vita era facile») e l’uomo di oggi («Ora dissodo un terreno secco e duro»), che muove il poeta a «Scavar devo/ profondo, come chi cerca un tesoro», espresso nella lirica di apertura Lavoro, e ancora il ricordo della fanciullezza (si veda la chiusa di Quando si apre il velario: «Era questo la vita: un soave amaro») e il triste rimpianto di un mondo passato «che amavo, al quale m’ero/dato» (Dall’erta), si stemperano, più che nell’attesa di qualcosa da venire, nella speranza e nella consolazione del pensiero dell’amore, persino della morte, nel ristoro dell’acqua di una fontana dalle arsure della vita, nella «musica d’ali alla finestra» di colombi, che visitano la casa del poeta come presenze angeliche. L’ebraismo, come senso di un’esclusione, e non come attesa della salvezza, e dunque incontestabilmente associato alla coscienza della colpa, trovava nell’accettazione quotidiana del dolore il decongestionamento di un destino di sofferenza, entro spinte orizzontali, che più che proiettare verticalmente l’autore nella direzione ermetica del futuro, lo ancoravano saldamente alla vita di sempre, quotidianamente consumata in un incontro con la natura. Il riscatto dell’umiltà, nell’accettazione del calvario della vita, prefigurava un’identifica- 32 In una lettera a Penna, inviata da Albisola Capo, il 18 agosto 1938, a proposito di Saba, così Montale commentava: «La sua lirica è uno dei pochi esempi che abbiamo oggi di voce chiara e nello stesso tempo intensa (intensità e chiarezza, come è difficile farle vivere insieme!» (Umberto Saba. Lettere a Sandro Penna, cit., pp. 52-53). 476 VALERIA GIANNANTONIO [11] zione con il Cristo patiens, e non triumphans, entro un cammino, che in certo qual modo il Betocchi degli anni Trenta veniva compiendo all’interno della revisione del fine stesso consolatorio della poesia. Così al belato «fraterno/ al mio dolore» della capra legata dal viso semita della poesia La capra, che è l’immagine eterna del dolore, subentra, nella lirica Da quando, la rassegnazione «al giogo che gli è imposto» del «docile animale» che segue il poeta, e che con la sua remissività insegna, tacendo appunto, «eterne verità». L’ansia del poeta di fuga dalla triste realtà si oggettiva in «un raduno/ di stornelli frenetici a emigrare», in netto contrasto con l’identificazione del primo Betocchi tra la condizione dell’esiliato e l’immagine dell’emigrante, che «si strugge di ritornare/ verso il dolce paese suo»33. Restare poteva anche risultare la dimensione del presente, in Saba, ma per ritrovarsi in ciò che aveva reso felice l’uomo di ieri, e non per accettare la sofferenza dell’oggi. Tra l’esiliato dalla gioie del paradiso, che aspira a ritornare, e la condizione cercata e voluta di esilio corre un senso accorato del vivere, come comune condanna a una colpa, che priva l’uomo di solidi punti di riferimento nella fede e lo costringe a un destino di «pellegrino errante» Eppure l’immagine labirintica della condizione dell’uomo, avvilito in zone d’ombra («allora in labirinti oscuri/errò, di angoscia, il pensiero», Fumo) si stempera nell’impasto metrico dell’evocazione delle figure dell’infanzia di Fumo e di C’era, non in uno smarrimento, ma al contrario in un ritrovamento delle radici stesse del proprio essere. Il presente era quel «color di purgatorio/delle tegole», che dall’osservatorio di San Giusto si associava a un’idea di espiazione nel ricordo della natia Trieste, da scorgere in quella «materna/linea dei colli» della lirica Finestra. Ché anzi la memoria della propria terra evoca, in tale poesia, nella negatività dell’infinito antagonistico, l’angosciosa disperazione della presenza incombente della madre e del proprio ambiente34. L’umanità, del resto, avrebbe sentenziato Saba, «la triste umanità – è nata dal ‘senso di colpa’, e questo ha sempre le sue radici nei rapporti coi genitori»35. Il dolore si 33 C. Betocchi, Tutte le poesie, Introduzione di L. Baldacci, e con note ai testi di L. Stefani, Milano, Mondadori, 1984: Allegrezze. 34 Cfr. S. Carrai, ‘Veduta di collina?’ di Umberto Saba, in Come leggere la poesia italiana del Novecento, a cura di S. Carrai e F. Zambon, Vicenza, Neri Pozza, 1997, pp. 9-21. 35 U. Saba, Lettere a un’amica, cit., pp. 41-43 (La lettera inviata da Roma, non è datata). [12] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 477 condensa nell’immagine del «vuoto del cielo» (Finestra) e nella sensazione di condanna provocata dallo schianto del vetro della finestra (Il vetro rotto), che non riflette più la luce e il calore del sole. L’erta solitaria, altrove, come in Da un colle o La cappella chiusa, simbolo della vita pulsante della sua Trieste, si stempera nell’evanescenza del mondo «che amavo, al quale m’ero / dato» (Dall’erta), perché la mira dell’essere si oggettiva nella memoria, non più nel presente. La distanza che separa il poeta dalle cose, ma non dal fardello della memoria, diventa proporzionale all’angoscia dell’estraneità, che esclude ogni ricongiungimento con le figure del proprio passato, ma non rinnega le linee intimistiche e il tono affettivoconsolatorio del proprio canto eterno. Ed in questo ritrovato e rinnovato lirismo le suggestioni ermetiche attengono a un modo di ricreare la vita, come spinta conoscitiva di un tempo della propria esistenza, troppo lontano per sentirsene ancora affascinati, e troppo presente per non volersi sradicare da esso. In tale triste calvario la poesia condensa il significato assoluto delle forme ontologiche e gnoseologiche dell’essere, sulle soglie, non del mistero, ma dell’auspicio alla pace, da raggiungere in un moto di allontanamento, e non nel recupero di una passata identità. 4. La quête sabina La problematizzazione dell’esistenza, nei risvolti solariani di un antisemitismo alla Wieninger, entro una coscienza ebraica del mondo come segno più vasto e universale di un’inquietudine collettiva ed europea, non si arrestò, dunque, in Saba, a una semplice presa di coscienza del disagio dell’intellettuale di fronte al mistero e alla storia, ma coinvolse l’impegno umano del poeta, attento a cogliere nel classicismo la dimensione simpatetica del dolore, ben oltre il puro formalismo di un distacco dai contenuti. Su questa via di un’esigenza morale e storica, la svolta di Parole e di Ultime cose si trova a coincidere con l’ermetismo storico della terza generazione, nella ricerca di una parola comunicativa, che era ansia di liberazione dalla menzogna, dalla falsità e dall’orrore della memoria. L’escavazione psicologica si risolve nella triade di termini «Vagabondaggio, evasione, poesia», definiti «cari prodigi sul tardi» nella lirica Felicità di Parole, entro la consumazione di un distacco dalla sua città «così aspra e maliosa», dalla «scontrosa grazia» (Distacco in Parole). 478 VALERIA GIANNANTONIO [13] Il processo di astrazione e di rarefazione della materia è filtrato dal bagno nel reale, metafora di uno stato di eterno consistere, malgrado le procedure dell’allontanamento. Non si trattava di fantasmi, ma di presenze vive e concrete, richiamate nell’illusione di una speranza e in un bisogno di non recidere i contatti con il mondo. Perciò il fuggire non comportava lo sradicamento, ma la coscienza solo di un presente problematico. Si trattava dell’attivazione di una conflittualità, che evocava la condizione pascaliana della divaricazione della coscienza, per trarre stimolo al riaffiorare del rimosso alla coscienza. Legate a sé da un destino di dolore, le persone e le cose sono anche gli oggetti percepiti nella diversità, su cui si concentra il senso sabiano accorato dell’esistere, perché la condizione di esiliato non era solo indotta da un dramma storico o religioso, ma dal modulo autobiografico delle confessione, che, come ha colto Bàrberi Squarotti, «è la manifestazione di quella diversità, che è anche ambiguità e contraddizione e divisione interiore»36. L’estraneità diventa allora una condizione dell’essere, un gioco di assenze che attengono alla frantumazione dell’io, in una lontananza che non aveva più la grazia dell’effusione sentimentale leopardiana, ma che si era arricchita di implicazioni psichiche. Il dualismo non nascondeva l’ansia metafisica della coscienza della vanità del tutto, ma la consapevolezza di un itinerario psicologico, che gioca di rimessa con la vita e con le sue contraddizioni. Perciò, lì dove Saba smorza, lì viene accentuando, quasi che la tristezza non fosse più un sentimento di cui anche compiacersi, ma un sentimento da vanificare. A questa divaricazione interiore occorre ricondurre l’espressione sublimante della poesia, che in rapporto alla perdita di sacralità conseguente alla scissione baudelairiana, riacquista in Saba un senso problematico di guida al profondo, atteggiando l’individualismo, non ancora nelle forme autonome, montaliane, dell’esclusione del destinatario, ma in quelle di un sereno equilibrio, malgrado le contraddizioni. È tale quête a sradicare il poeta dalla storia contemporanea, e a far sì che realmente il semitismo, come esperienza universale di dolore, si definisca, ancor più che come causa di un esilio storico, come forma di decantazione di un male di vivere, legato a una condizione eterna dello spirito. Il dramma dell’uomo si risolveva in una vita controcorrente, che obbligava il poeta a una esistenza di lotta, quando forse sarebbe stato solo meglio calarsi in un’altra realtà storica («Tutta la mia vita si svolse controcorrente, e questo può andare per un uomo 36 G. Bàrberi Squarotti, Poesia come autobiografia, cit., p. 194. [14] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 479 di lotta, non per caratteri come il mio. Avrei avuto bisogno di vivere in un altro periodo storico; allora forse avrei dato di più, se non altro avrei sofferto meno»)37. La scissione interiore si configurava, perciò, come il risvolto inquietante di un disadattamento nei confronti del presente e del proprio tempo, nell’inadattabilità a quel fondamento disumano e disumanante di un regime, che aveva minato l’essere e la personalità del poeta e che lo aveva costretto ad alterare la propria stessa natura e a vivere un’altra identità. 5. Dal sogno alla memoria La dicotomia presente-passato, vita-morte, gioia-dolore, nell’attivazione di un procedimento neitzscheano tra l’apollineo e il dionisiaco e di un itinerario freudiano giocato tra il sogno e la realtà, è dunque il segno del recupero di una temporalità, che ungarettianamente riscatta il poeta dall’oblìo e salda il Saba maturo al bambino. La divaricazione dell’essere e della storia è il fil rouge che collega l’identità presente alla stratificazione inconscia del passato, perché la storia, se induce a rinnegare e a escludere, non si circoscrive nell’oggi, ma si contemporaneizza in un procedimento attualizzante del ricordo, che è la misura di un protagonismo dello spirito, e non dei fatti. E in questo processo di ricongiungimento alle radici del proprio essere non va colta la nostalgia ungarettiana per il recupero di una condizione edenica, non contaminata dal senso della colpa e del peccato, ma bisogna individuare un itinerario morale, che suona come liberazione da sedimentazioni inconscie, in vista di un giovamento dello spirito: l’uomo «deve naturalmente superare la crisi e diventare adulto»38. La peregrinazione dell’io nelle profondità dell’essere si riscatta dalla dimensione morale e psicologica, per definire un’immagine avventurosa di un mare onirico, che avvicina la struttura delle Tre poesie alla mia balia del Piccolo Berto a quella di Fumo, nella suddivisione delle poesie in tre momenti bene individuabili: il primo, presente e tangibile; il secondo coincidente con il percorso onirico; il 37 U. Saba, Lettere a un’amica, cit., pp. 21-22. La lettera è del 13 marzo 1950. 38 U. Saba, Note critiche e saggi: poesia, filosofia e psicanalisi (1946), in Id., Prose, cit., pp. 792. A proposito di questa ricerca di innocenza, il Bàrberi Squarotti ha puntualizzato che essa «non è il paese metafisico, ma è il luogo interiore dove Saba ritrova ogni volta diversità e solitudine e di fronte a cui è necessario usare tutti gli strumenti della poesia» (G. Bàrberi Squarotti, Poesia come autobiografia, cit., p. 187). 480 VALERIA GIANNANTONIO [15] terzo, che dall’approdo al mondo sognato si converte in sollecitazione della memoria39. La metafora del legno che galleggia sull’onda, in balìa delle acque, tradizionale topos della lirica italiana, si modernizza in quella più barocca dei «labirinti oscuri», per sostituire alla peregrinazione nel sogno quella nel ricordo di un filo azzurro colorato dai raggi del cielo, che introduce un’immagine anch’essa domestica, cioè della «casetta, sola/ fra i campi, che fumava per la cena». Il percorso che dal sogno conduce alla memoria si può riassumere, in quello ungarettiano dall’oblio alla memoria, e dalla memoria all’innocenza, nella trasformazione del linguaggio in una serie di scissioni interne e nell’incalzare di un clima di angoscia, formalizzato in locuzioni come «insonni notti», «errò di angoscia», «la mano/corre affannosa». Senonché l’intimità dell’immagine finale, che suggella un gioioso quadretto familiare, è il segno tangibile della trasformazione del percorso ungarettiano dalla memoria al sogno, che annulla i limiti spaziali e temporali in quelli dal sogno alla memoria, perché se l’ispirazione poetica centrale tendeva in quegli anni, anche per Saba, da un lato a risolversi in recupero della tradizione, l’esperienza letteraria veniva d’altro canto a essere corroborata e autenticata da profonde implicazioni psicologiche. Si trattava di una memoria che attualizzava il passato contro un presente, al poeta vicino, che Saba ha rimosso e rimuove completamente dalla coscienza, come si evince dalla lettera A Linuccia, scritta da Firenze il 31 dicembre 1944: Io solo ho capito che il nazismo e il fascismo erano un cancro, che non fu operato a tempo e contro il quale non c’era ormai un rimedio…. Io soffro troppo. Io non ho un momento di pace. Non ti dico le immagini che mi si presentano una dopo l’altra, senza lasciarmi un attimo di riposo; parte mi riesce di ricordarle, parte non ho il coraggio di metterle in iscritto40. Il gioco della memoria è il risultato, come Saba precisa più avanti nella stessa lettera, di un «sincronismo raro», tra «la fatalità interna e quella esterna», perché l’orrore del presente esterno «ha coinciso con un carattere meno fatto per sopportarlo»41. La portata e 39 Sulla tripartizione della struttura della prima delle Tre poesie della mia balia cfr. A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba da «Ernesto» al «Canzoniere», Venezia, Marsilio, 2007, p. 241. 40 U. Saba, La spada d’amore. Lettere scelte (1902-1957), a cura di A. Marcovecchio, Presentazione di G. Giudici, Milano, Mondadori, 1983, p. 120. 41 Ivi, pp. 121. [16] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 481 l’incidenza spirituali e psicologiche del clima presente di destabilizzazione politica, insomma, qualificarono e determinarono in Saba, proprio in quegli anni di difficile sopravvivenza, una straordinaria sinergia e insieme un difficile equilibrio di reazioni politiche e interiori, di atteggiamenti consci e inconsci. Le estreme difficoltà del presente erano quelle di una divaricazione tra l’arte e la vita, tra un rifugio nella poesia come reazione al dolore e riqualificazione del vissuto, perché quella stessa «prevalenza dei valori petrarcheschi su quelli danteschi», lamentata da Saba nella lettera a Giuseppe De Robertis, inviata da Milano il 22 settembre 1946, atteneva a un’età di decadenza, e dunque a quella prevaricazione di valori «letterari» sui valori «poetici» e alle forzature di un «sogno voluto (almeno in gran parte) sognare» nei confronti di «un sogno veramente sognato »42. L’incapacità e l’impossibilità di vivere segnano un’esperienza avulsa dalla realtà, quanto bastava per elevare il ricordo a mito di una sovrapposizione letteraria ed esistenziale, pur all’interno di un sentimento sincero di dolore e di disagio. In questo gioco complesso di proiezione nel sogno e nella memoria si spiegano le ragioni di una poesia identificabili, per il Cinquegrani, nella «ricerca di un’assenza»43, e per noi apprezzabili come tentativo di assolutizzazione dei miti dell’infanzia, entro una complicazione affettiva delle cose e delle persone legate a quella particolare età della vita. Ricordare non significava non dimenticare, ma eternare un bisogno di certezze, combinate con dinamiche di allontanamento e di evasione. E tutto si accomuna in un’esperienza di dolore, con la presenza ossessiva delle figure e il ricordo cupo dei luoghi della propria infanzia, il rimpianto di quanto si è perduto lungo la via e la consolazione del pensiero. Nel mentre la memoria proietta nel passato la propria ansia di certezze, la stessa fa prendere altresì coscienza che tutto è cambiato («Anche il luogo natio mutato è tanto!» Luciana) e che «il mio rimpianto è vano» (In treno), perché il passato si identifica anche con il vissuto [«quello che ho perduto so io solo» (Una notte)]. La memoria porta alla superficie della coscienza non solo effettive presenze di una stagione tradizionalmente ritenuta felice della vita («L’adolescenza è l’età della vita in cui credo di essere stato “quasi” felice e va da sé che metto un forte accenno sul 42 Ivi, p. 176. 43 A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba, cit., p. 230. 482 VALERIA GIANNANTONIO [17] “quasi” e sul “credo”)44, ma anche la percezione dell’assenza e delle mancanze, entro un isolamento, che come ha ben visto il Cinquegrani, è «qualcosa di simile alla struttura ebraica, rinchiusa nei termini della famiglia e del gruppo, e ostinatamente isolata da tutto il mondo dei goim»45. In questa coscienza dell’isolamento, più che della solitudine, è il senso preciso dell’esclusione, di un destino di dolore, che accomuna i fantasmi della giovinezza e la proiezione nostalgica dell’esiliato, che rivive la condanna della separazione. Si tratta di una interpretazione morale dell’ebraismo, estensibile e riassumibile in quella coscienza propria dell’Ecclesiaste della vanità del tutto, che per Debenedetti escludeva ogni forma di titanismo46, senonché la mancanza di protagonismo non escludeva una specifica consapevolezza di una precisa identità spirituale e intellettuale. A questi tratti moralmente partecipi dell’esperienza dell’ebraismo occorre ricondurre, a nostro avviso, gli elementi demistificanti della poesia di Ultime cose, che apparentemente sembra congedarsi dalla vita, e nei cui elementi evasivi e sognanti il Caccia ha colto soprattutto uno dei segni di convergenza con l’ermetismo47. La questione, in realtà, è assai più complessa, e coinvolge, oltre a suggestioni di materia, implicazioni esistenziali, nell’accostamento forse non teorizzato, ma praticamente realizzato, a un sentimento diffuso di estraneità dalla vita. Eppure il punto in cui tale convergenza appare messo in discussione è proprio in quell’affettuosa e affettiva ambivalenza della tematizzazione dell’esilio, concepito non solo come distacco dal presente, ma anche come garanzia di un recupero analettico. Non un rifugio nell’aventino della poesia contro lo scacco e l’orrore presenti, né un recupero cordiale della vita, su cui pure ha insistito il Caccia, presiedono all’ispirazione di Ultime cose, ma la percezione di un disagio che non contrappone l’oggi allo ieri, bensì informa tutta la vita del poeta maturata all’insegna di un distacco. E anzi lo scorrere del tempo, se rende possibile la rivitalizzazione del passato, consente altresì di stendere un velo pietoso di morte sulle ombre del passato: «Il Canzoniere è, per chi lo legge, un libro di poesia, ma per me che ho conosciuto le figure alle quali mi sono, 44 U. Saba, Prefazioni e Discorsi (Prefazione per «Poesia dell’adolescenza»), in Id., Prose, cit., pp. 731. 45 A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba, cit., p. 226. 46 G. Debenedetti, La poesia di Saba, in Saggi critici, Firenze, Edizioni di Solaria, 1929, pp. 101-102. 47 E. Caccia, Lettera e storia di Saba, Milano, Bietti, 1967, p. 234. [18] STORIA E CRONISTORIA DELL’ESILIO: ULTIME COSE DI UMBERTO SABA 483 di volta in volta, affezionato, è anche un vasto cimitero»48. Non una trama di reazioni o il confronto con la realtà presente scandiscono la poesia di Ultime cose, ma la consapevolezza, diventata ormai matura, di un completo destino di emarginazione, talora accettato con rassegnazione e talaltra energicamente rifiutato. Il tutto risulta realizzato all’interno di una interpretazione in termini psicologici della storia, e non della lettura della vita dell’uomo in termini di evoluzione storica, perché il disagio coincide con forme ancestrali di colpa e di esistenza. Perciò quanto è passato non è dimenticato, ma rivive nei versi come metafora di una condizione di eterna sofferenza, nella tramatura esistenziale di vicende politiche e di avvenimenti esterni, recepiti dal poeta con quella dose di distacco, che il senso vivo della propria particolarità e della propria identità rendeva evidente nella dialettica di presenza-assenza. E allora il ritrovare la vita si imponeva, non come rifugio dal presente, ma come atteggiamento retrospettivo, volutamente ripiegato su se stesso, sul poeta che levava il suo canto eterno di dolore, e sull’uomo che faceva trionfare la propria dignità di essere all’interno, e pure ben oltre le macerie e le rovine della storia e di un cammino inesauribile di distruzione. In questa esecrazione della stessa sofferenza sono racchiusi il senso e il messaggio di una raccolta, senz’altro innovativa rispetto alle precedenti procedure e ai passati atteggiamenti poetici, ma in fondo non tanto rivoluzionaria nella restituzione di un percorso, che a noi sembra scandito nel segno di una circolarità di immagini e di suggestioni, più che in quello bergsoniano della durata, nell’intreccio di relazioni linguistiche e di implicazioni psicologiche. Da qui scaturisce un’idea di tempo, non come sviluppo lineare, ma come distruzione del senso del divenire49, nella temporalità assoluta di un ciclo eterno di nascita e di distruzione. E da qui deriva il fascino imperituro di una silloge di poesie, legata alla trasparenza e alla limpidezza cristallina dei versi, eppure materiata di vita, perché il rapporto arte-vita in Saba non è connaturato a forme di integrazione sul piano di un attardato lirismo, ma è fondato su un rinnovato senso del tempo, come segno dell’inevitabile decadenza della storia, ma non dell’uomo, implicante un amore sorgivo per la vita, pur all’interno della rarefazione della parola. 48 U. Saba, Prefazioni e Discorsi (Prefazione per «Poesie dell’adolescenza»), cit., p. 231. 49 Su questo tema del divenire nella poesia di Saba ha insistito L. Polato, L’aureo anello. Saggi sull’opera poetica di Umberto Saba, Milano, F. Angeli, 1994. 484 VALERIA GIANNANTONIO [19] Appare dunque evidente che se «ragione e inconscio, maturità e infanzia, classicità e modernità intrecciano la complessa trama di una poesia»50, fondata sull’ossimoricità, la materia di Ultime cose fornisce elementi di suggestione, che investono la sostanza di un ciclico ritorno e di un perenne consistere. Il miracolo di una poesia scarnificata nella nuda essenza dei sentimenti e degli oggetti, ricompone le tappe salienti dell’essere, nell’evanescenza di una memoria deificata nella dimensione orfica del viaggio. Così la parola diventa coerente con lo spirito, e soprattutto l’età matura si vanifica nella fanciullezza, scandendo le tappe di un itinerarium animae, che nella transitorietà della storia scorge gli elementi per fondare un vero e proprio riepilogo della propria esisistenza e per riconoscere le ragioni autobiografiche di un perenne scacco nei confronti della vita. In questa tipologia di chiarezza, che affianca il percorso psicoanalitico verso la profondità51, sta il senso, non tanto e non solo dell’illimpidimento formale, ma anche di un atteggiamento, che si avvia a interpretare il recupero dell’antico come affioramento alla coscienza della storia dell’uomo e a percepire le vicende contemporanee come rimozione del non vissuto e come obnubilamento nella condanna all’assenza e alla non esistenza. E da qui deriva il fascino imperituro di una silloge di poesie, legato alla trasparenza e connaturato a forme di integrazione tra implicazioni e suggestioni diverse di arte e di vita. Valeria Giannantonio (Università di Chieti) 50 T. Ferri, Poetica e stile di Umberto Saba, Urbino, Quattro venti, 1989, pp. 19- 20. Su questo incontro tra antico e moderno, tanto diverso dal concetto di primitivo di Rousseau e da quello di antico di Leopardi, cfr. C. Varese, L’inquieta costanza delle parole, in Umberto Saba, Trieste e la cultura, cit., pp. 175-183: 180-181 51 Su questi concetti freudiani cfr. M. Marazzi, Il Saba di «Scorciatoie e raccontini» tra Nietzsche e Freud, «Autografo», 20, 1990, pp. 27-51: 47-48. GIOVANNA LO PRESTI Montale, Contini e una variante trascurata Gianfranco Contini reviewed Montale’s Le occasioni one year before its publication (1939). In the essay Dagli “Ossi” alle “Occasioni”, which testifies how attentive the young critic was to his friend’s poems, Contini sees in La casa dei doganieri the turning point from the first to the second period of Montale’s style. Nevertheless, his analysis does not take into account a variant reading, the same this essay intends to discuss. Nell’ottobre del 1939, quando, presso l’editore Einaudi, escono Le Occasioni, l’amicizia tra Eugenio Montale e Gianfranco Contini è già consolidata. Il carteggio tra i due porta traccia della grande e partecipe attenzione con cui Contini seguì le vicende che portarono alla pubblicazione della seconda raccolta poetica di Montale. Fu Contini stesso a segnalare Montale, come possibile collaboratore della casa editrice, a Giulio Einaudi. Declinata la proposta di Einaudi, che avrebbe voluto per la nascente collezione dei “Saggi” un libro sulla poesia del Novecento, “un libro partigiano, naturalmente, poiché Lei, poeta e critico, ha delle preferenze sentimentali o morali”1 Montale, nella lettera del 13 gennaio del 1939, presenta una controproposta: Pubblicherebbe entro il ’39 la raccolta delle mie poesie posteriori a Ossi di seppia? Saranno 40, non lunghe. Con titanici sforzi tipografici, spazi sapienti e carta di un certo spessore si può farne un libro di mole normale (non vorrei la solita plaquette) da vendere a 10 lire o più2. Al libro che sta per vedere la luce, Contini contribuisce, in corso d’opera, con numerose e puntuali annotazioni, come testimoniano le lettere a Montale, a partire dal gennaio all’ottobre del 1939. Già prima, nell’ottobre del 1938, sulla rivista “Letteratura” Gianfranco 1 Il carteggio Einaudi-Montale per “Le occasioni”, Torino, Einaudi, 1988, p. 3 (lettera del 24 giugno 1938). 486 GIOVANNA LO PRESTI [2] Contini aveva pubblicato, con il titolo Eugenio Montale uno scritto, successivamente intitolato Dagli “Ossi” alle “Occasioni”. Nelle lettere di Contini, l’ammirazione e l’apprezzamento nei confronti dell’amico poeta è costante; ciò non toglie che qualche osservazione venga fatta e che lo stesso Montale solleciti il parere di Contini su alcune poesie. Il quale risponde nel merito, premettendo sempre l’incontestabile statura europea, il respiro largo ed eccezionale della poesia che si appresta ad analizzare. Che qualche resistenza dovesse esserci, da parte del poeta di fronte al rasoio affilato del critico che notomizzava, ancorché reverente, i suoi versi, lo si può apprendere dal suo epistolario. Il 20 novembre 1938 Montale scrive ad Irma Brandeis: Domani ti faccio arrabbiare mandandoti un ennesimo saggio su di me (di Gianfranco Contini) assai bello per ciò che riguarda le mie ultime poesie ma poco a fuoco e poco giusto per gli Ossi di seppia. Ma a me fa comodo che ci sia chi preferisce le mie ultime cose: mi dà il senso di essere ancora vivo3. Qualche giono prima, l’8 novembre, era stato più spiccio: “Continuano a uscire articoli più o meno inutili sulla mia poco esistente poesia; l’ultimo è nel n° 8 di «Letteratura», a firma di Gianfranco Contini, e mi pare capisca troppo e troppo poco, al solito!”4 Tali dichiarazioni, indirizzate alla giovane intellettuale americana che lo aveva affascinato (e Le occasioni sono dedicate ad I.B. – iniziali di Irma Brandeis) non sono forse da prendere alla lettera: troppo secca quella del 20 novembre, soffusa del cinismo di chi è interessato soprattutto a non passare come auctor unius libri (ed era una preoccupazione reale del poeta, in quel momento), troppo icasticamente riduttiva quella dell’8 novembre. Ma che non si trattasse soltanto di understatement unito ad una certa spacconeria da innamorato lo testimonia una lettera di Contini, che allude a qualche malcontento dell’amico: “Non insisto nell’analisi, perché capisco come tu debba aborrirla per legittima difesa: lo capisco meglio di quelli che vanno ripetendo sic et simpliciter che tu non sei stato contento del mio saggio”5. 2 Ivi, p. 7 (lettera del 13 gennaio 1939 di Eugenio Montale). 3 Lettere a Clizia a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2006, p. 259 (lettera di E. Montale del 20 novembre 1938). 4 Ivi, p. 254 (lettera di E. Montale dell’8 novembre 1938). 5 Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini a cura [3] MONTALE, CONTINI E UNA VARIANTE TRASCURATA 487 In ogni caso la poesia delle Occasioni è anche frutto della partecipe opera del giovane critico. Leggendo il carteggio, si comprende che Le occasioni, nel 1939, sono ancora un cantiere aperto. Così, ad esempio, nella lettera di Contini del 14 febbraio 1939: “Se mi permetti, ti segnalo qualche areola che mi fa risentire. La Galassia, sulla calcina specialmente, la sento come estetistica. Anche la icona, dopo i meloni i funghi i marroni e il salnitro, può stare solo in funzione polemica […]”6. Montale non resta insensibile alle annotazioni continiane; qualcosa modifica (e in Notizie dall’Amiata “calcina” sparisce) qualcosa mantiene – e ciò che viene mantenuto trova infine la sua giustificazione anche allo sguardo sagace del critico. Perciò “l’icona” e la “Galassia” vengono reinterpretati e riabilitati, una volta scomparsa la “calcina”: “L’icona e la Galassia delle Notizie mi paiono quei diamanti falsi da cui solo la tua poesia sa ricavare degli effetti di autenticità”7. Il labor limae viene svolto, in autonomia, anche dal poeta e il critico se ne accorge. A proposito dell’Elegia di Pico Farnese (“un pezzo formidabile”) afferma di non aver taciuto “obiezioni singole”: “Cioè, l’unica l’hai distrutta tu, rinunciando per i casti frutti, alle arance, che erano veramente un po’ troppo con i soriani, il cane lionato e il melangolo”8. Sulla opportunità delle “arance” Contini si era espresso cautamente pochi giorni prima, nella lettera del 6 maggio: “La variante delle arance è definitiva?”9. Intanto procedono, parallelamente, anche i contatti con l’editore – il quale, però, il 14 di aprile del 1939, non ha ancora ricevuto il manoscritto, che cortesemente sollecita. Finalmente, il 31 maggio il manoscritto parte da Firenze alla volta di Torino: “Caro dott. Einaudi, Le mando a parte il mio ms. Gli ultimi ritocchi (ma minimi) li farò sulle bozze in colonna”10. I “ritocchi”, in realtà, non dovranno aspettare le bozze. Il 13 giugno Montale scrive a Giulio Einaudi: “[…] di D. Isella, Milano, Adelphi 1997, p. 43 (lettera di G. Contini del 6 maggio 1939). 6 Ivi, p. 41 (lettera del 14 febbraio di G. Contini). 7 Ivi, p. 45 (lettera di G. Contini del 13 maggio 1939). 8 Ibid. 9 Ivi, p. 44 (lettera di G. Contini del 6 maggio 1939). 10 Il carteggio Einaudi-Montale per “Le Occasioni”. cit. p. 14 (lettera di Eugenio Montale del 31 maggio 1939). 488 GIOVANNA LO PRESTI [4] non si spaventi vedendo i 10 foglietti qui acclusi (avevo già avvisato l’amico Leone che minacciavo, in una sola volta, alcune aggiunte; ma da oggi il ms. è definitivo)”11. Ed ancora, nella lettera del 19 settembre: “Le mie correzioni saranno pochissime […]”12. Infine il libro vede la luce: contiene cinquanta poesie, scritte tra il 1928 e il 1939 ed una parte di esse (ventisette) ha già avuto la prima recensione ante litteram, come dice Contini, il quale, nel saggio comparso su «Letteratura» nell’ottobre del 1938 avverte il lettore: “Nelle nostre citazioni abbiamo potuto dare la lezione definitiva, destinata alla futura edizione, per cortesia dell’autore”13. Nel saggio Dagli “Ossi” alle “Occasioni” la tesi centrale è la seguente: la poesia degli Ossi è una poesia che afferma un “nonsentimento” che presenta “una situazione dell’ordine gnoseologico, negativa; che rende improbabile la nascita delle liriche effettive, cioè di sentimenti concreti discorsi nella loro articolazione dialettica”14. Secondo Contini la vera poesia di Montale comincia un po’ dopo gli Ossi, come “autoidentificazione perfetta dei suoi motivi: ogni sua lirica consisterà, da allora, nella definizione di un fantasma che abbia la possibilità di liberare il mondo nascosto”15. Il punto di transizione dal primo al secondo Montale viene identificato da Contini nella Casa dei doganieri, opera a cui attribuisce “un’aria di inaugurazione”. L’analisi della Casa dei doganieri dà modo a Contini di esercitare la sua perizia di lettore sensibilissimo al fatto metrico e di tradurre questa sua sensibilità in formule suggestive. È il ritmo stesso della lirica, un ritmo elementare per cui il documento-prosa sfugge a se stesso e, trasformandosi in movimento e dubbio, diviene poesia, che denuncia il “tentativo fallito di metter mano sull’ignoto, di scandaglio andato a male”16. È questo, secondo Contini, uno dei mezzi con cui il poeta si difende contro “l’amorfo ignoto”. Dopo un inizio che si impianta su “una nozione convenzionale di memoria” arriva quella che Contini definisce “interiezione fondamentale”: 11 Ivi, p. 16 (lettera di Eugenio Montale del 13 giugno 1939). 12 Ivi, p. 30. (lettera di Eugenio Montale). 13 G. Contini Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi 1974, p. VIII 14 Ivi, p. 19. 15 Ivi, p. 20. 16 Ivi, p. 40. [5] MONTALE, CONTINI E UNA VARIANTE TRASCURATA 489 […] l’emozione, diciamo l’interiezione fondamentale a cui si può ridurre la lirica, è lo stupore e l’incertezza che colgono il poeta di fonte all’orizzonte, possibile, ma solo possibile indizio del “passato”(«Oh il segno dell’occaso dove s’accende / rara la luce della petroliera! / Il varco è qui?»)”17. Il verso citato, cui Contini attribuisce un valore fondante, in realtà compare, nell’edizione del ’39, in altra lezione: “Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende/ rara la luce della petroliera! Il varco è qui?” La lezione proposta da Contini si trova nelle precedenti pubblicazioni: la poesia era infatti già apparsa sulla rivista «Italia Letteraria» nel 1930 e, in seguito, dopo aver vinto nel 1931 il premio “Antico Fattore” era stata raccolta, con altre quattro liriche, in una plaquette edita da Vallecchi. Che Contini abbia tenuto conto della variante precedente e non di quella dell’edizione del 1939 è un dato di fatto; così come è un dato di fatto che non sia più tornato sul suo antico saggio. Ma è anche un dato di fatto che la variante pubblicata nel 1939 segnali il procedere della padronanza stilistica montaliana, che si muove verso quello che Dante Isella ha definito con sintesi efficace un “drastico prosciugamento del descrittivismo e filosofismo degli Ossi“. Peraltro una delle tesi centrali dell’analisi di Contini nel saggio del ’38 è che il Montale maturo ottenga una “aspra ma decisiva vittoria della forma sulla psicologia”. Nella “vittoria della forma” è compresa, come “figura significativa, quasi significativa all’inverso” (laddove, secondo Contini, il non-sentimento degli Ossi vive invece ancora fuori dalla dialettica) la presenza di “persone e parole molto quotidiane”. Quali sono le differenze tra le due varianti? Scompare la virgola dopo “Oh” e l’esclamazione si fa, per così dire, più sobria; al “segno dell’occaso “, espressione sin troppo vicina al tema centrale dell’opera, sin troppo memore del titolo goethiano della raccolta, espressione in cui si assiste ad una sorta di troppo-pieno di significato, con quell’“occaso” marcato da forte letterarietà (sebbene “occaso” sia parola desueta pure nel linguaggio poetico; e l’“occaso” più recente rispetto a Montale, nella memoria collettiva, resta quello di “Davanti a San Guido”) si sostituisce un più prosastico “orizzonte”, per giunta “in fuga” (all’immagine statica il poeta preferisce adesso l’immagine dinamica). Di certo “l’orizzonte in fuga” è più consonante con la luce della petroliera che si accende in modo intermittente 17 Ivi, p. 39. 490 GIOVANNA LO PRESTI [6] (una luce “rara”, che ricorda il leopardiano “rara traluce la notturna lampa”); l’insieme rientra così, coerentemente, tra quelle immagini che rendono il mistero fantasmaticamente presente, per un istante, in modo “preciso e ordinario”. Perché Contini abbia trascurato una variante18 che gli avrebbe permesso di validare ulteriormente la sua tesi, non sappiamo. La rete del critico era a maglie abbastanza strette per non farsi sfuggire l’essenziale – se qualche piccola, per quanto originale, conchiglia sfugge e si deposita sul fondo, poco cambia. L’ultima citazione della Casa dei doganieri compare, nel carteggio Montale-Contini, molti anni dopo la prima edizione delle Occasioni. È il 15 gennaio 1973 – Montale scrive all’amico: Quanto alle versioni spagnole, esiste una Antologia (50 poesie tolte dai 4 libri) a cura di Horacio Armani. Ci sono anche annotazioni. Il varco è qui? della Casa dei doganieri è una domanda che il Poeta rivolge ai doganieri stessi per sapere se il passaggio è libero19. Lo stolido commento dello studioso spagnolo ci ricorda come la poesia sia sempre insidiata non dalla prosa ma dal prosaico. E la memoria corre, per libera analogia a Gozzano, alla signorina Felicita, alla vecchia stampa che rappresenta Torquato Tasso con la corona d’alloro del “poeta laureato”, che viene interpretata dall’ingenua signorina come “un ramo di ciliegie”. Con buona pace del poeta, che ha capito abbastanza, con buona pace del critico, il cui destino è di capire sempre troppo, o troppo poco. Giovanna Lo Presti 18 La variante è, naturalmente, adeguatamente e debitamente segnalata. Ci limitiamo qui ad indicare che compare, sempre senza commento, sia in Eugenio Montale, L’opera in versi, ed. critica a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980 sia in Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984 sia in Eugenio Montale, Le occasioni, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi 1996. 19 Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini cit. p. 250 (lettera di Eugenio Montale del 15 gennaio 1973). PASQUALE TUSCANO Fortunato Seminara inedito e postumo The unpublished and posthumous writings by Fortunato Seminara, edited by Tommaso Scappatici, confirm the judgments about his published works. Seminara was a polemic and subtle writer, whose main aim was to open new paths (though he was in arrear of the ongoing tendencies) in the Calabrian literary world of the early twentieth century. From an aesthetic standpoint, the results he obtained were significant. Seminara experienced many genres, from the historical to the industrial novel. His works are set in Calabria in the years ranging from the thirties to the sixties, a period which deserves to be read and reconsidered anew. I. La notorietà di Fortunato Seminara (Maropati, 1903 – Grosseto, 1984) cantore del mondo contadino, bracciantile e, più latamente, del mondo paesano della sua Calabria, coi suoi miti e i suoi riti, con le poche illusorie aspirazioni e le troppe ataviche amarezze e frustrazioni, specificatamente della Piana di Gioia Tauro a lui familiare, è affidata, com’è noto, a quattro romanzi di meritato successo, editi nel decennio 1940-1950: Le baracche (1942, ma già pronto per la stampa nel 1934, edito da Longanesi, che dirigeva, per conto dell’editore Rizzoli, la collana ‘Il sofà delle muse); Il vento nell’oliveto (Einaudi, 1951); La masseria (Garzanti, 1952); Disgrazia in casa Amato (Einaudi, 1954). Per quasi unanime riconoscimento della critica, Seminara diede in questi romanzi il meglio della sua originale visione del mondo e della storia, e delle qualità della sua lingua e del suo stile. Tuttavia, scrittore torrentizio e insoddisfatto qual era, in permanente, ossessiva e polemica ricerca di editori, scrisse almeno altri sei volumi, tra racconti e romanzi editi: Donne di Napoli (Garzanti, 1953); La fidanzata impiccata (Venezia, Sodalizio del Libro, 1956); Il mio paese del Sud (Sciascia Editore, 1957); Quasi una favola (RC, Parallelo 38, 1976); I sogni della provinciale (Oppido Mamertina, Barbaro Editore, 1980. Non solo. Insoddisfatto del successo raggiunto, volle tentare strade nuove, come, per usare etichette a lui non del tutto pertinenti, 492 PASQUALE TUSCANO [2] il ‘romanzo industriale’ e quello ‘storico’. E scrisse, e riscrisse, i romanzi L’Arca, Il viaggio, La dittatura, Terra amara, rimasti inediti, malgrado le insistenti pressioni presso i suoi editori. Cocciutamente fermo nelle sue persuasioni, rifiutava sdegnosamente ogni suggerimento, anche quando gli venivano da amici pazienti e cordiali, come fu, tra gli altri, Italo Calvino, che tanto si adoperò per lui con l’editore Einaudi. In una lettera, datata: ‘Roma, 28 maggio 1962’, gli scrisse: Tu sei un narratore lirico, non un narratore epico. Quando vorrai metterti in testa che i tuoi ‘romanzi epici’ sono la parte più caduca del tuo lavoro, ed è invece in quelle che tu consideri ‘opere minori’ il pieno della tua forza?1 Ovviamente, del consiglio di Calvino non tenne alcun conto. Tirò diritto per la sua strada di scrittore malcontento ma pertinace, lasciando un corpus notevole di manoscritti e di dattiloscritti che, dopo la sua morte, prese in consegna, e custodisce gelosamente, la Fondazione Culturale che a lui s’intitola, e che ha sede nella sua Maropati. * * * Ritengo che abbia fatto bene la Fondazione a realizzarne la pubblicazione, secondo il progetto dell’Opera omnia, progettata da Antonio Piromalli, cugino dello scrittore per parte di madre, suo fraterno sodale, nato nello stesso paese e quasi coetanei. Videro, così, la luce, presso l’editore Pellegrini di Cosenza, i romanzi, rimasti inediti per le più varie ragioni: L’Arca (1997); La dittatura (2002); Il viaggio (2003); Terra amara (2005), tutti con Introduzione e Nota al testo dello stesso Piromalli. Si tratta, come vedremo, di opere che, a mio parere, rimangono essenziali per ricostruire scrupolosamente la figura e l’opera di Seminara uomo e scrittore, e lo sfondo socio-culturale della sua Calabria degli anni Trenta-Sessanta, quella che si portava nel cuore, ma che, pur nella presenza di non pochi momenti poeticamente felici, da antologia, nulla aggiungono, e nulla tolgono, ai ragguardevoli esiti estetici raggiunti nei romanzi ricordati, specificatamente con la trilogia einaudiana del 1963 (Il vento nell’oliveto; Disgrazia in casa Amato; Il diario di Laura), che lo rivelarono, pur tra le polemiche a volte aspre, uno dei narratori più geniali del nostro Novecento. Nel caso di Seminara, ‘inediti’ non significa ‘non finiti’, quindi 1 F. Seminara, Carteggio einaudiano (1950-1980), a cura di M. Lanzillotta, Cosenza, Università della Calabria, 2002, p. 163. [3] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 493 non pronti ancora per la stampa, come, per ricordare esempi ben noti – che fecero discutere, ma che si rivelarono di straordinario valore, non tanto sul piano biografico ed estetico degli autori, quanto perché capaci d’illuminare momenti cruciali, ideologici e civili, di stagioni decisive del nostro Novecento – Ernesto (Einaudi, 1975) di Umberto Saba2 e, più, Petrolio (Einaudi, 1992) di Pier Paolo Pasolini. Si tratta, per Seminara, di romanzi che lettori esigenti e non prevenuti come la Ginzburg, Vittorini, Calvino, Zavattini, Vigorelli, Bocelli, Pampaloni, Davico Bonino, Mazzali, Ferrante, ed altri, avevano ritenuto, come consulenti editoriali, che meritassero una rielaborazione ben più impegnativa. E non certamente soltanto sul piano formale. Tommaso Scappaticci, che ha una lunga e feconda consuetudine di studio con l’opera narrativa di Seminara, in un recente volume monografico, dedicato proprio a Seminara inedito e postumo3, ricorda, opportunamente, che gli inediti non hanno finora comportato una sostanziale revisione del profilo di Seminara quale era stato delineato dalla critica sulla base dei romanzi già noti, e non si è andati al di là di parziali ritocchi e di modeste integrazioni a un quadro interpretativo ormai consolidato4. Ciò, perché, in definitiva, si fanno portatori di “motivi già ampiamente sfruttati […], con soluzioni stilistiche poco presenti nella narrativa di Seminara […]; un complesso di opere, dunque, quelle ‘postume’, che arricchiscono e complicano l’immagine dello scrittore”5. Certo, l’ultimo Seminara resta ancora da studiare, non solo per la necessità di colmare una lacuna relativa a quasi un ventennio di attività, ma anche per individuare gli elementi innovativi all’interno di un percorso narrativo sostanzialmente lineare e coerente6. “Lineare e coerente” sì, ma sempre in attesa di quel soffio vivificante della Poesia che gli dica: ‘Alzati e cammina!’. A Seminara, 2 Cfr. M. Lavagetto, Conferme da ‘Ernesto’, in La gallina di Saba, Torino, Einaudi, nuova edizione ampliata, 1989, pp. 201-210. 3 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2009, pp. 230. 4 Ivi, p. 29. 5 Ivi, p. 33. 6 Ivi, p. 30. 494 PASQUALE TUSCANO [4] prima della Ginzburg, di Vittorini, di Calvino, e degli altri autori ricordati, aveva dato preziosi suggerimenti Corrado Alvaro, dopo aver letto il manoscritto di Baracche, che aveva ricevuto per un parere. Alvaro gli rispose con una lettera lunga e cordiale, che si conserva nelle Cartelle Seminara dell’Archivio Einaudi, avendo mandato copia dattiloscritta a Italo Calvino, da Maropati, nel giugno del 1961, ritenendola “notevole anche per certi atteggiamenti spirituali di Alvaro al tempo in cui scriveva”. La lettera di Alvaro è datata: ‘Roma, 17 maggio 1936 = Via Sistina 55’. Dopo avergli riconosciuto “qualità rare di scrittore, forza di rappresentazione, occhio sicuro ai particolari, capacità di comporre un insieme vitale”, evidenziava, con la saggezza e la sensibilità che gli era propria, gli aspetti, a parer suo negativi, che avrebbero connotato l’intera sua produzione narrativa, aspetti che, al contrario, Seminara riteneva parte essenziale e ineludibile della sua originalità di scrittore che aveva preso le distanze da tutti gli altri contemporanei, a partire dai suoi conterranei, dallo stesso Alvaro a Perri, da La Cava al giovanissimo Strati. Devo anche dirLe che al suo lavoro nuoce moltissimo una certa crudeltà di atteggiamenti che si confonde con la crudeltà della vita dei personaggi […]. Ella lo sa come me che la nostra vita nei luoghi a noi cari è cruda, difficile, ossessionata da tutti i demoni del Mezzogiorno; ma si trova un idealismo, una religiosità, un antichissimo senso della vita che ne riscatta gli incubi, vi redime la miseria morale e materiale, e forma a modo suo una mistica della vita […]. La Sua fiamma brucia e non riscalda; l’autore si confonde spesso coi personaggi […]. Il Suo lavoro mi pare tanto promettente, e per me è così bello veder rinascere tra noi i segni dell’arte, che credo di dover contribuire a chiarire, a uno che per molti segni è artista, quali siano i pericoli d’una materia scottante come quella da cui siamo nati e che intendiamo raccomandare a chi legge […]. Dovrei dirLe anche dello stile che, senza tradire la Sua natura e il Suo ritmo, dovrebbe qua e là curare meglio7. Suggerimenti, come si vede, puntuali e generosi che, ovviamente, Seminara non tenne in alcun conto, deciso com’era a percorrere la strada che riteneva sua propria. Scappaticci, con ampio apporto testuale, precisa il senso, e l’importanza, dell’impegno sociale e della tensione etico-civile, portati 7 Il testo integrale della lettera è riportato, in nota, dalla Lanzillotta nel citato Carteggio einaudiano (1950-1980), p. 130. [5] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 495 da Seminara nell’ambito della narrativa italiana degli anni Trenta- Cinquanta. Impegno che era in cima ai pensieri dello scrittore di Maropati, e che ribadì, ad esempio, senza riserve, in una nota intervista del 1963, rilasciata a «La Fiera Letteraria»: Sono nato in una regione e in una condizione sociale, la cui realtà dura e drammatica colpì per tempo fortemente la mia fantasia, preservandomi dalle evasioni romantiche e dai vagheggiamenti decadentistici8. E, con una punta di narcisismo, accampa una presunta originalità che, a parer suo, Alvaro non ebbe: Nati tutti e due nella stessa regione ma uno emigrato e quasi sradicato; l’altro, io, con le radici profondamente abbarbicate alla mia terra ed uno dei pochi scrittori che abbia resistito nell’inferno calabrese. Uno, Alvaro, dal quale la realtà è vista con la mediazione del mito e della favola; l’altro, io, che l’ho vista e rappresentata, per usare un’espressione tecnica, in presa diretta e senza veli9. Seminara non sapeva persuadersi che la dimensione ‘storicosociologica’, che poneva a fondamento della sua opera di scrittore, non poteva giocare, nella sua pagina, un ruolo positivo. Tutt’altro. Tra le componenti della sua narrativa prevale pesantemente, senza maliziosi infingimenti, “una visione cruda e disincantata della vita e la tensione ad aderire alla psicologia popolare” e “un realismo mirato alla documentazione dei problemi della sua terra”10. Così, gli umili e gli emarginati che popolano il suo racconto, il mondo contadino e bracciantile calabrese piegato dalla fatica e dal bisogno, non solo sono lontani dalla ‘carità cristiana’ del Manzoni, o dalla solitudine dominata dalla fatalità, dell’umanità verghiana, ma non sanno la segreta saggezza e l’esaltante dignità, il contegno esteriore e l’autentica semplicità dei personaggi alvariani. Il montaliano ‘male di vivere’, la tragica realtà dell’esistenza, il senso di pena e di angoscia di cui è intessuta la vita, eguaglia tutti i suoi personaggi, senza 8 Cinque domande a Fortunato Seminara, «La Fiera Letteraria», 17 novembre 1963. Il corsivo è mio. 9 F. Seminara, Narrativa meridionale appendice a Le baracche. Con introduzione di W. Mauro, Marina di Belvedere, Grisolia Editore, 1988, pp. 197-213. La cit. è a p. 203. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Seminara, il 14 maggio 1981, presso l’Istituto italiano di cultura di Strasburgo, e apparsa in «Sviluppo», n. 30, gennaio-marzo 1982. 10 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., pp. 10 e 28. 496 PASQUALE TUSCANO [6] distinzione di classe, proprietari e contadini, poveri e benestanti, giovani e vecchi, donne e uomini. Unico romanzo, come vedremo, che chiude la vicenda con un fine lieto sarà Terra amara, il lavoro suo forse meno riuscito. In sostanza, i suoi personaggi, tutti, umili e potenti, sono creature ‘naturalmente libere’, che vivono e operano in una società classista, con tutte le conseguenze che tale condizione comporta. Seminara riteneva così, e lo dichiarava apertamente, d’inserirsi, con indiscussa originalità e autorevolezza, tra la più esemplare narrativa russa dell’Ottocento, quella dei naturalisti francesi e della narrativa americana primonovecentesca. In questo senso, nella lingua e nello stile, come osserva Scappaticci, “si orienta verso una sintassi elementare e una espressività adeguata al parlato, adottando forme di strumentale trasandatezza, idonea a raggiungere lo scopo di farsi leggere da un pubblico nazionale”11 e, come aggiunge Piromalli, “di descrivere vicende comuni e sentimenti primitivi con una lingua semplice che non togliesse loro verosimiglianza e freschezza”12. II. Persuaso che […] gli inediti non hanno finora comportato una sostanziale revisione del profilo di Seminara quale era stato delineato dalla critica sulla base dei romazi già noti, e non si è andati al di là di parziali ritocchi e di modeste integrazioni a un quadro interpretativo ormai consolidato13, Scappaticci esamina diacronicamente i romanzi postumi pubblicati, per merito della Fondazione, a cura di Antonio Piromalli. Il primo romanzo che prende in esame è Il viaggio14, esordio narrativo di Seminara. Scritto nel 1933, rimase inedito per settant’anni non essendo stato preso in alcuna considerazione né dalla critica, né dagli editori ai quali si era rivolto per la stampa. È il ‘resoconto’ amaro del viaggio di un Conte utopista, “incapace di valutare le situazioni e di rinunciare al sogno di una società ispirata a un superiore ideale di giu- 11 Ivi, p. 14. 12 A. Piromalli, Ritratto d’artista: conversazione critica con Fortunato Seminara, «Letteratura e Società», n. 5, maggio-agosto 2000, p. 44. L’intervista risale al 1965. 13 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo cit., p. 29. 14 F. Seminara, Il viaggio. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2003. [7] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 497 stizia e di pubblica felicità”15, che si reca a Genova nella speranza di attuare un imbarco destinato a porre fine a una inguaribile e soffocante disoccupazione. Già vivaio significativo dei motivi che avrebbero connotato l’intera sua produzione narrativa, lo sfondo politico di fa eccessivamente scoperto e pesante, e l’‘impegno’ dell’intellettuale piuttosto nevrotico e frustrante. Scrive Scappaticci: La nevrosi del personaggio, che vuole essere utile a tutti ma non ha la possibilità di farlo, riflette la nevrosi dello stesso Seminara, l’inquietudine repressa di chi si sente chiamato a un’arte impegnata, ma avverte la difficoltà ad assolvere il suo compito in un’epoca di oppressione16. Il romanzo rivela una debolezza irrimediabile del tessuto narrativo. È monocorde. Sostanziale protagonista è la disperazione, il pessimismo senza scampo effuso in monologhi lunghi e nevrotici. Calvino lo stroncò senza mezzi termini. È una delle tante amarezze che Seminara ricevette da uno dei suoi lettori editoriali. Gli scriveva, da Torino, il 20 gennaio 1955: Caro Seminara, ho letto Il viaggio. Sarò sincero con te come sono sempre stato […]. Quest’insistere per tante pagine a riportare un vaniloquio angosciante quasi sprofondandoci dentro, guardandolo senza distacco, identificando il bisogno di sfogo del pazzo tuo bisogno di sfogo e muovendolo con un tentativo di caricatura che non fa che renderlo più doloroso, mi pare che riesca a creare sì un clima d’ossessione, ma non è un’ossessione poetica, e un’ossessione di una triste testimonianza umana, quella che appunto si prova a sentir parlare un pazzo o un ubriaco. È a questo che volevi arrivare?17 Osserva, opportunamente, Scappaticci: La chiave retrospettiva non dà al narratore la serenità e il distacco onnisciente di chi domina gli eventi e sa come andranno a finire: i fatti sono narrati con la partecipazione e le reazioni emotive di chi li sta vivendo in quel momento, assumendo il punto di vista inquieto e generoso del sognatore che insegue un miraggio di giustizia e di felicità collettiva […]. In questa prospettiva […] ne deriva una accentuazione patetica di vicende e di sentimenti, che sembra tendere a esiti di un populismo melodrammatico e declamatorio18. 15 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., p. 45. 16 Ivi, p. 46. 17 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., pp. 83-84. 18 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., pp. 49 e 50. 498 PASQUALE TUSCANO [8] III. Alla delusione per il parere negativo su Il viaggio, segue quello, non meno cocente, per Terra amara19, che leggiamo sempre nell’edizione curata da Antonio Piromalli. Seminara, in trattativa con l’editore Einaudi per la pubblicazione di una trilogia che, con Il vento nell’oliveto e La masseria, comprendesse anche Terra amara, rimase fortemente risentito con Italo Calvino, allora responsabile editoriale della collana ‘I Coralli’, per aver escluso la possibilità d’inserire Terra amara, al quale romanzo si riteneva di preferire Le baracche20. In data 24 novembre 1961, Calvino gli scrisse, da Torino, con amichevole, ma ferma, schiettezza: Il pane [uno dei primi titoli dati da Seminara a Terra amara] non va, non può andare, è una cosa che tu hai voluto scrivere, che hai montato di forza, ma che hai scritto veramente […]. Anche il linguaggio […] diventa anonimo, pieno di locuzioni convenzionali, che si possono sostituire a piacere[…]. Ti parlo proprio come chi per tutta la sua vita ha avuto come suo massimo ideale proprio un’epica realistica, popolare e sociale come la vivi tu; è dall’interno di questa comune tendenza che ti rivolgo la mia critica, e ti dico: a tutti è capitato e continua a capitare di scrivere qualcosa che poi non persuade né noi stessi né nessuno, e continuiamo a ostinarci, a lavorarci sopra, e l’opera che noi vorremmo continua a non uscire…21 E in una precedente lettera del 10 giugno, tra le critiche mosse al romanzo, gli aveva rimproverato “le discussioni politiche che male si fondono col linguaggio generale; i troppi ‘slogans’ di comizio che appesantiscono la pagina”22. Seminara, lo sappiamo, non era il tipo capace, se non di accogliere, almeno di discutere certi suggerimenti. Incrollabile nelle sue persuasioni, non acconsentiva che venissero messe in discussione. Temperamento spigoloso, convinto, con una punta di orgoglio, di essere l’antesignano del nostro neorealismo a dispetto di quanti lo giudicavano diversamente – “Non è più un segreto – affermò nella ricordata conferenza di Strasburgo – che il mio primo romanzo, Le Barac- 19 F. Seminara, Terra amara. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2005. 20 Sappiamo che la trilogia uscì nel 1963, nella collana ‘Supercoralli’, e che Seminara preferì, come terzo romanzo, Diario di Laura. 21 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., pp. 148-149. 22 Ivi, p. 133. [9] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 499 che, segnò una svolta nella narrativa italiana”23 – pagò duramente tale sua ostinazione. Il solo che poteva permettersi di dargli qualche consiglio sul piano umano, letterario e politico, era Antonio Piromalli, il cugino e l’amico col quale aveva trascorso l’infanzia e condiviso esperienze culturali e politiche. Comunque, Piromalli sapeva bene che anche i suoi consigli sarebbero rimasti inascoltati. Il romanzo sarebbe stato rifiutato, nel 1963, da Arnaldo Bocelli, consulente editoriale della milanese Nuova Accademia e, nel 1968, da Geno Pampaloni, per conto dell’editrice Vallecchi. Riusciva facile dimostrare che la personalità di Fausto, il protagonista “alla ricerca della propria identità”24, non reggeva a sostenere la trama di un racconto complesso, irto di eventi contraddittori e convulsi. Rimane personaggio indecifrabile, confuso, irresoluto. Sono, ancora, numerosi, ed evidenti, i rimandi a Le baracche e a La masseria, nell’illusione di segnare il filo rosso della coerenza nella continuità del racconto del mondo della povera gente umiliata e offesa. Al contrario, rimangono riferimenti esterni e programmati. Anche perché ora è dominante, in termini esasperati, la volontà di dimostrare un presunto anarchismo congenito alla struttura mentale e sentimentale del contadino, del pastore, del bracciante, del mondo subalterno calabrese, in genere sognatore, facile alle vendette, indisponibile ad ogni forma di solidarietà e di aggregazione, ‘eroe’ di episodi di violenza inutili e nefasti individualmente e socialmente. A ciò si aggiunge la delusione amara per i compromessi tra classe egemone e proprietari terrieri per la restaurazione della condizione sociale e civile di una visione del mondo che, con la fine della guerra e con la caduta della dittatura, si riteneva tramontata per sempre. Era risorta la commedia della finzione della giustizia. Scrive Piromalli nell’Introduzione: Nella piccola sperimentazione paesana di rinnovamento si avvertiva che il feudalesimo dei padroni delle terre non era finito con la devoluzione dei feudi e che i signorotti avevano l’appoggio delle autorità perché nessun evento traumatico – né la guerra catastrofica né il crollo di un regime ventennale – avevano mutato gli assetti e le gerarchie del potere25. Il momento più negativo di questo romanzo rimane l’aspetto ‘cronachistico’ del racconto, privo di ogni cenno di drammaticità e 23 F. Seminara, Le baracche, ed. cit., p. 212. 24 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., p. 61. 25 A. Piromalli, Introduzione a Terra amara, ed. cit., pp. 17-18. 500 PASQUALE TUSCANO [10] di poesia. È quanto riconosce, con ammirevole, ma ingenua schiettezza, lo stesso scrittore. Scrive a Calvino, da Maropati, il 13 ottobre 1961: Il mio romanzo è meno romanzesco di quanto si crede. Sono accaduti in un paese qua vicino la maggior parte dei fatti raccontati, in parecchi dei quali mi sono trovato mescolato io stesso, a volte protagonista (sindaco, arrestato e liberato dal popolo insorto ecc.)26. Fanno da lievito acre le reazioni umorali dei personaggi, prive d’ogni valenza razionale, partecipate in una lingua rude e approssimativa, specificatamente quando le discussioni degenerano in liti. Gli esempi sono numerosi. Basti richiamare qualcuno. Nicola apostrofa Antonio: “Sì, mettiti in potere della giustizia e dormi tranquillo: la giustizia ti serve bene, pelo e contropelo […]. Aveva paura dei padroni […] Maledetti zucconi! Nemmeno ora entrava a loro nelle corna che il dominio dei padroni era finito”27. Certo, in un magma così convulso, Seminara sa registrare anche pagine felici. Penso alla descrizione della stazione ferroviaria di Reggio Calabria in un tragico mattino del 1944 (Cap. VIII); al tumulto della folla per il pane, di felice memoria manzoniana (Cap. XVI); all’incendio del Municipio (Cap. XIX); all’impazzimento degli spari da parte dei carabinieri in mezzo a un gregge di pecore e a “una torma di buoi”, ritenendo, per la paura, che si nascondessero dei rivoltosi (Cap. XX); il paese in rivolta che chiede al maresciallo dei carabinieri la liberazione del Commissario. Richiami chiaramente autobiografici che evocano un’esperienza vissuta dallo scrittore, ma che sa rendere con un coinvolgente afflato drammatico che il lettore non dimentica. Va ricordato, ancora, il ruolo positivo, psicologicamente coerente, che acquistano nel racconto – ma, in genere, nella narrativa di Seminara – le figure femminili. Sono personaggi capaci di sentimenti forti e profondi. Sono i momenti in cui, osserva bene Piromalli, “Seminara è vero poeta dei sentimenti autentici, che sa cogliere soprattutto nel momento aurorale o nel tremore psicologico che li rende indicibili”28: Cata s’era risentita per l’affronto fatto a suo figlio da Antonio e 26 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., p. 146. 27 Terra amara, ed. cit., p. 39. 28 A. Piromalli, Introduzione a Terra amara, ed. cit., p. 19. [11] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 501 l’aveva investito con parole roventi. I suoi occhi sfavillavano di fierezza (…). Gli occhi di Alba erano colore dell’ambra, grandi e teneri; il naso diritto formava un angolo all’attaccatura con la fronte ampia e spianata; aveva la bocca carnosa e il collo robusto e bianco (…). La moglie di Nicola “stava seduta di fronte con le mani in grembo, serena e sorridente, i gesti pacati, che parevano misurati non dalle parole, ma da un ritmo interno di profonda saggezza29. Come evidenzia Scappaticci, pur nella studiata diversità dei caratteri, sono figure improntate a una femminilità energica e risentita, convinte della legittimità delle proprie idee e pronte a sostenerle con strumenti adeguati alla situazione e all’indole di ciascuna: dal pacato discorrere della moglie di Nicola all’ossessivo e angosciante lamento della madre di Antonio, all’irruenza passionale di Gianna alla riservatezza di Alba e ai toni materni di Cata30. Tuttavia, non sono sufficienti questi elementi positivi per non considerare Terra amara un romanzo mancato. Se è vero, infatti, che “il naturalismo adoperato dallo scrittore consente di adeguarsi stilisticamente alla realtà del mondo contadino”31, il racconto rimane pur sempre ‘documento’ di un’esperienza vissuta che non va al di là di una testimonianza sofferta di una realtà circoscritta, di quella che era per i naturalisti una tranche de vie, e che Seminara coglie come un’esperienza arcaica del mondo contadino di quella particolare Calabria che è la piana di Gioia Tauro, tra Maropati e Galatro. Come nel Vento nell’oliveto e nella Masseria, anche in Terra amara voleva essere il cantore dell’occupazione delle terre, della rivolta del mondo contadino meridionale che finalmente aspirava al proprio riscatto. Ma nel romanzo rimane pura velleitaria aspirazione, se è vero che le grandi lotte contadine calabresi che, in quegli anni, costarono sangue, lutti e carcere (i fatti di Melissa, di Torremaggiore, del Marchesato silano), non fanno nemmeno da sfondo al racconto. Nel capitolo XIX racconta che da come era cominciata e dagli entusiasmi suscitati era da aspettarsi che la rivolta si estendesse e continuasse fino a raggiungere gli scopi più immediati: si trovò invece, all’improvviso, di fronte a ostacoli 29 Terra amara, ed. cit., pp. 63 e 45. 30 T. Scappaticci, Seminara inedito e postimo, cit., pp. 79-80. 31 A. Piromalli, Introduzione a Terra amara, ed. cit., p. 11. 502 PASQUALE TUSCANO [12] insormontabili e si arrestò […]. La rivolta era degenerata in brigantaggio32. Socialista moderato, Seminara non accettava le soluzioni ‘rivoluzionarie’. Aveva in antipatia gli esponenti progressisti cittadini, espressione, a suo parere, di un socialismo aristocratico e salottiero. Militanti dello stesso partito socialista, c’incontravamo, qualche volta, nelle sede reggina. Non si tratteneva dall’esprimere apertamente le sue opinioni, anche sugli eventi trascorsi dei quali era stato protagonista, persuaso che il partito non aveva ritenuto di difendere le sue posizioni come avrebbe dovuto. Chi è informato su come si siano svolti realmente i fatti raccontati in Terra amara, si rende conto di quanto siano effettivamente pura cronaca, e sa, altresì, riconoscere nel personaggio dell’avvocato Manca la figura dell’avvocato reggino Guglielmo Calarco, amico personale di Nenni, noto per l’aristocrazia del suo portamento e per la forbita eloquenza. Il ‘profilo’ è subito tracciato: Antonio […] si abbandonò a critiche e recriminazioni contro i compagni borghesi di Reggio, che in passato erano rimasti nascosti come topi nei loro studi di professionisti, ringagliarditi ora che fare i rivoluzionari costava poco, anzi procurava vantaggi, vantaggi di affari e di carriera […]. L’avvocato Manca […], mentre sfogliava un fascicolo di causa, rammaricandosi che le beghe politiche lo distogliessero dal suo lavoro professionale, ruminava avanzi di contrasti e di puntigli […]. Nella saletta Nicola e Fausto aspettavano in piedi […]. Li guardò un momento senza rispondere al loro saluto, e riconosciuto Nicola, l’assalì con rimproveri per il disturbo che gli dava ad un’ora così insolita […]. – Avete perduto la testa? Che credete di fare, di decidere voi i destini del mondo? […] Si era raggiunto l’accordo per dargli le consegne al Municipio. Per il giorno stabilito fu assicurata la presenza dell’avvocato Manca, che avrebbe pronunziato un discorso per accrescere la solennità dell’avvenimento […]. Con la persona eretta e la testa alta s’incamminò verso la Casa del Popolo, dove era radunata molta folla che l’accolse con un lungo applauso[…]. Era nervoso e stringeva i pugni […]. Dopo un breve preambolo concentrò il fuoco della sua eloquenza contro certi metodi di lotta, pronunziando una condanna definitiva e senza attenuazioni per uomini e fatti conosciuti da tutti. E fece una pausa. Poi continuò con foga […]33. 32 F. Seminara, Terra amara, ed. cit., pp. 147-148. 33 Ivi, pp. 70, 73, 74-75, 148, 150-151. Il corsivo è mio. [13] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 503 IV. Pronta per la stampa nel 1974, ma rigettata e avviata dal 1963, L’Arca, malgrado registri i difetti evidenziati in Terra amara, non ultimi quelli riguardanti la lingua, lo stile e le incontrollate oscillazioni lessicali, non è romanzo esteticamente del tutto fallimentare34. Osserva Scappaticci: L’Arca è costruita come una sorta di studiata esemplificazione delle teorie espresse nella produzione saggistica35, quasi una trasposizione in chiave narrativa delle riflessioni di Seminara sulle prospettive e sulle difficoltà di una industrializzazione del Sud36. Si racconta di una vicenda che nasce nel 1950 e si conclude nel 1971. È, forse, il suo romanzo più tormentato nella stesura: il primo dattiloscritto presentava una mole di 766 fogli dattiloscritti. Gli editori ne giustificavano il rifiuto della stampa anche per la lunghezza. Pensò, allora, di ridurlo a 407 pagine. L’ultima elaborazione ne contava complessive 290. Doveva essere, probabilmente, la stesura definitiva. È quella che Piromalli pubblicò nel 199737. Con L’Arca Seminara cambiava decisamente registro narrativo e stilistico rispetto alla precedente produzione narrativa. Tentava la strada del ‘romanzo industriale’ quando tale genere aveva ormai fatto il suo tempo. Trascorreva, quasi enfaticamente, se si pensa allo spessore della prima stesura, dal mondo contadino e piccolo-borghese meridionale, alle vicende grottesche di uno pseudo imprenditore calabrese inebriato dalla grande illusione di far nascere un’industria nel Sud. È la storia di un’azienda olearia di fatto mai nata, pensata da un parvenu cresciuto nel “lezzo della stalla e dei muli”, degno figlio di “un ometto tripputo, taciturno e lercio di morchia”, il quale “scaracchiava e schizzava il moccio da una narice, otturando l’altra con un dito, e scorreggiava anche in presenza di estranei senza scomporsi”38. 34 Un’analisi puntuale, con particolare attenzione al registro linguistico, si deve a Mario Strati, L’Arca di Fortunato Seminara: note di lettura, in Società meridionale ed esiti tecnico-stilistici nell’opera di Fortunato Seminara. Atti del convegno (Polistena, 18-19 ottobre 1997), Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 1999, pp. 190-195. 35 Soprattutto i saggi I nostri problemi e Vecchie e nuove inadempienze, in L’altro pianeta, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 1967. 36 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., p. 95. 37 F. Seminara, L’Arca. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 1997. 38 Ivi, pp. 6-7. 504 PASQUALE TUSCANO [14] La ‘novità’ e ‘attualità’ del romanzo fu bene evidenziata da Italo Calvino in un commosso ricordo in occasione della morte dello scrittore: La vitalità del protagonista, un mulattiere che riesce dal nulla a metter su una raffineria d’olio per finire inghiottito dagli intrallazzi politici e burocratici del capoluogo, e l’attualità del tema: un ‘Mastro Don Gesualdo’ dell’epoca del ‘boom’ economico e delle speranze deluse dell’industrializzazione in Calabria, fanno l’interesse del libro39. Comunque, Seminara non poteva avere alcuna simpatia per una possibile nascita dell’industria in Calabria, anche se la riconosceva necessaria al suo progresso sociale. Scrive Scappaticci: Seminara “vede nelle moderne trasformazioni anche il rischio della crisi e della scomparsa di quel mondo rurale e provinciale da cui i suoi scritti avevano tratto ispirazione e vitalità40. L’ambizioso progetto della raffineria nasce destinato al fallimento perché frutto della vanità e dell’improvvisazione di una borghesia provinciale che, arricchitasi con attività legate all’agricoltura, spera di fare il salto dal piccolo affarismo di campagna al prestigio delle complesse manovre del grande capitalismo urbano41. Protagonista, come sappiamo, è un imprenditore egocentrico e delirante, arrampicatore sociale da piccolo affarista di provincia. Tutto deve ruotare intorno a lui, anche le notazioni paesaggistiche. A lui lo scrittore assegna una centralità inedita rispetto agli altri romanzi, nei quali la coralità del mondo rurale ha un posto determinante. Ma chi è, in fondo, Domenico Antonio Petullà, protagonista del romanzo? “Un isolato che diventa disperato”; “un grottesco itinerante”; “un incapace gonfio di presunzione”; “un povero uomo sommario e furbastro”42; “uno zotico campagnolo, più che mai imbertonito […]. Uno zotico goffo e ignorante, un oliandolo inzafardato di morchia, che si era arricchito senza sforzo e senza merito”43. 39 I. Calvino, È morto Fortunato Seminara, in Saggi (1945-1985), a cura di M. Barenghi, I, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1250-1252. La cit. è a p. 1252. Già in ‘la Repubblica’, 3 maggio 1984. 40 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., pp. 91-92. 41 Ivi, p. 99. 42 A. Piromalli, Introduzione a L’Arca, ed. cit., pp. XIV, XV, XVI, XIX. 43 F. Seminara, L’Arca, ed. cit., p. 78. [15] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 505 Ponendosi decisamente fuori della sua vocazione di narratore di ambientazione contadina, anche l’ispirazione annaspa, perde il ritmo grave e pausato, la felicità espressiva che lo aveva accompagnato nel racconto del ‘particulare’ del mondo campagnolo e provinciale, specialmente della ormai classica trilogia. Lo stesso faticoso affanno connoterà La dittatura, ultimo suo romanzo, nato a margine della sua vocazione, anch’esso privo di efficacia narrativa, senza una sua fisionomia ben definita, pur volendosi offrire come ‘romanzo storico’. Nell’ampio tessuto narrativo dell’Arca, pur quando emerge uno sfumato ‘umor nero’ che fa ricordare certo Tarchetti, non trovano spazio adeguato i fatti ‘storici’ e sociali che avrebbero dovuto caratterizzare un tempo, com’era avvenuto, e avveniva mirabilmente, nei romanzi di Bernari, di Pratolini, di Ottieri, di Bianciardi, di Bilenchi, di Volponi, di Mastronardi, ecc. Al contrario, a Seminara interessava il luogo, rivissuto e, quindi, ricostruito nella sua immaginazione, radicato com’era nel mondo contadino, in un’aria, si potrebbe dire, neoromantica intrisa di un labile sentire dostojeskiano come mondo autentico della ‘povera gente’, degli ‘umiliati e offesi’, perché “i cittadini, pensava [Petullà], sono scaltri e sanno dissimulare i loro sentimenti”44. IV. Terminato nel 1977 – la prima idea risaliva al 1953 –, il romanzo ‘storico’ La dittatura vuol essere, come lo definì lo stesso scrittore in una lettera del 2 dicembre 1975, a Italo Calvino, “una satira-parodia del ventennio fascista”45. Mi si permetta, a tale proposito, un ricordo personale. Come ho ricordato, ho conosciuto Fortunato Seminara nella prima giovinezza, negli anni Cinquanta, in sporadici incontri presso la federazione reggina del PSI, nel quale partito militavamo entrambi. Ci siamo rivisti, e ricordato la trascorsa fraterna amicizia, in occasione del convegno nazionale su Corrado Alvaro, l’Aspromonte e l’Europa, svoltosi a Reggio Calabria dal 4 al 12 novembre 197846. Durante i lavori del convegno gli sono stato sempre vicino, ascoltando con molto interesse il racconto che mi faceva della sua vita di politico e di scrittore, con le conseguenti soddisfazioni e delusioni, richiamando- 44 Ivi, p. 40. 45 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., p. 217 (nota). 46 Cfr. Corrado Alvaro, l’Aspromonte e l’Europa, R. C., Casa del Libro Editrice, 1981, pp. 386. 506 PASQUALE TUSCANO [16] mi giudizi che conoscevo su politici locali a noi noti e sullo stato della cultura, anche nazionale. Conoscevo il suo carattere duro e inquieto. Lo ascoltavo in silenzio, guardandomi bene, naturalmente, dal contraddirlo. Certi scatti di risentimenti non rimossi verso la classe egemone politica – compresa, ovviamente, quella reggina alla quale apparteneva – e culturale, rischiavano di renderlo scostante. Mi parlò a lungo di Terra amara, dell’Arca e, con maggiore, puntigliosa insistenza, de La dittatura, lavori, come sappiamo, che aveva ancora in corso d’opera, e che avrebbero dovuto costituire la sua nuova trilogia. Quando parlava de La dittatura come di “un’opera monumentale sulla sciagura fascista che nessuno prima di lui aveva saputo scrivere per il congenito vizio di connivenza da parte di tutti gli scrittori nostrani”, gli brillavano gli occhi azzurri e profondi, protetti dalla visiera dell’immancabile berretto che rendeva ancora più tozza la sua statura. Eppure era già in atto, proprio con quei romanzi in costante faticosa rielaborazione, sopra tutti con La dittatura, l’ennesima prova del duro scontro con l’editoria e, più in generale, con i più prestigiosi esponenti della nostra attività editoriale e letteraria di quegli anni, resi difficili dalla contestazione del sistema e dal terrorismo. Una lettura serena del romanzo, edito da Piromalli nel 200247, evidenzia come il rancore e il disgusto dello scrittore per quel regime liberticida e poliziesco rimangono fini a se stessi, non si traducono in metafore di universale condanna per lo scempio che si compiva della libertà civile e culturale, e della stessa dignità umana. Seminara non aveva la tempra di Alfieri, né sapeva la sardonica ironia che rendono memorabili, e ammonitori, i profili del duce e del fascismo del Vecchio con gli stivali (1945) e de I fascisti invecchiano (1946) di Brancati, e quelli, ancora più pungenti, di Gadda di Eros e Priapo, da furore a cenere (1967). Sono incisi, in queste opere, in immagini indimenticabili, protagonisti di ogni tirannide, dalla delazione all’educazione alla spia, alla giustificazione di ogni provvedimento liberticida come emanazione della ‘volontà popolare’. Protagonista del romanzo è Nunzio Bandera, un contadino emigrato in Argentina, dove perse una gamba, e perciò venne nominato lo Storpio. Ma ‘Bandera’, nel linguaggio popolare, vuol dire ‘banderuola’; in termini dialettali: ‘vota bandera’48. La sua ‘storia’ è quella 47 F. Seminara, La dittatura. Introduzione e Nota al testo di A. Piromalli, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2002. 48 Si pensi a quanto contino i nomi di protagonisti dei romanzi del Seminara più impietoso: ad esempio: l’avvocato Manca di Terra amara o Petullà de l’Arca [17] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 507 di una metamorfosi radicale e non poco improbabile, che porta un oscuro mezzadro-emigrante a una posizione di tale prestigio da influenzare le decisioni dei potenti e la vita stessa della nazione […], di un personaggio al livello di macchietta, di uomo che non propone ideali e programmi, ma vive di finzioni e formalismi, in una esteriorità estesa dalla sua persona a un sistema di potere tanto militarista e aggressivo quanto fragile e parolaio49. A La dittatura non si può assegnare certamente l’etichetta di ‘romanzo storico’, come riteneva Seminara. È soltanto una cronaca bozzettistica deformata dall’esagerazione di voler fare di un contadino proveniente da un villaggio calabrese un pericolo nazionale, capace, con le sue idee anarchicheggianti, di abbattere la dittatura, e da un mediocre eleggere un dittatore incapace di esercitare il potere assoluto fondato sull’ingiustizia e sull’oppressione, e che, scoppiata la rivolta, viene ucciso, mentre lo Storpio si rifugia in Corsica. Come scrisse Carlo Carlino, quest’ultima, impegnativa fatica di Seminara “è in parte rovinata proprio dall’eccessiva dilatazione del grottesco, che a volte appare esagerata e non sembra colpire il bersaglio, dall’iperbole figurata, surreale, dalla insistita contrapposizione, soprattutto nella prima parte, tra città e campagna”50. V. Inedito è il romanzo-diario La ribellione degli angeli (Diario d’una stagione), che si conserva presso la Fondazione ‘Seminara’, a Maropati, e del quale Scappaticci dà ora la prima lettura critica. Bilicato tra diario e racconto, lo scrittore descrive un periodo di vacanza che l’io narrante-protagonista trascorse, tra i mesi di agosto e ottobre del 1934, tra Maropati e una casa su un’altura, che fa pensare a quella della sua campagna a Pescano. È impossibile stabilire una data certa della composizione dell’opera, mancando una qualche indicazione orientativa, né quale struttura narrativa dovesse assumere. Ed è difficile comprendere le ragioni della stesura di un’opera fondamentalmente diaristica che si richiama agli anni Trenta del Novecento, quando, cioè, scrisse le prime significative opere, da che, come ritiene Piromalli, può significare ‘farfallone’, ‘uomo facile e leggero’, o, come ritiene di ricollegarlo la Lanzillotta, al “termine ‘peto’” (M. Lanzillotta, I romanzi calabresi di Fortunati Seminara, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2004, p. 437, nota 19. 49 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., p. 123. 50 C. Carlino, ‘La dittatura’ di Fortunato Seminara. Satira grottesca del Ventennio, in ‘Gazzetta del Sud’, 5 novembre 2002, p. 3. 508 PASQUALE TUSCANO [18] Le baracche ai primi racconti di Il mio paese del Sud. Come avverte Scappaticci, è ipotizzabile che Seminara abbia pensato inizialmente di scrivere racconti autonomi e solo in un secondo momento, constatata la congruenza tematica e tonale dei singoli brani, abbia deciso di unirli e farne i capitoli di un’opera più vasta51. Comunque, si trattava di un lavoro destinato a subire la sorte dei ricordati romanzi postumi. Le ragioni del fallimento sono le stesse e vengono inequivocabilmente richiamate da Scappaticci che indica quello decisivo nella convinzione della perdurante validità di un modello narrativo che si era prefissato di far conoscere e di risolvere in forma artistica i problemi e le condizioni di vita della sua regione52. Malgrado i frustranti rifiuti dei consulenti editoriali, accompagnati quasi sempre da benevoli suggerimenti, Seminara non intendeva prendere atto che quei modelli narrativi appartenessero ormai a un altro tempo, ad una superata cognizione, non solo del mestiere dello scrittore, ma dalle esigenze di un nuovo pubblico di lettori, anche di quelli della sua Calabria. Negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, rimasticare lavori impostati negli anni Trenta, era non solo inutile fatica, ma dichiarava una patetica nostalgia per eventi e moduli comunicativi irrimediabilmente tramontati. Aveva ragione Calvino nel suggerirgli, in termini amichevolmente inequivocabili, in una lettera datata: ‘Torino, 15 ottobre 1952’: “Non t’affezionare mai alle cose vecchie. Punta sempre tutto su quello che hai ancora da scrivere. Il segreto è tutto lì”53. Seminara volle rimanere un ‘emarginato volontario’ dal mondo delle lettere, come lo era da anni da quello dell’impegno politico, nel quale non si ritrovava più. Sentiva in sé incrollabile la tensione a calarsi nei sentimenti e nei pensieri dei contadini, del suo mondo, ed elevarli a dignità artistica. Di tale fede rimangono lucida testimonianza l’intervista concessa a Dante Maffia il 27 maggio 198054 e il 51 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., p. 146. 52 Ivi, p. 148. 53 Carteggio einaudiano (1950-1980), ed. cit., p. 52. 54 D. Maffia, Intervista a Fortunato Seminara, in Ritratti di calabresi (Altomonte, De Angelis, Gironda, La Cava, Seminara, Strati), a cura di Pasquale Falco, Cosenza, ‘Periferia’, 1986, pp. 7-23. [19] FORTUNATO SEMINARA INEDITO E POSTUMO 509 testo della ricordata conferenza, tenuta a Strasburgo, nell’Istituto Italiano di Cultura, il 14 maggio 198155. Anche La ribellione degli angeli, come i romanzi postumi, rimane documento imprescindibile per un riesame complessivo della sua opera di scrittore e di polemista, e per la puntuale ricostruzione della sua odissea politica. Forse, in quest’ultimo inedito, il rosario dei motivi ampiamente, e felicemente, sviluppati ed esteticamente risolti, nelle opere edite tra gli anni ’40 e ’50 del nostro Novecento, si traduce in un monotono salmodiare. Ciò, come ricorda Scappaticci, perché il vecchio è riproposto come nuovo, come frutto di una scoperta appena fatta, di una illuminazione rivelatrice della dignità letteraria di un mondo incompreso e quasi sconosciuto […]. Il protagonista […] è un intellettuale in crisi, del tipo tante volte proposto dalla letteratura del primo Novecento, in contrasto con se stesso e con i tempi e dubbioso sul ruolo da assumere nella società56. Non si tratta, quindi, soltanto di trovarci di fronte a testi utili a soddisfare curiosità e il gusto della cronaca. È fuori di dubbio il fatto che il discorso critico sull’opera letteraria di Seminara “rimane aperto e molto resta da dire e da scoprire, anche per la rilevante quantità di inediti (racconti, opere teatrali, diari, carteggi, ecc.) che ancora aspetta di vedere la luce”57. Intanto, i testi che consegnano Fortunato Seminara alla storia della nostra attività letteraria del primo cinquantennio del Novecento rimangono, per consenso unanime degli studiosi, Le baracche, Il vento nell’oliveto, La masseria, Disgrazia in casa Amato58. Gli inediti non hanno portato, come in altre analoghe circostanze, a una sorta di ‘caso Seminara’. Pertanto, con la sua opera narrativa e saggistica i conti sono ancora aperti. Tuttavia, rimane ineludibile il fatto che, nella sua opera narrativa, come ricordava Calvino, “si potrà seguire un mezzo secolo di storia del profondo Sud e soprattutto gli accenti d’una voce grave e pausata, dal profondo d’un’anima ricca di nobiltà e di ritegno”59. Pasquale Tuscano 55 Cfr, nota 9. 56 T. Scappaticci, Seminara inedito e postumo, cit., pp. 158-159. 57 Ivi, p. 221. 58 Su questi romanzi, cfr. il fondamentale lavoro di M. Lanzillotta, I romanzi calabresi di Fortunato Seminara, Cosenza Luigi Pellegrini Editore, 2004, pp. 510. 59 I. Calvino, Saggi (1945-1985), vol. I, ed. cit., p. 1252. ISABELLA PUGLIESE Ai margini del mondo: il “Cottolengo” di Italo Calvino The literary category of ‘margin’, that characterizes most of the twentieth-century literature, influences deeply and at several levels of meaning the short story La Giornata di uno scrutatore by Italo Calvino, published in 1963. This category, that stands out as the foremost element of the author’s narrative method and represents a value in itself – takes a concrete shape in the place that is the very symbol of the story, the “Cottolengo” of Turin. La categoria letteraria del ‘margine’ risulta assai produttiva e funzionale se applicata ad ogni autore del Novecento. Infatti è ormai un dato pacificamente acquisito dalla critica che tale periodo letterario sperimenti l’incompiutezza, la parzialità e la frammentarietà come suoi costituenti essenziali. È proprio nel XX secolo che nasce un nuovo sistema di coordinate dell’uomo nel mondo, una nuova percezione che l’uomo ha della struttura e quindi un nuovo sentimento e giudizio della realtà, nonché del proprio essere ed esserci nel mondo1. Da un lato sono ormai caduti i parametri oggettivi che rendevano misurabile e conoscibile il mondo delle cose, dall’altro è venuta meno anche l’unità del soggetto, la cui anima si rivela non più momento di sintesi e di autenticità, ma luogo di scissione, di compresenza di verità opposte e addirittura di diverse personalità. Risulta dunque impossibile il romanzo unitario e organico della tradizione ottocentesca, ma ad esso si sostituisce un romanzo policentrico, destrutturato, poliprospettico, capace di esprimere varietà diverse: un romanzo la cui struttura aperta, divagante e inconclusa, esprime una concezione della vita analogamente aperta e altamente problematica. Il concetto di ‘margine’, dunque, in quanto espressione della policentricità e della destrutturazione della narrativa novecentesca, può costituire una via privilegiata di accesso ed un modo inedito di 1 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1998, pp. 3-4. [2] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 511 avvicinamento all’opera di uno dei maggiori autori del secolo in questione, un vero e proprio ‘classico del Novecento’: Italo Calvino. Accostarsi all’opera di Calvino dalla particolare prospettiva del ‘margine’ richiede innanzitutto delle precisazioni sul significato da attribuire al concetto stesso di margine e ad una scrittura che di conseguenza si pone come ‘scrittura del margine’. In realtà scrivere in margine per Calvino non consiste nell’affollare il testo e la pagina scritta con una fitta attività di glossatura alla propria opera, attività che viene ad occupare appunto il margine del foglio, come nel caso dello scrittore lombardo del secondo ottocento Carlo Dossi, in cui le enunciazioni prefative finiscono con l’acquisire una totale emancipazione e, quindi con l’accedere, secondo le intenzioni stesse dell’autore, ad una dimensione del testo del tutto autonoma. Le scritture liminari dossiane, infatti, diventano il luogo privilegiato in cui precisare ed illustrare le proprie ragioni stilistiche ed intellettuali, in cui l’autore racconta se stesso inventandosi, negandosi e moltiplicandosi, mettendo continuamente in gioco il soggetto e le sue controfigure e arrivando ad una manifestazione di scrittura intesa come prassi di autobiografia2. Si precisa, dunque, il risvolto semantico del termine ‘margine’ che, se da un lato definisce il bordo, la periferia da cui Dossi prospetta e glossa la sua esistenza d’autore, dall’altro connota la scrittura di sé come eccesso debordante, proliferazione esorbitante e iperbolica3. Non è sicuramente questo il concetto di ‘margine’ che si tenta di rintracciare nell’opera di Calvino: la ‘scrittura del margine’ calviniana, in effetti, non consiste soltanto nel produrre tutta una serie di discorsi liminari che precedono (o seguono) le ristampe dei suoi libri giovanili, (importantissima in questo senso la prefazione del 1964 alla nuova edizione dell’opera di esordio Il sentiero dei nidi di ragno edita per la prima volta nel 1947), bensì in una vera e propria condizione esistenziale che si riflette anche nella pratica della scrittura, tanto che più che di ‘scrittura del margine’ nel caso di Calvino sembrerebbe più opportuno parlare di ‘scrittura dal margine’. Considerare Calvino un ‘classico del Novecento’ e cercare di rintracciare nella sua opera la presenza di un ‘margine’ significa da un lato assegnare l’autore ligure alla categoria di ‘tradizione novecentesca’, espressione che nell’accostamento di due termini così 2 A. Saccone, Carlo Dossi. La scrittura del margine, Napoli, Liguori, 2000, pp. 97-98. 3 Ivi, p. 130. 512 ISABELLA PUGLIESE [3] antitetici fra loro non vuole significare una restaurazione della struttura narrativa ottocentesca, bensì l’adozione di una misura sempre mobile, varia ed originale fra oggettività narrativa e analisi interiore, realismo e surrealismo, norma e infrazione; dall’altro tenere comunque ben presente che la rottura primonovecentesca ha lasciato i suoi indelebili segni, una traccia molto profonda che continua a farsi sentire lungo tutto il secolo, attraverso la problematicità e la pluralità di prospettive della narrazione4, arrivando oltre la metà del secolo ad Italo Calvino. La cifra del margine, infatti, risulta essere parte integrante del modus operandi dello scrittore sanremese, in quanto la sua capacità critica si propone sempre di valicare i confini e di esplorare zone di frontiera nella continua ricerca di nuovi strumenti di osservazione e di misurazione del reale, senza mai cedere a tentazioni esibizionistiche o protagonistiche5. Calvino è sì uno dei protagonisti del dibattito culturale del secolo appena passato, ma egli evita costantemente nel corso della vita di dar veste ufficiale alla propria attività di intellettuale militante, non assumendo mai l’identità di un organizzatore culturale o di un maître à penser6, adottando bensì atteggiamenti intellettuali spogli e privi di qualsiasi enfasi. Il celebre understatement calviniano, dunque, si può intendere come una scelta consapevole da parte dello scrittore di porsi ai margini della letteratura ufficiale e di propaganda politica, sia per quanto riguarda il contenuto, sia la forma delle sue opere. Più volte nella narrativa calviniana si incontrano infatti situazioni, luoghi e personaggi che hanno come cifra caratteristica quella di appartenere ad una realtà marginale, ad un mondo che del mondo tout court rappresenta solo una piccola e secondaria parte. L’opera calviniana in cui più risulta verificabile tale particolare scelta dell’autore è sicuramente la tormentata e mirabile Giornata d’uno scrutatore, il «racconto più pensoso», come ebbe a definirlo proprio Calvino7. Il breve romanzo è edito per la prima volta nel 1963 presso Einaudi nella collana «I Coralli» e la sua genesi è tutta da ricercare 4 Cfr. R. Luperini, L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori, 2006. 5 Cfr. M. Barenghi, Introduzione a I. Calvino, Saggi 1945-1985, Milano, Mondadori, 2007, p. IX. 6 Ivi, p. XIII. 7 Cfr. il risvolto della prima edizione di I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, in Id., Romanzi e Racconti II, Milano, Mondadori, 2004. [4] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 513 in un’occasione concreta e storicamente determinabile: l’esperienza diretta di Calvino, nel racconto Amerigo Ormea, quale scrutatore durante le elezioni politiche del 7 giugno 1953 in un seggio stabilito presso l’Istituto per minorati fisici e mentali, il «Cottolengo» di Torino. Amerigo Ormea, militante comunista, è dunque scrutatore alle elezioni politiche del 1953 (quelle che nella storia politica italiana possono essere considerate le elezioni per antonomasia), surriscaldate dal previsto premio di maggioranza, denominato dalle opposizioni «legge truffa». Calvino stesso ce lo spiega all’inizio del romanzo, rendendoci partecipi dell’atmosfera che si respirava in quei giorni: […] era ormai il 1953, e con tante elezioni che c’erano state s’era visto che, pioggia o sole, l’organizzazione per far votare tutti funzionava sempre. Figuriamoci stavolta, che si trattava per i partiti del governo di far valere una nuova legge elettorale (la «legge-truffa», l’avevano battezzata gli altri) per cui la coalizione che avesse preso il 50% + 1 dei voti avrebbe avuto i due terzi dei seggi…8 Nella scrittura del libro il Cottolengo diventa l’occasione per visitare tutta una realtà nascosta9, per andare alla scoperta del mostruoso, del deforme, dell’imprevedibile, insomma di tutto quello che si sottrae alle migliori intenzioni di un progetto razionale che mira a dare un senso possibile alla Storia: […] A veder votare i ricoverati del «Cottolengo» […] il pensiero che li occupava pareva essere soprattutto quello dell’insolita prestazione pubblica richiesta a loro, abitatori d’un mondo nascosto, impreparati a recitare una parte di protagonisti sotto l’inflessibile sguardo di estranei, di rappresentanti d’un ordine sconosciuto, […] ostentando una specie di fierezza, come d’un riconoscimento finalmente giunto della propria esistenza. […] Era un’Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficace e rigoroso, era anche (ma non solo) la fine delle razze quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori, la lue taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo, 8 Ivi, p. 5. 9 G. Baroni, Italo Calvino. Introduzione e guida allo studio dell’opera calviniana, Firenze, Le Monnier, 1990, p. 77. 514 ISABELLA PUGLIESE [5] ma non solo), era il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana proprio perché avviene a caso…10 Calvino ci descrive dunque un vero e proprio margine della realtà più comune e quotidiana in cui tutti siamo abituati a vivere, margine che inoltre si identifica con una condizione limite per eccellenza11. Per lo scrutatore, come per ogni lettore condotto per mano in questo racconto da Calvino stesso, attraversare la soglia del Cottolengo significa infatti rimettere in discussione tutte le certezze fino allora acquisite, in quanto proprio nel Cottolengo avviene la metamorfosi del personaggio «uomo» nel drammatico confronto di questo personaggio con l’assurdità del mondo che lo circonda. Amerigo Ormea, muovendosi tra i corridoi dell’ospedale, sembra aver disimparato a vivere, nel senso che egli si trova in uno stato cronico di perplessità circa il proprio essere, di dubbio o addirittura di incredulità circa il proprio potere di comunicare con gli altri e col mondo, di miscredenza dolorosa ma non acritica circa l’esistenza, la consistenza e l’accessibilità delle cose che si presentano via via ai suoi occhi intenti di «scrutatore». Nelle pagine del libro compaiono essere deformi e mostruosi, a metà strada tra il definibile e l’indefinibile, tra l’umano e l’inumano, esseri che realmente si direbbero posti in un margine oscuro e indistinto. In questa zona dai contorni sfumati, nella figura del “mostro”, si fronteggiano gli opposti e i contrari, generando attrito, a volte vere e proprie scintille agli occhi dell’osservatore, al quale l’umano e il non umano appaiono dolorosamente commisti, agglutinati nella «pasta collosa» di cui parla lo stesso Amerigo, formando un vero e proprio amalgama opaco, ottuso, incongruo che non può che suscitare reazioni di stupefatta pietà12: Ogni significato si stingeva sull’altro, […]. Ad Amerigo la complessità delle cose a volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente 10 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 20-21. 11 C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990, p. 74. 12 M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 55. [6] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 515 separabili, come le foglie d’un carciofo, alla volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa13. In un margine del mondo, il Cottolengo, lungo un margine di tempo, una singola giornata, attraverso il punto di vista di un uomo semplice posto ai margini dell’ufficialità e della macchina elettorale, un semplice scrutatore, si fronteggiano allora normalità e anormalità, deformazione e menomazione. Allo scrutatore e al lettore che vengono situati in questo margine esistenziale da Calvino, si apre per la prima volta un mondo sconosciuto, quello degli ammalati cronici, dei deformi e dei pazzi, mondo che però non resta un semplice margine, una parte imperfetta di una realtà perfetta, ma assume su di sé la caratteristica di alterità, di piena opposizione e contropartita all’universo degli uomini normali. Davanti alle creature mostruose che sfilano come in una danza macabra davanti ai suoi occhi, Amerigo non può far altro che sentire come estraneo quel popolo di esseri deformi che lo circonda. Invano egli si immerge nella corsie della Piccola Casa della Divina Provvidenza, sosta davanti ai lettini e si dà a scrutare le malattie degli sventurati che vede: la distanza fra la normalità dell’osservatore e l’anormalità degli osservati non fa altro che essere confermata e ribadita. Sembra possibile allora poter adattare anche a questo particolare aspetto della Giornata d’uno scrutatore la celebre formula di «pathos della distanza» creata da Cesare Cases a proposito della narrativa calviniana: Questo pathos della distanza, se è segno di elezione, è anche causa d’infelicità, incapacità di adattarsi alla realtà immediata […]. In questa tensione tra la solitudine nella distanza e la comunità necessaria, ma disgustosamente vicina ed infida, vive l’opera di Calvino. In entrambe le situazioni estreme l’uomo è mutilato, e si tratta di ricomporlo […]14. In questo caso nessuna comunità potrebbe essere più vicina ed infida di quella del Cottolengo, ed essere dunque profondo motivo di sofferenza e di incertezza per il protagonista. Anche in quest’opera perciò il distanziamento programmatico conserva la doppia valenza che ha sempre avuto in Calvino: da un lato garanzia di conoscenza “pura”, non contaminata dal mondo (e in questo caso dal mondo 13 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 9. 14 C. Cases, Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 161-166. 516 ISABELLA PUGLIESE [7] contaminante per antonomasia, il Cottolengo); dall’altro segno dell’alienazione dell’individuo che lo vive, e della ragione illuministica che egli incarna, rispetto alla realtà stessa. E si direbbe che è quest’ultimo aspetto che lo scrittore sottolinea di preferenza15, se anche Amerigo Ormea viene definito nel testo come «un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco»16. Amerigo è davvero alienato dal mondo del Cottolengo, in quanto le due comunità dei sani e dei malati sono infatti divise in modo netto da una linea invalicabile che segna il confine tra due mondi in comunicanti, linea che porta dunque con sé la marca dell’estraneità e dell’incomunicabilità. Da sempre, infatti, i sani, o presunti tali, hanno messo in atto procedimenti per emarginare e comunque bollare chi è o si è sottratto alle leggi della convivenza17. Il Cottolengo si conferma dunque come “mondo altro” e come “altro mondo”, come ricettacolo di carne malata e deforme in una realtà diversa dalle solide certezze di tutti i giorni18. Amerigo stesso, camminando per le strade di Torino per giungere all’ospizio, percepisce, ancor prima di entrarvi, la completa estraneità della realtà che lo attende: […] cercando sotto la pioggia l’ingresso segnato sulla cartolina del Comune aveva la sensazione d’inoltrarsi al di là delle frontiere del suo mondo. L’istituto s’estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie d’un intero quartiere, comprendendo un insieme d’asili e ospedali e ospizi e scuole e conventi, quasi una città nella città, cinta da mura e soggetta ad altre regole19. Egli infatti si trova a dover fare i conti con un vero e proprio regno a parte, caratterizzato anch’esso dalle sue rigide regole sociali e da una vita parallela, estranea al regno della normalità razionale e positiva. È la città a parte del Cottolengo, una vera e propria «città nella città», che segna l’entrata del protagonista nell’altro mondo, quello della malattia e della mostruosità insanabile, nell’universo chiuso ad ogni riscatto di significato20. Le pagine del libro si affol- 15 P.V. Mengaldo, L’arco e le pietre, in Id., La tradizione del Novecento. Da D’annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 408. 16 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 9. 17 C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, p. 6. 18 R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano, Mursia, 1970, p. 259. 19 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 8. 20 F. Serra, Calvino, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 148. [8] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 517 lano dunque di ritratti e di descrizioni di malati che puntano ad una vera e propria deformazione espressionistica, in cui i reali confini dell’umano sembrano dissolversi di fronte a tanta sofferenza: Il grido acuto proveniva da una minuscola faccia rossa, tutta occhi e bocca aperta in un fermo riso, d’un ragazzo a letto […] che spuntava col busto dall’imboccatura del letto come una pianta viene su da un vaso, come un gambo di pianta che finiva (non c’era segno di braccia) in quella testa come un pesce, e questo ragazzo-pianta-pesce (fino a dove un essere umano può dirsi umano? Si chiedeva Amerigo) si muoveva su e giù inclinando il busto ad ogni ghii… ghii… E il gaa gaa che gli rispondeva era d’uno che nel letto prendeva meno forma ancora, eppure protendeva una testa boccuta, avida, congestionata, e doveva avere braccia – o pinne – che si muovevano sotto le lenzuola in cui era come insaccato (fino a che punto un essere può dirsi un essere di qualsiasi specie?) […] Amerigo lo guardò: era una faccia viola, riversa, come un morto, a bocca spalancata, nude gengive, occhi sbarrati. Più che quella faccia, nel guanciale affossato, non si vedeva; era duro come un legno, tranne un ansito che gli fischiava dal fondo della gola […]; le braccia, nel camicione bianco, erano rattrappite, con le mani piegate in dentro, e anche le gambe aveva allo stesso modo, come se le membra cercassero di tornare dentro se stesse a cercare un rifugio21. La presenza nell’immaginario letterario di Calvino di creature aberranti dal punto di vista fisico, di veri e propri mostri, non è un fatto isolato e fine a se stesso. La validità dei mostri a cui ricorre la letteratura, infatti, viene misurata non in base alla verosimiglianza naturalistica, come pure sarebbe giusto nel caso della Giornata d’uno scrutatore visto che si fa riferimento ad un luogo reale, bensì in base al grado di penetrazione e conoscenza che essi hanno nei confronti del reale. Il ricorso ad essere mostruosi, risorsa in passato solo possibile, nella letteratura dell’ultimo secolo è divenuto qualcosa di necessario: partendo da soggetti normali, infatti, la realtà risponde solo in modi già scontati e l’indagine narrativa non offre frutti nuovi, ricalcando le orme della narrativa precedente. Così nasce l’esigenza, da parte di molti autori della letteratura moderna e contemporanea, di prendere le mosse da casi patologici ed irregolari, da veri e propri “casi-margine” potremmo dire, con l’intento di elevare le loro aberrazioni a vere e proprie forme trascendentali, cioè condizioni necessarie per vedere e pensare il mondo in termini nuovi22. 21 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 61-64. 22 R. Barilli, La barriera del naturalismo, cit., p. 261. 518 ISABELLA PUGLIESE [9] Più in generale, quando si passa dai romanzi ottocenteschi a quelli moderni si vede che dal ritratto dei personaggi scompare ogni traccia di bellezza fisica, si assiste cioè alla cosiddetta «invasione vittoriosa dei brutti»23, che è il segno più concreto ed evidente della cessata fiducia nella possibilità senza eccezioni di spiegare causalmente i personaggi e ciò che a loro succede. Per quanto riguarda in particolare La giornata d’uno scrutatore, è stato osservato dalla critica che nel racconto del 1963 il diverso, l’anormale e il deformato alludono ad un livello di naturalità istintiva, di un fondo biologico irriducibile agli schemi ordinatori della ragione. Tale richiamo riveste nel racconto un duplice ruolo: da un lato segna il limite, il confine delle possibilità dell’agire sociale e razionale, evidenziando la finitezza dell’uomo e delle sue capacità; dall’altro indica la fonte primaria dell’energia che l’individuo esprime, della sua tendenza a proiettarsi nel mondo come homo faber24. La deformazione del personaggio, la sua descrizione espressionistica allora tende a fornirci una visione completa dell’uomo: ce lo mostra cioè come appare nel dominio del visibile, ma sotto l’azione di ciò che non appare e che muove dal dominio dell’invisibile. La deformazione nasce proprio dal contrasto dovuto alla compresenza dei due momenti: l’Io e l’Altro25, in cui è proprio l’Altro a scatenare le sofferenze testimoniate dal deformarsi della fisionomia del personaggio. Amerigo Ormea osserva tutto ciò proprio da un luogo che si situa al confine tra il momento dell’Io e il momento dell’Altro, e cioè dal Cottolengo che dunque si caratterizza come margine sia dell’una che dell’altra categoria. È dunque un “altrove” reale e non immaginario da cui la testimonianza di Calvino si carica di angoscia esistenziale26. Il procedimento di esclusione delle creature del Cottolengo non si realizza in un’espulsione vera e propria, ma nell’accentuazione del distacco tra i «persecutori» (sani di mente) e i «perseguitati» e sbeffeggiati (folli e malati). In complesso domina l’opposizione NOI/ GLI ALTRI, si sottolinea la diversità, o meglio l’appartenenza ad un 23 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., pp. 440-441. 24 B. Falcetto, La tensione dell’esistenza. Vitalismo e razionalità in Calvino dal Sentiero allo Scrutatore, «Nuova Corrente», XXXIV, 99, gennaio-giugno 1987, p. 48. 25 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., pp. 459-462. 26 C. De Caprio, Calvino e l’ottica del viaggiatore, in Il fantastico e il visibile, a cura di C. De Caprio e U.M. Olivieri, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2000, p. 56. [10] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 519 mondo diverso27; in questo caso ad un mondo posto “ai margini”. L’immagine dell’ospizio, dunque, nelle pagine del libro viene definita attraverso una dialettica di marginalità e alterità, in cui forse l’alterità arriva a porsi come una marginalità elevata ad un livello superiore, e cioè capace di opporsi e di fungere da concreta alternativa alla totalità da cui il margine era stato estrapolato: il mondo dei normali, dei perfetti, degli esseri compiuti e razionali. Il margine, in questo senso, arriva ad acquisire ontologicamente quasi uno statuto autonomo e una legittimità letteraria nell’economia del libro. Infatti il punto di vista dal quale l’osservatore guarda alla realtà, e cioè il “margine-altro” Cottolengo, coincide proprio con un mondo che del mondo completo rappresenta solo un dettaglio, un particolare, e per giunta un particolare che ha in sé il germe dell’incompiutezza e dell’imperfezione, qualità che sono perfettamente adattabili a qualsiasi “margine”. Da un punto di vista più generale e squisitamente letterario, inoltre, allargando la nostra riflessione sui concetti di “tutto” e di “parte”, la dialettica che abbiamo visto instaurarsi all’interno del libro tra la totalità del mondo normale e la parte marginale “mondo- Cottolengo” sembra rimandare al rapporto che si crea nell’intero Novecento letterario fra totalità e parzialità, realmente fra la “parte” e il “tutto”. Infatti, nello stesso tempo in cui viene meno il principio dell’opera compiutamente delineata, dell’opera come rispecchiamento del mondo, si afferma nel Novecento un’altra forma artistica e un’altra forma di conoscenza: si guarda al tutto a partire dal dettaglio, dal particolare, dall’incompiuto, poiché la totalità ben delineata non è più né una possibilità della conoscenza, né della narrazione né dell’arte in generale28. Questa descrizione del modo di procedere del Novecento in campo letterario, e soprattutto narrativo, sembra adattarsi perfettamente alla modalità di composizione della Giornata d’uno scrutatore, in cui appunto si guarda alla totalità del mondo dal dettaglio, dal particolare, dall’incompiuto, e cioè dal margine rappresentato dal Cottolengo e dai suoi miseri abitanti. Nel corso del libro, Amerigo Ormea arriva persino a prospettare l’eventualità che tutto il mondo razionale ed ordinato si trasformi ad un tratto in un 27 C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, cit., p. 89. 28 M. Barenghi, Il «tempo» del racconto lungo, in Tipologia della narrazione breve. Atti del Convegno di studio «Il Vittoriale degli Italiani», Roma, Vecchierelli Editore, 2004, p. 4. 520 ISABELLA PUGLIESE [11] gigantesco Cottolengo, e cioè, in termini più generali, che una parte del mondo arrivi a prendere il posto del mondo intero: Era tutto il mondo fuori a diventare parvenza, nebbia, mentre questo, di mondo, questo del «Cottolengo», ora riempiva talmente la sua esperienza che pareva il solo vero. […] Un mondo, il «Cottolengo », – pensava Amerigo, – che potrebbe essere il solo mondo al mondo se l’evoluzione della specie umana avesse reagito diversamente a qualche cataclisma preistorico o a qualche pestilenza… Oggi, chi potrebbe parlare di minorati, di idioti, di deformi, in un mondo interamente deforme? […] Se il solo mondo al mondo fosse il «Cottolengo », pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia…[…] E più la possibilità che il «Cottolengo» fosse l’unico mondo possibile lo sommergeva, più Amerigo si dibatteva per non esserne inghiottito. Il mondo della bellezza svaniva all’orizzonte delle realtà possibili come un miraggio e Amerigo ancora nuotava nuotava verso il miraggio per riguadagnare questa riva irreale…29 Il Cottolengo allora, secondo una forma di leibniziana ascendenza, sembra porsi non tanto come il migliore dei mondi possibili, ma addirittura come l’unico dei mondi possibili; quasi come se l’unica eventualità prospettabile consistesse nel fatto che una parte del mondo prenda il posto del mondo intero. È stato più volte affermato dalla critica che anche il Novecento letterario si comporta esattamente allo stesso modo: non solo viene concessa più attenzione alla parzialità e alla marginalità, ma queste ultime vengono considerate proprio in sostituzione della totalità e della compiutezza: la “parte” compare al posto del “tutto”. Del resto Calvino stesso, come parecchi intellettuali della sua generazione, era stato indotto ad accettare definitivamente il fatto che il mondo e la nostra esistenza sono frammenti di un tutto che ci rimarrà per sempre imperscrutabile30. Sul piano biografico tale svolta coincideva, non a caso, con l’abbandono della militanza politica entro organismi collettivi e con la rinuncia a pubblicare su periodici che fossero l’espressione di un partito o di una tendenza precostituita. Infatti la denuncia da parte di Nikita Krusciov al XX Congresso del PCUS dei crimini staliniani e l’invasione dell’Ungheria nel 1956 avevano incrinato la solidità del movimento comunista in tutta 29 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 20-27. 30 C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 71. [12] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 521 Europa; in Italia non pochi esponenti del partito, magari già in crisi per i motivi accennati, colsero l’occasione per uscire dal partito e passare ad altre organizzazioni; altri preferirono attivare un dibattito interno oppure uscire dal partito senza tuttavia prendere altre strade o compiere scelte altrettanto irrevocabili31. Quest’ultimo fu anche il caso di Calvino. Il 1957 è per lui l’anno cruciale: lo scrittore rassegna le sue dimissioni dal Partito Comunista con una lettera sull’ «Unità» del 7 Agosto e denuncia con angoscia crescente l’assenza di un progetto nel quale potersi riconoscere. Va detto che Calvino non mostrò nessun rancore né alcuna astiosa recriminazione nei confronti di un partito in cui era entrato a vent’anni, negli anni della Resistenza, e in cui, seppur talvolta con riserve e polemiche, aveva militato con convinzione e lealtà. È una decisione sofferta, ma che alla fine emerge netta e limpida32. Recentemente è stata pubblicata una lettera inedita di Calvino a Ludovico Geymonat del 12 settembre 1957, scritta dunque a pochi giorni dalle dimissioni dal Partito. In essa non si trova l’opzione per una mutata scelta di campo, bensì una consapevole presa di posizione da parte di chi ritenne di poter svolgere da «fuori» un lavoro di critica più efficace: Caro Geymonat, […] credo che sia importantissimo che noi che abbiamo creduto meglio operare «fuori» e voi che credete ancora di dover operare «dentro» non perdiamo i contatti, non dimentichiamo che il nostro scopo comune è ritrovarci insieme – soprattutto – alla classe operaia, che non ha aspettato gli intellettuali per manifestare la sua crisi. Qui a Torino, tra gli amici «dentro» e noi «fuori» cerchiamo già di realizzare contatti sistematici e azioni comuni. È inutile nasconderci che la situazione invita a un netto pessimismo, ma è anche inutile crogiolarsi solamente nel pessimismo33. Dalla lettera si evince come la scelta di Calvino sarà quella di abbandonare il partito, senza però con questo rinunciare a condurre un’azione politica e culturale di collaborazione con chi aveva deciso di proseguire la battaglia di rinnovamento dall’interno, come appunto fece allora e continuò a fare Geymonat. Il 1957 è dunque crocevia importantissimo nell’esistenza di Calvino, sia come uomo 31 G. Baroni, Italo Calvino. Introduzione e guida allo studio dell’opera calviniana, cit., p. 9. 32 M. Bucciantini, Il nostro addio al PCI. Due lettere inedite di Italo Calvino e Antonio Giolitti a Ludovico Geymonat, «La Repubblica», 12 settembre 2007, p. 49. 33 I. Calvino, Lettera a Ludovico Geymonat, Torino, 12 Settembre 1957, in M. Bucciantini, Il nostro addio al PCI, cit., p. 49. 522 ISABELLA PUGLIESE [13] che come scrittore. L’uscita di Calvino dal PCI e la conseguente scelta di porsi dunque ancora una volta ai margini della realtà politica e sociale non deve però trarre in inganno: scegliere consapevolmente di trovarsi a latere del mondo dell’ufficialità e della propaganda nel nostro scrittore non equivale affatto a disinteresse o disimpegno. Al contrario in Calvino permangono sempre gli ideali di azione e di impegno politico, come egli stesso non manca di sottolineare nell’importante scritto saggistico Il midollo del leone, datato 1955 e quindi composto quando la tormentata gestazione della Giornata era già in atto e poco tempo prima della sua rinuncia all’attività politica in veste ufficiale. Secondo la sua opinione, l’epoca presente può essere capita soltanto situandosi vicino alla linea del fuoco, sul campo di battaglia che la storia prepara, tra le trincee morali dalle quali difendersi e tra le brecce attraverso cui passare al contrattacco: Noi crediamo che l’impegno politico, il parteggiare, il compromettersi sia, ancora più che un dovere, necessità naturale dello scrittore d’oggi, e prima ancora che dello scrittore, dell’uomo moderno34. Calvino rifiuta così la letteratura dell’intellettuale deracinè, scisso drammaticamente da una società che egli non comprende e che non lo comprende. Contro questo decadentismo vittimistico occorre trovare il nutrimento di una letteratura capace di agire: Noi siamo pure tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile. […] La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve – mentre impara da loro – insegnar loro, servire loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. […] Intelligenza, volontà: già proporre questi termini vuol dire credere nell’individuo, rifiutare la sua dissoluzione35 È l’espressione più chiara di uno dei fili rossi che legano l’attività intellettuale e letteraria di Italo Calvino: la persuasione, che corre dall’inizio alla fine della sua opera, che quella della “scrittura” sia fondamentalmente un’operazione morale, e cioè quanto di più lontano ci possa essere dal disimpegno, dall’indifferenza e dal disinteresse. È lo stesso comportamento ideale che Calvino tratteggia nella 34 I. Calvino, Il midollo del leone, in Id., Saggi 1945-1985, cit., p. 20. 35 Ivi, pp. 21-23. [14] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 523 descrizione di Amerigo Ormea nella Giornata d’uno scrutatore, comportamento che può tranquillamente essere ricondotto a Calvino stesso, visto che lo scrutatore altri non è che uno scoperto alter-ego dell’autore: Amerigo non era uno che gli piacesse mettersi avanti: nella professione, all’affermarsi preferiva il conservarsi persona giusta; non era quel che si dice un “politico” né nella vita pubblica né nelle relazioni di lavoro […]. Era iscritto al partito, questo sì, e per quanto non potesse dirsi un “attivista” perché il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c’era da fare qualcosa che sentiva utile e adatto a lui. In Federazione lo consideravano elemento preparato e di buon senso: ora l’avevano fatto scrutatore: un compito modesto, ma necessario e anche d’impegno, soprattutto in quel seggio, all’interno d’un grande istituto religioso. Amerigo aveva accettato di buon grado36. Se questo porsi ai margini vale per la sua anima di politico, la situazione non cambia di certo per lo scrittore. Dal punto di vista letterario, infatti, fino al 1960 egli stesso aveva coltivato la pretesa o l’illusione di possedere un’immagine della società italiana, di intrattenere un dialogo con un pubblico ben preciso; poi gli sembrò che si andasse diffondendo una zona d’ombra sempre più fitta e sempre più vasta che gli impediva di riconoscere e definire cose e persone con la consueta esattezza37. Per non soccombere dunque all’opacità di tale zona d’ombra, anche in qualità di scrittore Calvino sceglie di porsi dalla prospettiva del margine e di osservare da lì la realtà, quasi che dai margini fosse possibile vedere di più e meglio. È proprio quanto accade nella Giornata d’uno scrutatore, in cui lo scrittore si sofferma sul corpo inorganico, sulla parte inorganica dell’uomo, sulla parte irriducibile all’ordine e alla simmetria, al corpo che diventa corpo assoluto nell’«uomo-Cottolengo», in cui il simmetrico, l’ordinato, il razionale, l’esatto (per usare una categoria critica tipicamente calviniana) non viene separato dal residuo38, ma prende il sopravvento su di esso e arriva a sostituirlo in pieno. Il residuo, in questo caso, si pone come una ulteriore sottocategoria del margine e balza addirittura in primo piano nella chiusa del libro, in cui 36 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 6. 37 C. Milanini, Introduzione a I. Calvino, Romanzi e Racconti I, Milano, Mondadori, 2004, p. XLII. 38 Per il concetto di residuo in Calvino cfr. C. Ossola, Calvino, la simmetria, il residuo, in Il fantastico e il visibile, cit., p. 37. 524 ISABELLA PUGLIESE [15] persino lo stesso Cottolengo, regno del subumano, del deforme, del diverso e dell’inferiore, contiene in sé il germe che rende possibile il riscatto e il perfezionamento: «anche il Cottolengo, l’ultima città dell’imperfezione, ha la sua ora perfetta, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città»39. La città dei residui diviene allora la Città per antonomasia, fondata appunto su un’ora, su un solo attimo in cui il residuo diventa il tutto40. Ancora una volta dunque, il residuo, e cioè una categoria particolare di margine, in un margine di tempo molto breve, un solo attimo, diviene il Tutto. D’altra parte, è valida in Calvino l’idea, conforme a una venatura di individualismo anarchico ben avvertibile in lui fin dal Sentiero, che quanto è consentito all’uomo di felicità e autenticità si nasconda nell’atto inutile, sottratto al calcolo, nel gesto che sfugge alla programmazione dei congegni, nell’allegra dissipazione di sé41, nel residuo appunto. Alla luce di queste riflessioni, per quanto riguarda la narrativa di Calvino e in particolare il caso della Giornata, sembra quasi possibile parlare di un “effetto margine” che fa sentire i suoi riflessi in tutti gli ambiti dell’analisi critica dei testi. Le domande di fondo e i rovelli etici che tormentano Amerigo e naturalmente Calvino stesso, vengono resi ancora più acuti e più pungenti proprio dalla presenza nel libro della dimensione inconsueta del Cottolengo come luogo in cui far svolgere l’azione. Qui Calvino, e il suo alter-ego Amerigo, è stimolato a rivedere ogni atteggiamento e ogni risposta, a riprendere la riflessioni sulle scelte proprie e su quelle degli altri, sul destino individuale e su quello collettivo42. L’adozione di un luogo marginale quale il Cottolengo come ambientazione del racconto porta al verificarsi di un “effetto margine” anche sul punto di vista da cui è condotta la narrazione: nel racconto del 1963, infatti, è presente il divaricarsi continuo dei punti di vista a causa del rapporto sempre alterabile e contraddittorio tra chi guarda e chi è guardato, per lo scambiarsi continuo delle parti tra il soggetto che osserva e la realtà osservata per scendere in una contraddizione cruciale, in una determinata difficoltà del conoscere e dell’esistere43. La stessa parola «scrutatore» rimanda ad una dimensione “visiva”: al di là del riferimento alle elezioni e all’universo della politica, il 39 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 78. 40 C. Ossola, Calvino, la simmetria, il residuo, cit., p. 39. 41 P.V. Mengaldo, L’arco e le pietre, cit., p. 424. 42 A. Asor Rosa, Stile Calvino, Torino, Einaudi, 2001, p. 32. 43 G. Ferroni, Lo sguardo di Calvino, in Il fantastico e il visibile, cit., p. 23. [16] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 525 termine suscita una serie di ambigui richiami, allude ad una osservazione rallentata, minuta, meticolosa, di una complessa e indeterminata realtà. L’importanza concessa alla dimensione visiva non stupisce dunque in un autore come Calvino, basti pensare al titolo della quarta delle sue Lezioni americane, Visibilità appunto, che si pone quindi come uno dei sei valori da traghettare nel nuovo millennio. Egli è infatti uno dei pochi scrittori che hanno dedicato grande attenzione ai problemi della visione e della percezione: si presenta a noi come uno degli autori più “visuali” della nostra letteratura. In cosa consiste però il visualismo di Calvino? Non certo nel trattare di arte e pittura, di cinema e fotografia, di oggetti e immagini, ma nel “modo” particolare in cui egli ne ha parlato e ne ha scritto. C’è infatti nell’opera dello scrittore ligure un’attenzione allo spazio, alla topologia e alla percezione delle forme sensibili che non riguarda strettamente gli oggetti artistici, ma più in generale la superficie del mondo. L’occhio di Calvino è soprattutto un occhiomente mosso dal suo irrefrenabile desiderio di conoscere il mondo come superficie inesauribile e questo non solo nell’ultimo periodo della sua vita, a cui risale appunto Visibilità, ma fin dal suo esordio letterario nel 1947. In lui si nota una costante attenzione verso il sensibile, verso la percezione visiva e verso i modi attraverso cui il mondo si rende discreto ai nostri cinque sensi44. Il visivo richiama tanti aspetti dell’opera di Calvino, proprio perché la sua idea di letteratura come conoscenza si avvale soprattutto dello sguardo e del racconto, di una spinta continua e irresistibile a guardare e a raccontare. La categoria della visibilità si affaccia spessissimo nelle opere calviniane, a partire già dai titoli: Il cavaliere è inesistente proprio perché non è percepibile attraverso il senso della vista, Le città sono invisibili, il signor Palomar prende il nome da un celebre osservatorio astronomico… D’altra parte, è proprio nella Giornata che l’attraversamento calviniano del concetto di visibilità è dato non come un’utopica apertura ai nuovi orizzonti del visibile, ma come un’inquieta, ironica, anche autoironica, indagine sulla contraddittorietà dello stesso vedere, sul suo mai concludersi e mai esaurirsi, sul suo non attingere mai ad una “visione” rivelatrice, epifanica, rassicurante e totale, sul suo inevitabile sospendersi, rovesciarsi, bruciarsi. Possiamo chiederci allora se con Calvino il visivo si rivolga veramente all’occhio o se invece non sia una attività mentale di lonta- 44 M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, pp. IX-XII. 526 ISABELLA PUGLIESE [17] na matrice platonica, cioè se il visivo si apparenti alla forma e se la forma, quindi, sia un aspetto della conoscenza45. Inoltre, se la visibilità, la dimensione visiva, il percepire il mondo esterno con lo sguardo coincide dunque per Calvino con la conoscenza stessa del mondo, allora guardare il mondo «precipitando nella tromba delle scale», come era solito affermare Calvino stesso, significa dire che la nostra conoscenza del mondo è decentrata, priva di punti cardinali e di basi solide e certe. È vero che si precipita, ma si continua comunque ad osservare e a trasferire sulla pagina qualche frammento di immagine catturata appena con la coda dell’occhio. In questo senso molti libri e racconti di Calvino finiscono su un’immagine, tra tutti, come abbiamo visto, La giornata d’uno scrutatore: «Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città»46. Per un momento, per un attimo solo ci sembra di toccare la perfezione; poi un soffio, e il libro è finito47. In questo senso, allora, nella poetica calviniana, viene quasi a stabilirsi un’equazione tra visione e conoscenza, per cui a diverse visioni del mondo e quindi a diversi punti di vista da cui viene condotta l’osservazione del reale, corrispondono molteplici visioni del mondo stesso. Nello specifico del testo, c’è un luogo nella Giornata molto significativo che da un lato mostra proprio l’intercambiabilità dei punti di vista da cui è condotta l’osservazione, e dall’altro la ricerca delle varie possibilità di interazione tra i protagonisti dell’episodio. Ci riferiamo al momento in cui il protagonista si affaccia ad un cortile interno dell’ospedale per concedersi un po’ di riposo. Sotto di lui scorge la figura di un onorevole democristiano accorso ad assicurarsi che tutto proceda a dovere. Basterebbe l’incontro tra due personaggi ideologicamente così distanti a far nascere una forte tensione, ma a Calvino questo non basta. La tensione, infatti, viene notevolmente accresciuta quando Ormea si accorge della presenza di un nano che percuote i vetri di una finestra, a cui non riesce ad affacciarsi, per richiamare l’attenzione dell’onorevole: Guardando dalla finestra, s’accorse che a un altro davanzale, apparivano due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di pelu- 45 C. Ossola, Calvino: la simmetria, il residuo, cit., p. 31. 46 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 78. 47 D. Scarpa, Dalla musica che trascina al silenzio degli spazi, in Il fantastico e il visibile, cit., pp. 190-191. [18] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 527 ria: un nano. Gli occhi del nano erano fissi sull’onorevole, e contro il vetro della finestra s’alzarono delle dita corte corte, la grinzosa palma d’una piccola mano, che battè contro il vetro, battè due volte, come per chiamarlo. Cosa aveva da comunicargli? si domandò Amerigo. […] L’onorevole si voltò, il suo sguardo girò sulla finestra, si fermò appena sul nano, poi passò via, distante48. Si crea così un curioso “triangolo”, una inedita terna di valori che sollecita nel protagonista molte riflessioni, la prima delle quali può essere considerata come una confessione non solo del personaggio, ma, dietro di lui, anche dell’autore49: «Ecco, osserva Amerigo, io e l’onorevole siamo da una parte, e il nano dall’altra»50. Di fronte alla grande diversità fisiologica e psichica che contraddistingue il nano rispetto alla persone normali, il protagonista sente di poter trascurare le diversità ideologiche e pratiche che lo dividono dall’uomo politico democristiano, avvertendo quasi la necessità di stringersi a lui, di far fronte comune in una leopardiana “social catena” per resistere alle oscure minacce provenienti da una natura insidiosa e malefica: E tutt’a un tratto l’avversione si trasformò in solidarietà: non erano forse, loro due, più simili che chiunque altro là dentro? Non appartenevano alla stessa famiglia, alla stessa parte, la parte dei valori terreni, della politica, della pratica, del potere?51 Il primo moto provocato in Amerigo dalla vista del nano è dunque quello di una solidarietà istintiva con l’altro “normale”, al di sopra delle divisioni di parte che ora gli appaiono conciliabili e secondarie. È anche un chiedersi con angoscia che cosa quell’essere mostruoso possa pensare di loro, esseri sani, regolari, favoriti dalla natura: Cosa aveva da comunicargli, si domandò Amerigo, cosa pensava il nano di quell’autorevole personaggio? Cosa pensava – si disse – di noi, di tutti noi? […] Qual è il giudizio, si domandava Amerigo, che un mondo escluso dal giudizio dà di noi?52 48 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 44-47. 49 R. Barilli, La barriera del naturalismo, cit., p. 255. 50 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 46. 51 Ibidem. 52 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 46-47. 528 ISABELLA PUGLIESE [19] D’altra parte era anche vero che: Il confine tra gli uomini del Cottolengo e i sani era incerto: cos’abbiamo più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri… […] poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia…53 Sono questi degli interrogativi che non si levano solo in questo punto, ma ricorrono periodicamente nel breve racconto, costituendone il leit-motiv. Poiché sono interrogativi a cui l’autore non saprà dare una risposta, si può dire che da qui si irradi, in tutta l’opera, un tono di impotenza e di incertezza54. In seguito Calvino mostra di voler saggiare tutte le combinazioni possibili a partire dal triangolo che abbiamo visto configurarsi inizialmente: ora l’autore mette insieme il “normale” intellettuale e virtuoso, lo scrutatore Ormea, con il nano, formando il blocco dei contemplativi, dei candidi, contro il praticismo dell’onorevole: […] Amerigo adesso si sentiva tutto dalla parte del nano, s’identificava con quello che il Cottolengo testimoniava contro l’onorevole, contro l’intruso, il solo vero nemico infiltratosi là dentro55. Questa soluzione, tuttavia, è subito scartata poiché contemplazione e candore non si addicono ad un eroe positivo, quale deve pur essere Amerigo Ormea. Non resta allora che l’ultima soluzione: racchiudere in un unico fronte il politico maneggione e il minorato fisico-psichico: Il negare valore ai poteri umani implica l’accettazione (ossia la scelta) del potere peggiore: il regno del nano, dimostrata la sua superiorità sul regno dell’onorevole, lo annetteva, lo faceva proprio. Ecco che il nano e l’onorevole confermavano d’essere dalla stessa parte, e Amerigo adesso non poteva starci, era fuori…56 In questo modo il male, sia fisico che morale, viene a trovarsi tutto da una parte, mentre il bene si trova dalla parte opposta. Questa è la soluzione che l’autore sembra preferire, proponendola per ultima in una calcolata progressione ascendente; si tratta però 53 Ivi, pp. 41-42. 54 R. Barilli, La barriera del naturalismo, cit., p. 256. 55 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 47. 56 Ibidem. [20] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 529 di una soluzione provvisoria che equipara la stortura fisica a quella morale e che contribuisce ad aumentare la barriera fra lo scrutatore e il mondo del Cottolengo. Amerigo dunque, nella prima delle possibilità vagliate da Calvino nell’episodio citato, osserva un nano che a sua volta osserva un onorevole democristiano, cioè una persona appartenente per antonomasia al mondo dei normali, e si chiede quale possa essere «il giudizio che un mondo escluso dal giudizio dà di noi», prospettando in maniera esemplare l’intercambiabilità dei punti di vista a cui si è accennato in precedenza, ma anche l’inversione dei ruoli tra soggetto giudicante e oggetto giudicato. Sono vagliate, inoltre, tutte le possibilità e soprattutto calcolate le probabilità di interazione tra i tre protagonisti del capitolo, in perfetto accordo con la nuova poetica del romanzo novecentesco. Infatti, se consideriamo il romanzo come una «risposta ad una certa situazione», possiamo osservare che il romanzo tradizionale supponeva che quella risposta fosse unica ed insostituibile, mentre il romanzo moderno si limita a dare atto di alcuni comportamenti possibili in una situazione che poteva vederne nascere altri, e tutti diversi, eppure altrettanto probabili57, esattamente come accade nel nostro caso. L’idea che presiede al prodursi dei fatti e degli eventi è quella stessa che i fisici chiamano l’idea dell’onda della probabilità, che non è garantita da una legge assoluta ed inderogabile, ma che si può solo presumere o prevedere come possibile. In questo senso la Giornata, in definitiva, rappresenta la più lucida cronaca di quell’epocale minaccia che coglie lo scrittore tra gli anni ’50 e ’60, quando l’onda lunga della Politica all’improvviso lo lascia a terra. L’incontro dell’intellettuale comunista con i mostri del Cottolengo non è altro, infatti, che lo spaventoso incontro con il potenziale che non si è ancora realizzato: è il terrore di non arrivare a possedere una forma che abbia un significato, un vero e proprio cimitero delle potenzialità perdute. Gli splendidi frutti della maturità e della vecchiaia di Calvino, in sostanza, non fanno altro che riprendere, approfondendola e variandola, la problematica giovanile del Sentiero dei nidi di ragno, in quanto cercano di sanare, restando però sul piano realistico come nel caso della Giornata, il conflitto tra anima solitaria e comunità imperfetta58. D’altra parte, nello stesso 1963, si affaccia già all’orizzonte il protagonista che dominerà tutti gli anni ’60 della narrativa calviniana: 57 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., p. 123. 58 C. Cases, Patrie lettere, cit., p. 166. 530 ISABELLA PUGLIESE [21] l’eroe delle Cosmicomiche, l’essere metamorfico e iper-evolutivo per eccellenza, il principe della rinascita e dell’azzeramento. Questa coincidenza cronologica ci dimostra che dietro la paura di non prendere forma, o di non prenderla giusta, paura che spiega La giornata d’uno scrutatore, c’era quella di prenderla troppo, pietrificandosi in un’identità unica e definitiva, una paura che porterà dritti alla passione combinatoria degli anni ’7059. La Probabilità e la Combinatorietà dunque si sostituiscono alla Legge, allo stesso modo in cui abbiamo visto la “parte” sostituirsi al “tutto” ed un margine esistenziale balzare in primo piano ed essere eletto a punto di vista privilegiato da cui condurre la narrazione. Lo scambio molto frequente nel testo tra osservatore e osservato, come nell’episodio del nano, comporta anche uno scambio tra realtà principale e realtà marginale, quasi come se ad un certo punto per Amerigo diventasse impossibile distinguere quale dei due mondi, quello del Cottolengo e quello della vita normale, sia marginale e secondario rispetto all’altro, e cioè chi sia realmente il margine di chi. Tra le mura di quell’ospedale la realtà smette di apparire univoca, oggettiva e perfettamente definibile con scientificità, di conseguenza la narrativa diventa interrogativa perché è il senso delle cose a balenare e a sfuggire, ad essere privo di stabilità e di certezze che comunque non diventeranno mai un sicuro possesso di cui disporre a nostro piacimento. Ormea stesso, come tutti gli uomini che si interrogano sul fine ultimo e sulle modalità del fare, di un agire positivo nella Storia, è travagliato da una serie di dubbi: perché i malati, i deficienti, i mostri? E d’altra parte perché i sani, perché i felici? E non basta: che senso ha la procreazione se la natura può giocare beffe così raccapriccianti?60 Tutto ciò è una conseguenza del fatto che l’uomo di Calvino, o più precisamente l’uomo che nasce da tutta l’opera narrativa dello scrittore, ha in sé la saggezza dell’eroe della favola e la problematicità inquieta e ricca di tensione dell’uomo contemporaneo: è l’uomo lacerato dalle contraddizioni che trascina con sé la nuova società capitalistica ed è menomato della sua stessa umanità. Parafrasando una frase di Husserl, l’uomo di Calvino, ma anche l’uomo-Calvino, si trova a vivere in un mondo incomprensibile, in un mondo in cui ci si pone invano la domanda «a che pro?». È lo stesso interrogativo che travaglia per tutta la 59 F. Serra, Calvino, cit., p. 155. 60 G. Bonura, Italo Calvino, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Federico Motta Editore, p. 94. [22] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 531 durata del romanzo Amerigo Ormea, quando ai suoi occhi si mostra l’umanità, o meglio quella specie di umanità che sollecita i massimi interrogativi che l’uomo può porsi sul male di vivere e sul significato dell’esistenza. A che pro vivere dato che l’esistenza, o almeno una parte di essa, è condannata fin dalla nascita? Il mondo è opera di un Dio o di un demonio? O di un unico Ente che è insieme Dio e demonio e che si diverte a cambiare faccia e morale a seconda delle circostanze, come un prestigiatore? Proprio in virtù di questi interrogativi La giornata è anche il romanzo in cui l’areligiosità di Calvino fa i conti anche, e forse per la prima volta, con gli insolubili problemi metafisici61. Ecco come Calvino stesso commenta i temi che si affacciano tra le pagine della Giornata d’uno scrutatore: I temi che tocco con La giornata d’uno scrutatore, quello della infelicità della natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non avevo mai osato sfiorarli prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose62. Si affaccia dunque il mondo della pluralità dei segni, dei significati, dei valori e dei disvalori: dalla marginalità si approda al mondo della molteplicità, altra categoria critica tanto cara a Calvino. Nell’ultimo capitolo del romanzo si affaccia un personaggio dalla valenza icastica, anch’esso segno concreto dell’ennesima svolta di riflessione del protagonista scrutatore e latore di valori e di significati importanti nella chiusa del libro: Ora gli scrutatori facevano capannello attorno a uno degli ultimi che avevano votato, un omone col berretto. Era senza mani, dalla nascita: due moncherini cilindrici gli uscivano dalle maniche, ma stringendoli uno all’altro sapeva afferrare e manovrare oggetti, anche sottili (la matita, un foglio di carta; difatti aveva votato da solo, piegato da solo le schede) come nella presa di due enormi dita. – Tutto: anche accendermi una sigaretta, – diceva l’omone, e con movimenti svelti prendeva il pacchetto di tasca, lo portava alla bocca per estrarne la sigaretta, stringeva il pacchetto dei cerini sotto l’ascella, accendeva, tirava una boccata, impassibile. 61 Id., Invito alla lettura di Italo Calvino, Milano, Mursia, 1972, p. 118. 62 I. Calvino, Il 7 giugno al Cottolengo, intervista ad Andrea Barbato, «L’Espresso », 10 marzo 1963, ora in Id., La giornata d’uno scrutatore, Milano, Oscar Mondadori, 2002, p. VI. 532 ISABELLA PUGLIESE [23] Gli erano tutti intorno, a chiedergli come faceva, come aveva imparato. L’uomo rispondeva brusco: aveva una grossa faccia sanguigna da operaio anziano, ferma, senza espressione. – Io so fare tutto, – diceva. – Ho cinquant’anni. Sono cresciuto al «Cottolengo» –. Parlava a mento alto, con una dura aria quasi di sfida. Amerigo pensò: l’uomo trionfa anche della maligne mutazioni biologiche; e riconosceva nelle fattezze dell’uomo, nel suo vestiario e atteggiamento, i tratti che contraddistinguono l’umanità operaia, anch’essa orbata – il simbolo e la lettera – di qualcosa della sua completezza, eppure atta ad autocostruirsi, ad affermare la parte decisiva dell’homo faber. – Io so fare tutti i lavori da me, – diceva l’omone col berretto, – Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al «Cottolengo» facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho sempre vissuto dentro il «Cottolengo». Non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente. Era sicuro e impenetrabile: in quella specie di sussiego della sua forza, e della sua adesione a un ordine che aveva fatto di lui quello che era. La città che moltiplicherà le mani dell’uomo, si chiedeva Amerigo, sarà già la città dell’uomo intero? O l’homo faber vale proprio in quanto non considererà mai abbastanza raggiunta la sua interezza?63 Davanti ad un’immagine così forte, Calvino non vuole dare delle soluzioni, ma esprime solo un’angoscia, che è l’apertura di una dimensione nuova: la dimensione dei sentimenti oltre che delle idee. Sono sentimenti congiunti agli interrogativi e alle incertezze che la difficoltà delle risposte comporta. Forse l’uomo vero è quello che non si realizza mai del tutto e cerca instancabilmente? Forse una civiltà consiste nella passione con cui si sforza di realizzarsi più che nelle istituzioni con cui si definisce o minaccia di paralizzarsi? Sono anche queste le domande finali che, dal tema della natura umana e dei suoi limiti, passano a quello della società64. È proprio la diversità dell’omone senza mani, il prevalere in lui del lato irrazionale, dell’istinto biologico di sopravvivenza ad ogni costo che lo spinge a porsi e a muoversi nel mondo come homo faber, per cui una condizione di deficienza fisica diventa una risorsa. Analogamente e in conclusione, l’adozione della categoria del ‘margine’ in tutte le sue declinazioni come struttura sottostante alla narrazione della Giornata d’un scrutatore costituisce un valore aggiunto dell’opera e si pone in perfetta consonanza con le scelte teo- 63 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 76-77. 64 G. Pullini, Volti e risvolti del romanzo italiano contemporaneo, Milano, Mursia, 1974, pp. 156-157. [24] AI MARGINI DEL MONDO: IL “COTTOLENGO” DI ITALO CALVINO 533 riche del Calvino scrittore: è proprio il mondo nascosto del Cottolengo, l’insieme di quelle creature nascoste e relegate veramente ai margini della società civile che sprona l’uomo normale a fare qualcosa, a non dare mai nulla per scontato e a far sentire forte e prepotente la sua capacità di agire positivamente sulle cose e di modificarle, a porsi come homo faber anche in contesto così assurdo, in un margine esistenziale in cui «la vanità del tutto è l’importanza d’ogni cosa fatta erano contenute tra le mura d’uno stesso cortile»65. Isabella Pugliese (Università Federico II – Napoli) 65 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 43. ROBERTO SALSANO Humanitas e orizzonti del moderno in Mario Verdone* This essay takes into critical account Sergio Campailla’s introduction to Pirandello: i racconti, le novelle e il teatro (Roma, Newton Compton, 2009) and Pirandello’s works in general. Issues about the unity of Pirandello’s production are also discussed, with a focus on poetical features, cultural perspectives and moments of the writer’s literary career. Ripensando la multiforme e pur mai superficialmente occasionale attività critica e creativa di Mario Verdone sul metro di una definizione che ne rilevi, pur inevitabilmente soggiacendo alle approssimazioni o semplificazioni d’ogni definizione che si presenti come schematica ed onnicomprensiva, certe configurazioni di fondo, potremmo dire che l’unità connettiva, organica di questa esperienza abbia insistito su un binomio le cui polarità sembrano appartenere a sfere distinte di esemplarità fenomenologica e storico culturale: da una parte l’humanitas, con i diversi campi evocativi che la parola può suscitare, dall’altra l’attenzione al “moderno” non solo nelle varie accezioni novecentesche ma in una centralità conferita al ruolo rappresentato dal futurismo, con l’apertura, vocazionale e variamente teorizzata da esso espressa, al futuro o a un presente-futuro. Nell’un caso intravediamo, fra altre, l’immagine di una visione dell’uomo e del mondo che è retaggio di un corso secolare di civiltà, inscrivibile in una pretesa di eterno e attraversata da una sensibilizzata tensione valoriale, nell’altro, anche qui tra un ventaglio di paradigmi, il profilo del moderno quale nella fase avanzata del lungo corso della storia occidentale evolve verso una declinazione di tentativi di * Il presente testo risulta dall’ampliamento di una relazione tenuta al Convegno internazionale “A self-made man” in ricordo di Mario Verdone, Roma, Facoltà di Scienze della formazione, Università di Roma Tre, 2 dicembre 2009. [2] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 535 svecchiamento culturale di una condizione antropologica e sociale nel segno di una prospettiva che esalti le chances dell’alternativa assoluta agli stereotipi di ciò che è statico, metafisicamente e astrattamente ideale, negato ad ogni apprezzamento dell’uomo tecnologico e della sua ansia sperimentale1. L’humanitas è categoria definibile su un piano soprattutto storicamente e culturalmente datato e su un piano che tende a diventare sfera d’una universalità trascendente la temporalizzazione strettamente storica. Può ad esempio riferirsi, più o meno dappresso, allo stereotipo degli studia humanitatis da cui deriva la figura, professionalmente intesa, dell’umanista rinascimentale e può rapportarsi a un’immagine di intellettuale o artista che propone e salvaguarda il carattere proprio dell’essere uomo, posizione questa che pur trovando un apice di esemplarità nella tensione laica e universalistica del Rinascimento si può articolare in disposizioni concepibili come intrinseche di un carattere, di una forma mentis che media o sublima metastoricamente quell’eredità. Tendenziali aspetti umanistici del giovane Verdone, iscritto al liceo classico, traspaiono dallo spiccato interesse per uno studio filologicamente attento della tradizione artistica e letteraria, al punto che una sua ricerca giovanile riesce a stabilire documentate relazioni tra Petrarca e Simone Martini. Ne è documento un articolo sull’amicizia di Simone Martini e Francesco Petrarca2 che sarà pur apprezzato, quanto ai risultati filologici, a distanza di mezzo secolo. Anche per quanto riguarda la letteratura moderna un interesse del giovane per gli inediti che si esplicherà nella scoperta e valorizzazione di testi del Belli colto e accademico non sembra lontano da parametri che si potrebbero definire di una vocazione assimilabile alla forma mentis del filologo, ad un abito mentale, cioè, non alieno dalla tipologia dello studioso umanista. Ma l’abito mentale di Verdone si connota, al di à di queste prime manifestazioni, nello svolgimento di una specificità intellettuale ed etica spiccatamente aderente a un confronto col tempo storico troppo vivo e irruente per costringersi nel severo e circoscritto ambito della filologia. 1 Per uno scavo critico nella complessità dell’intreccio tra diverse tendenze letterarie, estetiche, culturali, caratterizzanti l’opera artistica e saggistica di Mario Verdone, rimando a R. Salsano, Avanguardia e tradizione. Saggi su Mario Verdone, con una nota di M. Verdone, Firenze, Franco Cesati, 2007. 2 Il saggio viene citato in S. Corradi e I. Madia, Un percorso di auto-educazione (Materiali per una bio-bibliografia di Mario Verdone), Roma, Aracne, 2003. 536 ROBERTO SALSANO [3] In particolare, l’atteggiamento umanistico può prendere l’aire di un’aderenza sentimentale oltre che culturale ai valori etici ed estetici esibiti dal patrimonio artistico senese col quale il giovane convive in una dimensione di accentuata interiorizzazione dei suoi simboli facilitata dalla vicinanza spaziale, da una contiguità, ovverosia, che è parte, non indifferente, d’ogni esperienza vissuta. È ciò che traspare, fra l’altro, da alcune sue rievocazioni alle intervistatrici Isabella Madia e Sofia Corradi3, rivolte a un ambiente psicologicamente introiettato dal quale la sua prima formazione appare inscindibile. Ma si intravede quanto quel patrimonio non tanto sia percepito come eventuale referente di una possibile investigazione finalizzata al recupero accademico della civiltà in termini archeologici o di erudizione, nello spirito dominante di un vagheggiamento del passato, anche remoto, quanto piuttosto come insieme di segnali immediatamente attuali. La città di Siena, insomma, è la città delle testimonianze artistiche, pittoriche, scultorie, architettoniche, che possono parlare al presente. Direi che la disposizione di spirito e di intelligenza generalmente umanistica, aggiornata all’impellenza d’un’attualizzazione fervida del tempo, attinge l’espressione paradigmatica dell’umanitas nuova affiorante nel poemetto prosastico Città dell’uomo, proprio spingendo l’asse ideale ed estetico verso una revisione della categoria del monumentale o dell’”umanistico” a favore di prospettive più intime e soggettive, relative a certo connotato di un’umanizzazione moderna e personale del “monumentale” o del “classico” là dove i monumenti, o i modelli, segnando una traccia mnestica pronta ad affiorare, tra subliminalità ed operatività dell’io, sono in grado di rivivere più o meno patentemente in quel mondo di un’autobiografia ideale che scambia cultura tramandata con acquisizione personale, maturazione dell’esperienza intellettuale con slancio attivistico di operosità. L’umanesimo di Verdone, d’altro canto, si articola da umanesimo filologico in un umanesimo della coscienza e della prassi tale da attingere, a un ulteriore livello, la sfera anche specifica del “politico”. Egli si oppone, già presto, alla concezione autarchica del fascismo ed è pronto, andando più in là anche dell’europeismo mazziniano che ispira la sua tesi di laurea discussa con Norberto Bobbio, a trasporre le tendenze di una vocazione alla trascendenza universalistica propria dell’umanesimo classicistico nelle forme di un universalismo co- 3 Vedi S. Madia e I. Corradi, Un percorso di auto-educazione, cit. [4] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 537 smopolitico adeguabile al multilateralismo culturale di un certo modello della modernità. A questo punto, in un discorso storico generale che prescinde anche dalla stretta osservanza dell’iter culturale ed umano di Verdone ma che pure eventualmente per certi aspetti vi rientra, si potrebbe rievocare, sullo sfondo della determinazione delle varie facce della modernità, l’evoluzione alla quale è chiamato il concetto stesso distintivo di humanitas in vista di un superamento della sua identificazione assoluta con l’uomo occidentale. Non è un caso, del resto, che Verdone privilegerà, con sempre più ampia possibilità di applicazione lungo il corso inoltrato del suo iter esperienziale, eludendo, si direbbe, quella definizione dell’autocoscienza dell’humanitas che presume di fondarsi, in quanto proprietà dell’uomo occidentale, sull’opposizione a culture altre, un’apertura mentale, una simpatia di ricerca verso manifestazioni artistiche e culturali anche al di là del limite strettamente europeo, estendendo l’indagine sul futurismo ai più diversi contesti sociali, etnici e politici, rivolgendosi a obiettivi orientali, mediorientali oltre che esteuropei e sudamericani, riscoprendo, tra l’altro, un poeta armeno, Egische Ciarenz, e approfondendo i contatti, fino al punto di sperimentarne in proprio modi e temi, con forme di scrittura giapponese: gli haiku4. Il Verdone che, ancora molto giovane, recensisce positivamente Alleluiah di King Vidor rifiutando ogni pregiudizio razzista5, che scrive contro il giornale “L’idea fascista” che boicottava gli intellettuali stranieri antifascisti, è già sulla linea di un attento analizzatore dei caratteri internazionali e interculturali dell’Avanguardia, ai quali fornisce un proprio sui generis contributo il movimento futurista. L’adesione poco più che adolescenziale al movimento di Marinetti e in generale all’avanguardia ha aggiunto al formarsi delle prospettive ideali in senso lato di Verdone un piglio militante, agonistico, che Il Verdone più maturo conserva nel sottofondo passionale del proprio multiforme impegno culturale ed artistico (multiforme come multiformi appaiono le identità espressive dell’arte futurista) pur non negandosi la volontà di capire razionalmente e storicamente i fenomeni 4 Si può arguire che gli haiku abbiano operato qualche suggestione sulla stessa sperimentazione poetica di Verdone tante volte improntata alla composizione breve. Lo stesso Verdone, poi, si è cimentato in una riscrittura personale del modello haiku in una serie di componimenti. Vedi M. Verdone, Il viale dei ciliegi, ouverture Walter Veltroni, Empoli, Ibiskos, 2006. 5 S. Madia e I. Corradi, Un percorso di auto-educazione, cit., p. 55. 538 ROBERTO SALSANO [5] della cultura e dell’arte analizzandoli e storicizzandoli. Gli intrecci o le polarità fra sensibilità umana, cultura, impegno civile sottesi alla sua operosità hanno la caratteristica di esplicarsi sul piano non di una sola sfera di azione. Il loro segno incide in una continua alternanza tra vari generi di attività: egli è stato saggista, critico, giornalista, documentarista cinematografico, scrittore di prose narrative, prose poetiche, cronache storiche, romanzi, Atti unici, radiodrammi. Poiché spiccano in Verdone aspetti di una personalità di studioso e di critico delle arti che non ha mai reciso certi traits d’union tra invenzione personale e riflessione a volte anche sistematica sulle forme e le potenzialità testuali, si potrebbero ritrovare, in gran parte della sua opera, le chances di un modello culturale declinabile, complessivamente, con il titolo di poetica generale, nella misura in cui in siffatta categorizzazione si incontrano, non senza l’apporto, mediato, d’una consapevolezza storica portata a risolversi in storiografia e trattatistica, fattori tendenzialmente collegati alla poiesi: moti intenzionali, concezioni teoriche, vocazioni di scrittura convogliabili nella presenza, pressoché costante, di un rapporto con l’interpretazione e la fruizione del fenomeno artistico stimolata da un’esperienza di gusto mai mortificata. Ma è sul piano di una scrittura creativa quale ci offre Città dell’uomo6, il cui titolo la dice lunga sulla esemplarità dell’umano, rimarcabile da un modo di concentrazione e visibilità massime rispetto al lungo corso della parabola di Verdone, che si coglie, con speciale intricata evidenza, la maturazione di un coagulo tra avvertimento di sollecitazioni profonde di un ancora tradizionale mondo di valori e di sentimenti, da una parte, sensibilità montante per il destino dell’uomo nel presente-futuro inscindibilmente collegata ad un’esigenza espressiva passibile letterariamente di un distacco netto dalle tradizioni e dal passatismo formale e tematico, dall’altra parte. Vi si attua infatti una stratificazione semantica e poetica valorizzante il connubio tra un ideale di humanitas vagheggiato come superamento di passioni faziose entro un cupo scenario di Siena ai primi anni quaranta, in nome di una più veramente etica identità sociale e civile, e l’ideale proprio di un nuovo cliché della raffigurazione stessa dell’uomo e del suo ambiente in corrispondenza con il travalicamento di moduli rappresentativi naturalistici e localistici verso soluzioni che risentono dello spirito e delle forme d’un’arte tendenzial- 6 M. Verdone, Città dell’uomo, Siena, GUF, 1941. Questo testo è stato ripubblicato in R. Salsano, Avanguardia e tradizione, cit. [6] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 539 mente collegata alla “vista interna” come è proprio dell’Espressionismo. Lo scrittore propizia, nell’alone d’una percezione estetica vibrante, il delinearsi di un’icona universalistica di uomo e di ambiente attraverso uno sguardo interiore e idealizzante. Questo sguardo tuttavia è anche fantastico, surreale, grottesco, disponibile a ripercorrere la gamma di una molteplicità fenomenologica di un essere nel mondo non più prigioniero di uno stato identificativo bloccato. Rappresentazione e rappresentato tendono a convergere. Sia la mobilità dello sguardo sia gli oggetti della focalizzazione partecipano di un medium espressivo e di una referenza immaginaria in cui certo andamento simile a un incontro fra le arti (realizzato sul piano editoriale dalla presentazione del libro illustrato dai disegni di Piero Sadun) e certa scelta di obiettivi a quell’incontro adeguata si approssimano a una cifra di sensibilità poetica ed estetica alla quale Verdone sempre mostrerà di aderire. La tendenza figurativa brilla, trasfigurata, nell’epica visionaria. Una visualità prossima ai motivi cubisti di una sintetica, a suo modo astratta, plasticità di valori, apprezzabile secondo l’estetica di un Savinio che alla rivista “Valori plastici” negli anni venti affidò una sua teoria di arte “metafisica”, toglie alla rappresentazione di Siena, pur concretizzata in scorci paesistici topograficamente esatti, il piatto naturalismo del realismo descrittivo. D’altra parte la drammatizzazione non solo visionaria dell’evocazione, ma attiva nella prosopopea dell’io eroico e pragmatico, aggiunge al tema pittoresco o visionario l’essenza della testualità teatrale in un equilibrio che, per di più, accenna alla dimensione cinematografica. Senza dubbio specimina strutturali di marca poetico- prosastica arieggianti a vari filoni poetico-letterari, dal frammentismo all’Espressionismo al realismo magico (chiavi poetiche e stilistiche che mutatis mutandis introducono in altre scritture verdoniane, da taluni Atti brevi7 alle prose di La piazza magica o di Raoul e altre storie, per citarne solo alcune8), accompagnano Verdone, in Città dell’uomo, sulla sponda di tendenze modernizzanti. E comunque, se la personalità artistica di Savinio suggerisce uno fra i punti di riferimento in relazione al quale saggiare l’attualità novecentesca del testo verdoniano, sempre in Città dell’uomo si possono intravedere, 7 Id., Teatro breve. Atti unici, Roma, Editori Associati, s.d. (n. 30, collana a cura della SIAD). Una maggiore parte della produzione drammaturgica di Verdone è in M.Verdone, Esercizi teatrali, Roma, Bulzoni, 1993. 8 Id., La piazza magica, Roma, Lucarini, 1984 e Raoul e altre storie, Roma, Fermenti, 1998. 540 ROBERTO SALSANO [7] nella stessa dimensione di un rapporto privilegiato con Siena, spiragli di quell’adesione intima al mondo poetico di un altro antesignano del mondo ideale e umano di Verdone, Federigo Tozzi che può rappresentare, pur nella collocazione di questo scrittore non certo in un’orbita passatista o di semplice tradizione veristica (indubbio il quoziente espressionistico della poetica tozziana), prospettive di scrittura meno unilateralmente spinte verso il diagramma del modernismo avanguardista, più concilianti con una dimensione di umanità e liricità inscritte nel sentimento, in qualche modo naturalistico, d’una realtà di provincia. Del resto il sentimento poetico di Verdone oscillerà ancora e altrove, continuandosi, al di là di Città dell’uomo, una sua attitudine di scrittura moderna e insieme antica, tra il limite del quotidiano e la fuga in un “oltre”, sì che troverà appiglio dalle cose più umili, dalla domestica cornice evidenziata dal titolo Il profumo del terrazzo come dall’irrequietezza del viaggiatore che oscilla tra paese e mondo attraversando esperienze affidate, nelle loro valenze biografiche, simboliche ed allegoriche, ai racconti di Il mito del viaggio9. La bilateralità, per così dire, di un Tozzi insieme modernistico e provinciale, autore presente almeno in palinsesto sul tracciato dell’esperienza del poemetto ma anche, e forse più esplicitamente, in altre composizioni, ad esempio nei drammi raccolti nel volume Correre per vivere, può alludere al dualismo di un’adesione al moderno che non cancella del tutto quel che di meno eclatante e più tradizionale può riflettersi nella memoria e nell’esperienza della condizione moderna a patto tuttavia che lo si ricollochi in un’ampia sfaccettatura di poliedricità estetica e sperimentale entro la quale il progetto artistico converga con orizzonti estetici che tendono ad allargarsi ed intrecciarsi. È sintomatico che Verdone si sia rivolto al futurismo come alla manifestazione artistica e culturale, fra le avanguardie, che più ha impegnato il suo interesse10: balzano infatti vive relazioni tra i caratteri di questo movimento artistico e la forma mentis della sua personalità nel più tipico e costante tratto distintivo. Si pensi alla rispondenza fra il temperamento umano di Marinetti, così proteiforme 9 M. Verdone, Il mito del viaggio. Aforismi e apologhi, a cura e con una nota di Carlo Fini, Siena, Il leccio La copia, 1997. 10 Il futurismo ha costituito parte della biografia ideale di Verdone al punto da essere intensamente introiettato come esperienza soggettiva. Ne è autoconsapevole Verdone stesso che ha intitolato un suo libro su protagonisti e temi futuristi Il mio futurismo. Cfr. M. Verdone, Il mio futurismo. Panorama di protagonisti e temi futuristi, Milano, Nuove edizioni culturali, 2006. [8] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 541 nell’attività dinamica ed extravagante, e quella verve di persona “ubiquitaria” (tale Verdone si ritiene nella nota di prefazione al volume Un percorso di auto-educazione)11 che informa un dispiegamento di studi e di interessi sempre così multiforme e variato. Proprio la collateralità tra il futurismo ed una sperimentazione assai allargata di generi artistici, apprezzata dagli stessi futuristi nel manifesto del Teatro di varietà, anima una radicata prospettiva dell’impegno saggistico di Verdone intesa a visionare un mondo, come recita il significativo titolo di un suo volume, di arti senza frontiere12. Ecco allora congeniale allo strato più profondo delle sue disposizioni intellettuali ed estetiche il rapporto, da lui analiticamente studiato, fra teatro e cinema, da una parte incidente nella parabola storica che vede affermarsi progressivamente il genere più nuovo13 (ma anche al radiodramma significative attenzioni non sono mancate), dall’altra parte inerente al gioco intrinseco di strutture rappresentative retrodatabili fino ai lontani archetipi del “teatro delle ombre”. È certo indubbio che il vettore modernista degli studi di Verdone ha mostrato nel modo più efficace la vicenda dell’intersecarsi delle arti visualizzandola a livello dell’opera intesa come “opera totale”, rappresentazione emblematica non solo delle tendenze futuriste, ma dell’avanguardia storica nel suo complesso in un’ampia e articolata espansione di indirizzi di diversa provenienza. Verdone ha studiato 11 S. Corradi e I. Madia, Un percorso di auto-educazione, cit., p. 21. 12 M. Verdone, Arti senza frontiere, Bologna, Bora, 1993. 13 Dedicato a questo tema è, fra altri, il saggio: M. Verdone, Teatro e cinema: interazioni, in Il teatro nella società dello spettacolo, a cura di C. Vicentini, Bologna, Il mulino, 1983. Estesa è la produzione critica e saggistica di Verdone sul cinema (a cominciare dallo studio, storicamente importante, che ha incrementato la discussione sul nuovo mezzo di comunicazione artistica: Gli intellettuali e il cinema, risalente al 1952 (ripubblicato da Bulzoni, Roma 1982) articolata variamente in pubblicazioni aperte anche ad una fruttuosa divulgazione – si veda ad esempio l’utilissimo Le avanguardie storiche del cinema, Torino, SEI, 1977), sul teatro (fondamentale, fra tanti scritti e ricerche, il Teatro del tempo futurista, Roma, Lerici, 1969 poi Bulzoni 1988), sul circo e sul teatro popolare, sulla danza e su tanti volti di quelle che, nel titolo di un volume di saggi figurano come “Avventure teatrali del Novecento” : Avventure teatrali del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999. Un volume che si impone per ricchezza di documentazione e di investigazione, e che sembra assommare in sé il risultato di una ricerca “totale”, è M. Verdone, Drammaturgia e arte totale. L’avanguardia internazionale. Autori Teorie Opere, a cura di R.M. Morano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. La bibliografia di Mario Verdone va comunque ben al di là dei titoli citati in questa sede. Per una conoscenza particolareggiata vedi la bibliografia contenuta nel volume, citato, di Sofia Corradi e Isabella Madia. 542 ROBERTO SALSANO [9] in vari saggi critici questa caratteristica sviluppando un discorso che, nella cura con la quale definisce certi rapporti tra manifestazioni artistiche distinte ma convergenti in un genere, o puntualizza il riferimento di certi modelli all’applicazione, per via di metamorfosi e pur sul filo di una continuità, di stereotipi di diverso genere (basta pensare ad esempio al fil rouge che collega spettacolo popolare, circo, cinema), potremmo da parte nostra chiederci se non sia un discorso in qualche aspetto convergente con la direzione, se non con la metodologia tecnicamente intesa, di quelle prospettive puntate sull’intertestualità o ipertestualità le quali nell’arco storico tra strutturalismo e poststrutturalismo, ben dunque dopo il futurismo primo novecentesco e comunque in anni dove non sono mancati nuovi paradigmi culturali e artistici, hanno interessato un nodo importante della cultura europea. La stessa notevole disponibilità alla traduzione o riduzione di testi poetici, coltivata da Verdone con particolare costanza, implica qualche eventuale conferma circa la possibilità di indurre, nel frequentatore dell’opera di Verdone nel suo complesso, una visione della letteratura e dell’arte in genere, se non come un sistema di “rete”, come orizzonte di intercambiabilità di temi e motivi ove sembrerebbero inscrivibili, con estensione di riferimento, anche, tuttavia, non solo ai rapporti fra testualità letterarie, ma fra testi letterari e strutture d’altre arti (nella misura almeno in cui queste sono reversibili, pur approssimativamente, alla testualità), nozioni di ipertesto e ipotesto di genettiana memoria. Occorre del resto chiedersi, ancora, se l’interesse, anche critico-riflessivo, per un autore quale Tozzi che dallo stesso Verdone è stato riconosciuto ispiratore di significative sue esperienze letterarie e di un modo particolare di concepire la scrittura, sia in grado di denunciare o invece di eludere un vecchio modo positivistico di intendere le fonti letterarie. Quel che possiamo osservare è che scritti creativi quali Città dell’uomo o Correre per vivere indiziano il ritrovamento, in una certa eredità da Tozzi, di una possibilità di intervento di scrittura originale, personale quanto il sentimento che può ispirarlo, sullo sfondo latente di una implicita disposizione critica generale verso gli auctores, esternata in tanti saggi di studio, non solo storicistica, idealistica o positivistica che sia, ma attiva, in una cornice intertestuale, come un tipo di relazione essenzialmente fenomenologica al documento anche se non aliena, tante volte, da interessi per ciò che riguarda il retroterra biografico e umano che sta dietro i segni dell’arte e delle poetiche. Un segno della estensibilità a categorie metodologiche che sfumano, sfrangiano ogni visuale sul rapporto con le fonti letterarie mecca[ 10] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 543 nicamente puntata entro i parametri di una verifica meramente quantitativa di ciò che è imitato e di ciò che è variato, potrebbe riflettersi nel titolo di una raccolta di testimonianze e giudizi: Diario parafuturista14 qualora ne interpretassimo il prefisso “para” oltre che come apertura a una rievocazione memorialistica di contatti avuti con esponenti italiani ed europei del futurismo, ciò che pure è motivo cardine del libro, come allusione a ciò che costeggia il futurismo nei termini di una obliquità ove la misura esatta dei debiti e delle innovazioni ceda a un discorso più problematico, sfumato e flessibile, in una mappa varia di relazioni nelle quali si arrivino a includere perfino espressioni al futurismo estranee, come quella di Tozzi, ostile al movimento e pur infine recuperabile a più moderati punti di vista. Basta pensare poi a come Verdone ha saputo vedere, in ampi spaccati storici, le varie trasformazioni del futurismo in simbiosi con altre tendenze poetiche, si pensi ad esempio al futurismo cubista o espressionista, e si noterà che alla concezione lineare di un evoluzionismo storico si può sostituire una visione delle esperienze da calibrare nei loro montaggi costitutivi, in quelle configurazioni, cioè, che esprimendo una loro particolare originarietà costitutiva della composizione affievoliscono ogni dipendenza meccanica dei testi dalle fonti. Una marca, in effetti, che ha reso più di altre moderno il punto di vista saggistico storico ma anche compositivo di Verdone sembra essere stata certa attenzione singolare alla testualità artistica intesa come montaggio. In un’area non marginale del suo mondo creativo e della sua ispezione critica, il modello artistico ha mostrato di edificarsi più che secondo un principio lineare, per aggregazione organica di parti. Per questo superamento del modulo lineare si potrebbe pensare a certe acquisizioni, in ambito di costruzione della forma, elaborate dai teorici della Gestalt. Comunque Verdone non si distanzia da un riconoscimento del fattore tecnico della composizione letteraria e drammaturgica e, naturalmente, cinematografica se è vero che proprio l’interesse per il cinematografo incentra esemplarmente siffatta istanza di montaggio. In questo contesto il carattere di convergenza con i tempi della modernità potrebbe collegarsi alla disamina storica di un Benjamin che passa al vaglio modi ed effetti della tecnica nella concezione dell’arte propria di un’epoca che si affida alla riproducibilità delle opere. E tuttavia, in certo sotterraneo o affiorante nesso con una Weltanschauung di conio umanistico, Verdone potrebbe apparire attratto ancora, quasi, dall’“aura”. Intense, 14 M. Verdone, Diario parafuturista, Roma, Lucarini, 1990. 544 ROBERTO SALSANO [11] umanamente fervide, sono sue predilezioni, all’interno della fenomenologia del futurismo, per un meraviglioso che ha chances di apparire, almeno in ultima istanza, non solo nella dimensione tecnica e materiale, pur sempre elevata alla suggestione impalpabile dell’immaginario quale tra montaggio e illusorietà può offrire una “officina delle immagini” (titolo di una raccolta di saggi di quel Ricciotto Canudo, valorizzatore della “settima musa”, che Verdone ha avuto il merito di segnalare alla storia e alla critica delle arti) ma “auratica” in certa misura, o per elementi che più che alla tecnica in assoluto appaiono relazionabili a una dose di idealità, talvolta a un mondo primigenio, mitico infantile, o per riferimenti a paradigmi di poetica ove si afferma il motivo fantastico con un rientro nella vasta corrente del realismo magico avvertito attraverso un incanto personale e sentimentale, non privo a volte di un accondiscendente partecipazione a un fantastico tipicamente fanciullesco (con quanta intima simpatia, intuiamo, egli rievoca le “monellerie” di un Cangiullo!15). Attrazione verso il mito alla quale ha soggiaciuto – le prose di Il mito del viaggio ne sono una conferma – la stessa ansia movimentista insita nella centralità del viaggio che ha occupato l’esperienza biografica analogamente al comportamento stesso dei futuristi; trascendentalità del puer (se vogliamo ricordare una mediazione antropologica e letteraria che ha animato certi parametri demiurgici di talune poetiche della tradizione italiana) insito nel candore della visione immaginosa che focalizza in potenziamento estetico anche aspetti modesti del reale (gli animali, prototipi tozziani, rivisitati in talune poesie di Verdone); attenzione ai tratti estatici e idealizzanti pur rinvenibili nel fondo latente di una sensitività dinamica e aperta all’écart espressivo di certe poesie (non solo a quelli disarmonici e destrutturanti che pur caratterizzano tanta avanguardia), accanto a memorialismo autobiografico, pacatezza intellettuale, passione comunicativa: sono tutti aspetti della personalità che hanno umanizzato atteggiamenti mentali e artistici di questo avanguardista il quale cela una formazione di coscienza e di esperienza dietro ogni giudizio o esperimento, non disdegnando, in definitiva, di guardare, oltre che in avanti, intorno e dietro di sé. Guardare dietro o anche a lato di sé per Verdone ha significato, 15 È un moto di simpatia e adesione, quello di Verdone, che traspare dall’aver posto, con sonora evidenza, uno squillante verso di Cangiullo ove spicca la figura del monello all’inizio del capitolo Il teatro della sorpresa di Francesco Cangiullo (in Drammaturgia e opera totale cit., p. 27). [12] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 545 umanisticamente, guardare ai classici. Non è casuale, circa il quadro della sua evoluzione culturale, che fin i giovanili interessi per la lettura selezionavano, nel ventaglio delle scelte possibili, autori certo importanti nell’orizzonte della modernità ma percepiti, come viene ricordato all’intervistatrice Isabella Madia, proprio come “classici” 16. E scrittori ufficialmente classici, inseribili come tali nel canone, sono stati i modelli che, secondo quanto ricorda Verdone stesso, hanno influito sul suo primo impegno nella scrittura poetica, una scrittura che raccolte poetiche quali Fuoco di miele e Il profumo del terrazzo hanno illustrato nella cornice di una classicità visitata da sensi del “moderno” a cominciare dall’adesione a un verso libero che ha sottinteso, a livello dell’autocoscienza formale, un primo storico personale incontro col futurismo letterario. Dello stesso spiccato interesse di Verdone per la composizione artistica come montaggio, senz’altro bisogna riconoscerne gli aspetti moderni e novecenteschi, come abbiamo osservato, ma quanto al background di questa tendenza, non mancano di allignare, negli anni giovanili dello scrittore, quasi prefigurazioni, solo parziali e pur notabili, di quel ben diverso trasporto modernistico verso le strutture costruttivistiche che può dedursi dall’attività di un montaggio, interessi per strutture testuali, congegni di configurazione, modelli, e si tratta di cliché, però, che un ideale della proporzione coltivano nel proprio patrimonio genetico in termini di stile e di retorica. Riferendosi alla forma compositiva del genere qualificabile come scritto saggistico, genere assai frequentato lungo l’intero arco della sua biografia, Verdone ricorda ad Isabella Madia gli ideali, accarezzati in anni lontani, di una proporzionata struttura e, cosa invero certamente antitetica al progetto marinettiano, di una realizzazione di bella scrittura. Né si può disconoscere una qualche continuità discontinua tra questi accenni di un umanistico profilo retorico estetico e qualche tendenza alla prosa d’arte che tocca anche, solo complementarmente, Città dell’uomo. Tuttavia quel che più ci sembra interessante rilevare è che la componente di una mitologia letteraria raffinatamente stilizzata entro le angolature di un attento ordine formale, la cui ascendenza è rinvenibile fin nella Ronda e nel Cecchi, scrittore certamente ben conosciuto da Verdone, si è realizzata, già a livello della prosa poetica del ’41, nell’equilibrio, lo ribadiamo, con altri ben più drammatici volti estetici e letterari, di marca espressionista, simbolica, allegorica. 16 S. Corradi e I. Madia, Un percorso di auto-educazione, cit., p. 133 e segg. 546 ROBERTO SALSANO [13] Probabilmente, riguardando ed interpretando l’opera intera di Verdone, lo stesso possibile indizio di certi atteggiamenti tradizionalistici sia del poeta che del critico e saggista può rientrare, su una direttrice da noi prospettata come oggettivamente allusiva, nell’attualità di un tempo a noi stessi ravvicinato. C’è un aspetto della sua tanto ampia ed articolata esperienza che lo accosta a una singolare modernità, quello che oltrepassando il più irruente e storicamente datato impegno modernistico dell’avanguardia può porre interrogativi, all’interprete della sua opera, circa eventuali relazioni col postmoderno o, addirittura, col postumo. Ci si può chiedere se una ricezione, criticamente consapevole, delle avanguardie e dello stesso futurismo, in epoca ormai fuori del contesto dell’avanguardia storica, dunque filtrata, da parte di Verdone, da tutte quelle inevitabili mediazioni che pur senza declassare l’istinto di novità e di eversione che quelle esperienze proclamavano ricollocano quest’ultime nei quadri della tradizione letteraria, non comporti eventualmente quella possibilità di recupero o citazione del passato (con quel tanto di frizione che ciò comporta) che il postmoderno sostituisce alla più militante baldanza del verbum novum, o quella possibilità di riesumazione del passato che la condizione del “postumo” nella condizione di un trovarsi “dopo la fine”17 potrebbe attuare traguardando le opere e i giorni del tempo trascorso da un’ottica radicalmente retrospettiva, a salvaguardia, se si vuole (in questo caso paradossalmente trasfigurando l’ottica assolutamente futuristica del futurismo stesso), del pregresso culturale e civile di un’epoca estinta. Ma, più semplicemente forse, l’epocalità del passato ritorna presso Verdone come una categoria concettuale atta a ritessere fili di una dimensione eterna dell’uomo artista nel momento stesso in cui si osservano esperienze anche nuovissime. Ragionando sui nuovi segni costituiti dalla concezione futurista della poesia visiva il critico, dopo essersi chiesto se, trattando spesso di futurismo, non possa essere considerato egli stesso un passatista, osserva: “Non solo vedo segnali antichi di poesia visiva nei geroglifici, nelle criptografie latine e medioevali, negli scudi, vessilli, blasoni e imprese del linguaggio araldico, nelle poesie in forma di croce, di rosa, di albero, di zampogna, o di pioggia (Apollinaire), ma una indicazione precisa è soprattutto in Leonardo da Vinci…” e cita poi alcuni versi di Dante18. Quel che è certo è che Verdone ha perpetuato soprattutto, alla 17 G. Ferroni, Dopo la fine, Torino, Einaudi, 1996. 18 M. Verdone, Diario parafuturista, cit., p. 158. [14] HUMANITAS E ORIZZONTI DEL MODERNO IN MARIO VERDONE 547 memoria dei posteri, figure esemplari del secolo scorso: nella sua opera possiamo, a diversi livelli di manifestazione rileggerne tracce significative. Né è mancata qualche tendenza a teorizzare sulla poesia che dalle pagine storiche e saggistiche passa a motivo, talvolta, della personale poesia, con varchi alla metaletterarietà secondo un indirizzo analogo a un carattere di autocoscienza critica che le poetiche del Novecento, non escluso il futurismo poetico-teorico, assumono quale fattore programmatico e in atto della stessa poiesi. Valga l’ultimo componimento, Sentimenti che sopravvivono, della raccolta postuma Versi e memorie. Ponendosi sul versante d’una illazione metatestuale, brillano, quasi a conferma d’un intreccio tra diverse sfumature di sensibilità, come in simbiosi, da una parte la suggestiva immagine metaforica del metallo lavorato, alludente al processo artistico inteso antiretoricamente nel suo aspetto di concreta operosità, di lavoro essenzialmente materiale (in linea con la fervente pragmaticità dell’idea futurista della poesia) sia pure raffinato da un progetto estetico, e, dall’altra parte, segni d’un’humanitas lirica e memoriale, fervidi moduli evocativi rivolti al passato, un passato che tuttavia non si isola, e da preterito si fa, nel presente, futuro: Nei versi che scrivo sono raccolti coagulati memorizzati i miei sentimenti. Quando non sarò più i miei sentimenti restano lì come incisi metallo battuto ingentilito dall’artigiano – lavorato che non si è disperso che sopravvive19. Roberto Salsano (Università di Roma Tre] 19 Id., A Cantalupo in Sabina. Versi e memorie, Cantalupo in Sabina, Edizioni sabine, 2009, p. 67. Meridionalia ALESSIA PIRRO Il “secondo mestiere” di Michele Prisco Starting from an inquiry on the meaning of an expression which Michele Prisco often used to refer to his journalistic activity and on the basis of an investigation which has never been carried out before concerning Prisco’s journalistic output, the article aims to draw critical attention to the relationship between the author’s journalism and his literature. From the early 1940s almost up to the author’s death this relationship did not always express itself in the same way. […] ma veramente siete un giornalista? [disse il contadino]. […] sorrisi e dissi di sì, ch’ero giornalista. – Giornalista di sopra i giornali? […] Ma il giornalista, per spiegarmi meglio, non è quello che scrive la politica e i fatti della gente che si spara o va sotto i treni? – Dissi ch’ero un altro tipo di giornalista: viaggiavo, ogni tanto, e raccontavo quel che vedevo: fu la sola spiegazione alla buona che mi riuscì di trovare. E uno degli altri cognati […] disse saputo: – E tu che ti credi? Lui è giornalista agricolo, per farti capire. Si vede che pure fra i giornalisti ci sono le specializzazioni. Ecco – dissi, – come fra voi: chi coltiva ortaggi e chi alberi da frutta, chi l’uva e chi il grano. – E mi venne da pensare ai critici: chi lo sa le mie cose come sono classificate, se della famiglia degli ortaggi o delle graminacee o degli alberi da frutto. (M. P., Il podere1) Tutti gli studi su Michele Prisco si sono concentrati finora sulla sua opera narrativa. 1 M. Prisco, Il podere, «Il Mattino», 6 settembre 1962. [2] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 549 Ad eccezione di sporadici, ed in parte inattendibili, accenni alla collaborazione a qualche giornale contenuti nei saggi critici dedicati al narratore2, di alcune brevi considerazioni sul giornalismo fornite dall’Autore nell’ambito di interviste3, anch’esse come i saggi incentrate sulla produzione narrativa dello scrittore, di alcuni articoli apparsi sui giornali e poi confluiti nei suoi libri4 e dello scritto 2 P. Giannantonio, Invito alla lettura di Michele Prisco, Milano, Mursia, 1977, pp. 6, 14-19; Michele Prisco – Una vita per la Cultura, a cura di L. Luisi, Cassino, Ente Fiuggi, 1986, pp. 37-38; C. Aliberti, La narrativa di Michele Prisco, Foggia, Bastogi, 1994, pp. 14-17; Aurelio Benevento, Michele Prisco – Narrativa come testimonianza, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2001, pp. 7-9; L. Rocco Carbone, Incontro con l’autore Michele Prisco, Napoli, Massa Editore, 2004, 2ª ed., p. 14, pp. 72. Collocati di solito nelle sezioni riservate alla biografia, i riferimenti al lavoro di giornalista di Michele Prisco si limitano all’indicazione del nome di qualche giornale («Il Mattino», il «Corriere della Sera», «Oggi», «Il Giornale d’Italia», «Il Messaggero», il «Corriere del Mezzogiorno», «Il Risorgimento», «Il Nuovo Corriere », la «Gazzetta del Popolo», «Il Mattino di Napoli») o rivista («La Lettura», «Aretusa», «Mercurio», «Le ragioni narrative») a cui lo scrittore collaborò. Talvolta è specificata la data d’inizio della collaborazione o l’arco di tempo in cui essa avvenne; quasi sempre, però, le informazioni cronologiche differiscono da un autore all’altro e, in alcuni casi, sono in contrasto con la storia stessa dei periodici interessati. 3 Mi riferisco in particolare alle considerazioni espresse da Michele Prisco nelle interviste raccolte in volume: a quelle incluse nell’intervista di G. Marinelli, con cui si apre il volumetto da lei curato Michele Prisco – Una vita per il romanzo, Napoli, Edizioni del Delfino, 1998, p. 15; a quelle nell’intervista di L. LUISI, posta all’inizio della raccolta di saggi da lui curata Michele Prisco – Una vita per la Cultura, cit., pp. 53-55; a quelle nell’intervista di G. Amoroso, al principio del suo saggio Michele Prisco, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 3-4, 8. Ulteriori risposte dell’Autore ad interviste o a inchieste in cui, più o meno marginalmente, è affrontato il tema della sua attività giornalistica, come pure altre sue dichiarazioni sulla storia del giornalismo e su alcuni dei suoi protagonisti, sono state, infatti, pubblicate sui giornali o rilasciate da Prisco nell’ambito di trasmissioni televisive, di incontri-dibattiti a lui dedicati nel corso degli anni; sarebbero, dunque, rimaste molto probabilmente ignote, se, nel caso di quelle più recenti, non fossero state da me preservate al momento della loro uscita sui giornali (come ad esempio quella di T. Marrone, Il compleanno – Prisco, fedeltà come stile, uscita su «Il Mattino» il 4 gennaio 2000) o non mi fossero state consegnate personalmente dai loro autori (come quella di E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, uscita sul «Roma» il 18 gennaio 2000), e, ancora, nel caso soprattutto delle più vecchie, ma non solo, se l’Autore non avesse avuto a suo tempo la premura di conservarle o farle registrare e, più tardi, le sue figlie, Annella e Caterina, non mi avessero concesso l’opportunità di consultarle. 4 Quattro sono le raccolte di racconti di Michele Prisco contenenti articoli in precedenza usciti sui giornali: Fuochi a mare, Milano, Rizzoli, 1957; Punto franco, Milano, Rizzoli, 1965; Il colore del cristallo, Milano, Rizzoli, 1977; Terre basse, 550 ALESSIA PIRRO [3] dichiaratamente in parte autobiografico La parabola dello scrittore5, con le riflessioni da esso scaturite6, nulla si conosce ad oggi sull’attività giornalistica di Michele Prisco: quella che, in più occasioni, egli definì il suo “secondo mestiere”7. A partire proprio da un’interrogazione sul senso dell’espressione adottata dall’Autore, tre anni fa, in vista della mia tesi di laurea, ho intrapreso una ricerca sulla produzione giornalistica prischiana. Attraverso una serie di indagini, condotte tanto presso l’Associazione della Stampa quanto presso l’Emeroteca Tucci e quella della Biblioteca Nazionale di Napoli, grazie alla testimonianza di alcuni vecchi colleghi dell’Autore, quali Lino Zaccaria ed Ermanno Corsi, alla consultazione di una parte della corrispondenza con Gino Montesanto, Rocco Scotellaro e Laudomia Bonanni, ma, soprattutto, mediante la lettura, l’analisi e il tentativo di mettere ordine nella sterminata quantità di articoli conservati nella casa dello scrittore, in Via Stazio, a Napoli, mi sono addentrata in molti aspetti ancora ignoti dell’attività giornalistica di Michele Prisco: dal numero di testate su cui egli scrisse, di gran lunga superiore a quello finora conosciuto, alla cronologia e alla consistenza, sia pure ancora approssimative, delle sue collaborazioni; dalle sue corrispondenze con l’estero al suo ricorso a pseudonimi; dalle diverse categorie in cui i suoi articoli possono essere iscritti al suo rapporto con la scrittura giornalistica nel tempo. A poco a poco, da punto di partenza qual era, la domanda sull’espressione “secondo mestiere” è divenuta il nucleo di fondo del mio lavoro. Sempre più mi è apparso chiaro, infatti, che essa rac- Milano, Rizzoli, 1992. Oltre ai racconti, pur con alcune modifiche, l’Autore ha raccolto in volume alcuni ricordi di amici e colleghi ed alcuni articoli di viaggio da lui pubblicati sui giornali: da qui il volume a tiratura limitata Ritratti incompiuti, Roma, I.P.S. editrice, 1986, riedito dalla stessa casa editrice nel 1987, con l’aggiunta del ricordo di Antonio Altomonte, e il libro di articoli di viaggio Il cuore della vita, Torino, SEI, 1995. 5 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., pp. 225-228. Sul carattere in parte autobiografico de La parabola dello scrittore cfr. la risposta di Michele Prisco all’intervista di Giuseppe Amoroso in G. Amoroso, Michele Prisco, cit., p. 3 e quella all’intervista di P. Gargano, uscita su «Il Mattino» del 14 febbraio 1978 col titolo La paura del silenzio. 6 Interessante è soprattutto l’analisi di A. Zambardi nel suo saggio Borghesia e letteratura – Analisi semisociologica dell’immaginario attraverso l’opera narrativa di Michele Prisco, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 143-144. 7 Cfr. in particolare la risposta di M. Prisco all’intervista di G. Marinelli in Michele Prisco – Una vita per il romanzo, cit., p. 15 e la prefazione dell’Autore al suo libro Il cuore della vita, cit., p. VII, Giustificazione di un libro. [4] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 551 chiudeva in sé la ragione del disinteresse della critica nei confronti della produzione giornalistica dell’Autore e, assieme, la necessità di uno studio in tale direzione. Attorno ad essa si giocava tutta la problematicità di un’interpretazione di Prisco giornalista: il senso di quel rapporto, conflittuale per molti versi, ma imperituro che, nell’Autore, il giornalismo ebbe con la letteratura. ★ ★ ★ La produzione giornalistica prischiana copre un sessantennio di storia del giornalismo italiano: dagli inizi degli anni Quaranta del Novecento al principio del Duemila, quasi fino alla morte dello scrittore, avvenuta nel novembre del 2003. Nell’arco di tal periodo l’Autore scrisse su ben centootto testate distribuite sull’intero territorio nazionale: da giornali aventi un’amplissima diffusione già al tempo in cui egli cominciò a pubblicarvi i suoi “pezzi”, come «Il Mattino», «Il Messaggero», «Il Secolo XIX», il «Messaggero Veneto», il «Corriere della Sera», «Il Resto del Carlino», il «Giornale di Sicilia», «Il Nostro Tempo», a periodici legati a piccole realtà locali, come «Torrequick» e «Il Giornale di San Severo», o addirittura di quartiere, come «Il Vomero»; da giornali appartenenti ai settori più disparati, spesso lontani dalla letteratura, come «Guerin sportivo», «La Voce dei Sarti», «Cinema d’oggi », «La Gazzetta delle arti», a riviste, invece, più propriamente letterarie, alla fondazione di una della quali in particolare, «Le ragioni narrative»8, egli stesso contribuì; da quotidiani a giornali a scadenza settimanale, quindicinale, mensile. Oltre che su testate distribuite in Italia, Prisco scrisse su quattro testate diffuse all’estero: «Il Popolo italiano», «La Voce d’Italia», «Cronaca», «Il Risorgimento», rispettivamente pubblicati negli Stati Uniti, in Francia, a Il Cairo, a Buenos Aires. 8 Nata nel 1960, la rivista ebbe tra i suoi più stretti collaboratori Domenico Rea, Mario Pomilio, Luigi Incoronato, Gianfranco Vené. Negli “anni della dissoluzione programmatica delle forme e delle funzioni del romanzo tradizionale ad opera delle avanguardie, dell’ecole du regard e poi, in Italia, del Gruppo 63”, essa si propose una “difesa del romanzo”: “non già [in quanto] […] mero genere letterario, ma [come] forma-valore dell’umanesimo, struttura antropologica dell’immaginario chiamata ancora a rappresentare le superstiti ragioni dell’uomo moderno” (E. Giammattei, Introd. al quinto quaderno della collana “Quaderni del Circolo”, curata da S.G. Bonsera, Potenza, RCE edizioni, 2000, pp. 12-13). A causa di difficoltà economiche, la rivista cessò le sue pubblicazioni dopo meno di due anni. 552 ALESSIA PIRRO [5] In ordine di consistenza delle relative collaborazioni – da quelle più fitte a quelle più sporadiche a quelle, finanche, isolate – le testate su cui uscirono articoli dell’Autore sono9: «Il Mattino» (Napoli), «L’Arena» (Verona), «Il Giornale d’Italia», (Roma), «Il Messaggero» (Roma), «La Gazzetta del Mezzogiorno» (Bari), «Il Resto del Carlino» (Bologna), «Il Secolo XIX» (Genova), «Gazzetta del Popolo» (Torino), «Il Nostro Tempo» (Torino), «Giornale di Sicilia» (Palermo), «Il Gazzettino» (Venezia), «Messaggero Veneto» (Udine), «Idea» (Roma), «La Fiera Letteraria» (Roma), «Il Tempo» (Roma), «L’Indipendente» (Milano), «Il Giornale dell’Emilia» (Bologna), «Corriere della Sera» (Milano), «Milano Sera» (Milano), «Il Giornale» (Napoli), «La Nazione» (Firenze), «Il Nuovo Corriere» (Firenze), «Il Mattino d’Italia» (Napoli), «La Città» (Salerno), «Corriere del Mezzogiorno» (Napoli), «Il Lavoro Nuovo» (Genova), «La Voce» (Napoli), «Gazzetta del Popolo della Sera» (Torino), «Corriere d’informazione» (Milano), «Il Risveglio di Stabia» (Castellammare di Stabia), «Giovedì» (Roma), «Guerin sportivo» (Milano), «La Brigata » (Bologna), «Le ragioni narrative» (Napoli), «La Sicilia» (Catania), «Il Giornale di Brescia» (Brescia), «Il Vesuvio» (Napoli), «Il Popolo italiano» (U.S.A.), «Il Tirreno» (Livorno), «Corriere di Sicilia » (Catania), «Il Risorgimento Nocerino» (Nocera Inferiore), «l’Impegno » (Nola), «Pomeriggio» (Bologna), «La Provincia» (Como), «La Voce Repubblicana» (Roma), «Avvenire» (Milano), «Mondo operaio » (Roma), «Il Risorgimento» (Napoli), «Gazzetta di Parma» (Parma), «Il Corriere Lombardo» (Milano), «Tre Notizie» (Napoli), «Corriere di Napoli» (Napoli), «L’Unione sarda» (Cagliari), «Il Progresso d’Italia» (Bologna), «Gazzetta Veneta» (Padova), «L’Ora» (Palermo), «Libertà» (Piacenza), «Cronaca» (Il Cairo), «Il Veneto» (Padova), «Corriere vesuviano» (Napoli), «Noi dell’Aerfer» (Pomigliano d’Arco), «Meridiano di Roma» (Roma), «Il rievocatore» (Napoli), «La Caravella» (Roma), «La Lettura» (Milano), «Il Risorgimento» (Buenos Aires), «Alfabeto» (Roma), «Il Mattino del Popolo» (Venezia), «Gazzetta Padana» (Ferrara), «La Voce d’Italia» (Francia), «Aristocrazia» (Sardegna), «Alto Adige» (Bolzano), «Ordine» (Como), «Tempo libero » (Como), «Bis» (Torino), «La Voce del Mezzogiorno» (Napoli), 9 Tanto l’ordine in cui le testate sono disposte quanto il loro numero riflette lo stato delle ricerche da me svolte finora nella casa dell’Autore, presso l’Emeroteca Tucci e quella della Biblioteca Nazionale di Napoli; non pretende pertanto di essere definitivo. [6] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 553 «Domenica» (Roma), «il Mastro di Posta» (Napoli), «la Settimana nel Sud» (Salerno), «Il Mondo» (Roma), «Quarta dimensione» (Milano), «Pattuglia» (Forlì), «Enne Due» (Torre Annunziata), «Quinta generazione» (Napoli), «Il Vomero» (Napoli), «Stampa Sera» (Torino), «Corriere della Regione» (Castellammare di Stabia), «Il Giornale di San Severo» (San Severo), «Proposte» (San Severo), «Nuova Stagione» (Napoli), «Gazzetta di Mantova» (Mantova), «Questioni di letteratura» (Giarre), «Il Giornale del Mezzogiorno» (Roma), «Il Giornale di Vicenza» (Vicenza), «La Città» (Firenze), «La Voce dei Sarti» (Napoli), «La vetta» (Castellammare di Stabia), «Orizzonti d’Abruzzo» (Pescara), «Torrequick» (Torre Annunziata), «Il Sabato» (Milano), «Roma» (Napoli), «Il Popolo del lunedì» (Catania), «Corriere del Giorno» (Taranto), «La Voce di Napoli» (Napoli), «Italia oggi» (Milano), «La Gazzetta delle Arti» (Venezia), «Lombardia oggi» (Varese), «Terrazza» (Napoli), «Sabato sera» (Napoli), «Gazzetta del Sud» (Messina), «Avanti!» (Roma), «Cinema d’oggi» (Roma). Non potendo riassumere in questa sede gli esiti di un lavoro che ha avuto come oggetto un materiale vastissimo ed assai esteso negli anni e volendo al tempo stesso provare a fornirne la chiave, ritengo opportuno soffermarmi proprio su quella che, come accennavo, è stata la domanda da cui esso ha preso le mosse: che cosa intendeva Michele Prisco con l’espressione “secondo mestiere”? che cosa rappresentò, in ultima analisi, per lui l’attività giornalistica? ★ ★ ★ Nel 1998, quando Gioconda Marinelli gli chiede “[…] cosa ne pensa del suo lavoro di giornalista?”10, Michele Prisco precisamente risponde: Brutalmente ho sempre considerato il lavoro giornalistico il mio gagnepain, diciamo il mio “secondo mestiere”, dal momento che non sono un narratore, anche se di buon successo medio, che possa vivere solo dei rendiconti dei suoi diritti d’autore. […]11. Ancor prima, nel racconto La parabola dello scrittore, uscito il 1° novembre 1976 sul «Corriere della Sera» e confluito l’anno seguente nella raccolta Il colore del cristallo, egli scrive: 10 G. Marinelli, in Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15. 11 Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15. 554 ALESSIA PIRRO [7] […] viveva in un paese nel quale i guadagni dei diritti d’autore non erano mai tali da consentire una piena indipendenza economica anche ad uno scrittore che, come lui, potesse considerarsi mediamente un autore di successo, sicché come a quasi tutti i suoi colleghi gli toccava d’esercitare un secondo mestiere. […] molti suoi colleghi lavoravano nel cinema o alla televisione […]; altri erano consulenti di case editrici e maneggiavano dunque grosse leve di potere […]; altri infine svolgevano un lavoro del tutto differente – erano medici o funzionari statali o professori eccetera […]. Col più modesto ruolo di collaboratore alla terza pagina dei giornali lui aveva ritenuto d’aver risolto la quadratura del cerchio, come si dice: insomma si sentiva in pace – anche col suo bilancio domestico12. Dai passi riportati – i più noti sull’argomento, perché entrambi pubblicati in volume – emerge una visione utilitaristica del giornalismo: il giornalismo è presentato come un mezzo per guadagnare il pane (un gagne-pain13, dice l’Autore), un’attività da affiancare alla stesura di romanzi e racconti al fine di garantire a chi scrive un’indipendenza economica. In linea con tale visione, congiunta, come è suggerito nella stessa Parabola dello scrittore14, al più vasto processo di delegittimazione del fare letterario da tempo in atto in Italia e alla conseguente necessità per gli scrittori di trovare nuove e diverse forme di sostentamento accanto alla scrittura narrativa15, l’espressione “secondo mestiere”, presente in tutti e due i passi citati, sembrerebbe avere né più né meno che il significato di “mestiere aggiunto”. Una visione utilitaristica del giornalismo, a ben vedere, è al fondo anche di alcuni racconti di Michele Prisco usciti sui giornali nel corso degli anni. Accomunati dalla presenza di uno scrittore-giornalista, la cui voce di solito coincide con quella del Narratore, e quasi tutti in prima persona, Fogli ingialliti16, Racconto su Anna17, Un trasloco movimenta- 12 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., p. 226. 13 Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15. 14 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., p. 226. 15 Sulla necessità per gli scrittori italiani di ricorrere ad un “secondo mestiere” per assicurarsi un’indipendenza economica cfr. anche le osservazioni di Prisco nell’intervista televisiva di Vincenzo Manganiello del 20 marzo 1983, in V. Manganiello, Incontri. Interviste con 26 napoletani, Napoli, Fiorentino, 1983, pp. 338-339. 16 Id., Fogli ingialliti, «Tre Notizie», 13 dicembre 1953. 17 Id., Racconto su Anna, «Il Mattino», 10 marzo 1954. [8] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 555 to18, Sul terrazzo19, Racconto su Antonia20, Le due telefonate21, più che sull’aspetto funzionale dell’attività giornalistica insistono, tuttavia, sull’aspetto emotivo legato a quest’ultima, sullo stato d’animo dello scrittore che collabora ai giornali: quello che, ne La parabola dello scrittore, proprio in relazione al giornalismo, l’Autore indica come “la fatica del ‘secondo mestiere’”22: […] non avevo voglia di lavorare eppure bisognava mi costringessi al tavolino per scrivere i due “pezzi” regolamentari da mandare al giornale, (il mese sta per finire), e allora per svegliare le idee e scaldarmi la mente mi sono messo a spolverare i libri levandoli dalle scansie e ingombrando la stanza. […] Rimettiamoci a tavolino, cerchiamo almeno di scrivere un pezzo, dei due che mi occorrono: la mattinata non sarà sprecata […]23. … […] mi son messo una vecchia coperta sulle gambe, nello studio, e ho già consumato inutilmente e oziosamente un paio di sigarette nell’attesa di riscaldarmi, soprattutto dentro di me, per scrivere un pezzo da mandare al giornale. Il quaderno è aperto sulla scrivania, la pagina è bianca, non ho nemmeno segnato il titolo, mi verrà dopo. E non ho idee: o più esattamente, le ho confuse, ancora annebbiate: la verità è che non mi va di scrivere un pezzo su commissione. Bisognerà pure che mi risolva: il giornale lo richiedeva in un termine perentorio che a giorni scade, ho paura, e tuttavia fisso svogliatamente il foglietto a quadretti che resta vuoto24. … Fu un paio d’anni fa, in piena estate, e in occasione del trasloco ormai imminente, che mi pervenne un invito a scrivere un pezzo sulla “jettatura” per un almanacco che si andava preparando. […] Se c’è una cosa in cui non credo è la jettatura; se c’è una cosa che m’infastidisce è questo perenne, superficiale riferimento alla napoletanità come capacità di colore […]25. 18 Id., Un trasloco movimentato, «Il Mattino», 4 febbraio 1961. 19 Id., Sul terrazzo, «Il Mattino», 31 luglio 1965. 20 Id., Racconto su Antonia, «Il Mattino», 14 aprile 1970. 21 Id., Le due telefonate, «Il Mattino», 14 febbraio 1966. Il racconto sarà ripubblicato il 18 marzo 1966 sulla «Gazzetta del Popolo» col titolo Cose di mestiere. 22 Id., La parabola dello scrittore, in Il colore del cristallo, cit., p. 226 23 Id., Fogli ingialliti, cit. 24 Id., Racconto su Anna, cit. 25 Id., Un trasloco movimentato, cit. 556 ALESSIA PIRRO [9] … Da poco è passata la mezzanotte: entra, dai balconi aperti sul terrazzo, il leggero vento marino che assottiglia l’aria e dà il senso della città addormentata, sono pochi e radi ormai quassù i rumori […]. […] ritorno alla scrivania. Devo scrivere l’elzeviro per il giornale, ma non ho proprio idee, questo è il fatto. Una macchina passa romandando sulla strada, dev’essere del tutto vuota la strada a quest’ora: sarebbe bello camminarci adagio, con un amico accanto, parlando di libri: come ai bei tempi della giovinezza26. … […] io qui alla scrivania già da un’ora non faccio che distrarmi, perdere tempo, mettere un disco dopo l’altro, aspettando di riscaldarmi, se così posso dire, per scrivere un pezzo da mandare al giornale. Forse non è una giornata felice (dico per me, per il lavoro); forse ancora non mi sono completamente riadattato alla nuova stanza (abbiamo cambiato casa di recente […]): il fatto è che il quaderno, davanti, è ancora intatto, e lo sguardo sull’onda della musica si distrae e guarda fuori. […] l’importante è scrivere il pezzo. Speriamo di farcela27. … Comprato il giornale, lo apriva subito, immancabilmente, alla terza pagina: quando vi trovava un suo articolo due pensieri uguali e contrari gli attraversavano simultanei la mente: uno era quello, rasserenante, che gli traduceva nella cifra del compenso le colonne di stampa, e lo faceva respirare di sollievo all’idea che per il mese venturo era assicurata una somma base; l’altro era quello del prossimo articolo da scrivere e inviare, e lo faceva sospirare di pena all’immediata ricerca d’un appiglio che gli offrisse la possibilità di poter scrivere qualcosa. 28 Anche da una rapida scorsa ad alcuni stralci dei racconti in questione, viene fuori l’immagine di uno scrittore-giornalista nell’attesa spossante, e spesso affannosa, di rintracciare spunti per i suoi “pezzi”; incalzato dalle scadenze imposte dal giornale per cui lavora; in certi casi infastidito dall’invito a scrivere su un determinato tema o all’improvviso preso dalla nostalgia dei libri: sempre di- 26 Id., Sul terrazzo, cit. 27 Id., Racconto su Antonia, cit. 28 Id., Le due telefonate, cit. [10] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 557 midiato tra il bisogno di assicurarsi una somma base per il mese venturo e l’obbligo di sottostare a regole che con l’estro sembrano avere poco a che fare. Il giornalismo, nei racconti citati, non appare più soltanto come un “mestiere aggiunto”, come un’attività collaterale alla scrittura narrativa senza che su di essa ricadano giudizi di sorta, ma come un’attività che richiede compromessi ad uno scrittore, e che molte volte è sofferta. A partire dai racconti, il senso dell’espressione “secondo mestiere”, dunque, si complica: accanto al significato immediato, neutrale, di “aggiunto al primo”, a cui si accennava all’inizio, nell’aggettivo “secondo” cominciano a insinuarsi i significati di “altro”, di “nuovo”, di “differente rispetto al primo”, quando non addirittura quello di “inferiore al primo per valore e importanza”. Inizia a profilarsi, sin dai racconti di Prisco, la questione del rapporto tra giornalismo e letteratura, sebbene in essi sia prospettata in un unico modo, traducibile in una sostanziale estraneità tra i due o, quanto meno, in una loro forte conflittualità. Tal modo di intendere il rapporto tra giornalismo e letteratura è esemplificato in particolare nel racconto Le due telefonate (il solo, di quelli menzionati, in cui ricorre l’espressione “secondo mestiere”): G. […] tu sai bene che non si può mai giudicare uno di noi dalle cose che scriviamo sui giornali: è il nostro secondo mestiere, questo […] F. […] siamo per i primi convinti che le nostre cose di mestiere non valgono niente […] G. […] lo sappiamo no?, che son cose di mestiere! […]29. Lo scambio di battute che intercorre tra i tre scrittori-giornalisti protagonisti del racconto, con il suo completo disconoscimento del prodotto giornalistico rispetto a quello letterario, rappresenta la manifestazione più estrema di quella visione, utilitaristica e cupa insieme, che si coglie nei racconti dell’Autore contenenti un riferimento all’attività giornalistica. Pur senza arrivare alle conclusioni radicali incluse nel racconto Le due telefonate, una visione del giornalismo analoga a quella che si desume dai racconti, in parte affidata agli stessi motivi, si ritrova in Prisco anche al di fuori di un contesto narrativo: in partico- 29 Ibidem. 558 ALESSIA PIRRO [11] lare, negli articoli L’elzeviro di Clotilde30 e Qualche ritocco: la maturità va31. Nel primo, un ricordo della scrittrice-giornalista Clotilde Marghieri, pubblicato a quasi due anni dalla sua scomparsa su «Il Mattino» del 1983, l’Autore mette in evidenza il diverso approccio che, al momento di redigere un “pezzo”, contraddistingue uno scrittore che collabora ai giornali rispetto ad un giornalista di professione; e, soprattutto, sottolinea il disagio provato dallo scrittore nel dover imporsi uno “spazio”32: […] il giornalista di professione che si accinge a scrivere un pezzo, e quasi sempre su commissione, si mette alla macchina da scrivere e in breve tempo riempie le cartelle prescritte (che adesso, con le nuove tecnologie, sono fatte in modo da regolare le righe e le battute, così che in precedenza l’impaginatore sa quanto spazio debba calcolare). Anche lo scrittore che collabora a un quotidiano è munito delle stesse cartelle (provvede a dargliele il giornale), solo che egli è abituato a scrivere a mano e, dopo che ha corretto quanto ha scritto, ricopia a macchina e spesso, non avendo bene fatto i calcoli, deve sul dattiloscritto tagliare o aggiungere e, di conseguenza, nuovamente ricopiare33. Sempre nel medesimo articolo, dopo un elogio della scrittura, Prisco ancora puntualizza: Nessun’altra attività, forse, provoca, tante emozioni e tumulti e piaceri; solo che vi si aggiunge, se siamo obbligati a scrivere per un giornale su un tema, che di solito ci è richiesto, anche una sorta di lacerazione, il conflitto in altri termini, di dover svolgere un compito e il sentimento di volerlo svolgere senza tradire la propria libertà interiore34. L’insofferenza provocata dalla necessità di vincolare la scrittura ad uno spazio preciso e di affrontare un tema piuttosto che un altro è ribadita nel secondo articolo. Scritto in risposta ad una lettera pubblicata sul giornale salernitano «La Città», nell’ambito di una rubrica tenuta dall’Autore nel 1996, esso possiede una forza polemica ancora maggiore del precedente, 30 Id., L’elzeviro di Clotilde, «Il Mattino», 14 maggio 1983. 31 Id., Qualche ritocco: la maturità va, «La Città» (Salerno), 30 giugno 1996. 32 Id., L’elzeviro di Clotilde, cit. 33 Ibidem. 34 Ibidem. [12] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 559 probabilmente attribuibile al fatto che, anziché limitarsi a fare delle generiche considerazioni sull’attività dello scrittore-giornalista, anziché riferirsi ad un ipotetico scrittore-giornalista, stavolta Prisco esprime una sua reazione in quanto scrittore-giornalista. Proprio come alcuni racconti, il “pezzo” comincia con una lamentela, che, nel caso specifico, suona quasi una rimostranza: Lo sapevo, anzi lo temevo: l’esame di maturità è una scadenza, e le scadenze sono implacabili. Ma ancor più implacabile è la scadenza d’esserne chiamato a scriverne: voglio dire che ogni anno, nell’attesa o in coincidenza con le prime prove scritte affrontate dagli studenti, chi si trova a collaborare ad un quotidiano non sfugge alla richiesta del direttore o del redattore alla cultura di scrivere un articolo o anche trenta righe (perché nei giornali, come saprà, i “pezzi” sono commissionati matematicamente: hanno, d’altronde, per esigenze di spazio, una misura, una lunghezza deputata non alla fantasia o all’estro dello scrivente ma alla necessità del committente o meglio del menabò), di riflessione o ricordo o semplicemente di divagazione su questa esperienza […]. Quest’anno la sua lettera ha sostituito la richiesta del direttore, ma le cose non cambiano35. Al di là del carattere fittizio o meno delle lettere uscite su «La Città», come in fondo dello stesso tono polemico adottato dall’Autore (che potrebb’essere, sì, il segno di un autentico sfogo, ma anche un atto di provocazione “dovuto”, richiesto da un giornalismo ormai estenuato), la visione del giornalismo che traspare dall’articolo è coerente con quella fin qui delineata. Dal complesso dei documenti presi in considerazione (dalla risposta di Prisco alla domanda sul suo lavoro di giornalista rivoltagli dalla Marinelli nel 1998 al passo tratto da La parabola dello scrittore del 1976, dai racconti usciti sui giornali tra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta in cui compare uno scrittore-giornalista agli estratti degli articoli L’elzeviro di Clotilde e Qualche ritocco: la maturità va, rispettivamente del 1983 e del 1996), emerge una visione dell’attività giornalistica priva di contraddizioni. Nel solco di tale visione per lo più si è mossa la critica finora. Trascurando la questione del rapporto tra giornalismo e letteratura o meglio affrontandola nei termini in cui essa è stata sopra illustrata – quelli di una sostanziale estraneità o di una forte conflittualità tra i due ambiti –, la critica ha finito per incunearsi in una 35 Id., Qualche ritocco: la maturità va, cit. 560 ALESSIA PIRRO [13] lettura dicotomica dell’attività prischiana (la letteratura da un lato, il giornalismo dall’altro) e per concentrarsi unicamente su quella parte della produzione giornalistica dell’Autore da lui ritenuta meritevole di assurgere a testo letterario. In conseguenza di questa visione e di quest’atteggiamento della critica, non solo è calata un’ombra sulla produzione giornalistica di Michele Prisco non confluita nei suoi libri, ma, soprattutto, è rimasta in sospeso, non indagata fino in fondo, la questione del rapporto tra giornalismo e letteratura nell’Autore. A spingere in una direzione diversa da quella in cui fino ad oggi ha proceduto la critica è, però, Prisco stesso: non solo attraverso la costante trasmigrazione dei suoi pezzi giornalistici nella sua produzione letteraria e, viceversa, già di per sé testimonianza incontrovertibile di un raccordo da lui voluto, pensato, tra giornalismo e letteratura e, quindi, stimolo ad approfondire la conoscenza della sua produzione giornalistica, ma anche attraverso una particolare visione del giornalismo che, in contrasto con quella fin qui tratteggiata, è presente qua e là nei suoi scritti. Pur non tradendo la sua immagine di “animale narrativo”36, anzi, piuttosto rimarcandola, in alcuni passi, parte dei quali contenuti in quegli stessi scritti di cui si è fatta menzione, l’Autore rappresenta il giornalismo come un’attività piacevole per uno scrittore, capace di procurargli delle soddisfazioni, non in conflitto con la letteratura. Nel racconto La parabola dello scrittore, dove pure, come si è osservato, egli accenna alla “fatica del ‘secondo mestiere’”37, a un certo punto è descritto il gradevole abbandono con cui il protagonista, dietro cui si intravede l’Autore, si appresta a scrivere un suo articolo: […] scrivere a sera nel silenzio dello studio un racconto – fra i libri e i quadri, e in sottofondo un disco – gli procurava ogni volta una leggera eccitazione, uno stato d’amabile euforia. Era una sorta d’appuntamento misterioso a cui sentiva di non poter mancare e che d’altronde, per il primo, non voleva mancare38. Il riferimento, qui, è ad una fase specifica della collaborazione ai giornali: al “tempo, [in cui] lo scrittore dedicava la sua attività in prevalenza ai racconti”39. 36 Id., La parabola dello scrittore, cit., p. 227. 37 Ivi, p. 226. 38 Ibidem. 39 Ivi, p. 225. [14] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 561 Antecedente al “cambio di rotta”40 che intorno agli anni Settanta sarebbe intervenuto nella storia della “terza pagina”, e che di lì a poco sarà ricordato anche da Prisco nel racconto, esso è presentato come un tempo appagante, anche dal punto di vista del rapporto coi lettori: […] non riteneva ancora di aver un pubblico ma sapeva, questo sì, che la sua firma cominciava ad essere cercata, sul giornale, da una ristretta cerchia di lettori i quali ormai di lui avevano imparato a riconoscere, e forse ad amare, il timbro della prosa, l’intonazione del taglio narrativo, il clima evocativo: era, questo legame sotterraneo tra lui e i lettori, il frutto più soddisfacente della sua attività, quello che in qualche modo dava un senso alla fatica del “secondo mestiere”41. “[…] col tempo aveva finito con l’affezionarsi a questo suo lavoro” 42, scrive ancora l’Autore ne La parabola dello scrittore, anche stavolta alludendo ad una fase iniziale della collaborazione ai giornali, fondata principalmente sui racconti. Nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, come si è notato, Prisco evidenzia le difficoltà e le lacerazioni interiori a cui va incontro uno scrittore che collabora ai giornali. Nello stesso articolo egli afferma che uno scrittore considera i suoi “pezzi” giornalistici “sempre un po’ scritti con la mano sinistra”43 (concetto questo già espresso, e in maniera ben più incisiva, come si è visto, nel racconto Le due telefonate); con amarezza rileva il carattere effimero dell’articolo di giornale: “come la rosa del poeta, l’articolo vive solo l’espace d’un matin”44, egli scrive. Eppure, anche nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, proprio come nel racconto La parabola dello scrittore, da alcune frasi, da alcune dichiarazioni, da alcuni ricordi, trapela un forte attaccamento al giornalismo, sia pure ad un certo tipo di giornalismo: […] Clotilde Marghieri apparteneva a quella famiglia di scrittori (di cui, probabilmente, in qualche modo partecipo anch’io) destinata fra breve a scomparire del tutto dalle pagine dei quotidiani. Oggi per questo tipo di collaboratori lo spazio sui giornali si fa sempre più esiguo: scrivere un elzeviro, abbandonandosi ai propri umori o, nel caso di dover parlare d’un libro, prendere pretesto dal 40 Ivi, p. 227. 41 Ivi, pp. 225-226. 42 Ivi, p. 226. 43 Id., L’elzeviro di Clotilde, cit. 44 Ibidem. 562 ALESSIA PIRRO [15] volume in questione non per informare della sua uscita o recensirlo ma per compiere un viaggio anche all’interno di se stessi, se quel libro risveglia consonanze o allarmi, è un genere di collaborazione che i giornali non amano più; tallonati, come sono, dall’ansia dell’attualità, della cronaca, dell’immediato45. Il rimpianto per la scomparsa dell’amica e collega Clotilde Marghieri si fonde nell’articolo con il rimpianto di una stagione giornalistica, di un determinato modo di fare giornalismo: più vicino agli interessi di uno scrittore, e in cui Prisco stesso pare si riconosca. Leggendo, talvolta ri-leggendo, i “pezzi” della scrittrice-giornalista per preparare un discorso commemorativo che avrebbe dovuto tenere su di lei – racconta l’Autore sempre nell’articolo L’elzeviro di Clotilde – egli ne scopre “la […] tenuta, la […] freschezza, […] la […] attualità […], […] [in alcuni casi] la […] forza d’anticipazione”46: Quei pezzi non sono invecchiati. Segno che Clotilde restava scrittrice anche quando si mutava in giornalista; segno che quelle trepidazioni, e quella fatica nel redigere il pezzo, approdavano sempre a un risultato compiuto47. A volte, quindi, per Prisco, un articolo di giornale riusciva anche a superare lo “spazio di un mattino”. Oltre che nel racconto La parabola dello scrittore e nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, una visione positiva del giornalismo si ritrova ancora in molti passi della produzione giornalistica prischiana. Per lo più si tratta di passi in cui l’Autore si concentra su alcuni periodi della storia del giornalismo italiano: […] il tempo glorioso e battagliero del vecchio giornalismo napoletano, fatto di polemiche, di passioni, di duelli che ferivano e di articoli che colpivano al cuore, di personaggi curiosi e diversi fra loro ma tutti uniti da un solo ideale […]48; il tempo dell’elzeviro, intendendo, però, per “elzeviro” […] non […] quel genere letterario prossimo alla prosa d’arte che negli […] anni si era trasformato unicamente in un saggio di vacuo calligrafismo, di bella (e inutile) scrittura sino alla stucchevolezza, così da mettere a ragione la sua scomparsa […] [ma] quel «pezzo» 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 Id., A Palazzo Brancaccio una enciclopedia mobile, «L’Arena», 6 agosto 1952. [16] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 563 fatto di moralità […] e rievocazione memoriale d’un personaggio, d’un luogo, di un avvenimento, che ha costituito in passato la forza della nostra letteratura […]49. Di solito in essi ricorrono nomi di giornalisti nei quali “l’equazione giornalismo-letteratura”50 si è risolta felicemente secondo Prisco; vengono ricordati Fracchia, Alvaro, Piovene, Emanuelli, i “pezzi [dei quali sono] nati solo all’apparenza dall’occasione”51, nota l’Autore; Pier Angelo Soldini, nel quale “il giornalista non ha ucciso […] il narratore”52; Giovanni Artieri, che ha saputo mescolare “alla socievolezza di lettura dell’alto giornalismo la validità espressiva della prosa fantastica”53; e ancora, Bilenchi, esempio di “scrittore [che], pur senza rinunciare alla letterarietà della propria pagina, ha mutuato dal giornalista il segreto di farsi leggere”54; Sinisgalli, ai cui elzeviri Prisco dedica un lungo articolo55 intriso di ricordi personali risalenti agli anni in cui il poeta lucano collaborava a «Il Mattino»; Giovan Battista Angioletti ed Emilio Cecchi, elzeviristi di cui, come confesserà l’Autore ad Ermanno Corsi, “[è stato] molto utile assorbire la lezione”56. Più che alcune parti del racconto La parabola dello scrittore e dell’articolo L’elzeviro di Clotilde, più che le considerazioni e i giudizi su alcuni periodi o autori del giornalismo italiano, disseminati nella sua produzione giornalistica, il documento che meglio attesta in Michele Prisco l’esistenza di una visione positiva del giornalismo, di un suo apprezzamento associato alla contemplazione della possibilità di una convergenza tra esso e la letteratura è, tuttavia, la risposta da lui fornita nell’inchiesta del 1957 Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?57. In essa l’Autore fa esplicita menzione di un giornalismo “nel quale uno scrittore non perde nulla delle proprie sollecitazioni e del proprio lavoro”58, conserva la sua “funzione di mediatore”59. 49 Id., Viaggio nel tempo senza calendario, «Il Nostro Tempo», 18 ottobre 1992. 50 Id., Penultima Napoli, «L’Arena», 20 marzo 1964. 51 Id., in Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?, «La Discussione», 14 luglio 1957. 52 Id., Due libri italiani, «L’Arena», 13 dicembre 1958. 53 Id., Penultima Napoli, cit. 54 Id., Due libri italiani, cit. 55 Id., Gli elzeviri di Sinisgalli, «Il Nostro Tempo», 15 gennaio 1984. 56 Id., in E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, cit. 57 Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?, cit. 58 Id., in Il giornalismo ha un’influenza sulla letteratura?, cit. 59 Ibidem. 564 ALESSIA PIRRO [17] Tal tipo di giornalismo, secondo Prisco, va distinto da uno basato sulla “pura e […] bruta notizia informativa”60; ed è da lui definito “superiore”61. L’immagine compatta del giornalismo delineata all’inizio, a questo punto, risulta infranta: non solo, in realtà, dalla risposta appena citata, ma da una lettura attenta di tutti gli ultimi documenti presi in esame. A volte dichiarata espressamente (come nel caso, appunto, della risposta all’inchiesta), altre volte implicita, sottesa, in tutti è possibile cogliere, infatti, una contrapposizione tra due forme di giornalismo, tra due modi di intendere e di fare giornalismo. In tutti è possibile ravvisare una polarizzazione. Ecco, dunque, il giornalismo fondato soprattutto sui racconti e quello in cui i racconti non sono più richiesti62; gli elzeviri e le recensioni di Clotilde Marghieri – esempio di un giornalismo animato dal desiderio di durare nel tempo (e non a caso spesso repertorio a cui attingere per raccolte in volume) – e gli articoli, invece, ancorati all’attualità63, alla cronaca, all’immediato, quasi sempre destinati a durare né più né meno che lo “spazio di un mattino”; “il tempo […] del vecchio giornalismo napoletano”64 e quello in cui esso è percepito come “un’epoca ormai tramontata”65; il “’pezzo’ fatto di moralità […] e rievocazione memoriale”66 (il “vecchio classico elzeviro, che [per uno scrittore] resta sempre la più libera, e la più amata, […] fra le collaborazioni a un giornale”67), e il “saggio di vacuo calligrafismo, di bella (e inutile) scrittura”68, estenuazione di quel genere letterario “che ha costituito in passato la forza della […] letteratura [italiana]”69; i giornalisti nei quali “l’equazione giornali- 60 Ibidem. 61 Ibidem. 62 Id., La parabola dello scrittore, cit., p. 227. “Per cominciare: niente più racconti”, “Il pubblico ormai rifiutava i racconti […]”. 63 È interessante notare come nell’articolo L’elzeviro di Clotilde, cit. il termine “attualità” acquisti una diversa accezione a seconda della forma di giornalismo di cui l’Autore sta trattando: in una parte dell’articolo essa è “ciò che avviene nel momento presente”; in un’altra – quella in cui Prisco si riferisce ai “pezzi” della Marghieri – è, invece, “ciò che continua a suscitare interesse nel momento presente”. 64 Id., A Palazzo Brancaccio una enciclopedia mobile, cit. 65 Ibidem. 66 Id., Viaggio nel tempo senza calendario, cit. 67 Id., L’elzeviro di Clotilde, cit. 68 Id., Viaggio nel tempo senza calendario, cit. 69 Ibidem. [18] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 565 smo-letteratura”70 si è risolta felicemente e quelli in cui essa non è riuscita o magari neppure si è posta; un giornalismo nel quale uno scrittore sembra non perdere nulla e uno, al contrario, in cui sembra perdere tutto. Profilando l’idea di un giornalismo non in disaccordo con la letteratura, ma che, anzi, addirittura, si iscriva nel solco della letteratura, la polarizzazione ravvisabile negli scritti, nelle annotazioni, nelle risposte di Prisco induce a riconsiderare la questione del rapporto tra giornalismo e letteratura nell’Autore, imponendo, fra l’altro, una nuova riflessione sull’espressione “secondo mestiere”. Basata, come si è visto, su una serie di stralci di racconti, di estratti di articoli, di affermazioni di Prisco, in cui il rapporto tra giornalismo e letteratura o non è proprio messo in rilievo o è rappresentato in termini di alterità, quando non di contrasto, l’interpretazione dell’espressione “secondo mestiere” tenuta in conto finora scopre i suoi limiti nel momento in cui ci si imbatte nella rappresentazione, e in alcuni casi nella perorazione, di un giornalismo che rechi in sé lo sforzo di restar letterario. Ai significati in precedenza rilevati di semplice “mestiere aggiunto” o di “mestiere altro” o di “mestiere inferiore per valore e importanza” rispetto alla letteratura, alla luce degli ultimi documenti analizzati, non si può fare a meno di affiancare quello di “mestiere subordinato” alla letteratura: non nell’accezione, ancora una volta deteriore, di “inferiore”, di “subalterno”, ma in quella di “ciò che è sotto la direzione”, di “ciò che guarda”, di “ciò che ha come obiettivo”, di “ciò che tende a” la letteratura. Più che per il significato aggiunto alla visione prischiana del giornalismo, e quindi al senso dell’espressione “secondo mestiere”, la polarizzazione individuata nell’Autore è interessante, però, per un altro motivo: per la tensione che essa introduce tra questo significato aggiunto ed il suo opposto, tra un prodotto giornalistico in cui “l’equazione giornalismo-letteratura”71 è perfettamente riuscita ed uno, invece, che con la letteratura non ha nulla a che fare. Tale tensione, in uno studio su Michele Prisco giornalista, è centrale. Con i suoi due estremi, ma anche con tutta la gamma di livelli intermedi che essa include tra i due, con tutti i possibili prodotti giornalistici intermedi che essa comprende al suo interno, tale tensione dà conto della pluralità di significati, di attribuzioni di valore, 70 Id., Penultima Napoli, cit. 71 Ibidem. 566 ALESSIA PIRRO [19] di visioni rintracciabili nell’Autore rispetto al giornalismo. Non ad un solo, unico giornalismo, evidentemente si riferisce Prisco nei diversi contesti, ma a più forme, a più tipologie, a più idee di giornalismo, differenti tra loro; da qui, la manifestazione di un suo disuguale stato d’animo rispetto al giornalismo, e talvolta giudizio. Soprattutto, però, ed è questo, poi, l’aspetto che più interessa, la tensione indicata è insita alla produzione giornalistica dell’Autore. Lo si vede bene ad uno sguardo diacronico. Prendendo le distanze da una rappresentazione della produzione giornalistica prischiana come insieme monolitico e indifferenziato ed esaminando i singoli “pezzi” pubblicati dall’Autore nel tempo, ci si accorge, infatti, di differenze e sfumature, si individuano fasi produttive con caratteristiche diverse; si constata insomma, che il rapporto tra giornalismo e letteratura, in Michele Prisco, non si declinò sempre in un solo modo. Dall’iniziale ricerca di uno spazio letterario sui giornali degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento al progressivo estendersi dell’impegno giornalistico del’Autore a campi quali la critica letteraria, quella d’arte e cinematografica; dalla tendenza di Prisco a preservare nei suoi articoli un’impronta narrativa anche quando sui giornali cominciarono a non essere più richiesti racconti – proprio come attestano tanto i suoi testi al mezzo tra recensione e racconto quanto i suoi ricordi di scrittori ritratti come personaggi quanto la sua stessa lingua, spesso ipotattica e ricca di incisi come nei romanzi – al graduale prevalere del commento sulla diegesi, alla crescente invasione, nei suoi “pezzi”, della cronaca, dell’attualità, del costume, in linea con i mutamenti della “terza pagina”, fino ad arrivare a quella sorta di “presenzialismo dello scrittore”72, che l’Autore sentì pericolosamente incalzare agli inizi degli anni Settanta73 (forse addirittura ancor prima!74), e in cui, alla fine, pur’egli incorse, la produzione giornalistica prischiana viene a configurarsi come un terreno in cui agiscono spinte contrapposte. 72 Id., Vita e morte dell’elzeviro, «Il Nostro Tempo», 20 settembre 1987. 73 Id., Scrittore e personaggio, «Corriere della sera», 16 gennaio 1973. “Oggi, in piena euforia e dannazione consumistica, […] l’impegno dello scrittore sembra ormai volontariamente confinato al superstite fervore delle ‘firme’ che ne prolunga quella falsa immagine di eterno disponibile pronto a dare la sua opinione sui più disparati fatti di cronaca o di costume”. 74 Cfr. Id., La macchina della sopraffazione, «Le ragioni narrative», Anno II, n. 2. (Il saggio è integralmente riportato in Michele Prisco – Le ragioni narrative, cit., pp. 65-74). [20] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 567 Svelata in tutta la sua evidenza da un raffronto tra il punto di partenza e quello d’approdo della collaborazione di Michele Prisco ai giornali, la dialettica presente nella produzione giornalistica prischiana – quella tensione a cui si accennava poc’anzi – sovente permea di sé un medesimo articolo, rendendone difficile l’inquadramento in una categoria precisa. La difficoltà di legare gli articoli dell’Autore a delle categorie definite riguarda in particolare la produzione degli anni Settanta: periodo di forte frizione tra un giornalismo letterario ed uno che, invece, alla letteratura iniziava a preferire altri ambiti e che alla mediazione letteraria sempre più sostituiva nuovi approcci al reale. In generale, però, è chiaro che, all’interno di un percorso giornalistico così dilatato nel tempo e a cui è connaturata una tensione di fondo, come quello di Michele Prisco, siano piuttosto frequenti oscillazioni, innesti, rotture rispetto ad una certa modalità di scrittura giornalistica ed improvvisi ritorni ad essa, compromessi e tentativi, più o meno riusciti, di liberarsene. Da qui, la necessità di considerare con cautela il ricorso, pur funzionale, a fasi e categorie in un’analisi di Prisco giornalista. Da qui, la necessità di considerare con cautela l’uso di definizioni (o di etichette) per la produzione giornalistica prischiana. La stessa espressione “secondo mestiere”, in fondo, con la molteplicità di significati e di valenze che è possibile cogliere in essa, è senza dubbio un indizio della complessità del discorso critico su Prisco giornalista, tuttavia non lo esaurisce! Si potrebbe notare, per esempio, che essa stride con alcune “dichiarazioni” dell’Autore, che mettono al primo posto la sua attività di giornalista piuttosto che quella di scrittore: si pensi alla risposta data al tassista nel divertente articolo Il tifoso di Ungaretti75 o, ancora, a quella del personaggio, dietro cui pure pare si intraveda l’Autore, del racconto Il collega76. In realtà, però, valutando le parole di Prisco all’interno dei rispettivi contesti, si comprende subito che esse sono nient’altro che il segno di una pudica reticenza: Una sera di primavera inoltrata, quando le giornate son lunghe e la 75 Id., Il tifoso di Ungaretti, «Il Mattino», 22 febbraio 1986. Ricordo di una serata romana nel periodo in cui l’Autore ricoprì la carica di vicesegretario nazionale del Sindacato Scrittori, l’articolo è incluso nel volume Ritratti incompiuti, cit., pp. 175-183, col titolo Giuseppe Ungaretti. 76 Id., Il collega, «L’Arena», 6 gennaio 1957. 568 ALESSIA PIRRO [21] luce – la luce romana – tarda a declinare, restammo un bel po’, Ungaretti ed io, nell’atrio verso l’ingresso ad attendere i rispettivi tassì chiamati dalla signora D’Ajello. […] quando finalmente arrivò uno soltanto dei due tassì, o per lo meno il primo, nonostante volessi dargli la precedenza Ungaretti insisté perché me ne servissi io se non volevo rischiare di mancare il treno. E ovviamente accettai subito senza fare altri complimenti. […] [Il tassista] era un uomo poco più anziano di me, molto magro e piuttosto piccolo di statura: doveva aver assistito alle nostre cerimonie sulla precedenza della corsa perché, dopo un istante di silenzio disse, osservò, e aveva l’aria di rimproverarmi: – Così per prendere lei, non m’ha fatto dare il passaggio al maestro Ungaretti. Mi voltai a guardarlo, un po’ sorpreso, e allora vidi ch’era magro e minuto. Dissi, quasi a giustificarmi: – Ho il treno, che non aspetta, e il maestro invece quasi rincasava: è stato lui a insistere che salissi io sul suo tassì ch’è arrivato prima. Non replicò. […]. Dopo qualche altro minuto di silenzio, […] commentò: – Però per stare insieme al maestro Ungaretti, anche lei dev’essere un poeta. È un poeta? – e sembrò chiedermelo con l’aria e la speranza d’avere accanto almeno un suo collega. Dovetti disilluderlo subito: – No – dissi, – non sono affatto un poeta –. E poiché sempre un po’ m’impaccia dichiararmi scrittore, con estranei, e poiché vedevo, m’accorgevo che lui, il tassista, aspettava da me una precisazione, aggiunsi: – Scrivo sul Messaggero – (dove in quegli anni, collaboravo infatti alla terza pagina)77. … Un giorno [l’impiegato delle poste addetto al mio quartiere], […] trattenendo in mano il berretto rigirandoselo imbarazzato e aiutandosi con un sorriso più prolungato a vincere il proprio impaccio […], mi chiese: – Scusate un’indiscrezione, vostro padre insegna? Gli spiegai, lì per lì sorpreso, che mio padre, avvocato, era morto da dieci anni: e poi la sorpresa si mutò involontariamente in una specie di compiacimento, pensando: devo avere ancora l’aspetto d’un ragazzino, e perciò si chiede a chi vadano tutti questi libri. Infatti l’impiegato dei pacchi postali mi squadrò un istante, come se mi scoprisse per la prima volta, e poi domandò, sempre sorridendo: – Allora, insegnate voi? Sì, mi riteneva per lo meno ancora uno studente universitario. Dissi: – No… non insegno… E restai a mia volta impacciato presso la porta: capivo che dovevo spiegarmi meglio e classificarmi, per così dire professionalmente. 77 Id., Il tifoso di Ungaretti, cit. [22] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 569 Ma perché si prova sempre un terribile pudore a dichiararsi scrittore? Ecco una professione considerata, da noi, ancora con sospetto e una punta di sufficiente ironia, quando addirittura non con aperta sopportazione e dileggio. Almeno io non riesco mai a dichiararmi tale con disinvoltura, ammucchio un giro di parole allusive con il risultato di farmi prendere ancor più sottogamba: e anche in quel caso mormorai, dopo che l’impiegato postale m’ebbe chiesto, premettendo un «per non entrare nei fatti vostri», il motivo di quell’arrivo abbastanza frequente di libri: – Ecco, il fatto è… che mi occupo di giornalismo… scrivo su giornali… 78 Sebbene non sia mancato chi in tempi recenti abbia preferito per Michele Prisco l’appellativo di giornalista-scrittore79 a quello per lui ormai consueto di romanziere, di narratore o, al massimo, di scrittore- giornalista, e sebbene in alcuni momenti, l’attività giornalistica, condotta in un certo modo, con determinati ritmi e caratteristiche80, abbia rischiato effettivamente di compromettere quella narrativa dell’Autore81, indulgere all’idea di un giornalismo come “primo mestiere” di Michele Prisco sembra sterile, ma, soprattutto, poco fedele alle radici82 prischiane. Più importante, invece, è osservare che l’espressione “secondo mestiere”, pur con tutti i significati passati in rassegna, non riesca a rendere, anzi oscuri, una visione del giornalismo e, con essa, un aspetto del rapporto tra giornalismo e letteratura, a cui pure l’Autore fa riferimento qualche volta: una visione del giornalismo come qualcosa d’altro dalla letteratura, ma non per questo inferiore; una visione positiva, diversa, però, da quella già esaminata, perché non collegata ad un giornalismo iscritto nel solco della letteratura, bensì ad uno che, viceversa, alla letteratura sia in grado di dare un proprio contributo. 78 Id., Il collega, cit. 79 S. Napolitano, Il grillo parlante, Napoli, Fratelli Ferraro Editori, 1998. L’appellativo compare sulla copertina di tutti e tre i volumi dell’antologia. 80 Alludo in particolare al periodo compreso tra il 1975 ed il 1978, allorché Michele Prisco fu prima critico cinematografico e poi caposervizi del Settore Spettacoli e responsabile della “terza pagina” presso «Il Mattino» di Napoli. 81 Significativa in proposito è stata la testimonianza gentilmente offertami nel luglio del 2008 da Lino Zaccaria, attualmente giornalista de «Il Mattino» e all’epoca collega dell’Autore e, ancora, la lettera di Prisco a Laudamia Bonanni del 17 aprile 1977. 82 Id., in E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, cit. “[…] essendo le mie radici più di scrittore che di giornalista […]”. 570 ALESSIA PIRRO [23] Nell’articolo Due libri italiani del 1958, a proposito di alcuni racconti di Bilenchi, ma, in generale, avendo a mente la produzione dei tanti scrittori che in quegli anni tornavano alla letteratura dopo averla abbandonata per dedicarsi al giornalismo, Prisco afferma: […] è […] un conforto […] notare come la parentesi non abbia nociuto alla loro qualità, anzi, il quotidiano rapporto con il pubblico ha come sciolto certi iniziali inceppi conferendo alle nuove pagine una duttilità ed una freschezza insospettate […]83. Nella risposta alla domanda di Gioconda Marinelli sul suo lavoro di giornalista – riferendosi stavolta a sé, alla sua opera – l’Autore sostiene: […] il lavoro di giornalista […] mi è servito, proprio per la sua necessità di comunicazione e immediatezza, a cercare di ridurre al minimo quel certo abuso del… freno narrativo, per così dire, che per temperamento e magari scelta mi è consueto e che qualche lettore, o forse qualche critico, spesso mi ha rimproverato84. Sull’apporto del giornalismo alla produzione narrativa di Michele Prisco si è soffermato, negli anni di poco precedenti alla morte dell’Autore, Ermanno Corsi. In contrasto con la posizione critica dominante, anche se senza giungere all’idea di un giornalismo come “primo mestiere” di Michele Prisco, nel suo articolo Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli85, uscito sul «Roma» in occasione degli ottant’anni dell’Autore, Corsi sottolinea soprattutto il contributo tematico offerto dal giornalismo alla narrativa prischiana: pone l’accento sul vasto repertorio di situazioni e di personaggi offerto a Prisco dal costante contatto con la cronaca, con la quotidianità: La mente e lo studio di Michele Prisco sono come un grande laboratorio dove si raccoglie tutto quello che ogni giorno si mette a frutto. Per questo il grande scrittore deve avere anche una propria metodicità, una regola di lavoro. Ogni giorno Prisco legge molti giornali, ha diverse cartelle in cui raccoglie articoli di cronaca; cerca nella quotidianità spunti per racconti o trame per romanzi. Gli ultimi due libri – “Il pellicano di pietra” e “Gli altri” – sono quelli che più hanno acquisito taglio giornalistico, come fossero degli ampi 83 Id., Due libri italiani, cit. 84 Id., Una vita per il romanzo, cit., p. 15. 85 E. Corsi, Lo scrittore che ha firmato 5mila articoli, cit. [24] IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 571 reportages: fanno rivivere, sapientemente trasfigurate, vicende di cronaca, fatti realmente accaduti […]. […] La cronaca, la vita, la quotidianità sono connaturate ormai alla formazione culturale di Michele Prisco86. Riportando alcune affermazioni dell’Autore, egli presenta il giornalismo come una fonte creativa per quest’ultimo; e, ancora, ne evidenzia il contributo linguistico: «Scrivendo per i giornali mi sono liberato progressivamente di un certo barocchismo, di una certa enfasi, sono penetrato sempre più nei meccanismi della vita e nella psicologia delle persone. […]». […] Ma il giornalista che più ha influito sullo stile e sulla scrittura di Michele Prisco? «Senza dubbio Gianni Brera; lavorava molto sul linguaggio […]»87. Per quanto siano le più vicine in ordine di tempo e qualcuno, pertanto, possa essere tentato dal vedere in esse un punto d’arrivo, le considerazioni di Corsi, quelle appartenenti all’Autore citate dal giornalista nel suo articolo, come pure quelle contenute nella risposta alla Marinelli, da sole, non basterebbero a riassumere tutto. A leggere le parole di Corsi sugli spunti forniti dalla cronaca alla narrativa prischiana, il pensiero torna immediatamente a quelle dell’Autore nel suo saggio A proposito del personaggio88, dove pure è riconosciuto un rilievo alla cronaca, alla realtà, nella letteratura; all’interno, però, di un orizzonte di tutt’altro respiro: Madame Bovary, Delitto e Castigo, Cavalleria Rusticana, per fare i primi esempi che ci vengono sotto la penna, che cosa sono, ridotti allo schematismo dell’idea di base, se non dei fatti di cronaca più o meno vistosi? Il Rosso e Nero è addirittura ispirato a un delitto realmente avvenuto e registrato nella Gazette des Tribunaux. Naturalmente, Madame Bovary, Delitto e Castigo, Cavalleria Rusticana, e tanto più Il Rosso e Nero, non sono per nulla dei fatti di cronaca così come i loro autori ce li hanno presentati, nella stessa misura in 86 Ibidem. 87 Ibidem. 88 Id., A proposito del personaggio, «Le ragioni narrative», Anno I, n. 3. (Il saggio è in parte riportato nel volume Michele Prisco – Una vita per la Cultura, cit., pp. 19-22; integralmente appare in Michele Prisco – Le ragioni narrative, cit., pp. 51-64). 572 ALESSIA PIRRO [25] cui non è il fatto di cronaca, in quelle opere, a interessarci. E insomma questo nostro discorso non è, sia ben chiaro, un invito ai narratori a cercare ispirazione sulle pagine dei quotidiani, ma nello stesso tempo non si fa scrupolo di sottintendere che, se mai, la realtà è persino troppo piena di personaggi e che eludere i problemi posti da una simile realtà è, per un narratore, eludere al suo impegno. […] […] un romanzo non è una storia che marginalmente, esso è prima di tutto un clima, un mondo, una società, dei personaggi. Quel che importa al romanziere non è il fatto, ma l’uomo. E sarà buona ogni storia che ci rappresenterà l’uomo dall’interno, nella sua profondità […]. La necessità romanzesca non è quella di farci assistere, per esempio, a un delitto compiuto dal signor Rossi, ma quella di farci assistere al signor Rossi capace di compiere un delitto. A questo punto, se vuol rappresentare il signor Rossi, il romanziere può anche, senza mancare al suo imperativo di verità, raccontare una storia tutta diversa da quella del delitto compiuto dal signor Rossi89. Le stesse osservazioni fatte da Prisco sugli effetti che l’attività giornalistica avrebbe avuto sulla sua prosa richiamano per contrasto alcuni passi di articoli, anche piuttosto tardi, dell’Autore, dove la sua prosa continua ad assomigliare, come notava Mario Pomilio, ad “una spirale, a un movimento avvolgente che, lungi dal mirare a una messa a nudo dell’evento, aspira come a catturare la qualità multiforme dell’istante in cui esso si verifica, sensazioni e sentimenti insieme, luci ed ombreggiature, sonorità e dissolvenze”90: fra tutti, uno tratto dalla recensione su un libro di Tano Citeroni, uscita su «Il Nostro Tempo» nel 1987: Il lettore avrà già avvertito, sin qui, gli ammicchi che l’autore è andato predisponendo per lui prima di narrare la vicenda vera e propria. Che si svolge tutta in una giornata, la vigilia di Ferragosto in una Roma assolata e svuotata (è anche la vigilia del compleanno del protagonista: il giorno dopo compirà sessantacinque anni), e si snoda lungo via Nazionale che, disceso dopo una mattinata ad Ostia alla metropolitana della stazione Termini, Napoleone con la sua valigetta da cui non si separa mai percorre a piedi (un improvviso sciopero selvaggio l’ha costretto a smontare dall’autobus appena messo in moto) per tutta la sua lunghezza. Cioè no: sino all’imbocco 89 Id., A proposito del personaggio, in Michele Prisco – Le ragioni narrative, pp. 52-53. 90 M. Pomilio, Pref. a Michele Prisco – Una vita per la Cultura, cit., p. 11. IL “SECONDO MESTIERE” DI MICHELE PRISCO 573 del Traforo, ch’egli cerca d’attraversare per uscirne dall’altra parte e rincasare91. No, da sole, non basterebbero a riassumere tutto. Sicuramente, però, sono sufficienti a chiudere il discorso su Prisco giornalista nel segno della tensione; quella che, adesso, non resta che esplorare nel tempo. Alessia Pirro (Napoli) 91 Id., L’importanza di chiamarsi Napoleone, «Il Nostro Tempo», 8 novembre 1987. [26] Contributi SILVIA FREILES La discesa al trono come storia di una catabasi: il dantismo di Bartolo Cattafi The works belonging to the second period of Bartolfo Cattafi’s literary production owe a lot to Dante’s Comedy, as the many words and figurative schemes deriving from the first two parts of the Comedy demonstrate. There are, for instance, neologisms and expressions typically Dantesque, as well as caricatural and decontextualizing references, and even the rewriting of the author’s life into to an allegorical history marked by Fall and Redemption, that is to say by katabasis (La discesa al trono) and anabasis (Marzo e le sue idi). Cataffi’s works also contain elements based on some antinomical features of the language of Dante’s Paradise. Tra le tante motivazioni che hanno «contribuito a fare conoscere meglio il poeta ma anche, paradossalmente, ad ostacolare una valutazione davvero integrale della sua scrittura»1 troviamo l’antologizzazione cui l’opera di Bartolo Cattafi, «per la sua natura rapsodica e oracolare»2, si è prestata, ed il carattere copioso assunto dall’attività compositiva intorno al 1971, in seguito alla lunga pausa, «con una molteplicità di ispirazioni ed esiti tematici che le raccolte non riescono del tutto ad arginare in un ordine regolare»3, non sostenuta, tra l’altro, da alcuna «prospettiva filologica globale del corpus»4. A farne le spese l’analisi della seconda produzione5, quella che 1 S. Prandi, Da un intervallo nel buio. L’esperienza poetica di Bartolo Cattafi, Lecce, Manni, 2007, p. 8. 2 Ibidem. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Discordanti le teorie sui vari tempi della produzione cattafiana. Per il presente lavoro è stata presa in considerazione la scansione cronologica scelta da Giuseppe Savoca nel saggio Linea montaliana del linguaggio di Cattafi, in Atti del convegno di studi su Bartolo Cattafi, Catania, Lunarionuovo, 1980, p. 126, che indica come discrimine «un vuoto di circa sette anni, del quale non sopravvive [2] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 575 ha inizio, per intenderci, con L’aria secca del fuoco6, a lungo delineata attraverso microlectures volte ad isolare questo o quel frammento, ad attestare la permanenza di alcune tematiche primitive, col risultato di far ruotare ancora la fama cattafiana attorno al processo metamorfico dalla «prevalente figuratività» alla «prevalente figuralità»7, descritto così lucidamente da Giovanni Raboni in relazione al passaggio dalla raccolta degli esordi, Le mosche del meriggio8, alla più matura L’osso, l’anima9. Invece, proprio a questa altezza del percorso poetico, la maggiore indipendenza da quelli che erano stati in passato i principali maestri a guidare Cattafi nella «inquieta ricerca della propria voce»10 (Montale, Ungaretti, Quasimodo, Govoni, García Lorca, gli ermetici insieme agli americani Hemingway ed Eliot)11, ha prodotto un insospettabile accadimento: l’elezione di Dante a nuovo modello letterario. Un alto tasso di contaminazioni dantesche si concentra infatti ne La discesa al trono12, un unicum nella produzione cattafiana per l’omogeneità delle tematiche, incentrate principalmente sulla catabasi e sull’investigazione dei lati inferi del reale, ma con strategie e soluzioni così diversificate da smentire l’idea di una «coerenza tonale che non conosce distrazioni o possibilità di variazioni»13. Il nuovo approccio di Cattafi all’universo reale e letterario dà delle risposte sulla funzione assunta dalla ‘vacanza’ poetica, utile sì ad una rielaborazione di vecchi stilemi, ma anche alla creazione di soluzioni nuove date in primis proprio dalla rimeditazione dell’opera dantesca: il «senso precipite d’abisso» che emergeva in L’osso, l’anima come ipotesi, possibilità inespressa della discesa, recesso testimonianza», e circoscrive il secondo periodo «dal ’71 (data della maggior parte delle liriche dell’Aria secca del fuoco) al ’77 (che è l’anno in cui sono raccolte le ultime cose dell’Allodola ottobrina)». 6 B. Cattafi, L’aria secca del fuoco, Milano, Mondadori, 1972. 7 G. Raboni, Introduzione a Bartolo Cattafi, Poesie 1943-1979, cit., p. VII. 8 B. Cattafi, Le mosche del meriggio, Milano, Mondadori, 1958. 9 Id., L’osso, l’anima, Milano, Mondadori, 1964. 10 P. Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi. Con un’appendice di testi inediti, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, p. 13. 11 Per l’importanza del poeta americano nell’apprendistato e nella prima produzione cattafiana, soprattutto in relazione al tema subacqueo e funebre (mediato anche da Govoni e Luzi) e alla multiforme avifauna, rimandiamo al saggio di M. Gezzi, T.S. Eliot in Bartolo Cattafi, in Sentieri poetici stranieri contemporanei, a cura di F. Italiano e G. Landolfi, Novara, Interlinea edizioni, 2001. 12 B. Cattafi, La discesa al trono, Milano, Mondadori, 1975. 13 P. Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, cit., p. 169. 576 SILVIA FREILES [3] recondito da temere14, fonte di horror vacui, diventa insomma, ne La discesa al trono, consapevole scelta di poetica. Il dantismo cattafiano va dalla citazione vera e propria alla ripresa di diagrammi figurativi tratti dalle prime due cantiche della Divina Commedia, da neologismi e locuzioni di sapore dantesco ad allusioni decontestualizzanti15, dalla interpretazione allegorica del proprio percorso come storia di peccato e di redenzione, alla caricatura. Ma soprattutto, in linea con la maggior parte dei poeti italiani, è precipua l’attenzione alla «sempre sorprendente freschezza e ricchezza della lingua di Dante»16 in una calibratura di presenze lemmatiche che confermano l’assunto montaliano di un Dante che «parla ai poeti»17. Tuttavia, l’appropriazione dell’opera dantesca, avvenuta presumibilmente attraverso il primo canale intertestuale indicato da Anna Dolfi18 (l’apprendimento liceale e quindi la reminiscenza e la rilettura privata) e secondariamente attraverso la mediazione di altri poeti italiani19, non costituirà mai quella influenza «cumulativa, che si accresce con gli anni […] norma di ogni vero rapporto dantesco»20, ma rimarrà canone di lettura critica della realtà scelto in una particolare fase del percorso poetico, pur con propaggini in quelle successive. La discesa al trono si configura infatti come una vera e propria «scoperta della sostanziale natura infera del reale»21 che sviluppa la vena noir della sezione Tenebra e azzurro de L’aria secca del fuoco, ora 14 Leggiamo in L’osso, l’anima: «La mente è un’abile / astuta acrobata / teme l’abisso, il vuoto» (Ipotesi); «cupo occhio d’abisso» (Lettera); «sprofondare / fare l’abisso con le proprie mani» (Perderci la vita); «un giro / centripeto di vortice/ un senso precipite d’abisso» (La notizia); «E non andare alla cieca con la mano / non ficcarla nell’andito più oscuro / dove l’occhio non giunge / la mano si ferma impaurita […] nell’abisso temuto, nelle tenebre» (Offerta). 15 Per quanto riguarda le modalità della presenza dantesca nell’opera degli scrittori del secondo Novecento cfr. H.F. Plett, Intertextualities, in Intertextuality, a cura di H.F. Plett, Berlin, New York, Walter de Gruyter, 1991. 16 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti». Elementi danteschi nella poesia italiana ed anglosassone del secondo Novecento, Firenze, Franco Cesati editore, 2003. 17 E. Montale, Dante ieri e oggi, ora in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, pp. 15-34. 18 A. Dolfi, Dante e i poeti del Novecento, in «Studi danteschi», 58, 1986, pp. 307-342. 19 Nel caso di Cattafi essenzialmente Montale, la cui lezione agisce «in profondo anche nel più maturo Cattafi» (G. Savoca, Linea montaliana del linguaggio di Cattafi, cit., p. 133). 20 A. Dolfi, Dante e i poeti del Novecento, cit., p. 342 21 S. Prandi, Da un intervallo nel buio, cit., p. 141. [4] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 577 nella rappresentazione della «realtà “orrenda”»22 e degli «araldi del mondo infero»23 che vi compiono incursioni epifaniche, ora finanche nel «simbolo per eccellenza della vita cosmica», l’uovo, in cui «si insinua una presenza oscura, secondo quell’ossessione della centralità minacciosa, così caratteristica della poesia cattafiana»24. Le tonalità cromatiche prevalenti25 sono in linea con il messaggio di fondo, confluendo nella silloge gran parte della plaquette Il Buio26, dove il topos del locus amoenus primaverile27 veniva sarcasticamente ribaltato per fare emergere il lato ctonio della natura. Ma vero e proprio serbatoio di motivi danteschi è la poesia che fornisce la «chiave di lettura dell’intero percorso poetico cattafiano»28, in particolare per la locuzione ossimorica elevata a titolo dell’intera raccolta: La discesa al trono Non è una pausa di riflessione è un raccogliere forze ed elemosine seduti a sommo delle scale 22 Ivi, p. 142. 23 Ivi, p. 143. 24 Ivi, p. 144. 25 Insieme ai colori scuri («nero» 18, «buio» 5, «tenebra» 5, «oscuro» 3, «oscurare » 1, «oscuramente» 1, «annerire» 2, «grigio» 1), concorre alla rievocazione dell’«aere tenebroso» dell’Inferno, anche la frequenza del lemma «ombra» che conta ben 16 occorrenze. 26 La natura descritta ne Il buio (Milano, Scheiwiller, 1973) è lussureggiante ma infida perché «là può apparire un evento selvaggio / un furente stendardo / una mano che ti picchia al cuore» (Evento); lo scenario falsamente rassicurante nasconde movimenti, intrighi notturni, improvvise manifestazioni spettrali: «piccoli / morti prematuri che nell’ombra si mordono le mani / alla luce vengono a fare terribili capriole fingendosi vivi», (In agosto l’oliva); «bianchi fantasmi di vapore fuggono con furia sibilando» (Se nel tuo prato); «un vento serpente / che su se stesso s’avvolge» (Vortice). Il male, la violenza costituiscono l’essenza latente del reale (Questi piccoli uccelli). Proprio con Il buio, dunque, ha inizio il filone del ‘disvelamento’ approfondito poi nelle poesie Fuori, Evento, Dalla nostra parte, Ex tenebris de La discesa al trono. 27 La primavera, depositaria di valenze ideologiche e letterarie, continuerà ad essere obiettivo polemico anche in Marzo e le sue idi (Milano, Mondadori, 1977) e nella postuma Simùn (Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2004). Ciò non stupisce perché i tempi di composizione de La discesa al trono e di Marzo e le sue idi corrispondono, trattandosi del biennio ’72-’73 (cfr. V. Leotta, Nota ai testi, in B. Cattafi, Poesie 1943-1979, a cura di V. Leotta e G. Raboni, Milano, Mondadori, 1990, pp. 321-344) data a cui risalgono anche le poesie di Simùn. 28 M. Gezzi, La prigione e la dimora: il percorso poetico di Bartolo Cattafi, in «Atelier», VII, 26, giugno 2002, p. 45. 578 SILVIA FREILES [5] prima d’intraprendere la discesa al trono e tutto profondere al fondo roccioso aspro inebriante della disperazione. Il trono, «simbolo e sede di potere e di autorità»29, è inusualmente accostato, come è stato notato, all’atto dello scendere e non del salire30, secondo quella capacità prettamente cattafiana di recuperare «frasi fatte, nessi proverbiali o comunque abituali»31 appoggiandosi «alla solo apparente comodità della consuetudine […] per spogliarl(i), rovesciarl(i), metterl(i) in discussione, ridurl(i), appunto all’osso, scoprendo così una loro anima»32. Dalla fusione del sintagma corrispondente al topos letterario della ‘discesa agli inferi’, con quello dell’’ascesa al trono’, afferente all’ambito politico ma anche scritturale (il trono come simbolo del potere spirituale detenuto da Cristo) è generato un nuovo significato: l’accesso al Regno dei Cieli è interdetto dal peccato, che conduce invece a un «fondo roccioso / aspro inebriante», come «“selvaggia aspra e forte” è la selva di Dante che prelude all’Inferno»33. Lì si colloca il trono di Lucifero, «lo ’mperador del doloroso regno» (Inf. XXXIV, 28) confitto nel Cocìto, cui va assimilata per contiguità semantica l’immagine del «bassissimo impero» con «le insegne adorne di tanti sbagli» della poesia Impero. Altra parola emblematica, collocata nell’ultima sede del verso finale, è «disperazione», da intendersi nell’accezione cristiana di assenza di speranza (una delle tre virtù teologali, «quelle tre facelle / di che ’l polo di qua tutto quanto arde»34), e riconducibile alla condicio dei dannati sintetizzata nel I canto dell’Inferno35. La beatitudine ultraterrena condensata nell’immagine evangelica dei «tesori», si tramuta in una perdita, in un consumarsi che il verbo «profondere » rende perfettamente coniugando il senso dello «spendere a di- 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 A. Dei, Proverbi taglienti. Note sul linguaggio poetico di Cattafi, in Anniversario per Bartolo Cattafi, Atti del Convegno di Studi, Firenze 2 dicembre 2004, a cura di Adele Dei, Comune di Firenze 2006, p. 21. 32 Ibidem. 33 M. Gezzi, La prigione e la dimora: il percorso poetico di Bartolo Cattafi, cit., p. 45. 34 Purg. VIII, 89-90. 35 Inf. I, 114-115: «e trarrotti di qui per luogo etterno; / ove udirai le disperate strida». [6] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 579 smisura»36 con quello dello sprofondare in senso fisico, per assonanza con «fondo»37, lemma utilizzato da Dante per indicare non solo stricto sensu il «fondo che divora / Lucifero con Giuda» (Inf. XXXI, 142-143) ma la stessa condizione morale dei ‘senza speranza’38. I riferimenti danteschi, che orientano decisamente in senso religioso l’interpretazione della lirica, non si esauriscono qui: altro debito verso il padre della lingua italiana è stato individuato nel sintagma «sommità della scala», ricondotto alla «suggestione occitanica dell’Arnaut Daniel di Purg. XXVI, 145-147 (“Ara vos prec, per aquella valor / que vos guida al som de l’escalina, / sovenha vos a temps de ma dolor”)»39. Proporrei, invece, quale fonte diretta dei sopracitati versi, il canto XIII del Purgatorio in cui l’isotopia della scala funge da tramite tra una cornice e l’altra e il cui incipit suona così: «Noi eravamo al sommo della scala, / dove secondamente si risega / lo monte che salendo altrui dismala». Ciò conferirebbe ai versi cattafiani il valore aggiunto di un’intenzione programmatica (l’identificazione diretta con la vicenda di Dante, secondo l’assunto per cui «i poeti moderni quando riflettono su Dante, spesso si riflettono anche in Dante»)40, e tradirebbe al contempo una lettura funzionale, non superficiale, del 36 G. Devoto, G. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, le Monnier, 1990. 37 A fronte delle 18 occorrenze nella Commedia e, in particolare, nella geografia spaziale dell’Inferno quale polo della dicotomia morale alto/basso («Nel fondo erano ignudi i peccatori» XVIII, 25; «In questo fondo della trista conca / discende mai alcun del primo grado» IX, 16-17; «così ne puose al fondo Gerione» XVII, 133; «ma però che gia mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s’io odo il vero» XXVII, 64-65), il termine «fondo», è utilizzato dal secondo Cattafi 33 volte, di cui 6 ne La discesa al trono: è il simbolo di sofferenza universale del Cricetide che rimane «in fondo alla gabbia», o quello dell’uomo che «scompare nel raggio del faro / risucchiato nel fondo» in Cenere d’un giorno. Ancora, «il futuro che borbottando si stacca dal fondo /e viene a darti una soffiata calda in faccia» (Cosa bolle in Pentola) assume i contorni di un cupo messaggio di morte che sembra provenire dall’inferno. 38 Ricordiamo le parole di Ciacco («Ei son tra le anime più nere; / diverse colpe giù li grava al fondo» Inf. VI, 85). 39 S. Prandi, Da un intervallo del buio, cit., p. 140; ad Eliot riporta invece la somiglianza del verso con il titolo dell’attuale terza parte di Ash-Wednesday, apparsa a sé nel 1929 come Som de l’escalina (M. Gezzi, T. S. Eliot in Bartolo Cattafi, cit., p. 48). 40 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti», cit., p. 17; fra i tanti esempi, il testo Pochi gesti, dove il tema dantesco dell’esilio è utile a rappresentare l’esperienza tutta cattafiana del conflitto tra indagine gnoseologica e stasi: «difficile è per la mente / stare nel suo loculo / girovaga inferma / piedi felpati / di chi sverna all’inferno». 580 SILVIA FREILES [7] modello dantesco da parte di un poeta capace di dissimulare quanto di ostentare le sue letture colte. Come conferma infatti il testo Arancia, nel macrosistema testuale cattafiano il tema della discesa è spesso connesso alla verticalità, largamente presente nel Purgatorio e nel Paradiso, di «quella scala / u’ sanza risalir nessun discende»41 e sulla quale si misura il rapporto col trascendente benchè, adesso, dimidiato e desublimato («Scala immensa / gradini infiniti / il tuo fianco aperto / d’arancia ormai / rotolata in basso»)42. Altre volte la paura della ‘caduta morale’ è sentita quale ostacolo al raggiungimento di una fiducia assoluta, di una fede salda: Livelli Chi ci sta sugli alti livelli da capogiro ti scappa il piede scivoli scendi a rotta di collo riabbracci la folla bieca dei pensieri t’infili nelle tane di sotterra bestia tenera e cieca. Il pericolo che dagli «alti livelli» si possa precipitare è sempre in agguato: leggiamo infatti in Ipotesi, contenuta in L’osso, l’anima, che «La mente è un’abile / astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto». La vera discesa non è quella agli inferi ma nel profondo della psiche in cui si nascondono i mostri più terribili e ci si riconosce fragili, incapaci di qualsiasi elevazione spirituale, mostri attaccati a questa «crosta di terra »43. Tale vertigine dell’altezza44, vertigine mistica, ha un suo 41 Cfr. Par. X, 86-87 ma anche Par. XXII, 68-74. 42 Per le implicazioni simboliche dell’arancia nel primo e nel secondo Cattafi cfr. G. Fontanelli, Tra festa e festa. Su alcuni segnali del primo Cattafi, in Viaggio verso qualcosa di preciso, Percorsi della poesia di Bartolo Cattafi. Atti del Convegno di studi, Messina, 25-26 novembre 2004, a cura di D. Tomasello, Firenze, Olschki Editore, 2006, p. 49. 43 Così in Costrizione, compresa nella raccolta L’allodola ottobrina (Milano, Mondadori, 1979, p. 37): «Siamo ora costretti al concreto / a una crosta di terra / a una sosta d’insetto / nel divampante segreto del papavero». 44 Anche nella poesia Il buio è tematizzato il rischio «della caduta dall’alto, che si conclude con l’impatto su una trama di fili tesi, tra i quali l’io rimane inestricabilmente impigliato» (F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro. Piccolo- Cattafi-Ripellino, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996, p. 82): «[…] puoi cadere in [8] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 581 corrispettivo in Ponti d’oro45 de L’allodola ottobrina, dove il dio / sole, per avvicinarsi all’uomo, deve uscire «dagli alti capogiri». Persiste dunque un vago dantismo: l’io soffre il rischio dell’esplorazione e della scoperta, e l’agostiniana inadeguatezza alla comprensione del trascendente lo rende fragile di fronte al male, rappresentato dalla «folla» dei pensieri che ricorda quella dei dannati perché «bieca»46. Il lemma «bestia» è da ricondursi all’accezione dantesca: se nel canto XII dell’Inferno, per fare solo un esempio, è riferito al Minotauro47, non si dimentichi che anche in Cattafi la figura della bestia è quanto mai presente quale prodotto della disgregazione di un io «alienato, sdoppiato, scisso, in perenne, immisericorde e straziante lotta con un sé sosia-ombra (o sparente “figura” speculare) »48: in particolare in Un bene indiviso l’atto del mordersi il braccio «credendolo un tentacolo del mostro» (marino, perché, come vedremo, l’inferno può assumere una connotazione equorea)49, ci riporta al Minosse che «attorse / otto volte la coda al dosso duro; / e […] per la gran rabbia la si morse»50. Infine la cecità, nell’imagery dantesca, oltre a costituire una punizione purgatoriale, è attribuita all’essere umano che si allontana dal bene e quindi, temporaneamente, ai pellegrini che si addentrano nell’atmosfera infernale51. quei fili tesi / là in mezzo impigliarti / crollando in avanti / a occhi spalancati verso il buio / sbattere la fronte». 45 Ponti d’oro, in L’allodola ottobrina, cit., p. 79. 46 Il termine ha chiara valenza morale indicando uno strabismo spirituale, una stortura della vista interiore. Pensiamo a Ciacco che «Li diritti occhi torse allora in biechi» (Inf. VI, 91), agli ipocriti che scrutano Dante «con l’occhio bieco» (Inf. XXIII, 31), agli invidiosi «Provenzai» che calunniarono Romeo di Villanova con «le parole biece» (Par. VI, 136), o al voto bieco di Iepte (Par. V, 65). 47 Creatura metamorfica, simbolo di quella «matta bestialità» che è la violenza, il Minotauro è apostrofato da Virgilio, in Inf. XII, «bestia» (v. 18) e successivamente «quell’ira bestial ch’i ora spensi» (v. 33). 48 F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, cit., p. 82. 49 L’isotopia del mostro ha l’origine equorea descritta nella poesia La bestia, compresa in L’osso, l’anima («E come fai prevedere che / se affondi il braccio / in un’acqua di pretto celeste / scatta su dal nulla / con tumulto di bolle l’immonda/ bestia che ti azzanna […]»). 50 Inf. XXVII, 125-126. 51 Cfr. l’episodio degli ignavi («la lor cieca vita è tanto bassa / che invidiosi son d’ogni altra sorte», Inf. III, 46-48), quello dei golosi («cadde con essa a par de li altri ciechi» Inf. VI, p. 93) ma anche l’ingresso di Dante e Virgilio nella città di Dite: «chè l’occhio non potea menare a lunga / per l’aere nero e per la nebbia folta» (Inf. IX, 6-7). 582 SILVIA FREILES [9] Dunque ne La discesa al trono i mutamenti spaziali dal «sommo delle scale» verso il «fondo», dai «gradini infiniti […] in basso», dagli «alti livelli» fino a «sotterra», attestano la consapevolezza di non poter sostenere la vertigo delle altezze, di fronte alla quale unica alternativa resta l’imbestiamento o il «rintanamento»52. Sono infatti dita «disperate», per tornare al nucleo semantico della lirica La discesa al trono, quelle che in Un po’ di vita, sfuggendo dalle mani di una qualche entità benefica, tentano una risalita convulsa ma fallimentare, per giungere alla rassegnazione totale, all’’ adattamento’ al recesso «isomorfo degli abissi marini»53 in cui l’esistenza fittizia e degradata equivale ad una previta, ad una sopravvivenza animalesca: insomma, ad una sub esistenza54. L’abisso di Cattafi può dunque assumere una connotazione marina, la «broda»55 di Paguro56, ed in questo caso prendere su di sé i molteplici significati simbolici dell’elemento equoreo, rappresentando uno «sprofondamento nel buio gnoseologico e subcoscienziale»57 della psiche (pensiamo alle «fresche forze unite / in discesa al mare» di Acquemorte58, ai «canali invisibili / nelle nullificanti tentazioni» di 52 Secondo Franco Pappalardo La Rosa il topos del rintanamento ne L’aria secca del fuoco era connesso ad un «disagio esistenziale tale da innescare nell’io la molla dell’istinto autoconservativo contro un pericolo, all’apparenza esterno ma in realtà interiore, che l’opprime e minaccia di annientarlo […] contro una presunta minaccia interiore che sottintende, invece, a livello più profondo, il desiderio di difendersi dalle farneticazioni, in qualche modo “formate”, estrinsecate, visualizzate, dell’inconscio e della mente, che lo assillano, lo tormentano » (F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, cit., pp. 77-78). 53 M. Gezzi, La prigione e la dimora, cit., p. 45. 54 Dormire e respirare sono, infatti, nell’immaginario di Cattafi le due attività principali delle creature ancestrali degli abissi descritte in Marzo e le sue idi: «dietro la diga / i mostri dormono in tane profonde» (In tane profonde) e «Posato in un angolo come l’alga il sasso / globo morbido / madreperlaceo / respiro appena / ad occhi chiusi aspetto / l’amo l’esca la fiocina […]» (Biologia). 55 Cfr. Inf. VIII, 53. 56 In Paguro (L’allodola ottobrina), la metamorfosi in animale marino è tematizzata consapevolmente: «mi domando che assorbo e che trasfondo /- protese le mie parti più porose- / nella torbida broda circostante / qua vivo e viaggio / nell’ansimante flusso dell’osmosi». 57 F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, cit., p. 79. 58 Anche qui ricorre il termine «folla» che, come nel testo Livelli precedentemente analizzato, è un segnale di apertura dell’immaginario cattafiano a scenari danteschi. In questo caso alcuni elementi ci riportano al canto XIII del Purgatorio: i versi «sporche schiume /occhi opachi che ogni catabasi scordarono / le fresche forze unite in discesa al mare» non sembrano estranei a «se tosto grazia [10] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 583 Nei rivoli amari, ed infine alle «acque nere»59 dirette al mare di Per Vecchie tenebre che scorrono per «tubi ingrommati»60 come le «ripe grommate» delle Malebolge) o mantenere una connotazione ctonia. In questo secondo caso il modello di riferimento è la Divina Commedia dalla quale si estraggono stralci di topografia, geografie stravolte, paesaggi desolati. Pensiamo al mondo sotterraneo che viene immaginato sotto la superficie terrestre in Ferro («C’è un mondo nero qui sotto / di ferro / di pesantissimo ferro / che ancora non conosce gli altiforni /e puzza già di fuoco/legifera e decide»)61 o in Ex tenebris («prepara la comparsa / del fosforo dello zolfo dell’ottone / come al giallo che al nero si unisce / nel mantello dei morti / minerali e metalli si levano dai loculi e stanno nella notte») sotto la specie di un sacro paganeggiante. Viene infine assimilato allo scenario reale e quotidiano delle nostre metropoli: «Traffico torbido sulla tangenziale / ondeggia oscuramente periglioso/ pronto a coinvolgerti in un gorgo/ sull’autostrada » (Lanciato). Anche il termine «rovina» nella sua valenza anfibologica, inerisce da un lato alla prostrazione morale e dall’altro, riecheggiando la «ruina» di Inf. V, 34 e XXIII, 137, alla voragine infernale provocata dalla caduta di Lucifero, costituendo così uno scenario archeologico di distruzione, vero e proprio locus infernale. Se la predilezione dei poeti italiani del secondo Novecento è per «certi paesaggi dell’aldilà dantesco fra cui predominano quelli infernali, come la selva oscura del prologo, l’Acheronte e la surrealistica selva dei suicidi»62, Cattafi non fa eccezione: prova ne è Il guasto lo resolva la schiume / di vostra coscienza sì che chiaro / per essa scenda de la mente il fiume» (v. 88-90). Gli occhi «opachi» ricordano quelli cuciti col fil di ferro degli invidiosi, paragonati prima ai «ciechi cui la roba falla» (v. 61), poi «a li orbi» cui «non approda il sole» (v. 67). 59 Il sintagma «acque nere» riecheggia le «onde bige» di dantesca memoria (Inf. VII, 104), così come il composto quasimodiano «aquamorta» rievoca la «morta gora» del fiume Stige (Inf. VIII, 8). 60 Il diretto antecedente è il Montale degli Ossi («si stria di giallo tenero e s’ingromma», Crisalide) e della Bufera («l’ali ingrommate», Sulla colonna più alta), come emerge da G. Savoca, Vocabolario della poesia italiana del Novecento, Bologna, Zanichelli, 1995, p. 488. 61 Il paesaggio ricorda quello delle Malebolge («Luogo è in Inferno detto Malebolge, / tutto di pietra di color ferrigno / come la cerchia che dintorno il volge» Inf. XVIII, 1-3) mentre l’accostamento dei verbi «legifera e decide» sembra rievocare concettualmente le azioni compiute dinamicamente da Minosse («essamina […] giudica e manda» Inf. V, 5-6). 62 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti», cit., p. 16. 584 SILVIA FREILES [11] squarcio dove lo scenario iniziale apparentemente apollineo (ma già delineato lessicalmente come inferno da «gelo» e «cristallo», che rinviano alla distesa ghiacciata del Cocìto) è trasformato, dall’emersione di uno «scafo infame / infangato di Stige»63 guidato da un demone, novello Flegiàs, in uno «scorcio fulmineo d’abisso». Lo stesso aspetto fonetico caratterizza il testo come un’esperienza ‘petrosa’: stridente risulta la consonanza del gruppo «st» nei termini «guasto»,«lastra», «stige», del gruppo «sq»/«sc» in «squarcio » e «scorcio», e la rima «schegge»:«regge» è improntata sulla dantesca «legge»:«regge». Inoltre il lemma «guasto», dalla forte pregnanza semantica, non è solo dantesco («“In mezzo al mar siede un paese guasto” / diss’elli ancora» Inf. XIV, 94) ma anche eliotiano (The Waste Land). Nonostante l’abbassamento ironico dello statuto demoniaco della creatura che «in tuta grigia sparge da poppa a piene mani il catrame», persistono i riferimenti alle coordinate spaziali dell’Inferno64, anche se irrelati e ridotti a micro citazioni (ne Il moscerino: «Oh rive, rive d’acheronte») o, talvolta, commisti a fonti estranee come ad esempio la mitologia scandinava65. Tutto questo in apparente disforìa con la bassissima frequenza del lemma «inferno» che ricorre solo 2 volte ne La discesa al trono in alternanza ad «erebo», e 3 in Marzo e le sue idi con la variante «averno», assumendo la coloritura classica suggerita dalle poesie Ingresso e Liofilizzati, testi metapoetici66 della Discesa dedicati al mito 63 Il topos della barca infernale ricorre tra l’altro anche in La fine, il primo della triade di brevi testi che chiudono La discesa i quali, accomunati dalla presenza del lemma «anima» («la barca ti sgusciò davanti / la tua anima a bordo»), segnano la condanna, almeno temporanea, all’abisso. 64 I nomi Stige e Acheronte sono scritti in minuscolo secondo la tendenza del secondo Cattafi a rendere comune il nome proprio o di persona. 65 È il caso di Vulnerabilità, testo metapoetico nel quale il pericolo di sovraesposizione dell’intellettuale nella società «della non poesia, della strumentalizzazione ideologica, dello snobismo fatuo» (M. Freni, Si va giù non si sale: “La discesa al trono” di Bartolo Cattafi, «La Fiera letteraria», anno 51, n°10, 9 marzo 1975) è simboleggiato dalle «fontane / dove tumultano acque stigie / e fafnir si svuota del suo sangue». 66 Il grido di «Euridice Euridice» della poesia Ingresso, segna il decadere del valore eternante dell’arte (rappresentata da un Orfeo significativamente assente), incapace di restituire senso all’esistenza del poeta e alla sua opera, volti entrambi inesorabilmente verso il nulla. E gli stessi personaggi mitologici ricompaiono emblematicamente in Liofilizzati, dove dall’«ammollo del nuovo diluvio universale» non si potrà salvare neanche la poesia, ridotta a rifiuto di una civil[ 12] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 585 orfico che, come Raimbaud e Campana ci insegnano, è perfettamente centrale al tema della catabasi. Vale per il dantismo di Cattafi, almeno in questa fase del suo percorso poetico, ciò che è stato detto per Caproni: il suo innestarsi in un «contesto semanticamente ed ideologicamente dissonante» privo dei «valori essenziali su cui si fondava il testo di partenza: la sicurezza ontologica e religiosa, la fiducia nel potere della poesia, l’onnipresenza e onnipotenze divine»67, in antitesi a Montale o Luzi, per i quali «i legami con Dante sono di tipo esistenziale o religioso»68. Altre rifrazioni infernali sono da ravvisarsi nell’immagine delle fosse di Trapasso, ad esempio, («scorre il tuo mondo come acqua / che ritrovi stagnante / anima immersa in ogni nuova fossa») eco lontana del contrappasso degli iracondi e degli accidiosi, confinati nella palude stigia; o nelle defigurationes de Il prezzo («vedervi diventare pozze chiare / in cui entrare / da cui uscire a piedi nudi senza ribrezzo»), di Nei rivoli amari («quando piove e piove / sotto la persistenza della pioggia / scolori / perdi vigore / e in tante parti diviso / sfumi ti allarghi scompari») probabile suggestione della dissoluzione delle forme subita dalle anime dei golosi («Noi passavamo su per l’ombre che adona / la greve pioggia, e ponavam le piante / sovra lor vanità che par persona», Inf. VI, 34-36). Non si può escludere che certe immagini surreali, come «il pallido volto vuoto / occhi tenaci / teneramente aperti sulla nuca» (Autunnoprimavera), nascano dal fascino esercitato su Cattafi dalle punizioni delle Malebolge (pensiamo a quelle dei maghi e degli indovini). Ma se in questo caso si tratta soltanto di tangenze che nulla aggiungono alla indiscussa peculiarità del dettato poetico cattafiano, incontrovertibile marca dantesca hanno l’hapax «stenebrare»69 e il neologismo «malabestia», che non ricorda soltanto il composto «Malebranche» ma anche «Malebolge», luogo in cui vengono puniti, fra gli altri, ruffiani e seduttori: nella poesia Al davanzale, infatti, tà distrutta, coinvolta nel degrado della realtà in cui il vero Ade si localizza («Euridice è persa /-colorito turgore salute- / ìmpari come orfeo / galleggianti rifiuti»). Poesia che, attraverso la simbologia degli occhiali di montaliana memoria, sarà recuperata alla sua funzione solo in Chiromanzia d’Inverno (Milano, Mondadori, 1983) quando emergerà «da un fondo di immondizie» per vedere «Chi viene / di là dal dettaglio dall’assieme» (Occhiali). 67 R. De Rooy, «Il poeta che parla ai poeti», cit., p. 84. 68 Ibidem. 69 Il verbo è nel testo Incetta de L’allodola ottobrina (p. 33) e risale al dantesco «stenebraron» (Purg. XXII, 61-63). 586 SILVIA FREILES [13] «mentre il cielo guardi / e le cose celesti» le formiche, creature ctonie per eccellenza, «s’aprono il passo /[…]/ malebestie in guerra con qualcuno / per pinzarti per dirti / toglietevi da qui / tu e la tua razza dalle finestre / scendi / vieni con noi / incolonnato nell’ombra ». Significativo, inoltre, il lemma «livido»70 (2 ne La discesa al trono, 5 in Marzo e le sue idi) che contamina l’universo espressivo cattafiano fino a tradire, nell’Allodola ottobrina, il suo legame intertestuale con l’Inferno: «livido e stolto / stravolto colore di dannato» (Miele). Oltre a queste isole lessicali, troviamo una vera e propria locuzione dantesca in Me ne vado: l’espressione «uscir di mente» (Purg. VIII, 15) è coniugata in prima persona per indicare una esperienza di alienazione dal reale che prelude alla catabasi stessa71, come conferma la collocazione del testo in apertura sia della plaquette Il buio che de La discesa al trono. A tal proposito afferma Prandi che l’«annuncio di congedo»72 di Me ne vado «testimonia un movimento verso il punto cieco di un’interiorità niente affatto consolatoria»73 che non tarda a svelare la sua sostanziale natura infera come l’interessante interpretazione dei versi finali74 lascia supporre: la situazione «è quella dantesca di Inf. XXXII: i dannati sono confitti nel ghiaccio di Cocito dal busto in giù e il poeta, nonostante gli ammonimenti di Virgilio (vv. 19-21), colpisce col piede uno di essi, Bocca degli Abati: “Piangendo mi sgridò: ‘perché mi peste?’” (v. 79)»75. Nelle successive raccolte sono presenti, seppur raramente, altre locuzioni dantesche come «da far tremare le vene i polsi»76 che 70 Il lemma «livido» connota il paesaggio visivo ed emotivo dell’Inferno: «nocchier de la livida palude» (III, 98), «piena la pietra livida di fòri» (XIX, 14), «livido e nero come gran di pepe» (XXV, 84), «livide, insin là dove appar vergogna / eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia» (XXXII, 34-35) e anche della seconda cornice del Purgatorio («parsi la ripa e parsi la via schietta / col livido color della petraia» XIII, 8-9), dove rappresenta una strategia per «concentrare il nostro sguardo sul colore dell’invidia» (C.S. Singleton, Campi semantici dei canti XII e XIII del Purgatorio, in Miscellanea di studi danteschi, a cura dell’Istituto di Letteratura Italiana, Genova, Bozzi, 1966, pp. 20-22). 71 Me ne vado, in La discesa al trono, cit., p. 11. 72 S. Prandi, Da un intervallo nel buio, cit., pp. 141-142. 73 Ibidem. 74 I versi cui Prandi fa riferimento sono i seguenti: «mi chiudo nel guscio delle palpebre / cammino e incespico / in un pacco in un braccio teso / in un lamento che dice / non pestarmi col piede / dammi la mano» (Me ne vado). 75 Ibidem. 76 Rosso di sera, in Marzo e le sue idi, cit., p. 97. [14] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 587 ricalca la celeberrima «ella mi fa tremar le vene e i polsi» (Inf. I, 90), «impazzire al declino di nostra vita»77 che parodia «nel mezzo del cammin di nostra vita» (Inf. I,1), o il «gran mare» in cui «seguo con occhio traiettorie»78 che è la «versione moderna del “gran mar dell’essere” dantesco»79. Gli «sguardi di brace»80, poi, hanno una certa familiarità con gli «occhi di bragia» di Caronte (Inf. III, 109). Non ultime, le locuzioni avverbiali «a foglia a foglia», «a fibra a fibra», «a squama a squama», «a pezzo a pezzo», presuppongono l’uso dantesco «a brano a brano» (Inf. XIII, 128 e VI, 114). Se ne La discesa al trono prevale la tragica condizione esistenziale dell’Inferno, si può affermare che Marzo e le sue idi, pur nella sua complessa articolazione81, rappresenti un momento purgatoriale dell’itinerario cattafiano (in particolare Ostuni e un gruppo di testi): vi compare infatti un alter ego costretto ad un pellegrinaggio sulla terra («come una statua nell’immensa pianura / […] / t’incammini») durante il quale rinuncia a qualsiasi decodificazione del reale («chini la testa») per affondare i piedi nella «nera putredine del mondo» (Di colpo). Se ne La discesa al trono, inoltre, il percorso umano si definisce nei termini di un «uscire ed entrare / in un unico posto / senza più vita»82 realizzato in «una successione di stasi e di stagnazioni»83, in Marzo e le sue idi emerge la necessità della pena, da espiare attraversando la «pianura spinosa», luogo dello spirito assimilato dallo stesso Cattafi alla montagna del Purgatorio («camminare / alle spalle avendo / ammende e mortorio / montagne pianure di purgatorio», Un collare). Lo scenario descritto sta, quindi, al crocevia di suggestioni purgatoriali ma anche infernali84, perché può assumere i con- 77 Simmenthal, in L’allodola ottobrina, cit., p. 101. 78 Ombre, statue, presenze, in Marzo e le sue idi, cit., p. 98. 79 G. Savoca, Linea montaliana del linguaggio di Cattafi cit., p. 131. 80 La piena, in L’allodola ottobrina, cit., p. 67. 81 La difficoltà oggettiva di riassumere l’iter poetico di Marzo e le sue idi dipende dalla varietà di proposte, non più confluenti verso un unico centro come ne La discesa al trono, dalla divisione in sezioni, quattro, che rappresentano isole semantiche aperte (tranne Ostuni), dalla gamma degli approdi a cui giunge la scrittura cattafiana e infine dalla compresenza di aree lessicali e tematiche trasversali alla suddivisione in sezioni, perché dovute all’inserimento parziale o integrale di plaquettes preesistenti nel tessuto connettivo del macrotesto. 82 Calo, in La discesa al trono, cit., p. 20. 83 S. Prandi, Da un intervallo nel buio, cit., p. 146. 84 Non è estranea a Cattafi la tendenza «che si verifica ad esempio anche in Giudici, a far cozzare tra loro materiali provenienti da cantiche diverse, creando 588 SILVIA FREILES [15] torni di «uno spinato / un disossato inferno / uguale agli altri / a fiamme ribadite» (Rosea, morbida, dolce) o di «un’immane / pianura fumigante» (Ara) per quanto sussista la dialettica, dantesca anche quella, tra alto e basso, cielo e terra85. L’aggettivo «chino» inoltre, si presenta in parecchi microcontesti: «le spalle curve la greve onniveggenza della testa china» (Una gelida luce), «la moribonda china sullo specchio di morte» (Rosa colpita), «in silenzio a testa china» (In silenzio), «la mente / china itinerante / legge e legge / come su un prato fiorito / dei suoi nomi si bea» (Spesso quando cammini). In quest’ultimo leggiamo ancora: «nell’aria tersa prodiga di aiuti / ferme parole squadrate / da terra si levano / incolonnate / simili a lapidi dall’alta fronte / con concreti proponimenti». Pur negando una ripresa puntuale dei singoli loci del Purgatorio, probabilmente Cattafi sovrappone l’atteggiamento degli invidiosi che camminano «l’uno a l’altro chini» (XIV, 7) ascoltando esempi vocali, a quello dei superbi delineato nei canti XI86 e XII87 quando «andavan sotto il pondo» (XI, 26) leggendo in terra gli esempi scultorei di superbia punita che Dante paragona a lapidi incise con raffigurazioni dei defunti88. Affine a tale ansia di redenzione anche il testo In quella chiara89, per il sapore vagamente stilnovistico dell’incipit: In quella chiara castità dell’aria c’erano adunate tutte quante le mie primavere a decine a fronte china e grinzosa dinnanzi alla mia fuga di giuda ansante spesso delle atmosfere tra infernali, purgatoriali e paradisiache» (R. De Rooy, cit., p. 19). 85 Per quanto riguarda il lessico dell’elevazione spirituale presente in Marzo e le sue idi, mi permetto di rinviare a S. Freiles, Ostuni: mito della caduta e ansia di rigenerazione, in Viaggio verso qualcosa di preciso, cit., pp. 101-108. 86 «chinai in giù la faccia» (XI, 73); «me che tutto chin con loro andava» (XI, 78). 87 «avvegna che i pensieri / mi rimanessero chinati e scemi» (XII, 8-9); «fin che chinato givi» (XII, 69); «e non chinate il volto sì chè veggiate» (XII, 72). 88 «Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch’elli eran prima[….] si vid’io lì, ma di miglior sembianza, / secondo l’artificio, figurato / quanto per via di fuor del monte avanza» (Purg. XII, 16-24). 89 In quella chiara, in La discesa al trono, cit., p. 110. [16] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 589 di chi taglia obliquo per la pianura spinosa in cerca d’un legno dolce d’un albero a braccia aperte90. Non a caso «chi entra in una chioma d’albero […] rinverdito ne esce / rinfrescato / inerme e agguerrito in un’altra sfera / le pianure riarse ripudia / le masse impure / operanti nel cuore / i nemici lucenti come scaglie / in ordine sparso sulle nostre pianure»91 che possiamo immaginare di natura infera, come suggerisce l’uso dantesco del lemma «nemico»92. Ma risultando il demoniaco «una componente rilevante, attiva quasi quanto l’altra, antinomica e speculare insieme, della ricerca di Dio»93, non è impossibile rintracciare nelle raccolte cattafiane elementi desunti dal territorio lessicale del Paradiso: la «radice oscura »94 traduce la «radice incognita e ascosa» di Par. XVII, 141; l’uso metafisico del termine «orto» («chiuso orto infinito / bel serbatoio di ciò che non appare»)95, pur debitore del sintagma latino hortus conclusus, rievoca «l’orto dell’ortolano etterno» (Par XXVI, 64-65); ed infine prestiti danteschi quali «antelucano»96 o «occaso»97 conferiscono una patina arcaizzante al modernissimo dettato poetico di Cattafi. Non dimentichiamoci le multiformi presenze angeliche che «avanzano nel loro mondo / sotto la sferza d’amore»98, nello stesso modo 90 Il «legno dolce» ricorda il «diletto legno» di Par. I, 25, anche qui sostituto simbolico della croce di Cristo («l’albero a braccia aperte»); richiamo cristologico ha inoltre l’aggettivo «spinoso», che mantiene un’ambiguità semantica, rievocando da un lato la corona di spine di Cristo, dall’altro lo scenario desolato e arido della selva dei suicidi dove si può assistere ad una ‘caccia infernale’. Alcuni dei testi pubblicati in Marzo e le sue idi vanno in questa direzione: Una fuga perfetta («senza lasciare brandelli alle spine / fili d’odore al fiuto dei cani / e lontano da qui / brandelli appendere alle spine / annodare fili per il fiuto dei cani») e In silenzio («Un qualcosa che dà ombra/ sorge e punge/ una pianta di spine / un livido inchiostro […]»). 91 Ripudio, in Marzo e le sue idi, cit., p. 16. 92 Dante definisce Pluto «il gran nimico» (Inf. VI, 115), Lucia «nimica di ciascun crudele» (Inf. II, 100), Dio stesso «l’avversario di ogni male» (Inf. II, 16). 93 V. Leotta, Come lavorava Cattafi, in Viaggio verso qualcosa di preciso, cit., p. 31. 94 Cfr. Di radice oscura in La discesa al trono, cit., p. 84. 95 Cfr. False acacie, in Marzo e le sue idi, cit., p. 105. 96 Le «creature ferme ad un’ora antelucana» (Lucido e viscido, in La discesa al trono, cit., p. 90) ricordano gli «splendori antelucani» di Purg. XXVII, 109. 97 Cfr. Rosso di sera, in Marzo e le sue idi, cit., p. 97. Il termine «occaso» è govoniano (Cuor mio) e montaliano (Ossi di seppia) secondo i dati desunti da G. Savoca, Vocabolario della poesia italiana del Novecento, cit., p. 671. 98 Cfr. Queste forme di vita, in Marzo e le sue idi, cit., p. 37. 590 SILVIA FREILES [17] in cui «Questo cinghio sferza / la colpa dell’invidia, e però sono / tratte d’amor le corde de la ferza»99, o alcune figure della «geometria “metafisica”» in cui Cattafi «spesso si avventura pascalianamente »100 per rappresentare alla maniera dantesca l’inenarrabile, l’inesprimibile101. Alcune di queste (il «cerchio», ad esempio, il «giro» e la «sfera», discendente dalla dantesca «spera») sono interne alla «geometria poetica della più grande tradizione europea»102 al cui vertice si colloca appunto Dante. Ma ciò che più è indicativo di quanto Dante contribuisca alla semiosi dell’opera di Cattafi è la traduzione, da parte di questi, della propria storia umana e letteraria in un percorso di discesa e di redenzione, di autodistruzione e di rigenerazione, in una sorta di personalissimo itinerarium mentis in Deum. Tale allegorismo è la cifra più alta del recupero di Dante da parte del nostro: se Marzo e le sue idi presenta un testo che postula ancora la necessità della discesa, benché sotto forma di reminiscenza103, L’allodola ottobrina denota un habitus meditativo sulla vicenda trascorsa («Chi venne a sospingermi sul ciglio / a buttarmi sul fondo degli abissi / mi fece risalire a colpi d’ala», Dodici dicembre 1976) da parte di un io che non è più agens ma auctor, per riprendere la nota dicotomìa continiana104. E Chiromanzia d’inverno segna il tempo di interrogarsi sul senso del dolore, sul proprio, personale inferno, sulla necessità di accettarlo in un’ottica universale e cristiana, come parte di un provvidenziale «disegno»: La grazia Sarebbe dunque in questo lividore d’aria la grazia che fa cadere a fiocchi 99 Purg. XIII, 37-39. 100 Per non addentrarci in questa sede nella simbologia geometrica di Cattafi, rimandiamo al saggio di G. Savoca Un punto per la geometria di Cattafi, in Viaggio verso qualcosa di preciso, cit., pp. 5-11. 101 «Ne la profonda e chiara sussistenza / dell’alto lume parvemi tre giri / di tre colori e d’una contenenza» (Par, XXXIII, 115-117). 102 G. Savoca, Linea montaliana del linguaggio di Cattafi, cit., p. 134. 103 Si tratta di Nel pieno dell’estate: «Memore all’improvviso d’una mia / larvale vita di sotterra / piombai nelle tenebre sull’alto / pino di Aleppo / vorticando ad ali irrigidite / nel pieno dell’estate / caddi di schiena / lontano da ogni eliso / non larva non alato» dove il termine «Aleppo» viene scelto presumibilmente per la sua somiglianza fonetica con il grido incomprensibile emesso da Pluto in Inf. VII,1: «Pape Satàn, Pape Satàn aleppe». 104 G. Contini, Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976. [18] LA DISCESA AL TRONO COME STORIA DI UNA CATABASI 591 gelo candore oblio? E dove metteresti l’altra grazia che c’imbratta la faccia di fiamme e di fumo che ci rammenta d’essere schiatta di legna da ardere al buon Dio. Silvia Freiles (Messina) ALESSANDRO GAUDIO Mai bruciati dalla Cosa. Parole, figure e oggetti dell’inattualità alle origini della Poesia Visiva in Italia This paper examines the works written by the artists (Sarenco, Franco Verdi, Giancarlo Pavanello) who committed themselves to the organization of the ‘primo spazio d’ordine’ of Italian Visual Poetry. The essay analyses the epistemological field that gave origin to this art form, which keeps concerning a chosen circle of critics and scholars. 1. Alla base della precisazione teorica del composito fenomeno della Poesia Visiva c’è l’istituzione di un rapporto di similitudine (se non di intrinseca coincidenza) tra le parole e le cose, così come tra queste e le loro rappresentazioni: esso sembra rimandare a un ordine che si può definire senz’altro concreto, oggettuale, al quale, negli anni Sessanta e Settanta, cominciarono a uniformarsi artisti, poeti, critici d’arte, studiosi, intellettuali di diversa estrazione culturale che credettero di trovare nell’inattualità di quel nuovo legame un principio d’avanguardia, di rottura rispetto al passato, che fosse in grado di rappresentare ironicamente, paradossalmente, retoricamente, il rapporto che l’uomo moderno intrattiene (o dovrebbe intrattenere) con la realtà. Quella concomitanza tra l’immagine e il suo referente oggettivo ha indotto i vari operatori a prendere le distanze da forme d’arte e di poesia che non partecipassero del tempo e, più in generale, a riconsiderare la funzione dell’arte e della letteratura in seno al tardo capitalismo. Questa parvenza di apertura si è, però, consumata spesso in un processo tutto interno al linguaggio (sia esso visivo o verbale) che, tanto sul versante teorico quanto su quello pratico, ha fatto sì che gran parte della Poesia Visiva si allontanasse irrimediabilmente dal suo tempo, bruciata da un contatto troppo diretto con la Cosa1. 1 Il riferimento implicito, ma sin troppo evidente, è costituito da S. Z}iz]ek, [2] MAI BRUCIATI DALLA COSA 593 I poeti visivi si sono rapportati alla Cosa secondo modalità disparate e, soltanto nei casi migliori, accordando una disposizione politica alle loro pratiche intellettuali: questo assetto rappresenta un indizio sicuro del fatto che, comunque, alcuni di essi non volessero rinunciare al compromesso con la realtà. Nondimeno, il più delle volte si tratta di una realtà troppo perfetta, distillata, per così dire quintessenziale, che mal si presta a rappresentare quell’universo popolare spesso inseguito dalle neoavanguardie. Così facendo, la Poesia Visiva (non soltanto in Italia), attaccata organicamente (cioè, più che strenuamente) ai propri eccessi, non ha prodotto, salvo poche eccezioni, alcun contributo all’analisi dialettica dei contrasti della società civile borghese ed è questo stesso motivo che, probabilmente, le ha impedito di estendere il suo periodo di massima visibilità oltre la prima metà degli anni Ottanta e, pur facendosi Cosa, la sua portata oltre i confini privati (e, in ogni modo, menzogneri) di una metafisica troppo soggettiva o, che poi è lo stesso, della pura differenza estetica. Se anche la realtà è da considerarsi arte, dov’è possibile ritrovare la realtà o tentare di avvicinarsi ad essa? La strada seguita dai poeti visivi più consapevoli non è quella che consiste nel lasciar essere le cose e, quindi, nell’abbandono di qualsiasi metafisica. Sarenco, Eugenio Miccini, soprattutto Franco Verdi e pochi altri provano così la via dell’ironia. È un procedimento retorico che, tenendo conto di uno sfondo storico ben preciso, esamina e prende le distanze da alcuni aspetti sostanziali del capitalismo: da un lato, l’accumulo di merci e di materiali inutili, non funzionali, di rifiuti da smaltire, dall’altro, il gioco poetico prezioso e anch’esso non funzionale: è appena il caso di precisare che l’equivalente dell’oggetto nelle poesie visive è costituito dalla struttura sintattica. Si isola un luogo comune o un codice e lo si valuta da una prospettiva eteroclita (cui partecipa anche il linguaggio verbale) che sconvolge le prospettive ordinate. Le immagini artistiche che ne derivano sono – direbbe Francesco Orlando – antimerci che possono rivelare un aspetto rimosso di quella Cosa cui si faceva riferimento in precedenza2. Bruciato dalla Cosa, trad. di F. Conte, in «Allegoria», XVII (maggio-dicembre 2005), n. 50-51, pp. 5-18. 2 Cfr. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, pp. 19-20. 594 ALESSANDRO GAUDIO [3] Le poesie visive (e quelle riuscite non sono poi così numerose, specialmente nel periodo successivo alla breve ma intensa esplosione del fenomeno) si muovono su un’area concettuale comune molto poco estesa (compressa nello spazio sempre più ridotto che separa la parole dalle cose) che, proprio grazie alla sua misura ristretta, riesce a conservare una certa stabilità e a tenere insieme il nuovo composto di realtà. Ci riesce anche in virtù della compresenza in essa di un doppio regime (verbale e visivo, si è detto, ma anche corrente e inattuale, geometrico ed eteroclito, comune e privato), ma che resta costantemente nel novero di ciò che è possibile pensare. Ciò consente di dire che la vera virtù della Poesia Visiva è senz’altro quella di non svilupparsi all’interno di uno spazio bianco, impensabile, di alterità assoluta, esterno alla realtà e indefettibile (quale potrebbe essere quello linguistico che, con la Poesia Visiva, perde definitivamente la sua collocazione privilegiata) e di disporsi criticamente (cioè nell’ordine dell’umano) nei confronti di un mondo e di una storia che, anche se messi in discussione, restano comunque nominabili, discutibili: tale nuova visione interstiziale, straniante, presuppone, dunque, che a un ordine interno alle cose si sommi l’ordine di chi le guarda; la distanza che separa i due ordini è quello all’interno del quale opera (e funge da intermediaria) la Poesia Visiva. Essa è chiamata a mostrare e ad analizzare questa duplice forma di controllo, servendosi di una poetica che sia in grado di disegnare liberamente il reticolo all’interno del quale operare, non rinunciando, però, a identificare ordini diversi o migliori e a lacerare quelli di cui non ci si serve più. In questo saggio si studieranno i contributi di alcuni tra gli artisti che si sono impegnati più e meglio nell’allestire lo spazio d’ordine della Poesia Visiva in Italia, e cioè il campo epistemologico all’interno del quale si è originata questa forma d’arte che comunque, ancora oggi, continua a suscitare l’interesse di un selezionato gruppo di critici e di cultori. Ci si concentrerà, in particolare, su alcuni poeti visivi operanti tra il Veneto e la Lombardia, ma non per cercare in un criterio regionalistico di identificazione un motivo caratterizzante, intento lontanissimo dalle logiche della Neoavanguardia; bensì perché il loro lavoro ha come punto di riferimento la casa editrice factotum-art e la rivista «Lotta Poetica»: la prima stampata nel padovano ma, come la seconda, operante a Verona. Gli approdi cui sono giunti Sarenco, Franco Verdi e Giancarlo Pavanello (tutti presi in esame dalla sensibile lente della semiologa Rossana Apicella), infatti, pur nella loro eteronimia, non sono uniformabili a criteri del [4] MAI BRUCIATI DALLA COSA 595 tutto dissimili da quelli cui sono pervenuti, ad esempio, i fiorentini Eugenio Miccini, Luciano Ori, Lamberto Pignotti, né dalle maniere espresse tra Torino e Genova da Arrigo Lora Totino e da Claudio Costa (nato a Tirana nel 1942 e scomparso nel 1995) o in Sicilia dalle Singlossie di Ignazio Apolloni. In tutti i modi, sembrerebbe lecito tentare di isolare una fetta d’avanguardia che ha trovato nello sforzo di comprensibilità, nella natura pubblica dell’atto poetico e nella necessità di compromettersi col reale motivi caratterizzanti forti, ma quasi immediatamente messi in discussione. 2. Un ruolo importante nel verificare sul piano teorico le istanze care alla Poesia Visiva lo detenne, sin dal 1968, la semiologa Rossana Apicella, nata a Maiori, in provincia di Salerno, nel 1926 e scomparsa nel 1983. Suoi scritti comparvero su parecchi fascicoli di factotumbook, che, negli anni Settanta e Ottanta, si abbinarono a «Lotta Poetica » (fondata nel 1971 dai poeti visivi Sarenco – pseudonimo di Isaia Mabellini –, Paul De Vree e Gianni Bertini e pubblicata, con qualche intervallo, fino al 1987) e a «factotum-art» (diretta da Sarenco e De Vree), riviste di riferimento per i cultori di Poesia Sonora, di Poesia Visiva e, in genere, di concezioni scritturali alternative e che affiancavano l’attività di una piccola, ma attivissima casa editrice, ubicata a Calaone-Baone in provincia di Padova. Proprio dallo studio dei testi e dei cataloghi pubblicati per le edizioni factotum-art è possibile selezionare i concetti chiave (quali ‘singlossia’, ‘futurgappismo’, ‘oggetto attivo’, ‘polis’, ‘guerriglia semiologica’, ‘poesia totale’) e i poeti (Sarenco, Miccini, Verdi, Ori, Pavanello e Michele Perfetti, tra gli italiani più interessanti) che caratterizzarono maggiormente quella stagione d’avanguardia. Intorno a «Lotta Poetica» – che programmaticamente si poneva come strumento di informazione e di scambio tra i vari operatori – prendeva corpo il Gruppo internazionale di poesia visiva, completato da artisti operanti in tutto il mondo. Tra i tanti che condivisero le proprie realizzazioni sulle pagine delle pubblicazioni di factotumart è opportuno citare almeno Alain Arias-Misson, belga di nascita, ma americano e spagnolo d’adozione: fu l’iniziatore del Public Poem (che prevede che l’atto poetico si faccia prassi) e il massimo esponente della Poesia Visiva d’Oltreoceano; sempre negli Stati Uniti, bisogna citare Dick Higgins; poi Bernard Aubertin, esponente francese di spicco del Gruppo zero e conosciuto come l’artista del fuoco; i tedeschi Joseph Beuys e Timm Ulrichs; Paul De Vree, il più interessante poeta sperimentale fiammingo, nonché co-fondatore di 596 ALESSANDRO GAUDIO [5] “Lotta Poetica”; e, infine, Jiri Kolar e Ladislav Novak, gli iniziatori della poesia concreta in Cecoslovacchia3. L’elenco testimonia solo marginalmente le origini e gli approdi eterocliti delle diverse etichette affini alla Poesia Visiva (dalla Poesia Concreta, mallarmeana e futurista, alla Poesia Tecnologica del Gruppo 70 di Miccini, Pignotti, Ori e Marcucci, fino agli approdi più puri di Sarenco, Arias-Misson e De Vree), le quali, tuttavia, presentano alcuni caratteri comuni: apertura a nuove dimensioni, adesione al clima politico di critica della società borghese, rinnovamento della scrittura e della poesia (nei casi migliori, continuando a ricercare ancora una certa aderenza all’aspetto semantico, oltre che tipografico e dunque meramente estetico, del linguaggio verbale), accostamento alle ricerche limitrofe. A questi si aggiunge la problematica presa di distanza (dichiarata più che effettivamente compiuta) dalla Conceptual Art, un’arte smaterializzata, che non ha un oggetto come residuo4. Nel testo introduttivo del catalogo pubblicato in occasione di Poesia visiva internazionale, mostra collettiva, tenutasi a Venezia nel giugno del 1972, la Apicella ricostruisce sinteticamente le ascendenze e le fratture di un movimento di neoavanguardia che, rispetto alle operazioni messe in atto dal cartellone pubblicitario, dal cinema e dal fumetto, avrebbe superato la tradizionale relazione didascalica che si instaura tra parola e immagine, proponendo invece una simbiosi di messaggio discorsivo e di messaggio visivo (che, nella sua ambivalenza di lettura, diverrebbe «linguaggio di “polis”») e che, rispetto a tutte le forme istituzionali e regolari di far poesia, si sarebbe opposta (e avrebbe dovuto continuare a farlo) a qualsiasi tentativo di regolarizzazione di stampo accademico; ciò le avrebbe consentito di mantenere il suo carattere immediato, violento, folle, popolaresco e sperimentale5. A detta dei suoi più accorti teorici, il 3 A quasi tutti gli artisti citati venne dedicato un fascicolo monografico di factotumbook: il primo numero contiene un’antologia mondiale della poesia visiva che si pone esplicitamente come «istruzioni per l’uso delle avanguardie», raccoglie riproduzioni delle opere e scritti apparsi dal 1971 al ’75 su «Lotta Poetica» e presenta la mostra retrospettiva allestita ad Abano Terme, dedicata a quella esperienza editoriale (cfr. Poesia e prosa delle avanguardie. Mostra retrospettiva “Lotta Poetica 1971-75”, factotumbook 1, Calaone-Baone, factotum-art, ottobrenovembre 1978). 4 Cfr. V. Fagone, Una scheda per Lotta Poetica e G. Dorfles, La Poesia Visiva e Lotta Poetica, in ibidem. 5 Cfr. R. Apicella, Poesia visiva degli anni 72, in Poesia visiva internazionale, Galleria ‘Il Canale’, Venezia, dal 7 al 28 giugno 1972. [6] MAI BRUCIATI DALLA COSA 597 nuovo modo d’intendere la poesia deve considerare con riguardo la delicata questione della propria comprensibilità e, dunque, il riscontro del fruitore che, il più delle volte, è chiamato a integrare l’opera dell’artista. Questi, proprio per tale motivo, non può ostentare «disinteresse nei riguardi della polis»6, limitandosi a un evasivo e solipsistico culto di se stesso che tradirebbe i principi di apertura da sempre cari alla Poesia Visiva. 3. Franco Verdi (1934-2009), pur nel suo isolamento e nelle sue modalità operative semiprivate, – a detta dell’Apicella – avrebbe certamente rinunciato al disimpegno, al «quieto godimento», al «provvisorio assaporamento», servendosi efficacemente del mezzo della satira. È il caso, ad esempio, della sua Poesia gastronomica, fatta da «barattoli che contengono conchiglie, pezzi di meccanismi, giocattoli di plastica, materiali fossili, di colori varî e accesi. Si tratta – continua la semiologa – di comuni barattoli di marmellata, o da sottaceti, chiusi da un coperchio a scatto e morsa, di una molla di ferro dolce: ma sono remotissimi dalla pop-art, dai pollastrini artificiali su falsi spiedi, dalla satira gastronomica al consumismo di serie, che vuole essere la satira ad un costume e ad una civiltà». Il bersaglio dell’atto derisorio di Verdi è costituito, piuttosto, dalla poesia come atto disimpegnato, quella che «non partecipa del tempo, ma si infossa in barattoli, che diviene gioco, passatempo, tecnica sillabica, preziosismo salottiero»7. L’azione diretta dell’immagine è surrogata dalla ricchezza linguistica ed espressiva dell’atto di parola che, dunque, rispetto alla prima, è metaforico ma, nel modo qui precisato, non meno efficace8. Verdi confermerà questa posizione all’interno di uno scritto dal valore programmatico, pubblicato nel 1978 su «Quinta Generazione », rivista che promosse un dibattito su Realtà e veggenza. I passaggi più significativi della risposta di Verdi riguardano l’idea di compromissione che – secondo il poeta – pervade ormai il rapporto tra arte e critica, la necessità di accordare una funzione preminente all’espressione e, soprattutto, la connessione tra le condizioni formali di produzione e il contesto storico-politico9. 6 Ead., Publit-Eros, in F. Verdi, Waves, Walls, Stripes, Catalogo della mostra personale tenutasi nel 1982, presso il Centro Verifica 8 + 1 di Venezia-Mestre (Verona, factotum-art, 1982). 7 Ead., Poemi gastronomici, in ibidem. 8 Su posizioni simili M. D’Ambrosio, Waves, in ibidem. 9 Cfr. F. Verdi, [Risposte al questionario], in «Quinta Generazione», VI (novembre- dicembre 1978), n. 53-54, pp. 100-106. 598 ALESSANDRO GAUDIO [7] Per comprendere pienamente il modo in cui funzionano i processi simbolici messi in atto dal poeta veronese, credo che valga la pena insistere sull’assenza di discontinuità tra materia dell’opera e immagine che caratterizza il suo lavoro, ma anche sulla contiguità di immagine e parola (e, transitivamente, di parola e materia): si prefigura, così, un tipo di oggetto che si potrebbe definire attivo, in quanto è in grado di sollecitare tanto la percezione quanto, grazie a un continuo processo di deformazione del segno, l’immaginazione del fruitore: già nel ’67, Verdi aveva sentito come essa fosse insufficiente e improduttiva nell’uomo di oggi: è quanto il poeta rivelava nel primo punto di un decalogo, inserito nel catalogo dell’importante esposizione internazionale di Poesia Visiva, denominata Segni nello spazio, tenutasi a Castello di San Giusto10. Nel prosieguo del suo scritto, il poeta veronese si concentrava su alcune contrapposizioni fondamentali che avrebbero potuto trovare una risoluzione in seno alla poesia sperimentale: la prima riguarda il conflitto tra le idee e le relazioni complesse (che non troverebbero spazio nella nuova poesia) e la concezione divisa dell’Io: «non causalità ma possibilità, non monologo ma dialogo, non chiusura ma apertura»; la seconda prevede la fusione (spesso inedita e, dunque, ancora una volta complessa) di elementi verbali e visuali: il fatto grafico è costitutivo del discorso poetico; la terza teorizza l’interdisciplinarità della poesia sperimentale: «poetica, critica, estetica sono momenti interdipendenti nell’operare artistico»; l’immaginazione (che deve essere produttiva), nella quarta contrapposizione, è adeguata al tempo storico e, se opportuno, pronta a rinegoziare i suoi fondamenti11. È molto evidente negli scritti dei poeti visivi più accorti, e in quelli di Verdi tra questi, la necessità di non trascurare la dimensione teoretica del proprio lavoro: essa diviene indispensabile per distinguere, in seno alla Neoavanguardia, coloro che nelle loro opere versano un impianto di riflessioni (un criterio preliminare) coerente, meditato e, dunque, motivato (e di solito ciò avviene in quei poeti visivi che hanno alle spalle un passato da poeti), da chi invece (e sono i più), privo di qualsiasi preoccupazione di ordine, propone semplici imitazioni a un pubblico di critici e di mercanti, il più delle volte, colpevolmente compiacenti. È quanto rileva lo stesso Verdi in 10 Id., Sulla poesia sperimentale, in Segni nello spazio, Catalogo edito dall’Azienda Autonoma di Soggiorno di Trieste per l’esposizione internazionale “Segni nello spazio” (Castello di San Giusto, 8-31 luglio 1967), p. 15. 11 Cfr. ivi, pp. 15-16. [8] MAI BRUCIATI DALLA COSA 599 uno scritto del 1971, ribadendo il ruolo fondamentale che critica, poetica ed estetica detengono nell’arte d’oggi e prendendo le distanze dagli epigoni della Poesia Visiva: «per un Petrarca, – lamenta l’artista – qualche centinaio di petrarcheschi, per un Mallarmé qualche centinaio di poeti visivi o visuali od altro»12. 4. La capacità ironica, unita alla coscienza politica del fare poetico che contrasta l’universo poetico borghese e neoborghese, sarebbe, secondo Sarenco, una caratteristica peculiare di tutta la Nuova Poesia; sigla che, sin dal 1963, comprende, oltre alla Poesia Visiva, anche la Poesia Concreta e la Scrittura Simbiotica: a distinguersi in questi tre campi, a parte il già citato Verdi, non è possibile non citare l’austriaco Heinz Gappmayr e Rolando Mignani, cui è dedicato il quarto fascicolo di factotumbook13, nonché lo stesso Sarenco che, sempre nel ’63, a soli diciotto anni e mentre nasceva a Palermo il Gruppo 63, si avvicinò già a una prima (quasi inconsapevole) intuizione della parola visiva. Fu ancora l’Apicella che, già intorno alla metà degli anni Settanta, oppose il discorso poetico dell’artista bresciano alla grammatica del Gruppo 63 (a suo parere, nient’altro che «una piedigrotta milanesizzata delle più stanche poetiche novecentesche camuffate da scapigliatura»)14 e che coniò i vocaboli singlossia15 e praxiglossia, fondamentali per definire i caratteri di novità della proposta di Sarenco. Si tratta di un artista che affianca alla cospicua produzione artistica una costante riflessione sulla sua poetica: essa nasce – come capì immediatamente la Apicella – dall’intuizione dei problemi di spazio e di linguaggio prima che acquistino corposità, cioè prima 12 Id., Annotazioni a «Preliminari ad una lettura» di Hans G. Helms e «Notizie sul testo visivo» di Ferdinand Kriwet e traduzione dei due saggi, «Il Cristallo», XIII (1971), n. 1, p. 143. 13 Sarenco, Tre concezioni scritturali: Heinz Gappmayr, Rolando Mignani, Franco Verdi, in Tre concezioni scritturali. Heinz Gappmayr, Rolando Mignani, Franco Verdi, factotumbook 4, Calaone-Baone, factotum-art, ottobre 1978. 14 R. Apicella, Sarenco: l’evoluzione di una poetica, in Sarenco, Interventi, Catalogo della mostra personale tenutasi nel febbraio del 1974 presso lo Studio Brescia. Tutte le citazioni riportate all’interno di questo paragrafo sono, salvo diversa indicazione, tratte dal testo della semiologa. 15 Sulla fortuna del vocabolo e del fenomeno a esso connesso e sulle differenze che lo separerebbero dal testo visivo, si vedano i miei Dalla poesia alla Singlossia. L’introduzione mai scritta alle ‘poesie impossibili’ di Ignazio Apolloni, «Mosaico italiano», (aprile 2009), n. 64, pp. 37-40 e Ventura di singlossia, in «Lingua nostra», LXX (settembre-dicembre 2009), n. 3-4, pp. 103-104. 600 ALESSANDRO GAUDIO [9] che «divengano problemi di massa o di accademia». In questo caso la ‘corposità’ è da considerarsi come ‘massa inerte’, alla quale si sommerebbe lo spazio asettico e acronico in cui solitamente si muovono gli studi eruditi; il concetto di ‘massa inerte’ evocherebbe anche quel processo di canonizzazione forzata operato in seno all’accademia, cui si contrappone drasticamente la dimensione dialettica e costantemente in progress prediletta da Sarenco: quella di chi vive il suo tempo e di chi costruisce «dolorosamente le condizioni per uno spazio vitale»16. Secondo la semiologa salernitana, Sarenco è, dunque, un ‘personaggio nel tempo’ che, sincronicamente alla stagione umana e culturale che sta vivendo, arriva a precisare la forma creativa ed espressiva della singlossia, strumento specifico della Poesia Visiva, grazie alla quale si sarebbero potute superare le pastoie di un linguaggio (monoglossico, vale a dire letterario, desueto, tradizionale, antico e discronico, più che acronico) fondato sulla rigida distinzione saussuriana di langue e parole. Lo strumento singlossico viene definito dalla Apicella come punto d’incrocio del linguaggio idosemantico (o iconico) con il linguaggio fonosemantico: verbum più immagine, quindi, cui si dovrà aggiungere il momento dell’esecuzione (in parte delegata al fruitore), dell’interpretazione visiva del poema sonoro. La singlossia consentirebbe, inoltre, di sommare al discorso condotto dalla poesia una riflessione cosciente sulla logica poetica e, grazie alla sua immediatezza, consentirebbe la convergenza di più tipologie di segno artistico. La parte conclusiva dello scritto (molto apprezzabile perché consente di valutare a pieno il modo in cui l’autrice porta a maturazione concetti che, come si è visto, è possibile ritrovare in nuce in tanti suoi lavori precedenti) è dedicata alla distanza che separerebbe la poetica di Sarenco (impegnata pubblicamente, aperta alla storia e dotata di una forte carica dissacratoria nei confronti del contesto sociale) dalle possibili compromissioni con il capitale e, in particolare, dalla poetica dell’assurdo e del disimpegno (che, secondo la 16 Sulla poesia di Sarenco come riconquista del proprio corpo e, in generale, sulla concomitanza nella poesia visiva di evento poetico e accadimento fisico si concentrerà anche Achille Bonito Oliva nella prefazione del catalogo dell’installazione preparata in occasione della Biennale di Venezia del 2001 (cfr. A. Bonito Oliva, Sarenco detto anche il poeta, Milano, Giampaolo Prearo, 2001, pp. 7-9). Sui rapporti di Sarenco e altri poeti visivi con alcuni critici d’arte, si veda il mio Futurgappismo. Il futuro mancato del futurismo in una parola, in I. Apolloni (a cura di), Futurismo come attualità e divenire, Numero monografico della «Rivista di Studi Italiani», XXVI (dicembre 2008, ma 2010), n. 2, in corso di stampa. [10] MAI BRUCIATI DALLA COSA 601 Apicella, prevedrebbe il ricorso a finezze verbali, la decomposizione sillabica, la propensione per lo sfogo clinico e l’estraneità alla problematica del tempo) cara al Dadaismo e alla Pop-Art. Il salto di qualità compiuto da Sarenco coincide proprio con la scoperta della praxiglossia, che piega la singlossia «a una diversa significazione storica e civica» e comporta il definitivo superamento della dimensione ludica: il poeta pubblico partecipa alla storia e la sua creazione artistica diviene «discorso di polis», azione civica e atto etico che si rivolge con semplicità a «coloro che sono oscuramente protagonisti della storia» e che si pone come «anticipazione del suo tempo». È intorno a questo argomento che, mi sembra, sia possibile trovare le ragioni che indussero la semiologa a segnalare, intorno alla metà degli anni Settanta, una concettualizzazione più vicina alle ragioni della sua parola sul versante delle Singlossie di Ignazio Apolloni e dei vari ‘gruppi anti’ che sorgevano in quegli anni in Sicilia e che facevano della ri-creatività, della denuncia e del rifiuto opposto alle logiche assimilanti della grande editoria la loro bandiera; da qui la predilezione per i testi ciclostilati e per il manifesto il cui spirito estemporaneo, incontrollabile, esoeditoriale verrà poi ripreso dalle Singlossie apolloniane17. Ma, tornando alla Poesia Visiva, la Apicella usò il termine singlossia anche nella prefazione del catalogo relativo all’opera di Michele Perfetti, esponente pugliese del Gruppo 7018. Nella poetica di Perfetti la semiologa individuava tre «strutture portanti»: la Poesia monoglossica, la Poesia visivo-tecnologica e la Poesia visivooggettuale. Proprio quest’ultima, contestando «il tentativo di chiudere in formule fisse il linguaggio della singlossia» e opponendosi alla Pop-Art «con i mezzi stessi usati dalla Pop-Art» e dal Neo- Dadaismo praticato da Julius Evola, sarebbe l’invenzione «più pregnante» dell’operatore qui presentato: Perfetti avrebbe, così, tro- 17 Sono tre gli scritti della semiologa che definiscono la Singlossia, il suo campo d’azione e il suo sistema di reagenti ideologici, riadattandoli ai motivi dell’Intergruppo di Apolloni: R. Apicella, La poesia come ricerca di nuovi strumenti, in «Intergruppo», (luglio 1979), n. 13; Ead., Per una lettura semiologica della singlossia, «Intergruppo», (ottobre 1980), n. 14; Ead., Per una visione attuale della singlossia, in «Intergruppo», (luglio 1984), n. 17-18. A questi si può aggiungere della stessa autrice il bel saggio sulle Sketch-Poesie scritto nel novembre del 1979 e poi inserito in I. Apolloni, Singlossie. 1979-1996, Palermo, Novecento, 1997, pp. 103-105. 18 R. Apicella, Prefazione, in Michele Perfetti, Roma, Beniamino Carucci Editore, agosto 1975, pp. XVII-XXI. 602 ALESSANDRO GAUDIO [11] vato il modo di accordare al suo messaggio poetico una dimensione non più individuale, «ma di denuncia di una civiltà, di un tempo, di un costume». La studiosa distingueva poi, all’interno dell’opera dell’artista in questione, due forme d’espressione: con la prima, denominata poesia visiva singlossica, l’artista prende di mira le modalità d’espressione; con la seconda, il romanzo visivo singlossico, il bersaglio diventa il linguaggio nel suo divenire e, dunque, – dice la Apicella – il personaggio: questi è una maschera dell’individuo strumentalizzato dal sistema capitalistico e diventa il bersaglio vero e proprio dell’ironia e della vis dissacratoria di Perfetti. Con rigore strutturalista, la studiosa pone a chiusura del saggio un breve glossario che credo che sia utile riproporre interamente. Nel trascriverlo, ho normalizzato gli accenti ed emendato qualche refuso. Monoglossia. Si intende l’uso di un solo strumento espressivo sia esso visivo (e pertanto da affidarsi alla verifica delle Arti Visive), sia esso verbale (e quindi verificabile dalla cosiddetta Critica letteraria). La monoglossia riguarda un’opera di Giotto (linguaggio visivo) come il plurilinguismo di Pound (linguaggio verbale). In ambedue i casi, si tratta di un medium espressivo unico. Paraglossia. Linguaggi diversi posti in posizione parallela. Esempio tipico è il poster liberty, quello di Dudovich, ad es.: eliminando la scritta pubblicitaria, resta un’immagine piacevole a sé stante, verificabile attraverso la critica delle Arti Visive. La paraglossia è l’accostamento senza complementarità, di due o più linguaggi, nel quale l’uno può essere eliminato senza la decodificazione dell’altro. Singlossia. È lo specifico della Poesia Visiva. L’uno dei due linguaggi non può essere eliminato senza la decodificazione del contesto. È la totale rivoluzione delle Poetiche del secolo ventesimo. La scoperta della singlossia elimina la possibilità di una verifica al di fuori dell’area semiologica: ogni interpretazione prevalentemente visiva o verbale, non tenendo conto dello specifico della singlossia, è totalmente negativa ai fini di una verifica della Poesia Visiva come scoperta di un linguaggio totalmente nuovo. Antiglossia. Categoria interna nell’ambito della singlossia. Consiste nell’urto di due elementi costitutivi che raggiungono la complementarità attraverso l’incontro-scontro. L’importante è che esista un rapporto singlossico degli elementi costitutivi del contesto. La Apicella prova a convalidare l’inedita terminologia stabilendo, per ciascun lemma, una definizione; il dizionarietto fornisce [12] MAI BRUCIATI DALLA COSA 603 qualche spiegazione riguardo allo stato di una materia che, in quegli anni, sembra che sia in continua evoluzione, che si stia adattando progressivamente alla materia che designa. Appare significativa l’assenza del lemma praxiglossia e, alla fine di questo scritto, se ne comprenderanno i motivi. 5. All’interno di un volumetto di dodici pagine (non numerate e non rilegate) scritto dall’Apicella, intitolato Il gruppo teatro itinerario e stampato nel novembre del 1977, in formato ridottissimo (11 x 18,5 cm) e in tiratura limitata (500 copie), presso le Edizioni Teatro Itinerario, ideate e dirette dall’eclettico poeta veneziano Giancarlo Pavanello, viene precisata l’indole di un artista che – a detta della stessa semiologa – resterà il solo in grado di portare avanti la dimensione ‘praxiglossica’ della Poesia Visiva. Il Teatro Itinerario era un laboratorio fondato dallo stesso Pavanello e conclusosi nello spazio di quattro mesi, dal settembre al dicembre ’77. Il gruppo si faceva promotore di un «Teatro Elementare» che – diceva l’Apicella –, a patto che esista lo spazio scenico, «si può fare con tutto: i gatti in gabbia, la Poesia Visiva, la Poesia Concreta, la Poesia Manoscritta, i libri, i poeti che dicono le poesie, la pedana, un tavolo, un albero, un manifesto». Questa forma di teatro (che coinvolge al suo interno lo spettatore) si basa su un linguaggio che, superando la monoglossia, arriva alla singlossia, incrocio – come si è appurato – di linguaggio visivo e di linguaggio verbale e, nelle parole della studiosa, «grande rivoluzione semiologica del secolo ventesimo»: proprio perché, all’esperienza estetica (dettata dalla Poesia Visiva, Concreta o Manoscritta), si affianca l’esperienza funzionale- economica dell’affiche pubblicitario, del fumetto e del poster. Nel punto di congiunzione delle due esperienze si troverebbe la singlossia cinetica che introdurrebbe la dimensione del movimento che «crea una diversificazione spazio-temporale». Completano il libriccino alcuni grafici che aiutano a comprendere la nuova direzione assunta dalla comunicazione singlossica. Al manifesto del Teatro Elementare, intitolato Dalla Nuova Scrittura al Teatro Elementare e redatto dallo stesso Pavanello nei mesi di novembre e dicembre del 1977 (anche se poi pubblicato soltanto nel gennaio del 1978 per le Edizioni Poesiateatro, altra sigla editoriale di sua proprietà, sorta dalle ceneri del Teatro Itinerario), si rifarebbe la mostra di oggetti denominata Il Tesoro (allestita a Udine e, poi, a Trento sempre nel ’77), tra i primi esempi di esperienza singlossicocinetica. Nel Manifesto si fa riferimento alla teorizzazione dell’Apicella 604 ALESSANDRO GAUDIO [13] sulla singlossia, per ribadire il modo in cui essa sia fondamentale per comprendere il modo in cui, sostiene Pavanello, la nuova poesia, pur avvicinandosi alla vita, diventa sinfonia, paradossalmente «diventa teatro». Ma non si tratterà di certo dell’ultimo paradosso d’avanguardia: tanto che, nel gennaio del 2010, Pavanello inaugurerà a Bologna una mostra personale di Poesia Visiva, intitolata proprio Poesia in scena: testi poetici brevissimi su tavole chirografate, fotografate, incollate, manoscritte e verbo-visive, da guardare e da leggere percorrendo lo spazio espositivo19. Dai primi anni Settanta in poi, Pavanello è passato attraverso la poesia visualizzata, la poesia critica, la poesia figurata e la poesia laconica: spesso il poeta raccoglieva le sue prove in opuscoli a tiratura limitatissima (500 copie al massimo), ma particolarmente accattivanti sul piano tipografico, il cui scopo era quello di sostituire il decoro del quadro e arrivare a tutti i livelli sociali. In tal senso, molto interessanti appaiono gli approdi della poesia laconica: si tratta di una poesia, composta da una fino a tre parole, che sorge dal silenzio – sostiene lo stesso Pavanello – e che cerca il massimo grado di concisione in un neologismo (si segnalano, tra i tanti, traumazione, telestasi, musicastenia, afonologo, psicanto, caleidanza, bionologo). Lo scopo di questa poesia concisa, «composta come un disegno elementare, facile da ascoltare, facile da imparare a memoria», consiste nell’avversare l’«anti-poesia logorroica» e di ricercare «uno stile adatto al mondo»20. La ricerca poetica deve, insomma, adattarsi al proprio tempo, ma operando – a detta del poeta veneziano – in quella marginalità estrema (frutto di una riflessione critica e autocritica), in grado di lasciare un segno che sopravviva all’oblio: essa non deve produrre oggetti sofisticati e decorativi (o «stanche riprove neoclassiche») o frutto di regimi industrializzati e globalizzati; in più, non deve confondere il vero impegno con la smargiassata goliardica. È in cerca di un approdo autentico, anti-artistico, anti-nostalgico, che si pone come avanguardia definitiva, perché postuma, mentale (ma non chiusa in una torre d’avorio), legata alla complessità della coscienza e dell’immagine interiore, ultimo ambito di libertà e realtà dell’intelligenza21. Non deve sorprendere il fatto che, negli anni Settanta, 19 G. Pavanello, Poesia in scena, Milano, Ixidem, dicembre 2009. 20 Id., Avvertenza, in Id., Poesia laconica, Milano, Ixidem, dicembre 2000. 21 Cfr. Id., La poesia mentale, espressione di una realtà dissociata [affinché la poesia sorgiva produca una poesia laconica] [2000], in Id., Ciclo, Milano, Ixidem, dicembre 2001, pp. 57-66. [14] MAI BRUCIATI DALLA COSA 605 Pavanello pubblicò alcuni libri parzialmente asemantici: si tratta di L PHLSPH DNS L BDR (gioco erudito che – come notò con prontezza Rossana Apicella – nasconde una parodia della linguistica del giovane de Saussure), di Oscar Wilde nel carcere di Reading e di Il fantasma di Aubrey Beardsley, che però non possono essere annessi (per la loro struttura e per i contenuti astratti e fantastici) al modello caro alla Poesia Visiva22. 6. Si è accertato che la Poesia Visiva, nella sua fase iniziale, cerchi il suo fondamento nella ricaduta sul reale. Le strade tentate dai primi interpreti del movimento, non soltanto in Italia, convergono verso la realtà seguendo, in fin dei conti, due strade principali, segnate da alcune importanti esperienze artistiche, non sempre conformi, però, a quell’impostazione anti-dadaista che sembravano voler perseguire. La prima è praticata da artisti come Aubertin, Kolar, che ho già citato, ma ha un suo ascendente obbligato in Daniel Spoerri e, in Italia, nel work in regress di Claudio Costa; essa prevede il recupero delle possibilità estetico-figurative di oggetti materiali di varia natura. Aubertin compie esperimenti artistici realizzando quadri viventi che uniscano l’energia fisica del fuoco (spesso innescata dallo spettatore stesso) al valore simbolico dell’oggetto bruciato (elenchi telefonici, libri), al fine di prendere le distanze dalla cultura tradizionale. L’azzeramento della tradizione lascia spazio al niente, a uno spazio virtuale, bianco, ideale che contrasta apertamente il recupero dell’oggetto cui mirano i poeti visivi e finisce per ribadire un concetto di arte fine a se stessa. Kolar è un rappresentante della poesia evidente, sinonimo – secondo Sarenco – di poesia materiale: essa consiste nel sottrarre o aggiungere a famosi dipinti alcuni elementi (oggetti, individui, alberi) o nell’isolare vedute particolari di una stessa opera e di giustapporre le sue diverse versioni così ottenute in successione, come se fossero fotogrammi di una sequenza (o parole che compongono una nuova frase) che, però, non si sa bene da quale fotogramma (o da quale parola) abbia avuto inizio; tale principio di destrutturazione del linguaggio è quello tipico della poesia concreta e mira alla creazione di uno spazio attivo all’interno del quale ogni fruitore (così come l’autore) può operare direttamente sul senso dell’opera, seguendo tuttavia criteri di lettura non abitua- 22 R. Apicella, Alla scoperta della idoglossia semantica o pseudoasemantica, Pieghevole della mostra personale omonima, Venezia, il Canale, 1977. 606 ALESSANDRO GAUDIO [15] li. Credo che l’opera di Kolar sia per certi versi accostabile alla Eat Art del rumeno Daniel Spoerri che, nel corso degli anni Sessanta, aveva mosso un vero e proprio atto di sfida alla tranquilla civiltà dell’immagine, mediante gli scherzi iconoclasti dei suoi Tableauxpiège o dei Détrompe l’oeil: la tavola imbandita, i resti della colazione, gli oggetti aggiunti a un ritratto anonimo, un’antica cornice si sostituiscono alla tavolozza, capovolgendo esemplarmente il senso dell’iconografia borghese23. Un’operazione che, come quella condotta pochi anni dopo da Claudio Costa, c’entra poco con il passaggio dall’oggetto alla sua definizione linguistica. Nel caso del Work in regress di Costa non si può più parlare di tendenza a un uso ironico o straniante dell’immagine, in quanto i suoi lavori mirano al recupero della funzione ancestrale dell’oggetto materiale. Il tentativo di Costa, che si rifà comunque al ready made duchampiano e fruisce degli approdi dell’Arte Povera, è finalizzato al superamento dell’avanguardia per l’avanguardia che, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, è piuttosto incline al work in progress. Restando nell’ambito dell’idea- invenzione, inventando cliché fini a se stessi, essa non riuscirebbe ad agganciarsi al tempo storico. La proposta dell’artista genovese (ma, come detto, nato a Tirana), «pratica e coerenza di vita» e invito a studiare il passato, consisterebbe in un tentativo di prendere coscienza, attraverso il recupero dell’oggetto materiale (argilla, legno, badili, picconi, madie per il pane, corni, letame), che esiste un’origine delle idee, così come un’origine dell’uomo24. La seconda strada è quella percorsa da Sarenco; mentre all’estero è Alain Arias-Misson il principale interprete di questa vena artistica che privilegia l’impiego della poesia visiva come messaggio politico. I public poems dell’artista americano sono – secondo quanto sostiene egli stesso – «enactment[s] of language-fluid, enmeshed in the real street processes»25: di fatto, si tratta di sagome di lettere, parole, segni d’interpunzione, simboli grammaticali grandi come 23 Per tutti i riferimenti agli autori citati in questa sezione si rimanda a Bernard Aubertin, factotumbook 5, Calaone-Baone, factotum-art, settembre 1978, Jiri Kolar, factotumbook 9, Calaone-Baone, factotum-art, ottobre 1978, Claudio Costa. Work in regress, factotumbook 13, Calaone-Baone, factotum-art, gennaio 1979 e Daniel Spoerri. L’arte in trappola, factotumbook 29, Calaone-Baone, factotum-art, marzo 1981. 24 Cfr. [Intervista di Sarenco a Claudio Costa, rilasciata a Genova il 22 dicembre 1978], in Claudio Costa, cit. 25 A. Arias-Misson, The Public Poem – Prologue, in Alain Arias-Misson. The public poem book, factotumbook 11, Calaone-Baone, factotum-art, dicembre 1978. [16] MAI BRUCIATI DALLA COSA 607 uomini che vengono trasportati lungo le strade da un poetry-team (e interpretate dagli stessi passanti) e che sottolineano alcuni aspetti del tessuto (o del testo) cittadino: attraverso essi, da virtuale che era, il senso della città (anche quello potenziale) viene esplicitato, portato a livello enunciativo, realizzato. I poemi pubblici rappresentati tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo nelle strade di Madrid, Bruxelles, Milano, Pamplona, Amsterdam, New York, Bonn sono (un po’ paradossalmente) riprodotti nel fascicolo citato di factotumbook ed è qui – come ammette lo stesso artista – che si estingue la loro carica poetica poiché, precisa, nella città essi dovevano fare i conti con la disattenzione e l’alienazione dei cittadini e, dunque, non sono mai esistiti se non all’interno del libro e tra questo e la strada sono destinati a oscillare. Largamente esemplificativo delle convinzioni di Sarenco in fatto d’arte è il concetto di futurgappismo26. All’interno del secondo numero della rivista illustrata d’avanguardia «factotum-art» erano inseriti quattro comunicati, cui avrebbero fatto seguito altri due presenti sul numero successivo, uscito nell’agosto del ’78, che consentono di definire il senso di futurgappismo e la portata di un fenomeno giocatosi e subito esauritosi tra le convinzioni di Sarenco e le tante contraddizioni di altri suoi interpreti; è indubbio, poi, che una tendenza artistica che, per esprimere aspirazioni o velleità nuove, si nomina con vocaboli risalenti a vari decenni addietro, non si può dire che prometta bene. Il vocabolo campeggia ed è preponderante sia sul piano concettuale sia su quello visivo su ciascuna delle sei circolari27. Ogni intervento diventa, così, un manifesto di denuncia che si oppone (già graficamente) alle logiche della grande editoria. La parola risale, dunque, al 25 aprile 1978, data del primo aggressivo comunicato, pubblicato da Sarenco sul numero 2 di «factotum- art»: è lui stesso a spiegare l’etimologia della ‘parola-macedonia’ futurgappismo che, da sola, chiarisce lo spirito battagliero che animava tutte le attività a essa connesse: si tratta di un composto a doppia testa (futurismo gappista o gappismo futurista?) formato da due sostantivi: futurismo, termine creato – com’è noto – da Marinetti nel 1909 e qui inteso come «attacco culturale e fisico contro il 26 Sul movimento e la fortuna della parola, si veda anche A. Gaudio, Futurgappismo. Il futuro mancato del futurismo in una parola, cit. 27 I manifesti vennero riprodotti sul fascicolo 21 di factotumbook, intitolato Futurgappismo 1, curato da Vittore Baroni e Carlo Battisti e pubblicato nel giugno del 1979. 608 ALESSANDRO GAUDIO [17] “passatismo”, contro i critici d’arte, da considerare “inutili e dannosi” », e gappismo, neologismo (nessun vocabolario storico lo registra) derivato da gappista, a sua volta dall’acronimo GAP (sigla dei Gruppi di Azione Partigiana, commandos costituiti da partigiani guidati dal Partito comunista e subordinati a questo e alle Brigate Garibaldi) e che rimanda alla guerra di resistenza condotta in città contro nazisti e fascisti all’indomani della costituzione, nel settembre 1943, della Repubblica Sociale Italiana; questa lotta era portata avanti cercando di smuovere, servendosi di qualunque mezzo, l’opinione pubblica e nella convinzione che ogni attendismo avrebbe prolungato il dominio nazifascista. Dal canto suo, Sarenco ripropone pressappoco il modello militare della brigata (cui si stava rifacendo anche la “F.T. Marinetti Brigade” di San Francisco, nonché altri gruppi di artisti operanti negli Stati Uniti a New York, a Philadelphia e in California), per minacciare un «attacco fisico contro i criminali fascisti, contro le spie ed i delatori, da individuare e freddare nei loro giacigli familiari ». La linea propugnata da «factotum-art», pur cogliendo qualche spunto terminologico dal Boccioni di «Lacerba», dal Carrà di Guerrapittura o dai chimismi di Soffici, si sviluppava autonomamente secondo problematiche prevalentemente visuali, sorte – come si è già accennato – negli anni della seconda guerra mondiale e che superavano di molto le ‘parole in libertà’ o l’’aeropoesia’28. Così, alla base del Futurgappismo («sintesi di due “movimenti”»), sembra esserci una marcata intenzione ossimorica (voluta o inconscia?): da un lato, il futurismo, con tutto il suo rivoluzionarismo, che dal punto di vista politico era ben di destra, tanto che si amalgamò benissimo con il fascismo; dall’altro, il gappismo che, al contrario, era di sinistra. Pur non disdegnando il riferimento anche frequente alla storia dei movimenti artistici, esso (esplosiva conciliazione di opposti estremismi) diventa «un modo di operare degli artisti rivoluzionari contro le mafie culturali (chiara espressione del governo culturale nazionale) per l’instaurazione della dittatura delle avanguardie artistiche proletarie». Sarenco si schierava dalla parte di tutti gli artisti marginali (ma non «così emarginati da ritenersi sconfitti») e, in particolare, perorava la causa dei poeti visivi accomunati dallo spirito battagliero del periodico che guidava: tra gli italiani, non è possibile non citare Eugenio Miccini (alcune sue azioni “futurgap- 28 Cfr. C. Belloli, Poesia visuale, oggi, in Segni nello spazio, cit., p. 10. [18] MAI BRUCIATI DALLA COSA 609 piste” comparvero sul quinto fascicolo di «factotum-art») e ancora Franco Verdi, entrambi particolarmente dinamici nel proporre giustificazioni teoriche al loro modo di intendere l’arte e valutazioni mai compiacenti nei confronti degli operatori della Neoavanguardia meno motivati e, soprattutto, dei mediatori della cultura di massa. 7. Questa panoramica sui motivi che caratterizzarono le origini della Poesia Visiva in Italia può concludersi, così come era iniziata, da un testo di verifica semiologica (ma non solo) dell’attentissima Rossana Apicella. In un testo del 1979, pubblicato su un’altra rivista molto sensibile ai lavori di cui ci si è occupati qui, la studiosa tira le somme del movimento al termine di un decennio importantissimo per le sorti delle Neoavanguardie: la Poesia Visiva, legata al divenire dei tempi, appare, già nel ’79, frutto di una rivoluzione (quella dadaista, esplosa col Maggio Francese) fittizia e inconcludente. Dal 1977 in poi, infatti, sull’utopismo che ha caratterizzato quella stagione prevarrebbe la realtà (che, a dire il vero, si era posta sin dai primi anni Settanta come riferimento concettuale obbligato degli esperimenti più consapevoli). In questa nuova fase, fattori quali la morsa economica, il futuro incerto e la precarietà dei mezzi di sussistenza e di benessere avrebbero indotto l’universalità della rivoluzione a frantumarsi – sostiene la Apicella – «in una casistica di sopravvivenza personale»29. Con tutto ciò, sarebbe rimasto acceso un barlume di quell’impeto di urto e di partecipazione: la Poesia Visiva, uscita dalla necessità dell’engagement politico, ha potuto operare la rivoluzione più vera e duratura, che la Apicella decreta debba coincidere con quella del linguaggio poetico. Nel sostenere ciò, la semiologa ribadisce, comunque, la necessità di non restare estranei al proprio tempo e contrappone a una deprecabile parvenza di nuova poetica (quella, ad esempio, propria del discorso di Pasolini sul recupero degli stilemi dialettali, dei proverbi, del motto), che resta nell’ambito della confessione privata, una auspicabile realtà di nuova poetica, che manterrebbe una dimensione pubblica. Il fattore che ha condotto alla fine della Poesia Visiva è legato alla sua progressiva chiusura in un gruppo di potere che ha cercato di spegnere ogni voce autonoma, ricadendo – secondo l’Apicella – 29 R. Apicella, Poesia Totale come nuovo sviluppo della singlossia, «Zeta. Rivista internazionale di poesia», I (1979), n. 1, p. 12. 610 ALESSANDRO GAUDIO [19] negli errori del metodo dei Novissimi30: la Poesia Visiva, superata la sua fase di lotta di gruppo (che ha avuto nel futurgappismo il suo stadio più aggressivo), deve dunque rifiutare qualsiasi implicazione politica e realizzarsi nella Poesia per la Poesia, con lungimiranza riconosciuto come ambito di riferimento per la nuova Scrittura Verbale. Ma questa nuova rivoluzione si pone come superamento, che mantenga in ogni caso rapporti con la temperie precedente, o piuttosto come suo deciso rifiuto? La Apicella sembra propendere per questa seconda ipotesi, anche perché l’a-semanticità che caratterizza la Scrittura Verbale si contrappone alla necessità di immediatezza e di chiarezza del tipo di messaggio caro ai poeti visivi (un po’ strumento illuministicopopulistico, un po’ propaganda politica). Si chiude la fase utopistica e, con essa, il mito della praxiglossia: «i poeti – dichiara la studiosa – non fanno altra storia che quella individuale, personale, autobiografica »31. Lo scacco della Poesia Visiva coinciderebbe, insomma, con il fallimento di tutta la Neoavanguardia, al quale sembra essere connessa l’origine di una lunga fase di crisi dalla quale, ancora oggi, si sta cercando di uscire: «la Scrittura Visuale nasce da questa crisi di un mondo e di una ricerca, dalla disgregazione di una storia poetica implicata da una storia civile»32. Rossana Apicella ha colto con intelligenza la fase di mutamento che si stava originando in quegli anni nella cultura occidentale; tuttavia, avrebbe potuto essere maggiormente accorta nel decretare la fine della Poesia «a messaggio aperto» (liquidata frettolosamente come utopistica), liberando di fatto il campo a un tipo di scrittura, «a messaggio chiuso», Poesia Totale, sì, ma nuovamente monoglossica, e vicina agli echi del Futurismo, da un lato, e del Dadaismo (definito, in più occasioni, negazione della storia, proposta di quiescenza, gioco di carnevale, scherzo da seminario e commedia goliardica), dall’altro, e che, seppur ancora lontana dai manierismi di un decadentismo fatiscente, avrebbe perso la carica di azione, di originalità e di senso che la Apicella stessa era stata così brava a individuare nei lavori di Sarenco, di Verdi e di Pavanello (e di pochi altri). Tutti artisti che, seppur consapevoli che sarebbe stato inutile continuare sui binari di quel bios politikos che contraddistingueva i momenti più eversivi della prima fase neoavanguardi- 30 Ivi, p. 16. 31 Ivi, p. 17. 32 Ivi, p. 18. [20] MAI BRUCIATI DALLA COSA 611 stica, stavano sperimentando autonomamente la possibilità di opporsi al conformismo sociale proprio della cultura italiana della fine degli anni Settanta e – che è la medesima cosa – all’inutilità di una poesia che indugi esclusivamente sulla parola o, ancora peggio, sul segno insignificante e lo stavano facendo mediante una forma privata, individuale, ma mai isolata o meramente contemplativa, di prassi intellettuale. Alessandro Gaudio (Università della Calabria) Giorgio Cavallini, Registri stilistici. Da Dante a Pirandello e altri del Novecento, Genova, Stefano Termanini Editore, 2009, pp. 208. Studioso e critico acuto e prolifico della letteratura italiana, Giorgio Cavallini raccoglie in volume i suoi interventi degli ultimi anni (2008 – 2009) dedicati ad alcuni aspetti e figure della nostra letteratura da Dante all’età contemporanea. «È costume ormai secolare» scrive Raffaele Giglio nell’Introduzione al testo «che ogni critico militante accolga in volume periodicamente i suoi saggi, sparsi in riviste o quotidiani, offerti a lettori diversi, distribuiti negli angoli più remoti di questo mondo» (p. 5), presentando, in questo modo, una scelta dei temi che accompagnano l’interesse di uno studioso. Il titolo della miscellanea, Registri stilistici, fa riferimento al modello teorico proprio dell’Autore che si traduce in un metodo d’indagine testuale che, attraverso una scrittura godibile e attenta, descrive, analizza, ricostruisce storiograficamente nell’intento di dar vita a interpretazioni critiche capillari o di largo respiro su aspetti centrali della letteratura italiana. In questa silloge Cavallini ci offre undici saggi di argomento vario, dai due iniziali dedicati alla poesia dantesca ad un dittico goldoniano su La Locandiera ed i Rusteghi, fino ad una riflessione sul Poema paradisiaco di d’Annunzio, oltre ad interventi su autori “minori” come Mario Morasso, Michele Federico Sciacca, Paolo Bertolani, Maria Adelaide Raschini e Margherita Faustini. I testi, che a volte si richiamano a studi precedenti di Cavallini sull’argomento e di cui i nuovi contributi appaiono come “postille” ulteriori, creano quel senso di fiducia nell’esegesi di un «instancabile» (p. 5) critico che si traduce in un accrescimento del significato degli scritti stessi, dedicati con simpatia ad amici e colleghi. Tra i diversi exempla della metodologia d’analisi dello studioso ne scelgo alcuni paradigmatici del suo stile critico relativi alla figura di Virgilio, al linguaggio della Mirandolina goldoniana e alla poesia di Margherita Faustini. Ad apertura del volume, Cavallini propone una lettura della figura di Virgilio nel VII canto del Purgatorio, preceduta da un’analisi della strut- Recensioni RECENSIONI 613 tura dello stesso canto e dell’incontro che Dante ed il poeta latino hanno con il più celebre dei trovatori italiani, Sordello da Goito. L’attenzione dello studioso si focalizza sui versi 1-63 in cui Virgilio si presenta, dichiarando il proprio nome («Io son Virgilio», v. 7) e spiegando le ragioni del suo risiedere nel primo cerchio dell’Inferno, il Limbo, insieme a coloro che non conobbero per tempo la fede cristiana e ai «pargoli innocenti | dai denti morsi de la morte avante | che fosser da l’umana colpa essenti » (vv. 30-33). Servendosi dei contributi della più raffinata ed agguerrita esegesi critica dantesca dall’Ottocento ai giorni nostri, Cavallini affronta, attraverso la malinconica condizione di Virgilio, per sempre escluso dalla salvezza divina «per non aver fé» (v. 8), il tema legato allo stato dei limbicoli ed al conseguente «problema della salvezza degli infedeli» (p. 20) che Dante risolve appunto relegando questi ultimi in un luogo “sospeso”, «indipendentemente dall’opinione di teologi come san Tommaso d’Aquino» (p. 20) che non contemperavano per essi alcuna possibilità di entrare a far parte dell’oltremondo divino. A tal proposito Cavallini nota come sia bene ricordare l’importanza attribuita dal poeta medievale all’«imperscrutabilità della giustizia divina, tema centrale di alta dottrina che troverà adeguato sviluppo nel lungo discorso dell’Aquila […] di fronte alla quale giustizia […] la mente umana, a giudizio di Dante, può soltanto inchinarsi umilmente senza presumere mai di voler giudicare » (pp. 20-21). Il primo dei saggi che compongono il dittico goldoniano è dedicato all’analisi del linguaggio di Mirandolina, il «personaggio femminile forse più seducente e più intelligentemente lucido del teatro comico goldoniano » (p. 51), protagonista della commedia La Locandiera (1753). Attraverso l’individuazione di termini e concetti ricorrenti nei dialoghi e nei monologhi di Mirandolina, il critico tende a ribadire e a rafforzare la compattezza e la coerenza artistica del personaggio, civettuolo e concreto ad un tempo. A conferma di ciò lo studioso mette in luce come il verbo più ricorrente utilizzato dalla bella locandiera sia «fare», ma in un’accezione particolare: la donna, infatti, non si accontenta «soltanto di fare» ma riesce sempre a «far fare agli altri ciò che essa desidera e si prefigge di ottenere» (p. 52). Come ben si sa, Mirandolina vuol far innamorare di sé il Cavaliere di Ripafratta, «nemico di tutte le donne » (p. 54) per poi poter rendere pubblico il proprio trionfo «a scorno degli uomini presuntuosi e ad onore del nostro sesso» (p. 53). Ebbene sul concetto di «nostro» e di «sesso» Cavallini basa la propria indagine: la locandiera parla a nome di tutte le donne (spesso utilizza il pronome plurale «noi») e con la consapevolezza propria di un’intelligenza accattivante che sa porre l’immagine femminile al di sopra della considerazione del tempo: «voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri, che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura» (p. 54). Il secondo termine, invece, mette in evidenza l’orgoglio dell’appartenenza e la fedeltà ad una condizione di ge614 RECENSIONI nere, in linea con un’istanza di rinnovamento nei rapporti tra la donna e l’uomo, in cui quest’ultimo rimane «ancorato», come scrive Cavallini, «a pregiudizi e privilegi destinati ormai ad essere superati» (p. 53). Una riflessione sul tempo è sviluppata dal critico, infine, a proposito dell’ultima raccolta poetica di Margherita Faustini, Opposte preghiere, il cui titolo «intende forse significare, con implicito messaggio d’amore rivolto a tutti gli esseri umani, che le parole di chi prega, benché possano nascere da esigenze e sentimenti diversi o perfino opposti, devono tendere sempre a fondersi» (p. 191). Seguendo l’articolazione del volume nelle tre sezioni che lo compongono, «Tempo interiore», «Le storie», «La Storia», Cavallini mette in luce come la poetessa ligure tenti un superamento dialettico fra «storia » interiore e vicenda universale, superamento che, attraverso una palingenetica epifania del «noi», porta a comprendere una metafisica nuova e pacificata. In questo modo, l’urgenza del compimento del «noi» è messa al riparo dal dolore della minaccia del divenire e dalla forza dell’amore (e proprio «amore», annota Cavallini, risulta essere, all’interno della raccolta, una delle parole tematiche maggiormente ricorrenti). Il tempo orizzontale, dunque, «il passato (o il “tempo già compiuto”) si conserva tuttora vivo nel ricordo che il presente custodisce e continuamente rinnova, p. 195) si innalza e diviene verticale, proiettandosi in un futuro che «si affaccia nell’amore » (p. 195) e nell’immagine del «seme» che condensa in sé l’«eternità dell’essere» (p. 196), opponendosi «a tutto ciò che […] è transeunte » (p. 196). Noemi Corcione Vincenzo Caputo, La «bella maniera di scrivere vita». Biografie di uomini d’arme e di stato nel secondo Cinquecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, pp. 290. La nostra tradizione letteraria è fortemente rappresentata dal genere biografico, molto prolifico ad esempio lungo un arco di tempo che va dal De viris illustribus di Francesco Petrarca sino all’opera di Gabriele D’Annunzio, Vita di Cola di Rienzo (1913). Pertanto, particolarmente evidente risulta – sottolinea Caputo – «la marcata distonia tra quantità e qualità di testi biografici e riflessione teorica su di essi» (p. 7), dal momento che la scrittura di vita rappresenta un genere letterario non di facile articolazione, «sospeso tra realtà storica e finzione retorica» (p. 7). Nonostante la scarsa attenzione critica alle biografie cinquecentesche, tuttavia è nella seconda metà del XVI secolo che si è dibattuto su quale fosse «la bella maniera di scrivere vita» e su quali fossero le modalità retoriche per poter elaborare una biografia. Tale fu il “lavoro” di Francesco Patrizi, Giovanni Antonio Viperano e Torquato Malaspina, letterati che si resero protagonisti di tutta una serie di riflessioni teoriche, costruendo un insieme di norme o direttive da seguire per lo scrittore di vite ed, inoltre, mostrandosi consapevoli che per creare il canone retorico, bisognava risalire a Petrarca, Boccaccio e ai modelli classici di RECENSIONI 615 Plutarco e Svetonio. Nel volume qui in esame, Caputo ha focalizzato la propria attenzione su un cospicuo gruppo di opere, raggruppate in base alla loro genesi temporale e tipologica. Dal confronto si è evidenziato il rapporto che le unisce e la presenza di un dato modello con temi e situazioni costanti, con lo scopo altresì di «storicizzare eventi e personaggi per comprendere le problematiche portanti dei testi esaminati » (p. 12). Certamente nello scrivere una biografia si aderisce ad un canone letterario, che si struttura in una sintassi retorica ben precisa articolantesi su un piano orizzontale e su uno verticale. Si narrano, dunque, dopo il proemio iniziale e il richiamo alla nobiltà della famiglia del biografato le azioni degne e le sue virtù d’animo. Esemplarità e verità della vicenda narrata sono i tratti costanti delle dediche, in quanto l’opera è ritenuta un exemplum da emulare e degno di essere immortalato dalla scrittura, ragion per cui si deve «narrare sinceramente le cose come furono», stando all’imperativo di Giuseppe Orologgi nell’avvertimento ai lettori premesso alla sua Vita di Camillo Orsini. Utili e di giovamento, le letture biografiche offrono un profilo a tutto tondo del personaggio d’arme o di stato, dall’infanzia – passando per il “manifestissimo” segno della futura grandezza, la giovinezza – sino alla maturità, quando si realizzano a pieno le attitudini che il personaggio d’arme o di stato ha mostrato di possedere in precedenza. Dal punto di vista più propriamente tecnico, esse poi permettono di scandagliare le tecniche retoriche e gli espedienti narrativi comuni e da ritenere propri del genere in questione. È possibile sottolineare, inoltre, come questi testi accolgano, al loro interno, ulteriori modalità scrittorie, dall’epistola all’epigramma, fino alla forma standardizzata dell’orazione o dei mini-dialoghi per registrare i maggiori momenti di drammaticità narrativa, siano essi in forma breve o caratterizzati dalla «duale opposizione tra diversi punti di vista con la relativa finale supremazia della sagacia oratoria del personaggio biografato» (p. 117). Tuttavia, sempre dalla seconda metà del XVI secolo non mancano polemiche “biografiche”, portate avanti da letterati insigni come Carlo Sigonio. A tal proposito, Caputo ha cercato, nell’ultimo capitolo del volume, di leggere «storicamente» alcuni dati strutturali emersi dalla sua indagine, attraverso specifici casi esemplificativi: l’epistolario di Giuliano Goselini (che offre notizie su Ferrante Gonzaga), Scipione l’Emiliano che è oggetto di disputa tra Antonio Bendinelli e Carlo Sigonio (quest’ultimo nel 1568 pubblicò l’opera sull’Emiliano), nonché testi su donne (es.: la discussa castità della contessa Matilde di Canossa motivo di scontro tra Domenico Mellini e Benedetto Lucchini). Fiorina Izzo Leonardo Acone, La Sila dei briganti. Sulle novelle di Biagio Miraglia, San Cesario di Lecce, Pensa editore, 2009, pp. 102 È un percorso a concentriche spirali di approfondimento quello che, di capitolo in capitolo, Leonardo Aco616 RECENSIONI ne propone intorno ad una raccolta di cinque novelle in prosa che Biagio Miraglia pubblicò intorno alla metà dell’Ottocento (Cinque Novelle Calabresi precedute da un discorso intorno alle condizioni attuali della letteratura italiana, Le Monnier, Firenze, 1856). Il primo capitolo, prendendo le mosse dalla definizione di “romanticismo naturale” del De Sanctis, delinea lo sfondo culturale all’interno del quale si colloca la produzione del gruppo di letterati calabresi operanti nel primo Ottocento (Pietro Giannone, Vincenzo Padula, Giuseppe Campagna, Domenico Mauro, Biagio Miraglia, Vincenzo Gallo Arcuri, Vincenzo Selvaggi) e tende a definire i caratteri distintivi del romanticismo calabrese rispetto a quello napoletano, lombardo ed europeo. Nel secondo l’attenzione si concentra sulla novella in versi, genere letterario ampiamente praticato sia da Miraglia (Il Brigante, 1844) che dagli altri maggiori scrittori calabresi, soprattutto nel corso degli anni Trenta e Quaranta: Giannone (Gli incogniti, 1832; Lauretta, 1839), Selvaggi (Il vecchio anacoreta, 1841; Calabra villanella, 1842), Mauro (Errico, 1843), Padula (Il Monastero della Sambucina, 1842; Valentino, 1845), Gallo Arcuri (Anselmo e Sofia, 1845; La Schiava greca, 1845). Testi che vanno collocati “nella grande famiglia della narrativa” (L.M. Marchetti), anche se furono realizzati in quell’ottava rima che meglio sembrò tradurre sentimento e fantasia in “onda armonica” (F. De Sanctis). Il terzo capitolo passa in rassegna il Discorso su le condizioni attuali della letteratura italiana che Biagio Miraglia antepose alle cinque novelle del 1856 e con il quale fornisce un quadro della situazione letteraria dell’Italia dell’Ottocento, soffermandosi in particolare sulle differenze tra la realtà settentrionale e quella meridionale. Nel Piemonte di Vittorio Alfieri, Miraglia individua l’epicentro di un moto di rinnovamento culturale fondato su una poetica che punta a rafforzare il senso dell’identità nazionale italiana, mentre altrettanto non avviene nel Mezzogiorno. Qui, secondo Miraglia, l’«“idea italiana” […] lampeggia qua e là, ed è più confuso presentimento, che un concetto chiaro e definito», poiché la struttura socio-politica del reame di Napoli e il sistema scolastico rigidamente classicista cristallizzavano anche gli spiriti migliori, spingendoli a spaziare nel vasto mondo dell’idea e a perdere di vista l’Italia. Infine, nel quarto ed ultimo capitolo, Acone polarizza la propria attenzione sul gruppo di novelle in prosa che Biagio Miraglia, realizzò dopo il suo trasferimento a Torino (1849): L’imeneo nella tomba, La vergine pescatrice del Capo Colonna, Il rinnegato, Le gemelle, Il re della Sila. Esauritasi la stagione della novella in versi, Miraglia tentò di coniugare le esigenze di rinnovamento formale della novella con la salvaguardia dei contenuti sentimentali di una natura eletta, luogo d’amore, di forti passioni, di tradizioni e di brigantaggio, inteso come ribellione ai soprusi soprattutto quando calpestino sentimenti fondamentali come l’amore e il senso di giustizia. Un tentativo riuscito soltanto in parte, poiché il passaggio dalla visione teorica e programmatica alla realizzazione pratica non fu sempre facile e il letRECENSIONI 617 terato calabrese, pur avendo compreso la direzione verso cui operava la spinta culturale nazionale, si rivela legato, per personale attitudine, al terreno del racconto in versi. Una ricostruzione attenta e puntuale quella di Leonardo Acone, ricercatore dell’Università di Salerno. Ricostruzione che valorizza al meglio la tradizione critica sedimentatasi sulla novella romantica calabrese, da De Sanctis fino agli studi più recenti di Luigi Reina e Aldo Maria Morace. Raffaele Messina Girolamo Rovetta, I disonesti. A cura di Fabio Pagliccia, Lanciano, Carabba, 2009. La pubblicazione de I disonesti nel 1884, piccola gemma del realismo tardottocentesco si inserisce nell’ambito della fortuna di un teatro contemporaneo imperniato sui temi della fortuna del denaro e la rappresentazione degli amori clandestini e adulterini. La pubblicazione rovettiana si muove nel milieu tardoromantico, seguendo uno spartiacque tra ultimi prodromi del naturalismo e avvio del decadentismo, entro una sensibilità orientata più alle cose che alle idee. La molla ispirativa del dramma è l’adulterio, come forma di sfaldamento dell’ordine costituito e la conseguente perdita di identità, che getta il personaggio in una profonda crisi esistenziale. La salvaguardia della propria reputazione è al centro di un dramma, che tra sovversione e perbenismo insinua le contraddizioni di una ribellione anarcoide, unita a una logica di pentimento. L’opera si allinea sulla falsariga de La moglie ideale di Emilio Praga, dell’Infedele nella tematizzazione dell’amore e dell’onore. Il passaggio di Milano da città agricola al progresso industriale pone in prima luce il dissesto provocato dal denaro, entro un mutamento sociale e politico. Nessun mito si intravede nello squallore di un’esistenza affidata alla banalità di comportamenti, secondo una anticipazione della commedia di Pirandello Tutto per bene, con le contraddizioni del perbenismo e di una falsa onorabilità. Il rispetto dell’amore, infatti, attiene nel dramma del Rovetta, a una volontà di finzione, per mascherare agli occhi degli altri la propria vergogna, e dunque fugare ogni dubbio sulla propria onorabilità. All’edizione in volume, risalente al 1894, successero traduzioni all’estero, che suscitarono insieme rilievi e consensi. Il volume del Pagliaccia si correda di una ampia Notizia biografica, tra recensioni, studi critici e monografici, biografie e commemorazioni. Il testo è preceduto da una dettagliata nota al testo, che ne tratteggia i tratti filosofici, prima della registrazione di un dramma, che le moderne ricerche di archivio sulla letteratura otto-novecentesca rendevano senza dubbio accattivanti. Valeria Giannantonio Toni Iermano, Le ambiguità del moderno. Identità e scritture nell’Italia fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 2009, pp. 338. Questo nuovo volume di Toni Iermano rappresenta una ulteriore, si618 RECENSIONI gnificativa, tappa del cammino dell’autore nell’ambito di una critica che, pur collocandosi lungo il solco dello “storicismo” desanctisiano, va oltre, avvertendone i persistenti punti di forza, ma, nel contempo, i limiti. Iermano va precisando il suo metodo critico, attraverso un “corpo a corpo” serrato con i testi letterari, senza visioni schematiche o aprioristiche. Così supera la “rigidità” della visione unitaria, “lineare”, della letteratura italiana, propria, appunto, del De Sanctis. Sulla scorta degli studi compiuti da Carlo Dionisotti, propende per uno storicismo più concreto, che tenga conto delle condizioni effettive in cui i letterati hanno operato nelle varie realtà, non solo storiche, economiche, politiche, ma anche geografiche. Acquista, dunque, importanza, per la definizione del “paesaggio” letterario italiano, oltre alla dimensione del “tempo” (lo sviluppo cronologico della letteratura), quella dello “spazio” (le diverse aree in cui si è sviluppata attraverso i secoli). La visione critica di Iermano è, necessariamente, dialettica, proprio perché la letteratura italiana è caratterizzata da un rapporto dialettico tra forze e aspirazioni contrastanti, da spinte centripete e forze centrifughe, da “convergenze” e “divergenze”, “concordanze” e “discordanze”, al di sotto di quello che viene definito “canone” e che cerca di sintetizzare, seppur schematicamente, i tratti unitari del fenomeno letterario, quale si presenta in una determinata epoca. Comprendiamo così il titolo del presente volume di Iermano, L’ambiguità del moderno, il cui significato è ben racchiuso in poche parole riprodotte nella quarta di copertina: «L’identità del moderno è formata da un rete complessa di linee divergenti e da un insieme di alchimie che nella scrittura e nelle parole trovano un punto d’intersezione ma anche la rappresentazione della propria ambiguità». Come dicevamo, il Nostro non fa un’applicazione rigida, “scolastica”, di schemi precostituiti. Perciò, se sottolinea le “discordanze”, non si lascia prendere la mano oltre misura dal modello “spezzato e discontinuo” di letteratura ch’egli intende pur applicare. Così, quando è necessario, mette in risalto le “concordanze”, contrastando luoghi comuni duri a morire. Ne abbiamo un esempio a proposito dei saggi dedicati nel libro a Salvatore Di Giacomo, uno dei suoi autori preferiti, al quale egli ha reso omaggio con studi veramente innovativi. Di Giacomo è stato rappresentato, anche da autorevole critica, come scrittore “spontaneo”, “selvaggio”. Persino Nino Pino, fine studioso di letteratura dialettale e anch’egli poeta in vernacolo, vincitore, nel 1956, del Premio Viareggio per la poesia dialettale siciliana, ha rappresentato Di Giacomo come portatore di un “verismo romantico”, proprio della tradizione poetica napoletana. Iermano dimostra, al contrario, come il poeta partenopeo fosse, innanzitutto, conoscitore delle teorie desanctisiane della creazione letteraria, come unità inscindibile tra “reale” ed “ideale”, ch’egli richiama in uno scritto su Goethe, nel quale rileva come «la prima operazione dell’artista fosse l’assorbimento […] RECENSIONI 619 del mondo esterno; il quale poi il poeta e il pittore, modificando e rifacendo colla mescolanza dell’elemento ideale che ha in sé, deve rimandar fuori sotto forma di opere d’arte». Di queste teorie Di Giacomo fa applicazione, certo non pedissequa, nelle sue opere narrative. In secondo luogo, il poeta è tutt’altro che rinchiuso dentro i confini della tradizione letteraria napoletana. Toni Iermano analizza l’influenza che ha avuto su di lui la grande letteratura europea, da Flaubert (basta qui far riferimento al metodo flaubertiano, che «crea un intimo legame tra gli stati d’animo dei personaggi e una scala delle temperature») a Maupassant (si pensi alla «capacità a raccontare le grandi miserie della piccola gente, che lasciano nel lettore un senso di malinconia e di dolore ma che generano anche profonde tenerezze e, talvolta, un nobile e persuasivo senso di pietà»), da Baudelaire (basti pensare ai «personaggi malinconici, immersi nella solitudine di stanze buie o appena illuminate da incerte lucerne») a Victor Hugo, da Zola a Bourget, a Dickens. Iermano non si occupa solo delle opere narrative (in particolare L’ignoto) di Di Giacomo, ma anche delle sue poesie e delle sue canzoni, per le quali vale lo stesso metro di giudizio usato per la narrativa. Anche qui, «la complessità dell’elaborazione va al di là della temperie napoletana e delle rifrazioni socio-antropologiche del contesto e si allarga nei vasti possedimenti della poesia contemporanea europea, di quella dialettale italiana e dei modelli della tradizione classica». Iermano propone al lettore l’edizione critica di vari testi digiacomiani: ’O funneco verde, Zi’ munacella, A San Francisco. Nella seconda sezione, che porta il titolo di “Scritture dell’io”, l’autorevole critico si occupa di due scrittori, che, seppur considerati “minori”, aprono la schiera dei “trasgressivi” rispetto ad un presunto “canone”. Il primo è Gioacchino Toma, uno dei protagonisti della pittura italiana del secondo Ottocento, del quale Iermano riscopre e analizza un aureo libretto autobiografico, Ricordi di un orfano, «un meraviglioso racconto picaresco, una storia avventurosa vissuta da un giovanissimo vagabondo simpatico e coraggioso contro la durezza, i soprusi e l’insensibilità del mondo», ma che costituisce, nel contempo, «un documento esemplare della formazione e della vita sociale di un artista anticonformista ». Il secondo è Guido Nobili, autore di Memorie lontane, un’opera che potrebbe apparire prodotto tipico del memorialismo ottocentesco (si guardi, come modello, a I miei ricordi del D’Azeglio), ma che, ciò nonostante, imbocca percorsi già novecenteschi. Siamo in presenza di due scrittori la cui trasgressività riguarda la sfera dell’“io”. Nella terza sezione del libro, intitolata significativamente Nel labirinto delle inquietudini novecentesche, Iermano si occupa di altri scrittori italiani, la cui “trasgressività” rispetto al “canone” letterario del loro tempo, seppur investa la sfera soggettiva, è emblematica di una condizione più generale, di un’“inquietudine” più diffusa, spesso generazionale, la quale, ciò nonostante, non trova riscontro nella letteratura “ufficiale”. Cesare Zavattini, attraverso 620 RECENSIONI la tecnica sottile del “non sense”, si fa beffa della retorica fascista e, poi, di quella che, in linea di continuità col regime mussoliniano, domina il potere nel secondo dopoguerra. Cesare Pavese oppone il mito dell’America allo stato di illibertà in cui vive la sua generazione durante il “ventennio”. La sua “poesia-racconto” segna una svolta, anche sul piano linguistico, con la retorica dannunziana, la “bella pagina” rondista, la parola “innamorata di se stessa” degli ermetici. Le sue opere in prosa non rispondono ad un presunto “canone” neorealista. Scrive Iermano: «Il dato realistico si offre infatti solo a un primo livello di lettura, che rimanda a un secondo livello simbolico in cui il fatto e la cronaca perdono qualunque carattere documentario […] e assurgono a metafora di una condizione esistenziale personale e universale insieme». Luigi Compagnone rompe con la tradizionale “omertà” degli scrittori napoletani, ma non solo (si pensi, ad esempio, al filone della letteratura siciliana, che, a partire da I Beati Paoli di Luigi Natoli, esalta la mafia, sin dai suoi “prodromi”; filone, quest’ultimo, interrotto tardivamente da Leonardo Sciascia), nei confronti della malavita organizzata. Così, in poche righe, Toni Iermano riassume il messaggio lanciato da Compagnone: «Vent’anni prima di Gomorra di Roberto Saviano e di tanta e varia letteratura dedicata alla camorra, Luigi Compagnone (Napoli, 1915- ivi, 1998), uno scrittore geneticamente incapace di vivere l’ansia di conformismo, affronta senza reticenze il tema dei rapporti tra associazione camorristica e società napoletana tra Otto e Novecento e scrive un libro, nel senso pasoliniano del termine, luterano, tragicamente contemporaneo, dissacrante e ironico, rivolto a smascherare le ipocrisie, i compromessi, le certezze senza verità, l’atonia morale, convinto che gli intellettuali hanno il compito di combattere i luoghi comuni, l’insincerità, la corruzione della politica, il potere dei forti e persino quello degli oppositori di mestiere». Un messaggio che ci ricorda da vicino quello di Leonardo Sciascia. Anche Paolo Volponi è un “outsider”, perché, descrivendo l’alienazione dell’operaio di fabbrica, si contrappone al mito del “progresso infinito”, che ha animato pure tanta parte della sinistra italiana. L’operazione letteraria da lui realizzata presenta, inevitabilmente, dei limiti. Ad esempio, uno dei suoi personaggi, Albino Saluggia, nel linguaggio, nella descrizione dei problemi psicologici che sta vivendo, assomiglia più all’intellettuale Volponi che ad un operaio “standard”. A partire dalla metà degli anni Sessanta nascerà in Italia una “letteratura di fabbrica” prodotta dagli stessi operai: Ferruccio Brugnaro, Tommaso Di Ciaula, Francesco Currà. Toni Iermano conclude il suo volume con un omaggio ad Antonio Palermo e ai suoi studi sulla vita letteraria a Napoli tra Otto e Novecento e con una disamina sulla Sardegna letteraria, nella sua doppia dimensione dell’“isolamento” e del rapporto dialettico con il resto della letteratura nazionale. Antonio Catalfamo RECENSIONI 621 Roberto Salsano, Scrittori critici, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 2009. Scrittori critici (Salvatore Sciascia Editore, 2009) di Roberto Salsano è una densa e appassionata raccolta di saggi che, sin dal titolo, preannuncia l’intento dell’autore di condurre un’indagine sul legame inscindibile tra arte e critica, tra il valore puramente estetico dell’opera letteraria e le sue implicazioni teoriche e gnoseologiche. Secondo Salsano, che vede il testo in posizione sempre oscillante fra il piacere di raccontare e la volontà di comunicare qualcosa che sta al di là della pura parola letteraria, ogni scrittore è anche critico, così come ogni critico è anche scrittore. In realtà l’indagine critico-letteraria sa andare ben oltre gli stessi intenti autoriali, giacché il valore aggiunto del volume consiste proprio nel non fermarsi al «tema del realismo o della sua crisi o della diversa sua riproposizione » (pp. 5-6), né «al tema della specificità dell’operazione letteraria e della sua cittadinanza» (p. 6). La complessa struttura di questa raccolta di saggi consente al lettore di superare i limiti imposti dalla pagina e di proseguire la navigazione, di andare oltre. Termini, questi ultimi, che tornano con frequenza all’interno del libro: il secondo, in particolare, può essere individuato quale Leitmotiv dell’indagine operata dagli scrittori otto-novecenteschi, ma anche, ad un livello ulteriore, come filo conduttore seguito dall’autore per comprendere l’opera di tali scrittori. ‘Navigazione’, significativamente, caratterizza invece le pagine conclusive del volume (in particolare l’intervento su Tabucchi), quasi a voler sancire il valore innanzitutto conoscitivo di una quest di ascendenza ulissiaca. Il risultato delle applicazioni dello studioso non è l’evidenziazione di una mappatura, tendenzialmente completa, dell’universo letterario moderno e contemporaneo, per ammissione dello stesso autore non costituendo ciò il fine della silloge, quanto, piuttosto, la individuazione di uno sfondo di coordinate longitudinali e latitudinali significative del mondo creativo tra Otto e Novecento. In questo è riscontrabile uno dei pregi del volume, perché Salsano fornisce gli strumenti necessari e indica i possibili orizzonti interpretativi, agevolando così il lettore nell’intraprendere consapevolmente il proprio viaggio. Orizzonti, peraltro, mutevoli in linea con la «peregrinazione conoscitiva mai appagata da una meta» (p. 152) del romanzo di Tabucchi Il filo dell’orizzonte. Il ventaglio degli scrittori analizzati è davvero ampio e copre un arco temporale che va dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni: De Sanctis, Capuana, Cantoni, Pirandello, Rosso di San Secondo, Quasimodo, Morante, Pontiggia, Campailla, Bonaviri. Di scrittura letteraria in atto si può senza dubbio parlare a proposito di questo volume, che non fa mai semplicemente critica letteraria, anche in virtù di uno stile prezioso e ricercato (mai fine a se stesso), un periodare ampio e coinvolgente che, a tratti, crea una sorta di suspense alla maniera delle grandi opere citate in queste pagine. Ciò rende la lettura piacevole oltre che interessante; e l’interesse scaturisce anche dal622 RECENSIONI la capacità di Salsano di porre e indagare istanze non puramente artistiche, ma sociali, culturali, esistenziali e filosofiche. Nella prima parte del volume prevale l’interesse per il binomio opera d’arte-realismo sulla scia della fortunata espressione pirandelliana letteratura di cose/letteratura di parole. Nella seconda parte, invece, è ravvisabile una maggiore attenzione per i riflessi individuali nell’opera d’arte che assumono carattere critico nel rapporto, spesso tormentato e problematico, con la realtà. Il suggestivo confronto tra autoricritici diversi per formazione e intenti artistici conduce Salsano all’individuazione di sottili corrispondenze, che tracciano un reticolato entro cui collocare scrittori come De Sanctis, Capuana, Pirandello e Cantoni. Proprio Cantoni è sottoposto a un’operazione di riscoperta e di rivalutazione che fa dell’autore mantovano una voce originale dell’arte moderna, capace di esprimere nella forma e nel contenuto della sua opera «la crisi oggettiva del naturalismo» (p. 26). Ecco allora che una scrittura, come quella del Cantoni, frettolosamente etichettata come ottocentesca, diventa emblema di una letteratura moderna nel segno del superamento delle istanze realistiche del Naturalismo e del Verismo. E Cantoni costituisce, anche, un esempio importante del connubio tra arte e critica, dell’«incontro tra fantasia e pensiero» (p. 27), che lo colloca (pirandellianamente) all’interno della schiera degli «scrittori filosofi» (p. 31). Dunque, scrittori critici, critici scrittori e scrittori filosofi. Sulla scorta della riscoperta cantoniana si colloca l’intervento su Rosso di San Secondo, nel quale, secondo Salsano, appare già consolidata la «vocazione metaletteraria della poetica novecentesca» (p. 43). L’intreccio arte-critica sembra rafforzarsi ulteriormente nell’intervento su Quasimodo, quando, a proposito del saggio quasimodiano Discorso sulla poesia, si afferma che la «posizione critica, quella esistenziale, quella espressiva […] si mescolano e reciprocamente si potenziano» (p. 55). Certo, Quasimodo è di per sé uno scrittore impegnato, tuttavia Salsano evidenzia come la militanza critica dello scrittore siciliano non scaturisca da «programmi idealistici o schematicamente politici», ma sia il frutto di una «responsabilità umana e sociale di posizioni relazionali, cioè fenomenologico-esistenziali assunte verso il mondo e l’Altro» (p. 63). Ecco perché anche un discorso sulla poesia diventa discorso sull’esistenza, e lo «stile d’una critica […] diventa scrittura» (p. 56). Allo stesso modo un discorso sul romanzo, come quello fatto dalla Morante (Sul romanzo), è un discorso che investe il senso stesso dell’esistenza umana: il romanzo inteso come espressione del rapporto dell’uomo con la realtà, forma di scrittura in cui soggettività, immaginazione e realtà portano al «superamento del mero rispecchiare» (p. 72). La teoria romanzesca della Morante acquista «le forme di un parlare insieme fabuloso e filosofico» (p. 77), confermando il cortocircuito arte-critica- vita. La fantasia costituisce addirittura lo strumento critico privilegiato per Pontiggia, che ne I contemporanei del futuro applica una vera e propria RECENSIONI 623 «metodologia di interpretazione creativa » (p. 103). Il viaggio intrapreso da Pontiggia è condotto attraverso un dialogo costante tra autore e classici, non un monologo, ma un incontro partecipato, dal momento che Pontiggia «espone spesso il suo io, in prima persona, nell’avvicinare questo o quell’autore» (p. 98). Qui Salsano individua un’altra «pregnante» maniera di scrittura critica, «perché l’esperienza critica, quando partecipata al punto di impegnarsi come scrittura, non può non dire qualcosa di ulteriore» (p. 94): tornano l’oltre, l’altro, l’esigenza di raccontare e di raccontarsi anche attraverso gli altri. E l’altro, sintomaticamente, campeggia nel titolo dello studio di Campailla sulla letteratura siciliana: Mal di luna e d’altro. La tensione di Campailla verso qualcosa che sta al di là del puro dato oggettivo nel segno di una rivelazione epifanica e, nello stesso tempo, verso un’interpretazione creativa (alla Pontiggia), una «critica come racconto» (p. 113), è colta da Salsano nell’individuazione dell’immagine- chiave con cui visionariamente il saggio si apre: «la rievocazione di una Sicilia dall’alto di un aereo, a suggerire la plausibilità di una chiave di lettura in termini non esclusivamente scientifici ma narrativi e di poetica» (p. 109). L’intervento su Bonaviri, infine, potrebbe apparire in parte extravagante dal momento che Salsano riflette qui su un’opera squisitamente fantastica, che non sembrerebbe avere implicazioni critiche. In realtà l’autore rovescia i termini del discorso, partendo questa volta da una raccolta di fiabe (E il verde ramo oscillò), opera di una creatività peculiare, quella dei malati di mente, mediata tuttavia da un’architettura attuata dallo scrittore consapevole, per individuare, attraverso un caso limite, gli aspetti propriamente teorici della scrittura creativa e dimostrare, una volta di più, la reciproca compenetrazione tra riflessione critica e immaginazione poetica. Nei racconti immaginifici dei dementi Salsano scorge un rapporto carnevalesco tra scrittura e realtà, in direzione «d’uno stupendo gioco come disimpegno intellettuale ed eversione sociale» (p. 145), ma che comunque esprime un rapporto, per quanto doloroso, con l’universo e con la società. D’altra parte questa condizione di straniamento e di alterità è il segno tangibile della problematicità dell’individuo moderno, il riflesso di una follia pirandellianamente intesa. E dal momento che Pirandello è spesso citato, è lecito affermare che Salsano, al più celebre e abusato assioma pirandelliano «la vita o si vive o si scrive», predilige il meno conosciuto ma altrettanto significativo «la vita si vive e si scrive»: critica et letteratura appunto, piuttosto che critica aut letteratura. Michelangelo Fino