saggi
RAFFAELE GIRARDI
Orlando imbestiato e la sindrome
dello specchio concavo
Orlando’s folly is at the same time a creative “addition” to a cycle of
romances and an original modern figure of synthesis. It stands for
an intellectual travail imbued with classical and humanistic echoes,
strengthened by the poet’s clear diagnosis of an existential breakdown:
a loss of identity turned into an anamorphic version of the
courtly exemplariness, and “folly” seen as a collapse of memory, the
same which can be found in the most up-to-date representatives of
the European Renaissance.
Co’ principi bisogna esser pazzo, fingere il pazzo
e vivere da pazzo […]; che costume è quel de la
corte! I signori in tutte le lor cose procedono furiosamente…
(P. Aretino, La cortigiana, II, 13, 1 e IV, 7, 1)1
«Il bello sarà che lo vogliono far guardare, come
vien fora, in uno specchio concavo, che mostra i
volti contrafatti, oh, che spasso!» (Ivi, IV, 13, 2)
1. C’è, fra le maglie della grande architettura dell’Orlando furioso,
un’antropologia ariostesca che al grande tema dell’imbestiamento
dell’eroe (il culmine della pazzia di Orlando) conferisce un’insospettata
funzione di sintesi. Le particolari responsabilità simboliche ad
esso attribuite nel complesso ordito semantico del centralissimo canto
XXIII e di alcuni suoi dintorni merita qualche considerazione di aggiornamento,
a partire da alcune evidenze testuali che occorrerà sottoporre
a una verifica.
1 P. Aretino, Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971, da cui
si citerà da ora in poi.
Saggi
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Che una base classica in primo luogo stoica e senechiana2 dell’«ira
funesta» (leit-motiv degradante dalla forma piena dell’epos alla più terrena
dimensione dell’eroe ‘romanzo’) si offrisse ad un disegno di affabulazione
così nuovo e anomalo come quello di Ariosto, è cosa che, a
rivalutarla, risulta di non poco momento: in primo luogo perché, come
vedremo, contribuisce ad annullare la distanza fra alcuni temi ad
alta tensione etica della cultura classico-umanistica e l’orizzonte mentale
dello scrittore ferrarese3 (quell’orizzonte mentale che un grande
archetipo della storiografia letteraria italiana invece giudicò «mezzano
e borghese», povero di «coscienza», incline alla ‘cavalleria’ e alla
mitologia come ad un’autoappagata e «pura leggenda»: l’orizzonte di
un disegno «onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo»)4, facendo intendere
quanto poco estranea fosse ad Ariosto la dimensione propriamente
meditativa della scrittura. Ma anche perché ci suggerisce che proprio
ad alcune fondamentali strutture dell’immaginario classico Ariosto
poteva ancorare il senso ultimo del grande viaggio simbolico intrapreso
dal ‘cavaliere antico’ verso la meta assurda del suo autoannullamento:
geniale rimodulazione e mise en abîme che segnala, per rimando
moderno al piano della coscienza, l’intrinseca, conflittuale (ossia
2 Gli spunti etici di matrice stoica, soprattutto quelli riscontrati in Seneca, non
configurano necessariamente uno stoicismo di Ariosto; sono piuttosto da vedere,
credo, come occasione privilegiata, fra le tante, di un dialogo con l’Antico molto
più spregiudicato e aperto di quanto non si pensi.
3 Si deve, credo, a G. Savarese (Il Furioso e la cultura del Rinascimento, Roma,
Bulzoni, 1984) l’avvio di un esame finalmente attento al ramificato legame intrattenuto
da Ariosto con i classici e con la cultura umanistica. Ma per l’Ariosto ‘erudito’,
lettore e manipolatore dei classici (soprattutto latini), è ancora molto utile C.
Segre, La biblioteca di Ariosto, in Id., Esperienze ariosteshe, Pisa, Nistri-Lischi, 1966,
pp. 45-50. Sulla combinatoria di ‘riscrittura’ dei modelli classici, intesa come elemento
strutturante del sistema compositivo del Furioso, cf. S. Jossa, La fantasia e la
memoria. Intertestualità ariostesche, Napoli, Liguori, 1996. Per la varia fortuna cinquecentesca
di Ariosto come poeta ‘virgiliano’ e ‘ovidiano’, cfr. D. Javich, Ariosto
classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, Milano, Bruno Mondadori, 1999,
sopr. capp. 2-4.
4 F. De Sanctis, Storia della lettertura italiana, a c. di N. Gallo, voll. 2, Torino,
Einaudi, 1958: II, pp. 508 e 511-512. Ma di un diverso e più articolato giudizio di De
Sanctis su Ariosto (il De Sanctis delle lezioni zurighesi) opportunamente parla N.
Borsellino (Ludovico Ariosto, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 12), il quale per altro,
sulla scia di Caretti, disponendosi a rivedere la sostanza del giudizio desanctisiano,
individua proprio nel «classicismo» di marca virgiliana presente nel Furioso il
principale terreno su cui il ‘romanzo’ ariostesco con «una scelta matura e meditata
» si sarebbe emancipato dalla tradizione encomiastica precedente (Boiardo in
primis).
[ 2 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 213
per nulla «inoffensiva») e dialettica commistione fra una patologia individuale
e gli ordini che sullo sfondo le fanno da cornice5.
Limpida, dietro la maschera eroico-cavalleresca dell’alienazione
cortigiana, la correlazione con un punto assai significativo del senechiano
De ira, certamente noto al «servo» Ariosto. È questo:
[Ira] perniciosa est servientibus; omnis enim indignatio in tormentum
suum proficit et imperia graviora sentit quo contumacius patitur. Sic
laqueos, dum iactat, adstringit; sic aves viscum, dum trepidantes excutiunt,
plumis omnibus inlinunt6.
Il segno più esplicito della confidenza con questo passaggio senechiano
è la figura-similitudine (fornita originariamente da Ovidio)
dell’«augel…in ragna», con la quale Ariosto designa la crescita in Orlando
del presentimento di rovina di fronte alla scoperta della dura
verità («Come l’incauto augel che si ritrova / in ragna o in visco aver
dato di petto, / quanto più batte l’ale e più si prova / di disbrigar, più
vi si lega stretto»: XXIII, 105, 3-6)7.
E si parla dell’ira come «brevis insania» (De ira, I, 1, 2) o, nella forma
più consentanea ad Ariosto (quella suggerita da Orazio), come
«furor» («ira furor brevis est»: Orazio, Ep., I, 2, 62). Anche i «certa indicia
» della pazzia suggeriti da Seneca (De ira, I, 1, 3) delineano un’accurata
semeiotica dell’imbestiamento, che rifluirà nei tratti assai più
rapidamente delineati dell’eroe demente nell’Hercules furens8. Una se-
5 Un interesse recente per questa «sensibilità» dialettica e di «ribellione» del
testo del Furioso nei confronti della realtà storica, vista come materia che penetra
‘digressivamente’ nella trama del fantastico, è in G. Sangirardi, Diavoleria, menzogna,
monumento: apparizioni della storia nel Furioso, in L’Histoire mise en oeuvres, Actes
du Colloque des 2 et 3 mai 2000, Saint-Étienne, Publications de l’Université de
Saint-Étienne, 2001, pp. 25-43; e cf. anche Id., Ludovico Ariosto, Firenze, Le Monnier,
2006.
6 L.A. Seneca, De ira, III, 16, 1, in Dialogorum libros, III-V, ed. E. Hermes, Lipsiae,
Teubner, 1923, p. 125 [‘L’ira è funesta a quelli che servono, perché ogni sdegno
accresce il loro tormento, e più si ribellano agli ordini, più ne sentono il peso. Così
le fiere, mentre si dibattono, stringono di più i lacci: così gli uccelli, mentre cercano
di liberarsi dal vischio battendo le ali, lo spargono su tutte le piume»: tr. it. di R.
Laurenti, Seneca, I dialoghi, Bari, Laterza, 1978, p. 195].
7 Così Ovidio: «Utque suum laqueis, quos callidus abdidit auceps, / crus ubi
commisit volucris sensitque teneri, / plangitur ac trepidans adstringit vincula motu…
» (Met., XI, 73-75) [‘Come l’uccello che cade ne laccio, che l’uccellatore scaltro
gli tese, sentendosi stretto, si sbatte e col moto stringe per tema la rete…’].
8 «Quod subitum hoc malum est? Quod, nate, vultus huc et huc acres refers /
acieque falsum turbida caelum vides?» (Seneca, Hercules furens, in Tutte le tragedie,
[ 3 ]
214 RAFFAELE GIRARDI
meiotica per nulla estranea al disegno ariostesco, come già sembrò a
Giovan Battista Pigna («è Orlando come Ercole»)9. Occorrrà verificarlo
più avanti, parlando della ‘trasformazione’ dell’eroe Orlando.
Per Seneca vale la progressione, il processo formativo, di una finale
debacle: «ruina»10 per frattura e scomposizione interna. Il cammino
verso il Nulla, che la demenza di Orlando configura come ipersegno,
cifra connotante per metonimia l’orizzonte generale di un vissuto, è
infatti, in questo, una «ruina» intesa come azzeramento del Senso. Ne
sono coinvolte, insieme, le motivazioni vitali del soggetto e la natura
di quegli stessi ordini: insomma il problematico rapporto con l’universo
cortigiano.
Non si può del resto ignorare che il nesso consequenziale ira (o furore)/
sragione/bestialità, applicato alla patologia dell’Eros, Ariosto lo
trovava iscritto, in legame stretto con l’etica dei bestiari moralizzati11,
fra le strutture mentali più profonde del modello cristiano-medievale
di humanitas. Lo si ritrova ancora operante ad esempio nella fenomenologia
amorosa descritta da Andrea Cappellano12 e più avanti nel
a cura di E. Paratore, Roma, Newton Compton, 2006, vv. 953-954) [‘Che delirio
improvviso ti ha colto? Perché, figlio, volgi qua e là sguardi infuocati, e la tua vista
smarrita scorge un cielo stravolto?’]. L’ipotesi di una presenza dell’Hercules furens
nell’«orizzonte mentale e culturale ariostesco» è presa in seria considerazione da
C. Bologna (La macchina del «Furioso». Lettura dell’«Orlando» e delle «Satire», Torino,
Einaudi, 1998, p. 199). Ma per un diretto confronto fra Orlando ed Ercole, cf. ora S.
Longhi, Il corpo nudo e feroce: Orlando come Ercole (Ariosto), in Ead., Forme di mostri.
Creature fantastiche e corpi vulnerati da Ariosto a Giudici, Verona, Fiorini, 2005, pp.
9-31.
9 G.B. Pigna, I romanzi, Venezia, V. Valgrisi, 1554, p. 78. Ma l’accostamento del
Furioso alla tragedia senechiana era già in Ortensio Lando, La Sferza de’ scrittori
antichi e moderni, Venezia, A. Arrivabene, 1550, c. 21r. La rilevanza antropologica
del mito di Ercole in ambito umanistico e i significati simbolici che esso assume
all’interno del mondo cavalleresco, puntualmente annotati da P. Rajna (Le fonti
dell’Orlando Frioso, Firenze, Sansoni, 19002, p. 67), sono approfonditi da E. Saccone
(Il «soggetto» del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, Napoli, Liguori,
1974, pp. 216 e sgg.), con qualche spunto su altri momenti del riuso ariostesco
dell’Hercules furens senechiano.
10 «[Ira] aeque enim impotens sui est, decoris oblita, necessitudinum immemor,
in quod coepit pertinax et intenta, rationi consiliis quae praeclusa, […], ruinis simillima,
quae super id quod oppressere franguntur» (De ira., I, 1,1) [‘Come la pazzia,
essa non riesce a dominarsi, dimentica il decoro, non ha memoria degli obblighi
sociali, insiste con pertinacia in ciò che ha intrapreso, è sorda ai suggerimenti della
ragione […], molto simile a quelle rovine che si frantumano su ciò che crollando
hanno travolto’].
11 Cfr. più avanti p. 24 e n. 65.
12 «O come quelli è misero e matto è più che bestia, il quale per li diletti carna-
[ 4 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 215
contesto decisamente più laico dell’etica borghese-mercantile, come fa
vedere Paolo da Certaldo nel suo Libro di buoni costumi13.
Dalle due epigrafi d’apertura occorrerà prendere le mosse, per seguire
un percorso che è sperabile riconduca per una via non angusta,
conseguenziale, al punto di partenza fissato nel Furioso ossia al tema
dell’imbestiamento. Un periplo dunque che coincide, come si vedrà,
col tempo già maturo della grande circolazione e della risonanza pubblica
dell’ultima redazione del Furioso (gli ultimi anni ’20 e i primi
anni ’30 del Cinquecento). Esso vorrebbe mostrare come affiorino e si
consolidino, lungo quella breve parabola dell’immaginario e del vissuto
cortigiano, alcuni modi di percezione/rappresentazione della
realtà che già alimentavano nel profondo la struttura del ‘romanzo’
ariostesco. Parlo, per ciò che concerne lo scrittore ferrarese, innanzitutto
di quelli connessi all’elaborazione della figura della Pazzia quale
emerge in particolare dall’epicentrico canto XXIII del Furioso e da
quella sua fondamentale appendice narrativa che è il canto XXIX.
2. Il primo ex-ergo: due enunciati perfettamente organici alla vulgata
anti-cortigiana e anti-romana del grande eversore Aretino:
1. La coazione a ‘impazzire’ come regola vicaria della simulazione
all’interno del Palazzo.
2. La natura intrinsecamente «furiosa» del costume di corte, a cominciare
da quello dei «signori».
È, fin qui, un manifesto-denuncia costruito pressoché integralmente,
come si evince da tutta la prima parte della Cortigiana oltre che da
numerose altre occasioni di polemica presenti nei testi aretiniani successivi,
sulla frontale contrapposizione fra il grande modello di «libertade
» offerto dalla Repubblica di Venezia e una Roma «irriconoscibile
», prodotto degenerato di un processo perverso, cruda metamorfosi
li, che non bastano un momento, perde l’allegreçça del cielo e fa l’opera d’andare
in perpetuale fuoco» (A. Cappellano, De amore, a cura di G. Ruffini, Parma,
Guanda, 1980, p. 291).
13 «Pericoloso peccato è quello de l’ira: e però ti guarda molto di non lasciarti
correre in ira, che l’ira toglie a l’uomo e a la femina la ragione, e no gli lascia conoscere
cosa che faccia o che dica; e l’uomo o la femina ch’è sanza ragione è simile a
le bestie […]. E po ch’ha perduta la ragione, genera furore in se medesimo, disperandosi
» (Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, 343, in Mercanti scrittori. Ricordi
nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Milano, Rusconi,
1986, p. 80).
[ 5 ]
216 RAFFAELE GIRARDI
di una grandezza ridotta alla deflagrante commistione di «villania e
invidia» (Cortigiana, III, 7, 6).
Risvolti meno immediatamente leggibili e meno scontati ha invece,
nella commedia aretiniana, la bizzarra scenetta da cui proviene la seconda
citazione posta in epigrafe. Aretino vi ripropone l’azione dell’inconsapevole
rimirarsi in uno «specchio concavo» come l’esito di una
cinica burla ai danni di uno stolido Messer Maco, apprendista-cortigiano
e ansioso protagonista di un rapido training, col quale questi
aspira a mettersi in regola per una fulgida e fulminea carriera di corte
che lo porti ad essere cardinale: un destino ch’egli sceglie dopo aver
immaginato, in sogno, di «farsi cortigiano con le forme» (III, 9, 2). L’allusione
parodistica al castiglionesco «formar con parole un perfetto
cortigiano»14 si duplica nella denuncia di una deriva seriale della pedagogia
umanistica con la parola-eco di Messer Maco («anco le bombarde,
le campane e le torri si fanno con le forme…»: III, 9, 3). È un
potenziamento retorico che rimanda ad una semantica più sottile:
proveremo ad entrarvi.
Partiamo pure dall’oggetto parodico: in questo caso, l’immagine
stessa di Messer Maco, al quale il «dipintore» Mastro Andrea, divenuto
per l’occasione suo maestro di cortigiania, finanche prescrive, con la
consulenza del Maestro Mercurio, medico specializzato, una surreale
terapia farmacologica, propedeutica ad una sorta di grande trattamento
igienico, necessario a chi voglia acquisire le «forme» della perfezione
cortigiana (IV, 1).
Con un gusto spiccatamente aretiniano per gli enunciati in contrasto
e per i simbolici rovesciamenti di senso, Mastro Andrea aveva già
avuto modo di spiegare in perfetto codice burlesco, ossia giocando
sull’equivoco di senso, l’importanza che assume uno specchio normale
nelle leggiadre abitudini da «ninfa» del perfetto gentiluomo di palazzo:
Messer Maco: ‘Come si fa la ninfa?’ Messer Andrea: ‘Questo ve lo
insegnerà ogni cortigianuzzo furfantino che sta da un vespro a l’altro
come un perdono a farsi nettare una cappa e un saio d’accottonato, e
consuma l’ore in su gli specchi in farsi i ricci e ungersi la testa antica, e
col parlar toscano, e co ’l Petrarchino in mano, con un sì a fé, con un
giuro addio, e con un bascio la mano, gli pare essere il totum continens»
(I, 22, 3-4).
14 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi,
1998: I, 12.
[ 6 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 217
L’ombra dell’insania, della pazzia e del carattere buffonesco qui
aleggia con lo stesso spirito che Castiglione le conferisce sulla scena
del Cortegiano, dove è Federico Fregoso che la stigmatizza: «Qual è di
noi che, vedendo passeggiar un gentiluomo con una robba addosso
quartata di diversi colori, o vero con tante stringhette e fettuzze annodate
e fregi traversati, non lo tenesse per pazzo o per buffone?» (Il libro
del Cortegiano, cit., I, 27). Ma era stato Ludovico di Canossa ad includere
per primo nel ricco catalogo delle «cose monstruose», fra le immagini
deformate della «bella forma di volto e di persona», il «pericoloso
scoglio» dell’affettazione, croce dell’«amabile» grazia cortigiana: un
«mostruoso» disvelamento dell’arte (ivi, I, 26).
È uno specchio speciale invece quello dinanzi al quale, nella Cortigiana,
viene in un secondo momento messo, con cinica intenzione di
burla, lo sprovveduto Messer Maco, per una verifica della preparazione
alla cortigiania. Il riso di scherno è preannunciato dai sarcasmi di
un suo cameriere:
Grillo: ‘Ah, ah, ah! Messer Maco è stato nella caldaia in cambio delle
forme, e ha reciute le budella […]. L’hanno profumato, raso, rivestito,
tal che gli par essere un altro […]. Il bello sarà che lo vogliono far guardare,
come vien fora, in uno specchio concavo, che mostra i volti contrafatti,
oh che spasso! (IV, 13, 1-2).
In quest’ordine mutevole di significanti il discorso irridente di Aretino
mostra ancora una volta, come nelle sue lettere sulla pittura, di
non essere per nulla estraneo agli ‘scherzi’ delle arti visive, alle aberrazioni
anamorfiche dell’immagine, ai giochi della «prospettiva perversa
». Anzi, esso sembra anticipare con comica estroversione un gusto
metamorfico che si ambienterà perfettamente nei bizzarri labirinti
della scienza barocca: lo dimostrerà l’Ars magna lucis et umbrae di Athanasius
Kircher nella parte dedicata alle trasformazioni ‘simboliche’
che produce l’uso di una macchina catottrica capace in virtù dei suoi
singolari meccanismi riflettenti-deformanti di restituire l’immagine
umana in forma animale, per effetto di ‘metamorfosi’ o di «magia catoptrica
», come dice l’autore15.
15 Cfr. A. Kircher, Ars magna lcis et umbrae in decem libros digesta, Romae,
sumptibus Hermanni Scheus, ex typographia Ludouici Grignani, 1646. Sul prestigioso
museo kircheriano delle installazioni catottriche, allestito dai gesuiti nel
loro Collegio Romano, cfr. J. Baltrušaitis, Lo specchio. Rivelazioni, inganni e science-
fiction, Milano, Adelphi, 1981 (ed. or. Paris, Edd. du Seuil, 1979), che offre
un’esauriente documentazione per immagini delle macchine destinate alle tra-
[ 7 ]
218 RAFFAELE GIRARDI
L’esaltazione barocca dell’illusione ottica prodotta nei cabinets di
curiosità (le seicentesche Kunst-und Wunderkammern) attraverso l’effetto
zoomorfico ha qui in sostanza una interessante anticipazione.
Dunque, nel gioco svagato e nell’apparente casualità di queste metamorfosi
provvisorie e reversibili che i «volti contrafatti» esprimono
non c’è ingenuità bensì l’allusiva sottigliezza di una trouvaille che include
un procedimento simbolico. Si può non vedere come esso si presti
bene ad emblematizzare attraverso i codici del riso la sostanza corrosiva
di un più ampio discorso sulla corte? La parola-gioco dal piano
alto e generico degli ordini «guasti» è scivolata con disinvoltura a designare
una piega del privato, nelle maglie della più effimera e ‘folle’
vita di palazzo.
Di quel carattere non ingenuo dà conferma, a gioco finito, la sottile
tessitura allusivo-gergale del dialogo fra maestro e scolaro-cortigiano,
quando la parola di scena, dopo il disvelamento della diablerie, deve
enfatizzare il recupero di orgoglio e la reintegrazione narcisistica di
Messer Maco. La sequenza dialogica va ripresa, per meglio intendere
il risvolto grottesco e fantastico del gioco a cui assistiamo. Siamo alla
fine del trattamento igienico-cosmetico di Messer Maco e alla successiva
prova dei due specchi:
Messer Maco: Oh bello, oh divino cortigiano che mi pare essere.
Maestro Mercurio: In mille anni non se ne farebbe un altro.
Messer Maco: Vo’ stare in su la reputazione, voglio, poi che mi sento
fatto cortigiano.
Maestro Andrea: Specchiatevi un poco, e non fate le pazzie, che fece
ser Narciso.
Messer Maco: Il viso mi specchierò, datel qua… Oh Dio, o Domenedio,
io son guasto, ahi ladri, rendetemi il mio viso, rendetemi il mio capo,
i miei capegli, il mio naso: oh, che bocca! Oimè che occhi! Commendo
spiritum meum.
Maestro Mercurio: Levatevi suso, ché son rigori e fumosità che fan
traveder il cerebro.
Maestro Andrea: Specchiatevi e vedrete ch’è stato uno accidente.
Messere Maco: Io mi specchio. (M[esser] Maco con lo specchio vero in
mano). Io son fuor de l’altro mondo, lo specchio è tutto mio […] Io son
racconcio, io son vivo, io son io. E voglio ora esser tutto Roma, voglio
scorticare il governatore che mi cercava dal bargello. Vo’ bestemmiare,
vo’ portare l’arme, vo’ chiavellare tutte, tutte, tutte le signore, andate
sformazioni zoomorfiche e un’ampia riflessione sul loro significato simbolico, in
part. alle pp. 15-39.
[ 8 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 219
via medico, puttana nostra vostra, avviati inanzi maestro, che per lo
corpo … tu non mi conosci adesso ch’io sono cortigiano, ah? […]. Voglio
essere oggi vescovo, e domani cardinale, e stasera papa (IV, 18,
1-3).
Nel gioco dello specchio concavo dunque è il «cerebro» a farne le
spese: la diablerie16 mette Messer Maco a rischio di «travedere», facendolo
dubitare di sé con una reazione patologica tutta concentrata sull’angoscia
della perdita: insieme alla sua immagine si è perso anche il
suo «essere».
Il pazzo raffigurato nell’Elck di Pieter Bruegel cerca anche lui il suo
essere in uno specchio, dicendo, con un ghigno di straniato umorismo
e parlando a nome dell’intero genere umano: «io ignoro me stesso»17.
Anche l’effetto di perdita subìto per un momento da messer Maco
porta il personaggio a non essere più Nessuno: «Nemo», come nell’iscrizione
che campeggia fra gli oggetti smarriti che Brueghel accatasta
sulla scena del suo Elck18.
16 Che si tratti di un’azione ‘diabolica’, connotata in senso grottesco-fantastico,
lo fa intendere lo stesso Messer Maco più avanti, rievocando l’inganno: ««Mastro
Andrea m’avea fatto cortigiano con le forme, e il demonio mi guastò…» (V, 22, 2).
Sulla tradizione demotica e grottesca delle diableries fra Medioevo e Rinascimento
resta fondamentale M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale
e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979, passim. Si
dica pure, nel caso di Aretino, grottesco ‘da camera’ a riscontro ulteriore di un
tratto originale della sua scrittura comico-carnevalesca, su cui cfr. R. Girardi, Dialogo
carnevalesco e scrittura della reversibilità: una prosopopea aretiniana, in Atti del
Conv. Internaz. Carte. Gioco, divinazione, scrittura (Bari, 22-24 genn. 1986), «Lectures
», 18, 1986, pp. 103-122.
17 A questa accezione universalizzante della stultitia, convivente con un’altra,
che configura una patologia dell’umano, o meglio un’«incarnazione grottesca
dell’antiumano» e una malattia da guarire, dedica pagine importanti R. Klein in La
forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975
(ma 1970), indicando nel platonismo cristiano la radice comune ai due modelli. Per
il tema iconografico della follia sviluppato nella suggestiva e raffinatissima serie
monotematica delle stampe bruegeliane (possedute dalla Bibliotheque Royale Albert
Ier di Bruxelles, Cabinet des Estampes), che comprende l’Elck, cfr. R.H. Maijnissen,
Bosch and Brueghel on human folly, in Folie et déraison à la Renaissance, Colloque
international (Bruxelles, nov. 1973), Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles,
1976, pp. 41-52.
18 Cfr. G. Calmann, The Picture of Nobody. An Iconographical Study, «Journal of
the Warburg and Courtauld Institute», XXIII, 1-2, 1960, pp. 60-104; e R. Giorgi, Un
tema della ‘Follia’: il ‘Nessuno’, in AA.VV., L’umanesimo e «la Follia», Roma, Abete,
1971, pp. 65-88; ed E. Castelli Gattinara, Quelques considérations sur le Niemand
et … Personne, in Folie et déraison à la Renaissance, cit., pp. 109-114.
[ 9 ]
220 RAFFAELE GIRARDI
Su quell’indistinta angoscia della perdita si capisce quanto incida
l’incubo della caduta del Desiderio e in particolare il depotenziamento
dell’energia sessuale. La rapida reintegrazione infatti, il «racconciamento
», comporta l’inopinato ma salutare ritorno di uno strapotere
fallico («vo’ chiavellare tutte…»). La turbinosa giostra dei significanti
può ricreare anche solo per pochi istanti l’«accidente» della perdita di
sé attraverso l’immagine «guasta», fantasma della Morte, per effetto
di una «prospettiva depravata», di un’anamorfosi che «dilata e proietta
le forme fuori di se stesse […] e le disgrega perché si ricompongano
in un secondo tempo»19.
Basta infatti, in questo schema burlesco, riavere lo «specchio vero»
in mano, perché l’apprendista-cortigiano riacquisti una nuova padronanza
narcisistica di sé, che lo porta «fuor de l’altro mondo» e lo restituisce
al principio di realtà: una vera guarigione («Io son acconcio…»)
dopo il «guasto» (termine-chiave, come vedremo), che lo fa depositario
di una nuova energia desiderante, una smania del possesso inclinante
alla violazione e ad un salvifico trionfo dell’eccesso («io sono io
[…]. Voglio ora esser tutto Roma…»).
In questa ristabilita volontà di potenza, per il cinico gioco dei contrari
che fa da trama alla scrittura aretiniana, tutto in realtà accade in
ossequio all’ennesimo rovesciamento di ‘prospettiva’. È un’inversione
di senso nella quale l’incertezza dello sguardo di fronte alla «vertigine
dell’astrazione» viene risarcita col ripristino del puro inganno, con
l’immagine ‘reale’ (una maschera di primo grado) della stolida ambizione
e della follia, le due forze motrici che alimentano nel profondo il
senso corrente del vivere cortigiano20.
Quanto al linguaggio, non c’è bisogno di scomodare, a proposito di
«ordini», i piani alti della grande analisi politica (mettiamo: Machiavelli
e il suo «mondo guasto» da riformare) per trovare l’accezione che
19 J. Baltrušaitis, Anamorfosi o Thaumaturgus opticus, Milano, Adelphi, 19902,
p. 15. «Si tratta – aggiunge Baltrušaitis, ed è una precisazione fondamentale – di
una distruzione che prelude a un ripristino, di un’evasione che implica però un
ritorno» (ib.). Sull’anamorfosi, considerata come «un mode de communication ou
un certain type de language» e un modello di ‘visione’ della realtà elaborato «sous
le signe du surréalism» e dell’«imagination créatrice» nella letteratura del sec. XVI,
cfr. J.-C. Margolin, Aspects du surréalism au XVIe siècle: fonction allégorique e vision
anamorphique, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», tome XXXIX (1977),
pp. 503-530.
20 Di uno «speculum renversé de la cour» come ’immagine’ della follia parla C.
Ossola, Métaphore et inventaire de la folie dans la littérature italienne du XVIesiècle, in
Folie et déraison à la Renaissance, cit., pp. 171-196: p. 172.
[ 10 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 221
più pertiene al nostro discorso. Basta restare nei paraggi per ritrovare
l’asseverazione in forma quasi proverbiale, come una massima-refrain,
del Marescalco (IV, 8, 2) o della Talanta (V, iv, 6): «il mondo è guasto»,
nel senso che reca tutti i segni visibili e immedicabili di una strutturale
rovina. È lo stesso «mondaccio» o mondo-mercato contro cui impreca
l’esperta e cinica prostituta Nanna nel Ragionamento aretiniano21. La
trouvaille della burla dinanzi allo specchio concavo, nella Cortigiana,
non fa che transcodificare con gergale svagatezza in una metonimia la
perentorietà di quella diagnosi.
3. «Guasto» e «racconciamento», specchio concavo e specchio normale,
follia e reintegrazione. Lo schema, il procedimento discorsivo
che mette in azione queste antitesi, funziona in Aretino secondo una
logica che ha non poche analogie di senso con alcuni elementi costitutivi
dell’immaginario ariostesco, destinati per via figurata, attraverso
una grande affabulazione d’impianto ‘onirico’, a proiettare nella grande
rete delle narrazioni, nell’accumulo magmatico delle loro varie implicazioni
simboliche, alcuni aspetti cruciali di una più generale problematica
del ‘vissuto’ di corte: elementi dunque che la quête cavalleresca
promuove a geniali sostituti di un conflitto reale, maturato
nell’incerta vicissitudine etico-esistenziale di Palazzo dal «servo»-letterato
Ariosto.
Certo, per tornare ad Aretino, tutto l’universo cortigiano messo in
scena, e non solo nella commedia citata, è un immenso turbine di immagini
«guaste», cumulo inquietante di figure metonimiche chiamate a
fare da sostituti per l’unica, vera e plateale realtà della follia materializzata,
che per il Flagello dei Principi è la città di Roma: realtà anch’essa
«irriconoscibile», stravolta, chiamata a far da sfondo per una commedia
il cui linguaggio è esso stesso stravolto, alieno dall’«ordine che si
richiede»22. è la conferma, su un altro proscenio (Roma invece di Ferrara),
della forza conoscitiva e insieme problematica di questo sguardo
anamorfico, di questa percezione della realtà che predilige, sì, in questa
occasione, un registro ludico e surreale, ma che punta a recuperare alla
distanza, in cifra allusiva, proprio con l’appoggio del gioco surreale, i
nuclei strutturanti di una visione assai più complessa e ambiziosa, che,
come vedremo, non è solo di Aretino: è un percorso da ricostruire.
21 Cfr. P. Aretino, Ragionamento della Nanna e dell’Antonia, in Id., Ragionamento
– Dialogo, a cura di P. Procaccioli e introduzione di N. Borsellino, Milano, Garzanti,
1984, p. 9.
22 Prologo della Cortigiana, cit., pp. 99-100.
[ 11 ]
222 RAFFAELE GIRARDI
Occorrerà farlo concentrando l’attenzione, per la straordinarietà
dei suoi contenuti onirico-simbolici, sulla scena dell’identità smarrita
e del ricordo, anch’esso «guasto e rotto», del folle Orlando ariostesco
(Orlando furioso, XXIX, 61, 6) e della sua rovina come soggetto-protagonista
della quête erotico-sentimentale23. Ma prima è necessario percorrere
per intero il periplo, ripartendo dal punto nero della vicenda
del cavaliere-gentiluomo-cortigiano in formazione (Messer Maco), da
quell’attimo di sospensione della certezza di sé determinato dall’angoscia
della perdita: è niente altro che il terrore della morte. Nel volto
contraffatto e deformato della follia, percepito anche solo per qualche
istante nello specchio da quella ‘testa vuota’ che è Messer Maco, c’è
una macabra prefigurazione. «La follia – lo dice bene Foucault a proposito
dell’immaginario tardoquattrocentesco – è l’anticipazione della
morte», ossia «la testa, che sarà cranio, è già vuota»24.
Vuota come il ‘sogno’ effimero di Messer Maco: vuoto di morte. E
vuota come l’armatura di Orlando nel canto XXIII del Furioso: l’armatura
che Zerbino trova disseminata nel bosco e che, con l’aiuto della
mesta Isabella, ricompone, già conscio della rovina che quelle «reliquie
» suggeriscono. L’onore tributato con dolore struggente da Zerbino
ai resti di Orlando e il «bel trofeo» eretto con la sua armatura vuota
sono i contrassegni problematici di un epos ormai assente, ostensione
sconsolata di un irreparabile «guasto», e un deliberato capovolgimento
di senso rispetto al suo corrispettivo classico, ossia l’orgogliosa
ostensione dello scudo di Abante che Virgilio fa inscenare ad Enea in
Eneide III, 286-289: un capovolgimento orchestrato in termini d’ironia
testuale, giocando sul significato amaramente antitetico delle due famose
iscrizioni: quella virgiliana, incisa sullo scudo del nemico, che
onora Enea come simbolo vivente di un epos attuale («Aeneas haec de
Danais victoribus arma»: III, 288)25 e quella ariostesca, apposta da Zer-
23 In Dante, If., XIV, 94, «guasto» è un «paese», al centro del Mediterraneo,
sede di un’antica civiltà: è Creta, mitica isola nella quale si era consumata, secondo
l’antica tradizione, l’età dell’oro; paese poi caduto in rovina a seguito della progressiva
decadenza dell’intero genere umano: «rovina» e ‘corruzione’ irreversibile
dunque. Anche nel petrarchesco Triumphus fame (2, 78) il «mondo guasto», evocato
in relazione all’«inobbedienza» di Adamo, è nella stessa accezione. Semanticamente
non molto dissimile, semmai più specializzata nel «vitupero» della corruzione
fratesca, è la denuncia del «guasto mondo» che Boccaccio-autore si concede in
Decameron, VII, 3, 8 (a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1985).
24 M. Foucault, Storia della follia nell’età clasica, ed. accresciuta, Milano, Rizzoli,
1981 (ed. or. Paris, Gallimard, 1961), pp. 29-30.
25 [«Enea affisse quest’arma sottratta ai Danai vincitori»].
[ 12 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 223
bino sul simbolo del «guasto» e della perdita d’identità, sulla morte
ritualizzata dell’antico valore cavalleresco («Armatura d’Orlando paladino
»: XXIII)26.
Albrecht Dürer aveva riproposto il tema ritualizzato della perdita
di sé, del rischio morale e della morte nella straordinaria incisione Il
cavaliere, la morte e il diavolo, che Erwin Panofsky col solito acume analitico
interpreta (ricorrendo al prezioso supporto di alcuni riferimenti
biblici ed erasmiani) come il cavaliere armato di evangelica fermezza,
che «impersona la vita del cristiano nel mondo pratico della decisione
e dell’azione» e che resta imperturbabile dinanzi alla morte e al diavolo:
un Ritter Christi consapevolmente vicino al «miles christianus» di
Erasmo, col quale Dürer effettivamente dialoga nel suo diario di viaggio
nei Paesi Bassi27.
Resta un po’ in ombra, per la verità, nella decodifica panofskiana,
il problema della presenza problematica e angosciosa della Morte
nell’immaginario del cavaliere cristiano, che invece qui credo emerga:
credo cioè che anche nella rappresentazione düreriana la presenza
della Morte e del Diavolo (il peccato), proprio grazie alla presenza di
Erasmo nella memoria di Dürer (del suo Moriae Encomium oltre che
dell’Enchiridion
militis christiani), designi una condizione insidiosa,
un’ambivalenza alla quale anche corrisponde una posizione di rischio
sempre incombente sulla vita del cavaliere: la paura di perdersi come
eroe di valore e come cristiano. C’è in fondo anche nel cavaliere düreriano
una vena d’ironia (non priva, come in altre occasioni, di una
sottile cifra serio-comica, soprattutto nelle figure di contorno del Diavolo
e della Morte), che sulla scia del grande modello erasmiano punta,
come direbbe Foucault, a disarmare «il terrore di fronte al limite
assoluto della morte»: interiorizzandolo28. È un’ironia che riapre, come
vedremo, il confronto con le marche allusivo-simboliche del grande
sogno ariostesco.
4. Un’ultima tappa, per concludere davvero il periplo, la merita un
quadro assai noto: gli Ambasciatori di Hans Holbein29, un dipinto ese-
26 Ragionando in termini di fonti sul particolare delle armi abbandonate da
Orlando, Pio Rajna predilesse la risalita più breve alle indicazioni del Tristan: cfr.
Le fonti, cit., p. 406.
27 Cfr. E. Panofsky, La vita e l’opera di Albrecht Dürer, Milano, Abscondita, 2006
(ed. or. Princeton University Press, 1955), sopr. pp. 196-201.
28 M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 29.
29 Londra, National Gallery.
[ 13 ]
224 RAFFAELE GIRARDI
guito nel 1533, un anno prima dell’esordio a stampa della Cortigiana e
un anno dopo la pubblicazione della terza edizione del Furioso. Gli
oggetti disparati che con terso realismo affollano il doppio ritratto holbeiniano
fanno da contorno ai due gentiluomi di corte (gli ambasciatori
Jean de Dinteville e George de Selve, un laico e un chierico, entrambi
rappresentanti del re di Francia a Londra) con la stessa carica
evocativo-simbolica che Dürer conferiva al variegato corredo di attrezzi
che affollano la scena della sua Melancholia: sono in entrambi i
casi gli strumenti del velleitario cammino che la scienza compie nella
‘folle’ illusione di giungere alle verità del cielo e della terra; emblemi
della vanitas umana – «una mostra dell’impero dell’apparenza», disse
Jacques Lacan30 – evocanti lo stesso «dolce delirio» che Erasmo, grande
amico e protettore di Holbein, attribuisce nel suo Elogio della pazzia
ai grandi ‘misuratori’ dei misteri racchiusi nel mondo naturale (i filosofi
e gli astrologi)31. Tema che largamente riecheggia nella requisitoria
contro il pericolo dello «smaniare con la ragione», che Cornelio
Agrippa sviluppa nel suo De incertitudine et vanitate scientiarum et artium
atque excellentia verbi Dei declamatio32.
Il particolare di grande rilievo che va notato nel dipinto holbeiniano
è anche qui, come già in altri studi sull’iconografia simbolica del
Rinascimento europeo, la famosa e, al primo sguardo, incomprensibile
macchia biancastra di sagoma incerta, che campeggia in primo piano
ai piedi dei due gentiluomini. Opportunamente, a corredo della
decodifica, Baltrušaitis insiste su un’idea presente in Holbein e che
egli riscontra in Cornelio Agrippa, secondo la quale la pittura «è un
trompe-l’oeil per definizione»33, e la prospettiva, cardine di un intero
sistema della rappresentazione ‘razionale’ del Rinascimento, una norma
«che insegna le ragioni delle false apparenze che si presentano
all’occhio»: le stesse ragioni che i cosmologi, i musicisti, gli aritmetici
e i geometri presumono di cogliere dalla conoscenza della terra e del
cielo34.
30 Una «mostra» il cui ‘fascino’ è turbato tuttavia da «qualcosa che non è altro
che il soggetto come nullificato», reso irriconoscibile dall’anamorfosi.
31 Cfr. Erasmo da Rotterdam, Elogio della Pazzia, LII, a cura di T. Fiore, Torino,
Einaudi, 1964, pp. 88-89. Su questi motivi di sintonia fra Erasmo e Holbein,
sulla loro circolazione europea e sulla comune esperienza culturale da essi accumulata
nell’ambiente umanistico italiano, cfr. J. Baltrušaitis, Anamorfosi, cit., pp.
112 e sgg.
32 Princeps: Anversa, 1530.
33 Ivi, p. 116.
34 Ivi, pp. 115-116.
[ 14 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 225
L’oscurità del significato, nella macchia biancastra, è l’effetto deliberato
di un ironico trompe-l’oeil incaricato di emblematizzare il senso
profondamente umano di un procedimento anamorfico, di un occultamento
che enfatizza il suo segreto – l’invadente primo piano della
macchia, dell’immagine ‘guasta’ – per poi scioglierlo imprevedibilmente.
Nel nostro caso è ciò che accade all’osservatore che, allontanandosi
dall’immagine, ridìa uno sguardo di traverso a quella sagoma:
egli può così vedere nettamente delineata la forma del suo drammatico
contenuto: un teschio, la Morte35. Di contro, lo splendore ‘mondano’
e la vanità delle figure degli ambasciatori si dilegua. «Al loro
posto – dice Baltrušaitis – nasce dal nulla il segno del Nulla»36. Il ‘fascino’
di «quell’impero dell’apparenza», precisa Lacan nella sua ‘lettura’
del quadro holbeiniano, è così turbato da «qualcosa che non è altro che
il soggetto come nullificato»37, reso irriconoscibile dall’anamorfosi. La
quale è in realtà un oscuramento dell’immagine, lo stravolgimento di
un’identità originaria e un rebus, ossia «un mostro, un prodigio»38.
Ai fini del nostro discorso, conviene tesaurizzare queste connessioni
di senso prospettate da Baltrušaitis, in particolare il legame fra la
pratica degli inganni visivi e il vasto territorio del «dubbio filosofico»,
che interessa Agrippa ed Erasmo nel fissare la coscienza della vanità e
della follia delle scienze umane. Sapendo che dentro la ‘prospettiva
depravata’ dell’anamorfosi, intesa senz’altro come figura del disordine39
chiamata a designare «certi aspetti della patologia mentale», abitano
a pieno diritto le costruzioni fantastiche della poesia40.
35 Baltrušaitis dedica un’attenta analisi ai contenuti simbolici offerti dal dipinto
holbeiniano e al ricchissimo contesto artistico, filosofico, e tecnico-scientifico dal
quale essi traggono alimento (pp. 112-132), non prima d’aver fissato alcune fondamentali
premesse alla sua accurata indagine sulla composita fenomenologia dei
modelli anamorfici. Per esse, cfr. qui la nota 38.
36 Ivi, p. 122.
37 J. Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi
(1964), Torino, Einaudi, 1979, p. 90.
38 Ivi, p. 15. «L’anamorfosi – aggiunge Baltrušaitis – si afferma come curiosità
tecnica, ma «contiene una filosofia della realtà artificiosa […]». Proponendosi come
puro «sotterfugio ottico», essa configura una prospettiva, l’altra prospettiva
del Rinascimento, nella quale «l’apparenza eclissa la realtà», annientando l’ordine
naturale: uno «sconfinamento nelle teorie del dubbio» (ibidem). Pertiene ancor più
marcatamente al nostro discorso il legame istituito da Baltrusaitis fra processo percettivo
e ‘materia’ immaginaria: «L’anamorfosi rifulge nella vertigine dell’astrazione
», mostrando «l’incertezza della vista» (p. 16).
39 Ivi, p. 248.
40 Ivi, p. 132.
[ 15 ]
226 RAFFAELE GIRARDI
5. Credo che il percorso sia ora più agevole o almeno ci sia qualche
coordinata in più per chi voglia riconsiderare la forma affatto speciale
e il senso dell’imbestiamento nell’Orlando furioso alla luce del suo essere
uno speciale «guasto» della coscienza: un cammino problematico
verso il Nulla.
Nel mondo d’origine della tradizione cavalleresca, quello cupamente
disegnato nella Chanson de Roland, l’eroe era l’immagine di un
destino: una sorte consumata con la ferocia un po’ cieca, vuota di raziocinio,
dell’attaccamento ad una fede, che è del resto, come dice Cesare
Segre, una desmesure anch’essa appartenente ad un disegno divino41.
Alla fine del percorso, dopo più di quattro secoli, l’Orlando di
Ariosto si ritrova a incarnare, al contrario, quel destino in dissoluzione,
l’eclissi del fulgore ossia un disancoramento42, che ispira una desmesure
di diverso conio. Se un esile tratto in comune ancora resta fra
l’avo e l’epigono, esso è la stringente e fatale corrispondenza di misura
fra la grandezza dell’eroe e quella della sua rovina: ed è anche un
primo fondamentale rimando alla comune lezione dell’Hercules furens
di Seneca43.
Per Roland la strada era un tracciato fatale che nel glorioso e cupo
orizzonte della Chanson conosce anche l’incertezza delle scelte e l’angoscia
di fratture irrisarcibili, incise sul corpo stesso della grandezza e
del valore ‘carolingio’ («Rollant est proz e Oliver est sage»)44: è l’angoscia
di una dementia di altra matrice, che sulla scena tragica di Roncisvalle
semmai germina, come avrebbe fatto rilevare Lorenzo Valla nel
suo De voluptate, da un eroismo risolto in cieca e non realistica ostinazione45,
ma all’ombra di una certezza. Certezza ‘cieca’, perché protet-
41 Cfr. C. Segre, Introduzione a La canzone di Orlando, a cura di M. Bensi, Milano,
Rizzoli, 1985, p. 5-27, in part. pp. 14-15.
42 Al fantasma della ferocia senza limiti e all’irrealismo fatale della desmesure
rolandiana si contrappongono, talora come radicale antitesi, nel Furioso, esempi
di senso pratico dei cavalieri ariosteschi, come quello di Cloridano, su cui cfr. la
nota 45.
43 Seneca diluisce la sentenza nell’inutile appello di Anfitrione ad Ercole, ormai
demente e in procinto di commettere la strage: («Infandos procul averte sensus;
pectoris sani parum / magni tamen compesce dementem impetum» (vv. 974-
975) [‘Getta lungi da te queste suggestioni sacrileghe; raffrena il folle impeto del
tuo spirito che, anche quando delira, concepisce sempre imprese sovrumane’].
44 La canzone di Orlando, cit., CVIII, 1093.
45 «Non fugere de acie nec locum deserere fortitudinis est, cum omnes fugiunt
remanere, dementie» (L. Valla, On pleasure – De voluptate, testo e intr. a cura di M.
Lorch, trad. di A. Kent Hieatt e M. Lorch, New York, 1977, p. 124) [‘Non sottrarsi
allo scontro e non abbandonare il campo di battaglia è segno di fortezza; restare
[ 16 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 227
ta, fatale, lambita appena, nella Chanson, dall’accorato e parimenti fatale
lamento di Carlo in chiusura («Deus – dist li reis – si penuse est
ma vie!»)46, che suggella la coscienza dell’eterna solitudine del grande
valore, dell’autorità e del potere. Per Orlando è invece una quête che
radicalizza, e in termini inediti, la vecchia condizione d’incertezza e
solitudine del vecchio cavaliere errante, destinato ad andare solo per
la propria strada dopo essere arrivato, in compagnia di altri cavalieri
e di altri destini, ad un punto decisivo del cammino47.
I crocevia si sono nel frattempo moltiplicati a dismisura: inseguire
l’oggetto di desiderio significa ormai per Orlando, per il destino della
scrittura e per il suo ‘genere’48, un continuo ‘digredire’ lungo itinerari
anomali: è un cammino verso mete impreviste che recano strane verità,
casi non contemplati dal destino. A parte quello di Ruggiero e Bradamante,
che è un formale omaggio ai signori Estensi.
Nella tradizione dei romanzi di cavalleria al cavaliere è dato impazzire
più volte e in vario modo, restando razionalmente in scena
negli intervalli fra un’esplosione di demenza e l’altra. Lancillotto nello
quando tutti scappano è da dementi’]. Su questa antiretorica dell’eroismo, intesa
per altro come matrice umanistica del Furioso, cfr. le importanti pagine di G. Savarese,
Il Furioso e la cultura del Rinascimento, cit., sopr. pp. 39-52, che mette opportunamente
in evidenza, di contro, nell’episodio ariostesco di Cloridano e Medoro, il
senso realistico e la prudenza che l’autore conferisce ai comportamenti di Cloridano
di fronte al rischio mortale che le soverchianti forze cristiane fanno incombere
sulla sua vita e su quella di Medoro (Orlando furioso, XVIII, 189).
46 La canzone di Orlando, cit., CCXC, v. 4000 [‘Dio – dice il re – com’è penosa la
mia vita!’].
47 Il cavaliere che a un certo punto del cammino, di solito a un trivio o a un
quadrivio, decide di staccarsi da chi gli cavalcava a fianco per proseguire in solitudine
è un topos ben documentato da P. Rajna (Le fonti, cit., p. 313).
48 Quanti sono i generi dell’Orlando furioso?, si chiede da ultimo G. Sangirardi
già nel titolo del suo contributo ariostesco in «Allegoria» (59 (2009), pp. 42-55),
partendo dal recupero della tipologia ‘storica’ «libri di bataglia», che ha suggerito
il titolo ad un convegno assai recente (Boiardo, Ariosto e i libri di battaglia, Atti del
Conv. di Scandiano, Reggio Emilia e Bologna [3-6 ott. 2005], a cura di A. Canova e
P. Vecchi Galli, Novara, Interlinea, 2007, nei quali cfr. in part. il contributo di A.
Nuovo, I libri di battaglia: commercio e circolazione tra Quattro e Cinquecento, pp. 341-
359), e optando per la lettura di un Ariosto refrattario a ogni «legislazione» e tuttavia
incline ad un riconoscibile «formato» (termine che intende imparentarsi con il
concetto di «Generic Repertoire» che A. Fowler usa nel suo Kind of Literature. An
introduction to the Theory of Genres and Modes, Harvard University Press, Cambridge
(Ms), 1982) del libro di «arme e amori», ma instaurando con la sua tradizione
seriale (a cominciare da Boiardo) «una logica ambigua, che al tempo stesso abolisce
e ricalca la logica generica» (p. 53): che in sostanza corrode «dall’interno» gli
elementi di ‘convenzione’ del serial cavalleresco.
[ 17 ]
228 RAFFAELE GIRARDI
Chevalier de la Charette impazzisce almeno 4 volte. Solo l’ultima è legata
propriamente all’amore. Nel Furioso, in realtà, gli ingredienti della
pazzia di Olando, come fece vedere Pio Rajna, sono in larga parte ereditati
da un vasto repertorio della tradizione cavalleresca49: un’eredità
romanza del resto è anche il tema della gelosia come movente genetico
dell’intera vicenda.
In Orlando, a rigore, è un immedicabile senso della perdita, puro
come suggeriva uno dei suoi archetipi, Tristan50, a imporsi nettamente
sulla gelosia vera e propria51. A me sembra in sostanza che rischi di
creare qualche equivoco l’enfatizzazione della gelosia come sentimento
dominante in Orlando o addirittura come molla della rappresentazione
ariostesca della pazzia: una chiave interpretativa che è presente
in recenti proposte di lettura52. Altro problema è insomma quello delle
proiezioni e della latenza della gelosia, ovvero la sua disseminazione,
nei vari personaggi.
La gelosia resta in effetti un oggetto patologico lungo tutto l’itinerario
narrativo del Furioso, riaffiorando di continuo come una specie
di corrente carsica in svariate e decisive occasioni (tutte notissime)
49 Cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 393-408. Ma sul «cerimoniale» dell’impazzimento
del cavaliere, sono fondamentali anche gli spunti di C. Segre, Fuori del mondo.
I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, p. 91.
50 In uno degli epiloghi più lapidari e insieme più struggenti della letteratura
di tutti i tempi com’è quello del Tristan di Thomas, ancor più puro forse, non contaminato
cioè da altri ingredienti narrativi, il sentimento della perdita, è bene ricordarlo,
invade Isotta la bionda, nipote e moglie del re Marco di Cornovaglia: una
pulsione di morte intimamente legata ad un’immmagine ‘liquida’ dell’autodissoluzione.
Ella vede affogare nella pazzia la sua angoscia, sognando il mare, «un
dolce letto d’acqua» vagheggiato come luogo della fine. E la fine viene, cogliendola
«impietrita, …impazzita dal dolore» alla notizia della morte di Tristano, (Tristano
e Isotta, a cura di T. Troncarelli, Milano, Garzanti, 200510, pp. 122-123). Una
fenomenologia della circolazione della materia tristaniana in Italia, già delineata in
D. Branca, I romanzi italiani di Tristano e la Tavola Ritonda, Firenze, Olschki, 1968, è
ora riconsiderata nelle equilibrate e godibili pagine di E. Trevi, La «Tavola Ritonda»
e la leggenda di Tristano in Italia, che fa da Introduzione alla sua ed. della Tavola Ritonda,
Milano, Rizzoli, 1999, pp. 9-85.
51 Il tema della perdita (in part. la «perdita primaria» del senno) connesso a
quello dell’avventura lunare, mi sembra che concorra con un ruolo centrale all’interpretazione
complessiva del Furioso offerta da C. Segre, come mostra il suo saggio
Da uno specchio all’altro: la luna e la terra nell’Orlando furioso, in Id., Fuori del
mondo, cit.
52 Cfr., per es., il saggio, per altro stimolante, di F. Pool, La pazzia di Orlando e
la saggezza di messer Ludovico, «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», IV, 2 (2001),
pp. 339-382.
[ 18 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 229
della quête. Ma non a caso fra i veri testimoni (ed emblemi) di questa
‘malattia’ in azione c’è il «barbaro» Rodomonte: la Gelosia in persona
s’incarica «d’inimicar con Rodomonte il figlio / del re Agrican…»
(XVIII, 31, 1-2), che è l’antitesi polemica di un soggetto-autore (e del
suo sostituto Orlando) strenuamente e con geniale levità proteso a
problematizzare, fuori dai recinti di quella «barbarie», la condizione
disperata e tendenzialmente nichilistica dell’eroe di fronte alla natura
dilemmatica della vita e dell’Eros (come mostra l’altra maschera ariostesca,
Rinaldo, nel sintomatico e per molti versi centrale episodio del
cavaliere del Nappo), piuttosto che ad enfatizzare le dinamiche (anche
narrativo-romanzesche) della rivalità. Centrale, naturalmente, è l’«infernal
peste» della gelosia (XXXI, 4, 5), quando riguarda Rinaldo. Per
non dire di Bradamante: dalla sua gelosia prenderà lo spunto un intero
filone tragicomico e larmoyant della drammaturgia europea.
Nel Furioso insomma essa dilaga, alimentando per altro i due sontuosi
exempla novellistici dei cc. XXVIII (Astolfo, Iocondo e Fiammetta)
e XLIII (Adonio e Argia). Eppure, «frenesia» o «rabbia» (XXXI, 1, 7)
che sia, mai essa è il perno delle considerazioni di Orlando, nemmeno
nei momenti più drammatici della scoperta del vero amore di Angelica,
nei quali egli, semmai, la ‘oggettiva’ e, diciamo così, la concettualizza,
percependola come un rischio nel quale altri, egli sospetta, vorrebbero
gettarlo («Poi ritorna in sé alquanto e pensa come / possa esser
che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome /
de la sua donna e crede e brama e spera, / o gravar lui d’insoportabil
some / tanto di gelosia, che se ne pèra» (XXIII, 114, 1 e 4-6).
Non è probabilmente un caso che Ariosto faccia spiccare in un
dramma della gelosia così esemplare nella sua barbara oltranza come
quello di Rodomonte la triviale reattività di un personaggio che si segnala
sulla scena (nell’osteria d’Arli) come netta antitesi rispetto ai
contenuti e all’umore comico della splendida novella contigua di Iocondo
(c. XXVIII), che il locandiere d’Arli decide di raccontare allo
sconsolato ospite: un racconto che non manca di delineare, fra i tanti
suoi sovrasensi, non certo quello banale di una presunta misoginia
ariostesca (una linea interpretativa comparsa con frequenza nelle letture
più superficiali della novella), bensì proprio una spiazzante e finissima
parodia del possesso, della mercificazione erotica e della gelosia
stessa53.
53 Per questa lettura della novella, mi permetto di rimandare al cap. dal titolo
Fiammetta o dell’ingenuità, in R. Girardi, Auctor in fabula. Idee e pratiche del racconto
inserito fra ’300 e ’500, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 267-300. Derubricata opportuna-
[ 19 ]
230 RAFFAELE GIRARDI
Del resto la gelosia, sotto il profilo dell’efficienza diegetica, postula
tensione e confronto con l’altro, rivalità, una potenzialità d’infrazione
generante il sospetto: tutti elementi che riguardano assai poco Orlando,
il quale, destinato invece, di fronte all’assenza perenne dell’oggetto
di desiderio, all’infruttuoso dispendio di una pulsione che proprio
il differimento e l’eterna distanza dall’oggetto garantiscono nella durata54,
è destinato all’unica, devastante scoperta di una realtà che ha assorbito,
bruciato l’oggetto, senza che più la cosa lo riguardi: egli non
ha nemmeno il tempo per ingelosirsi prima d’impazzire e prima di
mostrarci uno stupore affatto speciale, un annichilimento che è tutto
ariostesco. Oltre tutto, quando l’insorgere della follia, tragico epicentro
di un più largo sisma, già produce l’avvio di quello straordinario
turbine retorico-diegetico che è l’erranza demente di Orlando, nel
mezzo esatto del cammino poematico (nell’epicentro del senso complessivo
prima ancora che della geometria romanzesca: «Folly» davvero
come «an all-pervading element in the poem»55), la presenza dell’altro,
dello straniero d’altra fede (l’«africano» Medoro), e il suo destino
indiano sono già materia narrativa ‘riferita’, ellittica, di un altrove
irrelato, che, si dirà più avanti del tutto incidentalmente, «forse altri
canterà con miglior plettro» (XXX, 16, 8).
Anche di questo sentimento della perdita non mancano riscontri
nella tradizione cavalleresca: segnatamente, ancora una volta, nel territorio
tristaniano, che resta in generale il più affine al Furioso56. Eppumente
la vocazione misogina dal catalogo dei sentimenti ariosteschi affioranti dal
Furioso, è da tempo che appare assai più utile precisare la particolare, non dogmatica
mobilità e, direi, la coerente dialetticità dell’atteggiamento di Ariosto verso il
mondo femminile, il quale è da leggere, credo, come una delle testimonianze più
lungimiranti e moderne che la cultura letteraria italiana potesse offrire all’europea
querelle des femmes. Va in questa direzione, a me sembra, R. Bruscagli nel suo cap.
ariostesco per il vol. II (Umanesimo e Rinascimento) della storia letteraria da lui firmata
insieme a G. Tellini, V. Corsano, L. Denarosi e S. Fiaschi, Itinerari dell’invenzione,
Firenze, Sansoni per la Scuola, 2002, sopr. p. 233; ma per la più ampia
indagine di Bruscagli su Ariosto, cfr. i capp. I-IV dei suoi Studi cavallereschi, Firenze,
Società Ed. Fiorentina, 2003.
54 Sulla «distanza», sul differimento e sul valore fondativo della perdita, cfr. E.
Saccone, Il «soggetto» del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, cit., sopr. pp.
226-227.
55 Cfr. E. Grassi e M. Lorch, Folly and Insanity in Renaissance Literature, Binghamton-
New York, Medieval and Renaissance texts and studies, 1980, p. 92.
56 Sulla particolare importanza del Tristan nella memoria romanza di Ariosto e
in part. sulla sua presenza nell’elaborazione del profilo emotivo-sentimentale di
Orlando pazzo, insiste Rajna (Le fonti, cit., in part. pp. 397 e sgg).
[ 20 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 231
re, il dialogo che attraverso la memoria testuale Ariosto apre col modello
tristaniano conosce uno scarto e una distanza etico-psicologica
che è ingiusto ignorare. La gelosia di Tristano, ad esempio, nella Tavola
ritonda, a differenza di Orlando, conosce un’iracondia manesca, che
porta allo scontro diretto col rivale e al tentativo di ferirlo con un coltello
(ed. cit., LXX, p. 375). Verrebbe da pensare ancora una volta, per
contrasto, alla commovente delicatezza e alla pena con cui il mite Iocondo
vive la scoperta dell’adulterio consumato da sua moglie
(XXVIII, 21-23). E Iocondo il rivale se lo trova nel suo letto!
È che proprio al dramma della gelosia fa da controcanto e antidoto,
nella suadente parentesi dell’osteria d’Arli – locanda eminentemente
‘letteraria’, secondo un topos che culmina nello straordinario reimpiego
del Qujiote di Cervantes57-, la pratica del narrare gratuito e ‘inserito’:
un terapeutico ‘novellare’ sul tema, che scioglie, fluidifica nel sostrato
comico dei racconti ogni motivo di collisione astrattamente ideologica
e di venalità vetero-cavalleresca, riconducendolo genialmente
(quanto al tema conflittuale del rapporto fra i sessi) alla misura sdrammatizzante
e umanissima di una vicissitudine sempre aperta e di segno
doppio.
E già basterebbe, credo, senza scomodare le mille occasioni offerte
dal Furioso a sostegno di un’etica dell’alterità tollerante (il cavaliere
del Nappo), per rimarcare, non solo rispetto ai contenuti della Tavola
Ritonda ma a tutta la tradizione tristaniana, un diverso clima umorale
e tutt’altra direzione conoscitiva e coscienziale della quête ariostesca. È
che la passione della perdita, incarnata in Orlando demente, configura
una diversa stratificazione simbolica, un composito addensamento di
senso, più esplicitamente destinato, di là dalla logica del puro ‘consumo’
per il diletto del pubblico di corte, a costruire, attraverso la sua
forma specifica (una costruzione ad alto potenziale ‘onirico’), una metafora
generale dell’esistenza.
Una metafora-sogno, dunque, destinata a configurare nelle inquietanti
«frenesie» di Orlando, ossia nella rapida metamorfosi di un eroe
cortese rovinosamente avvolto (con l’imbestiamento) nella pulsione
di morte, una vicissitudine anamorfica dell’essere58: un processo che
57 Sul topos della locanda letteraria e sul segno laico e modernamente contenzioso
delle novelle ariostesche inserite, rinvio a R. Girardi, Auctor in fabula, cit.,
sopr. pp. 60-69 e 157-300.
58 Di «strutturazione anamorfica delle manie, malinconie e frenesie», in rapporto
alle rappresentazioni simboliche che del reale offre la malattia mentale, parla
J. Baltrušaitis, Anamorfosi, cit., p. 248.
[ 21 ]
232 RAFFAELE GIRARDI
investe la sostanza vitale del cavaliere. È, sotto il profilo extradiegetico,
dal punto di vista dell’occhio che si guarda e così si rappresenta,
una marca d’autocoscienza capace di segnalare in emblema la scena
perturbante di un disordine costitutivo: un’etica dell’incertezza che a
suo modo chiude il cerchio di una percezione intera del mondo e delle
sue lacerazioni.
A dominare la scena, durante l’erranza di Orlando demente, erano
rimaste dunque solo le «incredibil prove» della follia: un dominio paradossale
e tragico, segnato da una platealità che deve suggerire gli
effetti di un’ira ignota, sui generis, una prolungata e iperbolica diablerie,
anomala anch’essa, penetrata nel corpo di un «pazzo» speciale, un
pazzo di diverso conio rispetto al modello ‘popolare’, contro il quale
nessun «villanesco assalto» (XXIV, 8, 8), come si sa, vale come difesa.
Nel bestiale e distruttivo cimento con la folla incredula, nella piazza,
nella contrada, l’eroe è additato ormai, ripetutamente, come «il pazzo
», (XXIV, 5, 1; 5, 5; 6, 7; 8, 8). Quella contrada ‘romanza’ che conosce,
in linea questa volta con il rituale medievale, l’insolenza e l’aggressività
plebea contro il cavaliere demente (nel Tristan e nel Lancelot)59,
nella scena ariostesca non vede mai Orlando in balia della folla, per il
gioco di strada. Non può: la notizia della sua pazzia nella comunità
non reca bonarietà ma terrore; un’invisibile aura tiene distante Orlando
dal volgare ludibrio del contado, così come la sua violenza inaudita
e bestiale, paradossale contrassegno della sua grandezza, mette un
diaframma, una cortina, fra il corpo ‘nobile’ del pazzo e l’«empia turba
» armata di «spuntoni et archi e spiedi e frombe» che si raccoglie al
suono di «corni» e «rusticane trombe» (XXIV, 8-9) per neutralizzarlo.
Una ‘distanza’ dunque e, si dica pure, un’‘aristocraticità’60, questa del
cavaliere pazzo, che lascia i suoi contrassegni finanche sulla più sanguinosa
e gratuita delle prove di forza ch’egli potesse offrire. Sotto il
segno, ancora una volta, di una desmesure ironica, che coinvolge lo
spazio dell’erranza (nella nevrosi surreale del movimento a zigzag:
«Di qua, di là, di su, di giù discorre / per tutta Francia…»: XXIV, 14,
59 Per il tema dell’irrisione e della violenza popolare ai danni del cavaliere
demente, cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 403-404. Come rielaborazione letteraria di
una pratica rituale tipica del basso medioevo, consistente nell’inseguimento in corsa
simulata (e magari ludica, bonaria) e nell’espulsione a colpi di verga dei pazzi,
esso è oggetto della lucida analisi offerta da M. Foucault nella sua Storia della follia,
cit., pp. 22-24.
60 Cfr. M. Mancini, I «cavalieri antiqui»: paradigmi dell’aristocratico nel «Furioso»,
«Intersezioni», a. VIII (1988), 3, pp. 423-454.
[ 22 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 233
1-2) e il tempo della mutazione per famelico imbestiamento, a ricalco
di due altre metamorfosi, quella di Yvain nel Chevalier au lion e quella
del più familiare Tristano61 («E quindi errando per tutto il paese / dava
la caccia agli uomini e a le fiere/…/ Spesso con orsi e con cinghiai
contese, / e con man nude li pose a giacere: / e di lor carne con tutta
la spoglia / più volte il ventre empì con fiera voglia»: 13, 1-2, 5-8).
6. E veniamo alla scena del ricordo «guasto e rotto» di Orlando
(XXIX, 61, 6), che emblematizza nelle forme più alte e drammatiche la
«ruina» dell’eroe e del suo mondo. Da quel ricordo e dal suo contesto
– l’incontro fra l’eroe ormai demente e l’inconsapevole Angelica – è
bene che parta il nostro discorso. Non tutte le mille «cose stupende»
(XXIX, 57, 1) del folle paladino l’autore promette di narrare, ma solo
quelle «all’istoria […] oportune» (XXIX, 50, 6).
Su una spiaggia di Tarragona, sotto i raggi di un sole cocente, un
tristo individuo dalla «carne arsiccia» come quella di un africano, mezzo
uomo e mezzo animale, completamente nudo – un altro Nessuno,
sostituto dell’irriconoscibile (e nudo) Ulisse che atterrisce, al suo apparire,
le fanciulle nella terra dei Feaci (Odissea, VI, 135-138)62 – cerca riparo
nella sabbia arida. Gli passa accanto, quasi sfiorandolo, Angelica,
accompagnata da Medoro: «Che fosse Orlando, nulla le soviene /troppo
è diverso da quel ch’esser suole» (XXIX, 59, 1-2). La prefigurazione
di morte che quell’immagine offre allo sguardo di Angelica, recuperando
dalla memoria arturiana il nero «livido e magro» del folle Tristano
disegnato nella Tavola ritonda (LXX), segnala l’acme del percorso
anamorfico. «Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa, / la faccia macra, e
come un osso asciutta, / la chioma rabuffata, orrida e mesta, / la barba
folta, spaventosa e brutta» (60, 1-4): è un ritratto, questo offerto all’inconsapevole
Angelica, che configura un rovesciamento di visione63.
61 Cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 396 e 400; e il commento di C. Segre al Furioso,
XXIV, 13, 7, nell’ed. a sua cura (Milano-Napoli, Ricciardi, 1954).
62 Il protagonismo dell’Odisseo di Omero ha, sotto il profilo antropologico,
una straordinaria valenza di archetipo, in molti suoi passaggi, per il racconto ariostesco:
un precedente d’indubbia esemplarità per Orlando è di certo l’itinerario di
Odisseo-Nessuno, che dopo una fase di «riduzione, tramite il mare, al nulla, alla
condizione bruta», si dispone, dopo l’esperienza dell’isola dei Feaci, ad una «faticosa
riconquista della propria identità» (P. Boitani, I mari di Ulisse, in La letteratura
del mare, Atti del Conv. di Napoli (13-16 sett. 2004), Roma, Salerno Ed., 2006, pp.
453-469: p. 454).
63 Per i riscontri romanzi di questo ritratto degradato e in part. per le connessioni
con il Lancelot du lac, cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 395-396.
[ 23 ]
234 RAFFAELE GIRARDI
Egli ricorderebbe pure nelle sue degradate fattezze il Fileno di Boccaccio64,
se la sorte, diversamente da ciò che accade all’imprecante e meditativo
amante boccaccesco, non gli avesse tolto anche il bene della parola:
le poche cose che, in attesa del suo rinsavimento, Orlando è in
grado di dire sono del tutto prive di senso.
E la sua è già una figura «di fera più che d’uomo» (XXIX, 45, 8): uno
speciale tipo di Satiro, secondo la memoria dei bestiari medievali, per
enfatizzazione della «gran laidura» normalmente attribuita, sulla base
delle Scritture, ad una creatura vivente «in abominatione di peccato»65.
E anche un po’ una rielaborazione, nella sua quasi biologica doppiezza
di uomo/bestia, del mitico Minotauro, che nella memoria dantesca
di Ariosto poteva ben riaffiorare sulla base alquanto oscura e unheimlische
di Inferno, XII, dove Virgilio dice a Dante: «…Tu pensi /forse a
questa ruina, ch’è guardata / da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi» (vv.
31-33), riferendosi appunto, allegoricamente, all’ambiguo Minotauro,
che era apparso loro sulla sommità di un avvallamento nel cerchio dei
violenti e che all’improvviso plasticamente «’nfuria» sulla scena, dinanzi
al poeta e alla sua guida (v. 27); o sulla base del precedente di
Inferno, XI, 82-83, correlato, che nuovamente alludeva, oscuramente
per i lettori, alla «matta bestialitade» in cui incorse una parte delle
anime qui punite e controllate a vista dal «bestiale» Minotauro66.
64 G. Boccaccio, Filocolo, a cura di M. Marti, Milano, Rizzoli, 1969: III, 36, p.
372.
65 Un riferimento di questo genere alle perversioni del Satiro è per es. in una
lirica dell’anonimo Bestiario moralizzato: «Satiro, como dice la scritura, / ad omo e
ad animalia resomiglia //[…] // Simiglia d’omo per creatïone, / de bestia, kè
vive malamente / in abomintione de peccato; // rado se piglia per confessïone /
del peccato o’ sta sciordinatamente; e per la barba a beccho è semeliato» (Bestiario
moralizzato, XIII («Del satiro»), in Bestiari medievali, a cura di L. Morini, 1996, p.
499).
66 «Questo adiettivo “matta” – commenta Boccaccio – pose qui l’autore più in
servigio della rima che per bisogno che n’avesse la bestialità, per ciò che bestialità
e mattezza si possono dire essere una medesima cosa» (Esposizioni sopra la Comedia
di Dante, a cura di G. Padoan, in G. Boccaccio, Tutte le opere, vol. VI, Milano, Mondadori,
1965: canto XI, 28). Da qui il lineare scioglimento dell’allegorema ‘Minotauro’/
«ira bestial», che designerebbe «il vizio della matta bestialità generato
nell’uomo, in quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti, e della bestia, in
quanto si è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali. I costumi di questa
bestia, per quello che nella favola e nella littera si comprenda, sono tre, per ciò
che, secondo i poeti scrivono, esso fu crudelissimo e, oltre a ciò, fu divoratore di
corpi umani e, appresso, fu meravigliosamente furioso» (ivi, Canto XII. Esp. Allegorica,
5-6), Si vedano, per l’ambiguo passaggio di If. XI, 82-83, le utili Note integrative
di A.M. Chiavacci Leonardi, pp. 352-353.
[ 24 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 235
Ma la sostanza e il linguaggio dell’interlocuzione evidentemente
avviata da Ariosto con i testimoni della tradizione cristiana medievale
sono naturalmente di marca più complessa e umanamente problematica:
una marca che si sottrae alla logica dei confini netti, presente con
costanza in queste allegoriche bipartizioni fra le due triadi categoriali
Bestialità/Pazzia/Peccato e Umanità/Ragione/Virtù.
La trasformazione animalesca, raffigurata un po’ a ricalco di
quell’altra «beste forsenée» che anche diventa Tristano67, è ora, con la
«regressione» al primitivo (la nudità di Orlando)68, l’elemento su cui
s’incardina la beluina pulsione di desiderio che prende il cavaliere demente
(«Come di lei s’accorse Orlando stolto, / per ritenerla si levò di
botto: / così gli piacque il delicato volto, così ne venne immantinente
giotto. /[…]/ Gli corre dietro, e tien quella maniera /che terria il cane
a seguitar la fera»: XXIX, 61, 1-4 e 7-8) in preda ad una totale amnesia,
alla vista di quella occasionale e «giotta» preda: preda indifferente,
anonima, da aggredire furiosamente, in conseguenza appunto del fatto
che «d’averla amata e riverita molto / ogni ricordo era in lui guasto e
rotto» (XXIX, 61, 5-6)69.
«Quello che è guasto meritamente si chiama rotto e diviso» aveva
detto Marsilio Ficino nel suo rifacimento del Convito platonico, parlando
del «guasto», della ‘scissione’ che nuovamente si produce fra
«Lume divino» e «Lume naturale» – una replica della scissione originaria
ricordata da Platone – quando la ragione umana si spinge velleitariamente
ad un eccesso di fiducia in se stessa. Il «guasto» in questo
67 Per questo luogo del Tristan, cfr. P. Rajna (p. 399), il quale insiste nel convalidare
quell’archetipo come base, «punto di partenza», dell’operazione ariostesca,
offrendo numerosi riscontri (pp. 400-401). Ma nel congegno narrativo del modello
tristaniano la verità è provvisoriamente oscurata dall’equivoco, che ingenera gelosia:
una condizione che si può rimuovere. Tristano infatti nella Tavola ritonda potrà
essere curato e guarire: è nella stessa società cortese il solidale rimedio e il risanamento
(la degenza a corte e le amorevoli cure di Isotta: LXXII): è qui il punto di
massima frizione rispetto alla diversa logica e anche ai diversi esiti della malattia
ariostesca.
68 In questa fase della «regressione» di Orlando G. Resta (Ariosto e i suoi personaggi,
«Rivista di Psicoanalisi», a. III (1957), 1, pp. 59-83, in part. p. 149) vide l’emergenza
di un trauma infantile di Ariosto. L’interesse per questo saggio, venuto da
un ambito estraneo alla critica letteraria, valse il suo inserimento in una versione
parziale, col titolo Il sogno di Orlando, nella fortunata silloge I metodi attuali della
critica in Italia, a cura di M. Corti e C. Segre, Torino, Eri/Edd. Rai Radiotelevisione
italiana, 1970, pp. 144-153.
69 Un puntuale riscontro testuale è qui possibile col Tristano della Tavola ritonda,
LXX, p. 377.
[ 25 ]
236 RAFFAELE GIRARDI
caso penetra nello stesso «Lume naturale», producendo un’ulteriore
‘divisione’70, ossia il «guasto» della stessa ragione umana.
Il «guasto», la divisione, la nuova ‘segatura’ dell’essere, della quale
l’eroe, si era mostrato conscio negli ultimi momenti di lucidità (e allora,
come se si stesse guardando in uno specchio, aveva detto: «Non
son, non son io quel che paio in viso: / quel ch’era Orlando è morto et
è sotterra; /[…]/ io son lo spirto suo da lui diviso»: XXIII, 128, 1-2 e
5)71, coinvolge ora il ricordo di Orlando, ma nel corpo del ricordo si
aggruma metonimicamente un intero vissuto: il suo mondo, la sfera
delle aspettative, dei desideri e delle relazioni umane.
«Contrafatta e strana», come per effetto di uno specchio concavo,
era apparsa anche agli occhi di Fiordelisa, nell’Orlando innamorato, la
«sozza figura» del Selvatico72, che all’improvviso le era apparso davanti
in una foresta. «Contrafatto», si ricordi, sarà anche, davanti allo
strano specchio, il volto dell’aretiniano Messer Maco. Boiardo con mano
più veloce diluisce la valenza drammatica dell’incontro con questa
singolare specie di satiro, inserendo l’episodio in una serie ripetitiva
di variazioni sul tema del desiderio ’imbestiato’. L’incontro fra Orlando
pazzo e Angelica, che di quel materiale boiardesco di certo ha memoria,
è invece il punto di massima concentrazione del disegno ana-
70 «Costoro [scil.: Protagora, gli epicurei, gli stoici, i «cirenaici» e «altri molti»]
come empii, non solamente non racquistarono il Lume divino da principio disprezzato,
ma eziandio il naturale, male usando, guastarono. Quello, che è guasto
meritamente si chiama rotto e diviso: e però gli animi loro, i quali, come superbi
nelle forze loro si confidano, sono segati di nuovo, come disse Aristofane» (M. Ficino,
Sopra lo amore, a cura e con uno scritto di G. Renzi, Milano, SE, 1998, p. 64).
71 In questo ricalco petrarchesco (RVF, CCXCII, 2-3), che replica uno spunto
già presente in XII, 14, 8, una volta tanto non si vede l’ombra della parodia ma la
feconda ripresa dell’idea di una scissione dell’essere.
72 Nei seriali tentativi di stupro subiti dall’atterrita Fiordelisa, primeggia, per
un confronto che di certo si attua nella memoria letteraria di Ariosto, l’episodio del
Selvatico, fra i più utili, come precedente, per il Furioso, così rapidamente tratteggiato
da Boiardo: «Nascostamente [scil.: Fiordelisa] prese a caminare, / e già callato
avendo il monte al piano / ritrovò uno omo contrafatto e strano. // Questo era
grande e quasi era gigante, / con lunga barba e gran capigliatura, / tutto peloso
dal capo alle piante: / non fu mai viso più sozza figura. / Per scudo una gran
scorza avia davante, / e una mazza ponderosa e dura; / non avea voce de omo né
intelletto: Selvatico era tutto il maledetto. // Come la dama riscontrò nel prato, /
presela in braccio; e, caminando forte, / ad una quercia ch’era lì da lato, / la legò
stretta con rame ritorte. / Poi là vicino a l’erba fu colcato, / mirando lei, che ognior
chiedea la morte; / lei chiedendo morir sempre piangea, / ma questo omo bestial
non la intendea» (Orlando Innamorato, a cura di R. Bruscagli, Torino, Einaudi,
1995: I, 22, 6-8).
[ 26 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 237
morfico, qui imperniato sugli esiti inquietanti della «prospettiva perversa
»: l’insania «trasfigurante», ossia l’assoluta irriconoscibilità dell’eroe
agli occhi di Angelica, ignara delle circostanze traumatiche che
in rapida successione hanno travolto il suo infelice amante. Essa non è
in grado di vedere in quella larva umana che è ormai Orlando l’immagine
originaria: il processo inverso, il disvelamento dell’oggetto, è di
là da venire e non la riguarderà più. è una perdita definitiva.
Siamo dunque al punto di massimo risalto del legame genetico e
funzionale che intercorre fra la natura di sogno della rappresentazione
ariostesca e la sua configurazione anamorfica: l’aberrazione ‘prospettica’,
che rende irriconoscibile l’immagine, e per essa il Valore, proietta
nella scrittura, nel linguaggio, attraverso la raffigurazione della maschera
afasica del cavaliere, dell’eroe ormai privo della parola-Verità73,
le aberrazioni della mente.
I sintomi della malattia di Orlando non sono pochi: tutti li esaminò
Giuseppe Resta74, con risultati molto interessanti. Senza dubbio uno
dei più plateali Orlando lo esibisce nell’istintivo e fulmineo ammazzamento
del cavallo di Medoro (XXIX, 63) e nella cattura della giumenta
della terrorizzata Angelica, che aveva intanto guadagnato una fuga
disperata, rendendosi invisibile grazie all’anello magico. Egli agguanta
la povera giumenta e la cavalca, emblematizzando il senso di patetica,
morbosa supplenza che essa è chiamata ad evocare nel conguaglio
dell’eros con il furor come patologico sostituto, che la scrittura non
manca di esplicitare:
Con quella festa il paladin la piglia,
ch’un altro avrebbe fatto una donzella:
la rassetta le redine e la briglia,
e spicca un salto et entra ne la sella;
e correndo la caccia molte miglia,
senza riposo, in questa parte e in quella:
mai non le leva né sella né freno,
né le lascia gustare erba né fieno75.
73 A proposito del ‘riannuncio’ (del riconferimento) della Parola e del superamento
dell’’errore’ anamorfico (una restitutio riservata, con modalità affatto speciali,
anche ad Orlando), è interessante in Baltrušaitis una citazione da Thomas
Jefferson, che enfatizza in senso evangelico il potere salvifico del ‘restituire’ con
l’azione di Gesù la Parola di Dio attraverso la ‘cancellazione’ degli «smarrimenti
anamorfici» cui è sottoposta la Divinità (pp. 137-138).
74 Cfr. G. Resta, Ariosto, cit., passim.
75 XXIX, 68.
[ 27 ]
238 RAFFAELE GIRARDI
Ma nell’allusività perfino puntigliosa della «festa» fatta da Orlando
all’animale c’è solo un preambolo, giocoso e insieme grottesco, di
una piccola tragedia in progress, descritta in minuziosi fotogrammi (ottave
69-70), che poi volgono al macabro nel più ultimativo conguaglio
di Eros con un segno di morte. Il folle paladino riprende infatti il suo
cammino trascinandosi dietro rovinosamente la giumenta ormai sfinita,
invalida, alla quale egli rivolge la sua parola insensata («e così la
strascina, e la conforta / che lo potrà seguir con maggior agio…»: 71,
1-2): è un delirio che fa affogare nella bruta meccanicità la percezione
del reale, anche quella della morte della cavalla, che non scompone il
demente. Infatti, «Orlando non la pensa e non la guarda, / e via correndo
il suo cammin non tarda. // Di trarla, anco che morta, non rimase,
continoando il corso ad occidente» (71, 7-8; 72, 1-2).
C’è per questa scena un calco quattrocentesco, non a caso fiorentino
e di stampo comico-parodistico: nel Morgante (I, 67-75). Morgante
fa scoppiare nello stesso modo un cavallo, inveendo trivialmente, come
fa Orlando, contro la sua inefficienza76. Poi, testardo di fronte al
diverso consiglio di Orlando, lo porta sulle spalle e lo scarica in una
remota macchia (I, 71-75). Il codice comico-parodistico, col recupero
che ne fa Ariosto, entra in un gioco di funzioni assai più complesso,
vedendosi elevato ad una polisemicità di stampo serio-comico e a una
surreale dismisura, ricche al fondo di una sostanza drammatica ovviamente
estranea al modello pulciano. Anche il folle baratto che Orlando
propone ad un pastore, perché ceda, «con qualche aggiunta», in
cambio della sua cavalla (insignificante ma viva), l’impagabile «giumenta
» di Angelica, che altro difetto non ha se non quello di essere già
morta (XXX, 5-6), è desmesure amaramente umoristica, un delirio che si
direbbe di marca modernamente pirandelliana.
La giumenta dunque è di certo un sostituto di Angelica77. Grazie al
processo d’immedesimazione, che a prima vista stupisce, Ariosto attribuisce
ad Orlando una smania di distruzione che ora investe l’universo-
donna. Ma la decodifica e il correttivo, in sede extradiegetica,
76 «Lieva su, rozzone…» (I, 68, 7). E cfr. Orl. Fur. XXIX, 70, 4.
77 C’è concordanza su questo dopo il saggio di G. Resta, Ariosto, cit., p. 65, poi
ripreso da G. Della Palma, Una cifra per la pazzia di Orlando, «Strumenti critici», IX
(1975), pp. 367-379. Inequivocabile, del resto, l’indicazione dell’autore a commento
dell’intera parentesi della furia cieca e demente di Orlando, susseguente alla morte
della giumenta: «Avrebbe [scil.: Orlando] così fatto, o poco manco, / alla sua
donna, se non s’ascondea; / perché non discernea il nero dal bianco, / e di giovar,
nocendo, si credea» (XXIX, 73, 1-4).
[ 28 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 239
sono immediati. In apertura del canto XXX, l’autore chiarisce: il «cieco
furor» è abbandono di ragione, «infermità», amnesia, a causa della
quale il cavaliere demente «non discernea il nero dal bianco»78 la stessa
dell’autore-innamorato, della quale egli si scusa: ne porta la colpa
la sua donna, quella storica. È la stupefacente e geniale riduzione di
un intero percorso simbolico della degenerazione mentale dai territori
della distinzione ‘allegorica’ della tradizione cristiano-medievale allo
spazio semplice e umanissimo della vita di un cortigiano schivo, innamorato
e frustrato.
7. Vale a dire che la straordinaria valenza simbolica di quel percorso
resta, ma che le chiavi ermeneutiche capaci di coglierne a pieno la
sfuggente polisemicità è bene cercarle dentro quella stratificazione di
senso, nel linguaggio che ne media il geniale processo di sublimazione/
affabulazione.
Si parta pure da quell’essenziale (ancorché lontano) preludio al tema
della «sfrenatura»79, dell’imbestiamento e dell’alienazione, offerto
dal sogno di Orlando (c. VIII). Per via di atopie, di acronie e di condensazione,
a quella veloce parentesi onirica della «doglia» orlandiana
spetta già una funzione vicaria, ossia il preannuncio della grande
disfatta erotico-sentimentale, se non addirittura, come anche si è detto,
la designazione dell’‘argomento’ dell’intero poema80: avvertenza
per un percorso (anche linguisticamente e stilisticamente) più complesso
all’interno di un tempo ‘simultaneo’ dell’immaginario cavalleresco.
È preludio consentaneo alla natura più profonda di «un libro»
che nel suo complesso, dice bene Corrado Bologna, è «strutturato e
78 Sulla funzionalità narrativa e psicologica dell’amnesia di Orlando, vista come
espediente destinato a neutralizzare il senso di colpa, cfr. ancora G. Resta,
Ariosto, cit., pp. 64 e sgg.
79 «Sfrenatura» è, nella macchina figurale del Furioso, un’immagine stratificata,
tipica di Ariosto, dotata per noi del pregio di collegare in maniera assai stretta e
suggestiva stile e struttura discorsiva, metafore ‘equine’ e dinamiche simboliche
dell’‘erranza’, come fa A. Bartlett Giamatti (Sfrenatura: Restraint and Release in
ihe Orlando furioso, in Ariosto 1974 in America, Atti del Congr. Ariostesco – Dic.
1974, Casa Italiana della Columbia Un., a cura di A. Scaglione, Ravenna, Longo,
1976, pp. 31-39), che identifica la dialettica del «restraint» e del «release» all’alterna
vicissitudine del «collected» e del «disperded self» ariostesco.
80 Cfr. S. Longhi, Orlando insonniato. Il sogno e la poesia cavalleresca, Milano,
Franco Angeli, 1990, passim. Analoga la valutazione di G. Resta (Ariosto, cit., p. 76),
per il quale il sogno di Orlando è addirittura la «forma ridotta» di motivi destinati
ad una serie infinita di variazioni.
[ 29 ]
240 RAFFAELE GIRARDI
narrato come un sogno»81. Vorrei aggiungere: con la stessa liquidità
diegetica di una stupefacente, interminabile fiaba, che utilizzando i demotici
calchi della grande tradizione orientale (segnatamente quelli
delle Mille e una notte)82, col sogno condivide la speciale rappresentazione
del tempo ‘simultaneo’.
È una fine similitudine, suggerita da Virgilio per significare il «veloce
pensier» di Orlando («qual d’acqua chiara il tremolante lume, /
dal sol percossa o da notturni rai»)83, ad aprire nel canto VIII la parentesi
dell’eroe «insonniato», preso nel turbine della «gran doglia» per la
sparizione di Angelica. Il «veloce pensier» già vaga insomma fra congetture
e paure ‘liquide’ (mentre appunto Angelica, nel tempo ‘simultaneo’
della sua avventura marina, è già alle prese con l’acqua e lo
scoglio che la espone all’Orca), quando, nella breve apparizione in sogno
della giovane regina del Catai, risuonano come un’eco distorta le
parole pronunciate in un altro sogno: quelle «angeliche» della Laura
petrarchesca (Rvf, 250)84, qui commutate in oscuro e «orribil grido»:
«Non sperar più gioirne in terra mai» (VIII, 83, 7).
Nelle avvisaglie dell’umor malinconico, offerte dall’immagine di
Orlando che al risveglio, in «ornamento nero», torna a sfidare il buio
profondo della notte nella foresta per cercare Angelica, già si vede che
il modesto apporto tecnico e formale della memoria ‘romanza’ è oscurato
da un più corposo e calcolatissimo affondo nel paesaggio melanconico
della «nox» virgiliana di Enea (ancora dunque sulla scia del81
«Come un sogno – egli aggiunge – si struttura mediante tempi (diegetici ed
extradiegetici) accavallati, inclusi l’uno nell’altro, anche contraddittori, giacché il
suo tempo è un non-tempo, risultante dalla fusione di realtà-mito-utopia; e mediante
piani spaziali incentrati su perni multipli, organizzati dalla pluralità prospettica
[…]. Come un sogno il Furioso si dipana, si allarga, tendendo all’infinito, con velocità
vicina alla simultaneità, connettendo spazi, tempi, rapporti, personaggi, racconti
incongrui, sulla base di assonanze e consonanze, di affinità armoniche, di giochi
anagrammatici, di implicazioni foniche transustanziate in collegamenti semantici
nella scelta delle rime (specie di quelle tecniche, impiegate con razionale e sofisticata
strategia) e dei rimanti» (C. Bologna, La macchina del «Furioso», cit., p. 122).
82 Il discorso critico moderno sull’importanza e sulla concreta incidenza testuale
del repertorio delle Mille e una notte in Ariosto partì da P. Rajna (Le fonti, cit.,
pp. 436 e sgg.). Per le successive acquisizioni critiche e in particolare per i rapporti
tematici e strutturali che legano quel repertorio all’originale macchina delle inserzioni
novellistiche del Furioso, cfr. R. Girardi, Auctor in fabula, cit., sopr. pp. 168-
169 e pp. 271-284.
83 VIII, 71, 5-6; e cfr. Eneide, VIII, 20-25
84 «I’ non tel potei dir, allor, né volli; / or tel dico per cosa experta et vera: / non
sperar di vedermi in terra mai» (Rvf, 250, 12-14).
[ 30 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 241
l’eroe «turbato» e meditabondo di En., VIII, 18-25), con la quale genialmente
si fonde, all’altezza delle premesse al sogno angoscioso (VIII,
79), con mirabile simmetria, l’altra suggestione notturna e melanconica,
quella colta nel territorio mentale dell’angosciata Didone in uno
dei momenti più tempestosi e dilemmatici della sua triste vicenda
d’amore (En. IV, 522-532).
Ma è ancora una volta un allegorema di marca ‘equina’ («Lo strano
corso che tenne il cavallo…»: XXIII, 100, 1) l’elemento dinamico che
semina lo spazio dell’«erranza» orlandiana di segni indiziari, di occasioni
allusive, orientate a moltiplicare le «strane vie» della quête con
l’impronta sovvertitrice di una sottile, inafferrabile dialettica fra sapere
e destino, certezza e buio: con uno scarto essenziale rispetto alla
tradizione romanza. Si ricordi, a proposito dello «strano corso» seguito
dal cavallo di Mandricardo e del suo alludere alla ben più tragica
meta che il Caso impone al suo adombrato inseguitore, che nel Lancelot
ou le chevalier de la charette, anche quando il cavaliere, dopo l’impazzimento
per amore, è perso nelle sue fantasticherie, è il suo cavallo che
non prende «strade tortuose»: per un destino provvidenziale che ancora
agisce sulla vita ‘cortese’, esso bada a portare l’eroe «per la via
migliore e più diritta»85.
Il «bosco senza via», che obbliga allo «strano corso», è già il teatro
di una verifica, la «selva» già invariabilmente «ria», «oscura» o «nera
», spazio fantastico di un umor melanconico ripetutamente dispiegato
a declinare la geografia reticolare di mille «strane vie», richiamanti
i «caecos aditus» aperti verso la «nigra silva» del Tartaro al senechiano
Ercole (Hercules furens, 835-836), l’eroe sommo privato del
senno per volere divino (il volere di Giunone, furente di gelosia) e poi
rinsavito.
Sono sentieri che conducono invariabilmente all’«errore»: nel reiterato
«uscir di via» (II, 68, 3-4), è il sapere di Orlando ad essere subito
messo alla prova di fronte alle perverse determinazioni del Caso. Il
quale vuole che il grande eroe, padrone di tante lingue, si misuri con
gli esiti perversi del suo stesso potere di conoscere e interpretare il
mondo. Il sapere, anche quello di Orlando, non porta alla felicità: è
l’eterna frustrazione riservata, secondo Cornelio Agrippa, ad ogni
smania di conoscenza86. Anzi, per un oltranzistico paradosso, qui in
85 Lancelot ou le chevalier de la charette, a cura di G. Agrati, Milano, Mondadori,
p. 14.
86 Agrippa ne parla nella prefazione al suo De incertitudine et vanitate scientiarum
cit. Sull’argomento, cfr. J. Baltrušaitis, Anamorfosi, cit., pp. 114-115.
[ 31 ]
242 RAFFAELE GIRARDI
perfetta consonanza con Erasmo, il troppo sapere porta Orlando sul
sentiero fatale della rovina. In fondo al sentiero lo attende la Follia.
Nella costellazione semantica del Furioso, le variazioni sul tema
simbolico del «bosco senza via» – uno spazio normalmente riposto,
remoto da ogni consorzio umano e magari deputato al consumo di
delitti efferati, che è tema connesso a quello dell’«intrico»87 –, si alternano
con estrema lucidità e una coerenza non comune. Alla «selva
oscura» che avvolge la sfortunata Isabella, in fuga per la paura che la
prende di fronte al duello fra Corebo e l’infido Odorico (XIII, 25)88, di
certo si associa, ad esempio, per consonanza simbolico-umorale già
vistosa, poco più avanti, la cupa scenografia del paesaggio sassoso che
accoglie in una «negra selva» d’Arabia gli emblemi della debolezza
umana: il Sonno, l’Ozio, la Pigrizia e l’Oblio (XIV, 92-97). E il Silenzio.
Esso è consultato dall’angelo Michele (per incarico di Dio), affinché
insieme alla Discordia muti a favore di Carlo le sorti della guerra.
Spazio particolare, funzionalmente «immenso», in quanto depositario
di un alto e affatto peculiare potenziale simbolico, è semmai la
selva Calidonia, in virtù del suo accogliere a futura e speciale memoria
«li monumenti e li trofei pomposi» (IV, 53, 4) degli eroi «della vecchia
/ e della nuova Tavola…»: uno spazio dell’avventura miracolosamente
destinato a cavalieri «senza scudiero e senza compagnia» in
cerca di«strane aventure» (IV, 54, 1 e 4), come quella che impegnerà
Rinaldo per il riscatto di Ginevra.
La foresta, infine, come figura stessa della pazzia: in forza delle
due ottave che scandiscono, al centro esatto del poema (una scelta
strutturale della cui importanza non si parlerà mai abbastanza), come
sentenzioso memorandum sull’«insania» della passione amorosa, la
densa semantica dell’umano procedere per «altra via» da quella prevista,
il senso totalizzante e la natura mobile, polimorfica, inafferrabile
della vita:
Chi mette il piè sull’amorosa pania,
cerchi ritrarlo e non v’inveschi l’ale;
87 Come esplicitamente è quello della riviera appenninica dove Ariosto ubica
la «selva oscura e nera» nella quale è prescritto dal gelosissimo e iracondo giudice
Anselmo che da un suo servo sia uccisa la sua infedele moglie Argia («lungi da
villa e lungi da citade…») E si veda l’«intricata selva» di XIX, 5, anch’essa un luogo
di morte: nella sua «intricata via» (v. 1) fatalmente s’addentra Cloridano, per amore
del suo caro Medoro.
88 Come anche alla «scura selva» nella quale si dilegua il cavallo Baiardo, conteso
da Gradasso e Rinaldo (XXXIII, 89, 5).
[ 32 ]
Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 243
che non è insomma amor, se non insania,
a giudizio de savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E qual è di pazzia segno più espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
Varii gli effetti son, ma la pazzia
È tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
Conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giù, chi qua, chi là travia89.
La selva insomma come luogo dell’«errore» ineluttabile, labirinto
di sentieri intricati, dove le rotte si perdono per l’‘oscurità’. Quasi mai
dunque la foresta è un’energetica «force of life», che rimanderebbe, è
stato detto, a una ‘follia’ «positivalely understood», da contrapporre
ad un’«insanity» di natura degenerativa90. Non mi sembra che funzioni,
insomma, nel riferimento implicito (e contrastivo) alla dantesca
«selva oscura» del peccato e allo smarrimento della «dritta via», l’opposizione
della «gran selva» ariostesca intesa appunto come ‘forza di
vita’, ossia come luogo di una vitale «folly»: è una dissociazione di
elementi vitali che non si ritrova in Ariosto.
Salvo che non si creda davvero che Ariosto consideri ‘medicabile’
la pazzia umana, magari lungo un percorso di riscatto che dall’«insanity
» conduca ad una più feconda «folly», e che dunque la favola del
89 Orlando Furioso, XXIV, 1-2.
90 Cfr. E. Grassi e M. Lorch, Folly and Insanity, cit., sopr. pp. 91-97. La contrapposizione
di «folly» (positiva) e «insanity» (negativa) è forse troppo legata ad uno
schema etico che richiama il modello erasmiano del Moriae Encomium: il che quasi
fa desiderare una rubrica più esaurientemente ragionata dei punti di effettivo contatto
fra Ariosto e l’olandese, per poter ragionare su altre basi, sapendo naturalmente
che non si parte dal nulla: cfr. per es. R. Montano, Follia e saggezza nel «Furioso
» e nell’«Elogio» di Erasmo, Napoli, Humanitas, 1942; e sopr. C. Ossola, Metaphore
et inventaire de la folie, cit., che offre una preziosa «ligne idéale, topique, qui
lie, au sujet de la “naissance de la folie” Erasme, Ariosto et Tasso», in particolare,
per l’analisi simbolica del regno di Alcina come corrispettivo ‘topico’ dell’origine
erasmiana della pazzia, le pp. 173-178. Si noti intanto, quanto all’«insanity», che di
«voglia insana» parla Ariosto in Rime 85,35, in riferimento al suo amore, dicendo
per altro: «dolce è la mia morte» (v. 24). L’«audacia» di Mandricardo è parimenti
«folle e …insana», senza gerarchie (XXVII, 63). Per non dire dell’interrogativo già
messo in evidenza: «Che non è insomma amor se non insania…?» (proprio in
XXIV, 1).
[ 33 ]
244 RAFFAELE GIRARDI
viaggio salvifico sulla luna non sia ciò che fermamente credo che sia:
una straordinaria parodia dell’umana illusione di restauro della razionalità
all’interno della ‘normalità’ cortigiana.
La salute, la reintegrazione, è un sogno ‘lunatico’ in quanto desiderio
umano91: un sogno che restaura l’irrestaurabile, ossia l’integrità del
‘cavaliere antico’. Una maschera onirica dunque, una finzione spinta
ai limiti dell’assurdo, che farà tornare Orlando ad essere Roland, affinché,
secondo lo straordinario gioco delle ambivalenze e dell’ironia,
l’esercito cristiano riguadagni i suoi trofei, la nave del poema-sogno
torni in porto e la nobile progenie degli Este, sotto i bagliori cupi delle
«guerre d’Italia», celebri le sue mitiche ascendenze e lo spento ricordo
della sua grandezza.
Raffaele Girardi
(Università di Bari)
91 In Ariosto, dice Ossola, «il n’y a que […] l’oubli du present, le rêve édénique,
le desir (et c’est ici la folie) d’une plenitude humaine sur la terre» (Metaphore et inventaire
de la folie, cit., p. 172; corsivi miei).
[ 34 ]
MATTEO BOSISIO
«Pur che il Signore abbia di me piacere».
Il Marescalco dell’Aretino
come anticommedia imperfetta
This essays deals with Aretino’s Marescalco, an ambitious work of
art in which, by means of a fierce attack on the literary sources, the
writer undermines the general principles connected to the court.
The text is a vitriolic parody of the Renaissance comedy, of the treatises
concerning social behaviour, and of those about love written in
the fifteenth and sixteenth centuries. Nevertheless, while expressing
the unrest of the time, it does not succeed in getting rid of the
logic of the court. Aretino, in fact, proves to be unable to carry out
decisive elements of discontinuity.
Il Marescalco venne elaborato nel corso di due fasi distinte – tra il
1526 e il 1527 e nel 15331 – che testimoniano un periodo esistenziale
inquieto per Aretino e di sofferta transizione tra la corte romana, quella
mantovana e la Repubblica di Venezia. L’esperienza diretta della
vita di corte, delle sue leggi a volte incomprensibili e dei sottili meccanismi
che la determinano influenzerà a lungo Aretino2. Egli, nella propria
corrispondenza epistolare, ne fa un argomento privilegiato e ricorrente,
sempre trattato in modo amaro e disincantato3. Nella lettera
al doge Gritti del 1530 venne espressa, in favore di Venezia, una sorta
di recusatio della passata realtà cortigiana. Roma è descritta – con iper-
1 Per le vicende compositive ed editoriali della commedia si vedano G. Da
Pozzo, L’Aretino, il «Marescalco» e i cavalli, in Medioevo e Rinascimento veneto. Con
altri studi in onore di C. Lazzarini, II, Padova, Antenore, 1979, pp. 148-153 e P. Larivaille,
Pietro Aretino, Roma, Salerno, 1997, pp. 178-181. Per il Marescalco faccio riferimento
all’edizione critica di G. Petrocchi, Teatro, Milano, Mondadori, 1971.
2 Su questo argomento è fondamentale il lavoro di G. Ferroni, Pietro Aretino e
le corti, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita. Atti del Convegno di Roma-
Viterbo-Arezzo, 28 settembre – 1 ottobre 1992; Toronto, 23-24 ottobre 1992; Los
Angeles, 27-29 ottobre 1992, I, Roma, Salerno, 1995, pp. 23-48.
3 Si leggano ad esempio le missive 14, 96, 128, 155, 341, 647 e 650 dell’edizione
delle Lettere a cura di P. Procaccioli, Milano, Rizzoli, 1991.
246 MATTEO BOSISIO
bolica e compiaciuta climax – quale regno del tradimento, dell’ingiustizia,
della «crudeltà delle meretrici», dell’«insolenza degli effemminati
», dei furti e degli omicidi.
Non è solo la riflessione epistolare a risentire di questa importante
tematica, bensì ne è ampiamente permeata l’intera produzione. Con
l’utilizzo nel tempo di generi letterari dissimili, l’autore punta a diversificare
la prospettiva polemica contro le corti, mantenendo sempre
saldo lo spirito dissacratorio. Proprio nel tempo in cui – intorno alle
corti nazionali – si stava svolgendo una vera e propria fondazione di
modelli, precetti e norme, Aretino anima, di contro, una vivace contestazione
mostrando i limiti e le ipocrisie di tali prototipi. Nella Cortigiana4
l’ambiente è turbinoso, caotico; manca un vero centro che fissi i
vari equilibri e controlli la combinazione irrazionale di gesti e voci in
cui tutto viene distrutto. La corte di Roma è il regno di Pasquino, dove
si succedono beffe senza alcun ordine. I personaggi – in particolare
Valerio e Flamminio – denunciano il malessere che sprigiona da questo
mondo immutabile, ove vengono premiati servi infedeli, che assecondano
i padroni sulla strada del vizio e della follia. Invece nel Dialogo
(1536) la corte è presentata quale universo dominato dall’appetito
e dall’interesse, contraddistinto da continue lotte di potere. I cortigiani
sono definiti da Nanna «puttane d’oggidì»; e poi si ricorda che a Venezia
sono così comunemente chiamati (II, p. 165): «i ghiotti, gli sviati, i
ladroncelli, gli sbricchi e simili taglia-borse»5. Nel primo libro delle
Lettere (1538) si delinea la scena di una corte senza confini, con la quale
la voce dell’autore – finalmente libero e indipendente – cerca un
confronto alla pari, al fine di ottenere vantaggi e di regolare rapporti e
opportunità. L’ottica si sposta – attraverso una fitta rete di esaltazioni
e aggressioni, di richieste e provocazioni, rivolte alla maggior parte
dei prìncipi contemporanei – da un luogo determinato a un panorama
4 La prima redazione – tramandata dal ms. Magliabecchiano VIII 84 della Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze – è del 1525. La seconda – stampata a Venezia
da Francesco Marcolini – risale al 1534. Le differenze tra i due testi sono soprattutto
stilistiche; in particolare, nella princeps – che qui seguo nell’edizione critica
curata da P. Trovato e F. Della Corte, Roma, Salerno, 2010 – si tende ad amplificare
e diluire maggiormente i dialoghi.
5 P. Aretino, Dialogo, a cura di G. Barberi Squarotti e C. Forno, Milano,
Rizzoli, 1988. Per un commento cfr. P. Procaccioli, «Dialogo» e «Ragionamento» di
Pietro Aretino, in Letteratura italiana. Umanesimo e Rinascimento. Le opere, II, a cura di
A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1993, pp. 367-406 e M. Cottino Jones, I «Ragionamenti
» e la ricerca di un nuovo codice, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita,
II, pp. 939-958.
[ 2 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 247
vasto e internazionale. Le Lettere diventano una specie di autobiografia
ufficiale, la giustificazione e la storia narrata in prima persona di
chi – figlio di un calzolaio della periferica Arezzo – stava conducendo
una carriera esemplare e folgorante. Gli stessi encomi possono essere
letti come rivendicazione del valore e della superiorità di colui che
esalta; nella ricerca ostentata dell’eccesso, nella moltiplicazione di metafore
roboanti e concetti elogiativi logori, Aretino smaschera la doppiezza
cortigiana e traccia i caratteri di una scena della menzogna,
fatta di parole vane che si possono manipolare con indifferenza6. Infine
nel Ragionamento de le corti (1538) – punto di arrivo di questo particolare
percorso – egli unisce la consueta pars destruens a un elemento
positivo. Esso consiste, in alternativa alla vita menzognera delle corti,
in un programma di studio sincretico (umanistico, religioso e antipedantesco)
denominato «corte del cielo».
Il Marescalco, pur con finalità assai equiparabili, occupa una posizione
ben diversa rispetto agli altri testi menzionati. La critica non ha
mai riservato particolare attenzione a questa commedia e, oltretutto,
si è divisa in varie e discordanti interpretazioni7. Paul Larivaille, ad
esempio, riduce il testo alla sfera politica e storica e, pertanto, ne sottolinea
l’inconsistenza e l’inferiorità rispetto alla Cortigiana. Le aperte
accuse alla corte sono poche e brevi; la satira contro Federico Gonzaga
è generica e, per giunta, le «critiche sparse vengono accuratamente
bilanciate da una serie di adulazioni superlative»8. Giulio Ferroni, all’opposto,
ha visto nel personaggio del marescalco una proiezione
6 Sullo stile e le intenzioni ideologiche delle Lettere faccio riferimento ai recenti
contributi di P. Procaccioli, La “macchina” delle “parole di carta”, in ed. cit., pp.
5-41; M.L. Doglio, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro
e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000 e G.M. Anselmi, Introduzione a P. Aretino,
Lettere, Roma, Carocci, 2000, pp. 9-24.
7 Tutte le edizioni moderne dell’opera sono realizzate in volumi collettanei,
mentre i contributi novecenteschi di maggior valore – non più di mezza dozzina
– si sono concentrati a ridosso dell’uscita dell’edizione critica di Petrocchi. Una
rassegna sulla fortuna dello scrittore e le ricerche condotte è fornita da E. Malato,
Gli studi su Pietro Aretino negli ultimi cinquant’anni, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario
della nascita, II, pp. 1127-1150. L’anno scorso è uscito – all’interno dell’edizione
nazionale delle opere – Teatro II. Il Marescalco; Lo Ipocrito; Talanta, a cura di G.
Rabitti, C. Boccia, E. Garavelli, Roma, Salerno. La prematura scomparsa di
Giovanna Rabitti non ha permesso, però, che venisse portato a termine il lavoro
filologico e critico progettato.
8 P. Larivaille, op. cit., p. 181. Si veda anche – dello stesso studioso e con le
medesime conclusioni – Pietro Aretino fra Rinascimento e Manierismo, Roma, Bulzoni,
1980 (ed. orig. 1972), pp. 108-109.
[ 3 ]
248 MATTEO BOSISIO
dell’autore, che vuole essere «altro […] mentre vorrebbe invece vivere
la dimensione anarchica ed assoluta dell’istrione solo»9. Christopher
Cairns ha presentato l’opera quale mero rifacimento del Cortegiano;
nel saggio viene indicato come Aretino – durante la litania del pedante
del «catalogo dei nomi virorum et mulierum illustrium» (V, 3, 5, 76) –
segua la trattazione del I libro di Castiglione10 pedissequamente e senza
atteggiamento problematico. Sicuramente nella commedia è insito
un intento politico, ma – come già è stato considerato in passato11 –
non deve essere l’unico metro di valutazione. E così mi sembrano altrettanto
opinabili le posizioni estreme di chi vede nell’Aretino o un
demiurgo iconoclasta oppure un modesto imitatore12. La via da seguire
è differente; da una parte non bisogna svincolare il testo dall’esperienza
biografica del suo autore e dalla produzione degli anni più delicati
(’25-’38), dall’altra è bene osservare la commedia da un punto di
vista esclusivo e caratterizzante, ossia quello della costruzione e
dell’elaborazione letteraria. Con questo approccio è possibile non solo
inserire il Marescalco all’interno della meditazione sul ruolo della corte
e capire quale posto esso occupi nel folto corpus aretiniano, ma pure
comprendere il senso di un’operazione alquanto ambiziosa.
9 G. Ferroni, Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Napoli,
Liguori, 1977, p. 85.
10 C. Cairns, Pietro Aretino and the Republic of Venice, Firenze, Olschki, 1985, pp.
33-47.
11 Cfr. per esempio le osservazioni ancora valide di Tommaso Parodi – Le commedie
di Pietro Aretino, in Poesia e letteratura, Bari, Laterza, 1916, pp. 142-143 – in
merito allo spazio esiguo concesso al duca di Mantova: «il duca, colui che provoca
la beffa, è poi il meno a goderne, né s’intende come ci abbia tanto interesse, dal
momento che mai in persona egli viene a godersi i contorcimenti e le smorfie del
suo marescalco, né assiste alla finale scena comica, da lui ordita».
12 La lettera a Niccolò Franco del giugno del 1537 – da intendere come chiaro
manifesto di poetica – sconfessa tali linee ermeneutiche. Aretino sostiene sì di seguire
il principio di origine platonica del furore poetico come ispirazione divina e
della natura, tuttavia non nega certo il valore umanistico dell’imitazione, respingendo
solo l’autorità di quanti «la trasfigurano in locuzione, ricamandola con parole
tisiche in regola». Per il Marescalco – e molte altre opere di Aretino – bisogna
evitare le facili e diffuse etichette di “antirinascimentale” e “anticlassico”. L’alto
grado di letterarietà e di composizione – che a breve mostreremo – invitano a non
amplificare in modo eccessivo la sua estraneità e opposizione al mondo letterario
contemporaneo. Ogni obiettivo satirico e parodico, infatti, presuppone la conoscenza
e – in parte – l’adesione ai modelli di partenza. Per una trattazione approfondita
sul concetto di parodia rinvio ad A. Bernardelli, Intertestualità, Firenze,
La Nuova Italia, 2000, pp. 71-86.
[ 4 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 249
Con il Marescalco non si punta a screditare una corte storicamente
determinata e precisa. Aretino aveva già sperimentato questa soluzione
con la Cortigiana, in cui vengono rappresentati – all’interno di una
trama affollata – personaggi e situazioni concrete, facilmente sovrapponibili
a quelle reali. Ad esempio messer Maco – archetipo del cortigiano
senza scrupoli – si reca da Siena a Roma per ingraziarsi il cardinale
e Parabolano – ignorante e inadeguato – misconosce la devozione
dei servitori preferendo lo scaltro Rosso. Nel Marescalco, viceversa,
la vicenda è esile e scarna: il duca di Mantova impone al proprio maniscalco
– misogino e omosessuale – di prendere in moglie una giovane
bellissima e dotta. Tutto viene giocato sulla prolungata resistenza
del promesso sposo, ora assecondato ora persuaso dagli altri personaggi
alle ragioni – o meno – delle nozze. Alla fine del quinto atto si
scopre – con felicità da parte del personaggio – che la cerimonia è una
burla e la sposa promessa è in realtà un fanciullo. L’azione è inesistente,
non ci sono né progressi né stravolgimenti. Oltretutto Mantova
appare in modo sfocato e irriconoscibile, non essendo mai caratterizzata
con precisione13;
i personaggi – come è comprensibile – sono assai
poco definiti e tratteggiati, subiscono gli eventi senza determinarli.
Essi sembrano spettatori dei movimenti altrui e sono così insicuri
che, non di rado, si chiedono se il matrimonio sia stato veramente
programmato14. E le tre unità – di tempo, di luogo e d’azione – sono
rispettate alla regola, in netto contrasto con il groviglio caotico della
Cortigiana, organizzato per mettere sotto scacco gli intrighi di palazzo.
Anche le tecniche stilistiche e compositive, di conseguenza, appaiono
non affini, tanto che le due opere possono essere paragonate, ma
per contrarium.
Aretino, quindi, sceglie una strada divergente, più raffinata e sottile.
Rimane saldo l’attacco alla vita cortigiana, ma questo non viene
mosso, come in passato, partendo da un piano storico e comodamente
distinguibile da parte dei lettori. Lo scrittore tenta di minare i princìpi
cortigiani attaccandone e stravolgendone direttamente le fonti di legittimazione
letterarie. Nel Marescalco, difatti, sono chiari gli intenti di
13 Basti pensare che nella Cortigiana la parola «Roma» compare ben cinquanta
volte, con effetto di amplificazione; nel Marescalco «Mantova» è nominata solo in
nove punti, per lo più per indicare il duca.
14 Cfr. Giannico che dice al pedante (I, 11, 2, 23 e II, 2, 1, 26): «Bè! torrarla o non
la torrà? […] Ma torrarla o no?». Lo stesso protagonista dubita su ciò che accade (I,
8, 1, 20): «A dire il vero sua Eccellenza me ne ha parlato un mese fa, ma mi creda
che quella burlasse meco, ed egli fa da dovero».
[ 5 ]
250 MATTEO BOSISIO
parodia corrosiva alla commedia rinascimentale, ai trattati di comportamento
e a quelli sull’amore quattro-cinquecenteschi.
La commedia rinascimentale costituisce un decisivo strumento di
legittimazione della corte. La rappresentazione teatrale era inserita
nell’ambito di feste e sontuose manifestazioni con le quali si esaltavano
il potere e la gloria del principe. Lo spettacolo cessava di essere il
rituale pedagogico e aggregante della collettività – che nel Medioevo
assisteva agli allestimenti nelle chiese, sui sagrati o nelle piazze – per
avviarsi ad assumere la funzione di instrumentum regni, interamente
gestito dalla corte. La magnificienza degli apparati e l’eccezionalità
degli investimenti sono efficaci testimonianze indirette della propaganda
sottesa; le cerimonie e le rappresentazioni spesso erano oggetto
di vere e proprie relazioni, che ambasciatori e cortigiani di altri stati
inviavano ai loro superiori; si sviluppava, così, un’autentica concorrenza
tra le corti. Il mecenatismo principesco diventava un fattore egemonico,
esercitando la propria influenza sugli artisti – pittori, architetti
e letterati – chiamati alla realizzazione di un preciso prodotto culturale15.
La commedia, nello specifico, mediante l’ispirazione ai testi
antichi di Plauto, Terenzio e medievali – quali quelli della lunga tradizione
novellistica – attuava un profilo convenzionalmente ironico della
classe media, congeniale alla contemplazione divertita di un pubblico
aristocratico, separato dalla realtà ritratta. Attraverso l’agnizione
e il lieto fine – capaci di ricomporre in un preteso ordine naturale il
disordine dell’intreccio – si rafforzava la volontà di persuasione ideologica
promossa dal principe, che faceva della commedia un mezzo
della propria politica. E, per concludere, constatiamo che il personaggio
connotato negativamente non trovava spazio per non turbare l’armonico
equilibrio di una società pacifica e chiusa16.
I trattati e i dialoghi sono da collocare all’interno del medesimo
milieu culturale e sociale. Con essi – presupponendo l’idea di perfetti-
15 Per il teatro rinascimentale e i suoi risvolti politici faccio riferimento a G.
Macchia, L’invenzione del teatro. Studi sullo spettacolo del Cinquecento, «Biblioteca
teatrale», XV-XVI, Roma, 1976; F. Raffini, Commedia e festa nel Rinascimento. La
«Calandria» alla corte di Urbino, Bologna, Il Mulino, 1986; M. Pieri, La nascita del teatro
moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 ed Ead.,
Dal teatro di corte alla commedia dell’Arte, in Manuale di letteratura italiana, II, a cura
di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
16 Sulla commedia rinvio a M. Baratto, La commedia del Cinquecento, Venezia,
Neri Pozza, 1977; N. Borsellino, La tradizione del comico, Milano, Garzanti, 1989 e
G. Padoan, L’avventura della commedia rinascimentale, Padova, Piccin Nuova Libraria,
1996.
[ 6 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 251
bilità umana, affermatasi nel Quattrocento – si cercava di garantire alcuni
esempi teorici e pratici di vita. La diffusione del platonismo, inoltre,
aveva messo in circolazione la convinzione che esistessero modelli
astratti di perfezione e di bellezza cui occorreva tendere. Nelle corti si
tentava di superare le vecchie radici municipali e particolaristiche e di
costruire modelli generali, stabili e omogenei. Il ceto intellettuale – che
si compattava individuando per sé un’identità e un ruolo precisi – otteneva
legittimità e forza spingendo verso un’unità centripeta di pratiche
e forme. La notevole diffusione dei trattati rivela anche l’autocoscienza
degli studiosi del periodo di dare armonia alle arti e alla pratiche
cittadine. Costoro non solo ponevano al servizio del signore la
propria competenza specifica e professionale, divenuta specialistica,
ma elevavano tale pratica erigendola a veicolo ideologico per un’esplicita
missione civilizzatrice. Da questo punto di vista, la rilevanza del
trattato esprimeva l’esigenza di centralità da parte degli intellettuali
cortigiani, con il rischio di sfociare nell’autoreferenzialità17.
Vediamo ora in che modo il Marescalco si smarchi dalle commedie
coeve e ne deformi, sin dal profondo, le basi costitutive18. Un primo
grande segnale di divergenza è dato dal mezzo impiegato per la fruizione
dell’opera, poiché non venne rappresentata in scena. La princeps
viene stampata per la prima volta nel 1533, nella tipografia di Bernardino
de Vitali; contiamo poi tre edizioni del 1535 e cinque nel quinquennio
1536-1540. Aretino intuisce appieno le risorse straordinarie
offerte dall’editoria, capace di avviare la letteratura verso l’autonomia
dalla tradizione umanistica e di permettere agli scrittori di farsi in essa
17 Sull’argomento mi sono avvalso di P. Floriani, Il dialogo e la corte nel primo
Cinquecento, in La corte e il «Cortegiano», I, a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni,
1980, pp. 83-96; G. Mazzacurati, Percorsi dell’ideologia cortigiana, in op. cit., pp. 149-
172; C. Vasoli, Il cortigiano, il diplomatico, il principe. Intellettuali e potere nell’Italia del
Cinquecento, in op. cit., II, pp. 173-194; G. Papagno, Corti e Cortigiani, in op. cit, II, pp.
195-240; J.R. Snyder, Writing the Scene of Speaking. Theories on Dialogue in the Late
Italian Renaissance, Stanford, Stanford University Press, 1990; C. Forno, Il “libro
animato”: teoria e scrittura del dialogo nel Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori,
1992 e V. Vianello, Il “giardino” delle parole. Itinerari di scrittura e modelli letterari nel
dialogo cinquecentesco, Roma, Jouvance, 1992.
18 Tale proposito sarà confidato a Sebastiano Fausto da Longiano in una lettera
del 17 dicembre 1537: «Il caso è ridurre, come ho fatto io, in un mezzo foglio la
lunghezza de l’istorie e il tedio de l’orazion, come si può vedere ne le mie lettre e
come anco farò in tutte le cose che si vedranno. Ho speranza di farvi anco vedere
le comedie disbrigate da la spesa de le scene e dal fastidio de gli interlocutori: basta
uno solo a dividre in forma di predica i cinque atti dei suoi ordini».
[ 7 ]
252 MATTEO BOSISIO
imprenditori19. Così egli si sottrae con chiarezza dal meccanismo di
committenza cortigiano, che aveva coinvolto inevitabilmente tutti gli
autori precedenti20. Anche il pubblico elettivo cambia; si passa da
quello aristocratico delle corti centro-settentrionali a quello più vasto
della Serenissima.
Esaminiamo la trama e gli snodi drammatici più da vicino. Abbiamo
già accennato alla mancanza di azione e movimento dei personaggi.
In aggiunta, diciamo che la sequenza delle scene – costruite tutte
con il medesimo schema, per il quale un personaggio cerca di convincere
o appoggiare il marescalco – permette la moltiplicazione apparente
delle situazioni. Esse sono riproposte di continuo con una sequenza
ripetitiva e accumulativa; a prima vista sembrano numerose e
confuse – ben cinquantaquattro21 – eppure trovano compattezza nella
loro monotonia di fondo. In questo modo viene bloccata ogni possibilità
di utilizzare personaggi accessori – essenziali nella commedia rinascimentale
– in grado di produrre complicazioni, rallentamenti, colpi
di scena e accelerazioni repentine. Non servono astuzie, inganni,
equivoci, aiutanti e antagonisti per arrivare al lieto fine che chiude le
tensioni e soddisfa ogni aspirazione. Ha scritto Ferroni: «L’uso di altri
procedimenti tradizionali come l’agnizione, riescono a svolgersi solo
attraverso una continua svalutazione, un interno svuotamento e rovesciamento,
una denuncia del loro carattere fittizio ed illusorio, una
scoperta della loro instabilità ed incoerenza»22.
19 Faccio mie le preziose direttive metodologiche di Carlo Dionisotti (La letteratura
italiana nell’età del Concilio di Trento, in Geografia e storia della letteratura italiana,
Torino, Einaudi, 1967, p. 245): «Non si insisterà mai abbastanza su questo punto.
Chi fa storia della letteratura italiana del primo Cinquecento sa bene che indispensabili
documenti e strumenti di ricerca sono gli annali tipografici di quell’età.
[…] La controprova tipografica è qui indispensabile sempre, e spesso è indispensabile
partire dall’industria tipografica per arrivare agli autori».
20 Anche Machiavelli – per certi versi più anticonformista di Ariosto e Bibbiena
– aveva fatto rappresentare la Mandragola a Firenze durante il carnevale del 1520,
con replica a Venezia due anni dopo. La stampa arriverà nel 1522. La Clizia – la
princeps è del 1537 – venne messa in scena il 13 gennaio 1525, in occasione del matrimonio
tra Maria Strozzi e Lorenzo Ridolfi. Per la produzione comica dell’autore
si veda Teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi e A.M. Cabrini, Milano, Cisalpino,
2005.
21 Dodici nel primo atto, undici nel secondo e nel terzo, otto nel quarto e dodici
nell’ultimo. Nella Cortigiana sono addirittura centoundici; ma se ne contano solo
ventiquattro nel Negromante, trenta nella Cassaria, trentasei nella Lena e trentasette
nella Mandragola.
22 G. Ferroni, Le voci dell’istrione, cit., 1980, p. 73.
[ 8 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 253
Viene poi ribaltato un ulteriore caposaldo, vale a dire la presenza
degli innamorati. L’assenza degli imprescindibili protagonisti fissa
una condizione di assoluta novità. Nella Cortigiana non si applica ancora
questa svolta: il napoletano Parabolano si invaghisce della romana
Laura, mentre Maco tenta di sedurre la cortigiana Camilla Pisana.
Nel Marescalco uno dei due personaggi, che dovrebbe costituire il rapporto
amoroso, non compare in scena fino alla conclusione. Anche
quando si presenta, il suo ruolo è fugace, non proferisce parola e – fattore
più importante – non si tratta dell’avvenente giovane preannunciata,
bensì del paggio Carlo. Il personaggio femminile non esiste, è
solamente una minaccia per il marescalco e una fonte di curiosità per i
lettori. Pure nella Clizia succede qualcosa di molto simile – lo vedremo
meglio in seguito – tuttavia alla fine compare a Firenze il ricco Ramondo,
che si dichiara padre della giovane, concessa così in sposa a Cleandro.
Però è anomala ed esclusiva l’estraneità tra il personaggio maschile
e quello femminile. Il marescalco non sa chi sia la sposa che il
duca gli ha destinato né se ne apprende notizia alcuna durante i lunghi
dialoghi interni al testo. Nella commedia di Machiavelli, invece,
Clizia è continuamente evocata; Palamede, per esempio, racconta come,
undici anni prima, fosse stata accolta da parte dei suoi genitori
quando era ancora una trovatella. Qui, diversamente, l’unico legame è
riconoscibile per differentiam: il marescalco nutre avversione per la
donna, vista come elemento destabilizzante di una tranquillità emotiva
e sociale ideale. Il matrimonio – che di norma sancisce felicemente
l’atto conclusivo di una commedia – trova l’opposizione di chi ne dovrebbe
essere il principale cooperatore e beneficiario. La corrosione
della struttura comica è decisa. Le nozze, fin dall’inizio, sono stabilite
dal duca con forza e risolutezza – al contrario delle altre commedie
dove esse sono da conquistare e incerte – senza il rischio di intrighi e
rivalità canoniche; tale condizione è negata – quasi per paradosso – dal
marescalco, il quale si rifiuta di sfruttare l’irripetibilità dell’evento.
Ne consegue che l’opera si configuri come senza tensioni e suspense.
Tutto è immobile, così come la vita di corte. Se nella Cortigiana dominava
un caos paralizzante, qui è la stasi stessa a essere messa in
scena. Il protagonista non desidera nulla – se non di essere lasciato
stare nella sua solitudine – e non mette in moto nessun meccanismo
teatrale. Anzi è la vicenda stessa che lo porta, per inerzia, verso un
esito abituale e che è, invece, respinto energicamente. Egli non ha interessi,
nemmeno nutre una vaga attrazione intellettuale, come per
esempio avviene a Callimaco per Lucrezia nel primo atto della Mandragola.
Gli effetti generati dall’amore – motore centrale della comme-
[ 9 ]
254 MATTEO BOSISIO
dia regolare – vengono capovolti: il matrimonio, evento frequente e
pacifico, pare inatteso e sconvolge il marescalco come una sciagura. Il
protagonista non è sereno e risoluto; non ha un oggetto del desiderio
da raggiungere; non ci sono prove da superare né sono previste ricompense.
Egli vive, così, immerso in uno stato di angoscia e impotenza,
quasi fosse un personaggio tragico. Le nozze sono per lui accomunabili
alla rovina che colpisce inspiegabilmente gli eroi. Nell’ottava scena
del primo atto, il marescalco innalza distrutto un monologo significativo
(I, 8, 1, 20):
Quanto era il meglio per me lo attendere a la bottega, da la quale mi ha
disviato il fumo de le corti; io potea con quello, che io mi guadagnava,
darmi un bel tempo, e ho voluto con quello, ch’io perderò, vivere come
un disperato; mi fu pur detto che in queste maladette corti non c’è se
non invidia e tradimenti, e tristo a chi meno ci puote. Vatti con Dio, che
io sto fresco. A dire il vero sua Eccellenzia me ne ha parlato un mese fa,
ma mi credea che quella burlasse meco, ed egli fa da dovero; ma che
cose crudeli son queste?
Il pronome «io» è ripetuto quattro volte, con intento assillante; la
corte viene vista quale pericolo – contrapposta alla familiarità della
«bottega» – dove regnano «invidie e tradimenti». Il tutto si conclude
con una domanda sconsolata quanto incisiva. Credo che Aretino si
ispiri direttamente al monologo di fra’ Timoteo (IV, 6) della Mandragola23;
i punti di contatto sono evidenti. Le «cattive compagnie» conducono
l’uomo alla rovina, mentre la «cella» è il simbolo della fede e
della virtù. Ma, se il marescalco non sa spiegarsi con precisione quello
che sta accadendo e, soprattutto, non vede vie d’uscita percorribili,
Timoteo è ben conscio dell’inganno che sta ordendo per conto di Ligurio.
Un altro brano risulta straniante al lettore. Nella scena sesta del II
atto, il marescalco si rivolge così alla balia: «Ora, Balia, se non m’insegnate
qualche ricetta, che levi de la fantasia al Signore di darmi moglie,
mi trarrò da una fenestra, o vero mi segherò le vene de la gola, o
darò al gran Diavolo l’anima e il corpo». Indubbiamente il linguaggio
23 «E’ dicono el vero quelli che dicono che le cattive compagnie conducono li
uomini alle forche. E molte volte uno capita male così per essere troppo facile e
troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa che io non pensavo ad iniuriare
persona, stavomi nella mia cella, dicevo el mio ufizio, intrattenevo e mia devoti:
capitommi innanzi questo diavol di Ligurio, che mi fece intignere el dito in uno
errore, donde io vi ho messo el braccio, e tutta la persona, e non so ancora dove io
mi abbia a capitare». Faccio riferimento all’edizione curata da G. Inglese, Bologna,
Il Mulino, 1997.
[ 10 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 255
tipico degli innamorati della commedia cinquecentesca non è diverso24;
pur tuttavia qui il personaggio sostiene in modo antifrastico la
parte che gli spetta. La ragione della crisi non è data da un mondo
ingiusto e ostile che non permette di congiungersi con l’amata, bensì
dallo spettro del suo ottenimento. Altri indizi testuali rafforzano questo
senso tragico di inevitabile sconfitta. Nel quarto atto prima il marescalco
confessa al conte e al cavaliere di essere pronto a subire le
peggiori torture pur di evitare il matrimonio25; eppoi la frustrazione
sfocia in pericolosa violenza verbale26.
Il tema della “burla per travestimento” – con il quale si scopre che
la sposa è in realtà un paggio – merita di essere brevemente sviluppato27.
Questo espediente – capitale nella Mandragola – è topico nella
commedia del tempo. Nei Suppositi (1509), ad esempio, Erostrato si
maschera da schiavo per incontrare, senza destar sospetti, l’amata Polinesta
e uno sciocco senese viene convinto a fingersi Filogono, padre
24 Si comparino le parole di Callimaco nella Mandragola (III, 1): «Meglio è morire
che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potessi
conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad
aspettare el tempo; ma qui non c’è rimedio; e, se io non sono tenuto in speranza da
qualche partito, i’ mi morrò in ogni modo; e, veggendo d’avere a morire, non sono
per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele, nefando».
Nella Cassaria (III, 6) Erofilo pone una drastica alternativa: «O di morire o di avere
la donna mia». Nei Suppositi (IV, 3, 1360-1363) Filogono descrive così Erostrato: «È
giovane, / e delicatamente uso: potrebbesi / o morir o impazzare o d’altra simile /
disgrazia darsi cagion». Negli Studenti (II, 5, 700-704) Bonifazio sprona Claudio:
«Oh, che volete voi per questo affligervi? / Morir per questo? Quasi che le femine
/ debban mancar al mondo! Sète giovane, / ricco e bello; n’avrete in abondanzia /
ancora tal che vi verrà a fastidio». Ma la risposta è lapidaria: «Ah lasso, io vo’ morir
». Nella Calandria (V, 9) Lidio afferma: «Ma, se romor in casa sento, al corpo di
me, ch’i’ salterò drento, e difenderò lei o per lei morirò. Amante non sia chi coraggioso
non è». Per Ariosto faccio riferimento a Commedie, a cura di C. Segre, Torino,
Einaudi, 1976; per la Calandria cito dall’edizione curata da P. Fossati, Torino, Einaudi,
1967. Da qui in avanti i corsivi sono miei.
25 Cfr. IV, 3, 7, 60: «Dite pure al Signore che mi squarti, che mi abbruci e che mi
attanagli, ché non son per torla per me, né per voi, che insomma voglio esser uomo
e non cervo». Si noti il tricolon assai efficace e la dicotomia tra uomo e bestia.
26 Cfr. IV, 6, 1, 65: «Mi vien voglia di andar dietro a questo vecchio rimbambito
e dargli una coltellata, insegnandogli a persuadermi di torre quella, ch’egli reflutaria,
volentieri. Ma sempre avviene che un che ha rotto il collo in un mal passo,
brama che ve lo rompa ognuno».
27 Essa viene più volte evocata. Cfr. I, 1, 1, 10: «Ah, ah, burle cortigiane!»; I, 8, 1,
20: «ma mi credea che quella burlasse meco, ed egli fa da dovero»; II, 2, 2, 26: «Maestro,
le son burle che si usano, e non importano»; II, 7, 1, 38: «a chi gli ragiona di
tal burla» e III, 9, 1, 52: «ragionava meco de la burla del marescalco nostro».
[ 11 ]
256 MATTEO BOSISIO
del pretendente. Nella Calandria (1513) Santilla, per proteggere la sua
verginità, vive travestita sotto il nome di Lidio, il quale – a sua volta
camuffato in donna – è amato dal vecchio Calandro. Nella quinto atto
della Clizia – come già accennato – il servo Siro viene rivestito con i
panni della fanciulla tanto attesa e si fa trovare nel letto nuziale di
Nicomaco. Infine nel Negromante (1528) Camillo – innamorato di Emilia
– si nasconde in una cassa, sperando che questa venga recapitata
alla giovane. Anche in questo caso è palmare il ribaltamento apportato
da Aretino. La burla non si esplica in un’azione concreta o in una sequenza
di episodi. Essa è solo descritta tramite interiezioni ed esclamazioni
continue, senza sorpresa e pathos (V, 10, 7-8, 89):
SPOSA: Ah, ah, ah! MARESCALCO: O castrone, o bue, o bufalo, o
scempio che io sono, egli è Carlo paggio, ah, ah, ah! CONTE: Come
diavolo, Carlo! CAVALIERE: Lasciaci vedere: egli è Carlo per Dio, ah,
ah, ah! CONTE: Adunque noi ci siamo stati? CAVALIERE: Stati ci siamo,
ah, ah, ah! AMBROGIO: Ora sì, che ci potiamo chiamare babbioni,
mantovani, ah, ah, ah! PHEBUS: Che cento novelle, ah, ah, ah!
Oltretutto siamo testimoni di un contro-sovvertimento dell’intelaiatura
comica. La burla scompare e si tramuta di colpo nell’opposto,
ossia nella soddisfazione e nel trionfo del marescalco, vittima designata
fino a poco prima. Egli è raggiante e non esita certo a manifestarlo
(V, 10, 8, 89): «A vostra posta, egli è meglio che io veggia ridere voi per
le bugie, che voi pianger me per la verità». L’agnizione non ha niente
di straordinario e si gioca tutta all’interno dell’asfittico mondo cortigiano.
Se ci pensiamo bene, l’immutabilità trionfa di nuovo: la burla
non si attua, il danno non si compie, l’oggetto del desiderio non esiste,
nulla di rilevante è accaduto. In un mondo bloccato e intorpidito non
può darsi un evento che scuota e smuova l’esistente. Mario Baratto ha
così sintetizzato: «Ricadendo su questo essere inerme, privo di reazioni
originali, la burla acquista un ambiguo carattere di paradosso: tende
a negare la sua qualità di burla, correlativa a un minimo di azione
reciproca tra burlatore e vittima. Il Marescalco è solo un uomo affaccendato,
stanco; deluso; vorrebbe intorno a sé pace e silenzio; e invece
tutti lo costringono ad essere “personaggio”, a parlare, battuta per
battuta, per un’intera giornata. La burla, cioè, lo fa improvvisamente
“esistere” per gli altri ma anche per sé»28.
28 M. Baratto, Commedie di Pietro Aretino, in Tre studi sul teatro, Vicenza, Neri
Pozza, 1964, pp. 106-107.
[ 12 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 257
Occupiamoci a questo punto di un altro aspetto, volto a scardinare
l’impalcatura della commedia e – insieme – l’approvazione letteraria
alla vita di corte. Il pedante, nell’ultima scena del quinto atto, ci aiuta
a individuare un punto nodale29. L’opera viene definita «commedia
con quattro dispute» intorno al tema an uxor sit ducenda. In effetti, il
Marescalco presenta al proprio interno alcune lunghe discussioni trattatistiche
sulla convenienza o meno di sposarsi. Nel primo atto la balia
e il pedante – ognuno con un linguaggio e motivazioni proprie – cercano
di convincere il marescalco a prendere moglie. Nel secondo e nel
terzo atto Ambrogio contesta e confuta le spiegazioni della balia. Nel
quarto il marescalco si trova a fronteggiare una folta serie di personaggi
(il conte, Jacopo, il pedante, Giannico e lo staffiere); mentre nel
quinto interverranno di nuovo il pedante e Ambrogio. Un numero così
elevato e strutturale di dialoghi – per di più sullo stesso argomento
– realizza un unicum atipico e, di conseguenza, non può essere ignorato.
Appare ovvio come la loro inserzione all’interno della commedia
muti l’andamento del testo e cambi quasi statuto e natura al genere
letterario medesimo. Si forma, proprio nell’epoca delle grandi codificazioni,
un ibrido insolito e difficilmente classificabile nella sua singolarità.
E, per di più, non sono solo questi particolari – che indagheremo a
breve – a immergerci in un’ottica trattatistica. Possiamo notare una
serie di indizi ed elementi di sottofondo – in apparenza secondari –
che ci suggeriscono un contesto inequivocabile. Ad esempio negli Asolani
(1505, ma la seconda edizione è del 1530) e nel Cortegiano (1528)
non è casuale l’occasione che determina l’incontro degli interlocutori.
Negli Asolani assistiamo alle nozze di una damigella della regina di
Cipro, mentre in Castiglione si onora Giulio II, che fa tappa a Urbino
dopo aver conquistato Bologna. Anche nel Marescalco si verifica un’occorrenza
specifica, ma – come analizzato – il matrimonio è del tutto
evanescente e fallace. Ogni dialogo, che si instaura per supportare o
evitare quell’evento, si configura così quale inutile e fumoso. Nel corso
dell’opera, vengono poi rivoluzionati alcuni concetti centrali della
29 Cfr. V, 12, 1, 91: «Spettatori, noi destiniamo, favente Deo, come gli studi vacano,
comporre una Commedia del successo del Marescalco con quattro dispute.
Ne la prima tratteremo de la felicità di coloro che son rimasi sanza mogliere. Ne la
seconda discorreremo la infelicitate di quelli, a i quali ella morir non vuole. Ne la
terza narreremo de la ruina, che viene in sui gli omeri et in su le spalle a chi la deve
torre. Quarto et ultimo concluderemo la beatitudine di quelli che non l’hanno, non
la vogliono e non l’ebbero mai».
[ 13 ]
258 MATTEO BOSISIO
teoria cortigiana; mi soffermerò su quelli più interessanti. Se Castiglione
nel primo libro (XXVI) aveva descritto la «grazia» come la qualità
necessaria per rifuggire l’«affettazione» – in quanto pratica dell’eccesso
e dell’ostentato – e aveva sollecitato l’impiego della «sprezzatura»
– in grado di rendere «vera arte» quello «che non pare esser arte»30 –
nel Marescalco tutto ciò verrà parodiato dall’idioletto del pedante, dimostrando
l’impossibilità di comunicare con codici e comportamenti
artificiosi. Questo è il risultato, in contrasto con le attese di Castiglione,
di chi preferisce l’apparire all’essere, la simulazione alla vita concreta.
E ogni teoria linguistica – sia quella classicista, propugnata da
Bembo, sia quella fondata sull’uso, difesa da Castiglione – palesa la
sua inadeguatezza di fronte alla pratica cortigiana messa in scena dalla
commedia, perché la medietas raccomandata viene infranta e svilita.
Il perfetto cortigiano deve essere un buon letterato, saper disegnare e
intendersi di musica, mentre il pedante darà prova continua della propria
ignoranza generale. Nel secondo libro del Cortegiano (I-IV), inoltre,
ritroviamo una strenua “apologia del presente” rispetto al rimpianto
di molti per le «corti passate». Le corti contemporanee, anzi,
risultano superiori, poiché sono regolate da norme precise e sicure.
Tutto questo viene messo in discussione nel Marescalco, all’interno della
Mantova di Federico Gonzaga. Infatti, la corte non è il regno della
crescita politica e intellettuale auspicata, bensì dell’immobilità e della
sterilità. Un altro concetto è deformato in modo brillante. Pensiamo
all’articolato ragionamento sulle «facezie», essenziali per un buon cortigiano
affinché «sia tale, che mai non gli manchin ragionamenti boni
e commodati a quelli co’ quali parla, e sappia con una certa dolcezza
recrear gli animi degli auditori e con motti piacevoli e facezie discretamente
indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai a fastidio o
pur a saziare, continuamente diletti» (II, 41). Tra queste vengono distinte
le «facezie urbane», il «detto» e la «burla»31. Nel Marescalco essa
non serve a disordinare soltanto il sistema dei valori comici, ma pure
30 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, a cura di V. Cian, Firenze, Sansoni,
1947.
31 Cfr. II, 84: «E’ parmi che la burla non sia altro che un inganno amichevole di
cose che non offendano, o almen poco; e sì come nelle facezie il dir contra l’aspettazione,
così nelle burle il far contra l’aspettazione induce il riso. E queste tanto più
piacciono e sono laudate quanto più hanno dello ingenioso e modesto; perché chi
vol burlar senza rispetto spesso offende e poi ne nascono disordini e gravi inimicizie.
Ma i lochi donde cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie.
Però, per non replicargli, dico solamente che di due sorti burle si trovano, ciascuna
delle quali in più parti poi divider si poria. L’una è, quando s’inganna ingeniosa-
[ 14 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 259
a scompensare le prassi cortigiane formulate nei trattati. Per Castiglione
la «burla» provvede a compattare orizzontalmente la corte attorno
a un unico fine e a renderla coesa e inclusiva; Aretino, invece, ci svela
l’esatto opposto, siccome rischia di creare divisioni e lacerazioni ordinate
gerarchicamente, in nome soltanto del lusus del duca32.
Analizziamo i dialoghi nello specifico. Aretino sceglie di prendere
di mira i trattati sul matrimonio e sull’amore, che, all’inizio del secolo,
avevano preso piede in modo copioso33. Nel Cinquecento italiano, difatti,
iniziò a cambiare il ruolo della donna negli strati alti della popolazione,
destando curiosità e animati dibattiti. Con la definitiva codificazione
del volgare e lo sviluppo della stampa si aprì la strada a nuovi
soggetti, che presto non si sarebbero accontentati della sola fruizione;
a corte le donne ricevettero la stessa educazione degli uomini e la partecipazione
attiva ai cenacoli e alle feste sontuose imposero una maggiore
valorizzazione. È utile seguire il commento di Giuseppe Zonta,
per il quale gli intellettuali rinascimentali «si affannarono e si sbizzarrirono
in ogni modo a ricercare: donde derivi il fascino donnesco, quali
effetti produca la bellezza, e se l’amore prodotto da queste anime
gentili deva essere volgare o divino. Si volsero poi a indagare e considerare
se la donna sia un angelo o un dèmone; se sia migliore o peggiore
dell’uomo e quali diritti le competano. Si distesero inoltre ad
esplicare le doti ch’ella deve possedere sia fisiche che morali; di conseguenza
quali regole devano governare la sua vita di fanciulla, di giovane,
di maritata, di vedova; quali siano le ragioni della sua bellezza,
e quali i mezzi per conservarla, aggiustarla e aumentarla»34. Aretino
mente con bel modo e piacevolezza chi si sia; l’altra, quando si tende quasi una
rete e mostra un poco d’esca, talché l’omo corre ad ingannarsi da se stesso».
32 Per il Cortegiano mi sono avvalso degli studi di G. Mazzacurati, Baldassar
Castiglione e l’apologia del presente, in Misure del classicismo rinascimentale, Napoli,
Liguori, 1966, pp. 7-131; Id., Baldassar Castiglione e la prosopopea della corte, in Il Rinascimento
dei moderni, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 149-207 e R. Mercuri, Sprezzatura
e affettazione nel «Cortegiano», in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno,
a cura di W. Binni, II, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 227-274.
33 Maria Luisa Doglio – nella sua edizione a Della eccellenza e dignità delle donne
di Galeazzo Flavio Capra (Roma, Bulzoni, 2001, pp. 123-136) – annovera ben sessantaquattro
trattati sull’amore stampati tra il 1471 e il 1528.
34 Avvertenza generale, in Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di G. Zonta,
Bari, Laterza, 1913, p. 374. Per la trattatistica cinquecentesca sulla donna si vedano
Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Roma-Bari, Laterza, 1980; Nel
cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, a cura di M. Zancan,
Venezia, Marsilio, 1983 e Ead., La donna, in Letteratura italiana. Le questioni, a cura
di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, pp. 765-827. Sulla condizione della donna
[ 15 ]
260 MATTEO BOSISIO
– fiero oppositore del matrimonio, visto quale istituzione soffocante35
– sente, comunque, le contraddizioni e le criticità di questa visione sul
ruolo della donna, unicamente letteraria e funzionale ad accrescere il
mito della corte.
Il primo dialogo (I, 6) avviene tra la balia e il marescalco. La donna
introduce l’argomento con discrezione e gradualità, raccontando al
marescalco di aver fatto un sogno rivelatore, che rispetta la classica
tecnica trattatistica degli exempla36. Dopo questo espediente, inizia subito
la dissertazione, che ha per tema «come la moglie sia il paradiso»
e che viene intervallata da esortazioni e formule tipiche dello stile dialogico37.
L’esposizione è ampia e viene interrotta sei volte dai brevi
commenti caustici del protagonista. Questi non ascolta, non è interessato,
non vuole nemmeno avere lo spazio per esporre le proprie ragioni;
ogni paradigma paideutico di crescita attraverso il confronto viene
perciò accantonato, poiché il dialogo è solo fittizio. La balia, invece, si
attiene a un registro noto. La moglie deve accudire il marito in tutti gli
aspetti pratici e psicologici della vita. Bisogna che lo aiuti a vestirsi,
lavarsi e pulirsi. La buona sposa prepara la tavola per la cena e consola
il marito nei momenti di sconforto. La balia diversifica i compiti
della donna a seconda delle stagioni e del clima. Durante l’inverno
avrà cura di ristorare il coniuge «con buon fuoco in un baleno» e di
preparare piatti caldi, mentre d’estate agevolerà il marito nello scacciare
l’arsura. Completa il quadro familiare una descrizione quasi farsesca
dei figli e degli animali domestici, che contribuiranno a rendere
completa e serena la vita di coppia38.
Non manca certo una notevole dose comica. L’iterazione dei servigi
e la banalità dei contenuti contribuiscono a svilire i modelli illustri,
nel Rinascimento cfr. G. Servadio, La donna nel Rinascimento, Milano, Garzanti,
1986; M.L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991 (ed. orig. 1991)
e F. Furlan, La donna, la famiglia, l’amore: tra Medioevo e Rinascimento, Firenze, Olschki,
2004.
35 Si leggano le lettere 51, 374, 385, 476, 481 e 653 dell’edizione Procaccioli.
36 Si guardi L. Mulas, Funzione degli esempi, funzione del «Cortegiano», in La
corte e il «Cortegiano», I, pp. 97-118.
37 Cfr. per esempio (I, 6, 3, 16): «or va’ a senno mio, toglila, figlio, ed assettati
un poco de l’onore, e lascia andare le gioventudini, e comincia a dare principio a la
casa tua».
38 Alla fine dell’intervento, infatti, viene aggiunto (8, 18): «Vengono poi i bambini,
i cagnolini, i buffoncini; o Dio, che consolazione, che dolcezza sente il padre,
quando il fanciullo gli tocca il viso, ed il seno con quelle mani tenerine, dicendoli
pappà, il pappà, al pappà». Per un brano analogo si veda la lettera del giugno 1537
a Sebastiano del Piombo.
[ 16 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 261
poiché l’assurda artificiosità delle scene critica i ragionamenti puramente
teorici e irrealizzabili degli intellettuali (4, 16):
Tu arrivi in casa, e la buona moglie ti viene incontra in capo de la scala
ridendo, e con una amorevolezza di cuore, dandoti d’un benvenuto ne
l’anima, ti leva la veste da dosso.
Le estremizzazioni inducono il lettore al riso e a prendere coscienza
di un modello di riflessione inefficace39. Gli innalzamenti di tono
sono bilanciati da improvvise cadute stilistiche. Nella prima battuta il
valore armonioso della lunga serie di polisindeti, dei gerundi e delle
specificazioni viene negato dal verbo triviale posto in clausola40, mentre
nella terza si scopre che il «paradiso» risiede nell’appetito sessuale
della moglie, che, all’occorrenza, sa diventare «putta». I gravi temi
della trattatistica contemporanea sono parodiati nella loro povertà di
senso e contrapposti a momenti quotidiani e ridicoli (I, 6, 5, 16-17):
Orinato che tu hai, ti pone a cena, e assettati a sedere, e ti aguzza l’appetito
con certi intingoletti, con certi manicaretti, che ne beccherebbero
i morti, e mentre mangi, ella non resta mai con le più dolci maniere del
mondo di porti avanti ora questa et ora quella vivanda, e ogni buon
boccone ti porge, dicendo: mangiate questo, mangiate quest’altro, anche
un poco per mio amore.
Al lettore del tempo non sfuggiva di certo il richiamo malizioso al
Cortegiano, dove si tratteggia la perfetta donna di corte41. Un altro
spunto provocatorio è mosso partendo da Leon Battista Alberti con i
Libri della famiglia (1441), in cui il compito essenziale della perfetta
sposa è delimitato alla procreazione dei figli, alla fedeltà matrimoniale
e alla tutela della prole. Ella si limita a svolgere una funzione di governante,
circoscritta alla cellula domestica42. E poi lo svilimento dell’amo-
39 È paradigmatico questo passaggio iperbolico (6, 17): «gli lava con acqua bollita
con lauro, salvia e rosmarino i piedi molto bene, e tosto che gli ha spuntate
l’unghie […]».
40 Cfr. 4, 16: «ti asciuga con alcuni panni sì bianchi e sì dilicati, che ti confortano
tutto quanto, e posto il vino in fresco, et apparecchiata la tavola, e fattoti buona
pezza vento, ti fa orinare».
41 Cfr. III, 5: «convengono a tutte le donne, come l’esser bona e discreta, il saper
governar le facultà del marito e la casa sua e i figlioli quando è maritata, e tutte
quelle parti che si richieggono ad una bona madre di famiglia».
42 Per esempio si leggano questi periodi del III libro: «Contrario le femmine
quasi tutte si veggono timide da natura, molle, tarde, e per questo più utili sedendo
a custodire le cose, quasi come la natura così provedesse al vivere nostro, volen-
[ 17 ]
262 MATTEO BOSISIO
re come mera pratica carnale vuole evidenziare l’inconsistenza e
l’ineffabilità
di quei trattati di stampo neoplatonico – si pensi solo al
De amore (1469) di Ficino, al Libro de natura de amore (1525) di Equicola,
agli Asolani e al IV libro del Cortegiano – atti a lodarne, invece, l’aspetto
spirituale e cerebrale. Aretino attacca pure il volume Della eccellenza
e dignità delle donne (1525) di Galeazzo Flavio Capella, diplomatico
presso gli Sforza. Nel paragrafo sulla «prudenza» (ed. cit., p. 83) si sostiene
che: «le donne, essendo de più fredda complessione, manco sono
soggiette a queste repentine turbazioni e tutte le azioni sue più
quietamente e consigliatamente fanno». Un ultimo riferimento può
essere fissato con i Colloquia familiaria di Erasmo da Rotterdam (1518),
baluardo della cultura rinascimentale. Al capitolo Uxor memyivgamo~, la
saggia Eulalia consiglia all’inesperta Santippe di comprendere il marito
quando è sconfortato e di sostenerlo con forza; se l’ira è eccessiva è
bene accudire il coniuge calmandolo e portarlo a letto43.
Passiamo all’intervento di Ambrogio (II, 5), che – servendosi di fonti
misogine – organizza una precisa sconfessione della balia. L’inizio
del dialogo è sorprendente, perché alla domanda del marescalco se si
debba prendere moglie o meno, risponde «le girei e non le girei». Egli
porta il discorso sul campo del realismo e delle singole circostanze,
assai distante dalla Weltanschauung del XVI secolo. Non reggono i modelli
precostituiti e generali del Cinquecento, poiché non è possibile
operare una scelta definitiva che valga per tutti gli individui. Ambrogio
non si esime, però, dal dare una sua netta interpretazione. Sostiene
che il ritorno a casa dell’uomo dopo una giornata faticosa non sia affatto
ripagato da cure premurose, anzi la moglie è sudicia e sciatta, si inventa
sciocchi pretesti pur di litigare44 e tradisce il coniuge il prima
do che l’uomo rechi a casa, la donna lo serbi. Difenda la donna serrata in casa le
cose e sé stessi con ozio, timore e suspizione». Per il testo faccio riferimento all’edizione
curata da R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969, p. 265.
43 Cfr. Erasmo Da Rotterdam, Colloquia familiaria, ad optimarum editionum
fidem diligenter emendata, cum succincta difficiliorum explanatione Ottonis
Holtze, I, Lipsiae, 1867-1872, pp. 127-128: «Quemadmodum enim speculum, si probum
est, semper reddit imaginem intuentis: ita decet matrem familias ad affectum mariti
congruere, ne sit alacris illo moerente, aut hilaris illo commoto. Quod si quando commotior
erat, aut blando sermone leniebam, aut silentio concedebam iracundiae, donec, ea refrigerata,
tempus se daret vel purgandi, vel admonendi. Idem faciebam, si quando plus aequo potus
redibat domum; nec id temporis nisi iucunda loquebar illi: tantum blanditiis pertrahebam
ad lectum».
44 Boccaccio aveva parlato estesamente dell’iracondia delle donne nel Corbaccio
(§ 214, 237 e 257).
[ 18 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 263
possibile45. Viene poi descritta la propensione femminile ai pettegolezzi
e alle chiacchiere46 ed è rimarcato il topos della bruttezza della donna47,
alimentata dal continuo uso di inutili cosmetici48. La colpa di questa
condizione degenerata va anche attribuita agli uomini, che credono
alle loro consorti e le assecondano in ogni circostanza (14, 31):
Ma la ruina di Roma e di Fiorenza è stata più discreta che non è quella,
con la quale disfanno, spianano e profondano i meschini mariti che gli
credono; e questi tali per mandarle riccamente, e tagliuzzate, ed indorate,
vanno oggi, e per più unti e più bisunti che i cortigiani del dì
d’oggi, e perché le mogli per le chiese, a le feste ed a i conviti comparischino
come Duchesse e come Imperatrici, stanno i mesi e gli anni in
casa; e conosco alcuno che ha vendute le possessioni, perché la moglie
compri i zibellini col capo d’oro tempestati di gioie, ed i monili di perle,
le collane reali, e gli anelli pontificali, e così loro vendendo, ed esse
comperando il temporale e lo spirituale, hanno tutto, in capo de le fini,
ad hebreos fratres49.
Così Aretino, proponendo questo secondo filone trattatistico,
prende di mira pure la struttura della Declamatio in genere suasorio de
45 La versione della lussuria fornita da Ambrogio (5, 31) trova riscontri nel volgarizzamento
di Giovenale operato da Giorgio Sommariva (p. 23 v, 267-268: «la vuol
servi infiniti a torno el fuoco / tutte le case e tutte le fucine»). Per la Compendiosa
materia del tutta l’opera de Juvenale, Treviso, 1480 mi attengo all’esemplare a stampa.
46 Cfr. 7, 31: «Che crudeltà è come elle entrano a berlingare tutto tutto dì dalli,
dalli, mai mai non danno requie a la lingua loro, e contano filastroccole le più ladre,
le più sciocche che s’udissero mai, e guai a chi gli rompesse i ragionamenti o non le
ascoltasse». Per questo tema si veda il Corbaccio 377-380 (a cura di G. Natali, Milano,
Mursia, 1992): «e dicoti che il suo cinguettare è tanto che […] la lingua di lei, la
quale di ciarlare mai non ristà, mai non molla, mai non rifina: dàlle! dàlle! dàlle!
dalla mattina insino alla sera; e la notte ancora, io dico, dormendo, non sa ristare».
47 Cfr. 15, 35: «Non ti vo’ contare il tempo che elle perdono in consultare in che
modo si debbano acconciare le trecce, pelare le ciglia, brunire i denti e rassettarsi su
la persona, e sempre danno udienza ora ad una maestra di acconciare capi, ora ad un
giudeo maestro di scuffie, e di ventagli, e di guanti profumati, et ora ad una trovatrice
di erbe buone non a mantenere quel poco di bello che esse hanno, ma buone a
farle vecchie, guizze e rance». Questa descrizione antifrastica ricorda i famosi sonetti
Alla sua donna e Contra la moglie di Berni nonché il Corbaccio ai paragrafi 402-417.
48 Cfr. 12, 33: «Sia pur certo che non hanno tanti bossoletti i medici da gli unguenti,
quanti ne hanno loro, e non restano mai d’impiastrarsi, d’infarinarsi e di
sconcarsi e taccio la manifattura loro nel viso, ritirandosi prima la pelle con le acque
forti, onde innanzi al tempo, di sode e morbide, diventano grinze e molli, e
con i denti di ebano». In merito si veda il Corbaccio ai paragrafi 207 e 318-336.
49 Nel Corbaccio 207-214 si afferma che le donne costringono i mariti a comprar
loro vestiti, gioielli e trucchi che le rendono simili a prostitute.
[ 19 ]
264 MATTEO BOSISIO
laude matrimonii (1518) e dell’Institutio christiani matrimonii (1526) di
Erasmo, in cui spicca l’andamento oratorio e l’imitazione formale di
Cicerone. Non è peregrino un riferimento agli Asolani. In essi Perottino
– «umanista erudito, appassionato di cimenti e sottigliezze dialettiche
sino al gusto del paradosso e della provocazione»50 – lamenta i
dolori e le disgrazie causate dall’amore, mentre Gismondo replica alle
tesi del rivale – peccando comunque di parzialità e di unilateralità
– ricordando le gioie dell’amore felice51. Anche nel Marescalco i discorsi
della balia e di Ambrogio sono speculari, tuttavia è avvertibile il
carattere fittizio dell’argomentazione. Le parole della balia sono maldestre
e spropositate, Ambrogio, invece, tiene semplicemente a incoraggiare
il marescalco. Non gli interessa sostenere una posizione
piuttosto che un’altra. Egli all’inizio dice: «giuro a Dio che il Signore
ti ha fatto un gran favore». E alla domanda del protagonista se sia
utile prendere moglie, risponde che è «utilissimo». Ma poi, vedendo
la reazione negativa dell’amico, cerca di assecondarlo e cambia subito
strada. Questa aleatorietà – non è un caso – è già chiara nel De Amore
di Andrea Cappellano, assai famoso e stampato più volte nel Cinquecento.
Nei primi due libri del trattato medioevale, il maestro Gualtiero
spiega a quattro nobildonne la teoria dell’amor cortese, tuttavia
nell’ultimo – intitolato De reprobatione amoris – assistiamo a un’imprevista
palinodia. L’autore prende le distanze da quanto aveva affermato
e, soprattutto, dalla definizione della fin’amor, esaltata nei suoi
aspetti virtuosi e morali, in contrapposizione al rapporto matrimoniale.
Aretino smaschera la falsità di questo metodo – macchinoso e prevedibile
– sottolineandone sia la totale inutilità, se l’analisi del singolo
evento è impersonale, sia il gusto compiaciuto per la citazione e la
disputa. Un’operazione simile viene fatta da Ariosto nella quinta satira
(1519) – definita non a caso «trattatello» da Debenedetti – dove vengono
smontati i meccanismi del dialogo, rivelando che la materia matrimoniale
discussa è solo un pretesto, un gioco letterario, una gara
poetica con le fonti classiche e medioevali per distaccarsi dalla tradizione52.
Infatti Aretino vuole a suo modo denunciare questa mendaci-
50 C. Berra, La scrittura degli «Asolani» di Pietro Bembo, Firenze, La Nuova Italia,
1996, pp. 66-67.
51 Lo stesso schema conflittuale è presente nel terzo libro del Cortegiano tra
Giuliano de’ Medici e Gasparo Pallavicino, contraddittore irremovibile.
52 Questa interpretazione è presente nel contributo di A. Corsaro, Sulla satira
quinta dell’Ariosto, «Italianistica», IX, 1980, pp. 466-477.
[ 20 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 265
tà propagandistica. Se è vero che il ruolo della donna era migliorato
all’epoca, lo scrittore trova, in ogni modo, eccessive alcune lodi e modelli
di emancipazione, assai lontani dall’essere realizzati e appartenenti
a un ideale artistico, non certo concreto53. La storiografia e la
sociologia contemporanee tendono ormai a mitigare le affermazioni
entusiastiche di Jacob Burckhardt54 e ci informano che il dominio degli
uomini sulle donne – anche presso i ceti aristocratici – trovava fondamenti
solidi nella teologia, nel diritto e nella medicina. La donna – responsabile
del peccato originale – pareva una creatura in preda alle
emozioni e aveva bisogno di essere governata da una mano salda. Il
giudizio di Aristotele – secondo cui le donne erano esseri incompleti
– riscontrava un grosso seguito, credendo ad esempio, che gli organi
sessuali femminili fossero nient’altro che quelli maschili in posizione
inversa. La donna – guidata per la medicina da umori freddi e umidi
– era vulnerabile, falsa e infedele. Il diritto romano, infine, affermava
che le donne, dotate di una capacità mentale inferiore, avrebbero dovuto
ricevere pene più lievi per i reati commessi. Ma questi pregiudizi
emergono anche nei trattati apparentemente più favorevoli. È abbastanza
ambigua la posizione ricoperta dalle donne all’interno del Cortigiano.
In effetti Amedeo Quondam – alle pagine XXVI-XXVII dell’introduzione
all’edizione Garzanti – ha rilevato che le dirette interessate
non partecipano mai attivamente alla codificazione del modello femminile
e svolgono un compito subalterno e marginale, di intrattenimento
e non di conversazione55. E quindi, se ci pensiamo bene, la
grande vastità dei trattati sul matrimonio e sull’amore esibiscono
maggiormente la loro affettazione e oziosità dal momento che – come
succede al povero marescalco – le nozze erano imposte per interesse
politico dalle casate nobiliari, la libertà di scelta era tutt’altro che garantita
e la posizione della donna subordinata. La realtà storica è edulcorata
dalla finzione letteraria; tutta l’immagine di riscatto individua-
53 È nota la teoria piuttosto audace di Gasparo Pallavicino nel Cortegiano (III,
4), dove ci si auspica che la donna possa essere pari all’uomo nel cavalcare, lottare,
giocare a palla, usare le armi e cacciare. Un’idea di Aretino in merito è rintracciabile
nelle lettere 57, 97, 174, 617 e 652.
54 Si legga La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1980, (ed. orig.
1860), p. 351: «Finalmente, per bene intendere la vita sociale dei circoli più elevati
del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo».
55 Sulla medesima linea sono i lavori di G. Saccaro Battisti, La donna, le donne
nel «Cortigiano», in La corte e il «Cortegiano», I, pp. 219-250 e A. Chemello, Donna
di palazzo, moglie, cortigiana: ruoli e funzioni sociali della donna in alcuni trattati del
Cinquecento, in La corte e il «Cortegiano», II, pp. 113-132.
[ 21 ]
266 MATTEO BOSISIO
le si svela fallace e così anche i trattati e le corti – veri e propri centri di
emanazione di queste teorie – vengono messi alla berlina.
I restanti dialoghi possono essere ricondotti a un’unica questione,
cui corrisponde una finalità precisa da parte dello scrittore. I discorsi
del pedante (I, 9; II, 11 e V, 3), di Jacopo (IV, 5) e dello staffiere (IV, 8)
sono simili per vanità e autoreferenzialità. Come avviene per il Cortegiano,
il dibattito sul matrimonio è tutto prodotto all’interno della corte
e dai cortigiani. La corte finisce a parlare di sé stessa; è insieme emittente
e destinatario, mettendo in crisi il normale sistema comunicativo.
Il pedante – che sostiene, riprendendo i Colloquia (Proci et puellae) e
Alberti (I, p. 20 e sgg.), l’importanza delle nozze a fini riproduttivi – si
avventura in un linguaggio criptico, un miscuglio disomogeneo di latino,
volgare, forme composite, citazioni e proverbi (I, 9, 2, 21):
Dice la seguenza de lo Evangelista, idest il fattore coeli et terrae ne lo
Evangelio dice che la arbore che non fa frutto, sia tagliata e posta al
fuoco; onde il magnanimissimo Signor Duca nostro, acciocché tu, che
sei in figura de la arbore, faccia frutto, e perché l’umano genere cresca
e multiplichi, ti ha eletto a gaudere di una integerrima consorte; et il
tutto sua Eccellenzia ha conferito nobiscum, et hammi imposto che ego
agam oratiunculam, cioè componga il sermone nuziale, parlandoti idiotamente56.
Al pedante manca ogni elementare buon senso; vive al di fuori della
realtà ed è incapace di intrattenere rapporti normali con le persone
che frequenta. Egli, con la sua erudizione fastidiosamente ostentata, fa
prova di un’ampollosità che si situa agli antipodi della «sprezzatura».
Questo personaggio raffigura la degenerazione dell’intellettuale del
Quattrocento – umanista cittadino – giunto nei decenni al rango svilito
di pedagogo-grammatico, al servizio delle corti e rinchiuso in una
concezione sclerotizzata della cultura quale puro gioco formale.
Jacopo, invece, è l’unico personaggio che potrebbe aiutare il marescalco.
È effettivamente sposato, conosce la vita di coppia, si esprime
in modo efficace e non ha alcuna convenienza a orientare il parere
dell’amico. Purtroppo, però, il suo ragionamento viene continuamente
interrotto a sproposito e travisato. In un primo tempo il pedante si
56 Per l’analisi complessiva della figura del pedante all’interno del teatro del
XVI secolo è basilare il lavoro di A. Stäuble, «Parlar per lettera». Il pedante nella
commedia del Cinquecento e altri saggi sul teatro Rinascimentale, Roma, Bulzoni, 1991.
Aretino scandaglierà molte volte questa bizzarra professione; richiamo le lettere
68, 76, 108, 223, 276, 311, 457, 472, 572, 573, 598, 613, 623 e 663.
[ 22 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 267
intromette inventando possibili opere da cui Jacopo avrebbe preso
spunto; compaiono così l’inesistente De agilibus mundi di Seneca, il De
civitate dei di Agostino (nominato per sbaglio), l’Etica di Aristotele,
l’Insomnium Scipionis di Plutarco (semmai il Somnium Scipionis del IV
libro della Repubblica ciceroniana), l’Apocalisse (ma il passo in questione
è presente nella Lettera agli efesini di S. Paolo) e un verso virgiliano
poco pertinente. In seconda battuta Giannico prende in giro il pedante,
provocandone l’ira. Il risultato finale è assai negativo: il marescalco
si spazientisce, arriva perfino a litigare con l’incolpevole Jacopo e gli
addossa la colpa della difficile comprensione (12, 64): «E per non vi
tenere a tedio dicevi, M[esser] Jacopo, che non me ne ragioniate più, se
volete essermi amico; io vi parlo chiaro». In questo caso ogni tentativo
di comunicare viene meno, come se all’interno della corte fosse naturalmente
impossibile.
Nell’ultimo dialogo in esame il marescalco cerca conforto dallo
staffiere e tenta di conoscere il suo parere. Pur tuttavia, i due svolgono
solo un assurdo scambio di opinioni. Ognuno, preso dal proprio pensiero,
recita un monologo diverso, in quanto non importa confrontarsi
con le idee altrui57. La celebrazione dell’istituto del matrimonio non
viene discussa, non è oggetto di scambio e rapporti tra gli individui,
bensì è cristallizzata come la corte medesima. Pertanto, nello spazio
chiuso della corte, laddove si scorge il pur minimo movimento, esso si
costituisce come «ciancia» vacua e inafferrabile.
Abbiamo visto la particolare struttura dell’opera. Aretino non soltanto
ha smontato i princìpi generali della corte, ma è riuscito anche a
far risaltare i limiti e – in un certo modo – le aporie dei trattati e delle
commedie. Il genere comico, nello specifico, viene sia spogliato dei
suoi meccanismi costitutivi sia diventa – con l’aggiunta ingente di
parti dialogiche – spurio e informe. Non a caso Giorgio Barberi Squarotti
ha qualificato il Marescalco come anticommedia58. Questa definizione,
nondimeno, credo possa essere calzante solo per l’aspetto formale.
Difatti nell’analisi dello studioso il personaggio del marescalco
57 Cfr. 3-4, 68: «STAFFIERE: Ragioniamo di questo che importa la vostra felicità,
e toglietela. MARESCALCO: Non ci si può più vivere. S: Bellissima. M: Il mondo
è guasto. S: Quattro mila scudi e più. M: Bisogna mutare stanza. S: Parte in
possessioni, e parte in danari. M: La va così. S: Gentildonna. M: Pazienza. S: Giovanissima
».
58 Cfr. G. Barberi Squarotti, L’Aretino uomo d’ordine. L’anticommedia del «Marescalco
», «Il Bimestre», IV, 1972, pp. 5-15.
[ 23 ]
268 MATTEO BOSISIO
diventa «l’unico interlocutore d’opposizione, quello che fa le opportune
obiezioni, che porta gli argomenti contrari»59. Invece, abbiamo visto
in più riprese che il protagonista è organico alla corte e non cerca
in alcuna maniera di ribellarsi. Nel primo atto, rispondendo a Jacopo
– il quale sostiene di essere governati da un pazzo – ne prende le distanze
dicendo (I, 2, 3, 12): «son cortigiano anche io». Il suo sconforto
per l’imposizione del duca si tramuta repentinamente sia in gioia e
sollievo per la burla ordita sia in approvazione per il padrone. Nell’ultima
scena della commedia tutti i personaggi – marescalco incluso –
festeggeranno e banchetteranno in un’atmosfera pacificata e serena. Il
marescalco non rappresenta affatto un elemento di protesta e rottura.
Egli ha coscienza della propria impotenza e subalternità; non la mette
mai in discussione, anzi ne è orgoglioso60. E, infatti, nel corso della
commedia non giunge in nessun caso all’esplicito rifiuto del sopruso,
piuttosto alla sofferta presa d’atto nella terza scena del secondo atto
(2, 27): «Io credo a Dio, e questi signori hanno di strani capricci, gran
cosa è il fatto loro».
Questa incapacità di svincolarsi del tutto dalla forma mentis della
corte – sintomo di un’incompleta elaborazione critica – è presente in
modo tangibile nella Cortigiana. Flamminio (I, 10) si dice sfortunato,
poiché non è riuscito come altri a inserirsi nel meccanismo cortigiano
e accumulare ricchezze. Nel personaggio domina il rimpianto, non il
rifiuto di un mondo che spinge a terribili degenerazioni. Nella settima
scena del terzo atto Flamminio non reagisce ai problemi di palazzo
cercando un’alternativa, ma medita in quale corte, diversa da quella
romana, rifugiarsi. E nel IV atto, quinta scena, Flamminio chiede a
Valerio perché debba vergognarsi di compiere le stesse azioni dei potenti,
quando sono loro i primi a non preoccuparsene. La risposta del
compagno è emblematica: «Perché i Signori son Signori». Come ha
osservato Gianni De Maria, viene indicata con questi particolari una
dimensione tautologica del mondo, dove si afferma la coscienza
dell’invariabilità delle strutture sociali e politiche e in cui per l’intellettuale
è impossibile mutare le strutture e la passività del reale61.
59 Ivi, p. 14.
60 Cfr. I, 6, 2: «[…] pazienza, pur che il Signore abbia di me piacere, io l’ho caro,
perché è segno di amore, quando il padrone scherza col servidore».
61 Cfr. G. De Maria, Pietro Aretino commediografo: la visione tautologica del mondo
come impotenza a mutarlo e l’autocoscienza ironica, «Sigma», XXXI, 1971, pp. 3-51. Il
saggio – sebbene viziato da un’impostazione marxista a volte troppo rigida – rimane
di notevole acume.
[ 24 ]
Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 269
Pertanto non sono solo la letteratura e la corte a creare dimensioni
finte e inattuali, bensì pare che Aretino si focalizzi sulla sterilità di
tutto il contesto politico-culturale nazionale, da cui non si intravede
via d’uscita. Infatti dobbiamo inquadrare il Marescalco sia all’interno
di una biografia alquanto complicata sia di un periodo funesto per la
storia italiana che – dopo il “sacco di Roma” – porterà la penisola nell’orbita
della Spagna. A Firenze la signoria medicea si trasformò in un
principato controllato da Madrid; Mantova si assoggettò al nuovo potere
senza porre resistenza, mentre la Chiesa perdette indipendenza e
libertà di manovra.
Aretino nel Marescalco porta con sé le inquietudini della propria
epoca, che non riesce ancora a superare trovando un elemento di discontinuità
– artistico e pubblico – valido. Solo alla fine degli anni
Trenta egli riuscirà a imboccare una strada differente lavorando a Venezia
nell’industria culturale, capace di favorire un ambiente libero e
– nello stesso tempo – duraturo. Non a caso – come già detto – un incessante
tentativo di scardinare il sistema cortigiano sarà approntato
sino alla stesura del Ragionamento de le corti e delle Lettere del 1538.
All’epoca del Marescalco, lo scrittore non aveva individuato un modello
di valori nuovi e antitetici da proporre. Leggendo la commedia scopriamo
l’animo di uno scrittore irrequieto, che non trova al momento
soluzioni letterarie certe e definitive. Il Marescalco risulta un esperimento
talmente estremo da rappresentare un caso drammaturgico irripetibile
e non rappresentabile. L’operazione artistica e culturale, tuttavia,
rimane elevata e l’imperfezione della sua iconoclastia si fa cifra
stilistica di una disfatta politica ed esistenziale cui non ci si dà per
vinti.
Matteo Bosisio
(Università degli Studi di Milano)
[ 25 ]
PIER ANGELO PEROTTI
Note sulla Gertrude manzoniana
In the character of Gertrude we can see not only the well known
mixture of history and invention typical of the historical novel, but
also an autobiographical contaminatio: the almost forced marriage of
Giulia, Manzoni’s mother, and Don Pietro Manzoni, the hardly existing
relationships between father and son, and the juvenile years
spent by Manzoni in a boarding school. The events connected with
the writer’s family may have played a role in shaping Gertrude’s
biography as a young woman.
1. I personaggi dei Promessi sposi possono essere suddivisi in tre
categorie: quelli storici (il cardinale Federigo Borromeo, Ferrer, etc.);
quelli completamente di fantasia (Renzo, Lucia, don Rodrigo, etc.);
quelli fondamentalmente storici ma con divergenze e variazioni, a diverso
titolo, rispetto alla realtà storica (l’innominato, etc.). Tra questi
ultimi può essere annoverata Gertrude, la “monaca di Monza”. Infatti
la biografia di Marianna de Leyva1 (poi suor Virginia Maria2) corrisponde
soltanto a grandi linee e solo parzialmente al racconto che ne
fa il Manzoni.
1 Ho attinto i dati biografici relativi a costei e alle sue vicende criminali soprattutto
da M. Mazzucchelli, La Monaca di Monza, Milano, Editori Associati, 1993
[Milano, Dall’Oglio, 19611]; cfr. anche Id., Raffronto fra Geltrude di “Fermo e Lucia” e
suor Virginia nei riguardi di Egidio e dell’Osio, in Atti del V Congresso Nazionale di
Studi Manzoniani, 7/10 ottobre 1961, Lecco, Annoni, s. d., pp. 241-245; Vita e processo
di Suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, Milano, Garzanti 1985 (con ricca
bibliografia); P. Colussi, La vera storia della Monaca di Monza, in P. Colussi – M.G.
Tolfo, Storia di Milano (on line), 2002-2008; etc. Alcune osservazioni o ipotesi che
compaiono in questo mio saggio presentano qualche affinità con G. Tellini, Manzoni.
La storia e il romanzo, Roma, Salerno Editrice, 1979.
2 Si noti che la giovane, monacandosi, assunse il nome della madre, Virginia
Marino de Leyva (cfr. infra, § 2), con l’aggiunta – frequentissima per le monache –
del nome della Madonna.
Note sulla Gertr ude manzoniana 271
Ricordiamo in premessa che l’autore incorse in un grave anacronismo
nel collocare le drammatiche vicende della monaca, posticipandole
di una trentina d’anni: infatti gli eventi relativi a suor Virginia e
all’amante Gian Paolo Osio (l’Egidio manzoniano) vanno collocati nel
decennio tra il 1598 – allorché ha inizio la relazione tra i due, ossia
quando «la sventurata rispose» (cap. X, p. 210)3, secondo la celebre,
felice espressione ellittica del Manzoni4, «incisiva e allusiva a un
tempo»5 – e il 1607, anno in cui ebbe inizio l’inchiesta contro di lei,
mentre i fatti descritti nel romanzo si svolgono tra il 7 novembre 1628
(incontro di don Abbondio con i bravi di don Rodrigo) e la fine di ottobre
del 1630.
La ragione di questo anacronismo va ricercata nel fatto che il romanziere
ebbe a disposizione, come fonte storica, soltanto l’Historia
patria del Ripamonti6, che «non recava alcuna data od alcun altro riferimento
atto a rilevarla»7, e che il processo alla monaca si svolse durante
l’episcopato di Federigo Borromeo, che fu arcivescovo di Milano
dal 1595 alla morte (1631), ossia in un periodo compatibile con la datazione
presunta, in assoluta buona fede, dal Manzoni. Tale convinzione
relativa alla cronologia della vicenda accompagnò l’autore sia
durante la stesura del Fermo e Lucia (1821-23) sia nel corso della prima
redazione dei Promessi sposi (1824-27). Soltanto nel 1835, o poco dopo,
il cardinale Karl Kajetan von Gaisruck, arcivescovo di Milano tra il
3 Come nei miei ultimi saggi manzoniani, anche in questo studio la numerazione
delle pagine corrisponde a quella dell’edizione definitiva dei Promessi sposi,
Milano, Guglielmini e Redaelli, 1840-1842, d’ora in poi citata con la sigla: P.S.; e
dunque i vari passi dell’opera sono indicati col numero romano del capitolo e con
quello arabo della pagina dell’edizione citata; quando è segnalato solo il numero
della pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza.
4 Di ben altra ampiezza è il racconto della tresca della Signora con l’amante e
dei delitti conseguenti nel Fermo e Lucia [opera per cui ho seguìto la numerazione
dei paragrafi adottata nell’edizione curata da L. Caretti, I Promessi Sposi, vol. I,
Fermo e Lucia, etc., Torino, Einaudi, 1971, d’ora in poi citata con la sigla F. e L.], dove
ai fatti relativi è dedicato oltre un capitolo (tomo II, cap. V, § 13 – tomo II, cap. VI, §
25), e complessivamente quasi sei capitoli all’intera storia della monaca (t. II, capp.
I-VI, senza contare la sequenza del suo tradimento ai danni di Lucia, t. II, cap. IX),
ridotti drasticamente a meno di due – capp. IX-X, oltre al passo del tradimento,
cap. XX – nell’edizione definitiva.
5 A. Manzoni, I Promessi sposi, a cura di P. Nardi, Milano, Mondadori, 195917,
p. 279, n. 638.
6 Josephi Ripamonti, Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, Cap. III, pag. 358 et
seq. [nota del Manzoni].
7 M. Mazzucchelli, La monaca di Monza, cit., p. 13.
[ 2 ]
272 PIER ANGELO PEROTTI
1818 e il 1846, gli mise a disposizione gli atti del processo alla de
Leyva8, che però egli in pratica non utilizzò durante la revisione del
romanzo (la cosiddetta “quarantana”: cfr. n. 3)9, le cui varianti rispetto
alla “ventisettana” sono quasi esclusivamente di carattere linguistico.
Del resto, l’utilizzo del nuovo materiale documentario avrebbe costretto
il Manzoni a stravolgere l’intera narrazione, o almeno a eliminare
quei riferimenti a luoghi e persone che permettono di identificare
la monaca del romanzo con suor Virginia de Leyva, ideando un nuovo
personaggio, il che sarebbe stato non dico impossibile, ma certo pregiudizievole
per l’armonia dell’opera.
2. Oltre all’anacronismo cui ho accennato al § 1, altre sono le notizie
riportate nel romanzo che contrastano con i dati biografici della
giovane monacanda. Innanzitutto il padre, don Martino de Leyva,
non era né marchese (come nel F. e L.: «marchese Matteo») né tanto
meno principe (come nei P. S.), ma conte, in quanto figlio cadetto di
Luigi de Leyva principe d’Ascoli, e come tale aveva dedicato la vita
alla carriera militare; ma per ottenere nomine prestigiose gli era necessario
parecchio denaro: ecco presumibilmente il motivo principale –
l’interesse economico – per cui nel 1574, a 26 anni, sposò Virginia Marino,
figlia ed erede del più ricco banchiere milanese, Tommaso Marino
(morto due anni prima), vedova da circa quattro anni del conte
Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo, e già madre di cinque figli,
tra i quali uno maschio, Marco. Il Manzoni invece non parla né di vedovanza
della «marchesa», poi «principessa», né di suoi figli di primo
letto, ma soltanto di fratelli – non fratellastri – di Gertrude (Geltrude
nel F. e L.), e in particolare del «principino, che solo de’ maschi veniva
allevato in casa» (IX, 176: cfr. infra, n. 20) (il «marchesino» del F. e L.).
La madre di Marianna morì alla fine del 1576 – probabilmente di
peste, che infuriava a Milano in quei mesi –, quando la figlia aveva
8 U na parte delle carte processuali fu pubblicata nel 1855 da T. Dandolo, La
Signora di Monza e le streghe del Tirolo, Milano, Boniardi-Pogliani, 1855 [rist. Milano,
Commissionarie Foro Editrice, 1967]. Solo nel 1961 l’arcivescovo di Milano Giovan
Battista Montini (poi papa Paolo VI) consentì al Mazzucchelli l’uso dell’incartamento
d’archivio per il suo libro.
9 Salvo per la precisazione: «Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e
principalmente a Meda, di dov’era quella conversa» (X, 212): cfr. I Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni, raffrontati sulle due edizioni del 1825 e 1840. Con un commento
storico, estetico e filologico di P. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1893-1902
(ristampa anastatica, Firenze, Casa ed. Le Lettere, 1992), ad loc.; si veda pure M.
Mazzucchelli, La monaca di Monza, cit., pp. 15-16.
[ 3 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 273
circa un anno, mentre secondo il Manzoni in entrambe le redazioni del
romanzo, durante l’infanzia e l’adolescenza di Gertrude la marchesa /
principessa è in vita.
A quanto si narra nel romanzo, Gertrude è destinata al chiostro fin
dalla nascita, anzi dal concepimento10, in contrasto, pare, con la verità
storica, considerato che in una lettera del 26 giugno 1586 (quando la
bambina aveva poco più di 10 anni) il padre parlava delle previsioni
matrimoniali di Marianna e di una dote di 7.000 ducati11. Del resto,
secondo il testamento della madre, alla sua morte alla figlioletta sarebbe
dovuta toccare la metà del suo patrimonio, e l’altra metà al primogenito
del suo primo matrimonio Marco Pio (il resto della prole di
primo letto erano femmine); al vedovo sarebbe spettato soltanto
“l’usufrutto della dote e un anello con gemma di valore” (l’anello nuziale?).
Ma il testamento fu subito impugnato dalle sorelle di Marco,
escluse dall’asse ereditario, e la controversia legale si trascinò per alcuni
anni, finché nel 1580 don Martino, spinto dall’avidità, raggiunse
un compromesso con le figliastre a danno di Marianna (che allora non
aveva ancora 5 anni): a lei e al padre toccarono i 5/12 dei beni ereditari,
ai figli di primo letto i 7/12. In ogni caso, i de Leyva disponevano
di proprietà e di rendite tutt’altro che trascurabili: i beni lasciati da
Virginia Marino alla figlia – ora comuni anche al padre – e i cospicui
proventi di don Martino in quanto signore di Monza.
Nel frattempo, durante le frequenti, quasi continuative assenze del
padre da Milano per seguire campagne militari, Mariannina era stata
affidata dapprima a una balia di origine spagnola, poi a un’ignota famiglia
che visse a palazzo Marino presso la bambina: tutto questo a
cura della sorella di don Martino, donna Marianna de Leyva, moglie
del marchese Massimiliano Stampa-Soncino.
Ma nel 1588 il de Leyva contrae un nuovo matrimonio a Valencia
con la nobildonna spagnola Anna Viquez de Moncada (figlia del barone
di Laurin), dal quale avrà altri sei figli, tre maschi (Luigi, Antonio e
Gerolamo), che seguiranno le sue orme nella carriera militare, e tre
femmine (Maddalena, Giovanna – morte bambine – e Adriana, anch’essa
destinata al chiostro)12. Con ogni probabilità queste nuove
10 Cfr. IX, 176: «La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre,
che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi
se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno,
non il suo consenso, ma la sua presenza».
11 Cfr. P. Colussi, La vera storia della Monaca di Monza, cit.
12 Ibidem.
[ 4 ]
274 PIER ANGELO PEROTTI
nozze provocano un cambiamento di prospettiva, ossia la decisione di
don Martino di sacrificare Marianna al chiostro, con la promessa di
una dote di seimila lire imperiali, che peraltro non verserà mai13.
Ecco perché circa un anno dopo, all’inizio del 1589, egli torna in
Lombardia per occuparsi del futuro della figlia, ormai quasi quattordicenne.
Essendo morta, l’anno prima, la marchesa Stampa-Soncino,
che aveva tutelato, ancorché indirettamente, la nipote, il padre decide
di collocare la ragazza in un monastero. «Forse non ha ancora il proposito
di farne una monaca, ma spera che una volta in convento nasca
in lei una “spontanea” vocazione: resti ad ogni modo “conversa” per
qualche anno; poi si vedrà»14. Comunque non si tratta ancora di monacazione,
né spontanea né forzata, semplicemente perché impossibile
secondo le recenti direttive del Concilio di Trento, che prescrivevano
l’età minima di sedici anni per prendere il velo (ma cfr. infra, n. 26).
Del resto, la vita di Marianna nel tetro palazzo di famiglia, tra estranei
che le imponevano soltanto formali pratiche religiose e rinunce espiatorie,
dove non aveva alcuna occasione di rapporti con fanciulle della
sua età, doveva essere assai infelice, probabilmente – a suo modo di
vedere – più che in un convento (collegio o educandato), in cui avrebbe
avuto occasione di frequentare sue coetanee e di avere, insomma,
un minimo di relazioni sociali. Per questo non doveva essere del tutto
avversa alla permanenza nel monastero di Santa Margherita a Monza
cui fu affidata: dunque «non capricci, proteste, pianti: Mariannina obbedisce
al volere paterno con la maggiore docilità»15.
Sembra pertanto non corrispondere alla realtà il quadro della vita
nel palazzo del principe padre di Gertrude che il Manzoni lascia intuire
(capp. IX-X), anche perché il corrispondente storico, don Martino
de Leyva, trascorse perlopiù lontano da Milano gli anni dell’infanzia
della figlia.
Ricordiamo infine che il padre di Marianna non era, come scrive il
Manzoni, un «gran gentiluomo milanese» (IX, 175), ma un nobile spagnolo;
a meno che l’autore volesse intendere “milanese d’adozione”.
Altre discrepanze – relative alla tresca di suor Virginia con l’Osio e
ai loro delitti – tra le risultanze degli atti del processo (che, come già
abbiamo rilevato, il Manzoni non poté consultare) e il racconto del
13 Ricordiamo che cosa il Manzoni fa dire amaramente a Geltrude nel F. e L., t.
II, cap. I, § 52: «“io non ho da essi ereditato che il nome”»; cfr. anche t. II, cap. II, §
7, cit. infra, n. 31, dove tra l’altro si accenna all’avarizia del marchese Matteo.
14 M. Mazzucchelli, La monaca di Monza, cit., p. 24.
15 Ibidem.
[ 5 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 275
Fermo e Lucia non saranno qui prese in esame, soprattutto perché non
sono utili alle finalità del presente saggio.
3. Le difformità tra i dati storici e la narrazione del romanzo non
hanno certamente la funzione di rendere impossibile l’identificazione
del personaggio, che lo stesso autore favorì con le notizie di IX, 166:
«Uno storico milanese che ha avuto a far menzione di quella persona
medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice
ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il
nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete.
Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro.
Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più
fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture
molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta
da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio
di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto
di ricerca»,
tant’è vero che sin dalla pubblicazione della “ventisettana” fu universalmente
nota l’identità della “monaca di Monza”, ed ebbero inizio le
pubblicazioni sulle vicende della sua vita. Tentiamo dunque di chiarire
le ragioni che spinsero il Manzoni a deformare i dati storici relativi
alla sua Gertrude.
È indubbio che il carattere del principe manzoniano corrisponde
abbastanza bene a quello di don Martino de Leyva, certamente ambizioso,
«ossequiente e perfino strisciante al cospetto del suo potentissimo
re»16, egoista, anaffettivo, autocratico in famiglia, ligio a un rigido
moralismo formale e al culto della nobiltà, calcolatore, avido e disonesto
al punto di defraudare la figlia Marianna dell’eredità materna che
le spettava. Una simile indole e i comportamenti che ne conseguono,
trasferiti nel principe, si adattano perfettamente agli scopi del Manzoni,
che attribuisce al padre di Gertrude la responsabilità pressoché totale
delle sventure della figlia. La giovane è vittima soprattutto della feroce
tirannide e dei sordidi sentimenti del genitore – in primis l’avarizia,
l’orgoglio esasperato e distorto, e un malinteso senso dell’onore di casta
–, alla cui dispotica volontà non ha le risorse per reagire, e dunque
le sue colpe sono indotte, tanto che l’autore, dopo averla definita «sventurata
», e non con un altro termine che indichi il suo misfatto iniziale17,
16 Ivi, p. 17.
17 Cfr. I Promessi sposi, a cura di N. Sapegno e G. Viti, Firenze, Le Monnier,
[ 6 ]
276 PIER ANGELO PEROTTI
pur non giustificandola o sottovalutando i suoi delitti (il che contrasterebbe
con il rigore giansenista sulle scelte etiche), riesce a conciliare
la pietà umana con la giusta condanna, facendola apparire agli occhi
del lettore soprattutto come una creatura debole, priva di volontà, vittima
delle circostanze e di chi le sta intorno18, e permettendo un margine
di difesa o almeno qualche attenuante delle sue colpe, pur gravissime.
Non è un caso che verso la fine del romanzo l’autore ne ricordi
il pentimento e l’espiazione19, a conferma che essa non è intimamente
corrotta, ma trascinata, anzi travolta, dagli eventi e irretita da persone
infide.
4. La presenza, nel palazzo del principe, della madre di Gertrude
(morta, nella realtà storica, quando la bimba aveva meno di un anno)
e del fratello primogenito (mentre Marianna aveva solo un fratellastro,
Marco, che peraltro non viveva a palazzo Marino) è un’alterazione
che può essere attribuita a due diverse cause: non si può escludere
che il Manzoni avesse notizie imprecise circa la famiglia della giovane,
ma si potrebbe anche sospettare che egli abbia volutamente alterato
i dati storici per sottolineare questa sorta di congiura di famiglia
mirante a indurre Gertrude a prendere il velo. Nel romanzo la madre
è una figura scialba, priva di carattere, che si limita ad avallare acriticamente
le decisioni del marito20, capace soltanto di lamentarsi per il
fastidio di dover sacrificare qualche ora di sonno per accompagnare al
20038, scheda critica al cap. X, p. 206: «“La sventurata rispose” (dove sventurata è
vocabolo pregnante, in cui si fondono, senza confondersi, la compassione del poeta
e il rigore del moralista)».
18 Cfr., I Promessi sposi, a cura di A. Marchese, Milano, Mondadori, 19874, cap.
X – Guida alla lettura, p. 219: «Il racconto traccia, dunque, la parabola esistenziale
di una donna debole, insoddisfatta e dominata, sempre, da una volontà maschile
sadica, nelle figure ossessive del padre e dell’amante feroce».
19 XXXVII, 723: «[Lucia] seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto
d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero
di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era
accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno
di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo».
20 Qualche esempio: IX, 176: «Quando il principe, o la principessa o il principino,
che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso
della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea,
se non con le parole: “che madre badessa!”»; X, 192: «La principessa e il principino
rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi»; 198: «il principe si
mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e
montarono in carrozza»; etc.
[ 7 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 277
monastero la figlia a presentare la «supplica» per esservi accolta21; il
fratello – il «principino» –, è un giovane fatuo e viziato che si prepara
a seguire le orme del padre, e che durante questo “apprendistato” si
esercita a praticare l’arroganza22, che è quasi un tratto distintivo della
famiglia23, o della nobiltà in generale.
Questa deformazione dei dati storici, modificati in un senso ben
preciso, serve al Manzoni a insistere sull’imposizione a Gertrude dello
stato monacale – basata anche sul più vile ricatto –, subdolamente
spacciata per autodeterminazione. È pur vero che la frase icastica «e fu
monaca per sempre»24 (X, 207) – il conciso suggello del dramma, che è
21 Cfr. X, 196: «“La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata
quattr’ore prima del solito”». Si noti che nel F. e L. il riferimento alla levataccia
della principessa ritorna ben tre volte: t. II, cap. III, § 32 (simile al succitato passo
dei P. S.): «“La Signora Marchesa si sta alzando, e l’hanno svegliata quattr’ore
prima del solito”»; § 39: «la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto
mostrava nell’aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di
aver fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo
»; t. II, cap. IV, § 3: «ella [scil. la marchesa] dormiva saporitamente: cosa che non
sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere svegliato tre ore [si noti che in
precedenza erano quattro] prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente».
22 Cfr. le parole della vecchia governante del principino: «“Il signor principino
è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia.
Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso
dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare,
perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita.
Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche
un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti!
non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non
ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più
tardi che sia possibile, però”» (X, 196).
23 Cfr. I Promessi Sposi, commento di A. Momigliano, Firenze, Sansoni, 1964,
p. 216, n. 1: «Dalla candida esaltazione della vecchia viene fuori anche la figura del
principino, il despota in boccio, il “nibbio”»; I Promessi sposi, a cura di E. Caccia,
Brescia, Ed. La Scuola, 19857, p. 336, n. 175: «nel suo candore di donna affezionata,
la governante non capisce che in realtà quello strepitare per un poco d’attesa non
preannuncia nulla di buono in quel carattere»; p. 337, n. 182: «è figlio di suo padre,
e Gertrude sente soggezione anche per lui, per quella violenza che quando si adira
“non ha riguardo per nessuno”».
24 Questa frase lapidaria sostituisce – assai felicemente, a mio giudizio – la non
succinta chiosa che compariva nel F. e L., t. II, cap. IV, § 48: «Il sacrificio fu consumato,
il dono fu posto su l’altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva
posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr’esso
», la cui frase iniziale ricorda per un verso l’incipit dell’Ortis foscoliano («Il
sacrificio della patria nostra è consumato»), per l’altro – aggiungendo la successiva
– l’episodio biblico di Abramo e Isacco, o quello classico di Ifigenia, etc.
[ 8 ]
278 PIER ANGELO PEROTTI
come una pietra tombale sulla giovane25 – è seguita da una pagina in
cui l’autore propone la sua opinione sui benefìci della religione come
elemento consolatorio (cfr. infra, § 6 e n. 44) che favorisce l’accettazione
di qualsiasi condizione esistenziale, convincimento incentrato sulla
riflessione secondo cui «Gertrude avrebbe potuto essere una monaca
santa e contenta, comunque lo fosse divenuta»26; ma la religione imposta
come mera formalità, o intesa come sciocca superstizione27, non
può ottenere questi effetti benèfici, come appunto accadrà alla Signora
di Monza.
Il prosieguo della sua vita ha infatti risvolti turpi e tragici28, causati
da una parte dalla debolezza iniziale, dall’altra dalla sua incapacità di
rassegnarsi; e come il Manzoni oscilla tra la condanna e la pietà per la
«sventurata», così anche noi – seguendo il precetto evangelico Nolite
iudicare, ut non iudicemini (Mt. 7, 1) ~ Nolite iudicare, et non iudicabimini
(Lc. 6, 37) – ci asteniamo dal dare un giudizio sul personaggio, senza
tuttavia esimerci dal condannare con tutte le forze il padre di Gertrude,
e di riflesso la madre e il fratello.
5. Ai riferimenti autobiografici nei Promessi sposi29 – segnatamente
nella conversione dell’Innominato, che per certi versi richiama quella
25 Cfr. E. Caccia, comm. cit., alla n. 23, p. 348, n. 456: «ribadisce il destino al
quale Gertrude non era nata, e che si sigilla su di lei come un marmo inamovibile
sulla tomba».
26 Come accadde, per es., alla celebre Jacqueline Arnauld (1591-1661), diventata
Mère Angélique, la grande badessa di Port-Royal, anch’essa monacata per forza,
o alla veneziana Arcangela Tarabotti, nata intorno al 1605, costretta a vestire l’abito
delle Benedettine di Sant’Anna a soli undici anni, oltretutto in contrasto con le disposizioni
del Concilio di Trento (cfr. P. Nardi, comm. cit., p. 276, n. 553; I Promessi
Sposi, commento critico di L. Russo, Firenze, La Nuova Italia, 19772, pp. 200-1, n.
520-1; etc.), e a chissà quante altre; e, trattandosi dello stesso secolo della vicenda
narrata dal Manzoni, non è da escludere che egli conoscesse uno di questi casi o
entrambi, e magari altri simili.
27 Cfr. F. e L., t. II, cap. II, § 26: «Non vogliamo qui parlare di alcuni pregiudizj,
che a quei tempi principalmente si ritenevano per verità sacrosante, e s’insegnavano
insieme con le verità, pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno,
pregiudizj dannosi principalmente perché nella mente di molti associano
all’idea della Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò
ogni onesto deve desiderare e promovere la distruzione».
28 A quelli storici il Manzoni aggiunge quello romanzesco della complicità della
monaca nel rapimento di Lucia (XX, 383 ss.), cui si accenna nel mio articolo
Spigolature manzoniane, «Critica letteraria» a. XXXIII (2005), n. 126, p. 155 ss.
29 Cfr. il mio articolo Spunti autobiografici nei Promessi sposi, «Critica letteraria»,
a. XXX (1997), n. 95, pp. 233-252.
[ 9 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 279
dell’autore
–, riconosciuti da tutti i critici manzoniani, credo che si
debba aggiungere un aspetto che, almeno per quanto mi consta, è
sfuggito agli studiosi del romanzo.
La biografia di Gertrude, sia nella versione del Fermo e Lucia sia in
quella definitiva del romanzo, è indubbiamente un amalgama di storia
e d’invenzione – come del resto il complesso dei Promessi sposi –;
ma specificamente nella parte relativa alla sua infanzia e adolescenza
può essere ritenuta una contaminatio tra i fatti storici relativi a Marianna
de Leyva (perlopiù approssimativi), le aggiunte o varianti inventate
dal romanziere ed elementi autobiografici dello stesso giovane
Alessandro.
È più che probabile che egli fosse frutto di una relazione extra-coniugale
della madre Giulia Beccaria con il conte Giovanni Verri, l’ultimo
dei fratelli di questa celebre famiglia di illuministi, e non figlio del
padre legale, don Pietro30 (“nobile”, e non conte, come spesso viene
definito). Costui, uomo chiuso e reazionario, freddo e distaccato, incapace
di sentimenti profondi31, non diede né ricevette amore dal piccolo
Alessandro, né dalla seconda moglie Giulia (di lui minore di ben
ventisei anni), donna aperta, sensibile, intelligente, briosa, spregiudicata,
il cui matrimonio con don Pietro era stato combinato dal conte
Pietro Verri con l’appoggio o la complicità del padre Cesare Beccaria32.
Queste nozze di convenienza, senza amore, cui la ventenne Giulia acconsentì
controvoglia e che sopportò con irrequietezza33, scivolarono
30 Per questa diceria e altre notizie biografiche sulla madre del Manzoni, cfr. G.
Bezzola, Giulia Manzoni Beccaria, Milano, Rusconi, 1985.
31 È lecito sospettare che il ritratto del marchese Matteo nel F. e L. – eliminato
in questi termini nei P. S. – sia stato in qualche modo mutuato dall’opinione che il
Manzoni aveva di suo padre: «Il padre della infelice di cui siamo per narrare i casi,
era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante
[…]» (t. II, cap. II, § 7).
32 Cfr. I. Gherarducci-E. Guidetti, Guida allo studio dei Promessi sposi, Firenze,
La Nuova Italia, 1991, p. 9: «[…] della giovane e inquieta Giulia (che era stata forzata
alle nozze)»: si veda infra e n. 34.
33 Ai rapporti tra sua madre e suo padre potrebbe riferirsi il passo in cui l’autore
accenna alla sudditanza quasi totale della moglie nei confronti del marchese Matteo
nel F. e L., t. II, cap. III, §§ 9-10: «La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non
avere altra volontà che quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva
combattuto, e ne era uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un
sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall’aver veduto chiaramente
da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli. S’era
ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della famiglia,
contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo accennati».
[ 10 ]
280 PIER ANGELO PEROTTI
ben presto verso la separazione, formalizzata nel febbraio 1792, circa
un anno prima della quale l’infelice Giulia scriveva (marzo 1791):
«Il conte [Pietro] Verri è al fatto delle circostanze e può ancora volere
un aggiustamento che mi renderebbe schiava e infelice? E questo solo
per non urtare nelle conseguenze del dispotismo di un padre il quale
non sente l’orrore della mia situazione, ma solo il dispiacere di vedermi
capace di scuotere un giogo da lui impostomi?»34,
dato che non sopportava più di guadagnarsi «il Paradiso a forza di
patimenti qui in terra»35. Non è difficile riconoscere, in questa situazione
e in queste accuse contro il padre tiranno, analogie con la vicenda
di Gertrude, che a sua volta «si dibatteva sotto il giogo» (X, 207)
impostole dal principe-padre: al matrimonio forzato di Giulia corrisponderebbe
la monacazione imposta al personaggio del romanzo.
Ma c’è dell’altro a proposito del figlio36. Dopo essere stato affidato
a una balia, nell’imminenza della separazione dei genitori il piccolo
Alessandro, compiuti i sei anni, fu collocato nel collegio dei padri Somaschi
a Merate. Significativo in particolare l’episodio del suo ingresso
in collegio:
«[…] la madre, forse perché non aveva il coraggio di affrontare lo strazio
del primo distacco, o perché le importava poco di quel figlio, lo
aveva accompagnato in collegio, e mentre un padre somasco accoglieva
festosamente il bambino, lei si era allontanata. […]»,
e tormentati i rapporti con i genitori:
«I genitori si interessano poco di lui […]. L’adolescente Manzoni fu in
pratica abbandonato del tutto dalla madre ed ebbe – stando sempre in
collegio – pure scarsi contatti umani con il padre, che in lui vedeva
l’immagine del suo fallimento matrimoniale e di una donna che non
era stato capace di amare e conquistare […]»37.
È la stessa età – sei anni – alla quale Gertrudina viene collocata in
convento, «per educazione e ancor più per istradamento alla vocazio-
34 Cito da I Promessi Sposi, a cura di E. Raimondi-L. Bottoni, Milano, Principato,
1988, introd., p. V.
35 Ibidem.
36 Sull’infanzia e l’adolescenza del Manzoni, cfr. per es. T. Gallarati Scotti,
La giovinezza del Manzoni, Milano, Mondadori, 1969; P. Citati, Manzoni, Milano,
Mondadori, 1980; F. Ulivi, Manzoni, Milano, Rusconi, 1984.
37 L. Sarchi, Alessandro Manzoni, biografia (on line: Alessandro Manzoni –
Scheda biografica).
[ 11 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 281
ne impostale» (IX, 178)38. Potrebbe trattarsi di una mera coincidenza,
ma altri dati biografici del giovane Alessandro, per certi risvolti collimanti
con le vicende esistenziali del personaggio del romanzo, fanno
nascere il sospetto che, nel narrare la storia di Gertrude, lo scrittore si
sia in qualche misura ispirato anche alla propria esperienza di collegiale.
In età avanzata egli, rievocando gli anni trascorsi nei vari collegi
(oltre a quello di Merate, dal 1796 il Sant’Antonio di Lugano, guidato
da religiosi dello stesso ordine, e infine, dal 1798, il Collegio dei Nobili,
poi ribattezzato Longone, retto dai Barnabiti), confidava al genero
Giovan Battista Giorgini che di quel periodo della sua vita
«[…] non poteva parlare senza un accento di compassione. Quelle mura
squallide e nude dei dormitori, quell’aria fredda e tetra delle sale e
dei corridoi, quella sorveglianza sospettosa, quel piglio burbero dei
maestri, quel fare zotico degli inservienti, quelle nerbate, quelle tirate
di orecchi, gli tornavano ben sgradite alla mente anche negli ultimi
anni e gli rendevano spiacenti quelle memorie che sogliono ricreare la
vecchiaia – le memorie, cioè, dell’infanzia e della puerizia. E più che
mai gli dispiaceva il ricordo degli effetti che quel sistema di educazione
produce nell’animo dei giovani: quel misto d’odio e di paura che fa
le veci del rispetto; quella necessaria mancanza di sincerità e quello
studio continuo d’inganni e di sotterfugi, e la soddisfazione provata
ogni volta che si riusciva ad eludere una vigilanza, a trasgredire un
dovere – quella ribellione continua dello spirito, insomma –, quell’avversione
continua allo studio, ai precetti, alla religione stessa insegnata
a quel modo»39.
Questi particolari dell’educazione del giovane Alessandro corrispondono
piuttosto bene, per certi aspetti, alla descrizione manzoniana
dell’infanzia di Gertrude nel convento di Santa Margherita; si può
dunque presumere che almeno qualche spunto relativo all’indole o
alla formazione della futura monaca sia autobiografico40. Mi sembra
38 Cfr. anche F. e L., t. II, cap. II, § 15: «A sei anni fu posta in un monistero e per
educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa».
39 Cito da Gherarducci-Guidetti, Guida allo studio dei Promessi sposi, cit., pp.
9-10.
40 Cfr. il mio articolo Spunti autobiografici nei Promessi sposi, cit., pp. 248-9. Per
quanto presentato come considerazione di saggezza comune, si può ritenere che
derivi da esperienza diretta dell’autore come collegiale anche il commento di carattere
psicologico relativo alla finzione come peculiarità dei giovani (F. e L., t. II,
cap. II, §§ 34-35): «Geltrude li nascondeva [scil. i motivi della repulsione per il velo]
sotto quell’aspetto di indifferenza che la faccia dei giovanetti presenta quasi sempre
all’occhio di chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione
[ 12 ]
282 PIER ANGELO PEROTTI
invece difficile condividere l’opinione del Fabris, secondo cui «nella
Signora di Monza c’è qualche ricordo della ex-monaca zia Teresa»41.
6. Abbiamo appena rilevato certe peculiarità di don Pietro Manzoni,
sia come marito sia come padre. Non si può escludere che per l’indifferenza
del principe nei confronti della figlia il romanziere si sia
almeno in parte ispirato all’indole del proprio padre, o meglio dell’uomo
che gli aveva dato il cognome riconoscendolo come figlio; e se don
Pietro sapeva o almeno sospettava che Alessandro non fosse suo figlio
biologico, non stupisce la sua freddezza nei confronti di un bimbo che
non sentiva legato a sé da vincoli di sangue. A sua volta la madre Giulia,
troppo presa dalla vita mondana e intellettuale, non si occupava
del figlio come sarebbe stato opportuno, anzi doveroso. L’infanzia e
l’adolescenza del Manzoni trascorsero dunque senza gli affetti familiari
fondamentali per creare il giusto equilibrio tra vita interiore e vita
sociale, che è alla base di una crescita armonica e di una vita serena.
Pur con le modifiche apportate per renderlo congruente con la condizione
di Gertrude – tra cui il diverso sesso –, e nonostante le inevitabili
differenze tra l’autobiografismo e la narrazione romanzesca, il parallelo
tra il giovane Alessandro e la monacanda del romanzo è piuttosto
palese, almeno nel sostrato più profondo42.
Alla situazione all’interno della famiglia si aggiunga l’avversione
profonda che è data a quella età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca
della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant’anni,
se, come si dice, gli uomini di questa professione sono i più esercitati a
nascondere i loro pensieri. […], perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v’è
una parte di stranio, di fantastico, di individuale che non si confida, né s’indovina,
a quel che dice il manoscritto».
41 C. Fabris, Memorie manzoniane, dialogo Una serata in casa Manzoni, Milano,
Cogliati, 1901, p. 104 [opera poi ristampata in varie edizioni, tra le quali ricordo
quella di Sansoni, Firenze 1959].
42 Mi sembra indubbio il riferimento a proprie esperienze giovanili nel passo
del F. e L. (t. II, cap. II, § 23) in cui è descritta la metamorfosi di Gertrude nel periodo
più delicato della sua formazione esistenziale: «In questo stato di guerra mentale
giunse Geltrudina a quella età così critica, che separa l’adolescenza dalla giovinezza;
a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell’animo, solleva, ingrandisce,
adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le
idee che vi trova. Assoluta innocenza di pensiero; massime e pratiche di Religione
ragionata; occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo,
confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori, sono i mezzi sicuri per
trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla,
saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita» (cfr. P. S., IX,
180).
[ 13 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 283
del futuro scrittore per i collegi43, i cui educatori – ad eccezione, a Lugano,
del padre Carlo Felice Soave, uomo severo ma di grande carisma,
l’unico suo maestro che egli ricorderà con stima e rispetto – erano
probabilmente non molto dissimili da suo padre. Mette il conto di
riportare quanto egli scriveva nel 1805, pochissimi anni dopo la sua
uscita di collegio, nel carme In morte di Carlo Imbonati, vv. 147-151:
«Né ti dirò com’io, nodrito
in sozzo ovil di mercenario armento,
gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
de l’insipida stoppia, il viso torsi
da la fetente mangiatoia».
Si deve altresì presumere che nei collegi, tutti religiosi, da lui frequentati,
le pratiche morali e religiose prescritte agli alunni fossero
improntate a un arido formalismo (cfr. supra, § 4), e dunque non intimamente
sentite (infatti i sentimenti, come lo è anche quello religioso,
non possono essere imposti) né utili a offrire quelle consolazioni che si
possono trovare nel rapporto con Dio44, in una sorta di sostituzione di
quegli affetti familiari di cui egli non godeva e forse non aveva mai
goduto. Tutto questo non solo influì sulla formazione del suo carattere,
ma forse fu anche una delle cause delle nevrosi (tra le quali l’agorafobia45)
– le «angosce nervose» di cui parla in una lettera la moglie
Enrichetta – che lo tormentarono per tutta la vita.
Sono dunque abbastanza naturali i moti di ribellione di Alessandro
collegiale46, che manifestava il suo fastidio per l’autorità anche con
piccoli dispetti o provocazioni nei confronti dei suoi educatori, come
scrivere “papa” e “re” con la minuscola, secondo riferisce l’aneddoti-
43 Forse il Manzoni pensava che valessero anche per sé fanciullo le parole sarcastiche
messe in bocca alla Signora nel F. e L., t. II, cap. I, § 63: «“il monastero dove
[i parenti] la vogliono rinchiudere è così allegro! in così bella situazione! così tranquillo!
è un paradiso!”», ossia riteneva che questa fosse l’opinione del proprio padre
nel decidere dell’educazione del figlio in collegio.
44 Delle «consolazioni della religione» si parla anche a proposito di Gertrude
(X, 209): cfr. supra, § 4.
45 Cfr. A. Marchese, comm. cit., cap. XXXIII – Guida alla lettura, p. 672.
46 Questo aspetto del suo carattere potrebbe essere stato trasferito in accenni
relativi a Gertrude, in momenti diversi della sua biografia: nel F. e L., t. II, cap. II, §
10, come connotato della sua infanzia: «e nello stesso tempo ne’ suoi modi e nelle
sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all’obbedienza»; nei
P. S., X, 210, come suo tratto durante la vita monacale: «lo stesso orrore per il chiostro,
per la regola, per l’ubbidienza» [i corsivi sono miei].
[ 14 ]
284 PIER ANGELO PEROTTI
ca, e che forse sin dagli anni di collegio maturò quell’ostilità per la
religione che lo condusse al «distacco dal cattolicesimo e all’entusiastico
avvicinamento agli ideali illuministici e ai valori della Rivoluzione
francese, portati a Milano dall’armata napoleonica»47.
7. Credo dunque di non essere lontano dal vero ritenendo che nella
descrizione dell’infanzia e adolescenza della futura monaca di Monza
si debbano riconoscere vari livelli di ispirazione e diversi modelli di
riferimento: quello propriamente storico, punto di partenza della narrazione,
e quelli autobiografici del piccolo Alessandro e biografici di
entrambi i suoi genitori.
Le varie tessere di questo mosaico sono state utilizzate nel relativo
excursus sia del Fermo e Lucia sia dei Promessi sposi. Ma nelle due principali
stesure dell’opera la sequenza delle vicende relative alla formazione
di Gertrude bambina e adolescente occupa – escludendo le ridondanze
poi depennate dalla “ventisettana” e dalla “quarantana” –
all’incirca lo stesso spazio; la vera differenza consiste, come è noto,
nella presenza, nella prima versione, della descrizione dettagliata dell’illecita
e criminale relazione amorosa della Signora, con le sue conseguenze
di depravazione e di efferatezza, che nelle successive redazioni
è omessa, e liquidata con la lapidaria frase «la sventurata rispose»
(X, 210: cfr. supra, § 1).
La cautela con cui l’autore tratta la vicenda di Gertrude nell’edizione
definitiva del romanzo potrebbe essere stata provocata anche
dai risvolti di carattere autobiografico e biografico della famiglia
Manzoni cui ho fatto riferimento. Se il percorso giovanile della monaca
è stato in parte ispirato al romanziere dai metodi educativi – domestici
e in collegio – cui egli era stato soggetto, e per altro verso influenzato
da qualche aspetto del profilo della madre Giulia; se il comportamento
della marchesa / principessa nei confronti del marito e della
figlia ricalca per certi versi la condotta della stessa Giulia nei confronti
del marito e del figlio; se, infine, l’indole del marchese / principe ha
qualche corrispondenza con quella di don Pietro; ebbene, di fronte a
tutto questo non c’è da meravigliarsi che nell’edizione più matura,
direi ponderata, del romanzo gli aspetti più scellerati delle disavventure
della monaca siano stati eliminati. Nessuno dei personaggi ispiratori
dell’excursus – Alessandro, la madre, il padre – ne avrebbe tratto
motivo di vanto. Chissà con quanta amarezza lo scrittore descrisse
47 L. Sarchi, Alessandro Manzoni, cit.
[ 15 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 285
la formazione umana di un personaggio che evocava in lui reminiscenze
infantili e adolescenziali non certo gradevoli. Ma il suo senso
morale, il rispetto per se stesso e per le persone a lui vicine lo indussero
a ridimensionare il racconto, o almeno a tacere le parti meno
esaltanti delle conseguenze fatali del rapporto tra Gertrude e i suoi
parenti.
* * *
Non so se qualcuno, nella sterminata schiera degli studiosi che si
sono occupati dei Promessi sposi, abbia notato che i quattro religiosi
principali del romanzo (o almeno tre di essi) sono accomunati da una
peculiarità: nessuno di essi ha abbracciato la condizione ecclesiastica
in seguito a una vocazione “normale”. Seguiamo il loro ordine di apparizione
nel romanzo.
Nel caso di don Abbondio, il Manzoni afferma apertamente, nel
breve profilo biografico del personaggio (I, 23):
«Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero
prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai
nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere
con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate
due ragioni più che sufficienti per una tale scelta»48.
Almeno fino alla prima metà del Novecento, una parte, forse non
irrilevante, di chi abbracciava il sacerdozio vi era indotta da interessi
opportunistici e non da nobili ideali, il che peraltro non avrebbe dovuto
escludere la pratica dell’amore cristiano da parte di costoro, e segnatamente
di don Abbondio – «comunque fosse divenuto» prete, per
parafrasare il commento del Manzoni alla monacazione forzata di
Gertrude (cfr. supra, § 4 e n. 26) –, mentre l’assoluta assenza di esso
nell’animo del curato è non tanto una conseguenza, quanto piuttosto
un’aggravante della decisione iniziale. E il giudizio sulla scelta di don
Abbondio – seppure non espresso apertamente, ma solo in filigrana –
è severo e «non ammette nessuna giustificazione o remissione bonaria
48 Simili le motivazioni esposte nel F. e L., t. I, cap. I, § 49: «Aveva quindi secondata
assai lietamente la volontà dei suoi parenti che lo avevano avviato allo stato
ecclesiastico. A dir vero il suo fine principale non era stato quello di servire agli
altri col ministero. Egli aveva pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una
classe rispettata e forte, nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite degli
altri».
[ 16 ]
286 PIER ANGELO PEROTTI
delle colpe»49, e sarà ribadito, perlopiù implicitamente, nel corso di
tutto il romanzo.
Opposto è il percorso esistenziale e religioso di Lodovico / fra Cristoforo.
Fin da giovane egli «sentiva un orrore spontaneo e sincero per
l’angherie e per i soprusi», e dunque «prendeva volentieri le parti
d’un debole sopraffatto, […] tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi
come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti» (IV,
69): come si vede, si tratta di alcuni dei fondamenti dell’etica cristiana,
ma di un cristianesimo militante, basato su un aiuto concreto ai più
deboli, ai perseguitati. È naturale che, dopo l’uccisione del nobile prepotente,
questa sua inclinazione alla solidarietà umana si perfezioni
indirizzandosi specificamente all’ambito della religione, ossia alla carità
cristiana (74-5):
«Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio
quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente:
gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un
segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura;
e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò
il suo desiderio»50.
Comunque, anche la vocazione di fra Cristoforo è per così dire
anomala, perché non ha uno sviluppo lineare, ma si manifesta compiutamente
in conseguenza di un elemento catalizzatore, rappresentato
dall’uccisione dell’aristocratico (e del proprio servo Cristoforo),
che agisce su un sostrato etico preesistente.
Per Gertrude, argomento di questo studio, non si può affatto parlare
di vocazione, ma di imposizione, e dunque si tratta dell’anomalia
più grave ed evidente.
Il cardinal Federigo – il religioso più esemplare e carismatico dei
Promessi sposi – sembra distinguersi dagli altri ecclesiastici del romanzo
per il percorso che lo portò al sacerdozio. Scrive il Manzoni, la cui
sintetica biografia è piuttosto un’agiografia (XXII, 415):
«Nel 1580, manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico,
e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una
fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco
49 A. Marchese, comm. cit., p. 23, n. 64.
50 Più essenziale il passo nel F. e L. t. I, cap. IV, § 33: «Quindi pensando ai casi
suoi, il pensiero di farsi frate che tante volte come abbiamo detto gli era passato
per la mente, gli si presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione».
[ 17 ]
Note sulla Gertr ude manzoniana 287
dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome
del loro casato».
Ma dai dati biografici ufficiali51 emergono alcuni particolari che il
romanziere omette o ignora: l’educazione del fanciullo, rimasto orfano
del padre Giulio Cesare a otto anni (1572), fu affidata alla madre e
al già celebre cugino Carlo, della cui influenza risentì fortemente; a
poco più di 14 anni (1579) Federigo, per suggerimento del cugino cardinale,
venne inviato a Bologna per la prosecuzione degli studi; negli
ultimi mesi dell’anno successivo progettò di entrare nell’ordine dei
Gesuiti, ma ne fu dissuaso da Carlo, che lo richiamò a Milano, dove
ricevette l’abito talare da lui stesso, e poi mandato a continuare la formazione
nel collegio Borromeo di Pavia. A tutto ciò si aggiunga, anzi
si premetta, che Federigo (nato nel 1564) aveva un fratello maggiore,
Renato (nato nel 1555), e dunque era normale che egli, in quanto secondogenito,
fosse destinato all’ordine sacerdotale52, con la previsione
di una promettente carriera nella Chiesa, dato il prestigio e l’influenza
della famiglia di origine: oltre al cugino arcivescovo di Milano (il cui
zio materno, Giovan Angelo de’ Medici di Marignano, era stato eletto
papa col nome di Pio IV), e all’altro cugino cardinale Guido Luca Ferrero,
era imparentato con papa Sisto V Peretti e con i cardinali Alessandro
Farnese e Mark Sittich von Hohenems.
Non si può dunque escludere che anche la sua vocazione abbia,
per così dire, un che di sospetto o di ambiguo, ossia che la sua scelta
51 La sua più completa biografia antica è quella di F. Rivola, Vita di Federico
Borromeo, Milano 1656; ricordiamo poi le Memorie di G.B. Mongilardi, suo medico
personale, edite da C. Marcora, La biografia del card. Federico Borromeo scritta dal
suo medico personale Giovanni Battista Mongilardi, in Memorie storiche della diocesi di
Milano, XV, 1968, pp. 125-232 (contenente anche l’elenco di altre biografie del porporato);
anche P. Prodi, Federico Borromeo, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
XIII, Roma 1971, pp. 33-42; infine, la recentissima opera di P. Pagliughi, Il cardinal
Federico Borromeo, Genova-Milano, Marietti, 2010.
52 A sua volta il cugino Carlo (1538-1584) era figlio cadetto del conte Gilberto
Borromeo, e dunque, secondo l’usanza dell’epoca, fu tonsurato a dodici anni. Ma
nel 1562, quando era in procinto di essere ordinato sacerdote, all’improvviso morì
il fratello primogenito Federico: gli fu dunque suggerito di chiedere la riduzione
allo stato laicale e di prendere moglie da cui avere dei figli, per evitare l’estinzione
della casata (notiamo però che una simile opportunità non si presentò al cugino
Federigo, di cui si tratta). Ma Carlo rifiutò, sostenendo che, avendo pronunciato il
voto di castità di fronte a Dio, era per lui preferibile rispettare il voto che unirsi a
una donna; l’anno successivo fu ordinato sacerdote, e subito dopo consacrato vescovo,
a soli 25 anni.
[ 18 ]
288 PIER ANGELO PEROTTI
sia stata influenzata dalla famiglia – che, come altre casate aristocratiche,
usava destinare alla vita religiosa i figli cadetti –, e in particolare
dal cugino cardinale Carlo. Naturalmente questa scelta un po’ pilotata
non inficia né scalfisce minimamente le sue qualità pastorali e le sue
virtù relative non soltanto alla carità cristiana, ma pure al mecenatismo,
che lo indusse, tra l’altro, a fondare la benemerita Biblioteca Ambrosiana.
Ecco perché, comunque, anche il «buon Federigo» va annoverato
tra i religiosi più rilevanti del romanzo la cui adesione allo stato
ecclesiastico ha qualcosa di singolare.
Il fenomeno complessivo è indubbiamente curioso, quasi che le inclinazioni
non straordinarie, ma spontanee e tranquille, alla vita religiosa
fossero poco “romanzesche” o allettanti, e che dunque, per sollecitare
l’interesse del lettore, dovessero essere messi in scena personaggi
il cui percorso spirituale non fosse lineare, ma soggetto a tumulti
interiori (forse come per lo stesso Manzoni). Anche questa è una
delle tante peculiarità dei Promessi sposi.
Pier Angelo Perotti
[ 19 ]
ARMANDO BISANTI
Il capitano Guido Altieri, ovvero Emilio Salgari
e il fascino esotico della contemporaneità*
During his life Emilio Salgari (1862-1911) wrote about 150 tales of
adventures, often published with some pseudonyms (cap. Guido
Altieri, S. Romero, Enrico Bertolini and so on). These tales mirror
the variety and the vastitude of the subjects treated by Salgari in his
novels. The first part of this paper is dedicated to a bibliographical
review on salgarian tales. The second part analyzes three collections
of tales, precisely Le novelle marinaresche di Mastro Catrame (Torino,
Speirani, 1894), Nel paese dei ghiacci (Torino, Paravia, 1896) and Le
grandi pesche dei mari australi (Torino, Speirani, 1904), and the short
story I predoni del gran deserto (Napoli, Urania, 1911).
1. Il capitano Guido Altieri: Emilio Salgari fra editori, contratti, romanzi e
racconti
È certamente superfluo indugiare sulla “moda” ottocentesca degli
pseudonimi letterari. Come è noto, soprattutto dopo le indispensabili
indagini, in tal direzione, di Felice Pozzo, Emilio Salgari non si sottrasse
a questa “moda”, anzi, forse più di ogni altro scrittore della sua
epoca, seppe sfruttare con accortezza e ingegno l’espediente
degli
pseudonimi, aggirando, a fini di guadagno, le clausole e le pastoie contrattuali
per meglio rimpolpare le non certo cospicue entrate che i suoi
editori – Antonio Donath in primo luogo – gli elargivano e per assicurare
alla sempre più numerosa famiglia un tenore di vita più decoroso
e agiato1. Lo stesso Pozzo ha più volte prestato la propria attenzione
agli pseudonimi impiegati, durante la sua carriera di scrittore, da Emilio
Salgari: fra i più utilizzati, ricordiamo cap. Guido Altieri (di cui si
dirà meglio fra breve), Enrico Bertolini (pseudonimo col quale, oltre ad
* Dedico questo scritto a mio figlio Eugenio.
1 Cfr. F. Pozzo, Nella giungla degli pseudonimi salgariani, «Quaderni di Storia»,
45 (1997), pp. 155-167.
290 ARMANDO BISANTI
alcuni racconti, Salgari pubblicò i romanzi Avventure straordinarie d’un
marinaio in Africa, Le caverne dei diamanti e I naviganti della «Meloria»), S.
Romero (con cui, fra l’altro, firmò Gli scorridori del mare), Guido Landucci
(con il quale pubblicò Avventure fra le pelli-rosse, La giraffa bianca,
Sul mare delle perle e La Gemma del Fiume Rosso), ma anche cap. J. Wilson
(fantomatico
autore del racconto Mahur, l’incantatore di serpenti) e, come
sembra definitivamente accertato dopo le ricerche di Vittorio Sarti
e, ancora una volta, di Felice Pozzo, anche il tal A. Permini (con cui egli
firmò il romanzo Il figlio del cacciatore d’orsi, apparso per i tipi di Donath
nel 1899, che risulta, in realtà, una libera versione di Der Sohn des Bärejägers
di Karl May, il “Salgari tedesco”, redatta, però, utilizzando la
versione francese, a cura di Elisabeth Loisel, Le fils du chasseur d’ours,
pubblicata a Parigi da Delhome et Briguet nel 1892)2.
Restringendo il discorso al più celebre e al più utilizzato di tali
pseudonimi, cap. Guido Altieri, occorre dire che con esso lo scrittore
veronese pubblicò, per l’editore Salvatore Biondo di Palermo, i 67 racconti
della «Bibliotechina Aurea Illustrata»3, più altri quattro racconti
apparsi su «Psiche» e sull’«Almanacco Moderno Illustrato per le Famiglie
»4, i due romanzi Le stragi della China e La “montagna d’oro”, e,
per l’editore Speirani di Torino, il romanzo L’eroina di Port Arthur e
tredici racconti della collana «Piccole Avventure di Terra e di Mare»5.
2 Cfr. E. Salgari, Storie con la maschera, a cura di F. Pozzo, Atripalda (AV),
Mephite, 2003, pp. 5-28; Id., Un naufragio nella Florida, a cura di F. Pozzo, ivi, 2004,
pp. 5-34; F. Pozzo, L’officina segreta di Emilio Salgari, Vercelli, Edizioni Mercurio,
2006, pp. 64-79 e passim; A. Bisanti, Rassegna salgariana (2003-2005), «Critica Letteraria
», XXXVI (2008), n. 141, pp. 754-782.
3 E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata
» dell’editore Biondo di Palermo, a cura di M. Tropea, III voll., Torino, Viglongo,
1999-2002 (su cui mi sono ampiamente intrattenuto ne Il ritorno di Emilio Salgari,
«Critica Letteraria», XXXII (2004), n. 123, pp. 363-397, alle pp. 377-397).
4 Si tratta dei racconti Lo stagno dei caimani («Psiche» [1901], «irreperibile fino
ad oggi»: così V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, Torino, Pignatone, 19942, p.
134); La rupe maledetta («Almanacco Moderno Illustrato per le Famiglie» [1902],
recuperato da Giuseppe Turcato e pubblicato su «L’Arena» di Verona il 3 novembre
1993 a cura di Silvino Gonzato); La torre del silenzio («Almanacco Moderno Illustrato
per le Famiglie» [1903], ora pubblicato in E. Salgari, I misteri dell’India, a
cura di L. Belli, presentazione di C. D’Angelo, prefazione di F. Pozzo, Macerata,
Simple, 2008, pp. 113-134); Il mio terribile segreto («Psiche» [1904], qui con lo pseudonimo
di E. Bertolini); e Il Mocassino Sanguinoso (in quattro puntate, «Psiche»
[1905], racconto recuperato da Emilio Firpo e pubblicato in «Nuovi Argomenti» 4
[1983], a cura di F. Pozzo, e, di lì, in E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo.
Racconti ritrovati, a cura di F. Pozzo, Milano, Mondadori, 1995, pp. 265-277).
5 Si tratta dei racconti Il tamburino giapponese, Un terribile naufragio, Le tigri del
[ 2 ]
Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 291
Quello di cap. Guido Altieri fu, quindi, «uno pseudonimo poco occasionale
e quello che venne utilizzato più di tutti. Evidentemente, lo
scrittore gli aveva attribuito un valore particolare, forse convinto che
avrebbe conquistato l’attenzione dei lettori autonomamente, in concorrenza
con lo stesso Emilio Salgari […]. Si trattava, a tutti gli effetti,
di un vero e proprio alter ego dello scrittore, capace di imporsi autonomamente
per la qualità dei testi senza impegnare la fama e l’autorevolezza
a lui riconosciuta. I tre romanzi e gli oltre settanta racconti di
Altieri sono, infatti, quasi sempre prove notevoli, frutto della buona
vena dello scrittore, e non testi, come si verificò per gli altri pseudonimi,
redatti in gran fretta e, in taluni casi, agili esempi di traduzione da
autori stranieri»6. Felice Pozzo e Claudio Gallo hanno inoltre pubblicato
una nutrita serie di documenti recentemente ritrovati nella Biblioteca
Civica di Verona e nell’archivio storico del gruppo editoriale
Giunti (filiazione della ormai inesistente
Bemporad, la casa editrice
fiorentina cui Salgari fu legato negli ultimi anni della sua vita), dai
quali emerge in maniera incontrovertibile
(se ve ne fosse ancora bisogno)
che Emilio Salgari e il cap. Guido Altieri erano la medesima persona7.
Ciò che, a questo punto, occorre mettere in evidenza è la capacità,
da parte dello scrittore veronese, di fare quasi da “cassa di risonanza”
all’attualità più immediata: basti pensare al romanzo La “Stella Polare”
ed il suo viaggio avventuroso (noto anche con lo scorretto titolo Verso
mare, Il tesoro delle caverne d’Ellora (noto anche con l’apocrifo titolo La statua di Visnù),
Il cacciatore di caimani, Il naufragio dell’Alabama, Fra gli indiani del Far-West, Un
dramma sull’Atlantico, Gli antropofagi del deserto di pietre, Una terribile avventura sul
Congo, Yanko il torpediniere, La mano rossa, Il rajah di Bitor. I racconti Il tamburino
giapponese e Yanko il torpediniere sono stati di recente riediti in appendice a E. Salgari,
L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi e altri racconti (Il tamburino
giapponese, Janko il torpediniere, I banditi della Manciuria, I lottatori giapponesi, Le geishe
giapponesi), a cura di F. Pozzo e G. Viglongo, Torino, Viglongo, 1990; i racconti
Le tigri del mare, Una terribile avventura sul Congo e Il rajah di Bitor sono apparsi, fra
l’altro, in E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo, cit., pp. 278-285, 286-293
e 294-301; ancora Il rajah di Bitor e Il tesoro delle caverne d’Ellora, in E. Salgari, I misteri
dell’India, cit., pp. 141-148 e 149-156. Sulla situazione dei racconti salgariani ho
cercato di fare il punto ne Il ritorno di Emilio Salgari, cit., pp. 377-381; e, più recentemente,
in Navigando nell’oceano dei racconti salgariani, «Critica Letteraria», XXXVII
(2009), n. 145, pp. 641-669 (alle pp. 641-657).
6 C. Gallo – F. Pozzo, La breve parabola letteraria del capitano Guido Altieri, in E.
Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», vol. I,
cit., pp. XLIX-LVI (a p. LI).
7 Ivi, pp. LII-LVI.
[ 3 ]
292 ARMANDO BISANTI
l’Artide con la «Stella Polare»)8, pubblicato nel 1901 dall’editore Donath
di Genova, libro che costituisce la cronaca romanzata
della celebre
spedizione italo-norvegese al Polo Nord del 1899-1900 guidata da Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi (e sono ben note le polemiche che la
tempestiva pubblicazione del libro salgariano innescò nei confronti
dell’analogo volume del cronista “ufficiale” dell’impresa, l’ammiraglio
Umberto Cagni, La «Stella Polare» nel mare Artico, che apparve dopo
quello sfornato “a tamburo battente” dall’infaticabile e inesausto
scrittore veronese). Una capacità, questa, che lo può fare considerare
come una sorta di «precursore degli “instant book”, dei libri scritti sul
tamburo mentre ancora l’evento cui si riferiscono è in corso o si è appena
concluso»9.
È questa una caratteristica distintiva di gran parte della narrativa
salgariana. Lo scrittore, infatti, lavorava assai spesso su avvenimenti
recenti (talvolta anteriori soltanto di uno o due anni rispetto alla stesura
dei relativi romanzi) o addirittura contemporanei (è il caso, appunto
de La “Stella Polare” ed il suo viaggio avventuroso). Gli esempi che
possono essere addotti per corroborare tale affermazione sono assai
numerosi. Si pensi a romanzi quali La favorita del Mahdi (Milano, Guigoni,
1887) e Le stragi delle Filippine (Genova, Donath, 1897, e alla sua
“continuazione”, Il Fiore delle Perle, ivi, 1901), basati sui fatti di guerra
e di guerriglia che, pochi anni prima, avevano tragicamente scosso il
Nord Africa musulmano (la rivolta mahdista del Sudan contro le truppe
anglo-egiziane) e l’arcipelago asiatico (la ribellione delle Filippine
contro il governo spagnolo); alla guerra ispano-americana che fa da
sfondo a La capitana dell’“Yucatan” (Genova, Donath, 1899)10; alla som-
8 E. Salgari, La «Stella Polare» ed il suo viaggio avventuroso (rist. anast. della
prima ediz. Donath del 1901), a cura di F. Pozzo, F. Giardini e G. Viglongo, Torino,
Viglongo, 2001.
9 S. Gonzato, Introduzione a E. Salgari, Avventure al Polo. I. Al Polo Australe in
velocipede, Milano, Mondadori, 2002, p. VIII.
10 Insieme a Le stragi delle Filippine e Il Fiore delle Perle, il romanzo fu pubblicato
da uno dei precursori della filologia salgariana in Italia, Mario Spagnol, in una
splendida edizione commentata, ormai introvabile: E. Salgari, I romanzi di guerriglia.
Le stragi delle Filippine; Il Fiore delle Perle; La capitana dell’«Yucatan», a cura di M.
Spagnol, con la collaborazione di G. Turcato, 3 voll., Milano, Mondadori,
1974; cfr.
lo studio di M. Tropea, L’esotismo coloniale nel mondo di Emilio Salgari: i “romanzi di
guerriglia”, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari. Atti del Convegno
Nazionale (Torino,
marzo 1980), a cura di A. Jacomuzzi e Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, Quaderni
dell’Assessorato
per la Cultura, 1980, pp. 356-375 (poi in Id., Capitoli di Sicilia
e dell’esotico. Studi su Domenico Tempio, Pirandello, Gozzano, Salgari, Bonaviri,
Santo
Calì, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992, pp. 93-112).
[ 4 ]
Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 293
mossa di Dehli del 1857 (ma stavolta la distanza cronologica è di quasi
mezzo secolo) rievocata nelle pagine finali de Le due tigri (Genova,
Donath, 1904); al massacro di inermi pellerossa perpetrato dal colonnello
Chivington presso il fiume Sand-Creek e alla battaglia di Little
Big Horn (quella in cui perse la vita il generale Custer) rievocati, rispettivamente,
nei finali di Sulle frontiere del Far-West (Firenze, Bemporad,
1908) e de La scotennatrice (ivi, 1909). E l’elenco potrebbe ancora
continuare a lungo. Ma gli esempi più eclatanti, in tal direzione, sono
rappresentati, assai probabilmente, da due romanzi di ambientazione
orientale (anzi, dell’Estremo Oriente, la Cina e il Giappone), pubblicati
dal nostro Emilio proprio con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri,
e cioè Le stragi della China (Palermo, Biondo, 1901) e L’eroina di Port
Arthur (Torino, Speirani, 1904) nei quali, con una tempestività che si
potrebbe definire “giornalistica”, lo scrittore veronese prende spunto,
rispettivamente, da due vicende tragiche di guerra e di guerriglia che
insanguinarono, più o meno negli stessi anni in cui i romanzi
vennero
scritti, la Cina e il Giappone, cioè la rivolta dei “boxers” e la guerra
russo-giapponese.
Si può dire che Emilio Salgari, o meglio il suo alter ego cap. Guido
Altieri, sentisse il fascino della contemporaneità, non disgiunto, però,
da quella suggestione per l’esotismo che caratterizza la più gran parte
della sua prodigiosa produzione narrativa. Nelle pagine che seguono
tenterò una breve presentazione dei tre romanzi pubblicati da Salgari
con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri, cioè, come si è detto,
Le stragi
della China, La “Montagna d’oro” (di cui mi sono già precedentemente
occupato in un intervento sui “romanzi d’Africa” apparso sul sito
ufficiale di Emilio Salgari)11 e L’eroina di Port Arthur, anche alla luce di
alcuni giudizi critici recentemente formulati su di essi.
2. Le stragi della China. Avventure nell’Estremo Oriente [Il sotterraneo della
morte]
Le stragi della China. Avventure nell’Estremo Oriente fu pubblicato in
prima edizione a Palermo, dalla casa editrice Salvatore Biondo, nel
1901, con illustrazioni di Corrado Sarri. Il primo capitolo del romanzo
(Le rovine di Khang-Li) era già apparso il 23 maggio 1901 sul n. 21 del
11 A. Bisanti, Su alcuni “romanzi d’Africa” di Emilio Salgari (2008), on-line sul
sito www.emiliosalgari.it. Da questo intervento, in buona sostanza, è ripreso il § 3
di questo scritto.
[ 5 ]
294 ARMANDO BISANTI
periodico per fanciulli «Il Giovedì», edito dagli Speirani di Torino12.
Nel 1902 la casa editrice Biondo ripubblicò il romanzo a dispense,
sempre a firma di Guido Altieri, con 43 illustrazioni di Corrado Sarri
e con l’apocrifo titolo Il sotterraneo della morte (rimasto in molte ristampe
fin quasi ai nostri giorni, anche nella collana «I capolavori di Emilio
Salgari» pubblicata dalla casa editrice Viglongo di Torino fra il 1945 e
il 1967 e nel più recente reprint del 1995 della casa editrice Newton &
Compton di Roma, curato da Bruno Traversetti)
13. Il nome di Emilio
Salgari comparve successivamente, a partire da una non datata edizione
della I.R.E.S. di Palermo (in cui era confluita l’ormai soppressa
casa editrice Biondo), e quindi, a far data dal 1926, nelle edizioni salgariane
della casa editrice Sonzogno di Milano14.
Siamo nel 1900, in Cina. Da poco è scoppiata la rivolta dei boxers, il
cui fine è quello di liberare il paese dagli odiati europei. Una “liberazione”
cruenta e spietata, che prevede vere e proprie stragi compiute
in nome della patria. Gli europei sono ferocemente braccati e cadono
colpiti a morte in ogni parte del paese, specialmente nella capitale Pechino15.
L’odio nei confronti degli europei è violento e inestinguibile,
sia per gli interessi commerciali che essi rappresentano e che compromettono
i contrapposti interessi degli orientali, sia soprattutto per la
religione cristiana che essi (e soprattutto i sacerdoti e i missionari) cercano
di proporre alla popolazione del Celeste Impero in maniera sempre
più invasiva e convincente, rischiando di alterare le tradizioni avite
e di sostituire gradatamente con l’unico vero Dio dei cristiani le
venerate divinità degli antenati.
In questo quadro di stragi, di odio e di morte si colloca la trama
della narrazione, che prende avvio la sera del 14 giugno 1900. Nella
missione cristiana situata all’estrema periferia della regione di Pechino,
in una Cina ormai in preda alle scorribande feroci dei boxers assetati
di sangue europeo, vive un missionario siciliano appartenente
all’ordine dei Camilliani, padre Giorgio Muscardo, insieme al fratello
12 È forse superfluo rammentare che il periodico usciva, appunto, ogni giovedì,
giorno che, a quel tempo (e prima del famigerato “sabato fascista”), era giorno
di vacanza infrasettimanale per gli allievi delle scuole italiane.
13 E. Salgari, Il sotterraneo della morte, a cura di B. Traversetti, Roma, Newton
& Compton, 1995.
14 Per queste notizie bibliografiche, come per quelle che seguiranno riguardo
agli altri due romanzi, ho attinto largamente a V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana,
cit.
15 Si pensi al film 55 days at Peking (55 giorni a Pechino), di Nicholas Ray (USA
1962), con Charlton Heston, Ava Gardner e David Niven.
[ 6 ]
Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 295
Roberto, un ex-bersagliere intrepido e coraggioso, e al di lui figlio Enrico,
ragazzo di appena diciassette anni ma già audace e valoroso come
il padre. Il potente mandarino Ping-Ciao, uomo ricchissimo e vendicativo,
nutre un profondo e inveterato odio nei confronti di padre
Giorgio, poiché, a suo modo di vedere, questi è stato la causa principale
della conversione al Cristianesimo del proprio diletto figlio Wang.
Per poter catturare il missionario italiano e così vendicarsi del torto
subìto (o almeno di quello che egli ritiene sia stato un torto), Ping-Ciao
non esita a prestare ascolto ai consigli di Sum, il bieco ufficiale della
guardia che nutre anch’egli un odio profondo nei confronti degli europei
(perché uno di essi gli ha ucciso il fratello) e ad allearsi con le
bande dei “boxers”, stipulando un patto scellerato col capo del “Giglio
Azzurro”, una società segreta anti-europea e anti-cristiana che
annovera un’impressionante quantità di affiliati ferocissimi e pronti a
qualsiasi misfatto. A nulla vale il coraggio di Roberto Muscardo che,
da parte sua, ha organizzato un piccolo drappello di volontari per
combattere sino allo stremo ed evitare che il fratello Giorgio venga
catturato e ucciso. Padre Giorgio, infatti, muore in nome della propria
fede, chiedendo cristianamente perdono per i propri carnefici. Ma anche
Ping-Ciao sconta le proprie colpe, venendo ucciso a sua volta. Il
giovane e leale Wang, che ha raccolto le ultime volontà del padre morente,
salva alla fine Roberto ed Enrico affidandoli a mani amiche e
promettendo che impegnerà tutto il resto della sua vita nella strenua
difesa del Cristianesimo in Cina.
A torto considerato un romanzo minore (soprattutto alla luce del
fatto che esso fu pubblicato sotto pseudonimo), Le stragi della China è
invece «un buon testo che, in certa misura, segna un ritorno alle origini,
perché si lega, come i primi romanzi di appendice scritti da Salgari,
a vicende storiche a lui contemporanee su cui s’appuntavano l’attenzione
dei governi europei e l’interesse della stampa americana ed europea,
compresa quella italiana»16. Si tratta anzi forse del caso più
eclatante in tal direzione: Bruno Traversetti ha infatti scritto che, «come
pochi anni dopo, durante la guerra russo-giapponese, avverrà per
L’eroina di Port Arthur, il romanzo chiama in causa, con tempestività
più giornalistica che romanzesca, non semplicemente fatti o personaggi
della storia vicina, bensì una “tranche” viva e dolente della stessa
cronaca contemporanea: un quadro di eventi che, mentre Salgari scri-
16 C. Gallo, Un eroe missionario durante la rivolta dei «boxers», in E. Salgari, Le
stragi della China, Milano, Fabbri, 2003, p. 5.
[ 7 ]
296 ARMANDO BISANTI
ve, e poi quando il romanzo esce, sono ancora in corso. L’azione si
svolge, infatti, nell’estate del 1900, nel momento in cui in Cina giungeva
alla massima virulenza la rivolta dei boxers, la cui conclusione militare
e politica si ebbe soltanto nel 1901: l’anno stesso, appunto, in cui
Il sotterraneo della morte fu pubblicato»17. Lo stesso Traversetti, autorevole
studioso salgariano, ha affermato inoltre che Le stragi della China
è un felice romanzo d’azione, dominato dal gusto primario dell’avventura,
dall’esaltazione del rischio e del coraggio, «ma obbedisce anche
all’esigenza di una minuziosa ridescrizione del mondo derivante
dalla massima espansione delle conquiste coloniali, dai rapidi progressi
della scienza nell’Europa del positivismo e dell’industria, e dalla
crescente alfabetizzazione
popolare che comportava già, nel nuovo
stato unitario, l’aumento considerevole della lettura e della domanda
di conoscenza». Esso offre, dunque, due possibili piani di lettura: «Lo
slancio nel territorio dell’eroico, dell’eccessivo, del mitografico, e l’assunzione
della realtà storica a fondamento della trama narrativa»18.
3. La “Montagna d’oro”. Avventure nell’Africa centrale [Il treno volante]
Il romanzo fu pubblicato in prima edizione a Palermo, dall’editore
Salvatore Biondo, nel 1901, con illustrazioni di Corrado Sarri. Un capitolo
(IX: L’assalto degli scimpanzé) era già stato pubblicato il 30 maggio
1901 sul n. 22 de «Il Giovedì», edito da Speirani di Torino. Nello stesso
anno, la casa editrice Biondo ripubblicò il romanzo in 34 dispense, con
33 illustrazioni di Corrado Sarri. Successivamente, la I.R.E.S. di Palermo
ha edito il romanzo sotto il nome di Emilio Salgari. A partire dalla
ristampa pubblicata dalla Sonzogno di Milano nel 1926, il romanzo è
stato quindi correttamente presentato sotto il nome di Emilio Salgari,
ma con l’apocrifo titolo de Il treno volante (più volte riproposto fin quasi
ai nostri giorni, anche nella serie «I capolavori di Emilio Salgari»
pubblicata dalla casa editrice Viglongo di Torino fra il 1945 ed il
1967).
L’azione prende avvio la mattina del 15 agosto 1900, nell’isola di
Zanzibar. L’aeronauta tedesco Ottone Steker e il greco Matteo Kopeki,
grazie all’apporto del «Germania», favoloso dirigibile volante (appunto
il “treno volante” del titolo con cui il romanzo è stato più volte
17 B. Traversetti, Introduzione a E. Salgari, Il sotterraneo della morte, cit., p. 9.
18 Ivi, pp. 8-9.
[ 8 ]
Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 297
edito), prototipo dei più famosi Zeppelin, creato e perfezionato dallo
stesso Ottone, si avventurano nel cuore dell’Africa Nera alla ricerca
della leggendaria “Montagna d’oro”. Il loro amico arabo El-Kabir, infatti,
ha tempo prima casualmente recuperato un documento, nel quale
il viaggiatore inglese John Kambert, scomparso due anni prima,
dichiara di essere stato preso prigioniero da una ferocissima tribù africana
mentre si recava a esplorare il lago Tanganika.
Nel documento in
questione lo stesso John Kambert dichiara che, a chi riuscisse a liberarlo,
indicherà l’esatta ubicazione della “Montagna d’oro”, nei cui misteriosi
anfratti si celano favolosi tesori accumulati da tempo immemorabile.
Ma anche il crudele e spietato mercante Altarik è al corrente
del segreto e, all’uopo, ha allestito una carovana per impadronirsi
dell’ingente tesoro. Risulta quindi indispensabile impiegare il dirigibile
(che può essere smontato e rimontato a piacimento e presenta
molteplici e inaspettate risorse di utilizzo) per battere sul tempo Altarik
e raggiungere per primi John Kambert. Come sempre in questo
genere di romanzi salgariani, imprevisti, agguati, scontri con bestie
feroci e con tribù indigene ostili segneranno il lungo e difficile percorso
di Ottone e Matteo (cui si è unito l’amico El-Kabir), i quali, comunque,
alla fine, riusciranno a ritrovare John Kambert (ridotto ormai
l’ombra di se stesso), a eliminare il perfido Altarik e a impossessarsi
del tesoro della “Montagna d’oro”. I tre amici, quindi, faranno ritorno
in patria, ove potranno godersi l’ingente fortuna accumulata e, grazie
alla nuova amicizia con Kambert, saranno in grado di progettare nuove
e stimolanti avventure.
Secondo romanzo pubblicato da Emilio Salgari per l’editore palermitano
Salvatore Biondo con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri, La
“Montagna d’oro” è un tipico “romanzo d’Africa”, caratterizzato dal
ben noto tema del viaggio in terre remote, sconosciute ed inospitali
alla ricerca affannosa ma entusiasmante di qualcuno o di qualcosa (in
questo caso, sia l’inglese John Kambert sia il tesoro della “Montagna
d’oro”), circostanza, questa, che fornisce allo scrittore il destro sia per
presentarci le consuete situazioni di pericolo, con scene di caccia, inseguimenti,
agguati di selvaggi o di belve feroci, sia per mettere in bella
mostra la propria abituale preparazione scientifica, botanica e zoologica.
Quantunque il viaggio si svolga,
prevalentemente, in aria a bordo
del fantastico dirigibile “Germania” progettato dal geniale Ottone
Steker, «le numerose soste sulla terraferma permettono allo scrittore
di sfoggiare un fornito bestiario africano dove non mancano gazzelle,
antilopi, leoni, elefanti, coccodrilli, sciacalli, zebre, rinoceronti, ippopotami
e scimpanzé, di volta in volta prede o cacciatori, sullo sfondo
[ 9 ]
298 ARMANDO BISANTI
di lussureggianti foreste equatoriali o di vaste praterie interrotte solo
da pochi gruppi di banani e di sicomori»19. Fra i personaggi del romanzo,
oltre ai protagonisti, spicca il Sultano di Mhonda, re e tirannello
di un minuscolo staterello centro-africano, la cui descrizione risulta
largamente
sovrapponibile a quella di analoghi personaggi salgariani
di sovrani africani grotteschi e ridicoli, ubriaconi ed infidi, quali il re
Bango de I drammi della schiavitù (Roma, Voghera, 1896) e il capo dei
Griqui de La giraffa bianca (Livorno, Belforte, 1902).
Un altro elemento che, ne La “Montagna d’oro”, merita di esser messo
brevemente in rilievo, è la presenza di un’immaginaria macchina
volante, il dirigibile “Germania” di Steker attorno al quale ruota gran
parte della trama. Salgari subì sempre, come è noto, il fascino del volo,
dai palloni aerostatici che si incontrano ne Il tesoro del presidente del
Paraguay (Torino, Speirani, 1894) e, soprattutto, in Attraverso l’Atlantico
in pallone (ivi, 1895), fino al più preclaro esempio di macchina fantascientifica,
ossia lo «Sparviero», il mirabile aerostato alimentato a gas
liquido che rappresenta il vero e proprio protagonista dei due romanzi
costituenti il cosiddetto “ciclo dell’aria” o “degli esploratori dell’infinito”,
e cioè I figli dell’aria (Genova, Donath, 1904) e la sua continuazione
Il “Re dell’aria” (Firenze, Bemporad,
1907).
Per quanto attiene alle fonti del romanzo, oltre al consueto «Giornale
illustrato dei Viaggi e delle Scoperte» e agli altrettanto abituali Il
costume antico e moderno di Giulio Ferrario e i repertori zoo-antropologici
di Louis Figuier, si possono annoverare «i resoconti di viaggio di
David Livingstone e di Henry Stanley, prontamente diffusi in Italia
dall’editore Treves, che si erano spinti nel cuore del Continente Nero
sino alle rive del Tanganika. Utili riferimenti [Salgari] li ricava anche
dalle imprese di John Speke, Richard Burton, James Grant, Samuel e
Florence Baker in viaggio nella tenebrosa Africa alla ricerca dei “Monti
della luna” e delle sorgenti del Nilo»20.
Un’ultima osservazione riguarda il fatto che, alla fine del romanzo,
l’autore ci informa che Ottone Steker, «il felice inventore di quel meraviglioso
treno aereo, sta studiando, insieme a Matteo ed all’inglese, la
traversata dell’Africa colla sua “Germania”». Una frase, questa, che ci
fa comprendere come assai probabilmente Salgari avesse intenzione
di scrivere una continuazione del romanzo, forse addirittura
di intraprendere
un mini-ciclo fondato sulle avventure di Ottone e di Matteo
19 C. Lombardo, in E. Salgari, La “Montagna d’oro”, Milano, Fabbri, 2002, p. 6.
20 Ivi, p. 6.
[ 10 ]
Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 299
(come aveva fatto, anni prima, con i personaggi di Diego e Cardozo
nel cosiddetto ciclo “dei due marinai”, comprendente il già ricordato
Il tesoro del presidente del Paraguay e Il continente misterioso, Torino, Paravia,
1894). In ogni modo, la continuazione
de La “Montagna d’oro”
non venne mai scritta e il romanzo rimase così isolato, come uno dei
quasi sessanta “singoli” di Emilio Salgari.
4. L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi [La naufragatrice]
L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi fu pubblicato in
prima edizione a Torino, dall’editore Speirani, nel 1904, con illustrazioni
di Enrico Canova. Un capitolo del romanzo (XIV: La fuga di Shima)
era già stato pubblicato il 23 giugno 1904 sul n. 25 de «Il Giovedì».
Il nome di Emilio Salgari comparve solo a partire dalla ristampa della
Casa Editrice Italiana Quattrini di Firenze nel 1911, come n. 20 dell’edizione
formato album del «Romanzo d’avventure», pubblicata a beneficio
degli orfani di Salgari. Nella ristampa della casa editrice Sonzogno
(Milano, 1924) e quindi varie altre volte, il romanzo è stato presentato
con il titolo apocrifo La naufragatrice (anche nella «Collana
popolare Salgari» presentata dalla casa editrice Carroccio di Milano
fra il 1947 e il 1949) e sottoposto a vari tagli e ad arbitrari mutamenti
(opera del più giovane dei quattro figli dello scrittore, Omar Salgari),
fino al 1990, anno in cui comparve l’edizione completa, fedelmente
restaurata, corretta (e finalmente riappropriatasi del giusto titolo) de
L’eroina di Port Arthur, a cura di Felice Pozzo e Giovanna Viglongo
(Torino, Viglongo, 1990, n. 1 della collana «Salgari & Co.»)21.
Questa la trama del romanzo. La guerra tra la Russia e il Giappone
sta per scoppiare. Alla vigilia di questo scontro, Boris Siloff, un giovane
ufficiale della marina imperiale russa, sta per sposare la bellissima
giapponese Shima, figlia del potente “daimio” Foyama, contro il parere
dello stesso, che nutre serie perplessità sulle intenzioni di Boris, che
ormai, ai suoi occhi, si configura come un rappresentante del detestato
nemico. Anche il fratello di Shima, Sakia, ufficiale della marina nipponica,
mostra la propria ostilità nei confronti delle nozze della sorella.
Shima, che trova inspiegabile questo atteggiamento da parte della
21 Per maggiori notizie sul romanzo e sulle sue varie edizioni, si rinvia all’introduzione
di F. Pozzo (L’«Eroina di Port Arthur» ovvero «La naufragatrice») a E.
Salgari, L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi e altri racconti, cit., pp.
XIII-XXIV.
[ 11 ]
300 ARMANDO BISANTI
propria famiglia, difende con fervore i propri sentimenti, pur temendo
qualcosa nel suo animo. L’arrivo del tradizionale regalo di nozze
da parte dello sposo sembrerebbe avvalorare le convinzioni della fanciulla,
ma il dono in questione, un prezioso braccialetto, è accompagnato
da un messaggio d’addio da parte di Boris, nel quale l’ufficiale
russo spiega alla sua promessa sposa (o meglio, ex-promessa sposa)
come l’evolversi degli eventi politici e diplomatici fra la Russia e il
Giappone lo costringa a una dolorosa rinuncia. La realtà dei fatti, però,
è ben diversa. Boris, infatti, si è innamorato di un’altra donna, Naga,
una gheisha (Salgari scrive erroneamente ghesha) anch’essa bellissima
e fiera come Shima. Sakia, venuto a conoscenza della cosa, cerca di
convincere l’incredula sorella a verificare la realtà dei fatti. Intanto Foyama,
ligio ai principi e ai rituali d’onore giapponesi, si uccide, facendo
hara-kiri, per far ricadere la vergogna e il disprezzo sull’odiato Boris.
Fra l’altro, prima di uccidersi, Foyama raccomanda ai propri figli
di avvisare Boris di ciò che è accaduto, in modo che, per lavare l’onta
cadutagli addosso, egli accetti la sfida a duello che Sakia gli lancerà.
Ma l’ufficiale russo, che ormai non è più in grado di nascondere e di
controllare i propri sentimenti, rifiuta vilmente la sfida, prende tempo
e fugge a Yokoama con l’amata Naga. Sulla salma del padre Shima e
Sakia giurano vendetta e si imbarcano sulla Morioka, una torpediniera
della flotta imperiale giapponese comandata dallo stesso Sakia e lanciata
all’attacco della base russa di Port Arthur. Shima, sbarcata in segreto
a Yokoama col compito di scoprire la dislocazione delle mine
disseminate dai russi, ha un colloquio chiarificatore con Naga, che si
convince dell’ipocrisia e della bassezza di Boris, visto ormai da tutti
come “il nemico”. Nella battaglia navale di Port Arthur,
Sakia e Boris
perdono la vita. Caduti tutti i presupposti della vendetta con la morte
dell’odiato Boris, Shima e Naga si alleano in un patto di morte. Esse,
infatti, penetrate clandestinamente nella potente corazzata russa Petropawlowsk,
riescono a dare fuoco alle polveri,
facendo saltare in aria
la nave con tutto il suo equipaggio e sublimano così la propria esistenza
immolandosi in nome della patria.
Nel romanzo, fra l’altro, possono essere individuate due fra le più
diffuse e significative costanti tematiche della narrativa salgariana.
La
prima di esse è rappresentata dal motivo dell’amore fra un uomo e
una donna appartenenti a differenti continenti, linguaggi, paesi, razze
e tradizioni (amore, questo, spesso contrastato dalle rispettive famiglie),
qui costituito dall’amore (che però ben presto svanirà, per lasciar
posto al forse più nobile amor di patria) fra la giapponese Shima e il
russo Boris. Solo per limitarmi ad alcuni esempi fra i più noti e signi-
[ 12 ]
Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 301
ficativi, si pensi innanzitutto alle più o meno felici e durature unioni
fra Sandokan e Marianna Guillonk, fra Tremal-Naik e Ada Corishant,
fra Yanez e Surama, e così via, nel “Ciclo dei pirati della Malesia” (da
Le tigri di Mompracem a I misteri
della Jungla nera, da Il «Re del mare» al
tardo – e in parte apocrifo – La rivincita di Yanez); a Tay-See e José Blancos
ne La Rosa del Dong-Giang (Livorno, Belforte, 1897, già apparso, col
titolo Tay-See e con un diverso finale, in 28 puntate sul quotidiano «La
Nuova Arena» di Verona, 15 settembre – 12 ottobre 1883); ad Antao
Carvalho e Urada ne La Costa d’Avorio (Genova, Donath, 1898); al medico
padovano Roberto Galeno e la tenera siamese Len-Pra ne La città
del Re Lebbroso (Genova, Donath, 1904); a Michele Cernazé e Afza in
Sull’Atlante (Firenze, Bemporad, 1907); e, soprattutto, all’italiana Eleonora
d’Eboli (il Capitan Tempesta) e al turco Muley-El-Kadel (il Leone
di Damasco) nei due romanzi del breve “Ciclo del Leone di Damasco”,
appunto Il Capitan Tempesta (Genova, Donath, 1905) e Il Leone di
Damasco (Firenze, Bemporad, 1910)22.
Sufficientemente attestata è altresì la seconda di tali tematiche,
quella, cioè, riguardante la rivalità in amore di due donne per lo stesso
uomo (rivalità che comunque, nel caso de L’eroina di Port Arthur si
tramuterà ben presto – come si è visto – in complicità e alleanza, nel
comune sacrificio per la patria). È, questo riguardante l’antagonismo
fra due donne per uno stesso uomo, un motivo che assume varie sfumature
e diverse gradazioni, dal nostalgico e nobile rimpianto di Amina,
principessa algerina che sacrifica il proprio amore per il siciliano
barone Carlo di Sant’Elmo, cavaliere di Malta, aiutandolo a liberare la
propria fidanzata Ida di Santafiora prigioniera nell’harem di Algeri, ne
Le pantere d’Algeri (Genova, Donath, 1903), all’abnegazione di Nefer
per Mirinri e Nitokri ne Le figlie dei Faraoni (Genova, Donath, 1905),
fino alla sete di vendetta e all’odio (che non si fermerebbero neanche
di fronte all’infanticidio) dimostrati dalla perfida Haradja per Muley-
El-Kadel e la sua innamorata (e poi sua sposa) Eleonora d’Eboli, nei
due già ricordati romanzi del “Ciclo del Leone di Damasco”. E non si
dimentichi poi Romero Ruiz, giovane piantatore meticcio affiliato agli
insorti di Manila contro la potenza ispanica, che ama, riamato, la bella
22 Di questo tòpos si impadroniranno anche gli epigoni di Salgari. Per fare un
solo esempio, ne Gli abbandonati del «Galveston» di Luigi Motta (pubblicato a Milano,
dall’editore Celli, nel 1903) nasce un tenero, puro ed impossibile amore tra
Netulla, la figlia del protagonista conte De Aquili, e il suo salvatore, il ribelle del
Kandy Sun-Ta-Pao, che morirà da eroe alla fine del romanzo (cfr. L. Motta, Gli
abbandonati del «Galveston», rist. anast., Cavallermaggiore, Gribaudo, 1994).
[ 13 ]
302 ARMANDO BISANTI
spagnola Teresita,
soprannominata la “Perla di Manilla” (secondo la
caratteristica ma erronea grafia salgariana), figlia del maggiore d’Alcazar,
capo delle truppe di stanza nella capitale e spietato repressore
dei ribelli, ma che è vanamente amato, altresì, dalla dolce Than-Kiù
(detta il “Fiore delle perle”), sorella del prode Hang-Tu, capo dei ribelli
e delle associazioni segrete del “Lotus Bianco”, del “Giglio d’Acqua”
e del “Tien-Tai”, nonché grande amico dello stesso Romero, nei
due romanzi “di guerriglia” costituenti il breve “Ciclo delle Filippine”,
cioè i già menzionati Le stragi delle Filippine (Genova, Donath,
1897) e Il Fiore delle perle (ivi, 1901).
Per tornare a L’eroina di Port Arthur, in occasione della recente ristampa
del romanzo pubblicata dalla Fabbri nel 2003, Cristina Cristante
ha innanzitutto messo in rilievo la varietà e la profondità delle conoscenze
geografiche, storiche e culturali dimostrate da Salgari in questo
suo unico romanzo giapponese, attraverso «un’immersione nei costumi
e nello stile di vita giapponesi (vestiti di seta, porcellane, rituali
misteriosi)» e «un ulteriore tentativo di impadronirsi rapidamente di
una lingua i cui suoni esotici rendono più meraviglioso e più credibile
lo scenario in cui l’autore ambienta il romanzo»23; e ha quindi notato
che «avvincenti, e fondati su attendibili cronache, sono i capitoli finali
in cui, con una non comune bravura, Emilio Salgari descrive i preparativi
allo scontro tra le flotte nemiche e la successiva battaglia dove,
rispetto ad altri romanzi, la fanno da padrone le nuove meravigliose
conquiste della tecnica nel campo degli armamenti: i motori delle navi,
la precisione del tiro degli obici e le meraviglie compiute dai siluri che
silenziosamente colpiscono e affondano le navi avversarie. Una scrittura
moderna
ed efficace che rende epica l’impresa dei giapponesi,
verso i quali sembra indirizzarsi la simpatia del popolare scrittore veronese,
sempre avverso all’assolutistica monarchia russa»24.
Armando Bisanti
(Università di Palermo)
23 C. Cristante, L’amore e la guerra, in E. Salgari, L’eroina di Port Arthur, Milano,
Fabbri, 2003, p. 5.
24 Ivi, p. 6.
[ 14 ]
TONI IERMANO
Provincia come un sogno:
le terre incantate di Francesco Jovine*
This essay, which takes into account Francesco Jovine’s life and
work, focuses on the pivotal theme of provincial life. Although cursorily
labelled as a realist, Jovine turns out to be deeply involved
with the archaic culture of the Mezzogiorno and its set of values.
This mythological image of the Mezzogiorno, intertwined with a
close interest in the contemporary debates on the “Southern Question”,
is the very essence of Jovine’s poetic worth.
E qui, come difficilmente accade in altri luoghi, sono
state vive per decenni le leggende di tesori sepolti dai
frati, dai vescovi e dai briganti.
F. Jovine, La mensa fraterna,
«Il Giornale d’Italia», 19 agosto 1941
Zelone, il contadino quasi col nome di un filosofo salvato dalle pagine
del Platone in Italia di Vincenzo Cuoco, «era piovuto dalla piana
di Larino» nella Guardialfiera del piccolo Francesco Jovine, che se lo
vedeva passare «qualche volta davanti a casa mia con un sacco di paglia
o un fascio di fieno sulle spalle». Uscito dalle favole dei vecchi
saggi del paese, il personaggio che con la sua capra danzava ogni
qualvolta si annunciava un temporale, «credeva di essere arrivato ai
limiti del mondo per aver viaggiato per cinquanta miglia nel contado
di Molise, breve spazio di terra popolato di angeli e di mostri, di potenze
malefiche e benefiche, che amministravano le forze naturali e la
vita degli uomini come egli li immaginava»1. Il Diavolo in quei villaggi
dalle atmosfere sospese «era sempre pronto a dare ai miseri il suo
aiuto per portarseli all’inferno»2.
* A Costanza.
1 F. Jovine, Zelone e gli angeli [1941], in Id., Il pastore sepolto, Torino, Einaudi,
1981, pp. 114-115.
2 Id., Il libro del comando, in Id., Racconti, Torino, Einaudi, 1960, p. 171.
304 TONI IERMANO
Il richiamo dell’origine, il soliloquio sull’infanzia, la «murmurante
mémoire» di un tempo sepolto e la familiarità del luogo natale determinano
quelle rassicurazioni esistenziali che solcano le tramature sentimentali
dello scrittore nei rapporti con il suo Molise, che così come
l’Abruzzo di Silone, la Sardegna di Dessì, la Calabria di Alvaro e di
Seminara, assume una connotazione poetica e vera nel suo essere primitivo
e selvaggio. Un disperso favoloso villaggio paleolitico, in cui la
durata della vita pare non risolversi nel senso della fine bensì si confonde
e si occulta negli archetipi di un mondo discostato dalla realtà,
intriso di mitologia e fantasia, custodito dai suoi abitatori con la sapienza
millenaria dei cicli naturali e con l’uso sofistico di proverbi e
sogni da interpretare.
Lo spazio letterario è una dimensione metaforica arredata secondo
i gusti di un creatore appassionato, mai stanco nel nutrire le ricostruzioni
con gli oggetti e le nature morte conservati nella fertilissima interiorità
negli anni della lontananza dalla terra dei padri.
Una rassettatura del realismo degli anni Trenta-Quaranta, pur non
riconoscendosi nei modelli proposti dalla letteratura americana, e una
non meno cospicua presenza dunque della favolosa provincia della
rammemorazione poggiata su una cosmogonia leggendaria e antichissima3,
riepilogano la originalità dei rari distillati derivati dalla natura
«intima» dell’opera di Jovine, nato a Guardialfiera, paese a 18
miglia da Campobasso, nel 19024.
3 Sulla natura intrinseca della narrativa di Jovine, costruita su un fondo «di
leggenda, di grandi, antichissimi proverbi naturali», aveva richiamato l’attenzione
Giacomo Debenedetti nel rievocativo Colloquio con Jovine, «Vie nuove», V, 20, 14
maggio 1950, p. 14.
4 Sull’opera di Francesco Jovine si vedano in particolare: G. Giardini, Francesco
Jovine, Milano, Marzorati, 1967; M. Grillandi, Francesco Jovine, Milano, Mursia,
1971; E. Ragni, Jovine, Firenze, La Nuova Italia, “Il Castoro”, 1972; F. D’Episcopo,
Un uomo provvisorio: Francesco Jovine, Isernia, Marinelli editore, 1982; N. Carducci,
Invito alla lettura di Francesco Jovine, Milano, Mursia, [1977] 19862; Francesco Jovine
scrittore molisano. Atti del convegno di studi sulla figura e l’opera di Francesco Jovine
a quarant’anni dalla morte (Guardialfiera 11 novembre 1990), a cura di F. D’Episcopo,
Napoli, ESI, 1994. Per la critica “classica”, cfr. L. Russo, Francesco Jovine ultimo
narratore della «provincia», «Belfagor», vol. I [1946], pp. 219-226; Id., Ricordo di
Francesco Jovine, «Belfagor», vol. V (1950), pp. 479-482; P. Pancrazi, Il primo e l’ultimo
Jovine, in Id., Scrittori d’oggi, con prefazione di M. Valgimigli, serie VI, Bari, Laterza,
1953, pp. 47-54; N. Sapegno, Il narratore Jovine, «Società», IV, 1950, 2, pp. 276-
286, poi in Id., Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, pp. 297-310. Inoltre
si vedano: P. De Tommaso, Francesco Jovine (Nel decimo anniversario della morte), «Belfagor
», vol. XV (1960), pp. 284-299; G. Todini, Francesco Jovine, «Belfagor», a. XXVII
[ 2 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 305
Lo scrittore approfondì l’analisi sul Mezzogiorno attraverso la ripresa
delle rapsodie popolari riesumate da un’assidua esplorazione
del Molise arcaico, terra storicamente esclusa dalle grandi strade di
comunicazione, svolgendo una indagine sulle condizioni di vita di
quel mondo popolato di storie impossibili, di uomini sottomessi, ma
anche di audaci ribelli. Quei grezzi paesi diventano illimitati raccoglitori
del nascosto. Da qui leggende sui tesori dimenticati in caverne e
luoghi misteriosi5. Le ricerche trovano nella bellezza del racconto, in
quella risorsa indiscutibile di rendere le storie materia narrativa, il
senso delle suggestioni dell’infanzia e della creatività fantastica che ne
intride i ricordi anche quando si riveste dei toni del reportage, come nel
caso delle pagine su Guardialfiera, il paese natio colmo di racconti su
«tesori sepolti dai frati, dai vescovi e dai briganti» e di palazzi misteriosi
che pure abbattuti restano rifugi concreti «per le nostre rêveries
sull’infanzia»6:
Quando, qualche anno fa, il vecchio palazzo vescovile che dalla fine
del secolo decimottavo nessun vescovo più aveva abitato e che era in
rovina, fu demolito completamente, per giornate intere il rumore dei
picconi che tutti, finissimi di orecchio, graduavano secondo una scala
musicale, diede l’impressione del vuoto misterioso e ricco. Ma non
venne fuori nulla: sassi, polvere, calcinacci: non un chiodo, non un trespolo,
una chiave arrugginita: nulla. La pietra attestante che S. Agapito
papa nel 960 aveva nominato un vescovo a Guardialfiera, la leggenda
che forse Gregorio VII in persona, passato di lì in occasione del suo
viaggio verso il Mezzogiorno, concedesse alla Cattedrale il privilegio
di «Porta Santa», non credo che valessero a consolarli7.
(1972), pp. 430-452; Id., Francesco Jovine, in Novecento, VIII, a cura di G. Grana, Milano,
Marzorati, 1988, pp. 66-91; G. Savarese, Ricordo di Francesco Jovine, «Rassegna
della letteratura italiana», a. 76 [1972], pp. 294-302 poi in Id., «I colori di Carmen»,
Saba, Svevo e altri contemporanei, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 157-175. Tra le più recenti
ripubblicazioni si veda F. Jovine, Scritti critici, a cura di P. Guida, Lecce, Milella,
2004, utile raccolta degli interventi giornalistici apparsi tra il 1929 e il 1950, e i Racconti
dimenticati e dispersi, a cura di C. Carmosino, Isernia, Iannone Editore, 2007.
5 Derivate dall’analisi di un contesto metropolitano, Napoli, notevoli influenze
su queste considerazioni devo alle originali pagine di C. D’Elia, Tesori nascosti:
Immagini della modernità mancata a Napoli, «Intersezioni». Rivista di storia delle
idee, a. XVI, n. 1, aprile 1996, pp. 57-72.
6 G. Bachelard, La poetica della rêverie [1960], trad. it. di G. Silvestri Stevan,
Bari, Edizioni Dedalo, 19873, p. 147.
7 F. Jovine, La mensa fraterna, «Il Giornale d’Italia», 19 agosto 1941, poi in Id.,
Viaggio nel Molise, a cura di N. Perrazzelli [1967], Isernia, Libreria Editrice Marinelli,
1976, p. 101.
[ 3 ]
306 TONI IERMANO
Il tema dei “tesori nascosti” in luoghi inaccessibili e stregati è ricorrente
nei romanzi e nei racconti di Jovine. Significativo è Il pastore
sepolto, apparso nella «Nuova Antologia» il 16 marzo 1943, un riuscitissimo
racconto lungo derivato da un intimo rapporto tra il sogno e
le tradizioni popolari, tra un ritorno alla capanna dell’infanzia e la
ricostruzione allegra delle lunghe, interminabili veglie vissute nella
casa paterna intorno al camino «dal grande fuoco» in compagnia dei
genitori, dei fratellini «e di alcune povere contadine del vicinato». Il
racconto però propone anche l’irrompere della modernità con la centralità
dell’economico, che corrompe le società arcaiche con la bramosia
del denaro e la perdita della fede religiosa. I rovesci finanziari di
una famiglia borghese possono essere risolti dal ritrovamento di sacchi
d’oro in luoghi inaccessibili. In questo modo anche la giovane Albamaria
avrebbe potuto ottenere la dote e sposarsi. Tutti in casa iniziano
a sognare. Il sogno del nonno dalla lunga barba bianca «divisa
in due bande a forma di pera», che riesce a sentire la voce del Biferno,
inalveola la storia lungo la dorsale di un realismo speciale, rappresentativo
di un rapporto esclusivo dello scrittore con le fantasie e le arcane
credenze di un mondo svanito. Il racconto viene fatto dal giovanissimo
nipote, l’io-narrante, che intreccia i suoi sogni con quelli dei familiari:
Una sera il nonno ci raccontò un sogno; io non prestai molta attenzione
a quello che diceva, massime all’inizio ma ebbi modo di ricordarmene
minutamente poi per quello che avvenne. Il nonno quella sera pareva
stanco e s’era seduto con noi accanto al fuoco: c’erano tutti e c’erano
anche Luigia e Salvatore di Popoli suo marito:
– Figli miei, – incominciò il nonno, – ho fatto un sogno, un bel sogno
benedetto. Ieri sera mi ero addormentato pregando il Bambino Gesù;
e, chiusi gli occhi, il Bambino mi prese per mano e mi indicò alzando
un dito in alto la stella dei magi e scomparve. Io seguii la stella e camminai,
camminai per una contrada piena di neve e di spine; poi mi
trovai alla Costa Solente e capii che la stella mi guidava a Fonte Gerino;
all’incrocio di Botasciarra incontrai due pastorelli biondi come angioli
che suonavano la zampogna e mi seguirono fino al guado di Fonte
Gerino; lì mi lasciarono. La stella camminò ancora un poco nell’arco
del cielo poi si fermò; io era arrivato al Casaleno nel centro della vigna.
Le macerie del convento non c’erano più; la stella che s’era fermata
illuminava una zappa d’argento che scintillava. Io presi la zappa
e incominciai a scavare; la zappa era leggera come una piuma, la terra
era dolce. In poco tempo feci molto lavoro. Dapprima trovai una lucerna
interrata che pulii con le mani; mi accorsi che era di oro; continuai
a scavare e trovai una piccola mola per il grano in pietra e bron-
[ 4 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 307
zo; poi due spiedi d’argento e poi tanti oggetti di ferro e di rame. Scava
scava, incontrai una grande lastra di pietra che era leggerissima, la
sollevai e trovai una scala di pochi gradini; in fondo alla scala c’era
una breve grotta, a destra e a sinistra grosse pignatte di terra cotta, ne
scoperchiai una, era piena di monete d’oro; tutte le altre erano piene
d’oro8.
Le certezze della verità dei sogni erano condivise dall’intero nucleo
familiare, tanto che quando venne raccontato il contenuto di
quello fatto dal nonno allo zio Michele «ci disse che aveva fatto un
sogno perfettamente uguale due notti prima, che il tesoro esisteva
senza alcun dubbio e che lui sarebbe venuto con noi a scavare la notte
seguente»9. La brigata, composta dai membri della famiglia e dagli
operai addetti agli scavi, decide di seguire le indicazioni sognate dai
vecchi di casa e si avvia alla ricerca del ritrovamento dell’isola del tesoro.
Nel corso delle frenetiche indagini, sotto «un nugolo di antichissima
polvere», venne fuori un cratere al cui interno fu ritrovata una
chiesa sepolta, piena di inquietanti statue di santi. Nel misterioso antro,
in un sarcofago coperto da una lastra di marmo «che portava incisa
una croce in rilievo», i cercatori, che si muovevano come fantasmi
in una luce da cimitero, videro la statua di un pastore che «quando la
illuminarono, ebbe un mite ed allegro sorriso come fosse lietissima di
essere uscita dalle tenebre»10. Il mancato ritrovamento dei preziosi
marenghi non impedì il trasporto del pastore, «che aveva quel suo
mite ed antico sorriso rivolto al bellissimo cielo notturno», verso il
paese, per custodirlo momentaneamente in casa. Lo zio Michele, con
«tono profetico», annunciò che in un nuovo sogno aveva saputo che la
statua «dentro era tutta d’oro». In una notte di disgelo, dopo il rassicurante
tepore invernale, Albamaria, in preda ad un irriverente attacco
di rabbia, ispirata da forze diaboliche, forzando la più misurata
natura dell’amato cugino, la profanò decapitandola a colpi di mazzuola
con la speranza che si avverasse quanto predetto dai sapienti di
casa. Purtroppo il serafico pastore di pietra bianca era vuoto. A quel
punto il nipote-narratore si convinse «che tutto era finito e che sarebbe
stato terribile vivere ancora»11.
8 F. Jovine, Il pastore sepolto, cit., pp. 20-21.
9 Ivi, p. 23.
10 Ivi, p. 23.
11 Ivi, p. 45.
[ 5 ]
308 TONI IERMANO
In una intervista del 1949 Jovine spiegò ai lettori il legame intimo
con la sua terra e lo straordinario ruolo avuto dal padre nella collezionare
ricordi e immagini oniriche:
Conosco il Molise attraverso i racconti di mio padre e un po’ per istinto.
In me quella terra è come un mito antico tramandatomi dai padri e
rimasto nel sangue e nella fantasia12.
Il concetto di neorealismo inteso come «riconquista della realtà»,
viene indagato con autonomia rispetto alle nuove prospettive attribuite
alla realtà da tanti narratori italiani: la riflessione costituisce una
delle specificità della sua originale posizione critica. Jovine, per nulla
affascinato dalle mode o dal successo editoriale degli americani come
Dos Passos o Lewis, sostiene che nei loro romanzi: «Le persone descritte
sono spesso anonime, come chiuse, incapsulate nel complesso
dei fatti. I volti e le anime non emergono dalle cose»13.
La maturazione di Jovine segue il percorso di una generazione
d’intellettuali costretta a subire la dittatura fascista e approda ad un
modo di intendere il mestiere delle lettere come militanza. Il romanzo,
Un uomo provvisorio, stampato a Modena da Guanda nel 1934, lo stesso
anno di Tre operai di Carlo Bernari, di fatto segna l’approdo di Jovine
al realismo. Il definitivo superamento dei motivi dannunziani, incrinati
da una «corrosione ironica», appare una delle migliori qualità del
protagonista14. In questa opera prima si affronta il travagliato itinerario
psicologico e sentimentale di un giovane provinciale in una Roma
rarefatta, avvertita più nelle atmosfere che nella dimensione topografica
e urbanistica. Giulio Sabò, un ventisettenne laureato in medicina,
avvolto da «astratti furori», è un personaggio in cui si avvertono comportamenti
riconducibili ad un travagliato rifiuto delle convenzioni,
secondo un canone già proposto nei primi anni Novanta dell’Ottocento
in Una vita di Italo Svevo e ne L’Automa del milanese Enrico Annibale
Butti. La storia documenta, pur non evitando del tutto alcune
ingenuità15, il disagio dell’uomo «senza qualità» di fronte alla «tristezza
dei tempi» e la volontà di una diserzione verso tutti quei costumi e
12 M. Guidotti, Intervista con Jovine, «La Fiera letteraria», 9 gennaio 1949.
13 F. Jovine, Aspetti del neo-realismo, «I diritti della scuola», n. 1, 23 settembre
1934 (ora in Scritti critici, cit., pp. 189-191).
14 G. Savarese, «I colori di Carmen», Saba, Svevo e altri contemporanei, cit., p.
163.
15 Al riguardo si vedano le critiche di Natalino Sapegno nel saggio Il narratore
Jovine, «Società», cit., p. 280.
[ 6 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 309
quei luoghi comuni che tendono ad imporsi come emulativi modelli
di mondanità16:
«Io per me, non penso veramente nulla» – si diceva – «sono vuoto». Ma
avvertiva dentro un rodìo perenne e confuso, un affollarsi di sensazioni,
di echi alla luce della mente, sgorgati da un sé più profondo. Se ne
distraeva con giuochi puerili: serrava le palpebre per far nascere certi
panorami favolosi, bui illuminati da una luce fredda azzurrina che si
dilatava e dissolveva le ombre. E se il rosso si insinuava nell’azzurro
ne provava una sorda, piccola gioia e credeva ad una magica sorgente
di luci colorate che ubbidisse ai suoi comandi17.
Giulio, che incarna a giudizio di Sapegno «la crisi di un intellettuale
del Mezzogiorno», abita nei pressi di via dei Prefetti e nei primi
tempi della permanenza capitolina «la sua snella figura vestita di nero
» si aggira nei luoghi d’incontro del mondo borghese – salotti, ristoranti,
campi da tennis, riunioni culturali – mentre le sue passeggiate si
svolgono in via del Corso, via del Tritone, Piazza Barberini. L’Autore
ripensa ad un’idea della realtà rivolta a rendere inoperosi i motivi della
letteratura estetizzante e intellettualistica del tempo, senza eludere
del tutto qualche debito con i persistenti postumi della coscienza decadente.
L’insofferente Sabò, per quante parentele si possono ipotizzare con
il Rubé di Giuseppe Antonio Borgese – «cui si avvicina curiosamente
anche per il cognome tronco»18 –, in misura minore, con L’uomo nel labirinto
di Alvaro e l’Andrea Sperelli di D’Annunzio, rimane un «carattere
» rintanato nel suo soliloquio interiore e manifesta più volte quella
«natura indocile»19 che costituisce il lievito di personaggi come Sirio
Baghini e Giustino D’Arienzo, ma che porta diritto fino ai pensieri e
alle azioni epiche di Pietro Veleno e Luca Marano.
La sua antica lingua è quella «che parlano gli uomini abitanti tra il
Trigno e il Fortore», terre che si raggiungono da Termoli o da Vairano
con treni dimenticati, su binari sconosciuti ai viaggiatori delle città20.
16 «Ma non si dimentichi che la crisi di Sabò è crisi di Jovine, crisi di uno scrittore
» (E. Ragni, Jovine, cit., p. 34).
17 F. Jovine, Un uomo provvisorio, Isernia, Edizioni Marinelli, 1982², pp. 22-23.
18 E. Ragni, Jovine, cit., p. 36.
19 Cfr. P. De Tommaso, Francesco Jovine (Nel decimo anniversario della morte), cit.,
pp. 284-287.
20 «Il treno era su un binario lontano dalla stazione, lontano dalle linee principali.
Due vagoni grigi attaccati ad una locomotiva goffa, col collo lungo, che gorgogliava
petulante» (F. Jovine, Un uomo provvisorio, cit., p. 137).
[ 7 ]
310 TONI IERMANO
Il disagio, l’inettitudine, la precarietà esistenziale, la profonda insofferenza
dell’uomo verso il conformismo dominante nella realtà del
tempo che caratterizzano Un uomo provvisorio trovano proseguimento
nel successivo romanzo Ragazza sola, del tutto trascurato dalla critica e
dallo stesso autore, apparso a puntate dal 1 ottobre 1936 al 10 luglio
’37 su «I diritti della scuola»21. La giovane maestra elementare Livia
Dolegani, così come Giulio Sabò, ritrova la sua innocenza trasferendosi
in una Ciociaria arcadica, non dissimile dal Molise, sottraendosi alla
tumultuosa, confusa, corrotta vita della città. Tra Mursetta e Cupella,
nella provincia di Frosinone, la maestrina abita in un casolare laddove,
deglutite le amarezze recenti, s’immerge nel candore di una esistenza
rinnovata e decisamente critica verso i falsi modelli della società
borghese22.
In quegli anni Jovine, turbato, così come Elio Vittorini e altri intellettuali,
dalla guerra di Spagna, venne maturando una coscienza antifascista
che lo indusse a lasciare l’Italia: tra il 1937 e il ’40 ricoprì incarichi
presso istituti d’italiano all’estero, prima due anni a Tunisi e
poi un anno a Il Cairo, e la sua firma in questo triennio sparì dai giornali23.
Nel 1940 interruppe il silenzio pubblicando, ancora con Guanda, la
raccolta di racconti Ladro di galline, sette testi risalenti al decennio precedente24,
in cui la sua poetica viene chiarendosi nell’ambito di una
stretta correlazione tra ricerca di una sperimentazione espressiva,
orientata, in parte, dai motivi del neorealismo, e lo studio delle tradizioni
popolari. La composizione delle novelle rivela un disegno di
esplorazione stilistica tendente a ridurre o cancellare l’influenza di
D’Annunzio attinta negli anni giovanili: nel primo romanzo di Jovine
questa scelta trova una non oscura manifestazione. Nella prima delle
novelle, Avventura galante, si tratta della passione erotica di un cieco
per una cameriera che lo guida attraverso camere e lunghi corridoi bui
in cui si colgono tratti di un crescente problematico rapporto con i
modelli dannunziani25.
21 Id., Ragazza sola, a cura di F. D’Episcopo, Campobasso, Edizioni Enne, 1987.
Cfr. E. Ragni, Jovine, cit., pp. 68-76.
22 Cfr. P. Giannantonio, Riscoperta di un romanzo sconosciuto [1988], in Id., Contemporanea,
Napoli, Loffredo, 19932, pp. 358-363.
23 La collaborazione a «I diritti della scuola» riprese il 10 ottobre 1940 con l’articolo
Marino Moretti, n. 4, pp. 23-24.
24 F. Jovine, Ladro di galline, in Id., Racconti, Torino, Einaudi [1960], 19672, pp.
5-82.
25 Id., Racconti, cit., pp. 7-12.
[ 8 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 311
Nel racconto Malfuta o della fondazione di un villaggio, invece, viene
raccontata una realtà primitiva, incapace di liberarsi dalle contraddizioni
che l’affliggono e di uscire dall’isolamento26. Bellissima è la descrizione
cromatica del paesaggio e di un mondo visto come un ultimo
irripetibile frammento di un primitivismo in dissoluzione. Malfuta
in fondo è la metafora di uno spazio sommerso in cui naviga la
rammemorazione dell’autore:
Rocca Malfuta scivolava da secoli a valle verso il Biferno, le acque del
fiume che, uscite dalle gole di Trapura, erano in quel punto rapide e
spumose rodevano il lembo estremo dell’immensa frana glabra e cinerea:
un lenzuolo sudicio buttato sul verde del monte. Le case erano
bigie meschine divise da strade lerce dove grufolavano i maiali e sulle
quali s’aprivano le brevi finestre che non vedevano mai il sole. Il sole
compariva tardi a Malfuta quando i contadini erano lontani nei campi:
spuntava per i radi vecchi taciturni raccolti nella breve piazza minacciata
da un campani letto spaccato da una crepa esistente da tempo
immemorabile. Ma tutte le case sembravano fichi d’autunno striate dagli
spacchi, con tegoli gommosi disordinati, pendenti dai tetti e che a
una scossa minima sarebbero precipitati per scoprire lo scheletro delle
travi di quercia, nere di fumo secolare. Il villaggio pareva fosse stato
preso all’improvviso, chi sa quando, da un tremito violento che, prima
di compiere l’estrema rovina e far macerie, si fosse arrestato per miracolo.
Chi v’arrivava la prima volta, abbracciato in un attimo quell’incerto
equilibrio di travi e di mura nel silenzio altissimo della canicola,
pensava che un tuono improvviso scoppiato dalla nuvola nera pendente
su Trapura avrebbe fracassato tutto27.
Vi si disegnano uomini legati a una vita chiusa, diffidenti e superstiziosi
verso il cambiamento: solo un incendio li spinge a prendere
possesso delle nuove case costruite accanto alla provinciale e vicino ai
binari. Le vecchie pietre abitate erano affidate a San Rocco Benedetto, la
statua di argilla rossa che proteggeva il paese roso dall’acqua e dalla
pioggia. Soltanto la violenza della natura poteva scuotere la testarda
immobilità di una comunità intrattabile. Il santo e la terra sono gli
unici dati stabili di un’esistenza precaria. È così che dopo aver riscattato
le case e i poderi i malfutesi erano esclusivamente interessati a
recintare la tanto attesa proprietà:
26 In questo racconto su Malfuta, vecchio villaggio che «scivola verso la valle
del Biferno», Jovine si rivela «scrittore di atmosfere» (P. Pancrazi, Il primo e l’ultimo
Jovine, cit., p. 48).
27 F. Jovine, Malfuta o della fondazione di un villaggio, cit., p. 13.
[ 9 ]
312 TONI IERMANO
[…] comprate tracciando i solchi con una lentezza cauta e avida, pronti
a deviare dalla linea stabilita se il vicino non se ne accorgeva, e guardandosi
ferocemente negli occhi quando il bidente staccava una zolla
furtiva. Poi gorgogliavano atroci bestemmie. Spesso ponevano mano
ai coltelli, tra gli urli delle donne si tempestavano di colpi e arrossavano
il solco appena tracciato28.
La terza novella, che dà il titolo alla raccolta29, ritrae gli stessi ambienti
contadini e i loro atteggiamenti schivi, il silenzio che ben si
amalgamano con la secolare immobilità del paesaggio e la furberia e
gli inganni di cui sono vittime i puri. In ciò si ravvisano i modi che
ricorreranno nell’opera successiva di Jovine. Il protagonista dell’amarissima
storia è il povero Gentile, abbandonato in fasce sotto una quercia
al bivio di Carrozzello e ritrovato da una contadina dei D’Elia la
mattina del 6 luglio 1904. La sua tragica vicenda, dopo un’esistenza di
stenti e un matrimonio subito, si svolge a Guardialfiera e intorno alle
frastagliate quanto pericolose sponde del Biferno.
Dieci settimane, Incontro col figlio, Sogni d’oro di Michele e Ragazzo al
buio sono esperienze minori, dove è presente quale esercizio il sondaggio
della psicologia dei ragazzi, le loro fantasie, i turbamenti.
Quella spontaneità che Jovine postulava sin dai primi anni Trenta nei
suoi interventi giornalistici, quale conquista durissima, si afferma in
Signora Ava, romanzo in cui lo scrittore raccoglie tutta la sua esperienza
di meridionalista e studioso della cultura popolare e dove stabilisce
una relazione duratura tra il tema della terra e la storia. Il Nostro
fu attentissimo osservatore dei fenomeni sociali e analizzò, con acribia
storica, le vicende del grande brigantaggio post-unitario, attribuendogli
un profilo politico permeato da una concreta ricerca della
giustizia sociale.
Nel documento postumo Del brigantaggio meridionale ovvero intorno
ai movimenti politici svoltisi nell’Italia meridionale tra il 1860 e il 1867, il
cui nucleo teorico venne costituendosi intorno al 1943-44, lo scrittore
sviluppa interpretazioni e analisi meridionalistiche – è di quegli anni
la rilettura di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e dell’avellinese
Guido Dorso – che si sistemano in un coerente impianto storico proprio
nell’imminente completamento di Signora Ava:
Grandi province come quelle delle Calabrie, dei Principati, dell’Abruzzo
citra ed ultra, montuose franose solcate da corsi d’acqua irruenti,
28 Ivi, p. 15.
29 F. Jovine, Ladro di galline, in Racconti, cit., pp. 25-40.
[ 10 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 313
erano collegate da strade impervie, pietrose o da un tratturo per la
pastorizia transumante che per sei mesi dell’anno era fiume di fango
per diventar solo d’estate «l’erbal fiume silente». Chiusi in sé i villaggi
trascorrevano la vita in un’antichissima angustia; tagliati fuori da ogni
rapporto umano civile il villaggio era un’entità per sé stante dominato
da pregiudizi, da un comune tono morale limitato esteriore che era ligio
alla superstizione religiosa e a quella civile. Rari specie nell’ultimo
cinquantennio del regno i libri, più rari i giornali:le notizie politiche e
delle scoperte scientifiche arrivavano con grande ritardo, senza mutare
minimamente la vita degli abitanti che forse ne parlavano un poco e
poi le relegavano nel mondo delle favole30.
Nel saggio Del brigantaggio meridionale, Jovine, con visione chiara
dei problemi storico-economici della sua regione, sviluppa interpretazioni
che i luoghi e i personaggi delle sue storie avevano già annunziato
e vissute dolorosamente. L’inevitabile e forte contrapposizione
città/villaggio viene colta dallo scrittore molisano senza sfumature:
Ma nelle campagne la vita era dura; i contadini raccolti in villaggi (rare
nel mezzogiorno, anche oggi le case coloniche) intorno al castello baronale
diruto abitavano squallidi tuguri e facevano tutti i giorni lunghissima
strada per raggiungere i loro campi. Erano ignoranti mal nutriti
solitari. Il villaggio era il loro mondo; e nel villaggio la divisione delle
classi si ripeteva spesso con una rigidezza castale; cafoni, artieri, galantuomini:
i due primi strati della popolazione che avevano origine identica
e avevano tra loro un continuo flusso in decadenza e in ascesa,
avevano un potere economico presso a poco uguale, una leggera differenza
nella cultura: qualche volta l’artigiano sapeva leggere e scrivere
e perciò agli occhi dei cafoni riceveva da questo fatto una specie d’investitura
diabolica, che armava la sua diffidenza. I galantuomini, si
distinguevano dagli altri per il loro assoluto ozio: se professionisti, e
nei villaggi erano rari, erano propensi per malinteso spirito gentilizio,
ad essere scarsamente operosi: l’idea del lavoro come compito di gente
umile che abbia bisogno di guadagnare la propria vita e perciò legata
a un povero stato, era tra gli idola tribus più fermamente radicati nelle
loro anime31.
Jovine spiegò l’isolamento culturale della sua regione e la solitudine
delle classi subalterne meridionali utilizzando come fonti le indagini
degli illuministi Giuseppe Maria Galanti, autore dei due tomi della
30 Id., Del brigantaggio meridionale, «Belfagor», a. XXV (1970), p. 634.
31 Ivi, pp. 632-633.
[ 11 ]
314 TONI IERMANO
Descrizione dello stato antico ed attuale del contado del Molise (1781)32, e
dell’abate Francesco Longano, artefice del Viaggio per lo contado del Molise
nell’ottobre 1786 ovvero descrizione fisica, economica e politica del medesimo
(1788), e la Relazione sul Molise (1812) di Vincenzo Cuoco, tutte
opere richiamate dal Nostro nei suoi scritti.
Sulle cause della reazione contadina e sulle origini del grande brigantaggio
post-unitario, che investì gran parte dei villaggi e delle
montagne molisani a partire dall’autunno del 1860, Jovine, influenzato
anche dalla conoscenza dell’opera di Marc Monnier, Notizie storiche
documentate sul Brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di fra
Diavolo sino ai nostri giorni (1862), sosteneva senza cadute giustificazioniste
o revisioniste:
Per gli sciagurati che uccidevano non c’era altra via di scampo che la
macchia: i boschi, i botri, i dirupi sfuggivano alla sorveglianza dei
gendarmi. Al di fuori dei gruppi di case dove gli agenti del Re potevano
esercitare l’autorità c’erano le aperte boscaglie dove era possibile
incontrare altri sciagurati che erano costretti a vivere di rapina e di
sangue33.
Fu la meditata lettura de La rivoluzione meridionale di Dorso, edita
dalle edizioni Gobetti nel 1925 e ripubblicata, con una nuova prefazione,
nel ’44 da Einaudi, ad offrirgli comunque l’opportunità di ripensare
al meridionalismo con rinnovato fervore ideale. Jovine scrisse
convinte pagine di adesione al pensiero dorsiano34, componente intrinseca
di tanti suoi interventi politici nell’Italia del secondo dopoguerra.
Il Luca Marano de Le Terre del Sacramento potrebbe essere uno di
quei cento uomini d’acciaio auspicati da Dorso per il compimento di
una grande rivoluzione del Mezzogiorno contro il trasformismo e la
corruzione delle sue vecchie classi dirigenti, capaci di sopravvivere ad
ogni forma di cambiamento politico. Alla gioventù meridionale, alla
presa di coscienza del contadino Pietro Veleno e dell’intellettuale Luca,
era spettato il compito di non perdere le occasioni storiche per la
rinascita di terre condannate all’arretratezza e al sopruso. Negli energici
interrogativi dorsiani si colgono motivi vitali del mondo politicomorale
di Jovine:
32 Cfr. G.M. Galanti, Scritti sul Molise, t. II. Descrizione del contado di Molise, a
cura di F. Barra, Napoli, Società editrice napoletana, 1987.
33 F. Jovine, Del brigantaggio meridionale, cit., p. 635.
34 Cfr. Id., Omaggio a Guido Dorso, «Il Giornale d’Italia», 20 aprile 1947, p. 3.
[ 12 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 315
Ma, esiste una nuova classe dirigente politica nel Mezzogiorno? Esistono
cento uomini d’acciaio, col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile
per lottare per una grande idea? Oppure la nostra dolce
terra perderà un’occasione storica più che rara, e continuerà il suo
martirio al seguito della tradizionale miserabile classe politica meridionale,
dopo che questa si sarà salvata da un naufragio per l’assoluta
impotenza della nostra terra ad esprimere nuove energie politiche?35
A partire dalla fine degli anni Trenta il realismo joviniano viene
rafforzandosi nell’ambito di una riflessione del contesto politico-sociale
locale. L’indagine fornisce dati e situazioni che si riversano, dopo
una certificazione di originalità, nella ideazione del meccanismo narrativo.
Sovrastando il bozzettismo veristico, pur restando conscio
quanto libero interprete del metodo del maestro Verga e di una conoscenza
del Nievo delle Confessioni36, e postosi in contraddizione con le
antistoriche tendenze narrative emerse con tratti negativi nel regionalismo
degli epigoni, il Nostro percorre le mappe di una letteratura
caratterizzata dalla pervicace osservazione degli elementi storico-geografici,
mai ostile alla conoscenza dei territori del fantastico, abitualmente
visitati.
Un paesaggio dimenticato, gremito di personaggi e memoria, diviso
e isolato nei lunghi mesi invernali dall’impetuoso scorrere del Biferno,
avvolto nei riti e nel «dogmatismo sentenziante della filosofia
popolare
» della millenaria sapienza della civiltà contadina, rivive negli
undici articoli che Jovine raccontò come inviato de «Il Giornale
d’Italia» nell’estate 1941, solo poco tempo prima della pubblicazione
di Signora Ava. Ed è in quegli scritti che esprime la sua riflessione sulla
estensione storica dell’immobilità del paesaggio agrario:
Per circa quarant’anni, dal 1845 al 1881, il Biferno non ebbe più un
ponte; per quarant’anni il fiume veniva passato a guado. D’inverno
quando il guado era difficile, diveniva un liquido invalicabile ostacolo
tra le due parti del Molise. Paesi distanti tra loro pochi chilometri che
si rimandavano a mattutino e a vespro il suono delle campane, rimanevano
anche dei mesi senza comunicazione, o con contatti rarissimi
[…] Questi passaggi di fortuna erano possibili d’estate e d’autunno,
d’inverno divenivano difficilissimi, se non impossibili. Allora i paesi
della sponda sinistra rimanevano tagliati fuori dal mondo. Notizie di
guerre, di cadute di dinastie, di congiunzioni di astri arrivavano dopo
35 G. Dorso, Ruit hora! [1943], in Id., L’occasione storica, Torino, Einaudi, 1949,
p. 7.
36 Al riguardo si rinvia a E. Ragni, Jovine, cit., pp. 15-17.
[ 13 ]
316 TONI IERMANO
sei mesi, quando avevano perduto ogni significato, ogni carattere emotivo.
Il Biferno aveva il potere di sconvolgere le leggi del tempo: il lungo
inverno con la neve che seppelliva le case e i campi diveniva una
sola interminabile giornata37.
Questo il contesto e il conseguente fascio di aspetti antropologici e
storici in cui si svolgono gli avvenimenti dell’ormai incipiente stesura
definitiva di Signora Ava, una storia che «torna nella nostra memoria e
vi si svolge infatti come un arazzo»38.
Nel 1942 il romanzo, la cui idea iniziale risale al 192939, l’anno della
stampa di Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro40, apparve presso
l’editore romano Tumminelli nella collana dei narratori contemporanei
“Nuova Biblioteca Italiana” diretta da Arnaldo Bocelli41. Il congegno
narrativo e le due parti che compongono la storia si reggono sulla
oscillazione tra realismo e invenzione fantastica, memoria e avventura,
mito e storia. L’opera, a cui lavorò ancora nel ’35 e con sistematicità
tra il ’38 e il ’41, riflette la conoscenza acquisita da Jovine della sua
terra, della cultura popolare e delle leggende contadine.
L’epigrafe posta in apertura del romanzo, ripresa da un Canto popolare
del Mezzogiorno, spiega la natura dei legami esistenti tra l’elaborazione
letteraria e la storia delle tradizioni popolari e costituisce molto
più di un riverbero di quell’intimo rapporto nonchè lascia trapelare
una carica eversiva contro il potere e le sue prevaricazioni. La scelta
dell’epigrafe contiene anche una precisa volontà politica:
O tiempo da Gnora Ava
nu viecchio imperatore
a morte condannava
chi faceva a’mmore.
37 F. Jovine, Biografia del Biferno, «Il Giornale d’Italia», 18 luglio 1941. La guerra
in questi articoli è del tutto assente, segno ulteriore dell’avversione di Jovine al
mito guerriero fascista: cfr. F. Jovine, Viaggio in Molise, cit., pp. 78-79.
38 P. Pancrazi, Il primo e l’ultimo Jovine, cit., pp. 49-50.
39 I primi quattro capitoli furono scritti nel 1929; in seguito, nel ’35, lo scrittore
riprese il progetto che solo nel 1941 fu definitivamente avviato e concluso. Cfr. Intervista
con Jovine, a cura di M. Guidotti, «La Fiera letteraria», 9 gennaio 1949. Il
primo capitolo redatto nel ’29 fu edito postumo col titolo di Pietro Veleno brigante,
«Dimensioni», a cura di O. Lombardi, a. XIII, n.s., 6 dicembre 1969, pp. 9-12.
40 Jovine fu assiduo e convinto lettore dell’opera alvariana, di cui iniziò a scrivere
nel 1934. Cfr. Scritti critici, cit., pp. 196-198; pp. 301-305.
41 Cfr. Il carteggio Bocelli. Inventario, a cura di B. Marniti e L. Picchiotti, Roma-
Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 1998. Inoltre si veda A. Bocelli, Letteratura
del Novecento, ivi, 1976, pp. 371-375.
[ 14 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 317
E rivive la figura paterna, di quell’«ingenuo rapsodo» di un mondo
defunto, intento nelle notti del lunghissimo inverno molisano ad
animare le serate con la sua voce «nasale e cantante». La conoscenza
della letteratura dialettale e l’assorbimento della «memoria antichissima
delle tradizioni popolari, trasmessegli dal padre»42, s’intrecciano
con le incalzanti contraddizioni della realtà, determinando una conoscenza
problematica e composita di un insieme di terre laddove l’immobilismo
si esplicita anche nel sofisma e nella contraddittorietà dei
proverbi, che «vengono usati a seconda delle circostanze»43.
Gli studi e gli articoli di carattere politico e antropologico di Jovine
sono permeati da una curata sensibilità storica verso i motivi dell’isolamento
della sua terra, anch’essa parte di quella «conquista regia»,
per usare un lessico dorsiano, dietro cui si erano avvolti gli ideali e
tanti falsi riti risorgimentali.
Il tono favoloso di Signora Ava nulla sottrae ad una frequentazione
sotto vento lucida e mai arbitraria del versante realistico. In una breve
quanto ottima recensione, il critico letterario calabrese Antonio Piromalli,
con acribia critica, già nel ’43, tra i primi, coglieva alcuni elementi
fondativi del romanzo, che meritano di essere riproposti per la
loro attualità interpretativa:
Questo nuovo romanzo di Francesco Jovine (Signora Ava, Tumminelli,
1942) rappresenta il Molise al tempo dei Borboni e si legge con grande
piacere per il sereno distacco della materia trattata; fatti e personaggi
sono allontanati nel tempo e nello spazio, il romanziere non fa che raccontare
cose che sono ben ferme nella sua memoria. Perciò il tono della
sua narrazione è favoloso: sembra di sentir raccontare i fatti di «Quando
Gesù andava per il mondo». Quando Jovine si abbandona a descrivere
quella vita vengono fuori le pagine più belle; così quando descrive la
vita invernale del paese […]. Ma il romanzo non si esaurisce in questi
pregi esteriori, e noi vorremmo, in luogo di scrivere questa nota affrettata,
avere il tempo di parlare della vicenda del libro, del mondo morale
che in esso è rinchiuso, della storia di Pietro e di Antonietta che rappresenta
il centro del romanzo. A leggere il quale aiutano la fluidità della
scrittura che è tutt’uno con il linguaggio e il mondo del narratore44.
42 L. Biscardi, La letteratura dialettale molisana tra restauro e innovazione, Isernia,
Marinelli editore, 1983, pp. 14-15. Inoltre cfr. E. Cirese, Saggi sulla cultura meridionale,
I, Gli studi di tradizioni popolari nel Molise. Profilo storico e saggio di bibliografia, Roma,
De Luca, 1955. Su questi temi cfr. F. D’Episcopo, Il mestiere di molisano: Francesco
Jovine, Campobasso, Enne, 1982; Id., Il Molise di F. Jovine, Campobasso, Enne, 1984.
43 F. Jovine, Viaggio nel Mezzogiorno, cit., p. 101.
44 A. Piromalli, Vetrina, «Quadrivio», Roma, 21 marzo 1943.
[ 15 ]
318 TONI IERMANO
I conflitti tra galantuomini e contadini, vagliati nelle analisi del meridionalismo
post-unitario, costituiscono le ragioni intrinseche di una
insanabile frattura, in un contesto dominato da immobilismo e povertà,
e contraddistinto da violente ribellioni. La borghesia paesana, talvolta
dedita all’usura, è avida di denaro e di terra e la sua azione si limita
ad una vorace politica di accumulazione di proprietà e di beni.
La storia si svolge a Guardialfiera, comunità dove le regole sociali
si fondano sull’osservanza di una morale remota, irrorata da una generazione
all’altra dal racconto di fatti millenari che si aprivano, così
come il vino migliore, solo durante le allegre serate dell’inverno.
Il paese s’era messo a vivere la sua curiosa vita invernale: le giornate e
le notti si confondevano, l’ombra e il buio nascevano senza violento
contrasto. Il mattino spruzzava un po’ di chiaro nell’ombra con la pigrizia
annoiata di un compito eterno: il paese pareva disabitato, radi i
passanti, più radi i capannelli dei contadini che avvolti nei mantelli, il
viso sprofondato nei baveri, passavano ore, talvolta, a guardarsi taciturni,
o ad ascoltare la narrazione di un fatto a cui nessuno credeva.
Ma nell’interno delle case la vita acquistava un suo piacevole andamento;
gli uomini attirati dal tepore del camino uscivano poco e si
mischiavano con sempre maggiore intimità alla vita delle donne e dei
ragazzi. Perciò, gente d’ordinario taciturna, non faceva che parlare,
parlare; l’immobilità nello spazio trovava il suo correttivo nella mobilità
della fantasia, Era il periodo dei racconti, delle favole, del ricordo i
motti arguti, delle elencazione delle genealogie45.
Guardialfiera veniva attraversato dalle stagioni secondo una ripetitiva
scala delle temperature e gli abitanti potevano programmare la
vita seguendo meticolosamente il flusso del tempo e del calendario46.
Pietro Veleno, cresciuto nella casa del ricco Don Eutichio de Risio e
innamorato di Antonietta, figlia del suo padrone, dopo aver vissuto a
lungo nella cieca osservanza delle regole feudali si ribella e diventa un
brigante. L’oppressione e l’infido comportamento del capofamiglia di
casa De Risio sono le cause essenziali della svolta che porta il giovane,
taciturno e melanconico, alla ribellione contro un sistema sociale che i
baroni ma soprattutto la nuova borghesia terriera – i galantuomini –
rende refrattario ai mutamenti malgrado le infinite promesse di redenzione
sociale. La figura di Pietro, bandito per colpe non proprie,
arruolatosi nella banda di Ferdinando Nazzaro, alias Sergentello Capi-
45 F. Jovine, Signora Ava, Torino, Einaudi, 1978, p. 90.
46 Cfr. Ivi, p. 127.
[ 16 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 319
tano dell’Armata Francescana, trova una sua legittimazione ideologica
e una fondata analisi nelle pagine Del brigantaggio meridionale:
Il bandito in lotta aperta ed armata contro la società che lo aveva espulso
dal suo seno o dalla quale s’era volontariamente escluso per insofferenza
morale dei suoi troppo angusti limiti, che viveva in uno stato
estremo di tensione intima, costituiva il tipo fortemente e ingenuamente
caratterizzato che aveva un altare ed omaggio di sospiri in molti
teneri cuori. Era la sopravvivenza dell’antico mito romantico del
masnadiero, vitalissimo allora, ma che può considerarsi imperituro ed
è forse una categoria dell’anima […] è vero anche che la maggior parte
dei banditi erano grassatori e ladri, contadini ingenui, sbandati
dell’esercito borbonico disfatto47.
E inoltre si poteva pensare a Pietro riferendosi ai celebri briganti
lucani Carmine Crocco e Ninco Nanco intorno alle cui figure si sviluppò
il fertile mito dell’insorgenza meridionale e della rivolta contro le
ingiustizie della società dei galantuomini:
Carmine Crocco, o Ninco Nanco, improvvisati capitani di bande che
misurano il loro potere sul metro della loro capacità mentale, portano
nella rozza anima questi motivi eterni dell’uomo di guerra e di ventura.
Sono certamente avidi, sanguinari, vanitosi, sensuali; ma pur hanno
in mente un rozzo modello di convivenza sociale diverso da quello dal
quale provengono e che generò la loro miseria e la loro ribellione48.
Signora Ava non è un personaggio storico quanto la metafora di un
tempo lontano riposto in una indistinta memoria che riemerge nel
canto popolare e nei modi di dire della parlata quotidiana. Nel racconto
Malfuta o della fondazione di un villaggio un contadino che non intende
trasferirsi nel nuovo villaggio, dice:
[…] «caduta una casa? Non ne cadeva una dal tempo della signora
Ava. Le case nuove che si fanno con lo sputo quelle cadono»49.
Se il titolo del libro rinvia ad una memoria perduta, anonima, la
dedica al padre ne stabilisce contorni temporali più precisi: le vicende
47 Id., Del brigantaggio meridionale, cit., p. 625. Sulle corrispondenze storico-sociali
tra questo scritto e Signora Ava cfr. S. Martelli, Jovine e il brigantaggio, in
Studi lucani e meridionali, a cura di P. Borraro, Galatina, Congedo, 1978, pp. 107-
133.
48 Ivi, p. 639.
49 F. Jovine, Malfuta o della fondazione di un villaggio, in Racconti, cit., p. 18.
[ 17 ]
320 TONI IERMANO
si svolgono tra il 1859 e il 1861. Sono questi gli anni cruciali per la storia
del Mezzogiorno, che dalla crisi del Regno delle Due Sicilie portano
alla caduta del regime borbonico e alla tumultuosa nascita dello
Stato unitario. I personaggi vivono fatti che suscitano ambizioni nella
società borghese e pronte disillusioni contadine sulla eterna questione
dei fondi. In questo quadro il racconto deriva da una combinazione di
ideologia e storia50.
La vivacissima e riuscita figura di Don Matteo Tridone, un personaggio
uscito dalla migliore tradizione umoristica italiana dell’Ottocento,
tanto da farci pensare, anche se da lontano, ad alcuni preti panciuti
e atei ritratti dal toscano Renato Fucini nelle sue Veglie, apre e
chiude la narrazione di Signora Ava. Il personaggio vive in parte di
espedienti – furto di pomodori e zucche, talvolta di qualche gallina – e
attende la scarsissima carità pubblica. Il compenso dovuto per una
messa funebre era di due galline ma «i contadini morivano in genere
di colpo cadendo di picchio sui solchi e i figli gli mettevano un po’ di
terra in bocca: e poi si facevano il segno della croce. E a Don Matteo
niente: se capitava, qualche giorno dopo, lo portavano sul luogo e lo
invitavano a dire un Requiem: due uova»51. Ciò creava un rapporto
particolare tra Don Matteo e il Signore:
A Dio, pur riconoscendo la bontà generica delle intenzioni, egli attribuiva
una grandissima parte degli errori nella costruzione del mondo
per i quali gli uomini erano costretti al peccato. E non di rado, nelle sue
meditazioni religiose, entrava in polemica con il Padre eterno a proposito
della sua miseria, della cattiveria degli altri preti verso di lui, della
grandine che colpiva le viti, della siccità che non faceva crescere il grano
[…]52.
A volte il diavolo gli «sembrava più intraprendente ed ordinato [di
Dio] nell’amicizia prodigata ai perversi e nella sua opera quotidiana
di tentazione, per aumentare il numero dei suoi seguaci. Questa del
diavolo era l’estrema riserva delle subitanee collere di Don Matteo,
che dentro di sé si trovava spesso a minacciare Dio di passare definitivamente
dall’altra parte, a darsi anima e corpo al Nemico»53. Il prete
portava in giro la parola di Dio traducendola nel linguaggio semplice
dei contadini da cui era compreso perché ne condivideva la condizio-
50 Cfr. E. Ragni, Jovine, cit., p. 96.
51 F. Jovine, Signora Ava, cit., p. 24.
52 Ivi, p. 25.
53 Ibidem.
[ 18 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 321
ne e le superstizioni. Don Girolamo era la sua cavalcatura – un asino
– cui aveva dato il nome del parroco avaro e testardo dal quale dipendeva.
Il viaggio compiuto verso la città, dove Don Matteo si reca per
chiedere giustizia al Monsignor Vescovo, viene raccontato in un capitolo
dove dominano l’umorismo e l’ilarità senza che nulla venga concesso
al sarcasmo. Durante il percorso avviene un violento litigio tra il
prete e il suo asino:
Quando incominciò la salita Don Matteo pensò di mettersi a cavallo.
Trasse Don Girolamo vicino ad un muricciolo; l’asino lo accontentò
con un’inattesa arrendevolezza e spiccò un trotterello agevole e brioso
che durò cinquanta passi; prese una andatura ritmica e attenta che
indusse Don Matteo a riprendere il filo dei suoi pensieri e a riaccendere
la pipa. Passò qualche secondo, poi d’un tratto Don Girolamo
fece un rapido mezzo giro su se stesso, una flessione sulle gambe anteriori
per far perdere l’equilibrio al cavaliere e poi una sgroppata
mancina. Il prete schizzò dalla sella con vano e disperato annaspare
delle braccia […] volle illudersi che l’inimicizia di Don Girolamo fosse
casuale. Nei suoi tempestosi rapporti con l’asino non erano mancati
episodi somiglianti a quello ora verificatosi […]. Ripresero a camminare
e dopo qualche minuto Don Matteo rimontò sull’asino. O
meglio provò a rimontare, perché Don Girolamo per scaraventarlo a
terra lo sorprese a mezza gamba in sella e l’altra penzoloni. Don Matteo
questa volta rimase abbrancato alla cavezza e si risollevò con fulminea
rapidità. Avventò pugni e calci sulla testa, sul ventre del somaro;
poi, raccolto uno sterpo, purtroppo fragile, glielo ruppe sulla
groppa. Don Girolamo prendeva le busse schermendosi con finte e
parate rapide, scaltre, ma non gli era possibile sottrarsi a gran parte
del diluvio54.
Al termine della storia Don Matteo avrà una parte esemplare nell’appoggiare
cristianamente le ragioni dei briganti. Nella misurata e
umanissima chiusura del romanzo, con un dignitoso quanto coraggioso
«veniamo», il prete comunica alle truppe piemontesi, pronte ad uccidere
i resti della banda di Sergentiello, tra cui Pietro Veleno e Seppe
di Celenza, l’inevitabile resa:
Don Matteo aveva avuto un soprassalto: poi s’era voltato lentamente a
guardare verso il luogo dal quale veniva la voce. Chiuse per un attimo
dolorosamente gli occhi, poi fece cenno a Pietro e a Seppe di abbassare
le armi. Alzata la destra fece verso gli alberi un gesto largo e ripetuto
per calmare l’impazienza di quelli che attendevano. Con un piccolo
54 Ivi, pp. 98-99.
[ 19 ]
322 TONI IERMANO
tremito nelle dita, si segnò ancora. Chiamò vicino a sé Seppe e Pietro,
e mise loro le mani sulle spalle. Poi, si diresse verso il folto e disse:
– Veniamo55.
La tenera storia d’amore tra Pietro e Antonietta De Risio, figlia di
Don Eutichio, nata dopo il rifiuto da parte della ragazza del giovane
convittore Stefano Leone, un personaggio in cui lampeggiano tratti
psicologici riconducibili a Giulio Sabò e ai suoi fratelli minori, si svolge
nell’ambito di un intenso, governato lirismo, in cui pure la passione
e il sentimento amoroso trovano slancio. Pietro era cresciuto in
casa De Risio senza una consapevolezza del rapporto di tipo feudale
che lo legava ai suoi padroni: Don Eutichio e il figlio Carlo. A movimentare
la vita di paziente e sottomesso servizio «un giorno gli venne
in mente che le mani di Antonietta, che erano state sulla sua testa, vi
avessero seminato tutte quelle immagini, tutte quelle idee che non gli
appartenevano, che venivano su come la gramigna e gli invadevano
il cuore»56.
Le annate avare e i pessimi raccolti costringono i contadini a ricorrere
ai prestiti di Don Eutichio, prestiti usurai dai tassi elevatissimi e
che dovevano suscitare in loro solo gratitudine per la bontà dei ricchi.
Una protesta e sarebbero stati severamente puniti. Un piano viene
concepito da Don Eutichio per trovare «il modo più sicuro d’impadronirsi
delle terre dei contadini»57 approfittando delle loro difficoltà. A
Don Matteo, che pure aveva già fatto da intermediario tra i galantuomini
e i poveri, “fiutando l’imbroglio”non resta riconoscere che i contadini
«sono topi in bocca al gatto».
Mentre i proprietari riflettevano sul modo più efficace per estendere
i possedimenti e affiancavano con discrezione i piemontesi – pronti
però a tornare sulle posizioni borboniche in caso di notizie di sconfitte
dei nuovi conquistatori –, i contadini allargavano nel fango dei pensieri
i confini delle terre, convinti che per il passato gliene era toccata
troppo poca. L’arrivo della Guardia Nazionale a Guardialfiera doveva
compromettere i loro piani di giustizia sociale col ripristino autoritario
dell’ordine costituito.
Il pavido Don Eutichio, che prima aveva fatto solennemente sostituire
in chiesa l’immagine di Francesco II con quella del nuovo Re,
pentitosi a seguito delle notizie militari provenienti dalla regione, ave-
55 Ivi, p. 234.
56 Ivi, p. 95.
57 Ivi, p. 93.
[ 20 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 323
va ordinato a Pietro e al compagno Carlo Antenucci di rimettere al suo
posto il quadro del Borbone. I due giovani di notte portarono a termine
l’impresa ma l’episodio si rivela determinante per la loro sorte.
Mutato il vento e tradito dal suo padrone, Pietro è costretto ad allontanarsi
dal paese e a nascondersi nei boschi. Pietro Veleno diventa un
ribelle, un bandito che non esita ad armarsi e a uccidere i liberali, sempre
galantuomini; bandito d’altronde si è «perché si combatte qualcosa
che pur non essendo considerata criminale dalla coscienza comune,
lo è per lo stato e per i governanti»58.
Riuscita è anche la nobile figura del Colonnello ossia di don Giovannino
de Risio, protettore benevolo di don Matteo Tridone, responsabile
della scuola-convitto tenuta in casa, frequentata dai figli dei
borghesi del Contado. Il suo discorso di commiato dagli allievi nel
giugno del ’60 sancisce la fine di un tempo perduto ma soprattutto
l’auspicio di nuove, più interessanti avventure esistenziali per la migliore
gioventù molisana:
– Chiudiamo con oggi, venti giugno, il nostro anno scuola, ultimo forse
per il vostro vecchio maestro. so che avvenimenti gravi si stanno
preparando, che giornate luminose per l’avvenire del nostro paese
metteranno a prova quanti hanno saldezza d’animo, bellezza d’ideali,
fermezza di propositi. Bisogna credere: profondamente credere, – e qui
si arrestò un momento perché il suono della sua voce lo aveva inaratamente
sorpreso, – che il mondo va verso un destino migliore.
– Io sono certo che tutti voi troverete nella prossima lotta il vostro posto;
che il mio insegnamento avrà avuto il potere di rinsaldare in voi la
giovanile fede nell’avvenire della vostra opere e che, comunque e dovunque,
voi mi considererete presente in mezzo a voi, con gli stessi
sentimenti… ma con migliori gambe59.
Il romanzo giudicato, impropriamente, prima una tarda manifestazione
del realismo ottocentesco poi minore, rispetto al Gattopardo di
Tomasi di Lampedusa, apparso sedici anni dopo, resta estraneo a relazioni
di questo tipo per un fascio di questioni che connotano differenze
sostanziali tra le motivazioni ideologiche e poetiche di Jovine e
quelle proposte dal principe siciliano: davvero infelice è il riduttivo,
prevedibile quanto infondato slogan: «Il Gattopardo dei poveri» utilizzato
per pubblicizzare e illustrare una recente ristampa di Signora
58 E. J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi,
1974, p. 35.
59 F. Jovine, Signora Ava, cit., p. 149.
[ 21 ]
324 TONI IERMANO
Ava60: il «ritorno» del romanzo, una delle prove narrative più importanti
del pieno Novecento, deve essenzialmente suscitare la curiosità
delle nuove generazioni di lettori61. Nell’opera di Jovine non ci sono
particolari elementi che possano indicare nella società contadina la
maturazione di una coscienza di classe. Nello scrittore fu saldo il convincimento
che le popolazioni dei paesi molisani, sia nel 1860 che
all’avvento del fascismo, furono ignare della natura degli avvenimenti,
subendoli in uno stato di passiva estraneità. Nel romanzo lo esplicita,
tra l’altro, nel brano sul ritorno dal pellegrinaggio al santuario di
San Michele Arcangelo sul Gargano fatto dai fedeli di Guardialfiera
nel pieno dell’insurrezione contro Francesco II:
Al ritorno toccarono Foggia e sentirono parlare per la prima volta della
rivoluzione. Nessuno seppe mai chi portasse veramente quella voce.
Fatto sta che tra le compagnie in pellegrinaggio riconoscibili anche se
andavano per la città in piccoli gruppi, la voce passava di bocca in
bocca. Dapprima fu la semplice notizia che in una parte lontana del
Regno il popolo s’era ribellato alle armi del Re: poi si seppe che i soldati
del Re avevano vinto contro i galantuomini; ma i cafoni nelle campagne
resistevano contro i soldati e i briganti, perché l’Arcangelo Michele
era apparso tra i suoi fedeli e aveva detto: «Belli figlioli io sono
con voi», e aveva sfoderato la sua spada di fuoco. Qualcuno diceva che
nella grotta del Gargano la statua dell’Arcangelo non c’era più, che
c’era rimasto solo Satanasso nero incatenato, che mordeva per la rabbia
il piedistallo. Una compagnia che tornava indietro dal santuario in
quei giorni confermò la notizia, ma disse che anche Lucifero non c’era
più, la grotta era vuota. Poi si seppe che misteriosamente in tutto il
Tavoliere e nell’Abruzzo erano state incendiate centinaia di masserie,
che i buoi e le pecore scappavano impazziti per i tratturi ed erano di
chi li voleva: ma nessuno li toccava perché erano roba del diavolo. Poi
nel tardo pomeriggio aumentarono i discorsi, le dicerie, l’affanno: i
pellegrini molisani che si riconoscevano per le giacche corte, i pantaloni
turchini e le lunghe uose cinerine, si misero confusamente d’accordo
per fare la strada de ritorno insieme, si davano convegno in un luogo
determinato fuori di città per la riunione. A vespero fuori delle ultime
case della città degli anziani della compagnia agitavano furiosamente
60 Cfr. Id., Signora Ava, prefazione di G. Fofi e postfazione di F. D’Episcopo,
Roma, Donzelli, 2010. Spunti sulle differenze tra i due romanzi in P. Giannantonio,
«Signora Ava» tra i «Vicerè» e il «Gattopardo», «Critica Letteraria», VIII (1980),
pp. 486-499 poi in Id., Contemporanea, cit., pp. 342-354.
61 Interessante è l’argomentata recensione alla recente ristampa di Signora Ava
di C. Bertoni, Jovine. Risorgimento diseredato, «Alias». Supplemento de «Il Manifesto
», n. 5 del 5 febbraio 2011, p. 22.
[ 22 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 325
le campane e alzavano sulle teste i loro crocifissi ed i labari delle confraternite,
perché ognuno potesse riconoscere i compagni62.
Riconoscibili nella narrativa di Jovine, tale da renderla originale e
non catalogabile in un generico repertorio di neorealismo ideologico,
sono diverse coppie opposizionali, che si attivano problematicamente:
fantastico/reale, città/campagna, memoria/cronaca, magico/vero,
storia/favola. Le raccolte Il pastore sepolto e L’impero in provincia, entrambe
del ’45, Tutti i miei peccati (1948), riunite con Ladro di galline nei
Racconti, consentono di rintracciare piste interpretative di rinnovata
suggestione, riconsiderando la mappa topografica del realismo, nonché
di mettere a confronto il calore dei personaggi paesani con la inospitabilità
della città e della sua gente.
L’antifascismo e una dose di fosforescente umorismo intridono i
sei racconti editi ne L’impero in provincia. Il tema che vi si svolge è quello
caricaturale di un regime le cui esigenze di grandezza calate nella
piccola provincia si rivelano assurde e grottesche. La gravità della situazione
sociale e le devastanti conseguenze della dittatura e delle
immani distruzioni della guerra determinano un ripensamento della
realtà ma anche di un tempo defunto. La pagina che apre La vigilia è
uno svelamento dello stato d’animo e delle preoccupazioni esistenziali
dello scrittore nei mesi seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale:
Forse dovrei solo parlare delle recenti sciagure che pesano terribili sulle
nostre anime; ma ora che le nostre case sono distrutte, prima che la
nostra gente si disperda, sarà necessario narrare per i sopravvissuti i
casi più notevoli successi nei nostri luoghi, in questi ultimi tempi, perché
non vada perduta la memoria degli uomini che l’abitarono. Se
qualcuno mai ritorni nella terra dei padri troverà scritto tra le pietre e
la gramigna, il grido dei morti e il pianto dei vivi, lontani. Ma c’è un
tempo più remoto da cui nacque il nostro presente dolore che le case
crollate e la campagna morta non potrebbero narrare. Se ci fossero ancora
focolari intatti la gente potrebbe nelle lunghe sere d’inverno, richiamare
i volti e le voci dei morti. L’affettuosa memoria rifarebbe familiari
le care immagini e ritesserebbe filo a filo la delicata trama. La
sventura ritroverebbe nel tempo le sue ferme radici e il ricordo di giorni
lieti e tristi del passato in cui fummo tutti uniti, potrebbe darci la
forza per tornare e forse ricostruire le nostre case63.
62 F. Jovine, Signora Ava, cit., p. 138.
63 Id., La vigilia, in Id., L’impero in provincia. Cronache italiane dei tempi moderni,
Torino, Einaudi, 1981, p. 3; in Racconti, cit., pp. 221-237.
[ 23 ]
326 TONI IERMANO
La difesa della memoria della «terra dei padri» e la possibilità del
«ritorno» paiono costituire le ragioni essenziali anche dell’ultimo Jovine.
Il podestà, la moglie e tutte le autorità locali nei migliori anni del
consenso al fascismo vivono, malgrado reiterati soprusi, cattiverie e
gesti autoritari, in uno stato di natura tendente al ridicolo. Un esempio
di questo clima, che a raccontarlo appare inverosimile, è ricostruito nel
testo Il monumento storico, in cui si delineano i profili di Giacomo Fegona,
capo del «Governo nuovo a Guardialfiera», dell’ambizioso podestà
don Carlo Cerulli, di don Cosimo e del figlio don Tommaso Petrecca,
del notaio Ranalli e di un popolo vittima dei paradossali e incongrui
comportamenti dei suoi governanti. Nel racconto La rivolta, invece,
edito nella rivista «Il Risorgimento» nel ’45, i contadini, stanchi
della guerra, del ripristino del vecchio potere e del ritorno in municipio
di quelli «che c’erano prima» decidono di bruciare ogni cosa64. La
rivoluzione dell’ordine, del diritto, delle leggi cui la dittatura ripiega
dall’originaria azione di rinnovamento – iniziata del resto con il pestaggio
dell’imbianchino socialista Giuseppe Dracca – all’accordo con
i notabili Petrecca, per giungere al culto di Mussolini, alle sue guerre
cui la chiusura della valvola dell’emigrazione e le crisi dei raccolti,
fornisce in abbondanza «volontari», e poi l’autarchia fino al crollo del
sistema totalitario; Jovine ripercorre le tappe salienti del Ventennio, in
una trama storica fittissima, realizzata dalla convinzione di fornire del
fascismo, del tutto disinteressato ad un rinnovamento delle forme di
vita in Molise, l’immagine che il mondo contadino si era formata.
Il pastore sepolto, ripetiamo, è la seconda raccolta di novelle, apparsa
per i tipi Tumminelli. Nella prima, che dà il titolo al volume, si
narra, come già scritto, di una decaduta famiglia di proprietari terrieri,
che per fronteggiare cause pendenti si vede costretta ad alienare il
patrimonio. Questa condizione spinge i protagonisti a favoleggiare di
antichi tesori nascosti. Giustino D’Arienzo, il secondo notevolissimo
racconto apparso la prima volta su «Il Primato» di Bottai nel giugno
’43, ripercorre le esperienze di un giovane che lascia il paese per fare il
precettore in un collegio di provincia. L’umore instabile, la solitudine,
gli slanci ricchi di speranza, le improvvise disillusioni, il sofferto amore
per Saveria, sorella dello studente Giulio Angrisani, intimamente
invaghito del suo istitutore, sono ritratti attraverso un equilibrio de-
64 F. Jovine, La rivolta, in L’impero in provincia, cit., pp. 117-131, in particolare p.
130, in Racconti, cit., pp. 303-312.
[ 24 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 327
scrittivo tra la ricognizione degli stati d’animo e il riferimento alle vicende
esterne che gli causano inquietudine65.
Nella raccolta figurano inoltre nove testi nella sezione Storie contadine
e quattro in quella intitolata Gente di città, un modo per esemplificare
il problematico e reiterato conflitto città/campagna.
Durante la Resistenza Jovine si legò agli uomini del Partito d’Azione
e del Pci e partecipò al moto di rinnovamento della società italiana.
Nella Lettera ad Alvaro, apparsa su «Aretusa» nel ’45, Jovine, oltre a
difendere la natura e le ragioni della letteratura meridionale, illustra
la sua posizione politico-ideologica, sostenendo la necessità di creare
nel Mezzogiorno scuole elementari e tecniche per l’agricoltura e l’artigianato
e abolire «cento ginnasi». Vi erano «troppe ed inutili lavinee
da noi e troppi procaccianti di impieghi con una cultura sommaria,
abborracciata, sterile. Peso morto per il paese; mentre sarebbe validissima
gente quella che potremmo educare se puntassimo decisamente
sul popolo […]. Oggi quando diciamo popolo, diciamo contadini»66.
Questa serrata polemica, influenzata ancora una volta dalla lettura
di Dorso, di cui condivideva la feroce critica alla borghesia meridionale
portata avanti in quel tempo dall’avvocato avellinese sulle pagine
del giornale «L’Azione» di Napoli, lo induceva a rispondere al pessimista
pamphlet di Alvaro, L’Italia rinunzia (1944), in questo modo:
Lungo lavoro, caro Alvaro, ma bisognerà intraprenderlo subito: io non
credo che l’Italia rinunzi, mi attendo gli effetti benefici della sciagura.
Un popolo come il nostro non può morire; gli sarà lasciato, credo, veramente
fiato da potere riprendere lena. Ma occorre che questa volta
faccia veramente da sé, che crei il suo governo per crearsi la sua vera
civiltà, occorre che il popolo, muto per tanti secoli, parli, traduca in
termini comprensibili il suo incerto confuso linguaggio, che quella sua
triste pazienza e quei moti biechi e feroci che sono stati il suo modo
doloroso di ribellarsi, diventino fattiva energia67.
Tre anni dopo, nel 1948, escono due racconti lunghi di Jovine: Tutti
i miei peccati, da cui prende nome la raccolta, e Uno che si salva. Nel
primo Nicoletta Ristagno espone per lettera ad un sacerdote la sua
drammatica storia68. Lasciato l’Abruzzo con la famiglia, Nicoletta in-
65 Cfr. Id., Racconti, cit., p. 140.
66 Lettera ad Alvaro, a. II, aprile 1945, pp. 36-37.
67 Cfr. Lettera ad Alvaro, in Scritti critici, cit., p. 580.
68 F. Jovine, Tutti i miei peccati, Torino, Einaudi, 1974, pp. 7-76 [Racconti, cit., pp.
317-61].
[ 25 ]
328 TONI IERMANO
contra il tenente Mario De Francisci. Ne nasce una storia d’amore passionale.
Nicoletta resta incinta e, avviata a nozze riparatorie, conosce
appena dopo la luna di miele la reale natura dei sentimenti del tenente
che l’abbandona. Il frutto del suo amore porta l’emblematico nome
di Dolores. La donna sembra poter uscire dalla disperazione in cui
versa quando incontra Camillo Veltroni – un ingegnere, amico del padre
–. La Sacra Rota non annulla il suo vecchio matrimonio e da ciò
seguono giorni d’angoscia interrotti dalla notizia della morte presunta
di Mario. A seconde nozze avvenute Mario si fa vivo e ricatta Nicoletta
costringendola a subire la sua passione nell’oscuro ambiente di una
pensione, chiudendola in una situazione dalla quale la donna non riesce
a trovare la forza di uscire. Ciò motiva la richiesta di aiuto al confessore.
In Uno che si salva, una sorta di romanzo breve, il dramma del provinciale
inurbato vissuto dal protagonista Siro Baghini viene evitato
nelle sue estreme conseguenze dall’intervento di una studentessa,
Emma, che lo sprona e lo aiuta a tornare al paese salvandola dalla
perdizione cui lo avevano condotto il gioco d’azzardo e la volubilità
delle donne. La città viene ancora una volta raccontata nel suo volto
livido, minaccioso e moralmente degradato. Le strade affollate, trafficate,
anonime rimandano ad una condizione di solitudine e di sconfitta
esistenziale69.
Siamo ad un ritorno ai caratteri di Un uomo provvisorio e gli incubi
di Siro s’identificano con quelli di altri giovani provinciali descritti da
Jovine, sconvolti dai conflitti esistenziali e dall’irrequietudine della
vita in città.
A partire dal luglio del ’47 Jovine, riprendendo un’idea risalente ai
tempi di Signora Ava, lavorò alla stesura del romanzo Le terre di Sacramento,
uscito postumo otto anni dopo in veste einaudiana con uno
scritto di Natalia Ginzburg. La militanza ideologica si risolve in una
partecipata e commossa storia sociale del Molise e dei suoi poveri abitatori.
La figura di Luca Marano paga qualche tributo alla polemica
sui temi neorealistici del tempo, ma conferma l’adesione al realismo
dell’autore. L’analisi sulla realtà si associa alle questioni suscitate dalla
eco della meditazione gramsciana, per incrociare il problema centrale
del meridionalismo, come si prefigura in un articolo apparso su
«La Voce» nel ’4770. Le terre del Sacramento sono un antico feudo già
69 Cfr. Ivi, p. 192.
70 Id., Come ho visto la società meridionale, «La Voce», 19 dicembre 1947 poi in
Viaggio in Molise, cit., pp. 116-117.
[ 26 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 329
appartenente alla chiesa, espropriato con la legge del 1867 sulla vendita
dell’asse ecclesiastico e acquisito all’asta dalla famiglia Cannavale
dopo una lite giudiziaria durata quarant’anni con un prestanome
dell’amministrazione della mensa vescovile71.
Enrico, l’ultimo erede dei Cannavale, aveva abbandonato le terre
all’incuria, lasciandole diventare pascolo abusivo e legnaia per i contadini
di Morutri e Pietrafolca. La fantasia e la superstizione spiegavano
la decadenza del feudo con la maledizione divina che gravava
sugli usurpatori dei beni ecclesiastici: Laura de Martiis, una cugina
dell’avvocato Enrico – detto «la Capra del diavolo» per la sua barbetta
a capra e lo scintillio degli occhi – diventata la sua sposa, ebbe la
capacità di rettificare l’amministrazione del feudo servendosi dell’aiuto
del giovane Luca Marano, ex seminarista del seminario diocesano
di Calena, che aveva aderito al socialismo. Grazie alla sua buona fama
fece lavorare i contadini nella sassaia cui erano ridotti i terreni del
feudo. Ma Luca, «terzo di sei figli di una famiglia di cafoni di
Morutri»72, e i contadini furono ingannati: non ricevettero in enfiteusi
le terre del Sacramento. Si decise allora di occuparle armi in pugno
contro il parere di Luca che voleva solo continuare a lavorarle. La sua
ora era segnata, il fascismo locale non permise «soprusi»: Luca restò
ucciso dal fuoco dei carabinieri e delle camicie nere; Laura partì per
Sanremo convinta delle sue ragioni e dimentica di tutte le promesse
fatte.
Le terre del Sacramento è il romanzo corale di una generazione,
l’epopea contadina in perenne lotta per la sopravvivenza contro l’autorità,
una sorta di polittico pieno di formidabile vitalità, una epica
popolare, permeata di coscienza civile e trasparente vocazione poetica,
che coinvolge la società di Calena, Isernia e Morutri, divisa in classi
antagoniste per il possesso della terra, che viene devastata dal vento
della rivolta. Jovine, in una testimonianza radiofonica del 3 aprile del
’50, spiegava la veridicità della storia richiamandosi alla lezione verghiana
appresa dagli studi di Luigi Russo73. La verbalizzazione della
71 Cfr. Id., Le terre del Sacramento, Torino, Einaudi, 19775, p. 60.
72 Ivi, p. 50.
73 “Le terre del Sacramento hanno venti o trenta di primo piano; decine di personaggi
visti di scorcio e movimenti di folle contadine e di città. Il libro è tutto mosso,
narrato senza concessioni, sia pur minime, ad abbandoni descrittivi o lirici. I personaggi,
tutti nettamente caratterizzati a pieno rilievo, si muovono, parlano ed
hanno essi soltanto il compito di creare la loro aria”: Id., Testimonianza dell’autore,
in Le terre del Sacramento, Torino, Einaudi, 2007, p. 256.
[ 27 ]
330 TONI IERMANO
cronaca non sopravanza o scalfisce la tempra di una scrittura ancorata
ad una originale risorsa creativa:
I canonici, i preti si mescolano a tutti gli intrighi, portandovi un’azione
religiosa che alleggerisce le coscienze di tutti gli scrupoli, ma essi non
possono regolarsi che a quel modo: un vecchio prete missionario in
Africa per quarant’anni rappresenta la opposizione ideale all’attività
dei suoi colleghi, e fa il contemplativo, poiché egli non vuole togliere
delle paure per immettere altre paure nei cervelli di quei suoi primitivi.
Gli studenti ripetono mozziconi di frasi apprese dai loro maestri
nell’Università di Napoli, nei caffè, nelle mense studentesche, affollate
e rintronate di richieste perentorie di una ‘mezzafagioli’ e di quartini
di pessimo vino. I contadini fantasticano sul frutto delle loro fatiche,
mescolando i loro canti assai miseri con salmodie religiose e paure
dell’invisibile. Infine le stesse femmine, in una casa di malaffare danno
sfogo a turno a tutti quei giovani tori per poche lire e quando mancano
le lire per tutti, si piegano al gioco della riffa per offrire i loro favori al
prescelto dalla sorte74.
La poesia e la speranza di riscatto di una terra umiliata preludono
ad una soluzione rivolta alla umanizzazione di terre sommerse, desiderose
di rinnovamento. Jovine rilegge le vicende del Molise con profonda
sensibilità storico-sociale, senza cadere nella retorica populista
paventata, con arbitrarietà interpretative, da Asor Rosa, che, nel giudizio
su Le Terre del Sacramento, insiste sul «paesanismo» di un autore
che, pur concedendogli a malincuore l’onore delle armi, definisce
«non di grande statura»75. Nel romanzo si reitera l’impegno nella scoperta
dell’identità di uno spazio che pare non avere né principio né
fine e nello svelamento delle fatia, che dolorosamente contraddistingue
l’esistenza delle famiglie contadine:
A Morutri ci fu un inverno di buio e di neve. […] I contadini avevano
intrecciati tutti i vimini colti nell’estate, impagliate tutte le sedie che
avevano da impagliare, avevano rifatto i manici a tutti i bidenti e alle
accette, le punte agli aratri. Finita la breve luce diurna, per i vicoli di
Morutri, non s’udivano che le voci basse della gente raccolta intorno ai
focolari e il pesticciare delle bestie sullo strame. Le donne preparavano
la «sagna» serale con aglio e peperone. Poi, lentamente, le famiglie al
completo si raccoglievano intorno al fuoco e mangiavano colla scodella
sulle ginocchia. I vecchi di solito, dopo il pasto, andavano a letto; i
74 L. Russo, Le terre del Sacramento, «Milano sera», 21 luglio 1950.
75 Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea
[1965], Torino, Einaudi, 1988, pp. 196-199.
[ 28 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 331
giovani andavano a governare gli animali nelle stalle circostanti. Poi
non avevano altro da fare, e le notti erano lunghe. Il riposo forzato li
faceva inquieti e scalpitanti come i muletti legati alla greppia. E la sera
si scatenavano nei balli e nei giochi. Per tutto il carnevale si riunivano
in otto o dieci case, a turno. Arrivavano portando sotto il cappotto una
bottiglia o un orcio pieno di vino; qualcuno aveva tre giumelle di ceci
abbrustoliti, legati in un fazzoletto; masticavano ceci e bevevano il rosso
di Befagna. Ballavano, ballavano; ridevano e lanciavano atroci frizzi
che rischiavano di degenerare in liti da coltello. Tra un ballo e l’altro
facevano giochi comuni. Si trattava di pantomime con fulminanti battute
di dialogo e percosse da spezzare il filo delle reni, di ceffoni che
schioccavano come colpi di staffile76.
La speranza disillusa di ottenere le terre e il sangue che l’ha bagnata
non lasciano spazio all’ideologia dei “vinti”, sottomessi alle ferree
leggi della conservazione e dei privilegi istituzionalizzati.
L’autore riesce ad intridere le storie di un messaggio lirico che non
corrode la carica ideologica accuratamente inalveolata nella partitura
fantastica:
Piansero e cantarono grande parte della notte, rimandandosi le voci,
parlando tra loro con ritmo lungo, promettendo tutto il dolore ai morti.
La notte era buia e le voci si perdevano sulla terra desolata oltre il circolo
di luce che faceva il fuoco, ancora vivo77.
Luca Marano, l’ex seminarista figlio di contadini, è innalzato a simbolo
della rivolta delle classi subalterne per la conquista della giustizia
sociale:
E di nuovo ‘ulivelle stente, antiche, corrose dalle intemperie’ torneranno
nelle lotte contadine per Le terre del Sacramento, e se ne scalzeranno
le radici per coprirle di letame e di buon terriccio: torneranno quasi a
indicarci come la condizione contadina tradizionale che Francesco Jovine
aveva così sensibilmente colta nel Viaggio quale identità più profonda
del Molise sia entrata a creare certe figure sue indimenticabili, e
l’alto pianto per Luca Marano spada lucente78.
Luigi Russo, che con Jovine condivise amicizia sincera, nel tentativo
di spiegare criticamente Le terre del Sacramento, così ne riassumeva
i motivi:
76 F. Jovine, Le terre del Sacramento, cit., pp. 129-130.
77 Ivi, p. 251.
78 A. M. Cirese, Intellettuali e mondo popolare nel Molise, Isernia, Marinelli, 1983,
p. 60.
[ 29 ]
332 TONI IERMANO
Alla fine ci sentiamo concittadini di Calena, di Morutri, di Pietrafolca,
di tutti quei villaggi montuosi; e partecipiamo con affetto antico alle
passioni, ai pregiudizi di tutto quel bulicame dei secoli che ora si è canalizzato
nelle vene di persone chiamate a recitare la loro parte tra i
1921 e il 1922. Protagoniste le terre del Sacramento, ma anche il Seminario
di Calena79
L’impegno militante, sostenuto da una fervida attività giornalistica,
in special modo a partire dal ’45, su «La nuova Europa», «L’Unità»
e «Vie nuove», s’interruppe il 30 aprile del ’50 con la scomparsa di
Jovine; le bozze del romanzo furono riviste dalla moglie Dina Bertoni
e da Carlo Muscetta, che considerò Le terre del Sacramento «il suo libro
più rappresentativo» anche per il modo come veniva analizzata la vita
religiosa, spiegata non più come fatto individuale bensì come questione
collettiva e sociale80. Arnaldo Bocelli, che aveva seguito nel
tempo la proposta narrativa di Jovine, su quest’ultimo romanzo, uscito
al termine di un quinquennio intensissimo per la narrativa italiana,
notava:
Jovine muove idealmente dalla tradizione verista meridionale, specie
verghiana, ma con spirito e gusto scaltriti dalle esperienze letterarie
più recenti. Quell’interesse, quella simpatia morale e sociale che i veristi
ebbero per gli «umili», per i «primitivi», e per il loro istinto o destino
migratorio (verso la città, il continente nuovo o antico, la fortuna, la
«roba»), in lui si mescolano con temi autobiografici, con arcani ricordi
d’infanzia, e però l’originario realismo si tempera d’umore, si vena di
lirismo, assume un distacco fra d’idillio, di favola e d’avventura. E la
«provincia», pur così geograficamente e storicamente determinata
(quel nativo Molise, insigne per antica civiltà ma prostrato per lungo
abbandono), diventa in Jovine metafora o mito d’una condizione umana,
una regione o categoria dello spirito; è il senso, la memoria, l’alone
fantastico di quell’abbandono, di quella accidia atavica81.
L’attitudine a rivitalizzare i luoghi perduti, il tepore della tradizione,
i canti popolari – pensiamo a Tu vaie a la ponte, le panne a lavà e alla
bellissima Canzone d’altre tiempe – il fiume Biferno, volubile nel condizionare
le stagioni degli uomini, ritrovano tonalità originali per nulla
79 L. Russo, Ricordo di Francesco Jovine, cit., p. 482.
80 C. Muscetta, L’ultimo libro di Jovine [1950], in Id., Letteratura militante, Firenze,
Parenti, 1953, pp. 258-262 (poi Napoli, Liguori, 2007, pp. 220-223).
81 A. Bocelli, L’ultimo Jovine, «Il Mondo», 12 agosto 1950 ora in F. Jovine, Le
terre del Sacramento, cit., pp. 260-262.
[ 30 ]
le terre incantate di Francesco Jovine 333
soffocate dalla orografia di un Molise primitivo e metaforico che talvolta
rassomiglia nei suoi simboli alla Sicilia di Vittorini o alla Calabria
di Alvaro. Secondo Bachelard «la rêverie pura, colma di immagini,
è una manifestazione dell’anima, forse la sua manifestazione più
caratteristica»82. Anche Guardialfiera, un giacimento di «tesori nascosti
» in cui spesso il diavolo si divertiva a maledire l’oro facendone rame83,
può essere considerata una delle mitiche e allegoriche terre meglio
conosciute nelle vittoriniane città del mondo. Jovine nel regno delle
immagini, in un calore intimo dell’anima, raggiunge i documenti segreti
della poesia tenendo “aperto durante il sogno uno spiraglio sulla
realtà”84. Nel suo status di sognatore ne ha saputo sempre cogliere le
interferenze con le inevitabili delusioni.
Toni Iermano
(Università di Cassino)
82 G. Bachelard, La poetica della rêverie, cit., p. 73.
83 Cfr. F. Jovine, Le lacrime degli eredi [1942], in Il pastore sepolto, cit., pp. 117-122
[Racconti, cit., pp. 167-170].
84 L. Malerba, La composizione del sogno, Torino, Einaudi, 2002, p. 97.
[ 31 ]
CARLO AVILIO
Una commedia inedita di Francesco Mastriani:
Il marito di tela
Francesco Mariani’s remarkable activity as a writer includes several
plays ranging from the historical drama to the comedy of manners
and from the Risorgimento comedy to the vaudeville. Il marito di tela
(1851 ca.), a vaudeville, is here reproduced in a diplomatic transcription.
It is a light comedy belonging to the genre of social caricature,
whose main subjects are wives, husbands, and marriage in general.
L’attività narrativa di Francesco Mastriani, lontana da ogni coeva
tendenza o scuola, preceduta da un’intensa produzione giornalistica
(articoli di cultura, elzeviri, note di cronaca e di costume sui principali
fogli napoletani)1, annovera un numero cospicuo di fortunati romanzi
d’appendice, tutti pubblicati sul «Roma».
Dal 1847, anno della pubblicazione del suo primo romanzo, Sotto
altro cielo, la prolifica vena narrativa del Mastriani non conobbe quasi
sosta, fino al 1891, anno della morte. L’affetto del pubblico che leggeva
a puntate i suoi romanzi, pubblicati nei fogli d’appendice del quotidiano
napoletano, gli garantì un ruolo fondamentale nella letteratura
di consumo del secondo Ottocento, non solo napoletano, fino a fare di
lui un vero e proprio caso letterario, paragonabile a quello di un’altra
grande appendicista dell’Ottocento, Carolina Invernizio2. Questo straordinario
successo di pubblico non riuscì, tuttavia, ad affrancare l’autore
da alcuni pregiudizi di fondo, che concernevano l’appartenenza
dei suoi romanzi al genere d’appendice e la marcata napoletanità di
storie, luoghi e personaggi. Per queste ragioni, fino alla recente riscoperta
della critica3, che ha finalmente cominciato a cogliere l’originali-
1 Parte della prima produzione giornalistica fu raccolta dallo stesso Mastriani
nei due volumi di Novelle Scene Racconti, Napoli, Giosue Rondinella, 1869-1870.
2 T. Scappaticci, Tra consenso e rifiuto: scrittori a pubblico tra Otto e Novecento,
Cosenza, Pellegrini, 2003, p. 39.
3 Sul Mastriani: F. Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastria-
Meridionalia
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 335
tà della sua vena al di fuori degli schemi letterari ufficiali4, Francesco
Mastriani è stato relegato tra quegli autori minori, ai quali talvolta si
concede qualche riga nelle Storie letterarie.
Maestro indiscusso di un realismo napoletano tardo ottocentesco
che avrebbe avuto grande fortuna anche nel secolo successivo, Mastriani
regala pagine di cruda bellezza narrativa e descrittiva, non solo
attraverso i romanzi, ma in qualunque genere prosastico la sua penna
si cimenti. Tuttavia, rispetto alla già citata fortuna di una produzione
narrativa che annovera titoli quasi proverbiali, come La cieca di Sorrento
(1852), I misteri di Napoli (1869-’70), La sepolta viva (1889), I lazzari
(1865), meno calorosa fu l’accoglienza destinata alle prove drammatiche
dell’autore, forse colpevoli di una troppo evidente dipendenza dai
moduli ampiamente utilizzati nella narrativa d’appendice.
Impostata, infatti, su moduli «ampiamente sperimentati anche nella
narrativa d’appendice, e su sempre validi messaggi etico-sociali,
[…] la produzione teatrale di Mastriani appare ricca e discretamente
variegata»5.
La scrittura teatrale di Mastriani spazia, comunque, dal dramma a
tinte fosche al dramma storico, dalla farsetta alla commedia di costume,
dalla commedia risorgimentale al vaudeville, genere a cui appartiene
Il marito di tela. Il terminus ante quem per la stesura del testo è
chiarito dal visto di rappresentazione del 1851, apposto sul manoscritto
conservato presso la sezione “Lucchesi-Palli” della Biblioteca Nazionale
di Napoli, che per la prima volta viene ora ripubblicato.
Siamo, dunque, ancora in una fase iniziale della produzione delni,
Napoli, Gargiulo, 1891; G. Algranati, Un romanziere popolare a Napoli: Francesco
Mastriani, Napoli, Morano, 1914; L. Bovio, I miei napoletani, Napoli, Clet, 1935; A.
Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli tra Otto e
Novecento, Napoli, Liguori, 1972; B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1990,
in Id., La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, vol. IV, 1973, pp.
251-331; L. Russo, I narratori (1850-1950), a cura di G. Ferroni, Palermo, Sellerio,
1987; T. Scappaticci, Il romanzo d’appendice e la critica: Francesco Mastriani, Cassino,
Editrice Garigliano, 1990; Id., Tra orrore gotico e impegno sociale: la narrativa di Francesco
Mastriani, Cassino, Garigliano, 1992; Id., Tra consenso e rifiuto: scrittori a pubblico
tra Otto e Novecento, cit.; C.A. Addesso, Francesco Mastriani a teatro, Napoli, Fridericiana
Editrice Universitaria, 2009; S. Della Badia, Nel ventre di Napoli (1860-
1943), in Napoli, città d’autore. Un racconto letterario da Boccaccio a Saviano. Opera
diretta da R. Giglio, a cura di S. Della Badia, A. Putignano, P. Villani, Napoli,
Edizioni Cento Autori, vol. II, 2010, pp. 139-143.
4 Per un’ampia panoramica e bibliografia su questo aspetto rinvio ancora a T.
Scappaticci, Il romanzo d’appendice e la critica: Francesco Mastriani, cit.
5 C.A. Addesso, Francesco Mastriani a teatro, cit., p. VIII.
[ 2 ]
336 CARLO AVILIO
l’autore, che, nel 1847 ha pubblicato il suo primo romanzo e non è,
ancora, lo scrittore “troppo napoletano” delle sue opere maggiori, in
cui offre quello spaccato spesso quasi documentaristico delle piaghe
della città di Napoli, del suo popolo, dell’intero e retrivo meridione
d’Italia, che gli ha probabilmente precluso i ranghi più alti della letteratura
nazionale.
Il marito di tela è una commedia gustosamente leggera, dove la vita
quotidiana, descritta in tutti i suoi affanni e la sua durezza dal Mastriani
“maggiore”, entra ed esce da una finestra inavvertitamente lasciata
aperta, proprio come una folata di vento, senza turbare personaggi
ed eventi. È, indubbiamente, quel suo essere una commedia
“liberamente ridotta dal francese” a garantirle leggerezza, ad affrancarla
da quello che Mastriani, sin dai suoi esordi giornalistici, sembra
avvertire come il dovere dell’impegno realistico. Il risultato è godibile;
in scena la vagamente moralistica costruzione del personaggio di Lucietta
riceve leggerezza dalla continua capricciosa variatio garantita da
Biagio, servo scaltro, ma non troppo, che ha dietro di sé tutta l’annosa
tradizione della servitù di scena. Il marito di tela che si fa “di carne ed
ossa” irrompe sulla scena come un improvviso deus ex machina, incapace,
però, di risolvere i suoi di problemi, alla cui risoluzione penserà
il personaggio femminile, che, grazie ad una preziosa agnizione finale,
capace di nobilitare l’assai “fanfarone” marito di tela, potrà anche
concedersi liberamente all’amore.
Carlo Avilio
(Napoli)
APPENDICE
Il marito di tela6
Commedia in un atto liberamente
6 Il manoscritto de Il marito di tela è conservato a Napoli, nel “Fondo Lucchesi-
Palli” della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, con la segnatura: ms. L.
P. 1809/05, n. inv., 35807.
Si tratta di un manoscritto, non autografo, cartaceo (mm 310 × 200), rilegato in
volume miscellaneo, di 21 carte, di cui sono bianche la 1v e la 2v. La carta 1, diversa
per spessore e colore dalle successive, fu aggiunta verosimilmente in fase di rilegatura
e di inventariazione del volume, avvenuta nel 1957.
Il manoscritto presenta due numerazioni in cifre arabe, poste entrambe nell’angolo
superiore esterno di ogni carta. Quella originale, a inchiostro bruno, comincia
[ 3 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 337
ridotta dal francese7 dal signor
dalla c. 2r ed è talvolta omessa; la seconda, verosimilmente apposta in fase di rilegatura,
è a matita, a partire dalla c. 1r e presenta errori nella sequenza.
Il manoscritto presenta almeno tre diverse grafie. Quella in cui è vergato il testo
della commedia è chiara, presenta correzioni, cancellature e frasi interlineari.
L’usura ed il tempo hanno procurato arricciature della carta, che risulta talvolta
sbiadita soprattutto ai margini, compromettendo la leggibilità di singole lettere o
sillabe.
Una seconda grafia, coeva alla precedente, appare nel visto di rappresentazione
della «R. Soprintendenza de’ teatri…”» (c. 2r). La terza compare solo nel titolo
della c. 1r.
Sulla c. 1r il titolo, «Il marito di tela» è seguito da timbratura ovale con scritta
“BIBLIOTECA LUCCHESI PALLI”. Sul margine superiore della carta appare il
numero di inventario «35807», seguito da «N° 37». Nel quadrante superiore destro
il numero «V» indica la numerazione progressiva del ms. all’interno della miscellanea.
Sulla c. 2r compare lo tesso timbro della c. 1r. Nel quadrante superiore sinistro
si legge «Compagnia Accademica Antonio Caruso», cui segue, depennato, «Compagnia
di Mastriani». Depennato è anche il titolo alternativo, «Il Porta Rispetto».
Sul margine sinistro sono apposti timbro e visto di rappresentazione: «R. Soprintendenza
de’ teatri / Napoli 20 Ag. 1851 / La presente produzione appartiene / al
repertorio approvato / dal Segretario / Vincenzo Brignole». Ancora sul margine
sinistro, in corrispondenza dei nomi dei personaggi, si legge: «Fr: Mastriani /
Ferd.o Mastriani / Greg: Mastriani / Lu[?]et: Mastriani // Luca»; segue una parola
depennata.
L’edizione del testo è una trascrizione diplomatica; gli unici interventi sono
finalizzati alla razionalizzazione dell’interpunzione e al risarcimento delle abrasioni
e delle omissioni del copista, rispettivamente indicate tra parentesi quadre ed
uncinate.
La commediola andò in scena a Napoli il 5 giugno 1853 al Teatro San Ferdinando,
e il 31 luglio e l’8 settembre dello stesso anno al Teatro Fenice, secondo quanto
risulta dai Programmi giornalieri degli spettacoli, balli, feste, concerti ed altri divertimenti,
[Napoli], 1853, nn. 54, 111 e 150. La Addesso, Francesco Mastriani a teatro, cit., p.
14, nota 38, fa cautamente osservare anche una probabile messa in scena il 25 settembre
1870 al Teatro San Ferdinando con il titolo Il marito di tela e la moglie di carne,
rilevando che il relativo Programma giornaliero non riporta né l’autore né la Compagnia.
Non è escluso – aggiungo – che si possa trattare di tutt’altra cosa, visto che
presso la Biblioteca comunale “Labronica” di Livorno è reperibile Un marito di tela
e la moglie di carne: commedia in un atto di Luigi Marchionni (doc. dal 1846), Milano,
Libreria editrice, 1882.
7 Nel programma del 5 giugno citato alla nota precedente, così come nel frontespizio
del manoscritto si fa riferimento alla derivazione de Il marito da un non
specificato originale francese. La scheda catalografica della “Lucchesi-Palli” fa più
dettagliatamente rinvio a un vaudeville del prolifico autore francese Pierre-Antoine-
Auguste Thiboust (1827-1867), Un mari dans du coton, Parigi, M. Lévy frères,
1862. Tuttavia le due opere non hanno niente in comune, se non genericamente il
titolo e l’appartenenza al medesimo filone di “[…] ‹‹caricature›› sociali di mogli,
[ 4 ]
338 CARLO AVILIO
Francesco Mastriani
Attori
Abele Varrocca, sotto il nome di Catillard
Prospero Stringitore, usciere
Stefano
Lucietta Arnaldi
Biagio, vecchio domestico
La scena è in una città d’Italia
Atto unico
Appartamento messo con decoro. Un ritratto in fronte dello spettatore. A sinistra una
finestra che affaccia sulla strada… Sedie, tavolino, ec. ec…
Scena I
Lucietta e Biagio
Biagio alla finestra facendo dei segni a qualcuno.
Lucietta seduta leggendo una lettera.
Lucietta (leggendo) “Signorina, mi è stato impossibile finora di ritrovare la
persona di cui m’incaricaste di pormi sulle tracce; o i ragguagli che
mi deste erano inesatti, o questa persona ha cangiato nome. Nei
diversi quartieri che ho stimato dover io medesimo visitare, non
ho nulla saputo che potesse mettermi sul cammino di scovrirlo.
Godete adunque senza scrupolo d’una fortuna che vi appartiene
per tanti diritti, che, come spero, dovete ritenere anche vostro malgrado”.
(Gettando la lettera sul tavolino) No, io non abbandonerò
ancora questa città, egli dev’esservi certamente. Il mio uomo d’affare
non avrà fatto tutte le possibili ricerche… Bisogna rassegnarsi
ed attendere. Biagio.
Biagio Signora.
Lucietta Che guardi?
Biagio Io? La casa nostra che si sta intonacando… Han posto la scala sotto
la nostra finestra… Dite un po’, signora, arriva oggi, eh?
Lucietta Chi?
Biagio Chi? Vostro marito, per bacco!
Lucietta (con imbarazzo) Non so… forse…
Biagio Sono sei mesi che ho l’onore di trovarmi ai vostri comandi, e voi
mi dite sempre: “domani… la settimana vegnente…”. Io non so
che strada ha preso questo vostro signor marito, ma certo non
dev’essere la strada di ferro.
mariti o, in generale, del matrimonio […]” (cfr. C.A. Addesso, Francesco Mastriani
a teatro, cit., p. 19).
[ 5 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 339
Lucietta Affari importanti lo avranno trattenuto alla Martinicca più lungo
tempo ch’egli non pensava. Il cielo non voglia che gli sia accaduta
qualche disgrazia.
Biagio Disgrazia! A meno che non sia accaduto qualche naufragio, non
pare che egli abbia a temere d’altro. (Guardando il ritratto) Ma mi
pare che voi non avevate questo ritratto quando io sono entrato in
vostra casa.
Lucietta (imbarazzata) La tua osservazione è giusta… mio marito si è fatto
ritrattare nell’estero, e mi ha mandato questo quadro… Ma via,
Biagio, termina di assestar questa stanza perché debbo uscire.
Biagio La signora esce?
Lucietta Debbo andare dal mio uomo d’affari… (Si sente un picchio alla porta)
Han picchiato.
Scena II
Biagio, Lucietta e Stefano
Lucietta si pone a lavorare vicino al tavolino
Biagio Che volete, signore?
Stefano (senza entrare) La signorina è visibile?
Biagio Qui non ci sono signorine.
Stefano Che importa! Signora o signorina, voglio parlare alla padrona di
questa casa.
Biagio La signora non riceve nessuno.
Stefano Si tratta di un affare importante.
Biagio Mi dispiace, ma non potete entrare.
Lucietta (senza guardare) Chi è dunque?
Stefano È dessa. (Urta la porta e si avanza salutando in un modo cavalleresco)
Signora… signorina, ho l’onore…
Lucietta (turbata) Signore… (A Biagio) Come! hai lasciato entrare questo
giovine?
Biagio Per bacco! egli è entrato per forza!
Stefano Signora, voi non mi riconoscete?
Lucietta (freddamente) No signore.
Stefano Come signora, avete dimenticato il vostro vecino di ieri sera
all’opera, terza fila, numero sei?
Lucietta Signore…
Stefano Sì signora, io sono il numero sei. Ma che! vi è forse uscito dalla
memoria? Ah, la mia è più fedele, vi giuro, e non dimenticherò
mai la conversazione che avemmo insieme.
Biagio (Che birbante! Egli solo facea le domande e le risposte.)
Stefano (Spero che manderà via questo vecchio.)
Lucietta (sotto voce a Biagio) (Non t’allontanare.) Voi mi vedete sorpresa della
vostra venuta perché non credo avervi incoraggiato con le mie
parole o per la mia condotta a presentarvi in casa mia.
[ 6 ]
340 CARLO AVILIO
Stefano (Che aria severa! Ella crede che io sia un collegiale.) Signora, non
avrei osato importunarvi, se non vi fossi stato obbligato da un dovere
imperioso.
Lucietta Che volete dire?
Stefano Io vengo a portarvi questa camelia che perdeste ieri sera al teatro.
Biagio (Che bugiardo! Egli uscì prima di noi.)
Stefano (Ecco un bel mezzo, con una camelia un giovine può presentarsi
da tutte le signorine.)
Lucietta V’ingannate signore, questa camelia non mi appartiene. Degnatevi
ricevere i miei ringraziamenti per l’incomodo che vi siete preso.
Biagio (Benone.)
Lucietta Biagio, conducete il signore alla porta.
Stefano (Come! Cacciarmi quando non ho avuto il tempo di dir quattro
parole.) Signora, oserei dimandarvi il permesso di ritornare domani.
Lucietta No signore.
Stefano Ho8 capito: in casa non ricevete, ma forse per la strada…
Lucietta Io non esco mai, signore.
Stefano La signora è forse sola: se il mio braccio potesse servirle, per il
ballo, pel teatro, pel passeggio, dite una sola parola, e tutto è al
vostro servizio, il mio cameriere e il mio cabriolet (sempre è buono
dire d’avere un cabriolet.)
Lucietta Ve lo ripeto, non ho bisogno di nessuno, andate via.
Stefano (Bisogna essere ostinato.) Signora, io non andrò via, non uscirò di
qui senza dirvi prima che io v’amo, vi adoro, che i vostro occhi mi
hanno fatto perdere il capo fin da… ieri sera.
Lucietta Uscite, uscite, signore, di casa mia.
Stefano No, voi mi ascolterete, perché io ritornerò tutt’i giorni.
Lucietta E bbene, signore, allora incaricherò lo stesso mio marito di ricevervi.
Stefano (colpito) Che! voi siete maritata?
Lucietta Da due anni.
Biagio E questo è il ritratto di nostro marito.
Stefano Maritata! Ma questa è un’infamia, bisognava dirmelo prima.
Biagio Prima che si fosse maritata?
Stefano (a Lucietta) Va bene… va benissimo, io mi ritiro. Signora, ho l’onore
di salutarvi. (Esce confuso)
Scena III
Lucietta e Biagio
Biagio (ridendo) Ah ah ah, povero diavolo! È restato mortificato! Egli vi
credeva nubile, vedete a che sono esposte le povere donne!
8 In interlinea. Depennato: «Oh».
[ 7 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 341
Lucietta Sempre visite, biglietti galanti, dichiarazioni.
Biagio Come guardava quel povero ritratto! Ah! Signora, voi avete là un
famoso Porta rispetto, fa paura ai galanti.
Lucietta (ridendo) È il decimo che questo ritratto ha spaventato… Biagio,
hai preparato il tutto per la mia toletta?
Biagio Sì signora. Vi metterete ancora il vostro abito nero?
Lucietta No.
Biagio Portavate il lutto di qualche parente?
Lucietta No, Biagio, io sono stata educata da una eccellente donna che prese
cura di me: a lei debbo tutto, felicità, fortuna, educazione…
Biagio E d è ancora questa dama9 che vi ha maritata?
Lucietta (sorridendo) Sì, sì… vado a vestirmi. (Entra)
Biagio (guardando il ritratto) È una cosa curiosa! Io non lo trovo affatto
bello il marito della signora Lucietta: ha una certa aria selvaggia
che non mi va niente a sangue.
Lucietta (da dentro) Biagio, Biagio.
Biagio E ccomi, signora… (Entra)
Scena IV
Abele solo
Dopo che Biagio è entrato, uno schiamazzo violento si fa sentire nella strada, poi Abele
comparisce alla finestra e salta nell’appartamento dopo avervi gittato uno sguardo;
egli porta un cappello a larghe falde.
Nessuno!… Ammazzato l’usciere e le sue guardie. Credo che
avranno perdute le mie tracce… ah, ah, parlano col tabaccaro…
fermano l’omnibus… per gli occhiali di mia nonna! L’ho scappata
bella!… Pocanzi scuoto i papaveri del sonno, ed esco per prendere
un esercizio più nutritivo… in un tratto mi trovo in faccia di un
brutto ceffo di tribunale che mi saluta sorridendo; io mi scosto per
farlo passare, ma là, l’amico si rivolge al bavero del mio soprabito
con tutta la forza che gli dava la speranza di afferrare una sospirata
vittima. Io gli aggiusto su i baffi un pugno tale che l’ha interamente
sconcertato dalle sue funzioni… mi lascia, io volo come una
freccia; tutte le porte sono chiuse… dove trovare un rifugio? Per
buona sorte, mi abbatto in questa scala tutelare, salgo ed eccomi
qua. In casa di chi sono io? Perché finalmente debbo essere in casa
di qualcuno. Ah! se mi trovassi nell’appartamento di una bella
donna! Che piacere! Gli uomini sono cattivi sin nel fondo dell’anima,
ma le donne… Cospetto! Non c’è che dire, vi è una gran differenza,
per me, tra la donna e l’uomo. Al bel sesso sono debitore di
mia madre, e della mia nutrice, ed al sesso maschile sono debitore
di mille scudi.
9 In interlinea. Depennato: «donna».
[ 8 ]
342 CARLO AVILIO
Lucietta (da dentro) Biagio, mi pare che han picchiato alla porta.
Abele Oh! ah! han parlato. (S’accosta alla porta e guarda dalla serratura) Una
bella donna. Io sono in casa d’una bella donna, e come presentarmi?
(Osservando la stanza) Dev’essere qualche dama d’importanza!
La mobiglia è tutta di mogano e dei quadri… Ah mio Dio!… (Fregandosi
gli occhi) Io non m’inganno! questo è ritratto mio. Sono io,
sissignore, questa è la mia faccia, oh! riconosco i miei peli. Questo
è il mio ritratto che fu venduto all’incanto tra le altre mie suppellettili,
per autorità di giustizia. Ma come diavolo si trova qui? In
casa d’una donna che io non conosco! Per mercurio! sono io forse
divenuto un uomo celebre? Eppure io non sono Napoleone. (Si
picchia alla porta)
Biagio (dalla porta comune) Vengo, vengo.
Abele Vieni, vieni. (Corre alla finestra per fuggire e si ferma) Diavolo! han
portato via la scala! Oh, ci sono qual Perillo entro al suo toro10.
Dove nascondermi? Non c’è un letto, un armadio… Ah! ah! un
gabinetto. (Entra nel gabinetto. Si picchia più forte)
Scena V
Biagio, Abele nascosto, Prospero poi Lucietta
Biagio Vengo, vengo. Che diamine! Ah! signora, se costui fosse vostro
marito. (Apre) Ah! un incognito: quanto è brutto!
Prospero (da dentro) Vecchiotto, non è questo il secondo piano?
Biagio (con dispetto) Sissignore.
Prospero Questa stanza non ha una finestra sulla stra[da?]
Biagio Una finestra con quattro vetri. (Dev’essere qualche impiegato delle
contribuzioni.)
Prospero Dite al vostro padrone che debbo parlargli.
Biagio Il mio padrone è uscito.
Prospero Uscito? da quanto tempo?
Biagio Presso a poco da diciotto mesi. Non vi consiglio d’aspettarlo perché
è andato alla Martinic[ca.]
Prospero (Non mi hanno ingannato, il marito è assente.) Si può parlare alla
vostra padrona?
Biagio La mia padrona non so se ci è. (Gridando) Signora, ci siete?
10 Perillo di Atene (VI secolo a. c.), fonditore di metalli, realizzò per il tiranno
di Agrigento, Falaride, uno strumento di tortura e morte: un gigantesco toro di
bronzo nel cui interno venivano rinchiuse le vittime, fatte perire mediante un fuoco
acceso sotto alla parte ventrale dell’animale. A quanto pare la crudeltà del re
non risparmiò l’artefice, che appunto perì “entro al suo toro”. (Cfr. E. M. Moormann,
W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico: dizionario di storia, letteratura,
arte e musica, ed. it. a cura di E. Tetamo, Milano, Mondadori, 1997, pp.
584-585).
[ 9 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 343
Lucietta (entrando) Fa’ dunque entrare.
Prospero (avvanzandosi verso di lei) Eccola! (La forza è laggiù, il mio fuggitivo
è segnalato, posso dunque far camminare nel tempo stesso l’amore
e la procedura.)
Lucietta (Se non m’inganno questi è colui che mi perseguita da molti giorni.)
Prospero Scusate la libertà che mi prendo signora. Come vedete io passeggio
innanzi alla vostra casa fin dacché il sole si è levato.
Abele (apre un poco la porta del gabinetto e la chiude presto) Cielo! Il mio
diavolo!
Prospero Per professione io mi alzo coll’astro del giorno. Mi chiamo Prospero
Stringitore e sono usciere del Tribunale di Commercio. Figuratevi
signora, che sto perseguitando un bricconcello che si è travestito
sotto il nome di Catigliardi, dopo aver svaligiato tutto l’almanacco
e11 cambiato quindici volte domicilio.
Lucietta Ma che m’importa tutto questo?
Prospero Giudicate dalla mia gioia sapendo che il mio debitore si è rifugiato
in questa casa.
Lucietta (ridendo) In questa casa? Oh! oh! il bel pretesto che avete inventato
per venirmi a contare le vostre insipide galanterie. Avete inventata
questa istoriella per presentarvi in casa mia.
Prospero Signora, è pura verità quel che vi dico, ma non è questo lo scopo
della mia visita. Lo scopo voi l’avete indovinato. Sono io che vi ho
seguita e che vi seguirò sempre col cuore e colle gambe.
Lucietta Io sono maritata, signore, e voi non avreste giammai dovuto rivolgermi
simili parole. Uscite all’istante.
Prospero Maritata? Ebbene, tanto meglio.
Lucietta Signore, voi m’insultate.
Biagio (prendendo per la mano Prospero) Venite qua, guardate.
Prospero E bbene?
Biagio Che cosa è questa?
Prospero È un ritratto?
Biagio Come lo trovate?
Prospero Ha l’aria d’un debitore.
Abele (a parte) Ve’ che odore ha quel cane!
Biagio E bbene, questo è il ritratto del marito di madama.
Abele E h! che cosa ha detto?
Prospero Suo marito?
Lucietta Sì signore, mio marito.
Abele Dormo, o son desto?
Prospero Sia pure, ma non m’importa, dappoiché l’originale di questo ritratto
è alla Martinicca.
Biagio Prendete un grosso granchio, mio signore, egli è tornato, è qui, e vi
11 In interlinea.
[ 10 ]
344 CARLO AVILIO
prega di non gridare sì forte se non volete svegliarlo. Vi farebbe
saltare dalla finestra.
Prospero E h! Come? vostro marito è qui?
Lucietta Sì, sì signore.
Abele (guardando il ritratto) Sono io, sono io. Ma mi porti il diavolo se mi
ricordo d’essere ammogliato.
Biagio Madama, volete che vado a destarlo?
Abele Per Maometto! son curioso di vederlo!
Prospero Ah, uf… Questo marito è venuto molto male approposito: dev’essere
uno stratagemma.
Biagio E così posso andare?
Prospero (con ironia) Va’, va’ pure vecchiotto mio. Sarò incantato di far la sua
conoscenza, e dedicargli la mia servitù. Ebbene, non vai? Eh caro
amico, noi altri conigli di una certa età sappiamo come vanno queste
cose.
Lucietta La vostra condotta è infame.
Abele (Ma che! sarebbe mai vero che il marito è alla Martinicca?12)
Prospero Sarete voi dunque sempre inumana?
Abele (Aspetta vecchio amorino.)
Biagio (prendendo una scopa) Non volete andar via?
Prospero Ve l’ho detto, caro il mio vecchiotto. Io voglio restare.
Lucietta (disperata) Mio Dio! mio Dio!
Abele (starnuta) (sorpresa generale)
Prospero Uh!…
Lucietta Che sento!
Abele (da dentro) Biagio, Biagio.
Lucietta (Donde mai questa voce?)
Biagio Signorina, m’hanno chiamato?
Lucietta. Sì, certo! Ma chi è…
Prospero (Via via ho capito. Mi hanno assicurato che il marito è tuttora lontano,
non può adunque essere egli.)
Abele (entrando) Chi dice che io non posso essere io? Sentiamo.
Lucietta Cielo! La stessa fisonomia. (Guardando lui ed il ritratto)
Abele (Audaces fortuna juvat.) (Gridando) Uomo, chi siete voi? E con qual
dritto violate il mio domicilio? Siete voi commissario, giudice di
pace, spazzacamino o usciere?
Prospero Signore, io veniva…
Abele Ad insultare nostra moglie, perché madama è nostra moglie, non
è vero cara metà?
Lucietta (Non so che dire, io credo sognare.)
Abele (Ella è pietrificata.) Dunque…
Prospero Signore, io non ho mai avuto intenzione di…
Biagio E h! eh, veh come cambia tuono…
12 In sub litura si legge: «hi». Segue depennato: «)patria dei caffè».
[ 11 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 345
Abele Cara moglie, accetti tu le scuse di questo vecchio? Parla, ho qui le
mie armi. Biagio andrà a prendermi una vettura, ed in un’ora ti
porterò una delle sue orecchie, e se n’hai bisogno, te le porterò
tutte due. Che dici, le vuoi?
Prospero Signore…
Lucietta (Non posso soffrire più a lungo.)
Prospero Signore, vi fo le mie scuse. Io sono l’usciere del Commercio e mi
chiamo Prospero Stringitore. Credeva trovare qui da stringere un
particolare che io sto perseguitando da molti giorni, e di cui non
conosco altro che il suo cappello13 a larghe falde. (Abele nasconde il
suo cappello)
Lucietta (che ha osservato il movimento d’Abele) (Non vi è più dubio, è questi
il debitore: io non lo tradirò certo.)
Prospero Avrò facilmente sbagliato l’appartamento, sarà forse il piano di
sopra.
Abele Accettiamo le vostre scuse, e vi perdoniamo. Ma uscite, fuggite
dalla mia presenza, e fate pel vostro bene di non imbattervi più
meco, che non vi rivegga mai mai più. Questo è il voto più ardente
che io formo.
Prospero Signora, avrò l’onore di non mai più rivedervi. (Guarda intorno)
Abele Che cercate, che cercate?
Prospero Nulla, nulla, nient’altro che il mio cappello
Abele (gli mette il suo cappello calcandolo sino agli occhi) Prendete, andate.
Biagio, porta via questo signore.
Biagio Con piacere. (Spinge Prospero acciecato dal cappello)
Scena VI
Biagio, Abele e Lucietta
Abele (Finalmente, eccomi sbarazzato da lui e del mio cappello. Ah! sento
i benefici della respirazione.)
Lucietta (Come ha dovuto tremare per la sua libertà! Ma ho fatto una buona
azione.)
Abele (Per l’anima della carta bollata! mia moglie è arcibella, che occhi!
che naso! che…)
Lucietta (Poveretto! come è stordito! Non sa come fare per farmi le sue scuse.)
Biagio E h! signora, quando io ve lo diceva? Avrei scommesso il mio dito
mignolo che il signore Arnaldi sarebbe ritornato quest’oggi. Ma
per dove è entrato?
Abele Per la fin… per la porta che avete dimenticato di chiudere. Ma
questa è una imprudenza. Se io fossi stato un ladro? Perché finalmente
avrei potuto essere qualche canaglia.
13 Segue depennato: «bigio».
[ 12 ]
346 CARLO AVILIO
Biagio Oh! Voi siete entrato per la porta?
Abele Non vedendo alcuno, ho creduto che tutti fossero usciti. Stanco
del viaggio io mi era cacciato lì dentro per riposarmi un poco,
aspettando il ritorno della mia carissima sposa.
Biagio (ridendo) Ah! ah!, ma ora che la signora è qui mi pare che io non ci
ho più che fare.
Lucietta (vivamente) No, restate.
Abele (La cosa è curiosa, mi vengono certi pensieri. Alla fin fine ella medesima
ha confessato che io sono suo marito.)
Lucietta (Poveretto! non sa come uscirne d’imbarazzo. Aiutiamolo un poco.)
Signore.
Abele Che! tu parli con me, anima mia, e perché mi chiami “signore”?
Lucietta (spaventata) Ah! mio Dio!
Abele In verità non mi ricordo che tu abbi usato con me tante cerimonie.
Lucietta (a parte) Vedete come continua a rappresentare la sua parte.
Abele Altra volta mi davi sempre del tu.
Lucietta Io?
Biagio E così doveva essere, signora mia.
Abele Così era.
Lucietta (Che posizione!)
Abele Capisco. Tu ci hai perduto l’assuefazione, bisogna riprenderla. Vediamo,
provate un poco, dammi del tu, dimmelo sottovoce. Sai
pure che nelle mie lettere…
Biagio Noi non ne abbiamo ricevuta nessuna.
Lucietta È vero, nessuna lettera.
Biagio Ci mettevate l’indirizzo?
Abele Ah! l’indirizzo, sì signora, avea messo: alla signora… signora…
(come ha detto poc’anzi, ah! credo che ci indovino) avea messo
alla signora Rinaldi.
Biagio Bah! Arnaldi volete dire.
Abele Arnaldi per bacco, Arnaldi.
Biagio E che strada?
Abele (Vedi questa tartaruga com’è noiosa.) La strada… ma per bacco,
voi altri vedete un uomo che ha attraversato l’oceano, e non gli
offrite neanche un bicchier d’acqua!
Lucietta (Che sfrontato.)
Biagio Che! avete fame?
Abele Fame no, appetito sì, mangerei volentieri un rotoletto d’arrosto.
Biagio Bisognava dirmelo, corro a cercarlo…
Lucietta Ma…
Biagio E siccome dovete essere stanco, corro a preparare tutto nella camera
maritale, per farvi riposare: scalderò il letto.
Lucietta Biagio, vi proibisco…
Abele E d io vi comando, scaldatelo, scaldatelo, ed il rotoletto…
Biagio (esce)
[ 13 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 347
Scena VII
Abele e Lucietta
Abele (L’affare prende una buona piega.) (Volgendosi a Lucietta) Cara sposa…
Lucietta (rispingendolo) Signore, innanzi al mio cameriere, innanzi a quell’uomo
che poc’anzi è uscito, ho dovuto tacermi, e sopportar questo
cattivo scherzo, pel vostro interesse e pel mio, ma ora che siam
soli…
Abele E bbene, ora che siam soli, cioè ora che siete sola col vostro marito…
Lucietta Signore, io non ebbi mai marito.
Abele Che! come! per l’arcadia, come avete detto?
Lucietta Non sono stata mai maritata.
Abele Mai! Io cado non so se dalla terza o dalla quarta stella, ma quel
ritratto…
Lucietta Il signor Arnaldi non ha mai esistito, questo ritratto è un capriccio,
una fantasia, l’ho comprato in una pubblica vendita.
Abele (toccandosi la fronte) Ah! ora mi ricordo, strada del finocchio, numero
tre bis, a fianco d’una panettiera.
Lucietta (maravigliata) Sì, certo, mi ricordo che in quel14 luogo stava esposto15.
Abele Fra una pipa turca ed un paio di stivali? È il mio, il mio defunto
ritratto che fu venduto con la mia mobiglia. Ah, perdono signora,
mille volte perdono. (Ed io che le dava del tu.)
Lucietta Signore, voi eravate perseguitato, la vista di questo ritratto vi ha
senza dubbio ispirato il pensiero di un inganno che vi perdono. Io
però vi debbo la spiega della mia condotta. Bisogna che sappiate
come il vostro ritratto si trova in casa mia, e perché ho preso un
nome ed una qualità che non mi appartengono. Io era sola nel
mondo, senza parenti. Una vecchia e rispettabile signora che mi
aveva educata era morta, ed un dovere imperioso mi forzava di
vivere16 in mezzo d’una società che si crede tutto permesso contro
una giovinetta senza difensori. Io non poteva maritarmi per mie
ragioni, stimai dunque fingere uno stato che non era il mio, per
allontanar da me ogni fastidiosa galanteria. Mi bisognava prendere
in prestito un nome ed uno sposo che fosse il mio protettore ed
il mio appoggio, lo trovai…
Abele Dal rivendugliolo per poche piastre, non è vero?
Lucietta La vostra comparsa di questa mattina mi ha spaventata, non pote-
14 Si legge “luogo” abrasa, poi ripetuta subito dopo.
15 In sub litura a «luogo stava esposto»: «stava esposto».
16 Depennato: «ligia».
[ 14 ]
348 CARLO AVILIO
va spiegarmi una rassomiglianza così perfetta, perché mi avevano
assicurato che l’originale di questo ritratto non esisteva più.
Abele Il Cielo sperda l’augurio, quei birbi dei miei creditori mi avevano
sotterrato.
Lucietta Ho indovinato che voi eravate colui che si perseguitava, e vi ho
lasciato mentire perché questa menzogna poteva salvarmi.
Abele E ppure com’era bella la mia posizione. Vedendo i vostri occhi, vedendo
la vostra figura, io diceva tra me stesso: “Costei è certamente
mia moglie, io mi sarò ammogliato in qualche luogo e l’ho dimenticato”.
Lucietta Ah! voi17 siete uno stravagante.
Abele Codesto marito di tela che vi siete scelto è bello a vedersi, ma per
bacco!18 un colpo di pennerello e vostro marito più non esiste.
Questo sposo non può sostenere una conversazione, non potete
uscire con lui, non potete appoggiarvi sul suo braccio. Se invece di
questa cosa dipinta19 trovaste qualche cosa di più solido, un uomo
per esempio in carne ed ossa, non sarebbe forse meglio?
Lucietta Signore, non credo…
Abele Così non sareste obbligata di andarlo a cercare nella strada del finocchio
numero tre bis, egli è qui vicino a voi, pronto a gettarsi
alle vostre ginocchia.
Lucietta Grazie signore, grazie. (Sorridendo) Io era lontana dall’aspettarmi
questa proposizione un poco brusca ma onorevole per me. Questo
è un contrassegno di stima che io son felice di ricevere, ma che
debbo ricusare.
Abele Come?
Lucietta Io non posso essere la moglie di alcuno.
Abele Per esempio! Restar pulcella per tutta la vostra vita è un pessimo
gusto. Ah, ho capito, vi spaventano i miei debiti.
Lucietta Ah non credete.
Abele E ppure se la mia vecchia zia volesse degnarsi20 di passare all’altro
mondo… ma io credo che fate bene, perché sposandovi con me
correreste il pericolo di passare in concordia la prima notte del
matrimonio. Dunque, signorina, io cancello le mie parole e me e
vado.
Lucietta Voi partite? Ma quell’uomo che vi aspetta laggiù, quella gente, vi
arresteranno.
Abele E bbene, che mi arrestino. In prigione io penserò a voi, dalla mattina
alla sera voi sarete la mia società, e forse direte qualche volta:
“Povero giovine, era un buon diavolo”.
17 Depennato: «voi».
18 Segue parola depennata.
19 Segue parola depennata.
20 A testo: «bengnarsi».
[ 15 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 349
Lucietta Sì, certamente, ma voi 21 potete22 restare.
Abele Voi mi comandate di partire?
Lucietta No… io… sì… addio signore, addio.
Scena VIII
Abele poi Stefano
Abele E lla se ne va e mi lascia così disseccato d’amore da capo a piedi.
Che peccato. Una così bella ragazza senza marito! Ma io non posso
abbandonarla, non posso lasciare questi luoghi, anzi, voglio fissarmici
per sempre. (Si sdraia sopra una sedia)
Stefano (entrando senza vedere Abele) Ella mi ha ingannato, si è burlata di
me!
Abele (E chi è questo giovine che entra qui sans façon!)
Stefano Dirsi maritata! e nessuno non conosce questo sposo, neanche il
portinaio!
Abele (Ma che! La signorina avesse mai qualche innamorato secreto.)
Stefano (volgendosi al ritratto) Eccolo dunque questo23 preteso marito. Ah,
per tua cagione mi han cacciato di questa casa!
Abele (Ah va bene.)
Stefano Ma son sicuro che essa mi ha ingannato, la dev’essere una intrigante,
e tu non sei suo sposo, tu non sei che un vano simulacro, tu
sei un uomo di paglia.
Abele (Mi chiama uomo di paglia.)
Stefano Sei una vera caricatura.
Abele (Ah, oh, questo dialogo comincia ad essere frizzante.)
Stefano Ricusarmi per te, ma già il tuo naso è orribile.
Abele (Dàgli, dàgli, aumentiamo di peso adesso)
Stefano Io credo anche che tu sei un po’ guercio.
Abele (si alza e gli batte sulla spalla) Credete?
Stefano (tremando, e guardando Abele ed il ritratto) Cielo, che veggo!
Abele Ora tocca a me di fare la vostra anatomia.
Stefano Voi sareste?
Abele Sì, sì, io sarei lo sposo di mia moglie, un uomo di paglia!
Stefano Credete…
Abele È un affare finito.
Stefano (Manco male.)
Abele A vostra scelta, la pistola o la spada?
21 Ho restituito il «non»: la frase «ma voi potete restare» non avrebbe senso in
relazione alla battuta successiva.
22 In interlinea. Depennato: «pote».
23 Da questo punto in sub litura si legge la ripetizione: «questo marito. Ah per
tua cagione mi ha cacciato di questa casa».
[ 16 ]
350 CARLO AVILIO
Stefano Vi prego signore di non parlar di spada, perché io sono molto forte,
sono uno de’ primi allievi di Prisier.
Abele Vale lo stesso. Ebbene, sia la pistola.
Stefano Al bosco.
Abele Certo, e nel viale più denso.
Stefano Ho il mio cabriolet là giù
Abele Ah! voi avete un cabriolet. Io prenderò un calesso.
Stefano Usciamo signore.
Abele Sì, sì usciamo, ma prima aspettate. (Costui non ischerza.) Ci siamo.
(Dà uno sguardo alla finestra) (Non v’è l’amico.) Usciamo.
(Escono)
Scena IX
Lucietta poi Biagio
Lucietta Se n’è andato. Oh, sì, è un bravo giovine colui, almeno egli non si
crede in diritto di oltraggiare una donna senza difesa.
Biagio (portando la colezione) Ebbene, ebbene signora, non è più qui vostro
marito? (Andando alla porta) Signore, signore dove siete?
Lucietta Biagio, vuoi tacere?
Biagio (alla finestra) Ah signora, eccolo, egli monta in cabriolet, con quel
giovinotto di stammattina. Come sembrano furiosi! Si direbbe che
vadano a battersi.
Lucietta Cielo! se fosse per me, se innanzi a lui m’avessero oltraggiata. Ah,
io non debbo permettere ch’egli esponga i suoi giorni. Presto, il
mio cappello, il mio sciallo.
Prospero (al di fuori) Ah, oh, la vedremo. Aprite.
Lucietta Questa voce!
Biagio È quella del vecchiotto, e vostro marito non si trova più qui, che
fare?
Prospero (da dentro) E così, volete aprire?
Biagio Signorina…?
Lucietta Va’ ad aprire.
Scena X
Prospero e detti
Biagio Come! siete ancora voi?
Prospero Ancora io sempre io piucché mai
Lucietta Ma che volete da noi?
Prospero Oh, vi è della novità, noi rideremo, io avrò finalmente ragione da
quell’insolente che si è burlato di me, che mi ha rubato il mio cappello
vero, e mi ha sfrontatamente posto in testa quest’altro24 cagione
de’ qui pro quo.
24 Depennato, probabilmente: «bianco».
[ 17 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 351
Biagio Ch’è successo?
Prospero E h per bacco, quel cappello25 a larghe falde26 era il nostro principale
indizio, esso indicava da lungi il fuggitivo. Dacché la mia gente
lo ha veduto, si sono precipitati su me come tanti idrofobi, ma il
mio trionfo si avvicina. Orribilmente vessato sono corso dall’usciere
maggiore per cercare i connotati di questo avventuriere che aveva
dimenticato di prendere, ed eccoli.
Lucietta (Io tremo.)
Prospero Signora, di chi è questo ritratto?
Lucietta (imbarazzata) Di mio marito.
Prospero Molto bene. Chi è quell’27uomo che ho incontrato qui pocanzi, e
che mi ha messo alla porta?
Lucietta Ma…
Biagio È il marito di madama.
Prospero Tanto meglio. Ebbene signora, il mio debitore, quel camaleonte
che ha percorso tutte le case, e tutt’i nomi della natura, quest’uomo
fluido come il gas, è il vostro signor marito.
Lucietta (Gran Dio!)
Biagio Nostro marito!
Prospero I connotati riproducono testualmente l’uomo e l’immagine, ora
dunque io vi comando di farmelo prendere in tutte le debite forme.
Biagio Farvi prendere nostro marito?
Lucietta Non lo sperate.
Prospero Voi ricusate? Poco m’importa: che se ne vada pure al Brasile, o in
America, io me ne rido. Altra volta si trattava d’impadronirmi della
sua persona che era la sua proprietà, ma oggi abbiamo una casa,
ed una bella mobiglia di cui mi metterò in possesso all’istante medesimo.
Biagio Che! I nostri mobili!
Lucietta Ma signore, questi mobili sono miei.
Prospero Per conseguenza di nostro marito.
Lucietta Oh! Cielo!
Biagio Vecchio coccodrillo.
Lucietta Signore, di grazia (maledetto ritratto), vi supplico di accordarmi
un quarto d’ora, il tempo di scrivere al mio uomo d’affari.
Prospero Un quarto d’ora? Io non so ricusare nulla alla bellezza, accordo
dieci minuti.
Lucietta Vi ringrazio. Vado a scrivere. (Entra nella sua camera)
25 Depennato, probabilmente: «bianco».
26 In interlinea: «a larghe falde».
27 In sub litura: «questo».
[ 18 ]
352 CARLO AVILIO
Scena XI
Prospero, Biagio, poi Abele
Prospero Dieci piccoli minuti, mi stabiliscono qui, in questa sedia. Ma che
rumore è questo?
Abele (col braccio fasciato) Oh gioia, oh felicità! oh delirio! Io son pazzo.
Ah Prospero! (L’abbraccia) Oh vecchio Biagio. (L’abbraccia) Vorrei
stringere nelle mie braccia tutta l’Europa!
Biagio Che cosa avete al braccio? Voi siete ferito.
Abele Ferito? È possibile, ma che m’importa, se tu sapessi ciò che mi accade.
Prospero Che cosa vi accade?
Abele Sono ricco, sono milionario, pago i miei debiti e sposo Lucietta.
Prospero Sposate vostra moglie?
Biagio
Abele E che fa! La sposo mille volte, ascoltate. (Leggendo una lettera) “Mio
caro amico, conosco la tua infelice posizione. Una nuova disgrazia
ti è sopraggiunta, tu non sapresti piangere abbastanza la tua povera
zia Varrocca che è morta”. Comprendete ora la mia felicità! Presto,
un po’ d’inchiostro, una penna, no, due penne. (Si precipita al
tavolino e scrive) “Lucietta, una sola parola di abboccamento. Mia
zia è morta (requie all’anima sua!28). Io sono ricco”. Ah! uno scorbio
su mia zia. Perdona ombra rispettabile. (Scrive) “La vostra risposta
dev’essere la vostra presenza. Abele Varrocca”. Posso finalmente
prendere il nome dei miei antenati, posso dire a tutto il
mondo: “Io sono Varrocca”.
Biagio Io cado dalle nuvole. Voi non vi chiamate Arnaldi?
Abele Uf! m’hai infracidato colle tue domande! Fammi il piacere di portare
questo biglietto alla tua padroncina, presto, presto sbrigati.
Biagio Ma signore…
Abele Va’, io ti do la mia maledizione. (Biagio via)
Scena XII
Prospero ed Abele
Prospero E così giovanotto mio, mi spiegherete?
Abele Come! vecchio stupido, voi non avete ancora afferrato l’argomento?
Io non sono Carnaglia, non sono Catillardo, io non sono Arnaldi,
io sono Abele Varrocca in carne ed ossa. Eredito di mia zia Geltruda
Varrocca, vi pago e v’invito a far colezione con me. Avete
capito? Accettate?
Prospero Accetto. Ma è poi vero?
Abele Per bacco, questo è il sugello della posta. Ascolta, dove eravamo
28 Depennato: «alla sua anima». In interlinea: «all’anima sua!».
[ 19 ]
Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 353
rimasti? “Ah, tu non sapresti piangere abbastanza la tua povera
zia Varrocca ch’è morta lasciando tutt’i suoi beni ad una giovinetta,
ch’era sua damigella di compagnia, e che è scom… par… sa…”
(Cade sopra Prospero)
Prospero Piano… voi mi fate uscire l’anima… aiuto.
Abele Scom… par… sa…
Prospero (pian pian lo fa sedere) Vi sentite qualche cosa?
Abele Un bicchier d’acqua, un poco d’aria… Battimi nella palma della
mano… tirami il naso… ligami le orecchie… (Prospero accinge ad
eseguire. Abele si alza violentemente e lo respinge) Per la morte diseredarmi!
A me! a un nipote che non le ha cagionato il minimo incomodo!
che non è stato mai a trovarla! Oh, mi affogherei. Oh, se non
fosse morta, l’ucciderei. Vi son dei momenti nella vita in cui si ha
bisogno di batter qualcuno. (Guarda Prospero)
Prospero (Ah! tu non erediti più, tu stai senza un soldo! Ah, tu non puoi
invitarmi a pranzo da te.)
Abele (Che piacere se quest’imbecille mi guardasse biecamente! Che bella
occasione di sfogare sopra di lui.)
Prospero E si ha preso il mio cappello. (Camminando per la scena)
Abele (Oh, se mi calpestasse un callo.)
Prospero (si slancia su d’Abele e lo afferra) In nome della legge, siete arrestato,
signor Abele Varrocca.
Abele (senza muoversi) Bene… bene… benissimo.
Prospero Ti arresto non come debitore, perché tu sei in una casa, ma come
un ladro.
Abele Bravo, bravo… bravissimo.
Prospero Sì, come ladro di cappelli… dammi il mio cappello.
Abele Ah, tu vuoi il tuo cappello. Te’, prendilo. (Glielo mette in testa e gli
batte sopra)
Prospero Misericordia! Assassino.
Abele Te’, te’, uomo brutto e maligno.
Prospero Gente, aiuto, io soffoco.
Abele Mia zia mi ha diseredato, prendi. (Abele percuote Prospero, il quale
fugge non potendo vederci e s’imbatte in Biagio che stramazza per terra)
Scena ultima
Biagio e Lucietta ed i precedenti
Biagio Misericordia! mi sono slegata una gamba.
Lucietta Gran Dio! Ch’è questo?
Biagio Lasciatelo… non l’uccidete!
Abele Va bene, sono sollevato, portatemi ora in prigione.
Prospero Sì, come una bestia feroce. Andiamo.
Lucietta Fermate, tutt’i debiti del signor Abele sono pagati.
Prospero Come?
Abele È crepata forse un’altra zia?
[ 20 ]
354 CARLO AVILIO
Lucietta No, ma son io che li pago.
Abele Come avete detto?
Lucietta Abele, voi siete qui in casa vostra.
Abele E h?
Lucietta Tutto vi appartiene.
Abele Oh, questo scherzo è crudele, signorina.
Lucietta No, non ischerzo. La povera orfanella educata da vostra zia son io,
ma vi giuro che non ho avuto mai il pensiero d’appropriarmi una
fortuna di centomila ducati che non poteva appartenermi.
Prospero Centomila ducati! Perdo il fiato.
Abele Possibile! Ed è per me che non volevate maritarvi? per me che
avete comprato questo Porta rispetto? Ebbene, io non accetto.
Prospero (a Lucietta) Prendetelo in parola.
Biagio Questi è un imbecille di nuovo conio.
Abele O vostro sposo o me ne vado in prigione.
Lucietta Signore, io già vi ho detto…
Abele Prospero, andiamo….
Lucietta (stendendogli la mano) No, restate.
Abele Che io resti! Lucietta, Lucietta… “Innanzi al cielo, agli uomini, tuo
sposo diverrò…”29 Oh signori, la vita è una bella invenzione.
Fine
29 Linda di Chamounix, 1842, libretto di Gaetano Rossi, musica di Gaetano Donizetti,
I, 4; II, 7; III, 7.
[ 21 ]
Djaouida ABBAS
Francesca da Rimini in arabo.
A proposito della nuova traduzione
di Kadhim Jihad della Divina commedia
Francesca da Rimini is a famous figure of the world literature,
thanks to Dante’s poetic art, which created a great myth about her
love story with Paul. In the twenty first century, Francesca is finally
translated to Arabic by Kadhim Jihad, and we wonder how she gets
into the Arab world? Would she remain herself or become another?
Dante’s poetic art turned the love story between Paolo and Francesca
into one of the most powerful myths of all times. Kadhim Jihad
has recently translated it into Arabic and the reader wonders to
what an extent the character of Francesca may suit to the Arabian
culture.
Tutti vogliamo poter esser liberi di spiegare le ali per volare verso
nuovi mondi e nuovi orizzonti, poter un giorno essere il piccolo principe
che percorre il deserto e diviene più ricco di amici o Ulisse in
cerca di conoscenza e di avventure fra sirene e centauri o Sherazad
con le sue storie senza fine o Don Chisciotte impegnato nella sua battaglia
contro i mulini. Nello spazio della lettura ad ognuno
di noi è
donato, insomma, quell’istante di eternità, in cui, abbandonata la zavorra
della quotidianità, è concesso restare sospesi tra l’immaginario
e il meraviglioso.
Il luogo eccezionale, in cui in tutta quiete e senza nessun ostacolo,
possono incontrarsi autori e lettori, non è altro che quello della weltlitératur,
la letteratura mondiale. È in questo locus amoenus che si trova
il trait d’union tra tutte le letterature ed in esso brilla, in tutto il suo
splendore, l’umano. Goethe, in tal senso, individuava, nella weltlitératur,
una realtà spazio-temporale nella quale le singole letterature si
incontrano, si muovono parallele o si intersecano, senza abdicare dalle
proprie peculiarità, anzi illuminandosi reciprocamente a vicenda.
Una letteratura mondiale è, dunque, una letteratura che supera gli
ostacoli linguistici, geografici e temporali, una letteratura libera, che
agisce in nome dell’individuale per il planetario e l’universale. In essa
Contributi
356 djaouida abbas
tutti gli autori, con il loro amore per la conoscenza e per le lettere, coesistono,
nel tempo icastico di un momento particolare e straordinario,
per attraversare i secoli e condividere qualcosa d’eterno e di comune
a tutti gli uomini. Per garantire questa coabitazione la traduzione1
sarà la mediatrice tra tutte le letterature e tra tutti i popoli. Avrà il
compito di conciliare tra loro il testo delle
origini e la sua nuova veste
linguistica, intraprenderà un viaggio in quella universalité letteraria
che è intrinseca all’essenza di ogni grande opera ed in cui risiede la
capacità del testo di commuovere il pubblico, di condurlo dalla tristezza
alla gioia, dall’odio all’amore, dalla separazione alle retrouvailles,
dal silenzio al verbo. La traduzione
che, come una terapia, servirà
a rivelare la ricchezza o la povertà di una lingua e di una cultura, permetterà
di prolungare l’esistenza dell’opera letteraria stessa. Mediante
la traduzione, specchio fedele del sistema linguistico e culturale di
partenza e di arrivo, di cui evidenzierà l’autosufficienza o l’inadeguatezza,
l’opera, valicando i confini nazionali, potrà svelare la vera identità
di un popolo ed aprirsi al mondo esterno.
A partire dal XX secolo è emersa, in maniera sempre più evidente,
l’esigenza di considerare la traduzione una disciplina cui destinare
studi peculiari e non più genericamente afferenti al vasto ambito della
letteratura comparata. La ‘traduttologia’, infatti, costituisce, in sé, un
ricco campo di studio, di cui, secondo Susan Bassnett, la letteratura
comparata costituirebbe una sottosezione:
[…] una riconsiderazione della posizione della letteratura comparata e
della traduzione fa di Translation Studies la disciplina principale, di
cui la letteratura comparata è un importante ramo2.
La traduzione non è un’operazione recente; al contrario aveva iniziato
il suo incredibile cammino già cinquemila anni fa con la civiltà
greco-romana. Il bisogno di tradurre un discorso in un’altra lingua
1 I ntorno ai problemi ed alle questioni complesse relative alla traduzione si
vedano almeno: G. Mounin, Les problèmes théoriques de la traduction, Paris, Gallimard,
1963; J.R. Ladmiral, Traduire: théorèmes pour la traduction, Paris, Petite bibliothèque
Payot, 1979; P. Newmark, La traduzione: problemi e metodi – Teoria e pratica
di un lavoro difficile e di un’incompresa responsabilità, Milano, Garzanti, 1988; M.
Ballard, La traduction plurielle, Lille, Presses universitaires, 1990; U. Eco, Lector in
fabula “La cooperazione interpretative nei testi narrative”, Milano, Bompiani, 1998; A.
Berman, La traduction à la lettre ou l’auberge au lointain, Paris, Seuil, 1999; E. Auerbach,
Mimesis, 1, Torino, Einaudi, 2000; U. Eco, Dire quasi la stessa cosa – Esperienze
di traduzione, Milano, Bompiani, 2004.
2 S. Bassnett, La traduzione teorie e pratica, Milano, Bompiani, 2003, p. 2.
[ 2 ]
francesca da rimini in arabo 357
nasceva dall’esigenza, già radicata nelle civiltà antiche, di consolidare
gli scambi commerciali, politici, notarili e letterari3. Nell’età classica,
quando Roma diviene il fulcro della cultura mediterranea ed ambisce
a trasfondere nella propria cultura i più alti punti d’arrivo di quella
greca, pur conservando una ben nitida autonomia “nazionalistica”,
l’ars rethorica romana si pone, per la prima volta con Cicerone, il problema
della traduzione, quale strumento funzionale alla comunicazione
tra ambiti culturali diversi, ma imprescindibilmente connessi per
ragioni politiche, sociali ed economiche. Se il discorso ciceroniano si
incentrava, prevalentemente, sugli aspetti della traduzione letterale, i
molti teorici e traduttori che ne seguirono l’esempio si sono preoccupati,
nel corso del tempo, di esaminare tutte le possibili tipologie di
traduzione. Nell’ambito della corposa discussione critica intorno alla
traduttologia possiamo oggi distinguere tre differenti posizioni teoriche:
le teorie prescrittive, in base alle quali la traduzione, senza bandire
l’ambizione dell’eleganza, tende ad uniformarsi il più possibile alle
abitudini della lingua d’arrivo; le teorie descrittive, per cui l’operazione
traduttiva è analizzata nelle sue diverse tappe evolutive (progetto
del traduttore, procedimenti traduttivi, differenze linguistiche e culturali
tra i testi…) e le teorie prospettive dette programmatiche, che tendono
a recensire le teorie enunciate dai traduttori per definire la propria
opera.
Il fulcro del dibattito sulla traduzione è in gran parte incentrato sul
rapporto dilemmatico tra quelli che Antoine Berman4 chiama maîtres:
il sistema di partenza e il sistema di arrivo. La domanda più urgente
cui la traduttologia tenta di dare una risposta è ormai annosa: il traduttore
deve privilegiare l’opera e la lingua fonte o proiettarsi maggiormente
verso la cultura di accoglienza? Nel primo caso la lingua
fonte potrà imporre al sistema di arrivo elementi estranei che potrebbero
non essere compresi dal pubblico cui è destinata la traduzione e,
dunque, inficiare il senso dell’opera e pregiudicarne il successo; nel
secondo caso è il sistema fonte che subirà delle modificazioni secondo
il gusto del pubblico.
Nel primo caso il traduttore intende preservare l’autore e l’opera,
cui è legato da un imprescindibile rapporto di fedeltà, che si esprime
mediante il rispetto della forma e del genere letterario, dello stile, dei
temi ed infine dell’estetica e del pensiero dell’autore. Questo tipo di
3 G. Steiner, Dopo Babele, Milano, Garzanti, 2004.
4 A . Berman, L’épreuve de l’étranger, Paris, Gallimard, 1984.
[ 3 ]
358 djaouida abbas
traduzione ha lo sguardo prevalentemente rivolte alla ‘lingua fonte’.
La seconda tipologia di traduzione, che si rivolge, invece, precipuamente
al sistema di arrivo, adatta il testo originario ai modelli culturali
ed agli standard linguistici del mondo letterario di arrivo. In quel caso
l’opera fonte finisce per smarrire la propria identità ed arriva altra, differentemente
plasmata al suo nuovo pubblico. In realtà sarebbe auspicabile
che il traduttore rinunciasse ad una scelta categorica e netta tra
le due differenti tipologie
e, piuttosto, attraverso una sapiente contaminatio
tra testo fonte e gusto del pubblico, ambisse a fare della sua opera
il trait d’union tra il passato ed il futuro dell’opera di partenza.
La critica, in concomitanza con la riflessione sulla storia delle lingue,
delle culture e delle letterature, è incline oggi a considerare la
traduzione come uno strumento atto a favorire gli scambi interculturali,
mediante la diffusione dell’opera fonte e la descrizione del
mondo in essa rappresentato, come precisa Berman:
La traduction est l’acte sui generis qui incarne, illustre et aussi permet
ces échanges, sans en avoir bien entendu le monopole. Il existe une
multiplicité d’actes de translation qui assurent la plénitude des interactions
vitales et naturelles entre les individus, les peuples et les nations,
interactions dans lesquelles ceux-ci construisent leur identité
propre et leur rapport avec l’étranger5.
Il compito del traduttore è, senza dubbio, arduo, ma il risultato del
suo lavoro sarà meravigliosamente capace di armonizzare tra loro due
visioni del mondo e consentirà all’autore di vivere di nuovo nell’opera
di arrivo, che farà riecheggiare ancora nella memoria collettiva la
forza della sua voce e del suo nome.
Per garantire l’universalità di una letteratura è indispensabile il ricorso
ad una teoria della traduzione, in cui siano precisamente stabiliti
metodi traduttivi universali. Non si tratta certo di un approdo semplice,
ma costituisce, senz’altro, l’ambizione all’origine di ogni opera
di traduzione. Nella prassi, come nella discussione critica, in realtà, si
tende all’elaborazione di strategie traduttive, fondate sull’esperienza
e sulla sensibilità culturale del traduttore, più che di regole rigidamente
codificate. Su queste basi la traduzione non sarà più un’operazione
limitata solo al lessico, ma continuamente impegnata a confrontarsi
con il sostrato culturale della letteratura nella lingua di arrivo. La
traduttologia non sarà mai “una scienza esatta”, perché, vista la flui-
5 Ivi, p. 89.
[ 4 ]
francesca da rimini in arabo 359
dità della materia di studio, accetterà vicendevolmente la coesistenza,
nel sistema traduttivo, di tendenze diametralmente
opposte: conservative
da una parte, volte, cioè, alla tutela dell’identità peculiare
dell’opera di partenza e dall’altra innovative, protese, cioè, interamente,
verso il sistema di arrivo.
È molto interessante osservare la reazione provocata dalla traduzione
in un nuovo sistema linguistico-letterario. L’opera fonte, in sé,
prima dell’intervento di traduzione, è una sorta di passe-partout, potenzialmente
in grado di aprire tutte le serrature; una buona traduzione
potrà garantire al passe-partout l’apertura di quelle serrature e la
successiva scoperta del mondo che si nasconde dietro la porta. Al di là
dell’effettivo feed-back della traduzione, l’opera del traduttore è sempre
un’avventura di ineffabile bellezza, perché nasce dalla passione
per un autore, un’opera, una storia o semplicemente una vita che doveva
essere raccontata al di là di tutte le frontiere.
L’incontro con lo straniero, quello che, nel fieri della traduzione diverrà
l’auctor, rappresenta per il traduttore un’occasione unica di confronto
con l’altro da sé, l’opportunità di arricchire il proprio io, imparando
a disegnare i contorni netti dell’altro, nei quali può capitare di
inscriversi. L’opera originale e la traduzione devono navigare nelle
stesse acque, affrancandosi da ogni possibile rivalità, al contrario devono
ambire a raggiungere insieme quel porto tranquillo, nel quale
sancire un indissolubile e reciproco patto etico. Indubbiamente la
complessità del processo di traduzione induce talvolta il traduttore a
derogare da questo patto etico, allontanandosi dall’originale, ma solo
per essere più vicino al suo pubblico, così che il testo tradotto produca
il miracolo di predisporre il lettore ad accogliere a braccia aperte lo
straniero. Questo significa che l’opera tradotta guida il lettore straniero
alla scoperta di un patrimonio letterario e culturale altro, prima
completamente sconosciuto; in quest’ottica ogni opera tradotta non
contiene semplicemente il proprio messaggio, ma suscita la curiositas
verso tutto il mondo letterario da cui nasce e di cui fa parte, configurando
l’atto del tradurre come un «moment historique tout à fait unique
», secondo la felice definizione di Antoine Berman.
Ovviamente, considerato il ruolo importante della traduzione come
trait d’union tra culture diverse, è naturale che la critica esamini con
occhio attento soprattutto le traduzioni di opere cardine della storia
letteraria di un popolo. La traduzione di una grande opera affranca
dal silenzio di una lingua sconosciuta il passato di un popolo che prima
appariva lontano e che, attraverso la traduzione, può ora essere
riconosciuto come latore di una nuova identità culturale, in grado di
[ 5 ]
360 djaouida abbas
sollecitare la mente di chi legge a costruire più liberamente una propria
consapevole identità culturale, che nasca dal proficuo incontro
con culture altre. La letteratura di un popolo, resa più ricca dall’apporto
delle traduzioni di opere letterarie straniere, sarà nuovamente toccata
dalla tentazione mitopoietica e costruirà nuovi miti, forse meno
gloriosi del mito delle origini, ma certamente non meno affascinanti. Il
ruolo del traduttore, in questa nuova mitopoietica, è imprescindibile,
perché il mondo altro, contenuto nell’opera originale, giungerà al lettore
della lingua d’arrivo mediato dalla sensibilità, dalla capacità artistica,
dalla competenza linguistica, dalla capacità esegetica del traduttore,
che è, al contempo, lettore, interprete, traduttore, scrittore, critico.
Il suo scopo, infatti, è di presentare un’opera armoniosa e completa.
Nonostante l’imprescindibile senso di inferiorità nei riguardi di un’opera
originaria, evidentemente considerata magistrale, che attanaglia
il traduttore nel fieri della traduzione, l’ambizione di emulare il testo di
partenza lo induce a farsi scrittore nell’istante in cui da esegeta deve
farsi interprete presso il suo pubblico, al quale racconterà il mondo del
testo originario, trasfondendolo in quello naturaliter patrimonio del
futuro lettore. Per questo la traduzione disegnerà i contorni di un
mondo familiare al pubblico cui essa è destinata. Il mondo dell’opera
di partenza sarà riflesso nello specchio del mondo di arrivo, perché il
traduttore, per spiegare la bellezza, può descriverla solo attingendo ad
una bellezza familiare a chi leggerà; così il sole dell’opera originaria
avrà la stessa intensità di quello che appare al mattino alla finestra del
traduttore e del suo lettore, il cielo assumerà le sfumature della patria
di arrivo ed il profumo che percorre le strade del testo d’origine sarà
quello delle strade, delle piazze, dei mercati del paese d’arrivo. Tutto
ciò che in un’opera letteraria pertiene al tattile, al percepibile, al sensibile,
nella sua traduzione, nonostante le preoccupazioni conservative
del traduttore, sarà filtrato dalla cultura quotidiana della terra d’arrivo,
così da assumere i contorni netti dei suoi paesaggi.
La traduzione sarà, come scrive suggestivamente Walter Benjamin,
un prolungamento della vita dell’opera di partenza, un’acqua di giovinezza
che le offrirà un altro tempo di gloria6. Quindi il ruolo del
traduttore è imprescindibile nell’ambizione moderna di costruire una
letteratura universale. Da una parte è il messaggero fedele di un pensiero
originale, del suo genio e della sua magia e dall’altra è autore e
creatore di una nuova materia letteraria. Per questo la traduzione si
6 Cfr. W. Benjamin, Angelus novus-Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995.
[ 6 ]
francesca da rimini in arabo 361
configura come un crogiuolo inizialmente confuso di immagini, in
preda ad oscure forze centrifughe: solo quando il lettore giungerà
all’acmé dell’opera riuscirà a conciliare le immagini di un mondo altro
con quelle del suo mondo e a riconoscere ciò che appare meraviglioso
ed avvincente come portato di una identità prima a lui estranea e poi,
grazie alla traduzione, stranamente familiare. La traduzione, infatti,
aiuta ad accettare e rispettare l’alterità ed è questo il fine più importante
dell’auspicata universalità della letteratura.
Senza dubbio, tra gli autori che possono essere annoverati nella
weltlitératur c’è il poeta italiano Dante Alighieri (1265-1321), che, animato
dal desiderio di sottrarre l’umanità dalle grinfie del male, ha
raggiunto risultati eccelsi nell’arte poetica7. Le lodi di Dante non sembrano
essere affatto scalfite dal trascorrere dei secoli ed il suo genio
medievale continua ad attirare l’interesse mondiale. L’enciclopedismo
medievale trova in Dante la sua più evidente esemplificazione, poiché
i suoi interessi e le sue competenze spaziano dalla filosofia de Il Convivio
alla linguistica del De vulgari eloquentia, dalla politica de La Monarchia
alla scienza della Quaestio de aqua et terra. Indubbiamente, però,
con la sua ultima opera, La Divina Commedia Dante riceve l’alloro di
sommo poeta.
La Commedia appartiene alla lunga tradizione degli scritti escatologici,
tra i quali vanno almeno ricordati la Visio Sancti Pauli, la Visio Alberici,
la Visio Tungdali, la Navigatio Sancti Brandani. Inoltre si inscrive
lungo la scia di alcuni poemetti di analogo argomento escatologico,
come il De Jerusalem Coelesti e il De Babilonia civitate infernali di Giacomo
da Verona, il Libro delle tre Scritture di Bonvesin da la Riva o ancora
il Libro de’ vizi e delle virtude di Bono Giamboni. La Divina Commedia ha
saputo fondere il mondo classico con quello cristiano in una divina
poetica del dire. Inseguendo la perfetta simmetria del numero tre,
simbolo folgorante della Trinità, Dante spinge ai massimi livelli poetici
la terza rima8. Dotato di un acuto senso del dettaglio, crea e, successivamente,
subisce le sue storie. L’io iniziale, timido ed esitante, rapi-
7 Tra i riferimenti imprescindibili per il discorso su Dante oggetto di queste
pagine si vedano almeno: B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Gius. Laterza & Figli,
1922; G. Contini, Un’idea su Dante, Torino, Einaudi, 1976; E. Auerbach, Studi su
Dante, Milano, Feltrinelli, 1999; T. Barolini, La «Commedia» senza Dio – Dante e la
creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003; M. Zambrano, Dante specchio
umano, Troina, Città aperta edizioni, 2007.
8 Per il testo della Divina Commedia si è utilizzata la seguente edizione: D.
Alighieri,
Commedia – Inferno, a cura di E. Pasquini & A. Quaglio, Milano, Garzanti,
1982.
[ 7 ]
362 djaouida abbas
damente si trasforma in un ‘noi’ totalitario, generoso e preoccupato di
offrire la salvezza a tutti gli uomini. Il viaggio dantesco inizierà a Gerusalemme,
nella selva oscura, e si concluderà con la visione di Dio.
Lungo il suo pellegrinaggio, Dante avrà tre guide che gli mostreranno
il cammino e gli spiegheranno i misteri dell’Oltretomba. La prima di
esse è il poeta latino Virgilio, il suo maestro, che l’accompagnerà dall’Inferno
fino alla cima del Purgatorio, il Paradiso terrestre, poi verrà
Beatrice che, mediante il suo sguardo, lo eleverà di cielo in cielo fino
all’Empireo e la terza guida è San Bernardo che lo condurrà a Dio.
L’eco di Dante ha il potere di toccare tutte le rive; non c’è, perciò,
da sorprendersi se, dopo esservi giunta in diverse traduzioni nel corso
del tempo, la Divina Commedia sia nuovamente stata riproposta al
mondo arabo nel 2003, grazie alla traduzione in versi sciolti di Kadhim
Jihad9. Professore di lingua araba, Jihad ha voluto presentare
una traduzione letterale della Commedia con una lunga sintesi biografica
su Dante. A questa traduzione si deve soprattutto l’introduzione
della critica dantesca nel mondo arabo; grazie ad essa, il lettore arabo
ha conosciuto gli studi danteschi di grandi critici come Croce, Contini,
Borges. Inoltre il traduttore non ha lesinato sull’uso della materia poetica
araba per far vibrare, secondo il gusto orientale, la lingua e i paesaggi
della Commedia.
Meravigliosa tra i personaggi della Divina Commedia è Francesca
da Rimini, vittima degli intrighi familiari, la cui fragilità di donna innamorata
ha conquistato in particolare l’immaginario dei romantici.
Madame de Staël, Wilhelm Schlegel, Antoine Descamps, Joseph-Victor
Leclerc, William Parsons, Lord Byron, Keats e molti altri, ispirati e,
quasi, suggestionati dall’episodio di Paolo e Francesca, lo hanno tradotto
o, in qualche modo, incluso nei loro scritti. Anche Chateaubriand
non ha potuto resistere alla cortesia passionale di Francesca e, nel suo
Génie du Christianisme (1802), scrive:
Françoise est punie pour n’avoir pas su résister à son amour, et pour
avoir trompé la foi conjugale: la justice inflexible de la religion contraste
avec la pitié que l’on ressent pour une faible femme10.
Per Kadhim, Francesca simboleggia al wifa\q al ‘is]qi,
l’armonia passionale. Come Louis Borgés11, il traduttore iracheno con-
9 K. Jihad, La comédie en arabe, Paris, UNESCO, 2003.
10 Chateaubriand, Génie du christianisme, Paris, Flammarion, 1948, p. 259.
11 L. Borges, Nove saggi danteschi, Milano, Adelphi, 2001.
[ 8 ]
francesca da rimini in arabo 363
sidera che la fonte di quell’amore attinge alla contaminazione poetica,
perché è durante la lettura della storia d’amore del cavaliere Lancillotto
e Ginevra, più particolarmente della scena del bacio, che lo sguardo
di Francesca e di Paolo si incontrano senza riuscire più a tenere a freno
la foga del cuore. Kadhim parla anche di quel legame eccezionale che,
malgrado la sorte tragica dei due innamorati, è sopravvissuto al fuoco
dell’Inferno. A tal proposito è interessante considerare la visione che
Dante ha della sofferenza e soprattutto la fortuna della coppia che rimane
insieme anche dopo la morte.
Arrivato al secondo cerchio dell’Inferno in cui sono puniti i lussuriosi,
i peccatori carnali, Dante allerta i suoi sensi. Non sarà uno
spietato giudice, ma un semplice uomo, pieno di benevolenza, disposto
ad ascoltare, condividere e percepire la pena degli altri. È incuriosito
da due anime incollate l’una all’altra, leggere come delle
colombe che turbinano travolte dal volere del vento infernale. È nel
nome dell’amore che il poeta le chiama per conoscere la loro storia, un
amore che sur‘a\na ma\ ya’h]udu big]ima‘ al
qalb al t≤ayib, invade rapidamente il cuor gentile (v. 100) e risponde
generosamente al richiamo dell’altro. È nel nome dello stesso amore
che quelle due anime si avvicineranno a Dante perché intuiscono in
lui un cuore giusto e attento: «Poi ch’hai pietà del nostro mal perverso
» (v. 93).
È Francesca da Rimini che, sin dall’inizio, usa cortesia e retorica del
verbo e del cuore per rivolgersi a Dante:
O animal grazïoso e benigno
Che visitando vai per l’aere perso (88-89)
Dopo una iniziale preghiera di salvezza e di pace al Re dell’universo
per il poeta, Francesca parlerà della terra che l’aveva vista nascere
e del legame eterno che la lega a Paolo, una sorta di osmosi naturale
tra i due, che coinvolge spontaneamente i cuori gentili e nobili.
La loro passione si è stabilita giorno dopo giorno, parola dopo parola,
seguendo il ritmo lento e cadenzato della lettura del romanzo di
Chrétien de Troyes. Il loro destino è stato suggellato per sempre dalla
scena di quel bacio letterario, che ha svelato ai loro cuori, attraverso
un incontro inevitabile di sguardi, la verità fatale. Ricordando quei
momenti furtivi di felicità, le due anime incominciano all’unisono a
piangere la loro sorte tragica. Dante alla fine, commosso dalla loro
storia, perde conoscenza e cade come ‘corpo morto cade’.
Osserveremo che, anche se Dante prova compassione per quelle
[ 9 ]
364 djaouida abbas
due anime, questo non gli impedisce di punire, in un girone infernale,
la colpa commessa, il peccato di lussuria. Il peccato in sé, dunque,
resta severamente condannato dal poeta e dalle tre religioni monoteistiche,
ma Dante insiste sull’origine e sul preludio del male, focalizzando
l’attenzione sulla sincerità del sentimento amoroso. L’episodio
suggerisce anche al lettore un implicito raffronto con l’amore
di Dante per Beatrice, iniziato, come racconta la Vita Nuova,
dal primo
sguardo innocente dell’infanzia. L’amore cortese, chiamato dalla
letteratura provenzale fin’amore ed emblema di tutto il Medioevo,
aveva trovato molti cantori, nell’ambito della letteratura volgare italiana
della Scuola Siciliana e Toscana e del Dolce Stil Novo, in Guido
Cavalcanti, Giacomo da Lentini, Guido Guinizzelli; tuttavia solo con
Dante l’amor cortese diviene quasi condizione dell’intelletto e, quindi,
Beatrice, da angelo portatore di beatitudine, diventa il simbolo
della filosofia e della saggezza. Il quadro in cui si svolge la vicenda
d’amore di Dante e Beatrice sarà ornato di luce e di stupore. La sua
ultima frontiera condurrà alla fine alla visione della Candida rosa
dove sono incoronati i beati e fra i quali, tutta vestita di gloria, si
trova Beatrice. L’ultimo e ineffabile incontro con Dio permetterà al
poeta di raggiungere l’estrema verità, di cui da molto tempo era alla
ricerca.
Con la traduzione di Kadhim Jihad, il lettore arabo viene all’inizio
immerso nelle acque interculturali della storia musulmana del viaggio
notturno del Profeta, El Isra’ wa el Mi‘rag˜, dove i lussuriosi, rappresentanti
con nauseanti sembianze e con un orribile odore, sono
gettati senza riguardi nel fuoco violento dell’Inferno. Il legame pragmatico
tra il Poema Sacro e il Libro della Scala12 era stato stabilito
dall’orientalista Asin Palacios, nella sua opera L’Escatologia islamica
nella Divina Commedia13, in cui sono evidenziate le analogie tra l’Aldilà
dantesco e quello musulmano. La sua tesi, che ipotizza l’evidente
influsso di scritti escatologici arabi come Al futuhÛa\t el makkiya di Ibn
‘Arabi e l’Epistola del perdono di Abu al ‘Ala’ al Ma‘arri su tutta la tradizione
visionaria del Medioevo, ha generato una grande polemica. A
smorzare i toni di questa polemica sono intervenuti Enrico Cerulli14 e
Maria Corti15, grazie ai cui studi è finalmente stato possibile ricostru-
12 C. Saccone, Il libro della scala di Maometto, Milano, SE, 1991.
13 A . Placios, L’escatologia islamica nella Divina Commedia, Milano, EST, 1997.
14 E. Cerulli, Il libro della scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina
Commedia, Roma, Città del Vaticano – Biblioteca apostolica Vaticana, 1949.
15 M. Corti, La felicità mentale, Torino, Einaudi, 1983.
[ 10 ]
francesca da rimini in arabo 365
ire il canale di trasmissione, mediante il quale le leggende musulmane
dell’Oltretomba potrebbero aver raggiunto Dante e che coincide,
senza dubbio, con la città di Toledo, in cui si trovava la corte del re
Alfonso.
Il lettore della traduzione di Kadhim potrà godere a pieno dell’intensità
dell’amore di Francesca e Paolo e di Dante e Beatrice, perché,
come Dante, Kadhim orna la sua poesia di parole ed espressioni intense
che arricchiscono il paesaggio amoroso cortese come: al hiya\m,
la passione, tayyama, paralizzare, talabbasa
al ‘is]q,
l’amore ha invaso, murtag]ifan bikayanih, tremante di tutto
il suo essere, al ibtisama al mutas]aha\t, il sorriso tanto
desiderato. In queste immagini rivive tutta la ricchezza del passato
poetico arabo della jahiliyya, in cui il poeta tremava al ricordo dell’amata.
È attraverso i flashback attinti dalla letteratura preislamica e
islamica che, nella traduzione artistica, opera, come un sottile fil rouge,
la suggestione dei grandi poeti arabi, che hanno percorso il deserto nel
nome dell’amore. Da ‘Antara bnu Sa} da\d a Imru’u al Qays, da G}amil a
Mag]nun, da Zohayr a Labid Ibnu Rabi‘a, tutti cantavano il ricordo
dell’amata traducendo in verbo poetico il samer, la discussione, della
notte beduina. Nel contesto particolare
delle carovane in moto continuo
che percorrevano le dune infinite del deserto e, sulle tracce effimere
dei cammelli o degli animali selvaggi, tutti quei poeti erano all’inseguimento
dell’ombra inaccessibile della dama del cuore. La qasıÛ \
da, il poema, preislamica esalta la solitudine del poeta arabo, che, tornando
all’accampamento deserto, diventato ora un t≤alal, una rovina,
una traccia anonima fra altre che conducono verso il nulla, erra alla
ricerca della sua amata. Il poeta, combattuto tra il ricordo della presenza
umana e l’amara constatazione dell’assenza dell’amata, resta
sempre fiero delle sue origini tribali e fedele al suo imprescindibile
senso d’onore. Come gli Arcadi greci, i poeti preislamici affrontano il
silenzio della natura – arida per gli Arabi – che, muta, non vuol rispondere
alle interrogazioni e ai dubbi del poeta.
Tra le suggestioni poetiche arabe non va dimenticata quella di Ibn
Arabi che, tra i mistici sufi, ha riservato un posto unico nel suo cuore
a Nizam, armonia, una donna di bellezza e di intelletto eccezionali,
che illustrerà l’essenza divina. Maurice Gloton descriverà questo amore
come:
[…] le mouvement interne, l’attraction intérieure qu’un être, ou une
entité, possède en soi pour extérioriser ses possibilités, celles que Dieu
a déposé en lui de toute éternité pour qu’il s’épanouisse et devienne tel
[ 11 ]
366 djaouida abbas
un arbre entièrement développé, capable de reproduction et de fructification
à l’image de la Vie divine.16
Nella sua opera Turg]uma\n al as]wa\q, Ibn ‘Arabi parlerà del
al huÛ b al ‘afıf\ , l’amore cortese, mescolato alla magia del pudore e della
speranza della condivisione.
Alla fine del nostro discorso, possiamo dire che, se sin dalle prime
traduzioni della Commedia l’immagine di Francesca da Rimini rientra
nello statuto di weltlitératur, tutta l’opera dantesca acquista più ampia
significazione con la traduzione araba di Kadhim Jihad, che dona al
poeta italiano la possibilità di baciare una nuova terra e di incontrare,
in un clima di una gioiosa condivisione, il pubblico arabo. Il nome di
Francesca, che era iscritto nel “meraviglioso” della poesia sentimentale
occidentale insieme a quelli di Penelope, Didone, Eloise, Virginia,
convive ora, nell’universo poetico arabo, insieme ai nomi di donne
arabe come Leyla, Butayna, ‘Abla, anche esse travolte dall’onda della
passione. Le scelte linguistiche di Kadhim esaltano il trasferimento di
una realtà letteraria e culturale, di argomento amoroso, in una civiltà
lontana come quella araba. Francesca da Rimini, quando arriva al
mondo arabo, impone la sua propria individualità, il suo proprio vissuto
e il suo particolare destino. Rappresenta una letteratura, un tempo
della storia, una cultura e finalmente una semplice donna innamorata
che in arabo o in un’altra lingua resterà tale e la sua esperienza si
confonderà con quella di altre donne, di altri uomini per vivere felici.
La traduzione di Kadhim è riuscita finalmente ad ampliare le frontiere
della weltlitératur. Il pubblico arabo non si limiterà più ora a percepire
l’eco lontana e incerta di nomi come Francesca, Farinata, Ulisse
o Ugolino, ma è in grado di leggere, di interpretare, di immaginare e
di trasporsi nella realtà di quei personaggi e di vivere nell’eterno della
loro storia, del mondo dantesco.
Djaouida Abbas
(Università Saad Dahlab Blida – Algeria)
16 M. Gloton, Ibn ‘Arabi – L’interprète des désirs, Paris, Albin Michel, 1996, p. 22.
[ 12 ]
LUIGI ABIUSI
Il corpo del Terzo mondo.
Appunti per un esotismo pasoliniano
By taking into account the concept of “body” in Pasolini’s life and
work, this essay connects it with the so called “moves”, both poetical
and politic, of the writer, the same which led him to India and
Palestine. Dwelling on Pasolini’s journey through the rural areas of
the third world and relying on the dialectical centrality of the literary
and cinematographic image, the author aims at reconstructing
the relationship between ideology and aesthetics.
Piuttosto che topos evenemenziale, desunto dall’enorme congerie
di competenze e contraddizioni pasoliniane, l’ecosistema terzomondista
emerso soprattutto a partire dal primo viaggio indiano del ’61, assurge,
a ben guardare, a vero e proprio indice della complessa e, per
certi versi, ambigua esperienza agita da Pasolini sin dalle prime poesie
friulane.
Ciò nella misura in cui l’erranza entro il desiderato esotico, lo porta
a soffermarsi, da subito, sugli scorci polverosi degli anacronistici
villaggi indiani, sugli spazi naturali, aperti, dei deserti e delle libere
strade che lo tracciano:
Comincia una gran pianura, scolorita, come una pelle di animale lasciata
al sole […] un lungo viaggio nel cuore dell’India, in una Dodge
grossa e stabile come una corriera […], questo succulento, questo sgomento
correre attraverso l’India»1
e sui panorami contaminati delle città caotiche, dei suburbi intaccati
dalla modernità deturpante. Luoghi connotativi della cognizione pasoliniana
del mondo, cronotopi2 che definiscono paradigmaticamente la
1 P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Milano, Garzanti, 2009, pp. 93-94. Per le altre
citazioni da questo volume riporterò direttamente nel testo i riferimenti.
2 Cfr. M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in Estetica e
368 LUIGI ABIUSI
diversificazione del suo primitivo, costantemente deterritorializzato
(verso altri luoghi) in ragione degli intensivi punti di arresto dei borghi
(statico complemento e compimento della motilità), in opposizione allo
stantio e mendico cabotaggio entro i limiti della città neocapitalistica.
Nell’Odore dell’India, diario di viaggio dalle forti tinte espressinistiche,
si susseguono le descrizioni accurate degli scenari eterogenei offerti
da questi territori sconosciuti, esemplari di quel postcoloniale che
sgrana via via l’impegno politico da Sartre ai Cultural studies, tali che
la denuncia delle incongruenze del capitalismo che ha interpolato di
merci il loro impianto primigenio e generato una borghesia pavida e
isolata, è come soggiaciuta all’investigazione, contemplazione feticistica
delle cose e della varia umanità:
[…] non nascondo la mia attrazione per queste città morte e intatte,
cioè per le architetture pure. Spesso le sogno. E provo verso di esse un
trasporto quasi sessuale (p. 99).
Si tratta di una scenografia, ingombra di corpi e oggetti, feticisticamente
goduta nella verità della loro turpitudine o improvviso candore:
«un gruppo sotto i portichetti del Taj Mahal, verso il mare, giovanotti
e ragazzini: uno di essi è mutilato, con le membra come corrose»
(p. 10); «monticelli fangosi, rossastri, cadaverici, tra piccole paludi,
verdognole, e una frana infinita di catapecchie, depositi, miserandi
quartieri nuovi» (p. 12); «le strade sono ormai deserte, perdute nel loro
polveroso, secco, sporco silenzio» (p. 18); «era lì anche lui, guardandomi
col bianco degli occhi e dei denti, in un sorriso di zucchero» (p.
47); «quell’odore di poveri cibi e di cadaveri, che, in India, è come un
continuo soffio potente che dà una specie di febbre» (p. 59); «sul selciato
luccicante di chissà che atroci umori, sono distese file di corpi»
(p. 108) e così via. Continua inflessione del corporale, dell’oggettuale,
la cui inerzia allusiva, alla maniera espressionistica, pare fungere da
correlativo oggettivo dell’inquieta interiorità del poeta e della sua ansia
di approssimazione (e scandalosa immedesimazione) al reale («il
mondo stupendo e orrendo», p. 121) e alla realtà erotica, irrazionale,
dei segni, dettata dall’andamento oscillatorio di irresistibile attrazione
e repulsione verso il mondo.
romanzo, Torino, Einaudi, 2001, in cui si riconduce il significato alla possibilità che
esso ha di incarnarsi nel segno e nella profondità quadrimensionale dell’immagine.
Icasticità del senso, reificazione e specifica collocazione topologica dei concetti,
che sono alla base dell’ermeneutica di Pasolini, e che presumibilmente motivano
la sua conversione al cinema.
[ 2 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 369
In questo senso L’odore dell’India si rivela un libro importante – e
del resto sottovalutato o, peggio, trattato spesso esclusivamente alla
stregua di un groviglio estravagante di annotazioni di un turismo
equivoco –, se si pensa alle molte tracce di poetica disseminatevi e direttamente
dichiarate, prodromi della stratificata attività cinematografica
che si dipartirà di là in poi, in nome di una ricerca sacrale di
un’astorica, naturale ontologia (del creare), nonché della concomitante,
feroce polemica contro la snaturamento operata dal borghesismo. E
questo, conseguentemente al disincanto sopraggiunto alle Ceneri di
Gramsci, implica la definizione e la declinazione del mito, nei termini
di una sopravvivenza3 di istanze ancestrali in seno al magma metamorfico
del contemporaneo, e il vagheggiamento di una purità sussunta
alla regressione temporale:
[…] mi piaceva camminare, solo, muto, imparando a conoscere passo
per passo quel nuovo mondo. Così come avevo conosciuto passo passo,
camminando solo, la periferia romana: c’era qualcosa analogo (p.
24) […]; questa situazione non mi era nuova: anche tra i contadini friulani
succede qualcosa di simile, in certe usanze rustiche, sopravvissute
al paganesimo: gli uomini, pur ironici, sono come arresi e sospesi: la
loro forza e la loro modernità tacciono di fronte al capriccioso mistero
degli dèi tradizionali (p. 28).
Da qui si evince una puntuale dislocazione spazio-temporale del
mito, nel decorso delle opere pasoliniane, in misura di una geografia
delle resistenze dentro la generale pressione dello sviluppo postmoderno,
che riguarda le borgate romane quanto le periferie degli agglomerati
urbani dell’India o degli insediamenti in fase di ammodernamento
della Palestina o dello Yemen; e, segnatamente, nella misura di
un rinvenimento, lungo i gradi temporali, di una diversa dimensione,
maggiormente naturale e ferina, che, se nella “trilogia della vita” coinciderà
con la teoria di un Medioevo promiscuo e sguaiato, sarà però
intimamente legata al passato privato pasoliniano e, in ultima analisi,
a una sorta di surdeterminato, post-psicologico grado zero del tempo:
3 Intorno a questo concetto cardine Didi-Huberman, nel suo libro (Come le lucciole.
Una politica delle sopravvivenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2010), sviluppa i
punti di un discorso “resistenziale” in virtù del quale, e attingendo a referenti che
vanno da Benjamin ad Anna Arendt, confuta la tesi pasoliniana (formulata nel
febbraio del ’75) della scomparsa delle lucciole (e cioè di spiragli luminosi, umanistici),
per sostenere malgrado tutto l’avvicendamento di bagliori costruttivi, sopravvivenze
appunto, nel contesto di generale declino del contemporaneo.
[ 3 ]
370 LUIGI ABIUSI
l’infanzia e lo stato d’incoscienza suo proprio, così come l’immaginazione,
il desiderio4.
È questo stesso impulso sentimentale ed egotistico, la matrice dell’engagement
di Pasolini – che negli anni Sessanta investe continuamente
la problematica terzomondista –, nato dall’esigenza di espansione
(di movimento) del proprio, diverso io, nel mondo, quale ansia di
riconoscimento narcisistico nell’ampio specchio della moltitudine5.
Una moltitudine abbietta, violenta e tuttavia incontaminata, desiderante,
e, proprio per questo, rivoluzionaria in virtù delle accensioni
periferiche che per inerzia intaccano altri territori, originano concatenazioni
in direzioni diverse, ipotesi di nuove aggregazioni.
Del resto è lo stesso Pasolini a suggerire il vettore di questa trasposizione
comunitaria della propria traboccante diversità, sostenendo
che «l’adozione della filosofia marxista è dovuta in origine a un impeto
sentimentale»6 che d’altronde si sistema, necessariamente, dopo il
primo istintuale pascolismo casarsese, nell’involucro razionale di una
teoria politica, quale arma di corrosione dell’ordine neocapitalistico,
per (immaginare di) invertirne le logiche (di profitto) in favore di ottiche
di poiesi, nelle quali sia garantita la sopravvivenza e perpetuazione
di sé e della gamma di altri corpi ostinatamente viventi, in cui l’alterità,
in ultima battuta, consiste nel segno di un’antichità corruscamente
inerziale.
Alla base di questa inferenza è rintracciabile il riverbero perdurante
di un iniziale decadentismo spontaneo, che assimila le risonanze
simbolistiche (e certa tensione ad esse peculiari verso l’originario provenzale),
scostandosi da subito dall’autoreferenzialità dell’ermetismo
e posizionandosi piuttosto in corrispondenza dell’universo introversivo
pascoliano, torcendo espressionisticamente la temperie del recesso,
estremizzandone gli spunti (che così tendono ad uscire drammaticamente
fuori) in direzione di un panteismo, che diviene incontro sgo4
Sono i termini specifici della decentrazione lacaniana del soggetto, che diviene
attante del desiderio e di un oggetto che manca, che è sempre più in là (appunto
causa del desiderio), e che tende a coincidere con certa metafisica pasoliniana (e,
direi, mallarmeana) del nulla.
5 L’aspetto speculare di questa propensione viene sottolineato da Mengaldo,
quando scrive che «il rapporto di Pasolini con questa realtà è, prima che di natura
ideologica, un fatto di identificazione psicologica, autorizzato dall’equazione fra le
rispettive emarginazioni» (P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano,
Mondadori, 2003, p. 782).
6 P.P. Pasolini, La libertà stilistica, in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura
e politica negli anni ’50, Torino, Einaudi, 1975, p. 280.
[ 4 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 371
mento e mistico con l’altro corpo. È il tenore di estenuato estetismo e
di vitalismo “di formazione”, che caratterizza il Friuli arcaico contadino,
rappresentato nelle Poesie a Casarsa, nella Meglio gioventù e, in secondo
luogo, nell’Usignolo della chiesa cattolica, dove avviene la scoperta
dell’eros legato a una corporeità virginale, le cui resistenze Pasolini
riscontrerà, esaltandole, nel momento dell’incontro con i sobborghi
romani e con la realtà composita del terzo mondo.
La passione (per l’altro), constatata in maniera ossessiva e (auto)
distruttiva nell’orizzonte della propria sensualità, è il dispositivo di
un coinvolgimento all’esterno, della molteplicità dei soggetti. È questa
dialettica del desiderio ad alimentare la fenomenologia della presentazione7
(e viceversa), per cui ogni individuo si mostra agli altri, nei
crismi discontinui del proprio apparire, quindi della propria immagine,
provocando l’avvicinamento, l’attrazione e, di conseguenza, la comunità;
nonché una nozione di politica connessa a una genealogia
dell’immaginazione8, alla pregnanza dialettica della creazione artistica.
Una congruenza di immagini9 entro cui validare l’umano, verificarne
l’allineamento, o, almeno, il rinvio (per residui) all’archetipo
contadino-religioso, incarnato dalla figura del ragazzo dai capelli corti
(a cui Pasolini contrappone la deriva malata dei capelloni), cioè tradizionalmente
l’eterosessuale sano10, forte, semplice, che corrisponde
7 Il metodo semiologico-visivo – che presiede all’esplicarsi generale della presentazione
– nell’interpretazione della realtà da parte di Pasolini, è stato documentato
di recente da Marco Belpoliti, che evidenzia il processo mediante il quale il
poeta «osserva i segni, i comportamenti, i gesti; osserva i corpi e i segni fisici»
all’interno della propria, ferma ed accentrante prospettiva erotico-estetizzante
(Cfr. M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Parma, Guanda, 2010, p. 38).
8 R ispetto a ciò, pur lasciando sotteso l’assioma pasoliniano, Didi-Huberman
cita le convergenze testuali del Lyotard dell’Economia libidinale, e della Storia della
sessualità di Foucault (Cfr. G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle
sopravvivenze, cit., pp. 34-35).
9 Nell’accezione di “immagine dielattica” di Benjamin, come attualità iconica
(e teoretica) frutto della fusione dell’”Adesso” con il “Già stato”, che si configura
come concrezione lampante (cioè morente) di una verità storica, formazione lucente
e profondamente significante che è destinata a deperire, aprendo da lì la strada
ad altre potenzialità. Cfr. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo. I «Passages» di
Parigi, Torino, Einaudi, 1986.
10 Per l’ambigua, se non reazionaria, visione pasoliniana della medicalizzazione
della vita – che propizia la sopravvivenza di ragazzi destinati invece, per legge
di natura, a morire, e che si presentano ora secondo i caratteri della malattia, della
bruttezza, della debolezza – rimando a M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, cit.,
p. 51.
[ 5 ]
372 LUIGI ABIUSI
all’individuazione di precise connotazioni estetiche dell’autentico arcaico.
Esso si esprime pienamente (e generalmente) nello sfondo di una
sorta di ruralità immemore, che quando l’interesse di Pasolini si sposta
verso oriente, dapprima trova il suo referente contingente nelle
sequenze dei “sopralluoghi” e degli “appunti per un film”, poi si cristallizza
progressivamente nel cronotopo contemplativo e onirico, nel
cinema “regressivo” dell’Edipo re e del Fiore delle mille e una notte.
L’«amore feticistico per le cose del mondo»11, nell’inarcatura esotistica
«di poveri esseri seminudi, nella solita danza dell’andare e
venire»12 – già esternato (ed estenuato) nel primo viaggio in India – è
il presupposto dell’esplorazione del contesto palestinese nei Sopralluoghi
in Palestina, documentario girato tra il ’63 e il ’64, che, mentre sonda
gli scenari che servano da ambientazione per il Vangelo secondo
Matteo, mette a fuoco un discorso, insieme, di polemica nei confronti
delle scorie moderne, industriali, presenti in un paesaggio che invece
si immaginava evangelicamente intatto, e di individuazione ed esaltazione
del naturale mistico, affiorante a tratti, la «straziante naturalezza
» degli ulivi (come la chiama il regista stesso in uno dei segmenti
elegiaci del film), che, a una attenta analisi, definisce il particolare realismo
di Pasolini, oramai giunto a compimento con il suo passaggio
al cinema. Vale a dire, quell’ermeneutica che si esplica nei gradi della
prospezione del reale, per portarne alla luce le intensità, i presagi, e
che si configura come un movimento di arretramento rispetto alla sua
ruvida quiddità.
Quello strazio che agli occhi di Pasolini marca gli ulivi, è il sentimento,
il senso vibrante delle cose, indizio di vita (di moto) connaturale
all’ottusa presenzialità del mondo, che emerge all’istante nella
discontinuità del suo cinema, già a partire da Accattone (1961), dove
lo sfondo feroce in cui si muove il protagonista, appare investito da
una tragica, e al contempo indulgente, luminosità, che è l’alone so-
11 P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, p. 235.
12 Id., L’odore dell’India, cit., p. 108 [corsivo mio]. È figurazione esemplificativa
di quella prammatica della presentazione che costituisce l’abbrivio vitalistico
dell’esperienza artistica di Pasolini. La danza, proprio come strategia di esposizione
dell’essere, è gesto ricorrente nella sua opera, e, peraltro, progressivamente privata
del suo originario carattere ecumenico, se si considera la parabola che va dalla
gioiosa motilità casarsese e sottoproletaria (anche se si avverte qualcosa di disperante
già nel folle, selvaggio dimenarsi di Lello in Una vita violenta) alla mimica
inquietata e solitaria (benché aspirante all’altro) di Ninetto Davoli nella Sequenza
del fiore di carta, fino all’ambiguo ricongiungimento dei ragazzi nel finale di Salò.
[ 6 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 373
pravvivente, la pulsione del reale. In questo modo, il cinema, per Pasolini,
assolve immediatamente (cioè senza frapporre distanze tra la
cosa e il segno) al compito di alludere a «catene di pulsioni-immagini
[…], incerte ombre retrostanti»13, che affiorano sulla scorta di un primo
carotaggio, e della consecutiva reattività espressionistica del soggetto14.
Per far parlare le cose, bisogna ricorrere a un’operazione regressiva,
infatti le “cose” […] si trovano dietro allo scrittore-filosofo15
che spiega molto bene il procedimento di Pasolini, sé è vero che esso
parte da un momento retrospettivo, profondante, in cui il poeta si
guarda “alle spalle” quasi penetrando l’anomala (e fragile) densità di
uno spazio-tempo creativo, che gli restituisce oggetti galleggianti,
straniati nel cronotopo così costruito. È il risvolto onirico, mistico, integrante
la pervicace fisicità della realtà, il manto di tragica luce che
indica la risposta dell’io alla retrocessione e le coordinate di un lacerante
bramare un Altrove sperato nella stabilità del referente cristiano
e invece, di fatto, sfuggente entro la fluidità dell’immagine, anzi proprio
coincidendo con quella deformante fluidità.
La consacrazione (dei corpi, degli oggetti, dei panorami), che è attributo
primario di questa poetica16, è spunto temporale: si consustanzia
nel profondante movimento a ritroso, nell’uscita dal presente, dove
si concentra invece la turpità dell’urbanizzazione e si sviluppa allora
il secondo momento del metodo pasoliniano, la dissacrazione, che
13 T. Pomilio, Cinema come poesia, Arezzo, Zona, 2010, p. 67. Libro che ha il
merito di richiamare e rinverdire questioni fondamentali di estetica del cinema,
soffermandosi, passando pure per Pasolini, sulla natura alterante del linguaggio
cinematografico (almeno nei casi di accentuato sperimentalismo), frutto della tendenza
all’esaurimento delle possibilità espressive sue proprie, per ricercare, «quasi
mesmerizzare» (p. 7) il suo impuro, l’altro da sé.
14 A riguardo si legga R. Cavalluzzi, Il limite oscuro. La poesia. Il cinema, Bari,
Schena, 1994, e particolarmente il capitolo su La cifra visionaria del «realismo» pasoliniano,
che offre un’icastica, quanto minuziosa, ricostruzione della gnoseologia pasoliniana,
adducendo la metafora dell’acquario, quadro (deformativo) della rappresentazione
in cui restano sospese le figure, prodotto di un rigurgito soggettivo.
15 P.P. Pasolini, Inchiesta sul romanzo, «Nuovi Argomenti», maggio-agosto
1959.
16 «Il mio amore feticistico per le cose del mondo mi impedisce di considerarle
naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le lega in un
giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensamente,
una per una» (P.P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 235.
[ 7 ]
374 LUIGI ABIUSI
è attraversamento dello spazio, scandaglio e mortificazione delle merci,
tra i ruderi della speculazione edilizia e le mortifere discariche17.
Sul versante dell’impegno terzomondista, questa componente visionaria,
comunque lirica, contribuisce, insieme al registro più spiccatamente
documentale, alla formulazione di una «etnografia sperimentale
»18, i cui caratteri sono già riscontrabili nell’abbozzo dei Sopralluoghi,
ma perspicui in particolar modo nella forma più lavorata degli
“appunti”, film su un film da farsi. Cioè un’opera programmaticamente
spuria, aperta (alla rappresentazione dell’altro, marginale), costituita
dall’interazione e avvicendamento di un’oggettiva indagine
antropologica, contraddistinta dal rigore dell’intento conoscitivo, e
dalla sperimentazione di una diversa modalità di espressione cinematografica,
destinata a sublimare in sequenze poetiche, l’obiettività del
referto.
Il che si traduce, negli Appunti per un film sull’India (1968) e negli
Appunti per un’Orestiade africana (1969)19, nell’insistenza della frontalità
della ripresa, che è uno degli stilemi più incisivi e rappresentativi
del cinema di Pasolini, come penetrazione compiaciuta dei volti e della
loro congenita sostanza sonnambolica, nonché corrispettivo stilistico
di quella teoria della presentazione che sottende al legame sociale. In
altri termini, ostensione integrale e feticistica della superficie (del
mondo,
del corpo, del volto) e della scaturigine di influssi (luminosi,
17 Come quella che suggella l’episodio di Che cosa sono le nuvole? (1967), in cui
si palesa la tipica mistione pasoliniana di contrastanti icone, nel coesistere di mence
carabattole, tra cui i burattini protagonisti, scarti dell’innaturale “cosmumo”, e
le forme sfuggenti e felicitanti delle nuvole, quella «straziante meravigliosa bellezza
del creato», che Pasolini non smette di perseguire, benché ne senta il progressivo
assorbimento nelle leggi dell’utile.
18 La definizione è di Catherine Russell (Experimental Ethnography, Durham-
London, Duke University Press, 1999), d’altronde utilizzata da Luca Caminati per
inquadrare la specifica tecnica narrativa pasoliniana nei documentari e nei lungometraggi
di finzione terzomondisti, sul piano della commistione formale, del «palinsesto
visivo dalle molteplici letture» (Cfr. L. Caminati, Oreintalismo eretico, Milano,
Bruno Mondadori, 2007).
19 Il primo è una ricognizione motivata dall’intenzione di girare un film “indiano”
(nel quadro complessivo di un progetto di inchiesta e raffigurazione del
terzo mondo, mai portato a termine dall’autore), che si trasforma in una meditazione
sfaccettata sull’India, dai risvolti, al contempo, didascalici, politici, antropologici,
lirici. Ben più complesso è il secondo, che mescola materiale più composito:
interviste a studenti immigrati, sopralluoghi africani per la trasposizione dell’Orestiade,
riflessioni varie, fino alla messa in scena della tragedia greca, a Roma, con
protagonisti, musicisti jazz di colore.
[ 8 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 375
olfattivi,
sonori) alla base della danza seduttiva; ovvero comparizione
dell’immagine reminiscente (in cui balugina la sintesi ineffabile, per
quanto sfuggente, della storia) nel pieno della diffusione seriale dei
riflettori dello spettacolo-capitalismo. O, d’altra parte, rassegna di
sfondi20, che appaiono, per lo più, nell’andamento irregolare della
macchina a spalla, ad illustrare la sopravvivenza di una naturalità, che
comunque si configura come il controcanto della verifica dell’alienazione
di una cultura in via di sviluppo, e, alla fine, dell’impossibilità
di ritrovarsi (di enucleare il sé) nella ricerca spasmodica dell’altro. Il
quale è effettivamente individuato negli Appunti per un film sull’India,
nel giovane ragazzo incontrato per strada, che tanto ricorda la figura
del Revi dal «sorriso di zucchero» dell’Odore dell’India, o negli apodittici
primi piani dei giovani studenti intervistati negli Appunti per
un’Orestiade africana, im-segni (quindi corpi)21 che popolano l’immaginazione
infantile ed erotica di Pasolini, sin dal tempo dell’apprendistato
friulano e poi bolognese.
Ad ogni modo, se la simbiosi dell’io con la moltitudine e gli sfondi
(oramai contaminati), sfugge, se non nella trascorrenza della sequenza
e dell’esotico, proprio restando in questo puro segmento benché morente22
e sperimentando la maniera espressiva ed espositiva del soggetto
dentro l’altro dall’occidente, Pasolini perfeziona un cinema alterante,
proprio come negazione della congiunzione, quello che nel ’65
chiamava cinema di poesia (contro l’omologia dello spettacolo) e che
pertiene a una sorta di canone sospeso, secondo la determinazione
brechtiana, di irresoluzione degli elementi ossimorici portanti, che così
generano la straniazione (esotismo appunto), l’effetto dell’esperienza
onirica e religiosa, ovvero del raggio d’azione della consuetudine
prerazionale e desiderante. Perturbazione che è peculiare dell’incesso
pencolante, allucinato di Edipo, disposto nello spazio-tempo di un
20 L’interesse di Pasolini non è tanto per il panorama in sé (composizione autoreferenziale
di elementi), quanto per lo sfondo, che contempla la presenza umana,
corollario plastico della presenza del soggetto.
21 «I segni del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro
materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”,
per così dire viventi, di se stesse» (P.P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi,
1976, p. 138). Da cui si ricava la validazione della perlustrazione pasoliniana
dell’altro geografico, puramente fisiologico, come esigenza di riscontrare dietro di
esso, i segni viventi, che corrispondono a quelli di una ageografica, incontaminata
antropologia che si va perdendo, quindi di un altro di matrice temporale (archeologica),
confluente nella rappresentazione artistica.
22 È ancora il concetto benjaminiano di immagine dialettica.
[ 9 ]
376 LUIGI ABIUSI
terzo mondo (l’allocazione marocchina delle riprese di Edipo re, 1967)
che è trapassato nel mito, inteso quale ipostasi di un passato agricolo
scarno e solare.
L’addentrarsi di Edipo nei pelaghi del deserto, in condizioni di deliquio,
di smarrimento (in cui versa la macchina da presa), rappresenta
l’ombra sacrale insita all’individuo, come, didascalicamente, la luminosa
trasparenza appare quale coltre poetica che copre il mondo.
Ed è il farsi della visione del regista sulla scorta del suo turbamento, lì
dove, al limite, il perturbamento, cristallizzando le nervature della
psiche, si configura come alterità inerente al codice linguistico, e di lì
come problematico sintomo metafisico, in cui, a dispetto dell’anelare
al riparo cattolico, si esaurisce la tensione verso l’Oltre, cioè verso
quella piena corrispondenza al desiderio, costantemente mancante.
Il deambulare edipico di un individuo sradicato, per ansia di conoscenza
di sé e degli altri, e di sé negli altri, articola l’itinerario e l’ampiezza
del cronotopo pasoliniano, sedimentazione mimetico-immaginifica
che scaturisce dall’azione regressiva e dalla reattività del soggetto,
a (ri)partire dalla zona, dalla natura del puro pragma incosciente23.
Cioè dal desiderio di forme, che innesca il procedimento di evocazione
delle forme, fino al soggetto, che dunque è, lacanianamente,
soggetto del desiderio, io assoggettato all’immaginazione.
La soggettiva libera indiretta, sintagma a cui Pasolini dà notevole
spazio nel suo Empirismo eretico, cioè nella sua idea materialisticamente
spuria e lirica dell’empiria, esprime la retrocessione del poeta-filosofo,
del suo sguardo, posto all’altezza di quello del personaggio e del
contesto in cui si muove; e il suo cammino in questo spazio-tempo
dissonante (gremito di oggetti e soggetti ossimorici usciti dal desiderio
infantile) è quello di ricongiungimento all’io presente. Viaggio distonico,
rintoccato dalla tribalità delle percussioni, dall’acuta salmodia
del flauto, dei colori di fondo, ora slavati – nel loro presago dialogo
con la pietraia, con l’apertura delle vie sterrate, e con la vacuità e l’atonicità
dei luoghi delimitati: i giardini e gli atri dei giochi dei bambini
–, ora incupiti all’interno del palazzo, delle camere, in un ordito di
rimbombi, di architetture disertate, che innervano laconicamente il
destino di colpa e di solitudine dell’Edipo errante.
Il punto d’arrivo di questo tragitto di autodefinizione psicologica
è, nel presente, il prato verde del primo riconoscimento della madre;
23 Cfr. R. Turigliatto, La tecnica e il mito, «Bianco e nero», 37, 1976, 1, pp. 113-
155.
[ 10 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 377
luogo del nido, inquadrato nella sua staticità declinante, che sembra
riflettere, in questo modo, un latente desiderio di morte; da dove il
poeta non può che ripartire reiterando il dispiegarsi dell’anamnesi, in
funzione di nuove declinazioni della “forza del passato”, resistenza
rinvenuta via via sopra il vergine calco della natura24, ancora «straziante,
meravigliosa bellezza del creato». E dalla barcollante, delirante
reazione soggettiva (libera indiretta), che risale (macchina a spalla) la
china, fino al sé presenziale, oltre il filtro dello schermo, il poeta ricava
gli squarci “incantati” delle Mura di Sana’a25, indizio lampante delle cose
fervide, stridenti o mute, materialmente effimere, del Fiore delle mille
e una notte.
In effetti, a parte la polemica contro la modernità corruttiva del
primitivo, che tocca lo Yemen quanto l’Italia26, emergono dalla struttura
del breve documentario, sequenze in cui le costruzioni arcaiche di
Sana’a sembrano vivere in un bisbigliare di fondo e in un ipnotico
vociare di bambini misto al suono di un flauto, manifestazione di
quella «grazia dei secoli oscuri», di quella «scandalosa forza rivoluzionaria
del passato» che si sublimeranno nell’intreccio visionario
dell’arazzo dell’ultimo film della trilogia27.
La dinamica di arretramento/avanzamento dell’Edipo re, della coscienza
del poeta-regista, che individua, cioè formalizza (così alterandola)
la correlativa forma poetica, eroga il frutto succulento/evanescente
del Fiore, sospensione di cose e di corpi, di là dallo schermo che
delimita l’ingresso nella mentalizzazione/formalizzazione. Si tratta di
una progressione dell’immaginazione, a partire da un punto originario
(meta)psicologico, che, in teoria, mantiene aperta, incarnandola, la
24 A proposito della funzione allegorica delle vestigia, che caratterizzano storicisticamente
la materia innocente della natura, cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco
tedesco, Torino, Einaudi, 1980, che sottolinea, tra l’altro, la potenza del segno (residuale),
tanto maggiore, quanto esso è capace di significare in tempi di decadenza.
25 Il breve filmato fu realizzato una domenica mattina di ottobre del 1970, poco
prima che Pasolini lasciasse lo Yemen, dove aveva girato alcune sequenze che
avrebbero dovuto convergere nel Decameron, ma che, alla fine, ne furono espunte.
Il regista tornerà poi nello Yemen per girare gran parte del Fiore delle mille e una
notte.
26 Ad un tratto del cortometraggio, Pasolini apre una parentesi ambientata ad
Orte, piccola cittadina vicino Viterbo, per coglierne le brutture dovute alla speculazione
edilizia.
27 R iguardo questo intreccio fantastico, rimando al bellissimo libro di A. Ferrero,
Il cinema di PierPaolo Pasolini, a cura di L. Pellizzari, Venezia, Marsilio, 2005
[1977], pp. 128-134.
[ 11 ]
378 LUIGI ABIUSI
possibilità del Progresso e del gruppo28, mediante le proprietà attrattive
(erotiche) delle immagini (im-segni), benché di fatto ormai Pasolini
ne verifichi l’isolamento, vale a dire l’incagliamento del congegno di
accensione e rivoluzione, all’interno del territorio autocratico della Zivilation.
La presentazione di figure dissonanti, spaesate, come viventi alla luce
dell’ancestrale, dei segni del mito che portano addosso, avviene
dentro la sezione di galleggiamento (di estremo straneamento) posta
al di là del vetro (prismatico) dello schermo, dove risalta, in virtù dello
spessore dell’eco, la freschezza carnea del sesso eretto, della ingenua
motilità degli arti, dei volti, luccicano e risuonano gli sfondi magicamente
e progressivamente desolati, fino a sfumare nella lontananza
dell’orizzonte, del mare, e a fondersi con il vuoto e con (l’immagine
del) nulla risuonante nei cortili, negli anfratti scuri, che un tempo sgomentavano/
esaltavano la fantasia del fanciullo, e che egli poteva
(sperare di) esorcizzare, anzi, sublimare, nell’incontro con l’altro.
Ora il corpo brunito e innocente del terzo mondo, dopo l’orientalizzazione
della ricerca e della concreta speranza del primitivo nell’attualità,
e dopo il vagheggiamento vitalistico di un medioevo già intrinsecamente
fatiscente29, è recuperato e raffigurato attraverso un filtro
rifrangente, che demarca la soglia del farsi linguistico, della coagulazione
del significato. I ragazzi ridenti e ingenui presi dal deserto, e il
corollario brulicante della luce e della polvere, sono desiderati da lontano
e solipsisticamente goduti nell’atto autoerotico della contemplazione,
inazione dell’oggettuale, quasi feticcio, stereotipo ammaliante
dell’immaginazione e dell’eccitazione infantile.
La contemplazione non è che della morte delle cose, del cagliarsi
dei vivi riflessi in fregio ornamentale, lì dove l’impronta dell’antichità
diviene cimelio, oggetto morto di un culto funerario30, e a cui seguirà,
28 Inteso in senso sartriano, in quanto assembramento regolato dalla reciprocità.
29 Che è quanto rileva acutamente Adelio Ferrero, portando soprattutto l’esempio
dei Racconti di Canterbury (1972), in cui prevale un’atmosfera plumbea, e
un’inerzia in cui la carnalità è per lo più sfacimento e febbre del coito, mentre Il
Decameron (1971), effettivamente svuotato di veemenza e proposizione vitalistica,
si rivelava quale mera gestualità, esteriore movimento ritmico-figurativo, come
raffreddato dalla distanza del punto di osservazione. Cfr. A. Ferrero, Il cinema di
PierPaolo Pasolini, cit., pp. 109-128.
30 Qualcosa di simile è il barocchismo felliniano del Casanova (1976), trionfo di
ninnoli, decorazioni, inerti e attraenti simulacri, che polarizzano la passione
dell’esteta verso una bellezza sfatta e immota: quella huysmansiana, che del resto
[ 12 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 379
in Salò, l’osservazione, da parte del fanciullo sgomento – mediante le
lenti metanarrative e distanzianti del cannocchiale – della putrefazione
di quella stessa materia perita, che svela l’orrore quale senso ultimo,
«effetto primigenio della deiezione materiale del mondo»31.
La coreografia messa in scena dal Fiore, fenomenale e impalpabile
proporzionalità di forme e di movimenti, non riesce a innescare la fuga
verso altri territori, altri im-segni che, in una concatenazione, misurino
la possibilità della rivoluzione, e si risolve in se stessa, cioè dentro
il proprio tessuto cronotopico, nella rievocazione di sé vivente e potenzialmente
coesiva, aggregativa, vale a dire di quel microcosmo casarsese
e dei corpi effusivi, che popolavano la fantasia (il desiderio)
del giovane poeta, quando il rapporto omoerotico con il ragazzo dai
capelli corti era avventura gioiosa e reciproca scoperta del sé. Effusione,
per quanto accidentale, impossibile nel presente degli Scritti corsari
e delle Lettere luterane, che peraltro sembrano sussumere didascalicamente
l’intero itinerario pasoliniano al piano estetico ed erotico, in
ragione della denuncia del neofascismo quale processo di epurazione
di quegli scorci campestri in cui accadeva il coito, spietatamente attuata
in favore dell’urbanistica liberazione sessuale32.
Allora l’inseguimento delle sopravvivenze, nei termini del corpo
esotico e delle implicazioni ideologiche ad esso collegate, dileguatosi
ormai da tempo anche il borgataro ricciuto e selvatico negli intrichi
della metropoli, si rivela essere sin dall’inizio ricerca del mondo
dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui l’ancestrale era ancora vivo tra
«li ciasis e i tínars/ lens ch’a trimin tal ríul»33 e la sensualità liturgica
del canto dell’usignolo della chiesa cattolica, in cui si consumava, tra i
non è estranea alla riflessione di Pasolini – se si considerano le molte occasioni in cui
egli si occupa di À rebours o semplicemente ne cita dei passi –, e anzi diviene il referente
di una retrocessione che tende narcissicamente all’immobilità della reliquia.
31 R. Cavalluzzi, l limite oscuro. La poesia. Il cinema, cit., p. 50.
32 Ancora Belpoliti può servire a chiarire la questione, richiamando alcuni
punti cruciali delle ultime considerazioni pasoliniane, in cui l’autore si schiera in
netta polemica con il processo di liberazione sessuale, attuato di pari passo con lo
sviluppo, di cui sarebbe una delle forme di coazione al consumo. Mentre la repressione
praticata in precedenza, osteggiando i rapporti tra uomo e donna, favoriva,
di conseguenza, la tolleranza verso i rapporti omosessuali, che del resto coinvolgevano
gli eterosessuali. È verso di essi, e verso questo tipo di rapporto, che Pasolini
sentirebbe attrazione (e rimpianto), piuttosto che nei confronti dei rapporti con
altri omosessuali.
33 «Le case e i teneri alberi che tremano sul fosso». P.P. Pasolini, Lengas dai frus
di sera [Linguaggio dei fanciulli di sera], La meglio gioventù. La leggo in P.P. Pasolini,
La nuova gioventù, Torino, Einaudi, 1980, p. 52. D’ora in poi le citazioni dalla
[ 13 ]
380 LUIGI ABIUSI
ragazzi ruzzanti, il rituale fanciullesco della presentazione e della scoperta
dell’eros.
Ma già qui, al tempo della Meglio gioventù, la possibilità esteticopolitica
di acquisizione e coniugazione corporea, mentre è esaltata
nella freschezza verbale dei tratturi e delle locande, o nel calore delle
stalle, dei focolari, è al contempo antifona di un drammatico distacco,
guardata a distanza, malinconicamente, come qualcosa che si desidera
e da cui si è ineluttabilmente esclusi, a causa non tanto della storia,
quanto, in ultima istanza, degli atavici meccanismi di vanificazione
attuati dalla natura:
E jo i resti fòur
ta la nèif […]
Sint, Stièfin, sint,
zà sentenàrs di àins o zà un momènt
jo i eri in te.
Drenti, e no fòur,
pognèt tal zenoli
i sentivi il zenoli, i nasavi il fen.
Vuei i soj uculí.
Fòur, e no drenti
i no sint il zenoli
né il cialt dal me cuàrp.
Vuei al era
Un dí ch’i vevi di no essi!
(E io resto fuori sulla neve […] Senti, Stefano, senti, centinaia di anni or
sono o un momento fa, io ero in te. Dentro, e non fuori, chinato sul ginocchio,
sentivo il ginocchio, odoravo il fieno. Oggi sono qui. Fuori, e
non dentro, non sento il ginocchio né il caldo del mio corpo. Oggi era
un giorno che non dovevo essere!, Ciants di un muàrt [Canti di un morto],
p. 40-41).
Si condensa una poesia di panorami caduchi, affidati alla congiuntura
del ricordo o del sogno:
il me timp al è tal lun/
par sempri vif di un dí/
muàrt, di na fiesta vuèita,/
di na ciera dispeada tal sèil,/
a tornà a vivi la sèit/
Meglio gioventù, e quindi dalle Poesie a Casarsa, si intendano tratte da questa edizione.
I riferimenti e la traduzione si troveranno direttamente nel testo.
[ 14 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 381
da li primis primaveris/
spasemadis sot li primis stelis.
(Il mio tempo è nella luce per sempre viva di un giorno morto, di una
festa vuota, di una terra liberata nel cielo, a rivivere la sete delle prime
primavere, spasimate sotto le prime stelle, Lúnis [Lunedì], p. 94).
dove il cronotopo si ripercuote su se stesso, raffreddando il magma
(sentimentale) di cui è fatto, nella concrezione della pietra antica, preziosa
(nel quadro – immobile – della specula huysmansiana), smorzando
la propria vitalità nell’appassimento di una luce biada, aperta
all’opzione nullificante (che assorbe l’altro):
adès sí ch’a revoca
un plant di muàrt
parsè che il cialt
e il frèit dal alt
plan dal Friúl
son insembràs ta un azur
di dis no pierdús,
ma doventàs di un atri; nus
drenti di un timp sidín coma la lus.
(Adesso sì che scoppia un pianto di morte, perché il calore e la freschezza
dell’alta pianura del Friuli si sono mescolati in un azzurro di
giorni non perduti, ma divenuti di un altro, nudi dentro un tempo silenzioso
come la luce, De loinh [De loinh], p. 96).
Il felibrismo friuliano, rimasto in filigrana per l’intero percorso artistico
di Pasolini, come riesumazione di un ecosistema di vive immagini,
mentre connotava certi tratti elegiaci, marcatamente contemplativi
delle sue opere, anche di quelle più impegnate, confluisce pienamente,
un attimo prima dell’annichilimento di Salò34, nella trama immaginifica
e antiquaria dell’esotico Fiore. E, nell’inclinazione all’originarietà/
originalità della lingua poetica, assimilando la tradizione
trobadorica alla koinè pascoliana, esso funziona da veicolo, strumento
fondante di un creare inteso come “esperienza di morte”.
Proprio riferendosi a Pascoli e alla natura “vocale” di certe sue soluzioni
linguistiche35, e dandone pure per scontata, la connessione con
34 Non è detto che sia questa la chiave di lettura ultima del film, quanto piuttosto
l’ulteriore conferma di un’apertura di tipo brechtiano, che non risolve l’opera
se non nell’indicazione dello sbocco ancipite, della diramazione.
35 Che sono quelle della glossolalia e dell’onomatopea, nonché dei nomi pro-
[ 15 ]
382 LUIGI ABIUSI
l’uso pasoliniano del dialetto, Giorgio Agamben fa coincidere – sulla
base della constatazione di una generale tensione decadentistica –
l’aspirazione ad una lingua inedita – che riesca a convogliare entro i
propri codici il pensiero vivente – con l’utilizzo effettivo e distopico di
una lingua morta, la quale cioè rapprende nella stasi della parola, la
breve, oscura folgorazione del «puro grammata», della lettera in quanto
incarnazione di una estranea «volontà di dire», una sillabazione evocativa
(ma non significativa, non ancora), attinta dalla sede dell’incosciente.
In base a ciò, il dettato poetico, la congerie di pensieri all’origine
della poesia, vivono, si muovono, nel trapasso, nel momento della loro
morte, che avviene concretamente in veste di parole, di significato:
parlare, poetare, pensare può allora solo significare, in questa prospettiva:
fare esperienza della lettera come esperienza della morte della
propria lingua e della propria voce36.
E similmente, nelle prime prove poetiche di Pasolini, il tentativo di
fare riecheggiare nella propria medianica voce, il suono delle campane
(«Sempri ché tu ti sos,/ ciampana, e cun passiòn/ jo i torni a la to
vòus [Sempre la stessa tu sei, campana, e con sgomento ritorno alla
tua voce]», Tornant al país [Tornando al paese], p. 18) e il mormorio del
vento e degli alberi, il suono delle cicale o dei grilli, conduce alla coscienza
dell’ineluttabilità del trascolorare del vivente in morta parola,
quando «pai pras se silensi/ ch’a puarta la ciampana!» («Sui prati che
silenzio porta la campana», Tornant al país [Tornando al paese], p. 18).
Mi pare che lo schema delineato da Agamben venga utile non solo
per investigare specificamente la «ciar di frutút» («carne di fanciullo»,
La domenia uliva [La domenica uliva], p. 35) del felibrismo pasoliniano,
i grumi ancestrali e l’“insignificante” prosodia dialettale, che subito,
proletticamente, nelle Poesie a Casarsa «súnin de muàrt» («suonano a
morto», Il nini muàart [Il fanciullo morto], p. 8.)37, ma anche la consipri,
considerati come «puro voler dire», «insignificante [appunto sonante] volontà
di significare», o, detto altrimenti, ambizione di viva comunicazione del vivente.
Cfr. G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Bari, Laterza,
2010, pp. 61-73. Per quanto concerne il rapporto della poesia pasoliniana, soprattutto
degli esordi, con il magistero pascoliano si leggano, tra le altre cose (tra cui,
ovviamente, l’apporto fondamentale offerto dal «Meridiano» curato da Walter Siti),
i primi due capitoli del già citato Il limite oscuro. La poesia. Il cinema.
36 G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, cit., p. 71-72.
37 Numerosi sono in queste prime poesie i riferimenti alla sfera sonora, che
Pasolini cerca di fare rivivere, appunto suonare nella propria voce.
[ 16 ]
Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 383
stenza “vocale”, glossolalica, del cinema introspettivo-visionario che
fa capo soprattutto all’Edipo re e al Fiore delle mille e una notte, poli che
perimetrano il terreno entro cui prima si formalizza (si filma) il dispositivo
regressivo/reattivo dell’autore, poi prendono (eterea) carne le
risultanze di questa prospezione, immagini oscure, inconscie, come
disperse nell’orizzonte di cortili risuonanti, deserti che sibilano, corti
germinanti di un vociare perpetuo e ipnotico. Un dire infantile, misteriosamente
denso, che alla fine assorbe ogni lucida eloquenza, ogni
dissertazione razionalizzante rivolta al di fuori: un figurare per stilizzazioni,
per immedesimazioni, fantasticherie, che è godimento erotico
e puramente egotico, autoriflessivo, delle cose e del corpo trepido, che
cioè «di timp antic a trima» («trema di tempo antico», O me donzel [O
me giovinetto], p. 11).
L’antico fremito è sintomale delle cose resistenti, poetiche, gli imsegni,
che si risolvono nella tensione all’immobilità insita nel movimento
stesso, nello trascolorare in un elemento nullo:
jo frut, i vuardi tal Spieli
e il recuàrt al mi rit lizèirit,
il recuàrt da la me vita viva
coma erba ta na nera riva.
Ma no content tal redròus i olmi
par jodi s’a è alc a dòlimi.
Un barlún, a è, un barlún,
doma che il blanc di un barlún
(io fanciullo, guardo nello Specchio, e il ricordo mi ride leggero, il ricordo
della mia vita viva come erba in una nera riva. Ma non contento
guardo nel rovescio per vedere se è qualcosa a dolermi. Un barlume, è,
un barlume, solo il bianco di un barlume, Suite Furlana, p. 53);
chiara e ferma risulta del vivente e trapasso del parlare narcissico, di
cui, alla fine, si immobilizza il dettato e «par sempri a mòur/ ju pai
pras scurs/ la trista vòus» («eterna muore nei campi scuri la triste
voce», La dòmenia uliva [La domenica uliva], p. 33).
Luigi Abiusi
(Università di Bari)
[ 17 ]
DONATO SPERDUTO
Nota sull’appendice del Quaderno
a cancelli leviano
The author consulted The Carlo Levi Archive (Archivio Centrale
dello Stato, Rome), and ascertained that the posthumous edition
(1979) of Quaderno a cancelli, written by Levi when he was momentarily
blind, is incomplete. The pages he wrote from June to August
22th 1973 are in fact missing. It is therefore necessary to carry out an
unabridged edition of this work.
Nella prima metà del 1973, Carlo Levi scrisse, nel buio della cecità,
il Quaderno a cancelli1, pubblicato postumo da Einaudi nel 1979. Lo
cominciò a redigere nel febbraio del 1973, dopo un primo intervento
all’occhio destro. Aldo Marcovecchio, che insieme a Linuccia Saba ha
decifrato i 941 fogli manoscritti, ha precisato che «verso la fine del dicembre
1972 Carlo Levi fu colpito da una grave malattia agli occhi
(distacco della retina) […]. Ricoverato nella clinica San Domenico, a
Roma, lo scrittore fu operato ai primi del febbraio 1973»2. Dopo il primo
intervento chirurgico Levi ritornò nella sua abitazione di Villa
Strohl-Fern. Tuttavia, a seguito del secondo distacco della retina,
nell’aprile dello stesso anno egli dovette rientrare in ospedale per sottoporsi
ad un secondo intervento. L’ultima pagina scritta a Roma, nella
clinica San Domenico, dove Levi subì i due interventi chirurgici
all’occhio destro, risale al 31 maggio 1973.
1 C. Levi, Quaderno a cancelli, Torino, Einaudi, 1979. Su questo scritto leviano
rinvio principalmente a: G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi, Bari,
Dedalo, 1996, pp. 363-390; G. DE Donato, Le parole del reale, Bari, Dedalo, 1998, pp.
201-219; D. Sperduto, Carlo Levi pensatore, in Carlo Levi inedito: con 40 disegni della
cecità, a cura di D. Sperduto, Milazzo, Spes, 2002, pp. 17-27; R. Galvagno, Carlo
Levi, Narciso e la costruzione della realtà, Firenze, Olschki, 2004, pp. 59-97; D. Sperduto,
Maestri futili? Gabriele D’Annunzio, Carlo Levi, Cesare Pavese, Emanuele Severino,
Roma, Aracne, 2009, pp. 95-122.
2 C. Levi, Quaderno a cancelli, cit., p. 231.
Note
Nota sull’appendice del quaderno a cancelli di c. levi 385
La prima edizione di Quaderno a cancelli è stata curata da Aldo Marcovecchio
che – come accennato – ha decifrato i fogli manoscritti insieme
a Linuccia Saba, figlia del poeta triestino Umberto Saba e compagna
di Levi. Il titolo del libro è dovuto al fatto che, per poter scrivere,
Levi si servì di una speciale intelaiatura di fili di ferro, una specie di
quaderno di legno a cerniera, munito di cordicelle tese tra le due sponde
per guidare la mano. Ma l’espressione “quaderno a cancelli” risale
in realtà a Rocco Scotellaro che, nella poesia Dedica a una bambina
(1952), scrive:
Questo piccolo quaderno a cancelli
l’ho scritto per te di cui non parlo
per i tuoi occhi chiusi e i tuoi capelli
di cera, il naso che non può fiutarlo3.
L’edizione einaudiana del Quaderno a cancelli termina con una pagina
scritta dall’autore torinese il 31 maggio 1975: si tratta dell’«ultima
pagina scritta in clinica»4. Nella Nota al diario leviano, A. Marcovecchio
precisa che «esiste un’appendice, di indubbio interesse, ma sostanzialmente
allotria alla struttura del libro»5. In questo modo, Marcovecchio
spiega perché ha espunto detta “appendice” dall’edizione einaudiana
del diario leviano.
Rosalba Galvagno, consultando le Carte Carlo Levi custodite
nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma6, ha potuto appurare che
detta appendice altro non è che la parte finale dell’ultimo libro di Carlo
Levi, scritta subito dopo essersi nuovamente installato nella sua
abitazione romana di Villa Strohl-Fern. Condivido l’auspicio della
Galvagno: «[…] sarebbe auspicabile, per il lettore del Quaderno a cancelli,
poter reintegrare questa parte del diario rimasta inedita»7.
Ora, intendo fare una precisazione in merito alle osservazioni di
Rosalba Galvagno relative all’appendice del Quaderno leviano. Alla
Galvagno va riconosciuto il merito di aver messo l’accento su tale testo.
Va però precisato che Levi non ha smesso di redigere il suo diario
3 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, a cura di F. Vitelli, Milano, Mondadori,
2004, p. 137.
4 C. Levi, Quaderno a cancelli, cit., p. 227.
5 Ivi, p. 231.
6 Archivio Centrale dello Stato di Roma (Fondo Carlo Levi), busta 61, fasc.
1899.
7 R. Galvagno, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, cit., p. 60.
[ 2 ]
386 DONATO SPERDUTO
nel «luglio»8 del 1973. In realtà, l’ultima pagina risale al 22 agosto 1973.
Quasi sicuramente la Galvagno ha visionato soltanto una parte
dell’appendice del “quaderno” (credo che si tratti delle prime bozze
del dattiloscritto battuto a macchina da Linuccia Saba). Infatti, analizzando
l’«occorrimento del sostantivo “cancelli”, lessema che si ripete
regolarmente nel Diario, accanto al singolare “cancello” e alla forma
verbale “cancellare”», la studiosa leviana nota che l’ultimo occorrimento
figura nella poesia composta tra il 5 e l’8 luglio 1973:
5.7.73
Finito, sembra a volte, coi cancelli
un mondo intenso, disperato, ondoso
e ondeggiante, attento a se stesso, alle dubbie
sue forme, a riconoscersi diverso
7.7.73
a esplorarsi, come in avanscoperta
in un paese sconosciuto, di cui si ignora
la lingua o il costume, e dove anche le piante
hanno altri nomi e altre foglie
8.7.73
che scuote un vento pallido di eclisse
e si saggia col piede se la terra
regga od inghiotta nelle sabbie. Finito?
Oh, non finito? Guarda, ancora ondeggia9.
In realtà, Levi parla di «cancelli» ancora due volte. In una pagina
della parte inedita del Diario, datata 9.7.73, ed ancora in una poesia del
27 luglio dello stesso anno10.
Queste considerazioni sono più che sufficienti a farci capire che la
prima edizione di Quaderno a cancelli non è integrale: è monca, non
completa. Sono purtroppo stati espunti i fogli che Levi ha scritto fino
al 22 agosto 1973. Inoltre, come da me rilevato a suo tempo, due pagine
dell’“appendice” in questione, risalenti al giugno 1973, sono in
possesso di Antonino Milicia11 (ma solo una non figura tra le carte
conservate nell’Archivio Centrale di Stato).
L’importanza delle pagine finali del Diario leviano – che è sbagliato
allora considerare semplicemente “appendice” – la si evince da una
non trascurabile constatazione: parlando di ciò che ha contato nella
8 Ivi, p. 59.
9 Ivi, pp. 60-61. Appendice di Quaderno a cancelli, cit., pp. 15962-15963.
10 Ivi, pp. 15963 e 15965.
11 Carlo Levi inedito, cit., p. 12.
[ 3 ]
Nota sull’appendice del quaderno a cancelli di c. levi 387
formazione della sua vita, l’autore del celebre Cristo si è fermato a Eboli
(1945) non manca di citare il poeta di Tricarico12. E non poteva essere
altrimenti visto che il titolo “quaderno a cancelli” è dovuto al “fratellastro”
Rocco Scotellaro: Bronzini ha giustamente indicato che questo
libro
[…] significativamente riprende (strano che non sia stato finora, ch’io
sappia, notato) il titolo dell’ultima sezione di poesie di È fatto giorno: le
più struggenti, composte da Rocco nel suo ultimo anno di vita, le più a
Portici, a Napoli e a Positano, insomma in una dimensione di città, o
aperta alla città; una sola a Tricarico, ossia nel paese13.
Necessaria, dunque, una nuova edizione dell’ultimo libro leviano:
questa volta però finalmente integrale.
Donato Sperduto
(Kantonsschule Obwalden – Svizzera)
12 Appendice di Quaderno a cancelli, p. 16041. Ne ha parlato Guido Sacerdoti
negli Atti del Convegno Intertestualità leviane, curato da S. Ghiazza (di prossima
pubblicazione presso il Servizio Editoriale Universitario di Bari).
13 G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi, cit., p. 390.
[ 4 ]
GIOVANNA LO PRESTI
Doppia seduzione di Francesco Orlando
In Doppia seduzione di Francesco Orlando l’ambiguità è la cifra dominante.
Sullo sfondo della Palermo degli anni Cinquanta, Il protagonista
Ferdinando prende a poco a poco coscienza nel confronto
con due diversi oggetti del desiderio, sfuggenti ed ammiccanti. Ferdinando
mette in moto il meccanismo della seduzione e tesse una
tela fitta e rigorosa. Nella narrazione asciutta del romanzo, la cui
stesura e revisione ha impegnato l’autore per mezzo secolo, ritroviamo,
come per un ulteriore gioco di specchi, l’acume dell’uomo di
cultura e del critico sensibile che fu Francesco Orlando.
C’est Vénus tout entière à sa proie attachée
L’ultimo libro che il critico Francesco Orlando ci ha lasciato, prima
di morire improvvisamente, è anche il suo romanzo d’esordio; concepito
e scritto quando l’autore era poco più che ventenne, tra il 1956 e il
1958, viene pubblicato a distanza di più di mezzo secolo e dopo infinite
revisioni. Questa lunga fedeltà ad un progetto giovanile, mai abbandonato
e rivisitato in continuazione, costituisce il nocciolo della
complessità del testo. Doppia seduzione ha, come sua prima caratteristica,
la densità; ogni lettura veloce è messa al bando dall’articolarsi esigente
delle frasi, che seguono mimeticamente il cammino insieme inevitabile
e labirintico del contenuto. Il tessuto narrativo è fatto di materia
ad altissimo peso specifico – ed è come se nel cosmo di Doppia seduzione
la legge di gravità non esercitasse la consueta forza attrattiva
ma un’altra, molto più forte.
Nel tentativo di definire cosa accade nel meccanismo di una narrazione
che ha accompagnato il suo autore per così lungo periodo, soccorre
una riflessione di Cesare Garboli:
Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo
scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole caDoppia
seduzione di Francesco Orlando 389
dono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle
parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere
al mondo che conosciamo1.
È come se lo scrittore-scrittore Orlando, poco più che adolescente,
allievo d’elezione dell’aristocratico Tomasi di Lampedusa nella Palermo
degli anni Cinquanta, avesse lanciato nello spazio le sue parole
che poi, nel lungo arco di tempo di un cinquantennio, lo scrittore-lettore
Orlando è andato a recuperare con pazienza e cura amorevole,
per collocarle in una casa in cui ogni mattone è costituito da quelle
stesse cose amate tanti anni prima e mai abbandonate – siano esse
Proust, Wagner o Racine. Le stesse cose che ritornano, non snaturate
dai lunghi anni di studio del critico, restituite ad una loro primordiale
autenticità.
Nel 1971 Orlando pubblica la Lettura freudiana della Phèdre; il critico,
sottile e dotato di un orecchio assoluto per i valori formali, dimostra,
usando strumenti ricavati dalla teoria freudiana, come l’inconfessabile
e colpevole amore di Fedra nei confronti del figliastro Ippolito,
trovi modo di affermarsi attraverso un uso insistito della negazione.
Uno dei pilastri portanti del saggio è costituita dall’idea che la letteratura
«è stata da sempre, forse, la sola a poter prestare una voce a tutto
ciò che resta soffocato nel mondo com’è, a qualunque cosa nel cui nome
il mondo volta per volta andrebbe cambiato, alle ragioni che non trovano
riconoscimento da parte degli ordini costituiti o grazia di fronte
alle opinioni pubbliche»2. Lettori e spettatori dell’opera di Racine, che
sentono il canto da sirena della poesia, non possono perciò sottrarsi
all’identificazione emotiva con la protagonista, ancorché tale adesione
li porti ad accettare sentimenti pericolosi e socialmente deprecabili.
Torniamo al romanzo e al passaggio in cui il giovane Ferdinando
canticchia tra sé e sé: «Mirassero i miei occhi, fra una nobile polvere, /
fuggendo nell’arena veloce un carro volgere!». È la traduzione del
passo di Phédre (cui aggiungiamo le poche parole che introducono la
rêverie di Fedra): «Dieux! Que ne suis-je assise à l’ombre des forêts!/
Quand pourrai -je, au travers d’une noble poussière,/ Suivre de oeil
un char fuyant dans la carrière?».
I versi presenti in Doppia seduzione sono analizzati in un passaggio
della Lettura e così commentati:
1 C. Garboli, Storie di seduzione, Torino, Einaudi, 2005, p. 3.
2 F. Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990,
p. 28.
[ 2 ]
390 GIOVANNA LO PRESTI
Nel primo atto il delirio di Fedra spostava nostalgicamente il desiderio
ancora inconfessato per Ippolito su un oggetto per eccellenza prossimo
al corpo del giovane atleta, il suo carro3.
Questa evidente analogia fra i due personaggi è confermata dal
fatto che il desiderio di Fedra, come quello di Ferdinando, è un desiderio
“perverso” e condannato dalla società; entrambi sono i primi a
non accettarlo, a sentirlo come una colpa e a immaginare nella morte
l’unico possibile esito della loro passione. Nella goffa traduzione di
Ferdinando, che sfarina e dissolve l’aura e l’eleganza dell’alessandrino,
si intuisce la presenza ed insieme la distanza di Orlando, che, negli
anni che intercorrono tra la prima stesura del romanzo e quella definitiva,
è intanto diventato un critico sapiente e sofisticato. Come non
vedere in controluce, nel frammento raciniano, una trama autobiografica?
Come non sentire la voce dell’autore che ci racconta – nel modo
obliquo ed ambiguo che è proprio della letteratura – un passaggio
della sua formazione? La traduzione impacciata diventa così il modo
migliore – che si risolve in una pura scelta formale – per parlare di sé
con ironia affettuosa, per presentare, con tratto delicato, la genesi della
propria vocazione letteraria.
Doppia seduzione, pur mostrando il dato biografico che la sottende,
evita sempre le secche dell’autobiografismo spicciolo e attaccaticcio e
pretende, dal lettore che di tale dato si renda conto, una sorta di continuativa
interpretazione figurale del testo. Il giovane Ferdinando preannuncia
ciò che diventerà il suo autore – e l’autore ha la capacità di
mantenere il distacco necessario che serve per descrivere, senza ipostatizzarli
né renderli ridicoli, gli impacci, la teatralità eccessiva,
l’estremo male di vivere, gli errori, la “felicità da grillo” che sono spesso
i compagni della giovinezza.
Le velleità creative di Ferdinando, sebbene destinate a non incontrare
successo, sono molte. Una di queste si traduce nella composizione
di un testo teatrale dedicato a Don Giovanni. Lo legge ai suoi amici,
interpretando, da solo, tutte le parti:
Per rendere il personaggio più aderente alle proprie complesse inclinazioni,
Ferdinando si era allontanato dalla tradizione plurisecolare. E
aveva ideato un Don Giovanni innegabilmente originale. Sempre insidiato
sì dagli appetiti femminili a causa della sua somiglianza fisica
con Giuliano, quale traspariva dalle descrizioni. Ma sempre tragicomi-
3 Ivi, p. 73.
[ 3 ]
Doppia seduzione di Francesco Orlando 391
camente arrestato sulle soglie del piacere da un interporsi di capziosi
scrupoli cattolici. Instillati anzitempo dai gesuiti spagnoli4.
Sullo sfondo, in filigrana evidente, un altro Don Giovanni domina
il romanzo: è quello kierkegaardiano del Diario di un seduttore. Personaggio
cui aderiscono alternativamente Mario e Ferdinando, ma molto
più il primo che non il secondo. Mario, in realtà, racchiude anche la
natura mercuriale ed instabile del Don Giovanni mozartiano. I successi
con le donne non sono però che l’aspetto più esteriore di un’affinità
ben più profonda con il seduttore per eccellenza:
Il fascino centripeto dell’intimità, che emanava dalla persona di Ferdinando,
acquietava come un contrappeso il bisogno di espansione di
lui5.
Tale «bisogno di espansione» di Mario si estrinseca nella continua
ricerca del consenso e della simpatia altrui, in un gioco continuo di
simulazione: proprio come avviene al Don Giovanni di Mozart. Di
Johannes, il seduttore kierkegaardiano, Mario ha invece l’insistenza,
la capacità di attendere e preparare il cedimento. Lo dimostra l’unica
vera scena di seduzione del romanzo, quella in cui Mario riesce a scoprire
il segreto di Ferdinando (inconfessabile e colpevole, come tutte
le passioni totali, che, una volta dette, non possono che trascinare chi
le prova verso la morte):
Perché Mario faceva sul serio, tirava ad ammazzare, e si rivelava diabolico
di bravura. Dapprima aveva tentato di ghermire una confessione
con la violenza del caso. Erano state domande insidiose, trabocchetti
verbali, induzioni a catena e finzioni d’avere già indovinato. Ma da
un certo punto in poi impegnò il suo amor proprio come posta della forma più
lusinghiera di successo. Ottenere liberamente il segreto da Ferdinando, in piena
fiducia ed intimità6.
Ed ecco Kierkeegaard:
Grazie alle sue doti spirituali sapeva tentare una fanciulla, sapeva attrarla
a sé, senza curarsi di possederla in più stretto senso. Posso immaginarmi
che sapesse portarla al parossismo, al punto di esser certo
che gli avrebbe sacrificato tutto. Quando la cosa era giunta a tanto, allora
troncava, senza che da parte sua fosse avvenuta la minima apertu-
4 Ivi, p. 99.
5 Ivi, p. 9.
6 ivi, p. 70. Il corsivo è mio.
[ 4 ]
392 GIOVANNA LO PRESTI
ra, senza che fosse stata pronunciata una sola parola d’amore, una di
numero, e ancor meno una dichiarazione, una promessa7.
Non stupisce che Mario possa saltare dalla strategia fascinatoria
del don Giovanni mozartiano a quella del don Giovanni di Kierkeegaard
in un passaggio di frase – di mezzo, a facilitare tale salto acrobatico,
c’è il tempo che separa tutt’è due gli antichi seduttori da Mario,
quel tempo in cui Freud ha scandagliato gli abissi dell’interiorità,
Proust anatomizzato la passione amorosa, Girard chiarito che il desiderio
nostro nasce dal fatto che qualcuno desideri ciò che noi amiamo,
quel tempo i cui esiti ci appartengono anche quando non li conosciamo.
Perciò il giovane Mario, afflitto anch’egli come Johannes da una
exacerbatio cerebri, può facilmente abbandonare il progetto di ottenere
con la forza o con l’inganno l’oggetto del desiderio (il segreto di Ferdinando)
e impegnarsi con tutte le sue forze per ottenerlo liberamente.
Ma lo stesso Ferdinando non è poi così distante da Johannes – ancorché,
come il singolare Don Giovanni da lui stesso immaginato, subisca
gli esiti della severa educazione dai gesuiti. Ecco Kierkeegaard:
Oggi ho scritto una lettera d’amore per conto di un’altra persona… Ciò
mi è sempre motivo di gran gioia. In primo luogo perché è sempre così
interessante inserirsi nel vivo di una situazione, e tuttavia con ogni
possibile agio…8
Qui è Orlando (nel punto in cui Giuliano, l’amato di Ferdinando,
vuole conquistare una ragazza piuttosto ritrosa e, per scriverle, chiede
consiglio al colto Ferdinando):
Pian piano, senza che l’amor proprio del Capo potesse venire urtato, la
revisione delle lettere fu cambiata in autentica dettatura. E le lettere
piacquero tanto alla destinataria che presto Giuliano poté fare a meno
di comunicare con lei per iscritto9.
La lettera dettata ritorna più avanti:
Giuliano l’aveva incaricato di dettargli una lettera d’amore. Si era poi
dovuto congratulare della prontezza con cui aveva visto nascere, diceva
con reverenza da incolto, un capolavoro nel suo genere. Aveva domandato
come Ferdinando poteva mettere insieme parole tanto ap-
7 S. Kierkegaard, Enten Eller, Milano, Adelphi, 1978, III, pp. 47-48.
8 Ivi, p. 129.
9 F. Orlando, La doppia seduzione, cit., p. 35.
[ 5 ]
Doppia seduzione di Francesco Orlando 393
passionate se non le sentiva col cuore. La domanda di Giuliano era il
culmine di toccante paradosso su cui per lo più Ferdinando si interrompeva10.
In questo arabescato gioco di seduzioni – il titolo Doppia seduzione
rimanda più all’immagine riflessa in due specchi che si fronteggiano,
e che si moltiplica nella fuga prospettica che non ad una seduzione
duplice – veloci tocchi di pennello dipingono il contesto storico e presentano
in modo ellitticamente vivido una Palermo a cavallo tra gli
anni Quaranta e Cinquanta: cori fascisti nelle strade e politici comunisti
che frequentano i salotti culturali e aristocratici alla moda, la morte
di Benedetto Croce, “Senso” di Visconti accanto a B-movies come “Il
risveglio del dinosauro”, l’emergere della modernità sotto la forma
del “grattacielo”, “la costruzione post-bellica più elevata della città”,
in cui abita Dolly, la ragazza amata da Mario. Alcuni ambienti si imprimono
con più forza nella mente di chi legge: prima fra tutte la camera
di Ferdinando, con l’ottomana-letto (quanto diversa da un prosaico
divano-letto), vera e propria “cameretta” petrarchesca, porto sicuro
per le sofferenze del suo abitante.
Dal balcone semiaperto entravano aliti d’aria, due tendine e una tenda
si muovevano, le pareti della camera sembravano spostate lievemente
in giro. Il cuore gli si faceva piccolo, avrebbe voluto alzarsi e partire11.
Le tende, fragile sipario fra il dentro e il fuori, mosse dal il vento
della Sicilia – e la tenda di Orlando sembra pronta ad espandersi, a
trasformarsi nella candida tenda gonfiata dal vento che, nel “Gattopardo”
di Visconti incornicia la partenza di Tancredi. E ancora, la musica,
così amata da Ferdinando: che, pur essendo approdato alle raffinatezze
di Alban Berg sceglie, per accompagnare i suoi ultimi istanti
di vita, la musica di “Carmen”.
Il suicidio di Ferdinando ebbe finalmente luogo tre mesi dopo, con una
ingestione di pillole, al suono del famoso grido finale di José sul corpo
di Carmen.
Scelta musicale oculata, da parte del giovane uomo diventato “orgiasticamente
letterario”. La parte finale dell’opera, si apre con due
battute icastiche (C’est toi! / C’est moi!) pronunciate da Carmen e Jo-
10 Ivi, p. 93.
11 Ivi, p. 24.
[ 6 ]
394 GIOVANNA LO PRESTI
sé; poi la domanda di José «Tu ne m’aimes donc plus? Tu ne m’aimes
donc plus?» e la secca risposta di Carmen «Non! je ne t’aime plus».
Infine la conclusione, il grido ultimo di José: «Vous pouvez m’arréter…
c’est moi qui l’ai tuée!/ Ah! Carmen! ma Carmen adorée!». Poche battute
che in estrema sintesi presentano l’andamento ineluttabile di ogni
tormentata passione amorosa. Come in Carmen anche in Doppia seduzione
non è detto che il destino di chi sopravvive sia quello meno infelice.
Giovanna Lo Presti
(Università del Piemonte orientale)
[ 7 ]
Mario Aversano, Dante e i precursori
dell’Unità d’Italia, Benevento, Edizioni
Auxiliatrix Benevento, 2010, pp.
102.
Dante precursore dell’Unità d’Italia?
Leggiamo quello che scrive il
ventenne Mazzini in Dell’amore patrio
di Dante (1826): «In tutti i suoi scritti
(…) traluce l’amore che egli portava
alla patria; amore che non restringevasi
a un cerchio di muro, ma a tutto
il bel paese dove il sì suona, perché la
patria di un Italiano non è a Roma,
Firenze o Milano, ma tutta l’Italia». E
Garibaldi nell’aprile del 1882 – ricorda
Aversano nell’Introduzione al suo
lavoro – salutando a Caprera due
medici che lo elogiavano per quanto
aveva saputo fare perché l’Italia diventasse
una, libera e indipendente,
disse: «Già buona parte di questa Italia
si deve ai poeti: Dante, Petrarca,
Mercantini, Foscolo, il Berchet». I due
eroi del nostro Risorgimento non avevano
dubbi nel rispondere affermativamente
alla domanda posta all’inizio;
ed anche i nostri storici e critici
furono lungamente e largamente d’accordo
sulla tesi, condivisa anche all’estero,
che la Commedia fosse specialmente
«Il poema dell’Italia». Questa
tesi, però, successivamente fu
posta in dubbio; ed è sempre più difficile
trovare attualmente chi la condivida.
Uno stimolante contributo sull’argomento
reca da ultimo Aversano,
uno dei maggiori esegeti di Dante,
cui ha dedicato numerosi libri e articoli.
Il critico si basa su una metodologia,
da lui stesso formulata, che
definisce “semiosi obbligata”: il testo
non viene considerato opera aperta
ad interpretazioni illimitate da parte
del lettore, ma assume come parametro
indispensabile l’unicità dei significati,
l’individuazione/interrogazione
delle fonti, delle rilevazioni statistiche
e degli spogli lessicali. È attraverso
questa modalità che Aversano
prende in esame tutta l’opera di Dante,
dal Convivio alla Commedia, per dimostrare
– con argomenti nuovi rispetto
a quelli soliti e spesso ingenui
dell’Otto-Novecento- che il programma
imperiale di Dante, lungi dal negare
l’idea politica della nazione italiana,
presuppone l’identità nazionale
e la sua costituzione in un vero e
proprio stato autonomo italiano, che
rappresenti nello stesso tempo una
realtà non solo geografica e linguistica,
ma anche politica. Una conclusione,
questa, cui lo studioso giunge
grazie a uno spostamento dei paraRecensioni
396 recensioni
metri del commento secolare al Poema
su nuovi cardini, essenzialmente
biblico-patrologici, e attraverso un’analisi
raffinata, con due pregi che ne
favoriscono la fruizione: il discorso si
articola in un linguaggio rigoroso,
ma piano, come se fosse una conversazione
con un interlocutore presente,
tanto che sembra quasi di ascoltarne
la voce più che leggerne le parole.
L’indagine viene condotta quasi
come da un detective che scopre indizi
ed impronte, che rivela segni, ricerca
e mette insieme elementi di
vari saperi (lingua, storia, filosofia,
religione, arte), riannoda i fili di una
tela, per giungere infine a una conclusione
logica, che nelle ultime pagine
riassume per il suo lettore/
ascoltatore. Insomma “Dante precursore
dell’Unità” non è un assioma
dato, ma la convincente soluzione di
un’articolata e sapiente dimostrazione
condotta sui testi.
Si può verificare la teoria-metodologia
di Aversano attraverso l’analisi
degli usi del nome “Italia”. Lo studioso
fa osservare che «l’Italia è il
primo e l’ultimo nome geografico di
nazione nella Commedia»; un nome
che si riscontra come sostantivo, in
forma aggettivale o come perifrasi
molte volte nelle tre Cantiche. A parte
i luoghi in cui la connotazione politica
è evidente (come in Inferno I,
106: «di quell’umile Italia fia salute»;
Purgatorio VI, 76: «Ahi serva Italia, di
dolore ostello»; Paradiso XXX 137-
138: «de l’alto Arrigo, ch’a drizzar Italia/
verrà…»), l’autore fa notare che
generalmente anche là dove il nome
“Italia” sembra avere una funzione
di rilievo territoriale ed indicare un
semplice spazio geografico, esso, letto
nel contesto, assume anche un
senso politico. Così nel canto XX
dell’Inferno, v. 21 (Suso in Italia bella
giace un laco) il tema della bellezza
italiana va inteso «in antitesi con la
dimensione della bruttezza: del paesaggio
storico evocato (pieno di
guerre, tradimenti e inganni) e insieme
del luogo e dei dannati», gli Indovini,
al cospetto dei quali Dante e
Virgilio sono giunti. La bellezza della
patria richiama il politico «perché fa
da contrappunto allo squallore, all’ingiustizia
e alla mancanza d’ordine
che l’affligge».
Questo un esempio; ma il lettore
troverà nel percorso ampia materia
– anche di convergenze tematiche attuali
(il regionalismo, i mass media,
la formazione dei giovani) – per esercitare
la propria intelligenza, procurandosi
nello stesso tempo diletto.
Pasquale Gerardo Santella
Basilio Puoti, Le lettere nell’Archivio
del Museo di San Martino di Napoli
(1835-1847), a cura di Giovanni Savarese,
Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 2010, pp. 166.
Nel 1957 Maria Luisa e Carolina
Puoti, discendenti del celebre purista
napoletano, donarono al Museo di
San Martino, in Napoli, una cospicua
raccolta di lettere appartenute a Basilio
Puoti.
Il fondo epistolare del Puoti, solo
in minima parte reso noto nel 1969
da uno studio parziale di Sottile D’Alfano
e Cordova (Il marchese Basilio
Puoti e una sua corrispondenza, Napoli,
De Simone) è ora pubblicato integralmente,
a cura di Giovanni Savarese.
Si tratta, complessivamente, di
altre 121 lettere, che vedono Basilio
Puoti ora mittente (112) e ora destirecensioni
397
natario (9), ma sempre al centro di
una ritta rete di relazioni con editori
e librai, rettori di seminari e pubblici
amministratori, intellettuali e letterati
di tutta l’Italia, tra il 1835 e il 1847.
Non si tratta, dunque, dell’intero
epistolario di Basilio Puoti, ancora
ben lontano dall’essere completato,
ma, comunque, di un significativo
contributo in quella direzione. Non
si tratta neanche di testi autografi,
ma di minute dettate dal Maestro all’allievo
Bruto Fabbricatore o ad altri
collaboratori e destinate poi, dopo la
revisione, alla redazione finale in bella
copia.
Nonostante questi limiti, dei quali
il curatore dà conto, il corpus di documenti
offerti da Savarese all’attenzione
degli studiosi consente di trarre
elementi utili ad un affinamento
della tradizionale immagine del Puoti.
Dalla corrispondenza con editori e
librai emerge la figura di un intellettuale
non chiuso degli studi linguistici,
ma attivamente impegnato nella
diffusione dei propri testi scolastici,
tanto attento alla dimensione sociale
del proprio lavoro quanto dotato
di capacità organizzative e commerciali.
Le lettere agli ex allievi, poi,
consegnano l’immagine di un maestro
nel quale il rigore e la disciplina
sanno integrarsi con l’affetto profondo
e il dialogo interpersonale. Interessanti
anche le lettere agl’intendenti
delle varie province del Regno che,
nell’analisi di Savarese, sembrano capovolgere
«l’opinione piuttosto diffusa
di una burocrazia amministrativa
del Regno incolta e ignorante» (p.
XXI). Infine, anche le lettere nelle
quali si affrontano questioni più
strettamente letterarie e, principalmente
la polemica tra classicisti e romantici,
consentono di rivedere l’immagine
stereotipata di un Puoti pedante
e conservatore, a favore di un
intellettuale equilibrato, in grado, ad
esempio, di assumere posizioni critiche
nei confronti dell’attività dell’Accademia
della Crusca in quegli anni.
Nell’edizione curata da Savarese,
le lettere sono state disposte cronologicamente
e corredate di un fitto e
organico apparato di note, che fornisce
informazioni puntuali sui destinatari
delle epistole, sui fatti citati ed
anche sul processo di stesura delle
lettere, dando conto delle correzioni
dettate dall’Autore. La consultazione
del materiale è agevolata, inoltre, da
un Indice che integra l’indicazione
del destinatario e della data con un
sommario dei contenuti.
Raffaele Messina
Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto
il moggio,
a cura di Maria Teresa
Imbriani, Verona, Il Vittoriale degli
Italiani, 2009, pp. 230.
L’edizione critica della Fiaccola sotto
il moggio, a cura di M. T. Imbriani,
finalmente e felicemente giunta in
porto per l’Edizione Nazionale delle
opere di D’Annunzio, costituisce un
punto di arrivo sullo studio filologico
di un’opera, che, con la Figlia di
Iorio, ha sempre costituito un unicum
nell’ambito del teatro dannunziano.
Rappresentata il 27 marzo 1905, a un
anno di distanza dalla Figlia di Iorio,
al teatro Manzoni di Milano, l’opera
collega miti classici con un retaggio
ancestrale e primitivo, bene espresso
soprattutto dalla figura del serparo.
Ispirata alla Elettra e alle Coefore
eschilee, l’elemento nodale è costituito
da una tomba e dall’aspirazione di
398 recensioni
Gigliola a ricostruire un saldo nucleo
familiare, per sempre distrutto dall’uccisione
della madre di Gigliola
ad opera del padre Tebaldo e della
sua amante Angizia. In una ampia
Introduzione la Imbriani ricostruisce
le possibili fonti dell’opera, scritta
“quasi d’un fiato”, tra la metà d’ottobre
del 1904 e il 4 marzo 1905, diversamente
dal debutto francese del 9
febbraio 1905. In particolare il dipinto
michettiano, La processione delle
serpi, riproducente la festa delle serpi
di San Domenico a Cocullo, dovette
senza dubbio fecondare lo spirito del
poeta, riportandolo, con la memoria,
non solo a un mito molto noto in area
abruzzese, ma alle scaturigini di ricordi
autobiografici, sempre vivi e
attuali nell’immaginario dannunziano.
Accanto ad esso le fonti bibliche,
gli Usi e costumi di Antonio De Nino,
la Guida dell’Abruzzo
di Enrico Abbate,
la Storia dei Marsi di Luca Colantoni,
esemplificano il sottofondo
ideativo dell’opera, la cui frettolosa
composizione, contrasta con una breve
e concentrata gestazione. Gli elementi
ispirativi dell’opera, lungi dall’affiorare
in superficie, come scoperta
allusione a una cultura regionale,
risultano sedimentati e stratificati
nella memoria dell’autore, che li rivive
in forme mitiche e leggendarie. In
tal modo l’elemento documentario,
pur inscrivendosi entro una cultura
di stampo naturalista, lievita poi nella
ricostruzione mitica di un mondo
nobiliare in rovina, che attiene ad atteggiamenti
piuttosto decadenti. L’equazione
Abruzzo-Ellade si risolve
nella capacità di rivivere i miti di una
terra natìa nelle forme ancestrali del
richiamo simbolista a un passato ormai
morto, da rivivere nell’efferatezza
tragica del presente.
L’attesisssima prima del 17 marzo
culminò con uno strepitoso successo
di pubblico per i primi due atti, contro
la protesta del finale. Dopo la prima,
D’Annunzio iniziò il processo di
revisione del testo sulla bozza di
stampa, con ritocchi e aggiustamenti.
In un articolo sul ‹Fanfulla della
Domenica› del 25 giugno 1905 Rodolfo
Renier insistette sul carattere
greco della vicenda, facendo di Gigliola
un’Antigone sovrapposta ad
Elettra e magnificando il ruolo del
serparo, che metteva direttamente
D’Annunzio in rapporto con il suo
Abruzzo. L’Imbriani, dunque, dopo
una Introduzione critica, si dilunga
sul complesso processo creativo dell’opera,
che vede la restituzione della
tragedia in un manoscritto conservato
al Vittoriale, che, lungi dall’essere
una bella copia, documenta il tormentato
processo creativo dell’opera,
compreso in un brevissimo giro di
giorni. Composto di 231 fogli, il manoscritto
presenta correzioni e aggiunte,
apposte currenti calamo, ma
manca di quella preistoria ideale, costituita
da appunti e abbozzi, che generalmente
accompagnano la gestazione
delle opere dannunziane. Il
ricco materiale documentario, così, si
sedimentò nell’immaginario poetico
dell’autore, mentre un secondo attraversamento
del testo si ebbe a Milano,
in vista dell’allestimento della
princeps.
Vi vennero aggiunte le didascalie
mancanti, e apposti interventi
dettati dalla drammatizzazione, che
li giustificassero in parte. Questo
secondo
testo, siglato B, si stratifica in
due momenti; il primo, documentato
dalle modifiche autografe sulle bozze,
conservate presso gli Archivi del
Vittoriale; il secondo contenente piccole
variazioni di B. Le espunzioni in
recensioni 399
B riguardano l’antefatto della tragedia,
cioè l’assassinio della
contessa
Monica. Approntata subito dopo la
rappresentazione scenica, la princeps
tiene conto dei giudizi variegati del
pubblico, che determinarono il successivo
orientamento dell’opera.
Tra gli interventi significativi sull’autografo
avvenuti currenti calamo,
ci sono quelli che riguardano le misure
dei versi, alternati in endecasillabi
e settenari, secondo gli antichi
esempi della tragedia e del dramma
pastorali. Gli aggiustamenti significativi
riguardano il personaggio di
Simonetto, come gli interventi sulla
lingua del serparo, con il ricorso a
forme auliche o paradialettali. L’itinerario
delle correzioni muove verso,
o una specificazione delle lezioni
a testo, o un loro ampliamento o rovesciamento.
Si arriva così all’aprile
del 1905, quando uscì la princeps della
Fiaccola. In quello stesso 20 aprile
due copie vennero depositate alla Library
of Congress di Washington, per
garantire il copyright per il mercato
statunitense. Ma si è rinvenuta solo
una delle due copie, uscita a ridosso
della princeps. L’edizione della Imbriani
è esemplata sull’ultima stampa
apparsa in vita l’autore, quella del
1936, confrontata con l’autografo, cui
è consegnata la parte più cospicua
della preistoria testuale dell’opera,
divisa in due momenti: un primo
creativo momento, conclusosi il 4
marzo 1905, in vista della partenza
per Milano per la rappresentazione
del Fumagalli, e un secondo momento,
definitivo, corrispondente al lavoro
di sistemazione e ripulitura del
testo da consegnare all’editore Treves
per la stampa. Alla prima fase di
A corrisponde la copia x da inviare a
New York. L’apparato allestito dalla
Imbriani è di tipo negativo, limitandosi
a registrare le lezioni divergenti
dal manoscritto A, di estremo interesse
per interventi successivi di tipo
evolutivo o sostitutivo.
Inerente alla tipologia e alla fenomenologia
delle varianti, l’edizione
critica allestita dalla Imbriani illumina
su un procedimento evolutivo interno
al testo, nel convincimento generale
della scrittura di getto. Perciò
la preistoria ideativa, fondamentale
in altre opere dannunziane, si condensa
nell’iter elaborativo della scrittura
di getto, alimentando, pertanto,
il mito di una eccentricità evolutiva
inerente allo sviluppo stesso delle lezioni
dell’autografo. L’edizione dell’Imbriani
restituisce un’opera dalla
gestazione complessa e affidata a una
preistoria testuale di cui la curatrice,
con sagace e fine spirito critico, ricostruisce
i momenti più significativi
nella preesistenza al testo di un ricco
corredo paratestuale. Alla curatrice
va ascritto il merito di un lavoro attento
e puntuale, tanto nella ricostruzione
esegetica, quanto nell’apparato
filologico, e di inserirsi pertanto nel
sempre più nutrito novero dei curatori
dell’Edizione Nazionale delle
opere dannunziane, che negli ultimi
anni ha registrato un numero crescente
di interventi.
Valeria Giannantonio
Aldo Putignano, La più gran gioia è
sempre all’altra riva. Estetismo e simbolismo
in Gabriele D’Annunzio, Caltanissetta-
Roma, Sciascia, 2010, pp. 128.
Che la produzione dannunziana
affondi le sue radici nella cultura del
Decadentismo è un elemento arcino400
recensioni
to della poetica del Vate, totalmente
immersa nel fiume vivificatore del
demone della distruzione, che si riplasma
in vita, tra estetismo e simbolismo,
che rappresentano la cifra distintiva
di una civiltà, che tutto trasforma
e traduce in mito. L’enfasi
mistica di un ritorno alle origini coniuga,
in D’Annunzio, il gusto per la
bellezza con quello per il selvatico, al
di fuori e al di là delle leggi morali,
entro quello che Aldo Putignano ha
definito come «lungo viaggio del
corpo e della mente iniziato con Laus
vitae» (p. 28). Perciò l’ambientazione
delle liriche della sua maggiore raccolta
poetica, l’Alcyone, si intride di
quella confusione tra umano e divino,
entro un’interazione tra spazio e
tempo, che trasferisce il mito e il ritmo
della natura nella quotidiana
realtà
dell’uomo. La potenza evocatrice
di certi luoghi costituisce il sottofondo
creativo della Sera fiesolana,
entro un omaggio a Dante, che viene
delineando in Roma e in Firenze i
centri di attrazione della cultura e
della storia.
In Bocca di Serchio, i due giovani,
Glauco ed Adri si perdono nel tema
della passeggiata nel bosco, infuocato
dai raggi del sole, disperdendo la
loro sostanza umana. I due simboli
di questo sogno di eternità sono il
mare e la montagna, entro una natura
che diventa uomo, più che di un
uomo che diventa natura, nella logica
esternatrice del mito. Un nesso
sottile collega la creazione dannunziana
e l’eterna bellezza delle cose, di
cui l’uomo diventa l’elemento mediatore.
Sul tutto aleggia lo sfondo
della Beata riva, entro un percorso
che la poesia traduce in immagini ed
entro la corrispondenza strutturale
dei cinque libri dell’opera del Conti
con le cinque parti del libro di Alcyone.
Il filtro della Beata riva e di quel
movimento di fine ’800 che fu il preraffaellismo,
con la sua aspirazione
al ritorno al Medioevo, entro il gruppo
che aveva come punto di riferimento
Dante Gabriel Rossetti, agì sul
D’Annunzio, non già entro un approdo
alla beata riva, bensì entro una
misura tragica e transeunte del vivere,
che affidava solo all’arte la funzionalità
dell’eterno. Vi è in D’Annunzio,
annota il Putignano, uno stimolo
costante al reiterarsi di se stesso,
all’essere nel mondo. Lo spiraglio
aperto dalla cultura preraffaellita si
converte, in D’Annunzio, in un senso
di dissoluzione della figura femminile,
creatura non più umana, ma naturale.
Tra gli imitatori del preraffaellismo,
Costa e Sartorio si mossero nel
campo della bellezza ideale e nel culto
del prezioso, avendo a modello la
grazia decorativa di Botticelli e la potenza
delle sculture di Michelangelo,
che, coi suoi Prigioni, ispirò la lirica I
prigionieri di Alcyone. Se il Conti combatté
contro i limiti della materia e
della forza, D’Annunzio creò una
creatura come Ermione, oltre il tempo,
l’Estate, e oltre lo spazio, La Versilia,
ma sempre nel culto naturale
della creazione e dell’ispirazione artistica.
Insomma il misticismo evangelico
del Conti e dei suoi seguaci fu
in gran parte assente da D’Annunzio,
che anche nell’azione politica fu
estraneo alla logica eternatrice dell’estetismo
contiano. I punti di contatto
tra Alcyone e la Beata riva sono
nella lettura religiosa delle Laudi, che
il Conti compì, nutrendo pari interesse
per il principale esponente del
divisionismo italiano, e cioè Giovanni
Segantini. Fu in particolare, in un
articolo di Domenico Tumiati, pubrecensioni
401
blicato su «Il Marzocco» del 1897,
che il poeta della montagna fu eretto
a simbolo di una nuova arte. Il discorso
del Segatini non mancò di essere
ricordato nel numero dell’8 ottobre
1889 del «Marzocco» mentre
D’Annunzio
scrisse una laude per la
morte del Segantini, poi edita in Elettra.
Il Segantini fu esaltato dal Conti
entro una similitudine con D’Annunzio,
nell’arte
di continuare la natura.
All’artista,
che come Michelangelo
plasma la materia, traendone l’immagine
dell’idea, Segantini, e dunque
Conti, opponevano quella della
comunicazione dell’uomo
con la natura,
consumata nel silenzio e nel sogno.
Il moto discendente di D’Annunzio,
entro il ritratto dell’Estate
come una donna, si converte nel simbolico
e nel trascendente, quando in
Alcyone la grazia divina scende dal
cielo (Beatitudine), finché il poeta, travestito
da Icaro, si rivolge al cielo per
l’eternità. L’affinamento dell’arte alcyonia
si intravede nello scambio tra
la natura e l’uomo, e soprattutto tra
l’archeologia e la mitologia, l’una che
tende alla restituzione dei canoni
dell’antico, l’altra che mira alla simbolizzazione
metafisica della realtà.
In questo coacervo di esperienze l’influenza
di Leonardo, nelle Vergini
delle rocce, giunge a un simbolismo
spettrale, entro un senso di disfacimento
e di disadattamento. Contrastante
con questo desiderio di distruzione
è il mito della bellezza, all’interno
di una emulazione del cenacolo
italiano di raffinati esteti e all’interno
della tradizione italiana preraffaellita.
In questo primato della bellezza, le
suggestioni sono delle più vaghe e
svariate, nella prevalenza della musica
sulla pittura. Ma D’Annunzio
guarda alla pittura nel tratteggiamento,
prima della Grecia in Laus vitae,
come patria dell’anima, poi nel
viaggio spirituale nella Versilia alcyonia.
Ai luoghi reali, di sapore simbolico,
come la Grecia ed Assisi, si
mescola il sapore archeologico della
natura, fino a riemmergersi, con la
figura di Glauco, nel tempo immobile
del mito. L’archeologia del sacro si
converte nella mitologia del falso, attraverso
l’attività ricreatrice del poeta.
Il comune patrimonio di immagini
e simboli si percepisce nell’influenza
della pittura dei simbolisti di
Gustave Moreau, da D’Annunzio conosciuto
anche attraverso la mediazione
del Sartorio. Certo per il simbolismo
pittorico mancò un intermediario,
come fu Angelo Conti per la
cultura preraffaellita, ma diverse sono
le conformità dei personaggi dannunziani
al simbolismo d’oltralpe.
L’archetipo della Salomé tatuata nel
personaggio di Basiliola della Nave
indica l’amore per l’eccesso, entro un
senso di inquietudine. Diversamente
dall’idealismo contiano, il mito della
bellezza in Moreau si manifesta in
un’inarrestabile esplosione di forme,
di maschere e di colori. E anche se
D’Annunzio non vi fece mai riferimento,
la suggestione della pittura
klimtiana agì sull’immaginario pittorico
del vate, affiancandosi a quella
del simbolismo francese di Moreau.
Ponendo a confronto alcuni dipinti
di Klimt, padre del secessionismo
viennese, come la Nuda veritas, solenne
nell’accensione di chiome rosse, si
noterà come D’Annunzio riecheggiasse
il modello nella raffigurazione
dell’Estate in corpo di donna. La Nuda
veritas, d’altronde, era conforme ai
gusti preraffaelliti del poeta, come lo
stesso ritratto di Elizabeth Siddal, dipinto
da Dante Gabriel Rossetti in
402 recensioni
Beata Beatrix. Anche Klimt ebbe il suo
Angelo Conti in Hermann Bahr.
Quanto al tema della metamorfosi
marina esso è riproposto da D’Annunzio
nell’Onda alcyonia, nell’intima
fusione di natura e donna. L’occasione
per una contemplazione dell’arte
dei viennesi fu data dal viaggio
che dal 7 al 10 ottobre 1899 D’Annunzio
compì a Vienna con la Duse,
città nella quale probabilmente il vate
ebbe accesso ai “Ver sacrum”, dove
vi erano scritti di Segantini e il
disegno della Nuda veritas. Certo si
trattò di un incontro, quello col simbolismo
d’oltralpe, limitato e circoscritto
nel tempo, superato in seguito
dalla consapevolezza di appartenere
a una stagione tipo della nostra letteratura
di marca notturna e incline al
ripiegamento interiore, ma l’accensione
della materia entro un profluvio
di colori e di immaginario mitico
figura come il ridimensionamento di
una cultura di base, sostanzialmente
naturalista e verista.
Il bel libro di Aldo Putignano rivela
una sensibilità tutta particolare
nell’approccio a problematiche sempre
più attuali, e si pone come un documento,
certo non esaustivo, ma
proprio di un discorso in fieri, delle
influenze dannunziane, all’interno
di una cultura, non accademica e
stantìa, ma progressivamente ispirata
da un moto evoluzionistico e da
un gusto tutto particolare per il culto
della bellezza. Gli estremismi che
pure si percepiscono nell’esperienza
alcyonia documentano un senso vivo
della scrittura poetica, mai artefatta e
artficiosa, ma sempre sorvegliata da
un gusto per il naturale. La piacevolezza
della scrittura del Putignano ha
il merito di introdurre a poco a poco
il lettore in problematiche critiche,
documentate da raffronti e paragoni,
che esemplificano il quadro complesso
di una rete di implicazioni critiche,
finora semplicemente acclarate
nella documentazione esegetica, ma
attualizzate e compendiate dalla verifica
diretta delle suggestioni di
un’arte
al passo coi tempi e con l’evoluzione
della poetica dannunziana.
Valeria Giannantonio
Luigi Gamberale, ll mio libro paesano,
a cura di Sebastiano Martelli,
Campobasso,
Palladino editore, 2010,
pp. 246+XXXVII.
È da poco in libreria la ristampa
del Mio libro paesano di Luigi Gamberale,
riproposto dall’editore Palladino
in una elegante collana diretta da
Giorgio Palmieri che raccoglie testi
della tradizione culturale locale. Il
curatore del volume è Sebastiano Martelli
dell’Università di Salerno, uno
dei maggiori esperti della letteratura
meridionale, cui la regione deve molto
per il suo qualificato impegno a
favore dell’identità molisana. Il libro
di Gamberale uscì per la prima volta
nel 1914 e il lettore odierno ha la possibilità
di tornare indietro di molti
anni per conoscere il fermento di una
cittadina come Agnone, un tempo
punto di riferimento imprescindibile
per un vasto territorio che estendeva
i suoi confini anche al vicino Abruzzo
e oltre. Per i suoi numerosi collegi
e per la qualità degli insegnanti, per
le centinaia di studenti che vi si recavano
e ne animavano la vita monotona
di montagna, Agnone si pregiava
non a caso del titolo di Atene del Molise.
L’autore del volume, Luigi Gamberale,
è uno di quegli intellettuali di
recensioni 403
provincia che respiravano l’Europa
traducendo scrittori inglesi tedeschi,
che si impegnavano nella scuola per
riformarla e renderla degna dei nuovi
tempi. A lui qualche anno fa una
studentessa dell’Università di Chieti,
Antonella Iannucci, dedicò un’ampia
e robusta tesi di laurea, poi ridotta in
volume, che è quanto di meglio oggi
si possa leggere sul personaggio, sulla
sua attività, sulle sue amicizie: Luigi
Gamberale nella cultura italiana ed
europea tra Otto e Novecento. Biografia
attraverso le lettere, Roma, Bulzoni, 1997.
Ora, Sebastiano Martelli, nel saggio
introduttivo, ricostruisce da par suo
l’ambiente socio-culturale di Agnone
prima dell’Unità e ne focalizza le
tendenze, le motivazioni, i maestri
che vi operavano, dotati di professionalità
e di competenza. Tra questi
Francescantonio Marinelli, Ippolito
Amicarelli, Giuseppe Nicola d’Agnillo,
che il paese chiamava la «Trinità»
quando la sera si vedevano passeggiare
per le strade compiendo sempre
lo stesso percorso, animati dalla
stessa fede, rendendo tangibili una
di quelle consuetudini paesane che
la memoria non cancella. Erano preti
intellettuali che sapevano certo di latino,
ma non paragonabili alle «tonache
agitantesi per entusiasmo manzoniano
» non amate da un collerico
Carducci; quei professori si erano
formati a Napoli alla scuola di Basilio
Puoti, la stessa del Settembrini e
del De Sanctis, e da lì avevano ereditato
una cultura “italiana” che teneva
nel dovuto conto i trecentisti come
recupero di una linea “nazionale”.
Sicché l’attenzione un po’ maniacale
alla grammatica non distoglieva le
coscienze da idee liberali. Inoltre,
l’educazione ricevuta era improntata
ad una energia morale che non ammetteva
compromessi. Ed è singolare
l’aneddoto raccontato da Gamberale
dei due ragazzi perdonati per
essersi accapigliati, mentre la vera
punizione fu ammannita al loro delatore,
scacciato inesorabilmente dal
collegio.
Gamberale racconta quei tempi
con la dedizione del discepolo che da
quei maestri ha ereditato lezioni fruttuose.
Dietro le sue parole si avverte
la nostalgia per un mondo scomparso,
improntato alla lealtà e alla rettitudine.
L’amore per l’insegnamento
e per la scuola nidificano in lui tanto
da fargli maturare una linea pedagogica
e riformistica che egli cercherà
di suggerire ai ministri di allora.
L’istinto per le novità non lo rinchiuderanno
nella stitica cultura provinciale
ma lo porteranno ad aprirsi verso
orizzonti inusitati ed esperienze
pioneristiche, sulla scia di quanto appreso
dal maestro d’Agnillo. Di questo
tipo è l’interesse per scrittori a
quei tempi sconosciuti in Italia, come
Dante Gabriel Rossetti, di cui tradurrà
per primo il racconto The last confession
(1878) e di cui scriverà fin dal
1881 mettendone in luce la straordinaria
sensibilità. L’accostamento alla
zona del preraffaellismo fu molto probabilmente
dovuto alla mediazione
di Teodorico Pietrocola Rossetti, cugino
di Gabriele, e alla curiosità per
la lontana origine abruzzese del ceppo
rossettiano di Londra. Proprio dal
Pietrocola Gamberale avrebbe avuto
per le mani il testo dei Poems (1870).
Ma la sua fama di traduttore è legata
alla prima versione italiana di Walt
Whitman, circolata per lungo tempo
e suggeritagli dal Pascoli che dirigeva
per l’editore Sandron la «Biblioteca
dei Popoli». Una traduzione che
fu ben accolta dalla critica del tempo
404 recensioni
e che rimarrà per molti anni un punto
di riferimento per la fortuna italiana
del poeta americano, molto probabilmente
tenuta presente anche da
Cesare Pavese fin dalla sua tesi di
laurea.
Gamberale intrattiene rapporti epistolari
con gli intellettuali più in vista
del tempo (il ricco epistolario conservato
ad Agnone presso la Biblioteca
“Baldassarre Labanca” lo testimonia),
ma è fedele agli amici di sempre,
come a quel Vincenzino Di Paola,
amico della giovinezza e di tutta
la vita, che fu Preside a Matera nel
periodo in cui vi insegnò Giovanni
Pascoli che gli scrisse affettuosamente
dopo aver ricevuto i suoi Versi e
Prose. Gamberale trascrive la lettera
da cui emerge la memoria appassionata
del poeta di Castelvecchio per i
suoi anni giovanili e la sua antica
esperienza scolastica: «Come mi giova,
dopo vita così torba, tornare a codesta
serenità di pensiero e di parola
che avrei dovuto prendere da lei in
quella città di trogloditi, in cui vissi
così felice, sebbene così pensoso! Si:
delle città dove sono stato, Matera è
quella che mi sorride di più, quella
che vedo meglio ancora, attraverso
un velo di poesia e malinconia».
Il libro di Gamberale, dunque, non
è solo l’ultimo atto di una vita spesa
per la letteratura e l’educazione dei
giovani, ma è anche il resoconto di
un’epoca, lo spaccato di un’Italia minore
che, trasformandosi sotto la spinta
della modernità, conserva inalterati
i valori sacrosanti della gratitudine
e del rispetto verso una generazione
di maestri che avevano insegnato
«ciò che giustifica e nobilita il
vivere e la vita».
Gianni Oliva
Giovanni de Leva, Dalla trama al personaggio.
Rubè di G.A. Borgese e il romanzo
modernista, Napoli, Liguori,
2010, pp. 124.
Partendo dall’analisi di alcuni modelli
letterari quali il romanzo di formazione
e le romance d’ambizione,
per passare poi ad un’attenta indagine
della Grande Guerra intesa come
tragica smentita d’un diffuso orizzonte
d’attesa, l’autore offre un’analisi
comparata e storica, centrata all’interno,
anziché all’esterno, di Rubè
(1921), il celebre romanzo di G.A.
Borgese, la cui collocazione resta tuttora
controversa, in bilico tra tradizione
e innovazione, tra eredità ottocentesche
e soluzioni moderniste.
Rifiutato categoricamente in patria
alla pubblicazione per ragioni strutturali
e stilistiche (emblematica la
stroncatura del Pancrazi che lo definì
“il romanzo di un critico”) nonché
«per la qualità del suo protagonista,
interpretato come la personificazione
d’un caso patologico» (p. 1), il romanzo
fu invece ben accolto dalla
critica straniera (entusiasti, tra gli altri,
i giudizi di Benjamin Crémieux,
di Louis Gillet, e di Ernest Boyd) che,
oltre ad essere poco interessata a stabilire
confini tra critica e narrativa, si
mostrava del tutto estranea alla polemica
del ritorno al classicismo.
Lo studioso fa notare come, dopo
quasi cent’anni dalla pubblicazione,
le categorie interpretative per cui il
romanzo veniva rifiutato siano venute
meno, così come la considerazione
della nevrosi del personaggio si sia
trasformata da motivo di rigetto in
garanzia della sua attualità. Il riconoscimento
generale guadagnato dall’opera
risulta tuttavia inficiato dal
limite riconosciuto da molti studiosi
recensioni 405
alla struttura del romanzo, cui si contesta
«il peso dell’eredità ottocentesca
» (p. 3).
Partendo dall’obiettivo di «verificare
se il dialogo che il romanzo intesse
col passato ne infici davvero la
modernità» (p. 3), lo studioso, dopo
aver attentamente vagliato i diversi
generi contenuti all’interno dell’opera,
le eventuali variazioni dei motivi
inscritti rispetto alla tradizione, nonché
la dialettica che le componenti
narrative istituiscono le une con le
altre, giunge alla conclusione che
«Rubè, anziché far più o meno propriamente
parte del Modernismo, rispecchi
invece al suo interno la svolta
che vi conduce» (p. 5). Lo studioso
dimostra insomma «come lo svolgimento
di Rubè rispecchi al suo interno
una peculiare transizione della
storia della letteratura» (p. 18).
Lo studio prende le mosse da una
rigorosa analisi del modello narrativo
del Bildungsroman, il romanzo di
formazione, fondato per l’appunto
sul rapporto storico tra individuo e
società. Nel primo capitolo La tradizione
in rassegna (pp. 11-41) vengono
pertanto analizzate le varie soluzioni
che il personaggio sperimenta alla
volta della formazione. Se le generalità
assegnate nell’esordio dell’opera
al personaggio (giovane, provinciale,
piccolo borghese e immaturo) coincidono
con quelle del tipico protagonista
del romanzo di formazione ottocentesco,
l’ambientazione e la stesura
di Rubè ricadono a cavallo della Grande
Guerra, proprio nel periodo in cui
il Bildungsroman sarebbe definitivamente
entrato in crisi. Evidenziata
l’affinità del protagonista con personaggi
come Julien Sorel, Fabrizio del
Dongo e altri che tentano di realizzare
un romance d’ambizione (p. 15), lo
studioso offre un’ampia e dettagliata
rassegna delle maggiori opere di
quella letteratura parlamentare a cui
pure si richiama il romanzo del Borgese,
un’analisi particolareggiata, supportata
da precisi riferimenti testuali,
dai quali si evincono alcune significative
variazioni del modello narrativo
stabilito dall’incipit del romanzo.
Nel secondo capitolo (La Grande
Guerra, pp. 43-72) lo studioso mette
in evidenza come l’esperienza di guerra,
invece di garantire l’ultima possibilità
di formazione, inneschi in Rubè
un processo di disgregazione che finirà
«per scomporre l’originario eroe
ambizioso in un personaggio dall’identità
frammentata» (p. 65). Ci si
imbatte infatti nella figura del reduce,
un personaggio la cui rappresentazione
letteraria, in special modo
all’estero, sembra condividere alcuni
tratti caratteristici (la nevrosi, ovvero
l’incapacità di ricomporre i frammenti
dell’esistenza in una narrazione
ordinata, l’identità incompiuta, il
disorientamento rispetto a un contesto,
quale la patria, che dovrebbe risultare
familiare e che risulta invece
perturbante, la discordanza tra il
personaggio e le trame tradizionali
cui sembrerebbe destinato e a cui invece
non aderisce mai del tutto, ecc.)
con la fisionomia del personaggio
modernista (cfr. pp. 64 e sgg.).
Nel terzo e ultimo capitolo (“Something
in the place of the plot”, pp. 73-
106) il percorso di formazione del
personaggio viene letto dalla particolare
prospettiva del “romanzo dell’intellettuale”.
Animato dall’aspirazione
ad intervenire nella vita pubblica
in nome di specifiche competenze
culturali, Rubè cerca di soddisfare
la propria ambizione attraverso
l’interventismo prima e la partecipa406
recensioni
zione al conflitto poi, per rassegnarsi
infine alla realtà del dopoguerra. Insomma
Rubè avrebbe compiuto la
classica formazione del Bildungsroman,
se il Borgese, giunto a questo
punto, non avesse utilizzato, per riaprire
la vicenda, quell’espediente romanzesco
della vincita al gioco, che
fa ripartire il romanzo dall’esaurimento
del modello narrativo tradizionale.
Lo studioso fa notare, attraverso
svariati riferimenti testuali, come il
seguito del romanzo si svolga secondo
una moltiplicazione di allusioni,
analogie, o vere e proprie citazioni
letterarie, e come dunque Rubè diventi
protagonista d’una esplicita
rassegna antologica della letteratura
ottocentesca, terminata la quale può
finalmente misurare la distanza che
lo separa da quegli stessi predecessori
ottocenteschi, da cui aveva preso le
mosse. Di particolare rilevanza risulta
a tal proposito il lungo monologo
interiore del protagonista (cfr. p. 84),
da cui emerge chiaramente il mutamento
della funzione tradizionalmente
svolta dal romance. «Da componente
di un ingranaggio, da polo
funzionante in opposizione a quello
realistico, il romanzesco – sottolinea
opportunamente lo studioso – si è
trasformato insomma in elemento autonomo;
una volta reificato, gira però
a vuoto, diventa inabitabile dal personaggio
che, come appunto succede
a Rubè, resta “senza alloggio”, in altre
parole discordante dalle trame
che gli si prospettano» (p. 85).
Alla luce di opere quali Sei personaggi
in cerca d’autore e di saggi canonici
del Modernismo quali quelli di
E.M. Forster e di Virginia Woolf, l’autore
cerca poi di verificare non solo
tale discordanza, ma soprattutto la
preminenza che nella conclusione
Borgese riserva all’interiorità del protagonista.
Rifiutata come inadeguata
ogni possibile trama, e rimpianto
amaramente il contesto letterario tradizionale
dove un suo simile avrebbe
di certo trovato un suo epilogo, a
Rubè infatti non sembra restare altro
che l’analisi spietata della sua interiorità.
Stefania Della Badia
Riccardo Scrivano, Letture e lettori.
Appunti di critica letteraria, Pesaro,
Metauro Edizioni, 2010, pp. 171.
L’agile volumetto, recentemente apparso
nella collana “Studi” diretta da
Corrado Donati, propone una raccolta
di alcuni degli ultimi interventi
critici di un autentico maestro dell’italianistica:
Riccardo Scrivano.
Classe 1928, Scrivano ha insegnato
letteratura italiana in Italia ed all’estero
(nelle Università di Firenze,
Padova, Roma ed in quelle di Cornel,
Los Angeles, Berkeley…) approdando
a risultati di gran rilievo nelle sue
ricerche. Lo attestano, per un cinquantennio,
i tanti libri dedicati a problematiche
cinquecentesche (sul Manierismo
e sul teatro) o quelli attenti
ad autori e temi dei secoli successivi
(da Alfieri a Montale, da Leopardi a
Svevo, da Manzoni a Pirandello…)
ed infine, oltre alle numerose curatele,
le monografie nate dalla scrupolosa
attenzione per la contemporaneità
(su Montale, Arpino, Quarantotti
Gambini…).
Quanto basta perché
ancora oggi, lasciato l’insegnamento,
con questi suoi ben motivati Appunti
di critica letteraria torni ad occuparsi
di scrittori e letterati da lui ritenuti,
recensioni 407
per vari motivi, meritevoli di studio.
Così, proprio attraverso tali esercizi
critici, si ricompone sotto gli occhi
del lettore un ritratto assai vivace
dell’intellettuale
pieno di curiosità
culturali.
Disponibile ad approfondimenti
su questioni e temi studiati nel passato,
ma non perciò messi da parte
nel tempo, Scrivano ama il confronto
con chi torni ad occuparsene ed a
fornirne parallele o contrastanti interpretazioni
(può essere il caso di
ricercatori più giovani, o di antichi
amici accademici, tutti da lui considerati
compagni di strada di un percorso
più o meno recente o di un passato
scomparso, ma non dimenticato).
Perciò, nonostante la varietà degli
argomenti, dal confluire di spunti
tematici vecchi e nuovi, dai sondaggi
sul gusto e sulla fortuna delle valutazioni
critiche più diverse, il volume
trae unitarietà e mira ad evidenziare
alcune linee di ricerca, fondamentali
per la storia e la comprensione del
Novecento italiano. Al suo interno, a
ribadire, nella nostra tradizione, il
forte peso del pensiero metafisico di
Leopardi e poi quello del leopardismo,
ecco, nella sezione “Letture”,
gli scrittori su cui lo studioso ama
scommettere. Sono, oltre ai più frequentati
Pirandello ed Alvaro, Quarantotti
Gambini, Alianello e Ortese.
Ancora, nella sezione “Lettori” si affiancano
i profili di accademici di rilievo,
da lui visti da vicino (Giorgio
Petrocchi, Angelo Marchese, Antonio
Palermo) ed a lui accomunati dall’intensità
dello studio per gli amati Leopardi,
Montale, Alvaro. Infine, nell’ultima
sezione del libro, quella dedicata
a “Tre poeti” (Accrocca, Giannangeli
da Raiano, Cerro) Scrivano
sceglie toni più personali e partecipati
per confermare la sua fiducia
nella poesia e nei coinvolgimenti che
ne derivano alla vita dei singoli e al
destino della nostra cultura.
Nel ribadire il legame fortissimo
del messaggio poetico con l’esperienza
del vivere si sofferma pertanto
sui percorsi esistenziali dei suoi autori
e con molto garbo fornisce informazioni
e dettagli che aiutino a comprenderne
il contesto e l’opera. Rammenta
così, nella Roma degli anni
Cinquanta, le intense frequentazioni
di Accrocca e con Ungaretti e con i
pittori Vespignani e Buratti, facendo
risalire ai tempi della “scuola di Portonaccio”
il gusto per la visività della
poesia, cui successivamente dobbiamo
tanto i Videogrammi della prolunga
(1884) quanto quelli del Babuino ne
Lo sdraiato di pietra (1991). Con essi
Accrocca, intenditore d’arte e sensibile
cantore dei luoghi della capitale
(piazze, strade, vicoli ricchi di storia
e cultura), sperimenta la forma del
colloquio/soliloquio. Nell’affiancare
nel testo enunciazioni, graficamente
distinte in tondo ed in corsivo, recupera
in pieno il senso della dimensione
dialogica, mentre affida all’emblematica,
popolare statua di pietra, testimone
del crescente disordine del
mondo, il ruolo di un fantastico alter
ego. La sua poesia si assicura così
spazi di autonomo e dissacrante giudizio
e non a caso, nel gioco delle citazioni
esplicite e dei rimandi ai maestri
del nostro tempo (Kafka o Sartre)
tra i riferimenti a cronache e storie,
emerge, nell’ironia, la capacità di
raccontare e distanziarsi da un mondo
spaventato dalla verità, rammentando
al lettore analoghe strategie
dello sguardo operate da Montale.
Di vere e proprie sintonie emotive ci
parla infatti Scrivano: «L’esplicito ri408
recensioni
chiamo di Accrocca all’ultimo Montale,
quello che viene dopo Satura o
che comunque da Satura si avvia non
è né casuale, né magica attrazione
imitativa; è invece il raggiungimento
di un senso pieno, fertile, ma anche
amaro, della poesia come verità di
fronte ad un mondo, non solo l’umano,
ma l’intero universo delle cose,
come menzogna, come oppressivo,
repressivo condizionamento, che solo
per brevi spiragli consente all’animo
profondo di comparire ed essere»
(pp. 148-149). Ancora echi montaliani
egli ravvisa nella poesia di Ottaviano
Giannangeli, critico accademico
e militante che, nonostante l’età
avanzata, con molta autoironia parla
di sé e degli incontri di una vita nella
raccolta Un sito per l’anima (2008). Attraverso
una particolare visione dell’anima,
intesa come ombra di ciò
che è stato, nei suoi versi trovano
modo di tornare alla mente ricordi e
presentimenti, fantasie di cose perdute
e domande esistenziali, tutti
elementi di un rarefatto universo
emozionale che è proprio dell’uomo,
leopardianamente proteso sul mare
del tempo. Più che a uno squilibrato
egotismo Scrivano ricollega tale atteggiamento
mentale alla effettiva
percezione dell’abisso spazio-temporale
di chi, in piena onestà, tenta a
sprazzi di comporre il disegno della
sua biografia e, nella consapevolezza
dei limiti dell’umano, ripensa al vissuto
e, con levità, ricorda: «nessuno
/potrà mai cancellarci dalla festa/
dell’essere qui stati». Del resto la fuggevolezza
delle cose è tema dominante
delle ultime liriche di Maria
Benedetta Cerro sul cui itinerario, a
partire da Licenza di viaggio (1984) fino
a La regalità della luce (2009) si sofferma
il capitolo conclusivo del nostro
volume. Scrivano ne rammenta
le sette raccolte i cui titoli, da soli, testimoniano
la fiducia della Cerro nella
forza evocativa della parola, anche
quando si affronta la tematica raggelante
della incomunicabilità. Per lei
si può parlare di «modernissima classicità
» sia per la forza con cui esprime
i propri stati d’animo, sia per la
sicurezza con cui sperimenta schemi
colloquiali, in poesie a due voci, ove
la contrapposizione tra presenza e
assenza contribuisce ad allontanarci
dai limiti del quotidiano e, in una più
rarefatta dimensione, ad aprire la
mente a suggestive, nuove “ipotesi
di vita”. Tra notazioni realistiche ed
impennate nel fantastico il raffinato
linguaggio della poetessa si arricchisce
di rimandi interni e, nella stratificazione
del senso, spesso approda a
tonalità di tipo sentenzioso («mai al
presente fu vissuto il tempo/ che
mostrava futuri sulle soglie gli spazi
» Minuetto per un acquario) sia per il
fremente colloquio col mistero, incrementato
nel tempo, sia per la calcolata
capacità di giocare sulla polisemia
della parola. Agli inquieti orizzonti
della poesia novecentesca registrati
nel volume corrispondono quelli fortemente
problematici della narrativa
contemporanea che parimenti, nel
tentativo di un bilancio globale, vengono
qui riproposti. Piace infatti a
Scrivano ribaltare giudizi scontati,
soprattutto nel caso di quegli intellettuali
la cui tormentata scrittura, oggi
più che mai, merita lavoro filologico
perché se ne ricostruiscano modalità
e circostanze, ripercorrendo la
storia del farsi dei testi e delle loro
oscillazioni da una forma all’altra
(lunga o breve; di intonazione saggistica
e/o giornalistica), per valutare
la qualità dei risultati raggiunti grarecensioni
409
zie al confronto con le contingenti
difficoltà esterne e con le tante, diverse
soluzioni prospettasi di volta
in volta all’artista. Così ad esempio il
perfezionismo di Corrado Alvaro induce
il critico a considerare la natura
complessa di tutta la sua produzione
e ad interrogarsi su un testo significativo
quale L’uomo è forte. Perfino il
titolo, adottato per l’edizione nel
1938 del romanzo, rinvia alle reticenze
del solitario moralista, costretto a
cancellazioni di sé nei confronti del
regime che lo guardava con sospetto
per i suoi trascorsi, ma ne tollerava
gli atteggiamenti distaccati, tentandone
comunque la cooptazione. Rientrava
dunque nelle sue necessarie
misure di cautela il taglio di alcune
pagine, propostogli dalla censura, e
la definitiva rinuncia al vagheggiato
titolo Paura sul mondo. Del resto l’ambientazione
in un generico altrove
favorì, oltre al consenso del revisore,
l’attribuzione delle disumanizzanti
esperienze descrittevi al mondo sovietico,
ben noto all’autore dei Maestri
del diluvio, e nel 1938 dai più identificabile,
per fini politici, con quello
di una dittatura spietata, propensa a
metodi di terrore e di delazione reciproca.
Giustamente Scrivano rammenta,
oltre alla oscillazione dei titoli,
il diverso e più ottimistico finale
assegnato a L’uomo è forte nell’edizione
del 1945, ma non per questo egli
ritiene che la capacità di resistenza al
male riconosciuta al protagonista
Dale («si mise a progettare un nuovo
piano di fuga») potesse in qualche
modo ribaltare l’oggettiva miseria di
un sistema retto da una logica distorta,
basata su leggi non dette ed imprevedibili
proibizioni. Sulle aberranti
conseguenze di colpevolizzanti
procedure assunte come norme del
vivere dai contemporanei regimi totalitari
l’esule calabrese seppe posare
il suo sguardo e, nella violenza dell’impatto
con un mondo così lontano
da quello di provenienza, definitivamente
perduto, ne intuì le drammatiche
implicazioni sui tempi lunghi,
trasformando così le sue note descrittive
in evocazioni di atmosfere dense
di oscuri presentimenti sulla qualità
dei rapporti interpersonali in società
sempre più massificate ed eterodirette.
Quanto basta perché il discorso
critico consapevolmente proceda su
un doppio binario, affiancando alle
pagine del narratore quelle dei diari
che ne registravano trasalimenti e
preoccupazioni e rivelavano in lui le
doti del lucido interprete di mutamenti
sociali ormai inarrestabili. Le
annotazioni del periodo 1927-1947
mostrano la sorprendente capacità di
giudizio dell’uomo e sulla società e
sulla proprio vita, troppo condizionata
da strategie di sopravvivenza per
essere perfetta, e perciò destinata all’incompletezza,
proprio come suggerisce
il titolo per esse adottato:
Quasi una vita. Commisurando il suo
giudizio ai risultati raggiunti dagli
interpreti più sensibili di Alvaro (A.
Morace, G. Rando) ed in particolare
da Antonio Palermo, che molto si interessò
all’esperienza berlinese dell’autore
italiano, Scrivano riconosce
la forte caratura europea dei suoi appunti
che, nel loro insieme, costituiscono
il libro «più autenticamente
alvariano, per il senso della vita come
cupo dramma, strappata forzatamente
dalle proprie radici per sempre
irrecuperabili una volta divenuto
altro, con uno straziato, sofferto, permanente
sentimento di serietà professionale
e umana, con un bagaglio
di riflessioni critiche amare e negati410
recensioni
ve sulla vicenda generale dell’umanità
» (p. 53). Come vediamo si è ben
lontani dagli apprezzamenti destinati,
negli anni Trenta, al realismo lirico
di Gente in Aspromonte e così ancora,
nel capitolo dedicato alla Ortese, è ritenuta
molto riduttiva l’etichetta neorealistica
adottata, negli anni Cinquanta,
da Vittorini per Il mare non
bagna Napoli. Anche in questo caso
Scrivano procede ad un attento bilancio,
confrontando le polemiche letture
del passato, spesso politicamente
orientate, con quelle attuali, più
pacate nei toni. Il critico si mostra
ben informato dei tanti studi e convegni
recentemente dedicati alla antica
«zingara assorta in sogno», rivelatasi
invece scrittrice molto consapevole
dei propri strumenti. Si tratta
di interventi spesso suscitati dall’improvviso
successo dei romanzi di
ambientazione napoletana editi dalla
Adelphi (Il cardillo addolorato, il riscritto
Porto di Toledo), veri e propri
casi letterari per i quali la stampa ha
potuto parlare di riscoperta per colei
che fino a poco tempo prima era
guardata con sospetto da editori e
pubblico, sia per la enigmaticità delle
sue pagine, sia per la stranezza
delle situazioni evocate con l’allusivo
gioco di presenze fantastiche (folletti,
iguane, puma…) e con l’alternarsi
di scenari irreali o di remoti
paesaggi marini. Puntuale è pertanto
nel volume la ricostruzione dei percorsi
compiuti dalla Ortese che, come
è noto, con i suoi atti d’accusa
provocò l’astioso risentimento degli
intellettuali con cui aveva condiviso,
a Napoli, ai tempi di “Sud”, le speranze
di un “risveglio” della ragione.
Inevitabile pertanto, tra equivoci e
fraintendimenti di lunga durata, le
dovette sembrare sia la scelta di rinunciare
alla città, sia quella di viverne
lontana e magari, grazie alla
distanza spaziale e temporale, ricreare
nell’isolamento delle sue visioni,
un nostalgico rapporto con luoghi
amati e trasfigurati dalla memoria.
Da ciò l’autobiografismo delle sue
scritture, non solo per le emozionanti
pagine dedicate alla Toledo/Napoli
dell’adolescenza, ma anche per quelle
di Corpo celeste più esplicitamente
riflessive, tese a dar spazio, attraverso
la condizione dello straniero in
patria, ad improvvise epifanie dello
sguardo o a lungimiranti intuizioni
sugli ambigui destini di un paese
considerato dai più espansivo e festante,
ma, ai suoi occhi, gravato da
remore e mistificazioni che ne impedivano
consapevolezza di sé e comprensione
di problemi più universali.
In tal modo la tormentata esperienza
dell’intellettuale che smentiva la facile
menzogna dei luoghi comuni paesaggistici
e si vedeva ai margini del
sistema della nostra cultura acquista
una sua valenza emblematica. Essa
infatti si connette a modalità espressive
di più forte impegno filosofico,
nel respingere lusinghe e illusioni
per la generale vicenda umana, da
sempre votata ad un destino di miseria
e, nonostante il progresso tecnologico,
ancora ferma ad una inutile
ricerca di plausibili spiegazioni per il
male che contagia il mondo e ne costituisce
l’unica realtà, misurabile nel
piccolo come nel grande, nella fragilità
delle esistenze individuali e nell’arrogante
prosopopea di nazioni
avviate a decadenza. Di fronte alla
crudeltà della natura e alla esperienza
del lutto, dalla Ortese costantemente
rammentate ai distratti protagonisti
di un mondo sovente edonistico
o in fuga da se stesso, Scrivano
recensioni 411
parla di un disagio esistenziale. A tale
disagio rinviano i particolari atteggiamenti
dell’intellettuale, fortemente
atipica e fortemente schiacciata
dalla responsabilità di un ruolo a cui
continuava a credere nel tempo e nonostante
tutto. Pertanto egli ne ricollega
le continue domande, esibite talvolta
con ingenuità nelle sue pagine
più colloquiali, alle tante, dolorose
inchieste del Leopardi metafisico che,
nel Canto notturno, attraverso il suo
pastore, si protendeva sul mistero infinito
che ci circonda. Solo una ferma
volontà poteva consentire alla scrittrice
autodidatta di trasferire nelle
raffinate forme della letteratura la
sua ansia di conoscenza, nonostante
creasse a lei disperazione sia quel poco
che ella sapeva, sia quel male che
ingoiava menti, anime e persone e
che le sembrava fermentasse nel
mondo. Tra intime lacerazioni e profondi
timori la Ortese proseguì comunque
il suo lavoro, convinta che
l’arte fosse l’unico farmaco cui ricorrere
di fronte a lutti e sofferenza. Fu
certo il suo merito non piccolo: di
questo e di altro le viene dato atto nel
volume, rammentandone la lezione
altissima dello stile ed il fascino delle
immagini paesaggistiche da lei costruite
«con ostinatissima precisione
» nell’alternare tenerezza a ironia,
grazia a malinconia.
Caterina De Caprio
Luigi Fontanella, Controfigura, Venezia,
Marsilio, 2009, pp. 174.
S’immagini una pièce teatrale che
apra su attori in movimento: arredano
spazi, decidono modi e ora provano
ora descrivono azioni, con un regista
che vi si mescola e che appare e
scompare alternandosi agli interpreti.
Per tutta la durata. Sino alla fine.
Come un organismo che si mostri
nell’atto di costruirsi da sé. Morso a
morso, brano a brano. Così in questo
romanzo si decide una modalità da
proménade, un sottofondo di nostalgia
e, insieme, la prospettiva di rivivere
l’infanzia, per cominciare di lì a
rivivere l’intera vita, reinventandosela
d’accapo. Se ne ha conferma non
solo sul versante referenziale, ma anche
in esiti operazionali, tutti in vario
modo prospicienti atti creativi: si veda,
per un solo es., la storia di Mara
Ciukleva, la vecchia diva del cinema
muto, che voleva scrivere con lui
un’autobiografia, magari ammodellandola
chi sa a quale sua idea peregrina.
C’è poi l’auspicio di una lettura,
non ingenua, come Breton la voleva
per Nadja, ma lenta, come lentamente
e per sua interna legge la vicenda
si distende nel tempo e si volge in
storia, ché la lettura lenta e nativamente
libera, l’autore dice, serve a
scoprire qualche difetto che renda
unico lo stile dell’opera, perché, aggiungiamo,
sono a volte i difetti, ossia
le difformità dalle regole imposte,
i valichi per i quali sale a vista quell’interna
legge, e lo stile è il venire a
forma dell’opera, in coorganica relazione
con quella legge.
A romanzo iniziato, Fontanella riporta
l’incipit progettato a suo tempo.
Ne è indotta l’idea di una vita che
sempre ricomincia o rinnova le sue
gemme cadute, mossa sempre da
quella legge naturale, una vita surrealisticamente
ricondotta a un suo
momento sorgivo, senza curatele o
turbative di esterne costumanze civili
o tradizioni culturali… si direbbe…
412 recensioni
Ma l’autore dichiara di voler trasferire
al romanzo in progetto il tecnema
cinematografico della luce bianca,
usato da Resnais in L’anno scorso a
Marienbad per rappresentare “una vita
immaginativa o di sogno, che ora
si riversa nel passato, ora nel futuro”:
dunque ciò che intende adottare è
“una semiologia cinematografica”,
una cultura insomma. Come risolvere
criticamente questo dilemma?
Bisogna innanzitutto aver presente
che mentre il Breton e i surrealisti
hanno in progetto il rinnovamento
della realtà in generale, colta e vissuta
nei suoi momenti sorgivi, al di qua
di ogni contaminazione d’ordini culturali
e civili, Fontanella, al contrario,
intende solo scrivere un romanzo,
mantenendosi saldo entro la realtà
in cui l’ordine razionale ha prodotto
in Occidente la grande civiltà e
cultura e, in queste, l’arte somma in
cui l’uomo ha dato altissime prove di
sé. Solo all’interno di questa realtà,
maturata in Occidente attraverso
millenni, è possibile la vita e nella vita
la creazione. Fuori di tale realtà,
non solo l’opera d’arte, ma la stessa
mente ne subisce una distrofia, se ne
scardina, e ci vuol non poco perché la
recuperi e la rimetta a suo luogo dentro
sé, e sé dentro essa perché riprenda
ad animarla, come da millenni
usa fare stupendamente. Si veda come,
in quell’incipit, Lucio, svegliandosi
al mattino, fatichi a riconoscere
gli oggetti della sua stanza, che appaiono
sempre diversi, in quadri ora
visionari, ora terrificanti, com’è per
es. uno sminuzzo di membra umane
in un fiume di lava, con qualche viso
di donna che affiora e scompare qua
e là nel fiume rovente, metafora della
vita di allora che stentava a comporsi
in struttura unitaria.
Occorre poi un diverso modo di
concepire l’opera d’arte, cinematografica
o letteraria che sia. A questo
punto, paiono di qualche aiuto il Breton
e i surrealisti, quando dicono che
«l’atto poetico è strumentalizzato nei
confronti d’un disegno essenzialmente
extraestetico….» e perciò – completiamo
– esso va appaiato ad un
oggetto, a un gesto, a un atto. Fontanella
non ne trae motivo per ambiziose
teorizzazioni, ma appaia L’anno
scorso a Marienbad di Resnais ad un
congegno che «uccide il tempo». E si
sarà già visto che tipo di oggetto o di
gesto o di azione finisca ad essere il
romanzo di Fontanella: l’instructio di
una vita radicata entro l’attuale civiltà,
sì guardata d’oltre essa, ma senza
distacco, anzi con uno sguardo colmo
di nostalgia, richiamandovi a
complemento le parti che ne mancarono,
e disegnandovi un profilo sulla
base d’un modello ricavato da riserve
memoriali proprie ed altrui, ritagliato
addosso al sé di ora, con tutte
ombre e bagliori da lui immaginati e
vissuti, e in cui la realtà si cuce con la
fantasia, con a vista sutura e tutto e
modalità dell’assemblare.
Quanto all’uso delle citazioni, che
Fontanella condivide con Breton, esse
non sono una banale imitazione,
perché, mentre in Breton fungono da
semplici testimonianze, in Fontanella,
tòltane qualcuna, sono reminiscenze,
vale a dire memorie addormentate
dentro lui che riemergono
come
attraverso il suo corpo, senza
che mai se ne scuota del tutto quel
morto sonno. In quella leggera variazione
dell’incipit proustiano (p. 9),
c’è una sottolineatura del dormire,
mentre il Marcel mette in campo
l’entrare in letto («Per molto tempo
mi son coricato presto la sera»). Anrecensioni
413
che la reminiscenza del Musil, al cap.
6, è accompagnata dalla sonnolenza.
La frase corrispondente dell’Austriaco
è fatta seguire ad un’arzigogolata
descrizione meteorologica in chiave
rigidamente scientifica, il che genera
un rovinoso declassamento della
scienza a favore della viva ed agile
esperienza comune. In Fontanella invece
la frase non ha nulla a che fare
con la scienza e conserva tutta la vivacità
dei consimili luoghi comuni,
aventi, per loro proprio istituto semantico,
il compito di dire il solito, il
comune appunto, ma a lanci distratti,
senza nulla che ne emerga se non
una nebbiolina sciatta, che subito è
da lui scagliata nel dietro della mente.
Sennonché la sonnolenza che segue
si tira questa nebbiolina nel dentro
umano, dove si confondono tra
loro dando luogo al milieu memoriale
che si arreda di ricordi infantili.
Nulla a che vedere con l’epoca dei
sonni, ricordata da Breton in Nadja.
Quelli erano appostamenti per sorprendere
la surrealtà quando, ai confini
del sonno, la ragione allenta la
sorveglianza. Qui si tratta invece di
una storia che principia da una nebbia
sonnolenta e poi si perde nelle
secche di una indecisione, in cui alla
fine andrà a perdersi la storia stessa.
Ma ancor prima, la passeggiata di
Lucio si dimentica per vie, scale, monumenti,
ricordi, come un film che
cerchi il suo essere e non lo trovi. Oltre
che da questa splendida operazione
di poesia, l’indecisione risulta
anche da potenzialità tecnematiche
di cui sono investiti monumenti e
personaggi di diversa nazionalità e
tempra storico-culturale, ricordi, citazioni,
che si succedono fuori d’ogni
confluenza di senso tranne il fatto
che, una volta abbandonati, essi sono
rimasti a splendere nella sua memoria
affettuosa. C’è poi l’inseguimento
di uno sconosciuto senza né motivo
né esito: un vero e proprio sforo, più
che nell’indecidibilità esistenziale,
nell’assoluto nulla.
Ma, entro questa ammutolita indecisione,
la stessa progettata instructio
di una vita dà crolli veri e propri. Per
es., al capitolo VIII, Lucio ama una
ragazza, ma questa ama un altro e
chiede
consiglio a Lucio su come conquistarlo.
È una storia di mancanze
che si rincorrono, ma quasi senza
consecuzione diegetica dall’una
all’altra,
e non in osservanza del proposto
iniziale di preferire una temporalità
di momenti distinti e intrecciati
fra loro. È un tempo invece che
gli si schianta sul capo, per poi franare
su lei che ha perso l’uso delle gambe
e non lo sa, come non sa di essere
amata da Lucio, mentre quell’altro
non sa di essere amato da lei. Questa
irreparabile rovina di destini personali
a mo’ di effetto domino, è reso
tramite lo stupendo tecnema del mazzetto
di rose spiaccicato nella cartella,
con sulle copertine dei libri le
“impronte striate di rosso cupo”, come
un sangue che non si cancelli e
dilaghi di libro in libro, di memoria
in memoria.
Alla fine, la carezza alla città diletta
affonda dentro lui. Roma è lui, ma
è a quell’altro lui, adesso, la carezza,
quel suo lui sepolto ancora vivo chissà
in che terra sconsacrata, sulla quale
soffia una “vita staccata che entra
ed esce” per quella via, senza supporto
di viventi.
Il fil rouge, che è la passeggiata, a
volte s’immagina spezzato, come per
l’incidente immaginario di p. 68, ma
è perché affiori la bellezza che è nel
vivere, e cali un momento nel “miste414
recensioni
ro del mondo” la memoria del morire,
come l’operaio poco oltre che,
finito il gioco immaginativo, si cala
nel tombino.
Ma poi quella memoria torna con
violenza nelle immagini di morte che
via via si susseguono. Raccapricciante
è quella del topo che, ferito mortalmente,
cerca di sottrarsi alle zanne di
un cane trascinandosi dietro il proprio
budello, simile a un cordone
ombelicale che nel dolore si tenda e
non si spezzi. Poi c’è Lucio appeso a
un muro come il topo al suo budello.
Sogni letterari inquadrati nelle tragiche
vicende della natura, tra la vita
che resiste e la morte che incalza.
Tutti come topi appesi a un proprio
budello nel vano tentativo di sfuggire
alla canea che ci scaglia contro il
destino terrestre. Il suo amico Fabiano
poi morto. La vanità di ogni sforzo
affidata all’immagine di un tovagliolino
portato via dal vento.
Nel cap. XVIII si ha viva l’impressione
che vi stia maturando la morte,
messa a coltura alla fine del cap. XVII.
Il budello del topo è sostituito da un
foglio di carta igienica, che Stefano si
porta dietro come un segno, come un
seme da coltivare. Nel cap. XIX, vi
concorre la nebbia che cala negli occhi
di Lucio per effetto dell’atropina
che gli hanno stillato gli oftalmici,
nebbia che gli obnubila la festa nella
quale contava di tracciarsi un disegno
di vita con Patrizia, la ragazza di
cui era innamorato. Le sottrae il diario
e vi scrive una poesia tra le poesie
di lei, come dire un tentativo di penetrare
con lo spirito nel suo spirito.
Ma vi fatica tanto, tra il tanto faticare
per gli esami, che l’amore gli muore,
benché a lei nasca invece, per morirle
poi, benché a gran distanza.
Tous va mourir (p. 97). E c’è in effetti
nel prosieguo uno smorire lento
delle qualità umane che aggrinziscono
in pedantesche competenze dottrinali,
e a stento la vita si ricorda di
sé in un ozioso bla bla sulla voce, sui
codici comunicativi, sull’identità. Un
intrico di argomentazioni speciose,
finché tutto va a finire su un personaggio,
lì pietrificato nel silenzio,
molto simile a un lampo di nulla che
lui stesso ha scagliato nell’ambiente
(p. 111).
E in questo nulla, che Lucio si trascina
dietro sfilandosene da fantasma,
ecco di nuovo la Patrizia, la ragazza
della quale era innamorato
anni prima. Ballano guancia a guancia
su una canzone di gioventù. Ma è
solo un ombra, uno scherzo immaginale.
Di effettivo resta il solo ricordo
delle feste giovanili, quando la vita
era vita e si spingeva innanzi attraverso
i loro corpi e le loro fantasie
innamorate. A trattenerla ora, sono
assunti a risorse tecnematiche solamente
i fatti e gli accadimenti della
vita reale. Nessun investimento tecnematico
appare sul versante orazionale,
che viene mantenuto au dégré
zero, proprio perché ne emerga la referenza,
con tutto il bailamme della
vita a muovere la poesia. Così è della
danza del ventre con la quale al cap.
XXVI Marica cerca di riconquistare
Fabrizio: ma è come «una sonata fatta
con l’unica corda di violino rimasta
» (p. 13), al che la poesia suona la
triste musica di una vita residuale che
resiste, resiste, come il budello del
topo in fuga dai denti del cane, fino
all’ultima vibrazione di una corda sul
punto di spezzarsi e cadere nell’estrema
immobilità. Tranne, qua e là,
qualche filo di suspense, per il resto
son tutte coserelle che si appiattiscono
sul basso suolo delle schermaglie
recensioni 415
amorose, scadute per di più in penosa
farsa (cap. 27). Sia inteso che si sta
parlando di esiti operazionali, non di
scadimento delle potenzialità inventive
dell’autore. È lui che si cala in
questa minutaglia per trarne materia
onde la poesia porti a termine l’azzeramento
della vita, la reductio ad nihilum
che raggiunge il suo clou nella
figura di Vanni, il pittore che dipinge
quadri falsi «per arrivare all’autentico
attraverso il falso» (p. 150).
Da simili cosucce da pittori, sempre
con la stessa funzione tecnematica,
si passa ad osservazioni a mezzo
tra arte e religione, fino a giungere ad
una vera e propria agiografia, quella
di Jacopa de’ Settesoli. Vi si mescolano
citazioni, contaminazioni e più o
meno clandestini prelievi da Walser,
Breton e De Chirico, dai quali il narrante,
inteso forse a costruirsi una
sua religio, si fa suggerire massime
sapienziali. Una la preleva da Svevo
al cap. XXXVI, ed è che organizzatrice
della vita è la morte.
Nel cap. XXXVII si torna al discorso
metanarrativo, nel quale Fontanella
prende le distanze dalla materia
narrata. Torna l’ammutolita indecisione.
Il vento «fa volar via i fogli
verso il bosco, oltre i roveri, verso il
mare». Egli li accompagna «con lo
sguardo finché svaniscono». Si propone
di finire la giornata con un filo
d’amore per la straziante bellezza
del creato. Essa sembra essere il deus
al quale ordinare la religio, la cui professione
di fede sembra essere l’assunto
sveviano integrato più o meno
in questo modo: poiché tutto è governato
dalla morte, diventa eterno
solo ciò che abbiamo amato intorno a
noi.
Domenico Alvino