Anno XXXIX (2011), Fasc. II, N. 151

Anno XXXIX (2011), Fasc. II, N. 151

  1. Saggi
    • RAFFAELE GIRARDI

      Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo – pp. 211-244

      L’articolata analisi dello studioso si sofferma sul valore simbolico dell’imbestiamento dell’eroe (culminante nella pazzia d’Orlando) nel capolavoro ariostesco.

    • MATTEO BOSISIO

      “Pur che il Signore abbia di me piacere “. Il “Marescalco ” dell’Aretino come anticommedia imperfetta – pp. 245-69

      Il saggio prende in esame “Marescalco “, la commedia dell’Aretino già definita come ‘anticommedia’ (Bàrberi Squarotti). Pur rilevandone le anomalie rispetto alla produzione coeva (individuabili, innanzitutto, nella sua destinazione alla lettura piuttosto che alla rappresentazione, nell’assenza della coppia di innamorati e nell’abnorme sviluppo dei dialoghi), lo studioso conclude che il “Marescalco ” non si svincola del tutto dalla ‘forma mentis’ della corte e risulta perciò un’opera ‘imperfetta’, segnando solo una tappa del cammino compiuto dall’Aretino in direzione del superamento delle inquietudini della propria epoca.

    • PIER ANGELO PEROTTI

      Note sulla Gertrude manzoniana – pp. 270-288

      Nel tratteggiare la figura e la storia di Gertrude, Manzoni non si servì soltanto di fonti storiche ma immise elementi di invenzione ispirandosi alla propria personale biografia, sia nel delineare il carattere del padre e della madre della monaca di Monza (in cui si rispecchiano alcuni tratti di Pietro Manzoni e di Giulia Beccaria), sia nel ripercorrere l’esperienza della vita in convento di suor Virginia Maria, sulla scorta dei suoi ricordi del collegio in cui lo scrittore stesso venne educato.

    • ARMANDO BISANTI

      Il capitano Guido Altieri, ovvero Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità – pp. 289-302

      L’articolo – qui proposto in una prima parte – si addentra nei meandri della produzione salgariana, spesso pubblicata sotto pseudonimo, soffermandosi, in particolare, sui racconti che ripropongono la ricchezza tematica caratteristica dei romanzi di Salgari.

    • TONI IERMANO

      Provincia come un sogno: le terre incantate di Francesco Jovine – pp. 303-334

      Il saggio mette in evidenza l’importanza della vita di provincia nell’intera produzione di Jovine.

  2. Meridionalia
    • CARLO AVILIO

      Una commedia inedita di Francesco Mastriani: “Il marito di tela “ – pp. 334-354

      Viene qui riportata, in trascrizione, una commedia, finora inedita, di Francesco Mastriani il cui testo è ricavato da un manoscritto custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.

  3. Contributi
    • DJAOUIDA ABBAS

      Francesca da Rimini in arabo. A proposito della nuova traduzione di Kadhim Jihad della “Divina commedia “ – pp. 355-366

      Oggetto del saggio è la nuova traduzione, in arabo, della “Divina commedia ” ad opera di Kadhim Jihad. Particolare spazio viene riservato alla figura di Francesca a Rimini, una delle più note della letteratura mondiale di tutti i tempi., che viene ‘calata’ all’interno delle suggestioni provenienti dalla cultura araba.

    • LUIGI ABIUSI

      Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pasoliano – pp. 367-383

      Viene qui proposta una rilettura dei testi pasoliniani, anche prodotti in relazione alla sua attività cinematografica, in cui si configura il rapporto dello scrittore con il ‘terzo mondo’

  4. Note e discussioni
    • DONATO SPERDUTO

      Nota sull’ “appendice ” del “Quaderno a cancelli ” leviano – pp. 384-387

      Lo studioso punta l’attenzione sull’ultima parte del “Quaderno a cancelli ” di Carlo Levi, esclusa dall’edizione (postuma) einaudiana del ’79 e auspica una nuova edizione del diario leviano in cui finalmente le pagine espunte (scritte dal giugno all’agosto del 1973) possano trovare posto.

    • GIOVANNA LO PRESTI

      “Doppia seduzione ” di Francesco Orlando – pp. 388-394

      Viene preso in esame l’ultimo libro del critico Francesco Orlando, “Doppia seduzione “, che costituisce anche la prova d’esordio come romanziere del suo autore. Concepito da un Orlando appena ventenne, “Doppia seduzione ” richiese una gestazione lunga più di mezzo secolo e porta in sé le tracce dell’acume che il suo autore manifestò nella sua attività di critico letterario.

  5. Recensioni
    • MARIO AVERSANO

      Dante e i precursori dell’Unità d’Italia – pp. 395-397

      Benevento , Ed. Edizioni Auxiliatrix – 2010 (Pasquale Gerardo Santella)

    • BASILIO PUOTI

      Le lettere nell’Archivio del Museo di San Martino di Napoli (1835-1847) a cura di Giovanni Savarese – pp. 396-397

      Edizioni di Storia e Letteratura , Ed. Roma – 2010 (Raffaele Messina)

    • GABRIELE D’ANNUNZIO

      La fiaccola sotto il moggio a cura di Maria Teresa Imbriani – pp. 397-399

      Verona , Ed. Il Vittoriale degli Italiani – 2009 (Valeria Giannantonio)

    • ALDO PUTIGNANO

      La più gran gioia è sempre all’altra riva. Estetismo e simbolismo in Gabriele D’Annunzio – pp. 399-402

      Caltanissetta-Roma , Ed. Sciascia – 2010 (Valeria Giannantonio)

    • LUIGI GAMBERALE

      Il mio libro paesano a cura di Sebastiano Martelli – pp. 402-404

      Campobasso , Ed. Palladino editore – 2010 (Gianni Oliva)

    • GIOVANNI DE LEVA

      Dalla trama al personaggio. “Rubè ” di G. A. Borgese e il romanzo modernista – pp. 404-406

      Napoli , Ed. Liguori – 2010 (Stefania Della Badia)

    • RICCARDO SCRIVANO

      Letture e lettori. Appunti di critica letteraria – pp. 406-411

      Pesaro , Ed. Metauro Edizioni – 2010 (Caterina De Caprio)

    • LUIGI FONTANELLA

      Controfigura – pp. 411-415

      Venezia , Ed. Marsilio – 2009 (Domenico Alvino)

saggi RAFFAELE GIRARDI Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo Orlando’s folly is at the same time a creative “addition” to a cycle of romances and an original modern figure of synthesis. It stands for an intellectual travail imbued with classical and humanistic echoes, strengthened by the poet’s clear diagnosis of an existential breakdown: a loss of identity turned into an anamorphic version of the courtly exemplariness, and “folly” seen as a collapse of memory, the same which can be found in the most up-to-date representatives of the European Renaissance. Co’ principi bisogna esser pazzo, fingere il pazzo e vivere da pazzo […]; che costume è quel de la corte! I signori in tutte le lor cose procedono furiosamente… (P. Aretino, La cortigiana, II, 13, 1 e IV, 7, 1)1 «Il bello sarà che lo vogliono far guardare, come vien fora, in uno specchio concavo, che mostra i volti contrafatti, oh, che spasso!» (Ivi, IV, 13, 2) 1. C’è, fra le maglie della grande architettura dell’Orlando furioso, un’antropologia ariostesca che al grande tema dell’imbestiamento dell’eroe (il culmine della pazzia di Orlando) conferisce un’insospettata funzione di sintesi. Le particolari responsabilità simboliche ad esso attribuite nel complesso ordito semantico del centralissimo canto XXIII e di alcuni suoi dintorni merita qualche considerazione di aggiornamento, a partire da alcune evidenze testuali che occorrerà sottoporre a una verifica. 1 P. Aretino, Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971, da cui si citerà da ora in poi. Saggi 212 RAFFAELE GIRARDI Che una base classica in primo luogo stoica e senechiana2 dell’«ira funesta» (leit-motiv degradante dalla forma piena dell’epos alla più terrena dimensione dell’eroe ‘romanzo’) si offrisse ad un disegno di affabulazione così nuovo e anomalo come quello di Ariosto, è cosa che, a rivalutarla, risulta di non poco momento: in primo luogo perché, come vedremo, contribuisce ad annullare la distanza fra alcuni temi ad alta tensione etica della cultura classico-umanistica e l’orizzonte mentale dello scrittore ferrarese3 (quell’orizzonte mentale che un grande archetipo della storiografia letteraria italiana invece giudicò «mezzano e borghese», povero di «coscienza», incline alla ‘cavalleria’ e alla mitologia come ad un’autoappagata e «pura leggenda»: l’orizzonte di un disegno «onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo»)4, facendo intendere quanto poco estranea fosse ad Ariosto la dimensione propriamente meditativa della scrittura. Ma anche perché ci suggerisce che proprio ad alcune fondamentali strutture dell’immaginario classico Ariosto poteva ancorare il senso ultimo del grande viaggio simbolico intrapreso dal ‘cavaliere antico’ verso la meta assurda del suo autoannullamento: geniale rimodulazione e mise en abîme che segnala, per rimando moderno al piano della coscienza, l’intrinseca, conflittuale (ossia 2 Gli spunti etici di matrice stoica, soprattutto quelli riscontrati in Seneca, non configurano necessariamente uno stoicismo di Ariosto; sono piuttosto da vedere, credo, come occasione privilegiata, fra le tante, di un dialogo con l’Antico molto più spregiudicato e aperto di quanto non si pensi. 3 Si deve, credo, a G. Savarese (Il Furioso e la cultura del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1984) l’avvio di un esame finalmente attento al ramificato legame intrattenuto da Ariosto con i classici e con la cultura umanistica. Ma per l’Ariosto ‘erudito’, lettore e manipolatore dei classici (soprattutto latini), è ancora molto utile C. Segre, La biblioteca di Ariosto, in Id., Esperienze ariosteshe, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, pp. 45-50. Sulla combinatoria di ‘riscrittura’ dei modelli classici, intesa come elemento strutturante del sistema compositivo del Furioso, cf. S. Jossa, La fantasia e la memoria. Intertestualità ariostesche, Napoli, Liguori, 1996. Per la varia fortuna cinquecentesca di Ariosto come poeta ‘virgiliano’ e ‘ovidiano’, cfr. D. Javich, Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando furioso, Milano, Bruno Mondadori, 1999, sopr. capp. 2-4. 4 F. De Sanctis, Storia della lettertura italiana, a c. di N. Gallo, voll. 2, Torino, Einaudi, 1958: II, pp. 508 e 511-512. Ma di un diverso e più articolato giudizio di De Sanctis su Ariosto (il De Sanctis delle lezioni zurighesi) opportunamente parla N. Borsellino (Ludovico Ariosto, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 12), il quale per altro, sulla scia di Caretti, disponendosi a rivedere la sostanza del giudizio desanctisiano, individua proprio nel «classicismo» di marca virgiliana presente nel Furioso il principale terreno su cui il ‘romanzo’ ariostesco con «una scelta matura e meditata » si sarebbe emancipato dalla tradizione encomiastica precedente (Boiardo in primis). [ 2 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 213 per nulla «inoffensiva») e dialettica commistione fra una patologia individuale e gli ordini che sullo sfondo le fanno da cornice5. Limpida, dietro la maschera eroico-cavalleresca dell’alienazione cortigiana, la correlazione con un punto assai significativo del senechiano De ira, certamente noto al «servo» Ariosto. È questo: [Ira] perniciosa est servientibus; omnis enim indignatio in tormentum suum proficit et imperia graviora sentit quo contumacius patitur. Sic laqueos, dum iactat, adstringit; sic aves viscum, dum trepidantes excutiunt, plumis omnibus inlinunt6. Il segno più esplicito della confidenza con questo passaggio senechiano è la figura-similitudine (fornita originariamente da Ovidio) dell’«augel…in ragna», con la quale Ariosto designa la crescita in Orlando del presentimento di rovina di fronte alla scoperta della dura verità («Come l’incauto augel che si ritrova / in ragna o in visco aver dato di petto, / quanto più batte l’ale e più si prova / di disbrigar, più vi si lega stretto»: XXIII, 105, 3-6)7. E si parla dell’ira come «brevis insania» (De ira, I, 1, 2) o, nella forma più consentanea ad Ariosto (quella suggerita da Orazio), come «furor» («ira furor brevis est»: Orazio, Ep., I, 2, 62). Anche i «certa indicia » della pazzia suggeriti da Seneca (De ira, I, 1, 3) delineano un’accurata semeiotica dell’imbestiamento, che rifluirà nei tratti assai più rapidamente delineati dell’eroe demente nell’Hercules furens8. Una se- 5 Un interesse recente per questa «sensibilità» dialettica e di «ribellione» del testo del Furioso nei confronti della realtà storica, vista come materia che penetra ‘digressivamente’ nella trama del fantastico, è in G. Sangirardi, Diavoleria, menzogna, monumento: apparizioni della storia nel Furioso, in L’Histoire mise en oeuvres, Actes du Colloque des 2 et 3 mai 2000, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2001, pp. 25-43; e cf. anche Id., Ludovico Ariosto, Firenze, Le Monnier, 2006. 6 L.A. Seneca, De ira, III, 16, 1, in Dialogorum libros, III-V, ed. E. Hermes, Lipsiae, Teubner, 1923, p. 125 [‘L’ira è funesta a quelli che servono, perché ogni sdegno accresce il loro tormento, e più si ribellano agli ordini, più ne sentono il peso. Così le fiere, mentre si dibattono, stringono di più i lacci: così gli uccelli, mentre cercano di liberarsi dal vischio battendo le ali, lo spargono su tutte le piume»: tr. it. di R. Laurenti, Seneca, I dialoghi, Bari, Laterza, 1978, p. 195]. 7 Così Ovidio: «Utque suum laqueis, quos callidus abdidit auceps, / crus ubi commisit volucris sensitque teneri, / plangitur ac trepidans adstringit vincula motu… » (Met., XI, 73-75) [‘Come l’uccello che cade ne laccio, che l’uccellatore scaltro gli tese, sentendosi stretto, si sbatte e col moto stringe per tema la rete…’]. 8 «Quod subitum hoc malum est? Quod, nate, vultus huc et huc acres refers / acieque falsum turbida caelum vides?» (Seneca, Hercules furens, in Tutte le tragedie, [ 3 ] 214 RAFFAELE GIRARDI meiotica per nulla estranea al disegno ariostesco, come già sembrò a Giovan Battista Pigna («è Orlando come Ercole»)9. Occorrrà verificarlo più avanti, parlando della ‘trasformazione’ dell’eroe Orlando. Per Seneca vale la progressione, il processo formativo, di una finale debacle: «ruina»10 per frattura e scomposizione interna. Il cammino verso il Nulla, che la demenza di Orlando configura come ipersegno, cifra connotante per metonimia l’orizzonte generale di un vissuto, è infatti, in questo, una «ruina» intesa come azzeramento del Senso. Ne sono coinvolte, insieme, le motivazioni vitali del soggetto e la natura di quegli stessi ordini: insomma il problematico rapporto con l’universo cortigiano. Non si può del resto ignorare che il nesso consequenziale ira (o furore)/ sragione/bestialità, applicato alla patologia dell’Eros, Ariosto lo trovava iscritto, in legame stretto con l’etica dei bestiari moralizzati11, fra le strutture mentali più profonde del modello cristiano-medievale di humanitas. Lo si ritrova ancora operante ad esempio nella fenomenologia amorosa descritta da Andrea Cappellano12 e più avanti nel a cura di E. Paratore, Roma, Newton Compton, 2006, vv. 953-954) [‘Che delirio improvviso ti ha colto? Perché, figlio, volgi qua e là sguardi infuocati, e la tua vista smarrita scorge un cielo stravolto?’]. L’ipotesi di una presenza dell’Hercules furens nell’«orizzonte mentale e culturale ariostesco» è presa in seria considerazione da C. Bologna (La macchina del «Furioso». Lettura dell’«Orlando» e delle «Satire», Torino, Einaudi, 1998, p. 199). Ma per un diretto confronto fra Orlando ed Ercole, cf. ora S. Longhi, Il corpo nudo e feroce: Orlando come Ercole (Ariosto), in Ead., Forme di mostri. Creature fantastiche e corpi vulnerati da Ariosto a Giudici, Verona, Fiorini, 2005, pp. 9-31. 9 G.B. Pigna, I romanzi, Venezia, V. Valgrisi, 1554, p. 78. Ma l’accostamento del Furioso alla tragedia senechiana era già in Ortensio Lando, La Sferza de’ scrittori antichi e moderni, Venezia, A. Arrivabene, 1550, c. 21r. La rilevanza antropologica del mito di Ercole in ambito umanistico e i significati simbolici che esso assume all’interno del mondo cavalleresco, puntualmente annotati da P. Rajna (Le fonti dell’Orlando Frioso, Firenze, Sansoni, 19002, p. 67), sono approfonditi da E. Saccone (Il «soggetto» del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, Napoli, Liguori, 1974, pp. 216 e sgg.), con qualche spunto su altri momenti del riuso ariostesco dell’Hercules furens senechiano. 10 «[Ira] aeque enim impotens sui est, decoris oblita, necessitudinum immemor, in quod coepit pertinax et intenta, rationi consiliis quae praeclusa, […], ruinis simillima, quae super id quod oppressere franguntur» (De ira., I, 1,1) [‘Come la pazzia, essa non riesce a dominarsi, dimentica il decoro, non ha memoria degli obblighi sociali, insiste con pertinacia in ciò che ha intrapreso, è sorda ai suggerimenti della ragione […], molto simile a quelle rovine che si frantumano su ciò che crollando hanno travolto’]. 11 Cfr. più avanti p. 24 e n. 65. 12 «O come quelli è misero e matto è più che bestia, il quale per li diletti carna- [ 4 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 215 contesto decisamente più laico dell’etica borghese-mercantile, come fa vedere Paolo da Certaldo nel suo Libro di buoni costumi13. Dalle due epigrafi d’apertura occorrerà prendere le mosse, per seguire un percorso che è sperabile riconduca per una via non angusta, conseguenziale, al punto di partenza fissato nel Furioso ossia al tema dell’imbestiamento. Un periplo dunque che coincide, come si vedrà, col tempo già maturo della grande circolazione e della risonanza pubblica dell’ultima redazione del Furioso (gli ultimi anni ’20 e i primi anni ’30 del Cinquecento). Esso vorrebbe mostrare come affiorino e si consolidino, lungo quella breve parabola dell’immaginario e del vissuto cortigiano, alcuni modi di percezione/rappresentazione della realtà che già alimentavano nel profondo la struttura del ‘romanzo’ ariostesco. Parlo, per ciò che concerne lo scrittore ferrarese, innanzitutto di quelli connessi all’elaborazione della figura della Pazzia quale emerge in particolare dall’epicentrico canto XXIII del Furioso e da quella sua fondamentale appendice narrativa che è il canto XXIX. 2. Il primo ex-ergo: due enunciati perfettamente organici alla vulgata anti-cortigiana e anti-romana del grande eversore Aretino: 1. La coazione a ‘impazzire’ come regola vicaria della simulazione all’interno del Palazzo. 2. La natura intrinsecamente «furiosa» del costume di corte, a cominciare da quello dei «signori». È, fin qui, un manifesto-denuncia costruito pressoché integralmente, come si evince da tutta la prima parte della Cortigiana oltre che da numerose altre occasioni di polemica presenti nei testi aretiniani successivi, sulla frontale contrapposizione fra il grande modello di «libertade » offerto dalla Repubblica di Venezia e una Roma «irriconoscibile », prodotto degenerato di un processo perverso, cruda metamorfosi li, che non bastano un momento, perde l’allegreçça del cielo e fa l’opera d’andare in perpetuale fuoco» (A. Cappellano, De amore, a cura di G. Ruffini, Parma, Guanda, 1980, p. 291). 13 «Pericoloso peccato è quello de l’ira: e però ti guarda molto di non lasciarti correre in ira, che l’ira toglie a l’uomo e a la femina la ragione, e no gli lascia conoscere cosa che faccia o che dica; e l’uomo o la femina ch’è sanza ragione è simile a le bestie […]. E po ch’ha perduta la ragione, genera furore in se medesimo, disperandosi » (Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, 343, in Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Milano, Rusconi, 1986, p. 80). [ 5 ] 216 RAFFAELE GIRARDI di una grandezza ridotta alla deflagrante commistione di «villania e invidia» (Cortigiana, III, 7, 6). Risvolti meno immediatamente leggibili e meno scontati ha invece, nella commedia aretiniana, la bizzarra scenetta da cui proviene la seconda citazione posta in epigrafe. Aretino vi ripropone l’azione dell’inconsapevole rimirarsi in uno «specchio concavo» come l’esito di una cinica burla ai danni di uno stolido Messer Maco, apprendista-cortigiano e ansioso protagonista di un rapido training, col quale questi aspira a mettersi in regola per una fulgida e fulminea carriera di corte che lo porti ad essere cardinale: un destino ch’egli sceglie dopo aver immaginato, in sogno, di «farsi cortigiano con le forme» (III, 9, 2). L’allusione parodistica al castiglionesco «formar con parole un perfetto cortigiano»14 si duplica nella denuncia di una deriva seriale della pedagogia umanistica con la parola-eco di Messer Maco («anco le bombarde, le campane e le torri si fanno con le forme…»: III, 9, 3). È un potenziamento retorico che rimanda ad una semantica più sottile: proveremo ad entrarvi. Partiamo pure dall’oggetto parodico: in questo caso, l’immagine stessa di Messer Maco, al quale il «dipintore» Mastro Andrea, divenuto per l’occasione suo maestro di cortigiania, finanche prescrive, con la consulenza del Maestro Mercurio, medico specializzato, una surreale terapia farmacologica, propedeutica ad una sorta di grande trattamento igienico, necessario a chi voglia acquisire le «forme» della perfezione cortigiana (IV, 1). Con un gusto spiccatamente aretiniano per gli enunciati in contrasto e per i simbolici rovesciamenti di senso, Mastro Andrea aveva già avuto modo di spiegare in perfetto codice burlesco, ossia giocando sull’equivoco di senso, l’importanza che assume uno specchio normale nelle leggiadre abitudini da «ninfa» del perfetto gentiluomo di palazzo: Messer Maco: ‘Come si fa la ninfa?’ Messer Andrea: ‘Questo ve lo insegnerà ogni cortigianuzzo furfantino che sta da un vespro a l’altro come un perdono a farsi nettare una cappa e un saio d’accottonato, e consuma l’ore in su gli specchi in farsi i ricci e ungersi la testa antica, e col parlar toscano, e co ’l Petrarchino in mano, con un sì a fé, con un giuro addio, e con un bascio la mano, gli pare essere il totum continens» (I, 22, 3-4). 14 B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi, 1998: I, 12. [ 6 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 217 L’ombra dell’insania, della pazzia e del carattere buffonesco qui aleggia con lo stesso spirito che Castiglione le conferisce sulla scena del Cortegiano, dove è Federico Fregoso che la stigmatizza: «Qual è di noi che, vedendo passeggiar un gentiluomo con una robba addosso quartata di diversi colori, o vero con tante stringhette e fettuzze annodate e fregi traversati, non lo tenesse per pazzo o per buffone?» (Il libro del Cortegiano, cit., I, 27). Ma era stato Ludovico di Canossa ad includere per primo nel ricco catalogo delle «cose monstruose», fra le immagini deformate della «bella forma di volto e di persona», il «pericoloso scoglio» dell’affettazione, croce dell’«amabile» grazia cortigiana: un «mostruoso» disvelamento dell’arte (ivi, I, 26). È uno specchio speciale invece quello dinanzi al quale, nella Cortigiana, viene in un secondo momento messo, con cinica intenzione di burla, lo sprovveduto Messer Maco, per una verifica della preparazione alla cortigiania. Il riso di scherno è preannunciato dai sarcasmi di un suo cameriere: Grillo: ‘Ah, ah, ah! Messer Maco è stato nella caldaia in cambio delle forme, e ha reciute le budella […]. L’hanno profumato, raso, rivestito, tal che gli par essere un altro […]. Il bello sarà che lo vogliono far guardare, come vien fora, in uno specchio concavo, che mostra i volti contrafatti, oh che spasso! (IV, 13, 1-2). In quest’ordine mutevole di significanti il discorso irridente di Aretino mostra ancora una volta, come nelle sue lettere sulla pittura, di non essere per nulla estraneo agli ‘scherzi’ delle arti visive, alle aberrazioni anamorfiche dell’immagine, ai giochi della «prospettiva perversa ». Anzi, esso sembra anticipare con comica estroversione un gusto metamorfico che si ambienterà perfettamente nei bizzarri labirinti della scienza barocca: lo dimostrerà l’Ars magna lucis et umbrae di Athanasius Kircher nella parte dedicata alle trasformazioni ‘simboliche’ che produce l’uso di una macchina catottrica capace in virtù dei suoi singolari meccanismi riflettenti-deformanti di restituire l’immagine umana in forma animale, per effetto di ‘metamorfosi’ o di «magia catoptrica », come dice l’autore15. 15 Cfr. A. Kircher, Ars magna lcis et umbrae in decem libros digesta, Romae, sumptibus Hermanni Scheus, ex typographia Ludouici Grignani, 1646. Sul prestigioso museo kircheriano delle installazioni catottriche, allestito dai gesuiti nel loro Collegio Romano, cfr. J. Baltrušaitis, Lo specchio. Rivelazioni, inganni e science- fiction, Milano, Adelphi, 1981 (ed. or. Paris, Edd. du Seuil, 1979), che offre un’esauriente documentazione per immagini delle macchine destinate alle tra- [ 7 ] 218 RAFFAELE GIRARDI L’esaltazione barocca dell’illusione ottica prodotta nei cabinets di curiosità (le seicentesche Kunst-und Wunderkammern) attraverso l’effetto zoomorfico ha qui in sostanza una interessante anticipazione. Dunque, nel gioco svagato e nell’apparente casualità di queste metamorfosi provvisorie e reversibili che i «volti contrafatti» esprimono non c’è ingenuità bensì l’allusiva sottigliezza di una trouvaille che include un procedimento simbolico. Si può non vedere come esso si presti bene ad emblematizzare attraverso i codici del riso la sostanza corrosiva di un più ampio discorso sulla corte? La parola-gioco dal piano alto e generico degli ordini «guasti» è scivolata con disinvoltura a designare una piega del privato, nelle maglie della più effimera e ‘folle’ vita di palazzo. Di quel carattere non ingenuo dà conferma, a gioco finito, la sottile tessitura allusivo-gergale del dialogo fra maestro e scolaro-cortigiano, quando la parola di scena, dopo il disvelamento della diablerie, deve enfatizzare il recupero di orgoglio e la reintegrazione narcisistica di Messer Maco. La sequenza dialogica va ripresa, per meglio intendere il risvolto grottesco e fantastico del gioco a cui assistiamo. Siamo alla fine del trattamento igienico-cosmetico di Messer Maco e alla successiva prova dei due specchi: Messer Maco: Oh bello, oh divino cortigiano che mi pare essere. Maestro Mercurio: In mille anni non se ne farebbe un altro. Messer Maco: Vo’ stare in su la reputazione, voglio, poi che mi sento fatto cortigiano. Maestro Andrea: Specchiatevi un poco, e non fate le pazzie, che fece ser Narciso. Messer Maco: Il viso mi specchierò, datel qua… Oh Dio, o Domenedio, io son guasto, ahi ladri, rendetemi il mio viso, rendetemi il mio capo, i miei capegli, il mio naso: oh, che bocca! Oimè che occhi! Commendo spiritum meum. Maestro Mercurio: Levatevi suso, ché son rigori e fumosità che fan traveder il cerebro. Maestro Andrea: Specchiatevi e vedrete ch’è stato uno accidente. Messere Maco: Io mi specchio. (M[esser] Maco con lo specchio vero in mano). Io son fuor de l’altro mondo, lo specchio è tutto mio […] Io son racconcio, io son vivo, io son io. E voglio ora esser tutto Roma, voglio scorticare il governatore che mi cercava dal bargello. Vo’ bestemmiare, vo’ portare l’arme, vo’ chiavellare tutte, tutte, tutte le signore, andate sformazioni zoomorfiche e un’ampia riflessione sul loro significato simbolico, in part. alle pp. 15-39. [ 8 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 219 via medico, puttana nostra vostra, avviati inanzi maestro, che per lo corpo … tu non mi conosci adesso ch’io sono cortigiano, ah? […]. Voglio essere oggi vescovo, e domani cardinale, e stasera papa (IV, 18, 1-3). Nel gioco dello specchio concavo dunque è il «cerebro» a farne le spese: la diablerie16 mette Messer Maco a rischio di «travedere», facendolo dubitare di sé con una reazione patologica tutta concentrata sull’angoscia della perdita: insieme alla sua immagine si è perso anche il suo «essere». Il pazzo raffigurato nell’Elck di Pieter Bruegel cerca anche lui il suo essere in uno specchio, dicendo, con un ghigno di straniato umorismo e parlando a nome dell’intero genere umano: «io ignoro me stesso»17. Anche l’effetto di perdita subìto per un momento da messer Maco porta il personaggio a non essere più Nessuno: «Nemo», come nell’iscrizione che campeggia fra gli oggetti smarriti che Brueghel accatasta sulla scena del suo Elck18. 16 Che si tratti di un’azione ‘diabolica’, connotata in senso grottesco-fantastico, lo fa intendere lo stesso Messer Maco più avanti, rievocando l’inganno: ««Mastro Andrea m’avea fatto cortigiano con le forme, e il demonio mi guastò…» (V, 22, 2). Sulla tradizione demotica e grottesca delle diableries fra Medioevo e Rinascimento resta fondamentale M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979, passim. Si dica pure, nel caso di Aretino, grottesco ‘da camera’ a riscontro ulteriore di un tratto originale della sua scrittura comico-carnevalesca, su cui cfr. R. Girardi, Dialogo carnevalesco e scrittura della reversibilità: una prosopopea aretiniana, in Atti del Conv. Internaz. Carte. Gioco, divinazione, scrittura (Bari, 22-24 genn. 1986), «Lectures », 18, 1986, pp. 103-122. 17 A questa accezione universalizzante della stultitia, convivente con un’altra, che configura una patologia dell’umano, o meglio un’«incarnazione grottesca dell’antiumano» e una malattia da guarire, dedica pagine importanti R. Klein in La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975 (ma 1970), indicando nel platonismo cristiano la radice comune ai due modelli. Per il tema iconografico della follia sviluppato nella suggestiva e raffinatissima serie monotematica delle stampe bruegeliane (possedute dalla Bibliotheque Royale Albert Ier di Bruxelles, Cabinet des Estampes), che comprende l’Elck, cfr. R.H. Maijnissen, Bosch and Brueghel on human folly, in Folie et déraison à la Renaissance, Colloque international (Bruxelles, nov. 1973), Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 1976, pp. 41-52. 18 Cfr. G. Calmann, The Picture of Nobody. An Iconographical Study, «Journal of the Warburg and Courtauld Institute», XXIII, 1-2, 1960, pp. 60-104; e R. Giorgi, Un tema della ‘Follia’: il ‘Nessuno’, in AA.VV., L’umanesimo e «la Follia», Roma, Abete, 1971, pp. 65-88; ed E. Castelli Gattinara, Quelques considérations sur le Niemand et … Personne, in Folie et déraison à la Renaissance, cit., pp. 109-114. [ 9 ] 220 RAFFAELE GIRARDI Su quell’indistinta angoscia della perdita si capisce quanto incida l’incubo della caduta del Desiderio e in particolare il depotenziamento dell’energia sessuale. La rapida reintegrazione infatti, il «racconciamento », comporta l’inopinato ma salutare ritorno di uno strapotere fallico («vo’ chiavellare tutte…»). La turbinosa giostra dei significanti può ricreare anche solo per pochi istanti l’«accidente» della perdita di sé attraverso l’immagine «guasta», fantasma della Morte, per effetto di una «prospettiva depravata», di un’anamorfosi che «dilata e proietta le forme fuori di se stesse […] e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo»19. Basta infatti, in questo schema burlesco, riavere lo «specchio vero» in mano, perché l’apprendista-cortigiano riacquisti una nuova padronanza narcisistica di sé, che lo porta «fuor de l’altro mondo» e lo restituisce al principio di realtà: una vera guarigione («Io son acconcio…») dopo il «guasto» (termine-chiave, come vedremo), che lo fa depositario di una nuova energia desiderante, una smania del possesso inclinante alla violazione e ad un salvifico trionfo dell’eccesso («io sono io […]. Voglio ora esser tutto Roma…»). In questa ristabilita volontà di potenza, per il cinico gioco dei contrari che fa da trama alla scrittura aretiniana, tutto in realtà accade in ossequio all’ennesimo rovesciamento di ‘prospettiva’. È un’inversione di senso nella quale l’incertezza dello sguardo di fronte alla «vertigine dell’astrazione» viene risarcita col ripristino del puro inganno, con l’immagine ‘reale’ (una maschera di primo grado) della stolida ambizione e della follia, le due forze motrici che alimentano nel profondo il senso corrente del vivere cortigiano20. Quanto al linguaggio, non c’è bisogno di scomodare, a proposito di «ordini», i piani alti della grande analisi politica (mettiamo: Machiavelli e il suo «mondo guasto» da riformare) per trovare l’accezione che 19 J. Baltrušaitis, Anamorfosi o Thaumaturgus opticus, Milano, Adelphi, 19902, p. 15. «Si tratta – aggiunge Baltrušaitis, ed è una precisazione fondamentale – di una distruzione che prelude a un ripristino, di un’evasione che implica però un ritorno» (ib.). Sull’anamorfosi, considerata come «un mode de communication ou un certain type de language» e un modello di ‘visione’ della realtà elaborato «sous le signe du surréalism» e dell’«imagination créatrice» nella letteratura del sec. XVI, cfr. J.-C. Margolin, Aspects du surréalism au XVIe siècle: fonction allégorique e vision anamorphique, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», tome XXXIX (1977), pp. 503-530. 20 Di uno «speculum renversé de la cour» come ’immagine’ della follia parla C. Ossola, Métaphore et inventaire de la folie dans la littérature italienne du XVIesiècle, in Folie et déraison à la Renaissance, cit., pp. 171-196: p. 172. [ 10 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 221 più pertiene al nostro discorso. Basta restare nei paraggi per ritrovare l’asseverazione in forma quasi proverbiale, come una massima-refrain, del Marescalco (IV, 8, 2) o della Talanta (V, iv, 6): «il mondo è guasto», nel senso che reca tutti i segni visibili e immedicabili di una strutturale rovina. È lo stesso «mondaccio» o mondo-mercato contro cui impreca l’esperta e cinica prostituta Nanna nel Ragionamento aretiniano21. La trouvaille della burla dinanzi allo specchio concavo, nella Cortigiana, non fa che transcodificare con gergale svagatezza in una metonimia la perentorietà di quella diagnosi. 3. «Guasto» e «racconciamento», specchio concavo e specchio normale, follia e reintegrazione. Lo schema, il procedimento discorsivo che mette in azione queste antitesi, funziona in Aretino secondo una logica che ha non poche analogie di senso con alcuni elementi costitutivi dell’immaginario ariostesco, destinati per via figurata, attraverso una grande affabulazione d’impianto ‘onirico’, a proiettare nella grande rete delle narrazioni, nell’accumulo magmatico delle loro varie implicazioni simboliche, alcuni aspetti cruciali di una più generale problematica del ‘vissuto’ di corte: elementi dunque che la quête cavalleresca promuove a geniali sostituti di un conflitto reale, maturato nell’incerta vicissitudine etico-esistenziale di Palazzo dal «servo»-letterato Ariosto. Certo, per tornare ad Aretino, tutto l’universo cortigiano messo in scena, e non solo nella commedia citata, è un immenso turbine di immagini «guaste», cumulo inquietante di figure metonimiche chiamate a fare da sostituti per l’unica, vera e plateale realtà della follia materializzata, che per il Flagello dei Principi è la città di Roma: realtà anch’essa «irriconoscibile», stravolta, chiamata a far da sfondo per una commedia il cui linguaggio è esso stesso stravolto, alieno dall’«ordine che si richiede»22. è la conferma, su un altro proscenio (Roma invece di Ferrara), della forza conoscitiva e insieme problematica di questo sguardo anamorfico, di questa percezione della realtà che predilige, sì, in questa occasione, un registro ludico e surreale, ma che punta a recuperare alla distanza, in cifra allusiva, proprio con l’appoggio del gioco surreale, i nuclei strutturanti di una visione assai più complessa e ambiziosa, che, come vedremo, non è solo di Aretino: è un percorso da ricostruire. 21 Cfr. P. Aretino, Ragionamento della Nanna e dell’Antonia, in Id., Ragionamento – Dialogo, a cura di P. Procaccioli e introduzione di N. Borsellino, Milano, Garzanti, 1984, p. 9. 22 Prologo della Cortigiana, cit., pp. 99-100. [ 11 ] 222 RAFFAELE GIRARDI Occorrerà farlo concentrando l’attenzione, per la straordinarietà dei suoi contenuti onirico-simbolici, sulla scena dell’identità smarrita e del ricordo, anch’esso «guasto e rotto», del folle Orlando ariostesco (Orlando furioso, XXIX, 61, 6) e della sua rovina come soggetto-protagonista della quête erotico-sentimentale23. Ma prima è necessario percorrere per intero il periplo, ripartendo dal punto nero della vicenda del cavaliere-gentiluomo-cortigiano in formazione (Messer Maco), da quell’attimo di sospensione della certezza di sé determinato dall’angoscia della perdita: è niente altro che il terrore della morte. Nel volto contraffatto e deformato della follia, percepito anche solo per qualche istante nello specchio da quella ‘testa vuota’ che è Messer Maco, c’è una macabra prefigurazione. «La follia – lo dice bene Foucault a proposito dell’immaginario tardoquattrocentesco – è l’anticipazione della morte», ossia «la testa, che sarà cranio, è già vuota»24. Vuota come il ‘sogno’ effimero di Messer Maco: vuoto di morte. E vuota come l’armatura di Orlando nel canto XXIII del Furioso: l’armatura che Zerbino trova disseminata nel bosco e che, con l’aiuto della mesta Isabella, ricompone, già conscio della rovina che quelle «reliquie » suggeriscono. L’onore tributato con dolore struggente da Zerbino ai resti di Orlando e il «bel trofeo» eretto con la sua armatura vuota sono i contrassegni problematici di un epos ormai assente, ostensione sconsolata di un irreparabile «guasto», e un deliberato capovolgimento di senso rispetto al suo corrispettivo classico, ossia l’orgogliosa ostensione dello scudo di Abante che Virgilio fa inscenare ad Enea in Eneide III, 286-289: un capovolgimento orchestrato in termini d’ironia testuale, giocando sul significato amaramente antitetico delle due famose iscrizioni: quella virgiliana, incisa sullo scudo del nemico, che onora Enea come simbolo vivente di un epos attuale («Aeneas haec de Danais victoribus arma»: III, 288)25 e quella ariostesca, apposta da Zer- 23 In Dante, If., XIV, 94, «guasto» è un «paese», al centro del Mediterraneo, sede di un’antica civiltà: è Creta, mitica isola nella quale si era consumata, secondo l’antica tradizione, l’età dell’oro; paese poi caduto in rovina a seguito della progressiva decadenza dell’intero genere umano: «rovina» e ‘corruzione’ irreversibile dunque. Anche nel petrarchesco Triumphus fame (2, 78) il «mondo guasto», evocato in relazione all’«inobbedienza» di Adamo, è nella stessa accezione. Semanticamente non molto dissimile, semmai più specializzata nel «vitupero» della corruzione fratesca, è la denuncia del «guasto mondo» che Boccaccio-autore si concede in Decameron, VII, 3, 8 (a cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1985). 24 M. Foucault, Storia della follia nell’età clasica, ed. accresciuta, Milano, Rizzoli, 1981 (ed. or. Paris, Gallimard, 1961), pp. 29-30. 25 [«Enea affisse quest’arma sottratta ai Danai vincitori»]. [ 12 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 223 bino sul simbolo del «guasto» e della perdita d’identità, sulla morte ritualizzata dell’antico valore cavalleresco («Armatura d’Orlando paladino »: XXIII)26. Albrecht Dürer aveva riproposto il tema ritualizzato della perdita di sé, del rischio morale e della morte nella straordinaria incisione Il cavaliere, la morte e il diavolo, che Erwin Panofsky col solito acume analitico interpreta (ricorrendo al prezioso supporto di alcuni riferimenti biblici ed erasmiani) come il cavaliere armato di evangelica fermezza, che «impersona la vita del cristiano nel mondo pratico della decisione e dell’azione» e che resta imperturbabile dinanzi alla morte e al diavolo: un Ritter Christi consapevolmente vicino al «miles christianus» di Erasmo, col quale Dürer effettivamente dialoga nel suo diario di viaggio nei Paesi Bassi27. Resta un po’ in ombra, per la verità, nella decodifica panofskiana, il problema della presenza problematica e angosciosa della Morte nell’immaginario del cavaliere cristiano, che invece qui credo emerga: credo cioè che anche nella rappresentazione düreriana la presenza della Morte e del Diavolo (il peccato), proprio grazie alla presenza di Erasmo nella memoria di Dürer (del suo Moriae Encomium oltre che dell’Enchiridion militis christiani), designi una condizione insidiosa, un’ambivalenza alla quale anche corrisponde una posizione di rischio sempre incombente sulla vita del cavaliere: la paura di perdersi come eroe di valore e come cristiano. C’è in fondo anche nel cavaliere düreriano una vena d’ironia (non priva, come in altre occasioni, di una sottile cifra serio-comica, soprattutto nelle figure di contorno del Diavolo e della Morte), che sulla scia del grande modello erasmiano punta, come direbbe Foucault, a disarmare «il terrore di fronte al limite assoluto della morte»: interiorizzandolo28. È un’ironia che riapre, come vedremo, il confronto con le marche allusivo-simboliche del grande sogno ariostesco. 4. Un’ultima tappa, per concludere davvero il periplo, la merita un quadro assai noto: gli Ambasciatori di Hans Holbein29, un dipinto ese- 26 Ragionando in termini di fonti sul particolare delle armi abbandonate da Orlando, Pio Rajna predilesse la risalita più breve alle indicazioni del Tristan: cfr. Le fonti, cit., p. 406. 27 Cfr. E. Panofsky, La vita e l’opera di Albrecht Dürer, Milano, Abscondita, 2006 (ed. or. Princeton University Press, 1955), sopr. pp. 196-201. 28 M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 29. 29 Londra, National Gallery. [ 13 ] 224 RAFFAELE GIRARDI guito nel 1533, un anno prima dell’esordio a stampa della Cortigiana e un anno dopo la pubblicazione della terza edizione del Furioso. Gli oggetti disparati che con terso realismo affollano il doppio ritratto holbeiniano fanno da contorno ai due gentiluomi di corte (gli ambasciatori Jean de Dinteville e George de Selve, un laico e un chierico, entrambi rappresentanti del re di Francia a Londra) con la stessa carica evocativo-simbolica che Dürer conferiva al variegato corredo di attrezzi che affollano la scena della sua Melancholia: sono in entrambi i casi gli strumenti del velleitario cammino che la scienza compie nella ‘folle’ illusione di giungere alle verità del cielo e della terra; emblemi della vanitas umana – «una mostra dell’impero dell’apparenza», disse Jacques Lacan30 – evocanti lo stesso «dolce delirio» che Erasmo, grande amico e protettore di Holbein, attribuisce nel suo Elogio della pazzia ai grandi ‘misuratori’ dei misteri racchiusi nel mondo naturale (i filosofi e gli astrologi)31. Tema che largamente riecheggia nella requisitoria contro il pericolo dello «smaniare con la ragione», che Cornelio Agrippa sviluppa nel suo De incertitudine et vanitate scientiarum et artium atque excellentia verbi Dei declamatio32. Il particolare di grande rilievo che va notato nel dipinto holbeiniano è anche qui, come già in altri studi sull’iconografia simbolica del Rinascimento europeo, la famosa e, al primo sguardo, incomprensibile macchia biancastra di sagoma incerta, che campeggia in primo piano ai piedi dei due gentiluomini. Opportunamente, a corredo della decodifica, Baltrušaitis insiste su un’idea presente in Holbein e che egli riscontra in Cornelio Agrippa, secondo la quale la pittura «è un trompe-l’oeil per definizione»33, e la prospettiva, cardine di un intero sistema della rappresentazione ‘razionale’ del Rinascimento, una norma «che insegna le ragioni delle false apparenze che si presentano all’occhio»: le stesse ragioni che i cosmologi, i musicisti, gli aritmetici e i geometri presumono di cogliere dalla conoscenza della terra e del cielo34. 30 Una «mostra» il cui ‘fascino’ è turbato tuttavia da «qualcosa che non è altro che il soggetto come nullificato», reso irriconoscibile dall’anamorfosi. 31 Cfr. Erasmo da Rotterdam, Elogio della Pazzia, LII, a cura di T. Fiore, Torino, Einaudi, 1964, pp. 88-89. Su questi motivi di sintonia fra Erasmo e Holbein, sulla loro circolazione europea e sulla comune esperienza culturale da essi accumulata nell’ambiente umanistico italiano, cfr. J. Baltrušaitis, Anamorfosi, cit., pp. 112 e sgg. 32 Princeps: Anversa, 1530. 33 Ivi, p. 116. 34 Ivi, pp. 115-116. [ 14 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 225 L’oscurità del significato, nella macchia biancastra, è l’effetto deliberato di un ironico trompe-l’oeil incaricato di emblematizzare il senso profondamente umano di un procedimento anamorfico, di un occultamento che enfatizza il suo segreto – l’invadente primo piano della macchia, dell’immagine ‘guasta’ – per poi scioglierlo imprevedibilmente. Nel nostro caso è ciò che accade all’osservatore che, allontanandosi dall’immagine, ridìa uno sguardo di traverso a quella sagoma: egli può così vedere nettamente delineata la forma del suo drammatico contenuto: un teschio, la Morte35. Di contro, lo splendore ‘mondano’ e la vanità delle figure degli ambasciatori si dilegua. «Al loro posto – dice Baltrušaitis – nasce dal nulla il segno del Nulla»36. Il ‘fascino’ di «quell’impero dell’apparenza», precisa Lacan nella sua ‘lettura’ del quadro holbeiniano, è così turbato da «qualcosa che non è altro che il soggetto come nullificato»37, reso irriconoscibile dall’anamorfosi. La quale è in realtà un oscuramento dell’immagine, lo stravolgimento di un’identità originaria e un rebus, ossia «un mostro, un prodigio»38. Ai fini del nostro discorso, conviene tesaurizzare queste connessioni di senso prospettate da Baltrušaitis, in particolare il legame fra la pratica degli inganni visivi e il vasto territorio del «dubbio filosofico», che interessa Agrippa ed Erasmo nel fissare la coscienza della vanità e della follia delle scienze umane. Sapendo che dentro la ‘prospettiva depravata’ dell’anamorfosi, intesa senz’altro come figura del disordine39 chiamata a designare «certi aspetti della patologia mentale», abitano a pieno diritto le costruzioni fantastiche della poesia40. 35 Baltrušaitis dedica un’attenta analisi ai contenuti simbolici offerti dal dipinto holbeiniano e al ricchissimo contesto artistico, filosofico, e tecnico-scientifico dal quale essi traggono alimento (pp. 112-132), non prima d’aver fissato alcune fondamentali premesse alla sua accurata indagine sulla composita fenomenologia dei modelli anamorfici. Per esse, cfr. qui la nota 38. 36 Ivi, p. 122. 37 J. Lacan, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Torino, Einaudi, 1979, p. 90. 38 Ivi, p. 15. «L’anamorfosi – aggiunge Baltrušaitis – si afferma come curiosità tecnica, ma «contiene una filosofia della realtà artificiosa […]». Proponendosi come puro «sotterfugio ottico», essa configura una prospettiva, l’altra prospettiva del Rinascimento, nella quale «l’apparenza eclissa la realtà», annientando l’ordine naturale: uno «sconfinamento nelle teorie del dubbio» (ibidem). Pertiene ancor più marcatamente al nostro discorso il legame istituito da Baltrusaitis fra processo percettivo e ‘materia’ immaginaria: «L’anamorfosi rifulge nella vertigine dell’astrazione », mostrando «l’incertezza della vista» (p. 16). 39 Ivi, p. 248. 40 Ivi, p. 132. [ 15 ] 226 RAFFAELE GIRARDI 5. Credo che il percorso sia ora più agevole o almeno ci sia qualche coordinata in più per chi voglia riconsiderare la forma affatto speciale e il senso dell’imbestiamento nell’Orlando furioso alla luce del suo essere uno speciale «guasto» della coscienza: un cammino problematico verso il Nulla. Nel mondo d’origine della tradizione cavalleresca, quello cupamente disegnato nella Chanson de Roland, l’eroe era l’immagine di un destino: una sorte consumata con la ferocia un po’ cieca, vuota di raziocinio, dell’attaccamento ad una fede, che è del resto, come dice Cesare Segre, una desmesure anch’essa appartenente ad un disegno divino41. Alla fine del percorso, dopo più di quattro secoli, l’Orlando di Ariosto si ritrova a incarnare, al contrario, quel destino in dissoluzione, l’eclissi del fulgore ossia un disancoramento42, che ispira una desmesure di diverso conio. Se un esile tratto in comune ancora resta fra l’avo e l’epigono, esso è la stringente e fatale corrispondenza di misura fra la grandezza dell’eroe e quella della sua rovina: ed è anche un primo fondamentale rimando alla comune lezione dell’Hercules furens di Seneca43. Per Roland la strada era un tracciato fatale che nel glorioso e cupo orizzonte della Chanson conosce anche l’incertezza delle scelte e l’angoscia di fratture irrisarcibili, incise sul corpo stesso della grandezza e del valore ‘carolingio’ («Rollant est proz e Oliver est sage»)44: è l’angoscia di una dementia di altra matrice, che sulla scena tragica di Roncisvalle semmai germina, come avrebbe fatto rilevare Lorenzo Valla nel suo De voluptate, da un eroismo risolto in cieca e non realistica ostinazione45, ma all’ombra di una certezza. Certezza ‘cieca’, perché protet- 41 Cfr. C. Segre, Introduzione a La canzone di Orlando, a cura di M. Bensi, Milano, Rizzoli, 1985, p. 5-27, in part. pp. 14-15. 42 Al fantasma della ferocia senza limiti e all’irrealismo fatale della desmesure rolandiana si contrappongono, talora come radicale antitesi, nel Furioso, esempi di senso pratico dei cavalieri ariosteschi, come quello di Cloridano, su cui cfr. la nota 45. 43 Seneca diluisce la sentenza nell’inutile appello di Anfitrione ad Ercole, ormai demente e in procinto di commettere la strage: («Infandos procul averte sensus; pectoris sani parum / magni tamen compesce dementem impetum» (vv. 974- 975) [‘Getta lungi da te queste suggestioni sacrileghe; raffrena il folle impeto del tuo spirito che, anche quando delira, concepisce sempre imprese sovrumane’]. 44 La canzone di Orlando, cit., CVIII, 1093. 45 «Non fugere de acie nec locum deserere fortitudinis est, cum omnes fugiunt remanere, dementie» (L. Valla, On pleasure – De voluptate, testo e intr. a cura di M. Lorch, trad. di A. Kent Hieatt e M. Lorch, New York, 1977, p. 124) [‘Non sottrarsi allo scontro e non abbandonare il campo di battaglia è segno di fortezza; restare [ 16 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 227 ta, fatale, lambita appena, nella Chanson, dall’accorato e parimenti fatale lamento di Carlo in chiusura («Deus – dist li reis – si penuse est ma vie!»)46, che suggella la coscienza dell’eterna solitudine del grande valore, dell’autorità e del potere. Per Orlando è invece una quête che radicalizza, e in termini inediti, la vecchia condizione d’incertezza e solitudine del vecchio cavaliere errante, destinato ad andare solo per la propria strada dopo essere arrivato, in compagnia di altri cavalieri e di altri destini, ad un punto decisivo del cammino47. I crocevia si sono nel frattempo moltiplicati a dismisura: inseguire l’oggetto di desiderio significa ormai per Orlando, per il destino della scrittura e per il suo ‘genere’48, un continuo ‘digredire’ lungo itinerari anomali: è un cammino verso mete impreviste che recano strane verità, casi non contemplati dal destino. A parte quello di Ruggiero e Bradamante, che è un formale omaggio ai signori Estensi. Nella tradizione dei romanzi di cavalleria al cavaliere è dato impazzire più volte e in vario modo, restando razionalmente in scena negli intervalli fra un’esplosione di demenza e l’altra. Lancillotto nello quando tutti scappano è da dementi’]. Su questa antiretorica dell’eroismo, intesa per altro come matrice umanistica del Furioso, cfr. le importanti pagine di G. Savarese, Il Furioso e la cultura del Rinascimento, cit., sopr. pp. 39-52, che mette opportunamente in evidenza, di contro, nell’episodio ariostesco di Cloridano e Medoro, il senso realistico e la prudenza che l’autore conferisce ai comportamenti di Cloridano di fronte al rischio mortale che le soverchianti forze cristiane fanno incombere sulla sua vita e su quella di Medoro (Orlando furioso, XVIII, 189). 46 La canzone di Orlando, cit., CCXC, v. 4000 [‘Dio – dice il re – com’è penosa la mia vita!’]. 47 Il cavaliere che a un certo punto del cammino, di solito a un trivio o a un quadrivio, decide di staccarsi da chi gli cavalcava a fianco per proseguire in solitudine è un topos ben documentato da P. Rajna (Le fonti, cit., p. 313). 48 Quanti sono i generi dell’Orlando furioso?, si chiede da ultimo G. Sangirardi già nel titolo del suo contributo ariostesco in «Allegoria» (59 (2009), pp. 42-55), partendo dal recupero della tipologia ‘storica’ «libri di bataglia», che ha suggerito il titolo ad un convegno assai recente (Boiardo, Ariosto e i libri di battaglia, Atti del Conv. di Scandiano, Reggio Emilia e Bologna [3-6 ott. 2005], a cura di A. Canova e P. Vecchi Galli, Novara, Interlinea, 2007, nei quali cfr. in part. il contributo di A. Nuovo, I libri di battaglia: commercio e circolazione tra Quattro e Cinquecento, pp. 341- 359), e optando per la lettura di un Ariosto refrattario a ogni «legislazione» e tuttavia incline ad un riconoscibile «formato» (termine che intende imparentarsi con il concetto di «Generic Repertoire» che A. Fowler usa nel suo Kind of Literature. An introduction to the Theory of Genres and Modes, Harvard University Press, Cambridge (Ms), 1982) del libro di «arme e amori», ma instaurando con la sua tradizione seriale (a cominciare da Boiardo) «una logica ambigua, che al tempo stesso abolisce e ricalca la logica generica» (p. 53): che in sostanza corrode «dall’interno» gli elementi di ‘convenzione’ del serial cavalleresco. [ 17 ] 228 RAFFAELE GIRARDI Chevalier de la Charette impazzisce almeno 4 volte. Solo l’ultima è legata propriamente all’amore. Nel Furioso, in realtà, gli ingredienti della pazzia di Olando, come fece vedere Pio Rajna, sono in larga parte ereditati da un vasto repertorio della tradizione cavalleresca49: un’eredità romanza del resto è anche il tema della gelosia come movente genetico dell’intera vicenda. In Orlando, a rigore, è un immedicabile senso della perdita, puro come suggeriva uno dei suoi archetipi, Tristan50, a imporsi nettamente sulla gelosia vera e propria51. A me sembra in sostanza che rischi di creare qualche equivoco l’enfatizzazione della gelosia come sentimento dominante in Orlando o addirittura come molla della rappresentazione ariostesca della pazzia: una chiave interpretativa che è presente in recenti proposte di lettura52. Altro problema è insomma quello delle proiezioni e della latenza della gelosia, ovvero la sua disseminazione, nei vari personaggi. La gelosia resta in effetti un oggetto patologico lungo tutto l’itinerario narrativo del Furioso, riaffiorando di continuo come una specie di corrente carsica in svariate e decisive occasioni (tutte notissime) 49 Cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 393-408. Ma sul «cerimoniale» dell’impazzimento del cavaliere, sono fondamentali anche gli spunti di C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, p. 91. 50 In uno degli epiloghi più lapidari e insieme più struggenti della letteratura di tutti i tempi com’è quello del Tristan di Thomas, ancor più puro forse, non contaminato cioè da altri ingredienti narrativi, il sentimento della perdita, è bene ricordarlo, invade Isotta la bionda, nipote e moglie del re Marco di Cornovaglia: una pulsione di morte intimamente legata ad un’immmagine ‘liquida’ dell’autodissoluzione. Ella vede affogare nella pazzia la sua angoscia, sognando il mare, «un dolce letto d’acqua» vagheggiato come luogo della fine. E la fine viene, cogliendola «impietrita, …impazzita dal dolore» alla notizia della morte di Tristano, (Tristano e Isotta, a cura di T. Troncarelli, Milano, Garzanti, 200510, pp. 122-123). Una fenomenologia della circolazione della materia tristaniana in Italia, già delineata in D. Branca, I romanzi italiani di Tristano e la Tavola Ritonda, Firenze, Olschki, 1968, è ora riconsiderata nelle equilibrate e godibili pagine di E. Trevi, La «Tavola Ritonda» e la leggenda di Tristano in Italia, che fa da Introduzione alla sua ed. della Tavola Ritonda, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 9-85. 51 Il tema della perdita (in part. la «perdita primaria» del senno) connesso a quello dell’avventura lunare, mi sembra che concorra con un ruolo centrale all’interpretazione complessiva del Furioso offerta da C. Segre, come mostra il suo saggio Da uno specchio all’altro: la luna e la terra nell’Orlando furioso, in Id., Fuori del mondo, cit. 52 Cfr., per es., il saggio, per altro stimolante, di F. Pool, La pazzia di Orlando e la saggezza di messer Ludovico, «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», IV, 2 (2001), pp. 339-382. [ 18 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 229 della quête. Ma non a caso fra i veri testimoni (ed emblemi) di questa ‘malattia’ in azione c’è il «barbaro» Rodomonte: la Gelosia in persona s’incarica «d’inimicar con Rodomonte il figlio / del re Agrican…» (XVIII, 31, 1-2), che è l’antitesi polemica di un soggetto-autore (e del suo sostituto Orlando) strenuamente e con geniale levità proteso a problematizzare, fuori dai recinti di quella «barbarie», la condizione disperata e tendenzialmente nichilistica dell’eroe di fronte alla natura dilemmatica della vita e dell’Eros (come mostra l’altra maschera ariostesca, Rinaldo, nel sintomatico e per molti versi centrale episodio del cavaliere del Nappo), piuttosto che ad enfatizzare le dinamiche (anche narrativo-romanzesche) della rivalità. Centrale, naturalmente, è l’«infernal peste» della gelosia (XXXI, 4, 5), quando riguarda Rinaldo. Per non dire di Bradamante: dalla sua gelosia prenderà lo spunto un intero filone tragicomico e larmoyant della drammaturgia europea. Nel Furioso insomma essa dilaga, alimentando per altro i due sontuosi exempla novellistici dei cc. XXVIII (Astolfo, Iocondo e Fiammetta) e XLIII (Adonio e Argia). Eppure, «frenesia» o «rabbia» (XXXI, 1, 7) che sia, mai essa è il perno delle considerazioni di Orlando, nemmeno nei momenti più drammatici della scoperta del vero amore di Angelica, nei quali egli, semmai, la ‘oggettiva’ e, diciamo così, la concettualizza, percependola come un rischio nel quale altri, egli sospetta, vorrebbero gettarlo («Poi ritorna in sé alquanto e pensa come / possa esser che non sia la cosa vera: che voglia alcun così infamare il nome / de la sua donna e crede e brama e spera, / o gravar lui d’insoportabil some / tanto di gelosia, che se ne pèra» (XXIII, 114, 1 e 4-6). Non è probabilmente un caso che Ariosto faccia spiccare in un dramma della gelosia così esemplare nella sua barbara oltranza come quello di Rodomonte la triviale reattività di un personaggio che si segnala sulla scena (nell’osteria d’Arli) come netta antitesi rispetto ai contenuti e all’umore comico della splendida novella contigua di Iocondo (c. XXVIII), che il locandiere d’Arli decide di raccontare allo sconsolato ospite: un racconto che non manca di delineare, fra i tanti suoi sovrasensi, non certo quello banale di una presunta misoginia ariostesca (una linea interpretativa comparsa con frequenza nelle letture più superficiali della novella), bensì proprio una spiazzante e finissima parodia del possesso, della mercificazione erotica e della gelosia stessa53. 53 Per questa lettura della novella, mi permetto di rimandare al cap. dal titolo Fiammetta o dell’ingenuità, in R. Girardi, Auctor in fabula. Idee e pratiche del racconto inserito fra ’300 e ’500, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 267-300. Derubricata opportuna- [ 19 ] 230 RAFFAELE GIRARDI Del resto la gelosia, sotto il profilo dell’efficienza diegetica, postula tensione e confronto con l’altro, rivalità, una potenzialità d’infrazione generante il sospetto: tutti elementi che riguardano assai poco Orlando, il quale, destinato invece, di fronte all’assenza perenne dell’oggetto di desiderio, all’infruttuoso dispendio di una pulsione che proprio il differimento e l’eterna distanza dall’oggetto garantiscono nella durata54, è destinato all’unica, devastante scoperta di una realtà che ha assorbito, bruciato l’oggetto, senza che più la cosa lo riguardi: egli non ha nemmeno il tempo per ingelosirsi prima d’impazzire e prima di mostrarci uno stupore affatto speciale, un annichilimento che è tutto ariostesco. Oltre tutto, quando l’insorgere della follia, tragico epicentro di un più largo sisma, già produce l’avvio di quello straordinario turbine retorico-diegetico che è l’erranza demente di Orlando, nel mezzo esatto del cammino poematico (nell’epicentro del senso complessivo prima ancora che della geometria romanzesca: «Folly» davvero come «an all-pervading element in the poem»55), la presenza dell’altro, dello straniero d’altra fede (l’«africano» Medoro), e il suo destino indiano sono già materia narrativa ‘riferita’, ellittica, di un altrove irrelato, che, si dirà più avanti del tutto incidentalmente, «forse altri canterà con miglior plettro» (XXX, 16, 8). Anche di questo sentimento della perdita non mancano riscontri nella tradizione cavalleresca: segnatamente, ancora una volta, nel territorio tristaniano, che resta in generale il più affine al Furioso56. Eppumente la vocazione misogina dal catalogo dei sentimenti ariosteschi affioranti dal Furioso, è da tempo che appare assai più utile precisare la particolare, non dogmatica mobilità e, direi, la coerente dialetticità dell’atteggiamento di Ariosto verso il mondo femminile, il quale è da leggere, credo, come una delle testimonianze più lungimiranti e moderne che la cultura letteraria italiana potesse offrire all’europea querelle des femmes. Va in questa direzione, a me sembra, R. Bruscagli nel suo cap. ariostesco per il vol. II (Umanesimo e Rinascimento) della storia letteraria da lui firmata insieme a G. Tellini, V. Corsano, L. Denarosi e S. Fiaschi, Itinerari dell’invenzione, Firenze, Sansoni per la Scuola, 2002, sopr. p. 233; ma per la più ampia indagine di Bruscagli su Ariosto, cfr. i capp. I-IV dei suoi Studi cavallereschi, Firenze, Società Ed. Fiorentina, 2003. 54 Sulla «distanza», sul differimento e sul valore fondativo della perdita, cfr. E. Saccone, Il «soggetto» del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, cit., sopr. pp. 226-227. 55 Cfr. E. Grassi e M. Lorch, Folly and Insanity in Renaissance Literature, Binghamton- New York, Medieval and Renaissance texts and studies, 1980, p. 92. 56 Sulla particolare importanza del Tristan nella memoria romanza di Ariosto e in part. sulla sua presenza nell’elaborazione del profilo emotivo-sentimentale di Orlando pazzo, insiste Rajna (Le fonti, cit., in part. pp. 397 e sgg). [ 20 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 231 re, il dialogo che attraverso la memoria testuale Ariosto apre col modello tristaniano conosce uno scarto e una distanza etico-psicologica che è ingiusto ignorare. La gelosia di Tristano, ad esempio, nella Tavola ritonda, a differenza di Orlando, conosce un’iracondia manesca, che porta allo scontro diretto col rivale e al tentativo di ferirlo con un coltello (ed. cit., LXX, p. 375). Verrebbe da pensare ancora una volta, per contrasto, alla commovente delicatezza e alla pena con cui il mite Iocondo vive la scoperta dell’adulterio consumato da sua moglie (XXVIII, 21-23). E Iocondo il rivale se lo trova nel suo letto! È che proprio al dramma della gelosia fa da controcanto e antidoto, nella suadente parentesi dell’osteria d’Arli – locanda eminentemente ‘letteraria’, secondo un topos che culmina nello straordinario reimpiego del Qujiote di Cervantes57-, la pratica del narrare gratuito e ‘inserito’: un terapeutico ‘novellare’ sul tema, che scioglie, fluidifica nel sostrato comico dei racconti ogni motivo di collisione astrattamente ideologica e di venalità vetero-cavalleresca, riconducendolo genialmente (quanto al tema conflittuale del rapporto fra i sessi) alla misura sdrammatizzante e umanissima di una vicissitudine sempre aperta e di segno doppio. E già basterebbe, credo, senza scomodare le mille occasioni offerte dal Furioso a sostegno di un’etica dell’alterità tollerante (il cavaliere del Nappo), per rimarcare, non solo rispetto ai contenuti della Tavola Ritonda ma a tutta la tradizione tristaniana, un diverso clima umorale e tutt’altra direzione conoscitiva e coscienziale della quête ariostesca. È che la passione della perdita, incarnata in Orlando demente, configura una diversa stratificazione simbolica, un composito addensamento di senso, più esplicitamente destinato, di là dalla logica del puro ‘consumo’ per il diletto del pubblico di corte, a costruire, attraverso la sua forma specifica (una costruzione ad alto potenziale ‘onirico’), una metafora generale dell’esistenza. Una metafora-sogno, dunque, destinata a configurare nelle inquietanti «frenesie» di Orlando, ossia nella rapida metamorfosi di un eroe cortese rovinosamente avvolto (con l’imbestiamento) nella pulsione di morte, una vicissitudine anamorfica dell’essere58: un processo che 57 Sul topos della locanda letteraria e sul segno laico e modernamente contenzioso delle novelle ariostesche inserite, rinvio a R. Girardi, Auctor in fabula, cit., sopr. pp. 60-69 e 157-300. 58 Di «strutturazione anamorfica delle manie, malinconie e frenesie», in rapporto alle rappresentazioni simboliche che del reale offre la malattia mentale, parla J. Baltrušaitis, Anamorfosi, cit., p. 248. [ 21 ] 232 RAFFAELE GIRARDI investe la sostanza vitale del cavaliere. È, sotto il profilo extradiegetico, dal punto di vista dell’occhio che si guarda e così si rappresenta, una marca d’autocoscienza capace di segnalare in emblema la scena perturbante di un disordine costitutivo: un’etica dell’incertezza che a suo modo chiude il cerchio di una percezione intera del mondo e delle sue lacerazioni. A dominare la scena, durante l’erranza di Orlando demente, erano rimaste dunque solo le «incredibil prove» della follia: un dominio paradossale e tragico, segnato da una platealità che deve suggerire gli effetti di un’ira ignota, sui generis, una prolungata e iperbolica diablerie, anomala anch’essa, penetrata nel corpo di un «pazzo» speciale, un pazzo di diverso conio rispetto al modello ‘popolare’, contro il quale nessun «villanesco assalto» (XXIV, 8, 8), come si sa, vale come difesa. Nel bestiale e distruttivo cimento con la folla incredula, nella piazza, nella contrada, l’eroe è additato ormai, ripetutamente, come «il pazzo », (XXIV, 5, 1; 5, 5; 6, 7; 8, 8). Quella contrada ‘romanza’ che conosce, in linea questa volta con il rituale medievale, l’insolenza e l’aggressività plebea contro il cavaliere demente (nel Tristan e nel Lancelot)59, nella scena ariostesca non vede mai Orlando in balia della folla, per il gioco di strada. Non può: la notizia della sua pazzia nella comunità non reca bonarietà ma terrore; un’invisibile aura tiene distante Orlando dal volgare ludibrio del contado, così come la sua violenza inaudita e bestiale, paradossale contrassegno della sua grandezza, mette un diaframma, una cortina, fra il corpo ‘nobile’ del pazzo e l’«empia turba » armata di «spuntoni et archi e spiedi e frombe» che si raccoglie al suono di «corni» e «rusticane trombe» (XXIV, 8-9) per neutralizzarlo. Una ‘distanza’ dunque e, si dica pure, un’‘aristocraticità’60, questa del cavaliere pazzo, che lascia i suoi contrassegni finanche sulla più sanguinosa e gratuita delle prove di forza ch’egli potesse offrire. Sotto il segno, ancora una volta, di una desmesure ironica, che coinvolge lo spazio dell’erranza (nella nevrosi surreale del movimento a zigzag: «Di qua, di là, di su, di giù discorre / per tutta Francia…»: XXIV, 14, 59 Per il tema dell’irrisione e della violenza popolare ai danni del cavaliere demente, cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 403-404. Come rielaborazione letteraria di una pratica rituale tipica del basso medioevo, consistente nell’inseguimento in corsa simulata (e magari ludica, bonaria) e nell’espulsione a colpi di verga dei pazzi, esso è oggetto della lucida analisi offerta da M. Foucault nella sua Storia della follia, cit., pp. 22-24. 60 Cfr. M. Mancini, I «cavalieri antiqui»: paradigmi dell’aristocratico nel «Furioso», «Intersezioni», a. VIII (1988), 3, pp. 423-454. [ 22 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 233 1-2) e il tempo della mutazione per famelico imbestiamento, a ricalco di due altre metamorfosi, quella di Yvain nel Chevalier au lion e quella del più familiare Tristano61 («E quindi errando per tutto il paese / dava la caccia agli uomini e a le fiere/…/ Spesso con orsi e con cinghiai contese, / e con man nude li pose a giacere: / e di lor carne con tutta la spoglia / più volte il ventre empì con fiera voglia»: 13, 1-2, 5-8). 6. E veniamo alla scena del ricordo «guasto e rotto» di Orlando (XXIX, 61, 6), che emblematizza nelle forme più alte e drammatiche la «ruina» dell’eroe e del suo mondo. Da quel ricordo e dal suo contesto – l’incontro fra l’eroe ormai demente e l’inconsapevole Angelica – è bene che parta il nostro discorso. Non tutte le mille «cose stupende» (XXIX, 57, 1) del folle paladino l’autore promette di narrare, ma solo quelle «all’istoria […] oportune» (XXIX, 50, 6). Su una spiaggia di Tarragona, sotto i raggi di un sole cocente, un tristo individuo dalla «carne arsiccia» come quella di un africano, mezzo uomo e mezzo animale, completamente nudo – un altro Nessuno, sostituto dell’irriconoscibile (e nudo) Ulisse che atterrisce, al suo apparire, le fanciulle nella terra dei Feaci (Odissea, VI, 135-138)62 – cerca riparo nella sabbia arida. Gli passa accanto, quasi sfiorandolo, Angelica, accompagnata da Medoro: «Che fosse Orlando, nulla le soviene /troppo è diverso da quel ch’esser suole» (XXIX, 59, 1-2). La prefigurazione di morte che quell’immagine offre allo sguardo di Angelica, recuperando dalla memoria arturiana il nero «livido e magro» del folle Tristano disegnato nella Tavola ritonda (LXX), segnala l’acme del percorso anamorfico. «Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa, / la faccia macra, e come un osso asciutta, / la chioma rabuffata, orrida e mesta, / la barba folta, spaventosa e brutta» (60, 1-4): è un ritratto, questo offerto all’inconsapevole Angelica, che configura un rovesciamento di visione63. 61 Cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 396 e 400; e il commento di C. Segre al Furioso, XXIV, 13, 7, nell’ed. a sua cura (Milano-Napoli, Ricciardi, 1954). 62 Il protagonismo dell’Odisseo di Omero ha, sotto il profilo antropologico, una straordinaria valenza di archetipo, in molti suoi passaggi, per il racconto ariostesco: un precedente d’indubbia esemplarità per Orlando è di certo l’itinerario di Odisseo-Nessuno, che dopo una fase di «riduzione, tramite il mare, al nulla, alla condizione bruta», si dispone, dopo l’esperienza dell’isola dei Feaci, ad una «faticosa riconquista della propria identità» (P. Boitani, I mari di Ulisse, in La letteratura del mare, Atti del Conv. di Napoli (13-16 sett. 2004), Roma, Salerno Ed., 2006, pp. 453-469: p. 454). 63 Per i riscontri romanzi di questo ritratto degradato e in part. per le connessioni con il Lancelot du lac, cfr. P. Rajna, Le fonti, cit., pp. 395-396. [ 23 ] 234 RAFFAELE GIRARDI Egli ricorderebbe pure nelle sue degradate fattezze il Fileno di Boccaccio64, se la sorte, diversamente da ciò che accade all’imprecante e meditativo amante boccaccesco, non gli avesse tolto anche il bene della parola: le poche cose che, in attesa del suo rinsavimento, Orlando è in grado di dire sono del tutto prive di senso. E la sua è già una figura «di fera più che d’uomo» (XXIX, 45, 8): uno speciale tipo di Satiro, secondo la memoria dei bestiari medievali, per enfatizzazione della «gran laidura» normalmente attribuita, sulla base delle Scritture, ad una creatura vivente «in abominatione di peccato»65. E anche un po’ una rielaborazione, nella sua quasi biologica doppiezza di uomo/bestia, del mitico Minotauro, che nella memoria dantesca di Ariosto poteva ben riaffiorare sulla base alquanto oscura e unheimlische di Inferno, XII, dove Virgilio dice a Dante: «…Tu pensi /forse a questa ruina, ch’è guardata / da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi» (vv. 31-33), riferendosi appunto, allegoricamente, all’ambiguo Minotauro, che era apparso loro sulla sommità di un avvallamento nel cerchio dei violenti e che all’improvviso plasticamente «’nfuria» sulla scena, dinanzi al poeta e alla sua guida (v. 27); o sulla base del precedente di Inferno, XI, 82-83, correlato, che nuovamente alludeva, oscuramente per i lettori, alla «matta bestialitade» in cui incorse una parte delle anime qui punite e controllate a vista dal «bestiale» Minotauro66. 64 G. Boccaccio, Filocolo, a cura di M. Marti, Milano, Rizzoli, 1969: III, 36, p. 372. 65 Un riferimento di questo genere alle perversioni del Satiro è per es. in una lirica dell’anonimo Bestiario moralizzato: «Satiro, como dice la scritura, / ad omo e ad animalia resomiglia //[…] // Simiglia d’omo per creatïone, / de bestia, kè vive malamente / in abomintione de peccato; // rado se piglia per confessïone / del peccato o’ sta sciordinatamente; e per la barba a beccho è semeliato» (Bestiario moralizzato, XIII («Del satiro»), in Bestiari medievali, a cura di L. Morini, 1996, p. 499). 66 «Questo adiettivo “matta” – commenta Boccaccio – pose qui l’autore più in servigio della rima che per bisogno che n’avesse la bestialità, per ciò che bestialità e mattezza si possono dire essere una medesima cosa» (Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. Padoan, in G. Boccaccio, Tutte le opere, vol. VI, Milano, Mondadori, 1965: canto XI, 28). Da qui il lineare scioglimento dell’allegorema ‘Minotauro’/ «ira bestial», che designerebbe «il vizio della matta bestialità generato nell’uomo, in quanto ha ricevuto il malvagio seme degli appetiti, e della bestia, in quanto si è lasciato tirare all’appetito bestiale ne’ peccati bestiali. I costumi di questa bestia, per quello che nella favola e nella littera si comprenda, sono tre, per ciò che, secondo i poeti scrivono, esso fu crudelissimo e, oltre a ciò, fu divoratore di corpi umani e, appresso, fu meravigliosamente furioso» (ivi, Canto XII. Esp. Allegorica, 5-6), Si vedano, per l’ambiguo passaggio di If. XI, 82-83, le utili Note integrative di A.M. Chiavacci Leonardi, pp. 352-353. [ 24 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 235 Ma la sostanza e il linguaggio dell’interlocuzione evidentemente avviata da Ariosto con i testimoni della tradizione cristiana medievale sono naturalmente di marca più complessa e umanamente problematica: una marca che si sottrae alla logica dei confini netti, presente con costanza in queste allegoriche bipartizioni fra le due triadi categoriali Bestialità/Pazzia/Peccato e Umanità/Ragione/Virtù. La trasformazione animalesca, raffigurata un po’ a ricalco di quell’altra «beste forsenée» che anche diventa Tristano67, è ora, con la «regressione» al primitivo (la nudità di Orlando)68, l’elemento su cui s’incardina la beluina pulsione di desiderio che prende il cavaliere demente («Come di lei s’accorse Orlando stolto, / per ritenerla si levò di botto: / così gli piacque il delicato volto, così ne venne immantinente giotto. /[…]/ Gli corre dietro, e tien quella maniera /che terria il cane a seguitar la fera»: XXIX, 61, 1-4 e 7-8) in preda ad una totale amnesia, alla vista di quella occasionale e «giotta» preda: preda indifferente, anonima, da aggredire furiosamente, in conseguenza appunto del fatto che «d’averla amata e riverita molto / ogni ricordo era in lui guasto e rotto» (XXIX, 61, 5-6)69. «Quello che è guasto meritamente si chiama rotto e diviso» aveva detto Marsilio Ficino nel suo rifacimento del Convito platonico, parlando del «guasto», della ‘scissione’ che nuovamente si produce fra «Lume divino» e «Lume naturale» – una replica della scissione originaria ricordata da Platone – quando la ragione umana si spinge velleitariamente ad un eccesso di fiducia in se stessa. Il «guasto» in questo 67 Per questo luogo del Tristan, cfr. P. Rajna (p. 399), il quale insiste nel convalidare quell’archetipo come base, «punto di partenza», dell’operazione ariostesca, offrendo numerosi riscontri (pp. 400-401). Ma nel congegno narrativo del modello tristaniano la verità è provvisoriamente oscurata dall’equivoco, che ingenera gelosia: una condizione che si può rimuovere. Tristano infatti nella Tavola ritonda potrà essere curato e guarire: è nella stessa società cortese il solidale rimedio e il risanamento (la degenza a corte e le amorevoli cure di Isotta: LXXII): è qui il punto di massima frizione rispetto alla diversa logica e anche ai diversi esiti della malattia ariostesca. 68 In questa fase della «regressione» di Orlando G. Resta (Ariosto e i suoi personaggi, «Rivista di Psicoanalisi», a. III (1957), 1, pp. 59-83, in part. p. 149) vide l’emergenza di un trauma infantile di Ariosto. L’interesse per questo saggio, venuto da un ambito estraneo alla critica letteraria, valse il suo inserimento in una versione parziale, col titolo Il sogno di Orlando, nella fortunata silloge I metodi attuali della critica in Italia, a cura di M. Corti e C. Segre, Torino, Eri/Edd. Rai Radiotelevisione italiana, 1970, pp. 144-153. 69 Un puntuale riscontro testuale è qui possibile col Tristano della Tavola ritonda, LXX, p. 377. [ 25 ] 236 RAFFAELE GIRARDI caso penetra nello stesso «Lume naturale», producendo un’ulteriore ‘divisione’70, ossia il «guasto» della stessa ragione umana. Il «guasto», la divisione, la nuova ‘segatura’ dell’essere, della quale l’eroe, si era mostrato conscio negli ultimi momenti di lucidità (e allora, come se si stesse guardando in uno specchio, aveva detto: «Non son, non son io quel che paio in viso: / quel ch’era Orlando è morto et è sotterra; /[…]/ io son lo spirto suo da lui diviso»: XXIII, 128, 1-2 e 5)71, coinvolge ora il ricordo di Orlando, ma nel corpo del ricordo si aggruma metonimicamente un intero vissuto: il suo mondo, la sfera delle aspettative, dei desideri e delle relazioni umane. «Contrafatta e strana», come per effetto di uno specchio concavo, era apparsa anche agli occhi di Fiordelisa, nell’Orlando innamorato, la «sozza figura» del Selvatico72, che all’improvviso le era apparso davanti in una foresta. «Contrafatto», si ricordi, sarà anche, davanti allo strano specchio, il volto dell’aretiniano Messer Maco. Boiardo con mano più veloce diluisce la valenza drammatica dell’incontro con questa singolare specie di satiro, inserendo l’episodio in una serie ripetitiva di variazioni sul tema del desiderio ’imbestiato’. L’incontro fra Orlando pazzo e Angelica, che di quel materiale boiardesco di certo ha memoria, è invece il punto di massima concentrazione del disegno ana- 70 «Costoro [scil.: Protagora, gli epicurei, gli stoici, i «cirenaici» e «altri molti»] come empii, non solamente non racquistarono il Lume divino da principio disprezzato, ma eziandio il naturale, male usando, guastarono. Quello, che è guasto meritamente si chiama rotto e diviso: e però gli animi loro, i quali, come superbi nelle forze loro si confidano, sono segati di nuovo, come disse Aristofane» (M. Ficino, Sopra lo amore, a cura e con uno scritto di G. Renzi, Milano, SE, 1998, p. 64). 71 In questo ricalco petrarchesco (RVF, CCXCII, 2-3), che replica uno spunto già presente in XII, 14, 8, una volta tanto non si vede l’ombra della parodia ma la feconda ripresa dell’idea di una scissione dell’essere. 72 Nei seriali tentativi di stupro subiti dall’atterrita Fiordelisa, primeggia, per un confronto che di certo si attua nella memoria letteraria di Ariosto, l’episodio del Selvatico, fra i più utili, come precedente, per il Furioso, così rapidamente tratteggiato da Boiardo: «Nascostamente [scil.: Fiordelisa] prese a caminare, / e già callato avendo il monte al piano / ritrovò uno omo contrafatto e strano. // Questo era grande e quasi era gigante, / con lunga barba e gran capigliatura, / tutto peloso dal capo alle piante: / non fu mai viso più sozza figura. / Per scudo una gran scorza avia davante, / e una mazza ponderosa e dura; / non avea voce de omo né intelletto: Selvatico era tutto il maledetto. // Come la dama riscontrò nel prato, / presela in braccio; e, caminando forte, / ad una quercia ch’era lì da lato, / la legò stretta con rame ritorte. / Poi là vicino a l’erba fu colcato, / mirando lei, che ognior chiedea la morte; / lei chiedendo morir sempre piangea, / ma questo omo bestial non la intendea» (Orlando Innamorato, a cura di R. Bruscagli, Torino, Einaudi, 1995: I, 22, 6-8). [ 26 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 237 morfico, qui imperniato sugli esiti inquietanti della «prospettiva perversa »: l’insania «trasfigurante», ossia l’assoluta irriconoscibilità dell’eroe agli occhi di Angelica, ignara delle circostanze traumatiche che in rapida successione hanno travolto il suo infelice amante. Essa non è in grado di vedere in quella larva umana che è ormai Orlando l’immagine originaria: il processo inverso, il disvelamento dell’oggetto, è di là da venire e non la riguarderà più. è una perdita definitiva. Siamo dunque al punto di massimo risalto del legame genetico e funzionale che intercorre fra la natura di sogno della rappresentazione ariostesca e la sua configurazione anamorfica: l’aberrazione ‘prospettica’, che rende irriconoscibile l’immagine, e per essa il Valore, proietta nella scrittura, nel linguaggio, attraverso la raffigurazione della maschera afasica del cavaliere, dell’eroe ormai privo della parola-Verità73, le aberrazioni della mente. I sintomi della malattia di Orlando non sono pochi: tutti li esaminò Giuseppe Resta74, con risultati molto interessanti. Senza dubbio uno dei più plateali Orlando lo esibisce nell’istintivo e fulmineo ammazzamento del cavallo di Medoro (XXIX, 63) e nella cattura della giumenta della terrorizzata Angelica, che aveva intanto guadagnato una fuga disperata, rendendosi invisibile grazie all’anello magico. Egli agguanta la povera giumenta e la cavalca, emblematizzando il senso di patetica, morbosa supplenza che essa è chiamata ad evocare nel conguaglio dell’eros con il furor come patologico sostituto, che la scrittura non manca di esplicitare: Con quella festa il paladin la piglia, ch’un altro avrebbe fatto una donzella: la rassetta le redine e la briglia, e spicca un salto et entra ne la sella; e correndo la caccia molte miglia, senza riposo, in questa parte e in quella: mai non le leva né sella né freno, né le lascia gustare erba né fieno75. 73 A proposito del ‘riannuncio’ (del riconferimento) della Parola e del superamento dell’’errore’ anamorfico (una restitutio riservata, con modalità affatto speciali, anche ad Orlando), è interessante in Baltrušaitis una citazione da Thomas Jefferson, che enfatizza in senso evangelico il potere salvifico del ‘restituire’ con l’azione di Gesù la Parola di Dio attraverso la ‘cancellazione’ degli «smarrimenti anamorfici» cui è sottoposta la Divinità (pp. 137-138). 74 Cfr. G. Resta, Ariosto, cit., passim. 75 XXIX, 68. [ 27 ] 238 RAFFAELE GIRARDI Ma nell’allusività perfino puntigliosa della «festa» fatta da Orlando all’animale c’è solo un preambolo, giocoso e insieme grottesco, di una piccola tragedia in progress, descritta in minuziosi fotogrammi (ottave 69-70), che poi volgono al macabro nel più ultimativo conguaglio di Eros con un segno di morte. Il folle paladino riprende infatti il suo cammino trascinandosi dietro rovinosamente la giumenta ormai sfinita, invalida, alla quale egli rivolge la sua parola insensata («e così la strascina, e la conforta / che lo potrà seguir con maggior agio…»: 71, 1-2): è un delirio che fa affogare nella bruta meccanicità la percezione del reale, anche quella della morte della cavalla, che non scompone il demente. Infatti, «Orlando non la pensa e non la guarda, / e via correndo il suo cammin non tarda. // Di trarla, anco che morta, non rimase, continoando il corso ad occidente» (71, 7-8; 72, 1-2). C’è per questa scena un calco quattrocentesco, non a caso fiorentino e di stampo comico-parodistico: nel Morgante (I, 67-75). Morgante fa scoppiare nello stesso modo un cavallo, inveendo trivialmente, come fa Orlando, contro la sua inefficienza76. Poi, testardo di fronte al diverso consiglio di Orlando, lo porta sulle spalle e lo scarica in una remota macchia (I, 71-75). Il codice comico-parodistico, col recupero che ne fa Ariosto, entra in un gioco di funzioni assai più complesso, vedendosi elevato ad una polisemicità di stampo serio-comico e a una surreale dismisura, ricche al fondo di una sostanza drammatica ovviamente estranea al modello pulciano. Anche il folle baratto che Orlando propone ad un pastore, perché ceda, «con qualche aggiunta», in cambio della sua cavalla (insignificante ma viva), l’impagabile «giumenta » di Angelica, che altro difetto non ha se non quello di essere già morta (XXX, 5-6), è desmesure amaramente umoristica, un delirio che si direbbe di marca modernamente pirandelliana. La giumenta dunque è di certo un sostituto di Angelica77. Grazie al processo d’immedesimazione, che a prima vista stupisce, Ariosto attribuisce ad Orlando una smania di distruzione che ora investe l’universo- donna. Ma la decodifica e il correttivo, in sede extradiegetica, 76 «Lieva su, rozzone…» (I, 68, 7). E cfr. Orl. Fur. XXIX, 70, 4. 77 C’è concordanza su questo dopo il saggio di G. Resta, Ariosto, cit., p. 65, poi ripreso da G. Della Palma, Una cifra per la pazzia di Orlando, «Strumenti critici», IX (1975), pp. 367-379. Inequivocabile, del resto, l’indicazione dell’autore a commento dell’intera parentesi della furia cieca e demente di Orlando, susseguente alla morte della giumenta: «Avrebbe [scil.: Orlando] così fatto, o poco manco, / alla sua donna, se non s’ascondea; / perché non discernea il nero dal bianco, / e di giovar, nocendo, si credea» (XXIX, 73, 1-4). [ 28 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 239 sono immediati. In apertura del canto XXX, l’autore chiarisce: il «cieco furor» è abbandono di ragione, «infermità», amnesia, a causa della quale il cavaliere demente «non discernea il nero dal bianco»78 la stessa dell’autore-innamorato, della quale egli si scusa: ne porta la colpa la sua donna, quella storica. È la stupefacente e geniale riduzione di un intero percorso simbolico della degenerazione mentale dai territori della distinzione ‘allegorica’ della tradizione cristiano-medievale allo spazio semplice e umanissimo della vita di un cortigiano schivo, innamorato e frustrato. 7. Vale a dire che la straordinaria valenza simbolica di quel percorso resta, ma che le chiavi ermeneutiche capaci di coglierne a pieno la sfuggente polisemicità è bene cercarle dentro quella stratificazione di senso, nel linguaggio che ne media il geniale processo di sublimazione/ affabulazione. Si parta pure da quell’essenziale (ancorché lontano) preludio al tema della «sfrenatura»79, dell’imbestiamento e dell’alienazione, offerto dal sogno di Orlando (c. VIII). Per via di atopie, di acronie e di condensazione, a quella veloce parentesi onirica della «doglia» orlandiana spetta già una funzione vicaria, ossia il preannuncio della grande disfatta erotico-sentimentale, se non addirittura, come anche si è detto, la designazione dell’‘argomento’ dell’intero poema80: avvertenza per un percorso (anche linguisticamente e stilisticamente) più complesso all’interno di un tempo ‘simultaneo’ dell’immaginario cavalleresco. È preludio consentaneo alla natura più profonda di «un libro» che nel suo complesso, dice bene Corrado Bologna, è «strutturato e 78 Sulla funzionalità narrativa e psicologica dell’amnesia di Orlando, vista come espediente destinato a neutralizzare il senso di colpa, cfr. ancora G. Resta, Ariosto, cit., pp. 64 e sgg. 79 «Sfrenatura» è, nella macchina figurale del Furioso, un’immagine stratificata, tipica di Ariosto, dotata per noi del pregio di collegare in maniera assai stretta e suggestiva stile e struttura discorsiva, metafore ‘equine’ e dinamiche simboliche dell’‘erranza’, come fa A. Bartlett Giamatti (Sfrenatura: Restraint and Release in ihe Orlando furioso, in Ariosto 1974 in America, Atti del Congr. Ariostesco – Dic. 1974, Casa Italiana della Columbia Un., a cura di A. Scaglione, Ravenna, Longo, 1976, pp. 31-39), che identifica la dialettica del «restraint» e del «release» all’alterna vicissitudine del «collected» e del «disperded self» ariostesco. 80 Cfr. S. Longhi, Orlando insonniato. Il sogno e la poesia cavalleresca, Milano, Franco Angeli, 1990, passim. Analoga la valutazione di G. Resta (Ariosto, cit., p. 76), per il quale il sogno di Orlando è addirittura la «forma ridotta» di motivi destinati ad una serie infinita di variazioni. [ 29 ] 240 RAFFAELE GIRARDI narrato come un sogno»81. Vorrei aggiungere: con la stessa liquidità diegetica di una stupefacente, interminabile fiaba, che utilizzando i demotici calchi della grande tradizione orientale (segnatamente quelli delle Mille e una notte)82, col sogno condivide la speciale rappresentazione del tempo ‘simultaneo’. È una fine similitudine, suggerita da Virgilio per significare il «veloce pensier» di Orlando («qual d’acqua chiara il tremolante lume, / dal sol percossa o da notturni rai»)83, ad aprire nel canto VIII la parentesi dell’eroe «insonniato», preso nel turbine della «gran doglia» per la sparizione di Angelica. Il «veloce pensier» già vaga insomma fra congetture e paure ‘liquide’ (mentre appunto Angelica, nel tempo ‘simultaneo’ della sua avventura marina, è già alle prese con l’acqua e lo scoglio che la espone all’Orca), quando, nella breve apparizione in sogno della giovane regina del Catai, risuonano come un’eco distorta le parole pronunciate in un altro sogno: quelle «angeliche» della Laura petrarchesca (Rvf, 250)84, qui commutate in oscuro e «orribil grido»: «Non sperar più gioirne in terra mai» (VIII, 83, 7). Nelle avvisaglie dell’umor malinconico, offerte dall’immagine di Orlando che al risveglio, in «ornamento nero», torna a sfidare il buio profondo della notte nella foresta per cercare Angelica, già si vede che il modesto apporto tecnico e formale della memoria ‘romanza’ è oscurato da un più corposo e calcolatissimo affondo nel paesaggio melanconico della «nox» virgiliana di Enea (ancora dunque sulla scia del81 «Come un sogno – egli aggiunge – si struttura mediante tempi (diegetici ed extradiegetici) accavallati, inclusi l’uno nell’altro, anche contraddittori, giacché il suo tempo è un non-tempo, risultante dalla fusione di realtà-mito-utopia; e mediante piani spaziali incentrati su perni multipli, organizzati dalla pluralità prospettica […]. Come un sogno il Furioso si dipana, si allarga, tendendo all’infinito, con velocità vicina alla simultaneità, connettendo spazi, tempi, rapporti, personaggi, racconti incongrui, sulla base di assonanze e consonanze, di affinità armoniche, di giochi anagrammatici, di implicazioni foniche transustanziate in collegamenti semantici nella scelta delle rime (specie di quelle tecniche, impiegate con razionale e sofisticata strategia) e dei rimanti» (C. Bologna, La macchina del «Furioso», cit., p. 122). 82 Il discorso critico moderno sull’importanza e sulla concreta incidenza testuale del repertorio delle Mille e una notte in Ariosto partì da P. Rajna (Le fonti, cit., pp. 436 e sgg.). Per le successive acquisizioni critiche e in particolare per i rapporti tematici e strutturali che legano quel repertorio all’originale macchina delle inserzioni novellistiche del Furioso, cfr. R. Girardi, Auctor in fabula, cit., sopr. pp. 168- 169 e pp. 271-284. 83 VIII, 71, 5-6; e cfr. Eneide, VIII, 20-25 84 «I’ non tel potei dir, allor, né volli; / or tel dico per cosa experta et vera: / non sperar di vedermi in terra mai» (Rvf, 250, 12-14). [ 30 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 241 l’eroe «turbato» e meditabondo di En., VIII, 18-25), con la quale genialmente si fonde, all’altezza delle premesse al sogno angoscioso (VIII, 79), con mirabile simmetria, l’altra suggestione notturna e melanconica, quella colta nel territorio mentale dell’angosciata Didone in uno dei momenti più tempestosi e dilemmatici della sua triste vicenda d’amore (En. IV, 522-532). Ma è ancora una volta un allegorema di marca ‘equina’ («Lo strano corso che tenne il cavallo…»: XXIII, 100, 1) l’elemento dinamico che semina lo spazio dell’«erranza» orlandiana di segni indiziari, di occasioni allusive, orientate a moltiplicare le «strane vie» della quête con l’impronta sovvertitrice di una sottile, inafferrabile dialettica fra sapere e destino, certezza e buio: con uno scarto essenziale rispetto alla tradizione romanza. Si ricordi, a proposito dello «strano corso» seguito dal cavallo di Mandricardo e del suo alludere alla ben più tragica meta che il Caso impone al suo adombrato inseguitore, che nel Lancelot ou le chevalier de la charette, anche quando il cavaliere, dopo l’impazzimento per amore, è perso nelle sue fantasticherie, è il suo cavallo che non prende «strade tortuose»: per un destino provvidenziale che ancora agisce sulla vita ‘cortese’, esso bada a portare l’eroe «per la via migliore e più diritta»85. Il «bosco senza via», che obbliga allo «strano corso», è già il teatro di una verifica, la «selva» già invariabilmente «ria», «oscura» o «nera », spazio fantastico di un umor melanconico ripetutamente dispiegato a declinare la geografia reticolare di mille «strane vie», richiamanti i «caecos aditus» aperti verso la «nigra silva» del Tartaro al senechiano Ercole (Hercules furens, 835-836), l’eroe sommo privato del senno per volere divino (il volere di Giunone, furente di gelosia) e poi rinsavito. Sono sentieri che conducono invariabilmente all’«errore»: nel reiterato «uscir di via» (II, 68, 3-4), è il sapere di Orlando ad essere subito messo alla prova di fronte alle perverse determinazioni del Caso. Il quale vuole che il grande eroe, padrone di tante lingue, si misuri con gli esiti perversi del suo stesso potere di conoscere e interpretare il mondo. Il sapere, anche quello di Orlando, non porta alla felicità: è l’eterna frustrazione riservata, secondo Cornelio Agrippa, ad ogni smania di conoscenza86. Anzi, per un oltranzistico paradosso, qui in 85 Lancelot ou le chevalier de la charette, a cura di G. Agrati, Milano, Mondadori, p. 14. 86 Agrippa ne parla nella prefazione al suo De incertitudine et vanitate scientiarum cit. Sull’argomento, cfr. J. Baltrušaitis, Anamorfosi, cit., pp. 114-115. [ 31 ] 242 RAFFAELE GIRARDI perfetta consonanza con Erasmo, il troppo sapere porta Orlando sul sentiero fatale della rovina. In fondo al sentiero lo attende la Follia. Nella costellazione semantica del Furioso, le variazioni sul tema simbolico del «bosco senza via» – uno spazio normalmente riposto, remoto da ogni consorzio umano e magari deputato al consumo di delitti efferati, che è tema connesso a quello dell’«intrico»87 –, si alternano con estrema lucidità e una coerenza non comune. Alla «selva oscura» che avvolge la sfortunata Isabella, in fuga per la paura che la prende di fronte al duello fra Corebo e l’infido Odorico (XIII, 25)88, di certo si associa, ad esempio, per consonanza simbolico-umorale già vistosa, poco più avanti, la cupa scenografia del paesaggio sassoso che accoglie in una «negra selva» d’Arabia gli emblemi della debolezza umana: il Sonno, l’Ozio, la Pigrizia e l’Oblio (XIV, 92-97). E il Silenzio. Esso è consultato dall’angelo Michele (per incarico di Dio), affinché insieme alla Discordia muti a favore di Carlo le sorti della guerra. Spazio particolare, funzionalmente «immenso», in quanto depositario di un alto e affatto peculiare potenziale simbolico, è semmai la selva Calidonia, in virtù del suo accogliere a futura e speciale memoria «li monumenti e li trofei pomposi» (IV, 53, 4) degli eroi «della vecchia / e della nuova Tavola…»: uno spazio dell’avventura miracolosamente destinato a cavalieri «senza scudiero e senza compagnia» in cerca di«strane aventure» (IV, 54, 1 e 4), come quella che impegnerà Rinaldo per il riscatto di Ginevra. La foresta, infine, come figura stessa della pazzia: in forza delle due ottave che scandiscono, al centro esatto del poema (una scelta strutturale della cui importanza non si parlerà mai abbastanza), come sentenzioso memorandum sull’«insania» della passione amorosa, la densa semantica dell’umano procedere per «altra via» da quella prevista, il senso totalizzante e la natura mobile, polimorfica, inafferrabile della vita: Chi mette il piè sull’amorosa pania, cerchi ritrarlo e non v’inveschi l’ale; 87 Come esplicitamente è quello della riviera appenninica dove Ariosto ubica la «selva oscura e nera» nella quale è prescritto dal gelosissimo e iracondo giudice Anselmo che da un suo servo sia uccisa la sua infedele moglie Argia («lungi da villa e lungi da citade…») E si veda l’«intricata selva» di XIX, 5, anch’essa un luogo di morte: nella sua «intricata via» (v. 1) fatalmente s’addentra Cloridano, per amore del suo caro Medoro. 88 Come anche alla «scura selva» nella quale si dilegua il cavallo Baiardo, conteso da Gradasso e Rinaldo (XXXIII, 89, 5). [ 32 ] Orlando imbestiato e la sindrome dello specchio concavo 243 che non è insomma amor, se non insania, a giudizio de savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale. E qual è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso? Varii gli effetti son, ma la pazzia È tutt’una però, che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via Conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia89. La selva insomma come luogo dell’«errore» ineluttabile, labirinto di sentieri intricati, dove le rotte si perdono per l’‘oscurità’. Quasi mai dunque la foresta è un’energetica «force of life», che rimanderebbe, è stato detto, a una ‘follia’ «positivalely understood», da contrapporre ad un’«insanity» di natura degenerativa90. Non mi sembra che funzioni, insomma, nel riferimento implicito (e contrastivo) alla dantesca «selva oscura» del peccato e allo smarrimento della «dritta via», l’opposizione della «gran selva» ariostesca intesa appunto come ‘forza di vita’, ossia come luogo di una vitale «folly»: è una dissociazione di elementi vitali che non si ritrova in Ariosto. Salvo che non si creda davvero che Ariosto consideri ‘medicabile’ la pazzia umana, magari lungo un percorso di riscatto che dall’«insanity » conduca ad una più feconda «folly», e che dunque la favola del 89 Orlando Furioso, XXIV, 1-2. 90 Cfr. E. Grassi e M. Lorch, Folly and Insanity, cit., sopr. pp. 91-97. La contrapposizione di «folly» (positiva) e «insanity» (negativa) è forse troppo legata ad uno schema etico che richiama il modello erasmiano del Moriae Encomium: il che quasi fa desiderare una rubrica più esaurientemente ragionata dei punti di effettivo contatto fra Ariosto e l’olandese, per poter ragionare su altre basi, sapendo naturalmente che non si parte dal nulla: cfr. per es. R. Montano, Follia e saggezza nel «Furioso » e nell’«Elogio» di Erasmo, Napoli, Humanitas, 1942; e sopr. C. Ossola, Metaphore et inventaire de la folie, cit., che offre una preziosa «ligne idéale, topique, qui lie, au sujet de la “naissance de la folie” Erasme, Ariosto et Tasso», in particolare, per l’analisi simbolica del regno di Alcina come corrispettivo ‘topico’ dell’origine erasmiana della pazzia, le pp. 173-178. Si noti intanto, quanto all’«insanity», che di «voglia insana» parla Ariosto in Rime 85,35, in riferimento al suo amore, dicendo per altro: «dolce è la mia morte» (v. 24). L’«audacia» di Mandricardo è parimenti «folle e …insana», senza gerarchie (XXVII, 63). Per non dire dell’interrogativo già messo in evidenza: «Che non è insomma amor se non insania…?» (proprio in XXIV, 1). [ 33 ] 244 RAFFAELE GIRARDI viaggio salvifico sulla luna non sia ciò che fermamente credo che sia: una straordinaria parodia dell’umana illusione di restauro della razionalità all’interno della ‘normalità’ cortigiana. La salute, la reintegrazione, è un sogno ‘lunatico’ in quanto desiderio umano91: un sogno che restaura l’irrestaurabile, ossia l’integrità del ‘cavaliere antico’. Una maschera onirica dunque, una finzione spinta ai limiti dell’assurdo, che farà tornare Orlando ad essere Roland, affinché, secondo lo straordinario gioco delle ambivalenze e dell’ironia, l’esercito cristiano riguadagni i suoi trofei, la nave del poema-sogno torni in porto e la nobile progenie degli Este, sotto i bagliori cupi delle «guerre d’Italia», celebri le sue mitiche ascendenze e lo spento ricordo della sua grandezza. Raffaele Girardi (Università di Bari) 91 In Ariosto, dice Ossola, «il n’y a que […] l’oubli du present, le rêve édénique, le desir (et c’est ici la folie) d’une plenitude humaine sur la terre» (Metaphore et inventaire de la folie, cit., p. 172; corsivi miei). [ 34 ] MATTEO BOSISIO «Pur che il Signore abbia di me piacere». Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta This essays deals with Aretino’s Marescalco, an ambitious work of art in which, by means of a fierce attack on the literary sources, the writer undermines the general principles connected to the court. The text is a vitriolic parody of the Renaissance comedy, of the treatises concerning social behaviour, and of those about love written in the fifteenth and sixteenth centuries. Nevertheless, while expressing the unrest of the time, it does not succeed in getting rid of the logic of the court. Aretino, in fact, proves to be unable to carry out decisive elements of discontinuity. Il Marescalco venne elaborato nel corso di due fasi distinte – tra il 1526 e il 1527 e nel 15331 – che testimoniano un periodo esistenziale inquieto per Aretino e di sofferta transizione tra la corte romana, quella mantovana e la Repubblica di Venezia. L’esperienza diretta della vita di corte, delle sue leggi a volte incomprensibili e dei sottili meccanismi che la determinano influenzerà a lungo Aretino2. Egli, nella propria corrispondenza epistolare, ne fa un argomento privilegiato e ricorrente, sempre trattato in modo amaro e disincantato3. Nella lettera al doge Gritti del 1530 venne espressa, in favore di Venezia, una sorta di recusatio della passata realtà cortigiana. Roma è descritta – con iper- 1 Per le vicende compositive ed editoriali della commedia si vedano G. Da Pozzo, L’Aretino, il «Marescalco» e i cavalli, in Medioevo e Rinascimento veneto. Con altri studi in onore di C. Lazzarini, II, Padova, Antenore, 1979, pp. 148-153 e P. Larivaille, Pietro Aretino, Roma, Salerno, 1997, pp. 178-181. Per il Marescalco faccio riferimento all’edizione critica di G. Petrocchi, Teatro, Milano, Mondadori, 1971. 2 Su questo argomento è fondamentale il lavoro di G. Ferroni, Pietro Aretino e le corti, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita. Atti del Convegno di Roma- Viterbo-Arezzo, 28 settembre – 1 ottobre 1992; Toronto, 23-24 ottobre 1992; Los Angeles, 27-29 ottobre 1992, I, Roma, Salerno, 1995, pp. 23-48. 3 Si leggano ad esempio le missive 14, 96, 128, 155, 341, 647 e 650 dell’edizione delle Lettere a cura di P. Procaccioli, Milano, Rizzoli, 1991. 246 MATTEO BOSISIO bolica e compiaciuta climax – quale regno del tradimento, dell’ingiustizia, della «crudeltà delle meretrici», dell’«insolenza degli effemminati », dei furti e degli omicidi. Non è solo la riflessione epistolare a risentire di questa importante tematica, bensì ne è ampiamente permeata l’intera produzione. Con l’utilizzo nel tempo di generi letterari dissimili, l’autore punta a diversificare la prospettiva polemica contro le corti, mantenendo sempre saldo lo spirito dissacratorio. Proprio nel tempo in cui – intorno alle corti nazionali – si stava svolgendo una vera e propria fondazione di modelli, precetti e norme, Aretino anima, di contro, una vivace contestazione mostrando i limiti e le ipocrisie di tali prototipi. Nella Cortigiana4 l’ambiente è turbinoso, caotico; manca un vero centro che fissi i vari equilibri e controlli la combinazione irrazionale di gesti e voci in cui tutto viene distrutto. La corte di Roma è il regno di Pasquino, dove si succedono beffe senza alcun ordine. I personaggi – in particolare Valerio e Flamminio – denunciano il malessere che sprigiona da questo mondo immutabile, ove vengono premiati servi infedeli, che assecondano i padroni sulla strada del vizio e della follia. Invece nel Dialogo (1536) la corte è presentata quale universo dominato dall’appetito e dall’interesse, contraddistinto da continue lotte di potere. I cortigiani sono definiti da Nanna «puttane d’oggidì»; e poi si ricorda che a Venezia sono così comunemente chiamati (II, p. 165): «i ghiotti, gli sviati, i ladroncelli, gli sbricchi e simili taglia-borse»5. Nel primo libro delle Lettere (1538) si delinea la scena di una corte senza confini, con la quale la voce dell’autore – finalmente libero e indipendente – cerca un confronto alla pari, al fine di ottenere vantaggi e di regolare rapporti e opportunità. L’ottica si sposta – attraverso una fitta rete di esaltazioni e aggressioni, di richieste e provocazioni, rivolte alla maggior parte dei prìncipi contemporanei – da un luogo determinato a un panorama 4 La prima redazione – tramandata dal ms. Magliabecchiano VIII 84 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – è del 1525. La seconda – stampata a Venezia da Francesco Marcolini – risale al 1534. Le differenze tra i due testi sono soprattutto stilistiche; in particolare, nella princeps – che qui seguo nell’edizione critica curata da P. Trovato e F. Della Corte, Roma, Salerno, 2010 – si tende ad amplificare e diluire maggiormente i dialoghi. 5 P. Aretino, Dialogo, a cura di G. Barberi Squarotti e C. Forno, Milano, Rizzoli, 1988. Per un commento cfr. P. Procaccioli, «Dialogo» e «Ragionamento» di Pietro Aretino, in Letteratura italiana. Umanesimo e Rinascimento. Le opere, II, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1993, pp. 367-406 e M. Cottino Jones, I «Ragionamenti » e la ricerca di un nuovo codice, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita, II, pp. 939-958. [ 2 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 247 vasto e internazionale. Le Lettere diventano una specie di autobiografia ufficiale, la giustificazione e la storia narrata in prima persona di chi – figlio di un calzolaio della periferica Arezzo – stava conducendo una carriera esemplare e folgorante. Gli stessi encomi possono essere letti come rivendicazione del valore e della superiorità di colui che esalta; nella ricerca ostentata dell’eccesso, nella moltiplicazione di metafore roboanti e concetti elogiativi logori, Aretino smaschera la doppiezza cortigiana e traccia i caratteri di una scena della menzogna, fatta di parole vane che si possono manipolare con indifferenza6. Infine nel Ragionamento de le corti (1538) – punto di arrivo di questo particolare percorso – egli unisce la consueta pars destruens a un elemento positivo. Esso consiste, in alternativa alla vita menzognera delle corti, in un programma di studio sincretico (umanistico, religioso e antipedantesco) denominato «corte del cielo». Il Marescalco, pur con finalità assai equiparabili, occupa una posizione ben diversa rispetto agli altri testi menzionati. La critica non ha mai riservato particolare attenzione a questa commedia e, oltretutto, si è divisa in varie e discordanti interpretazioni7. Paul Larivaille, ad esempio, riduce il testo alla sfera politica e storica e, pertanto, ne sottolinea l’inconsistenza e l’inferiorità rispetto alla Cortigiana. Le aperte accuse alla corte sono poche e brevi; la satira contro Federico Gonzaga è generica e, per giunta, le «critiche sparse vengono accuratamente bilanciate da una serie di adulazioni superlative»8. Giulio Ferroni, all’opposto, ha visto nel personaggio del marescalco una proiezione 6 Sullo stile e le intenzioni ideologiche delle Lettere faccio riferimento ai recenti contributi di P. Procaccioli, La “macchina” delle “parole di carta”, in ed. cit., pp. 5-41; M.L. Doglio, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, Il Mulino, 2000 e G.M. Anselmi, Introduzione a P. Aretino, Lettere, Roma, Carocci, 2000, pp. 9-24. 7 Tutte le edizioni moderne dell’opera sono realizzate in volumi collettanei, mentre i contributi novecenteschi di maggior valore – non più di mezza dozzina – si sono concentrati a ridosso dell’uscita dell’edizione critica di Petrocchi. Una rassegna sulla fortuna dello scrittore e le ricerche condotte è fornita da E. Malato, Gli studi su Pietro Aretino negli ultimi cinquant’anni, in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita, II, pp. 1127-1150. L’anno scorso è uscito – all’interno dell’edizione nazionale delle opere – Teatro II. Il Marescalco; Lo Ipocrito; Talanta, a cura di G. Rabitti, C. Boccia, E. Garavelli, Roma, Salerno. La prematura scomparsa di Giovanna Rabitti non ha permesso, però, che venisse portato a termine il lavoro filologico e critico progettato. 8 P. Larivaille, op. cit., p. 181. Si veda anche – dello stesso studioso e con le medesime conclusioni – Pietro Aretino fra Rinascimento e Manierismo, Roma, Bulzoni, 1980 (ed. orig. 1972), pp. 108-109. [ 3 ] 248 MATTEO BOSISIO dell’autore, che vuole essere «altro […] mentre vorrebbe invece vivere la dimensione anarchica ed assoluta dell’istrione solo»9. Christopher Cairns ha presentato l’opera quale mero rifacimento del Cortegiano; nel saggio viene indicato come Aretino – durante la litania del pedante del «catalogo dei nomi virorum et mulierum illustrium» (V, 3, 5, 76) – segua la trattazione del I libro di Castiglione10 pedissequamente e senza atteggiamento problematico. Sicuramente nella commedia è insito un intento politico, ma – come già è stato considerato in passato11 – non deve essere l’unico metro di valutazione. E così mi sembrano altrettanto opinabili le posizioni estreme di chi vede nell’Aretino o un demiurgo iconoclasta oppure un modesto imitatore12. La via da seguire è differente; da una parte non bisogna svincolare il testo dall’esperienza biografica del suo autore e dalla produzione degli anni più delicati (’25-’38), dall’altra è bene osservare la commedia da un punto di vista esclusivo e caratterizzante, ossia quello della costruzione e dell’elaborazione letteraria. Con questo approccio è possibile non solo inserire il Marescalco all’interno della meditazione sul ruolo della corte e capire quale posto esso occupi nel folto corpus aretiniano, ma pure comprendere il senso di un’operazione alquanto ambiziosa. 9 G. Ferroni, Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Napoli, Liguori, 1977, p. 85. 10 C. Cairns, Pietro Aretino and the Republic of Venice, Firenze, Olschki, 1985, pp. 33-47. 11 Cfr. per esempio le osservazioni ancora valide di Tommaso Parodi – Le commedie di Pietro Aretino, in Poesia e letteratura, Bari, Laterza, 1916, pp. 142-143 – in merito allo spazio esiguo concesso al duca di Mantova: «il duca, colui che provoca la beffa, è poi il meno a goderne, né s’intende come ci abbia tanto interesse, dal momento che mai in persona egli viene a godersi i contorcimenti e le smorfie del suo marescalco, né assiste alla finale scena comica, da lui ordita». 12 La lettera a Niccolò Franco del giugno del 1537 – da intendere come chiaro manifesto di poetica – sconfessa tali linee ermeneutiche. Aretino sostiene sì di seguire il principio di origine platonica del furore poetico come ispirazione divina e della natura, tuttavia non nega certo il valore umanistico dell’imitazione, respingendo solo l’autorità di quanti «la trasfigurano in locuzione, ricamandola con parole tisiche in regola». Per il Marescalco – e molte altre opere di Aretino – bisogna evitare le facili e diffuse etichette di “antirinascimentale” e “anticlassico”. L’alto grado di letterarietà e di composizione – che a breve mostreremo – invitano a non amplificare in modo eccessivo la sua estraneità e opposizione al mondo letterario contemporaneo. Ogni obiettivo satirico e parodico, infatti, presuppone la conoscenza e – in parte – l’adesione ai modelli di partenza. Per una trattazione approfondita sul concetto di parodia rinvio ad A. Bernardelli, Intertestualità, Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp. 71-86. [ 4 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 249 Con il Marescalco non si punta a screditare una corte storicamente determinata e precisa. Aretino aveva già sperimentato questa soluzione con la Cortigiana, in cui vengono rappresentati – all’interno di una trama affollata – personaggi e situazioni concrete, facilmente sovrapponibili a quelle reali. Ad esempio messer Maco – archetipo del cortigiano senza scrupoli – si reca da Siena a Roma per ingraziarsi il cardinale e Parabolano – ignorante e inadeguato – misconosce la devozione dei servitori preferendo lo scaltro Rosso. Nel Marescalco, viceversa, la vicenda è esile e scarna: il duca di Mantova impone al proprio maniscalco – misogino e omosessuale – di prendere in moglie una giovane bellissima e dotta. Tutto viene giocato sulla prolungata resistenza del promesso sposo, ora assecondato ora persuaso dagli altri personaggi alle ragioni – o meno – delle nozze. Alla fine del quinto atto si scopre – con felicità da parte del personaggio – che la cerimonia è una burla e la sposa promessa è in realtà un fanciullo. L’azione è inesistente, non ci sono né progressi né stravolgimenti. Oltretutto Mantova appare in modo sfocato e irriconoscibile, non essendo mai caratterizzata con precisione13; i personaggi – come è comprensibile – sono assai poco definiti e tratteggiati, subiscono gli eventi senza determinarli. Essi sembrano spettatori dei movimenti altrui e sono così insicuri che, non di rado, si chiedono se il matrimonio sia stato veramente programmato14. E le tre unità – di tempo, di luogo e d’azione – sono rispettate alla regola, in netto contrasto con il groviglio caotico della Cortigiana, organizzato per mettere sotto scacco gli intrighi di palazzo. Anche le tecniche stilistiche e compositive, di conseguenza, appaiono non affini, tanto che le due opere possono essere paragonate, ma per contrarium. Aretino, quindi, sceglie una strada divergente, più raffinata e sottile. Rimane saldo l’attacco alla vita cortigiana, ma questo non viene mosso, come in passato, partendo da un piano storico e comodamente distinguibile da parte dei lettori. Lo scrittore tenta di minare i princìpi cortigiani attaccandone e stravolgendone direttamente le fonti di legittimazione letterarie. Nel Marescalco, difatti, sono chiari gli intenti di 13 Basti pensare che nella Cortigiana la parola «Roma» compare ben cinquanta volte, con effetto di amplificazione; nel Marescalco «Mantova» è nominata solo in nove punti, per lo più per indicare il duca. 14 Cfr. Giannico che dice al pedante (I, 11, 2, 23 e II, 2, 1, 26): «Bè! torrarla o non la torrà? […] Ma torrarla o no?». Lo stesso protagonista dubita su ciò che accade (I, 8, 1, 20): «A dire il vero sua Eccellenza me ne ha parlato un mese fa, ma mi creda che quella burlasse meco, ed egli fa da dovero». [ 5 ] 250 MATTEO BOSISIO parodia corrosiva alla commedia rinascimentale, ai trattati di comportamento e a quelli sull’amore quattro-cinquecenteschi. La commedia rinascimentale costituisce un decisivo strumento di legittimazione della corte. La rappresentazione teatrale era inserita nell’ambito di feste e sontuose manifestazioni con le quali si esaltavano il potere e la gloria del principe. Lo spettacolo cessava di essere il rituale pedagogico e aggregante della collettività – che nel Medioevo assisteva agli allestimenti nelle chiese, sui sagrati o nelle piazze – per avviarsi ad assumere la funzione di instrumentum regni, interamente gestito dalla corte. La magnificienza degli apparati e l’eccezionalità degli investimenti sono efficaci testimonianze indirette della propaganda sottesa; le cerimonie e le rappresentazioni spesso erano oggetto di vere e proprie relazioni, che ambasciatori e cortigiani di altri stati inviavano ai loro superiori; si sviluppava, così, un’autentica concorrenza tra le corti. Il mecenatismo principesco diventava un fattore egemonico, esercitando la propria influenza sugli artisti – pittori, architetti e letterati – chiamati alla realizzazione di un preciso prodotto culturale15. La commedia, nello specifico, mediante l’ispirazione ai testi antichi di Plauto, Terenzio e medievali – quali quelli della lunga tradizione novellistica – attuava un profilo convenzionalmente ironico della classe media, congeniale alla contemplazione divertita di un pubblico aristocratico, separato dalla realtà ritratta. Attraverso l’agnizione e il lieto fine – capaci di ricomporre in un preteso ordine naturale il disordine dell’intreccio – si rafforzava la volontà di persuasione ideologica promossa dal principe, che faceva della commedia un mezzo della propria politica. E, per concludere, constatiamo che il personaggio connotato negativamente non trovava spazio per non turbare l’armonico equilibrio di una società pacifica e chiusa16. I trattati e i dialoghi sono da collocare all’interno del medesimo milieu culturale e sociale. Con essi – presupponendo l’idea di perfetti- 15 Per il teatro rinascimentale e i suoi risvolti politici faccio riferimento a G. Macchia, L’invenzione del teatro. Studi sullo spettacolo del Cinquecento, «Biblioteca teatrale», XV-XVI, Roma, 1976; F. Raffini, Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino, Bologna, Il Mulino, 1986; M. Pieri, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 ed Ead., Dal teatro di corte alla commedia dell’Arte, in Manuale di letteratura italiana, II, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1994. 16 Sulla commedia rinvio a M. Baratto, La commedia del Cinquecento, Venezia, Neri Pozza, 1977; N. Borsellino, La tradizione del comico, Milano, Garzanti, 1989 e G. Padoan, L’avventura della commedia rinascimentale, Padova, Piccin Nuova Libraria, 1996. [ 6 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 251 bilità umana, affermatasi nel Quattrocento – si cercava di garantire alcuni esempi teorici e pratici di vita. La diffusione del platonismo, inoltre, aveva messo in circolazione la convinzione che esistessero modelli astratti di perfezione e di bellezza cui occorreva tendere. Nelle corti si tentava di superare le vecchie radici municipali e particolaristiche e di costruire modelli generali, stabili e omogenei. Il ceto intellettuale – che si compattava individuando per sé un’identità e un ruolo precisi – otteneva legittimità e forza spingendo verso un’unità centripeta di pratiche e forme. La notevole diffusione dei trattati rivela anche l’autocoscienza degli studiosi del periodo di dare armonia alle arti e alla pratiche cittadine. Costoro non solo ponevano al servizio del signore la propria competenza specifica e professionale, divenuta specialistica, ma elevavano tale pratica erigendola a veicolo ideologico per un’esplicita missione civilizzatrice. Da questo punto di vista, la rilevanza del trattato esprimeva l’esigenza di centralità da parte degli intellettuali cortigiani, con il rischio di sfociare nell’autoreferenzialità17. Vediamo ora in che modo il Marescalco si smarchi dalle commedie coeve e ne deformi, sin dal profondo, le basi costitutive18. Un primo grande segnale di divergenza è dato dal mezzo impiegato per la fruizione dell’opera, poiché non venne rappresentata in scena. La princeps viene stampata per la prima volta nel 1533, nella tipografia di Bernardino de Vitali; contiamo poi tre edizioni del 1535 e cinque nel quinquennio 1536-1540. Aretino intuisce appieno le risorse straordinarie offerte dall’editoria, capace di avviare la letteratura verso l’autonomia dalla tradizione umanistica e di permettere agli scrittori di farsi in essa 17 Sull’argomento mi sono avvalso di P. Floriani, Il dialogo e la corte nel primo Cinquecento, in La corte e il «Cortegiano», I, a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 83-96; G. Mazzacurati, Percorsi dell’ideologia cortigiana, in op. cit., pp. 149- 172; C. Vasoli, Il cortigiano, il diplomatico, il principe. Intellettuali e potere nell’Italia del Cinquecento, in op. cit., II, pp. 173-194; G. Papagno, Corti e Cortigiani, in op. cit, II, pp. 195-240; J.R. Snyder, Writing the Scene of Speaking. Theories on Dialogue in the Late Italian Renaissance, Stanford, Stanford University Press, 1990; C. Forno, Il “libro animato”: teoria e scrittura del dialogo nel Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1992 e V. Vianello, Il “giardino” delle parole. Itinerari di scrittura e modelli letterari nel dialogo cinquecentesco, Roma, Jouvance, 1992. 18 Tale proposito sarà confidato a Sebastiano Fausto da Longiano in una lettera del 17 dicembre 1537: «Il caso è ridurre, come ho fatto io, in un mezzo foglio la lunghezza de l’istorie e il tedio de l’orazion, come si può vedere ne le mie lettre e come anco farò in tutte le cose che si vedranno. Ho speranza di farvi anco vedere le comedie disbrigate da la spesa de le scene e dal fastidio de gli interlocutori: basta uno solo a dividre in forma di predica i cinque atti dei suoi ordini». [ 7 ] 252 MATTEO BOSISIO imprenditori19. Così egli si sottrae con chiarezza dal meccanismo di committenza cortigiano, che aveva coinvolto inevitabilmente tutti gli autori precedenti20. Anche il pubblico elettivo cambia; si passa da quello aristocratico delle corti centro-settentrionali a quello più vasto della Serenissima. Esaminiamo la trama e gli snodi drammatici più da vicino. Abbiamo già accennato alla mancanza di azione e movimento dei personaggi. In aggiunta, diciamo che la sequenza delle scene – costruite tutte con il medesimo schema, per il quale un personaggio cerca di convincere o appoggiare il marescalco – permette la moltiplicazione apparente delle situazioni. Esse sono riproposte di continuo con una sequenza ripetitiva e accumulativa; a prima vista sembrano numerose e confuse – ben cinquantaquattro21 – eppure trovano compattezza nella loro monotonia di fondo. In questo modo viene bloccata ogni possibilità di utilizzare personaggi accessori – essenziali nella commedia rinascimentale – in grado di produrre complicazioni, rallentamenti, colpi di scena e accelerazioni repentine. Non servono astuzie, inganni, equivoci, aiutanti e antagonisti per arrivare al lieto fine che chiude le tensioni e soddisfa ogni aspirazione. Ha scritto Ferroni: «L’uso di altri procedimenti tradizionali come l’agnizione, riescono a svolgersi solo attraverso una continua svalutazione, un interno svuotamento e rovesciamento, una denuncia del loro carattere fittizio ed illusorio, una scoperta della loro instabilità ed incoerenza»22. 19 Faccio mie le preziose direttive metodologiche di Carlo Dionisotti (La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 245): «Non si insisterà mai abbastanza su questo punto. Chi fa storia della letteratura italiana del primo Cinquecento sa bene che indispensabili documenti e strumenti di ricerca sono gli annali tipografici di quell’età. […] La controprova tipografica è qui indispensabile sempre, e spesso è indispensabile partire dall’industria tipografica per arrivare agli autori». 20 Anche Machiavelli – per certi versi più anticonformista di Ariosto e Bibbiena – aveva fatto rappresentare la Mandragola a Firenze durante il carnevale del 1520, con replica a Venezia due anni dopo. La stampa arriverà nel 1522. La Clizia – la princeps è del 1537 – venne messa in scena il 13 gennaio 1525, in occasione del matrimonio tra Maria Strozzi e Lorenzo Ridolfi. Per la produzione comica dell’autore si veda Teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi e A.M. Cabrini, Milano, Cisalpino, 2005. 21 Dodici nel primo atto, undici nel secondo e nel terzo, otto nel quarto e dodici nell’ultimo. Nella Cortigiana sono addirittura centoundici; ma se ne contano solo ventiquattro nel Negromante, trenta nella Cassaria, trentasei nella Lena e trentasette nella Mandragola. 22 G. Ferroni, Le voci dell’istrione, cit., 1980, p. 73. [ 8 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 253 Viene poi ribaltato un ulteriore caposaldo, vale a dire la presenza degli innamorati. L’assenza degli imprescindibili protagonisti fissa una condizione di assoluta novità. Nella Cortigiana non si applica ancora questa svolta: il napoletano Parabolano si invaghisce della romana Laura, mentre Maco tenta di sedurre la cortigiana Camilla Pisana. Nel Marescalco uno dei due personaggi, che dovrebbe costituire il rapporto amoroso, non compare in scena fino alla conclusione. Anche quando si presenta, il suo ruolo è fugace, non proferisce parola e – fattore più importante – non si tratta dell’avvenente giovane preannunciata, bensì del paggio Carlo. Il personaggio femminile non esiste, è solamente una minaccia per il marescalco e una fonte di curiosità per i lettori. Pure nella Clizia succede qualcosa di molto simile – lo vedremo meglio in seguito – tuttavia alla fine compare a Firenze il ricco Ramondo, che si dichiara padre della giovane, concessa così in sposa a Cleandro. Però è anomala ed esclusiva l’estraneità tra il personaggio maschile e quello femminile. Il marescalco non sa chi sia la sposa che il duca gli ha destinato né se ne apprende notizia alcuna durante i lunghi dialoghi interni al testo. Nella commedia di Machiavelli, invece, Clizia è continuamente evocata; Palamede, per esempio, racconta come, undici anni prima, fosse stata accolta da parte dei suoi genitori quando era ancora una trovatella. Qui, diversamente, l’unico legame è riconoscibile per differentiam: il marescalco nutre avversione per la donna, vista come elemento destabilizzante di una tranquillità emotiva e sociale ideale. Il matrimonio – che di norma sancisce felicemente l’atto conclusivo di una commedia – trova l’opposizione di chi ne dovrebbe essere il principale cooperatore e beneficiario. La corrosione della struttura comica è decisa. Le nozze, fin dall’inizio, sono stabilite dal duca con forza e risolutezza – al contrario delle altre commedie dove esse sono da conquistare e incerte – senza il rischio di intrighi e rivalità canoniche; tale condizione è negata – quasi per paradosso – dal marescalco, il quale si rifiuta di sfruttare l’irripetibilità dell’evento. Ne consegue che l’opera si configuri come senza tensioni e suspense. Tutto è immobile, così come la vita di corte. Se nella Cortigiana dominava un caos paralizzante, qui è la stasi stessa a essere messa in scena. Il protagonista non desidera nulla – se non di essere lasciato stare nella sua solitudine – e non mette in moto nessun meccanismo teatrale. Anzi è la vicenda stessa che lo porta, per inerzia, verso un esito abituale e che è, invece, respinto energicamente. Egli non ha interessi, nemmeno nutre una vaga attrazione intellettuale, come per esempio avviene a Callimaco per Lucrezia nel primo atto della Mandragola. Gli effetti generati dall’amore – motore centrale della comme- [ 9 ] 254 MATTEO BOSISIO dia regolare – vengono capovolti: il matrimonio, evento frequente e pacifico, pare inatteso e sconvolge il marescalco come una sciagura. Il protagonista non è sereno e risoluto; non ha un oggetto del desiderio da raggiungere; non ci sono prove da superare né sono previste ricompense. Egli vive, così, immerso in uno stato di angoscia e impotenza, quasi fosse un personaggio tragico. Le nozze sono per lui accomunabili alla rovina che colpisce inspiegabilmente gli eroi. Nell’ottava scena del primo atto, il marescalco innalza distrutto un monologo significativo (I, 8, 1, 20): Quanto era il meglio per me lo attendere a la bottega, da la quale mi ha disviato il fumo de le corti; io potea con quello, che io mi guadagnava, darmi un bel tempo, e ho voluto con quello, ch’io perderò, vivere come un disperato; mi fu pur detto che in queste maladette corti non c’è se non invidia e tradimenti, e tristo a chi meno ci puote. Vatti con Dio, che io sto fresco. A dire il vero sua Eccellenzia me ne ha parlato un mese fa, ma mi credea che quella burlasse meco, ed egli fa da dovero; ma che cose crudeli son queste? Il pronome «io» è ripetuto quattro volte, con intento assillante; la corte viene vista quale pericolo – contrapposta alla familiarità della «bottega» – dove regnano «invidie e tradimenti». Il tutto si conclude con una domanda sconsolata quanto incisiva. Credo che Aretino si ispiri direttamente al monologo di fra’ Timoteo (IV, 6) della Mandragola23; i punti di contatto sono evidenti. Le «cattive compagnie» conducono l’uomo alla rovina, mentre la «cella» è il simbolo della fede e della virtù. Ma, se il marescalco non sa spiegarsi con precisione quello che sta accadendo e, soprattutto, non vede vie d’uscita percorribili, Timoteo è ben conscio dell’inganno che sta ordendo per conto di Ligurio. Un altro brano risulta straniante al lettore. Nella scena sesta del II atto, il marescalco si rivolge così alla balia: «Ora, Balia, se non m’insegnate qualche ricetta, che levi de la fantasia al Signore di darmi moglie, mi trarrò da una fenestra, o vero mi segherò le vene de la gola, o darò al gran Diavolo l’anima e il corpo». Indubbiamente il linguaggio 23 «E’ dicono el vero quelli che dicono che le cattive compagnie conducono li uomini alle forche. E molte volte uno capita male così per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa che io non pensavo ad iniuriare persona, stavomi nella mia cella, dicevo el mio ufizio, intrattenevo e mia devoti: capitommi innanzi questo diavol di Ligurio, che mi fece intignere el dito in uno errore, donde io vi ho messo el braccio, e tutta la persona, e non so ancora dove io mi abbia a capitare». Faccio riferimento all’edizione curata da G. Inglese, Bologna, Il Mulino, 1997. [ 10 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 255 tipico degli innamorati della commedia cinquecentesca non è diverso24; pur tuttavia qui il personaggio sostiene in modo antifrastico la parte che gli spetta. La ragione della crisi non è data da un mondo ingiusto e ostile che non permette di congiungersi con l’amata, bensì dallo spettro del suo ottenimento. Altri indizi testuali rafforzano questo senso tragico di inevitabile sconfitta. Nel quarto atto prima il marescalco confessa al conte e al cavaliere di essere pronto a subire le peggiori torture pur di evitare il matrimonio25; eppoi la frustrazione sfocia in pericolosa violenza verbale26. Il tema della “burla per travestimento” – con il quale si scopre che la sposa è in realtà un paggio – merita di essere brevemente sviluppato27. Questo espediente – capitale nella Mandragola – è topico nella commedia del tempo. Nei Suppositi (1509), ad esempio, Erostrato si maschera da schiavo per incontrare, senza destar sospetti, l’amata Polinesta e uno sciocco senese viene convinto a fingersi Filogono, padre 24 Si comparino le parole di Callimaco nella Mandragola (III, 1): «Meglio è morire che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare el tempo; ma qui non c’è rimedio; e, se io non sono tenuto in speranza da qualche partito, i’ mi morrò in ogni modo; e, veggendo d’avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele, nefando». Nella Cassaria (III, 6) Erofilo pone una drastica alternativa: «O di morire o di avere la donna mia». Nei Suppositi (IV, 3, 1360-1363) Filogono descrive così Erostrato: «È giovane, / e delicatamente uso: potrebbesi / o morir o impazzare o d’altra simile / disgrazia darsi cagion». Negli Studenti (II, 5, 700-704) Bonifazio sprona Claudio: «Oh, che volete voi per questo affligervi? / Morir per questo? Quasi che le femine / debban mancar al mondo! Sète giovane, / ricco e bello; n’avrete in abondanzia / ancora tal che vi verrà a fastidio». Ma la risposta è lapidaria: «Ah lasso, io vo’ morir ». Nella Calandria (V, 9) Lidio afferma: «Ma, se romor in casa sento, al corpo di me, ch’i’ salterò drento, e difenderò lei o per lei morirò. Amante non sia chi coraggioso non è». Per Ariosto faccio riferimento a Commedie, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1976; per la Calandria cito dall’edizione curata da P. Fossati, Torino, Einaudi, 1967. Da qui in avanti i corsivi sono miei. 25 Cfr. IV, 3, 7, 60: «Dite pure al Signore che mi squarti, che mi abbruci e che mi attanagli, ché non son per torla per me, né per voi, che insomma voglio esser uomo e non cervo». Si noti il tricolon assai efficace e la dicotomia tra uomo e bestia. 26 Cfr. IV, 6, 1, 65: «Mi vien voglia di andar dietro a questo vecchio rimbambito e dargli una coltellata, insegnandogli a persuadermi di torre quella, ch’egli reflutaria, volentieri. Ma sempre avviene che un che ha rotto il collo in un mal passo, brama che ve lo rompa ognuno». 27 Essa viene più volte evocata. Cfr. I, 1, 1, 10: «Ah, ah, burle cortigiane!»; I, 8, 1, 20: «ma mi credea che quella burlasse meco, ed egli fa da dovero»; II, 2, 2, 26: «Maestro, le son burle che si usano, e non importano»; II, 7, 1, 38: «a chi gli ragiona di tal burla» e III, 9, 1, 52: «ragionava meco de la burla del marescalco nostro». [ 11 ] 256 MATTEO BOSISIO del pretendente. Nella Calandria (1513) Santilla, per proteggere la sua verginità, vive travestita sotto il nome di Lidio, il quale – a sua volta camuffato in donna – è amato dal vecchio Calandro. Nella quinto atto della Clizia – come già accennato – il servo Siro viene rivestito con i panni della fanciulla tanto attesa e si fa trovare nel letto nuziale di Nicomaco. Infine nel Negromante (1528) Camillo – innamorato di Emilia – si nasconde in una cassa, sperando che questa venga recapitata alla giovane. Anche in questo caso è palmare il ribaltamento apportato da Aretino. La burla non si esplica in un’azione concreta o in una sequenza di episodi. Essa è solo descritta tramite interiezioni ed esclamazioni continue, senza sorpresa e pathos (V, 10, 7-8, 89): SPOSA: Ah, ah, ah! MARESCALCO: O castrone, o bue, o bufalo, o scempio che io sono, egli è Carlo paggio, ah, ah, ah! CONTE: Come diavolo, Carlo! CAVALIERE: Lasciaci vedere: egli è Carlo per Dio, ah, ah, ah! CONTE: Adunque noi ci siamo stati? CAVALIERE: Stati ci siamo, ah, ah, ah! AMBROGIO: Ora sì, che ci potiamo chiamare babbioni, mantovani, ah, ah, ah! PHEBUS: Che cento novelle, ah, ah, ah! Oltretutto siamo testimoni di un contro-sovvertimento dell’intelaiatura comica. La burla scompare e si tramuta di colpo nell’opposto, ossia nella soddisfazione e nel trionfo del marescalco, vittima designata fino a poco prima. Egli è raggiante e non esita certo a manifestarlo (V, 10, 8, 89): «A vostra posta, egli è meglio che io veggia ridere voi per le bugie, che voi pianger me per la verità». L’agnizione non ha niente di straordinario e si gioca tutta all’interno dell’asfittico mondo cortigiano. Se ci pensiamo bene, l’immutabilità trionfa di nuovo: la burla non si attua, il danno non si compie, l’oggetto del desiderio non esiste, nulla di rilevante è accaduto. In un mondo bloccato e intorpidito non può darsi un evento che scuota e smuova l’esistente. Mario Baratto ha così sintetizzato: «Ricadendo su questo essere inerme, privo di reazioni originali, la burla acquista un ambiguo carattere di paradosso: tende a negare la sua qualità di burla, correlativa a un minimo di azione reciproca tra burlatore e vittima. Il Marescalco è solo un uomo affaccendato, stanco; deluso; vorrebbe intorno a sé pace e silenzio; e invece tutti lo costringono ad essere “personaggio”, a parlare, battuta per battuta, per un’intera giornata. La burla, cioè, lo fa improvvisamente “esistere” per gli altri ma anche per sé»28. 28 M. Baratto, Commedie di Pietro Aretino, in Tre studi sul teatro, Vicenza, Neri Pozza, 1964, pp. 106-107. [ 12 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 257 Occupiamoci a questo punto di un altro aspetto, volto a scardinare l’impalcatura della commedia e – insieme – l’approvazione letteraria alla vita di corte. Il pedante, nell’ultima scena del quinto atto, ci aiuta a individuare un punto nodale29. L’opera viene definita «commedia con quattro dispute» intorno al tema an uxor sit ducenda. In effetti, il Marescalco presenta al proprio interno alcune lunghe discussioni trattatistiche sulla convenienza o meno di sposarsi. Nel primo atto la balia e il pedante – ognuno con un linguaggio e motivazioni proprie – cercano di convincere il marescalco a prendere moglie. Nel secondo e nel terzo atto Ambrogio contesta e confuta le spiegazioni della balia. Nel quarto il marescalco si trova a fronteggiare una folta serie di personaggi (il conte, Jacopo, il pedante, Giannico e lo staffiere); mentre nel quinto interverranno di nuovo il pedante e Ambrogio. Un numero così elevato e strutturale di dialoghi – per di più sullo stesso argomento – realizza un unicum atipico e, di conseguenza, non può essere ignorato. Appare ovvio come la loro inserzione all’interno della commedia muti l’andamento del testo e cambi quasi statuto e natura al genere letterario medesimo. Si forma, proprio nell’epoca delle grandi codificazioni, un ibrido insolito e difficilmente classificabile nella sua singolarità. E, per di più, non sono solo questi particolari – che indagheremo a breve – a immergerci in un’ottica trattatistica. Possiamo notare una serie di indizi ed elementi di sottofondo – in apparenza secondari – che ci suggeriscono un contesto inequivocabile. Ad esempio negli Asolani (1505, ma la seconda edizione è del 1530) e nel Cortegiano (1528) non è casuale l’occasione che determina l’incontro degli interlocutori. Negli Asolani assistiamo alle nozze di una damigella della regina di Cipro, mentre in Castiglione si onora Giulio II, che fa tappa a Urbino dopo aver conquistato Bologna. Anche nel Marescalco si verifica un’occorrenza specifica, ma – come analizzato – il matrimonio è del tutto evanescente e fallace. Ogni dialogo, che si instaura per supportare o evitare quell’evento, si configura così quale inutile e fumoso. Nel corso dell’opera, vengono poi rivoluzionati alcuni concetti centrali della 29 Cfr. V, 12, 1, 91: «Spettatori, noi destiniamo, favente Deo, come gli studi vacano, comporre una Commedia del successo del Marescalco con quattro dispute. Ne la prima tratteremo de la felicità di coloro che son rimasi sanza mogliere. Ne la seconda discorreremo la infelicitate di quelli, a i quali ella morir non vuole. Ne la terza narreremo de la ruina, che viene in sui gli omeri et in su le spalle a chi la deve torre. Quarto et ultimo concluderemo la beatitudine di quelli che non l’hanno, non la vogliono e non l’ebbero mai». [ 13 ] 258 MATTEO BOSISIO teoria cortigiana; mi soffermerò su quelli più interessanti. Se Castiglione nel primo libro (XXVI) aveva descritto la «grazia» come la qualità necessaria per rifuggire l’«affettazione» – in quanto pratica dell’eccesso e dell’ostentato – e aveva sollecitato l’impiego della «sprezzatura» – in grado di rendere «vera arte» quello «che non pare esser arte»30 – nel Marescalco tutto ciò verrà parodiato dall’idioletto del pedante, dimostrando l’impossibilità di comunicare con codici e comportamenti artificiosi. Questo è il risultato, in contrasto con le attese di Castiglione, di chi preferisce l’apparire all’essere, la simulazione alla vita concreta. E ogni teoria linguistica – sia quella classicista, propugnata da Bembo, sia quella fondata sull’uso, difesa da Castiglione – palesa la sua inadeguatezza di fronte alla pratica cortigiana messa in scena dalla commedia, perché la medietas raccomandata viene infranta e svilita. Il perfetto cortigiano deve essere un buon letterato, saper disegnare e intendersi di musica, mentre il pedante darà prova continua della propria ignoranza generale. Nel secondo libro del Cortegiano (I-IV), inoltre, ritroviamo una strenua “apologia del presente” rispetto al rimpianto di molti per le «corti passate». Le corti contemporanee, anzi, risultano superiori, poiché sono regolate da norme precise e sicure. Tutto questo viene messo in discussione nel Marescalco, all’interno della Mantova di Federico Gonzaga. Infatti, la corte non è il regno della crescita politica e intellettuale auspicata, bensì dell’immobilità e della sterilità. Un altro concetto è deformato in modo brillante. Pensiamo all’articolato ragionamento sulle «facezie», essenziali per un buon cortigiano affinché «sia tale, che mai non gli manchin ragionamenti boni e commodati a quelli co’ quali parla, e sappia con una certa dolcezza recrear gli animi degli auditori e con motti piacevoli e facezie discretamente indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai a fastidio o pur a saziare, continuamente diletti» (II, 41). Tra queste vengono distinte le «facezie urbane», il «detto» e la «burla»31. Nel Marescalco essa non serve a disordinare soltanto il sistema dei valori comici, ma pure 30 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, a cura di V. Cian, Firenze, Sansoni, 1947. 31 Cfr. II, 84: «E’ parmi che la burla non sia altro che un inganno amichevole di cose che non offendano, o almen poco; e sì come nelle facezie il dir contra l’aspettazione, così nelle burle il far contra l’aspettazione induce il riso. E queste tanto più piacciono e sono laudate quanto più hanno dello ingenioso e modesto; perché chi vol burlar senza rispetto spesso offende e poi ne nascono disordini e gravi inimicizie. Ma i lochi donde cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie. Però, per non replicargli, dico solamente che di due sorti burle si trovano, ciascuna delle quali in più parti poi divider si poria. L’una è, quando s’inganna ingeniosa- [ 14 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 259 a scompensare le prassi cortigiane formulate nei trattati. Per Castiglione la «burla» provvede a compattare orizzontalmente la corte attorno a un unico fine e a renderla coesa e inclusiva; Aretino, invece, ci svela l’esatto opposto, siccome rischia di creare divisioni e lacerazioni ordinate gerarchicamente, in nome soltanto del lusus del duca32. Analizziamo i dialoghi nello specifico. Aretino sceglie di prendere di mira i trattati sul matrimonio e sull’amore, che, all’inizio del secolo, avevano preso piede in modo copioso33. Nel Cinquecento italiano, difatti, iniziò a cambiare il ruolo della donna negli strati alti della popolazione, destando curiosità e animati dibattiti. Con la definitiva codificazione del volgare e lo sviluppo della stampa si aprì la strada a nuovi soggetti, che presto non si sarebbero accontentati della sola fruizione; a corte le donne ricevettero la stessa educazione degli uomini e la partecipazione attiva ai cenacoli e alle feste sontuose imposero una maggiore valorizzazione. È utile seguire il commento di Giuseppe Zonta, per il quale gli intellettuali rinascimentali «si affannarono e si sbizzarrirono in ogni modo a ricercare: donde derivi il fascino donnesco, quali effetti produca la bellezza, e se l’amore prodotto da queste anime gentili deva essere volgare o divino. Si volsero poi a indagare e considerare se la donna sia un angelo o un dèmone; se sia migliore o peggiore dell’uomo e quali diritti le competano. Si distesero inoltre ad esplicare le doti ch’ella deve possedere sia fisiche che morali; di conseguenza quali regole devano governare la sua vita di fanciulla, di giovane, di maritata, di vedova; quali siano le ragioni della sua bellezza, e quali i mezzi per conservarla, aggiustarla e aumentarla»34. Aretino mente con bel modo e piacevolezza chi si sia; l’altra, quando si tende quasi una rete e mostra un poco d’esca, talché l’omo corre ad ingannarsi da se stesso». 32 Per il Cortegiano mi sono avvalso degli studi di G. Mazzacurati, Baldassar Castiglione e l’apologia del presente, in Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, 1966, pp. 7-131; Id., Baldassar Castiglione e la prosopopea della corte, in Il Rinascimento dei moderni, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 149-207 e R. Mercuri, Sprezzatura e affettazione nel «Cortegiano», in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno, a cura di W. Binni, II, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 227-274. 33 Maria Luisa Doglio – nella sua edizione a Della eccellenza e dignità delle donne di Galeazzo Flavio Capra (Roma, Bulzoni, 2001, pp. 123-136) – annovera ben sessantaquattro trattati sull’amore stampati tra il 1471 e il 1528. 34 Avvertenza generale, in Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di G. Zonta, Bari, Laterza, 1913, p. 374. Per la trattatistica cinquecentesca sulla donna si vedano Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Roma-Bari, Laterza, 1980; Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, a cura di M. Zancan, Venezia, Marsilio, 1983 e Ead., La donna, in Letteratura italiana. Le questioni, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, pp. 765-827. Sulla condizione della donna [ 15 ] 260 MATTEO BOSISIO – fiero oppositore del matrimonio, visto quale istituzione soffocante35 – sente, comunque, le contraddizioni e le criticità di questa visione sul ruolo della donna, unicamente letteraria e funzionale ad accrescere il mito della corte. Il primo dialogo (I, 6) avviene tra la balia e il marescalco. La donna introduce l’argomento con discrezione e gradualità, raccontando al marescalco di aver fatto un sogno rivelatore, che rispetta la classica tecnica trattatistica degli exempla36. Dopo questo espediente, inizia subito la dissertazione, che ha per tema «come la moglie sia il paradiso» e che viene intervallata da esortazioni e formule tipiche dello stile dialogico37. L’esposizione è ampia e viene interrotta sei volte dai brevi commenti caustici del protagonista. Questi non ascolta, non è interessato, non vuole nemmeno avere lo spazio per esporre le proprie ragioni; ogni paradigma paideutico di crescita attraverso il confronto viene perciò accantonato, poiché il dialogo è solo fittizio. La balia, invece, si attiene a un registro noto. La moglie deve accudire il marito in tutti gli aspetti pratici e psicologici della vita. Bisogna che lo aiuti a vestirsi, lavarsi e pulirsi. La buona sposa prepara la tavola per la cena e consola il marito nei momenti di sconforto. La balia diversifica i compiti della donna a seconda delle stagioni e del clima. Durante l’inverno avrà cura di ristorare il coniuge «con buon fuoco in un baleno» e di preparare piatti caldi, mentre d’estate agevolerà il marito nello scacciare l’arsura. Completa il quadro familiare una descrizione quasi farsesca dei figli e degli animali domestici, che contribuiranno a rendere completa e serena la vita di coppia38. Non manca certo una notevole dose comica. L’iterazione dei servigi e la banalità dei contenuti contribuiscono a svilire i modelli illustri, nel Rinascimento cfr. G. Servadio, La donna nel Rinascimento, Milano, Garzanti, 1986; M.L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991 (ed. orig. 1991) e F. Furlan, La donna, la famiglia, l’amore: tra Medioevo e Rinascimento, Firenze, Olschki, 2004. 35 Si leggano le lettere 51, 374, 385, 476, 481 e 653 dell’edizione Procaccioli. 36 Si guardi L. Mulas, Funzione degli esempi, funzione del «Cortegiano», in La corte e il «Cortegiano», I, pp. 97-118. 37 Cfr. per esempio (I, 6, 3, 16): «or va’ a senno mio, toglila, figlio, ed assettati un poco de l’onore, e lascia andare le gioventudini, e comincia a dare principio a la casa tua». 38 Alla fine dell’intervento, infatti, viene aggiunto (8, 18): «Vengono poi i bambini, i cagnolini, i buffoncini; o Dio, che consolazione, che dolcezza sente il padre, quando il fanciullo gli tocca il viso, ed il seno con quelle mani tenerine, dicendoli pappà, il pappà, al pappà». Per un brano analogo si veda la lettera del giugno 1537 a Sebastiano del Piombo. [ 16 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 261 poiché l’assurda artificiosità delle scene critica i ragionamenti puramente teorici e irrealizzabili degli intellettuali (4, 16): Tu arrivi in casa, e la buona moglie ti viene incontra in capo de la scala ridendo, e con una amorevolezza di cuore, dandoti d’un benvenuto ne l’anima, ti leva la veste da dosso. Le estremizzazioni inducono il lettore al riso e a prendere coscienza di un modello di riflessione inefficace39. Gli innalzamenti di tono sono bilanciati da improvvise cadute stilistiche. Nella prima battuta il valore armonioso della lunga serie di polisindeti, dei gerundi e delle specificazioni viene negato dal verbo triviale posto in clausola40, mentre nella terza si scopre che il «paradiso» risiede nell’appetito sessuale della moglie, che, all’occorrenza, sa diventare «putta». I gravi temi della trattatistica contemporanea sono parodiati nella loro povertà di senso e contrapposti a momenti quotidiani e ridicoli (I, 6, 5, 16-17): Orinato che tu hai, ti pone a cena, e assettati a sedere, e ti aguzza l’appetito con certi intingoletti, con certi manicaretti, che ne beccherebbero i morti, e mentre mangi, ella non resta mai con le più dolci maniere del mondo di porti avanti ora questa et ora quella vivanda, e ogni buon boccone ti porge, dicendo: mangiate questo, mangiate quest’altro, anche un poco per mio amore. Al lettore del tempo non sfuggiva di certo il richiamo malizioso al Cortegiano, dove si tratteggia la perfetta donna di corte41. Un altro spunto provocatorio è mosso partendo da Leon Battista Alberti con i Libri della famiglia (1441), in cui il compito essenziale della perfetta sposa è delimitato alla procreazione dei figli, alla fedeltà matrimoniale e alla tutela della prole. Ella si limita a svolgere una funzione di governante, circoscritta alla cellula domestica42. E poi lo svilimento dell’amo- 39 È paradigmatico questo passaggio iperbolico (6, 17): «gli lava con acqua bollita con lauro, salvia e rosmarino i piedi molto bene, e tosto che gli ha spuntate l’unghie […]». 40 Cfr. 4, 16: «ti asciuga con alcuni panni sì bianchi e sì dilicati, che ti confortano tutto quanto, e posto il vino in fresco, et apparecchiata la tavola, e fattoti buona pezza vento, ti fa orinare». 41 Cfr. III, 5: «convengono a tutte le donne, come l’esser bona e discreta, il saper governar le facultà del marito e la casa sua e i figlioli quando è maritata, e tutte quelle parti che si richieggono ad una bona madre di famiglia». 42 Per esempio si leggano questi periodi del III libro: «Contrario le femmine quasi tutte si veggono timide da natura, molle, tarde, e per questo più utili sedendo a custodire le cose, quasi come la natura così provedesse al vivere nostro, volen- [ 17 ] 262 MATTEO BOSISIO re come mera pratica carnale vuole evidenziare l’inconsistenza e l’ineffabilità di quei trattati di stampo neoplatonico – si pensi solo al De amore (1469) di Ficino, al Libro de natura de amore (1525) di Equicola, agli Asolani e al IV libro del Cortegiano – atti a lodarne, invece, l’aspetto spirituale e cerebrale. Aretino attacca pure il volume Della eccellenza e dignità delle donne (1525) di Galeazzo Flavio Capella, diplomatico presso gli Sforza. Nel paragrafo sulla «prudenza» (ed. cit., p. 83) si sostiene che: «le donne, essendo de più fredda complessione, manco sono soggiette a queste repentine turbazioni e tutte le azioni sue più quietamente e consigliatamente fanno». Un ultimo riferimento può essere fissato con i Colloquia familiaria di Erasmo da Rotterdam (1518), baluardo della cultura rinascimentale. Al capitolo Uxor memyivgamo~, la saggia Eulalia consiglia all’inesperta Santippe di comprendere il marito quando è sconfortato e di sostenerlo con forza; se l’ira è eccessiva è bene accudire il coniuge calmandolo e portarlo a letto43. Passiamo all’intervento di Ambrogio (II, 5), che – servendosi di fonti misogine – organizza una precisa sconfessione della balia. L’inizio del dialogo è sorprendente, perché alla domanda del marescalco se si debba prendere moglie o meno, risponde «le girei e non le girei». Egli porta il discorso sul campo del realismo e delle singole circostanze, assai distante dalla Weltanschauung del XVI secolo. Non reggono i modelli precostituiti e generali del Cinquecento, poiché non è possibile operare una scelta definitiva che valga per tutti gli individui. Ambrogio non si esime, però, dal dare una sua netta interpretazione. Sostiene che il ritorno a casa dell’uomo dopo una giornata faticosa non sia affatto ripagato da cure premurose, anzi la moglie è sudicia e sciatta, si inventa sciocchi pretesti pur di litigare44 e tradisce il coniuge il prima do che l’uomo rechi a casa, la donna lo serbi. Difenda la donna serrata in casa le cose e sé stessi con ozio, timore e suspizione». Per il testo faccio riferimento all’edizione curata da R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1969, p. 265. 43 Cfr. Erasmo Da Rotterdam, Colloquia familiaria, ad optimarum editionum fidem diligenter emendata, cum succincta difficiliorum explanatione Ottonis Holtze, I, Lipsiae, 1867-1872, pp. 127-128: «Quemadmodum enim speculum, si probum est, semper reddit imaginem intuentis: ita decet matrem familias ad affectum mariti congruere, ne sit alacris illo moerente, aut hilaris illo commoto. Quod si quando commotior erat, aut blando sermone leniebam, aut silentio concedebam iracundiae, donec, ea refrigerata, tempus se daret vel purgandi, vel admonendi. Idem faciebam, si quando plus aequo potus redibat domum; nec id temporis nisi iucunda loquebar illi: tantum blanditiis pertrahebam ad lectum». 44 Boccaccio aveva parlato estesamente dell’iracondia delle donne nel Corbaccio (§ 214, 237 e 257). [ 18 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 263 possibile45. Viene poi descritta la propensione femminile ai pettegolezzi e alle chiacchiere46 ed è rimarcato il topos della bruttezza della donna47, alimentata dal continuo uso di inutili cosmetici48. La colpa di questa condizione degenerata va anche attribuita agli uomini, che credono alle loro consorti e le assecondano in ogni circostanza (14, 31): Ma la ruina di Roma e di Fiorenza è stata più discreta che non è quella, con la quale disfanno, spianano e profondano i meschini mariti che gli credono; e questi tali per mandarle riccamente, e tagliuzzate, ed indorate, vanno oggi, e per più unti e più bisunti che i cortigiani del dì d’oggi, e perché le mogli per le chiese, a le feste ed a i conviti comparischino come Duchesse e come Imperatrici, stanno i mesi e gli anni in casa; e conosco alcuno che ha vendute le possessioni, perché la moglie compri i zibellini col capo d’oro tempestati di gioie, ed i monili di perle, le collane reali, e gli anelli pontificali, e così loro vendendo, ed esse comperando il temporale e lo spirituale, hanno tutto, in capo de le fini, ad hebreos fratres49. Così Aretino, proponendo questo secondo filone trattatistico, prende di mira pure la struttura della Declamatio in genere suasorio de 45 La versione della lussuria fornita da Ambrogio (5, 31) trova riscontri nel volgarizzamento di Giovenale operato da Giorgio Sommariva (p. 23 v, 267-268: «la vuol servi infiniti a torno el fuoco / tutte le case e tutte le fucine»). Per la Compendiosa materia del tutta l’opera de Juvenale, Treviso, 1480 mi attengo all’esemplare a stampa. 46 Cfr. 7, 31: «Che crudeltà è come elle entrano a berlingare tutto tutto dì dalli, dalli, mai mai non danno requie a la lingua loro, e contano filastroccole le più ladre, le più sciocche che s’udissero mai, e guai a chi gli rompesse i ragionamenti o non le ascoltasse». Per questo tema si veda il Corbaccio 377-380 (a cura di G. Natali, Milano, Mursia, 1992): «e dicoti che il suo cinguettare è tanto che […] la lingua di lei, la quale di ciarlare mai non ristà, mai non molla, mai non rifina: dàlle! dàlle! dàlle! dalla mattina insino alla sera; e la notte ancora, io dico, dormendo, non sa ristare». 47 Cfr. 15, 35: «Non ti vo’ contare il tempo che elle perdono in consultare in che modo si debbano acconciare le trecce, pelare le ciglia, brunire i denti e rassettarsi su la persona, e sempre danno udienza ora ad una maestra di acconciare capi, ora ad un giudeo maestro di scuffie, e di ventagli, e di guanti profumati, et ora ad una trovatrice di erbe buone non a mantenere quel poco di bello che esse hanno, ma buone a farle vecchie, guizze e rance». Questa descrizione antifrastica ricorda i famosi sonetti Alla sua donna e Contra la moglie di Berni nonché il Corbaccio ai paragrafi 402-417. 48 Cfr. 12, 33: «Sia pur certo che non hanno tanti bossoletti i medici da gli unguenti, quanti ne hanno loro, e non restano mai d’impiastrarsi, d’infarinarsi e di sconcarsi e taccio la manifattura loro nel viso, ritirandosi prima la pelle con le acque forti, onde innanzi al tempo, di sode e morbide, diventano grinze e molli, e con i denti di ebano». In merito si veda il Corbaccio ai paragrafi 207 e 318-336. 49 Nel Corbaccio 207-214 si afferma che le donne costringono i mariti a comprar loro vestiti, gioielli e trucchi che le rendono simili a prostitute. [ 19 ] 264 MATTEO BOSISIO laude matrimonii (1518) e dell’Institutio christiani matrimonii (1526) di Erasmo, in cui spicca l’andamento oratorio e l’imitazione formale di Cicerone. Non è peregrino un riferimento agli Asolani. In essi Perottino – «umanista erudito, appassionato di cimenti e sottigliezze dialettiche sino al gusto del paradosso e della provocazione»50 – lamenta i dolori e le disgrazie causate dall’amore, mentre Gismondo replica alle tesi del rivale – peccando comunque di parzialità e di unilateralità – ricordando le gioie dell’amore felice51. Anche nel Marescalco i discorsi della balia e di Ambrogio sono speculari, tuttavia è avvertibile il carattere fittizio dell’argomentazione. Le parole della balia sono maldestre e spropositate, Ambrogio, invece, tiene semplicemente a incoraggiare il marescalco. Non gli interessa sostenere una posizione piuttosto che un’altra. Egli all’inizio dice: «giuro a Dio che il Signore ti ha fatto un gran favore». E alla domanda del protagonista se sia utile prendere moglie, risponde che è «utilissimo». Ma poi, vedendo la reazione negativa dell’amico, cerca di assecondarlo e cambia subito strada. Questa aleatorietà – non è un caso – è già chiara nel De Amore di Andrea Cappellano, assai famoso e stampato più volte nel Cinquecento. Nei primi due libri del trattato medioevale, il maestro Gualtiero spiega a quattro nobildonne la teoria dell’amor cortese, tuttavia nell’ultimo – intitolato De reprobatione amoris – assistiamo a un’imprevista palinodia. L’autore prende le distanze da quanto aveva affermato e, soprattutto, dalla definizione della fin’amor, esaltata nei suoi aspetti virtuosi e morali, in contrapposizione al rapporto matrimoniale. Aretino smaschera la falsità di questo metodo – macchinoso e prevedibile – sottolineandone sia la totale inutilità, se l’analisi del singolo evento è impersonale, sia il gusto compiaciuto per la citazione e la disputa. Un’operazione simile viene fatta da Ariosto nella quinta satira (1519) – definita non a caso «trattatello» da Debenedetti – dove vengono smontati i meccanismi del dialogo, rivelando che la materia matrimoniale discussa è solo un pretesto, un gioco letterario, una gara poetica con le fonti classiche e medioevali per distaccarsi dalla tradizione52. Infatti Aretino vuole a suo modo denunciare questa mendaci- 50 C. Berra, La scrittura degli «Asolani» di Pietro Bembo, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 66-67. 51 Lo stesso schema conflittuale è presente nel terzo libro del Cortegiano tra Giuliano de’ Medici e Gasparo Pallavicino, contraddittore irremovibile. 52 Questa interpretazione è presente nel contributo di A. Corsaro, Sulla satira quinta dell’Ariosto, «Italianistica», IX, 1980, pp. 466-477. [ 20 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 265 tà propagandistica. Se è vero che il ruolo della donna era migliorato all’epoca, lo scrittore trova, in ogni modo, eccessive alcune lodi e modelli di emancipazione, assai lontani dall’essere realizzati e appartenenti a un ideale artistico, non certo concreto53. La storiografia e la sociologia contemporanee tendono ormai a mitigare le affermazioni entusiastiche di Jacob Burckhardt54 e ci informano che il dominio degli uomini sulle donne – anche presso i ceti aristocratici – trovava fondamenti solidi nella teologia, nel diritto e nella medicina. La donna – responsabile del peccato originale – pareva una creatura in preda alle emozioni e aveva bisogno di essere governata da una mano salda. Il giudizio di Aristotele – secondo cui le donne erano esseri incompleti – riscontrava un grosso seguito, credendo ad esempio, che gli organi sessuali femminili fossero nient’altro che quelli maschili in posizione inversa. La donna – guidata per la medicina da umori freddi e umidi – era vulnerabile, falsa e infedele. Il diritto romano, infine, affermava che le donne, dotate di una capacità mentale inferiore, avrebbero dovuto ricevere pene più lievi per i reati commessi. Ma questi pregiudizi emergono anche nei trattati apparentemente più favorevoli. È abbastanza ambigua la posizione ricoperta dalle donne all’interno del Cortigiano. In effetti Amedeo Quondam – alle pagine XXVI-XXVII dell’introduzione all’edizione Garzanti – ha rilevato che le dirette interessate non partecipano mai attivamente alla codificazione del modello femminile e svolgono un compito subalterno e marginale, di intrattenimento e non di conversazione55. E quindi, se ci pensiamo bene, la grande vastità dei trattati sul matrimonio e sull’amore esibiscono maggiormente la loro affettazione e oziosità dal momento che – come succede al povero marescalco – le nozze erano imposte per interesse politico dalle casate nobiliari, la libertà di scelta era tutt’altro che garantita e la posizione della donna subordinata. La realtà storica è edulcorata dalla finzione letteraria; tutta l’immagine di riscatto individua- 53 È nota la teoria piuttosto audace di Gasparo Pallavicino nel Cortegiano (III, 4), dove ci si auspica che la donna possa essere pari all’uomo nel cavalcare, lottare, giocare a palla, usare le armi e cacciare. Un’idea di Aretino in merito è rintracciabile nelle lettere 57, 97, 174, 617 e 652. 54 Si legga La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1980, (ed. orig. 1860), p. 351: «Finalmente, per bene intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo». 55 Sulla medesima linea sono i lavori di G. Saccaro Battisti, La donna, le donne nel «Cortigiano», in La corte e il «Cortegiano», I, pp. 219-250 e A. Chemello, Donna di palazzo, moglie, cortigiana: ruoli e funzioni sociali della donna in alcuni trattati del Cinquecento, in La corte e il «Cortegiano», II, pp. 113-132. [ 21 ] 266 MATTEO BOSISIO le si svela fallace e così anche i trattati e le corti – veri e propri centri di emanazione di queste teorie – vengono messi alla berlina. I restanti dialoghi possono essere ricondotti a un’unica questione, cui corrisponde una finalità precisa da parte dello scrittore. I discorsi del pedante (I, 9; II, 11 e V, 3), di Jacopo (IV, 5) e dello staffiere (IV, 8) sono simili per vanità e autoreferenzialità. Come avviene per il Cortegiano, il dibattito sul matrimonio è tutto prodotto all’interno della corte e dai cortigiani. La corte finisce a parlare di sé stessa; è insieme emittente e destinatario, mettendo in crisi il normale sistema comunicativo. Il pedante – che sostiene, riprendendo i Colloquia (Proci et puellae) e Alberti (I, p. 20 e sgg.), l’importanza delle nozze a fini riproduttivi – si avventura in un linguaggio criptico, un miscuglio disomogeneo di latino, volgare, forme composite, citazioni e proverbi (I, 9, 2, 21): Dice la seguenza de lo Evangelista, idest il fattore coeli et terrae ne lo Evangelio dice che la arbore che non fa frutto, sia tagliata e posta al fuoco; onde il magnanimissimo Signor Duca nostro, acciocché tu, che sei in figura de la arbore, faccia frutto, e perché l’umano genere cresca e multiplichi, ti ha eletto a gaudere di una integerrima consorte; et il tutto sua Eccellenzia ha conferito nobiscum, et hammi imposto che ego agam oratiunculam, cioè componga il sermone nuziale, parlandoti idiotamente56. Al pedante manca ogni elementare buon senso; vive al di fuori della realtà ed è incapace di intrattenere rapporti normali con le persone che frequenta. Egli, con la sua erudizione fastidiosamente ostentata, fa prova di un’ampollosità che si situa agli antipodi della «sprezzatura». Questo personaggio raffigura la degenerazione dell’intellettuale del Quattrocento – umanista cittadino – giunto nei decenni al rango svilito di pedagogo-grammatico, al servizio delle corti e rinchiuso in una concezione sclerotizzata della cultura quale puro gioco formale. Jacopo, invece, è l’unico personaggio che potrebbe aiutare il marescalco. È effettivamente sposato, conosce la vita di coppia, si esprime in modo efficace e non ha alcuna convenienza a orientare il parere dell’amico. Purtroppo, però, il suo ragionamento viene continuamente interrotto a sproposito e travisato. In un primo tempo il pedante si 56 Per l’analisi complessiva della figura del pedante all’interno del teatro del XVI secolo è basilare il lavoro di A. Stäuble, «Parlar per lettera». Il pedante nella commedia del Cinquecento e altri saggi sul teatro Rinascimentale, Roma, Bulzoni, 1991. Aretino scandaglierà molte volte questa bizzarra professione; richiamo le lettere 68, 76, 108, 223, 276, 311, 457, 472, 572, 573, 598, 613, 623 e 663. [ 22 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 267 intromette inventando possibili opere da cui Jacopo avrebbe preso spunto; compaiono così l’inesistente De agilibus mundi di Seneca, il De civitate dei di Agostino (nominato per sbaglio), l’Etica di Aristotele, l’Insomnium Scipionis di Plutarco (semmai il Somnium Scipionis del IV libro della Repubblica ciceroniana), l’Apocalisse (ma il passo in questione è presente nella Lettera agli efesini di S. Paolo) e un verso virgiliano poco pertinente. In seconda battuta Giannico prende in giro il pedante, provocandone l’ira. Il risultato finale è assai negativo: il marescalco si spazientisce, arriva perfino a litigare con l’incolpevole Jacopo e gli addossa la colpa della difficile comprensione (12, 64): «E per non vi tenere a tedio dicevi, M[esser] Jacopo, che non me ne ragioniate più, se volete essermi amico; io vi parlo chiaro». In questo caso ogni tentativo di comunicare viene meno, come se all’interno della corte fosse naturalmente impossibile. Nell’ultimo dialogo in esame il marescalco cerca conforto dallo staffiere e tenta di conoscere il suo parere. Pur tuttavia, i due svolgono solo un assurdo scambio di opinioni. Ognuno, preso dal proprio pensiero, recita un monologo diverso, in quanto non importa confrontarsi con le idee altrui57. La celebrazione dell’istituto del matrimonio non viene discussa, non è oggetto di scambio e rapporti tra gli individui, bensì è cristallizzata come la corte medesima. Pertanto, nello spazio chiuso della corte, laddove si scorge il pur minimo movimento, esso si costituisce come «ciancia» vacua e inafferrabile. Abbiamo visto la particolare struttura dell’opera. Aretino non soltanto ha smontato i princìpi generali della corte, ma è riuscito anche a far risaltare i limiti e – in un certo modo – le aporie dei trattati e delle commedie. Il genere comico, nello specifico, viene sia spogliato dei suoi meccanismi costitutivi sia diventa – con l’aggiunta ingente di parti dialogiche – spurio e informe. Non a caso Giorgio Barberi Squarotti ha qualificato il Marescalco come anticommedia58. Questa definizione, nondimeno, credo possa essere calzante solo per l’aspetto formale. Difatti nell’analisi dello studioso il personaggio del marescalco 57 Cfr. 3-4, 68: «STAFFIERE: Ragioniamo di questo che importa la vostra felicità, e toglietela. MARESCALCO: Non ci si può più vivere. S: Bellissima. M: Il mondo è guasto. S: Quattro mila scudi e più. M: Bisogna mutare stanza. S: Parte in possessioni, e parte in danari. M: La va così. S: Gentildonna. M: Pazienza. S: Giovanissima ». 58 Cfr. G. Barberi Squarotti, L’Aretino uomo d’ordine. L’anticommedia del «Marescalco », «Il Bimestre», IV, 1972, pp. 5-15. [ 23 ] 268 MATTEO BOSISIO diventa «l’unico interlocutore d’opposizione, quello che fa le opportune obiezioni, che porta gli argomenti contrari»59. Invece, abbiamo visto in più riprese che il protagonista è organico alla corte e non cerca in alcuna maniera di ribellarsi. Nel primo atto, rispondendo a Jacopo – il quale sostiene di essere governati da un pazzo – ne prende le distanze dicendo (I, 2, 3, 12): «son cortigiano anche io». Il suo sconforto per l’imposizione del duca si tramuta repentinamente sia in gioia e sollievo per la burla ordita sia in approvazione per il padrone. Nell’ultima scena della commedia tutti i personaggi – marescalco incluso – festeggeranno e banchetteranno in un’atmosfera pacificata e serena. Il marescalco non rappresenta affatto un elemento di protesta e rottura. Egli ha coscienza della propria impotenza e subalternità; non la mette mai in discussione, anzi ne è orgoglioso60. E, infatti, nel corso della commedia non giunge in nessun caso all’esplicito rifiuto del sopruso, piuttosto alla sofferta presa d’atto nella terza scena del secondo atto (2, 27): «Io credo a Dio, e questi signori hanno di strani capricci, gran cosa è il fatto loro». Questa incapacità di svincolarsi del tutto dalla forma mentis della corte – sintomo di un’incompleta elaborazione critica – è presente in modo tangibile nella Cortigiana. Flamminio (I, 10) si dice sfortunato, poiché non è riuscito come altri a inserirsi nel meccanismo cortigiano e accumulare ricchezze. Nel personaggio domina il rimpianto, non il rifiuto di un mondo che spinge a terribili degenerazioni. Nella settima scena del terzo atto Flamminio non reagisce ai problemi di palazzo cercando un’alternativa, ma medita in quale corte, diversa da quella romana, rifugiarsi. E nel IV atto, quinta scena, Flamminio chiede a Valerio perché debba vergognarsi di compiere le stesse azioni dei potenti, quando sono loro i primi a non preoccuparsene. La risposta del compagno è emblematica: «Perché i Signori son Signori». Come ha osservato Gianni De Maria, viene indicata con questi particolari una dimensione tautologica del mondo, dove si afferma la coscienza dell’invariabilità delle strutture sociali e politiche e in cui per l’intellettuale è impossibile mutare le strutture e la passività del reale61. 59 Ivi, p. 14. 60 Cfr. I, 6, 2: «[…] pazienza, pur che il Signore abbia di me piacere, io l’ho caro, perché è segno di amore, quando il padrone scherza col servidore». 61 Cfr. G. De Maria, Pietro Aretino commediografo: la visione tautologica del mondo come impotenza a mutarlo e l’autocoscienza ironica, «Sigma», XXXI, 1971, pp. 3-51. Il saggio – sebbene viziato da un’impostazione marxista a volte troppo rigida – rimane di notevole acume. [ 24 ] Il Marescalco dell’Aretino come anticommedia imperfetta 269 Pertanto non sono solo la letteratura e la corte a creare dimensioni finte e inattuali, bensì pare che Aretino si focalizzi sulla sterilità di tutto il contesto politico-culturale nazionale, da cui non si intravede via d’uscita. Infatti dobbiamo inquadrare il Marescalco sia all’interno di una biografia alquanto complicata sia di un periodo funesto per la storia italiana che – dopo il “sacco di Roma” – porterà la penisola nell’orbita della Spagna. A Firenze la signoria medicea si trasformò in un principato controllato da Madrid; Mantova si assoggettò al nuovo potere senza porre resistenza, mentre la Chiesa perdette indipendenza e libertà di manovra. Aretino nel Marescalco porta con sé le inquietudini della propria epoca, che non riesce ancora a superare trovando un elemento di discontinuità – artistico e pubblico – valido. Solo alla fine degli anni Trenta egli riuscirà a imboccare una strada differente lavorando a Venezia nell’industria culturale, capace di favorire un ambiente libero e – nello stesso tempo – duraturo. Non a caso – come già detto – un incessante tentativo di scardinare il sistema cortigiano sarà approntato sino alla stesura del Ragionamento de le corti e delle Lettere del 1538. All’epoca del Marescalco, lo scrittore non aveva individuato un modello di valori nuovi e antitetici da proporre. Leggendo la commedia scopriamo l’animo di uno scrittore irrequieto, che non trova al momento soluzioni letterarie certe e definitive. Il Marescalco risulta un esperimento talmente estremo da rappresentare un caso drammaturgico irripetibile e non rappresentabile. L’operazione artistica e culturale, tuttavia, rimane elevata e l’imperfezione della sua iconoclastia si fa cifra stilistica di una disfatta politica ed esistenziale cui non ci si dà per vinti. Matteo Bosisio (Università degli Studi di Milano) [ 25 ] PIER ANGELO PEROTTI Note sulla Gertrude manzoniana In the character of Gertrude we can see not only the well known mixture of history and invention typical of the historical novel, but also an autobiographical contaminatio: the almost forced marriage of Giulia, Manzoni’s mother, and Don Pietro Manzoni, the hardly existing relationships between father and son, and the juvenile years spent by Manzoni in a boarding school. The events connected with the writer’s family may have played a role in shaping Gertrude’s biography as a young woman. 1. I personaggi dei Promessi sposi possono essere suddivisi in tre categorie: quelli storici (il cardinale Federigo Borromeo, Ferrer, etc.); quelli completamente di fantasia (Renzo, Lucia, don Rodrigo, etc.); quelli fondamentalmente storici ma con divergenze e variazioni, a diverso titolo, rispetto alla realtà storica (l’innominato, etc.). Tra questi ultimi può essere annoverata Gertrude, la “monaca di Monza”. Infatti la biografia di Marianna de Leyva1 (poi suor Virginia Maria2) corrisponde soltanto a grandi linee e solo parzialmente al racconto che ne fa il Manzoni. 1 Ho attinto i dati biografici relativi a costei e alle sue vicende criminali soprattutto da M. Mazzucchelli, La Monaca di Monza, Milano, Editori Associati, 1993 [Milano, Dall’Oglio, 19611]; cfr. anche Id., Raffronto fra Geltrude di “Fermo e Lucia” e suor Virginia nei riguardi di Egidio e dell’Osio, in Atti del V Congresso Nazionale di Studi Manzoniani, 7/10 ottobre 1961, Lecco, Annoni, s. d., pp. 241-245; Vita e processo di Suor Virginia Maria de Leyva monaca di Monza, Milano, Garzanti 1985 (con ricca bibliografia); P. Colussi, La vera storia della Monaca di Monza, in P. Colussi – M.G. Tolfo, Storia di Milano (on line), 2002-2008; etc. Alcune osservazioni o ipotesi che compaiono in questo mio saggio presentano qualche affinità con G. Tellini, Manzoni. La storia e il romanzo, Roma, Salerno Editrice, 1979. 2 Si noti che la giovane, monacandosi, assunse il nome della madre, Virginia Marino de Leyva (cfr. infra, § 2), con l’aggiunta – frequentissima per le monache – del nome della Madonna. Note sulla Gertr ude manzoniana 271 Ricordiamo in premessa che l’autore incorse in un grave anacronismo nel collocare le drammatiche vicende della monaca, posticipandole di una trentina d’anni: infatti gli eventi relativi a suor Virginia e all’amante Gian Paolo Osio (l’Egidio manzoniano) vanno collocati nel decennio tra il 1598 – allorché ha inizio la relazione tra i due, ossia quando «la sventurata rispose» (cap. X, p. 210)3, secondo la celebre, felice espressione ellittica del Manzoni4, «incisiva e allusiva a un tempo»5 – e il 1607, anno in cui ebbe inizio l’inchiesta contro di lei, mentre i fatti descritti nel romanzo si svolgono tra il 7 novembre 1628 (incontro di don Abbondio con i bravi di don Rodrigo) e la fine di ottobre del 1630. La ragione di questo anacronismo va ricercata nel fatto che il romanziere ebbe a disposizione, come fonte storica, soltanto l’Historia patria del Ripamonti6, che «non recava alcuna data od alcun altro riferimento atto a rilevarla»7, e che il processo alla monaca si svolse durante l’episcopato di Federigo Borromeo, che fu arcivescovo di Milano dal 1595 alla morte (1631), ossia in un periodo compatibile con la datazione presunta, in assoluta buona fede, dal Manzoni. Tale convinzione relativa alla cronologia della vicenda accompagnò l’autore sia durante la stesura del Fermo e Lucia (1821-23) sia nel corso della prima redazione dei Promessi sposi (1824-27). Soltanto nel 1835, o poco dopo, il cardinale Karl Kajetan von Gaisruck, arcivescovo di Milano tra il 3 Come nei miei ultimi saggi manzoniani, anche in questo studio la numerazione delle pagine corrisponde a quella dell’edizione definitiva dei Promessi sposi, Milano, Guglielmini e Redaelli, 1840-1842, d’ora in poi citata con la sigla: P.S.; e dunque i vari passi dell’opera sono indicati col numero romano del capitolo e con quello arabo della pagina dell’edizione citata; quando è segnalato solo il numero della pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza. 4 Di ben altra ampiezza è il racconto della tresca della Signora con l’amante e dei delitti conseguenti nel Fermo e Lucia [opera per cui ho seguìto la numerazione dei paragrafi adottata nell’edizione curata da L. Caretti, I Promessi Sposi, vol. I, Fermo e Lucia, etc., Torino, Einaudi, 1971, d’ora in poi citata con la sigla F. e L.], dove ai fatti relativi è dedicato oltre un capitolo (tomo II, cap. V, § 13 – tomo II, cap. VI, § 25), e complessivamente quasi sei capitoli all’intera storia della monaca (t. II, capp. I-VI, senza contare la sequenza del suo tradimento ai danni di Lucia, t. II, cap. IX), ridotti drasticamente a meno di due – capp. IX-X, oltre al passo del tradimento, cap. XX – nell’edizione definitiva. 5 A. Manzoni, I Promessi sposi, a cura di P. Nardi, Milano, Mondadori, 195917, p. 279, n. 638. 6 Josephi Ripamonti, Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, Cap. III, pag. 358 et seq. [nota del Manzoni]. 7 M. Mazzucchelli, La monaca di Monza, cit., p. 13. [ 2 ] 272 PIER ANGELO PEROTTI 1818 e il 1846, gli mise a disposizione gli atti del processo alla de Leyva8, che però egli in pratica non utilizzò durante la revisione del romanzo (la cosiddetta “quarantana”: cfr. n. 3)9, le cui varianti rispetto alla “ventisettana” sono quasi esclusivamente di carattere linguistico. Del resto, l’utilizzo del nuovo materiale documentario avrebbe costretto il Manzoni a stravolgere l’intera narrazione, o almeno a eliminare quei riferimenti a luoghi e persone che permettono di identificare la monaca del romanzo con suor Virginia de Leyva, ideando un nuovo personaggio, il che sarebbe stato non dico impossibile, ma certo pregiudizievole per l’armonia dell’opera. 2. Oltre all’anacronismo cui ho accennato al § 1, altre sono le notizie riportate nel romanzo che contrastano con i dati biografici della giovane monacanda. Innanzitutto il padre, don Martino de Leyva, non era né marchese (come nel F. e L.: «marchese Matteo») né tanto meno principe (come nei P. S.), ma conte, in quanto figlio cadetto di Luigi de Leyva principe d’Ascoli, e come tale aveva dedicato la vita alla carriera militare; ma per ottenere nomine prestigiose gli era necessario parecchio denaro: ecco presumibilmente il motivo principale – l’interesse economico – per cui nel 1574, a 26 anni, sposò Virginia Marino, figlia ed erede del più ricco banchiere milanese, Tommaso Marino (morto due anni prima), vedova da circa quattro anni del conte Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo, e già madre di cinque figli, tra i quali uno maschio, Marco. Il Manzoni invece non parla né di vedovanza della «marchesa», poi «principessa», né di suoi figli di primo letto, ma soltanto di fratelli – non fratellastri – di Gertrude (Geltrude nel F. e L.), e in particolare del «principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa» (IX, 176: cfr. infra, n. 20) (il «marchesino» del F. e L.). La madre di Marianna morì alla fine del 1576 – probabilmente di peste, che infuriava a Milano in quei mesi –, quando la figlia aveva 8 U na parte delle carte processuali fu pubblicata nel 1855 da T. Dandolo, La Signora di Monza e le streghe del Tirolo, Milano, Boniardi-Pogliani, 1855 [rist. Milano, Commissionarie Foro Editrice, 1967]. Solo nel 1961 l’arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini (poi papa Paolo VI) consentì al Mazzucchelli l’uso dell’incartamento d’archivio per il suo libro. 9 Salvo per la precisazione: «Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa» (X, 212): cfr. I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, raffrontati sulle due edizioni del 1825 e 1840. Con un commento storico, estetico e filologico di P. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1893-1902 (ristampa anastatica, Firenze, Casa ed. Le Lettere, 1992), ad loc.; si veda pure M. Mazzucchelli, La monaca di Monza, cit., pp. 15-16. [ 3 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 273 circa un anno, mentre secondo il Manzoni in entrambe le redazioni del romanzo, durante l’infanzia e l’adolescenza di Gertrude la marchesa / principessa è in vita. A quanto si narra nel romanzo, Gertrude è destinata al chiostro fin dalla nascita, anzi dal concepimento10, in contrasto, pare, con la verità storica, considerato che in una lettera del 26 giugno 1586 (quando la bambina aveva poco più di 10 anni) il padre parlava delle previsioni matrimoniali di Marianna e di una dote di 7.000 ducati11. Del resto, secondo il testamento della madre, alla sua morte alla figlioletta sarebbe dovuta toccare la metà del suo patrimonio, e l’altra metà al primogenito del suo primo matrimonio Marco Pio (il resto della prole di primo letto erano femmine); al vedovo sarebbe spettato soltanto “l’usufrutto della dote e un anello con gemma di valore” (l’anello nuziale?). Ma il testamento fu subito impugnato dalle sorelle di Marco, escluse dall’asse ereditario, e la controversia legale si trascinò per alcuni anni, finché nel 1580 don Martino, spinto dall’avidità, raggiunse un compromesso con le figliastre a danno di Marianna (che allora non aveva ancora 5 anni): a lei e al padre toccarono i 5/12 dei beni ereditari, ai figli di primo letto i 7/12. In ogni caso, i de Leyva disponevano di proprietà e di rendite tutt’altro che trascurabili: i beni lasciati da Virginia Marino alla figlia – ora comuni anche al padre – e i cospicui proventi di don Martino in quanto signore di Monza. Nel frattempo, durante le frequenti, quasi continuative assenze del padre da Milano per seguire campagne militari, Mariannina era stata affidata dapprima a una balia di origine spagnola, poi a un’ignota famiglia che visse a palazzo Marino presso la bambina: tutto questo a cura della sorella di don Martino, donna Marianna de Leyva, moglie del marchese Massimiliano Stampa-Soncino. Ma nel 1588 il de Leyva contrae un nuovo matrimonio a Valencia con la nobildonna spagnola Anna Viquez de Moncada (figlia del barone di Laurin), dal quale avrà altri sei figli, tre maschi (Luigi, Antonio e Gerolamo), che seguiranno le sue orme nella carriera militare, e tre femmine (Maddalena, Giovanna – morte bambine – e Adriana, anch’essa destinata al chiostro)12. Con ogni probabilità queste nuove 10 Cfr. IX, 176: «La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza». 11 Cfr. P. Colussi, La vera storia della Monaca di Monza, cit. 12 Ibidem. [ 4 ] 274 PIER ANGELO PEROTTI nozze provocano un cambiamento di prospettiva, ossia la decisione di don Martino di sacrificare Marianna al chiostro, con la promessa di una dote di seimila lire imperiali, che peraltro non verserà mai13. Ecco perché circa un anno dopo, all’inizio del 1589, egli torna in Lombardia per occuparsi del futuro della figlia, ormai quasi quattordicenne. Essendo morta, l’anno prima, la marchesa Stampa-Soncino, che aveva tutelato, ancorché indirettamente, la nipote, il padre decide di collocare la ragazza in un monastero. «Forse non ha ancora il proposito di farne una monaca, ma spera che una volta in convento nasca in lei una “spontanea” vocazione: resti ad ogni modo “conversa” per qualche anno; poi si vedrà»14. Comunque non si tratta ancora di monacazione, né spontanea né forzata, semplicemente perché impossibile secondo le recenti direttive del Concilio di Trento, che prescrivevano l’età minima di sedici anni per prendere il velo (ma cfr. infra, n. 26). Del resto, la vita di Marianna nel tetro palazzo di famiglia, tra estranei che le imponevano soltanto formali pratiche religiose e rinunce espiatorie, dove non aveva alcuna occasione di rapporti con fanciulle della sua età, doveva essere assai infelice, probabilmente – a suo modo di vedere – più che in un convento (collegio o educandato), in cui avrebbe avuto occasione di frequentare sue coetanee e di avere, insomma, un minimo di relazioni sociali. Per questo non doveva essere del tutto avversa alla permanenza nel monastero di Santa Margherita a Monza cui fu affidata: dunque «non capricci, proteste, pianti: Mariannina obbedisce al volere paterno con la maggiore docilità»15. Sembra pertanto non corrispondere alla realtà il quadro della vita nel palazzo del principe padre di Gertrude che il Manzoni lascia intuire (capp. IX-X), anche perché il corrispondente storico, don Martino de Leyva, trascorse perlopiù lontano da Milano gli anni dell’infanzia della figlia. Ricordiamo infine che il padre di Marianna non era, come scrive il Manzoni, un «gran gentiluomo milanese» (IX, 175), ma un nobile spagnolo; a meno che l’autore volesse intendere “milanese d’adozione”. Altre discrepanze – relative alla tresca di suor Virginia con l’Osio e ai loro delitti – tra le risultanze degli atti del processo (che, come già abbiamo rilevato, il Manzoni non poté consultare) e il racconto del 13 Ricordiamo che cosa il Manzoni fa dire amaramente a Geltrude nel F. e L., t. II, cap. I, § 52: «“io non ho da essi ereditato che il nome”»; cfr. anche t. II, cap. II, § 7, cit. infra, n. 31, dove tra l’altro si accenna all’avarizia del marchese Matteo. 14 M. Mazzucchelli, La monaca di Monza, cit., p. 24. 15 Ibidem. [ 5 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 275 Fermo e Lucia non saranno qui prese in esame, soprattutto perché non sono utili alle finalità del presente saggio. 3. Le difformità tra i dati storici e la narrazione del romanzo non hanno certamente la funzione di rendere impossibile l’identificazione del personaggio, che lo stesso autore favorì con le notizie di IX, 166: «Uno storico milanese che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca», tant’è vero che sin dalla pubblicazione della “ventisettana” fu universalmente nota l’identità della “monaca di Monza”, ed ebbero inizio le pubblicazioni sulle vicende della sua vita. Tentiamo dunque di chiarire le ragioni che spinsero il Manzoni a deformare i dati storici relativi alla sua Gertrude. È indubbio che il carattere del principe manzoniano corrisponde abbastanza bene a quello di don Martino de Leyva, certamente ambizioso, «ossequiente e perfino strisciante al cospetto del suo potentissimo re»16, egoista, anaffettivo, autocratico in famiglia, ligio a un rigido moralismo formale e al culto della nobiltà, calcolatore, avido e disonesto al punto di defraudare la figlia Marianna dell’eredità materna che le spettava. Una simile indole e i comportamenti che ne conseguono, trasferiti nel principe, si adattano perfettamente agli scopi del Manzoni, che attribuisce al padre di Gertrude la responsabilità pressoché totale delle sventure della figlia. La giovane è vittima soprattutto della feroce tirannide e dei sordidi sentimenti del genitore – in primis l’avarizia, l’orgoglio esasperato e distorto, e un malinteso senso dell’onore di casta –, alla cui dispotica volontà non ha le risorse per reagire, e dunque le sue colpe sono indotte, tanto che l’autore, dopo averla definita «sventurata », e non con un altro termine che indichi il suo misfatto iniziale17, 16 Ivi, p. 17. 17 Cfr. I Promessi sposi, a cura di N. Sapegno e G. Viti, Firenze, Le Monnier, [ 6 ] 276 PIER ANGELO PEROTTI pur non giustificandola o sottovalutando i suoi delitti (il che contrasterebbe con il rigore giansenista sulle scelte etiche), riesce a conciliare la pietà umana con la giusta condanna, facendola apparire agli occhi del lettore soprattutto come una creatura debole, priva di volontà, vittima delle circostanze e di chi le sta intorno18, e permettendo un margine di difesa o almeno qualche attenuante delle sue colpe, pur gravissime. Non è un caso che verso la fine del romanzo l’autore ne ricordi il pentimento e l’espiazione19, a conferma che essa non è intimamente corrotta, ma trascinata, anzi travolta, dagli eventi e irretita da persone infide. 4. La presenza, nel palazzo del principe, della madre di Gertrude (morta, nella realtà storica, quando la bimba aveva meno di un anno) e del fratello primogenito (mentre Marianna aveva solo un fratellastro, Marco, che peraltro non viveva a palazzo Marino) è un’alterazione che può essere attribuita a due diverse cause: non si può escludere che il Manzoni avesse notizie imprecise circa la famiglia della giovane, ma si potrebbe anche sospettare che egli abbia volutamente alterato i dati storici per sottolineare questa sorta di congiura di famiglia mirante a indurre Gertrude a prendere il velo. Nel romanzo la madre è una figura scialba, priva di carattere, che si limita ad avallare acriticamente le decisioni del marito20, capace soltanto di lamentarsi per il fastidio di dover sacrificare qualche ora di sonno per accompagnare al 20038, scheda critica al cap. X, p. 206: «“La sventurata rispose” (dove sventurata è vocabolo pregnante, in cui si fondono, senza confondersi, la compassione del poeta e il rigore del moralista)». 18 Cfr., I Promessi sposi, a cura di A. Marchese, Milano, Mondadori, 19874, cap. X – Guida alla lettura, p. 219: «Il racconto traccia, dunque, la parabola esistenziale di una donna debole, insoddisfatta e dominata, sempre, da una volontà maschile sadica, nelle figure ossessive del padre e dell’amante feroce». 19 XXXVII, 723: «[Lucia] seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo». 20 Qualche esempio: IX, 176: «Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: “che madre badessa!”»; X, 192: «La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi»; 198: «il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza»; etc. [ 7 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 277 monastero la figlia a presentare la «supplica» per esservi accolta21; il fratello – il «principino» –, è un giovane fatuo e viziato che si prepara a seguire le orme del padre, e che durante questo “apprendistato” si esercita a praticare l’arroganza22, che è quasi un tratto distintivo della famiglia23, o della nobiltà in generale. Questa deformazione dei dati storici, modificati in un senso ben preciso, serve al Manzoni a insistere sull’imposizione a Gertrude dello stato monacale – basata anche sul più vile ricatto –, subdolamente spacciata per autodeterminazione. È pur vero che la frase icastica «e fu monaca per sempre»24 (X, 207) – il conciso suggello del dramma, che è 21 Cfr. X, 196: «“La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito”». Si noti che nel F. e L. il riferimento alla levataccia della principessa ritorna ben tre volte: t. II, cap. III, § 32 (simile al succitato passo dei P. S.): «“La Signora Marchesa si sta alzando, e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito”»; § 39: «la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava nell’aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo »; t. II, cap. IV, § 3: «ella [scil. la marchesa] dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere svegliato tre ore [si noti che in precedenza erano quattro] prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente». 22 Cfr. le parole della vecchia governante del principino: «“Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però”» (X, 196). 23 Cfr. I Promessi Sposi, commento di A. Momigliano, Firenze, Sansoni, 1964, p. 216, n. 1: «Dalla candida esaltazione della vecchia viene fuori anche la figura del principino, il despota in boccio, il “nibbio”»; I Promessi sposi, a cura di E. Caccia, Brescia, Ed. La Scuola, 19857, p. 336, n. 175: «nel suo candore di donna affezionata, la governante non capisce che in realtà quello strepitare per un poco d’attesa non preannuncia nulla di buono in quel carattere»; p. 337, n. 182: «è figlio di suo padre, e Gertrude sente soggezione anche per lui, per quella violenza che quando si adira “non ha riguardo per nessuno”». 24 Questa frase lapidaria sostituisce – assai felicemente, a mio giudizio – la non succinta chiosa che compariva nel F. e L., t. II, cap. IV, § 48: «Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto su l’altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non discese sovr’esso », la cui frase iniziale ricorda per un verso l’incipit dell’Ortis foscoliano («Il sacrificio della patria nostra è consumato»), per l’altro – aggiungendo la successiva – l’episodio biblico di Abramo e Isacco, o quello classico di Ifigenia, etc. [ 8 ] 278 PIER ANGELO PEROTTI come una pietra tombale sulla giovane25 – è seguita da una pagina in cui l’autore propone la sua opinione sui benefìci della religione come elemento consolatorio (cfr. infra, § 6 e n. 44) che favorisce l’accettazione di qualsiasi condizione esistenziale, convincimento incentrato sulla riflessione secondo cui «Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta»26; ma la religione imposta come mera formalità, o intesa come sciocca superstizione27, non può ottenere questi effetti benèfici, come appunto accadrà alla Signora di Monza. Il prosieguo della sua vita ha infatti risvolti turpi e tragici28, causati da una parte dalla debolezza iniziale, dall’altra dalla sua incapacità di rassegnarsi; e come il Manzoni oscilla tra la condanna e la pietà per la «sventurata», così anche noi – seguendo il precetto evangelico Nolite iudicare, ut non iudicemini (Mt. 7, 1) ~ Nolite iudicare, et non iudicabimini (Lc. 6, 37) – ci asteniamo dal dare un giudizio sul personaggio, senza tuttavia esimerci dal condannare con tutte le forze il padre di Gertrude, e di riflesso la madre e il fratello. 5. Ai riferimenti autobiografici nei Promessi sposi29 – segnatamente nella conversione dell’Innominato, che per certi versi richiama quella 25 Cfr. E. Caccia, comm. cit., alla n. 23, p. 348, n. 456: «ribadisce il destino al quale Gertrude non era nata, e che si sigilla su di lei come un marmo inamovibile sulla tomba». 26 Come accadde, per es., alla celebre Jacqueline Arnauld (1591-1661), diventata Mère Angélique, la grande badessa di Port-Royal, anch’essa monacata per forza, o alla veneziana Arcangela Tarabotti, nata intorno al 1605, costretta a vestire l’abito delle Benedettine di Sant’Anna a soli undici anni, oltretutto in contrasto con le disposizioni del Concilio di Trento (cfr. P. Nardi, comm. cit., p. 276, n. 553; I Promessi Sposi, commento critico di L. Russo, Firenze, La Nuova Italia, 19772, pp. 200-1, n. 520-1; etc.), e a chissà quante altre; e, trattandosi dello stesso secolo della vicenda narrata dal Manzoni, non è da escludere che egli conoscesse uno di questi casi o entrambi, e magari altri simili. 27 Cfr. F. e L., t. II, cap. II, § 26: «Non vogliamo qui parlare di alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per verità sacrosante, e s’insegnavano insieme con le verità, pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all’idea della Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la distruzione». 28 A quelli storici il Manzoni aggiunge quello romanzesco della complicità della monaca nel rapimento di Lucia (XX, 383 ss.), cui si accenna nel mio articolo Spigolature manzoniane, «Critica letteraria» a. XXXIII (2005), n. 126, p. 155 ss. 29 Cfr. il mio articolo Spunti autobiografici nei Promessi sposi, «Critica letteraria», a. XXX (1997), n. 95, pp. 233-252. [ 9 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 279 dell’autore –, riconosciuti da tutti i critici manzoniani, credo che si debba aggiungere un aspetto che, almeno per quanto mi consta, è sfuggito agli studiosi del romanzo. La biografia di Gertrude, sia nella versione del Fermo e Lucia sia in quella definitiva del romanzo, è indubbiamente un amalgama di storia e d’invenzione – come del resto il complesso dei Promessi sposi –; ma specificamente nella parte relativa alla sua infanzia e adolescenza può essere ritenuta una contaminatio tra i fatti storici relativi a Marianna de Leyva (perlopiù approssimativi), le aggiunte o varianti inventate dal romanziere ed elementi autobiografici dello stesso giovane Alessandro. È più che probabile che egli fosse frutto di una relazione extra-coniugale della madre Giulia Beccaria con il conte Giovanni Verri, l’ultimo dei fratelli di questa celebre famiglia di illuministi, e non figlio del padre legale, don Pietro30 (“nobile”, e non conte, come spesso viene definito). Costui, uomo chiuso e reazionario, freddo e distaccato, incapace di sentimenti profondi31, non diede né ricevette amore dal piccolo Alessandro, né dalla seconda moglie Giulia (di lui minore di ben ventisei anni), donna aperta, sensibile, intelligente, briosa, spregiudicata, il cui matrimonio con don Pietro era stato combinato dal conte Pietro Verri con l’appoggio o la complicità del padre Cesare Beccaria32. Queste nozze di convenienza, senza amore, cui la ventenne Giulia acconsentì controvoglia e che sopportò con irrequietezza33, scivolarono 30 Per questa diceria e altre notizie biografiche sulla madre del Manzoni, cfr. G. Bezzola, Giulia Manzoni Beccaria, Milano, Rusconi, 1985. 31 È lecito sospettare che il ritratto del marchese Matteo nel F. e L. – eliminato in questi termini nei P. S. – sia stato in qualche modo mutuato dall’opinione che il Manzoni aveva di suo padre: «Il padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante […]» (t. II, cap. II, § 7). 32 Cfr. I. Gherarducci-E. Guidetti, Guida allo studio dei Promessi sposi, Firenze, La Nuova Italia, 1991, p. 9: «[…] della giovane e inquieta Giulia (che era stata forzata alle nozze)»: si veda infra e n. 34. 33 Ai rapporti tra sua madre e suo padre potrebbe riferirsi il passo in cui l’autore accenna alla sudditanza quasi totale della moglie nei confronti del marchese Matteo nel F. e L., t. II, cap. III, §§ 9-10: «La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall’aver veduto chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi muricciuoli. S’era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo accennati». [ 10 ] 280 PIER ANGELO PEROTTI ben presto verso la separazione, formalizzata nel febbraio 1792, circa un anno prima della quale l’infelice Giulia scriveva (marzo 1791): «Il conte [Pietro] Verri è al fatto delle circostanze e può ancora volere un aggiustamento che mi renderebbe schiava e infelice? E questo solo per non urtare nelle conseguenze del dispotismo di un padre il quale non sente l’orrore della mia situazione, ma solo il dispiacere di vedermi capace di scuotere un giogo da lui impostomi?»34, dato che non sopportava più di guadagnarsi «il Paradiso a forza di patimenti qui in terra»35. Non è difficile riconoscere, in questa situazione e in queste accuse contro il padre tiranno, analogie con la vicenda di Gertrude, che a sua volta «si dibatteva sotto il giogo» (X, 207) impostole dal principe-padre: al matrimonio forzato di Giulia corrisponderebbe la monacazione imposta al personaggio del romanzo. Ma c’è dell’altro a proposito del figlio36. Dopo essere stato affidato a una balia, nell’imminenza della separazione dei genitori il piccolo Alessandro, compiuti i sei anni, fu collocato nel collegio dei padri Somaschi a Merate. Significativo in particolare l’episodio del suo ingresso in collegio: «[…] la madre, forse perché non aveva il coraggio di affrontare lo strazio del primo distacco, o perché le importava poco di quel figlio, lo aveva accompagnato in collegio, e mentre un padre somasco accoglieva festosamente il bambino, lei si era allontanata. […]», e tormentati i rapporti con i genitori: «I genitori si interessano poco di lui […]. L’adolescente Manzoni fu in pratica abbandonato del tutto dalla madre ed ebbe – stando sempre in collegio – pure scarsi contatti umani con il padre, che in lui vedeva l’immagine del suo fallimento matrimoniale e di una donna che non era stato capace di amare e conquistare […]»37. È la stessa età – sei anni – alla quale Gertrudina viene collocata in convento, «per educazione e ancor più per istradamento alla vocazio- 34 Cito da I Promessi Sposi, a cura di E. Raimondi-L. Bottoni, Milano, Principato, 1988, introd., p. V. 35 Ibidem. 36 Sull’infanzia e l’adolescenza del Manzoni, cfr. per es. T. Gallarati Scotti, La giovinezza del Manzoni, Milano, Mondadori, 1969; P. Citati, Manzoni, Milano, Mondadori, 1980; F. Ulivi, Manzoni, Milano, Rusconi, 1984. 37 L. Sarchi, Alessandro Manzoni, biografia (on line: Alessandro Manzoni – Scheda biografica). [ 11 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 281 ne impostale» (IX, 178)38. Potrebbe trattarsi di una mera coincidenza, ma altri dati biografici del giovane Alessandro, per certi risvolti collimanti con le vicende esistenziali del personaggio del romanzo, fanno nascere il sospetto che, nel narrare la storia di Gertrude, lo scrittore si sia in qualche misura ispirato anche alla propria esperienza di collegiale. In età avanzata egli, rievocando gli anni trascorsi nei vari collegi (oltre a quello di Merate, dal 1796 il Sant’Antonio di Lugano, guidato da religiosi dello stesso ordine, e infine, dal 1798, il Collegio dei Nobili, poi ribattezzato Longone, retto dai Barnabiti), confidava al genero Giovan Battista Giorgini che di quel periodo della sua vita «[…] non poteva parlare senza un accento di compassione. Quelle mura squallide e nude dei dormitori, quell’aria fredda e tetra delle sale e dei corridoi, quella sorveglianza sospettosa, quel piglio burbero dei maestri, quel fare zotico degli inservienti, quelle nerbate, quelle tirate di orecchi, gli tornavano ben sgradite alla mente anche negli ultimi anni e gli rendevano spiacenti quelle memorie che sogliono ricreare la vecchiaia – le memorie, cioè, dell’infanzia e della puerizia. E più che mai gli dispiaceva il ricordo degli effetti che quel sistema di educazione produce nell’animo dei giovani: quel misto d’odio e di paura che fa le veci del rispetto; quella necessaria mancanza di sincerità e quello studio continuo d’inganni e di sotterfugi, e la soddisfazione provata ogni volta che si riusciva ad eludere una vigilanza, a trasgredire un dovere – quella ribellione continua dello spirito, insomma –, quell’avversione continua allo studio, ai precetti, alla religione stessa insegnata a quel modo»39. Questi particolari dell’educazione del giovane Alessandro corrispondono piuttosto bene, per certi aspetti, alla descrizione manzoniana dell’infanzia di Gertrude nel convento di Santa Margherita; si può dunque presumere che almeno qualche spunto relativo all’indole o alla formazione della futura monaca sia autobiografico40. Mi sembra 38 Cfr. anche F. e L., t. II, cap. II, § 15: «A sei anni fu posta in un monistero e per educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa». 39 Cito da Gherarducci-Guidetti, Guida allo studio dei Promessi sposi, cit., pp. 9-10. 40 Cfr. il mio articolo Spunti autobiografici nei Promessi sposi, cit., pp. 248-9. Per quanto presentato come considerazione di saggezza comune, si può ritenere che derivi da esperienza diretta dell’autore come collegiale anche il commento di carattere psicologico relativo alla finzione come peculiarità dei giovani (F. e L., t. II, cap. II, §§ 34-35): «Geltrude li nascondeva [scil. i motivi della repulsione per il velo] sotto quell’aspetto di indifferenza che la faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all’occhio di chi comanda loro; essa li nascondeva con quella dissimulazione [ 12 ] 282 PIER ANGELO PEROTTI invece difficile condividere l’opinione del Fabris, secondo cui «nella Signora di Monza c’è qualche ricordo della ex-monaca zia Teresa»41. 6. Abbiamo appena rilevato certe peculiarità di don Pietro Manzoni, sia come marito sia come padre. Non si può escludere che per l’indifferenza del principe nei confronti della figlia il romanziere si sia almeno in parte ispirato all’indole del proprio padre, o meglio dell’uomo che gli aveva dato il cognome riconoscendolo come figlio; e se don Pietro sapeva o almeno sospettava che Alessandro non fosse suo figlio biologico, non stupisce la sua freddezza nei confronti di un bimbo che non sentiva legato a sé da vincoli di sangue. A sua volta la madre Giulia, troppo presa dalla vita mondana e intellettuale, non si occupava del figlio come sarebbe stato opportuno, anzi doveroso. L’infanzia e l’adolescenza del Manzoni trascorsero dunque senza gli affetti familiari fondamentali per creare il giusto equilibrio tra vita interiore e vita sociale, che è alla base di una crescita armonica e di una vita serena. Pur con le modifiche apportate per renderlo congruente con la condizione di Gertrude – tra cui il diverso sesso –, e nonostante le inevitabili differenze tra l’autobiografismo e la narrazione romanzesca, il parallelo tra il giovane Alessandro e la monacanda del romanzo è piuttosto palese, almeno nel sostrato più profondo42. Alla situazione all’interno della famiglia si aggiunga l’avversione profonda che è data a quella età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant’anni, se, come si dice, gli uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri. […], perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v’è una parte di stranio, di fantastico, di individuale che non si confida, né s’indovina, a quel che dice il manoscritto». 41 C. Fabris, Memorie manzoniane, dialogo Una serata in casa Manzoni, Milano, Cogliati, 1901, p. 104 [opera poi ristampata in varie edizioni, tra le quali ricordo quella di Sansoni, Firenze 1959]. 42 Mi sembra indubbio il riferimento a proprie esperienze giovanili nel passo del F. e L. (t. II, cap. II, § 23) in cui è descritta la metamorfosi di Gertrude nel periodo più delicato della sua formazione esistenziale: «In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a quella età così critica, che separa l’adolescenza dalla giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell’animo, solleva, ingrandisce, adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova. Assoluta innocenza di pensiero; massime e pratiche di Religione ragionata; occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori, sono i mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita» (cfr. P. S., IX, 180). [ 13 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 283 del futuro scrittore per i collegi43, i cui educatori – ad eccezione, a Lugano, del padre Carlo Felice Soave, uomo severo ma di grande carisma, l’unico suo maestro che egli ricorderà con stima e rispetto – erano probabilmente non molto dissimili da suo padre. Mette il conto di riportare quanto egli scriveva nel 1805, pochissimi anni dopo la sua uscita di collegio, nel carme In morte di Carlo Imbonati, vv. 147-151: «Né ti dirò com’io, nodrito in sozzo ovil di mercenario armento, gli aridi bronchi fastidendo e il pasto de l’insipida stoppia, il viso torsi da la fetente mangiatoia». Si deve altresì presumere che nei collegi, tutti religiosi, da lui frequentati, le pratiche morali e religiose prescritte agli alunni fossero improntate a un arido formalismo (cfr. supra, § 4), e dunque non intimamente sentite (infatti i sentimenti, come lo è anche quello religioso, non possono essere imposti) né utili a offrire quelle consolazioni che si possono trovare nel rapporto con Dio44, in una sorta di sostituzione di quegli affetti familiari di cui egli non godeva e forse non aveva mai goduto. Tutto questo non solo influì sulla formazione del suo carattere, ma forse fu anche una delle cause delle nevrosi (tra le quali l’agorafobia45) – le «angosce nervose» di cui parla in una lettera la moglie Enrichetta – che lo tormentarono per tutta la vita. Sono dunque abbastanza naturali i moti di ribellione di Alessandro collegiale46, che manifestava il suo fastidio per l’autorità anche con piccoli dispetti o provocazioni nei confronti dei suoi educatori, come scrivere “papa” e “re” con la minuscola, secondo riferisce l’aneddoti- 43 Forse il Manzoni pensava che valessero anche per sé fanciullo le parole sarcastiche messe in bocca alla Signora nel F. e L., t. II, cap. I, § 63: «“il monastero dove [i parenti] la vogliono rinchiudere è così allegro! in così bella situazione! così tranquillo! è un paradiso!”», ossia riteneva che questa fosse l’opinione del proprio padre nel decidere dell’educazione del figlio in collegio. 44 Delle «consolazioni della religione» si parla anche a proposito di Gertrude (X, 209): cfr. supra, § 4. 45 Cfr. A. Marchese, comm. cit., cap. XXXIII – Guida alla lettura, p. 672. 46 Questo aspetto del suo carattere potrebbe essere stato trasferito in accenni relativi a Gertrude, in momenti diversi della sua biografia: nel F. e L., t. II, cap. II, § 10, come connotato della sua infanzia: «e nello stesso tempo ne’ suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all’obbedienza»; nei P. S., X, 210, come suo tratto durante la vita monacale: «lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza» [i corsivi sono miei]. [ 14 ] 284 PIER ANGELO PEROTTI ca, e che forse sin dagli anni di collegio maturò quell’ostilità per la religione che lo condusse al «distacco dal cattolicesimo e all’entusiastico avvicinamento agli ideali illuministici e ai valori della Rivoluzione francese, portati a Milano dall’armata napoleonica»47. 7. Credo dunque di non essere lontano dal vero ritenendo che nella descrizione dell’infanzia e adolescenza della futura monaca di Monza si debbano riconoscere vari livelli di ispirazione e diversi modelli di riferimento: quello propriamente storico, punto di partenza della narrazione, e quelli autobiografici del piccolo Alessandro e biografici di entrambi i suoi genitori. Le varie tessere di questo mosaico sono state utilizzate nel relativo excursus sia del Fermo e Lucia sia dei Promessi sposi. Ma nelle due principali stesure dell’opera la sequenza delle vicende relative alla formazione di Gertrude bambina e adolescente occupa – escludendo le ridondanze poi depennate dalla “ventisettana” e dalla “quarantana” – all’incirca lo stesso spazio; la vera differenza consiste, come è noto, nella presenza, nella prima versione, della descrizione dettagliata dell’illecita e criminale relazione amorosa della Signora, con le sue conseguenze di depravazione e di efferatezza, che nelle successive redazioni è omessa, e liquidata con la lapidaria frase «la sventurata rispose» (X, 210: cfr. supra, § 1). La cautela con cui l’autore tratta la vicenda di Gertrude nell’edizione definitiva del romanzo potrebbe essere stata provocata anche dai risvolti di carattere autobiografico e biografico della famiglia Manzoni cui ho fatto riferimento. Se il percorso giovanile della monaca è stato in parte ispirato al romanziere dai metodi educativi – domestici e in collegio – cui egli era stato soggetto, e per altro verso influenzato da qualche aspetto del profilo della madre Giulia; se il comportamento della marchesa / principessa nei confronti del marito e della figlia ricalca per certi versi la condotta della stessa Giulia nei confronti del marito e del figlio; se, infine, l’indole del marchese / principe ha qualche corrispondenza con quella di don Pietro; ebbene, di fronte a tutto questo non c’è da meravigliarsi che nell’edizione più matura, direi ponderata, del romanzo gli aspetti più scellerati delle disavventure della monaca siano stati eliminati. Nessuno dei personaggi ispiratori dell’excursus – Alessandro, la madre, il padre – ne avrebbe tratto motivo di vanto. Chissà con quanta amarezza lo scrittore descrisse 47 L. Sarchi, Alessandro Manzoni, cit. [ 15 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 285 la formazione umana di un personaggio che evocava in lui reminiscenze infantili e adolescenziali non certo gradevoli. Ma il suo senso morale, il rispetto per se stesso e per le persone a lui vicine lo indussero a ridimensionare il racconto, o almeno a tacere le parti meno esaltanti delle conseguenze fatali del rapporto tra Gertrude e i suoi parenti. * * * Non so se qualcuno, nella sterminata schiera degli studiosi che si sono occupati dei Promessi sposi, abbia notato che i quattro religiosi principali del romanzo (o almeno tre di essi) sono accomunati da una peculiarità: nessuno di essi ha abbracciato la condizione ecclesiastica in seguito a una vocazione “normale”. Seguiamo il loro ordine di apparizione nel romanzo. Nel caso di don Abbondio, il Manzoni afferma apertamente, nel breve profilo biografico del personaggio (I, 23): «Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta»48. Almeno fino alla prima metà del Novecento, una parte, forse non irrilevante, di chi abbracciava il sacerdozio vi era indotta da interessi opportunistici e non da nobili ideali, il che peraltro non avrebbe dovuto escludere la pratica dell’amore cristiano da parte di costoro, e segnatamente di don Abbondio – «comunque fosse divenuto» prete, per parafrasare il commento del Manzoni alla monacazione forzata di Gertrude (cfr. supra, § 4 e n. 26) –, mentre l’assoluta assenza di esso nell’animo del curato è non tanto una conseguenza, quanto piuttosto un’aggravante della decisione iniziale. E il giudizio sulla scelta di don Abbondio – seppure non espresso apertamente, ma solo in filigrana – è severo e «non ammette nessuna giustificazione o remissione bonaria 48 Simili le motivazioni esposte nel F. e L., t. I, cap. I, § 49: «Aveva quindi secondata assai lietamente la volontà dei suoi parenti che lo avevano avviato allo stato ecclesiastico. A dir vero il suo fine principale non era stato quello di servire agli altri col ministero. Egli aveva pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe rispettata e forte, nella quale il debole fosse difeso dalle forze riunite degli altri». [ 16 ] 286 PIER ANGELO PEROTTI delle colpe»49, e sarà ribadito, perlopiù implicitamente, nel corso di tutto il romanzo. Opposto è il percorso esistenziale e religioso di Lodovico / fra Cristoforo. Fin da giovane egli «sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi», e dunque «prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, […] tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti» (IV, 69): come si vede, si tratta di alcuni dei fondamenti dell’etica cristiana, ma di un cristianesimo militante, basato su un aiuto concreto ai più deboli, ai perseguitati. È naturale che, dopo l’uccisione del nobile prepotente, questa sua inclinazione alla solidarietà umana si perfezioni indirizzandosi specificamente all’ambito della religione, ossia alla carità cristiana (74-5): «Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio»50. Comunque, anche la vocazione di fra Cristoforo è per così dire anomala, perché non ha uno sviluppo lineare, ma si manifesta compiutamente in conseguenza di un elemento catalizzatore, rappresentato dall’uccisione dell’aristocratico (e del proprio servo Cristoforo), che agisce su un sostrato etico preesistente. Per Gertrude, argomento di questo studio, non si può affatto parlare di vocazione, ma di imposizione, e dunque si tratta dell’anomalia più grave ed evidente. Il cardinal Federigo – il religioso più esemplare e carismatico dei Promessi sposi – sembra distinguersi dagli altri ecclesiastici del romanzo per il percorso che lo portò al sacerdozio. Scrive il Manzoni, la cui sintetica biografia è piuttosto un’agiografia (XXII, 415): «Nel 1580, manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco 49 A. Marchese, comm. cit., p. 23, n. 64. 50 Più essenziale il passo nel F. e L. t. I, cap. IV, § 33: «Quindi pensando ai casi suoi, il pensiero di farsi frate che tante volte come abbiamo detto gli era passato per la mente, gli si presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione». [ 17 ] Note sulla Gertr ude manzoniana 287 dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato». Ma dai dati biografici ufficiali51 emergono alcuni particolari che il romanziere omette o ignora: l’educazione del fanciullo, rimasto orfano del padre Giulio Cesare a otto anni (1572), fu affidata alla madre e al già celebre cugino Carlo, della cui influenza risentì fortemente; a poco più di 14 anni (1579) Federigo, per suggerimento del cugino cardinale, venne inviato a Bologna per la prosecuzione degli studi; negli ultimi mesi dell’anno successivo progettò di entrare nell’ordine dei Gesuiti, ma ne fu dissuaso da Carlo, che lo richiamò a Milano, dove ricevette l’abito talare da lui stesso, e poi mandato a continuare la formazione nel collegio Borromeo di Pavia. A tutto ciò si aggiunga, anzi si premetta, che Federigo (nato nel 1564) aveva un fratello maggiore, Renato (nato nel 1555), e dunque era normale che egli, in quanto secondogenito, fosse destinato all’ordine sacerdotale52, con la previsione di una promettente carriera nella Chiesa, dato il prestigio e l’influenza della famiglia di origine: oltre al cugino arcivescovo di Milano (il cui zio materno, Giovan Angelo de’ Medici di Marignano, era stato eletto papa col nome di Pio IV), e all’altro cugino cardinale Guido Luca Ferrero, era imparentato con papa Sisto V Peretti e con i cardinali Alessandro Farnese e Mark Sittich von Hohenems. Non si può dunque escludere che anche la sua vocazione abbia, per così dire, un che di sospetto o di ambiguo, ossia che la sua scelta 51 La sua più completa biografia antica è quella di F. Rivola, Vita di Federico Borromeo, Milano 1656; ricordiamo poi le Memorie di G.B. Mongilardi, suo medico personale, edite da C. Marcora, La biografia del card. Federico Borromeo scritta dal suo medico personale Giovanni Battista Mongilardi, in Memorie storiche della diocesi di Milano, XV, 1968, pp. 125-232 (contenente anche l’elenco di altre biografie del porporato); anche P. Prodi, Federico Borromeo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XIII, Roma 1971, pp. 33-42; infine, la recentissima opera di P. Pagliughi, Il cardinal Federico Borromeo, Genova-Milano, Marietti, 2010. 52 A sua volta il cugino Carlo (1538-1584) era figlio cadetto del conte Gilberto Borromeo, e dunque, secondo l’usanza dell’epoca, fu tonsurato a dodici anni. Ma nel 1562, quando era in procinto di essere ordinato sacerdote, all’improvviso morì il fratello primogenito Federico: gli fu dunque suggerito di chiedere la riduzione allo stato laicale e di prendere moglie da cui avere dei figli, per evitare l’estinzione della casata (notiamo però che una simile opportunità non si presentò al cugino Federigo, di cui si tratta). Ma Carlo rifiutò, sostenendo che, avendo pronunciato il voto di castità di fronte a Dio, era per lui preferibile rispettare il voto che unirsi a una donna; l’anno successivo fu ordinato sacerdote, e subito dopo consacrato vescovo, a soli 25 anni. [ 18 ] 288 PIER ANGELO PEROTTI sia stata influenzata dalla famiglia – che, come altre casate aristocratiche, usava destinare alla vita religiosa i figli cadetti –, e in particolare dal cugino cardinale Carlo. Naturalmente questa scelta un po’ pilotata non inficia né scalfisce minimamente le sue qualità pastorali e le sue virtù relative non soltanto alla carità cristiana, ma pure al mecenatismo, che lo indusse, tra l’altro, a fondare la benemerita Biblioteca Ambrosiana. Ecco perché, comunque, anche il «buon Federigo» va annoverato tra i religiosi più rilevanti del romanzo la cui adesione allo stato ecclesiastico ha qualcosa di singolare. Il fenomeno complessivo è indubbiamente curioso, quasi che le inclinazioni non straordinarie, ma spontanee e tranquille, alla vita religiosa fossero poco “romanzesche” o allettanti, e che dunque, per sollecitare l’interesse del lettore, dovessero essere messi in scena personaggi il cui percorso spirituale non fosse lineare, ma soggetto a tumulti interiori (forse come per lo stesso Manzoni). Anche questa è una delle tante peculiarità dei Promessi sposi. Pier Angelo Perotti [ 19 ] ARMANDO BISANTI Il capitano Guido Altieri, ovvero Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità* During his life Emilio Salgari (1862-1911) wrote about 150 tales of adventures, often published with some pseudonyms (cap. Guido Altieri, S. Romero, Enrico Bertolini and so on). These tales mirror the variety and the vastitude of the subjects treated by Salgari in his novels. The first part of this paper is dedicated to a bibliographical review on salgarian tales. The second part analyzes three collections of tales, precisely Le novelle marinaresche di Mastro Catrame (Torino, Speirani, 1894), Nel paese dei ghiacci (Torino, Paravia, 1896) and Le grandi pesche dei mari australi (Torino, Speirani, 1904), and the short story I predoni del gran deserto (Napoli, Urania, 1911). 1. Il capitano Guido Altieri: Emilio Salgari fra editori, contratti, romanzi e racconti È certamente superfluo indugiare sulla “moda” ottocentesca degli pseudonimi letterari. Come è noto, soprattutto dopo le indispensabili indagini, in tal direzione, di Felice Pozzo, Emilio Salgari non si sottrasse a questa “moda”, anzi, forse più di ogni altro scrittore della sua epoca, seppe sfruttare con accortezza e ingegno l’espediente degli pseudonimi, aggirando, a fini di guadagno, le clausole e le pastoie contrattuali per meglio rimpolpare le non certo cospicue entrate che i suoi editori – Antonio Donath in primo luogo – gli elargivano e per assicurare alla sempre più numerosa famiglia un tenore di vita più decoroso e agiato1. Lo stesso Pozzo ha più volte prestato la propria attenzione agli pseudonimi impiegati, durante la sua carriera di scrittore, da Emilio Salgari: fra i più utilizzati, ricordiamo cap. Guido Altieri (di cui si dirà meglio fra breve), Enrico Bertolini (pseudonimo col quale, oltre ad * Dedico questo scritto a mio figlio Eugenio. 1 Cfr. F. Pozzo, Nella giungla degli pseudonimi salgariani, «Quaderni di Storia», 45 (1997), pp. 155-167. 290 ARMANDO BISANTI alcuni racconti, Salgari pubblicò i romanzi Avventure straordinarie d’un marinaio in Africa, Le caverne dei diamanti e I naviganti della «Meloria»), S. Romero (con cui, fra l’altro, firmò Gli scorridori del mare), Guido Landucci (con il quale pubblicò Avventure fra le pelli-rosse, La giraffa bianca, Sul mare delle perle e La Gemma del Fiume Rosso), ma anche cap. J. Wilson (fantomatico autore del racconto Mahur, l’incantatore di serpenti) e, come sembra definitivamente accertato dopo le ricerche di Vittorio Sarti e, ancora una volta, di Felice Pozzo, anche il tal A. Permini (con cui egli firmò il romanzo Il figlio del cacciatore d’orsi, apparso per i tipi di Donath nel 1899, che risulta, in realtà, una libera versione di Der Sohn des Bärejägers di Karl May, il “Salgari tedesco”, redatta, però, utilizzando la versione francese, a cura di Elisabeth Loisel, Le fils du chasseur d’ours, pubblicata a Parigi da Delhome et Briguet nel 1892)2. Restringendo il discorso al più celebre e al più utilizzato di tali pseudonimi, cap. Guido Altieri, occorre dire che con esso lo scrittore veronese pubblicò, per l’editore Salvatore Biondo di Palermo, i 67 racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata»3, più altri quattro racconti apparsi su «Psiche» e sull’«Almanacco Moderno Illustrato per le Famiglie »4, i due romanzi Le stragi della China e La “montagna d’oro”, e, per l’editore Speirani di Torino, il romanzo L’eroina di Port Arthur e tredici racconti della collana «Piccole Avventure di Terra e di Mare»5. 2 Cfr. E. Salgari, Storie con la maschera, a cura di F. Pozzo, Atripalda (AV), Mephite, 2003, pp. 5-28; Id., Un naufragio nella Florida, a cura di F. Pozzo, ivi, 2004, pp. 5-34; F. Pozzo, L’officina segreta di Emilio Salgari, Vercelli, Edizioni Mercurio, 2006, pp. 64-79 e passim; A. Bisanti, Rassegna salgariana (2003-2005), «Critica Letteraria », XXXVI (2008), n. 141, pp. 754-782. 3 E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata » dell’editore Biondo di Palermo, a cura di M. Tropea, III voll., Torino, Viglongo, 1999-2002 (su cui mi sono ampiamente intrattenuto ne Il ritorno di Emilio Salgari, «Critica Letteraria», XXXII (2004), n. 123, pp. 363-397, alle pp. 377-397). 4 Si tratta dei racconti Lo stagno dei caimani («Psiche» [1901], «irreperibile fino ad oggi»: così V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, Torino, Pignatone, 19942, p. 134); La rupe maledetta («Almanacco Moderno Illustrato per le Famiglie» [1902], recuperato da Giuseppe Turcato e pubblicato su «L’Arena» di Verona il 3 novembre 1993 a cura di Silvino Gonzato); La torre del silenzio («Almanacco Moderno Illustrato per le Famiglie» [1903], ora pubblicato in E. Salgari, I misteri dell’India, a cura di L. Belli, presentazione di C. D’Angelo, prefazione di F. Pozzo, Macerata, Simple, 2008, pp. 113-134); Il mio terribile segreto («Psiche» [1904], qui con lo pseudonimo di E. Bertolini); e Il Mocassino Sanguinoso (in quattro puntate, «Psiche» [1905], racconto recuperato da Emilio Firpo e pubblicato in «Nuovi Argomenti» 4 [1983], a cura di F. Pozzo, e, di lì, in E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo. Racconti ritrovati, a cura di F. Pozzo, Milano, Mondadori, 1995, pp. 265-277). 5 Si tratta dei racconti Il tamburino giapponese, Un terribile naufragio, Le tigri del [ 2 ] Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 291 Quello di cap. Guido Altieri fu, quindi, «uno pseudonimo poco occasionale e quello che venne utilizzato più di tutti. Evidentemente, lo scrittore gli aveva attribuito un valore particolare, forse convinto che avrebbe conquistato l’attenzione dei lettori autonomamente, in concorrenza con lo stesso Emilio Salgari […]. Si trattava, a tutti gli effetti, di un vero e proprio alter ego dello scrittore, capace di imporsi autonomamente per la qualità dei testi senza impegnare la fama e l’autorevolezza a lui riconosciuta. I tre romanzi e gli oltre settanta racconti di Altieri sono, infatti, quasi sempre prove notevoli, frutto della buona vena dello scrittore, e non testi, come si verificò per gli altri pseudonimi, redatti in gran fretta e, in taluni casi, agili esempi di traduzione da autori stranieri»6. Felice Pozzo e Claudio Gallo hanno inoltre pubblicato una nutrita serie di documenti recentemente ritrovati nella Biblioteca Civica di Verona e nell’archivio storico del gruppo editoriale Giunti (filiazione della ormai inesistente Bemporad, la casa editrice fiorentina cui Salgari fu legato negli ultimi anni della sua vita), dai quali emerge in maniera incontrovertibile (se ve ne fosse ancora bisogno) che Emilio Salgari e il cap. Guido Altieri erano la medesima persona7. Ciò che, a questo punto, occorre mettere in evidenza è la capacità, da parte dello scrittore veronese, di fare quasi da “cassa di risonanza” all’attualità più immediata: basti pensare al romanzo La “Stella Polare” ed il suo viaggio avventuroso (noto anche con lo scorretto titolo Verso mare, Il tesoro delle caverne d’Ellora (noto anche con l’apocrifo titolo La statua di Visnù), Il cacciatore di caimani, Il naufragio dell’Alabama, Fra gli indiani del Far-West, Un dramma sull’Atlantico, Gli antropofagi del deserto di pietre, Una terribile avventura sul Congo, Yanko il torpediniere, La mano rossa, Il rajah di Bitor. I racconti Il tamburino giapponese e Yanko il torpediniere sono stati di recente riediti in appendice a E. Salgari, L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi e altri racconti (Il tamburino giapponese, Janko il torpediniere, I banditi della Manciuria, I lottatori giapponesi, Le geishe giapponesi), a cura di F. Pozzo e G. Viglongo, Torino, Viglongo, 1990; i racconti Le tigri del mare, Una terribile avventura sul Congo e Il rajah di Bitor sono apparsi, fra l’altro, in E. Salgari, Gli antropofaghi del Mare del Corallo, cit., pp. 278-285, 286-293 e 294-301; ancora Il rajah di Bitor e Il tesoro delle caverne d’Ellora, in E. Salgari, I misteri dell’India, cit., pp. 141-148 e 149-156. Sulla situazione dei racconti salgariani ho cercato di fare il punto ne Il ritorno di Emilio Salgari, cit., pp. 377-381; e, più recentemente, in Navigando nell’oceano dei racconti salgariani, «Critica Letteraria», XXXVII (2009), n. 145, pp. 641-669 (alle pp. 641-657). 6 C. Gallo – F. Pozzo, La breve parabola letteraria del capitano Guido Altieri, in E. Salgari (cap. Guido Altieri), I racconti della «Bibliotechina Aurea Illustrata», vol. I, cit., pp. XLIX-LVI (a p. LI). 7 Ivi, pp. LII-LVI. [ 3 ] 292 ARMANDO BISANTI l’Artide con la «Stella Polare»)8, pubblicato nel 1901 dall’editore Donath di Genova, libro che costituisce la cronaca romanzata della celebre spedizione italo-norvegese al Polo Nord del 1899-1900 guidata da Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi (e sono ben note le polemiche che la tempestiva pubblicazione del libro salgariano innescò nei confronti dell’analogo volume del cronista “ufficiale” dell’impresa, l’ammiraglio Umberto Cagni, La «Stella Polare» nel mare Artico, che apparve dopo quello sfornato “a tamburo battente” dall’infaticabile e inesausto scrittore veronese). Una capacità, questa, che lo può fare considerare come una sorta di «precursore degli “instant book”, dei libri scritti sul tamburo mentre ancora l’evento cui si riferiscono è in corso o si è appena concluso»9. È questa una caratteristica distintiva di gran parte della narrativa salgariana. Lo scrittore, infatti, lavorava assai spesso su avvenimenti recenti (talvolta anteriori soltanto di uno o due anni rispetto alla stesura dei relativi romanzi) o addirittura contemporanei (è il caso, appunto de La “Stella Polare” ed il suo viaggio avventuroso). Gli esempi che possono essere addotti per corroborare tale affermazione sono assai numerosi. Si pensi a romanzi quali La favorita del Mahdi (Milano, Guigoni, 1887) e Le stragi delle Filippine (Genova, Donath, 1897, e alla sua “continuazione”, Il Fiore delle Perle, ivi, 1901), basati sui fatti di guerra e di guerriglia che, pochi anni prima, avevano tragicamente scosso il Nord Africa musulmano (la rivolta mahdista del Sudan contro le truppe anglo-egiziane) e l’arcipelago asiatico (la ribellione delle Filippine contro il governo spagnolo); alla guerra ispano-americana che fa da sfondo a La capitana dell’“Yucatan” (Genova, Donath, 1899)10; alla som- 8 E. Salgari, La «Stella Polare» ed il suo viaggio avventuroso (rist. anast. della prima ediz. Donath del 1901), a cura di F. Pozzo, F. Giardini e G. Viglongo, Torino, Viglongo, 2001. 9 S. Gonzato, Introduzione a E. Salgari, Avventure al Polo. I. Al Polo Australe in velocipede, Milano, Mondadori, 2002, p. VIII. 10 Insieme a Le stragi delle Filippine e Il Fiore delle Perle, il romanzo fu pubblicato da uno dei precursori della filologia salgariana in Italia, Mario Spagnol, in una splendida edizione commentata, ormai introvabile: E. Salgari, I romanzi di guerriglia. Le stragi delle Filippine; Il Fiore delle Perle; La capitana dell’«Yucatan», a cura di M. Spagnol, con la collaborazione di G. Turcato, 3 voll., Milano, Mondadori, 1974; cfr. lo studio di M. Tropea, L’esotismo coloniale nel mondo di Emilio Salgari: i “romanzi di guerriglia”, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari. Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), a cura di A. Jacomuzzi e Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, 1980, pp. 356-375 (poi in Id., Capitoli di Sicilia e dell’esotico. Studi su Domenico Tempio, Pirandello, Gozzano, Salgari, Bonaviri, Santo Calì, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992, pp. 93-112). [ 4 ] Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 293 mossa di Dehli del 1857 (ma stavolta la distanza cronologica è di quasi mezzo secolo) rievocata nelle pagine finali de Le due tigri (Genova, Donath, 1904); al massacro di inermi pellerossa perpetrato dal colonnello Chivington presso il fiume Sand-Creek e alla battaglia di Little Big Horn (quella in cui perse la vita il generale Custer) rievocati, rispettivamente, nei finali di Sulle frontiere del Far-West (Firenze, Bemporad, 1908) e de La scotennatrice (ivi, 1909). E l’elenco potrebbe ancora continuare a lungo. Ma gli esempi più eclatanti, in tal direzione, sono rappresentati, assai probabilmente, da due romanzi di ambientazione orientale (anzi, dell’Estremo Oriente, la Cina e il Giappone), pubblicati dal nostro Emilio proprio con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri, e cioè Le stragi della China (Palermo, Biondo, 1901) e L’eroina di Port Arthur (Torino, Speirani, 1904) nei quali, con una tempestività che si potrebbe definire “giornalistica”, lo scrittore veronese prende spunto, rispettivamente, da due vicende tragiche di guerra e di guerriglia che insanguinarono, più o meno negli stessi anni in cui i romanzi vennero scritti, la Cina e il Giappone, cioè la rivolta dei “boxers” e la guerra russo-giapponese. Si può dire che Emilio Salgari, o meglio il suo alter ego cap. Guido Altieri, sentisse il fascino della contemporaneità, non disgiunto, però, da quella suggestione per l’esotismo che caratterizza la più gran parte della sua prodigiosa produzione narrativa. Nelle pagine che seguono tenterò una breve presentazione dei tre romanzi pubblicati da Salgari con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri, cioè, come si è detto, Le stragi della China, La “Montagna d’oro” (di cui mi sono già precedentemente occupato in un intervento sui “romanzi d’Africa” apparso sul sito ufficiale di Emilio Salgari)11 e L’eroina di Port Arthur, anche alla luce di alcuni giudizi critici recentemente formulati su di essi. 2. Le stragi della China. Avventure nell’Estremo Oriente [Il sotterraneo della morte] Le stragi della China. Avventure nell’Estremo Oriente fu pubblicato in prima edizione a Palermo, dalla casa editrice Salvatore Biondo, nel 1901, con illustrazioni di Corrado Sarri. Il primo capitolo del romanzo (Le rovine di Khang-Li) era già apparso il 23 maggio 1901 sul n. 21 del 11 A. Bisanti, Su alcuni “romanzi d’Africa” di Emilio Salgari (2008), on-line sul sito www.emiliosalgari.it. Da questo intervento, in buona sostanza, è ripreso il § 3 di questo scritto. [ 5 ] 294 ARMANDO BISANTI periodico per fanciulli «Il Giovedì», edito dagli Speirani di Torino12. Nel 1902 la casa editrice Biondo ripubblicò il romanzo a dispense, sempre a firma di Guido Altieri, con 43 illustrazioni di Corrado Sarri e con l’apocrifo titolo Il sotterraneo della morte (rimasto in molte ristampe fin quasi ai nostri giorni, anche nella collana «I capolavori di Emilio Salgari» pubblicata dalla casa editrice Viglongo di Torino fra il 1945 e il 1967 e nel più recente reprint del 1995 della casa editrice Newton & Compton di Roma, curato da Bruno Traversetti) 13. Il nome di Emilio Salgari comparve successivamente, a partire da una non datata edizione della I.R.E.S. di Palermo (in cui era confluita l’ormai soppressa casa editrice Biondo), e quindi, a far data dal 1926, nelle edizioni salgariane della casa editrice Sonzogno di Milano14. Siamo nel 1900, in Cina. Da poco è scoppiata la rivolta dei boxers, il cui fine è quello di liberare il paese dagli odiati europei. Una “liberazione” cruenta e spietata, che prevede vere e proprie stragi compiute in nome della patria. Gli europei sono ferocemente braccati e cadono colpiti a morte in ogni parte del paese, specialmente nella capitale Pechino15. L’odio nei confronti degli europei è violento e inestinguibile, sia per gli interessi commerciali che essi rappresentano e che compromettono i contrapposti interessi degli orientali, sia soprattutto per la religione cristiana che essi (e soprattutto i sacerdoti e i missionari) cercano di proporre alla popolazione del Celeste Impero in maniera sempre più invasiva e convincente, rischiando di alterare le tradizioni avite e di sostituire gradatamente con l’unico vero Dio dei cristiani le venerate divinità degli antenati. In questo quadro di stragi, di odio e di morte si colloca la trama della narrazione, che prende avvio la sera del 14 giugno 1900. Nella missione cristiana situata all’estrema periferia della regione di Pechino, in una Cina ormai in preda alle scorribande feroci dei boxers assetati di sangue europeo, vive un missionario siciliano appartenente all’ordine dei Camilliani, padre Giorgio Muscardo, insieme al fratello 12 È forse superfluo rammentare che il periodico usciva, appunto, ogni giovedì, giorno che, a quel tempo (e prima del famigerato “sabato fascista”), era giorno di vacanza infrasettimanale per gli allievi delle scuole italiane. 13 E. Salgari, Il sotterraneo della morte, a cura di B. Traversetti, Roma, Newton & Compton, 1995. 14 Per queste notizie bibliografiche, come per quelle che seguiranno riguardo agli altri due romanzi, ho attinto largamente a V. Sarti, Nuova bibliografia salgariana, cit. 15 Si pensi al film 55 days at Peking (55 giorni a Pechino), di Nicholas Ray (USA 1962), con Charlton Heston, Ava Gardner e David Niven. [ 6 ] Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 295 Roberto, un ex-bersagliere intrepido e coraggioso, e al di lui figlio Enrico, ragazzo di appena diciassette anni ma già audace e valoroso come il padre. Il potente mandarino Ping-Ciao, uomo ricchissimo e vendicativo, nutre un profondo e inveterato odio nei confronti di padre Giorgio, poiché, a suo modo di vedere, questi è stato la causa principale della conversione al Cristianesimo del proprio diletto figlio Wang. Per poter catturare il missionario italiano e così vendicarsi del torto subìto (o almeno di quello che egli ritiene sia stato un torto), Ping-Ciao non esita a prestare ascolto ai consigli di Sum, il bieco ufficiale della guardia che nutre anch’egli un odio profondo nei confronti degli europei (perché uno di essi gli ha ucciso il fratello) e ad allearsi con le bande dei “boxers”, stipulando un patto scellerato col capo del “Giglio Azzurro”, una società segreta anti-europea e anti-cristiana che annovera un’impressionante quantità di affiliati ferocissimi e pronti a qualsiasi misfatto. A nulla vale il coraggio di Roberto Muscardo che, da parte sua, ha organizzato un piccolo drappello di volontari per combattere sino allo stremo ed evitare che il fratello Giorgio venga catturato e ucciso. Padre Giorgio, infatti, muore in nome della propria fede, chiedendo cristianamente perdono per i propri carnefici. Ma anche Ping-Ciao sconta le proprie colpe, venendo ucciso a sua volta. Il giovane e leale Wang, che ha raccolto le ultime volontà del padre morente, salva alla fine Roberto ed Enrico affidandoli a mani amiche e promettendo che impegnerà tutto il resto della sua vita nella strenua difesa del Cristianesimo in Cina. A torto considerato un romanzo minore (soprattutto alla luce del fatto che esso fu pubblicato sotto pseudonimo), Le stragi della China è invece «un buon testo che, in certa misura, segna un ritorno alle origini, perché si lega, come i primi romanzi di appendice scritti da Salgari, a vicende storiche a lui contemporanee su cui s’appuntavano l’attenzione dei governi europei e l’interesse della stampa americana ed europea, compresa quella italiana»16. Si tratta anzi forse del caso più eclatante in tal direzione: Bruno Traversetti ha infatti scritto che, «come pochi anni dopo, durante la guerra russo-giapponese, avverrà per L’eroina di Port Arthur, il romanzo chiama in causa, con tempestività più giornalistica che romanzesca, non semplicemente fatti o personaggi della storia vicina, bensì una “tranche” viva e dolente della stessa cronaca contemporanea: un quadro di eventi che, mentre Salgari scri- 16 C. Gallo, Un eroe missionario durante la rivolta dei «boxers», in E. Salgari, Le stragi della China, Milano, Fabbri, 2003, p. 5. [ 7 ] 296 ARMANDO BISANTI ve, e poi quando il romanzo esce, sono ancora in corso. L’azione si svolge, infatti, nell’estate del 1900, nel momento in cui in Cina giungeva alla massima virulenza la rivolta dei boxers, la cui conclusione militare e politica si ebbe soltanto nel 1901: l’anno stesso, appunto, in cui Il sotterraneo della morte fu pubblicato»17. Lo stesso Traversetti, autorevole studioso salgariano, ha affermato inoltre che Le stragi della China è un felice romanzo d’azione, dominato dal gusto primario dell’avventura, dall’esaltazione del rischio e del coraggio, «ma obbedisce anche all’esigenza di una minuziosa ridescrizione del mondo derivante dalla massima espansione delle conquiste coloniali, dai rapidi progressi della scienza nell’Europa del positivismo e dell’industria, e dalla crescente alfabetizzazione popolare che comportava già, nel nuovo stato unitario, l’aumento considerevole della lettura e della domanda di conoscenza». Esso offre, dunque, due possibili piani di lettura: «Lo slancio nel territorio dell’eroico, dell’eccessivo, del mitografico, e l’assunzione della realtà storica a fondamento della trama narrativa»18. 3. La “Montagna d’oro”. Avventure nell’Africa centrale [Il treno volante] Il romanzo fu pubblicato in prima edizione a Palermo, dall’editore Salvatore Biondo, nel 1901, con illustrazioni di Corrado Sarri. Un capitolo (IX: L’assalto degli scimpanzé) era già stato pubblicato il 30 maggio 1901 sul n. 22 de «Il Giovedì», edito da Speirani di Torino. Nello stesso anno, la casa editrice Biondo ripubblicò il romanzo in 34 dispense, con 33 illustrazioni di Corrado Sarri. Successivamente, la I.R.E.S. di Palermo ha edito il romanzo sotto il nome di Emilio Salgari. A partire dalla ristampa pubblicata dalla Sonzogno di Milano nel 1926, il romanzo è stato quindi correttamente presentato sotto il nome di Emilio Salgari, ma con l’apocrifo titolo de Il treno volante (più volte riproposto fin quasi ai nostri giorni, anche nella serie «I capolavori di Emilio Salgari» pubblicata dalla casa editrice Viglongo di Torino fra il 1945 ed il 1967). L’azione prende avvio la mattina del 15 agosto 1900, nell’isola di Zanzibar. L’aeronauta tedesco Ottone Steker e il greco Matteo Kopeki, grazie all’apporto del «Germania», favoloso dirigibile volante (appunto il “treno volante” del titolo con cui il romanzo è stato più volte 17 B. Traversetti, Introduzione a E. Salgari, Il sotterraneo della morte, cit., p. 9. 18 Ivi, pp. 8-9. [ 8 ] Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 297 edito), prototipo dei più famosi Zeppelin, creato e perfezionato dallo stesso Ottone, si avventurano nel cuore dell’Africa Nera alla ricerca della leggendaria “Montagna d’oro”. Il loro amico arabo El-Kabir, infatti, ha tempo prima casualmente recuperato un documento, nel quale il viaggiatore inglese John Kambert, scomparso due anni prima, dichiara di essere stato preso prigioniero da una ferocissima tribù africana mentre si recava a esplorare il lago Tanganika. Nel documento in questione lo stesso John Kambert dichiara che, a chi riuscisse a liberarlo, indicherà l’esatta ubicazione della “Montagna d’oro”, nei cui misteriosi anfratti si celano favolosi tesori accumulati da tempo immemorabile. Ma anche il crudele e spietato mercante Altarik è al corrente del segreto e, all’uopo, ha allestito una carovana per impadronirsi dell’ingente tesoro. Risulta quindi indispensabile impiegare il dirigibile (che può essere smontato e rimontato a piacimento e presenta molteplici e inaspettate risorse di utilizzo) per battere sul tempo Altarik e raggiungere per primi John Kambert. Come sempre in questo genere di romanzi salgariani, imprevisti, agguati, scontri con bestie feroci e con tribù indigene ostili segneranno il lungo e difficile percorso di Ottone e Matteo (cui si è unito l’amico El-Kabir), i quali, comunque, alla fine, riusciranno a ritrovare John Kambert (ridotto ormai l’ombra di se stesso), a eliminare il perfido Altarik e a impossessarsi del tesoro della “Montagna d’oro”. I tre amici, quindi, faranno ritorno in patria, ove potranno godersi l’ingente fortuna accumulata e, grazie alla nuova amicizia con Kambert, saranno in grado di progettare nuove e stimolanti avventure. Secondo romanzo pubblicato da Emilio Salgari per l’editore palermitano Salvatore Biondo con lo pseudonimo di cap. Guido Altieri, La “Montagna d’oro” è un tipico “romanzo d’Africa”, caratterizzato dal ben noto tema del viaggio in terre remote, sconosciute ed inospitali alla ricerca affannosa ma entusiasmante di qualcuno o di qualcosa (in questo caso, sia l’inglese John Kambert sia il tesoro della “Montagna d’oro”), circostanza, questa, che fornisce allo scrittore il destro sia per presentarci le consuete situazioni di pericolo, con scene di caccia, inseguimenti, agguati di selvaggi o di belve feroci, sia per mettere in bella mostra la propria abituale preparazione scientifica, botanica e zoologica. Quantunque il viaggio si svolga, prevalentemente, in aria a bordo del fantastico dirigibile “Germania” progettato dal geniale Ottone Steker, «le numerose soste sulla terraferma permettono allo scrittore di sfoggiare un fornito bestiario africano dove non mancano gazzelle, antilopi, leoni, elefanti, coccodrilli, sciacalli, zebre, rinoceronti, ippopotami e scimpanzé, di volta in volta prede o cacciatori, sullo sfondo [ 9 ] 298 ARMANDO BISANTI di lussureggianti foreste equatoriali o di vaste praterie interrotte solo da pochi gruppi di banani e di sicomori»19. Fra i personaggi del romanzo, oltre ai protagonisti, spicca il Sultano di Mhonda, re e tirannello di un minuscolo staterello centro-africano, la cui descrizione risulta largamente sovrapponibile a quella di analoghi personaggi salgariani di sovrani africani grotteschi e ridicoli, ubriaconi ed infidi, quali il re Bango de I drammi della schiavitù (Roma, Voghera, 1896) e il capo dei Griqui de La giraffa bianca (Livorno, Belforte, 1902). Un altro elemento che, ne La “Montagna d’oro”, merita di esser messo brevemente in rilievo, è la presenza di un’immaginaria macchina volante, il dirigibile “Germania” di Steker attorno al quale ruota gran parte della trama. Salgari subì sempre, come è noto, il fascino del volo, dai palloni aerostatici che si incontrano ne Il tesoro del presidente del Paraguay (Torino, Speirani, 1894) e, soprattutto, in Attraverso l’Atlantico in pallone (ivi, 1895), fino al più preclaro esempio di macchina fantascientifica, ossia lo «Sparviero», il mirabile aerostato alimentato a gas liquido che rappresenta il vero e proprio protagonista dei due romanzi costituenti il cosiddetto “ciclo dell’aria” o “degli esploratori dell’infinito”, e cioè I figli dell’aria (Genova, Donath, 1904) e la sua continuazione Il “Re dell’aria” (Firenze, Bemporad, 1907). Per quanto attiene alle fonti del romanzo, oltre al consueto «Giornale illustrato dei Viaggi e delle Scoperte» e agli altrettanto abituali Il costume antico e moderno di Giulio Ferrario e i repertori zoo-antropologici di Louis Figuier, si possono annoverare «i resoconti di viaggio di David Livingstone e di Henry Stanley, prontamente diffusi in Italia dall’editore Treves, che si erano spinti nel cuore del Continente Nero sino alle rive del Tanganika. Utili riferimenti [Salgari] li ricava anche dalle imprese di John Speke, Richard Burton, James Grant, Samuel e Florence Baker in viaggio nella tenebrosa Africa alla ricerca dei “Monti della luna” e delle sorgenti del Nilo»20. Un’ultima osservazione riguarda il fatto che, alla fine del romanzo, l’autore ci informa che Ottone Steker, «il felice inventore di quel meraviglioso treno aereo, sta studiando, insieme a Matteo ed all’inglese, la traversata dell’Africa colla sua “Germania”». Una frase, questa, che ci fa comprendere come assai probabilmente Salgari avesse intenzione di scrivere una continuazione del romanzo, forse addirittura di intraprendere un mini-ciclo fondato sulle avventure di Ottone e di Matteo 19 C. Lombardo, in E. Salgari, La “Montagna d’oro”, Milano, Fabbri, 2002, p. 6. 20 Ivi, p. 6. [ 10 ] Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 299 (come aveva fatto, anni prima, con i personaggi di Diego e Cardozo nel cosiddetto ciclo “dei due marinai”, comprendente il già ricordato Il tesoro del presidente del Paraguay e Il continente misterioso, Torino, Paravia, 1894). In ogni modo, la continuazione de La “Montagna d’oro” non venne mai scritta e il romanzo rimase così isolato, come uno dei quasi sessanta “singoli” di Emilio Salgari. 4. L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi [La naufragatrice] L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi fu pubblicato in prima edizione a Torino, dall’editore Speirani, nel 1904, con illustrazioni di Enrico Canova. Un capitolo del romanzo (XIV: La fuga di Shima) era già stato pubblicato il 23 giugno 1904 sul n. 25 de «Il Giovedì». Il nome di Emilio Salgari comparve solo a partire dalla ristampa della Casa Editrice Italiana Quattrini di Firenze nel 1911, come n. 20 dell’edizione formato album del «Romanzo d’avventure», pubblicata a beneficio degli orfani di Salgari. Nella ristampa della casa editrice Sonzogno (Milano, 1924) e quindi varie altre volte, il romanzo è stato presentato con il titolo apocrifo La naufragatrice (anche nella «Collana popolare Salgari» presentata dalla casa editrice Carroccio di Milano fra il 1947 e il 1949) e sottoposto a vari tagli e ad arbitrari mutamenti (opera del più giovane dei quattro figli dello scrittore, Omar Salgari), fino al 1990, anno in cui comparve l’edizione completa, fedelmente restaurata, corretta (e finalmente riappropriatasi del giusto titolo) de L’eroina di Port Arthur, a cura di Felice Pozzo e Giovanna Viglongo (Torino, Viglongo, 1990, n. 1 della collana «Salgari & Co.»)21. Questa la trama del romanzo. La guerra tra la Russia e il Giappone sta per scoppiare. Alla vigilia di questo scontro, Boris Siloff, un giovane ufficiale della marina imperiale russa, sta per sposare la bellissima giapponese Shima, figlia del potente “daimio” Foyama, contro il parere dello stesso, che nutre serie perplessità sulle intenzioni di Boris, che ormai, ai suoi occhi, si configura come un rappresentante del detestato nemico. Anche il fratello di Shima, Sakia, ufficiale della marina nipponica, mostra la propria ostilità nei confronti delle nozze della sorella. Shima, che trova inspiegabile questo atteggiamento da parte della 21 Per maggiori notizie sul romanzo e sulle sue varie edizioni, si rinvia all’introduzione di F. Pozzo (L’«Eroina di Port Arthur» ovvero «La naufragatrice») a E. Salgari, L’eroina di Port Arthur. Avventure russo-giapponesi e altri racconti, cit., pp. XIII-XXIV. [ 11 ] 300 ARMANDO BISANTI propria famiglia, difende con fervore i propri sentimenti, pur temendo qualcosa nel suo animo. L’arrivo del tradizionale regalo di nozze da parte dello sposo sembrerebbe avvalorare le convinzioni della fanciulla, ma il dono in questione, un prezioso braccialetto, è accompagnato da un messaggio d’addio da parte di Boris, nel quale l’ufficiale russo spiega alla sua promessa sposa (o meglio, ex-promessa sposa) come l’evolversi degli eventi politici e diplomatici fra la Russia e il Giappone lo costringa a una dolorosa rinuncia. La realtà dei fatti, però, è ben diversa. Boris, infatti, si è innamorato di un’altra donna, Naga, una gheisha (Salgari scrive erroneamente ghesha) anch’essa bellissima e fiera come Shima. Sakia, venuto a conoscenza della cosa, cerca di convincere l’incredula sorella a verificare la realtà dei fatti. Intanto Foyama, ligio ai principi e ai rituali d’onore giapponesi, si uccide, facendo hara-kiri, per far ricadere la vergogna e il disprezzo sull’odiato Boris. Fra l’altro, prima di uccidersi, Foyama raccomanda ai propri figli di avvisare Boris di ciò che è accaduto, in modo che, per lavare l’onta cadutagli addosso, egli accetti la sfida a duello che Sakia gli lancerà. Ma l’ufficiale russo, che ormai non è più in grado di nascondere e di controllare i propri sentimenti, rifiuta vilmente la sfida, prende tempo e fugge a Yokoama con l’amata Naga. Sulla salma del padre Shima e Sakia giurano vendetta e si imbarcano sulla Morioka, una torpediniera della flotta imperiale giapponese comandata dallo stesso Sakia e lanciata all’attacco della base russa di Port Arthur. Shima, sbarcata in segreto a Yokoama col compito di scoprire la dislocazione delle mine disseminate dai russi, ha un colloquio chiarificatore con Naga, che si convince dell’ipocrisia e della bassezza di Boris, visto ormai da tutti come “il nemico”. Nella battaglia navale di Port Arthur, Sakia e Boris perdono la vita. Caduti tutti i presupposti della vendetta con la morte dell’odiato Boris, Shima e Naga si alleano in un patto di morte. Esse, infatti, penetrate clandestinamente nella potente corazzata russa Petropawlowsk, riescono a dare fuoco alle polveri, facendo saltare in aria la nave con tutto il suo equipaggio e sublimano così la propria esistenza immolandosi in nome della patria. Nel romanzo, fra l’altro, possono essere individuate due fra le più diffuse e significative costanti tematiche della narrativa salgariana. La prima di esse è rappresentata dal motivo dell’amore fra un uomo e una donna appartenenti a differenti continenti, linguaggi, paesi, razze e tradizioni (amore, questo, spesso contrastato dalle rispettive famiglie), qui costituito dall’amore (che però ben presto svanirà, per lasciar posto al forse più nobile amor di patria) fra la giapponese Shima e il russo Boris. Solo per limitarmi ad alcuni esempi fra i più noti e signi- [ 12 ] Emilio Salgari e il fascino esotico della contemporaneità 301 ficativi, si pensi innanzitutto alle più o meno felici e durature unioni fra Sandokan e Marianna Guillonk, fra Tremal-Naik e Ada Corishant, fra Yanez e Surama, e così via, nel “Ciclo dei pirati della Malesia” (da Le tigri di Mompracem a I misteri della Jungla nera, da Il «Re del mare» al tardo – e in parte apocrifo – La rivincita di Yanez); a Tay-See e José Blancos ne La Rosa del Dong-Giang (Livorno, Belforte, 1897, già apparso, col titolo Tay-See e con un diverso finale, in 28 puntate sul quotidiano «La Nuova Arena» di Verona, 15 settembre – 12 ottobre 1883); ad Antao Carvalho e Urada ne La Costa d’Avorio (Genova, Donath, 1898); al medico padovano Roberto Galeno e la tenera siamese Len-Pra ne La città del Re Lebbroso (Genova, Donath, 1904); a Michele Cernazé e Afza in Sull’Atlante (Firenze, Bemporad, 1907); e, soprattutto, all’italiana Eleonora d’Eboli (il Capitan Tempesta) e al turco Muley-El-Kadel (il Leone di Damasco) nei due romanzi del breve “Ciclo del Leone di Damasco”, appunto Il Capitan Tempesta (Genova, Donath, 1905) e Il Leone di Damasco (Firenze, Bemporad, 1910)22. Sufficientemente attestata è altresì la seconda di tali tematiche, quella, cioè, riguardante la rivalità in amore di due donne per lo stesso uomo (rivalità che comunque, nel caso de L’eroina di Port Arthur si tramuterà ben presto – come si è visto – in complicità e alleanza, nel comune sacrificio per la patria). È, questo riguardante l’antagonismo fra due donne per uno stesso uomo, un motivo che assume varie sfumature e diverse gradazioni, dal nostalgico e nobile rimpianto di Amina, principessa algerina che sacrifica il proprio amore per il siciliano barone Carlo di Sant’Elmo, cavaliere di Malta, aiutandolo a liberare la propria fidanzata Ida di Santafiora prigioniera nell’harem di Algeri, ne Le pantere d’Algeri (Genova, Donath, 1903), all’abnegazione di Nefer per Mirinri e Nitokri ne Le figlie dei Faraoni (Genova, Donath, 1905), fino alla sete di vendetta e all’odio (che non si fermerebbero neanche di fronte all’infanticidio) dimostrati dalla perfida Haradja per Muley- El-Kadel e la sua innamorata (e poi sua sposa) Eleonora d’Eboli, nei due già ricordati romanzi del “Ciclo del Leone di Damasco”. E non si dimentichi poi Romero Ruiz, giovane piantatore meticcio affiliato agli insorti di Manila contro la potenza ispanica, che ama, riamato, la bella 22 Di questo tòpos si impadroniranno anche gli epigoni di Salgari. Per fare un solo esempio, ne Gli abbandonati del «Galveston» di Luigi Motta (pubblicato a Milano, dall’editore Celli, nel 1903) nasce un tenero, puro ed impossibile amore tra Netulla, la figlia del protagonista conte De Aquili, e il suo salvatore, il ribelle del Kandy Sun-Ta-Pao, che morirà da eroe alla fine del romanzo (cfr. L. Motta, Gli abbandonati del «Galveston», rist. anast., Cavallermaggiore, Gribaudo, 1994). [ 13 ] 302 ARMANDO BISANTI spagnola Teresita, soprannominata la “Perla di Manilla” (secondo la caratteristica ma erronea grafia salgariana), figlia del maggiore d’Alcazar, capo delle truppe di stanza nella capitale e spietato repressore dei ribelli, ma che è vanamente amato, altresì, dalla dolce Than-Kiù (detta il “Fiore delle perle”), sorella del prode Hang-Tu, capo dei ribelli e delle associazioni segrete del “Lotus Bianco”, del “Giglio d’Acqua” e del “Tien-Tai”, nonché grande amico dello stesso Romero, nei due romanzi “di guerriglia” costituenti il breve “Ciclo delle Filippine”, cioè i già menzionati Le stragi delle Filippine (Genova, Donath, 1897) e Il Fiore delle perle (ivi, 1901). Per tornare a L’eroina di Port Arthur, in occasione della recente ristampa del romanzo pubblicata dalla Fabbri nel 2003, Cristina Cristante ha innanzitutto messo in rilievo la varietà e la profondità delle conoscenze geografiche, storiche e culturali dimostrate da Salgari in questo suo unico romanzo giapponese, attraverso «un’immersione nei costumi e nello stile di vita giapponesi (vestiti di seta, porcellane, rituali misteriosi)» e «un ulteriore tentativo di impadronirsi rapidamente di una lingua i cui suoni esotici rendono più meraviglioso e più credibile lo scenario in cui l’autore ambienta il romanzo»23; e ha quindi notato che «avvincenti, e fondati su attendibili cronache, sono i capitoli finali in cui, con una non comune bravura, Emilio Salgari descrive i preparativi allo scontro tra le flotte nemiche e la successiva battaglia dove, rispetto ad altri romanzi, la fanno da padrone le nuove meravigliose conquiste della tecnica nel campo degli armamenti: i motori delle navi, la precisione del tiro degli obici e le meraviglie compiute dai siluri che silenziosamente colpiscono e affondano le navi avversarie. Una scrittura moderna ed efficace che rende epica l’impresa dei giapponesi, verso i quali sembra indirizzarsi la simpatia del popolare scrittore veronese, sempre avverso all’assolutistica monarchia russa»24. Armando Bisanti (Università di Palermo) 23 C. Cristante, L’amore e la guerra, in E. Salgari, L’eroina di Port Arthur, Milano, Fabbri, 2003, p. 5. 24 Ivi, p. 6. [ 14 ] TONI IERMANO Provincia come un sogno: le terre incantate di Francesco Jovine* This essay, which takes into account Francesco Jovine’s life and work, focuses on the pivotal theme of provincial life. Although cursorily labelled as a realist, Jovine turns out to be deeply involved with the archaic culture of the Mezzogiorno and its set of values. This mythological image of the Mezzogiorno, intertwined with a close interest in the contemporary debates on the “Southern Question”, is the very essence of Jovine’s poetic worth. E qui, come difficilmente accade in altri luoghi, sono state vive per decenni le leggende di tesori sepolti dai frati, dai vescovi e dai briganti. F. Jovine, La mensa fraterna, «Il Giornale d’Italia», 19 agosto 1941 Zelone, il contadino quasi col nome di un filosofo salvato dalle pagine del Platone in Italia di Vincenzo Cuoco, «era piovuto dalla piana di Larino» nella Guardialfiera del piccolo Francesco Jovine, che se lo vedeva passare «qualche volta davanti a casa mia con un sacco di paglia o un fascio di fieno sulle spalle». Uscito dalle favole dei vecchi saggi del paese, il personaggio che con la sua capra danzava ogni qualvolta si annunciava un temporale, «credeva di essere arrivato ai limiti del mondo per aver viaggiato per cinquanta miglia nel contado di Molise, breve spazio di terra popolato di angeli e di mostri, di potenze malefiche e benefiche, che amministravano le forze naturali e la vita degli uomini come egli li immaginava»1. Il Diavolo in quei villaggi dalle atmosfere sospese «era sempre pronto a dare ai miseri il suo aiuto per portarseli all’inferno»2. * A Costanza. 1 F. Jovine, Zelone e gli angeli [1941], in Id., Il pastore sepolto, Torino, Einaudi, 1981, pp. 114-115. 2 Id., Il libro del comando, in Id., Racconti, Torino, Einaudi, 1960, p. 171. 304 TONI IERMANO Il richiamo dell’origine, il soliloquio sull’infanzia, la «murmurante mémoire» di un tempo sepolto e la familiarità del luogo natale determinano quelle rassicurazioni esistenziali che solcano le tramature sentimentali dello scrittore nei rapporti con il suo Molise, che così come l’Abruzzo di Silone, la Sardegna di Dessì, la Calabria di Alvaro e di Seminara, assume una connotazione poetica e vera nel suo essere primitivo e selvaggio. Un disperso favoloso villaggio paleolitico, in cui la durata della vita pare non risolversi nel senso della fine bensì si confonde e si occulta negli archetipi di un mondo discostato dalla realtà, intriso di mitologia e fantasia, custodito dai suoi abitatori con la sapienza millenaria dei cicli naturali e con l’uso sofistico di proverbi e sogni da interpretare. Lo spazio letterario è una dimensione metaforica arredata secondo i gusti di un creatore appassionato, mai stanco nel nutrire le ricostruzioni con gli oggetti e le nature morte conservati nella fertilissima interiorità negli anni della lontananza dalla terra dei padri. Una rassettatura del realismo degli anni Trenta-Quaranta, pur non riconoscendosi nei modelli proposti dalla letteratura americana, e una non meno cospicua presenza dunque della favolosa provincia della rammemorazione poggiata su una cosmogonia leggendaria e antichissima3, riepilogano la originalità dei rari distillati derivati dalla natura «intima» dell’opera di Jovine, nato a Guardialfiera, paese a 18 miglia da Campobasso, nel 19024. 3 Sulla natura intrinseca della narrativa di Jovine, costruita su un fondo «di leggenda, di grandi, antichissimi proverbi naturali», aveva richiamato l’attenzione Giacomo Debenedetti nel rievocativo Colloquio con Jovine, «Vie nuove», V, 20, 14 maggio 1950, p. 14. 4 Sull’opera di Francesco Jovine si vedano in particolare: G. Giardini, Francesco Jovine, Milano, Marzorati, 1967; M. Grillandi, Francesco Jovine, Milano, Mursia, 1971; E. Ragni, Jovine, Firenze, La Nuova Italia, “Il Castoro”, 1972; F. D’Episcopo, Un uomo provvisorio: Francesco Jovine, Isernia, Marinelli editore, 1982; N. Carducci, Invito alla lettura di Francesco Jovine, Milano, Mursia, [1977] 19862; Francesco Jovine scrittore molisano. Atti del convegno di studi sulla figura e l’opera di Francesco Jovine a quarant’anni dalla morte (Guardialfiera 11 novembre 1990), a cura di F. D’Episcopo, Napoli, ESI, 1994. Per la critica “classica”, cfr. L. Russo, Francesco Jovine ultimo narratore della «provincia», «Belfagor», vol. I [1946], pp. 219-226; Id., Ricordo di Francesco Jovine, «Belfagor», vol. V (1950), pp. 479-482; P. Pancrazi, Il primo e l’ultimo Jovine, in Id., Scrittori d’oggi, con prefazione di M. Valgimigli, serie VI, Bari, Laterza, 1953, pp. 47-54; N. Sapegno, Il narratore Jovine, «Società», IV, 1950, 2, pp. 276- 286, poi in Id., Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, pp. 297-310. Inoltre si vedano: P. De Tommaso, Francesco Jovine (Nel decimo anniversario della morte), «Belfagor », vol. XV (1960), pp. 284-299; G. Todini, Francesco Jovine, «Belfagor», a. XXVII [ 2 ] le terre incantate di Francesco Jovine 305 Lo scrittore approfondì l’analisi sul Mezzogiorno attraverso la ripresa delle rapsodie popolari riesumate da un’assidua esplorazione del Molise arcaico, terra storicamente esclusa dalle grandi strade di comunicazione, svolgendo una indagine sulle condizioni di vita di quel mondo popolato di storie impossibili, di uomini sottomessi, ma anche di audaci ribelli. Quei grezzi paesi diventano illimitati raccoglitori del nascosto. Da qui leggende sui tesori dimenticati in caverne e luoghi misteriosi5. Le ricerche trovano nella bellezza del racconto, in quella risorsa indiscutibile di rendere le storie materia narrativa, il senso delle suggestioni dell’infanzia e della creatività fantastica che ne intride i ricordi anche quando si riveste dei toni del reportage, come nel caso delle pagine su Guardialfiera, il paese natio colmo di racconti su «tesori sepolti dai frati, dai vescovi e dai briganti» e di palazzi misteriosi che pure abbattuti restano rifugi concreti «per le nostre rêveries sull’infanzia»6: Quando, qualche anno fa, il vecchio palazzo vescovile che dalla fine del secolo decimottavo nessun vescovo più aveva abitato e che era in rovina, fu demolito completamente, per giornate intere il rumore dei picconi che tutti, finissimi di orecchio, graduavano secondo una scala musicale, diede l’impressione del vuoto misterioso e ricco. Ma non venne fuori nulla: sassi, polvere, calcinacci: non un chiodo, non un trespolo, una chiave arrugginita: nulla. La pietra attestante che S. Agapito papa nel 960 aveva nominato un vescovo a Guardialfiera, la leggenda che forse Gregorio VII in persona, passato di lì in occasione del suo viaggio verso il Mezzogiorno, concedesse alla Cattedrale il privilegio di «Porta Santa», non credo che valessero a consolarli7. (1972), pp. 430-452; Id., Francesco Jovine, in Novecento, VIII, a cura di G. Grana, Milano, Marzorati, 1988, pp. 66-91; G. Savarese, Ricordo di Francesco Jovine, «Rassegna della letteratura italiana», a. 76 [1972], pp. 294-302 poi in Id., «I colori di Carmen», Saba, Svevo e altri contemporanei, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 157-175. Tra le più recenti ripubblicazioni si veda F. Jovine, Scritti critici, a cura di P. Guida, Lecce, Milella, 2004, utile raccolta degli interventi giornalistici apparsi tra il 1929 e il 1950, e i Racconti dimenticati e dispersi, a cura di C. Carmosino, Isernia, Iannone Editore, 2007. 5 Derivate dall’analisi di un contesto metropolitano, Napoli, notevoli influenze su queste considerazioni devo alle originali pagine di C. D’Elia, Tesori nascosti: Immagini della modernità mancata a Napoli, «Intersezioni». Rivista di storia delle idee, a. XVI, n. 1, aprile 1996, pp. 57-72. 6 G. Bachelard, La poetica della rêverie [1960], trad. it. di G. Silvestri Stevan, Bari, Edizioni Dedalo, 19873, p. 147. 7 F. Jovine, La mensa fraterna, «Il Giornale d’Italia», 19 agosto 1941, poi in Id., Viaggio nel Molise, a cura di N. Perrazzelli [1967], Isernia, Libreria Editrice Marinelli, 1976, p. 101. [ 3 ] 306 TONI IERMANO Il tema dei “tesori nascosti” in luoghi inaccessibili e stregati è ricorrente nei romanzi e nei racconti di Jovine. Significativo è Il pastore sepolto, apparso nella «Nuova Antologia» il 16 marzo 1943, un riuscitissimo racconto lungo derivato da un intimo rapporto tra il sogno e le tradizioni popolari, tra un ritorno alla capanna dell’infanzia e la ricostruzione allegra delle lunghe, interminabili veglie vissute nella casa paterna intorno al camino «dal grande fuoco» in compagnia dei genitori, dei fratellini «e di alcune povere contadine del vicinato». Il racconto però propone anche l’irrompere della modernità con la centralità dell’economico, che corrompe le società arcaiche con la bramosia del denaro e la perdita della fede religiosa. I rovesci finanziari di una famiglia borghese possono essere risolti dal ritrovamento di sacchi d’oro in luoghi inaccessibili. In questo modo anche la giovane Albamaria avrebbe potuto ottenere la dote e sposarsi. Tutti in casa iniziano a sognare. Il sogno del nonno dalla lunga barba bianca «divisa in due bande a forma di pera», che riesce a sentire la voce del Biferno, inalveola la storia lungo la dorsale di un realismo speciale, rappresentativo di un rapporto esclusivo dello scrittore con le fantasie e le arcane credenze di un mondo svanito. Il racconto viene fatto dal giovanissimo nipote, l’io-narrante, che intreccia i suoi sogni con quelli dei familiari: Una sera il nonno ci raccontò un sogno; io non prestai molta attenzione a quello che diceva, massime all’inizio ma ebbi modo di ricordarmene minutamente poi per quello che avvenne. Il nonno quella sera pareva stanco e s’era seduto con noi accanto al fuoco: c’erano tutti e c’erano anche Luigia e Salvatore di Popoli suo marito: – Figli miei, – incominciò il nonno, – ho fatto un sogno, un bel sogno benedetto. Ieri sera mi ero addormentato pregando il Bambino Gesù; e, chiusi gli occhi, il Bambino mi prese per mano e mi indicò alzando un dito in alto la stella dei magi e scomparve. Io seguii la stella e camminai, camminai per una contrada piena di neve e di spine; poi mi trovai alla Costa Solente e capii che la stella mi guidava a Fonte Gerino; all’incrocio di Botasciarra incontrai due pastorelli biondi come angioli che suonavano la zampogna e mi seguirono fino al guado di Fonte Gerino; lì mi lasciarono. La stella camminò ancora un poco nell’arco del cielo poi si fermò; io era arrivato al Casaleno nel centro della vigna. Le macerie del convento non c’erano più; la stella che s’era fermata illuminava una zappa d’argento che scintillava. Io presi la zappa e incominciai a scavare; la zappa era leggera come una piuma, la terra era dolce. In poco tempo feci molto lavoro. Dapprima trovai una lucerna interrata che pulii con le mani; mi accorsi che era di oro; continuai a scavare e trovai una piccola mola per il grano in pietra e bron- [ 4 ] le terre incantate di Francesco Jovine 307 zo; poi due spiedi d’argento e poi tanti oggetti di ferro e di rame. Scava scava, incontrai una grande lastra di pietra che era leggerissima, la sollevai e trovai una scala di pochi gradini; in fondo alla scala c’era una breve grotta, a destra e a sinistra grosse pignatte di terra cotta, ne scoperchiai una, era piena di monete d’oro; tutte le altre erano piene d’oro8. Le certezze della verità dei sogni erano condivise dall’intero nucleo familiare, tanto che quando venne raccontato il contenuto di quello fatto dal nonno allo zio Michele «ci disse che aveva fatto un sogno perfettamente uguale due notti prima, che il tesoro esisteva senza alcun dubbio e che lui sarebbe venuto con noi a scavare la notte seguente»9. La brigata, composta dai membri della famiglia e dagli operai addetti agli scavi, decide di seguire le indicazioni sognate dai vecchi di casa e si avvia alla ricerca del ritrovamento dell’isola del tesoro. Nel corso delle frenetiche indagini, sotto «un nugolo di antichissima polvere», venne fuori un cratere al cui interno fu ritrovata una chiesa sepolta, piena di inquietanti statue di santi. Nel misterioso antro, in un sarcofago coperto da una lastra di marmo «che portava incisa una croce in rilievo», i cercatori, che si muovevano come fantasmi in una luce da cimitero, videro la statua di un pastore che «quando la illuminarono, ebbe un mite ed allegro sorriso come fosse lietissima di essere uscita dalle tenebre»10. Il mancato ritrovamento dei preziosi marenghi non impedì il trasporto del pastore, «che aveva quel suo mite ed antico sorriso rivolto al bellissimo cielo notturno», verso il paese, per custodirlo momentaneamente in casa. Lo zio Michele, con «tono profetico», annunciò che in un nuovo sogno aveva saputo che la statua «dentro era tutta d’oro». In una notte di disgelo, dopo il rassicurante tepore invernale, Albamaria, in preda ad un irriverente attacco di rabbia, ispirata da forze diaboliche, forzando la più misurata natura dell’amato cugino, la profanò decapitandola a colpi di mazzuola con la speranza che si avverasse quanto predetto dai sapienti di casa. Purtroppo il serafico pastore di pietra bianca era vuoto. A quel punto il nipote-narratore si convinse «che tutto era finito e che sarebbe stato terribile vivere ancora»11. 8 F. Jovine, Il pastore sepolto, cit., pp. 20-21. 9 Ivi, p. 23. 10 Ivi, p. 23. 11 Ivi, p. 45. [ 5 ] 308 TONI IERMANO In una intervista del 1949 Jovine spiegò ai lettori il legame intimo con la sua terra e lo straordinario ruolo avuto dal padre nella collezionare ricordi e immagini oniriche: Conosco il Molise attraverso i racconti di mio padre e un po’ per istinto. In me quella terra è come un mito antico tramandatomi dai padri e rimasto nel sangue e nella fantasia12. Il concetto di neorealismo inteso come «riconquista della realtà», viene indagato con autonomia rispetto alle nuove prospettive attribuite alla realtà da tanti narratori italiani: la riflessione costituisce una delle specificità della sua originale posizione critica. Jovine, per nulla affascinato dalle mode o dal successo editoriale degli americani come Dos Passos o Lewis, sostiene che nei loro romanzi: «Le persone descritte sono spesso anonime, come chiuse, incapsulate nel complesso dei fatti. I volti e le anime non emergono dalle cose»13. La maturazione di Jovine segue il percorso di una generazione d’intellettuali costretta a subire la dittatura fascista e approda ad un modo di intendere il mestiere delle lettere come militanza. Il romanzo, Un uomo provvisorio, stampato a Modena da Guanda nel 1934, lo stesso anno di Tre operai di Carlo Bernari, di fatto segna l’approdo di Jovine al realismo. Il definitivo superamento dei motivi dannunziani, incrinati da una «corrosione ironica», appare una delle migliori qualità del protagonista14. In questa opera prima si affronta il travagliato itinerario psicologico e sentimentale di un giovane provinciale in una Roma rarefatta, avvertita più nelle atmosfere che nella dimensione topografica e urbanistica. Giulio Sabò, un ventisettenne laureato in medicina, avvolto da «astratti furori», è un personaggio in cui si avvertono comportamenti riconducibili ad un travagliato rifiuto delle convenzioni, secondo un canone già proposto nei primi anni Novanta dell’Ottocento in Una vita di Italo Svevo e ne L’Automa del milanese Enrico Annibale Butti. La storia documenta, pur non evitando del tutto alcune ingenuità15, il disagio dell’uomo «senza qualità» di fronte alla «tristezza dei tempi» e la volontà di una diserzione verso tutti quei costumi e 12 M. Guidotti, Intervista con Jovine, «La Fiera letteraria», 9 gennaio 1949. 13 F. Jovine, Aspetti del neo-realismo, «I diritti della scuola», n. 1, 23 settembre 1934 (ora in Scritti critici, cit., pp. 189-191). 14 G. Savarese, «I colori di Carmen», Saba, Svevo e altri contemporanei, cit., p. 163. 15 Al riguardo si vedano le critiche di Natalino Sapegno nel saggio Il narratore Jovine, «Società», cit., p. 280. [ 6 ] le terre incantate di Francesco Jovine 309 quei luoghi comuni che tendono ad imporsi come emulativi modelli di mondanità16: «Io per me, non penso veramente nulla» – si diceva – «sono vuoto». Ma avvertiva dentro un rodìo perenne e confuso, un affollarsi di sensazioni, di echi alla luce della mente, sgorgati da un sé più profondo. Se ne distraeva con giuochi puerili: serrava le palpebre per far nascere certi panorami favolosi, bui illuminati da una luce fredda azzurrina che si dilatava e dissolveva le ombre. E se il rosso si insinuava nell’azzurro ne provava una sorda, piccola gioia e credeva ad una magica sorgente di luci colorate che ubbidisse ai suoi comandi17. Giulio, che incarna a giudizio di Sapegno «la crisi di un intellettuale del Mezzogiorno», abita nei pressi di via dei Prefetti e nei primi tempi della permanenza capitolina «la sua snella figura vestita di nero » si aggira nei luoghi d’incontro del mondo borghese – salotti, ristoranti, campi da tennis, riunioni culturali – mentre le sue passeggiate si svolgono in via del Corso, via del Tritone, Piazza Barberini. L’Autore ripensa ad un’idea della realtà rivolta a rendere inoperosi i motivi della letteratura estetizzante e intellettualistica del tempo, senza eludere del tutto qualche debito con i persistenti postumi della coscienza decadente. L’insofferente Sabò, per quante parentele si possono ipotizzare con il Rubé di Giuseppe Antonio Borgese – «cui si avvicina curiosamente anche per il cognome tronco»18 –, in misura minore, con L’uomo nel labirinto di Alvaro e l’Andrea Sperelli di D’Annunzio, rimane un «carattere » rintanato nel suo soliloquio interiore e manifesta più volte quella «natura indocile»19 che costituisce il lievito di personaggi come Sirio Baghini e Giustino D’Arienzo, ma che porta diritto fino ai pensieri e alle azioni epiche di Pietro Veleno e Luca Marano. La sua antica lingua è quella «che parlano gli uomini abitanti tra il Trigno e il Fortore», terre che si raggiungono da Termoli o da Vairano con treni dimenticati, su binari sconosciuti ai viaggiatori delle città20. 16 «Ma non si dimentichi che la crisi di Sabò è crisi di Jovine, crisi di uno scrittore » (E. Ragni, Jovine, cit., p. 34). 17 F. Jovine, Un uomo provvisorio, Isernia, Edizioni Marinelli, 1982², pp. 22-23. 18 E. Ragni, Jovine, cit., p. 36. 19 Cfr. P. De Tommaso, Francesco Jovine (Nel decimo anniversario della morte), cit., pp. 284-287. 20 «Il treno era su un binario lontano dalla stazione, lontano dalle linee principali. Due vagoni grigi attaccati ad una locomotiva goffa, col collo lungo, che gorgogliava petulante» (F. Jovine, Un uomo provvisorio, cit., p. 137). [ 7 ] 310 TONI IERMANO Il disagio, l’inettitudine, la precarietà esistenziale, la profonda insofferenza dell’uomo verso il conformismo dominante nella realtà del tempo che caratterizzano Un uomo provvisorio trovano proseguimento nel successivo romanzo Ragazza sola, del tutto trascurato dalla critica e dallo stesso autore, apparso a puntate dal 1 ottobre 1936 al 10 luglio ’37 su «I diritti della scuola»21. La giovane maestra elementare Livia Dolegani, così come Giulio Sabò, ritrova la sua innocenza trasferendosi in una Ciociaria arcadica, non dissimile dal Molise, sottraendosi alla tumultuosa, confusa, corrotta vita della città. Tra Mursetta e Cupella, nella provincia di Frosinone, la maestrina abita in un casolare laddove, deglutite le amarezze recenti, s’immerge nel candore di una esistenza rinnovata e decisamente critica verso i falsi modelli della società borghese22. In quegli anni Jovine, turbato, così come Elio Vittorini e altri intellettuali, dalla guerra di Spagna, venne maturando una coscienza antifascista che lo indusse a lasciare l’Italia: tra il 1937 e il ’40 ricoprì incarichi presso istituti d’italiano all’estero, prima due anni a Tunisi e poi un anno a Il Cairo, e la sua firma in questo triennio sparì dai giornali23. Nel 1940 interruppe il silenzio pubblicando, ancora con Guanda, la raccolta di racconti Ladro di galline, sette testi risalenti al decennio precedente24, in cui la sua poetica viene chiarendosi nell’ambito di una stretta correlazione tra ricerca di una sperimentazione espressiva, orientata, in parte, dai motivi del neorealismo, e lo studio delle tradizioni popolari. La composizione delle novelle rivela un disegno di esplorazione stilistica tendente a ridurre o cancellare l’influenza di D’Annunzio attinta negli anni giovanili: nel primo romanzo di Jovine questa scelta trova una non oscura manifestazione. Nella prima delle novelle, Avventura galante, si tratta della passione erotica di un cieco per una cameriera che lo guida attraverso camere e lunghi corridoi bui in cui si colgono tratti di un crescente problematico rapporto con i modelli dannunziani25. 21 Id., Ragazza sola, a cura di F. D’Episcopo, Campobasso, Edizioni Enne, 1987. Cfr. E. Ragni, Jovine, cit., pp. 68-76. 22 Cfr. P. Giannantonio, Riscoperta di un romanzo sconosciuto [1988], in Id., Contemporanea, Napoli, Loffredo, 19932, pp. 358-363. 23 La collaborazione a «I diritti della scuola» riprese il 10 ottobre 1940 con l’articolo Marino Moretti, n. 4, pp. 23-24. 24 F. Jovine, Ladro di galline, in Id., Racconti, Torino, Einaudi [1960], 19672, pp. 5-82. 25 Id., Racconti, cit., pp. 7-12. [ 8 ] le terre incantate di Francesco Jovine 311 Nel racconto Malfuta o della fondazione di un villaggio, invece, viene raccontata una realtà primitiva, incapace di liberarsi dalle contraddizioni che l’affliggono e di uscire dall’isolamento26. Bellissima è la descrizione cromatica del paesaggio e di un mondo visto come un ultimo irripetibile frammento di un primitivismo in dissoluzione. Malfuta in fondo è la metafora di uno spazio sommerso in cui naviga la rammemorazione dell’autore: Rocca Malfuta scivolava da secoli a valle verso il Biferno, le acque del fiume che, uscite dalle gole di Trapura, erano in quel punto rapide e spumose rodevano il lembo estremo dell’immensa frana glabra e cinerea: un lenzuolo sudicio buttato sul verde del monte. Le case erano bigie meschine divise da strade lerce dove grufolavano i maiali e sulle quali s’aprivano le brevi finestre che non vedevano mai il sole. Il sole compariva tardi a Malfuta quando i contadini erano lontani nei campi: spuntava per i radi vecchi taciturni raccolti nella breve piazza minacciata da un campani letto spaccato da una crepa esistente da tempo immemorabile. Ma tutte le case sembravano fichi d’autunno striate dagli spacchi, con tegoli gommosi disordinati, pendenti dai tetti e che a una scossa minima sarebbero precipitati per scoprire lo scheletro delle travi di quercia, nere di fumo secolare. Il villaggio pareva fosse stato preso all’improvviso, chi sa quando, da un tremito violento che, prima di compiere l’estrema rovina e far macerie, si fosse arrestato per miracolo. Chi v’arrivava la prima volta, abbracciato in un attimo quell’incerto equilibrio di travi e di mura nel silenzio altissimo della canicola, pensava che un tuono improvviso scoppiato dalla nuvola nera pendente su Trapura avrebbe fracassato tutto27. Vi si disegnano uomini legati a una vita chiusa, diffidenti e superstiziosi verso il cambiamento: solo un incendio li spinge a prendere possesso delle nuove case costruite accanto alla provinciale e vicino ai binari. Le vecchie pietre abitate erano affidate a San Rocco Benedetto, la statua di argilla rossa che proteggeva il paese roso dall’acqua e dalla pioggia. Soltanto la violenza della natura poteva scuotere la testarda immobilità di una comunità intrattabile. Il santo e la terra sono gli unici dati stabili di un’esistenza precaria. È così che dopo aver riscattato le case e i poderi i malfutesi erano esclusivamente interessati a recintare la tanto attesa proprietà: 26 In questo racconto su Malfuta, vecchio villaggio che «scivola verso la valle del Biferno», Jovine si rivela «scrittore di atmosfere» (P. Pancrazi, Il primo e l’ultimo Jovine, cit., p. 48). 27 F. Jovine, Malfuta o della fondazione di un villaggio, cit., p. 13. [ 9 ] 312 TONI IERMANO […] comprate tracciando i solchi con una lentezza cauta e avida, pronti a deviare dalla linea stabilita se il vicino non se ne accorgeva, e guardandosi ferocemente negli occhi quando il bidente staccava una zolla furtiva. Poi gorgogliavano atroci bestemmie. Spesso ponevano mano ai coltelli, tra gli urli delle donne si tempestavano di colpi e arrossavano il solco appena tracciato28. La terza novella, che dà il titolo alla raccolta29, ritrae gli stessi ambienti contadini e i loro atteggiamenti schivi, il silenzio che ben si amalgamano con la secolare immobilità del paesaggio e la furberia e gli inganni di cui sono vittime i puri. In ciò si ravvisano i modi che ricorreranno nell’opera successiva di Jovine. Il protagonista dell’amarissima storia è il povero Gentile, abbandonato in fasce sotto una quercia al bivio di Carrozzello e ritrovato da una contadina dei D’Elia la mattina del 6 luglio 1904. La sua tragica vicenda, dopo un’esistenza di stenti e un matrimonio subito, si svolge a Guardialfiera e intorno alle frastagliate quanto pericolose sponde del Biferno. Dieci settimane, Incontro col figlio, Sogni d’oro di Michele e Ragazzo al buio sono esperienze minori, dove è presente quale esercizio il sondaggio della psicologia dei ragazzi, le loro fantasie, i turbamenti. Quella spontaneità che Jovine postulava sin dai primi anni Trenta nei suoi interventi giornalistici, quale conquista durissima, si afferma in Signora Ava, romanzo in cui lo scrittore raccoglie tutta la sua esperienza di meridionalista e studioso della cultura popolare e dove stabilisce una relazione duratura tra il tema della terra e la storia. Il Nostro fu attentissimo osservatore dei fenomeni sociali e analizzò, con acribia storica, le vicende del grande brigantaggio post-unitario, attribuendogli un profilo politico permeato da una concreta ricerca della giustizia sociale. Nel documento postumo Del brigantaggio meridionale ovvero intorno ai movimenti politici svoltisi nell’Italia meridionale tra il 1860 e il 1867, il cui nucleo teorico venne costituendosi intorno al 1943-44, lo scrittore sviluppa interpretazioni e analisi meridionalistiche – è di quegli anni la rilettura di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e dell’avellinese Guido Dorso – che si sistemano in un coerente impianto storico proprio nell’imminente completamento di Signora Ava: Grandi province come quelle delle Calabrie, dei Principati, dell’Abruzzo citra ed ultra, montuose franose solcate da corsi d’acqua irruenti, 28 Ivi, p. 15. 29 F. Jovine, Ladro di galline, in Racconti, cit., pp. 25-40. [ 10 ] le terre incantate di Francesco Jovine 313 erano collegate da strade impervie, pietrose o da un tratturo per la pastorizia transumante che per sei mesi dell’anno era fiume di fango per diventar solo d’estate «l’erbal fiume silente». Chiusi in sé i villaggi trascorrevano la vita in un’antichissima angustia; tagliati fuori da ogni rapporto umano civile il villaggio era un’entità per sé stante dominato da pregiudizi, da un comune tono morale limitato esteriore che era ligio alla superstizione religiosa e a quella civile. Rari specie nell’ultimo cinquantennio del regno i libri, più rari i giornali:le notizie politiche e delle scoperte scientifiche arrivavano con grande ritardo, senza mutare minimamente la vita degli abitanti che forse ne parlavano un poco e poi le relegavano nel mondo delle favole30. Nel saggio Del brigantaggio meridionale, Jovine, con visione chiara dei problemi storico-economici della sua regione, sviluppa interpretazioni che i luoghi e i personaggi delle sue storie avevano già annunziato e vissute dolorosamente. L’inevitabile e forte contrapposizione città/villaggio viene colta dallo scrittore molisano senza sfumature: Ma nelle campagne la vita era dura; i contadini raccolti in villaggi (rare nel mezzogiorno, anche oggi le case coloniche) intorno al castello baronale diruto abitavano squallidi tuguri e facevano tutti i giorni lunghissima strada per raggiungere i loro campi. Erano ignoranti mal nutriti solitari. Il villaggio era il loro mondo; e nel villaggio la divisione delle classi si ripeteva spesso con una rigidezza castale; cafoni, artieri, galantuomini: i due primi strati della popolazione che avevano origine identica e avevano tra loro un continuo flusso in decadenza e in ascesa, avevano un potere economico presso a poco uguale, una leggera differenza nella cultura: qualche volta l’artigiano sapeva leggere e scrivere e perciò agli occhi dei cafoni riceveva da questo fatto una specie d’investitura diabolica, che armava la sua diffidenza. I galantuomini, si distinguevano dagli altri per il loro assoluto ozio: se professionisti, e nei villaggi erano rari, erano propensi per malinteso spirito gentilizio, ad essere scarsamente operosi: l’idea del lavoro come compito di gente umile che abbia bisogno di guadagnare la propria vita e perciò legata a un povero stato, era tra gli idola tribus più fermamente radicati nelle loro anime31. Jovine spiegò l’isolamento culturale della sua regione e la solitudine delle classi subalterne meridionali utilizzando come fonti le indagini degli illuministi Giuseppe Maria Galanti, autore dei due tomi della 30 Id., Del brigantaggio meridionale, «Belfagor», a. XXV (1970), p. 634. 31 Ivi, pp. 632-633. [ 11 ] 314 TONI IERMANO Descrizione dello stato antico ed attuale del contado del Molise (1781)32, e dell’abate Francesco Longano, artefice del Viaggio per lo contado del Molise nell’ottobre 1786 ovvero descrizione fisica, economica e politica del medesimo (1788), e la Relazione sul Molise (1812) di Vincenzo Cuoco, tutte opere richiamate dal Nostro nei suoi scritti. Sulle cause della reazione contadina e sulle origini del grande brigantaggio post-unitario, che investì gran parte dei villaggi e delle montagne molisani a partire dall’autunno del 1860, Jovine, influenzato anche dalla conoscenza dell’opera di Marc Monnier, Notizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di fra Diavolo sino ai nostri giorni (1862), sosteneva senza cadute giustificazioniste o revisioniste: Per gli sciagurati che uccidevano non c’era altra via di scampo che la macchia: i boschi, i botri, i dirupi sfuggivano alla sorveglianza dei gendarmi. Al di fuori dei gruppi di case dove gli agenti del Re potevano esercitare l’autorità c’erano le aperte boscaglie dove era possibile incontrare altri sciagurati che erano costretti a vivere di rapina e di sangue33. Fu la meditata lettura de La rivoluzione meridionale di Dorso, edita dalle edizioni Gobetti nel 1925 e ripubblicata, con una nuova prefazione, nel ’44 da Einaudi, ad offrirgli comunque l’opportunità di ripensare al meridionalismo con rinnovato fervore ideale. Jovine scrisse convinte pagine di adesione al pensiero dorsiano34, componente intrinseca di tanti suoi interventi politici nell’Italia del secondo dopoguerra. Il Luca Marano de Le Terre del Sacramento potrebbe essere uno di quei cento uomini d’acciaio auspicati da Dorso per il compimento di una grande rivoluzione del Mezzogiorno contro il trasformismo e la corruzione delle sue vecchie classi dirigenti, capaci di sopravvivere ad ogni forma di cambiamento politico. Alla gioventù meridionale, alla presa di coscienza del contadino Pietro Veleno e dell’intellettuale Luca, era spettato il compito di non perdere le occasioni storiche per la rinascita di terre condannate all’arretratezza e al sopruso. Negli energici interrogativi dorsiani si colgono motivi vitali del mondo politicomorale di Jovine: 32 Cfr. G.M. Galanti, Scritti sul Molise, t. II. Descrizione del contado di Molise, a cura di F. Barra, Napoli, Società editrice napoletana, 1987. 33 F. Jovine, Del brigantaggio meridionale, cit., p. 635. 34 Cfr. Id., Omaggio a Guido Dorso, «Il Giornale d’Italia», 20 aprile 1947, p. 3. [ 12 ] le terre incantate di Francesco Jovine 315 Ma, esiste una nuova classe dirigente politica nel Mezzogiorno? Esistono cento uomini d’acciaio, col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile per lottare per una grande idea? Oppure la nostra dolce terra perderà un’occasione storica più che rara, e continuerà il suo martirio al seguito della tradizionale miserabile classe politica meridionale, dopo che questa si sarà salvata da un naufragio per l’assoluta impotenza della nostra terra ad esprimere nuove energie politiche?35 A partire dalla fine degli anni Trenta il realismo joviniano viene rafforzandosi nell’ambito di una riflessione del contesto politico-sociale locale. L’indagine fornisce dati e situazioni che si riversano, dopo una certificazione di originalità, nella ideazione del meccanismo narrativo. Sovrastando il bozzettismo veristico, pur restando conscio quanto libero interprete del metodo del maestro Verga e di una conoscenza del Nievo delle Confessioni36, e postosi in contraddizione con le antistoriche tendenze narrative emerse con tratti negativi nel regionalismo degli epigoni, il Nostro percorre le mappe di una letteratura caratterizzata dalla pervicace osservazione degli elementi storico-geografici, mai ostile alla conoscenza dei territori del fantastico, abitualmente visitati. Un paesaggio dimenticato, gremito di personaggi e memoria, diviso e isolato nei lunghi mesi invernali dall’impetuoso scorrere del Biferno, avvolto nei riti e nel «dogmatismo sentenziante della filosofia popolare » della millenaria sapienza della civiltà contadina, rivive negli undici articoli che Jovine raccontò come inviato de «Il Giornale d’Italia» nell’estate 1941, solo poco tempo prima della pubblicazione di Signora Ava. Ed è in quegli scritti che esprime la sua riflessione sulla estensione storica dell’immobilità del paesaggio agrario: Per circa quarant’anni, dal 1845 al 1881, il Biferno non ebbe più un ponte; per quarant’anni il fiume veniva passato a guado. D’inverno quando il guado era difficile, diveniva un liquido invalicabile ostacolo tra le due parti del Molise. Paesi distanti tra loro pochi chilometri che si rimandavano a mattutino e a vespro il suono delle campane, rimanevano anche dei mesi senza comunicazione, o con contatti rarissimi […] Questi passaggi di fortuna erano possibili d’estate e d’autunno, d’inverno divenivano difficilissimi, se non impossibili. Allora i paesi della sponda sinistra rimanevano tagliati fuori dal mondo. Notizie di guerre, di cadute di dinastie, di congiunzioni di astri arrivavano dopo 35 G. Dorso, Ruit hora! [1943], in Id., L’occasione storica, Torino, Einaudi, 1949, p. 7. 36 Al riguardo si rinvia a E. Ragni, Jovine, cit., pp. 15-17. [ 13 ] 316 TONI IERMANO sei mesi, quando avevano perduto ogni significato, ogni carattere emotivo. Il Biferno aveva il potere di sconvolgere le leggi del tempo: il lungo inverno con la neve che seppelliva le case e i campi diveniva una sola interminabile giornata37. Questo il contesto e il conseguente fascio di aspetti antropologici e storici in cui si svolgono gli avvenimenti dell’ormai incipiente stesura definitiva di Signora Ava, una storia che «torna nella nostra memoria e vi si svolge infatti come un arazzo»38. Nel 1942 il romanzo, la cui idea iniziale risale al 192939, l’anno della stampa di Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro40, apparve presso l’editore romano Tumminelli nella collana dei narratori contemporanei “Nuova Biblioteca Italiana” diretta da Arnaldo Bocelli41. Il congegno narrativo e le due parti che compongono la storia si reggono sulla oscillazione tra realismo e invenzione fantastica, memoria e avventura, mito e storia. L’opera, a cui lavorò ancora nel ’35 e con sistematicità tra il ’38 e il ’41, riflette la conoscenza acquisita da Jovine della sua terra, della cultura popolare e delle leggende contadine. L’epigrafe posta in apertura del romanzo, ripresa da un Canto popolare del Mezzogiorno, spiega la natura dei legami esistenti tra l’elaborazione letteraria e la storia delle tradizioni popolari e costituisce molto più di un riverbero di quell’intimo rapporto nonchè lascia trapelare una carica eversiva contro il potere e le sue prevaricazioni. La scelta dell’epigrafe contiene anche una precisa volontà politica: O tiempo da Gnora Ava nu viecchio imperatore a morte condannava chi faceva a’mmore. 37 F. Jovine, Biografia del Biferno, «Il Giornale d’Italia», 18 luglio 1941. La guerra in questi articoli è del tutto assente, segno ulteriore dell’avversione di Jovine al mito guerriero fascista: cfr. F. Jovine, Viaggio in Molise, cit., pp. 78-79. 38 P. Pancrazi, Il primo e l’ultimo Jovine, cit., pp. 49-50. 39 I primi quattro capitoli furono scritti nel 1929; in seguito, nel ’35, lo scrittore riprese il progetto che solo nel 1941 fu definitivamente avviato e concluso. Cfr. Intervista con Jovine, a cura di M. Guidotti, «La Fiera letteraria», 9 gennaio 1949. Il primo capitolo redatto nel ’29 fu edito postumo col titolo di Pietro Veleno brigante, «Dimensioni», a cura di O. Lombardi, a. XIII, n.s., 6 dicembre 1969, pp. 9-12. 40 Jovine fu assiduo e convinto lettore dell’opera alvariana, di cui iniziò a scrivere nel 1934. Cfr. Scritti critici, cit., pp. 196-198; pp. 301-305. 41 Cfr. Il carteggio Bocelli. Inventario, a cura di B. Marniti e L. Picchiotti, Roma- Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 1998. Inoltre si veda A. Bocelli, Letteratura del Novecento, ivi, 1976, pp. 371-375. [ 14 ] le terre incantate di Francesco Jovine 317 E rivive la figura paterna, di quell’«ingenuo rapsodo» di un mondo defunto, intento nelle notti del lunghissimo inverno molisano ad animare le serate con la sua voce «nasale e cantante». La conoscenza della letteratura dialettale e l’assorbimento della «memoria antichissima delle tradizioni popolari, trasmessegli dal padre»42, s’intrecciano con le incalzanti contraddizioni della realtà, determinando una conoscenza problematica e composita di un insieme di terre laddove l’immobilismo si esplicita anche nel sofisma e nella contraddittorietà dei proverbi, che «vengono usati a seconda delle circostanze»43. Gli studi e gli articoli di carattere politico e antropologico di Jovine sono permeati da una curata sensibilità storica verso i motivi dell’isolamento della sua terra, anch’essa parte di quella «conquista regia», per usare un lessico dorsiano, dietro cui si erano avvolti gli ideali e tanti falsi riti risorgimentali. Il tono favoloso di Signora Ava nulla sottrae ad una frequentazione sotto vento lucida e mai arbitraria del versante realistico. In una breve quanto ottima recensione, il critico letterario calabrese Antonio Piromalli, con acribia critica, già nel ’43, tra i primi, coglieva alcuni elementi fondativi del romanzo, che meritano di essere riproposti per la loro attualità interpretativa: Questo nuovo romanzo di Francesco Jovine (Signora Ava, Tumminelli, 1942) rappresenta il Molise al tempo dei Borboni e si legge con grande piacere per il sereno distacco della materia trattata; fatti e personaggi sono allontanati nel tempo e nello spazio, il romanziere non fa che raccontare cose che sono ben ferme nella sua memoria. Perciò il tono della sua narrazione è favoloso: sembra di sentir raccontare i fatti di «Quando Gesù andava per il mondo». Quando Jovine si abbandona a descrivere quella vita vengono fuori le pagine più belle; così quando descrive la vita invernale del paese […]. Ma il romanzo non si esaurisce in questi pregi esteriori, e noi vorremmo, in luogo di scrivere questa nota affrettata, avere il tempo di parlare della vicenda del libro, del mondo morale che in esso è rinchiuso, della storia di Pietro e di Antonietta che rappresenta il centro del romanzo. A leggere il quale aiutano la fluidità della scrittura che è tutt’uno con il linguaggio e il mondo del narratore44. 42 L. Biscardi, La letteratura dialettale molisana tra restauro e innovazione, Isernia, Marinelli editore, 1983, pp. 14-15. Inoltre cfr. E. Cirese, Saggi sulla cultura meridionale, I, Gli studi di tradizioni popolari nel Molise. Profilo storico e saggio di bibliografia, Roma, De Luca, 1955. Su questi temi cfr. F. D’Episcopo, Il mestiere di molisano: Francesco Jovine, Campobasso, Enne, 1982; Id., Il Molise di F. Jovine, Campobasso, Enne, 1984. 43 F. Jovine, Viaggio nel Mezzogiorno, cit., p. 101. 44 A. Piromalli, Vetrina, «Quadrivio», Roma, 21 marzo 1943. [ 15 ] 318 TONI IERMANO I conflitti tra galantuomini e contadini, vagliati nelle analisi del meridionalismo post-unitario, costituiscono le ragioni intrinseche di una insanabile frattura, in un contesto dominato da immobilismo e povertà, e contraddistinto da violente ribellioni. La borghesia paesana, talvolta dedita all’usura, è avida di denaro e di terra e la sua azione si limita ad una vorace politica di accumulazione di proprietà e di beni. La storia si svolge a Guardialfiera, comunità dove le regole sociali si fondano sull’osservanza di una morale remota, irrorata da una generazione all’altra dal racconto di fatti millenari che si aprivano, così come il vino migliore, solo durante le allegre serate dell’inverno. Il paese s’era messo a vivere la sua curiosa vita invernale: le giornate e le notti si confondevano, l’ombra e il buio nascevano senza violento contrasto. Il mattino spruzzava un po’ di chiaro nell’ombra con la pigrizia annoiata di un compito eterno: il paese pareva disabitato, radi i passanti, più radi i capannelli dei contadini che avvolti nei mantelli, il viso sprofondato nei baveri, passavano ore, talvolta, a guardarsi taciturni, o ad ascoltare la narrazione di un fatto a cui nessuno credeva. Ma nell’interno delle case la vita acquistava un suo piacevole andamento; gli uomini attirati dal tepore del camino uscivano poco e si mischiavano con sempre maggiore intimità alla vita delle donne e dei ragazzi. Perciò, gente d’ordinario taciturna, non faceva che parlare, parlare; l’immobilità nello spazio trovava il suo correttivo nella mobilità della fantasia, Era il periodo dei racconti, delle favole, del ricordo i motti arguti, delle elencazione delle genealogie45. Guardialfiera veniva attraversato dalle stagioni secondo una ripetitiva scala delle temperature e gli abitanti potevano programmare la vita seguendo meticolosamente il flusso del tempo e del calendario46. Pietro Veleno, cresciuto nella casa del ricco Don Eutichio de Risio e innamorato di Antonietta, figlia del suo padrone, dopo aver vissuto a lungo nella cieca osservanza delle regole feudali si ribella e diventa un brigante. L’oppressione e l’infido comportamento del capofamiglia di casa De Risio sono le cause essenziali della svolta che porta il giovane, taciturno e melanconico, alla ribellione contro un sistema sociale che i baroni ma soprattutto la nuova borghesia terriera – i galantuomini – rende refrattario ai mutamenti malgrado le infinite promesse di redenzione sociale. La figura di Pietro, bandito per colpe non proprie, arruolatosi nella banda di Ferdinando Nazzaro, alias Sergentello Capi- 45 F. Jovine, Signora Ava, Torino, Einaudi, 1978, p. 90. 46 Cfr. Ivi, p. 127. [ 16 ] le terre incantate di Francesco Jovine 319 tano dell’Armata Francescana, trova una sua legittimazione ideologica e una fondata analisi nelle pagine Del brigantaggio meridionale: Il bandito in lotta aperta ed armata contro la società che lo aveva espulso dal suo seno o dalla quale s’era volontariamente escluso per insofferenza morale dei suoi troppo angusti limiti, che viveva in uno stato estremo di tensione intima, costituiva il tipo fortemente e ingenuamente caratterizzato che aveva un altare ed omaggio di sospiri in molti teneri cuori. Era la sopravvivenza dell’antico mito romantico del masnadiero, vitalissimo allora, ma che può considerarsi imperituro ed è forse una categoria dell’anima […] è vero anche che la maggior parte dei banditi erano grassatori e ladri, contadini ingenui, sbandati dell’esercito borbonico disfatto47. E inoltre si poteva pensare a Pietro riferendosi ai celebri briganti lucani Carmine Crocco e Ninco Nanco intorno alle cui figure si sviluppò il fertile mito dell’insorgenza meridionale e della rivolta contro le ingiustizie della società dei galantuomini: Carmine Crocco, o Ninco Nanco, improvvisati capitani di bande che misurano il loro potere sul metro della loro capacità mentale, portano nella rozza anima questi motivi eterni dell’uomo di guerra e di ventura. Sono certamente avidi, sanguinari, vanitosi, sensuali; ma pur hanno in mente un rozzo modello di convivenza sociale diverso da quello dal quale provengono e che generò la loro miseria e la loro ribellione48. Signora Ava non è un personaggio storico quanto la metafora di un tempo lontano riposto in una indistinta memoria che riemerge nel canto popolare e nei modi di dire della parlata quotidiana. Nel racconto Malfuta o della fondazione di un villaggio un contadino che non intende trasferirsi nel nuovo villaggio, dice: […] «caduta una casa? Non ne cadeva una dal tempo della signora Ava. Le case nuove che si fanno con lo sputo quelle cadono»49. Se il titolo del libro rinvia ad una memoria perduta, anonima, la dedica al padre ne stabilisce contorni temporali più precisi: le vicende 47 Id., Del brigantaggio meridionale, cit., p. 625. Sulle corrispondenze storico-sociali tra questo scritto e Signora Ava cfr. S. Martelli, Jovine e il brigantaggio, in Studi lucani e meridionali, a cura di P. Borraro, Galatina, Congedo, 1978, pp. 107- 133. 48 Ivi, p. 639. 49 F. Jovine, Malfuta o della fondazione di un villaggio, in Racconti, cit., p. 18. [ 17 ] 320 TONI IERMANO si svolgono tra il 1859 e il 1861. Sono questi gli anni cruciali per la storia del Mezzogiorno, che dalla crisi del Regno delle Due Sicilie portano alla caduta del regime borbonico e alla tumultuosa nascita dello Stato unitario. I personaggi vivono fatti che suscitano ambizioni nella società borghese e pronte disillusioni contadine sulla eterna questione dei fondi. In questo quadro il racconto deriva da una combinazione di ideologia e storia50. La vivacissima e riuscita figura di Don Matteo Tridone, un personaggio uscito dalla migliore tradizione umoristica italiana dell’Ottocento, tanto da farci pensare, anche se da lontano, ad alcuni preti panciuti e atei ritratti dal toscano Renato Fucini nelle sue Veglie, apre e chiude la narrazione di Signora Ava. Il personaggio vive in parte di espedienti – furto di pomodori e zucche, talvolta di qualche gallina – e attende la scarsissima carità pubblica. Il compenso dovuto per una messa funebre era di due galline ma «i contadini morivano in genere di colpo cadendo di picchio sui solchi e i figli gli mettevano un po’ di terra in bocca: e poi si facevano il segno della croce. E a Don Matteo niente: se capitava, qualche giorno dopo, lo portavano sul luogo e lo invitavano a dire un Requiem: due uova»51. Ciò creava un rapporto particolare tra Don Matteo e il Signore: A Dio, pur riconoscendo la bontà generica delle intenzioni, egli attribuiva una grandissima parte degli errori nella costruzione del mondo per i quali gli uomini erano costretti al peccato. E non di rado, nelle sue meditazioni religiose, entrava in polemica con il Padre eterno a proposito della sua miseria, della cattiveria degli altri preti verso di lui, della grandine che colpiva le viti, della siccità che non faceva crescere il grano […]52. A volte il diavolo gli «sembrava più intraprendente ed ordinato [di Dio] nell’amicizia prodigata ai perversi e nella sua opera quotidiana di tentazione, per aumentare il numero dei suoi seguaci. Questa del diavolo era l’estrema riserva delle subitanee collere di Don Matteo, che dentro di sé si trovava spesso a minacciare Dio di passare definitivamente dall’altra parte, a darsi anima e corpo al Nemico»53. Il prete portava in giro la parola di Dio traducendola nel linguaggio semplice dei contadini da cui era compreso perché ne condivideva la condizio- 50 Cfr. E. Ragni, Jovine, cit., p. 96. 51 F. Jovine, Signora Ava, cit., p. 24. 52 Ivi, p. 25. 53 Ibidem. [ 18 ] le terre incantate di Francesco Jovine 321 ne e le superstizioni. Don Girolamo era la sua cavalcatura – un asino – cui aveva dato il nome del parroco avaro e testardo dal quale dipendeva. Il viaggio compiuto verso la città, dove Don Matteo si reca per chiedere giustizia al Monsignor Vescovo, viene raccontato in un capitolo dove dominano l’umorismo e l’ilarità senza che nulla venga concesso al sarcasmo. Durante il percorso avviene un violento litigio tra il prete e il suo asino: Quando incominciò la salita Don Matteo pensò di mettersi a cavallo. Trasse Don Girolamo vicino ad un muricciolo; l’asino lo accontentò con un’inattesa arrendevolezza e spiccò un trotterello agevole e brioso che durò cinquanta passi; prese una andatura ritmica e attenta che indusse Don Matteo a riprendere il filo dei suoi pensieri e a riaccendere la pipa. Passò qualche secondo, poi d’un tratto Don Girolamo fece un rapido mezzo giro su se stesso, una flessione sulle gambe anteriori per far perdere l’equilibrio al cavaliere e poi una sgroppata mancina. Il prete schizzò dalla sella con vano e disperato annaspare delle braccia […] volle illudersi che l’inimicizia di Don Girolamo fosse casuale. Nei suoi tempestosi rapporti con l’asino non erano mancati episodi somiglianti a quello ora verificatosi […]. Ripresero a camminare e dopo qualche minuto Don Matteo rimontò sull’asino. O meglio provò a rimontare, perché Don Girolamo per scaraventarlo a terra lo sorprese a mezza gamba in sella e l’altra penzoloni. Don Matteo questa volta rimase abbrancato alla cavezza e si risollevò con fulminea rapidità. Avventò pugni e calci sulla testa, sul ventre del somaro; poi, raccolto uno sterpo, purtroppo fragile, glielo ruppe sulla groppa. Don Girolamo prendeva le busse schermendosi con finte e parate rapide, scaltre, ma non gli era possibile sottrarsi a gran parte del diluvio54. Al termine della storia Don Matteo avrà una parte esemplare nell’appoggiare cristianamente le ragioni dei briganti. Nella misurata e umanissima chiusura del romanzo, con un dignitoso quanto coraggioso «veniamo», il prete comunica alle truppe piemontesi, pronte ad uccidere i resti della banda di Sergentiello, tra cui Pietro Veleno e Seppe di Celenza, l’inevitabile resa: Don Matteo aveva avuto un soprassalto: poi s’era voltato lentamente a guardare verso il luogo dal quale veniva la voce. Chiuse per un attimo dolorosamente gli occhi, poi fece cenno a Pietro e a Seppe di abbassare le armi. Alzata la destra fece verso gli alberi un gesto largo e ripetuto per calmare l’impazienza di quelli che attendevano. Con un piccolo 54 Ivi, pp. 98-99. [ 19 ] 322 TONI IERMANO tremito nelle dita, si segnò ancora. Chiamò vicino a sé Seppe e Pietro, e mise loro le mani sulle spalle. Poi, si diresse verso il folto e disse: – Veniamo55. La tenera storia d’amore tra Pietro e Antonietta De Risio, figlia di Don Eutichio, nata dopo il rifiuto da parte della ragazza del giovane convittore Stefano Leone, un personaggio in cui lampeggiano tratti psicologici riconducibili a Giulio Sabò e ai suoi fratelli minori, si svolge nell’ambito di un intenso, governato lirismo, in cui pure la passione e il sentimento amoroso trovano slancio. Pietro era cresciuto in casa De Risio senza una consapevolezza del rapporto di tipo feudale che lo legava ai suoi padroni: Don Eutichio e il figlio Carlo. A movimentare la vita di paziente e sottomesso servizio «un giorno gli venne in mente che le mani di Antonietta, che erano state sulla sua testa, vi avessero seminato tutte quelle immagini, tutte quelle idee che non gli appartenevano, che venivano su come la gramigna e gli invadevano il cuore»56. Le annate avare e i pessimi raccolti costringono i contadini a ricorrere ai prestiti di Don Eutichio, prestiti usurai dai tassi elevatissimi e che dovevano suscitare in loro solo gratitudine per la bontà dei ricchi. Una protesta e sarebbero stati severamente puniti. Un piano viene concepito da Don Eutichio per trovare «il modo più sicuro d’impadronirsi delle terre dei contadini»57 approfittando delle loro difficoltà. A Don Matteo, che pure aveva già fatto da intermediario tra i galantuomini e i poveri, “fiutando l’imbroglio”non resta riconoscere che i contadini «sono topi in bocca al gatto». Mentre i proprietari riflettevano sul modo più efficace per estendere i possedimenti e affiancavano con discrezione i piemontesi – pronti però a tornare sulle posizioni borboniche in caso di notizie di sconfitte dei nuovi conquistatori –, i contadini allargavano nel fango dei pensieri i confini delle terre, convinti che per il passato gliene era toccata troppo poca. L’arrivo della Guardia Nazionale a Guardialfiera doveva compromettere i loro piani di giustizia sociale col ripristino autoritario dell’ordine costituito. Il pavido Don Eutichio, che prima aveva fatto solennemente sostituire in chiesa l’immagine di Francesco II con quella del nuovo Re, pentitosi a seguito delle notizie militari provenienti dalla regione, ave- 55 Ivi, p. 234. 56 Ivi, p. 95. 57 Ivi, p. 93. [ 20 ] le terre incantate di Francesco Jovine 323 va ordinato a Pietro e al compagno Carlo Antenucci di rimettere al suo posto il quadro del Borbone. I due giovani di notte portarono a termine l’impresa ma l’episodio si rivela determinante per la loro sorte. Mutato il vento e tradito dal suo padrone, Pietro è costretto ad allontanarsi dal paese e a nascondersi nei boschi. Pietro Veleno diventa un ribelle, un bandito che non esita ad armarsi e a uccidere i liberali, sempre galantuomini; bandito d’altronde si è «perché si combatte qualcosa che pur non essendo considerata criminale dalla coscienza comune, lo è per lo stato e per i governanti»58. Riuscita è anche la nobile figura del Colonnello ossia di don Giovannino de Risio, protettore benevolo di don Matteo Tridone, responsabile della scuola-convitto tenuta in casa, frequentata dai figli dei borghesi del Contado. Il suo discorso di commiato dagli allievi nel giugno del ’60 sancisce la fine di un tempo perduto ma soprattutto l’auspicio di nuove, più interessanti avventure esistenziali per la migliore gioventù molisana: – Chiudiamo con oggi, venti giugno, il nostro anno scuola, ultimo forse per il vostro vecchio maestro. so che avvenimenti gravi si stanno preparando, che giornate luminose per l’avvenire del nostro paese metteranno a prova quanti hanno saldezza d’animo, bellezza d’ideali, fermezza di propositi. Bisogna credere: profondamente credere, – e qui si arrestò un momento perché il suono della sua voce lo aveva inaratamente sorpreso, – che il mondo va verso un destino migliore. – Io sono certo che tutti voi troverete nella prossima lotta il vostro posto; che il mio insegnamento avrà avuto il potere di rinsaldare in voi la giovanile fede nell’avvenire della vostra opere e che, comunque e dovunque, voi mi considererete presente in mezzo a voi, con gli stessi sentimenti… ma con migliori gambe59. Il romanzo giudicato, impropriamente, prima una tarda manifestazione del realismo ottocentesco poi minore, rispetto al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, apparso sedici anni dopo, resta estraneo a relazioni di questo tipo per un fascio di questioni che connotano differenze sostanziali tra le motivazioni ideologiche e poetiche di Jovine e quelle proposte dal principe siciliano: davvero infelice è il riduttivo, prevedibile quanto infondato slogan: «Il Gattopardo dei poveri» utilizzato per pubblicizzare e illustrare una recente ristampa di Signora 58 E. J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1974, p. 35. 59 F. Jovine, Signora Ava, cit., p. 149. [ 21 ] 324 TONI IERMANO Ava60: il «ritorno» del romanzo, una delle prove narrative più importanti del pieno Novecento, deve essenzialmente suscitare la curiosità delle nuove generazioni di lettori61. Nell’opera di Jovine non ci sono particolari elementi che possano indicare nella società contadina la maturazione di una coscienza di classe. Nello scrittore fu saldo il convincimento che le popolazioni dei paesi molisani, sia nel 1860 che all’avvento del fascismo, furono ignare della natura degli avvenimenti, subendoli in uno stato di passiva estraneità. Nel romanzo lo esplicita, tra l’altro, nel brano sul ritorno dal pellegrinaggio al santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano fatto dai fedeli di Guardialfiera nel pieno dell’insurrezione contro Francesco II: Al ritorno toccarono Foggia e sentirono parlare per la prima volta della rivoluzione. Nessuno seppe mai chi portasse veramente quella voce. Fatto sta che tra le compagnie in pellegrinaggio riconoscibili anche se andavano per la città in piccoli gruppi, la voce passava di bocca in bocca. Dapprima fu la semplice notizia che in una parte lontana del Regno il popolo s’era ribellato alle armi del Re: poi si seppe che i soldati del Re avevano vinto contro i galantuomini; ma i cafoni nelle campagne resistevano contro i soldati e i briganti, perché l’Arcangelo Michele era apparso tra i suoi fedeli e aveva detto: «Belli figlioli io sono con voi», e aveva sfoderato la sua spada di fuoco. Qualcuno diceva che nella grotta del Gargano la statua dell’Arcangelo non c’era più, che c’era rimasto solo Satanasso nero incatenato, che mordeva per la rabbia il piedistallo. Una compagnia che tornava indietro dal santuario in quei giorni confermò la notizia, ma disse che anche Lucifero non c’era più, la grotta era vuota. Poi si seppe che misteriosamente in tutto il Tavoliere e nell’Abruzzo erano state incendiate centinaia di masserie, che i buoi e le pecore scappavano impazziti per i tratturi ed erano di chi li voleva: ma nessuno li toccava perché erano roba del diavolo. Poi nel tardo pomeriggio aumentarono i discorsi, le dicerie, l’affanno: i pellegrini molisani che si riconoscevano per le giacche corte, i pantaloni turchini e le lunghe uose cinerine, si misero confusamente d’accordo per fare la strada de ritorno insieme, si davano convegno in un luogo determinato fuori di città per la riunione. A vespero fuori delle ultime case della città degli anziani della compagnia agitavano furiosamente 60 Cfr. Id., Signora Ava, prefazione di G. Fofi e postfazione di F. D’Episcopo, Roma, Donzelli, 2010. Spunti sulle differenze tra i due romanzi in P. Giannantonio, «Signora Ava» tra i «Vicerè» e il «Gattopardo», «Critica Letteraria», VIII (1980), pp. 486-499 poi in Id., Contemporanea, cit., pp. 342-354. 61 Interessante è l’argomentata recensione alla recente ristampa di Signora Ava di C. Bertoni, Jovine. Risorgimento diseredato, «Alias». Supplemento de «Il Manifesto », n. 5 del 5 febbraio 2011, p. 22. [ 22 ] le terre incantate di Francesco Jovine 325 le campane e alzavano sulle teste i loro crocifissi ed i labari delle confraternite, perché ognuno potesse riconoscere i compagni62. Riconoscibili nella narrativa di Jovine, tale da renderla originale e non catalogabile in un generico repertorio di neorealismo ideologico, sono diverse coppie opposizionali, che si attivano problematicamente: fantastico/reale, città/campagna, memoria/cronaca, magico/vero, storia/favola. Le raccolte Il pastore sepolto e L’impero in provincia, entrambe del ’45, Tutti i miei peccati (1948), riunite con Ladro di galline nei Racconti, consentono di rintracciare piste interpretative di rinnovata suggestione, riconsiderando la mappa topografica del realismo, nonché di mettere a confronto il calore dei personaggi paesani con la inospitabilità della città e della sua gente. L’antifascismo e una dose di fosforescente umorismo intridono i sei racconti editi ne L’impero in provincia. Il tema che vi si svolge è quello caricaturale di un regime le cui esigenze di grandezza calate nella piccola provincia si rivelano assurde e grottesche. La gravità della situazione sociale e le devastanti conseguenze della dittatura e delle immani distruzioni della guerra determinano un ripensamento della realtà ma anche di un tempo defunto. La pagina che apre La vigilia è uno svelamento dello stato d’animo e delle preoccupazioni esistenziali dello scrittore nei mesi seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale: Forse dovrei solo parlare delle recenti sciagure che pesano terribili sulle nostre anime; ma ora che le nostre case sono distrutte, prima che la nostra gente si disperda, sarà necessario narrare per i sopravvissuti i casi più notevoli successi nei nostri luoghi, in questi ultimi tempi, perché non vada perduta la memoria degli uomini che l’abitarono. Se qualcuno mai ritorni nella terra dei padri troverà scritto tra le pietre e la gramigna, il grido dei morti e il pianto dei vivi, lontani. Ma c’è un tempo più remoto da cui nacque il nostro presente dolore che le case crollate e la campagna morta non potrebbero narrare. Se ci fossero ancora focolari intatti la gente potrebbe nelle lunghe sere d’inverno, richiamare i volti e le voci dei morti. L’affettuosa memoria rifarebbe familiari le care immagini e ritesserebbe filo a filo la delicata trama. La sventura ritroverebbe nel tempo le sue ferme radici e il ricordo di giorni lieti e tristi del passato in cui fummo tutti uniti, potrebbe darci la forza per tornare e forse ricostruire le nostre case63. 62 F. Jovine, Signora Ava, cit., p. 138. 63 Id., La vigilia, in Id., L’impero in provincia. Cronache italiane dei tempi moderni, Torino, Einaudi, 1981, p. 3; in Racconti, cit., pp. 221-237. [ 23 ] 326 TONI IERMANO La difesa della memoria della «terra dei padri» e la possibilità del «ritorno» paiono costituire le ragioni essenziali anche dell’ultimo Jovine. Il podestà, la moglie e tutte le autorità locali nei migliori anni del consenso al fascismo vivono, malgrado reiterati soprusi, cattiverie e gesti autoritari, in uno stato di natura tendente al ridicolo. Un esempio di questo clima, che a raccontarlo appare inverosimile, è ricostruito nel testo Il monumento storico, in cui si delineano i profili di Giacomo Fegona, capo del «Governo nuovo a Guardialfiera», dell’ambizioso podestà don Carlo Cerulli, di don Cosimo e del figlio don Tommaso Petrecca, del notaio Ranalli e di un popolo vittima dei paradossali e incongrui comportamenti dei suoi governanti. Nel racconto La rivolta, invece, edito nella rivista «Il Risorgimento» nel ’45, i contadini, stanchi della guerra, del ripristino del vecchio potere e del ritorno in municipio di quelli «che c’erano prima» decidono di bruciare ogni cosa64. La rivoluzione dell’ordine, del diritto, delle leggi cui la dittatura ripiega dall’originaria azione di rinnovamento – iniziata del resto con il pestaggio dell’imbianchino socialista Giuseppe Dracca – all’accordo con i notabili Petrecca, per giungere al culto di Mussolini, alle sue guerre cui la chiusura della valvola dell’emigrazione e le crisi dei raccolti, fornisce in abbondanza «volontari», e poi l’autarchia fino al crollo del sistema totalitario; Jovine ripercorre le tappe salienti del Ventennio, in una trama storica fittissima, realizzata dalla convinzione di fornire del fascismo, del tutto disinteressato ad un rinnovamento delle forme di vita in Molise, l’immagine che il mondo contadino si era formata. Il pastore sepolto, ripetiamo, è la seconda raccolta di novelle, apparsa per i tipi Tumminelli. Nella prima, che dà il titolo al volume, si narra, come già scritto, di una decaduta famiglia di proprietari terrieri, che per fronteggiare cause pendenti si vede costretta ad alienare il patrimonio. Questa condizione spinge i protagonisti a favoleggiare di antichi tesori nascosti. Giustino D’Arienzo, il secondo notevolissimo racconto apparso la prima volta su «Il Primato» di Bottai nel giugno ’43, ripercorre le esperienze di un giovane che lascia il paese per fare il precettore in un collegio di provincia. L’umore instabile, la solitudine, gli slanci ricchi di speranza, le improvvise disillusioni, il sofferto amore per Saveria, sorella dello studente Giulio Angrisani, intimamente invaghito del suo istitutore, sono ritratti attraverso un equilibrio de- 64 F. Jovine, La rivolta, in L’impero in provincia, cit., pp. 117-131, in particolare p. 130, in Racconti, cit., pp. 303-312. [ 24 ] le terre incantate di Francesco Jovine 327 scrittivo tra la ricognizione degli stati d’animo e il riferimento alle vicende esterne che gli causano inquietudine65. Nella raccolta figurano inoltre nove testi nella sezione Storie contadine e quattro in quella intitolata Gente di città, un modo per esemplificare il problematico e reiterato conflitto città/campagna. Durante la Resistenza Jovine si legò agli uomini del Partito d’Azione e del Pci e partecipò al moto di rinnovamento della società italiana. Nella Lettera ad Alvaro, apparsa su «Aretusa» nel ’45, Jovine, oltre a difendere la natura e le ragioni della letteratura meridionale, illustra la sua posizione politico-ideologica, sostenendo la necessità di creare nel Mezzogiorno scuole elementari e tecniche per l’agricoltura e l’artigianato e abolire «cento ginnasi». Vi erano «troppe ed inutili lavinee da noi e troppi procaccianti di impieghi con una cultura sommaria, abborracciata, sterile. Peso morto per il paese; mentre sarebbe validissima gente quella che potremmo educare se puntassimo decisamente sul popolo […]. Oggi quando diciamo popolo, diciamo contadini»66. Questa serrata polemica, influenzata ancora una volta dalla lettura di Dorso, di cui condivideva la feroce critica alla borghesia meridionale portata avanti in quel tempo dall’avvocato avellinese sulle pagine del giornale «L’Azione» di Napoli, lo induceva a rispondere al pessimista pamphlet di Alvaro, L’Italia rinunzia (1944), in questo modo: Lungo lavoro, caro Alvaro, ma bisognerà intraprenderlo subito: io non credo che l’Italia rinunzi, mi attendo gli effetti benefici della sciagura. Un popolo come il nostro non può morire; gli sarà lasciato, credo, veramente fiato da potere riprendere lena. Ma occorre che questa volta faccia veramente da sé, che crei il suo governo per crearsi la sua vera civiltà, occorre che il popolo, muto per tanti secoli, parli, traduca in termini comprensibili il suo incerto confuso linguaggio, che quella sua triste pazienza e quei moti biechi e feroci che sono stati il suo modo doloroso di ribellarsi, diventino fattiva energia67. Tre anni dopo, nel 1948, escono due racconti lunghi di Jovine: Tutti i miei peccati, da cui prende nome la raccolta, e Uno che si salva. Nel primo Nicoletta Ristagno espone per lettera ad un sacerdote la sua drammatica storia68. Lasciato l’Abruzzo con la famiglia, Nicoletta in- 65 Cfr. Id., Racconti, cit., p. 140. 66 Lettera ad Alvaro, a. II, aprile 1945, pp. 36-37. 67 Cfr. Lettera ad Alvaro, in Scritti critici, cit., p. 580. 68 F. Jovine, Tutti i miei peccati, Torino, Einaudi, 1974, pp. 7-76 [Racconti, cit., pp. 317-61]. [ 25 ] 328 TONI IERMANO contra il tenente Mario De Francisci. Ne nasce una storia d’amore passionale. Nicoletta resta incinta e, avviata a nozze riparatorie, conosce appena dopo la luna di miele la reale natura dei sentimenti del tenente che l’abbandona. Il frutto del suo amore porta l’emblematico nome di Dolores. La donna sembra poter uscire dalla disperazione in cui versa quando incontra Camillo Veltroni – un ingegnere, amico del padre –. La Sacra Rota non annulla il suo vecchio matrimonio e da ciò seguono giorni d’angoscia interrotti dalla notizia della morte presunta di Mario. A seconde nozze avvenute Mario si fa vivo e ricatta Nicoletta costringendola a subire la sua passione nell’oscuro ambiente di una pensione, chiudendola in una situazione dalla quale la donna non riesce a trovare la forza di uscire. Ciò motiva la richiesta di aiuto al confessore. In Uno che si salva, una sorta di romanzo breve, il dramma del provinciale inurbato vissuto dal protagonista Siro Baghini viene evitato nelle sue estreme conseguenze dall’intervento di una studentessa, Emma, che lo sprona e lo aiuta a tornare al paese salvandola dalla perdizione cui lo avevano condotto il gioco d’azzardo e la volubilità delle donne. La città viene ancora una volta raccontata nel suo volto livido, minaccioso e moralmente degradato. Le strade affollate, trafficate, anonime rimandano ad una condizione di solitudine e di sconfitta esistenziale69. Siamo ad un ritorno ai caratteri di Un uomo provvisorio e gli incubi di Siro s’identificano con quelli di altri giovani provinciali descritti da Jovine, sconvolti dai conflitti esistenziali e dall’irrequietudine della vita in città. A partire dal luglio del ’47 Jovine, riprendendo un’idea risalente ai tempi di Signora Ava, lavorò alla stesura del romanzo Le terre di Sacramento, uscito postumo otto anni dopo in veste einaudiana con uno scritto di Natalia Ginzburg. La militanza ideologica si risolve in una partecipata e commossa storia sociale del Molise e dei suoi poveri abitatori. La figura di Luca Marano paga qualche tributo alla polemica sui temi neorealistici del tempo, ma conferma l’adesione al realismo dell’autore. L’analisi sulla realtà si associa alle questioni suscitate dalla eco della meditazione gramsciana, per incrociare il problema centrale del meridionalismo, come si prefigura in un articolo apparso su «La Voce» nel ’4770. Le terre del Sacramento sono un antico feudo già 69 Cfr. Ivi, p. 192. 70 Id., Come ho visto la società meridionale, «La Voce», 19 dicembre 1947 poi in Viaggio in Molise, cit., pp. 116-117. [ 26 ] le terre incantate di Francesco Jovine 329 appartenente alla chiesa, espropriato con la legge del 1867 sulla vendita dell’asse ecclesiastico e acquisito all’asta dalla famiglia Cannavale dopo una lite giudiziaria durata quarant’anni con un prestanome dell’amministrazione della mensa vescovile71. Enrico, l’ultimo erede dei Cannavale, aveva abbandonato le terre all’incuria, lasciandole diventare pascolo abusivo e legnaia per i contadini di Morutri e Pietrafolca. La fantasia e la superstizione spiegavano la decadenza del feudo con la maledizione divina che gravava sugli usurpatori dei beni ecclesiastici: Laura de Martiis, una cugina dell’avvocato Enrico – detto «la Capra del diavolo» per la sua barbetta a capra e lo scintillio degli occhi – diventata la sua sposa, ebbe la capacità di rettificare l’amministrazione del feudo servendosi dell’aiuto del giovane Luca Marano, ex seminarista del seminario diocesano di Calena, che aveva aderito al socialismo. Grazie alla sua buona fama fece lavorare i contadini nella sassaia cui erano ridotti i terreni del feudo. Ma Luca, «terzo di sei figli di una famiglia di cafoni di Morutri»72, e i contadini furono ingannati: non ricevettero in enfiteusi le terre del Sacramento. Si decise allora di occuparle armi in pugno contro il parere di Luca che voleva solo continuare a lavorarle. La sua ora era segnata, il fascismo locale non permise «soprusi»: Luca restò ucciso dal fuoco dei carabinieri e delle camicie nere; Laura partì per Sanremo convinta delle sue ragioni e dimentica di tutte le promesse fatte. Le terre del Sacramento è il romanzo corale di una generazione, l’epopea contadina in perenne lotta per la sopravvivenza contro l’autorità, una sorta di polittico pieno di formidabile vitalità, una epica popolare, permeata di coscienza civile e trasparente vocazione poetica, che coinvolge la società di Calena, Isernia e Morutri, divisa in classi antagoniste per il possesso della terra, che viene devastata dal vento della rivolta. Jovine, in una testimonianza radiofonica del 3 aprile del ’50, spiegava la veridicità della storia richiamandosi alla lezione verghiana appresa dagli studi di Luigi Russo73. La verbalizzazione della 71 Cfr. Id., Le terre del Sacramento, Torino, Einaudi, 19775, p. 60. 72 Ivi, p. 50. 73 “Le terre del Sacramento hanno venti o trenta di primo piano; decine di personaggi visti di scorcio e movimenti di folle contadine e di città. Il libro è tutto mosso, narrato senza concessioni, sia pur minime, ad abbandoni descrittivi o lirici. I personaggi, tutti nettamente caratterizzati a pieno rilievo, si muovono, parlano ed hanno essi soltanto il compito di creare la loro aria”: Id., Testimonianza dell’autore, in Le terre del Sacramento, Torino, Einaudi, 2007, p. 256. [ 27 ] 330 TONI IERMANO cronaca non sopravanza o scalfisce la tempra di una scrittura ancorata ad una originale risorsa creativa: I canonici, i preti si mescolano a tutti gli intrighi, portandovi un’azione religiosa che alleggerisce le coscienze di tutti gli scrupoli, ma essi non possono regolarsi che a quel modo: un vecchio prete missionario in Africa per quarant’anni rappresenta la opposizione ideale all’attività dei suoi colleghi, e fa il contemplativo, poiché egli non vuole togliere delle paure per immettere altre paure nei cervelli di quei suoi primitivi. Gli studenti ripetono mozziconi di frasi apprese dai loro maestri nell’Università di Napoli, nei caffè, nelle mense studentesche, affollate e rintronate di richieste perentorie di una ‘mezzafagioli’ e di quartini di pessimo vino. I contadini fantasticano sul frutto delle loro fatiche, mescolando i loro canti assai miseri con salmodie religiose e paure dell’invisibile. Infine le stesse femmine, in una casa di malaffare danno sfogo a turno a tutti quei giovani tori per poche lire e quando mancano le lire per tutti, si piegano al gioco della riffa per offrire i loro favori al prescelto dalla sorte74. La poesia e la speranza di riscatto di una terra umiliata preludono ad una soluzione rivolta alla umanizzazione di terre sommerse, desiderose di rinnovamento. Jovine rilegge le vicende del Molise con profonda sensibilità storico-sociale, senza cadere nella retorica populista paventata, con arbitrarietà interpretative, da Asor Rosa, che, nel giudizio su Le Terre del Sacramento, insiste sul «paesanismo» di un autore che, pur concedendogli a malincuore l’onore delle armi, definisce «non di grande statura»75. Nel romanzo si reitera l’impegno nella scoperta dell’identità di uno spazio che pare non avere né principio né fine e nello svelamento delle fatia, che dolorosamente contraddistingue l’esistenza delle famiglie contadine: A Morutri ci fu un inverno di buio e di neve. […] I contadini avevano intrecciati tutti i vimini colti nell’estate, impagliate tutte le sedie che avevano da impagliare, avevano rifatto i manici a tutti i bidenti e alle accette, le punte agli aratri. Finita la breve luce diurna, per i vicoli di Morutri, non s’udivano che le voci basse della gente raccolta intorno ai focolari e il pesticciare delle bestie sullo strame. Le donne preparavano la «sagna» serale con aglio e peperone. Poi, lentamente, le famiglie al completo si raccoglievano intorno al fuoco e mangiavano colla scodella sulle ginocchia. I vecchi di solito, dopo il pasto, andavano a letto; i 74 L. Russo, Le terre del Sacramento, «Milano sera», 21 luglio 1950. 75 Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea [1965], Torino, Einaudi, 1988, pp. 196-199. [ 28 ] le terre incantate di Francesco Jovine 331 giovani andavano a governare gli animali nelle stalle circostanti. Poi non avevano altro da fare, e le notti erano lunghe. Il riposo forzato li faceva inquieti e scalpitanti come i muletti legati alla greppia. E la sera si scatenavano nei balli e nei giochi. Per tutto il carnevale si riunivano in otto o dieci case, a turno. Arrivavano portando sotto il cappotto una bottiglia o un orcio pieno di vino; qualcuno aveva tre giumelle di ceci abbrustoliti, legati in un fazzoletto; masticavano ceci e bevevano il rosso di Befagna. Ballavano, ballavano; ridevano e lanciavano atroci frizzi che rischiavano di degenerare in liti da coltello. Tra un ballo e l’altro facevano giochi comuni. Si trattava di pantomime con fulminanti battute di dialogo e percosse da spezzare il filo delle reni, di ceffoni che schioccavano come colpi di staffile76. La speranza disillusa di ottenere le terre e il sangue che l’ha bagnata non lasciano spazio all’ideologia dei “vinti”, sottomessi alle ferree leggi della conservazione e dei privilegi istituzionalizzati. L’autore riesce ad intridere le storie di un messaggio lirico che non corrode la carica ideologica accuratamente inalveolata nella partitura fantastica: Piansero e cantarono grande parte della notte, rimandandosi le voci, parlando tra loro con ritmo lungo, promettendo tutto il dolore ai morti. La notte era buia e le voci si perdevano sulla terra desolata oltre il circolo di luce che faceva il fuoco, ancora vivo77. Luca Marano, l’ex seminarista figlio di contadini, è innalzato a simbolo della rivolta delle classi subalterne per la conquista della giustizia sociale: E di nuovo ‘ulivelle stente, antiche, corrose dalle intemperie’ torneranno nelle lotte contadine per Le terre del Sacramento, e se ne scalzeranno le radici per coprirle di letame e di buon terriccio: torneranno quasi a indicarci come la condizione contadina tradizionale che Francesco Jovine aveva così sensibilmente colta nel Viaggio quale identità più profonda del Molise sia entrata a creare certe figure sue indimenticabili, e l’alto pianto per Luca Marano spada lucente78. Luigi Russo, che con Jovine condivise amicizia sincera, nel tentativo di spiegare criticamente Le terre del Sacramento, così ne riassumeva i motivi: 76 F. Jovine, Le terre del Sacramento, cit., pp. 129-130. 77 Ivi, p. 251. 78 A. M. Cirese, Intellettuali e mondo popolare nel Molise, Isernia, Marinelli, 1983, p. 60. [ 29 ] 332 TONI IERMANO Alla fine ci sentiamo concittadini di Calena, di Morutri, di Pietrafolca, di tutti quei villaggi montuosi; e partecipiamo con affetto antico alle passioni, ai pregiudizi di tutto quel bulicame dei secoli che ora si è canalizzato nelle vene di persone chiamate a recitare la loro parte tra i 1921 e il 1922. Protagoniste le terre del Sacramento, ma anche il Seminario di Calena79 L’impegno militante, sostenuto da una fervida attività giornalistica, in special modo a partire dal ’45, su «La nuova Europa», «L’Unità» e «Vie nuove», s’interruppe il 30 aprile del ’50 con la scomparsa di Jovine; le bozze del romanzo furono riviste dalla moglie Dina Bertoni e da Carlo Muscetta, che considerò Le terre del Sacramento «il suo libro più rappresentativo» anche per il modo come veniva analizzata la vita religiosa, spiegata non più come fatto individuale bensì come questione collettiva e sociale80. Arnaldo Bocelli, che aveva seguito nel tempo la proposta narrativa di Jovine, su quest’ultimo romanzo, uscito al termine di un quinquennio intensissimo per la narrativa italiana, notava: Jovine muove idealmente dalla tradizione verista meridionale, specie verghiana, ma con spirito e gusto scaltriti dalle esperienze letterarie più recenti. Quell’interesse, quella simpatia morale e sociale che i veristi ebbero per gli «umili», per i «primitivi», e per il loro istinto o destino migratorio (verso la città, il continente nuovo o antico, la fortuna, la «roba»), in lui si mescolano con temi autobiografici, con arcani ricordi d’infanzia, e però l’originario realismo si tempera d’umore, si vena di lirismo, assume un distacco fra d’idillio, di favola e d’avventura. E la «provincia», pur così geograficamente e storicamente determinata (quel nativo Molise, insigne per antica civiltà ma prostrato per lungo abbandono), diventa in Jovine metafora o mito d’una condizione umana, una regione o categoria dello spirito; è il senso, la memoria, l’alone fantastico di quell’abbandono, di quella accidia atavica81. L’attitudine a rivitalizzare i luoghi perduti, il tepore della tradizione, i canti popolari – pensiamo a Tu vaie a la ponte, le panne a lavà e alla bellissima Canzone d’altre tiempe – il fiume Biferno, volubile nel condizionare le stagioni degli uomini, ritrovano tonalità originali per nulla 79 L. Russo, Ricordo di Francesco Jovine, cit., p. 482. 80 C. Muscetta, L’ultimo libro di Jovine [1950], in Id., Letteratura militante, Firenze, Parenti, 1953, pp. 258-262 (poi Napoli, Liguori, 2007, pp. 220-223). 81 A. Bocelli, L’ultimo Jovine, «Il Mondo», 12 agosto 1950 ora in F. Jovine, Le terre del Sacramento, cit., pp. 260-262. [ 30 ] le terre incantate di Francesco Jovine 333 soffocate dalla orografia di un Molise primitivo e metaforico che talvolta rassomiglia nei suoi simboli alla Sicilia di Vittorini o alla Calabria di Alvaro. Secondo Bachelard «la rêverie pura, colma di immagini, è una manifestazione dell’anima, forse la sua manifestazione più caratteristica»82. Anche Guardialfiera, un giacimento di «tesori nascosti » in cui spesso il diavolo si divertiva a maledire l’oro facendone rame83, può essere considerata una delle mitiche e allegoriche terre meglio conosciute nelle vittoriniane città del mondo. Jovine nel regno delle immagini, in un calore intimo dell’anima, raggiunge i documenti segreti della poesia tenendo “aperto durante il sogno uno spiraglio sulla realtà”84. Nel suo status di sognatore ne ha saputo sempre cogliere le interferenze con le inevitabili delusioni. Toni Iermano (Università di Cassino) 82 G. Bachelard, La poetica della rêverie, cit., p. 73. 83 Cfr. F. Jovine, Le lacrime degli eredi [1942], in Il pastore sepolto, cit., pp. 117-122 [Racconti, cit., pp. 167-170]. 84 L. Malerba, La composizione del sogno, Torino, Einaudi, 2002, p. 97. [ 31 ] CARLO AVILIO Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela Francesco Mariani’s remarkable activity as a writer includes several plays ranging from the historical drama to the comedy of manners and from the Risorgimento comedy to the vaudeville. Il marito di tela (1851 ca.), a vaudeville, is here reproduced in a diplomatic transcription. It is a light comedy belonging to the genre of social caricature, whose main subjects are wives, husbands, and marriage in general. L’attività narrativa di Francesco Mastriani, lontana da ogni coeva tendenza o scuola, preceduta da un’intensa produzione giornalistica (articoli di cultura, elzeviri, note di cronaca e di costume sui principali fogli napoletani)1, annovera un numero cospicuo di fortunati romanzi d’appendice, tutti pubblicati sul «Roma». Dal 1847, anno della pubblicazione del suo primo romanzo, Sotto altro cielo, la prolifica vena narrativa del Mastriani non conobbe quasi sosta, fino al 1891, anno della morte. L’affetto del pubblico che leggeva a puntate i suoi romanzi, pubblicati nei fogli d’appendice del quotidiano napoletano, gli garantì un ruolo fondamentale nella letteratura di consumo del secondo Ottocento, non solo napoletano, fino a fare di lui un vero e proprio caso letterario, paragonabile a quello di un’altra grande appendicista dell’Ottocento, Carolina Invernizio2. Questo straordinario successo di pubblico non riuscì, tuttavia, ad affrancare l’autore da alcuni pregiudizi di fondo, che concernevano l’appartenenza dei suoi romanzi al genere d’appendice e la marcata napoletanità di storie, luoghi e personaggi. Per queste ragioni, fino alla recente riscoperta della critica3, che ha finalmente cominciato a cogliere l’originali- 1 Parte della prima produzione giornalistica fu raccolta dallo stesso Mastriani nei due volumi di Novelle Scene Racconti, Napoli, Giosue Rondinella, 1869-1870. 2 T. Scappaticci, Tra consenso e rifiuto: scrittori a pubblico tra Otto e Novecento, Cosenza, Pellegrini, 2003, p. 39. 3 Sul Mastriani: F. Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastria- Meridionalia Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 335 tà della sua vena al di fuori degli schemi letterari ufficiali4, Francesco Mastriani è stato relegato tra quegli autori minori, ai quali talvolta si concede qualche riga nelle Storie letterarie. Maestro indiscusso di un realismo napoletano tardo ottocentesco che avrebbe avuto grande fortuna anche nel secolo successivo, Mastriani regala pagine di cruda bellezza narrativa e descrittiva, non solo attraverso i romanzi, ma in qualunque genere prosastico la sua penna si cimenti. Tuttavia, rispetto alla già citata fortuna di una produzione narrativa che annovera titoli quasi proverbiali, come La cieca di Sorrento (1852), I misteri di Napoli (1869-’70), La sepolta viva (1889), I lazzari (1865), meno calorosa fu l’accoglienza destinata alle prove drammatiche dell’autore, forse colpevoli di una troppo evidente dipendenza dai moduli ampiamente utilizzati nella narrativa d’appendice. Impostata, infatti, su moduli «ampiamente sperimentati anche nella narrativa d’appendice, e su sempre validi messaggi etico-sociali, […] la produzione teatrale di Mastriani appare ricca e discretamente variegata»5. La scrittura teatrale di Mastriani spazia, comunque, dal dramma a tinte fosche al dramma storico, dalla farsetta alla commedia di costume, dalla commedia risorgimentale al vaudeville, genere a cui appartiene Il marito di tela. Il terminus ante quem per la stesura del testo è chiarito dal visto di rappresentazione del 1851, apposto sul manoscritto conservato presso la sezione “Lucchesi-Palli” della Biblioteca Nazionale di Napoli, che per la prima volta viene ora ripubblicato. Siamo, dunque, ancora in una fase iniziale della produzione delni, Napoli, Gargiulo, 1891; G. Algranati, Un romanziere popolare a Napoli: Francesco Mastriani, Napoli, Morano, 1914; L. Bovio, I miei napoletani, Napoli, Clet, 1935; A. Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli tra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1972; B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1990, in Id., La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, vol. IV, 1973, pp. 251-331; L. Russo, I narratori (1850-1950), a cura di G. Ferroni, Palermo, Sellerio, 1987; T. Scappaticci, Il romanzo d’appendice e la critica: Francesco Mastriani, Cassino, Editrice Garigliano, 1990; Id., Tra orrore gotico e impegno sociale: la narrativa di Francesco Mastriani, Cassino, Garigliano, 1992; Id., Tra consenso e rifiuto: scrittori a pubblico tra Otto e Novecento, cit.; C.A. Addesso, Francesco Mastriani a teatro, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2009; S. Della Badia, Nel ventre di Napoli (1860- 1943), in Napoli, città d’autore. Un racconto letterario da Boccaccio a Saviano. Opera diretta da R. Giglio, a cura di S. Della Badia, A. Putignano, P. Villani, Napoli, Edizioni Cento Autori, vol. II, 2010, pp. 139-143. 4 Per un’ampia panoramica e bibliografia su questo aspetto rinvio ancora a T. Scappaticci, Il romanzo d’appendice e la critica: Francesco Mastriani, cit. 5 C.A. Addesso, Francesco Mastriani a teatro, cit., p. VIII. [ 2 ] 336 CARLO AVILIO l’autore, che, nel 1847 ha pubblicato il suo primo romanzo e non è, ancora, lo scrittore “troppo napoletano” delle sue opere maggiori, in cui offre quello spaccato spesso quasi documentaristico delle piaghe della città di Napoli, del suo popolo, dell’intero e retrivo meridione d’Italia, che gli ha probabilmente precluso i ranghi più alti della letteratura nazionale. Il marito di tela è una commedia gustosamente leggera, dove la vita quotidiana, descritta in tutti i suoi affanni e la sua durezza dal Mastriani “maggiore”, entra ed esce da una finestra inavvertitamente lasciata aperta, proprio come una folata di vento, senza turbare personaggi ed eventi. È, indubbiamente, quel suo essere una commedia “liberamente ridotta dal francese” a garantirle leggerezza, ad affrancarla da quello che Mastriani, sin dai suoi esordi giornalistici, sembra avvertire come il dovere dell’impegno realistico. Il risultato è godibile; in scena la vagamente moralistica costruzione del personaggio di Lucietta riceve leggerezza dalla continua capricciosa variatio garantita da Biagio, servo scaltro, ma non troppo, che ha dietro di sé tutta l’annosa tradizione della servitù di scena. Il marito di tela che si fa “di carne ed ossa” irrompe sulla scena come un improvviso deus ex machina, incapace, però, di risolvere i suoi di problemi, alla cui risoluzione penserà il personaggio femminile, che, grazie ad una preziosa agnizione finale, capace di nobilitare l’assai “fanfarone” marito di tela, potrà anche concedersi liberamente all’amore. Carlo Avilio (Napoli) APPENDICE Il marito di tela6 Commedia in un atto liberamente 6 Il manoscritto de Il marito di tela è conservato a Napoli, nel “Fondo Lucchesi- Palli” della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, con la segnatura: ms. L. P. 1809/05, n. inv., 35807. Si tratta di un manoscritto, non autografo, cartaceo (mm 310 × 200), rilegato in volume miscellaneo, di 21 carte, di cui sono bianche la 1v e la 2v. La carta 1, diversa per spessore e colore dalle successive, fu aggiunta verosimilmente in fase di rilegatura e di inventariazione del volume, avvenuta nel 1957. Il manoscritto presenta due numerazioni in cifre arabe, poste entrambe nell’angolo superiore esterno di ogni carta. Quella originale, a inchiostro bruno, comincia [ 3 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 337 ridotta dal francese7 dal signor dalla c. 2r ed è talvolta omessa; la seconda, verosimilmente apposta in fase di rilegatura, è a matita, a partire dalla c. 1r e presenta errori nella sequenza. Il manoscritto presenta almeno tre diverse grafie. Quella in cui è vergato il testo della commedia è chiara, presenta correzioni, cancellature e frasi interlineari. L’usura ed il tempo hanno procurato arricciature della carta, che risulta talvolta sbiadita soprattutto ai margini, compromettendo la leggibilità di singole lettere o sillabe. Una seconda grafia, coeva alla precedente, appare nel visto di rappresentazione della «R. Soprintendenza de’ teatri…”» (c. 2r). La terza compare solo nel titolo della c. 1r. Sulla c. 1r il titolo, «Il marito di tela» è seguito da timbratura ovale con scritta “BIBLIOTECA LUCCHESI PALLI”. Sul margine superiore della carta appare il numero di inventario «35807», seguito da «N° 37». Nel quadrante superiore destro il numero «V» indica la numerazione progressiva del ms. all’interno della miscellanea. Sulla c. 2r compare lo tesso timbro della c. 1r. Nel quadrante superiore sinistro si legge «Compagnia Accademica Antonio Caruso», cui segue, depennato, «Compagnia di Mastriani». Depennato è anche il titolo alternativo, «Il Porta Rispetto». Sul margine sinistro sono apposti timbro e visto di rappresentazione: «R. Soprintendenza de’ teatri / Napoli 20 Ag. 1851 / La presente produzione appartiene / al repertorio approvato / dal Segretario / Vincenzo Brignole». Ancora sul margine sinistro, in corrispondenza dei nomi dei personaggi, si legge: «Fr: Mastriani / Ferd.o Mastriani / Greg: Mastriani / Lu[?]et: Mastriani // Luca»; segue una parola depennata. L’edizione del testo è una trascrizione diplomatica; gli unici interventi sono finalizzati alla razionalizzazione dell’interpunzione e al risarcimento delle abrasioni e delle omissioni del copista, rispettivamente indicate tra parentesi quadre ed uncinate. La commediola andò in scena a Napoli il 5 giugno 1853 al Teatro San Ferdinando, e il 31 luglio e l’8 settembre dello stesso anno al Teatro Fenice, secondo quanto risulta dai Programmi giornalieri degli spettacoli, balli, feste, concerti ed altri divertimenti, [Napoli], 1853, nn. 54, 111 e 150. La Addesso, Francesco Mastriani a teatro, cit., p. 14, nota 38, fa cautamente osservare anche una probabile messa in scena il 25 settembre 1870 al Teatro San Ferdinando con il titolo Il marito di tela e la moglie di carne, rilevando che il relativo Programma giornaliero non riporta né l’autore né la Compagnia. Non è escluso – aggiungo – che si possa trattare di tutt’altra cosa, visto che presso la Biblioteca comunale “Labronica” di Livorno è reperibile Un marito di tela e la moglie di carne: commedia in un atto di Luigi Marchionni (doc. dal 1846), Milano, Libreria editrice, 1882. 7 Nel programma del 5 giugno citato alla nota precedente, così come nel frontespizio del manoscritto si fa riferimento alla derivazione de Il marito da un non specificato originale francese. La scheda catalografica della “Lucchesi-Palli” fa più dettagliatamente rinvio a un vaudeville del prolifico autore francese Pierre-Antoine- Auguste Thiboust (1827-1867), Un mari dans du coton, Parigi, M. Lévy frères, 1862. Tuttavia le due opere non hanno niente in comune, se non genericamente il titolo e l’appartenenza al medesimo filone di “[…] ‹‹caricature›› sociali di mogli, [ 4 ] 338 CARLO AVILIO Francesco Mastriani Attori Abele Varrocca, sotto il nome di Catillard Prospero Stringitore, usciere Stefano Lucietta Arnaldi Biagio, vecchio domestico La scena è in una città d’Italia Atto unico Appartamento messo con decoro. Un ritratto in fronte dello spettatore. A sinistra una finestra che affaccia sulla strada… Sedie, tavolino, ec. ec… Scena I Lucietta e Biagio Biagio alla finestra facendo dei segni a qualcuno. Lucietta seduta leggendo una lettera. Lucietta (leggendo) “Signorina, mi è stato impossibile finora di ritrovare la persona di cui m’incaricaste di pormi sulle tracce; o i ragguagli che mi deste erano inesatti, o questa persona ha cangiato nome. Nei diversi quartieri che ho stimato dover io medesimo visitare, non ho nulla saputo che potesse mettermi sul cammino di scovrirlo. Godete adunque senza scrupolo d’una fortuna che vi appartiene per tanti diritti, che, come spero, dovete ritenere anche vostro malgrado”. (Gettando la lettera sul tavolino) No, io non abbandonerò ancora questa città, egli dev’esservi certamente. Il mio uomo d’affare non avrà fatto tutte le possibili ricerche… Bisogna rassegnarsi ed attendere. Biagio. Biagio Signora. Lucietta Che guardi? Biagio Io? La casa nostra che si sta intonacando… Han posto la scala sotto la nostra finestra… Dite un po’, signora, arriva oggi, eh? Lucietta Chi? Biagio Chi? Vostro marito, per bacco! Lucietta (con imbarazzo) Non so… forse… Biagio Sono sei mesi che ho l’onore di trovarmi ai vostri comandi, e voi mi dite sempre: “domani… la settimana vegnente…”. Io non so che strada ha preso questo vostro signor marito, ma certo non dev’essere la strada di ferro. mariti o, in generale, del matrimonio […]” (cfr. C.A. Addesso, Francesco Mastriani a teatro, cit., p. 19). [ 5 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 339 Lucietta Affari importanti lo avranno trattenuto alla Martinicca più lungo tempo ch’egli non pensava. Il cielo non voglia che gli sia accaduta qualche disgrazia. Biagio Disgrazia! A meno che non sia accaduto qualche naufragio, non pare che egli abbia a temere d’altro. (Guardando il ritratto) Ma mi pare che voi non avevate questo ritratto quando io sono entrato in vostra casa. Lucietta (imbarazzata) La tua osservazione è giusta… mio marito si è fatto ritrattare nell’estero, e mi ha mandato questo quadro… Ma via, Biagio, termina di assestar questa stanza perché debbo uscire. Biagio La signora esce? Lucietta Debbo andare dal mio uomo d’affari… (Si sente un picchio alla porta) Han picchiato. Scena II Biagio, Lucietta e Stefano Lucietta si pone a lavorare vicino al tavolino Biagio Che volete, signore? Stefano (senza entrare) La signorina è visibile? Biagio Qui non ci sono signorine. Stefano Che importa! Signora o signorina, voglio parlare alla padrona di questa casa. Biagio La signora non riceve nessuno. Stefano Si tratta di un affare importante. Biagio Mi dispiace, ma non potete entrare. Lucietta (senza guardare) Chi è dunque? Stefano È dessa. (Urta la porta e si avanza salutando in un modo cavalleresco) Signora… signorina, ho l’onore… Lucietta (turbata) Signore… (A Biagio) Come! hai lasciato entrare questo giovine? Biagio Per bacco! egli è entrato per forza! Stefano Signora, voi non mi riconoscete? Lucietta (freddamente) No signore. Stefano Come signora, avete dimenticato il vostro vecino di ieri sera all’opera, terza fila, numero sei? Lucietta Signore… Stefano Sì signora, io sono il numero sei. Ma che! vi è forse uscito dalla memoria? Ah, la mia è più fedele, vi giuro, e non dimenticherò mai la conversazione che avemmo insieme. Biagio (Che birbante! Egli solo facea le domande e le risposte.) Stefano (Spero che manderà via questo vecchio.) Lucietta (sotto voce a Biagio) (Non t’allontanare.) Voi mi vedete sorpresa della vostra venuta perché non credo avervi incoraggiato con le mie parole o per la mia condotta a presentarvi in casa mia. [ 6 ] 340 CARLO AVILIO Stefano (Che aria severa! Ella crede che io sia un collegiale.) Signora, non avrei osato importunarvi, se non vi fossi stato obbligato da un dovere imperioso. Lucietta Che volete dire? Stefano Io vengo a portarvi questa camelia che perdeste ieri sera al teatro. Biagio (Che bugiardo! Egli uscì prima di noi.) Stefano (Ecco un bel mezzo, con una camelia un giovine può presentarsi da tutte le signorine.) Lucietta V’ingannate signore, questa camelia non mi appartiene. Degnatevi ricevere i miei ringraziamenti per l’incomodo che vi siete preso. Biagio (Benone.) Lucietta Biagio, conducete il signore alla porta. Stefano (Come! Cacciarmi quando non ho avuto il tempo di dir quattro parole.) Signora, oserei dimandarvi il permesso di ritornare domani. Lucietta No signore. Stefano Ho8 capito: in casa non ricevete, ma forse per la strada… Lucietta Io non esco mai, signore. Stefano La signora è forse sola: se il mio braccio potesse servirle, per il ballo, pel teatro, pel passeggio, dite una sola parola, e tutto è al vostro servizio, il mio cameriere e il mio cabriolet (sempre è buono dire d’avere un cabriolet.) Lucietta Ve lo ripeto, non ho bisogno di nessuno, andate via. Stefano (Bisogna essere ostinato.) Signora, io non andrò via, non uscirò di qui senza dirvi prima che io v’amo, vi adoro, che i vostro occhi mi hanno fatto perdere il capo fin da… ieri sera. Lucietta Uscite, uscite, signore, di casa mia. Stefano No, voi mi ascolterete, perché io ritornerò tutt’i giorni. Lucietta E bbene, signore, allora incaricherò lo stesso mio marito di ricevervi. Stefano (colpito) Che! voi siete maritata? Lucietta Da due anni. Biagio E questo è il ritratto di nostro marito. Stefano Maritata! Ma questa è un’infamia, bisognava dirmelo prima. Biagio Prima che si fosse maritata? Stefano (a Lucietta) Va bene… va benissimo, io mi ritiro. Signora, ho l’onore di salutarvi. (Esce confuso) Scena III Lucietta e Biagio Biagio (ridendo) Ah ah ah, povero diavolo! È restato mortificato! Egli vi credeva nubile, vedete a che sono esposte le povere donne! 8 In interlinea. Depennato: «Oh». [ 7 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 341 Lucietta Sempre visite, biglietti galanti, dichiarazioni. Biagio Come guardava quel povero ritratto! Ah! Signora, voi avete là un famoso Porta rispetto, fa paura ai galanti. Lucietta (ridendo) È il decimo che questo ritratto ha spaventato… Biagio, hai preparato il tutto per la mia toletta? Biagio Sì signora. Vi metterete ancora il vostro abito nero? Lucietta No. Biagio Portavate il lutto di qualche parente? Lucietta No, Biagio, io sono stata educata da una eccellente donna che prese cura di me: a lei debbo tutto, felicità, fortuna, educazione… Biagio E d è ancora questa dama9 che vi ha maritata? Lucietta (sorridendo) Sì, sì… vado a vestirmi. (Entra) Biagio (guardando il ritratto) È una cosa curiosa! Io non lo trovo affatto bello il marito della signora Lucietta: ha una certa aria selvaggia che non mi va niente a sangue. Lucietta (da dentro) Biagio, Biagio. Biagio E ccomi, signora… (Entra) Scena IV Abele solo Dopo che Biagio è entrato, uno schiamazzo violento si fa sentire nella strada, poi Abele comparisce alla finestra e salta nell’appartamento dopo avervi gittato uno sguardo; egli porta un cappello a larghe falde. Nessuno!… Ammazzato l’usciere e le sue guardie. Credo che avranno perdute le mie tracce… ah, ah, parlano col tabaccaro… fermano l’omnibus… per gli occhiali di mia nonna! L’ho scappata bella!… Pocanzi scuoto i papaveri del sonno, ed esco per prendere un esercizio più nutritivo… in un tratto mi trovo in faccia di un brutto ceffo di tribunale che mi saluta sorridendo; io mi scosto per farlo passare, ma là, l’amico si rivolge al bavero del mio soprabito con tutta la forza che gli dava la speranza di afferrare una sospirata vittima. Io gli aggiusto su i baffi un pugno tale che l’ha interamente sconcertato dalle sue funzioni… mi lascia, io volo come una freccia; tutte le porte sono chiuse… dove trovare un rifugio? Per buona sorte, mi abbatto in questa scala tutelare, salgo ed eccomi qua. In casa di chi sono io? Perché finalmente debbo essere in casa di qualcuno. Ah! se mi trovassi nell’appartamento di una bella donna! Che piacere! Gli uomini sono cattivi sin nel fondo dell’anima, ma le donne… Cospetto! Non c’è che dire, vi è una gran differenza, per me, tra la donna e l’uomo. Al bel sesso sono debitore di mia madre, e della mia nutrice, ed al sesso maschile sono debitore di mille scudi. 9 In interlinea. Depennato: «donna». [ 8 ] 342 CARLO AVILIO Lucietta (da dentro) Biagio, mi pare che han picchiato alla porta. Abele Oh! ah! han parlato. (S’accosta alla porta e guarda dalla serratura) Una bella donna. Io sono in casa d’una bella donna, e come presentarmi? (Osservando la stanza) Dev’essere qualche dama d’importanza! La mobiglia è tutta di mogano e dei quadri… Ah mio Dio!… (Fregandosi gli occhi) Io non m’inganno! questo è ritratto mio. Sono io, sissignore, questa è la mia faccia, oh! riconosco i miei peli. Questo è il mio ritratto che fu venduto all’incanto tra le altre mie suppellettili, per autorità di giustizia. Ma come diavolo si trova qui? In casa d’una donna che io non conosco! Per mercurio! sono io forse divenuto un uomo celebre? Eppure io non sono Napoleone. (Si picchia alla porta) Biagio (dalla porta comune) Vengo, vengo. Abele Vieni, vieni. (Corre alla finestra per fuggire e si ferma) Diavolo! han portato via la scala! Oh, ci sono qual Perillo entro al suo toro10. Dove nascondermi? Non c’è un letto, un armadio… Ah! ah! un gabinetto. (Entra nel gabinetto. Si picchia più forte) Scena V Biagio, Abele nascosto, Prospero poi Lucietta Biagio Vengo, vengo. Che diamine! Ah! signora, se costui fosse vostro marito. (Apre) Ah! un incognito: quanto è brutto! Prospero (da dentro) Vecchiotto, non è questo il secondo piano? Biagio (con dispetto) Sissignore. Prospero Questa stanza non ha una finestra sulla stra[da?] Biagio Una finestra con quattro vetri. (Dev’essere qualche impiegato delle contribuzioni.) Prospero Dite al vostro padrone che debbo parlargli. Biagio Il mio padrone è uscito. Prospero Uscito? da quanto tempo? Biagio Presso a poco da diciotto mesi. Non vi consiglio d’aspettarlo perché è andato alla Martinic[ca.] Prospero (Non mi hanno ingannato, il marito è assente.) Si può parlare alla vostra padrona? Biagio La mia padrona non so se ci è. (Gridando) Signora, ci siete? 10 Perillo di Atene (VI secolo a. c.), fonditore di metalli, realizzò per il tiranno di Agrigento, Falaride, uno strumento di tortura e morte: un gigantesco toro di bronzo nel cui interno venivano rinchiuse le vittime, fatte perire mediante un fuoco acceso sotto alla parte ventrale dell’animale. A quanto pare la crudeltà del re non risparmiò l’artefice, che appunto perì “entro al suo toro”. (Cfr. E. M. Moormann, W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico: dizionario di storia, letteratura, arte e musica, ed. it. a cura di E. Tetamo, Milano, Mondadori, 1997, pp. 584-585). [ 9 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 343 Lucietta (entrando) Fa’ dunque entrare. Prospero (avvanzandosi verso di lei) Eccola! (La forza è laggiù, il mio fuggitivo è segnalato, posso dunque far camminare nel tempo stesso l’amore e la procedura.) Lucietta (Se non m’inganno questi è colui che mi perseguita da molti giorni.) Prospero Scusate la libertà che mi prendo signora. Come vedete io passeggio innanzi alla vostra casa fin dacché il sole si è levato. Abele (apre un poco la porta del gabinetto e la chiude presto) Cielo! Il mio diavolo! Prospero Per professione io mi alzo coll’astro del giorno. Mi chiamo Prospero Stringitore e sono usciere del Tribunale di Commercio. Figuratevi signora, che sto perseguitando un bricconcello che si è travestito sotto il nome di Catigliardi, dopo aver svaligiato tutto l’almanacco e11 cambiato quindici volte domicilio. Lucietta Ma che m’importa tutto questo? Prospero Giudicate dalla mia gioia sapendo che il mio debitore si è rifugiato in questa casa. Lucietta (ridendo) In questa casa? Oh! oh! il bel pretesto che avete inventato per venirmi a contare le vostre insipide galanterie. Avete inventata questa istoriella per presentarvi in casa mia. Prospero Signora, è pura verità quel che vi dico, ma non è questo lo scopo della mia visita. Lo scopo voi l’avete indovinato. Sono io che vi ho seguita e che vi seguirò sempre col cuore e colle gambe. Lucietta Io sono maritata, signore, e voi non avreste giammai dovuto rivolgermi simili parole. Uscite all’istante. Prospero Maritata? Ebbene, tanto meglio. Lucietta Signore, voi m’insultate. Biagio (prendendo per la mano Prospero) Venite qua, guardate. Prospero E bbene? Biagio Che cosa è questa? Prospero È un ritratto? Biagio Come lo trovate? Prospero Ha l’aria d’un debitore. Abele (a parte) Ve’ che odore ha quel cane! Biagio E bbene, questo è il ritratto del marito di madama. Abele E h! che cosa ha detto? Prospero Suo marito? Lucietta Sì signore, mio marito. Abele Dormo, o son desto? Prospero Sia pure, ma non m’importa, dappoiché l’originale di questo ritratto è alla Martinicca. Biagio Prendete un grosso granchio, mio signore, egli è tornato, è qui, e vi 11 In interlinea. [ 10 ] 344 CARLO AVILIO prega di non gridare sì forte se non volete svegliarlo. Vi farebbe saltare dalla finestra. Prospero E h! Come? vostro marito è qui? Lucietta Sì, sì signore. Abele (guardando il ritratto) Sono io, sono io. Ma mi porti il diavolo se mi ricordo d’essere ammogliato. Biagio Madama, volete che vado a destarlo? Abele Per Maometto! son curioso di vederlo! Prospero Ah, uf… Questo marito è venuto molto male approposito: dev’essere uno stratagemma. Biagio E così posso andare? Prospero (con ironia) Va’, va’ pure vecchiotto mio. Sarò incantato di far la sua conoscenza, e dedicargli la mia servitù. Ebbene, non vai? Eh caro amico, noi altri conigli di una certa età sappiamo come vanno queste cose. Lucietta La vostra condotta è infame. Abele (Ma che! sarebbe mai vero che il marito è alla Martinicca?12) Prospero Sarete voi dunque sempre inumana? Abele (Aspetta vecchio amorino.) Biagio (prendendo una scopa) Non volete andar via? Prospero Ve l’ho detto, caro il mio vecchiotto. Io voglio restare. Lucietta (disperata) Mio Dio! mio Dio! Abele (starnuta) (sorpresa generale) Prospero Uh!… Lucietta Che sento! Abele (da dentro) Biagio, Biagio. Lucietta (Donde mai questa voce?) Biagio Signorina, m’hanno chiamato? Lucietta. Sì, certo! Ma chi è… Prospero (Via via ho capito. Mi hanno assicurato che il marito è tuttora lontano, non può adunque essere egli.) Abele (entrando) Chi dice che io non posso essere io? Sentiamo. Lucietta Cielo! La stessa fisonomia. (Guardando lui ed il ritratto) Abele (Audaces fortuna juvat.) (Gridando) Uomo, chi siete voi? E con qual dritto violate il mio domicilio? Siete voi commissario, giudice di pace, spazzacamino o usciere? Prospero Signore, io veniva… Abele Ad insultare nostra moglie, perché madama è nostra moglie, non è vero cara metà? Lucietta (Non so che dire, io credo sognare.) Abele (Ella è pietrificata.) Dunque… Prospero Signore, io non ho mai avuto intenzione di… Biagio E h! eh, veh come cambia tuono… 12 In sub litura si legge: «hi». Segue depennato: «)patria dei caffè». [ 11 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 345 Abele Cara moglie, accetti tu le scuse di questo vecchio? Parla, ho qui le mie armi. Biagio andrà a prendermi una vettura, ed in un’ora ti porterò una delle sue orecchie, e se n’hai bisogno, te le porterò tutte due. Che dici, le vuoi? Prospero Signore… Lucietta (Non posso soffrire più a lungo.) Prospero Signore, vi fo le mie scuse. Io sono l’usciere del Commercio e mi chiamo Prospero Stringitore. Credeva trovare qui da stringere un particolare che io sto perseguitando da molti giorni, e di cui non conosco altro che il suo cappello13 a larghe falde. (Abele nasconde il suo cappello) Lucietta (che ha osservato il movimento d’Abele) (Non vi è più dubio, è questi il debitore: io non lo tradirò certo.) Prospero Avrò facilmente sbagliato l’appartamento, sarà forse il piano di sopra. Abele Accettiamo le vostre scuse, e vi perdoniamo. Ma uscite, fuggite dalla mia presenza, e fate pel vostro bene di non imbattervi più meco, che non vi rivegga mai mai più. Questo è il voto più ardente che io formo. Prospero Signora, avrò l’onore di non mai più rivedervi. (Guarda intorno) Abele Che cercate, che cercate? Prospero Nulla, nulla, nient’altro che il mio cappello Abele (gli mette il suo cappello calcandolo sino agli occhi) Prendete, andate. Biagio, porta via questo signore. Biagio Con piacere. (Spinge Prospero acciecato dal cappello) Scena VI Biagio, Abele e Lucietta Abele (Finalmente, eccomi sbarazzato da lui e del mio cappello. Ah! sento i benefici della respirazione.) Lucietta (Come ha dovuto tremare per la sua libertà! Ma ho fatto una buona azione.) Abele (Per l’anima della carta bollata! mia moglie è arcibella, che occhi! che naso! che…) Lucietta (Poveretto! come è stordito! Non sa come fare per farmi le sue scuse.) Biagio E h! signora, quando io ve lo diceva? Avrei scommesso il mio dito mignolo che il signore Arnaldi sarebbe ritornato quest’oggi. Ma per dove è entrato? Abele Per la fin… per la porta che avete dimenticato di chiudere. Ma questa è una imprudenza. Se io fossi stato un ladro? Perché finalmente avrei potuto essere qualche canaglia. 13 Segue depennato: «bigio». [ 12 ] 346 CARLO AVILIO Biagio Oh! Voi siete entrato per la porta? Abele Non vedendo alcuno, ho creduto che tutti fossero usciti. Stanco del viaggio io mi era cacciato lì dentro per riposarmi un poco, aspettando il ritorno della mia carissima sposa. Biagio (ridendo) Ah! ah!, ma ora che la signora è qui mi pare che io non ci ho più che fare. Lucietta (vivamente) No, restate. Abele (La cosa è curiosa, mi vengono certi pensieri. Alla fin fine ella medesima ha confessato che io sono suo marito.) Lucietta (Poveretto! non sa come uscirne d’imbarazzo. Aiutiamolo un poco.) Signore. Abele Che! tu parli con me, anima mia, e perché mi chiami “signore”? Lucietta (spaventata) Ah! mio Dio! Abele In verità non mi ricordo che tu abbi usato con me tante cerimonie. Lucietta (a parte) Vedete come continua a rappresentare la sua parte. Abele Altra volta mi davi sempre del tu. Lucietta Io? Biagio E così doveva essere, signora mia. Abele Così era. Lucietta (Che posizione!) Abele Capisco. Tu ci hai perduto l’assuefazione, bisogna riprenderla. Vediamo, provate un poco, dammi del tu, dimmelo sottovoce. Sai pure che nelle mie lettere… Biagio Noi non ne abbiamo ricevuta nessuna. Lucietta È vero, nessuna lettera. Biagio Ci mettevate l’indirizzo? Abele Ah! l’indirizzo, sì signora, avea messo: alla signora… signora… (come ha detto poc’anzi, ah! credo che ci indovino) avea messo alla signora Rinaldi. Biagio Bah! Arnaldi volete dire. Abele Arnaldi per bacco, Arnaldi. Biagio E che strada? Abele (Vedi questa tartaruga com’è noiosa.) La strada… ma per bacco, voi altri vedete un uomo che ha attraversato l’oceano, e non gli offrite neanche un bicchier d’acqua! Lucietta (Che sfrontato.) Biagio Che! avete fame? Abele Fame no, appetito sì, mangerei volentieri un rotoletto d’arrosto. Biagio Bisognava dirmelo, corro a cercarlo… Lucietta Ma… Biagio E siccome dovete essere stanco, corro a preparare tutto nella camera maritale, per farvi riposare: scalderò il letto. Lucietta Biagio, vi proibisco… Abele E d io vi comando, scaldatelo, scaldatelo, ed il rotoletto… Biagio (esce) [ 13 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 347 Scena VII Abele e Lucietta Abele (L’affare prende una buona piega.) (Volgendosi a Lucietta) Cara sposa… Lucietta (rispingendolo) Signore, innanzi al mio cameriere, innanzi a quell’uomo che poc’anzi è uscito, ho dovuto tacermi, e sopportar questo cattivo scherzo, pel vostro interesse e pel mio, ma ora che siam soli… Abele E bbene, ora che siam soli, cioè ora che siete sola col vostro marito… Lucietta Signore, io non ebbi mai marito. Abele Che! come! per l’arcadia, come avete detto? Lucietta Non sono stata mai maritata. Abele Mai! Io cado non so se dalla terza o dalla quarta stella, ma quel ritratto… Lucietta Il signor Arnaldi non ha mai esistito, questo ritratto è un capriccio, una fantasia, l’ho comprato in una pubblica vendita. Abele (toccandosi la fronte) Ah! ora mi ricordo, strada del finocchio, numero tre bis, a fianco d’una panettiera. Lucietta (maravigliata) Sì, certo, mi ricordo che in quel14 luogo stava esposto15. Abele Fra una pipa turca ed un paio di stivali? È il mio, il mio defunto ritratto che fu venduto con la mia mobiglia. Ah, perdono signora, mille volte perdono. (Ed io che le dava del tu.) Lucietta Signore, voi eravate perseguitato, la vista di questo ritratto vi ha senza dubbio ispirato il pensiero di un inganno che vi perdono. Io però vi debbo la spiega della mia condotta. Bisogna che sappiate come il vostro ritratto si trova in casa mia, e perché ho preso un nome ed una qualità che non mi appartengono. Io era sola nel mondo, senza parenti. Una vecchia e rispettabile signora che mi aveva educata era morta, ed un dovere imperioso mi forzava di vivere16 in mezzo d’una società che si crede tutto permesso contro una giovinetta senza difensori. Io non poteva maritarmi per mie ragioni, stimai dunque fingere uno stato che non era il mio, per allontanar da me ogni fastidiosa galanteria. Mi bisognava prendere in prestito un nome ed uno sposo che fosse il mio protettore ed il mio appoggio, lo trovai… Abele Dal rivendugliolo per poche piastre, non è vero? Lucietta La vostra comparsa di questa mattina mi ha spaventata, non pote- 14 Si legge “luogo” abrasa, poi ripetuta subito dopo. 15 In sub litura a «luogo stava esposto»: «stava esposto». 16 Depennato: «ligia». [ 14 ] 348 CARLO AVILIO va spiegarmi una rassomiglianza così perfetta, perché mi avevano assicurato che l’originale di questo ritratto non esisteva più. Abele Il Cielo sperda l’augurio, quei birbi dei miei creditori mi avevano sotterrato. Lucietta Ho indovinato che voi eravate colui che si perseguitava, e vi ho lasciato mentire perché questa menzogna poteva salvarmi. Abele E ppure com’era bella la mia posizione. Vedendo i vostri occhi, vedendo la vostra figura, io diceva tra me stesso: “Costei è certamente mia moglie, io mi sarò ammogliato in qualche luogo e l’ho dimenticato”. Lucietta Ah! voi17 siete uno stravagante. Abele Codesto marito di tela che vi siete scelto è bello a vedersi, ma per bacco!18 un colpo di pennerello e vostro marito più non esiste. Questo sposo non può sostenere una conversazione, non potete uscire con lui, non potete appoggiarvi sul suo braccio. Se invece di questa cosa dipinta19 trovaste qualche cosa di più solido, un uomo per esempio in carne ed ossa, non sarebbe forse meglio? Lucietta Signore, non credo… Abele Così non sareste obbligata di andarlo a cercare nella strada del finocchio numero tre bis, egli è qui vicino a voi, pronto a gettarsi alle vostre ginocchia. Lucietta Grazie signore, grazie. (Sorridendo) Io era lontana dall’aspettarmi questa proposizione un poco brusca ma onorevole per me. Questo è un contrassegno di stima che io son felice di ricevere, ma che debbo ricusare. Abele Come? Lucietta Io non posso essere la moglie di alcuno. Abele Per esempio! Restar pulcella per tutta la vostra vita è un pessimo gusto. Ah, ho capito, vi spaventano i miei debiti. Lucietta Ah non credete. Abele E ppure se la mia vecchia zia volesse degnarsi20 di passare all’altro mondo… ma io credo che fate bene, perché sposandovi con me correreste il pericolo di passare in concordia la prima notte del matrimonio. Dunque, signorina, io cancello le mie parole e me e vado. Lucietta Voi partite? Ma quell’uomo che vi aspetta laggiù, quella gente, vi arresteranno. Abele E bbene, che mi arrestino. In prigione io penserò a voi, dalla mattina alla sera voi sarete la mia società, e forse direte qualche volta: “Povero giovine, era un buon diavolo”. 17 Depennato: «voi». 18 Segue parola depennata. 19 Segue parola depennata. 20 A testo: «bengnarsi». [ 15 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 349 Lucietta Sì, certamente, ma voi 21 potete22 restare. Abele Voi mi comandate di partire? Lucietta No… io… sì… addio signore, addio. Scena VIII Abele poi Stefano Abele E lla se ne va e mi lascia così disseccato d’amore da capo a piedi. Che peccato. Una così bella ragazza senza marito! Ma io non posso abbandonarla, non posso lasciare questi luoghi, anzi, voglio fissarmici per sempre. (Si sdraia sopra una sedia) Stefano (entrando senza vedere Abele) Ella mi ha ingannato, si è burlata di me! Abele (E chi è questo giovine che entra qui sans façon!) Stefano Dirsi maritata! e nessuno non conosce questo sposo, neanche il portinaio! Abele (Ma che! La signorina avesse mai qualche innamorato secreto.) Stefano (volgendosi al ritratto) Eccolo dunque questo23 preteso marito. Ah, per tua cagione mi han cacciato di questa casa! Abele (Ah va bene.) Stefano Ma son sicuro che essa mi ha ingannato, la dev’essere una intrigante, e tu non sei suo sposo, tu non sei che un vano simulacro, tu sei un uomo di paglia. Abele (Mi chiama uomo di paglia.) Stefano Sei una vera caricatura. Abele (Ah, oh, questo dialogo comincia ad essere frizzante.) Stefano Ricusarmi per te, ma già il tuo naso è orribile. Abele (Dàgli, dàgli, aumentiamo di peso adesso) Stefano Io credo anche che tu sei un po’ guercio. Abele (si alza e gli batte sulla spalla) Credete? Stefano (tremando, e guardando Abele ed il ritratto) Cielo, che veggo! Abele Ora tocca a me di fare la vostra anatomia. Stefano Voi sareste? Abele Sì, sì, io sarei lo sposo di mia moglie, un uomo di paglia! Stefano Credete… Abele È un affare finito. Stefano (Manco male.) Abele A vostra scelta, la pistola o la spada? 21 Ho restituito il «non»: la frase «ma voi potete restare» non avrebbe senso in relazione alla battuta successiva. 22 In interlinea. Depennato: «pote». 23 Da questo punto in sub litura si legge la ripetizione: «questo marito. Ah per tua cagione mi ha cacciato di questa casa». [ 16 ] 350 CARLO AVILIO Stefano Vi prego signore di non parlar di spada, perché io sono molto forte, sono uno de’ primi allievi di Prisier. Abele Vale lo stesso. Ebbene, sia la pistola. Stefano Al bosco. Abele Certo, e nel viale più denso. Stefano Ho il mio cabriolet là giù Abele Ah! voi avete un cabriolet. Io prenderò un calesso. Stefano Usciamo signore. Abele Sì, sì usciamo, ma prima aspettate. (Costui non ischerza.) Ci siamo. (Dà uno sguardo alla finestra) (Non v’è l’amico.) Usciamo. (Escono) Scena IX Lucietta poi Biagio Lucietta Se n’è andato. Oh, sì, è un bravo giovine colui, almeno egli non si crede in diritto di oltraggiare una donna senza difesa. Biagio (portando la colezione) Ebbene, ebbene signora, non è più qui vostro marito? (Andando alla porta) Signore, signore dove siete? Lucietta Biagio, vuoi tacere? Biagio (alla finestra) Ah signora, eccolo, egli monta in cabriolet, con quel giovinotto di stammattina. Come sembrano furiosi! Si direbbe che vadano a battersi. Lucietta Cielo! se fosse per me, se innanzi a lui m’avessero oltraggiata. Ah, io non debbo permettere ch’egli esponga i suoi giorni. Presto, il mio cappello, il mio sciallo. Prospero (al di fuori) Ah, oh, la vedremo. Aprite. Lucietta Questa voce! Biagio È quella del vecchiotto, e vostro marito non si trova più qui, che fare? Prospero (da dentro) E così, volete aprire? Biagio Signorina…? Lucietta Va’ ad aprire. Scena X Prospero e detti Biagio Come! siete ancora voi? Prospero Ancora io sempre io piucché mai Lucietta Ma che volete da noi? Prospero Oh, vi è della novità, noi rideremo, io avrò finalmente ragione da quell’insolente che si è burlato di me, che mi ha rubato il mio cappello vero, e mi ha sfrontatamente posto in testa quest’altro24 cagione de’ qui pro quo. 24 Depennato, probabilmente: «bianco». [ 17 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 351 Biagio Ch’è successo? Prospero E h per bacco, quel cappello25 a larghe falde26 era il nostro principale indizio, esso indicava da lungi il fuggitivo. Dacché la mia gente lo ha veduto, si sono precipitati su me come tanti idrofobi, ma il mio trionfo si avvicina. Orribilmente vessato sono corso dall’usciere maggiore per cercare i connotati di questo avventuriere che aveva dimenticato di prendere, ed eccoli. Lucietta (Io tremo.) Prospero Signora, di chi è questo ritratto? Lucietta (imbarazzata) Di mio marito. Prospero Molto bene. Chi è quell’27uomo che ho incontrato qui pocanzi, e che mi ha messo alla porta? Lucietta Ma… Biagio È il marito di madama. Prospero Tanto meglio. Ebbene signora, il mio debitore, quel camaleonte che ha percorso tutte le case, e tutt’i nomi della natura, quest’uomo fluido come il gas, è il vostro signor marito. Lucietta (Gran Dio!) Biagio Nostro marito! Prospero I connotati riproducono testualmente l’uomo e l’immagine, ora dunque io vi comando di farmelo prendere in tutte le debite forme. Biagio Farvi prendere nostro marito? Lucietta Non lo sperate. Prospero Voi ricusate? Poco m’importa: che se ne vada pure al Brasile, o in America, io me ne rido. Altra volta si trattava d’impadronirmi della sua persona che era la sua proprietà, ma oggi abbiamo una casa, ed una bella mobiglia di cui mi metterò in possesso all’istante medesimo. Biagio Che! I nostri mobili! Lucietta Ma signore, questi mobili sono miei. Prospero Per conseguenza di nostro marito. Lucietta Oh! Cielo! Biagio Vecchio coccodrillo. Lucietta Signore, di grazia (maledetto ritratto), vi supplico di accordarmi un quarto d’ora, il tempo di scrivere al mio uomo d’affari. Prospero Un quarto d’ora? Io non so ricusare nulla alla bellezza, accordo dieci minuti. Lucietta Vi ringrazio. Vado a scrivere. (Entra nella sua camera) 25 Depennato, probabilmente: «bianco». 26 In interlinea: «a larghe falde». 27 In sub litura: «questo». [ 18 ] 352 CARLO AVILIO Scena XI Prospero, Biagio, poi Abele Prospero Dieci piccoli minuti, mi stabiliscono qui, in questa sedia. Ma che rumore è questo? Abele (col braccio fasciato) Oh gioia, oh felicità! oh delirio! Io son pazzo. Ah Prospero! (L’abbraccia) Oh vecchio Biagio. (L’abbraccia) Vorrei stringere nelle mie braccia tutta l’Europa! Biagio Che cosa avete al braccio? Voi siete ferito. Abele Ferito? È possibile, ma che m’importa, se tu sapessi ciò che mi accade. Prospero Che cosa vi accade? Abele Sono ricco, sono milionario, pago i miei debiti e sposo Lucietta. Prospero Sposate vostra moglie? Biagio Abele E che fa! La sposo mille volte, ascoltate. (Leggendo una lettera) “Mio caro amico, conosco la tua infelice posizione. Una nuova disgrazia ti è sopraggiunta, tu non sapresti piangere abbastanza la tua povera zia Varrocca che è morta”. Comprendete ora la mia felicità! Presto, un po’ d’inchiostro, una penna, no, due penne. (Si precipita al tavolino e scrive) “Lucietta, una sola parola di abboccamento. Mia zia è morta (requie all’anima sua!28). Io sono ricco”. Ah! uno scorbio su mia zia. Perdona ombra rispettabile. (Scrive) “La vostra risposta dev’essere la vostra presenza. Abele Varrocca”. Posso finalmente prendere il nome dei miei antenati, posso dire a tutto il mondo: “Io sono Varrocca”. Biagio Io cado dalle nuvole. Voi non vi chiamate Arnaldi? Abele Uf! m’hai infracidato colle tue domande! Fammi il piacere di portare questo biglietto alla tua padroncina, presto, presto sbrigati. Biagio Ma signore… Abele Va’, io ti do la mia maledizione. (Biagio via) Scena XII Prospero ed Abele Prospero E così giovanotto mio, mi spiegherete? Abele Come! vecchio stupido, voi non avete ancora afferrato l’argomento? Io non sono Carnaglia, non sono Catillardo, io non sono Arnaldi, io sono Abele Varrocca in carne ed ossa. Eredito di mia zia Geltruda Varrocca, vi pago e v’invito a far colezione con me. Avete capito? Accettate? Prospero Accetto. Ma è poi vero? Abele Per bacco, questo è il sugello della posta. Ascolta, dove eravamo 28 Depennato: «alla sua anima». In interlinea: «all’anima sua!». [ 19 ] Una commedia inedita di Francesco Mastriani: Il marito di tela 353 rimasti? “Ah, tu non sapresti piangere abbastanza la tua povera zia Varrocca ch’è morta lasciando tutt’i suoi beni ad una giovinetta, ch’era sua damigella di compagnia, e che è scom… par… sa…” (Cade sopra Prospero) Prospero Piano… voi mi fate uscire l’anima… aiuto. Abele Scom… par… sa… Prospero (pian pian lo fa sedere) Vi sentite qualche cosa? Abele Un bicchier d’acqua, un poco d’aria… Battimi nella palma della mano… tirami il naso… ligami le orecchie… (Prospero accinge ad eseguire. Abele si alza violentemente e lo respinge) Per la morte diseredarmi! A me! a un nipote che non le ha cagionato il minimo incomodo! che non è stato mai a trovarla! Oh, mi affogherei. Oh, se non fosse morta, l’ucciderei. Vi son dei momenti nella vita in cui si ha bisogno di batter qualcuno. (Guarda Prospero) Prospero (Ah! tu non erediti più, tu stai senza un soldo! Ah, tu non puoi invitarmi a pranzo da te.) Abele (Che piacere se quest’imbecille mi guardasse biecamente! Che bella occasione di sfogare sopra di lui.) Prospero E si ha preso il mio cappello. (Camminando per la scena) Abele (Oh, se mi calpestasse un callo.) Prospero (si slancia su d’Abele e lo afferra) In nome della legge, siete arrestato, signor Abele Varrocca. Abele (senza muoversi) Bene… bene… benissimo. Prospero Ti arresto non come debitore, perché tu sei in una casa, ma come un ladro. Abele Bravo, bravo… bravissimo. Prospero Sì, come ladro di cappelli… dammi il mio cappello. Abele Ah, tu vuoi il tuo cappello. Te’, prendilo. (Glielo mette in testa e gli batte sopra) Prospero Misericordia! Assassino. Abele Te’, te’, uomo brutto e maligno. Prospero Gente, aiuto, io soffoco. Abele Mia zia mi ha diseredato, prendi. (Abele percuote Prospero, il quale fugge non potendo vederci e s’imbatte in Biagio che stramazza per terra) Scena ultima Biagio e Lucietta ed i precedenti Biagio Misericordia! mi sono slegata una gamba. Lucietta Gran Dio! Ch’è questo? Biagio Lasciatelo… non l’uccidete! Abele Va bene, sono sollevato, portatemi ora in prigione. Prospero Sì, come una bestia feroce. Andiamo. Lucietta Fermate, tutt’i debiti del signor Abele sono pagati. Prospero Come? Abele È crepata forse un’altra zia? [ 20 ] 354 CARLO AVILIO Lucietta No, ma son io che li pago. Abele Come avete detto? Lucietta Abele, voi siete qui in casa vostra. Abele E h? Lucietta Tutto vi appartiene. Abele Oh, questo scherzo è crudele, signorina. Lucietta No, non ischerzo. La povera orfanella educata da vostra zia son io, ma vi giuro che non ho avuto mai il pensiero d’appropriarmi una fortuna di centomila ducati che non poteva appartenermi. Prospero Centomila ducati! Perdo il fiato. Abele Possibile! Ed è per me che non volevate maritarvi? per me che avete comprato questo Porta rispetto? Ebbene, io non accetto. Prospero (a Lucietta) Prendetelo in parola. Biagio Questi è un imbecille di nuovo conio. Abele O vostro sposo o me ne vado in prigione. Lucietta Signore, io già vi ho detto… Abele Prospero, andiamo…. Lucietta (stendendogli la mano) No, restate. Abele Che io resti! Lucietta, Lucietta… “Innanzi al cielo, agli uomini, tuo sposo diverrò…”29 Oh signori, la vita è una bella invenzione. Fine 29 Linda di Chamounix, 1842, libretto di Gaetano Rossi, musica di Gaetano Donizetti, I, 4; II, 7; III, 7. [ 21 ] Djaouida ABBAS Francesca da Rimini in arabo. A proposito della nuova traduzione di Kadhim Jihad della Divina commedia Francesca da Rimini is a famous figure of the world literature, thanks to Dante’s poetic art, which created a great myth about her love story with Paul. In the twenty first century, Francesca is finally translated to Arabic by Kadhim Jihad, and we wonder how she gets into the Arab world? Would she remain herself or become another? Dante’s poetic art turned the love story between Paolo and Francesca into one of the most powerful myths of all times. Kadhim Jihad has recently translated it into Arabic and the reader wonders to what an extent the character of Francesca may suit to the Arabian culture. Tutti vogliamo poter esser liberi di spiegare le ali per volare verso nuovi mondi e nuovi orizzonti, poter un giorno essere il piccolo principe che percorre il deserto e diviene più ricco di amici o Ulisse in cerca di conoscenza e di avventure fra sirene e centauri o Sherazad con le sue storie senza fine o Don Chisciotte impegnato nella sua battaglia contro i mulini. Nello spazio della lettura ad ognuno di noi è donato, insomma, quell’istante di eternità, in cui, abbandonata la zavorra della quotidianità, è concesso restare sospesi tra l’immaginario e il meraviglioso. Il luogo eccezionale, in cui in tutta quiete e senza nessun ostacolo, possono incontrarsi autori e lettori, non è altro che quello della weltlitératur, la letteratura mondiale. È in questo locus amoenus che si trova il trait d’union tra tutte le letterature ed in esso brilla, in tutto il suo splendore, l’umano. Goethe, in tal senso, individuava, nella weltlitératur, una realtà spazio-temporale nella quale le singole letterature si incontrano, si muovono parallele o si intersecano, senza abdicare dalle proprie peculiarità, anzi illuminandosi reciprocamente a vicenda. Una letteratura mondiale è, dunque, una letteratura che supera gli ostacoli linguistici, geografici e temporali, una letteratura libera, che agisce in nome dell’individuale per il planetario e l’universale. In essa Contributi 356 djaouida abbas tutti gli autori, con il loro amore per la conoscenza e per le lettere, coesistono, nel tempo icastico di un momento particolare e straordinario, per attraversare i secoli e condividere qualcosa d’eterno e di comune a tutti gli uomini. Per garantire questa coabitazione la traduzione1 sarà la mediatrice tra tutte le letterature e tra tutti i popoli. Avrà il compito di conciliare tra loro il testo delle origini e la sua nuova veste linguistica, intraprenderà un viaggio in quella universalité letteraria che è intrinseca all’essenza di ogni grande opera ed in cui risiede la capacità del testo di commuovere il pubblico, di condurlo dalla tristezza alla gioia, dall’odio all’amore, dalla separazione alle retrouvailles, dal silenzio al verbo. La traduzione che, come una terapia, servirà a rivelare la ricchezza o la povertà di una lingua e di una cultura, permetterà di prolungare l’esistenza dell’opera letteraria stessa. Mediante la traduzione, specchio fedele del sistema linguistico e culturale di partenza e di arrivo, di cui evidenzierà l’autosufficienza o l’inadeguatezza, l’opera, valicando i confini nazionali, potrà svelare la vera identità di un popolo ed aprirsi al mondo esterno. A partire dal XX secolo è emersa, in maniera sempre più evidente, l’esigenza di considerare la traduzione una disciplina cui destinare studi peculiari e non più genericamente afferenti al vasto ambito della letteratura comparata. La ‘traduttologia’, infatti, costituisce, in sé, un ricco campo di studio, di cui, secondo Susan Bassnett, la letteratura comparata costituirebbe una sottosezione: […] una riconsiderazione della posizione della letteratura comparata e della traduzione fa di Translation Studies la disciplina principale, di cui la letteratura comparata è un importante ramo2. La traduzione non è un’operazione recente; al contrario aveva iniziato il suo incredibile cammino già cinquemila anni fa con la civiltà greco-romana. Il bisogno di tradurre un discorso in un’altra lingua 1 I ntorno ai problemi ed alle questioni complesse relative alla traduzione si vedano almeno: G. Mounin, Les problèmes théoriques de la traduction, Paris, Gallimard, 1963; J.R. Ladmiral, Traduire: théorèmes pour la traduction, Paris, Petite bibliothèque Payot, 1979; P. Newmark, La traduzione: problemi e metodi – Teoria e pratica di un lavoro difficile e di un’incompresa responsabilità, Milano, Garzanti, 1988; M. Ballard, La traduction plurielle, Lille, Presses universitaires, 1990; U. Eco, Lector in fabula “La cooperazione interpretative nei testi narrative”, Milano, Bompiani, 1998; A. Berman, La traduction à la lettre ou l’auberge au lointain, Paris, Seuil, 1999; E. Auerbach, Mimesis, 1, Torino, Einaudi, 2000; U. Eco, Dire quasi la stessa cosa – Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2004. 2 S. Bassnett, La traduzione teorie e pratica, Milano, Bompiani, 2003, p. 2. [ 2 ] francesca da rimini in arabo 357 nasceva dall’esigenza, già radicata nelle civiltà antiche, di consolidare gli scambi commerciali, politici, notarili e letterari3. Nell’età classica, quando Roma diviene il fulcro della cultura mediterranea ed ambisce a trasfondere nella propria cultura i più alti punti d’arrivo di quella greca, pur conservando una ben nitida autonomia “nazionalistica”, l’ars rethorica romana si pone, per la prima volta con Cicerone, il problema della traduzione, quale strumento funzionale alla comunicazione tra ambiti culturali diversi, ma imprescindibilmente connessi per ragioni politiche, sociali ed economiche. Se il discorso ciceroniano si incentrava, prevalentemente, sugli aspetti della traduzione letterale, i molti teorici e traduttori che ne seguirono l’esempio si sono preoccupati, nel corso del tempo, di esaminare tutte le possibili tipologie di traduzione. Nell’ambito della corposa discussione critica intorno alla traduttologia possiamo oggi distinguere tre differenti posizioni teoriche: le teorie prescrittive, in base alle quali la traduzione, senza bandire l’ambizione dell’eleganza, tende ad uniformarsi il più possibile alle abitudini della lingua d’arrivo; le teorie descrittive, per cui l’operazione traduttiva è analizzata nelle sue diverse tappe evolutive (progetto del traduttore, procedimenti traduttivi, differenze linguistiche e culturali tra i testi…) e le teorie prospettive dette programmatiche, che tendono a recensire le teorie enunciate dai traduttori per definire la propria opera. Il fulcro del dibattito sulla traduzione è in gran parte incentrato sul rapporto dilemmatico tra quelli che Antoine Berman4 chiama maîtres: il sistema di partenza e il sistema di arrivo. La domanda più urgente cui la traduttologia tenta di dare una risposta è ormai annosa: il traduttore deve privilegiare l’opera e la lingua fonte o proiettarsi maggiormente verso la cultura di accoglienza? Nel primo caso la lingua fonte potrà imporre al sistema di arrivo elementi estranei che potrebbero non essere compresi dal pubblico cui è destinata la traduzione e, dunque, inficiare il senso dell’opera e pregiudicarne il successo; nel secondo caso è il sistema fonte che subirà delle modificazioni secondo il gusto del pubblico. Nel primo caso il traduttore intende preservare l’autore e l’opera, cui è legato da un imprescindibile rapporto di fedeltà, che si esprime mediante il rispetto della forma e del genere letterario, dello stile, dei temi ed infine dell’estetica e del pensiero dell’autore. Questo tipo di 3 G. Steiner, Dopo Babele, Milano, Garzanti, 2004. 4 A . Berman, L’épreuve de l’étranger, Paris, Gallimard, 1984. [ 3 ] 358 djaouida abbas traduzione ha lo sguardo prevalentemente rivolte alla ‘lingua fonte’. La seconda tipologia di traduzione, che si rivolge, invece, precipuamente al sistema di arrivo, adatta il testo originario ai modelli culturali ed agli standard linguistici del mondo letterario di arrivo. In quel caso l’opera fonte finisce per smarrire la propria identità ed arriva altra, differentemente plasmata al suo nuovo pubblico. In realtà sarebbe auspicabile che il traduttore rinunciasse ad una scelta categorica e netta tra le due differenti tipologie e, piuttosto, attraverso una sapiente contaminatio tra testo fonte e gusto del pubblico, ambisse a fare della sua opera il trait d’union tra il passato ed il futuro dell’opera di partenza. La critica, in concomitanza con la riflessione sulla storia delle lingue, delle culture e delle letterature, è incline oggi a considerare la traduzione come uno strumento atto a favorire gli scambi interculturali, mediante la diffusione dell’opera fonte e la descrizione del mondo in essa rappresentato, come precisa Berman: La traduction est l’acte sui generis qui incarne, illustre et aussi permet ces échanges, sans en avoir bien entendu le monopole. Il existe une multiplicité d’actes de translation qui assurent la plénitude des interactions vitales et naturelles entre les individus, les peuples et les nations, interactions dans lesquelles ceux-ci construisent leur identité propre et leur rapport avec l’étranger5. Il compito del traduttore è, senza dubbio, arduo, ma il risultato del suo lavoro sarà meravigliosamente capace di armonizzare tra loro due visioni del mondo e consentirà all’autore di vivere di nuovo nell’opera di arrivo, che farà riecheggiare ancora nella memoria collettiva la forza della sua voce e del suo nome. Per garantire l’universalità di una letteratura è indispensabile il ricorso ad una teoria della traduzione, in cui siano precisamente stabiliti metodi traduttivi universali. Non si tratta certo di un approdo semplice, ma costituisce, senz’altro, l’ambizione all’origine di ogni opera di traduzione. Nella prassi, come nella discussione critica, in realtà, si tende all’elaborazione di strategie traduttive, fondate sull’esperienza e sulla sensibilità culturale del traduttore, più che di regole rigidamente codificate. Su queste basi la traduzione non sarà più un’operazione limitata solo al lessico, ma continuamente impegnata a confrontarsi con il sostrato culturale della letteratura nella lingua di arrivo. La traduttologia non sarà mai “una scienza esatta”, perché, vista la flui- 5 Ivi, p. 89. [ 4 ] francesca da rimini in arabo 359 dità della materia di studio, accetterà vicendevolmente la coesistenza, nel sistema traduttivo, di tendenze diametralmente opposte: conservative da una parte, volte, cioè, alla tutela dell’identità peculiare dell’opera di partenza e dall’altra innovative, protese, cioè, interamente, verso il sistema di arrivo. È molto interessante osservare la reazione provocata dalla traduzione in un nuovo sistema linguistico-letterario. L’opera fonte, in sé, prima dell’intervento di traduzione, è una sorta di passe-partout, potenzialmente in grado di aprire tutte le serrature; una buona traduzione potrà garantire al passe-partout l’apertura di quelle serrature e la successiva scoperta del mondo che si nasconde dietro la porta. Al di là dell’effettivo feed-back della traduzione, l’opera del traduttore è sempre un’avventura di ineffabile bellezza, perché nasce dalla passione per un autore, un’opera, una storia o semplicemente una vita che doveva essere raccontata al di là di tutte le frontiere. L’incontro con lo straniero, quello che, nel fieri della traduzione diverrà l’auctor, rappresenta per il traduttore un’occasione unica di confronto con l’altro da sé, l’opportunità di arricchire il proprio io, imparando a disegnare i contorni netti dell’altro, nei quali può capitare di inscriversi. L’opera originale e la traduzione devono navigare nelle stesse acque, affrancandosi da ogni possibile rivalità, al contrario devono ambire a raggiungere insieme quel porto tranquillo, nel quale sancire un indissolubile e reciproco patto etico. Indubbiamente la complessità del processo di traduzione induce talvolta il traduttore a derogare da questo patto etico, allontanandosi dall’originale, ma solo per essere più vicino al suo pubblico, così che il testo tradotto produca il miracolo di predisporre il lettore ad accogliere a braccia aperte lo straniero. Questo significa che l’opera tradotta guida il lettore straniero alla scoperta di un patrimonio letterario e culturale altro, prima completamente sconosciuto; in quest’ottica ogni opera tradotta non contiene semplicemente il proprio messaggio, ma suscita la curiositas verso tutto il mondo letterario da cui nasce e di cui fa parte, configurando l’atto del tradurre come un «moment historique tout à fait unique », secondo la felice definizione di Antoine Berman. Ovviamente, considerato il ruolo importante della traduzione come trait d’union tra culture diverse, è naturale che la critica esamini con occhio attento soprattutto le traduzioni di opere cardine della storia letteraria di un popolo. La traduzione di una grande opera affranca dal silenzio di una lingua sconosciuta il passato di un popolo che prima appariva lontano e che, attraverso la traduzione, può ora essere riconosciuto come latore di una nuova identità culturale, in grado di [ 5 ] 360 djaouida abbas sollecitare la mente di chi legge a costruire più liberamente una propria consapevole identità culturale, che nasca dal proficuo incontro con culture altre. La letteratura di un popolo, resa più ricca dall’apporto delle traduzioni di opere letterarie straniere, sarà nuovamente toccata dalla tentazione mitopoietica e costruirà nuovi miti, forse meno gloriosi del mito delle origini, ma certamente non meno affascinanti. Il ruolo del traduttore, in questa nuova mitopoietica, è imprescindibile, perché il mondo altro, contenuto nell’opera originale, giungerà al lettore della lingua d’arrivo mediato dalla sensibilità, dalla capacità artistica, dalla competenza linguistica, dalla capacità esegetica del traduttore, che è, al contempo, lettore, interprete, traduttore, scrittore, critico. Il suo scopo, infatti, è di presentare un’opera armoniosa e completa. Nonostante l’imprescindibile senso di inferiorità nei riguardi di un’opera originaria, evidentemente considerata magistrale, che attanaglia il traduttore nel fieri della traduzione, l’ambizione di emulare il testo di partenza lo induce a farsi scrittore nell’istante in cui da esegeta deve farsi interprete presso il suo pubblico, al quale racconterà il mondo del testo originario, trasfondendolo in quello naturaliter patrimonio del futuro lettore. Per questo la traduzione disegnerà i contorni di un mondo familiare al pubblico cui essa è destinata. Il mondo dell’opera di partenza sarà riflesso nello specchio del mondo di arrivo, perché il traduttore, per spiegare la bellezza, può descriverla solo attingendo ad una bellezza familiare a chi leggerà; così il sole dell’opera originaria avrà la stessa intensità di quello che appare al mattino alla finestra del traduttore e del suo lettore, il cielo assumerà le sfumature della patria di arrivo ed il profumo che percorre le strade del testo d’origine sarà quello delle strade, delle piazze, dei mercati del paese d’arrivo. Tutto ciò che in un’opera letteraria pertiene al tattile, al percepibile, al sensibile, nella sua traduzione, nonostante le preoccupazioni conservative del traduttore, sarà filtrato dalla cultura quotidiana della terra d’arrivo, così da assumere i contorni netti dei suoi paesaggi. La traduzione sarà, come scrive suggestivamente Walter Benjamin, un prolungamento della vita dell’opera di partenza, un’acqua di giovinezza che le offrirà un altro tempo di gloria6. Quindi il ruolo del traduttore è imprescindibile nell’ambizione moderna di costruire una letteratura universale. Da una parte è il messaggero fedele di un pensiero originale, del suo genio e della sua magia e dall’altra è autore e creatore di una nuova materia letteraria. Per questo la traduzione si 6 Cfr. W. Benjamin, Angelus novus-Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995. [ 6 ] francesca da rimini in arabo 361 configura come un crogiuolo inizialmente confuso di immagini, in preda ad oscure forze centrifughe: solo quando il lettore giungerà all’acmé dell’opera riuscirà a conciliare le immagini di un mondo altro con quelle del suo mondo e a riconoscere ciò che appare meraviglioso ed avvincente come portato di una identità prima a lui estranea e poi, grazie alla traduzione, stranamente familiare. La traduzione, infatti, aiuta ad accettare e rispettare l’alterità ed è questo il fine più importante dell’auspicata universalità della letteratura. Senza dubbio, tra gli autori che possono essere annoverati nella weltlitératur c’è il poeta italiano Dante Alighieri (1265-1321), che, animato dal desiderio di sottrarre l’umanità dalle grinfie del male, ha raggiunto risultati eccelsi nell’arte poetica7. Le lodi di Dante non sembrano essere affatto scalfite dal trascorrere dei secoli ed il suo genio medievale continua ad attirare l’interesse mondiale. L’enciclopedismo medievale trova in Dante la sua più evidente esemplificazione, poiché i suoi interessi e le sue competenze spaziano dalla filosofia de Il Convivio alla linguistica del De vulgari eloquentia, dalla politica de La Monarchia alla scienza della Quaestio de aqua et terra. Indubbiamente, però, con la sua ultima opera, La Divina Commedia Dante riceve l’alloro di sommo poeta. La Commedia appartiene alla lunga tradizione degli scritti escatologici, tra i quali vanno almeno ricordati la Visio Sancti Pauli, la Visio Alberici, la Visio Tungdali, la Navigatio Sancti Brandani. Inoltre si inscrive lungo la scia di alcuni poemetti di analogo argomento escatologico, come il De Jerusalem Coelesti e il De Babilonia civitate infernali di Giacomo da Verona, il Libro delle tre Scritture di Bonvesin da la Riva o ancora il Libro de’ vizi e delle virtude di Bono Giamboni. La Divina Commedia ha saputo fondere il mondo classico con quello cristiano in una divina poetica del dire. Inseguendo la perfetta simmetria del numero tre, simbolo folgorante della Trinità, Dante spinge ai massimi livelli poetici la terza rima8. Dotato di un acuto senso del dettaglio, crea e, successivamente, subisce le sue storie. L’io iniziale, timido ed esitante, rapi- 7 Tra i riferimenti imprescindibili per il discorso su Dante oggetto di queste pagine si vedano almeno: B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1922; G. Contini, Un’idea su Dante, Torino, Einaudi, 1976; E. Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1999; T. Barolini, La «Commedia» senza Dio – Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003; M. Zambrano, Dante specchio umano, Troina, Città aperta edizioni, 2007. 8 Per il testo della Divina Commedia si è utilizzata la seguente edizione: D. Alighieri, Commedia – Inferno, a cura di E. Pasquini & A. Quaglio, Milano, Garzanti, 1982. [ 7 ] 362 djaouida abbas damente si trasforma in un ‘noi’ totalitario, generoso e preoccupato di offrire la salvezza a tutti gli uomini. Il viaggio dantesco inizierà a Gerusalemme, nella selva oscura, e si concluderà con la visione di Dio. Lungo il suo pellegrinaggio, Dante avrà tre guide che gli mostreranno il cammino e gli spiegheranno i misteri dell’Oltretomba. La prima di esse è il poeta latino Virgilio, il suo maestro, che l’accompagnerà dall’Inferno fino alla cima del Purgatorio, il Paradiso terrestre, poi verrà Beatrice che, mediante il suo sguardo, lo eleverà di cielo in cielo fino all’Empireo e la terza guida è San Bernardo che lo condurrà a Dio. L’eco di Dante ha il potere di toccare tutte le rive; non c’è, perciò, da sorprendersi se, dopo esservi giunta in diverse traduzioni nel corso del tempo, la Divina Commedia sia nuovamente stata riproposta al mondo arabo nel 2003, grazie alla traduzione in versi sciolti di Kadhim Jihad9. Professore di lingua araba, Jihad ha voluto presentare una traduzione letterale della Commedia con una lunga sintesi biografica su Dante. A questa traduzione si deve soprattutto l’introduzione della critica dantesca nel mondo arabo; grazie ad essa, il lettore arabo ha conosciuto gli studi danteschi di grandi critici come Croce, Contini, Borges. Inoltre il traduttore non ha lesinato sull’uso della materia poetica araba per far vibrare, secondo il gusto orientale, la lingua e i paesaggi della Commedia. Meravigliosa tra i personaggi della Divina Commedia è Francesca da Rimini, vittima degli intrighi familiari, la cui fragilità di donna innamorata ha conquistato in particolare l’immaginario dei romantici. Madame de Staël, Wilhelm Schlegel, Antoine Descamps, Joseph-Victor Leclerc, William Parsons, Lord Byron, Keats e molti altri, ispirati e, quasi, suggestionati dall’episodio di Paolo e Francesca, lo hanno tradotto o, in qualche modo, incluso nei loro scritti. Anche Chateaubriand non ha potuto resistere alla cortesia passionale di Francesca e, nel suo Génie du Christianisme (1802), scrive: Françoise est punie pour n’avoir pas su résister à son amour, et pour avoir trompé la foi conjugale: la justice inflexible de la religion contraste avec la pitié que l’on ressent pour une faible femme10. Per Kadhim, Francesca simboleggia al wifa\q al ‘is]qi, l’armonia passionale. Come Louis Borgés11, il traduttore iracheno con- 9 K. Jihad, La comédie en arabe, Paris, UNESCO, 2003. 10 Chateaubriand, Génie du christianisme, Paris, Flammarion, 1948, p. 259. 11 L. Borges, Nove saggi danteschi, Milano, Adelphi, 2001. [ 8 ] francesca da rimini in arabo 363 sidera che la fonte di quell’amore attinge alla contaminazione poetica, perché è durante la lettura della storia d’amore del cavaliere Lancillotto e Ginevra, più particolarmente della scena del bacio, che lo sguardo di Francesca e di Paolo si incontrano senza riuscire più a tenere a freno la foga del cuore. Kadhim parla anche di quel legame eccezionale che, malgrado la sorte tragica dei due innamorati, è sopravvissuto al fuoco dell’Inferno. A tal proposito è interessante considerare la visione che Dante ha della sofferenza e soprattutto la fortuna della coppia che rimane insieme anche dopo la morte. Arrivato al secondo cerchio dell’Inferno in cui sono puniti i lussuriosi, i peccatori carnali, Dante allerta i suoi sensi. Non sarà uno spietato giudice, ma un semplice uomo, pieno di benevolenza, disposto ad ascoltare, condividere e percepire la pena degli altri. È incuriosito da due anime incollate l’una all’altra, leggere come delle colombe che turbinano travolte dal volere del vento infernale. È nel nome dell’amore che il poeta le chiama per conoscere la loro storia, un amore che sur‘a\na ma\ ya’h]udu big]ima‘ al qalb al t≤ayib, invade rapidamente il cuor gentile (v. 100) e risponde generosamente al richiamo dell’altro. È nel nome dello stesso amore che quelle due anime si avvicineranno a Dante perché intuiscono in lui un cuore giusto e attento: «Poi ch’hai pietà del nostro mal perverso » (v. 93). È Francesca da Rimini che, sin dall’inizio, usa cortesia e retorica del verbo e del cuore per rivolgersi a Dante: O animal grazïoso e benigno Che visitando vai per l’aere perso (88-89) Dopo una iniziale preghiera di salvezza e di pace al Re dell’universo per il poeta, Francesca parlerà della terra che l’aveva vista nascere e del legame eterno che la lega a Paolo, una sorta di osmosi naturale tra i due, che coinvolge spontaneamente i cuori gentili e nobili. La loro passione si è stabilita giorno dopo giorno, parola dopo parola, seguendo il ritmo lento e cadenzato della lettura del romanzo di Chrétien de Troyes. Il loro destino è stato suggellato per sempre dalla scena di quel bacio letterario, che ha svelato ai loro cuori, attraverso un incontro inevitabile di sguardi, la verità fatale. Ricordando quei momenti furtivi di felicità, le due anime incominciano all’unisono a piangere la loro sorte tragica. Dante alla fine, commosso dalla loro storia, perde conoscenza e cade come ‘corpo morto cade’. Osserveremo che, anche se Dante prova compassione per quelle [ 9 ] 364 djaouida abbas due anime, questo non gli impedisce di punire, in un girone infernale, la colpa commessa, il peccato di lussuria. Il peccato in sé, dunque, resta severamente condannato dal poeta e dalle tre religioni monoteistiche, ma Dante insiste sull’origine e sul preludio del male, focalizzando l’attenzione sulla sincerità del sentimento amoroso. L’episodio suggerisce anche al lettore un implicito raffronto con l’amore di Dante per Beatrice, iniziato, come racconta la Vita Nuova, dal primo sguardo innocente dell’infanzia. L’amore cortese, chiamato dalla letteratura provenzale fin’amore ed emblema di tutto il Medioevo, aveva trovato molti cantori, nell’ambito della letteratura volgare italiana della Scuola Siciliana e Toscana e del Dolce Stil Novo, in Guido Cavalcanti, Giacomo da Lentini, Guido Guinizzelli; tuttavia solo con Dante l’amor cortese diviene quasi condizione dell’intelletto e, quindi, Beatrice, da angelo portatore di beatitudine, diventa il simbolo della filosofia e della saggezza. Il quadro in cui si svolge la vicenda d’amore di Dante e Beatrice sarà ornato di luce e di stupore. La sua ultima frontiera condurrà alla fine alla visione della Candida rosa dove sono incoronati i beati e fra i quali, tutta vestita di gloria, si trova Beatrice. L’ultimo e ineffabile incontro con Dio permetterà al poeta di raggiungere l’estrema verità, di cui da molto tempo era alla ricerca. Con la traduzione di Kadhim Jihad, il lettore arabo viene all’inizio immerso nelle acque interculturali della storia musulmana del viaggio notturno del Profeta, El Isra’ wa el Mi‘rag˜, dove i lussuriosi, rappresentanti con nauseanti sembianze e con un orribile odore, sono gettati senza riguardi nel fuoco violento dell’Inferno. Il legame pragmatico tra il Poema Sacro e il Libro della Scala12 era stato stabilito dall’orientalista Asin Palacios, nella sua opera L’Escatologia islamica nella Divina Commedia13, in cui sono evidenziate le analogie tra l’Aldilà dantesco e quello musulmano. La sua tesi, che ipotizza l’evidente influsso di scritti escatologici arabi come Al futuhÛa\t el makkiya di Ibn ‘Arabi e l’Epistola del perdono di Abu al ‘Ala’ al Ma‘arri su tutta la tradizione visionaria del Medioevo, ha generato una grande polemica. A smorzare i toni di questa polemica sono intervenuti Enrico Cerulli14 e Maria Corti15, grazie ai cui studi è finalmente stato possibile ricostru- 12 C. Saccone, Il libro della scala di Maometto, Milano, SE, 1991. 13 A . Placios, L’escatologia islamica nella Divina Commedia, Milano, EST, 1997. 14 E. Cerulli, Il libro della scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Roma, Città del Vaticano – Biblioteca apostolica Vaticana, 1949. 15 M. Corti, La felicità mentale, Torino, Einaudi, 1983. [ 10 ] francesca da rimini in arabo 365 ire il canale di trasmissione, mediante il quale le leggende musulmane dell’Oltretomba potrebbero aver raggiunto Dante e che coincide, senza dubbio, con la città di Toledo, in cui si trovava la corte del re Alfonso. Il lettore della traduzione di Kadhim potrà godere a pieno dell’intensità dell’amore di Francesca e Paolo e di Dante e Beatrice, perché, come Dante, Kadhim orna la sua poesia di parole ed espressioni intense che arricchiscono il paesaggio amoroso cortese come: al hiya\m, la passione, tayyama, paralizzare, talabbasa al ‘is]q, l’amore ha invaso, murtag]ifan bikayanih, tremante di tutto il suo essere, al ibtisama al mutas]aha\t, il sorriso tanto desiderato. In queste immagini rivive tutta la ricchezza del passato poetico arabo della jahiliyya, in cui il poeta tremava al ricordo dell’amata. È attraverso i flashback attinti dalla letteratura preislamica e islamica che, nella traduzione artistica, opera, come un sottile fil rouge, la suggestione dei grandi poeti arabi, che hanno percorso il deserto nel nome dell’amore. Da ‘Antara bnu Sa} da\d a Imru’u al Qays, da G}amil a Mag]nun, da Zohayr a Labid Ibnu Rabi‘a, tutti cantavano il ricordo dell’amata traducendo in verbo poetico il samer, la discussione, della notte beduina. Nel contesto particolare delle carovane in moto continuo che percorrevano le dune infinite del deserto e, sulle tracce effimere dei cammelli o degli animali selvaggi, tutti quei poeti erano all’inseguimento dell’ombra inaccessibile della dama del cuore. La qasıÛ \ da, il poema, preislamica esalta la solitudine del poeta arabo, che, tornando all’accampamento deserto, diventato ora un t≤alal, una rovina, una traccia anonima fra altre che conducono verso il nulla, erra alla ricerca della sua amata. Il poeta, combattuto tra il ricordo della presenza umana e l’amara constatazione dell’assenza dell’amata, resta sempre fiero delle sue origini tribali e fedele al suo imprescindibile senso d’onore. Come gli Arcadi greci, i poeti preislamici affrontano il silenzio della natura – arida per gli Arabi – che, muta, non vuol rispondere alle interrogazioni e ai dubbi del poeta. Tra le suggestioni poetiche arabe non va dimenticata quella di Ibn Arabi che, tra i mistici sufi, ha riservato un posto unico nel suo cuore a Nizam, armonia, una donna di bellezza e di intelletto eccezionali, che illustrerà l’essenza divina. Maurice Gloton descriverà questo amore come: […] le mouvement interne, l’attraction intérieure qu’un être, ou une entité, possède en soi pour extérioriser ses possibilités, celles que Dieu a déposé en lui de toute éternité pour qu’il s’épanouisse et devienne tel [ 11 ] 366 djaouida abbas un arbre entièrement développé, capable de reproduction et de fructification à l’image de la Vie divine.16 Nella sua opera Turg]uma\n al as]wa\q, Ibn ‘Arabi parlerà del al huÛ b al ‘afıf\ , l’amore cortese, mescolato alla magia del pudore e della speranza della condivisione. Alla fine del nostro discorso, possiamo dire che, se sin dalle prime traduzioni della Commedia l’immagine di Francesca da Rimini rientra nello statuto di weltlitératur, tutta l’opera dantesca acquista più ampia significazione con la traduzione araba di Kadhim Jihad, che dona al poeta italiano la possibilità di baciare una nuova terra e di incontrare, in un clima di una gioiosa condivisione, il pubblico arabo. Il nome di Francesca, che era iscritto nel “meraviglioso” della poesia sentimentale occidentale insieme a quelli di Penelope, Didone, Eloise, Virginia, convive ora, nell’universo poetico arabo, insieme ai nomi di donne arabe come Leyla, Butayna, ‘Abla, anche esse travolte dall’onda della passione. Le scelte linguistiche di Kadhim esaltano il trasferimento di una realtà letteraria e culturale, di argomento amoroso, in una civiltà lontana come quella araba. Francesca da Rimini, quando arriva al mondo arabo, impone la sua propria individualità, il suo proprio vissuto e il suo particolare destino. Rappresenta una letteratura, un tempo della storia, una cultura e finalmente una semplice donna innamorata che in arabo o in un’altra lingua resterà tale e la sua esperienza si confonderà con quella di altre donne, di altri uomini per vivere felici. La traduzione di Kadhim è riuscita finalmente ad ampliare le frontiere della weltlitératur. Il pubblico arabo non si limiterà più ora a percepire l’eco lontana e incerta di nomi come Francesca, Farinata, Ulisse o Ugolino, ma è in grado di leggere, di interpretare, di immaginare e di trasporsi nella realtà di quei personaggi e di vivere nell’eterno della loro storia, del mondo dantesco. Djaouida Abbas (Università Saad Dahlab Blida – Algeria) 16 M. Gloton, Ibn ‘Arabi – L’interprète des désirs, Paris, Albin Michel, 1996, p. 22. [ 12 ] LUIGI ABIUSI Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pasoliniano By taking into account the concept of “body” in Pasolini’s life and work, this essay connects it with the so called “moves”, both poetical and politic, of the writer, the same which led him to India and Palestine. Dwelling on Pasolini’s journey through the rural areas of the third world and relying on the dialectical centrality of the literary and cinematographic image, the author aims at reconstructing the relationship between ideology and aesthetics. Piuttosto che topos evenemenziale, desunto dall’enorme congerie di competenze e contraddizioni pasoliniane, l’ecosistema terzomondista emerso soprattutto a partire dal primo viaggio indiano del ’61, assurge, a ben guardare, a vero e proprio indice della complessa e, per certi versi, ambigua esperienza agita da Pasolini sin dalle prime poesie friulane. Ciò nella misura in cui l’erranza entro il desiderato esotico, lo porta a soffermarsi, da subito, sugli scorci polverosi degli anacronistici villaggi indiani, sugli spazi naturali, aperti, dei deserti e delle libere strade che lo tracciano: Comincia una gran pianura, scolorita, come una pelle di animale lasciata al sole […] un lungo viaggio nel cuore dell’India, in una Dodge grossa e stabile come una corriera […], questo succulento, questo sgomento correre attraverso l’India»1 e sui panorami contaminati delle città caotiche, dei suburbi intaccati dalla modernità deturpante. Luoghi connotativi della cognizione pasoliniana del mondo, cronotopi2 che definiscono paradigmaticamente la 1 P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Milano, Garzanti, 2009, pp. 93-94. Per le altre citazioni da questo volume riporterò direttamente nel testo i riferimenti. 2 Cfr. M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in Estetica e 368 LUIGI ABIUSI diversificazione del suo primitivo, costantemente deterritorializzato (verso altri luoghi) in ragione degli intensivi punti di arresto dei borghi (statico complemento e compimento della motilità), in opposizione allo stantio e mendico cabotaggio entro i limiti della città neocapitalistica. Nell’Odore dell’India, diario di viaggio dalle forti tinte espressinistiche, si susseguono le descrizioni accurate degli scenari eterogenei offerti da questi territori sconosciuti, esemplari di quel postcoloniale che sgrana via via l’impegno politico da Sartre ai Cultural studies, tali che la denuncia delle incongruenze del capitalismo che ha interpolato di merci il loro impianto primigenio e generato una borghesia pavida e isolata, è come soggiaciuta all’investigazione, contemplazione feticistica delle cose e della varia umanità: […] non nascondo la mia attrazione per queste città morte e intatte, cioè per le architetture pure. Spesso le sogno. E provo verso di esse un trasporto quasi sessuale (p. 99). Si tratta di una scenografia, ingombra di corpi e oggetti, feticisticamente goduta nella verità della loro turpitudine o improvviso candore: «un gruppo sotto i portichetti del Taj Mahal, verso il mare, giovanotti e ragazzini: uno di essi è mutilato, con le membra come corrose» (p. 10); «monticelli fangosi, rossastri, cadaverici, tra piccole paludi, verdognole, e una frana infinita di catapecchie, depositi, miserandi quartieri nuovi» (p. 12); «le strade sono ormai deserte, perdute nel loro polveroso, secco, sporco silenzio» (p. 18); «era lì anche lui, guardandomi col bianco degli occhi e dei denti, in un sorriso di zucchero» (p. 47); «quell’odore di poveri cibi e di cadaveri, che, in India, è come un continuo soffio potente che dà una specie di febbre» (p. 59); «sul selciato luccicante di chissà che atroci umori, sono distese file di corpi» (p. 108) e così via. Continua inflessione del corporale, dell’oggettuale, la cui inerzia allusiva, alla maniera espressionistica, pare fungere da correlativo oggettivo dell’inquieta interiorità del poeta e della sua ansia di approssimazione (e scandalosa immedesimazione) al reale («il mondo stupendo e orrendo», p. 121) e alla realtà erotica, irrazionale, dei segni, dettata dall’andamento oscillatorio di irresistibile attrazione e repulsione verso il mondo. romanzo, Torino, Einaudi, 2001, in cui si riconduce il significato alla possibilità che esso ha di incarnarsi nel segno e nella profondità quadrimensionale dell’immagine. Icasticità del senso, reificazione e specifica collocazione topologica dei concetti, che sono alla base dell’ermeneutica di Pasolini, e che presumibilmente motivano la sua conversione al cinema. [ 2 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 369 In questo senso L’odore dell’India si rivela un libro importante – e del resto sottovalutato o, peggio, trattato spesso esclusivamente alla stregua di un groviglio estravagante di annotazioni di un turismo equivoco –, se si pensa alle molte tracce di poetica disseminatevi e direttamente dichiarate, prodromi della stratificata attività cinematografica che si dipartirà di là in poi, in nome di una ricerca sacrale di un’astorica, naturale ontologia (del creare), nonché della concomitante, feroce polemica contro la snaturamento operata dal borghesismo. E questo, conseguentemente al disincanto sopraggiunto alle Ceneri di Gramsci, implica la definizione e la declinazione del mito, nei termini di una sopravvivenza3 di istanze ancestrali in seno al magma metamorfico del contemporaneo, e il vagheggiamento di una purità sussunta alla regressione temporale: […] mi piaceva camminare, solo, muto, imparando a conoscere passo per passo quel nuovo mondo. Così come avevo conosciuto passo passo, camminando solo, la periferia romana: c’era qualcosa analogo (p. 24) […]; questa situazione non mi era nuova: anche tra i contadini friulani succede qualcosa di simile, in certe usanze rustiche, sopravvissute al paganesimo: gli uomini, pur ironici, sono come arresi e sospesi: la loro forza e la loro modernità tacciono di fronte al capriccioso mistero degli dèi tradizionali (p. 28). Da qui si evince una puntuale dislocazione spazio-temporale del mito, nel decorso delle opere pasoliniane, in misura di una geografia delle resistenze dentro la generale pressione dello sviluppo postmoderno, che riguarda le borgate romane quanto le periferie degli agglomerati urbani dell’India o degli insediamenti in fase di ammodernamento della Palestina o dello Yemen; e, segnatamente, nella misura di un rinvenimento, lungo i gradi temporali, di una diversa dimensione, maggiormente naturale e ferina, che, se nella “trilogia della vita” coinciderà con la teoria di un Medioevo promiscuo e sguaiato, sarà però intimamente legata al passato privato pasoliniano e, in ultima analisi, a una sorta di surdeterminato, post-psicologico grado zero del tempo: 3 Intorno a questo concetto cardine Didi-Huberman, nel suo libro (Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2010), sviluppa i punti di un discorso “resistenziale” in virtù del quale, e attingendo a referenti che vanno da Benjamin ad Anna Arendt, confuta la tesi pasoliniana (formulata nel febbraio del ’75) della scomparsa delle lucciole (e cioè di spiragli luminosi, umanistici), per sostenere malgrado tutto l’avvicendamento di bagliori costruttivi, sopravvivenze appunto, nel contesto di generale declino del contemporaneo. [ 3 ] 370 LUIGI ABIUSI l’infanzia e lo stato d’incoscienza suo proprio, così come l’immaginazione, il desiderio4. È questo stesso impulso sentimentale ed egotistico, la matrice dell’engagement di Pasolini – che negli anni Sessanta investe continuamente la problematica terzomondista –, nato dall’esigenza di espansione (di movimento) del proprio, diverso io, nel mondo, quale ansia di riconoscimento narcisistico nell’ampio specchio della moltitudine5. Una moltitudine abbietta, violenta e tuttavia incontaminata, desiderante, e, proprio per questo, rivoluzionaria in virtù delle accensioni periferiche che per inerzia intaccano altri territori, originano concatenazioni in direzioni diverse, ipotesi di nuove aggregazioni. Del resto è lo stesso Pasolini a suggerire il vettore di questa trasposizione comunitaria della propria traboccante diversità, sostenendo che «l’adozione della filosofia marxista è dovuta in origine a un impeto sentimentale»6 che d’altronde si sistema, necessariamente, dopo il primo istintuale pascolismo casarsese, nell’involucro razionale di una teoria politica, quale arma di corrosione dell’ordine neocapitalistico, per (immaginare di) invertirne le logiche (di profitto) in favore di ottiche di poiesi, nelle quali sia garantita la sopravvivenza e perpetuazione di sé e della gamma di altri corpi ostinatamente viventi, in cui l’alterità, in ultima battuta, consiste nel segno di un’antichità corruscamente inerziale. Alla base di questa inferenza è rintracciabile il riverbero perdurante di un iniziale decadentismo spontaneo, che assimila le risonanze simbolistiche (e certa tensione ad esse peculiari verso l’originario provenzale), scostandosi da subito dall’autoreferenzialità dell’ermetismo e posizionandosi piuttosto in corrispondenza dell’universo introversivo pascoliano, torcendo espressionisticamente la temperie del recesso, estremizzandone gli spunti (che così tendono ad uscire drammaticamente fuori) in direzione di un panteismo, che diviene incontro sgo4 Sono i termini specifici della decentrazione lacaniana del soggetto, che diviene attante del desiderio e di un oggetto che manca, che è sempre più in là (appunto causa del desiderio), e che tende a coincidere con certa metafisica pasoliniana (e, direi, mallarmeana) del nulla. 5 L’aspetto speculare di questa propensione viene sottolineato da Mengaldo, quando scrive che «il rapporto di Pasolini con questa realtà è, prima che di natura ideologica, un fatto di identificazione psicologica, autorizzato dall’equazione fra le rispettive emarginazioni» (P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 2003, p. 782). 6 P.P. Pasolini, La libertà stilistica, in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni ’50, Torino, Einaudi, 1975, p. 280. [ 4 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 371 mento e mistico con l’altro corpo. È il tenore di estenuato estetismo e di vitalismo “di formazione”, che caratterizza il Friuli arcaico contadino, rappresentato nelle Poesie a Casarsa, nella Meglio gioventù e, in secondo luogo, nell’Usignolo della chiesa cattolica, dove avviene la scoperta dell’eros legato a una corporeità virginale, le cui resistenze Pasolini riscontrerà, esaltandole, nel momento dell’incontro con i sobborghi romani e con la realtà composita del terzo mondo. La passione (per l’altro), constatata in maniera ossessiva e (auto) distruttiva nell’orizzonte della propria sensualità, è il dispositivo di un coinvolgimento all’esterno, della molteplicità dei soggetti. È questa dialettica del desiderio ad alimentare la fenomenologia della presentazione7 (e viceversa), per cui ogni individuo si mostra agli altri, nei crismi discontinui del proprio apparire, quindi della propria immagine, provocando l’avvicinamento, l’attrazione e, di conseguenza, la comunità; nonché una nozione di politica connessa a una genealogia dell’immaginazione8, alla pregnanza dialettica della creazione artistica. Una congruenza di immagini9 entro cui validare l’umano, verificarne l’allineamento, o, almeno, il rinvio (per residui) all’archetipo contadino-religioso, incarnato dalla figura del ragazzo dai capelli corti (a cui Pasolini contrappone la deriva malata dei capelloni), cioè tradizionalmente l’eterosessuale sano10, forte, semplice, che corrisponde 7 Il metodo semiologico-visivo – che presiede all’esplicarsi generale della presentazione – nell’interpretazione della realtà da parte di Pasolini, è stato documentato di recente da Marco Belpoliti, che evidenzia il processo mediante il quale il poeta «osserva i segni, i comportamenti, i gesti; osserva i corpi e i segni fisici» all’interno della propria, ferma ed accentrante prospettiva erotico-estetizzante (Cfr. M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Parma, Guanda, 2010, p. 38). 8 R ispetto a ciò, pur lasciando sotteso l’assioma pasoliniano, Didi-Huberman cita le convergenze testuali del Lyotard dell’Economia libidinale, e della Storia della sessualità di Foucault (Cfr. G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, cit., pp. 34-35). 9 Nell’accezione di “immagine dielattica” di Benjamin, come attualità iconica (e teoretica) frutto della fusione dell’”Adesso” con il “Già stato”, che si configura come concrezione lampante (cioè morente) di una verità storica, formazione lucente e profondamente significante che è destinata a deperire, aprendo da lì la strada ad altre potenzialità. Cfr. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 1986. 10 Per l’ambigua, se non reazionaria, visione pasoliniana della medicalizzazione della vita – che propizia la sopravvivenza di ragazzi destinati invece, per legge di natura, a morire, e che si presentano ora secondo i caratteri della malattia, della bruttezza, della debolezza – rimando a M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, cit., p. 51. [ 5 ] 372 LUIGI ABIUSI all’individuazione di precise connotazioni estetiche dell’autentico arcaico. Esso si esprime pienamente (e generalmente) nello sfondo di una sorta di ruralità immemore, che quando l’interesse di Pasolini si sposta verso oriente, dapprima trova il suo referente contingente nelle sequenze dei “sopralluoghi” e degli “appunti per un film”, poi si cristallizza progressivamente nel cronotopo contemplativo e onirico, nel cinema “regressivo” dell’Edipo re e del Fiore delle mille e una notte. L’«amore feticistico per le cose del mondo»11, nell’inarcatura esotistica «di poveri esseri seminudi, nella solita danza dell’andare e venire»12 – già esternato (ed estenuato) nel primo viaggio in India – è il presupposto dell’esplorazione del contesto palestinese nei Sopralluoghi in Palestina, documentario girato tra il ’63 e il ’64, che, mentre sonda gli scenari che servano da ambientazione per il Vangelo secondo Matteo, mette a fuoco un discorso, insieme, di polemica nei confronti delle scorie moderne, industriali, presenti in un paesaggio che invece si immaginava evangelicamente intatto, e di individuazione ed esaltazione del naturale mistico, affiorante a tratti, la «straziante naturalezza » degli ulivi (come la chiama il regista stesso in uno dei segmenti elegiaci del film), che, a una attenta analisi, definisce il particolare realismo di Pasolini, oramai giunto a compimento con il suo passaggio al cinema. Vale a dire, quell’ermeneutica che si esplica nei gradi della prospezione del reale, per portarne alla luce le intensità, i presagi, e che si configura come un movimento di arretramento rispetto alla sua ruvida quiddità. Quello strazio che agli occhi di Pasolini marca gli ulivi, è il sentimento, il senso vibrante delle cose, indizio di vita (di moto) connaturale all’ottusa presenzialità del mondo, che emerge all’istante nella discontinuità del suo cinema, già a partire da Accattone (1961), dove lo sfondo feroce in cui si muove il protagonista, appare investito da una tragica, e al contempo indulgente, luminosità, che è l’alone so- 11 P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, p. 235. 12 Id., L’odore dell’India, cit., p. 108 [corsivo mio]. È figurazione esemplificativa di quella prammatica della presentazione che costituisce l’abbrivio vitalistico dell’esperienza artistica di Pasolini. La danza, proprio come strategia di esposizione dell’essere, è gesto ricorrente nella sua opera, e, peraltro, progressivamente privata del suo originario carattere ecumenico, se si considera la parabola che va dalla gioiosa motilità casarsese e sottoproletaria (anche se si avverte qualcosa di disperante già nel folle, selvaggio dimenarsi di Lello in Una vita violenta) alla mimica inquietata e solitaria (benché aspirante all’altro) di Ninetto Davoli nella Sequenza del fiore di carta, fino all’ambiguo ricongiungimento dei ragazzi nel finale di Salò. [ 6 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 373 pravvivente, la pulsione del reale. In questo modo, il cinema, per Pasolini, assolve immediatamente (cioè senza frapporre distanze tra la cosa e il segno) al compito di alludere a «catene di pulsioni-immagini […], incerte ombre retrostanti»13, che affiorano sulla scorta di un primo carotaggio, e della consecutiva reattività espressionistica del soggetto14. Per far parlare le cose, bisogna ricorrere a un’operazione regressiva, infatti le “cose” […] si trovano dietro allo scrittore-filosofo15 che spiega molto bene il procedimento di Pasolini, sé è vero che esso parte da un momento retrospettivo, profondante, in cui il poeta si guarda “alle spalle” quasi penetrando l’anomala (e fragile) densità di uno spazio-tempo creativo, che gli restituisce oggetti galleggianti, straniati nel cronotopo così costruito. È il risvolto onirico, mistico, integrante la pervicace fisicità della realtà, il manto di tragica luce che indica la risposta dell’io alla retrocessione e le coordinate di un lacerante bramare un Altrove sperato nella stabilità del referente cristiano e invece, di fatto, sfuggente entro la fluidità dell’immagine, anzi proprio coincidendo con quella deformante fluidità. La consacrazione (dei corpi, degli oggetti, dei panorami), che è attributo primario di questa poetica16, è spunto temporale: si consustanzia nel profondante movimento a ritroso, nell’uscita dal presente, dove si concentra invece la turpità dell’urbanizzazione e si sviluppa allora il secondo momento del metodo pasoliniano, la dissacrazione, che 13 T. Pomilio, Cinema come poesia, Arezzo, Zona, 2010, p. 67. Libro che ha il merito di richiamare e rinverdire questioni fondamentali di estetica del cinema, soffermandosi, passando pure per Pasolini, sulla natura alterante del linguaggio cinematografico (almeno nei casi di accentuato sperimentalismo), frutto della tendenza all’esaurimento delle possibilità espressive sue proprie, per ricercare, «quasi mesmerizzare» (p. 7) il suo impuro, l’altro da sé. 14 A riguardo si legga R. Cavalluzzi, Il limite oscuro. La poesia. Il cinema, Bari, Schena, 1994, e particolarmente il capitolo su La cifra visionaria del «realismo» pasoliniano, che offre un’icastica, quanto minuziosa, ricostruzione della gnoseologia pasoliniana, adducendo la metafora dell’acquario, quadro (deformativo) della rappresentazione in cui restano sospese le figure, prodotto di un rigurgito soggettivo. 15 P.P. Pasolini, Inchiesta sul romanzo, «Nuovi Argomenti», maggio-agosto 1959. 16 «Il mio amore feticistico per le cose del mondo mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le lega in un giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensamente, una per una» (P.P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 235. [ 7 ] 374 LUIGI ABIUSI è attraversamento dello spazio, scandaglio e mortificazione delle merci, tra i ruderi della speculazione edilizia e le mortifere discariche17. Sul versante dell’impegno terzomondista, questa componente visionaria, comunque lirica, contribuisce, insieme al registro più spiccatamente documentale, alla formulazione di una «etnografia sperimentale »18, i cui caratteri sono già riscontrabili nell’abbozzo dei Sopralluoghi, ma perspicui in particolar modo nella forma più lavorata degli “appunti”, film su un film da farsi. Cioè un’opera programmaticamente spuria, aperta (alla rappresentazione dell’altro, marginale), costituita dall’interazione e avvicendamento di un’oggettiva indagine antropologica, contraddistinta dal rigore dell’intento conoscitivo, e dalla sperimentazione di una diversa modalità di espressione cinematografica, destinata a sublimare in sequenze poetiche, l’obiettività del referto. Il che si traduce, negli Appunti per un film sull’India (1968) e negli Appunti per un’Orestiade africana (1969)19, nell’insistenza della frontalità della ripresa, che è uno degli stilemi più incisivi e rappresentativi del cinema di Pasolini, come penetrazione compiaciuta dei volti e della loro congenita sostanza sonnambolica, nonché corrispettivo stilistico di quella teoria della presentazione che sottende al legame sociale. In altri termini, ostensione integrale e feticistica della superficie (del mondo, del corpo, del volto) e della scaturigine di influssi (luminosi, 17 Come quella che suggella l’episodio di Che cosa sono le nuvole? (1967), in cui si palesa la tipica mistione pasoliniana di contrastanti icone, nel coesistere di mence carabattole, tra cui i burattini protagonisti, scarti dell’innaturale “cosmumo”, e le forme sfuggenti e felicitanti delle nuvole, quella «straziante meravigliosa bellezza del creato», che Pasolini non smette di perseguire, benché ne senta il progressivo assorbimento nelle leggi dell’utile. 18 La definizione è di Catherine Russell (Experimental Ethnography, Durham- London, Duke University Press, 1999), d’altronde utilizzata da Luca Caminati per inquadrare la specifica tecnica narrativa pasoliniana nei documentari e nei lungometraggi di finzione terzomondisti, sul piano della commistione formale, del «palinsesto visivo dalle molteplici letture» (Cfr. L. Caminati, Oreintalismo eretico, Milano, Bruno Mondadori, 2007). 19 Il primo è una ricognizione motivata dall’intenzione di girare un film “indiano” (nel quadro complessivo di un progetto di inchiesta e raffigurazione del terzo mondo, mai portato a termine dall’autore), che si trasforma in una meditazione sfaccettata sull’India, dai risvolti, al contempo, didascalici, politici, antropologici, lirici. Ben più complesso è il secondo, che mescola materiale più composito: interviste a studenti immigrati, sopralluoghi africani per la trasposizione dell’Orestiade, riflessioni varie, fino alla messa in scena della tragedia greca, a Roma, con protagonisti, musicisti jazz di colore. [ 8 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 375 olfattivi, sonori) alla base della danza seduttiva; ovvero comparizione dell’immagine reminiscente (in cui balugina la sintesi ineffabile, per quanto sfuggente, della storia) nel pieno della diffusione seriale dei riflettori dello spettacolo-capitalismo. O, d’altra parte, rassegna di sfondi20, che appaiono, per lo più, nell’andamento irregolare della macchina a spalla, ad illustrare la sopravvivenza di una naturalità, che comunque si configura come il controcanto della verifica dell’alienazione di una cultura in via di sviluppo, e, alla fine, dell’impossibilità di ritrovarsi (di enucleare il sé) nella ricerca spasmodica dell’altro. Il quale è effettivamente individuato negli Appunti per un film sull’India, nel giovane ragazzo incontrato per strada, che tanto ricorda la figura del Revi dal «sorriso di zucchero» dell’Odore dell’India, o negli apodittici primi piani dei giovani studenti intervistati negli Appunti per un’Orestiade africana, im-segni (quindi corpi)21 che popolano l’immaginazione infantile ed erotica di Pasolini, sin dal tempo dell’apprendistato friulano e poi bolognese. Ad ogni modo, se la simbiosi dell’io con la moltitudine e gli sfondi (oramai contaminati), sfugge, se non nella trascorrenza della sequenza e dell’esotico, proprio restando in questo puro segmento benché morente22 e sperimentando la maniera espressiva ed espositiva del soggetto dentro l’altro dall’occidente, Pasolini perfeziona un cinema alterante, proprio come negazione della congiunzione, quello che nel ’65 chiamava cinema di poesia (contro l’omologia dello spettacolo) e che pertiene a una sorta di canone sospeso, secondo la determinazione brechtiana, di irresoluzione degli elementi ossimorici portanti, che così generano la straniazione (esotismo appunto), l’effetto dell’esperienza onirica e religiosa, ovvero del raggio d’azione della consuetudine prerazionale e desiderante. Perturbazione che è peculiare dell’incesso pencolante, allucinato di Edipo, disposto nello spazio-tempo di un 20 L’interesse di Pasolini non è tanto per il panorama in sé (composizione autoreferenziale di elementi), quanto per lo sfondo, che contempla la presenza umana, corollario plastico della presenza del soggetto. 21 «I segni del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”, per così dire viventi, di se stesse» (P.P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976, p. 138). Da cui si ricava la validazione della perlustrazione pasoliniana dell’altro geografico, puramente fisiologico, come esigenza di riscontrare dietro di esso, i segni viventi, che corrispondono a quelli di una ageografica, incontaminata antropologia che si va perdendo, quindi di un altro di matrice temporale (archeologica), confluente nella rappresentazione artistica. 22 È ancora il concetto benjaminiano di immagine dialettica. [ 9 ] 376 LUIGI ABIUSI terzo mondo (l’allocazione marocchina delle riprese di Edipo re, 1967) che è trapassato nel mito, inteso quale ipostasi di un passato agricolo scarno e solare. L’addentrarsi di Edipo nei pelaghi del deserto, in condizioni di deliquio, di smarrimento (in cui versa la macchina da presa), rappresenta l’ombra sacrale insita all’individuo, come, didascalicamente, la luminosa trasparenza appare quale coltre poetica che copre il mondo. Ed è il farsi della visione del regista sulla scorta del suo turbamento, lì dove, al limite, il perturbamento, cristallizzando le nervature della psiche, si configura come alterità inerente al codice linguistico, e di lì come problematico sintomo metafisico, in cui, a dispetto dell’anelare al riparo cattolico, si esaurisce la tensione verso l’Oltre, cioè verso quella piena corrispondenza al desiderio, costantemente mancante. Il deambulare edipico di un individuo sradicato, per ansia di conoscenza di sé e degli altri, e di sé negli altri, articola l’itinerario e l’ampiezza del cronotopo pasoliniano, sedimentazione mimetico-immaginifica che scaturisce dall’azione regressiva e dalla reattività del soggetto, a (ri)partire dalla zona, dalla natura del puro pragma incosciente23. Cioè dal desiderio di forme, che innesca il procedimento di evocazione delle forme, fino al soggetto, che dunque è, lacanianamente, soggetto del desiderio, io assoggettato all’immaginazione. La soggettiva libera indiretta, sintagma a cui Pasolini dà notevole spazio nel suo Empirismo eretico, cioè nella sua idea materialisticamente spuria e lirica dell’empiria, esprime la retrocessione del poeta-filosofo, del suo sguardo, posto all’altezza di quello del personaggio e del contesto in cui si muove; e il suo cammino in questo spazio-tempo dissonante (gremito di oggetti e soggetti ossimorici usciti dal desiderio infantile) è quello di ricongiungimento all’io presente. Viaggio distonico, rintoccato dalla tribalità delle percussioni, dall’acuta salmodia del flauto, dei colori di fondo, ora slavati – nel loro presago dialogo con la pietraia, con l’apertura delle vie sterrate, e con la vacuità e l’atonicità dei luoghi delimitati: i giardini e gli atri dei giochi dei bambini –, ora incupiti all’interno del palazzo, delle camere, in un ordito di rimbombi, di architetture disertate, che innervano laconicamente il destino di colpa e di solitudine dell’Edipo errante. Il punto d’arrivo di questo tragitto di autodefinizione psicologica è, nel presente, il prato verde del primo riconoscimento della madre; 23 Cfr. R. Turigliatto, La tecnica e il mito, «Bianco e nero», 37, 1976, 1, pp. 113- 155. [ 10 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 377 luogo del nido, inquadrato nella sua staticità declinante, che sembra riflettere, in questo modo, un latente desiderio di morte; da dove il poeta non può che ripartire reiterando il dispiegarsi dell’anamnesi, in funzione di nuove declinazioni della “forza del passato”, resistenza rinvenuta via via sopra il vergine calco della natura24, ancora «straziante, meravigliosa bellezza del creato». E dalla barcollante, delirante reazione soggettiva (libera indiretta), che risale (macchina a spalla) la china, fino al sé presenziale, oltre il filtro dello schermo, il poeta ricava gli squarci “incantati” delle Mura di Sana’a25, indizio lampante delle cose fervide, stridenti o mute, materialmente effimere, del Fiore delle mille e una notte. In effetti, a parte la polemica contro la modernità corruttiva del primitivo, che tocca lo Yemen quanto l’Italia26, emergono dalla struttura del breve documentario, sequenze in cui le costruzioni arcaiche di Sana’a sembrano vivere in un bisbigliare di fondo e in un ipnotico vociare di bambini misto al suono di un flauto, manifestazione di quella «grazia dei secoli oscuri», di quella «scandalosa forza rivoluzionaria del passato» che si sublimeranno nell’intreccio visionario dell’arazzo dell’ultimo film della trilogia27. La dinamica di arretramento/avanzamento dell’Edipo re, della coscienza del poeta-regista, che individua, cioè formalizza (così alterandola) la correlativa forma poetica, eroga il frutto succulento/evanescente del Fiore, sospensione di cose e di corpi, di là dallo schermo che delimita l’ingresso nella mentalizzazione/formalizzazione. Si tratta di una progressione dell’immaginazione, a partire da un punto originario (meta)psicologico, che, in teoria, mantiene aperta, incarnandola, la 24 A proposito della funzione allegorica delle vestigia, che caratterizzano storicisticamente la materia innocente della natura, cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1980, che sottolinea, tra l’altro, la potenza del segno (residuale), tanto maggiore, quanto esso è capace di significare in tempi di decadenza. 25 Il breve filmato fu realizzato una domenica mattina di ottobre del 1970, poco prima che Pasolini lasciasse lo Yemen, dove aveva girato alcune sequenze che avrebbero dovuto convergere nel Decameron, ma che, alla fine, ne furono espunte. Il regista tornerà poi nello Yemen per girare gran parte del Fiore delle mille e una notte. 26 Ad un tratto del cortometraggio, Pasolini apre una parentesi ambientata ad Orte, piccola cittadina vicino Viterbo, per coglierne le brutture dovute alla speculazione edilizia. 27 R iguardo questo intreccio fantastico, rimando al bellissimo libro di A. Ferrero, Il cinema di PierPaolo Pasolini, a cura di L. Pellizzari, Venezia, Marsilio, 2005 [1977], pp. 128-134. [ 11 ] 378 LUIGI ABIUSI possibilità del Progresso e del gruppo28, mediante le proprietà attrattive (erotiche) delle immagini (im-segni), benché di fatto ormai Pasolini ne verifichi l’isolamento, vale a dire l’incagliamento del congegno di accensione e rivoluzione, all’interno del territorio autocratico della Zivilation. La presentazione di figure dissonanti, spaesate, come viventi alla luce dell’ancestrale, dei segni del mito che portano addosso, avviene dentro la sezione di galleggiamento (di estremo straneamento) posta al di là del vetro (prismatico) dello schermo, dove risalta, in virtù dello spessore dell’eco, la freschezza carnea del sesso eretto, della ingenua motilità degli arti, dei volti, luccicano e risuonano gli sfondi magicamente e progressivamente desolati, fino a sfumare nella lontananza dell’orizzonte, del mare, e a fondersi con il vuoto e con (l’immagine del) nulla risuonante nei cortili, negli anfratti scuri, che un tempo sgomentavano/ esaltavano la fantasia del fanciullo, e che egli poteva (sperare di) esorcizzare, anzi, sublimare, nell’incontro con l’altro. Ora il corpo brunito e innocente del terzo mondo, dopo l’orientalizzazione della ricerca e della concreta speranza del primitivo nell’attualità, e dopo il vagheggiamento vitalistico di un medioevo già intrinsecamente fatiscente29, è recuperato e raffigurato attraverso un filtro rifrangente, che demarca la soglia del farsi linguistico, della coagulazione del significato. I ragazzi ridenti e ingenui presi dal deserto, e il corollario brulicante della luce e della polvere, sono desiderati da lontano e solipsisticamente goduti nell’atto autoerotico della contemplazione, inazione dell’oggettuale, quasi feticcio, stereotipo ammaliante dell’immaginazione e dell’eccitazione infantile. La contemplazione non è che della morte delle cose, del cagliarsi dei vivi riflessi in fregio ornamentale, lì dove l’impronta dell’antichità diviene cimelio, oggetto morto di un culto funerario30, e a cui seguirà, 28 Inteso in senso sartriano, in quanto assembramento regolato dalla reciprocità. 29 Che è quanto rileva acutamente Adelio Ferrero, portando soprattutto l’esempio dei Racconti di Canterbury (1972), in cui prevale un’atmosfera plumbea, e un’inerzia in cui la carnalità è per lo più sfacimento e febbre del coito, mentre Il Decameron (1971), effettivamente svuotato di veemenza e proposizione vitalistica, si rivelava quale mera gestualità, esteriore movimento ritmico-figurativo, come raffreddato dalla distanza del punto di osservazione. Cfr. A. Ferrero, Il cinema di PierPaolo Pasolini, cit., pp. 109-128. 30 Qualcosa di simile è il barocchismo felliniano del Casanova (1976), trionfo di ninnoli, decorazioni, inerti e attraenti simulacri, che polarizzano la passione dell’esteta verso una bellezza sfatta e immota: quella huysmansiana, che del resto [ 12 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 379 in Salò, l’osservazione, da parte del fanciullo sgomento – mediante le lenti metanarrative e distanzianti del cannocchiale – della putrefazione di quella stessa materia perita, che svela l’orrore quale senso ultimo, «effetto primigenio della deiezione materiale del mondo»31. La coreografia messa in scena dal Fiore, fenomenale e impalpabile proporzionalità di forme e di movimenti, non riesce a innescare la fuga verso altri territori, altri im-segni che, in una concatenazione, misurino la possibilità della rivoluzione, e si risolve in se stessa, cioè dentro il proprio tessuto cronotopico, nella rievocazione di sé vivente e potenzialmente coesiva, aggregativa, vale a dire di quel microcosmo casarsese e dei corpi effusivi, che popolavano la fantasia (il desiderio) del giovane poeta, quando il rapporto omoerotico con il ragazzo dai capelli corti era avventura gioiosa e reciproca scoperta del sé. Effusione, per quanto accidentale, impossibile nel presente degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, che peraltro sembrano sussumere didascalicamente l’intero itinerario pasoliniano al piano estetico ed erotico, in ragione della denuncia del neofascismo quale processo di epurazione di quegli scorci campestri in cui accadeva il coito, spietatamente attuata in favore dell’urbanistica liberazione sessuale32. Allora l’inseguimento delle sopravvivenze, nei termini del corpo esotico e delle implicazioni ideologiche ad esso collegate, dileguatosi ormai da tempo anche il borgataro ricciuto e selvatico negli intrichi della metropoli, si rivela essere sin dall’inizio ricerca del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui l’ancestrale era ancora vivo tra «li ciasis e i tínars/ lens ch’a trimin tal ríul»33 e la sensualità liturgica del canto dell’usignolo della chiesa cattolica, in cui si consumava, tra i non è estranea alla riflessione di Pasolini – se si considerano le molte occasioni in cui egli si occupa di À rebours o semplicemente ne cita dei passi –, e anzi diviene il referente di una retrocessione che tende narcissicamente all’immobilità della reliquia. 31 R. Cavalluzzi, l limite oscuro. La poesia. Il cinema, cit., p. 50. 32 Ancora Belpoliti può servire a chiarire la questione, richiamando alcuni punti cruciali delle ultime considerazioni pasoliniane, in cui l’autore si schiera in netta polemica con il processo di liberazione sessuale, attuato di pari passo con lo sviluppo, di cui sarebbe una delle forme di coazione al consumo. Mentre la repressione praticata in precedenza, osteggiando i rapporti tra uomo e donna, favoriva, di conseguenza, la tolleranza verso i rapporti omosessuali, che del resto coinvolgevano gli eterosessuali. È verso di essi, e verso questo tipo di rapporto, che Pasolini sentirebbe attrazione (e rimpianto), piuttosto che nei confronti dei rapporti con altri omosessuali. 33 «Le case e i teneri alberi che tremano sul fosso». P.P. Pasolini, Lengas dai frus di sera [Linguaggio dei fanciulli di sera], La meglio gioventù. La leggo in P.P. Pasolini, La nuova gioventù, Torino, Einaudi, 1980, p. 52. D’ora in poi le citazioni dalla [ 13 ] 380 LUIGI ABIUSI ragazzi ruzzanti, il rituale fanciullesco della presentazione e della scoperta dell’eros. Ma già qui, al tempo della Meglio gioventù, la possibilità esteticopolitica di acquisizione e coniugazione corporea, mentre è esaltata nella freschezza verbale dei tratturi e delle locande, o nel calore delle stalle, dei focolari, è al contempo antifona di un drammatico distacco, guardata a distanza, malinconicamente, come qualcosa che si desidera e da cui si è ineluttabilmente esclusi, a causa non tanto della storia, quanto, in ultima istanza, degli atavici meccanismi di vanificazione attuati dalla natura: E jo i resti fòur ta la nèif […] Sint, Stièfin, sint, zà sentenàrs di àins o zà un momènt jo i eri in te. Drenti, e no fòur, pognèt tal zenoli i sentivi il zenoli, i nasavi il fen. Vuei i soj uculí. Fòur, e no drenti i no sint il zenoli né il cialt dal me cuàrp. Vuei al era Un dí ch’i vevi di no essi! (E io resto fuori sulla neve […] Senti, Stefano, senti, centinaia di anni or sono o un momento fa, io ero in te. Dentro, e non fuori, chinato sul ginocchio, sentivo il ginocchio, odoravo il fieno. Oggi sono qui. Fuori, e non dentro, non sento il ginocchio né il caldo del mio corpo. Oggi era un giorno che non dovevo essere!, Ciants di un muàrt [Canti di un morto], p. 40-41). Si condensa una poesia di panorami caduchi, affidati alla congiuntura del ricordo o del sogno: il me timp al è tal lun/ par sempri vif di un dí/ muàrt, di na fiesta vuèita,/ di na ciera dispeada tal sèil,/ a tornà a vivi la sèit/ Meglio gioventù, e quindi dalle Poesie a Casarsa, si intendano tratte da questa edizione. I riferimenti e la traduzione si troveranno direttamente nel testo. [ 14 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 381 da li primis primaveris/ spasemadis sot li primis stelis. (Il mio tempo è nella luce per sempre viva di un giorno morto, di una festa vuota, di una terra liberata nel cielo, a rivivere la sete delle prime primavere, spasimate sotto le prime stelle, Lúnis [Lunedì], p. 94). dove il cronotopo si ripercuote su se stesso, raffreddando il magma (sentimentale) di cui è fatto, nella concrezione della pietra antica, preziosa (nel quadro – immobile – della specula huysmansiana), smorzando la propria vitalità nell’appassimento di una luce biada, aperta all’opzione nullificante (che assorbe l’altro): adès sí ch’a revoca un plant di muàrt parsè che il cialt e il frèit dal alt plan dal Friúl son insembràs ta un azur di dis no pierdús, ma doventàs di un atri; nus drenti di un timp sidín coma la lus. (Adesso sì che scoppia un pianto di morte, perché il calore e la freschezza dell’alta pianura del Friuli si sono mescolati in un azzurro di giorni non perduti, ma divenuti di un altro, nudi dentro un tempo silenzioso come la luce, De loinh [De loinh], p. 96). Il felibrismo friuliano, rimasto in filigrana per l’intero percorso artistico di Pasolini, come riesumazione di un ecosistema di vive immagini, mentre connotava certi tratti elegiaci, marcatamente contemplativi delle sue opere, anche di quelle più impegnate, confluisce pienamente, un attimo prima dell’annichilimento di Salò34, nella trama immaginifica e antiquaria dell’esotico Fiore. E, nell’inclinazione all’originarietà/ originalità della lingua poetica, assimilando la tradizione trobadorica alla koinè pascoliana, esso funziona da veicolo, strumento fondante di un creare inteso come “esperienza di morte”. Proprio riferendosi a Pascoli e alla natura “vocale” di certe sue soluzioni linguistiche35, e dandone pure per scontata, la connessione con 34 Non è detto che sia questa la chiave di lettura ultima del film, quanto piuttosto l’ulteriore conferma di un’apertura di tipo brechtiano, che non risolve l’opera se non nell’indicazione dello sbocco ancipite, della diramazione. 35 Che sono quelle della glossolalia e dell’onomatopea, nonché dei nomi pro- [ 15 ] 382 LUIGI ABIUSI l’uso pasoliniano del dialetto, Giorgio Agamben fa coincidere – sulla base della constatazione di una generale tensione decadentistica – l’aspirazione ad una lingua inedita – che riesca a convogliare entro i propri codici il pensiero vivente – con l’utilizzo effettivo e distopico di una lingua morta, la quale cioè rapprende nella stasi della parola, la breve, oscura folgorazione del «puro grammata», della lettera in quanto incarnazione di una estranea «volontà di dire», una sillabazione evocativa (ma non significativa, non ancora), attinta dalla sede dell’incosciente. In base a ciò, il dettato poetico, la congerie di pensieri all’origine della poesia, vivono, si muovono, nel trapasso, nel momento della loro morte, che avviene concretamente in veste di parole, di significato: parlare, poetare, pensare può allora solo significare, in questa prospettiva: fare esperienza della lettera come esperienza della morte della propria lingua e della propria voce36. E similmente, nelle prime prove poetiche di Pasolini, il tentativo di fare riecheggiare nella propria medianica voce, il suono delle campane («Sempri ché tu ti sos,/ ciampana, e cun passiòn/ jo i torni a la to vòus [Sempre la stessa tu sei, campana, e con sgomento ritorno alla tua voce]», Tornant al país [Tornando al paese], p. 18) e il mormorio del vento e degli alberi, il suono delle cicale o dei grilli, conduce alla coscienza dell’ineluttabilità del trascolorare del vivente in morta parola, quando «pai pras se silensi/ ch’a puarta la ciampana!» («Sui prati che silenzio porta la campana», Tornant al país [Tornando al paese], p. 18). Mi pare che lo schema delineato da Agamben venga utile non solo per investigare specificamente la «ciar di frutút» («carne di fanciullo», La domenia uliva [La domenica uliva], p. 35) del felibrismo pasoliniano, i grumi ancestrali e l’“insignificante” prosodia dialettale, che subito, proletticamente, nelle Poesie a Casarsa «súnin de muàrt» («suonano a morto», Il nini muàart [Il fanciullo morto], p. 8.)37, ma anche la consipri, considerati come «puro voler dire», «insignificante [appunto sonante] volontà di significare», o, detto altrimenti, ambizione di viva comunicazione del vivente. Cfr. G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Bari, Laterza, 2010, pp. 61-73. Per quanto concerne il rapporto della poesia pasoliniana, soprattutto degli esordi, con il magistero pascoliano si leggano, tra le altre cose (tra cui, ovviamente, l’apporto fondamentale offerto dal «Meridiano» curato da Walter Siti), i primi due capitoli del già citato Il limite oscuro. La poesia. Il cinema. 36 G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, cit., p. 71-72. 37 Numerosi sono in queste prime poesie i riferimenti alla sfera sonora, che Pasolini cerca di fare rivivere, appunto suonare nella propria voce. [ 16 ] Il corpo del Terzo mondo. Appunti per un esotismo pas oliniano 383 stenza “vocale”, glossolalica, del cinema introspettivo-visionario che fa capo soprattutto all’Edipo re e al Fiore delle mille e una notte, poli che perimetrano il terreno entro cui prima si formalizza (si filma) il dispositivo regressivo/reattivo dell’autore, poi prendono (eterea) carne le risultanze di questa prospezione, immagini oscure, inconscie, come disperse nell’orizzonte di cortili risuonanti, deserti che sibilano, corti germinanti di un vociare perpetuo e ipnotico. Un dire infantile, misteriosamente denso, che alla fine assorbe ogni lucida eloquenza, ogni dissertazione razionalizzante rivolta al di fuori: un figurare per stilizzazioni, per immedesimazioni, fantasticherie, che è godimento erotico e puramente egotico, autoriflessivo, delle cose e del corpo trepido, che cioè «di timp antic a trima» («trema di tempo antico», O me donzel [O me giovinetto], p. 11). L’antico fremito è sintomale delle cose resistenti, poetiche, gli imsegni, che si risolvono nella tensione all’immobilità insita nel movimento stesso, nello trascolorare in un elemento nullo: jo frut, i vuardi tal Spieli e il recuàrt al mi rit lizèirit, il recuàrt da la me vita viva coma erba ta na nera riva. Ma no content tal redròus i olmi par jodi s’a è alc a dòlimi. Un barlún, a è, un barlún, doma che il blanc di un barlún (io fanciullo, guardo nello Specchio, e il ricordo mi ride leggero, il ricordo della mia vita viva come erba in una nera riva. Ma non contento guardo nel rovescio per vedere se è qualcosa a dolermi. Un barlume, è, un barlume, solo il bianco di un barlume, Suite Furlana, p. 53); chiara e ferma risulta del vivente e trapasso del parlare narcissico, di cui, alla fine, si immobilizza il dettato e «par sempri a mòur/ ju pai pras scurs/ la trista vòus» («eterna muore nei campi scuri la triste voce», La dòmenia uliva [La domenica uliva], p. 33). Luigi Abiusi (Università di Bari) [ 17 ] DONATO SPERDUTO Nota sull’appendice del Quaderno a cancelli leviano The author consulted The Carlo Levi Archive (Archivio Centrale dello Stato, Rome), and ascertained that the posthumous edition (1979) of Quaderno a cancelli, written by Levi when he was momentarily blind, is incomplete. The pages he wrote from June to August 22th 1973 are in fact missing. It is therefore necessary to carry out an unabridged edition of this work. Nella prima metà del 1973, Carlo Levi scrisse, nel buio della cecità, il Quaderno a cancelli1, pubblicato postumo da Einaudi nel 1979. Lo cominciò a redigere nel febbraio del 1973, dopo un primo intervento all’occhio destro. Aldo Marcovecchio, che insieme a Linuccia Saba ha decifrato i 941 fogli manoscritti, ha precisato che «verso la fine del dicembre 1972 Carlo Levi fu colpito da una grave malattia agli occhi (distacco della retina) […]. Ricoverato nella clinica San Domenico, a Roma, lo scrittore fu operato ai primi del febbraio 1973»2. Dopo il primo intervento chirurgico Levi ritornò nella sua abitazione di Villa Strohl-Fern. Tuttavia, a seguito del secondo distacco della retina, nell’aprile dello stesso anno egli dovette rientrare in ospedale per sottoporsi ad un secondo intervento. L’ultima pagina scritta a Roma, nella clinica San Domenico, dove Levi subì i due interventi chirurgici all’occhio destro, risale al 31 maggio 1973. 1 C. Levi, Quaderno a cancelli, Torino, Einaudi, 1979. Su questo scritto leviano rinvio principalmente a: G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi, Bari, Dedalo, 1996, pp. 363-390; G. DE Donato, Le parole del reale, Bari, Dedalo, 1998, pp. 201-219; D. Sperduto, Carlo Levi pensatore, in Carlo Levi inedito: con 40 disegni della cecità, a cura di D. Sperduto, Milazzo, Spes, 2002, pp. 17-27; R. Galvagno, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, Firenze, Olschki, 2004, pp. 59-97; D. Sperduto, Maestri futili? Gabriele D’Annunzio, Carlo Levi, Cesare Pavese, Emanuele Severino, Roma, Aracne, 2009, pp. 95-122. 2 C. Levi, Quaderno a cancelli, cit., p. 231. Note Nota sull’appendice del quaderno a cancelli di c. levi 385 La prima edizione di Quaderno a cancelli è stata curata da Aldo Marcovecchio che – come accennato – ha decifrato i fogli manoscritti insieme a Linuccia Saba, figlia del poeta triestino Umberto Saba e compagna di Levi. Il titolo del libro è dovuto al fatto che, per poter scrivere, Levi si servì di una speciale intelaiatura di fili di ferro, una specie di quaderno di legno a cerniera, munito di cordicelle tese tra le due sponde per guidare la mano. Ma l’espressione “quaderno a cancelli” risale in realtà a Rocco Scotellaro che, nella poesia Dedica a una bambina (1952), scrive: Questo piccolo quaderno a cancelli l’ho scritto per te di cui non parlo per i tuoi occhi chiusi e i tuoi capelli di cera, il naso che non può fiutarlo3. L’edizione einaudiana del Quaderno a cancelli termina con una pagina scritta dall’autore torinese il 31 maggio 1975: si tratta dell’«ultima pagina scritta in clinica»4. Nella Nota al diario leviano, A. Marcovecchio precisa che «esiste un’appendice, di indubbio interesse, ma sostanzialmente allotria alla struttura del libro»5. In questo modo, Marcovecchio spiega perché ha espunto detta “appendice” dall’edizione einaudiana del diario leviano. Rosalba Galvagno, consultando le Carte Carlo Levi custodite nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma6, ha potuto appurare che detta appendice altro non è che la parte finale dell’ultimo libro di Carlo Levi, scritta subito dopo essersi nuovamente installato nella sua abitazione romana di Villa Strohl-Fern. Condivido l’auspicio della Galvagno: «[…] sarebbe auspicabile, per il lettore del Quaderno a cancelli, poter reintegrare questa parte del diario rimasta inedita»7. Ora, intendo fare una precisazione in merito alle osservazioni di Rosalba Galvagno relative all’appendice del Quaderno leviano. Alla Galvagno va riconosciuto il merito di aver messo l’accento su tale testo. Va però precisato che Levi non ha smesso di redigere il suo diario 3 R. Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, a cura di F. Vitelli, Milano, Mondadori, 2004, p. 137. 4 C. Levi, Quaderno a cancelli, cit., p. 227. 5 Ivi, p. 231. 6 Archivio Centrale dello Stato di Roma (Fondo Carlo Levi), busta 61, fasc. 1899. 7 R. Galvagno, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, cit., p. 60. [ 2 ] 386 DONATO SPERDUTO nel «luglio»8 del 1973. In realtà, l’ultima pagina risale al 22 agosto 1973. Quasi sicuramente la Galvagno ha visionato soltanto una parte dell’appendice del “quaderno” (credo che si tratti delle prime bozze del dattiloscritto battuto a macchina da Linuccia Saba). Infatti, analizzando l’«occorrimento del sostantivo “cancelli”, lessema che si ripete regolarmente nel Diario, accanto al singolare “cancello” e alla forma verbale “cancellare”», la studiosa leviana nota che l’ultimo occorrimento figura nella poesia composta tra il 5 e l’8 luglio 1973: 5.7.73 Finito, sembra a volte, coi cancelli un mondo intenso, disperato, ondoso e ondeggiante, attento a se stesso, alle dubbie sue forme, a riconoscersi diverso 7.7.73 a esplorarsi, come in avanscoperta in un paese sconosciuto, di cui si ignora la lingua o il costume, e dove anche le piante hanno altri nomi e altre foglie 8.7.73 che scuote un vento pallido di eclisse e si saggia col piede se la terra regga od inghiotta nelle sabbie. Finito? Oh, non finito? Guarda, ancora ondeggia9. In realtà, Levi parla di «cancelli» ancora due volte. In una pagina della parte inedita del Diario, datata 9.7.73, ed ancora in una poesia del 27 luglio dello stesso anno10. Queste considerazioni sono più che sufficienti a farci capire che la prima edizione di Quaderno a cancelli non è integrale: è monca, non completa. Sono purtroppo stati espunti i fogli che Levi ha scritto fino al 22 agosto 1973. Inoltre, come da me rilevato a suo tempo, due pagine dell’“appendice” in questione, risalenti al giugno 1973, sono in possesso di Antonino Milicia11 (ma solo una non figura tra le carte conservate nell’Archivio Centrale di Stato). L’importanza delle pagine finali del Diario leviano – che è sbagliato allora considerare semplicemente “appendice” – la si evince da una non trascurabile constatazione: parlando di ciò che ha contato nella 8 Ivi, p. 59. 9 Ivi, pp. 60-61. Appendice di Quaderno a cancelli, cit., pp. 15962-15963. 10 Ivi, pp. 15963 e 15965. 11 Carlo Levi inedito, cit., p. 12. [ 3 ] Nota sull’appendice del quaderno a cancelli di c. levi 387 formazione della sua vita, l’autore del celebre Cristo si è fermato a Eboli (1945) non manca di citare il poeta di Tricarico12. E non poteva essere altrimenti visto che il titolo “quaderno a cancelli” è dovuto al “fratellastro” Rocco Scotellaro: Bronzini ha giustamente indicato che questo libro […] significativamente riprende (strano che non sia stato finora, ch’io sappia, notato) il titolo dell’ultima sezione di poesie di È fatto giorno: le più struggenti, composte da Rocco nel suo ultimo anno di vita, le più a Portici, a Napoli e a Positano, insomma in una dimensione di città, o aperta alla città; una sola a Tricarico, ossia nel paese13. Necessaria, dunque, una nuova edizione dell’ultimo libro leviano: questa volta però finalmente integrale. Donato Sperduto (Kantonsschule Obwalden – Svizzera) 12 Appendice di Quaderno a cancelli, p. 16041. Ne ha parlato Guido Sacerdoti negli Atti del Convegno Intertestualità leviane, curato da S. Ghiazza (di prossima pubblicazione presso il Servizio Editoriale Universitario di Bari). 13 G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi, cit., p. 390. [ 4 ] GIOVANNA LO PRESTI Doppia seduzione di Francesco Orlando In Doppia seduzione di Francesco Orlando l’ambiguità è la cifra dominante. Sullo sfondo della Palermo degli anni Cinquanta, Il protagonista Ferdinando prende a poco a poco coscienza nel confronto con due diversi oggetti del desiderio, sfuggenti ed ammiccanti. Ferdinando mette in moto il meccanismo della seduzione e tesse una tela fitta e rigorosa. Nella narrazione asciutta del romanzo, la cui stesura e revisione ha impegnato l’autore per mezzo secolo, ritroviamo, come per un ulteriore gioco di specchi, l’acume dell’uomo di cultura e del critico sensibile che fu Francesco Orlando. C’est Vénus tout entière à sa proie attachée L’ultimo libro che il critico Francesco Orlando ci ha lasciato, prima di morire improvvisamente, è anche il suo romanzo d’esordio; concepito e scritto quando l’autore era poco più che ventenne, tra il 1956 e il 1958, viene pubblicato a distanza di più di mezzo secolo e dopo infinite revisioni. Questa lunga fedeltà ad un progetto giovanile, mai abbandonato e rivisitato in continuazione, costituisce il nocciolo della complessità del testo. Doppia seduzione ha, come sua prima caratteristica, la densità; ogni lettura veloce è messa al bando dall’articolarsi esigente delle frasi, che seguono mimeticamente il cammino insieme inevitabile e labirintico del contenuto. Il tessuto narrativo è fatto di materia ad altissimo peso specifico – ed è come se nel cosmo di Doppia seduzione la legge di gravità non esercitasse la consueta forza attrattiva ma un’altra, molto più forte. Nel tentativo di definire cosa accade nel meccanismo di una narrazione che ha accompagnato il suo autore per così lungo periodo, soccorre una riflessione di Cesare Garboli: Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole caDoppia seduzione di Francesco Orlando 389 dono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo1. È come se lo scrittore-scrittore Orlando, poco più che adolescente, allievo d’elezione dell’aristocratico Tomasi di Lampedusa nella Palermo degli anni Cinquanta, avesse lanciato nello spazio le sue parole che poi, nel lungo arco di tempo di un cinquantennio, lo scrittore-lettore Orlando è andato a recuperare con pazienza e cura amorevole, per collocarle in una casa in cui ogni mattone è costituito da quelle stesse cose amate tanti anni prima e mai abbandonate – siano esse Proust, Wagner o Racine. Le stesse cose che ritornano, non snaturate dai lunghi anni di studio del critico, restituite ad una loro primordiale autenticità. Nel 1971 Orlando pubblica la Lettura freudiana della Phèdre; il critico, sottile e dotato di un orecchio assoluto per i valori formali, dimostra, usando strumenti ricavati dalla teoria freudiana, come l’inconfessabile e colpevole amore di Fedra nei confronti del figliastro Ippolito, trovi modo di affermarsi attraverso un uso insistito della negazione. Uno dei pilastri portanti del saggio è costituita dall’idea che la letteratura «è stata da sempre, forse, la sola a poter prestare una voce a tutto ciò che resta soffocato nel mondo com’è, a qualunque cosa nel cui nome il mondo volta per volta andrebbe cambiato, alle ragioni che non trovano riconoscimento da parte degli ordini costituiti o grazia di fronte alle opinioni pubbliche»2. Lettori e spettatori dell’opera di Racine, che sentono il canto da sirena della poesia, non possono perciò sottrarsi all’identificazione emotiva con la protagonista, ancorché tale adesione li porti ad accettare sentimenti pericolosi e socialmente deprecabili. Torniamo al romanzo e al passaggio in cui il giovane Ferdinando canticchia tra sé e sé: «Mirassero i miei occhi, fra una nobile polvere, / fuggendo nell’arena veloce un carro volgere!». È la traduzione del passo di Phédre (cui aggiungiamo le poche parole che introducono la rêverie di Fedra): «Dieux! Que ne suis-je assise à l’ombre des forêts!/ Quand pourrai -je, au travers d’une noble poussière,/ Suivre de oeil un char fuyant dans la carrière?». I versi presenti in Doppia seduzione sono analizzati in un passaggio della Lettura e così commentati: 1 C. Garboli, Storie di seduzione, Torino, Einaudi, 2005, p. 3. 2 F. Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990, p. 28. [ 2 ] 390 GIOVANNA LO PRESTI Nel primo atto il delirio di Fedra spostava nostalgicamente il desiderio ancora inconfessato per Ippolito su un oggetto per eccellenza prossimo al corpo del giovane atleta, il suo carro3. Questa evidente analogia fra i due personaggi è confermata dal fatto che il desiderio di Fedra, come quello di Ferdinando, è un desiderio “perverso” e condannato dalla società; entrambi sono i primi a non accettarlo, a sentirlo come una colpa e a immaginare nella morte l’unico possibile esito della loro passione. Nella goffa traduzione di Ferdinando, che sfarina e dissolve l’aura e l’eleganza dell’alessandrino, si intuisce la presenza ed insieme la distanza di Orlando, che, negli anni che intercorrono tra la prima stesura del romanzo e quella definitiva, è intanto diventato un critico sapiente e sofisticato. Come non vedere in controluce, nel frammento raciniano, una trama autobiografica? Come non sentire la voce dell’autore che ci racconta – nel modo obliquo ed ambiguo che è proprio della letteratura – un passaggio della sua formazione? La traduzione impacciata diventa così il modo migliore – che si risolve in una pura scelta formale – per parlare di sé con ironia affettuosa, per presentare, con tratto delicato, la genesi della propria vocazione letteraria. Doppia seduzione, pur mostrando il dato biografico che la sottende, evita sempre le secche dell’autobiografismo spicciolo e attaccaticcio e pretende, dal lettore che di tale dato si renda conto, una sorta di continuativa interpretazione figurale del testo. Il giovane Ferdinando preannuncia ciò che diventerà il suo autore – e l’autore ha la capacità di mantenere il distacco necessario che serve per descrivere, senza ipostatizzarli né renderli ridicoli, gli impacci, la teatralità eccessiva, l’estremo male di vivere, gli errori, la “felicità da grillo” che sono spesso i compagni della giovinezza. Le velleità creative di Ferdinando, sebbene destinate a non incontrare successo, sono molte. Una di queste si traduce nella composizione di un testo teatrale dedicato a Don Giovanni. Lo legge ai suoi amici, interpretando, da solo, tutte le parti: Per rendere il personaggio più aderente alle proprie complesse inclinazioni, Ferdinando si era allontanato dalla tradizione plurisecolare. E aveva ideato un Don Giovanni innegabilmente originale. Sempre insidiato sì dagli appetiti femminili a causa della sua somiglianza fisica con Giuliano, quale traspariva dalle descrizioni. Ma sempre tragicomi- 3 Ivi, p. 73. [ 3 ] Doppia seduzione di Francesco Orlando 391 camente arrestato sulle soglie del piacere da un interporsi di capziosi scrupoli cattolici. Instillati anzitempo dai gesuiti spagnoli4. Sullo sfondo, in filigrana evidente, un altro Don Giovanni domina il romanzo: è quello kierkegaardiano del Diario di un seduttore. Personaggio cui aderiscono alternativamente Mario e Ferdinando, ma molto più il primo che non il secondo. Mario, in realtà, racchiude anche la natura mercuriale ed instabile del Don Giovanni mozartiano. I successi con le donne non sono però che l’aspetto più esteriore di un’affinità ben più profonda con il seduttore per eccellenza: Il fascino centripeto dell’intimità, che emanava dalla persona di Ferdinando, acquietava come un contrappeso il bisogno di espansione di lui5. Tale «bisogno di espansione» di Mario si estrinseca nella continua ricerca del consenso e della simpatia altrui, in un gioco continuo di simulazione: proprio come avviene al Don Giovanni di Mozart. Di Johannes, il seduttore kierkegaardiano, Mario ha invece l’insistenza, la capacità di attendere e preparare il cedimento. Lo dimostra l’unica vera scena di seduzione del romanzo, quella in cui Mario riesce a scoprire il segreto di Ferdinando (inconfessabile e colpevole, come tutte le passioni totali, che, una volta dette, non possono che trascinare chi le prova verso la morte): Perché Mario faceva sul serio, tirava ad ammazzare, e si rivelava diabolico di bravura. Dapprima aveva tentato di ghermire una confessione con la violenza del caso. Erano state domande insidiose, trabocchetti verbali, induzioni a catena e finzioni d’avere già indovinato. Ma da un certo punto in poi impegnò il suo amor proprio come posta della forma più lusinghiera di successo. Ottenere liberamente il segreto da Ferdinando, in piena fiducia ed intimità6. Ed ecco Kierkeegaard: Grazie alle sue doti spirituali sapeva tentare una fanciulla, sapeva attrarla a sé, senza curarsi di possederla in più stretto senso. Posso immaginarmi che sapesse portarla al parossismo, al punto di esser certo che gli avrebbe sacrificato tutto. Quando la cosa era giunta a tanto, allora troncava, senza che da parte sua fosse avvenuta la minima apertu- 4 Ivi, p. 99. 5 Ivi, p. 9. 6 ivi, p. 70. Il corsivo è mio. [ 4 ] 392 GIOVANNA LO PRESTI ra, senza che fosse stata pronunciata una sola parola d’amore, una di numero, e ancor meno una dichiarazione, una promessa7. Non stupisce che Mario possa saltare dalla strategia fascinatoria del don Giovanni mozartiano a quella del don Giovanni di Kierkeegaard in un passaggio di frase – di mezzo, a facilitare tale salto acrobatico, c’è il tempo che separa tutt’è due gli antichi seduttori da Mario, quel tempo in cui Freud ha scandagliato gli abissi dell’interiorità, Proust anatomizzato la passione amorosa, Girard chiarito che il desiderio nostro nasce dal fatto che qualcuno desideri ciò che noi amiamo, quel tempo i cui esiti ci appartengono anche quando non li conosciamo. Perciò il giovane Mario, afflitto anch’egli come Johannes da una exacerbatio cerebri, può facilmente abbandonare il progetto di ottenere con la forza o con l’inganno l’oggetto del desiderio (il segreto di Ferdinando) e impegnarsi con tutte le sue forze per ottenerlo liberamente. Ma lo stesso Ferdinando non è poi così distante da Johannes – ancorché, come il singolare Don Giovanni da lui stesso immaginato, subisca gli esiti della severa educazione dai gesuiti. Ecco Kierkeegaard: Oggi ho scritto una lettera d’amore per conto di un’altra persona… Ciò mi è sempre motivo di gran gioia. In primo luogo perché è sempre così interessante inserirsi nel vivo di una situazione, e tuttavia con ogni possibile agio…8 Qui è Orlando (nel punto in cui Giuliano, l’amato di Ferdinando, vuole conquistare una ragazza piuttosto ritrosa e, per scriverle, chiede consiglio al colto Ferdinando): Pian piano, senza che l’amor proprio del Capo potesse venire urtato, la revisione delle lettere fu cambiata in autentica dettatura. E le lettere piacquero tanto alla destinataria che presto Giuliano poté fare a meno di comunicare con lei per iscritto9. La lettera dettata ritorna più avanti: Giuliano l’aveva incaricato di dettargli una lettera d’amore. Si era poi dovuto congratulare della prontezza con cui aveva visto nascere, diceva con reverenza da incolto, un capolavoro nel suo genere. Aveva domandato come Ferdinando poteva mettere insieme parole tanto ap- 7 S. Kierkegaard, Enten Eller, Milano, Adelphi, 1978, III, pp. 47-48. 8 Ivi, p. 129. 9 F. Orlando, La doppia seduzione, cit., p. 35. [ 5 ] Doppia seduzione di Francesco Orlando 393 passionate se non le sentiva col cuore. La domanda di Giuliano era il culmine di toccante paradosso su cui per lo più Ferdinando si interrompeva10. In questo arabescato gioco di seduzioni – il titolo Doppia seduzione rimanda più all’immagine riflessa in due specchi che si fronteggiano, e che si moltiplica nella fuga prospettica che non ad una seduzione duplice – veloci tocchi di pennello dipingono il contesto storico e presentano in modo ellitticamente vivido una Palermo a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta: cori fascisti nelle strade e politici comunisti che frequentano i salotti culturali e aristocratici alla moda, la morte di Benedetto Croce, “Senso” di Visconti accanto a B-movies come “Il risveglio del dinosauro”, l’emergere della modernità sotto la forma del “grattacielo”, “la costruzione post-bellica più elevata della città”, in cui abita Dolly, la ragazza amata da Mario. Alcuni ambienti si imprimono con più forza nella mente di chi legge: prima fra tutte la camera di Ferdinando, con l’ottomana-letto (quanto diversa da un prosaico divano-letto), vera e propria “cameretta” petrarchesca, porto sicuro per le sofferenze del suo abitante. Dal balcone semiaperto entravano aliti d’aria, due tendine e una tenda si muovevano, le pareti della camera sembravano spostate lievemente in giro. Il cuore gli si faceva piccolo, avrebbe voluto alzarsi e partire11. Le tende, fragile sipario fra il dentro e il fuori, mosse dal il vento della Sicilia – e la tenda di Orlando sembra pronta ad espandersi, a trasformarsi nella candida tenda gonfiata dal vento che, nel “Gattopardo” di Visconti incornicia la partenza di Tancredi. E ancora, la musica, così amata da Ferdinando: che, pur essendo approdato alle raffinatezze di Alban Berg sceglie, per accompagnare i suoi ultimi istanti di vita, la musica di “Carmen”. Il suicidio di Ferdinando ebbe finalmente luogo tre mesi dopo, con una ingestione di pillole, al suono del famoso grido finale di José sul corpo di Carmen. Scelta musicale oculata, da parte del giovane uomo diventato “orgiasticamente letterario”. La parte finale dell’opera, si apre con due battute icastiche (C’est toi! / C’est moi!) pronunciate da Carmen e Jo- 10 Ivi, p. 93. 11 Ivi, p. 24. [ 6 ] 394 GIOVANNA LO PRESTI sé; poi la domanda di José «Tu ne m’aimes donc plus? Tu ne m’aimes donc plus?» e la secca risposta di Carmen «Non! je ne t’aime plus». Infine la conclusione, il grido ultimo di José: «Vous pouvez m’arréter… c’est moi qui l’ai tuée!/ Ah! Carmen! ma Carmen adorée!». Poche battute che in estrema sintesi presentano l’andamento ineluttabile di ogni tormentata passione amorosa. Come in Carmen anche in Doppia seduzione non è detto che il destino di chi sopravvive sia quello meno infelice. Giovanna Lo Presti (Università del Piemonte orientale) [ 7 ] Mario Aversano, Dante e i precursori dell’Unità d’Italia, Benevento, Edizioni Auxiliatrix Benevento, 2010, pp. 102. Dante precursore dell’Unità d’Italia? Leggiamo quello che scrive il ventenne Mazzini in Dell’amore patrio di Dante (1826): «In tutti i suoi scritti (…) traluce l’amore che egli portava alla patria; amore che non restringevasi a un cerchio di muro, ma a tutto il bel paese dove il sì suona, perché la patria di un Italiano non è a Roma, Firenze o Milano, ma tutta l’Italia». E Garibaldi nell’aprile del 1882 – ricorda Aversano nell’Introduzione al suo lavoro – salutando a Caprera due medici che lo elogiavano per quanto aveva saputo fare perché l’Italia diventasse una, libera e indipendente, disse: «Già buona parte di questa Italia si deve ai poeti: Dante, Petrarca, Mercantini, Foscolo, il Berchet». I due eroi del nostro Risorgimento non avevano dubbi nel rispondere affermativamente alla domanda posta all’inizio; ed anche i nostri storici e critici furono lungamente e largamente d’accordo sulla tesi, condivisa anche all’estero, che la Commedia fosse specialmente «Il poema dell’Italia». Questa tesi, però, successivamente fu posta in dubbio; ed è sempre più difficile trovare attualmente chi la condivida. Uno stimolante contributo sull’argomento reca da ultimo Aversano, uno dei maggiori esegeti di Dante, cui ha dedicato numerosi libri e articoli. Il critico si basa su una metodologia, da lui stesso formulata, che definisce “semiosi obbligata”: il testo non viene considerato opera aperta ad interpretazioni illimitate da parte del lettore, ma assume come parametro indispensabile l’unicità dei significati, l’individuazione/interrogazione delle fonti, delle rilevazioni statistiche e degli spogli lessicali. È attraverso questa modalità che Aversano prende in esame tutta l’opera di Dante, dal Convivio alla Commedia, per dimostrare – con argomenti nuovi rispetto a quelli soliti e spesso ingenui dell’Otto-Novecento- che il programma imperiale di Dante, lungi dal negare l’idea politica della nazione italiana, presuppone l’identità nazionale e la sua costituzione in un vero e proprio stato autonomo italiano, che rappresenti nello stesso tempo una realtà non solo geografica e linguistica, ma anche politica. Una conclusione, questa, cui lo studioso giunge grazie a uno spostamento dei paraRecensioni 396 recensioni metri del commento secolare al Poema su nuovi cardini, essenzialmente biblico-patrologici, e attraverso un’analisi raffinata, con due pregi che ne favoriscono la fruizione: il discorso si articola in un linguaggio rigoroso, ma piano, come se fosse una conversazione con un interlocutore presente, tanto che sembra quasi di ascoltarne la voce più che leggerne le parole. L’indagine viene condotta quasi come da un detective che scopre indizi ed impronte, che rivela segni, ricerca e mette insieme elementi di vari saperi (lingua, storia, filosofia, religione, arte), riannoda i fili di una tela, per giungere infine a una conclusione logica, che nelle ultime pagine riassume per il suo lettore/ ascoltatore. Insomma “Dante precursore dell’Unità” non è un assioma dato, ma la convincente soluzione di un’articolata e sapiente dimostrazione condotta sui testi. Si può verificare la teoria-metodologia di Aversano attraverso l’analisi degli usi del nome “Italia”. Lo studioso fa osservare che «l’Italia è il primo e l’ultimo nome geografico di nazione nella Commedia»; un nome che si riscontra come sostantivo, in forma aggettivale o come perifrasi molte volte nelle tre Cantiche. A parte i luoghi in cui la connotazione politica è evidente (come in Inferno I, 106: «di quell’umile Italia fia salute»; Purgatorio VI, 76: «Ahi serva Italia, di dolore ostello»; Paradiso XXX 137- 138: «de l’alto Arrigo, ch’a drizzar Italia/ verrà…»), l’autore fa notare che generalmente anche là dove il nome “Italia” sembra avere una funzione di rilievo territoriale ed indicare un semplice spazio geografico, esso, letto nel contesto, assume anche un senso politico. Così nel canto XX dell’Inferno, v. 21 (Suso in Italia bella giace un laco) il tema della bellezza italiana va inteso «in antitesi con la dimensione della bruttezza: del paesaggio storico evocato (pieno di guerre, tradimenti e inganni) e insieme del luogo e dei dannati», gli Indovini, al cospetto dei quali Dante e Virgilio sono giunti. La bellezza della patria richiama il politico «perché fa da contrappunto allo squallore, all’ingiustizia e alla mancanza d’ordine che l’affligge». Questo un esempio; ma il lettore troverà nel percorso ampia materia – anche di convergenze tematiche attuali (il regionalismo, i mass media, la formazione dei giovani) – per esercitare la propria intelligenza, procurandosi nello stesso tempo diletto. Pasquale Gerardo Santella Basilio Puoti, Le lettere nell’Archivio del Museo di San Martino di Napoli (1835-1847), a cura di Giovanni Savarese, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 166. Nel 1957 Maria Luisa e Carolina Puoti, discendenti del celebre purista napoletano, donarono al Museo di San Martino, in Napoli, una cospicua raccolta di lettere appartenute a Basilio Puoti. Il fondo epistolare del Puoti, solo in minima parte reso noto nel 1969 da uno studio parziale di Sottile D’Alfano e Cordova (Il marchese Basilio Puoti e una sua corrispondenza, Napoli, De Simone) è ora pubblicato integralmente, a cura di Giovanni Savarese. Si tratta, complessivamente, di altre 121 lettere, che vedono Basilio Puoti ora mittente (112) e ora destirecensioni 397 natario (9), ma sempre al centro di una ritta rete di relazioni con editori e librai, rettori di seminari e pubblici amministratori, intellettuali e letterati di tutta l’Italia, tra il 1835 e il 1847. Non si tratta, dunque, dell’intero epistolario di Basilio Puoti, ancora ben lontano dall’essere completato, ma, comunque, di un significativo contributo in quella direzione. Non si tratta neanche di testi autografi, ma di minute dettate dal Maestro all’allievo Bruto Fabbricatore o ad altri collaboratori e destinate poi, dopo la revisione, alla redazione finale in bella copia. Nonostante questi limiti, dei quali il curatore dà conto, il corpus di documenti offerti da Savarese all’attenzione degli studiosi consente di trarre elementi utili ad un affinamento della tradizionale immagine del Puoti. Dalla corrispondenza con editori e librai emerge la figura di un intellettuale non chiuso degli studi linguistici, ma attivamente impegnato nella diffusione dei propri testi scolastici, tanto attento alla dimensione sociale del proprio lavoro quanto dotato di capacità organizzative e commerciali. Le lettere agli ex allievi, poi, consegnano l’immagine di un maestro nel quale il rigore e la disciplina sanno integrarsi con l’affetto profondo e il dialogo interpersonale. Interessanti anche le lettere agl’intendenti delle varie province del Regno che, nell’analisi di Savarese, sembrano capovolgere «l’opinione piuttosto diffusa di una burocrazia amministrativa del Regno incolta e ignorante» (p. XXI). Infine, anche le lettere nelle quali si affrontano questioni più strettamente letterarie e, principalmente la polemica tra classicisti e romantici, consentono di rivedere l’immagine stereotipata di un Puoti pedante e conservatore, a favore di un intellettuale equilibrato, in grado, ad esempio, di assumere posizioni critiche nei confronti dell’attività dell’Accademia della Crusca in quegli anni. Nell’edizione curata da Savarese, le lettere sono state disposte cronologicamente e corredate di un fitto e organico apparato di note, che fornisce informazioni puntuali sui destinatari delle epistole, sui fatti citati ed anche sul processo di stesura delle lettere, dando conto delle correzioni dettate dall’Autore. La consultazione del materiale è agevolata, inoltre, da un Indice che integra l’indicazione del destinatario e della data con un sommario dei contenuti. Raffaele Messina Gabriele D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, a cura di Maria Teresa Imbriani, Verona, Il Vittoriale degli Italiani, 2009, pp. 230. L’edizione critica della Fiaccola sotto il moggio, a cura di M. T. Imbriani, finalmente e felicemente giunta in porto per l’Edizione Nazionale delle opere di D’Annunzio, costituisce un punto di arrivo sullo studio filologico di un’opera, che, con la Figlia di Iorio, ha sempre costituito un unicum nell’ambito del teatro dannunziano. Rappresentata il 27 marzo 1905, a un anno di distanza dalla Figlia di Iorio, al teatro Manzoni di Milano, l’opera collega miti classici con un retaggio ancestrale e primitivo, bene espresso soprattutto dalla figura del serparo. Ispirata alla Elettra e alle Coefore eschilee, l’elemento nodale è costituito da una tomba e dall’aspirazione di 398 recensioni Gigliola a ricostruire un saldo nucleo familiare, per sempre distrutto dall’uccisione della madre di Gigliola ad opera del padre Tebaldo e della sua amante Angizia. In una ampia Introduzione la Imbriani ricostruisce le possibili fonti dell’opera, scritta “quasi d’un fiato”, tra la metà d’ottobre del 1904 e il 4 marzo 1905, diversamente dal debutto francese del 9 febbraio 1905. In particolare il dipinto michettiano, La processione delle serpi, riproducente la festa delle serpi di San Domenico a Cocullo, dovette senza dubbio fecondare lo spirito del poeta, riportandolo, con la memoria, non solo a un mito molto noto in area abruzzese, ma alle scaturigini di ricordi autobiografici, sempre vivi e attuali nell’immaginario dannunziano. Accanto ad esso le fonti bibliche, gli Usi e costumi di Antonio De Nino, la Guida dell’Abruzzo di Enrico Abbate, la Storia dei Marsi di Luca Colantoni, esemplificano il sottofondo ideativo dell’opera, la cui frettolosa composizione, contrasta con una breve e concentrata gestazione. Gli elementi ispirativi dell’opera, lungi dall’affiorare in superficie, come scoperta allusione a una cultura regionale, risultano sedimentati e stratificati nella memoria dell’autore, che li rivive in forme mitiche e leggendarie. In tal modo l’elemento documentario, pur inscrivendosi entro una cultura di stampo naturalista, lievita poi nella ricostruzione mitica di un mondo nobiliare in rovina, che attiene ad atteggiamenti piuttosto decadenti. L’equazione Abruzzo-Ellade si risolve nella capacità di rivivere i miti di una terra natìa nelle forme ancestrali del richiamo simbolista a un passato ormai morto, da rivivere nell’efferatezza tragica del presente. L’attesisssima prima del 17 marzo culminò con uno strepitoso successo di pubblico per i primi due atti, contro la protesta del finale. Dopo la prima, D’Annunzio iniziò il processo di revisione del testo sulla bozza di stampa, con ritocchi e aggiustamenti. In un articolo sul ‹Fanfulla della Domenica› del 25 giugno 1905 Rodolfo Renier insistette sul carattere greco della vicenda, facendo di Gigliola un’Antigone sovrapposta ad Elettra e magnificando il ruolo del serparo, che metteva direttamente D’Annunzio in rapporto con il suo Abruzzo. L’Imbriani, dunque, dopo una Introduzione critica, si dilunga sul complesso processo creativo dell’opera, che vede la restituzione della tragedia in un manoscritto conservato al Vittoriale, che, lungi dall’essere una bella copia, documenta il tormentato processo creativo dell’opera, compreso in un brevissimo giro di giorni. Composto di 231 fogli, il manoscritto presenta correzioni e aggiunte, apposte currenti calamo, ma manca di quella preistoria ideale, costituita da appunti e abbozzi, che generalmente accompagnano la gestazione delle opere dannunziane. Il ricco materiale documentario, così, si sedimentò nell’immaginario poetico dell’autore, mentre un secondo attraversamento del testo si ebbe a Milano, in vista dell’allestimento della princeps. Vi vennero aggiunte le didascalie mancanti, e apposti interventi dettati dalla drammatizzazione, che li giustificassero in parte. Questo secondo testo, siglato B, si stratifica in due momenti; il primo, documentato dalle modifiche autografe sulle bozze, conservate presso gli Archivi del Vittoriale; il secondo contenente piccole variazioni di B. Le espunzioni in recensioni 399 B riguardano l’antefatto della tragedia, cioè l’assassinio della contessa Monica. Approntata subito dopo la rappresentazione scenica, la princeps tiene conto dei giudizi variegati del pubblico, che determinarono il successivo orientamento dell’opera. Tra gli interventi significativi sull’autografo avvenuti currenti calamo, ci sono quelli che riguardano le misure dei versi, alternati in endecasillabi e settenari, secondo gli antichi esempi della tragedia e del dramma pastorali. Gli aggiustamenti significativi riguardano il personaggio di Simonetto, come gli interventi sulla lingua del serparo, con il ricorso a forme auliche o paradialettali. L’itinerario delle correzioni muove verso, o una specificazione delle lezioni a testo, o un loro ampliamento o rovesciamento. Si arriva così all’aprile del 1905, quando uscì la princeps della Fiaccola. In quello stesso 20 aprile due copie vennero depositate alla Library of Congress di Washington, per garantire il copyright per il mercato statunitense. Ma si è rinvenuta solo una delle due copie, uscita a ridosso della princeps. L’edizione della Imbriani è esemplata sull’ultima stampa apparsa in vita l’autore, quella del 1936, confrontata con l’autografo, cui è consegnata la parte più cospicua della preistoria testuale dell’opera, divisa in due momenti: un primo creativo momento, conclusosi il 4 marzo 1905, in vista della partenza per Milano per la rappresentazione del Fumagalli, e un secondo momento, definitivo, corrispondente al lavoro di sistemazione e ripulitura del testo da consegnare all’editore Treves per la stampa. Alla prima fase di A corrisponde la copia x da inviare a New York. L’apparato allestito dalla Imbriani è di tipo negativo, limitandosi a registrare le lezioni divergenti dal manoscritto A, di estremo interesse per interventi successivi di tipo evolutivo o sostitutivo. Inerente alla tipologia e alla fenomenologia delle varianti, l’edizione critica allestita dalla Imbriani illumina su un procedimento evolutivo interno al testo, nel convincimento generale della scrittura di getto. Perciò la preistoria ideativa, fondamentale in altre opere dannunziane, si condensa nell’iter elaborativo della scrittura di getto, alimentando, pertanto, il mito di una eccentricità evolutiva inerente allo sviluppo stesso delle lezioni dell’autografo. L’edizione dell’Imbriani restituisce un’opera dalla gestazione complessa e affidata a una preistoria testuale di cui la curatrice, con sagace e fine spirito critico, ricostruisce i momenti più significativi nella preesistenza al testo di un ricco corredo paratestuale. Alla curatrice va ascritto il merito di un lavoro attento e puntuale, tanto nella ricostruzione esegetica, quanto nell’apparato filologico, e di inserirsi pertanto nel sempre più nutrito novero dei curatori dell’Edizione Nazionale delle opere dannunziane, che negli ultimi anni ha registrato un numero crescente di interventi. Valeria Giannantonio Aldo Putignano, La più gran gioia è sempre all’altra riva. Estetismo e simbolismo in Gabriele D’Annunzio, Caltanissetta- Roma, Sciascia, 2010, pp. 128. Che la produzione dannunziana affondi le sue radici nella cultura del Decadentismo è un elemento arcino400 recensioni to della poetica del Vate, totalmente immersa nel fiume vivificatore del demone della distruzione, che si riplasma in vita, tra estetismo e simbolismo, che rappresentano la cifra distintiva di una civiltà, che tutto trasforma e traduce in mito. L’enfasi mistica di un ritorno alle origini coniuga, in D’Annunzio, il gusto per la bellezza con quello per il selvatico, al di fuori e al di là delle leggi morali, entro quello che Aldo Putignano ha definito come «lungo viaggio del corpo e della mente iniziato con Laus vitae» (p. 28). Perciò l’ambientazione delle liriche della sua maggiore raccolta poetica, l’Alcyone, si intride di quella confusione tra umano e divino, entro un’interazione tra spazio e tempo, che trasferisce il mito e il ritmo della natura nella quotidiana realtà dell’uomo. La potenza evocatrice di certi luoghi costituisce il sottofondo creativo della Sera fiesolana, entro un omaggio a Dante, che viene delineando in Roma e in Firenze i centri di attrazione della cultura e della storia. In Bocca di Serchio, i due giovani, Glauco ed Adri si perdono nel tema della passeggiata nel bosco, infuocato dai raggi del sole, disperdendo la loro sostanza umana. I due simboli di questo sogno di eternità sono il mare e la montagna, entro una natura che diventa uomo, più che di un uomo che diventa natura, nella logica esternatrice del mito. Un nesso sottile collega la creazione dannunziana e l’eterna bellezza delle cose, di cui l’uomo diventa l’elemento mediatore. Sul tutto aleggia lo sfondo della Beata riva, entro un percorso che la poesia traduce in immagini ed entro la corrispondenza strutturale dei cinque libri dell’opera del Conti con le cinque parti del libro di Alcyone. Il filtro della Beata riva e di quel movimento di fine ’800 che fu il preraffaellismo, con la sua aspirazione al ritorno al Medioevo, entro il gruppo che aveva come punto di riferimento Dante Gabriel Rossetti, agì sul D’Annunzio, non già entro un approdo alla beata riva, bensì entro una misura tragica e transeunte del vivere, che affidava solo all’arte la funzionalità dell’eterno. Vi è in D’Annunzio, annota il Putignano, uno stimolo costante al reiterarsi di se stesso, all’essere nel mondo. Lo spiraglio aperto dalla cultura preraffaellita si converte, in D’Annunzio, in un senso di dissoluzione della figura femminile, creatura non più umana, ma naturale. Tra gli imitatori del preraffaellismo, Costa e Sartorio si mossero nel campo della bellezza ideale e nel culto del prezioso, avendo a modello la grazia decorativa di Botticelli e la potenza delle sculture di Michelangelo, che, coi suoi Prigioni, ispirò la lirica I prigionieri di Alcyone. Se il Conti combatté contro i limiti della materia e della forza, D’Annunzio creò una creatura come Ermione, oltre il tempo, l’Estate, e oltre lo spazio, La Versilia, ma sempre nel culto naturale della creazione e dell’ispirazione artistica. Insomma il misticismo evangelico del Conti e dei suoi seguaci fu in gran parte assente da D’Annunzio, che anche nell’azione politica fu estraneo alla logica eternatrice dell’estetismo contiano. I punti di contatto tra Alcyone e la Beata riva sono nella lettura religiosa delle Laudi, che il Conti compì, nutrendo pari interesse per il principale esponente del divisionismo italiano, e cioè Giovanni Segantini. Fu in particolare, in un articolo di Domenico Tumiati, pubrecensioni 401 blicato su «Il Marzocco» del 1897, che il poeta della montagna fu eretto a simbolo di una nuova arte. Il discorso del Segatini non mancò di essere ricordato nel numero dell’8 ottobre 1889 del «Marzocco» mentre D’Annunzio scrisse una laude per la morte del Segantini, poi edita in Elettra. Il Segantini fu esaltato dal Conti entro una similitudine con D’Annunzio, nell’arte di continuare la natura. All’artista, che come Michelangelo plasma la materia, traendone l’immagine dell’idea, Segantini, e dunque Conti, opponevano quella della comunicazione dell’uomo con la natura, consumata nel silenzio e nel sogno. Il moto discendente di D’Annunzio, entro il ritratto dell’Estate come una donna, si converte nel simbolico e nel trascendente, quando in Alcyone la grazia divina scende dal cielo (Beatitudine), finché il poeta, travestito da Icaro, si rivolge al cielo per l’eternità. L’affinamento dell’arte alcyonia si intravede nello scambio tra la natura e l’uomo, e soprattutto tra l’archeologia e la mitologia, l’una che tende alla restituzione dei canoni dell’antico, l’altra che mira alla simbolizzazione metafisica della realtà. In questo coacervo di esperienze l’influenza di Leonardo, nelle Vergini delle rocce, giunge a un simbolismo spettrale, entro un senso di disfacimento e di disadattamento. Contrastante con questo desiderio di distruzione è il mito della bellezza, all’interno di una emulazione del cenacolo italiano di raffinati esteti e all’interno della tradizione italiana preraffaellita. In questo primato della bellezza, le suggestioni sono delle più vaghe e svariate, nella prevalenza della musica sulla pittura. Ma D’Annunzio guarda alla pittura nel tratteggiamento, prima della Grecia in Laus vitae, come patria dell’anima, poi nel viaggio spirituale nella Versilia alcyonia. Ai luoghi reali, di sapore simbolico, come la Grecia ed Assisi, si mescola il sapore archeologico della natura, fino a riemmergersi, con la figura di Glauco, nel tempo immobile del mito. L’archeologia del sacro si converte nella mitologia del falso, attraverso l’attività ricreatrice del poeta. Il comune patrimonio di immagini e simboli si percepisce nell’influenza della pittura dei simbolisti di Gustave Moreau, da D’Annunzio conosciuto anche attraverso la mediazione del Sartorio. Certo per il simbolismo pittorico mancò un intermediario, come fu Angelo Conti per la cultura preraffaellita, ma diverse sono le conformità dei personaggi dannunziani al simbolismo d’oltralpe. L’archetipo della Salomé tatuata nel personaggio di Basiliola della Nave indica l’amore per l’eccesso, entro un senso di inquietudine. Diversamente dall’idealismo contiano, il mito della bellezza in Moreau si manifesta in un’inarrestabile esplosione di forme, di maschere e di colori. E anche se D’Annunzio non vi fece mai riferimento, la suggestione della pittura klimtiana agì sull’immaginario pittorico del vate, affiancandosi a quella del simbolismo francese di Moreau. Ponendo a confronto alcuni dipinti di Klimt, padre del secessionismo viennese, come la Nuda veritas, solenne nell’accensione di chiome rosse, si noterà come D’Annunzio riecheggiasse il modello nella raffigurazione dell’Estate in corpo di donna. La Nuda veritas, d’altronde, era conforme ai gusti preraffaelliti del poeta, come lo stesso ritratto di Elizabeth Siddal, dipinto da Dante Gabriel Rossetti in 402 recensioni Beata Beatrix. Anche Klimt ebbe il suo Angelo Conti in Hermann Bahr. Quanto al tema della metamorfosi marina esso è riproposto da D’Annunzio nell’Onda alcyonia, nell’intima fusione di natura e donna. L’occasione per una contemplazione dell’arte dei viennesi fu data dal viaggio che dal 7 al 10 ottobre 1899 D’Annunzio compì a Vienna con la Duse, città nella quale probabilmente il vate ebbe accesso ai “Ver sacrum”, dove vi erano scritti di Segantini e il disegno della Nuda veritas. Certo si trattò di un incontro, quello col simbolismo d’oltralpe, limitato e circoscritto nel tempo, superato in seguito dalla consapevolezza di appartenere a una stagione tipo della nostra letteratura di marca notturna e incline al ripiegamento interiore, ma l’accensione della materia entro un profluvio di colori e di immaginario mitico figura come il ridimensionamento di una cultura di base, sostanzialmente naturalista e verista. Il bel libro di Aldo Putignano rivela una sensibilità tutta particolare nell’approccio a problematiche sempre più attuali, e si pone come un documento, certo non esaustivo, ma proprio di un discorso in fieri, delle influenze dannunziane, all’interno di una cultura, non accademica e stantìa, ma progressivamente ispirata da un moto evoluzionistico e da un gusto tutto particolare per il culto della bellezza. Gli estremismi che pure si percepiscono nell’esperienza alcyonia documentano un senso vivo della scrittura poetica, mai artefatta e artficiosa, ma sempre sorvegliata da un gusto per il naturale. La piacevolezza della scrittura del Putignano ha il merito di introdurre a poco a poco il lettore in problematiche critiche, documentate da raffronti e paragoni, che esemplificano il quadro complesso di una rete di implicazioni critiche, finora semplicemente acclarate nella documentazione esegetica, ma attualizzate e compendiate dalla verifica diretta delle suggestioni di un’arte al passo coi tempi e con l’evoluzione della poetica dannunziana. Valeria Giannantonio Luigi Gamberale, ll mio libro paesano, a cura di Sebastiano Martelli, Campobasso, Palladino editore, 2010, pp. 246+XXXVII. È da poco in libreria la ristampa del Mio libro paesano di Luigi Gamberale, riproposto dall’editore Palladino in una elegante collana diretta da Giorgio Palmieri che raccoglie testi della tradizione culturale locale. Il curatore del volume è Sebastiano Martelli dell’Università di Salerno, uno dei maggiori esperti della letteratura meridionale, cui la regione deve molto per il suo qualificato impegno a favore dell’identità molisana. Il libro di Gamberale uscì per la prima volta nel 1914 e il lettore odierno ha la possibilità di tornare indietro di molti anni per conoscere il fermento di una cittadina come Agnone, un tempo punto di riferimento imprescindibile per un vasto territorio che estendeva i suoi confini anche al vicino Abruzzo e oltre. Per i suoi numerosi collegi e per la qualità degli insegnanti, per le centinaia di studenti che vi si recavano e ne animavano la vita monotona di montagna, Agnone si pregiava non a caso del titolo di Atene del Molise. L’autore del volume, Luigi Gamberale, è uno di quegli intellettuali di recensioni 403 provincia che respiravano l’Europa traducendo scrittori inglesi tedeschi, che si impegnavano nella scuola per riformarla e renderla degna dei nuovi tempi. A lui qualche anno fa una studentessa dell’Università di Chieti, Antonella Iannucci, dedicò un’ampia e robusta tesi di laurea, poi ridotta in volume, che è quanto di meglio oggi si possa leggere sul personaggio, sulla sua attività, sulle sue amicizie: Luigi Gamberale nella cultura italiana ed europea tra Otto e Novecento. Biografia attraverso le lettere, Roma, Bulzoni, 1997. Ora, Sebastiano Martelli, nel saggio introduttivo, ricostruisce da par suo l’ambiente socio-culturale di Agnone prima dell’Unità e ne focalizza le tendenze, le motivazioni, i maestri che vi operavano, dotati di professionalità e di competenza. Tra questi Francescantonio Marinelli, Ippolito Amicarelli, Giuseppe Nicola d’Agnillo, che il paese chiamava la «Trinità» quando la sera si vedevano passeggiare per le strade compiendo sempre lo stesso percorso, animati dalla stessa fede, rendendo tangibili una di quelle consuetudini paesane che la memoria non cancella. Erano preti intellettuali che sapevano certo di latino, ma non paragonabili alle «tonache agitantesi per entusiasmo manzoniano » non amate da un collerico Carducci; quei professori si erano formati a Napoli alla scuola di Basilio Puoti, la stessa del Settembrini e del De Sanctis, e da lì avevano ereditato una cultura “italiana” che teneva nel dovuto conto i trecentisti come recupero di una linea “nazionale”. Sicché l’attenzione un po’ maniacale alla grammatica non distoglieva le coscienze da idee liberali. Inoltre, l’educazione ricevuta era improntata ad una energia morale che non ammetteva compromessi. Ed è singolare l’aneddoto raccontato da Gamberale dei due ragazzi perdonati per essersi accapigliati, mentre la vera punizione fu ammannita al loro delatore, scacciato inesorabilmente dal collegio. Gamberale racconta quei tempi con la dedizione del discepolo che da quei maestri ha ereditato lezioni fruttuose. Dietro le sue parole si avverte la nostalgia per un mondo scomparso, improntato alla lealtà e alla rettitudine. L’amore per l’insegnamento e per la scuola nidificano in lui tanto da fargli maturare una linea pedagogica e riformistica che egli cercherà di suggerire ai ministri di allora. L’istinto per le novità non lo rinchiuderanno nella stitica cultura provinciale ma lo porteranno ad aprirsi verso orizzonti inusitati ed esperienze pioneristiche, sulla scia di quanto appreso dal maestro d’Agnillo. Di questo tipo è l’interesse per scrittori a quei tempi sconosciuti in Italia, come Dante Gabriel Rossetti, di cui tradurrà per primo il racconto The last confession (1878) e di cui scriverà fin dal 1881 mettendone in luce la straordinaria sensibilità. L’accostamento alla zona del preraffaellismo fu molto probabilmente dovuto alla mediazione di Teodorico Pietrocola Rossetti, cugino di Gabriele, e alla curiosità per la lontana origine abruzzese del ceppo rossettiano di Londra. Proprio dal Pietrocola Gamberale avrebbe avuto per le mani il testo dei Poems (1870). Ma la sua fama di traduttore è legata alla prima versione italiana di Walt Whitman, circolata per lungo tempo e suggeritagli dal Pascoli che dirigeva per l’editore Sandron la «Biblioteca dei Popoli». Una traduzione che fu ben accolta dalla critica del tempo 404 recensioni e che rimarrà per molti anni un punto di riferimento per la fortuna italiana del poeta americano, molto probabilmente tenuta presente anche da Cesare Pavese fin dalla sua tesi di laurea. Gamberale intrattiene rapporti epistolari con gli intellettuali più in vista del tempo (il ricco epistolario conservato ad Agnone presso la Biblioteca “Baldassarre Labanca” lo testimonia), ma è fedele agli amici di sempre, come a quel Vincenzino Di Paola, amico della giovinezza e di tutta la vita, che fu Preside a Matera nel periodo in cui vi insegnò Giovanni Pascoli che gli scrisse affettuosamente dopo aver ricevuto i suoi Versi e Prose. Gamberale trascrive la lettera da cui emerge la memoria appassionata del poeta di Castelvecchio per i suoi anni giovanili e la sua antica esperienza scolastica: «Come mi giova, dopo vita così torba, tornare a codesta serenità di pensiero e di parola che avrei dovuto prendere da lei in quella città di trogloditi, in cui vissi così felice, sebbene così pensoso! Si: delle città dove sono stato, Matera è quella che mi sorride di più, quella che vedo meglio ancora, attraverso un velo di poesia e malinconia». Il libro di Gamberale, dunque, non è solo l’ultimo atto di una vita spesa per la letteratura e l’educazione dei giovani, ma è anche il resoconto di un’epoca, lo spaccato di un’Italia minore che, trasformandosi sotto la spinta della modernità, conserva inalterati i valori sacrosanti della gratitudine e del rispetto verso una generazione di maestri che avevano insegnato «ciò che giustifica e nobilita il vivere e la vita». Gianni Oliva Giovanni de Leva, Dalla trama al personaggio. Rubè di G.A. Borgese e il romanzo modernista, Napoli, Liguori, 2010, pp. 124. Partendo dall’analisi di alcuni modelli letterari quali il romanzo di formazione e le romance d’ambizione, per passare poi ad un’attenta indagine della Grande Guerra intesa come tragica smentita d’un diffuso orizzonte d’attesa, l’autore offre un’analisi comparata e storica, centrata all’interno, anziché all’esterno, di Rubè (1921), il celebre romanzo di G.A. Borgese, la cui collocazione resta tuttora controversa, in bilico tra tradizione e innovazione, tra eredità ottocentesche e soluzioni moderniste. Rifiutato categoricamente in patria alla pubblicazione per ragioni strutturali e stilistiche (emblematica la stroncatura del Pancrazi che lo definì “il romanzo di un critico”) nonché «per la qualità del suo protagonista, interpretato come la personificazione d’un caso patologico» (p. 1), il romanzo fu invece ben accolto dalla critica straniera (entusiasti, tra gli altri, i giudizi di Benjamin Crémieux, di Louis Gillet, e di Ernest Boyd) che, oltre ad essere poco interessata a stabilire confini tra critica e narrativa, si mostrava del tutto estranea alla polemica del ritorno al classicismo. Lo studioso fa notare come, dopo quasi cent’anni dalla pubblicazione, le categorie interpretative per cui il romanzo veniva rifiutato siano venute meno, così come la considerazione della nevrosi del personaggio si sia trasformata da motivo di rigetto in garanzia della sua attualità. Il riconoscimento generale guadagnato dall’opera risulta tuttavia inficiato dal limite riconosciuto da molti studiosi recensioni 405 alla struttura del romanzo, cui si contesta «il peso dell’eredità ottocentesca » (p. 3). Partendo dall’obiettivo di «verificare se il dialogo che il romanzo intesse col passato ne infici davvero la modernità» (p. 3), lo studioso, dopo aver attentamente vagliato i diversi generi contenuti all’interno dell’opera, le eventuali variazioni dei motivi inscritti rispetto alla tradizione, nonché la dialettica che le componenti narrative istituiscono le une con le altre, giunge alla conclusione che «Rubè, anziché far più o meno propriamente parte del Modernismo, rispecchi invece al suo interno la svolta che vi conduce» (p. 5). Lo studioso dimostra insomma «come lo svolgimento di Rubè rispecchi al suo interno una peculiare transizione della storia della letteratura» (p. 18). Lo studio prende le mosse da una rigorosa analisi del modello narrativo del Bildungsroman, il romanzo di formazione, fondato per l’appunto sul rapporto storico tra individuo e società. Nel primo capitolo La tradizione in rassegna (pp. 11-41) vengono pertanto analizzate le varie soluzioni che il personaggio sperimenta alla volta della formazione. Se le generalità assegnate nell’esordio dell’opera al personaggio (giovane, provinciale, piccolo borghese e immaturo) coincidono con quelle del tipico protagonista del romanzo di formazione ottocentesco, l’ambientazione e la stesura di Rubè ricadono a cavallo della Grande Guerra, proprio nel periodo in cui il Bildungsroman sarebbe definitivamente entrato in crisi. Evidenziata l’affinità del protagonista con personaggi come Julien Sorel, Fabrizio del Dongo e altri che tentano di realizzare un romance d’ambizione (p. 15), lo studioso offre un’ampia e dettagliata rassegna delle maggiori opere di quella letteratura parlamentare a cui pure si richiama il romanzo del Borgese, un’analisi particolareggiata, supportata da precisi riferimenti testuali, dai quali si evincono alcune significative variazioni del modello narrativo stabilito dall’incipit del romanzo. Nel secondo capitolo (La Grande Guerra, pp. 43-72) lo studioso mette in evidenza come l’esperienza di guerra, invece di garantire l’ultima possibilità di formazione, inneschi in Rubè un processo di disgregazione che finirà «per scomporre l’originario eroe ambizioso in un personaggio dall’identità frammentata» (p. 65). Ci si imbatte infatti nella figura del reduce, un personaggio la cui rappresentazione letteraria, in special modo all’estero, sembra condividere alcuni tratti caratteristici (la nevrosi, ovvero l’incapacità di ricomporre i frammenti dell’esistenza in una narrazione ordinata, l’identità incompiuta, il disorientamento rispetto a un contesto, quale la patria, che dovrebbe risultare familiare e che risulta invece perturbante, la discordanza tra il personaggio e le trame tradizionali cui sembrerebbe destinato e a cui invece non aderisce mai del tutto, ecc.) con la fisionomia del personaggio modernista (cfr. pp. 64 e sgg.). Nel terzo e ultimo capitolo (“Something in the place of the plot”, pp. 73- 106) il percorso di formazione del personaggio viene letto dalla particolare prospettiva del “romanzo dell’intellettuale”. Animato dall’aspirazione ad intervenire nella vita pubblica in nome di specifiche competenze culturali, Rubè cerca di soddisfare la propria ambizione attraverso l’interventismo prima e la partecipa406 recensioni zione al conflitto poi, per rassegnarsi infine alla realtà del dopoguerra. Insomma Rubè avrebbe compiuto la classica formazione del Bildungsroman, se il Borgese, giunto a questo punto, non avesse utilizzato, per riaprire la vicenda, quell’espediente romanzesco della vincita al gioco, che fa ripartire il romanzo dall’esaurimento del modello narrativo tradizionale. Lo studioso fa notare, attraverso svariati riferimenti testuali, come il seguito del romanzo si svolga secondo una moltiplicazione di allusioni, analogie, o vere e proprie citazioni letterarie, e come dunque Rubè diventi protagonista d’una esplicita rassegna antologica della letteratura ottocentesca, terminata la quale può finalmente misurare la distanza che lo separa da quegli stessi predecessori ottocenteschi, da cui aveva preso le mosse. Di particolare rilevanza risulta a tal proposito il lungo monologo interiore del protagonista (cfr. p. 84), da cui emerge chiaramente il mutamento della funzione tradizionalmente svolta dal romance. «Da componente di un ingranaggio, da polo funzionante in opposizione a quello realistico, il romanzesco – sottolinea opportunamente lo studioso – si è trasformato insomma in elemento autonomo; una volta reificato, gira però a vuoto, diventa inabitabile dal personaggio che, come appunto succede a Rubè, resta “senza alloggio”, in altre parole discordante dalle trame che gli si prospettano» (p. 85). Alla luce di opere quali Sei personaggi in cerca d’autore e di saggi canonici del Modernismo quali quelli di E.M. Forster e di Virginia Woolf, l’autore cerca poi di verificare non solo tale discordanza, ma soprattutto la preminenza che nella conclusione Borgese riserva all’interiorità del protagonista. Rifiutata come inadeguata ogni possibile trama, e rimpianto amaramente il contesto letterario tradizionale dove un suo simile avrebbe di certo trovato un suo epilogo, a Rubè infatti non sembra restare altro che l’analisi spietata della sua interiorità. Stefania Della Badia Riccardo Scrivano, Letture e lettori. Appunti di critica letteraria, Pesaro, Metauro Edizioni, 2010, pp. 171. L’agile volumetto, recentemente apparso nella collana “Studi” diretta da Corrado Donati, propone una raccolta di alcuni degli ultimi interventi critici di un autentico maestro dell’italianistica: Riccardo Scrivano. Classe 1928, Scrivano ha insegnato letteratura italiana in Italia ed all’estero (nelle Università di Firenze, Padova, Roma ed in quelle di Cornel, Los Angeles, Berkeley…) approdando a risultati di gran rilievo nelle sue ricerche. Lo attestano, per un cinquantennio, i tanti libri dedicati a problematiche cinquecentesche (sul Manierismo e sul teatro) o quelli attenti ad autori e temi dei secoli successivi (da Alfieri a Montale, da Leopardi a Svevo, da Manzoni a Pirandello…) ed infine, oltre alle numerose curatele, le monografie nate dalla scrupolosa attenzione per la contemporaneità (su Montale, Arpino, Quarantotti Gambini…). Quanto basta perché ancora oggi, lasciato l’insegnamento, con questi suoi ben motivati Appunti di critica letteraria torni ad occuparsi di scrittori e letterati da lui ritenuti, recensioni 407 per vari motivi, meritevoli di studio. Così, proprio attraverso tali esercizi critici, si ricompone sotto gli occhi del lettore un ritratto assai vivace dell’intellettuale pieno di curiosità culturali. Disponibile ad approfondimenti su questioni e temi studiati nel passato, ma non perciò messi da parte nel tempo, Scrivano ama il confronto con chi torni ad occuparsene ed a fornirne parallele o contrastanti interpretazioni (può essere il caso di ricercatori più giovani, o di antichi amici accademici, tutti da lui considerati compagni di strada di un percorso più o meno recente o di un passato scomparso, ma non dimenticato). Perciò, nonostante la varietà degli argomenti, dal confluire di spunti tematici vecchi e nuovi, dai sondaggi sul gusto e sulla fortuna delle valutazioni critiche più diverse, il volume trae unitarietà e mira ad evidenziare alcune linee di ricerca, fondamentali per la storia e la comprensione del Novecento italiano. Al suo interno, a ribadire, nella nostra tradizione, il forte peso del pensiero metafisico di Leopardi e poi quello del leopardismo, ecco, nella sezione “Letture”, gli scrittori su cui lo studioso ama scommettere. Sono, oltre ai più frequentati Pirandello ed Alvaro, Quarantotti Gambini, Alianello e Ortese. Ancora, nella sezione “Lettori” si affiancano i profili di accademici di rilievo, da lui visti da vicino (Giorgio Petrocchi, Angelo Marchese, Antonio Palermo) ed a lui accomunati dall’intensità dello studio per gli amati Leopardi, Montale, Alvaro. Infine, nell’ultima sezione del libro, quella dedicata a “Tre poeti” (Accrocca, Giannangeli da Raiano, Cerro) Scrivano sceglie toni più personali e partecipati per confermare la sua fiducia nella poesia e nei coinvolgimenti che ne derivano alla vita dei singoli e al destino della nostra cultura. Nel ribadire il legame fortissimo del messaggio poetico con l’esperienza del vivere si sofferma pertanto sui percorsi esistenziali dei suoi autori e con molto garbo fornisce informazioni e dettagli che aiutino a comprenderne il contesto e l’opera. Rammenta così, nella Roma degli anni Cinquanta, le intense frequentazioni di Accrocca e con Ungaretti e con i pittori Vespignani e Buratti, facendo risalire ai tempi della “scuola di Portonaccio” il gusto per la visività della poesia, cui successivamente dobbiamo tanto i Videogrammi della prolunga (1884) quanto quelli del Babuino ne Lo sdraiato di pietra (1991). Con essi Accrocca, intenditore d’arte e sensibile cantore dei luoghi della capitale (piazze, strade, vicoli ricchi di storia e cultura), sperimenta la forma del colloquio/soliloquio. Nell’affiancare nel testo enunciazioni, graficamente distinte in tondo ed in corsivo, recupera in pieno il senso della dimensione dialogica, mentre affida all’emblematica, popolare statua di pietra, testimone del crescente disordine del mondo, il ruolo di un fantastico alter ego. La sua poesia si assicura così spazi di autonomo e dissacrante giudizio e non a caso, nel gioco delle citazioni esplicite e dei rimandi ai maestri del nostro tempo (Kafka o Sartre) tra i riferimenti a cronache e storie, emerge, nell’ironia, la capacità di raccontare e distanziarsi da un mondo spaventato dalla verità, rammentando al lettore analoghe strategie dello sguardo operate da Montale. Di vere e proprie sintonie emotive ci parla infatti Scrivano: «L’esplicito ri408 recensioni chiamo di Accrocca all’ultimo Montale, quello che viene dopo Satura o che comunque da Satura si avvia non è né casuale, né magica attrazione imitativa; è invece il raggiungimento di un senso pieno, fertile, ma anche amaro, della poesia come verità di fronte ad un mondo, non solo l’umano, ma l’intero universo delle cose, come menzogna, come oppressivo, repressivo condizionamento, che solo per brevi spiragli consente all’animo profondo di comparire ed essere» (pp. 148-149). Ancora echi montaliani egli ravvisa nella poesia di Ottaviano Giannangeli, critico accademico e militante che, nonostante l’età avanzata, con molta autoironia parla di sé e degli incontri di una vita nella raccolta Un sito per l’anima (2008). Attraverso una particolare visione dell’anima, intesa come ombra di ciò che è stato, nei suoi versi trovano modo di tornare alla mente ricordi e presentimenti, fantasie di cose perdute e domande esistenziali, tutti elementi di un rarefatto universo emozionale che è proprio dell’uomo, leopardianamente proteso sul mare del tempo. Più che a uno squilibrato egotismo Scrivano ricollega tale atteggiamento mentale alla effettiva percezione dell’abisso spazio-temporale di chi, in piena onestà, tenta a sprazzi di comporre il disegno della sua biografia e, nella consapevolezza dei limiti dell’umano, ripensa al vissuto e, con levità, ricorda: «nessuno /potrà mai cancellarci dalla festa/ dell’essere qui stati». Del resto la fuggevolezza delle cose è tema dominante delle ultime liriche di Maria Benedetta Cerro sul cui itinerario, a partire da Licenza di viaggio (1984) fino a La regalità della luce (2009) si sofferma il capitolo conclusivo del nostro volume. Scrivano ne rammenta le sette raccolte i cui titoli, da soli, testimoniano la fiducia della Cerro nella forza evocativa della parola, anche quando si affronta la tematica raggelante della incomunicabilità. Per lei si può parlare di «modernissima classicità » sia per la forza con cui esprime i propri stati d’animo, sia per la sicurezza con cui sperimenta schemi colloquiali, in poesie a due voci, ove la contrapposizione tra presenza e assenza contribuisce ad allontanarci dai limiti del quotidiano e, in una più rarefatta dimensione, ad aprire la mente a suggestive, nuove “ipotesi di vita”. Tra notazioni realistiche ed impennate nel fantastico il raffinato linguaggio della poetessa si arricchisce di rimandi interni e, nella stratificazione del senso, spesso approda a tonalità di tipo sentenzioso («mai al presente fu vissuto il tempo/ che mostrava futuri sulle soglie gli spazi » Minuetto per un acquario) sia per il fremente colloquio col mistero, incrementato nel tempo, sia per la calcolata capacità di giocare sulla polisemia della parola. Agli inquieti orizzonti della poesia novecentesca registrati nel volume corrispondono quelli fortemente problematici della narrativa contemporanea che parimenti, nel tentativo di un bilancio globale, vengono qui riproposti. Piace infatti a Scrivano ribaltare giudizi scontati, soprattutto nel caso di quegli intellettuali la cui tormentata scrittura, oggi più che mai, merita lavoro filologico perché se ne ricostruiscano modalità e circostanze, ripercorrendo la storia del farsi dei testi e delle loro oscillazioni da una forma all’altra (lunga o breve; di intonazione saggistica e/o giornalistica), per valutare la qualità dei risultati raggiunti grarecensioni 409 zie al confronto con le contingenti difficoltà esterne e con le tante, diverse soluzioni prospettasi di volta in volta all’artista. Così ad esempio il perfezionismo di Corrado Alvaro induce il critico a considerare la natura complessa di tutta la sua produzione e ad interrogarsi su un testo significativo quale L’uomo è forte. Perfino il titolo, adottato per l’edizione nel 1938 del romanzo, rinvia alle reticenze del solitario moralista, costretto a cancellazioni di sé nei confronti del regime che lo guardava con sospetto per i suoi trascorsi, ma ne tollerava gli atteggiamenti distaccati, tentandone comunque la cooptazione. Rientrava dunque nelle sue necessarie misure di cautela il taglio di alcune pagine, propostogli dalla censura, e la definitiva rinuncia al vagheggiato titolo Paura sul mondo. Del resto l’ambientazione in un generico altrove favorì, oltre al consenso del revisore, l’attribuzione delle disumanizzanti esperienze descrittevi al mondo sovietico, ben noto all’autore dei Maestri del diluvio, e nel 1938 dai più identificabile, per fini politici, con quello di una dittatura spietata, propensa a metodi di terrore e di delazione reciproca. Giustamente Scrivano rammenta, oltre alla oscillazione dei titoli, il diverso e più ottimistico finale assegnato a L’uomo è forte nell’edizione del 1945, ma non per questo egli ritiene che la capacità di resistenza al male riconosciuta al protagonista Dale («si mise a progettare un nuovo piano di fuga») potesse in qualche modo ribaltare l’oggettiva miseria di un sistema retto da una logica distorta, basata su leggi non dette ed imprevedibili proibizioni. Sulle aberranti conseguenze di colpevolizzanti procedure assunte come norme del vivere dai contemporanei regimi totalitari l’esule calabrese seppe posare il suo sguardo e, nella violenza dell’impatto con un mondo così lontano da quello di provenienza, definitivamente perduto, ne intuì le drammatiche implicazioni sui tempi lunghi, trasformando così le sue note descrittive in evocazioni di atmosfere dense di oscuri presentimenti sulla qualità dei rapporti interpersonali in società sempre più massificate ed eterodirette. Quanto basta perché il discorso critico consapevolmente proceda su un doppio binario, affiancando alle pagine del narratore quelle dei diari che ne registravano trasalimenti e preoccupazioni e rivelavano in lui le doti del lucido interprete di mutamenti sociali ormai inarrestabili. Le annotazioni del periodo 1927-1947 mostrano la sorprendente capacità di giudizio dell’uomo e sulla società e sulla proprio vita, troppo condizionata da strategie di sopravvivenza per essere perfetta, e perciò destinata all’incompletezza, proprio come suggerisce il titolo per esse adottato: Quasi una vita. Commisurando il suo giudizio ai risultati raggiunti dagli interpreti più sensibili di Alvaro (A. Morace, G. Rando) ed in particolare da Antonio Palermo, che molto si interessò all’esperienza berlinese dell’autore italiano, Scrivano riconosce la forte caratura europea dei suoi appunti che, nel loro insieme, costituiscono il libro «più autenticamente alvariano, per il senso della vita come cupo dramma, strappata forzatamente dalle proprie radici per sempre irrecuperabili una volta divenuto altro, con uno straziato, sofferto, permanente sentimento di serietà professionale e umana, con un bagaglio di riflessioni critiche amare e negati410 recensioni ve sulla vicenda generale dell’umanità » (p. 53). Come vediamo si è ben lontani dagli apprezzamenti destinati, negli anni Trenta, al realismo lirico di Gente in Aspromonte e così ancora, nel capitolo dedicato alla Ortese, è ritenuta molto riduttiva l’etichetta neorealistica adottata, negli anni Cinquanta, da Vittorini per Il mare non bagna Napoli. Anche in questo caso Scrivano procede ad un attento bilancio, confrontando le polemiche letture del passato, spesso politicamente orientate, con quelle attuali, più pacate nei toni. Il critico si mostra ben informato dei tanti studi e convegni recentemente dedicati alla antica «zingara assorta in sogno», rivelatasi invece scrittrice molto consapevole dei propri strumenti. Si tratta di interventi spesso suscitati dall’improvviso successo dei romanzi di ambientazione napoletana editi dalla Adelphi (Il cardillo addolorato, il riscritto Porto di Toledo), veri e propri casi letterari per i quali la stampa ha potuto parlare di riscoperta per colei che fino a poco tempo prima era guardata con sospetto da editori e pubblico, sia per la enigmaticità delle sue pagine, sia per la stranezza delle situazioni evocate con l’allusivo gioco di presenze fantastiche (folletti, iguane, puma…) e con l’alternarsi di scenari irreali o di remoti paesaggi marini. Puntuale è pertanto nel volume la ricostruzione dei percorsi compiuti dalla Ortese che, come è noto, con i suoi atti d’accusa provocò l’astioso risentimento degli intellettuali con cui aveva condiviso, a Napoli, ai tempi di “Sud”, le speranze di un “risveglio” della ragione. Inevitabile pertanto, tra equivoci e fraintendimenti di lunga durata, le dovette sembrare sia la scelta di rinunciare alla città, sia quella di viverne lontana e magari, grazie alla distanza spaziale e temporale, ricreare nell’isolamento delle sue visioni, un nostalgico rapporto con luoghi amati e trasfigurati dalla memoria. Da ciò l’autobiografismo delle sue scritture, non solo per le emozionanti pagine dedicate alla Toledo/Napoli dell’adolescenza, ma anche per quelle di Corpo celeste più esplicitamente riflessive, tese a dar spazio, attraverso la condizione dello straniero in patria, ad improvvise epifanie dello sguardo o a lungimiranti intuizioni sugli ambigui destini di un paese considerato dai più espansivo e festante, ma, ai suoi occhi, gravato da remore e mistificazioni che ne impedivano consapevolezza di sé e comprensione di problemi più universali. In tal modo la tormentata esperienza dell’intellettuale che smentiva la facile menzogna dei luoghi comuni paesaggistici e si vedeva ai margini del sistema della nostra cultura acquista una sua valenza emblematica. Essa infatti si connette a modalità espressive di più forte impegno filosofico, nel respingere lusinghe e illusioni per la generale vicenda umana, da sempre votata ad un destino di miseria e, nonostante il progresso tecnologico, ancora ferma ad una inutile ricerca di plausibili spiegazioni per il male che contagia il mondo e ne costituisce l’unica realtà, misurabile nel piccolo come nel grande, nella fragilità delle esistenze individuali e nell’arrogante prosopopea di nazioni avviate a decadenza. Di fronte alla crudeltà della natura e alla esperienza del lutto, dalla Ortese costantemente rammentate ai distratti protagonisti di un mondo sovente edonistico o in fuga da se stesso, Scrivano recensioni 411 parla di un disagio esistenziale. A tale disagio rinviano i particolari atteggiamenti dell’intellettuale, fortemente atipica e fortemente schiacciata dalla responsabilità di un ruolo a cui continuava a credere nel tempo e nonostante tutto. Pertanto egli ne ricollega le continue domande, esibite talvolta con ingenuità nelle sue pagine più colloquiali, alle tante, dolorose inchieste del Leopardi metafisico che, nel Canto notturno, attraverso il suo pastore, si protendeva sul mistero infinito che ci circonda. Solo una ferma volontà poteva consentire alla scrittrice autodidatta di trasferire nelle raffinate forme della letteratura la sua ansia di conoscenza, nonostante creasse a lei disperazione sia quel poco che ella sapeva, sia quel male che ingoiava menti, anime e persone e che le sembrava fermentasse nel mondo. Tra intime lacerazioni e profondi timori la Ortese proseguì comunque il suo lavoro, convinta che l’arte fosse l’unico farmaco cui ricorrere di fronte a lutti e sofferenza. Fu certo il suo merito non piccolo: di questo e di altro le viene dato atto nel volume, rammentandone la lezione altissima dello stile ed il fascino delle immagini paesaggistiche da lei costruite «con ostinatissima precisione » nell’alternare tenerezza a ironia, grazia a malinconia. Caterina De Caprio Luigi Fontanella, Controfigura, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 174. S’immagini una pièce teatrale che apra su attori in movimento: arredano spazi, decidono modi e ora provano ora descrivono azioni, con un regista che vi si mescola e che appare e scompare alternandosi agli interpreti. Per tutta la durata. Sino alla fine. Come un organismo che si mostri nell’atto di costruirsi da sé. Morso a morso, brano a brano. Così in questo romanzo si decide una modalità da proménade, un sottofondo di nostalgia e, insieme, la prospettiva di rivivere l’infanzia, per cominciare di lì a rivivere l’intera vita, reinventandosela d’accapo. Se ne ha conferma non solo sul versante referenziale, ma anche in esiti operazionali, tutti in vario modo prospicienti atti creativi: si veda, per un solo es., la storia di Mara Ciukleva, la vecchia diva del cinema muto, che voleva scrivere con lui un’autobiografia, magari ammodellandola chi sa a quale sua idea peregrina. C’è poi l’auspicio di una lettura, non ingenua, come Breton la voleva per Nadja, ma lenta, come lentamente e per sua interna legge la vicenda si distende nel tempo e si volge in storia, ché la lettura lenta e nativamente libera, l’autore dice, serve a scoprire qualche difetto che renda unico lo stile dell’opera, perché, aggiungiamo, sono a volte i difetti, ossia le difformità dalle regole imposte, i valichi per i quali sale a vista quell’interna legge, e lo stile è il venire a forma dell’opera, in coorganica relazione con quella legge. A romanzo iniziato, Fontanella riporta l’incipit progettato a suo tempo. Ne è indotta l’idea di una vita che sempre ricomincia o rinnova le sue gemme cadute, mossa sempre da quella legge naturale, una vita surrealisticamente ricondotta a un suo momento sorgivo, senza curatele o turbative di esterne costumanze civili o tradizioni culturali… si direbbe… 412 recensioni Ma l’autore dichiara di voler trasferire al romanzo in progetto il tecnema cinematografico della luce bianca, usato da Resnais in L’anno scorso a Marienbad per rappresentare “una vita immaginativa o di sogno, che ora si riversa nel passato, ora nel futuro”: dunque ciò che intende adottare è “una semiologia cinematografica”, una cultura insomma. Come risolvere criticamente questo dilemma? Bisogna innanzitutto aver presente che mentre il Breton e i surrealisti hanno in progetto il rinnovamento della realtà in generale, colta e vissuta nei suoi momenti sorgivi, al di qua di ogni contaminazione d’ordini culturali e civili, Fontanella, al contrario, intende solo scrivere un romanzo, mantenendosi saldo entro la realtà in cui l’ordine razionale ha prodotto in Occidente la grande civiltà e cultura e, in queste, l’arte somma in cui l’uomo ha dato altissime prove di sé. Solo all’interno di questa realtà, maturata in Occidente attraverso millenni, è possibile la vita e nella vita la creazione. Fuori di tale realtà, non solo l’opera d’arte, ma la stessa mente ne subisce una distrofia, se ne scardina, e ci vuol non poco perché la recuperi e la rimetta a suo luogo dentro sé, e sé dentro essa perché riprenda ad animarla, come da millenni usa fare stupendamente. Si veda come, in quell’incipit, Lucio, svegliandosi al mattino, fatichi a riconoscere gli oggetti della sua stanza, che appaiono sempre diversi, in quadri ora visionari, ora terrificanti, com’è per es. uno sminuzzo di membra umane in un fiume di lava, con qualche viso di donna che affiora e scompare qua e là nel fiume rovente, metafora della vita di allora che stentava a comporsi in struttura unitaria. Occorre poi un diverso modo di concepire l’opera d’arte, cinematografica o letteraria che sia. A questo punto, paiono di qualche aiuto il Breton e i surrealisti, quando dicono che «l’atto poetico è strumentalizzato nei confronti d’un disegno essenzialmente extraestetico….» e perciò – completiamo – esso va appaiato ad un oggetto, a un gesto, a un atto. Fontanella non ne trae motivo per ambiziose teorizzazioni, ma appaia L’anno scorso a Marienbad di Resnais ad un congegno che «uccide il tempo». E si sarà già visto che tipo di oggetto o di gesto o di azione finisca ad essere il romanzo di Fontanella: l’instructio di una vita radicata entro l’attuale civiltà, sì guardata d’oltre essa, ma senza distacco, anzi con uno sguardo colmo di nostalgia, richiamandovi a complemento le parti che ne mancarono, e disegnandovi un profilo sulla base d’un modello ricavato da riserve memoriali proprie ed altrui, ritagliato addosso al sé di ora, con tutte ombre e bagliori da lui immaginati e vissuti, e in cui la realtà si cuce con la fantasia, con a vista sutura e tutto e modalità dell’assemblare. Quanto all’uso delle citazioni, che Fontanella condivide con Breton, esse non sono una banale imitazione, perché, mentre in Breton fungono da semplici testimonianze, in Fontanella, tòltane qualcuna, sono reminiscenze, vale a dire memorie addormentate dentro lui che riemergono come attraverso il suo corpo, senza che mai se ne scuota del tutto quel morto sonno. In quella leggera variazione dell’incipit proustiano (p. 9), c’è una sottolineatura del dormire, mentre il Marcel mette in campo l’entrare in letto («Per molto tempo mi son coricato presto la sera»). Anrecensioni 413 che la reminiscenza del Musil, al cap. 6, è accompagnata dalla sonnolenza. La frase corrispondente dell’Austriaco è fatta seguire ad un’arzigogolata descrizione meteorologica in chiave rigidamente scientifica, il che genera un rovinoso declassamento della scienza a favore della viva ed agile esperienza comune. In Fontanella invece la frase non ha nulla a che fare con la scienza e conserva tutta la vivacità dei consimili luoghi comuni, aventi, per loro proprio istituto semantico, il compito di dire il solito, il comune appunto, ma a lanci distratti, senza nulla che ne emerga se non una nebbiolina sciatta, che subito è da lui scagliata nel dietro della mente. Sennonché la sonnolenza che segue si tira questa nebbiolina nel dentro umano, dove si confondono tra loro dando luogo al milieu memoriale che si arreda di ricordi infantili. Nulla a che vedere con l’epoca dei sonni, ricordata da Breton in Nadja. Quelli erano appostamenti per sorprendere la surrealtà quando, ai confini del sonno, la ragione allenta la sorveglianza. Qui si tratta invece di una storia che principia da una nebbia sonnolenta e poi si perde nelle secche di una indecisione, in cui alla fine andrà a perdersi la storia stessa. Ma ancor prima, la passeggiata di Lucio si dimentica per vie, scale, monumenti, ricordi, come un film che cerchi il suo essere e non lo trovi. Oltre che da questa splendida operazione di poesia, l’indecisione risulta anche da potenzialità tecnematiche di cui sono investiti monumenti e personaggi di diversa nazionalità e tempra storico-culturale, ricordi, citazioni, che si succedono fuori d’ogni confluenza di senso tranne il fatto che, una volta abbandonati, essi sono rimasti a splendere nella sua memoria affettuosa. C’è poi l’inseguimento di uno sconosciuto senza né motivo né esito: un vero e proprio sforo, più che nell’indecidibilità esistenziale, nell’assoluto nulla. Ma, entro questa ammutolita indecisione, la stessa progettata instructio di una vita dà crolli veri e propri. Per es., al capitolo VIII, Lucio ama una ragazza, ma questa ama un altro e chiede consiglio a Lucio su come conquistarlo. È una storia di mancanze che si rincorrono, ma quasi senza consecuzione diegetica dall’una all’altra, e non in osservanza del proposto iniziale di preferire una temporalità di momenti distinti e intrecciati fra loro. È un tempo invece che gli si schianta sul capo, per poi franare su lei che ha perso l’uso delle gambe e non lo sa, come non sa di essere amata da Lucio, mentre quell’altro non sa di essere amato da lei. Questa irreparabile rovina di destini personali a mo’ di effetto domino, è reso tramite lo stupendo tecnema del mazzetto di rose spiaccicato nella cartella, con sulle copertine dei libri le “impronte striate di rosso cupo”, come un sangue che non si cancelli e dilaghi di libro in libro, di memoria in memoria. Alla fine, la carezza alla città diletta affonda dentro lui. Roma è lui, ma è a quell’altro lui, adesso, la carezza, quel suo lui sepolto ancora vivo chissà in che terra sconsacrata, sulla quale soffia una “vita staccata che entra ed esce” per quella via, senza supporto di viventi. Il fil rouge, che è la passeggiata, a volte s’immagina spezzato, come per l’incidente immaginario di p. 68, ma è perché affiori la bellezza che è nel vivere, e cali un momento nel “miste414 recensioni ro del mondo” la memoria del morire, come l’operaio poco oltre che, finito il gioco immaginativo, si cala nel tombino. Ma poi quella memoria torna con violenza nelle immagini di morte che via via si susseguono. Raccapricciante è quella del topo che, ferito mortalmente, cerca di sottrarsi alle zanne di un cane trascinandosi dietro il proprio budello, simile a un cordone ombelicale che nel dolore si tenda e non si spezzi. Poi c’è Lucio appeso a un muro come il topo al suo budello. Sogni letterari inquadrati nelle tragiche vicende della natura, tra la vita che resiste e la morte che incalza. Tutti come topi appesi a un proprio budello nel vano tentativo di sfuggire alla canea che ci scaglia contro il destino terrestre. Il suo amico Fabiano poi morto. La vanità di ogni sforzo affidata all’immagine di un tovagliolino portato via dal vento. Nel cap. XVIII si ha viva l’impressione che vi stia maturando la morte, messa a coltura alla fine del cap. XVII. Il budello del topo è sostituito da un foglio di carta igienica, che Stefano si porta dietro come un segno, come un seme da coltivare. Nel cap. XIX, vi concorre la nebbia che cala negli occhi di Lucio per effetto dell’atropina che gli hanno stillato gli oftalmici, nebbia che gli obnubila la festa nella quale contava di tracciarsi un disegno di vita con Patrizia, la ragazza di cui era innamorato. Le sottrae il diario e vi scrive una poesia tra le poesie di lei, come dire un tentativo di penetrare con lo spirito nel suo spirito. Ma vi fatica tanto, tra il tanto faticare per gli esami, che l’amore gli muore, benché a lei nasca invece, per morirle poi, benché a gran distanza. Tous va mourir (p. 97). E c’è in effetti nel prosieguo uno smorire lento delle qualità umane che aggrinziscono in pedantesche competenze dottrinali, e a stento la vita si ricorda di sé in un ozioso bla bla sulla voce, sui codici comunicativi, sull’identità. Un intrico di argomentazioni speciose, finché tutto va a finire su un personaggio, lì pietrificato nel silenzio, molto simile a un lampo di nulla che lui stesso ha scagliato nell’ambiente (p. 111). E in questo nulla, che Lucio si trascina dietro sfilandosene da fantasma, ecco di nuovo la Patrizia, la ragazza della quale era innamorato anni prima. Ballano guancia a guancia su una canzone di gioventù. Ma è solo un ombra, uno scherzo immaginale. Di effettivo resta il solo ricordo delle feste giovanili, quando la vita era vita e si spingeva innanzi attraverso i loro corpi e le loro fantasie innamorate. A trattenerla ora, sono assunti a risorse tecnematiche solamente i fatti e gli accadimenti della vita reale. Nessun investimento tecnematico appare sul versante orazionale, che viene mantenuto au dégré zero, proprio perché ne emerga la referenza, con tutto il bailamme della vita a muovere la poesia. Così è della danza del ventre con la quale al cap. XXVI Marica cerca di riconquistare Fabrizio: ma è come «una sonata fatta con l’unica corda di violino rimasta » (p. 13), al che la poesia suona la triste musica di una vita residuale che resiste, resiste, come il budello del topo in fuga dai denti del cane, fino all’ultima vibrazione di una corda sul punto di spezzarsi e cadere nell’estrema immobilità. Tranne, qua e là, qualche filo di suspense, per il resto son tutte coserelle che si appiattiscono sul basso suolo delle schermaglie recensioni 415 amorose, scadute per di più in penosa farsa (cap. 27). Sia inteso che si sta parlando di esiti operazionali, non di scadimento delle potenzialità inventive dell’autore. È lui che si cala in questa minutaglia per trarne materia onde la poesia porti a termine l’azzeramento della vita, la reductio ad nihilum che raggiunge il suo clou nella figura di Vanni, il pittore che dipinge quadri falsi «per arrivare all’autentico attraverso il falso» (p. 150). Da simili cosucce da pittori, sempre con la stessa funzione tecnematica, si passa ad osservazioni a mezzo tra arte e religione, fino a giungere ad una vera e propria agiografia, quella di Jacopa de’ Settesoli. Vi si mescolano citazioni, contaminazioni e più o meno clandestini prelievi da Walser, Breton e De Chirico, dai quali il narrante, inteso forse a costruirsi una sua religio, si fa suggerire massime sapienziali. Una la preleva da Svevo al cap. XXXVI, ed è che organizzatrice della vita è la morte. Nel cap. XXXVII si torna al discorso metanarrativo, nel quale Fontanella prende le distanze dalla materia narrata. Torna l’ammutolita indecisione. Il vento «fa volar via i fogli verso il bosco, oltre i roveri, verso il mare». Egli li accompagna «con lo sguardo finché svaniscono». Si propone di finire la giornata con un filo d’amore per la straziante bellezza del creato. Essa sembra essere il deus al quale ordinare la religio, la cui professione di fede sembra essere l’assunto sveviano integrato più o meno in questo modo: poiché tutto è governato dalla morte, diventa eterno solo ciò che abbiamo amato intorno a noi. Domenico Alvino