Saggi
ROBERTO GIGLIUCCI
Alcune cose sull’antipetrarchismo
This essay examines the anti-petrarchist method used by Berni in
his analysis of the sonnet “Alla sua donna”. The parodistic and
allusive relation with Bembo’s “Crin d’oro crespo” and even more
with “O superba e crudel” is here underlined. Numerous elements
are also taken into account to demonstrate that the definition of
“antipetrarchist” cannot be applied to Shakespearean and baroque
poetry. As for Berni’s comic style, the author places it between the
Fifth and Sixth century proto-modern realism.
Nella primavera del 1530 esce a Venezia, per i tipi di Giovann’Antonio
Da Sabbio e fratelli, il volume delle Rime di M. Pietro
Bembo.
Questo volume in quarto di 54 carte, contenente 114 componimenti,
rappresenta il punto d’arrivo di una carriera di poeta modello
e di teorico vittorioso della nuova lingua poetica volgare. Bembo
ha sessant’anni, la sua produzione poetica ha già circolato manoscritta
abbondantemente fra le mani di molti dotti e di illustri
dedicatari, le Prose della volgar lingua del 1525 hanno stabilito quale
sarà la lingua italiana colta cui attenersi più o meno d’ora in poi,
nell’età della stampa, e l’epistola De imitatione, ristampata proprio
nello stesso 1530, ha ribadito i princìpi di un classicismo radicale,
uniimitativo, che fissa la perfezione a un momento storicamente
irripetibile e perennemente imitabile, dichiarando che non c’è alternativa
al conformarsi all’optimum. Dunque la princeps delle Rime è
un punto di arrivo e insieme un punto di partenza per la poesia
europea. Il libro ha sùbito una vasta diffusione e diventa il paradigma
per i lirici del Cinquecento (la seconda edizione, ampliata, uscirà
con il medesimo editore nel 1535; la postuma romana, definitiva,
nel 1548). Tutte cose ben note.
In quegli anni, proprio nel Veneto, al servizio del datario pontificio
Giovan Matteo Giberti, risiedeva un poeta molto differente da
Bembo: Francesco Berni. Il «maestro e padre del burlesco stile»,
212 ROBERTO GIGLIUCCI [2]
come poi lo consacrerà il Lasca, aveva allora poco più di trent’anni.
E molto probabilmente a ridosso della pubblicazione delle Rime bembiane1,
dove si attingeva la praxis del perfetto petrarchista, Berni
scrive un sonetto Alla sua donna che è un modello della poesia del
perfetto antipetrarchista. Mentre la donna di Bembo è, sul modello
laurano petrarchesco, bionda e divina, la donna di Berni è vecchia
e strabica. Fin qui nihil novi: già alle origini della tradizione comica,
nel Duecento, Rustico Filippi, per non dire di Guinizelli e di Cavalcanti,
praticavano il loro “bifrontismo” accostando alle rime d’amore
cortesi episodi di poesia grottesca e scommatica contro vecchie
luride, buggeresse puzzolenti, e ancora il Poliziano latino scriveva
un’ode alla sua puella e un’altra In anum, contro una vegliarda. La
doppia tradizione ha sempre rafforzato se stessa proprio nella duplicità
in cui la parodia autorizza il canone sublime e questo permette
la parodia senza essere minimamente corroso o sbilanciato e
men che meno sbalzato2.
Tuttavia Berni compie un’operazione più raffinata, più insinuante
ed insolita. Ma per capire bene quest’operazione bisogna procedere
con ordine. Fra le prime rime nella stampa bembiana del ’30 c’è un
sonetto che conobbe una larga fama e che in tale edizione si trova
all’ottavo posto: Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura. Risale assai
verosimilmente ai primi anni del secolo, dedicato a Lucrezia Borgia, e
(in dittico col seguente, Moderati desiri, imenso ardore) suscitò subito
interesse, inducendo altri versificatori a rispondere con ulteriori elenchi
di bellezze femminili3 in un quadro di “perfetto proto-petrarchismo”
cui non è affatto estraneo un certo gusto descrittivo preziosistico e
astrattivo proprio del prosimetro degli Asolani e in osservanza del
Petrarca più tardogotico e pregiato4. Leggiamo il sonetto5:
1 Come testimonierebbe fra l’altro anche la similarità con un passo del rifacimento
dell’Orlando innamorato, I, 3, 40.
2 Interpretazione in questa linea, anzi più estremista, e quindi demistificazione
storica dell’antipetrarchismo si trovano nel saggio di Stefano Jossa Petrarchismo
e antipetrarchismo. Un sonetto inedito di Marco Antonio Magno al Brevio, in Autorità,
modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, a
cura di A. Corsaro, H. Hendrix, P. Procaccioli, Manziana (Roma), Vecchiarelli,
2007, pp. 197-205.
3 Cfr. A. Gnocchi, Tommaso Giustiniani, Ludovico Ariosto e la Compagnia degli
amici, «Studi di filologia italiana», LVII, 1999, pp. 277-293.
4 Si veda il monumentale commento in P. Bembo, Le rime, a cura di A. Donnini,
Roma, Salerno Ed., 2008, tomo I, pp. 17-21, edizione cui rimando per ogni
dato bibliografico ed ecdotico.
5 Da Poeti del Cinquecento, Tomo I, Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a
[3] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 213
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
ch’a l’aura in su la neve ondeggi e vole;
occhi soavi e più chiari che ’l sole,
da far giorno seren la notte oscura;
riso ch’acqueta ogni aspra pena e dura;
rubini e perle, ond’escono parole
sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle;
man d’avorio, che i cor’ distringe e fura;
cantar che sembra d’armonia divina;
senno maturo a la più verde etade;
leggiadria non veduta unqua fra noi;
giunta a somma beltà somma onestade
fur l’esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch’a poche il ciel largo destina.
Questi versi fissano nello smalto lo splendore della donna, ma
tale splendore è coestensivo diremmo allo splendore della poesia e
quindi al nuovo splendore della lingua. La lingua perfetta è ora,
dopo decenni di anarchia quattrocentesca e pluralismo materiato di
chiazzature e incrostazioni, la lingua della classicità volgare, una
lingua adatta alla civiltà e alla cultura di un paese che trova così
un’unità non politica ma di eloquenza. E, punto fondamentale, la
lingua poetica perfetta è la lingua del modello ottimo. Cioè la lingua
di Petrarca.
Il classicismo radicale, che predica l’imitazione del modello unico
in quanto ottimo (Virgilio e Cicerone, Petrarca e Boccaccio), cui
si contrappone un’idea di imitazione simile alla mellificazione delle
api (più modelli, diverse bellezze) argomentata con smagliante
brillantezza da Poliziano sul finire del secolo precedente6, è una
posizione che può essere intesa soltanto se si riconosce l’estetica (e
la metafisica) che le sta sotto. Questo pensiero sulla bellezza e sull’arte
si fonda su un mito: quello per cui il divino e l’umano s’incontrano
in un punto della storia e generano così la perfezione, che
è unica, una sola ed espressa al massimo grado una sola volta nella
storia. Ciò è accaduto ad esempio con la poesia di Virgilio o con
cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, pp. 60-
61, nell’edizione del testo 1530 a cura di Gorni.
6 Per tutta questa vicenda e per i testi relativi rimando a Rinascimento e
Classicismo. Materiali per l’analisi del sistema culturale di Antico regime, a cura di A.
Quondam, Roma, Bulzoni, 1999. Gli atti del convegno Classicismo (Roma, Sapienza
Università, 6-8 dicembre 2007), di prossima pubblicazione presso il
medesimo editore, illustreranno più in dettaglio aspetti e prospettive del problema
storiografico, non solo dal punto di vista letterario.
214 ROBERTO GIGLIUCCI [4]
quella di Petrarca, modelli ottimi, e quindi non si deve perdere
tempo a seguire modelli alternativi (o imitare o perdersi, dirà Voltaire).
Anzi, diventa assurdo se non blasfemo seguire il non perfetto
tralasciando il perfetto. Allo stesso modo Dio si è incarnato una e
una sola volta, e soltanto da quell’evento ne è scaturita la salvezza.
Un mito, insomma, nel senso pieno del termine7.
La salvezza per i poeti viene dall’imitazione di chi è stato perfetto,
Petrarca nella fattispecie, la cui lingua ha trasceso il suo tempo
ed è situata all’incrocio dell’eterno col tempo, potremmo dire, oppure
meno enfaticamente al punto dell’acmè della storia della poesia
volgare. Quindi il poeta moderno dovrà entrare nel cosmo poetico
petrarchesco: penetrarvi, assumerlo, riprodurlo. Ecco che il sonetto
bembiano è tutto costruito su parole, sintagmi, rime
petrarchesche, e di Petrarca riproduce l’aura senza essere una copia
conforme. Prendiamo alcuni esempi: il crin d’oro crespo dipende dalle
«crespe chiome d’or puro lucente» di Rvf 292, 5 e dall’«oro terso e
crespo» di Rvf 160, 14, ma pure dal «crin d’oro» di Rvf 291, 2; per
l’ambra tersa e pura si deve pensare a «l’ambra o l’auro» vinti dalle
«chiome bionde» ovvero dal «crespo laccio» in Rvf 197, 8-9, cui
aggiungere le chiome «sovra òr terso bionde» di Rvf 196, 8; per
l’aura in su la neve si vedano «L’auro e i topacii al sol sopra la neve»
di Rvf 30, 37 e in particolare per il figurante neve (figurato: volto)
cfr. «La testa òr fino, et calda neve il volto», Rvf 157, 9 e «Quella
ch’à neve il volto, oro i capelli», Rvf 219, 5, ma anche «le rose
vermiglie infra la neve / mover da l’òra», Rvf 131, 9-10, e complessivamente
i celeberrimi «capei d’oro a l’aura sparsi» di Rvf 90, 1;
per il verso 3, occhi soavi e più chiari che ’l sole, dobbiamo evocare gli
«occhi soavi» di Rvf 37, 34 (riproposti a 73, 63; 207, 14; 253, 9) e
incistarli nel verso petrarchesco «volgei quelli occhi, più chiari che
’l sole» di Rvf 352, 2, con intarsio patente, per cui superfetatorio
risulta richiamare «Que’ duo bei lumi, assai più che’l sol chiari», Rvf
311, 10, o associazioni di suavitas e claritas come «soave et chiaro
lume», Rvf 142, 21, «soave et chiaro / stame», Rvf 296, 6-7, «chiara,
soave, angelica, divina», Rvf 167, 4, «chiara, soave», Rvf 325, 83, o
ancora «l’aura soave che dal chiaro viso», Rvf 109, 9 ecc.; da far
giorno seren la notte oscura reclama principalmente «po’ far chiara la
notte, oscuro il giorno» di Rvf 215, 13, ma non si dimentichi «quando
è ’l dì chiaro, et quando è notte oscura», Rvf 265, 6 e, per il
7 Discuto e sviluppo questa prospettiva nel saggio Classicismo ideale e realismo
metafisico, «Italianistica», 2-3, 2009, in corso di pubblicazione.
[5] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 215
concetto, «possenti a rischiarar abisso et notti», Rvf 213, 10, mentre
«notte oscura» si trova anche a Rvf 135, 56. Fermiamoci alla prima
quartina. Per il resto si potrebbe continuare analogamente.
Si deve notare che l’imitazione-emulazione non è soltanto un
fatto lessicale, sintagmatico, concettuale, ma anche intimo, spirituale
e insieme auratico, senza scarti dalla Stimmung del modello e con la
ricomposizione di un prodotto nuovo e splendido (se assumiamo
un giudizio di valore critico nettamente positivo sul sonetto
bembiano). La forza del paradigma bembiano è nel suo costituirsi
un magnifico letto di Procuste in cui godere superbamente e in
totale sicurezza, come una salamandra nel fuoco. Se prendiamo un
sonetto analogo del Tebaldeo, uno dei massimi rappresentanti della
poesia che la nouvelle vague bembiana supera e brucia, la poesia
cosiddetta “cortigiana” di fine Quattrocento con propaggini ai primi
del Cinque, verifichiamo paralleli e scarti8:
Dui vivi soli, or fino, hebeno raro,
onde Amor l’arco e reti e faci prende;
dui pomi, quai non so se altro horto rende,
che cela un velo ingiurïoso e avaro;
vermigli fior’ che al giel mai non mancaro,
neve al sol salda, perle senza mende,
parlar che muta in marmo chi l’intende,
riso che il mar tranquillo e il ciel fa chiaro;
senno maturo in non matura etate,
novo habito, accorti atti, andar celeste,
infinita beltà con honestate,
fur l’ésca con che il foco m’accendeste.
Ch’io arda, donna, per voi non ve ammirate:
meraviglia vi sia che vivo io reste.
Si tratta di un sonetto tratto dall’ultima silloge per Isabella d’Este,
raccolta autografa che fu assemblata nel 1520: contiene rime databili
dalla fine del Quattrocento ai primi due decenni del Cinquecento,
quindi testimonianza del “secondo” Tebaldeo, più aulico e sostenuto,
sui nuovi modelli del classicismo bembiano e sannazariano9. Non
so dire se il pezzo tebaldeano preceda o segua il sonetto bembiano
(in un manoscritto miscellaneo della Biblioteca Nazionale Centrale
8 Testo da A. Tebaldeo, Rime estravaganti, a cura di J.-J. Marchand, III, 1,
Ultima silloge per Isabella d’Este, Modena, Panini, 1992, p. 171.
9 Cfr. A. Tebaldeo, Rime, I, a cura di T. Basile e J.-J. Marchand, Introduzione,
cit., pp. 155 sgg.
216 ROBERTO GIGLIUCCI [6]
di Firenze, il Magliabechiano VII 719, è addirittura assegnato al
Bembo, però con seguente cassatura dell’attribuzione)10; certo è che
l’immagine dei due pomi (mammelle) di un orto divino, celati da
un velo, sente di un gusto sensuale totalmente estraneo alla selezione
operata dal Petrarca, e incline a inglobare elementi della descrizione
corporea integrale di gusto prosastico o poematico, boccacciano
e ovidiano, tutto un universo che Bembo lirico sulla scorta del
Petrarca nientificava con sdegnosità, mantenendone invece traccia
nella prosa degli Asolani, nel brano del cap. XXII del secondo libro
che ospita una descriptio puellae prossima al sonetto Crin d’oro crespo
ma con anche i «dolci pomi»11.
Insomma, il perfetto petrarchismo del sonetto bembiano che
assolutizza gli emblemi e l’araldica dei figuranti come insegnava
Petrarca è uno stramodello, uno specchio in cui si riflette la luce dei
capelli di Laura e gli altri suoi bagliori, e propaga questa luce come
un’alluvione di astrazione immota perenne e splendida per i secoli,
nel petrarchismo europeo, nelle vicende della poesia classicista e
pura, fino a Mallarmé, per intenderci12.
E Berni davanti a tanto chiarore cosa fa? Il controcanto, naturalmente,
ma con una accortezza geniale, quella di intrudersi nel linguaggio
e nella retorica del petrarchismo neonato e lavorare dall’interno,
scombinando tutto con una maestria ammirevole13.
Chiome d’argento fine, irte e attorte
senz’arte intorno a un bel viso d’oro;
10 Cfr. Bembo, Le rime, cit., tomo II, p. 593.
11 Cfr. P. Bembo, Gli Asolani, a cura di G. Dilemmi, Firenze, Accademia della
Crusca, 1991, pp. 157.
12 Cfr., di chi scrive, Fatti del petrarchismo al lume dei capelli, in Il Petrarchismo.
Un modello di poesia per l’Europa, vol. II, a cura di F. Calitti e R. Gigliucci,
Roma, Bulzoni, 2006, pp. 47-59 (poi, ampliato, in Realismo metafisico e Montale,
Roma, Editori Riuniti, 2007, pp. 50-77). Ma si legga con profitto e piacere soprattutto
Roberto Fedi, I poeti preferiscono le bionde. Chiome d’oro e letteratura, Firenze,
Le Cáriti, 2007.
13 Da Poeti del Cinquecento, cit., pp. 848-849, testo e commento a cura di S.
Longhi, che si fonda sull’edizione giuntina del 1548 curata dal Lasca. Precedentemente
cfr. F. Berni, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia, 1985, p. 95. Sul
sonetto bernesco in questione cfr. recentemente: Milena Montanile, Le chiome
antipetrarchiste di Berni, in Ead., Fuori solco. Percorsi alternativi di letteratura italiana,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 21-26 (già in «Esperienze
letterarie» XXI, 1996, 2, pp. 59-64); R. Fedi, Appunti su Francesco Berni e il petrarchismo,
in L’occhio e la memoria. Miscellanea di studi in onore di Natale Tedesco,
Caltanissetta, Editori del Sole, 2004, pp. 79-86.
[7] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 217
fronte crespa, u’ mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amore e Morte;
occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obbietto diseguale a loro;
ciglia di neve, e quelle, ond’io m’accoro,
dita e man’ dolcemente grosse e corte;
labbra di latte, bocca ampia celeste,
denti d’ebano rari e pellegrini,
inaudita ineffabile armonia;
costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d’Amor, palese fo che queste
son le bellezze della donna mia.
Berni entra a gamba tesa nel codice linguistico petrarchista e ne
utilizza il lessico e i traslati d’obbligo, ma sposta i figuranti metaforici
su figurati diversi da quelli tradizionali petrarcheschi, costruendo
così un orrore invece che una bellezza. Ad esempio: l’oro rappresenta
tradizionalmente i capelli: in Berni si abbina al viso, rendendolo
giallo, itterico; sempre i capelli sono in genere crespi, qui invece
è la fronte ad esserlo, quindi rugosa; i denti sono in genere perle
(Rvf 157, 12; 200, 10), ma qui le perle stanno negli occhi, che quindi
sono lacrimosi e malati; l’incarnato è spesso di latte (il collo, classicamente,
a Rvf 127, 78), qui invece sono le labbra ad essere lattee,
bianchicce; ancora, in questo sonetto le ciglia non sono (come in
genere) d’ebano (Rvf 157, 10) ma di neve, canute, mentre d’ebano
sono i denti, neri, marci, ecc. («denti di ebano» anche in Aretino, Il
marescalco, atto II, sc. V). Accanto a questo spostamento e ricollocazione
di emblemi petrarcheschi, quasi una scomposizione della bellezza
e ricomposizione nell’orrido, Berni inserisce motivi altrettanto
squisitamente topici, come il pallore dell’amante o il suo accorarsi,
o l’ineffabile voce dell’amata, intridendoli d’ironia o rovesciandone
il senso al negativo. Ad esempio si prenda lo scolorarsi del verso 3:
l’obbligo del pallore per l’amante è un motivo antico, già ovidiano
(palleat omnis amans); qui però lo sbiancamento è dovuto all’orrore
per l’oggetto contemplato. In più il verbo scolorarsi è marcato drammaticamente
(e perciò qui ironicamente) dalla memoria dantesca di
Paolo e Francesca: «Per più fiate li occhi ci sospinse / quella lettura,
e scolorocci il viso» (Inferno V, 130-131; in ogni caso l’espressione
scoloro, mi scoloro e simili è consueta nella lirica d’amore). Insomma,
il sonetto berniano non è una semplice parodia-condanna del sonetto
petrarchista come ammasso di luoghi comuni desunti dal modello
(la censura del gusto centonatorio moderno era già nel Dialogo
218 ROBERTO GIGLIUCCI [8]
contra i poeti, dove però Bembo era fra gli omaggiati)14, né tantomeno
un contraltare comico-realistico rusticale, servile, basso-umile, come
i Capitoli alla sua innamorata. È qualcosa di più, un prodotto
petrarchista che ha subito un terremoto, o meglio una ridistribuzione
dei suoi elementi fino a sfigurarsi, ovvero ricomporsi in contemplazione
di una forma inamena e decomposta.
Tale risultato è appunto un sonetto che a una lettura velocissima
e disattenta potrebbe persino confondersi con quelli ortodossamente
petrarchisti! costituendone invece la parodia più meticolosa. È appunto
il grado, la particolarità e l’ingegnosità di questa parodia che
la rende efficace. Si tratta di un movimento parodico che penetra
nei gangli vitali, nelle fondamenta stesse del fenomeno “petrarchismo”
(pur se aggredito qui nel suo nascere, prima dell’esplosione
a stampa del Cinquecento): una dissacrazione che sa cogliere
uno dei nodi ontologici del petrarchismo, forse il più denso, cioè
quello della metaforizzazione ed emblematizzazione dei dati di realtà
e degli oggetti di canto, anzi dell’oggetto per eccellenza, quasi
unico, la donna amata. Ontologia che è ovviamente dato retorico
complesso (metafora/emblema, figurazione obbligata, recursività
ossessiva dei figuranti, sistema di traslazioni coerente e omogeneo,
iperbole che si fa stereotipa e pure nel prevedibile celebra la bellezza
ecc.). Analogamente un “irregolare” come Anton Francesco Doni
sarà capace di cogliere un altro dato costitutivo della poesia petrarchesca
e quindi petrarchista: la “pluralità”. Doni ha come obiettivo
polemico la facile moda del petrarchismo, più che la stessa poesia
del Petrarca. In un brano dei Mondi (Venezia, Marcolini, 1552), deride
proprio la tendenza alla pluralità petrarchista15:
Momo. Chi fosti tu al mondo?
Anima. Fui scarpellino e poeta.
Momo. O che discordanza che è questa, come di sartore e barbiere.
Che scarpellavi tu e componevi?
Anima. Io m’avevo fatto un bel libro di monti, mari, sterpi e valli,
tutto in rima.
Di fiori, fioretti, ombre, erbe e viole
poggi, campagne e poi pianure e colli,
14 Cfr. F. Berni, Poesie e prose, a cura di E. Chiòrboli, Genève-Firenze, Olschki,
1934, pp. 278, 287; A. Corsaro, Il poeta e l’eretico. Francesco Berni e il «Dialogo
contra i poeti», Firenze, Le Lettere, 1988, pp. 10-11, 33 e passim.
15 Si cita da A.F. Doni, I mondi e gli inferni, a cura di P. Pellizzari, introduzione
di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994, pp. 114-115.
[9] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 219
con fonti, gorghi, prati, rivi e onde.
Momo. O tu cicali in versi sì petrarchevolmente! Io ne vo’ fare una
querella in Parnaso. Andrai pur là, che tu non istai bene fra
noi altri, va’, fatti infrascare di quei lauri.
Anima.
Piaggie, liti, scogli, venti e aure,
cristalli, fiere, augelli, pesci e serpi,
greggi, spelunche, armenti, tronchi, antri, Dei,
stelle, paradiso, ombre, nebbie, omei.
Gli infiniti versi imitativi che accumulano dati, sostantivi, emblemi,
sono tutti figli di archetipi quali «fior, frondi, erbe, ombre, antri,
onde, aure soavi» (Rvf 303, 5), o di altri luoghi petrarcheschi meno
estremistici ma analoghi. Il sarcasmo lucianeo del Doni si appunta
perciò su un nodo nevralgico del codice lirico, cosciente di smascherare
una natura sostanzialmente asemantica e non comunicativa del
petrarchismo, fatto di mera e stralunata nominazione, imprigionato
nella sua reclusione lessicale astratto-ideale, feticisticamente ossessiva.
Ma torniamo al manufatto lirico del Berni e risaliamo di nuovo
a Bembo. Vediamo di complicare un po’ le cose. Nelle Rime del 1530
troviamo anche un sonetto come il seguente (che non sarà rifiutato
nelle edizioni posteriori)16:
O superba e crudele, o di bellezza
e d’ogni don del ciel ricca e possente,
quando le chiome d’or caro e lucente
saranno argento, che si copre e sprezza,
e de la fronte, a darmi pene avezza,
l’avorio crespo, e le faville spente,
e del sol de’ begli occhi vago ardente
scemato in voi l’onor e la dolcezza,
e ne lo specchio mirarete un’altra,
direte sospirando: «È, lassa, quale
oggi meco pensier? perché l’adorna
mia giovenezza ancor non l’ebbe tale?
con questa mente o ’l sen fresco non torna?
Or non son bella, alora non fui scaltra».
Il sonetto parafrasa ora più ora meno fedelmente un carme di Orazio
(Odi IV, 10, che però era rivolto ad un ragazzo) e risente indubbiamente
di Petrarca, Rvf 1217:
16 Da Poeti del Cinquecento, cit., p. 142.
17 Da F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori,
1996, p. 55 (citiamo i Fragmenta sempre da questa edizione).
220 ROBERTO GIGLIUCCI [10]
Se la mia vita da l’aspro tormento
si può tanto schermire, et dagli affanni,
ch’i’ veggia per vertù degli ultimi anni,
donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,
e i cape’ d’oro fin farsi d’argento,
et lassar le ghirlande e i verdi panni,
e ’l viso scolorir, che ne’ miei danni
a·llamentar mi fa pauroso et lento:
pur mi darà tanta baldanza Amore
ch’i’ vi discovrirò de’ miei martiri
qua’ sono stati gli anni e i giorni et l’ore;
et se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,
non fia ch’ almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.
La distanza di Bembo da Petrarca, e la prossimità ad Orazio, è
evidente sul piano se non lessicale almeno concettuale, di situazione:
Petrarca immagina una vecchiaia sua e di Laura in cui costei
riesca finalmente ad essergli soccorrevole e benevola, mentre Bembo
riproduce il topos oraziano (e già boccacciano e di altri) dell’aggressività
nei confronti dell’amata prefigurandole lo sfiorire e il pentimento
e il rimorso di non aver goduto e fatto godere. Tale aggressività
è appunto un atteggiamento inimmaginabile per Petrarca cortese,
che mai mostrerebbe una simile ostilità proiettiva-vendicativa,
mentre è coerente con l’elegia latina classica e con il carme oraziano.
Che quindi permangano nel “canzoniere” bembiano forme di petrarchismo
non perfettamente ortodosso è un dato da acquisire credo
tranquillamente, e di ciò abbiamo discusso in altre sedi. Quello che
ci preme qui far risaltare è che assai verosimilmente Berni avrà
avuto presente questo sonetto bembiano (ritenuto databile non molto
anteriormente al 1530) nel mentre che intarsiava la sua parodia di
Crin d’oro crespo: ecco le chiome d’argento, la fronte crespa, gli occhi
spenti. Niente più di un suggerimento, forse, ma sufficiente a farci
ritenere che Berni possa aver voluto scombinare e disassare il sistema
del petrarchismo a tal punto dall’interno da appoggiarsi pure
indirettamente a un ulteriore dato testuale bembiano facendolo, come
dire, interagire col placido paradigma di Crin d’oro crespo e producendo
così una reazione chimica devastante, che soprattutto attraverso
l’anarchia dei figuranti ottiene un nuovo ordine comico.
In conclusione però vorremmo confinare l’operato del Berni al di
qua di una scoperta “realistica” della poesia in polemica con una
astrattività tutta “letteraria” del classicismo petrarchista. Berni lavora
con un codice alternativo a quello aulico, il codice comico burle[
11] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 221
sco, anche se usa in questo caso il lessico stesso del “nemico”. Due
tradizioni parallele che non si incontrano mai e che si autorizzano
vicendevolmente: ecco la storia del comico e del sublime nella poesia
medievale e rinascimentale, con le dovute eccezioni, che però
restano tali (vogliamo fare il nome di Dante?). Invece, se prendiamo
un sonetto di Shakespeare come il seguente, che si prende gioco
delle stereotipie dei poeti galanti, ci sentiamo in un tempo ormai
diverso18:
My mistress’ eyes are nothing like the sun;
coral is far more red, than her lips’ red;
if snow be white, why then her breasts are dun;
if hairs be wires, black wires grow on her head.
I have seen roses damasked, red and white,
but no such roses see I in her cheeks;
and in some perfumes is there more delight
than in the breath that from my mistress reeks.
I love to hear her speak, yet well I know
that music hath a far more pleasing sound.
I grant I never saw a goddess go;
my mistress when she walks treads on the ground:
and yet by heaven, I think my love as rare,
as any she belied with false compare.
Della mia donna gli occhi non sono come il sole;
il corallo è di gran lunga più rosso del rosso delle sue labbra;
se la neve è bianca, allora il suo seno è cinereo;
se i capelli son crini d’oro, sul suo capo crescono bruni.
Ho visto rose damaschine, rosse e bianche,
ma non simili rose scorgo io sulle sue guance;
e in talune essenze c’è maggior delizia
che nell’alito dalla mia donna esalato.
Amo ascoltarla parlare, ma pure so bene
che la musica ha un suono assai più amabile.
Garantisco che non ho mai visto camminare una dea:
la mia donna, quando passeggia, calpesta la terra.
Tuttavia, cielo! credo il mio amore sì raro
quanto ogni altra donna falsificata da metafore.
Cosa è cambiato? Semplicemente il fatto che questo non è un sonetto
comico, ma appartiene a un canzoniere d’amore moderno, in
un’età (tra fine Cinquecento e primi Seicento) in cui si coglie la forte
18 Da William Shakespeare, Sonetti, a cura di A. Serpieri, Milano, Rizzoli,
1995, p. 326 [prima ediz. 1991]; traduzione nostra.
222 ROBERTO GIGLIUCCI [12]
discontinuità storica fra la cultura umanistico-rinascimentale e quella
nuova, allorché si “scopre” un nuovo rapporto tra poesia e realtà.
Se di antipetrarchismo si volesse parlare ancora in tale occasione, si
dovrebbe allora portare alle estreme conseguenze la nozione di
“antipetrarchismo interno”19, ma interno davvero, questa volta, grazie
alla quale nozione si potrà percorrere con più efficacia storiografica
la vicenda cinquecentesca del petrarchismo plurale e quindi
la svolta secentesca della nuova letteratura che supera gli schemi
passati in nome di un realismo barocco, sublimante o meno, metafisico
o meno, su cui ci si dovrà molto e sempre più interrogare.
Se Berni si contrapponeva all’idealismo classicistico del Bembo (di
un certo Bembo!) riformulando con geniale lusus combinatorio il
luogo comune comico della descriptio vetulae, dell’effigie della vecchia
laida, opponendo difettosità integrale ad assoluta indefettibilità,
in gioco non era il confronto con il reale, né dall’una né tantomeno
dall’altra parte della barricata, per così dire. Diversamente, i poeti
tardomanieristi e barocchi che si dedicano alla predicazione multipla
della donna, cioè cantano la donna soffermandosi su elementi
difettosi (dal neo alla zoppìa, dalle lentiggini alla balbuzie), trascendono
ogni distinzione fra opzione comica e opzione idealizzante,
scegliendo di aprire le porte della poesia al reale, cioè al difetto
nella bellezza e alla bellezza eventuale del difetto. (Che poi il reale
possa essere letto come semplice “effetto di reale” è questione complessa,
che qui non abbiamo tempo di discutere). Analogamente i
pittori (Caravaggio, certo, ma anche il primo Guercino ad esempio)
aprono la scena ai piedi larghi e sudici dei pastori e dei pellegrini,
di Lazzaro e magari persino di Cristo. Il romanzo apre ai pitocchi
e ai mulini a vento, la scienza scopre le macchie nel sole, il teatro
apre al tragicomico, il poema all’ilaroepico e allo scherno degli dèi,
la prosa d’arte apre all’osservazione naturale, il pensiero libertino
riduce l’anima alla mortalità ecc. ecc. E Shakespeare, il nuovo autore
optimus, rivendica alla sua donna una non finta bellezza, al suo
amore una non finta rarità. Certo, ogni discontinuità storica è in
dialettica con una continuità, ma ci sono momenti in cui la prima fa
aggio sulla seconda.
E si arriverà a un tale eccesso di poesia del difetto, che il maestro
19 Per brevità rimando al mio Antipetrarchismo interno o petrarchismo plurale?,
in Autorità, modelli e antimodelli…, cit., pp. 91-101; mi permetto di evocare pure
il precedente Appunti sul petrarchismo plurale, «Italianistica», XXXIV, 2, 2005, pp.
71-75.
[13] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 223
di equilibrio Molière nel Misanthrope avrà buon gioco nel farsene
gioco (vv. 711-730)20:
L’amour, pour l’ordinaire, est peu fait à ces lois,
et l’on voit les amants vanter toujours leur choix;
jamais leur passion n’y voit rien de blâmable,
et dans l’objet aimé tout leur devient aimable:
ils comptent les défauts pour des perfections,
et savent y donner de favorables noms.
La pâle est aux jasmins en blancheur comparable;
la noire à faire peur, une brune adorable;
la maigre a de la taille et de la liberté;
la grasse est dans son port pleine de majesté21;
la malpropre sur soi, de peu d’attraits chargée,
est mise sous le nom de beauté négligée;
la géante paroît une déesse aux yeux;
la naine, un abrégé des merveilles des cieux;
l’orgueilleuse a le coeur digne d’une couronne;
la fourbe a de l’esprit; la sotte est toute bonne;
la trop grande parleuse est d’agréable humeur;
et la muette garde une honnête pudeur.
C’est ainsi qu’un amant dont l’ardeur est extrême
aime jusqu’aux défauts des personnes qu’il aime.
L’amore, d’ordinario, è malfatto per queste leggi,
e vediamo gli amanti vantare sempre le loro scelte;
mai nelle loro passioni vedono alcunché di biasimevole,
e nell’oggetto amato tutto diventa per loro amabile:
considerano i difetti come delle perfezioni,
e sanno dare a questi lusinghevoli nomi.
La pallida è ai gelsomini in candore paragonabile;
la nera da spavento, una bruna adorabile;
la magra ha un vitino di vespa ed è slanciata;
la grassa nel portamento è piena di maestà;
la sciatta, quasi priva di ogni allettamento,
è rubricata sotto il nome di bellezza negletta;
la gigantessa sembra a vederla una dea;
la nana, un riassunto di bellezze celesti;
l’orgogliosa ha il cuore degno di una corona;
la furba è piena di spirito; la scema è così buona;
20 Da Molière, Il misantropo, a cura di L. Lunari, Milano, Rizzoli, 1982, pp.
114-116; traduzione nostra.
21 Un’eco forse in Da Ponte: «È la grande maestosa, / la piccina è ognor
vezzosa» (Don Giovanni I, v, aria di Leporello). D’altra parte si rammenti che
tutta la tirata di Molière è debitrice a sua volta di Lucrezio, De rerum natura IV,
1160-1170.
224 ROBERTO GIGLIUCCI [14]
la gran chiacchierona è di gioviale umore;
e la mutacica osserva un onesto pudore.
È così che un amante, il cui ardore è estremo,
ama fino ai difetti le persone che ama.
Se per concludere volessimo risalire a un nipotino primosecentesco
dello Sbernia, potremmo esibire un’ottava della Secchia rapita di
Tassoni (I, 17), e precisamente la descrizione fisica di «Renoppia
bella»22:
Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti,
rose e gigli il bel volto, avorio il petto,
le labbra di rubin, di perle i denti,
d’angelo avea la voce e l’intelletto.
Maccabrun dall’Anguille, in que’ commenti
che fece sopra quel gentil sonetto
«Questa barbuta e dispettosa vecchia»,
scrive ch’ella era sorda da un’orecchia.
Renoppia è dunque bella in forme canoniche, perfettamente
petrarchiste, tranne il colore bruno di occhi e capelli (ma non si
dimentichi che è «cacciatrice ed arciera» I, 16, 2, quindi viriloide).
Però la seconda metà dell’ottava, secondo un gusto desublimante in
clausula tipico dell’eroicomico e non solo, sposta tutto sul versante
burlesco, insinuando il difetto nella bella donna con l’autorità fantastica
di un poeta bernesco23. Dunque è questa una situazione
primosecentesca (1622) totalmente diversa dalla proposta di Chiome
22 Da A. Tassoni, La secchia rapita e scritti poetici, a cura di P. Puliatti,
Modena, Panini, 1989, p. 361. Sono debitore di G.P. Maragoni, Trastulli eoricomici,
prefaz. di P. Gibellini, Locarno, Armando Dadò, 1999, pp. 18-19.
23 I commentatori (Fassò, Ziccardi ecc.), sulla falsariga di Venceslao Santi (La
storia nella Secchia rapita, Modena 1906-1908), ricordano un Marco Bruno dalle
Anguille, o Anguilla, che fu un giurista cinquecentesco laureatosi a Ferrara, ma
si pensa che Tassoni alludesse scherzosamente alla figura di Antonio Bruni,
poeta suo amico. Per l’antipetrarchismo analitico di Tassoni e le polemiche
relative vedi di recente il bel saggio di Antonio Daniele, «Una pura disputa di
cose poetiche senza rancore di sorte alcuna». Alessandro Tassoni, Cesare Cremonini e
Giuseppe Degli Aromatari, in Id., La memoria innamorata. Indagini e letture
petrarchesche, Padova, Antenore, 2005, pp. 219-247. Sulla donna e la bellezza
femminile in Tassoni cfr. P. Puliatti, Rime inedite attribuite al Tassoni. (Proposta
per un profilo erotico), «Studi secenteschi», XXI, 1980, pp. 3-39: 27-39. Per il genere
dei commenti comici, si veda Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica
e giocosa del Cinquecento, a cura di A. Corsaro e P. Procaccioli, Manziana
(Roma), Vecchiarelli, 2002.
[15] ALCUNE COSE SULL’ANTIPETRARCHISMO 225
d’argento fino: ora è una fanciulla avvenente e conforme alla bellezza
topica ad essere incrinata da una insufficienza fisica e funzionale:
come dire che un dettaglio realistico e comico riporta una corporeità
ideale alla lacunosità reale, alla necessità dell’imperfezione, momento
questo identitario della realtà. Gloria od offesa dell’imperfezione
che sia, resta il fatto che con l’empirico (id est incompiuto, mendoso,
ancorché luminosamente) bisogna fare i conti.
Roberto Gigliucci
(Università La Sapienza – Roma)
DORA MARCHESE
Polisemia del paesaggio: dal Romanticismo
all’età moderna
The author starts out by discussing the very definition and concept
of landscape. She demonstrates that the relationships between
landscape and literature has become more and more complex and
varied between the end of the 19th century and the beginning of the
20th century. Over the 20th century this relationship fragmented into
a great variety of different meanings.
Malgrado il dibattito sul paesaggio si sia aperto già prima del
1800, solo negli ultimi decenni sono apparsi scritti teorici su un
tema che coinvolge e affascina le più disparate discipline. Oggetto
di ricerca non solo di geografi, storici dell’arte, architetti, urbanisti,
ma anche di fotografi, registi, psicologi, antropologi, sociologi, filosofi,
linguisti, il paesaggio appare un mare magnum in cui si rischia
di naufragare. «Nello spazio del paesaggio», ha osservato Erwin
Straus, «siamo completamente persi».
Quantunque la sua elusività sia dato assodato e condiviso dalla
critica, lo è altrettanto l’essere un fenomeno estetico1, intrinsecamen-
1 Cfr. al riguardo: G. Hard, Der Totalcharakter der Landschaft, in A.V. Humboldt,
Eigene und neue Wertungen der Reisen, Arbeit und Gedankenwelt (Erdkundl
Wissen Heft 23), Wiesbaden, 1970; Die Landschaft des Künstlers und die des
Geographen, in Landschaftsbilder, Ausgabe D. Hoffmann, Loccum 1985, pp. 122-
135; R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, 1. Natura e storia, 2. Arte, critica e filosofia,
Napoli, Giannini, 1973; C. Raffestin, Du paysage à l’espace ou les signes de la
géographie, «Hérodote», Paris, a. IX, n. 2, janvier-mars 1978, pp. 90-104; F.
Dagognet, Mort du paysage? Philosophie et esthétique du paysage, Actes du colloque
de Lyon, Seyssel, Champ Vallon, 1982; E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano,
Milano, Longanesi, 1990; L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, a cura di L.
Bonesio – M. Schmidt Di Friedberg, Milano, Mimesis, 1999; Estetica del paesaggio,
a cura di M. Venturi Ferriolo – L. Giacomini – E. Pesci, Milano, Guerini,
1999.
[2] POLISEMIA DEL PAESAGGIO: DAL ROMANTICISMO ALL’ETÀ MODERNA 227
te legato all’azione e alla volontà dell’uomo. Il paesaggio, insieme
reale e artificiale, cambia volto col mutare dei tempi e dei luoghi
che lo hanno espresso, plasmato, riconosciuto.
L’interesse per la spazialità e l’invenzione della prospettiva portarono,
nell’Italia del Rinascimento, alla graduale affermazione dell’elemento
paesaggistico in pittura e nell’arte. Sul fronte linguistico,
sono recenti nelle principali lingue storiche e culturali europee i
termini che lo designano2: l’olandese Landskap, modello delle successive
voci (1462), il francese paysage (prima attestazione 1493), il tedesco
Landschaft (1502), il portoghese paisaggem (1548), l’italiano paesaggio
(in pieno Rinascimento: Tiziano, 1552), l’inglese landscape (o
landskipe, 1598), lo spagnolo paesaje (documentato soltanto nel 1708)3.
La teoria della letteratura e la narratologia moderne non hanno
finora dedicato al paesaggio la stessa attenzione riservata, ad esempio,
allo studio dei «tempi», «modi», «persone», «voci», nell’ordito
del racconto, mentre la cultura europea lo ha riconosciuto fattore
imprescindibile alla comprensione e interpretazione dei testi. Eppure,
un’indagine ampia e accurata sull’argomento manca. Gran parte
dei contributi, in genere trattazioni sommarie, procedono per rapide
esemplificazioni, dall’antichità greco-romana sino al Romanticismo,
difficilmente spingendosi oltre la metà del XIX sec.
Sfogliando i repertori bibliografici delle ultime pubblicazioni4,
2 G. Bertone, Lo sguardo escluso: l’idea di paesaggio nella letteratura occidentale,
Novara, Interlinea, 1999, p. 12. Per un approfondimento dell’argomento cfr. R.
Gruenter, Landschaft. Bemerkunger zur Wort und Bedeutungsgeschichte, in
«Germanish-Romanische Monatsschrift», Heidelberg, vol. XXXIV, n. 2, aprile
1953, pp. 110-120. In Italia il termine originario era «paese»: cfr. P. Camporesi,
Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano, Garzanti, 1992; in particolare
Dal paese al paesaggio, pp. 9-40.
3 «Il serait d’ailleurs intéressant de compléter ce tableau avec les langues
d’Europe centrale et orientale dont l’on sait que certains ont emprunté les mots à
plusieurs langues d’Europe occidentale comme la Russie pour laquelle il existe
deux termes, Landschaft qui renvoie au paysage géographique et paysage qui
représente la part culturelle du spectacle des pays. D’autres langues d’Europe
centrale ont un mot qui est en fait un suffixe qui doit s’adjoindre un autre mot
pour signifier paysage rural, paysage urbain; c’est le cas du hongrois “taj”, notamment
» (Y. Luginbühl, Paysage Et Politique, in I paesaggi d’Europa tra storia, arte
e natura, Atti della Conferenza Trilaterale di Ricerca 2005-2007, a cura di R. Colantonio
Venturelli, Deutsch-Italienisches Zentrum, Centro Italo-Tedesco, 2008, p. 63).
4 Un contributo recente è offerto da: Geografie letterarie. Paesaggio e letteratura
nella cultura europea, Atti del Seminario di studi, (Palermo 17-18 maggio 2007),
a cura di M. Cottone, in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Universita
di Palermo, Palermo, 2008.
228 DORA MARCHESE [3]
accanto ai volumi ormai classici di Rilke, Simmel, Ritter, Assunto,
Turri5, ma ricordiamo pure Hunt, Cosgrove-Daniels, Venturi Ferriolo,
Tilley, Shama, Andreotti6, non occupatisi, però, di letteratura, pochi
sono i lavori che analizzano in maniera diacronica il paesaggio dalle
origini ai giorni nostri. In particolare, davvero flebile è l’attenzione
al periodo compreso tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900 allorché,
come è noto, si trascorre dal Romanticismo al Realismo, da un’epoca
in cui il paesaggio assolve funzione di medium e catalizzatore tra
uomo e natura, ad una in cui s’innesca un processo di ‘frantumazione’
del valore e del significato assunti all’interno dell’opera letteraria7.
Il saggio di Jakob, che tenta di sciogliere numerosi nodi ineren-
5 Cfr. R.M. Rilke, Worpswede, Fritz Mackensen, Otto Modersohn, Fritz Overbeck,
Hans am Ende, Heinrich Vogeler, Bielefeld, Velhagen & Klasing, 1903; trad. ital.
Del paesaggio e altri scritti, a cura di L. Zampa, Milano, Cederna, 1945; G. Simmel,
Philosophie der Landschaft, «Die Güldenkammer Norddeutsche Monatshefte»,
Bremen, n. 3, pp. 635-644; trad. ital. Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, a cura di
L. Perucchi, Bologna, il Mulino, 1989; J. Ritter, Landschaft. Zur Funktion des
Ästhetischen in der modernen Gesellschaft, Münster, Aschendorff, 1963; trad. ital.
Paesaggio uomo e natura nell’età moderna, a cura di G. Catalano, Milano, Guerini,
1994; R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, cit.; Ontologia e teleologia del paesaggio,
Milano, Guerini, 1988; E. Turri, Antropologia del paesaggio, Milano, Comunità,
1974; Semiologia del paesaggio italiano, cit.; Il paesaggio come teatro. Dal territorio
vissuto al territorio rappresentato, Venezia, Marsilio, 1998.
6 Cfr. J.D. Hunt, The Figure in the Landscape. Poetry, Painting and Gardening
during the Eighteenth Century, London-Baltimore, Johns Hopkins University Press,
1976; Garden and Grove, the Italian Renaissance Garden in the English Imagination,
1600-1750, Princeton, Princeton University Press, 1986; D.E. Cosgrove – S.
Daniels, The Iconography of Landscape, Essays on the Symbolic Representation, Design,
and Use of Past Environments, Cambridge-New York, Cambridge University Press,
1988; trad. ital. Realtà sociale e paesaggio simbolico, a cura di C. Copeta, Milano,
Unicopli, 1990; M. Venturi Ferriolo, Nel grembo della vita. Le origini dell’idea di
giardino, Milano, Guerini, 1989; Giardino e filosofia, Milano, Guerini, 1992; Giardino
e paesaggio dei romantici, Milano, Guerini, 1998; Lineamenti di estetica del paesaggio,
in M. Venturi Ferriolo – L. Giacomini – E. Pesci, Estetica del paesaggio, cit.;
Definire il paesaggio, in Paesaggio e paesaggi veneti, Milano, Guerini, 1999; C. Tilley,
A Phenomenology of Landscape: Places, Paths and Monuments, Oxford, Berg, 1994,
pp. 16-17; S. Shama, Landscape and Memory, London, Harper & Collins, 1995;
trad. ital. Paesaggio e memoria, a cura di P. Mazzarelli, Milano, Mondatori,
1997; G. Andreotti, Paesaggi culturali. Teoria e casi di studio, Milano, Unicopli,
1996; Alle origini del paesaggio culturale, Milano, Unicopli, 1998.
7 Sul nuovo rapporto tra uomo e natura nella letteratura, in specie moderna,
si rinvia a S. Romagnoli, Spazio pittorico e spazio letterario da Parini a Gadda.
Rêveries e realtà, in Storia d’Italia. Il paesaggio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi,
1985; M. Farnetti, L’ermo colle e altri paesaggi, Ferrara, Liberty house, 1996; P.
Betta-M. Magnani, Paesaggio e letteratura, Parma, Maccari, 1996; Il paesaggio dalla
[4] POLISEMIA DEL PAESAGGIO: DAL ROMANTICISMO ALL’ETÀ MODERNA 229
ti l’essenza, la genesi e la storia del paesaggio, s’arresta agli inizi del
1800, «momento-soglia», «passaggio essenziale», riconosciuto carente
di ricerche, anche interdisciplinari, complete e approfondite8.
Una disanima puntuale e ampiamente documentata del fenomeno
non rientra nell’esiguo spazio di questo lavoro. Tuttavia potrebbe
essere proficuo ripercorrere, a volo d’uccello, le tappe principali
di un mutamento del gusto e della visione del mondo inevitabilmente
proiettatosi in una nuova e differente idea di paesaggio.
Il Romanticismo esalta il paesaggio, veicolo dell’emotività e dei
turbamenti dell’anima, scenario di brucianti passioni. Sullo sfondo
delle narrazioni eroiche dell’arte figurativa s’impongono agli occhi
dello spettatore le immagini di una natura solitaria e suggestiva,
pregna di significato, indispensabile componente per l’interpretazione
della materia e dei sentimenti rappresentati. I primi artisti romantici,
infatti, la considerano forza creatrice e anelano rifugiarvisi
per eludere le brutture della società9.
Alcuni aspetti del movimento romantico penetrati in Italia nel
periodo del Risorgimento (1820-1860 circa) vengono usati per ridestare
il senso d’identità nazionale, l’esigenza di riscatto e libertà.
Due i principali temi accolti dalla pittura italiana: lo storico e il paepercezione
alla descrizione, a cura di R. Zorzi, Venezia, Marsilio, 1999; V. Bagnoli,
Lo spazio del testo. Paesaggio e conoscenza nella modernità letteraria, Bologna,
Pendragon, 2003; G. Bertone, Il paesaggio. Appunti per una ridefinizione, «Moderna
», Pisa, n. 1, 2007, pp. 55-64; R. Salerno, Il ‘Buon governo’ dello spazio pubblico:
rappresentazione di città e paesaggi all’inizio dell’età moderna, «Italian Studies»,
Cambridge, n. 2, 2007, pp. 161-174; I Crotti, I paesaggi possibili della critica e della
teoria letteraria, «Ermeneutica letteraria», Pisa-Roma, n. 5, 2009, pp. 21-40.
8 Cfr. M. Jakob, Paesaggio e letteratura, Firenze, Olschki, 2005.
9 Il paesaggio naturale, soggetto ‘obbligato’ della pittura, è generalmente
rappresentato privo di figure umane; viceversa, queste hanno dimensioni molto
piccole e vengono utilizzate per accrescere il senso di solitudine dell’uomo di
fronte all’immensità del creato. Già Leopardi aveva giudicato di estrema rilevanza
l’esistenza di protagonisti umani all’interno di una scena in cui si voglia rappresentare
l’ambiente naturale e lo stato d’animo di coloro che vi si trovano immersi.
Nel Discorso intorno alla poesia romantica asserisce che «una pittura di
paese, la quale s’è vota d’ogni figura d’animale, per molto che ci diletti a
riguardarla nondimeno sogliamo provare una certa scontentezza, e un desiderio
maldistinto come di cosa che manchi». Il quadro è più vivo se c’è «una figura
di bestia che rompa la solitudine»; e conclude: «Ma né pur questa ci contenta,
né ci può contentare altro che figure umane» (G. Leopardi, Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica, in Opere, a cura di G. Getto, Milano, Mursia,
1967, p. 575). Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, si auspicava che la pittura
di paesaggio diventasse anche portatrice di idee originali, di grandi innovazioni
in ambiti culturali diversi.
230 DORA MARCHESE [5]
saggistico. Diversamente dall’atmosfera tenebrosa e inospitale peculiare
ai paesi del nord, i paesaggi italiani si presentano spesso luminosi,
gradevoli, accoglienti. La natura è il luogo in cui l’anima può
dare sfogo alla propria malinconia, entrare in contatto con una dimensione
superiore. Il ‘bello’ coincide col ‘sublime’, sia questo un
uomo perseguitato da una sorte ineluttabile (come l’Ulisse, «bello di
fama e di sventura», di A Zacinto di Foscolo) o un paesaggio sconvolto
dalla furia degli elementi (come quello dell’Ultimo canto di
Saffo di Leopardi).
Le intime ragioni della penuria di studi relativi al periodo a
cavallo tra la metà del XIX e la prima metà del XX sec. sono forse
riconducibili alla straordinaria complessità del paesaggio in quegli
anni, ‘scisso’ in molteplici punti di vista, espressione di una pleiade
di significati e valori, sintomo delle contraddizioni e delle tensioni
che a livello ideologico, sociale ed economico investono la società
del tempo. Siffatto atteggiamento mentale di fronte all’essere e all’arte,
caratterizzato da quattro invarianti – il soggettivo, il frammento,
il metadiscorsivo e l’ironico –, chiamandosi «modernità»10.
Capovolgendo la concezione romantica, Giacomo Leopardi trasporta
il topos della disarmante immensità e inusitata potenza della
natura sul piano del quotidiano, convertendolo da condizione eccezionale
e trascendente in realtà, spesso crudele e perversa, con cui
interagire polemicamente. Con occhio lucido e disincantato, il poeta
di Recanati scruta il volto della natura che da idillico locus amoenus,
spazio del sentimento e della riflessione, diviene entità impassibile
e distante. I dolci declivi collinari, lo struggente chiarore delle notti
di luna, i borghi vivacemente popolati o tristemente deserti, sono
solo diaframmi illusori tra uomo e natura. Nel Discorso di un italiano
attorno alla poesia romantica Leopardi afferma che noi moderni, di
fronte al mondo e ai suoi fenomeni, non siamo «spettatori naturali»
come nel passato, ma il nostro osservare, collimante con quello degli
scienziati che scrutarono «le armonie della natura e le analogie e le
simpatie», appare «una condizione artificiata»; bisognano infatti «mille
astuzie e quasi frodi» per poter carpire i segreti della natura, sacrificando
«quei diletti che prima offeriva spontanemente»11.
È la schiacciante smisuratezza del creato, la sua infinita grandiosità
a suggerire l’insensatezza del vivere, come osserva nello
10 Cfr. W. Krysinski, Il paradigma inquieto. Pirandello e lo spazio comparativo
della modernità, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988.
11 G. Leopardi, Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, cit., p. 534.
[6] POLISEMIA DEL PAESAGGIO: DAL ROMANTICISMO ALL’ETÀ MODERNA 231
Zibaldone: «Io era spaventato di trovarmi in mezzo al nulla, un nulla
io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo
che tutto è nulla, solido nulla»12. Insensatezza che approderà alla
rassegnata visione della natura, «perpetuo circuito di produzione e
distruzione»13 volta alla conservazione dell’universo.
Il paesaggio diviene metafora dell’inanità del vivere umano14.
Nella prima metà del XIX sec. si è ormai innescato il processo di
radicale trasformazione del paesaggio, non più strumento di elevazione
verso l’assoluto, trasfigurazione eroica del destino umano, ma
supporto naturalistico di stati d’animo e comportamenti. Se ne allenta
la tensione spirituale, vi si accentua il carattere individualistico
ed irrazionale, lo si nutre di psicologia, sociologia, amor patrio.
Nel celebre addio ai monti di Lucia nei Promessi sposi, muovendo
non da presupposti estetici ma sentimentali, Alessandro Manzoni
attua una fusione tra ambiente e personaggio, istituendo un legame
tra individuo e natura che vede quest’ultima luogo dell’esperienza
cronotopica. Analogamente nel citatissimo incipit del romanzo, in
cui l’osservazione del lago, delle catene montuose, delle vette, della
costiera, dei ponti, campi, vigne, boschi, e, più oltre, delle «strade e
stradette», costituisce una vera e propria mappa atta ad indicare
confini e direzioni. Il paesaggio del Manzoni «non si trasforma mai
in pura introspezione, […] il lago, così come gli altri luoghi naturali,
è certamente anche uno spazio dell’esperienza interiore, ma non viene
mai appiattito unicamente in questa funzione»15. Un work in progress
dell’ascendente, funzionale, laicizzazione del paesaggio.
Col Course de philosophie positive Auguste Comte promuoveva in
Europa l’affermarsi del Positivismo che, alla luce di una ritrovata
(per la continuità col metodo induttivo di Galilei e con l’Illuminismo)
solida fiducia, individuava nel rigoroso metodo sperimentale l’uni-
12 Id., Zibaldone di pensieri, ivi, p. 635.
13 Id., Dialogo della natura e di un islandese, ivi, p. 322.
14 In tal senso, pur partendo da presupposti diversi e giungendo a conclusioni
più drastiche, Verga è vicino al Leopardi. Canonico il parallelismo tra i due
scrittori (specialmente tra i noti passi rispettivamente tratti da Fantasticheria e dal
Dialogo della Natura e di un Islandese). Se per Leopardi è lecito parlare di pessimismo,
per Verga è forse più corretto parlare di ‘nichilismo’ giacché egli non
gode di certezze ideologiche, religiose o politiche, ma constata lucidamente la
tragicità del destino umano a qualunque livello sociale appartenga. Mentre
Leopardi polemizza con la natura, Verga osserva e descrive la realtà come dato
di fatto immutabile.
15 F. Benozzo, Lago, in Luoghi della letteratura italiana, Milano, Mondadori,
2003, p. 247.
232 DORA MARCHESE [7]
co mezzo di conoscenza possibile. Nutritasi negli anni ’50-’70 di
idee materialistiche, deterministiche ed evoluzionistiche, quest’ideologia
oppone allo spazio infinito e indefinito dell’eroe romantico
uno spazio geometrico, calcolabile, razionale, riconducibile ad un’immagine
oggettiva. Non è un caso che in questi anni la fotografia,
stimata idonea a catturare la reale essenza delle cose, restituendone
forma obiettiva, conosca un vero e proprio exploit16.
Il determinismo sociale promana di riverbero dall’incidenza dell’ambiente
naturale nella storia e nella società. Il paesaggio è decifrato
attraverso la lente della scienza. Nascono paesaggi ‘tecnologici’
in cui gli ingegneri, ormai subentrati ai ricchi e potenti committenti
del passato, progettano ed ordinano la natura secondo schemi
razionali e utilitaristici, sottomettendola alle leggi del calcolo e dell’economia,
attingendo ad un’ideologia dettata da precise dottrine
politiche ed economiche. Il primato della natura contemplata con
reverenziale timore o plasmata dall’intelligenza umana si converte
nella concezione di una natura da controllare e organizzare per
essere sfruttata e addomesticata secondo un modello precostituito17.
Il paesaggio diviene lo spazio fisico nel quale s’imprimono i movimenti
dell’economia e della storia.
Ma la fede nella scienza e nella capacità raziocinante dell’uomo
non basta a mascherare l’altro volto della modernità, gli effetti collaterali
del capitalismo industriale europeo, che rivelano il perdurare
di zone depresse ed arretrate il cui sviluppo solo faticosamente si
fa strada.
Nella poderosa produzione narrativa di Émile Zola spiccano
L’Assommoir, storia di alcolismo, degrado e miserie umane, ambientato
nella Parigi operaia e Germinal, spaccato di vita del proletariato
impiegato in miniera, fra sporcizia, emarginazione, scioperi e abie-
16 Cfr. W. Benjamin, Kleinen Geschichte der Photographie, 1931; trad. ital. Piccola
storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità, Torino,
Einaudi, 1966; G. Marcenaro, Fotografia come letteratura, Milano, Mondadori,
2004.
17 L’egemonia della tecnica sulla natura, la fortuna di metallurgia e siderurgia,
furono segnati dalle realizzazioni di due opere simbolo dell’epoca: il canale
di Suez (1859-1869) e quello di Panama (1879-1914), alle quali si affiancarono
strutture come la Torre di Eiffel a Parigi, il ponte sospeso di Roebling a New
York, i tanti viadotti, edifici poderosi, strade ferrate e dighe che, sparsi in tutto
il mondo, proponevano una ‘natura seconda’. Sull’argomento, cfr. M. Vitta, Lo
spazio progettato, in Il paesaggio. Una storia fra natura e architettura, Torino, Einaudi,
2005, pp. 223-323.
[8] POLISEMIA DEL PAESAGGIO: DAL ROMANTICISMO ALL’ETÀ MODERNA 233
zione, in cui si denunciano la povertà estrema e le condizioni di vita
ai limiti della sopravvivenza, diretta conseguenza della crescente,
selvaggia industrializzazione. Prevalentemente urbano, il paesaggio
nei romanzi del maestro di Médan si apre anche al microcosmo
sub-urbano dei sobborghi e delle campagne francesi. Se la varietà
degli spazi tratteggiati è rivelatrice della ‘scissione’ della rappresentazione
ambientale cui si accennava in precedenza, ancor più lo è
l’assoluta centralità assegnata dal Naturalismo (segnatamente da
Zola) alla riproduzione di vicende, luoghi, personaggi. In Le Ventre
de Paris e Au Bonheur des dames, ad esempio, la componente descrittiva
prevale sulla narrativa; il ritratto realistico cede il posto, sovente,
a quello impressionista (non estranea la vicinanza agli amici
Monet e Manet). Emblematico l’explicit di Nanà18 in cui il volto sconciamente
sfigurato della cocotte è allegoria della corruzione della
Francia del Secondo Impero. L’espansione e l’autonomia della «mimesi
» dalla «diegesi» (per dirla con Genette) è il sintomo più facondo
della crisi del personaggio, della «perdita dell’aureola» denunciata
da Baudelaire.
Pressappoco in quegli anni in Italia sorgeva la questione meridionale,
portata alla ribalta specialmente dall’inchiesta di Franchetti
e Sonnino. Si dibattevano gli esiti di un Risorgimento fallito nella
sostanza, che consegnava alla storia il ritratto di un paese immobile,
in cui le città si offrivano allo sguardo fossilizzate, le campagne
vincolate ad antiche tecniche produttive, il meridione asservito ad
una struttura di tipo feudale19. Eloquente interprete della situazione
del mezzogiorno, il paesaggio si connota di quei toni sociologici ed
economici che tanta eco avranno nell’opera di Giovanni Verga. Diviene
metafora del mancato cambiamento a livello economico e
18 «Elle partit, elle ferma la porte. Nanà restait seule, la face en l’air, dans la
clarté de la bougie. C’était un charnier, un tas d’humeur et de sang, une pelletée
de chair corrompue, jetée là, sur un coussin. Les pustules avaient envahi la
figure entière, un bouton touchant l’autre; et, flétries, affaissées, d’un aspect
grisâtre de boue, elles semblaient déjà une moisissure de la terre, sur cette
bouillie informe, ou l’on ne retrouvait plus les traits. Un oeil, celui de gauche,
avait complètement sombré dans le bouillonnement de la purulence; l’autre, à
demi ouvert, s’enfonçait, comme un trou noir et gâté. Le nez suppurait encore.
Toute une croûte rougeâtre partait d’une joue, envahissait la bouche, qu’elle
tirait dans un rire abominable. Et, sur ce masque horrible et grotesque du néant,
les cheveux, les beaux cheveux, gardant leur flambée de soleil, coulaient en un
ruissellement d’or. Vénus se décomposait» (É. Zola, Nanà, Paris, Bibliothèque
Charpentier, Fasquelle Editeurs, 1880).
19 Cfr. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari, Laterza, 1972.
234 DORA MARCHESE [9]
sociale, icona dei problemi sofferti all’indomani dell’unificazione e
delle ferite inferte all’isola dalla storia e dal «progresso». Il positivistico
proposito di riorganizzare razionalmente, secondo criteri
pratici, gli spazi urbani e rurali si scontra con una realtà immutata
ed immutabile.
Riallacciandosi alle istanze della coeva letteratura europea, ma al
contempo distanziandosene per taluni aspetti, Verga istituisce un
codice paesaggistico duttile, che varia con l’evolversi dell’ideologia
e della tecnica narrativa adottate. Realizza, così, una poetica autonoma
all’interno della quale il recupero degli umori e delle memorie
ancestrali della sua Sicilia si coniuga all’urgenza di denunciare il
malessere del difficile periodo storico in cui vive. Superata la prima
fase di stampo tardo-romantico, dove dà voce ai sentimenti dei
personaggi, il paesaggio del Verga maggiore non è unicamente riconducibile
alla manicheistica contrapposizione tra elemento lirico
ed epico (I Malavoglia, Vita dei campi) ed elemento economico-simbolico
(Novelle rusticane, Mastro-don Gesualdo), come di norma suggerito
dalla critica. Al contrario, principalmente nelle Rusticane, trait
d’union tra i due aspetti, attua una sintesi che vede la componente
lirico-simbolica coesistere ed armonizzarsi con quella economica,
dando vita ad un paesaggio lirico-economico20.
Tramontato il Positivismo, il paesaggio perde del tutto l’antica
unità e appare frantumato in una costellazione di significati e valori
diversi. L’era della centralità e della sicurezza attribuite al paesaggio
naturale declina per lasciare spazio a paesaggi artificiali, innestati
a forza nella natura, originati dalla legge del guadagno e dell’utile,
noncuranti delle vicende e dei sentimenti umani. Il pensiero
corre all’accennata indifferenza nei confronti dell’uomo lamentata
da Leopardi.
Nell’arte figurativa, con Turner forme e volumi iniziano a fondersi
e, alla metà del secolo, si avverte il bisogno di una pittura
nuova, en-plein air, che permetta di vivere la natura e le sue manifestazioni
come esperienza diretta e personale. Muovendo da un’esigenza
di autenticità, impressionisti e macchiaioli tendono a fissare
la mutevolezza della natura, i suoi esiti, indagandone la modalità
della visione. Non più mezzo d’introspezione dell’anima e del mondo,
proiezione di fantasie e idee, espressione di verità, la moderna
20 In proposito, ci sia consentito rinviare a D. Marchese, La poetica del paesaggio
nelle «Novelle rusticane» di Giovanni Verga, Acireale-Roma, Bonanno, 2009,
pp. 300.
[10] POLISEMIA DEL PAESAGGIO: DAL ROMANTICISMO ALL’ETÀ MODERNA 235
nozione del paesaggio si scompone in diversi livelli percettivi «che
a loro volta rinviano a stati di coscienza inquieti e tormentati»21.
Tracciando solo una rapida panoramica dei diversi modi di sentire
il paesaggio, prendiamo abbrivio dalla poesia del Pascoli che, nonostante
quanto asserito nella Prefazione a Myricae – in polemica col
Leopardi, raffigurare benevolmente la natura, «madre dolcissima» e
«affidabile» –, delinea un’entità ambigua, precaria ed illusoria,
dicotomica per l’opposizione tra volontà consolatoria e verità perturbante
e perturbata (Digitale purpurea), tra campagna-infanzia e cittàmaturità,
tra il desiderio di pace dell’anima ed i profondi traumi
della psiche. Termine di paragone dell’esistenza umana (X Agosto), la
natura non consola e non cancella lo shock del lutto subito e la sofferta
percezione della vita come estranea ed instabile. Secondo il gusto
decadente, il paesaggio del Pascoli è attraversato dalla malattia, dalla
duplicità, dall’orrido, dalla desolazione e dalla morte (Novembre, Gattici,
Il vischio, La bicicletta), da una statica atemporalità (Il gelsomino notturno,
L’assiuolo). Avvalendosi di un linguaggio impressionista, il poeta
sovverte l’imago canonica di natura potente generatrice per setacciarla
continuamente attraverso il filtro dell’esperienza soggettiva.
L’identificazione panica tra umanità e natura è cifra della dannunziana
Alcyone: l’uomo si naturalizza e la natura si antropomorfizza.
L’Io sparisce per dissolversi nella natura, i tratti oggettivi del
paesaggio vengono trasfigurati in stati d’animo (La sera fiesolana).
Ma anche per d’Annunzio l’aura salvifica del creato è connotato
della sua estraneità all’individuo, della distanza tra vagheggiamento
dell’Eden, ormai perduto, e disincanto verso un’attualità incapace
di riscattare l’uomo22.
Peculiarità del paesaggio moderno è, dunque, l’esigenza di soggettività
dell’osservatore, lo scomporsi dell’oggetto in molteplici punti
di vista, manifestazioni complesse di contraddizioni e problematiche
storico-sociali.
Il paesaggio, per fare soltanto qualche esempio significativo, è
multiforme e variegato come le immagini che ne scaturiscono: sim-
21 M. Vitta, Il paesaggio. Una storia fra natura e architettura, cit., p. 269.
22 La locomotiva e la strada ferrata sono il simbolo della crisi del rapporto
uomo-territorio. Il treno, infatti, rappresenta la modernità e il progresso laceranti,
come una ferita, un paesaggio fino a quel momento amico. Si rilegga in
proposito: «Fragoroso, veloce e sinistro, il treno passò gittandogli in faccia il
vento della corsa; e fischiando e rombando scomparve nella bocca della galleria
opposta, che fumigò nera nel sole» (G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, Milano,
Mondadori, 1964, p. 147).
236 DORA MARCHESE [11]
23 Cfr. al riguardo: D. Marchese, Paesaggi della modernità. Spazio urbano e spazio
esistenziale nella novellistica pirandelliana, in Moderno e modernità: la letteratura italiana,
XII Congresso nazionale ADI (Roma, 17-20 settembre 2008), a cura di C.
Gurreri, A.M. Jacopino, A. Quondam, redazione elettronica E. Bartoli, 2009.
24 Da Un’idea: «Lasciata la solita compagnia nel caffè (tra i lumi e gli specchi
pieni di fumo) si trova davanti la notte: vitrea, quasi fragile nella purezza degli
astri sfavillanti sulla vastissima piazza deserta. Attraversarla, gli pare impossibile;
la vita, in cui deve rientrare, irraggiungibilmente remota da essa; e tutta la
città, come da secoli disabitata, coi fanali che ancora la vegliano nel chiarore
misterioso di quella gelida azzurità notturna. Impossibile il rumore dei suoi
passi in quel silenzio che pare eterno». Da Alberi cittadini: «Sotto il duro lastrico
opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi
fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani,
di voi sperduti fra il trambusto della città. Sotto le case innumerevoli che la
schiacciano, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti, ella vive,
e voi sentite con le radici l’ardore di questa sua novella vita che non sa tenersi
nascosta e schiuma quasi di tra le selci in tenui fili d’erba. Ah, voi forse, mirando,
quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre
vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e
la vita diventare un prato e la città campagna!”» (L. Pirandello, Novelle per un
anno, prefazione di C. Alvaro, Milano, Mondadori, 1969, pp. 791, 1117).
25 «L’alba sorgeva rapida nel cielo e nella prima luce liquida e fresca la
grande aia pareva una piazza, coi reparti lastricati per stendervi a seccare le
granaglie, e lo spazio terreno per le galline: e la donna si compiacque di guardare
intorno sognando i giorni della raccolta» (G. Deledda, Annalena Bilsini, in
Romanzi e novelle, a cura di N. Sapegno, Milano, Mondadori, 1971, p. 543).
26 «Risalivo la strada della collina e gli antichi sentieri di verde e di muriccioli,
via via che sorgevano alle svolte, mi parevano finti. Tanto tempo ne ero vissuto
lontano ripensandoci appena in certi istanti svagati, che la loro attualità materiale
mi faceva ora soltanto l’effetto di un simbolo del passato» (C. Pavese, Villa
in collina, in Racconti, Torino, Einaudi, 1960, p. 227).
27 «In uno spiraglio delle vicine rupi, già ricoperte di buio, dietro una caotica
scalinata di creste, a lontananza incalcolabile, immerso ancora nel rosso sole del
tramonto, come uscito da un incantesimo, Giovanni Drogo vide allora un nudo
colle e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale
colore giallastro: il profilo della Fortezza» (D. Buzzati, Il deserto dei Tartari,
Milano, Mondadori, 1945, p. 12).
28 «Alberi dalle fronde di cenere, d’un verde spento. Poi sugheri. Somigliano
all’ulivo dal fogliame un po’ più canuto, un po’ più arruffato, ma hanno tronchi
che sanguinano» (E. Vittorini, Sardegna come un’infanzia, Milano, Mondadori,
1945, p. 22).
29 «Per terra sotto gli alberi del bosco, ci sono prati ispidi di ricci e stagni
bolo dell’insensatezza della vita umana e del divario città-campagna23,
in Pirandello24, proiezione delle proprie speranze, nella Deledda25,
memoria idealizzata del passato, in Pavese26, descrizione di
luoghi non reali, in Buzzati27, specchio della crudeltà dell’uomo, in
Vittorini28, categoria del fantastico e dell’emozionale, in Calvino29.
POLISEMIA DEL PAESAGGIO: DAL ROMANTICISMO ALL’ETÀ MODERNA 237
Del resto, ha osservato Amiel, le forme della natura si offrono
solo all’«oeil qui sait les voirs», e che l’«âme» dissimulata da quelle
sembianze è «devinée par le poéte», per concludere con la celebre
riflessione: «Un paysage quelconque est un état de l’âme»30.
Dora Marchese
(Università di Catania)
[11]
secchi di foglie dure. A sera lame di nebbia si infiltrano tra i tronchi dei castagni
e ne ammuffiscono i dorsi con le barbe rossiccie dei muschi e i disegni
celesti dei licheni» (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Romanzi e racconti,
a cura di M. Barenghi – B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, vol. I, p. 68).
30 H.F. Amiel, Fragments d’un journal intime, a cura di E. Scherer, Geneve,
Georg, 191512, p. 62.
VALENTINO BALDI
Novelle dall’incubo. Immaginario onirico
e strutture simmetriche in Berecche e la guerra
e Una giornata
This essay focuses on the short stories written by Pirandello since
1929 and published in the two last editions of Novelle per un anno.
By connecting a psychoanalytical approach – that starts from Freud
and leads to Matte Blanco – to a detailed historical reconstruction
of Pirandello’s travels to Berlin and Paris, Baldi rejects the definition
‘novelle surreali’ because in these short stories the emerging of the
subconscious does not efface reality but leads to a new and different
kind of “realism of presentation”.
1. La produzione novellistica è una costante nella vita letteraria
di Luigi Pirandello. Come noto, salvo un’interruzione legata al suo
impegno teatrale che va dal 1926 al 1930, l’autore siciliano ha scritto
novelle in un arco di tempo compreso tra il 1884 (la novella La
capannetta) fino al dicembre 1936 (si tratta della novella Effetti di un
sogno interrotto). Nel 1922 Pirandello elabora un progetto di organizzazione
complessiva del suo corpus novellistico, subito dopo la realizzazione
dei Sei personaggi in cerca d’autore.
Il progetto di stesura ed organizzazione è metodicamente curato
dal suo autore, ciononostante è quasi impossibile individuare un
minimo comune denominatore all’interno della raccolta. Pirandello
tiene a precisare che la struttura complessiva del corpus non rispecchia
l’ordine «né delle stagioni, né dei mesi, né di ciascun giorno
dell’anno»1. Nonostante simili dichiarazioni di poetica, l’autore
si è dedicato ad una precisa organizzazione, operazione che ha previsto
la ripresa, ma anche l’esclusione di testi del passato. Romano
Luperini sostiene che il senso dell’operazione pirandelliana non offre
leggi definite, ma si costruisce sull’assenza
1 L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1997, I, p. 1071.
[2] NOVELLE DALL’INCUBO 239
Di un “significato universale” c’è l’esigenza, non l’intima struttura. Siamo,
come si vede, nello stesso clima da cui è nato Sei personaggi in cerca
d’autore, nell’ambito di quella poetica sostanzialmente allegorica di cui
si parla nella Prefazione di quest’opera. L’ordine allegorico è sostanzialmente
negativo e vuoto: chiude una molteplicità di frantumi la cui
legge, in assenza di un superiore ordine interpretativo, non può che
essere quella del caso e del caos. La mancanza di un criterio intrinseco
di organizzazione del materiale risponde appunto a questa legge2.
La ricerca di Luperini si concentra sull’aspetto imprevedibile che
l’ordine delle novelle assume, specchio dell’imprevedibilità del tempo
della vita: «uno scialo di triti fatti, privi di qualità, esattamente
come gli antieroi che ne sono i protagonisti»3. La sola possibilità è
quella di ritrovare motivi e caratteristiche comuni a tutta l’opera e
procedere in questo monumento «dell’allegorismo moderno, vuoto
e negativo, e tuttavia ancora animato da un’esigenza di quête»4.
Nel presente lavoro verrà seguita un’altra strada per l’analisi
delle Novelle per un anno che si basa, in prima istanza, sulla ricerca
e l’analisi dei sogni. Nella seconda parte si tenterà di ampliare il
discorso sul sogno per riflettere in generale sull’apporto della logica
dell’inconscio nella produzione narrativa pirandelliana. La scelta
preliminare del tema onirico ha una motivazione forte. Il sogno
fornisce un punto di osservazione privilegiato del profondo dei
personaggi: è un momento di manifestazione dell’inconscio che il
narratore traduce in linguaggio. Attraverso l’interpretazione si cercherà
di superare l’oscurità delle manifestazioni oniriche per coglierne
il contenuto latente ed in secondo luogo si considererà l’influenza
che i sogni hanno anche a livello strutturale nelle novelle.
Come verrà specificato anche in seguito, Pirandello non è un narratore
di sogni per antonomasia. Rispetto all’opera narrativa di Svevo
e di Tozzi il numero dei racconti di sogno è inferiore, soprattutto nei
romanzi. Ci sono però due fattori da individuare, i quali confermano
l’opportunità di uno studio del materiale onirico nelle sue novelle.
Il primo è quello che Claudia Nobili ha definito un regime onirico
diffuso: se pochi sono i sogni e gli incubi notturni c’è comunque un
fitto «brusio di fondo»5 costituito da sogni ad occhi aperti, allucina-
2 R. Luperini, Pirandello, Bari, Laterza, 2000, p. 139.
3 Ibidem.
4 Ivi, p. 140.
5 C.S. Nobili, Pirandello: una «conversione» al sogno, in Nel paese dei sogni, a
cura di V. Pietrantonio e F. Vittorini, Firenze, Le Monnier, 2003, p. 99.
240 VALENTINO BALDI [3]
zioni, fantasticherie che comunicano un clima di sospensione onirica
all’interno di tutta la raccolta novellistica.
Il secondo fattore di interesse è rappresentato dalle novelle composte
da Pirandello dopo il 1929, in seguito a quel periodo di interruzione
narrativa di quattro anni in cui l’autore si dedica quasi esclusivamente
alla produzione teatrale. Sono novelle composte a Parigi,
Berlino, Roma e New York e poi confluite, assieme ad alcuni testi
precedenti, nelle ultime due raccolte Berecche e la guerra e Una giornata.
In queste due sezioni non solo si registra un aumento
quantitativo di descrizioni ed immagini di sogni, ma anche a livello
strutturale la dimensione onirica diventa a dir poco preponderante.
Il piano inconscio entra in cortocircuito con la vita vissuta e la contamina
con la propria logica simmetrica, di cui i sogni sono primaria
espressione. Effetti di un sogno interrotto, Soffio, C’è qualcuno che ride,
Visita, Una giornata sono casi emblematici (e non sono gli unici) di
questa nuova scrittura pirandelliana: anche le novelle che non presentano
esplicitamente sogni spesso hanno la struttura di un incubo,
di un racconto apparentemente fantastico che segue una logica simmetrica,
per definizione inconciliabile con le leggi della realtà.
Non a caso queste novelle, diciannove in tutto (composte dal
1931 al 1936), vengono da buona parte della critica definite come
«novelle surreali»6, mentre la Nobili parla di un «clima fantastico, al
limite tra sogno e realtà»7. Cercherò di dimostrare che le etichette
critiche di surrealismo o racconto fantastico non sono adeguate a
questa produzione quando applicate rigidamente. Il vasto apporto
di logica simmetrica non conduce al di fuori del realismo, come
apparentemente potrebbe sembrare, ma, al contrario, amplierà le
possibilità di mimesi della realtà.
2. La novella Tu ridi, pubblicata per la prima volta sul «Corriere
della sera» nel 1912, ha trovato sistemazione definitiva nelle Novelle
per un anno nel 1924 e fa parte della sezione intitolata Tutt’e tre8.
6 Cfr. Le novelle di Pirandello. Atti del VI Convegno Internazionale di Studi
Pirandelliani, a cura di S. Milito, Agrigento, Edizioni del Centro Nazionale di
Studi Pirandelliani, 1980 (in particolare il saggio di G. Petronio, p. 226). Si
vedano anche gli studi di R. Luperini, Pirandello, cit. p. 152; A. Leone De
Castris, Storia di Pirandello, Bari, Laterza, 1997; C.S. Nobili, Pirandello: una
«conversione» al sogno, cit.
7 C.S. Nobili, Pirandello: una «conversione» al sogno, cit., p. 101.
8 Tutte citazioni successive sono tratte da L. Pirandello, Novelle per un
anno, cit. I riferimenti di pagina verranno riportati direttamente nel testo.
[4] NOVELLE DALL’INCUBO 241
La novella, oltre ad essere la prima a presentare per esteso una
descrizione onirica, svolge tutta la propria diegesi intorno alla
tematica del sogno. Il titolo è frastico e riproduce la battuta del
dialogo d’apertura: Anselmo è condannato ogni notte a subire i
rimproveri della moglie che lo sveglia accusandolo di ridere nel
sonno, «– Tu ridi!» (vol. II, p. 391). Questa circostanza, apparentemente
umoristica, si rivela un vero dramma per il protagonista che
si vede furiosamente attaccato dalla propria moglie per le sue –
presunte peccaminose – evasioni notturne.
Tutte le spiegazioni che Anselmo cercherà di elaborare risulteranno
sempre insufficienti, soprattutto poiché egli non è consapevole
di sognare
Era sicuro, sicurissimo il signor Anselmo di non aver mai fatto alcun
sogno, che potesse provocare quelle risate. Non sognava affatto! Non
sognava mai! Cadeva ogni sera, all’ora solita, in un sonno di piombo,
nero, duro e profondissimo, da cui gli costava tanto stento e
tanta pena destarsi! […]
E dunque, escluso il diavolo, esclusi i sogni, non restava altra spiegazione
di quelle risate che qualche malattia di nuova specie; forse
una convulsione viscerale, che si manifestava in quel sonoro sussulto
di risa (vol. II, p. 395).
L’ipotesi patologica («convulsione viscerale») come fonte di sogno
non è una innovazione. Freud stesso testimonia, proprio in
apertura de L’interpretazione dei sogni, che l’influenza degli stimoli
sensoriali esterni ed interni sul sogno fosse già nota alla letteratura
medica dell’Ottocento9.
Non giova al protagonista neanche la consultazione di un giovane
dottore. L’incontro è interessante perché fornisce occasione a
Pirandello di ironizzare sulla “cultura” dei sogni. Il medico espone
ad Anselmo le «teorie più recenti e accontate sul sogno e sui sogni»
(p. 396). Non viene specificata purtroppo la natura di tali teorie, ma
il narratore appare piuttosto sarcastico sulle capacità del medico:
«infarcendo il discorso di tutta quella terminologia greca che fa così
rispettabile la professione del medico» (p. 396).
Anselmo, forte delle spiegazioni mediche, è sicuro di sognare
cose liete, ma la sua illusione è destinata a crollare. Proprio sul
finale della novella è finalmente descritto il suo sogno
9 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, Torino, Bollati Borighieri, 1977,
III, p. 23 e sgg.
242 VALENTINO BALDI [5]
Ecco: vedeva un’ampia scalinata, per la quale saliva con molto stento,
appoggiato al bastone, un certo Torella, suo vecchio compagno
d’ufficio, dalle gambe a roncolo. Dietro al Torella, saliva svelto il suo
capo-ufficio, cavalier Ridotti, il quale si divertiva crudelmente a dar
col bastone sul bastone di Torella che, per via di quelle sue gambe
a roncolo, aveva bisogno, salendo, d’appoggiarsi solidamente al bastone.
Alla fine, quel pover’uomo di Torella, non potendone più, si
chinava, s’afferrava con ambo le mani a un gradino della scalinata e
si metteva a sparar calci, cercava di cacciare la punta del suo crudele
bastone nel deretano esposto del povero Torella, là, proprio nel
mezzo, e alla fine ci riusciva.
A tal vista il signor Anselmo, svegliandosi, col riso rassegnato d’improvviso
sulle labbra, sentì cascarsi l’anima e il fiato. Oh Dio, per
questo dunque rideva? per siffatte scempiaggini? (pp. 397-398).
Meglio non essere precipitosi e cercare di capire il contenuto
latente del sogno e, soprattutto, la sua funzione nella novella. Il
narratore onnisciente non fornisce dati sufficienti all’interpretazione:
non conosciamo i particolari della vita del personaggio, né gli
eventi diurni che avevano preceduto la manifestazione. Sembra che
il narratore lasci volutamente l’evento in una dimensione di sospensione:
«Gli avvenne una volta, per combinazione» (p. 397). L’effetto
ottenuto è quello di sottolineare la ricorrenza del sogno in questione:
Anselmo non ha ricevuto particolari stimoli diurni, comunque il
narratore li cela perché non è su simili fattori che concentra la propria
attenzione. Lo stesso discorso riguarda i due personaggi protagonisti
della manifestazione: Torella e il cavalier Ridotti.
È solo nel sogno che entrambi compaiono per la prima volta
nella novella. Non disponiamo di altri particolari circa la loro professione
ed il loro rapporto con Anselmo: il sogno è allora “letteraturizzato”.
Pirandello non riporta in presa diretta le immagini
oniriche, ma le spiega nel momento stesso in cui le utilizza, servendosi
di un narratore onnisciente a focalizzazione interna. Ecco perché
il sogno è mediato dal narratore e non descritto attraverso le
parole del sognante, ulteriore caratteristica che crea non pochi problemi
interpretativi.
Secondo una prima lettura, piuttosto superficiale, il sogno presenta
delle immagini di sodomia: il cavalier Ridotti cerca di infilare
la punta del proprio bastone nel deretano di Torella, collega di
Anselmo. Che sia un sogno marcatamente erotico lo denuncia anche
la simbologia della descrizione: entrambi i personaggi hanno in mano
un bastone e la scena si svolge su delle scale che, se salite o discese
nel sogno, possono alludere al coito. Questi simboli si realizzano
[6] NOVELLE DALL’INCUBO 243
durante lo svolgimento dell’azione: Torella subisce effettivamente
una violenza da parte del cavaliere. In base a quanto il narratore
comunica possiamo notare che Torella, l’elemento passivo del sogno,
si trova socialmente sullo stesso livello di Anselmo: è un suo
collega d’ufficio, mentre il cavalier Ridotti è più alto in grado. Torella
potrebbe essere, allora, un doppio di Anselmo. Se si effettua questo
spostamento Anselmo, oltre che protagonista della novella, sarebbe
anche il protagonista del proprio sogno: è lui, allora, che subirebbe
la violenza del cavaliere. Ma questa interpretazione non può essere
altro che un’ipotesi, poiché l’interprete non dispone del numero
minimo di informazioni utili per decodificare il contenuto latente
della manifestazione.
È utile notare, comunque, che Anselmo ha due distinte reazioni
al sogno: mentre dorme, quando ancora il sogno è in fieri, egli ride
rumorosamente; una volta sveglio riflette su quello che ha visto con
«spirito filosofico» e si spiega la manifestazione come un insieme di
semplici «sciocchezze» (p. 398).
Il sogno non sembra esattamente una sciocchezza, ma quasi un
mezzo di evasione per Anselmo. La chiave di lettura, infatti, non è
da cercarsi nella sua struttura interna, bensì nelle poche informazioni
che il narratore concede sulla vita del protagonista.
Anselmo conduce un’esistenza misera di cui è tristemente consapevole:
vittima della moglie e costretto a vivere nell’onta di una
nuora che ha abbandonato i cinque figli dopo la morte del marito.
Come accade a molti personaggi sia nelle novelle che nei romanzi
di Pirandello è un uomo schiacciato da un destino così drammatico
da divenire tragicomico10. Egli, disperato nella vita, si rallegra di
essere felice almeno in sogno.
La felicità di Anselmo è data dalla possibilità di fuga dalla miseria
della propria esistenza che le immagini oniriche gli forniscono.
Anselmo, in sogno, vede Torella subire una violenza e reagisce ridendo
istintivamente a causa dell’effetto comico della scena. Quando
però è sveglio e riflette il suo riso si smorza: il comico si trasforma
in umoristico.
In questa manifestazione onirica il tema del doppio e la poetica
dell’umorismo si fondono. Anselmo vede nel sogno un altro sé stesso
che subisce una violenza umiliante. Una volta sveglio riconosce
nella comica penetrazione onirica il simbolo di tutta la miseria della
10 Per il destino di miseria a cui sono sottoposti i personaggi pirandelliani
cfr. G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1981.
244 VALENTINO BALDI [7]
propria esistenza, passando così dall’avvertimento del contrario al
sentimento del contrario. Nel saggio L’umorismo c’è un passo che
stigmatizza perfettamente il rapporto tra riso e ri-flessione di e su sé
stessi: «Riassumendo: l’umorismo consiste nel sentimento del contrario,
provocato dalla speciale attività della riflessione che non si
cela, che non diventa, come ordinariamente nell’arte, una forma del
sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il sentimento
come l’ombra segue il corpo»11.
Il sogno, offrendo ad Anselmo la possibilità di guardarsi vivere,
rappresenta per il personaggio un meccanismo di desensibilizzazione
alla miseria del vivere. Solo nel suo inconscio il protagonista riesce
a trarsi fuori dal circolo della vita, a ri-flettere su sé stesso; l’unica
conseguenza di questo processo è il riso, prima comico e poi umoristico.
Il sogno della novella Tu ridi ha lo stesso valore che il fischio del
treno assumeva per il protagonista de Il treno ha fischiato…: una evasione
dalla vita che solo chi riesce a guardarsi vivere può ottenere.
Interpretando il ruolo che l’evento onirico assume nella novella
è possibile estrapolare uno dei temi più importanti della narrativa
di Pirandello che rischiava di rimanere sommerso da una lettura
superficiale dell’evento. Non è un caso, quindi, che la novella abbia
un finale aperto con la domanda: «Come avrebbe potuto ridere
altrimenti?» (p. 398). Non è una domanda retorica, bensì uno stimolo
per il lettore a interrogarsi sulla vera ragione del riso notturno di
Anselmo e dunque sul reale valore che il suo sogno ricorrente viene
ad assumere.
Una simile “letteraturizzazione” del sogno si riscontra nella
maggior parte delle Novelle per un anno. Mi riferisco ad episodi
come Il vecchio Dio, in cui il protagonista dialoga in sogno con un
Dio ormai stanco ed invecchiato. Anche questo lungo monologo,
proprio come il sogno di Anselmo, è esente da qualsiasi tentativo di
mimesi onirica. La scrittura è piana e sorvegliata, le riflessioni del
Dio sono chiare e seguono una precisa consecuzione logica. Come
per la precedente novella è chiaro che Pirandello non sia ancora
interessato ad un lavoro volto a rendere realisticamente le manifestazioni
dell’inconscio. Simile struttura presenta la manifestazione
onirica contenuta nella novella Padron Dio, pubblicata per la prima
volta nella «Rassegna settimanale universale» nel 1898. Nonostante
11 L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, Poesie, Pagine sparse, Milano, Mondadori,
1977, p. 160.
[8] NOVELLE DALL’INCUBO 245
questo testo faccia parte della sezione Una giornata non corrisponde,
per stile e contenuto, al tenore letterario delle novelle successive al
1929. Il narratore è in terza persona ed onnisciente e descrive la vita
misera e vagabonda del contadino Giudè. La lunga manifestazione
onirica in cui Giudè immagina il proprio campo di grano è poco
più che l’espressione di desideri diurni. Non c’è il minimo tentativo
di riprodurre l’ondeggiamento misterioso ed assurdo delle manifestazioni
dell’inconscio. La struttura è classica e il finale della novella
dimostrerà il carattere semplicemente profetico del sogno. Bisognerà
attendere altri testi, composti in un differente clima culturale, per
riscontrare dei sogni che permetteranno di aprire il discorso alla
logica simmetrica.
3. La sezione intitolata Candelora raccoglie una novella in cui è
narrata un’interessante manifestazione onirica. Il titolo denuncia
subito una nuova tendenza: La realtà del sogno. Il testo è pubblicato
per la prima volta nel 1914 sulla rivista «Noi e il mondo», ma trova
la sua sistemazione definitiva in Novelle per un anno solo nel 1928.
A differenza degli esempi precedenti il sogno non è oscuro, non
necessita neanche di una vera interpretazione. È però una testimonianza
importante per un autore come Pirandello, apparentemente
piuttosto distante da qualsiasi forma di mimesi onirica.
Tutta la novella è percorsa da un’atmosfera quasi rarefatta. Il
narratore onnisciente fornisce numerosi particolari sulla vita dei
propri personaggi e occupa la maggior parte dello spazio narrativo.
La prima parte della novella è condotta secondo un andamento
sintetico con un’analessi sulla vita della protagonista femminile, il
cui nome non viene mai rivelato. La donna, sposata ad un marito
bello, ma irritante, vive con estrema difficoltà il rapporto con l’altro
sesso. L’analessi sulla sua infanzia dimostra come le sue paure fossero
il risultato del comportamento del padre: «più geloso d’una
tigre» (vol. III p. 481) e possessivo tanto da inculcarle un vero terrore
degli uomini.
Anche se ormai libera dall’influenza paterna, la protagonista porta
ancora le stimmate di una simile educazione: «sosteneva che fosse
una fissazione in lei l’impaccio, l’imbarazzo che diceva di provare
davanti a tutti gli uomini» (p. 480). È interessante che, a differenza
di quanto di solito accada di fronte a problemi psichici, la donna
riconosca chiaramente le cause della propria isteria: «Grazie al padre,
doveva star chiusa, senza veder nessuno, per non provare almeno
il dispetto di quello stupidissimo, ridicolissimo imbarazzo più
246 VALENTINO BALDI [9]
forte di lei» (p. 481). Il rapporto tra moglie e marito è spesso incrinato
da simili problemi della donna, che non accetta quasi nessun
uomo in casa.
È proprio in occasione di una (rara) visita di un vecchio amico di
famiglia, che una conversazione accende l’interesse della protagonista.
Durante il dialogo l’uomo sostiene che le donne che si dimostrano
più pudiche sono quelle che in realtà più hanno da nascondere
il proprio vero temperamento sensuale. Il sospetto che quelle
asserzioni potessero corrispondere al vero è confermato proprio da
una manifestazione onirica: «Fu nel sogno la rivelazione» (p. 486).
In estremo contrasto con la vita della donna, il suo sogno è
estremamente sensuale: esso si configura come una sfida erotica tra
la protagonista e l’amico del marito. Quasi continuando la conversazione
precedente, l’uomo in sogno pretende una dimostrazione di
pudore da parte della donna: «ella doveva dimostrargli che non
avrebbe arrossito di nulla; che egli poteva fare su lei qualunque
cosa gli piacesse; ch’ella non si sarebbe né turbata né punto scomposta
» (p. 486). Le carezze dell’amico si fanno sempre più intime:
«Le passava prima lievemente una mano sul volto. Al tocco di quella
mano ella faceva uno sforzo violento su sé stessa per nascondere il
brivido che le correva per tutta la persona, e non velare lo sguardo
e tener fermi e impassibili gli occhi e appena sorridente la bocca»
(p. 486). Le difese della donna cedono e, sempre in sogno, si lascia
travolgere da una passione peccaminosa, ma fortemente bramata.
Proprio nell’apice del climax erotico la donna si sveglia, «convulsa,
disfatta, tremante» (p. 487). Il sogno le ha svelato una natura repressa:
il desiderio di tradimento che aveva covato per anni. L’aspetto
più interessante, però, non è rappresentato dalla manifestazione
onirica, estremamente chiara e interpretabile, ma dalle sue conseguenze
nella vita diurna. La protagonista, da sveglia, rivive le immagini
oniriche come un tradimento reale, è incapace di scindere il
mondo della manifestazione del proprio inconscio dalla realtà.
La vicenda, naturalmente, precipita nell’ultimo incontro tra il
marito ed il suo amico. La donna viene colta da una crisi isterica e
nel momento in cui viene soccorsa dai due uomini la «realtà del
sogno» irrompe con violenza
I due uomini si precipitarono nella camera; restarono un istante
atterriti alla vista di lei che si contorceva per terra come una serpe,
mugolando, ululando; il marito si provò a sollevarla; l’amico accorse
ad ajutarlo. Non l’avesse mai fatto! Sentendosi toccata da quelle
mani, il corpo di lei, nell’incoscienza, nell’assoluto dominio dei sensi
[10] NOVELLE DALL’INCUBO 247
ancor memori, prese a fremere tutto, d’un fremito voluttuoso; e,
sotto gli occhi del marito, s’aggrappò a quell’uomo, chiedendogli
smaniosamente, con orribile urgenza, le carezze frenetiche del sogno
(pp. 488-89).
La manifestazione onirica non influenza soltanto la psiche della
donna, ma è capace di agire sul suo corpo, diventando di una concretezza
oscena.
Il sogno di questa novella è una prova del ruolo che le manifestazioni
oniriche possono assumere all’interno di un’opera narrativa.
Il personaggio che sogna è colto nel momento di massima intimità,
nell’attimo in cui le sue difese sono abbassate. La scelta del
narratore onnisciente, che media il racconto onirico attraverso le
proprie parole, è un modo per ovviare alla caduta delle barriere
della repressione, ma nel contempo permette al lettore uno sguardo
più approfondito nella psiche dei personaggi.
La novella risulta di estrema importanza perché in essa sono
contenute almeno due questioni che si ritrovano anche in autori
contemporanei a Pirandello come Svevo e Tozzi: la contaminazione
tra sogno e realtà ed il rapporto tra follia e sogno.
Si noti, a questo proposito, che la seconda questione può influenzare
e spiegare anche la prima. L’incapacità di scindere il mondo
del proprio inconscio da quello della realtà è sintomo di patologia
schizofrenica. Molti dei personaggi che popolano le novelle di Tozzi,
ad esempio, sono affetti da tale patologia e subiscono un’influenza
fortissima da parte di sogni e allucinazioni. Pirandello è perfettamente
consapevole di questa possibilità anche se la sua terminologia
non è ancora aggiornata: «Tutti, dormendo, siamo folli. Ai
folli il sogno dura anche coi sensi svegli»12.
Nella novella La realtà del sogno la protagonista è una donna
evidentemente disturbata, preda di crisi isteriche e il suo sogno le
permette di concretizzare un attimo epifanico emerso casualmente
durante una conversazione. La donna, però, non è capace di scindere
l’agnizione dei propri sentimenti reali dall’immagine onirica di
tradimento. Il sogno, manifestazione inconscia, viene estroiettato e
diventa tangibile prova di infedeltà: «Non esisteva nel fatto, per
quell’altro, il tradimento; ma era stato e rimaneva qua, qua, per lei,
nel suo corpo che aveva goduto, una realtà» (p. 490).
Ci troviamo in un punto di snodo importante e le novelle suc-
12 L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura di B. Ortolani, Milano, Mondadori,
1993, p. 208.
248 VALENTINO BALDI [11]
cessive dimostreranno che questo caso non è un evento isolato, ma
denuncia una nuova strada che Pirandello comincia ad intraprendere
nella propria produzione novellistica. Lungi dal ricercare una
spiegazione nella patologia dei personaggi, quindi, sarà importante
capire il peso che simili meccanismi assumeranno nella produzione
narrativa dello scrittore siciliano.
La realtà del sogno è infatti seguita da due novelle che approfondiscono
il problema del rapporto tra dimensione onirica e stato di
veglia. Mi riferisco ai racconti Piuma e Servitù.
Il confine tra sogno e realtà si assottiglia e risulta sempre più
difficile orientarsi in simili territori. In Servitù leggiamo «Perché era
come in un sogno Nenè da due ore, sospesa, quasi angosciata nel
dubbio che non fosse vero ciò che pur si vedeva attorno e toccava»
(vol. III, p. 524). La protagonista di Piuma, una donna tormentata da
un male sconosciuto e incurabile, vive nello stesso stato di sospensione:
«la vita esterna s’era come assordita in lei» (vol. III, p. 492).
In questa condizione il tempo non esiste più: può accadere che il
passato si fonda con il sogno e costituisca l’unica realtà che ormai
i personaggi riconoscano: «nel sogno così, anche a occhi aperti,
dov’ella perennemente viveva, venivano a nutrirla in abbondanza i
ricordi che per lei erano vita» (pp. 494-95). O addirittura accade che
si venga a sovvertire l’ordine cronologico, contribuendo al dissolvimento
della realtà fisica: «Diventava sempre più magra, questo sì;
[…] pur senza sformarsi, pur senza perdere, anzi acquistando sempre
più una sua certa grazia infantile, per cui pareva non tanto
dimagrisse, quanto si rimpicciolisse tutta a mano a mano che il
tempo passava, quasi che, per prodigio, dovesse uscir di vita non
già dalla vecchiaia, ma dall’infanzia, a ritroso» (pp. 492-93). La protagonista,
Amina, è quasi incompatibile con la realtà: «La grossolanità
goffa dei corpi, non solo del marito, ma di quanti le s’accostavano
al letto era ormai ai suoi occhi, a tutti i sensi acutissimi, d’una
gravezza insopportabile e cagione di ribrezzo e qualche volta anche
di terrore» (p. 495). Gli odori dei corpi e dei fiati, il peso quasi
tangibile degli sguardi, gli stessi sentimenti degli altri le risultano
intollerabili.
È interessante che, secondo Debenedetti, Pirandello abbia deformato
i tratti fisici dei personaggi proprio a partire dalle ultime
raccolte di novelle, in particolare in quelle contenute in Una giornata13.
Siamo davanti ad una tendenza non solo tematica, ma anche
13 G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 442 e sgg.
[12] NOVELLE DALL’INCUBO 249
stilistica che lo scrittore siciliano intraprenderà nella fase finale della
sua carriera. In questo tragitto il ruolo sempre più preponderante
che la logica dell’inconscio assumerà nelle novelle troverà massima
espressione in Berecche e la guerra e in Una giornata.
4. Esiste una differenza sostanziale fra novelle come Tu ridi e Il
vecchio Dio da un lato e La realtà del sogno dall’altro. Il sogno di
Anselmo e il suo riso notturno sono una «stupidaggine», il monologo
del vecchio Dio viene interrotto dal sagrestano. In entrambi i
casi la realtà diurna, sospesa durante il sogno, può tornare a scorrere
indisturbata. Con La realtà del sogno nulla sarà più come prima.
La realtà non chiude più il cerchio, non relega la manifestazione
inconscia in una dimensione notturna e definita. Il reale è contaminato
e si confronta con una manifestazione privata, ma sorprendentemente
concreta. È questa la strada che verrà perseguita da Pirandello
nelle ultime due raccolte che compongono le Novelle per un
anno.
Giacomo Debenedetti ha licenziato delle pagine che illustrano
magistralmente il fenomeno dell’incursione dell’inconscio nella vita
dei personaggi del Novecento
l’oltre, il di là da sé stessi, l’Altro, insomma, si accorge bruscamente
che l’Io normale ha sempre violato le clausole della tregua, della
coabitazione, in quanto ha preso l’abitudine, diciamo pure il colpevole
ed egoistico vizio, di confinare l’Altro, in una zona negletta e
spregiata, costringendolo al silenzio e all’ombra, addirittura alla clandestinità
[…]14.
Se per Anselmo, il protagonista di Tu ridi, era ancora possibile
scrollare le spalle e definire l’oscuro e osceno prodotto del proprio
inconscio come una stupidaggine, per i personaggi successivi questo
non accadrà più.
Molte delle novelle composte a partire dal 1929 proseguono il
discorso intrapreso con il personaggio di Amina in Piuma e di Nenè
in Servitù: sono testi in cui non è più possibile reprimere l’inconscio,
ma che al contrario ne vengono investiti e ne subiscono la contaminazione
sia da un punto di vista strutturale che tematico.
L’osservatorio dei sogni ha rappresentato un punto di vista importante
per seguire questa evoluzione nella narrativa pirandelliana
che la studiosa Claudia Nobili ha definito una vera e propria «con-
14 Ivi, p. 453.
250 VALENTINO BALDI [13]
versione» al sogno15. Le riflessioni della Nobili costituiscono un
prezioso ed imprescindibile riferimento per questo studio, ma credo
che sia arrivato il momento di superare la prospettiva tematica del
sogno: è possibile individuare un più generale regime logico simmetrico
diffusivo che opera nell’ultima produzione narrativa di
Pirandello.
5. A partire dal 1926 Pirandello si dedica unicamente all’attività
teatrale, interrompendo per la prima volta la stesura e la pubblicazione
di novelle. La sua attività di scrittore riprenderà solo nel 1931
quando darà alle stampe due nuove novelle: Uno più uno e Soffio.
In quegli anni Pirandello non vive in Italia, bensì prima a Berlino
(dal dicembre 1929 al giugno del 1930) e poi a Parigi (dal dicembre
1930 fino al marzo del 1932). Sono anni che Pirandello stesso ha
definito di “esilio volontario” e, in effetti, dal confronto con gli
epistolari emerge spesso il desiderio di ritornare in patria16. Molte
delle novelle comprese in Berecche e la guerra e Una giornata sono
state composte proprio a Parigi, città agitata dalle avanguardie e in
cui Pirandello ha intrecciato una serie di rapporti che hanno modificato
profondamente il suo modo di rapportarsi alla letteratura.
Prima influenza decisiva è il Surrealismo, il cui secondo manifesto
verrà pubblicato a Parigi proprio nel 1930. Come è noto il padre
del movimento, André Breton, è molto attento ai concetti di scrittura
automatica e racconto del sogno capaci di fornire nuove chiavi di
lettura sia alla critica artistica che alla poesia. I punti di riferimento
indicati da Breton sono il marxismo da una parte e Freud dall’altra
con l’obiettivo di «fissare l’attenzione non più sul reale, o sull’immaginario
ma, come dire, sul rovescio del reale»17. Sarebbe inaccettabile
inscrivere Pirandello nel movimento surrealista, ma è altrettanto
difficile ignorare l’influsso che certe idee potessero avere, anche
a livello inconsapevole, sulla produzione successiva dello scrittore.
Altrettanto importante è la figura di Benjamin Crémieux, amico
e traduttore di Pirandello e con cui lo scrittore siciliano, negli anni
parigini, ha intrattenuto strette relazioni. È attraverso Crémieux e la
sua biblioteca che Pirandello ha avuto accesso alla letteratura e al
teatro francese contemporanei. Grazie a lui lo scrittore viene introdotto
nella cerchia della «Nouvelle Revue Francaise» che enumera
15 C.S. Nobili, Pirandello: una «conversione» al sogno, cit., p. 99.
16 Cfr. L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit.
17 A. Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1987, p. 385.
[14] NOVELLE DALL’INCUBO 251
scrittori come Anatole France, André Gide, Valery Larbaud, Marcel
Proust, Paul Valery. È inoltre probabile che proprio grazie a Crémieux,
Pirandello venisse a conoscenza dei testi di Breton e Artaud.
Il 1929 è un anno che funge da simbolico spartiacque nella produzione
artistica pirandelliana. L’autore, infatti, licenzia Sogno (ma
forse no) che, come avremo modo di approfondire, costituirà un
punto di riferimento nella sua poetica degli anni Trenta18. Oltre
all’importanza del tema di quest’opera teatrale, esplicito fin dal titolo,
è la sua struttura a rappresentare l’aspetto di maggior interesse
per questo studio. Sogno (ma forse no) è un atto unico rappresentato
per la prima volta a Lisbona nel 1931. Questo testo è il diretto
risultato dell’influsso di Nicolaj Evreinov la cui opera teorica Il teatro
nella vita era stata tradotta in italiano nel 1913. La tecnica di
Evreinov è quella del «monodramma»: l’intero dramma deve coincidere
con la visione del personaggio e, di conseguenza, tutto sulla
scena deve apparire come è percepito dal protagonista.
Dopo aver diretto La gaia morte di Evreinov nel 1925, Pirandello
mette in scena per la prima volta (col Sogno) un «monodramma»
originale. Il sogno contamina in tutte le sue fasi questa produzione
teatrale: la scenografia dovrà offrire due varianti corrispondenti agli
stati di sonno e veglia della protagonista; gli attori assumeranno
delle movenze oniriche rimanendo sospesi o tacendo improvvisamente
per lunghi attimi; l’ordine cronologico delle azioni risulterà
alterato dai processi mentali dei personaggi.
Più problematico, perché meno documentato, è il rapporto che
in quegli anni Pirandello intreccia con il lavoro di Freud. Pubblicamente,
come già accennato, Pirandello dichiara di non aver mai
letto Freud, ma di essere pervenuto a conclusioni simili. In altre
occasioni ne dimostra una qualche conoscenza, come nella lettera
inviata a Marta Abba in cui ricorda rapidamente le teorie del padre
della psicanalisi, naturalmente in senso dispregiativo. Secondo Michel
David la conoscenza pirandelliana riguarda specialmente Janet e
quelli che sembrano riferimenti freudiani sono soltanto postulati
neurologici di diversa origine19.
18 A differenza di quanto accade per le novelle, esiste una bibliografia specifica
relativa allo studio dell’immaginario onirico nel teatro pirandelliano. La
produzione teatrale non sarà argomento approfondito in questo lavoro, ma si
rimanda comunque al volume di C. Donati, Il sogno e la ragione. Saggi pirandelliani,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993.
19 Cfr. M. David, La psicanalisi nella cultura italiana, Torino, Bollati Boringhieri,
1966.
252 VALENTINO BALDI [15]
Claudia Nobili cerca in indizi di carattere “interno” ai testi degli
ultimi anni la traccia di eventuali frequentazioni di teorie freudiane.
L’ipotesi più probabile è che Pirandello conoscesse, anche indirettamente,
le teorie di Freud, non diventando mai un ammiratore: lo
scrittore ne ha subìto l’influenza, così come si è avvicinato al Surrealismo
di André Breton, al teatro sperimentale di Artaud e al
«monodramma» di Evreinov. Sono un insieme di stimoli culturali
che, non portando mai ad un’adesione totale, hanno permesso a
Pirandello di approfondire il suo interesse nei confronti dell’inconscio
ed in particolare dei sogni, soprattutto se si confrontano i suoi
ultimi esiti narrativi con lo scarso materiale di questo tipo presente
nelle sue opere precedenti.
6. Le novelle degli anni Trenta sono fortemente permeate da un
clima onirico, «un brusio di fondo»20 psicoanalitico, anche laddove
non si danno specifici racconti di sogni. Al di là dei singoli racconti,
è l’intera atmosfera delle ultime raccolte a spingere verso una direzione
fortemente psicoanalitica. I personaggi compaiono sempre più
frequentemente a letto, preda dei propri sogni o allucinazioni; i
riferimenti spaziali e, soprattutto, temporali diventano indistinti o
totalmente assenti; il sogno, l’allucinazione, la follia sono spesso
utilizzati per descrivere una realtà assurda e incomprensibile. A
questo clima narrativo non corrispondono, in realtà, moltissimi racconti
di specifiche manifestazioni dell’inconscio. Spesso le novelle
non presentano direttamente sogni, allucinazioni o descrizioni di
personaggi nevrotici, ma le manifestazioni e gli effetti di un pensiero
antilogico sono inscritti in profondità nelle strutture di molti
testi. Come vedremo, sono proprio le novelle che non presentano
vere e proprie descrizioni di manifestazioni dell’inconscio ad essere
più interessanti, come nel caso di C’è qualcuno che ride e Una giornata.
La novella Effetti di un sogno interrotto è apparsa per la prima
volta sul «Corriere della sera» nel 1936 e l’anno successivo è stata
raccolta nell’ultima sezione di Novelle per un anno: Una giornata. In
questo testo è possibile trovare un sogno descritto estesamente e
particolarmente significativo. Lo stile della novella è ellittico con
predominanza di proposizioni principali. Il narratore è di tipo autodiegetico-
intradiegetico, una novità rispetto alla maggior parte dei
racconti pubblicati prima del 1930. L’ambientazione del racconto è
lugubre, un effetto ottenuto soprattutto attraverso una sapiente scel-
20 C.S. Nobili, Pirandello: una «conversione» al sogno, cit., p. 99.
[16] NOVELLE DALL’INCUBO 253
ta aggettivale. Vale la pena riportare un passo iniziale in cui il protagonista
descrive la propria casa
La perpetua penombra che la opprime ha il rigido delle chiese e vi
stagna il tanfo di vecchio e d’appassito dei decrepiti mobili d’ogni
foggia che la ingombrano e delle tante stoffe che la parano, preziose,
sbrindellate e scolorite, stese e appese da per tutto, in forma di coperte,
di tende e cortinaggi. Io aggiungo di mio a quel tanfo, quanto più
posso, la peste delle mie pipe intartarite, fumando tutto il giorno.
Soltanto quando rivengo da fuori, mi rendo conto che a casa mia
non si respira. (vol. III p. 683; i corsivi sono miei).
La scena è immobile, una natura morta in cui le immagini si
susseguono per accumulazione, con pochi verbi tutti scelti con accurata
selezione volta a rendere la situazione disforica («opprime»,
«stagna», «ingombrano», «parano»). C’è anche un’attenzione fonica
molto marcata, con allitterazioni notevoli («perpetua – penombra»,
«sbrindellate – scolorite – stese», «cortinaggi – aggiungo», «quanto
più – posso – peste – pipe – intartarite»), rime e quasirime («sbrindellate
– scolorite», «stese – appese»), consonanze («sbrindellate –
scolorite») ed assonanze («delle – chiese», «coperte – tende»). Dominano
le «p» e le «s», fra le vocali la cupa «o».
Anche le descrizioni dei personaggi, fulminee, ma ricche di
deformazioni espressionistiche, contribuiscono al clima del racconto:
«Il signore, sulla quarantina, alto, magro, calvo era parato di strettissimo
lutto […] Ma aveva anche impressa sul volto scavato la
sventura da cui era stato recentemente colpito […] Sul cranio calvo
le vene gonfie pareva gli volessero scoppiare» (p. 684). L’occhio del
narratore si muove come a cercare il particolare deforme sul viso di
personaggi condannati ad essere “brutti”21.
Il tema stesso della vicenda è al contempo lugubre e fantastico.
Il protagonista, il cui nome non viene mai pronunciato e che abita
una casa non sua, è visitato da un antiquario di sua conoscenza e
da un uomo interessato ad un quadro della casa: la Maddalena in
penitenza. Il quadro, secondo l’antiquario e lo sconosciuto, è incredibilmente
somigliante alla moglie di quest’ultimo, deceduta un mese
prima. Impossibilitato a vendere l’opera il protagonista è quasi aggredito
dallo sconosciuto che si comporta come un pazzo – «lo
guardavo stordito e costernato, come si guarda un pazzo» (p. 685);
«era stato sempre fin quasi alla follia geloso della moglie» (p. 686).
21 Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit.
254 VALENTINO BALDI [17]
L’antiquario conduce via lo spiacevole ospite, ma il protagonista è
segnato dall’incontro: «Io ne rimasi talmente impressionato che la
notte me lo sognai» (p. 686). Non segue direttamente il sogno, ma
soltanto la descrizione delle cause della sua interruzione.
Qui la novella si trasforma, apparentemente, in racconto fantastico.
Il protagonista vede, da sveglio, svanire lentamente le immagini
del suo sogno, come se si trattasse di fantasmi. È possibile intuire
da queste immagini che egli stesse sognando proprio lo strano individuo
a lutto e sua moglie, così come appariva ritratta nel quadro
[…] quando al fracasso springai dal letto e con una strappata scostai
il cortinaggio, potei intravedere confusamente un viluppo di carni e
panni rossi e turchini avventarsi alla mensola del camino per
ricomporsi nel quadro in un baleno; e sul divano, tra tutti quei
cuscini scomposti, lui, quel signore, nell’atto che, da disteso, si levava
per mettersi seduto, non più vestito di nero ma in pigiama di seta
celeste a righine bianche e blu, che alla luce man mano crescente
delle due finestre s’andava dissolvendo nella forma e nei colori di
quei cuscini e svaniva.
Non voglio spiegare ciò che non si spiega. Nessuno è mai riuscito a
penetrare il mistero dei sogni (pp. 686-87).
Il sogno del personaggio prende vita, o meglio sono le sue immagini
che irrompono nella realtà trasgredendo alla convenzione di
svanire nel momento in cui il sognante apre gli occhi. È impossibile
per il protagonista capire la differenza tra sogno e realtà: egli si reca
prima dall’antiquario e poi dall’uomo appena conosciuto. Lo trova
su di un divano, vestito dello stesso pigiama del sogno, anche lui
stava sognando quel quadro e la moglie: «Dunque era proprio lei,
in sogno, a casa mia; e sua moglie è proprio scesa dal quadro, come
lei l’ha sognata. Si spieghi il fatto come vuole. L’incontro, forse, del
mio sogno col suo» (p. 688). Non è importante trovare una spiegazione,
il protagonista non la cerca affatto («Nessuno è mai riuscito
a penetrare il mistero dei sogni»: si potrebbe pensare a una polemica
neppure tanto velata rivolta agli studi di Freud sull’interpretazione
dei sogni); egli è sconvolto dalle allucinazioni e ormai incapace
di vivere ancora in quella casa.
Il piano onirico si è definitivamente sovrapposto a quello reale.
Appena dopo l’interruzione del sogno, ad esempio, il protagonista è
sicuro che gli occhi del quadro possano muoversi e guardarlo. Gli
oggetti prendono vita e accrescono il senso di perdita di sé che già
caratterizzava questo personaggio. Nel lessico medico, questo tipo
di immagini che persistono anche alcuni secondi dopo il sogno sono
[18] NOVELLE DALL’INCUBO 255
definite allucinazioni psicopompiche. È chiaro, però, che in questo
caso la novella non necessita affatto di una spiegazione fisiologica.
Proprio come accadeva nelle descrizioni di sogni nell’antica Grecia
le immagini oniriche sono simili a fantasmi fluttuanti. Alla loro incursione
nella realtà diurna la novella non fornisce spiegazioni, ma
neanche ne richiede: «Quanto sono cari questi uomini sodi, davanti
a un fatto che non si spiega, trovano subito una parola che non dice
nulla e in cui così facilmente s’acquetano. | – Allucinazioni» (p. 688).
Ho scelto il racconto Effetti di un sogno interrotto come testo esemplare
del nuovo clima a forte densità simmetrica che è possibile
identificare nelle ultime due raccolte di Novelle per un anno. L’impossibilità
di distinguere tra la realtà psichica e quella esterna è,
infatti, una delle principali caratteristiche del pensiero inconscio così
come formulato da Freud, da cui in seguito Matte Blanco desumerà
i due principi di generalizzazione e di simmetria22. Per questo motivo
sono convinto che lo studio di Sebastiana Nobili sui sogni in
Pirandello sia un ottimo punto di partenza, ma possa anche essere
approfondito.
Il sogno è certo una manifestazione dell’inconscio fondamentale in
molti racconti dell’ultima fase di Pirandello, ma le novelle prodotte a
partire dagli anni Trenta permettono di elaborare anche un discorso
più generale. È in accordo con questa prospettiva che ritengo fondamentale
sostituire a «regime onirico» l’espressione “regime simmetrico
diffusivo”: in questo modo anche racconti come Soffio, Cinci, Di
sera, un geranio – tutti contenuti in Berecche e la guerra – possono
essere esempi di come la logica simmetrica agisca all’interno della
scrittura, a prescindere dalla descrizione di manifestazioni specifiche.
7. Il primo elemento che permette di mettere a sistema moltissimi
racconti di questa fase è il tempo. A conferma di un regime
simmetrico che opera in modo diffuso, molte novelle condividono
l’impossibilità di definire con precisione dei limiti e delle marche
temporali. «Quanto durò quell’incubo?» (p. 647) si legge in Soffio,
l’allucinante racconto di un uomo capace di infliggere la morte con
il semplice atto di soffiare sulle proprie vittime. Anche il terribile
episodio di stupro narrato in Lucilla si chiude con simili notazioni:
«Lucilla non sa più quanto tempo sia passato […] è come impazzita,
inebetita» (p. 660). Nonostante il racconto sia estremamente realisti-
22 Cfr. I Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica,
Torino, Einaudi, 2000.
256 VALENTINO BALDI [19]
co, il finale insiste sulla follia della giovane e ci offre, in maniera
estremamente moderna, la sua percezione alterata della realtà: «e
guarda, così piccola, i tronchi giganteschi degli alberi, di cui a stento
riesce a scorgere le cime, e più su, più su, finestre vane illuminate
come nel cielo, dove vorrebbe sparire, sparire, se Dio, come spera,
vorrà alla fine darle le ali» (p. 660). La realtà è alterata perché la
focalizzazione interna offre solo il punto di vista di Lucilla. Questo
breve saggio dimostra che, ben lontano dal racconto fantastico,
Pirandello stia offrendo una nuova forma di realism of presentation:
è la coscienza privata dei personaggi che nell’atto stesso di percepire
la realtà la trasforma, conducendo il lettore in territori apparentemente
fantastici, ma drammaticamente concreti. Identico procedimento
è possibile riscontrare in Cinci, ancora una volta a partire dal
tempo immobile
Il ragazzo ha la testa sfracellata, la bocca nel sangue colato a terra
nero, una gamba un po’ scoperta, tra il calzone che s’è ritirato e la
calza di cotone. Morto, come da sempre. Tutto resta lì, come un
sogno. Bisogna che lui se ne svegli per andar via in tempo. Lì, come
in sogno, quella lucertola arrovesciata sul lastrone, con la pancia alla
luna e il filo d’avena che pende ancora dal collo (p. 674).
Il «come un sogno» è ripetuto per due volte. Ma quello che più
interessa è il gioco narrativo fondato su una doppia prospettiva. La
descrizione del cadavere del ragazzo, ucciso con una pietra da Cinci,
rientra nei canoni descrittivi del realismo tradizionale: un narratore
extradiegetico si sofferma, come attraverso una cinepresa, prima
sulla testa, poi sulla bocca e infine sulla parte inferiore del cadavere.
A questa prospettiva si sovrappone quella alterata di Cinci che resta
sospeso in una dimensione di «sogno». È in questa prospettiva che
il tempo si annulla – «Morto, come da sempre» – e le immagini
fluttuano come un incubo. La realtà filtrata dalla mente del protagonista
è alterata, ma il racconto non smette di essere realistico: è
un realismo che si fonda interamente sulla psiche dei personaggi e
quello che è solo immaginato diventa tremendamente reale
Arriva a casa: sua madre non è ancora rientrata. Non dovrà dunque
dirle neppure dove è stato. È stato lì ad aspettarla. E questo, che ora
diventa vero per sua madre, diventa subito vero anche per lui; difatti,
eccolo con le spalle appoggiate al muro accanto alla porta.
Basterà che si faccia trovare così (p. 675, i corsivi sono miei).
Le espressioni in corsivo mostrano come la nuova verità costru[
20] NOVELLE DALL’INCUBO 257
ita da Cinci possa diventare più reale della realtà. Non sapremo mai
come si evolverà la storia, ma non è questo che deve interessare.
Pirandello ha esplicitamente marcato su un finale in cui il personaggio
è così influenzato dai propri desideri da modificare la realtà.
«Diventa subito vero anche per lui»: non abbiamo ragione di credere
altrimenti e l’omicidio, la fuga, la paura, si trasformano solo in
un brutto sogno mai accaduto realmente.
Ma la drammatica novella Cinci offre anche altre caratteristiche
di questa “conversione” pirandelliana. Occorre muoversi un po’
all’indietro e tornare sulla scena dell’omicidio, quando Cinci ha
appena scagliato il sasso che ha ucciso il giovane contadino
Cinci, ancora ansante e col cuore in gola, mira esterrefatto, addossato
alla muriccia, quell’incredibile immobilità silenziosa della campagna
sotto la luna, quel ragazzo che vi giace con la faccia mezzo
nascosta nella terra, e sente crescere in sé formidabilmente il senso
d’una solitudine eterna, da cui deve subito fuggire. Non è stato lui;
lui non l’ha voluto; non ne sa nulla. E allora, proprio come se non
sia stato lui, proprio come se s’appressi per curiosità, muove un
passo e poi un altro, e si china a guardare (p. 673).
È già presente quella negazione della realtà a cui ho appena fatto
riferimento, ma c’è anche qualcosa di più. Cinci non nega semplicemente
il proprio gesto: questo gli appare estraneo, come compiuto
da qualcun altro. Ritornano alla mente molte pagine tozziane in cui
i personaggi effettuano gesti sadici di cui non sembrano realmente
consapevoli. Questo “guardarsi vivere”, un punto forte della poetica
pirandelliana, assume nuovi connotati nelle novelle degli anni
Trenta. Sempre più spesso, attraverso stati di sogno, di follia o allucinazione,
i personaggi escono da sé stessi non riconoscendosi
più. È il tema della brevissima novella Di sera, un geranio, che conclude
la raccolta Berecche e la guerra. Il protagonista, senza più un
nome o una storia, è a letto. È possibile intuire, da alcuni particolari,
che quel letto è il suo unico ed ultimo luogo di vita. Pirandello,
però, focalizza tutta la novella sulla prospettiva del personaggio in
agonia, offrendo un saggio di scrittura a forte densità simmetrica e
in cui la poetica del “guardarsi vivere” è fusa con la descrizione di
una realtà solo interiore
Lui, quello! Uno che non è più. Uno a cui quel corpo pesava già
tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa
camera […]
Lui non era quel suo corpo; c’era anzi così poco; era nella vita lui,
258 VALENTINO BALDI [21]
nelle cose che pensava, che gli s’agitavano dentro, in tutto ciò che
vedeva fuori senza più vedere sé stesso. Case strade cielo. Tutto il
mondo. […]
Lui è ora quelle cose; non più com’erano, quando avevano ancora
un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso
e che ora dunque non sono più niente per lui.
E questo è morire (pp. 676-77).
Non credo che questo racconto sia realmente incentrato su un
senso panico di identificazione con il tutto, alla maniera del finale
di Uno, nessuno e centomila. Credo, invece, che l’incapacità di riconoscersi
nel proprio corpo abbracciando quanta più realtà sia possibile
– «Case strade cielo» – sia la conseguenza di un nuovo regime
logico che non permette più di percepire la realtà in maniera convenzionale.
La condizione quasi onirica in cui questo personaggio è
proiettato sembra la conseguenza di una scrittura che si muove in
uno stato intermedio tra il sonno e la veglia. Di sera, un geranio è la
novella che maggiormente denuncia come il nuovo stile narrativo
di Pirandello coinvolga anche la descrizione dello spazio e non solo
del tempo. Il letto di morte è l’unico luogo che compare nel testo ed
un confronto con i racconti precedenti o successivi dimostra come,
nonostante le ambientazioni siano varie, non sono mai individuate
le città, i paesi, i fiumi, le strade. La scrittura, sempre più ellittica e
franta, erige a sistema l’indeterminatezza riservandola non solo ai
personaggi, che quasi sempre perdono il nome e con esso la propria
storia e i propri affetti, ma anche allo spazio e al tempo, coordinate
basilari di qualsiasi racconto realistico.
Come ho già anticipato, sono riluttante a parlare specificamente
di sogno come fa, invece, Sebastiana Nobili. Credo che la perdita di
confini tra realtà esterna e quella psichica, l’alterazione del tempo e
quindi dei rapporti di causa-effetto, l’incapacità di distinguere il
proprio corpo e i suoi comportamenti, siano delle costanti che, messe
a sistema, dimostrino come la logica simmetrica operi marcatamente
nell’ultima produzione pirandelliana.
Un confronto con il materiale presente nell’ultima raccolta permette
non soltanto di confermare, ma anche di approfondire questo
tipo di interpretazione. In particolare sembra che le novelle di Una
giornata siano popolate da personaggi sempre più privi di un’identità
definita. Accanto a racconti caratterizzati da una struttura più
classica come Quando s’è capito il giuoco, Padron Dio e La prova, risaltano
le atmosfere allucinate di La casa dell’agonia, Visita e Vittoria
delle formiche. Queste ultime novelle presentano, infatti, protagonisti
[22] NOVELLE DALL’INCUBO 259
senza identità per cui spesso il confine tra realtà e mondo psichico
diventa indistinguibile
Hanno una loro anima anche i mobili, specialmente i vecchi, che
vien loro dai ricordi della casa dove sono stati per tanto tempo.
Basta, per accorgersene, che un mobile nuovo sia introdotto tra essi.
Un mobile nuovo è ancora senz’anima, ma già, per il solo fatto ch’è
stato scelto e comperato, con un desiderio ansioso d’averla. Ebbene,
osservare come subito i mobili vecchi lo guardano male: lo considerano
quale un intruso pretensioso che ancora non sa nulla e non può
dir nulla; e chi sa che illusioni intanto si fa. Loro, i mobili vecchi,
non se ne fanno più nessuna e sono perciò così tristi: sanno che col
tempo i ricordi cominciano ad affievolirsi e che con essi anche la
loro anima a poco a poco s’affievolirà […].
Se mai per disgrazia qualche ricordo persiste e non è piacevole,
corrono il rischio d’esser buttati via (pp. 733-34).
Questo brano tratto da La casa dell’agonia dimostra come anche la
descrizione di oggetti inanimati possa assumere una nuova dimensione
grazie all’intervento di un pensiero logico asimmetrico. Le
emozioni ed i ricordi che gli oggetti suscitano nei personaggi sono
spostate direttamente sui mobili attraverso il ricorso ad una lunga
prosopopea. Soltanto il periodo conclusivo permette un ritorno ad
un regime logico classico in cui non sono più gli oggetti a provare
sentimenti, ma le persone a proiettarli su di essi. È questo l’ambiente
tipico in cui il lettore di Una giornata si trova spesso proiettato. Il
ricorso massiccio a procedimenti logici simmetrici impedisce, naturalmente,
una piena caratterizzazione dei personaggi. Come vedremo
essi compariranno sempre più spesso spaesati e incapaci di
definire le proprie azioni o la propria identità.
8. Il 23 settembre 1935 Pirandello scrive a Marta Abba dal
Waldorf-Astoria di New York: «Ho lavorato anche qui, sai? Ho
lavorato al romanzo e ho scritto ben cinque novelle che darò al
“Corriere” subito appena arrivato»23. Lo scrittore si riferisce alle
novelle Una sfida, Il chiodo, Vittoria delle formiche, La tartaruga e Una
giornata, che furono anche tra le ultime pubblicate ancora in vita,
nel 1936. Questo elenco, integrato con altre novelle come La casa
dell’agonia, offre la possibilità di mettere in risalto una serie di testi
che definirei come una sezione interna alla raccolta Una giornata. Mi
riferisco a tutti i racconti che Pirandello ha deciso di ambientare
23 L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., p. 1225.
260 VALENTINO BALDI [23]
negli Stati Uniti, in particolare nella città di New York. Evidentemente
frutto dei soggiorni dell’autore in questa città nel 1923 e poi
negli anni Trenta, questi “racconti americani” condividono un altissimo
tasso di logica simmetrica, regime che surclassa notevolmente
la logica classica. La prima conseguenza è il crescente senso di indeterminatezza,
una costante che attraversa tutti questi testi. Si pensi
a La tartaruga, in cui al protagonista «può accadere benissimo
qualche mattina, vedendosi nudo con una gamba alzata per entrare
nella vasca da bagno, di restare stranamente impressionato dal suo
stesso corpo, come se, in quarantadue anni che lo ha, non l’abbia
mai veduto e se lo scopra adesso per la prima volta» (p. 746).
In questo universo narrativo indeterminato è possibile che un ragazzo
di Harlem senza nome trovi un chiodo per terra e per questo
solo motivo sia spinto ad uccidere a sangue freddo: «Il chiodo era
ormai “quieto” nella sua mano (ha detto così, e tutti hanno avuto un
brivido nel sentirglielo dire), il chiodo era ormai “quieto” nella sua
mano perché, come voleva, era stato raccattato» (Il chiodo, p. 766). Il
principio di causalità non esiste più in un contesto dominato da un
regime antilogico: «Perché aveva colpito la piccola e non la grande
non sapeva dire. Non conosceva né l’una né l’altra. Non aveva avuto
il tempo neppure di vederle in faccia» (p. 767). È il chiodo, in realtà,
a colpire la bambina e il protagonista del racconto non può opporsi
Ora, dopo l’interrogatorio, ascolta, curvo sulla seggiola, e con una
cupa meraviglia negli occhi, le mani gracili sui ginocchi, segnate da
sgrafii che forse lui stesso s’è fatti senza saperlo. Ascolta le ragioni
che gli altri escogitano per spiegare il suo atto.
La sua maraviglia è che possano essere tante, queste ragioni, mentre
lui non sa vederne nemmeno una; tante, e tutte parer vere e probabili
sia quelle escogitate in suo favore, sia quelle contro di lui (pp.
767-68).
È come se quell’«oltre» di cui parla Debenedetti abbia non soltanto
fatto la sua comparsa, ma preso il sopravvento. La serie dei
“racconti americani” contenuti in Una giornata testimonia uno sprofondamento
in una realtà alternativa a quella convenzionale. È impossibile,
ormai, scindere la realtà esterna da quella psichica, o ricercare
un principio di causalità nei comportamenti e nelle azioni
dei personaggi. Le categorie di tempo e spazio diventano sempre
più indefinite e allo stesso modo i corpi perdono la propria consistenza,
diventando sempre più spesso degli involucri vuoti in cui i
personaggi non si riconoscono più: «Quasi assorbito dal silenzio
[24] NOVELLE DALL’INCUBO 261
della casa, costui, come vi aveva già perduto il nome, così pareva vi
avesse anche perduto la persona e fosse diventato anche lui uno di
quei mobili in cui s’era tanto immedesimato», leggiamo ad esempio
in La casa dell’agonia. Stesso tema si riscontra ne La tartaruga – «Non
gli par credibile che tutta la sua vita lui l’abbia vissuta in quel suo
corpo. No, no. Chi sa dove, chi sa dove, senz’accorgersene» (p. 747)
– in cui Mister Myshkow vive palesemente una vita che non gli
appartiene, circondato da una donna che lo ignora e da due figli
«l’uno più vecchio dell’altra» (p. 748).
È importante non arrischiare un giudizio affrettato che porti a
considerare queste novelle contenute in Una giornata come esemplari
della vasta categoria del fantastico. Anche se le regole della logica
classica non sembrano più rispettate e le vicende si presentano prive
di un senso e di qualsiasi sviluppo causale, la realtà non è mai
negata da Pirandello: è soltanto ampliata grazie alle possibilità di
un tipo di pensiero antilogico.
È un universo logico che non rispetta più il principio classico di
non contraddizione e in cui un padre può apparire più giovane dei
propri figli appena nati (La tartaruga), un ragazzo può uccidere obbedendo
alla volontà di un oggetto (Il chiodo), un uomo può conversare
amabilmente con la propria amante morta (Visita). O, ancora,
un universo in cui è possibile che due storie contraddittorie siano
entrambe verità, come nel celebre caso de La signora Frola e il signor
Ponza suo genero. Nonostante questo racconto non faccia parte della
sezione definita “americana” e conservi una struttura narrativa tradizionale
in cui non sembra esservi posto per inserti di logica alternativa,
il contrasto tra le due verità opposte della signora Frola e del
signor Ponza è destinato a rimanere indefinito e offre spunti di
estremo interesse. Il racconto denuncia una struttura teatrale in cui
il discorso del narratore intradiegetico filtra ogni dialogo riportandolo
in forma indiretta. A questa forma narrativa estremamente controllata
corrisponde, però, un contenuto ad alta densità simmetrica.
L’alternativa posta a inizio racconto «pazza lei, o pazzo lui; non c’è
via di mezzo» (p. 772) è destinata a restare irrisolta e la gente di
Valdana, in conclusione, «non riesce ancora in nessun modo a comprendere
quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la
realtà» (p. 781). È proprio nell’alternativa reale/irreale che la novella
assume un’importanza decisiva e non a caso il binomio «reale e
fantasma» ritorna come un refrain nel corso dell’intera vicenda.
Il vero problema rappresentato dalle storie della signora Frola e
del signor Ponza è il rischio di relativizzare la realtà fino a farla
262 VALENTINO BALDI [25]
scomparire: «Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso
che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà
può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco?» (p.
773). È una soglia, quella tra «realtà» e «fantasma», che le novelle
degli anni Trenta infrangono numerose volte e C’è qualcuno che ride
e Una giornata sono testi esemplari di questa poetica.
9. Nelle novelle degli anni Trenta colpisce una costante tematica
apparentemente secondaria, ma che conferma un nuovo tipo di scrittura
in cui i sogni e, più in generale, il mondo dell’inconscio e del
notturno sono dominanti. Mi riferisco alla frequenza di descrizioni
di personaggi che si trovano distesi a letto e che in questo luogo
così denso di significato riflettono, pensano e spesso dormono sognando.
Un rapido confronto permette di raggruppare testi di natura
eterogenea come: Di sera, un geranio, «S’è liberato nel sonno, non
sa come» (p. 676); Effetti d’un sogno interrotto, «Il sogno, a dir precisamente,
dovette avvenire nelle prime ore del mattino […] mi svegliò
di soprassalto» (p. 686); Visita, «Dopo aver letto nel giornale,
appena svegliato, la notizia della sua morte» (p. 696); Vittoria delle
formiche, in cui il lungo monologo del narratore si svolge quando
quest’ultimo è «buttato […] su un pagliericcio per terra come una
bestia» (p. 704); Quando s’è capito il giuoco, «una mattina per
tempissimo, ch’egli se ne stava ancora a letto a fare il sonnellino
dell’oro» (p. 710); Una giornata, «Strappato dal sonno, forse per sbaglio
» (p. 782). Alcuni di questi racconti svilupperanno una o più
descrizioni di manifestazioni dell’inconscio, altri no. La collocazione
del protagonista a letto, in stato di veglia o sonno, è comunque una
costante paradigmatica che attraversa suggestivamente sia Berecche e
la guerra che Una giornata.
Alla luce di queste riflessioni colpisce molto l’eccezione rappresentata
da C’è qualcuno che ride. Nonostante questa novella costituisca
uno dei punti più alti del nuovo clima a forte densità simmetrica
che coinvolge molti degli ultimi testi narrativi di Pirandello,
non c’è nessun personaggio che, disteso a letto, sogni.
È impossibile, in realtà, dare una definizione precisa di che cosa
la novella rappresenti. È come se Pirandello offrisse una lunga descrizione
di un sogno raccontato senza alcun punto di soglia e svolto
per l’intera diegesi. L’incipit non sembra particolarmente problematico:
la novella è ambientata in una sala da ballo in cui una folla
di invitati provenienti dalla stessa città si muove in attesa di un
grosso avvenimento.
[26] NOVELLE DALL’INCUBO 263
Eppure mancano i presupposti basilari che possano spiegare un
simile comportamento: perché la folla si trova lì? Che cosa sta realmente
aspettando? Sono domande destinate a non avere risposta.
La scrittura procede limitandosi a descrivere, e quasi spiare, il comportamento
di attesa degli invitati. Dominano le caratterizzazioni
grottesche in cui i toni cromatici sgargianti degli abiti assumono
caratteristiche perturbanti: «il rosso, il celeste di certi abiti femminili
ed è così ribrezzosa la gracilità di certe spalle e di certe braccia
nude, che quasi vien fatto di pensare che quei ballerini siano stati
estratti di sotterra per l’occasione» (p. 690). L’immagine dell’orchestra
che suona pezzi ballabili esprime il contrasto tra l’occasione
potenzialmente lieta ed il misto di terrore e sospetto che aleggia tra
la folla: «C’è difatti sulla pedana coperta da un tappeto nero
un’orchestrina di calvi inteschiati che suona senza fine ballabili, e
coppie ballano per dare alla riunione un’apparenza di festa da ballo,
all’invito e quasi al comando di fotografi chiamati apposta» (p.
689).
Nulla, nel racconto, è ciò che sembra. L’orchestra assume i connotati
di un quadro di Ensor. Proprio come per il pittore i colori
pastello della tela creano un senso perturbante proprio perché accostati
a maschere di teschi e fantasmi, così la musica allegra e i vestiti
variopinti delle donne stridono con il nero tappeto dell’orchestrina
composta da «calvi inteschiati». Anche il luogo in cui si svolge la
festa è caratterizzato in maniera ossimorica: «Il salone enorme, illuminato
sopra la folla degli invitati dallo splendore di quattro grandi
lampadari di cristallo, rimane in alto, nella tetraggine della sua
polverosa antichità, quasi spento e deserto» (p. 689). Interessante
riflettere sull’insieme di antitesi di cui è costituito questo periodo di
apertura: il salone è «enorme» ed ospita una folla di gente, ma resta
anche «deserto»; il lampadario e il suo splendore nella sala sono
contraddetti sia dalla «tetraggine della sua polverosa antichità», che
dall’aggettivo «spento» riferito sempre al salone.
La forma della scrittura è dunque parte integrante di questo
contesto macabro in cui nulla è ciò che sembra. Anche la voce del
narratore, che entra in scena per una sola volta a metà racconto,
aumenta questa sensazione di spaesamento e contraddizione. Dopo
aver descritto l’effetto di repulsione provato dalla folla a causa del
rumore delle risate di tre personaggi nell’oscura tetraggine della
sala, leggiamo una serie di domande e risposte palesemente contraddittorie:
«Chi l’ha invitato? Come si sono introdotti nella riunione?
Nessuno li conosce. Nemmeno io. Ma so che lui è il padre dei
264 VALENTINO BALDI [27]
due ragazzi, signore agiato che vive in campagna con la figlia, mentre
il figlio è agli studi qua in città». La scrittura si contraddice apertamente
ed è in consonanza con l’ambientazione da «incubo» (p. 692)
del racconto. È proprio questa ambientazione grottesca e controsenso
ad essere estremamente interessante. La festa da ballo non è una
vera festa, ma una riunione dagli scopi oscuri e in cui nessuno si
conosce davvero. Il clima di sospensione in cui vivono i personaggi
è paragonato per due volte ad un incubo. La novella è, in effetti, un
incubo, ma la maestria di Pirandello sta nel superare le convenzioni
narrative tradizionali, non offrendo punti di soglia che possano
permettere al lettore di orientarsi. La scrittura, perfettamente comprensibile,
segue però un registro simmetrico rappresentato proprio
dalla serie di antitesi irrisolte che la strutturano: l’incontro è una
festa ed è anche una riunione; il luogo è affollato, e assieme «quasi
[…] deserto»; i convitati indossano abiti sgargianti e sono anche
simili a corpi deceduti; nessuno sa perché è stato invitato, ma c’è
una motivazione concreta perché alcuni personaggi, a turno, sono
convocati in sale private. Tutti questi fatti in antitesi coesistono sullo
stesso piano e mai la voce narrante risolve il dilemma proponendo
una spiegazione. È proprio di un regime logico simmetrico non
rispettare il principio di non contraddizione.
Il finale della novella, con l’esplosione di una risata gigantesca e
«sardonica» da parte della folla che è simile ad una bomba, sembra
riconfigurare tutto l’incontro, facendogli assumere i connotati di una
sadica punizione organizzata proprio per condannare i tre soli personaggi
che ridono. È impossibile decifrare completamente l’enigma,
proprio come non è possibile interpretare un sogno quando
ancora si è addormentati. Come suggerisce Luperini, il senso della
novella è più chiaro se si tiene in considerazione Le rire (1900) di
Bergson, pubblicato in Italia nel 191624. Come ha però rilevato lo
stesso Luperini: «Tutto il racconto non solo sembra costruito con
materiale onirico ma procede ininterrottamente con il ritmo soffocante
di un incubo»25.
È probabile che, proprio come spiega Luperini, C’è qualcuno che
ride sia un racconto con cui Pirandello «vuole […] mostrare i meccanismi
attraverso cui la civiltà reprime le pulsioni naturali e una società
ormai tarlata dal vuoto e priva di unità e di valori riesce a
24 R. Luperini, Il riso di Pirandello, in Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica
materialistica, Bari, Laterza, 1999, p. 110.
25 Ivi, p. 113.
[28] NOVELLE DALL’INCUBO 265
compattare i propri membri e a escludere il “diverso” che la minaccia
con la sua sola presenza»26. Una simile proposta di interpretazione
di questo apologo allegorico non scioglie, però, quel senso di
sospensione onirica denunciato in precedenza. Lo stile del racconto,
il suo non offrire punti di soglia o appigli di sorta, lavora anche al
livello del contenuto: l’unica realtà che il testo offre è quella kafkiana
della riunione in cui la sola consapevolezza concreta è quella della
colpa, provata sia da tutti gli invitati all’inizio del racconto – «È
sonato in città come l’appello a un’adunata»; «l’uno osserva l’altro, e
chi si vede osservato nell’atto di tirarsi indietro o di cercare di farsi
avanti, appassisce e resta lì»; «perché sono anche in sospetto l’uno
dell’altro» (p. 690) – sia, in seguito, dalla famiglia proveniente dalla
campagna e che ride beatamente. Solo in una dimensione a forte
densità logica simmetrica è possibile far convivere, senza contraddizioni,
una allegra festa da ballo con una enigmatica riunione macabra
di cui nessun convitato conosce il reale scopo.
10. Uno dei film più sperimentali del genere fantascientifico degli
anni Sessanta termina con una lunga sequenza in cui il protagonista,
precipitato in una dimensione spazio-temporale parallela, si
guarda dall’esterno. Il suo doppio è disteso in un letto all’interno di
una stanza neoclassica e bianchissima e inizia improvvisamente ad
invecchiare fino a morire nel giro di pochi istanti. Il suo corpo,
quasi contemporaneamente, rinasce in forma di feto orbitante attorno
alla Terra. Questa breve descrizione condensa uno dei finali più
affascinanti ed enigmatici della filmografia mondiale, quello di 2001:
Odissea nello spazio del regista americano Stanley Kubrick.
Ad un lettore di Pirandello che guardi il film di Kubrick, questa
ultima sequenza potrebbe parere inspiegabilmente familiare. Naturalmente
leggere l’ultimo racconto di Novelle per un anno a partire
da Kubrick può sembrare azzardato, ma è anche una suggestione
che può approfondire l’interpretazione di un testo magistrale e ancora
oggi attualissimo.
A prima vista Una giornata è un racconto fantastico. I primissimi
periodi, col verbo al participio passato, rendono un senso di mistero
ed insieme di ineluttabilità: «Strappato dal sonno, forse per sbaglio,
e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio» (p. 782). Non
tarda ad arrivare la descrizione del contesto che completa magistralmente
la prima scena: «Di notte; senza nulla con me». Il lettore,
26 Ivi, p. 112.
266 VALENTINO BALDI [29]
come in altri casi, è chiamato fin da subito a costruire gradualmente
il senso, ma Una giornata radicalizza questa situazione non offrendo
alcuna nota di contesto (come avveniva ancora in C’è qualcuno che
ride) e affidandosi ad una marca stilistica sincopata e nominale. Il
protagonista, sbalzato fuori da un treno di notte, si trova in una
città che non riconosce, privo di ricordi. Non indossa i propri vestiti,
non ricorda nulla della sua vita precedente. È l’incipit di una
perfetta detective story ed è probabile che sarà necessario lavorare
attraverso gli indizi sparsi nel corso della diegesi.
Il senso di disagio e assieme di perdita di sé è reso perfettamente
dalla scrittura. Il narratore è ancora autodiegetico-intradiegetico e
parla in prima persona; questa scelta costringe il lettore a “subire”
la realtà perturbante in cui il personaggio è violentemente trapiantato
suo malgrado. Lo stile è simile a quello analizzato in Effetti di
un sogno interrotto: ellittico e franto. Si può dire che la situazione sia
ancora più estrema, visto che non si registrano dialoghi e tutto è
presentato attraverso l’ottica parziale del narratore. È difficile non
cedere alla “tentazione psicoanalitica” che porterebbe a leggere il
racconto come un referto di un paziente schizofrenico. Proprio come
chi è affetto da questa patologia, il protagonista non riesce più a
costruire la propria storia ed è avvolto in un alone di solitudine ed
incertezza: «Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da
ogni parte ritenuto»; «Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco
nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi» (p. 783). La città, inizialmente
deserta, inizia a muoversi, attraversata dai più diversi
individui che riconoscono e salutano il protagonista, ma egli è comunque
incapace di decifrare il reale che lo circonda. Privo di ricordi
e di identità non riconosce neppure l’abito che indossa: «non
sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia
mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me» (p.
784). È curioso che una delle correnti psicoanalitiche contemporanee
consideri l’atto narrativo come estremamente terapeutico: spesso,
attraverso l’utilizzo di fotografie, i pazienti vengono chiamati ad elaborare
immagini e storie con cui confrontarsi e riconoscersi. Ma
anche il rinvenimento di una fotografia sgualcita e conservata nella
giacca dell’abito non permette alla diegesi della novella di svilupparsi:
«La spiccico, la osservo. Oh. È la fotografia di una bellissima
giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli
e le braccia levate vivacemente nell’atto di salutare. […] Ma
per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla» (p. 785).
Ad uno spazio estraneo e tanto più ostile proprio perché abitato
[30] NOVELLE DALL’INCUBO 267
da individui che riconoscono il protagonista, corrisponde un tempo
frantumato. Non ci sono riferimenti precisi: sappiamo soltanto che la
novella inizia di notte. Il tempo è tutto interiore, possiamo comprendere
il trascorrere delle ore solo perché la città si popola, ma il narratore
non lo comunica mai. Non è un tempo immobile, ma ha un
andamento a strappi. All’immobilità della prima parte della novella,
segue una rapida sintesi che corrisponde alle due scene della banca e
dell’osteria: nello spazio di pochi periodi il tempo scorre così rapido
che «già si dev’essere sparsa la voce ch’io, se non proprio ricco, non
sono certo più povero; e infatti uscendo dalla trattoria, trovo un’automobile
che m’aspetta» (p. 786). Anche l’incontro con la donna della
fotografia, che potrebbe finalmente dare inizio ad un intreccio, è destinato
a restare incompiuto, rispondendo alla logica onirica della
novella: «Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la
mattina all’alba, non c’è più» (p. 787). A ben vedere lo straniamento
che domina questo racconto non è causato dal contesto misterioso in
cui gli avvenimenti si danno senza una logica, ma, al contrario, proprio
dai comportamenti razionali del protagonista e dalle sue necessità
contingenti. La necessità di mangiare e di procurarsi del denaro, la
scena della banca in cui viene provvisto di moneta in cambio di uno
strana valuta ormai fuori commercio, i continui dubbi e quesiti, sono
in stridente contrasto con il contesto onirico e allucinato del racconto.
Il finale, oscuro come tutta la novella, presenta addirittura un
collasso temporale: il protagonista è ormai vecchio, ha vissuto tutta
la propria vita senza accorgersene, ed è visitato da figli sconosciuti
che invecchiano davanti ai suoi occhi ed hanno a loro volta dei figli.
Vecchi e giovani si confondono nella camera da letto del narratore
che, scopertosi malato e incapace di muoversi, non può attendere
altro che la propria morte.
Il racconto di Pirandello è, molto probabilmente, un sogno. In
diversi punti il narratore si interroga se non stesse in realtà sognando:
«Avrò lavorato in sogno, non so come» (p. 784); «È un sogno?
| Certo, come in un sogno» (p. 787).
L’impressione che se ne ricava è quella di un sogno privo di
punti di soglia o di uscita, proprio come per Effetti di un sogno
interrotto o C’è qualcuno che ride. Il narratore ci comunica direttamente
il contenuto del proprio inconscio. Ci sono elementi che fanno,
però, dubitare: alcune scene, come quella della banca e dell’osteria,
sembrano estremamente realistiche; egli, inoltre, è consapevole di
addormentarsi con la donna sconosciuta e di risvegliarsi, solo, la
mattina successiva.
268 VALENTINO BALDI [31]
Il senso di stupore del protagonista, lo spazio estraneo, lo scoprirsi
guardato da tutti senza conoscere nessuno, la sospensione in
un eterno presente e poi la frantumazione di qualsiasi ordine cronologico,
sono comunque tutte caratteristiche tipiche delle manifestazioni
oniriche.
In Una giornata il sogno sembra finalmente “evaso” dal suo contesto
notturno. Come già rilevato nelle precedenti analisi, la realtà è
totalmente preda di un regime logico simmetrico, che sembra lasciare
attonito il narratore stesso. È in virtù di questa logica dell’inconscio
che i figli del protagonista possono invecchiare improvvisamente
ed avere figli vecchi a loro volta. L’inconscio esula da quel
ruolo di subordinazione alle leggi della realtà e ormai, nel capitolo
finale di Novelle per un anno, fa prevalere le proprie leggi. L’estraneità
del protagonista è tanto più marcata quanto più egli cerca di riflettere
e comportarsi secondo principi logici classici. Due logiche contrapposte,
quindi due soluzioni possibili fra cui scegliere come spiega
Tzvetan Todorov parlando del modulo del fantastico
Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due
soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione di sensi, di un prodotto
dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono
quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte
integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi
a noi ignote27.
Ma nel racconto di Pirandello il narratore autodiegetico non effettua
alcuna scelta, incapace di confrontarsi con uno dei due differenti
paradigmi di realtà. Alla luce di queste note non è più importante
capire se ci si trovi di fronte ad un sogno o semplicemente ad
un racconto fantastico28. Pirandello sta applicando alle novelle dei
criteri di una logica alternativa, incompatibili con la logica classica.
Una giornata, allora, è un serbatoio capace di raggruppare, nella
27 T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1983, p. 28.
28 Nonostante il presente lavoro, come più volte specificato, non sia concentrato
sul racconto fantastico, mi sembra necessario rimandare ad alcuni testi
critici che si occupano in generale di questa forma narrativa. Riconosco comunque
che con questi riferimenti sia impossibile, in questa sede, riassumere esaurientemente
il dibattito teorico complessivo. Si ricorda allora, oltre a Todorov, il
testo di R. Ceserani, Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996. Sembra utile segnalare
anche il lavoro di L. Lugnani, Per una delimitazione del “genere”, in La
narrazione fantastica, Pisa, Nistri Lischi, 1983, in cui il critico si confronta direttamente
con le tesi di Todorov proponendo correzioni e aggiustamenti.
[32] NOVELLE DALL’INCUBO 269
forma e nel contenuto, tutte le costanti che fin qui sono emerse.
L’estraneità del protagonista, che si agita in questo universo del
simmetrico, sembra allora tanto più marcata perché non si adegua
mai al contesto onirico in cui è proiettato. Il mondo della psiche ha
perduto i propri confini notturni ed è diventato il vero contesto in
cui chi ragiona ancora secondo paradigmi logici classici non può
che cedere alla resa, dichiarando a gran voce: «Il torto è mio, il torto
è mio».
11. Ah, vendicarsi, dormendo, di tutti i pudori e di tutta la logica del
giorno! Rovesciare con beata tranquillità tutte le cosiddette verità più
fondate! […] – Ora, se il sogno è una breve follia, pensa che la follia
è un lungo sogno, e immagina come debbano essere beati i folli… –
I folli, s’intende, che non siano cattivi. Perché guai se un sogno
diventa cattivo!
Io ne ho fatti di cattivi; e purtroppo mi durano anche coi sensi svegli…
29
Ho deciso di concludere con una delle testimonianze epistolari
più cupe e drammatiche dello scrittore: una lettera inviata a Marta
Abba da Berlino il 27 giugno 1929. I confini tra sogno e follia che si
fanno sempre più indistinti e, soprattutto, la chiara consapevolezza
di un diverso regime di pensiero («logica», parola chiave, come
visto, in una prospettiva matteblanchiana) tra il mondo notturno e
quello «del giorno», possono essere una conferma diretta per un
lavoro orientato ad una definizione dell’importanza del regime logico
simmetrico all’interno della produzione narrativa degli ultimi
anni di Pirandello.
La quantità e qualità delle manifestazioni oniriche presentate nelle
ultime due raccolte non sono frutto del caso. Come ha notato Giovanni
Macchia nell’introduzione all’edizione di Novelle per un anno
curata per Mondadori, «i suoi ultimi racconti facevano prevedere,
com’è facile accorgersi dall’esame di Una giornata e di Effetti di un
sogno interrotto, che ormai si era aperta per Pirandello una straordinaria
stagione»30. I nuovi prodotti della sua prosa non sono affidati
al romanzo, abbandonato fin dal 1926, ma al racconto. Purtroppo
questa «straordinaria» nuova stagione della scrittura pirandelliana,
in cui i sogni, le allucinazioni, la follia e in senso più vasto l’incon-
29 L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., p. 279 (i corsivi sono miei).
30 G. Macchia, Introduzione a L. Pirandello, Novelle per un anno, cit., vol. 3 p.
XIII.
270 VALENTINO BALDI [33]
scio, avevano una posizione logica e strutturale predominante, è
stata troncata dalla morte dell’autore il 10 dicembre 1936. È probabile
che proprio le condizioni di salute precaria e le degenze
ospedaliere abbiano ispirato Pirandello per il contesto di racconti
come Di sera, un geranio e Una sfida. Quello che mi sembra più
interessante, però, è che molte delle tematiche cardine della poetica
pirandelliana come il “guardarsi vivere”, la riflessione umoristica, il
disagio della modernità urbana e tecnologica, non solo siano presenti
anche in Berecche e la guerra e in Una giornata, ma trovino in
queste raccolte nuove declinazioni. Ritengo che l’attenzione riservata
da Pirandello alle manifestazioni dell’inconscio e quindi ad un
tipo di pensiero antilogico, non implichi un superamento della sua
poetica tradizionale, ma crei un nuovo osservatorio che permetta di
guardare da un altro punto di vista alla sua opera. Purtroppo non
conosceremo mai l’evoluzione di questa poetica: come una macabra
coincidenza, il racconto Effetti di un sogno interrotto, che è stato il
punto di partenza della seconda parte di questa analisi, è stato
pubblicato sul «Corriere della sera» il giorno prima della morte
dello scrittore.
Valentino Baldi
(Università di Siena)
FEDERICO PIANZOLA
Simboli e retoriche di San Giorgio in casa Brocchi
This essay analyses the rhetorical structure of the short story San
Giorgio in casa Brocchi. Following Francesco Orlando’s theories and
technique, the author traces several figures of speech Gadda make
use of to construct a symbolic net that becomes more and more
intense and complex as the narration goes on. The stylistic strength
of the story is closely linked to the relations arising from the author’s
syntactic, semantic and narrative choices. We can cast light on the
intricacy of the text only by taking into due account both the
rhetorical functions of each narrative element and the interaction
between them.
Nel dare inizio a questa serie di considerazioni relative al racconto
San Giorgio in casa Brocchi voglio ricorrere ad una suggestione,
di cui si è abusato ampiamente, tratta da un altra opera di Gadda,
Quer pasticciaccio brutto de’ via Merulana:
[…] le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto
che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma
sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza
del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità
di causali convergenti. (RR II, p. 16)1
L’immagine del vortice riassume perfettamente alcuni aspetti delle
dinamiche narrative di San Giorgio in casa Brocchi, partirò dunque
1 Come è di consuetudine negli studi gaddiani, le abbreviazioni utilizzate
corrispondono alle seguenti opere: RR II = Romanzi e racconti II, a cura di G.
Pinotti, D. Isella, R. Rodondi, Milano, Garzanti, 1989; SGF I = Saggi giornali
favole e altri scritti I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Milano,
Garzanti, 1991; SVP = Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vela, D.
Isella, P. Italia, G. Pinotti, Milano, Garzanti, 1993; AF = A un amico fraterno.
Lettere a Bonaventura Tecchi, a cura di M. Carlino, Milano, Garzanti, 1984.
272 FEDERICO PIANZOLA [2]
da qui con l’intento di mettere in luce la raffinatezza della costruzione
retorica e simbolica del racconto gaddiano2.
1. Incipit
Ho ricordato quest’immagine presa dal Pasticciaccio perché in
qualche modo è appropriata per descrivere il sistema dei rapporti
tra gli elementi compositivi di San Giorgio in casa Brocchi. Cercherò
ora di chiarire meglio questa ipotesi cominciando dall’incipit del
racconto, dove in venti righe sono presenti molti degli elementi che
avranno sviluppo nelle pagine successive, e che presenta in modo
concentrato le dinamiche narrative che il lettore incontrerà. Nell’incipit,
infatti, (i) viene presentato l’universo narrativo, (ii) viene introdotto
il personaggio catalizzatore degli elementi moralmente provocatori,
Jole, (iii) si incontrano manifestazioni dei principali campi
simbolici che dominano la vicenda e (iv) sono dati elementi spaziotemporali
fondamentali per la costruzione narrativa del racconto.
Per seguire al meglio le successive considerazioni è utile aver ben
presente questa parte del testo:
Che Jole, la cameriera del conte, uscisse ogni sera per far fare la
passeggiatina a Fuffi: e che Fuffi, di tanto in tanto, dopo aver meticolosamente
inseguito a guinzaglio teso e col muso contro terra non
si sa che odore, levasse tutt’a un tratto, contro il più nobile degli
Ippocastani, la quarta zampetta, come a dire: «Questo qui, proprio,
2 Per alcune delle osservazioni che seguono si confrontino anche M. Kleinhans,
Carlo Emilio Gaddas Kampf zwischen San Giorgio und San Luigi Gonzaga.
Versuch einer Symbolanalyse, «Italienische Studien», XVI, 1995, pp. 109-138, anche
in BabelGadda, «Edinburgh Journal of Gaddian Studies», http://www.gadda.
ed.ac.uk; Idem, «Un caleidoscopico Novecento». Zur Funktion der bildenden Kunst
in Carlo Emilio Gaddas Satire «San Giorgio in casa Brocchi», «Romanische Forschungen
», CIX, 1997, 1, pp. 24-46, anche in BabelGadda, «Edinburgh Journal of
Gaddian Studies», http://www.gadda.ed.ac.uk; D. Reimann, Gaddas Cicero-Parodie
in «San Giorgio in casa Brocchi». Gestalt und Funktion einer Parodie auf Cicero
im 20. Jahrhundert, in Komik der Renaissance – Renaissance der Komik, a cura di B.
Marx, Frankfurt am Main et al., Peter Lang, 2000, pp. 203-232, anche in
BabelGadda, «Edinburgh Journal of Gaddian Studies», http://www.gadda.
ed.ac.uk; C. Savettieri, Le forme dell’esperienza. Alcune note su un libro virtuale
di Gadda, in Gadda. Meditazione e racconto, a cura di C. Savettieri, C. Benedetti, L.
Lugnani, Pisa, ETS, 2004, pp. 85-104; A. Godioli, «Era… un’idea fissa… la sua».
Sulla satira di «San Giorgio in casa Brocchi», «Edinburgh Journal of Gaddian
Studies», V, 2007, http://www.gadda.ed.ac.uk.
[3] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 273
mi merita la spesa!»; che, intanto, frotte di bersaglieri ritardatari trasvolassero
in corsa con piume nel vento di primavera e dicessero a Jole
dei madrigali a tutto vapore, già sui vaganti sogni della notte cadendo
la brutale saracinesca della ritirata: che i tram vuoti galoppassero
verso le tettoie suburbane o semivuoti verso le formicolanti stazioni:
e qualche monaca in partenza chinasse il viso sopra le mani congiunte
nel grembo, travisti dal finestrino li amanti disparire baciandosi
nell’ombre de’ cupi giardini; e che Jole, travista la monaca in
tram, quella povera monaca le mettesse in tutte le vene un certo
desolato sgomento: che tuttociò accadesse, era, si potrebbe quasi
arrischiare, nell’ordine quasi naturale delle cose, o almeno delle cose
del 1928 p.C.n. (RR II, p. 645)
Il racconto si apre con la descrizione di una scena di quotidiana
espletazione di un bisogno naturale: la passeggiata di un cane accompagnato
da una cameriera. Si incontra così fin dal principio uno
dei temi attraverso cui sono avanzate le critiche all’«ossessione conservatrice
e moralistica» (AF, p. 91) di certe famiglie milanesi: la
naturalezza dei bisogni fisici. Tale argomento è solo un sottoinsieme
di un più ampio campo semantico al quale sono riconducibili anche
altre espressioni. Possiamo definire questa area tematica come campo
della ‘corporeità’, il quale nello specifico è composto da due
sottoinsiemi, che si accrescono e delineano meglio col progredire
della narrazione: da un lato vocaboli accostabili alla fisicità animale
manifestata in modo naturale («muso», «zampetta», «galoppassero
»), dall’altro lato vocaboli ‘casti’ riferibili a una qualche funzione
religiosa («viso», «mani», «grembo»).
Nelle righe successive è introdotto un altro elemento che ricorre
sistematicamente all’interno del discorso satirico: la modernità. Presentata
qui sotto gli aspetti di ‘urbanità’ e ‘nuova tecnologia’, temuta
e aborrita dalla famiglia Brocchi, la modernità è chiamata in
causa dai bersaglieri che indirizzano alla Jole «madrigali a tutto
vapore» e su cui cade la «saracinesca della ritirata», dai «tram»,
dalle «tettoie suburbane» e dalle «stazioni». Di particolare importanza
è poi la presenza di termini dell’ambito equino, i quali in
tutta l’opera si inseriscono trasversalmente nel campo della corporeità-
animalità, in quello della religione (San Giorgio è «il cavaliere
dei santi, il santo dei cavalieri»; RR II, p. 654) e in quello della
modernità novecentesca (si vedano le parti del racconto relative
all’esposizione Futurista e alla Triennale Milanese). Nell’incipit tale
uso è esemplificato dai vocaboli «Ippocastani» e «galoppassero».
Recuperando l’immagine del Pasticciaccio possiamo dire che que274
FEDERICO PIANZOLA [4]
sti sono i due elementi che costituiscono le minacciose legioni
asserragliate fuori dalle mura della Virtù: una fisicità vissuta in
modo naturale e la modernità del Novecento (tecnologia e, soprattutto,
arte). Il loro ruolo narrativo è ben definito: sono gli antagonisti
che si insinuano a violare e trasformare l’attuale stato delle cose
tanto caro alla contessa Brocchi.
È stato messo in evidenza più volte come lo scontro tra San
Giorgio e San Luigi sia centrale e onnipresente nel racconto3. Nell’incipit
si delineano subito le rispettive aree di influenza dei due santi
con la loro discesa in campo tramite due avatar. San Giorgio è rappresentato
dai bersaglieri, San Luigi dalla monaca. Per il secondo si
può dire che i gesti della monaca anticipano a quelli della contessa
Brocchi e che la loro compostezza liturgica e la volontà di fuga
dalla mondanità (distoglie lo sguardo) fanno pensare all’ascetica
rinuncia del santo protettore Luigi Gonzaga, entrato giovanissimo
nella Compagnia di Gesù. Nel caso del santo cavaliere l’accostamento
è ancora più forte: qui i bersaglieri sono presentati come se
[…] trasvolassero in corsa con piume nel vento di primavera e dicessero
a Jole dei madrigali a tutto vapore, già sui vaganti sogni della
notte cadendo la brutale saracinesca della ritirata; (RR II, p. 645)
qualche pagina più avanti si dice che il 24 di aprile si festeggia San
Giorgio che
[…] è una sognante speranza! perché fuori dalle rotolanti tempeste
di primavera, lacerate al fulgore della sua lancia e del nimbo d’oro,
trasvola nei cieli, pubertà donatelliana, a cavallo tuttavia come per il
Carpaccio, il cavaliere dei santi, il santo dei cavalieri! (RR II, p. 654)
I militari compiono la stessa azione del santo, dunque. Non solo
lo stesso verbo (trasvolare), l’immagine è anche completata dagli
stessi elementi, creando delle corrispondenze quasi perfette: «vaganti
sogni»/«sognante speranza», «vento di primavera»/«tempeste
di primavera», «vapore»/«nimbo»; proseguendo con gli accoppia-
3 Cfr. V. Spinazzola, Una festa di compleanno raccontata da Gadda, in Idem,
Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, II, pp. 827-843,
Milano, Cisalpino, 2000. Ora in Idem, La modernità letteraria, Milano, Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori-Il Saggiatore, 2001, pp. 247-264; G. Pinotti, San
Giorgio in casa Brocchi, in A Pocket Gadda Encyclopedia, a cura di F. Pedriali,
«Edinbourgh Journal of Gaddian Studies», IV, Supplement no. 1, 2004, http://
www.gadda.ed.ac.uk.
[5] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 275
menti simbolici e semantici, si può inoltre dire che sono citati gli
elementi che nell’immaginario collettivo caratterizzano i due personaggi
(le piume dei bersaglieri; la lancia con cui San Giorgio ha
trafitto il drago) e che il cavallo del santo è richiamato dai «galopp[
anti]» tram che affiancano i soldati in corsa.
2. Satira, comico e ironia
Tutti gli elementi e le situazioni elencati nel primo paragrafo
non hanno alcunché di anomalo in sé, acquistano però eccezionale
rilievo all’interno di un più ampio sistema simbolico che coinvolge
tutta la narrazione. È la frase di chiusura di questo paragrafo iniziale
a dare al lettore la chiave per entrare nel sistema:
[…] che tutto ciò accadesse, era, si potrebbe quasi arrischiare, nell’ordine
quasi naturale delle cose, o almeno delle cose del 1928 p.C.n.
(RR II, p. 645)
Questa è la proposizione principale del paragrafo introduttivo,
ma essa compare solo dopo che si è accumulata una lunga serie di
subordinate soggettive. La scelta di ritardare così tanto questa asserzione
estremizza gli esiti del processo di topicalizzazione, contribuendo
a sottolineare il ruolo cruciale della proposizione reggente.
Con essa si afferma la naturalezza di alcuni comportamenti quotidiani,
ma il modo in cui il narratore presenta tale assunto sottintende
quell’ossessione della contessa Brocchi che il lettore conoscerà solo
successivamente. L’affermazione della liceità e della naturalezza di
certe situazioni è avanzata in modo cauto, come se si stesse suggerendo
qualcosa di azzardato o si temesse di offendere irrispettosamente
le rigide convinzioni di qualcuno. La comicità della proposizione
è nella prudenza ostentata eccessivamente (una proposizione
incidentale, verbo al condizionale e ben tre avverbi attenuanti) e
questo eccesso smaschera la tentata dissimulazione della verità, svelando
così inevitabilmente il pensiero ironico che la figura retorica
vuole celare. Si può inoltre vedere del sarcasmo nel fatto che il riferimento
temporale è evidenziato («almeno […] 1928 p.C.n.») mostrando
così, il narratore, una presa di distanza nei confronti della
moralità del tempo, a suo parere evidentemente un po’ obsoleta4.
4 Cfr. A. Godioli, «Era… un’idea fissa… la sua», cit. per un’interpretazione
simile di questo passo; il Godioli suggerisce inoltre che la maniera «umoristico276
FEDERICO PIANZOLA [6]
Ho suggerito che l’ironia sia la chiave di accesso al sistema simbolico
dell’opera. Lo è perché tramite di essa viene costruita la critica
alla morale dominante nel racconto. Il narratore si serve di un
espediente retorico per dar voce alle sue idee pur mantenendo su di
esse una repressione di tipo verbale5. La forza repressiva qui è esercitata
dalla comicità, la cui funzione retorica è affermare le «idee
nuove» attenuando la loro irriverenza, mentre il contenuto represso
emergente consiste nell’affermazione dell’assurdità di certe idee
morali. Il meccanismo, tuttavia, funziona solamente se il lettore
condivide il pensiero espresso ironicamente ed è quindi disposto ad
oltrepassare la facciata comica per recepire il messaggio celato, così
che «il dileguarsi del momento comico ha per contropartita obbligatoria
una promozione del momento di complicità repressa dal fondo
alla superficie»6.
Una volta individuato un meccanismo retorico di questo tipo
viene naturale chiedersi quali e quanti significati abbiano le aree
semantiche finora individuate quando ricorrono in altre parti della
narrazione. La domanda è ancora più interessante se si tiene conto
della frequenza con cui alcuni vocaboli compaiono e, si vedrà, del
loro essere sistematicamente associati con argomenti, situazioni e
temi ricorrenti. È dunque sempre possibile collegare la presenza di
significati affini a ‘naturale’ con l’emergere di una critica ad atteggiamenti
moralisti? La risposta non è scontata e senza dubbio vale
la pena di analizzare queste ricorrenze per tentare di comprendere
meglio il funzionamento del meccanismo retorico individuato.
3. Exit
La densità figurale di San Giorgio in casa Brocchi è notevole anche
solo in poche righe, come si è visto. Tale ricchezza si estende in
ironica, apparentemente seria, dickens-panzini» (SVP, p. 396) sia la modalità
espressiva dominante di questo racconto.
5 Usando il termine ‘repressione’ intendo indicare la funzione retorica che ha
qui la comicità. Successivamente utilizzerò ancora questo termine in riferimento
ad altre figure retoriche non tradizionali. Non darò alcuna sistematizzazione di
queste figure per non appesantire il discorso, si può comunque fare riferimento
a Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, cit.; Idem, Illuminismo, barocco
e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982; Idem, Due letture freudiane: Fedra e
il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990.
6 Idem, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, cit., p. 185.
[7] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 277
tutto il testo ma è innegabile che esistano parti che, grazie alla loro
collocazione nella narrazione, hanno una maggiore efficacia espressiva;
per dirlo con Orlando: «inizio, fine, ordine delle parti, sono
senza dubbio altrettanti luoghi privilegiati come sede d’ogni specie
di figure di cui il linguaggio letterario è capace; nei testi la cui
letterarietà è più forte non direi tanto che tali luoghi possono ma
che devono, quasi per ipotesi, esserne sede»7.
L’inizio del racconto è senza dubbio un luogo di notevole spessore
simbolico; la fine del racconto è anch’essa luogo decisivo nella
dinamica delle tensioni interne alla vicenda, non ci resta che vedere
perché. Anche in questo caso prenderò in esame esclusivamente
pochi paragrafi, lasciando al lettore la possibilità di estendere considerazioni
analoghe al resto dell’opera. Così si legge nell’ultima
pagina:
Non esiste, purtroppo, nella trattatistica dei doveri, una nomenclatura
sufficientemente analitica per il catalogo di siffatte irregolarità: ma i
nuovi dispiaceri, che la Jole doveva finir per dare ai Brocchi, non si
limitarono a così poco. Il dispiacere definitivo viene ora. Ardenti
baci si impressero sulla bocca del giovane e le dita della ragazza,
come due pettini demoniaci, gli si insinuarono nel folto de’ capelli,
fugandone ogni più casto pensiero, stringendo quel capo. I seni di
lei si offrivano alla stretta virile come cose meravigliosamente reali,
nel mondo di buoni consigli.
«… Signorino, no, no…» diceva, «… qui no, non possiamo…»
Gigi, tenendola con il braccio sinistro, chiuse ruvidamente la porta a
chiave. Tenendola sempre, la trascinò, come una dolce preda, dove
l’amore potesse essere più pieno e vero. (RR II, p. 697)
Ricordando i commenti all’incipit del racconto, si noterà come
ritorni qui l’associazione semantica di parti anatomiche e termini
della sfera religiosa, ma questa volta con un rapporto mutato. Là
sono il «viso», le «mani» e il «grembo», qui sono il «capo», le «dita»
e i «seni»: gli stessi elementi8 là sono riferiti al composto atteggiamento
della monaca, qui marcano gli atti della sessualità, finalmente
liberata, dei due giovani. In entrambi i casi è un bacio a introdurre
la scena: là il gesto sfuma «nell’ombre de’ cupi giardini» e l’attenzione
si sposta sulla casta reazione della monaca, qui gli «ardenti
baci» sono il primo stadio di una crescente tensione sessuale che
7 Idem, Per una teoria freudiana della letteratura, cit., pp. 120-121.
8 Mi pare che ‘grembo’ e ‘seni’ possano essere considerati come aventi una
funzione omologa nei due casi, come riferimenti simbolici alla Madonna.
278 FEDERICO PIANZOLA [8]
coinvolge le dita «demoniac[he]» di Jole impegnate proprio ad allontanare
«ogni più casto pensiero». Là il grembo ospita le «mani
congiunte» della monaca, i seni di Jole, al contrario, «si offrivano
alla stretta virile» di Gigi.
Questi parallelismi sono un indizio interessante nella ricerca di
quella coerenza simbolica che ho proposto di indagare. A questo
proposito appaiono estremamente rilevanti le ultime tre righe del
racconto, che ritengo essere di decisiva importanza per il senso che
acquisiscono i gesti di Gigi in relazione all’ideologia dominante.
Gigi tiene Jole per un braccio, chiude la porta a chiave, la trascina
«dove l’amore potesse essere più pieno e vero»: tutte e tre queste
azioni si pongono in contrasto con l’ideologia dominante e svelano
il pensiero critico del narratore. Il comportamento di Gigi è spontaneo,
per la prima volta egli sa cosa fare e non indugia in considerazioni
etiche, seguendo invece l’istinto che lo porta ad agire secondo
una naturalità animale che privilegia il contatto fisico, senza
permettere al pensiero razionale di intervenire.
Gigi, tenendola con il braccio sinistro, chiuse ruvidamente la porta a
chiave. Tenendola sempre, la trascinò, come una dolce preda, dove
l’amore potesse essere più pieno e vero. (RR II, p. 697)
Il lettore rimane decisamente sorpreso dalla decisione dei gesti
di Gigi che appaiono quasi come un atto liberatorio, non solo dalla
morale borghese ma anche da ogni etica umana, in quanto il codice
di comportamento vigente tra i due ragazzi sembra essere quello
animale. L’ultima proposizione, a mio avviso, è quella che sancisce
la legittimità di una lettura rivolta all’aspetto ideologico del testo e
fornisce al tempo stesso un’indicazione di quanto sia radicale il conflitto
dialettico interno alla narrazione. Il represso ideologico emerge
qui in modo esplicito: solo un amore che venga vissuto anche
nella pienezza della sessualità può essere vero. Non è solo il moralismo
cattolico e borghese ad essere attaccato, la stessa liceità dell’ordine
sociale è messa in discussione, in quanto solo l’incontro con
ciò che è esterno all’ideologia dominante permette di conoscere la
verità. Viene infatti svelata la falsità di questa ideologia, la quale
ignora e condanna dei bisogni reali facendosi scudo di una morale
che si rivela essere solamente una vetusta retorica; così i seni di Jole
appaiono a Gigi
[…] come cose meravigliosamente reali, nel mondo di buoni consigli.
(RR II, p. 697)
[9] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 279
La disfatta dell’autorità morale avviene lungo due direttrici: una
spaziale e l’altra verbale. Per quanto riguarda lo spazio, l’incontro
di Gigi e Jole avviene in casa Brocchi, all’interno dei «sacri penetrali
» della famiglia milanese, entro le «muraglie delle virtù patrie»,
violando e ribaltando quella che è l’organizzazione spaziale dei rapporti
in tutto il racconto (il male e la perversione vengono da fuori,
casa Brocchi è l’unico luogo sicuro per Gigi). In questa scena i due
giovani si muovono verso l’occhio del ciclone per godere del loro
amore indisturbati e proprio Gigi chiude a chiave la porta isolandosi
dal resto della casa. Sul piano verbale la sconfitta è sancita dall’assenza
di riflessione nei gesti di Gigi: non è più il momento di
parlare o nominare le cose, fra Gigi e Jole non c’è più nessuna Etica,
né quella ciceroniana, né quella dello zio Agamènnone (il cui libro
è stato lasciato in un’altra stanza); entrambi hanno finalmente espresso
a parole quello che sentono (RR II, p. 696) – dopo pagine e pagine
di silenzio imposto dallo sproloquio degli adulti – e ora sono solamente
i loro corpi i protagonisti della scena.
4. Ideologia e repressione
È opportuno fare qualche passo indietro e cercare di ricostruire
meglio l’entità del conflitto ideologico. Generalizzando, esso può
essere classificato su tre diversi piani: fisico, verbale e istituzionale9.
Ad ognuno di questi piani corrisponde un certo grado di repressione
degli elementi sovversivi.
4.1 Ordine fisico
Sul piano fisico, nell’espressione del conflitto sono coinvolti esclusivamente
un soggetto e l’oggetto del proprio desiderio. In San Giorgio
in casa Brocchi i soggetti che manifestano un desiderio sono molteplici
(quasi tutti i personaggi che compaiono nella vicenda) ed
esprimono tutti il desiderio di soddisfare un bisogno naturale, il che
porta inevitabilmente alla trasgressione di quelli che nella vicenda
sono presentati come i valori dominanti. Questo è, in sintesi, il
modello che si ottiene astraendo dai diversi episodi narrativi, i quali
hanno senz’altro una varietà maggiore. L’oggetto del desiderio varia,
infatti, a seconda del soggetto della relazione.
9 Cfr. F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, cit., pp. 48-49.
280 FEDERICO PIANZOLA [10]
Il desiderio è esplicitamente sessuale nel caso in cui il soggetto
sia al margine del conflitto generato dalle norme della morale dominante:
così il pittore romano Penella rappresenta atti sessuali nei
suoi quadri e frequenta liberamente i bordelli di Milano; e il giovane
Gian Carlo Vanzaghi ama sedurre fanciulle e raccontare a Gigi
delle sue avventure nei locali del Montparnasse. In questi casi la
trasgressione è esplicita poiché entrambi i soggetti sono esterni alla
famiglia Brocchi, rappresentante del moralismo.
Il desiderio è, invece, rivolto ad una classe differente di oggetti
e atti nel caso in cui il soggetto sia qualcuno che appartiene al
gruppo egemone e partecipa attivamente alla costruzione della morale
dominante: in questo caso l’oggetto del desiderio è il cibo. I
capponi e le bistecche alla Bismarck sono la gioia dello zio Agamennone
ma sono anche un’infrazione alla sua dieta vegetariana, quindi
la trasgressione di una regola tout court, regola che non è però
quella direttamente criticata dal narratore.
Nel caso in cui il soggetto sia il più strenuo difensore della
tradizione l’oggetto del desiderio è ancora differente: la contessa
Brocchi è disgustata da qualsiasi cosa riguardi il sesso o il cibo, tuttavia
anch’ella si rende protagonista di una trasgressione, in cui
l’oggetto desiderato appartiene alla tradizione stessa. Il tradimento
avviene nei confronti di San Luigi in favore di San Giorgio: la tovaglia
destinata al primo viene offerta per il nuovo altare del secondo,
in questo modo il santo «femminista» ha la meglio sul santo «ascetico
e rinunciatario» (AF, p. 91).
4.2 Ordine verbale
Per quanto riguarda il piano verbale il conflitto coinvolge più
soggetti, i quali sono in contrasto tramite l’uso della parola. La
repressione a questo livello è radicale all’interno della vicenda: l’esperienza
che Gigi ha del mondo è mediata dai libri, dai racconti di
altre persone, è vincolata in ogni momento alla possibilità di classificare
e dare un nome a cose, sensazioni, pensieri. Il desiderio sessuale
di Gigi è latente ma preme per manifestarsi, egli tuttavia non
riesce ad accettarlo perché non conosce le parole con cui esprimerlo
ed è condizionato dalla repressione che la contessa esercita su di lui
tramite l’educazione e la parola. Il superamento della repressione
segna la conclusione della vicenda e l’abbandono da parte di Gigi
di ogni preoccupazione per le parole e le definizioni morali, ma
questa liberazione è comunque legata ad una retorica, al libro dello
[11] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 281
zio Agamennone – il quale «è un’Etica e una Stilistica» (RR II, p.
652) – in cui Gigi trova una giustificazione alle proprie pulsioni.
Il narratore asseconda l’ideologia dominante – che percepisce
come scandaloso qualsiasi discorso sul sesso – e di conseguenza
non autorizza l’espressione verbale del desiderio sessuale. La repressione,
tuttavia, non può essere assoluta, altrimenti il conflitto
non sarebbe visibile; ho parla di radicalità della repressione di ordine
verbale perché nei luoghi in cui il represso emerge la repressione
persiste operando ad un livello narrativo più ristretto, cioè agendo
solamente sul personaggio più tenacemente conservatore: la contessa
Brocchi. Il narratore, infatti, utilizza un lessico differente all’interno
dello stesso campo semantico a seconda del personaggio a cui fa
riferimento: così, per esempio, nell’area semantica della ‘corporeità’
termini che si riferiscono a parti anatomiche del volto compaiono
quasi esclusivamente associati alla contessa Brocchi, mentre nomi di
parti del corpo di animali fanno riferimento a più personaggi e sono
usati ampiamente nel caso di comportamenti sessualmente liberi.
La critica è sempre presente sul piano verbale, si manifesta nel
gioco delle esagerazioni linguistiche, nelle caricature dei vari personaggi,
nell’uso ipertrofico della retorica classica. I personaggi ci
vengono mostrati nella genuinità dei loro comportamenti, ciò che li
rende comici è la loro «autolesione, la riduzione ad assurdo spontanea
»10 e l’atteggiamento assunto dal narratore può essere definito
come: «prendo alla lettera, con aperta malignità»11. La repressione di
ordine verbale opera quindi su più livelli: nelle scelte compositive
dell’intera narrazione, nel discorso del narratore e nei dialoghi dei
personaggi.
4.3 Ordine istituzionale
La repressione di ordine istituzionale riguarda «l’ordine sociale
in quanto istituzione preesistente ed esterna al soggetto»12. Qualsiasi
ordine sociale è istituito e mantenuto vigente per mezzo di diversi
organi di controllo, all’interno dei quali gli appartenenti a ciascuna
categoria sociale devono costantemente affermare le loro posizioni e
i rapporti reciproci. Nel racconto l’ordine sociale è quello che vede
i Brocchi come famiglia signorile di Milano impegnata a farsi garante
10 F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, cit., p. 184.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 49.
282 FEDERICO PIANZOLA [12]
della tradizione morale. I Brocchi affermano la loro posizione signorile
rispetto ad altri personaggi e l’elevata aspirazione culturale che
si addice al loro ruolo sociale attraverso tre canali: la religione, l’arte
e l’istruzione.
In campo religioso è la contessa Brocchi ad agire, ricamando la
tovaglia per l’altare di San Giorgio e presiedendo come madrina all’inaugurazione
– perché «esser Brocchi a Brugnasco era come esser
Julii o Claudii a Roma» (RR II, p. 655) – nonché impegnandosi in
opere di carità e filantropia.
Per quanto riguarda l’arte è lo zio Agamennone a mettere in
mostra il nome della famiglia Brocchi tra i mecenati milanesi: è
«Membro del vasto comitato organizzatore» (RR II, p. 658) dell’esposizione
futurista alla Triennale Milanese, acquista un quadro del
pittore più in vista del momento e lo invita a pranzo, come è usanza
fare nei salotti signorili.
Infine l’istruzione: ciò che più sta a cuore alla contessa è il bene
di Gigi e così il rampollo di casa Brocchi si ritrova circondato da
preti, dottori e professori che si affaccendano perché cresca studiando
i testi più ‘adatti’, impari il meglio dalla classicità latina e mantenga
sempre integra la sua moralità. Chiaramente tra tutti i possibili
ausili nulla può essere meglio del libro che un membro della
famiglia, lo zio Agamennone, sta scrivendo per la giovane «speranza
» (RR II, p. 648) della distinta famiglia Brocchi.
Dopo aver identificato i modi in cui l’ordine sociale sia affermato
posso ora spiegare in che modo esso venga attaccato. Le figure di
repressione sono dunque differenti e interessano parti della narrazione
di ampiezza variabile; la tecnica usata è ancora una volta
l’ironia ma con una sfumatura diversa da quella usata per le figure
di ordine verbale: l’atteggiamento del narratore là era prendo in parola,
mentre qui può essere meglio espresso come «lascio la parola a,
con apparente candore»13. In questo modo un rappresentante della
tradizione diventa il soggetto dell’azione e la critica è realizzata per
autolesione, un’autolesione che risulta comica in quanto la violazione
della tradizione avviene proprio a causa di azioni compiute con
l’intento di affermare e mantenere l’ordine costituito, oppure per
eventi accidentali apparentemente innocui. Così il Penella ‘adesca’
Gigi proprio durante uno dei pranzi organizzati dallo zio Agamennone;
i quadri novecenteschi dell’esposizione futurista diventano
lezioni di anatomia per Gigi e per le signorine del Lyceum; l’assen-
13 Ivi, p. 184.
[13] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 283
za della contessa, impegnata nella cerimonia religiosa, dà a Jole il
coraggio necessario per avvicinare Gigi; nel tanto atteso libro dell’Etica
Gigi trova una giustificazione alle sue pulsioni e si sente
quindi autorizzato ad un contatto fisico con Jole; l’indigestione dello
zio e l’incidente domestico capitato alla zia Maddalena fanno sì che
i parenti restino lontani dalla casa dove i giovani si incontreranno.
La parte centrale del secondo capitolo (l’analessi nella Roma antica
con l’invettiva contro Cicerone) merita un discorso a parte, perché
in questa porzione di testo la critica si fa più evidente ed è la
massima autorità in questioni morali ad essere attaccata. Non solo,
la critica non è più legata esclusivamente al piano morale ma si
avvicina anche a quello politico e la voce narrante introduce considerazioni
ampie e spregiudicate sull’operato di Cicerone. Una tale
esplicitezza è possibile perché la repressione che opera in questa
sezione è aumentata di grado: la critica è rivolta (per estraniamento)
ad una situazione storica differente, e proprio questo permette il
ritorno di un represso che altrimenti sarebbe più difficilmente accettabile.
5. La costruzione retorica
Di seguito procederò in modo sistematico estrapolando dal testo
una serie di citazioni ed individuando il maggior numero possibile
di occorrenze del sistema di repressioni simboliche presentato nelle
sezioni precedenti. Anticipo però subito un’osservazione che concluda
momentaneamente il discorso generale: San Giorgio in casa Brocchi
è un testo da cui il lettore trae un soddisfacimento che va oltre il
momentaneo piacere comico derivante da una non identificazione
nei confronti dell’oggetto satireggiato; questo perché alla fine del
racconto le posizioni represse ideologicamente emergono in modo
definitivo sia sul piano fisico, sia sul piano verbale. Tutti cedono alle
proprie pulsioni e il finale scioglie la tensione con il compimento
dell’atto sessuale, così come l’arte e la lingua sono libere dai vincoli
della tradizione nel loro «impiego spastico» (SGF I, p. 437) e iperespressivo.
L’unica repressione a non essere infranta è quella che
riguarda l’ordine istituzionale: al termine della vicenda esso rimane
invariato, gli atteggiamenti moralisti non sono stati eliminati e i
rappresentanti dell’ideologia dominante continuano ipocritamente a
concedersi le loro piccole trasgressioni e ad emettere giudizi sullo
scandalo portato dai «calamitosi tempi» (RR II, p. 651) moderni.
284 FEDERICO PIANZOLA [14]
In contesti letterari difficilmente si trovano contrapposizioni tra
le parti che siano nette e distinte, si incontrano piuttosto situazioni
di ambiguità che richiedono una partecipazione attiva del lettore
alla costruzione del senso. Il testo gaddiano, inoltre, è notevolmente
complesso e i casi di indefinitezza simbolica e di ambiguità ideologica
sono frequenti. Queste situazioni narrative sono zone in cui la
trama della rete simbolica che pervade la narrazione si infittisce. Il
lettore
[…] da un lato lega il significato di quegli oggetti a una enciclopedia
testuale […], dall’altro li collega tra loro, in un sistema co-testuale di
rimandi. L’operazione interpretativa investe quegli oggetti di contenuti
abbastanza delimitati […] e quindi ritaglia una zona di enciclopedia
a cui le espressioni rimandano14.
In San Giorgio in casa Brocchi gli elementi di collegamento tra le
forze antagoniste sono individuabili a livello linguistico prima ancora
che a livello della composizione narrativa, e così anche la coerenza
del sistema spazio-temporale, il quale deve la propria solidità a
scelte linguistiche più che a scelte narrative. I luoghi in cui la funzione
di queste scelte è più evidente sono quelli in cui si hanno
addensamenti della rete simbolica in corrispondenza di un numero
limitato di nuclei retorici:
– religione
– corporeità [animale (equina)]
– formalità morali
– cibo
È quasi impossibile tuttavia individuare luoghi in cui queste aree
semantiche si manifestino in modo isolato poiché tali aree tendono
a comparire insieme e a combinarsi ambiguamente nel caratterizzare
personaggi e situazioni. È importante notare, inoltre, che questo
«sistema co-testuale di rimandi» non è un vuoto esercizio di stile,
bensì è funzionale all’espressione del conflitto ideologico soggiacente
a tutta la narrazione, quello cioè tra la «metafisic[a] della morale» e
la «fisica del genere umano» (RR II, p. 646), conflitto che vede affrontarsi
sul campo di battaglia San Luigi e San Giorgio.
La schematizzazione dei nuclei retorici appena proposta è utile
per chiarire il modo in cui le scelte linguistiche sono indice di contenuti
rilevanti per il conflitto San Luigi/San Giorgio. Pinotti ha
14 U. Eco, Simbolo, in Enciclopedia Einaudi, XII, Torino, Einaudi, 1981, p. 910.
[15] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 285
individuato il ruolo centrale dell’etica nel conflitto e ha definito le
forze antagoniste come dirette a un’infrazione della norma15. È una
visione senza dubbio corretta, ma credo sia fondamentale capire
come queste infrazioni avvengano per poter cogliere la sottile complessità
dell’opera. Il commento di Pinotti è riferito ad una versione
precedente del racconto, che comprende solo la seconda e la terza
parte dell’edizione solariana di San Giorgio in casa Brocchi, ed è intitolata
Il trattato di morale. Il ruolo della morale all’interno del racconto
è messo in evidenza fin dal titolo. Una scelta antecedente,
invece, poneva l’accento sul cibo, un altro dei nuclei semantici notevoli:
La pera marcia; mentre il titolo di uno dei lavori preparatori,
La svergognata, la tovaglia e il novecento, sintetizza le aree semantiche
della morale e della sessualità (la svergognata), del cibo e della
religione (la tovaglia), della novità e dell’arte (il novecento).
5.1 Religione
Nella redazione definitiva del racconto il riferimento alla religione
è introdotto fin dal titolo e si è visto come già nel primo
paragrafo esso sia un tema centrale della vicenda. È la contessa il
personaggio più saldamente connesso alla sfera religiosa, eccone
alcuni esempi:
[…] soltanto la preghiera e la Confessione avevan potuto cancellarne
l’angoscia (RR II, p. 648)
«Lo sai, però, che il 24 è domenica? E che fino a sera io sono a
Brugnasco per la consacrazione dell’altare?… Non ho potuto dir di
no… Era troppo giusto…» (RR II, p. 654)
Cercare ne’ suoi doveri di madre, nelle pratiche della pietà, nell’esercizio
della carità, un sollievo de’ vecchi dolori, una ragione per
la speranza! (RR II, p. 656)
La contessa palpitò. Temperò lo sdegno con la preghiera (RR II, p.
663)
E la contessa, «che era l’anima della sua casa», aveva fondati motivi
per intensificare le sue vigilie, le sue ardenti preghiere (RR II, p. 664)
Sono tutte situazioni in cui la contessa manifesta un certo trasporto
emotivo e perciò contribuiscono a caratterizzare il personaggio
in modo abbastanza solido e apparentemente univoco: un per-
15 G. Pinotti, Per la storia di «San Giorgio in casa Brocchi», in Per Carlo Emilio
Gadda. Atti del Convegno di Studi, Pavia, 22-23 novembre 1993, «Strumenti critici
», IX, 2 (75), p. 260.
286 FEDERICO PIANZOLA [16]
sonaggio che fa costantemente riferimento alla religione e che frequentemente
ricorre al mondo spirituale per contrastare i «vecchi
dolori» che la vita materiale le procura e per combattere le inside
all’«incolumità morale di Gigi». Una caratterizzazione così forte
inevitabilmente lascia tracce anche in parti del testo dove la contessa
non agisce direttamente. Ogni volta che il lettore incontra parole
riconducibili alla sfera della religione è portato a collegare la situazione,
anche solo marginalmente, al ruolo centrale che essa svolge
nella narrazione, tramite il personaggio della contessa (è questo il
processo di formazione di un’enciclopedia testuale). Si crea così un
confronto tra il ruolo della religione nel nuovo contesto e il suo
ruolo consolidato grazie alla contessa. Si incontra il conte Agamènnone
che
[…] della salutifera chiesa vegetariana, […] s’era fatto, da un paio
d’anni, zelante e scrupoloso catecumeno: salvo la eccezione ricorrente
di una qualche bistecca alla Bismarck. (RR II, p. 649)
Sempre il conte elogia Jole che
[…] gli serviva con tanta grazia il caffelatte, che gli metteva con
tanta sollecitudine il prete in letto, o la «boule», che diceva
«Buonasera, signor conte!» con così devoto garbo. (RR II, p. 649)
I libri consigliati alla contessa per l’educazione di Gigi sono
[…] cento altre bibbie, fra il Mantegazza e la psicanalisi, con uno
spruzzo di Nietzsche in ritardo. (RR II, p. 653)
Ancora più interessanti sono gli accostamenti con le altre aree
semantiche notevoli: parlando di arte, per esempio, il rapido rinnovarsi
delle esposizioni alla Triennale è possibile
[…] perché lo slancio mistico della ricerca ha questo di buono che,
come misticismo, è un misticismo a cui si aprono quarantaquattro
possibilità. (RR II, p. 658)
L’ora del tè in casa Brocchi si trasforma in un rito liturgico,
[…] sicché le linee solenni di questo «largo» anglosassone, con
prefazio dell’acqua calda, cànone ed offertorio del limone, e credo
nel poco zucchero (o nel molto zucchero). (RR II, p. 666)
Nei pensieri della contessa l’Etica ciceroniana
[17] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 287
[…] era, sosteneva il professor Frugoni, come chi dicesse il Vangelo
di quei tempi. Il Vangelo degli antichi Romani! […] E «avevano»
davvero, quelli, il culto della famiglia, la religione della patria! (RR
II, pp. 670-671)
Incontrando passi come quelli appena citati il lettore nota immediatamente
il diverso senso che assumono i riferimenti alla religione
quando accostati a eventi e personaggi che non sono influenzati
dalla contessa. Questi accostamenti assumono una sfumatura ironica
perché in ognuna delle situazioni citate è implicata una trasgressione,
perpetrata nei confronti dell’ideologia dominante o comunque
nei confronti di un norma. Jole è la diretta antagonista della
contessa e il conte Agamènnone parla di lei (o comunque il narratore
riporta il suo discorso) scegliendo opportunisticamente i vocaboli
con cui rassicurare la contessa («grazia», «prete», «devoto»),
argomentando in modo da collocare la «svergognata» in un contesto
retorico contro cui la contessa non si azzarderebbe mai a sollevare
obiezioni. Il conte trasgredisce due volte alla norma: in primo
luogo, concedendo a Jole di rimanere a servire in casa propria,
trasgredisce alla norma che la contessa vuole imporre poiché la casa
non è più un luogo sicuro finché l’insidiosa cameriera è presente; in
secondo luogo, l’ironia nei confronti della morale religiosa emerge
in modo più diretto con il dietetico cedimento alla carne, in quanto
esso è «ricorrente» ed è una violazione esplicita alla «chiesa vegetariana
».
I passi citati sono caratterizzati dalla presenza di elementi antagonisti
che confermano l’uso retorico di determinate parole e contribuiscono
ad esasperare la caricatura del personaggio della contessa.
Le «bibbie» che i consiglieri suggeriscono per la formazione di Gigi
trattano di educazione sessuale; vocaboli della religione sono usati
per parlare della dinamica e novecentesca ricerca di nuove modalità
di espressione artistica, in netto contrasto con l’atteggiamento conservatore
e immobilista della tradizione ottocentesca; e la liturgica
descrizione del tè pomeridiano è la cornice di un imbarazzante dialogo
sulle vicende di Gian Carlo Vanzaghi.
5.2 Corporeità
Ho già accennato a come l’area semantica della corporeità sia
articolata in diversi sottogruppi. In riferimento agli esponenti della
classe dominante vengono nominate solamente parti del corpo ac288
FEDERICO PIANZOLA [18]
cettabili per una morale casta, quindi parti della testa, mani o il
cuore (sembrano essere un eccezione i polmoni (RR II, p. 669), i
quali non hanno alcun collegamento con la sfera religiosa). Per gli
antagonisti è ‘mostrato’ tutto il corpo, con un’ulteriore estensione a
vocaboli usati per descrivere l’anatomia di animali, in particolare
equini. Ecco alcuni esempi riferiti ai dominanti:
(La contessa si soffiò il nasino).
Ma i medici le avevano messo una spina nel cuore (il buon gusto
della contessa aborriva dalla pulce nell’orecchio) (RR II, p. 651)
il più dolce ricamo che fosse mai uscito dalle sue «mani di fata». (RR
II, p. 655)
Volle chiudere sulla Jole e su quel «forestiero» tutti e due gli occhi
inorriditi dell’anima. (RR II, p. 663)
la gentildonna contrasse le labbra. (RR II, p. 678)
Riferiti al professor Frugoni:
Si deterse con un fazzolettone i grossi baffi stillanti (RR II, p. 668)
Si deterse la fronte, col fazzolettone (RR II, p. 679)
E il professor Frugoni si mise una mano nei capelli. (RR II, p. 679)
Si tenga presente, inoltre, che, sempre in riferimento ai dominanti,
una particolare attenzione è data agli occhi, all’aspetto visivo e
all’apparenza; sono circa venticinque le occorrenze del verbo ‘guardare’,
più di trentacinque quelle del verbo ‘vedere’, più di trenta
quelle della parola ‘occhi’. La contessa, il conte Agamènnone, il
professor Frugoni e persino Gigi hanno un canale privilegiato di
interazione col mondo attraverso gli occhi: osservano tutto quello
che succede intorno a loro, si preoccupano delle apparenze, esternano
i loro stati d’animo e pensieri tramite variazioni dello sguardo.
Per quanto riguarda gli antagonisti, invece, sono soprattutto arti
inferiori, pancia e seni ad essere più spesso nominati, così
dopo il «pugno nello stomaco» de’ Futuristi (RR II, p. 658)
nell’esposizione alla Triennale si vedono:
[…] orde selvagge di cavalle dalle ginocchia tubolari […] pancia a
terra (RR II, pp. 658-659)
Le madornali natiche d’una meretrice boema, china a lisciarsi le
caviglie cilindriche (RR II, p. 659)
Ma anche in situazioni domestiche o nelle riflessioni di Gigi:
[19] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 289
Il ragazzo demonio gli aveva disegnato nell’anima quelle sapienti
cosce (RR II, p. 687)
maggio metteva cinque gambe ai somari (RR II, p. 690)
la dolce veste era adagiata sopra due seni così franchi nello spazio.
(RR II, p. 693)
Si nota anche uno uso frequentissimo di termini del mondo animale:
La contessa ricordava esasperata le occhiate avide e ardenti del panettiere
galoppar dietro le proterve emimorfìe della Jole, quasi per
azzannarle (RR II, p. 647)
le ragazze con un piè di cavallo (RR II, p. 656)
le lunghe mamme di capra (RR II, p. 659)
La gran corvatta nerastra svolazzava […], due occhi di basilisco
ironizzavano la severa austerità dl corruccio e le pieghe della pappargogia.
(RR II, p. 681)
Ancora una volta, però, ad essere di maggior interesse sono quelle
zone della narrazione in cui vocaboli che caratterizzano una delle
parti in conflitto compaiono riferiti all’avversario, o in combinazione
con vocaboli di aree semantiche solitamente avverse. Gigi, per
esempio, durante la gita in montagna
[…] nelle ore di solitudine e di sogno, tornò a graffiarsi le ginocchia
sulla dolòmia (RR II, p. 650)
e, nonostante le preoccupazioni della contessa, mangiava con un
appetito feroce. (RR II, p. 650)
Una parte degli arti inferiori ed un aggettivo animalesco sono
qui usati in scene che si contrappongono alla vita di Gigi controllata
dalla madre: la prima opponendosi a passeggiate analoghe fatte
insieme a tre signorine dell’Ottocento, la seconda a dispetto della
sua formazione morale.
Lo stesso conte Brocchi nel momento in cui deve organizzare
due pranzi invitando a casa il pittore novecentista Penella è preso
da timore, consapevole che l’ospite potrebbe essere una minaccia
per l’armonia famigliare. Per descrivere la scena sono usate queste
parole:
[…] gli tremavano le ginocchia: e combinò i due pranzi così alla
chetichella, senza dir nulla alla cognata. (RR II, p. 661)
Sempre considerando l’area semantica della corporeità, le più
eclatanti infrazioni alla norma si incontrano nell’invettiva contro Cice290
FEDERICO PIANZOLA [20]
rone. Qui, infatti, colui che è considerato la massima autorità morale
all’interno dell’universo narrativo è presentato in più di un’occasione
in atteggiamenti che esaltano i movimenti corporei e spesso
sono usati termini del sottoinsieme ‘animalità’ in riferimento a lui:
[…] fu come una scarica elettrica traverso tutti i suoi nervi legalitari.
Il mortificato non si tenne più nella pelle: telegrafò a Basilo un «Tibi
gratulor! Mihi gaudeo…» tutto fremente di contentezza, saltò quasi
la colazione, la lettiga galoppò in Campidoglio. Dove gli eroi del
giorno si erano asserragliati con le ginocchia tremanti.
In Campidoglio cinguettò nuove e più fervorose congratulazioni:
abbracciò tirannicidi a destra e a sinistra, cupi nell’ombra dello sgomento.
La capinera delle belle lettere li distrasse, un attimo, dalla
angoscia, con le sue gorgheggianti effusioni. (RR II, pp. 671-672)
Con repentini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron
di casa azzanna da morto colui, «qui omnia jura divina et humana
pervertit». (RR II, p. 673)
Lui, onesta vedova del moralismo fondiario e dell’oligarchia repubblicana,
seguita a sculettare ancora ne’ gaudiosi mattini di Pozzuoli,
per quanto è tutta lunga la promenade des Anglais (RR II, p. 673)
Il fatto che l’ambientazione e gli eventi siano estranei alla vicenda
principale permette una inversione della norma semantica. Al
contrario della contessa e del conte, i quali sono morigerati e pacati
nei loro movimenti salvo qualche occasionale sconvolgimento, Cicerone
è presentato come un personaggio iperattivo, mai fermo e capace
di forti coinvolgimenti ed emozioni.
5.3 Formalità morali
Il terzo nucleo retorico di interesse è quello delle formalità
morali. La maggior parte delle volte queste formalità sono il frutto
di verbalizzazioni, ma non solo. I personaggi adulti di San Giorgio
in casa Brocchi vivono il mondo attraverso una continua ed esasperata
riflessione, tutto viene ricondotto a loro limitato bagaglio di
conoscenze per essere analizzato a fondo, confrontato con elementi
noti e rassicuranti, e categorizzato secondo i diversi gradi di pericolosità
per il sistema ideologico tradizionale. I complessi processi di
interpretazione che sono caratteristici dei personaggi adulti appartenenti
all’ideologia dominante sono spessissimo verbalizzati creando
così una serrata rete di relazioni tra i personaggi stessi attraverso la
parola.
[21] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 291
Il «non si sa perché» è la chiave di volta dei più complessi sistemi
giustificanti il mondo: ed è perciò adoperatissimo dai metafisici della
morale, quando si tratti di stabilire il perché della fisica del genere
umano. L’idea dell’auto, poi, è accessibile di primo acchito anche ai
più profondi speculatori, oltre che ai portinai della contessa e alle
loro duecento interlocutrici. (RR II, p. 646)
Così sono presentati i personaggi che condividono l’ideologia
dominante: sono dei «metafisici» e degli «speculatori» impegnati a
costruire «complessi sistemi giustificanti il mondo». Ecco alcuni
esempi di episodi in cui la riflessione e la formalità delle parole
sono centrali:
«Ascoltami, Agamènnone, perché… credilo!… noi donne… abbiamo…
l’istinto» (non pensò di dire un’eresia) «…ascoltami: mi par
proprio superfluo di farti presente che siamo una famiglia… che
abbiamo un nome… Ed anche per un riguardo al mio Gigi, che è la
nostra speranza… Tutte queste chiacchiere, lo sai, mi disgustano…
mi fanno male… Quella ragazza, credilo, ci darà dei dispiaceri… Il
mondo non fa che parlar di lei… e di noi…»
«Non lo credo, non lo credo, Giuseppina mia!; io… mi vanto d’essere
psicologo… e non lo credo… E poi, appunto, si tratta di non dar
esca alle chiacchiere, di mostrare… a certa gente… qual conto facciano,
i Brocchi!, della… maldicenza… dei vili…»
«Ascoltami, Agamènnone, io sarei molto più contenta se tu la licenziassi!…
»
Ma il conte ribatté […]. (RR II, p. 648)
Passarono i mesi, passò l’inverno. La contessa insinuava periodicamente
le sue suppliche fra una siesta e una matura riflessione dello
zio Agamènnone, e sempre con lo stesso esito. Una volta pianse,
ruppe in singhiozzi, e lo zio allora la confortò, la carezzò, le dimostrò
ancora una volta che era… un’idea fissa… la sua. Un’ultima
volta ella sillogizzò, ma invano.
Il conte Agamènnone, da quello psicologo che era, giudicava si trattasse,
«in fondo», d’una question di principio (RR II, p. 650)
Una domestica le riferì che non soltanto quel pittore «andava in giro
a parlar male delle anatre di Milano» […]: e, come ciò non bastasse,
quando la Jole lo aveva aiutato a infilar il cappotto di mezza stagione,
lui le aveva bisbigliato non si sa che cosa, tutto in un giulebbe.
(RR II, p. 663)
Ma il guaio è che anche sui muri di Milano si vedon graffite certe
parole… certe immagini…
[…] E per le strade di Milano, benché sia Milano, si posson sentire,
quando uno meno se lo aspetta…, certe voci… certi modi dire… (RR
II, p. 680)
Ciò che importa per essi è risolvere ogni questione tramite la
292 FEDERICO PIANZOLA [22]
parola; formalizzare ogni esperienza tramite il lessico è rassicurante
e permette loro di avere un apparente controllo sulla situazione.
Capita a volte che questa convinzione sia alla base anche della loro
relazione con personaggi antagonisti:
Ma il conte Agamènnone, quando finalmente la cognata si decise a
parlargli di quello «scandalo», le rispose secco di aver già provveduto,
di aver già parlato «seriamente» al ragazzo: e che tutto era a
posto […].
[…] E siccome la Jole, interrogata e redarguita più di una volta, s’era
profusa ogni volta in lacrime di «sincero pentimento», così il conte,
«dopo matura riflessione», aveva deliberato «di voler dimenticare
quel fallo, dovuto, più che altro, alla avventatezza e all’inesperienza…
di quella età…». (RR II, p. 647)
Gli adulti hanno un vero e proprio monopolio dialogico nel racconto
e ai giovani non è concessa nessuna replica. Solo Gigi azzarda
qualche breve commento ma viene prontamente interrotto e sommerso
da un nuovo fiume di parole. Gigi si trova infatti contrastato
da due forze opposte: da un lato è figlio della contessa, appartiene
alla famiglia Brocchi e risiede all’interno della roccaforte dell’ideologia
dominante, è dunque costretto a imparare una modalità di
relazione col mondo che passa attraverso i libri e l’elaborazione verbale.
Dall’altro lato è un diciannovenne nel pieno della sua giovinezza,
sente una naturale attrazione verso la vita in tutti i suoi
aspetti, è spinto dalla curiosità (e dagli ormoni che ha in corpo) a
fare nuove esperienze. La tensione tra queste due forze è evidente
soprattutto nel terzo capitolo, dove i protagonisti in scena sono Gigi
e Jole che, incontrandosi, sentono l’ingombro dell’ideologia dominante
tra di loro. Jole è il principale antagonista dell’ideologia e
attrae verso di sé Gigi, il quale però si sente trattenuto dalle regole
con cui è stato educato. Egli appartiene ad un sistema di valori
diverso da quello di Jole e non può abbandonarlo facilmente, l’unica
soluzione a questa situazione di impasse è seguire alla lettera ciò
che il mondo in cui è cresciuto gli ha insegnato: deve riflettere, pensare,
arrovellarsi per trovare una giustificazione a quello che sta
vivendo.
Il processo che porta Gigi a trasgredire all’ideologia dominante
avviene in due tempi: nella prima parte del terzo capitolo egli è
ancora pienamente inserito nella vita che la contessa ha voluto per
lui, ma la tendenza all’evasione è già presente; in ciò che legge
vengono ribaditi in modo esplicito i principi base dell’ideologia
[23] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 293
dominante ma la mente di Gigi comincia a vagare liberamente verso
pensieri opposti. Nella seconda parte, con l’arrivo di Jole, la
tensione cresce progressivamente e Gigi cerca in modo affannoso
una via d’uscita dal vortice da cui è travolto. La liberazione avviene
nel momento in cui la funzione della tradizione è ribaltata di segno,
cioè solo nel momento in cui l’Etica non è più un ostacolo ma garantisce,
al contrario, un’autorizzazione per Gigi a seguire le proprie
pulsioni. Il De Officiis, tradotto dal Rigutini (mediato, quindi,
dalla tradizione milanese), dice così:
«La verecondia poi dell’uomo imitò questo così diligente artificio
della natura, poiché quelle parti ch’ella celò, tutti coloro che non han
perduto il senno le tolgono all’altrui sguardo e cercano di soddisfare
il più occultamente che possono ad alcuni bisogni: né chiamano mai
col loro proprio nome quelle parti che servono ad essi, né le loro
funzioni…»
[…] «… Per contrario,» sosteneva più avanti il rigutinizzato moralista,
«la copula coniugale, che è cosa in sé onesta, la diciamo disonesta
nel vocabolo proprio…». (RR II, p. 684)
Inoltre, quando la zia Maddalena telefona Gigi pensa subito che
sia per «il discorsetto del genetliaco: un’omelia», pensa che da un
membro della famiglia possa venire solo una conferma dell’etica
vigente in casa Brocchi, così come lo penserà quando il campanello
suona, anche se in quell’occasione ha già pronosticato un momentaneo
accantonamento del libro per prendersi la libertà di andare a
vedere la partita dell’Ambrosiana.
L’assenza della contessa e della famiglia rappresentano un indebolimento
della forza repressiva ed è per questo che i pensieri di
Gigi possono spostarsi sulle nudità dei quadri del Penella, sulle
avventure parigine e le disavventure milanesi del cugino Gian Carlo.
Questo indebolimento è avvertito anche dalla servitù di casa
Brocchi: senza i padroni essi si concedono qualche piccola libertà e
abbandonano la casa; la Luigia si permette perfino di violare la
censura verbale:
«La Jole, poi, mi scusi sa, signorino, se una volta tanto gli parlo
chiaro, ma oggi, che è domenica, non c’è più nessuno che la tiene!»
levò le spalle; «… San Giorgio! Con questo sole! Con quest’aria!…».
(RR II, p. 686)
L’atteggiamento di Gigi si fa sempre più tormentato e amareggiato
per la propria insoddisfacente condizione di vita, ma egli
294 FEDERICO PIANZOLA [24]
appare rassegnato a non poter cambiare la situazione, abbandona la
speranza di poter vivere serenamente la propria giovinezza e si
accontenta di andare a vedere la partita come unica azione fuori
dagli schemi. Quando arriva Jole la situazione cambia: tutte le pulsioni
che si oppongono alla tradizione sono rianimate e Gigi è preso
dalla frenesia di svincolarsi dall’Etica (la norma e il libro). Appena
prima che la ragazza entri in casa la norma viene ribadita e confermata
e Gigi si conforma ad essa, ma il tono è già ironico:
Pensò che arrivavano Domenico, e l’Etica: e, con l’Etica, la libertà:
sicché la febbre, che aveva nel sangue, egli poteva chiamarla oramai
con il nome onesto di «impazienza» (di vedere la partita della
Ambrosiana). Era un modo di nominar le cose perfettamente coerente
con l’educazione ricevuta. (RR II, p. 693)
Da qui in poi la narrazione si focalizza su Gigi e l’incontro tra i
due giovani assume un tono lievemente tragico, in un crescendo
continuo che non può essere interrotto. Ecco come avviene la liberazione
dai vincoli della parola:
La parlantina s’era disciolta (il dovere di adempiere agli incarichi)
sgattaiolando fra i paracarri del cerimoniale.
«Ah!» fece Gigi, come dicesse: «Ora capisco»; e prese, con gesto
lento, i libri e il biglietto. Atroci speranze gli scompigliarono l’elenco
atroce dei doveri. (RR II, p. 694)
Gigi aprì un cassettino, come cercasse qualcosa, una matita, nell’orgasmo
d’un urgente obbligo; disse: «Aspetti un momento!»: andò di
là, piantando lì la Jole stupefatta, tornò con un tagliacarte, le ripeté
«aspetti un momento!», riprese uno de’ libri, «si sieda!… volevo
vedere una cosa, qui nel libro…» (RR II, p. 694)
Gigi pensava, cercava, tremando: «… Laonde, ripeto, noi prenderemo
le mosse dalla gran madre Roma. E divideremo l’Educazione in
intellettuale, morale, fisica…» L’educazione, così divisa e squartata
dallo zio Agamènnone, non doveva più portargli via nulla… (RR II,
p. 695)
I libri a questo punto non sono più un impaccio, in essi ha
trovato una giustificazione ai suoi istinti e l’ha trovata proprio nel
libro scritto dallo zio. Un intermezzo di silenzio permette il passaggio
ad un altro uso delle parole:
Gigi non disse nulla; solo, un attimo, i suoi labbri si atteggiarono
alla parola, ma vi rinunciò. (RR II, p. 696)
L’ultima conquista è quella di abbandonare le formalità e la vec[
25] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 295
chia retorica imposta finora per poter dire una realtà che non ha
bisogno di giustificazioni e interpretazioni viziate da ideologie:
«Sono un uomo anch’io…» E la verità, finalmente!, parlò con le
parole della verità. (RR II, p. 696)
5.4 Cibo
Ho già accennato in vari momenti all’area semantica del cibo e
ora spiegherò meglio il suo ruolo all’interno del racconto. In San
Giorgio in casa Brocchi il cibo assume sempre una funzione di
ridicolizzazione dei personaggi: mangiare sembra essere la preoccupazione
fondamentale e questa priorità precede ogni altra questione
in cui i personaggi possano essere coinvolti, soprattutto nei casi in
cui il discorso verte in qualche modo sulla famiglia.
Vecchi genitori, gente ancora all’antica! che deglutivano quotidianamente
la loro polenta in una specie di stalla, poco più lontano di
Busto Garolfo. (RR II, p. 646)
ci volevano materassi, coperte, poi federe, poi patate, poi fagioli: poi
ancora fagioli e poi nuovamente patate (RR II, p. 656)
Non aveva ancor finito di dire: «Cittadini! Mia madre ha bisogno
d’un brodo!» che già la pentola della minestra, affidata al civismo
d’un rigattiere, gli procurava uno scudo. (RR II, p. 657)
Il libro era pronto. Lo mandava più tardi, dopo colazione, verso le
due, con le notizie del medico. (RR II, p. 685)
Oltre a situazioni direttamente connesse al cibo e al suo consumo,
come nei passi appena citati, ci sono moltissimi esempi di riferimenti
al cibo nei contesti più diversi ed esempi di un utilizzo di
alimenti in metafore e similitudini. Casi di questo genere sono
riscontrabili sia nelle parti in cui interviene la voce narrante, sia nei
discorsi di personaggi estranei all’ideologia dominante:
[…] tutti i derelitti della compagnia umana venivano puntualmente
irrorati di riso e fagioli in ospizi ariosi e puliti, con il ritratto di Sua
Maestà e quello di Sua Santità.
[…] ci volevano materassi, coperte, poi federe, poi patate, poi fagioli:
poi ancora fagioli e poi nuovamente patate (RR II, p. 656)
grembiulino e bretelline bianchi teneramente guarniti di lattuga (RR
II, p. 667)
un arcobaleno semplificato, d’una consistenza come di majonese.
(RR II, p. 682)
296 FEDERICO PIANZOLA [26]
L’uso più forte di una terminologia dell’area semantica del cibo,
però, avviene in riferimento al conte Agamènnone e al professor
Frugoni, due rappresentanti dell’ideologia dominante, addirittura
due personaggi direttamente coinvolti nella enunciazione di questa
ideologia: il conte perché sta scrivendo un’Etica, il professore perché,
lodando Cicerone, si fa promotore della tradizione che origina
l’ideologia. Incontrando una tale caratteristica che accomuna due
personaggi aventi un ruolo così importante nella vicenda (sono
entrambi i curatori materiali dell’educazione di Gigi) si penserà che
essa abbia una qualche funzione peculiare, ed infatti così è. L’insistente
attenzione dei due verso i momenti in cui si può mangiare e
il continuo utilizzo di vocaboli riferiti a cibarie hanno una funzione
comica. Il conte Brocchi e Frugoni sono due pilastri dell’ideologia
dominante e, a parole, si preoccupano di difendere la tradizione; i
fatti, però, contraddicono questo loro impegno e l’attenzione che
essi prestano alla parola, alle riflessioni, alle formalità, è negata
dalla ricorrente ed altrettanto intensa predilezione per il cibo: il
«buon gusto» che è decoro morale è negato dal comune «buon
gusto» culinario.
E sostituiva la Caterina alla spesa, eccelleva negli acquisti, zucchine
ova prezzemolo banane, come nel distinguere a una semplice guardata
i cavolfiori veri e propri dai broccoli, organismi, gli uni e gli
altri, tanto difficili da penetrare nella loro essenza!: colonne, gli uni
e gli altri, della salutifera chiesa vegetariana, di cui s’era fatto, da un
paio d!anni, zelante e scrupoloso catecumeno: salvo la eccezione
ricorrente di una qualche bistecca alla Bismarck, o di un cappone
lesso di Brugnasco o Molnate ingrassatogli dai sò paisàn con quella
devozione e quel buonumore che può di leggieri immaginare chi
n’abbia voglia, e reso meno pernicioso, e comunque appressato al
regno vegetale, dal variopinto contorno di un due o tre pezzi di
«mostarda» di Cremona. (RR II, p. 649)
«non si può gonfiarlo di zuppa e pan bagnato, come un cagnaccio
qualunque da guardar i pagliai». (RR II, p. 651)
L’incubo di quelle tele finì per aggravare i suoi disturbi uricemici:
talché un rincalzo di broccoli, di mandarini, di banane, fu la prima
ingiunzione di Martuada estratta angosciosamente dal telefono (RR
II, p. 658)
Quanto all’acido urico del conte, poteva giusto cadere opportuna, in
quella ricorrenza, la deroga al regime broccolesco tanto caldeggiata
dal dottore, dall’avveduto Martuada, simile in ciò al buon maestro
che nell’atto del dettare il compito, raccomanda l’interpunzione allo
scolare. Il paventato e reverito nome di Bismarck sarebbe venuto a
galla, quel giorno, con un uovo in coppa, dopo nomenclature ve[
27] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 297
getali ch’erano durate un mese. Ogni dietetica deve rispettare le
proprie cesure: e le cesure della dietetica dei broccoli si chiamano
bistecche alla Bismarck. (RR II, p. 665)
Si deterse con un fazzolettone i grossi baffi stillanti, dopo aver vuotato
il calice di marsala che gli era stato servito nello studiolo, in
omaggio particolare, nonostante lo spiaccicamento del biscottino (RR
II, p. 668)
«il ‘De Officiis’ è piovuto proprio come il cacio sui maccheroni… Il
dovere!… Il dovere!… Il dovere sopra tutto e prima di tutto!…» (RR
II, p. 669)
il Penella […] aveva tentato di trascinarli in una tabaccheria, per
deglutire un vermouth in onor suo […].
Ma la virtù loricata dei due aveva resistito all’assalto della depravazione,
sdegnoso e baffuto il Frugoni, nonostante l’acquolina in bocca.
(RR II, p. 680)
La comicità di queste situazioni è percepibile in modo più evidente
reinserendo le citazioni nel contesto narrativo poiché si nota un
elemento ulteriore che ne accentua l’effetto: le reazioni della contessa.
In un paio di occasioni in cui Frugoni usa termini alimentari nei
suoi discorsi, la contessa ha delle reazioni di disgusto e lo scontro tra
i due rappresentanti della tradizione risulta comico se si pensa che
proprio quello alimentare è il campo in cui avvengono le trasgressioni
di Frugoni e del conte Brocchi. In questi casi si oppongono due
interpretazioni diverse dell’ideologia dominante, una più intransigente
e una che concede qualche cedimento alla rigida regola.
«È così, è così, signora contessa!» tuonò il professore, coi baffi inumiditi
dall’entusiasmo. «È proprio così! La pera marcia…» (la
gentildonna contrasse le labbra, in un gelo improvviso: quei
comestibili! anche le frutta adesso!) «… la pera marcia, che fa diventar
marce tutte le altre!» (RR II, p. 678)
La contessa aborrì mentalmente da quei comestibili assunti a termine
di confronto. (RR II, p. 669)
Fondamentali nel sistema simbolico del testo sono le relazioni
tra i personaggi. Negli esempi appena mostrati si può considerare il
rapporto tra il conte Brocchi e il professor Frugoni da una parte e
la contessa dall’altra. I primi due acquisiscono una caratterizzazione
comica dovuta alle loro azioni; analogamente, però, la contessa subisce
di riflesso una caratterizzazione simile perché si dimostra integerrima
in questa situazione e la sua intransigenza risulta comica
se rapportata al tradimento nei confronti di San Luigi Gonzaga. La
contessa è fedele all’ideologia dominante se si considera come cam298
FEDERICO PIANZOLA [28]
po d’azione la sfera semantica del cibo, ma la viola se il campo è
quello della religione.
Un ulteriore elemento che conferma la struttura dei rapporti tra
esponenti della tradizione e cibo riguarda Cicerone poiché nell’invettiva
il narratore fa ampio uso di riferimenti al cibo:
La cotenna del vecchio provinciale bolle e ribolle, indomabile, dentro
il calderone filosofico: e a opera finita ne vien fuori, con quella cótica,
oltre che l’infamia de! macellai e pescivendoli, ma un tal minestrone
di fagioli stoici, di verze accademiche e di carote peripatetiche, da
leccarsi i baffi tutta la posterità infinita, per tutta la serie innumerabile
degli anni, e la vana fuga dei tempi. (RR II, p. 673)
L’avvocato de’ provinciali si grattò la pera sessantaduenne, o per dir
meglio il cece (RR II, p. 675)
D’altronde erano ormai scaduti i bei giorni, quando i mille Renzi
d’Italia recavano all’Azzeccagarbugli urbano (più autorevole forse e
più coraggioso dell’autentico) il vistoso imbonimento de’ lor grassi
capponi. (RR II, p. 675)
Ma la vita ribolle ancora, inesausta, dentro le pentole dell’indescrivibile
arsenale. (RR II, pp. 672-673)
L’atteggiamento di Cicerone è lo stesso del conte Brocchi e del
professor Frugoni, è un predicatore dell’ideologia ma nella quotidianità
si dimostra essere attaccato a ben altri interessi, economici e
non etici. Cicerone non trasgredisce alla norma sul piano alimentare,
tuttavia l’affinità tra il lessico impiegato in riferimento all’oratore
romano e quello in riferimento agli educatori milanesi suggerisce al
lettore la percezione di tutti e tre i personaggi come appartenenti
allo stessa fazione all’interno della tradizione.
6. Conclusioni
Tutti i personaggi del racconto trasgrediscono la norma data
dall’ideologia dominante. Nel complesso sistema simbolico del testo,
ciascuno di loro occupa un ruolo diverso, il quale è definito in
base ai rapporti con gli altri personaggi e in base alla loro fedeltà
all’ideologia. Questa rete di relazioni è, a sua volta, influenzata da
tutta una serie di altri elementi che contribuiscono a formare il
contesto narrativo. In questo sistema risaltano alcune aree semantiche
di particolare rilievo poiché proprio al loro interno vengono caratterizzati
i rapporti tra i personaggi, rapporti che sono in ogni caso
organizzati in base al fondamentale conflitto metafisica/corpo (San
[29] SIMBOLI E RETORICHE DI «SAN GIORGIO IN CASA BROCCHI» 299
Luigi/San Giorgio) ma intersecano le aree semantiche in modo diverso
per ciascun personaggio.
Il racconto San Giorgio in casa Brocchi è una satira, e intorno al
conflitto ideologico rappresentato nell’opera si giocano gli effetti di
ironia e comicità presenti in tutta la narrazione. La repressione ideologica
esercitata dal moralismo cattolico è affiancata da una repressione
formale visibile a diversi livelli della narrazione, ma vi sono nella
narrazione molti luoghi in cui il represso emerge violando solo una
o entrambe queste forze repressive. I personaggi, nel loro intricato
fascio di relazioni, sono spesso veicolo per un ritorno del represso,
tutti cedono alle proprie pulsioni e il finale scioglie la tensione del
conflitto ideologico con il compimento dell’atto sessuale.
Dopo numerose occasioni in cui la repressione è stata vinta, la
conclusione del racconto è sancita da un ribaltamento totale del
sistema simbolico: la tradizione, nei suoi vari aspetti riconducibili ai
nuclei retorici individuati (cibo, corpo, parola-Etica, religione), assume
segno opposto e Gigi può godere anch’egli di un ritorno del
represso. Ciò nonostante non vi è un annientamento della forza
repressiva, ma solo una defezione momentanea di tale sistema: infatti,
è la costruzione retorica del discorso narrativo a garantire la
possibilità della trasgressione; senza tutte le giustificazioni simboliche
reperibili nella narrazione i gesti di Gigi non avrebbero la forza
sovversiva che invece hanno. È quindi la composizione del discorso
narrativo a costruire insieme il campo di forze che animano il conflitto
e la rete simbolica che, nel finale, garantisce l’efficacia del
gesto liberatorio.
In quanto gesti simbolici, l’atto sessuale dei due giovani e l’espressionismo
linguistico non hanno un diretto effetto rivoluzionario
sull’ordine istituzionale; tuttavia, sono atti liberatori che possono e
devono essere ripetuti per ribadire la necessità del cambiamento. In
San Giorgio in casa Brocchi l’autorità e la tradizione resistono nel loro
aspetto più profondo, i paladini della morale cattolica non sono
stati sconfitti, bensì solo allontanati; possiamo dunque dire che l’opera
mostra un irriducibile cinismo che supera l’aspetto comico e
carnevalesco del ribaltamento della tradizione.
Le parole di Freud possono aiutarci a comprendere meglio questa
situazione:
[…] i desideri e le brame dell’uomo hanno il diritto di far sentire la
loro voce accanto alle rigide pretese della morale; e ai nostri giorni […]
questa morale è solo il precetto egoistico dei pochi ricchi e potenti
che in ogni tempo possono soddisfare senza indugio i loro desideri.
300 FEDERICO PIANZOLA [30]
[…] Ogni uomo onesto dovrà alla fine ammetterlo se non altro di
fronte a sé stesso. Una soluzione di questo conflitto è possibile solo
aggirandolo, fino ad acquisire una nuova visuale. […] non è consentito
appagare le esigenze dei propri bisogni in modo illegittimo,
occorre lasciarle inappagate, perché solo il persistere di tante esigenze
inappagate può sprigionare il potere di mutare l’ordine sociale16.
Il conflitto non può essere risolto, è necessario un compromesso
per aggirarlo e poter continuare a vivere. Nessuna delle due parti
può essere sconfitta: si continuerà a lottare per il diritto a soddisfare
i bisogni individuali e continueranno ad essere avanzate pretensioni
morali contro queste pulsioni che sembrano minacciare l’ordine
sociale. Forse solo il discorso artistico ottiene una mezza vittoria in
tale conflitto irrisolvibile, proprio per la sua capacità unica di dire
questa impossibilità di pacificazione.
Federico Pianzola
(Università degli Studi di Milano)
16 S. Freud, Il motto di spirito, cit., pp. 134-135.
AMBRA MEDA
Soldati e il Nuovo Mondo.
Dal «primo amore» alla «sposa americana»
This essay analyzes the way Mario Soldati’s passion for America
developed between 1929, when he travelled to New York for the
first time, and 1977, when he published his novel La sposa Americana,
which represents the last stage of a stylistic evolution started
with America primo amore and carried on with Le lettere da Capri and
Addio diletta Amelia. All these works centre on a parallel between
passing fancies and the author’s infatuation for America. During
the Thirties, however, a disappointing experience at Columbia
University forced him to define «a juvenile mistake» the feelings
he had had for America. As an adult his grudge towards the nation
that had not accepted accept him as a citizen decreased, allowing
him to be more indulgent and rename “a juvenile enthusiasm” his
passion for America.
Considerazioni odeporiche e appunti geografici attraversano l’intera
opera di Mario Soldati, disseminata di schizzi paesaggistici e
brevi ritratti di città, di annotazioni antropologiche e sociologiche1.
1 Si pensi, ad esempio, alla trasmissione televisiva Viaggio lungo la valle del
Po, documentario in dodici puntate del 1957, in cui l’autore propone un itinerario
alla ricerca dei cibi genuini; all’inchiesta Chi legge? Viaggio lungo le rive del
Tirreno, condotta nel ’60 con Zavattini; o ai viaggi raccolti nei tre volumi Vino
al vino. Viaggio alla ricerca di vini genuini, del 1969, 1971, 1975 (Milano, Mondadori).
La stessa tematica si riscontra anche in Fuga in Italia (Milano, Longanesi, 1947),
La giacca verde (in A cena col commendatore, Milano, Longanesi, 1950) e Fuga nella
mia città (in La messa dei villeggianti, Milano, Mondadori, 1959), così come nel
breve tragitto ferroviario di Un viaggio a Lourdes (in L’amico gesuita, Milano, Mondadori,
1959). L’autore si cimenta nel genere odeporico anche in Fuori (Milano,
Mondadori, 1968), raccolta di cronache dei suoi viaggi in Italia, Sierra Leone,
URSS e Libia; I disperati del benessere, resoconto di un viaggio in Svezia (Milano,
Mondadori, 1970); L’avventura in Valtellina (Bari, Banca Popolare di Sondrio-
Laterza, 1985), diario di un lungo soggiorno a Sondrio, e Regione regina, raccolta
di scritti dedicati alla Liguria (Bari, Laterza, 1987).
302 AMBRA MEDA [2]
Il significato profondo che l’esperienza itinerante deve rivestire per
uno scrittore è chiaro all’autore sin dalle prime prove giornalistiche,
quando, nell’articolo del ’35 Viaggi di letterati, esprime la sua personale
poetica del moto:
Essere “inviato speciale” di qualche giornale rappresenta […] un
forte handicap da superare. Gran parte dei giornalisti non superano
questo handicap. Viaggiano in lungo e in largo per tutto il mondo,
ma il tono della loro colonna resta sempre quello della “cronaca
cittadina”, dove avevano fatto le prime armi. Inversamente, esistono
alcuni scrittori o, meglio, alcuni uomini che non hanno mai viaggiato,
ma ai quali il paesaggio della città natia, pur nella sua esiguità,
ha dato il senso di ogni lontananza, viaggio e distacco. Basta una
solitaria barriera dove i trams arrivano più rari e deserti; bastano le
montagne in fondo a uno squallido viale; bastano le colline al di là
del fiume. Il viaggio è un sentimento, non soltanto un fatto2.
Il «senso di lontananza» è per lui una «disposizione d’animo che
può trasformare in avventura qualunque incarico giornalistico»3; è
quella percezione dell’oltre che si insinua in chi scrive a prescindere
dalla sua attitudine alla mobilità. Non serve spostarsi fisicamente
per vedere al di là dei propri orizzonti; occorre piuttosto saper
figgere lo sguardo “oltre la siepe”, sfruttando i limiti spaziali come
un mezzo per accendere l’attività immaginativa. Dove la vista non
arriva, subentra l’intelletto e il fantastico irrompe nel reale, aprendo
all’anima spazi inesplorati. Soprattutto nel mondo globalizzato del
Novecento, il viaggio rappresenta un’«esperienza mentale prima che
fisica»4; il senso di scoperta non deriva più come in passato dall’originalità
e dalla rarità delle cose viste, ma dallo sguardo dello scrittore,
che, sfruttando il potere straniante della letteratura, ci offre
una possibilità di fuga dal quotidiano.
Pur presentandosi come un «viaggiatore con l’ansia del letto e
della domesticità, lontanissimo da ogni incuriosito esotismo»5, «un
viaggiatore, tutto sommato, sedentario, […] in poltrona»6, Soldati
2 M. Soldati, Viaggi di letterati, «Il Lavoro», 4 giugno 1935.
3 Ibidem.
4 G.R. Cardona, I viaggi e le scoperte, in Letteratura italiana. Le questioni, Torino,
Einaudi, 1986, vol. V, p. 687.
5 F. Portinari, Un viaggiatore in poltrona, in Mario Soldati: lo specchio inclinato,
Atti del convegno internazionale – San Salvatore Monferrato, 8-10 maggio 1997,
a cura di G. Ioli, San Salvatore Monferrato, Edizioni della Biennale, 1999, p. 119.
6 Ivi, p. 122.
[3] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 303
considera l’aspirazione a muoversi un fattore inalienabile dalla psiche
umana. Dopo un primo lungo viaggio, in grado di «turbare e
sconvolgere senz’altro tutta la vita»7, difficilmente l’individuo «perde
», a suo dire, «il gusto» «della lontananza»8 e rimane in esso il
desiderio inesausto di valicare confini:
Possiamo metterci in viaggio, ma mentre la meta si avvicina e diventa
reale, il luogo di partenza si allontana e sostituisce alla meta
nell’irrealtà dei ricordi, guadagnamo una, e perdiamo l’altro. La lontananza
è in noi, vera condizione umana9.
La patria e l’estero costituiscono i due poli di un «solo amore»,
gli estremi di una «nostalgica sintesi di opposti»10 che vicendevolmente
attraggono il viaggiatore, rimbalzandolo da un orizzonte all’altro
e mantenendo sempre viva la sua ansia di scoperta. È proprio
questo il sentimento che guida l’autore nella sua persistente
tensione verso gli Usa, un traguardo che rincorre con costanza per
tutto il corso della sua esistenza, come meta non tanto fisica, quanto
piuttosto ideale ed umana. E poiché, come sostiene Massimo Onofri,
Soldati è «uno scrittore sublimemente intertestuale»11, è facile rintracciare
nei suoi testi stilemi e idee sugli States che si ripropongono
per l’intero arco della sua produzione, come tappe che delineano il
percorso evolutivo della sua travagliata passione americana.
Il «giovanile errore» dell’emigrante
Per sfuggire al clima oppressivo instaurato in patria dal fascismo,
Mario Soldati parte per New York a soli ventitré anni, nel novembre
del 1929, con una borsa di studio in Storia dell’arte alla Casa Italiana
della Columbia University e vi rimane fino al gennaio 1931. Dopo la
Conciliazione – ricorda lo scrittore – e «la pace tra il fascismo e la
Chiesa cattolica, col beneplacito del re e tutti d’accordo»12,
7 M. Soldati, Viaggi di letterati, cit.
8 Ibidem.
9 Id., America primo amore, a cura di S.S. Nigro, Palermo, Sellerio, 2003, p. 25.
10 Ivi, p. 26.
11 M. Onofri, Le conseguenza dell’amore, prefazione a M. Soldati, Le lettere da
Capri, a cura di M. Onofri, Torino, UTET, 2006, p. XXIII.
12 Mario Soldati a Ugo Rubeo in un’intervista del marzo 1984, in Uno scrittore
di lingua inglese, in U. Rubeo, Mal d’America. Da mito a realtà, Roma, Editori
Riuniti, 1987, p. 90.
304 AMBRA MEDA [4]
[…] quelli che pensavano, diciamo giustamente, che comunque il
sistema democratico sia preferibile alla dittatura, si son detti: questo
qui non finisce più, e noi saremo costretti a invecchiare sotto il
fascismo […]. Pensai di andare in America, credendo che Mussolini
durasse fino alla mia morte. Così, quando il mio amico e il mio
maestro Lionello Venturi mi chiese a bruciapelo: “Soldati, vuole
andare in America? C’è una borsa alla Columbia University”, io ho
detto: “Sì, ci vado volentieri”, sperando di diventare americano.
Contando di divenire cittadino e scrittore americano13.
Gli Usa, disancorati dai pesanti vincoli della cultura europea e
liberi di protendersi al nuovo, rappresentano lo spazio ideale in cui
maturare e conseguire i propri obiettivi esistenziali, non solo per
ragioni di natura politica14. Al Soldati ventenne, cresciuto secondo i
severi precetti dell’istruzione gesuitica, gli Stati Uniti appaiono come
«la liberazione dei sensi», il primo «contatto con la vera vita», dopo
essere stato «schiacciato» per anni «da un’educazione molto conformistica
»15. L’ansia di rinnovamento con cui parte per l’America va
letta, dunque, secondo Bassani, anche come una reazione agli anni
trascorsi all’Istituto Sociale dei padri Gesuiti:
[…] si rammenti con quanta voluttà, il giovane ex collegiale apre il
petto al Nuovo Mondo. Non si comprende quel respiro, che è veramente
sollievo, senza considerare i reverendi padri rimasti a Torino,
la cara, vecchia Torino, ad aspettare con rattristata pazienza il ritorno
del figliol prodigo16.
13 Ibidem.
14 Non essendo iscritto al Pnf, Soldati era consapevole di non poter accedere,
in Italia, né all’insegnamento, né alla carriera giornalistica, né alla Soprintendenza
alle Belle Arti (cfr. E. Turra, L’America di Mario Soldati, tesi di laurea in
Lettere discussa presso l’Università degli Studi di Parma, relatore W. Spaggiari,
a.a. 1991-92, p. 10).
15 M. Soldati, Uno scrittore di lingua inglese, cit., p. 89.
16 G. Bassani, Soldati, o dell’essere altrove, in Le parole preparate, Torino, Einaudi,
1966, p. 127. In America primo amore (cit.), Soldati – che dichiara in seguito di
aver imparato a credere «in una maniera più particolare, più personale», seguendo
una «fede [che] si concede molte libertà» (in D. Lajolo, Conversazione in
una stanza chiusa con Mario Soldati, Milano, Frassinelli, 1983, p. 10) – ironizza sui
«geniali trucchi dell’ardente Compagnia di Gesù» (M. Soldati, America primo
amore, cit., p. 221) che nel ’600 cercò di evangelizzare le regioni orientali modificando
il culto locale e facendo «passare» i propri emissari «in India per bramini
e saniassi, in Cina per Bonzi» (Ivi., p. 220); e contesta l’abitudine delle università
americane gestite dai gesuiti «di farsi réclame reclutando i migliori giocatori di
foot-ball» (Ivi, p. 224).
[5] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 305
L’America pare provvista, ai suoi occhi, di una «capacità rigenerativa
non realizzabile altrove»: solo in una terra vergine, «non contaminata
da civiltà inquinanti»17 sembra possibile innescare un autentico
processo di renovatio. «Avevo il cuore leggero e senza rimorsi.
Nulla mi legava al mio breve ma greve passato»18, ricorda Soldati
ripensando al momento del suo sbarco, chiedendosi se non fosse
proprio la speranza, varcando l’Atlantico, di separarsi con «oblio
fulmineo da tutte le nostre care cose»19, il «brivido» di trovare «sul
serio qualcosa di nuovo, senza fine nuovo, nella vita […] in cui
perdersi davvero»20, ad attrarre, come lui, milioni di emigranti.
Se all’alba della sua partenza, lo scrittore identifica nella meta
americana la salvezza dalla dittatura e la libertà di realizzazione
personale, una volta calatosi in quella realtà, si trova però costretto
a ridimensionare le proprie aspettative. Questa presa di coscienza lo
distingue dalla maggior parte degli italoamericani, talmente inebriati
dal mito di un’“America fonte di felicità” da non azzardarne
un’analisi realistica ed accontentarsi di un appagamento “di facciata”.
Seppure l’amarezza della sua visione smagata del reale induca
l’autore ad invidiare l’inconsapevolezza dell’«emigrato qualunque»,
la vita misera e semplice dei «protagonisti del film Primo amore»21,
egli intuisce leopardianamente che l’assenza di problematicità non è
che una condizione di felicità fragile e provvisoria e che, infine,
anche i più umili immigrati si riducono a vivere «vite fallite, falsate,
grame»22. Gli States rappresentano dunque un traguardo sempre
sfuggente, l’emblema di un piacere che soddisfa la fantasia ma che
finisce per estinguersi nel confronto con la vita vera.
A tre anni di distanza dal primo «lungo soggiorno» del ’29,
Soldati narra la sua esperienza in America primo amore, titolo che
parrebbe preludere ad una visione benevola degli States, ma che
risulta paradossalmente antifrastico: il racconto del suo «lungo
amore» per gli Usa o, «più precisamente, la storia» del suo «tenta-
17 W. Mauro, Invito alla lettura di Soldati, Milano, Mursia, 1981, p. 150.
18 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 259.
19 Ivi, p. 260.
20 Ivi, p. 261. Il mondo Usa rappresenta una possibilità di «cancellazione del
passato e dalla sua insostenibile pesantezza» (F. La Porta, America primo amore,
in Soldati, Mario, a cura di B. Pasqualetto, Roma, Gaffi, 2007, p. 20).
21 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 141. Il film di Paul Fejös del 1928
– Lonesome nell’edizione originale –, dal quale Soldati trae lo spunto per titolare
la sua opera, narra la relazione amorosa fra un operaio e una telefonista che
s’incontrano a Coney Island.
306 AMBRA MEDA [6]
tivo di emigrare»23 è infatti carico di amarezza e disillusione. La
metafora erotica insinuata in questo sintagma si spiega semmai intendendo
il primo amore come una passione istintiva, che divampa
con ardore per poi spegnersi sommessamente una volta esaurito il
trasporto iniziale.
In una prima fase, entrambe le esperienze sono intense e cariche
di aspettative: appena approdato a New York, Soldati ricorda di
aver fissato lo sguardo sulla «notte newyorkese» e sulla «prima
amica americana con la stessa avidità»24; e, come appena sbarcato a
New York, egli si sente «preso nel dolce umano vortice di Times
Square»25, così, «non meno felice» ricorda di essersi sentito «la prima
volta fra le braccia di una donna»26. Il senso di novità che avverte
all’indomani del suo sbarco infonde in lui «come un’ebbrezza,
che non sa paragonare se non all’ebbrezza che dà all’innamorato la
persona amata»27.
Il paragone tra la fisionomia della nazione americana e quella di
una seducente famme fatale è reso esplicito sin dalla copertina dipinta
da Carlo Levi28, in cui la sagoma geografica degli Stati Uniti si
interseca a quella di una «diavolessa accosciata»29, sensuale e pericolosa
nel contempo. La realtà esterna si rispecchia nell’odiosamata
partner americana, figura che in principio pare all’autore il simbolo
22 Ivi, p. 50.
23 Id., Prefazione alla terza edizione, in America primo amore, cit., p. 19.
24 Id., America primo amore, cit., p. 75. Secondo Eric Leed, l’arrivo viene sempre
«erotizzato», «suscita speranze e paure che sembrano determinare la psiche
maschile: speranza di integrazione e connessione, paure di essere imprigionati
e trattenuti, di perdere “l’integrità” e la libertà» (E. Leed, La mente del viaggiatore.
Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 145).
25 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 256.
26 Ivi, p. 257, passim.
27 Ibidem.
28 Sia Soldati che Levi (cfr. C. Levi, La copertina dell’America, «La fiera letteraria
», 29 novembre 1954, ora in M. Soldati, America primo amore, cit., pp. 293-295),
incaricato di raffigurare la copertina di America primo amore, hanno descritto, a
distanza di anni, il difficile momento di composizione di quel dipinto: poco prima
che Levi portasse a termine l’opera, nella sua abitazione torinese fece irruzione la
polizia, che, dopo la perquisizione dell’appartamento e dell’atelier, procedette all’arresto.
Pur nel trambusto e nell’agitazione del momento, Levi interruppe le
procedure dei funzionari dell’Ovra: «Adesso, se permettete, dovrei portare a termine
questo disegno per la copertina del libro di Soldati» (M. Soldati, Storia di
una copertina, «Galleria», maggio-dicembre 1976, ora in Id., America primo amore,
cit., p. 277); e con poche, decise pennellate tratteggiò in rosso il titolo del libro.
29 Ivi, p. 274.
[7] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 307
di un’America carica di speranza e di opportunità, ma che si rivela,
in seguito, tramite inadeguato a dischiudergli il varco verso la
rigenerazione. Appena sbarcato negli Usa, Soldati crede di essere
«rinato»30, ma presto si accorge che «la donna americana alla quale
aveva chiesto vita nuova si rivela[…] ogni giorno più gretta»31, e si
rammarica di non aver intuito per tempo, dai continui rifiuti opposti
dalla giovane, l’avvertimento di una passione pericolosa, non
ricambiata per l’America intera32. Di entrambe l’aveva affascinato
«soltanto l’illusione del primo momento»33; dopo qualche tempo, si
fa strada la consapevolezza che «sarebbe stato meglio, per lei e per
me, separarci, e non vederci più»34, ammette Soldati, individuando
in questi legami effimeri «un errore cosciente»35, lo stesso «giovanile
errore»36 deprecato dal Petrarca maturo (Canzoniere, I, 3).
A tre anni di distanza dall’esperienza vissuta, al momento della
composizione del suo volume americano, l’autore individua nel suo
«amore esotico […] il più pericoloso dei trucchi, il più grave degli
errori»37, e si rimprovera di aver commesso «un errore più grave»38 di
quello degli emigranti, che quantomeno si impegnano per dare consistenza
ai propri sogni, mentre lui non ha saputo trovare il modo
30 Ivi, p. 259.
31 Ivi, p. 116, corsivo nostro. Il parallelo con la Vita nova è suffragato dalla
consistente presenza dei calchi e delle citazioni dantesche che si susseguono in
America primo amore. Cfr. S.S. Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura
di “America primo amore”, in M. Soldati, America primo amore, cit., pp. 319-326.
32 «La sua repugnanza», commenta l’autore, «mi aveva turbato. L’amore della
donna e della città straniera mi era parso a un tratto suggestione nervosa e
intellettuale» (M. Soldati, America primo amore, cit. p. 77).
33 Ivi, p. 253. La sua amante finisce per sembrargli «simpatica» il «solo istante
che la vede[…] venirgli incontro di lontano, e quasi la pensa[…] un’altra» (Ivi, pp.
239-240). Anche nella lirica L’amazzone bionda, composta a French-Lick Springs,
Indiana, nella primavera del ’30, Soldati associa la declinante attrazione per una
donna al calo di interesse per gli Usa. Da vicino, la ragazza che «nella sua fantasia
» pareva «una stella / un’eroina» (in Id., Canzonette e viaggio televisivo, Milano,
Mondadori, 1962, p. 45), si rivela «una donna / vecchia», dall’«ascella rugosa, /
la spalla dimagrita e stanca» (Ivi, p. 49); allo stesso modo, dopo l’esperienza
diretta, i suoi «sogni» verso gli Usa «si sono iperbolizzati / nel ridicolo delle
democrazie standardizzate, / e piuttosto si è tornati alle lacrime aride / nelle
camere solitarie, / sulle città domenicali e straniere» (Ivi, pp. 53-55).
34 Id., America primo amore, cit., p. 253.
35 Ivi, p. 252.
36 Ivi, p. 93.
37 Ivi, p. 76.
38 Ivi, p. 265.
308 AMBRA MEDA [8]
per concretarli. Ha amato l’America «di un amore così abbandonato»
da non lavorare più, non si è «adoprato seriamente» per «farsi una
posizione»39, col risultato di perdere «il possesso del bene amato»40.
Gl’immigrati amano l’America come una moglie, per la vita. […] Io
l’amavo come un’amante. […] Finché dura. Durò due anni. Due
anni mi durò il denaro per mantenermi questa amante41.
In due anni Soldati comprende che la nazione verso la quale
aveva proiettato i suoi sogni non sempre è sinonimo di “possibilità
illimitate”. Solo in un’occasione egli vede il mito prendere consistenza:
quando per tenere tre conferenze di storia dell’arte a Denver
gli vengono assegnati vitto, alloggio e cinquecento dollari di indennità.
«Ecco, allora l’America fu proprio l’America, l’unica volta per
me»42, riconosce lo scrittore, ormai cosciente che quello del «libero
vento americano» «era stato un sogno»43, un «inganno»44.
Seppure il parallelo “amante-America” proceda per tutto l’arco
del testo, in alcuni casi è lo stesso autore a suggerire lo sdoppiamento
di tale binomio. L’«Incipit Vita Nova» nel «libro della sua memoria»
(Vita Nova, I, 1) corrisponde, ad esempio, al momento dello sbarco
in Usa e non a quello del primo contatto con la sua amante, che
viene a rappresentare una sorta di «donna schermo della veritade»
(Vita Nova, II, 8), una dissimulazione per celare e preservare il valore
dell’amore vero, tutto rivolto alla diavolessa americana. Nei
momenti di intimità lo scrittore «non pensa[…] di stringere una
donna. Ma una donna americana»45, e, anche nelle occasioni di con-
39 Ivi, p. 264.
40 Ibidem. Dopo aver esaurito «i soldi della borsa di studio» (Ivi, p. 142), lo
scrittore, che si dichiara «felice» di trovarsi senza «in tasca un nichel» (Ivi, p.
138), finisce per «bighellonare per le vie» e «frequentare i salotti di Manhattan»
vivendo «con i prestiti […] di alcuni conoscenti» (Ivi, p. 258). «Non facevo niente.
Dormivo di giorno e uscivo la notte. Mi divertivo. Mi annoiavo» (Ivi, p. 142),
ricorda l’autore, che individua poi in tale condotta la causa del suo insuccesso.
41 Ivi, p. 265. Anche nel romanzo La sposa americana, Soldati ribadisce il
parallelo fra l’innamoramento e l’infatuazione per la nazione statunitense, dichiarando:
«la mia passione era più seria della passione dei veri immigrati. Diciamo
che era un errore più grave. Determinati, sensati, calcolatori, gl’immigrati amano
l’America come una moglie: per la vita. Ignaro, folle, prodigo, io l’amavo
come un’amante» (Id., La sposa americana, Milano, Mondadori, 1977, p. 238).
42 Id., America primo amore, cit., p. 149.
43 Ivi, p. 81.
44 Ivi, p. 82.
45 Ivi, p. 78.
[9] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 309
flitto, egli si accorge di ascoltare i rumori della sopraelevata «più
dei suoi singhiozzi», di guardare le vetrine «più della sua persona
sofferente» e pregusta il momento del distacco da lei per poter
finalmente marciare «leggero, spedito, nel mezzo della via deserta
»46.
Eppure l’autore stenta a recepire tali avvisaglie: scaduto il contratto
accademico con la Columbia, egli indugia negli States per un
altro anno, barcamenandosi tra lavori più o meno umili47, e, quando
nel gennaio 1931, è costretto a far ritorno in patria, porta con sé la
compagna, di cui pure non è innamorato48.
Trova così conferma l’ipotesi dell’utilizzo, non solo letterario, di
Marion Rieckelman, sua allieva alla Columbia, come donna-schermo
per celare una passione ben più agognata, e, nel contempo,
medium attraverso cui conseguire un rinnovamento interiore che pare
attuabile solo nel Nuovo Mondo. Sarà lo stesso autore a raccontare:
Con la disperazione di non essere riuscito a diventare americano, mi
sono sposato con un’americana che voleva sposarmi e alla quale,
quando mi ero trovato là, non mi ero sentito di opporre rifiuto. E
l’ho sposata proprio perché, sa, chi sposa un’americana, dopo cinque
anni, se vuole può diventare cittadino. E invece […] proprio quello
che doveva essere il mezzo per diventare americano, mi ha impedito
di diventarlo49.
46 Ivi, p. 82. Come Dante avvertiva il bisogno di difendere il suo sentimento
dagli invidiosi, dai lauzengiers, anche Soldati tenta di preservare l’oggetto
del suo desiderio dalle maldicenze largamente diffuse sul suo conto, alle quali,
però, finisce egli stesso per allinearsi. E, una volta appurato che l’America,
lungi dall’attestarsi come tramite per la sua realizzazione personale, non può
accoglierlo come citizen e sostenere le sue ambizioni artistiche, in essa egli
arriva a ravvisare addirittura una torva presenza demoniaca. Cfr. ivi, pp. 171-
172, 202.
47 Per qualche tempo Soldati seleziona personale che lavori «a strade ferrate,
alla costruzione di ponti e sottopassaggi» (Ivi, p. 129) presso il “Jacobson
Commissary Office”, e, per un paio di mesi, viene assunto come «sguattero» al
“Ramo d’oro”, «il peggior ristorante di Columbia» (Ivi, p. 143), dove patisce il
«freddo», la «sporcizia», l’«odore» (Ivi, p. 145).
48 Già nell’autunno 1930, l’amico Henry Furst gli aveva consigliato di lasciar
perdere quella relazione: «Sposare Marion se non le vuoi bene mi pare stupido.
Tornare in Italia pare inutile. Ma restare qui?» (cit. in B. Falcetto, Cronologia,
in M. Soldati, Romanzi brevi e racconti, a cura di B. Falcetto, Milano, Mondadori,
2009, p. XCII).
49 M. Soldati, Uno scrittore di lingua inglese, cit., pp. 91-92. Dopo il matrimonio
celebrato in Italia, Soldati tornerà negli Usa nel Natale del ’31 e del ’32 assieme
a Marion, che, nel settembre del 1934, ormai fallita ogni prospettiva di vita coniu310
AMBRA MEDA [10]
Non solo con Marion non riesce ad andare d’accordo, ma addirittura
lei gli impedisce «di mettere piede in America»50, rivelandosi
oltre che tramite inadeguato, addirittura ostacolo al raggiungimento
dei suoi obiettivi.
L’«errore» di Soldati è dunque duplice; l’unica giustificazione
per attenuarne la colpa consiste nel far passare l’american dream
come un’affezione della psiche, una sorta di «morbosa persuasione»
o «malattia»51 di facile infezione ma dura da estirpare, tanto che
«qualunque europeo può […] ammalarsi d’America, ribellarsi all’Europa,
e diventare americano»52, perché l’America «non è soltanto
una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione
»43.
Lo scrittore recupera il paragone con cui Cecchi associava le
proprie peregrinazioni ad un «involontario e piacevole delitto»54,
identificando nell’espatrio una sorta di «delitto» che «dà una strana
gioia vitale»55. Ma, laddove l’autore di Messico, consapevole di proporre
attraverso i suoi reportage un’immagine rafforzata della propria
terra, sempre vincente nel confronto con l’estero, sa di compiere
un “crimine” verso la realtà ospitante, Soldati si duole di ledere
la sua stessa patria, consapevole che «l’unico vero peccato è di ignorare
o dimenticare ciò che può renderci, ognuno, felici»56.
Per scagionarsi da tale colpa, l’autore chiama in causa il «fascismo
», che,
[…] a forza di retorica, era riuscito a farci credere che non amavamo
più l’Italia: l’esasperazione, la falsità di quel nazionalismo sembrava,
per reazione, aver ucciso in noi l’amor di patria. Adesso, a questa
gale, vi si trasferirà in pianta stabile con i figli Frank, Ralph e Barbara (cfr. B.
Falcetto, Cronologia, cit., p. XCIII). Occorre tenere in considerazione che Soldati
inizia a mettere a punto la struttura di America primo amore proprio nell’ottobre
del 1934, a pochi mesi di distanza dalla fine del suo rapporto con la Rieckelman.
50 M. Soldati, Uno scrittore di lingua inglese, cit., p. 92.
51 Id., America primo amore, cit., p. 93.
52 Ivi, p. 216.
53 Ibidem.
54 Cfr. il brano Commiato in E. Cecchi, in Messico [1932], in Id., Saggi e viaggi,
a cura di M. Ghilardi, Milano, Mondadori, 1997, p. 689.
55 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 260, passim. La sua attrazione per
il peccato, il suo «desiderio di profanazione» sono rivelatori di un «bisogno
perennemente rinnovatesi di liberarsi da sé, di possedere l’altro da sé, all’unico
scopo di perdersi nel proprio contrario o almeno in lui celarsi un momento» (G.
Bassani, Soldati, o dell’essere altrove, cit., p. 131).
56 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 250.
[11] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 311
rabbia, a questo dolore, a quest’umiliazione, ci accorgiamo che invece
amavamo l’Italia molto più di quanto non avessimo mai sospettato57.
In conclusione, riaffiora dunque la patria, amore tradito ma mai
scordato, che viene rimpianto malinconicamente fino a diventare un
termine di paragone che la lontananza «ha purgato dei difetti»,
restituendo la rassicurante immagine «di un’Italia vecchiotta e serena,
provinciale e un po’ ingenua, ma onesta e a misura d’uomo»58.
Nell’ultima parte del suo soggiorno, l’autore fantastica «di avere al
fianco una donna cara e dolce e sua», non quella che vede come una
«nemica»59; avverte «un bisogno assoluto»60 di riavvicinarsi a «uomini
» e «luoghi» «amici, o almeno familiari»61.
Se, per certi versi, il suo testo si presenta come una requisitoria
continua contro il sistema di vita statunitense, la sua violenza e la
brutalità dell’imperante logica del denaro, a guidare tali critiche
non è il diffuso pregiudizio antiamericano, quanto piuttosto il risentimento
di un amante tradito e amareggiato dalla delusione62. È
vero che spesso si avverte «l’occhio del moralista che vede e giudica
», ma occorre tenere presente che tali critiche sono il risultato di
un’«esplorazione a fondo, dura, coraggiosa» e perciò i giudizi, che
ne derivano appaiono «gravi, grondanti di pathos»63.
A dire di Henry Furst, che ospita Soldati a Washington nei suoi
ultimi mesi americani,
[…] il suo amore per il nostro paese non è di quegli amori a cui uno
s’abbandona, ma uno di quelli contro i quali si lotta. L’America è
per lui una sirena fra le cui braccia uno può cadere per un breve
57 Id., Fuga in Italia [1947], in Id., Opere. I racconti autobiografici, a cura di C.
Garboli, Milano, Rizzoli, 1991, vol. I, p. 281.
58 G. Luti, Immagini dell’America nella letteratura italiana degli anni Trenta, in
Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Gianvito Resta, Roma, Salerno,
2000, v. II, p. 1290. «Torino e la madre […] sono l’immaginario oggetto amoroso,
a cui si guarda con perenne nostalgia ma da cui è necessario fuggire se si
vuole tentare di vivere» (E. Gioanola, Le due città, in Mario Soldati: lo specchio
inclinato, cit., p. 35).
59 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 254.
60 Ivi, p. 250.
61 Ivi, p. 178.
62 Cfr. G. Guarnirei, Narrative di viaggio urbano. Mito e anti-mito della metropoli
americana, Bologna, Bup, 2006, p. 66.
63 G. De Robertis, Viaggiare per conoscere, in Altro Novecento, Firenze, Le
Monnier, 1962, p. 363.
312 AMBRA MEDA [12]
incantesimo, ma dalle quali uno finisce con lo strapparsi per essere
libero. Non uno di quegli amori che non vedono i difetti, ma di
quelli che non solo li vedono, ma li ingrandiscono e li vedono perfino
quando non ci sono, che si ribellano, si tormentano, ma non
possono smettere di amare64.
Le altalenanti valutazioni di Soldati esprimono, insomma, la
fluttuazione emotiva di amore e odio per un’amante che lo attrae e
poi lo disillude, per poi affascinarlo nuovamente alla vigilia della
sua partenza, poiché il desiderio amoroso «nasce come mancanza di
possesso e muore quando il possesso è ottenuto», «vive solo di ciò
che non possiede»65.
Soltanto poco prima di lasciare l’America, quando torna a «sentire
diversa la sua natura, lontano il suo destino, precaria in quel
luogo la sua presenza»66, quando la «riflessione fra poco non sarò più
in America»67 lo rende «più felice […], più sicuro», per la consapevolezza
che il suo «giovanile errore s’avviava alla fine»68, lo scrittore
ricomincia ad ammirare gli States.
Quest’ultimo periodo viene vissuto con lo struggimento di chi
passa con l’amante «la notte di un amore che si sa l’ultima»69. Consapevole
che «chi sente di dover partire ricorda già»70 e «la realtà
che stringe la ama come se non la stringesse» più, con «la semplicità
negata a qualunque possesso, e unica del desiderio»71, Soldati smussa
le asperità dello scontro con la realtà straniera e la avvolge di
un’atmosfera irreale, quasi che già si fosse trasformata in ricordo:
[…] chi mi ridarà il sole e il vento di Manhattan, i felici mezzodì di
quei sabati? Le ampie, vuote strade e l’aria della primavera oceanica;
64 H. Furst, Ricordi d’America di un italiano, «New York Times’ Books Review»,
2 agosto 1936, ora in Il meglio di Henry Furst, a cura di O. Nenni, Milano,
Longanesi, 1970, p. 491. Soldati conosce Furst «una tarda mattinata del dicembre
1929» (M. Soldati, L’ultimo Don Chisciotte. Ricordo di Henry Furst, in Il meglio
di Henry Furst, cit., p. VIII), quando quest’ultimo lavorava come bibliotecario
alla Paternò Library della Casa Italiana, e lo segue a Washington nell’autunno
del ’30, quando viene assunto alla Divisione Documenti della Library of Congress
(Ivi, p. XIII).
65 E. Gioanola, Le due città, cit., p. 33.
66 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 269.
67 Ivi, p. 266.
68 Ivi, p. 265. «S’era allora in ottobre. A gennaio m’imbarcai», puntualizza
l’autore (Ivi, p. 250).
69 Ivi, p. 266.
70 Ivi, p. 269.
71 Ivi, p. 270.
[13] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 313
le lame di sole sul largo azzurro dell’Hudson e i lontani riflessi sulle
rocce dell’altra riva?72
Nella sezione del testo riservata agli Addii73, si insinua in lui una
sorta di rimpianto a posteriori per ciò che non ha veramente amato,
ma che la trasfigurazione del ricordo gli fa desiderare, poiché, con
la distanza «anche il brutto o lo spiacevole diventano cari […] perché
vi abbiamo lasciato qualcosa di noi stessi»74. Pare dunque «la
condizione del desiderio a fare bella l’America», quella della
«potenzialità non tradotta in atto»75. L’amore dichiarato nel titolo
sembra rivelarsi tale solo nel momento in cui «si decanta nella distanza
»76, e sebbene, dopo il rientro in patria, ammetta di rievocarla
«nostalgico», Soldati si dichiara «contento di non essere in America
» ed essere tornato nella sua terra a «sonare le campane, cantare
in chiesa e all’osteria, e seppellire i morti»77.
Il rancore con cui soffoca l’infatuazione non è che una copertura
atta a rendere meno pungente la delusione dei propri insuccessi78;
ma solo a distanza di anni l’autore riesce a chiarirne le cause:
[…] il risentimento contro il Cinematografo fu per via della Cines e
non per via di Hollywood; il risentimento contro i professori americani,
perché non mi avevano voluto con loro; e il risentimento contro i
cattolici perché, al contrario, mi avevano voluto troppo con loro79.
72 Ivi, p. 239.
73 Ivi, p. 270.
74 G. Pullini, Il romanzo italiano del Dopoguerra, Venezia, Marsilio, 1965, p. 280.
75 E. Gioanola, Le due città, cit., p. 31.
76 I. Crotti, «Una metafora concisa e straziante»: il sillabario di America primo
amore, in Mario Soldati: lo specchio inclinato, cit., p. 1.
77 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 28.
78 Tale sentimento riaffiora anche nel ’47, nella lirica Scambio, in cui l’autore dice
all’America: «Oggi, se t’ho lasciata, / sento la giovinezza / che per sempre m’hai
data, / e duro al nuovo mondo / che m’adesca o disprezza / col tuo sdegno
rispondo» (Id., Fuga in Italia, in Id., Opere I. I racconti autobiografici, cit., pp. 322-323).
79 Id., Prefazione alla terza edizione di America primo amore, cit., p. 20. Nel 1931,
Soldati prende il posto di Emilio Cecchi all’Ufficio Soggetti della Cines, ma,
dopo il fallimento d’incassi del film Acciaio diretto da Walter Ruttman e le
polemiche di Pirandello circa la sceneggiatura soldatiana del suo soggetto, nel
1934 la sua carriera cinematografica subisce una battuta d’arresto: «mi mandarono
via senza neanche la liquidazione. Lasciai Roma e andai a vivere in campagna
» (commento dell’autore cit. in B. Falcetto, Cronologia, cit., p. XCV). Per
quanto concerne invece l’astio nei confronti degli accademici Usa, Soldati rivela:
«Il lettore perspicace […] avrà già capito che io ho un fatto personale con i
professori italoamericani. […] Essi mi odiarono dal primo momento e mi avver314
AMBRA MEDA [14]
Solo in seguito l’autore si rammarica di non essere sbarcato negli
States «un anno o due prima»80, invece che «in pieno slump, in piena
crisi», sicuro che, in un periodo più favorevole, avrebbe potuto trovare
un impiego e ottenere l’agognata cittadinanza. Soldati si rimprovera
di non essersi saputo creare le condizioni per raggiungere
il successo81, di non essersi allontanato da New York, dove la maggior
parte degli italoamericani «erano fascisti», e di non essere andato
a Boston, dove c’era Borgese che lo «aveva scoperto come
scrittore ed era professore ad Harvard»82. Rimpiange di non essersi
staccato dall’atmosfera «tutta fascista»83 della Casa Italiana, dove
sospetta che Prezzolini, non vedendo di buon occhio la sua antipatia
nei confronti del Regime84, gli abbia messo «i bastoni tra le ruote
», costringendolo a «tornare in Italia con le pive nel sacco»85. In
effetti, il direttore dell’Italian House, che pure si prodiga ad aiutarlo
economicamente attraverso dei prestiti86, in una pagina del suo diario,
datata 2 febbraio 1931, scrive:
sarono fino all’ultimo». «Io ero […] il pericolo numero uno. Io averi potuto
aprire gli occhi al consiglio professorale e svelare la loro ignoranza e il torto
ch’essi facevano all’Italia» (M. Soldati, America primo amore, cit., pp. 232-233).
80 Id., Uno scrittore di lingua inglese, cit., p. 90.
81 Il «grande rammarico» di non esser diventato «uno scrittore americano
[…], di lingua inglese, come Nabokov», deriva, a suo dire, da «ragioni di umanità,
di comunicazione umana, di gioia di comunicare» (Ivi, p. 93), dalla mancata
possibilità di parlare ad un pubblico vasto, internazionale.
82 Ivi, p. 91. Borgese è il primo critico a recensire il giovane Soldati di Salmace
nell’articolo I Novaresi, apparso sul «Corriere della Sera» il 20 giugno 1929.
83 M. Soldati, Uno scrittore di lingua inglese, cit., p. 91. L’Italian house viene
definita come «un’appendice non ufficiale dell’Ufficio del Console generale italiano
per New York e una delle fonti più importanti di propaganda fascista in
America» (Fascism at Columbia University, «The nation», 7 novembre 1934, p.
530); vd. anche P.M. Riccio, On threshold of fascism, New York, Casa italiana
Columbia University, 1929.
84 In seguito verrà contestato a Prezzolini il «non aver denunciato apertamente
e con fermezza il fascismo nel 1938 dopo l’incontro di Hitler e Mussolini
a Firenze e la promulgazione delle leggi razziali» (L. Rebay, Prezzolini negli Stati
Uniti, «Forum Italicum», 37 (2003), n. 2, p. 474). Per approfondimenti vd. E.
Bacchin, Prezzolini, Salvemini, la Casa italiana e l’intelligence americana,
«Cartevive», XVI (2007), n. 2, pp. 63-83.
85 G. Grazzini, Mario Soldati ha dei rimpianti, «Corriere della Sera», 23 dicembre
1978. Soldati dichiara di non condividere il pensiero «riduttivo» di Prezzolini,
per il quale «in Italia va bene anche il fascismo, tanto siamo un paese di merda»
(Soldati a N. Ajello, How are you Mr. Soldiers? Dialogo sulla vecchiaia (e altro) con
Mario Soldati, «L’Espresso», 18 dicembre 1977).
86 È Soldati a ricordare: Prezzolini «mi disse: “Beh, guardi, riparta”; mi pre[
15] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 315
Riesco ad imbarcare Soldati, trovandogli da lavorare sopra un piroscafo
mercantile che lo riconduce in Italia, perché non aveva più un
soldo da parte. È un ragazzo d’ingegno originale, ma senza un briciolo
di buon senso e turbato da qualche avaria interna, che non
conosco bene […]. Per rimanere qui, finita la borsa di studio, ha
fatto anche il lavapiatti in un ristorante di “basso città”, il che m’ha
fatto crescere la stima per lui; ma pare che non lo volessero nemmeno
lì perché rompeva troppi piatti87.
L’America come «morte dello spirito»: tentativi di dissimulare l’attrazione
Il risentimento di Soldati rimarrà implacato ancora per lungo
tempo, tanto che nelle Lettere da Capri, Premio Strega 1954, ve n’è
ancora percettibilissima traccia. In questo fitto intrico psicologico si
snodano le vicende dell’americano Harry Perkins, docente universitario
di storia dell’arte trasferitosi in Italia sul finire della guerra,
della sua futura moglie Jane, anch’essa nel Belpaese come ausiliaria
dei servizi sanitari americani, e della seducente amante romana
Dorothea, donna dai costumi dubbi, sulla quale il protagonista riversa
l’inesauribile desiderio sessuale che Jane non riesce ad accendere.
Come America primo amore, anche questo romanzo si propone di
indagare «la natura doppia e contorta della passione»88, «il contrasto
[…] di amor sacro e di amor profano»89. Il protagonista, ad
esempio, rivela di aver provato con le sue donne «due opposti piaceri
», con ognuna di loro rivela di essersi sentito,
[…] a volta a volta, una metà di me: con Dorothea quale a Dorothea
mi descrivevo e cercavo in ogni modo di apparire, celibe, scapestrato,
bevitore, giocatore, viaggiatore, artistoide, irresponsabile, volage; con
Jane tutto il contrario: marito convinto, padre tenerissimo, ligio al
dovere, appassionato al lavoro, morigerato, studioso, perseverante90.
stò cinquanta dollari e poi mi ottenne un permesso come working passenger, su
una nave da carico con cui sono arrivato a Trieste» (M. Soldati, Uno scrittore
di lingua inglese, cit., p. 91). Anche il figlio dell’autore testimonia che il padre,
per tornare in Italia, fu costretto a pagarsi «il viaggio lavorando come mozzo»
sulla nave da carico IDA della Cosulich Line (G. Soldati, Vi racconto chi era mio
padre, «Corriere della Sera», 23 giugno 1999, p. 35).
87 G. Prezzolini, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, p. 469.
88 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 19.
89 Ivi, p. 44.
90 Ivi, p. 47.
316 AMBRA MEDA [16]
Come l’America e l’Italia rappresentavano gli alterni poli d’attrazione
del contrastante intreccio sentimentale del ’35, le figure femminili
delle Lettere costituiscono gli emblemi di due differenti universi
seduttivi, di due opposti che non riescono ad arrivare alla
sintesi e lasciano il protagonista in balia dell’insoddisfazione, costantemente
teso alla ricerca di un equilibrio sempre sfuggente.
Perkins, come il giovane Soldati, riesce a provare amore per Jane
solo nel suo distacco da lei, riconfermando la distanza come il principale
motore del desiderio. Proprio come gli Usa, che tornano a
sorridere a Soldati solo alla vigilia del suo rientro in Italia91, Jane è
«tanto più forte lontana che vicina»92 – rivela Harry – consapevole
di esserne attratto soprattutto nei momenti in cui se ne deve separare93.
Anche l’analisi dell’infatuazione per Dorothea pare utile a chiarire
il meccanismo per cui l’autore ventenne aveva ceduto alle seduzioni
del Nuovo Mondo. Pur avvertendone le cospicue debolezze, il
Professor Perkins si lascia infatti ammaliare dall’affascinante romana,
dalla sua natura «umile, prosaica e bonaria», la quale, però,
«non corrispondeva al mito che di lei […] si faceva». Tuttavia,
[…] questa mancanza di rispondenza, anziché distruggere il mito, lo
confermava. Incapace e incurante di vedere chi fosse, nella realtà, la
sua dea, Harry trasformava le continue delusioni che questa gli dava
in altrettanti e crescenti interrogativi, pieni di mistero e di fascino. Si
accorgeva, per esempio, in una certa occasione che essa non era
imperiosa e malvagia com’egli aveva sognato? Ebbene, egli non ne
deduceva, come chiunque avrebbe fatto, che Dorothea era mansueta
e bonaria; bensì che non aveva voluto, in quella data occasione,
mostrarsi imperiosa e malvagia, qual certamente, secondo lui, essa
era. Non aveva voluto. E la ragione di questo suo non volere era
inspiegabile: il suo fascino più forte che se avesse voluto. Era un
dominio illimitato ed inesauribile, perché alimentato non dalle qualità
reali di lei, e neppure dalle illusioni di lui, ma addirittura dalle
stesse delusioni che egli continuamente provava94.
91 Nel 1979, in Addio diletta Amelia, Soldati recupererà nuovamente il concetto
per cui la realtà esterna rappresenta una sorta di «amica» della quale «ci si
accorge […] di solito la prima volta che gli si dice addio per un tempo che si
prevede lungo o forse per sempre», poiché «le città che si amano sono come gli
amici. Ci si accorge di amarle quando le si lasciano» (Id., Addio diletta Amelia, in
Id., Opere I. Racconti autobiografici, cit., p. 559).
92 Id., Le lettere da Capri, cit., p. 55.
93 Cfr. Ivi, p. 53.
94 Ivi, pp. 306-307.
[17] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 317
Al di là di queste evidenti analogie con le proprie ingenuità
giovanili, Soldati si serve della figura di Harry per prendersi una
rivincita sulle delusioni inflittegli dalla nazione americana. Sfruttando
l’artificio del rovesciamento, egli proietta le sue aspirazioni sul
protagonista, una sorta di alter ego, che, diversamente dal narratore,
sdegna gli States e considera la cattedra a Princeton un intralcio alla
sua felicità.
Americano anomalo, Perkins rincorre il desiderio di vivere stabilmente
in Italia, lo angoscia il pensiero che «tra poco non avrà più
soldi, e dovrà tornare in America»95; è egli stesso a dichiarare:
[…] io ero ben americano. Ma a quelle anime, semplici nell’antipatia
e nella simpatia, ero europeo per la mia spregiudicatezza, europeo
per la mia abitudine a non considerare gli States il centro del mondo;
europeo per l’importanza superiore che attribuivo, in ogni caso,
all’arte […]; europeo per la mia totale incapacità di parlare di qualche
cosa che non fosse pittura, musica, letteratura96.
L’eventualità di un rientro in patria rappresenta per lui «la fine»,
«la morte dello spirito»97. All’amarezza della vita statunitense, Harry
contrappone le piacevolezze del mondo capitolino, luogo di piacere,
avventure e trasgressioni erotiche; e rivela che se Roma lo «persuade[…]
al peccato; l’America» lo induce «alla continenza»98. Gli americani,
che «per nascita, educazione, cultura», sono «costretti all’ipocrisia,
cioè a mentire agli altri»99, hanno costruito un «mondo
filisteo»100, gretto e conformista, a dire di Perkins, il quale guarda
con «orrore» all’utilitarsimo che aleggia per le vie del Nuovo Mondo,
prive di quel bello estetico che impregna invece gli scorci delle
città italiane: «tutte queste strade, tutte queste case, senza forma,
senza carattere» costituiscono, a suo avviso, «un’accozzaglia di edifici
che servono a qualche cosa, che non hanno altra ambizione che
se non questa, di servire a qualche cosa»101.
95 Ivi, p. 4.
96 Ivi, p. 78.
97 Ivi, p. 5. «Se avessi un boat-house nel Minnesota, sul lago, o una casa di
caccia nelle foreste del Wyoming, allora forse mi piacerebbe anche vivere negli
States. Ma Princeton! ma Philadelphia! ma perfino New York! No, no» (Ivi, p. 7).
98 Ivi, p. 161. Sulla rappresentazione di Roma come luogo di perdizione,
corruzione e infedeltà cfr. P. Frassica, Le Lettere da Capri e le varianti della
discrezione, in Mario Soldati: lo specchio inclinato, cit., p. 18.
99 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 206.
100 Ivi, p. 365.
101 Ivi, p. 375.
318 AMBRA MEDA [18]
In tale descrizione riaffiora vivissimo il ricordo delle prime impressioni
di Soldati, che aveva descritto quella statunitense come una
società frustrata dalla rinuncia e dalla negazione del desiderio, una
civiltà «monotona, arida, buia»102, nella quale «il secolare puritanesimo
[…] ha represso, atrofizzato gli istinti che soli rendono sopportabile la
vita: l’amore, la socievolezza, l’ozio, la gola»103.
Nonostante per tutto l’arco del testo, lo scrittore cerchi di celarsi
dietro la figura di Harry – incarnazione di tutto ciò che egli stesso
avrebbe voluto diventare ma che si ostina a spregiare, per convincersi
che quei traguardi non garantiscono un miglioramento esistenziale
– in conclusione, è nella figura di Dorothea che si ravvisa la
traccia più autentica della sua personalità.
Prima di scoprirlo, occorre inoltrarsi nel complesso meccanismo
narrativo104, snodato in un intreccio di triangoli amorosi che si sfiorano
di continuo per rivelarsi solo al termine del romanzo: quello
fra Harry, Jane e Dorothea, quello fra Jane, Harry e Aldo, l’affascinante
italiano per cui Jane perde la testa e che Harry sospetta essere
l’amante di Dorothea, il triangolo, solo desiderato, fra il narratore
della vicenda, il regista Mario, un altro doppio di Soldati, Harry e
Dorothea, ed infine quello fra Dorothea, Harry e la nazione americana.
È proprio quest’ultima trama di legami a ricalcare lo schema
relazionale di America primo amore, soltanto che, nelle Lettere, è la
donna, la seducente “segnorina” delle borgate romane, ad individuare
nell’amante il tramite per accedere ad un’aspirazione superiore.
Solo nelle ultime pagine del libro si scopre infatti che Dorothea,
[…] da quando bambina al suo paese vedeva partire gli emigranti
per l’America, e dall’America tornare i milionari, […] aveva sognato
l’America, come un paradiso in terra. Era un’idea fissa, radicata,
tetragona a qualunque esperienza105.
Essa finisce così, sull’esempio del Soldati ventenne, per vedere
«sovrimpressa» sulla figura di Harry
[…] la statua della Libertà, l’ingresso di New York. Non poteva,
anche quando era ai suoi piedi, vederlo altrimenti. E lo amava per
questo, senza far distinzioni e senza calcolo. […] Il suo per l’Ameri-
102 Id., America primo amore, cit., p. 206.
103 Ibidem.
104 Luigi Baldacci, nella prefazione all’edizione Bompiani del 1996, ha definito
la struttura delle Lettere «un sistema di scatole cinesi».
105 M. Soldati, Le lettere da Capri, cit., p. 360.
[19] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 319
ca era un amore mistico: e egli faceva parte di quell’amore, ne era il
simbolo e l’oggetto più vivo106.
Sfruttando lo stesso gioco di sovrapposizioni con cui il borsista
della Columbia aveva fatto aderire l’immagine dell’amante al contorno
mitico degli Stati Uniti, il narratore rivela le sue vere ambizioni
attraverso la figura di Dorothea. Si scopre così che lo sforzo di
nascondere i propri sentimenti dietro l’avversione americana di
Perkins, non è che un modo per esorcizzare una brama rimasta
insoddisfatta, ma verso la quale ferve ancora il desiderio di Soldati,
che individua i suoi ricordi più tristi proprio nelle «ambizioni abbandonate
», nei «desideri ai quali» ha «da tempo rinunciato»107,
ancora intimamente convinto che «se l’America non fosse stato il
Paradiso in terra, non sarebbe stato così difficile entrarvi»108.
Superare il risentimento: gli States come «giovanile entusiasmo»
Introdursi nel Nuovo Mondo doveva sembrare davvero difficoltoso
allo scrittore, che vede svanire una seconda volta la possibilità
di realizzare i propri sogni nell’ottobre del 1948, quando la proposta
del produttore hollywoodiano David O. Selznick109 di firmare un
contratto di sette anni negli States va in fumo per questioni burocratiche.
Ad impedire il suo espatrio è stavolta il Consolato americano,
il quale nega il visto alla compagna dello scrittore, Giuliana
Kellermann, in quanto convivente con un uomo sposato:
[…] la politica americana era molto tradizionalista e non concessero
il visto alla mia seconda moglie. Tutto fu rimandato al futuro. Tornai
in America molte altre volte da allora, la prima addirittura 40
anni dopo: il 31 dicembre 1973! Ero stato nominato visiting professor
alla Berkeley University!110.
Solo nel ’73 dunque l’autore riesce a rimettere piede in America
e finalmente, come sempre aveva desiderato, in qualità di accade-
106 Ivi, pp. 360-361.
107 Ivi, p. 17.
108 Ivi, p. 360.
109 L’interesse di Selznick nasce dalla regia soldatiana di Eugenia Grandet,
film drammatico con Alida Valli del 1947.
110 Id., La mia Hollywood, per favore non fatele del male, «Corriere della Sera»,
13 novembre 1992, p. 32.
320 AMBRA MEDA [20]
mico, con l’incarico di tenere a Berkeley una serie di seminari sui
rapporti tra cinema e letteratura111.
Il giovane inesperto e pieno di speranze del primo viaggio è
ormai un intellettuale arrivato, capace di accostarsi alla nazione
americana con un atteggiamento più sereno e partecipe, rivelatore
di una maturità nuova. Nel ridimensionarsi del suo giudizio sull’America,
in cui vengono riconfermate le affinità di un tempo e
verificate le dichiarate distanze, è possibile leggere l’evoluzione della
capacità critica di Soldati, non più sensibile ai facili entusiasmi della
giovinezza, ma pronto ad indagare il mito americano con maggiore
equilibrio.
In Addio diletta Amelia, testo del ’79 a metà strada tra il romanzo
e il diario, nel quale protagonista e narratore coincidono anche
anagraficamente, lo scrittore racconta la sua recente avventura americana
procedendo a ritroso nel tempo fino ad analizzare il suo
antico desiderio di diventare citizen. Soldati cerca ora di capire «qualcosa
dell’essenza degli Stati Uniti d’America»: «importa che io confronti
ciò che provai allora, vivendo due anni in mezzo agli americani
e preparandomi a divenire americano, con ciò che provo oggi»112,
precisa, deciso a verificare se davvero, come gli hanno detto in
molti «leggendo o rileggendo il suo vecchio libro di quei tempi»,
l’America di ieri è «sostanzialmente identica a quella di oggi»113.
Sebbene il parallelo fra l’avventura presente e il ricordo degli
anni Trenta attraversi l’intero testo, la visione degli Usa è ora mondata
dai risentimenti personali, ed appare più distesa, rilassata, disposta
al confronto; il rancore si trasforma semmai in una sensazione
di «amarezza e incertezza» che deriva dal sentirsi un «mancato
cittadino»114. «Ormai non mi sembra giusto né grazioso criticare, sia
pure sinceramente, in un articolo o in un libro, persone sia pure
criticabilissime, ma che mi abbiano ospitato con gentilezza», confida
Soldati, prendendo le distanze dall’impeto polemico dell’«adolescente
ignoto»115 di un tempo.
111 Dopo questo soggiorno, lo scrittore rivedrà l’America nel 1974, in occasione
di un viaggio per la ICE, nel 1977, durante la presentazione dell’edizione
americana de Lo smeraldo (The emerald, New York, Harcourt Brace) e nel 1986,
per il congresso del Pen Club a New York.
112 Id., Addio diletta Amelia, cit., p. 579.
113 Ivi, p. 500.
114 Ivi, p. 579.
115 Ivi, p. 524.
[21] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 321
Nonostante alcune «impressioni negative sull’attuale american way
of life»116 trovino conferma anche in questo viaggio (dal consumismo
che rende gli uomini «schiavi di un nuovo medioevo, […] servi
della produzione e del consumo»117 al razzismo, nazionalismo,
militarismo che rappresentano «il male del mondo»118), l’autore si
accorge che «qualcosa di straordinario e, in fondo, meraviglioso è
accaduto in America durante questi quarant’anni»119: la nazione si è
«umanizzata, […] europeizzata». «C’è stato uno scambio tra noi e
loro», prosegue Soldati, «se noi abbiamo imitato loro, anche loro
hanno imitato noi», le «infinite scioltezze e leggerezze della nostra
antichissima capacità di adattamento»120. L’autore nota che finalmente
[…] tutto ciò che indignava me e i miei amici già allora, il consumismo,
la frenesia produttiva e pubblicitaria, il trionfo delle etichette e
della confezione sul reale valore del prodotto, il conformismo degli
orari, la tremenda e spietata tirannia burocratica, la draconiana separazione
tra lavoro e tempo libero, tutto ciò ormai ha raggiunto una
tale esasperazione, che una minoranza di giovani vi si ribella esattamente
come avremmo voluto ribellarci noi121.
Le sue condanne giovanili si rispecchiano ora in quelle della
contestazione hippy, ma egli si mostra fiducioso nel futuro, con l’auspicio
che «gli Stati Uniti saranno in assoluto il primo paese del
mondo, la guida di tutta l’umanità, […] il giorno in cui eleggeranno
un Presidente nero!»122.
Lo scrittore affermato di oggi non deplora con la veemenza di
un tempo le storture da correggere: «non avevo più vent’anni, […]
non ero più come allora proteso verso l’avvenire, perché l’America,
essere in America, non era più per me abbastanza importante»123,
rivela l’autore, consapevole di aver già tracciato il percorso del suo
futuro e non poter più proiettare sull’America alcuna aspettativa124.
116 Ivi, p. 512.
117 Ibidem.
118 Ivi, p. 577.
119 Ivi, p. 513.
120 Ivi, p. 500. Soldati reputa l’«europeizzazione dell’America […] un fatto
positivissimo» (M. Soldati, Uno scrittore di lingua inglese, cit., p. 94).
121 Cfr. Id., Addio diletta Amelia, cit., p. 513.
122 Ivi, p. 577.
123 Ivi, p. 523.
124 «È come se avessi provato tutto e non avessi più nulla da immaginare e
sperare» (Ivi, p. 524).
322 AMBRA MEDA [22]
Piuttosto lo assale una certa angoscia125 quando, affacciandosi alle
larghe vetrate della Casa Italiana della Columbia, si accorge che «la
vista non era più quella»126 di un tempo, e si trova costretto ad
aggiornare l’«immagine della memoria […] immobile e immutabile
»127 che si era fatto di New York.
Osservando la Grande Mela, egli ricorda però anche «la gioia
inafferrabile» del suo primo sbarco ad Ellis Island, quando si era
sentito rapire da un «vortice di freschissima vitalità»128 e torna con
la memoria alla
[…] città dove era stato, dove era fuggito dall’Italia, l’Italia di allora!
Quando era ancora quasi adolescente, dove aveva vissuto a lungo
con la speranza di diventare cittadino americano; infine ne era partito
sconfitto per non tornarci più129.
New York viene ora descritta come la «cara città che si identifica
con la sua giovinezza»130, il «primo amore!»131, la grande occasione
che allora non era stato capace di afferrare; e, pur essendo consapevole
che il suo «solo amore ancora vivo» è «ormai»132 la moglie,
Soldati si rammarica quando, al momento di ripartire per l’Europa,
nell’aprile del ’73, giunge «un’altra volta il momento di dirle addio,
di nuovo come allora addio, addio all’America»133.
L’unico modo per tenere vivo il suo ricordo è, ancora una volta, scriverne,
cercando di trasferire sulla pagina la sua essenza e la sua immagine134.
Prende corpo così, nel ’77, La sposa americana, opera in cui il prota-
125 Cfr. ivi, p. 569.
126 Ibidem. Già nel testo del ’35 il giovane Soldati aveva scongiurato la triste
eventualità di ritrovare, dopo una lunga assenza, una New York diversa, «spenta,
spoglia, sudicia», paragonando tale sensazione a quella di chi dovesse «incontrare
vecchia la propria amante» (Id., America primo amore, cit., p. 261).
127 Id., Addio diletta Amelia, cit., p. 567.
128 Ivi, p. 492.
129 Ivi, p. 491.
130 Ivi, pp. 491-492.
131 Ivi, p. 568.
132 Ibidem.
133 Ivi, pp. 491-492.
134 Dopo Lo smeraldo (Milano, Mondadori, 1974), testo che, a dire dello stesso
autore, non avrebbe potuto scrivere se non fosse ritornato in America (in T.
Chiaretti, Quando l’America si chiamava ancora amore, «la Repubblica», 5 marzo
1976), Soldati torna ad affrontare la tematica americana nell’Architetto, romanzo
dell’85 in cui il protagonista va a perfezionare la propria formazione a Chicago,
città che non è più sinonimo di criminalità come nei reportage degli anni Tren[
23] SOLDATI E IL NUOVO MONDO 323
gonista Edoardo Telucci, ancora una volta alter ego dell’autore135, trasforma
il «giovanile errore»136 del primo Soldati in «giovanile entusiasmo
»137. Il primitivo abbaglio americano arriva finalmente a concretarsi
in questo romanzo-rivincita, in cui lo scrittore si riscatta dai fallimenti
del passato, incarnandosi nel protagonista, che non solo riesce a «diventare
cittadino»138 ma ottiene anche il successo e l’agiatezza economica
come professore, prima presso l’Università del Connecticut, e
poi come ordinario a Berkeley. Dopo essersi sposato con l’americana
di origini ceche Edith139, «certo del suo amore per lei, l’unico e il più
grande di tutta la sua vita»140, Edoardo dà il via ad un rocambolesco
intreccio di tradimenti, che raggiunge il culmine nel rapporto, protratto
per anni e talvolta consumato sotto lo stesso tetto della moglie,
con Anna, attrice di origini italiane e migliore amica di Edith, per la
quale il protagonista prova un «urgente, struggente, delizioso desiderio
»141. La lacerazione interiore di Edoardo, diviso tra l’affetto per la
moglie idealizzata e la travolgente attrazione per l’amante142, sembra
riproporre il doloroso dissidio tra il «violento amore della patria» e il
«violento amore dell’estero»143 che aveva tormentato la prima avventura
statunitense del romanziere.
ta, ma diviene un centro sperimentale dell’architettura d’avanguardia, una «scelta
d’obbligo per un laureato in architettura che, superato l’esame di stato in Italia,
volesse perfezionarsi in America» (M. Soldati, L’architetto, Milano, Rizzoli, 1985,
p. 12). La città dell’Illinois partecipa alla globale riabilitazione della sua visione
americana e viene trasfigurata in un «luogo caro alla sua gioventù» (Ivi, p. 20).
135 Il libro intero sembra prendere spunto da eventi recenti della vita di Soldati:
dalla morte della prima moglie americana Marion, nel ’72, al suo ritorno
in America, dopo quarant’anni di assenza.
136 Id., America primo amore, cit., p. 93.
137 Id., La sposa americana, cit., p. 31.
138 Ibidem.
139 Nonostante possa apparire lampante il riferimento alla prima moglie,
americana di origini tedesche, con la quale, proprio come nel romanzo, si è
sposato in Italia nel santuario piemontese di Oropa, l’autore precisa: «la sposa
non è affatto la mia prima moglie, che appunto era nata negli Stati Uniti; ma se
un parte di biografia esiste – e in effetti c’è – essa riguarda la mia seconda
moglie» (da un’intervista all’autore riportata in M. Grillandi, Mario Soldati,
Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 4).
140 M. Soldati, La sposa americana, cit., p. 79.
141 Ivi, p. 186.
142 Lo stesso schema “a triangolo” delle Lettere da Capri rappresenta una
costante anche nelle trame di L’attore, In loving memory e El Paseo de Gracia (cfr.
L. Parisi, L’ossessione erotica di Mario Soldati, «Giornale storico della letteratura
italiana», 596 (2004), p. 528).
143 M. Soldati, America primo amore, cit., p. 26.
324 AMBRA MEDA [24]
Ma chi incarna l’America questa volta? È la moglie, che come in
una poesia di Stevenson, citata dal protagonista, si sovrappone all’immagine
della nazione americana, fino a diventare «l’una specchio dell’altra
»144? O è l’amante, «diavolessa» tentatrice che ricorda quella della
copertina di America primo amore? Anna è sì una sorta di «viaggio
magico, di dolcissime scoperte senza fine» in cui Edoardo vorrebbe
«perdersi, sparire, non esistere»145, ma dopo averla posseduta, nella sua
mente lei non esiste più, e viene anzi respinta dal protagonista, che,
proprio attraverso la sua presenza, riesce a conquistare la «la felicità
del […] ritorno»146 da Edith. Forse, la grande nazione a stelle e strisce
rappresenta le due cose insieme: l’amore lecito, puro, consacrato dal
matrimonio-cerimonia di cittadinanza e la passione irrazionale, onnivora,
travolgente, tesa al godimento immediato; forse essa non è che un
emblema dell’amore nel suo contrastante connubio di sentimenti.
L’America torna ad essere, come negli anni Trenta, quel mondo
“nuovo” per antonomasia, che il protagonista ha amato «fin dal
primo giorno per […] la straordinaria abbondanza, di topografico,
fisico, animalesco spazio vitale»147, che gli consente infinite rinascite.
Così, nelle battute finali del romanzo, quando Anna lascia per sempre
la California per trasferirsi a New York ed Edith, da poco incinta,
muore per le complicazioni della gravidanza148, Edoardo, certo di
«non voler più tornare in Europa»149, mette in vendita la casa di
Berkeley e si trasferisce in Texas, all’Università di Austin, dove
comincia una vita nuova. Finalmente gli Usa possono offrirgli davvero
quella possibilità di renovatio tanto auspicata in passato.
Ambra Meda
(Università di Parma)
144 Id., La sposa americana, cit., p. 39. Quest’ode pare particolarmente calzante
per descrivere la relazione con Edith anche nelle strofe in cui recita: «cammina
adagio – sei gravida / e si avvicina la tua ora» (Ivi, p. 38), che paiono un
preludio alla conclusione del romanzo.
145 Ivi, p. 145.
146 Ivi, p. 158.
147 Ivi, p. 33.
148 Ivi, p. 38. Come Edith, anche la Jane delle Lettere da Capri veniva condannata
al trapasso in seguito ad un incidente aereo; ma la sua morte, progettata
quando ancora era acceso il rancore nei confronti degli Usa, aveva lasciato
Harry in balia dell’arrivista Dorothea, che lo allontana dall’idealizzata Italia e lo
riporta, contro il suo volere, nell’America del vacuo materialismo dalla quale
per anni aveva tentato di allontanarsi.
149 Ivi, p. 200.
Meridionalia
RAFFAELE GIGLIO
Il «Risorgimento» di Corrado Alvaro
This article gives a short account of Corrado Alvaro’s activity as a
journalist when he was the editor of the Neapolitan daily newspaper
“Il Risorgimento”, founded in 1944. In this period, marked by the
postwar economic recovery, the Calabrian writer kept on supporting
the cause of Southern Italy.
Anche Corrado Alvaro certifica una pratica antica, testimoniata
nel nostro tempo da firme illustri, qual è la partecipazione al giornalismo,
intesa generalmente come affidamento di una parte del
proprio prodotto artistico alle colonne del giornale. Avviata e codificata
nel pieno del grande giornalismo del secondo Ottocento, fino
a divenire in alcuni casi indispensabile per conferire al giornale quell’aspetto
letterario che pure era richiesto ai quotidiani, col trascorrere
degli anni essa è divenuta una consuetudine, direi un obbligo per
qualsiasi testata giornalistica. Un foglio si caratterizza anche per le
firme degli scrittori che può annoverare tra i suoi collaboratori.
Dagli anni ottanta del secolo XIX la presenza è in forte crescita; per
vari motivi, che ho già enucleati altrove, non è qui il momento di
ribadire1.
Più raramente avviene, però, che il letterato, lo scrittore, il romanziere
di professione, divenuto collaboratore dei giornali per
necessità economiche, sia stato chiamato a dirigere il quotidiano2. È
pur vero che il grande giornalismo italiano nasce proprio nel periodo
dianzi invocato, gli anni ottanta del secolo XIX, proprio con
letterati che si dedicano a tempo pieno al giornalismo; ovvero di
1 Si legga in proposito P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra (1943-
1972), Bari, Laterza, 1973.
2 Due nomi mi sovvengono subito alla mente: Riccardo Forster, che dirigerà
«Il Mattino» (cfr. R. Giglio, Letteratura in colonna. Letteratura e giornalismo a
Napoli nel secondo Ottocento, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 86-97) e Curzio Malaparte,
che dirigerà «Il Corriere della Sera».
326 RAFFAELE GIGLIO [2]
letterati, che hanno abbracciato il giornalismo, creando testate e
dirigendo fogli, come testimonia Edoardo Scarfoglio, con la fondazione
del romano «Corriere di Roma illustrato», con la direzione in
questa città del «Corriere di Napoli», con la fondazione poi del
«Mattino»; Scarfoglio aveva alle spalle un periodo dedicato alla letteratura,
alla critica, al racconto, alla poesia e che aveva dato prova
del proprio talento nell’ambito del periodo bizantino della cultura
romana; dalla letteratura al giornalismo, dunque, con un passaggio
imposto soprattutto da necessità economiche prima che amicali, come
qualcuno ha sostenuto. Al suo fianco operava, in qualità di moglie
innanzitutto, Matilde Serao, che nella sua vita, dagli anni 1885 al
1927, ha sperimentato contemporaneamente l’appartenenza al giornalismo
quotidiano, partecipando con lo Scarfoglio alle esperienze
dianzi citate, ed alla vera letteratura, dando vita in questo periodo
alla sua migliore produzione artistica, costituita da romanzi, bozzetti
e racconti; ma non paga di questo duplice fronte di lavoro, dal
1907 dirigerà personalmente il quotidiano «Il giorno», che aveva
fondato in quell’anno dopo la separazione dallo Scarfoglio3.
Si potrebbe aggiungere qualche altro esempio, seppure di minore
qualità e fortuna, a quelli addotti per confermare una consuetudine
che nel secolo scorso viene più volte esperita. In genere la
ricerca ci dice che il giornalismo ricorre al letterato, come allo storico
affermato, quando si trova in crisi, quando ha necessità di uscire
dai bassi livelli, quando un foglio quotidiano deve cercare di
sottrarre lettori a concorrenti che gravitano nella stessa area geografica;
ovvero il giornalismo, quello quotidiano, utilizza il letterato,
specie quello che ha pubblicamente, con le proprie opere o con
partecipazione ad altri fogli, manifestato le proprie idee politiche,
per rifarsi “la faccia”, come si diceva, per riconquistare qualche
lettore disperso o per dimostrare a qualche gruppo politico, atto ad
elargire finanziamenti, la volontà di assicurare al giornale con una
simile scelta un futuro di qualità garantito dal nome del letteratodirettore.
È questa una delle tante strade che il “quarto potere”
percorre per inseguire un successo di pubblico, per raggiungere un
obiettivo economico e politico; ed in genere l’editore (ovvero il proprietario
della testata) non ha alcun riguardo per il letterato che per
fini economici, per il sostegno quotidiano accoglie la proposta di
dirigere un quotidiano. Il rapporto tra l’editore ed il direttore non
3 Mi permetto rinviare al mio L’invincibile penna. Edoardo Scarfoglio tra letteratura
e giornalismo, Napoli, Loffredo, 1994.
[3] IL «RISORGIMENTO» DI CORRADO ALVARO 327
investe di certo la sfera dell’attività culturale di quest’ultimo. Si crea
una sorta di subdolo sfruttamento al quale il letterato si adegua
passivamente per sopravvivenza.
Corrado Alvaro è un illustre testimone di questa pratica4; ed in
particolare quella che qui viene ripresa è la sua parentesi napoletana,
avvenuta nell’immediato dopoguerra, quando la città ancora
aveva profonde ferite in ogni parte della sua vita urbanistica, sociale,
morale, economica, ed i suoi abitanti sperimentavano non solo la
persistenza di una povertà bellica, ma anche la spartizione di alcuni
settori economici della città tra gruppi imprenditoriali legati alla
politica e gruppi privati, che dovevano ricostituire il proprio impero
economico distrutto nel periodo bellico. In questa sorta di lotta intestina
si trovò ad operare l’Alvaro, uomo mite, che aveva desiderio
di vedere diffuse le proprie idee, tutte miranti al bene degli umili e
dei derelitti, di quelli che avevano il problema quotidiano della
sopravvivenza propria e familiare.
Di questa esperienza partenopea altri hanno già scritto ed hanno
riproposto eventi ed impegni del letterato calabrese5; forse sarebbe
stato opportuno tacere e rivolgere le nostre deboli forze ad altro
problema; ma rileggendo, rivisitando scritti e fogli quotidiani, rivangando
ricordi familiari e qualche lettera privata, non mi è apparso
inopportuno riprendere questo segmento di vita napoletana
dell’Alvaro e riproporlo come contributo alla storia del giornalismo
cittadino nell’immediato dopoguerra e, soprattutto, come invito alla
lettura dei frutti di quell’impegno giornalistico, che non poche
amarezze produsse nell’animo di Alvaro.
4 Sull’attività giornalistica di Corrado Alvaro vi sono interventi dedicati ai
vari settori dei suoi interessi oppure riservati alle collaborazioni ai diversi giornali;
nel rinviare alla vasta bibliografia sullo scrittore presente anche sul sito
della Fondazione che porta il suo nome, indico qui alcuni contributi più significativi
per il rapporto che la sua produzione giornalistica ha con la produzione
letteraria: M. Strati, Appunti per un discorso critico su Alvaro giornalista:1916-
1936, Ardore, Arti Grafiche, 1995; G. Rando, Corrado Alvaro narratore. L’officina
giornalistica, Reggio Calabria, Falzea Ediore, 2004. Altro intervento si deve a
Elvira Graziani, che lesse una relazione dal titolo Corrado Alvaro giornalista, al
Convegno di Cosenza del 1-2 dicembre 2003.
Per gli scritti di Alvaro apparsi sui giornali si veda C. Alvaro, Scritti dispersi
(1921-1956), a cura di W. Pedullà, con postfazione di M. Strati, Milano,
Bompiani, 1995.
5 Si veda in particolare F. Frascani, Le due Napoli di Corrado Alvaro, Napoli,
Arturo Berisio Editore, 1969; ma si legga pure S. Rea, Storia di un giornale
napoletano [“Il Risorgimento”], in «Nord-Sud», 11 ottobre 1955, pp. 104-122.
328 RAFFAELE GIGLIO [4]
Infatti, questo mio intervento, costruito sull’analisi delle vicende
politiche cittadine e nazionali, nelle quali lo scrittore si trovò coinvolto,
non sarà accompagnato dalla ristampa degli articoli apparsi sul
«Risorgimento» in quanto sono ancora in attesa dell’autorizzazione
da parte della Fondazione Alvaro. Tra non molto, in altra sede, sarà
possibile leggere il contributo6 che l’Alvaro dedicò alla politica di
quegli anni e conoscere le idee che il Calabrese propose alla città ed
all’Italia per affrontare alcuni dei problemi più scottanti del tempo.
Dietro questa prosa giornalistica il lettore, che già conosce l’animo e
l’impegno di Alvaro per il meridione, non farà fatica a rivedere quel
medesimo impegno corroborato dalle particolare condizioni della città
alla quale l’uomo Alvaro volge costantemente il suo animo afflitto
per le condizioni presenti, ma carico di speranza per un futuro che si
augurava aperto alle problematiche dei più poveri, degli emarginati,
di quella numerosa folla partenopea, che egli conobbe attraversando
tutti i quartieri della città. Da quanto finora ho accennato il lettore
può già immaginare che questo mio intervento può in parte invadere
il terreno più proprio dello storico e del politico, ma cercherò di
tenermi quanto più è possibile nel mio più specifico ambito storicoletterario.
Dopo le quattro giornate di Napoli, con l’ingresso in città delle
truppe anglo-americane, la vita partenopea vede apparire il 4 ottobre
1943 una nuova testata, «Il Risorgimento», costituito dai tre
quotidiani che in precedenza si stampavano in città: «Il Mattino», il
«Roma» ed il «Corriere di Napoli», che necessariamente avevano
sospeso le pubblicazioni nel periodo bellico7. Le tre testate erano di
proprietà del Banco di Napoli e dell’armatore Achille Lauro. Il nuovo
foglio nasceva come fusione dei tre quotidiani in un periodo in
cui nessuno poteva riprendere la pubblicazione; ed infatti «Il Risorgimento
» aveva due direttori: Paolo Scarfoglio, in rappresentanza
del «Mattino» ed Emilio Scaglione, in rappresentanza del «Roma».
In realtà, come è stato già evidenziato dal Murialdi, dietro questi
due nomi operavano lo storico Adolfo Omodeo, rettore dell’Università
degli Studi, ed ovviamente Benedetto Croce. Basta sfogliare i
primi numeri del giornale per rendersi conto della presenza di
6 Questi articoli appaiono riassunti, con piccoli brani, nel capitolo “Gli editoriali
di Alvaro” in F. Frascani, Le due Napoli di Corrado Alvaro, cit., pp. 71-104.
7 Per la storia di questo giornalismo partenopeo si veda A. Sarubbi, Giornali
e vicende di Napoli dopo la Liberazione, in «Nord-Sud», a. XXIII – Terza serie –
Agosto-settembre 1976, nn. 19-20, pp. 228-243.
[5] IL «RISORGIMENTO» DI CORRADO ALVARO 329
Omodeo, al quale si deve proprio in quel momento la reintegrazione
immediata dei docenti ebrei, che avevano perduto il posto per le
leggi razziali, così come la radiazione di un docente dell’Ateneo,
che s’era macchiato di tradimento collaborando ignominiosamente
con i persecutori fascisti, oppure la ricerca degli studenti ebrei di
cui s’erano perdute le tracce. Il giornale svolge ovviamente un ruolo
fondamentale nell’informazione, essendo fino al 1946, anno in cui si
staccò da esso il «Roma», che riprese vita autonoma, seguito a ruota
nel 1947 dal «Corriere di Napoli», fino a sparire del tutto nel 1950,
quando riapparve «Il Mattino» con la ripartizione delle testate tra il
Banco di Napoli (che ebbe la SEM col «Mattino» ed il «Corriere di
Napoli») ed Achille Lauro, che divenne padrone assoluto del «Roma»,
essendo, dicevo, l’unico foglio di informazione in città.
Nei suoi sette anni di vita «Il Risorgimento» svolse un ruolo
notevole nella ricostruzione della città, benché la presenza di due
direttori, Scarfoglio e Scaglione, impedisse, più del controllo svolto
dagli Alleati, una trattazione del problema istituzionale.
Il giornale fu sempre tenuto d’occhio dal Croce, che il 19 marzo
del 1944 riuscì a far nominare un direttore unico nella figura del
letterato carducciano Floriano Del Secolo, che operò fino al 28 febbraio
del 1947. Intanto Achille Lauro era diventato editore del giornale
e conservò quale direttore Floriano Del Secolo, affidando la
gestione editoriale della SEM all’avv. Raffaele Cafiero, coadiuvato
da Arturo Labriola, Giuseppe Graziadei ed Umberto Manfellotto.
Ma il 24 febbraio del 1947, nonostante certe forme di garanzia ricevute
dal Lauro sul prosieguo della propria attività, il gestore Raffaele
Cafiero licenziò il prof. Del Secolo, invocando la decisione di
dare al quotidiano una “sistemazione” nuova. Ormai gli interessi
politici erano mutati; l’armatore Lauro per poter ricostruire la propria
flotta aveva bisogno dell’appoggio dei vari Ministeri ed utilizzava
l’attività editoriale a questi fini. Col Del Secolo lasciò il giornale
anche un’altra personalità di spicco della cultura napoletana e
familiare di casa Croce: Gino Doria. Lauro ed il Cafiero aveva pensato,
in vena di risparmio, di affidare la direzione del «Risorgimento
» ad Oreste Mosca, al quale letteralmente fu impedito l’accesso
alla direzione del foglio da parte di tutte le maestranze tipografiche.
Infatti per alcuni giorni il quotidiano fu firmato dal redattore Salvatore
Aversa, per consentire ai gestori di reperire sul mercato italiano
una firma autorevole. Furono sufficienti cinque giorni per risolvere
il problema; il 7 marzo del 1947 il quotidiano si presentava con
questo articoletto di apertura, tutto stampato in grassetto:
330 RAFFAELE GIGLIO [6]
Da oggi assume la direzione del “Risorgimento” Corrado Alvaro.
Della sua fama internazionale di scrittore è superfluo parlare. Giornalista
prima nel “Resto del Carlino” e nel “Corriere della Sera”, poi
nel “Mondo” fino a quando questo ebbe vita; collaboratore della
“Stampa”; Direttore del “Popolo di Roma” dal 28 luglio 1943 fino al
9 settembre dello stesso anno, periodo conclusosi con un mandato di
cattura nazifascista a suo carico; cancellato dall’Albo per il suo
antifascismo; Direttore della RAI nel 1944, collaboratore del “Tempo”
e del “Corriere della Sera” nel 1945 e 1946, Corrado Alvaro dovunque
ha lasciato l’impronta personale della sua opera giornalistica.
Per amore verso l’Italia meridionale, ove è nato, egli è venuto a
dirigere questo giornale che si propone da oggi in poi di trattare sul
terreno concreto i nostri maggiori problemi e di portarli sul resoconto
della vita nazionale.
Così ha inizio la nuova sistemazione del “Risorgimento”.
Con Corrado Alvaro il giornalismo napoletano acquista un altro
autentico campione della lotta per la democrazia. Gestione SEM
Questa doviziosa e superba presentazione dello scrittore-giornalista
serviva anche per mettere a tacere tutte le polemiche sorte in
città intorno all’epurazione di Floriano Del Secolo e serviva anche
per accattivarsi le simpatie degli onorevoli del Sud ai quali si dava
in garanzia del proprio impegno gestionale un direttore meridionale
che dei problemi del Sud aveva dato ampia conoscenza e, soprattutto,
per essi aveva già manifestato nel precedente impegno giornalistico
una particolare attenzione. Scegliendo quale nuovo direttore
l’Alvaro il gruppo Lauro aveva dimostrato anche di voler assicurare
al giornale una figura che desse ogni garanzia anche sotto
l’aspetto culturale. Si veniva, in tal modo, a continuare una linea di
vita del giornalismo partenopeo che fin da metà Ottocento aveva
affidato a letterati la direzione dei quotidiani; si pensi, solo per fare
qualche esempio, a Rocco De Zerbi, a Martino Cafiero, a Edoardo
Scarfoglio, a Matilde Serao, a Riccardo Forster, a Floriano Del Secolo.
Che poi dietro questa facciata di scelta intelligente e di continuazione
di una tradizione ci fossero altri motivi di natura biecamente
politica, l’Alvaro se ne accorgerà ben presto.
La direzione di Alvaro durò dal 7 marzo 1947 al 15 luglio 1947,
ovvero appena 130 giorni, che diedero al direttore la possibilità di
firmare solo 9 fondi e di rivedere, reimpostare tutta l’organizzazione
del quotidiano. In realtà Alvaro accogliendo la direzione del
giornale credeva, prendendo per oro colato le promesse dell’editore,
di poter svolgere un programma in appoggio a quello della sinistra
democratica. Invero per attuare questo programma chiamò a colla[
7] IL «RISORGIMENTO» DI CORRADO ALVARO 331
borare al giornale storici e politici di valore e già noti al pubblico
dei lettori; sui 130 numeri da lui firmati compaiono articoli di Corrado
Barbagallo, Luigi Salvatorelli, Guido De Ruggiero, Ugo La Malfa,
Achille Geremicca, Giulio Confalonieri, Adriano Grande, Gaetano
Natale, Gabriele Pepe e Giorgio Granata. L’indirizzo politico del quotidiano
è ben chiaro, tutto teso a dibattere i problemi di un meridione
ancora più bisognoso di urgenti cure, a partire da Napoli, con
la disoccupazione, con l’analfabetismo e con un proletariato sempre
più affamato. Ma lascio ad altri il compito di analizzare la linea
politica del giornale.
Mi soffermerò, invece, seppure brevemente, ad analizzare l’impegno
che l’Alvaro pose nell’organizzazione del lavoro all’interno
della redazione, ma soprattutto la rivoluzione ch’egli apportò al
foglio che s’affacciò in quel periodo di ricostruzione al mondo della
cultura e dell’arte attraverso firme prestigiose della cultura italiana.
In effetti l’Alvaro qui poté utilizzare tutte le conoscenze del proprio
mondo artistico per reperire collaboratori nei vari generi dell’arte.
Ma prima di ogni altra cosa chiamò da Milano un redattore capo
nel quale egli poneva piena fiducia e che aveva avuto modo di
conoscere lavorando sul campo; fu così ch’egli affidò la redazione
ad Aldo Paladini, che lo sostituiva anche nei giorni in cui egli era
fuori sede, spesso a Roma.
In effetti a chi scorre di seguito il «Risorgimento», passando da
quello diretto da Floriano Del Secolo a quello affidato alla direzione
di Corrado Alvaro, s’accorge subito come dopo pochi numeri lo
scrittore calabrese fosse riuscito a dare al foglio un’impronta più moderna,
più viva nell’impostazione, più ricco nell’informazione culturale
in precedenza ridotta a qualche breve informazione di avvenimenti
culturali cittadini. La pagina ora si apre a tutte le manifestazioni
culturali producendo articoli di notevole spessore critico, e ti
certifica che chi dirige o lavora per quella pagina ha dato fondo a
tutte le proprie conoscenze nell’ambito del panorama culturale italiano
per accaparrarsi la collaborazione. Non credo di essere fuori
norma di giudizio affermando che quella pagina culturale del «Risorgimento
», nell’ambito della produzione giornalistica del tempo,
non ha nulla da invidiare anche alle pagine di fogli che si
stampavano a Roma, a Torino o a Milano. La varietà degli argomenti
trattati, il valore critico dei singoli interventi, pari all’intelligenza
delle singole firme, contribuivano ad elevare il valore di un
quotidiano, che si batteva per uscire dalla stantia produzione
partenopea. Chi avrà modo di scorrere le ingiallite pagine del quo332
RAFFAELE GIGLIO [8]
tidiano, che utilizzava una carta di fortuna, quale poteva essere
quella dell’immediato dopoguerra, incontrerà, nello spazio destinato
alla cultura, le firme di Ennio Flaiano, Leonardo Sinisgalli, Eurialo
de Michelis, Michele Prisco, Mario La Cava, Giorgio Caproni, Benedetto
Croce, Maria Bellonci, Alba De Céspedes, Michelangelo Antonioni,
Angelo Maria Ripellino, Alfredo Schettini, Carlo Barbieri. La
squadra è, senza dubbio, da serie superiore; è una di quelle che
garantisce qualità ed il futuro, quando i ritmi di lavoro e l’organizzazione
della maestranze tipografiche avrebbero avuto altro macchinario
a disposizione, una carta migliore e, soprattutto, la possibilità
di aumentare il numero delle pagine quotidiane. E sempre quel
coraggioso e fortunato lettore potrebbe in tal modo trovarsi di fronte
ad una poesia di Sinisgalli, a pagine di prosa di Flaiano, di Prisco,
della De Céspedes o di Caproni, ad interventi critici del De Michelis
o della Bellonci.
Al di là del valore intrinseco dei singoli interventi colpisce l’organizzazione
della pagina, a testimonianza dell’impegno del direttore
e del redattore; ma a distanza di oltre un cinquantennio, alla
luce degli avvenimenti trascorsi, quella pagina acquista un valore
maggiore tenendo presente che i risultati erano stati raggiunti in
pochi giorni. D’altra parte tutto quello che ora possiamo leggere è
il frutto di appena 130 giorni di lavoro dell’Alvaro. Spesso, ripercorrendo
anche osservazioni fatte da un mio familiare, che a quell’esperienza
aveva partecipato, mi viene da pensare su che cosa oggi
avremmo potuto meditare se l’armatore Lauro avesse lasciato almeno
fino al 1950, anno della scissione e della vendita della SEM e
relativa scomparsa del «Risorgimento», dalla cui costola nacque8
come ultima filiazione «Il Mattino», se avesse conservato, dicevo,
l’Alvaro a direttore di quel quotidiano. Certamente le firme sarebbero
aumentate, così come la quantità e la qualità del prodotto
pubblicato. Solo chi aveva alle spalle una buona esperienza di pratica
giornalistica e di direzione poteva raggiungere risultati così
lusinghieri in poco tempo. Segno ancora dell’entusiasmo con cui lo
scrittore ed il giornalista Alvaro, non tralasciando la propria vocazione
di meridionalista, di uomo di sinistra, mise nell’impresa che
gli dovette sembrare difficile, ma stimolante e l’occasione propizia
per dare una mano concreta alla realizzazione dei sogni di scrittore
8 Dal «Risorgimento» riacquistarono vita propria i quotidiani, che in esso si
erano fusi, con questa sequenza temporale: 1946 il «Roma», 1947 «Il Corriere di
Napoli» e nel 1950 «Il Mattino».
[9] IL «RISORGIMENTO» DI CORRADO ALVARO 333
e di interprete dei problemi del meridione proprio nel momento in
cui la Nazione, riacquistata la propria libertà, si avviava a darsi una
Costituzione repubblicana.
Questo eccessivo impegno gestionale ad inizio della direzione
spiega la carenza di scritti del direttore Alvaro sul quotidiano. Infatti
nei 130 giorni di impegno al «Risorgimento», dal 7 marzo al 15
luglio del 1947, risultano appena nove editoriali; questo numero è
apparso a Federico Frascani9, che per primo ha esaminato il frutto
di questo lavoro, molto esiguo, “ appena tre al mese”, e direi, facendo
un calcolo a giorni, un articolo quasi ogni 15 giorni; ben poco
rispetto alla media dei direttori di quel tempo andato. Ma ha ragione
poi il Frascani a scrivere: “Non era certo un direttore invadente,
ma non mancò mai di prendere, e con slancio, la penna per commentare
gli avvenimenti che in quel periodo lo esigevano”10.
In realtà in quel periodo l’Alvaro si trovò ad affrontare non
pochi problemi politici, di ordine nazionale ed internazionale; e seppe
gestire ogni occasione sempre con animo misurato, con una passione
politica mai eccessiva, ma controllata e consona alla pace e al
benessere auspicato per il Paese. I suoi interventi, ricchi di una
profonda umanità, rispecchiano l’animo e lo stile, di cui lo scrittore
ha dato vasto esempio. Nei suoi fondi c’è sempre l’invito alle varie
parti politiche a riflettere sui propri errori e a rivedere quelle posizioni
assunte nell’ambito governativo che non portano beneficio né
alla nazione, né in particolar modo ai derelitti, ai disoccupati, agli
affamati uomini del sud, ancora una volta costretti ad abbracciare la
soluzione dell’emigrazione per risolvere i problemi della sopravvivenza.
È proprio su questa tematica che l’Alvaro riesce a far sentire
col suo foglio il grido che il popolo di Napoli e dell’intero meridione
eleva verso quanti hanno assunto l’impegno di rappresentarli in
Parlamento.
I nove articoli di fondo, ai quali si deve aggiungere qualche nota
editoriale senza firma, esprimono nel loro insieme la passione politica
dell’uomo Alvaro e l’avvio di un dialogo aperto con tutte le
forze politiche troncato improvvisamente e reso inerte dall’abbandono
di quel posto di comando, che iniziava a dare frutti.
La scrittura di questi articoli è piana, scorrevole, con esemplificazioni
intelligibili anche da persone poco addentro alla politica ed ai
9 F. Frascani, Le due Napoli di Corrado Alvaro, Napoli, Arturo Berisio Editore,
1969.
10 Ivi, p. 73.
334 RAFFAELE GIGLIO [10]
fatti sociali e, soprattutto, con immagini ricche di pathos e di poesia,
figlie di quella sensibilità tutta alvariana, come la sua prosa, quella
dei racconti e dei romanzi, ci ha trasmesso.
Questa passione umana, prima che letteraria, accompagnò sempre
l’Alvaro nell’arco dei 130 giorni; e di certo avrebbe dovuto
restare al suo posto a dirigere un giornale che aveva acquistato
ampio spazio in città; ma gli interessi dell’armatore superavano, al
solito, qualsiasi altro giudizio razionale sul lavoro svolto dallo scrittore.
Il Lauro, col Cafiero e gli altri, gli lasciò libero il campo finché
fu in vita il tripartito, alleanza politica sorta per gestire l’emergenza;
ma quando il Ministero della Marina mercantile, quello che serviva
al Lauro per i suoi traffici marittimi, fu appannaggio del democristiano
Cappa, la politica del giornale dovette assumere una posizione
diversa, allontanandosi da un marcato accento di sinistra. In più
di un’occasione il gruppo editoriale aveva manifestato qualche lagnanza
per l’attività del redattore imposto dall’Alvaro, quell’Aldo
Paladini, che aveva aiutato il direttore a trasformare il quotidiano.
Alcune di queste voci, che vedevano nel Paladini un redattore piuttosto
aperto verso il mondo sovietico, misero più di una volta il
Direttore in difficoltà nei confronti del gruppo editoriale, che spesso
metteva in giro la voce che aveva intenzione di vendere il foglio. In
una lettera alla moglie Laura del 9 maggio 1947 lo scrittore calabrese
accenna a questi problemi:
Ho trovato al giornale la situazione interna piuttosto smarrita, fra le
voci di vendita e gli errori di tatto del nostro Paladini. Il quale se n’è
uscito ieri con cinque fotografie delle donne sovietiche e articolo
relativo in testa alla pagina, che neppure l’avrebbe fatto «l’Unità».
Quindi per tutta la giornata ne ho subite le conseguenze. Ho detto
il fatto suo a Paladini, che però poveretto sconta anche le ire che non
si possono appuntare su di me.[…] Quanto al resto, pare che Lauro
non venda il giornale, almeno a quanto si dice, ma non ho ancora
veduto nessuno dei padroni11.
Questi problemi nei confronti del Paladini dovettero continuare
ed assumere forme ancora più vistose di astio se due mesi dopo il
gruppo editoriale decise di imporre, a garanzia di una nuova linea
politica del giornale, più moderata ed aperta alle istanze dei demo-
11 C. Alvaro, Cara Laura, a cura di M. Mascia Galateria, con una nota di
G. Strazzeri, Palermo, Sellerio, 1995, p. 152. Utile è anche la lettura di C.
Alvaro, Quasi un diario…, con introduzione di N. Borsellino, Milano, Bompiani,
1994.
[11] IL «RISORGIMENTO» DI CORRADO ALVARO 335
cratici cristiani, fu deciso, dicevo, di imporre la sostituzione del
Paladini con Carlo Nazzaro, già direttore del «Roma». Di fronte a
questa imposizione l’Alvaro s’impuntò e cadde, come scrive Salvatore
Rea, nel tranello che gli era stato teso12; ovvero fece il gioco di
Lauro, che si liberò di entrambi senza aprire un fronte di lotta con
le altre maestranze del giornale, come era avvenuto col licenziamento
di Floriano Del Secolo. Ed in questo episodio si deve leggere
tutta la profonda coerenza dell’Alvaro, che non esitò a difendere il
redattore ch’egli aveva personalmente portato al «Risorgimento» e
che ribadì, nella pubblica risposta, come egli solo fosse il responsabile
del prodotto del giornale.
Il 15 luglio del 1947 appare, dunque, sul quotidiano, in apertura,
questo annunzio firmato dall’Alvaro, che va letto per comprendere,
ove mai ci fosse bisogno, l’onestà del direttore a fronte di uno dei
soliti atti di ingerenza commessi da Lauro e soci nei lunghi anni di
attività editoriale:
Un contrasto sorto con gli editori del «Risorgimento» a proposito
della sostituzione, che essi richiedevano, del redattore capo di questo
giornale, persona di mia fiducia, ma non degli editori, mi costringe
a lasciare il mio posto di direttore. Gli editori di un giornale
possono dispensare dal suo incarico il direttore, ma non un redattore
capo o un qualunque redattore, i quali al solo direttore devono
rispondere. Tale è la buona regola del nostro lavoro, e nell’osservanza
di essa mi congedo dalla redazione e dai lettori del «Risorgimento».
Lascio dunque la direzione del «Risorgimento» da oggi. Con me
lasciano questo giornale il corrispondente politico da Roma, Gaetano
Natale, e il redattore capo Aldo Paladini.
Al termine di questo breve periodo di lavoro, riconsegniamo agli
editori un giornale tutt’altro che diminuito di prestigio, di diffusione,
di efficienza. E per non parlare della nostra opera, e delle nostre
assidue cure, ricorderemo come sia merito dei nostri cronisti in questi
pochi mesi se i problemi della vita napoletana hanno trovato
un’eco all’Assemblea Costituente, accanto alle urgenti necessità della
Nazione.
In questa forma, pacata e decisa, attestando come avesse, seppure
in poco tempo, mantenuto fede all’impegno preso, Corrado Alvaro,
con grande signorilità e rispetto, toglie il disturbo e consegna il
«Risorgimento» nelle mani di Alberto Consiglio. Questa direzione e
gli altri tre anni di vita del quotidiano costituiscono un’altra storia,
12 S. Rea, Storia di un giornale napoletano, cit., pp. 121-122.
336 RAFFAELE GIGLIO [12]
certamente non bella e gloriosa, almeno nei primi due anni, come
quella caratterizzata dalla direzione dell’Alvaro, che ricreò a Napoli,
in soli 130 giorni, alcune forme di quell’alto giornalismo, che la città
aveva già conosciuto con altri direttori, che, nel bene e nel male del
loro operato personale, condussero il giornalismo quotidiano partenopeo
alle più alte vette del grande giornalismo europeo. «Il Risorgimento
» aveva raggiunto con Alvaro l’apice della propria diffusione
e del proprio impegno a difesa dell’intero meridione; dopo il
suo abbandono il foglio comincerà a decadere e ad assumere quei
toni utili per la difesa degli interessi di pochi gruppi, non di certo
del depresso meridione. Una situazione ch’egli aveva già provveduto
ad evidenziare nel fondo del 13 aprile 1947, dal titolo “Le cose
vedute da Napoli”, dove aveva scritto:
L’azione perseguita fin qui dal Governo è stata frantumata dall’azione
dei partiti per il loro partito, ha parlato ora alla speranza di
questi e ora di quelli, ma non alla speranza italiana. I partiti tengono
singolarmente a distinguersi e ad apparire partitamente i procuratori
delle riforme e i largitori dei vantaggi, e a rigettarsi l’un l’altro gli
errori e gli aggravi.
Per questo medesimo meccanismo, ch’egli vedeva applicato nella
politica italiana, fu attaccato e messo in disparte sfruttando le
frequenti leggerezze del suo redattore capo. Quella stessa apparente
“democrazia”, ch’era stata invocata al momento della sua nomina a
direttore, ora lo “licenziava”.
Terminava così, tanto rapidamente quanto inaspettatamente,
l’avventura napoletana del giornalista Alvaro, per molti anni sempre
invocato da tutti quelli che avevano potuto lavorare con lui ed
avevano conosciuto la gentilezza del suo tratto umano, il profondo
attaccamento alla professione ed ad un foglio, che aveva assunto a
bandiera del proprio impegno una delle più perseguite passioni del
suo animo di scrittore: la difesa del Mezzogiorno d’Italia, la difesa
di quella stessa parte della Penisola che ancora oggi, più necessariamente
di prima, chiama a raccolta i propri difensori. E così sia.
Raffaele Giglio
(Università Federico II – Napoli)
Contributi
ROBERTA CUPPARI
L’amazzone guerriera e la figura adolescente
nella poesia di Milo De Angelis
The Warrior Amazon is one of the central metaphors of Milo De
Angelis’ s poetical works. De Angelis, who is interested in the role
of women in Sparta, is really fascinated by this ‘Black Artemis’,
whose presence is perceivable in his poetical works. This attraction
is in connection with the author’s recollections of the past: since he
was a teenager, he appreciated the athletic activity of the girls of
his same age. For him, the precision and the exactness of gymnastics
can be compared with the characteristic of poetry as he sees it. In
his opinion, athletic virtue is similar to poetical perfection, because
both can be reached only by great diligence and rigour.
«Nel superotto girato al ginnasio/ è già lei: la ragazza guerriera/
sempre all’attacco»1.
Questi versi, tratti dalla lirica significativamente intitolata Per
quell’innato scatto, sono riferiti a Stefanella, ma potrebbero riguardare
tutte le atlete che popolano la penultima raccolta poetica di Milo
1 Milo De Angelis, Biografia sommaria, Milano, Mondadori, 1999, p. 52. Milo
De Angelis è nato a Milano nel 1951. Laureato in Lettere, attualmente svolge
attività di insegnante nella casa circondariale di Opera (MI). Ha tradotto dal
francese e dal latino. Dal giugno 1977 al marzo 1980 ha fondato e diretto una
rivista di letteratura di matrice prettamente romantica: «Niebo» (in lingua polacca,
“cielo”): verosimilmente si tratta di un omaggio a Boleslaw Les;mian (1878-
1937), poeta di Varsavia caro a De Angelis per la sua concezione del cielo,
inteso come Assoluto che irrompe nel contingente. Nella visione di De Angelis,
proprio dallo scontro tra telos e contingenza scaturisce la poesia.
Le opere poetiche di Milo De Angelis sono: Somiglianze, Milano, Guanda,
1976; Millimetri, Torino, Einaudi, 1983; Terra del viso, Milano, Mondadori, 1985;
Distante un padre, Milano, Mondadori, 1989; Biografia sommaria, Milano,
Mondadori, 1999; Dove eravamo già stati (Poesie 1970-1999), Roma, Donzelli, 2001;
Tema dell’addio, Milano, Mondadori, 2005.
Opere di narrativa: La corsa dei mantelli, Milano, Guanda, 1979; Opere saggistiche:
Poesia e destino, Bologna, Cappelli, 1982.
338 ROBERTA CUPPARI [2]
De Angelis, Biografia sommaria (1999). Molte liriche di questa raccolta
presentano spartane figure femminili quali Paoletta, Donatella, o
qualsiasi altra giovane donna che abbia dato prova di grande abilità
sportiva, di precisione e di preparazione. Queste atlete costituiscono
una delle metafore portanti dell’intera opera di Milo De Angelis, un
poeta che fin dalla giovinezza subisce il fascino della prestazione
sportiva e che in età adulta individua una forte analogia tra i versi
poetici e il gesto atletico, tra l’ascolto imperativo da cui scaturiscono
le liriche e l’esattezza millimetrica di un salto o di un lancio:
I versi e il gesto atletico sono accomunati da un’infinita preparazione,
da un culto dell’economia e dell’essenziale, da un rigore
millimetrico che poi esplode nell’assoluta libertà del testo o del gesto,
nello splendore della poesia riuscita o del salto perfetto2.
La Stefanella di Per quell’innato scatto è definita come «ragazza
dei baratri e dei bar»3: tali parole si potrebbero attribuire anche a
Daina, protagonista dell’unico testo in prosa composto da De Angelis,
La corsa dei mantelli (1979). È curioso che l’ideale femminile del poeta
si concretizzi nella protagonista del suo unico testo in prosa. Curioso
perché egli ammette esplicitamente di sentire una scarsa attitudine
per la prosa e di riuscire a esprimersi davvero solo attraverso la
parola poetica. Eppure è proprio dalla fiaba onirica La corsa dei
mantelli che emerge una figura di donna che racchiude in sé tutte le
donne presenti nelle poesie:
Daina riassume nel suo corpo scattante tutte le donne presenti nei
miei libri: figlie di Artemide più che di Venere, sorelle di Atalanta
piuttosto che di Circe. Daina è una creatura in corsa, attraversata dal
vento, è veloce, luminosa, adolescente, non conosce profumi, ventagli
o tacchi a spillo, lotta con i maschi nelle palestre, entra nelle
bande, corre nelle piste di Sparta o di Milano, è una ragazza dei
baratri e dei bar4.
Le parole del poeta dipingono un ideale femminile lontano da
ogni aspettativa di dolcezza o remissività e da ogni sfumatura riconducibile
ai chiaroscuri dell’erotismo. Il poeta ha molto a cuore la
visione della donna propria di Sparta: una visione della nudità, ma
2 I. Vincentini, Milo De Angelis. Colloqui sulla poesia, Milano, La Vita Felice,
2008, p. 21.
3 M. De Angelis, Biografia sommaria, cit., p. 52.
4 I. Vincentini, Milo De Angelis. Colloqui sulla poesia, cit., pp. 95-96.
[3] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 339
di una nudità inequivocabilmente agonistica, una nudità splendente
di una luce diurna, chiara e austera. Il fascino di questa Artemide
nera, cacciatrice dei boschi, guerriera antica che si amputava la
mammella destra per non essere impedita nel tiro con l’arco e che
con la sinistra nutriva le figlie, è tutto concentrato in Daina, guerriera
senza età che sfugge continuamente a Luca, identificabile nell’autore
stesso ma anche nel lettore. Luca è alla perenne ricerca di
Daina (intraprendendo in questo modo un viaggio metaforico alla
ricerca di se stesso) e nelle sue svariate peregrinazioni – leggibili
come simboli di un’erranza di fondo che caratterizza la vita dell’uomo
– incontra molti personaggi che gli raccontano le avventure
della guerriera sfuggente; il racconto si svolge in un’atmosfera
surreale in cui vita e morte, sogno e realtà, visioni, ricordi, allucinazioni
si confondono in un tessuto tipicamente fiabesco.
Le molte voci caratterizzano Daina come giocatrice, atleta, perfino
come assassina: per rendere l’idea della potenza di Daina e del
timore che incute la sua combattività, l’autore la descrive con «occhi
rossi e verdi che sfidano quelli del gufo e gli fanno abbassare per
primo lo sguardo»5.
Daina lotta con i maschi con grande abilità e in un’occasione
riesce a sopraffare l’avversario, Stefano, fino a immobilizzarlo e a
farlo soffocare nell’acqua di una risaia, considerando addirittura
bellissimo questo sacrificio, un sacrificio voluto dallo stesso Stefano,
che a un certo punto ha smesso di lottare:
[…] Daina chiese a Stefano se si arrendeva. Stefano rispose di no e
continuò il suo tentativo di liberarsi. Ma si vedeva che ormai non
c’era nulla da fare. Daina strinse ancora di più la presa e si mise a
cavalcioni sopra di lui, tenendolo immobile con la faccia nell’acqua.
[…] «Ma l’avete lasciato morire così, soffocato in mezzo a una risaia?
». «Sì, era una scena bellissima. Anche Stefano lo voleva e non
lottava più. Era così, ve l’ho detto, un sacrificio bellissimo»6.
Impossibile non collegare questa guerriera che gareggia con i
maschi con la mitica Atalanta, a testimonianza dell’influenza della
cultura classica su un poeta la cui altezza lirica è dovuta ad ardite
analogie che lo rendono straordinariamente innovativo.
De Angelis riprende dai Greci uno dei punti fondanti della sua
poetica: la dimensione tragica dell’esistenza, dovuta all’ineluttabilità
5 M. De Angelis, La Corsa dei mantelli, Milano, Guanda, 1979, p. 19.
6 Ivi, pp. 72-73.
340 ROBERTA CUPPARI [4]
di un destino che è già stabilito. Ma l’influenza dei Greci non si
limita alla linea poetica: si avverte anche sul piano tematico, in
quanto le giovani guerriere e le atlete che popolano l’opera dell’autore
discendono evidentemente dal mito.
Atalanta sfida alla corsa i ragazzi della Tessaglia, a condizioni
precise: chi l’avesse vinta l’avrebbe avuta in sposa, ma chi avesse
perso sarebbe stato ucciso da lei. A questo proposito De Angelis fa
un’osservazione interessante: durante la corsa con Atalanta tutti gli
sfidanti pensano solo a evitare la pena capitale e dunque non scorgono
nemmeno per un attimo lo splendore delle falcate della fanciulla7.
Eppure – nota ancora il poeta – Atalanta è la Morte e dunque
è necessario amarla proprio durante la corsa, quando si è ancora
in vita, e non temere di essere uccisi alla fine della competizione,
perché in tal caso lo sfidante corre verso una morte quasi sicura
senza nemmeno apprezzare la bellezza di Atalanta.
I riferimenti al mito classico tendono a portare la nostra mente in
un passato lontanissimo e, per di più, favoloso. Ma, precisamente,
quando comincia a profilarsi la figura della vergine guerriera? Quali
sono i testi poetici o letterari che dobbiamo inserire in un’ideale
mappa della donna dallo spirito belligerante?
In un brano di Poesia e destino dal titolo indicativo, Amazzoni, De
Angelis traccia una breve mappa dei testi che rievocano queste figure
mitologiche, affermando che alcuni accenni alle Amazzoni sono già
presenti nel terzo libro dell’Iliade, ma è la poesia post-omerica a presentarci
una prima figura di eroina: si tratta di Pentesilea, la regina
delle Amazzoni. Esse interverranno nella guerra di Troia a fianco dei
Troiani dopo la morte di Ettore e Pentesilea sarà uccisa da Achille.
Le Amazzoni appaiono poi nelle leggende di Ercole, Teseo, Achille
e nella storia degli Argonauti, che tende a collocarle geograficamente
nell’isola di Lemno. Il poeta osserva come molte tradizioni relative
alle Amazzoni abbiano come sfondo un’isola e come i Greci le
collocassero ai confini del mondo conosciuto.
Da dove scaturisce la consuetudine di attribuire alle Amazzoni il
valore della verginità? Perché è comune il riferimento alla “vergineguerriera”?
Perché è caratteristico di queste figure il rifiuto imperioso
di ogni dimensione erotico-sentimentale. In Poesia e destino De
Angelis fa riferimento all’opera Amazzoni di Romualdo Pantini, dove
la figura di Ermanna incarna perfettamente l’indomita guerriera che
non si lascia tentare dalle seduzioni dell’amore:
7 M. De Angelis, Poesia e destino, Bologna, Cappelli, 1982, p. 31.
[5] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 341
«Io certo nacqui bella a mio dispetto, perché non c’è durezza di armi
e di vita che non mi alletti e sproni a superarla. Mi intendete, bel
cavaliere amante? Non sei il solo a soffrire di non potermi avere
come donna. Soffro anch’io di un tormento inespresso: correre, battagliare,
splendere di forze, accecarmi nell’ignoto! Quando nella zuffa
sprono il cavallo e scaglio la mia lancia o, roteando con furore la
spada, vedo aprirsi le schiere al mio passaggio, io godo stranamente
un riposo ideale»8.
Il poeta individua un’analogia tra le parole di Ermanna e alcuni
versi del settimo libro dell’Eneide:
In Ermanna sembrano rivivere i versi dell’Eneide (VII, 805-807)
«bellatrix, non illa colo calathisve Minervae/ femineas adsueta manus, sed
proelia virgo/ dura pati corsuque pedum praevertere ventos» che fanno da
preludio all’apparire di Camilla nell’undicesimo libro9.
Ribadendo la grandezza di Sparta, De Angelis nota che, dopo
Virgilio, l’unico poeta latino che ancora è affascinato dalla figura
della vergine-guerriera è Properzio:
Oltre a Virgilio, Properzio è forse l’unico poeta latino a cogliere la
bellezza della vergine guerriera “che sopporta le ferite del pancrazio”
(patitur duro vulnera pancratio) in una nudità lottante (inter luctantes
nuda puella viros) e, sottraendosi alle fascinazioni di Atalanta, conclude
in modo splendido: Lex igitur Spartana vetat Secedere amantes (Perciò
la legge di Sparta vieta il mistero agli amanti). In questo senso
occorre prendere atto della grandezza di Licurgo e di Sparta. In una
Grecia che rimane legata alla figura della donna armoniosa e danzante
(a Nausicaa che leggiadramente gioca con la palla), Sparta
entra in pieno nella forza del corpo femminile, ed entra così in un
punto cruciale della grecità: non ci può essere eroismo maschile se
non c’è eroismo femminile […] Se il corpo della donna si depaupera
nella mollezza, viene spezzata la condizione umana, la solitudine di
ogni azione eroica, si dissolve il grande mito ellenico che vede nelle
due corse parallele delle ragazze e dei ragazzi il perpetuarsi della
dinastia (ogni vincitrice veniva dichiarata “kore” dell’anno e data in
sposa al vincitore maschile) che sostituisce la legge del valore a
quella della proprietà terriera e del casato10.
Tuttavia, se certi miti presentano delle Amazzoni inflessibili nel-
8 M. De Angelis, Poesia e destino, cit., p. 74.
9 Ivi, p. 75. Camilla, amante della caccia e seguace di Diana, aiutò Turno
contro Enea.
10 Ibidem.
342 ROBERTA CUPPARI [6]
la loro volontà di combattere, altri propongono guerriere la cui iniziale
intransigenza finisce per piegarsi all’accettazione della sconfitta
in battaglia e al compromesso del matrimonio.
L’eroismo della stessa Atalanta è già potenzialmente matrimoniale:
L’eroina può mostrarsi in tutta la sua violenza, ma qualcosa le dice
che di fronte a un dominatore dovrà inchinarsi: la sfida stessa che
essa lancia alla potenza maschile è già, fin dall’inizio, impregnata di
questa possibile sconfitta, di questa percezione che furore bellico non
sia la totalità del proprio essere. A volte poi, come nell’Atalanta ovidiana,
c’è addirittura una dimensione di tenerezza che sfocia in pieno matrimonio
e svilisce l’orgogliosa Atalanta apparsa all’inizio. Da questa
simbologia legata all’Atalanta intenerita sgorgano innumerevoli figure
di bisbetiche domate e altrettanto innumerevoli figure di douces
guerrierès: dalla Rosaura di Calderon alla Sisina baudelairiana, alla
stessa Bradamante “donata” a Ruggero11.
Il contesto mitico da cui discendono le donne di De Angelis si
percepisce certamente nella già citata Corsa dei mantelli, il cui tessuto
fiabesco si coniuga bene con la sensazione di indefinito propria dei
racconti mitici; ma sono ricollegabili al mito anche le donne di alcune
liriche, soprattutto quelle appartenenti alle prime raccolte. A titolo
di esempio, nella prima raccolta pubblicata, Somiglianze (1976),
la poesia La vincitrice fa appunto riferimento a un’amazzone cacciatrice:
Certo, eri già falsa, coi capelli corti, anche tu
ma bisognava credere […] sii amazzone, vinci con la maglia
nera
e se neghi la rivelazione, almeno vivi…
cancella il disgusto
per chi mi assomiglia tenero
donna che cacciava l’orso e il lupo
ragionerai per terra, dimostrerai femminile e violenta, bisogna
pagare, pagare tutto12.
Gli aggettivi “femminile” e “violenta” confermano il carattere
combattivo della donna di De Angelis, che in molti versi insiste
sulla forza e sulla tenacia femminile:
11 Ibidem.
12 M. De Angelis, Somiglianze, Milano, Guanda, 1976, p. 108.
[7] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 343
«[…] il chinino allagava/ un intero continente/ allora e sempre/
nelle femmine che/ non gettano mai la spugna.»13.
«Qui passano dei corpi/ che sorprendiamo femmine/ orgogliose in
baruffa»14.
Le ultime raccolte poetiche vedono un mutamento di prospettiva,
perché ospitano delle atlete che non riportano più a un passato
lontanissimo, indefinito, favoloso. Le ragazze che spiccano in Biografia
sommaria appartengono a un passato molto più recente: il
passato della giovinezza del poeta. Pur senza cadere nelle insidie
del biografismo, e tenendo ben presenti le linee di poetica dell’autore,
che per molti versi riportano al mondo classico, è innegabile
che le ragazze di Biografia sommaria siano caratterizzate da una concretezza
che è indicativa della loro reale esistenza. Nel poemetto
intitolato Donatella risulta subito evidente il tono familiare, quasi
colloquiale, in cui è inserita la conversazione tra due interlocutori
che si riferiscono a Donatella come a una conoscenza di vecchia
data:
«C’è Donata De Giovanni?
Si allena ancora qui?». «Come no, la Donatella,
la velocista, la sta sempre de per lé». […] «Forse, si dice,
ha perso
il posto all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte…per non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato…mezza Milano». «Io, signore,
sbaglierò, le
potrà sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla […]
di baciare
le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
e così all’improvviso si avvera, come un frutto […] le
persone […]
capiranno che la luce
non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da lei, la Donatella.»15
Il nome stesso della ragazza, Donatella, è quotidiano, comune,
emana una familiarità che induce lo stesso lettore a credere di cono-
13 Id., Millimetri, Torino, Einaudi, 1983, p. 6.
14 Ivi, p. 26.
15 M. De Angelis, Biografia sommaria, cit., p. 46.
344 ROBERTA CUPPARI [8]
scere questa velocista; lo stile narrativo del poemetto, inoltre, si
pone agli antipodi dell’oscurità propria di De Angelis, quasi a voler
ricreare anche a livello stilistico un contesto di quotidianità, che non
ha nulla a che vedere con le ardite analogie e la sovrapposizione di
diversi livelli di realtà, che pure caratterizzano gran parte dell’opera.
Un’altra atleta che compare in Biografia sommaria è la già citata
Stefanella:
Nel superotto girato al ginnasio
è già lei: la ragazza guerriera
sempre all’attacco […] Ragazza dei baratri e dei bar, dei
giochi
di destrezza, dei campionati studenteschi
vinti in scioltezza: nove secondi
con sei metri di distacco.
E io, in classe, quando mi accorsi che volava […] l’ho
chiamata subito
Atalanta. Stefania Annovazzi
si chiamava veramente
più spesso Stefanella.
Ma per tutti noi era quella
divina falcata adolescente16.
Il ginnasio qui evocato induce a riflettere sulla giovinezza del
poeta: De Angelis cresce nella Milano borghese degli anni Sessanta,
in un periodo in cui, nei gruppi maschili già formati, cominciano ad
apparire ragazze, molte delle quali praticano sport, alcune anche a
livello agonistico. Queste ragazze colpiscono la sensibilità di un poeta
ancora “in erba” e divengono poi simbolo di virtù atletica che nella
visione di De Angelis si associa a perfezione poetica.
Da ricordare, ancora, la Paoletta dell’omonima poesia:
Il forte silenzio
gettato sul tuo corpo
mi accompagna in questo paesaggio
di metano e di palestre
ecco il golf di lana spessa
sulle braccia vittoriose
della fanciulla campionessa
la cintura nera sul kimono
l’asfalto imbevuto
di peso buio.
Tutto è ancora qui
16 Ivi, p. 52.
[9] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 345
nelle segrete espansioni
nella ginocchiera
che ci siamo scambiati
a fine gara: piove sul Fossati
e l’acqua ci sta accanto, l’acqua vera
del battesimo e del pianto […]17.
Queste fanciulle amanti dello sport sembrano indossare magliette
di vecchie partite, sembrano emergere da un film in bianco e
nero, “il film della vita” del poeta; esse sono fermate in uno spaccato
di adolescenza spartana e lontana, un’adolescenza mitica perché
trasfigurata poeticamente, ma anche concreta perché realmente
vissuta.
In Biografia sommaria ci sono anche atlete non nominate, forse
meno concrete e individuabili ma ugualmente significative, collocate
ancora nella tanto amata Milano:
L’ho riconosciuta da lontano, dalla rincorsa
a nove passi, dalla maglietta rossa
e prestigiosa che le donò Stepanenko, nel 1961.
L’ho riconosciuta da lontano. E poi Milano
è rinchiusa nell’ovale del Pirelli, nella sua breve pedana,
che sbuca su
un’asticella
bianca e nera, sugli infiniti corpi che ha sfiorato. […] Non
conoscerò
quel respiro
di acrobata lucente, il volo che sprigiona
quella forza in piena luce… la chiarezza
del suo corpo di amazzone fanciulla
l’ho desiderata, come a volte si desidera, tra i luoghi,
il più visibile18.
Tra i molti poeti che nutrono l’universo lirico di Milo De Angelis
un ruolo importante spetta alla poetessa russa Marina Cvetaeva
(Mosca, 1892 – Elabuga, 1941). La Cvetaeva è rievocata in una lirica
singolare, nella quale il poeta la presenta impegnata a gareggiare in
un immaginario stadio sportivo. L’intera lirica, di seguito riportata,
è costruita come un dialogo tra due giudici di questo stadio:
“Gli spettatori erano silenziosi”
“Un silenzio totale?”
17 Ivi, p. 40.
18 Ivi, p. 49.
346 ROBERTA CUPPARI [10]
“Sì, ma nell’ora del treno – che consegna”
“Cosa vuoi dire?”
“Si spaccò un vetro, all’ingresso”
“Quando?”
“Mentre crollavano i cronometri”
“E poi?”
“Il rombo delle caldaie di C}istopol cessò”
“Come è potuto accadere?”
“Non so”
“Ma lei?”
“Lei entrò nella pista, con gli altri”
“E le sue ginocchia?”
“Le ginocchia fremevano, pronte, sulla terra battuta”
“Erano già ferite?”
“Sì, ma scattarono subito”
“E i capelli?”
“I capelli erano scuri; scuri e molto corti”
“Morì oltre il traguardo?”
“No, subito prima, qualche metro prima”
“Come lo sai?”
“L’ho sentito. Le gambe si muovevano; però/ lei non era
più viva”
“E spezzò lo stesso il filo di lana?”
“Sì, lo spezzò”
“Aveva giurato di farlo?”
“Sì, l’aveva giurato”19.
La lirica è intitolata 31 agosto 1941: è la data del decesso di Marina
Cvetaeva, morta suicida in una piccola isba di C}istopol dov’è rifugiata,
mentre i nazisti stanno avanzando verso la steppa. La Cvetaeva,
che nel testo non è espressamente nominata, entra nella pista sportiva
per gareggiare, ma al momento della partenza le sue ginocchia sono
già ferite: ciò lascia presagire la tragedia di cui sarà vittima, è un segno
del destino. Marina Cvetaeva muore poco prima di raggiungere il
traguardo e, tuttavia, riesce ugualmente a tagliare il filo di lana, perché
aveva giurato di farlo. L’ultimo verso della poesia, “l’aveva giurato”
richiama il titolo del volume di Eraldo Affinati, Patto giurato, un
acuto studio critico sulla poesia di De Angelis nel quale è spiegato che
il patto giurato fra virtù e storia è fondato sulla poesia; e la vera virtù
– sostiene Affinati – non potrà mai essere schiacciata dalla storia.
La vicenda della Cvetaeva diventa vicenda emblematica della
tragicità della condizione umana. Vissuta ai tempi della rivoluzione
19 M. De Angelis, Terra del viso, Milano, Mondadori, 1985, p. 26.
[11] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 347
russa, la Cvetaeva ha un’esistenza estremamente travagliata: i continui
trasferimenti, le gravi difficoltà finanziarie, le separazioni dai
suoi affetti più cari, devono avere un peso ancora maggiore su un
animo, il suo, tipicamente “romantico”, un animo battagliero, incapace
di accettare un regime che priva della libertà. Il suo suicidio
pare l’emblema della libertà stroncata: gesto estremo di sconfitta, il
suicidio è anche simbolo di ribellione, evento drammatico dettato
dalle forze di un destino ignoto ma inesorabile20.
Tornando al tema dell’amazzone guerriera, dall’analisi emerge
chiaramente l’importanza dello sport nella visione poetica di De
Angelis, uno sport il cui valore non risiede nel risultato della prestazione
agonistica, ma nel rigore infallibile nel caso delle competizioni
individuali femminili e nella coesione del gruppo nel caso dei
giochi di squadra maschili. Molte poesie propongono l’immagine
del collegio maschile che può essere ricondotto a quello frequentato
dall’autore in gioventù, dove il poeta apprende un metodo e un
rigore che sono alla base di qualsiasi performance sportiva e anche
della parola poetica; frequenti le immagini della palestra, del campo
da calcio asfaltato che si offre da sfondo ai giochi di squadra:
Solo una corsa a centrocampo, il tiro
che lo riporta di colpo.
È diventato questo
il suo atto d’inesistenza
tutti i peccati di tenerezza
scontati male
con la faccia. Qui a chiederci di cosa ha bisogno un evento
per accadere.
Maglie ammucchiate
la foto della squadra: ce la faremo
domani
vittoria21
20 La vera poesia per De Angelis nasce da un senso di tragicità. I greci
insegnano che è necessario attraversare il tragico: nel conflitto tra individuo e
destino, libertà e necessità, innocenza e colpa, nella tragedia greca il dolore è la
nota dominante dell’esistenza. L’uomo è collocato in un percorso in cui tutto è
già stabilito: in questo senso la drammaticità della tragedia non è tanto un finale
luttuoso, quanto il rapporto tra responsabilità umana e senso del destino, tra
scelte individuali ed eventi fatali, in una parola: tra umano e divino. Il divino
è da intendersi come un complesso di forze inappellabili e imperscrutabili; forze
nominate come destino.
21 M. De Angelis, Somiglianze, cit., p. 101.
348 ROBERTA CUPPARI [12]
Come gli spaccati che rievocano le fanciulle atlete, questi ultimi
versi non costituiscono un mero reperto memorialistico, un nostalgico
tuffo nel passato. De Angelis parte certamente da un dato biografico,
ma per sviluppare, come di consueto, un discorso di portata
più ampia. La scienza atletica, infatti, è fondata sulla ripetizione di
un gesto unico e originario: qualsiasi atto sportivo, un lancio, un
salto, una corsa porta con sé l’inizio e la sua fine, perché si tratta di
un atto immediato, che subito si esaurisce, e al tempo stesso millenario,
perché già compiuto innumerevoli volte. Il gesto sportivo
torna a rivivere ogni volta che qualcuno lo attua tornando, nel contempo,
a esaurirlo in se stesso.
Sebbene si ripeta in forme sempre uguali, la prestazione sportiva
resta unica sia per chi la pratica sia per chi assiste alla sua attuazione:
proprio la sua unicità e la sua irripetibilità (che però trova espressione
nel suo contrario, ossia nella ripetibilità infinita) corrispondono
all’esecuzione della vita. I versi finali della poesia Ude-garami, in
Biografia sommaria, recitano:
Ora ci addestra,/ un amore, la medesima ferita/ e le stelle sotto il
tappeto/ sono quella palestra/ uguale alla vita22.
Nelle liriche imperniate sul tema dello sport si richiama la perfezione,
dunque la compiutezza, della comunità adolescente: l’adolescenza
non va considerata solo come un momento della vita, ma
anche come purezza originaria, come un “angolo etico” che deve
restare intatto. L’odore di spogliatoi, la desolazione di aule fatiscenti
e di grandi piazzali rappresentano la perfezione a cui la vita deve
continuamente attingere; la concomitanza di corpi e di spiriti che,
uniti, si slanciano, ardono, gioiscono, soffrono, rappresentano la base
dell’amicizia giovanile, che è forte, radicata, pura, senza riserve.
Uno dei testi più classici di De Angelis, Le squadre, riporta una
partita di calcio tra adolescenti e concentra in sé i valori della lealtà,
della coesione, della fratellanza che si pongono alla base del gioco
di squadra:
Siete pur sempre nelle tenaglie
di una polvere, di una
promessa del 1961, quando
i giardini diventano un rasoterra
del numero otto, con i calci nell’arte.
22 Id., Biografia sommaria, cit., p. 35.
[13] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 349
sì, una promessa
diceva: sarete fatali al correre
come il ritmo di una strada è
fatale alla piazza che porta in sé
tutti
nelle forze del prato che, spelato, diventa questo
essere tenuti nella montagna.
E sarete
questa musica di sottomondo
che sopraggiunge a fare bianco il cibo e
darlo silenziosamente alle squadre
nessuno
può sbagliare un passaggio, nessuna chiacchiera
che non piglia i fili
i fili delicatissimi
della cosa
nessuno, ve lo ordino, nessun abbraccio in pausa
gli arpioni della lana
vivono sulla pelle,
uccidono le stupide scivolate:
freccia,
portaci tu i piedi
verso la vittoria, e in questo spiazzo
fa’, unico dio, unica gioia del pomeriggio,
fa’ che tutto sia immenso, fa’ che non piova23.
L’impeto del gioco si percepisce nel clamore in cui si svolgono i
gesti; sembra di percepire davvero la polvere che impregna l’aria, il
fango che imbratta le scarpe e i vestiti, il sudore della fatica e dell’esaltazione,
il tutto durante un pomeriggio impersonale, come tanti
altri. La pratica calcistica sembra immergersi in una dimensione
atemporale, in cui passato, presente, futuro non si susseguono secondo
una prospettiva cronologica, ma si ricompongono con una
tale intensità da costituire un’altra epoca, un’epoca senza tempo. La
molla di tutte le azioni è lo spirito del gruppo, che impartisce gli
ordini rendendo obbligato ogni gesto, e la cui forza è analoga a
quell’impulso giuridico da cui nasce la poesia.
Il tempo assoluto dell’adolescenza impone la necessità di far rivivere
l’adolescenza stessa, affinché essa non sia appannaggio della
memoria, ma sia continuamente presente anche nelle altre età della
vita. Per restare fedeli all’adolescenza è necessaria la ripetizione
dell’impulso giovanile nella sua purezza; diventare adulti signifi-
23 Id., Terra del viso, cit., p. 9.
350 ROBERTA CUPPARI [14]
cherebbe tradire l’adolescenza, impedirle di rivivere, mentre per
esserle fedeli è necessario proteggerla:
Era/ restare fedeli, piegati con passività/ a questo odore di spogliatoi24.
Confrontarsi continuamente con il tempo dell’inizio significa restare
fedeli al mito delle origini, vero cardine della poetica di De
Angelis. In un passo di Poesia e destino l’autore riporta alcuni pensieri
di Cesare Pavese in cui l’adolescenza è vista come denudamento
dell’essenza dell’uomo:
Resta importante ciò che ha scritto Pavese sull’adolescenza in Feria
d’agosto, in particolare nei due capitoli Il campo di granoturco e L’adolescenza
(«E per ritrovare questo stato, più che sforzo mnemonico si
richiede scavo nella realtà attuale, denudamento della propria essenza.
Se avremo visto con chiarezza il nostro fondo, non potremo non
avere toccato anche ciò che fummo fanciulli. A questo punto dell’indagine,
il tempo dilegua. La nostra fanciullezza, la molla di ogni
nostro stupore, è non ciò che fummo, ma ciò che siamo da sempre
»)25.
Il valore dell’atletismo è dunque legato alla purezza dell’adolescenza,
in cui si gettano le basi dell’esistenza, e alla preparazione
accurata che si rende necessaria per competere o esibirsi in maniera
apprezzabile. Tuttavia è anche vero che l’atletismo è consacrato da
un’epica leggendaria, che ancora una volta ci riporta alla mente il
mondo greco:
Nelle feste Panelleniche, come nei giochi di Corinto, di Delfi, di
Nemea si scorge un intreccio tra cerimonia religiosa e gara sportiva,
tra razionalità del divino e razionalità del corpo. E proprio al quinto-
quarto secolo risale la grande scultura che rappresenta scene agonistiche:
Mirone, Fidia, Policleto, Lisippo, Ermes, Scopas – nei loro
legami con l’Acropoli, con i fregi del Partenone, con l’architettura
culturale – disegnano quell’energia sacra e belligerante che pervade
i Ginnasi e fa dell’esercizio atletico uno degli aspetti terrestri più
contigui alla trascendenza. La fusione di sforzo supremo e armonia
riproduce nelle membra una vicenda cosmogonica, un caos che diventa
ordine necessario delle cose26.
24 Id., Somiglianze, cit., p. 101.
25 Id., Poesia e destino, cit., p. 61.
26 Ivi, p. 44.
[15] L’AMAZZONE GUERRIERA E LA FIGURA ADOLESCENTE 351
Nel corso dei secoli la molteplicità dei giochi agonistici è indicativa
dell’interesse e dell’entusiasmo che il popolo dimostra verso le
varie forme di sport. Anche oggi esso è una forma di eroismo che
l’epoca moderna riconosce e legittima. Tuttavia, De Angelis nota
che nel Novecento sono pochissime le pagine sul gesto atletico:
Dal Medioevo all’Ottocento nascono o rinascono moltissimi giochi
agonistici: dalla giostra cavalleresca al canottaggio, al calcio, all’ippica,
al pugilato moderno, alla vela, alle varie sfide concernenti le
armi da fuoco. Ma tutto ciò lascia pochissime testimonianze poetiche
e lascia invece un’infinità di capolavori di pittura e scultura […] Il
Novecento solo in minima parte ha sentito lo splendore gelido della
corsa o del nuoto, splendore senza commozione e senza tinte, un
bianco e nero teso come il ginocchio che aspetta la partenza sulla
pista27.
Se nel Novecento sono poche le testimonianze poetiche sul gesto
sportivo, le liriche di De Angelis imperniate su questo tema restano
impresse sulla pagina e nella mente con forza ancora maggiore del
consueto, sorrette da una lontanissima tradizione culturale, quella
classica, e al tempo stesso proposte in uno stile straordinariamente
moderno. Restare fedeli alla nostra stagione germinale significa anche
attingere al patrimonio culturale dei nostri antenati e farlo rivivere
in una attualità che, altrimenti, per usare le parole di De Angelis,
sarebbe priva «del respiro del tempo»28. Questa continua tensione
all’assoluto, tipicamente romantica, è alla base della rivista «Niebo»
diretta da De Angelis negli anni Settanta e deve essere continuamente
alimentata affinché i poeti del passato non siano immortalati
come un mito neoclassico, ma siano fatti rivivere nel tempo cronologico,
che raggiunge il suo senso e la sua pienezza solo nel rapporto
con l’antico.
Roberta Cuppari
27 Ivi, p. 46.
28 I. Vincentini, Milo De Angelis. Colloqui sulla poesia, cit., p. 179.
Note e discussioni
GIUSEPPE PAPPONETTI
Un riepilogo bibliografico.
A proposito del fascismo di Gadda
The author reconstructs the days when Carlo Emilio Gadda
contributed to several magazines in support of Fascism and its
autarkic politics. He believed in Fascism from its origin: while in
Argentina, for instance, he founded the Buenos Aires Fascio di Combattimento.
This proves Gadda’s out-and-out agreement to a good
number of Fascist activities and measures, which did not prevent
him from railing at Mussolini when Italy was defeated in a war
fought without taking into account its possible disastrous aftermath.
Un tale disse all’autore: «Lei deve essere fiero di contribuire».
«Sono fierissimo», rispose l’autore contribuendo. (C.E. Gadda)
A chi scrive, muovendosi per anni da viaggiatore solitario a
scontornare dalle pagine di Carlo Emilio Gadda piccole filze di
passaggi e richiami testuali atti a fare un po’ di luce sulla fattiva
influenza esercitata su di lui da alcuni fra i massimi autori della
letteratura italiana (e cito qui, per tutti, Belli e d’Annunzio), è sempre
suonato falso ed artatamente strumentale l’approccio di certa
critica che ne denunciava il pasticcio linguistico o, peggio, il calligrafismo
sul versante di una sostanziale riduzione a fenomeno di
ritardato barocco, e al contempo ne esaltava la forza dirompente di
un antifascismo all’acido solforico.
Ancora oggi, dopo che una operosa officina filologica ne ha
dimensionato senza clangori buccinatorii la statura di colosso del
Novecento italiano ed europeo, la logorroica balbuzie dei massmedia,
che seduce e chiama in campo accanto alle mezze calzette
anche studiosi di vaglia, non cessa di riproporci immagini, escerti e
testimonianze sul “gran lombardo” sempre prigioniero di vecchi e
distorti ceppi, in occasioni che capitano a proposito, ma più spesso
a sproposito. È accaduto così che per l’allestimento teatrale del
Pasticciaccio ad opera di Luca Ronconi – realizzazione di per sé
[2] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 353
pregevole, persino negli esiti artistici – si siano scritte più recensioni
che non per l’uscita del volume nel 1957, e che un intervento pur
perspicace ed attento come quello di Giulio Ferroni1 scivoli infine
nel luogo comune dell’antifascismo gaddiano di maniera, capace di
cogliere la presenza primaria di «una vera e propria autobiografia
della nazione»2, e «di una tradizione italiana che risale addirittura
ad un Lazio arcaico, preromano»3, ma assolutamente incapace di
qualificarle se non quale «perversa e distorta eredità», esitandosi in
una denuncia del Fascismo «mostruosa escrescenza» che, in fine
millennio, «continua a scorrere nelle vene delle genti italiche4».
E accadeva pure, nelle more agostane delle insipienti ex “terze”
pagine dei maggiori quotidiani nazionali, che il “Corriere della sera”
del 24 luglio 1996 decidesse di imbastire un “pro e contro” Gadda,
maestro “dimezzato”: tralasciando l’intervento incolpevolmente sprovveduto
di Sebastiano Vassalli che non sapeva far di meglio che rifugiarsi
nel ritrito “barocco”, sfornando a contorno un inverosimile e insipiente
aneddoto su Gadda e Manganelli, è il testo di Cesare Cases, che pure
ebbe a definire le Note azzurre di Carlo Dossi «uno dei libri più meschini
e repressivi della nostra storia letteraria5», creandosi per il futuro una
linea vincente Morante-Levi-Calvino capace persino di far rinascere
rizzati capelli alla buonanima di Antonino Pizzuto, professandosi da
sempre «per una lingua comunicativa, nazionale»6 manco fosse gemellata
a don Lisander Manzoni o vivessimo ancora certi nefasti di quel
Neorealismo, che ebbe fra le sue vittime più illustri Elio Vittorini.
E dunque, ad avvertimento ai giovani lettori per cui si vuole un
approccio a Gadda fuori dalle pastoie ideologiche, gioverà ripercorrere
alcune tappe del suo itinerario durante il tanto deprecato
Ventennio, cancellando una volta per sempre affermazioni del tipo
«Gadda sembrava destinato a diventare fascista […]. Ma da conservatore
serio, capì subito che il fascismo era fasullo. Gadda era più
realista del re, più fascista del duce. Il suo uso della lingua non
poteva certo essere rivoluzionario7». Pertanto a nessuno salti in mente
di dire, perché c’è un momento della vita in cui certe sorprese
possono risultare fatalmente indigeste, che Gadda Carlo Emilio fu
1 «L’Unità» 2, 4 mar. 1996, p. 5.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 «Corriere della Sera», art. cit.
6 Ibidem.
7 Ibidem.
354 GIUSEPPE PAPPONETTI [3]
Francesco Ippolito si iscrisse al Fascio di Milano sul finire del 1921,
fondò poi quello di Buenos Aires, ed era ancora regolarmente iscritto
a quello di Roma nel 1943; ma questa è una storia che va ordinatamente
riassunta, con qualche doverosa premessa.
In una guida alla lettura d’intento divulgativo piovuta fra altre
consimili, fu Robert Dombroski a mettere sorprendentemente a frutto
una tesi di laurea discussa da L. Marianelli nel 1965: ne sviluppava
un capitolo in cui, per la prima volta, venivano proposti all’esame
e alla rilettura vari articoli tecnico-scientifici scritti da Gadda
in appoggio al programma autarchico del Fascismo e comparsi in
giornali e periodici a grande diffusione fra il 1931 e il 19438. Con
analisi netta delle risultanze, lo studioso ripercorreva le tappe di un
coinvolgimento da molti ignorato e da altri non troppo stranamente
taciuto, offrendo un registro inappuntabile sotto il profilo dell’evidenza,
e una conclusione categorica: «l’antifascismo gaddiano è privo
di precise motivazioni ideologico-politiche, mentre, d’altra parte, esso
esprime la consapevolezza di essersi sottomesso al fenomeno9».
L’onestà intellettuale di Silvio Guarnieri ha avuto l’accortezza di
riprendere l’argomento con raro equilibrio e sottile profondità d’indagine,
denunciando l’abitudine tutta italiana di proporre lo scrittore
a modello positivo di riferimento e comportamenti10: ragion per
cui i suoi aspetti negativi, le compromissioni, o vengono taciuti, o
sono visti come cadute accidentali, togliendo loro funzione e ruolo
da cui è necessario partire per la comprensione dell’uomo. Guardando
alla situazione creatasi durante il Fascismo, denunciava una
prima forma di censura riconducibile agli stessi autori: e in Gadda
doveva certo agire più forte visto che, come s’è detto, il tardivo
successo l’aveva coronato d’aureola antifascista. Guarnieri continuava
poi in un disamina attenta dell’uomo e dello scrittore, dagli anni
argentini fino al soggiorno fiorentino e all’accettazione del nuovo
stato di cose in base al principio hegeliano della coincidenza tra
reale e razionale (e, diremmo, di un’adesione alla “verità effettuale”
cui non era insensibile, stante la sua passione per Machiavelli): in
pratica, il Fascismo rappresentava quanto di meglio la società italiana
era riuscita a realizzare dall’età risorgimentale; salvo andare in
8 R.S. Dombroski, Introduzione allo studio di Carlo Emilio Gadda, Firenze, Vallecchi,
pp. 145-168.
9 Ivi, p. 168.
10 S. Guarnieri, Gadda scrittore politico?, «Nuova rivista europea», V (1981),
24, pp. 92-118.
[4] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 355
crisi quando si affrontò, perdendola, una guerra improvvisata e
improvvida, più irresponsabile di quella vissuta drammaticamente
da convinto interventista. Di qui l’angolatura rovesciata degli scritti
maggiori e l’atteggiamento finale di drastica condanna, esemplificata
dalla risposta ad una inchiesta di Giancarlo Vigorelli, in cui sembra
di poter leggere fra le righe implicita ammissione e senso di
colpa ancor desto almeno nell’attacco: «È necessario vincere il fascismo
in noi stessi»11.
Poco tempo dopo era Lorenzo Greco ad affrontare in un denso
saggio casi di autocensura letteraria nel Ventennio. Il capitolo su
Gadda12 riserva molta attenzione al dato stilistico, ma mostra il suo
limite nella fedeltà indicata da Dombroski (che peraltro egli sembra
ignorare, mentre cita in nota Guarnieri senza mai utilizzarlo). Si
considera, infatti, solo la produzione gaddiana autarchica, facendo
risalire ad essa una ideologia del lavoro che, unita a preesistente
entusiasmo nazionalistico (qualificato come preciso retaggio di cultura
familiare e di classe), porta infine ad evidenziare forme
compromissorie piuttosto blande, assumendo a momento primario
la sensibilizzata disponibilità dell’Autore alla condizione degli umili:
«Quando c’è di mezzo, del resto, la vita della gente, la speranza
di un risollevamento dalla miseria della condizione tradizionale, le
illusioni storiche e sociali di Gadda sprigionano le scintille del suo
entusiasmo scientifico e tecnologico, e si manifesta, insieme, la sua
inconfondibile verve e commozione letteraria»13; e i momenti non
rari di autonomia della scrittura sono motivati in chiave estetica,
senza cioè individuare scelte mirate ed insorgenze essenziali di crisi
politico-ideologica.
Questi, dunque, alcuni esempi fra i più appariscenti di una lettura
gaddiana di fronte al Fascismo che, per quanto autonomi, possono
di per sé, se accostati, costituire i termini di uno speciale dibattito.
Ma c’è di più, soprattutto nell’ostinazione di certa critica di
parte che sembra non volersi arrendere neppure alla più palese
delle evidenze; non sarà pertanto disutile elencare e riassumere sin-
11 In Gadda scrittore politico?, cit., p. 106. Sugli scritti autarchici di Gadda
nonché sul suo contrastato rapporto con d’Annunzio cfr. G. Papponetti, Gaddad’Annunzio
e il lavoro italiano, Roma, Fondaz. I. Silone, 2005, pp. 5-36 e relativa
bibliografia; Id., Gadda e/o d’Annunzio, fallimento e congedo del superuomo, «Otto/
Novecento» VIII (1984), 1, pp. 23-42.
12 Censura e scrittura. Vittorini, lo pseudo-Malaparte, Gadda, Milano, il Saggiatore,
1983, pp. 51-98.
13 Ivi, p. 77.
356 GIUSEPPE PAPPONETTI [5]
teticamente alcune voci che negli anni si sono susseguite in una
sorta di gioco dei pro e dei contro che non vede ancora il suo
definitivo punto d’approdo.
A partire dal solito Cases che, giusto all’indomani dell’uscita in
volume del Pasticciaccio, non si peritava di affermare che «L’antifascismo
di Gadda rientra dunque nei casi di quell’antifascismo di
destra che del fascismo non depreca tanto lo spirito, quanto le
modalità dell’attuazione, la volgarità e la barbarie, l’odor di canaglia
»14, bisognava aspettare un ventennio perché si tornasse scientemente
sull’argomento. Ma finiscono per lasciare il tempo che trovano
risoluzioni quali quelle di Elio Gioanola, secondo cui «L’antifascismo
di Gadda vale tanto quanto il suo fascismo, cioè niente: non
c’è in lui la minima traccia di senso politico»; il che ci sembra
eccessivo, per quanto coerente con l’assunto generale del saggio15. E
non varrebbe neppure la pena di accennare alle indagini di Carla
Benedetti che, pur scrivendo dell’ambiguità dell’antifascismo
gaddiano, finisce presto, su tale scia, per andare del tutto fuori
strada16. Molto correttamente, invece, in una lettura storicizzata del
primo Gadda, Carlo De Matteis è tornato sul suo fascismo in rapporto
ai personaggi degli abbozzi giovanili di romanzo, concludendo
con un accorto distinguo fra l’ideologia dello scrittore e quella
del narratore, dopo aver preso atto che «lo stesso elogio del fascismo,
compiuto in termini di soggettive categorie etico-politiche […]
indica la possibilità d’un’adesione intellettuale ad esso per motivazioni
del tutto inedite, significative dello stato di delusione e di
smarrimento della cultura borghese di fronte alla incapacità egemonica
della classe dirigente liberale e all’impotenza rivoluzionaria
del movimento socialista»17.
E ancora più decisamente Raffaele Donnarumma ha ribadito che
«[…] sono soprattutto alcuni articoli scritti fra il 1931 e, addirittura,
il 1941 a rivelare una sconcertante adesione non solo a quel regime
che, sia pure in chiave, la Cognizione satireggia, ma persino a un
linguaggio che, se non è quello becero dell’oratoria mussoliniana,
riprende comunque i topoi della propaganda e dei cinegiornali Luce.
14 C. Cases, Un ingegnere de letteratura, ora in Patrie lettere, Torino, Einaudi,
1987, p. 55.
15 L’uomo dei topazî. Saggio psicanalitico su C.E. Gadda, Genova-S. Salvatore
Monferrato, il melangolo, 1977, p. 21.
16 La rappresentazione del fascismo in chiave metastorica, in Una trappola di parole.
Lettura del Pasticciaccio, Pisa, ETS, 1980, pp. 81-99.
17 Prospezioni su Gadda, Teramo, Giunti e Lisciani, 1985, p. 82.
[6] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 357
[…] mentre per tanti intellettuali la difesa del valore letterario era
appunto una forma di opposizione alle dittature di destra (in Italia,
era appunto quanto facevano proprio «Solaria» e «Letteratura»), per
Gadda l’antifascismo coincide con l’offesa alla letteratura, e la difesa
della letteratura con il filofascismo»18.
Ma sarebbe toccato ancora a Dombroski tornare a precisare le sue
precedenti affermazioni19 sulla scorta di un ben calcolato intervento
di Peter Hainsworth20, sostenitore di un Gadda «fascista convinto»,
di un fascismo certo anticonformista ma niente affatto accidentale.
Ma, nonostante ciò, non desta meraviglia se alla voce “Gadda” redatta
per un dizionario specifico, Aldo Pecoraro, pur non potendo
misconoscere l’iscrizione del 1921 al PNF, parla di «luogo comune»
al proposito, senza fare alcun cenno ai numerosi articoli autarchici e
preferendo insistere su di un prematuro e inesistente antifascismo,
riproponendo, non saprei dire se per ignoranza o malafede, lo
sviamento artato di molta critica che finisce poi per scambiare
l’antimussolinismo gaddiano postbellico con un annoso antifascismo21.
Ben diversamente Alba Andreini non si perita di affermare categoricamente
che «l’antifascismo di Gadda si risolve in antimussolinismo
»22 e Federica Pedriali, nella premessa alla pubblicazione di
dieci articoli di divulgazione tecnico-autarchica, deve giocoforza, di
fronte all’evidenza, ammettere una «civile speranza sotto il fascismo,
il sua appoggio al regime» che è quanto poi affiorerà in un
suo testo successivo e parimenti documentato23. Per altro verso, prendendo
a riferimento il saggio di Hainsworth, ancora Giuseppe
Stellardi sposta recidivamente l’attenzione sull’antifascismo gaddiano
del secondo dopoguerra, cercando altrettanto faziosamente quanto
18 Gadda. Romanzo e pastiche, Palermo, Palumbo, 2001, pp. 178-79.
19 Gadda e il fascismo, in Gadda e il barocco, Torino, Bollati-Boringhieri, 2002,
pp. 124-40.
20 Fascism and antifascism in Gadda, ed. Manuela Bertone and Robert S. Dombroski,
Toronto Univ. Toronto Buffalo London, 1997, pp. 221-41 (tradotto da G.
Stellardi in «The Edimburg Journal of Gadda Studies», 3/2003, che vi aggiunge
poche note tese capziosamente a ridurre la portata dirompente del saggio).
21 Gadda, Carlo Emilio, in Dizionario del fascismo, a c. di V. de Grazia e S.
Luzzatto, I, A-K, Torino, Einaudi, 2002, s.v.
22 Gadda e il suo tempo: i furori di un testimone, in La coscienza infelice. Carlo
Emilio Gadda, a c. di A. Andreini e M. Guglielminetti, Milano, Guerini, 1996,
p. 149.
23 Eros o logos? Il lungo sabato di Gadda, suppl. n. 2, «The Edimburg Journal
of Gadda Studies», 4/2004; Id., Dell’equità. L’inviato speciale invia, «The Edimburg
Journal of Gadda Studies», 4/2004.
358 GIUSEPPE PAPPONETTI [7]
abilmente di smorzare fin dove possibile il convincimento troppo
esplicito negli articoli di sostegno e propaganda del Regime24.
Di più ci si sarebbe aspettato, stando almeno al titolo, dall’esame
di Cristina Savettieri25, incentrato sulle Meraviglie d’Italia 1939, di cui
non sembra cogliere, e quindi finisce per ignorare, origini e motivazioni
delle precedenti uscite sui quotidiani. Mentre dal canto suo
Walter Pedullà, già reprobo e anch’egli recidivo per aver totalmente
ignorato la lunga fase del sostegno autarchico gaddiano in un volume
di indagine generale che ebbe a provocare reazioni abbastanza
eclatanti26, è tornato più tardi altrettanto maldestramente sui suoi
passi, non sapendo fare di meglio che affermare come Gadda, al
ritorno in patria dall’Argentina, «simpatizzò con i fascisti» (ignorando
di fatto che fu proprio il Nostro a fondare il Fascio di combattimento
di Buenos Aires, come testimonia il carteggio con l’amico
Ugo Betti), completando infine l’opera con l’ammissione di un Fascismo
come «malattia giovanile»27.
Che dire allora di un più che prezioso volumetto di Manuela
Bertone che ha sciorinato platealmente quanto pur era da tempo
davanti agli occhi di tutti, e con rara compostezza ha introdotto una
scelta parziale, eppure particolarmente significativa, degli scritti
autarchici28. Ma questo non sembra essere stato molto gradito dal
Riccardo Stracuzzi di turno, ignorando quanto ormai palese ‘urbi et
orbi’ (e persino agli orbi) con una divagazione inutile, e pseudodotta
nell’abbondanza dei riferimenti bibliografici, fattivamente tesa al
fondo a contrastare ciò che è ormai assodato, giovandosi di puntuali
occhiali a lenti rosse e non dimettendo in cadenza regolare i
consueti e stereotipi paraocchi ormai intelligentemente rifiutati perfino
dalla razza equina29.
24 Gadda antifascista, «The Edimburg Journal of Gadda Studies», 3/2003.
25 I Mirabilia Italiae di Carlo Emilio Gadda, in La parola ‘quotidiana’. Itinerari di
confine tra letteratura e giornalismo, Firenze, Olschki, 2004, pp. 143-54.
26 Carlo Emilio Gadda. Il narratore come delinquente, Milano, Rizzoli, 1997. E
non mi perito di ammettere che fu grazie ad una mia segnalazione se la colpevole
omissione fu denunciata apertamente da R. Minore, Quel nevrotico che
strizzò l’occhio a Mussolini, «Il Messaggero», 23 marzo 1997 (si veda poi C.E.
Gadda, I Littoriali del lavoro e altri scritti giornalistici, 1932-1941, a c. di M. Bertone,
Pisa, ETS, 2005, p. 93, n. 27).
27 Carlo Emilio Gadda, in Storia generale della letteratura italiana, a c. di N. Borsellino
e W. Pedullà, XIV, Milano, Motta, 2004, pp. 894-95.
28 I Littoriali del lavoro cit.
29 Gadda: propaganda e ironia (in margine a una recente riedizione di scritti divulgativi),
«The Edinburg Journal of Gadda Studies» 6/2007.
[8] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 359
Per il resto, nulla di veramente determinante in proposito si aggiunge
in alcuni saggi degli ultimi anni, giacché Liliana Orlando,
partendo da un’analisi degli “appunti di viaggio”, cioè degli articoli
apparsi sulla “Gazzetta del popolo”, insiste quasi esclusivamente su
Antico vigore del popolo d’Abruzzo, recuperandone soltanto la vena
elegiaca30; mentre Giuseppe Bonifacino tocca solo marginalmente il
problema in uno scritto per altro modo attento ed accorto al Gadda
“migrante”31, e risolvendosi in una autentica bolla di sapone l’analisi
di Sergio Raffaelli su lettere inviate da Gadda alla Reale Accademia
d’Italia32.
E qui conviene fare un punto riassuntivo, anche se sul giovane
studente universitario e sul suo entusiastico interventismo c’è poco
da aggiungere, poiché esso coinvolgeva sinceramente, a cominciare
dai suoi più cari amici dell’adolescenza, moltissimi giovani italiani
che si sentivano emotivamente affascinati da d’Annunzio e dalla
sua propaganda roboante a favore dell’intervento in guerra. Più importante
è invece la sua effettiva esperienza di trincea, il risentimento
intransigente verso i “porchi italiani” di cui ebbe a sperimentare
vizi e comportamenti, ma soprattutto decisive sono le vicende del
dopo Caporetto, con il colpevole rammarico di aver condotto i suoi
soldati in bocca al nemico piuttosto che in salvo, come era nelle
intenzioni: la prigionia finale a Celle Lager, il tardivo ritorno in
patria da reduce bistrattato e sputacchiato nella confusione del cosiddetto
“biennio rosso”, la notizia della morte per eccesso di zelo
del diletto fratello Enrico vanno sempre considerati quale cardine
ineludibile di ogni scelta e patemi successivi.
Fu così dunque che il giovane Gadda poté vedere in Mussolini
e nell’insorgente Fascismo l’unica soluzione per il necessario ritorno
all’ordine; e ne sono testimonianza, per troppo tempo ignobilmente
ignorata, appunto la fondazione del Fascio di Buenos Aires nel
periodo di soggiorno argentino cui vanno aggiunte successive esperienze
negli anni di impegno ingegneresco in Europa dove si continuò
a maturare un concetto poi mai sconfessato della qualità del
lavoro italiano, cioè del grande contributo di operosità, sacrificio e
30 “Immota manet”: variazioni e vicende di un testo gaddiano, «The Edimburg
Journal of Gadda Studies», suppl. n. 5/2007
31 Verso il “ mondo capovolto”. Gadda “migrante” dall’Argentina al Maradagàl,
«The Edimburg Journal of Gadda Studies», 5/2007.
32 Lettere di Carlo Emilio Gadda alla Reale Accademia d’Italia), «Studi italiani»,
XX, (2008), 2, pp. 115-25.
360 GIUSEPPE PAPPONETTI [9]
genialità che le nostre maestranze seppero mettere in atto sempre,
in patria come all’estero. Va da sé, allora, che l’ingegnere forzosamente
sottratto alle lettere per dispotismo materno, facesse di tutto
per convogliare almeno parte delle sue esperienze di lavoro in progetti
scrittorii piuttosto ambiziosi, almeno inizialmente, a partire
dall’incompiuto serbatoio di esiti futuri quale il Racconto italiano di
un ignoto del Novecento. E, permanendo le istanze e le aspirazioni
letterarie, in un’Italia che andava allora ben configurando in Firenze
l’epicentro della rinnovata cultura nazionale, Gadda finiva per rifiutare
lucrosi impegni di lavoro fuori d’Italia ed abbandonava il comodo
e ben remunerato impiego di capo dei Servizi tecnici del
Vaticano procuratogli dall’amico di scuola nipote di Papa Ratti, per
cercare di realizzarsi con tutte le forze nel campo della scrittura
creativa, che fin dai difficili esordi s’impose comunque all’attenzione
degli addetti per la sua indubitabile originalità.
Pur non valendo gli sforzi dell’amico di prigionia e poi di sempre
Bonaventura Tecchi per la sua successione a direttore del Gabinetto
scientifico letterario Viesseux, che andò invece ad Eugenio
Montale, nacque comunque un decisivo legame con gli intellettuali
fiorentini che gravitavano sulla rivista «Solaria» di Carocci e Bonsanti,
e la conseguente pubblicazione a sue spese del primo libro, La Madonna
dei filosofi, composto di testi eterogenei ma efficacemente autonomi
nella loro compatta configurazione. Ma è con il successivo il
Castello di Udine, specialmente nella sezione intitolata Crociera nel
Mediterraneo, che si manifesta l’attenzione alle opere, specialmente
coloniali, del regime fascista. Di lì in poi, la necessità di sostenersi
economicamente soltanto con il magro frutto della sua penna, portò
Gadda a cercare necessariamente collaborazioni remunerate, ma che
in qualche modo dovevano pur adeguarsi alla vigente realtà politica.
È così che andò in porto, a partire dal 1931, la collaborazione
all’«Ambrosiano», mentori a suo favore presso Gino Scarpa, che godeva
della fiducia totale del direttore Benedetti, il cugino Piero Gadda
Conti e Riccardo Bacchelli33. Anche se Gadda amò celiare, anni dopo,
con alcuni amici sull’impossibilità di sottrarsi a tale impegno; vedi,
ad esempio una lettera a Lucia Rodocanachi, da Firenze, del 26
febbraio 1941: «Per tirare avanti e per guadagnare qualcosa, ho accettato
di sobbarcarmi a qualche fatica pamphletaire, tecnico-propagandistica,
ricavandone gloria nessuna, denaro poco, e noia mol-
33 P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Milano, Pan, 1974, p.
16.
[10] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 361
ta»34. Solo più tardi, invece, sarebbe andata a buon fine l’accoglienza
sulla «Gazzetta del popolo», allora diretta da Ermanno Amicucci35,
che nel dicembre del 1931 così scriveva a Benito Mussolini, in una
specie di sommario dei suoi primi anni di direzione: «Insieme con
la fattura politica e tecnica del giornale, ho curato, come era mio
dovere di giornalista fascista e di Segretario del Sindacato Nazionale
Fascista dei Giornalisti, il miglioramento del corpo redazionale e
del corpo di collaboratori del giornale, facendo in modo di valorizzare
i giornalisti fascisti»36.
E quindi gli interventi gaddiani, dopo un approccio del 1934 in
cui si trovano riassunti motivazioni e metodo riguardo la retribuita
scelta, nacque con l’invio di un articolo su Il pozzo numero quattordici
seguito da Fatti e miti della Marsica forse fatto per compiacere il
marsicano Amicucci nato a Tagliacozzo che però ebbe in merito da
ridire, pure se accettò le collaborazioni successive: «Ricevo il suo
articolo sulla Marsica. Mi pare che il tono sia troppo esclusivamente
storico. Questo articolo avrebbe potuto essere scritto anche senza
andare nemmeno per un’ora nella Marsica. Tenga quindi presente
che gli altri articoli sull’Abruzzo devono essere meno libreschi e più
visivi»37.
A ben vedere, i due esiti giornalistici toccano aspetti diversi: così.
mentre sull’«Ambrosiano» prevalgono soprattutto interventi mirati
al sostegno alla politica autarchica e all’individuazione di risorse
nazionali legate al magnesio, alla calciocianamide, e all’azoto, con
l’eccezione di tardi interventi sugli edifici ed impianti tecnici del
Vaticano, sulla «Gazzetta» compaiono testi legati innanzitutto alle
esperienze all’estero, poi al viaggio in Abruzzo, per continuare con
una sorta di galleria di “Mirabilia Italiae” e, insieme, un’indagine sul
territorio etiopico e l’assetto economico dell’Impero. Come si vedrà
poi dal registro più o meno compiuto che seguirà, due filoni si intersecano
e perseguono in riviste, in particolare sulle «Vie d’Italia».
Come aveva avuto modo di accennare nella Meditazione milanese,
«[…] il costruire è inventare […]38 è proprio il costruire e l’invenire
34 Lettere a una gentile signora, a c. di G. Marcenaro, Milano, Adelphi, 1983,
p. 129.
35 M. Forno, Fascismo e informazione. Ermanno Amicucci e la rivoluzione giornalistica
incompiuta (1922-1945), Alessandria, Ediz. Dell’Orso, 2003.
36 Ivi, p. 135.
37 La riproduzione delle due lettere in E. Centofanti, Gadda inviato speciale in
Abruzzo, Suppl. a «Regione Abruzzo«, L’Aquila 2004, pp. 97 e 98.
38 Meditazione milanese, a c. di G.C. Roscioni, Torino, Einaudi, 1974, p. 190.
362 GIUSEPPE PAPPONETTI [11]
storico, degli ingegneri, de’ macchinisti, dei tecnici, dei legislatori,
dei falegnami…», senza dire che per il Racconto italiano Gadda parla
esplicitamente di un «romanzo sul lavoro italiano», nonché, motivando
a Contini le scelte dei suoi pezzi affastellati poi nelle Meraviglie
1939, ebbe a fare esplicito riferimento alla «celebrazione del
lavoro umano (che spesso si converte, con le immaginabili implicazioni,
in lavoro italiano)»39.
Sta qui, dunque la chiave per capire il nazionalismo e il fascismo
gaddiani, e desta una qualche meraviglia che, annotando i testi
dell’“Ambrosiano”, Andrea Silvestri non chiami mai in causa tale
adesione pur facilmente riconoscibile in una lettera citata40 ed indirizzata
ad Arnaldo Mussolini, direttore del «Popolo d’Italia», che,
dopo il primo articolo gaddiano sui “Metalli leggeri”, ne aveva sì
riconosciuto l’indubbia competenza, ma aveva pure indicato i successivi
percorsi da seguire, e puntualmente rispettati.
1. – L’Esposizione e il Congresso di fonderia, «L’Ambrosiano», 26 ag.
1931, p. 5.
2. – I metalli leggeri, «L’Ambrosiano», 2 sett. 1931, pp. 1-2.
3. – I metalli leggeri: leghe di magnesio, «L’Ambrosiano», 7 sett. 1931,
p. 1.
4. – I metalli leggeri: produzione e consumo, «L’Ambrosiano», 11 sett.
1931, p. 1.
5. – I metalli leggeri nel futuro prossimo, «L’Ambrosiano», 15 sett. 1931,
p. 1.
6. – Divulgazione tecnica: l’azoto, «L’Ambrosiano, 21 mar. 1932, pp. 1-2.
7. – Divulgazione tecnica: la calciocianamide, «L’Ambrosiano», 28 mar.
1932, pp. 1-2.
8. – Divulgazione tecnica – Accessibilità di una Rivista [«La Science et
la Vie»], «L’Ambrosiano», 12 apr. 1932, pp. 1-2.
9. – A zonzo per la Fiera, «L’Ambrosiano»23 apr. 1932, pp. 1-2.
10. – Ultimo giro alla Fiera, «L’Ambrosiano»27 apr. 1932, pp. 1-2.
11. – I nuovi edifici nella Città del Vaticano, «L’Ambrosiano», 8 ag.
1932, p. 3.
12. – I grandiosi impianti tecnici in Vaticano, «L’Ambrosiano», 28 ag.
1934, p. 3.
13. – Carrara, “L’Ambrosiano», 30 ag. 1934, p. 3.
39 G. Contini, Gadda milanese, in Id., Amicizie, a cura di V. Scheiwiller, con
pref. di P. Gibellini, Milano, Scheiwiller, 1991, p. 128.
40 C.E. Gadda, Scritti rari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vela, D.
Isella, G. Pinotti, Milano, Garzanti, 1993, p. 1189.
[12] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 363
14 – Gli impianti tecnici del Vaticano: la centrale termoelettrica, «L’Ambrosiano
», 18 ot. 1934, p. 3 (già La nuova centrale termoelettrica
della Città del Vaticano, «L’Osservatore romano», 22 ot. 1933, p. 6;
poi Gli impianti elettrici della Città del Vaticano, Milano Alfieri &
Lacroix, 1936).
15 – Da Buenos Aires a Resistencia, «La Gazzetta del popolo», 29 set.
1934, p. 3.
16 – Un cantiere nelle solitudini, «La Gazzetta del popolo», 2 ot. 1934,
p. 3.
17 – Il pozzo numero quattordici, «La Gazzetta del popolo», 24 ot.
1934, p. 3.
18 – Un romanzo giallo nella geologia, «La Gazzetta del popolo», 23
dic. 1934, p. 3.
19 – La filovia del Gran Sasso d’Italia, «La Gazzetta del popolo», 13
nov. 1934, p. 3.
20 – Apologo del Gran Sasso d’Italia, «La Gazzetta del popolo», 22 nov.
1934, p. 3.
21 – Fatti e miti della Marsica nelle fortune dei suoi antichi patroni, «La
Gazzetta del popolo», 4 dic. 1934, p. 3.
22 – Genti e terre d’Abruzzo, «La Gazzetta del popolo», 19 feb. 1935,
p. 3.
23 – Antico vigore del popolo d’Abruzzo, «La Gazzetta del popolo», 28
mar. 1935, p. 3 (poi Le tre rose di Collemaggio in MdI 1939).
24 – Le opere pubbliche di Milano, «L’Ambrosiano», 25 ot. 1935, p. 3.
25 – La guerra di Emilio De Bono, «L’Ambrosiano», 1 nov. 1935, p. 3.
26 – I materiali da costruzione, «L’Ambrosiano», 1 giu. 1936, p. 3.
27 – Le risorse minerarie del territorio etiopico, «L’Ambrosiano», 13 giu.
1936, p. 3.
28 – L’assetto economico dell’Impero – I problemi idro-elettrici,
«L’Ambrosiano», 23 giu. 1936, p. 1.
29 – Dalle mondine, in risaia, «La Gazzetta del popolo», 19 lug. 1936,
p. 3.
30 – Sull’Alpe di marmo, «La Gazzetta del popolo», 24 lug., p. 3.
31 – Azoto atmosferico tramutato in pane, «La Gazzetta del popolo», 13
apr. 1937, p. 5.
32 – Pane e chimica sintetica, «La Gazzetta del popolo», 27 apr. 1937,
p. 5.
33 – Automobili ed automotrici azionate ad ammoniaca, «La Gazzetta del
popolo», 12 mag. 1937, p. 1.
34 – Combustibile italiano, «La Gazzetta del popolo», 27 lug. 1937, p.
1 (in MdI 1939 Il carbone dell’Arsa).
364 GIUSEPPE PAPPONETTI [13]
35 – Visita ad Arsia città del carbone, «La Gazzetta del popolo», 3 nov.
1937 (in MdI 1939, Arsia. Viaggio nel profondo).
36 – La donna si prepara ai suoi compiti coloniali, «Le Vie d’Italia»,
XLIV, 10, ot. 1938, pp. 1248-51.
37 – Le funivie Savona-San Giuseppe di Cairo e la loro funzione autarchica
nell’economia nazionale, «Le Vie d’Italia», XLIV, 12, dic. 1938, pp.
1477-84.
38 – Da Ottaviano a Teodosio, «L’Ambrosiano», 21 mar. 1939, p. 3.
39 – Storia del Risorgimento, «Nuova Antologia», 74, 1615, 1 lug. 1939,
pp. 111-13.
40 – Le ligniti dell’Appennino e la loro utilizzazione autarchica, «La
Gazzetta del popolo», 29 set. 1939, p. 1.
41 – I problemi della lignite, «La Gazzetta del popolo», 10 ottobre, p. 1.
42 – La marine da guerra delle nazioni belligeranti e le loro forze militari
e terrestri, «Le Vie d’Italia», XLV, 11, nov. 1939, 1391-1408.
43 – La Grande Bonificazione Ferrarese, «Le Vie d’Italia», XLV, 12, dic.
1939, pp. 1515-25.
44 -Terreno, piogge, fiumi e impianti idroelettrici nell’Atlante fisico-economico
della Consociazione Turistica Italiana, «Le Vie d’Italia», XLVI,
3, mar. 1940, pp. 269-71.
45 – I nuovi borghi della Sicilia rurale, «Nuova Antologia», 76, 1513, 1
feb. 1941, pp. 281-86 (poi Case ai coloni di Sicilia, «La Nazione»,
19 feb. 1941, p. 3 e La colonizzazione del latifondo siciliano, «Le Vie
d’Italia», XLVII, 3, mar. 1941, pp. 335-43.
46 – Una nuova realtà nel cantiere autarchico. Aeroplani dalla Dolomia,
«La Nazione», 14 mar. 1941, p. 3.
47 – I Littoriali del lavoro, «Nuova Antologia», 76, 1658, 16 apr. 1941,
pp. 389-95.
48 – La chirurgia dei quadri all’Istituto Centrale del Restauro, «La Lettura
», XLII, 5, mag. 1942, pp. 323-28.
49 – L’Istituto di Studi Romani, «Primato», III, 16, 15 ag. 1942, pp.
299-300.
50 – All’insegna dell’alta cultura, «Primato», IV, 3, 1 feb. 1942, pp. 53-
54.
Spostandosi l’asse di ogni interesse su Firenze, legato com’era
ormai al gruppo dei solariani, Montale in testa, e avendovi già
pubblicato, come s’è visto, i suoi primi due libri, Gadda matura
l’dea di un terzo volume, uscito poi con l’editore Parenti nel 1939,
che, intitolandosi Le Meraviglie d’Italia sulla suggestiva scorta dei
Mirabilia Urbis Romae di età tardomedievale, raccoglieva insieme ad
[14] UN RIEPILOGO BIBLIOGRAFICO. A PROPOSITO DEL FASCISMO DI GADDA 365
altri testi alcuni significativi articoli di politica autarchica e comunque
di aperto sostegno al Ventennio già comparsi sui quotidiani in
cui aveva fino ad allora collaborato41. Se dall’«Ambrosiano» viene
scelto soltanto il n. 13, è invece dalla «Gazzetta del popolo» che
deriva la maggiore campionatura, riguardante i nn. 15, 16, 17, 18,
19, 20, 21, 22, 23, 29, 30, 34, 35, con una prima forma di autocensura
e modifiche che non riguardano soltanto la forma e la diversa precisazione
di alcuni titoli, bensì le punte più vistose ed esplicite di
consenso pressoché incondizionato al Fascismo, pur non cancellandone
la sostanza evidente di adesione non solo formale, anche quando
l’attenzione si sposta sugli aspetti nazionali e internazionali del
“lavoro italiano”, in una privilegiata descrittività cui non si sottraggono
neppure i numerosi testi “abruzzesi”42.
Più libera, e sostanzialmente descrittiva, apparirà nel 1943, sempre
presso Parenti, la breve raccolta degli Anni43, così come, ormai
all’aprirsi degli anni Sessanta, l’omaggio al mecenate Raffaele Mattioli
di Verso la Certosa; quanto all’edizione einaudiana del 1964, si tratta
infine della rimozione totale dei trascorsi compromissorii, in cui
compaiono rimescolamento e rifusione di brani diversi che non sappiamo
quanto dovuti all’autore e non piuttosto a Giancarlo Roscioni
che l’Editore gli aveva affiancato per ottenere finalmente un libro
da troppi anni promesso.
E sono forse questi esiti finali nell’organizzazione di un processo
creativo iniziato tre decenni prima che hanno di fatto condizionato
un corretto giudizio e cancellato una veritiera diagnosi storica, ignorando
– spesso in mala fede – l’inneggiare al «genio del Duce»
persino a proposito della stipula dei Patti Lateranensi. Basti dunque,
fra le tante campionature possibili atte a ripristinare almeno un
41 Cfr. le prime recensioni favorevoli a cura di intellettuali amici fiorentini: P.
Pancrazi, Le Meraviglie di Carlo Emilio Gadda, «Corriere della sera», 2 set. 1939,
p. 3, che parla di tecnica ed arte e di nuclei poetici mai scevri da un sotteso
«sapore morale»; L. Traverso, “Le Meraviglie d’Italia” di Carlo Emilio Gadda, «La
Nazione», 28 ot. 1939, p. 3; E. Falqui, “Le Meraviglie d’Italia”, «La Gazzetta del
popolo», 14 feb. 1940, p. 3 che insiste su un«assestamento delle parole in disusati
e grotteschi giuochi d’immagini» e di «umori narrativi che scavano al fondo».
42 Per la rielaborazione e l’autocensura operate nell’edizione Parenti cfr. G.
Ungarelli, Restauro di un testo novecentesco (Le Meraviglie d’Italia di C.E. Gadda,
«Letteratura italiana contemporanea», I, 1, set.-dic. 1980, pp. 54-58, e la Nota ai
testi di L. Orlando a C.E. Gadda, Le Meraviglie d’Italia – Gli anni, Milano,
Garzanti, 2003, p. 263, Id., Dalle Meraviglie d’Italia a Verso la Certosa, «The Edinburg
Journal of Gadda Studies», 6/2007, pp. 1-7.
43 I Vittoriali del lavoro, a cura di A. Bertone, cit., pp. 146-147.
366 GIUSEPPE PAPPONETTI [15]
minimo di verità, la conclusione di un articolo del 1941 quale I
Littoriali del Lavoro:
Il Partito Nazionale Fascista, indicendo annualmente i Littoriali del
Lavoro, s’è proposto di confortare le private energie nell’arruolamento
e nella formazione delle maestranze. S’è proposto di incitare
i migliori allievi alla gara, di assistere i giovani operai durante gli
anni di iniziazione: di promulgare la validità del loro tirocinio ai fini
dell’opera e della personale fortuna: di vigilare ch’essi non demeritino
della fede collettiva, quando non hanno demeritato del mestiere.
Tutta la Nazione Madre assiste al certame dei figli, indicando i più
degni all’emulazione dei compagni, compiacendosi d’un empito giovane,
che si libera e si richiude nel disegno della gara. I Littoriali
sembrano riportare alla collettività militante il compito, anticamente
assolto da ogni maestro d’arte nell’oscura bottega: predisporre il
lavoro del domani, le braccia e gli animi del domani.
Giuseppe Papponetti
(Sulmona-L’Aquila)
DOMENICO ALVINO
Il nudo e il puro. Su una raccolta poetica1
di Giorgio Bàrberi Squarotti
Solitamente, nella poesia squarottiana, la testualità di base è del
modo narrativo, e a volgerla in testualità attrezzata poeticamente,
ove smuovere ad operare la poesia, sono, sul versante elocuzionale,
smagliature ad arte o improvvisi moti di ricamo, vuoi musicali vuoi
ritmici, con richiami vicendevoli, che possono essere assonanze, allitterazioni,
rime, ed altro simile, e a volte anche una vocalica melode
di grande suggestione.
Il tema è sempre la nudità, che vi appare a un tratto, come una
grazia improvvisa e subito naturale al paesaggio, tanto che l’assenza
d’essa genera una sacra solitudine. Così è in Sul balcone (p. 7),
per esempio, ove tale solitudine è dalla poesia diffusa tramite notazioni
situazionali («è rimasto salvo solo»), ma anche paesaggistiche,
insieme ad animazioni di cose («sopra i canali incerti e il soffio,
forse,/ di un fiume in mezzo a monasteri e chiese/ e i fremiti di
canne e di campane»). La sua presenza, invece, innesca sì un desiderio,
ma esso è dalla poesia sfumato in incanto contemplativo attraverso
somatizzazioni di stati emozionali, svelati anche nei gesti,
come anche soffusi nel tutto che accoglie quella grazia della ragazza
nuda («Un po’ piegata, nuda nel candore/ veemente del mattino, le
tettine/ dolcemente tremanti, la poca acqua/ versava impietosita e
molto erronea/ sulla terra brulla, ma più ancora/ sull’indorato seno
e sui capezzoli/ induriti, fino alle cosce subito/ nervose»). Si avverta
come, pure nell’appena rattenuto turbamento sensuale che la
ragazza trae dalla sua stessa nudità, la poesia svolga una purezza
attraverso connessioni semantico-musicali, che cancellano ogni resi-
1 Su Gli affanni, gli agi e la speranza di Giorgio Bàrberi Squarotti, Forlì,
L’Arcolaio, 2008.
368 DOMENICO ALVINO [2]
duo d’impuro possibile, perfino dall’impudicizia nella quale pur si
celebra la nudità. S’intenda che l’impudicizia non è tolta, ma solo
purgata dall’impuro e illimpidita nel suo proprio valore etimologico
di “assenza di pudore”, non per una sfacciata tracotanza del soggetto,
ma perché ne manca ogni eventuale ragione peccaminosa. In tal
modo la nudità si fa attigua alla santità, così che il celeste, tradizionalmente
luogo naturale del sacro, in figura di creature d’aria, per
grazia di poesia le si fa incontro anch’esso pieno di rattenuto desiderio,
e Dio stesso, a volte, quale verità assoluta, si specifica in
bellezza che appare nella sua nudità ‘puramente impudica’.
Della purezza della nudità ci sono corrispondenze anche nella
testualità di base, corrispondenze che però subito attivano anch’esse
operazioni di poesia. Per esempio, si veda già in Sul balcone il nesso
«nuda nel candore», che muove la poesia a dire che l’innocenza è
acquisibile solo spogliandosi di ciò che la natura non chiede, ed è
solo figura di ciò il nudo delle ragazze allineate nel libro; similmente,
ne Il mosto, a ottobre (p. 36), una giovane donna, tra segni di
candidezza e di serenità imperturbata pur nella violenza di una
natura autunnale, «si tolse l’abito candido / fino alle anche, e restò
nuda e pura», come a dire che la purezza rende la nudità immune
anche dalla rabbiosa violenza degli elementi naturali. Ne La donna
disponibile (p. 37) la nudità è addirittura associata al simbolo tradizionale
della purezza, il giglio, con un evidente calo di operatività
poetica. Così in Narciso (p. 44), ad accompagnare la nudità è il
candido e il vergine, che però son turbati dal sormontare di scrupoli
morali in figura di creature d’abisso, onde il cielo perde la sua
purezza e di nuovo è ottenebrato, sporcato da nere nuvole, con
inquietudini d’alberi che tremano. Un che di analogo si osserva in
Sul letto, al mattino (p. 45) e in Susanna oggi (p. 46), ma già prima
s’era osservato in Un giorno di settembre (p. 38).
La purezza della nudità è avvalorata anche dal suo esser posta,
a volte, in un ambiente anch’esso nudo nel suo in-sé, come, in Le
quindicenni (p. 10), «nella sera libera / di luna, spente anche le stelle
e gli echi / delle montagne che folgora il giorno», cioè nell’in-sé
nudo della sera, che è il buio, tolti luna e stelle e barlumi di montagne.
E si veda come nella costruzione del verso se ne realizzi una
performance col racchiudere nel secondo verso tutto ciò che si spegne,
come a dire il puro dello spegnimento e, nel terzo, tutto il
folgorare della luce.
La nudità, non solo è pura, ma è sempre anche innocente, d’una
innocenza che si avviva in un tremito, sì per freddo a volte o per
[3] IL NUDO, IL PURO 369
turbamenti sensuali, ma più per paura, specie quando è posta a
fronte non tanto di una natura aggressiva, quanto in contesti umani
di spietata crudeltà. Vedi in Al finale (p. 50), il tremito delle «due
gemelle bionde e nude», che sanno d’essere offerte ospitali né più
né meno che i gioielli e i capretti arrosto, e di qui l’infinito arriddire
della loro nudità, e le lacrime che attraversano la loro anima. In
«un’attesa temuta disperatamente» esse si appercepiscono come in
bilico su una loro fine, non sanno se appena dopo il passo cui ora
muovono, o dopo l’altro, o il terzo, o il quarto – insinua la poesia
– e già dalle migliaia d’occhi vi sono confitte freddamente… ed è
questo… è questo che apre i loro nudi e «il petto singhiozzante» al
candore luminoso che sfiora anche l’anima affacciata nei loro occhi.
L’innocenza appare soprattutto quando è inscenato il gioco perfido
d’un sadismo estremo, benché poi subito esso si svesta in una
sua natura ludica. Ciò accade, per esempio, non tanto in Venere (p.
42), dove «la violenza calcolata e infinita» è già data come gioco del
piacere, subito poi sceneggiato come «l’infinito godimento alterno»;
ma più in Au Sacré Coeur (p. 66), dove la bruta fustigazione di
natiche e cosce da parte di un elegantissimo padrone, si stempera,
attraverso una “ilare energia”, nel «plauso e riso di avventori eterni
»; in In treno si confessa ecc. (p. 68), la ragazza confessa d’essere
stata appesa e frustata dall’innamorato, ma poi aggiunge d’essersi
alla fine assopita, completamente paga d’ogni amore. Similmente
avviene in Sant’Agata in festa (p. 40), dove le quattro ragazze scelte
a mo’ di schiave, denudate e indorate e poi sospinte in mezzo ad ali
di folla agitata, sono da una poesia che sembra fin essa spietatamente
ilare, parate a vittime che si trascinano verso un qualche
altare tra getti crudeli di rami d’ulivo, coni gelati e bacche rosse,
tutto a vivo richiamo d’una ben altra passione: ma poi si scopre che
«è la domenica oziosa e divertita» e lo spettacolo si conclude con la
gente pacifica che si avvia in chiesa o verso un Etna candidissimo
«ad ascoltare sulla spiaggia l’eco dolce del mare». Solo in Le tamerici
di Pescara (p. 69), ci sarebbe sospetto d’un sadismo crudo e
irredimibile, se non fosse che la cosa lì si prospetta come un delitto
senza malsano piacere, e perciò si è fuori della categoria del sadismo,
e comunque sia alla fine anche qui c’è qualche possibilità che
tutto si risolva in uno scherzo, benché un po’ truce.
Ma questo della funzione del nudo (in poesia certamente, e nella
propria, la squarottiana, ché diversamente non c’è modo d’intendere)
il poeta se lo domanda chiaro ne La cattedrale di Santa Venera (p.
29):
370 DOMENICO ALVINO [4]
Ma che senso hanno?
Perché la grazia e, accanto, la tortura?
Come gli emblemi della pietra? E i nudi
corpi allora?
Ma non si dà risposta, forse perché la intende già diluita in
luoghi quali Sull’Etna (p. 42), dove ipotizza che la nudità serva
davvero ad un’intenzione d’arte, e sia il più appropriato tramite, il
tecnema più efficace per un’arte prodotta dall’intero mondo mosso
dalla natura, anche da quella che è negli uomini, sennonché la nudità
è sempre ricoperta per una pudibonda costumanza.
Promana una enèrgheia anche dall’assetto elocuzionale in sé, come
per sotteso canto di sicuro effetto avvintivo, una melopea incantatoria
che apre all’ascolto in sé e per sé, nudo, un ascolto anch’esso nudo,
perché vada a compimento tutta la saga della nudità inscenata dalla
poesia. Non che questa enèrgheia ad essa manchi di dar briga, sì che
resti contraddetto quanto qui dichiarato in apertura. Si veda, per
esempio, già il primo endecasillabo, nella sua individuale
compiutezza, com’è proprio della natura versale (il corsivo indica
l’atona, il grassetto la tonica, la sottolineatura l’accento ritmico):
Sul balcone è rimasto salvo solo
L’allitterazione quadruplice dell’s va spiegata, nel suo valore
tecnematico, quale assimilazione identitaria tra le parole nucleari
(balcone, rimasto, salvo, solo) o quale semplice asservimento della
pura phonè ai sememi, tutti in qualche modo attinenti alla solitudine
e all’emergere in essa in salvo da qualsivoglia commistione (e dunque
anche da tegumenti). Merita poi attenzione il ritmo, che, qualora
si convenga sulla natura proclitica di articoli e preposizioni, è un
ritmo anapestico-giambico, catalettico in sillaba (che qui rappresentiamo
indicando le atone col trattino medio, le toniche con quello
basso, l’accento con la sottolineatura):
– – _ / – – _ / – _ / – _ / –
Ma poiché l’aggettivo “salvo”, essendo predicativo, acquista rilievo
sul verbo reggente, divenendo per conseguenza centro
semantico frasale, lo diviene anche dal punto di vista ritmico, rafforzando
la propria tonica a scapito della tonica del verbo. Perciò il
ritmo assume pressappoco lo schema:
– – _ / – – _ / – _ / – _ / –
[5] IL NUDO, IL PURO 371
e il verso finisce scandito su per giù nel seguente modo:
Sul balcone è rimasto salvo solo
Ciò vale a dire che ritmicamente il verso assume la forma di due
rincorse, e poi un salto, le une e l’altro terminanti nelle parole attinenti
all’emergere in solitudine salvifica (balcone, salvo, solo), che è
stesso nudità e purezza identitaria. Se poi se ne osserva il movimento
musicale, si constata che, da una condizione di chiusura
(performata nella u incipitaria), e dunque da un carico tegumentario,
fosse pure ornamentale, esso corre come spogliandosi nell’aria libera
(nell’a dell’atona seguente) e, approdato nel raccoglimento sommo
dell’o tonica di ‘balcone’, corre ancora spogliandosi in libertà, ed
eccolo (il geranio) in salvo finalmente nella nuda solitudine del suo
in sé profondo, nel chiuso dell’ultima ‘o’ tonica finale del verso.
Analisi cincischiata? Può essere, ma è credibile, e perfettamente
in linea con l’operare della poesia. E d’altro canto, che cosa di diverso
è possibile dire? Altre avventure performative di ritmo e
musica si possono rinvenire, per esempio in «Accesa era la luce
ancora e nello» (p. 11), ove il protrarsi della vita col suo splendore,
che procede dal fondo dei sensi (trattasi di un’orgia sensuale che
finisce in sadismo antropofagico), si performa nella persecutio ritmica
di “e nello”, essendo ritmicamente già conclusa la frase precedente.
Ma per un’idea organica della multiforme operatività della poesia
squarottiana, bisogna dire di una lirica che va oltre ogni traguardo.
Essa è Dalla pietra, a p. 18, che s’invita a leggere. Non si sa che
sia la pietra di cui trattasi nel testo di base, ma l’operare della
poesia la volge in muta e nuda fisicità della natura, indirezionata ed
ilare, disponibile a qualunque miracolo creativo, ad ogni pòiesis,
diremmo – ci dovrà essere, se già non vi è stato, qualcuno, filosofo
o psicologo o teologo o artista d’un ramo qualsiasi, a dimostrare
che la disposizione al riso e alla gioia è data dalla fede in una
possibilità creativa, che si abbia lì pronta e alla mano, quale segno
d’una vitalità rigogliosa avvolta nella suggestione d’una indefinita
perennità. Da questa disposizione lieta al creare è prodotta fin lei, la
ragazza, cui conferisce la propria ilare e lieve candidezza. Niente,
prima di lei. Il vento deve inventarselo a scuotere i suoi capelli e,
poiché ancora niente c’è che dia da fare, è volto tutto a gioco in
questo primevo mondo, e anche il mare, benché cupo, è festoso,
mentre accoglie in sé la perfetta nudità del cielo. Nudità subito
riflessa sulla ragazza, cui lascia solo, sulle tettine, un suo segno il
372 DOMENICO ALVINO
mare. Nuda, la sua bellezza s’irradia intorno a spogliare le cose
facendole lievi, o tramutandole in cose più lievi: la barca in ala, le
alghe in linee serpentine, il bar in un gioco di cristalli e fiori.
In questa levità diafana, anche lei, lieve, danzerà.
Domenico Alvino
(Roma)
Recensioni
Guido Capovilla, Dante e i «predanteschi
». Alcuni sondaggi, Padova,
Unipress, 2009, pp. 236.
L’indagine dei rapporti fra Dante
e i poeti del medio e tardo Duecento
di area toscana, pregiudicata storicamente
dalla nota condanna per
municipalismo e inveterata attitudine
a plebescere formulata a carico di
quei poeti nel De vulgari eloquentia
(I, xiii 1 e II, vi 8) e ribadita nel
canto XXIV del Purgatorio, ha ricevuto
un impulso significativo solo
in anni recenti, a partire da alcune
indicazioni di d’Arco Silvio Avalle
e grazie alla disponibilità di strumenti
essenziali come le Concordanze
della lingua poetica italiana delle
origini (CLPIO) allestite dallo stesso
Avalle o come i quattro tomi de I
canzonieri della lirica italiana delle origini
a cura di Lino Leonardi. Il volume
di Capovilla fornisce un contributo
ampio e sistematico (nonostante
la cautela del sottotitolo) in
questo settore e raccoglie saggi in
parte inediti, in parte editi ma rimaneggiati,
integrati e aggiornati bibliograficamente
(ad eccezione dell’Appendice,
che ripropone senza modifiche
un intervento del 1980 sull’attribuzione
a Dante del sonetto Io sento
pianger l’anima nel core: attribuzione
passata ormai in giudicato, cfr. Dante
Alighieri, Rime, a cura di D. De
Robertis, vol. III, Testi, Firenze, Le
Lettere, 2002, pp. 376-378, e vol. II,
Introduzione, ivi, pp. 986-986, dove a
suffragio della probabile paternità
dantesca si cita per l’appunto il saggio
di Capovilla), a sancire un orientamento
di studi e di ricerche ormai
quasi ventennale. I fenomeni presi
in considerazione non riguardano
tanto singole tessere intertestuali,
fonti specifiche, riprese o citazioni
dirette, quanto il raggio più esteso
del codice poetico, il sedimento linguistico
e stilistico – elementi fonosemantici,
soluzioni espressive, clichés
metaforici, sequenze di rime –
che si è comunque depositato e che
riaffiora in alcune zone della poesia
dantesca malgrado la rimozione
operata da Dante in linea di principio.
L’àmbito maggiormente interessato
è naturalmente quello “petroso”,
comprensivo latamente delle
rime “aspre” della Commedia, per il
quale del resto si è già fatto da più
parti riferimento a Guittone. Ma i
contatti che Capovilla evidenzia sono
soprattutto con la poesia munici374
RECENSIONI
pale fiorentina del secondo Duecento
caratterizzata da asprezza espressionistica,
gusto enigmistico e tecnicismo
esasperato, della quale fu protagonista
indiscusso Monte Andrea.
E con Monte i nomi portati alla luce
sono quelli di Chiaro Davanzati e
Schiatta Pallavillani, fino a Bacciarone
da Pisa (per un’inopinata anticipazione
di molta sostanza del canto
V dell’Inferno): tutti, se non insospettabili
o inattesi, quanto meno
sorprendenti per l’entità e la ricchezza
dei riscontri attestati.
Coordina i diversi sondaggi una
Premessa densa e articolata – non una
semplice presentazione, ma di fatto
un capitolo a sé di riflessione su
questioni metodologiche e storicoletterarie,
che prende spunto dall’esigenza
di giustificare e definire nelle
sue implicazioni l’etichetta di “predanteschi”
evocata nel titolo. È l’occasione
anzitutto per fare il punto
sullo stato degli studi alla luce delle
ultime acquisizioni in campo filologico
ed ecdotico, e di conseguenza
per individuare categorie e criteri
per un assetto della lirica del secondo
Duecento che tenga conto dell’effettiva
complessità delle fasi, dei
filoni, delle reti di relazioni geografiche
e snodi cronologici. Delle sigle
invalse appare entrata in crisi definitivamente
quella di “siculo-toscani”,
come risulta fra l’altro – rileva Capovilla
– dal terzo volume della recente
edizione dei Poeti della scuola siciliana
per i «Meridiani» Mondadori,
il cui curatore, Rosario Coluccia,
distingue fra “Siculo-toscani”, da
accorpare ai Siciliani e dunque inclusi
nell’edizione, e “Toscano-siculi”,
innovativi rispetto ai predecessori
e per questo motivo esclusi
dal volume (ma sull’edizione in generale,
e in particolare sulle ragioni
del discrimine individuato da Coluccia,
bisogna segnalare le forti riserve
avanzate da Carrai in «Lettere
italiane», LXI [2009], pp. 466-475). In
ogni caso, i poeti in questione, che
poi sono quelli oggetto dell’inchiesta
di Capovilla, «pur mantenendo
salde radici nella tradizione dei Siciliani,
presentano […] una gamma
tematica e formale ben più vasta e
articolata, dovuta ad una rinnovata
frequentazione della poesia d’oltralpe
e soprattutto ad un’apertura realistica
che viene sollecitata da tutt’altro
contesto politico-culturale» (p. 9).
E mentre si osserva che il virtuosismo
metrico-verbale, il gusto per il
ludus enigmistico e per la aequivocatio,
nonché in parte il diffuso atteggiamento
agonistico, trovano sicuri
antefatti nella poesia mediolatina e
provenzale, sembra inevitabile spostare
il fulcro dell’attenzione su Bologna,
partendo anche dalla considerazione
della presenza imponente
dei poeti toscani nel centro emiliano
e dei rapporti fitti e documentati con
l’area e la cultura bolognese (sicché
un’etichetta da proporre in alternativa,
restando comunque a un criterio
di classificazione per aree geografiche,
potrebbe essere quella “tosco-
bolognesi” ovvero “tosco-emiliani”).
Né si può ignorare che altri risultati
vengono dal riscontro dei testi
analizzati nelle loro verosimili interferenze
con i dati biografici emersi
nelle ultime ricerche: risultati che
rendono marcata «l’esigenza di più
precise distinzioni generazionali» (p.
61) e sollecitano a rivedere cronologie,
linee di influenza e vie di scambio.
RECENSIONI 375
Esemplare sotto questo riguardo
il primo capitolo del volume (Guinizzelli
e Monte Andrea), dove si ipotizza
e si tenta di delineare un’evoluzione
nella poetica di Monte, apertosi
dapprima al dettato guinizzelliano
(come testimoniano la canzone Nesuna
gioia creo e il sonetto Qui son
fermo: che ’l gentil core e largo, palinodia
esplicita delle proprie pregresse
formulazioni in materia amorosa) e
in seguito, verosimilmente all’estremo
della sua lunga carriera, all’influsso
dell’esperienza stilnovistica
(del quale dà atto una triade di sonetti
a sfondo paradisiaco in sequenza
nel ms. Vaticano lat. 3793, nn.
865-867, che presentano varie consonanze
con Cavalcanti e col Dante
vitanovistico). Se quest’ultima fase
può essere facilmente associata al
manierismo post-stilnovistico dell’ultimo
scorcio del secolo, ben più significativa
è la precedente adesione
a Guinizzelli, specie se davvero, come
sembra, si situa all’altezza del
soggiorno del poeta a Bologna (1267-
74), perché colloca Monte in una
posizione di particolare interesse,
quasi a cerniera fra il guinizzellismo
bolognese e Firenze. Su queste premesse
l’indagine portata avanti nei
capitoli seguenti intorno ai debiti
contratti da Dante con la poesia dei
“pre-danteschi” trova un preciso
fondamento storico e metodologico.
E gli esiti documentati, d’altra parte,
confermano ampiamente la funzionalità
dell’assunto: in primo luogo
– si diceva – nel settore costituito
dal ciclo delle “petrose” (cap. II:
Antefatti della ‘petrosità’ dantesca) e in
quello contiguo delle Rime ‘petrose’ e
rare nella «Commedia» (cap. IV). Nel
cap. II la riflessione si appunta su
due sintomi circoscritti: da una parte
la presenza nei “pre-danteschi”
dell’uso figurato del denominale impetrare
con riferimento all’asprezza
e all’oscurità del dettato poetico, attestato
in Schiatta Pallavillani e Chiaro
Davanzati; dall’altra il campo
metaforico collegato alla dimensione
cavalleresca della giostra, che in
Guittone, Monte e Panuccio del Bagno
riflette l’«agonismo verbale estremo
» tipico della pratica della tenzone
(p. 88) e che da quel contesto
discende fino al lessico dantesco dell’innovazione
tecnico-stilistica e dei
conflitti fra scuole poetiche o artistiche,
cioè al De vulgari eloquentia e al
canto undicesimo del Purgatorio. Il
cap. IV, attraverso un confronto sistematico,
dimostra come serie o costellazioni
di rime rare o aspre in
uso nel versante realistico toscano
del Duecento siano recuperate nei
luoghi di più alta tensione espressionistica
dell’Inferno, spesso in concomitanza
con ulteriori contatti intertestuali;
il che impone di riflettere
«sull’importanza del patrimonio rimico
che si è venuto costituendo nel
medio e secondo Duecento», soprattutto
nella prospettiva del sensibile
concorso fornito «all’espansione all’articolazione
del linguaggio poetico
delle Origini» che si realizzano
proprio tramite il riuso nella Commedia
(p. 114). Fra i due studi s’inserisce
quello del cap. III sulle Presenze
duecentesche nella canzone “montanina”,
la cui anomalia rispetto al
percorso poetico dantesco «si coglie
nella stessa tendenza del dettato a
ripiegare verso quei duecentisti che
Dante mostra di disdegnare nel De
vulgari eloquentia e nella Commedia»
(p. 98); ma va aggiunto che l’impres376
RECENSIONI
sione di devianza sembra attenuata
proprio dalle acquisizioni prodotte
da Capovilla, dal momento che l’analisi
dei precedenti evidenzia come
in diversi casi Amor, da che convien
getti un ponte fra quel sostrato
duecentesco e la Commedia. Ulteriori
tessere e corollari aggiungono infine
il capitolo V, dove si chiarisce il
significato del gerundio facendo (=
‘formando’) e dell’aggettivo molle (=
‘intriso e rivestito di muschio’) in
Inferno XXX 66 mettendo a frutto,
fra l’altro, un passo della Composizione
del mondo di Restoro d’Arezzo,
e il VI, a cui si è già accennato, sulle
tracce nel quinto dell’Inferno di una
canzone de reprobatione Amoris di
Bacciarone da Pisa.
Giovanni Bàrberi Squarotti
Nicolò Franco, Epistolario (1540-
1548) Ms. Vat. Lat. 5642, a cura di
Domenica Falardo, Forum Italicum
Publishing, Stony Brook, New
York, 2007, pp. 7-654.
Sospinto senza riserve nella schiera
di poligrafi e ‘avventurieri della
penna’ che hanno attraversato la
scena letteraria cinquecentesca, Nicolò
Franco (1515-1570) ha sofferto
a lungo del giudizio riduttivo della
critica nonostante l’ampia produzione
letteraria, in parte dispersa, e in
parte a stampa anche per il clima
repressivo imposto dalla Controriforma.
Sicuramente un destino di
emarginazione che si è protratto nel
tempo e di cui è responsabile una
storiografia letteraria attenta piuttosto
alle grandi linee e alle grandi
questioni e poco incline a considerare
autori ritenuti a torto periferici
o marginali, sicuramente fuori dai
percorsi comunemente battuti e più
spesso in conflitto con norme o regole
riconosciute e accettate. Indubbiamente
Nicolò Franco, autore prolifico
in latino e in volgare, fu personalità
controversa, il suo spirito
corrosivo e polemico che non risparmiava
personaggi di rango, anche
nell’ambito della Curia, gli procurò
noie di ogni genere, fino alla morte
a Roma per impiccagione nel 1570.
La sua vita, turbolenta e inquieta,
fu segnata da fughe, attraversamenti,
ritorni, un’inquietudine che segnò
anche profondamente i suoi rapporti
e le sue amicizie intellettuali; mi
riferisco alla clamorosa rottura con
l’Aretino, altro personaggio singolare
e spregiudicato, che diede vita a
una polemica tinta di toni violenti
nei due volumi delle Rime contro
Pietro Aretino e Priapea, poi finiti all’Indice
nel ’59. Certo una personalità
singolare, a tratti controversa,
interprete discusso di un’epoca di
crisi e di profonde contraddizioni,
sulla quale si è avviato solo nel secolo
scorso un lavoro più attento di
scavo e di recupero (mi riferisco ai
contributi di De Michele, Badaloni,
R. L. Bruni, Martelli, Toscano, Boccia,
e a parte il caso di Enrico Sicardi
che fu il primo nel 1895 a segnalare
agli studiosi l’importanza di questo
codice).
L’epistolario del Franco, un ingente
corpus di 847 epistole, è trasmesso
dal codice cartaceo Vat. Lat. 5642,
un copialettere autografo, unico testimone,
e già ben noto agli studiosi
che a tratti, e in tempi diversi, se ne
sono avvalsi per una più completa
RECENSIONI 377
ricostruzione della vita e della formazione
intellettuale dell’autore.
Interessante l’aspetto grafico di questo
codice dove le «numerose cancellature,
le correzioni currenti calamo,
le parole scritte in interlinea, gli
appunti presenti a margine» quasi
una sorta di pro memoria, per eventuali
correzioni o integrazioni, e ancora
«le carte di dimensioni variabili
e, in qualche caso, interfogliate»,
la presenza di carte bianche o contenenti
solo l’intestazione di missive
poi non trascritte «conferiscono al
testo il carattere di una minuta, di
una redazione provvisoria e illuminano
sulle varie fasi del processo
elaborativo e sulla prassi compositiva
dell’autore» (p. 8). Si tratta sicuramente
di un corpus di particolare
rilevanza ai fini di una più corretta
ed esaustiva ricostruzione del
percorso umano e intellettuale del
Franco, che getta poi nuova luce, per
le caratteristiche stesse del ‘genere’,
su aspetti diversi dell’intricato universo
cinquecentesco. Tra i numerosi
interlocutori («il Franco è mittente
di 554 e destinatario di 293 lettere
»), figurano «letterati, prelati, uomini
di potere e loro segretari,
mecenati, principi, il fratello Vincenzo,
figure femminili delle quali è
taciuto il nome, tipografi e librai». E
non mancano lettere indirizzate a
destinatari fittizi, o, secondo una formula
già consolidata, a personaggi
illustri del passato.
I temi trattati sono numerosi e
vari: «Confessioni e progetti di carattere
letterario, notizie relative alle
opere che non ci sono pervenute,
scambi di idee con amici, pareri su
testi sui quali è chiamato ad esprimersi,
riflessioni sulle convenzioni
sociali e su disagi e problemi relativi
alla vita quotidiana, critica e ironia
contro vizi e privilegi, echi dei
tempestosi avvenimenti dell’epoca,
denuncia dei mali della Chiesa …
dichiarazioni d’amore e di dissenso
», oltre, s’intende, agli scontri con
l’Aretino e ai consueti attacchi «contro
vecchi e ormai logori schemi e
termini di giudizio», dove toni e livelli
di scrittura «si intrecciano e si
sovrappongono» a seconda della
tipologia degli interlocutori confermando
il sicuro possesso da parte
del Franco della tipologia epistolare
cinquecentesca.
A confermare il carattere singolare
di questo codice la presenza, «in
coda ad alcune missive» di componimenti
in versi: «diciotto sonetti –
pubblicati in minima parte nelle Rime
antiaretiniane e tre madrigali».
La complessa strutturazione del ms.
(di cui la Falardo fornisce un’accurata
e minuta descrizione) ricorda
per certi aspetti, e fatte salve le dovute
differenze di ‘genere’, la singolare
fisionomia di un altro testo
coevo, di pertinenza lessicografica,
mi riferisco al Vocabulario del napoletano
Fabricio Luna, un altro nome
non estraneo all’intricata trama di
amicizie e scontri che segnò il primo
soggiorno a Napoli del Franco.
Dell’ampio epistolario che copre
quasi un ventennio (dal 1540 al 1559)
la Falardo procura l’edizione delle
prime 351 lettere (quelle relative agli
anni 1540-1548), corrispondenti grosso
modo agli anni del soggiorno a
Casal Monferrato «prima tappa di
un viaggio che, secondo i suoi progetti,
avrebbe dovuto avere come
meta la Francia» (p. 17), e al biennio
mantovano dove il Franco fu ospite
378 RECENSIONI
della famiglia Arrivabene. A Casal
Monferrato, come sappiamo era approdato
dopo la breve parentesi napoletana
e il successivo e turbolento
approdo nella città lagunare dove
«sconosciuto e assai mal in arnese»
fu ospitato dapprima da Benedetto
Agnello, ambasciatore dei Gonzaga,
entrando presto in rapporti con
l’Aretino. Il Franco partì da Venezia
nel 1540, e la Falardo ricostruisce
bene con l’ausilio di fonti attentamente
documentate e discusse alla
luce di queste lettere, le vicende che
dall’iniziale sodalizio portarono alla
clamorosa rottura. Certo l’Aretino
«abile e influente operatore culturale,
profondamente legato al mondo
delle tipografie» costituiva per i giovani
intellettuali desiderosi di ben
integrarsi nella città lagunare, un
punto di riferimento sicuro. L’amicizia,
agevolata da una singolare
affinità tra i due temperamenti «non
poteva durare a lungo» e si trasformò
presto in aperta ostilità proprio
in occasione della pubblicazione nel
1539 delle Pistole vulgari, una raccolta
di lettere, in tre libri, con la quale
il Franco, a un anno appena dalla
pubblicazione del primo libro delle
Lettere dell’Aretino, sembrò aprire un
confronto con il suo maestro misurandosi
con lui proprio sul terreno
della satira per dar vita a uno scontro
acceso che degenerò presto in
aperta ostilità fino a rasentare l’ingiuria,
se non addirittura l’aggressione
fisica. L’Aretino «probabilmente
non tollerava il fatto che il beneventano,
a cui aveva offerto ospitalità,
gli facesse concorrenza in un
genere – che succedeva, rinnovandola,
all’epistola tardo-umanistica – del
quale si considerava l’iniziatore» (p.
13). È anche verosimile, come osserva
la Falardo che il Franco «oltre a
risentire di una certa rivalità letteraria
fosse rimasto deluso dal comportamento
del maestro, nel quale
aveva visto, come molti altri letterati,
il fautore di una battaglia morale
affrontata con serietà e impegno» (p.
13). Il Franco, si diceva, partì da
Venezia nel 1540 lasciando dietro di
sé l’eco vivissima di questi scontri,
e a Casal Monferrato, dove visse fino
al 1546 poté godere della protezione
del governatore Sigismondo Fanzino
e del favore dei letterati locali. Certo
un periodo «di relativa stabilità»
considerati il temperamento di Franco,
i continui spostamenti e la
precarietà che caratterizza l’ultimo
tormentato ventennio della sua esistenza;
un periodo su cui fa ben luce
questo carteggio: sono gli in anni in
cui il Franco conquistato ormai un
proprio spazio nella società letteraria
del tempo, si mostra «meno preoccupato
della propria immagine di
intellettuale» svelando una spontaneità
e un’immediatezza estranea
alle Pistole. Anche il successivo trasferimento
a Mantova, dove visse
per circa due anni, fino al 1548 (e
dove approdò prima della partenza
per Basilea) fu «probabilmente» risultato
di una condanna subìta a
Casale Monferrato «per aver reagito
con un’aggressione a un’offesa»; e
le lettere scritte in questi anni ci confermano
l’inclinazione vera dello
scrittore: è proprio di questi anni il
Cartello di M. Nicolò Franco per li Cortigiani
alle gentildonne di Mantoa, segnalato
dalla Falardo: «un testo singolare
» in cui Nicolò affrontava «con
intento parodistico e dissacratorio»
il tema diffuso in quell’età delle comRECENSIONI
379
plesse regole che disciplinavano il
duello e le questioni d’onore, regole
poi riproposte nel Duello, «uno scritto
di probabile carattere satirico lasciato
in forma manoscritta» (p. 29).
Sulla scorta di queste lettere la
Falardo ridisegna le fasi più delicate
del percorso umano, esistenziale e
letterario del Franco individuando il
filo sottile che lega queste lettere ad
altri scritti, ai Dialogi e soprattutto
alle Rime. Le lettere informano anche
sulla genesi di alcune sue opere,
è il caso della lettera a Bartolomeo
Grosso, scritta da Casale Monferrato
il 6 agosto 1545, e ricordata dalla
Falardo, che contiene chiari indizi
sulle fasi di elaborazione di una raccolta
di sessanta sonetti, pubblicati
a Mantova in volume nel 1547 (Dialogi
maritimi di M. Gioan Iacopo Bottazzo
et alcune rime maritime di M.
Nicolò Franco, et d’altri diversi spiriti
dell’Accademia de gli Argonauti). Tra i
numerosi corrispondenti, in genere
principi o intellettuali più o meno
in vista della società letteraria del
tempo, figurano personaggi diversi:
Ludovico Domenichi, Bernardino
Moccia, Annibale Brancazzo, Giovanni
Iacopo Bottazzo, Antonio Ravino,
Giovanni Ronchegallo, Francesco
Alunno, il fratello Vincenzo,
Cesare Fregoso, Antonio Castriota,
Giuseppe Cantelmo, Sigismondo
Fanzino, Leonardo Arrivabene, Isabella
di Capua, e ancora i conterranei
Giovanni Antonio Mansella, Vincenzo
Cautano, per citarne solo alcuni;
interessante la fitta corrispondenza
intrecciata dall’ottobre del
1541 al giugno del 1543 con Alfonso
d’Avalos, marchese del Vasto, governatore
dello Stato di Milano e cultore
di poesia.
L’edizione di questo epistolario,
che si segnala per la cura filologica
e la sobrietà dell’indagine critica,
costituisce indubbiamente un punto
fermo per gli studiosi dell’opera del
Franco: un lavoro attento di trascrizione
e di edizione condotto con
criteri in massima parte conservativi
e di cui la Falardo dà conto in
una circostanziata Nota al testo. Certo
un terreno arduo, ricco di insidie
– considerata la complessa fisionomia
del codice – sul quale la curatrice
si muove con prudenza dimostrando
una buona padronanza in
tema di ecdotica dei carteggi, sostenuta
anche da una frequentazione
non occasionale dell’opera del Franco;
mi riferisco a una serie di interessanti
‘incursioni’ sulle Rime, pubblicate
in sedi e occasioni diverse, a
riprova quanto meno di una continuità
di interessi e di ricerca1.
Il volume è corredato da un’aggiornata
bibliografia critica e dagli
indispensabili indici (Indice delle epistole;
Indice dei corrispondenti; Indice
dei nomi citati nelle epistole).
Milena Montanile
1 Cfr. D. Falardo, Rime di Nicolò
Franco, in Le forme della poesia, VIII Congresso
dell’ADI (Siena 22-25 settembre
2004), a cura di R. Castellana e A.
Baldini, Università degli Studi di Siena
2006, pp. 151-159; Per l’edizione delle
Rime di Nicolò Franco: recenti acquisizioni,
in La letteratura italiana a congresso.
Bilanci e prospettive del decennale
(1996-2006), a cura di R. Cavalluzzi,
W. De Nunzio, G. Distaso, P. Guaragnella,
Lecce, Pensa MultiMedia, 2008,
pp. 317-323.
380 RECENSIONI
Francesco Luisi, Il Caritesio ovvero
Il Convito delle Grazie. Studi sulla musica
per il teatro e sull’iconografia musicale
nel XVI secolo, a cura di I. Cavallini,
P. Dalla Vecchia, P. Russo,
Padova, Cleup, 2009, pp. I-XI+1-
526.
Alla raccolta di questi scritti sparsi
di Francesco Luisi hanno partecipato
diciassette istituzioni e Università,
con le quali il musicologo ha
collaborato. L’opera è corredata da
una Presentazione di M. Capra, F.
Facchin e R. Tibaldi ed è accompagnata
da una Lettera all’Autore di
Giulio Cattin.
Il volume dimostra la versatilità
di Francesco Luisi: letteratura, arte
e musicologia sono rappresentate ampiamente
nei saggi inclusi nel volume.
I 18 saggi sono raccolti in due
sezioni: Studi sulla musica per il teatro
e Studi di iconografia musicale.
Scrivono i Prefatori che “Luisi, dopo
anni di fruttuose ricerche sulla polifonia
rinascimentale l’oratorio e
l’opera del diciassettesimo secolo, ha
rivolto il suo sguardo inquieto verso
le funzioni della musica nello
spettacolo e verso le espressioni
iconiche del Cinquecento, ove si annidano
i valori morali e civili esibiti
in formule non di rado criptiche”
(p. V). Nella prima parte del volume
i saggi, Musica e tragedia nel pensiero
teorico del Cinquecento (pp. 137-
168), Note sul contributo musicale alla
drammaturgia pastorale avanti il melodramma
(pp. 169-184) e gli studi sull’Aminta,
costituiscono la prova più
evidente della capacità d’indagine
del loro Autore che ha esaminato
l’evoluzione della pastorale e la nascita
del melodramma, con un’analisi
a largo spettro degli scritti teorici
cinquecenteschi.
Luisi, in Musica e tragedia nel pensiero
teorico del Cinquecento (1999),
dopo aver registrato la forte influenza
del teatro greco nell’ambito letterario
italiano, nota di conseguenza
la difficoltà dell’affermazione del
modello senechiano, che “solo tardivamente
avrà esiti positivi e davvero
innovativi, com’è noto, nella
cultura gesuitica e nel teatro inglese”
(p. 137). La tendenza creativa
cinquecentesca risulta fortemente limitata
per la consistente presenza
del modello teorico individuabile
soltanto nella classicità. Ne derivano
la mancanza di un modello compositivo
“che ancora non ha scoperto
la monodia accompagnata” e la
difficoltà per il musicista moderno
di realizzare una monodia che superasse
o si affiancasse alle “tendenze
strutturali contrappuntistiche dello
stile polifonico coevo” (p. 138).
Da ciò, nota Luisi, deriva l’assenza
di studi sul rapporto tra musica e
tragedia nel Cinquecento. Comunque
si hanno rari esempi musicali e
“una possibile letteratura sul rapporto
musica-tragedia è reperibile solo
a proposito delle musiche composte
da Andrea Gabrieli per i cori dell’Edipo
tiranno nella versione in lingua
di Orsatto Giustiniani, rappresentato
a Vicenza per l’inaugurazione
del teatro palladiano nel 1585”
(p. 139).
Le ricerche di Luisi hanno portato
all’individuazione di musiche destinate
alla drammaturgia ma raccolte
in sillogi musicali, senza ulteriori specificazioni;
in quest’ambito il Musicologo
cita un brano riconducibile
alla tradizione dell’Orphei Tragoedia.
RECENSIONI 381
Si tratta di un caso che rende pertinente
lo studio della poesia drammatica
del Cinquecento nelle forme
della commedia, della tragedia e
della pastorale. E se, come scrive
Luisi, “i poeti tragici «recitano», quelli
comici «rappresentano»”, i satirici
«cantano e rappresentano»; infatti, il
dramma pastorale, che s’inserirà nel
filone satiresco, sarà il “genere da
rappresentarsi in canto […] per essere
in definitiva un terzo genere,
indipendente dalla teoria poetica di
Aristotele, adatto finalmente alla
drammaturgia musicale delle origini”
(p. 143). Angelo Ingegneri in
Della poesia rappresentativa et del vero
modo di rappresentare le favole sceniche
(Ferrara 1598) si soffermerà sull’uso
del coro nelle Pastorali e nelle
Commedie, uso possibile ma non vincolante
come accade nelle tragedie.
Il saggio contiene importanti riflessioni
sull’uso e il significato del coro,
al quale viene assegnata capacità
d’imitazione, nella commedia e nella
tragedia. E il coro potrà avere funzione
di intermedio quando rimarrà
solo sulla scena. Sarà proprio l’Ingegneri
a criticare il Robortello (traduttore
e commentatore moderno di
Aristotele) che vuole che il coro non
canti mai; per cui diverrà necessario
il superamento dei precetti classici
per arrivare ad un teatro che esaudisca
i desideri di un pubblico “sul
piano della favola [e così] nascono
le «Satire atte alla scena»” (p. 154).
Luisi, nel saggio Note sul contributo
musicale alla drammaturgia pastorale
avanti il melodramma (1992), indaga
anche le motivazioni che hanno portato
la pastorale – e non la commedia
e la tragedia – ad evolversi nel
melodramma; la ragione – scrive Luisi
– risiede nel fatto che “la pastorale
era già un dramma per musica
nel 1573, molti anni prima che tale
genere prendesse forma più definita
attraverso l’opera di Rinuccini” (p.
170). Il 1573 è anche l’anno della
prima rappresentazione dell’Aminta
del Tasso che diviene il “punto di
divisione tra la cultura del pastorale
come genere rappresentativo e di
dramma pastorale come genere letterario
capace di esprimere una nuova
drammaturgia” (p. 170). In occasione
della rappresentazione della
Fabula di Orfeo, composta da Poliziano
nel 1480, l’intonazione del canto
alla lira costituiva il primo esempio
di “contributo musicale alla drammaturgia
pastorale” (p. 172), sempre
che lo si consideri come riferimento
per la nascita del teatro musicale.
Il testo di Poliziano, nell’ambito
della cultura cortigiana contemporanea,
risultava innovativo perché
non aderiva alle imposizioni classicheggianti
del teatro contemporaneo
e proponeva elementi musicali “capaci
di appagare l’edonismo dei sensi”
(p. 173). La fabula polizianesca
diventava, nonostante lo schema imposto
dalla tradizione, il genere che
“esprimeva il richiamo all’immaginario”
e insieme la “trasformazione
platonica del sentimento e della passione”
(p. 174).
Non è possibile offrire nel breve
resoconto qui pubblicato, la ricchezza
degli esempi e le sfumature del
discorso del Musicologo, il quale procede
per gradi con un’analisi che
dimostra la sua perfetta conoscenza
dei testi letterari, ai quali si appoggia
per il suo discorso. Luisi, ad
esempio, ritiene, per l’importanza
del personaggio e per le conseguen382
RECENSIONI
ze derivanti dai suoi scritti teorici,
che non sia possibile ignorare il riferimento
alla Sesta divisione della
poetica del Trissino che, ammettendo
soltanto la presenza del coro sia
nella tragedia sia nella commedia,
nota che nelle commedie contemporanee
s’introducono “suoni e balli et
altre cose, le quali dimandano intermedi,
che sono cose diversissime da
la azione de la comedia, e talora
v’inducono tanti buffoni e giocolieri
che fanno un’altra comedia” (p. 176).
Sarà ancora l’Ingegneri, nel già ricordato
Della poesia rappresentativa et
del modo di rappresentare le favole sceniche,
a notare che le commedie vengono
apprezzate solo come intermedi
e che le tragedie d’impegno mancano;
rimangono le sole pastorali
capaci di deliziare gli spettatori. E
l’Ingegneri ricorre all’Aminta del Tasso,
per dimostrare l’importanza della
“Scenica Poesia”. Sarà proprio
l’opera del Tasso a permettere alla
musica di avere un ruolo primario
insieme alla poesia e, per questo, “la
drammaturgia pastorale diventa sinonimo
di dramma per musica e
come tale affronta problemi di drammaturgia
musicale al di fuori di quegli
assunti simbolici tendenti a razionalizzare
la presenza del canto con
il ricorso al mito” (p. 180).
Il saggio Orientamenti musicali dopo
Aminta. Tasso e la corte roveresca (1999)
si sofferma sul dialogo La Cavaletta
o vero de la poesia toscana, che Tasso
portò a termine intorno al 1584. Tasso,
nonostante la sua relativa preparazione
musicale, seguiva con attenzione
gli interessi musicali innovativi
della corte di Ferrara ed era in
grado di citare musicisti importanti,
quali Striggio, Luzzasco e Alfonso
da la Viola; inoltre era in grado di
teorizzare “sul ruolo della strutture
poetica in funzione musicale” (p.
212). Ne consegue che numerosissime
rime del Tasso entrarono a far
parte del repertorio musicale
madrigalistico. Scrive Luisi che si
hanno ben 511 composizioni derivanti
da versi del Tasso (alcuni posti
in musica da diversi autori) e
precisamente 131 madrigali, 39 sonetti,
5 canzonette, 3 ballate, 1 sestina
e 1 canzone. Riveste importanza
la sosta del Tasso presso la corte
pesarese, quando il poeta fece parte
del seguito di Lucrezia d’Este della
Rovere; la comitiva, diretta a Ferrara,
si fermò a Ravenna, presso il cardinale
Giulio della Rovere. In quest’occasione
Tasso ebbe modo di conoscere
i musici del cardinale e di offrire
a Costanzo Porta, per l’intonazione,
il sonetto Del puro lume onde i
celesti giri; potrebbe darsi che in
quell’occasione Tasso abbia lasciato
altri testi che poi confluirono nell’edizione
del 1580 del Meldert, il
compositore fiammingo che musicò
il maggior numero di testi tassiani.
Più tardi, nel 1594, Simone Balsamino,
esponente di quella cultura accademica,
sviluppatasi nel mondo
urbinate e che si proponeva di sperimentare
la realizzazione di una
drammaturgia musicale, musicherà
con il titolo Novellette a sei voci il
monologo del Satiro, che apre il secondo
atto dell’Aminta e il dialogo
di Aminta e Tirsi che chiude la III
scena del secondo atto. Luisi rileva
che, mentre a Firenze si sceglieva la
trasformazione dell’intermedio, a Urbino
si assegnava importanza al
modello di drammaturgia pastorale
proveniente da Ferrara. SuccessivaRECENSIONI
383
mente anche a Firenze ci si piegò al
modello ferrarese; un esempio è costituito
dalla rappresentazione dell’Euridice
del 1600.
Se i saggi appena ricordati costituiscono
un’attenta analisi della nascita
della drammaturgia musicale
italiana, non meno interessanti sono
le pagine raccolte sotto il titolo di
Studi di iconografia musicale. Si tratta
di studi che dimostrano ancora una
volta la versatilità di Francesco Luisi,
al quale va proprio stretta la definizione
di musicologo, per la raffinata
capacità di rapportare gli eventi
musicali alla letteratura e all’iconografia.
La curiosità del lettore comparatista
è già vigile nell’affrontare
il primo saggio, Per una identificazione
dei musici raffigurati nella Processione
in Piazza San Marco di Gentile
Bellini (1991). Il telero, che celebra la
processione del 25 aprile in Piazza
San Marco, venne eseguito nel 1496.
La Scuola Grande di San Giovanni
Evangelista aveva commissionato,
per celebrare eventi ufficiali della Repubblica,
un ciclo di otto teleri che
erano stati affidati, oltre che al Bellini,
a Carpaccio, a Bastiani, a Mansueti
e Diana. Bellini eseguì tre teleri,
riferentesi a miracoli della Santa
Croce di cui la Scuola conservava
una reliquia. Il primo, eseguito nel
1496, descrive il mercante bresciano
Jacopo de’ Salis che, nel 1444, aveva
ottenuto la guarigione del figlio, inginocchiandosi
davanti alla reliquia;
il pittore inquadra l’avvenimento nel
contesto della processione del 1495
e rappresenta contestualmente il reliquario
e i confratelli col saio bianco.
Il gruppo dei confratelli della
Scuola Grande di San Giovanni Evangelista
è preceduto da suonatori e
cantori, elemento importante per la
prassi esecutiva legata alla tradizione
laudistica veneziana “considerata
come risultato incrociato della
forte spiritualità di numerosi ordini
minori lagunari, della straordinaria
tradizione poetico-musicale facente
capo a Leonardo Giustinian e della
formidabile organizzazione dei laudesi
laici attivi nelle Scuole Grande
di Venezia nella seconda metà del
Quattrocento” (pp. 243-244). Va notato
che alcuni dei cantori non indossano
il saio bianco della Scuola
ma l’abito talare o di chierico e altri
leggono spartiti musicali. Si tratta di
due elementi che identificano i
cantori come professionisti della esecuzione
polifonica; e la presenza di
tre strumenti insieme alle voci, non
riconduce alla pura pratica polifonica
ma al canto spirituale laudistico
a più voci con accompagnamento di
strumenti. Nota Luisi che Bellini, fissa
nel telero, la coda della Scuola
che aveva sfilato prima della Scuola
di San Giovanni; si tratta della Scuola
Grande di San Marco, che aveva
sfilato secondo un preciso cerimoniale,
stabilito dal Consiglio dei Dieci.
Per una serie di particolari, il
gruppo formato da un suonatore di
arpa, uno di viola da braccio e uno
di liuto, seguiti da 6 cantori, appartiene
alla Scuola Grande di San Marco,
come dimostra la documentazione
archivistica, che fa riferimento
all’apporto di cantori della Cappella
Marciana e che permette di dare un
nome anche ai “Piffari e trombetti”
del Doge che precedono il corteo
della Signoria di Venezia.
La seconda parte del volume offre
al lettore una ricca documentazione
fotografica, riproducente le
384 RECENSIONI
opere alle quali si fa riferimento nei
saggi. Mi soffermerò ancora solo su
un saggio ma ritengo utile, per la
curiosità del lettore, segnalare gli
altri titoli: Per una lettura iconologica
della musica picta nell’opera di Simone
de Magistris, Mottetti canonici in due
dipinti votivi di Loreto, Il mottetto polifonico
della Cappella Albani in Santa
Maria delle Vergini a Macerata, Dal
frontespizio al contenuto. Esercizi di ermeneutica
e bibliografia a proposito della
ritrovata silloge del Sambonetto (Siena,
1515), Bicinia in musica picta, Giovanni
Giovenale Ancina e il vescovo
Romolo Cesi: un rapporto fruttuoso in
territorio narnese, L’Incoronazione della
vergine di Narni attribuita a Domenico
Ghirlandaio. Saggio sull’interpretazione
della scena musicale.
Iconografia musicale in Giovanni Santi
offre al lettore spunti molto interessanti
(non per nulla il pittore è il
padre di Raffaello). L’urbinate Santi
si dedicò non solo alla pittura, alla
poesia drammatica e alla poesia epica
ma anche alla scenografia; infatti
scrisse il testo e preparò l’apparato
scenico di Amore al tribunale della Pudicizia,
rappresentato nel 1474 in
occasione del passaggio a Urbino di
Federico d’Aragona. Scrive Luisi che
il Santi muove alla ricerca di elementi
figurativi idonei alla resa di
un concetto di musica fortemente legato
alla cultura “cortese” (p. 326).
Il Musicologo si sofferma sulle citazioni
musicali utilizzate dal Santi
nell’affresco della cappella Tiranni a
Cagli, nella pala Oliva di Montefiorentino
e nelle tavole per il Tempietto
delle Muse in Palazzo Ducale.
La cappella Tiranni, probabilmente
affrescata tra il 1481 e il 1484, presenta
la Vergine in trono, con quattro
santi e due angeli, mentre nella
parte superiore dell’affresco si vede
una scena della Resurrezione e, sotto
l’arco, un Cristo benedicente fra
due gruppi di angeli, di cui quattro
ritratti mentre suonano il triangolo
e il liuto (gruppo di destra), un cornetto
dritto – “improbabile”, come
scrive Luisi – e l’altro la ribeca (gruppo
di sinistra). La scena è congegnata
in modo tale che è evidente il
ricorso alle cose conosciute e ai modelli.
Capita, come per il suonatore
di cornetto, che la memoria tradisca
il pittore; infatti, il suonatore “impugna
lo strumento usando le dita
della mano destra nella posizione
della sinistra e viceversa: il numero
dei fori a disposizione della mano
sinistra è sovrabbondante […] l’imboccatura
è inserita fra le labbra a
guisa di flauto mentre dovrebbe presentare
un bocchino sovrapposto ad
esse” (p. 328). Il quartetto è indubbiamente
l’espressione del ricordo di
un concerto al quale il Santi ha assistito
e lo strumento a fiato appare
più essere un flauto a becco che un
cornetto, perché quest’ultimo è comparso
soltanto più tardi nell’ensemble
rinascimentale. Inoltre il concerto
ricorda l’esecuzione di musiche di
danza proprie della tradizione più
antica; infatti, il ruolo coreografico è
indicato dal triangolo e dalla posizione
del suonatore e dal suo compagno
liutista, impegnato nel canto
e “ambedue ritratti con la gamba
destra piegata all’indietro e in positura
corporea di movimento” (p.
330). Proprio la scenografia dell’affresco
di Cagli rievoca sensazioni
diverse – proprie della danza a scopo
edonistico e d’intrattenimento –
che alleggeriscono “la staticità seRECENSIONI
385
riosa della Sacra Conversazione inserendosi
sulla sequenza delle scene
con una trasposizione pittorica di
quadri viventi” (p. 332).
Santi, nel 1489, realizzò per la cappella
di famiglia del conte Carlo Oliva
una Sacra Conversazione, composta
da una scena posta in basso, rappresentante
la Chiesa personificata
nella veste della Vergine in trono col
Bambino, attorniata da otto figure
di santi e angeli e, come da consuetudine,
a destra è posto il committente.
Nella parte superiore della
pala si vede un concerto angelico che
permette d’identificare sei strumenti.
Rispetto all’affresco di Cagli, il
concerto angelico riveste qui un significato
più rilevante. Gli strumenti,
suonati dagli angeli, sono un tamburino
e un flauto a becco, un tamburello,
un aerofono, forse identificabile
con una zampogna, un’arpa
diatonica a dieci corde, ancora un
flauto a becco, una viella. Gli angeli
rappresentati con uno strumento
sembrano suonare e tutto il concerto
appare curato nei minimi dettagli;
è evidente – come scrive Luisi –
il ricorso ai modelli ma ciò non
esclude l’utilizzo della memoria, che
“riconduce a un modello umanistico
[e] richiama la musica come sublimazione
della poesia” (p. 336). Gli
strumenti rappresentati ricordano da
una parte la musica legata al genere
cortese (ad es. per l’uso della ribeca)
e, dall’altra, con l’uso della viella e
dell’arpa il recupero umanistico dell’antica
cetra. I due diversi momenti
evocano scene di vita vissuta, ben
presenti nella memoria del pittore
che, nel 1488, aveva contribuito con
la sua opera agli allestimenti per festeggiare
le nozze di Guidubaldo di
Montefeltro con Elisabetta Gonzaga;
ma rievocano anche i modelli esecutivi
cameristici, “legati alla poesia
profana e spirituale e per questo utilizzati
anche nell’esecuzione di laude
intercalate funzionalmente nelle sacre
rappresentazioni fiorentine” (p.
336).
Le tavole del Tempietto delle Muse
in Palazzo Ducale di Urbino, ora
alla Galleria Corsini a Firenze, costituiscono
il manifesto della concezione
iconografico-musicale del Santi.
Non tutte le tavole ci sono rimaste
e, dunque, ci si può soffermare
solo su quelle pervenuteci e raffiguranti
le muse con attributi musicali.
Calliope, musa della poesia epica, ha
tra le mani una tromba; Polimnia,
musa dell’eloquenza e dell’innodia,
suona un organo portativo; Melpomene,
la musa della poesia tragica,
ha un cornetto; Erato che rappresenta
la poesia lirica amorosa, suona un
tamburello con sistri; Tersicore, musa
della danza, suona una ribeca. Ci
sono riferimenti ai dipinti esaminati
in precedenza per quanto riguarda
le tavole di Erato e Tersicore. Invece
le novità rappresentative sono
costituite dal cornetto di Melpomene,
dall’organo portativo di Polimnia,
esemplato sul modello di Ivano
Castellano, intarsiato nello studiolo
del duca d’Urbino; e poi dalla tromba
dritta che richiama più visioni
apocalittiche che ambientazione cortese.
Non sappiamo come fossero
stati raffigurati Euterpe e Apollo, anche
se per quest’ultimo abbiamo la
tavola sostitutiva del Viti nella quale
il dio suona una lira da braccio.
La probabilità che il Viti abbia riproposto
l’Apollo del Santi con la lira
da braccio è molto alta, perché una
386 RECENSIONI
simile rappresentazione rientrava
negli schemi iconografici umanistici.
Anche Botticelli aveva raffigurato
così Apollo nel Palazzo di Urbino e
similmente farà Raffaello rappresentando
Apollo nel Parnaso nella Stanza
della Segnatura in Vaticano, modello
al quale s’ispirò Dosso Dossi
per l’Apollo, oggi visibile alla Galleria
Borghese di Roma.
Al pittore non veniva meno il
nesso che univa la rappresentazione
del dio ad uno strumento mitico,
frutto della cultura di corte e che
evocava la poesia. La lira ricordava
l’accompagnamento, il sostegno alla
poesia e ricordava solo per il nome
l’antico strumento, perché aveva le
caratteristiche della viola da braccio,
quella viola evocata dal Castiglione
che riterrà “il cantare alla
viola” la forma più alta della poesia
per musica:
– Bella musica, – rispose messer
Federico, – parmi il cantar bene a
libro sicuramente e con bella maniera;
ma ancor molto più il cantare
alla viola perché tutta la dolcezza
consiste quasi in un solo, e con
molto maggior attenzion si nota ed
intende il bel modo e l’aria non essendo
occupate le orecchie in più
che in una sol voce, e meglio ancor
vi si discerne ogni piccolo errore; il
che non accade cantando in compagnia
perché l’uno aiuta l’altro.
Ma sopra tutto parmi gratissimo il
cantare alla viola per recitare; il che
tanto di venustà ed efficacia aggiunge
alle parole, che è gran meraviglia
(B. Castiglione, Il libro del
Cortegiano, l.II, cap. XIII, Venezia,
1528).
Rossana Caira Lumetti
Testo e immagine nell’editoria del Settecento,
Atti del Convegno internazionale,
Roma 26-28 febbraio 2007,
a cura di Marco Santoro e Valentina
Sestini, Pisa-Roma, F. Serra,
2008, pp. 500.
Il crescente interesse, negli ultimi
decenni, per la storia del libro e dell’editoria
ha indotto le sedi universitarie
di Bologna, Cosenza, Messina,
Roma e Verona ad aggregarsi per
un progetto sul Settecento, diretto
con passione ed abilità scientifica da
Marco Santoro, di cui gli Atti in questione
ne rappresentano l’espressione.
La storia del libro è intimamente
connessa con quella dell’illustrazione,
anche se quella del libro è
continua e priva di interruzione, diversamente
da quella delle immagini.
Un elemento da evidenziare nel
rilievo dell’illustrazione è quello pedagogico
della chiesa, che puntava
molto, sin da Gregorio Magno, all’illustrazione
delle verità della Chiesa
con storie del Vecchio e del Nuovo
Testamento. Il progetto PRIN
2005 prevede il convegno attuale,
l’istituzione di una mostra presso la
Casanatense, di un’altra che si effettuerà
a Bologna fino alla pubblicazione
di monografie. Le edizioni del
’700, stampate a Roma, Bologna, Napoli,
Milano e Messina ammontano
a poco più trentamila. Una storia avventurosa
è quella che tocca all’Encyclopédie,
messa all’Indice nel 1759
fino al 1966. La scelta del Panckoucke
di corredare il testo di una Table,
per una maggiore chiarezza del testo
enciclopedico, fu legata a una
catena di rimandi interni, che legittimavano
l’importanza di un testo
fondamentale per la cultura illuminiRECENSIONI
387
stica europea. Diverso è il caso delle
Biblioteche private, come quella
del canonico Ignazio de Giovanni,
che ha lasciato un inventario per la
Biblioteca del Seminario di Casale
Monferrato, che può essere fruttuosamente
integrata con i carteggi con
i più illustri illuministi del tempo. Una
segnalazione a parte va fatta per la
biblioteca del cardinale Silvio Galanti
Gonzaga, che divenne arcivescovo
di Nicea nello stesso anno del
vescovato del Galiani. Destinato alla
legazione di Bologna, decadde da
tale incarico alla morte di Clemente
XII, sostituito da Benedetto XIV. Nel
1652 completò la decorazione della
propria villa, per la quale servirono
da modelli pitture e mosaici. Il nipote
di Silvio, Luigi, ebbe anch’egli
una vita ecclesiastica assai movimentata
fino al ritorno a Roma nel 1800
col neoeletto Pio VII. Il 29 dicembre
1757 Luigi Gonzaga ricevette in usufrutto
e custodia la Biblioteca che lo
zio aveva raccolto nella sua villa
presso Porta Pia, che provvide ad
ordinare e ad accrescere. Altro caso
non meno interessante è quello della
tipografia veronese, che fu uno
snodo culturale di grande importanza.
Il 26 febbraio 1674 il Nobile Consiglio
di Verona decretò la Costituzione
dell’arte dei librai, cartai e stampatori,
alla quale via via si iscrissero
molti partecipanti. La presenza di
Scipione Maffei, ma soprattutto l’auspicio
al ritorno a una chiesa delle
origini indussero Pietro e Girolamo
Ballerini, sacerdoti e allievi dei Gesuiti,
a occuparsi del più grande
scrittore locale, il vescovo San Zeno.
L’incremento dei pittori, dal Balestra
a Matteo Brida a Pietro Rotari, fu
destinato a testi della patristica, dell’archeologia.
Tra le varie edizioni si
ricordino il poema Del baco da seta,
La coltivazione del riso di Giambattista
Spolverini, il Mororum libri III Carminum
libri. L’interesse maggiore fu
per opere di scienza e matematica.
Sul declino del secolo, dopo la morte
della Repubblica di Venezia, Verona
divenne preda dei Francesi e
Austriaci, e i torchi più utilizzati
furono quelli del conte Giuliari. La
grande solerzia della città di Napoli
nel campo dell’editoria andò dalle
discussioni di testi ecclesiastici e giuridici,
alla riproduzione di opere di
Luigi Vanvitelli, della reggia di
Caserta, cui si aggiunsero le guide
di città di Pompeo Sarnelli, tra le
quali la non poco nota Delle notizie
del bello del Celano. Ovviamente l’interesse
andò alle tante opere
dell’illuminismo napoletano. Nell’ambito
della Nazionale occorre segnalare
la collezione Farnense e la
Biblioteca di Maria Carolina. Del
1791 è il catalogo dei libri della biblioteca
appartenenti al Miarabeau.
Tra le opere una Gerusalemme liberata
napoletana, stampata a Venezia
da Giambattista Albrizzi, mentre la
biblioteca della regina si costituisce
intorno all’ultimo quarto del ’700.
L’avanzamento del Sud nel corso del
’700 è attestato dall’incremento
demografico e della produzione agricola
della Sicilia, che vede la nascita
di un regno indipendente. Il graduale
distacco da una cultura ecclesiastica
vide l’incremento dei fondi librai
dell’Universitaria di Messina,
della Comunale di Palermo, della
Lucchesiana di Agrigento, mentre si
registra una sostanziale arretratezza
della tipografia messinese, superata
dall’ascesa al trono di Filippo V, con
388 RECENSIONI
l’indefessa attività della stamperia di
Vincenzo D’Amico e dell’Arena, seguito
dalla terribile pestilenza che
colpisce altre grandi città italiane,
come Venezia, Roma e Napoli, e
diretto a ponente soprattutto ad
Avignone, Madrid, Cadice e Lisbona.
Nonostante la soppressione della
compagnia di Gesù nel 1773, pullulano
le edizioni legate alla vita ecclesiastica,
alla storia dei santuari e
ai luoghi di culto. Di particolare fortuna
la letteratura drammatica, con
commedie e tragedie, dando largo
spazio alle classi di Giurisprudenza
e di Belle lettere. Alla fase calante
del primo Seicento corrispose quella
crescente del secondo ’600, con
gli interventi di uno dei maggiori
librai del secolo, Jean Gravine, affiancata
a quella dei Franchelli e
degli Scionico. Un valore storico riveste
l’arte fiorentina dell’illustrazione
e dell’ornamentazione, costituita
da tavole inserite all’interno del volume
e in fine del volume. L’esigenza
della presenza delle incisioni,
specie in quelle dedicate all’illustrazione
di monumenti e di opere d’arte,
doveva essere molto sentita. Il corredo
iconografico ha spesso la funzione
di un veicolo pedagogico assegnato
dalla cultura illuministica,
come nella pubblicazione degli antichi
reperti delle città di Ercolano e
Pompei, frutto della creazione di un
centro importante, la scuola di Portici.
Nei primi mesi del 1752 si procede
alla stampa del progetto della
reggia ad opera di Luigi Vanvitelli.
La partenza di Carlo per la Spagna
e la scarsa attenzione del Tanucci avviano
il declino. La nuova pubblicazione
del Catalogo degli antichi monumenti
dissotterrati dalla scoperta
della città di Ercolano reca la firma
dello spagnolo Francesco La Vega e
dell’incisore Rocco Pozzi. Il successo
raggiunge Parigi, dove il Galiani
fa ristampare i primi due tomi delle
Antichità di Ercolano. Ma nei giorni
bui della Rivoluzione partenopea
tramonta l’intensa stagione della
Stamperia Reale. Un capitolo importante
della storia del libro è il problema
delle dediche, che nello Stato
di Milano furono rivolte soprattutto
a Maria Teresa e a Giuseppe II. Se i
campi in cui fiorirono l’editoria e
l’incisione furono quello giuridico,
economico, filosofico, letterario, un
discorso a parte va fatto per l’editoria
anatomica. Nel 1704 esce il De
aure humano di Antonio Maria Valsala
e l’Adversaria anatomica prima del
Morgagni. L’editoria medica meglio
specializzata era quella romana. Rilevante
l’opera del Lancisi, che introdusse
il teatro e il trattato anatomico,
e fece uscire la Dissertatio de
recta medicorum. Nel 1748 escono le
Anatomicae tabulae octo, col decisivo
intervento del Petrioli, come imitatore
di un modello classico. Ma la
seconda metà del secolo è dominata
dalla figura del Morgagni. Un altro
interessante argomento è quello delle
copertine dei libri, fenomeno che
si diffonde a partire dalla seconda
metà del ’700. Quelle su carta colorata
sono un fenomeno assai diffuso
nel ’700, che tende a sostituire i frontespizi.
La storia del libro deve tenere
conto dell’importanza della città
di Roma, dopo Venezia. La confezione
del libro competeva ai librai,
la cui attività era a Roma divisa tra
le diverse famiglie. Morto il Mainardi,
l’attività passò nelle mani del figlio
Domenico, entro una sempre
RECENSIONI 389
maggiore inclinazione verso il neoclassicismo.
Le vicende italiane si
mescolano a quelle straniere, e in
modo particolare a quelle dell’ordine
di Malta, la cui prima fase va
collocata a Gerusalemme, mentre si
ebbe una trasformazione da religioso
a cavalleresco, e una immersione
nel vivo delle crociate. Retto da un
Gran Maestro, l’Ordine stabilì il proprio
dominio a Rodi come a Malta.
Nel periodo napoleonico nacque un
conflitto di interessi tra l’Ordine e il
Re di Napoli, fino al Congresso di
Vienna, quando si decise di stabilire
la sede a Roma. Le edizioni dei libri
dell’Ordine riportano due modi di
apparire dei cavalieri: in abito da
chiesa e in abito militare. Interessante
per l’Ordine è la Cronologia dei
gran maestri dello spedale, ma in generale
le edizioni che riguardano
l’Ordine sono di carattere storico,
affiancate alla produzione di testi
ufficiali e religiosi. La storia del libro
comprende anche la situazione
bolognese, in cui forte era la tradizione
incisoria seicentesca, dei Caracci,
e la concorrenza romana e veneziana.
La principale azione tipografica
fu espletata dai Dalla Volpe.
Un confronto molto utile è quello
tra il materiale librario della British
Library e la produzione tipografica
nel ’700. Diverse sono le settecentine
conservate presso la British library,
adornate da una serie di ornamenti
e fregi decorosi. Diversi i docenti che
coltivarono relazioni con gli inglesi,
dallo scienziato Scarpa ad Alessandro
Volta. Dall’anno della sua fondazione,
nel 1753, sino agli anni
Trenta dell’800, la British library era
un insieme di collezioni donate. La
rinascita culturale toscana muove
dalla fortuna del «Gazzettino americano
», affiancata da quella Dei delitti
e delle pene del Beccaria e la terza
edizione dell’Encyclopédie. Da
evidenziare è l’attività del Coltellini,
che si muove in un ambito di ortodossia
cattolica, grazie all’indebolimento
del Tribunale dell’Inquisizione.
Una grande e moderna risorsa
per le biblioteche moderne sono le
biblioteche digitali. Tra i capolavori
il pionieristico progetto «Biblioteca
Italiana», avviato dal Quondam, il
«Progetto Manuzio», quello dell’
«Eigthteenth Century Collections
Online», che è un vero e proprio motore
di ricerca. Ritornando all’importanza
della sede di Bologna, va segnalata
l’attività intensa dell’Archiginnasio
della Biblioteca Universitaria,
che si segnala per l’alta qualità
dell’attività incisoria. Il tesoro della
Casanatense è rappresentato da erbari
acquerellati, edizioni di trattati
di biologia e di botanica, di medicina
e farmacologia. In ambito siciliano
la Biblioteca messinese è dotata
di una rendita per l’acquisto dei libri
e del funzionamento di un catalogo.
Fondamentale è la ricostruzione
della raccolta del Longo, che si
affianca a quella dei fondi della Braidense
a Milano, sostituita, per volontà
di Maria Teresa, quando espropriò,
dopo la soppressione della Compagnia
di Gesù, nel 1773, il palazzo
di Brera. Fiore all’occhiello di tale
Biblioteca è la pubblicazione dell’opera
di Ludovico Antonio Muratori,
mentre gli anni di rinascita dell’attività
risalgono al 1743, a quando
cioè fu istituita la nuova Accademia
dei Trasformati, ma l’apice fu il
periodo dell’Illuminismo, con la pubblicazione
del «Caffè» e Dei delitti e
390 RECENSIONI
delle pene del Beccaria. Alla famiglia
Agnelli si deve la stampa del Mattino
e di Alcune poesie di Ripano Eupilino.
La varietà degli interventi del
poderoso volume è un documento
assai interessante e variegato di una
politica culturale, che, lungo il corso
dei secoli, vantò episodi significativi
per la storia d’Italia, come nel
’600 e nel ’700, e incise sulla qualità
e sulla fortuna dei singoli centri nelle
proposte librarie.
L’attraversamento della storia della
penisola, dal Nord al Sud, getta
luce sulla qualità di un esercizio, che
evidenzia un’Italia legata alla fortuna
e alla sorte dei vari regnanti, che
sempre più riconobbe nell’attività
delle Biblioteche un segnale di distinzione
in sede culturale e storica.
Valeria Giannantonio
Vittorio Imbriani, Merope IV. Sogni
e fantasie di Quattr’Asterischi, a
cura di Rinaldo Rinaldi, Roma,
Carocci editore, 2009, pp. 450.
Il primo romanzo di Vittorio Imbriani,
Merope IV, pubblicato dapprima
parzialmente nelle appendici
dei quotidiani «La Patria» e «Il Secolo
» nel 1866, e poi a Pomigliano
d’Arco nel 1867, si avvale ora di una
nuova edizione critica, bella, puntuale,
ricca, a cura di Rinaldo Rinaldi,
il quale correda il volume di
un ampio e minuzioso apparato di
note filologiche, storiche, erudite, e
di un commento che analizza i fitti
rimandi operati dall’autore, i raccordi
intertestuali e di genere, i neologismi,
la tecnica narrativa, le citazioni
da scrittori molto o poco conosciuti
(o addirittura inesistenti?),
i risvolti psicologici e letterari.
Imbriani, autore dirompente, anticonformista
e virtuosistico, racconta
la storia, autobiografica, dell’amore
adultero tra il giovane sottotenente
Quattr’Asterischi, pseudonimo
utilizzato per la propria produzione
giornalistica, e Merope, ossia Eleonora
Bertini, moglie del nobile Luigi
Rosnati, di Gallarate, conosciuta
nel 1866 mentre il giovane scrittore
vestiva la camicia rossa dei volontari
garibaldini per la campagna militare
di quello stesso anno. Il titolo
del romanzo rimanda ad un personaggio
della mitologia e della tragedia
greca molto popolare nel corso
del Settecento e dell’Ottocento letterari,
la cui vicenda fu teatralizzata
da Scipione Maffei nel 1713 e, successivamente,
da Voltaire nel 1743 e
da Alfieri nel 1782: «Noi, Merope
Quarta, dopo quelle che vagheggiarono
Maffei, Voltero ed Alfieri, al
nostro caro e fedele Quattr’asterischi
salute» (p. 65).
La materia del romanzo, con il
lungo corteggiamento della donna,
la realizzazione dell’amore e l’allontanamento
degli amanti, è distribuita
nell’arco di XXVI capitoli, che
solo in pochi casi definiscono e concludono
la vicenda narrata, percorsi
come sono da digressioni, intermezzi,
racconti, sogni che dilatano la
struttura del testo, sconvolgendola
e frammentandola in una quantità
di episodi paralleli al fulcro della
narrazione. I sogni, in particolare, o
«fantasie», come indica il sottotitolo
del libro, occupano sette capitoli e,
attraverso una serie di metamorfosi
fantastiche, mostrano al lettore le
drammatizzazioni oniriche dello
RECENSIONI 391
stesso Imbriani; ogni sogno è vissuto
dal protagonista come una favola
crudele o un incubo al cui centro
non solo compare egli stesso, mentre
assiste, spesso impotente, alla vicenda,
ma soprattutto l’amata che
impersona ogni volta una Merope diversa:
Merope che, velata, naviga su
una piccola imbarcazione con un
uomo mascherato che ne fa scempio
cavandole il cuore; Merope ridiventata
fanciulla nelle vesti di «cugina
e amante»; Merope lussuriosa
dama alla corte di Napoleone III;
Merope che visita la tomba di Quattr’Asterischi;
Merope processata in
un’aula di tribunale per l’avvelenamento
del marito dall’amante giudice.
La moltiplicazione delle storie
è continua e l’autore ogni volta spinge
il lettore a proiettarsi in raccontiapparizioni
che subito vengono sfumati
e dispersi.
Se il romanzo prende avvio dalla
descrizione di «cinque ritrattini, di
donna» che permettono di ripercorrere
le tappe salienti di un amore, e
termina con la sconfessione della
veridicità della storia stessa, Rinaldi
precisa che «[…] è l’artificio della
scrittura […], non la realtà biografica,
a creare il romanzo, capovolgendo
ad ogni pagina la vita in trucco
[…]. La storia d’amore, allora, non è
un caso individuale ovvero il resoconto
diaristico della passione, ma
piuttosto uno schema generale, sorta
di esemplare parabola che permette
all’autore di accumulare i suoi
amari commenti (sul gusto moralistico
delle physiologies ottocentesche)
sulla donna, sull’amore e soprattutto
sull’adulterio» (pp. 13-14). E proprio
il tema dell’adulterio diventa
oggetto di elogio, stravolgimento e
sarcasmo, presentato come necessaria
parentesi all’interno del matrimonio,
affinché questo funzioni secondo
le regole imposte dall’apoca («Ebbene,
sì, l’affetto che ci legava era
illegittimo, adultero. E che poi? non
ci burliamo, amici, l’adulterio è una
istituzione sociale né più né meno
antica o rispettabile del matrimonio,
e del pari necessaria: essi s’implicano
a vicenda; e se uccidi l’uno, nuoci
all’altro», p. 343), ma anche, associato
all’amore, come fonte di disillusione
nel momento in cui il «fantasma
» della persona amata, libero
ormai dalla «immaginazione» che
aveva costruito un «ideale» perfetto,
si mostra per quel che è, producendo
«noja» e «disaffezione» («[…]
non si perdona mai ad una cosa, ad
una persona di essere com’ell’è, mai.
Fin dalle prime volte e spesso dalla
sola primissima volta ci facciamo
un’idea del Tale, della Tale, e pretenderemmo
che l’individuo rispondesse
a capello al concetto nostro.
Non accade, né può accadere […].
Quando comincia un affetto noi vagheggiamo
di scoprire nel suo scopo
una piena rispondenza col nostro
ideale; e l’inganno dura un pezzo,
in parte anche volontariamente, ché
ci stilliamo il cervello per convincerci
come le azioni e le parole del vagheggiato
concordino sempre con
l’idolo nostro anche quando in effetti
maggiormente ne discrepano. Poi,
tardamente, more solito, il vero si apre
strada nel nostro intelletto […] ed
alla cognizione fantastica dell’individuo
amato surroghiamo la cognizione
ragionata, effettiva. Ed allora cominciano
nuovi guai», pp. 393-394).
Merope IV si annuncia come un
romanzo di formazione sentimenta392
RECENSIONI
le ma, attaverso l’impiego di digressioni,
orazioni funebri, componimenti
poetici, racconti attribuiti a personaggi
minori, inserimenti di capitoli
inesistenti o solo in parte costruiti,
critica e ridicolizza la produzione romanzesca
tout-court e guarda, come
ricorda Rinaldi nell’introduzione al
testo, «lo smontaggio parodico del
romanzo realizzato da Sterne […]
non dimenticando le splendide anatomie
ironiche di Stendhal e Balzac»
(p. 16) e ponendo attenzione a Michelet,
George Sand, Crébillon fils,
Laclos, Sade, Dumas. Dunque, all’esame
della sua prima prova narrativa,
il nostro colto autore dimostra
di essere sensibile non solo alla
scrittura di Machiavelli, Nievo e
Manzoni, ma anche agli influssi della
cultura europea, in linea con i suoi
soggiorni di studio in Francia, Svizzera,
Germania.
La lingua di Imbriani, eccezionale
esperimento moltiplicativo di toni,
generi, registri, idiomi, che insieme
distrugge e crea, sostiene la narrazione
«nevroticamente», con una
«volontà di onnipotenza o dominio
totale sul mondo, che si manifesta
nella sapienza verbale» (p. 18). L’eloquenza
e la costruzione virtuosistica
del racconto sottendono la malinconia,
l’amarezza dell’amore come
mancanza, e il tenace, inconfessabile
desiderio di rimanere legati al sogno
come unica dimensione del vivere;
in tale ottica anche il ribaltamento
finale («[…] di quanto ho narrato sin
qui, sull’onor mio, non è accaduto
nulla, nulla, a me Quattr’Asterischi;
v’ho ammannito un sacco di bugie»,
p. 421) è un modo, da parte dell’autore,
di farsi schermo, con l’artificio
e la malinconia, di una realtà che
dissolve nella solitudine e nel senso
di abbandono ciò che «poteva essere
e non è stato» (p. 424).
Il volume, oltre all’introduzione di
Rinaldo Rinaldi, è arricchito da due
Appendici che riproducono le versioni
originali dei capitoli XII e XVI
del testo.
Noemi Corcione
Carmelo Spalanca, Un’isola non abbastanza
isola. Problemi e figure della
cultura letteraria in Sicilia dal Settecento
al Novecento, Caltanissetta-Roma,
Salvatore Sciascia Editore, 2008,
pp. 152.
«Meno che nazione, la Sicilia è più
che regione; non un frammento d’Italia,
ma sua integrazione ed aumento
». Con queste parole di Giuseppe
Antonio Borgese, poste emblematicamente
in esergo, si apre il recente
libro di Carmelo Spalanca, Un’isola
non abbastanza isola. Il titolo si
ricollega appunto all’idea borgesiana
di una Sicilia aperta agli influssi
della grande cultura europea, soprattutto
fra Sette e Novecento.
Intrecciando «storia» e «geografia
», secondo la lezione di Asor
Rosa, l’Autore si sofferma acutamente
sul rapporto dialettico fra letteratura
nazionale e letteratura regionale,
in una prospettiva dagli orizzonti
sempre più vasti. Nel primo dei
cinque capitoli che formano il volume,
ad essere preso in esame è infatti
il dibattito su «lingua» e «dialetto
» nella cultura siciliana del ’700,
attraverso la delineazione di un itinerario
storico-letterario scandito dal
graduale passaggio dal “siciliano-linRECENSIONI
393
gua” – in alternativa al toscano – al
“siciliano-dialetto”, sulla scia delle
tendenze autonomistiche del Regno
di Napoli. Il lessicografo palermitano
Antonio Drago, il poeta e scienziato
modicano Tommaso Campailla,
il letterato e patrizio palermitano
Vincenzo Di Blasi e la sua Accademia
dei Pescatori Oretei sono solo
alcuni degli intellettuali isolani, noti
e meno noti, di cui il critico analizza
i principali contributi. Senza dimenticare
Giovanni Meli, Michele
Pasqualino o Giovanni Agostino De
Cosmi, «invitato dal re di Napoli
Ferdinando iv a fondare e dirigere
in Sicilia le Scuole Normali» (p. 52).
Dal secondo capitolo in poi, l’Autore
si concentra invece su singole
figure di rilievo, come lo scrittore
modicano Saverio Scrofani che nel
1799 pubblica il Viaggio in Grecia, a
metà fra «resoconto-riflessione» e
«ricordo», «ragione» e «sentimento»,
«mente» e «cuore», mosso da un’acuta
sensiblerie. Nell’ambito della letteratura
odeporica, esso si colloca
quindi sul crinale fra Illuminismo e
Romanticismo, quale specchio fedele
della cosiddetta «metamorfosi dei
Lumi», ossia il passaggio dalla sensiblerie
illuministica alla nuova sensibilità
romantica. Accanto a richiami
intertestuali, che testimoniano
della sua sterminata cultura (dai
classici greci e latini si spazia fino a
Metastasio, Alfieri, Sterne), risultano
degni di nota, per la resa stilistica
nonché la fusione spaziotemporale
tra mito e storia, finzione letteraria
e realtà quotidiana, episodi come
l’arrivo alle sponde del fiume Alfeo
e la visita, attraverso la foresta di
Dodona, all’Averno e al «famoso
lago Acherusia co’ due tremendi fiumi
che ne sboccano, l’Acheronte e il
Cocito», durante i quali l’autore affronta
una personalissima recherche.
Altro rappresentante insigne della
cultura isolana è il drammaturgo
Giuseppe Giusti Sinopoli, originario
di Agira. Il suo dramma più famoso,
La zolfara (1894-1895), è un importante
documento umano sulla
condizione del sottoproletariato rurale
del Sud d’Italia alla fine dell’800,
impaludato nel modello latifondistico
e vessato sia dalla classe aristocratica
che dalla borghesia imprenditrice.
Attraverso l’analisi della sua
opera, Carmelo Spalanca mette a
fuoco il passaggio dall’individuo alla
società, dal dramma intimo a quello
sociale, accostando La zolfara ad opere
come La lupa, Cavalleria rusticana
e Dal tuo al mio di Verga.
Non poteva giustamente mancare
un capitolo dedicato a Borgese, e precisamente
al romanzo Rubè (1921),
frutto di quel particolare momento
di trapasso dall’800 al ’900 che evidenzia
nell’arte «uno dei nodi cruciali
della letteratura italiana ed europea
» (p. 97): il problema dell’identità.
Assieme a scrittori come Dostoevskij,
Musil, Svevo e Pirandello,
Borgese avverte «la crisi dei valori
ottocenteschi e l’impossibilità di offrire
un’immagine organica del mondo
» (ibidem). Perennemente in bilico
tra pensiero e azione, dimensione
intellettuale e realtà quotidiana, il
«personaggio uomo» (Debenedetti)
va in cerca della propria identità perduta;
ma se ad esempio per Mattia
Pascal «la rinunzia […] costituisce
una scelta euforica», per Rubè assume
invece «una connotazione del
tutto disforica, nichilistica», conseguenza
di un «“naufragio” esisten394
RECENSIONI
ziale» che esprime il «bisogno di “annientamento”
dell’intellettuale piccolo-
borghese del primo Novecento
come unica via d’uscita da una condizione
storica intollerabile» (p. 107).
A chiusura del volume è uno studio
sullo scrittore Beniamino Joppolo,
di cui si indaga lo sperimentalismo
linguistico negli scritti fra le
due guerre, in particolare la raccolta
di racconti C’è sempre un piffero
ossesso (1937) ed il romanzo La giostra
di Michele Civa (1945). Accostandosi
al surrealismo francese di André
Breton (noto in Italia attraverso
il periodico «Novecento» di Massimo
Bontempelli, fautore del cosiddetto
“realismo magico”), all’espressionismo
di Rainer Maria Rilke (conosciuto
grazie alla rivista «Corrente
», di cui Joppolo è assiduo collaboratore),
all’esistenzialismo di Albert
Camus e agli “astratti furori”
del conterraneo Elio Vittorini, Joppolo
si rivela uno scrittore d’avanguardia
d’indubbio valore, dalla
scrittura raffinata e originale, basata
su arditezza di concezione e innovazione
linguistica. “Visione” e “musica”
sono per l’artista un’unica «divina
passione». Prediligendo lo
“scarto” alla “norma”, l’inconscio al
conscio, egli fonde sogno e realtà,
anzi esplora «i riflessi di essa nell’animo
dell’individuo» (p. 119) e dà
così nuova configurazione al rapporto
fra tempo e spazio: «l’avvenimento
è allontanato, diviene […] inattuale,
acquista carattere acronico,
mentre l’irreale – immagini e ricordi
– assume lo statuto dell’avvenimento
» (p. 115). Di fronte all’immagine
deformata del reale, una sorta
di «spazialismo pittorico», lo scrittore
non assume un atteggiamento
contemplativo ma problematico: «la
sua indagine non riguarda le strutture
superficiali, bensì le strutture
profonde del mondo» (p. 126). E da
ciò deriva un’arte «suggestiva e inquietante
» (p. 130). Degno di nota
infine, nel romanzo sopra citato, è il
rifiuto della teoria del superuomo,
«fondata sull’“esasperazione” dell’individuo
»: Joppolo, infatti, «invita
l’uomo ad accostarsi con amore
al mondo, ad avere di esso una conoscenza
non astratta ma concreta,
a conoscerlo […] come “linfa organica”
» (pp. 139-141). Cosa che in
seguito ribadirà nell’importante saggio
su L’Abumanesimo (1951).
Davide Torrecchia
Dora Marchese, La poetica del paesaggio
nelle Novelle rusticane di Giovanni
Verga, Acireale – Roma, Bonanno,
2009, pp. 300.
Frutto di minuziose, approfondite
analisi condotte con impegno appassionato
e con il sussidio di moderni
e diversificati strumenti teorico-metodologici,
il corposo volume recentemente
pubblicato da Dora Marchese
per i tipi di Bonanno fa luce sul
ruolo assunto dalla «poetica del paesaggio
» nelle Novelle rusticane. E opera
una puntuale ricognizione dei più
significativi giudizi espressi sui paesaggi
verghiani dalla critica italiana
e straniera. Riccamente articolata, di
ampio respiro, l’indagine si sgrana
sul filo dell’esame testuale diretto per
evidenziare i punti di raccordo fra il
discorso narrativo e l’immaginario
figurativo dello scrittore verista.
«Cerniera ideale» fra I Malavoglia
RECENSIONI 395
e Mastro-don Gesualdo, la raccolta del
1883 conferma il tenace, indissolubile
legame di Verga con i suoi luoghi
natali. Vizzini, dove lo scrittore
vide la luce nel 1840, e il suo hinterland
– area privilegiata nell’organizzazione
topografica di questi scritti
– vivono nell’immaginario e nella
prosa del narratore verista con la
forza della loro «oggettiva realtà
effettuale», come è opportunamente
osservato da Sarah Zappulla Muscarà
nella sua densa introduzione al
libro della giovane studiosa catanese.
Ora smaglianti di vivide screziature
cromatiche ora connotate da
tinte smorzate e nuances livide, le
notazioni paesistiche contenute nelle
Rusticane ottemperano in ogni caso
al canone dell’impersonalità, filtrano
i motivi di forza del verismo.
Investite di funzioni esplicative e non
di valenze convenzionalmente “decorative”,
materializzano atteggiamenti
psicologici dei personaggi, forniscono
le coordinate cronotopiche
entro cui si situano le vicende narrate,
oppure, ancora, rinviano a specifici
contesti socio-ambientali colti
nella loro peculiarità. Restando fuori
scena ed evitando rigorosamente
gli arbìtri dell’immaginazione, l’autore
restituisce il volto di una Sicilia
«amara, tragica, attraversata dalla
fatica e dalla malattia», oppressa
dalla legge della necessità economica.
La qualità “documentaria” delle
descrizioni fornite da Verga è garantita
dalla loro immediata verisimiglianza
e dal loro agganciarsi al
contesto storico, economico, sociale
al quale le situazioni tematiche vanno
rapportate. Alla luce di tale premessa,
non stupisce che le raffigurazioni
del paesaggio piuttosto che
rispondere ad esigenze di decor scenografico
attestino il proposito di ritrarre
con realistica incisività la lotta
per la vita nelle sue espressioni
più aspre. Sicché nelle Rusticane lo
spessore di autenticità è racchiuso
nell’esperienza di vita su cui la scrittura
si modella e «il paesaggio muta
a seconda dell’ottica con cui viene
osservato, un’ottica solitamente economica
ed interna al mondo narrato
», adeguata alle inflessibili norme
economiche che condizionano il comportamento
dei personaggi.
Ricche di originali osservazioni
sulle modalità della trasposizione di
alcuni spaccati tematico-situazionali
nella sfera della visualità sono le
pagine in cui Dora Marchese analizza
le immagini dei rigogliosi seminati
del Reverendo, nella novella
omonima, e delle feconde, opulente
terre di Mazzarò, protagonista della
Roba. Il “paesaggio-roba” in cui si
muovono il Reverendo e Mazzarò è
«restituito dallo sguardo orgoglioso
dei suoi proprietari che, soddisfatti,
ne contemplano la capacità produttiva,
godendo del possesso». A tali
materiali descrittivi si contrappongono,
emblematizzando una condizione
di miseria e sfacelo esistenziale,
le inquadrature che mostrano gli
aridi campi di Santo e Nena in Pane
nero e di zio Memmu e la moglie
nel Mistero.
Nell’ampio paragrafo occupato
dall’esame dei tratti costitutivi del
paesaggio rappresentato nella Roba,
la studiosa siciliana apre la sua ricognizione
a una stimolante prospettiva
dinamicamente intertestuale e
mette a fuoco le relazioni analogiche
(di ordine concettuale, stilistico,
iconografico) tra la novella “rusti396
RECENSIONI
cana” e il Mastro-don Gesualdo: due
costruzioni narrative di diversa ampiezza,
realizzate in tempi differenti
ma ruotanti entrambe sul «motivo
dell’inesauribile ed irrefrenabile sete
per la roba comune ai due self-made
men» le cui vicende vanno interpretate
alla luce dello «scontro tra nobiltà
feudale e classe lavoratrice (sia
nel caso di Mazzarò che di Mastrodon
Gesualdo si tratta di ‘sfruttatori’
che, in precedenza, erano stati essi
stessi ‘sfruttati’)». Tuttavia, negli
scenari naturali evocati rispettivamente
nella novella e nel romanzo,
Dora Marchese coglie, al di là delle
evidenti affinità, anche interessanti
dettagli che svelano differenze caratteriali
fra Mazzarò, marchiato dallo
stigma dell’esclusione dal circuito
degli affetti, e Gesualdo Motta,
divorato anch’egli da un’irrefrenabile
avidità di “roba” ma aperto ad
espansioni sentimentali. Precisi, ben
documentati collegamenti vengono
istituiti tra la struttura psico-emotiva
di questi «uomini-roba» e la raffigurazione
dell’ambiente naturale in
cui essi agiscono. Differisce il tipo
di legame che li unisce alla terra di
loro proprietà. Se per Gesualdo si
tratta dell’espressione «di un affetto,
di un amore che sfiora la carnalità
(si pensi al piacere sensuale
dato dall’“affondarvi le mani” o dal
poggiare i piedi sul suolo stabilendo
un contatto con un’entità che si
sente viva ed affine), per Mazzarò,
al contrario, è possesso gretto e assoluto,
totale compenetrazione ed annullamento
di sé nell’oggetto della
sua ossessione e, allo stesso tempo,
manifesto delirio di onnipotenza».
Ripresi in campo lungo o accostati
in primo piano, colti di scorcio o
sbalzati a tutto tondo, gli elementi
del paesaggio siciliano consegnato
alle pagine delle Rusticane oltre a
dilatare il campo semantico introducendo
serie di sottotemi assolvono
compiti strutturali ben precisi, assurgendo
anche a codice simbolico di
riferimento che attraversa la semiosi
profonda del testo. È quanto avviene,
per esempio, nella sezione di
Pane nero incentrata sulla figura di
Carmenio. Si tratta di pagine in cui
la «componente naturale» metaforizza
lo stato d’animo del giovane
consapevole della morte imminente
di sua madre e angosciato dallo spettro
della solitudine totale. Dora Marchese
osserva acutamente che «in
questo particolare tipo di paesaggio
si sperimenta la drammatica dimensione
che scaturisce dal binomio
buio-notte/buio-esistenza umana, il
cui avvertimento è affidato alle sensazioni
negative fatte emergere dai
suoni e dai rumori che colpiscono
la psiche del ragazzo […]. La descrizione
dello sgomento e dell’ansia
che progressivamente attanagliano
Carmenio continua ad essere
affidata alla sua percezione dei suoni,
dal momento che si trova immerso
nella semioscurità, interrotta a
tratti dal chiarore dell’orizzonte. Prevale
un silenzio inquietante, infranto
solo dai rumori lontani che gli
giungono indistinti e che contribuiscono
ad ingigantire ed acuire tutte
le sensazioni negative del ragazzo».
Spazialità e “teatralità” si coniugano,
in Pane nero come in numerose
altre Rusticane, grazie all’abbinamento
dei dati figurativi con gli elementi
acustici, del momento visivo
con quello uditivo. Oltre a dar vita
al genere di paesaggio che R. MurRECENSIONI
397
ray Schafer (opportunamente chiamato
in causa dalla giovane studiosa)
ha definito sound-scape, Verga
rivela in questi casi una notevole
perizia nel fissare le tonalità cromatiche
e luministiche in coincidenza
con gli stati d’animo dei personaggi.
In Pane nero, per esempio, lo spazio
pittorico è giocato sul contrasto
«tra il rosso, il colore della vita, della
passione amorosa e del desiderio, ed
il nero, che simboleggia il tramonto
del sentimento e degli ideali, lo scontro
durissimo con una realtà in cui i
principi morali non possono trovare
spazio». Anche in Libertà gli scenari
di storia e natura si compenetrano
in un impasto coloristico caratterizzato
da screziature marcatamente antitetiche.
Nella novella ispirata all’episodio
della rivolta contadina
esplosa a Bronte nell’agosto 1860 e
duramente repressa da Bixio, è «eloquente
il ruolo rivestito dal sistema
dei colori» in cui spiccano le diadi
antinomiche rosso-bianco e bianconero.
Nel Mistero, invece, abbondano
i toni del giallo e del bianco, che
impregnano i fondali paesaggistici
di significati simbolici enucleati da
Dora Marchese con la consueta precisione.
La studiosa si sofferma soprattutto
sulla scena incipitaria (la
mutilazione dell’olivastro), dove il
giallo del seminato e il bianco della
terra «suggeriscono la totale assenza
di vita», e sulle sequenze d’epilogo,
nelle quali il dominio del nero
si intona agli sviluppi tragici della
vicenda narrata.
La rappresentazione del milieu
naturale può, talvolta, esprimere l’attenzione
«fortemente simbolica» rivolta
da Verga agli animali, come è
esemplarmente attestato dall’ottava
novella delle Rusticane, oggetto di
un’analisi particolarmente complessa
e impegnativa all’interno del volume
di cui ci occupiamo. Nella Storia
dell’asino di S. Giuseppe «il parallelismo
uomo-asino è volto a ribadire
l’innocenza dell’uno e la cinica
abiezione dell’altro» e gli «scorci di
paesaggio che danno voce all’interiorità
di un protagonista d’eccezione
com’è l’asino – delineato per di
più con tratti di un eroe epico –
costituiscono un unicum per le Novelle
rusticane in cui, generalmente,
la natura si mostra sempre sorda e
indifferente alle umane vicissitudini
». Basti rileggere, a tal riguardo,
l’ultima novella della raccolta, oggetto
del bel saggio che chiude il
libro di Dora Marchese. In Di là del
mare emerge con forza il tema della
solitudine umana in uno scenario
variegato che, però, non innesca
meccanismi di «netta opposizione tra
mondo rusticano […] e mondo cittadino
». I codici comportamentali
pertinenti ai due contesti, nota la
studiosa, «sono diversi e spesso
antitetici, ma la sconfitta, lo scacco
operato dalla natura è di ambedue i
mondi» giacché «sia in quell’universo
che nell’altro l’unica norma valida,
sempre vigente, è quella di una
natura leopardianamente ineffabile
ed inconoscibile».
Gisella Padovani
Giona Tuccini, Spiriti cercanti. Mistica
e santità in Boine e Papini,
Urbino, QuattroVenti, 2007, pp. 204.
Spiriti cercanti. Mistica e santità in
Boine e Papini è un bel lavoro di
398 RECENSIONI
Giona Tuccini, eruditissimo in molte
sue parti, che riferisce sulla letteratura
mistica di matrice spagnola. I
letterati italiani, Giovanni Boine e
Giovanni Papini, trovano in questo
libro, si dirà, una rinascita critica
che, come dalle parole dell’autore,
in Premessa, lo studio letterario ha
lungamente negato, perdendosi nelle
indagini storicistiche sulla fioritura
delle riviste letterarie di primo
Novecento, e trascurando le opere
di due giovani autori («Sospetto che
Papini sia stato immeritatamente dimenticato
» scriveva Borges) che seppero
dar voce alla lotta, talvolta feroce,
intima, tra individualismo e
valori sacri, cultura novecentesca e
tradizione mistica rinascimentale.
L’esperienza artistica di Boine e
Papini percorre il sentiero della laicità
convertita, per tutto il tempo della
sua durata, orientandosi verso la
ricerca, frenetica e fervida, del divino.
Se lo studio intellettuale e letterario
di Boine prendeva le mosse
dalla necessità scientifica di individuare
un metodo adeguato alla ricostruzione
biografica, e quindi letteraria,
della cultura mistica (intervenendo
nella querelle contro la scuola
storica), Papini, dal canto suo, era
incuriosito dall’esperienza sensibile
del divino. Il misticismo di Juan de
la Cruz, Miguel de Molinos e Teresa
d’Ávila sono per Boine il cosmos
spirituale da investigare; al suo interno
il letterato ligure scopre differenze
e opposizioni con la filosofia
e la mistica medievali e con l’estetica,
a tutto vantaggio dell’ascèsi.
Boine mette sotto esame la lingua
letteraria dei mistici spagnoli, l’inventio
delle loro opere, le finalità
espositive e artistiche. L’allegorismo
forzato ed oscuro, che la cultura novecentesca
lamentava nella produzione
dei mistici, è invece per Boine
spia di chiarificazione: il linguaggio
di San Juan e di Santa Teresa è cantus,
è inno alla divinità («Cantare
amantis est»), è sperimentazione di
Dio attraverso l’esposizione linguistica.
E del resto la parola era intesa
come limitazione del sentire e quindi
resa complicata, a manifestare
quanto l’esperienza mistica fosse un
percorso personalissimo e indicibile.
Il lavoro di Tuccini si sofferma
sulle opere di Juan de la Cruz rivisitate
da Boine; pagine che il critico
di Finalmarina ha ritenuto subito
complesse, «aristocratiche» nel loro
contenuto perché dedicate ad anime
che avevano un’avanzata familiarità
con l’esperienza contemplativa.
Quello che attrae Boine è la lineare
semplicità dell’assunto, implicito nelle
opere di San Juan, secondo il quale
la distanza tra l’uomo e Dio è
enorme e incolmabile, e causa di un
dolore spirituale non paragonabile
ad altro dolore umano. È in questo
sentimento che si manifesta il turbamento
mistico, e l’indagine su di
esso è tutta giocata sullo studio della
theologia cordis sangiovannea.
Ma la novità delle rivelazioni di
Giovanni della Croce e di Teresa
d’Ávila, nelle parole del libro, è
nell’individualità forte (unicità assoluta
del singolo) che va ben oltre il
cammino che porta al raggiungimento
di Dio (nella mistica dell’Età
di Mezzo) e all’imitazione di Cristo,
nei dolori e patimenti fisici (nella
mistica aureosecolare). Giona Tuccini
insiste – con puntuali argomentazioni
riprese nel volume successivo Voce
del silenzio, luce sul sentiero. Di alRECENSIONI
399
tre pagine mistiche tra Italia e Spagna
(QuattroVenti, 2008) – sul rapporto
strettissimo tra poesia ed esperienza
mistica e, nel fare questo, si serve di
un’accurata disamina delle produzioni
mistiche spagnole, cinquecentesche
e tardo cinquecentesche, e del
loro rapporto conflittuale con i dettami
controriformistici, là dove il Concilio
aveva condannato la corrente
individualistica. Giovanni della Croce
coglie nel linguaggio poetico il
solo strumento espressivo che possa
in qualche modo dar voce ai prodigi
dell’estasi, «il suo è un trobar clus
teoricamente infinito» specifica Tuccini.
Nondimeno, la polifonia della
lingua poetica non riesce a esprimere
concetti razionali, a riprova, nella
scrittura, dell’intenzione di raggiungere
una sorta di perfezione del silenzio,
unico approdo logico a ciò
che è inesprimibile («Questo silenzio
è un’impronta d’amore come
incisa profondamente nella carne»).
Lo studio sulla mistica spagnola
prosegue, nel volume, con l’analisi
del termine “mistico”, e scandaglia
la tradizione filosofica classica e patristica
rintracciando fonti e fornendo
valide interpretazioni sul cammino
seguito dalla lunga tradizione, anche
attraverso la riflessione sulla mistica
spagnola. È nella pratica ascetica
che la contemplazione trova il
suo ruolo da protagonista: l’isolamento,
il distacco dal mondo (socialmente
inteso), l’autoimposizione
del deserto dell’anima come autocompiacimento,
il patimento, tutto
avviene per intervento divino ed è
strumento stesso di avvicinamento
a Dio, di familiarità con il Crocifisso,
come aveva capito Boine. Sull’argomento
Boine interviene, soggiogato
dall’intensa espressività letteraria
di Juan de la Cruz, esplicativa
nelle parole che meglio definiscono
l’idea di isolamento per raggiungere
la divinità, descritta come «luce
tenebrosa e tenebra luminosa», nell’esempio
di colui che, fissando a
lungo il sole, per effetto ottico avrà
l’impressione di guardare una macchia
nera. Boine era attratto dal percorso
di solitudine forzata che portava
il mistico alla contemplazione
di Dio. La sua indagine è quella dell’intellettuale
che guarda alla severità
morale del mistico con «dissipazione
spirituale», ben comprendendo
che un’esperienza di mortificazione
come è quella di San Giovanni
prepara l’anima «ad essere
luogo di Dio, cella vinaria», come
esplicita Tuccini.
La morte, rinnegare se stessi (dall’insegnamento
evangelico), è la tappa
necessaria dell’avvicinamento al
divino; lo studioso ligure riflette sul
concetto sangiovanneo di nada come
volontà dell’anima di auto-infliggersi
la notte per mezzo dell’isolamento,
dell’abbandono, della rinuncia alla
natura umana, della crocifissione.
Così pure Santa Teresa, che tuttavia
interveniva anche sull’esperienza
d’amore, garanzia dell’apertura a
Dio (Eros e Dio appartengono alla
medesima esperienza), all’Amato:
«Voglio morire crocifissa per amore
del Signore». Resta comunque la condanna
di certo spiritualismo sentimentale
(che ha poco o nulla a che
fare con il misticismo), che percepiva
Dio come una personalissima e
profana «ghiottoneria dello spirito».
L’esperienza mistica, in ultima analisi,
è per Boine un momento religioso
di piena anarchia dell’intelletto e
400 RECENSIONI
dello spirito (nella Ferita non chiusa).
A questa considerazione Boine arriverà,
come spiega Tuccini, soprattutto
attraverso l’opera di Anselmo
d’Aosta (Monologio) e di Ramon
Llull, ma anche attraverso il rapporto,
umano ed artistico, con Unamuno
e con Amendola, influenze
suggestive che infine indurranno il
letterato ad uno scontro con Benedetto
Croce e con il suo assunto separatistico
tra arte, vita e filosofia.
Il lavoro di Giona Tuccini prosegue
su Giovanni Papini e sul suo
poderoso Storia di Cristo, opera alla
quale lo scrittore toscano approderà
attraverso lo studio metodico dei
Vangeli. Il testo di Papini è suggestionato
non solo dagli insegnamenti
dei Padri della Chiesa, ma anche
dal pensiero filosofico più vivace dei
primi anni del Novecento (Kierkegaard
e Nietzsche). La scrittura si
sviluppa tutta nel gusto per il dettaglio
descrittivo, che è anche dettaglio
storico, e nel gioco puramente
poetico (là dove, per esempio, sono
richiamati Dante e Petrarca, in una
selva di termini subito individuati
da Tuccini). La contaminazione tra
storia evangelica e letteratura è segno
distintivo della Storia, dove, nel
preambolo, il lettore è indirizzato
verso quelle che sono le intenzioni
prime del lavoro: mettere in relazione
l’evento religioso con la poesia
al fine di dimostrare quanto il percorso
intellettuale, operato all’interno
del linguaggio, si avvicini all’esperienza
ascetica del divino. La
Storia nasce con l’intenzione di riportare
i credenti più saldamente
alla fede e i laici alla religione, rivestendo
il ruolo di guida che riporta
le anime a Dio. Il linguaggio letterario
è per Papini strumento artistico
e di esemplificazione, contro catechizzazioni
e dogmi incomprensibili
per l’uomo moderno, e in pieno
disaccordo con il «pietismo di sacrestia
». Sebbene il discorso che termina
l’opera sia un bisticcio linguistico,
questo non è altro che manifesto
dello sconvolgimento provocato nell’uomo
dall’esperienza del divino.
Storia di Cristo, come segnala Tuccini,
si distingue per il suo carattere
assolutamente moderno, rispetto alla
comune trattazione evangelica: la
scrittura semplice e incisiva è modulata
tutta sulla finalità dell’esposizione
che è l’indottrinamento della
società del Novecento, attraverso
l’uso di un’espressività più facilmente
comprensibile. L’abolizione delle
note e la terminologia asciutta sono
accorgimenti che Papini adotta a
favore della leggibilità, pur nel tentativo
di mantenere inalterati i contenuti
dogmatici. Fede e poesia sono
concetti e prassi congiunte; da qui
la scelta espositiva di avvalersi di
immagini talvolta cruente (per riprodurre
il dolore di Cristo) e raccapriccianti
che si vanno ad inserire in un
disegno più ampio dal profilo parabolico,
dove è proposta l’immagine
della risalita dal basso oscuro verso
la luce del divino. In Voce del silenzio,
luce sul sentiero – naturale prosieguo
di questi Spiriti cercanti – Tuccini
tornerà ad affrontare il rapporto tra
realtà e immaginazione nell’invenzione
formale della Storia di Cristo;
a tale proposito, mette in luce il motivo
architettonico della costruzione
nella mente di tableaux e di pièces
lirico-drammatiche, il cui fine è quello
di rendere vivo il Divino nell’occhio
del lettore. Tuccini mostra come
RECENSIONI 401
gli approdi dello scrittore all’evangelizzazione
dell’uomo moderno – attuata
specialmente attraverso il tramite
determinante della vista – sono
resi chiari dalle molte relazioni con
gli Ejercicios espirituales di Ignazio di
Loyola. Il critico, tuttavia, individua
alcune fondamentali contraddizioni
che coabitano nel testo di Papini: il
dubbio laico fa da contraltare all’esicasmo
(«l’idea di una fede sicura
s’opacizza, man mano che la debolezza
dell’uomo incalza al cospetto
di Dio»), pure nella sincerità degli
intenti sociali e della personale spiritualità.
E la richiesta di Papini a
Dio, quella cioè di manifestarsi ancora,
come fosse ormai un dovere
dettato da necessità, suona allora
come la voce di chi ha ancora bisogno
di strumenti per dissipare del
tutto il nescio agostiniano.
Il dolore per Papini, come per
Boine, è veicolo attraverso il quale
l’uomo tende verso il divino, ma per
l’autore toscano i modelli letterari e
spirituali sono altri: Agostino e il già
citato Ignazio. Il pensiero mistico che
interessa Papini è quello che arriva
alla percezione dell’Alterità transitando
per la vita attiva che, nel distacco
della solitudine mistica, è passata
al vaglio interiore e diventa veicolo
di visione e fusione con Dio.
Così nel Sant’Agostino, dove il pensiero
del mistico di Tagaste è studiato
in chiave moderna, e il santo
ritorna ad essere insieme uomo.
Giona Tuccini descrive quel lavoro
di Papini come una sorta di seduzione
della quale il letterato era caduto
vittima, tanto da azzardare
un’immedesimazione tra la sua e la
vita di Agostino. La fascinazione subita
è tutta modulata sul confronto
uomo-santo, che non è antitesi ma
passaggio obbligato all’interno del
complesso percorso che conduce l’individuo
alla fede, e quindi a Dio.
Scriverà infatti di Agostino: «Dopo
le scorribande baldanzose della prima
giovinezza e le roventi inquietudini
della maturità possiede ormai
la certezza, gli ondeggiamenti sono
finiti, finito è il martirio del combattere
in sé e con sé. Che meraviglia
se l’anima si distende dopo una sì
lunga tensione, si rallegra dopo un
sì aspro travaglio?». Per Papini gli
esiti mistici agostiniani sono esempio
di strumenti d’indottrinamento
ed evangelizzazione, ragion per cui
rappresentano dei modelli espositivi.
L’intellettuale fiorentino, infatti, attribuiva
al ruolo di letterato quello
di vate della dottrina umana, laica e
religiosa.
Lo studio di Tuccini si completa
nell’approfondimento coscienzioso
dei testi che compongono il corpus
agostiniano e ricostruisce accuratamente
le relazioni che intercorrono
tra le ricerche di Boine e quelle di
Papini sulla spiritualità. Il saggio
scende nelle profondità della cultura
mistico-rinascimentale, soprattutto
spagnola, per ritrovarvi i prodromi
della cultura modernista italiana.
Simona Carvelli
Alessandro Gaudio, Animale di Desiderio.
Silenzio, dettaglio e utopia nell’opera
di Paolo Volponi, Pisa, Ets,
2008, pp.
Leggere Paolo Volponi è un po’
come tornare a casa, ovunque essa
si trovi, i paesaggi descritti diven402
RECENSIONI
gono quelli dell’infanzia, vissuta o
costruita a posteriori percorrendo i
viali dell’immaginazione, e ascoltare
i racconti e le vicissitudini dei suoi
personaggi è come interloquire con
dei vicini sui generis dei quali si sorride
smaliziati, riconoscendo in essi
senza stenti le proprie piccole grandi
manie, gli sbalzi d’umore, la sete
di vita e il quasi complementare rigetto
della realtà contemporanea. Il
manto innevato che ricopre le colline
antistanti l’arroccata città di Urbino
è una coperta calda sulle ginocchia
di un lettore completamente
immerso e partecipe della narrazione,
il suo quieto candore sostiene,
però, uno sguardo disincantato, posato
su di uno scenario troppo spesso
deludente, ritratto con lucida e
consapevole maestria.
Scrivere di Paolo Volponi si rivela
ben più complesso, le parole tentano
di ristabilire un ordine nel caotico
magma di emozioni e versi che
sappia andare oltre le apparenti consuetudini
del vivere quotidiano. Alessandro
Gaudio con questo volume
si pone, probabilmente, questo obiettivo,
accingendosi all’impresa con
strumenti poco convenzionali: l’utilizzo
dei dettagli.
L’intento di insinuarsi nella sfera
del ‘volponiano’ servendosi delle
intuizioni è esplicato fin dalla quarta
di copertina, nella quale si legge:
«piccoli fatti insignificanti, semplici
scarti, sondaggi che misurano lo
spessore dei testi di Paolo Volponi
e che servono a entrare all’interno
dell’imballo della sua poetica […]
mediante spunti interpretativi, significativi
proprio perché spesso marginali
e presentati da un punto di
vista non compromesso». La produzione
dell’intellettuale urbinate passa
così attraverso il caleidoscopio delle
ricorrenze testuali, delle immagini
legate alla corporalità e all’inconscio
restituendoci un’analisi arricchita
di una visione più ampia.
Al centro del volume vi è una inaspettata
sciarada, la cui soluzione è
rappresentata dall’opera tutta dello
scrittore urbinate e, come nel celebre
gioco enigmistico, all’agnizione
finale si perviene mediante l’indicazione
delle varie parti in cui essa
può essere scomposta. L’itinerario
volponiano non procede in questo
caso in maniera organica e pedissequa,
le tappe – come già accennato
– sono poste alla periferia del
testo e nel testo, un approccio interpretativo
cui sembra strizzare l’occhio
lo stesso Volponi con il suo interesse
sempre vivido per i margini
e per quella “periferia” letteraria,
appunto, che sarà essenza del proprio
scrivere.
La letteratura esige uno sforzo
interpretativo che non può fermarsi
alla superficie delle parole, ma deve
indagare il non scritto, i bordi del
testo, penetrare fra le righe per scoprirne
il nucleo centrale, spesso non
immediatamente riconducibile alle
vicende narrate; Gaudio si nutre di
tali suggestioni della prosa volponiana
e afferra ciò che dalle bende
di questa velatamente trapela. Concetti
astratti che nel saggio divengono
sostanza: è la discrepanza fra il
partire e il restare, allontanarsi da
un microcosmo, quello del sipario di
Urbino, del mondo rupestre di contadini
poco arcadici, intenti a cercare
«un compito vero, non solo la regressione
e la rendita inerte e contemplativa
», – come lo stesso autore
RECENSIONI 403
segnala in appunti privati, di recente
editi per i tipi di Manni – per
superare i propri limiti, un orizzonte
personale forse un po’ ottuso e
provinciale, cui si anela di sottrarsi,
onde raggiungerne uno più facondo.
Risiede anche in questo l’utopia
volponiana: rovesciare il vaso del sé,
come vagheggia Damín ne Il lanciatore
di giavellotto, abbandonare il
palcoscenico consunto di un vecchio
baraccone per esser parte della realtà,
piuttosto che osservarla da una
posizione elevata e paesaggistica, ma
pur sempre isolata. È la necessità di
agire e di sfuggire a questo ozioso
isolamento che spinge un altro dei
personaggi volponiani, la Vivés de
Il sipario ducale, a progettare un viaggio
a Milano subito dopo l’esplosione
della bomba di Piazza Fontana,
negli ultimi giorni del ’69, per essere
dentro le cose e, magari, finalmente
mutarle.
Il dissidio fra microcosmo e macrocosmo,
come quello fra realtà e
utopia, il disagio esistenziale e la
nevrosi dei personaggi dei romanzi,
senza per questo escludere il verso
poetico, essenza della prosa volponiana,
si esprime con un linguaggio
fondato sull’automatismo, caratterizzato
dall’andamento paratattico, dalle
iterazioni foniche e dalle enumerazioni
caotiche, da un utilizzo della interpunzione
giocato sull’impiego degli
esclamativi e dei punti di sospensione,
con conseguente diffusa sensazione
di frammentazione della
narrazione. Della quota espressiva
dello stile di Volponi e della propria
intensità visionaria si sono occupati
molti critici e si tratta, del
resto, di un elemento che partecipa
di quella componente visionaria
della sua lingua e che si presta, tra
l’altro, a una riflessione sulle dinamiche
oniriche presenti nei romanzi
dell’intellettuale urbinate: in Animale
di Desiderio, questa viene approfondita,
offrendo un’analisi mai banale
della dimensione del sogno, contrapposta
alla realtà allucinata della
veglia e intesa come simbolica proiezione
della controversa condizione
psichica dei personaggi volponiani.
Se già il poeta marchigiano si definiva
in una lettera a Fortini «freudiano
abborracciato», la psicoanalisi
può fornire al lettore un valido strumento
per insinuarsi in alcuni meccanismi
compositivi, ricorrenti soprattutto
ne Il lanciatore di giavellotto,
pur non rappresentando la cartina
al tornasole delle combinazioni
volponiane. Scardinare la tecnica compositiva
dell’urbinate non è cosa semplice,
richiede uno sforzo di comprensione,
pari a quello compiuto
dallo scrittore per afferrare vocaboli,
situazioni, ore, sensazioni, per interpretare
il ruolo del personaggio
scrivendo. Il binomio scrittore/lettore
è nodale nei testi di tale autore,
si pone in relazione con quello, altrettanto
cardine, di azione/reazione
e attraversa la speculazione sul
ruolo della letteratura dal 1966, quando
Volponi redige l’importante saggio
intitolato Le difficoltà del romanzo,
sino agli ultimi interventi del 1993.
Il cammino volponiano tracciato nel
volume percorre anche questa tappa
e finisce col restituirci uno schema
di lettura stimolante e per certi
versi innovativo, si avvale delle parole
del poeta di Urbino per suffragare
i propri intenti e finisce con il
trascinare il lettore nel cosmo volponiano
proteggendolo dalle difficoltà
404 RECENSIONI
e dalle accuse di capziosità spesso
rivolte all’intellettuale urbinate. Se
ne trae l’immagine di un Volponi engagé,
certo, ma da anarchico dialettale,
come egli si definì: l’utopia e il transito
dal particolare all’universale,
stelo dei romanzi del ciclo marchigiano,
sono filtrati dalla cosmologia
e dall’astrologia; l’essenza lirica e figurale
della poesia, il dissidio esistenziale
e il brusco realismo delle
immagini si riflettono nello specchio
della pittura espressionista, con particolare
riferimento ai capolavori e
ad alcune dichiarazioni di Edvard
Munch; la battaglia contro la deformazione
della realtà e l’omologazione
di massa è combattuta con le
armi della riflessione sul linguaggio
dello sport, illustrando il tenace attaccamento
dello scrittore alle discipline
ancora oggi più popolari, calcio
e ciclismo, il suo scagliarsi contro
quella casta di giornalisti schiavi
di una espressione poco spontanea
e ridondante di retorica e stereotipi
che polverizzano lo spettacolo sportivo,
annichilendo le facoltà intellettive
del tifoso e un onesto sguardo
rivolto al reale. Lo slancio utopico
nasce, dunque, dal riscontro quotidiano
con le piccole cose, cresce nel
silenzio con cui l’uomo libero tenta
di guardarsi dentro e giorno dopo
giorno ricostruirsi rinunciando alla
stucchevole perfezione ed a quella
paura che paralizza, inducendolo a
ripiegarsi in sé. Non resta che intraprendere
questo itinerario volponiano,
farsi cullare dalla brezza che
spira sulle colline verdeggianti, a
bordo di una navicella dell’ingegno
ancora oggi estremamente attuale.
Valentina Corrado
Giuseppe Amoroso, L’invisibile quotidiano.
Annotazioni sulla narrativa italiana
2006-2007, Napoli, Liguori,
2009, pp. 262.
La scrittura «magica e sorniona»
di Giuseppe Bonura e la parola «sfregiata
» di Silvana Grasso; l’«eleganza
» del dire di Claudio Magris e le
«lusinghe» verbali di Nantas Salvalaggio;
il «singolare rebus di occasioni
» di Luigi Malerba e il «mondo
di amabili fantasmi» di Nico Orengo;
il «fisico splendore delle cose» tracciato
da Carlo Sgorlon e le cose
«guardate in trasparenza» da Giorgio
Montefoschi; e, ancora, le frasi
piene «di musica e pensiero» di
Marco Santagata e quelle accese dal
«sibilo dei contrasti» in Matteo Collura:
sono solo alcuni momenti del
vasto atlante di scritture, prima ancora
che di nomi ed opere, proposto
da Giuseppe Amoroso in L’invisibile
quotidiano, ulteriore tappa del più
che trentennale viaggio compiuto
dal critico nell’indomito panorama
del nostro romanzo, in quel «teatro
impossibile» di forme, vicende e figure
chiamate, oggi più che mai, a
sfidare le «folate del vero» – complice
l’ascolto del «rumore interno»
delle cose, del loro «infinito spessore
» – disertando la falsa univalenza
dei significati: generosa di sottintesi
che sanno pur essere a portata di
mano e scivolarci accanto (a suggerirlo
è già l’ossimorico titolo del
volume), la moderna narrativa fa
scorrere sotto gli occhi dell’autore
«luoghi tanto concreti da sembrare
inventati», fatti sui quali incombe il
«sospetto» di un «segreto inganno»,
immagini dietro cui «serpeggiano
insidie senza fine». Perché è la logiRECENSIONI
405
ca spietata dell’«enigma» (e, più
ancora, del suo inseguimento) a dettare
le linee di racconti che, per sopravvivere
ai ritorni inevitabili di
motivi e movenze, non possono non
chiedere a chi scrive la promessa di
un balzo dal consueto solco, l’occasione
di una «malia» sempre nuova
in cui rovesciare i fili delle trame e
delle parole sino a far capire a chi
legge che solo in esse – nel loro ribaltarsi
per ritornare diverse – risiede
l’«assoluta salvezza» dall’«ovvietà
della vita».
Amoroso sa che non vengono del
tutto meno la cronaca «spoglia», il
racconto che «consulta l’archivio» e
troppo lì s’arresta, l’attenzione «millimetrica
» ai dettagli, ma pure ci avvisa
che il resoconto «implacabile»,
l’«eccessivo realismo», non si sottraggono
a lungo all’attraente «rischio»
di equivoci prima o poi destinati a
tendere un «complotto» e che qui,
in questa sua raffinata analisi (dove
alle «periferie inesplorate» di trame
tematico-stilistiche tocca il privilegio
del primo piano), rivivono con tutta
la loro «ridda» di chiaroscuri e inauditi
rovesci: perché se una costante è
da rintracciare nella ricerca dello studioso
messinese essa va scorta nella
sua capacità di cattura delle infinite
rifrazioni delle parole, e della «vertigine
» che, pur sommersa, ogni racconto
si trascina dietro.
Attenta al manifesto messaggio
del testo ma ancor più alle sue increspature,
la scrittura, rara, di Giuseppe
Amoroso si porta dentro il
battito fantastico dei romanzi di
volta in volta incontrati, il loro slancio
creativo, il giro tonale, quasi a
voler ripeterne le scie, gli echi e di
questi fare la rivelazione più completa
dell’inchiesta critica. Mimetica,
trapunta di rispondenze foniche manovrate
come esche semantiche (ammicco
continuo al lettore), preziosa
nella sua lucidità sibillina d’antica
prosa d’arte, sa trasformare una «topografia
» di voci e opere, di montaggi,
atmosfere e inerti segnaletiche
in una puntuale indicazione di metodo.
Così, inseguendo il «segno»
che inchioda il visibile ai suoi sotterranei
fantasmi, il volume attraversa
«storie vere, consistenti» ed altre
che «si dileguano», il romanzo che
«si gonfia di romanzi» e vicende così
brevi da apparire «mutili» o paghe
di un eloquio quieto; offre una mappa
di esperienze che «si deformano
per un di più di concretezza» e di
generi custoditi da lunghe tradizioni,
ma dove la tradizione sconta, di
volta in volta, un malizioso patto
con la modernità: il romanzo storico
e il poliziesco di secolare fattura,
il foglio memoriale e di denuncia, il
«brogliaccio corposo» e la rivisitazione
biografica, la prosa «minimalista»
e quella spiazzata da usurati giochi
metanarrativi si danno appuntamento
in quest’opera che, sottraendosi
alla perentorietà del giudizio, preferisce
insinuarlo con oculato diletto
nella geometria del discorso critico,
nella carica più o meno metaforica
ad esso concessa, nel movimento
delle citazioni, finanche nelle risultanze
ritmiche.
Il lettore ha dunque i mezzi per
comprendere dove cada la predilezione
dello studioso: avverte la sua
riluttanza per il premere sul testo di
«trafitture ideologiche e un po’
predicatorie» che lo portino a incepparsi
tra i «mille ostacoli» di una
grigia retorica; ne percepisce le ri406
RECENSIONI
serve nei confronti di un lessico imbrigliato
in «movenze meccaniche»
e la diffidenza verso una pagina
«senza scosse», ma, soprattutto, intuisce
il suo entusiasmo per la parola
«lontana dal perimetro più scontato
» e in grado di favorire cortei d’immagini
più o meno fiere dell’«arco
barocco» a cui devono ogni loro sfolgorio
segreto; per la lingua esperta
di vuoti, sospensioni e «strategie di
contrasti» che assicurino un «palpitante
alveare» di sorprese. Mobile
universo di scritture fiere di «infiammare
di visioni il buio», L’invisibile
quotidiano è un’insostituibile testimonianza
di quella tipologia d’indagine
saggistica che, toccando la propria
dimensione più alta e più vera,
riesce a scrutare orizzonti maggiori
dello studio che la muove.
Maria Grazia Caruso
Luigi Russo, Elogio della polemica, introduzione
di Giovanni Da Pozzo.
Nuova edizione interamente ricomposta.
Torino, Nino Aragno Editore,
2009.
Dopo la prospettiva critica indicata
da lui medesimo nella Prefazione
alla prima edizione dell’Elogio della
polemica (Laterza, 1933), dopo le recensioni
di contemporanei dall’illustre
futuro (Flora, Sapegno, Muscetta)
che ne individuarono a caldo la
perspicuità dei connotati nonché i
preminenti punti di forza, e infine
dopo l’ampio saggio di G. Da Pozzo
premesso all’edizione anastatica del
1990, può apparire impresa in qualche
modo pretenziosa, e, al tempo
stesso, paradossalmente superflua,
tornare a parlare di un classico della
cultura letteraria del Novecento com’è
la raccolta di scritti e “testimonianze”
giovanili di Luigi Russo. Ma,
al di là della prima impressione e
facendo comunque tesoro della significativa
accoglienza dell’opera
negli anni Trenta, e poi, molto dopo,
anche negli anni Novanta, sento che
sia giusto riproporre alcuni temi e
riferimenti del libro, conseguenti a
un emblematico e tormentato percorso,
da ritenersi ancora stimolanti perché
conservano accenti di autentica
attualità e di efficacia non soltanto
formale (la “polemistica”). E soffermarsi,
a renderne conto, innanzitutto
sul punto di vista manifestato dallo
stesso Autore quasi in medias res dei
suoi ancora freschi scritti d’esordio,
nonché sullo schema critico di
contestualizzazione, poi, acutamente
approntato da Da Pozzo.
È così che Russo parte allora, a
ragione, dall’identificazione della
categoria di “polemica” con quella
di “critica”, che egli dichiara di derivare
– per sé e per la “carsica”
generazione del neo-idealismo – dal
magistero dei grandi del secolo XIX
(messi, a suo parere, ingiustamente
da parte dalla lunga e appiattente
stagione positivistica e dalle fiammate
polemistiche degli anni – più fumo
che arrosto – delle avanguardie primonovecentesche,
ma anche della
stagione delle nichilistiche illusioni
vociane). Per Russo i pavidi per natura
(i don Abbondio dall’etica scadente),
i troppo prudenti accademici
di stile, i presuntuosi e giovani
reazionari dei suoi tempi («corruttori
» e «barattieri» della cultura al
modo degli «adulatori delle corti»),
con il loro sostanziale quietismo soRECENSIONI
407
no nemici giurati della polemica come
metodo critico puntualmente militante
e razionalmente argomentato.
Del resto, l’intellettuale giunto
alle soglie di una prima maturità,
che intende valorizzare un’esperienza
di formazione uscita indenne
dagli «anni fortunosi dell’immediato
dopoguerra» – anni, in parte, di
dolente «smarrimento umano e nazionale
» –, rivendicando, contemporaneamente,
la spinta alla incompromessa
serietà scientifica e la fermezza
del coraggio civile ricavatene,
pare consapevole del conflitto suscitato
in quella fase intorno a idealità
cresciute nel fuoco della guerra, poi
troppo ingratamente – gli sembra –
«rinnegate e conculcate», e tuttavia
giunte al «trionfo temporale attraverso
un movimento rivoluzionario»
(ancorché in sostanza, a impronta,
ahimè, fascista). Ormai a valle di
quel tempo storico, Russo, con un
colpo di reni, salta però al di là di
ambigui coinvolgimenti e sottolinea
che i suoi scritti testimonieranno di
seguito, costantemente, la «difesa
insistente, quotidiana, dei valori della
cultura» e l’«affermazione della
sua indipendenza da ogni ispirazione
allotria» (p. 4). Tant’è che il letterato-
soldato (malgrado tutto, dagli
spiccati sentimenti antidannunziani),
che, come tanti, ha pagato con la
moneta della sua giovinezza il drammatico
entusiasmo di quell’epoca,
riportandone però le stimmate del
più puro umanitarismo, evidenzia
come stella polare del suo impegno
intellettuale il particolare rapporto
allora istituito tra politica e cultura
nel culto della libertà e della laicità
ereditato dalle energie più vitali del
secolo precedente.
Peraltro, centrata l’«antitesi dialettica
» – necessaria e benefica – tra
politica e cultura (o religione), Russo
mostra di intendere la cultura appunto
come religione laica con la radicalità
di un pensiero di lunga durata,
tanto da travalicare l’eco dei
recenti eventi lateranensi, pur restandone
fortemente e negativamente
condizionato: «Oggi la Chiesa moderna
è la cultura; una chiesa che
non ha papi e non ha vescovi, ma
che vive, invisibile, nella coscienza
dei singoli. Quell’altra Chiesa tradizionale,
che vive dell’obolo di S.
Pietro, è diventata invece uno Stato
fra gli altri Stati, e con essa ci si
regola, come ci si regola con tutti
gli Stati, con trattati di pace o con
guerre. Ma la cultura è la vera chiesa,
la chiesa nazionale, e la sua antitesi
con la politica è soltanto antitesi
dialettica, cioè, in ultima analisi,
trascendentale amicizia; mentre
l’antitesi dell’altra Chiesa con lo Stato
è antitesi politica, e però, virtualmente,
inimicizia» (p. 16).
Del resto, Da Pozzo segnalerà un
intenso background per i saggi di De
vera religione scritti fra il 1943 e il ’48,
non a caso degno dell’attenzione
della generazione antifascista del secondo
dopoguerra nel riscontrare
«una lunga storia che sarebbe valsa
la pena, un giorno, di conoscere nella
sua interezza» (p. VII); e individuerà
nel saggio che apre la sezione
dell’Elogio dedicata a “Gli intellettuali,
la politica e gli studi” e che era
coinciso con l’assunzione, nel dicembre
del ’25, da parte dell’Autore,
della direzione (retta fino ad allora
da Prezzolini) della rivista «Leonardo
», un passaggio assai delicato
per il rapporto Russo-fascismo – per
408 RECENSIONI
la positiva allusione alla «prosa irregolare
e approssimativa» «di un primitivo,
sì ma galantuomo» come Roberto
Farinacci, segretario del PNF.
D’altronde, lo stesso Da Pozzo per
questo motivo sintetizza le varie sezioni
che articolano questa sorta di
libro di formazione del fondatore di
«Belfagor» attraverso un penetrante
schema che connota quella testimonianza
di vita e di cultura come «pagine
problematicamente intessute con
la realtà del loro tempo» (p. 16): senza
assoluzioni e senza preconcette
condanne. Malgrado le equivoche
convinzioni sulle origini, la presa di
distanza dal fascismo di Russo avviene
così sul filo della convergenza,
appunto, della crociana etica della
libertà e, insieme, di una sorta di
gentiliana reattività ai vizi antropologici
(e provincialistici) di una
intellettualità tendenzialmente piccolo-
borghese e neo-bigotta (nei casi più
vistosi, dei Papini o dei Gemelli), che
risulta la costante della sua quasi
quotidiana, infaticabile battaglia.
Un diverso ordine di considerazioni
segna il gusto e l’interesse del
lettore d’oggi. Naturalmente la sostanza
della militanza idealistica, alla
luce di ciò che è apparsa la successiva
storicizzazione della poesia (Scrivano)
venutasi a maturare a cavallo
della Seconda guerra mondiale, via
via fino alla scoperta di Gramsci
(avendo il critico, evidentemente,
superato la giovanile diffidenza per
la «rivoluzione liberatrice» del bolscevismo),
ha dato nuovo rilievo alle
intuizioni del Russo dei primi interventi
e dei primi scritti di ricerca
letteraria. E, in particolare, come
vedremo, ad alcuni degli “Autori”
più cari allo scrittore dell’Elogio.
L’Elogio della polemica, che, tramite
gli interventi sulle riviste – da «Volontà
» a «La Nuova Italia» – cui
Russo collaborò nei primi quindici
anni del suo operato, è la critica considerata
come un agguerrito strumento
di analisi dei limiti e delle
contraddizioni culturali del suo tempo,
disegna, evidentemente, lo sfondo
su cui è destinato a collocarsi una
rivisitazione finalmente storicistica
del profilo generale della letteratura
italiana e di alcuni suoi classici,
mentre la metodologia d’elezione per
l’approccio alle vicende letterarie e
ai suoi protagonisti, quella crociana,
è così significativamente messa al
riparo da separati estetismi in un
saggio che fa da snodo in una complessa
narrazione delle più contrastanti
e diverse spinte teoriche: «Il
Croce, in una indefessa battaglia con
sé stesso, ha spento a poco a poco il
vecchio letterato, suscitando l’uomo
che vede i problemi dell’arte in una
concorde unità con tutti gli altri problemi
di vita, e, in cotesta concordia
e afflato unitario è venuto distruggendo
anche l’arido specialista, invitandolo
a uscir fuori dal cavo angusto
della propria personalità professionale
» (“Croce i crociani e gli
anticrociani”, 15 febbraio 1922, qui
p. 99).
Ciò premesso, nel libro di Russo
spiccano allora, tra i risultati più notevoli,
quelli avviati nelle pagine destinate
a Machiavelli e a Manzoni.
In particolare a Machiavelli, il critico
(che dedicherà i suoi “Prolegomeni”
all’edizione per Sansoni del Principe
del 1931), in due articoli del ’27 e
ancora del ’31 mette a fuoco un problema
di valenza primaria: quello
del rapporto Machiavelli-Savonarola.
RECENSIONI 409
Nel primo (pp. 130-137) rintuzza con
la verve che gli è propria il tentativo
di M. Scherillo di presentare la riedizione
della monografia di un Pasquale
Villari («piagnone») su Savonarola
sulla base dell’avvicinamento
analogico – e omaggiante – del
profetismo del Frate addirittura alla
Realpolitik di Benito Mussolini. E poi,
nel secondo (pp. 215-221), sottolinea
ancora una volta la netta antitesi Savonarola-
Machiavelli a partire da
un’acuta esegesi della frase dei Discorsi
I, 11, che, a proposito del domenicano,
affermava che «d’un tanto
uomo se ne debbe parlare con
reverenza» («delicatezza psicologica»
– dice Russo – che, in ultima analisi,
teneva conto della destinazione
del testo «ai giovani amici, intinti di
piagnonismo, e repubblicani»). Ne
scaturiscono, alla fine, due ben calibrate
conclusioni di un ragionamento
interpretativo che si fa forte di
distinte, ma convergenti, prospettive
critiche. La prima riguarda la
negazione di Savonarola come precursore
(come volevano certe indicazioni
cattolicizzanti di fine anni Venti)
di Lutero, o in alternativa, addirittura
della Controriforma: per Russo,
quella del famoso predicatore
resta in realtà una posizione critica
ancora interna al processo di riorganizzazione
ideologica del movimento
ecclesiastico cristiano tardomedievale.
La seconda si riferisce appunto
alla nota definizione machiavelliana
del «profeta disarmato», attraverso
cui il segretario fiorentino
mantiene un livello eccezionale di
analista politico dell’epoca; tant’è che
così il Russo concludeva: «Il Savonarola
non precorre né l’una né l’altra
sètta, ma soltanto testimonia del
disagio spirituale del suo tempo, di
cui si fa generico ammonitore e correttore,
o, ciò che è lo stesso, disarmato
profeta, per riprendere la frase
machiavellica, perché in lui il problema
non si individua e definisce e
fortifica di quelle concorrenti forze
politiche, che furono il segreto della
concretezza e della fortuna delle riforme
religiose, eterodosse o non,
del secolo successivo» (p. 221).
Nell’Elogio, poi, più succinto, ma
denso, è il riferimento a Manzoni (in
una recensione apparsa nel “Leonardo”
del 20 febbraio 1931, “Per
Manzoni e il giansenismo”). Russo,
nel difendere con eccezionale intuito
la tesi sulle inclinazioni giansenistiche
dell’autore dei Promessi Sposi,
in una proposizione cruciale dell’articolo
dedicato a La vita religiosa
di Manzoni di F. Ruffini (Laterza
1931) ha modo di cogliere nella tradizione
ottocentesca non rigorosamente
ortodossa dei cattolici democratici
un orientamento che le vicissitudini
della riforma della Chiesa ereditate
dal XX secolo hanno avuto
modo di confermare in tutta la sua
feconda potenzialità: «Rosmini,
Gioberti, Manzoni, Lambruschini,
Capponi, Tommaseo, elaborarono un
loro originale e suggestivo cristianesimo,
lievitando il pensiero dogmatico
al contatto di pensiero eterodosso;
e anche ora, se ci avviene di imbatterci
in un cattolico umano, cordiale,
illuminato, liberale, di stimarlo,
e di farcelo amico, siamo tratti a
scorgere nella sua formazione spirituale
le deprecate influenze d’ordine
laico» (p. 213).
Alla fine, d’altro canto, il libro si
può ben dire che riceva l’opportuno
sigillo dell’emozione e della pietas
410 RECENSIONI
che lo avevano in più punti innervato
con la sezione dei “Rimpianti”,
volti a richiamare alla memoria storie
esemplari di giovani intellettuali
coetanei dell’Autore precocemente
scomparsi (e tra gli scomparsi, in un
discreto passaggio, si ricorda anche
l’amato fratello Ferdinando, caduto
in guerra). Ciò a testimonianza di
una sensibilità mai sopita per gli
slanci e le attese soprattutto delle
giovani generazioni che si avvicendano
nella storia: a cominciare da
quelle di ieri e di ieri l’altro. È per
questo che i lettori di Russo seppero
sempre ricambiare questa disponibilità
che nella sua peculiare scrittura,
come osserva ancora una volta
Da Pozzo, trovano una inconfondibile
cifra stilistica – autentica e combattiva
– che li rende sostanzialmente
partecipi di un ideale, e per questo
li continua – anche nella forma
– a convincere: «E intanto, avvincevano
quelle pagine in cui la fiducia
nell’intelligenza del lettore era tutt’uno
con il compiacimento di trascinarlo
a seguire ogni volta una
piccola battaglia in campo aperto,
fatta di colpi decisi, rumorosi oppure
sornioni, ma sempre scagliati con
un estro trascinatore, che lasciava
affiorare, spesso, momenti di più
meditabonda o grave riflessione» (p.
VII).
Raffaele Cavalluzzi
Luciano Vitacolonna, Semiotica,
Brescia, La Scuola, 2008, pp. 252.
Quest’opera è coraggiosa per almeno
due ragioni: da una parte si
propone di rendere facilmente accessibile,
anche a chi non è uno specialista
– e magari non intende neppure
diventarlo –, una delle discipline
che hanno maggiormente segnato il
panorama scientifico del XX secolo;
dall’altra sceglie di farlo in un momento
storico in cui le falle della semiotica
iniziano a diventare sempre
più evidenti. Detta in questi termini
potrebbe sembrare che Vitacolonna,
come un moderno don Chisciotte,
voglia continuare la sua battaglia
contro i mulini a vento, rimanendo
attaccato alla bandiera spettatagli in
eredità. Ma le cose non stanno così.
Anzi, chi si aspettasse di trovare in
Semiotica l’ennesimo tributo che ripete
supinamente quanto è stato già
detto in manuali ben più corposi e
blasonati rimarrebbe deluso, tanto
da potersi sentire in diritto di metterne
in discussione il titolo stesso.
Infatti, in questo libro non si parla
semplicemente di semiotica, ma piuttosto
di quella graduale evoluzione
che ha portato la semiotica a trasformarsi,
almeno negli approcci elaborati
dagli studiosi che più degli
altri ne hanno saputo intravedere
limiti e difetti, ma anche pregi e potenzialità,
nella semiotica del testo,
e più precisamente nella Testologia
Semiotica. Una transizione questa
che Vitacolonna non presenta come
un fatto compiuto, dal profilo delineato
una volta per tutte, bensì come
un work in progress, per il quale diventa
centrale la definizione dei
compiti e degli obiettivi (Cap. V, §
4), ai quali, non a caso, è dedicato
più spazio di quanto non sia riservato
alla descrizione della transizione
dalle precedenti teorie del testo
(Cap. V, § 3). Verrebbe da chiedersi,
allora, perché continuare ad usare
una denominazione ormai logora,
RECENSIONI 411
che scopre, tanto ingenuamente quanto
pericolosamente, il fianco a critiche
ben consolidate nel pensiero
scientifico. La risposta è semplice:
proprio nell’adozione di questo titolo
l’autore sintetizza l’auspicio che
egli rivolge alla semiotica; l’augurio,
cioè, di sapersi rinnovare, battendo
quelle vie che possono portarla al
superamento dell’impasse attuale,
pericolosa anticamera di una scomparsa
indubbiamente prematura.
Malgrado la complessità degli argomenti
trattati, Vitacolonna riesce
ad esporre tutto con estrema chiarezza
e semplicità, servendosi sempre
di esempi che aiutano il lettore
a contestualizzare le riflessioni teoriche,
altrimenti troppo astratte. Inoltre,
la struttura del volume è stata
pensata in modo tale da permettere
livelli di lettura differenti. Essa si presenta
come divisa in due parti: la
prima, composta a sua volta da sette
capitoli, è un vero e proprio manuale,
mentre la seconda è una raccolta
antologica. Tuttavia, al di là
della suddivisione richiesta forse
dall’editore, crediamo sia possibile
individuare una terza parte, separando
il settimo capitolo (“Tre analisi”)
da quelli che lo precedono. In
questo modo, otteniamo una tripartizione
dell’opera, più confacente alla
sua effettiva articolazione, che diventa
funzionale ai possibili percorsi di
lettura. Infatti, possiamo ipotizzare
che questo testo – destinato agli studenti
universitari, ma anche a tutti
gli insegnanti, di ogni ordine e grado,
che intendano chiarirsi le idee
sull’argomento – sia fruibile con tre
livelli di approfondimento. Il primo
livello può essere quello di chi, completamente
digiuno di semiotica,
intenda appropriarsi semplicemente
dei suoi concetti base, cosa che potrà
fare leggendo i primi sei capitoli.
Se da questa lettura, però, il suo
interesse venisse ulteriormente solleticato,
le nozioni esposte in questa
parte possono essere approfondite
nella sezione antologica (secondo
livello), dove Vitacolonna ha riportato,
con una complessa operazione
di adattamento, i principali testi su
cui basa la sua esposizione teorica.
Le letture proposte nella sezione
antologica sono, infatti, delle sintesi,
effettuate con tagli mirati e praticamente
non avvertibili, di alcuni dei
testi degli studiosi che hanno segnato
la storia della semiotica: da Aristotele
a Sant’Agostino, da Peirce a
Petöfi. Con il terzo livello, infine,
l’autore soddisfa una richiesta che
molti studenti, superati i primi due
stadi, potrebbero muovere: a cosa
serve la semiotica? Per rispondere a
quest’interrogativo, egli propone tre
analisi, condotte con approcci e con
gradi di difficoltà diversi, le quali
danno bene l’idea dell’uso pratico
che può avere la disciplina in questione.
L’unica falla rintracciabile in
questo percorso è data dall’esiguità
del materiale bibliografico che, conoscendo
i precedenti lavori dell’autore
(pensiamo, ad esempio, alle corpose
note che accompagnano Divagazioni
testuali – Rocco Carabba, Lanciano
2004), crediamo di non sbagliare
imputandola a ragioni esterne
al suo volere. Comunque, il difetto
non manca: chi fosse desideroso
di proseguire per conto proprio
gli studi di semiotica troverebbe solo
una piccola bibliografia (di circa quindici
pagine), che, per quanto ragionata,
non è in grado di soddisfare
412 RECENSIONI
tutte le aspettative dei lettori più
esigenti.
I capitoli che formano la parte manualistica
del volume seguono un
percorso lineare e facilmente sintetizzabile.
Dopo aver premesso che il
suo lavoro è una sorta di “Semiotics
for (Absolute) Beginners”, nel primo
capitolo Vitacolonna definisce il termine
‘semiotica’, e ne descrive, per
sommi capi, lo sviluppo storico, specificandone
l’oggetto studiato e il
rapporto che intrattiene con le altre
discipline. Il secondo capitolo è dedicato
all’aspetto centrale della semiotica,
e cioè il processo di significazione,
del quale sono messi in
evidenza caratteristiche e problemi
fondamentali. La significazione è
vista anche in prospettiva storica,
con una sommaria ma precisa descrizione
delle principali teorie del
significato, dalle quali emerge la distinzione
tra ‘significato contestuale’
e ‘significato sistemico’, poi approfondita
nei restanti paragrafi, attraverso
la presentazione della teoria
degli atti linguistici e delle massime
conversazionali. Il capitolo si chiude
con un elenco di alcune tipologie dei
segni. Nel terzo capitolo l’autore si
concentra sugli aspetti costitutivi
della comunicazione. In esso vengono
affrontati concetti fondamentali
come quello di ‘canale’, di ‘medium’,
di ‘codice’, visti nelle prospettive di
Jakobson e di Petöfi. Inoltre, una
parte sostanziale è riservata alla descrizione
delle varie forme di comunicazione,
alla nozione di ‘informazione’
e al problema dell’interpretazione.
Il quarto capitolo è quello che
più degli altri sintetizza il pensiero
degli studiosi che maggiormente
hanno influenzato la semiotica. Infatti,
troviamo qui brevemente descritte
le teorie di Perice, Morris, de
Saussure, Hjelmslev e Petöfi. A guardar
bene, già in questa successione
di nomi è presente la transizione
dalla semiotica alla Testologia Semiotica,
descritta più dettagliatamente
nel quinto capitolo. Qui Vitacolonna,
dopo aver sottolineato come
già Hjelmslev e Harris avevano
intuito l’importanza di estendere la
riflessione semiotica ai testi, descrive
la relazione tra la storia della linguistica
testuale e i problemi che
hanno portato alla sua nascita, nonché
il passaggio dalle teorie del testo
alla Testologia Semiotica, e i compiti
e gli obiettivi che quest’ultima
deve porsi. Nel sesto capitolo l’attenzione
si sposta sul testo letterario e
sul testo narrativo. Nella prima,
dopo aver presentato varie possibili
definizioni di testo letterario, descrivendo
anche la prospettiva jakobsoniana,
l’autore presenta questo
tipo di testi come legato al concetto
di ‘mondi possibili’, e fornisce alcuni
modelli interpretativi. Nella seconda,
invece, ad essere descritto è l’approccio
formalista ai testi narrativi,
ponendo in rilievo soprattutto l’importanza
del rapporto tra fabula e
intreccio, della durata narrativa, della
frequenza narrativa, e il ruolo giocato
dalla memoria nel processo ricettivo.
La quantità di argomenti trattati
fa tremare i polsi, e sapere che l’autore
liquida tutto in circa centoventi
pagine non può che lasciare scettici
nei confronti della scientificità di
quest’opera. Eppure, ancora una
volta, si cadrebbe in errore. Vitacolonna,
infatti, è pienamente cosciente
dei limiti che derivano dallo spazio
a sua disposizione. Per questo,
RECENSIONI 413
egli cerca sempre di organizzare in
modo funzionale alla sua trattazione
ogni singolo paragrafo. Prendiamo
ad esempio quello dedicato alle
fasi e alle cause della ricerca testuale
(Cap. V, § 2). L’argomento fornirebbe
già in sé materiale sufficiente
per un volume piuttosto corposo, ma
l’autore se la sbriga in meno di una
facciata e mezza. La sproporzione è
evidente. Leggendo il testo, però, ci
si rende conto di come Vitacolonna
abbia abilmente risolto il problema.
Egli, infatti, dopo aver nominato i
vari possibili approcci alla storia della
linguistica del testo, delinea in poche
righe il percorso che seguirebbe
un approccio logico-cronologico, distinguendo
in fasi e sottofasi dell’evoluzione
storica, e prestando attenzione
ai vari apporti teoricometodologici,
agli scopi e alle cause
che hanno portato alla nascita della
linguistica testuale. Nella parte restante
del paragrafo, la riflessione si
concentra proprio su quest’ultimo
aspetto, considerato dall’autore come
il più importante.
Il lavoro, certo, non è privo di difetti.
Oltre alla limitatezza del materiale
bibliografico proposto, per il
quale sarebbe auspicabile un’integrazione
qualora si dovesse arrivare ad
una seconda edizione, stupisce che
Vitacolonna non abbia dedicato almeno
un paragrafo alla semiotica
teatrale e alla semiotica della musica.
Infatti, è proprio da questi settori,
considerati erroneamente marginali,
che la semiotica ha ricevuto le
critiche più pesanti. Una domanda
vale per tutte: come è possibile che
la musica abbia una grammatica così
sviluppata, tanto da far quasi invidia
al linguaggio verbale, ma sia completamente
priva di una semantica?
Che tipo di riferimento può avere
un brano musicale? Ha ancora senso
parlare di ‘segno’ quando il riferimento
è nullo?
Tuttavia, è comprensibile che, dando
spazio a queste tematiche, il quadro
si sarebbe ulteriormente complicato,
a scapito dell’obbiettivo fondamentale
che l’autore si è proposto, e
che è già in sé degno di nota: scrivere
una sintesi coerente del processo
logico-cronologico che ha portato
dalla semiotica alla Testologia
Semiotica. Il nostro auspicio è che
l’indicazione di rotta possa essere
messa a frutto da quanti operano in
questo settore.
Andrea Garbuglia