Anno XXXVIII (2010), Fasc. I, N. 146

Anno XXXVIII (2010), Fasc. I, N. 146

  1. Saggi
    • JIŘÍ SPIČKA

      La sentina dei vizi: poetica e motivi del Liber sine nomine di Petrarca – pp. 3-20

      The author emphasizes the importance of the Liber sine nomine as an outstanding text both in the controversial literature of the 14th century and in Petrarch’s works. The essay discusses the main aims of the Liber (a defence against those who blamed the too close ties between Petrarch and the Curia; the poet’s moral criticism of the Papal Court; the dislike for France), and analyzes the poetics of the monstrous and the complex metaphorical style used by Petrarch to carry out his polemical and aesthetic objects.

    • DONATELLA DONATI

      Vittorio Alfieri: in difesa della propria opera – pp. 21-51

      Prompted by his awareness of the evanescence of creativity and the shortness of life, Vittorio Alfieri developed an attitude to protect his own literary work. This essay shows how rich and intense were Alfieri’s activities in order to defend his works and throws light on his intention to claim his role in the literary system of the second half of the 18th century. His aim was to mark out the building blocks of a “global” literature. Disappointed by what had happened in France, Alfieri fought against the modernization of his theatrical works.

    • FABIO PAGLICCIA

      Lettere inedite di Fedele Romani ad Alessandro D’Ancona – pp. 52-76

      Fedele Romani, a many-sided writer from Colledara, a little and vital town in the suburb of Teramo, was one of the most influential members of D’Ancona’s Pisan school. This essay analyses the letters written by Romani to his beloved master D’Ancona. While giving evidence of a thirty-year-long friendship, these letters emphasize Romani’s self-effacing and tormented temperament and give a clear outline of the society in which they lived.

    • RAFFAELE MESSINA

      Zia Michelina e le sue storie. Lettura stratigrafica di una novella di Luigi Pirandello – pp. 77-103

      Zia Michelina is not a famous tale, but it is often recalled by the critics who studied about feminine characters and about the theme of motherhood in Pirandello’s tale collection. The systematical comparison between the different editions that the tale has had in the course of the years, in order to avoid some errors of dating it traditionally present in other critic essaies, consent us to observe like Pirandello, changing the conclusion of the tale, has changed the global meaning of the tale too, as an effect of a more painful and gloomy vision of the life matured during the years of the First World War. In fact, in the first edition (1914) the tale ended with an image of motherhood that solaces and compensates for the leading character’s pains; in the second edition (1922), on the contrary, the leading character’s suicide doesn’t let any positive perspective in a world even more steered by business.

    • IDA CAMPEGGIANI

      Appunti di un saggio sul simbolismo francese nel primo Montale – pp. 104-133

      The author examines the presence of French symbolism in Eugenio Montale’s early literary production. She also focuses on the way authors such as Henri-Friédérich Amiel, Georges Duhamel and Paul Verlaine influenced Montale when he moved towards the more thought-out classicism that characterizes Ossi di seppia. This essay, while founding a dialogue between Montale’s poetry and that of other authors (such as Corboère, Fargue, Fontainas, Proust, Samain), provides a spectrum of examples which allow to understand his stylistic evolution, marked by his attitude to a finer and finer intertextuality.

  2. Linguistica
    • PIER ANGELO PEROTTI

      L’uso dei pronomi personali allocutivi nei Promessi sposi – pp. 134-149

      This essay brings into focus Manzoni’s stylistic technique in using personal pronouns in I promessi sposi and points out the important role they play in characterization and in marking the relationships between the characters.

  3. Meridionalia
    • DOMENICO CONOSCENTI

      Sulla datazione de I Neoplatonici di Luigi Settembrini – pp. 150-172

      According to Raffaele Cantarella and Marcello Gigante, Luigi Settembrini’s short story I Neoplatonici, which was published posthumously, dates back either to the days when the author was serving a life sentence in Santo Stefano prison, or to the period following his translation of Luciano’s works. Nevertheless, some elements allow the critic to assume that it was written (in the form it reached us) between 1864 and 1876, that is to say when Settembrini was studying Boccaccio’s Decameron with the attention it deserved.

  4. Note e discussioni
    • MARCO LEONE

      Su Dante e il suo tempo con altri scritti di italianistica di Mario Marti – pp. 173-182

      This essay analyzes Mario Marti’s latest book (Su Dante e il suo tempo e altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo, 2009) pointing out the similarities between it and the previous works of the same author and underlining both its reliance on philological-historical techniques and the presence in it of new exegetic suggestions.

  5. Recensioni
    • PASQUALE GUARAGNELLA

      Teatri di comportamento. La «regola» e il «difforme» da Torquato Tasso a Paolo Sarpi, Napoli 2009 (Roberta Ferro) – pp. 183-186

    • GIUSEPPE RANDO

      Alfieri europeo: le “sacrosante leggi “. Scritti politici e morali. Tragedie-commedie, Soveria Mannelli 2007 (Valeria Giannantonio) – pp. 186-188

    • CARLO DOSSI

      Goccie d’inchiostro, a cura di Francesco Lioce, Roma 2009 (Fabio Pierangeli) – pp. 188-190

    • GIANCARLO BERTONCINI

      Narrazione breve personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino, Macerata 2008 (Marialuisa De Pietro) – pp. 190-192

    • Sud e cultura antifascista, a cura di Raffaele Cavalluzzi, Bari 2009 (Grazia Turchiano) – pp. 192-196

    • Le dilettante. Terzo quaderno. Sopra la critica. Per Mario Petrucciani, a cura di Katia Migliori, Cartoceto (PU) 2008 (Noemi Corcione) – pp. 196-198

    • ANTONIO LUCIO GIANNONE

      Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina (Lecce) 2009 (Fabio Moliterni) – pp. 198-201

    • Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura di Elisabetta Graziosi, Bologna 2008 (Ida Campeggiani) – pp. 201-206

Saggi
JIR}Í S}PIC}KA
La sentina dei vizi: poetica e motivi
del Liber sine nomine di Petrarca
The author emphasizes the importance of the Liber sine nomine as
an outstanding text both in the controversial literature of the 14th
century and in Petrarch’s works. The essay discusses the main
aims of the Liber (a defence against those who blamed the too close
ties between Petrarch and the Curia; the poet’s moral criticism of
the Papal Court; the dislike for France), and analyzes the poetics of
the monstrous and the complex metaphorical style used by Petrarch
to carry out his polemical and aesthetic objects.
Francesco Petrarca è conosciuto dal pubblico odierno quasi esclusivamente
come poeta lirico. Faticosamente si fanno strada gli scritti
latini e tra di essi, a loro volta, sono oscurati quelli che sono ritenuti
marginali o non corrispondenti all’immagine del Petrarca primo umanista.
Immeritatamente è stata calata nell’oblio anche un’opera decisamente
curiosa e importante, un esempio eccezionale e finora non
sufficientemente apprezzato, il Liber sine nomine, raccolta di diciannove
lettere polemiche scritte tra il 1347 (forse 1342) e il 1359 contro
la curia avignonese1. In queste lettere Petrarca risulta essere uno
scrittore espressivo, viscerale, immaginativo, estraneo all’equilibrio
delle altre sue opere. Riteniamo che proprio le peculiarità poetiche,
la sostituzione dell’argomentazione a favore della retorica, la rinuncia
alla misura, insieme al sentimento petrarchesco di una certa
inopportunità di avere come bersaglio di una simile polemica i vertici
della Chiesa cattolica2, e non la paura di persecuzione, come è sug-
1 Il presente saggio è nato nell’ambito del Progetto di sviluppo MS}MT 7/
2009 della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università F. Palacky; di Olomouc.
Generalmente sul Liber sine nomine vedi le introduzioni e i commenti delle
edizioni Petrarcas Buch ohne Namen, und die papstliche Kurie, a cura di Paul Piur,
Halle, Niemeyer, 1925; Sine nomine, a cura di Ugo Dotti, Roma-Bari, Laterza,
1974; Sans tître, a cura di Rebecca Lenoir, Grenoble, Jerôme Millon, 2003.
2 Petrarca è convinto che i rappresentanti della Chiesa dovrebbero essere trat4
JIR}Í S}PIC}KA [2]
gerita dallo stesso Petrarca nel proemio, sono i motivi principali
dell’esclusione di queste lettere da altri epistolari e della genesi del
Liber sine nomine.
Non si tratta di una satira mordace, di un vituperio che spunta
qua e là in varie opere petrarchesche, ma della confessione di un
profondo ribrezzo e di un disgusto sentito fisicamente. In apertura
di una sua sine nomine l’autore scrive ad esempio: “Ho perduto la
tranquillità dell’anima e del corpo; non sperare da me, oggi, una
sola parola serena. Da una fonte d’acqua amara non può sgorgare
un dolce ruscello. Natura vuole che da un petto esulcerato esca un
putrido respiro e che da un animo offeso escano parole di collera”3.
In questo breve saggio vorremmo presentare la poetica del Liber
sine nomine, richiamando l’attenzione soprattutto sui motivi che circolano
in questa opera e che le conferiscono, con la loro presenza fortemente
concentrata e incatenata, un aspetto unico negli scritti di Petrarca.
Come in tutta la produzione epistolare di Petrarca, anche in queste
lettere è presente il tema autobiografico che crea un intimo legame
tra lo scrivente e i suoi amici. Petrarca nel Liber sine nomine chiede
in particolar modo agli amici di compatirlo poiché deve resistere ad
Avignone, ammette che lo avevano messo in guardia, li informa
sulle circostanze della sua scrittura4.
Un tema più profondamente autobiografico è la necessità di riflettere
sul perché ci si rechi ad Avignone, e spiegare le proprie
decisioni in un’ottica ideale. Nel testo compare spesso la parola
ambizione (ambitio) che Petrarca non usa volentieri, ma d’altro canto
sa che questo è il primo motivo che viene in mente al lettore
arguto. L’autore si era difeso dall’accusa di ambizione anche nei
confronti di S. Agostino nel Secretum, facendo presente che aveva
rifiutato gli incarichi pubblici e che era solito fuggire dalla città per
tati dai cristiani con maggiore rispetto che altre autorità. Nel Contra eum, 56,
Petrarca si dimostra ritroso a includere nelle sue critiche la polemica antiavignonese
per non dover dire qualcosa di indecente (F. Petrarca, Contra eum qui
maledixit Italie, a cura di Monica Berté, Firenze, Le Lettere, 2005).
3 Sine nom. 5, p. 72: “morbo animi in corpus translato totus eger nil preter
meros dolores ac rancores loqui possim. Itaque multa, que in animo erant,
differe habui. Uterque michi nunc stomachus dolet, nil ex me hodie placidum
speres. Non potest ex amaro fonte dulcis rivus erumpere. Natura fert ut exulcerati
pectoris infecta suspiria et offensi animi verba sint acria”. Sulla nausea anche
Sine nom. 3, p. 32; 4, p. 44; 6, p. 78-80. Il testo latino e italiano si cita dalla
surricordata edizione a cura di Ugo Dotti.
4 Cfr. Sine nom. 5, p. 72; 11, p. 120; 14, p. 146; 8, p. 98; 13, p. 136; 17, p. 192.
[3] LA SENTINA DEI VIZI 5
immergersi nella natura – pensava appunto alle proprie fughe da
Avignone a Valchiusa5. Entrambi i passi dimostrano come l’ambizione
ed Avignone siano per l’autore due concetti intimamente uniti.
Nel Secretum l’ambizione significa “aggirarsi presso le soglie dei
potenti, lusingare, ingannare, promettere, mentire, simulare e dissimulare:
sopportare ogni grave e indegno trattamento”.
Petrarca nel dialogo si fa assolvere dal sospetto di queste attività
da parte di Sant’Agostino: “Scarso di queste e di simili arti, né
pensando di poter vincere la tua indole, passasti ad altri mezzi”6.
Nel Liber sine nomine, questa volta senza Sant’Agostino, deve nuovamente
ottenere il perdono. La serie di lettere scritte prima della
partenza da Avignone si conclude con l’epistola indirizzata al vescovo
di Padova Ildebrandino de’ Conti (Sine nom. 8). Oltre il dramma
morale della Cristianità, la lettera riflette anche il dramma morale
del poeta, la consapevolezza della negatività di Avignone ma
anche della scarsa volontà di andarsene. Qui promette al vescovo
Ildebrandino di fare tutto il possibile per la propria salvezza. L’anno
successivo (1353) conclude in modo simile anche il Secretum:
promettendo a Sant’Agostino di intraprendere la retta via della salvezza
dopo una breve interruzione7.
Per giustificare il suo soggiorno a Avignone (ma anche quello
dei suoi amici Guido Sette, Lello dei Tosetti, Ludwig van Kempen,
Stefano Colonna), Petrarca chiama in causa delle superiori forze
impersonali alle quali non si può resistere: la sorte crudele (sors
iniquissima), il destino (fatum), l’amore per gli amici e la necessità di
aiutarli a sbrigare le loro suppliche ad Avignone (caritas amicorum),
la forza superiore (vis maior), l’ingannevole speranza della vita
(fallacissima vite spes), la Fortuna avversa e una triste necessità (fortune
violentia tristisque necessitas)8. Nella sua guerra retorica contro
5 Cfr. Sine nom. 8, p. 98; 16, p. 162; Secr. 3, 148-152.
6 Secr. 2, 35-36: “[artes] ambiendi scilicet magnorum limina, blandiendi, fallendi,
promittendi, mentiendi, simulandi dissimulandique, gravia et indigna quelibet
patiendi. Harum et similium egenus artium nec naturam vinci posse ratus,
ad alia studia transivisti”. Si cita da F. Petrarca, Mé tajemství/Secretum meum,
a cura di Richard Psík e Jir]í S}pic]ka, Praha, Oikumene, 2004, per i passi in
italiano si usa la traduzione di Enrico Carrara.
7 Cfr. Sine nom. 8, p. 98; Secr. 3, 104-105. Petrarca ipotizza un simile problema
della volontà riguardo la presenza di Seneca presso la corte di Nerone.
Crede che il filosofo avrebbe indotto come scusa la propria scarsa volontà di
abbandonarla, cfr. Fam. 24, 5, 10-11.
8 Cfr. Sine nom. 5, p. 72; 8, p. 98; 11, p. 120; 14, p. 144; 18, p. 198; 17, p. 192.
6 JIR}Í S}PIC}KA [4]
Avignone Petrarca parla raramente di quello che lui fa in questa
città, con chi si incontra e di ciò che vuole propriamente raggiungere.
Evidentemente non c’è niente di cui vantarsi e per sbrigare le
proprie faccende (eventualmente quelle dei suoi amici) il nostro
illustre poeta deve fare tutto quello che appunto nel Secretum rientra
nel concetto di ambizione. L’attività di Petrarca ad Avignone
rimane, e forse lo rimarrà per sempre, una delle pagine bianche
della sua biografia. Se vogliamo considerare questo silenzio (per
meglio dire questo sottacere mirato) come un estremo nel suo dettagliato
autoritratto, l’estremo opposto può essere rappresentato dalle
dichiarazioni eroiche relative a Cola di Rienzo. Quando scrive la
lettera al popolo di Roma per sostenere l’eroe (Sine nom. 2), Petrarca
non esita a dire: “Io stesso che vi scrivo queste cose e che forse non
rifiuterei di morire per la verità se la mia morte potesse in qualche
modo giovare allo stato, ora taccio senza firmare questo scritto che
vi rivolgo, ritenendo che a identificarmi possa bastare lo stile con
l’aggiunta che chi vi parla è cittadino romano”9.
Appena però Cola cadde per la prima volta, Petrarca non si
impegnò per niente in suo favore, e sebbene lo irritasse il processo
per eresia contro Cola, il poeta fu semplicemente uno di quelli che
lo criticavano tacitamente senza avere il coraggio di intervenire in
sua difesa10. Benché indirizzi la propria lettera “al popolo di Roma”,
difficilmente può valere in questo caso il timore di persecuzioni del
destinatario, qui l’anonimato salvaguarda piuttosto l’autore prudente.
Il contenuto delle epistole non si basa dunque sui fatti, bensì su
una ricca retorica che con la sua ampiezza copre spesso i temi concreti
dai quali era scaturita. Difficilmente troveremo altrove nella
prosa di Petrarca testi così dinamici, patetici e appassionati, che
sfruttano a pieno tutti gli strumenti espressivi offerti dalla lingua11.
9 Sine nom. 4, p. 54: “Ego ipse, qui vobis hec scribo et forte pro veritate non
recusem mori, si mea mors collatura aliquid reipublice videatur, nunc taceo,
neque his ipsis ad vos scriptis meum nomen adicio, stilum ipsum sufficere
arbitratus, hoc adiecto, civem romanum esse qui loquitur”. Similmente in Sine
nom. 3, p. 34.
10 Sine nom. 4, p. 54.
11 Per un tentativo di classificazione delle figure poetiche di Petrarca e delle
sue metafore vedi Geneviève Demerson, Satire et rhétorique dans les Epîtres Sine
nomine de Pétrarque, «Helmantica: Revista de filología clásica y hebrea», 50, 1999,
pp. 257-272; John E. Wrigley, Petrarch’s Sine nomine 10: The Historical Pseudonyms
and Art Symbolism, in A. Scaglione (a cura di), Francis Petrarch, Six Centuries
Later, Chapel Hill-Chicago, University of North Carolina-Newberry Library, 1975,
pp. 278-304.
[5] LA SENTINA DEI VIZI 7
Una ricorrente figura retorica è l’apostrofe alle personalità divine
o superiori. In tal modo Petrarca si rivolge con lunghi discorsi a
Cristo e a Dio, a Carlo IV, a Babilonia o al fiume Rodano. Nell’epistola
Sine nom. 17 possiamo trovare addirittura tre destinatari immaginari:
l’imperatore Costantino, la città di Roma ed infine Cristo12.
La miseria morale della curia papale si riflette nell’insopportabilità
della città descritta con innumerevoli e variegati elementi mostruosi,
spesso rafforzati dal parallelismo delle strutture sintattiche o degli
elementi di contrasto. Tale ricchezza espressiva che è una sorgente
polemica della lettera, può essere trovata quasi in tutte le epistole,
ovviamente sempre espressa in modo originale e con continue varianti
tematiche. Riportiamo il passo seguente come uno dei tanti
esempi possibili:
Ecco che tu già vedi con gli occhi, che già tocchi con le mani quale
sia questa recentissima Babilonia, cosa vi ribolla di mostruosamente
terribile; questa Babilonia, dico, che non ha pari né in quella d’Egitto
fondata da Cambise, né in quella più antica d’Assiria, della regina
Semiramide. Il Rodano vince il Nilo e l’Eufrate, proprio come vince
i fiumi del Tartaro, il Cocito e l’Acheronte. Tutte le perfidie e i tradimenti,
tutte le crudeltà e i soprusi, tutte le vergognose e sfrenate
libidini che hai potuto leggere o udire in qualche parte, tutti infine
gli esempi d’empietà e di scostumatezza che il mondo ha o ebbe
sparsamente in qualche suo luogo, li trovi tutti qui sotto i tuoi occhi,
tutti insieme e insieme raccolti. Quanto all’avarizia e all’ambizione è
superfluo parlare, ché a tutti è noto che l’una ha qui posto il trono
del suo regno, da dove devasta e saccheggia tutto l’universo, e che
l’altra non ha altrove la sua sede13.
12 Cfr. rispettivamente Sine nom. 4, pp. 40-42; 6, p. 78; 7, pp. 88-90; 12, pp.
126-132; 19, pp. 222-224; 2, p. 20; 17, p. 178.
13 Sine nom. 17, p. 172: “Ecce iam oculis vides, iam manibus palpas, qualis est
Babilon illa novissima, fervens, estuans, obscena, terribilis, quam nec Cambissis
opus Babilon illa Niliaca nec illa vetustior regia Semiramidis Babilon equet
Assiria. Nilum et Euphratem Rodanus vincit, nempe qui tartarea flumina,
Cocitum vicit et Acherontem. Quicquid uspiam perfidie et doli, quicquid
inclementie superbieque, quicquid impudicitie effrenateque libidinis audisti aut
legisti, quicquid denique impietatis et morum pessimorum sparsim habet aut
habuit orbis terre, totum istic cumulatum videas acervatumque reperias. Nam
de avaritia deque ambitione supervacuum est loqui, quarum alteram ibi regni
sui solium posuisse, unde orbem totum populetur ac spoliet, alteram vero alibi
nusquam habitare compertum est”. Per la città sul Nilo si intende Cairo, nel
medioevo chiamata anche Babilonia.
8 JIR}Í S}PIC}KA [6]
O in un’altra lettera Avignone è un luogo
dove regnano l’orgoglio, l’invidia, la lussuria, l’avarizia con le arti
loro; dove sono favoriti tutti i peggiori e dove un ladrone che sia
munifico viene esaltato, e un povero, che sia giusto, viene oppresso;
dove la franchezza prende il nome d’insensatezza e l’intrigo quello
di prudenza. Dove si disprezza Iddio, si adora il denaro, si calpestano
le leggi, si irridono i buoni al punto che ormai non c’è quasi più
nessuno che possa essere irriso14.
Oltre gli epiteti già citati, Avignone viene definita come “il posto
di cui nulla il sole vede di più deforme” (Babilon, qua nichil informius
sol videt), “spelonca di smisurati ladroni” (spelunca latronum
immanium), “empio palcoscenico dei delitti” (nepharia scelerum scena),
“triste casa a un tempo di tutti i vizi, dimora e modello di tutti
i vizi, di tutte le sofferenze e meschinità” (vitiorum simul omnium et
laboris ac totius miserie mesta domus), “inferno” (infernum), “scuola di
delitti” (scelerum schola), “funesto ergastolo” (infaustum ergastulum),
“terra arida, squallida e priva d’ogni bene” (terra arida ac squalens et
omnis boni vacua), “tenebra di vizi” (vitiorum tenebras), “spelonca
indescrivibile” (infandum specus), “carcere tartareo” (carcer tartareus),
“ospizio e asilo dei malvagi” (malorum hospes atque asilum), “infame
meretrice” (infamis meretrix)15. Queste metafore sono talvolta formu-
14 Sine nom. 11, p. 118: “Ubi nulla pietas, nulla caritas, nulla fides habitat!
Ubi tumor, livor, luxus, avaritia cum artibus suis regnant, ubi pessimus quisque
provehitur et munificus predo ad celum tollitur, iustus pauper opprimitur, ubi
simplicitas amentie, malitia sapientie nomen habet. Ubi Deus spernitur, adoratur
nummus, calcantur leges, irridentur boni, usque adeo ut iam fere nullus qui
irrideri possit appareat”. Si possono trovare molti luoghi simili nel libro, vedi
ad es. Sine nom. 13, p. 136; 14, p. 146; 15, p. 156; 17, p. 174; 18, p. 198.
15 Sine nom. 5, p. 68; 13, p. 136; 14, p. 146 a 152; 15, p. 156; 16, p. 162; 17, p.
170; 17, p. 192; 11, p. 120; 18, p. 202. Vari motivi antiavignonesi sono presenti
anche nel Contra eum, 16-17, 21, 83, dove Avignone è chiamata “la più bassa
sentina di tutti i vizi” (sentina profundissima vitiorum omnium), “l’inferno dei
vivi” (infernum viventium), “massimo fetore della terra” (fetor ultimus orbis terre),
“immane vergogna” (probrum ingens), “la feccia del mondo” (mundi fex), “la
turpe barbarie” (turpis barbaries), “l’osceno bordello” (oscenus fornix). Si cita da
Francesco Petrarca, Contra eum qui maledixit Italie, cit. Altre descrizioni ingiuriose
di Avignone si possono leggere negli epistolari ufficiali, ad es. in Fam. 12,
11; 13, 6; 17, 3. L’immagine dell’inferno dei vivi è già biblica, cfr. Num. 16, 30;
Ps. 55, 16 (“scendano vivi negli inferi”). Per la presenza di questo motivo vedi
Marco Santagata, in F. Petrarca, Canzoniere, Milano, Arnoldo Mondadori,
2006, p. 680: Secr. 2, 65; Fam. 11, 6, 5; 11, 9, 2; 12, 8, 10; 12, 9, 5; 20, 9, 2; 20, 14,
28; Sine nom. 8, p. 96; Sine nom. 14, p. 152; Contra eum 16; Rvf. 345, 10.
[7] LA SENTINA DEI VIZI 9
late in modo antitetico, con disposizione parallela di ciò che viene
calpestato e di ciò che invece viene celebrato al modo capovolto,
cosicché si metta in evidenza l’esposizione dell’ordine stravolto delle
cose in cui vediamo “i buoni calpestati e i malvagi dominare, le
aquile strisciare e volare gli asini, le volpi in cocchio, i corvi sulle
torri e le colombe nel letamaio, liberi i lupi e gli agnelli in gabbia,
e infine l’esilio di Cristo, la tirannia dell’Anticristo e il giudizio di
Belzebub”16.
Il più lungo ed il più efficace di questi passi si trova comunque
nella lettera che rappresenta un gioiello letterario e l’apice della
denuncia del disordine che regnava ad Avignone:
Taccio dell’eredità di Simone e di quella non ultima sorta di eresia
dei mercanti dei doni dello spirito santo17; taccio dell’avarizia, madre
di quel peccato che l’apostolo definisce idolatria; taccio degli artefici
dell’una e dell’altra peste, e dei mezzani che tutti insieme s’azzuffano
attorno ai talami dei pontefici. […] Dimmi dunque, chi non si
sdegnerebbe e riderebbe alla vista di questi vecchi bambocci che,
bianchi di capelli e dalle lunghissime toghe, sono ancor così lascivi
che il verso di Virglio “chi è invecchiato è languido dinanzi a Venere”
lì sembra la cosa più falsa del mondo? Tanto essi sono caldi e precipitosi
all’amore, tanto sono dimentichi della loro età, della loro
condizione, delle loro forze. Eccoli così bruciare nella libidine, eccoli
precipitare in ogni vergogna, quasi che ogni loro gloria non stesse
nella croce di Cristo, ma nell’ebbrezza delle gozzoviglie e nelle
turpitudini che ne seguono nelle alcove. […] Tutto guarda sghignazzando
Satana e godendo d’uguale tripudio e sedendo arbitro tra le
ragazze e quei vecchi decrepiti, stupisce che essi più possano di
quanto inciti egli stesso, e perché d’improvviso non ci sia qualche
16 Sine nom. 19, p. 220: “Ut videam bonos mergi, malos erigi, reptare aquilas,
asinos volare, vulpes in curribus, corvos in turribus, columbos in sterquilinio,
liberos lupos, agnos in vinculis, Cristum denique exulem, Anticristum dominum,
Belzebub iudicem?” L’esempio di una fila di metafore in Sine nom. 5, p. 70. Per
aquile si intendono grandi, magnanimi uomini. Siccome, però, l’aquila tradizionalmente
simboleggia l’imperatore, ci si può chiedere, anche, se Petrarca non
abbia voluto accennare alla subalternità di Carlo IV al potere papale.
17 Dotti ha chiarito questo passo come rimando alla dottrina di Giovanni XXII
che le anime dei morti non potranno godere della visione beatifica di Dio prima
del giorno del giudizio universale, per ciò vedi anche Fam. 2, 12, 9. Dettagliatamente
Maria Cecilia Bertolani, La visione beatifica: una disputa avignonese
(Fam. II 12), in C. Berra (a cura di), Motivi e forme delle Familiari di Francesco
Petrarca, Milano, Cisalpino, 2003, pp. 611-637; Isabel Iribarren, Theological
Authority at the Papal Court in Avignon: The Beatific Vision Controversy, in J.
Hamasse (a cura di), La vie culturelle, intellectuelle et scientifique a la cour des papes
d’Avignon, Turnhout, Brepols, 2006, pp. 277-301.
10 JIR}Í S}PIC}KA [8]
pausa, eccolo pungere e stimolare i lombi senili, eccolo tener desto
il cieco fuoco con diabolici mantici e spargere per ogni dove il turpe
incendio. Tralascio di parlar degli stupri, dei rapimenti, degli incesti,
degli adulteri, che rappresentano ormai il divertimento della lascivia
papale. E non dico dei mariti delle donne rapite che, perché non
osino fiatare, vengono cacciati non soltanto dalle case paterne ma
dalla patria, e che vengono costretti – la peggiore delle offese – a
riprendersi le mogli violate e ingravidite da seme altrui per rioffrirle
di nuovo, dopo il parto, all’alterna sazietà di chi le usa a suo godimento18.
Petrarca vede in Avignone la nuova Babilonia occidentale, non
tanto per la miriade di lingue che ivi era possibile udire, ma piuttosto
come immagine del peccato e della perdizione. Così come
Nabucodonosor fece deportare a Babilonia il popolo ebreo eletto da
Dio, altresì fu portato ad Avignone il capo della Chiesa. Altre analogie
con la Babilonia del Vecchio Testamento sono create con delle
citazioni letterali dalla Bibbia o parafrasando i motivi babelici. Spesso
viene citato il Rodano, il fiume che ad Avignone confluisce con
18 Sine nom. 18, pp. 206-210: “Taceo hereditatem Simonis et illam heresis
speciem non ultimam spiritus sancti dona mercantium. Taceo mali illius avaritiam
matrem, que idolorum servitus ab apostolo dicta est. Taceo utriusque pestis
artifices et concursantes pontificum thalamis proxenetas. Taceo crudelitatem
humanitatis immemorem et sui ipsius oblitam insolentiam atque illos vanis
flatibus tensos utres. […] Quis, oro, enim non irascatur et rideat illos senes
pueros coma candida, togis amplissimis adeoque lascivientibus animis, ut nichil
illic falsius videatur quam, quod ait Maro: “Frigidus in Venerem senior” Tam
calidi tamque precipites in Venerem senes sunt. Tanta eos etatis et status et
virium cepit oblivio. Sic in libidines inardescunt, sic in omne ruunt dedecus
quasi omnis eorum gloria non in cruce Cristi sit, sed in commessationibus et
ebrietatibus et que has sequuntur in cubilibus impudiciis. […] Spectat hec Satan
ridens atque in pari tripudio delectatus interque decrepitos ac puellas arbiter
sedens stupet plus illos agere quam se hortari; ac ne quis rebus torpor obrepat,
ipse interim et seniles lumbos stimulis incitat et cecum peregrinis follibus ignem
ciet, unde feda passim oriuntur incendia. Mitto stupra, raptus, incestus, adulteria,
qui iam pontificalis lascivie ludi sunt. Mitto raptarum viros, ne mutire audeant,
non tantum avitis laribus, sed finibus patriis exturbatos, queque contumeliarum
gravissima est, et violatas coniuges et externo semine gravidas rursus accipere
ac post partum reddere ad alternam satietatem abutentium coactos”. Virgilio,
Georgica, 3, 97. Vedi anche la Sine nom. 17, p. 174, in cui Petrarca scrive sugli
avignonesi che sotto l’insegna di Cristo militano per Satana. In Contra eum, 196-
207, nel luogo in cui si discute sul carattere dei romani, Petrarca riduce la
comune immagine della loro irascibilità al fatto che non avrebbero tollerato la
prostituzione delle loro mogli (e che loro stesse non si sarebbero abbassate a
prestarsi in questo modo), come è invece solito ad Avignone. In realtà Petrarca,
dunque, mette in vetrina la vergogna delle Francesi e la vigliaccheria dei Francesi.
[9] LA SENTINA DEI VIZI 11
il fiume Durance e perciò evoca l’immagine dei fiumi babilonesi. La
curia papale diventa l’incarnazione della “grande meretrice”, la serva
dei falsi déi (del denaro). Dalla storia riemerge Nimrod, il costruttore
della torre di Babele (qui Clemente VI il costruttore del
palazzo papale19), come riemerge Semiramide, la regina di Babilonia
(qui la contessa d’Urgel, considerata l’amante di Clemente)20.
Le fonti del Vecchio Testamento si sovrappongono liberamente
agli elementi dell’antica mitologia, il che rappresenta l’originalità
del contributo di Petrarca alla ormai consolidata e affermata retorica
babilonese dei critici della Chiesa. Avignone è l’inferno ma allo
stesso tempo anche l’oltretomba classico: “Tutto quanto hai letto
sulla Babilonia d’Assiria o su quella d’Egitto, quanto hai letto sui
quattro labirinti e sulla soglia d’Averno, sulle selve tartaree e sulle
paludi sulfuree, paragonato a questo Tartaro, è favola”21. In questa
citazione Petrarca ci propone il suo originale motivo del labirinto di
cui era particolarmente fiero. Come lui stesso spiega, i labirinti dell’antichità
erano quattro, ma nel Liber sine nomine si fa inanzitutto
riferimento a quello più famoso di Creta, nel quale il Minotauro
divorava le sue vittime e dal quale non c’era via di scampo22. Similmente
viene menzionato colui che finisce nei lacci mostruosi di
Avignone23. Se però i labirinti avevano un certo ordine, sebbene
incomprensibile, Babilonia al contrario rappresenta soltanto il caos
in antitesi con l’ordine perfetto della Gerusalemme celeste.
Il poeta paragona gli orrori di Avignone anche al diluvio universale,
in cui sono nuovamente uniti il Vecchio Testamento e la mitologia
classica:
19 Petrarca lo ricorda con il gioco di parole turrificus e terrificus, dunque
“costruttore delle torri” e “terribile”, cfr. Sine nom. 8, p. 96.
20 Cfr. la storia dell’antica Babilonia in Sine nom. 10, p. 108. La Babilonia
biblica e una visione apocalittica di Avignone sono presenti in Sine nom. 18, pp.
202-204. John E. Wrigley, A Rehabilitation of Clement VI. Sine nomine 13 and the
Kingdom of Naples, «Archivum historiae pontificiae», 3, 1965, pp. 127-138, identifica
in Semiramide la regina napoletana Giovanna che aveva venduto al papa
il territorio di Avignone ed è così diventata, così come Semiramide, una fondatrice
di Babilonia.
21 Sine nom. 8, pp. 94-96: “Quicquid de assiria vel egiptia Babilone, quicquid
de quatuor laberinthis, quicquid denique de Averni limine deque tartareis silvis
sulphureisque paludibus legisti, huic Tartaro admotum fabula est”. Altri riferimenti
all’inferno e agli inferi Sine nom. 8, p. 96; 10, p. 112; 16, p. 164; 19, p. 218.
22 I labirinti si trovavano in Egitto, Lemno, Creta e a Chiusi. Altre menzioni
dei labirinti in Sine nom. 10, pp. 110-112; 11, p. 120; 16, p. 162; 8, p. 96; Epyst.
3, 15-16; 3, 21-23.
23 Cfr. Sine nom. 18, p. 200; 11, p. 118; 15, p. 158.
12 JIR}Í S}PIC}KA [10]
Nessun Noè potrebbe dunque scampare a nuoto di qui, nessun
Deucalione, e perché tu non creda che Pirra abbia navigato con
maggior fortuna, sappi che nessuna donna si salva; tutte ad un tempo
le involge l’ondata dei più turpi piaceri, un’incredibile tempesta
di misfatti femminili e il totale sconcissimo naufragio della pudicizia24.
Con l’ambiente infernale si collega la ricorrente metafora delle
tenebre come peccato:
Non vi è inoltre nessuna luce, nessun duce, nulla che indichi gli
anfratti, ma caligine ovunque e ovunque confusione, perché sia veramente
Babilonia e stupefacente labirinto e, per dirla con Lucano,
“cupa notte di delitti”. Notte, dico, tenebrosa ed eterna, priva di stelle
e senza aurora; e profonda e ininterrotta ombra di macchinazioni, ed
eterne angustie, fatica senza fine, tedio immortale, né lì è più violento
il vortice del Rodano o il soffio del Circius o di Borea di quanto
sia la furia e la volubilità degli animi25.
In un’altra lettera la vita ad Avignone viene paragonata alle tragedie
classiche: mentre gli autori di queste cercavano laboriosamente
i loro argomenti, ad Avignone sono radunati tutti i crimini e le
perversioni immaginabili26.
La mostruosità della vita avignonese si riflette sia nella descrizione
fisica dei cardinali, in quanto “pessimi uomini” (homines pessimi),
“belve fameliche e crudeli” (bellue famelice et inmites), “vecchi
irsuti e affamati” (hirsuti ieiunique senes)27, sia nella descrizione dei
ranghi ecclesiastici più bassi e degli abitanti della città in genere, i
quali tutti insieme perdono addirittura i connotati umani, vuoi perché
l’intrapresa via del male li ha privati dell’aspetto umano, vuoi
24 Sine nom. 11, pp. 118-120: “Nullus hinc igitur Noe, nullus Deucalion enatabit
ac, ne Pyrrham putes felicius navigasse, scito nullam prorsus emergere; cuntas
simul obscenissimarum voluptatum fluctus involvit atque incredibilis quedam
muliebrium criminum procella pudicitieque fedissimum sine exceptione naufragium”.
25 Sine nom. 15, p. 158: “Nulla ibi preterea lux, nullus dux, nullus index
amfractuum, sed caligo undique et ubique confusio, ne parum vera sit Babilon
ac perplexitas rerum mira utque Lucani verbo utar: “Nox ingens scelerum”.
Tenebrosa, inquam, et eterna nox, expers siderum et aurore nescia, tum profunda
et iugis actuum opacitas, perennes angustie, infinitus labor, immortale fastidium
neque violentior illic aut Rodani gurges aut Circii flatus ac Boree quam impetus
et instabilitas animorum”. Lucano, Phars. 7, 571.
26 Sine nom. 6, p. 80.
27 Sine nom. 12, p. 132; 5, p. 72; 16, p. 164. Sui cardinali anche Sine nom. 14,
p. 150; 17, p. 174; 18, p. 206; 19, pp. 218-222.
[11] LA SENTINA DEI VIZI 13
perché sono stati deformati dalla vita viziosa e dall’eterno errare nel
caos, da cui non c’è via d’uscita28. Nel brano seguente la mostruosità
e la spettralità dei cardinali si incontrano con i motivi apostolici:
[…] mi tiene il Rodano feroce, quanto mai simile al ribollente Cocito
e al tartareo Acheronte, dove il retaggio dei pescatori, povero un
giorno, regna totalmente dimentico del passato. Sconcerta menzionare
costoro, vederli onusti d’oro e di porpora, superbi delle spoglie
dei principi e delle genti, vedere invece di barche rovesciate lussioriosi
palazzi, e monti chiusi da mura anziché da quelle piccole reti con le
quali una volta, nell’arsura di Galilea, a stento ci si procurava un
misero cibo; con le quali, sul lago di Gennesaret, dopo essersi affaticati
tutta la notte, nulla avevano preso (ma nel nome di Gesù,
l’indomani, fu fatta una pesca abbondantissima); ascoltare ora lingue
menzognere; osservare involucri privi di consistenza e volti in rete
col piombo con i quali, sempre nel nome di Cristo, ma nell’opera di
Belial è avviluppata la credula turba dei cristiani, talché presto, spoglia
delle squame, sarà bruciata alle fiamme delle angosce e sui
carboni di ginepro, sul punto di colmare la voragine dell’avido ventre29.
Rifacendosi al racconto secondo Luca del miracolo di Gesù (L 5,
28 Ad es. Sine nom. 15, p. 158; 18, p. 202. Attraverso il tema del labirinto e del
Minotauro Petrarca giunge alle immagini eccezionalmente espressive nelle epystole
3, 15-16 indirizzate al musicista Floriano da Rimini, dove sono dipinte le manifestazioni
della mostruosità avignonese (con il richiamo al mito di Orfeo, visto
che il ricevente è un musicista): “mostri nati dalla terra” (monstra parit tellus),
“tavole piene di insidie” (dubiae mensae), “crudeli destre” (dextrae cruentae), “petti
di ferro” (praedura metallum pectora), “animi come rocce” (silices animi), “viscere
infiammate” (viscera flammae), “esseri tra buoi e uomini” (semiviri boves,
semiboves viri), “segni di cieca libidine” (caecaque libidinis signa), “furore” (furor),
“rabbia” (rabies), “fame crudele” (famesque dira), “fauci insaziabili di sangue”
(nec immites cessant a sanguine fauces), “il mondo lacerato da denti famelici”
(cupidis totus laceratur dentibus orbis).
29 Sine nom. 5, pp. 68-70: “Nunc me […] habet […] ferox Rodanus estuanti
Cocyto vel tartareo simillimus Acheronti, ubi pescatorum inops quondam regnat
hereditas, mirum in modum oblita principii. Stupor est memorare illos, hos
cernere auro onustos et purpura, superbos principum ac gentium spoliis; videre
pro inversis ratibus luxuriosa palatia, et menibus clausos montes pro retibus
parvis, quibus olim in estu galileo victus vix exiguus querebatur, quibus in
stagno Genesareth tota nocte laborantes nichil ceperant (mane autem facto capta
est in nomine Jesu ingens piscium multitudo); audire nunc mendaces linguas,
spectare membranas vero vacuas et pendenti plumbulo versas in retia, quibus
in nomine eodem, sed in operibus Belial credula cristianorum turba concluditur,
ut mox, squamis exuta, curarum flammis et desolatoriis carbonibus exuratur,
avari ventris expletura voraginem”. Sulle braci Ps. 120, 4.
14 JIR}Í S}PIC}KA [12]
1-10), che si conclude con la proverbiale frase di Gesù a Simone
“d’ora in poi sarai pescatore di uomini”, Petrarca definisce il ruolo
dei cardinali, diretti successori degli apostoli di Cristo, come quelli
che non pescano gli uomini per diffondere la fede, bensì pescano e
derubano i cristiani in balia delle angustie, i quali vengono ad
Avignone per supplicare. Le squame, un altro elemento del mondo
apostolico dei pescatori, rappresentano qui egregiamente le monete.
Il ventre avido dei prelati corrotti è invece in contrasto con la povertà
dei pescatori.
La comparazione della Chiesa contemporanea con gli inizi
apostolici e l’uso sarcastico dei motivi dei pescatori, si ripresentano
in più punti, come del resto anche la ripetizione delle sofferenze di
Cristo:
Che proprio quel Cristo, il cui nome levano alto notte e giorno nelle
loro laudi, che vestono di porpora e d’oro, che ornano di pietre
preziose, che salutano e adorano genuflessi, è colui che intanto essi
comprano, vendono e commerciano; colui che, quasi che un velo
sugli occhi gli impedisse la vista, essi incoronano con le spine delle
loro ampie ricchezze, deturpano con gli sputi della loro sudicia bocca,
scherniscono con sibili viperini, feriscono con la punta delle loro
azioni avvelenate e che, per quanto possono, deriso, nudo, povero,
flagellato, continuamente trascinano sul Calvario e continuamente
crocifiggono con applausi scellerati30.
Negli anni 1322-1323 scoppiò la lotta di Giovanni XXII contro il
capitolo generale dei frati minori, i quali proclamavano che Gesù e
gli apostoli vissero in assoluta povertà e che la Chiesa dovrebbe
seguire il loro esempio. Nell’anno 1323 il Papa emise la bolla Cum
inter nonnullos, con la quale dichiarò questa tesi come eretica; il
generale dell’ordine Michele da Cesena fuggì cercando protezione
dall’imperatore Ludovico il Bavaro, presso il quale trovò comprensione
e approvazione per questo insengnamento31. Petrarca però evita
30 Sine nom. 17, p. 176: “Nonne etenim Cristum ipsum, cuius nomen die ac
nocte altissimis laudibus attollunt, quem purpura atque auro vestiunt, quem
gemmis ornant, quem salutant et adorant cernui, eundem interea emunt, vendunt,
nundinantur, eundem quasi velatis oculis non visurum et impiarum opum
vepribus coronant et impurissimi oris sputis inquinant et vipereis sibilis insectantur
et venenatorum actuum cuspide feriunt et, quantum in eis est, illusum,
nudum, inopem, flagellatum iterum atque iterum in Calvariam trahunt ac nefandis
assensibus cruci rursus affigunt”. I motivi della pesca sono presenti anche
in Sine nom. 5, p. 70; 16, p. 162.
31 Cfr. Bernard Guillemanin, Il papato ad Avignone, in Diego Quaglioni (a
[13] LA SENTINA DEI VIZI 15
qualsiasi possibile collegamento con l’opposizione dei minoriti e si
scaglia sul lusso vizioso della dirigenza avignonese da un punto di
vista puramente individuale e morale.
Come abbiamo visto nel passo precedente, il peccato principale
della Chiesa del tempo è la rinuncia alla missione apostolica, in
quanto essa deruba l’intero mondo cristiano, per poi poter scialacquare
le ricchezze ottenute in gioie viziose. Per descrivere l’avidità,
Petrarca impiega la figura di Giuda con i suoi trenta denari che ha
ottenuto in cambio del tradimento di Gesù; ciò accenna nuovamente
alla simonia, alla vendita di Cristo nonché dei beni e degli uffici
spirituali in cambio di denaro. Le ricchezze della Chiesa vengono
dunque definite come “malamente raccolte, malamente […] spese”
32. Questo passo tratta del potere infausto dell’oro, in cui l’anafora
della parola “oro” viene usata come connotazione dell’inferno
avignonese; le allusioni al signore, al mostro, al guardiano e ad altre
figure sono evocazioni dei mostri infernali e delineano la via che
ogni pellegrino implorante deve seguire ad Avignone per sbrigare
le proprie faccende: corrompere progressivamente i vari membri
della curia per trovare infine quello giusto. La gradazione ha poi un
doppio vertice, ovvero l’oro che apre le porte del cielo e la peggior
verità sulla simonia:
L’unica speranza di salvezza è riposta nell’oro. Con l’oro si placa il
feroce sovrano, con l’oro si vince l’immane mostro, con l’oro si tesse
il filo della salvezza, con l’oro si mostra la dura soglia, con l’oro si
spezzano sbarre e massi, con l’oro si mitiga il triste portinaio, con
l’oro si spalanca il cielo. A che molte parole? Con l’oro si fa mercato
di Cristo33.
Poco più sotto questo inquietante quadro, troviamo uno dei pochi
passi narrativi, addirittura novellistici, che sono così rari nell’opera
cura di), Storia della Chiesa, vol. 11 (La crisi del Trecento e il papato avignonese),
Cinisello Balsamo, San Paolo, 1994, p. 240; Emilio Pasquini, Il mito polemico di
Avignone nei poeti italiani del Trecento, in Aspetti culturali della società italiana nel
periodo del papato avignonese, Todi, Accademia Tudertina, 1981, p. 309.
32 Sine nom. 11, p. 118: “male collectis et male fundendis divitiis”. Su Giuda
vedi Sine nom. 17, pp. 174-176, 188.
33 Sine nom. 10, p. 112: “Una salutis spes auro est. Auro placatur rex ferus,
auro immane monstrum vincitur, auro salutare lorum texitur, auro durum limen
ostenditur, auro vectes et saxa franguntur, auro tristis ianitor mollitur, auro
celum panditur. Quid multa? Auro Cristus venditur”. Si alternano rimandi all’inferno
e al cielo.
16 JIR}Í S}PIC}KA [14]
di Petrarca. Si tratta della “novella” del cappello cardinalizio34 nella
quale si racconta la storia di una ragazza povera che fu condotta da
un cardinale per allietarlo in cambio di denaro. La fanciulla però fu
sconvolta ed inorridita dal vecchio ripugnante che voleva andare a
letto con lei; non riusciva a credere che quella creatura potesse
essere un cardinale:
Scossa da un improvviso ribrezzo e atterrita da quell’odor di vecchiaia
e da quella lurida faccia, la ragazza si mette a gridare d’essere
venuta da un grande e insigne prelato e non da un deforme e
decrepito sacerdote, e che non la si poteva ingannare; se le si fosse
usata violenza, fin che avesse avuto forza si sarebbe difesa con le
mani, quindi con i pianti e gli ululati, e non avrebbe comunque
mai permesso d’essere oltraggiata, fin che fiato le fosse rimasto, da
un vecchio tanto laido. E così urlando era tutta lacrime. Il vecchio
intanto, con la mano rugosa e la bocca bavosa e ispida, tentava di
chiudere la bocca tenera di lei, cercando di soffocare i suoi pianti
e i suoi lamenti e insieme di confortare la sua infelicità con un
confuso mormorio fatto di stupide blandizie, ché infatti, oltre al
resto, era bleso e non si riusciva a comprendere ciò che diceva. Ma
vedendo che non serviva a nulla, quel fior di vecchio corse a prendere
il rosso cappello che distingue i cardinali dagli altri sacerdoti
e, calcatesi sulla bianca calvizie le insegne del suo grado: “Sono un
cardinale”, esclamò, “sono un cardinale: non aver paura, figlia
mia”35.
Passiamo adesso dai cardinali al Santo Padre in persona. È degno
di nota che i ritratti dei papi appaiano solo nella prima e nel-
34 In Sine nom. 14, p. 148, si trova un’altra storiella, questa volta sul cardinale
che si fa beffe dei supplici raccontando loro nonsensi sulle posizioni del papa
nei confronti di varie questioni.
35 Sine nom. 18, pp. 212-214: “Repentino malo percita et olente senio et vultu
lurido deterrita, exclamat ad magnum se quendam et insignem prelatum, non
ad deformem et decrepitum sacerdotem advenisse, non posse sibi fraudem fieri;
vis si fiat, manibus quoad possit, deinde gemitibus atque ululatibus occursuram
neque, dum reliquie spiritus ulle essent, passuram se a tam turpi sene violari.
Hec vociferans ubertim flebat. Ille autem, et manu scabra et ore hispido spumantique
tenerum os precludens, fletibus et querimoniis conabatur obstare atque
incondito murmure et ineptissimis blanditiis (erat enim preter cetera blesus
adeo ut a nemine posset intelligi) egram animi solari. Sed cum nil proficeret,
senex egregius in secretarium se proripit, arreptoque quo conscripti patres a
reliquis discernuntur rubenti pileo et insigne suum albo calvoque vertici
imponens: “Cardinalis sum” inquit, “Cardinalis sum, ne timeas, filia!”. Ezio Raimondi,
Una pagina satirica delle Sine nomine, «Studi petrarcheschi», 6, 1956, pp.
55-61, svela le ispirazioni stilistiche di questo passo, soprattutto quella apuleiana.
[15] LA SENTINA DEI VIZI 17
l’ultima lettera della raccolta, come se questa figura eminente dovesse
fungere da cornice36. I due ritratti si confondono, perciò è
probabile che Petrarca non intendesse deridere una persona concreta,
bensì volesse mettere in luce la decadenza generale dell’autorità
papale e della sua dignità. Nella prima lettera il defunto Benedetto
XII (o Clemente VI) viene appunto definito come “vecchio marinaio”,
moribondo “madido di vino, grave d’età e cosparso d’umori
soporiferi”37, i suoi ordini di capitano, con i quali governa la barchetta
della Chiesa, sono in contrasto con tutte le regole della buona
navigazione, inoltre la sua stupidità e per di più la sua cecità portano
dritte alla perdizione.
Tranne un’unica eccezione non troviamo l’ormai affermata e
diffusa metafora del pastore e del gregge, che Petrarca usa esclusivamente
per il Bucolicum carmen. La suddetta eccezione è il discorso
conclusivo a Carlo IV, quindi in quanto a dignità si tratta
del più alto livello del libro38. Ciò può essere dovuto al fatto che
Petrarca, a differenza di altri autori, attribuiva a questa metafora
un valore stilistico più alto e voleva così contraddistinguere il discorso
all’imperatore dal resto della raccolta piena di sfegatata indignazione.
Petrarca non disdegna le visioni apocalittiche cominciando con
l’amara polemica con Giovenale che scrisse del proprio tempo: “Ogni
vizio è al suo culmine” Petrarca infatti aggiunge: “Oh la tua semplicità!
non avevi certo veduto l’età nostra. Oggi, oggi i vizi sono
giunti al culmine talché è impossibile progredire ancora senza la
rovina di tutto”39. Il poeta si rifà comunque più frequentemente al
vocabolario del Vecchio Testamento e mette in guardia dalla minaccia
dell’ira e della punizione di Dio per i peccati avignonesi,
ricordando l’imminente giorno del giudizio40. Addirittura nelle lettere
inerenti Cola, Roma stessa diventa strumento di vendetta che
36 Sine nom. 1, pp. 10-14; 19, p. 222. Il papa è denominato Giuliano Apostata
anche in Sine nom. 6, p. 78.
37 Sine nom. 1, pp. 10, 12: “equoreus senex […] vino madidus, evo gravis ac
soporifero rore perfusus”.
38 Sine nom. 19, p. 222. Per essere esaurienti è necessario ricordare che il
termine grex è usato in Sine nom. 17, p. 188, ma come una metafora ad hoc, senza
il legame con la metafora codificata del gregge riferita al popolo cristiano.
39 Giovenale, Sat. 1, 149; Sine nom. 6, p. 76.
40 Ad es. Sine nom. 16, p. 164; 6, p. 78. Cfr. le profezie veterotestamentali
della distruzione di Babilonia, ad es. Isaia 25, 2.12; Isaia 47-48; Gerem. 25, Gerem.
50-51; Dav. 5.
18 JIR}Í S}PIC}KA [16]
presto punirà a dovere la superba Avignone41. I cardinali gravati
dalla cecità scandalosa poi saranno “travolti nelle loro farneticazioni;
noi siamo nelle mani di Dio, per godere non del destino che essi
vorrebbero, ma di quello che egli ci avrà riservato”42. Anche l’improvvisa
apparizione dell’imperatore ex machina alla fine della raccolta
e il discorso a lui rivolto da Petrarca, non sono tentativi per
ottenere il sostegno imperiale, bensì esprimono l’inefficacia dei rimedi
terreni, poiché Carlo è predestinato a non concludere niente.
Infatti anche il poeta scettico alla fine del suo discorso demanda la
soluzione dei problemi a Dio stesso e alle sue catastrofi provvidenziali.
I passi riportati, specialmente la viva fiducia nel fatto che Cristo
vorrà sistemare ancora la storia dell’umanità, dimostrano che
Petrarca, a differenza dei minoriti e dei settari i quali aspettavano
veramente l’apocalisse e cercavano di convincere le folle del suo
incombente avvento, usa questo argomento soltanto come mezzo
retorico. Petrarca non aveva nessun concreto programma di risanamento,
come del resto non lo avevano molto chiaro neanche i
minoriti. Per loro era un ritorno vago della Chiesa alla povertà, per
Petrarca una formalità consistente nel ritorno della curia papale a
Roma. Quello che doveva venire, non era la riforma della Chiesa né
tanto meno l’apocalisse, la risurrezione della carne e l’avvento del
regno di Dio, bensì il rinnovamento del regno di Roma.
Quella di Petrarca non è l’unica voce levatasi contro Avignone,
ma per i suoi connotati elitari e per il punto di vista strettamente
personale vuole restare ad ogni costo isolata da tutte le altre. La
testimonianza dello scrittore più famoso del secolo non può certo
essere contaminata dai valori diffusi tra gli intelettuali medi. Allo
stesso tempo quella testimonianza storica e quella verità tremenda
che Petrarca lascia alle generazioni future, non sono un’analisi o
una descrizione, ma sono piuttosto una denuncia e una maledizione.
Il suo disgusto nei confronti di Avignone non è dovuto solo alle
mostruosità e ai crimini che più o meno perpetravano i membri
della curia, ma è soprattutto la rivincita personale per tutte le umiliazioni
e i torti che aveva dovuto sopportare in Francia; allo stesso
tempo si può anche parlare di un’onirica compensazione dei senti-
41 Cfr. passi minacciosi in Sine nom. 2, pp. 20-24.
42 Sine nom. 3, p. 34: “Sed ipsi quidem in erroribus suis morientur; nos in
manibus Dei sumus, fortunam non quam ipsi volunt, sed quam ille nobis preparaverit
habituri”.
[17] LA SENTINA DEI VIZI 19
menti di un italiano ingiustamente sconfitto, il quale aspetta con
impazienza la caduta dell’avversario francese più forte.
Ricordiamo inoltre, in sede della conclusione, che il contenuto e
i toni del Liber sine nomine, di questo gioiello della letteratura polemica
del secolo quattordicesimo, sono stati considerati fino a pochi
decenni fa come scandalosi e il libro è stato bersagliato dalla censura
cattolica. Il silenzio calato su di esso nei secoli fu interrotto soltanto
da sporadiche voci provenienti dall’ambiente della Chiesa dei
Fratelli Boemi: il Liber sine nomine fu menzionato e citato in alcuni
brani, mentre R}ehor] Hruby; da Jelení, un attento osservatore della
letteratura europea, tradusse in ceco tutta la raccolta all’inizio del
XVI secolo43. Questa sua traduzione restò fino al XIX secolo l’unica
traduzione completa del Liber sine nomine in una lingua straniera44.
Nel frattempo, nel XVI secolo apparvero solamente la traduzione
tedesca del Sine nom. 18 e la traduzione italiana di alcuni passi tratti
dalle lettere Sine nom. 5, 14, 17, 18, che comunque furono stampati
a Tubinga. La situazione in Italia, infatti, era particolarmente pesante.
Quando nel XIX secolo Girolamo Fracassetti curò l’edizione degli
epistolari petrarcheschi, rifiutò di pubblicare queste lettere, perché
riteneva che offendessero la Chiesa e gettassero il disonore sullo
scrittore stesso. Ferdinando Ranalli, l’autore della prima traduzione
italiana (1836), per questo atto temerario venne addirittura espulso
dallo stato pontificio da Papa Gregorio XVI. Un’altra traduzione
43 La traduzione di R}ehor], come altre sue traduzioni, è conservata nel ms.
della Biblioteca Nazionale di Praga (Národní knihovna Praha) 17 D 38. Una
traduzione anonima della Sine nom. 19 è contenuta nel ms. della stessa biblioteca
17 F 44. Cfr. Erwin Rauner, Petrarca-Handschriften in Tschechien und in der
Slowakischen Republik, Padova 1999, pp. 350, 352, 315-317. Sulla ricezione di
Petrarca nell’ambiente dell’Unità dei fratelli boemi cfr. Ota Halama, Petrarku“v
spis Sine titulo, utrakvisté a Bratr]í jagellonské epochy, in E. Dolez]alová – R. Novotny;
– P. Soukup (a cura di), Evropa a C}echy na konci str]edove]ku, Praha, Filosofia, 2004,
pp. 433-447.
44 La trad. tedesca della Sine nom. 19 è stata eseguita da un umanista croato
luterano Matij Vlac]ic; Ilirik (Matthias Flacius Illyricus), cfr. Joachim Knape,
Petrarca protestantisch, in N. Bachleitner – A. Noe – H.-G. Roloff (a cura di),
Beiträge zu Komparatistik und Sozialgeschichte der Literatur, Rodopi, Amsterdam
1997, pp. 195-210 (l’edizione del testo compresa). La traduzione è stata pubblicata
su un foglio sparso senza data, ma databile tra gli anni 1555-1562. Alcuni
brani sono stati scelti dall’umanista protestante Pier Paolo Vergerio il giovane
per la sua antologia Alcuni importanti luochi tradotti fuor delle epistole latine di M.
Francesco Petrarca, [Tübingen 1557]. Cfr. Paul Piur, Petrarcas „Buch ohne namen“
und die päpstliche Kurie, pp. 299-302.
20 JIR}Í S}PIC}KA [18]
apparve in Sardegna nel 1895, ma i lettori italiani dovettero aspettare
altri cento anni, ossia fino all’anno 1974, per avere la prima
edizione italiana disponibile per il vasto pubblico45.
Jir]í S}pic]ka
(Università F. Palacky; di Olomouc, Repubblica Ceca)
45 F. Petrarca, Epistole di F. Petrarca recate in italiano, trad. Ferdinando Ranalli,
Silvestri, Milano 1836; F. Petrarca, Le Anepigrafe, trad. Orazio D’Uva, Giuseppe
Dessi, Sassari 1895. Sulle circostanze di queste traduzioni Carmelina Naselli,
Petrarca nell’Ottocento, F. Perrella, Napoli – Genova – Città di Castello – Firenze
1923, pp. 76-79, 88-89. Sugli interventi della censura cattolica contro i testi
petrarcheschi vedi Andrea Sorrentino, Il Petrarca e il Sant’Uffizio, «Giornale
storico della letteratura italiana», 101, 1933, pp. 259-276; Maria Antonietta
Passarelli, Petrarca scelestus auctor in una censura (non più anonima) di Gabriele
Barri (ms. Vat. lat. 6149, ff. 142r-150v), Critica del testo, 6, 2003, n. 1, pp. 177-220;
MaríA Luisa Cerrón Puga, Censure incrociate fra Italia e Spagna: il caso di Petrarca
(1559-1747), ivi, pp. 221-256; Luisa Avellini, Proposte per il Petrarca all’“Indice”
negli anni del papato Boncompagni, Italianistica, 33, 2004, n. 2, pp. 133-142.
DONATELLA DONATI
Vittorio Alfieri: in difesa della propria opera
Prompted by his awareness of the evanescence of creativity and the
shortness of life, Vittorio Alfieri developed an attitude to protect his
own literary work. This essay shows how rich and intense were
Alfieri’s activities in order to defend his works and throws light on
his intention to claim his role in the literary system of the second half
of the 18th century. His aim was to mark out the building blocks of
a “global” literature. Disappointed by what had happened in France,
Alfieri fought against the modernization of his theatrical works.
1. Come pochi Alfieri sentì la fugacità della vita terrena e nutrì un
sentimento assolutamente precoce della vecchiaia e del declino della
propria creatività. Dove affondassero le radici di questo malinconico
senso di finitezza non è facile dire. Certo saremmo tentati di ricorrere
ancora una volta all’infanzia affettivamente trascurata, ma l’assunzione
dei complicati e sofferti legami familiari, come generatore privilegiato
e unico di tutte le motivazioni profonde e oscure del nostro
maggior tragediografo settecentesco, rischia di essere banalizzata e
snaturata dall’inflazione delle chiamate in causa. Sembra preferibile e
più obiettivo rovesciare i termini del problema e, piuttosto che interrogarsi
sulle cause di questa percezione degli anni in precipitosa fuga
e di sé vecchio anzitempo, analizzarne le conseguenze e riflettere su
di esse. La più evidente appare quella di una corsa a completar l’opera,
qualunque essa sia, non solo come espressione di una creatività
galoppante, ma come sentimento del tempo finalizzato a uno scopo
e quindi soggetto all’imperio della volontà, ossessivamente scandito
in tappe, ritmato a intervalli finiti, regola dalla quale non si deroga.
Da qui un vero rincrescimento, che talvolta diviene senso di colpa,
per il suo cattivo uso, per i giorni o le ore sprecate. D’altra parte la
frenesia e l’ansia che accompagnano l’esecuzione di un progetto sono
comuni a molti artisti e diffuse soprattutto in età matura.
Più tipicamente alfieriana è invece la tendenza a vivere il tempo,
soprattutto dopo i traumatici eventi del 1789, secondo una duplice
22 DONATELLA DONATI [2]
dimensione: un tempo della vita quotidiana che scorre e tuttavia è
sempre meno importante e significativo, se non per la possibilità
che concede di lavorare e studiare, e un tempo idealizzato, senza
prima e senza dopo, immobile, un fondale di eternità sul quale vengono
proiettate le sue creazioni letterarie a condividere la gloria con
i grandi modelli della tradizione classica e italiana. Siamo ormai alla
conquista di una metastoricità mitica, a scapito del presente storico
che viene progressivamente smantellato e rimosso. Alfieri sembra
avviato a coltivare l’aspirazione a vivere postumo a se stesso e a
identificarsi totalmente con la propria opera. Nei confronti di quest’ultima
sviluppa poi un sentimento di protezione e difesa che
dalla sollecita attenzione dell’età matura evolve verso l’ossessionato
zelo e il rigorismo degli ultimi anni.
Qui di seguito si sviluppano alcune considerazioni sul tema della
ricchezza degli interventi di Alfieri in difesa del suo lavoro e in
momenti diversi della sua vita.
2. Nelle Rime il motivo del Tempo è sempre intrecciato al tema
della gloria letteraria. L’eternità della Poesia si pone come solo baluardo
all’azione disgregatrice di quel «vecchio alato» – immagine
di ascendenza mariniana1 – che tutto il resto distrugge, compresi i
frutti delle altre arti. Ciò si riallaccia strettamente al trattato Del
Principe e delle lettere in cui il primato della letteratura si fonda sul
fatto che l’opera letteraria «è cosa che non ha fine, e che giova ai
presenti e ai lontani»2.
L’ambizione letteraria di Alfieri nasce sulla spinta di un desiderio
di gloria e di fama che i tempi non consentono di ottenere per
altra via, ma una volta affermata la possibilità che la scrittura sostituisca
l’azione, la prima ha decisamente il sopravvento sulla seconda
e i concetti si radicalizzano, funzionali a esaltare la supremazia
della letteratura e la superiorità di chi scrive: così categoricamente
si afferma «credo che lo scrittore grande sia maggiore di ogni altro
grand’uomo» e ancora «onde io nell’esecutore di una impresa sublime
ci vedo un grand’uomo; ma nel sublime inventore e descrittore
di essa, a me pare di vedercene due»3.
1 A. Fabrizi, Le scintille del vulcano (Ricerche sull’Alfieri), Modena, Mucchi,
1993, pp. 118-121.
2 V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri,
1951b, I, p. 158.
3 Ibidem.
[3] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 23
Alfieri non paventa tanto il non lasciare dietro di sé un’opera
abbastanza rilevante da sfidare i secoli – è autore ben consapevole
di ciò che ha realizzato – quanto che essa venga distorta o equivocata,
forse persino strumentalizzata, da chi per antipatia, gelosia,
ostilità, carattere servile, opportunismo, possa o voglia nuocergli
trasmettendo un’immagine tendenziosa di lui stesso e della sua opera
quando non avrà più la possibilità di smentire, ribattere e dunque
difendersi da malevoli attacchi. Alfieri conosceva bene la reazione
tutt’altro che positiva alle sue tragedie non solo da parte di personaggi
culturalmente mediocri o ottusi4, ma anche da parte di critici
illustri, quali il Bettinelli o il Cesarotti5. Ciò che dispiaceva agli antialfieristi
dipendeva non solo dallo stile scabro fortemente innovativo
(sebbene gli si rinfacciasse l’uso di una lingua troppo antica),
lontanissimo dalle apprezzate dolcezze metastasiane, ma anche dal
contenuto ideologico inquietante che scardinava ogni certezza e
popolava la scena di personaggi complessi e oscuri, dai profili quasi
sempre tormentati: talvolta, se positivi, eroi non del tutto innocenti,
non immuni dal male che avevano intorno; se negativi, persino gli
stessi tiranni, non privi di una loro attraente grandezza. Ai giorni
nostri ciò ha suggerito la suggestiva immagine di un Alfieri che
impudicamente svelava in teatro quella che Proust chiamerà «la
vasta notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima» e questo,
in così grande anticipo sui tempi, non consentiva un facile dialogo
fra lui e la maggior parte dei critici suoi contemporanei6. Tuttavia la
preoccupazione principale dell’Astigiano non riguardava probabilmente
il plauso o la stroncatura dell’opera in sé. Al di là del fatto
che chiedesse esplicitamente pareri e giudizi, nella sostanza si rite-
4 L’Alfieri in Vita (IV, 10) così commenta le lettere speditegli dalla Toscana a
Roma nel 1783 «le quali lo mordeano non poco su le stampate tragedie» (Filippo,
Polinice, Antigone e Virginia): «Erano queste lettere, qualcuna scritta con sale e
gentilezza, le più insulsamente e villanamente; alcune firmate e altre no; e tutte
concordavano nel biasimare quasi che esclusivamente il mio stile, tacciandomelo
di durissimo, oscurissimo, stravagantissimo, senza però volermi, o sapermi, individuare
gran fatto il come, il dove, il perché». In V. Alfieri, Vita scritta da esso,
a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951a, p. 238.
5 Cfr. A. Fabrizi, Le scintille del vulcano, cit., pp. 253-257 (per una ricognizione
degli scritti sull’Alfieri dopo la prima edizione delle Tragedie consultare nota
1); e ancora Id., Alfieri e i letterati toscani in Alfieri in Toscana. Atti del Convegno
Internazionale di Studi, Firenze, 19-20-21 ottobre 2000, a cura di G. Tellini e R.
Turchi, Firenze, Olschki, 2002, II, pp. 647-735.
6 Id., Le scintille del vulcano, cit., p. 257.
24 DONATELLA DONATI [4]
neva il miglior giudice di se stesso e della propria opera. Così scrive
per esempio all’amico Caluso in data 25 novembre 1799:
Io son tuttavia sempre di parere di lasciarmi, o farmi anche dire
delle sciocchezze su le cose mie da chi si vuol pigliare questa briga,
perchè mi pare sempre d’impararvi qualche cosa; se non sempre per
l’arte dello scrivere, almeno per l’arte del conoscere gli uomini; e per
farmi un’idea giusta delle opinioni degli uomini, e delle impressioni
che sogliono essi ricevere dalle cose scritte7.
Il gran parlare e discutere che si andava facendo intorno al suo
stile, le polemiche fra estimatori e detrattori a ogni nuova uscita dei
suoi testi, dovevano probabilmente apparirgli l’inevitabile clamore,
sebbene non sempre gradevole, suscitato dall’eccezionalità. Molto
più grave e destabilizzante fu per Alfieri l’aver sentito, da un certo
punto in avanti della sua vita, che quella specie di fiume in piena
che diventò la Rivoluzione in atto, rischiava di stravolgere il senso
profondo del suo lavoro e che, ancor peggio, il significato delle
posizioni ideologiche espresse prima dell’Ottantanove poteva essere
ritorto in senso fortemente accusatorio contro di lui. Abbiamo alcuni
indizi che di queste posizioni ideologiche arrivò in talune occasioni
e con profondo senso di disagio a dubitare lui stesso. Non
altrimenti potrebbe intendersi la testimonianza della lettera all’amico
Caluso del gennaio 1802, riportata più avanti, la cui ansiosa
contraddittorietà è pari soltanto al tormento di chi scrive8.
La percezione del tempo che passa, quella del poco che ne resta
si traducono dapprima in un immenso sforzo di sistemazione, revisione,
quasi blindatura della propria opera che viene non solo dall’autore
stesso spiegata, commentata e ancora licenziata dai torchi
dell’editore solo dopo una strenua fatica di revisione e controllo
personali (pensiamo all’immane impegno per seguire da vicino l’edizione
delle tragedie per i tipi di Didot9), ma anche promossa e
diffusa, quasi spinta verso il futuro, da iniziative pratiche come le
usuali sottoscrizioni per allestire la stampa, la diffusione di “avvisi”,
l’invio di volumi appena editi a figure di rilievo del mondo
7 V. Alfieri, Epistolario, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1963-1989,
vol. III, p. 41.
8 Ivi, pp. 131-134.
9 «[…] la stampa è la vera espiazione del piacere che si è avuto nel comporre
e per dio si paga caro» dalla lettera a Mario Bianchi in data 26 agosto 1788, in
V. Alfieri, Epistolario, cit., vol. I, p. 401.
[5] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 25
culturale sollecitando pareri o recensioni10, e l’organizzazione di letture
e recite in circoli culturali, accademie e case private a cui lo
spingevano sia la passione d’attore sia la consapevolezza del forte
impatto che il verso tragico ascoltato, piuttosto che la semplice lettura,
aveva sul pubblico11. Tutto questo rivela un Alfieri dotato di
grande senso della realtà e in grado di impiegare proficuamente il
proprio talento pratico, la posizione socialmente rilevata, l’aureola
di personaggio affascinante e geniale ai fini della diffusione della
propria opera.
3. Per valutare la complessità dell’operazione letteraria attuata,
l’attenta elaborata regia della costruzione “globale” di una letteratura
di cui l’Astigiano aveva chiarissimi progetto e scopi, soprattutto
nel periodo della grande stagione creativa, soffermiamoci su alcuni
passi dei testi alfieriani e sulla genesi della loro storia, cominciando
dai due trattati, quei Della Tirannide e Del Principe e delle lettere che
rivelano specularità e continui intrecci fra loro e con la produzione
tragica. L’esordio del trattato politico alfieriano, il Della tirannide,
consiste in un’appassionata dedica alla Libertà il cui fulcro è rappresentato
dall’affermazione:
[…] io, che per nessun’altra cagione scriveva, se non perchè i tristi
miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità,
abbandonerei tuttavia la penna, per impugnare sotto il tuo nobile
vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli12.
Nelle righe seguenti Alfieri avverte che né l’eloquenza né la
dottrina, la prima perché inutile la seconda perché non posseduta
dall’autore, saranno rintracciabili nel «libercoletto», bensì verranno
10 Si possono consultare come esempio le lettere a Mario Bianchi, 21 maggio
1784, p. 360; allo stesso in data 7 ottobre 1788, p. 405; a Luigi Cerretti, in data
12 ottobre 1788, pp. 406-407 per quanto riguarda avvisi (che annunciavano la
ristampa parigina del teatro alfieriano) e sottoscrizioni. Esistono poi documenti
di un’oculata selezione di lettori privilegiati con cui dialogare per critiche e
suggerimenti. Nell’elenco delle copie «da darsi» compaiono: Albergati Capacelli,
Cesarotti, Sibiliato, Zaguri, Alessandro e Pietro Verri, Parini e D’Alambert. Per
approfondimenti consultare il saggio di R. Turchi, Dalla Pazzini Carli alla Didot,
in Alfieri in Toscana, cit., pp. 51-85.
11 Per esempio nel corso dei due anni trascorsi a Roma (maggio 1781-maggio
1783), in cui prepara anche i testi per la stampa Pazzini del 1783, si registrano
la lettura dell’Oreste (febbraio 1782), la lettura della Virginia a casa di Maria
Pizzelli (1782) e quella del Saul in Arcadia (aprile 1783).
12 V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I, pp. 7-8.
26 DONATELLA DONATI [6]
enunciati con «metodo, precisione, semplicità e chiarezza» i pensieri
che lo «agitano» e le verità che «il semplice lume di ragione» gli
svela e addita. Ma dopo questa dichiarazione d’intenti espressa in
linguaggio marcatamente illuminista13, subentra e quasi si oppone,
manifestazione della più pura prosa alfierana, tutta fremiti e roboanti
accenti, una chiosa di tutt’altro genere: «anderò io tentando […] di
sprigionare in somma quegli ardentissimi desideri, che fin dai miei
anni più teneri ho sempre nel bollente mio petto racchiusi»14. Dal
linguaggio razionalistico che sceglie termini come pensieri, lume e
verità si passa all’espressione del romantico concetto di sprigionamento
degli ardentissimi desideri. Qui siamo al nucleo incandescente del
pensiero mitico alfieriano, un autentico pensiero desiderante ossia
l’identificazione dei “pensieri” con gli “ardentissimi desideri”15. Quindi
già dalla prima pagina il lettore sa che lo attendono non fredde
teorie ma ideali sublimi, passioni smisurate, eroici furori. A ogni
riga si manifesta l’esaltata volontà mai doma dell’autore e la vocazione
a un destino straordinario.
Il pensiero politico alfieriano è verosimilmente l’esito dell’accumularsi
di molteplici esperienze giovanili, in particolare quelle acquisite
viaggiando in Europa. Nonostante il carattere prevalente dei
viaggi alfieriani sia di inquieta peregrinazione verso una meta che
quasi sempre delude – più percorso di spreco e scialo che non
itinerario della ragione nel senso tipico del Grand tour –, essi furono
anche occasione di esperienze che esacerbarono la reazione di rifiuto
del giovane conte a ogni forma di potere. Ne troviamo conferma
nel confronto incrociato dell’Epistolario con Vita e Satire in ordine
alle deludenti impressioni sulla Prussia e Federico II16. Ugualmente
significativa, sebbene priva di un riscontro epistolare, l’evocazione,
sempre nella Vita, del Metastasio poeta di corte a Vienna, al quale
il giovane Vittorio eviterà con ogni cura di essere presentato. Il
passo adombra la posizione antitetica di Metastasio e Alfieri riguardo
al dispotismo illuminato, ben riflessa nel gesto dei due uomini,
così come nel teatro dei due autori17:
13 G. Santato, Fra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, Modena, Mucchi, 1999,
p. 62.
14 V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I, pp. 7-8.
15 G. Santato, Fra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, cit., p. 62.
16 In Epistolario (1769: lettera 2 e lettera 3), in Vita (Epoca III, Cap. VIII), in
Satire (I viaggi cap. II, vv. 100-105).
17 Per approfondimenti su questo tema si consulti l’intervento di V. Perdi[
7] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 27
Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei
giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso,
con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente
plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io
non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con
una Musa appigionata o venduta all’autorità dispotica da me sì
caldamente aborrita18.
Il protagonista della Vita e il personaggio Metastasio interpretano
qui ciascuno il proprio ruolo, in perfetto accordo con le due
figure di intellettuali tratteggiate nel Principe e le lettere, quella del
«poeta tribuno» e l’altra antitetica del «poeta cortigiano»19. Possiamo
infatti ritenere che «per quanto all’epoca Alfieri, immerso nella
dispersione di una giovinezza scapestrata, non fosse ancora divenuto
scrittore, manifestava già tutti i segni della futura vocazione»20.
Se il vagabondaggio per l’Europa diede contenuti e idee al suo
personale e interiorizzato modo di aborrire la tirannide, il tedioso
ambiente dello stato sabaudo, una volta rientrato in Italia, innescò
le prime reazioni a manifestarlo pubblicamente e letterariamente
sebbene all’interno di un entourage ristretto, intellettualmente e aristocraticamente
connotato. Il giovane conte Alfieri aderisce infatti
alle forme di socialità e di cultura della Torino del tempo: massoneria,
Compagnia dei Sansguignon, contatti con la Sanpaolina, consumo
di libri philosophiques di provenienza parigina, frequentazione di
teatri e cicisbeismo sono tutti elementi caratterizzanti questa fase
della sua vita21. Legge Voltaire, Rousseau, Helvétius, Mirabeau e utilizza
il proprio appartamento come luogo di riunione che imita le
chizzi: Metastasio e Alfieri: note per un confronto, in I drammi per musica di Pietro
Metastasio, Atti della giornata di studi (19 novembre 2007), a cura di P.-C.
Buffaria e P. Grossi, «Quaderni dell’Hôtel de Galliffet», XVI, 2008, pp. 115-
137.
18 V. Alfieri, Vita scritta da esso, cit., (Epoca III, Cap. VIII).
19 Mentre il primo compone obbedendo a un incoercibile «impulso naturale
», che lo sprona a ricercare l’utile collettivo, il secondo è dominato da un
«impulso artificiale» che lo rende «proteggibile» da parte dei principi in quanto
dedito alla ricerca di «un bello di imitazione, in cui originalità nessuna non [lo]
tradisce pur mai». Cfr., Del Principe e delle Lettere, III, 6-7 in V. Alfieri, Scritti
politici e morali, cit., vol. I, pp. 224-231.
20 V. Perdichizzi, Metastasio e Alfieri: note per un confronto, cit., p 125.
21 G. Ricuperati, Vittorio Alfieri, società e stato sabaudo, in Alfieri e il suo tempo.
Atti del Convegno Internazionale di Studi, Torino e Asti, 29 novembre-1 dicembre
2001, a cura di M. Cerruti, M. Corsi, B. Danna Firenze, Olschki, 2003, p.
21.
28 DONATELLA DONATI [8]
forme di una loggia dove ci si nutre non solo di fermenti voltairiani,
ma anche di polemiche politiche22.
L’Esquisse nasce come esemplare di quella letteratura irriverente
di cui abbiamo molti altri casi nell’Europa del tempo: è opera sorta
sullo sfondo di un gruppo aristocratico di coetanei formati nello
stesso ambiente, e strettamente legata al genere della conversazione.
Ma quel che più importa, contiene alcuni elementi da non perdere
come nessi per il futuro sviluppo dell’ideologia e dell’arte alfieriana.
La critica al governo delle burocrazie e l’insofferenza per i progetti
del partito di corte rivelano quanto meno il terreno di coltura nel
quale germoglia il primo nucleo del Della tirannide e al contempo
ricollocano l’opera di Alfieri nell’atmosfera dei tempi.
Fu poi il soggiorno a Siena, città con la quale l’Astigiano instaurò
un intenso legame affettivo, a fornire lo slancio e l’ispirazione a
comporre il Della tirannide. Com’è noto all’interno della piccola brigata
di amici senesi, di cui abbiamo testimonianza nelle Rime così
come nella Vita e nell’Epistolario, spicca il legame elettivo con Francesco
Gori Gandellini. È a lui che Vittorio deve il rinnovato interesse
per il Machiavelli, al quale l’aveva iniziato nel 1768 il “D’Acunha”
23, e soprattutto l’appassionata lettura delle sue Istorie fiorentine
che gli ispirarono la stesura della Congiura de’ Pazzi e anche i due
libri Della tirannide24.
Composto dunque in prima stesura nel 1777, il Della Tirannide
può essere considerato opera giovanile ma come altri testi alfieriani
ebbe un’evoluzione lunga e complessa poiché non fu impermeabile
agli eventi storici e all’esperienza maturata dal suo autore. Perciò
subì interventi di correzione e rettifica ben evidenziati dai manoscritti
e fu stampato nella redazione definitiva solo nel 1789. Lo
22 L’anno in cui il ventitreenne Alfieri si stabilisce a Torino, nel palazzo di
piazza San Carlo (1775), precedeva di poco la morte di Carlo Emanuele III.
Intorno al figlio di quest’ultimo, il principe ereditario Vittorio Amedeo, era
fiorita una corte letteraria complessa e ambigua, dove si intrecciavano speranze
di ceti, ambizioni di cortigiani, attese di clienti, in pratica una fronda che attendeva
ansiosa che il vecchio re scomparisse, risentita per diversi motivi tipicamente
“locali” ma anche investita, seppur in modo blando, dalla cultura
illuministica ed arricchita da un’espansione della lettura legata ai meccanismi
scolastici più diffusi.
23 José Vasquez da Cunha, diplomatico portoghese.
24 Cfr: A. Di Benedetto, «Arrivammo a Firenze…». La Toscana di Vittorio Alfieri
tra mito ed esperienza e E. De Troya, Vita e scrittura nelle lettere agli amici di
Toscana, entrambi in Alfieri in Toscana, cit., pp. 3-20 e pp. 369-383.
[9] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 29
studio dell’itinerario elaborativo dei trattati consente di cogliere lo
svolgimento di un tormentato pensiero in fieri a cui corrisponde
altresì un’evidente evoluzione stilistica25.
Per esempio le revisioni del testo, protrattesi sulle bozze a stampa
fino alla primavera del 1790, evidenziano la sofferta evoluzione
del concetto di tirannide, giunta alla codificazione finale proprio nel
mentre di una fatale contingenza storica, quella di una Rivoluzione
in atto che andrà rapidamente deludendo le speranze di libertà e
giustizia dell’Astigiano26. Pur tenendo presente che Alfieri fu costituzionalista
in ogni fase del suo percorso intellettuale e che la Tirannide,
nella versione definitiva, è un’opera non solo fortemente polemica
nei confronti del dispotismo illuminato, ma anche intensamente
nutrita dalla linfa del “costituzionalismo democratico francese”
del secondo Settecento, resta fermo che il sentimento politico espresso
nel trattato è di fatto pensiero tragico. La passione libertaria e tirannicida
è un affetto insopprimibile, come l’odio o l’amore, che mette
in moto tragedia e catarsi. Alfieri ha sempre insistito che la tirannia
è qualcosa che si sente, chi non ne avverte il giogo in realtà è già
morto. Così la scrittura contro la tirannide è un segno di prepotente
vitalità. Dobbiamo tenere conto che dall’opera non emerge un vero
e proprio pensiero politico, Alfieri non sa, o non gli interessa, classificare
e definire, indicare ordini, stilare programmi: la pars construens
di un progetto fattibile è assolutamente trascurata e la forza del
testo sta tutta nella violenza della denuncia e nella bruciante passione
di scrivere. La prosa del furore, rabbiosa e perentoria, di piglio
rivoluzionario e radicale della Tirannide alimenta la poetica tragica,
suggerendo sia la scelta dei contenuti sia il precipitare degli eventi,
e da questa riceve nuovamente linfa in una sorta di perenne sistema
a vasi comunicanti. Non è un caso che il Della tirannide, incentrato
sulla violenta contrapposizione tra le due figure antitetiche e speculari
25 Un saggio di notevole funzione innovativa nello studio del pensiero politico
alfieriano si deve a G. Rando: La Tirannide di Vittorio Alfieri e la crisi del
dispotismo illuminato, pubblicato in Id., Tre saggi alfieriani, Roma, Herder, 1980 e
oggi disponibile in una silloge più ampia dello stesso autore: Alfieri europeo: le
«sacrosante» leggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 19-76.
26 «La definizione di tirannide che compare nella stampa risulta composta,
per tre capoversi su quattro, dalle aggiunte autografe operate dall’Alfieri sul
testo precedentemente dettato al Polidori nel maggio del 1789. Solo il primo
capoverso del capitolo riprende e rielabora la definizione a suo tempo presentata
nell’abbozzo». In G. Santato, Fra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, cit., p.
197.
30 DONATELLA DONATI [10]
del tiranno e dell’eroe libero, nasca contemporaneamente, quasi come
suo doppio trattatistico a La congiura de’ Pazzi.
Dalla concezione di scontro frontale, di rapporto uno a uno fra
tiranno e tirannicida sorge e prende vigore la figura del libero scrittore,
come già accennato in un passo della Tirannide:
[…] allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi
si trova capace di sentirne tutto il peso […] non potendo egli assolutamente
acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà bollore
ed ostinazione, quella del pensare, del dire, e dello scrivere27.
Il rapporto fra tiranno e intellettuale diventa il tema centrale del
secondo trattato, quel Del Principe e delle lettere in cui la letteratura
è pensata come una sublimazione esemplare, un ideale sostitutivo
dell’azione, ma in un certo senso ancora molto più efficace. Nato
quasi come «un commento a una parte» della Tirannide nel 1778 è
concluso, fra abbandoni e riprese, nel biennio 1785-86, ma sarà stampato
anch’esso solo nel 1789.
Qui si profila la figura di uno scrittore diverso dal passato, capace
di guidare la formazione di una nuova tipologia di lettori, in
quanto intellettuale consapevole di sé, dotato degli strumenti interpretativi
per decodificare la realtà e cosciente del compito morale
che si assume:
Il sublime sguardo dell’uomo che sommo vuol farsi, vede e misura
ad un tratto il passato, il presente e l’avvenire; conosce sè stesso
negli altri; gli altri in sè stesso; e la natura, la verità, il retto, ed il
bello conosce nella loro maggior estensione, per quanto ad uom si
conceda28.
Tutto si concentra intorno all’espressione il sublime sguardo dell’uomo
che sommo vuol farsi, portatrice di due caratteri tipicamente
alfieriani, il concetto di “sublimità” come categoria dello sguardo e
il concetto di “volontà” applicata al raggiungimento della grandezza
da conquistarsi sul campo, nell’ambito della letteratura. Non solo
in questo passo Alfieri sta teorizzando un modello, ma parla già di
sé, sottintende la sua personale esperienza, distilla in questa formula
l’essenza della sua vita e l’eccezionalità del proprio itinerario intellettuale.
In quel fatidico 1775, anno della conversione alla poesia,
27 V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I, pp. 89-90.
28 Ivi, p. 163.
[11] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 31
pur consapevole di non essere nato sotto il segno della fatica scolastica,
di non avere lingua, di non saper verseggiare, di essere ancora
incolto rispetto all’usuale patrimonio di cultura dei letterati suoi
contemporanei, il giovane Alfieri non si sottrasse al proprio dettato
interiore e al compito impostogli dal proprio «forte sentire», e studiò
forsennatamente per colmar lacune, linguistiche in primo luogo
e subito dopo letterarie, e insieme scrisse in preda a un esaltato
furore creativo inventando quel metodo di scrittura tragica in «tre
respiri» così ammirevole e al tempo stesso così sintomatico di un’imperizia
che era ancora tutta quanta da domare.
Lo scrittore celebrato nel passo appena citato è capace ad un
tempo di abbracciare il presente, giovandosi della memoria del
passato, e di tendersi con slancio verso il futuro, rappresentante e
artefice di «una letteratura agonistica, che non deve dilettare, ma
investirsi di responsabilità ben maggiori: educare alla conoscenza e
soprattutto indirizzare concretamente i destinatari verso valori assoluti,
permettendo con tale operazione di attingere la più autentica
bellezza»29.
Se la letteratura è dunque concepita come strumento di libertà,
verità e bellezza, essa non può nascere dove lo scrittore sia disposto
a celebrare i fasti del principe, ma solo dove lo scrittore «dotato di
alto animo, libere circostanze, forte sentire ed acuto ingegno» oltre
che di «impulso naturale», sia figlio unicamente di se stesso. Così
nel Terzo Libro si legge:
I moderni scrittori adunque, che vorranno esser padri di verità, di
virtù, di alto diletto, e fondatori di un nuovo secolo letterario, essere
dovranno pria d’ogni cosa, figli di sè medesimi […] Cotali scrittori,
eleganti, perchè dalle antecedenti eleganze ammaestrati; veraci e liberi,
perchè amano gli uomini, la vera gloria conoscono, e ardentemente
oltre ogni cosa la bramano; caldi ed energici, perchè il timor
non gli agghiaccia, ed anzi dagli impedimenti generoso incitamento
ritraggono: cotali scrittori rinnovando la libertà la forza e la leggiadria
dei sommi Ateniesi, maggiore della loro ne dovrebbero ritrarre
la fama30.
Da quanto brevemente illustrato possiamo cominciare a delinea-
29 F. Spera, Le parabole della storia e le forme del sublime fra Alfieri e Leopardi, in
La letteratura e la storia, a cura di E. Menetti, C. Varotti, Bologna, Gedit, 2007,
p. 231.
30 Del Principe e delle lettere, in V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I,
pp. 242-243.
32 DONATELLA DONATI [12]
re l’operazione messa a punto da Alfieri, operazione che contribuisce
vistosamente anche al rinnovamento dei modelli intellettuali.
Cimentandosi nella scrittura prosastica dei due trattati con scopo
sicuramente parenetico, dà alla letteratura e al letterato una veste
nuova, combattiva e di grande prestigio. Pur non essendo infatti
destinate a un’immediata diffusione fra il pubblico31, sia la Tirannide
sia Il Principe sono opere fortemente rivolte al lettore storico: seppur
semplificando, la prima per svelare ai contemporanei la logica di
potere dei sovrani del tempo, la seconda per rovesciare la diffusa
mentalità acquiescente e servile dei letterati, quella “alla Metastasio”
appunto, tanto deplorata nella Vita. L’intellettuale che prende corpo
in quelle pagine assurge così a guida e punto di riferimento per
altri uomini, non necessariamente intellettuali, delusi e sofferenti a
causa della propria obbligata inerzia. Se poi consideriamo che avvio
e conclusione di questo work in progress coincidono quasi perfettamente
con gli estremi dell’arco temporale in cui si sviluppa il suo
teatro tragico, e ancora che la decisione presa da Alfieri di passare
alla stampa per l’uno e l’altro versante della sua attività scrittoria, è
pressoché contemporanea, possiamo ragionevolmente supporre che
ideologia politica e teoria della letteratura gli apparissero un sistema
di pensiero razionale a sostegno e giustificazione dell’innovazione
che le sue tragedie portavano sulla scena. Se da un lato potremmo
cadere in un anacronismo attribuendo ad Alfieri una pianificazione
troppo consapevole in tal senso, dall’altro, come lettori attuali,
non possiamo non rilevare l’incremento di significato che la
trattatistica dà alla produzione tragica.
Alfieri è dunque attentissimo editore di sé, non solo come curatore
scrupoloso di forma e stile, ma anche perché sceglie di lavorare
su più piani, si cimenta in generi diversi, che tuttavia per la rete di
legami, rimandi e connessioni, caratterizzano in modo coerente e
incisivo la sua presenza in campo letterario. Questa tendenza a
comunicare e a dar conto di ciò che sostanzia, in termini di ideologia
e poetica, la propria scrittura tragica, si orienterà in una sempre
più puntuale attività critico-esplicativa sul proprio lavoro e conflui-
31 Nel 1789 a Kehl si completa la stampa dei due trattati in due volumi autonomi,
con date di edizione alterate rispetto alla realtà: per il Principe sarà indicato
il 1795, per La Tirannide il 1809, forse, nell’intenzione dell’autore anni della
possibile pubblicazione. Probabilmente Alfieri attendeva tempi più propizi per
diffondere testi troppo incandescenti rispetto agli eventi in corso, ad alto rischio
di fraintendimento e di assimilazione dell’autore ai gallici rivoluzionari, con i
quali mai avrebbe voluto confondersi.
[13] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 33
rà poi in una scelta editoriale molto precisa: quella di premettere
alla stampa parigina delle tragedie, per i tipi di Didot nel 1789, la
Lettera sulle quattro sue prime tragedie di Ranieri de’ Calzabigi e la
relativa Risposta, apparsi in opuscolo a stampa già dal 1784 e inserite
ora nel primo tomo, e di corredare gli altri volumi con i Pareri
e gli altri scritti di riflessione critica32.
Anche l’Epistolario è una fonte di grande interesse per indagare
la posizione di Alfieri sul tema della ricezione dell’opera letteraria
e della comunicazione con il pubblico. A titolo d’esempio si ricordi
un altro passo della lettera al Caluso in data 25 novembre 1799,
nella quale si legge:
[…] per il volgo dei lettori, che sono i due terzi e cinque sesti, non
potete credere quanto nuoce all’autore anche la mezza oscurità, e
quanto gli giova anche la mezza trivialità. E benchè questo sia per
l’appunto l’antipode del mio pensare, pure in tutte quelle cose dove
il genere lo comporta, io mi sono andato allontanando sempre più
dall’oscurità anche leggierissima, per non dar fatica al lettore che n’è
tanto e poi tanto nemico. Tolta dunque la poesia lirica, in tutto il
rimanente io vorrei esser chiaro come l’acqua, se fosse possibile,
anche col pericolo di averne talvolta l’insipidità33.
Per tornare al Principe è da aggiungere che condannando duramente
il mecenatismo, rifiutando qualsiasi forma di protezione e di
dipendenza dello scrittore dal potere, rivendicando per quest’ultimo
un ruolo forte contro il tiranno, Alfieri contribuisce vigorosamente
al superamento del vecchio e corroso modello del poeta di
corte, costretto all’encomio e all’inchino sia dal bisogno di sopravvivenza
quotidiana sia dalla necessità di legittimazione del proprio
ruolo nei confronti della società. E qui occorre aprire una breve
parentesi sull’ottavo capitolo del Libro Terzo, il cui titolo recita:
Come, e da chi, si possano coltivare le vere lettere nel principato34.
Com’è noto in questo capitolo Alfieri, disilluso dalle politiche
32 Si tratta del Parere sull’arte comica in Italia, nel primo tomo, la Lettera dell’abate
Cesarotti sull’Ottavia, il Timoleone e la Merope, con le Note dell’autore che
servono di risposta, nel terzo tomo, e infine la Licenza, il Parere dell’autore sulle
presenti tragedie, e il sonetto di congedo nel quinto tomo. È evidente che l’apparato
paratestuale della Didot ha una fisionomia di compattezza e organicità che
gli specialisti non riscontrano in nessun’altra edizione settecentesca di letteratura
teatrale. Per approfondimenti si può consultare il saggio di R. Turchi, Dalla
Pazzini Carli alla Didot, in Alfieri in Toscana, cit., pp. 51-85.
33 V. Alfieri, Epistolario, cit., vol. III, p. 41.
34 Id., Scritti politici e morali, cit., vol. I, pp. 231-239.
34 DONATELLA DONATI [14]
culturali esperite dal dispotismo riformatore, traccia il disegno di
un’utopica «picciola repubblica» di nobili, o comunque di soggetti
economicamente agiati, che non compromessi da cariche pubbliche
o dai ruoli della vita di corte, esercitino, all’interno del principato,
la capacità di pensare liberamente e contribuiscano a diffondere le
verità che i pochi grandi scrittori, emersi dalle loro file e realmente
dotati di impulso naturale, scrivono e pubblicano «dal loro spontaneo
e nobile esiglio» fuori dal principato stesso. A tale intellighenzia
l’Astigiano affida un compito fondamentale:
Una tale società a poco a poco propagandosi con irresistibile progresso,
dev’essere a lungo andare la vera e legittima e vittoriosa
annullatrice d’ogni arbitraria potestà. Al continuo esempio di virtù e
di indipendenza che danno questi nobili letterati nel principato, si
va aggiungendo il possente rinforzo dei pochi, ma buoni e caldi ed
incalzanti libri, che gli scrittori esiliatisi dal principato v’inviano a
far per loro e per tutti: e benchè corra il proverbio, che ogni cosa
oramai è stata detta, potranno pure smentirlo quei tali scrittori, che
sono da giusta e nobile ira spronati contro la servitù in cui nasceano,
e che incoraggiati e protetti sono dalla libertà, in cui sapevano in
tempo ricoverarsi35.
L’affrancamento dei letterati dal potere, profetizzato e predicato
con tanto fervore, l’affermazione di un loro ruolo essenziale nel
superamento «d’ogni arbitraria potestà» cammina di pari passo con
l’idea che solo dalla nobiltà, o comunque da una classe sociale di
censo molto elevato, possano emergere uomini nuovi e liberi scrittori.
Alfieri, per quanto acute e profetiche siano moltissime delle
sue intuizioni sui tempi a venire, non fu indenne da pregiudizi e
miopie.
I nuovi intellettuali che la realtà in cammino spinge sulla scena:
bibliotecari, professori, segretari, giornalisti, istitutori, tutti gli appartenenti
alle categorie professionali colte, nate dal vacillare dell’Ancien
Régime, seppur costretti dalla necessità a cercar occupazione
remunerativa, non soggiacciono più esclusivamente e supinamente
al dominio, alla volontà e ai capricci del principe o di aristocratici
ugualmente potenti; possono licenziarsi, cambiar mestiere,
emigrare, scrivere sotto altre spoglie. Vivere di retribuzione tra la
fine del Settecento e le soglie dell’Ottocento è diverso che inseguire
destino e fortune sottomessi a sudditanza materiale e psicologica e
a censura “artistica” come nel caso dei poeti cortigiani o persino di
35 Ivi, p. 235.
[15] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 35
alcuni dei philosophes della stagione appena trascorsa. In quegli stessi
anni in cui Alfieri mette a punto la revisione dei suoi trattati,
«gruppi sempre più vasti di intellettuali trovano, nella nascente
industria editoriale, sia pur con difficoltà, i mezzi per vivere e per
operare liberamente»36. Il vento forte delle rivoluzione francese e
delle sue derivazioni europee, porta, oltre a nefandezze e orrori,
anche l’ossigeno di una libertà e di una uguaglianza che rende
possibile, molto più che nel passato, aprire le carriere ai talenti.
Costoro quindi recepiranno, insieme ai ruoli e ai compiti nuovi che
loro assegna l’epoca moderna, un senso alto della dignità e del
valore della propria persona, sconosciuto alle generazioni precedenti.
Soprattutto questi saranno suoi lettori e suo pubblico di elezione,
soprattutto questi sapranno cogliere a pieno la dimensione ardita e
appassionata della sua opera e dalle loro file spiccheranno il volo
per farsi grandi solo i pochissimi, veramente nobili e sublimi, destinati
alla missione dell’eroe-scrittore, come il «figlio putativo»37 Ugo
Foscolo, figura emblematica e illuminante di uno scarto sul quale
riflettere. L’Astigiano, che come abbiamo visto si distingue per la
visione eroica dell’intellettuale senza avvertirne la nascente ricollocazione
sociale, sarà ispiratore, guida e strumento di crescita per una
schiera di artisti, letterati e soggetti colti, molti dei quali appartenenti
alla borghesia, quella borghesia che egli detesterà fra tutte le
classi sociali proprio perché rea di aver tradito le promesse rivoluzionarie
e sempre più protagonista della storia, a suo giudizio senza
alcun merito. Per essa conierà il termine di sesqui-plebe, termine di
nessuna fortuna ma di esemplare testimonianza dell’odio dell’autore,
perché ciò che Alfieri intuisce o indovina dei tempi a venire non
sempre è accompagnato da un giudizio obiettivo e lungimirante in
politica e da una serena accettazione dei cambiamenti nella composizione
e nel peso delle classi sociali. Valgano in proposito le seguenti
considerazioni di Arnaldo Di Benedetto:
Le questioni con cui la Rivoluzione lo mise a confronto non furono
poche né lievi. È semplicistico asserire che l’adesione ad essa sareb-
36 G. Rando, Alfieri europeo: le «sacrosante» leggi, cit., pp. 169-170.
37 L’espressione è di M. Biondi in «Saette dell’ira scrivana». Temi e stile del
discorso politico alfieriano, in Alfieri in Toscana, cit., p. 240. Ed è termine che ben
realizza la dimensione di un’eredità in spirito certamente lasciata, pur se inconsapevolmente,
da parte di Alfieri e di un amore grande (anche se non privo di
ambivalenze), e forse non corrisposto, da parte di un giovane e ancora inesperto
Foscolo.
36 DONATELLA DONATI [16]
be stato l’unico sbocco coerente della sua ideologia […] Il suo
egualitarismo, affermato ancora negli ultimi tempi, era appunto un
valore, non un programma politico: né mai era stato egualitarismo
economico. Il carico eccessivo di speranze di redenzione riposte nel
mutamento politico si associava in lui al sospetto che l’umanità sarebbe
sempre la stessa, incapace di veri miglioramenti38 […]
Del resto i conflitti che lacerano la coscienza di Alfieri non sono
limitati alla sua esperienza individuale, ma riflettono autenticamente
il passaggio tra due epoche e due culture, e come molti altri
intellettuali del suo tempo egli si trova a fare i conti con la storia e
il disinganno, anche se meno di altri sembra in grado di accettare lo
scarto fra una grande idea e la sua attuazione concreta.
4. Si può rilevare, aspetto forse ancora poco sottolineato, una
forte propensione di Alfieri a giustificare l’opera preventivamente, e
a preparare e sostenere il proprio ruolo nell’ambito del sistema letterario
della seconda metà del Settecento, così mutato rispetto ai
primi cinquant’anni del secolo e proteso verso novità non ancora
del tutto chiarite, in bilico fra potenzialità affascinanti e rischio di
rovinose cadute. Sotto questo profilo sembra significativo esaminare
il dialogo La virtù sconosciuta (1786) con il quale si suggerisce un
genere, quello della memoria illustre, attraverso cui il letterato può
assolvere il proprio mandato.
Opera che sta al di qua del fatidico Ottantanove, nata da un
lutto profondamente e intimamente sentito dall’Autore, diventa anche
esperimento e sostegno alla prova ultima della autobiografia39. In
primo luogo è il testo nel quale per la prima volta Alfieri «veste
finalmente i panni del protagonista insieme al dedicatario Francesco
Gori Gandellini»40 e ciò rappresenta un avanzamento nella direzione
esplicita dell’autobiografia. Inoltre qui esplora le possibilità del
38 A. Di Benedetto, Alfieri e la Rivoluzione francese: alcune puntualizzazioni, in
Id., Tra Sette e Ottocento. Poesia, letteratura e politica, Alessandria, Edizioni dell’Orso,
1991, p. 48.
39 Sulla decisione di cimentarsi in quest’opera potrebbero aver influito oltre
al modello lucianeo il diffondersi in Italia del gusto per le visioni e per i notturni,
testimoniato oltre che dalle traduzioni di Gessner, Young, Gray e Ossian,
anche da opere come le Notti clementine di Bertola (1775), ma l’impianto del
dialogo alfieriano resta quello a tesi proprio della tradizione socratico-platonica.
40 P. Rambelli, La scoperta dell’Io e la (ri)costruzione della figura del letterato
nelle prose e nelle tragedie di Alfieri, in «Critica letteraria», XXX (2002), n. 114, p.
49.
[17] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 37
genere memorialistico e poiché ciò avviene dentro la cornice di un
rapporto che, prima ancora che di grande affinità intellettuale e
spirituale, è di affetto, getta sul tavolo la questione della dimensione
affettiva e privata del genere stesso. La motivazione a comporre
il dialogo nasce dal desiderio dell’Astigiano di tramandare l’esempio
di virtù dell’amico al quale rivolge queste accorate parole: «Ignoto
ai contemporanei tuoi tu vivevi, perchè degni non erano di conoscerti
forse; e ad un reo silenzio mal mio grado ostinandoti, d’essere
a’ tuoi posteri ignoto sceglievi…»41.
Preservandone invece il nome da quella «morte seconda»42 che è
l’oblio, Alfieri vuole compiere niente più che un atto di giustizia:
sarebbe infatti del tutto immeritata per Francesco (come lui così
«pieno, ridondante di forti, veraci, sublimi pensieri», come lui
«figliuol di se stesso» e uomo potenzialmente scrittore di «nuove
cose in nuovi modi»), la mancata celebrazione della «sublime sua
anima». Immeritata, ma anche ingiusta nei confronti di chi, tra gli
estranei e i posteri, trarrebbe vantaggio dalla conoscenza del suo
esempio, poiché l’Autore nutre «fondata speranza di poter con evidenza
dimostrare che la virtù vi può essere anco nei più servili
tempi, e nei più viziosi governi»43.
Il Gori però rifiuta le proposte di Vittorio di pubblicare i suoi
scritti, di scrivere la sua biografia, di erigergli una lapide, accettando
al fine solo la dedica della tragedia che aveva ispirato44, ma le
censure via via formulate e le relative motivazioni diventano occasione
di riflessione sulla opportunità delle biografie, sulla loro
eventuale necessità, sulla loro capacità di eternare talvolta, insieme
al personaggio ritratto, anche quello dell’autore che di lui ha scritto.
E dal momento che tutto il testo tende a presentare Francesco come
l’interlocutore privilegiato in vita e celebrato e rimpianto in morte,
l’alter ego dunque – ma non in una dialettica di contrari, bensì nell’ottica
del dialogo e della meditazione con se stesso, del rispecchiamento
di sé in un altro sé tuttavia migliore – proporgli una biografia
è anche immaginare la propria. Offrirsi di scriverla non è diverso
dal pensarsi nel ruolo di autobiografo. Così nella Virtù sconosciuta
possiamo intuire i dubbi e le perplessità, gli entusiasmi e i timori,
41 V. Alfieri, La virtù sconosciuta, a cura di A. Di Benedetto, Torino, Fògola,
1991, p. 30.
42 Ivi, p. 32.
43 Ivi, p. 43.
44 Si tratta della Congiura de’ Pazzi.
38 DONATELLA DONATI [18]
i pro e i contro che devono esser stati di Alfieri prima di accingersi
alla scrittura della Vita. E se nel corso del dialogo il personaggio
Vittorio riceve “fra le righe” un invito, una sorta di investitura
morale da parte di Francesco:
Tu vedi dunque che le vite vogliono essere scritte di coloro soltanto,
che gran bene o gran male agli uomini han fatto. E degli antichi
scrivendo perfetto modello di ciò ne ha fatto il divino Plutarco: e a
scrivere dei moderni (di cui un volume d’assai minor mole farebbesi)
non è sorto ancora un Plutarco novello
possiamo supporre che nella realtà Alfieri fu mosso anche da una
convinzione come questa a elaborare la Vita scritta da esso45.
Potremmo anche spingere oltre l’osservazione e ipotizzare altri
pensieri, altre riflessioni mosse dalla composizione della Virtù. Probabilmente
negli anni in questione Alfieri avverte già il vuoto che si
apre nel campo della prosa, lo spazio letterario da riempire: all’approssimarsi
della Rivoluzione l’individuo e il suo bagaglio di speranze,
frustrazioni e sentimenti privati cominciano ad affacciarsi,
almeno come problema, sulla scena della scrittura. Non siamo ancora
al romanzo, non in Italia almeno. Dagli specialisti nel campo
sappiamo quanto la condanna del romanzo facesse parte del senso
comune dei nostri letterati sin dalla prima metà del Settecento. Soprattutto
per uno scrittore consapevole del proprio valore, teoricamente
impegnato sul fronte politico e civile, orientato verso un
pubblico avvertito per cultura e capace di forte sentire, tanto affascinato
dalla letteratura dell’antichità classica quanto profondamente
coinvolto nel perpetuare la tradizione lirica italiana, non è ancora
possibile rispondere alla sete di storie dei nuovi lettori. Francesco
declina la proposta di Vittorio di «[…] far precedere una tua brevissima
vita, in cui dimostrato avrei, ma con modeste parole, del pari
il tuo raro valore, e la mia calda amicizia e ammirazione vera per
te»46 perché «…lo scriver la vita di uno che nulla ha fatto, e che
nessuno sa che sia stato, sarebbe giustamente reputato espressa follia
[…]»47. Follia sarebbe appunto scrivere di un eroe misconosciuto
come l’amico Checco, un eroe dei tempi moderni, quasi un fratello
maggiore, un antesignano del foscoliano Jacopo, e di una calda
amicizia fra due spiriti eletti brutalmente interrotta da una morte
45 Ivi, p. 83 (nota 16).
46 Ivi, p. 41.
47 Ivi, p. 42.
[19] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 39
per malattia. La ricusazione di Francesco è in linea con lo sviluppo
della nostra civiltà letteraria che, di vocazione aulica e aristocratica,
non consente di scendere a patti con il crescente gusto dei lettori
poco acculturati, o ritenuti tali, per il romanzo. Tuttavia è possibile
scegliere la biografia, genere ufficialmente accettato dal canone e
con predecessori illustri, e affidarne il ruolo di protagonista a un
nuovo originalissimo eroe, il letterato-eroe, facendone nella sostanza
«il romanzo di formazione di un libero e sublime scrittore»48.
È bene ricordare che la Virtù sconosciuta fu scritta non nell’immediato
ma due anni dopo la morte del Gori Gandellini: per questo
possiamo pensare che fu un testo meditato a lungo e di non semplice
concepimento. Alfieri realizza lo scopo di celebrare l’amico scomparso
senza scrivere direttamente di lui, soggetto debole, come abbiamo
visto, dal punto di vista letterario. Ma affidando a Francesco
la responsabilità del rifiuto di qualsiasi forma di scrittura che lo crei
personaggio o lo presenti come autore, ne realizza un vero monumento
di saggezza e modestia, e finisce così per accentuare ulteriormente
il suo commosso, sincero omaggio e l’esaltazione dei molti
pregi del defunto. Una sorta di figura di preterizione rovesciata di
grande efficacia stilistica. Nell’opera si incrociano suggestioni ascrivibili
agli Essais di Montaigne che apprezzava il valore della virtù
occulta, quella che non cerca compenso, stemperate però dal fatto
che chi scrive è il teorico dell’«impulso naturale», che almeno secondo
la definizione data nel Del Principe e delle lettere è l’«immoderato
amore di giovare a sè stesso con la gloria», sebbene non mai
disgiunto dall’«amore dell’utile altrui»49. Così proprio dal testo che
celebra l’eroe più schivo e in ombra del repertorio alfieriano, emerge
la viva preoccupazione dell’autore di conservare la fama acquisita
con l’opera tragica e il diritto a veder perpetuato il proprio nome.
Leggiamo in proposito le parole di Francesco:
Il bollore degli anni impiegato hai finora nel bollor del creare; i
rimanenti che l’età intiepidisce più sempre, alla freddezza della lima
consacrali; e, per ultimo prego mio, cui ben fitto ti scongiuro di
sempre portarti nel cuore, giunto che sarai ad una certa discreta età,
conosciti e datti per vecchio, anche anzi d’esserlo; e le Muse abbandona,
prima ch’elle ti lascino. Nè in ciò ti voglio concedere che coi
più grandi scrittori tu pecchi; convinto sii, che varcato dall’uomo il
48 G. Santato, Alfieri e Firenze: dai viaggi letterari alla fuga nella classicità, in
Alfieri in Toscana, cit., p. 753.
49 V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I, p. 225.
40 DONATELLA DONATI [20]
nono lustro, o poco più in là, ogni poeta che scrive, va togliendo a
sè stesso la già acquistata fama50.
Nelle sue raccomandazioni all’amico si manifesta la severità della
coscienza autoriale che fu di Alfieri, intrecciata all’intensa percezione
di un tempo inflessibile che trascorrendo appanna il talento
creativo. Ciò rinvia e concorre all’idea di un compito ormai ineludibile
per l’Astigiano, quello di salvaguardare l’opera e con essa
la sua sete di gloria. L’invito di Francesco a consacrarsi «alla freddezza
della lima» e il successivo «conosciti e datti per vecchio, anche
anzi d’esserlo» sono già manifestazioni della volontà di guardare
al proprio passato artistico con mentalità ordinatrice e selezionatrice.
Per questo la Vita sarà memoria in cui ogni singolo evento,
ogni singolo episodio, ogni gesto e sentimento saranno scelti e filtrati
in riferimento alla centralità della carriera letteraria. La vicenda
biografica dovrà coincidere con la ricostruzione di quest’ultima vista
da una prospettiva post rem, l’unica che consenta la valutazione
delle singole tappe, la rimozione dell’ovvio e dell’inutile e la messa
a fuoco dell’essenziale e del significante. Il proprio Io letterario dovrà
essere ricostruito, tessera per tessera come in un mosaico, dal vissuto
al “messo in forma” secondo regola e disegno, per consegnare
l’opera e il proprio ritratto d’artista alla posterità senza lasciare
nulla al caso. Fatica logorante, ma anche gesto di estrema cura e
amore di sé e di quanto si è realizzato.
Infine l’itinerario biografico non potrà essere sviluppato se non
nella traiettoria della dimensione mitica e atemporale dei classici.
Plutarco, come suggerito dall’amico, è il primo modello di riferimento
sia sul piano dei personaggi che ha ritratto sia sul piano
dello scrittore che immortalandoli ha acquistato a sua volta fama
eterna. Il dialogo con Gandellini assume così funzione di «subnexio
rispetto alla Vita, respingendo in anticipo le eventuali accuse di
superfluità ed irrilevanza di cui poteva esser fatta oggetto»51.
Nella primavera del ’90 dunque, a Parigi, mentre assisteva direttamente
alle forze della rivoluzione in opera, Alfieri compone la
prima stesura della Vita, giungendo cronologicamente proprio a
quello stesso anno. Con ogni probabilità è l’evento centrale del secolo,
lo spartiacque fra vecchio e nuovo, fra prima e dopo, che
50 Id., La virtù sconosciuta, cit., p. 70.
51 P. Rambelli, La scoperta dell’Io e la (ri)costruzione della figura del letterato
nelle prose e nelle tragedie di Alfieri, cit., p. 51.
[21] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 41
preme e accelera la realizzazione del già meditato progetto letterario
fondato sulla narrazione di sé. Non basta attendere alla cura
editoriale e al riordino dei precedenti scritti. Malgrado consideri la
propria vicenda esistenziale conclusa con la stampa parigina delle
tragedie, ovvero l’opera a cui aveva principalmente affidato la sua
fama, a fronte degli sconvolgimenti del presente ritiene necessario
lasciare ai posteri, con quanta più chiarezza e determinazione possibile,
un testamento morale e artistico che sfidi il secolo e i suoi
traumi, così come le critiche dei detrattori presenti ed eventualmente
futuri, e al tempo stesso conquisti l’attenzione di un pubblico di
uomini nuovi e diversi, protesi verso una società moderna. Il tempo
incalza e la Vita scritta da esso diventa un’opera indispensabile,
monumento a giustificazione e difesa del letterato-eroe, atto finale
per assolverne il compito ultimo.
Non era negli intenti di Alfieri difendere se stesso uomo o rendersi
migliore dal punto di vista morale: come autore della Vita,
conduce dall’inizio alla fine una sorta di progetto teleologico sul
materiale biografico della propria esistenza per arrivare a imprimerle
una forma estetica definita e corrispondente, in piena sincerità, al
modello di se stesso che ha perseguito con tenacia lungo tutto il
tempo del suo vivere. Il mandato che ha sentito di avere, la chiamata
alla Poesia, gli impone – questo sì che è imperativo morale – di
tracciare l’itinerario di salvezza e di ascesi con il quale ha appreso
a orientare il proprio «impulso naturale» verso la meta dell’arte.
5. Prima della Rivoluzione l’Astigiano crea e alimenta una mitologia
libertaria puntualmente testimoniata dai trattati politici e dalle
tragedie. L’impressione del lettore è quella di trovarsi davanti ad
opere che non solo sembrano presagire ciò che sta per accadere
sulla scena europea, ma anche annunzino una grande, sebbene non
ben definita speranza nelle possibilità che i tempi nuovi e gli uomini
nuovi possano offrire. Nella Tirannide il radicalismo alfieriano
trova la più piena espressione nei due capitoli conclusivi che avallano
la necessità di abbattere la tirannide nel sangue. L’opera si conclude
con una formula pienamente assolutoria nei confronti degli eccessi
della violenza rivoluzionaria, che può risuonare anche come l’omaggio
e il saluto a un’imminente primavera della storia dell’Uomo:
Un ottimo cittadino può dunque, senza cessar di esser tale, ardentemente
desiderare questo mal passeggero [il moltissimo pianto e il
moltissimo sangue che la rivoluzione comporta]; perchè, oltre al troncare
ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più dure42
DONATELLA DONATI [22]
voli, ne dee nascere un bene molto maggiore e permanente. Questo
desiderio non è reo in sè stesso, poichè altro fine non si propone che
il vero e durevol vantaggio di tutti. E giunge avventuratamente pure
quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero
felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel
sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti
individui se n’è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia,
di liberi e virtuosi uomini52.
La durezza delle parole, l’assenza di compromessi verbali, la
facilità con cui quel verbo benedire può reggere i tre termini stragi
violenze sangue confermano che l’opera è ancora libera dai condizionamenti
del confronto con la cronaca.
Anche nel trattato Del Principe e delle lettere la tensione profetica
costituisce la nota dominante dei capitoli conclusivi e assume lì una
particolare coloritura patriottica. Sullo sfondo dell’ormai prossimo
secolo dell’indipendenza delle lettere, nell’Esortazione a liberar l’Italia
dai barbari, l’Autore proietta il sogno dell’indipendenza nazionale.
Tutti questi sovrammentovati piccioli sintomi di addormentato, ma
non estinto grand’animo, credere mi fanno, e sperare, e ardentissimamente
bramare, che gl’Italiani siano per essere i primi a dare in
Europa questo nuovo, dignitoso, e veramente importante aspetto
alle lettere; ed i primi a ricevere poscia da esse un nuovo e grandioso
aspetto di politica durevole società53.
L’intera Esortazione è, a partire dal titolo, un riecheggiamento
dell’ultimo capitolo del Principe machiavelliano, ma l’influenza del
segretario fiorentino va ben oltre questo testo, potendosi definire
uno dei miti-guida del suo pensiero e uno dei prosatori più citati
nell’intera opera. Machiavelli però non è un caso isolato: l’intima
affinità con gli scrittori e i grandi del passato è sempre centrale
nella poetica alfieriana. Questa ideale comunione è ribadita anche
ne La virtù sconosciuta in cui l’amico defunto, «l’incomparabile» Francesco
suo ideale portavoce, affettuosamente esorta così Vittorio:
«Pensa coi classici; coll’intelletto e coll’anima spazia, se il puoi, infra
Greci e Romani; scrivi, se il sai, come se da quei grandi soli tu
dovessi esser letto; ma vivi, e parla, co’ i tuoi»54. È evidente da
questo passo scritto nel 1786 che sta già maturando un progetto di
52 V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I, p. 107.
53 Ivi, pp. 251-252.
54 Id., La virtù sconosciuta, cit., p. 58.
[23] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 43
rinnovamento della letteratura fondato proprio sulla classicistica
identificazione dell’antico con il futuro ideale.
6. I tre momenti fondanti del pensiero alfieriano all’alba del 1789
sembrerebbero così la fiducia nella forza dirompente della Rivoluzione
(e l’accettazione della violenza come male minore oltre che
inevitabile), la persuasione che l’esemplarità della tradizione classica
sia utile al bene pubblico e di estremo valore didattico-esortativo
proprio nell’imminenza di grandi sconvolgimenti epocali, la speranza
di un riscatto nazionale non lontano mediato dalla «primazia»
delle lettere. Ma l’esperienza diretta, concreta della Rivoluzione scompaginerà
almeno in parte le posizioni dell’Alfieri. Essa darà origine
e marcherà una fase nuova, diversa e proteiforme della vicenda
intellettuale e del pensiero politico dell’Astigiano. Questo momento
decisivo e drammatico nella vita e nella carriera letteraria è ben
presente in molte lettere dell’Epistolario, dalle quali emergono la
fedeltà ai princìpi della libertà, costantemente sottolineata, e il totale
rifiuto per come gli stessi princìpi vengono applicati dal «mostruoso
governo che riunisce i mali di tutti»55.
Un’altra ondata di furia scrittoria condurrà all’elaborazione di
nuovi testi56 e si accompagnerà a una massiccia revisione di quanto
già scritto. Non tutto verrà rifiutato e rinnegato, non tutto verrà
accolto così come scritto di getto in tempi precedenti, tutta l’opera
nella sua interezza sarà ripensata e ridiscussa interiormente, vagliata
attraverso i filtri dell’esperienza compiuta e del sentimento scaturitone,
sottoposta a un accanito impiego del labor limae, setacciata allo
scopo di salvarne la coerenza e di esaltarne il valore. Ciò che viene
indicato con il termine misogallismo non si riferisce dunque solo alla
generica avversione per la Francia e alla derivazione dall’operetta
che la sbandiera, ma sottintende una palese evoluzione del pensiero
alfieriano, che non nasce tutta ex novo dopo l’Ottantanove, ma partendo
da nuclei puntiformi sparsi in tutta l’opera precedente, si dilata
e si rinvigorisce, acquista nuovi e più che evidenti apporti, si
55 V. Alfieri, Epistolario, cit., vol. II, p. 79.
56 Tra la fine del 1788 e il 1789 scrive il Parere su tutte le tragedie, la lettera
a Luigi XVI (mai spedita), la favoletta Le mosche e le api, l’ode Parigi sbastigliato.
Nel 1790 scrive la prima stesura della Vita, traduce in versi l’Eneide, verseggia
la tramelogedia Abele, e scrive le idee di altre due, Conte Ugolino e Scotta. Comincia
a comporre rime misogalliche, ove fra l’altro fa ammenda di Parigi
sbastigliato.
44 DONATELLA DONATI [24]
disperde in molteplici rivoli e modulazioni diverse e perviene a
posizioni originali e in molti casi eccessive se non estreme.
Gli orrori della Rivoluzione spensero ben presto gli iniziali entusiasmi
e il pericolo personale corso nel 1792, culminato con la precipitosa
fuga da Parigi e la requisizione dei beni, in particolare
quella dolorosissima dei libri, provocheranno l’astio personale e il
bisogno di vendicarsi della Francia che sta in gran parte alle origini
del Misogallo e che si ritrova testimoniato in molte lettere, in cui il
risentimento individuale sembra prendere il sopravvento sulla riflessione
morale e politica57. D’altra parte non si deve dimenticare
«lo statuto ambiguo e drammatico della Rivoluzione» – novità di
tale portata e implicazioni – «che non deve stupire il diffuso disorientamento,
palese negli entusiasmi come nei recisi rifiuti, nei voltafaccia
nell’uno o nell’altro senso»58. Lo sgretolarsi degli ideali di
libertà sotto le efferatezze della plebaglia parigina e gli eccessi dei
giacobini spingeranno l’Alfieri anche verso il ripudio della violenza
un tempo teorizzata come indispensabile. Nella lettera, scritta al
Caluso nel gennaio 1802, citata nelle pagine precedenti, così esprime
angosciati ripensamenti sui trattati:
Il motore di codesti libri fu l’impeto di gioventù, l’odio dell’oppressione,
l’amor del vero, o di quello ch’io credeva tale. Lo scopo, fu la
gloria a dire il Vero, di dirlo con forza e novità, di dirlo credendo
giovare. Il raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto, e
quanto più v’ho pensato dopo, tanto più sempre mi è sembrato verace,
e fondato; e interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso,
ovvero tacerei. Ma per tutto questo si dovea egli fare, nè stampare,
nè pubblicare mai cotali scritti? Io primo dico no; biasimo chi l’ha
fatto; ne lodo la proscrizione e la persecuzione sì del libro, che dell’autore,
e dei cooperanti in qualsivoglia maniera. In due parole io
approvo di bel nuovo solennemente tutto quanto quasi è in quei
libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti, ed i libri medesimi,
perchè non c’era bisogno che ci fossero; e il danno può essere
maggiore assai dell’utile. E finisco aggiungendo, che verisimilmente
io ho sbagliato, e sbaglio ancora nell’approvare tutto quello che sta in
essi; ma lo dico approvabile, in quanto l’ho scritto ex corde, e col
senso intimo che fosse così ai miei occhi; ma questo non prova che
fosse così per se stesso. Quanto poi al merito Letterario, mi pare che
vi sia stile, e forza e chiarezza sul totale; ma pure molte cose ancora
cambierei adesso sì nei versi, che nelle prose se li dovessi rivedere59.
57 A. Fabrizi, Le scintille del vulcano, cit., p. 374.
58 A. Di Benedetto, Alfieri e la Rivoluzione francese: alcune puntualizzazioni,
cit., p. 46.
59 V. Alfieri, Epistolario, cit., vol. III, pp. 132-133.
[25] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 45
Sotto il peso della nuova realtà storica che svela fragilità e infondatezza
delle speranze riposte nella rivoluzione, l’ideologo libertario
dei trattati e il poeta delle tragedie di libertà ripiegheranno su posizioni
difensive non univoche. Da un lato Alfieri si sforzerà di ridimensionare
e qualche volta nascondere o negare il passato, anche
scegliendo di sconfessare opere precedenti, come nel caso dell’ode
Parigi sbastigliato; dall’altro impegnerà il proprio talento, un tempo
generatore dell’utopia dei trattati, nella composizione di Satire60 e
Commedie, dominate da amaro scetticismo e testimoni di un’indomita
volontà di stigmatizzare i vizi del suo tempo, quel «secolo servile
ed ozioso» in cui tutto gli era «di nausea e noja»61. La produzione
letteraria dell’ultimo Alfieri, segnata così dalla pluralità dei generi e
dalla mescolanza degli stili, riflette un discorso politico complesso e
sfaccettato, non sempre riconducibile a una visione unitaria. I messaggi
che si intersecano nell’area del trittico satirico-ideologico costituito
da Misogallo, Satire e Commedie non sono leggibili come assiomi
di una verità consolidata62. Anatemi antirivoluzionari e preannunzi
di libertà, impeti distruttivi e moniti al popolo futuro costituiscono
una trama fitta di incroci e intersezioni che se considerati e
seguiti isolatamente senza tener conto della globalità del pensiero
dominante, che è quello di un’assoluta professione di fede “repubblicana”,
potrebbero portare il lettore fuori strada63.
Infine la polemica contro la «viltà moderna» e «i moderni tempi»
che ha una parte considerevole nel Del Principe e delle lettere vira in
una violentissima campagna antifrancese e antirivoluzionaria su cui
alta si erge la riscossa dell’Italia futura e la prefigurazione del proprio
ruolo di poeta nazionale. Così nell’ultimo sonetto del Misogallo,
titolato Conclusione, gli Italiani «armati […] di quel furor celeste» ispirato
al poeta «dall’opre dei lor Avi» sbaraglieranno il nemico francese
e si rivolgeranno commossi all’Alfieri vate e padre delle «sublimi
età» create dalla sua stessa profezia poetica. Anticipazione della
storia e riconoscimento dell’eroe scrittore vengono accostati non a
60 Il primo abbozzo delle Satire risale al lontano 1777, come è spiegato in Vita
(IV, 16) ma solo nel 1786, si può parlare della prima composizione: il Cavalier
servente veterano. Seguono la “satiretta” I Re scritta nel settembre del 1788, I Grandi
composta fra il ’92 e il ’93 e infine tutte le altre stese e limate nel giro di pochi
mesi nel biennio 1795-97.
61 Id., La virtù sconosciuta, cit., p. 58.
62 G. Carnazzi, L’altro Alfieri. Politica e letteratura nelle Satire, Modena, Mucchi,
1996, p. 63.
63 Ibidem.
46 DONATELLA DONATI [26]
caso poiché la forza del brando-penna non cede neppure davanti alle
mancate promesse di libertà e giustizia della Rivoluzione, anzi paradossalmente
ne esce rafforzata. Cominciata l’epoca del disinganno
sorge nell’Astigiano un sentimento di sdegnosa difesa, radicale e
spinta fino all’oltranza, delle proprie posizioni ideologiche. Il dolore
per un naufragio che non si può né nascondere né minimizzare,
determinerà il caparbio irrigidimento del Conte Alfieri: da un verso
la riaffermazione assoluta e irrinunciabile del proprio ideale libertario,
dall’altro un inarrestabile slittamento in una dimensione simbolica,
comprensibile se teniamo conto di emozioni e sentimenti patiti, ma
storicamente discutibile. La rivoluzione francese subirà un processo
di demonizzazione diventando il Negativo per antonomasia e poiché
per Alfieri la parola è ancora e sempre il più valido rappresentante
e sostituto dell’azione, la scrittura “misogallica” assurgerà a
bandiera della negazione e dell’odio: convulsa, ripetitiva, violenta e
talvolta persino brutale, frequentemente di esito estetico discutibile
quando non decisamente impoetica. E sul fronte del proprio ruolo
di autore e intellettuale, la preoccupazione principale sarà quella di
salvaguardare la propria immagine, in un contesto ormai post-rivoluzionario,
da qualsiasi dubbio di aver appoggiato e giustificato,
mediante il proprio pensiero politico precedente, gli orribili esiti di
fine secolo in Francia64. Si impegnerà così in revisioni dei suoi testi
all’insegna di un’esacerbata volontà di demolizione di idee e ascendenze
di marca illuminista. Ne è un esempio la rimozione della
presenza tutt’altro che marginale di Voltaire dalla sua formazione
intellettuale e letteraria, aspetto ben documentato nel passaggio dalla
prima alla seconda redazione della Vita. Analogamente l’orgogliosa
rivendicazione dei propri nobili natali si colloca fra la prima e la
seconda redazione, fra il 1792 e il 1798, anni di amara palinodia dei
precedenti entusiasmi repubblicani e libertari.
7. La caparbia tenacia con la quale Alfieri si impegna nel massacrante
lavoro di composizione delle commedie va vista sia nel senso
della predisposizione a uno sperimentalismo creativo che lo condu-
64 Per avere idea dei sentimenti di ostilità e disgusto di Vittorio contro la
Francia citiamo, dalle sue lettere private, qualche esempio delle parafrasi con cui
si riferisce ai francesi: «[…] codesti schiavi cannibali mascherati da uomini liberi»
(1794-lettera 281); «[…] codesto popolo schiavo cannibale» (1797-lettera 316); «Schiavi
Sicarj» e «Celti […] tiranneggianti» (1799-lettera 364); «[…] una gente niente
stimabile […] Schiavi parlanti di libertà» (1799-lettera 369); «Deulochelti» (1800-
lettera 381); «[…] schiavi malnati» e «[…] oppressori assassini» (1880-lettera 389).
[27] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 47
ce, dopo aver esperito il tragico, a nuovi percorsi di scrittura teatrale,
sia come volontà di esprimere e chiarire le sue posizioni politiche
dopo il naufragio degli ideali rivoluzionari. Chi come Alfieri ha
una visione fortemente agonistica della letteratura, non può rinunciare
al compito di leggere la situazione storica corrotta, almeno dal
suo punto di vista, e di indicarne una via di uscita.
Che il genere commedia partecipi di una funzione civile significativa
al pari della tragedia, l’aveva già postulato nel Del Principe e
delle lettere in cui si afferma che «la commedia imprenderà allora a
combattere e porre nel dovuto ridicolo i veri vizj, e più i maggiormente
dannosi»65. La scrittura delle commedie, operazione “polisemica”
e meritevole ancora di molte attenzioni sia filologiche sia
critiche66, mette a confronto ideologia e contingenze della storia.
Gesto coraggioso di chi, mai dimentico di aver scritto il Della Tirannide,
riconosce lo scacco e s’impegna nella ricerca di una difficile
parola, che sia ultima e coerente, quasi come dovere da compiere
verso se stesso dinnanzi alle generazioni future. L’impresa testimonia
così anche una parabola di pensiero che dagli eroici furori libertari
evolve in un pessimismo definitivo e tuttavia non inerte. Con L’Antidoto,
Alfieri affronta in un testo teatrale il modello del costituzionalismo
moderato. La fedeltà all’ideologia costituzionalista, ribadita
in uno degli ultimi capitoli della Vita67 e in una tarda lettera all’abate
di Caluso, è rilanciata anche nella tetralogia delle commedie politiche68.
L’Uno, I Pochi, e I Troppi precedono il succitato lavoro e ne
giustificano la composizione a suggello e completamento di un ideale
percorso: antidoto ai “veleni” delle altre tre forme di assetto politico,
rispettivamente tirannide, oligarchia e democrazia, è il governo
misto, ovvero il costituzionalismo, qui più esattamente interpretato
come monarchia costituzionale sia pure in versione semplificata
(in quanto viene soppressa la camera dei Comuni)69.
65 V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., vol. I, p. 237.
66 Per una ricognizione aggiornata sulla storia della critica delle commedie
alfieriane consultare gli interventi di A. Placella (Introduzione al Convegno) e A.
Fabrizi (Le commedie alfieriane nella critica recente 1973-2005) in Alfieri comico. “La
Commedia in Palazzo”, a cura di V. Placella, Napoli, Università degli Studi di
Napoli “L’Orientale”, 2008, pp. 11-56.
67 «Io non sono mai stato, né sono realista, ma non perciò son da essere
misto con tale genia [i repubblicani francesi]: la mia repubblica non è la loro, e
sono, e mi professerò sempre d’essere in tutto quel ch’essi non sono» (IV,29).
68 A. Di Benedetto, Alfieri anti-sublime, in Alfieri comico.“La Commedia in Palazzo”,
cit., p. 172.
69 Ibidem.
48 DONATELLA DONATI [28]
Se è indubbio che il costituzionalismo di Alfieri si riallacci a
esperienze positive ben radicate nella realtà, in quanto aspetto fondante
di quel modello inglese il cui apprezzamento ritorna a più
riprese nella sua opera70, nel teatro comico la soluzione assume le
sembianze di una proposta che ha perso il vigore e lo smalto dell’entusiasmo
insieme alla certezza di un esito felice. L’incapacità
della Rivoluzione di tradurre l’universalità dei valori predicati nel
fatale Ottantanove in una forma politica e sociale in grado di onorarli,
ha lasciato irreparabili segni: nell’Antidoto alle indicazioni concrete
di una possibile via di salvezza in un regime misto, si accompagna
un’immagine degradata dell’uomo e non si elude il rischio
dello scetticismo politico. Nello stesso tempo altri testi, pensiamo al
prosimetro e alle Satire, esprimono posizioni talmente oltranziste da
apparire inconciliabili con la realtà e lontane da una costruttiva e
significante analisi. Siamo ancora nel campo delle contraddittorie
compresenze, della dissociazione drammatica prodotta da una violenta
delusione, alla quale un temperamento volitivo e indomito, passionale
e iroso non può reagire se non tempestosamente, oscillando
fra depressione e furibonde esplosioni di collera.
Infine il disgusto e il rifiuto del patrimonio di idee nuove prodotto
dalla Rivoluzione conducono Alfieri verso un misoneismo sempre
più accentuato. In questo senso bisogna vedere anche l’esaltazione
sempre più spinta della storia antica come «contravveleno» a un presente
che ripugna. La lente deformante attraverso la quale Alfieri
comincia a guardare il mondo lo spinge a proiettare l’antichità classica
nel futuro e a identificare quest’ultimo con la prima, ma solo
apparentemente ciò assomiglia all’emergente neoclassicismo repubblicano:
il disprezzo per la storia e la società del presente, l’atemporalità
mitica dei classici, l’antico vissuto come rifugio interiore sono
compensazioni allo scacco subito dai precedenti ideali libertari.
8. Vita quotidiana e opera si intrecciano e sconfinano l’una nel-
70 Si ricordano qui, a titolo di esempio, rispettivamente un passo del Principe
(III, 10) e un passo della Vita (III, 6):
«Così nei tempi nostri, l’Inghilterra, dall’aver cacciata la regal potestà, serbando
tuttavia dietro l’infrangibile scudo delle leggi i suoi re, in meno di un
secolo saliva ella in forza e in gloria grandissima […] Alla custodia di tali e così
sacri diritti vegliavano in Roma i tribuni, in Inghilterra la camera dei comuni»
«Il paese [l’Inghilterra] mi piacque molto, e l’armonia delle cose diverse,
tutte concordanti in quell’isola al massimo ben essere di tutti, […] e sopra tutto
l’equitativo governo, e la vera libertà che n’è figlia;»
[29] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 49
l’altra. La bile antifrancese del Misogallo e di molti versi delle Rime,
l’odio irriducibile per la borghesia e per alcune categorie sociali e
professionali espressi nelle Satire e nelle Commedie, trovano puntuale
riscontro nel dato biografico, affiorano nell’Epistolario71, si rilevano
nelle testimonianze, non prive di sconcerto, dei contemporanei.
L’ultimo Alfieri appare eccessivo: eccessivo nell’odio, nelle reazioni,
nella mancanza di filtro fra il proprio sentire e le relazioni con il
mondo, con gli uomini, con il tempo presente. Ne abbiamo una
significativa conferma nell’atteggiamento dell’amico Caluso. Per lui
parlano gli imbarazzati silenzi e, meglio ancora, gli interventi di
censura sui testi e sull’Epistolario, condotti di comune accordo con
l’Albany, dopo la morte del poeta.
Dalle testimonianze dell’Albany sappiamo che nell’ultimo poderoso
impegno per portare a termine il teatro comico, Vittorio accelerò
la sua fine minando una salute già fatalmente compromessa72.
Nella furia creatrice degli ultimi tempi possiamo avvertire l’indomita
volontà di concludere il proprio iter letterario in gara contro il tempo,
quasi che nell’incompiuto sentisse il rischio di un compito fallito
o di una rovinosa sconfitta. Alfieri lavorò tenacemente per esaltare
coerenza, unità e motivazioni profonde dell’intera opera, allo scopo
di consegnarla, in una cornice di mitica perfezione – lui stesso ormai
sentendosi classico fra i classici – alle generazioni a venire. Scelta
obbligata dal momento che il presente e gli uomini suoi contemporanei
tanto l’avevano deluso e disingannato.
L’Astigiano ebbe timore soprattutto di interpretazioni attualiz-
71 Sconcertanti le considerazioni e il giudizio politico sui tragici giorni del
luglio ’99 funestati dalle imprese del movimento sanfedista aretino noto come
“Viva Maria”: «Io ho passato i 102 giorni della Tirannide Francese di Firenze
sempre in villa […] e non ho mai messo il piede una sola volta nella città, fin
al dì 6 Luglio, che fu il giorno della purificazione. Adesso sono ancora in villa
ma vo qualche volta a Firenze; e massime ogni qual volta ci arriva dei Soldati
Tedeschi, per vedere il trasporto, il giubilo, l’espansione di cuore del pubblico
intero per i suoi liberatori; benchè gli Aretini han fatto essi il più. La Toscana
è presentemente tutta evacuata, e il Sole vi torna a risplendere» (1799-lettera
364). In V. Alfieri, Epistolario, cit., vol. III, p. 22.
72 Si possono consultare in proposito le lettere scritte dall’Albany all’amica
Teresa Regoli Mocenni. Ne riportiamo uno stralcio che si riferisce allo stato di
salute di Vittorio nel settembre del 1801: «Le poète, qui vous salue, a été malade:
la gotte lui est allée à la poitrine; il a eu un gros rhume avec quelques filets de
sang…et un grand chaleur à la tête, tout cela occasionné pour avoir trop travaillé
depuis un mois. C’est une vraie follie!». Riportata in nota in V. Alfieri, Epistolario,
cit., vol. III, p. 127.
50 DONATELLA DONATI [30]
zanti, che indubbiamente ci furono e attraverso forzature ed equivoci,
aprirono la strada alla grande fortuna ottocentesca del suo teatro
e dell’ideologia politica73. Esito paradossale ma non infelice. E certamente
scontato per generazioni di patrioti e intellettuali del nostro
Risorgimento, poiché non si poteva pensare ad altri se non ad Alfieri
nel momento in cui più alta era la sete di ideali e forte la
volontà di riconoscersi italiani74.
Così per una sorta di diffrazione dovuta a contingenza storica,
divenne suo malgrado tragediografo di immediato successo, poeta
apprezzato e condiviso dai più, autore di rilevante utilità propagandistica
per la causa patriottica in corso, in controtendenza con l’aura
di aristocratica separatezza e di mitica atemporalità alle quali aspirava.
In tal senso fu vate designato e acclamato da un Risorgimento
italiano al quale aveva guardato solo dalla siderale altezza di una
sublime utopia.
Per noi che possiamo osservare e riflettere da una spassionata
distanza, l’equivoco e le suggestioni, in cui caddero i suoi contemporanei,
furono una fascinosa e ineludibile distorsione interpretativa
che se da un lato ritardò la piena comprensione dell’Autore e la
diffusione globale dei suoi scritti75 dall’altro fu quasi inevitabile,
73 A titolo di esempio ricordiamo il grande successo della Virginia e dei due
Bruti che furono tra le tragedie più rappresentate nel triennio giacobino. Proprio
Virginia e Bruto Primo furono in allestimento a Milano nei giorni dell’arrivo di
Napoleone, che assistette personalmente a una replica della Virginia. Anche in
Italia, come in Francia, il teatro diventò in quel periodo uno strumento di
divulgazione e propaganda degli ideali rivoluzionari suscitando entusiasmi di
pubblico che decretarono l’Alfieri astro teatrale del momento. Cfr. G. Santato,
Alle origini del mito alfieriano fra letteratura, teatro e storia, in Id., Fra mito e palinodia.
Itinerari alfieriani, cit., pp. 287-325.
74 Illuminante, ancora molti anni dopo, l’esempio di Giacomo Debenedetti,
che, sfollato a Cortona, nei giorni dell’occupazione tedesca di Roma, e prima di
riuscire ad unirsi alle formazioni partigiane che operavano nell’Appennino toscano,
compose, tra l’ottobre del ’43 e il maggio del ’44, il saggio Vocazione di
Vittorio Alfieri. Riandando a quel drammatico periodo così rievocava i suoi
sentimenti: «[…] e mi misi a studiare l’Alfieri; in un’Italia e in un’Europa per
mesi e anni occupate dai tedeschi, non paia spudorato ricordare come la parola
libertà facesse veramente piangere, la parola tirannide veramente fremere». In
G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 7.
75 Le Commedie per le quali Alfieri si era tanto affannato nell’ultimo scorcio
della sua vita vennero pressoché ignorate dal lettore storico ed escluse dagli
entusiasmi risorgimentali e patriottici. Stessa sorte toccò a Satire e Misogallo. Il
contesto politico imponeva infatti una scelta unidirezionale nel senso della mitologia
eroica e libertaria.
[31] VITTORIO ALFIERI: IN DIFESA DELLA PROPRIA OPERA 51
generata com’era dall’impatto fra la polimorfa densità dell’opera e
l’esasperata drammaticità dei tempi. Anche la ricezione del pubblico
riflette così la natura complessa dei testi alfieriani che nutriti da
una dialettica di tensioni e di contraddizioni non sempre risolte, ci
appaiono oggi espressione autentica della crisi di transizione che
investe cultura e letteratura europee al difficile guado fra Illuminismo
e Romanticismo.
Donatella Donati
(Milano)
FABIO PAGLICCIA
Lettere inedite di Fedele Romani ad Alessandro D’Ancona
Fedele Romani, a many-sided writer from Colledara, a little and
vital town in the suburb of Teramo, was one of the most influential
members of D’Ancona’s Pisan school. This essay analyses the letters
written by Romani to his beloved master D’Ancona. While giving
evidence of a thirty-year-long friendship, these letters emphasize
Romani’s self-effacing and tormented temperament and give a clear
outline of the society in which they lived.
L’esiguo corpus epistolare, che qui di seguito si riproduce, comprende
19 lettere che lo scrittore abruzzese Fedele Romani (Colledara,
Teramo, 21 settembre 1855 – Firenze 16 maggio 1910) indirizza al
suo Maestro degli anni universitari, Alessandro D’Ancona (Pisa 20
febbraio 1835 – Firenze 9 novembre 1914).
Non vi è dubbio che il Romani, poeta e narratore, giornalista e
critico letterario, cultore di interessi linguistici e demopsicologici,
veda un imprescindibile modello di riferimento per la sua formazione
intellettuale proprio nel D’Ancona, pioniere – come è noto –
del metodo storico in Italia, sul cui insegnamento si è formata un’intera
generazione di studiosi, e la cui figura rivive in un commosso
articolo, intitolato I miei ricordi di Pisa, edito su «La Lettura» nel
novembre 1906, e poi confluito nel volume autobiografico Da Colledara
a Firenze, apparso postumo. In esso il Romani rievoca, a distanza
di anni, e con una schietta vena umoristica, a lui affatto congeniale,
personaggi ed episodi legati al periodo pisano.
Approdando nella cittadina toscana nel novembre 1876, il
Colledarese manifesta una prima sensazione assai favorevole dinanzi
al nuovo ambiente: «Pisa, – annota – col suo Lungarno, col Battistero,
col Duomo e la Torre pendente, col suo Camposanto, mi
fece una grande impressione»1. Del resto, la reazione particolarmen-
1 F. Romani, I miei ricordi di Pisa, «La Lettura», Milano, VI (1906), n. 11, p.
114.
[2] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 53
te entusiasta del giovane ventunenne si motiverebbe facilmente col
fatto che il soggiorno a Pisa rappresenta la prima uscita effettiva
dello scrittore dai confini della propria angusta regione. Il Romani,
infatti, aveva studiato dapprima ad Atri nel Seminario diocesano,
all’ombra dell’austero zio prete, don Lino Romani2, rettore dell’Istituto;
successivamente, con alterni spostamenti, nei licei di Teramo3
e dell’Aquila, conquistandosi, sin da subito, una «gloriuzza di poeta
», che gli aveva procurato una generale ammirazione, da parte in
primis di Giovanni Danelli4 e di Luigi Vinciguerra5, stimati docenti
2 Il Romani ci ha trasmesso un ricordo vivo dello zio, uomo per nulla ordinario
e di grande autorevolezza. Allorché il giovane Fedele, allievo del Seminario,
si distinse, appena adolescente, per una «satira in terzine», irriverente nei
confronti del vicedirettore dell’Istituto, il cui incipit sarebbe suonato: «Vero disdor
della chiercuta gente», lo zio non avrebbe esitato a trasferire d’ufficio l’intemperante
nipote diciassettenne a Teramo, affinché ivi sostenesse l’esame di licenza
ginnasiale.
3 Un breve profilo del Romani studente a Teramo è delineato da un compagno
di studi, Giuseppe Gasbarri, che lo ricorda particolarmente incline alle
lettere latine e greche, sì da uguagliare il proprio Maestro, Luigi Vinciguerra,
che avrebbe nutrito una naturale predilezione per l’allievo provetto (cfr. G.
Gasbarri, Brevi ricordi sul primo anno di Liceo di Fedele Romani, in Fedele Romani,
numero monografico dei «Quaderni dei corsi E-D», a.s. 1995-1996, Teramo, Liceo
Scientifico «A. Einstein», Stampa Deltagrafica, pp. 113-116). La sua gloria
letteraria era però offuscata da un’istintiva avversione per la matematica: «Male
riusciva nelle materie scientifiche e specialmente nella matematica che fu sempre
in tutto il corso dei suoi studi il suo tormento e la sua umiliazione e se
avesse potuto l’avrebbe bandita dal mondo». Cfr. G. Franchi, La vita scolastica
di Fedele Romani a Teramo, in Fedele Romani, numero monografico dei «Quaderni
dei corsi E-D», cit., p. 111.
4 Giovanni Danelli, titolare della cattedra di italiano, pubblicherà solo nel
febbraio 1916, sulla «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», il componimento
d’esordio del Romani, un sonetto dal titolo Per monaca, che il Colledarese
gli aveva donato. Inoltre, fornirà del suo ex allievo, a distanza di anni, un
giudizio assai lusinghiero: «Di bene in meglio. Il prof. F. Romani progredisce
sempre nelle sue pubblicazioni ed a lui che ebbi scolaro valentissimo nel 1875
nel Liceo di Teramo auguro presto una cattedra universitaria». Cfr. G. Danelli,
L’opera d’arte di F. Romani [recensione], «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed
Arti» (Teramo), 1908, p. 162. Infine, in occasione della scomparsa dell’autore, il
Danelli dirà: «Fu il più bravo de’ miei scolari. Buono e valente scrittore, mi voleva
bene anche quando non potevo in qualche cosa approvarlo. Venne più volte a
trovarmi a Massa ed a Livorno». Cfr. In memoria di Fedele Romani, L’Aquila,
Officine Grafiche Vecchioni, 1913, p. 73.
5 Luigi Vinciguerra sarà sempre apprezzato dal Colledarese per la profonda
conoscenza delle lingue classiche, anche se il suo insegnamento verrà giudicato
«basso e poco efficace», e «la sua cultura, fuori del greco e del latino, povera e
limitatissima». Cfr. F. Romani, Colledara. Aggiuntovi Da Colledara a Firenze, Fi54
FABIO PAGLICCIA [3]
del Liceo «Melchiorre Delfico» della città pretuziana. Ma è a Pisa
che, a contatto con un ambiente più stimolante, il Romani attua una
sprovincializzazione della sua cultura, e allarga i propri orizzonti;
ivi stringe amicizia con compagni di corso, tra cui nomi «destinati
alla fama» quali Guido Mazzoni e Francesco Novati, che, memori
del diretto magistero del D’Ancona, sarebbero divenuti, di lì a breve,
critici insigni della Scuola Storica.
Il primo incontro col D’Ancona avviene in occasione degli esami
d’ammissione alla Facoltà di Lettere della Scuola Normale di Pisa,
che vedono il Romani alle prese con un tema dal titolo «Relazioni
tra le opere minori di Dante e la Divina Commedia»: un argomento
che avrebbe dovuto appassionare il futuro lettore di Orsanmichele,
che proprio all’Alighieri avrebbe dedicato una folta messe di studi.6
Alla trepidazione per il superamento della prova d’ingresso succede
la gioia dell’aver ottenuto il posto di normalista esterno con una
piccola borsa mensile con cui, insieme alle pur modeste somme inviategli
periodicamente dal padre, il giovane Romani riusciva a far
renze, Bemporad e figlio, 1915, p. 168. Questi, peraltro, è autore di «odi greche
proclamate pindariche da Settembrini, da De Sanctis e da Paolo Emilio Imbriani»
(cfr. G. Gasbarri, Brevi ricordi, cit., p. 114). Proprio in una di queste odi
classicistiche, dal titolo Ad regem Victorium Emanuelem, si cimenta il Romani in
un lavoro di traduzione in versi sciolti, che raccoglierà i consensi del Maestro.
A quest’ultimo l’affezionato allievo dedicherà una breve lirica, intitolata In sè
vive lo spirto, edita sulla «Gazzetta di Teramo» nel novembre 1874. La dedica,
che segue la parafrasi di due versi del Paradise lost di Milton, recita: «Al Chiarissimo
Prof. Cav. L. Vinciguerra».
6 Il “dantismo” è un elemento significativo che accomuna gli interessi di
studio e di ricerca tanto del D’Ancona quanto del suo allievo. Tuttavia, mentre
nel primo ben si avverte l’impostazione storica della scuola positivistica, in cui
l’analisi letteraria, aliena dalle astrattezze e dalle mistificazioni della precedente
stagione romantica, si riappropria degli strumenti “scientifici” in funzione di
una rigorosa ricostruzione critica, Fedele Romani si accosta allo studio di Dante
con un orientamento più incline a rilevare l’aspetto estetico-psicologico, sulla
scia di una consolidata linea che dal De Sanctis condurrà al Croce, invero non
rinnegata completamente neppure dallo stesso D’Ancona. Ma il Romani, appartenente
alla generazione successiva al suo Maestro, vive, a cavallo fra i due
secoli, la crisi del sistema positivistico, per cui non il documento e le fonti,
quanto piuttosto l’universo spirituale e morale dell’artista costituisce il fondamento
della sua prospettiva esegetica. I commenti del Colledarese ai canti della
Commedia forniscono così un «chiaro esempio di un metodo di lettura che spazia
oltre i valori letterari e l’erudizione pura». Cfr. G. Stentella, Il dantismo di
Fedele Romani, «Critica Letteraria», XIV (1986), n. 53, p. 794. Gli studi danteschi
del Romani sono confluiti nel volume Ombre e Corpi (Città di Castello, S. Lapi,
1901).
[4] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 55
fronte alle esigenze della sua «vita semplice e modesta»7, non occupata,
peraltro, in uno studio assiduo e forsennato. «Presto – ricorda
lo scrittore nelle sue memorie – cominciarono le lezioni, che io frequentavo
con la curiosità intensa di chi aspetta di vedersi aprire un
nuovo mondo; ma ahimè! il nuovo mondo non si aprì che solo in
parte»8. A questa delusione avrebbe concorso l’insegnamento, percepito
come deludente, di alcuni docenti, tra cui Michele Ferrucci9 e
Ferdinando Ranalli10, al punto che lo scrittore non mancò di precisare
che, per la sua attività posteriore di insegnante di scuola, avrebbe
dovuto rifare da sé la propria formazione. Tali figure di docenti
saranno immortalate dal Romani in alcune briose caricature11, rese
presto famose dalla loro pubblicazione sul Numero unico del giornale
«Pisa, Pisa, Pisa» (1880). L’iniziativa editoriale, che «riuscì bene
per lo spirito e il garbo delle caricature e dei motti, ed acquistò una
certa celebrità»12, era chiaramente l’espressione di uno spirito goliardico,
che non risparmiava alcuno, neppure il tanto venerato D’Ancona.
Così, persino l’illustre critico pisano costituiva il soggetto di
qualche trovata burlesca. E il giovane Fedele, sufficientemente esperto
7 F. Romani, I miei ricordi di Pisa, cit., p. 115.
8 Ibidem.
9 La descrizione del professore di latino, Michele Ferrucci, serba un’evidente
intonazione comica. Divertente appare la sua caratterizzazione con i «baffi a
spazzolino da denti», con le «lenti sulla punta del naso, dove avevano scavato
due solchi», col «viso bruno, incappucciato di capelli bianchissimi», con il consueto
suo «strillo di gazza», che era solito emettere. Cfr. Ivi, p. 114.
10 Altro tipo originale e grottesco dovette essere il neretese Ferdinando Ranalli,
titolare della cattedra di storia «con la caratteristica faccia di scimmia e con la
voce d’orco». Cfr. Ibidem.
11 Alla vocazione letteraria si accompagna nel Romani, sin da tenera età, una
spiccata attitudine per l’arte grafica, che il Colledarese coltiverà nel tempo da
autodidatta, pur avendo frequentato per un breve periodo la scuola di disegno
di Gennaro Della Monica. Luigi Savorini non mancò di fornire curiose testimonianze
di questa vena artistica: «Si faceva dare dei piatti bianchi, ne affumicava
la cavità alla fiamma di una candela, poi sul nerofumo, con uno stecchino,
improvvisava in pochi minuti, alla brava, ma con grande sicurezza e perfezione,
delle teste o altre figure che si potevano poi conservare fissandole con una
vernice. Si ha notizia pure di alcune sue caricature sparse nei paesi della nostra
montagna. A Colledara ne è visibile ancora una sullo stipite dell’orto della sua
casa. Ad Ornano, in casa del barone Garzia, esiste una ceramica, dipinta dal
Romani, la quale reca la caricatura del fu Enrico Natanni di Castelli». Cfr. L.
Savorini, Fedele Romani caricaturista, in Fedele Romani, numero monografico dei
«Quaderni dei corsi E-D», cit., p. 199.
12 F. Romani, I miei ricordi di Pisa, cit., p. 120.
56 FABIO PAGLICCIA [5]
nell’arte del disegno, non si lasciava sfuggire l’occasione ora di
immortalare, con tocchi rapidi e incisivi di penna, la figura del
Maestro «piccolo e tondo, bruno bruno, e con l’occhio di falco»13,
dagli studenti soprannominato «Sandro Botticelli» per via della sua
mole corpulenta; ora, proprio nei giorni in cui il D’Ancona si
soffermava a lezione su alcuni rozzi componimenti poetici delle
origini, di raffigurare alla peggio sul muro di un corridoio della
Normale «due cani che, guardandoli con un po’ di buona volontà,
potevano parere anche quattro, due morti e due vivi» e poi, scimmiottando
i metri primitivi, di chiosare: «Esti duo canes, chi lo buol
sapere, / Etiandio quatuor possono parere. / L’anno che morse
rege Emanuele, / Feci io questo, Romani Fedele»14. Parimenti, non
mancava di notare, nella riproduzione iperbolica dei motti più frequentemente
in bocca al D’Ancona (egli che era, per l’appunto,
«piccolo e tondo»), un’espressione del tipo «Chi potrà mai arrivare
all’altezza di Dante?»15. Queste gustose e innocenti canzonature,
tuttavia, non valevano a scalfire l’unanime venerazione di cui godeva
il D’Ancona, «la cui fama volava come aquila sopra quella degli
altri»16. E se il «nuovo mondo» poté schiudersi, dinanzi agli occhi
del Romani, almeno in parte, ciò fu reso possibile per l’assimilazione
di quei «severi e giusti principii letterarii» che il Colledarese
veniva mutuando dall’insegnamento del suo Maestro: principi che,
qualunque fosse stato il cammino di lì intrapreso, gli sarebbero
giovati e riusciti «utili per tutta la vita». Il Romani, dunque, è pronto
a riconoscere la validità degli insegnamenti ricevuti, scorgendovi
una dotta e illuminante guida: «Uno solo dei professori attirava
tutta la nostra attenzione per la profondità del sapere, per la ferma
fede nei suoi propositi, per l’acume e la giustezza delle osservazioni,
per l’impareggiabile buon senso, ed era Alessandro D’Ancona».
Nel corso delle sue lezioni – afferma ancora il Colledarese – si
dispiegavano le «ricche miniere della sua dottrina», il suo «buon
gusto» e «buon senso»; e tutto l’uditorio studentesco serbava, in tali
circostanze, un «contegno rispettoso e conveniente», giacché «tutti
13 Ivi, p. 114.
14 Ivi, p. 119. A ciò si aggiunga la chiosa goliardica di un altro allievo che,
simulando che lo scritto meritasse un commento, annotò, desumendo il motivo
da un passo delle lezioni del D’Ancona, un elenco di interrogativi e di questioni
critiche intorno agli improvvisati versi del Colledarese.
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 114.
[6] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 57
nelle sue parole trovavamo, quali che fossero le nostre tendenze e le
nostre disposizioni, materia di cui far tesoro»17.
Il 30 giugno 1880, giorno della laurea, il Romani discute col
D’Ancona, nell’Aula Magna del Palazzo della Sapienza a Pisa, la
tesi sulle Odi del Parini. Ma col suo Maestro coltiverà, negli anni,
un rapporto di amicizia e di cordiale vicinanza. A ciò faccia fede la
testimonianza di Luigi Savorini, conterraneo più giovane del Romani,
educatosi anch’egli alla scuola pisana del D’Ancona: «Quando,
tra il 1896 e il 1899, viaggiando a quella volta, o tornandomene,
passavo per Firenze, non mancavo mai di andare a trovare Fedele
Romani, per portargli i saluti del nostro comune Maestro Alessandro
D’Ancona»18. Ma, soprattutto, ne è prova la relazione epistolare
che il Colledarese, ormai laureato e in giro per l’Italia, a causa dei
suoi continui spostamenti in qualità di insegnante di scuola19, intesse
col suo vecchio Maestro, nume tutelare al quale sovente si appella
sia per sfruttarne amabilmente la vasta competenza di erudito e di
studioso, sia per riceverne benefici e rassicurazioni di ogni sorta.
È fuor di dubbio che Alessandro D’Ancona abbia impresso una
svolta altamente significativa all’indirizzo delle indagini e degli studi
storico-letterari, confinati, sino ad allora, entro uno storicismo
romantico di marca desanctisiana, viziato da un soggettivismo di
fondo e da pregiudiziali ideologiche. L’impostazione positivistica,
sposata dal D’Ancona, considerando l’arte come «fatto», del quale
vanno analizzate “scientificamente” le cause e il contesto che l’hanno
determinato, ha dato l’avvio a imponenti ricostruzioni documentarie
della tradizione letteraria occidentale. In particolare, il D’Ancona,
proprio negli anni in cui il Romani è suo allievo a Pisa, concepisce
l’idea di un organico studio sul teatro italiano antico, esami-
17 Ivi, p. 115.
18 Cfr. L. Savorini, Fedele Romani caricaturista, in Fedele Romani, numero
monografico dei «Quaderni dei corsi E-D», cit., p. 197.
19 Nell’autunno del 1880 il Romani, fresco di laurea, è alle prese con la prima
nomina di insegnamento presso il Ginnasio Inferiore di Potenza, mentre l’anno
successivo si trasferisce al Ginnasio Superiore di Cosenza. Dal settembre 1882 al
marzo 1885 è chiamato a prestare la propria opera di educatore a Teramo in
quello stesso Liceo che lo ha visto studente. È poi di volta, nel 1885, al Liceo
Azuni di Sassari, e due anni dopo a Catanzaro, finché nel 1891 si guadagna una
cattedra di Letteratura Italiana al Liceo Vittorio Emanuele di Palermo. Sfumato
il concorso per il Liceo Mamiani di Roma, occupa, negli ultimi anni, un’ambita
cattedra presso il Liceo Dante Alighieri di Firenze. Nel capoluogo toscano, il
Romani è chiamato a insegnare anche nel Collegio della Santissima Annunziata
e a rivestire la carica di libero docente presso l’Istituto Superiore di Lettere.
58 FABIO PAGLICCIA [7]
nato in stretta connessione con le concomitanti condizioni storicopolitiche
(Le origini del teatro in Italia, 1877), ed elabora alcune importanti
acquisizioni, in primis la rivalutazione, in sede storiografica,
del concetto di «poesia popolare» (La poesia popolare italiana, 1878),
intorno al quale la tradizione romantica non aveva saputo rinvenire
un metodo univoco di indagine.
Ora, è innegabile che l’attività intellettuale del Romani, pur contrassegnata
da un eclettismo di fondo, riveli, in vero più nelle indagini
erudite e documentarie che nella produzione critica, una
filiazione dagli insegnamenti della Scuola Storica. Si pensi all’approccio
filologico con cui il Colledarese si accosta all’idioma della
sua terra, attento a coglierne le variabili diastratiche e diatopiche, e,
in genere, agli studi condotti nei campi della dialettologia e della
demologia, scienze emergenti nel panorama della cultura positivistica.
In questo quadro si collocano tanto le indagini “sul campo” dei
geonimi (Abruzzesismi, 1884; Sardismi, 1886; Calabresismi, 1890;
Toscanismi, 1907), quanto le ricerche di paremiologia (L’amore e il suo
regno nei proverbi abruzzesi, 1897).
Il carteggio, di seguito riportato, si dipana lungo un arco cronologico
piuttosto ampio, dall’11 aprile 1881 al 18 marzo 1907. Conservato
nella Biblioteca della Scuola Normale di Pisa, all’interno del
fondo D’Ancona, il corpus epistolare (faldone 38, busta 1164, lettere
1-19) è riprodotto secondo un criterio di fedeltà all’originale.
Gli interventi si sono limitati:
1. alla punteggiatura, solo nei casi in cui si è ritenuto necessario;
2. all’accentazione, che è stata ricondotta alla norma attuale: es.
perchè > perché; benchè > benché;
3. all’ammodernamento grafico di alcune voci del verbo avere: ò >
ho; à > ha; ànno > hanno;
4. all’espunzione della j semiconsonantica: es. Commissarj > Commissari;
studj > studi;
5. allo scioglimento di talune abbreviazioni entro parentesi quadre:
es. ap.[rile], distintam.[ente], Sup.[erio]re, Comm.[issio]ne;
6. all’uso del corsivo nei titoli delle opere: es. Odi > Odi; Inferno >
Inferno; Abruzzesismi > Abruzzesismi;
7. alla correzione di una data erronea che figura nella lettera n. 15:
17 Genn.[aio] [18]93 > 17 Genn.[aio] [18]94.
Fabio Pagliccia
(Chieti)
[8] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 59
CARTEGGIO
I
Potenza 11 Aprile 1881
Stimatissimo Sig.r Professore,
Lodovico Domenichi nella lettera al Conte d’Anversa che premise all’Epistola
in lode delle donne del Firenzola dice, come lei sa, di essere occupatissimo
a dar perfezione ad un’opera ch’egli scriveva in lode delle donne.
Vorrei saper da lei se quest’opera oggi esiste, e dove si potrebbe trovare.
Son certo che Lei sarà tanto buono da far contento
Il suo aff.mo e dev.mo discepolo
Fedele Romani
II
Ill.mo
Sig. Prof. Alessandro d’Ancona
Pisa
Castiglion della Valle (Teramo) 12 Sett.[embre] 1882
Veneratissimo Sig.r Prof.re,
Mi sto occupando in un certo lavoretto dove spesso mi capita di dover
scrivere parole in dialetto teramano20; mi nascono alcuni dubbi; glieli espongo
perché Ella me li sciolga.
Quella pausa che noi facciamo in fondo alle parole, pare a Lei che si
debba scrivere con un’e, o anche con un e>, come ha fatto il Savini21, piuttosto
che con l’apostrofo? È una fermata brevissima della voce, e così tenue
che non c’è nessuna ragione per credere che sia un’e, e non un i, o un o.
20 Il «lavoretto», a cui allude il Romani, è una breve serie di versi vernacoli,
intitolati Li Sunétte de nu Culledarase, che l’autore pubblicherà l’anno successivo
per i tipi del Morelli di Ancona, editore in voga per i suoi eleganti elzeviri.
21 Giuseppe Savini (Teramo 1848-1904) fu dialettologo, autore di due importanti
saggi sulla lingua pretuziana, intitolati Sul dialetto teramano (Ancona, Tip.
Civelli, 1879) e La grammatica ed il lessico del dialetto teramano (Torino, Loesher,
1881). In particolare, all’ultimo saggio, che è un trattato sistematico del dialetto
teramano, corredato delle nozioni fonologiche, morfosintattiche e lessicografiche,
il Romani attinge come ad una fonte imprescindibile per la composizione dei
suoi versi vernacoli. Ne è prova il fatto che il Colledarese lo citi ripetutamente
nelle «Note» poste in appendice alla prima raccolta. Così, in ssò ggerite fa sua
l’indicazione del Savini di adoperare l’ausiliare «essere», anziché «avere», nella
60 FABIO PAGLICCIA [9]
Consideri lei questi due versi che tolgo dal Vocab.[olario] dell’uso
abruz.[zese] del Dott. Finamore22 pag. 295:
Quande sarebbe giunde lu giorne sande.
Nun zole la dumeneche sete bella23.
Intenderà facilmente che l’e finale di sarebbe e di dumeneche non va
pronunziato menomamente; mentre in tutte le altre parole fa sillaba da sé.
Dunque questa pausa, questa breve fermata che noi facciamo in fondo alle
parole, è di sì poco conto che si può tralasciare senza che l’orecchio ne
soffra per nulla. E perché allora scriverla con l’e, se dell’e non ci si scorge
neppur l’ombra24? Ma io attendo una sua risposta, e non sta bene che faccia
il dottore.
formazione dei tempi passati; anche ssegneré, forma aferesizzata ed apocopata
del «vossignoria» toscano, trova riscontro nella grammatica del Savini, che ne
circoscrive l’uso alla comunicazione altamente formale. Parimenti, il Romani
desume dallo studioso teramano indicazioni circa l’evoluzione del sistema
fonologico del suo dialetto, come dimostra l’uso del verbo ttè, corrispondente al
toscano tiene; mentre l’impiego della forma ahäje, al posto della più regolare aje,
è giustificata dal fatto che «qualche volta al singolare del presente si prefigge un
A, ed allora, per impedire l’iato, il secondo A diviene aspirato» (cfr. G. Savini,
La grammatica ed il lessico del dialetto teramano, Torino, Loescher, 1881, p. 71).
D’altro canto, all’indomani dell’uscita de Li Sunétte, il Savini esprimerà giudizi
di tono lusinghiero. Definendo i versi del Romani «pochi, ma valenti», ne apprezza
la soavità dell’idillio domestico, in tempi «in cui s’inneggia alla carne ed
a Satanasso soltanto», la «rigorosa proprietà dialettale» che ricusa trasposizioni
ed italianismi, la «naturalezza e la spontaneità del verso». Cfr. G. Savini, Note
bibliografiche. Fedele Romani, Li Sunétte de nu Culledarase, Ancona, Morelli, 1883
[recensione], «La Provincia» (Teramo), 3 giugno 1883, p. 2.
22 Gennaro Finamore (Gessopalena, Chieti, 1836 – Lanciano, Chieti, 1923) fu
il primo ad affrontare lo studio dell’idioma della regione abruzzese con uno
spirito e un’impostazione metodologica compiutamente scientifici. Frutto cospicuo
delle sue indagini dialettologiche è il Vocabolario dell’uso abruzzese (I ed.
Lanciano, Rocco Carabba, 1880; II ed. Città del Castello, S. Lapi, 1893) che, se
nella prima edizione focalizza l’interesse sulla sola parlata di Gessopalena, in
quella seguente procede ad alcune comparazioni fra le varie parlate regionali. Il
Finamore, insieme al Savini, all’Ascoli, al D’Ovidio, è una delle fonti dichiarate
a cui il Poeta ricorre nella stesura delle sue liriche dialettali.
23 La trascrizione dei versi dialettali risulterebbe alquanto approssimativa, se
confrontata con la fonte citata, che fa uso degli accenti e del raddoppiamento
fonosintattico: Quánde sarrèbbe ggiunde lu ggiòrne sande / Nun zóle la duméneche
séte bbèlle. Inoltre, il secondo verso è situato a pagina 294, anziché a
pagina 295 come riporta il Romani. Cfr. G. Finamore, Vocabolario dell’uso
abruzzese, Lanciano, Rocco Carabba, 1880, rispettivamente alle pp. 295 e 294.
24 Il Romani manterrà, nella trascrizione dei sonetti in colledarese, il segno
della e per indicare il suono indistinto nelle finali di parola. E nell’Avvertenza,
preposta ai componimenti, annoterà: «e è vocale di suono non ben determinato,
che si avvicina in certo modo all’e muta dei francesi, ma è assai più sensibile.
Essa è sempre atona».
[10] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 61
Un altro dubbio. Tanto il Sig.r Savini quanto il Dott. Finamore hanno
segnato con un’h quel suono gutturale che noi facciamo sentire nelle vocali
iniziali e in quelle precedute da un’altra vocale. Io mi servirei del g senza
starci tanto a pensare. L’h sarebbe segno dell’aspirazione; ma noi non aspiriamo,
mandiamo fuori un suono gutturale25. Che ne dice Lei?
Scusi tanto, Sig.r Prof.re. A un suo antico e affezionatissimo discepolo
non vorrà negare il sommo favore d’una sua risposta.
Se brama sapere qualcosa di me, le dirò che l’anno scorso fui mandato
a Cosenza prof.re nel Ginnasio Superiore. Verso la metà dell’anno mi malai
con un fiero catarro di stomaco accompagnato da stranissimi sconvolgimenti
del sistema nervoso che mi costrinsero ad abbandonare la scuola e ad
andare a Napoli per curarmi. Ancora non son guarito. Quant’ho sofferto,
Sig.r Professore26! Quest’anno resterò a Teramo, allo stesso posto.
Gradisca le più sincere dimostrazioni d’affetto e di riverenza dal
Suo dev.mo discepolo
Fedele Romani
III
[Cartolina postale]
All’Egregio
Sig. Prof. Alessandro D’Ancona
Pisa
Teramo 24 Ap[rile] 1883
25 Accogliendo la proposta del Savini e del Finamore, il Romani adotterà il
segno della h per esprimere il suono velare, sia pure lieve, fornendo tali definizioni
ed esempi: «[…] h, innanzi a vocale, è una spirante sonora che va pronunziata
come un tenuissimo g: hasse (esso); bbèlla hère e bbèlla hè (bella era e bella
è); puhète (poeta); rehäle (regalo); hälle (gallo)».
26 Nell’autunno 1881 il Romani, dopo il primo anno di insegnamento trascorso
a Potenza, si trasferisce a Cosenza, ove ottiene una cattedra al Ginnasio
Superiore. Ivi, a contatto con un ambiente angusto, di gelosie, rivalità e diffidenze,
cade in uno stato di grave prostrazione fisica, che gli mina il sistema
nervoso, al punto che è costretto a recarsi a Napoli per sottoporsi a cure. Nel
capoluogo campano si rivolge ad alcuni vecchi compagni di studi che svolgono
il tirocinio presso l’Ospedale clinico di Gesù e Maria. Rivede anche l’amico
d’infanzia Domenico Tinozzi, suo sodale al seminario atriano e ora iscritto alla
Facoltà di medicina, che così registra la precaria condizione di salute del Romani:
«Ogni tanto, senza causa apprezzabile, una indescrivibile sensazione d’angoscia
gli rendeva frequentissimi e appena percettibili i battiti del cuore, mentre il
viso gli diventava pallido, la mente confusa e tutte le membra gli tremavano pel
terrore della morte.» Cfr. D. Tinozzi, Fedele Romani insigne letterato e critico
abruzzese, Pescara, Ed. de «L’Adriatico», 1932, pp. 9-10.
62 FABIO PAGLICCIA [11]
Stimatissimo Sig. Prof.re,
Ella m’ha fatto un onore singolarissimo col chiedermi le mie misere
annotazioni alle Odi27 del Parini: le manderò al più presto possibile tutto
quello che ho. Le occupazioni di scuola e la lunga e terribile malattia che
lei sa, non m’hanno permesso di continuare, com’avrei dovuto, il lavoro
della mia tesi; ma qualche cosa ho fatto, ed ella ne può disporre
liberissimamente.
Giorgi28 le restituisce i saluti, e la ringrazia distintam.[ente] dell’articolo
che non sapeva fosse suo.
Tanti ossequi dal suo aff.mo
F. Romani
IV
[Cartolina postale]
All’Egregio
Sig. Prof. Alessandro D’Ancona
Pisa
Teramo 13/5/[18]83
Stimatissimo Sig.r Prof.re,
Non creda, per carità, che io mi sia dimenticato del mio obbligo verso
di lei. È proprio che non ho avuto tempo. Abbiamo sulle spalle, da parecchi
giorni, un’ispezione che ci dà da fare e da pensare non poco; e lei se lo può
figurare.
Appena ne saremo liberi, e sarà tra pochi giorni, io penserò seriamente
a mettere in ordine tutto quello che potrò sul Parini.
Gradisca i saluti di Giorgi e di Simoni29, e mi creda sempre.
Suo aff.mo discepolo
Fedele Romani
27 Nella Prefazione alle Odi pariniane, il D’Ancona definisce il volume «frutto
del lavoro mio e degli alunni» (cfr. G. Parini, Le Odi, a cura di A. D’Ancona,
Firenze, Successori Le Monnier, 1905, p. X), e non si esime dal ringraziare
coloro che hanno prestato la loro opera di collaborazione: fra questi – dirà – «un
antico alunno, Fedele Romani abruzzese, che anni addietro avea avuto il mio
medesimo pensiero». Cfr. Ivi, p. VI.
28 Compagno di studi del Romani a Pisa e collega al Liceo «M. Delfico» di
Teramo, Paolo Giorgi rivestì, in seguito, l’incarico di Rettore del prestigioso
Collegio Cicognini di Prato. Amico di vecchia data del Colledarese, così ricorderà
quest’ultimo all’indomani della sua scomparsa: «come educatore e maestro
e critico d’alto valore avrà nome ben durevole dentro e fuori della scuola». Cfr.
AA.VV., In memoria di Fedele Romani, cit., p. 77.
29 Docente di italiano presso il Liceo di Teramo, Rodolfo Simoni fu, insieme
[12] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 63
V
Teramo 14 Giugno 1883
Veneratissimo Sig.r Prof.re,
Le mando le poche note al Parini, che ho potuto raccogliere. Avrei fatto
più presto, se alla Normale, secondo che mi ha scritto il Prof. Rosati, non
si fosse sperduta la mia Tesi, dove avevo segnato con precisione i numeri
dei versi o delle pagine dei luoghi imitati. Mi son dovuto aiutare alla
meglio coi pochi e disordinati appunti che avevo con me.
Troverà il mio materiale assai più scarso di quel che si sarà immaginato;
ma pensi, Sig. Prof.re, che io si può dire che cominci ora a risorgere alla vita;
tante sono state le mie sofferenze in questi ultimi tempi, col mal di stomaco
e con una feroce e tremenda ipocondria che m’ha fatto conoscere quel che
l’uomo può soffrire, pur rimanendo vivo.
Per mancanza di libri ho dovuto citare gli autori greci sulle traduzioni:
a lei sarà facile ritrovare i luoghi degli originali. Se i raffronti non le sembreranno
sempre giusti e naturali, mi scusi, e voglia ricordarsi che non tutti
possono avere il suo criterio e la sua dottrina.
Non le ho trascritto le note alla Caduta ed all’Educazione che Ella dice di
avere presso di sé; ma se desiderasse le precise indicazioni dei luoghi imitati
nelle odi suddette, me lo scriva, e la servirò subito.
Giorni addietro le mandai alcuni miei sonetti in dialetto30. Li ha ricevuti?

Continui a volermi bene e ad onorarmi dei suoi comandi; e creda che
tra quelli che più le voglion bene e più la stimano, c’è il Suo aff.mo discepolo
Fedele Romani
[P.S.] Giorgi e Simoni la salutano caramente.
VI
Roma, 12 Luglio 1884
Illustrissimo Sig. Prof.re,
Son venuto qui a Roma per chiedere al Ministero di essere promosso
dal Ginnasio Sup.[erio]re al Liceo (letteratura italiana) di Teramo31. Giorgi
che ora occupa quella cattedra ha chiesto di essere trasferito in Toscana.
col Romani, attivo collaboratore del «Corriere Abruzzese», organo diretto da
Francesco Taffiorelli, ed esponente del gruppo goliardico autodefinitosi “La
Pentarchia”, del quale facevano parte anche il direttore della testata Giambattista
Viganotti, Paolo Giorgi ed Eugenio Cerulli.
30 Il Romani si riferisce alla sua raccolta de Li Sunétte de nu Culledarase, la
prima serie di versi dialettali edita nel 1883.
31 La “promozione” vi sarà e permetterà al Romani di tornare, sia pure per
64 FABIO PAGLICCIA [13]
È la prima volta che, da che sono impiegato, vengo al Ministero per
chiedere qualcosa. Come sono rimasto avvilito al suono delle fredde promesse
che fanno! Io ricorro a lei come a un padre perché mi voglia aiutare,
non per i meriti miei, ma per la profonda affezione che ho serbata per lei,
in ogni tempo.
Faccia, di grazia, una letterina al Segretario Gen.[era]le per raccomandargli
il mio caso.
Scusi il disordine di questa lettera che è stata scritta a caffè, e da chi ha
l’animo agitatissimo.
Se mi farà questo piacere, mi potrà un giorno comandare anche di
spendere la mia vita per lei.
Gradisca gli ossequi sincerissimi dal
Suo aff.mo discepolo
Fedele Romani
P.S. – Se vuole riuscirmi utile, bisogna che scriva subito: il movimento
si fa ora.
Si ricordi, Sig.r Prof.re, che io non pretendo di essere raccomandato pei
meriti, ma perché Le ho voluto sempre bene. Non se n’è accorto?
Io torno domani a Teramo.
VII
Sassari, 20 Dec.[embre] [18]’81
Veneratissimo Sig.r Prof.re,
La ringrazio vivamente delle belle parole che ha scritte sui miei poveri
Sardismi; e tanto più la ringrazio in quanto molti di questi isolani (così ho
sentito) si son messi a lavorare come cani per provare in un libello famoso
che io sono una bestia. Nel mio modesto libretto hanno visto un’aggressione,
un’offesa imperdonabile!!…32
breve tempo, a respirare l’aria natia, tanto salutare per un pieno recupero delle
sue debilitate facoltà psichiche ed organiche. Ivi, il Romani sarà chiamato a
prestare la propria opera di educatore in quello stesso Liceo, che lo ha visto
brillante studente. Il periodo di permanenza del Romani nella città pretuziana,
dal settembre 1882 al marzo 1885, corrisponde ad una fase di intenso fervore
creativo, in cui l’autore affida la propria penna briosa ed arguta, sotto l’anonimato
o vari pseudonimi (l’anagramma «Alfredo Menei», «Don Abbondio», «Il Suicida
»), a due importanti testate regionali quali «La Provincia» e il «Corriere
Abruzzese», e soprattutto attende alla stesura e alla pubblicazione delle due
raccolte di versi vernacoli, intitolate Li Sunétte de nu Culledarase (1883), redatta
nell’idioma del paese d’origine, e Ddu huttäve e ttrè ssunétte (1884), composta nel
dialetto della koinè teramana.
32 Il Romani, intraprendendo per la Sardegna quegli studi linguistici già com[
14] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 65
Se potrò avere una copia dell’opuscolo che mi dovrà annichilire, gliela
spedirò subito.
Feci al Morandi la spedizione da lei desiderata.
Nelle prossime vacanze di Natale andrò a casa per respirare un po’
d’aria pura.
Gradisca le più sincere dimostrazioni d’affetto dal
Suo aff.mo discepolo
Fedele Romani
VIII
Catanzaro, 14 Maggio [18]90
Ill.mo Sig.r Professore,
Nel Gennaio scorso, si aprì, come forse saprà, un concorso per la cattedra
d’italiano del Liceo Genovesi di Napoli. Concorsi anch’io. Ebbe il posto
il mio carissimo amico Della Giovanna che si trovava a Palermo. Ora si è
aperto un altro concorso per la cattedra lasciata vuota dal Della Giovanna;
e io penso di concorrere anche questa volta. Ma per essere più sicuro di
non fare un gran fiasco, desidererei che Ella spendesse qualche parola per
me con quei suoi colleghi che dovranno giudicarmi. Ella certamente saprà
quali sono, e forse sarà legato d’amicizia con la maggior parte di essi. Nel
concorso di Napoli non feci una gran brutta figura. Meritai 43 punti su 50.
Vede bene che un filo di speranza lo posso avere questa volta, specialmente
se non mi sarà negato il suo appoggio.
Signor Professore, io non ho pubblicato dotte monografie, né ho stordito
l’Italia con nessuna pubblicazione di altro genere; ma ho dieci anni di
fatiche onorate: tutti i superiori sono sempre stati contenti di me: tutti gli
scolari m’hanno voluto sempre un gran bene. Ho poi cercato d’estendere,
piuti per le scuole abruzzesi, si accinge a redigere i Sardismi, ossia una rassegna
di errori che, per l’influenza del loro dialetto, i sardi commettono quando parlano
l’italiano. Scelto come base di riferimento il logudorese, ritenuto l’idioma
più colto e letterario dell’isola, la pubblicazione suscitò uno scandalo inaudito,
e unanime si rivelò la levata di scudi contro tale iniziativa. «Credevo col mio
libretto – dirà il Romani – d’acquistarmi la benevolenza e la gratitudine […]
almeno dei maestri. Ma furono appunto i maestri che sorsero in armi. Essi
erano furiosi, perché a scuola tutti più o meno commettevano gli stessi errori
che io avevo notati e raccolti. Fecero un’adunanza per prendere una decisione
nella suprema necessità della patria, e furono unanimi nel ritenere che bisognava
respingere l’insulto di un insolente continentale contro il parlare dei sardi.
Fu dato incarico ad uno dell’assemblea di scrivere contro di me. E questi compose
un opuscolo, ove si combattevano le mie osservazioni e si esponevano gli
spropositi che io correttore avevo commessi nel mio scritto». Cfr. F. Romani,
Colledara. Aggiuntovi Da Colledara a Firenze, cit., p. 244.
66 FABIO PAGLICCIA [15]
in tutti i paesi dove sono stato mandato, il buon uso italiano, incominciando,
forse per il primo tra i prof.[esso]ri liceali, una serie di studii pazienti
sui diversi provincialismi.
Ella sa meglio di me che, nei Licei, prima d’ogni altra cosa, bisogna
insegnare a scrivere; e io questo mi sono sempre ingegnato di fare, portando
nelle diverse scuole dove sono stato, l’amore alla lingua italiana e a
quella temperanza d’immagini e di giudizi a cui Ella mi ha abituato.
In questo concorso per Palermo, presenterò, oltre i titoli che presentai
per Napoli, un mio studio sulla forma, sul sito e sul sistema penale dell’Inferno
dantesco. – Cose vecchie, dirà, e non tutte facili! – Ha ragione: ma io
sono sicuro che Ella, se potesse vedere i miei disegni e leggere lo scrittarello
di prefazione, non mi deriderebbe. Questo mio lavoretto (che destino alle
scuole) non l’ho fatto ancora pubblicare e lo presenterò, così com’è, al
concorso.
Il tempo opportuno per spedire le domande e i documenti va fino al 31
di questo mese.
Posso, dunque, sperare nel suo appoggio? Si ricordi, Sig.r Professore,
che io l’ho sempre amato e venerato come un padre: glielo dico col cuore.
Gradisca le più sincere dimostrazioni di affettuosa riverenza dal
Suo dev.mo e aff.mo
Fedele Romani
IX
Catanzaro, 30 Maggio 1890
Gentilissimo Sig.r Prof.re,
Grazie, mille grazie della sua gentilissima lettera. Del resto, non mi ha
fatto maraviglia, perché ho sempre avuto una gran fiducia nella bontà del
suo cuore33.
Eccole, come piccolo segno di gratitudine, una copia del mio lavoretto
sull’Inferno. Permetta quattro parole di storia. Non so se Ella ha mai sentito
dire da qualche mio compagno che io ho una certa disposizione al disegno.
Mandato a insegnare al Liceo e costretto, per meglio spiegar Dante ai miei
alunni, a ricorrere spesso alla lavagna, cominciai a poco a poco a formarmi
un’idea abbastanza chiara della forma e del sito dei Tre Regni. Mi occupai
poi sul serio di questo studio, tanto importante, come Ella sa, per la piena
33 L’intercessione del D’Ancona si rivela, ancora una volta, provvidenziale.
Così nel 1891 il Romani esce vincitore nel concorso per la cattedra di italiano
nel Liceo Vittorio Emanuele di Palermo. «Questo – precisa l’autore – accadde
nell’ottobre, ma per le solite lungaggini del Ministero […] io non ebbi l’ordine
prima del marzo del 1892». Cfr. F. Romani, Colledara. Aggiuntovi Da Colledara a
Firenze, cit., p. 284.
[16] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 67
intelligenza del Poema, ma dai più assai trascurato. Non pensavo però a
una pubblicazione, e forse sarei rimasto sempre contento della sola approvazione
dei miei scolari, se non fosse stato che, nel mese scorso, il Ministero
mandò, in regalo, a questo, come agli altri Licei, le tavole del Gaetani,
riprodotte con gran lusso. Dopo aver veduto quelle tavole che, a dir vero,
rispondevano un po’ male (specialmente per l’Inferno) all’idea mia, mi misi
(verso la fine d’Aprile) a disegnare e a scrivere.
Ecco che arriva l’avviso del concorso di Palermo. – Bisogna far presto!
– dissi tra me; e così, in un mesetto, non ostante l’opprimente lavoro scolastico,
son potuto arrivare a mettere insieme nove tavole e questo libriccino
che le offro. Le tavole, non ho potuto farle litografare per le condizioni
del luogo in cui mi trovo, e per la ristrettezza del tempo: l’illustrazione, sono
stato obbligato a farla stampare perché «le commissioni esaminatrici dei
concorsi non tengono conto dei lavori manoscritti» (Mestica)34.
Se avessi avuto tempo di condurre il mio lavoro al suo termine, la «Via
non vera»35 sarebbe riuscita più lunga e le tavole sarebbero state, forse,
disegnate meglio; ma, a ogni modo, spero che il lavoro fatto mi potrà far
guadagnare qualche voto di più.
Ella mi rimprovera dolcemente dell’aver io interrotto i miei studi sui
Provincialismi. Ah, signor Professore! e come vuole che io non rimanessi
scoraggito nel vedere l’indifferenza del Ministero verso di me? Esso non ha
mai mostrato d’accorgersi dei poveri studi da me avviati. Eppure, per la
stampa, io ci ho rimesso de’ bei denari, e non sono ricco; eppure nei miei
lavoretti io ho posto tutta la cura possibile. Il Cian, dopo pochi mesi che era
in Sardegna, sentì il bisogno di scrivermi, senza avermi mai conosciuto, per
rallegrarsi con me dei miei Sardismi, tanto li trovava corrispondenti ai bisogni
di quelle scuole36.
34 Giovanni Mestica (Apiro, Macerata, 1838 – Roma 1902) curò edizioni di
classici antichi e moderni. Scrisse saggi critici, nonché un fortunato Manuale
della letteratura italiana nel secolo XIX (1882-1887).
35 Lo studio fu pubblicato per i tipi dell’Officina tipografica di Giuseppe
Caliò (Catanzaro) nel 1890.
36 Vittorio Cian (San Donà di Piave, Venezia, 1862 – Procaria, Torino, 1951),
filologo e critico italiano. Insegnò letteratura italiana all’Università di Torino,
nella quale fu successore di Arturo Graf. Negli anni giovanili, aveva insegnato
nel Liceo «Azuni» di Sassari l’anno dopo del Romani, del quale fu un sincero
estimatore. E, a proposito dei Sardismi, di cui avrebbe sperimentato l’efficacia
pedagogica, si espresse in toni entusiastici: «[…] seppe nei suoi Sardismi applicare,
con novità e serietà di iniziativa e di criteri, al dialetto logudorese il
programma da lui efficacemente realizzato dapprima con gli Abruzzesismi ed
esteso poi ai Calabresismi». Cfr. D. Presutti, Fedele Romani. L’uomo e il critico del
Petrarca, Parma, S.A. Tipografie Riunite Donati, 19392, p. 4. Vittorio Cian giudicò
il Romani «un tipo singolarissimo di quegli sperimentatori della vita e dei
libri che si vengono maturando lentamente una loro visione ed espressione del
68 FABIO PAGLICCIA [17]
Del resto non credo che, per riguardo ai provincialismi, io me ne sia
stato qui sempre con le mani alla cintola. Ho nel cassetto tutti, o quasi tutti,
i materiali per i calabresismi; e dopo d’aver avuto i suoi incoraggiamenti,
metterò da parte gli sdegni e comincerò a lavorare.
Ho saputo da Roma che la Commissione per il noto concorso non è
stata ancora formata. Chiameranno anche lei? Non mi maraviglierei, dopo
ciò che mi ha scritto, se la lasciassero da parte.
Non sono così sfacciato, sig. Prof.re, da pretendere che Ella debba scegliere
me tra gli altri. Sarei contento, contentissimo, se dicesse ai suoi colleghi:
Anche questo povero diavolo sa fare qualche cosa.
Continui a onorarmi del suo affetto, e creda sempre all’affetto sincero
del
Suo aff.mo
F. Romani
X
Catanzaro, 14 Luglio 1890
Veneratissimo Sig.r Prof.re,
Stamattina ho saputo dal Giorgi i nomi dei Commissari, e subito li ho
telegrafati a Lei, per timore che il suo aiuto non potesse, se no, arrivare a
tempo. Due dei Commissari mi conoscono: il Teza37 e il D’Ovidio38: il primo,
com’Ella sa, mi è stato maestro; l’altro, ho avuto l’onore di conoscerlo a
mondo e dell’arte per via di osservazioni continue e di minuti raffronti». Cfr.
AA.VV., In memoria di Fedele Romani, cit., pp. 33-34.
37 Impiegato alla Biblioteca Marciana di Venezia e alla Laurenziana di Firenze,
Emilio Teza (Venezia 1831 – Padova 1912) insegnò sanscrito, latino e greco
comparati, e lingue neolatine a Bologna, Pisa e Padova; ci ha lasciato numerose
traduzioni dal tedesco (Goethe, Voss, Groth), dal russo (Pus]kin) e dall’inglese
(Tennyson, Longfellow, Burns). Il Romani, che fu suo allievo a Pisa, lo ricorda,
nella prefazione ai Calabresismi, con profonda ammirazione, grato anche per la
valida consulenza prestata alla sua opera: «E lodi e incoraggiamenti mi sono
venuti da un mio illustre maestro, Emilio Teza, il quale, profondo e largo conoscitore
di lingue e della scienza del linguaggio, ha aggiunto utili consigli sulla
condotta di questo nuovo lavoro». Cfr. F. Romani, Calabresismi, Teramo, Fabbri,
1891, p. 19.
38 Critico e filologo seguace del metodo storico, Francesco D’Ovidio (Campobasso
1849 – Napoli 1925) fu una fonte autorevole e prediletta dal Romani, che
di questi si avvalse nella stesura delle «note dichiarative ed etimologiche» dei
suoi sonetti. E, dal canto suo, lo studioso molisano tenne in gran conto l’opera
critica del Romani, stando alle numerose citazioni che gli tributa nei suoi saggi
manzoniani. Gli rende, infatti, in più luoghi la lode dovuta, pur non convenendo
sempre con le sue opinioni. Cfr. F. D’Ovidio, I brani inediti, in Id., Nuovi
studii manzoniani, Milano, Hoepli, 1908, pp. 403n, 410, 528, 588, 639-640.
[18] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 69
Napoli. Per questi due avrei ragione di sperare qualche cosa; ma per gli
altri!… E il Carducci39 che non mi ha mai sentito nominare, cosa dirà di me?
Del resto, Ella mi vuol bene, non è vero, Sig.r Professore? Questo mi fa
passare ogni sconforto e ogni malinconia.
Ricevei ultimamente un suo biglietto di ringraziamento per la parte da
me presa alla sua festa solenne. Creda che sono stato ben lieto di averle
potuto dare quella piccola prova di affetto; e vorrei che ogni giorno mi si
presentassero tali occasioni.
La riverisco affettuosamente.
Aff.mo
Fedele Romani
XI
Catanzaro, 4 Decembre [18]’90
Veneratissimo Sig.r Prof.re,
La prego vivamente di voler gradire una copia della 2ª ediz.[ione] dei
miei Abruzzesismi40, che io le offro con tutto l’affetto di un amico e con tutto
il rispetto di un discepolo.
Tra le non poche aggiunte, troverà due capitoletti, sulla pronunzia e
sull’ortografia aprutineggiante.
I Calabresismi sono, si può dire, già pronti per la stampa; tant’è vero, che
il mio editore li ha già segnati in nota, sulla copertina degli Abruzzesismi,
tra i lavori in corso di stampa. Ora sto scrivendo la prefazione.
39 Il celebre poeta maremmano insegnava eloquenza all’Università di Bologna.
40 Gli Abruzzesismi costituiscono – nella calzante definizione di Enzo Marcellusi
– una «curiosa pagina di autobiografia linguistica». Cfr. «L’Istonio», Vasto (1910),
n. 23; poi in In memoria di Fedele Romani, cit., p. 67. Brucia ancora al Romani, a
distanza di anni, il ricordo delle irrisioni dei toscani, assai poco tolleranti nei
confronti di qualsiasi motto o locuzione che deviasse dalla rigida norma cruscante.
L’autore, infatti, finì più volte, all’epoca del soggiorno pisano, bersaglio di
toscanisti irriducibili: «Quando io mi trovavo a Pisa per gli studi universitari –
scriverà – mi accadeva ogni giorno, parlando l’italiano, di dir qualche parola
che faceva ridere i toscani e i non toscani o non era da essi compresa. […] A
quelle risatine io mi facevo rosso e mi riempivo di stizza». Cfr. F. Romani,
Colledara. Aggiuntovi Da Colledara a Firenze, cit., p. 226. Nasceva, in parte anche
in conseguenza di questo radicato sentimento di esclusione e di discriminazione,
la tenace volontà dell’autore di immergersi nello studio della lingua e dei
costumi della propria terra, quasi un tentativo di ribadire e di difendere, con
orgoglio, l’appartenenza alle proprie radici. L’abruzzesità, del resto, costituisce
un fil rouge che accomuna molte opere, sia in lingua che in dialetto, del Romani.
Gli Abruzzesismi ebbero tre edizioni; la seconda, cui si fa riferimento nell’epistola,
avvenne per i tipi teramani di Fabbri nel 1890.
70 FABIO PAGLICCIA [19]
Dopo del concorso di Palermo, nel quale fui classificato il secondo, con
45/50, presi parte anche a quelli di Roma e di Torino. La Comm.[issio]ne
risultò composta di Presidi e di altra gente burocratica. Non guardarono i
lavori pubblicati (i miei mi furono restituiti intonsi) ma le relazioni dei
Presidi e dei Prefetti sul nostro conto. Mi dettero 32/50 e mi confinarono
nel 14° gruppo, senza tenere nessun conto né della votazione di Palermo,
né di quella di Napoli dell’anno scorso (43/50). Ho poi saputo che l’exprefetto
di qui, un certo Gentili calabrese, ne aveva scritte, su di me, di
ogni colore. Tra le altre ridicole e vergognose invenzioni c’era quella che io
fossi un pericoloso soggetto in politica (di idee sovversive e turbolente). Avrebbe
fatto assai meglio a dir chiaramente che due anni fa, ebbi il coraggio di
segnare un 5 al suo figliuolo, tra una corona di 10 riportati in quasi tutte
le altre materie.
Continui a volermi bene, sig.r Professore, e creda sempre all’affetto e
alla venerazione del suo discepolo
Fedele Romani
XII
Catanzaro, 1° Luglio [18]91
Veneratissimo Sig.r Professore,
Ecco che finalmente i Calabresismi41 sono venuti alla luce e possono
presentarsi a Lei per ricordarle i miei sentimenti di affettuosa riverenza.
Il ritardo non è dipeso da me, ma dall’editore il quale, in questa pubblicazione,
è stato più lento di una tartaruga.
Scuserà se mi son preso la libertà di nominarla nella prefazione42. Scri-
41 Penultima serie dei provincialismi in ordine cronologico, i Calabresismi si
collocano sulla scia degli Abruzzesismi e dei Sardismi. Durante il soggiorno a
Catanzaro, il Romani si diede a trovare e a spiegare l’origine dei calabresismi,
che riunì e pubblicò nel 1891. «Cercai di rendermi familiare finché potevo –
dirà – il dialetto calabrese e imparai a trascriverlo con molta precisione ed
esattezza. […] Mi divertivo a raccogliere dalla bocca del popolo parole, modi,
canzoni e fiabe». Cfr. F. Romani, Colledara. Aggiuntovi Da Colledara a Firenze,
cit., p. 278.
42 Nella prefazione ai Calabresismi, datata 26 gennaio 1891, il Romani, rivolgendosi
ai suoi alunni del Liceo di Catanzaro, rievoca con affetto la figura del
D’Ancona: «Forse non mi sarei mai risoluto a mettere insieme e a pubblicare
questo nuovo lavoro […] se la voce di un uomo venerando non mi avesse
gridato dalla cara Toscana: Qual negligenza, quale stare è questo? Quest’uomo è
Alessandro d’Ancona. Voi lo conoscete, perché tutta Italia lo conosce, ma più
ancora perché l’avete sentito tante volte rammentare, con riverente affetto, da
me suo discepolo. Egli, in mezzo ai suoi gravi e fecondi studi, ha trovato il
[20] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 71
vendo quelle poche parole che La riguardano, io non ho fatto che ubbidire
(Ella lo sa) a un antico e profondo sentimento dell’animo mio.
Nella composizione del libro ho messo tutta la diligenza che poteva. Se
in qualche cosa avrò errato, Ella certo mi compatirà, perché sa bene quanto
sia difficile lavorare su di un dialetto che non è il proprio. A ogni modo,
desidero vivamente che Ella con la solita affettuosa franchezza mi faccia
notare gli errori.
Nel caso che Le si presentasse l’occasione di scrivere o di parlare al
Villari43, gli dica, sig.r Professore, qualche parola per me. Io ho fatto una
domanda con la quale chiedo di essere mandato in qualche residenza importante
dell’Italia Superiore e ho una gran paura che trascurino il mio
desiderio anche questa volta. Forse sarebbe bene che Ella ne dicesse qualche
cosa anche al Torraca44, il quale mi conosce.
Scusi, scusi di queste seccature; ma Ella non è uomo da disprezzare la
voce di chi ha bisogno.
Gradisca, Sig.r Professore, le più sincere attestazioni della mia venerazione
e del mio affetto.
Aff.mo discepolo
Fedele Romani
XIII
Castiglione della Valle (Teramo), 31 agosto 1891
Veneratissimo Sig.r Professore,
Ho saputo ufficiosamente da Roma che forse io non sarò trasferito da
tempo di accorgersi dei miei poveri lavoretti e li ha onorati di lodi e di incoraggiamenti
». Cfr. F. Romani, Calabresismi, cit., p. 18.
43 Pasquale Villari (Napoli 1826 – Firenze 1917), storico e uomo politico italiano.
Discepolo del De Sanctis, partecipò alla Rivoluzione napoletana del 1848,
patendo la prigionia e l’esilio. Insegnò a Pisa e a Firenze e svolse, dopo il 1870,
un’intensa attività politica.
44 Allievo del De Sanctis, Francesco Torraca (Pietrapertosa, Potenza, 1853 –
Napoli 1938) fu docente di letterature comparate a Roma, e, dal 1901 al 1928, di
letteratura italiana all’Università di Napoli. Egli lasciò del Colledarese il seguente
giudizio: «Conobbi Fedele Romani – se non ricordo male – nel 1892, a Catanzaro.
Egli insegnava Lettere Italiane nel Liceo; io, Ispettore Centrale, gli feci, come si suol
dire, l’ispezione. Ammirai la sua cultura soda e l’abilità didattica notevolissima,
e ne riferii al Ministero. Allora aveva pubblicato solo alcune raccolte di proverbi
e motti popolari della Sardegna – dove era stato – e della Calabria, dove era. Poi
passò in Firenze, pubblicò il bel volume Colledara, e si rivelò critico acuto e di
gusto finissimo. Lo ritrovai a Firenze, quando andai a leggere in Orsanmichele un
canto di Dante; lo feci invitare a tenere una conferenza alla Dante Alighieri di
Napoli. In quella occasione egli e il Parodi furono miei ospiti». Cfr. D. Presutti,
Fedele Romani. L’uomo e il critico del Petrarca, cit., pp. 11-12.
72 FABIO PAGLICCIA [21]
Catanzaro nell’Alta Italia, com’era ed è mio vivo desiderio. Questa notizia
mi ha addolorato assai; e ora ricorro a Lei per sapere se Ella ha già scritto
al Villari in mio favore. Per carità, sig. Professore, se non ha scritto ancora,
voglia scrivere presto, perché altrimenti io sarei rovinato.
Nell’Alta Italia io potrei continuare i miei studi dialettali, i quali benché
abbiano così poco valore, pure credo che possano riuscire più utili di certi
volumi… Basta, sono nato disgraziato.
Scusi del disturbo, Sig.r Professore, e accetti le più sincere attestazioni
della mia affettuosa riverenza.
Aff.mo discepolo
Fedele Romani
XIV
[Cartolina postale]
All’Illustre
Sig. Prof. Alessandro D’Ancona
Pisa
Firenze, 14 Genn.[aio] [18]94
Veneratissimo Sig. Professore,
La sua cartolina del 12 m’è stata consegnata solo stamani, perché, non
essendoci altra indicazione che R. Liceo, l’avevano portata al Galileo. Ella sa
qual è la sorte d’un povero professore di Liceo: essere oppresso continuamente
da un Himalaya di componimenti. E il lavoro è stato per me assai
maggiore del solito in questo primo bimestre, che ho dovuto giudicare per
la prima volta più di cento giovani. Perciò, se non ho ancora mandato
l’articolo, non è stato per negligenza. Esso sarà pronto per posdomani sera
e glielo spedirò subito. Mi c’è voluto un po’ di tempo anche per leggere
tutte le minute e fitte annotazioni. Voglia scusarmi del ritardo. Mi dispiacerebbe
assai se per causa mia si dovesse ritardare la pubblicaz.[ione] del
giornale. Del resto posdomani sera, senz’altro, l’articolo sarà impostato. La
riverisco con tutto l’affetto d’un suo riconoscente discepolo.
F. Romani
XV
[Cartolina postale]
All’Illustre
Sig.r Prof. Alessandro d’Ancona
Pisa
Firenze, 17 Genn.[aio] [18]94
Veneratissimo Sig.r Prof.re,
Ieri sera non potei; stasera certissimamente spedirò il manoscritto. Ella
[22] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 73
è mio maestro, e quindi ha, naturalmente, tutto il diritto di correggere o
sopprimere quello che non gli piacerà. Attendo le bozze.
La saluto rispettosamente.
Aff.mo discepolo
F. Romani
XVI
[Cartolina postale]
All’Illustre
Sig.r Prof. Alessandro d’Ancona
Pisa
Firenze, 22 Genn.[aio] [18]94
Veneratissimo Sig.r Professore,
Il mio articolo è stato scritto un po’ in fretta; e da questo anche dipende,
forse, quel po’ d’acerbità che Ella ci ha trovato: non ho avuto tempo di
essere meno sincero. Ora son contento di poterlo correggere con comodo.
Per il mio bene, faccia pure tutte le osservazioni che crede, senza pietà.
Se Ella ritiene che, nei limiti ben ristretti delle mie forze, io possa fare
qualche cosa per il suo giornale, comandi pure, ché mi troverà sempre
disposto ad ubbidirla.
Il mio indirizzo per la posta è R. Liceo Dante. La ringrazio vivamente del
giornale che mi sarà mandato.
La riverisco affettuosamente.
Aff.mo
F. Romani
XVII
Firenze, 26 Sett.[embre] [18]’96
Veneratissimo Sig. Professore,
Eccole i nomi dei Membri del Consiglio Direttivo dell’Educatorio della
SS.a Annunziata:
1° Pio Rajna45
2° Principe Tommaso Corsini
45 Filologo e critico educatosi alla scuola del D’Ancona e del Comparetti, Pio
Rajna (Sondrio 1847 – Firenze 1930) ammirò del Romani la delicata vena realistica
ed osservativa, sì da definirlo «squisito pittore di uomini e cose» e «fine umorista
». Cfr. In memoria di Fedele Romani, cit., p. 32.
74 FABIO PAGLICCIA [23]
3° Cosimo Peruzzi
4° Marchese Raffaele Torregiani (fratello di Pietro)
M’hanno detto che potrebbe giovarmi molto anche il R. Provveditore
Masi. Lo conosce Lei? Il Masi e il Rajna pare che siano quelli che hanno
maggiore autorità nella parte didattica dell’Educatorio. Potrebbe riuscirmi
utile, almeno così mi hanno detto, anche una raccomandazione alla Sig.ra
Emilia Peruzzi (Antella) e al Prof. Augusto Franchetti46. Ma Ella forse riderà
di questo mio catalogo di nomi.
Qui hanno cominciato a spargere la voce che io non potrò avere il posto
perché non sono Toscano47. Ha visto che bella ragione hanno saputo trovare?
E ne hanno trovato anche un’altra: che non ho moglie. Come se gli
ammogliati fossero di lor natura più morali degli scapoli, e non si dovesse,
in certi casi, guardare al carattere dell’individuo assai più che alla riputazione
della classe a cui esso appartiene. Eppoi mi pare che dovrebbero ricordarsi
che io ho oramai 41 anni.
Mi raccomando a Lei, sig.r Professore. Io so bene da dove parte il vento
contrario; e ho un gran bisogno di aiuto.
Voglia gradire le più sincere attestazioni del mio affetto e della mia
venerazione.
Il suo aff.mo discepolo
Fedele Romani
46 Augusto Franchetti fu nel capoluogo toscano docente di storia moderna
nel Regio Istituto di Studi Superiori e segretario dell’Accademia dei Georgofili
e del Circolo Filologico. Svolse anche un’assidua attività di giornalista e critico.
47 La pressante richiesta del Romani «di essere mandato in qualche residenza
importante dell’Italia Superiore» trova il suo coronamento nell’assegnazione
nel 1893 di una cattedra nel prestigioso Liceo «Dante Alighieri» di Firenze. «Dopo
un anno e mezzo che mi trovavo a Palermo, – ricorda lo scrittore – […] mi
arrivò una lettera del Chiarini, allora Capo Sezione del nostro Ministero, nella
quale egli mi diceva che io avrei forse potuto esser mandato in una di queste
tre sedi: Pisa, Brescia, Firenze. Io al nome di Firenze sentii aprirmisi il cuore».
Cfr. F. Romani, Colledara. Aggiuntovi Da Colledara a Firenze, cit., pp. 314-315. Il
Romani occupa, così, la cattedra, resasi vacante, di Raffaello Fornaciari, Accademico
della Crusca e noto autore di grammatiche. Ma nella scuola, roccaforte
della tradizione puristica, non mancano riserve pregiudiziali circa il conferimento
dell’insegnamento della lingua italiana ad un “barbaro” e, per giunta, scapolo:
«Alcuni toscani – rammenta l’autore con amarezza – […] mostravano di scandalizzarsi
al vedere che esso dovesse venir occupato da un barbaro o, come
dicevano, da un ciociaro, alludendo alla mia origine abruzzese, ma confondendo
gli abitanti della Terra di Lavoro […] con quelli dell’Abruzzo. Dove aveva
seduto un Isidoro Del Lungo, dove aveva seduto un Raffaello Fornaciari, doveva
sedere chi?… Come si corrompono le istituzioni! Era il vero caso di dire che
la Suburra invadeva il Palatino». Cfr. Ivi, p. 320.
[24] LETTERE INEDITE DI FEDELE ROMANI AD ALESSANDRO D’ANCONA 75
XVIII
[Cartolina postale]
All’Illustre Prof.r
Alessandro d’Ancona
Pisa
Firenze, 17 Marzo 1901
Veneratissimo Sig.r Professore,
Le mandai già a voce i miei più vivi ringraziamenti per il dono della
sua bellissima Prolusione ad un corso dantesco, e ora glieli rinnovo per iscritto,
lieto, per il bene degli studii, che Ella non abbia lasciato del tutto l’insegnamento48.
Gradisca le più sincere attestazioni del mio affettuoso ossequio.
Fedele Romani
XIX
[Cartolina postale]
Prof. Alessandro D’Ancona
Senatore del Regno49
Pisa
Firenze, 18 Marzo 1907
Veneratissimo Sig. Prof.re,
La ringrazio di cuore della gentile affettuosa recensione sul mio
«Colledara»50. Il Parodi51 mi ha detto che Ella desidera di sapere se io son
48 Dopo aver occupato per ben quarant’anni, dal 1860 al 1900, la cattedra di
letteratura italiana alla Normale di Pisa, il D’Ancona tenne, dal 1900 al 1909,
presso il medesimo Ateneo, l’incarico di esegesi dantesca. Al 1901 risale il suo
commento al canto VII del Purgatorio.
49 Il D’Ancona fu nominato nel 1904 Senatore del Regno.
50 La prosa memorialistica di Colledara rimane il meglio della produzione
creativa del Romani, narratore appartenente alla nutrita schiera dei veristi regionali.
Nelle pagine autobiografiche l’autore rivela un sentimento corale che
riflette una viscerale compartecipazione con i personaggi e le vicende della sua
terra. Nello stuolo dei suoi ammiratori si annovera persino la regina Margherita
di Savoia che – secondo quanto emerge in alcune lettere inviate dall’onorevole
Felice Barnabei ad Ernesto Romani, fratello di Fedele – non avrebbe esitato a
giudicare «bellissimo» il romanzo Colledara [epistola datata 26 aprile 1917], e in
grado di suscitare la sua «entusiastica ammirazione» [epistola datata 29 aprile
1917]. Cfr. D. Presutti, Fedele Romani. L’uomo e il critico del Petrarca, cit., pp. 15-
16.
51 Ernesto Giacomo Parodi (Genova 1862 – Firenze 1923) insegnò Filologia
romanza nell’Università di Firenze, diresse il «Bollettino della Società dantesca
76 FABIO PAGLICCIA [25]
disposto a parlare, sulla Rassegna, del Delitto della Signora del Pellizzari. Son
disposto; ma, poiché io sono molto occupato con la scuola, bramerei di
sapere presto il limite massimo di tempo che Ella mi può accordare. La
riverisco devotamente.
Fedele Romani
italiana» e curò varie edizioni critiche, accordando felicemente la lezione del
metodo storico con le proposte dell’estetica crociana. Al Parodi va ascritto il
merito di aver pubblicato le memorie del Colledarese, rimaste allo stato manoscritto,
per le quali avrebbe scelto il titolo Da Colledara a Firenze, preferendolo,
evidentemente, all’originario, Nella scuola e nella vita, che avrebbe deciso l’autore.
Così nel 1915 esce, per i tipi fiorentini di Bemporad, l’edizione del secondo
volume di memorie, comprensivo del primo romanzo, Colledara, già edito per la
prima volta nel 1907. Vissuto per oltre quindici anni «in una continua e cara
intimità di pensieri e di sentimenti» col Romani, il critico genovese non mancherà
di rilevare, a proposito di quest’ultimo, le «nobili e rare qualità d’intelletto
», la «continua e irreduttibile originalità», il «penetrante occhio d’artista»,
l’«intelletto sempre vigile e pronto di osservatore e di pensatore». Cfr. il discorso
funebre pronunciato da Ernesto Giacomo Parodi sul feretro del Romani in
Firenze il 17 maggio 1910, pubblicato col tit. Fedele Romani. L’uomo e lo scrittore,
«Il Marzocco» (Firenze), 22 maggio 1910, in seguito confluito nel volume miscellaneo
commemorativo In memoria di Fedele Romani, cit., p. 15, infine parzialmente
ripreso in E. G. Parodi, Fedele Romani, in Letteratura italiana. I critici, Milano,
Marzorati, 1969, II, p. 1141.
RAFFAELE MESSINA
Zia Michelina e le sue storie. Lettura stratigrafica
di una novella di Luigi Pirandello
Zia Michelina is not a famous tale, but it is often recalled by the
critics who studied about feminine characters and about the theme
of motherhood in Pirandello’s tale collection. The systematical comparison
between the different editions that the tale has had in the
course of the years, in order to avoid some errors of dating it traditionally
present in other critic essaies, consent us to observe like
Pirandello, changing the conclusion of the tale, has changed the
global meaning of the tale too, as an effect of a more painful and
gloomy vision of the life matured during the years of the First
World War. In fact, in the first edition (1914) the tale ended with
an image of motherhood that solaces and compensates for the
leading character’s pains; in the second edition (1922), on the
contrary, the leading character’s suicide doesn’t let any positive
perspective in a world even more steered by business.
L’edizione critica delle Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo,
pubblicata nella collana «I meridiani» della Mondadori1, corredata
di un poderoso e puntuale apparato di varianti, ha costituito,
nonostante l’emergere di qualche lacuna2, un positivo esempio di
filologia applicata ai classici della contemporaneità; un’opera che ha
inciso e che è destinata a incidere ancora per lungo tempo sugli studi
pirandelliani, proprio in forza dell’emergere della fitta stratigrafia di
fasi creative sottesa a ciascuna novella. Insomma, uno strumento di
lavoro fondamentale, che rende più agevole quella critica delle varianti
che per molti studiosi continua ad essere uno dei modi più
produttivi di accostarsi ai testi letterari3.
1 L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo e con Premessa
di G. Macchia, voll. I-III, Milano, Mondadori, 1985–1990 (d’ora in avanti NoA).
2 Utili integrazioni all’edizione critica curata da M. Costanzo sono in P.
Casella, Strumenti di filologia pirandelliana. Complemento all’edizione critica delle
Novelle per un anno. Saggi e bibliografia della critica, Ravenna, Longo editore, 1997.
3 Cfr. C. Segre, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, pp. 111-112.
78 RAFFAELE MESSINA [2]
Paradigmatico ci pare il caso di Zia Michelina4. La novella non è
tra quelle più famose di Pirandello: non è, ad esempio, tra quelle
antologizzate da Lucio Lugnani5, né compare nei più recenti percorsi
di lettura tesi a dare una visione d’insieme del corpus6, anche se
è stata richiamata da quegli studiosi che si sono maggiormente soffermati
a scandagliare le figure femminili e il tema della maternità
in Pirandello. Tuttavia, come dicevamo, particolarmente interessante
è la storia editoriale di Zia Michelina, poiché in essa non si registrano
soltanto varianti di redazione d’autore, intese come circoscritti
interventi linguistici sulla frase o sulla parola, ma anche redazioni
diverse, con sostanziali mutamenti della composizione e nella
definizione dei suoi significati7.
Pubblicata per la prima volta nel maggio del 1914 sulla rivista
«Noi e il mondo»8, la novella Zia Michelina ha poi subito modifiche
4 NoA, vol. primo, tomo I, p. 671.
5 L. Pirandello, Novelle, a cura di L. Lugnani, Torino, Einaudi, 1994.
6 Tra le tante, ci piace ricordare le monografie di M. Guglielminetti, Pirandello,
Roma, Salerno Editrice, 2006; A. Sichera, Ecce Homo! Nomi, cifre e figure di
Pirandello, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2005; R. Barilli, Pirandello. Una rivoluzione
culturale, Milano, Mondadori, 2005; R. Luperini, Pirandello, Roma-Bari,
Laterza, 1999; E. Lauretta, Luigi Pirandello. Storia di un personaggio fuori chiave,
Milano, Mursia, 1980.
7 Una distinzione degli interventi correttori di Pirandello in “varianti” e
“variazioni” è stata suggerita da Nino Borsellino, che utilizza il secondo termine
per indicare le redazioni diverse (cfr. N. Borsellino, Sul testo delle «Novelle per
un anno»: redazioni e variazioni, in Pirandello 1986. Atti del Simposio internazionale
Università di California, Berkeley, 13-15 marzo 1986, a cura di G.P. Biasin e N.J.
Perella, Roma, Bulzoni editore, 1987, p. 212). Pur in un quadro di attenta
revisione dei propri testi ad ogni occasione di nuova pubblicazione, rispetto a
Zia Michelina, non altrettanto profonde appaiono le modifiche apportate da
Pirandello ad altre novelle presenti nello stesso volume, limitate, come sono, a
interventi di ordine linguistico e stilistico (L’uomo solo, I nostri ricordi), o anche
a circoscritti interventi sulla tipologia della voce narrante (Il professor terremoto),
sulla distanza narrativa (La veste lunga), sul titolo (Volare). In particolare, per le
varianti presenti nella novella eponima e gli effetti che ne conseguono sul piano
della caratterizzazione dei personaggi cfr. R. Messina, I tormenti di Torellino. La
condizione di figlio di genitori separati nelle varianti dell’Uomo solo, «Angelo di
fuoco», III (2004), n. 6, pp. 57-67.
8 Attingendo da altre fonti bibliografiche, sappiamo anche che la novella Zia
Michelina gli aveva fruttato un compenso di L. 75.00. Un compenso inferiore a
quello che nello stesso periodo gli era riconosciuto per novelle pubblicate in
altra sede (il «Corriere della sera», ad esempio, gli aveva corrisposto la somma
di L. 125.00 sia per Il capretto nero, pubblicata il 31 dicembre 1913, che per Il treno
ha fischiato, pubblicata il 22 febbraio 1914; L. 100.00 aveva ottenuto, invece, per I
[3] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 79
profonde e sostanziali, tanto nell’epilogo della vicenda quanto nella
caratterizzazione dei personaggi, al momento dell’inclusione nel
quarto volume delle Novelle per un anno, L’uomo solo, pubblicato nel
1922. Infine, ulteriori interventi correttori, questa volta limitati soltanto
a varianti di ordine lessicale e stilistico, sono stati effettuati da
Pirandello a metà degli anni Trenta, in vista di una nuova edizione
delle Novelle che nelle intenzioni dell’Autore voleva essere definitiva
e che, pubblicata da Mondadori nel 1937, di fatto, sarà postuma9.
Nella versione del 1937, quella che oggi leggiamo correntemente,
l’intreccio prende le mosse dal vecchio Marruca che, morto senza
avere avuto figli propri, lascia la proprietà dei suoi beni, case e
poderi, al nipote ventenne Marruchino, cresciuto in casa sua come
un figlio sin da quando aveva due anni. A zia Michelina, sposata da
Marruca in seconde nozze proprio affinché accudisse il piccolo nipote
e ora piacente quarantenne, egli lascia, invece, l’usufrutto vita
natural durante, a condizione che non si risposi. La complicazione
scaturisce dal fatto che, durante il servizio militare, Marruchino, per
entrare in pieno possesso dei beni dello zio, manifesta il proprio
desiderio di sposare zia Michelina. Si tratta di una soluzione perorata
dal padre del giovane, che ha sempre apertamente criticato il
testamento del fratello, perché di fatto lascia il figlio padrone di
niente, e vista di buon occhio anche dalle vicine. Soltanto zia Michelina,
avendo cresciuto quel giovane come se fosse stato figlio suo,
non è disponibile a un rapporto che sente incestuoso. Tuttavia, pur
di dimostrare a tutti che non è attaccata al denaro avuto in eredità,
dopo avere cercato invano qualcuno disponibile a prenderla in
moglie, si lascia convincere a sposare Marruchino. Però, quando
questi pretende da lei con la forza anche la disponibilità sessuale,
pensionati della memoria, pubblicata in «Aprutium», gennaio 1914), tuttavia
egualmente significativo, tanto da essere puntualmente registrato dallo stesso
Pirandello tra le altre voci di entrata nel bilancio finanziario della propria attività
professionale (cfr. L. Pirandello, Taccuino segreto, a cura di A. Andreoli,
Milano, Mondadori, 1997, pp. 81-82).
9 Cfr. L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti
e A. Sodini, vol. I, Collezione «Omnibus», Milano, Mondadori, 1937 (d’ora in
avanti OM1). È lo stesso Lo Vecchio-Musti a chiarire che «animato da un desiderio
di perfezione sempre maggiore, per questa edizione definitiva, Pirandello
aveva iniziato, sui testi pubblicati, una severa revisione, purtroppo troncata
dalla sua fine repentina, quando aveva già riveduti – introducendo mutamenti
notevoli, spesso non soltanto formali e stilistici – cinque volumi» (M. Lo Vecchio-
Musti, Bibliografia di Pirandello, Milano, Mondadori, 1937, p. 62).
80 RAFFAELE MESSINA [4]
zia Michelina si uccide. La novella si conclude con la voce narrante
che sottolinea come tutto il vicinato ricordi ancora zia Michelina
come una pazza, perché fare da moglie a un giovane che diceva di
amare come un figlio e che poi era diventato suo marito, alla fin
fine, non significava andare alla guerra!
Non così nella prima redazione, quella del 1914. Nella formulazione
originaria la vicenda non si conclude con la morte di zia
Michelina, ma con l’immagine della donna che, subìta la violenza, è
rimasta incinta e ha trovato nella nuova creatura che tiene tra le
braccia, in quel “sangue suo”, un affetto che la compensa del dolore
patito, che la ripaga del “tradimento” del nipote cresciuto come un
figlio:
Ma non l’uccise, né s’uccise zia Michelina, allorché, sei giorni dopo,
Marruchino, di notte tempo, andò a picchiare alla porta della cascina
nella campagna lontana, e tempestò per ore e ore, tra un furibondo
abbajar di cani nelle tenebre notturne, finché ella non scese
ad aprirgli.
Nella notte stessa, dopo un’ora appena, livido, sgraffiato in faccia, al
collo, alle mani, se ne fuggì anelante, pauroso e pur con un tristo
ghigno su le labbra. Giunse al paese d’alba, corse a chiudersi in casa
per parecchi giorni. Ne uscì, quando gli scomparve il segno degli
sgraffi dalla faccia; ma teneva ancora le mani in tasca.
– Oh, Marruchino! Siete stato dalla sposa?
Fece di sì col capo.
– Fatta la pace?
Diede una spallata.
Aveva ormai deciso di non pensar più a quella donna, di non guardarla
più in faccia.
Ma andò a vederla, dieci mesi dopo, quando seppe, che al supplizio
atroce, che le aveva inflitto, ella aveva avuto da Dio un compenso
inaspettato: compenso dolce e terribile: un figliuolo.
Nel vederselo ricomparir davanti, ella si serrò il bimbo al seno, come
a difenderselo.
– Vattene! – implorò. – Lasciami qua tranquilla. Vattene! Vedi? tu qua
ci sei: sei qua, per me, in questo piccino ch’è quello stesso che tu eri,
quand’io ti trovai e t’allevai, ingrato! Questo non mi farà il tradimento,
che m’hai fatto tu … ah, questo no, di certo, sangue mio!
E, piangendo, affondò tutta l’anima e l’angoscia infinita del suo
perpetuo cordoglio in un lunghissimo bacio su la fronte del suo
nuovo figliuolo10.
10 Leggiamo il testo di Zia Michelina nella versione del 1914, pubblicata in
«Noi e il mondo» (d’ora in avanti NM), in NoA, vol. primo, tomo II, pp. 1387-
1388.
[5] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 81
L’altro epilogo, quello con suicidio, destinato a permanere sostanzialmente
invariato anche nell’edizione definitiva del 1937, compare
invece per la prima volta nella redazione del 1922:
Ma un po’ la vanità, un po’ le beffe della gente, un po’ la parte che
s’era assunto d’innamorato, persuasero Marruchino, dopo due giorni
di combattimento con se stesso, ad andar di notte a picchiare alla
porta della cascina di quel podere. Tempestò per ore e ore, tra un
furibondo abbajare di tutti i cani dei dintorni nelle tenebre notturne;
finché ella non scese ad aprirgli.
Nella notte stessa, dopo un’ora appena, livido, sgraffiato in faccia, al
collo, alle mani, se ne fuggì e, giunto all’alba al paese, corse a chiudersi
in casa. Poche ore dopo, vennero ad arrestarlo, perché avevano
trovata morta zia Michelina nel podere.
Gli sgraffi al collo e alla faccia, gli sgraffi e i morsi alle mani lo
accusavano. Ma egli giurò e spergiurò di non averla uccisa lui, ma
che s’era uccisa da sé, per aver egli voluto ciò che ogni marito è in
diritto di pretendere dalla propria moglie; disse che, avendo ottenuto
ciò che desiderava e per cui aveva tanto combattuto, non aveva
nessuna ragione di commettere quel delitto; portò tanti testimoni
che erano a conoscenza del suo sentimento, delle sue oneste intenzioni
e delle opposizioni e minacce di lei; e fu assolto.
Ancora le vicine parlano di zia Michelina come d’una pazza; perché,
Signore Iddio, se pur le faceva senso mettersi con un ragazzo ch’ella
amava come un figliuolo, dato che questo ragazzo era poi divenuto
suo marito, fargli da moglie alla fin fine non voleva mica dire andare
alla guerra. Che storie!11
Due epiloghi profondamente diversi, destinati, come vedremo più
avanti, a incidere in modo rilevante sul senso complessivo della novella.
Due epiloghi nei quali permangono invariati soltanto la notazione
paesaggistica, quel «furibondo abbaiar di cani nelle tenebre notturne»,
che, a livello simbolico, evoca le pulsioni malvagie e animalesche dell’animo
umano12, e i graffi in faccia e al collo, che implicitamente sottolineano
la strenue resistenza opposta alla violenza sessuale.
In funzione del diverso epilogo dato alla novella, si determinano
gli altri interventi correttori che Pirandello apporta al testo, sempre
11 Leggiamo il testo di Zia Michelina nella versione del 1922, pubblicata in
L’uomo solo, quarto volume delle Novelle per un anno (d’ora in avanti NoA 4),
sempre in NoA, vol. primo, tomo II, pp. 1387-1388.
12 Sull’interpretazione simbolica delle tenebre e dei cani, come di altri elementi
ricorrenti nella novellistica pirandelliana, cfr. P. Agostini, Lo spazio della notte.
Pirandello, le novelle, il simbolo, Firenze, Franco Cesati Editore, 1988, con particolare
riferimento alle pp. 89, 97, 107 e 139.
82 RAFFAELE MESSINA [6]
in occasione della pubblicazione del 1922. Il più rilevante è l’inserimento
di alcune sequenze relative agli sfortunati tentativi di zia
Michelina di trovare un nuovo marito per perdere l’eredità, lo “stato”
lasciatole dal primo, e dimostrare a tutti che il suo rifiuto di
sposare Marruchino è dovuto esclusivamente all’amore materno
provato per lui e non al proposito di godersi da donna libera la
rendita avuta in eredità dal vecchio marito.
Nel fare ciò, Pirandello taglia alcuni periodi sulla corrispondenza
ipocrita che Marruchino continuava ad inviare alla zia, poiché
nulla di nuovo aggiungono a quanto già espresso nelle pagine precedenti
e sviluppa, invece, in modo più articolato i tentativi di zia
Michelina di trovare un nuovo marito. Ecco la parte espunta:
Intanto Marruchino seguitava a scrivere dal reggimento, spropositando
più fieramente che mai. Ma non era più il suo figliuolo.
Un ragazzaccio perfido era, che per danaro la voleva ingannare.
Se non che, quanto più perfido le si mostrava – ah Dio, come fare?
– tanto più ella sentiva di non poterselo levar dal cuore.
Sfrontato! sfrontato! Seguitava a parlarle d’amore e a chiederle amore,
per carità! Amore, a lei! Lui, a lei, amore…
Come se sapesse, che cosa voleva dire amore… Ma presto glielo
avrebbe dimostrato lei.
In riferimento alle sequenze di nuovo inserimento, invece, osserviamo
che la prima di esse, quella nella quale zia Michelina, superando
il proprio pudore e tante umiliazioni, per parecchi mesi girovaga
nelle strade del paese in cerca di marito, costituisce l’espansione
di un motivo sommariamente presente già nella versione del
1914, sul quale s’innesta direttamente:
NM (1914)
– A spasso, zia Michelì? – le domandava
dall’uscio velenosamente qualche
vicina:
A spasso, sì, a spasso.
NoA 4 (1922)
– A spasso, zia Michelì? – le domandava
dall’uscio velenosamente qualche
vicina:
– A spasso, già! Avete comandi da
darmi? – rispondeva dalla strada, inchinandosi
con una smorfia di dispetto,
che l’ombra dietro, nel sole,
le rifaceva goffamente. Ma dove andava?
Non lo sapeva lei stessa. A
spasso. E si guardava, andando, la
punta delle scarpette; perché, ad alzar
gli occhi, non avrebbe saputo
dove né che cosa guardare e, sen[
7] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 83
tendosi diventar rossa rossa, si sarebbe
messa a piangere, ma proprio
a piangere come una ragazzina.
Ora tutti, quasi capissero ch’era uscita
di casa non per bisogno ma per
mettersi in mostra, si fermavano per
vederla passare; si scambiavano occhiate;
qualcuno anche per chiasso
la chiamava:
– Ps! Ps! – come si fa con le donne
di mal affare.
Lei tirava via, più rossa che mai, senza
voltarsi, col cuore che le ballava
in petto; finché, non potendone più,
andava a ficcarsi in qualche chiesa.
Nella parte seguente di testo aggiunto, attraverso l’uso dello stile
indiretto libero, trova spazio anche lo sviluppo dell’indole dialettica,
raziocinante della protagonista:
Santo Dio, perché faceva così? Una donna cerca marito per trovare
uno stato. Ora, chi poteva immaginarsi che lei al contrario ne cercava
un secondo per perdere quello che il primo le aveva lasciato?
S’immaginavano invece che, ancora bella com’era, insofferente della
vedovanza, cercasse piuttosto qualcuno con cui darsi bel tempo; e
volevano persuaderla che per questo, sì, ne avrebbe trovati quanti
ne voleva, e che poteva fare il piacer suo, senza commettere la pazzia
di perdere con un secondo matrimonio l’usufrutto dei beni del
primo marito. Libera d’ogni obbligo di fedeltà, non doveva dar conto
a nessuno, se si metteva con questo o con quello.
È questa un’integrazione testuale di particolare rilevanza poiché
avvicina zia Michelina a tanti altri personaggi pirandelliani e pone
questa novella in sintonia con altre che Pirandello ha inserito nello
stesso quarto volume delle Novelle per un anno. Grazie a questa
integrazione possono essere estese anche a zia Michelina le parole
che la voce narrante pronuncia a commento dei ragionamenti del
professor Terremoto: «Sono così tormentosamente dialettici questi
nostri bravi confratelli meridionali. Affondano nel loro spasimo, a
scavarlo fino in fondo, la saettella di trapano del loro raziocinio, e
fru e fru e fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione
mentale, ma anzi al contrario, per acquistare più profonda e
intera, la coscienza del loro dolore»13.
13 NoA, vol. primo, tomo I, p. 687. È il caso di ricordare che Il professor ter84
RAFFAELE MESSINA [8]
Infine, l’estremo tentativo di offrirsi in moglie persino al repellente
cognato, con massimo sacrificio di se stessa, chiude il blocco
di sequenze integrative:
A sentir questi discorsi zia Michelina si macerava dentro dallo sdegno,
a cui non poteva dar sfogo, perché capiva che veramente l’apparenza
era contro di lei. Uno solo, forse, uno solo poteva comprendere
perché lei cercava marito, e accoglierla e prendersela in moglie
per lo stesso fine: suo cognato, il padre di Marruchino, quel brutto,
secco, sudicio avaraccio, a cui non pareva l’ora che il figlio diventasse
padrone dell’eredità dello zio. Ecco l’unico mezzo! E così lei avrebbe
dimostrato a tutti qual era il piacere che andava cercando.
Risoluta, si presentò un giorno in casa del cognato.
– So che andate dicendo a tutti che voglio finire di rovinare vostro
figlio, mettendomi con qualcuno, per fargli commettere uno sproposito
appena torna da soldato. Io voglio invece il suo bene: sposare,
appunto, per levarmi di mezzo e lasciarlo padrone. Cerco uno che
mi sposi, e non lo trovo. Mi vogliono tutti, ma nessuno per moglie;
perché pare a tutti una pazzia ch’io debba perdere il mio, sposando
un altro. Voi solo non potete crederlo, sapendo perché voglio farlo.
Ebbene: sposatemi voi!
Il vecchio rimase un pezzo come stordito, a quella proposta a bruciapelo;
poi sulle labbra cominciò a delinearglisi quel certo sorrisetto
ambiguo dell’altra volta:
– Eh… eh… eh…
E astutamente, attraverso un faticoso garbuglio di parole le fece alla
fine intendere che non per gli altri soltanto, ma anche per lui sarebbe
stata una pazzia, una solenne pazzia; sì, perché tutto stava che
lei, non volendo sposare suo figlio, non si mettesse con altri, e che
il beneficio dell’usufrutto restasse in famiglia.
– E come, vecchiaccio? – gli gridò zia Michelina. – Mettendomi con
voi? Ah, brutta bestia! E gli interessi di vostro figlio, che predicate
e difendete da un anno finirebbero così, trattandosi di voi? Ma piuttosto
con un cane, anziché con voi, laido vecchiaccio! Puh!
E zia Michelina se n’andò su le furie.
Sapeva ormai ciò che le restava da fare.
Tutto inutile, dunque: tutti l’avrebbero voluta come amante, ma
nessuno, neanche il cognato, è disponibile a sposarla, perché rinunciare
a quella rendita sembra a tutti una pazzia. Nel loro insieme,
tali inserimenti costituiscono una rilevante espansione narrativa che
ha come conseguenza l’innalzamento della tensione drammatica della
remoto segue immediatamente Zia Michelina nell’ordine di successione delle
novelle dato da Pirandello al volume L’uomo solo.
[9] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 85
novella. Infatti, la protagonista, visto frustrato ogni tentativo di sfuggire
al matrimonio con Marruchino, è fatalmente sospinta verso
quel suicidio che Pirandello ha immaginato come nuovo tragico
epilogo della vicenda.
Ulteriori e più circoscritti interventi concorrono alla caratterizzazione
di zia Michelina. Rispetto alla prima redazione, nella versione
del 1922 la protagonista è tratteggiata come donna maggiormente
consapevole della pena di vivere e della meschinità sottesa ai rapporti
umani. Così, nelle fasi iniziali della novella, a ridosso della
partenza del giovane per il servizio militare, zia Michelina si conferma
maternamente premurosa nel dichiararsi pronta a fare fronte a
qualsiasi eventuale bisogno del nipote in caserma, ma cade ogni
riferimento, interpretabile ambiguamente, all’impaziente attesa per
il suo ritorno. Esso è sostituito, invece, dalla rassicurazione che ella
avrebbe custodito con la massima cura la cameretta di lui, mantenendo
«ogni cosa, così come [lui] la lasciava». Una notazione apparentemente
marginale, ma che in realtà getta luce sulla dimensione
psicologica della protagonista: per zia Michelina, da «buona mamma
», tutto resta immobile; nello spazio altamente simbolico di quella
cameretta, il passare del tempo non muta nessuna cosa. Insomma,
per lei Marruchino continua ad essere il ragazzo di sempre
anche se è cresciuto ed è andato a fare il militare:
NM (1914)
[…] lei che restava qui sola, amara
lei!, a custodirgli intatti, per suo conforto,
la cameretta, il lettino, il guardaroba,
aspettando impaziente il ritorno.
NoA 4 (1922)
[…] lei che restava sola, amara lei! a
custodirgli per suo conforto la cameretta,
il lettino, la guardaroba e
ogni cosa, così come la lasciava.
Cade, perché anch’essa interpretabile in negativo come attaccamento
alle proprietà, la sottolineatura dell’esperienza maturata da
zia Michelina nell’amministrare i poderi e le case lasciatele dal marito,
sostituita da una similitudine che ne mette in rilievo soltanto il
tratto di resistenza alla fatica («come un uomo»):
NM (1914)
Partito Marruchino, zia Michelina,
già da tant’anni per così dire invasata
nella solida quadratura del marito
(n’era rimasto indistruttibile lo
stampo tra quelle pareti in ogni cosa)
NoA 4 (1922)
Partito Marruchino, si diede tutta al
governo dei poderi e delle case,
come un uomo.
86 RAFFAELE MESSINA [10]
L’incredulità di fronte al cognato, che la invita a prendere atto
del fatto che Marruchino si sia innamorato di lei, è meno forte. La
fiducia nella purezza dei sentimenti filiali di Marruchino è meno
solida, meno convinta, e più rapidamente «l’orrore del sospetto»
cede il posto allo «schifo»:
si diede alacremente al governo dei
poderi e delle case.
NM (1914)
Zia Michelina lo guardò un pezzo,
riassalita dall’orrore del sospetto, che
già una volta le era balenato, sorse
in piedi:
– Ma è mai possibile, – gridò, sconvolta,
tutta fremente, al cognato, – è
mai possibile che una tale nequizia
sia venuta in mente al mio figliuolo?
Voi, voi gliel’avrete messa in
mente, voi tristo demoniaccio tentatore!
Non poteva il mio figliuolo alzar
gli occhi su me, vedere in me,
nella sua mamma, una donna! Voi
gli avete scritto, voi gliel’avete suggerito,
voi che non vi siete dato mai
pace per quel maledetto testamento!
NoA 4 (1922)
Zia Michelina si sentì riassalire improvvisamente
dall’orrore di quel
primo sospetto. Ma misto di schifo,
questa volta. Sorse in piedi.
– Mio figlio? – gli gridò. – Pensare
una cosa simile, mio figlio? per me?
Gliel’avrete messo in mente voi,
demoniaccio tentatore! voi che non
vi siete dato mai pace per quel maledetto
testamento!
Anche le successive reazioni della donna di fronte all’incomprensione
delle vicine e al proprio isolamento sono sempre di «meraviglia
», ma non più di «raccapriccio». In altri termini, esse sono
meno intense, già stemperate dal disinganno della vita:
NM (1914)
Con meraviglia, ch’era anche raccapriccio,
però, a un certo punto s’accorse
che nessuna di quelle vicine
comprendeva e apprezzava il sentimento
di lei. […]
NoA 4 (1922)
Con meraviglia, però, a un certo
punto s’accorse che nessuna di quelle
vicine comprendeva e apprezzava
il sentimento di lei. […]
Aumenta, invece, la disperazione personale di zia Michelina che
nella prima stesura, durante il matrimonio riesce, sia pure a stento,
a trattenere le lacrime; mentre nella stesura successiva non riesce
più a contenere la propria costernazione e piange:
[11] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 87
Inoltre, con le capacità analitiche e con la consapevolezza del male
che è nel mondo, aumentano anche la propria determinazione e la
propria capacità reattiva. Di fronte a Marruchino che, appena ottenuto
il consenso della zia al matrimonio, tenta di baciarla, la reazione
della protagonista ha un salto di qualità in termini di determinazione
e capacità di difesa personale. Infatti, rispetto alla prima stesura,
Marruchino non le salta al collo, ma “tenta” di saltarle al collo; per
effetto di questo tentativo maldestro non subisce più la semplice
minaccia verbale di essere cacciato via, ma la promessa di concreti
«guaj», supportata da un lume che lei brandisce in mano; prefigurando
il dopo matrimonio, zia Michelina non chiede il permesso di essere
lasciata andare da sola in campagna, ma afferma perentoriamente che
se ne andrà al podere; insistere nell’avance non sarebbe un “tentare”
un’altra volta, ma un pericoloso “arrischiarsi”:
NM (1914)
Andò in chiesa e al municipio, vestita
di nero, senza la minima acconciatura,
pallida, spettinata, frenando
a stento le lagrime, l’interno subbuglio.
NoA 4 (1922)
Andò in chiesa e al municipio vestita
di nero, pallida, spettinata e piangente.
NM (1914)
[…] che fai? no, via! non t’arrischiare!
Scòstati, svergognato!
Marruchino le era saltato al collo, e
la voleva baciare.
Fremente, con gli occhi sbarrati, dietro
la tavola, zia Michelina seguitò a
gridargli:
– Se tenti un’altra volta, ti caccio via!
Lo faccio per lasciarti tutto, tutta la
libertà di fare quello che ti parrà e
piacerà, di prenderti tutte le donne
che vorrai, tutti i piaceri che vorrai;
ma a patto di non alzar mai gli occhi
su, svergognato! hai capito? Mai!
Me ne lascerai andar sola nella campagna,
dove andasti a rifugiarti tu
per non aver le mie carezze di madre;
e là io resterò per sempre e non
ti farai mai più vedere da me. Giura!
Voglio che giuri!
NoA 4 (1922)
[…] Che fai? no, via! non t’arrischiare!
Scostati, o ti tiro questo in faccia!
Marruchino aveva tentato di saltarle
al collo per baciarla, e lei avea brandito
un lume.
Fremente, con gli occhi sbarrati, dietro
la tavola, zia Michelina seguitò a
gridargli:
– Se t’arrischi un’altra volta, guaj a
te! Lo faccio per lasciarti tutta la libertà
di fare quello che ti parrà e
piacerà. Pigliati tutte le donne che
vuoi, tutti i piaceri che vuoi, a patto
di non alzar mai gli occhi su me!
Me n’andrò al podere, dove andasti
a nasconderti per non aver le mie
carezze di madre; e là resterò per
sempre e non ti farai più vedere da
me. Giura! Voglio che lo giuri!
88 RAFFAELE MESSINA [12]
In riferimento a Marruchino, invece, tra la prima e la seconda
versione cade ogni accredito di una qualche bontà d’animo e il
personaggio viene da subito caratterizzato in termini di chiuso opportunismo.
Rivelatore è il momento del cordoglio per la scomparsa
dello zio. Infatti, il pianto non è più tutto per la morte di questi,
quanto anche per la concomitante partenza per il servizio militare:
NM (1914)
Marruchino (si chiamava veramente
Simonello) partì, soldato, a servir la
patria, con gli occhi ancora rossi di
pianto …
NoA 4 (1922)
Marruchino (si chiamava veramente
Simonello) partì per servir la patria
con gli occhi ancora rossi di pianto.
Un po’ per quel servizio alla patria,
un po’ per lo zio.
Maggiore rilievo è dato anche alla presentazione diretta del personaggio
del cognato, con accentuazione negativa dei suoi tratti
fisici (rozzo e sudicio) e psicologici (astuto, avaro e sleale):
NM (1914)
Magro, calvo, coriaceo, non somigliava
affatto al fratello né al figliuolo.
NoA 4 (1922)
Calvo, secco, coriaceo, non somigliava
affatto, né al fratello, né al figliuolo.
Vedovo da molti anni, rozzo eppure
astuto, sudicio e malvestito per
avarizia, parlava senza mai guardare
in faccia.
Tra le soppressioni di testo, è da registrare innanzi tutto quella
che colpisce qualche elemento di più lieve comicità, come le difficoltà
di comunicazione per lettera tra incolti, di manzoniana memoria14,
perché non più coerente con l’accentuazione della tensione
drammatica sottesa alle scelte correttorie del 1922:
14 Il riferimento è alle incomprensioni che segnano lo scambio epistolare tra
Renzo e Agnese, descritte nel capitolo XXVII de I promessi sposi. Che Alessandro
Manzoni sia «il romanziere italiano sul quale Pirandello ha più lungamente e
profondamente meditato» lo afferma esplicitamente Alfredo Barbina sulla scorta
del puntuale rilevamento dei volumi posseduti da Pirandello nella propria biblioteca
e delle annotazioni autografe presenti in essi (cfr. A. Barbina, La biblioteca
di Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni editore, 1980, p. 13).
NM (1914)
Dati questi precedenti, è facile sup-
NoA 4 (1922)
[13] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 89
porre di quanti spropositi dovessero
essere infiorate le lettere, che
Marruchino mandava dal reggimento
alla zia Michelina.
Un po’ più brava di lui in grammatica
e in ortografia, zia Michelina
avrebbe voluto riderne; non poteva,
perché da quelle lettere, pur così graziosamente
spropositate, appariva
manifesto, che Marruchino al reggimento
aveva perduto del tutto quel
costante buon umore, che fin da ragazzo
con coraggio imperterrito aveva
difeso, ribellandosi a una soverchia
istruzione.
Le lettere che ora mandava dal reggimento
erano l’unico conforto di zia
Michelina, quantunque, attraverso lo
stento che le costava il decifrarle, le
apparisse sempre più manifesto da
esse, che Marruchino al reggimento
aveva perduto del tutto quel battagliero
buonumore con cui fin da ragazzo
s’era coraggiosamente difeso,
ribellandosi a una soverchia istruzione.
Infine, va segnalata anche la scelta di sopprimere alcune righe
d’esordio, in modo da rendere più compatta la descrizione del contesto
familiare in cui s’inserisce la protagonista e, al contempo, differirne
l’entrata in scena per presentarla al lettore successivamente
con un alone di accresciuta classica epicità:
NM (1914)
Quando il vecchio Marruca morì, il
nipote – Marruchino, come lo chiamavano
– aveva circa vent’anni; stava
per partire, soldato, col reggimento.
Cappellone, un, due, povero Marruchino!
La zia, entrando giovinetta nella casa
del Marruca, seconda moglie, vi aveva
trovato questo nipote Marruchino
di appena due anni.
Senza figli dal primo letto, lo zio gli
s’era affezionato così, che, rimasto
vedovo, non aveva voluto ridarlo al
fratello, di cui era figliuolo; anzi appunto
per lui, bisognoso di cure materne
in così tenera età, aveva – benché
anziano – ripreso moglie. Sapeva
che non avrebbe avuto mai figliuoli
da parte sua; ma, robusto e
ben piantato com’era – albero di
bellezza – aveva sempre tenuto a di-
NoA 4 (1922)
Quando il vecchio Marruca morì, il
nipote – Marruchino come lo chiamavano
– aveva circa vent’anni, e
stava per partire soldato.
Cappellone, un due, povero Marruchino!
Senza figli del primo letto, lo zio gli
s’era tanto affezionato che, rimasto
vedovo, non aveva voluto ridarlo al
fratello, di cui era figliuolo; anzi proprio
per lui ancora in tenera età e
bisognoso di cure materne, aveva,
benché anziano, ripreso moglie. Sapeva
che non avrebbe avuto mai figliuoli
da parte sua; robusto però e
ben piantato come un albero da ombra
e non da frutto, aveva sempre
tenuto a dimostrare che, se frutti non
ne dava, questo non dipendeva da
scarso vigore. Ragion per cui s’era
scelta giovanissima la nuova sposa.
E della scelta non s’era pentito.
90 RAFFAELE MESSINA [14]
Zia Michelina, di sangue placido,
d’indole mite […]
mostrare che, se non dava frutto,
questo non dipendeva da scarso vigore.
Ragion per cui s’era scelta giovanissima
la nuova sposa.
Della scelta non s’era pentito mai.
Zia Michelina, di sangue placido,
d’indole mite […]
Fin qui abbiamo osservato le principali differenze che caratterizzano
le due diverse redazioni, per aggiunta e/o soppressione di
porzioni significative di testo. Tra le due redazioni, tuttavia, si registra
anche in più minuto lavorio di varianti. Ciò che si osserva è la
tendenza ad una narrazione più scandita nel ritmo sintattico e più
essenziale nel dettato.
La ricerca di una maggiore essenzialità del dettato, attraverso
l’eliminazione di informazioni marginali o pleonastiche, si manifesta
sin dal periodo d’esordio, nel quale, annunciata la partenza di
Marruchino per il servizio militare, appare superflua la specificazione
del concomitante movimento del reggimento:
NM (1914)
Quando il vecchio Marruca morì, il
nipote – Marruchino, come lo chiamavano
– aveva circa vent’anni; stava
per partire, soldato, col reggimento.
NoA 4 (1922)
Quando il vecchio Marruca morì, il
nipote – Marruchino come lo chiamavano
– aveva circa vent’anni, e
stava per partire soldato.
Essa si ripresenta in altri passi di minore evidenza15, ma anche in
snodi narrativi di rilievo, come quando, rientrato Marruchino per
15 Ne diamo una campionatura, in cui cadono singoli avverbi, aggettivi, predicati,
termini ripetuti più volte o anche intere frasi:
NM (1914)
[…] tutto aveva la solida quadratura dell’antica
vita patriarcale; subito s’era mostrata
paga del marito […]
[…] per una certa disperazione che gli
era entrata nell’anima, e non voleva più
uscirne.
Ma levate dal capo al vostro figliuolo il
proposito infame che gli avete suggerito!
È peccato mortale! è peccato mortale!
[…] voi tristo demoniaccio tentatore!
NoA 4 (1922)
[…] tutto aveva la solida quadratura dell’antica
vita patriarcale. S’era mostrata
paga del marito […]
[…] per una certa disperazione che gli
era entrata nell’anima.
Ma levate dal capo al vostro figliuolo
un’infamia come questa che gli avete
suggerita! Peccato mortale!
[…] voi demoniaccio tentatore!
O demoniaccio, e che credete?
[15] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 91
una breve licenza, zia Michelina nutre il primo sospetto circa le
intenzioni del nipote. In questo caso, Pirandello evita l’accumulazione
di termini, le similitudini pleonastiche, l’aggettivazione superflua:
Oh tristo demoniaccio, e che credete?
Ferita nel suo cuore materno da quel
morso avvelenato, zia Michelina rimase
a piangere per giorni e giorni.
La povera zia Michelina n’aveva il sangue
agli occhi. Esasperata, ripeté alle vicine
il suo proponimento di dar moglie
al nipote, subito appena di ritorno, e di
farlo padrone e contento.
[…] tali le sue fattezze, a cui non aveva
più pensato, tale il suo aspetto, che il
nipote si fosse potuto accecare […]
No, no! che! Brutta non era; era ancor
florida, sì; non mostrava certo gli anni
che aveva: quarantuno! Ma non era, non
poteva esser bella per quel ragazzo!
Zia Michelina rimase a piangere per giorni
e giorni.
Esasperata, zia Michelina ripeté alle vicine
il suo proponimento di dar moglie al
nipote, subito appena di ritorno, e di farlo
padrone di tutto e contento.
[…] tali le sue fattezze, tale il suo aspetto,
che il nipote si fosse potuto accecare
[…]
No, brutta non era; non mostrava certo
ancora gli anni che aveva; ma non era,
no, non poteva esser bella per quel ragazzo!
NM (1914)
[…] zia Michelina si vide a un tratto
assalita da un sospetto, che le fece
orrore, terrore; cadde a sedere su una
seggiola, come intronata, e rimase lì
un pezzo, pallida, con gli occhi sbarrati,
a grattarsi con le dita tremolanti
la fronte.
NoA 4 (1922)
[…] zia Michelina si vide a un tratto
assalire da un sospetto che le fece
orrore; cadde a sedere su una seggiola,
e rimase lì per un pezzo, pallida,
con gli occhi sbarrati, a grattarsi
con le dita la fronte:
[…]
La tendenza alla condensazione del testo è contraddetta in un
solo caso, che, proprio in quanto si discosta dalla tendenza generale,
sottintende forti motivazioni sul piano del significato denotativo
e, soprattutto, connotativo. Si tratta di una notazione ambientale
contenuta all’interno della sequenza di presentazione del personaggio
principale, zia Michelina. In riferimento alla casa, «ove tutto
odorava della campagna lontana», nella versione del 1922 Pirandello
integra il testo scrivendo «ove tutto odorava delle abbondanti quotidiane
provviste della campagna lontana». In tal modo egli orienta
implicitamente l’attenzione del lettore sul benessere materiale derivante
dalla proprietà dei tanti poderi lontani.
La punteggiatura appare orientata verso un maggiore uso del
punto e virgola o del punto fermo, lì dove prima vi era una virgola,
92 RAFFAELE MESSINA [16]
in funzione di una più marcata distinzione tra le frasi e di un andamento
sintattico paratattico:
NM (1914)
Zia Michelina si vide, si sentì sola,
sola e come sperduta in un vuoto
orrendo.
[…] aveva nel testamento disposto,
che la proprietà più che modesta dei
beni (case e poderi) andasse al nipote,
e intero alla moglie l’usufrutto, vita
natural durante, a patto, s’intende,
ch’ella non riprendesse marito.
Quante più carezze materne ella gli
prodigò, tanto più furioso egli divenne,
e alla fine, come forsennato,
se ne scappò via […]
disse che lui non c’entrava; che tutti,
parenti e amici, sapute le disposizioni
del testamento, tutti d’accordo
avevano pensato, che lodevolmente
la cosa si potesse accomodar così, e
che questo era segno che nessuno ci
vedeva il male, che voleva vederci
lei; che se c’era differenza d’età, che
c’era sì, ma non poi tanta com’ella si
figurava, questa differenza quasi
spariva per la perfetta conservazione
e la florida salute di lei, che certo
era di quelle donne che non invecchiano
mai; e infine […]
Fu un lampo.
Zia Michelina corse a guardarsi allo
specchio.
– Senti, malvagio: tu non vuoi sposare
per te; lo so; e questo agli occhi
miei in parte ti scusa. Tu vuoi che
sposi io, perchè, per il solo fatto che
sposo, perdo tutto, e tu resti padrone.
Ebbene, per questo solo ti sposo

NoA 4 (1922)
Zia Michelina si vide, si sentì sola.
Sola e come sperduta.
[…] aveva nel testamento disposto
che la proprietà più che modesta dei
beni (case e poderi) andasse al nipote,
e intero alla moglie l’usufrutto, vita
natural durante. A patto, s’intende,
che non avesse ripreso marito.
Quante più carezze gli prodigò, tanto
più furioso divenne. Alla fine,
come un forsennato, se ne scappò
via […]
disse che lui non c’entrava; che tutti,
parenti e amici, sapute le disposizioni
del testamento, tutti d’accordo,
avevano pensato che lodevolmente
la cosa si potesse accomodar così; e
che questo era segno che nessuno ci
vedeva il male, che voleva vederci
lei. Se c’era differenza d’età, che c’era
sì, ma non poi tanta com’ella si figurava,
questa differenza quasi spariva
per la perfetta conservazione e la
florida salute di lei, che certo era di
quelle donne che non invecchiano
mai. E infine […]
Fu un lampo. Balzò in piedi. Corse
a guardarsi allo specchio.
– Senti, svergognato. Tu non vuoi
sposare per te, lo so. E questo agli
occhi miei, in parte, ti scusa. Tu vuoi
che sposi io, perché perda tutto, e tu
resti padrone. Ebbene, per questo
solo ti sposo…
Più misurato è l’uso delle virgole, eliminate anche in alcuni casi
di eccessiva articolazione interna di frasi o periodi e, soprattutto,
prima della congiunzione “che”:
[17] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 93
NM (1914)
Cappellone, un, due, povero Marruchino!
[…] aveva nel testamento disposto,
che la proprietà più che modesta dei
beni (case e poderi) andasse al nipote
[…]
Con grande stupore, zia Michelina
si vide rimandare indietro il danaro,
[…]
[…] se ne scappò via, a passar gli
ultimi giorni della licenza in una
delle campagne, la più lontana dal
paese.
e per dimostrarle che Marruchino
aveva ben ragione, se si era innamorato
di lei […]
Ecco, allora, avrebbe lasciato tutto al
nipote, a questo perfido che la voleva,
che voleva la sua mamma, per il
danaro!
Gliel’avrebbe lasciato, e avrebbe dimostrato
a tutti, che non s’opponeva
per questo.
NoA 4 (1922)
Cappellone, un due, povero Marruchino!
[…] aveva nel testamento disposto
che la proprietà più che modesta dei
beni (case e poderi) andasse al nipote
[…]
Con grande stupore zia Michelina si
vide rimandare indietro il danaro,
[…]
[…] se ne scappò via a passar gli
ultimi giorni della licenza in uno dei
poderi più lontani dal paese.
per confortarla e dimostrarle che
Marruchino aveva ben ragione se si
era innamorato di lei […]
Ecco, ecco, allora avrebbe lasciato
tutto al nipote, a questo perfido che
la voleva, che voleva la sua mamma
per il danaro!
Glielo avrebbe lasciato, e avrebbe
dimostrato a tutti che non s’opponeva
per questo.
Oggetto di riconsiderazione è anche l’uso enfatico dei puntini
sospensivi, sostituiti da punto e virgola, virgola oppure punto fermo:
NM (1914)
[…] che egli voleva essere capito,
capito, capito…
L’ho tanto pregato, scongiurato di
dirmi che cosa avesse… di dirlo alla
sua mamma… che avrei fatto di tutto
per contentarlo… Voi lo sapete,
cognato! L’ho trovato qua di due
anni, orfano di madre, e l’ho allevato
come un figliuolo…
[…] com’ho allevato te… Questo mi
[…]
NoA 4 (1922)
[…] ch’egli voleva essere capito, capito,
capito.
L’ho tanto pregato, scongiurato di
dirmi che cosa avesse; di dirlo alla
mamma sua, che avrei fatto di tutto
per contentarlo. Voi lo sapete, cognato!
L’ho trovato qua di due anni,
orfano di madre, e l’ho allevato io,
come se fosse mio.
[…] com’ho allevato te». Questo mi
[…]
Infine, sempre in riferimento all’uso dei segni d’interpunzione, si
osserva la normalizzazione dell’uso del trattino, riservato all’introduzione
delle battute in discorso diretto e sostituito dalla virgola
nella delimitazione di proposizioni subordinate:
94 RAFFAELE MESSINA [18]
Resta sostanzialmente invariata la melodia frastica, affidata a
frequenti elisioni e a un uso moderato delle apocopi. Infatti, se ne
registra l’immissione di nuove (recar; alzar; diventar) o la persistenza
di altre (esser) a fronte, però, dell’eliminazione di alcune preesistenti
(voglion → vogliono; abbajar → abbajare).
Poche le preposizioni articolate ancora presenti, nella stesura del
1914, in forma analitica (su la terra; su le labbra) e sistematicamente
corrette (sulla; sulle) nell’edizione successiva, a riprova della propensione
per la forma sintetica che, consolidatasi definitivamente nei
primi anni Venti, appare in via di crescente utilizzo già qualche
anno prima.
Ancora in incubazione, invece, l’aggiornamento nell’uso del pronome
personale di terza persona. Non si registra la sostituzione
della forma “egli” ed “ella” con “lui” e “lei” anche con funzione di
soggetto, ma è evidente la tendenza a ridurne l’uso al minimo eliminandole
quando possibile:
NM (1914)
e infine – poichè la zia Michelina,
oppressa dall’onta, s’era messa a
piangere – prendendo questo pianto
come remissione, a confortarla e per
dimostrarle che Marruchino aveva
ben ragione, se si era innamorato di
lei – le ripetè il consiglio d’andarsi a
guardare allo specchio.
NoA 4 (1922)
E infine, poiché zia Michelina, oppressa
dall’onta, s’era messa a piangere,
prendendo questo pianto come
remissione, per confortarla e dimostrarle
che Marruchino aveva ben
ragione se si era innamorato di lei,
ripeté il consiglio d’andarsi a guardare
allo specchio.
NM (1914)
Quante più carezze materne ella gli
prodigò, tanto più furioso egli divenne,
e alla fine, come forsennato,
se ne scappò via, a passar gli ultimi
giorni della licenza in una delle campagne,
la più lontana dal paese.
Nel vederlo scappar via così, ripensando
al modo cui egli la aveva
guardata sottraendosi alle sue premure,
alle sue carezze, zia Michelina
si vide […]
Ma se almeno per un altro, per un
vecchio della sua età, ella poteva
ancora esser tanto bella e piacente
[…]
NoA 4 (1922)
Quante più carezze gli prodigò, tanto
più furioso divenne. Alla fine,
come un forsennato, se ne scappò
via a passar gli ultimi giorni della
licenza in uno dei poderi più lontani
dal paese.
Nel vederlo scappar via così, ripensando
al modo con cui la aveva
guardata sottraendosi alle sue premure
materne, alle sue carezze, zia
Michelina si vide […]
Ma se almeno per un altro, ecco, se
almeno per un vecchio della sua età
potesse ancora esser tanto bella e
piacente […]
[19] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 95
Sul piano lessicale Pirandello porta avanti un processo di affinamento,
di ricerca della parola esatta: il termine «passione» riferito,
nella prima versione, al presunto innamoramento di Marruchino, è
sostituito nella versione del 1922 con il dispregiativo «passionaccia»;
il denaro che zia Michelina ha inviato è restituito accompagnato
prima da una «letteraccia furiosa» e poi, con maggiore proprietà
letterale da una «protesta furiosa»; l’impegno a non consumare il
matrimonio, richiesto da zia Michelina a Marruchino, nel 1914 è
detto «patto», mentre nel 1922 è definito come un più solenne e
impegnativo «giuramento»; l’appellativo di «malvagio», riferito da
zia Michelina al giovane, è sostituito con «svergognato», che meglio
esprime la specifica accusa di violare fondamentali principi etici e
tabù sessuali; l’«acconsentire» di zia Michelina alle nozze è sostituito
con il suo «condiscendere», che più propriamente rappresenta
non solo il suo piegarsi alla volontà di altri ma anche la degradazione
che ne consegue; il progetto matrimoniale esposto dal cognato,
prima definito «proposito infame» è poi sostituito con l’aggettivo
sostantivato «infamia», sottraendo alla proposta qualsiasi base razionale,
qualsiasi valore logico e degradandola senza appello a violazione
delle più elementari norme morali.
Muta nel passaggio tra la redazione del 1914 a quella del 1922
anche l’estrazione sociale dei personaggi, non più «borghesi arricchiti
», ma «contadini arricchiti». Altra variante lessicale particolarmente
significativa è quella che vede in più punti la sostituzione del
termine «campagna» con «podere». La drastica riduzione delle occorrenze
di “campagna” e il corrispettivo incremento di quelle di
“podere” comporta uno slittamento semantico dalla pluralità di significati
impliciti nel primo termine (luogo aperto, pianeggiante o
di bassa collina, scarsamente popolato, occupato da colture o anche
da pascoli o da boscaglia) ad una specifica forma di gestione agraria
della terra: fondo rustico destinato a coltura, solitamente dato a
mezzadria oppure curato da una famiglia di piccoli proprietari.
Altre varianti oscillano tra la normalizzazione morfologica, soprattutto
in riferimento all’uso delle preposizioni16, dei tempi o modi
Difatti, appena Marruchino ritornò
da soldato e le si presentò, più magro
di com’era venuto in licenza e
più torbido in volto, ella gli gridò:
Appena Marruchino ritornò da soldato
e le si presentò più magro e
più torbido di com’era venuto in licenza,
gli disse:
16 «Figli dal primo letto» → «figli del primo letto»; «E con quel contadino gli
96 RAFFAELE MESSINA [20]
verbali17, del genere dei sostantivi18 e d’altro ancora19, e minuti interventi
stilistici20. In questo ambito, va segnalata almeno tra trasformazione
della similitudine con la quale zia Michelina rivendica di
fronte al cognato la natura del proprio legame affettivo nei confronti
di Marruchino. Non più la semplice constatazione di averlo allevato
come un figliuolo, ma la messa in evidenza del proprio ruolo,
attraverso l’uso del pronome personale “io”, e del legame viscerale
che ne consegue, attraverso l’uso dell’aggettivo possessivo “mio”:
mandò una buona sommetta di danaro» → «E per quel contadino gli mandò
una buona sommetta di danaro».
17 «Ma se almeno per un altro […] ella poteva ancora esser tanto bella» →
«Ma se almeno per un altro […] potesse ancora esser tanto bella»; «zia Michelina
si vide a un tratto assalita» → «zia Michelina si vide a un tratto assalire».
18 In questo specifico ambito si registra la sostituzione della forma maschile
di “guardaroba”, con quella femminile: «la guardaroba». La forma al femminile,
che Pirandello adotta a partire dalla redazione del 1922 e manterrà anche per
l’edizione del 1937, è attestata nella tradizione letteraria con il significato specifico
di luogo nel quale, entrando, si depositano soprabiti, cappelli, borse, ombrelli
o altro.
19 Ci riferiamo, in particolare, alla correzione della grafia di “perché”, che
viene normalizzata con l’introduzione dell’accento acuto sulla “e” finale in luogo
di quello grave, sistematicamente presente nell’edizione di «Noi e il Mondo
». Corretta anche la grafia analitica di «buon umore», che Pirandello sostituisce
con la meno comune forma sintetica di «buonumore».
20 L’espressione «battagliero buonumore», in luogo della precedente «costante
buon umore», sembra essere la conseguenza di una voluta allitterazione; la
locuzione «sua mamma», presente nella prima stesura, è sostituita con «mamma
sua», al fine di evidenziare con più enfasi la relazione materna; allo stesso scopo
si registra l’inserimento dell’aggettivo «materne» associato alle premure che la
protagonista rivolge al nipote in licenza; l’epanalessi «Per vedere, per vedere se
fosse tale davvero», che rende più palpabile la tensione emotiva della protagonista;
la sostituzione dell’aggettivo «magro» con il più icastico «secco», in riferimento
al repellente aspetto fisico del cognato.
NM (1914)
L’ho trovato qua di due anni, orfano
di madre, e l’ho allevato come
un figliuolo…
NoA 4 (1922)
L’ho trovato qua di due anni, orfano
di madre, e l’ho allevato io, come
se fosse mio.
A differenza di quanto accaduto in occasione dell’inserimento di
Zia Michelina nel quarto volume delle Novelle per un anno, le modifiche
apportate negli anni Trenta da Pirandello al testo maturato nel
1922, per la nuova e definitiva edizione Mondadori, sono tutte limitate
a varianti di ordine linguistico, morfologico e lessicale, o stilistico.
[21] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 97
In questo quadro, è ormai maturo l’uso del pronome personale
di terza persona “lei” anche in funzione di soggetto, in sostituzione
della forma “ella”, ormai sentita come arcaica e, come abbiamo visto,
ridotta nella frequenza d’uso già nel 1922. Registriamo, pertanto,
le seguenti modifiche:
Questi gli altri interventi di natura lessicale, finalizzati a un complessivo
svecchiamento linguistico:
NoA 4 (1922)
[…] di quale amore ella finora lo
aveva amato;
[…] finché ella non scese ad aprirgli.
[…] un ragazzo ch’ella amava come
un figliuolo […]
OM1 (1937)
[…] di quale amore lei finora lo aveva
amato;
[…] finché lei non scese ad aprirgli.
[…] un ragazzo che lei amava come
un figliuolo […]
NoA 4 (1922)
[…] partiva il giorno appresso […]
[…] sorse in piedi […]
OM1 (1937)
[…] partiva il giorno dopo […]
[…] scattò in piedi […]
Nonostante la tendenza allo svecchiamento lessicale e morfologico,
permane l’uso della “j” intervocalica21, a conferma del radicamento
nella cultura e nella pratica linguistica di Pirandello. Egli, infatti, la
sacrificò soltanto nelle novelle che venivano pubblicate sul «Corriere
della sera» per esplicita richiesta della direzione di quella testata,
ma fu subito pronto a reintrodurla non appena liberato dalle esigenze
di quella committenza.
Allo svecchiamento linguistico concorre anche la semplificazione
sintattica, come nel caso in cui la frase di zia Michelina rivolta al
nipote, «So perché vuoi sposare», sostituisce la precedente più tortuosa
forma in negativo «Tu non vuoi sposare per te, lo so».
In direzione della ricerca di una sempre maggiore proprietà di
linguaggio va visto invece l’unico intervento di natura lessicale. In
questo caso, in riferimento alle preghiere con le quali la protagonista
cerca di sapere la causa della disperazione che ha preso Marruchino,
la voce narrante afferma che più volte zia Michelina aveva
chiesto di «confidargliela», e non più di «manifestargliela». “Confidare”,
infatti, è meno formale di “manifestare” e si addice meglio
21 Così in «guajo», «guaj», «abbajare».
98 RAFFAELE MESSINA [22]
alle confidenze che una madre si aspetta di ricevere dal proprio
figliolo.
Tra i più minuti interventi ortografici, c’è da segnalare la normalizzazione
di un’occorrenza di «perchè», ancora con accento grave,
sfuggita alla revisione precedente, mentre continua a sfuggire la
mancata elisione di «la aveva guardata», che sarebbe stata coerente
con i criteri di melodia frastica correntemente seguiti da Pirandello
nel resto della novella.
In riferimento alla punteggiatura, normalizzanti gli interventi che
inseriscono una virgola per chiudere una subordinata relativa o che
eliminano l’uso del trattino alla fine di una battuta in discorso diretto22.
Infine, altri interventi si registrano sul piano più latamente
stilistico. La maggior parte di essi pare finalizzata ad evidenziare la
tensione emotiva della protagonista:
22 Ecco in dettaglio gli interventi correttori sulla punteggiatura:
NoA 4 (1922)
E gli interessi di vostro figlio, che predicate
e difendete da un anno finirebbero
così, trattandosi di voi?
– Vi siete mai guardata allo specchio, cara
comare? –
– E come no ? –
OM1 (1937)
E gli interessi di vostro figlio, che predicate
e difendete da un anno, finirebbero
così, trattandosi di voi?
– Vi siete mai guardata allo specchio, cara
comare?
– E che altra cosa allora?
NoA 4 (1922)
[…] che serpe ho allevato!
Con meraviglia, però, a un certo
punto s’accorse che nessuna di quelle
vicine comprendeva e apprezzava
il sentimento di lei. O meglio, sì, lo
apprezzavano e ne tenevano conto;
ma […]
– E come no ? –
Ma piuttosto con un cane, anziché
con voi, laido vecchiaccio!
OM1 (1937)
[…] che serpe mi sono allevata in
petto!
Restò come basita, però, nell’accorgersi
a un certo punto che nessuna
di quelle vicine comprendeva e apprezzava
il sentimento di lei; o meglio,
che sì, lo apprezzavano e ne
tenevano conto; ma […]
– E che altra cosa allora?
Ma piuttosto con un cane, mi metto
allora, anziché con voi, laido vecchiaccio!
Qualche altro, invece, sembra ricercare più scaltrite simmetrie
strutturali, affidate alla ripresa di uno stesso termine variato
morfologicamente, oppure una maggiore eleganza affidata all’inserimento
di un avverbio:
[23] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 99
NoA 4 (1922)
Me n’andrò al podere, dove andasti
a nasconderti per non aver le mie
carezze di madre;
[…] e che è un’arte per farsi guardare.
OM1 (1937)
Me n’andrò al podere a nascondermi,
dove andasti a nasconderti tu per
non aver le mie carezze di madre;
[…] e che pure è un’arte per farsi
guardare.
Osservate le principali variazioni che sussistono tra le redazioni
del 1914, del 1922 e del 1937, e constatato che le varianti di ordine
linguistico e stilistico, tanto quelle effettuate nel 1922 quanto quelle
degli anni Trenta, nel loro complesso, non si discostano dalle linee
generali degli interventi correttori di Pirandello già messe in evidenza
dalla critica23, resta da avanzare qualche considerazione sulle
implicazioni che tutti gli altri elementi di tale stratigrafia comportano
a livello d’interpretazione dei significati della storia (o meglio,
delle storie) di zia Michelina.
Nella redazione del 1914 il tema di fondo della novella, che
s’irradia dall’epilogo e sovrasta altri motivi secondari pur rintracciabili
nelle pieghe del testo, è quello della celebrazione della «carnale
e santa amorosità della madre», per dirla in termini cari a
Pirandello24. Un tipo di vitalità particolare, energia procreatrice che
si radica nei territori inconsci e primordiali dell’animo femminile;
un portato di necessità naturale che, ponendosi al di sopra di tutto
e di tutti, si contrappone al male di vivere. Così, per effetto di
questa primordiale energia vitale, anche la più odiosa delle violenze
sessuali, quella incestuosa, preconizzata nel testo da un addensarsi
di elementi simbolici negativi, si capovolge poi in occasione per un
«compenso dolce e terribile insieme: un figliuolo»; «l’angoscia infinita
del […] perpetuo cordoglio» di chi l’ha subita si scioglie in un
«lunghissimo bacio su la fronte del […] nuovo figliuolo».
Diverso, invece, è il significato che la novella assume nella redazione
del 1922, quando viene meno l’epilogo originario, basato sul potere
23 Cfr. S. Costa, Come correggeva Pirandello, in L. Pirandello, Candelora,
Milano, Mondadori, pp. 167-181; P. Casella, Strumenti di filologia pirandelliana,
cit., pp. 25-38.
24 L’espressione è annotata in uno dei tanti elenchi di termini, frasi e soggetti
di novelle che costituiscono il contenuto di un quadernetto di appunti autografi
di Pirandello, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Roma (cfr. L.
Pirandello, Taccuino segreto, cit., p. 53), a riprova di un interesse che dalla formulazione
linguistica si riverbera anche sul piano tematico, essendo tali elenchi
“parole in cerca d’autore”, frasi appuntate in funzione di un possibile utilizzo.
100 RAFFAELE MESSINA [24]
risarcitorio della maternità. Posto di fronte al suicidio della protagonista,
il lettore è chiamato a interrogarsi sulle motivazioni che l’hanno
indotta all’estremo, radicale rifiuto della vita e, a questo punto, gli altri
risvolti di senso, secondari nella stesura del 1914, assumono maggiore
rilevanza. Si tratta di motivi di ordine socio-economico (il possesso
della terra, il nesso tra adozione ed eredità) o anche di ordine psicologico
(l’affermazione della dignità personale, la sessuofobia) che la critica
pirandelliana ha colto con accentuazioni e sensibilità diverse.
A partire dagli anni Settanta, Roberto Alonge è stato tra i primi
a richiamare l’attenzione sulla novella Zia Michelina suggerendone
una lettura correlata alla più nota Scialle nero. Egli ha osservato che
nelle cosiddette novelle siciliane «è il possesso della terra che accende
gli animi, che esaspera le passioni»: in Scialle nero (1904) il timore
che gli levino la terra, spinge il giovane Gerlando a pretendere con
la forza quel rapporto sessuale che solo può assicurargli un figlio (e
quindi la stabilizzazione dei suoi diritti di marito sulle terre della
moglie), mentre la matura Eleonora, che con sofferenza ha accettato
quel matrimonio riparatore di una precedente violenza, rifiuta il
rapporto preferendo la morte. «Lo stesso motivo – continuava ad
argomentare Alonge – è alla base della più tarda novella Zia Michelina
(1914), in cui parimenti una quarantenne è costretta a sposare un
giovane, che ha allevato come un figlio, per il desiderio di costui di
essere padrone delle sue terre, e si uccide dopo che il giovane le ha
usato violenza. L’analogia è data soprattutto dal commento, di saggezza
popolare: “alla fin fine, santo Dio, non deve andare alla guerra!”
dice la madre di Gerlando in Scialle nero, alludendo al rifiuto di
Eleonora di avere contatti con il marito; e in Zia Michelina, le vicine,
quasi criticandone la morte, fanno notare che “fargli da moglie alla
fin fine non voleva mica dire andare alla guerra. Che storie!”»25.
Franco Zangrilli, un decennio più tardi, pur allontanandosi dall’interpretazione
in chiave socio-economica fornita da Alonge, ha
mantenuto la correlazione tra le due novelle, mettendo in rilievo la
comune determinazione psicologica di Eleonora e di zia Michelina
che «vogliono riscattare la loro autonomia e rischiano la vita per
qualcosa che va al di sopra della difesa della “dignità di donne”,
come ciascuna la sente»26.
25 R. Alonge, Pirandello tra realismo e mistificazione, Napoli, Guida editori,
1977 (I ed. 1972), p. 35.
26 F. Zangrilli, L’arte novellistica di Pirandello, Ravenna, Longo editore, 1983,
p. 153.
[25] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 101
In anni più recenti, Franco D’Intino ha fatto riferimento a Zia
Michelina per sottolineare la stretta connessione esistente nella
novellistica pirandelliana tra adozione ed eredità27. Emma Grimaldi,
alla quale si deve il tentativo di una lettura più ampia, ha, invece,
considerato Scialle nero e Zia Michelina un «dittico identicamente
monotematico, [avente alla base] l’identico motivo dell’orrore di una
donna matura, spinto fino a farle preferire la morte, alla prospettiva
del rapporto sessuale con un partner molto più giovane»28.
Rispetto alle molteplici ipotesi interpretative offerte dalla tradizione
critica29, la lettura stratigrafica della novella ci aiuta a individuare
i risvolti di senso più vicini agli intendimenti di Pirandello,
poiché la natura e il numero degli interventi correttori sono indice
della direzione nella quale si sono orientate la sua attenzione e le
sue premure.
Ebbene, modificato il finale e approfondita la caratterizzazione
della protagonista, sono almeno tre gli altri interventi correttori attraverso
i quali Pirandello pone in maggiore evidenza i risvolti socio-
economici sottesi alla tragedia. Infatti, opera in questa direzione
la sistematica sostituzione del termine “campagna” con “podere”,
27 «L’adozione – scrive D’Intino – comporta sempre, in un modo o nell’altro,
una eredità. Vedi innanzitutto Il vitalizio; e poi La maestrina Boccarmè, Pensaci
Giacomino!, Zia Michelina, Pena di vivere così, Il nido, e in certo senso La cattura.»
(F. D’Intino, L’«antro della bestia». Le Novelle per un anno di Luigi Pirandello,
Caltanissetta, S. Sciascia editore, 1992, p. 184).
28 E. Grimaldi, Il labirinto e il caleidoscopio. Percorsi di letture tra le «Novelle per
un anno» di Luigi Pirandello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 141-143. Un
dittico nel quale Zia Michelina costituirebbe una versione semplificata di Scialle
nero poiché «fra la pubblicazione di Scialle nero e quella di Zia Michelina intercorrono
dieci anni, e come già si è potuto notare, quando fra due racconti
tematicamente affini intercorre un alquanto ampio intervallo temporale, tocca al
testo edito posteriormente riprendere il nucleo semantico di quello che lo ha
preceduto, per darne un trattamento “semplificato”» (Ivi, p. 159).
29 In riferimento a tale tradizione è appena il caso di rilevare che è errato
fare risalire al 1914 l’intreccio assunto da Zia Michelina soltanto a partire dalla
versione del 1922. Si tratta di una svista filologica, tramandatasi negli anni, che
rende ancora attuale l’appello rivolto da Nino Borsellino agli specialisti del
settore nel lontano 1986, intervenendo al simposio internazionale organizzato a
Berkeley nel cinquantenario della morte di Pirandello, affinché non sottovalutassero
l’opportunità di leggere l’edizione critica delle novelle pirandelliane curata
da Mario Costanzo. (cfr. N. Borsellino, Sul testo delle «Novelle per un anno»
redazioni e variazioni, cit., p. 201. Il saggio, senza sostanziali modifiche, si può
leggere oggi anche in N. Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Roma-
Bari, Laterza, 2000, prima ed. 1991, pp. 155-166).
102 RAFFAELE MESSINA [26]
dalle più marcate valenze economiche. Opera in questa direzione
l’associazione di una delle poche occorrenze residue di «campagna»
con le «abbondanti quotidiane provviste» che da essa provengono.
Opera in questa direzione, infine, la modificazione dell’estrazione
sociale dei protagonisti, non più borghesi, ma contadini arricchiti.
Contadini verghianamente attaccati alla roba, presi dalla smania di
possedere, mossi esclusivamente dall’«interesse», dal principio capitalistico
dell’accumulazione che ormai domina anche la società rurale,
ne corrode i valori tradizionali. Zia Michelina, personaggio edenico30
che ad un certo punto si rende conto che «in questo mondo,
di fronte all’interesse, non si capiva più nulla, neppure il sentimento
più santo, quello dell’amore materno», è, dunque, diretta discendente
di compare Turiddu, della Lupa. Vittima di un antagonista,
Marruchino, che, come i verghiani Lola o Nanni, ne disconosce i
sentimenti più autentici e li piega al proprio tornaconto. Eroina fatalmente
sospinta verso la tragica conclusione della propria esistenza
perché isolata da una società, da un coro paesano che non la comprende,
così come isolati furono anche compare Turiddu e la Lupa.
Esula dagli obiettivi che ci siamo prefissati in questo studio,
strettamente circoscritto alla ricostruzione della stratigrafia del testo,
la ricerca delle motivazioni che possono avere indotto Pirandello
alla variazione del finale della novella in esame e alla conseguente
ridefinizione dei suoi significati. A tale riguardo ci limitiamo a richiamare
considerazioni di ordine generale, già messe in luce dalla
critica pirandelliana.
Innanzitutto, va tenuto presente il complesso delle dure esperienze31
che si abbatterono su Luigi Pirandello nel volgere di pochi
30 Si deve ad Antonio Sichera la recente sottolineatura del rilievo del personaggio
edenico nella produzione pirandelliana. Personaggio edenico è colui che,
in rapporto conflittuale con la società contemporanea, vive in un proprio mondo
ideale in cui persino «la morte non mostra un volto orrido e straniante
perché l’esistenza e la sua fine sono come custodite dalla fede e orientate dai
valori retti, semplici e forti della tradizione» (A. Sichera, Ecce Homo!, cit., p.
19). Su genesi e stratigrafia di un’altra novella avente per protagonista un personaggio
edenico cfr. R. Messina, Un peccato che non si perdona. La pedofilia nella
novella Alla zappa! di Luigi Pirandello, «Ariel», XXIII (2008), n. 1, pp. 189-202.
31 Nel gennaio del 1915 la partenza del figlio Stefano per il fronte e la successiva
prigionia nei campi di concentramento austriaci; poi la morte della madre,
la partenza sotto le armi anche dell’altro figlio, Fausto, e il contemporaneo
aggravamento della malattia mentale della moglie, che si manifesta con forme
di morbosa gelosia, fino al punto da sospettare legami incestuosi tra lui e la
figlia Lietta; nel 1919 il definitivo distacco dalla moglie, internata in una casa di
[27] ZIA MICHELINA E LE SUE STORIE 103
anni, tra il 1915 e il 1921. Tali vicende danno il quadro di una vita
privata all’insegna della solitudine e della profonda tristezza, non
compensate dai successi letterari. Tutto ciò s’innesta su una vicenda
umana già messa a dura prova dal grave dissesto economico del
1903 e dal conseguente rapido deterioramento della salute fisica e
mentale della moglie, sin da quella data. Se, dunque, come ha scritto
uno dei più autorevoli biografi di Pirandello in riferimento agli
anni prebellici, «soffrire, a un certo punto, è divenuto per lo scrittore
il diritto di far soffrire i suoi personaggi»32, ciò vale per gran
parte dell’opera pirandelliana. Anche per quella maturata o rivisitata
dopo la Prima guerra mondiale. In questo senso, è significativo
che Zia Michelina non sia l’unica novella che, concepita negli anni
prebellici con un finale consolatorio, sia stata poi, in occasione dell’inserimento
nel corpus delle Novelle per un anno, profondamente
rielaborata e modificata in direzione di un tragico epilogo33.
Altre ragioni di ordine generale per spiegare un finale in cui la
protagonista, con il proprio suicidio, rompe definitivamente con il
mondo, possono essere individuate anche in quelle linee di fondo
della personalità di Pirandello, nelle caratteristiche della sua psicologia,
segnalate dalla critica di matrice psicanalitica34.
Ma non vanno trascurate anche motivazioni di coerenza e di
legami impliciti tra le quindici novelle destinate da Pirandello a
costituire il quarto volume dalla sua raccolta. Infatti, il finale scelto
per la novella di Zia Michelina, oltre ad essere comune a tante altre
novelle con protagoniste femminili, trova nel suicidio del personaggio
principale un elemento di convergenza specifica proprio con
L’uomo solo, la novella eponima che apre il volume, e con La veste
lunga, anch’essa inclusa nello stesso volume.
Raffaele Messina
(Napoli)
cura neurologica; nel settembre del 1921 la morte, in fondo alla buca di un ascensore
in riparazione, di Nino Martoglio, amico di vecchia data; agli inizi del 1922
l’allontanamento affettivo, oltre che fisico, della figlia Lietta, sposatasi qualche mese
prima, in Cile. (cfr. G. Giudice, Luigi Pirandello, Torino, UTET, 1963).
32 G. Giudice, Luigi Pirandello, cit., p. 255.
33 In mancanza di studi complessivi sull’intero corpus, ci riferiamo a studi
circoscritti a singoli testi come quello condotto da Bruno Basile sulla novella Il
corvo di Mìzzaro (cfr. B. Basile, Storia di una novella. Il corvo di Mìzzaro di
Pirandello, «Filologia & critica», XXVIII (2003), n. 1, pp. 125-132).
34 Il riferimento è soprattutto agli studi di Elio Gioanola su deficit di fondo
e fenomenologia schizoide della psicologia pirandelliana (cfr. E. Gioanola,
Pirandello, la follia, Genova, Il melangolo, 1985).
IDA CAMPEGGIANI
Appunti di un saggio sul simbolismo francese
nel primo Montale
The author examines the presence of French symbolism in Eugenio
Montale’s early literary production. She also focuses on the way authors
such as Henri-Friédérich Amiel, Georges Duhamel and Paul Verlaine
influenced Montale when he moved towards the more thought-out
classicism that characterizes Ossi di seppia. This essay, while founding
a dialogue between Montale’s poetry and that of other authors (such
as Corboère, Fargue, Fontainas, Proust, Samain), provides a spectrum
of examples which allow to understand his stylistic evolution, marked
by his attitude to a finer and finer intertextuality.
Et puis quand tout semble s’être défait,
on a l’âme pleine de pluie
C. Mauclair
1. Affrontare ancora il tema della cultura francese del primo
Montale da un lato richiede il confronto con un settore cospicuo
della tradizione critica1, dall’altro invita al sondaggio di aspetti meno
1 Sulle fonti letterarie e culturali, con un riguardo particolare a quelle, prevalentemente
francesi, influenti nel periodo della formazione montaliana, restano
imprescindibili i seguenti saggi: L. Barile, Adorate mie larve: Montale e la
poesia anglosassone, Bologna, il Mulino, 1990 (della stessa, ovviamente, l’ampio e
utilissimo apparato di Note apposto al Quaderno genovese, Milano, Mondadori,
1983); G.P. Biasin, Il vento di Debussy: la poesia di Montale nella cultura del Novecento,
Bologna, il Mulino, 1985; A. Casadei, Prospettive montaliane, Pisa, Giardini,
1992; F. Contorbia, Montale, Genova, il modernismo e altri saggi montaliani,
Bologna, Pendragon, 1999 (per la ricostruzione del clima culturale genovese
all’inizio del secolo, e per la sua influenza sul giovane Montale, è utile anche G.
Marcenaro, Eugenio Montale, Milano, Mondadori, 1999); T. de Rogatis, Montale
e il classicismo moderno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici, 2002; M.
A. Grignani, Dislocazioni. Epifanie e Metamorfosi in Montale, Lecce, Manni, 1998
e La costanza della ragione, Novara, Interlinea, 2002; G. Lonardi, Il Vecchio e il
Giovane, Bologna, Zanichelli, 1980; S. Ramat, L’acacia ferita e altri saggi su Montale,
Venezia, Marsilio Editori, 1986; N. Scaffai, Montale e il libro di poesia, Lucca,
[2] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 105
battuti. In particolare, alcune letture influenti sulla formazione poetica
serbano spazi d’indagine, ad ora inadeguatamente esplorati,
che in questo lavoro s’intende esaminare sulla scorta di una ricognizione
di intertestualità con la prima produzione montaliana, dalle
Poesie disperse agli Ossi di seppia. Il resoconto che si offre è soltanto
parziale, poiché ci si riserva una trattazione più estesa e ragionata
del materiale in altra sede, dove si potrà meglio evidenziare come
le intertestualità s’iscrivano all’interno di un sistema che in sé rappresenta
anche un itinerario preciso della formazione del giovane
autore del Quaderno genovese; qui saranno presentate alcune delle
acquisizioni scelte tra quelle che più positivamente potrebbero incidere
sulla lettura di certi snodi dell’evoluzione stilistica di Montale
e della sua maturazione critica nella gestione degli ipotesti.
I contatti che è possibile rilevare integrano i contributi di chi già
si è soffermato sull’argomento, tra cui, in particolare, Arvigo, Barile,
Grignani, Lonardi, e insieme a quelli vorrebbero collaborare nel restituire
un’immagine il più possibile analitica della dimensione poetica
tardo-simbolista in cui gli Ossi di seppia sono ancora parzialmente
collocabili. Nell’ottica del prelievo di tessere da testi simbolisti e postsimbolisti
francesi, è proficuo rivedere accuratamente l’Antologia,
curata da Adolphe Van Bever e Paul Léautaud, dei Poètes d’aujourd’hui2,
Pacini Fazzi, 2002; C. Scarpati, Sulla cultura di Montale: tre conversazioni, Milano,
Vita e Pensiero, 1997. Tra i volumi miscellanei ricordiamo Montale e il canone
poetico del Novecento, a cura di M.A. Grignani e R. Luperini, Roma, Laterza,
1998; tra le monografie che più si soffermano sulla cultura del primo Montale
illustrando precise intertestualità: M. Forti, Eugenio Montale: la poesia, la prosa di
fantasia e d’invenzione, Milano, Mursia, 1973; G. Ioli, Montale, Roma, Salerno,
2002; M. Martelli, Eugenio Montale: introduzione e guida allo studio dell’opera
montaliana. Storia e antologia della critica, Firenze, le Monnier, 1983; tra gli articoli,
numerosi, dedicati all’argomento, si vedano almeno: R. Bettarini, Appunti sul
«Taccuino» del 1926 di Eugenio Montale, «Studi di filologia italiana», xxvi, 1978,
pp. 457-512; L. Blasucci, Montale, Govoni e l’oggetto povero, «La rassegna della
letteratura italiana», 1-2, 1990, pp. 43-63 ora in Gli oggetti di Montale, Bologna, il
Mulino, 2002, pp. 15-47; Casadei, «L’esile punta di grimaldello», in corso di stampa
negli Atti del convegno Adi «Gli scrittori d’Italia», Napoli, 26-29 settembre 2007
e già in «Studi Novecenteschi», xxxv, n. 76, luglio-dicembre 2008, pp. 413-441;
M. de Feijter, Montale e Valéry, «Italianistica», 1994, n. 1, pp. 91-102; A. Martini,
Occasioni musicali nella poesia del primo Montale, «Versants», xi, 1987, pp. 105-122.
Importante infine T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale: «Ossi di seppia», Roma,
Carocci, 2001, particolarmente ricca di riscontri con la letteratura francese; utili
anche Ioli, Eugenio Montale. Le laurier e il girasole, Paris-Géneve, Champion-
Slatkine, 1987 e A. Fabrizi, Montale e Proust, Firenze, Polistampa, 1999.
2 Nel lavoro si farà riferimento alla venticinquesima edizione di Poètes d’Au106
IDA CAMPEGGIANI [3]
che per il giovane poeta confinato nel ritardo culturale italiano degli
anni Dieci, e non solo per lui, rappresentava l’epitome della più
avanzata e recente esperienza lirica europea. Ma accanto all’analisi
di questo testo, considerata la simultanea eterogeneità di letture
registrate nel Quaderno genovese, è indispensabile affiancare quella
di altre ‘fonti’ che, sul piano della ricezione montaliana, da un lato
sono riconducibili a un ambito simbolista – nel senso che per ragioni
diverse si possono iscrivere nel medesimo rapporto culturale che
Montale coltivava con i poètes d’aujourd’hui – dall’altro si possono
indicare come responsabili di aver prodotto uno scarto ideologico
rispetto al processo di assimilazione di quella poetica. Si tratta del
saggio del teorico post-simbolista Georges Duhamel dal titolo Les
poètes et la poésie3, di Sagesse, la raccolta della conversione religiosa
di Verlaine, e soprattutto dei Fragments d’un journal intime del
pensatore svizzero Henri-Friédéric Amiel4.
Le tracce che hanno lasciato nella poesia del primo Montale
possono infatti essere considerate come indizi di una dialettica che
già a partire dalla stagione del Quaderno genovese cominciò a delinearsi
all’interno di una stessa orbita culturale, quella genericamente
simbolista e di area francese; dialettica imperniata sulla differenza
tra un simbolo concepito come rivestimento per l’idea inesprimibile,
assoluta, essenza e compimento dell’opera d’arte, e un simbolo che,
per quanto ricco di sfumature mistiche, rinvianti a un mondo ulteriore,
appare però in definitiva più funzionale a stabilire connessioni
di ordine gnoseologico, e in tale senso è certo più consono alla
futura poetica del male di vivere. Si tratta quindi di testi fondamentali
per il passaggio da una ricerca ‘vorace’ di spunti che potessero
alimentare la percezione della propria sensibilità e aiutare a trasformarla
in forme poetiche, come fu per Montale il modello della poejourd’hui.
Morceaux choisis, a cura di A. Van Bever e P. Léautaud, Paris, Mercure
de France, 1913. I versi dei poeti accolti in questa silloge forse continuarono a
essere presenti anche al Montale tardo: cfr., in Satura, il possibile rinvio a Tristan
Derème a proposito degli Xenia (E. Montale, Satura, a cura di R. Castellana,
con un saggio di R. Luperini e uno scritto di F. Fortini, Milano, Oscar Mondadori,
2009, p. 24).
3 G. Duhamel, Les poètes et la poésie, Paris, Mercure de France, 1914.
4 H.F. Amiel, Fragments d’un journal intime, esemplare «précédés d’une étude
par Edmond Scherer, Georg and C., Genève 1911, 2 voll., con la scritta a penna
a destra in alto sul frontespizio: «Montale M. maggio 1913» è nella biblioteca di
Marianna Montale (cfr. Barile, Quaderno genovese, p. 126, n. 68). Per ragioni di
disponibilità, nel lavoro si è fatto riferimento all’edizione, egualmente di Georg
and C. e immutata rispetto a quella di Casa Montale, del 1919.
[4] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 107
sia pura – simbolista e post-simbolista –, a una nuova idea di elaborazione
artistica. Quest’ultima in particolare si caratterizza –
Duhamel lo teorizza esplicitamente5 – per porre in primo piano il
rapporto problematico con una dimensione metafisica, in qualche
modo rinviando all’ascendenza dello stile assertivo e tragico delle
Fleurs du mal (tanto da rendere lecito riferirsi a questo complesso di
fattori, percepibili in tono minore nelle Poesie disperse ma certo dominanti
negli Ossi, come ‘funzione Baudelaire’).
2. Si può iniziare la rassegna delle intertestualità da Corno inglese,
che al nostro esame rivelerà il suo statuto caratterizzato dall’incontro
di suggestioni stilistiche opposte. In questo testo la resa formale
dello spunto gnoseologico dell’estraneità dell’Io nasce proprio
dall’idea di dichiarare un contrasto con la situazione di fusione
analogica tipica della lirica simbolistica e in particolare, com’è stato
suggerito, dannunziana. Sul piano della contaminazione linguistica
è possibile integrare la serie di precedenti francesi che è stata finora
individuata6 con i seguenti versi della poesia Grand vent, di Adolphe
Retté, letta da Montale sulle pagine dei Poètes d’aujourd’hui:
Ecoute: les grands vents hurlent Il vento che stasera suona attento
comme des cuivres
et troublent le sommeil de la – ricorda un forte scotere di lame –
mère Nature –
Arrête-toi, mon âme, ils ont peine gli strumenti dei fitti alberi e spazza
à ta suivre.
[…] l’orizzonte di rame
Les souffles, cependant,
se révolteront, l’air
sifflant dispersera des flèches acérées
qui feront sangloter les branches
fracassées…
La rima «lame» : «rame», per quanto già presente in Alcione7,
5 Sul significato di questa lettura rispetto allo stile degli Ossi di seppia ci si
soffermerà nel più ampio lavoro dedicato all’argomento; si esamineranno le
note del Quaderno genovese influenzate da alcune osservazioni critico-estetiche di
Duhamel, per Montale utili a fare affiorare con maggior convinzione quella predilezione
per una poesia che, pur nell’ambito del simbolismo, praticasse una
dimensione metafisico-religiosa a cui subordinare il lirismo descrittivo, intessuto
di suggestioni cromatiche e sonore.
6 T. Arvigo, cit., p. 38.
7 Nelle Madri, dove però «Lame» è un toponimo e non, come in Montale, un
108 IDA CAMPEGGIANI [5]
sviluppa, separandoli, i significati di «cuivres», termine che designa
insieme gli «ottoni» intesi come strumento musicale e la qualità
metallica del loro materiale, ovvero proprio le lamine di «rame»8. A
ciò si aggiunga che «Il vento che stasera suona attento / […] / gli
strumenti dei fitti alberi […]» è un’immagine in debito con quella
dei rami ‘suonati’ dal vento nel testo di Retté («qui feront sangloter
les branches fracassées»), modello più puntuale rispetto ai versi della
Pioggia nel pineto, già assunti come probabile ipotesto, nei quali troviamo
sì degli «stromenti» arborei, ma resi tali dalla pioggia e non
dal vento9. In questo retroterra d’Oltralpe, andrà forse tenuta presente
anche la suggestione di Maurice Magre, pure antologizzato da
Van Bever e Léautaud: «[…] la nuit descend, le vent fait mal, le ciel
est gris, / le choses, comme nous douloureuses, entonnent le cantique
profond de nos coeurs incompris», nella quale si trova espressa una
situazione che potremmo definire ‘intermedia’ tra la riuscita fusione
musicale del più autentico simbolismo e il sentimento montaliano
di essere «scordato» rispetto al concerto della Natura.
Non manca infine uno spunto preciso anche per questa posizione,
tanto perentoria e originale da essere stata letta quasi come
l’allegoria di una svolta artistico-letteraria, sulla falsariga della più
tarda Mediterraneo. Espressa in Corno inglese tramite l’immagine del
«cuore» come «scordato strumento» e nel poemetto del 1924 con,
tra gli altri, il giro di versi: «Giunge a volte, repente / un’ora che il
tuo cuore disumano / ci spaura e dal nostro si divide. / Dalla mia
la tua musica sconcorda», si direbbe la trasposizione poetica di certe
suggestioni che si trovano nel seguente passo del Journal intime:
Tant que nous sentons notre moi, nous sommes limités, égoïstes,
captifs; quand nous sommes d’accord avec l’ordre universel, quand
nous vibrons à l’unisson avec Dieu, notre moi s’évanouit. Ainsi dans
un choeur parfaitement symphonique il faut détonner pour s’entendre
soi-même. (5 avril 1877 – c.vo mio)
Si tratta del medesimo nucleo retorico fondato sull’equivalenza
nome comune. Cfr. P.V. Mengaldo, Per la cultura linguistica di Montale: qualche
restauro, in La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp.
317-338: 326. In queste pagine Mengaldo fornisce numerose e valide segnalazioni
riguardo elementi di probabile origine dannunziana presenti in Corno inglese.
8 Cfr. Le Grand Robert de la langue française.
9 Ibidem: cfr., a p. 326, il giro di versi dalla Pioggia nel pineto, 46 sgg.: «E il
pino / ha un suono, e il mirto / altro suono, e il ginepro / altro ancora,
stromenti / diversi / sotto innumerevoli dita».
[6] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 109
tra la dissonanza musicale e la disarmonia esistenziale. Esso andrà
rapportato a quanto illustrato in una pagina successiva, grazie anche
all’esempio icastico della «lira scordata»:
I soli uomini che meritano il nome di uomini sono gli eroi, i geni, i
santi, gli esseri armoniosi, potenti e completi. Una lira spaccata e
scordata è forse una lira? Una spada senza impugnatura e senza
lama è forse una spada? Un cantante dalla voce falsa è forse un
cantante? (6 novembre 1877 – c.vo mio)10
Dunque in Corno inglese si realizza un riuso stilisticamente
‘simbolistico’, ma dal punto di vista concettuale ‘anti-simbolistico’,
della riflessione per immagini di Amiel, e la consonanza ideologica
con il filosofo svizzero in un certo senso si oppone alla vicinanza
formale al modello post-simbolista di Retté. Il componimento è allora
collocabile ‘a metà’ tra le poesie effettivamente rifiutate, ancora
molto in debito con stilemi e risorse di marca specificamente simbolista,
e quella concezione diversa, più tecnica, dello spunto
simbolistico, da accogliere secondo un modulo più raffinato del
prestito, scandito in una fase di prelievo e poi di inserimento all’interno
di una nuova idea di poesia – così com’è, almeno concettualmente,
Corno inglese.
Perciò, lo dimostra in questo primo esempio la compresenza di
suggestioni simbolistiche e dell’ascendenza di Amiel, il Journal intime
fu una lettura che per Montale iniziò presto a produrre delle
interferenze rispetto all’adesione alla poetica delle analogie e delle
foreste di simboli, peraltro spesso banalizzata nel post-simbolismo.
Ciò è rivelato già dalla dispersa Elegia, del 1917, in cui Montale
adopera un simbolo, la «bolla di cristallo»11 che non deve essere
ricondotto, com’è stato fatto ad esempio da Forti e Ramat, al desueto
repertorio lirico d’Oltralpe, quanto piuttosto alla «bolla» come categoria
filosofica ricorrente in Amiel. Infatti, nel quadro dell’idealismo
romantico del pensatore ginevrino, la bolla, d’aria, di sapone o
10 Queste righe che si citano in traduzione italiana appartengono a una pagina
di Diario contigua a quella da cui si è prelevato il passo francese, ma
furono escluse dalla scelta antologica operata dall’editore ginevrino del testo
posseduto a Casa Montale. Si è scelto di riportarle perché sembrano implicate
nel contatto con Montale, il quale potrebbe pur sempre avuto accesso a un’edizione
integrale di Amiel, se non almeno a una delle antologie in traduzione
italiana eventualmente comprensive di questo passo.
11 Cfr. Elegia: «è come una gran bolla di cristallo / sottile / stasera il mondo
», che «si gonfia, si leva» e infine «scoppierà».
110 IDA CAMPEGGIANI [7]
prismatica, intesa come microcosmo nel quale si riflette il mondo, è
il simbolo prediletto per rappresentare la qualità effimera dello spazio
allo svanire dell’Io, il ‘vuoto’ lasciato dall’assenza del pensiero e
dalla fantasmagoria delle sue apparenze che paradossalmente costituiscono
la sola realtà, il ‘tutto’:
Toute vie est l’ombre d’une fumée, un geste dans la vide, […], la
bulle d’air qui vient s’ouvrir et crépiter à la surface du grand fleuve
de l’être, une apparence, une vanité, un néant. Mais ce néant est pourtant
le symbole de l’être universel, et cette bulle éphémère est le raccourci de
l’histoire du monde». (2 avril 1864 – c.vo mio);
Notre vie n’est qu’une bulle de savon suspendue à un roseau: elle naît,
s’étend, se revêt des plus belles couleurs du prisme, elle échappe même
par instants à la loi de la pesanteur […]. (7 janvier 1866 – c.vo mio);
Mais l’oeuvre recommence toujours, parce que chaque vie n’est qu’un
éclair et chaque esprit qu’une bulle de savon irisée par cet éclair. (9
mai 1870 – c.vo mio);
Sitôt l’illusion évanouie, le néant reprend son règne éternel, la
souffrance de la vie est terminée, l’erreur est disparue, le temps et la
forme ont cessé d’être pour cette individualité affranchie; la bulle
d’air coloré a crevé dans l’espace infini et la misère de la pensée s’est
dissoute dans l’immuable repos du Rien illimité …L’absolu doit être le zéro
de toute détermination, et la seule manière d’être qui lui convienne, c’est
le Néant. (9 juin 1870 – c.vo mio).
La libellule n’en pas encore un symbole assez frêle; c’es la bulle de
savon qui traduit le mieux cette magnificence illusoire, cette apparence
fugitive du petit moi qui est nous. (9 février 1880 – c.vo mio).
Notando quindi l’affinità con il dubbio, espresso da Montale nel
suo testo, se con lo scoppiare della «finta realtà» della bolla i due
protagonisti della lirica «resteranno» o meno12, si può affermare che
per Montale come per Amiel si tratta di una forma di rappresentazione
del confine che unisce l’annullamento dell’Io con l’acquisto
del non-Io, emblema di una riflessione sul concetto di oggettività.
Da un lato, per le sue caratteristiche intrinseche di fragilità e illusionismo,
la bolla possiede una valenza puramente descrittiva, accostabile
alla simbologia praticata dai Poètes d’aujourd’hui, ma dall’altro –
ed è questo l’elemento significativo – intende configurarsi proprio
12 Cfr. ultima strofe: «Non muoverti. /Come un’immensa bolla / tutto gonfia,
si leva. / E tutta questa finta realtà / scoppierà / forse. / Noi forse resteremo.
/ Noi forse. / Non muoverti. / Se ti muovi lo infrangi. // Piangi?».
[8] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 111
come una categoria filosofica. Il fatto che Montale sembri adoperarla
anche in quest’accezione rivela come già nella prima fase il suo
concetto e la sua gestione del simbolo divergessero da quelli del
filone del lirismo descrittivo, se si vuole narcisistico e auto-referenziale,
e come piuttosto per lui la stessa cifra stilistica di simbolizzare
il reale mirasse, amielianamente (e baudelairianamente), a un
valore di auto-rappresentazione in rapporto a un universo da indagare,
a un sistema di riferimento in cui è avvertita la presenza di
componenti oggettive che sanciscono una distanza rispetto ai toni
effusi e superficiali di derivazione romantica.
Una prova che mira a questo esito già personale di simbolismo,
per quanto sia più ingenua ancora della coeva Elegia se si considera
che la ricerca gnoseologica non è nemmeno attuata nella forma di
un simbolo – come la bolla – ma resta solo enunciata e anche in
modo profuso, è la poesia dispersa dal titolo Ritmo (giugno 1917),
senz’altro modellata su una lirica costruita su ammonimenti religiosi
del Verlaine di Sagesse, raccolta che per Montale suscitò una vera
infatuazione, probabilmente perché vi è rappresentato un Io accidioso
in continuo dialogo conflittuale con il sistema di verità della fede
religiosa, in una scrittura che tematicamente può in parte inserirsi
nel solco ideale di Baudelaire e, se si vuole, di Amiel:
Orsù cammina! La strada Va ton chemin sans plus t’inquiéter!13
conosci, ora sparsa di subdoli La route est droite et tu n’as qu’à monter,
ostacoli, ora squallida e rada portant ailleurs le seul trésor qui vaille,
di quieti rifugi. Sapesti i tentacoli et l’arme unique au cas d’une bataille:
del dubbio, assai volte. Procedi ancora.
13 Riportiamo interamente la traduzione di Fausto Valsecchi, quasi letterale:
«Va per la tua strada senza più inquietarti! / La strada è diritta e tu non hai che
da salire / portando d’altronde il solo tesoro che valga / e l’arme unica in caso
di battaglia, / la povertà di spirito e Dio per te. // Soprattutto bisogna serbare
ogni speranza, / che importa un po’ di notte e di sofferenza? / La strada è
buona e la morte è in fondo, / sì serba ogni speranza soprattutto, / la morte
laggiù ti prepara un letto di gioia. // E fatti dolce di tutta la dolcezza. / La vita
è brutta, ancora è tua sorella. / Semplice, sali la china ed anche canta. / Per
scostare la prudenza cattiva / la cui voce bassa è per tentare la tua fede. //
Semplice come un fanciullo, sali la china / umile come un peccatore che odia
la colpa, / canta, ed anche sii gaio, per sfidare / la noia che il nemico ti può
inviare / perché tu t’addormenti per la strada. // Ridi della vecchia insidia e
del vecchio seduttore, / poiché la Pace è là, sull’altura, / che brilla fra le fanfare
della gloria, / sali, rapito, nella notte bianca e nera, / già l’Angelo custode
stende su te // gioiosamente le ali di Vittoria» (P. Verlaine, Saggezza, Milano,
Biblioteca Universale Sonzogno, 1914).
112 IDA CAMPEGGIANI [9]
Perché la pauvreté d’esprit et Dieu pour toi.
riottoso t’arresti, disperi di te,
o vagabondo? Perché? Surtout il faut garder toute espérance.
Cammina. Qu’importe un peu de nuit et de souffrance?
La route est bonne et la mort est au bout.
Procedi più cauto. Mortifica in te ciò Oui, garde toute espérance surtout:
che indaga
e spera, curioso. Conquistati una libertà, la mort là-bas te dresse un lit de joie.
recluso. Non lauto premio e non paga
esigi dal tuo viaggio. Purifica dal desiderio Et fais-toi deux de toute la douceur.
il tuo pensiero, santifica La vie est laide, encore c’est ta soeur.
l’andare cotidiano. Simple, gravis la côte et même chante,
Cammina: tutto ciò che già pour écarter la prudence méchante
vedesti, ritroverai… dont la voix basse est pour tenter ta foi.
Avvezzati ed ama il monotono Simple comme un enfant, gravis la côte,
andare: pensa che se hai humble comme un pécheur qui hait la faute,
molto percorso di strada chante, et même sois gai, pour défier
più ne percorrerai. l’ennui que l’ennemi peut t’envoyer
Guardati innanzi: non beli, non lai, afin que tu t’endormes sur la voie.
o camminante, con le tue dita
non riaprire l’accesa ferita: Ris du vieux Piège et du vieux Séducteur,
e se il desiderio di volgerti mai puisque la Paix est là, sur la hauteur,
t’assalga, tu frenalo e pensa qui luit parmi des fanfares de gloire.
che incontro a ciò che passò Monte, ravi, dans la nuit blanche et noire.
tu vai ancora: cammina. Déjà l’Ange Gardien étend sur toi
Non crederti solo. Rigetta Joyeusement des ailes de victoire.
da te questa oscena superbia.
L’orrenda tortura che tu
acuisci in te soffrono i più.
Una folla va spersa, non reietta,
attorno a te: che certo Alcun dirige
il vostro andare: senti
or l’opra dei suoi muti accenti
che a te persuade il destino
del tuo cammino?
Va, adunque, raccolto e dismemore
di lagni, uccidi i pigmei
satelliti della ragione,
i vani pensieri; così quale sei
o tu nel profondo a cui parlo,
tu puoi risvegliarti un mattino,
trasfuso nel fuoco divino,
fratello: prosegui il cammino.
Il contatto con Verlaine è sicuro, ed è supportato dalla recente e
[10] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 113
fondamentale testimonianza di lettura di Sagesse14 («L’altro giorno
divorai Sagesse, il colossale capolavoro! È la terza (o quarta) volta
che lo rileggo; e sempre più l’ammiro!») che si trova nel Quaderno
genovese (è curiosa poi la postilla di Marianna che nell’inviare questa
poesia del fratello all’amica Zambaldi specifica: «…subisce l’influenza
dei francesi, molto, Rimbaud, Baudelaire e altri. Già, ci ha
una passione tale per questi!»15). Il testo è articolato nei modi di
un’apostrofe a sfondo liturgico che insiste, impostando tutta una
serie di variazioni, sul tema del «cammino» verso una fede che
renda inutile il rovello della ragione, allegoricamente condotto su
una «strada» che traspone la «route» verlainiana. Lo stesso accade
infatti nel xxi componimento di Sagesse, con un’analoga serie di
inviti a un viaggio religioso e di ammonimenti a superare ostacoli
insieme astratti e antropomorfizzati (l’«Insidia» come «la voce bassa
» tentatrice e il «nemico») secondo tonalità stilistiche puntualmente
riprese da Montale (i «tentacoli / del dubbio», i «pigmei / satelliti
della ragione»). Le tangenze, evidenziate tipograficamente, riguardano
inoltre le formule incipitarie («Orsù cammina! La strada /
conosci […]» : «Va ton chemin sans plus t’inquiéter!»), le esortazioni
dottrinali a ritrovare l’innocenza («Purifica dal desiderio / il tuo
pensiero» : «Simple comme un enfant») e a essere gioioso («Non
crederti solo […]» e «Va, […] raccolto e dismemore / di lagni» : «Et
fais-toi deux de toute la douceur», «soi gai» e «Ris») declinate lungo
entrambi i testi e secondo modalità accostabili, nonché le personificazioni
sacre: l’«Angelo» che «stende […] le ali di Vittoria» a cui
risponde, in Ritmo, quel «Alcun» che «dirige / il vostro andare».
Questo parallelo prova come Montale, una volta abbandonata l’ortodossia
(intorno al 1915), comunque coltivasse la ricerca misticoreligiosa
sul piano della trasposizione dei temi a essa inerenti all’interno
del linguaggio artistico-letterario, in continuità con molti degli
autori, simbolisti e modernisti, della sua formazione16. Si tratta di
14 P. Verlaine, Sagesse, Librairie Catholique, Paris, e Goemaere, Bruxelles, 1881.
15 Quaderno genovese, p. 90.
16 In tale ottica è interessante l’accostamento tra Ernest Hello (precoce esponente
della corrente spiritualista che qui si è scelto di affrontare nelle sue
intersezioni con l’eredità simbolistica soprattutto attraverso Amiel) e Verlaine
che risulta da un appunto del Quaderno genovese: «Come un raggio di luce,
durante la lettura dell’Homme di Ernesto Hello: mi parve di aver ritrovato la
fede del carbonaio. Tornato a casa avrei letto quante più vite di santi, libri
mistici e agiografici, mi fossero venuti tra le mani: Amour di Verlaine mi deliziò»
(p. 46).
114 IDA CAMPEGGIANI [11]
una trasposizione molto secca ed esplicita, e alla scarsa introiezione
si direbbe far riscontro, almeno in Ritmo, l’iterazione e il tono
declamatorio, indizi di una rappresentazione decisamente ingenua
che permette di ‘inquadrare’ più che di ‘svolgere’, ad esempio, il
motivo verlainiano del viator17.
3. Da questo primo livello, in cui nel complesso è ancora spiccata
la dipendenza da un codice predefinito – quello della fonte di ispirazione
–, il poeta inizia presto a lavorare alla costruzione di una
distanza tra il retroterra culturale simbolista e post-simbolista e quello
17 Quanto alle intertestualità interne, da un lato il tema del cammino sarebbe
ritornato nella dispersa del 1919 A galla («E senti allora, / se pure ti ripetono che
puoi / fermarti a mezza via o in alto mare, / che non c’è sosta per noi, / ma
strada, ancora strada, // e che il cammino è sempre da ricominciare»), dall’altro
la «ferita» da non riaprire ricorda tenuemente l’immagine analoga che in Lettera
levantina (1923) è metaforizzata nella battuta di caccia, a cui è peraltro connesso
il giro di versi a carattere gnomico: «questo ci ha uniti antico / nostro presentimento
/ d’essere entrambi feriti / dall’oscuro male universo». Probabilmente
la «ferita» della Lettera non ha nulla a che vedere con quella che figura nel
contesto di ammonimenti parareligiosi di Ritmo, la quale però merita una certa
attenzione se si considera che figura emblematica della poesia di Sagesse è proprio
quella della «ferita» che il «Bon chevalier masqué» procura al cuore di
Verlaine nella prima bella poesia della raccolta, aprendo il discorso del riscatto
e della conversione (Cfr. Sagesse I: «Bon chevalier masqué qui chevauche en
silence, / le Malheur a percé mon vieux coeur de sa lance. // Le sang de mon
vieux coeur n’a fait qu’un jet vermeil, / puis s’est évaporé sur les fleurs, au
soleil. […] Son doigt ganté de fer entra dans ma blessure / tandis qu’il attestait
sa loi d’une voix dure. / Et voici que, fervent d’une candeur divine, / tout un
coeur jeune et bon battit dans ma poitrine! […]»). Per quanto quindi non s’intenda
affatto suggerire che anche le «bestiuole ferite» di Lettera levantina in qualche
modo dipendano dal deposito dell’immagine-simbolo di Sagesse, si può osservare
che questa, nel suo ruolo di sorgente di una narrazione poetica, è idealmente
accostabile a quel nucleo immaginativo che, raccontato nei termini metaforici
della caccia, può essere indicato come la prima scoperta montaliana della possibilità
di ‘narrativizzare il male di vivere’
Quanto a un’altra immagine di Ritmo, quella dei «tentacoli del Dubbio»
saggiati in passato, sarà opportuno metterla in rapporto con l’affermazione del
Quaderno genovese suscitata dalla lettura dell’Homme, di Ernest Hello: «Da tre
giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero
che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle
capriole della logica. Sì, Hello; il Dubbio è antifilosofico!» (L’uomo, tradotto da
Giuseppe Vannicola nel 1912, uscì per La cultura dell’anima: «è certamente questa
la copia letta da Montale, tuttora conservata alla Biblioteca Universitaria di
Genova, per quanto egli [nel Quaderno genovese] ne citi il titolo in francese» – L.
Barile, Quaderno genovese, cit., p. 152, n. 156).
[12] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 115
che sarebbe stato il ‘classicismo paradossale’ degli Ossi di seppia.
Tale formula, com’è noto, sottende un’operazione di reinterpretazione
classicista del simbolo, intenzionalmente spogliato di indeterminatezze
e ambiguità, e di cui Montale tematizza, per così dire, proprio
questo aspetto di acquisita immediatezza gnoseologica. Perciò esso
diviene, da strumento evocativo, uno strumento semantico, secondo
un trattamento che tendenzialmente lo rende un ‘oggetto’ anche in
quei casi, come il «girasole» o lo stesso «mare», per i quali il poeta
sfrutta le sfumature simbolistiche intrinseche come perni ‘magnetici’
attorno a cui organizzare un discorso analitico, con una presa
razionale che attira a sé anche i toni effusi e, per certi aspetti, immaginosi,
che possono persistere. Per comprendere questa prospettiva
di trasformazione degli spunti d’Oltralpe è poi indispensabile
considerare come, specie dal prolifico e fondamentale biennio 1922-
1924, i simboli risultino via via sempre più subordinati a un macrotesto
narrativo, ossia a una costruzione sulla base di immagini e
significati interni dotati di quella specifica riconoscibilità che può
renderli delle classiche chiavi di lettura.
Consideriamo dunque il «girasole» di Portami il girasole, dove
l’inizio gnomico della seconda quartina («Tendono alla chiarità le
cose oscure») potrebbe rivelare un rapporto preciso con alcune suggestioni,
non a caso di natura speculativa, di Amiel, in cui è spiegato
come all’oscurità interiore debba rispondere un movimento
d’irradiamento esteriore.
Nous sommes et devons être obscurs pour nous-mêmes, disait
Goethe, tournés vers le dehors et travaillant sur le monde qui nous
entoure. Le rayonnement extérieur fait la santé; l’intériorisation trop
continue nous ramène au point, au néant. Mieux vaut dilater sa vie,
l’étendre en cercles grandissants, que de la diminuer et de la
restreindre obstinément par la contraction solitaire. La chaleur tend
à faire d’un point un globe, le froid à réduire un globe à la dimension
d’un atome. Par l’analyse je me suis annulé. (3 février 1862)
A ciò si aggiunga la lettura delle seguenti righe citate in traduzione
italiana ma appartenenti alla medesima pagina di Diario da
cui si è prelevato il testo francese; si sceglie di riportarle per le
ragioni illustrate nel caso analogo incontrato in precedenza (cfr. n.
10):
Sarebbe ora di rifarmi un corpo, un volume, una massa, un’esistenza
reale, uscendo dal mondo vago, tenebroso e freddo che si crea il
pensiero isolato. Sarebbe bene risalire la spirale che mi ha avvolto su
116 IDA CAMPEGGIANI [13]
me stesso fino al mio centro. Converrebbe dirigere i miei riflettori,
che si riflettono l’un l’altro all’infinito, verso gli uomini e le cose
[…].
Questo passo, che in un contesto di introspezione analitica si
presenta così ricco di rappresentazioni simboliche per definire categorie
concettuali (i «cerchi», il «calore», l’«atomo», i «riflettori» da
«dirigere verso gli uomini e le cose» per potersi rifare «un corpo, un
volume, una massa, un’esistenza reale»), può essere indicato come
un plausibile antecedente di Portami il girasole. Il simbolismo è qui
funzionale a rendere visibile quella tensione di forza espansiva che
occorre coltivare per non vivere nell’angustia delle proprie rappresentazioni
mentali; il processo di dilatazione, idealmente culminante
con l’‘evaporazione’, è poi in se stesso un simbolo da opporre
alla tendenza a interiorizzare le esperienze.
Complessivamente, è verosimile pensare che un ulteriore elemento
di attrattiva per Montale fosse riposto proprio nell’indole
pervicace e in un certo senso ‘agonistica’ della scrittura del ginevrino,
che questa pagina riflette in modo particolarmente esplicito: quell’atto
di accusa lanciato, in astratto, contro l’Esistenza, continuamente
presente nel Diario, riceve qui un incremento di pathos dall’intreccio
con l’auspicio illusorio di poter cambiare il proprio modo
di attraversarla. Si tratta di un contrasto tra posizioni esistenziali
che corrisponde al nucleo gnoseologico del nostro osso, il quale interviene
in maniera decisiva nell’orientare lo stile verso un classicismo
sui generis. Tanto che lo spunto di Amiel dovrebbe essere
quantomeno affiancato, se non collocato a precedere, all’immagine
dell’«héliotrope diaphane» rinvenuta in una poesia di Albert Samain
e sinora indicata come privilegiato modello del girasole montaliano18.
Infine, insieme ad altri esempi di prelievo di nuclei speculativi da
Amiel, di cui sarà dato conto nel più ampio scritto in cui tali rapporti
culturali saranno debitamente circostanziati, questo contatto
18 G. Ioli, Montale, cit., p. 47. Ma si vedano anche le osservazioni di Marianne
H. de Feijter, secondo cui «nel sottofondo metafisico di questa lirica [Portami il
girasole] troviamo delle isotopie semantico-lessicali che fanno pensare a La Jeune
Parque di Valéry» (M. de Feijter, cit., p. 99): tra di esse, persuadono maggiormente
quelle relative ai seguenti versi del poemetto valeriano ricordati dalla
studiosa, «L’encens qui brûle expire une forme sans fin… / tous le corps radieux
tremblent dans mon essence», per Montale forse divenuti oggetto di prelievo e
ricombinazione nei versi «si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte […] /
dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza».
[14] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 117
dimostra come possa essere ridimensionata la portata della cosiddetta
‘cultura filosofica’ montaliana, e quanto piuttosto sia da preferire
l’idea di un Montale lettore di pensatori-scrittori con una forte
componente esistenzialistica o proto-esistenzialistica, magari corredata
di una propria simbologia.
Tuttavia, se un marchio razionalizzante e appunto, speculativo,
guida l’elaborazione poetica di un testo del 1923 come Portami il
girasole, è noto che la composizione di qualche osso più antico si
colloca ancora in un’orbita d’ascendenza lirica simbolistica, e talvolta
le riprese testuali che la tradiscono sono sufficientemente fitte da
sfiorare la ricomposizione della trama di alcune metafore presenti
nell’ipotesto. Due esempi che testimoniano un rapporto di questo
tenore serviranno a intendere meglio un percorso di maturazione
stilistica che, anche una volta avviato, non è privo di oscillazioni.
È il caso di Riviere (risalente al 1920 secondo una dichiarazione
d’autore), probabilmente in debito con un sonetto di Rimbaud, Le
dormeur du val, che Montale lesse nel Quaderno della Voce curato da
Soffici19, dove peraltro gli viene tributato il particolare onore di
comparire integralmente, all’inizio, e con un cospicuo commento.
Appare significativo che per il racconto del suo «smarrito adolescente
» Montale si rivolga al «Grande adolescente» (epiteto che si
trova nel Quaderno genovese) Rimbaud, in analogia con quanto forse
avviene in Violini, dove la rappresentazione della «Gioventù» è per
certi aspetti considerabile persino come un caso di intertestualità
stilistica rispetto ad alcune Illuminazioni, come sarà mostrato nella
trattazione più ampia a cui si è già accennato. I contatti riguardano
in primo luogo l’immagine del «fanciullo antico / che accanto ad
una rósa balaustrata / lentamente moriva sorridendo», senz’altro
ispirata al morto che sorride ritratto dal poeta francese20, la cui
valenza metaforica è in entrambi i testi esaltata dalla descrizione di
un ambiente in cui la morte si intreccia a una natura fresca e luminosa
(«auree cornici / all’agonia d’ogni essere» scriverà Montale). Si
riporta il testo di Le dormeur du val:
19 Il Rimbaud di Soffici uscì nel 1911 per «La Voce» e da Montale fu acquistato
nel febbraio del 1917, come testimonia un appunto del Quaderno genovese
(p. 20).
20 Ipotesi a nostro avviso più convincente rispetto alla possibilità di un’ispirazione
carducciana: «Te che di sangue spaziosa via / a l’indignato spirito
chiudesti, / giovinetto a la morte sorridendo» (Juvenilia I, xix, 12-14) (T. Arvigo,
cit., p. 228).
118 IDA CAMPEGGIANI [15]
C’est un trou de verdure, où chante une
rivière Riviere,
accrochant follement aux herbes des haillons bastano pochi tocchi d’erbaspada
a’argent; où le soleil, de la montagne penduli da un ciglione
fière,
luit: c’est un petit val qui mousse sul delirio del mare; […]
de rayons.
ed ecco che in un attimo
Un soldat jeune, bouche ouverte, invisibili fili a me s’asserpano […].
tête nue,
et la nuque baignant dans le frais
cresson bleu,
dort; il est étendu dans l’herbe,
sous la nue, Erano questi,
pâle dans son lit vert ou la lumière riviere, i voti del fanciullo antico […]
pleut.
che lentamente moriva sorridendo.
Les pieds dans les glaïeuls, il dort.
Souriant comme
sourirait un enfant malade, il fait Quanto, marine, queste fredde luci […]
un somme:
nature, berce-le chaudement: il a froid.
Les parfums ne font pas frissonner […] sentire
sa narine.
Il dort dans le soleil, la main sur noi pur domani tra i profumi e i venti
sa poitrine
tranquille. Il a deux trous rouges au
côté droit.
L’iniziale descrizione del verde anfratto con il rivo che «impiglia
folle all’erbe i suoi brandelli / d’argento»21 è decisamente accostabile
all’incipit naturalistico di Riviere, specialmente per l’immagine pittoresca
e vibrante dell’erba, già sottolineata da Soffici nelle sue parole
di commento al testo («la riviera che accocca follemente dei cenci
d’argento alle erbe…»), e che Montale può aver ripreso non senza
la contaminazione con l’esordio di Mistica, illuminazione che nel
volume compare nella traduzione dello stesso Soffici:
Sul pendio del ciglione, gli angeli ruotano le loro vesti di lana, negli
erbaggi d’acciaio e di smeraldo.
Centrale è la contraddizione tutta rimbaudiana tra il sole abba-
21 Traduzione di Diana Grange Fiori, in J.A. Rimbaud, Opere, a cura di D.G.
Fiori, Milano, Mondadori, 1975, p. 67.
[16] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 119
gliante e il freddo percepito dal corpo del soldato, ovviamente perché
morto, la quale sembra riproposta da Montale nella forma sintetica
delle «fredde luci», la cui valenza di ‘violenta rinascita’ è
specificata nello «sparir carne / per spicciare sorgente ebbra di sole,
/ dal sole divorata» (c.vo mio) che in Riviere esprime proprio il
«voto» dell’adolescente, la sua speranza di svanire panicamente nella
rete delle correspondances. In quest’ottica Montale avrebbe mutuato
da Rimbaud anche quella particolare miscela di freschezza impressionistica
e di potenti immagini di morte che nell’osso appare declinata
nella direzione più positiva dell’illusione di poter scegliere il
proprio destino, elemento che, com’è noto, ne fa «una sintesi e una
guarigione troppo prematura» rispetto al macrotesto.
Accanto all’«adolescente», un altro giovane personaggio montaliano,
a suo modo protagonista di una vicenda esemplare rispetto alla
scelta di una vitalità confidente con la Natura, si direbbe ‘costruito’
sugli spunti, oltre che dannunziani e crepuscolari (specialmente
gozzaniani)22, offerti da un preciso modello francese: si tratta di
Esterina, di Falsetto (1924). Il testo in questione figura come tanti
altri nell’antologia dei Poètes d’aujourd’hui ed è opera del ‘poeta del
verso libero’, Gustave Kahn, che in modo persino più accentuato
rispetto alla moda amava popolare le sue liriche di figure stereotipate,
talvolta mitologiche (ninfe, sirene, cavalieri…) animate su fondali
allegorizzati23. In realtà, questi elementi non pertengono esattamente
alla lirica che qui si propone, ma possono servire a comprendere
perché Montale abbia adoperato le suggestioni lessicali che si
evidenzieranno per poi giungere a trasfigurare la nota fanciulla nella
mitica «arciera Diana», processo che dunque a nostro avviso sarebbe
avvenuto in maniera indiretta24, come invenzione originale e
22 In proposito cfr. la schedatura in P.V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale,
in La tradizione del Novecento. Prima serie, cit., pp. 15-115 e E. Sanguineti,
Tra Liberty e Crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, pp. 33-35.
23 Per esempio ne Le Livre d’Images (1897) troviamo poesie come L’Eau, di cui
si riporta qualche verso: «Sur un grand divan, soie d’argent […] / voici Thétis
inconsolée. // Ses cheveux sont ondés comme la vague déferle / par un temps
doux de belle arrivée / et ses yeux verts, languides, sont une caresse / même
en ce temple de grâces paresseuses, / et les Néréides aux tresses emperlées /
l’entretiennet des nouvelles / que les mouettes à tire-d’aile / apportent des
terres fabuleuses […]». Cfr. anche G. Macchia, M. Colesanti, E. Guaraldo,
G. Marchi, G. Rubino, G. Violato, La letteratura francese. Dal Romanticismo al
Simbolismo, Milano, Accademia, 1987, e Milano, Bur, 2000, pp. 487-488.
24 Roberto Gigliucci ha avanzato la proposta di un’ispirazione alla figura,
molto sfruttata in ambito simbolista, di Glauco, adombrato da «noi ti pensiamo
120 IDA CAMPEGGIANI [17]
peraltro in una certa misura tipica di Montale, sullo sfondo però di
un testo e di una tradizione letteraria che potevano indurlo a questa
operazione. Confrontiamo alcuni versi di Voix de l’heure implacable
con Falsetto:
Voix de l’heure implacable et lente,
timbre avertisseur du passé
encore un lourd pan de l’attente
qui s’est écroulé fracassé!
Rien dans le passé, rien dans
le présent…
Encore un lambeau d’heure évanouie! Salgono i venti autunni,
Un semblant qui s’en va des t’avviluppano andate primavere,
printemps séduisants,
un départ, un baiser, une note inouïe. ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Oh! le douloureux infini
qu’on ressent aux larges musiques
[…]
Un suono non ti renda
Le coeur est blessé d’une flèche qual d’incrinata brocca
étrange;
un désir pénétrant et vague qui percossa!; io prego sia
le mord,
Concert inexpliqué qu’un accroc per te concerto ineffabile
bref dérange! di sonagliere.
Iniziamo notando come l’ultimo verso della poesia di Kahn sia
stato sostanzialmente ricombinato nel finale della prima strofe di
Falsetto: a parte l’evidente ripresa del sintagma «concerto ineffabile
», si direbbe che l’immagine dell’«incrinatura» sia in debito con
quella dello strappo (accroc), tangenza sul piano della semantica che
di conseguenza rende meno illecito ipotizzare che la «brocca» abbia
trovato un’origine ‘fonica’ nel significante «accroc» del testo francese.
A questo fa riscontro una sorta di identità tematica riguardo
come un’alga, un ciottolo, / come un’equorea creatura […]» (cfr. R. Gigliucci,
Realismo metafisico e Montale, Roma, Nuova cultura, 2005). Anche per ragioni di
pertinenza rispetto alla nostra indagine di fonti francesi, è interessante ricordare
l’ipotesi di un influsso esercitato dalla descrizione delle proustiane «fanciulle in
fiore»; in particolare è forte l’omologia, linguistica e tematica, tra l’espressione
relativa alla «razza che rimane a terra» e la clausola del passo «Telles que
si…elles eussent jugé que la foule environnante était composée d’êtres d’un autre
race» (cfr. T. Arvigo, cit., pp. 42-43).
[18] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 121
l’idea che un presagio possa esprimersi attraverso un suono, idea
che forse per prima dovette colpire la fantasia di Montale; a ciò è
connessa la precedente climax analogica «un départ, un baiser, un
note inouïe [inaudita]» che, volendo estendere l’analisi delle affinità
fra i testi sul piano della stilistica, si direbbe lontanamente ricalcata
dalla sequenza che scandisce il tuffo di Esterina. Del resto, il legame
tra suono ed età della vita è da Kahn realizzato in maniera
inequivocabile proprio dal distico che conclude la seconda quartina,
nel quale la climax citata è preceduta dalla constatazione dell’andarsene
della primavera («Un semblant qui s’en va des printemps
séduisants») puntualmente echeggiata dalle «andate primavere»
montaliane.
Dunque, come nel caso di Riviere rispetto a Le dormeur du val, si
è di fronte a una ripresa di tessere lessicali le quali, per quanto
ricombinate, portano vischiosamente con sé anche suggerimenti tematico-
stilistici. Nel testo cronologicamente più alto, certo più vulnerabile
dal punto di vista dei condizionamenti intertestuali (come
conferma la trasposizione della fondamentale immagine del morto
sorridente), tale processo deve avere determinato quella tenue
riproposizione della trama metaforica del sonetto di Rimbaud che si
è cercato di evidenziare. Anche in Falsetto le suggestioni riprese
sono dotate di risvolti metaforici (il più evidente è l’identità presagio-
suono a cui è connessa l’idea di un passaggio quasi iniziatico),
la cui influenza pare tuttavia attestabile con certezza solo in zone
circoscritte del componimento, nella fattispecie il finale della prima
strofa che si è riportato nel confronto, salvo poi eventualmente,
come si diceva, ‘predisporre’ Montale a cercare un proseguimento
di tali spunti in continuità con quella stessa tradizione lirica così
ricca di trasfigurazioni mitologico-neoclassiche.
Per inciso, un’altra ‘spia’ di un retroterra d’ispirazione fin de
siècle potrebbe essere la bicromia «grigiorosea» riferita alla «nube»
dei «vent’anni», adoperata da Verlaine per la «luna» in Mandoline
(«Tourbillonnent dans l’extase / d’une lune rose et grise, / et la
mandoline jase / parmi les frissons de brise») e nella v lirica di
Romances sans paroles per la «sera» («[…] luit dans le soir rose et gris
vaguement»), occorrenze rispetto a cui la contiguità può dirsi esclusivamente
formale, considerato l’impiego montaliano in riferimento
a un’età della vita, e, nel descrivere il colore della «minaccia» da
essa costituita, non privo di una certa ironia. Nel complesso, si può
affermare che questo secondo caso di intertestualità, tra Falsetto e
Voix de l’heure implacable, mentre si aggiunge a quelli già noti che
122 IDA CAMPEGGIANI [19]
mostrano il riuso di stilemi e immagini ancora legati all’esperienza
poetica del simbolismo francese, prova come anche in una data
ormai piuttosto avanzata Montale continuasse se non altro a ‘sbirciare’
l’antologia dei Poètes d’aujourd’hui.
4. Proprio riguardo i post-simbolisti antologizzati da Van Bever
e Léautaud, è ora opportuno segnalare alcuni contatti utili a mostrare
come, sullo sfondo della maturazione poetica dei primi anni Venti,
il prestito tenda comunque a configurarsi sempre più in termini
tecnici, ovvero sia sempre più legato all’assunzione dello spunto,
più o meno metaforico, o del simbolo, come espediente da risemantizzare
e da adoperare al fine, assolutamente autonomo, di oggettivizzare
stati di esistenza.
Dal poeta decisamente minore Camille Mauclair derivano suggestioni
tecnicamente ricombinate nella coniazione di certi versi de I
limoni (1921-1922):
Le soleil gisant dans l’après-midi fade
[…]
Ah! Comme nous allons nous ennuyer
avec cette lumière malade.
[…]
Le ballet des incertitudes
voilà qu’il va se dérouler encor:
on ’aura donc jamais de quiétudes,
on ne sera donc jamais d’accord?
Nous voudrions la raison des choses
pour nous conduire à peu près bien:
se plaindre qu’il n’arrive jamais rien,
est-ce que c’est cela les névroses?
On n’a qu’à contempler, on s’ennuie,
on ne tient à rien, tout est déjà fait:
et puis quand tout semble s’être défait,
on a l’âme pleine de pluie
Per iniziare si noti come proprio quest’ultimo distico, «e poi
quando tutto sembra essersi disfatto, / sentiamo l’anima piena di
pioggia», possa aver giocato un ruolo nella coniazione di versi come
«e il gelo del cuore si sfa» o «[…] le cose s’abbandonano…» accanto
a «piove in petto una dolcezza inquieta», veri cardini dell’esposizione
di una percezione sensoriale la cui resa sinestetica aveva sempre
indotto i commentatori a parlare dell’ascendenza di un certo «sim[
20] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 123
bolismo minore francese e belga»25, pur senza poter indicare intertesti
poetici precisi.
D’altra parte ne I limoni convergono senz’altro anche influssi di
natura speculativa, sensibili nell’idea del disvelamento dell’«ultimo
segreto» delle cose, generalmente ritenuta «la resa poetica del processo
creativo e artistico così come l’ha concepito Boutroux», e quindi
da leggere in chiave contingentista26. In realtà, già nel testo di
Mauclair sembra che l’ambientazione in un «pomeriggio sbiadito»
comporti un’indagine dell’attività della mente con un andamento
gnomico-sentenzioso: la connessione tra lo scenario meridiano e il
«balletto delle incertezze» che si «svolge» nel pensiero sembra simmetrica
a quella che lega «Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente
indaga accorda disunisce» allo sfondo «quando il giorno più languisce
», in Montale. Suggello di questa affinità di ordine atmosferico è
certo la consonanza tra il verso di Mauclair, «Vorremmo la ragione
delle cose», e i versi «Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano
e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto», non
senza la contaminazione col comunque probabile debito pirandelliano,
com’è noto. Del resto, il livello a cui Montale si direbbe trasporre
le tessere simbolistiche è assai più raffinato e complesso, non
solo a causa delle convergenze filosofico-intertestuali (anche govoniane,
specie nell’attacco ‘crepuscolare’ dei «poeti laureati», come messo
in luce da Blasucci27), ma anche per la densità semantica, la
coerenza e l’unitarietà stilistica che sanciscono una distanza rispetto
a qualunque modello.
Quanto alle altre letture che potrebbero aver offerto apporti ad
ora non segnalati dalla critica, assimilati e poi superati in questo
esito, si può forse indicare, in questa sede soltanto cursoriamente, il
Partage de midi di Paul Claudel («quest’ora di meriggio in cui si
vedono tanto le cose vicine che non si vede nient’altro»)28. Nel complesso,
dal punto di vista stilistico, I limoni è un testo che, in affinità
con Portami il girasole, si articola su diversi passaggi speculativi
25 P. Cataldi, p. 12 di Montale, Ossi di seppia. Si è parlato inoltre di una
consonanza con le pagine proustiane sul misterioso plaisir emanante dalle cose
più comuni (A. Fabrizi, Montale e Proust, cit., pp. 29-37).
26 Cfr. T. Arvigo, cit., p. 35.
27 L. Blasucci, Montale, Govoni e l’‘oggetto povero’ in Gli oggetti di Montale, cit,
p. 26.
28 La traduzione è di Piero Jahier (P. Claudel, Crisi meridiana, cit.). In francese:
«[…] à cette heure de midi où l’on voit tellement ce qui est tout près» (P.
Claudel, OEuvre, cit., p. 954).
124 IDA CAMPEGGIANI [21]
espressi in una veste formale ancora legata primariamente alla
sinestesia ma non più riconducibile alla gestione simbolistica di tale
figura retorica, in quanto appunto le sinestesie coincidono con
momenti raziocinanti o quanto meno li inducono.
E a questo proposito è forse possibile ravvisare anche una tessera
della Jeune parque di Paul Valéry, che infoltendo altri vari contatti
con testi montaliani anteriori al 1925 contribuisce a smentire la dichiarazione
di Montale circa la sua conoscenza tardiva del poeta
francese che amava l’ambientazione marina dove la dimensione simbolica
non è mai disgiunta da una presa analitica e argomentante –
il che è la cifra del suo superamento dell’esperienza simbolista com’è
proprio, in una certa misura, anche dell’autore degli Ossi. Si
tratta dell’assonanza tra il sintagma «L’âme avare» nel v. 75 de La
Jeune Parque, pubblicata il 30 aprile del 1917 su «La Nouvelle Revue
Française», e i medesimi vocaboli ravvicinati nel v. 42 de I limoni,
vicinanza resa più stretta, se non altro a livello d’elocutio, dalla costruzione
chiastica: «la luce si fa avara – amara l’anima». Peraltro il
verso valeriano contiene una specifica suggestione legata al «dischiudersi
» dell’«anima», «L’âme avare s’entr’ouvre, et du monstre
s’émeut», la quale assume un certo interesse se si considera che ne
I Limoni il verso «la luce si fa avara – amara l’anima» è seguito da
«Quando un giorno da un malchiuso portone» (correlativo oggettivo
di una situazione interiore di riacquisita libertà che il testo nel suo
complesso intende descrivere proprio intrecciando, valerianamente,
la proiezione su dati esterni ed esilmente narrativi alle percezioni
sinestetiche). Questa tessera, che può quindi dirsi composta di una
tangenza sul piano lessicale e di un’affinità di ordine connotativo,
per quanto di portata ‘molecolare’ e contestualmente ricombinata,
appare più probabile se valutata insieme ad alcuni validi riscontri
di Marianne H. de Feijter, ad esempio riguardo a «I turbini sollevano
la polvere» di Arsenio e i «tourbillons de poudre» che si trovano
proprio nella Jeune Parque. Altri rilievi valeriani saranno debitamente
illustrati nella trattazione più estesa, dove si affronterà la dibattuta
questione della conoscenza di Valéry da parte del primo Montale in
maniera più dettagliata.
Un altro contatto sul quale richiamare l’attenzione riguarda Quasi
una fantasia e la lirica Nocturne provincial di Albert Samain, dalla
quale si direbbe che siano stati prelevati dettagli specifici relativi
all’ambientazione in un paese fantastico e in questo caso anche al
tema delle «ore troppo uguali» (nel francese «d’une heure égale ici
l’heure égale est suivi»), che come altri motivi ricorrenti negli Ossi
[22] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 125
di cui è possibile rintracciare una matrice simbolista, fu da Montale
in seguito introiettato fino a divenire una linea intertestuale interna
del tutto indipendente dalla prima fonte d’ispirazione. Nel più ampio
lavoro sulla questione sarà illustrato l’influsso eventualmente esercitato
da un retroterra di letture, da Amiel a Paul Claudel, riguardo
il tema delle «ore» e dei «ritorni» temporali; qui ci si limita a proporre
il seguente confronto testuale:
La petite ville sans bruit Raggiorna, lo presento
dort profondément dans la nuit da un albore di frusto
argento alle pareti:
Aux vieux réverbères à branches lista un barlume le finestre chiuse.
agonise un gaz indigent; Torna l’avvenimento
mais soudain la lune émergeant del sole e le diffuse
fait tout au long des maisons blanches voci, i consueti strepiti non porta.
resplendir des vitres d’argent.
Perché? Penso ad un giorno d’incantesimo
[…] e delle giostre d’ore troppo uguali
mi ripago. Traboccherà la forza
Le silence est si grand que mon coeur che mi turgeva, incosciente mago,
en frissonne.
Seul, le bruit de mes pas sur le pavé da grande tempo. Ora m’affaccerò,
résonne.
Le silence tressaille au coeur, et minuit subisserò alte case, spogli viali.
sonne!
[…]
D’une heure égale ici l’heure égale est suivie,
et l’innocence en paix dort au bord de la vie…
[…]
A l’angle, une fenêtre est éclairée encor.
Une lampe est là-haut, qui veille quand tout dort!
La città «senza rumore» di Samain, la luna che, salendo, fa «risplendere
d’argento» i vetri, e anche lo spunto di riflessione legato
al rintocco della mezzanotte, «da un’ora uguale qui un’ora uguale è
seguita» sembrano tornare con lievi variazioni nel silenzio magico,
nella patina di luce che illumina le finestre al primo mattino e soprattutto
nelle «giostre d’ore troppo uguali» di Quasi una fantasia.
Quindi, sembra che sia stato ripreso anche il particolare intreccio tra
la contemplazione di un ambiente pervaso da una sorta di impercettibile
incantesimo e lo scorrere del tempo, sentito come fondale
di una monotonia con la quale, però, Montale cerca amielianamente29
29 Si anticipa uno dei passi (debitamente circostanziati nel lavoro in cui si
avrà modo di illustrare con maggiore ampiezza questi e altri rilievi) forse in126
IDA CAMPEGGIANI [23]
una conciliazione che sia insieme anche la capacità di prestare attenzione
ai piccoli prodigi (l’«alfabeto»), di ‘inventare’ delle petites
différences («galletto di marzo»). Come si anticipava, è da notare
inoltre, sul versante delle intertestualità interne, che le «ore / uguali,
strette in trama, un ritornello / di castagnette» di Arsenio risalgono
tematicamente a questo primo nucleo di riflessione temporale,
dunque messo a fuoco all’inizio degli anni Venti, e che per l’elemento
delle «ore» in particolare, almeno quelle «uguali» di Quasi
una fantasia, si direbbe in debito con la suggestione del verso chiastico
di Samain.
5. Un caso interessante proprio riguardo l’innesco di una ricorrenza
interna, col quale si conclude questa selezione di intertestualità,
è certo la vicenda di diffrazione a partire da due liriche di Henri de
Régnier da cui Montale ha estratto un grumo tematico prima accolto
in maniera scorporata nella dispersa Turbamenti e poi, dal 1926,
riassemblato in maniera ‘tecnica’ con legami interni originali e
stilisticamente lontani da quei testi a carattere romantico-sepolcrale.
Testi in cui si trovano elementi che, una volta scorciati, resi meno
vaghi e più realistici e, in definitiva, risemantizzati, sarebbero tornafluenti
sulla concezione temporale montaliana così come viene espressa in Quasi
una fantasia: sul versante ‘speculativo’ potrebbe avere agito Amiel, che tra l’altro,
con la spazializzazione circolare del tempo intesa a descriverne il carattere
di perpetuità, si direbbe anticipare, forse in maniera più ingenua ma non per
questo meno efficace sul suo appassionato lettore, il pensiero di Bergson e di
Nietzsche: «La continuité domine la nature, la continuité des retours; tout est
redite, reprise, refrain, ritournelle. Les rosiers ne se lassent pas de donner des
roses, les oiseaux de bâtir des nids, les jeunes coeurs d’aimer les jeunes voix de
chanter les pensées et les sentiments qui ont cent mille servi aux devanciers. La
monotonie profonde dans l’agitation universelle, voilà la formule la plus simple
que fournisse le spectacle du monde. Toute le cercles se ressemblent et toutes
les existences tendent à tracer leur cercle.
Comment éviter le fastidium? En fermant les yeux sur l’uniformité, en
cherchant les petites différences, puis en mettant son goût à la répétition (4 août
1880)». Si noti in particolare la tangenza tra il metodo pensato da Amiel per non
soccombere al «fastidium» della monotonia, quello di «posare gli occhi sull’uniformità
» e «cercare le piccole differenze», per poi «rendere di proprio gusto la
ripetizione» e la «fantasia» montaliana di poter concepire il tempo come un
ritorno rasserenante («l’elogio degl’ilari ritorni»), tale da consentire quel
simbolistico rapporto d’intesa con la Natura che è espresso dall’atto della lettura
di piccoli «segni»: «Lieto leggerò i neri / segni dei rami sul bianco / come
un essenziale alfabeto. / Tutto il passato in un punto / dinanzi mi sarà comparso
».
[24] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 127
ti in certe liriche della fase di transizione ventottana degli Ossi e in
alcune antiche poesie delle Occasioni come Stanze e La casa dei doganieri,
dove sono sviluppate tematiche che sono appunto consonanti
a quelle rinvenute nel Francese: la figura deuteragonista di un
revenant, stati di esistenza ambigui, e, più specificamente, la collocazione
dei morti ‘al di là’ del Mare, l’associazione tra il volo di
colombi e la circolazione sanguigna della figura della compagna, il
motivo del filo del tempo e persino una casa che presiede il confine
tra la vita e la morte, o tra il tempo e la Memoria.
Da «la maison noire / où tu m’attends du fond de toute ta
mémoire» – versi che, come si vedrà, si trovano in Élégie double, una
delle due poesie di Régnier – alla «casa dei doganieri», intercorre
tutta una mediazione oggettivistica dal punto di vista stilistico, ma
si può sostenere che anche la piena maturazione della teoria eliotiana
(si adopera questa definizione anche se può risultare impropria rispetto
a Montale e alla sua, almeno inizialmente, inconsapevole
convergenza culturale con Eliot) con il suo portato stilistico comprensivo
di aspetti importanti del classicismo sia in debito con un
attraversamento del simbolismo già attivamente rivolto a questo
esito, secondo quella prospettiva ‘tecnica’ del prestito che è ciò che
permette al giovane Montale di continuare ad attingere da autori a
lui effettivamente lontani delle tematiche, a cui peraltro, egli, scrittore
essenzialmente classicista, rimane fedele. Vediamo quindi nel
dettaglio i contatti con Régnier, e le forme della loro persistenza nel
sistema montaliano.
Se è noto allora come il materiale tematico di Turbamenti (1923-
1925), che comprende nuclei decisivi, sia stato ampiamente
riadoperato da Montale in altre poesie30, è un fatto inedito l’aver
rintracciato un possibile antecedente che, fungendo da ipotesto per
alcuni versi della lirica rifiutata, parzialmente si configura come la
fonte anche di tale processo di ‘diffrazione’. La natura definibile
quindi di ‘crocevia’ di Turbamenti mostra da un lato come fosse
ancora viva la fascinazione di certi spunti evidentemente depositati
nella memoria letteraria di Montale, e dall’altro conferma il dato già
30 Laura Barile, editrice del componimento, lo ha opportunamente messo in
luce (cfr. E. Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina, cit., pp. 26-34).
Alle sue segnalazioni si può aggiungere un’altra, a nostro avviso significativa,
intertestualità interna, ossia che il «fuso metallo» a cui sono assimilate le «pupille
» del personaggio femminile dovrebbe essere considerato come un anello di
passaggio della trafila che avrebbe condotto agli «occhi d’acciaio» di Clizia in
Nuove stanze.
128 IDA CAMPEGGIANI [25]
noto di come la maturazione stilistica per lui si modulasse, almeno
in parte, nella forma di un ritorno tenace sui medesimi topoi. Si
confronti, per cominciare, l’ultima quartina della prima strofa di
Turbamenti con i versi che aprono l’Élégie double, componimento del
poète d’aujord’hui Henri de Régnier:
Poscia si squarciò il velo Ami, le hibou pleure où venait la colombe,
in brandelli: sembrò di contro ai rombi et ton sang souterrain a fleuri sur la tombe,
di quell’onde – o dei polsi? –
un volo strepitoso di colombi.
Gli elementi ‘arlettiani’, dal «velo» ai «rombi» ai «polsi» al «volo
strepitoso di colombi» che peraltro passa così com’è a chiudere la
seconda strofa della più antica delle Occasioni, Stanze (1926), si ritrovano
anche nel frammento rifiutato a essa coevo Il sole d’agosto
trapela appena31, testimoniando come Montale continuasse ad adoperarli
negli anni. Ma è appunto in Stanze che trovano una destinazione
compiuta, collocati come ‘snodi’ della trama fantastica che vi è
descritta, quella che rappresenta l’immedesimazione del poeta nel
mistero della sua compagna attraverso il tentativo di ripercorrere il
percorso del suo sangue («Ricerco invano il punto onde si mosse /
il sangue che ti nutre […]», «Pur la rete minuta dei tuoi nervi /
rammenta un poco questo suo viaggio […] / e tu lo senti ai rombi
[…] come un volo strepitoso di colombi»). Appare significativo che in
Régnier si trovino accostati la «colomba» e il «sangue sotterraneo»
di una figura di revenant che, come testimoniano le ulteriori tangenze
che ora illustriamo, è al centro di una riflessione che dovette colpire
l’immaginazione di Montale:
Ogni foglia stormisse Mais j’habite un royaume au delà de la Mer
era l’acqua che rode e che dissolve; ténébreuse, et mon corps est cendre sous
le marbre.
per sempre vi rapiva Je suis une Ombre, et si mon pas lent se
hasarde
a me: non avrei stretto au jardin d’autrefois et dans la maison
noire
che una vuotata forma où tu m’attends du fond de toute ta mémoire,
in breve: spenta quella tes chers bras ne pourront étreindre mon
fantôme;
che vita fu della mia vita, viva.
31 «la tua forma, disvela a me la trama / vene alle tempie a’ polsi: intricano
delle tue tempie, de’ tuoi polsi: intrica vie più le nostre vite […]».
[26] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 129
Si noti in primo luogo come il «non avrei stretto / che una
vuotata forma» ricalchi uno dei versi pronunciati dall’amico defunto
del poeta francese nella seconda parte del testo: «tes chers bras
ne pourront étreindre mon fantôme». Da un lato quest’immagine
dantesca, specie se vista accanto all’espressione che compare nella
quartina citata in precedenza («Poscia si squarciò il velo»), rimanda,
forse a livello inconscio, proprio alla Commedia (rispettivamente a
Purg. ii, vv. 79-81 e a Inf. xxxiii, v. 27), ma dall’altro non si può
trascurare la suggestione esercita dalla lirica di Régnier, la quale,
come sarà già stato evidente al lettore, presenta vari motivi di affinità
con altri celebri componimenti montaliani: con I morti, per l’alternanza
delle voci del vivo e dei defunti (schema per il quale de
Régnier andrà dunque annoverato tra gli altri modelli ispiratori,
principalmente Leopardi e Joyce) e per la collocazione di questi ‘al
di là del Mare’ come si mostrerà poi, e soprattutto con La casa dei
doganieri. A chiamare in causa l’invenzione alla base di quest’ultimo
testo è, lo si è anticipato, «la maison noire / où tu m’attends du
fond de toute ta mémoire», resa ancora più simile a quella che in
Montale presiede il confine tra la vita e la morte e, soprattutto, tra
il Tempo e la Memoria (di cui Arletta, genius loci di quel passato, è
l’ignaro tramite), dai versi che nel testo seguono quelli sopra riportati:
Tu pleurerais le souvenir de ma chair d’homme,
a moins que, dans ton âme anxieuse et fidèle,
tu m’attendes en rêve à la porte éternelle,
me regardant venir à travers la nuit sombre,
et que ton pur amour soit digne de mon ombre.
Ma se queste suggestioni relative all’idea di una ‘casa della
memoria’ che sia insieme anche il simbolo del passaggio dai vivi ai
morti32 avrebbero atteso per esprimersi fino al 1930, anno de La casa
32 Oltre a quelli contenuti nei versi citati, nella lirica di Régnier possiamo
individuare altri spunti ‘di contorno’ che può essere opportuno segnalare: «Et
mes yeux qui t’ont vu sont las d’avoir pleuré / l’inexorable absence où tu t’es
retiré / loin de mes bras pieux et de ma bouche triste. / Reviens! […] // Ta
maison te regarde, ami! […] O voyageur venu des roseaux de la grève / que ne
réveille pas l’aurore ni le vent! / Je t’ai tant aimé mort que tu seras vivant / et
j’aurai soin, n’ayant plus d’espoir ni d’attente, / de vider la clepsydre et d’éteindre
la lampe»; a queste intenzioni ribatte il discorso del morto, dichiarando l’irreversibilità
della sua condizione: «Laisse brûler la lampe et pleurer la clepsydre,
[…]».
130 IDA CAMPEGGIANI [27]
dei doganieri, le cose andarono diversamente per il motivo del «filo»,
che in Turbamenti appare così declinato:
Io, voi, qui insieme nel leggiadro asilo,
l’ora che corre, le superflue parole
e il gestire e le risa; tutto questo
può dunque esistere. È un filo
che può troncarsi ma bene ci tiene
per ora […].
Esso, per quanto rimandi alla Lettera levantina (1923), trova un
corrispettivo in un’altra poesia di Henri de Régnier antologizzata
da Van Bever e Léautaud, Discours en face de la nuit33, e l’elemento
che appare più intrigante è la vicinanza che si può registrare tra il
significato e il contesto dei «fili» nello scrittore francese e quelli
della trafila di «fili» che Montale avrebbe dopo poco prodotto ne I
morti, già nel 1926, dove evocano l’esistenza di un legame che potrebbe
unire i due ordini dell’esistenza, e in seguito nel memorabile
correlativo oggettivo de La casa dei doganieri:
[…] je parlerai, debout et du fond de mon I morti (vv. 19-23)
songe,
comme quelqu’un qui n’est plus là et se Più d’alga che trascini
resonge
en soi-même, non point ce qu’il n’a pas il ribollio che a noi si scopre, muove
été
au fantôme de chair que sa vie a hanté, tale sosta la nostra vita: turbina
mais ainsi qu’il fut tel en soi devant soi quanto in noi rassegnato a’ suoi confini
seul,
je parlerai, dans l’attitude du linceul risté un giorno; tra i fili che congiungono
que tisse le passé autour de la stature un ramo all’altro si dibatte il cuore […]
du passant funéraire et hautain sous sa bure
où se mêlent les fils du Temps et de la Nuit, La casa dei doganieri (vv. 10-12)
[…] Tu non ricordi; altro tempo frastorna
O magnifique et sépulcral, voici le seuil… la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo […]
Come si vede i «fili» di Régnier sono simbolisticamente indeterminati:
sembrano essere insieme quelli del tessuto del sudario appartenuto
all’Io lirico-revenant, dell’abito (bure) del viandante che
33 Poesia appartenente alla raccolta Tel qu’en songe, la quale sarebbe stata
stampata integralmente nel volume H. de Régnier, OEuvres. Poésies diverses,
Poèmes anciens et romanesques, Tel qu’en songe, Paris, Mercure de France, 1925.
[28] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 131
s’aggira in quest’onirica terra di confine tra la vita e la morte, e
quelli, intrecciati, del Tempo e della Notte. Si tratta dunque di un
motivo pur nella sua vaghezza particolarmente articolato, che Montale
avrebbe assimilato in chiave più realistica e rivestendolo di una
sola funzione precisa: alludere emblematicamente alla traccia che
unisce vivi e morti sullo sfondo di un’ambiguità resa più acuta
dallo smarrimento della memoria, tutta novecentesca34.
Le tangenze non si esauriscono, ma anzi suggeriscono come il
poeta debba aver coltivato insieme le suggestioni che provengono
dai due testi di Régnier. Ad esempio, se i «fili» de I morti, in quanto
oggetto allusivo all’esistenza di legami interni tra gli ordini della
vita, sono in qualche modo debitori dell’immagine in Discours en
face de la nuit, l’idea che i defunti si trovino ‘al di là del Mare’ si
direbbe prelevata dal testo visto per primo, Élégie double, in cui
l’amico ritornato pronuncia una dichiarazione da confrontare in
particolare con l’«opposta riva» menzionata dal coro dei morti:
Mais j’habite un royaume au delà Il mare che si frange sull’opposta
de la Mer
ténébreuse […] riva vi leva un nembo che spumeggia
finché la piana lo riassorbe. […]
Così
forse anche ai morti è tolto ogni riposo
nelle zolle: una forza […]
li volge fino a queste spiagge, […]
Un’idea, questa di collocare il regno dei morti dall’altra parte del
mare, che ben si combinava con la scenografia della costiera ligure
in cui si svolgono gran parte degli Ossi, e che forse doveva tornare
nella coeva Stanze nella forma più scorciata e implicita, ma sempre
riconducibile alla rappresentazione della risacca su una spiaggia,
del «fervore coperto da un passaggio / turbinoso di spuma ch’or
s’infitta / ora si frange», significativamente ibridata all’immagine
del percorso lungo la rete del flusso biologico del sangue per il
quale si era indicato lo spunto, non a caso sempre di Régnier, del
«sang souterrain»35.
34 Ovviamente riguardo al motivo del «filo» non è sufficiente limitarsi a
considerare un unico contesto di provenienza: gli studi hanno dimostrato come
esso si collochi in uno spazio intertestuale tra i più problematici e ibridati, tra
Baudelaire, Bergson e soprattutto Browning.
35 «Pur la rete minuta dei tuoi nervi / rammenta un poco questo suo viaggio
132 IDA CAMPEGGIANI [29]
A rafforzare l’ipotesi che questo poeta francese minore abbia
ispirato un grumo tematico così ricco e destinato alle celebri riprese
che si sono analizzate è il fatto che il suo nome occorre con frequenza
negli scritti montaliani nell’arco cronologico che interessa la stesura
di Turbamenti, Il sole d’agosto trapela appena, I morti, Stanze.
Valutato piuttosto negativamente a causa della freddezza retorica
(elemento che gli aveva valso l’accusa di Barré «“d’académiser” le
symbolisme» ma che, a nostro avviso, possiede un risvolto attraente
per il poeta degli Ossi nella misura in cui, adoperando la simbologia
in maniera piuttosto nitida e all’interno di liriche che presentano
concatenazioni narrative, genera una forma di classicismo) è ricordato
in varie recensioni scritte proprio tra il 1925 e il ’2736. Quando,
/ e se gli occhi ti scopro li consuma / un fervore coperto da un passaggio /
turbinoso di spuma ch’or s’infitta / ora si frange, e tu lo senti ai rombi/ delle
tempie vanir nella tua vita […]» (vv. 11-17). Sempre a proposito dello spunto
che avrebbe avviato l’idea poetica di descrivere tale percorso, insieme cosmico
e sotterraneo, del sangue, sebbene a nostro avviso sia poco rilevante rispetto
alla vicenda d’intertestualità che si direbbe legare Montale a Régnier, per rigore
segnaliamo anche come Georges Duhamel, nel volume Les Poètes et la Poésie e
nella sezione dedicata al poeta Émile Verhaeren, citasse da quest’ultimo il seguente
distico: «un sang rouge et puissant circule en tes artères… / et ton corps
est heureux de marcher sur la terre» (p. 155).
Più tenui i contatti che si possono rilevare tra Turbamenti e due testi di
autori italiani. Il primo interessa la lirica di Carducci Alla stazione una mattina
d’autunno ed è sensibile all’inizio dell’ultima strofe, là dove «Se avvenga ch’io
debba perdervi, ciò sia / senza parole o rombo di [fuggenti] rinchiuse / [treni
o di chiuse] porte e fuggenti treni» (parte 4, vv. 1-3) potrebbe prendere le mosse
dall’immagine carducciana dell’addio sullo sfondo della stazione: «E gli sportelli
sbattuti al chiudere / paion oltraggi: scherno par l’ultimo / appello che
rapido suono» (vv. 24-26). Il secondo connetterebbe l’idea dei ‘suoni vegetali’,
«Senza rumori se non forse i suoni / che concludono fasi e maturazioni / di
piante e il declinare di loro spoglie: / sussurri fremiti: aloni / del grembo del
mondo che non appare […]», ai versi pascoliani de I due girovaghi: «S’ode qui
l’erba che cresce: / crescer l’erba e i rosolacci / qui, di notte, […]» (vv. 22-24).
36 Nello scritto del 1925 sull’Antologia del Sagittario: «E se le ragioni addotte
possono convincere per Madame de Noailles e per il rètore de Régnier, ci
sembrano inaccettabili per quel che si riferisce a Verlaine, che figura tra gli
espulsi…». Nel 1927, in Letteratura francese: «[…] l’estrema circospezione con la
quale i due autori si muovono di fronte a Valéry, e come si allarghi il loro respiro
non appena uno scrittore ronronnant, come de Régnier, offra loro il destro d’intonare
un elogio d’altra natura». Nello stesso anno, nella recensione a Palmarocchi,
Letteratura francese contemporanea («La Voce» 1927): «Tre altre esclusioni,
o dimenticanze, debbo segnalarle nel campo della lirica: Roussel, Fargue, Léger
Léger. Ma pure in questo campo i giudizi sono ottimi, sul Vehraeren, per esempio,
e sul de Régnier, del quale è colpita giustamente la sostanziale retorica».
[30] APPUNTI DI UN SAGGIO SUL SIMBOLISMO FRANCESE NEL PRIMO MONTALE 133
nel 1930, Montale avrebbe composto anche l’unico testo qui considerato
che non si trova compreso in questo intervallo, La casa dei
doganieri, il «filo», la «casa» e la stessa modalità di evocazione della
figura femminile avevano raggiunto un’essenzialità stilistica adeguata
alla valenza ormai metafisica assunta da quei correlativi37. In
altre parole, da una prima forma di elaborazione (Turbamenti) che si
esprime in ‘prelievi’ di specifiche suggestioni, adoperati in maniera
scorporata forse anche perché la fantasia di Montale si muove ancora
entro uno spazio, per così dire, ‘secondario’, a cui fa riscontro
appunto la ‘frantumazione’ ma non la ‘ricollocazione’ dello spunto
coi suoi nuclei tematici, si giunge a un momento di completa appropriazione
conseguita risemantizzando tramite metafore e stile38.
Ida Campeggiani
(Pisa)
Al di fuori di quest’arco cronologico, nello scritto Misia, del 1952, si colloca
una menzione positiva dell’autore post-simbolista: «[…] in casa sua si raccoglie
quanto di meglio offre, in fatto di novità e genialità, la Parigi di allora: da
Mallarmé a Valéry, […] da Renard a Régnier […]».
37 Ai nostri riscontri si aggiunga, in qualità di ulteriore prova della rielaborazione
di suggestioni simbolistiche in questo testo, la tessera rimbaudiana segnalata
da Rosanna Bettarini (Appunti sul «Taccuino» del 1926 di Eugenio Montale,
cit., p. 482, n. 1): «Et l’horizon s’enfuit d’une fuite éternelle» (Soleil et Char),
ripreso in «Oh l’orizzonte in fuga».
38 Per la trattazione di ulteriori tessere, provenienti da Verlaine, Proust,
Corbière, Fargue, Samain, Fontainas e altri autori, si rimanda al lavoro più
completo sull’argomento; i riscontri che si sono per ora offerti servano come
primi e specifici punti di osservazione sull’evoluzione stilistica di Montale e
come tappe di un processo di maturazione verso un’intertestualità sempre più
raffinata, fino a quella, generalmente ‘molecolare’, poiché inserita all’interno di
un sistema di riferimento del tutto autonomo, della poesia delle Occasioni.
Linguistica
PIER ANGELO PEROTTI
L’uso dei pronomi personali allocutivi
nei Promessi sposi
This essay brings into focus Manzoni’s stylistic technique in using
personal pronouns in I promessi sposi and points out the important
role they play in characterization and in marking the relationships
between the characters.
1. Premessa
Nelle lingue occidentali, antiche e moderne, il pronome allocutivo
“tu” è di uso universale in ogni epoca come forma confidenziale,
ma i greci e i romani si rivolgevano al loro interlocutore, dall’amico
all’estraneo, dall’umile al potente, esclusivamente con tale pronome,
così come fanno tuttora i popoli anglofoni; tuttavia, pur con
l’unico pronome “you”, altri segnali, come l’uso dell’appellativo “sir”,
di “mister” premesso al cognome, del titolo professionale, o, viceversa,
del nome di battesimo sottolineano la maggiore o minore confidenzialità
della comunicazione. Le altre principali lingue europee
utilizzano, per parlare a una sola persona, due pronomi appellativi,
uno confidenziale, per rivolgersi a persone care, ad amici o a bimbi,
oppure a individui di bassa condizione (per es. la servitù), talora
con una punta di disprezzo; l’altro, per convenzione, nell’indirizzarsi
a persona con cui non si ha familiarità, in segno di deferenza
o di estraneità, o ancora per sottolineare la differenza di grado
sociale o di rango: in tali circostanze i tedeschi usano la terza plurale
“Sie”, i francesi utilizzano il pronome “vous” concordato naturalmente
alla 2a plurale, mentre gli spagnoli usano la 3a singolare,
ma riferita al vocativo “usted” (propriamente ‘voi’: cfr. l’italiano
“Vossignoria” concordato con la 3° singolare).
Sotto questo aspetto la lingua italiana è la più multiforme d’Europa
(e forse del mondo), considerato che utilizza tre pronomi
[2] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 135
allocutivi: da noi ci si rivolge col “tu” negli stessi casi che abbiamo
ricordato per le altre lingue europee, escluso l’inglese; col “lei” convenzionalmente
come segno di riguardo od ossequio, o per evidenziare
il distacco tra il parlante e l’interlocutore, in quanto esistono
con l’altro solo relazioni limitate, o magari maliziosamente o provocatoriamente,
per insistere sul rifiuto di allacciare rapporti amichevoli.
L’uso del “voi” nell’indirizzarsi a una singola persona è più articolato,
dato che nella lingua arcaica era spesso impiegato – anche
tra marito e moglie, dai figli nei confronti dei genitori e dei nonni,
dai generi e dalle nuore verso i suoceri – come forma di deferenza,
all’incirca equivalente al “lei” (e infatti per un breve periodo, durante
l’era fascista, lo sostituì per decreto), e questo uso perdura
tuttora in ambito regionale nell’Italia centro-meridionale. Il Manzoni
lo distingue nettamente sia dal “tu” sia dal “lei” – come vedremo
analiticamente nel corso di questo studio –, assegnando a ciascuna
delle forme allocutive una valenza che, travalicando il mero fattore
grammaticale, serve anche a integrare i ritratti morali di alcuni personaggi.
2. Introduzione
Nei Promessi sposi l’autore sembra dedicare particolare cura –
oltre a quella, ben nota, che riserva all’aspetto formale generaliter,
come dimostra la diligente revisione apportata all’edizione definitiva
– alla scelta dei pronomi appellativi e delle relative persone del
verbo nei discorsi diretti. Si può dire che nell’uso manzoniano è
riconoscibile una sorta di gradazione di distacco o di confidenza fra
i tre pronomi: dal “lei”, che implica ossequio oppure freddezza; al
“voi”, intermedio; al “tu”, che caratterizza la piena familiarità o, per
altro verso, il disprezzo.
In più di un’occasione il carattere di qualche personaggio del
romanzo – protagonista, comprimario o semplice comparsa – è delineato
anche grazie all’uso che questi fa delle persone dei verbi nel
rivolgersi ad altri, perché anche da tale atteggiamento si evince il
suo rapporto nei confronti degli interlocutori. È pur vero che nelle
relazioni umane ciò che conta soprattutto sono i gesti e in subordine
le parole, ma – come si dice – “anche il tono fa la musica”, nel senso
che pure il tipo di pronome allocutivo e la corrispondente persona
dei verbi può assumere un’importanza non irrilevante. Potremmo
136 PIER ANGELO PEROTTI [3]
affermare, parafrasando in tono semiserio l’aforisma “nomina sunt
consequentia rerum”, che in qualche modo “pronomina sunt consequentia
hominum”, nel senso che ogni individuo, sia in letteratura sia nella
vita reale, usa ed è trattato con i pronomi allocutivi che più gli si
addicono.
3. La viltà di don Abbondio è segnalata perfino dalla persona
pronominale che egli usa nell’incontro iniziale con i bravi, durante
il quale si rivolge ai due figuri, che pure gli sono indubbiamente
inferiori per classe sociale, col “lei” indirizzandosi a uno solo, e con
il “loro” quando si rivolge a entrambi («“Cosa comanda?” / “Lor
signori son uomini di mondo, e sanno benissimo […]” / “[…] ma,
signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. […] vedon bene
che […]” / “Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli…”
/ “se mi sapessero suggerire…”»: P. S. I, 18-20)1, costrutto alquanto
ricercato, del tutto innaturale in una persona di cultura mediocre
come il nostro curato2. L’insensibilità di don Abbondio è palesata
anche dal suo rivolgersi col “voi” a persone pure a lui vicine per
comunione di vita, come Perpetua3, o per rapporti pastorali, in particolare
Renzo, giovane ventenne con cui sarebbe indubbiamente
più adatto il “tu”, più affettuoso e cordiale (cfr. fra Cristoforo, infra,
4. 2). Notiamo di sfuggita che sia Perpetua sia Renzo (come poi
1 Come nei miei precedenti studi manzoniani, i passi dell’opera sono indicati
col numero romano del capitolo e con quello arabo della pagina dell’edizione
definitiva del romanzo, Milano, Guglielmini e Redaelli, 1840-42; quando è segnalato
solo il numero della pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza.
2 È pur vero che il plurale di “lei” è “loro” – e non “voi”, secondo un uso
sempre più frequente negli ultimi tempi, grammaticalmente improprio, a essere
pignoli, ma conseguenza di comodità e spontaneità –, ma la 3a plurale nell’interpellare
più persone con cui non si è in confidenza è perlopiù segno di affettazione
che la lingua moderna, più spiccia e meno formale, ricusa quasi del tutto.
3 Va tuttavia osservato che il “voi” con cui don Abbondio tratta Perpetua ha
una sua giustificazione: per quanto la domestica avesse superato l’età sinodale
dei quarant’anni, era pur sempre una donna, e in quell’epoca di rigorismo
morale, conseguente alla Controriforma, un rapporto più confidenziale – basato
anche solo sull’uso del “tu” – sarebbe stato disdicevole, se non scandaloso: si
pensi al turbamento di fra Fazio per la presenza di donne in chiesa, di notte, e
all’«omnia munda mundis» di fra Cristoforo (VIII, 158-9); e ancora, all’invito del
padre guardiano di Monza a Lucia e Agnese a camminare «“discoste da lui
alcuni passi”», per evitare le chiacchiere che «“si farebbero, se si vedesse il
padre guardiano per la strada, con una bella giovine… con donne voglio dire”»
(IX, 168), nonché al divieto per gli uomini di accedere al settore del lazzeretto
riservato alle donne (XXXV, 681). Cfr. anche infra, 4. 2.
[4] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 137
Tonio: VIII, 142-3) trattano col “lei” il curato, in virtù dell’abito che
indossa e – causa in pratica equivalente – della sua condizione di
autorità religiosa del villaggio.
Il servilismo del curato nei confronti dei due bravi, manifestato
in modo non equivoco dall’uso del “lei” e del “loro”, è provato, per
contrasto, dagli altri tre casi principali in cui don Abbondio dà del
“lei” a qualcuno che ne è davvero degno: al cardinal Federigo (XXIII,
435; XXV, 488 – XXVI, 497), all’innominato (XXIII, 446) e al marchese
erede di don Rodrigo (XXXVIII, 736-738)4. È superfluo ricordare
che in tutte queste circostanze il parroco palesa tutta la sua meschinità
di carattere.
Notiamo peraltro che, mentre l’innominato e il marchese trattano
a loro volta col “lei” don Abbondio – evidentemente per rispetto
dell’abito che porta, ossia dell’istituzione che rappresenta –, l’arcivescovo,
sia in quanto suo superiore gerarchico, sia in conseguenza di
un approccio unilateralmente più confidenziale con un confratello,
ancorché subalterno, gli dà del “voi”: anche questo mi pare un
indice della scrupolosa attenzione che il Manzoni riservò perfino a
particolari minuti, e segnatamente all’uso dei pronomi appellativi.
Sotto questo aspetto, non si deve dimenticare che il curato cambia
pronome appellativo nell’ultimo colloquio con Renzo, dove passa
inopinatamente al “tu” (XXXVIII, 733 ss.): forse perché preso
dall’euforia per essere scampato alla peste e per la morte di quel
don Rodrigo che temeva fieramente, nonché per aver evitato la
punizione da parte dell’arcivescovo per il suo comportamento vile
e omissivo, don Abbondio manifesta nei confronti del giovane una
condotta inedita, di benevola superiorità temperata da un’arguta
confidenza (734-5), con cui sembra dimostrare per il suo parrocchiano
almeno un pizzico di quell’affetto che sarebbe stato doveroso,
ma di cui lo si sarebbe creduto incapace, catafratto com’era in precedenza
in quello sconfinato egoismo che costituisce la sua caratteristica
più peculiare. Come è facile rilevare anche in questa circostanza,
l’autore fa convenientemente corrispondere a ogni situazione
l’opportuno pronome allocutivo.
4 Anche alla mercantessa di Milano don Abbondio dà del “lei” (XXXVIII,
731), ma in tal caso si tratta del comprensibile distacco che egli deve a un’estranea,
per di più appartenente a una classe sociale non infima, la borghesia (per
quanto poi si prenda con lei qualche confidenza, con l’arguta provocazione «“E
lei, signora, non hanno principiato a ronzarle intorno de’ mosconi?”»: p. 734).
Per i rapporti del curato col sarto, cfr. infra, 9. 1.
138 PIER ANGELO PEROTTI [5]
4.1. Nell’episodio dello scontro tra Lodovico – il futuro fra
Cristoforo – e il «signor tale» (IV, 71) abbiamo un esempio dell’uso
spregiativo del “tu”. Incrociando il giovane Lodovico, il nobile, forte
del suo blasone, pretende di aver diritto a passare rasente al
muro – parte certamente più comoda per evitare il fango della strada
e il rischio di essere investiti da qualche carrozza o dal lancio di
spazzatura, o peggio, di liquidi maleodoranti, dalle finestre –, e si
rivolge col “voi” al nostro giovane non per indicare parità di natali
con costui, ma piuttosto per sottolineare la propria superiorità su di
lui. Naturalmente anche Lodovico si adegua all’impianto allocutivo
del suo rivale, pur essendo ben consapevole che costui appartiene a
una classe sociale superiore. È opportuno rilevare che all’inizio delle
schermaglie verbali tra loro, entrambi i contendenti usano, ripeto,
il “voi”, segno di rapporti distaccati, non particolarmente riguardoso
ma neppure oltraggioso; ma mentre Lodovico mantiene per tutto lo
scontro lo stesso pronome della prima risposta, il nobile, dopo le
prime due arroganti battute – che, a cominciare dalla boriosa concisione
della prima («“fate luogo”»), indicano la tracotanza del personaggio
– passa senz’altro al “tu”, in segno di spregio nei confronti
di questo «vile meccanico» che si è preso la libertà di contendere il
passaggio a un titolato come lui. Sembra un elemento di scarso
rilievo, ma in realtà contribuisce a delineare – in aggiunta al ritratto
che l’autore offre dei due, segnatamente di Lodovico, in vista delle
future implicazioni – il diverso atteggiamento di questi due antagonisti
a prima vista così simili, eppure tanto differenti.
Rileviamo, per inciso, che dopo l’uccisione del nobile gli astanti
esortano Lodovico alla fuga dandogli del “lei”, evidentemente consci
della sua condizione sociale abbastanza elevata («“Scappi, scappi.
Non si lasci prendere”»: IV, 73), mentre un’altra folla inciterà
Renzo, con ogni evidenza popolano come loro, a sottrarsi alla giustizia,
dandogli del “tu”: «“Scappa, scappa, galantuomo: […]”» (XVI,
308).
Degno di nota è anche il modo in cui il gentiluomo fratello
dell’ucciso da Lodovico si rivolge al novello fra Cristoforo quando
questi si reca al suo palazzo a domandare perdono dell’omicidio.
All’inizio lo tratta col “voi”, a segnare il distacco e la mancanza di
stima, ma anche un generico rispetto per il saio che il frate indossa:
«“alzatevi, […] ma l’abito che portate… non solo questo, ma anche
per voi…”» (IV, 79); ma subito dopo, turbato dall’atteggiamento di
umiltà non simulata e di sincero dolore dell’altro, cambia contegno,
passando a un “lei” carico di reverenza: «“S’alzi, padre… […]. Ma,
[6] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 139
padre, lei non deve stare in codesta positura”. […] / “Perdono?”
disse il gentiluomo. “Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo
desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, […]”» (ibid.). Anche
questo cambiamento di pronome appellativo contribuisce, insieme
alle parole in genere e al diverso modo di porsi, a delineare i nuovi
sentimenti che il nobile prova per il frate, sentimenti generati in lui
dall’autentica, non affettata sottomissione dell’uccisore di suo fratello.
4.2. Altrettanto significativo è il mutamento di pronomi allocutivi
nel burrascoso colloquio tra don Rodrigo e fra Cristoforo. All’inizio
troviamo un reciproco “lei”, che manifesta una cortesia piuttosto di
facciata che genuina, soprattutto da parte del signorotto: «“In che
posso ubbidirla?” disse don Rodrigo, […]», cui il religioso risponde:
«“vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità.
[…]”» (VI, 101). Lo scontro dissimulato prosegue con l’uso reciproco
del “lei”, sino a quando il nobile passa all’offensivo, cinico suggerimento
di consigliare a Lucia di «mettersi sotto la sua protezione
» (104). La reazione indignata del frate è rivelata anche dal suo
passaggio al “voi”: «“La vostra protezione! […]”», cui don Rodrigo
reagisce addirittura col “tu” unito a un vocativo, entrambi con valore
spregiativo: «“Come parli, frate?”» (ibid.). Fra Cristoforo continua
la sua invettiva mantenendo il “voi”, e analogamente il
signorotto prosegue col “tu”, ma passa senz’altro agli insulti, gridando:
«“escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato”
[…]. / “Villano rincivilito!” proseguì don Rodrigo: “tu
tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di
mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per
insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la
vedremo.”» (105-6).
Per quanto attiene ai pronomi con cui fra Cristoforo si rivolge ai
“promessi sposi”, osserviamo che il frate – a differenza di don
Abbondio (cfr. supra, § 3) – dà del “tu” a Renzo, come manifestazione
anche formale di affetto, mentre tratta col “voi” Lucia, giovane
donna, probabilmente per non offrire alle malelingue neppure il più
vago sospetto di un suo qualsiasi coinvolgimento di tipo non pastorale
(cfr. supra, n. 3), ma esprime il suo amore cristiano per lei con
il consiglio e l’azione. Si può presumere che il frate dia del “voi”
anche ad Agnese, ma non ne abbiamo testimonianza diretta, perché,
nelle pagine in cui egli s’intrattiene con la famiglia Mondella (V, 83-
6; VII, 118-9), non si rivolge mai a lei sola.
140 PIER ANGELO PEROTTI [7]
5.1. In aggiunta a quanto abbiamo osservato supra, 4. 2, a proposito
dello scontro verbale con il padre Cristoforo, ricordiamo le relazioni
di don Rodrigo con persone della sua cerchia. Egli tratta
complessivamente col “loro” i commensali durante il banchetto nel
suo palazzotto (V, 91: «“Con buona licenza di lor signori”»)5, mentre
poi si rivolge loro singolarmente – forse per ostentazione di
cordiale consuetudine – col “voi”, struttura che, oltre a essere grammaticalmente
anomala, dimostra quella leziosaggine cui abbiamo
accennato supra, § 3 e n. 2. Dà del “voi”, ricevendolo in contraccambio,
anche al cugino Attilio, che pure, oltre a essergli parente, è suo
compagno di baldorie e di imprese ignobili: sembra trattarsi del
reciproco riconoscimento di prestigio e di nobiltà. Il conte Attilio e
il podestà si dànno del “lei” (91 ss.), come lo stesso nobile e
l’Azzecca-garbugli (93), mentre don Rodrigo – che pure riceve del
“lei”, con l’aggiunta di appellativi che segnalano lo spagnolesco
servilismo del dottore: «“sua signoria illustrissima ha già delegato
un giudice… qui il padre…”» (ibid.); «“[…] i pranzi dell’illustrissimo
signor don Rodrigo […]”» (99) – non va oltre il “voi” al leguleio
(94), elemento che dimostra l’ostentata superiorità del nobile. Per i
due «convitati oscuri» (90) non è specificato il rapporto allocutivo
né con l’anfitrione né con gli altri convitati.
5.2. Ricollegandoci ancora alla missione di fra Cristoforo nel
palazzotto di don Rodrigo (cfr. supra, 4. 2), notiamo che anche il
conte Attilio, come all’inizio il cugino, dà del “lei” al religioso, ma
se la gentilezza del padrone di casa è, sin dai primi approcci, falsa,
forzata e puramente formale, la sua è una «cortesia insolente»6, ed
egli viene definito dal Manzoni «lo spensierato d’Attilio» (V, 89). Il
suo linguaggio è segnale – come osserverà più tardi l’autore (XI,
219) – di «un cervello balzano»7: appena intravede dietro l’uscio il
5 Cfr. pure il suo commento alle parole di fra Cristoforo che cerca di esimersi
dall’esprimere un giudizio sulla disputa cavalleresca: «“Solite scuse di modestia
di loro padri”» (ibid.), dove si serve del “loro” anche riferendosi ai cappuccini.
6 A. Momigliano, I Promessi Sposi, commento di A. M., Firenze, Sansoni,
1964, p. 98, n. 6.
7 Cfr. ivi, p. 240, n. 3: «Il linguaggio del conte Attilio è sempre quello d’un
caposcarico». Ma altrove, durante il suo colloquio col conte zio, egli assume «un
suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo» (XVIII, 355), e gli argomenti
da lui addotti fanno «onore al suo genio diplomatico» (L. Russo, I Promessi
Sposi, commento critico di L. R., Firenze, La Nuova Italia, 19772, p. 349, n. 445).
[8] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 141
frate, lo invita, con una «famigliarità urtante»8, evidente nell’appello
semiserio «“ehi! ehi!” […] “non ci scappi, padre riverito: avanti,
avanti”» (V, 89). Poco dopo lo stesso Attilio riprende il cappuccino
introducendo la frase con la solenne formula vocativa di sapore
spagnolesco, in apparenza traboccante deferenza, «“Ma, padre Cristoforo,
padron mio colendissimo, […]”» (94).
Ricordiamo, a margine, che durante l’abboccamento tra il conte
zio e Attilio (XVIII, 355-60) essi si trattano reciprocamente col “lei”,
in segno di reciproca considerazione, e che il nipote chiama l’altro
«signore zio», mentre questi si rivolge ad Attilio con l’appellativo –
non so quanto ironico – «vossignoria» (357 e 359); ma a un certo
momento del colloquio, senza una apparente ragione particolare, al
conte zio sfugge il “tu”: «“Avresti fatto meglio a parlare un poco
prima.”» (359): è un momento di spontaneità del personaggio, o si
tratta di una svista del Manzoni?
5.3. Ovviamente, don Rodrigo dà del “tu” ai suoi bravi, come
risulta dai suoi rapporti col Griso, il solo cui si rivolge, in quanto
capo e responsabile del manipolo degli sgherri, e, cosa ancor più
scontata, ne riceve del “lei”, accompagnato talvolta dall’appellativo
“vossignoria” o “illustrissimo” (per es. VII, 129).
Ma nella drammatica notte che precede la scoperta di aver contratto
la peste (XXXIII, 626) non riceve dal Griso altro appellativo
che “signore”; e il mattino seguente, mentre il capo dei bravi, «nascosto
dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare» (630), i monatti,
chiamati a portare al lazzeretto il signorotto, lo affrontano addirittura
«con un “tu” canagliesco»9 («“Sta buono, sta buono”»: 631),
dopo che uno dei due l’ha ingiuriato «con un versaccio di rabbia
insieme e di scherno: “ah birbone! contro i monatti! […]”» (630).
Sono i colleghi di quei monatti che dànno a Renzo un “tu” (XXXIV,
668 ss.) che segnala non disprezzo né irrisione verso il nostro giovane,
ma la preminenza di chi si sente padrone della situazione, e
la benevolenza paternalistica che si può avere per un inferiore, un
bambino o un animale indifeso.
Anche grazie a questi dettagli formali il Manzoni ha inteso met-
Osserviamo, per curiosità, che la stessa espressione «un cervello balzano» è
utilizzata dal Manzoni per la sua definizione ironica e autoironica dei poeti
(XIV, 281).
8 Ivi, p. 98, n. 1.
9 Ivi, pp. 701-2, n. 3.
142 PIER ANGELO PEROTTI [9]
tere in rilievo la caducità del potere e delle convenzioni ad esso
connesse, in breve la vanitas vanitatum.
5.4. A proposito di bravi, Lucia, durante il suo breve soggiorno a
Monza, mentre si reca, per proditorio incarico della “signora”, al convento
dei cappuccini, incappa negli sgherri mandati dall’innominato a
rapirla, travestiti da innocui viaggiatori, che le chiedono informazioni
sulla strada (XX, 385). La giovane risponde usando correttamente –
considerato che gli interlocutori stanno accanto a una carrozza da viaggio,
e dunque dànno l’impressione di appartenere a una classe sociale
non infima – il “loro” (lo stesso pronome utilizzato in altra circostanza
dal suo fidanzato, infra, 7. 3): «“Andando di lì, vanno a rovescio,”
rispondeva la poverina» (386). Viceversa, mentre si trova nella carrozza,
dopo essersi riavuta dal deliquio, Lucia, forse perché ha capito di
non aver a che fare con gentiluomini, si rivolge sempre ai suoi
sequestratori col “voi”: «“Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi
conducete? Perché m’avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!”
», etc. (388-9); e del resto sarebbe stato quantomeno inopportuno,
se non ridicolo, l’uso del “loro” in una simile situazione.
Tutto questo è affatto normale; mi sembra invece strano che
questi bravi diano del “voi”, e non del “tu”, alla giovane, se si
pensa al concetto spregiativo che costoro hanno delle donne (ricordiamo
il commento beffardo di uno dei bravi: «“è uno di quegli
svenimenti che vengono alle donne. […]”», 387), e considerato che
essi ritenevano, a ragione, che la rapita fosse in certo senso “carne
da macello” che non era necessario trattare con troppi riguardi. Si
può sospettare che il Manzoni abbia in qualche modo trasferito a
questi personaggi, per quanto spregevoli, il suo rispetto per il principale
personaggio femminile della storia, quello che più ama.
Ricordo ancora che ovviamente Lucia e la vecchia domestica
dell’innominato si trattano reciprocamente col “voi” (XXI, 394-5; 400
ss.; XXIV, 447): la fanciulla per rispetto dell’età dell’altra, che però
è ad ogni evidenza una popolana; la vecchia per la perplessità circa
lo status della giovane (cfr. XXII, 412: «La vecchia rimase tutta stupefatta
pensando tra sé: – che sia qualche principessa costei? –»).
Soltanto in un punto la serva passa per un attimo al “tu” («“Chi è,
eh? chi è? Volete ch’io ve lo dica. Aspetta ch’io te lo dica. […]» [il
corsivo è mio]: XXI, 400), ma probabilmente si tratta di un “tu”
generico, quasi una frase fatta, oltretutto bofonchiata10.
10 Non la pensa così il Momigliano, op. cit. alla n. 6, p. 444, n. 4, che com[
10] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 143
6. Tra i personaggi rappresentativi dell’uso dei pronomi allocutivi
nei Promessi sposi ricoprono un ruolo non secondario Gertrude (prima
e dopo la monacazione), il principe suo padre e tutte le altre
persone che gravitano intorno a lei. Seguiamo l’ordine cronologico
della sua biografia, che, com’è noto, non coincide con la successione
delle pagine del romanzo.
Gertrude, collocata a sei anni in convento, «per educazione e
ancor più per istradamento alla vocazione impostale» (IX, 178), fu
certamente trattata, nonostante la tenera età, col “lei” – ancorché il
Manzoni non lo segnali esplicitamente – sin dai primi tempi della
sua permanenza nel monastero, come si deduce dalle indicazioni
date dall’autore a proposito del trattamento a lei riservato (178 ss.).
È curioso che per tutta la parte iniziale della biografia di Gertrude11
– una quindicina di pagine, nell’edizione citata alla nota 1 – non
siano riportati discorsi diretti né dell’educanda né del padre o di
altri parenti, né di sue compagne di educazione o di monache: soltanto
come conseguenza della sua candida esclamazione «“Ah sì!”»
– in risposta alla reprimenda del padre conseguente alla scoperta
della fatale lettera al paggio –, è riportato il discorso diretto del
principe, che la tratta col “voi” («“Ah! lo capite anche voi” […]»: X,
191), e che continua con lo stesso pronome per tutta la macrosequenza.
Addirittura, notiamo che durante l’intera descrizione dei
suoi rapporti col padre – poco meno di 30 pagine –, le uniche
parole di Gertrude in discorso diretto consistono nell’espressione
qui sopra citata, elemento indubbiamente intenzionale da parte dell’autore,
ad indicare una totale sudditanza della figlia nei confronti
del padre, e la freddezza dei rapporti di quest’ultimo con la sventurata
Gertrude, che sembra non avere, per così dire, neppure diritto
di parola.
Naturalmente la nuova cameriera che le viene assegnata dopo la
sua decisione forzata di farsi monaca le dà del “lei” (196), e si deve
presumere che la giovane le risponda col “voi” – anche se non è
precisato –; logicamente, il principe e la madre badessa si trattano
menta: «dal voi al tu cresce la stizza. […]»; più soddisfacente la chiosa di E.
Caccia, I Promessi sposi, a cura di E. C., Brescia, La Scuola, 19857, p. 622, n. 177:
«è ironico, naturalmente, e detto in sordina, quasi in controcanto, rabbiosamente»
[il corsivo è mio].
11 Soltanto in un passaggio, relativo al periodo anteriore alla sua entrata in
monastero, sono riferiti un paio di rimproveri a lei rivolti dal padre, in cui le
viene dato del “tu” (IX, 176-7).
144 PIER ANGELO PEROTTI [11]
reciprocamente in terza persona (200). Infine, il vicario delle monache
dà del “lei” alla novizia Gertrude e ne è ricambiato (203-5).
Sia il padre guardiano dei cappuccini di Monza, sia Agnese e
Lucia si rivolgono, com’è scontato, in terza persona alla “signora”,
la quale ricambia il “lei” solo al frate, mentre dà del “voi” alle due
ospiti (IX, 172-4; cfr. anche XX, 383-5).
7.1. Durante il suo consulto con l’Azzecca-garbugli, Renzo gli si
rivolge, com’è naturale, col “lei” e lo chiama «signor dottore» (III,
52 ss.); per parte sua, il leguleio gli dà, ovviamente, del “voi”, in
quanto cliente ma di classe inferiore, e all’inizio, col paternalismo
tipico dei ceti dominanti, lo chiama «figliuolo», anche dopo essersi
convinto, grazie all’equivoco provocato dalla reticenza impacciata
del giovane, che costui è un malvivente. Quasi prendendo a prestito
l’appellativo adottato dall’Azzecca-garbugli – e probabilmente con
un gioco di parole del Manzoni –, Renzo qualifica se stesso «“povero
figliuolo”» (55), la stessa definizione che userà più tardi, nell’osteria
della “Luna piena”, per indicare di essere «“avvezzo alla
pulizia”» (XIV, 277). Le due espressioni, ancorché uguali, non sono,
come si vede, equivalenti: la prima si riferisce alla moralità, la seconda
alla condizione socio-economica. Osserviamo infine che in
questo episodio l’autore non usa mai il soprannome di “Azzeccagarbugli”
12, ma lo mette in bocca solo ad Agnese (III, 49): il Manzoni
lo denomina soltanto «dottore», mentre lo definirà con quell’epiteto
durante il banchetto nel palazzotto di don Rodrigo («il nostro dottor
Azzecca-garbugli»: V, 90).
7.2. A proposito dell’uso del “loro” (cfr. supra, § 3 e n. 2), ricordiamo
che Ferrer lo dispensa – accompagnandolo con l’appellativo
«signori» – con una buona dose di populismo alla folla che assedia
la casa del vicario di provvisione: «“Sì, signori; pane, abbondanza.
[…]: non si facciano male, signori.”» (XIII, 264); «“Sì, signori; pane
e giustizia: […]. Anch’io voglio bene a lor signori.”» (267). Perfino
12 Nel Fermo e Lucia il personaggio si chiamava «dottor Pettola», che pur non
essendo un soprannome, era senza dubbio più irriverente – una sorta di “nomen
loquens” – di quello dell’edizione definitiva del romanzo (cfr. il mio articolo I
nomi dei personaggi nei Promessi sposi, “Critica letteraria” 25, 1997, pp. 637-650, §
3). La variazione onomastica – come la sostituzione di “Perpetua” al primitivo
“Vittoria” (cfr. art. cit., § 2.m) – è stato un accorgimento certamente felice,
soprattutto se si pensa che il soprannome dell’“avvocato” e il nome della domestica
(come del resto altri del romanzo) sono diventati antonomastici.
[12] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 145
il cocchiere si adegua al linguaggio del padrone: «“Di grazia,” […]
“signori miei, […]”» (262), così come i «benevoli più attivi», che
invitano a lasciar passare: «“[…], un po’ di luogo, signori”» (ibid.).
Col vicario, in quanto autorità, benché a lui inferiore, il gran
cancelliere usa il “lei”, preceduto tre volte da usted (cfr. supra, § 1):
«“Venga usted con migo, […]”» (XIII, 266); «“Esto lo digo por su bien.
[…]. Perdone, usted.”» (267); «“Usted farà quello che […]”» – così
come con l’ufficiale dei micheletti: «“beso a usted las manos”» (268) –,
ed è da lui ricambiato con il titolo di «vostra eccellenza», senza
precisazione della persona pronominale («“rassegno la mia carica
nelle mani di vostra eccellenza, […]”»: ibid.), che comunque sarà
stata certamente “lei”, come è facilmente intuibile dalla posizione
subordinata del vicario.
7.3. Il notaio criminale che arresta Renzo lo tratta col “voi” («“Ah!
avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino?”»: XV, 298, etc.) e ne
riceve – naturalmente, in quanto pubblico funzionario – del “lei”
(«“[…]. E poi, già lei lo sa il mio nome. […]”»; «“Ah! lei non può:
intendo”»: 300). Inoltre Renzo chiama due volte il notaio «signor
mio» (302), forse con una certa dose di sarcasmo. È poi curioso –
forse una distrazione dell’autore – che Renzo, mentre in tutto l’episodio
dà collettivamente del “voi” al notaio e ai due sbirri, in un solo
momento li tratti col corretto ma manierato “loro” (per cui cfr. supra,
n. 2), forse poco adatto a una persona semplice e illetterata, ancorché
beneducata, come il nostro giovane montanaro: «“Mi lascino andare
ora”» (299).
7.4. Il padre provinciale dei cappuccini, invitato a pranzo dal
conte zio, dà – come è ovvio (cfr. il principe e la madre badessa,
supra, § 6) – del “lei” al suo anfitrione e ne è ricambiato. Sono
peraltro curiosi, ancorché propri dell’epoca, gli appellativi che i due
personaggi si scambiano: il nobile chiama il prelato «vostra paternità
» o «padre molto reverendo», e questi apostrofa il conte con «vostra
magnificenza» (XIX, 364 ss.). Queste espressioni “barocche” non
meravigliano, se si tiene presente il formalismo spagnolesco dell’epoca;
ma richiamano tuttavia alla mente gli appunti di don
Abbondio, nell’explicit del romanzo, relativi alla proliferazione dei
titoli onorifici riservati al clero (XXXVIII, 733-4): il curato indica il
cardinal Federigo col titolo di «eminenza», e Agnese ribatte di sapere
per certo – in quanto edotta da uno dei preti del seguito dell’arcivescovo
– che gli si deve dire «vossignoria illustrissima e monsi146
PIER ANGELO PEROTTI [13]
gnore»; a sua volta don Abbondio replica che, secondo una recente
prescrizione del papa, ai cardinali va dato proprio dell’«eminenza».
Le sue osservazioni si concludono con la solita autocommiserazione,
coerente con l’indole del personaggio, il quale lamenta come ai curati
sarà dato soltanto «“del reverendo, fino alla fin del mondo”» (734).
8. Il bargello in incognito, che accompagna Renzo nell’osteria
della “Luna piena”, tratta col “voi” – il pronome che supra, § 2,
abbiamo indicato come intermedio tra il “tu” e il “lei” – Renzo, che
usa nei suoi confronti lo stesso impianto allocutivo (XIV, 274 ss.):
reciprocità più che naturale, se si pensa che il bargello si presenta
come piccolo borghese – e specificamente, durante il dialogo nell’osteria
si dichiara “spadaio” –, e che Renzo ha l’aspetto di un
popolano, pur senza dare l’impressione di essere un poveraccio.
Nella locanda, il nostro giovane si rivolge una sola volta direttamente
agli avventori, usando quella 3a plurale, formalmente corretta,
che già in altre occasioni abbiamo denunciato come leziosa (per
es. § 3 e n. 2; etc.), quantunque si possa invocare come parziale
esimente anche qui, come supra, 7. 3, la sua radicata buona creanza:
«“Ma,” […] “non vorrei che lor signori pensassero a male. […]”»
(XIV, 277). Col taverniere, invece, dopo l’iniziale “voi” («“Cosa mi
darete da mangiare?”»: ibid.), man mano che l’ebbrezza aumenta13,
diventa confidenziale – mettendosi a dargli bellamente del “tu” – e
addirittura affettuoso: «“ti porterò una ragione, il mio caro oste, che
ti capaciterà”» (280).
Renzo non rivolge più la parola all’oste sino al momento di
salire in camera, quando rileviamo un curioso fenomeno: mentre
Renzo continua tranquillamente a dare del “tu” al locandiere, questi
dapprima non lo ricambia, e persiste a trattarlo col “voi”, pur chiamandolo
paternamente «figliuolo caro» e rivolgendosi a lui «con
una voce e con un fare tutto gentile» (XV, 291), evidentemente perché
intende blandirlo per farsi saldare il conto; soltanto di fronte
agli improperi («“Ah birbone!” […] “mariolo! […]”»: ibid.) rivoltigli
dal giovane – che insiste nel rifiuto di declinare le proprie generalità
–, reagisce con un’insolenza simile, accompagnata, naturalmente,
dal “tu”: «“Sta zitto, buffone; va a letto”» (ibid.); etc. Ma subito
dopo l’oste riprende il suo modo di fare professionale, tornando a
dargli del “voi”: «“Animo; spogliatevi; presto”» (ibid.); etc.
13 Cfr. il mio articolo L’ebbrezza di Renzo (I Promessi Sposi, capp. XIV-XV),
«Otto/Novecento» 26, 2002, pp. 151-169.
[14] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 147
Ovviamente il nostro giovane, dopo aver vuotato il primo fiasco,
anche col «garzone» usa il “tu” confidenziale (XIV, 280: «“Porta del
medesimo […], che lo trovo galantuomo”»), pronome naturale nel
rivolgersi a una persona di pochi anni, se il sostantivo usato dal
Manzoni vale, come in origine, “ragazzo”14, per quanto qui non sia
certa, ma probabile, la giovane età dell’inserviente.
9.1. Come i nostri nonni o bisnonni si trattavano, nelle relazioni
coniugali, col “voi” – un’estrema forma di riguardo –, così nei Promessi
sposi anche i parenti15, o gli stessi coniugi, attuali o futuri,
usano tra loro questo stesso pronome allocutivo.
Renzo e Lucia si dànno del “voi” sia quando sono “promessi
sposi” (per es. II, 45, etc.) sia dopo il matrimonio (XXXVIII, 745),
non certo per distacco – ché anzi è più che evidente l’amore che
provano reciprocamente –, ma per rispetto non disgiunto, specialmente
in Lucia, da quel pudore che è una delle peculiarità della
fanciulla. La stessa Lucia dà del “voi” alla madre (p. es. III, 63:
«“Mamma, perdonatemi,” rispose Lucia»; etc.), come era normale
sino ai primi decenni del Novecento, quando i figli trattavano con
tale pronome i genitori e gli altri congiunti, tranne i fratelli. Anche
Renzo e Agnese si parlano col “voi” (III, 49; 63, etc.), in segno di
mutua deferenza, ancorché combinata con l’affetto16; ma se è più
che comprensibile che il giovane tratti con questo pronome la futura
suocera per riguardo alla sua età, desta qualche stupore il fatto
che la donna – secondo una consuetudine normale anche in epoche
più recenti – non dia del “tu” al giovane fidanzato della figlia,
considerato pure che, in un paese così piccolo, Agnese avrà certamente
conosciuto Renzo fin da quando era bambino. Si potrebbe
sospettare che un simile rapporto abbia un risvolto autobiografico
per il Manzoni, vale a dire che la madre di sua moglie Enrichetta
Blondel – di famiglia benestante ma non nobile – si rivolgesse ad
Alessandro con il “voi”, in quanto egli era un aristocratico.
14 Cfr. l’uso letterario del termine: per es. il vezzeggiativo leopardiano «garzoncello
scherzoso» (Il sabato del villaggio, v. 43).
15 Naturalmente, nel caso di Agnese e Menico, che pure «per via di cugini e
di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote» (VII, 123), la donna dà del “tu”
al «ragazzetto di circa dodici anni», ma ne riceve il “voi”, benché accompagnato
dall’appellativo “zia” (123-4).
16 Cfr. per es. le frasi di Renzo ad Agnese: «“vi considero come se foste
proprio mia madre”» (VI, 110), e «“perché siete la nostra mamma”» (XXXVII,
718).
148 PIER ANGELO PEROTTI
17 Cfr. P. Petrocchi, I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, raffrontati sulle
due edizioni del 1825 e 1840. Con un commento storico, estetico e filologico di
P. P., Firenze, Sansoni, 1893-1902 (ristampa anastatica, Firenze, Casa ed. Le
Lettere, 1992), p. 796, n. 18: «il sarto parla in punta di forchetta […]; e il prurito
gli era certo cresciuto dopo la visita del cardinale».
[15]
Renzo e Tonio – come del resto, naturalmente, Renzo e il cugino
Bortolo (XVII, 339 ss.) – si dànno, com’è normale tra amici, del “tu”
(VI, 114 ss.), anche se il secondo deve avere almeno una decina
d’anni più del “promesso sposo”, come si deduce dall’avere egli
alcuni figli non certo neonati («tre o quattro ragazzetti, ritti accanto
al babbo, […]»: 113), mentre la madre e la moglie di Tonio si rivolgono
a Renzo col “voi” («“volete restar servito?”»: ibid.), fatto piuttosto
curioso – almeno secondo la mentalità odierna – se non altro
per quanto attiene alla consorte.
Enigmatico è lo scambio allocutivo – ridotto a due sole battute –
tra il sarto di Chiuso e la moglie. All’ingresso del marito in casa,
costei, «accennando Lucia», gli si rivolge col “voi” («“Guardate un
poco”»: XXIV, 459) – e dunque si può presumere che anch’egli
utilizzi lo stesso tipo di allocuzione, come all’epoca accadeva normalmente
tra coniugi (cfr. supra) –; ma subito dopo, la donna dice
«sottovoce» al marito, dandogli del “tu”: «“[…]: ti racconterò poi
tutto”» (460). Se la variatio è intenzionale, e non si tratta, come
abbiamo ipotizzato altrove (5. 2 e 7. 3), di una svista dell’autore, si
potrebbe spiegarla con un duplice atteggiamento dei coniugi: uno
pubblico (ricordiamo che la prima frase è udibile anche da Lucia, in
fondo un’estranea), e uno privato, intimo (non si dimentichi che la
seconda frase è pronunciata «sottovoce»).
A integrazione di quanto abbiamo rilevato supra, § 3 (anche 7. 2;
7. 3, e § 8), a proposito dell’uso del pronome appellativo “loro”,
notiamo che, in occasione del primo incontro tra il sarto e don
Abbondio, il primo si rivolge al curato – in quanto accompagnato
da Perpetua e Agnese – con quell’impianto allocutivo: «“Scappano,
eh? il signor curato e la compagnia”. […] “Li compatisco”. […]
“L’hanno pensata bene”» (XXIX, 559): non ci si poteva aspettare
altro che il forbito “loro” da un personaggio con ambizioni letterarie
come questo, che si picca sempre di usare un linguaggio aulico
o che egli ritiene tale17. Subito dopo, a sua volta don Abbondio pare
servirsi della stessa struttura nella frase: «“E qui, non hanno paura?”
» (ibid.), che, se è riferita al sarto e alla sua famiglia, ha un vago
sapore di emulazione, ma non di servilismo, come in altre occasioni
[16] L’USO DEI PRONOMI PERSONALI ALLOCUTIVI NEI PROMESSI SPOSI 149
(cfr. supra, § 3); tuttavia il soggetto di quell’hanno potrebbe anche
essere generico (gli abitanti, i paesani).
9.2. Si trattano, infine, col “lei” due coniugi nobili, don Ferrante
e donna Prassede – con una sola frase rivolta dal marito alla moglie,
anche se non è ben chiaro se si tratti di discorso diretto o riferito:
«“La s’ingegni, […]; faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara”
» (XXVII, 521) –, per ragioni che, quantunque piuttosto evidenti,
non mi sembra inutile ricordare: il “lei” circoscrive l’individuo nella
sua orgogliosa sfera di alterigia aristocratica, alla quale non è consentito
accedere neppure ai familiari più stretti; e tale pronome
allocutivo ha la funzione di una barriera invalicabile da parte di
chiunque, comprese le persone che dovrebbero essere legate da rapporti
di affetto. E qui si tratta, appunto, di una «coppia d’alto affare
» (XXV, 482).
10. Conclusione
Se si considera l’uso manzoniano dei pronomi allocutivi, risulta
piuttosto evidente che lo stesso impianto lessicale può dipendere da
rapporti diversi tra i vari personaggi del romanzo. E se a una lettura
superficiale l’impiego di un pronome appellativo piuttosto di un
altro può sembrare indifferente, un esame più puntuale mostra, come
si è visto, un assetto idiomatico opportunamente variegato, che contribuisce,
anche se in misura ridotta, a delineare le figure di alcuni
personaggi, le loro caratteristiche psicologiche, il loro approccio con
gli altri.
Due soli esempi contrapposti sono sufficienti a dimostrare questo
assunto: il “voi” che don Abbondio dà a Renzo, e il “tu” usato
con lui da fra Cristoforo sono particolari che si aggiungono alla
condotta complessiva dei due religiosi e che contribuiscono a delinearne
la personalità globale, o piuttosto il diverso modo di recepire
il messaggio evangelico. L’attenzione a simili dettagli non è –
come potrebbe sembrare – frutto di cura quasi maniacale per la
forma, ma è piuttosto un modo di completare con pennellate non
superflue di realismo psicologico o storico l’affresco del romanzo.
Pier Angelo Perotti
(Vercelli)
Meridionalia
DOMENICO CONOSCENTI
Sulla datazione de I Neoplatonici
di Luigi Settembrini
According to Raffaele Cantarella and Marcello Gigante, Luigi
Settembrini’s short story I Neoplatonici, which was published
posthumously, dates back either to the days when the author was
serving a life sentence in Santo Stefano prison, or to the period
following his translation of Luciano’s works. Nevertheless, some
elements allow the critic to assume that it was written (in the form
it reached us) between 1864 and 1876, that is to say when
Settembrini was studying Boccaccio’s Decameron with the attention
it deserved.
1. La data di composizione de I Neoplatonici, il racconto postumo
di Luigi Settembrini, come si sa, è ignota, né sono stati trovati riferimenti
all’opera nella pur non esigua mole dei testi privati dell’autore1.
Le ipotesi al riguardo restano quelle formulate nel 1976 e ’77
dai grecisti Raffaele Cantarella e Marcello Gigante, i quali, con le
differenze di cui si dirà, collocano entrambi il testo nel periodo in
cui Settembrini fu rinchiuso nell’ergastolo di Santo Stefano.
Cantarella, scopritore ed editor princeps dei Neoplatonici2, collega
la materia del racconto alla traduzione di Luciano di Samosata,
compiuta da Settembrini fra il 1852 e il 1858 durante la detenzione
a Santo Stefano, e ipotizza come periodo di composizione i mesi fra
1 Senza tralasciare le poche lettere inserite in altri volumi, mi riferisco qui a
L. Settembrini, Epistolario, con prefazione e note di F. Fiorentino, 2ª ed. accresciuta
e corretta da F. Torraca, Napoli, Morano, 1894; L. Settembrini, Lettere
dall’ergastolo, a cura di M. Themelly, Milano, Feltrinelli, 1962; L. Settembrini,
Lettere edite e inedite 1860-1876, a cura di A. Pessina, Napoli, Società Editrice
Napoletana, 1983; L. Settembrini, Lettere e scritti familiari, a cura di A. Pessina,
introduzione di A. Scirocco, Napoli, L’officina tipografica, 1993.
2 L. Settembrini, I Neoplatonici, racconto inedito a cura di R. Cantarella,
nota di G. Manganelli, Milano, Rizzoli, 1977; l’opera da ora sarà citata con la
sigla NPL. Il testo del curatore era stato anticipato, in una stesura molto simile,
[2] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 151
il 1° marzo 1858 (fine della traduzione) e il 17 gennaio 1859 (partenza
dal carcere di Santo Stefano). Lo studioso trova una conferma
all’interno dei Neoplatonici nell’accenno alle cicale d’oro che gli
Ateniesi portavano fra i capelli: un riferimento che l’autore avrebbe
ripreso da Tucidide, di cui aveva iniziato la traduzione subito dopo
avere terminato, appunto, quella di Luciano.
Gigante non ritiene il riferimento tucidideo decisivo per la
datazione del racconto3: Settembrini probabilmente conosceva alla
scuola di Puoti l’opera dello storico greco (prima quindi di intraprenderne
la traduzione nell’ergastolo), tanto da citare Tucidide nelle
Ricordanze a proposito del colera del 1837. Il grecista interpreta piuttosto
come un riferimento ai Neoplatonici alcuni passaggi di una lettera
che Settembrini scrive il 3 febbraio 1854 alla moglie: in particolare
l’accenno ad un libretto con «qualche oscenità» e l’affermazione
«Scrivendo io da me, mi guarderei bene da queste sozzure: traducendo,
non posso fare altrimenti». Lo studioso ritiene che a quella data
la stesura dei Neoplatonici fosse compiuta, contestualmente alla traduzione
degli Amori, che giudica il modello antifrastico del racconto.
L’indicazione di Cantarella resta in effetti priva di riscontri: senza
escludere quanto messo in evidenza da Gigante, l’autore dei
Neoplatonici avrebbe avuto comunque sottomano l’accenno all’antica
usanza delle cicale d’oro proprio in uno dei dialoghi di Luciano, Il
naviglio, o i castelli in aria, in un passo che aveva tradotto così:
Licino: E poi quella chioma [del garzonetto] e quel ciuffo raccolto in
su non lo dicono libero.
Timolao: […] Al contrario i nostri maggiori credevano che la chioma
stesse bene ai vecchi soli, e raccoglievano ed abbellivano i capelli
con una cicala d’oro.
l’anno precedente: R. Cantarella, Un racconto inedito di Luigi Settembrini. Nota
del Corrisp. R. Cantarella, «Rendiconti delle sedute dell’Accademia nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», serie VIII (1975), vol.
XXX, fasc. 7-12, pp. 273-87; sulle differenze fra le due versioni del testo di
Cantarella cfr. D. Conoscenti, Per pudore o per ipocrisia. Il Risorgimento e “I
Neoplatonici” di Luigi Settembrini, in Letteratura Identità Nazione, a cura di M. Di
Gesù, Palermo, :due punti edizioni, 2009, pp. 221-42.
3 M. Gigante, Settembrini e l’antico, Napoli, Guida, 1977 (per I Neoplatonici
cfr. pp. 9-41 e 127-33); lo stesso saggio è stato riproposto, sfrondato delle due
Appendici e di qualche citazione, come M. Gigante, Luigi Settembrini, in La
cultura classica a Napoli nell’Ottocento, a cura di Id., vol. I, Napoli, Dipartimento
di Filologia Classica dell’Università degli Studi di Napoli, 1987, pp. 405-37; dei
Neoplatonici si parla alle pp. 405-11.
152 DOMENICO CONOSCENTI [3]
Samippo: Bene, o Timolao, tu ci fai ricordare delle storie di Tucidide,
e di ciò che nel proemio egli scrive dell’antico lusso dei nostri nella
Ionia, quando vennero qui ad accasarsi4.
Inoltre, se è vero che Settembrini completò traduzione e revisione
il 1° marzo 1858, è altrettanto vero che fino a tutto settembre
dello stesso anno egli fu totalmente assorbito dalla stesura del Discorso
introduttivo, cosicché nel più ristretto periodo fra ottobre 1858
e metà gennaio del 1859 andrebbero collocate sia la traduzione di
Tucidide, cui Settembrini si dedica con slancio totale, che la composizione
dei Neoplatonici5.
Ma anche quella avanzata da Gigante è una congettura priva di
riscontri: essa è la forzatura di un riferimento che, nella lettera del
1854, riguarda in maniera inequivocabile la traduzione di Luciano6.
In quell’anno poi, se per stanchezza Settembrini interrompe talvolta
il lavoro di traduzione, è solo per scrivere pagine private che avrebbero
dovuto costituire il nucleo delle future Ricordanze7. Per il collegamento
con gli Amori inoltre, né la lettera citata né l’intero
epistolario forniscono alcuna indicazione sulle date di traduzione di
questa come delle altre opere, e nemmeno sui testi contenuti nei
libretti di volta in volta inviati alla moglie; il manoscritto, ammesso
che contenga elementi utili in tal senso, è di proprietà di privati8 e
Gigante non vi fa comunque cenno. Nel Discorso Settembrini afferma
di avere cominciato a tradurre lo scrittore di Samosata da un
volume in francese, poi dal nudo testo originale e, sempre a tradu-
4 Opere di Luciano voltate in italiano da L. Settembrini, 3 voll., Firenze, Le
Monnier, 1861-62, III, p. 155; da ora in avanti Luciano. Con Discorso mi riferisco
al Discorso intorno la vita e le opere di Luciano, che introduce la traduzione: cfr. ivi,
I, pp. 1-174.
5 Cfr. lettere al fratello Giuseppe, 31 maggio 1858, ad E. Pessina, 10 giugno
1858, alla moglie, 20 agosto 1858, in L. Settembrini, Lettere dall’ergastolo, cit.
L’autografo del Discorso intorno la vita e le opere di Luciano è datato «Settembre
1858» in L. Settembrini, 1813-1876. Autografi e documenti, I quaderni della biblioteca
nazionale di Napoli, serie IV, n. 5, 1976, nota 113.
6 La lettera è pubblicata da Cantarella in NPL, pp. 28-30, che l’aveva ripresa
da L. Settembrini, Lettere dall’ergastolo, cit., pp. 186-87.
7 Cfr. lettere alla moglie del 18 marzo, 16 aprile, 24 maggio, 12 ottobre 1854,
in L. Settembrini, Lettere dall’ergastolo, cit. Il Diario 1854-55 è pubblicato in L.
Settembrini, Ricordanze della mia vita e Scritti autobiografici, a cura di M. Themelly,
Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 356-414; da ora in avanti con Ricordanze si farà
riferimento a questa edizione.
8 Così Themelly in Ricordanze, p. LIII.
[4] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 153
zione in corso, di essere passato infine a un’edizione greco-latina
commentata9: le traduzioni già svolte vennero verificate sulle edizioni
successive e poi riprese e interrotte più volte, anche in previsione
dei tentativi di fuga poi falliti. È impossibile, quindi, conoscere
quali testi di Luciano Settembrini avesse tradotto o conoscesse sia
nel 1854 sia negli altri anni che precedono l’annunciato termine
della traduzione.
2. Una rilettura del testo conferma che in effetti la traduzione di
Luciano resta il punto da cui partire per una datazione dei Neoplatonici,
ma mette altresì in evidenza collegamenti e intersezioni con opere che
gravitano nell’ultimo decennio della produzione dell’autore.
Il racconto si presenta come traduzione da un fantomatico Aristeo
di Megara e si apre con una Avvertenza del traduttore che segnala al
lettore moderno la mancanza di ipocrisia dell’arte greca e lo avverte
che l’amore platonico non era scevro di sensualità. Ambientato nell’antica
Atene, è una sorta di romanzo di formazione in miniatura
scandito in tre tappe fondamentali. Nei capitoli 1 e 2 sono rappresentate
prima la nascita dell’amore spirituale e fisico fra Doro e
Callicle e poi la riflessione sull’amore “platonico” che essi compiono,
e mettono in pratica, insieme al filosofo Codro. Nei capitoli 3-5
vengono raccontati gli incontri, individuali e in coppia, dei protagonisti
con la danzatrice Innide, cui si deve la teorizzazione della
superiorità dell’atto procreativo su quello sodomitico. Infine, nei
capitoli 6-8, con l’uscita di scena della danzatrice, Callicle si innamora
di Psiche e, dopo una parentesi di tipo guerresco, Doro si
innamora di Ioessa, cugina dell’amico: con queste fanciulle i due
convolano a feconde nozze, senza smettere di amarsi fra loro.
Opportunamente Cantarella aveva segnalato alcuni collegamenti
onomastici con testi del corpus lucianeum10, ed era ricorso in particolare
a Gli Amori per tentare una spiegazione del titolo e per due
riferimenti testuali: uno a proposito delle favole milesie, l’altro, più
puntuale, per un frammento poetico sul rapporto fra Achille e
9 Cfr. Luciano, I, pp. 172-73. Sui testi adoperati per la traduzione rimando ad
A. Cutolo, Luigi Settembrini traduttore di Luciano, «Nuova Antologia», 91, fasc.
1865, maggio 1956, pp. 81-88.
10 Sulle Muse di Erodoto (NPL, p. 109, nota 14), su Doride (p. 109, nota 11),
su Codro (p. 111, nota 23), su Armodio e Aristogitone (p. 111, nota 27), Innide
(p. 114, nota 43), la Venere degli Orti (p. 115, nota 46), Cleonimo (p. 116, nota
53), Eurìsteo (p. 117, nota 57), Ebe (p. 117, nota 59), Cerere (p. 117, nota 61),
Antìoco (p. 118, nota 63), Ioessa (p. 119, nota 69).
154 DOMENICO CONOSCENTI [5]
Patroclo11. Gigante non aveva esitato a definire Gli Amori il termine
di confronto più evidente per I Neoplatonici: ripetendo il riferimento
alle favole milesie, aveva visto il modello del dialogo pseudolucianeo
presentarsi tre volte nel racconto postumo: nel discorso di Codro,
nel ragionamento di Callicle e Doro sul confronto dei due amori, e
nella teoria della “magica cortigiana” Innide12. E Stefano Casi aveva
istituito un altro collegamento con Gli Amori attraverso il termine
mele, adoperato per indicare i glutei13.
Ma altri più ampi e decisivi aspetti dei Neoplatonici scaturiscono
dalla riflessione che Settembrini, sotto le spoglie di Aristeo di Megara,
compie sul testo dello pseudoLuciano. Innanzitutto la convinzione
polemica sulla quale poggia la favola oscena, che l’anonimo traduttore
esplicitamente dichiara – il cosiddetto amore platonico è un
amore fisico e sensuale – ripropone quella del personaggio di Teomnesto
che, nella parte finale del dialogo, aveva liquidato come ciance
ipocrite le affermazioni di socratici e platonici sulla castità dell’eros
pederastico.
E a Caricle, che negli Amori aveva biasimato il rapporto pederastico
perché privo di piacere per l’amato (per l’implicita divisione
dei ruoli fra erastés-adulto e attivo ed erómenos-adolescente e
passivo), al contrario di quanto avviene per la donna nel rapporto
eterosessuale, Aristeo nei Neoplatonici risponde con l’esaltazione della
reciprocanza come qualità peculiare ed esclusiva dell’amore platonico.
È grazie all’invenzione settembriniana della reciprocità dei ruoli
affettivo-sessuali che viene superato l’altro aspetto negativo del rapporto
platonico: la sua durata temporanea, limitata per l’amato esclusivamente
alla fioritura adolescenziale. Callicratide negli Amori aveva
contrapposto a questa osservazione dell’avversario il modello di
Oreste e Pilade, di un amore cioè durato tutta la vita e in cui la
rigidità dei ruoli fra amante e amato era stata cancellata, a prezzo
della cancellazione dell’eros, riducendo cioè il rapporto omosessuale
ad una affettività assolutamente casta. Settembrini-Aristeo riscrive
11 Per il titolo, cfr. NPL, p. 107, nota 1; per il rimando alle “favole milesie”,
p. 109, nota 4; per il frammento su Achille e Patroclo, p. 112, nota 29. Gli Amori
è un dialogo spurio del corpus lucianeum, centrato sul confronto fra l’amore per
le donne e quello per i fanciulli.
12 Cfr. per il primo punto M. Gigante, Settembrini e l’antico, cit., pp. 25 e 30;
per il collegamento con le “favole milesie”, pp. 39-40; per il ricorrere del modello
degli Amori, p. 41.
13 Cfr. S. Casi, Un patriota per noi: Luigi Settembrini, «Le parole e la storia.
Ricerche su omosessualità e cultura», 9, 1991, p. 61.
[6] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 155
a sua volta la risposta di Callicratide prospettando, sì, un amore che
duri tutta la vita e nel quale i ruoli di amante e di amato vengano
annullati, ma in cui non venga sacrificato l’eros sensuale, che per
forza di cose non può essere quello pederastico, ma quello fra coetanei
adulti rappresentato nei Neoplatonici. La tradizionale bisessualità
maschile del mondo greco-latino, legittimata socialmente a condizione
che il desiderio omosessuale degli adulti fosse rivolto ai ragazzi,
viene innovata attraverso l’esaltazione-invenzione della reciprocanza
(ed è una delle possibili spiegazioni del prefisso del titolo)
e sfumando molto la misoginia della cultura greca (di cui si fanno
portavoce Callicratide negli Amori e Codro nei Neoplatonici) con il
positivo riconoscimento del rapporto uomo-donna. Un dialogo fitto
e puntuale, insomma, quello che Aristeo intrattiene nella composizione
dei Neoplatonici col dialogo dello pseudoLuciano: attraverso la
sua riscrittura, l’appassionato ammiratore della civiltà e dell’arte
greca trasformò la pederastia nella più accettabile omosessualità fra
adulti.
I dialoghi delle cortigiane è l’altro testo del corpus lucianeo che, a
un diverso livello narrativo, agisce fra le pagine dei Neoplatonici.
Evidenti sono, ad esempio, le riprese onomastiche, per quanto
reinterpretate sul piano dei caratteri: se nei tratti della Innide
neoplatonica rivivono quelli di più personaggi dei Dialoghi delle cortigiane,
oltre che quello omonimo del XIII dialogo14, lo stesso non si
può dire per la casta e pudica Ioessa del capo 8 dei Neoplatonici
rispetto alla omonima cortigiana del XII dialogo; e la medesima
considerazione vale per la “buona Doride” (madre di Doro), che ha
il nome della serva di Mirtina, cortigiana del II dialogo15. Doride e
Ioessa nei Neoplatonici incarnano la variante, in un ruolo sociale
diverso, delle qualità emotive e affettive degli omonimi personaggi
lucianei, segnalati con partecipe simpatia nel Discorso.
Ma è soprattutto la presenza di Innide a portare al centro dei
14 Innide è la tenera e pusillanime prostituta (cfr. Luciano, III, pp. 194-97) a cui
Settembrini dedica un cenno nel Discorso: «[…] queste cortigiane non fanno
schifo, né orrore, né pietà, ma si fanno udire con certa compiacenza, e talune
t’interessano; come la Mirtina […] o la Musetta […] o la Joessa affettuosa e a
torto strapazzata dall’amante; o la Innide, a cui un soldato vantatore racconta di
avere tagliato, e squartato, e infilzato un capo su la lancia, ed ella inorridisce e
vassene; e quei la chiama, promette, prega, confessa che ha detto una bugia, e
pure non la persuade»: Luciano, I, p. 165.
15 Cantarella segnala per il nome di Doride solo la variante Dori dei Dialoghi
marini, I: cfr. NPL, p. 109, nota 11.
156 DOMENICO CONOSCENTI [7]
Neoplatonici il mondo dei Dialoghi delle Cortigiane. Il personaggio
vezzoso e popolano, caratterizzato da una inscindibile mescolanza di
candore e malizia, impronta di sé la parte centrale del racconto,
occupando la scena dal terzo al quinto capitolo, con una apparizione
anche nel sesto. L’interesse per i regali e i gioielli, il ricordo della
madre morta (rivista anche nella funzione propiziatrice all’iniziazione
“professionale”), gli accenni al porto, ai marinai e a un mondo in
cui donne sole devono riuscire a sopravvivere alla povertà sono
elementi ripresi dai 15 dialoghi. Padron Cleonimo ha i suoi precedenti
di ricco armatore nei vari padron Filone [II], padron Ermotimo
[IV], padron Prassia [VII] che ricorrono nei discorsi delle cortigiane
di Luciano16. Allorché Innide sottolinea più volte che solo la bellezza
dei due Dioscuri la spinge a cercare la loro compagnia fin da
quando li ha iniziati al rapporto eterosessuale (Capo 3), ella non fa
che declinare il personaggio della meretrix honesta presente nei dialoghi
II, VII e XII17.
Tralascio i riferimenti ad altre opere del corpus lucianeo, meno
pregnanti degli Amori e dei Dialoghi delle cortigiane, per evidenziare
come, in ogni caso, dietro I Neoplatonici la presenza di Luciano sia
inequivocabile e di certo impossibile da circoscrivere ad una sola
opera, come vorrebbe Gigante18. E resta da spiegare il fatto che, fra
i pochi rimandi platonici non filtrati dai testi di Luciano, rientrino
proprio quelli decisivi nell’istituire il nesso fra omosessualità e valore
guerriero delineato nel racconto. Si tratta insomma di capire
quanto “dopo Luciano” sia stato scritto I Neoplatonici.
Casi segnala un brano del Discorso su Luciano nel quale Settembrini
contestualizza storicamente l’omosessualità dell’antica Grecia
e, evidenziandone le differenze generali e profonde con la vita
moderna, invita a non biasimare gli antichi «perché quel che ora è
mal costume allora non era». Lo studioso opportunamente accosta il
brano all’Avvertenza dei Neoplatonici a proposito della mancanza di
16 Cfr. nell’ordine Luciano, III, pp. 172, 176 e 182.
17 Su questa figura cfr. Luciano, Dialoghi delle cortigiane, introduzione e traduzione
di E. Pellizer, commento di A. Sirugo, Venezia, Marsilio, 1995, p. 165.
E si veda quanto scrive Settembrini nel Discorso: «L’indole femminile, e delle
femmine cortigiane, è ritratta al vivo: e i Greci solevano compiacersi di queste
dipinture della cortigiana non sozza e sfacciata, ma buona ed amorosa»: Luciano,
I, p. 165.
18 Lo studioso conclude l’analisi del racconto con una ambigua definizione
dei Neoplatonici come «antifrasi» degli Amori: M. Gigante, Settembrini e l’antico,
cit., p. 41.
[8] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 157
ipocrisia e del fatto che gli antichi non nascondevano nulla19. Ma
altrettanto interessante a me sembra il fatto che proprio gli aspetti
storicamente legati all’omosessualità greca, individuati da Settembrini
soprattutto nella religione (con gli esempi di Giove-Ganimede e
Apollo-Jacinto), nel rapporto coi servi (di cui era lecito abusare in
ogni modo) e nella nudità dei giovani durante gli esercizi ginnici,
non si ritrovino affatto nei Neoplatonici. L’unico accenno compatibile
col racconto riguarda i filosofi, i quali, anch’essi «travolti dal mal
costume, […] cercavano di scusarlo con sofismi»20: un’affermazione
che rimanda sia ad alcuni dialoghi platonici sia a Gli Amori, entrambi
però legati al modello pederastico.
Riguardo all’omosessualità, Settembrini, pur attingendo ad alcuni
testi di Luciano e all’analisi storica tracciata nel Discorso, se ne
distacca e nei Neoplatonici reinventa del tutto il rapporto omosessuale:
ignora la pederastia e pone in primo piano il rapporto fra adulti
che, in Luciano come nella mentalità greca classica, suscitava perplessità
o il pungente biasimo per il ruolo passivo dell’amato e la
sua “femminilizzazione”.
3. Se l’analisi delle scritture private settembriniane non ha dato
alcun esito, due inequivocabili frammenti testuali dei I Neoplatonici
intersecano opere scritte dopo il 1860.
In un passo del primo volume delle Lezioni di letteratura italiana,
pubblicato nel 1866, a proposito della lirica amorosa nelle lingue
romanze dopo il Mille, Settembrini scrive:
La poesia spagnuola è passionata, ma voluttuosa, e però si avvicina
all’araba. Il poeta loda spesso il piede della donna, che nudo pare un
pezzo di cristallo, e calzato sembra una mano in un guanto21.
E riprende lo stesso pensiero parlando del dramma spagnolo del
Cinquecento:
Accanto all’ascetismo religioso e cavalleresco, trovate la voluttà più
acuta più entrante più bruciante: certe finezze voluttuose io le ho
19 S. Casi, Un patriota per noi, cit., p. 57.
20 Luciano, I, p. 19; affermazione anticipata a p. 17: «vi furono filosofi […] che
lodarono l’amor dei garzoni, e lo proposero come premio ai valorosi».
21 Cfr. L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, a cura di G. Innamorati,
2 voll., Firenze, Sansoni, 1964 (d’ora in avanti Lezioni), I, cap. XI, p. 68; corsivo
mio. Le bozze autografe sono del 1864-65: cfr. L. Settembrini, 1813-1876. Autografi
e documenti, cit., nota 142.
158 DOMENICO CONOSCENTI [9]
trovate nei poeti spagnuoli e non nei greci: certe descrizioni del piede, che
è la parte meno spirituale dell’uomo, l’ho trovate soltanto nei cattolici
poeti spagnuoli22.
Ora, nei Neoplatonici, Aristeo, greco di Megara e non spagnolo,
scrive che Doro e Callicle «si baciavano negli occhi, […] e nei piedi
che parevano d’argento» [NPL, 62] e, più avanti, che Callicle «si
piaceva a guardare i piedi nudi d’Innide […] e […] accarezzava quei
piedini che parevano di cristallo»23.
L’altra intersezione riguarda proprio l’accenno alle cicale d’oro
citate da Cantarella: il cenno, che nelle parole di Innide si riferiva
correttamente ai fermagli per tenere i capelli24, era passato in un
secondo momento a caratterizzare come status symbol le calzature
dei nobili25, e proprio in tale originale accezione si ritrova nella
prima redazione di Le Origini. Dialogo tra Geppino e il Nonno:
Nonno: Ti vergogni tu a confessare che i nostri primi padri nacquero
dalla terra?
Geppino: Niente affatto, anzi vorrei portare la cicala su la scarpa
come gli Ateniesi che così dimostravano di essere indigeni e nobili
più degli avventizi26.
Le Origini fu l’unico dei Dialoghi a essere edito, nel 187527, ma in
una versione differente, priva, fra le altre modifiche, della citazione
riportata. Per espressa volontà di Settembrini, la raccolta non potè
essere data alle stampe se non trent’anni dopo la sua morte. Non si
conosce la data della versione originaria di quello che sarà ordinato
come il VII fra i dieci dialoghi di ispirazione lucianea, ma il primo
di essi porta la data dell’8 dicembre 187228, in concomitanza con la
pubblicazione dell’ultimo volume delle Lezioni.
22 Lezioni, I, cap. LI, p. 476. Corsivo mio.
23 NPL, p. 78.
24 «Io d’anelli ne ho quattro […] e due cicale d’oro, e due api per tenere i
capelli, e sono lavori di Siria»: NPL, p. 82.
25 «[…] la figliuola di Eutichete che porta la cicala su la scarpa, e si tiene più
nobile di Teseo»: NPL, p. 95.
26 L. Settembrini, Dialoghi, a cura di F. Torraca, Napoli, Società Commerciale
Libraria, 1909, p. 200.
27 Cfr. «Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze morali e Politiche
», vol. I, febbraio 1875.
28 Così Torraca in L. Settembrini, Dialoghi, cit., p. IX. A conferma che la prima
stesura del dialogo deve porsi dopo il 1870 sta inoltre il fatto che il Geppino del
Dialogo, colto interlocutore del nonno-Settembrini, era nato nel 1860.
[10] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 159
Inoltre in Masuccio, i suoi tempi, il suo libro, studio premesso al
Novellino di Masuccio Salernitano e pubblicato nel 1874, c’è da segnalare
un passaggio (relativo alla corte aragonese) molto simile a
uno del traduttore di Aristeo:
Ippolita […] usata alla lettura dei classici, e alle dissolutezze del suocero
e del marito, non doveva scandalizzarsi d’un libro che era anche
bello per arte. È vero che quegli uomini erano più schietti di noi,
dicevano così alla buona quello che facevano, e noi abbiamo gli stessi
vizi inverniciati col galateo, ma il galateo significa anche pudore29.
È un racconto osceno sino a la metà, ma è una opera d’arte; […] Noi
uomini moderni abbiamo tutti i vizi degli antichi Elleni, e forse
anche più e maggiori, ma li nascondiamo non so se per pudore o
per ipocrisia: quelli non nascondevano nulla, ed abbellivano con
l’arte anche i vizi30.
Lo spostamento in avanti di qualche anno rispetto alla detenzione
di Santo Stefano, suggerito dal collegamento con opere del periodo
post-unitario, riceve qualche conferma dal lessico. Nei Neoplatonici
Settembrini tralascia i purismi e le preziosità tre-cinquecentesche,
adoperati nella traduzione di Luciano per rendere l’atticismo
dello scrittore, per un linguaggio più semplice; il lettore non avverte
la necessità di una “rinettatura” lessicale del racconto, come era
accaduto invece ad Alberto Savinio negli anni Quaranta, per la traduzione
settembriniana di Luciano, o a Danilo Baccini che nel 1962
ne aveva proposto una versione “modernizzata”31.
Per limitarmi a qualche esempio visibile, giuggiolena, presente
nella traduzione del Pescatore e del Banchetto lucianei, lascia il posto
nei Neoplatonici al più diffuso sesamo: «[Codro] fece apparecchiare
da un servo sopra un desco alcune focacce di sesamo»32; per la voce
29 Masuccio Salernitano, Il Novellino nell’edizione di L. Settembrini, a
cura di S. S. Nigro (1990), Milano, Rizzoli, 2000, p. 74.
30 NPL, p. 31. La sfumatura di tono che si coglie fra i due brani è spiegabile
se si pensa che il primo era stato scritto per essere pubblicato in vita, l’altro
pensato per un pubblico postumo.
31 Cfr. Luciano, Dialoghi e saggi e Id., Una storia vera, traduzione di L. Settembrini,
introduzione, note e illustrazioni di A. Savinio (1944), Milano, Bompiani,
1983, pp. 34-35; Luciano di Samosata, I dialoghi e gli epigrammi, traduzione
di L. Settembrini, a cura di D. Baccini, Roma, Edizioni Casini, 1962, p.
XXVI.
32 NPL, p. 70. Per le traduzioni dei due dialoghi, cfr.: «Si daranno a ciascuno
due mine e una schiacciata di giuggiolena»: Luciano, I, p. 388; «se tu gli dai una
160 DOMENICO CONOSCENTI [11]
narrante si legga un’espressione come «Doro le azzeccò un lungo e
savoroso bacio»33, centrata su un verbo non registrato dal Vocabolario
della Crusca. Un altro esempio si ha a proposito di Sparvierata, il
nome della nave su cui si trovano Doro e Callicle, nel capo 7, che
a Cantarella era sembrato un’invenzione di Settembrini34. Si tratta
(come per mele) di un altro punto di contatto lessicale con Gli Amori,
benché l’autore lo abbia adoperato come aggettivo anche in Una
storia vera e nel Lessifane35. Il Vocabolario della Crusca definisce così il
lemma: «Aggiunto, che propriamente si dà alle navi, quando sono
spedite, e acconce a camminar velocemente»36. Il brano dei Neoplatonici,
dove il termine appare per la prima volta, recita: «montarono
insieme sopra una delle navi detta la Sparvierata che era assai veloce
»37. Anche nel caso in cui fosse stata volontà dell’autore concludere
la frase con «chè era assai veloce», come legge Gigante nel manoscritto38,
Settembrini fa seguire bizzarramente il termine dalla sua
spiegazione, a differenza che nella traduzione di Luciano. Con questa
ridondanza egli scioglie la forte letterarietà del termine, il che
evidenzia un differente atteggiamento rispetto alla traduzione di
Luciano, pure nell’ipotesi di un intento gratuitamente giocoso.
A rafforzare l’ipotesi post-unitaria sta infine la presenza del termine
dialettale cioccaglie, adoperato due volte dal personaggio di
Innide:
quali collane, quali cioccaglie sono belli e preziosi come Callicle e
Doro […]
[ho] un’armilla e due paia di cioccaglie, uno a tre mandorle, ed uno
a cerchietto39.
fetta di cinghiale o di cervo o di schiacciata di giuggiolena […] della lepre, pesci
fritti, ciambelle di giuggiolena ed altre ghiottornie»: Luciano, III, pp. 251 e 254.
33 NPL, p. 77. Corsivo mio.
34 «“Sparvierata” sembra nome inventato dal Settembrini»: NPL, p. 118, nota 64.
35 Nell’ordine: «Essendomi risoluto di navigar per l’Italia, m’ebbi una nave
sparvierata, di queste biremi»: Luciano, II, p. 228; «V’era il nostromo che incurava
la ciurma; erano sparvierate a remi, come galere»: Luciano, II, p. 103; «Ma tu mi
hai fatto come chi […] fermasse la foga del corso [di uno stambecco], non
volendo farlo andar sparvierato»: Luciano, II, p. 201.
36 Vocabolario degli Accademici della Crusca. Quarta Impressione, Firenze, appresso
Domenico Maria Manni, 1729-38, IV; alla definizione segue una citazione
dal Volgarizzamento degli Annali di Tacito di Bernardo Davanzati: «Molte (navi)
acconce a portar macchine, cavalli, e viveri, destre a vela, sparvierate a remo».
37 NPL, p. 97.
38 Cfr. L. Gigante, Settembrini e l’antico cit., p. 132.
39 NPL, p. 82.
[12] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 161
Cantarella scrive che «cioccaglie […] vale “vezzi, pendenti, orecchini,
monili” e sim.»40, ma nel racconto il termine pare usato nell’accezione
circoscritta di “orecchini” (Innide parla di due paia di
cioccaglie), come conferma la definizione che offre Basilio Puoti nel
suo vocabolario napoletano-toscano, dove è registrato al singolare
con la grafia scioccaglio (o fioccaglio): «Pendente che s’appiccano per
lo più agli orecchi le donne; orecchino»41. Nella traduzione di Luciano
“orecchini” ricorre 5 volte (di cui una nel VII e una nel XIV dei
Dialoghi delle Cortigiane) e l’uso di cioccaglie non si può quindi definire
una “scelta obbligata”.
Anche nel linguaggio Innide risente della traduzione dei Dialoghi
delle Cortigiane, di cui Settembrini aveva evidenziato il non parere
una scrittura, «ma un parlare vivo e vero, schiettamente popolare,
ed ateniese»42. Emerge però qui la volontà di connotare in senso più
spinto l’elemento popolare del parlato della danzatrice, oltrepassando
la semplice analogia fra il greco e il dialetto napoletano a cui
Settembrini aveva accennato nel corso della traduzione, senza giungere
mai a un pretto dialettalismo. Nel caso più al limite, nel XIV
dei Dialoghi delle Cortigiane, quando Settembrini aveva tradotto «cinque
acciughe e quattro perchie», egli si era preoccupato di spiegare
che il napoletano perchie è quasi traslitterazione del greco pevrka”, e
tuttavia non lontano dal toscano perca o perchia per indicare appunto
il pesce persico43.
È molto probabile che il Settembrini del 1858 (o del 1854), per
quanto libero da rigidità puriste, continuasse ad aderire all’obiettivo
generale della scuola di Puoti di «scrivere italianamente», di evitare
cioè dialettalismi e forestierismi, come quando nel 1847, aveva sen-
40 Cfr. NPL, p. 115, nota 49, anche per l’etimologia, l’area di diffusione e
qualche informazione bibliografica.
41 Vocabolario domestico Napoletano e Toscano compilato nello studio di Basilio
Puoti, Napoli, Libreria e Tipografia Simoniana, 1841.
42 Luciano, I, p. 165. Esempi di elementi popolareschi e ridondanze nel parlato
di Innide si possono trovare in NPL, pp. 82-83, passim: «[quali gioielli] sono
belli e preziosi come Callicle e Doro, i più belli e leggiadri giovani di Atene, che
sono miei, che li ho avuti io la prima volta […] ella con le sue fatiche mi dava
a campare, e mi tirava su […] A voi è un altro bene che vi voglio, e da un
pezzo».
43 «Ma pesce persico m’avrebbe guastato ogni cosa»: Luciano, III, p. 197, nota
1. Sull’uso inoltre dei napoletanismi bello e buono, atauto, adoperati rispettivamente
in Alessandro o il falso profeta, e in Lucio o l’asino, si legga quanto precisato
dal traduttore in Luciano, II, p. 163, nota 1; ivi, p. 312, nota 1.
162 DOMENICO CONOSCENTI [13]
tito la necessità di spiegare che Puoti, col suo Vocabolario domestico
napoletano e toscano e il successivo Dizionario de’ Francesismi «si era
proposto di farci dismettere l’amore troppo del municipio e l’imitazione
straniera: antiche cagioni dei mali d’Italia e della corruzione
della lingua»44. Di certo, nella prima stesura dei capp. I-IX delle
Ricordanze, redatti a Londra dopo la liberazione dall’ergastolo, tra la
fine del 1859 e i primi mesi del 186045, mancano gli inserti dialettali
presenti nella versione completa e definitiva del 1874-76, quasi tutti
nei capitoli aggiunti ex novo. Alcuni, pochi, erano originariamente
riportati in italiano, come nel brano che racconta di Pasquale Galluppi:
[Ms] Il Ministro che non sapeva chi egli fosse, rispose: Bene, vi
cimenterete all’esame. Ed egli: E chi c’è in Napoli che possa esaminare
Pasquale Galluppi? Il ministro si strinse nelle spalle, e l’accomiatò
con un vedremo. La sera raccontò nel crocchio degli amici,
come un vecchietto che parlava schietto calabrese e doveva essere
mezzo matto, era andato a chiedergli la cattedra di filosofia, […]46
[Ricordanze] Il ministro che non lo conosceva rispose: “Bene: vi cimenterete
all’esame.” Ed egli: “E cu c’è a Napoli che po’ esaminari
Pasquale Galluppi?” Il ministro si strinse nelle spalle, e l’accomiatò
con un “vedremo”. La sera raccontò nel crocchio degli amici come
un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a chiedergli la
cattedra, […]47
44 Elogio del marchese Basilio Puoti, in L. Settembrini, Opuscoli politici editi e
inediti (1847-1851), a cura di M. Themelly, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1969, p.
267. Nell’Elogio di Michele Baldacchini (1875) Settembrini riprende il discorso sul
Purismo, sulla sua “necessità” storica e sulle sue esagerazioni, quando si proponeva
una lingua per la quale «dovevi lasciar di cercare ciò che oggi si fa e si
cerca in Europa, dovevi dimenticare la parlata della mamma tua e del paese
dove nascesti, perché il dialetto era creduta una sozzura, ogni parola straniera
un barbarismo. […] Queste esagerazioni furono smesse col tempo, e più presto
dagl’ingegni più forti»: cfr. L. Settembrini, Scritti vari di letteratura, politica, ed
arte, riveduti da F. Fiorentino, 2 voll., Napoli, Morano, 1879-80, I, p. 496.
45 Del manoscritto dà notizia M. Themelly, La redazione delle “Ricordanze”,
«Belfagor», XXVI, 1971, pp. 531-53.
46 Trascrivo dalle pagg. 75-76 del manoscritto del 1859-60 delle Ricordanze.
Ringrazio la Fondazione Benedetto Croce, custode dell’autografo, per avermi consentito
di consultarlo.
47 Ricordanze, p. 61. Mancano nel manoscritto del 1860 altri inserti, come in un
episodio tratto dalle prime pagine: «Giunti a la marina mi sento uno schiaffo da
uno che mi dice sottovoce: ‘Non ti spagnare, ca mi manda Don Gaspari’: e poi
rivolto alla moltitudine: ‘A lu ponte, a lu ponte, l’avimo a fucilare avanti a lu cardinali’.
[…] Stava di sentinella innanzi la porta del carcere un calabrese con una
[14] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 163
Un altro esempio è nella frase «ei disse motteggiando: Signori
miei, guardiamoci le tasche», che nella versione definitiva diventa
«il re […] disse: “Signori miei, guardiamoci le sacche”»48. Oppure si
può osservare l’interessante inserimento di un dialettalismo (frescolelle)
nella fabulazione della voce narrante anziché nel discorso diretto:
quando dopo le nostre lezioni scendendo le scale ci accadeva di
vedere alla finestra quei due bei visini, egli intonava: probo majorem
quando dopo la lezione scendendo le scale accadeva di vedere quelle
faccette pulite e frescolelle, egli intonava: “Probo maiorem”49
Occorrerà aspettare qualche anno perché nel I volume delle Lezioni,
nel capitolo V – Carattere della lingua italiana, si legga un’esaltazione
della spontaneità come pregio fondamentale di un’ottima
lingua: «questo pregio è in tutti i dialetti, nei quali ciascuno parla
ottimamente, perché la parola gli viene spontanea non ricercata,
sorge col pensiero, e non manca mai»50. Segue nello stesso capitolo
un’analisi storica del rapporto fra lingua comune (nazionale) e dialetti,
e la conclusione che «nei dialetti sta la vita nuova, e di essi
deve risanguinarsi la lingua della nuova Italia, facendo cadere tutto
quello che finora vi è stato di artefatto e di convenzionale»51.
Dopo l’Unità Settembrini ritiene evidentemente conclusa la funzione
positiva del Purismo, letto attraverso Puoti come baluardo
coesivo e propositivo di identità nazionale in un’Italia politicamente
e linguisticamente frammentata e serva degli stranieri52. La consapevolezza
che il Purismo di fatto aveva finito per proporre una lingua
senza vita né spontaneità, che «si scriveva tenendo il vocabolario
gran rete turchina in capo ed una rosa in mano. Come ei mi vide: ‘Poveru giuvani’,
mi disse, ‘tu si mezzu mortu: addura sta rosa, rifriscati!’»: Ricordanze, pp. 5-6.
48 La prima frase si legge nel Ms. a p. 21, la seconda in Ricordanze, pp. 45-
46; Themelly, ivi, nota 32, puntualizza: «Il napoletanismo “sacche” che è nel ms.
[del 1874-76] era stato corretto in tutte le stampe precedenti con “tasche”».
49 La prima frase è in Ms, p. 41, la seconda in Ricordanze, p. 21. L’elenco
degli esempi finora riportati non è verosimilmente esaustivo.
50 Lezioni, I, p. 31.
51 Ivi, p. 34. L’esaltazione del dialetto come elemento vivificante della nuova
lingua italiana ritorna più ampiamente nel cap. XXVIII – La lingua del Trecento,
ivi, pp. 235-40.
52 Cfr. già nel 1847 l’Elogio del marchese Basilio Puoti, in L. Settembrini, Opuscoli
politici editi e inediti, cit., e poi quanto scrive su Puoti in Lezioni, II, pp. 1147-
49, e in Ricordanze, pp. 65-67.
164 DOMENICO CONOSCENTI [15]
aperto sul tavolino»53, ora, conseguita l’unità nazionale, lascia il
campo entusiasticamente al progetto di una moderna Lingua Italiana
che valorizzi gli apporti linguistici locali in nome della spontaneità
e dell’aderenza della lingua al pensiero. E a questo proposito si può
ricordare che nel 1874 Settembrini traduce in napoletano la novella
I 9 del Decameron54 che Francesco Torraca riporta insieme a due
brevi testi in dialetto senza indicazioni cronologiche.
È un progetto linguistico che si affianca alla determinazione di
valorizzare l’apporto napoletano e meridionale alla storia della cultura
d’Italia, in risposta alla percezione di un generalizzato misconoscimento,
evidente sia nelle Lezioni sia negli articoli pubblicati negli
anni seguenti55. Anche con questo intento Settembrini si dedicò a
curare la pubblicazione nel 1874 del Novellino di Masuccio Salernitano,
definito «il Boccaccio napoletano»56.
4. Il linguaggio metaforico osceno, adoperato dal traduttore di
Luciano le rare volte in cui il testo glielo aveva consentito57, è lo
stesso a cui ricorre il traduttore di Aristeo di Megara in dosi ben
più accentuate ed evidenti, inversamente proporzionali alla mole
53 Così nell’Elogio di Michele Baldacchini (1875), cit., p. 496. Sulla funzione
anche positiva del Purismo e sul suo superamento, Settembrini torna più volte
nelle Lezioni: cfr. ad es. II, pp. 722-28, sull’Accademia della Crusca, e pp. 1146-
49 su Basilio Puoti.
54 E non (come erroneamente riportato da Torraca) «la novella IX della Giornata
V»: cfr. L. Settembrini, Scritti inediti, a cura di F. Torraca, Napoli, Società
Commerciale Libraria, 1909, p. 319. I brani in dialetto sono riportati subito dopo
la novella, alle pp. 321-23.
55 Cfr. M. Santoro, L’impegno meridionalistica e le “Lezioni” del Settembrini,
«Esperienze Letterarie», anno II, nn. 2-3, 1977, pp. 78-116.
56 Lezioni, I, p. 303.
57 Si tratta di traduzioni ovviamente non letterali. In Lucio o L’asino si legge:
«La donna era tanto ghiotta ed insaziabile di quel piacere che tutta notte macinammo
senza posa. […] Quegli […] mi chiude un’altra volta con la donna, la
quale mi fe’ ben trottare e stancare», Luciano, II, 325.
Gli altri esempi nel Lutto: «O disgrazia, che non sentirai più il martello d’amore,
né più ti sfinirai con le femmine menando la spola due e tre volte il dì», Luciano, III,
45; l’espressione rimanda a fare, menare le calcole, legata al movimento della tessitura
(per cui, nella stessa accezione, cfr. Decameron, VIII 9, 26). In Amori: «Ma se uno
tenta un giovanotto di vent’anni, parmi che ei cerchi piuttosto di esser picchiato
egli»: Luciano, II, 237; e ivi, p. 250: «Quando s’è giunto a questo, amore arroventa
i ferri, come dice il comico, e martella su l’incudine». Nel Conto senza l’oste infine:
«[…] dicono che una volta per poco non t’affogasti, avendo trovato un marinaio con
una smisurata antenna che ti turò tutta quanta la bocca»: Luciano, III, 126.
[16] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 165
delle opere: si va dalle 6 espressioni in tutto, sparse in 4 dialoghi
alla quindicina concentrata nel solo racconto postumo. Così per i
termini riferiti al corpo e al sesso, e quasi sempre adoperati audacemente
sia per i personaggi maschili che femminili, lo scrittore
ricorre a lemmi come le mele, il garofano, la rosa, la chiave e la toppa,
la porta, l’orto e il giardino, la cestellina… In sintagma con alcuni
verbi (cogliere, aprire, entrare, mettere…), essi passano dalla funzione
descrittiva a quella di rappresentare i rapporti sessuali, per di
più con varianti formali e di significato, ad esempio per quanto
riguarda l’alternarsi/variare di cogliere/godere il fiore/il frutto (generico
o specificato). Per i rapporti sessuali ricorre inoltre a termini
come lavorare e lavorio, dimenare e dimenarsi, a espressioni come
uscire di carreggiata, o alla metaforizzazione sessuale di espressioni
adoperate poco prima in accezione letterale, come celebrare la festa
delle Panatenee. Si tratta, come si vede, del linguaggio metaforico
osceno della novellistica tre-cinquecentesca e del meccanismo creativo
che ne sta alla base ed entrambi hanno il loro modello nel
Decameron58.
Al Decameron però Settembrini attinge anche per un paio di “prestiti”:
il primo è nella definizione che Innide aveva dato di Padron
Cleonimo nel Capo 4: «quello che come l’aglio ha il capo bianco e
la coda verde». Il paragone è ripreso dall’Introduzione alla Quarta
giornata dove si legge: «[…] mostra mal che conoscano che, perché
il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde»59. È un paragone
che ripropone il senso ed il contesto originali e che in bocca a
Innide assume l’aspetto di un fulmineo lapsus per introdurre una
dissonanza nella relazione esclusivamente filiale col vecchio.
L’altro prestito si trova nel Capo 3, quando Callicle raccontando
l’incontro con Innide, dice: «Ed io vidi, e toccai e baciai due
poppelline bianchissime e durette»60. L’espressione riprende una frase
degli Asolani di Bembo, incrociandola con la sua fonte, la novella II
3 del Decameron:
58 Non è esaustiva questa rassegna del linguaggio osceno dei Neoplatonici;
qualche spunto ulteriore sull’argomento si trova nel mio Luigi Settembrini: la
tradizione letteraria nella traduzione di Luciano e nei “Neoplatonici”, in Gli scrittori
d’Italia, Atti dell’XI Congresso dell’ADI, Napoli 26-29 settembre 2007, su
www.italianisti.it.
59 Cfr. G. Boccaccio, Decameron, nuova edizione rivista e aggiornata, a cura
di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, IV Introduzione, 33.
60 NPL, p. 75.
166 DOMENICO CONOSCENTI [17]
la forma di due poppelline tonde, e sode, e crudette dimostrava per
la consenziente vesta61;
posta la mano sopra il petto dell’abate, trovò due poppelline tonde
e sode e dilicate, non altrimenti che d’avorio fossono state62.
E, come nel caso del paragone di padron Cleonimo con l’aglio,
anche questa intersezione col Decameron va al di là della citazioneomaggio
semplicemente decorativa63.
Per questi prestiti, oltre che per il lessico legato all’elemento
osceno della favola milesia (che rimanda più in generale al controverso
giudizio sull’oscenità in letteratura), è interessante seguire la
parabola dei rapporti fra l’autore dei Neoplatonici e quello del Decameron.
L’interesse di Settembrini per Boccaccio si attiva in occasione
della traduzione di Luciano, come si vede nella lettera del 1854
alla moglie, dove aveva definito bellissime le opere dell’autore del
Decameron, malgrado la pece delle oscenità64.
Negli scritti teorici fino alla seconda prigionia65, gli interessi letterari
di Settembrini sono polemicamente e quasi esclusivamente
connotati in senso etico-politico, per cui restano fuori dal suo sguardo
opere la cui principale componente tematico-formale potremmo
definire “comica”. Boccaccio non viene mai menzionato fra gli autori-
modello di quei trattati, se qualche cenno gli viene concesso
riguarda la descrizione della peste; degli Italiani il più citato è certamente
Dante, e poi in ordine sparso Machiavelli, Guicciardini,
Ariosto, Tasso, Vico, Parini, Alfieri, Cuoco, Foscolo. In un Appunto
61 P. Bembo, Asolani, libro II, cap. XXII, in Id., Prose e rime, a cura di C.
Dionisotti, 2ª ed. accresciuta, Torino, Utet, 1966, p. 427.
62 G. Boccaccio, Decameron, cit., II 3, 32.
63 Sull’analogia-rovesciamento dei due prestiti rinvio a quanto scritto nel
mio Luigi Settembrini: la tradizione letteraria nella traduzione di Luciano e nei
“Neoplatonici”, cit.
64 «Le opere greche son piene di queste oscenità, quale più, quale meno: era
il tempo, era la gente voluttuosa: e le più belle opere ne sono più piene. Anche
noi altri italiani patiamo questo. Le opere del Boccaccio e del Firenzuola sono
bellissime, eppure son lorde della medesima pece. Anche il rigido Machiavelli
nelle sue commedie ne è infetto»: NPL, p. 29 e cfr. supra, nota 6.
65 Della italiana letteratura libri quattro (di cui scrive solo il primo: Del Bello,
Del Grande, Del Sublime), 1837-39; Dei buoni e dei cattivi scrittori, composto nel
1841-42 e ricopiato (con qualche tormentato ripensamento) nel ’43; Il Gozzi,
1844. Per queste opere, tuttora inedite, cfr. M. Themelly, Introduzione a L. Settembrini,
Opuscoli politici editi e inediti, cit., pp. IX-LXIII, e A. Vallone, Settembrini
letterato, e Id, Il vichismo di Settembrini, in Id., Civiltà meridionale. Studi di storia
letteraria napoletana, Napoli, Giannini, 1978, pp. 335-63 e 365-97.
[18] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 167
sulla Storia della Letteratura Italiana (databile secondo Themelly al
1844) scandito per secoli, nel Trecento troviamo naturalmente Dante,
«il più gran poeta d’Italia», poi Petrarca e Boccaccio accostati,
con un distinguo per il secondo che non suona molto come elogio:
«Petrarca gran mente, gran fantasia ebbe, ma passioni galanti. Boccaccio
eziandio, ma ebbe cuore sozzo, fu ammanierato nello stile»66.
Ancora in due prolusioni del 186267, nel prospettare il quadro storico
della cultura italiana, il nome cui sono dedicati più spazio e
attenzione è, al solito, Dante, seguito da Machiavelli, Ariosto, Tasso,
Vico, Galilei, Foscolo… E se nella seconda prolusione Boccaccio non
è neanche nominato, nella prima si leggono su di lui queste poche
righe di rammarico:
All’antico ritornava il Boccaccio, che sarebbe stato perfetto se nelle
sue opere condotte con arte antica e leggiadria nuova non avesse
imitato ciò che non era imitabile: egli messe la palla della matrona
addosso alla contadina, e la rese impacciata68.
Nelle Lezioni del 1866 Settembrini riproporrà questa stessa affermazione
ma per prenderne le distanze:
Doveva egli [Boccaccio] intendere, dicono, che quel che è bello in
latino non è bello in italiano: e per non avere inteso questo, e per
aver voluto imitare, e mettere la vesta della matrona antica su la
persona d’una contadina, egli ha guasto lo stile e la lingua. Questo
giudizio ripetuto da tutti non voglio ripetere io che soglio pensare
col mio capo e non con l’altrui69.
Più di dieci anni dopo la lettera alla moglie, in un’ampia e articolata
lettura a più livelli che non si nega qualche forzatura neoghibellina,
Settembrini nelle Lezioni riconosce il valore storico e artistico
del Decameron e il suo ruolo di pietra miliare nella letteratura
italiana, non malgrado l’oscenità, ma anche in virtù di essa. Parlando
di Boccaccio e di Petrarca, ad esempio, scrive che
66 Un appunto sulla storia della letteratura italiana, in L. Settembrini, Opuscoli
politici editi e inediti, cit., p. 427. Themelly ritiene che la datazione del foglietto
rientri in ogni caso fra le due prigionie, cioè fra il 1841 e il 1849.
67 Discorso letto il 3 gennaio 1862 nella R. Università di Napoli, e Dell’indirizzo
del sapere nel secolo XIX, orazione inaugurale, letta nell’Università di Napoli il 15
novembre 1862, entrambi in L. Settembrini, Scritti vari di Letteratura, Politica, ed
Arte, cit., I, pp. 153-69 e 171-98.
68 Discorso letto il 3 gennaio 1862 nella R. Università di Napoli, cit., p. 163.
69 Lezioni, I, p. 183; e cfr. supra nota 22.
168 DOMENICO CONOSCENTI [19]
[…] gl’Italiani tennero un libro di novelle licenziose come primo ed
unico esempio di ogni genere di eloquenza e di ogni forma di stile
e di lingua; ed un libro di sonetti e di canzoni amorose come esempio
unico di poesia. Queste due opere d’arte sono la più compiuta,
la più felice rappresentazione della vita italiana; e gli stessi loro
difetti ritraggono i difetti della vita70.
Il lettore dei Neoplatonici trova molti stimoli nelle Lezioni, a cominciare
dal fatto che in quest’opera si imbatte in un omonimo
dell’autore del racconto postumo, un Aristeo matematico del IV
secolo a. C., citato all’interno di un rapporto maestro-discepolo
(Galilei-Viviani) fortemente affettivo71. Nelle pagine sulla voluttà nel
Decameron, Settembrini disegna un Boccaccio doppiamente legato al
mondo pagano in quanto preumanista e in quanto “napoletano”,
dal momento che Napoli è città “greca”, come Settembrini aveva
annotato anche durante la traduzione di Luciano, e dal momento
che «Boccaccio si può dire napoletano»72.
Sul tema dell’espressione della voluttà, attorno al Decameron Settembrini
convoca gli Amori e la traduzione di Annibal Caro degli Amori pastorali
di Dafni e Cloe73. E se gli Amori lucianei, come si è visto, costituisce
una traccia forte per l’ideazione dei Neoplatonici, l’accostamento al
Decameron e al romanzo di Longo Sofista è un’indicazione che sembra
preannunciare la favola milesia di Aristeo. Al di là dello stile ammanierato,
70 Lezioni, I, p. 185. Il giudizio ritorna nella parte conclusiva: ivi, p. 188.
71 Cfr. NPL, p. 108, nota 2, ma soprattutto M. Gigante, Settembrini e l’antico,
cit., pp. 23-24 e S. Casi, Un patriota per noi, cit., p. 53. Il brano è in Lezioni, II,
pp. 767-68.
72 «Qui visse, qui su la tomba di Virgilio si sentì poeta, qui amò e scrisse
molte sue opere: onde i centri del Decamerone sono due, Firenze e Napoli, quasi
due fuochi d’un’ellissi»: Lezioni, I, p. 178. È un Boccaccio che in questa intersezione
di paganità-napoletanità-fiorentinità sembra anticipare gli elementi essenziali
della formazione di Settembrini.
73 «L’espressione della voluttà dev’essere anch’ella voluttuosa, vezzosa, senza
quella semplicità che se è bellezza per l’intelligenza è rozzezza pel senso;
dev’essere abbagliante, manierata, abbigliata ed azzimata come una persona
voluttuosa. E così è stata necessariamente, ed è. Gli erotici greci, che dipingono
l’amore voluttuoso, sono tutti ammanierati nello stile e nella lingua. Gli Amori
di Luciano è la più manifatturata delle sue opere: gli Amori di Dafni e Cloe
furono scritti da Longo Sofista con molte svenevolezze, e tradotti dal Caro con
molta ciarpa. Mentre Galileo e il Tassoni scrivevano con tanta gravità e forza di
cose gravissime, il napoletano e voluttuoso Marino scriveva in uno stile tutto
frasche e fiori e antitesi e giochetti di parole. […] Ma perché [Boccaccio] ha
imitato i Latini? perché non i Provenzali? Perché la voluttà fu cosa cara e divina
ai pagani non ai cristiani»: Lezioni, I, pp. 183-84.
[20] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 169
infatti, gli Amori Pastorali di Longo-Caro può avere offerto ai Neoplatonici
qualche analogia metaforico-lessicale e soprattutto elementi
contenutistico-formali. Anche l’opera di Longo Sofista si presenta come
un “romanzo di formazione”, fatte salve le differenti dimensioni dovute
al genere “romanzo” ellenistico di contro al “racconto” milesio di
Aristeo; inoltre risultano entrambi narratologicamente privi di “eventi”
e costruiti sulla semplice successione cronologica. E si potrebbe
affermare, anzi, che derivi dagli Amori pastorali proprio lo schema
narrativo dei Neoplatonici, schema che né gli Amori pseudo-lucianei né
i dialoghi platonici potevano offrire alla “favola” di Aristeo.
In entrambe le opere si racconta la graduale maturazione affettiva
e sessuale dei protagonisti attraverso la relazione con quell’altroa
con cui ciascuno-a è cresciuto fin da bambino-a, condividendo
ogni esperienza. L’ambientazione bucolica (l’isola di Lesbo) di Longo
Sofista diventa urbana (Atene) in Aristeo, il turbamento del primo
sentimento amoroso lì in chiave eterosessuale, qui è omosessuale, e
allo “stato di natura” degli Amori pastorali corrisponde la “cultura”
della polis nei Neoplatonici. Le due coppie devono procedere per
tentativi alla ricerca della modalità adatta per appagare il nuovo
sentimento, ma se l’inquietudine amorosa dei “Dioscuri” sparisce –
abbastanza presto – quando essi godono il primo frutto del loro amore,
per Dafni e Cloe il passaggio dalle “fronde e dai fiori” ai “frutti”
sarà più lungo e travagliato perché, stranamente (per un lettore
moderno), l’idilliaco stato di natura non è in sé stesso condizione
sufficiente alla formazione della coppia umana. E come i due Dioscuri
si sperimentano e maturano attraverso gli incontri con Codro e con
Innide, altrettanto (per quanto riguarda la relazione erotica) accadrà
a Dafni attraverso l’incontro con Licenia e con Gnatone.
A fronte di una rappresentazione naturale e non negativa del rapporto
omosessuale nei Neoplatonici, negli Amori pastorali il breve episodio
di Gnatone è narrato invece sotto il segno del deforme e del satiresco.
Identico resta invece il tratto comune dell’iniziazione eterosessuale dei
personaggi maschili: sia Dafni che Callicle e Doro hanno bisogno di
“imparare” il rapporto con la donna attraverso un maestro, che sarà
Licenia per il primo, Innide per gli amici-amanti neoplatonici, ed entrambe
per i propri scopi sfruttano l’ingenuità dei loro “discepoli”.
5. Quanto finora detto riguarda, naturalmente, il testo de I Neoplatonici
che ci è giunto. In linea teorica non si può escludere che il
racconto non possa essere stato concepito nell’ergastolo di Santo
Stefano, o addirittura ancora prima, negli anni fra la giovinezza e il
170 DOMENICO CONOSCENTI [21]
1847, periodo segnato per Settembrini dalla forte presenza di Basilio
Puoti, al di là della effettiva frequentazione della sua scuola. In
quali anni e per quanto tempo Settembrini abbia seguito le sue
lezioni egli non lo dice con precisione: nelle Ricordanze parla di lui
dopo aver fatto riferimento ai propri vent’anni e, più avanti, a proposito
dell’esame per la cattedra di liceo a Catanzaro: dunque fra il
1833 e il 183574. Dalla fine di quest’anno Settembrini è a Catanzaro,
dove, nel 1839 è arrestato per la prima volta, condotto a Napoli e
recluso fino all’ottobre del 184275. La frequentazione riprende dopo
la scarcerazione76, ma neanche stavolta si sa con quanta assiduità,
fino alla morte di Puoti nel 1847.
Nella scuola del marchese, lo studio si basava sia sui testi dell’antichità
greca e latina sia su quelli della classicità italiana, scelti prevalentemente
nell’ambito del Trecento e del Cinquecento, oltre che su
volgarizzamenti degli stessi secoli77. Sono “fonti” tematiche ed espressive
indubbiamente compatibili con la fabula milesia del patriota-letterato.
Nel 1830, nella scuola di Puoti, Cesare Dalbono aveva pubblicato
la traduzione di tre testi di Luciano, per quanto non riconducibili
all’area dell’osceno78; dal punto di vista puramente tematico, Settembrini
74 Ricordanze, cap. VII, pp. 64-67, e cap. IX, p. 80. Una conferma si ha in una
lettera da Catanzaro del 12 marzo 1836, nella quale scrive a Puoti: «[…] forse
non sarò stato il più assiduo dei vostri discepoli, ma certamente per amore e
rispetto verso di voi a pochissimi secondo»: cfr. L. A. Sottile D’Alfano e I.
Cordova, Il marchese Basilio Puoti e una sua corrispondenza, Napoli, De Simone,
1969, p. 100. Le due lettere ivi riportate, pp. 100-103, lasciano intuire che la
corrispondenza mantenne vivo il legame fra maestro e discepolo durante il
soggiorno di Settembrini a Catanzaro.
75 Ricordanze, capp. XII-XVI, pp. 96-151.
76 Cfr. Lezioni, II, p. 1148: «Egli mi voleva un bene diverso dagli altri, perché
io fui imprigionato, e spesso quando eravamo soli ragionava con me di politica.
[…] Quando pubblicò il suo Vocabolario napolitano ebbe una fiera e villana critica.
Io me ne sdegnai, e scrissi un dialogo bene impepato, che intitolai Il Gozzi,
contro quel critico. Lo lessi a lui ed all’ab. Vito Fornari: vi fecero alcune osservazioni,
e me lo lodarono. Dunque io lo farò stampare. No, disse il marchese,
non voglio, anzi te lo proibisco. Non voglio che tu prenda inimicizie per me. Di
poco sei uscito di prigione e non devi mostrarti vivo». L’ultimo volume delle
Lezioni uscì nel 1872.
77 Cfr. M. L. Chirico, Basilio Puoti, in La cultura classica a Napoli nell’Ottocento,
cit., pp. 321-337; utile è la lettura dell’Elogio del marchese Basilio Puoti, cit., e
delle pp. 64-67 di Ricordanze; interessante, anche per la differenza di approccio,
quanto scrive F. De Sanctis, L’ultimo de’ puristi (1868), in Id., Saggi critici, a cura
di L. Russo, Bari, Laterza, 1952, II, pp. 216-239.
78 Si tratta del Sogno e di due dialoghi marini: cfr. M. Gigante, Luigi
Settembrini, in La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, cit., p. 427.
[22] SULLA DATAZIONE DE I NEOPLATONICI DI LUIGI SETTEMBRINI 171
poi aveva certamente letto fra i versi dell’Iliade dell’amicizia amorosa
di Achille e Patroclo79 e conosceva, attraverso gli storici (ad esempio
Tucidide), le figure di Armodio e Aristogitone, amanti e tirannicidi.
Il periodo fino al 1847, anno della morte di Puoti e della Protesta
del popolo delle due Sicilie, è caratterizzato inoltre dai contatti con le
sette dei rivoluzionari Figliuoli della Giovane Italia e dalla reclusione
a Napoli dal 1839 al 1842. Se proprio, sulla scorta di Cantarella e di
Gigante, si vuole leggere I Neoplatonici come transfert liberatorio di
una qualche esperienza, non solo l’ergastolo (e allora anche la prima
detenzione), ma l’ambiente dei cospiratori settari, con i riferimenti
alle virtù degli antichi80, o anche quello della scuola di Puoti,
maestro “socratico” per unanime definizione e innamorato della Grecia
antica, si presterebbero altrettanto all’instaurarsi, se non di relazioni,
di un clima di diffusa affettività tutta al maschile, più verosimilmente
“idealizzabile” nel racconto postumo.
Non ritengo insomma di escludere a priori la possibilità di una
precedente stesura dei Neoplatonici che però, per le ragioni fin qui
esposte, doveva avere caratteristiche espressive e narrative differenti
dal testo poi pubblicato. Nell’attesa che qualche inedito settembriniano
custodito dagli eredi o da privati, magari una bozza del racconto,
risolva la questione, supportando o smentendo questa ipotesi,
i collegamenti del testo pubblicato, come s’è visto, spostano alla
metà del 1860 il terminus post quem.
Anche lo sguardo non moralistico, giocoso e ludico sul tema
erotico, che costituisce un’ulteriore forte associazione col Decameron,
a me pare un atteggiamento mentale meglio compatibile con la
maturità dell’autore e più plausibile dal rientro a Napoli in poi,
dopo aver visto nel giro di pochissimo tempo avverarsi sogni come
la liberazione dall’ergastolo, la fine dell’esilio, la cacciata degli odiati
Borboni, l’unificazione d’Italia, l’avvio della pubblicazione del suo
Luciano. La svolta della maturità porta con sé anche l’attività di
insegnamento all’Università e la stesura delle Lezioni, con la revisione
o la messa a fuoco di alcuni giudizi critici. In quelle circostanze
79 Sullo studio assiduo di Omero in previsione del concorso, cfr. Ricordanze,
pp. 63, 78 e 79. All’Iliade accenna anche durante la carcerazione a S. Maria
Apparente: cfr. ivi, p. 123.
80 Cfr. Ricordanze, pp. 68-76 e 96-98; M. Themelly, Introduzione a L.
Settembrini, Opuscoli politici editi e inediti (1847-1851), cit., p. XX, nota 27; M.
Themelly, Luigi Settembrini nel centenario della morte. Note e proposte per una
biografia politica, Napoli, Società nazionale di scienze, lettere e arti, 1977, pp. 21-
24, specialmente nota 19.
172 DOMENICO CONOSCENTI [23]
oggettivamente e soggettivamente meno drammatiche e tese, il titanismo
protestatario e grave del patriota-letterato lascia emergere
anche il suo lato giocoso e ironico. Questo aspetto, mai disgiunto da
una nota provocatoria, appare ad esempio nel 1867, quando, a Giuseppe
Pitrè che gli aveva chiesto un profilo biografico, aveva inviato
l’epitaffio per la propria tomba:
Luigi Settembrini napoletano
studiando, minchionando, minchionato,
fra galera e cattedra
stette fra gli uomini dal 17 aprile 1813
al…81
La vena provocatoria, presente nell’Avvertenza del traduttore, sull’ipocrisia
dell’arte moderna e su quanti hanno nascosto i loro amori
maschili, quali che fossero i suoi bersagli, viene alleggerita dallo
spirito ludico del letterato amante del bello e del vero. Resteranno
probabilmente ignote le occasioni, private ed esterne, dalle quali
scaturì la scrittura dei Neoplatonici: forse l’attività di insegnamento e
l’elaborazione di opere accademiche oppure la decisione di riscrivere
un testo del passato nel quale si era imbattuto. Di certo quel racconto
fu ordinatamente ricopiato da Settembrini nella stessa carta delle
Ricordanze (come annota Cantarella)82, attraverso qualche passaggio
ormai perduto approdò nel 1936 alla Biblioteca Nazionale di Napoli
per essere pubblicato un secolo dopo la morte del suo autore.
Domenico Conoscenti
(Palermo)
81 Luigi Settembrini a Giuseppe Pitrè, in «Nuova Antologia», LXIX, fasc. 1487,
1934, pp. 30-31. Rimane, nello stesso spirito ludicamente amaro, un Elogio funebre
di Luigi Settembrini scritto da lui stesso ancora vivo, in L. Settembrini, Scritti inediti,
cit., pp. 301-306, sul quale Torraca non fornisce alcuna indicazione cronologica;
tuttavia alcune affermazioni (ad es. sulla cattedra all’Università) e un ricordo del
padre, che troverà sviluppo nella seconda redazione delle Ricordanze, avvicinano
il testo almeno alla fine degli anni 60. Quale che sia la data dell’Elogio funebre,
Settembrini redasse il proprio testamento il 10 febbraio 1869 e lo confermò il 30
dicembre 1873: cfr. L. Settembrini, Lettere edite e inedite 1860-1876, cit., p. 275.
82 Cfr. NPL, p. 22. Non la stessa felice sorte ebbe Dei buoni e dei cattivi
scrittori (cfr. supra, nota 65), nel cui manoscritto Settembrini appose nel 1864 una
postilla di ripudio e di perentorio divieto di pubblicazione (cfr. A. Vallone, Il
vichismo di Settembrini, cit., p. 365). Il manoscritto londinese delle Ricordanze fu
ripreso forse nel 1865, di sicuro nel 1874-76: cfr. M. Themelly, La redazione delle
“Ricordanze”, cit., p. 535.
Note
MARCO LEONE
Su Dante e il suo tempo con altri scritti
di italianistica di Mario Marti
This essay analyzes Mario Marti’s latest book (Su Dante e il suo
tempo e altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo, 2009) pointing
out the similarities between it and the previous works of the same
author and underlining both its reliance on philological-historical
techniques and the presence in it of new exegetic suggestions.
Nonostante che sia opera di uno studioso âgé e di un filologo di
provatissima esperienza, l’ultimo libro di Mario Marti (Su Dante e il
suo tempo con altri scritti di italianistica, Galatina, Congedo Editore
2009, pp. 136, con una Premessa di Paolo Viti) si caratterizza, nell’affrontare
temi spinosi e complessi o nel delineare ritratti di figure
minori e secondarie, per una singolare e quasi esuberante freschezza
di scrittura, che rende accessibile, ma mai convenzionale o scontato,
il discorso critico e che è proprio il frutto della diuturna e mai
intermessa consuetudine dell’autore con i testi letterari e della sua
pluridecennale attività di indagini storiche e letterarie. Il libro, secondo
quanto indica l’Avvertenza editoriale, si configura come una
«postrema raccolta di saggi critici» (p. 131; diciassette, per la precisione),
già pubblicati in altre sedi o, comunque, composti fra i novanta
e i novantacinque anni di Marti; ma non perciò è il frutto di
«gratificante vanità senile» (ibidem), come lo stesso Marti vorrebbe
far credere con senso di modestia e di discrezione, richiamando
l’auto-dedica del volume ai suoi novantacinque anni. Piuttosto, conferma
in modo significativo uno degli interessi più importanti e
persistenti del suo lunghissimo percorso di ricercatore, vale a dire
Dante e la letteratura dei primi secoli che orbita intorno al poeta
della Commedia. Non a caso nella prima sezione del libro (Su Dante
e il suo tempo, pp. 3-76) Marti raggruppa undici saggi d’argomento
dantesco o che a Dante sono in qualche modo correlati, per poi
allargarsi verso altri autori e verso altri secoli, secondo un modello
174 MARCO LEONE [2]
di articolazione interna della materia saggistica che egli aveva già
adoperato, sul filo della polemica culturale, in un altro suo recente
volume (Da Dante a Croce. Proposte, consensi e dissensi, Galatina,
Congedo, 2005).
Apre la sequenza dei saggi una problematica riflessione (Una
mantissa ermeneutica per il X dell’«Inferno», pp. 3-12) su una «mantissa
ermeneutica» relativa ai vv. 62-63 del celebre X canto dell’Inferno
(quello di Farinata), e cioè la dibattuta questione sull’identità del
personaggio oggetto del «disdegno» di Guido Cavalcanti, tema sul
quale si è a lungo esercitata la critica dantesca. Riallacciandosi alla
tesi, ormai universalmente accettata, per la quale nell’allusione a
questo personaggio è riconoscibile la figura di Beatrice, Marti la
rafforza e l’arricchisce con l’aggiunta di motivazioni storiche e psicologiche
che incorniciano l’incontro Dante-Farinata (e all’interno di
quest’incontro, il confronto Dante-Cavalcanti padre) in una prospettiva
rinnovata: se ne sottolinea la vis polemica e la cifra agonistica
da parte di entrambi gli interlocutori (contro l’ipotesi di un Dante
remissivo e intimidito dinanzi alla fierezza di Farinata), la centralità
nella corretta esplicazione del rapporto amicale e poetico fra Dante
e Guido, la combinazione perfettamente sincronica, nell’invenzione
e nella scrittura di quella narrazione, di «oggettiva realtà storica», di
«generale realtà fantastica», di «privata e personale realtà psicotecnica
del fictor» (p. 12), in una ibrida commistione di livelli interpretativi
e semantici.
Un altro fondamentale punto del poema dantesco (il canto di
San Francesco: l’XI del Paradiso) è materia di analisi nel secondo
saggio del libro (Storia e ideologia nel san Francesco di Dante, pp. 13-
26). Di questo canto Marti evidenzia non il carattere isolato e
monografico, ma la stretta connessione con i passaggi narrativi precedenti
e seguenti. Inoltre, ne incentra la lettura, dopo una sua
autoptica dissezione, sul tema-chiave dell’apostolato, che si lega
indissolubilmente a quello, tradizionale, della povertà. Il ritratto
dantesco di Francesco risulta così per Marti un profilo peculiare,
come egli tiene a rimarcare, che si distanzia, per certi versi, da tanta
letteratura francescana, incentrata su una visione letificante e mistica
del santo, per privilegiare, invece, altri aspetti della sua personalità
agiografica, funzionali agli slanci palingenetici ed escatologici,
ma anche ideologici e politico-civili, della terza cantica della Commedia.
A questi due importanti studi, che aprono nuovi fondamentali
orizzonti interpretativi di esegesi dantesca, seguono altrettanto si[
3] SU DANTE E IL SUO TEMPO CON ALTRI SCRITTI DI ITALIANISTICA DI M. MARTI 175
gnificative recensioni-saggio su recenti contributi e libri che riguardano
direttamente o indirettamente il poeta della Commedia e il suo
contesto di riferimento. Più che il merito delle singole recensioni,
svarianti da analisi di monografie e biografie dantesche a libri focalizzati
su questioni più specifiche, conta notare come queste recensioni-
saggio amplifichino sistematicamente l’argomento di partenza,
divenendo così veri e propri studi autonomi. Di ogni libro e
contributo Marti, infatti, prima analizza, con precisione, meticolosità
e tensione definitoria, struttura, contenuti, pregi e difetti, esprimendo
consensi e dissensi, sempre nel segno di una valutazione circostanziata
e obiettiva; poi inserisce elementi personali e innovatori
arricchenti l’interpretazione del tema, sia che si tratti di corposi
volumi storico-filosofico-letterari (Umberto Carpi e la nobiltà di Dante,
pp. 27-32; Un libro di John A. Scott su Dante, pp. 33-37; Anima e corpo
in Dante e la coeva escatologia, pp. 51-54) o di importanti studi biografici
(Pasquini, Viti: Per una nuova «Vita di Dante» (con due affondi su
Gemma e Guido), pp. 39-43; Il «Dantino» di Gorizio Viti incorniciato di
ricordi, pp. 45-50). Ma non mancano neppure escursioni su ricerche
para-dantesche o, comunque, legate alla letteratura due-trecentesca
(I percorsi duecenteschi di Michelangelo Picone, pp. 65-70), con una
particolare attenzione ai prodotti ecdotici e testuali relativi a quest’epoca
(Per la nuova, grande edizione dei “Poeti della scuola siciliana”,
pp. 59-64; Un’interessante edizione della Reina del Pucci, pp. 71-76).
Non per nulla questa prima sezione si intitola proprio «Su Dante e
il suo tempo», ad indicare volutamente una dilatazione dei confini
del territorio strettamente dantologico. Emerge costantemente da
questi scritti una codificazione del genere-recensione nella sua forma
più alta ed esemplare, nella quale il dato informativo si unisce
alla digressione integrativa, alla proposta di contributi originali o
alla puntualizzazione chiarificatrice (come i due «affondi» su Gemma
e Guido, la cui canzone dottrinale Donna me prega è risolutamente
considerata da Marti anteriore alla Vita Nuova, contro l’ipotesi
di altri dantisti che sconvolgono, invece, questo ordine gerarchico
e la ritengono una risposta al libello dantesco). Si fornisce così un
supplemento di notizie rispetto all’oggetto di ricerca preso in esame
e ciò si verifica spesso sulla spinta di veementi tensioni polemiche
contro la tendenza ingiustificata di molta critica contemporanea alla
trouvaille sensazionale o al facile revisionismo e al disinvolto
sovvertimento di teorie consolidate e canoniche, per un puro gusto
della novità che nasconde spesso una carenza di argomenti e di
ragioni (si veda il citato caso di Donna me prega); o nella scia di
176 MARCO LEONE [4]
essenziali e quasi sacrali assunti metodologici, riconducibili alla formazione
storicistica di Marti (la necessità di dare fondatezza storica
e argomentativa a ogni nuova ipotesi d’interpretazione). Insomma,
risalta dalle «recensioni-saggio» o «recensioni-contributo» (come
Marti le definisce nell’Avvertenza editoriale), alcune delle quali offerte
a miscellanee in onore di illustri colleghi (quella, ad esempio, al
libro di John A. Scott su Dante è donata a Vitilio Masiello), una
dimostrazione di autentica perizia esegetico-filologica e di consapevole
rigore metodologico, che si riversano, a giovamento del lettore,
in questi cammei interpretativi, davvero cospicui per acume e spessore,
soprattutto a proposito di questioni ecdotico-testuali (ragguardevole,
sotto questo aspetto, è in particolare il commento all’edizione
dei Siciliani). Apprezzabile è anche, però, il loro aspetto stilistico,
avvolgente e accattivante, che coniuga l’utilizzo dei necessari
tecnicismi con espressioni quotidiane o proverbiali («porre limiti
[…] alla divina provvidenza», p. 43, «foglia di fico», p. 73) e che si
sostanzia di una prosa caratterizzata da una struttura dialogica
paratattica e aperta e da un ragionamento critico retoricamente persuasivo
e logicamente stringente in tutti i suoi sequenziali passaggi,
talora punteggiato da interrogative e da appelli diretti al lettore che
fungono da sostegno e orientamento all’argomentazione. Altre volte,
invece, la recensione si ravviva in virtù del supporto della componente
autobiografica e della nota memorialistica (come per il
«Dantino» incorniciato di ricordi dell’indimenticato sodale Gorizio
Viti), in modo talmente compenetrato da parere quasi che dal profilo
dell’opera esaminata affiori quello, umanissimo e cordiale, del
proprio artefice. Specialmente affabile risulta, infatti, il timbro della
narrazione, quando questa si accompagni alla rievocazione memoriale
e al flusso della rimembranza (e in queste occasioni Marti
sembra dare davvero il meglio di sé, impegnandosi a correlare,
senza confonderli, il piano del ricordo personale con quello della
presentazione critica). La ricognizione recensoria viene così suffragata,
senza però rischi di parzialità o di deformazioni valutative, dal richiamo
della sincera amicizia umana e culturale: in questo caso,
quella con l’affezionato studioso fiorentino Gorizio Viti, che ebbe a
rinforzarsi anche sulla base dei condivisi interessi danteschi.
Ma oltre che in questi esercizi interpretativi non comuni e mai
banali, la perspicacia di Marti si manifesta anche nell’elaborazione
di tesi originali, a proposito, per esempio, di una peculiare chiave di
lettura del poema dantesco, illustrata nel nono e inedito studio di
questa prima sezione, intitolato Un’idea di possibile lettura tridimen[
5] SU DANTE E IL SUO TEMPO CON ALTRI SCRITTI DI ITALIANISTICA DI M. MARTI 177
sionale di episodi del poema dantesco (pp. 55-58). È questo un breve,
ma importante saggio, in cui Marti avanza e fonda, per la prima
volta, un metodo di interpretazione sviluppato in lui progressivamente,
nel corso del suo lungo tirocinio sull’opera di Dante e, in
particolare, della sua riflessione su alcuni specifici episodi danteschi
(il già citato canto di San Francesco), ma valido però anche per altri
testi letterari, avendo esso valenza generale, di stampo teorico ed
ermeneutico, oltre i casi singoli e contingenti. La lettura tridimensionale
di episodi danteschi consiste essenzialmente nel coglierne la
composita e profonda stratificazione interna, l’unica via possibile
per rintracciarne appieno le fibre costitutive e le nervature sostanziali,
disposte secondo triplice sovrapposizione: momento storico o
cronachistico, trasfigurazione tecnico-retorico-letteraria di tale momento,
proiezione delle condizioni psicologiche, ideologiche e, per
così dire, sentimentali dell’artefice-scrittore al momento dell’invenzione
poetica. L’“ermeneutica tridimensionale” in questione analizza
i tre livelli intrinseci al testo dantesco, differenti, certamente, e
pur tuttavia non irrelati, ma dialetticamente e reciprocamente connessi
in un’armonica e problematica modulazione, che Marti riesce
a riportare in luce e a mettere in evidenza. Secondo lo studioso,
infatti, il puro dato storico è spesso ripensato sulla base della spinta
ideologica e psicologica oppure di quella creatrice e rielaborativa
dell’autore (o, simultaneamente, di entrambe). Questa lettura stereoscopica
del testo poetico consente di penetrare dentro questo suo
peculiare processo compositivo, saggiandone i recessi più intimi e
insinuandosi nelle sue pieghe più nascoste, per offrirne una interpretazione
autentica, pertinente e attendibile (o, perlomeno, una
fondata approssimazione alla verità originaria in esso contenuta).
Alla spiegazione della proposta esegetica, che ha anche il merito,
per quanto possibile, di evitare il rischio di deformazioni prospettiche,
di alterazioni ottiche e di sfasature di visuale temporale e di
risolvere dualismi atavici e connaturati alla stessa attività poietica
(le polarità schema letterario-realtà biografica, storia-invenzione,
auctor-fictor ecc.), Marti affianca, come è suo costume, per corroborarla
e verificarla praticamente e in concretezza, oltre ogni ambiguità
teorica, sintomatiche e illuminanti esplicazioni tratte dai suoi prediletti
canti X dell’Inferno e XI del Paradiso, scendendo così sul piano
empirico dei testi letterari. Per quanto riguarda, ad esempio, l’avverbio
regalmente, utilizzato da Dante nell’XI del Paradiso per descrivere
l’atteggiamento fiero con il quale Francesco sottopose a papa
Innocenzo III la sua prima Regola, tale avverbio, sostiene Marti, «a
178 MARCO LEONE [6]
Francesco storicamente non si addice perché è solo frutto della lingua
e della fantasia di Dante nel calore della creazione poetica» (p.
57), dal momento che anche le fonti francescane attestano, invece,
un atteggiamento di umiltà e di remissione del santo nel momento
solenne dell’incontro con quel Pontefice.
Analoga tensione interpretativa e problematizzante affiora nella
seconda sezione del libro, intitolata Altri scritti d’italianistica, che
non è affatto scollegata dalla prima, ma che con questa costituisce
un coerente dittico, per solidità d’impianto e per scrupolosità d’indagine,
sia pure su un versante diversificato e multiforme, lungo
quasi l’intero arco della tradizione letteraria italiana (dal Quattrocento
al Novecento): sicché si può dire che l’architettura del volume
ne risulta compatta e unitaria, ben oltre la semplice aggregazione
disomogenea di saggi e di studi. Abbandonato definitivamente il
territorio dantesco, anche in questa seconda sezione sono incluse
acute recensioni (Sulle Rime di Giovanni Guidiccioni, pp. 81-85; Su tre
offerte leopardiane, pp. 97-108) già pubblicate (come già accadeva per
alcune di quelle incluse nella precedente sezione) sul «Giornale Storico
della Letteratura italiana», di cui Marti è condirettore. Ma non
mancano scritti pensati per Festschriften in omaggio di sodali e studiosi,
nel segno di una sincera disponibilità umana e di una partecipe
colleganza accademica (Postilla sull’anno di nascita del Galateo,
pp. 77-80; L’Orazio vivo di Francesco Politi: una metamorfosi
attualizzante, pp. 109-120; Appunti sulla scrittura di Donato Valli narratore,
pp. 121-130) e anche contributi inediti al momento della pubblicazione
del libro (la Notizia degli Scherzi d’ingegno del dottor Fisico
Francesco Antonio De Virgiliis, pp. 85-96, poi uscito pure nel «Giornale
Storico della Letteratura italiana»). Nonostante che la seconda
sezione si concentri prevalentemente su personaggi letterari marginali
e, talora, minimi e si contraddistingua per scritture più occasionali,
sollecitate da circostanze contingenti o da interessi più
estemporanei e cursori rispetto all’imperante direttrice dantesca della
prima sezione (con l’eccezione delle tre «offerte» su Leopardi, altro
“fuoco” centrale della produzione critica martiana), tuttavia il rigore
del filologo e dell’interprete è sempre il medesimo anche a proposito
di questi argomenti, nel rispetto di un inderogabile postulato
metodologico dello studioso, per il quale non è tanto importante
l’oggetto della ricerca letteraria e filologica in sé, quanto il modo
con cui tale oggetto viene affrontato e approfondito (pure da qui
deriva, per lui, la significatività storico-culturale del “minore”). Sbaglierebbe,
dunque, chi considerasse questi scritti della seconda parte
[7] SU DANTE E IL SUO TEMPO CON ALTRI SCRITTI DI ITALIANISTICA DI M. MARTI 179
del libro scritti minori, solo per il loro contenuto, rispetto agli impegnativi
affreschi danteschi della prima sezione, perché in realtà essi
rivelano pienamente una fedele osservanza di un metodo di ricerca
che non si smentisce mai, neppure a confronto con questioni laterali
o profili letterari di secondo piano, e che, anzi, in questi casi si
rafforza maggiormente. L’analisi critica si rende inoltre più disponibile
e fascinosa, quando Marti coniuga l’esercizio severo e rigoroso
del suo metodo storicista e della sua “filologia integrale” (per richiamare
il titolo di un suo celebre libro) con quel senso della sodalitas
che accresce il significato di questi scritti dedicati ad amici e a colleghi,
spesso impreziositi dal ricordo di esperienze condivise e di
tasselli autobiografici. Così, se il primo saggio di questa seconda
sezione fissa l’esatto anno di nascita del Galateo al 1446 (contro
l’ipotesi del 1448), richiamandosi a studi precedenti di Marti sull’argomento,
di cui questo contributo costituisce per l’appunto una
«postilla» conclusiva e definitiva, ed è importante anche per il suo
intrinseco carattere metodologico (la riaffermazione della necessità
di basarsi sulle certezze storiche, per giungere di conseguenza alle
verità interpretative), e il secondo (su una moderna edizione delle
Rime del poeta cinquecentesco Giovanni Guidiccioni, a cura di Emilio
Torchio) è una recensione tecnico-filologica esemplare per la competenza
che la informa, il terzo (il quattordicesimo dell’intero volume)
si incentra invece su una figura minore e periferica della letteratura
salentina, quasi un fantasma. Si tratta del tardo-secentista
latianese Francesco Antonio De Virgiliis, autore di un’opera intitolata
Scherzi geniali (pubblicata a Lecce nel 1677), che è una raccolta
di prose e di poesie composte al modo del gusto barocco, tra
erudizione, storia e mitologia, e che si richiama apertamente a
un’omonima opera del Principe dell’accademia veneziana degli Incogniti,
Giovan Francesco Loredano, nel solco del genere letterariomusicale
dello “scherzo”, di grande fortuna e diffusione in epoca
secentesca. Marti sceglie di occuparsi di questo autore per reazione
all’inopinata e infondata ipotesi, da qualcuno avanzata di recente,
secondo la quale il De Virgiliis sarebbe addirittura un antecedente
stilistico e ideologico di Leopardi e del suo pessimismo. Ma lo spunto
polemico, dettato dalla legittima esigenza di ristabilire i giusti termini
della verità dinanzi a tanta spregiudicata disinvoltura
interpretativa (ricorre ancora una volta la contestazione contro la
tendenza neofila, perseguita a tutti i costi da molta critica moderna),
svanisce ben presto e si trasforma in un pretesto che stimola, invece,
una disamina lucida e pacata di questa figura, restituita alla sua
180 MARCO LEONE [8]
reale identità e restaurata nella sua autentica fisionomia storica (senza
inappropriate ed enfatiche sopravvalutazioni e senza neppure preconcette
stroncature, ma con un giudizio armonico ed equilibrato,
storicamente congruente alla sua effettiva dimensione). Gli Scherzi
geniali sono analizzati, infatti, dal punto di vista strutturale, stilisticolinguistico
e metrico-retorico (la centralità della prosopopea in molte
delle prose), oltre che da quello della storia del genere dello
“scherzo”. Inoltre, il loro autore è pienamente calato nel contesto di
appartenenza, secondo quel rapporto maggiore-minore che ha qualificato
tante esplorazioni critico-storiografiche di Marti su aree secondarie
della tradizione letteraria italiana e, in particolare, sull’area
geo-culturale di Terra d’Otranto. Il saggio sul De Virgiliis si inserisce
totalmente, così, nella linea della filologia storicistica e “integrale”
di questo studioso, rappresentandone un considerevole risultato
paradigmatico teso all’adeguata e sobria valorizzazione storico-documentaria
di un personaggio minore. All’osservazione dei dati
materiali e tecnici presi in esame, si affianca anche il vaglio di tutti
gli elementi extra-letterari, ambientali, situazionali, relativi al testo e
al suo autore, nel quadro, per l’appunto, di una visione globale e
complessiva del testo poetico, che approfondisce i vari e i singoli
elementi dell’interpretazione, ma in un’ottica unitaria e integrata.
Seguono le già menzionate tre «offerte» leopardiane, sicure e lucide
schede su tre recenti contributi leopardiani di Luigi Blasucci, di
Lucio Felici e di Enrico Ghidetti, che rivelano la profonda conoscenza
di Marti degli studi leopardiani e la sua perfetta padronanza di questo
campo. Anche in tal caso è davvero magistrale la capacità dello
studioso di sondare in profondità i libri oggetto del suo studio, riletti
secondo le sue irrinunciabili prerogative metodologiche e, dunque,
valutati sotto questa specifica lente, anche con il supporto avvalorante
di copiose citazioni dai libri in questione, che ne dimostrano uno
scandaglio reale, attento e analitico. Accade che Marti concordi, per
esempio, con Ghidetti e trovi in lui conferma e conforto riguardo
all’ipotesi della sostanziale difformità ideologica e temporale fra la
prima e la seconda “sepolcrale” (pp. 105-106), ipotesi dallo stesso
Marti a suo tempo avanzata e argomentata; o che non perda l’occasione
di rilevare, nel passare in rassegna questi studi, princìpi di
carattere generale e sistematico, come l’inutilità di individuare, a tutti
i costi, fonti letterarie e riflessi intertestuali nel commento ai testi,
magari rendendoli appesantiti e prolissi, a meno che non si tratti di
elementi certamente rintracciabili e identificabili (p. 102).
Chiudono il volume due saggi, per certi versi accomunabili,
[9] SU DANTE E IL SUO TEMPO CON ALTRI SCRITTI DI ITALIANISTICA DI M. MARTI 181
poiché entrambi riguardano esercizi di traduzione e di scrittura
creativa di due illustri studiosi e colleghi salentini di Mario Marti,
il germanista Francesco Politi e il contemporaneista Donato Valli,
qui presi in considerazione non per la loro opera saggistica e accademica,
in essi certamente prevalente e centrale, ma per altre loro
prove letterarie. Di Politi, che si è distinto anche per una significativa
attività di traduttore oltre che di poeta, si esaminano le versioni
di alcuni componimenti oraziani (carmi e satire) in italiano e in
dialetto, raccolte sotto il titolo suggestivo di Orazio vivo. E davvero
vivo è, per Marti, l’Orazio di Politi, capace, a suo dire, di «schiantare
la cristallizzazione della lingua morta e degli antichi, inaccessibili
ritmi» (p. 111) e di riadattare le tematiche del poeta venosino
alla modernità «mediante un linguaggio fresco, brioso, ammiccante
e multiforme, al caso anche con incrostazioni dialettali» (ibidem). La
riattualizzazione dell’antico avviene essenzialmente sul piano delle
soluzioni tecniche e metrico-stilistiche, adottate dal traduttore nel
senso di una «metamorfosi attualizzante» (per usare la felice formula
coniata da Mario Marti) e individuate dallo stesso Marti con
diligenza e con abbondanza di esemplificazioni. Questa tipologia di
traduzione consiste soprattutto nel rendere il testo latino non in
modo passivo, inerte o imitativo, ma come un libero rifacimento (la
«metamorfosi attualizzante») che, tuttavia, non tradisce mai l’originale,
ma lo arricchisce di implicazioni innovative: attraverso questa
via, il modello antico diviene così l’innesco per una virtuosa azione
ricreatrice e rielaboratrice del suo metafraste.
Di uguale illuminante scrupolo analitico, ancora una volta applicato
a elementi tecnico-stilistici e retorico-formali, ma mai disgiunto
da una consapevole e robusta visione storicistica, Marti si serve
prendendo in esame la scrittura narrativa del suo collega e discepolo
Donato Valli, in un contributo pensato per il compimento dei
settantacinque anni e per il conseguente congedo dall’Università di
quest’ultimo (contributo già compreso nella miscellanea pubblicata
in onore di Valli per tale occasione). Marti sceglie di occuparsi della
folta produzione letteraria di Valli, riconoscendovi una perspicua e
congeniale «attitudine narrativa» (p. 121), indagata con particolare
riferimento alle sue modalità espressive e descrittive. Dopo aver
passato in rassegna questa produzione in ordine cronologico, al fine
di accertarne la «storica entità» (ibidem), secondo una procedura di
esplorazione in lui consueta (prima il dato storicamente certo e
accertabile, poi, in sequenziale collegamento, il vero mai dogmatico
dell’interpretazione e della proposta critica), l’autore del saggio si
182 MARCO LEONE [10]
sofferma sulle tematiche ricorrenti della narrativa di Valli e sulle
peculiarità della sua scrittura, evidenziando una varia «fenomenologia
psicostilistica» (p. 127) che è alla base di un ornato stilistico
polito e sorvegliato e, a tratti, persino sofisticato e iperletterario (la
ricercatezza adoperata dallo scrittore nella costruzione dei cola
sintattici, abilmente messa in luce dal recensore). Alla fine, come
esito naturale e conclusivo, emerge la valutazione di merito, depurata
da ogni tipo di coinvolgimento affettivo e sentimentale, nonostante
l’intrinseco legame con il sodale e collega, in base alla quale
la predilezione di Marti va senza dubbio, in particolare, a un’opera
memorialistica di Valli, Un cero per Nostra Signora (del 1992), ricolma
di ricordi personali, nella quale egli ripercorre le soddisfazioni, ma
anche i tormenti e le frustrazioni, della sua pluriennale esperienza
rettorale, per lui vitalissima e dirompente dal punto di vista accademico
e umano.
Dall’analisi al giudizio, dal certo al vero, dalla filologia alla comprensione
della varia fenomenologia degli uomini e del mondo,
l’ultimo scritto del libro conferma, alla stregua di un significativo
suggello, un metodo euristico comune anche a tutti gli altri saggi e
ancorato saldamente e indissolubilmente ai presupposti fattuali e
concreti della storia e dell’esperienza del reale, contro ogni vuota
astrazione o sterile teoricità. A tale metodo Marti è rimasto sempre
fedele nel corso della sua lunga vita di uomo e di studioso, come
egli ha tenuto a ribadire e riconvalidare con coerenza pure in questo
suo notevole lavoro, quale lezione duratura e indelebile.
Marco Leone
(Lecce)
Recensioni
Pasquale Guaragnella, Teatri di
comportamento. La «regola» e il «difforme
» da Torquato Tasso a Paolo Sarpi,
Napoli, Liguori Editore, 2009 (Letterature,
75), pp. 182.
La polifonia dei diversi capitoli
inclusi nel volume è diretta dal saggio
iniziale: Un architesto sui buoni e
cattivi comportamenti. Introduzione,
(pp. 1-19). Qui l’autore ribadisce
come al Galateo di Della Casa, pubblicato
nel 1558, spetti il ruolo di
fondazione delle norme del buon
comportamento nella cultura di Antico
Regime. Facendo tesoro della
trattatistica ormai codificata, da quella
antica sino al vicino Libro del Cortegiano,
il Galateo si inclina a disciplinare
le buone maniere quotidiane,
solo in apparenza più «frivole»
perché, a tutti gli effetti, decisive in
ogni condotta, tanto nella sfera privata
quanto in quella pubblica, a
maggior ragione in una società che
elaborava i suoi paradigmi «tutta al
di fuori», nei modi e nei costumi.
Adoperando come reagente i consigli
di Della Casa, che indicava come
«bussola il giusto mezzo, l’equilibrio,
e soprattutto il piacere delle persone
con cui trattiamo», Guaragnella
presenta sei «teatri di comportamento
» suggeriti da altrettanti classici
della tradizione letteraria di Cinque
e Seicento, già indagati dall’autore
in studi precedenti.
Il primo è quello che vede in scena
la «maschera» assunta da Tasso
nei Dialoghi: Teatri di conversazione e
malinconia. Sul ‘Gianluca’ e altri ‘Dialoghi’
di Torquato Tasso (pp. 21-48).
Ognuno dei travestimenti adottati
dal poeta nella finzione dialogica
mette in discussione e, per noi lettori,
rivela tratti della sua identità, denunciando
«ogni volta, paradossalmente,
una sorta di disincatata estraneità
». Nel nome ‘Forestiero Napolitano’,
ad esempio, voce di Tasso
nel Gianluca, incentrato proprio sul
tema dell’opportunità del mascherarsi,
l’origine partenopea è «ormai una
patria perduta», agendo soprattutto
il sostantivo nel senso di una condizione
umana di «alterità e differenza
». Rispondono a significati dell’interiorità
anche le scene dove si svolgono
le conversazioni, sempre ambientate
in sedi diverse dal chiuso
dell’Ospedale di Sant’Anna, in fuga
dai luoghi «malinconici, della sua
follia». La solitudine del poeta si manifesta
nel costante distanziamento
184 RECENSIONI
nei confronti degli interlocutori, e il
disagio sofferto da questa «figura
dell’alterezza» comprova la resistenza
del Galateo, che dissuadeva la
disarmonia fra i soggetti di una conversazione.
La seconda parte del
capitolo si snoda dunque sul tema
della celebre malattia tassiana, non
rara in un’età, come si è detto, permeata
«dall’istanza della forma e
della norma, […] del dover essere e
apparire».
La cena delle ceneri di Giordano
Bruno, ambientata nella Londra che
lo scrittore visitò tra il 1583 e il 1585,
dà modo a Guaragnella di indagare
sulle dinamiche attivate con interlocutori
esteri. In questo secondo capitolo
del volume, «Alto» e «basso»
in una conversazione londinese. Su ‘La
cena de le ceneri’ di Giordano Bruno
(pp. 49-71), l’autore si sofferma sul
racconto «quasi teatrale», anch’esso
in forma di dialogo, della drammatica
avventura notturna di Bruno.
Nell’incontro con il ‘diverso’, lo scrittore
italiano ha modo di esprimere
sia la superiorità dei costumi italiani
nei confronti della plebe londinese,
tacciata di barbarie, sia, viceversa,
il compiacimento per la raffinatezza
della corte mecenatesca della
regina Elisabetta, esaltata tramite
gli attributi allegorici della «luce».
Quei gentiluomini illuminati, che perdono
i connotati dello «straniero
come l’inferiore» e partecipano a
quel «sistema di valori dell’Europa»
cui tanto contribuì l’Italia, si oppongono
alla cecità e alla grettezza dei
professori di Oxford con cui Teofilo,
il portavoce di Bruno, cena nella
dimora del nobile Fulk Greville. La
loro discussione, come è noto, si impernia
sulle reciproche vedute astronomiche,
copernicane quelle dell’italiano,
arroccate sui vecchi dogmatismi
peripatetici quelle dei pedanti.
Il sarcasmo mordace di Bruno si appunta
contro la loro apparenza fisica,
esageratamente ostentata, il bere
eccessivo, le ‘posture’ arroganti, la
gestualità rozza. Se è pur vero che
il Galateo chiedeva per casi analoghi
di «adattarsi al costume del luogo
in cui si trova», Bruno, proclamando
l’inconciliabilità filosofica, non si
trattiene dal dipingere con la «semantica
della pazzia» i pregiudizi
dei suoi commensali, fino a scendere
al registro della ‘bestialità’ per
stigmatizzarne l’ignoranza.
La dialettica fra regola e infrazione
della regola si declina in una serie
di storie esemplari, scavate nei settori
antitetici del bene e del male,
lungo le ottave che compongono il
Teatro poetico di Guido Casoni (1615),
argomento del terzo capitolo: Teatro
dei mondani comportamenti ed esercizi
devoti. Su una operetta del veneto Guido
Casoni (pp. 73-92). Già il titolo,
osserva Guaragnella, sintomatico di
quella «teatralità come pratica diffusa
» ampiamente attestata nella
cultura del tardo Manierismo e poi
del Barocco, è rivelatore della vocazione
esemplificatoria del testo, intrinsecamente
modulato per essere
recepito all’esterno. Come in una
rappresentazione ripetuta tre volte,
e l’insistenza avvicina ai procedimenti
seriali delle arti della memoria,
il testo «è costituito da una sequenza
di brevi scritti secondo uno
schema che prevedeva un soggetto
predicabile […], una narrazione e
poi una lirica sul tema: dunque una
triplice versione che risentiva delle
tecniche espositive adottate pure
RECENSIONI 185
nelle dicerie sacre» (p. 78). Gli exempla
visualizzano storie di virtù abbinate
agli antitetici vizi, operando
uno «scavo di uguale profondità»
nei settori del bene e del male, entrambi
rappresentati con particolare
sensibilità tragica. Per questa via,
occorrerà sottolineare, ascoltando i
suggerimenti di Giovanni Pozzi opportunamente
ricordati da Guaragnella,
«la fiducia umanistica di
Casoni nelle ragioni della poesia e
nelle capacità di questa di ‘dire’ totalmente
il reale», riconoscendo al
poeta veneto la rara prerogativa di
«esprimere l’esperienza religiosa sul
registro dell’espressione negativa».
Le regole del buon comportamento
divengono i precetti della moderna
deontologia professionale nel
caso della vicenda galileiana. Il capitolo,
Dispute in scena. Galileo dalle
scritture sul compasso geometrico al
‘Saggiatore’ (pp. 93-124), percorre
momenti significativi dell’opera dello
scienziato esponendo le soluzioni
adottate per confrontarsi con i vari
antagonisti che la portata innovativa
delle sue idee inevitabilmente suscitava.
L’emersione di modi che da lì
in poi si imporranno nella comunità
scientifica moderna si combina, nel
caso galileiano, a discrimine fra due
epoche, con la riproposizione di tipi
codificati da tempo: dalla retorica
antica (Quintiliano in particolare)
fino alle serrate schermaglie della
controversistica. Il percorso si snoda
a partire dalla Difesa contro Baldassar
Capra (1607), dove traspare
l’offesa per l’attacco ai princìpi dell’onore
e del valore, retaggio del
«mondo eroico neofeudale» e fa il
suo esordio la coppia «silenzio/dismissione
del silenzio» come strategia
contro la calunnia. Passando attraverso
la disputa «de natantibus»,
quando ancora Galileo non pensava
di poter convincere i peripatetici e
dunque dà sfogo alla sua celebre
acutezza derisoria, si giunge alle Lettere
solari, che anche per la scelta
della forma epistolare rappresentano
il genere eletto, insieme all’affine
dialogo, dalla «civil conversazione».
Anche qui corre il filo del «silenzio
», inteso con significati sfaccettati:
come polemica finzione di non sapere,
piuttosto che come necessità
«quando non si abbia una dimostrazione
certa», in direzione socratica,
o come sospensione del giudizio. Di
seguito alle Lettere copernicane, a proposito
dei più celebri scritti del dibattito
sulle comete, fino al Saggiatore,
Guaragnella approfondisce lo studio
delle strategie agonistiche di Galileo,
riprendendo ad esempio il «mascheramento
» assunto dagli interlocutori
e sottolineando persuasivamente la
centralità dello spunto polemico nel
procedere galileiano: «sembrerebbe
di poter affermare come lo scienziato
traesse proprio dalle mordacità
degli avversari il motivo per continuare
la sua ricerca scientifica, poiché
le violente reazioni dei peripatetici
testimoniavano che egli stava
scardinando i loro dogmi» (p. 116).
Cambia lo scenario nel capitolo
successivo, Teatri di guerra e pace. Gli
uscocchi, il duca di Ossuna e l’arte di
Sarpi scrittore (pp. 125-140), con cui
si apre il dittico sarpiano conclusivo.
La lettura del Trattato di pace ed
accomodamento, un testo che affronta
il problema della temutissima pirateria
uscocca, che scorrazzava nell’Adriatico
con il tacito consenso dell’impero,
ci introduce alla acuta
186 RECENSIONI
penetrazione dell’analisi condotta da
padre Paolo sui comportamenti degli
attori di quel ‘teatro’: quando ad
esempio tratteggia con ironia pungente
la tracotanza del duca d’Ossuna
oppure ironizza sulle doppiezze
del governo spagnolo. Distanziandosi
volutamente dalla storiografia
umanistica, rifiutando ogni compiacimento
retorico, la scrittura di Sarpi
intende analizzare, con metodo moderno,
le cause e i motivi per poter
servire nel presente, con evidente
interferenza fra «l’azione dello storico
e quella del politico».
Chiude il volume il capitolo su Le
maschere delle quotidiane virtù. Paolo
Sarpi nella biografia di Fulgenzio Micanzio
(pp. 141-175). Della vita e
morte di padre Paolo, l’allievo Fulgenzio
Micanzio fornisce in distinte
circostanze resoconti non indentici,
le cui varianti Guaragnella fa rilevare
confrontando la Relazione redatta
nei pressi della scomparsa, la successiva
biografia, e ulteriori scampoli
prelevabili da testimonianze diverse,
epistolari per esempio. Ne deriva
un utile strumento ermeneutico
per una migliore comprensione della
Vita, soprattutto una più attenta
disamina entro il genere di appartenza,
quello biografico, dove Guaragnella,
in particolare, individua un
testo di notevole pertinenza, il De
litteratorum infelicitate di Pierio Valeriano.
È anche dialogando con il
repertorio di quell’ampio filone, all’incrocio
con agiografia, oratoria
funebre, epidittica e tutte le varianti
del genere, che il biografo lavora,
tracciando un ritratto dalla spiccata
vocazione apologetica. Dietro questi
filtri si riconoscono gli stili di comportamento
di padre Paolo: la reazione
alle maldicenze e alle imposture,
l’esercizio della modestia, la
malinconia con i suoi attributi estremi
(tenacia e ostinazione) e i suoi
correttivi (il riso e la piacevolezza),
il volersi connotare da ‘vecchio’, il
valore dell’amicizia, l’attenzione alla
‘morte’.
Come si sarà forse potuto considerare
da questo pur breve ragguaglio,
il volume offre spunti e approfondimenti
diversi ma omogenei,
confermando la ormai lunga fedeltà
di Guaragnella alla cultura letteraria
del Seicento, osservata all’incrocio
tra raffinate ricerche testuali e
felici aperture al più vasto campo
della storia del pensiero moderno.
Roberta Ferro
Giuseppe Rando, Alfieri europeo: le
“sacrosante leggi”. Scritti politici e morali.
Tragedie-commedie, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2007, pp. 320.
La raccolta di studi di Giuseppe
Rando sulla produzione alfieriana
muove dall’assunto del fraintendimento
storico di uno degli autori più
amati, e insieme contestati del ’700.
È negli anni Ottanta del Novecento
che si viene precisando l’autentica
filosofia di Alfieri, come primo grande
intellettuale moderno, postilluminista,
che andò oltre il dispotismo
illuminato per opporvi una sorta di
costituzionalismo modellato su quello
inglese. L’attenzione dello studioso
si concentra sul primo dei due
libri della Tirannide, in cui viene indagato
il rapporto tra tirannide e
monarchia. L’attacco è alle tesi del
RECENSIONI 187
Montesquieu, che nel suo Esprit des
lois aveva operato una netta distinzione
tra monarchia e dispotismo.
La contestazione di Alfieri andava
al dispotismo illuminato, come forma
di tirannide moderna. Il discorso
sulla vocazione “antitirannica”
del trattato avrebbe avuto più ampio
sviluppo nel Panegirico di Plinio
a Traiano. Le analogie colte dall’astigiano
tra tirannide classica e
dispotismo illuminato poggiavano
su una contestazione assai rigida
della religione cattolica, perniciosa
per il vivere civile, e sulla condanna
della nobiltà, che spesso costituisce
uno dei più saldi sostegni della tirannide.
La ripresa della tematica del
trattato Della tirannide si ha nel
Panegirico di Plinio a Traiano, in cui
l’unica alternativa possibile al dispotismo
viene vista nella repubblica.
L’opera, scritta nel 1785 e pubblicata
a Parigi nel 1787, per poi
venire ristampata nel 1789, muove
dall’assunto che l’imperatore Traiano
debba rinunciare al suo potere assoluto,
e restituire a Roma la libertà.
Anche in quest’opera Alfieri sembra
proporre un ordinamento costituzionale
dello stato. L’articolazione dei
saggi del Rando, dopo l’approfondimento
del concetto politico, si
espande fino alla comprensione dell’opera
intera dell’Alfieri, indagando,
pertanto, il versante propriamente
comico. Le quattro commedie
politiche (L’Uno, i Pochi, i Troppi,
L’antidoto) e le due etico-sociali (La
Finestrina e Il divorzio) appaiono concepite
secondo una forte tensione
antirealistica. Nel 1800 nascevano le
commedie. Se nell’Uno Alfieri ha
voluto mostrare, ridicolizzandoli, i
difetti della monarchia, i Pochi si presentano
come l’opera meno opaca
delle commedie. Il difficile equilibrio
tra il politico e il comico si ruppe
nei Troppi. La precisa connessione tra
economia e politica fu un’operazione
teorica del pensiero politico del
’700. Divisa tra pessimismo e ottimismo
è la Finestrina, in cui vengono
messe a confronto due diverse
visioni del mondo: quella della religione
dei padri e quella filosofica.
Le due componenti che interagiscono
nella commedia di Alfieri sono
quella ideologico-politica e quella
psicologico-esistenziale. Se nel
primo caso si è ampiamente lumeggiato
il percorso politico di Alfieri,
nel secondo occorre precisare che i
personaggi sono eroi della libertà,
ma anche del “silenzio”. Se contemporaneamente
al trattato Della tirannide
Alfieri ideava il trattato Del principe
e delle lettere, l’astigiano nega
ogni possibilità di rapporto tra il
principe e le lettere. I letterati mediocri
sono accostati al principe,
laddove quelli “sublimi” alla repubblica.
Nella parte seconda del libro
il Rando prende in esame le tragedie
di libertà, libertarie le prime due
e legalitarie le ultime tre. Bruto I è
la più limpida delle tragedie di libertà.
La tradizionale periodizzazione
della produzione alfieriana in
un contesto prerivoluzionario e in
uno postrivoluzionario accredita il
forte antidispotismo degli anni Settanta,
il costituzionalismo degli anni
Ottanta e il rifiuto dell’estremismo
postrivoluzionario. Nell’ambito della
divaricazione tra teatro tragico
alfieriano sul versante politico e su
quello esistenziale si possono indicare
rispettivamente le due tragedie,
Virginia e Agamennone. Il 1780 chiu188
RECENSIONI
de una prima fase, aprendone un’altra
della maturità artistica, mentre
partecipi di un contesto antirivoluzionario
sono opere scritte negli anni
Novanta fino al 1803, come l’Alceste
seconda, le Satire, il Misogallo, le Commedie,
la Vita. Alla radice illuministica
della sua formazione Alfieri
unì la tendenza allo scavo psicologico.
Tra le opere collocate tra
la prima e la seconda stagione dell’attività
letteraria di Alfieri si inserisce
l’Etruria vendicata, in cui si registravano
l’irriducibile anticlericalismo
e l’amore per la libertà. Se nel
Panegirico di Plinio a Traiano, nel trattato
Del principe e delle lettere e nella
seconda redazione si trova l’esaltazione
della rinuncia al potere assoluto,
nelle odi Dell’America libera
(1781-83), il concetto di libertà si
articola sul rispetto delle leggi. L’esempio
a cui Alfieri guardava con
interesse era il costituzionalismo
della monarchia inglese. I due capolavori,
il Saul (1782) e la Mirra (1784-
86) segnano l’ultima fase della stagione
tragica alfieriana. Nel Saul vi
è il trionfo della parte nera sulla
parte luminosa dell’anima umana.
Chiude l’interessante, ricco e articolato
volume di Giuseppe Rando uno
studio su Alfieri classico e le sue
traduzioni, che completano il quadro
di un autore polivalente, difficilmente
catalogabile in una precisa
ideologia, e modernamente proiettato
nel clima animato del dibattito
politico e sociale europeo. Il valore
del volume scaturisce da una appassionata
rivisitazione dell’intera opera
alfieriana, che lascia emergere il
ritratto di un letterato, ma ancor più
di un uomo, profondamente agitato
dalle polemiche del suo tempo e
sensibilmente orientato in una direzione
enciclopedica della cultura.
Valeria Giannantonio
Carlo Dossi, Goccie d’inchiostro, a
cura di Francesco Lioce, Roma,
Salerno editore, 2009, pp. 154.
Con la nuova edizione a cura di
Francesco Lioce, possiamo apprezzare,
nella forma ultimativa voluta
dall’autore, lo stile composito di
“dettagli deliziosi”, per certi aspetti
abnormi, delle Goccie d’inchiostro di
Carlo Dossi. Lioce ripropone la versione
definitiva (usando dunque un
criterio diverso da quello di Dante
Isella, nella ristampa adelphiana del
1974) frutto di una operazione di
severa scelta, riducendo le 31 prose
del 1880 a 14, nel primo dei cinque
volumi delle opere, curate, per Treves,
da Primo Levi e Gian Pietro Lucini,
inserendovi, molto opportunamente,
alcune lettere inedite del progetto
Vita di Carlo Dossi scritta da
Alberto Pisani, documentando altri
tasselli utili a quel mosaico indiziario
che forma la intelligente rappresentazione
del reale dello scrittore lombardo.
Il criterio di edizione, con
l’Appendice epistolare, permette a
Lioce di sostenere una ben precisa
visione critica, a correzione di alcune
considerazione di Isella. «Appare
evidente che le Goccie d’inchiostro
non possano essere considerate soltanto
il frutto di due periodi distinti
– come sostenuto da Isella – bensì il
problematico risultato di due distinti
matrici creative, una dovuta ad
un’ispirazione propriamente narrativa,
l’altra scaturita, in modo quasi
RECENSIONI 189
del tutto spontaneo, da un’intensa attività
epistolare». Si legga la puntigliosa
e documentata introduzione,
capace di trarre solide indicazioni
estetiche dall’analisi dei testi nella
loro complessa elaborazione e pubblicazione
nelle diverse fasi della
carriera dossiana, come è noto caratterizzata
anche da un impegno
politico e sociale attivo, a fianco di
Crispi.
Del resto, proprio Dossi mette in
guardia dalle prefazioni (e dalle recensioni,
mi permetto di aggiungere),
confezionate senza criterio, attese
quale autorità magistrale, come
se l’opera avesse bisogno di chissà
quali conferme per camminare nei
sentieri della cultura. Si noti la colorita
sferzante ironia dello scrittore
nella prefazione, in un libro che stava
presentandosi al consorzio umano
senza altro che lo precedesse «ad
apparecchiargli l’alloggio». «Per procurarti
qualche rèclame, non hai che
a raccogliere nella tua pattumiera…
volevo dir prefazione – la spazzatura…
cioè il maggior possibile numero
de’ nomi de’ tuòi viventi colleghi
in voga e non in voga, citando pagine
di riviste, articoli di giornali,
scampoli d’ogni penna. Avverti però
bene, in qual senso. Si credeva una
volta che il miglior modo per ottenere
nomèa, fosse quello di lodare
altrùi. Non dico che non vi sia del
vero in ciò. Il tàcito patto del frico ut
fricas, fu la base, specialmente tra i
dotti, di molte celebrità; se tuttavia,
colla adulazione, si va alla fama letteraria
in carrozza, vi si va in vagone
col biàsimo. Difatti, benché la tua
lode possa renderti amico e futuro
laudatore un collega […] essa, nel
medèsimo tempo, è d’offesa ai novantanove
altri che tu o tacesti o in
pari misura lodasti, non di tanto
offesa, peraltro, da costruire il così
detto fatto personale, cioè di farli cantare
».
Una tale sarcasmo, negli ultimi
capitoletti di Goccie d’inchiostro, si
riserva con più asprezza e severità,
al mondo clericale, denunciato per
la sua falsa morale, per quella dose
di illusioni (magari a scopo di imposizione
di sudditanza) inoculata
nel popolo senza alcun pudore.
Tra frammenti più lunghi e autentiche
illuminazioni, lo scrittore si
intrattiene in stanze di albergo, sulla
scia di profumi e odori, sapore
agrodolce di incontri casuali, clandestini,
monotoni di desiderio d’evasione
imprigionata in spiccioli di
fughe irrealizzate, riflessi dell’immoto
andare dispersivo fotografato in
ossessioni cristallizzate in atteggiamenti
ridicoli o iperbolici. Come
sorprendentemente moderna l’introduzione
di un altro correlativo oggettivo,
di un robusto laudator
temporis acti non moralisticamente
impegnato a coprire ipocrisie, ma
attivo con la scrittura e l’impegno
politico nelle questioni del suo tempo.
Si tratta dei “balocchi”: robusti
quegli antichi, fragili quelli moderni,
non solo per il materiale con cui
vengono costruiti ma per la diversità
di amore e passione ad ogni singolo
piccolo pezzo miniato del lavoro
più antico. Probabilmente l’infante
se ne accorge, ed è con la sua
fantasia, nel frammento tra i migliori,
La casetta di Gigio, a ricreare il
mondo in una sfera alternativa, invidiata
dai grandi, che quell’oasi cercano
perennemente nella accumulazione
stanca dell’esistenza. I fram190
RECENSIONI
menti più distesi raccontano, con la
solita minuzia, episodi legati a brevi
viaggi, dove l’indolenza dei sentimenti
umani viene a scontrarsi, dialetticamente,
con la bellezza del paesaggio,
magistralmente descritta da
Dossi. In Valichi di montagna, due
sposini in viaggio di nozze sono incapaci
di innalzare l’anima e alzare
gli occhi da quei litigi meschini che
già serpeggiano nel loro rapporto.
Quelle tre talentuose pagine descrittive
del meraviglioso panorama, degne
del miglior scrittore viaggiatore
nel suo ideale Grand Tour, alla scoperta
del sublime romantico, finiscono
per essere paradossalmente la
scenografia di un piccolo dramma
borghese, le cui pareti si chiudono
inopinabilmente nell’angustia della
carrozza. Gustosa situazione di viaggio
che finisce per sfociare nel suo
contrario, ancora in un contesto simile,
come annuncia il titolo, in Viaggio
di nozze: la situazione però è capovolta,
a formare un dittico ben
amalgamato col precedente racconto.
Qui infatti la ragazza, che prima
di sposarsi ha in mente solo viaggi,
con l’idea di trovare un marito adatto
solo per soddisfare la sua ansia
d’Africa, nel momento di prendere
il traghetto da Genova, all’indomani
delle nozze, resta irretita dai “piaceri”
dell’albergo, ignorando la sveglia
e, benevolmente, si rivolge al
maritino «Ah, tu sapevi!!!». L’amore
trionfa sul viaggio e sui possibili litigi
che l’uomo aveva tacitato assecondando
a malincuore il volere della
donna: ma evidentemente «già
sapeva», contava di convincerla in
extremis con le armi dell’amore, negati
ai due meschini giovani del racconto
precedente. La misura della
descrizione di Dossi resta perciò sterile,
il paesaggio non si fa anima,
ma resta a stigmatizzare un virtuosismo
linguistico piegato a descrivere
le crepe dell’ordine, le manie
della imperfezione, con un temperamento
lucido e intransigente verso
atteggiamenti logorati da pose
letterarie, dovunque esse provengano.
Fabio Pierangeli
Giancarlo Bertoncini, Narrazione
breve e personaggio. Tozzi, Pirandello,
Bilenchi, Calvino, Macerata, Quodlibet
Studio, 2008, pp. 202.
L’agile, ma denso volume di Giancarlo
Bertoncini, attraverso le perite
analisi intertestuali, sollecita e guida
il lettore all’esplorazione di autori
e opere rappresentative della
narrazione breve del Novecento.
Novella e racconto calcano da protagonisti
le scene letterarie novecentesche;
Giancarlo Bertoncini raccoglie
in questo volume alcuni saggi tesi
ad analizzare la speculazione teorica
e la vocazione scrittoria, nonché i
rapporti tra alcune narrazioni brevi
di Pirandello, Tozzi, Bilenchi e Calvino.
In tal modo il critico elabora
una “breve” storia della narrazione
breve novecentesca.
Aprono la trattazione le riflessioni
pirandelliane su tali tipologie narrative;
l’autore agrigentino opera un
distinguo tra romanzo e novella, da
un lato, e racconto dall’altro, attribuendo
ad esse rispettivamente, analiticità
e rappresentazione, sinteticità
ed esposizione. La distinzione è, in
seguito, sopravanzata da un’istanza
RECENSIONI 191
antisistemica che lascia il posto all’esigenza
di contemperare i due criteri
formali, conformandosi esclusivamente
al canone della spontaneità.
L’analisi procede nella definizione
del personaggio pirandelliano,
non concepito come frutto di scelte
operate in toto dall’artista, ma come
risultato della piena immedesimazione
del creatore nei personaggi
stessi, cui si attribuisce solo «quel minimo
di struttura che consenta loro
di muoversi da soggetti attivi» (p.
24) e affatto autonomi; il personaggio
cui Pirandello dà vita risulta
caratterizzato da contraddittorietà e
pluralità, «procede oltre le stazioni
della scissione e della follia, […] passa
attraverso l’esperienza del nulla»
(p. 20).
Un altro protagonista letterario
impegnato nel duplice ruolo di
teorizzatore e artefice è Federico
Tozzi. La disposizione narrativa dell’autore
senese è desunta da disparati
scritti recensori, in particolare
quelli sulla narrativa pirandelliana,
dai quali si evince una condivisa
inclinazione a squarciare il velo che
ammanta individui e realtà sociale
e a trascendere una rappresentazione
realistica, ma di superficie, per
approdare alla raffigurazione di un
livello arcano della realtà. La narrativa
che ne scaturisce è connotata
da liricità negativa, è volta cioè ad
incunearsi nell’interiorità di individui
dalla psicologia complessa e a
rivelarne le zone d’ombra, ed elegge
modalità narrative (visioni, rovesciamenti,
scarti improvvisi) capaci
di delineare anche ciò che va al di
là della logica consuetudinaria.
Vagliando un nutrito gruppo di
narrazioni appartenenti alla raccolta
tozziana Giovani, il Bertoncini delinea
lo statuto del personaggio e la
struttura della novella; la ricognizione
rileva elementi morfologici, motivi
reiterati, elementi emblematici,
ricorrenze lessicali, peculiari procedimenti
narrativi e propone vari livelli
di interpretazione. Tozzi raffigura
un mondo che è avvertito come
“una specie di castigo”, dominato da
un conflitto congenito tra individui
e, più raramente, tra gruppi. Uno
schema duale fa dunque da armatura
a tutte le novelle: da un lato protagonisti
giovani, tipicamente inetti,
ondeggianti tra stati d’animo contrapposti,
perennemente frustrati, incapaci
a reagire alle vessazioni e,
talvolta, masochisticamente compiacenti;
dall’altro soggetti prepotenti,
aggressivi e sadici, che risultano perpetuamente
vittoriosi. Sullo sfondo
di ambienti e paesaggi che fungono
da correlativo del sentire degli individui
l’autore raffigura lo scorrere
di vite abitudinarie in cui si innestano
avvenimenti che estrinsecano
le pulsioni celate, denudando e smascherando
i personaggi, che la ritrattistica
tozziana appena abbozza con
pochi dettagli, tra cui assoluta preminenza
hanno gli occhi.
Interludio alla carrellata di novelle
è la lettura critica de La vita nuova
di Pirandello che palesa i caratteri
della poetica umoristica ed evidenzia
le enormi affinità con Tozzi.
Il successivo saggio è rivolto a Gli
anni impossibili di Bilenchi, anatomizzando
i tre racconti costitutivi,
La siccità, La miseria, Il gelo, in cui si
delinea il percorso di crescita e formazione
di un adolescente. Le speranze
e i sogni del protagonista vanno
puntualmente ad infrangersi con192
RECENSIONI
tro eventi, di racconto in racconto,
più devastanti, che fanno affiorare
sentimenti oscuri e degradanti negli
individui; l’incremento della negatività
e del male trasforma la disillusione
individuale in una comune
esperienza di sciagura. I principali
elementi della narrazione (spazio,
tempo, personaggi) sono immaginati
e orientati secondo un canone di
realismo che tiene conto tuttavia
anche del «livello onirico» (p. 93); il
tempo interiore risulta infatti l’elemento
strutturante, gli stati d’animo
e le emozioni dell’individuo sono
l’oggetto privilegiato dei racconti, in
cui «vengono […] selezionati momenti
di essere» (p. 96) che si avvicendano
con ritmo così incalzante da
obnubilare la voce narrante, privi di
perspicui elementi tradizionali di
raccordo, ma legati da un tema «svolto,
ripreso, variato, approfondito
nelle successive scansioni del racconto
» (p. 97).
Il Bertoncini evidenzia affinità tra
Tozzi e Bilenchi; oltre alle medesime
origini geografiche e radici culturali,
si riscontrano temi somiglianti,
che risultano, però, di matrice
autobiografica nel primo e d’invenzione
nel secondo, e, soprattutto,
«una poetica che va oltre i confini
del bozzettismo e scava nella realtà
quotidiana la dimensione tragica che
si cela in essa» (p. 94).
Altro capitolo è dedicato al romanzo
di Italo Calvino Se una notte d’inverno
un viaggiatore. Cogliendo un
suggerimento avanzato dallo stesso
autore, Bertoncini inserisce l’opera
nell’orbita della narrazione breve
considerandola «un’opera di narrazione
per la quale la definizione di
genere come romanzo mantiene del
tutto aperta la connotazione di raccolta
» (p. 137), un insieme di racconti
autonomi legati dall’antica tecnica
del mise en abyme. L’autore sottopone
ad analisi testuale gli undici
incipit di romanzi interrotti, proponendone
un’interpretazione morfosimbolica,
evidenziandone peculiarità,
smascherando artifici e procedimenti
della finzione narrativa, sviscerando
riflessioni metanarrative e
metalinguistiche in essi disseminati.
L’analisi del rapporto di Calvino
con le arti visive fa da intermezzo;
si tratteggia il rapporto che unisce
Calvino e Giulio Paolini rintracciando
«il filo che congiunge La squadratura
del “disegnatore” Giulio Paolini
a quella […] del narratore Italo Calvino
» (p. 165) nelle riflessioni sulla
figura dell’autore.
Chiude il volume l’analisi dell’impianto
architettonico dell’opera tozziana
Bestie, valutata tradizionalmente
«come insieme compatto, sì, ma
pur sempre […] differenziato rispetto
al testo unitario vero e proprio»
(p. 184). Le brevi prose appaiono
come narrazioni concluse, autonome
e aggregate casualmente, Bertoncini
avanza elementi probanti per dimostrare
l’intento di unitarietà e organicità
a dispetto dell’apparente frammentismo.
Comprovano la solidarietà
tra le prose, oltre il refrain animalesco,
già evidenziato da altri studiosi,
le evoluzioni redazionali dell’opera
secondo un mirato ampliamento
dei materiali; la presenza di
precise corrispondenze e richiami tra
le narrazioni; il meccanismo di successione
secondo un criterio che ricorda
la jamesiana “corrente di coscienza”,
cioè mediante l’accostamento
di “stati mentali” contigui e
RECENSIONI 193
similari; e, soprattutto, la presenza
di motivi che, già tutti esibiti nella
prima narrazione, ricorrono variamente
modulati in tutta l’opera, creando
una costruzione organica e
sviluppando la storia, di sapore autobiografico,
di un io che tenta di
sfuggire, grazie al “canto”, cioè alla
scrittura, alla prigionia del mondo.
Marialiusa De Pietro
Sud e cultura antifascista, a cura di
Raffaele Cavalluzzi, Bari, Progedit,
2009, pp. VI-220.
Muovendosi dalla letteratura al cinema,
passando per convegni, radio,
riviste e case editrici, la raccolta di
saggi Sud e cultura antifascista, a cura
di Raffaele Cavalluzzi, può essere
vista come una guida storica e ideologica
all’antifascismo del Sud, spesso
considerato ai margini della Resistenza,
ma forte di quella cultura di
sinistra o liberale, laica o cattolica, che
nel Ventennio dittatoriale offrì alcuni
tra i più importanti nomi dell’antifascismo:
Antonio Gramsci, Gaetano
Salvemini, Benedetto Croce, Tommaso
Fiore sono solo alcuni di essi. Il
libro è testimonianza della densità
delle lotte antifasciste meridionali, in
particolar modo pugliesi, che non si
conclusero con il crollo «dell’odioso
regime», come sottolinea il curatore
nella Presentazione al volume, ma si
resero dopo la sua caduta ancora più
acute e intense, rincorrendo nella loro
varietà nuove forme di conoscenza e
di espressione.
La raccolta, divisa in due parti, si
compone di otto saggi. Nei cinque
della prima parte gli autori ripercorrono
un labirinto di eventi, dalla
Storia alla politica, all’emigrazione,
al tentativo di educare la gente del
Sud a ideali che comportassero un
radicale rinnovamento della società
meridionale. A questo proposito,
Radio Bari, che cominciò a trasmettere
i suoi primi contenuti politici
nel settembre del 1943, rappresenta
un rilevante punto di partenza (L.
Abiusi, Cultura e ideologia dell’antifascismo
meridionale: i luoghi e i tempi
dell’impegno). Sorta nei primi anni
Trenta come mezzo propagandistico
del regime, passò poi dal governo
Badoglio al Psychological Warfare
Branch e, con la costituzione di
una nuova redazione sotto il controllo
dell’ufficiale scozzese Ian Greenlees,
divenne strumento essenziale
della lotta contro il fascismo. Proprio
qui approdò, nella sede di via
Putignani, nel dicembre del 1943, la
scrittrice Alba De Cespedes. Memorabili
rimangono le sue «conversazioni
di Clorinda», pseudonimo assunto
dalla scrittrice nella trasmissione
da lei diretta, «Italia combatte
», in cui si contestavano i totalitarismi
in nome di principi egualitari,
libertari, patriottici. La sua era una
vera e propria attività pedagogica
che si faceva ora condanna dei rapporti
amorosi tra donne italiane e
soldati tedeschi, ora esaltazione dei
comportamenti della Resistenza, ora
descrizione di quanto avveniva in
guerra.
Oltre alle lotte antifasciste, la terra
di Bari, e in generale tutto il Meridione,
visse il fenomeno della cosiddetta
«diaspora del Sud», così definita
in un articolo di Michele Novielli,
pubblicato su «Nord e Sud» nel
194 RECENSIONI
1970 (R. Derobertis, «La casa ormai
tremava dalle fondamenta». Percorsi di
lettura tra emigrazione, Sud e scrittura
letteraria). L’emigrazione e lo spopolamento
delle aree rurali diventarono
allora argomenti letterari in romanzi
come Il pastore sepolto di Francesco
Jovine, Il primo emigrante di
Giuseppe Campolieti e Peccato originale
di Giose Rimanelli, in cui è importante
indirizzare l’attenzione non
tanto sulle vicissitudini del viaggio
migratorio o sull’arrivo dei «nuovi»
in terra straniera, quanto sui modi
in cui la scrittura si fa espressione e
narrazione dei luoghi dell’esodo e
delle trasformazioni qui avvenute,
nel periodo che va dal 1945 al 1957,
dopo le partenze degli emigrati, creando
o alimentando miti e sogni
nell’immaginario sociale e culturale.
La vivacità culturale del capoluogo
pugliese non si esaurì con l’attività
di Radio Bari. La città vide la
realizzazione di altri due eventi: il
primo Congresso dei CLN (Comitati
di liberazione nazionale), tenutosi
nel gennaio del 1944, che rappresentò
la prima voce libera dell’Italia
dopo vent’anni di dittatura fascista,
e il Primo Convegno di studi sulla
Questione Meridionale, svoltosi nel
dicembre del 1944, che costituì la
prima vera occasione per un esame
della situazione meridionale, proponendosi
come promotore di un definitivo
cambiamento culturale e intellettuale,
guidato da una nuova «borghesia
del lavoro» nel Meridione (A.
Leuzzi, Informazione, politica e cultura
in Puglia nella fase di transizione
dal fascismo alla Repubblica).
Altre iniziative di carattere sociale
e culturale si ebbero pure nelle
altre province pugliesi. Una di queste
fu la pubblicazione di «La protesta
laica» nel settembre del 1947, con
il sottotitolo «Numero unico per il
Primo Convegno Pugliese per la
laicità dello Stato e per la difesa
della Scuola Nazionale», ad opera
di un gruppo di intellettuali pugliesi
che si andavano raccogliendo intorno
alla nascente casa editrice di Pietro
Lacaita a Manduria (L. Marseglia,
Radicalismo e socialismo in Puglia
alle soglie degli anni Cinquanta). Nella
rivista si potevano leggere allora
articoli di Gaetano Salvemini, Fabrizio
Canfora, Tommaso Fiore, assieme
a passi di Vincenzo Gioberti e
Francesco De Sanctis, quasi a voler
indicare, come giustamente viene
messo in risalto nel libro, la «direttrice
storica di un laicismo equilibrato
», il cui scopo era quello di costruire,
o ricostruire, un nuovo pensiero
socialista. E ancora, alcuni intellettuali
salentini ebbero un ruolo
decisivo in questioni riguardanti la
valutazione dell’aspetto politico-istituzionale,
della forma di democrazia
e degli obiettivi da realizzare nell’Italia
postfascista (F. Martina, Influenza
di Benedetto Croce sulla cultura
salentina negli anni Quaranta).
Questi uomini partivano dalla convinzione
che la soluzione a qualsiasi
problema e la ricostruzione della
nuova nazione non andavano lasciate
nelle mani di politici di professione,
ma gestiti da una nuova figura
di intellettuale, che doveva fare
della cultura lo strumento essenziale
per appagare i bisogni dello Stato.
Molti di loro si ritrovarono perciò
a dover fare i conti con il pensiero
di Benedetto Croce e con la
sua «religione della libertà», che
magari era ancora piuttosto estranea
RECENSIONI 195
ad alcuni fondamentali bisogni degli
uomini. La morale, secondo il
punto di vista del filosofo, doveva
essere distinta dagli ambiti della vita
intellettuale e la cultura, a sua volta,
gli appariva come animata da
una tensione spirituale, unica custode
di uno spirito di libertà che non
veniva né considerato né tutelato
dalle istituzioni politiche. Con la caduta
del regime fascista il rapporto
tra cultura e politica cambiò, diventando
un rapporto di complementarità,
perché veniva riconosciuto il
ruolo politico della cultura. A differenza
peraltro della lettura che
Gramsci aveva dato della tradizionale
intellighenzia borghese, gli intellettuali
non dovevano più essere
gli uomini «cerniera» che si limitavano
a fare da ponte tra i grandi
pensatori e le masse, ma uomini che,
secondo appunto la nuova impostazione
gramsciana, costituendo l’ossatura
stessa della società, avvertivano
la necessità di una riflessione
sul rapporto dell’individuo con la
collettività e con la politica e desideravano
scuotere l’opinione pubblica,
così da spingerla all’azione e ad una
viva partecipazione politico-sociale.
La seconda parte del libro, costituita
da tre saggi, rappresenta il tentativo
di voler scavare più a fondo
nella scrittura di tre grandi narratori
del Novecento, avendo sempre come
parametri di riferimento il Sud
e l’antifascismo. Si parte dalla scrittura
di Vittorini in Conversazione in
Sicilia (B. Brunetti, Dalla «quiete nella
non speranza» all’«acqua viva»: «Conversazione
in Sicilia» di Elio Vittorini),
che si offre come una possibilità di
riscatto, giacché per suo tramite lo
scrittore aveva cercato di prendere
le distanze dalla noia dell’Italia borghese
e fascista. Nel romanzo il Sud
diventa luogo della rivelazione e
della «rinascita del figlio», facendosi
esso stesso spazio della transizione,
simbolo del passaggio al nuovo
attraverso il vecchio, per poi scoprire,
alla fine di quel passaggio, «simulacri
di esperienza», e l’impossibilità,
o l’incapacità, per il passato
di riscattare il presente: il mondo
nuovo del figlio sarà, allora, e inevitabilmente,
una storia nuova.
Di seguito si possono leggere le
pagine dedicate a Menzogna e sortilegio
della Morante (F. Fusco, Elsa
Morante: una Tule irreggiungibile):
romanzo ambientato tra la fine dell’Ottocento
e gli inizi del Novecento,
ma con chiari riferimenti alla
Seconda guerra mondiale e al Secondo
dopoguerra, a partire dalle
specifiche circostanze private in cui
la scrittrice lo scrisse (costretta alla
fuga e alla clandestinità per via della
sua relazione con Moravia, accusato
di antifascismo), fino ad arrivare
a quelle tensioni sociali che attraversano
tutta la narrazione e che si
possono facilmente ritrovare nell’Italia
del dopoguerra.
Chiude l’interessante e ricco volume
una lucida riflessione sulla parabola
della scrittura di Gadda (G.
Bonifacino, Contro le «patriottesse».
Eziologia e percorsi dell’antifascismo di
Gadda). Il giovanile patriottismo e
l’ardente interventismo, inizialmente
vissuti come unico mezzo per
cercare una forma del mondo e di
sé, furono sostituiti poi dalla delusione
e dallo sconforto dinanzi alla
guerra stessa, avvertita dallo scrittore
più come una tragedia individuale
che come «apocalisse di un
196 RECENSIONI
tempo storico». Il successivo approdo
al fascismo fu quasi inevitabile,
giacché esso, offrendo un’immagine
restaurata della Patria, rappresentò
la risposta a un permanente bisogno
di ordine e dignità. Ma questa
soluzione mostrò presto il suo carattere
illusorio che portò lo scrittore
a un totale rifiuto del regime,
nonché ad una sottile analisi dei suoi
aspetti più negativi. La riflessione
sul percorso di scrittura di Gadda si
conclude ponendo l’accento su un
racconto meno noto del 1950, Prima
divisione nella notte, in cui la retorica
nazionalistica e patriottica, di cui il
regime si serviva con tanta facilità,
viene finalmente e definitivamente
smascherata.
Grazia Turchiano
Le dilettante. Terzo quaderno. Sopra la
critica. Per Mario Petrucciani, a cura
di Katia Migliori, Cartoceto (PU),
Conte Camillo Edizioni, 2008, pp.
286.
Critico e storico della letteratura
italiana, allievo di Giuseppe Ungaretti,
Mario Petrucciani è ricordato
da Katia Migliori in un volume miscellaneo
che riproduce, in stampa
anastatica, alcuni suoi interventi
esegetici sulla poesia, il teatro, la
critica. Questo Terzo quaderno, «[…]
il primo di una serie dedicata ai
maestri […] che hanno saputo segnare
una via» (p. 9), si apre con
una riflessione dell’Autore sul senso
della letteratura, intesa come «inquietudine
critica del tempo» (p. 27),
come identità feconda che aiuti nella
comprensione del mondo e dell’uomo.
Il volume segue l’articolarsi
del pensiero di Petrucciani in un
andamento diacronico, offrendo al
lettore diversi esempi di critica costante,
attenta, partecipativa, dall’iniziale
volume La poetica dell’ermetismo
italiano pubblicato da Loescher nel
1955 fino a Poesia come inizio, del
1994. Nell’arco di questi lavori, la
scelta dei brani ha privilegiato quelli
dedicati ai temi più cari al Nostro,
paradigmatici di un’intelligenza
speculativa rigorosa. Così, possiamo
leggere saggi tratti da Poesia
pura e poesia esistenziale (1957), Emilio
Praga (1962), Giovanni Pindemonte
nella crisi della tragedia (1966), Idoli e
domande della poesia (1969), Segnali e
archetipi della poesia (1974), Scienza e
letteratura del Secondo Novecento
(1978), Il condizionale di Didone (1985)
e Poesia come inizio (1994).
Le pagine critiche di Petrucciani
si distinguono per lo stile essenziale
che permette di apprezzare appieno
le qualità dello studioso, la sensibilità
nei confronti dei testi, le analisi
sicure, scrupolose, prive di orpelli
retorici. Tra i tanti raccolti nel volume,
scelgo alcuni esempi di tale
modus operandi relativi alla produzione
di Campana, Montale, Kavafis,
Seferis ed Ungaretti.
Nell’analisi dedicata alla poesia di
Campana, Petrucciani dichiara di
voler individuare «due momenti»
della poetica dell’autore, quello
«apollineo» e quello «dionisiaco» (p.
58). Dopo aver ricordato la suggestiva
intuizione del Contini, per il
quale Campana «non è un veggente
o un visionario: è un visivo» (p. 55),
e sulla scia delle indicazioni di De
Robertis, Petrucciani introduce un
concetto fondamentale nel canto del
RECENSIONI 197
poeta di Marradi, la sensualità, intesa
come slancio vitale e irrazionale
che conduce dapprima ad immagini
contemplative di quiete e dolcezza
per poi dissolversi in un sentimento
angoscioso e tormentato che produce
incessantemente il desiderio di
nuovi stadi di calma e stasi, in un
movimento inevitabile e costante.
L’Autore analizza il modo di comporre
di Campana, la «[…] singolare
articolazione dei suoi movimenti
poetici, che […] si dispongono in
una sequenza di periodi e di brani,
liberi da calcolate subordinazioni»
(p. 60), le caratteristiche del suo
periodare, musicale e intenso, gli
esempi di “irrazionale” e “assurdo”
in Campana, prendendo spunto dalla
lirica La Notte.
Ogni interpretazione di Petrucciani
risulta inserita in una panoramica
critica che conduce naturalmente
il lettore al cuore di una tematica.
Così, affrontando lo studio della Bufera
di Montale, l’Autore presenta
un’introduzione ragionata sui giudizi
espressi dagli studiosi che lo hanno
preceduto, sorpresi da una poesia
che pare loro allontanarsi dalle
riflessioni suggerite in precedenza
dall’autore de Le occasioni. Petrucciani,
al contrario, individua nel poeta
ligure una sostanziale coerenza, una
fedeltà ad un «ordine poetico» che
si situa nell’ambito della «poetica
pura, della poetica dell’assoluto che
ha informato, nel periodo tra le due
guerre mondiali, l’esperienza lirica
delle maggiori letterature contemporanee
» (p. 74). Il critico sottopone
allora ad indagine le tematiche ricorrenti,
gli stilemi e i timbri contenuti
nella silloge montaliana, per approdare
ad una visione d’insieme di
una poesia che si fa via via più cupa,
metafisica, estrema.
Affascinanti, ancora, risultano le
letture che Petrucciani dà dell’opera
di due poeti neogreci, Costantino
Kavafis e Giorgio Seferis, nelle quali
l’ambito critico sembra sempre sul
punto di trascendere in una partecipazione
emotiva che mostra l’amore
per una poesia alessandrina ed
erudita, a cui inizialmente fu legato
lo stesso Ungaretti. In Kavafis «si
esprime un momento della coscienza
europea […] nel dissidio tra un
mondo declinante – di antiche certezze,
di idoleggiate consolazioni –
e l’insorgere sgomento di frane irreparabili
» (p. 153), che informa la sua
poesia di una forza che vuole superare
il conformismo, le sovrastrutture,
la ripetizione per approdare ad
una ricerca del bello senza tempo
che liberi l’autore dall’ambiguità del
piacere, dalla solitudine e dalla delusione.
Il viaggio «nel tempo e fuori del
tempo […] nello spazio e fuori dello
spazio» (p. 162) è la cifra, invece,
della poesia di Seferis, autore malinconico
ed errante che, imbevuto
del dolore del ritorno, cerca un approdo
che si rivela sempre provvisorio
e dunque ingannevole; così,
infatti, egli scrive: «Passammo capi
molti molte isole il mare / che mette
ad altro mare… / Non finivano i
viaggi» (Argonauti) e «Che cercano
le nostre anime viaggiando / su
ponti d’avariati navigli… / Che cercano
le nostre anime viaggiando /
sopra legni marini imputriditi, / da
porto a porto?» (Leggenda, VIII) (p.
162). Petrucciani evidenzia lo stile
sorvegliato del premio Nobel, il richiamo
alla Grecia, l’identificazione
198 RECENSIONI
con Ulisse, l’intreccio di mito, storia
e memoria che permetterà al poeta
di sviluppare uno sguardo carico di
pietà e, al contempo, di rabbia nei
confronti dell’uomo, alla ricerca di
quella che egli stesso definisce l’«altra
vita», ossia quell’assenza, quella
mancanza di luce che è fondante
della vita stessa.
Il saggio conclusivo della raccolta
è dedicato al rapporto che Ungaretti
intrattenne con la figura e l’opera di
Giovanni Pascoli; l’attenzione dello
studioso si indirizza, in particolare,
alle «poche righe» (p. 257) dedicate
all’autore di Myricae che il giovane
e impetuoso poeta pubblicò sul fascicolo
di «Grammata» n. 12, vol. I,
del gennaio 1912, p. 445. Ungaretti
scrive infatti un necrologio in greco
che rende onore al Pascoli, il quale,
sebbene «secondo il D’Annunzio,
[…] fu il continuatore della romanità
di Augusto», tuttavia «poeta non fu»
(p. 253). La conflittualità nutrita nei
confronti del più anziano autore fa
oscillare i giudizi di Ungaretti dalla
recisa condanna ad attestazioni di
stima per «un’anima nuda che chiede
di rivestirsi di piccoli dolori chiusi
nelle lacrime» (p. 253). Petrucciani
segue, attraverso le pagine critiche
del poeta di Alessandria, i giudizi
espressi sul Pascoli versificatore e
critico, sulla ricerca di un linguaggio
nuovo che impegna entrambi i
poeti, di cui il più giovane, pur nella
schiettezza del pensiero, segue,
almeno inizialmente, quegli «accenti
primordiali», quella «freschezza»
(p. 261) che sono tanta parte della
poetica pascoliana.
Il volume è introdotto dalle otto
risposte che Eugenio Montale diede
ad altrettante domande sulla critica
letteraria in Italia apparse sul numero
44-45, Maggio-Agosto 1960 di
«Nuovi Argomenti» ed è chiuso
dalle testimonianze di Marta Bruscia,
Antonio Barbuto, Donatella Marchi
e Katia Migliori.
Noemi Corcione
Antonio Lucio Giannone, Modernità
del Salento. Scrittori, critici, artisti
del Novecento e oltre, Galatina
(Lecce), Congedo, 2009, pp. 236.
In linea con il modello fissato
dagli studi di Carlo Dionisotti, l’asse
di riferimento che guida Giannone
in questa sorta di “atlante”
della letteratura salentina di area novecentesca
è la definizione del sostanziale
policentrismo che contraddistingue
anche nella modernità gli
sviluppi storici della cultura italiana.
È un modello teorico che diventa
metodo di indagine testuale e
schema di ricostruzione critico-storiografica
per sorreggere esplorazioni
capillari o di largo respiro sugli
snodi principali della letteratura del
Novecento: il dato acquisito storicamente,
insomma, e passibile di ulteriori
sviluppi e articolazioni, che le
“piccole patrie” e i contesti provinciali
delle periferie della nazione non
solo recepiscono, ma in qualche caso
anticipano o rielaborano, in direzioni
originali e specifiche, le correnti
prevalenti della modernità letteraria
(dal futurismo alle neoavanguardie,
passando per il simbolismo ermetizzante
e gli sperimentalismi di vario
segno).
I rapporti tra centri e periferia,
sullo sfondo dell’incontro della scritRECENSIONI
199
tura letteraria con i nuclei storici e
tematici del moderno, vengono misurati
in questo caso lungo le coordinate
plurali e assai mobili di una
varietà di fonti che permette allo
studioso di offrire non solo una
rilettura complessiva del canone letterario
del Novecento, ma anche uno
spaccato dei processi sociali e culturali
che lo innervano. La produzione
letteraria, in effetti, vista dalla
specola della regione salentina, viene
esaminata nella sua accezione più
ampia e nella processualità “integrale”
delle sue diramazioni: le istituzioni
culturali e i gruppi intellettuali,
le figure impegnate nella scrittura
poetica e narrativa, l’attività delle
riviste fino ai sondaggi sugli esponenti
locali delle arti figurative. A
sua volta, la pluralità dei momenti
e delle opere prese in esame si distende
in un ventaglio di rimandi
che guarda agli aspetti cruciali della
modernità novecentesca, come il
rapporto tra lingua e dialetto, la dialettica
fra tradizione e innovazione
(tra avanguardie artistiche e resistenze
passatiste); e anche nella prospettiva
delle dinamiche dei generi, del
mercato e del consumo letterario.
Nella prima parte del volume si
provvede a una rassegna organica
di aspetti o di singole figure della
letteratura salentina indagate attraverso
ampi saggi monografici e sondaggi
analitici più circoscritti. Si ricostruiscono
i profili intellettuali di
personalità diverse per estrazione
culturale e per collocazione storica
e generazionale, che tuttavia risultano
accomunate dalla natura moderna
della loro attività letteraria in
quell’accezione plurale di cui si è
detto, e cioè di apertura alle novità
tematiche e formali del tempo e
nello sviluppo storico e frastagliato
delle correnti che attraversano il
Novecento italiano (europeo).
Di Giuseppe De Dominicis, poeta
attivo già alla fine dell’Ottocento, si
esaminerà pertanto l’ultima raccolta
pubblicata nel 1903 (Spudhiculature),
che risente della curvatura liricoelegiaca
che interessava in quegli
anni la poesia dialettale in Italia,
investita come tutte le manifestazioni
artistiche dalla nuova sensibilità
decadente che introduce temi, soluzioni
retoriche e modelli formali
specifici. L’opera di De Dominicis va
decifrata nel quadro di un dialogo
stratificato che la sua poesia instaura
con la «sensibilità decisamente
più moderna e apert[a] a una problematica
e a suggestioni tipicamente
novecentesche» (p. 18), secondo
modelli e riutilizzi della tradizione
letteraria che la collegano alle poetiche
simboliste europee e soprattutto
alla temperie culturale del periodo,
tra le correnti anti-positivistiche allora
in voga e un sottofondo teoretico
di stampo critico-negativo e preesistenzialista,
per il quale si possono
fare i nomi di Leopardi e di Schopenauer.
È dunque plausibile e corretto
che, accanto alla rilettura critica
dell’ultima opera di De Dominicis,
sospesa tra schemi letterari al
tramonto e inquietudine moderna,
si collochi uno spazio per la ricostruzione
delle vicende intellettuali
di un testimone solitario e periferico
come Mimì (Domenico) Frassaniti,
generoso divulgatore delle teorie
futuriste e anche studioso in loco
delle espressioni letterarie che appartengono
a quella (polimorfa) avanguardia
di primo Novecento.
200 RECENSIONI
Nella stessa direzione si spingono
gli approfondimenti sulle poetiche
di Vittorio Bodini e di Carmelo Bene,
che esemplificano, nella diversità dei
rispettivi percorsi di ricerca, le potenzialità
di una rilettura “fantastica”
del Sud pronto a trasfigurarsi in
una dimensione meta-temporale, tra
Barocco e vocazione surrealistica,
fedeltà alle radici storiche e popolari
e apertura alla cultura europea.
Nel quadro di quella caratterizzazione
modernista o tipicamente sperimentale
che assume la produzione
letteraria salentina nel secondo Novecento,
si inserisce l’attività delle
riviste locali, ricostruita da Giannone
con la consueta cura nel tratteggiarne
i rapporti con gli altri centri culturali
della nazione, come attestano
le relazioni tra l’«Albero» di Girolamo
Comi (e poi di Oreste Macrì e
Donato Valli: 1949-1966; 1970-1985)
e la Firenze del post-ermetismo e
della linea orfica o spirituale della
lirica novecentesca.
Non manca un quadro documentato
della galassia di riviste, laboratori
e fogli di ricerca ispirati agli
esperimenti verbo-visivi degli anni
Settanta o all’inquietudine sperimentale
che attraversa i decenni successivi,
a testimonianza di una resistente
tenuta militante e creativa di certa
letteratura salentina che si pone
al riparo dalle mode o in aperta
polemica con la mercificazione del
prodotto letterario: da «Ghen» e
«Gramma» alle riviste di un “irregolare”
come Antonio Verri (fino
alle esperienze più recenti che contano,
oltre a realtà e a periodici consolidati,
anche blog e riviste on line).
Sono significativi i restauri critici
di personalità misconosciute della
geografia letteraria salentina come
Salvatore Paolo, un narratore che
dimostra con le sue opere di maturare
una particolare sensibilità per
le tematiche moderne della crisi
dell’individuo, all’ombra della grande
letteratura di primo Novecento,
tra Pirandello e Kafka, senza rinunciare
all’habitus civile di intellettuale
meridionale. E Vittorio Pagano, di
cui s’indaga la posizione nel panorama
poetico del Novecento e il significato
dell’eclettismo della sua
attività letteraria – tra liriche, prose
e traduzioni – da ricondurre non
solo alla natura inquieta del suo percorso
culturale, ma ancora una volta
agli incroci e al dialogo intessuto
con la modernità letteraria europea.
E se Bodini e Macrì si rivolgono al
versante ispanico di quelle peregrinazioni
lungo l’asse provincia-Europa,
Pagano aprirà i territori della
scrittura poetica e delle traduzioni
agli stimoli derivanti dalla letteratura
francese di area prevalentemente
simbolista.
In questo contesto, emerge l’interessante
figura di un intellettuale
salentino attivo a Milano e protagonista
della scena letteraria italiana
fino agli anni Cinquanta. Michele
Saponaro parte da una narrativa di
tipo regionalistico, in sintonia con i
modelli di Verga, Capuana, Deledda
e del primo D’Annunzio, per poi
dare vita a una carriera singolare
nella quale il narratore di successo,
autore di romanzi sentimentali o
d’evasione, si colloca accanto all’operatore
culturale (con la partecipazione
e spesso la direzione di periodici
come «La Tavola rotonda» e la «Rivista
d’Italia»); la poesia e la produzione
drammaturgica convivono con
RECENSIONI 201
le biografie dedicate a personaggi
del mondo letterario o storico, del
passato e del presente, che rappresentano
un genere a metà tra rielaborazione
letteraria e intento divulgativo,
e che sono capaci di imporsi
come libri di qualità nel mercato
delle lettere del tempo.
Nella seconda parte del volume si
dà spazio a ricostruzioni documentate
della vita artistica salentina, lungo
il consueto asse temporale novecentesco
e nel contesto degli sviluppi
delle avanguardie, che stavolta
coinvolgono i canoni espressivi della
pittura o della scultura locali. Il
pregio dell’impostazione di Giannone
sta nel saper offrire profili di
artisti significativi che sono testimoni
della scoperta del moderno – da
Antonio Serrano, propagatore dell’avanguardia
futurista, a Geremia
Re, da Nino Della Notte a Mino
Delle Site e Lino Suppressa, Luigi
Gabrieli, Cosimo Sponziello e Vincenzo
Ciardo, Sandro Greco e altri.
Emergono anche i sodalizi e i rapporti
tra i gruppi intellettuali, le istituzioni
culturali come la Scuola
d’Arte leccese e la vita letteraria del
tempo, nella misura in cui i protagonisti
della letteratura salentina, da
Bodini a Pagano, Luciano De Rosa e
Giovanni Bernardini accompagnano
e spesso interagiscono attivamente
con la produzione figurativa locale,
in dialogo con gli ambienti culturali
nazionali e con le tendenze più
avanzate in campo plastico e pittorico.
Conclude il volume una serie di
incursioni critiche sulla saggistica
d’autore, ad opera di studiosi, maestri
e protagonisti della vita accademica
salentina (Mario Marti e Donato
Valli), sulle edizioni commentate
delle poesie di Bodini e su un
nutrito gruppo di poeti, narratori e
narratrici locali che con le loro opere
rinnovano i canoni e i generi letterari
del Novecento.
Fabio Moliterni
Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco,
a cura di Elisabetta Graziosi,
Bologna, CLUEB, 2008, pp.
292.
La scelta di limitare il quadro alla
lirica del secolo scorso deriva da un
complesso di fattori che Elisabetta
Graziosi enuncia con grande chiarezza
nell’Introduzione al volume, in
parte appoggiandosi al pensiero di
alcuni studiosi che restano imprescindibili.
Ad esempio, per rilevarne
l’importanza in qualità di funzione
tematica, la Curatrice ricorda
che Hugo Friedrich assegnava al
tempo un ruolo privilegiato tra i
temi poetabili da Baudelaire in poi.
Sul piano linguistico, Benveniste e
Weinrich ne hanno messo in luce
quel carattere di molteplicità che
fronteggia la frantumazione dell’io
lirico moderno. Più in generale, tra
Otto e Novecento il tempo è stato al
centro del rinnovamento della sensibilità
estetica: ad ascoltare le lezioni
di Bergson alla Sorbona, nota Graziosi,
furono tre poeti come Eliot,
Ungaretti, Valéry (per non menzionare
chi pertiene al campo della
narrativa e dunque entra in questo
libro non come oggetto d’analisi ma
solo a livello di riferimento esemplare,
Proust).
Una delle ragioni che spiegano
202 RECENSIONI
l’imporsi del tempo tra i motivi protagonisti
di questo rinnovamento
culturale è senz’altro il fenomeno
della seconda rivoluzione industriale,
i cui processi di espansione e accelerazione
inducono a un nuovo
modello antropologico della percezione.
Questa ‘discontinuità’ storica
(per usare il lessico di un pensatore,
Foucault, che potremmo ricordare
per aver mostrato come il senso
della ‘finitudine’ e il linguaggio letterario
quale realtà specifica siano
sorti insieme in tempi recenti – cfr.
Le parole e le cose) risulta particolarmente
significativa nell’ambito della
letteratura futurista, a cui peraltro
è dedicato uno dei saggi antologizzati.
Tuttavia, ciò su cui, giustamente,
più si concentrano l’attenzione
della Curatrice e gli autori dei
vari contributi che ella introduce è
la dimensione retorica del tempo,
ovvero la rete di metafore a cui i
poeti ricorrono per rappresentare
un’esperienza, quella della temporalità,
che non ha evidenza sensibile.
In questo senso si può affermare
che la prospettiva più indagata nel
complesso risulti essere quella relativa
ai «modelli mentali» (così Weinrich
designa le metafore) che intervengono
nella rappresentazione letteraria
del tempo.
È su questo piano che i percorsi
poetici del Novecento non possono
fare a meno d’incontrarsi con la tradizione,
di attingere a una topica
che, a causa della difficoltà sottesa
dalla comprensione di una categoria
inerente all’ontologia naturale,
tende a conservarsi (il fiume di Eraclito
rimane costante fino a Montale,
p. es.). Eppure i nuovi nuclei filosofici
ed estetici di alcune delle esperienze
poetiche più rilevanti del
nostro Novecento, oltre che incontrare
la persistenza delle immagini
temporali, non si sottraggono a un
confronto in virtù del quale definire
la propria originalità. I saggi raccolti
nel libro intendono proprio leggere
certi snodi stilistici attraverso la
specola di un tema che dunque nella
poesia novecentesca assume uno
statuto tale da riuscire, pure in rapporto
alla vastità di una tradizione
antica tanto quanto la nozione stessa
di esistenza, a configurarsi in
maniera sufficientemente specifica
da consentire di fondare un discorso
autonomo.
La ricognizione inizia nel modo
più opportuno con il saggio Lessico
poetico novecentesco: questioni di tempo
in cui Cristiana de Santis ricostruisce
proprio le riprese e gli scarti
della poesia novecentesca rispetto
al sistema metaforico basilare, ovvero
a partire dall’analisi delle occorrenze
della parola «tempo», intesa
come simbolo di una notevole sintesi
concettuale. Gli interrogativi sollevati
da questi campioni critici intorno
alla portata letterale e metaforica
della parola «tempo» trovano un
primo campo di risoluzione nel paragrafo
seguente, che si apre alla
considerazione dei ‘contesti’, essendo
dedicato all’osservazione dei
sintagmi comprensivi del sostantivo
«tempo»: vengono perciò messe in
luce le varie direzioni stilistiche degli
usi poetici, tra cui personificazioni,
analogie, combinazioni con
altre metafore. Si distingue, tra i
poeti che meglio interpretano le possibilità
di ‘scarto’ rispetto alla metafora
consueta, quel Montale tardo in
grado di far coincidere demistificaRECENSIONI
203
zione delle convenzioni e registro
metalinguistico; mentre lo sfondo
concettuale da cui prendono le mosse
le declinazioni metaforiche passate
in rassegna risulta marcato da
un sentimento ‘esistenziale’ del tempo,
tipicamente novecentesco.
Segue poi il contributo di Beatrice
Sica Il futurismo e il tempo, distinto
in una parte preliminare in cui è condotto
l’esame dei presupposti metodologici
enunciati nei manifesti dell’Avanguardia,
e in una seconda in
cui vengono scandagliati i testi letterari
sotto il doppio profilo, tematico
e formale, che il tempo vi può assumere.
Certi passaggi del saggio toccano
questioni profonde, poiché inducono
a riflettere su alcuni aspetti
costitutivi della stessa retorica legata
allo svolgimento letterario del
tema del tempo: ad esempio, la differenza,
tutta temporale, tra le immagini
della visione e le immagini
della memoria (e si può affermare
che la letteratura futurista segua nei
confronti del tempo un itinerario
analogo a quello che la pittura futurista
compie rispetto allo spazio), e
il nesso linguistico che unisce il soggetto
al tempo (in cui esso non può
fare a meno di collocare l’espressione
di sé). L’Autrice mostra efficacemente
come il tentativo di costruire
una nuova estetica, in particolare
imperniata sulla ‘distruzione’ di alcune
strutture (metrica, rapporti logici
e razionali in genere), conduca
alla sperimentazione di una ricchezza
di modi che contrasta con la prescrizione
teorica che aveva dato l’avvio
all’operazione, come all’obiettivo
di abolire le regole che derivano
dal ‘Tempo’ ne sia seguita la creazione
di nuove.
«Vapore sull’acqua d’inverno»: l’ansia
del tempo in Rebora, di Ilaria Gallinaro,
è un ottimo studio delle articolate
metafore adoperate per la rappresentazione
della temporalità in
rapporto ad alcune costanti dell’imagerie
reboriana, nei Frammenti lirici,
nella dimensione religiosa di Curriculum
vitae, e, parallelamente, nell’epistolario.
Magistrale e prezioso è il contributo
di Niccolò Scaffai, Sul tempo in
Montale (con un’interpretazione di «Finisterre
»), che affronta un tema già
ampiamente sondato riuscendo tuttavia
a indicare prospettive inedite.
Nella prima parte Scaffai svolge una
ricapitolazione dei metodi adoperati
e dei dati acquisiti dalla critica che
ha stabilito interpretazioni di Montale
studiandone la relazione col
tema del tempo. Continua quindi a
fare il punto dei vari livelli esegetici
ripercorrendo le fasi della poesia
montaliana e in ciascuna di esse mettendo
a fuoco il ruolo della temporalità,
servendosi di alcune categorie
di Ricoeur. Definite queste basi
Scaffai tenta un’interpretazione di
Finisterre, raccolta che ha ancora un
fulcro nel presente attimale delle Occasioni
ma con in più la coscienza
del decadimento del valore dell’occasione,
dovuta all’assenza ormai
definitiva della donna. L’analisi dei
tempi verbali fornisce le prove concrete
di come il tempo, sullo sfondo
cupo di Finisterre, si sia «rappreso e
decronicizzato» (Lugnani): se il presente
mantiene il ruolo di conduttore
intorno al quale ruotano, in minor
misura, i passati e futuri, nessuno
dei tre tempi è assimilabile al
tempo esterno, «ma ognuno acquista
specifiche funzioni in relazione
204 RECENSIONI
agli altri, entro il sistema chiuso della
sequenza». In tal modo il tempo
risulta ‘rifigurato’ (Ricoeur), e da ciò
«dipende la visione del mondo che
il poeta esprime». Ecco dunque che
l’Autore è riuscito a fornire una lettura
della continuità/discontinuità
che lega le Occasioni (dove invece
prevaleva la ‘configurazione’ – Ricoeur)
a Finisterre tramite la specola
dell’analisi della rappresentazione
della temporalità. Non soltanto, il
tempo di Finisterre risulta essere anche
un preludio a certe scelte stilistiche
del terzo libro, la Bufera, come
la promozione di Clizia ad autentica
figura cristologica, figura di una
dimensione metafisica che Montale
ha infine collocato al di fuori del
tempo umano e storico.
Diego Varini, in «Per arrivare in
qualche modo a un ordine». Ungaretti e
il decorso aporetico del tempo, analizza
alcuni lineamenti dell’estetica ungarettiana
dall’angolatura del tema del
tempo, la cui semantica ha un ruolo
primario, e genera paradossi particolarmente
fecondi per la ricerca lirica
e umana di Ungaretti: il tentativo
di conciliare la propria esperienza
autobiografica e un significato
valido universalmente porta alla conversione
religiosa, alla formulazione
dell’ipotesi-Dio come fondamento
del programma ontologico della sua
poetica. Guido Guglielmi notava
come «il formalismo di Ungaretti risulti
parallelo e complementare al
formalismo nichilistico di Valéry»,
un accostamento che invita a considerare
altre sfaccettature del problema
temporale, come quella della
memoria, che per il filosofo di cui
entrambi i poeti sono stati allievi,
Bergson, è caratterizzata da un’intrinseca
dualità (memoria-oblio e
memoria-reminescenza). Varini mostra
come Ungaretti svolga il problema
nella direzione dell’utopia, nel
segno di una nozione di memoria
come ponte verso la purezza assoluta
(potersi «smemorare in un grido»).
I versi di Cesare Pavese ricorrono
frequentemente a schemi di ordine
temporale, e perciò ben si offrono a
un’analisi mirata a studiare le funzioni
stilistiche dei tempi verbali.
Michela Rusi, in «Una magra ragazza
selvatica». Il tempo e la donna nei versi
di Cesare Pavese, conduce una lettura
molto dettagliata delle sfumature
legate ai sintagmi verbali, alla struttura
dei testi, a quel ‘ritmo’ che per
Pavese coincideva con la cifra segreta
della propria maturazione poetica
(in una giovanile dichiarazione di
poetica afferma di aver trovato «il
ritmo del fantasticare») e che può
essere percepito nel vitalismo di alcune
immagini ricorrenti, specie legate
al tema amoroso. L’Autrice
guarda poi in prospettiva il percorso
della scrittura (anche prosastica)
pavesiana e vi individua un’evoluzione
nella concezione del tempo,
dal presente e dalla circolarità appagata
di certi testi di Lavorare stanca
al diverso nucleo filosofico-temporale,
incentrato sul rapporto fra
l’età adulta e quella infantile, non
senza toni mitici, in Feria d’agosto.
In Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
l’esperienza del tempo si stringe
ancor più con quella dell’amore, nelle
forme della pulsazione, del flusso,
dei sussulti che sollecitano l’autocoscienza
della temporalità e che
presentano insieme una connotazione
amorosa.
Il bel saggio Le forme del tempo nella
RECENSIONI 205
poesia di Pasolini, di Marco Antonio
Bazzocchi, analizza le forme della
temporalità nella produzione poetica
pasoliniana, prendendo le mosse
dalla constatazione che il tempo
come ‘durata’, complessivamente, ha
per l’autore un valore assolutamente
marginale. Si tratta di un’assenza
che viene debitamente posta in relazione
alla formazione culturale di
Pasolini, e che, alla conclusione del
contributo, si rivela piuttosto come
una forma innaturale, artificiale, della
temporalità. La struttura stessa di
gran parte della sua poesia riflette
quest’assunzione ‘bloccata’ del tempo
nel disporsi a scansioni distinte
da salti logici. Un percorso attraverso
i testi permette di seguire come,
all’interno di questa struttura a quadri,
si succedano comunque alcune
fasi caratterizzate da un diverso trattamento
della temporalità. Dalla staticità
delle poesie friulane, contemplative
e in forte debito con l’ermetismo,
alla dinamicità delle Ceneri di
Gramsci, dove, come ne Il pianto della
scavatrice, troviamo un’elaborazione
articolata dei livelli cronologici
(forse influenzata dalle volute sintattiche
iperstrutturate di Proust). L’analisi
del poemetto La Ricchezza
mette magistralmente in luce come
Pasolini adoperi immagini (le due
raffigurazioni del ciclo pittorico di
Piero della Francesca ad Arezzo e
del rosselliniano Roma città aperta)
che sottendono un tempo non concepito
come durata, bensì coagulanti
suggestioni relative al futuro o al
vuoto temporale. L’attenzione per la
rappresentazione ‘incrociata’ degli
snodi del tempo si accentua ne La
religione del mio tempo e in Poesia in
forma di rosa, dove la narratività è
completamente abolita a favore di
tempi senza progressione interna e
tra loro discontinui, immagine di
idee e situazioni in un innesto reciproco
del tutto privo di mediazioni.
Segue lo scritto di Stefano Colangelo
Elementi della temporalità caproniana,
che mette in luce la ricerca di
rappresentare il tempo attraverso un
repertorio materiale di oggetti, nel
tentativo di aggirare l’enigma della
concettualizzazione del tempo in sé
a favore di una proiezione del problema
su sembianze concrete, strumenti,
dunque, di una riflessione
filosofica che tende a filtrare una
pienezza semantica ardua da fronteggiare.
La ‘riduzione’ del ‘sentimento
del tempo’ è descritta lungo
gran parte dell’itinerario poetico e
Colangelo ben riesce a illustrare le
implicazioni allegoriche non estranee
a questa particolarizzazione: ad
esempio la figura femminile, nelle
Finzioni, che tiene le fila dei rapporti
tra io e tempo svolgendo un ruolo
catalizzante, o, più nettamente,
quella del mare nel Passaggio d’Enea,
dove è sì simbolo della compenetrazione
conoscitiva tra uomo e tempo
ma non per questo acquista un carattere
sovra-temporale, restando
piuttosto testimone concreto di un
tempo immanente.
Sono fini le osservazioni di Stefano
Verdino intorno al valore del
tempo nella poesia di Luzi. Il saggio,
«Continuo avvenimento»: il tempo
nella poesia di Luzi, ripercorre l’evoluzione
del tema attraverso le opere
e alcuni testi scelti di cui porta alla
luce le relazioni tra stilistica e concezione
del tempo quale compresenza
di eterno e provvisorio.
Ne «Il tempo che intercorre». Tempi
206 RECENSIONI
della vita e tempi della poesia nell’opera
di Alda Merini, Lisa Bentini conduce
un’analisi che spazia dalle prime
raccolte, dominate da una ricerca del
kairós a cui è sottesa una concezione
escatologica, mistica, della temporalità,
al secondo tempo della produzione
poetica, quello segnato dal
presente immobile del manicomio,
sul quale dal punto di vista stilistico
s’innestano anche immagini bibliche
e mitiche.
Posto a concludere l’antologia è il
saggio di Franco Arato dedicato all’influsso
di due grandi poeti anglofoni,
Eliot e Auden, sulla poesia italiana
del Novecento, Un altro tempo.
Eliot e Auden in Italia. Interessante
in particolare la ricostruzione della
fortuna eliotiana in Italia, la quale
non poteva che iniziare da Montale.
Arato fa il punto delle acquisizioni
critiche sulla questione e inoltre
avanza un interessante suggerimento
riguardo l’eventualità che un certo
bestiario di Eliot, le «capre» e le
«volpi» del testo caro al Montale
traduttore A Song for Simeon, possa
aver esercitato una, sia pur vaga,
suggestione. Le osservazioni dell’Autore,
anche quelle legate a ipotetiche
microriprese, si inquadrano
nel suo più generale discorso sulle
atmosfere temporali che i poeti italiani
hanno rinvenuto nel poeta-filosofo
anglo-americano. Una vera
‘linea eliotiana’ si può rintracciare
nell’itinerario poetico di Bertolucci;
qualche influenza stilistica sul Pasolini
paradossale e visionario di Ciants
di un muàrt; l’Eliot di Luzi è invece
legato alla cifra trobadorico-dantesca
e al tempo dell’Avvento cristiano,
seppure assunto come ‘adempimento’
e non come ‘paradosso’, mentre
quello di Raboni al ricorso a quadri
e personaggi esemplari nell’ambito
della drammaturgia teatrale. Nel Dopoguerra
Eliot è comunque modello
soprattutto di antiliricismo, e diviene
oggetto di rielaborazioni molto
originali, come quella sanguinetiana
(p. es. la canzone A-ronne), volta a
dissacrarne l’orizzonte religioso e al
contempo a recuperarne quel gusto
della coincidentia oppositorum che
contraddistingue anche la riflessione
su chronos.
La natura varia, antologica e l’intenzione
aperta, interlocutoria di
questo bel volume diretto da Elisabetta
Graziosi sono infine testimoniate
dalle interviste ai poeti collocate
nelle ultime pagine. Fernando
Bandini, Silvio Ramat (che allega alle
sue risposte la poesia inedita Al ritorno
dell’ora solare), Davide Rondoni,
Tiziano Rossi e Paolo Valesio
arricchiscono la ricognizione critica
condotta nei saggi di alcuni punti
di vista dotati di alta sensibilità linguistica
e cognitiva.
Ida Campeggiani
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