Anno XLVII (2019) Fasc. III, N. 184

Anno XLVII (2019) Fasc. III, N. 184

  1. Saggi
    • Giulia Tellini

      Corallina 1751-1753. Sulla Donna vendicativa di Goldoni – pp. 419-457

      Il saggio prende in esame i personaggi interpretati dall’attrice Maddalena Marliani
      (specializzata nel ruolo della servetta Corallina) nelle diciassette commedie
      che Carlo Goldoni compone, dal febbraio 1751 al febbraio 1753, per la compagnia
      Medebach, di stanza al teatro Sant’Angelo di Venezia. L’ultima di queste
      commedie è La donna vendicativa, qui considerata sia come significativo omaggio
      alla Marliani sia come sintesi esemplare di una fase fondamentale, artistica
      e umana, dell’intera carriera goldoniana.

      This essay looks at the characters played by the actress Maddalena Marliani
      (specialising in the role of the maidservant Corallina) in the seventeen comedies
      written by Carlo Goldoni from February 1751 to February 1753 for the
      Medebach company, based at the Sant’Angelo theatre in Venice. The last of
      these comedies is La donna vendicativa, taken here to be both a significant homage to
      Marliani and a perfect synthesis of a key phase – on an artistic and human plane –
      within the career of Goldoni.

    • Francesco Roncen

      L’idillio negato: bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana tra Sette e
      Ottocento
      – pp. 459-488

      Il saggio propone una disamina del bozzetto agreste e pastorale nella poesia
      narrativa italiana tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, con
      l’intento di verificarne la valenza ideologica, estetica e meta-letteraria. Vengono
      presi in esame il poema e poemetto epico-mitologico, la novella in versi e la
      ballata romantica: si tratta di generi al centro del dibattito letterario dell’epoca,
      in grado di assegnare all’idillio funzioni e caratteristiche assai sintomatiche delle
      trasformazioni culturali in corso.

      This essay offers an analysis of the rural and pastoral sketch in Italian narrative
      poetry during the late eighteenth and the first half of the nineteenth century,
      with the intention of studying its ideological, aesthetic and meta-literary values.
      It focuses on the epic-mythological long poem, the verse tale and the Romantic
      ballad, all genres at the centre of the contemporary literary debate and
      which allotted to the idyll functions and features quite typical of the cultural
      transformations taking place at the time.

    • Roberta Colombi

      Le “prospettive” della Satira tra impegno e disincanto. Da Leopardi agli scrittori del
      Risorgimento
      – pp. 489-505

      Il contributo propone di rintracciare una genealogia della nostra prosa satirica
      ottocentesca, ponendo al centro il modello leopardiano. L’ambivalenza della
      sua scrittura, che oscilla tra impegno e disincanto, sembra in particolare aver
      lasciato traccia di sé in alcuni scrittori umoristi. Le loro scelte tematiche e formali
      mostrano come l’impegno per il rinnovamento civile e letterario negli anni
      del Risorgimento maturo, ricorra alla scrittura satirica facendo tesoro sia del
      modello sociale del Giusti che di quello filosofico di Leopardi.

      This study sets out to trace a genealogy of Italian nineteenth-century satirical
      prose, emphasising the Leopardian model. The ambivalence of his writing, swaying
      between engagement and disenchantment, seems to have been especially
      influential on several humoristic writers. Formal and thematic aspects of their
      work demonstrate how an engagement for civil and literary renewal during the
      later years of the Risorgimento employed a satirical style that looked positively
      towards both Giusti’s social model and Leopardi’s philosophical paradigm.

    • CHIARA PIOLA CASELLI

      Un’antologia foscoliana della poesia medievale. Prime note sulla Critical Anthology of Italian
      Poetry
      – pp. 507-530

      La Critical Anthology of Italian Poetry è un’antologia poetica destinata agli studenti
      inglesi progettata da Foscolo e Giulio Bossi nel 1827. Le poche notizie disponibili
      su questo tardo progetto foscoliano si devono a Vittorio Cian che per
      ultimo vide il manoscritto dell’unico volume realizzato. Il contributo nasce da
      una ricerca in corso volta a ricostruire le vicende dell’Anthology sulla base delle
      informazioni note e della nuova documentazione inedita reperita nel fondo
      «Bianchini». Il saggio si concentra sull’indice del volume, già edito da Cian, a
      partire dal quale si propone una ricostruzione della selezione antologica mostrandone
      la stretta relazione con la produzione critica di Foscolo in Inghilterra.

      The Critical Anthology of Italian Poetry is a poetry anthology aimed at English
      students and designed by Foscolo and Giulio Bossi in 1827. The little we know
      about this late project by Foscolo goes back to Vittorio Cian, the last person to
      have seen the manuscript of the sole volume produced. This essay is based on
      ongoing research meant to piece together the history of the Anthologyon the
      basis of previously known information and new, unpublished documents discovered
      in the Bianchini archive. It focuses on the table of contents, previously
      published by Cian. Using this table of contents, it presents a reconstruction of
      the anthology, underscoring its close relationship with Foscolo’s critical writings
      in England.

    • Angelo Fàva ro

      Quella «luce di consapevolezza realistica», o l’ironia dell’Ariosto in un articolo di Alberto
      Moravia
      – pp.

      Il sorriso dell’Ariosto è un articolo di A. Moravia, pubblicato ne «Il Mondo», il 6
      gennaio 1951, in occasione della nuova edizione Einaudi del Furioso, curata da
      Elio Vittorini. Dal 1951 si erano perse le tracce di questo testo, che viene qui
      analizzato e interpretato, per accertare la formazione del suo autore, insieme a
      ragioni di interesse personale e di opportunità professionale, che indussero il
      romanziere a produrre una recensione di notevole interesse critico-letterario.
      Non rispettando le convenzioni di un testo specificatamente recensivo, Moravia
      offre osservazioni originali.

      Il sorriso dell’Ariosto is an article by A. Moravia published in “Il Mondo” on 6
      January 1951 and prompted by the new Einaudi edition of Orlando Furioso
      edited by Elio Vittorini. Long since forgotten, the text is here analysed and interpreted
      from the standpoint of the author’s education, as well as personal
      interest and professional opportuneness, all of which led the novelist to write
      areview that stands out from a critical-literary perspective. Ignoring conventional
      reviewing methods, Moravia provides original observations.

    • ANTONIO LUCIO GIANNONE

      Il «prismatico genio»: momenti della ricezione letteraria di Leonardo nel Novecento – pp. 553-568

      Oggetto del presente articolo è la ricezione di Leonardo da Vinci in alcuni momenti
      della letteratura italiana del Novecento, a partire soprattutto dagli anni
      Trenta fino agli anni Ottanta. In questo periodo all’immagine decadente-estetizzante
      del sommo artista, tipica della fin de siècle, se ne sostituisce un’altra, assai
      diversa e decisamente più moderna. Questa immagine emerge negli interventi
      di alcuni dei maggiori poeti e prosatori del secolo scorso che qui si esaminano:
      da Ungaretti a Gadda, da Sinisgalli a Montale, da Cecchi a Quasimodo, fino a
      Italo Calvino.

      The subject of this paper is the reception of Leonardo da Vinci in twentieth-century
      Italian literature, especially from the 1930s to the 1980s. In this period, the
      decadent and aesthetic image of the great artist – typical of the fin de siècle – was
      replaced by another one, very different and definitely more modern. This image
      comes out in the works of some of the greatest poets and prose writers of
      the last century, who are examined here: from Ungaretti to Gadda, from Sinisgalli
      to Montale, from Cecchi to Quasimodo, up to Italo Calvino.

  2. Contributi
    • Gabriella Capozza

      Galilei e la Stella nuova tra scienza e letteratura – pp. 569-588

      In una notte del 1604 il cielo fu improvvisamente illuminato da un nuovo astro.
      L’evento creò grande scalpore e curiosità. Galilei tenne tre Lezioni universitarie
      al riguardo, in cui sostenne che la collocazione della Stella nuova fosse nella
      sfera delle stelle fisse. Tale tesi innescò forti reazioni da parte dei peripatetici, a
      cui Galileo rispose con La Difesa e un Dialogo. Le Lezioni, La Difesa e il Dialogo
      appaiono, pertanto, scritti inscindibili e, al tempo stesso, preannunciatori di
      quel tenace viaggio, continuamente negato e impugnato, compiuto da Galileo
      verso la verità.

      One night in 1604 the sky was suddenly lit up by a new star. The event caused
      quite a stir. Galilei gave three university Lezioni on the subject, in which he
      claimed that the location of the new star was to be found in the sphere of the
      fixed stars. This view triggered off strong reactions amongst peripatetics, to
      whom Galileo replied with La Difesa and a Dialogo. Lezioni, La Difesa and
      Dialogo appear therefore closely related and, at the same time, harbingers of
      that tenacious journey –repeat

    • Ignazio Castiglia

      «L’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni»: osservazioni sul teatro di Francesco Benedetti
      (1785-1821)
      – pp. 589-614

      L’articolo fa luce sulla figura del tragediografo Francesco Benedetti, patriota
      affiliato alla Carboneria dal 1808 e morto suicida nel 1821. Ostile tanto al modello
      alfieriano quanto alle poetiche romantiche, Benedetti concepiva il teatro come
      scuola di «virtù pubbliche e domestiche» e incentrava le sue opere su personaggi
      eroici il cui sacrificio doveva suscitare negli spettatori e nei lettori una
      nuova coscienza dei doveri da assolvere nei confronti della patria oppressa.

      This article sheds light on the tragedian Francesco Benedetti, a patriot affiliated
      with the Carboneria from 1808 onwards and who committed suicide in 1821.
      Ill-disposed both towards Alfieri and Romanticism, Benedetti thought of theatre
      as a school of “public and private virtue” and centred his works on heroic
      characters whose sacrifice was supposed to engender in audiences and readers
      alike a new awareness of their duties towards the downtrodden fatherland.

    • Annalisa Carbone

      «Il desiderio di un altrove»: Calvino e «il vivere da straniero» – pp. 615-628

      L’intervento è circoscritto sul libro di Italo Calvino, Eremita a Parigi, nel quale
      prose, pagine diaristiche, testimonianze e articoli di taglio autobiografico hanno
      come fondale scenografico e oggetto tematico quell’«instabilità geografica»
      che sollecita lo scrittore verso «il desiderio di un altrove». In particolare sono tre
      i luoghi in cui Calvino inscena questo atteggiamento intellettuale: Torino, Parigi
      e New York.

      This study looks at Italo Calvino’s Eremita a Parigi in which prose, diary entries,
      accounts and autobiographical articles revolve around that “geographical instability”
      that spurs the writer on in his “longing for somewhere else”. This intellectual
      attitude regards three places in particular: Turin, Paris and New York.

  3. Recensioni
    • Alberto Comparini

      Virna Brigatti, Diacronia di un romanzo.«Uomini e no» di Elio Vittorini (1944-1966), Milano 2016; Virna
      Brigatti,
      Elio Vittorini.La ricerca di una poetica, Milano 2018
      – pp. 629-631

    • Giuseppe A. Liberti

      Franco Fortini, La guerra a Milano. Estate 1943. Edizione critica e commento a cura di Alessandro La
      Monica,
      prefazione di Stefano Carrai, Pisa 2017
      – pp. 631-633

    • Giuseppe A. Liberti)

      Giampaolo Borghello, Sequenze. Percorsi, problemi e scorci di storia della letteratura italiana,
      Venezia 2019
      – pp. 633-637

    • Viviana Tarantino

      Raffaele Cavalluzzi, Sogni da sogni. Studi di letteratura e cinema, Bari 2018 – pp. 638-640

    • Mara Boccaccio

      Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana Grasso, a cura di Gandolfo Cascio, Venezia 2018 – pp.
      640-642

Giulia Tellini
Corallina 1751-1753. Sulla Donna vendicativa
di Goldoni
Il saggio prende in esame i personaggi interpretati dall’attrice Maddalena Marliani
(specializzata nel ruolo della servetta Corallina) nelle diciassette commedie
che Carlo Goldoni compone, dal febbraio 1751 al febbraio 1753, per la compagnia
Medebach, di stanza al teatro Sant’Angelo di Venezia. L’ultima di queste
commedie è La donna vendicativa, qui considerata sia come significativo omaggio
alla Marliani sia come sintesi esemplare di una fase fondamentale, artistica
e umana, dell’intera carriera goldoniana.

This essay looks at the characters played by the actress Maddalena Marliani
(specialising in the role of the maidservant Corallina) in the seventeen comedies
written by Carlo Goldoni from February 1751 to February 1753 for the
Medebach company, based at the Sant’Angelo theatre in Venice. The last of
these comedies is La donna vendicativa, taken here to be both a significant homage to
Marliani and a perfect synthesis of a key phase – on an artistic and human plane –
within the career of Goldoni.
Inimitabil sempre, sempre più destra e fina
È in caratteri varj l’attrice Corallina,
O il tragico si cinga coturno grave al piede,
O il ridevole socco che a lei Talìa già diede1.
1. Premessa
Nel presente saggio, propedeutico alla mia curatela della Donna vendicativa
per l’Edizione Nazionale delle Opere di Goldoni, s’intende fornire
un’agile mappa per muoversi all’interno della produzione comi-
Autore: Università di Firenze; assegnista di ricerca; giulia.tellini@unifi.it
1 Anonimo, Della vera poesia teatrale. Epistole poetiche di alcuni letterati modanesi
dirette al signor abate Pietro Chiari colle risposte del medesimo, Modena, Soliani, s.d.
[ma 1754], p. 8.
Saggi
420 giulia tellini
ca del commediografo in un arco cronologico compreso fra il febbraio
1751 e il febbraio 1753, ovvero fra il mese nel quale la ballerina e attrice
Maddalena Marliani inizia a interpretare il ruolo della servetta Corallina
nella compagnia Medebach e il mese in cui l’autore, a norma di
un contratto stipulato tre anni prima, scrive per questa compagnia
l’ultima commedia da lui dovuta al capocomico2.
Dal febbraio 1751 al febbraio 1753, Goldoni compone diciassette
commedie, pensate su misura per gli attori della compagnia, che è di
stanza al teatro Sant’Angelo, a Venezia: Girolamo Medebach è il capocomico
e il primo amoroso, Ottavio; sua moglie Teodora Raffi Medebach
è la prima amorosa e dà vita quasi sempre a Rosaura; Giuseppe
Marliani è specializzato nel ruolo del servo Brighella; sua moglie
Maddalena Marliani è la servetta Corallina, spesso fidanzata di Brighella
(ma talvolta di Arlecchino); Antonio Matteucci detto il Collalto
è Pantalone; Francesco Falchi è il secondo amoroso, Florindo; Luzio
Landi è Lelio, il terzo amoroso; sua moglie Caterina Landi è la seconda
donna, in arte Beatrice; Vittoria Falchi, moglie di Francesco, è la
terza donna, Eleonora; Ferdinando Colombo, infine, è Arlecchino.
Le diciassette commedie sono qui esaminate nella redazione più
prossima al copione andato in scena il giorno della prima3. Inoltre, per
comodità espositiva, sono organizzate in cinque gruppi, sulla base
della parte che la Marliani vi riveste. Il che consente di visualizzare
meglio il percorso interpretativo da lei seguito dal 1751 al 1753. Ecco
così che La donna volubile, I pettegolezzi delle donne, Il Moliere, scritte
quando l’autore conosce ancora poco l’attrice, formano la «trilogia
della Marliani in prova»; La gastalda, Le donne gelose, La serva amorosa,
La locandiera, La donna vendicativa costituiscono la «pentalogia della
Marliani protagonista»; L’amante militare, Il trionfo della prudenza in Rosaura
moglie amorosa, La figlia obbediente, I due Pantaloni compongono la
«tetralogia della commedia nella commedia» perché l’attrice vi risulta
protagonista di mini-trame inserite all’interno della trama principale
in modo tale che, se espunte, l’edificio generale non crolli; Il Marchese
di Monte Fosco, Le donne curiose, L’uomo imprudente sono tre commedie
2 Sul periodo 1750-1753 nella vita e nella carriera goldoniana, si rinvia al documentatissimo
volume di Ginette Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Tomo III
1750-1753, Venezia, Marsilio, 2009. Per nuove acquisizioni su Maddalena Marliani
(veneta, classe 1723 ca, figlia di Domenico Facchinetti), cfr. Simona Bonomi-Piermario
Vescovo, «In due si fanno l’opre famose»: il sodalizio Goldoni-Medebach (I),
«Studi goldoniani», XV, 2018, pp. 45-86.
3 E quindi, quando possibile, nell’edizione Bettinelli.
[ 2 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 421
corali, nelle quali l’attrice non è coinvolta in schermaglie con Arlecchino
né con Brighella, perciò per esse propongo la denominazione qualificativa
di «trilogia della Marliani a riposo»; Il tutore, I puntigli domestici,
La donna vendicativa danno vita infine alla «trilogia di Corallina
villain», perché la Marliani, con vorticosa climax ascendente, vi interpreta
il ruolo di antagonista sempre più malvagia.
Ultima delle diciassette commedie, La donna vendicativa, una delle
opere più ingiustamente sottovalutate di Goldoni4, si segnala già in
via preliminare per un dato d’immediata evidenza, vale a dire per il
fatto d’appartenere sia alla «pentalogia della Marliani protagonista»,
sia alla «trilogia di Corallina villain»: un tratto distintivo che assegna
al testo un risalto e un rilievo unici nel panorama della produzione
che qui interessa.
Nel saggio sono passate in rassegna le diciassette commedie, per
mostrare come l’ultima, La donna vendicativa, si ponga come momento
culminante di un itinerario complesso, come epilogo che sintetizza le
sedici commedie che la precedono. Apice e sintesi dei due anni, di vita
e di lavoro artistico, nei quali Goldoni e la Marliani si trovano impegnati
insieme nella compagnia Medebach.
2. Le commedie con la Marliani
Il 3 ottobre 1749, come emerso da un recente ritrovamento, ai Capi
del Consiglio dei Dieci è presentata una supplica firmata dal trentottenne
Giuseppe Marliani, fratello di Lucia Marliani (moglie di Gasparo
Raffi nonché madre di Teodora Medebach) e marito dal marzo 1738
di Maddalena Facchinetti. Nella supplica, Marliani implora il Consiglio
dei Dieci che gli sia riconsegnata la moglie, la quale, dopo essere
fuggita dal tetto coniugale sei anni prima e dopo aver vissuto per cinque
anni con un uomo sposato, è stata data in custodia a un abate e
chiede di poter tornare col marito:
Attesa […] la disposizione di essa mia moglie che dir posso rinata,
prostrato di nuovo a quest’Eccelso Tribunale umilmente imploro che
4 R iguardo alla Donna vendicativa, si ricordano in particolare gli studi seguenti:
Franco Fido, Due “notturni”: i commiati di Goldoni dal Sant’Angelo e dal San Luca, in
Id., Il Paradiso dei buoni compagni, Padova, Antenore, 1988, pp. 179-188; Piermario
Vescovo, «La peinture des faiblesses». Libertà e «delicatezza insidiosa» nella «Locandiera
», «Problemi di Critica Goldoniana», 1994, pp. 314-31; G. Herry, Biografia ragionata.
Tomo III 1750-1753, cit., pp. 535-545.
[ 3 ]
422 giulia tellini
resti ordinato che mi si consegni pronto ad accoglierla con sentimenti
di coniugale cristiano affetto, promettendo che non sarà mai in alcun
modo né in parole né in fatti da me molestata, come pure in alcun tempo
e luogo, per qualsiasi motivo o causa niente eccettuato non permetterò
né lascierò che vada a recitare né pubblici Teatri essendo queste le
richieste da lei fattemi, da me accordate, obbligando solennemente la
propria persona, e beni d’ogni sorta5.
Goldoni, intanto, come attesta il contratto datato 10 marzo 1749, è
impiegato in qualità di «Poeta» nella compagnia di Girolamo Medebach
a partire dal 19 febbraio 1749 fino all’ultimo giorno di Carnevale
del 17536. Se si includono anche le commedie da lui composte nel
1748, anno in cui lavora per Medebach in via sperimentale e senza un
regolare contratto, nell’autunno del 1749, quando Maddalena Facchinetti
Marliani fa ritorno a casa, Goldoni, su misura per la prima attrice
della compagnia, vale a dire Teodora Raffi Medebach, ha già scritto fra
le altre cose La vedova scaltra (rappresentata il 26 dicembre 1748), La
putta onorata (la prima nel Carnevale 1749) e La buona moglie (che debutta
nell’autunno del 1749). Al termine della stagione 1749-1750, dopo
l’insuccesso dell’Erede fortunata e l’annuncio da parte del celebre
Pantalone Cesare D’Arbes che abbandonerà la compagnia per andare
a recitare a Dresda, Goldoni, per bocca di Teodora, fa sapere agli spettatori
che, nell’anno comico successivo, darà sedici commedie nuove7.
La prima delle sedici, allestita al Sant’Angelo il 5 ottobre 17508, è Il teatro
comico. L’ultima, messa in scena il 23 febbraio 1751, per la serata di
chiusura del carnevale, è I pettegolezzi delle donne.
Malgrado la richiesta fatta al marito, «obbligando solennemente la
propria persona», di non andare a recitare mai più «ne’ pubblici Teatri»,
la Marliani, nel carnevale del 1751, è già alle prese con il ruolo di Corallina
nella Donna volubile, la penultima delle sedici commedie nuove.
Ballerina, insieme alla coetanea Teodora, nella compagnia di sal-
5 I l documento, trovato da Anna Scannapieco, è conservato presso l’Archivio
Storico di Venezia, Capi del Consiglio dei Dieci, Notatorio. Filze, b. 49. Cfr. Anna
Scannapieco, Goldoni «avant et après la lettre» (divagazioni proemiali), in Javier Gutiérrez
Carou (a cura di), Goldoni «avant la lettre»: esperienze teatrali pregoldoniane
(1650-1750), Venezia, lineadacqua, 2015, p. 37.
6 Come si sa, il contratto è integralmente trascritto da Goldoni nell’Autore a chi
legge della Donna vendicativa (Firenze, Paperini, t. vii, 1754).
7 I l sonetto caudato recitato da Teodora la sera del 10 febbraio 1750, per la
precisione recita così: «Tutte commedie nove el produrà; / E se ghe ne sarà, / Se la
so fantasia no vien al manco, / Una alla settimana per almanco».
8 Anche se la prima avviene a Milano nel settembre 1750.
[ 4 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 423
timbanchi di Gasparo Raffi fin dalla seconda metà degli anni Trenta,
Maddalena si reinventa servetta all’inizio del 1740, quando Gasparo,
d’accordo con Giuseppe Marliani («Saltatore e Danzatore di corda
[della compagnia], il più bravo, il più Comico, il più delizioso del
Mondo»)9, s’associa col Medebach per affittare un teatro e recitare
commedie. Il capocomico, Medebach, che nel gennaio 1740 impalma
Teodora (classe 1723 ca), è il primo attore e sua moglie è la prima attrice;
Marliani, che, come già accennato, nella primavera del 1738 diventa
marito di Maddalena, è Arlecchino e sua moglie è per l’appunto
Corallina, la servetta10.
Il 27 febbraio 1751, in una lettera a Giuseppe Antonio Arconati Visconti,
Goldoni presenta così la nuova Corallina: «la Serva […] sarà la
moglie di Brighella [Marliani], che fu assai buona e si spera tale tuttoché
sei anni sia stata in riposo, avendo dello spirito e dell’abilità»11. In
realtà, benché nella lettera sia usato il futuro, Maddalena è già comparsa
nella Donna volubile, come Corallina12, e nei Pettegolezzi delle donne,
nei panni di «Donna Catte, lavandaia».
9 Prefazione al t. xvii dell’edizione Pasquali, ora in Carlo Goldoni, Memorie
italiane. Prefazioni e polemiche, a cura di Roberta Turchi, Venezia, Marsilio, 2008-
2011, 3 voll., III, p. 288.
10 «Erano già tre anni, che portavasi in Venezia regolarmente in tempo di Carnovale
Gasparo Raffi Romano, Capo de’ Ballerini di corda, colla sua Compagnia,
ch’era una delle più famose in tal genere […]. La Teodora, figliuola del Raffi, Moglie
in appresso del Medebac, ballava sulla corda passabilmente, ma danzava a terra
con somma grazia; la Maddalena, che fu Moglie in seguito di Giuseppe Marliani, era
una copia fedele della Teodora, e il Marliani suddetto, che faceva il Pagliaccio, era
un Saltatore e Danzatore di corda, il più bravo, il più Comico, il più delizioso del
Mondo. Questa Compagnia di quasi tutti Congiunti era amata ed apprezzata in
Venezia, non solo per la bravura ed abilità in tal mestiere, ma per l’onesta e saggia
maniera di vivere sotto la buona direzione dell’onestissimo Raffi, e l’ottima condotta
della prudente, divota, e caritatevole Signora Lucia, sua Consorte. Il Marliani,
non so se stanco di quel pericoloso mestiere, o eccitato dal genio Comico, avea
gran voglia di recitare delle Commedie. Capitò il secondo anno in Venezia il Medebac
accennato; e unitosi co’ Ballatori suddetti, avendo egli cognizione bastante
dell’arte Comica, gl’instruì, fornì loro i soggetti, e preso il picciolo Teatro di San
Moisè, colà, terminato il Casotto, recitavano delle Commedie, le quali sostenute
principalmente dalle apparenze, dai giochi, e dalle grazie del Marliani, che facea
l’Arlecchino, non lasciarono di attirare buon numero di Spettatori. La Teodora faceva
la prima Donna, e la Maddalena facea la Servetta; il Medebac era il primo
Amoroso» (ivi, pp. 287-288).
11 Carlo Goldoni a Giuseppe Antonio Arconati Visconti, Venezia, 27 febbraio
1751, in C. Goldoni, Lettere, in Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano,
Mondadori, 1935-1956, XIV (1956), p. 175.
12 Cfr. G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Tomo III 1750-1753, cit., p. 170.
[ 5 ]
424 giulia tellini
Dalla Donna volubile (carnevale del 1751) alla Donna vendicativa
(consegnata da Goldoni a Medebach nel carnevale 1753 ma andata in
scena solo nell’ottobre 1753), la Marliani recita, in parti ora più ora
meno estese, in diciassette commedie di Goldoni: undici la vedono
alle prese col ruolo di Corallina (La donna volubile, La gastalda13, L’amante
militare, Il tutore, Il trionfo della prudenza in Rosaura moglie amorosa14,
La serva amorosa, I puntigli domestici, I due Pantaloni15, Le donne curiose,
L’uomo imprudente16, La donna vendicativa), sei con altri personaggi di
vario tipo (Catte nei Pettegolezzi delle donne, Foresta nel Moliere, Corallina
nel Marchese di Monte Fosco17, Siora Lugrezia nelle Donne gelose,
Olivetta nella Figlia obbediente, Mirandolina nella Locandiera)18. Per cinque
volte, lei è la protagonista al posto di Teodora: nella Gastalda (no-
13 La gastalda è il titolo della commedia nell’ed. Bettinelli (t. vii, 1753). Nell’ed.
Paperini, il titolo della commedia è La castalda (t. viii, 1754, ma in realtà 1755). In
proposito, cfr. almeno Laura Riccò, Introduzione, in C. Goldoni, La castalda. La
gastalda, a cura di L. Riccò, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 9-67.
14 Questo il titolo della commedia nell’ed. Bettinelli. Nella Paperini (t. iv, 1753),
la commedia s’intitola La moglie saggia. Cfr. C. Goldoni, La moglie saggia. L’autore a
chi legge, in Id., Tutte le opere, IV (1940), cit., p. 1142.
15 Questo il titolo della commedia nell’ed. Bettinelli (t. viii, 1755). Nelle edizioni
Paperini e Pasquali il titolo è I Mercatanti (ed. Paperini, t. v, 1753; ed. Pasquali, t.
ix, 1766).
16 Questo il titolo della commedia quando «fu data ai Comici, e fu sul Teatro
rappresentata». Nell’ed. Paperini (t. viii, 1754), il titolo è Il contrattempo o sia Il
chiacchierone imprudente. Cfr. C. Goldoni, Il contrattempo o sia Il chiacchierone imprudente.
L’autore a chi legge, in Id., Tutte le opere, IV, cit., p. 927.
17 Nell’edizione Bettinelli (t. vii, 1753), il titolo della commedia è Il marchese di
Monte Fosco e il personaggio interpretato dalla Marliani è «Corallina Moglie di
Lelio». Nell’edizione Paperini (t. vi, 1754), la commedia è pubblicata col titolo Il
feudatario e il personaggio interpretato dalla Marliani è «Ghitta Moglie di Cecco»
(cfr. A. Scannapieco, Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, in «Problemi di Critica
Goldoniana», 1994, pp. 63-188; Ead., Ancora a proposito di Giuseppe Bettinelli editore
di Goldoni, «Problemi di Critica Goldoniana», 1995, pp. 281-292; Ead., È di scena la
filologia? Du côté de chez Goldoni (et ses acteurs, et ses environs…), in Filologia, Teatro,
Spettacolo. Dai Greci alla contemporaneità, a cura di Francesco Cotticelli e Roberto
Puggioni, Milano, FrancoAngeli, 2018, pp. 321-325). Si cita questa commedia,
fra quelle che non vedono la Marliani nei panni di Corallina, perché l’attrice non
vi impersona il ruolo della Servetta ma vi interpreta la parte della moglie, sciocca
e presuntuosa, del deputato di una comunità di campagna. Non a caso, nell’ed
Paperini, l’autore trasforma il nome del personaggio in «Ghitta Moglie di Cecco».
18 Secondo Ginette Herry, le commedie nelle quali la Marliani non interpreta
Corallina sono cinque, non sei. Ma qui si preferisce considerare il personaggio interpretato
dalla Marliani nel Marchese di Monte Fosco completamente estraneo al
ruolo di Corallina (Cfr. G. Herry, Goldoni e la Marliani ossia l’impossibile romanzo, in
«Studi goldoniani», 8, 1988, p. 138).
[ 6 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 425
vembre 1751), nelle Donne gelose (febbraio 1752), nella Serva amorosa
(maggio 1752), nella Locandiera (gennaio 1753) e nella Donna vendicativa
(ottobre 1753).
Goldoni studia la nuova arrivata e, nella Donna volubile, la affianca
come «sottocameriera» alla cameriera Colombina mettendola al servizio
non della volubile protagonista Rosaura, incarnata da Teodora, ma
della sua sorellina («un poco troppo semplice») Diana. Cameriera e
sottocameriera si contendono Brighella e in questa loro rivalità finzionale
l’autore riproduce con grande probabilità una insofferenza reale,
manifestata dalla Marliani non solo verso l’attrice nei panni di Colombina,
così come verso Teodora, ma anche verso la «semplicità» in generale,
qui impersonata da Diana, alla quale non a caso Corallina tutte
le notti in sonno «dà dei pugni». Oltre alla fobia della stupidità, è l’idiosincrasia
nei riguardi della subordinazione il primo aspetto che il
commediografo coglie della nuova servetta. Sintomatico questo scambio
di battute fra le due cameriere (in II, v):
Colombina Via, animo, prendete uno straccio e ripulite la polvere di
questi tavolini e queste sedie.
Corallina Questa è una cosa che la potete fare anche voi.
Colombina Queste cose non toccano a me: toccano a voi.
Corallina Perché a me, e non a voi?
Colombina Perché io sono cameriera, e voi sottocameriera.
Corallina Che vuol dir questo sotto? Io non so di sotto o di sopra.
Son venuta anch’io a servire per cameriera.
Colombina […] Basta, ora servite; e in questa casa siete la sottocameriera.
Corallina Cameriera sì, ma sottocameriera no.
Colombina Sì, sotto, sotto.
Corallina No, no, sotto mai19.
L’organizzazione drammaturgica della Donna volubile, che gravita
intorno a una «volubile eccedente»20, è molto simile a quella dell’ultima
commedia goldoniana con la Marliani, ovvero La donna vendicati-
19 C. Goldoni, La donna volubile, in Id., Le femmine puntigliose, La donna volubile,
La donna di testa debole, a cura di Gastone Geron, Milano, Mursia, 1993, pp. 167-
168.
20 «In un giorno una volubile si cambierà una volta: un’altra due e qualcheduna
tre. Rosaura si cambia più volte ancora, ond’ella è una volubile eccedente, una
volubile da Commedia. Per far rilevare un carattere sulle Scene, conviene necessariamente
dipingerlo con i più forti e vivi colori» (Id., La donna volubile. L’autore a chi
legge, ivi, p. 137).
[ 7 ]
426 giulia tellini
va, dove la protagonista, vendicativa «eccedente», vorrebbe tutto e
alla fine non solo non riesce a avere niente, ma rimane sola, abbandonata
da tutti, a riflettere su se stessa e sui propri errori. La principale
differenza è che la protagonista della Volubile è Rosaura (Teodora) e la
protagonista della Vendicativa è Corallina (Maddalena). Il percorso che
dalla Volubile conduce alla Vendicativa si apre con una prim’attrice che
interpreta una protagonista (Rosaura) definita «donna» nel titolo per
chiudersi con una servetta che interpreta una protagonista (Corallina)
definita «donna» nel titolo. Nel giro di due anni, all’interno della rigida
gerarchia dei ruoli esistente nella compagnia Medebach (così come
in ogni compagnia), si attua una rivoluzione completa. A un capovolgimento
analogo, in realtà, si sarebbe potuto assistere anche dieci anni
prima se Anna Baccherini, la servetta della compagnia Imer per cui
Goldoni aveva composto La donna di garbo (1743), non fosse morta prematuramente
costringendo la prima attrice Adriana Bastona a sostituirla21.
L’avversione di Goldoni per il sistema dei ruoli è nota, basti pensare
all’Autore a chi legge della Castalda:
regna ancora fra alcuni di tal mestiere la pretensione del primo luogo,
onde ne avviene che si rovinano da loro stessi. Ciò accade sovente nelle
Compagnie che rappresentano le Commedie stampate. Ciascheduno
si crede capace di far la parte migliore, supponendo che questa possa
nascondere i suoi difetti. Per me ho sempre detto essere la prima
Donna quella che sulla scena si fa più onore d’un’altra, onde siccome è
accidentale l’incontro, così dovrebbe essere alternativa la preminenza.
Chi va al Teatro e spende il suo denaro per aver piacere, non è impegnato
a sostenere il grado degli Attori, ma il merito, e se può accorgersi
che per causa de’ loro Puntigli abbiano i Commedianti distribuita
male una Commedia, s’arrabbia contro di loro e li maledice22.
Altrettanto noto è l’amore di Goldoni per le Soubrettes, ovvero per
le servette («J’ai toujours eu par la suite un goût de préférence pour les
Soubrettes»)23. Ed ecco come, nei Mémoires, ricorda l’arrivo della Marliani
in compagnia:
Marliani, le Brighella de la Compagnie, étoit marié; sa femme, qui avoit
été Danseuse de corde comme lui, étoit une jeune Vénitienne, fort jolie,
21 Cfr. C. Goldoni, Mémoires, I, 43-44, in Id., Tutte le opere, cit., I (1935), pp. 197-
199.
22 Id., La castalda. L’autore a chi legge, in Id., La castalda. La gastalda, cit., p. 118.
23 Id., Mémoires, I, 6, cit., p. 29.
[ 8 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 427
fort aimable, pleine d’esprit et de talens, et montroit d’heureuses dispositions
pour la Comédie; elle avoit quitté son mari pour des étourderies
de jeunesse; elle vint le rejoindre au buot de trois ans, et prit
l’emploi de Soubrette, sous le nom de Coraline, dans la Troupe de Medebac.
Elle étoit gentille; elle jouoit les rôles de Soubrette; je ne manquai pas
de m’y intéresser; je pris soin de sa personne, et je composai une Piece
pour son début24.
La commedia scritta per il debutto della Marliani è La gastalda ma,
prima, l’attrice compare, oltre che come Corallina nella Volubile, nei
panni di Catte nei Pettegolezzi e nei panni di Foresta nel Moliere.
Nei Pettegolezzi, l’astio di Catte «lavandera» verso la protagonista
Checchina (Teodora), sua «zermana», nasce quando, durante una festicciola
per il fidanzamento di Checchina (I, ii), Pantalone chiede a
Sgualda «rigattiera» di alzarsi dalla sedia per far accomodare la romana
Beatrice, un’amica borghese della promessa sposa. Sgualda s’offende
e se ne va. Catte, che prende le parti di Sgualda, punzecchia Beatrice,
chiamandola «polentina», finché non è cacciata via da paron Toni,
il creduto padre della protagonista:
Toni Savéu cossa, che vo da dir, siora? Che in casa mia no vòi dottorezzi;
che se se’ stada invidada, tratté con civiltà, e se no la savé la civiltà,
andé a far i fatti vostri.
Catte Sì? Me mandé via? No se’ degno d’averme. Oe ve ne pentieré.
Checca, vago via, sastu? Ma vòi che ti te recordi de Catte lavandera
(parte)25.
Il primo pettegolezzo (Checchina non è figlia di paron Toni) si diffonde
a macchia d’olio, partendo da Sgualda per passare a Catte, alla
«sartora» Anzoletta, alle borghesi Beatrice e Eleonora, e arrivare, nel
giro di dieci scene (I, vi-xv), a Beppo, il fidanzato di Checchina. Catte
non nutre nessun tipo di risentimento personale verso Checchina,
protagonista piuttosto dimessa e passiva, ma certo la invidia per lo
scarto sociale26 e vendica su di lei l’offesa subita da paron Toni, che
l’ha cacciata di casa: perciò riferisce il pettegolezzo a Anzoletta, ex fidanzata
di Beppo e di conseguenza ghiotta interlocutrice.
Giocando anche qui su elementi reali e sulla reale rivalità fra Teo-
24 Ivi, II, 14, p. 303.
25 Id., I pettegolezzi delle donne, a cura di Paola Luciani, Venezia, Marsilio,
1994, p. 85.
26 P. Luciani, Introduzione, ivi, p. 19.
[ 9 ]
428 giulia tellini
dora e Maddalena, risaputa a Venezia come pure la travagliata storia
matrimoniale dei coniugi Marliani27, il commediografo crea una pièce
che è come un bolero, scandita da un ritmo marcato e ossessivo, con un
pettegolezzo che viene dipanato e sdipanato, raddoppiato e triplicato,
e con due ex ballerine sulla corda (Teodora e Maddalena) a fronteggiarsi,
a turno avanzando e indietreggiando.
Il colorito personaggio di Catte, permaloso e vendicativo ma non
ipocrita, dà alla Marliani la possibilità di farsi notare accanto alla petulante
Checchina di Teodora. Si tratta di una parte piccola, ma fondamentale
nell’economia della trama, che Goldoni, gran cultore dei
«mezzi caratteri», affida alla nuova attrice per sondarne le capacità:
Io ebbi sempre nello scrivere, ed ho tuttavia, un precetto asprissimo,
che gli altri Scrittori per lo passato non hanno avuto, quello cioè di
adattare la Commedia alla compagnia degli Attori […]. Da ciò ne avviene,
che conosciuto da me il valore d’un Personaggio, rade volte
m’inganno, e poco felici riescono alcune scene, quando incerto sono di
chi le debba rappresentare. Per me nessun personaggio è inutile. Ciascheduno
ha qualche carattere particolare, che può servire al Teatro;
chi più, chi meno, egli è vero, ma i mezzi caratteri son necessari ancora,
come le mezze tinte ai Pittori28.
I pettegolezzi, coronati da un travolgente e inaspettato successo,
chiudono la stagione delle sedici commedie nuove (1750-1751). Goldoni,
stravolto dalla stanchezza, si ammala29 e, in aprile, raggiunge
Medebach a Torino, dove la compagnia è in tournée al teatro del Principe
di Carignano. L’attrice interprete di Colombina è licenziata, la
Marliani assunta ufficialmente. A Torino, dove il pubblico mostra di
non gradire le commedie goldoniane30, il 28 agosto debutta Il Moliere,
seconda opera autobiografica indiretta (dopo Il teatro comico) e prima
sulla condizione di autore di teatro31. Stanco di sentir dire, in occasio-
27 Cfr. G. Herry, Goldoni e la Marliani ossia l’impossibile romanzo, cit., p. 143.
28 C. Goldoni, La castalda. L’autore a chi legge, cit., p. 118.
29 «J’avois, à quarantetrois ans, beaucoup de facilité pour l’invention et pour
l’exécution de mes sujets; mais j’etois homme comme un autre. L’assiduité au travail
avoit derange ma santé; je tombai malade, et je payai la peine de ma folie» (Id.,
Mémoires, II, 12, cit., p. 294).
30 «Dell’esito delle mie commedie in Turino non ho sinora ragione d’essere contento.
Il genio di questa nazione è particolare, e dirò soltanto che più del Cavaliere e
la Dama piace in Turino l’Arlecchin finto principe» (Carlo Goldoni a Giuseppe Antonio
Arconati Visconti, Torino, 30 aprile 1751, in C. Goldoni, Lettere, cit., p. 175).
31 G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Tomo III 1750-1753, cit., p. 188.
[ 10 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 429
ne di ogni prima rappresentazione, «c’est bon, mais ce n’est pas du
Moliere»32, Goldoni decide di dare ai torinesi una pièce che non solo si
conforma al modello della commedia francese («en cinq actes et en
vers, sans masques et sans changements de scenes»)33, ma nella quale
oltretutto appare sulla scena lo stesso Molière34. Nell’opera, accolta
con entusiasmo, la Marliani interpreta Foresta, la «servente» del protagonista,
che, prima, viene ingannata dal vecchio e malvagio Pirlone
(II, i) e, poi, scoperta la natura tartufesca di quest’ultimo, lo inganna a
sua volta (III, vi) con arte, avvolgendolo in una spirale di menzogne e
lusinghe, in modo da raggiungere presto il suo obiettivo: sottrargli
cappello e mantello e chiuderlo in uno stanzino35. L’amico di Molière,
Valerio, osserva non visto la scena fra Pirlone e Foresta, e commenta
(III, vii): «Più comica non vidi scena giammai di questa, / non credea
spiritosa cotanto la Foresta»36.
Goldoni, che continua a studiare la Marliani, la mette alla prova col
personaggio di Foresta, da lui definita «plus adroite que ses
maîtresses»37, ovvero delle due Comiche che dividono la casa con Molière
(la Bejart e la figlia Isabella, impersonata da Teodora). Foresta (la
Marliani) è dunque più furba della «patetichina» Isabella (Teodora),
che tuttavia, come dichiara Molière nel primo atto della commedia,
«ha pure la grand’arte!» (I, iii).
Nei Mémoires, le due rivali, opposte e complementari, della compagnia
Medebach sono così descritte:
Madame Medebach me fournissoit des idées intéressantes, touchantes,
ou d’un comique simple et innocent; et Madame Marliani, vive, spirituelle,
et naturellement accorte, donnoit un nouvel essoir à mon imagination,
et m’encou’ageoit à travailler dans ce genre de Comédies qui
demande de la finesse et de l’artifice38.
L’una fragile di nervi, monotonale, caratterizzata da una recitazione
monostilistica benché non priva di brio e grazia, l’altra ritratto del-
32 C. Goldoni, Mémoires, II, 12, cit., p. 295.
33 Ivi, p. 296.
34 Cfr. Bodo Guthmüller, «Ad imitazione delli Francesi». “Il Moliere” di Goldoni,
in «Problemi di Critica Goldoniana», 1994, p. 278.
35 «[…] la Forêt […] joue celui qui vouloit la jouer, le rend amoureux, et lui ôte
son manteau et son chapeau pour en régaler Moliere, qui paroît sur la scene avec
les hardes de l’imposteur» (C. Goldoni, Mémoires, II, 12, cit., p. 296).
36 Id., Il Moliere, a cura di B. Guthmüller, Venezia, Marsilio, 2004, p. 139.
37 Id., Mémoires, II, 12, cit., p. 296.
38 Ivi, II, 14, cit., p. 303.
[ 11 ]
430 giulia tellini
la salute, politonale, in grado di spaziare da un registro all’altro, e
dotata di una vitalità e di una prontezza di spirito che la moglie di
Medebach, languida e languente, cagionevole e sospesa in un perenne
stato convalescenziale, non ha mai avuto.
La Corallina della Volubile, la Catte dei Pettegolezzi, la Foresta del
Moliere sono parti brevi ma decisive, molto diverse fra loro, che offrono
al commediografo l’opportunità di individuare nella nuova servetta
ancora in fase sperimentale abilità interpretative inedite e inaspettate
(«Non credea spiritosa cotanto la Foresta»)39.
3. Dalla «Gastalda» alle «Donne gelose»
Alla «trilogia della Marliani in prova» (Volubile, Pettegolezzi e Moliere)
fa seguito la prima commedia della «pentalogia della Marliani protagonista
» (Gastalda, Donne gelose, Serva amorosa, Locandiera,
Vendicativa)40, ovvero, appunto, La gastalda, che a Venezia, il 3 novembre
1751, apre la stagione 1751-1752. Si tratta, per la Marliani, della
commedia d’esordio41 e Goldoni nell’Autore a chi legge della Castalda
(Paperini, t. viii, 1755) ne parla così:
39 Sulla Marliani nei panni di Foresta, cfr. almeno Cécile Berger, Carlo Goldoni,
des coulisses du théâtre vers l’avant-scene du texte. Les traces de la dramaturgie de
l’acteur dans la dramaturgie de l’auteur, in «Chroniques italiennes», XXVIII, 2, 2014,
pp. 103-111.
40 «Se può […] avere un senso raggruppare le opere che vedono la Marliani
protagonista e quindi estrapolare la cosiddetta trilogia di Corallina (Castalda, Serva
amorosa, Locandiera, ma perché l’arbitrio di trascurare l’interessantissima Donna
vendicativa?) deve però essere ben chiaro che è più vicina alla conoscenza dell’officina
goldoniana la valutazione dell’arte dell’attrice nell’intera drammaturgia che
la vede presente, abbia o non abbia il ruolo del titolo […]. La drammaturgia dell’attrice
è dunque significativa nell’alternanza e non solo nella preminenza» (Sara
Mamone, Introduzione, in C. Goldoni, La locandiera, a cura di Sara Mamone e
Teresa Megale, Venezia, Marsilio, 2007, p. 24). Nella sua preziosa Introduzione
alla Locandiera, Sara Mamone parla di una «trilogia di Corallina», ma si preferisce
qui parlare di una «pentalogia della Marliani protagonista», visto che l’attrice impersona
il personaggio principale in cinque commedie su diciassette, e in due su
cinque (nelle Donne gelose e, appunto, nella Locandiera) il ruolo da lei rivestito non
è quello di Corallina.
41 L’esordio è una delle rare occasioni in cui la Servetta può essere promossa a
protagonista, spesso in personaggi «di trasformazione». L’autore compone La gastalda
per la Marliani e per tutta la compagnia, con l’esclusione del Dottore e di
Eleonora (la terza donna Vittoria Falchi). Cfr. G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata.
Tomo III 1750-1753, cit., p. 228.
[ 12 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 431
Fu quella la prima volta ch’io ebbi il piacer di scrivere per la brava
Attrice; pochissimo io l’avea veduta recitare per avanti, onde non aveva
ancor bene il suo carattere rilevato, come in appresso poi mi riuscì
di colpirlo nella Serva amorosa, nella Locandiera ed in tante altre42.
Messa in scena nell’autunno 1751 e poi edita da Bettinelli senza
l’approvazione dell’autore (t. vii, 1753)43, La gastalda, che riprende lazzi
e imbrogli tipici del mestiere dell’arte, vede Corallina (la Marliani
alle prese con la protagonista eponima) duettare quasi con tutti i personaggi:
Arlecchino (Colombo), Ottavio (Medebach), Pantalone (Collalto),
Beatrice (Caterina Landi), Lelio (Luzio Landi), col quale finge
d’essere figlia di Pantalone, e Brighella (Marliani)44. L’unico a non
duettare con Corallina è il personaggio che lei finge di essere, ovvero
la figlia di Pantalone, Rosaura (Teodora)45. Proprio a Rosaura però la
protagonista si rivolge alla fine, nella battuta che conclude la commedia:
Andemo donca, andemo siora Rosaura. E la sappia che siben che de
gastalda son deventada parona, m’arecorderò sempre dei mi principi,
e no mi lascerò insuperbir. E siben che ghe devento maregna, averò
sempre per ela amor, riverenza e rispetto. El mio paron xe adesso mio
marìo, ma non ostante no gh’ho in testa de voler comandar, ma anzi
che volerlo più amorosamente servir. So benissimo che se fusse superba
tutto sto ben che godo me poderave deventar velen, e siccome son
arrivada a sto grado colla pazienza, coll’onor e fedeltà, cusì spero de
conservarmelo colla gratitudine, e in ogni tempo, e in ogni liogo, in
ogni occasion, se son deventada signora, me aricorderò sempre d’esser
stada una povera, ma onorata gastalda46.
42 C. Goldoni, La castalda. L’autore a chi legge, cit., p. 117.
43 Non interessa in questa sede La castalda Paperini, che si presenta come un
programmatico rifacimento della Gastalda Bettinelli e che la Marliani non ha mai
interpretato. Testo letterario più che scenico, La castalda, rispetto alla Gastalda, è
molto meno legata alla commedia dell’arte (Cfr. L. Riccò, Introduzione, in La castalda.
La gastalda, cit., p. 41) e si colloca a metà strada fra «intermezzo a lieto fine» e
«commedia fustigatrice dei vizi» (ivi, p. 38).
44 Per l’attribuzione dei ruoli, cfr. ivi, pp. 209-212.
45 Goldoni delinea dunque la situazione d’una servetta che si finge prima donna.
Situazione profetica. Ben presto infatti la Corallina della Marliani si trova a
migrare «in un ruolo inedito di prima donna, trasferendo in quel vecchio contenitore
del mansionario comico le turbolenze di un ruolo inferiore, arricchendo il
primo di una tensione vitale e investendo il secondo di responsabilità drammaturgiche
inedite» (Siro Ferrone, La vita e il teatro di Carlo Goldoni, Venezia, Marsilio,
2011, pp. 80-81).
46 C. Goldoni, La gastalda, in Id., La castalda. La gastalda, cit., pp. 313-314.
[ 13 ]
432 giulia tellini
Si tratta d’una dichiarazione d’intenti che riguarda Corallina come
personaggio e la Marliani come attrice: mentre l’una sposa il suo padrone
(Pantalone) e promette alla figliastra Rosaura di non farle mai
mancare né l’amore né il rispetto, l’altra è promossa a protagonista e
assicura a Teodora di non lasciarsi insuperbire47.
Opposta ma complementare alla Gastalda, prima commedia della
«pentalogia della Marliani protagonista», la Vendicativa, costruita
anch’essa su meccanismi e caratteri tipici dell’arte, propone una Corallina
viziosa, «superba», con la voglia di comandare, che duetta con
tutti e che dà «pelate maledette»48 al suo padrone (Ottavio), il quale,
alla fine, invece di sposarla come vorrebbe, la caccia via di casa, non
prima d’aver acconsentito al matrimonio fra la figlia Rosaura e Florindo.
S’avvera così, quattordici commedie dopo, l’ipotesi della Gastalda:
«So benissimo che se fusse superba tutto sto ben che godo me poderave
deventar velen».
Dopo una ripresa del Moliere49, nell’autunno del 1751 debutta L’amante
militare, commedia nella quale le scene con la Marliani possono
essere espunte senza che tassianamente «il tutto ruini», come anche
nel Trionfo della prudenza, nella Figlia obbediente e nei Due Pantaloni. Si
tratta di una quadrilogia definibile «della commedia nella commedia
», perché i personaggi ai quali l’attrice dà vita (per tre volte Corallina
e, nella Figlia obbediente, Olivetta), che fanno da contraltare oppositivo
alle virtuose protagoniste incarnate da Teodora (tre volte Rosaura
e, nei Due Pantaloni, Giannina), sono alle prese con ministorie autonome
rispetto alla trama principale.
Nell’Amante militare, Corallina, cameriera di Rosaura, condisce
l’intera trama di commenti caustici «sulla facilità delle donne e la fanfaronaggine
degli ufficiali»50, e consiglia all’innamorato Arlecchino,
che s’è arruolato volontario per «magnar e bever, e star allegro, esser
vestido, calzado, e no far gnente a sto mondo» (I, xiv)51, di disertare,
perché la vita del soldato non è affatto come lui ingenuamente crede
che sia52. Le scene di Corallina col candido Arlecchino (Ferdinando
47 Cfr. anche G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Tomo III 1750-1753, cit.,
pp. 238-239.
48 C. Goldoni, La donna vendicativa, in Id., Tutte le opere, cit., IV, p. 1016.
49 Cfr. G. Herry, Biografia ragionata. Tomo III 1750-1753, cit., p. 305.
50 F. Fido, La guerra e i militari sulla scena, in Id., Le inquietudini di Goldoni. Saggi
e letture, Genova, Costa&Nolan, 1995, p. 51.
51 C. Goldoni, L’amante militare, a cura di Piero Del Negro, Venezia, Marsilio,
1999, p. 91. Il curatore ha scelto di riportare il testo dell’ed. Paperini.
52 «L’inverno colla neve e l’estate col sole starai su le mura collo schioppo in
[ 14 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 433
Colombo), che si fa soldato ed è condannato a morte per aver tentato
di fuggire travestito da donna, smorzano la drammaticità delle scene
fra Rosaura e l’alfiere don Alonso e permettono all’autore di esprimere
con schietta icasticità il parere delle classi popolari, che coincide
anche col suo parere, a proposito della guerra, dell’occupazione straniera53,
dell’eroismo militare, della prepotenza dei forti verso i deboli54.
È una Corallina savia e di ruspante buon senso, questa dell’Amante
militare, innamorata della vita e della libertà, molto diversa da quella,
ipocrita e bugiarda, che Goldoni cesella per la Marliani nell’opera
successiva, Il tutore.
Prima commedia del carnevale, Il tutore, che è anche la prima commedia
d’una trilogia nella quale la Marliani riveste il ruolo di villain
(le altre due pièces sono I puntigli domestici e La donna vendicativa), debutta
a Venezia il 4 gennaio 1752 e vede la coppia Maddalena-Teodora
alle prese con due figure femminili paragonabili alla coppia Corallina-
Diana della Donna volubile, ovvero la cameriera e la sua padroncina
poco intelligente55. L’interesse della Corallina del Tutore risiede nello
scarto fra l’apparire e l’essere, fra il sembrare una cameriera incorruttibile
e il rivelarsi pronta a tutto (disposta a farsi complice del rapimento
della «semplice»56 Rosaura da parte dell’«infame»57 Lelio) pur
di intascare qualcosa. Quando le si profila la possibilità d’un guadagno,
il cambiamento di lei è tanto repentino e radicale quanto ferrea la
sua determinazione nel perseguire lo scopo: sfoggiando un grandioso
talento nel fingere e nel mentire, riesce non solo a convincere Rosaura
a sposare Lelio (II, xvii) ma anche a far credere alla madre di Rosaura,
Beatrice, di aver salvato sua figlia dagli assalti di Lelio e di essersi
fieramente indignata per i tentativi di corruzione da parte del
ispalla: Chi va là? Dormirai sulla paglia, faticherai a far l’esercizio e, se fallerai, saranno
bastonate» (ibidem).
53 La vicenda, non a caso, si situa «in una città di Lombardia».
54 I l «personaggio più vivo è Corallina, la servetta Marliani, col suo amabile
scetticismo intorno al valore dei soldati, coi suoi scherzi sull’esercito che fa ritorno
senza essersi battuto: è il nostro popolo, come fu ben osservato, che si vendica, a
suo modo, degli stranieri» (G. Ortolani, Note. L’amante militare, in C. Goldoni,
Tutte le opere, cit., IV, p. 1127). «Se riesce assai difficile includere Goldoni tra gli
autori del “teatro contro” la guerra, è altrettanto difficile evitare di considerarlo un
difensore della società civile contro le prepotenze dei militari» (P. Del Negro, Introduzione,
in C. Goldoni, L’amante militare, cit., p. 36).
55 «Oh che gnocchetta!», mormora fra sé e sé Corallina a proposito di Rosaura
(C. Goldoni, Il Tutore, in Id., Tutte le opere, cit., IV, p. 154).
56 Ivi, p. 187.
57 Ivi, p. 168.
[ 15 ]
434 giulia tellini
«temerario»58 giovane (III, v). Quando Pantalone, tutore della ragazza
e padre di Lelio, scopre (III, xix) tutte le menzogne e i maneggi di Corallina,
lei si è già volatilizzata:
Pantalone Ah sassina! Dove xela Corallina?
Rosaura Signore, non è più in casa. Ha preso la sua roba, e se n’è andata.
Pantalone Per cossa?
Rosaura Ha detto che se ne andava per causa mia.
Beatrice Si è trovata scoperta, ed è fuggita.
Pantalone Bon viazzo […]59.
Rosaura sposa Florindo, Beatrice sposa Lelio, Corallina disappare
insieme ai dieci zecchini avuti da Lelio e la fa franca: tutte le ferite si
rimarginano e ognuno ottiene quello che desidera. È una parte piccola,
per la Marliani, ma segna un grande cambiamento nella sua carriera
d’interprete: per la prima volta infatti Corallina si presta a fingere e
a mentire (prima con Rosaura, poi con Beatrice) non, come nel Moliere,
per beffare un impostore, ma per motivi disonesti e a bieco scopo di
lucro.
Una ventina di giorni dopo Il tutore, a Venezia, il 27 gennaio 1752,
debutta Il trionfo della prudenza in Rosaura moglie amorosa, seconda commedia
del carnevale, nella quale la «caldetta»60 Corallina, cameriera
della virtuosa Rosaura, svolge la funzione di equilibrare la calcolata
prudenza della padrona con la propria focosa impulsività. Le sue tre
scene con Brighella (I, xix; II, xii; III, iii) scandiscono le fasi salienti
dell’azione principale: il conte Ottavio, innamoratosi della marchesa
Beatrice, maltratta la moglie Rosaura e diserta il letto matrimoniale (I);
poi firma un documento in cui acconsente a restituire Rosaura a suo
padre, Pantalone, accordandole duecento zecchini l’anno (II); infine
avvelena la limonata destinata alla moglie (III). Le schermaglie fra Corallina
e Brighella, il servo d’Ottavio, ovvero fra una moglie impetuosa
e un marito mite che vorrebbe «[imparare] dal padron a tegnir bassa
la muier»61, con l’altalenare di lei fra carinerie e insulti, e i falliti
tentativi da parte di lui «di [mettere] i mustacchi»62 come il suo padrone,
non fanno progredire la trama, ma ne allentano la tensione, «diver-
58 Ivi, p. 198.
59 Ivi, p. 210.
60 C. Goldoni, La moglie saggia, ivi, p. 272.
61 Ivi, p. 241.
62 Ibidem.
[ 16 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 435
tono l’uditore»63 e mettono in luce le qualità dei due attori: la Corallina
di Maddalena, che nel giro di quattro battute si trasforma da «amorosa
» in «irata» per poi tornare di nuovo amorosa64, e il Brighella di Marliani65,
che riesce ad addolcire la moglie solo prospettandole l’ipotesi
di farla dormire da sola. Ecco come si chiude la dodicesima scena
dell’atto secondo:
Corallina Che cosa ti ho fatto? Che cosa ti ho detto? Tu mi hai strapazzata,
tu mi hai provocata, tu sei una bestia (irata).
Brighella Orsù, dormo sulla carega.
Corallina Via, via, ho burlato, sei il mio caro marito.
Brighella (Oh, sta medesina no la lasso più) (da sé)66.
L’ultima battuta delle tre scene spetta a Corallina: «Ah! converrà
andar colle buone: qualche volta sono un poco caldetta, ma vi vuol
pazienza, son così di natura»67. Caldetta e un po’ bisbetica, dunque,
ma ragionevole: né corrotta come nel Tutore, né ridicola e vanesia come
nel Marchese di Monte Fosco (poi Il feudatario nelle edizioni Paperini
e Pasquali)68, commedia che va in scena a Venezia il 7 febbraio 1752 e
che apre una trilogia (formata anche dalle Donne curiose e dall’Uomo
imprudente) nella quale la Marliani è sostanzialmente «a riposo», inscritta
nel contesto di vicende molto corali.
Nell’ed. Bettinelli, Corallina è la moglie di Lelio, Deputato della
Comunità di Monte Fosco; nell’ed. Paperini è ribattezzata Ghitta, moglie
di Cecco: cambiamento onomastico giustificato dal fatto che la
parte interpretata dalla Marliani non ha quasi niente in comune col
63 Ivi, p. 220.
64 Ivi, p. 264.
65 «Il Brighella era un Uomo nel suo mestier maestro, ed in molti caratteri anche
dal suo lontanissimi veramente ammirabile. Provvisto dalla natura della più
sonora voce, e della più penetrante espressione, che si possa veder sulle scene, facea
vedere in sé solo degli estremi tanto contrarj, che si penava a credere dall’una
sera all’altra, ch’egli fosse lo stesso» (Pietro Chiari, La commediante in fortuna, a
cura di Valeria G.A. Tavazzi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, p. 94).
66 C. Goldoni, La moglie saggia, cit., p. 264. Le quattro battute sono uguali sia
nella Bettinelli che nella Pasquali. L’unica differenza fra le due edizioni è che nella
Bettinelli la prima battuta di Corallina è: «Cosa ti ho fatto? Cosa ti ho detto? Tu mi
hai strapazzata, tu mi hai provocata, tu sei una bestia» (ivi, p. 1146).
67 Ivi, p. 272.
68 Il Marchese di Monte Fosco è pubblicato nel t. vii (1753) dell’ed. Bettinelli. Il
feudatario è pubblicato nel t. vi (1754) dell’ed. Paperini e nel t. viii (1765) dell’ed.
Pasquali.
[ 17 ]
436 giulia tellini
ruolo di Corallina69. Rispetto alla «bella Ghitta»70 del Feudatario (ed.
Pasquali), la Corallina delle edizioni Bettinelli e Paperini ha molto più
spazio e offre l’occasione alla Marliani di divertirsi con un personaggio
che le calza a pennello e che le permette d’improvvisare, ovvero
quello d’una compiacente giovane moglie tutta superbia e invidia, insolenza
e grossolanità. Lusingata dalla corte dello scapestrato marchesino
Florindo («il più caro mattarello del mondo»)71, appena arrivato
dalla città per prendere possesso della giurisdizione di Monte Fosco,
Corallina è destinata a scomparire dalla scena quando il marito cacciatore
la sorprende nel bosco in compagnia di Florindo, che alla fine è
costretto dalla madre Beatrice a impalmare la «saggia» e «amabile»,
«generosa e prudente»72 Rosaura, nobile decaduta e d’integerrima
moralità, legittima erede del marchesato.
Per la chiusura della stagione 1751-1752, Goldoni tiene in serbo per
la Marliani una parte che non solo non ha nulla in comune col carattere,
scortese e infantile, da lei delineato nel Marchese ma neppure col
ruolo di servetta. Il 12 febbraio 1752 debutta, infatti, a Venezia, Le donne
gelose, «commedia veneziana, venezianissima»73 nella quale, dopo
La gastalda, l’attrice è nuovamente alle prese col personaggio principale,
che si chiama Siora Lugrezia e che è una smaliziata cittadina. Da
quando il marito è morto, per guadagnare un po’ di soldi, nella sua
condizione vedovile, s’arrabatta dando i numeri del lotto, prestando
su pegno e noleggiando vestiti agli uomini del quartiere:
Oe, mi me inzegno: un poco de lotto, un poco de pegni, un poco de
noletti… cioè noletti de abiti, intendemose: vôi andar all’opera, vôi andar
alla commedia, e no voggio nissun che me comanda. Ancuo con
una compagnia, doman con un’altra. I morosi i xe pezo dei marii, i vol
comandar a bacchetta, e mi son una testolina che vol far a so modo. Chi
me vuol, me toga, chi no me vuol, me lassa. Rido, godo, me diverto, e
no ghe penso de nissun una maledetta74.
69 Nell’Autore a chi legge della commedia (ed. Paperini), si legge: «Questa commedia
è stata assai bene accolta dall’universale, e nel portarla dal Teatro al torchio,
altro abbellimento io non le ho fatto, se non che cambiare i nomi agli Uomini ed
alle Donne di villa, assegnando a ciascuno un nome contadinesco, lo che non avevo
fatto a principio, per lasciare agli Attori il loro solito di Ottavio, di Corallina» (C.
Goldoni, Il feudatario. L’autore a chi legge, in Id., Tutte le opere, IV, cit., p. 1149).
70 Id., Il feudatario, ivi, p. 323.
71 Id., Il Marchese di Monte Fosco, ivi, p. 1161.
72 Id., Il feudatario, cit., p. 349.
73 Id., Le donne gelose. L’autore a chi legge, ivi, p. 357.
74 Id., Le donne gelose, ivi, I, xii, pp. 379-380.
[ 18 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 437
Giulia e Tonina, rispettivamente la prima e la seconda donna (Teodora
Medebach e Caterina Landi), sono le mogli di due uomini che
frequentano la casa di Lugrezia: gelose della protagonista, come succede
nei Pettegolezzi, malignano alle sue spalle. Stavolta però oggetto
dei pettegolezzi non è l’inerme Checchina (Teodora), bensì l’energica
Lugrezia (Maddalena), che non teme nessuno75 e alla quale delle
chiacchiere non interessa niente76. Tonina la definisce «dottora» (II,
xix), così come Lelio chiamava «dottoressa» (I, iii) la Corallina del
Marchese e Ottavio qualificherà come «troppo dottora» (I, i) la Corallina
dell’Uomo imprudente. Un appellativo che evidentemente ben si addice
al modus vivendi della Marliani. Ma più importa che Lugrezia si
descriva come «una donna prudente» (II, xix) e che Tonina, alla fine, la
presenti come «una donna de garbo» (III, xvii). La qualità della prudenza
finora ha contraddistinto solo Rosaura: una definizione, «donna
di garbo», rosauriana per eccellenza.
Le donne gelose è una commedia senza trama ma a struttura centripeta,
fondata su un centro, perché tutto gravita intorno alla Marliani,
ovvero Lugrezia, la servetta divenuta prim’attrice ma non elevata ancora
agli onori del titolo. È la donna che accetta di fare «cosse che no
se pol far» ma solo per «bisogno» e che alla fine, arricchitasi grazie
alla vincita al lotto del marito di Giulia (Boldo) e ai soldi intascati al
gioco dal marito di Tonina (Todero), dichiara di volersi mantenere
onoratamente e di volersi godere la propria libertà77; la donna che coglie
le occasioni che la Fortuna le offre (sotto forma di uomini) per
mutare natura e vita78. Che la protagonista delle Donne gelose si chiami
come l’eroina della Mandragola di Machiavelli, una delle commedie
più amate da Goldoni, proprio alla luce dei connotati che la caratterizzano,
non è certo un caso.
75 «Mi son una donna onorata. Co giera vivo sior Biasio mio mario, nissun ha
mai podesto intaccarme gnanca una fregola; e adesso che son vedoa, no voggio
esser menada per lengua, no voggio che se me leva i capei; in materia de ste cosse
son suttila co fa l’oggio; e ca de Diana! son donna capace de farghe tornar le parole
in gola a chi dise gnente dei fatti mii» (I, vi).
76 «El mondo mo dise che fazzo, che brigo, ma mi lasso che i diga, e i fatti mii
no li conto a nissun» (I, vi).
77 Ibidem.
78 Ecco una delle ultime battute di Lugrezia: «Da qua avanti, se vegnissi in bisogno
de bezzi, sappiè che pegni no ghe fazzo più. I ho fatti per bisogno, perché
giera una povera vedoa, e me pentisso d’averli fatti, perché le xe cosse che no se
pol far. El cielo m’ha provisto de mille e ottocento ducati. Con questi farò qualche
negozietto, e procurerò de sticcarla onoratamente» (ivi, p. 436).
[ 19 ]
438 giulia tellini
4. Dalla «Serva amorosa» all’«Uomo imprudente»
Quello che manca alla Marliani delle Donne gelose per essere pienamente
una prima donna sopraggiunge nel maggio 1752, quando a Bologna,
al teatro Formagliari, debutta La serva amorosa, commedia che
vede la serva Corallina protagonista e la sua promozione a prima
amorosa evidente fin dal titolo. Il quale si richiama, stravolgendolo, a
Il trionfo della prudenza in Rosaura moglie amorosa, in cartellone neanche
sei mesi prima79. Per la Marliani la parte della «serva amorosa» è un
grande regalo e una piacevole passeggiata, perché coniuga insieme i
tratti più brillanti del ruolo di servetta con i risvolti più dolci del ruolo
di prima donna80. Questa Corallina della Serva amorosa è un concentrato
di virtù e proprio per questo motivo si attira anche tante riserve.
Dalle quali Goldoni si difende così:
Non nego che molto abbia contribuito all’ottima riuscita di tal commedia
il merito personale di quell’eccellente attrice che sostenne mirabilmente
il personaggio di Corallina; ma appunto conoscendo io dove
potea fare maggior risalto la di lei abilità, ho procurato vestirla d’una
prontezza di spirito che a lei suol essere familiare, e mi è riuscito l’effetto
a misura dell’intenzione. Nonostante che la mia Serva Amorosa
abbia avuto sì bell’incontro a Bologna, a Milano, e a Venezia, non manca
a lei la sua critica. Dicesi che Corallina parla più che da Serva, ed
opera con troppo ingegno, e con troppo fina condotta. Ciò è vero, se
tutte le serve hanno ad essere quelle sciocche, che tali critici avranno
praticato soltanto; ma io ne ho conosciute delle bene educate, delle
pronte di spirito, capaci de’ più difficili, de’ più delicati maneggi. Io
non imbarazzo questa mia serva in cose superiori al femminile talento:
ella è una femmina più accorta di molte altre, siccome lo è effettivamente
l’attrice medesima che ha tal carattere rappresentato81.
Messo fuori dalla porta dal padre Ottavio e dalla crudele matrigna
Beatrice, Florindo vive in uno stato di estrema indigenza insieme alla
serva Corallina, vedova, che, nata e allevata in casa di Ottavio, è per
79 Cfr. G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Tomo III 1750-1753, cit., pp.
366-367.
80 Sulla Corallina della Serva amorosa, cfr. Carmelo Alberti, Il trionfo di Corallina,
“serva amorosa”, in Id., La scena veneziana nell’età di Goldoni, Roma, Bulzoni,
1990, pp. 135-144.
81 C. Goldoni, La serva amorosa. L’autore a chi legge, in Id., La serva amorosa, a
cura di Paola Daniela Giovanelli, cura filologica di Clemente Mazzotta, Venezia,
Marsilio, 2007, pp. 69-70.
[ 20 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 439
Florindo come una sorella. E lo aiuta infatti in ogni modo, squadernando
il catalogo completo delle proprie virtù (onestà, «coraggio»82,
«spirito», «bel cuore», «bontà»83, schiettezza84). Alla fine, lei rifiuta la
proposta nuziale di Florindo e, con la dote che le dà Ottavio, sposa
Brighella; Florindo sposa Rosaura, figlia del ricco Pantalone, e Beatrice
è cacciata di casa dal marito.
Potrebbe diventare padrona e prima amorosa, Corallina, sposando
Florindo, ma preferisce non avere niente a che fare con la «melonaggine
» (II, xiii) da lei tanto aborrita e spesso non estranea alla Rosaura di
Teodora, e decide così di restare servetta85. Ecco come risponde a Florindo
quando lui le chiede la mano (II, xii):
Ebbi compassione di voi, scacciato dal padre, maltrattato dalla matrigna,
oppresso dalla fortuna; e abbandonando il mio pane, il mio stato,
e le mie convenienze, venni ad assistervi, e soffrite ch’io il dica, colle
mie sostanze ad alimentarvi. Superai ogni riguardo; dissimulai le mormorazioni;
soffersi degl’incomodi, degli stenti, e talora perfino la privazione
del pane. Tutto ciò merita qualche cosa, e la vostra gratitudine
è impegnata a ricompensarmi. Non facciamo però che la ricompensa
in voi oscuri il lume della ragione, e in me distrugga il merito della
servitù. Se mi premiaste col matrimonio comparirebbe troppo interessato
l’innocente amor mio, e direbbesi che fu scorretta la nostra amicizia,
e che per tirarvi io nella rete, avessi contribuito a distaccarvi dal
padre. A me preme l’onor mio sopra tutto, e a voi deve premere il vostro86.
È una Corallina prudente e illuminata87, saggia e didascalica, che
82 C. Goldoni, La serva amorosa, ivi, I, vii, pp. 92-93.
83 Ivi, I, x, p. 96.
84 Ivi, II, iii, p. 118.
85 «È dunque un inaudito e straordinario paradosso drammaturgico quello
che il poeta regala alla Servetta nel corso della pièce: dopo un atto, la fa retrocedere
da potenziale Amorosa a definitiva ma efficace Serva. E Corallina si rivela molto
più a suo agio nel ruolo rinnovato di Servetta a “trasformazioni” che in quello di
sonnolenta Innamorata» (G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata. Tomo III 1750-
1753, cit., p. 375).
86 C. Goldoni, La serva amorosa, cit., pp. 136-137.
87 I suoi monologhi non sono ispirati «al realismo minuto, ma a quell’intimo
idealismo morale, che informa, in altro contesto sociale e culturale, le eroine di un
Lessing o di un Diderot» (Guido Davico Bonino, La famiglia, una donna, il disamore,
in C. Goldoni, La serva amorosa, programma di sala dello spettacolo promosso
dall’audac, 1986, p. non numerata; ora in G. Davico Bonino, Nota introduttiva a C.
Goldoni, La serva amorosa, Torino, Einaudi, 2007, p. xvii).
[ 21 ]
440 giulia tellini
parla al padroncino come se fosse sua madre88, e che, da esemplare
eroina della rinuncia, preferisce sacrificare il sentimento all’onore, per
«rimanere donna onesta pur essendo nello stesso tempo innamorata
di Florindo»89.
Dopo La serva amorosa, nell’estate 1752, a Milano, debuttano I puntigli
domestici, seconda commedia della «trilogia di Corallina mean
girl», nella quale i coniugi Marliani (alias Corallina e Brighella) battibeccano
(I, i) per riconciliarsi (II, ii) e ancora battibeccano per poi riconciliarsi
di nuovo (III, xiv) come nel Trionfo della prudenza, ma le loro
questioni private, invece di procedere in parallelo all’intreccio principale,
sono esse stesse il nucleo portante dell’opera.
Seminando zizzania fra Ottavio, padrone di Brighella, e la vedova
Beatrice, sua cognata, padrona di Corallina, e di conseguenza fra Lelio
e Rosaura (i figli di Beatrice), i due servi arrivano al punto di determinare
in casa una situazione talmente ingestibile e pericolosa da indurli
a prendere la decisione di andarsene:
Brighella Mi credo, per altro, Corallina, che nu semo causa de tutti sti
desordini.
Corallina È vero, e per questo è meglio che ce ne andiamo.
Brighella Vardè: da quella nostra poca de collera de stamattina, che
boccon de fogo che s’ha impizzà90.
Difatti fuggono di casa, ma il bargello, avvisato da un servitore su
ordine di Ottavio, li trova, li arresta e li conduce in carcere.
Nei Puntigli domestici, a comandare sono loro, Corallina e Brighella,
che con l’alterco della prima scena aprono la commedia. «Parevano
essi i padroni di questa casa», dice fra sé e sé, verso la fine, il servitore
di Ottavio dopo aver ricevuto dal padrone l’ordine di avvertire il bargello
(III, xviii). La smaniosa voglia vendicativa che anima Corallina
(prima ai danni di Brighella, reo di averla chiamata «insolente», poi di
Pantalone, del Dottore, di Arlecchino) è come un virus che in breve, se
si eccettua il virtuoso Pantalone, contagia quasi tutti e che è all’origine
dei «maledetti pontigli»91 del titolo: «Quella pettegola de Corallina –
88 Cfr. C. Mazzotta nel suo ottimo Commento a C. Goldoni, La serva amorosa,
cit., p. 276.
89 Odoardo Bertani, Goldoni. Una drammaturgia della vita, pref. di G. Davico
Bonino, Milano, Garzanti, 1993, p. 153.
90 C. Goldoni, I puntigli domestici, a cura di Valentina Gritti, Venezia, Marsilio,
2008, III, xvi, p. 192.
91 Ivi, II, xii, p. 159. La curatrice sceglie di riportare il testo dell’ed. Paperini.
[ 22 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 441
dichiara Brighella all’inizio dell’atto terzo – l’è causa de tutti sti desordini.
Ella l’è quella che mette su la padrona, la la fa far a so modo, e la
la conseggia sempre a far mal» (III, i). Anche nei Puntigli, come nel
Tutore, Corallina, per ottenere ciò che vuole, mente, con grande abilità.
L’unica volta che dice il vero («noi altri servitori e serve amiamo i nostri
padroni per interesse») viene sentita da Ottavio e da Beatrice, i
quali, di lì a poco, dopo avere per tutto il tempo accordato credito a
quanto riferito dai due camerieri92, danno incarico al bargello di catturarli.
Dopo il salto mortale che Goldoni impone alla Marliani facendola
passare senza soluzione di continuità dalla Corallina argomentativa e
larmoyante della Serva amorosa alla Corallina accecata dalla bile93 dei
Puntigli, ecco che, nella Figlia obbediente, le fa dono del lepido personaggio
della ballerina Olivetta.
Come nel caso del Trionfo della prudenza, anche nel caso della Figlia
obbediente (Venezia, Sant’Angelo, autunno 1752), terza pièce della
«quadrilogia della commedia nella commedia», il titolo fa riferimento
al virtuoso personaggio di Rosaura (Teodora), col quale la figurina
femminile tratteggiata dalla Marliani si pone in una relazione speculare
e oppositiva. Qui i coniugi Marliani imbastiscono una mini-commedia
nella commedia, che, stando a quanto nota Goldoni nell’Autore
a chi legge, è piaciuta al pubblico più della trama principale, centrata
sulle disavventure a lieto fine di Rosaura, innamorata di Florindo ma
promessa dal padre al conte Ottavio:
[Nella Commedia] ho innestato altri due Personaggi per episodio, non
meno ridicoli, curiosi e veri. Una ballerina col suo papà […]. Sono riusciti
ridicoli per modo questi caratteri, che hanno quasi oscurato il merito
della Donna Protagonista, la quale conducendosi con serietà, non
dà il piacere che i Personaggi lepidi sogliono dare. Alcuno crederà forse
che tai Personaggi non sieno necessari alla favola, e che pecchi di
superfluità. Non so che dire. Se si sta sul rigore, che i Personaggi abbiano
a essere necessari in modo che senza di essi la Commedia non possa
Nell’ed. Pasquali (t. x), Corallina e Brighella sono meno «eccessivi nell’esternare le
proprie opinioni o emozioni, vengono […] slegati dalla originaria personalità dei
rispettivi interpreti» (V. Gritti, Introduzione, ivi, pp. 31-32). Rispetto alla Paperini,
nella Pasquali i lazzi e le battute comiche di Corallina sono meno frequenti.
92 «Fanno tutto quello che vogliamo noi», dice Corallina verso la fine (III, xvii).
93 Nell’ed. Paperini (I, vi), Corallina confessa a Beatrice: «la bile mi accieca, la
collera mi divora. Se voi non vi vendicate, se il conte Ottavio persiste, se Brighella
trionfa, io farò le vostre vendette. Briccone, indegno, scellerato, asino, maledetto»
(ivi, p. 121). Queste frasi sono poi espunte nella Pasquali.
[ 23 ]
442 giulia tellini
farsi, in questa vi sarebbe da poter discorrere: ma se basta che sieno
bene intrecciati, e che lavorino tutti in armonia fra di loro, e accrescano
la beltà e l’intreccio, staranno benissimo colla Figlia obbediente la Ballerina
e suo Padre94.
La ballerina di dubbia moralità Olivetta e il padre Brighella sono
due ex servitori arricchiti. Dopo una fantomatica tournée di lei in giro
per i teatri d’Europa, tornano a Venezia per sbandierare le proprie ricchezze
in faccia agli ex padroni e agli ex colleghi. Derubati dal loro
staffiere Lumaca, entrano in crisi, si disperano e invocano aiuto, ma,
una volta rintracciato il ladro, tornano a essere i «superbi insoffribili»95
di sempre; anzi, come li definisce il conte Ottavio nell’ed. Pasquali, lei
«una superba», che invidia e detesta Rosaura96, di cui è l’esatto opposto97,
e lui «un birbante»98.
A inaugurare il carnevale 1752 ecco I due Pantaloni (Venezia,
Sant’Angelo, 26 dicembre 1752), che dalla Paperini in poi s’intitola I
Mercatanti e che chiude la «quadrilogia della commedia nella commedia
». Corallina è coinvolta in duetti ora col promesso sposo Arlecchino
(I, vii; II, ix; III, ix), ora con Pantalone (II, viii), ora col «desgrazià
de [suo] fio» (I, ii)99 Pantaloncino (I, vi; III, viii), al quale ha dato i
propri risparmi dietro la promessa di riaverli con un interesse del dieci
per cento. È una Corallina analoga a quella incarnata dalla Marliani
nel Marchese100: è impegnata con Arlecchino ma le piace farsi corteggiare
da un «indegno» (II, xv) dongiovanni (Pantaloncino), da un «discolo
malcreato» (III, ii) che si rovina al gioco, ma che poi, pentito,
sposa la virtuosa e «furbetta» Giannina di Teodora. In un primo momento,
Corallina si scaglia con violenza contro Pantaloncino perché
94 C. Goldoni, La figlia obbediente. L’autore a chi legge, in Id., Tutte le opere, cit., IV,
p. 610.
95 Ivi, III, vi, p. 676.
96 I nvitata dal ricchissimo conte Ottavio, al quale Pantalone ha promesso la
mano di Rosaura, a fermarsi qualche altro giorno a Venezia, Olivetta accetta la
proposta e fra sé e sé dice: «voglio restare per far disperare Rosaura» (III, viii).
97 «Povera signora, l’è modesta e ritrosa giusto come mia fia», dice Brighella
riferendosi a Rosaura (III, xviii).
98 III, scena ultima. In realtà, nell’ed. Paperini il conte Ottavio definisce lei
«una ingrata» e lui «un asino» (ivi, p. 1190).
99 C. Goldoni, I due Pantaloni. I mercatanti, a cura di Franco Vazzoler, Venezia,
Marsilio, 2001, p. 79.
100 E, anche in questo caso, nell’ed. Paperini la sua parte è più corta rispetto a
quella che ha nell’ed. Bettinelli.
[ 24 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 443
non le restituisce i soldi che gli ha prestato101, ma basta una parola di
lui perché lei si lasci ingenuamente convincere ad affidargliene il doppio:
vuole tutto («Voléu el pro, o voléu el capital?», le domanda il figlio
di Pantalone, e lei: «Tutto voglio, tutto», «Tutto?», «Sì; tutto»)102 e
non stringe nulla. Perde, infatti, la dote. Ma non si perde d’animo,
tant’è vero che si congeda dalla storia con questa battuta: «Quando
manca la dote, bisogna metter in opera le carezze. Colla dote si comprano
gl’uomini accorti e colle belle parole si comprano i merlotti»103.
Pronta a passare, complice il miraggio di un possibile guadagno,
dall’ira più estrema alla più estrema affabilità nel giro di un batter
d’occhio, la Corallina dei Due Pantaloni per l’incostanza e la venalità è
simile alla malvagia Corallina del Tutore; per l’astiosità104 ricorda quella
dei Puntigli e per la brillantezza105 annuncia la protagonista della
pièce successiva, che debutta al Sant’Angelo nel gennaio 1753, ed è la
penultima della «pentalogia della Marliani protagonista».
Si tratta della Locandiera. Per la prima volta, l’identità sociale del
personaggio interpretato dall’attrice, ovvero di Mirandolina, è nel titolo,
formulato in un’unica parola.
Dalla Serva amorosa sono trascorsi sette mesi, un autunno e un inverno,
ma niente sembra cambiato. La stessa «prontezza di spirito»
che serve a Corallina per risolvere i problemi di Florindo e per dispiegare
ai misogini le virtù del proprio sesso serve a Mirandolina per
portare a termine la sfida che s’è imposta: «usar tutta l’arte per vincere,
abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di
101 «Tanti anni che servo in questa casa; mi sono avanzata centocinquanta ducati,
a forza di stenti e di fatiche, e con tante belle promesse me li levate dalle mani,
e mi assassinate così? Son una povera donna, li voglio; lo dirò al padrone, ricorrerò
alla giustizia. Sia maledetto quando vi ho creduto, quando ve li ho dati, quando vi
ho conosciuto» (C. Goldoni, I due Pantaloni. I mercatanti, cit., I, vi, p. 95).
102 Ibidem.
103 Ivi, III, ix, p. 169.
104 «Disgraziatissimo d’Arlecchino! L’ho tanto pregato che non dica niente a
nessuno, e subito lo ha detto a quel chiachiarone di Brighella? Me la pagherà. Lo
voglio far pentire d’aver parlato. È vero che ancor io avevo promesso di non parlare
e ho parlato, ma finalmente l’ho detto ad uno che ha da esser mio sposo; e lui
lo va a dire a Brighella? Me la pagherà» (ivi, II, viii, p. 133).
105 «Tu non pensi ad altro che alla dote – dice ad Arlecchino – e di me non fai
conto. Chi non fa stima di me, non merita la mia dote. Quattro o cinquecento ducati
non sono molto, è vero, ma ho qualche cosa che val di più. Sono economa, son
facendiera, so far di tutto e mi contento di poco. Pensaci, e se ciò non ti basta e se
una donna della mia sorte non ti sodisfa, Arlechino, tu non sei di buon gusto» (ivi,
II, ix, p. 136).
[ 25 ]
444 giulia tellini
noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella
madre natura» (I, ix)106. Per far innamorare il misogino Cavaliere di
Ripafratta (Luzio Landi) ospite della propria locanda, usa la finzione;
dopodiché, per sbaragliarlo, inverte la rotta, scegliendo le armi della
realtà, dell’ostentazione d’indifferenza e di disprezzo107. Infine, si rende
conto che dai guai nei quali si è cacciata seducendo il Cavaliere può
uscirne solo sposando il cameriere Fabrizio (Marliani), da lei utilizzato
per tutelarsi e proteggersi, per «mettere al coperto il [suo] interesse
e la [sua] riputazione, senza pregiudicare alla [sua] libertà», come dice
lei stessa (III, xiii).
Queste le ultime parole di Mirandolina:
Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino
di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e
quando mai si trovassero in occasione di dubitare, di dover cedere, di
dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera108.
Si rammentino qui le ultime parole, opposte, della Corallina serva
amorosa:
[…] vengano que’ saccenti, che dicon male delle donne; vengano que’
signori poeti, a cui pare di non potere avere applauso, se non ci tagliano
i panni addosso. Io li farò arrossire, e ciò faranno meglio di me
tante e tante nobili virtuose donne, le quali superano gli uomini nella
virtù, e non arrivano mai a paragonarli nei vizi. Viva il nostro sesso, e
crepi colui che ne dice male109.
Il percorso che va dalla Serva amorosa alla Donna vendicativa passando
per La locandiera è un cammino dal Paradiso all’Inferno, nel quale
l’«arte» della protagonista assume connotati sempre più diabolici ma
anche sempre più affascinanti.
Ma prima della Vendicativa, l’autore compone Le donne curiose e
L’uomo imprudente, che vanno entrambe in scena nel carnevale 1753.
Nelle Curiose, tre donne (Beatrice, sua figlia Rosaura, ed Eleonora) «ar-
106 C. Goldoni, La locandiera, a cura di Sara Mamone e Teresa Megale, cit., pp.
138-139.
107 Cfr. R. Turchi, La partita di Mirandolina, nell’opera collettiva Lumi inquieti.
Amicizie, passioni, viaggi di letterati nel Settecento. Omaggio a Marco Cerruti, Torino,
Accademia University Press, 2012, p. 40.
108 C. Goldoni, La locandiera, cit., pp. 226-227.
109 Id., La serva amorosa, cit., p. 176.
[ 26 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 445
dono di volontà di sapere»110 cosa fanno i loro uomini (Ottavio, marito
di Beatrice; Florindo, fidanzato di Rosaura; Lelio, marito di Eleonora)
quando si recano a passare il tempo in un misterioso «ridotto» nel
quale le presenze femminili sono severamente vietate. È una commedia
corale al femminile, dove le donne sono «disperate», a causa della
loro «volontà rabbiosissima di sapere» (II, xxvi), sicure che i mariti le
tradiscano o giochino per soldi e disposte a tutto (a rubare chiavi, a
travestirsi da uomo, a fare ricatti) pur di soddisfare la loro curiosità.
La più interessante e scatenata fra le tre donne, però, è senz’altro la
quarta, Corallina, la cameriera di Beatrice e Rosaura, che nel ridotto
non ha né un marito né un fidanzato ma che, come ammette lei stessa,
«ho certo naturale, che vorrei sapere tutti li fatti di questo mondo» (II,
xxvi): «sono curiosa, e a costo di tutto, voglio cavarmi di dosso questa
terribile curiosità» (I, xi)111.
Nell’Uomo imprudente112, la penultima delle diciassette commedie,
tutto gravita intorno al «pazzo»113 Ottavio (Medebach), «che parla troppo,
e con imprudenza»114, e al quale da un paio di mesi la vedova Beatrice
affitta una stanza nella sua casa. Sebbene la sagace e affezionata
serva Corallina tenti in tutti i modi di aprire gli occhi della padrona
sulla «temerità, [sulla] presunzione» (I, vi) e sulla mancanza di «giudizio
» (I, ix) dell’affittuario, Beatrice sarebbe interessata a sposarlo
ma, all’ennesima imprudenza di lui, lo abbandona. Mentre Teodora,
come anche nel Tutore, dà vita a una Rosaura che è una «marzocca» (I,
xiii), una «sempia» (II, xvi), una «putta de disdott’anni» che ragiona
come «una fantolina da latte» (I, xiii), la Marliani è una Corallina che
ha dalla sua parte la prudenza che manca a Ottavio, a Beatrice e a Rosaura.
Goldoni le regala il «lazzo degli zecchini» (nel quale lei, in cambio
di uno zecchino, promette a Lelio, pretendente di Beatrice, che gli
farà da mezzana)115; battute brevi, salaci e intrise di buon senso come
quelle della Corallina dell’Amante militare116, e un memorabile duetto
con l’Ottavio di Medebach (III, xii).
110 Id., Le donne curiose, in Id., Tutte le opere, cit., iv, p. 905.
111 Ivi, p. 885.
112 Poi Il contrattempo o sia Il chiacchierone imprudente (Paperini, t. viii, 1754).
113 C. Goldoni, Il contrattempo o sia Il chiacchierone imprudente. L’autore a chi
legge, in Id., Tutte le opere, cit., iv, p. 928.
114 Ibidem.
115 Id., Il contrattempo o sia Il chiacchierone imprudente, ivi, I, ix, pp. 941-943.
116 «Se foste un uomo prudente, non parlereste senza pensare», dice a Ottavio
(ivi, I, vi, p. 938); «Non sapete, signore, che la verità partorisce odio?», chiede a
Ottavio nella scena successiva (ivi, I, vii, p. 940). L’idea che dire la verità sia spesso
[ 27 ]
446 giulia tellini
Si conclude così, con L’uomo imprudente, l’anno comico 1752-1753,
che in realtà si sarebbe dovuto chiudere con La donna vendicativa, commedia
che fin dal titolo si presenta come opposta e complementare
alla precedente: consegnata a Medebach nel carnevale 1753, viene però
messa in scena, al Sant’Angelo, solo in ottobre, dopo il passaggio di
Goldoni al San Luca (febbraio 1753), come pièce d’apertura del nuovo
anno comico 1753-1754.
5. La donna vendicativa
Ispirata alla Serva padrona (1731) di Jacopo Nelli, commedia che
racconta le vicissitudini di una serva intenta a depredare il vecchio
padrone innamorato di lei e destinata poi a essere cacciata di casa, la
Vendicativa è un ribaltamento della Gastalda, il cui modello è invece la
Serva padrona (1733) di Giovan Battista Pergolesi, opera buffa su libretto
di Gennaro Antonio Federico117. Terza commedia della «trilogia di
Corallina villain» (dopo Il tutore e I puntigli domestici), la Vendicativa è
l’ultima opera composta da Goldoni per il Sant’Angelo. Non a caso,
come sappiamo, nell’Autore a chi legge della Paperini (t. vii, 1754), il
commediografo, a suggellare la chiusura dei rapporti con Medebach,
riporta il contratto stilato col capocomico il 10 marzo 1749118.
È l’addio alla compagnia e soprattutto alla Marliani, furibonda e
disperata per il passaggio dell’autore al San Luca; deciso nel dicembre
1751, ufficializzato da un contratto privato stipulato il 15 febbraio 1752
e attuato nel febbraio 1753.
Al contrario del Tutore e dei Puntigli, la commedia ruota intorno a
Corallina (la Marliani) e al suo protagonismo, nero e assoluto. Se L’uomo
imprudente si può interpretare come un omaggio a Medebach, qui
controproducente viene poi approfondita nel corso di un dialogo fra Brighella e
Pantalone: «Brighella: […] el so mal maggior l’è quello de dir troppo la verità;
Pantalone: Certo, che co se xe chiamai a parlar, bisogna dir la verità più tosto che
la busia; ma la prudenza insegna a taser, quando la verità ne pol far del mal» (ivi,
III, i, p. 975).
117 I n proposito, cfr. anche L. Riccò, Introduzione, in C. Goldoni, La castalda. La
gastalda, cit., p. 37.
118 Significativo il fatto che della Donna vendicativa non esista ed. Bettinelli. Le
differenze fra la versione Paperini e la versione Pasquali, inoltre, sono minime.
Sulla vicenda editoriale della Vendicativa, cfr. A. Scannapieco, Scrittoio, scena, torchio:
per una mappa della produzione goldoniana, in «Problemi di critica goldoniana»,
vii, 2000, p. 163.
[ 28 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 447
alle prese con uno dei personaggi a lui più congeniali119, La donna vendicativa
può essere vista come uno stravagante omaggio dell’autore
all’attrice prediletta, così come La donna volubile era stata un giocattolo
costruito per Teodora: sono peraltro tre commedie analoghe, sia per la
presenza di protagonisti non virtuosi120, sia per la loro sconfitta finale.
Ecco la conclusione di Rosaura alla fine della Volubile:
Ed io resterò qui, col rossore di essere abbandonata e schernita? Ah sì,
me lo merito. Questo è il gastigo della Donna Volubile: voler tutto e
non aver niente. Cambiarsi sempre e non risolver mai, e finalmente
voler esser costante, quando non v’è più tempo121.
Mentre Ottavio, a chiusura dell’Uomo imprudente, dichiara:
La natura mi ha dati doni bastanti per esser uomo di garbo. La fortuna
mi ha assistito per far comparsa nel mondo. Ho avuti amici, ho avute
protezioni ed aiuti; ma tutto ho perso per l’imprudente loquacità, la
quale mi ha rovinato sempre con qualche miserabile Contrattempo122.
Ed ecco l’ultima battuta di Corallina nella Vendicativa:
Ha ragione il signor Ottavio. Più non merito la sua casa, l’amor suo, la
119 A proposito delle qualità attoriali di Medebach, Pietro Chiari, nel suo romanzo
La commediante in fortuna, scrive: «il Signor di Marbele capo, e direttore di
quella Truppa esercitava in essa le parti di primo Uomo; ma il suo forte si era nel
rappresentare le più ridicole caricature. In questo non ebbe, e non avrà sì di leggieri
chi lo somigli. La sua figura medesima, e la sua voce contribuiva non poco a
farlo eccellente in somiglianti caratteri. […] intendeva la forza delle azioni, che
rappresentar dovea, e delle parole che gli mettevano in bocca» (P. Chiari, La commediante
in fortuna, cit., p. 94).
120 Nell’Autore a chi legge della Vendicativa, Goldoni, a proposito dei protagonisti
non virtuosi, scrive così: «Contenti dovrebbero essere di ritrovarvi [nella Vendicativa]
un Protagonista vizioso, coloro che ad imitazione delle antiche, così vorrebbero
le Commedie moderne; ma io non sono di ciò persuaso, e mi faranno giustizia
i più delicati ancora, che grata rendesi molto più la Commedia, quando l’argomento
di essa appoggiato veggasi ad una virtù; ad una virtù, io intendo, non tragica,
non severa, ma che il lepido soffra, il piacevole, il comico, e che il vizio abbia in
aspetto più ridicolo, in suo confronto; poiché se vogliono i partigiani dell’antichità,
che questo il soggetto abbia da essere della Commedia, unicamente perché dall’odio
ch’egli eccita, s’innamorino gli uditori della virtù, meglio s’avrà l’intento, se
questa meglio risalta, e più ridicolo sarà il vizioso, se più lo sfregia il confronto» (C.
Goldoni, La donna vendicativa. L’autore a chi legge, in Id., Tutte le opere, cit., IV, pp.
1010-1011).
121 C. Goldoni, La donna volubile, cit., p. 196.
122 Id., Il contrattempo o sia Il chiacchierone imprudente, cit., p. 997.
[ 29 ]
448 giulia tellini
sua grazia. È anche troppo per me un generoso perdono. Anderò in
villa, dove son nata; finirò i giorni miei come merito; e mi ricorderò a
mio rossore che ho perduta la mia fortuna, per essere stata una Donna
Vendicativa123.
Sono tre finali moralistici124, che ristabiliscono un equilibrio infranto,
posti a coronamento di tre commedie consacrate allo sfrenato protagonismo
di antieroi irregolari, «pazzi», viziosi e privi di prudenza.
Considerati i tormentati rapporti di Goldoni con Medebach e con
la Marliani, è probabile che questi ultimi due personaggi (l’Ottavio
dell’Uomo imprudente e la Corallina della Vendicativa), così «pazzo» il
primo e così «tetro»125 il secondo, destinati a prese di coscienza tanto
amare quanto tardive, intendano rifare il verso ai loro interpreti, dai
quali il commediografo si sta congedando per sempre. Parodiando i
due attori, Goldoni costruisce una perfetta macchina teatrale volta a
esaltare il loro talento virtuosistico.
Di cosa parla la Vendicativa? Parla di una donna, Corallina, serva
del collerico Ottavio, la quale ama il giovane borghese Florindo, che le
ha fatto credere di essere interessato a lei solo per poter entrare in casa
e amoreggiare con Rosaura, la figlia di Ottavio. Per vendicarsi dell’inganno
di Florindo, la protagonista si adopera affinché Ottavio dia in
sposa Rosaura non a Florindo ma all’irascibile Lelio. Il suo piano tuttavia
fallisce e lei, smascherata, non solo non riesce a vendicarsi di
Florindo, che alla fine impalma Rosaura, ma non è destinata neanche
a diventare la moglie del padrone, Ottavio, che, malgrado innamorato
di lei, si vede costretto a cacciarla di casa.
Tale è la fabula. Per quanto riguarda l’intreccio e lo stile, è stato osservato
più volte che la Vendicativa è stata «composta senza grandi
pretese ideologiche o artistiche, ma attingendo al più consumato
mestiere»126: un reinvestimento produttivo dei modi dell’arte127, con
123 Id., La donna vendicativa, cit., p. 1079.
124 A questi finali si potrebbe aggiungere anche l’epilogo della Locandiera:
«Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto
hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero
in occasione di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie
imparate, e si ricordino della Locandiera» (Id., La locandiera, cit., pp. 226-227).
125 Id., La donna vendicativa. L’autore a chi legge, cit., p. 1011.
126 F. Fido, Due “notturni”: i commiati di Goldoni dal Sant’Angelo e dal San Luca,
cit., p. 179.
127 Piermario Vescovo parla di un’«indubitabile regressione nel linguaggio teatrale
goldoniano rispetto al livello testimoniato dalla Locandiera» (P. Vescovo, «La
peinture des faiblesses». Libertà e «delicatezza insidiosa» nella «Locandiera», cit., p. 315).
[ 30 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 449
tanto di maschere, lazzi, scambi, contrattempi e un terzo atto «al costume
degli Spagnuoli, con imbrogliato intreccio e copia d’accidenti,
che hanno un poco del sorprendente»128.
Tutto questo è vero, ma è altrettanto vero che, della trilogia formata
dalla Serva amorosa, dalla Locandiera e dalla Vendicativa, quest’ultima
rappresenta la pièce più eversiva, sperimentale e oltranzista129. L’oltranzismo
dell’opera risiede sia nella struttura, che ribatte ossessivamente
sulla stessa nota, ovvero sul tema della vendetta130, sia nel carattere
della protagonista, che nell’Autore a chi legge, come abbiamo
visto, è definito «tetro». È «tetro» per l’aspra131 risolutezza di Corallina,
per la sua spregiudicatezza morale132, per la sua impudente temerità133,
per la sua opaca ostinazione anche quando si rende conto che la
partita è persa134.
Sulla persistenza degli «epifenomeni» dell’Arte nell’opera di Goldoni, cfr. almeno
Ludovico Zorzi, Persistenza dei modi dell’Arte nel testo goldoniano, in L’attore, la commedia,
il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 225-241.
128 C. Goldoni, La donna vendicativa. L’autore a chi legge, cit., p. 1011.
129 I n un’intervista rilasciatami in privato il 23 marzo 2019, il regista Roberto
De Simone (che in questa sede desidero pubblicamente ringraziare) ha dichiarato
che La donna vendicativa, da lui messa in scena nell’estate del 2005, è una «commedia
anomala, lontanissima dal realismo delle commedie goldoniane», piena di
«elementi grotteschi» e «vicina all’espressionismo». Quanto alla Corallina della
Vendicativa, è «molto diversa da Mirandolina, perché è una donna che aspira a
modificare la propria classe sociale»: è «un’eroina più avveniristica rispetto alla
protagonista della Locandiera, che è invece più legata a un’idea illuministica della
figura femminile». La donna vendicativa per la regia di Roberto De Simone debutta
il 21 luglio 2005 al Teatro Romano di Verona, con Maddalena Crippa nel ruolo
della protagonista. Sugli allestimenti goldoniani in Italia dal 1991 al 2006, cfr. Carmelo
Alberti, Le rappresentazioni goldoniane in Italia [1991-2006], «Problemi di critica
goldoniana», xvi, 2009, pp. 377-418, in particolare p. 406: le Schede (pp. 379-
418) sono a cura di Agnese Bonini.
130 Nella commedia la parola «vendetta» compare quattro volte, il verbo «vendicare
», nelle sue più varie coniugazioni, dieci volte.
131 Che traspare in una battuta come: «Quando mi abbia a maritare, voglio
farlo con persona di genio, con persona che mi faccia un poco brillare. Voglio un
giovane, e non voglio un vecchio» (C. Goldoni, La donna vendicativa, cit., I, i, p.
1015).
132 La sua spregiudicata mancanza di scrupoli emerge da frasi come: «burlare
quel vecchio non mi par niente» (I, i); «gli do pelate maledette» (I, i); «Maneggio
io: doppie, zecchini» (I, i).
133 «Caro signor padrone, per amor del cielo, moderatevi un poco: siete una
bestia», dice, per esempio, a un certo punto, rivolgendosi a Ottavio (I, v).
134 «Povera me! Presto, avvisar il padrone… Ma se li trova in camera, li fa sposare;
ed io, se segue un tal matrimonio, crepo dalla rabbia, e più non vedo la mia
[ 31 ]
450 giulia tellini
Le brevi scene monologiche di Corallina, nel corso della commedia,
sono quattro. La prima (I, vi) precede la revenge comedy vera e
propria, e fa seguito a un colloquio con Florindo (I, i) e a uno con Ottavio
(I, v):
Vecchio pazzo stomacoso, mi fa venire il vomito. Mi mancano ancora
cinquecento ducati a farmi quella dote che mi son prefissa. Li metterò
insieme; ed allora darò un calcio al vecchio, per consolarmi col mio
Florindo. È vero ch’egli è figlio di mercante civile un po’ troppo per la
mia condizione, ma l’amore ch’egli ha per me, la mia buona maniera,
un poco di denari, e un poco di quell’arte, senza la quale non si fa niente,
mi assicura ch’ei sarà mio. Vecchiaccio rabbioso, questo bocconcino
non è per te135.
Dopo aver scoperto che Florindo in realtà ama Rosaura (I, vii), Corallina
promette a Ottavio che sarà sua, ma solo dopo il matrimonio
fra Rosaura e Lelio. Poi, esibisce un falso documento nel quale Florindo
giura di prenderla in moglie (II, viii). Il piano dell’«artifizioso viglietto
» (II, ix) però va a monte, e la protagonista concepisce l’idea di
fare in modo che Ottavio, durante la notte, trovi la figlia chiusa in una
camera buia con Lelio. Ed ecco qui la seconda scena monologica (II,
xiii):
Voglio tentare quest’altra strada per vendicarmi. Non ho piacer maggiore
della vendetta. Florindo, Rosaura e Beatrice saranno sempre nemici
miei, e son disposta ad unire anche al numero de’ miei nemici il
padrone medesimo, se non vorrà secondarmi sino al termine delle mie
vendette136.
Nella terza scena monologica (III, ii), Corallina espone le proprie
intenzioni:
Ora farò salire il signor Lelio, lo chiuderò in camera con Rosaura, procurerò
fare un poco di scuro: lo crederà Florindo: chiamerò il padrone,
e la sciocca dovrà sposarlo per forza. In questa maniera mi vendico
contro tre…137
vendetta. All’arte» (III, xii); «Tutto mi riesce male, tutto mi va alla rovescia; ma ne
farò tante, che una mi riuscirà: son donna, e tanto basta» (III, xvii); «Animo, Corallina;
se perdi questa notte, non sei più a tempo. Presto, presto, a metter all’ordine
tutto quel che bisogna» (III, xix).
135 Ivi, pp. 1021-1022.
136 Ivi, p. 1053.
137 Ivi, p. 1056.
[ 32 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 451
La notte degl’imbrogli non va come sperato. Ottavio, infatti, mentre
Corallina accoglie Lelio in casa, trova Rosaura chiusa da sola in
una camera e la fa uscire (III, v). Nel frattempo, Beatrice, nipote di
Ottavio, fa entrare Florindo, così che i due pretendenti alla mano di
Rosaura si trovano l’uno di fronte all’altro (III, xi). Lelio si sente ingannato
e, offeso, esce di scena; Florindo rimane in piedi sulla porta della
camera, e Corallina resta da sola alle prese con la sua quarta e ultima
scena monologica (III, xii):
Povera me! Presto, avvisar il padrone… Ma se li trova in camera, li fa
sposare; ed io, se segue un tal matrimonio, crepo dalla rabbia, e più
non vedo la mia vendetta. All’arte138.
Dopo essere riuscita a far ricadere le colpe dell’accaduto su Beatrice,
la protagonista si trova tuttavia di fronte al rischio che Rosaura e
Florindo si sposino davvero, e allora fa credere a Florindo e a Ottavio
che Lelio abbia giurato di tornare armato e rapire Rosaura, «bastonar
il padre, ammazzar l’amante, e tagliar la faccia alla povera cameriera»
(III, xvii). Le nozze fra i due giovani, così, sono rimandate. Corallina
la fa franca per la seconda volta e tenta il tutto per tutto mandando
Trappola, il servitore di Lelio, a chiamare di nuovo il suo padrone (III,
xix) e facendo in modo di chiudere Lelio in una stanza con Rosaura e
se stessa in una stanza con Florindo (III, xxi):
Presto, al signor Florindo. Lo metto in un’altra camera, gli do ad intendere
che averà con lui la signora Rosaura; e invece di lei, quivi sarò io.
Se verrà Lelio, entrerà lì, e passerà per Florindo, ed io qui passerò per
Rosaura (accenna la porta dov’è Ottavio). E andando via… così di notte…
domani quel ch’è stato è stato. No, non vi è altra maniera che
questa, per vendicarmi. Bellissima cosa! Vendicarsi e godere, è la più
bella cosa del mondo139.
Ottavio però scopre tutto; Arlecchino, spaventato dal trambusto
notturno, chiama «i sbirri», e Corallina, che vede la propria vendetta
naufragare per la terza e ultima volta, si confessa. «Sì, volevo tradirvi
», dice a Rosaura:
Volevo darvi nelle mani del signor Lelio, togliervi per sempre a quelle
del signor Florindo, unicamente per vendicarmi di lui. Son dominata
dallo spirito della vendetta. Questa mi ha fatto scordare de’ miei dove-
138 Ivi, p. 1063.
139 Ivi, p. 1073.
[ 33 ]
452 giulia tellini
ri, del bene avuto dal mio padrone, e quanto potevo da lui sperare. Per
eseguire la mia vendetta, non ho avuto ribrezzo a mettere a repentaglio
l’onor suo, la sua unica figlia, e la sua vita medesima140.
Mentre la Corallina del Tutore si volatilizza senza lasciare tracce di
sé e quella dei Puntigli fugge di casa per poi essere arrestata dal bargello,
la Corallina della Vendicativa rimane in scena fino alla fine, estrema
nel delitto come estrema nel castigo. «Anderò io stessa a darmi
nelle loro mani», dichiara quando Ottavio le ricorda che alla porta ci
sono «i sbirri»:
mi accuserò io medesima delle mie colpe; le aggraverò anche di più
per essere maggiormente rea, per meritare anche la morte. Ecco gioje,
ecco danari, tutti rubati al padrone: tutti frutti delle mie frodi, dell’arte
mia. Sì, son rea di tanti delitti, ognuno de’ quali mi rende odiosa, mi
rende indegna di vita141.
Se la Corallina della Serva amorosa, incarnazione di una esemplarità
etica, non pronuncia mai la parola «arte» e Mirandolina, nella Locandiera,
parla di «arte» in tre momenti142, la Corallina della Vendicativa,
personificazione di un’esemplarità eticamente negativa, menziona
l’«arte», intesa come capacità di simulare143, per cinque volte144. Si trat-
140 Ivi, p. 1078.
141 Ibidem.
142 La prima volta in I, ix (C. Goldoni, La locandiera, cit., pp. 138-139): «Voglio
burlarmi di tante caricature di amanti spasimanti; e voglio usar tutta l’arte per
vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi,
che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura»; poi
in I, xxiii (ivi, p. 163): «Il conte ed il marchese […] mi lasceranno in pace; e potrò a
mio bell’agio trattar col cavaliere. Possibile ch’ei non ceda! Chi è quello che possa
resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell’arte sua?»; infine
in III, xviii (ivi, p. 222): «Oh, il signor cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte. Sa
la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti
poi se ne ride».
143 Sull’arte come simulazione, cfr. Mario Baratto, «Mondo» e «Teatro» nella
poetica del Goldoni, Venezia, Stamperia di Venezia, 1957, p. 42.
144 «È vero ch’egli [Florindo] è figlio di mercante civile un po’ troppo per la mia
condizione, ma l’amore ch’egli ha per me, la mia buona maniera, un poco di denari,
e un poco di quell’arte, senza la quale non si fa niente, mi assicura ch’ei sarà
mio» (I, vi); «Se questo colpo mi riesce, sono la più brava donna del mondo. Vi
vogliono tre piccole cose: arte, adulazione e franchezza» (III, i); «All’arte. Ehi, signora
Rosaura, uscite presto: è qui vostro padre» (III, xii); «All’arte» (III, xvii);
«Ecco gioje, ecco danari, tutti rubati al padrone: tutti frutti delle mie frodi, dell’arte
[ 34 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 453
ta dunque di un carattere «tetro» ma anche «pazzo»145, perché tutt’altro
che prudente, pieno di risorse e d’iniziative, bugiardo146 e adulatore147,
quasi espressionistico nella sua mancanza di misura e, proprio
per questo, simile ai «caratteri […] troppo gagliardi, e spinti alquanto
oltre alla naturalezza» del teatro goldoniano pre-riformistico148.
Congegno comico dal ritmo serratissimo, la Vendicativa, come La
putta onorata (1748) o La buona moglie (1749) ma anche I pettegolezzi
(1751), è un testo più adatto alla rappresentazione che alla lettura, per
l’importanza che l’azione vi riveste e per la rapidità con cui le varie
situazioni s’avvicendano: la presentazione dei personaggi principali
(I, i-vii), la scoperta della disonestà di Florindo (I, viii-ix), l’attivazione
della macchina vendicativa (I, xi), l’intercessione di Beatrice con
suo zio Ottavio a favore di Rosaura (II, iv-v), la prima disfatta di Corallina
(II, vii), la messa «in opra» dell’«artifizioso viglietto» (II, viii),
la seconda disfatta e la controffensiva (II, ix-xiii), la preparazione della
notte degl’imbrogli (III, i-ii), il primo contrattempo e la soluzione
del problema (III, iii), il secondo contrattempo e la soluzione del problema
(III, ix-xvii), la scoperta delle trame di Corallina da parte di
Ottavio (III, xviii-xx), la terza controffensiva di Corallina e l’ultima
disfatta (III, xxi-xxxi), il perdono di Corallina da parte di tutti e il suo
allontanamento da casa (III, scena ultima).
Protagonista malefica, questa Corallina giganteggia nel male e non
s’arrende fino all’ultimo, pronta a esibirsi in ogni possibile registro
recitativo pur di farsi credere virtuosa e portare a termine la propria
vendetta: se si bada alle didascalie, ora è «alterata» (I, v); ora «irata» (I,
viii); ora parla «con ironia» (I, ix); ora s’asciuga gli occhi, piange e singhiozza
per intenerire Ottavio (II, iii); ora si rivolge «con caricatura» a
Beatrice (II, v); ora è «irata» col vecchio padrone, che lei minaccia con
una pistola per poi mettersi subito a «piange[re] piano» (II, ix); ora è
mia. Sì son rea di tanti delitti, ognuno de’ quali mi rende odiosa, mi rende indegna
di vita» (III, scena ultima).
145 Ottavio a Corallina: «Parli da pazza; parli da bestia; mi vuoi far dire degli
spropositi» (I, xi); Florindo a Corallina: «Eh via, siete pazza?» (II, viii).
146 Ottavio accusa Corallina di essere «Finta, doppia, bugiarda» (II, ix).
147 «Se questo colpo mi riesce, – dichiara la protagonista fra sé e sé all’inizio del
terzo atto – sono la più brava donna del mondo. Vi vogliono tre piccole cose: arte,
adulazione e franchezza» (III, i).
148 Cfr. F. Fido, Prima della «riforma»: ipernaturalismo e sapienza drammaturgica
della “Putta onorata”, in Id., Le muse perdute e ritrovate. Il divenire dei generi letterari fra
Sette e Ottocento, Firenze, Vallecchi, 1989, p. 73.
[ 35 ]
454 giulia tellini
«vezzosa verso Ottavio» (III, xvi)149. Intorno a lei gravitano tre meschini
esemplari maschili, di cui due sono ridicoli (i collerici Ottavio e Lelio)
e uno è fintamente positivo, vale a dire il crudele Florindo, che la offende
in modo gravissimo, facendole credere d’amarla soltanto per
poter vedere la figlia del padrone, Rosaura, qui figuretta spaurita ma
non sprovveduta.
Oltre a rappresentare una sintesi originale dei principali connotati
caratterizzanti dei sedici personaggi femminili interpretati dall’attrice
a partire dalla Donna volubile per arrivare all’Uomo imprudente, La donna
vendicativa dà a Goldoni l’occasione di addentrarsi nell’analisi di
una psiche perversa: una cameriera ambiziosa che, al contrario della
Corallina della Serva amorosa, aspira a sposare Florindo, il figlio di un
mercante; una grande bugiarda, come nel Tutore e nei Puntigli; una
regista perfida che, come nel Moliere e soprattutto nella Locandiera, rivela
un alto tasso di sapienza in termini di capacità interpretative e
logistiche fuse insieme150; una sognatrice velleitaria che vuole troppo,
come nei Due Pantaloni, e che alla fine perde tutto, come la Rosaura
della Donna volubile e l’Ottavio dell’Uomo imprudente.
Nei Mémoires, a proposito della Vendicativa, Goldoni scrive:
[…] La Femme vindicative, Piece en trios Actes, est un petit trait de vengeance
de l’Auteur lui même. Coraline très piquée de me voir partir, et
voyant l’inutilité de ses démarches pour m’arrêter, me jura une haine
éternelle.
Je lui fis la galanterie de lui destiner le rôle de la Femme vindicative; elle
ne le joua pas; mais j’étois bien aise de répondre à la vivacité de sa colere
par une douce et honnête plaisanterie151.
In realtà, la stanchezza dichiarata da Corallina nei riguardi del padrone
Ottavio («non si può sopportare; sono stanca, non ne voglio
più»)152 rispecchia molto la stanchezza dello stesso Goldoni nei confronti
del capocomico Medebach (interprete, si ricordi, di Ottavio),
149 La Corallina della Vendicativa è la donna «ciarlatana» per eccellenza, ovvero
figura dell’inganno e della menzogna: è una «maestra di finzione», e perciò metafora
vivente dell’arte dell’attore (cfr. Bartolo Anglani, Le donne ciarlatane, «Problemi
di critica goldoniana», 2009, t. iii, pp. 11-24).
150 Cfr. Ilaria Crotti, «Fuori di scena io non so fingere». Mirandolina e le altre, in
Selvagge e angeliche. Personaggi femminili della tradizione letteraria italiana, a cura di
Tatiana Crivelli, con la collaborazione di Alessandro Bosco e Mara Santi,
indice a cura di Rosa Pittorino, Catania, Insula, 2007, p. 134.
151 C. Goldoni, Mémoires, II, 16, cit., p. 316.
152 Id., La donna vendicativa, cit., p. 1071.
[ 36 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 455
che l’aveva gravemente offeso decidendo di continuare a pubblicare,
per i tipi di Bettinelli, «le Opere sue a suo dispetto»153.
Perciò questa Corallina non solo non è la protagonista d’una commedia
che è stata definita una «rappresaglia alquanto meschina e teatralmente
infelice»154, ma è una figura femminile che in parte riflette lo
stato d’animo dell’autore in un frangente per lui critico come il carnevale
1753 (26 dicembre 1752-6 marzo 1753)155, quando i suoi rapporti
con Medebach sono ormai definitivamente logori. Non è un caso, infatti,
che a interpretare il padrone di Corallina non sia il «buon» Pantalone
(I, vii) di Collalto, come nella Gastalda, ma l’Ottavio di Medebach,
un vecchio che «fa venire il vomito» (I, vi).
Questa Corallina è una Donna (e non una «Serva»), volitiva e di
genio, che manovra tutti dall’alto come marionette e che non solo non
è «sottocameriera» come nella Volubile ma «comanda lei»156. È una
153 Per i tipi di Bettinelli, Goldoni pubblica, in tre tomi (usciti fra 1750 e 1752),
dodici delle sue commedie (in proposito cfr. almeno A. Scannapieco, Giuseppe
Bettinelli editore di Goldoni, in «Problemi di critica goldoniana», 1994, pp. 63-188, in
particolare p. 153). Poi, nel 1753, rompe i rapporti con editore e capocomico e avvia
la pubblicazione delle sue commedie con l’editore Paperini (cfr. almeno R. Turchi,
Dalla Bettinelli alla Paperini, in Ead., Le maschere di Goldoni, Roma, Aracne, 2017, pp.
15-43). Medebach però decide di stampare presso Bettinelli anche le altre trentadue
commedie scritte da Goldoni per la sua compagnia e, verso metà aprile 1753,
pubblica un Manifesto nel quale dichiara di volerlo fare «coll’onesto lodevole oggetto,
che defraudato non resti il pubblico del proseguimento di tale ristampa». A
tale Manifesto Goldoni risponde scrivendo (da Firenze, il 28 aprile 1753) la Lettera
dell’avvocato Carlo Goldoni ad un amico suo di Venezia (stampata prima in foglio volante
e poi riprodotta nel t. i dell’ed. Paperini). In questa Lettera, si legge: «È verissimo
[…] che il pubblico aveva acquistato certo diritto sul proseguimento di tale
stampa, fondato sulle dodici già stampate, e sui replicati impegni sparsi nelle mie
Prefazioni. Egli è ben vero però che il mondo non aspettava il proseguimento della
Edizione dal Medebach, ma da me medesimo, e sarà una mostruosità inaudita che
di un Autore vivente, qualunque siasi, stampate vengano le Opere sue a suo dispetto,
in quello stato che furono nel Teatro e Compagnia suddetta rappresentate, che
vale a dire, come cadute quasi dalla penna mi sono, senza che sieno da me rivedute,
da me corrette» (C. Goldoni, Lettera dell’avvocato Carlo Goldoni ad un amico suo
di Venezia, in Id., Lettere, cit., p. 455).
154 A definirla così è Paola Daniela Giovanelli, che raggiunge, con queste parole,
l’apice della più distorta incomprensione della commedia (P.D. Giovanelli,
Introduzione, in C. Goldoni, La serva amorosa, cit., p. 22).
155 Nel 1753, infatti, la Pasqua cade il 22 aprile.
156 «Corallina: In queste cose comando io. Non è vero, signor padrone?; Ottavio:
Sì, comanda lei, obbedisci; Arlecchino: Ben, ubbidirò. No l’è maraveggia,
se un servitor ha da ubbedir la cameriera; Ottavio: Perché?; Arlecchino: Perché
el patron se lassa menar per el naso come i buffali» (ivi, I, iv, pp. 1018).
[ 37 ]
456 giulia tellini
donna monumentale nella sua indomita vitalità e il suo fascino risiede
nel fatto che è mossa da un dinamismo non calcolatore e costruttivo
come quello della Gastalda, bensì irrazionale e autodistruttivo. La
vendetta, infatti, anche se lei riuscisse a portarla a termine, non le recherebbe
alcun vantaggio materiale. La sua arte, come quella di Mirandolina,
è fine a se stessa, dissociata da qualsiasi utile personale e
intesa al puro piacere della riuscita.
La Vendicativa infine è una parte eccezionale per la Marliani, che,
in apertura della stagione 1753-1754, la interpreta «a meraviglia»157. È
una parte eccezionale perché coniuga l’energia della figura femminile,
vista come formidabile barometro delle disarmonie nel contesto della
società di metà Settecento158, con la sua determinazione nel perseguire
un obiettivo: che è quello, positivo, di difendere il proprio onore159.
L’iniziativa dell’offesa infatti spetta a Florindo, mentre l’unica colpa di
Corallina è l’eccesso di passione, e d’ira, che determina in lei il desiderio,
negativo, di vendetta. È una passionale attorniata da freddi calcolatori
e da vecchi ridicoli: una protagonista viziosa in un mondo meschino,
dove a farle da contraltare non c’è nessun personaggio virtuoso.
La scena ultima, ambigua e bifronte, la vede perdonata da tutti, ma
sconfitta e cacciata. E lei se ne va, a testa alta, per tornare in «villa», da
dove è venuta. L’allontanamento da casa le dà la possibilità di non
vedere più l’ingiuriante Florindo, il «vecchio pazzo stomacoso» Ottavio,
la «fraschetta» Rosaura. Le sue parole conclusive sanciscono la
ricomposizione dell’ordine e la vittoria della moralità, ma sono un ordine
e una moralità senza la luce della virtù. Come le parole conclusive
di Mirandolina, anche quelle della Vendicativa danno al pubblico
ciò che il pubblico si aspetta:
157 C. Goldoni, La donna vendicativa. L’autore a chi legge, cit., p. 1011.
158 «[…] la donna è un personaggio particolarmente sensibile alla disarmonia di
una società mutevole e ambigua, ne registra più immediatamente i contrasti: e
porta un accento d’invenzione mobile e relativa nella fissità di due morali che si
contrappongono […]. I confini tra la donna saggia e la donna scaltra o di garbo, tra
quella prudente e onorata e quella volubile e amorosa, e magari vendicativa, non
sempre si possono segnare con nettezza: questa particolare “sensibilità” della donna
le conferisce una funzione, direi, di “reagente” nella società del primo Settecento
» (M. Baratto, «Mondo» e «Teatro» nella poetica del Goldoni, cit., p. 35).
159 Si ricordi che fino a inizio Settecento, il codice della vendetta è ancora in
vigore e che comincia a essere messo in discussione solo da Scipione Maffei nel suo
trattato Della scienza chiamata cavalleresca (1710). In proposito, cfr. Alessandra Pigliaru,
“Inizio e fine del sangue”. Onore e vendetta nella scienza cavalleresca di Scipione
Maffei, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 7, 2012, pp. 39-51.
[ 38 ]
corallina 1751-1753. sulla donna vendicativa di goldoni 457
Ha ragione il signor Ottavio. Più non merito la sua casa, l’amor suo, la
sua grazia. È anche troppo per me un generoso perdono. Anderò in
villa, dove son nata; finirò i giorni miei come merito; e mi ricorderò a
mio rossore che ho perduta la mia fortuna, per essere stata una Donna
Vendicativa.
Si tratta, in realtà, di un discorso anfibologico, che ha il retrogusto
acre di un’ultima beffa liberatoria e che il commediografo, esaurito
dalle tensioni interne alla compagnia, scrive in uno degli ultimi giorni
di carnevale del 1753.
È una parte eccezionale, questa Vendicativa, perché per l’autore si
profila come protagonista inedita, nella sua viziosità femminea e monomaniacale,
luciferina e ipnotica, tetra e insieme comica. Goldoni
mostra cosa succede a lasciarsi insuperbire, contravvenendo ai preziosi
suggerimenti della Gastalda: mostra cosa succede a una servetta che
si sente prima amorosa e che finisce col tramutare la propria arte in un
vizio e se stessa in un’attrice manierista. Questa Corallina, perciò, è
anche un brillante, grottesco, ritratto della Marliani160.
Giulia Tellini
Università di Firenze
160 Nel suo saggio sui titoli goldoniani, Fido si sofferma sui titoli con funzione
enunciativa o denotativa o referenziale, e in particolare sulla serie formata da «La
donna di garbo, La donna di maneggio, La donna di governo, La donna forte, La donna
volubile, La donna bizzarra, La donna stravagante, La donna di testa debole, La donna
vendicativa, La donna sola»: Goldoni, da un lato, «registra l’emergere di personaggi
femminili provvisti di iniziativa, temperamento, autorità; dall’altro, per un riflesso
che combina prudenza piccolo-borghese e misoginia tradizionale, egli affida ai titoli
l’indicazione dei rischi e del prezzo che il personaggio femminile è spesso
chiamato a pagare per questo suo nuovo statuto sociale e teatrale» (F. Fido, I titoli
delle commedie, in Id., Le inquietudini di Goldoni, cit., p. 16).
[ 39 ]

Francesco Roncen
L’idillio negato: bozzetti agresti e pastorali
nella poesia narrativa italiana tra Sette e Ottocento1
Il saggio propone una disamina del bozzetto agreste e pastorale nella poesia
narrativa italiana tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, con
l’intento di verificarne la valenza ideologica, estetica e meta-letteraria. Vengono
presi in esame il poema e poemetto epico-mitologico, la novella in versi e la
ballata romantica: si tratta di generi al centro del dibattito letterario dell’epoca,
in grado di assegnare all’idillio funzioni e caratteristiche assai sintomatiche delle
trasformazioni culturali in corso.

This essay offers an analysis of the rural and pastoral sketch in Italian narrative
poetry during the late eighteenth and the first half of the nineteenth century,
with the intention of studying its ideological, aesthetic and meta-literary values.
It focuses on the epic-mythological long poem, the verse tale and the Romantic
ballad, all genres at the centre of the contemporary literary debate and
which allotted to the idyll functions and features quite typical of the cultural
transformations taking place at the time.
Chi si occupa di Settecento deve spesso fare i conti con il rischio di
ridurre la poetica dell’Arcadia a un ristretto repertorio di temi e soluzioni
formali, poco rispettoso della vitalità che ne caratterizzò invece
l’origine e la diffusione. Un simile atteggiamento è per lo meno sintomatico
di un’eredità storica: proviene infatti da una percezione già
attiva sul finire del XVIII secolo e persistente anche nella querelle tra
classicisti e romantici, dove l’immaginario di un’Arcadia rococò e di
maniera era assunto a emblema di un intero secolo (il Settecento) da
aggiornare o rifiutare. In tali dinamiche svolse un ruolo pregnante
Autore: Università di Padova, dottorando, francesco.roncen@phd.unipd.it.
1 Il presente lavoro approfondisce una ricerca presentata in occasione del XXII
Congresso Nazionale dell’ADI (Bologna, 13-15 settembre 2018). Una versione parziale
e ridotta di questo studio è dunque in fase di raccolta per gli atti di quello
stesso congresso.
460 francesco roncen
l’idillio agreste e pastorale, la cui ricorrenza tra Sette e Ottocento non
va interpretata come un mero dato stilistico, ma piuttosto come indizio
di una vasta riflessione letteraria che coinvolse l’intera cultura italiana
ed europea. Detto altrimenti, attraverso un’indagine sull’idillio
nella poesia italiana a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo è possibile
ricostruire le coordinate di un sistema che trascende i loci specifici del
testo poetico e attinge all’intero dibattito estetico, morale e politico
dell’epoca2. Se ciò è stato fatto abbondantemente per i maggiori lirici
e romanzieri del primo Ottocento (in primis, tra gli italiani, Manzoni e
Leopardi), scarseggiano studi sulle forme poetiche narrative, sia di
parte classicista che romantica. L’epica, la novella in versi e la ballata
ottocentesca, benché tendenzialmente accantonati dalla critica odierna,
furono generi letterari al centro della querelle; furono, l’uno per
nobiltà e tradizione, l’altro per novità e popolarità, i due poli di un
confronto che si riverbera nei risultati della lirica e del romanzo contemporanei.
Questo saggio vuole proporre una prima disamina dell’idillio
agreste e pastorale in alcune narrazioni in versi apparse in Italia tra
gli anni Novanta del Settecento e la prima metà del secolo successivo.
L’obiettivo è quello di verificare la resistenza di un topos letterario
che, proprio per la valenza estetica e ideologica assunta nel tempo, è
sintomatico delle trasformazioni culturali in corso. Va detto fin d’ora
che per cogliere il valore ideologico dell’idillio nella poesia narrativa
non è necessario selezionare testi che vi ricorrano frequentemente, o
che siano per loro stessa natura degli idilli; proprio nelle apparizioni
sporadiche, bozzettistiche e di maniera è anzi possibile intravedere il
rimando a un orizzonte consolidato a cui il lettore sette e ottocentesco
poteva attingere intuitivamente. In alcuni casi, inoltre, l’accenno a un
codice agreste o pastorale in momenti significativi della narrazione
può rispecchiare, se non persino strutturare, l’intero universo ideologico
dell’opera. Un universo giocato su tradizionali coppie oppositive,
quali ‘pace e guerra’, ‘natura e civiltà’, ‘letteratura e potere’, su cui
gli autori che prenderemo in esame compiono scelte differenti e significative.
2 Per un esempio del rapporto tra scrittura poetica in Arcadia e dibattito politico
e letterario si veda almeno A. Nacinovich, L’Elvio di Crescimbeni: le origini pastorali
della prima polemica arcadica, in in La tradizione della favola pastorale in Italia.
Modelli e percorsi, a cura di Alberto Bescinelli, Myriam Chiarla, Simona Morando,
Atti del Convegno di Studi (Genova, 29-30 novembre-dicembre 2012), Bologna,
Clueb, 2013, pp. 477-491.
[ 2 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 461
1. Idilli utopici nella poesia epico-mitologica
L’epica ha pochi seguaci, del che non so decidere se la colpa rifonder si
debba o nella disperazione di eguagliar gli antichi, creduti presso che
divini in questo, oppure nella scarsezza de’ Mecenati, che più non tengon
poeti presso di sé, che a patti specialmente di compor pel teatro,
ond’è che nessuno ha più ozio di meditar e descrivere un eroico poema.
Nascono ben però di tratto in tratto sotto le penne de’ nostri verseggiatori
certe brevi Epopeie, che chiamiamo Poemetti, i quali mostrano
non altro mancare fuorché stimolo e favore a suscitar novellamente
l’ardito suono delle trombe d’Omero e di Virgilio3.
La citazione è tratta dal Ragionamento istorico dell’origine e del progresso
della volgar poesia (1777) di Ireneo Affò ed è fondamentale per
registrare la situazione della poesia epica nella seconda metà del Settecento.
Stando agli osservatori del tempo (come appunto Affò) e agli
importanti studi di Tenca e Belloni4, pare che nel corso del XVIII secolo
il poema epico fosse entrato definitivamente in crisi. Le cause, per
lo più di ordine storico e sociale, non possono essere discusse esaustivamente
in questa sede, ma è comunque possibile fare alcune considerazioni
di massima.
Il poema aveva subito un’impennata elitaria fin dagli ultimi decenni
del Cinquecento, quando, sulla scia dei modelli classici e del dibattito
attorno alla Poetica aristotelica, aveva virato in direzione sempre
più normativa ed erudita. Tuttavia è solo nel XVIII secolo che l’epos
subì una vera battuta d’arresto anche nell’ambiente poetico, visibilmente
in difficoltà nell’approssimarsi alla scrittura poematica e tuttalpiù
interessato a esperimenti satirici o a traduzioni dell’epica greca,
latina ed europea5. Ciò perché, col venire meno del contesto cortese,
3 I. Affò, Ragionamento istorico dell’origine e del progresso della volgar poesia, in
Id., Dizionario precettivo, critico ed istorico, Milano, 1824, p. 85. L’edizione originale è
del 1777.
4 Vd. A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano, Vallardi, 1910, pp. 297-323;
vd. anche C. Tenca, Epici moderni in Italia, in Id., Saggi critici di una storia della letteratura
italiana e altri scritti, a cura di Gianluigi Berardi, Firenze, Sansoni, pp. 217-233.
5 Belloni cita solo, per il Settecento, il «misero contributo» dell’Ammiraglio delle
Indie (1769) di Alvise Querini (A. Belloni, Il poema epico e mitologico, cit., p. 311).
Quadrio, nel vol. IV della sua summa Della storia e della ragione di ogni poesia, non
sembra fare riferimento a testi epici del secondo Settecento, se non nel caso di traduzioni
o rifacimenti in versi di opere di argomento comico-satirico composte, in
prosa, tra Cinque e Seicento (vd. F. S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia,
Milano, nelle stampe di Francesco Agnelli, 1749, vol. IV, libro II, pp. 400-403).
Foscolo, nel trattato Narrative and Romantic poems of the Italians (vd. U. Foscolo,
[ 3 ]
462 francesco roncen
con lo sviluppo di forme di governo votate all’efficienza amministrativa
e con l’affermarsi di una mentalità borghese, si ridussero i margini
di operatività per chi volesse avvicinarsi al poema eroico. Quest’ultimo,
infatti, con le sue regole e la sua tradizione aristocratica, poco si
adattava alle esigenze della classe politica, soprattutto in seguito i fermenti
della Rivoluzione: per la sua debole risonanza editoriale, non
era in grado di legittimare pubblicamente i vertici del potere, né si
adattava alla sensibilità razionalistica e sensistica del Settecento europeo;
non aveva presa nemmeno sull’ambiente rococò dei salotti aristocratici,
votato al piacevole intrattenimento di componimenti estemporanei
o sagaci come le Novelle galanti del Casti. Quando non restò un
mero esercizio encomiastico, dunque, l’epos si presentò come il frutto
di iniziative individuali, con cui gli autori tentarono di calare nel testo
un’utopia etico-civile, illudendosi di poter almeno agire attivamente
nella contemporaneità. Ma dagli anni Novanta del Settecento, con i
tanti rivolgimenti che coinvolsero l’Europa, anche lo sforzo di ‘rincorrere
la storia’ si fece assai arduo, come del resto testimonia la parabola
poetica di Vincenzo Monti6. L’impegno richiesto per la composizione
di un poema eroico, in definitiva, non era supportato dal contesto storico,
politico e sociale del XVIII secolo.
Ciò non significa, però, che accanto alla crisi delle forme si dovesse
consumare anche la crisi di un’ambizione epica sotterranea, che anzi
continuò a esercitare il suo fascino persino sui ‘romantici’7. Quell’istanza,
come possiamo dedurre da Affò, si materializzò nella forma
del ‘poemetto’, agile, meno impegnativa, talora persino frutto del fal-
Edizione nazionale delle opere, a cura di Cesare Foligno, XI, 2, pp. 1-199), cita tra i
contemporanei soltanto Casti; afferma inoltre che «nel secolo decimoquinto, nel decimosesto
e nel decimosettimo i poemi narrativi pubblicati in Italia, quasi raggiungono
in massa i volumi di storie e di viaggi per terra e per mare che all’età nostra
apparvero in Inghilterra» (Ivi, p. 52), ma non dice nulla sul secolo decimottavo. Leopardi,
nello Zibaldone, osserva: «In giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio
e i nostri, l’antico, per lo contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non
corrono altre leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno
più, non pur dell’eroiche, ma di sorta alcuna; e non v’hanno luogo altre poesie fondate
in narrative popolari, se non del genere del Malmantile» (G. Leopardi, Zibaldone
di pensieri, a cura di Fabiana Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 2014, p. 3033).
6 Sulle conseguenze dei rivolgimenti storici nella scrittura montiana, e in particolar
modo nella composizione di due poemetti narrativi, si veda almeno F. Favero,
Politica e varianti in due poemetti di Vincenzo Monti: la Musogonia e la Feroniade,
«Lettere Italiane», I (2002), pp. 96-118.
7 Basterà pensare ai Lombardi alla prima crociata (1826) di Tommaso Grossi. Ma
sulla questione vd. anche A. Belloni, Il poema epico e mitologico, cit., p. 208.
[ 4 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 463
limento di progetti più ampi. Il trait-d’union tra poema e poemetto risiedeva
soprattutto nel processo di concettualizzazione che aveva
coinvolto l’epopea già a partire dal tardo Cinquecento, quando, secondo
le osservazioni di Stefano Jossa, l’epica imboccò la via dell’allegoresi8.
Alle unità aristoteliche e alle norme rinascimentali si sostituì così
un’unità di concetto, il cui mezzo d’espressione privilegiato fu appunto
la forma breve9, costruita attorno a un perno allegorico o speculativo
molto forte. All’interno di siffatti poemetti – per tornare all’argomento
di questo studio – l’eventuale presenza anche sporadica di bozzetti
idillici, proprio in virtù dell’orizzonte estetico e ideologico cui rimandavano,
poteva chiamare in causa un insieme di valori morali, etici e
letterari fortemente connessi alla contemporaneità.
Venendo ai testi, la pregnanza del codice idillico è ben visibile nella
Feroniade di Vincenzo Monti, che riproduce il noto congegno drammaturgico
dell’«idillio minacciato» (Gigliucci)10. La trama, distribuita
su tre canti, è piuttosto lineare: Feronia, rea di aver ceduto alla seduzione
di Giove, deve subire la devastazione dei propri giardini ad opera
di Giunone; nell’epilogo (lasciato incompiuto) la ninfa verrà a sapere
della futura rigenerazione della propria terra grazie all’azione di
importanti personaggi storici, ultimo tra i quali Pio VI. Il poemetto
narra dunque della distruzione di un locus amoenus per eccellenza, sulla
cui descrizione ‘idillica’ e floreale l’autore si dilunga, solo nel primo
canto, per più di cento versi.
Il richiamo ad ambientazioni georgiche e bucoliche affiora in momenti
salienti della narrazione; pastori e contadini, ad esempio, sono
le prime vittime delle inondazioni ordinate da Giunone:
[…] Spumosa
e fragorosa la terribil piena
le capanne divora e i pingui côlti,
e gli armenti e i pastori. E già le mura
8 Vd. S. Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma,
Carocci, 2002.
9 Ivi, pp. 47-48, commentando alcuni passi degli Eroici del Pigna, Jossa osserva:
«L’unico limite dell’epos è infatti la lunghezza, che è dovuta alla difficoltà di cogliere
il divino nell’umano […]. La poesia sarà perciò fondata sulla brevità».
10 I l termine è stato coniato da Roberto Gigliucci, (R. Gigliucci, Tragicomico e
melodramma. Studi secenteschi, Udine, Mimesis, 2011, p. 13). Sulla questione vd. anche
R. Mellace, «Al canto, al ballo, all’ombre, al prato adorno». Derive pastorali del
melodramma tra Sei e Settecento, in La tradizione della favola pastorale in Italia. Modelli
e percorsi, cit., pp. 517-538.
[ 5 ]
464 francesco roncen
delle cittadi assalta e le percote,
di cadaveri ingombra e della fatta
strage ne’ campi […]11
Ma è soprattutto nell’epilogo che l’idillio si arricchisce di un significato
insieme etico ed estetico. Nel canto III, infatti, Feronia trova rifugio
dalla devastazione presso la casa del «villano» Lica, a conferma
di un’opposizione tra mondo agreste-pastorale (emblema di protezione,
pace e giustizia) e violenza indotta da passioni e vizi umani, qui
trasposti nelle precarie relazioni tra gli dei12. Lica porta con sé l’attributo
di «pietoso», e Feronia, «tanta fra i boschi / gentilezza trovando
e cortesia», mitiga per la prima volta il proprio dolore. Lica inoltre, in
un piacevole quadretto di vita domestica, ordina alla moglie di offrire
alla ninfa tutto ciò che è stato salvato «dal morso […] dell’aspro verno
», poiché, afferma, «mostrarci è duopo / come più puossi liberali» a
una «peregrina infelice»13. È infine nell’umile dimora del contadino
che Giove invierà a Feronia il proprio messaggio di speranza e conforto,
predicendole la futura rigenerazione dei suoi giardini.
Nel poemetto si intravedono almeno due caratteristiche dei bozzetti
idillici ‘classicisti’: innanzitutto la rappresentazione positiva del
locus amoenus, emblema di liberalità e innocenza, con la specificità,
però, che la rigenerazione dell’idillio è qui proiettata ben oltre la dimensione
del mito, in un’epoca moderna, auspicabilmente prossima
al momento della scrittura. In secondo luogo, la ricostituzione dell’idillio
è reaizzabile solo attraverso una sintesi di natura e civiltà. Già
nel primo canto della Feroniade il paesaggio edenico infonde la propria
armonia nel contesto urbano circostante, quasi a comporre un unico
idillio pastorale e cittadino:
Col favor di Feronia iva frattanto
scorrendo i campi l’Abbondanza, e, tutto
versando il corno, ben compiuta e ricca
fea dell’avaro agricoltor la speme.
Ogni prato, ogni colle, ogni foresta
di pastorali avene e di muggiti
e nitriti e belati alto risuona;
[…]
11 V. Monti, Feroniade, a cura di Francesca Favaro, Padova, Padova University
Press, 2013, I, vv. 711-720, p. 21.
12 Le dinamiche della distruzione giocano infatti sul supporto o sulla resistenza
delle divinità sulla base di alleanze, desideri di vendetta, amicizie personali.
13 V. Monti, Feroniade, III, vv. 443, p. 50.
[ 6 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 465
Venti e quattro cittadi, onde l’immensa
fertile valle si vedea cosparsa,
s’animâr, s’abbelliro; e, strette in nodo
di care parentele, in mezzo al sangue
de’ torelli giurâr dell’alleanza
il sacramento; […]14
Ma è proprio nel messaggio finale, con la celebrazione di grandi
potenti della storia, che affiora il rapporto tra natura e civiltà vagheggiato
da Monti. Egli, come molti intellettuali del suo tempo, ha assorbito
la lezione vichiana e ha fatto propria la percezione di una frattura
rispetto alle epoche primitive del mito. Attraverso l’espediente della
visione e della profezia, Monti riversa una propria istanza utopica nelle
contingenze storico-politiche del suo tempo, e lo fa tematizzando
nel mito di Feronia la distruzione e la ricostruzione di un luogo arcadico,
in cui i pastori sono sia le prime vittime della minaccia sia anche
i migliori rappresentanti di una civiltà liberale e giusta, pronta a rigenerarsi
grazie all’azione di uomini politici illuminati.
Da questo punto di vista l’analisi del Prometeo (1797) offre spunti
ancora più evidenti. Qui, rispetto alla Feroniade, emerge in modo palese
l’eredità vichiana e la sua influenza su una dialettica che coinvolge
pace e guerra, natura e civiltà. Nel Prometeo l’epoca primitiva è presentata
(anche per esigenze narrative) con toni ben distanti dalla mitica
e spesso esaltata età dell’oro: la specie umana conduce un’esistenza
«incolta orrenda e dura» (I, v. 62), in una condizione miserevole prossima
a quella di tutti gli altri esseri viventi:
Nudo, intanto, ed inerme, e degl’insetti
al pungolo protervo abbandonato,
l’uom, de’ venti trastullo e delle piogge,
or tremante di gelo or da’ cocenti
raggj del sole abbrustolato e bruno,
ovunque fermi, ovunque volga il piede,
sia laddove d’Ammon ferve l’arena
sia dove ha cuna, o dove ha tomba il sole,
dappertutto di vesti è l’infelice
il molle corpo a ricoprir dannato,
furando adesso la sua spoglia al solo
quadrupedante, per furarla un giorno
al vermicciuol pur anco ed alla pianta15.
14 Ivi, I, vv. 462-467, pp. 14-15.
15 V. Monti, Il Prometeo, a cura di Luca Frassineti, Pisa, ETS, 2001, I, vv. 311-
323, p. 166.
[ 7 ]
466 francesco roncen
Tale condizione, tuttavia, non è destinata a sorte migliore con l’introduzione
della tecnica e della civiltà. Prometeo svela al fratello Epimeteo
che l’uomo riuscirà sì a incrementare il proprio benessere materiale
coltivando la terra, allevando animali, costruendo città e regni,
ma dovrà per questo pagare lo scotto della perdita dell’innocenza originaria.
La scoperta della civiltà, infatti, porterà inevitabilmente con
sé egoismo, avarizia e soprattutto quell’«Ambizion» che è «avversaria
d’ogni patto, e d’ogni / scelleranza maestra e consigliera»16. L’umanità,
nella visione del titano, entra così in una condizione di perpetuo
conflitto: Vulcano trasforma le «pacifiche falci» e «i vomeri innocenti»
in «omicidi arnesi», Marte, impugnati lo scudo e l’asta, «sanguinando
per tutta la campagna, / di pianti allaga e di delitti il mondo»17.
Monti nega dunque al passato (sia quello mitologico, sia quello delle
epoche moderne) la possibilità di giungere a una condizione umana
ideale, proiettando soltanto nell’avvenire il raggiungimento di un’armonia
etica e sociale. Tale messaggio è nuovamente espresso con slancio
utopico per mezzo di una visione profetica: Prometeo, potendo scrutare
il futuro, assiste a un’apparizione divina che gli annuncia la venuta
di Napoleone Bonaparte, le cui azioni sanguinarie rappresenterebbero
sì il culmine della deriva storica umana, ma anche l’ultimo atto necessario
a debellare il germe del conflitto nell’Europa moderna. Una volta
conclusa la sua campagna militare, infatti, Napoleone potrà garantire
una pace duratura a tutti i popoli e le nazioni; una pace rappresentata
anche da un quadretto agreste e pastorale, che in quanto codice letterario
consolidato detiene il primo posto tra le figurazioni montiane:
All’apparir che fea sulle gelate
noriche vette l’arbore divina
esultava la terra, e rispettosi
a baciarla venieno, a carezzarla
con molli penne d’ogni parte i venti.
Sulle pannonie rupi alto sferzando
i destrier rugiadosi, in sul mattino
la salutava il Sole, e con soave
riso di luce dal mortal suo sonno
tutto svegliava a nuova vita il mondo.
Riconducean secure al pasco antico
l’allegre pastorelle i cari armenti.
Affilava cantando il villan duro
16 Ivi, I, vv. 497-499, p. 171.
17 Ivi, I, vv. 513-519, p. 171.
[ 8 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 467
il curvo dente di Saturno, e lieto
l’ore affrettava di troncar la spica,
ché d’oltraggio guerrier più non temea18.
Nel caso del Prometeo, dunque, l’idillio non è semplicemente ‘contrastato’,
né minacciato e riconquistato in un secondo momento; esso
è presentato come un orizzonte utopico, raggiungibile solo conciliando
pace, natura e civiltà; è un approdo cui l’autore spera di giungere
nel presente o nel futuro a lui prossimo, e che egli materializza – anche,
ma non solo, a scopo encomiastico – nella travolgente parabola
napoleonica.
A questi rilievi politico-ideologici si aggiunge, altrove, anche una
riflessione di carattere estetico, a tratti persino meta-letterario. L’Arcadia
è infatti terra di pastori, ma è anche terra di poeti; è anzi il luogo
reale o virtuale che accoglie gran parte dell’ambiente letterario italiano
del Settecento. In un’epoca in cui i poeti già faticavano a ritagliarsi
un ruolo nella società, il topos pastorale poteva fungere da mezzo per
sollecitare un equilibrio tra letteratura e potere. Per chiarire l’assunto
si possono esaminare due poemi mitologici pubblicati entro il primo
quarto dell’Ottocento: la Teseide (1805) di Teresa Bandettini Landucci e
il Cadmo dell’abate Pietro Bagnoli (1821).
La Teseide è un poema in 20 canti che ha per argomento l’impresa di
Teseo nel labirinto di Cnosso. L’azione è anche il pretesto per veicolare
un messaggio morale, tematizzato dall’autrice nell’“odissea di formazione”
che l’eroe compie, sotto la guida di Pallade, durante la navigazione
tra Atene e Creta19. È proprio lungo tale percorso, e nella riproduzione
di alcune strategie ‘idilliche’, che è possibile cogliere qualche
indizio di un sistema ideologico insieme poetico e civile.
Per volere di Atena, nel canto V Teseo approda a Cillene, definita
«Arcade terra del sagace / messagier degli dei protetta cuna», dove
intraprende un’avventura che richiama il meccanismo dell’idillio minacciato.
Nel riportare la storia e le caratteristiche di questa terra, l’autrice
fa propria una visione disincantata delle epoche primitive, mostrando
di preferire alla mitologica età dell’oro un’Arcadia che concili
natura e civiltà. La condizione primordiale degli esseri umani, descritta
nelle ottave 43-69, è ancora più cruda rispetto alla rappresentazione
montiana nel Prometeo: l’uomo non solo è un essere rozzo che vive dei
18 Ivi, I, vv. 567-682, p. 175.
19 Quasi tutte le principali imprese attribuite all’eroe Ateniese vengono disposte
dall’autrice lungo la navigazione tra Atene e Creta.
[ 9 ]
468 francesco roncen
frutti selvatici della terra, ma è anche esposto a conflitti violenti e selvaggi
(«e di grand’ossa acconci a risse, a guerra / tra lor venian terribili
e protervi», ottava 49). Tuttavia, quella condizione appare ancora
innocente se messa a confronto con le epoche successive: il «bellicoso
Marte», infatti, non «avea per anco al ludo infame leggi prescritte», né
ancora «mille schiere ancise o in rotta volte / seminavano il suol d’ossa
insepolte»20. Proprio da tali considerazioni l’autrice trae anche il pretesto
per un’apostrofe contro le guerre che lacerano l’Italia e l’Europa:
O guerra, o fero mostro a cui s’implica
lauro sanguigno sul vipereo crine,
ricca di mali e d’ogni ben mendica,
consigliera di stragi e di rapine,
arde per te l’Italia e in sé nutrica
tue fiamme ignara delle sue ruine,
e mentre al giogo il collo inchina, sogna
vittorie figlie della sua vergogna21.
Guerra e violenza, afferma la Bandettini, sono frutto di atteggiamenti
umani che poco hanno a che vedere con i concetti di progresso
e civiltà, in cui invece l’autrice ripone tutte le speranze. La condizione
ideale si realizza infatti a Cillene in seguito all’acquisizione della tecnica
per volere di Giove: gli Arcadi iniziano a vestirsi con pelli d’animale,
scoprono il fuoco, costruiscono tetti per le capanne, istituiscono,
con il consiglio di Maja, un sistema famigliare che rispecchia la divisione
dei compiti nella perfetta famiglia borghese di fine Settecento,
qui trasposta però in un quadretto di vita agreste e pastorale:
Maja, ella stessa le fanciulle accorte
fe a volgere lo stame in fil sottile,
e insegnò loro quanto a donna importe
servare il verginal pudor gentile.
Alla cura de’ figli e del consorte
e del placido suo ricetto umile
volle ogni saggia e casta sposa, intenta,
del suo proprio destin paga e contenta.
Da lei l’uom forte l’util arti apprese
di commettere al suolo i semi eletti,
ond’ egli al giogo i buoi docili rese
20 La teseide, poema di T. Bandettini Landucci, Parma, presso Luigi Mussi,
1805, (2 voll.), V, ottava 48, vol. I, p. 122.
21 Ibidem, ottava 58, p. 125.
[ 10 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 469
nel lungo solco al suo voler soggetti.
Alla custodia delle stalle intese
pur anco, e i capri e i teneri agnelletti
accrebbero le mandre, e gioja al core
e dovizia apportaro al lor pastore
Così gli Arcadi lieti a lungo foro
di Maja pel favor santo e possente,
e per quel Dio che nel celeste coro
tien fama di sagace e d’eloquente.
I costumi, il candor del secol d’oro
ognor serbò la non corrotta gente,
non furti o risse, non discordia o guerra
questa infettaro avventurata terra22.
È da qui che prende avvio anche il meccanismo dell’idillio minacciato.
La violenza è incarnata dalla figura del malvagio Sinni, che approdando
a Cillene devasta l’equilibrio morale e civile raggiunto dagli
abitanti de luogo. Teseo, costretto ad ucciderlo per ristabilire un giusto
ordine sociale, è dunque emblema dell’eroe pacificatore che, pur con
una violenza necessaria, è in grado di ripristinare pace e giustizia tra i
popoli, consentendo così anche la (ri)costruzione dell’idillio.
L’emulo storico di Teseo, come viene esplicitato nel canto XIV, è
proprio Napoleone, di cui Pallade scorge segretamente lo scudo nella
fucina di Vulcano. La dea, di fronte a quell’oggetto divino che «imparte
scintille e lampi» e che esibisce il nome di Bonaparte, si abbandona
a una lunga invocazione sull’avvento del generale francese, che proprio
come Teseo dovrà intervenire con la violenza per riportare pace e
«perenne lume alle venture genti»23: Nella sovrapposizione tra Teseo e
Napoleone, e nella relazione tra l’eroe ateniese e la restaurazione degli
equilibri d’Arcadia, non sarebbe impossibile scorgere, allora, anche
un velato messaggio di riconciliazione tra governanti e poeti, nel segno
soprattutto di una maggiore attenzione e protezione da parte dei
primi nei confronti degli uomini di lettere. Questo principio, del resto,
è espresso chiaramente da Pallade verso la fine del poema, quando
detta a Teseo i criteri su cui fondare il buon governo dell’Attica:
Ama i vati e proteggi in lor la bella
arte che a pochi il Ciel largo destina.
Ella ha celeste origine e sol ella
22 Ivi, ottave 66-68, pp. 128-129.
23 Ivi, XIV, ottava 60, p. 116.
[ 11 ]
470 francesco roncen
può de’ tempi insultar l’alta ruina.
Basso ha la fama il suon, se sua favella
non estolle di Febo aura divina,
nè dopo morte alcun riviver speri
se vati a sua virtù mancan sinceri.
L’ignara plebe dalla mente sorda
ha in dispregio gli alunni delle Muse.
Gli odia il tiranno, ché cillenia corda
Sovente i dritti di ragion dischiuse.
[…]
Ma tu saggio, tu d’opre indegne schivo,
anzi che paventar chi addetto al coro
delle camene bee del sacro rivo,
l’onore affida di tua fama a loro.
Molti vissero eroi d’ingegno divo
che de’ posteri al guardo ignoti foro,
o biasmo ne hanno perché lor nemici
si fero i cigni delle ascree pendici24.
Un meccanismo analogo è ravvisabile nel Cadmo di Pietro Bagnoli.
In questo caso l’azione è affidata a due figure ugualmente importanti
per il completamento della «Favola» e dell’«Allegoria»25: all’eroe eponimo,
che ha la responsabilità di portare a termine la guerra contro i
capi Beoti e di imporre un giusto governo su Tebe, è affiancata la figura
mitologica del Vate Anfione, che guida Cadmo in un lungo percorso
di formazione lungo le pendici del Parnaso. Ad Anfione è affidata
anche una funzione chiave nell’epilogo del poema: è questi a dettare i
precetti etici e civili del buon governo, compiendo infine il catasterismo
della propria Lira, sotto la cui protezione potrà dirsi davvero
«formata la città» e «composto il regno»26. In questo caso, dunque,
l’autore non solo auspica il rispetto per i poeti, ma rivendica per essi
anche un imprescindibile ruolo sociale, ben rappresentato, come si vedrà,
dalla combinazione di tre variabili: pace politica, etica agreste e
pastorale, fioritura delle arti.
Lungo tutto il testo ci si imbatte più volte in immagini idilliche,
utilizzate spesso come tessere stilistiche di maniera. A noi però interessano
quei passi che rimandano alla costruzione di un sistema di
24 Ivi, XX, ottave 85-87, p. 317-318.
25 Sulla questione vd. l’Avvertimento dell’autore in Il Cadmo, poema di Pietro Bagnoli,
Pisa, presso Sebastiano Nistri, 1821 (2 voll.), in particolare p. VI e ss.
26 Ivi, XX, ottava 156, p. 377.
[ 12 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 471
valori, qui materializzato non tanto nella lode di un particolare personaggio
politico, ma nel riferimento a una più vaga età augustea, nata
anch’essa sulle ceneri di guerre intestine e caratterizzata da una fioritura
delle arti in un clima di pace civile. Ad Augusto, non a caso, si fa
subito riferimento nel primo canto del poema, quando viene descritto
lo scudo istoriato di Cadmo:
Indi acclamato egli era Augusto e Divo
dai venerandi Padri in pien Senato,
e vero Dio presente in terra e vivo
dalle genti coi voli era chiamato.
Nell’aspetto degli uomini giulivo,
e delle cose nel fiorente stato,
me’ non vid’io (parea dicesse il mondo)
più glorioso mai né più giocondo.
Sotto le fronde dei cresciuti allori
sedea la Pace accanto alla Vittoria,
chiuse eran l’ire e i bellici furori,
cantava Poesia, narrava Istoria.
L’Augel ministro dei fulminei ardori
scorreva il ciel, qual campo di sua gloria,
mentre di fuoco il fulmine pennuto
sotto l’elce Dittèa giaceasi muto27.
È poi nel canto V, mentre l’eroe viene guidato dalle Muse in una
vasta rassegna delle epoche storiche, che la rappresentazione dell’età
augustea – presentata come apice della parabola umana – raggiunge
maggiore estensione. Augusto, una volta conquistato il potere, si manifesta
come uomo clemente e pio:
Poi cade anch’esso [Cesare]; e nel felice Augusto
spira la libertà. Vedilo a fronte
de’ Legni Eoi, pien del valor vetusto,
con Roma, e i Numi e il paterno astro in fronte.
Giunto al sommo potere ei divien giusto,
anzi pio. Che può meglio un che sormonte
ogni timore, e ottenga ogni potenza,
che uguagliarsi agli Dei colla clemenza28?
La pace civile è rappresentata subito come riappropriazione dell’armonia
agreste e bucolica, con un ribaltamento di quei versi del Pro-
27 Ivi, I, ottave 32-33, p. 12.
28 Ivi, V, ottava 105, p. 196.
[ 13 ]
472 francesco roncen
meteo che descrivevano la trasformazione degli strumenti di vita (falci
e vomeri) in attrezzi di morte:
In strumenti di vita eran conversi
quei che finor di morte erano stati.
Ritornava il guerrier coi già dispersi
greggi, fatto pastore, ai colli usati.
I campi già di civil sangue aspersi
aravan brandi in vomere cangiati.
Pace e dovizia dall’Ibero al Trace,
dall’Affro all’Indo era dovizia e pace29.
Segue poi un appunto sulla prosperità delle arti, con in prima linea
Virgilio (poeta epico, bucolico e georgico) e Orazio (poeta ‘morale’ assai
caro ai classicisti di fine Settecento):
Del gran Virgilio il nettare divino
scorrea dal labbro armonico, giocondo,
per l’età che verranno, al ciel Latino
gloria maggior che il conquistato mondo.
Scioglieva il canto il Cigno venosino
differente di modi e non secondo.
Tutti parean gli studj, e il Genio e il gusto
ambir l’età del fortunato Augusto30.
Tutto ciò anticipa en abyme la costruzione narrativa del poema: nel
canto XVIII Tebe cade nelle mani di Cadmo, ma l’azione non può dirsi
ancora conclusa: metà della popolazione ha seguito in esilio il vecchio
capo Ogige, ragione per cui la pacificazione del regno è ancora lungi
dal verificarsi. Per completare l’impresa gli dei hanno destinato in
sposa a Cadmo la bella Ermione, figlia di Ogige, descritta da Bagnoli
come una vera e propria figura allegorica31. È a questo punto che entra
in gioco il tema pastorale: per poter accedere impunemente alla dimora
di Ogige e incontrare la donna amata, l’eroe deve celarsi sotto una
«rozza pastorale spoglia»32; egli, su suggerimento delle Muse, è pastore
di giorno e re di notte, ma svolge comunque e sempre lo stesso
ruolo, dal momento che, come afferma la voce narrante, «Amor» gli fa
29 Ivi, ottava 107, p. 197.
30 Ibidem, ottava 109.
31 Ivi, Avvertimento, p. 10: «Ermione […] considerata come Armonia, personaggio
allegorico».
32 Ivi, XIX, ottava 72, p. 311.
[ 14 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 473
cambiare «albergo e veste», ma «ufficio no», perché «un solo è re e
pastore»33. Dunque soltanto un re-pastore guidato dalle Muse e da un
poeta-Vate può realizzare l’utopia di un governo duraturo e pacifico;
il quale, per essere tale, deve a sua volta nascere sotto il segno della
giustizia e sotto la protezione del dio Apollo e della Lira, cui sono dedicati
gli ultimi versi del poema:
La [Lira] prese Apollo, e presentolla a Giove,
ed ei tra i plausi dei raccolti Numi,
disse: o Maestra delle genti nuove,
Formatrice di leggi e di costumi,
qui di città, che in armonia si muove,
sii cittadina infra i celesti lumi;
e la pose con man nella sua sede,
che tra il Cigno e il Dragon lieta si vede.
La terra e il cielo or la saluta, e ammira
l’Astro novello che pompeggia e ride,
e colla chiara compagnia s’aggira:
al suo punto ritorna, e sen divide.
Cosi n’andò colla celeste Lira,
la prima notte e il primo dì che vide
sotto gli auspicj del novello Segno
formata la città, composto il regno34.
2. L’idillio conflittuale dei romantici
Nel suo studio monografico sulla ballata romantica italiana, Paolo
Giovannetti mette bene in luce la complessa ricezione dell’idillio
nella
cultura italiana dell’Ottocento35. Mentre intellettuali del calibro di
Fauriel e Schiller ne consacravano il valore utopico e morale, facendone
di fatto uno dei generi dominanti nel romanticismo europeo, in
Italia l’idillio fu per certi versi rigettato a causa di una percepita superficialità,
o persino, come nel caso di Manzoni, di una non conformità a
criteri di verosimiglianza36. Tanto Manzoni quanto Leopardi, osserva
Giovannetti:
33 Ivi, XIX, ottava 99, p. 320.
34 Ivi, XX, ottave 145-146.
35 Vd. P. Giovannetti, Nordiche superstizioni. La ballata romantica italiana, Venezia,
Marsilio, 1999. In particolare vd. cap. III, Oltre l’idillio. La mitopoiesi del conflitto,
pp. 89-138.
36 Ivi, p. 90-91.
[ 15 ]
474 francesco roncen
liquidano un’esperienza di grande fortuna europea, di cui faticano a
condividere appieno i contenuti in senso lato utopici, la capacità di
sublimare le tensioni della società contemporanea, di prospettare una
dimensione esistenziale avvenire differente da quella odierna37.
Naturalmente l’ambiente nostrano risentiva anche della lunga
esperienza arcadica, che spingeva a pensare l’idillio come bozzetto
paesaggistico di maniera, emblema di una quiete morale inverosimile,
poco autentica anche sul piano emotivo. L’atteggiamento dei romantici,
tuttavia, resta per molti aspetti complesso: conformemente
alla teoria schilleriana del “poeta sentimentale” e alla lezione vichiana,
vi era anche tra gli intellettuali del «Conciliatore» la consapevolezza
di una frattura incolmabile con il passato e della necessità di proiettare
l’idillio nel futuro, in un contesto civile38; con la differenza,
però, che tale utopia non poteva essere rappresentata dall’universo
anacronistico di un’Arcadia pastorale, se non da una prospettiva critica.
Da questo punto di vista sono sintomatiche alcune parole di Ermes
Visconti:
«Nell’era intellettuale adesso corrente, predomina il desiderio di propagare
la civilizzazione, di educare i popoli; sperandosi da noi la felicità
umana dal concorso, quanto più si possa generale, di cognizioni e
di volontà governate dalla conoscenza del meglio. Popolo idiota, suona
ai nostri orecchi popolo infelice, e cagione soventi volte d’infelicità a’
suoi vicini. Tanto siamo lontani dal vagheggiare l’ipotesi d’un possibile
Secol d’Oro d’ignoranza campestre»39.
Le posizioni di Visconti sono anticipate anche dalla Lettera semiseria
di Giovanni Berchet (1816), documento fondamentale per la nascita
e diffusione della ballata romantica in Italia. Nell’esaminare la distribuzione
sociale della facoltà poetica attiva, infatti, l’autore della Lettera
descrive tre classi di individui: agli estremi – e dunque più distanti
dalla suddetta facoltà – vi sarebbero quella del cittadino (aristocratico
37 Ivi, p. 92.
38 Vd. F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, Roma, Il Melograno,
1981, p. 90: «[Il poeta sentimentale] si ponga come compito un idillio, che esegua
quell’innocenza pastorale anche nei soggetti della cultura, e con tutte le condizioni
della vita più vigorosa e fervente, del pensiero più esteso, dell’arte sociale, e insomma
conduca l’uomo, che non può più tornare all’Arcadia, fino all’Elisio».
39 Ermes Visconti, Riflessioni sul bello, in Id., Saggi sul bello, sulla poesia e sullo
stile. Redazioni inedite (1819-1822), redazioni a stampa (1833-1838), a cura di Anco
Marzio Mutterle, Bari, Laterza, 2008, V, 4, p. 209.
[ 16 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 475
o alto-borghese) e quella del popolo campagnolo. Il parigino «agiato e
ingentilito da tutto il lusso di quella capitale» è incapace di recepire
profondamente la poesia perché «viene assuefacendosi a perpetui raziocini,
o per dirla a modo del Vico, diventa filosofo»40; l’ottentotto,
invece, è limitato dalla mancanza di un’esperienza intellettuale che gli
faccia desiderare poeticamente la natura:
Lo stupido ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i
campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni,
guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e
s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra ’l fumo del suo tugurio e il
fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare
alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio.
Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità
quella della tendenza poetica41.
C’è dunque, con Berchet, una demolizione di quel legame identitario
tra pastore e poeta che aveva influito su molta lirica del Settecento,
e che ancora nel primo Ottocento, come si è visto, ricorre nel contesto
dei poemi mitologici. Per l’autore della Lettera la facoltà poetica è detenuta
da una classe borghese laboriosa e non assuefatta ai lussi delle
grandi città; si tratta, nella sostanza, di quel vasto ceto medio che costituisce
anche il pubblico privilegiato dei romantici e del sistema editoriale
che andava sviluppandosi in quegli stessi anni.
Con i poeti romantici il bozzetto idillico perde la sua connotazione
‘positiva’, entrando semmai in un un processo conflittuale, cifra rappresentativa
della ballata e della novella in versi. Tuttavia, come si
vedrà, è forse possibile tracciare un percorso che ne segnala una rinuncia
sofferta e a tratti nostalgica, come se in fondo, nel sancire ‘vichianamente’
l’anacronismo e l’irrealizzabilità dell’idillio, i fautori del
nuovo gusto ne riconoscessero anche il fascino e il profondo significato
utopico.
Nella novella in versi il ricorso al codice arcadico non è, per la verità,
molto frequente. Si può tuttavia registrare almeno uno schema,
vagamente reiterato, in cui l’idillio si presenta come emblema di una
quiete estetica e morale. Tale schema prevede la reclusione del o della
protagonista, che dalla propria prigione osserva in lontananza una re-
40 G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, in Manifesti romantici
del 1816 e gli scritti principali del «Conciliatore» sul Romanticismo, a cura di Carlo
Calcaterra, Torino, Utet, 1970, p. 434.
41 Ibidem.
[ 17 ]
476 francesco roncen
altà idillica irraggiungibile, arricchita magari dalle note di un canto
poetico o amoroso. Nel canto II dell’Ildegonda (1820) di Tommaso
Grossi, ad esempio, la protagonista, segregata in convento per aver
disobbedito ai genitori, viene raggiunta dalla voce di un misterioso
guerriero (che si scoprirà poi essere il giovane Rizzardo, suo amante)
illuminato dalla tenue luce della luna:
Ma una notte che stesa al pavimento
ne’ suoi tristi pensier stava raccolta,
le giunse il suon d’un flebile concento
che udito aver pareale un’altra volta:
sorge e là s’indirizza a passo lento,
d’onde un’imposta leggermente tolta,
il vasto spaldo dominar le è dato
che la città difende da quel lato.
Era sereno il ciel, splendea la luna
ridente a mezzo della sua carriera,
sicchè da lungi in armatura bruna
vedea un guerrier calata la visiera:
nessun fragor s’udia, voce nessuna;
sol quella universal quїete intera
d’improvviso venia rotta talvolta
dal grido dell’allarme d’una scolta42.
Il medesimo schema torna anche nell’Algiso (1828) di Cesare Cantù,
quando l’eroe eponimo si trova recluso nel castello di Baradello; da
qui, all’inizio del canto II, egli può scorgere il lago di Como e sperare
in un ricongiungimento con l’amata Ildegarde, che di lì a poco in effetti
incontrerà43. Il contrasto tra la condizione del guerriero e quella della
gente umile, intenta alle proprie attività nel paesaggio ameno del
Lario, è tematizzato nelle forme di un bozzetto pastorale, agreste e
piscatorio intriso di malinconia:
Al pretugio s’affronta, e allor s’avvede
che in castel Baradello era rinchiuso;
Como lunata si vagheggia al piede,
e il Lario ameno in ampio sen diffuso:
le navicelle pescatrici vede
fieder l’ondoso pian qual su, qual giuso;
42 T. Grossi, Ildegonda, II, ottave 20-22, in Id., Opere poetiche, a cura di Raffaele
Sirri, Napoli, Rossi, 1972, p. 415.
43 Anche in questo caso, forse proprio sulla scorta di Grossi, la fuga verrà annunciata
ad Algiso da un canto di menestrello.
[ 18 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 477
romper zolle i bifolchi, errar pastori;
vede, e ne invidia i placidi lavori44.
Cantù sembra comunque affezionato a tale meccanismo: anche le
sue ballate politiche, su cui non ci si soffermerà più oltre, sono spesso
incentrate su figure di prigionieri che ripercorrono con rimpianto e
malinconia la vita esterna. Si veda, per confronto, questo passo tratto
della ballata Elisabetta, dove a parlare è la moglie del duca di Sassonia
Giovanni Federico, la quale, stando alla nota dell’edizione delle Poesie
(1870), durante la prigionia del marito «chiese di stargli compagna, e
rimase con lui i 28 anni ch’e’ sopravvisse»45:
Ahimè! Del core ogni tripudio è muto;
la stanca lena del pensier, speranza
più non conforta di vital saluto.
Pastori e ninfe a rinnovar la danza,
a battaglie i guerrier ridesta il maggio,
ma a te non ride entro l’esosa stanza.
Negli anelanti estivi dì, dal raggio
dell’infocato Sirio a farti velo
il rezzo implori invan d’opaco faggio,
né, se fiede il ventar d’iberno cielo,
tra fido crocchio assiso, entro le sale
intiepidite dài ristoro al gelo<;>
da roccia aerea aperse il falco l’ale?
Come l’invidii, per mirar da lunge
l’opre, i passi di un libero mortale46!
Tornando alle novelle, una situazione analoga riappare anche nel
Clotaldo (1826) di Luigi Carrer, dove la reclusione del protagonista costituisce
il vero centro narrativo del poemetto. Fin dall’inizio Clotaldo
si trova segregato in una torre da cui può a malapena scorgere il raggio
della luna o ascoltare i canti dei cacciatori e dalla giovane Egilda,
sua amata:
[…] e duolo son tutti i pensieri
della mente, e del cor tutti gli affetti;
44 Algiso, novella di Cesare Cantù, Como, dai figli di Carlantonio Ostinelli, 1828,
II, ottava 3, p. 35.
45 C. Cantù, Elisabetta, in Poesie di Cesare Cantù, Firenze, Le Monnier, 1870, p.
117.
46 C. Cantù, Elisabetta, vv. 7-21, in Poesie di Cesare Cantù, Firenze, Le Monnier,
1870, p. 117.
[ 19 ]
478 francesco roncen
e lo spirto e la vita è tutta duolo –
Ma qual da lunge flebile lamento?
Zeffiro già non è quando per entro
le dense alighe stride, e dolcemente
scosse alla riva sibilan le canne:
suon di strumento uman sembra a chi l’ode;
suon di liuto che ravviva i colli,
e dal sonno ridesta le capanne.
[…]
Tende l’orecchio l’infelice, e sembra,
più l’ode, più la voce approssimarsi47.
L’idillio si tinge di sofferenza anche nella Pia de’ Tolomei (1825) di
Sestini, novella in tre canti ispirata ai celebri versi del Purgatorio dantesco.
Nel canto III, l’ampia descrizione dell’aurora introduce una nota
funebre che segnala, ai personaggi come al lettore, la morte della Pia:
[…]
E già il mattino di porpora e d’oro
veste l’alte montagne, e il ciel s’imbianca
e fan gli augelli e gli umidi cristalli
novellamente risuonar le valli.
Che omai col nappo argenteo e col canestro
pien di manna e di fior sorgea l’aurora
ponendo in vetta all’Appennino alpestro
il piè legger, che il sol da tergo indora;
dal ventilar del suo bel vel cilestro
la mesaggiera uscia piacevol ora,
e l’annunziava all’umida vallea,
ove pigra la notte ancor sedea.
Dal vallon buio veggiono sul monte,
che illuminano i raggi mattutini,
il corteo luttuoso, e lor son conte
le sentenze dei cantici divini;
[…]48
Poco dopo, le note degli inni ecclesiastici vengono sostituite da
quelle di un ‘villanel’ che intona un canto malinconico, in cui è ripro-
47 L. Carrer, Il Clotaldo. Poema, Padova, coi tipi della Minerva, 1826, I, vv. 299-
313, p. 15.
48 La Pia de’ Tolomei. Leggenda romantica di Bartolomeo Sestini, Milano, coi tipi di
Borroni e Scotti, 1848, ottave 36-38, pp. 80-81.
[ 20 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 479
dotta en abyme la sorte della protagonista. La storia della Pia, inoltre, è
presentata da Sestini come la doppia negazione di un idillio famigliare:
in un primo momento perché la donna viene condannata a morte
dal marito; nel finale, invece, perché Nello, pentitosi, non riesce a salvarla
dalla punizione che egli stesso le ha inferto. Tale negazione
dell’idillio emerge specialmente nell’epilogo, dove il ‘felice’ bozzetto
famigliare (definito come agreste, ma vicinissimo a uno stereotipo
borghese) è confrontato antifrasticamente con la tragica vicenda della
novella:
E dicon che talor da quei rottami [del castello di Nello]
voce profonda come d’eco emerge,
e sembra che la Pia dal fondo chiami,
ed ella appai sull’onde e vi s’immerge,
e quando scuote il vento i bruni rami
del folto bosco che sul lago s’erge,
vi si odon canti e salmodie lontane,
e arcano suon di funebri campane.
Né qui sveller virgulti, o fender zolle
l’ausiliario agricoltor s’attenta,
e, salvo ritornando al natal colle,
quando Maremma inospital diventa,
la sera, assiso sull’erbetta molle,
all’adunata gioventude intenta,
l’udita istoria, che per lunga scende
tradizion di padri, a narrar prende.
E ciò narrando, alternamente adocchia
i parvoli scherzanti; ed or li abbraccia:
or li fa mobil peso alle ginocchia,
or dolce incarco alle robuste braccia.
L’ode la moglie, intenta alla conocchia,
e la luna, che a lei risplende in faccia,
la concetta pietà che muta cela
sulle bagnate guance altrui rivela49.
Ma è soprattutto nelle ballate che emergono più chiari riferimenti
all’idillio agreste e pastorale. Lo si può osservare in due importanti
testi della produzione poetica di Berchet: I profughi di Parga (1821) e Le
fantasie (1829), che cronologicamente aprono e chiudono l’esperienza
ballatistica dell’autore. Ne Le fantasie, l’idillio arcadico, quando appare,
49 Ivi, III, ottave 43-46, p. 91.
[ 21 ]
480 francesco roncen
è subito trasposto in una dimensione sociale e urbana; il passo qui proposto
descrive un momento di festa cittadina, immaginato dall’io lirico
in seguito alla liberazione del popolo lombardo dal giogo «alemanno»:
Era sopito l’Esule;
era la notte oscura.
Il sogno erano agnelle
vaganti alla pastura;
campi che leni salgono
su per colline belle;
lontano a dritta ripidi
monti, e altri monti ancor
dinanzi una cerulea
laguna, un prorompente
fiume che da quell’onde
svolve la sua corrente.
Sovra tant’acque, a specchio,
una città risponde;
guglie a cui grigio i secoli
composero il color;
Ed irte di pinacoli
case, che su lor grevi
denno sentir dei lenti
verni seder le nevi;
E finestrette povere,
a cui ne’ dì tepenti
la casalinga vergine
infiora il davanzal.
È il tempo in cui l’anemone
intisichisce e muore,
cedendo i Soli adulti
a più robusto fiore.
Purpureo ecco il garofano
sbiecar d’in su i virgulti
dell’onorato amaraco,
del dittamo vital50.
Come svelano i primi versi, che fungono da ritornello delle varie
sezioni del poemetto, la visione non è altro che il sogno notturno di un
esule, a sua volta alter-ego allegorico di Berchet. Non solo, dunque,
50 G. Berchet, Le Fantasie, IV, vv. 1-32, in Id., Ballate e romanze, Milano, Sonzogno,
1901, p. 23. Le pagine fanno riferimento alla versione digitalizzata dal Progetto
Manuzio, disponibile all’indirizzo web https://www.liberliber.it/online/autori/
autori-b/giovanni-berchet/ballate-e-romanze/.
[ 22 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 481
l’idillio naturale è completato dalla controparte urbana, che ne determina
anche una semantica socio-politica di stampo risorgimentale;
ma esso è presentato come un’utopia negata, attribuita a un esule che,
come nella romanza Il romito del Cenisio, non può accostarsi «senza
piangere / alla terra del dolor!»51. L’estraneità dalla civiltà non è più
condizione privilegiata del pastore-poeta, ma è simbolo della tragica
sorte di un profugo, e in tal senso non può che caricarsi di significati
negativi: il poeta è allontanato dalla patria a causa del proprio canto,
esattamente come accade al menestrello protagonista della ballata
berchettiana Il trovatore. Per un autore romantico e risorgimentale come
Berchet, dunque, la lontananza da un mondo cittadino (seppure in
conflitto) non è una condizione risolutiva.
Il tema dell’esilio è centrale anche nei Profughi di Parga, che si ispira
alla reale cessione della città greca di Parga alla Turchia (1817) da parte
degli inglesi, evento che spinse la popolazione del luogo – che nell’Inghilterra
aveva riposto le proprie speranze – a emigrare altrove. Il profugo
protagonista del racconto è a tal punto disperato per la lontananza
dalla patria da tentare il suicidio; viene salvato da un giovane ufficiale
inglese, Arrigo, che apprenderà in seguito la recente vicenda di Parga.
Nonostante la riconoscenza nei confronti di Arrigo, il profugo non riesce
e non vuole perdonare l’Inghilterra, verso cui, nel finale, ribadisce
con un giuramento il proprio odio. Egli è quindi presentato mentre si
dedica a lavori umili in una terra straniera; lo fa, come si legge nel testo,
con l’orgoglio di chi non china il capo alle potenze usurpatrici:
L’uom di Parga giurò; – né quel giuro
mai falsato dal miser fu poi; –
oggi ancor d’uno in altro abituro
desta amore a chi asilo gli diè.
Scerne il pasco ad armenti non suoi,
suda al solco d’estranio terreno,
ma ricorda con volto sereno
che l’angustia mai vile nol fe’52.
Il contesto idillico, pur ergendosi a monumento resistenziale, è attraversato
da un senso di rancore e disillusione per la lontananza dalla
patria. Anche Arrigo, deluso dalla politica inglese, precipita in una condizione
simile a quella di un profugo. La sua disperata ricerca di una
51 G. Berchet, Il Romito del Cenisio, vv. 17-18, in Id., Ballate e romanze, cit., p. 46.
52 G. Berchet, I profughi di Parga, III (L’abbominazione), vv. 153-140, in Id.,
Ballate e romanze, cit., pp. 41-42.
[ 23 ]
482 francesco roncen
nuova patria (che è innanzitutto patria morale e sentimentale) emerge
nella costante negazione del topos idillico, sia naturale che cittadino:
La sua patria ei confessa infamata,
la rinnega, la fugge, l’abborre;
[…]
Ma per tutto lo insegue un lamento.
Ma una terra che il faccia contento,
infelice! non anco trovò.
Va ne’ climi vermigli di rose,
lungo i poggi ove eterno è l’ulivo,
a traverso pianure che erbose
di molt’acque rallegra il tesor;
ma per tutto, nel piano, sul clivo,
giù ne’ campi, di mezzo a’ villaggi
sente l’Anglia colpata d’oltraggi,
maledetta da un nuovo livor. –
Va in le valli de’ tristi roveti,
su pe’ greppi ove salta il camoscio,
giù per balze ingombrate d’abeti
che la frana da’ gioghi rapì; –
Ma ove tace, ove mugge lo stroscio
quando l’alta valanga sprofonda,
da per tutto v’è un pianto che gronda
sovra piaghe che l’Anglia ferì –53.
Simili declinazione del tema dell’esilio si ritrovano anche ne La patria
di Samuele Biava (Esperimento di melodie liriche, 1826), che si apre
con un rimpianto di luoghi idillici e naturali da parte di un uomo bandito
dalla propria terra:
La memoria venturosa,
che conserva chi va profugo
d’un’età, che lieta fu,
è l’essenza della rosa,
che conserva il puro effluvio
dell’april, che non è più.
[…]
Una selva, un suon di vento,
un sepolcro, un rito, un cantico,
un castello, un casolar,
una voce, un portamento
53 Ivi, vv. 177-184, pp. 41-42.
[ 24 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 483
di quegli anni la memoria
bastan spesso a richiamar.
Se per alpe ei corse infante,
dove s’erpichi la pecora,
dove balzi il capriuol,
il lor belo saltellante
ha dolcezza melanconica,
se l’ascolta in altro suol,
più che fertili pianure
che si curvan senza limiti,
mute al guardo e mute al cor
egli cerca quell’alture
ove un dì spirava l’etere
aromatico dei fior54.
E nell’ansio rapimento
lunge lunge i monti interroga…
Oh, gli amici dove son – ?
Ma con roco intronamento
sente sol, che i monti echeggiano,
iterando – dove son?
Ode invan pei clivi erbosi
a quel grido il mugghio, il plauso
di sue mandre, e dei pastor:
da suoi piani fruttuosi
ode invano a lui rispondere
i suoi sudditi arator55.
La conflittualità tra un presente negativo e un’utopica «età dell’esultanza
», negata però geograficamente e biograficamente, ritorna anche
nella più narrativa Guidobaldo il cacciatore (Esperimento di melodie
liriche, 1826), dove si coglie una distinzione tra la decadenza ‘attuale’
del protagonista e la sua vita giovanile, quando sapeva distinguersi tra
tutti i suoi coetanei per un armonico e gioioso rapporto con la natura:
Eran gli anni che Guido nomato,
col liuto reggendo la ronda
dei danzanti sull’erbe del prato
dal castello la madre esultò
54 S. Biava, La Patria, vv. 1-36, in Ballate e canzoni di stile romantico, a cura di
Francesco Domenico Guerrazzi, Livorno, Tipografia Vignozzi, 1829, pp. 53-54.
55 Ivi, vv. 253-264, p. 64.
[ 25 ]
484 francesco roncen
ascoltando la turba gioconda
che il suo Guido gridando acclamò.
La vendemmia, la messe festante
il trillar dei suoi canti rendea:
nel suo riso del cor giubilante
si scorgeva la piena sgorgar
quando il cor tripudiando fervea
nella foga del lieto trescar56;
Nel Guidobaldo, però, Biava sembra anche sancire l’infondatezza
dell’utopia idillica. La vicenda del cacciatore esemplificherebbe una
legge ineluttabile secondo cui, nell’esistenza e nel mondo, «l’infamia,
e la lode / mutan nome mutando l’età». Così, anche l’immaginario di
un’età dell’oro pacifica e di un idillio agreste e pastorale sarebbe il
prodotto transitorio di periodi segnati da guerre e conflitti, ma non
corrisponderebbe alla vera natura umana, che è invece soggetta a «selvaggi
appetiti» in ogni epoca e luogo:
Entro boschi abbondanti di prede,
sulle sponde di laghi pescosi
de’ beati locavan la sede
gli avi nostri pugnanti fra lor;
gli avi nostri frementi, rissosi
per la fame, che aizza il furor.
Ma d’allor che sull’erte montane
il pastor ebbe docili armenti,
ma d’allor che il colono ebbe pane
su pianure, che industre solcò,
quella patria li fece contenti
che i selvaggi appetiti sfamò.
Definitivi, per la negazione dell’idillio, sono i Preludii (1852) di Luigi
Carrer, pubblicati postumi e collocati a conclusione della raccolta
Ballate edite ed inedite. Il testo, che vale la pena scorrere passo per passo,
è diviso in quattro sezioni e presenta un poeta-narratore in prima persona.
Come esplicita il curatore in una nota a piè di pagina, con ‘preludi’
si intendono «que’ vaghi sentimenti che precedono la composizione
d’una poesia»57, qui espressi attraverso una successione di frammenti
contrastanti, frutto di una sensibilità irrequieta e inappagabile:
56 Ivi, Guidobaldo il cacciatore, vv. 13-24, pp. 80-81.
57 L. Carrer, Preludii. Frammenti, in Id., Ballate edite e inedite, Venezia, Tipogra-
[ 26 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 485
Che spero, o che desio?
Nulla. Inquïeto il mio
pensier di cosa in cosa
vola, né trova posa.
Oh! in freddo albergo oscuro
con quelli che già furo
adagiar mi potessi
e riposar con essi!
Non son rose e vïole
quelle ch’io cerchi sole;
l’alghe mi son pur care
sulla riva del mare,
i vellicanti sali
de’ materni canali
e il cilestrino velo
emulator del cielo,
ch’ampio intorno si stende
e la città comprende58.
Le prime due sezioni, ambientate nella società civile e in una Venezia
ricca «di marmi e d’oro […] ove fra pompe ed agi / visser prenci e
magnati», sono percorse da immagini di guerra che ‘tentano’ la fantasia
del poeta. Ciò conduce presto a una sensazione di infelicità, poiché
il fervore bellico delle gloriose «età guerriere» è calpestato dal nemico,
come sembrano confermare le visioni della ‘morte del comandante’ e
dello sbaragliamento delle truppe che l’autore pone al centro della
seconda sezione:
Miserere, miserere
suona il canto doloroso,
che pugnando va riposo
ai caduti nel pugnar.
Fra il compianto delle schiere
alto sorge un cataletto:
quivi è il duce. Estremo letto
di chi è tratto a sotterrar59.
Alla disillusione politica subentra allora una ‘speranza’ idillica di
pace e armonia dei sensi, in grado forse di suscitare una migliore ispirazione
poetica:
fia di Giovanni Cecchini, 1852, p. 153.
58 Ivi, I, vv. 9-26, p. 154.
59 Ivi, II, vv. 27-34, pp. 158-159.
[ 27 ]
486 francesco roncen
Quando il dolor mi preme
penso che non può sorgere
senza dolor la speme.
Non mai sì bello è il sole
d’allor che avviva il mistico
pallor delle vïole.
Non basta che la luna
spruzzi d’argento il cerulo
manto alla mia laguna,
e zeffiri incostanti
crespando la rabbellino
di gemme scintillanti?
La mente del poeta
cova in quell’ora fatui
desir che non han meta60.
Seguono vaghi desideri di vita agreste e pastorale, connotati da un
lessico a tratti evangelico, in piena sintonia con la natura e in aperto
contrasto col mondo cittadino:
Ricondotto al presepe l’armento
fa la valle tintinnir
il pastor leva un mesto concento
mentre stanco al riposo s’avvia,
più sempre densa la tenebrìa
avvolge i campi e il ciel.
[…]
Colle preci del villaggio
vo’ congiunto il pregio mio,
coi pastor posar vo’ anch’io
su pacifico origlier.
M’è importuno il vostro raggio,
o vigilie cittadine,
colle squille vespertine
abbian posa i miei pensier61.
L’inizio della quarta sezione ribalta però ogni illusione di appagamento
idillico:
60 Ivi, III, vv. 1-15, p. 161.
61 Ivi, III, vv. 69-88.
[ 28 ]
bozzetti agresti e pastorali nella poesia narrativa italiana 487
Se lieto mi credi
oh quanto t’inganni!
Tu lieto mi vedi,
e rodon gli affanni
con tacito oltraggio
l’interno del cor62.
Dopo aver appreso la sordità della natura, che non ascolta le parole
e le speranze del poeta, l’io lirico non può che accettare l’oscillazione
dei propri sentimenti tra «gemiti funesti» e «giulivi canti»63, in una
visione sofferente che accomuna tanto i lussuosi palazzi quanto i bozzetti
idillici (e grondan di sudor / del par le lane e l’or»)64. L’epilogo
resta irrisolto, con la negazione di ogni possibile miglioramento della
propria condizione e la consapevolezza che l’ispirazione poetica non
può che nascere da un perenne senso di conflitto tra realtà e desiderio;
all’io lirico, in conclusione, non resta che far proprio un principio di
resistenza, raffigurato dalle immagini della «pieghevole verghetta»
che «resiste all’onda», o dello scoglio che, colpito dall’impeto dei flutti,
«tenne immoto il piè»65. Nelle quattro sezioni della ballata, Carrer
tematizza, sotto le spoglie del racconto lirico-visionario, la definitiva
crisi dell’utopia idillica, tanto di quella arcadico-pastorale quanto di
quella borghese e civile, confermando però anche il fascino duraturo
del topos classicista di una natura amena, in cui tenta di instaurare una
condizione di quiete sentimentale, morale e civile.
A conclusione di questa rassegna si potrebbe citare un componimento
di Giovanni Prati, autore, assieme a Dall’Ongaro, tra i più rappresentativi
della seconda generazione di ballatisti. Caratteristiche di
questa generazione sono la reazione alla facile commercializzazione
della ballata romantica e l’aperto rifiuto dell’immaginario arcadicopastorale
settecentesco. In un componimento, peraltro di ambigua decifrazione,
intitolato La mia bisaccia (1854), Prati rappresenta i propri
‘vizi’ con tono ironico e giocoso, ai limiti della ‘frottola’. L’io lirico ripercorre
luoghi compromessi con le sue personali scelte poetiche, toccando
anche la poesia sentimentale degli anni più verdi, qui collocata
in un contesto arcadico-pastorale:
Or che la selva imbiancasi
sotto gli argentei raggi,
62 Ivi, IV, vv. 1-6.
63 VI, vv. 1-2, p. 171.
64 Ivi, VI, vv. 5-6, p. 171.
65 Ivi, VI, vv. 13-14; 16-18, p. 171.
[ 29 ]
488 francesco roncen
addio, piangenti musiche
del rosignuol sui faggi:
voi rammentate a un esule,
sazio d’illustri inganni,
i lagrimati affanni
della sua verde età.
Che vuoi narrarmi, o lùgubre
tu di pastor lamento,
or che in quell’ampia nuvola
il lunar disco è spento?
Ah, dal montano culmine
precipitò Neera,
la stella mattiniera,
delle capanne il fior!
O inconsapevol vergine,
dell’agne tue superba,
straniera al mondo, addormiti
nel lettieciuol tuo d’erba.
Ti daran ombra i salici
profumo le viole,
raggi la luna, e il sole,
e gemiti il pastor66.
Anche in questo caso l’idillio è attraversato da tonalità lugubri e
melanconiche, esacerbate dall’accenno a una vicenda luttuosa. Se considerata
nel contesto generale della ballata, però, l’ambientazione idillica
è trattata con sentimentalismo leggero e distante, come si addice
all’ultimo atto di una poetica, quella romantica, ormai destinata a derive
di maniera o a prese di posizione critiche e parodiche. Con ciò,
l’idillio (come anche la ballata) viene non solo negato, ma a tutti gli
effetti affidato al passato. Può dunque essere osservato da una specola
ironica e rigettato nel nome di una poesia ormai rivolta alla rappresentazione
del presente e a una visione ‘realistica’ (o presentata come tale)
del folklore e della dimensione urbana.
Francesco Roncen
Università di Padova
66 G. Prati, La mia bisaccia, in Id., Opere edite e inedite del cavalier Giovanni Prati,
a cura di Carlo Teoli, Milano, M. Guigoni, 1862 (5 voll.), vv. 119-142, vol. I, p. 341.
[ 30 ]
Roberta Colombi
Le “prospettive” della Satira tra impegno e disincanto.
Da Leopardi agli scrittori del Risorgimento
Il contributo propone di rintracciare una genealogia della nostra prosa satirica
ottocentesca, ponendo al centro il modello leopardiano. L’ambivalenza della
sua scrittura, che oscilla tra impegno e disincanto, sembra in particolare aver
lasciato traccia di sé in alcuni scrittori umoristi. Le loro scelte tematiche e formali
mostrano come l’impegno per il rinnovamento civile e letterario negli anni
del Risorgimento maturo, ricorra alla scrittura satirica facendo tesoro sia del
modello sociale del Giusti che di quello filosofico di Leopardi.

This study sets out to trace a genealogy of Italian nineteenth-century satirical
prose, emphasising the Leopardian model. The ambivalence of his writing, swaying
between engagement and disenchantment, seems to have been especially
influential on several humoristic writers. Formal and thematic aspects of their
work demonstrate how an engagement for civil and literary renewal during the
later years of the Risorgimento employed a satirical style that looked positively
towards both Giusti’s social model and Leopardi’s philosophical paradigm.
1. Tradizione della satira
Per porre un termine da cui partire non si può non far riferimento a
quell’appunto leopardiano del ’19 nel quale il recanatese indica, nell’assenza
di una tradizione, la volontà di scrivere alcune prosette satiriche
sul modello di Luciano. La direzione del suo impegno è chiara:
cercare di «dare all’Italia un saggio» di quel «linguaggio comico che
tuttavia bisogna assolutamente creare», giacché sebbene non «povera
d’intreccio» e «d’invenzione», alla nostra tradizione «manca affatto
[…] lo stile e le bellezze parziali della satira fina e del sale e del ridicolo
attico»1. Oltre a tale spinta a colmare una lacuna letteraria, Leopar-
Autore: Università degli Studi “Roma Tre”; prof. associato; roberta.colombi@
uniroma3.it
1 Giacomo Leopardi, Disegni letterari, in Id., Opere di Giacomo Leopardi, a cura
di Giovanni Getto, Milano, Mursia, 1966, pp. 245-258, qui cit. a p. 247.
490 roberta colombi
di, come precisa qualche anno dopo in una nota del suo Zibaldone, era
mosso verso questo genere di scrittura dall’intenzione di «scuotere la
mia povera patria, e secolo», con «le armi del ridicolo», più che con
quelle «dell’affetto» o «della ragione»2. Per assolvere al compito di
«primieramente» giovare, la materia di queste prose sarebbe dovuta
cadere non su «bagatelle» ma «sopra qualcosa di serio e d’importante
»:
ne’ miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora
è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali
delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica,
le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia,
l’andamento e lo spirito generale del secolo […] della civiltà presente
[…] i vizi e le infamie […] dell’uomo3.
Questo perché, come si legge nell’Elogio degli Uccelli (del ’24), il riso
nel «tempo presente» «supplisce in qualche modo alle parti esercitate
in altri tempi dalla virtù, dalla giustizia, dall’onore e simili; e in molte
cose raffrenando e spaventando gli uomini dalle male opere»4. Se
dunque il discorso satirico si caratterizza per questa volontà di incidere
sul presente, il progetto leopardiano si colloca, almeno nelle intenzioni,
all’apice di una possibile genealogia della prosa satirica dell’800.
Le Operette morali in realtà presentano una maggiore complessità
di quanto queste dichiarazioni facciano immaginare e se alla tradizione
critica non è sfuggito questo carattere di un «riso costruttivo»5, allo
stesso modo essa ha messo in luce come in quest’opera si coglie un’attitudine
alla satira, nella quale però si alternano speranza e avvilimento,
impegno, compassione ed empatia con il genere umano insieme a
sarcasmo e disincanto6. Se infatti nelle dichiarazioni del ’21 Leopardi
sembra credere nella «forza catartica» di una prosa così concepita, e in
Timandro ed Eleandro, operetta posta in chiusura all’edizione del ’27,
dichiari la qualità terapeutica di un riso che offre «qualche conforto» a
2 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti,
1991, vol. I, p. 842 (27 luglio 1821).
3 Ivi, pp. 841-842 (27 luglio 1821).
4 G. Leopardi, Operette morali, in Id., Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani
e Maria Andrea Rigoni, Milano, Mondadori, 1988, vol. II, p. 157.
5 Vincenzo Placella, Leopardi, Alfieri e il comico “forte”, «Rivista di letteratura
italiana», XXIV (2006), n. 3, pp. 171-182; qui cit. a p. 179, nota 1.
6 R imando alla recente lettura delle Operette a cui è dedicato il volume di Emilio
Russo, Ridere del mondo. Lettura delle Operette Morali, Bologna, Il Mulino, 2017.
[ 2 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 491
sé e agli altri facendoci ridere «dei nostri mali»7, non bisogna dimenticare
che la filosofia negativa che pervade il libro, e la sua difficile accoglienza
da parte della critica del tempo, lo portò a progettare quella
nuova edizione il cui epilogo è significativamente affidato al Dialogo di
Tristano e di un amico (del ’32). In questa operetta, Tristano (alter ego
del’autore), consapevole dell’inattualità di quel suo libro così «malinconico,
sconsolato, disperato»8, chiederà infatti perfino che venga dato
alle fiamme.
Senza approfondire le diverse posizioni della critica rispetto a questa
compresenza di toni (un’evoluzione nel pensiero leopardiano, oppure
una dinamica interna che caratterizza l’opera concepita come un
testo organico), in questa sede mi interessa sottolineare come all’interno
dell’opera convivano queste due anime che, oltre a farsi interpreti
della complessità e ambivalenza della posizione leopardiana, hanno
lasciato una certa impronta di sé in chi dopo di lui ha percorso le strade
della scrittura satirica.
Del resto forse questa ambivalenza non era sfuggita neanche alla
critica a lui contemporanea, che in generale riservò a Leopardi un’accoglienza
fortemente negativa. Dopo un’iniziale interpretazione eticopatriottica
della sua opera in versi, soprattutto con le Operette morali la
cultura risorgimentale ne critica il pensiero negativo, la «disperazione
» e la «miscredenza» (per usare le parole di Gioberti)9. Insieme alle
posizioni più intransigenti come quella di Mazzini o quella di Giusti,
che definisce il pericolo della lettura delle Operette analogo a quello di
un morso di un «rettile velenoso»10, è la posizione di Gioberti, decisiva
per la fortuna e la critica leopardiana successiva, che offre una più
complessa interpretazione. Nelle sue opere Gioberti cita spesso Leopardi
e se, da un lato riconosce l’elemento scettico e negativo del suo
pensiero, ma lo circoscrive considerandolo un «errore», dall’altro esalta
la superiorità intellettuale e letteraria dello scrittore, la statura morale
e il suo esempio di virtù civile11. E a proposito di quel «libro terribile
» che sono i Paralipomeni, Gioberti riconoscerà «giustissima» quel-
7 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 177.
8 Ivi, p. 212.
9 U tile disamina della recezione dell’opera leopardiana presso i contemporanei
si trova in Novella Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze
dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996; in
particolare si veda la Premessa e il cap. Critici romantici e ideologi del Risorgimento.
Qui cit. a p. 270.
10 Ivi, p. 12.
11 Ivi, p. 272.
[ 3 ]
492 roberta colombi
la sua «ironia amara che squarcia il cuore»12. Un’immagine dunque
controversa è l’icona che viene trasmessa ai contemporanei, e per questo
forse il «debito contratto, magari in chiave polemica, con le sue
idee e le sue opere»13, presenta una vitalità che merita di essere indagata.
Per quanto riguarda la produzione in prosa del secolo non credo,
infatti, sia opportuno avvalersi della distinzione, indicata da Viscardi
per la satira in versi, tra il polo negativo leopardiano e quello della
satira sociale di Giusti14.
In un secolo in cui vedono la luce le traduzioni di Persio, Giovenale,
e perfino di Orazio in milanese, il rinnovato interesse per la satira è
sicuramente «spia del desiderio di partecipazione degli intellettuali»
alla vita sociale e politica15 ma, come l’esempio di Leopardi dimostra,
anche espressione di una resistenza critica non necessariamente civile
o militante. Nella tradizione della prosa satirica troviamo infatti la sopravvivenza
e la sovrapposizione, in qualche caso anche in una stessa
opera, sia della dimensione storica e sociale del polo engagé, sia della
riflessione metastorica e filosofica ereditata da Leopardi.
Gli scrittori maggiormente impegnati nel rinnovamento del linguaggio
letterario o coinvolti nelle lotte risorgimentali, gli irregolari,
gli umoristi, offrono diverse prove di questa eredità. Da Rajberti a
Dossi si può rilevare una tipologia del discorso satirico che mostra
una genealogia complessa e plurima dove temi e forme sembrano provenire
prevalentemente da questi due modelli.
2. Il campo della satira
Tematicamente i testi di questa tradizione presentano alcune costanti,
conseguenti alla concezione che gli scrittori del tempo avevano
della satira. Concepita, da Cattaneo a Carcano, come scrittura capace
di correggere il vizio, espressione di verità, che finisce per produrre un
«esame di coscienza dell’intera società»16, essa si presenta a questi
12 Ivi, p. 286.
13 Ivi, p. 268.
14 Marco Viscardi, Topi, macchine e fantasmi. Poesia e satira dal “bello italo regno”
al Regno d’Italia, in La satira in versi. Storia di un genere letterario europeo, a cura di
Giancarlo Alfano, Roma, Carocci, 2015, pp. 233-250.
15 Ivi, p. 234.
16 Carlo Cattaneo, “Il Politecnico” 1839-1844, a cura di Luigi Ambrosoli, Torino,
Bollati Boringhieri, 1989, vol. I, p. 169.
[ 4 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 493
scrittori come l’occasione per aprire gli orizzonti della letteratura alla
contemporaneità e rivendicare una funzione civile ed etica all’impegno
letterario, esigenza sempre più affermata dal dibattito culturale
del tempo.
Uno scrittore eccentrico come Rajberti, che registra l’inattualità dei
generi praticati dalla letteratura accademica, afferma come proprio in
una società in decadimento bisognerebbe avere il coraggio di praticare
una «vera poesia Civile» che si occupi del tempo presente17. Traduttore
delle satire oraziane in milanese, denigrato ed emarginato per i
suoi versi in dialetto, dichiara di voler «burlarsi di tutti e tirar dritto
per la sua strada»18, convinto com’è che il poeta satirico deve essere
«eminentemente contemporaneo» perché ha la funzione di «interprete
» e «rilevatore del progresso dell’epoca propria»19. La scelta di optare
per la prosa, dopo l’esperienza della poesia dialettale, non fa che
confermare la sua idea di letteratura alla cui base resta l’intenzione di
«battere colla terribile arma del ridicolo i vizj e le stolidezze sociali»20.
L’osservazione critica del presente è infatti il tema intorno a cui si
addensa la satira di questi scrittori i quali propenderanno a ritrarlo
realisticamente, come suggerisce sempre Rajberti, senza salire «sui
trampoli dell’idealismo e delle fantasticherie» ma seguendo il libro
«della natura e dei fatti» e copiando «sempre dal vero». Poiché «nel
vero sovrabbondano gli elementi viziosi, ignoranza, leggerezza, vanità,
sciocchezza e ridicolo», la descrizione che ne consegue sarà sempre
«per natura sua una satira»21.
2.1. Rajberti
Nel caso di Rajberti, siamo di fronte ad uno scrittore che vivendo il
clima repressivo e censorio della Lombardia pre e post quarantottesca,
ricorre al mascheramento e all’abbassamento della problematica civile,
con le sue prime opere come Il Gatto (1845) e l’Arte di convitare
(1850-51), a causa del restringimento, da lui stesso denunciato dello
17 Giovanni Rajberti, Prefazione alle mie opere future, in Id., Il viaggio d’un ignorante,
a cura di Enrico Ghidetti, Napoli, Guida, 1985, p. 189.
18 Ivi, p. 178.
19 Ivi, p. 166.
20 Ivi, p. 168.
21 G. Rajberti, L’Arte di convitare, a cura di Giovanni Maffei, Roma, Salerno
Editore, 2001, pp. 117-118.
[ 5 ]
494 roberta colombi
«spazio vitale della satira»22. Nonostante ciò già in questi testi si insinuano,
sotto un materiale tematico apparentemente neutro, da lui
stesso definito «pretesto di satira sociale»23, «riflessioni sulla condizione
umana» e divagazioni di carattere «moralistico»24.
Nell’apologo Il gatto, apprezzato anche da Giusti25, Rajberti rivendica
la libertà della satira e la sua funzione critica dicendo che essa «dà
la storia minuta delle tendenze contemporanee, e marchia le esagerazioni
e gli abusi delle cose anche le più rispettabili»26, ma precisa anche
la sua preferenza per una satira giocosa (il cui modello è naturalmente
il suo Orazio e non Giovenale). Secondo lui infatti la «satira
giocosa si prefigge di cogliere il lato apparentemente ridicolo, il lato
comico nella formola delle cose, e presentarlo con un’immagine buffonesca,
con un frizzo matto e piccante»27. Il compito della sua scrittura
satirica perciò consiste nel cogliere il lato ridicolo delle «esagerazioni»
e degli «abusi» restituendo col riso una verità.
Nonostante la scelta di quest’opzione stilistica, severi appaiono i
suoi giudizi sulla chiusa e provinciale società italiana, sull’accademismo
della sua cultura, lontana da ogni vocazione realistica, così come
pungenti sono i suoi giudizi contro il conformismo e l’idealismo progressista.
La sua visione della storia e dell’evoluzione della società civile
non sembra spingerlo verso una prospettiva ottimistica. La riflessione,
introdotta tra le maglie di questa scrittura, trapassa spesso infatti
da una dimensione storica ad una metastorica, dove oggetto dello
sguardo impietoso dello scrittore è l’uomo e la sua natura, di cui denuncia
con severità, oltre che le illusioni, i vizi. Si veda ad esempio
quando a proposito del «mondo inconseguente e balordo, che tante
volte si ostina a proteggere chi sfacciatamente lo corbella» dice, con
accento e lessico leopardiano, che ai «birbanti» si rinnova quella «fiducia
che si nega spesso ai galantuomini»28.
Nasce da tale visione la necessità di offrire consigli all’uomo
sull’arte di vivere, in questo registro giocoso dove convivono l’amarezza
della riflessione e la leggerezza del gioco. Questo manuale del
22 Giovanni Maffei, Introduzione, in G. Rajberti, L’Arte di convitare, cit., p. 26.
23 G. Rajberti, Il gatto, Genova, ECIG, 1991, p. 129.
24 Enrico Ghidetti, Prefazione, in G. Rajberti, Il viaggio d’un ignorante, cit., p.
18.
25 Ivi, p. 17.
26 G. Rajberti, Il gatto, cit., p. 114.
27 Ivi, p. 115.
28 Ivi, p. 101.
[ 6 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 495
saper vivere, che ha il merito di offrire un doppio piano di lettura,
poiché possiede la virtù «di farsi leggere due volte, grazie alle tante
malizie» che lo rendono interessante29, si conclude infatti con delle
amare considerazioni sulla necessità della dissimulazione e del trasformismo,
facilmente intuibili sotto il velo del simbolismo animale.
Alla domanda se piuttosto che tendere di assomigliare al gatto, non
convenga «nel secolo dei lumi essere scimmie versatili, rettili striscianti,
volpi ingannatrici, marmotte letargiche, asini gloriosi» il narratore
risponde affermando che se oggi siamo dell’idea «che a noi convenga
esser gatti» può accadere che alla prima occasione «torni meglio
esser camaleonte o pappagallo, asino o bue»30.
Ancor più esplicitamente, dieci anni più tardi, il Viaggio d’un ignorante
(del ’57), definito da lui stesso un «libercolino smilzo, pettegolo,
petulante, pungente»31, presenta questo doppio registro dell’interesse
per la contemporaneità e quello di un’amara riflessione filosofica
sull’uomo. Scritto con l’intenzione di offrire un resoconto di un viaggio
a Parigi per l’Esposizione Universale, in realtà questo racconto
permette a Rajberti di esprimere, attraverso gli occhi ingenui di un
ignorante, una critica alla società civile dei suoi tempi. Lungo un itinerario,
in cui spesso compare l’ombra di Dante, lo scrittore si sfida a
restituire «quel sublime inferno»32 rappresentato dalla realtà caotica
della vita nella grande metropoli moderna, e con esso le sue considerazioni
sui peccati, i vizi e le illusioni persistenti dell’umanità, la sua
critica all’estetica classicista, e all’astrattezza della cultura accademica.
Nonostante Rajberti riconosca alla sua vocazione critico-satirica
una certa inattualità33, e fosse consapevole della sua pioneristica impresa
in una nazione senza pubblico34, non esita egualmente a difendere
la necessità della satira come espressione irrinunciabile del pensiero
critico e a praticare un tipo di scrittura polemicamente alternativa
alle mode del tempo, in cui purtroppo accade che «uno scrittore
29 Ivi, p. 132.
30 Ivi, p. 108.
31 G. Rajberti, Il viaggio di un ignorante, cit., p. 30.
32 Ivi, p. 135.
33 R isulta infatti pienamente consapevole che sono «passati quei tempi quando
si scriveva a pompa d’ingegno, a sfoggio di stile, per far ridere, per far gemere,
per far fremere, o per qualsiasi altro scopo di vanità: miserabili tempi, orbi della
luce filantropico-umanitaria scoperta nel secolo decimo nono!» (ivi, p. 74-75).
34 Dirà alla fine del Viaggio che la incapacità a far ridere tutta l’Italia dipendeva
dal fatto che non ha mai avuto un vero pubblico nazionale: «Capperi! Predicavo al
deserto!» (ivi, p. 142).
[ 7 ]
496 roberta colombi
che si rispetti deve far in modo che ogni pagina d’un suo libro equivalga
a un carro di letame per ingrassare e fecondare i campi
dell’incivilimento»35. L’obiettivo perseguito con il suo libro è svuotare
la testa degli uomini, divenuta «l’emporio o il caos di tutti gli spropositi
», abbattere i pregiudizi di chi «viaggiò sui libri serii e sentenziosi»36,
«libri nocivi» e «inutili», di cui si augura la distruzione proprio come
fu in parte tentato con quel «magnifico falò della famosa biblioteca di
Alessandria»37.
Erede della tradizione portiana, ma anche della migliore tradizione
satirica, come dell’impegno civile della tradizione illuminista lombarda
e del realismo del grande Dante, Rajberti, pur continuando a
credere fermamente nel valore etico-conoscitivo del suo impegno letterario,
non manca infine di confessare anche la sua disillusione e a
venare di pessimismo i suoi ultimi scritti.
Lo sguardo «vergine» dell’ignorante, epiteto con cui firma i suoi
pezzi giornalistici tra il ’57 e il ’58, è quello di chi vede la realtà senza
proiezioni ideali, «senza concedere nulla al mito delle «magnifiche
sorti e progressive»38 e con disincantato realismo riconosce che «il
mondo, tanto il fisico quanto il morale, ha sempre camminato nell’istesso
modo» e in esso ci sarà sempre «come nei secoli passati: il solito
numero di furbi e di gonzi, di savii e di matti, di birbanti e
galantuomini»39.
2.2. Nievo
Un’analoga compresenza di impegno e disincanto si può rilevare
nella produzione satirico-umoristica di Nievo. Già con il Barone di Nicastro
(1857) abbiamo un «romanzetto satirico» in cui si sovrappongono
riflessione filosofica e satira sociale40.
35 Ivi, p. 74-75.
36 Ivi, p. 111.
37 Ivi, p. 56.
38 Enrico Ghidetti, Postfazione, in Giovanni Rajberti, Il gatto, a cura di Aldo
Palazzeschi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004, pp. V-XXVIII; qui cit. a p.
XIV.
39 Giovanni Rajberti, I dotti e la scienza moderna, in Il postiglione di Monza e altre
prose di Giovanni Rajberti, a cura di Vanni Scheiwiller, Milano, 1970, p. 67.
40 Per le vicende editoriali vedi Silvia Contarini, Nota introduttiva a Ippolito
Nievo, Il Barone di Nicastro, in Id., Opere, t. II, a cura di Ugo Olivieri, Milano-Napoli,
Ricciardi, 2015.
[ 8 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 497
Sebbene un fitto sottotesto attraversi la narrazione con richiami
all’attualità41, tematicamente al centro del racconto si trova quello
scontro tra ideale e realtà, letteratura ed esperienza, che da Cervantes
a Sterne, passando per i tentativi degli scrittori del “Conciliatore”, si
arricchisce con Nievo, oltre che di una dimensione maggiormente filosofica,
di elementi legati al modello narrativo del romanzo di prove e
all’esempio del Candide volterriano.42
In quest’opera troviamo un donchischiottesco paladino della virtù,
rappresentante di una cultura idealistica e libresca il quale, grazie a un
viaggio avventuroso, che lo sottopone a prove continue, sarà costretto
a disilludersi circa la bontà della natura umana e il progresso della
civiltà moderna. In questo breve romanzo, dove la dimensione del
viaggio presto si fa metastorica e il tono sentenzioso e filosofeggiante
ricorda, insieme al modello del conte philosophique, la prosa delle Operette,
il personaggio sembra viaggiare per apprendere leopardianamente
alla scuola del mondo il suo nuovo sapere.43 Il risultato del suo
viaggio di conoscenza è la scoperta che la realtà, simbolicamente dominata
dal numero due, è piena di contraddizioni che non possono
essere superate e che l’idealismo che vorrebbe conciliarle risulta vano,
inadeguato e anacronistico.
Altri esempi di brevi narrazioni fanno parte sempre di quella attività
giornalistica, particolarmente intensa tra gli anni ’57 e ’60, dove il
tono più distaccato e più burlesco, nei confronti soprattutto dei miti
della civiltà ottocentesca, si cala all’interno di diversi modelli narrativi.
Gli esempi più interessanti sono due testi del ’60: Gli ultimi amanti
delle illusioni e La Storia filosofica dei secoli futuri. Scritti quando, avve-
41 Per una lettura in chiave politica del testo, secondo cui l’itinerario del Barone
si inscrive all’interno di una precisa “cornice storico-politica”, rimando a Silvia
Contarini, Il canto della cornacchia: satira e politica ne “Il Barone di Nicastro” di Ippolito
Nievo, in La satira in prosa. Tradizioni, forme e temi dal Trecento all’Ottocento, Atti
convegno Roma 16-17 marzo 2017, a cura di Carlotta Mazzoncini e Paolo Rigo,
Firenze, Cesati, 2019 c.s.
42 Secondo quanto notato sin dal suo primo biografo Dino Mantovani, Il Poeta
Soldato. Ippolito Nievo 1831-1861, Milano, Treves, 1900.
43 Sottolinea lo spessore ideologico e filosofico del testo, oltre che il rapporto
con Leopardi, Giancarlo Mazzacurati, Pitagora a New York: per una prefazione al
Barone di Nicastro, in Id., Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974, pp. 270-297, ma
anche il più recente contributo di Sara Garau, il Barone di Nicastro, «filosofo» e
«viaggiatore», in Ead., «A cavalcione di questi due secoli». Cultura riflessa nelle Confessioni
d’un Italiano e in altri scritti di Ippolito Nievo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
2010, pp. 157-185.
[ 9 ]
498 roberta colombi
nuta l’unità, delusione amarezza e disincanto spingono Nievo ad
estremizzare la vis polemica attraverso il filtro del fantastico.
Nel primo caso la suggestione viene dal romanzo satirico Il diavolo
zoppo di Lesage (1707), in cui grazie ad un viaggio fantastico per i cieli
di Parigi il protagonista, accompagnato dal Diavolo, vedrà attraverso
i tetti magicamente scoperchiati delle case ciò che l’uomo comune non
può vedere. Lo stesso stratagemma, funzionale alla volontà di smascherare
ironicamente la realtà, viene adottato da Nievo ne Gli ultimi
amanti delle illusioni nel quale il personaggio, dopo aver venduto, come
il Faust goethiano, l’anima al diavolo per sapere cosa sono le illusioni,
compie a questo scopo un’analogo viaggio per i cieli d’Europa.
L’esperienza fatta, attraverso la visione caricaturale di alcuni monarchi
ancora illusi di conservare il proprio status, gli dimostra come nella
condizione attuale dell’umanità non ci sia spazio per la fede, gli
ideali e le grandi illusioni, e che laddove esse resistono appaiono ridicoli
avanzi di un vecchio mondo.
Nel caso invece della Storia filosofica dei secoli futuri, il modello che
sta sullo sfondo è quello dell’ucronia, diffusa nel primo Ottocento grazie
ad autori francesi (Mercier, Nodier, Souvestre) probabilmente noti
a Nievo. Il testo di questo racconto distopico in realtà risulta essere la
trascrizione di un’opera rubata ad un «postero cervello»44 grazie ad un
esperimento chimico.
Anche in questo caso, grazie all’espediente di un distanziamento e
di un mascheramento, lo scrittore riesce a comunicare le sue conquiste
conoscitive ricorrendo al filtro del fantastico e del fantascientifico. A
parte l’insoddisfazione per gli esiti del processo unitario appena compiutosi,
sotto la maschera della proiezione avveniristica, emerge tutta
la sua maturata distanza verso le facili utopie del progresso e della
civilizzazione. Il modello dell’ucronia dunque viene utilizzato in maniera
originale per sfruttarne la sua valenza profetica che in questo
caso si connota negativamente come monito per un’umanità che rischia
l’isterilimento, come mostrano le nefaste conseguenze dell’invenzione
degli omuncoli che lavorano come moderni robot, e della
peste apatica sotto la quale soccomberà l’umanità.
Come si può facilmente rilevare, oltre alla presenza della dimensione
filosofica, una certa continuità tra queste prose e l’esperienza
leopardiana, c’è anche sul piano tematico. La critica del progresso, la
44 Ippolito Nievo, Storia filosofica dei secoli futuri (e altri scritti umoristici del
1860), a cura di Emilio Russo, Roma, Salerno Editrice, 2003, p. 46.
[ 10 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 499
riflessione sul valore del sapere e della virtù, il rogo dei libri (topos di
derivazione cervantina che si ripresenta in tutti questi autori con la
sua pregnanza antidealistica), le illusioni dell’uomo, gli effetti negativi
dell’incivilimento, dell’affermazione del mondo borghese e capitalistico,
la fine dell’eroismo antico, il pericolo della meccanizzazione
della vita, gli automi, il tedio di un’umanità senza valori, e infine la
sua scomparsa, sono tutti temi presenti nelle Operette, come pure nei
versi del Giusti.
3. Invarianti formali
L’aspetto, infine, sul quale sembra più interessante richiamare l’attenzione,
nel delineare una possibile trasmissione di modelli della satira
in prosa, è di natura formale, inerente ad un aspetto retorico-narrativo.
A voler considerare alcune invarianti tecnico formali, occorrerà
partire da quello che sembra essere un elemento caratterizzante il discorso
satirico e cioè «chi parla».
Come ricorda Alfano, dedicando appunto la sua attenzione alla
«forma della satira», essa è quell’«espressione con intenzione comica
che mette in evidenza un difetto o una qualche mancanza di conformità
rispetto […] a quanto ritenuto giusto da colui che prende la parola»45,
inoltre, precisa, a prendere la parola nel discorso satirico è sempre un
soggetto, uno «ben distinto dall’autore, una sua controfigura»46. Il discorso
satirico infatti, per sua natura, è frutto di una reazione ad «un
aspetto del presente che viene condannato in base ad una valutazione
di tipo ideale»47, e la costruzione di un’immagine fittizia o maschera
permetterebbe quel distanziamento che consente allo scrittore di proporre
il suo discorso sconveniente.
Oltre a porre attenzione a chi parla, si può rilevare anche da quale
prospettiva parla, cioè quale punto di vista sceglie lo speaker del discorso
satirico. Elices Agudo, in uno studio sulla satira inglese48, individua
alcune strategie retoriche a cui questa tipologia di scrittura ricorre,
tra cui troviamo un certo distacco dall’oggetto, l’immaginario
45 G. Alfano, Introduzione, in La satira in versi, cit., p. 18.
46 Ivi, p. 17.
47 Ivi, p. 15.
48 Juan Francisco Elices Agudo, Historical and Theoretical approaches to English
Satire, Munchen, Lincom, 2004, in particolare il III cap. The satiric apparatus:
rhetorical strategies, pp. 77-108.
[ 11 ]
500 roberta colombi
animale e la rappresentazione di mondi utopici e distopici. Il dato comune
di queste strategie, tutte presenti nei testi esaminati, sembra potersi
indicare nel posizionamento dello speaker del discorso satirico. In
base a tali suggerimenti, dunque, centrale sembra essere la questione,
in termini genettiani, della “voce” e della “prospettiva”.
In questi testi, il posizionamento dello speaker sembra potersi definire
quasi sempre per il suo carattere eccentrico, decentrato, e per il
suo effetto straniante. Esso sceglie sempre una posizione alta o altra,
che traduce una distanza fisica o culturale tra sé e la realtà osservata e
descritta. Abbiamo, infatti, la distanza culturale del narratore-maschera,
come mostrano gli esempi dell’ignorante di Rajberti e lo scrittore
del futuro di Nievo, e la distanza fisica dei locutori che, scelgono posizioni
elevate per esprimere la propria prospettiva critica.
Ad esempio Rajberti dice che per scrivere di «piccole debolezze» e
«gravi vizi» prende ispirazione dal gatto (eletto a musa della sua scrittura),
dal suo stile prudente, ma soprattutto dalla sua prospettiva distaccata.
Il gatto, infatti, come «sovrano abitatore del tetto», vede tutte
«le passioni in burrasca» del mondo della vita. Il tetto da cui osserva è
come «il coperchio di una gran pentola di mali», ogni fabbricato «un
vaso di Pandora», e da lì il mondo appare dibattersi senza pace tra
opposte esagerate tendenze49.
Prendendo spunto da Il gatto di Rajberti (ripubblicato nel ’900 da
Palazzeschi, anche lui amante di animali parlanti), Ghislanzoni, nel
romanzo Memorie di un gatto, farà parlare direttamente questo animale
e riuscirà ad offrire un discorso satirico filtrato dalla sua prospettiva,
da uno sguardo che osserva il mondo umano dall’alto dei tetti, dai
granai, o dagli interni delle stanze da letto.
Analogamente nel Viaggio d’un ignorante, torna quella postazione
alta, prediletta per osservare le cose del mondo. L’ignorante viaggiatore
vedendo dall’alto dell’Arco dell’Etoile con un sol colpo d’occhi
tutta la città e comprendendo che quelle «piccolissime cose […] che
sembrano formiche» sono uomini e donne che «vanno affannosamente
in cerca d’alcuno o di varii dei loro sette peccati capitali»50, sarà
spinto a farne oggetto di una lunga riflessione. Come lui stesso dichiara,
è il suo «sistema filosofico nel viaggiare» a farlo «salire sulle eminenze
» e «quando si è in altura, e si domina il mondo sottoposto, per
solito si inclina alla filosofia tetra»51.
49 G. Rajberti, Il gatto, cit., p. 63.
50 G. Rajberti, Il viaggio d’un ignorante, cit., p. 79.
51 Ivi, pp. 78 e 80.
[ 12 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 501
Anche Nievo, ne Gli ultimi amanti delle illusioni, al di là dei contenuti
più o meno legati all’attualità, adotta una prospettiva speciale grazie
allo sguardo ormai disilluso e scettico del suo personaggio che
voyeuristicamente vede il mondo dall’altezza dei cieli.
Questo modulo, avrà una sua fortuna e si ripresenterà variamente
rielaborato in tutta una serie di testi appartenenti a questa tradizione.
Si pensi ad esempio all’ultimo capitolo de Il regno dei cieli di Dossi in cui
un «angelo della Memoria» compare in sogno ad uno scrittore addormentato
per mostrargli la vanità delle conquiste umane, o come nella
Sinfonia premessa alla Desinenza in A dove si offre, come emblema del
materiale testuale che si invita a leggere, l’immagine miniaturizzata di
una casa che si apre come un pomo per vedere cosa c’è dentro.
Gli esempi riportati mostrano come, ricorrendo a varie strategie,
questi autori si pongono tutti ad una certa distanza dall’oggetto della
loro scrittura, scegliendo una voce e una prospettiva inedita, alternativa,
in qualche modo speciale. Questa postazione eccentrica, che implica
sempre una distanza fisica o culturale, fa sì che le loro riflessioni
inclinano a quella «filosofia tetra» che verosimilmente caratterizzava
anche quel libro «malinconico, sconsolato, disperato» che Tristano-
Leopardi chiedeva alla fine di bruciare perché troppo lontano dall’ideologia
del secolo52.
Oltre all’argomento e al tono delle riflessioni anche le postazioni
da cui questi scrittori scelgono di guardare le cose del mondo ricordano
quelle di certe Operette. Alcune di esse infatti presentano uno speaker
distante che parla con una superiore consapevolezza (negativa nei
Dialoghi Morte e Moda, Fisico e Metafisico, Folletto e gnomo, ma anche
positiva come in Timandro ed Eleandro e Plotinio e Porfirio), una consapevolezza
superiore che ricompare pure nelle cosiddette operette cosmicomiche
(Dialogo Ercole e Atlante, Terra e Luna) dove abbiamo perfino
una prospettiva siderale, il cui modello è il Luciano dei Dialoghi
degli Dei.
In una nota dello Zibaldone del ’28 lui stesso parla del «rider alto»
come di un riso «terribile ed awful» e del conseguente effetto di «superiorità
» che se ne ricava53. Così pure in un altro appunto del ’21 si
legge: «il piacere che noi proviamo della Satira […] o nel farla o nel
52 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 212.
53 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, cit., vol. II, p. 2483 (23 settembre 1828): «In
fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti,
senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di
ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».
[ 13 ]
502 roberta colombi
sentirla, non viene da altro se non dal sentimento o dall’opinione della
nostra superiorità sopra gli altri»54.
Analogamente a quanto è stato rilevato per Leopardi, infatti, si
può affermare che anche per questa tradizione la postazione che genera
questo riso amaro e polemico della satira, avvicinabile a quello dei
«savi», rappresenta l’esito ultimo che si raggiunge al culmine della
«intiera disperazione della vita»55. Esso, anche per questi scrittori, appare
come il risultato di «un processo di disinganno», «l’ultima conquista
della conoscenza, il punto più alto del [loro] cammino, e perciò
consente una forza suprema»56, che permette di esorcizzare col riso il
dolore del disinganno.
Oltre all’effetto di superiorità, che permette al soggetto quest’azione
difensiva, una tale postazione, in tutti questi casi, produce un effetto
di straniamento, sia nel caso dell’immaginario animale che della
rappresentazione di mondi distopici, come pure nei casi di semplice
distanziamento dall’oggetto. Lo speaker del discorso satirico cioè,
guarda con una prospettiva straniante le cose del mondo. L’adozione
di un tale sguardo straniato che induce il lettore a vedere “con altri
occhi”, credo possa essere indicata come un’invariante formale di
questa tipologia di scrittura che nel nostro ’800 intende stimolare il
pensiero critico, offrendo un’altra prospettiva conoscitiva, come dirà
Dossi «un doppio sguardo»57.
4. Conclusioni
A questo punto, in fase di conclusioni, la riflessione che propongo
è che essendo il discorso della satira sempre «un discorso situato, cioè
54 Ivi, vol. II, p. 1383 (25 luglio 1822).
55 Ivi, vol. I, p. 181 (26 luglio 1820). Posizione confermata da una nota di qualche
anno più tardi in cui si legge: «Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza
e di senno, perché molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di
felicità, tanto più egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto
». Ivi, vol. II, p. 2260 (12 maggio 1825).
56 Matteo Palumbo, Elogio degli Uccelli: riso e animali nelle Operette Morali, in
Leopardi e lo spettacolo della natura, a cura di Vincenzo Placella, Atti del Convegno
internazionale Napoli 17-19 dicembre 1998, Napoli, Istituto Universitario
Orientale, 2000, pp. 57-74; qui a p. 60.
57 Per Dossi come per Rajberti, Nievo, Ghislanzoni, rimando al mio Ottocento
stravagante. Umorismo satira e parodia tra Risorgimento e Italia Unita, Roma Aracne,
2011, dove la loro opera è ampiamente trattata.
[ 14 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 503
fatto a partire da una precisa collocazione nel mondo»58, rivolgere l’attenzione
alla maschera, allo speaker e alla sua posizione, significa cogliere
la posizione ideologica dello scrittore rispetto al mondo descritto.
Osservando le varianti di queste maschere e le loro posizioni, proprio
partendo da un elemento formale della narrazione, cioè l’analisi
del punto di vista adottato, si può cogliere il «posizionamento ideologico
del locutore»59. Rivolgere l’attenzione alla maschera e alla posizione
conoscitiva dello speaker che lo scrittore satirico sceglie, sia esso
un animale, un ignorante, un ingenuo virtuoso, una divinità, o un diavolo,
significa cogliere l’intenzione che sottende la sua scrittura.
Il caso più interessante è quello dell’ultimo scritto di Nievo, la Storia
filosofica dei secoli futuri. Nievo, in questo testo, grazie all’espediente
della storia trascritta che consente, come da tradizione, di prendere le
distanze da ciò che viene narrato, sceglie di far assumere al suo speaker
una prospettiva postuma dentro la quale mascherare il proprio punto
di vista scoperto oramai inattuale rispetto alla società contemporanea.
Ma, mentre lo speaker che si assume la responsabilità dell’apocalittica
profezia, dietro la quale si coglie la satira e il disincanto nieviano, è
l’uomo del futuro a cui è stata rubata l’opera e che profetizza il rogo
dei libri, il trascrittore (altra maschera nieviana che parla sulle soglie
del racconto) è un uomo dell’800 che desidera che quel libro si salvi
dalle fiamme, contrariamente e forse in opposizione al desiderio di
Tristano.
Nievo insomma sembra aver accolto il suggerimento che, in alternativa
al rogo, pure Tristano propone e cioè di «serbarlo come un libro
di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici» come espressione
dell’infelicità dell’autore che scrive in un momento in cui è «passato
il tempo di ridere»60. Mentre, infatti, lo scrittore del futuro scrive
per suo «uso e divertimento»61 nel 2222, epoca in cui l’arte di scrivere
è «andata in disuso come una minchioneria senza costrutto»62, il trascrittore
ottocentesco sembra prendere sul serio il suo compito col desiderio
che i posteri possano verificare la verità contenuta nel libro.
Il libro che il trascrittore vuole salvare parla dell’isterilimento
dell’umanità e dei suoi valori, dei suoi falsi miti e, con accenti leopardiani,
dell’inevitabilità del Male e della Morte. Esso evidentemente
58 G. Alfano, Introduzione, cit., p. 18.
59 Ivi, p. 20.
60 G. Leopardi, Operette morali, cit., pp. 219 e 220.
61 I. Nievo, Storia filosofica dei secoli futuri, cit., p. 74.
62 Ivi, p. 47.
[ 15 ]
504 roberta colombi
rappresentava ancora per Nievo, nonostante il disinganno maturato,
una voce di protesta che meritava di arrivare ai posteri, e forse non
solo, e che probabilmente poteva ancora adempiere a quella missione
sociale e profetica con la quale, secondo Tenca, anche Leopardi avrebbe
dovuto compensare la sua percezione disperante del reale63.
Dopo la fine delle ultime illusioni, e l’apocalittica profezia, Nievo
comunque riconosce ancora l’importanza che un libro sopravviva alla
grande distruzione. Come Tenca, probabilmente, si augurava anche
lui che accanto alla «critica delle fedi tradizionali ormai inutilizzabili»
compiuta da Leopardi, rinascesse una «nuova fede» che arricchita da
questo «nobile» pessimismo non facesse sentire l’uomo diseredato
d’ogni […] speranza»64. Nievo infatti, nonostante la posizione inattuale
ormai raggiunta, non rinuncia a scrivere e anzi decide, per esprimere
le sue mature conquiste conoscitive, di parlare delle illusioni e delle
utopie del suo tempo, con la distanza e la lucidità di una mente
postuma.
Registrare questa doppia prospettiva e il diverso posizionamento
dei due locutori, fa risultare evidente l’ambivalente posizione ideologica
dell’autore che appunto non rinuncia a incarnare i due poli di
questa tradizione satirica dandogli un volto, una voce, e una prospettiva
diversa. Da un lato il polo del disincanto, lo scrittore inattuale
espressione di un nichilismo senza speranza (sia esso Tristano o lo
scrittore del futuro, entrambi maschere dei rispettivi autori), dall’altro
lo scrittore ottocentesco, il polo della resistenza civile, di una scrittura
che non abbandona la sua vocazione all’impegno e la speranza verso
un possibile cambiamento.
Un’ambivalenza che persiste durante il secolo e che dimostra la
forza di un modello come le Operette le quali presentano un’analoga
dinamica interna tra questi due poli65. Accanto al pensiero negativo di
Tristano, Leopardi riconosceva infatti, attraverso la voce di Porfirio,
63 Segnala all’interno delle Confessioni alcuni luoghi che ben riflettono l’allineamento
di Nievo all’interpretazione tenchiana di Leopardi Maffei (Giovanni Maffei,
Nievo umorista, in Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello,
a cura di Giancarlo Mazzacurati, Pisa Nistri-Lischi, 1990, pp. 170-230;
qui cit. alle pp. 176-8), il quale pur riconoscendo l’apprezzamento che entrambi
mostrano per il carattere «nobile» del suo pessimismo, crede di individuare in
entrambi un’analoga esigenza verso un’apertura «sociale» della sua protesta.
64 Ivi, p. 176, dove si riprende il saggio tenchiano, Tradizioni del pensiero italiano.
Giacomo Leopardi, «Il Crepuscolo», II, nn. 5 e 9, presente in Carlo Tenca, Saggi
critici, a cura di Gianluigi Berardi, Firenze, Sansoni, 1969, qui citato a p. 20.
65 E. Russo, Ridere del mondo. Lettura delle Operette Morali, cit.
[ 16 ]
le “prospettive” della satira tra impegno e disincanto 505
che esiste nell’uomo un «senso dell’animo» che contro la ragione annichilente
«persever[a] nella vita» e ne rifà «il gusto»66, fosse anche
attraverso quelle immaginazioni, definite da Eleandro «belle e felici,
ancorchè vane» che però danno «pregio alla vita»67, e tra queste forse
avrebbe incluso anche un «libro d’invenzioni e di capricci»68 come
quello di Nievo.
Roberta Colombi
Università di Roma Tre
66 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 207.
67 Ivi, p. 181.
68 Ivi, p. 219.
[ 17 ]

CHIARA PIOLA CASELLI
Un’antologia foscoliana della poesia medievale. Prime
note sulla Critical Anthology of Italian Poetry1
La Critical Anthology of Italian Poetry è un’antologia poetica destinata agli studenti
inglesi progettata da Foscolo e Giulio Bossi nel 1827. Le poche notizie disponibili
su questo tardo progetto foscoliano si devono a Vittorio Cian che per
ultimo vide il manoscritto dell’unico volume realizzato. Il contributo nasce da
una ricerca in corso volta a ricostruire le vicende dell’Anthology sulla base delle
informazioni note e della nuova documentazione inedita reperita nel fondo
«Bianchini». Il saggio si concentra sull’indice del volume, già edito da Cian, a
partire dal quale si propone una ricostruzione della selezione antologica mostrandone
la stretta relazione con la produzione critica di Foscolo in Inghilterra.

The Critical Anthology of Italian Poetry is a poetry anthology aimed at English
students and designed by Foscolo and Giulio Bossi in 1827. The little we know
about this late project by Foscolo goes back to Vittorio Cian, the last person to
have seen the manuscript of the sole volume produced. This essay is based on
ongoing research meant to piece together the history of the Anthologyon the
basis of previously known information and new, unpublished documents discovered
in the Bianchini archive. It focuses on the table of contents, previously
published by Cian. Using this table of contents, it presents a reconstruction of
the anthology, underscoring its close relationship with Foscolo’s critical writings
in England.
1. Un’opera “fantasma” del Foscolo inglese. Nuove fonti per la sua ricostruzione
In occasione del primo centenario dell’insegnamento di Foscolo all’Università
di Pavia, Vittorio Cian riportò all’attenzione il caso della Critical
Autore: Università degli Studi di Perugia, assegnista di ricerca, chiara.piolacaselli@
unipg.it
1 Si citano in forma abbreviata i seguenti volumi dell’Edizione Nazionale delle
Opere di Ugo Foscolo pubblicati a Firenze da Le Monnier (siglati EN con il numero
del volume in cifre romane): Ugo Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido
508 chiara piola caselli
Anthology of Italian Poetry, un’antologia della poesia destinata agli studenti
inglesi di lingua e letteratura italiane, che Foscolo ideò in collaborazione
con Giulio Bossi tra l’inverno e l’estate del 18272. Cian segnalò
l’esistenza del manoscritto dell’Anthology presso l’ultimo proprietario,
l’ingegnere Lauro Pozzi, che lo mise provvisoriamente a sua disposizione
perché ne desse notizia e una prima descrizione. In seguito se ne
persero le tracce e l’Anthology non beneficiò di particolare attenzione da
parte della critica: sconosciuta agli studi sul genere antologico e poco
nota anche agli studiosi di Foscolo, in tempi recenti è stata opportunamente
ricordata come un’«opera-fantasma» della produzione del poeta3.
L’Anthology fu concepita per un settore di mercato, quello delle crestomazie
per la didattica dell’italiano, particolarmente vivace in Inghilterra
nel primo Ottocento4. Si proponeva però come un prodotto
editoriale di nuova concezione a partire dalle dimensioni materiali5:
Bezzola, 1961 (EN II); Id., Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), a cura
di Emilio Santini, 1933 (EN VII); Id., Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, a
cura di Luigi Fassò, 1933 (EN VIII); Id., Studi su Dante. Parte prima, a cura di
Giovanni Da Pozzo, 1979 (EN IX/I); Id., Saggi e discorsi critici, a cura di Cesare
Foligno, 1953 (EN X); Id., Saggi di letteratura italiana, a cura di Cesare Foligno, 2
voll., 1958 (EN XI); Id., Epistolario (7 settembre 1816-fine del 1818), a cura di Mario
Scotti, 1970 (EN XX, Ep. VII).
2 Vittorio Cian, L’antologia inglese dei poeti italiani compilata da Giulio Bossi e da
Ugo Foscolo, in Ugo Foscolo nel centenario del suo insegnamento all’Università di Pavia
(1809-1909), Pavia, Mattei, Speroni & C., 1910, pp. 67-91. [D’ora in poi citata Cian].
Il progetto dell’Anthology era già noto fin dalla seconda metà dell’Ottocento grazie
alle lettere di Foscolo a Bossi e agli editori Sauders & Otley pubblicate nell’edizione
lemonneriana delle opere dello scrittore. Altri studiosi ne avevano fatto menzione
senza però conoscerne il testimone, tra questi Giuseppe Taormina, Giulio Bossi ed
Ugo Foscolo, «La Nuova Rassegna», II (1894), n. 12, pp. 371-376. Sulla base delle informazioni
fornite da Cian l’Anthology è stata spesso menzionata negli studi sul
Foscolo inglese senza farne però oggetto di approfondimento critico. Il caso dell’Anthology
come «speculazione libraria» finalizzata alla realizzazione di utili nel contesto
dei lavori critici di Foscolo su Dante è stato ricordato da Davide Colombo, Foscolo
e i commentatori danteschi, Milano, Ledizioni-Ledipublishing, 2015, pp. 8-10.
3 Ivi, p. 8.
4 Sulle antologie italiane pubblicate in Inghilterra negli anni della Restaurazione
dagli esuli politici spesso improvvisati maestri di lingua cfr. William Spaggiari,
The Canon of the Classics: Italian Writers and Romantic-Period Anthologies of Italian
Literature in Britain, in British Romanticism and Italian Literature. Translating, Reviewing,
Rewriting, a cura di Laura Bandiera e Diego Saglia, Amsterdam-New
York, Rodopi, 2005, pp. 27-40.
5 Le antologie italiane a uso didattico pubblicate in Inghilterra risentono, ancora
nel primo Ottocento, del modello dell’Italian Library (1757) di Giuseppe Baretti.
Gli autori più rappresentati, con testi spesso disposti sincronicamente e non ac-
[ 2 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 509
non la misura, più comune, del tomo unico ma tre volumi che avrebbero
coperto l’intero arco della tradizione poetica nazionale, dalle origini
ai viventi, il primo dedicato ai secoli XIII-XIV, il secondo ai secoli
XIV-XVI e il terzo ai secoli XVI-XIX. La selezione antologica avrebbe
previsto testi «eccellenti» e rappresentativi dell’evoluzione della lingua,
senza censure, corredati di note linguistiche ed esegetiche in inglese
e introdotti da profili storico-biografici per gli autori esemplati. I
testi sarebbero stati accompagnati dalle traduzioni per facilitarne la
comprensione, non versioni di servizio ma traduzioni metriche d’autore,
come quelle di Lady Barbarina Dacre per il Canzoniere e di Francis
Henry Cary per la Commedia. Solo il primo volume fu effettivamente
realizzato e presentato da Foscolo alla casa editrice Saunders & Otley
insieme a una proposta di accordo finanziario datata 26 giugno 1827.
La lettera, di cui si conservano le minute autografe, è importante per
chiarire il ruolo del poeta nell’impresa: indicava in Bossi l’unico intestatario
del contratto e autore dell’opera, attribuendosi il ruolo di garante
della sua qualità e innovazione. Ciononostante, in caso di assenza
o malattia di Bossi, egli avrebbe avuto mandato legale per ultimare
i due volumi, presiedere alla correzione delle bozze e riscuotere il
compenso per l’integralità dell’opera, oltre a ricevere ventiquattro copie
destinate a raggiungere l’Italia6. Non è certo ma è probabile che
prevedesse di completare il lavoro in autonomia. Bossi, infatti, intendeva
lasciare Londra: il 19 settembre, a breve distanza dalla morte di
Foscolo, si imbarcò per l’America Latina dove trascorse il decennio
successivo. Gli editori ricusarono la pubblicazione e restituirono il volume
a Bossi che lo conservò fino alla morte, avvenuta nel 1880. Passò
quindi a Luigi Beretta e, per suo tramite, a Pozzi suo «figliastro». Il
«volumetto» (190 × 120 mm.), adespoto e anepigrafo (il titolo è indicato
nella lettera agli editori), constava di 484 pp. numerate più 8 pp. non
numerate inserite dopo la rilegatura del volume tra le pp. 117-118. La
scrittura apparteneva a più mani: quella di un copista non identificato
e «forse» quella di Bossi, oltre a quella di Foscolo che era intervenuto
compagnati dalla traduzione inglese, sono i poeti del Cinquecento e quelli d’Arcadia,
mentre è rara o assente la Commedia. Sulla questione si rimanda ancora al saggio
di Spaggiari sopracitato e a Carlo Dionisotti, Antologie inglesi della letteratura
italiana, in Scritti di storia della letteratura italiana, a cura di Tania Basile, Vincenzo
Fera, Susanna Villari, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2008, I, pp. 461-477.
6 La minuta della lettera agli editori (già edita in italiano in Ugo Foscolo,
Epistolario, in Id., Opere edite e postume, a cura di Francesco Saverio Orlandini
e Enrico Mayer, Firenze, Le Monnier, 1854, VIII, pp. 264-265) si legge nell’originale
inglese in Cian, pp. 75-77.
[ 3 ]
510 chiara piola caselli
correggendo, integrando e riscrivendone intere pagine. Il volume presentava
un indice («Contents | Volume the first») che Cian riprodusse
«nei suoi tratti essenziali», segnalando con tre puntini le porzioni testuali
omesse. Le voci dell’indice indicano genericamente la provenienza
dei materiali, molti dei quali riconducibili agli scritti critici foscoliani
già editi; inoltre presentano la numerazione delle pagine corrispondenti
nel volume, consentendo così di conoscere le proporzioni
materiali stabilite tra gli autori e i testi esemplati. Non specificano, invece,
il contenuto della selezione testuale. Nel suo complesso, Anthology
appariva così strutturata: le pp. 1-117 contenevano un saggio preliminare
intitolato «An Essay | On the various methods | Of teaching
Languages: | Explaining the Editors plan with – directions for the use
of the following Anthology»; le pp. 118-122 un’introduzione storicolinguistica
intitolata «Origin of the Italian literary language and earlier
[sic] specimens of its poetry from the year 1200 to 1300. Historical and
critical remarks from the Edinburgh and the European Review». A questi
due contributi d’intento preliminare e introduttivo seguiva la selezione
dei testi in cui è possibile distinguere tre sezioni di diversa ampiezza.
La prima (pp. 124-150 bis), dedicata alla poesia delle origini, comprendeva
quattro autori: Sordello (pp. 124-134), Pier delle Vigne (pp.
136-143), Guido Cavalcanti (pp. 144-150), Guittone d’Arezzo (p. 150
bis). Le due sezioni maggiori, sulle quali si tornerà in seguito, erano
dedicate a Dante (pp. 151-355) e Petrarca (pp. 357-484).
Il contributo di Cian preludeva all’edizione del volume o almeno
della sua parte ritenuta più preziosa di cui, in quella sede, aveva potuto
riprodurre solo alcuni brani: il saggio preliminare che illustrava il
piano editoriale e la prospettiva metodologica adottata, discutendo le
tecniche glottodidattiche impiegate comunemente nelle edizioni propedeutiche
all’insegnamento della lingua. Nonostante queste importanti
premesse, non seguì la pubblicazione auspicata. Le ragioni emergono
dalla corrispondenza inedita intercorsa tra Cian e il diplomatico
e bibliofilo Domenico Bianchini durante la preparazione delle celebrazioni
del centenario pavese e l’allestimento del volume che ne raccoglieva
i frutti: «Purtroppo – scrive Cian nel luglio 1909 – la mancanza
di spazio (cioè di mezzi) e il proposito manifestato dall’ing. Pozzi, attuale
possessore dell’Antologia, di fare un’ampia pubblicazione su essa,
mi costringono a limitare assai la mia notizia. A dare in luce l’Introduzione
del Foscolo non è da pensare»7.
7 La lettera inedita di V. Cian a D. Bianchini (Ceres (Torino), 27 luglio 1909) si
[ 4 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 511
Come si è detto, il manoscritto dell’Anthology non è ancora stato
rintracciato. Tuttavia, tra le carte appartenute a Bianchini esistenti
presso la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, si
conservano alcune fonti, inedite e mai indagate, che consentono una
conoscenza più precisa, anche se non esaustiva, del suo contenuto.
Nel corso di un lungo e paziente lavoro di raccolta di documenti inediti,
intrapreso per allestire una nuova edizione delle opere di Foscolo
mai realizzata, nel 1875 Bianchini contattò Bossi che gli fece recapitare
il volume dell’Anthology chiedendone la restituzione quando l’avesse
esaminato «con tutto suo commodo»8. Bianchini ne trascrisse le parti
che riteneva meritevoli di essere date alle stampe in tre fascicoli oggi
conservati nel fondo romano a lui intitolato: i primi due contengono la
trascrizione integrale del saggio sul metodo dell’insegnamento linguistico;
il terzo comprende l’introduzione storico-linguistica premessa
alla prima sezione dell’antologia, il lungo profilo storico-biografico
dedicato a Sordello e l’indice del volume9. In assenza dell’originale, le
copie di Bianchini acquistano un’importanza non secondaria trattandosi
degli unici testimoni dei due contributi d’intento preliminare e
introduttivo e consentendo di colmare le lacune, anche se di lieve entità,
presenti nella trascrizione dell’indice fornita da Cian10. Di particoconserva
a Roma, Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, Fondo Bianchini,
Collezione foscoliana [d’ora in avanti Collez. fosc.], mss. IV, 1692r. Per la trascrizione
del passo e di quelli che seguono si è optato per un criterio conservativo, limitandoci
a normalizzare gli accenti secondo l’uso corrente e ad applicare sistematicamente
il carattere corsivo per le parole sottolineate.
8 La lettera di G. Bossi a D. Bianchini (Milano, 4 maggio 1875) fu pubblicata da
Cian che omise però le righe finali, importanti perché attestano la ricezione del
manoscritto dell’Anthology da parte di Bianchini. Nell’originale, conservato nel
fondo Bianchini, si legge infatti: «Quand’Ella con tutto suo commodo [sic] avrà
esaminato quel 1° Volume voglia avere la compiacenza di consegnarlo al mio carissimo
amico l’Onorevole Enrico Fano Deputato del 1° Collegio di Milano al Parlamento,
che me lo porterà al mio ritorno qui». (Collez. fosc. mss. III, 141r-2v).
9 Collez. fosc., mss. III, 145r-31v. Per una descrizione accurata delle carte Bianchini
riferibili all’Anthology, le quali comprendono anche sue annotazioni, gli autografi
della tre lettere di Bossi a lui indirizzate da Milano il 20, il 27 aprile e il 4
maggio 1875 (oltre alle copie dattiloscritte che Bianchini mise a disposizione di
Cian perché se ne servisse nel suo contributo), e l’autografo della lettera di Bossi
all’editore Papsch di Trieste del 7 maggio 1845, dobbiamo rinviare allo studio in
preparazione.
10 Cian omise, ad esempio, le date di nascita e di morte degli autori indicate nel
manoscritto. Le due trascrizioni tuttavia coincidono sul piano dei contenuti che a
noi qui interessano. Pertanto, in questa sede, per le voci dell’indice citate si farà
sempre riferimento alla trascrizione già edita in Cian, pp. 81-82.
[ 5 ]
512 chiara piola caselli
lare rilievo è il saggio sui metodi dell’insegnamento linguistico. Nonostante
di questo esista solo la traduzione inglese11 – a quanto scriveva
Bossi a Bianchini il 20 aprile 1875 furono subito smarriti i «foglietti
volanti» che Foscolo inviava alla traduttrice Sarah Austin12 – è possibile
individuare alcuni rapporti specifici con l’opera del poeta, riconoscendo
in più punti un’omologia linguistica e tematica su cui, in questa
sede, non sarà possibile soffermarsi ma che sarà oggetto di analisi
in uno studio dedicato all’Anthology, in corso di preparazione, che
comprenderà l’edizione di tutte le trascrizioni di Bianchini13. Le nuove
fonti impongono di ricostruire la genesi dell’Anthology illustrandone
le coordinate ideative, tra i lavori danteschi e la fallita candidatura di
Foscolo alla cattedra d’italiano presso lo University College, collocandola
però anche nel più vasto orizzonte dalla riflessione linguistica e
traduttologica che ha il suo importante atto di origine nel 1807 con
l’Esperimento di traduzione dell’Iliade. In questo quadro sarà ricostruito
il ruolo dei traduttori dell’Anthology e soprattutto quello di Bossi, un
ruolo, quest’ultimo, che non si esaurisce con la fase compilativa dell’opera
ma si prolunga nel cinquantennio successivo quando tenterà,
senza fortuna, di mettere il manoscritto a disposizione degli editori
impegnati nella pubblicazione delle opere foscoliane, tra questi, come
documentano le lettere inedite fino ad ora reperite, Giuseppe Ruggia
e Felice Le Monnier per il tramite di Atto Vannucci. La vicenda dell’Anthology
interessa, infatti, anche come capitolo inesplorato della fortuna
del poeta nell’Italia preunitaria. Questi i temi che saranno trattati diffusamente
nello studio in preparazione.
Nelle brevi note che seguono, invece, si considererà soprattutto
quanto da tempo già noto e, tuttavia, non ancora indagato, vale a dire
l’indice dell’Anthology le cui voci, come si è detto, indicano la ripresa
di materiali foscoliani già editi: nella prima Epoca della letteratura italia-
11 Del saggio preliminare esiste una traduzione italiana, di cui non è chiarita la
provenienza, piuttosto scorretta, forse eseguita sulla base della trascrizione di
Bianchini, pubblicata da Camillo Antona Traversi, Studi e documenti sopra Ugo
Foscolo, Bologna, Zanichelli, 1930, pp. 273-317.
12 Cfr. Cian, p. 69.
13 U na prima descrizione del lavoro in corso è stata presentata nella comunicazione
Foscolo teorico della didattica delle lingue nel saggio inedito An Essay on the various
methods of teaching languages (1827), tenuta nell’ambito del Seminario di
Studi La cultura e la letteratura italiana dell’esilio nell’Ottocento: nuove indagini (Bruxelles,
19-20 marzo 2018), Université Libre de Bruxelles – Vrije Universiteit Brussel
che sarà presto edita negli Atti di prossima uscita per l’editore Peter Lang nell’ambito
della collana Il secolo lungo. Letteratura italiana 1796-1918.
[ 6 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 513
na del 1824 per l’introduzione storico-linguistica e per il profilo biografico
su Sordello14; nei due articoli del 1822 su Federico II e Pier
delle Vigne15 e su Cavalcanti16; nell’edizione venale del 1823 degli Essays
on Petrarch17; nei due articoli danteschi pubblicati nel 1818 sulla
«Edinburgh Review»18. Non è esplicitata dall’indice, ma sembra emergere
in filigrana, una stretta relazione tra la sezione dantesca e la riflessione
critica condotta da Foscolo nel Discorso sul testo della Commedia di
Dante, uscito nel 1825 e concepito come introduzione al commento del
poema dantesco di cui furono realizzate solo le note filologiche ed
esegetiche destinate all’Inferno19.
Sulla base delle notizie fornite dall’indice si tenterà di ricostruire la
composizione della selezione antologica riconnettendola alla riflessione
sulla storia e la letteratura medievali che impegna Foscolo negli
anni dell’esilio. Ci sembra, infatti, che l’Anthology possa essere considerata
un caso molto particolare, se non unico, di crestomazia insieme
“d’autore” e “autobiografica”, in cui confluiscono alcune delle acquisizioni
più significative del percorso critico del periodo inglese qui
ripensate non per il pubblico elitario, a cui era indirizzata la produzio-
14 Italian Literature, Epoch first, from the year 1180 to 1230, «European Review», I
(1824), n. 4, ora in EN XI/I, pp. 73 ss. A Sordello, com’è noto, Foscolo dedicò un
articolo pensato per la serie intitolata agli «Italian poets» che sarebbe dovuto uscire
in «New Monthly Magazine», ma che non fu mai pubblicato. Del testo restò una
parte delle bozze di stampa che servirono per la redazione della prima Epoca della
letteratura italiana. Cfr. EN XI/I, pp. XXXVI-XXXVII.
15 Frederick the Second and Pietro delle Vigne, «New Monthly Magazine», IV
(1822), n. 16, ora in EN X, pp. 399 ss.
16 Guido Cavalcanti, «New Monthly Magazine», V (1822), n. 19, ora in EN X, pp.
423 ss.
17 Essays on Petrarch by Ugo Foscolo […], London, Printed for the Author by
Samuel and Richard Bentley, Dorset street, Fleet street, 1821 (stampati in sedici
copie), poi ristampati nel 1823 (London, John Murray), ora in EN X, pp. 3 ss.
18 Dante: with a New Italian Commentary […]. The Vision of Dante […], «Edinburgh
Review», vol. XXIX (1818), n. 58, ora in EN IX/I, pp. 2 ss., e Osservazioni intorno
alla Questione sopra la Originalità del Poema di Dante […], «Edinburgh Review»,
vol. XXX (1818), n. 60, ora in EN IX/I, pp. 58 ss.
19 Discorso sul Testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione
critica della Commedia di Alighieri, Londra, Guglielmo Pickering, 1825, ora
in EN IX/I, pp. 147 ss. Come è ben noto, Foscolo completò solo le note filologiche
e critiche relative alla prima cantica, rimaste inedite e pubblicate postume da Giuseppe
Mazzini insieme ai materiali destinati alle note di commento delle cantiche
seconda e terza che Mazzini integrò intervenendo considerevolmente anche sugli
appunti di Foscolo (La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo […],
Londra, Pietro Rolandi, 1842-1843, 4 voll.).
[ 7 ]
514 chiara piola caselli
ne pubblicistica e saggistica, bensì per quello, meno prestigioso e più
ampio, degli studenti britannici. Un’ipotesi suggestiva, su cui si tornerà
in conclusione, è che i due autori considerassero anche il mercato
italiano delle antologie a uso didattico ancora fortemente condizionate
dal modello tradizionale muratoriano, per la struttura delle opere e
il canone della raccolta poetica20.
2. «Quasi una storia della letteratura poetica italiana»
Prima dell’Anthology, Foscolo si era già misurato con la ‘forma’ antologia:
con i Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno MCC al
MDCCC, una raffinata silloge di ventisei sonetti, organizzati in ordine
diacronico da Guittone a se stesso, pubblicata nel 1816 in tre sole copie;
e con le appendici che corredavano gli Essays on Petrarch.
Il terzo caso è quello della seconda lezione pronunciata a Pavia,
nota con il titolo Della lingua italiana considerata storicamente e letterariamente.
Questa si presenta, infatti, suddivisa in una parte «storica», dedicata
alla nascita ed evoluzione dell’italiano dalla sua origine alla sua
trasfigurazione tosco-fiorentina, e una parte «pratica»21 con una scelta
antologica di incipit in prosa, dalla Vita Nova alla Prefazione premessa
alla versione alfieriana della Guerra di Catilina, introdotti da profili storici
e biografici dedicati agli autori esemplati e raccordati da brevi interventi
critici volti a metterne in luce le peculiarità linguistiche e stilistiche
e a rilevare il rapporto tra l’evoluzione della lingua e il contesto
storico e politico.
La struttura della lezione e la concezione storico-linguistica delineata
nella sua prima parte presentano notevoli analogie con l’Anthology.
Del resto, nell’ambito di una più ampia riflessione sulle forme della
ricezione e produzione culturale che percorre gli scritti pavesi, Foscolo
muoveva una critica serrata ai modelli educativi prevalenti – quello
francese e quello semi-ecclesiastico d’ispirazione gesuitica –, sollevan-
20 Su cui cfr. Duccio Tongiorgi, Riforme scolastiche e canone antologico nel Settecento,
in id., «Nelle grinfie della storia». Letteratura e letterati fra Sette e Ottocento,
Pisa, ETS, 2001, pp. 9-23. Per la sopravvivenza del modello tradizionale ancora nel
primo Ottocento si rimanda in particolare a Franco Longoni, Scelte di lettura in
epoca napoleonica, in Il canone letterario nella scuola dell’Ottocento. Antologie e manuali
di letteratura italiana, a cura di Renzo Cremante e Simonetta Santucci, Bologna,
Clueb, 2009, pp. 49-64.
21 Si ricordino le parole con cui Foscolo introduceva agli studenti l’argomento
lezione: «ho deliberato di parlarvi oggi tanto storicamente quanto praticamente
della lingua» (EN VII, p. 76).
[ 8 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 515
do anche il problema centrale delle edizioni per l’insegnamento della
lingua e della letteratura con cui i «preti regolari» e i «Gesuiti» educavano
aristocrazia cittadina ad apprezzare «il Petrarca ed il Boccaccio, a
conoscere e ad applicare i precetti di Orazio e le regole grammaticali
del Bembo»22. Sottolineava quindi l’urgenza di una storiografia di
nuova concezione che fosse laica, anti-precettistica, anti-normativa e
che tenesse conto dei fenomeni politici e sociali responsabili del progresso
della letteratura ovvero del suo arresto. La prospettiva delineata
nel 1809 non muta negli scritti dell’esilio come appare anche dal
progetto, formulato nel 1818, di ristampare «alcuni grandi scrittori nostri
», con testi in italiano annotati in inglese, in modo che ne risultasse
un «Corso di Letteratura Italiana per gl’Inglesi» che avrebbe disingannato
il pubblico d’Oltremanica dalle falsità disseminate in Europa «dai nostri
frati e accademici, come a dire il Tiraboschi, il Quadrio, e tanti altri
». La collana, mai realizzata nella forma così concepita, si proponeva
insomma come antologia a scopo didattico e insieme come storia della
letteratura «da Dante in qua»23. In quello stesso anno, uscivano i due
articoli danteschi sulla «Edinburgh Review» per i quali Foscolo si riconosceva
il merito di avere individuato una nuova prospettiva critica
per l’indagine della letteratura medievale, mai tentata prima perché
«trop lié[e] avec les affaires de l’Église»24.
Il primo importante elemento di novità dell’Anthology consiste
proprio nel fondamento storico garantito, anzitutto, dalla disposizione
diacronica dei testi, già osservata nei Vestigi della storia del sonetto, in
secondo luogo, dalla documentazione fornita nelle note a loro corredo
che avrebbe permesso ai lettori di riconoscere il sistema di relazioni
che lega gli autori alle opere permettendo di valutarle secondo parametri
storicizzabili. Non a caso, desiderando sottoporre il volume manoscritto
all’editore luganese Giuseppe Ruggia, Bossi lo presentava
così: «Tutti gli squarci si succedono con ordine cronologico, e vi è un
cenno biografico d’ogni autore; di modo che presenta direi quasi una
storia della letteratura poetica italiana»25. La scelta antologica, come si
22 Ivi, p. 132.
23 Lettera di Foscolo a S. Pellico (30 settembre 1818), in EN XX, Ep. VII, pp. 383-
396: 387. Senza data né destinatario ma certo riconducibile a questo stesso progetto
è una lettera in francese (si ipotizza fosse diretta a Francis Jeffrey o a Lord Holland)
dove Foscolo chiarisce i principi sui quali si sarebbe fondata questa storia
letteraria di nuova concezione, in EN XX, Ep. VII, pp. 479-480.
24 Lettera di Foscolo a Lord Holland (marzo 1818), in ivi, p. 310.
25 Lettera di Bossi a Giuseppe Ruggia (8 novembre 1836) riprodotta da Francesco
Scalini nella raccolta di documenti di e su Foscolo conosciuta con il nome di
[ 9 ]
516 chiara piola caselli
è detto, era introdotta da un breve profilo storico-linguistico, Origin of
the Italian literary language, di cui conosciamo il contenuto solo grazie
alla trascrizione di Bianchini. Costruito sunteggiando e riadattando,
con minime ma significative varianti, porzioni testuali provenienti
dalla prima Epoca della lingua italiana, il profilo ha tre funzioni principali.
In primo luogo, sancisce ab origine la posizione di centralità della
cultura italiana nella storia della civiltà europea, come testimonia l’enunciato
d’apertura: colui che conosce l’origine e i progressi della letteratura
italiana, si legge, «will be best enable to form the most just
deduction relative to the early stage of the history of the civilisation
among modern nations»26. Il discorso prosegue sintetizzando le principali
coordinate della posizione linguistica foscoliana già indicate
nella seconda lezione pavese e derivanti, come in altra sede si è tentato
di dimostrare sulla base dei calchi testuali, dall’interpretazione graviniana
del De vulgari eloquentia (=VE) 27. Alla data degli scritti inglesi
agisce però anche la duplice trattazione di Giulio Perticari inclusa nella
Proposta montiana (Degli scrittori del Trecento e soprattutto Dell’amor
patrio di Dante e del suo libro intorno al volgare eloquio).
Nell’Anthology è ribadito il carattere artificiale e letterario dell’italiano;
viene sottolineato il rapporto di causa ed effetto tra la disunione
politica e amministrativa della Penisola e la frammentazione linguistica
con l’attribuzione di una funzione esclusivamente negativa ai dialetti,
non esclusi il fiorentino e il toscano; è ribadita la validità della
lezione teorica e pratica di Dante, primo ad avere espresso una coscienza
storica della lingua nazionale. L’introduzione storico-linguistica
è ripresa e integrata nel saggio sul metodo dell’insegnamento
delle lingue in cui si osserva che la situazione politica prodottasi dopo
l’età comunale ha impedito la realizzazione di una lingua della prosa
il cui sviluppo necessita di libertà e indipendenza. L’unica lingua nazionale,
infatti, può dirsi quella poetica, come dimostra anche la scarsa
fortuna della narrativa italiana all’estero e quindi l’assenza di buoni
traduttori. La posizione qui velocemente riassunta rivela insomma un
secco rifiuto delle proposte dei «moderni utopisti» romantici per la
«Foscoliana» da cui si cita (Bruxelles, Bibliothèque royale de Belgique, Ms. II 616,
p. 122).
26 Collez. fosc., mss. III, 1426r. Il passo riproduce quasi testualmente EN XI/I, p. 75.
27 Su cui sia consentito rinviare a Chiara Piola Caselli, Principi di ‘ragion
poetica’ negli scritti pavesi di Ugo Foscolo, in Foscolo critico, Atti del Convegno di Gargnano
del Garda, 24-26 settembre 2012, a cura di Claudia Berra, Paolo Borsa e
Giulia Ravera, «Quaderni di Gargnano», I (2017), pp. 111-136.
[ 10 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 517
prosa. Questo proprio in coincidenza con l’uscita della “Ventisettana”,
i cui capitoli saranno inclusi in un’altra antologia propedeutica all’insegnamento
linguistico e letterario in Inghilterra: quella di Antonio
Panizzi28 che, dopo la morte di Foscolo, Bossi tenterà inutilmente di
coinvolgere nel progetto dell’Anthology proponendogli di realizzarne
i due volumi mancanti29.
La seconda funzione dell’introduzione storico-linguistica è quindi
quella di legittimare l’opzione di una crestomazia poetica anziché
prosastica. Sancite la validità e attualità della lettura «italianista» del
De vulgari eloquentia, il discorso prosegue indicando i preparatori della
rivoluzione compiuta da Dante: «Although Dante had ennobled, invigorated
and consolidated the literary language which has been used
down to the present day, he did not on that account believe himself
the creator. […] The Lombards were the earliest; then followed the Sicilians,
and lastly the Tuscans»30.
Anche in questo caso si tratta di un’autocitazione dalla prima Epoca31
ma con la messa in rilievo del ruolo dei rimatori settentrionali qui
identificati in una scuola lombarda antecedente a quelle siciliana e toscana
(più cautamente, nella prima Epoca, Foscolo alludeva a «certain
ancient Lombard writers» citati in VE, tra i quali Dante avrebbe considerato,
in modo particolare, Sordello32). Si tratta di una lettura che accentua
l’elemento politico in chiave attualizzante, come chiarisce il
riferimento, immediatamente successivo, alle «invasions and settlements
from almost every part of Europe» che, in «Lombardy», avevano
corrotto l’originaria «lingua romanza rustica» introducendovi
«teutonic expressions and accent»33.
Sono quindi nominati i tre rappresentanti delle scuole poetiche,
subito dopo indicati come i padri della lingua italiana («fathers of the
Italian languages»): «Sordello in Lombardy; Pietro delle Vigne in Sic-
28 Antonio Panizzi, Extracts from Italian Prose Writers for the use of students in
the London University, London, printed for J. Taylor bookseller and publisher to the
University upper Gower-Street, 1828 su cui cfr. William Spaggiari, The Canon of
the Classics, cit.
29 Come appare dalla lettera di Bossi (14 settembre 1827), edita in Lettere ad
Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani (1823-1870), a cura di Luigi
Fagan, Firenze, Barbèra, 18822, pp. 70-71. Sul tentativo di accordo tra Bossi e
Panizzi cfr. Cian, pp. 78-79.
30 Collez. fosc., mss. III, 1426v.
31 EN XI/I, p. 76.
32 Ibidem.
33 Collez. fosc., mss. III, 1427r.
[ 11 ]
518 chiara piola caselli
ily and Naples, and Guido Cavalcanti in Tuscany were the greatest predecessors
of Dante celebrated at the same time on account of the vicissitudes
of their life and the energy of their character. The passages in
which he extols them being considered among the noblest of his poem,
they deservedly claim a plan in the present collection»34.
La terza e ultima funzione dell’introduzione storico-linguistica è
dunque quella di giustificare il canone della raccolta poetica. La promozione
dei tre capiscuola a fondatori della lingua nazionale è determinata
dal ruolo storico ed etico-morale loro assegnato rispettivamente
in Pg VI, If XIII e If X, canti, infatti, presenti nella selezione antologica
dedicata alla Commedia. La scelta di indicare in un trovatore italiano
di espressione occitanica il primo ‘padre’ della lingua si spiega con
l’adesione di Foscolo all’idea perticariana dell’esistenza di versi italiani
di Sordello purtroppo perduti35; ma soprattutto con il proposito di
far coincidere il primo autore nazionale con il grandioso ritratto di Pg
VI, quindi con il simbolo dell’amor patrio il cui incontro suscita l’apostrofe-
invettiva sulle guerre intestine che avevano determinato la rovina
d’Italia come conseguenza del declino imperiale. Oltre all’assenza
notevole della scuola tosco-emiliana (Foscolo giudicava «fredda» la
poesia guinizzelliana) 36, non sfugge la nuova posizione di Guittone
rispetto a quella precedentemente assegnatagli nei Vestigi della storia
del sonetto: primo autore antologizzato nella raccolta del 1816, con il
sonetto Quanto più mi distrugge il mio pensiero, nell’antologia del 1827
occupa una posizione marginale come testimonia l’unica pagina assegnatagli
(150 bis), inserita in un secondo momento dopo i profili, ben
più ampi, di Sordello, Pier delle Vigne e Cavalcanti.
Quella delineata nell’antologia del 1827 è una tradizione poetica
laica ed elitaria che non contempla il filone didattico cristiano ma che
prevede due soluzioni: l’una è quella, più antica, della poesia eticopolitica
inaugurata dal planh in morte di Blacatz (di cui si danno
nell’Anthology tre versioni: provenzale, metrica inglese e letterale italiana)
37, proseguita da Dante nella Commedia e da Petrarca nelle «can-
34 Collez. fosc., mss. III, 1427v. Il plurale «languages» è nella trascrizione di
Bianchini, non sappiamo se dovuto a un errore di lettura.
35 Cfr. Giulio Perticari, Della difesa di Dante, in Vincenzo Monti, Proposte di
alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca […], Milano, Antonio Fontana,
1829, II, parte II, p. 170.
36 Cfr. EN X, p. 425.
37 I n EN XI/I, pp. 83-85 il planh era dato nelle versioni provenzale e metrica
inglese.
[ 12 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 519
zoni eroiche». L’altra è quella della poesia d’amore secondo la dottrina
platonica che nascerebbe all’interno della Magna Curia. Nell’Anthology,
infatti, era presente Però ch’amore non se pò vedere38 già inserito da
Foscolo nell’articolo sul «New Monthly Magazine» in virtù di due elementi
di innovazione ascritti al suo autore Pier delle Vigne: sarebbe
insieme il primo sonetto della tradizione e la prima testimonianza di
quella «distinct profession of the platonic love» che «almost all that
Italian poets, with Petrarch at their head, have never ceased to
celebrate»39. Pier delle Vigne inaugurerebbe, dunque, la linea maestra
proseguita da Cavalcanti e da Dante con nuove implicazioni teoretiche,
portata al massimo grado di perfezione da Petrarca e continuata
in tono minore dai petrarchisti «non puerili», primo dei quali Giusto
de’ Conti con La bella mano.
3. Terza sezione ‘petrarchesca’ dell’Anthology
L’ultima sezione dell’Anthology, dedicata a Petrarca, è aperta dalla
voce dell’indice che chiarisce la provenienza delle annotazioni critiche
e storiche dagli Essays on Petrarch attribuendo la «maggior parte» delle
traduzioni poetiche alla penna di Lady Dacre: «Specimens from Petrarch
illustrated with criticism on his poetry and observations on his
life and character extracted from the Essays on P. by U. Foscolo. The
poetical translations are mostly owed to the Right Hon. Lady Dacre p.
357». Segue la selezione dei testi che comprende brani critici e “specimens”
poetici. Queste le notizie fornite dall’indice40: [1] «On the poetical
improvement made by Petrarch in the Platonic theory of Love pp.
359-366», [2] «Comparative descriptions of female beauty according
to the platonic notions by the early Italian poets pp. 367-376», [3] «Petrarch’s
Canzoni pp. 377-400», [4] «Petrarch’s Sonetti pp. 401-422», [5]
«On Laura’s character pp. 423-436», [6] «Trionfo della Morte pp. 437-
443», [7] «On the last days of Petrarch pp. 444-446», [8] «Petrarch’s
political poetry pp. 447-472», [9] «On the different moral tendency of
Dante’s and Petrarch’s poetry pp. 473-484».
38 La presenza di questo sonetto, in italiano e in traduzione inglese di Charles
Johnston, è indicata in Cian, p. 165. Non è indicata, invece, la scelta testuale per
Cavalcanti.
39 EN X, p. 408.
40 R iproduciamo le voci dell’indice nella trascrizione di Cian precedute da
un’indicazione numerica tra parentesi quadre per agevolare i successivi riferimenti
ai titoli delle sotto-sezioni.
[ 13 ]
520 chiara piola caselli
Le voci non specificano dunque né quali porzioni testuali degli Essays
confluiscano nell’antologia critica né la composizione della selezione
poetica. Consentono però di individuare una stretta relazione
con le appendici quarta e settima inclusa, quest’ultima, nell’edizione
venale del 182341. L’Appendix VII ospita una scelta di liriche dal Canzoniere,
in italiano e in traduzione della Dacre, tra le quali RVF CXXVIII
accompagnata da una nota di commento volta a spiegare il contesto
politico denunciato prudentemente da Petrarca attraverso l’«enigmatical
allusion to ‘Bavaria’s perfidy’» del v. 66 e l’esortazione dei vv.
72-77. La stessa canzone e la nota il commento a suo corredo sono
presenti anche nell’Anthology42. La relazione con l’Appendix IV, invece,
la suggerisce la coincidenza del suo titolo («Comparative descriptions
of female beauty according to the platonic notions by the early Italian
poets») con quello assegnato alla prima sottosezione poetica [2]. Non
è illecito, dunque, congetturare che vi confluissero gli stessi quattro
sonetti di Cavalcanti, Dante, Petrarca, de Conti, con testo in italiano e
in traduzione letterale inglese di autore ignoto. Sulla base delle notizie
disponibili è possibile dunque immaginare la composizione e l’orientamento
della sezione petrarchesca. Il primo brano critico [1] proviene
verosimilmente dal secondo saggio petrarchesco (An Essay on the Poetry
of Petrarch), in particolare dal paragrafo XII dedicato al platonismo
poetico di Petrarca messo a confronto con gli antecedenti e gli imitatori.
Segue l’esemplificazione testuale che occupa la sottosezione poetica
[2] la quale comprende quattro sonetti che condividono il motivo
platoneggiante della contemplazione della bellezza dell’amata che irradia
divinità: Chi è questa che vien che ogni uom la mira! 43, Negli occhi
porta la mia Donna Amore44, In qual parte del Cielo, in quale Idea45, Chi è
costei, che nostra etate adorna46.
41 Nell’edizione del 1821 degli Essays sono pubblicate le prime sei Appendici.
L’Appendix VII sarà aggiunta, invece, nell’edizione definitiva: U. Foscolo, Essays
on Petrarch [1823], cit., pp. 210 ss. Le Appendici non furono incluse nell’Edizione
Nazionale. Si citano pertanto dall’edizione del 1823. Per una descrizione delle Appendici
si veda Eugenia Levi, I Saggi sul Petrarca di Ugo Foscolo, Firenze, Olschki,
1909 (estr. da «La Bibliofilia», IX (1909), nn. 3-4).
42 Su cui cfr. l’indicazione di Cian, p. 90 e p. 82, nota 1.
43 U. Foscolo, Essays on Petrarch [1823], cit., p. 264. Si riproducono i titoli delle
liriche così come si leggono nell’Appendix IV. Lo stesso criterio è adottato i titoli
delle liriche comprese nell’Appendix VII.
44 Ivi, p. 265.
45 Ivi, p. 266.
46 Ivi, p. 267.
[ 14 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 521
Chiarita la posizione di Petrarca di perfezionatore ma non di innovatore,
le sottosezioni [3] e [4] presentano una selezione dal Canzoniere
con divisione delle liriche per forma metrica e argomento, come appare
dalla separazione della poesia politica [8], collocata in chiusura. È
quindi assunta come criterio strutturale la distinzione, teorizzata da
Foscolo in Della poesia lirica, tra poesia propriamente lirica, a cui appartengono
le sole canzoni politiche e dottrinali, ed elegiaca o melica,
in cui rientrano i componimenti di tema sentimentale-amoroso47.
Secondo l’ipotesi che nella selezione dal Canzoniere confluiscano i
testi dell’Appendix VII, la sottosezione [3] comprenderebbe le canzoni:
Nella stagion ch’l cielo rapido inchina (L) 48; Chiare, fresche, e dolci acque
(CXXVI)49; Di pensier in pensier, di monte in monte (CXXIX)50. In [4] sarebbero
presenti invece gli otto sonetti: La vita fugge e non s’arresta un’ora
(CCLXXII)51; Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena (CCCX)52; Se lamentar
augelli, o verdi fronde (CCLXXIX)53; Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente
(CCXCII)54; Mente mia, che presaga de’ tuoi danni (CCCXIV)55; Tutta la
mia fiorita e verde etade (CCCXV)56; Né mai pietosa madre al caro figlio
(CCLXXXV)57; Né per sereno ciel ir vaghe stelle (CCCXII)58. In [8], infine,
troverebbero posto le due canzoni politiche O aspettata in ciel, beata e
bella (XXVIII) 59 (presentata nell’Appendix VII con la traduzione di Miss
***) e Italia mia; benché ’l parlar sia indarno (CXXVIII), di cui si è detto.
L’Appendix VII attende uno studio critico che indaghi la ragione
della selezione dei testi e il criterio del loro ordinamento60, considerata
anche l’attenzione particolare che Foscolo rivolse alle traduzioni della
Dacre, due delle quali, Rvf CXXVI e CXXVIII, le furono da lui commissionate
e riviste attentamente61. La silloge degli otto sonetti, ad esem-
47 EN VII, pp. 325 ss.
48 U. Foscolo, Essays on Petrarch [1823], cit., pp. 282 ss.
49 Ivi, pp. 288 ss.
50 Ivi, pp. 294 ss.
51 Ivi, p. 300.
52 Ibidem.
53 Ivi, p. 302.
54 Ibidem.
55 Ivi, p. 304.
56 Ibidem.
57 Ivi, p. 306.
58 Ibidem.
59 Ivi, p. 318 ss.
60 Argomento che sarà certamente trattato nella nuova edizione commentata
delle appendici di prossima uscita per le cure di Ilaria Mangiavacchi.
61 Su cui cfr. EN X, pp. XL e ss.
[ 15 ]
522 chiara piola caselli
pio, rivela una predilezione per certi motivi e stilemi petrarcheschi di
cui, com’è noto, è intessuta la lingua foscoliana poetica quanto prosastica.
Buona prova ne è l’esclusione delle liriche «dafnee e di fattura
parnassiana» e la presenza, invece, delle liriche «più affettuose e piane
», di tono elegiaco, sui temi del ricordo, della solitudine interna che
si riflette nel paesaggio62. Non sempre evidente è, invece, la relazione
tra questa piccola raccolta e i saggi critici di cui costituisce l’appendice,
quasi godesse di uno statuto autonomo, alludendo al percorso sentimentale
e poetico di Foscolo stesso più che alla biografia spirituale di
Petrarca. Un rapido confronto intertestuale limitato a tre soli esempi
conferma la ripresa tematica e formale di questi sonetti in opere cardine
della produzione foscoliana. L’incipit di Rvf CCLXXIX («Se lamentar
augelli, e verdi frondi / mover soavemente a l’aura estiva»), ad
esempio, è citato scopertamente nella lettera del 15 maggio dell’Ortis,
dopo che Jacopo è «fatto divino» dal bacio di Teresa: «Mi pare che
tutto s’abbellisca ai miei sguardi; il lamentar degli augelli, e il bisbiglio
de’ zefiri fra le frondi son oggi più fecondi che mai […]». Meno esplicita
è la ripresa di Rvf CCCX («Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena /
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia») nei vv. 95-96 del primo Inno delle
Grazie: «L’altra sorella a’ zefiri consegna / A rifiorirle i prati a primavera
», dove l’immagine della rinascita primaverile risvegliata dal soffio
dei venti assume il significato di rifondazione dell’umanità per
mezzo del rito civile celebrato dalle tre ancelle di Venere. Appare indicativa
anche la scelta di concludere la silloge con Rvf CCLXXXV considerata
la sua ripresa tematica e stilistica in A Zacinto: per il modulo
avversativo dell’incipit («Né più mai»); per la rima «esiglio»: «figlio»;
per il richiamo, al v. 13 («materna mia terra»), alla relazione tra il sintagma
«pietosa madre» e «figlio» del sonetto petrarchesco63.
Più agevole è l’identificazione dell’antologia critica per la diretta
relazione delle voci dell’Indice con il contenuto di tre saggi petrarcheschi:
[5] sembra alludere ai paragrafi conclusivi del primo saggio (An
Essay on the love of Petrarch), dove erano presentate le «doti personali»
della enigmatica e inconoscibile figura di Laura, o meglio la loro trasfigurazione
nella poesia petrarchesca, come rivela anche la presenza
del Triumphus Mortis [6], «pittura più distinta, benché forse non al tut-
62 Bortolo Tommaso Sozzi, Petrarca, [Palermo], Palumbo, 1963, p. 67.
63 Nicola De Blasi, La funzione dei tempi verbali nel sonetto A Zacinto e il motivo
della poesia sulla poesia. Ascendenze petrarchesche e riscontri foscoliani, «Filologia e critica
», II (1982), pp. 283-304: 298-299.
[ 16 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 523
to verace»64 di Laura, i cui versi, nella traduzione di Henry Boyd, sono
presenti in chiusura tanto del primo saggio petrarchesco quanto
dell’Anthology65. Il brano [7] proviene invece dai paragrafi conclusivi
del secondo saggio già citato, dove erano descritti i momenti che precedevano
la morte di Petrarca, cogliendone i tratti caratterizzanti
dell’inquietudine, amplificata dal sentimento religioso, della debolezza
e della naturale predisposizione alla rinuncia e alla malinconia
oziosa. Si tratta di un’anticipazione dell’ultimo brano critico [9] proveniente
dai paragrafi XIII-XVIII del quarto saggio (Parallel between Dante
and Petrarch) dedicato al confronto fra le personalità dantesca e petrarchesca,
accomunate solo dallo sforzo nel «recare l’Italia sotto il
reggimento di un solo sovrano, e […] tôr via il potere temporale de’
papi»66.
Con alcune esclusioni, comprensibili considerata la sede di pubblicazione
(manca ad esempio ogni riferimento alla produzione latina di
Petrarca), l’antologia critica riproduce, nei suoi tratti essenziali, il percorso
tracciato negli Essays, il cui vertice è il confronto tra le personalità
di Dante e di Petrarca, tramite cui è sancita la preminenza del modello
etico ed estetico del primo sul secondo. L’ultimo brano critico
riassume, infatti, i fattori alla base dell’«irriconciliabile diversità» dei
due principali esponenti della tradizione poetica nazionale: fattori
storici (ultimo erede della libertà medievale il primo, rappresentante
della servitù umanistica il secondo), filosofico-ideologici (l’aristotelismo
e il tomismo da una parte, il platonismo e l’agostinianesimo
dall’altra) con conseguenze sugli esiti estetici e, in definitiva, sulla sostanza
della loro poesia: gnomica, didattica e civile quella di Dante,
confinata nell’universo soggettivo quella di Petrarca.
4. La seconda sezione ‘dantesca’ dell’Anthology
Si è considerata per ultima la sezione centrale dell’Anthology dedicata
a Dante, chiusa, a fare strategicamente da ponte con quella che precede,
da una sottosezione intitolata alla «Dante’s juvenile poetry pp.
399-355», nella quale possiamo immaginare confluissero quei sonetti
della Vita Nova giudicati da Foscolo superiori a qualsiasi risultato rag-
64 EN X, p. 231. Per la traduzione di Boyd cfr. ivi, p. 36.
65 Cfr. Cian, p. 90.
66 EN X, p. 291.
[ 17 ]
524 chiara piola caselli
giunto da Petrarca67. In apertura, invece, era collocato il profilo criticobiografico
dedicato all’autore, in cui convergevano materiali eterogenei
tratti dagli articoli foscoliani su Dante del 1818, dalla traduzione della
Commedia di Cary, autore delle versioni che accompagnavano i testi in
italiano e di almeno una delle note esegetiche a loro corredo68, da Lord
Byron. Questa la voce dell’indice: «Dante Alighieri… Biographical and
critical illustration by Lord Byron, Ugo Foscolo, the Edinburgh Review,
and the Rev. Mr. Cary, whose translations accompany the following extracts
from Dante’s poem pp. 151-161». Non conosciamo il contenuto
del profilo introduttivo su Dante. Non sfugge però l’obiettivo si presentarlo
attraverso le parole dei contemporanei che avevano contribuito a
diffonderne il culto Oltremanica, celebrandolo come il poeta della libertà
e il profeta del rinnovamento politico dell’Italia.
Seguiva la descrizione topografica della prima cantica: «Inferno.
Remarks on the structure and dimensions of the Hell of Dante for the
intelligence of the following extracts pp. 163-165», con notizie tratte
dal Dialogo del matematico e architetto umanista Antonio Manetti69.
Interessa però qui soffermarsi sulla selezione antologica dalla
Commedia, subito successiva, che non ci risulta abbia precedenti nelle
antologie propedeutiche all’insegnamento linguistico, né per ampiezza
né per composizione. Nell’indice non è precisata la scelta delle terzine
antologizzate ma solo l’indicazione dei singoli canti o di corpora
di canti contigui insieme alla numerazione delle pagine che questi
occupavano nel volume. La selezione dall’Inferno comprendeva i canti:
III (pp. 167-176), X (pp. 177-186), XIII (pp. 187-194), XIX (pp. 195-
209), XXVII (pp. 211-222), XXXII (pp. 223-230), XXXII-XXXIII (pp. 231-
240), XXXIII (pp. 241-244), XXXIV (pp. 245-250). Per il Purgatorio sono
indicati i canti: II (pp. 251-256), III (pp. 259-264) introdotto dalle «Historical
explanations of the following passage on the death of Manfredi
p. 257», V (pp. 265-269), VI (pp. 271-277), XX (pp. 279-284), XXVIII
(pp. 285-291). Per il Paradiso sono menzionati i canti: I-II (pp. 293-296);
XV-XVI-XVII (pp. 297-309), XIX (pp. 311-314), XXI-XXIX (pp. 315-
319), XXIII (pp. 321-328), XXVII (pp. 329-337). I brani antologizzati
erano preceduti da notizie introduttive e commentati. Purtroppo né
67 Su cui si veda EN IX/I, pp. 138-139.
68 La nota, a If. XXXIV al v. 37, è riprodotta in Cian, pp. 90-91.
69 La fonte è indicata in ivi, p. 89. Sull’uso da parte di Foscolo delle ricerche del
Manetti per la preparazione del commento della Commedia si veda D. Colombo,
Foscolo e i commentatori danteschi, cit., p. 118 che rimanda opportunamente anche
all’Anthology.
[ 18 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 525
Bianchini né Cian pensarono di trascriverne il contenuto dal momento
che «notizie e chiose […] ai conoscitori dei lavori danteschi del
Foscolo non riescono nuove» e che «del resto, egli cita le fonti, le sue
fonti medesime»70. La selezione comprende, infatti, i canti citati da
Foscolo negli articoli del 1818 come testimonianza delle implicite motivazioni
psicologiche e figurative di Dante. Si ritrovano gli episodi
rivelatori di una tecnica narrativa che opera per sottrazione e concentrazione,
capace di «dipinge[re] un grande carattere per mezzo della
sua inazione» (Sordello), di condensare in tre versi «la storia della
vita di un principe» (Celestino V) 71, di restituire, utilizzando la tecnica
pittorica dello «scorcio», l’«illuminazione e fisionomia dell’intero
quadro» con «pochissimi tratti di pennello»72 (Manfredi sorridente
che indica a Dante la ferita mortale) 73. Si ritrovano anche i personaggi
che Foscolo citava per smentire la presunta «durezza ghibellina» attribuita
da Schlegel a Dante e che rivelavano, infatti, un’abbondanza
di «sentimenti gentili»74: Cavalcante Cavalcanti, Pier delle Vigne, Casella,
Pia, Ugolino. La selezione mostra però anche assenze importanti:
tra tutte quella di If. V, ovvero proprio del ‘capolavoro dantesco’ a
cui Foscolo aveva dedicato alcune delle sue pagine più felici inaugurando
un nuovo canone critico75. Si tratta di un’assenza notevole considerata
la fortuna europea del canto che ricorreva nelle antologie
destinate a un’ampia divulgazione anche se a prezzo di qualche
«rassettatura»76.
Del resto, la selezione dell’Anthology sembra concentrarsi piuttosto
sui canti politici che denunciano la corruzione della Chiesa di Roma e
di Avignone resa «puttaneggiante» da Bonifacio VIII e Clemente V e
dall’invadente presenza del regno di Francia. Si tratta, per Foscolo, del
cardine ideologico e strutturale dell’intero poema: «le iniquità del Sacerdozio
nelle tre cantiche – scrive nel Discorso sul testo della Commedia
70 Cfr. Cian, pp. 89-90.
71 EN IX/I, p. 13.
72 Ivi, p. 115.
73 Ivi, p. 117.
74 Ivi, pp. 99.
75 Sull’importanza della lettura foscoliana di Inferno V cfr., in particolare Galileo
Agnoli, Il Foscolo commentatore di Dante, «Rivista d’Italia», VII (1904), nn. 1-6,
pp. 1015-1030.
76 Sull’“adattamento” di If V, v. 136 nell’antologia di Francesco Brancia si veda
William Spaggiari, Sillogi letterarie dall’esilio, in Id., Geografie letterarie: da Dante a
Tabucchi, Milano, LED, 2015, p. 216.
[ 19 ]
526 chiara piola caselli
– sono rivelate in guisa che ogni accusa procede acquistando più sempre
autorità ed evidenza maggiore»77.
La selezione dal Purgatorio si apre felicemente con la «più gentile
fra le scene» della seconda cantica78, l’episodio di Casella, chiudendosi
con l’incontro con Matelda nella divina foresta. Entro questa cornice
si collocano: il colloquio con Manfredi, introdotto dalla storia della
sua morte con probabile ripresa dell’articolo dantesco del 1818 in cui
Foscolo si era soffermato sul trasferimento in terra sconsacrata, per
ordine dell’arcivescovo di Cosenza, del cadavere di chi aveva attentato
alla giurisdizione ecclesiastica sul regno di Sicilia79; l’invettiva, suscitata
dall’incontro con Sordello, contro la Chiesa di Roma e le conseguenze
della vacanza imperiale; la profezia di Ugo Capeto contro la
casa di Francia.
Ancora più esplicita è in tal senso la selezione dalla terza cantica,
che sembrerebbe aprirsi con la spiegazione di Beatrice della configurazione
cosmogonica del Paradiso80 e con l’ammonimento di Dante ai
lettori, ma che ha il suo vero inizio con i tre canti cacciaguidiani in cui
è esplicitata la missione poetico-profetica di Dante. Segue il canto XIX
la cui importanza, nella riflessione di Foscolo, è chiarita dalle postille
autografe presenti sul suo esemplare del Discorso sul testo della Commedia,
postille importanti perché testimoniano del suo interesse verso la
concezione soteriologica esposta nel principale testo di riferimento
del quaccherismo, An Apology for the True Christian Divinity, alla luce
del quale intendeva commentare il problema teologico della salvezza
dei pagani giusti posto da Dante in Pd XIX, vv. 70-7881. L’indice indica
la presenza dei canti XXI-XXIX, dove prende corpo il climax ascendente
di condanna della degenerazione delle istituzioni e gerarchie ecclesiastiche
che ha inizio con le parole di San Pier Damiano contro le
sregolatezze dei frati, il nicolaismo del clero e lo sfarzo dei vescovi (Pd
XXI, vv. 127-142), ha il suo apice nell’invettiva di San Pietro contro i
papi usurpatori del seggio pontificio (Pd XXVII, vv. 10-60), canto ripe-
77 EN IX/I, p. 515.
78 Ivi, p. 399.
79 EN IX/I, pp. 114-115.
80 Nell’abbozzo redazionale della premessa «Parole A’ Lettori», dove sono
elencati quegli episodi su cui Foscolo intendeva soffermarsi nei tre discorsi introduttivi
che avrebbe premesso al commento delle cantiche, annota: «Paradiso ideato
sul sistema planetario» (EN IX/I, p. 674).
81 Su cui cfr. Chiara Piola Caselli, Note sul postillato del «Discorso sul testo
della Commedia di Dante» di Foscolo e commento di una postilla ‘quacchera’, «Prassi
Ecdotiche della Modernità Letteraria», n. 3 (2018), pp. 159-183.
[ 20 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 527
tuto anche in conclusione della sezione antologica, prosegue con le
parole di Beatrice sulla mendace interpretazione delle scritture da
parte dei falsi profeti (Pd XXIX, vv. 88-126), che Foscolo parafrasa e
commenta nel Discorso:
Ma anche l’ira congiurata di monarchi e pontefici, que’ frati di San
Francesco e di San Domenico ‘quasi tutti’ accusati nella Commedia –
‘d’orgoglio d’avidità e di diabolica ipocrisia; venditori di perdonanze,
e d’assoluzioni, e d’imposture alla plebe che pagavali ad ingrassarli da
porci; predicatori di ciance e d’eresie, dettate non dallo Spirito Santo,
ma dal Demonio che annidavano nel cappuccio’ – erano pur nondimeno
gl’Inquisitori dell’eretica pravità82.
La selezione dalla Commedia ci sembra più comprensibile, insomma,
se letta alla luce dell’interpretazione del poema esposta nel Discorso.
Ne ricordiamo alcuni punti cardine: Dante avrebbe composto
la Commedia «secretamente» per non incorrere nella vendetta delle fazioni
guelfa e ghibellina, come dimostrerebbe anche il diverso trattamento
di Guido da Montefeltro nella Commedia e nel Convivio83.
Non diversamente da Gravina, Foscolo interpreta l’oscurità del
dettato dantesco come dimostrazione che il poeta non voleva essere
compreso da coloro «co’ quali» non voleva «favellare»84. Lo scioglimento
dei significati teologici, filosofici e politici che si celano sotto le
allegorie richiede, pertanto, uno studio dei valori semantici delle parole
in rapporto alla tradizione del testo e la ricostruzione filologica del
vero dettato dantesco, distinguendo le varianti d’autore dalle manomissioni
operate da apologisti del papato, specie gesuiti85. Il messaggio
eversivo che Dante si proponeva di celare e per il quale gli «venia apposto
essere eretico e non credere in Dio»86 non si limita a una generica reprimenda
della cupido dominandi della Chiesa di Roma che Foscolo identifica
con la «Puttana sciolta» di Pg XXXIII, v. 14987: nonostante la professione
di «reverenza de le somme chiavi», Dante avrebbe indicato la
necessità immediata di una palingenesi radicale della Chiesa che riguardava
«tutta la disciplina, e parte anche de’ riti e de’ dogmi»88.
82 EN IX/I, p. 265-266.
83 Ivi, p. 384.
84 Su cui cfr. Giulio Marzot, Il Foscolo dantista, in Studi di varia umanità in onore
di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 506-525: 511.
85 EN IX/I, p. 561.
86 I bidem e ivi, p. 245.
87 Ivi, p. 514.
88 EN IX/I, p. 265.
[ 21 ]
528 chiara piola caselli
Che egli mettesse in discussione l’«infallibilità del sommo Pontefice
anche ne’ dogmi»89 risulterebbe dalla condanna di Guido da Montefeltro
in If XXVII e, di contro, la salvezza dello scomunicato Manfredi;
così come dalla dannazione dei papi simoniaci in If XIX, soprattutto
i due che avrebbero presto trovato la loro collocazione nella terza
bolgia: Clemente V e Bonifacio VIII, alla cui anima era assegnato «un
pozzo ardentissimo nell’Inferno e al suo cadavere il cimitero di San
Pietro “fatto cloaca di sangue e puzza”»90.
Lo scopo politico della Commedia era l’affermazione del principio
della divisione del potere laico dal sacerdotale ribadito anche in Pg VI,
vv. 91-96. Il vero «commento politico al poema» è, infatti, il terzo libro
della Monarchia dove è argomentata la «dottrina» che fu «poscia illustrata
da molti, utilmente a tutte le Chiese protestanti»91. Non mancano,
nella selezione dell’Anthology, quei canti che secondo Foscolo testimonierebbero
lo scopo della missione profetica di cui Dante è investito per
grazia divina. Dopo la professione di fede, san Pietro lo avrebbe consacrato
sacerdote con «il rito dell’imposizione delle mani»92 in Pd XXIV,
vv. 151-154. L’esame degli apostoli nei tre canti dottrinali (Pd XXIVXXVI)
avrebbe solo mirato a rafforzarlo nell’obiettivo di cui egli si rivela
consapevole in Pd XXV, vv. 1-12 e che gli viene rivelato in Pd XXV, vv.
40-47: fondare una «nuova scuola di religione in Europa»93.
5. Le probabili ragioni di un rifiuto
All’uscita e diffusione in Italia del Discorso, la critica cattolica e conservatrice
fece circolare la voce che Foscolo avesse voluto ossequiosamente
ricambiare la protezione ricevuta in Inghilterra avvicinando le
aspirazioni di Dante a quelle dei riformatori protestanti94. L’insinua-
89 Ivi, p. 516. La questione della riforma della Chiesa nell’interpretazione foscoliana
di Dante è stata oggetto di molti studi critici con diverse posizioni. Ci limitiamo
qui a ricordare Bruno Nardi, Dante letto da Foscolo, in Dante nel secolo
dell’Unità d’Italia. Atti del I Congresso Nazionale di studi danteschi, Caserta-Napoli,
21-25 maggio 1961, Firenze, Olschki, 1962, pp. 56-74; e Luigi Russo, La nuova
critica dantesca del Foscolo e del Mazzini, in Id., Il tramonto del letterato, Bari, Laterza,
1960, pp. 187-212.
90 EN IX/I, p. 383.
91 Ivi, pp. 389.
92 Ivi, p. 241.
93 Ivi, p. 245.
94 Si ricordi, ad esempio, Emmanuele Vaccaro, Sopra un comento di Dante fatto
[ 22 ]
un’antologia foscoliana della poesia medievale 529
zione mirava a depotenziare l’esplicito atto d’accusa alla politica ecclesiastica
che vi era espresso a chiare lettere. Foscolo aveva indicato,
infatti, il nesso stretto tra la subordinazione della Chiesa alla monarchia
francese denunciata nella Commedia e la connivenza della «dittatura
Tedesca e dell’Ecclesiastica»95 negli anni della Restaurazione, sollevando
un problema quanto mai attuale come quello della separazione
della «spada» dal «pastorale» con la soppressione del potere temporale
del papa. Il commento della Commedia, di cui il Discorso costituiva
solo il volume introduttivo, avrebbe rivelato il progetto politico
celato sotto le allegorie configurandosi come un «libro da Italiani», il
suo maggiore contributo all’«Italia presente o futura»96.
Quando, nel 1827, fu ripresa nel giornale londinese «L’Aurora» la
violenta stroncatura del Discorso, già apparsa in forma anonima l’anno
precedente sulla «Biblioteca italiana»97, Foscolo non esitò a riconoscervi
«il comando del bastone austriaco», attribuendola alla penna del
direttore della rivista milanese, Robustiano Gironi. Espresse subito i
propri sospetti a Bossi a cui dettò il ben noto epigramma di risposta
«Gracchia Giron pretocolo in Milano / A’ servigi di Franco imperatore
»98. Siamo proprio nelle settimane di più intenso lavoro all’Anthology99.
Non è possibile stabilire se e quali aspetti della riflessione del Dida
Ugo Foscolo. Riflessioni critiche, Palermo, Gabinetto tipografico all’insegna di Meli,
1831, pp. 7-11: p. 9 nn.). Sulle polemiche suscitate in Italia dagli scritti danteschi
di Foscolo rimandiamo al recente contributo di Maria Antonietta Terzoli, Foscolo
dantista, in Miscellanea di studi in onore di Giovanni Bardazzi, a cura di Giorgia
Fioroni e Marco Sabbatini, Lecce, Pensa MultiMedia, 2018, pp. 177-199.
95 EN IX/I, p. 182.
96 Si veda la lettera a Capponi (26 settembre 1826) in U. Foscolo, Epistolario,
in Id., Opere edite e postume di Ugo Foscolo, cit., pp. 229-240: 232.
97 «La Biblioteca italiana o sia Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti compilato
a varj letterati», XXI (1826), t. XLIV, pp. 3-11.
98 L’epigramma, noto con il titolo Contro due giornalisti (Gironi e l’estensore
dell’«Aurora», Felix Coen Albites), si legge oggi in EN II, p. 447. Il curatore del
volume dell’Edizione Nazionale indica erroneamente il nome di Luigi Bossi (1758-
1835) anziché quello di Giulio (p. CXXVII), ma si tratta di una palese confusione di
persona per la quale basti rimandare alle testimonianze di Bossi che accompagnano
la prima edizione dell’epigramma (in «Il Baretti» XII (1880), n. 10, pp. 77-78),
riprese in G. Taormina, Giulio Bossi ed Ugo Foscolo, cit., pp. 371-376: 373 ss.
99 Nella stessa lettera, s.d. ma precedente quella del 26 giugno che accompagnava
l’invio del volume agli editori, Foscolo comunicava a Bossi la retribuzione
richiesta da Thomas Roscoe per la traduzione di una parte dell’Anthology. Al contempo
commentava l’uscita della recensione del Discorso su «L’Aurora». U. Foscolo,
Saggi di critica storica e letteraria, in Id., Opere edite e postume, a cura di France-
[ 23 ]
530 chiara piola caselli
scorso siano confluiti nell’antologia di cui non sfugge, tuttavia, il carattere
militante veicolato da un impianto critico e da una selezione testuale
che, nonostante la facilitazione delle traduzioni, poteva apparire
inadatta a un’edizione destinata all’apprendimento di una lingua
straniera. Non è improbabile che proprio per questo gli editori ne rifiutassero
la pubblicazione considerandola un prodotto di difficile
commercializzazione presso un pubblico che, nonostante la recente
introduzione delle lingue moderne nei curricula universitari e il crescente
interesse per Dante grazie alla traduzione di Cary, era prevalentemente
costituito dai giovani dell’alta società britannica interessati
alla cultura del Rinascimento e alla lingua del melodramma.
Si è detto che, nella lettera agli editori contenente la proposta di
accordo finanziario, Foscolo indicava Bossi come unico autore dell’opera
e intestatario del contratto qualora l’accordo fosse stato raggiunto.
Le ragioni possono essere diverse prima delle quali il fatto che il
poeta non dovette considerare l’Anthology all’altezza della propria fama
letteraria. Tuttavia, il riferimento alle ventiquattro copie destinate
alla circolazione in Italia lascia presumere che i due autori ne prevedessero
la diffusione nei territori del Lombardo-Veneto. L’assenza del
nome di Foscolo avrebbe più facilmente consentito all’opera di sfuggire
all’occhio vigile della censura austriaca, trasmettendo così un progetto
culturale alternativo a quello delle correnti edizioni ad uso didattico
e contribuendo concretamente alla costruzione dell’«immagine
di una nazione che non esisteva, di un popolo che non aveva ancora
nome»100.
Chiara Piola Caselli
Università di Perugia
sco Saverio Orlandini e Enrico Mayer, Firenze, Le Monnier, 1862, XI, pp. 382-
383.
100 F. Longoni, Scelte di lettura in epoca napoleonica, cit., p. 62.
[ 24 ]
Angelo Fàva ro
Quella «luce di consapevolezza realistica», o l’ironia
dell’Ariosto in un articolo di Alberto Moravia
Il sorriso dell’Ariosto è un articolo di A. Moravia, pubblicato ne «Il Mondo», il 6
gennaio 1951, in occasione della nuova edizione Einaudi del Furioso, curata da
Elio Vittorini. Dal 1951 si erano perse le tracce di questo testo, che viene qui
analizzato e interpretato, per accertare la formazione del suo autore, insieme a
ragioni di interesse personale e di opportunità professionale, che indussero il
romanziere a produrre una recensione di notevole interesse critico-letterario.
Non rispettando le convenzioni di un testo specificatamente recensivo, Moravia
offre osservazioni originali.

Il sorriso dell’Ariosto is an article by A. Moravia published in “Il Mondo” on 6
January 1951 and prompted by the new Einaudi edition of Orlando Furioso
edited by Elio Vittorini. Long since forgotten, the text is here analysed and interpreted
from the standpoint of the author’s education, as well as personal
interest and professional opportuneness, all of which led the novelist to write
areview that stands out from a critical-literary perspective. Ignoring conventional
reviewing methods, Moravia provides original observations.
«Ci vogliono secoli, prima che si formi una coscienza
collettiva; e formata che sia, non si disfà in un giorno.»
Francesco De Sanctis
A quattordici anni, in una lettera alla zia Amelia Pincherle Rosselli, un
giovanissimo Alberto Pincherle, già affetto da quella penosissima e
invalidante tubercolosi ossea, fra l’insopportabile ingessatura, la solitudine
e la noia, scrive:
Quest’anno non potrò fare gli esami di quarta ma li farò se sono alzato
a quest’altro luglio insieme a quelli di quinta. Se non sono ancora alzato
Autore: Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”; prof. a contratto; angelo.
favaro@uniroma2.it
532 angelo fàvaro
li farò a ottobre oppure farò pure la prima liceale a casa e darò gli esami
di quarta e quinta al luglio del 23 e quello del liceo all’ottobre del medesimo
anno. Tutto ciò come vedi è assai complicato e tutto dipende se
m’alzo o nò a quel dato tempo. Intanto preparandomi ad ogni evenienza
studio molto, e più del necessario. In altri tempi non lo avrei fatto e
inoltre la noia mi ci spinge. […] Intanto non sapendo che fare mi sono
divorato il Carducci il Petrarca e l’Ariosto, ora sto leggendo la Gerusalemme
liberata. Quanto alla Divina Commedia il mio vivo desiderio è
di comprarmela in edizione grande con le illustrazioni del Dorè1.
Non si può non considerare che il destinatario, la sorella dell’ingegnere
e architetto Carlo Pincherle, una donna colta e informata sulle
diverse tendenze letterarie europee, che a partire dai primi decenni del
Novecento compose non solo drammi, ma si dedicò alla scrittura giornalistica
e pubblicò noti libri per l’infanzia, fra i quali il primo volume
letto da Alberto, Topinino, lei, la madre di Carlo e Nello Rosselli, autorizzi
il mittente a qualche esagerazione: cum grano salis si dovrebbe
cogliere e accogliere l’iperbolica “fame” che lo induce a divorare le
pagine di Carducci Petrarca Ariosto. E tuttavia, ormai anziano e divenuto
celebre come Alberto Moravia, il romanziere rimembrerà, nella
sua lunga conversazione con Alain Elkann, che il padre possedeva le
opere complete di Goldoni, Shakespeare, Molière, Ariosto, Manzoni2.
Le informazioni autobiografiche, consegnata la prima quando il ragazzo
è inconsapevole di eventuali-possibili risvolti posteriori e prodotta
ingenuamente, secondo la psicologia dell’adolescenza; invece,
formulata la seconda quando l’uomo è perfettamente avvisato delle
ripercussioni in differenti ambiti (tanto biografico, quanto ricostruttivo
dell’esegesi e della critica) e, dunque, riferita con la cautela ponderata
dagli effetti della fama e dell’esperienza, riferiscono di una lettura
integrale e poi, al contrario, soltanto di un possesso nella biblioteca
paterna. Ciò consente, tuttavia, di avanzare un’ipotesi mediana: rielaborando
concettualmente i ragguagli, non si errerebbe completamente
se si sostenesse che il giovane Alberto, avendo a propria disposizione
il volume dell’Orlando Furioso, in qualche pregevole edizione primonovecentesca
con le didascaliche illustrazioni del Dorè3, lo abbia sfo-
1 Le lettere sono state raccolte, studiate, commentate e introdotte da Simone
Casini: Alberto Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli con altre lettere familiari e prime
poesie (1915-1951), Milano, Bompiani, 2010, pp. 144-145.
2 Alberto Moravia, Alain Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1990,
p. 17.
3 Si potrebbe indicare, exempli gratia, la nota edizione del 1881: Ludovico
[ 2 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 533
gliato e letto, anche se solo superficialmente, soffermandosi probabilmente
più sulle immagini che sui versi, strutturandosi un immaginario
scopico e visuale del poema, desideroso il giovane di una fuga nel
fantastico, in un mondo quasi spettacolare, avendo come guida la fervida
e salvifica immaginazione, di cui era dotato. Si coglierebbe nel
segno se si sospettasse che abbia coltivato, invece, in età avanzata, il
dubbio sulla completa e consolidata acquisizione delle esperienze letterarie
effettuate in giovane età, e soprattutto sulla conoscenza di un
poema di non semplice e immediata lettura, per un giovane non ancora
adolescente, e squisitamente elaborato, quale è il Furioso.
In massima parte, l’Opera di Alberto Moravia, in qualche modo, rifugge
non solo dalle atmosfere del poema ariostesco, ma anche dai
contenuti e dal messaggio generale dei quarantasei canti, cesellati con
quelle finissime ottave; nel contempo i modelli epici ed etici, così forbiti
di quell’immaginario cavalleresco e talvolta “surreale” e ironico, divengono
un richiamo carico di una fascinazione inesauribile, per chi,
come Moravia, ama la letteratura e ne ha fatto una professione e insieme
una ragione d’esistenza. Complessivamente le norme compositive
del poema, la sua struttura multiforme, i personaggi interagenti in selve
e palazzi luminosi costituiscono, in una prospettiva che coniughi
analisi e ricerca, con l’idea di una letteratura e di una narrazione potenzialmente
inesauribili, oltre ogni ideologia e costruzione poetica, la
proposta di un sapere e di una rivoluzione, che furono, probabilmente,
alla radice dell’interesse di Moravia, e sono paradigmaticamente contenuti
nella celebre sintesi formulata da Italo Calvino: «L’Orlando furioso
è un libro unico nel suo genere e può esser letto senza far riferimento
a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui
si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi»4.
La scelta di proposta culturale offerta dall’Ariosto nel poema è
quella, forse ingenua e probabilmente costitutiva della sua personalità,
di un realismo da accettare e accogliere politicamente e spiritualmente
proprio nell’istante in cui ci si abbandona, o si finge di abbandonarsi
al fantastico. Non c’è finzione che non divenga perfettamente
e aristotelicamente credibile e verosimile, non appena si consolidi il
patto fra autore e lettore, grazie alla capacità dell’uno di persuadere e
al desiderio dell’altro di lasciarsi persuadere. Ebbene, l’idealizzazione
Ariosto, Orlando furioso, illustrato da G. Dorè, con prefazione di G. Carducci, Milano,
Treves, 1881. Varie furono le ristampe, fra le quali una del 1899.
4 Italo Calvino, Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino,
Torino, Einaudi, 1970, p. XIX.
[ 3 ]
534 angelo fàvaro
o l’ideologia, con le quali si affrontano il mondo e la vita, cedono all’unica
seduzione e all’unico incanto travolgenti nella persuasione del
reale, che agisce, in un modo tutto speciale, anche quando si produce
una finzione.
Elio Vittorini aveva scritto, introducendo la poderosa ed accuratissima
edizione Einaudi del Furioso5, che il “canto dell’Ariosto” ha la
capacità di scorrere, senza assottigliarsi né “cambiando peso”, e quasi
indurrebbe il lettore a reperire in Raffaello il suo “equivalente pittorico”.
Ad una più attenta osservazione, invece, al prefatore appariva
più calzante il parallelo con la pittura appena successiva al Trecento,
quasi che le arti figurative avessero avuto un più svelto andamento
rispetto alla letteratura. La ragione si può reperire in un’osservazione,
ancora di Vittorini, secondo cui la pittura «ha fatto in ordine, una per
volta sia le sue grandi esperienze realistiche che la sua esperienza di
umanesimo»6. Non sarebbero stati, dunque, né Raffaello né Dosso
Dossi, osserva, a causa del loro culminante processo di idealizzazione
del reale, i migliori omologhi figurativi del Furioso: l’idea di Vittorini è
che «in letteratura le varie esperienze si sono accavallate», e per tale
ragione nessuna è giunta a completa maturazione; si è pervenuti così
«con l’“Orlando furioso”, ad avere un’opera che, sotto la superficie
cinquecentesca di una perfetta rotondità musicale, realizza i sogni da
giardinaggio dell’umanesimo», ma nello stesso momento, evidenziava
il prefatore:
Soddisfa le più profonde curiosità realistiche del Quattrocento, anche
le più indiscrete, e le più rozze, le più irriverenti, le più popolari, da
5 L’edizione Einaudi dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, apparso nella
collana «I Millenni», si compone di tre grandi tomi, ognuno di cm. 22 x 14,5, che
giungono in libreria il 20 novembre 1950, la pregevole fattura e la legatura editoriale,
in solida tela beige e con fregi oro, è ulteriormente impreziosita da 24 tavole
d’illustrazioni, scelte da Elio Vittorini, e disposte nei tre volumi. Vi si trovano le
riproduzioni di alcuni particolari di opere di Ercole de Roberti (Argonauti, Miracoli
di san Vincenzo Ferrer), di Francesco del Cossa (Trionfo di Venere, Segno dell’Ariete,
Caccia di Borso d’Este, San Giovanni Battista, Trionfo di Minerva, Giustizia di Borso
d’Este), di Piero di Cosimo (Perseo e Andromeda), della Scuola di Cosmè Tura (Trionfo
di Vulcano, Trionfo di Cerere, Segno della Vergine, Segno del Toro), di Mantegna (Ritorno
dalla caccia), di Pisanello (San Giorgio e la Principessa). Il cofanetto con i tre
volumi si trovava certamente nell’appartamento di via Dell’Oca dove Moravia-
Morante trascorsero insieme circa un decennio, dal 1950 fino al 1960.
6 I l testo, dal quale si trae la citazione e che è parte dell’Introduzione all’edizione
Einaudi 1950, pp. I-IX, si trova riportato, con il titolo Ariosto e la pittura, in Elio
Vittorini, Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957, pp. 354-355.
[ 4 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 535
quelle che aveva saputo soddisfare il Poliziano a quelle che non avevano
saputo soddisfare il Pulci e il Boiardo7.
Vittorini era assoldato in una complessa manovra che consisteva
nell’armonizzare le immagini scelte a corredo dei tre tomi con il testo
del poema, l’intento diveniva quello di dimostrare che sussiste una
seppur relativa, tuttavia evidente, analogia fra talune scelte e stili pittorici
e alcune con-figurazioni di una, supposta da lui, trama figurativa
del poema. «È la terza volta», avvisava, «che presentiamo un grande
libro del passato con illustrazioni tratte dalla pittura dell’epoca in
cui il libro fu scritto8 per cercare di rendere più evidente, attraverso
l’immediatezza d’un corrispettivo pittorico, quanto di umano e di vivo
ancor oggi se ne stia annidato entro le sue particolarità cosiddette
stilistiche»9.
In occasione di questa nuova edizione Einaudi del Furioso, in un
clima di aperta esplorazione letteraria del realismo e del neorealismo10,
Alberto Moravia11, che, dieci anni dopo avrebbe composto l’Introduzio-
7 Ibidem.
8 Vittorini si riferisce al volume del Decameron boccacciano pubblicato nella
collana Einaudi «I Millenni» nel 1949, e ai quattro tomi delle Mille e una notte dello
stesso anno. In particolare si veda: L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi
dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Di specifico
interesse per il rapporto fra le scelte iconografiche e la curatela dei testi il volume
di Annalisa Stancanelli, Vittorini e le mille e una notte. Pittura, fumetti e pubblicità
nell’opera editoriale di Elio Vittorini, you can print, Tricase, 2015.
9 Elio Vittorini, Prefazione, in Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Torino,
Einaudi, 1950, p. IX.
10 Nel panorama culturale italiano alle soglie degli anni Cinquanta il dibattito
su realismo e neorealismo occupa quasi completamente la scena civile e intellettuale,
a partire dall’Inchiesta sul neorealismo di Carlo Bo per la radio, nel 1950, pubblicata
nelle Edizioni Eri Rai di Torino nel 1951. Nella vasta bibliografia sul neorealismo,
essenziale almeno la lettura di: Introduzione al neorealismo. I narratori, a c. di
Gian Carlo Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1974; Maria Corti, Neorealismo, in
Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978; Cristina Benussi, L’età del Neorealismo,
Palermo, Palumbo, 1980; Romano Luperini, Riflettendo sulle date: alcuni appunti sul
neorealismo in letteratura, «Allegoria», n. 37, 2001, pp. 125-132; Raffaele Cavalluzzi,
Neorealismo: dimensioni spazio-temporali di un’utopia della realtà, «Italianistica», n.
2-3, 2001, pp. 71-75. Più recentemente: Giorgio Nisini, Il neorealismo italiano. Scritture,
immagini, società, Roma, Perrone, 2012; Invenzioni dal vero. Discorsi sul neorealismo,
a c. di Marco Guerra, Parma, Diabasis, 2016; Emanuela Garrone, Realismo
neorealismo e altre storie, Roma, Mimesis, 2016.
11 R ipropongo per la prima volta, dopo attenta ricognizione critica, almeno per
quanto mi consta, un breve scritto recensivo, dedicato all’Orlando furioso e a Ludovico
Ariosto, pubblicato da Alberto Moravia ne «Il Mondo» di Mario Pannunzio.
[ 5 ]
536 angelo fàvaro
ne al poderoso volume Garzanti Scrittori della realtà12, forse per la prima
volta in modo veramente e criticamente consapevole, anche rispetto
alla dilezione della sua poetica sempre amebea, in cerca di interlocutori
e di un costante confronto dialogico, tenta di formulare e di articolare
un discorso critico in grado di ritematizzare e riconfigurare
alcuni aspetti del poema, oltre le simbologie e le letture stilistiche operate
fino a quel momento. Vale seriamente la pena analizzare e soffermarsi
sullo scritto di Moravia, Il sorriso dell’Ariosto, non entrato – destino
comune del resto ai cinquantuno articoli apparsi sulle colonne de
«Il Mondo» di Pannunzio – nella raccolta di saggi L’uomo come fine, che
il narratore de Gli indifferenti mise insieme e pubblicò nel 1964. Le ragioni
di questa assenza potrebbero estendersi in molteplici spiegazioni,
tuttavia si propende a ritenere l’esclusione derivata da almeno due
cause: in primis per la brevità e l’estrema concisione, oltre che per il
carattere occasionale dello scritto; in secundis per la natura recensiva
del testo13, tipologia di scrittura alla quale Moravia non pare interessato;
al contrario, egli prova e manifesta quasi una malcelata ripugnanza
Da tempo lavoro alla ricerca, allo studio, alla trascrizione degli articoli di Moravia
contenuti nel settimanale, andato in stampa fra il 1949 e il 1966, e che si occupò
sulle sue colonne di politica interna, internazionale, di varia cultura e di letteratura,
all’insegna dell’informazione e dell’impegno civile, senza dirette ingerenze politiche
o economiche. Precisamente si veda: Alberto Moravia, Il sorriso dell’Ariosto,
«Il Mondo», 6 gennaio 1951, p. 9: tutte le citazioni all’interno del presente studio
sono tratte dalla fonte segnalata. Cfr. ultimamente https://www.corriere.it/
cultura/18_febbraio_07/mondo-mario-pannunzio-settimanale-rivista-
3748ae24-0c30-11e8-ac00-e73bcae47d08.shtml
12 Scrittori della realtà dall’VIII al XIX secolo, Introduzione di Alberto Moravia,
Commenti ai testi di Pier Paolo Pasolini, Commenti alle illustrazioni di Attilio Bertolucci,
Milano, Garzanti, 1961.
13 Alberto Moravia aveva iniziato la collaborazione con il settimanale, il 19
febbraio del 1949, con un articolo dedicato a Domenica dopo la guerra di Henry Miller,
dal titolo Miller o il caos, p. 9, e la aveva conclusa, almeno fino alla mia odierna
ricognizione, con una recensione al Diario notturno di Ennio Flaiano, dal titolo L’ottimista
di umor nero, apparsa il 24 gennaio 1956, pp. 7-8. A Enzo Siciliano Moravia
confessa che non riusciva più a seguire la scrittura per tante differenti riviste, parla
di un “momento di saturazione”, in Enzo Siciliano, Alberto Moravia, vita, parole
e idee di un romanziere, Milano, Bompiani, 1982, p. 61. Con ogni evidenza, inoltre, la
collaborazione termina perché Moravia era impegnato nella rivista che aveva fondato
con Alberto Carocci nel 1953, «Nuovi Argomenti», e perché aveva firmato
contratti di collaborazione con importanti organi di stampa, si pensi al «Corriere
della Sera» e all’«Espresso», per cui cura la rubrica di cinema; sono questi gli anni
nei quali è al lavoro per la composizione di alcuni suoi capolavori: Racconti romani,
La ciociara e La noia.
[ 6 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 537
per le recensioni in genere e, dunque, anche per questa14. Solo alla fine
dell’articolo lascia individuare l’origine del suo interesse ariostesco.
L’immagine, nel titolo, di un Ariosto sorridente, e non mai irridente
o deridente, né colto nell’atto di un riso spiegato, Moravia l’aveva
certamente desunta dal bel sintagma di Settembrini, che, nelle sue Lezioni
di letteratura italiana dettate all’Università di Napoli, avendo già esaminato
l’Opera del Folengo, aveva successivamente sostenuto che i
critici moderni «fanno una colpa all’Ariosto di quel sorriso che pure
era l’unica sapienza del tempo e l’unica luce che illegiadriva l’arte»; e,
quindi, in riferimento al genere della Satira, aveva rilevato: «Nel Seicento
non c’è più il sereno sorriso dell’Ariosto». Icasticamente aveva,
inoltre, segnato i limiti del Rinascimento «… tra il sorriso dell’Ariosto
e la straziante pazzia di Torquato»15.
Luigi Pirandello, nel suo saggio sull’Umorismo, aveva anch’egli
cercato di definire e chiarire la piega del sorriso dell’Ariosto: «Non è
affatto vero che il poeta del Furioso con sorriso incredulo sciolga in
fumo l’edificio del Bojardo e trasformi in fantasmi i personaggi dell’Innamorato.
» Decretava così l’agrigentino, e aggiungeva: «Al contrario!
Egli dà anzi a quell’edificio e a quei personaggi ciò che loro mancava:
consistenza e fondamento di verità fantastica e coerenza estetica.»16
Dalla copia del ritratto, ormai perduto ma eseguito da Dosso Dossi,
conservato al Museo di Ferrara, il sorriso dell’Ariosto appare, al contempo,
bonario ed enigmatico; molto differente la tela della National
14 Come viatico alla lettura di questo lavoro, riferisco quanto validamente e
opportunamente scrive in forma interrogativa un critico-recensore: «La recensione
[…] è un genere letterario specifico, rigorosamente definibile, o non è piuttosto
una modalità del pensiero e della scrittura, tale da poter coincidere con la critica
letteraria in quanto tale, o, perlomeno, con un suo modo d’essere costitutivo?»
Massimo Onofri, Recensire. Istruzioni per l’uso, Roma, Donzelli, 2008, p. 8. Il volume
è nella sua completezza ispiratore di suggestioni e idee da serbare lungamente.
15 Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana dettate all’Università di Napoli,
vol. II, Napoli, Stabilimento Tipografico Ghio, 1868, pp. 77, 345, 222. Da non tacere
che il Settembrini, in primo luogo, dovendo introdurre la poesia giovanile
d’Ariosto, scrive: «Ariosto dal 1505 al 1516 s’addormenta, e canta sorridendo i suoi
sogni maravigliosi […]. Il sognare è l’unico sollievo degli sventurati, il mondo della
fantasia è l’unico rifugio dei servi, che vivi si sentono liberi e ridono degli oltraggi
della fortuna» (p. 66), subito dopo parla di “sorriso italiano” in riferimento ad
Ariosto (p. 67), e poco oltre rileva che la cavalleria per il poeta di Ferrara è “un
gioco di fantasia”, p. 88. A pagina 90, scorgiamo: «Il classico Cinquecento era elegante
e scettico, e in tutto voleva l’eleganza squisita e il sorriso malizioso: spregiò
Dante rozzo e severo, adorò il morbido Petrarca, ed il Boccaccio motteggiatore».
16 Luigi Pirandello, L’umorismo, seconda edizione aumentata, Firenze, Battistelli,
1920, p. 77.
[ 7 ]
538 angelo fàvaro
Gallery, attribuita al Tiziano, dove sul volto di un presunto Ludovico
si disegna un altero ghigno di sospetto, che sostituisce il sorriso.
Il volume einaudiano, diviso nei tre preziosi tomi, curato da Vittorini,
era apparso negli ultimi mesi del 1950, e Moravia si affrettava a
scriverne, anche se indirettamente e senza lo stile e le convenzioni di
un testo specificatamente recensivo, all’inizio del nuovo anno, con
l’impazienza propria di chi non riesce a tacere il personale punto di
vista sul poeta del Rinascimento italiano e, con ogni probabilità, anche,
perché sollecitato dall’amicizia e dai rapporti personali, che lo
legavano tanto a Vittorini quanto a Pannunzio. Non è poi il caso di
sorvolare sul fatto che la casa editrice Einaudi, soltanto due anni prima,
ancora con la conduzione di Cesare Pavese, aveva pubblicato il
primo romanzo della Morante e sarebbe rimasta, in seguito, con alla
guida Luciano Foà, Elio Vittorini e poi Italo Calvino, la casa editrice di
Elsa, fino alla scomparsa della scrittrice. Dunque, insieme ragioni di
interesse personale, di amicizia e non di meno di opportunità inducono
Moravia a impiegare il proprio tempo e a impegnarsi in uno scritto
d’occasione, che sebbene condotto forzatamente, tuttavia risulta, comunque,
di notevole interesse critico-letterario, e molto illumina sulla
formazione del suo autore: se l’articolo sull’Ariosto offre palesemente
uno specimen sintomatico della modalità recensiva del narratore romano,
al contempo consente di reperire e ricostituire, sebbene per lacerti
e con un lato tasso inferenziale, alcune sue guide e princìpi o riferimenti
critico-estetici, emergenti in una sapiente intertestualità, abilmente
modulata quanto magistralmente dissimulata.
Polemico e in certo qual modo dal tono umoristico l’attacco: Moravia
rileva che non è propriamente il presente, di quel primissimo scorcio
del 1951, o più latamente di quegli anni ancora prossimi al secondo
conflitto mondiale, il momento adeguato e più “facile” per leggere un
poema come l’Orlando furioso. Tracciando una Erlebnis provocatoriamente
dittologica rileva che la lettura di un classico è connessa o con le
“mode” o con particolari “situazioni” storiche e sociali. Le ipotesi sui
momenti maggiormente adeguati per scoprire e gustare il Furioso sono
due: o da ragazzi (come ricorda di aver agito lui), per la semplice ragione
che da un lato l’“ignoranza” (probabilmente Moravia vuol lasciare
intuire l’inconsapevolezza propria della fanciullezza e dell’adolescenza),
e dall’altro il “candore” (che il riferimento sia ad un candore precisamente
delineato nel romanzo volteriano non è da escludere) possono
consentire un al di qua dalla storia, da intendersi con tutta evidenza
nella sua eventualità potenziale. La percezione della storia nella fanciullezza
o nell’adolescenza è tale solo in relazione a sé e non ad una
[ 8 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 539
comunità(e ai suoi eventi), più o meno vasta – nazionale o internazionale
–, perché l’esperienza, in quella fascia d’età, è esperienza della
propria storia di vita, in una distorsione che lascia la giovinezza in una
condizione naturalmente sospesa; perciò l’unica storia possibile è la
storia privata e individuale, o per meglio dire l’unica storia che conta è
la storia della trasformazione adolescenziale: in tal senso tutto il poema
ariostesco può fungere da paradosso, da allusione, da riferimento
non convenzionale al sé del giovane o dell’adolescente17. Nel Furioso
tutto è sospeso come in un’eterna età adolescenziale, tutto è al contempo
drammatico e ludico. Il principio sul quale si sostiene l’argomentazione
di Moravia è, in fondo, chiaro: la giovinezza è fuori dalla storia,
perché tutta ripiegata su di sé, ignora la storia dell’altro, degli altri.
L’altro periodo nel quale appare opportuno al romanziere tornare
a rileggere il Furioso, per goderne appieno, è “nei tempi di pace”, perché,
ricorrendo ad un lemma specifico dell’economia, sostiene che c’è
una “superproduzione” non tanto di beni o di prodotti, quanto delle
condizioni migliori e più proficue di lettura, ovvero si dispone “di
calma, di ozio, di contemplazione”, si è volti interamente al piacere
della “tranquilla onda della sua limpida ottava”. Nel crociano Breviario
di estetica pubblicato nel 1913, poi nel 1920, e successivamente per
le medesime edizioni Laterza nel 1931, Moravia aveva potuto leggere
esattamente l’espressione nucleare e formulare, che evidentemente si
era ben fissata nella sua memoria, ed era servita a definire lo stile poetico
ariostesco, così Croce: «la saggia esperienza della vita e la celia
verso le fole del passato, nella limpida ottava dell’Ariosto»18. E il sintagma
“onda tranquilla” era la colta citazione invertita e interpolata
della “tranquilla onda” nel madrigale IX attribuito all’Ariosto19.
17 Piace rimembrare, in relazione all’adolescenza come età perfetta per la lettura
del poema ariostesco, e dunque rispetto al rispecchiamento dell’esperienza adolescenziale,
una lezione-conversazione, svoltasi nel gennaio 2010, con il prof. Andrea
Gareffi, presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, durante la
quale emerse il tema-problema dell’età dei paladini interagenti nel Furioso, e la
conseguente attestazione del fatto incontrovertibile, secondo il professor Gareffi,
che soltanto l’adolescenza consente e acconsente all’errore e all’erranza di quei
paladini, e per tale ragione, concluse, il poema costituirebbe l’opera pienamente
adeguata all’adolescenza, anzi, in un’iperbolica constatazione, «soltanto da adolescenti
lo si potrebbe comprendere compiutamente». Insuperato e ricco di suggestioni
di lato interesse, anche per il presente lavoro, il saggio di Andrea Gareffi,
Figure dell’immaginario nell’”Orlando Furioso”, Roma, Bulzoni, 1984.
18 Benedetto Croce, Breviario di estetica. Quattro lezioni, Roma-Bari, G. Laterza,
1931, p. 36.
19 Sull’analisi del madrigale IX e sull’attribuzione a Ludovico Ariosto si con-
[ 9 ]
540 angelo fàvaro
Non rintraccia, pertanto, Moravia, in quel lontano presente, all’inizio
degli anni Cinquanta, il momento migliore, per «prendere l’Ariosto
e […] abbandonarsi alla tranquilla onda della sua limpida ottava»,
perché ci si trova in un’epoca di contrasti e di lacerazioni, generate
dalla situazione postbellica. E quando lascia trapelare dalle sue parole
questa idea, sta levando una non lieve polemica alla Konzeption von
Kultur (intesa secondo la più recente riflessione di Sebastian Jünger20),
come a indicare, a partire dal motivo incipitario del suo intervento,
che non è assolutamente – data la situazione storica presente – quello
il momento più appropriato per la ripubblicazione e per la rilettura
del Furioso. La sua considerazione non è rivolta solo al presente, storicamente
inteso, ma secondo una più eclettica concezione della letteratura
e della ricezione, alla attenta valutazione che sia conveniente raggiungere
delle particolari “condizioni di spirito”, per la fruizione di
opere letterarie, composte in differenti momenti storici: Moravia
esprime una perplessità21 e al contempo formula una proposta di lettura.
È come se osservasse che sussistono condizioni differenti di ricezione
e fruizione del testo letterario, e inoltre dichiara che alcune condizioni
appaiono migliori di altre, ma a ciò aggiunge, ulteriormente,
che si può ravvisare quasi una disposizione-indicazione autoriale di
lettura. E di conseguenza da giovani o in momenti di pace (o non postbellici
o di crisi) si può beneficiare maggiormente del Furioso, perché
in questi momenti si compie completamente il godimento del testo, e
chiarisce: «leggeremo l’Ariosto come, probabilmente, lui stesso voleva
essere letto: gustandone il classicismo così robusto e così sano». Di
“classicismo robusto e sano” Moravia doveva aver udito e letto22 proclami
lanciati a destra e a manca, durante tutto il fascismo, dalla cultura
ufficiale, e non di meno l’ascendenza semantica non poteva non
essere facilmente ricondotta a Carducci e a d’Annunzio; inoltre, gli
aggettivi “sano” e “robusto”, ancora nel 1951, avrebbero rimembrato
non solo agli intellettuali e ai letterati, ma anche ai lettori comuni, giudizi
di estetica, prodotti nell’ambito della propaganda culturale fascisulti
Ludovico Ariosto, Carmina, Rime, Satire, Erbolato, Lettere, in Opere, vol. III, a
c. di Mario Santoro, Torino, Utet, 1989.
20 Sebastian Jünger, Kognition, Kommunikation, Kultur: Aspekte integrativer
Theoriearbeit, Wiesbaden, Duv, 2002.
21 Sulla perplessità il romanziere concorda con il pensiero di Francesco De
Sanctis, Storia della Letteratura italiana, cit., pp. 81-82.
22 Ad esempio, sufficiente sfogliare le pagine di Armando Zamboni, La letteratura
italiana dal Risorgimento al fascismo, Torino, G. B. Paravia, 1937. Cursoriamente
poi si potrebbero citare le numerose riviste e i mensili da «Termini» a «Meridiani».
[ 10 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 541
sta. Tuttavia l’idea della robustezza del sano classicismo di Ariosto
proveniva anche dall’eco degli interventi di Francesco De Sanctis, resi
noti da Croce e dalle prime pubblicazioni laterziane a cura di Russo, e
almeno dal primo capitolo del volume di Bertoni23, noto e letto, anche
scolasticamente, fra gli anni Venti e gli anni Quaranta. Quanto finora
colto dall’inizio della “recensione” moraviana è evidentemente
espresso con un intento non velatamente provocatorio e di contestazione
rispetto all’operazione einaudiana, e più esattamente al progetto
di Vittorini. È il piacere della lettura come diletto e disimpegno che
Moravia vuole contrastare e contestare, almeno in questo momento
storico, nel quale, in questa direzione, si è più volte espresso, a partire
dal 1945: sufficiente rileggere gli interventi apparsi in «Città libera» o
su «Mercurio» proprio nel 194524. Non sembra proprio, allora, quello
in cui sta scrivendo, il momento per affidarsi
alle invenzioni inesauribili e mirabolanti ma purtuttavia così umane
della […] fanciullesca immaginazione [dell’Ariosto]; sorridendo con
lui, talvolta, del suo stesso sorriso di uomo adulto che sa di raccontare
favole e non si fa illusioni e tuttavia vorrebbe farsene e credere anche
lui nelle favole che racconta. Insomma [in un momento storico più
adeguato], leggeremmo l’Ariosto per il piacere di leggerlo.
Non è certamente, sembra ribadire il romanziere, il tempo delle
favole, ma della consapevolezza e della ricerca, dell’analisi delle ragioni
che hanno condotto l’Italia e gli italiani prima ad accogliere il fascismo
e poi a ritrovarsi a combattere nel secondo conflitto mondiale. A
chiarire cosa intenda per “fanciullesca immaginazione” e “per favole
prive tuttavia di illusioni”, giungono in aiuto almeno alcune suggestioni
dalla Storia della Letteratura italiana di Francesco De Sanctis25.
23 Giulio Bertoni, L’“Orlando furioso” e la Rinascenza a Ferrara, Modena, Orlandini,
1919, in particolare il capitolo: Il classicismo dell’Ariosto, pp. 2-26.
24 Alberto Moravia, Quaderno politico, «Città libera» n. 30, 6 settembre 1945,
p. 4; Idem, Quaderno politico, «Città libera» n. 31, 13 settembre 1945, p. 4; Idem, Impermeabilità
degli italiani, «Mercurio», n. 15, novembre 1945, pp. 23-26. Scrive inoltre,
in questi anni, fino alla firma del contratto con il «Corriere della Sera», per
«Nuova Europa», «La Nazione», «L’Europeo», «Il Tempo», «La Stampa».
25 Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura italiana, vol. II, Napoli, Morano,
1870, pp. 15-16: «L’Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice
aspetto, positivo e negativo. È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e
morali, un mondo puro dell’arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell’immaginazione
l’ideale della forma. L’autore vi si travaglia con la più grande serietà,
non ad altro inteso che a dare alla sua materia l’ultima perfezione, così nell’insieme
[ 11 ]
542 angelo fàvaro
In un’epoca di riedificazione intellettuale e sociale, morale, Moravia
lascia intendere, gramscianamente, che il Furioso comporti un interesse
da parte dei lettori volto piuttosto ad una letteratura puramente d’immaginazione
e della “forma”, una scrittura d’arte, quando, al contrario,
quel che occorrerebbe sarebbe necessariamente di volgere l’attenzione
verso una letteratura in grado di risvegliare le coscienze. E soltanto
cinque anni prima, aveva stigmatizzato duramente “i limiti formali e
di contenuto imposti all’arte da una società qualsiasi”, definendo così
concettualmente “il compromesso in letteratura”. Consultando nuovamente,
oggi, il suo saggio del 1946, Estremismo e letteratura26, nonostante
Moravia non lo citi mai, tuttavia vi aleggiano l’opera e la persona di
Ariosto come esempi negativi, secondo la lezione desanctisiana, particolarmente
quando Moravia insiste: «allo scrittore incombe il dovere di
essere estremo […]. Allora abbiamo la disperazione di Lucrezio o di
Leopardi, il cinismo di Machiavelli, l’angoscia degli esistenzialisti»27.
Non ha comunque intenzione di calcare la mano su tutto questo,
quindi, abbandonando la vis polemica, le argomentazioni si volgono in
un’altra direzione.
Il sorriso dell’Ariosto è la prova di un’ironia, spesso amara, ma che
evidentemente cela una sapienza, come leggiamo nel Settembrini,
quasi socratica, ed è questo che il romanziere va ad estrarre dalla lezione
del poeta, quasi opponendo alla pars destruens, propalata all’inizio,
una successiva pars costruens: se è vero che quel presente non favorisce
una lettura in linea con la intentio auctoris ariostesca, è comunque
imprescindibile mettere in conto, e nel vaglio di una analisi più
completa, che anche gli anni nei quali egli visse e scrisse non furono
anni tranquilli, né tranquillo fu lui, nonostante la nota espressione coniata
dalla famiglia d’Este di “Ludovico della tranquillità”28, modellata
sul Johannes tranquillitatum boccacciano, come ricorda il De Sanctis.
A questo punto il romanziere invita a meditare almeno su un fatto: si
potrebbe attivare una modalità di comprensione e di fruizione dell’Orlando
furioso “più adatta agli anni catastrofici” nei quali Moravia vive,
come ne’ più piccoli particolari. Il poeta non ci è più, ma ci è l’artista che continua
il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell’arte nella poesia.»
26 Alberto Moravia, Estremismo e letteratura, in Idem, L’uomo come fine, Milano,
Bompiani, 1964, pp. 73-77.
27 Ivi, p. 76-77.
28 Si veda inoltre Antonio Baldini, Ludovico della tranquillità: divagazioni ariostesche,
Zanichelli, Bologna, 1933, probabilmente noto a Moravia, per la conoscenza
personale del critico-poeta, accademico linceo, e dei suoi scritti.
[ 12 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 543
poiché anche Ariosto fu testimone di«tempi pochissimo tranquilli, alla
vigilia di rivolgimenti terribili e definitivi».
Esamina, immediatamente di seguito, che i moderni sanno considerare
e prendersi molto sul serio, e per tale ragione, quando si decreta
e ribadisce che il romanzo europeo e americano appare “decisamente
tetro”, la causa di tale tetraggine risiede nel fatto che si viva e si
sia vissuti in un “mondo in trasformazione, in un tempo di transizione”.
Da questa affermazione inerente alla trasformazione e alla transizione,
Moravia coglie l’occasione per riscattare l’odierna propostapratica
di lettura del Furioso, secondo il recente progetto editoriale einaudiano:
«anche il mondo dell’Ariosto era in via di trasformarsi,
anche i tempi dell’Ariosto erano tempi di transizione»29.
Volgendo il ragionamento in questa direzione, allora anche il periodo
nel quale si trovò ad operare il poeta ferrarese è realmente e
inequivocabilmente un periodo di transizione e di trasformazione,
dunque la lettura del poema, secondo questa distinzione, offre una
modalità differente di rapporto fra opera letteraria e condizione epocale
nella quale l’opera viene prodotta, in modo evidentemente non
speculare: «è qui che la lettura dell’Ariosto può soccorrere e far riflettere
», proprio sulla constatazione che«sarebbe molto difficile trovare
nell’Orlando Furioso la minima tetraggine.»
Moravia con una bella sintesi iconica e filmica paragona i tempi
dell’Ariosto ad un “vestibolo riccamente affrescato”: e noi, dal presente,
possiamo quasi visualizzare in qual modo«da una porta esce il passato
cavalleresco e medievale, tanto più vago quanto più leggendario;
da un’altra entra il mondo moderno, in vesti severe, positivo e incredulo.
» Nessuno affermerebbe con certezza che il poeta fosse pienamente
consapevole del cambiamento e del passaggio epocale, si affretta
a confermare il romanziere, che in quegli anni lavora alla stesura del
Conformista, ma, almeno, da un dato appare l’«impossibilità per lui di
cantare seriamente e semplicemente, come tanti suoi predecessori, “le
cortesie e le audaci imprese …”».
Anche in momenti storici dissonanti con il tono generale del poe-
29 Cfr. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 60: «Ludovico
e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l’uno e l’altro tra due
secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e si chiuse il
tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento […]».
E a proposito della transizione e della trasformazione, Moravia ha in mente altresì
le ulteriori parole che De Sanctis utilizza proprio nel capitolo sull’Ariosto della sua
Storia della Letteratura, p. 63.
[ 13 ]
544 angelo fàvaro
ma, il Furioso appare “leggibile”, perché veramente moderno e perciò
attuale: il capolavoro dell’Ariosto è giustamente celebre e motivatamente
studiato, ha vinto i secoli ed è stato capace, in grazia di una insuperabile
“perizia letteraria”, di restituire “l’incanto del mondo cavalleresco”.
Quel suo sorriso, da cui tutto metaforicamente deriva, è
indizio di un sincero distacco e di quel modus squisitamente ariostesco
di intendere la letteratura, che comprende altresì l’abilità di mantenersi
lontano dalla tetraggine dei tempi. Queste sono solo alcune delle
qualità che rendono piano e comprensibile l’Orlando furioso, senza doversi
attrezzare con particolari strumenti che dal presente aiutino a
decodificare quel passato cinquecentesco. Il poema è pienamente
“leggibile” nonostante la modernità postbellica. Si chiede a questo
punto Moravia, con tono non meno polemico: «Non so quanti dei nostri
romanzi contemporanei saranno leggibili allo stesso modo, con la
loro serietà così pedante, tra quattro o cinque secoli.» La risposta è
evidentemente: pochi o pochissimi.
Come avevano già operato De Sanctis, Pirandello e Croce, anche
Moravia non teme di tracciare un paragone fra Ariosto e Cervantes:
considerando metodologicamente che «in letteratura ripetere le cose
già dette non torna del tutto inutile: prima di tutto perché ogni generazione
ama sentirsele ridire, e poi perché si può sempre sperare di
aggiungere una sfumatura nuova al già detto.» Coglie, così, immediatamente
un’affinità fra “l’animo dell’Ariosto” e quello del Cervantes:
entrambi hanno un quid di fanciullesco e sono invaghiti di “avventure
e di azione, di bellezza e di eroismo”30. Entrambi, inoltre, avevano
avuto contezza, anche se in misura differente, che il mondo reale non
coincideva con il mondo dei loro sogni. Rileva, a questo punto, il recensore
che il concetto di “mondo reale” fino al Medioevo non aveva
subito tali sommovimenti da renderlo complesso e frammentato, di-
30 Nuovamente il riferimento iniziale, anche lessicale, è in Francesco De Sanctis,
Storia della letteratura italiana, cit. p. 88: «In questo mondo fanciullesco dell’immaginazione,
dove si rivela un così alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza
di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo
moderno. E perché questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e
naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro
in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l’uno nell’altro, sono la
rappresentazione artistica dell’un mondo con sópravi l’impronta dell’altro. In questa
fusione più sentita che pensata, e che fa dell’autore e della sua creazione un
solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza
del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro
più finito dell’immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua
ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.»
[ 14 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 545
verso dall’idea che ciascuno se ne sarebbe potuto fare. Anzi, si poteva
ancora idealizzare il “mondo reale”. A partire dai tempi di Ariosto e di
Cervantes questo processo di idealizzazione della realtà diviene inconcepibile:
«questo mondo reale si scuote e si spacca; non è più immobile
e non è più efficiente.» La sintesi storico-culturale proposta dal
romanziere romano è illuminante: la letteratura, che sia composta in
età medievale o rinascimentale, ha a che fare con la percezione del
reale e del mondo, percezione che varia al variare delle esperienze e
delle conoscenze degli uomini e delle donne, rispetto alla loro vita e al
loro rapporto con la storia; soltanto l’essere in connessione non con la
realtà, ma con la percezione epocale della realtà, consente allo scrittore
di far venire alla luce l’Opera da lui stabilita, nella complessa relazione
aspettuale di forma-contenuto-molteplicità. Se la percezione del
mondo è quella di un mondo che si scuote e si scinde, allora anche la
capacità degli uomini e delle donne di “oltrepassarlo e sublimarlo in
immaginazione” subisce “una scissione”, una sorta di spaccatura, o
un vero sisma. Il riferimento, e contrario, al Boccaccio31e alla sua percezione
della realtà è exemplum necessario e paradigmatico, ineludibile
per Moravia, e con queste parole chiarisce il pensiero:
Ad un Boccaccio era ancora possibile idealizzare la realtà, esser realistico
nell’immaginazione: tra la realtà e l’immaginazione non si frapponeva
il diaframma della nostalgia e dell’incredulità. Per l’Ariosto,
questo passaggio non è più possibile. Ne derivano, da un lato un distacco
maggiore tra la realtà e il sogno (il Boccaccio, anche quando
racconta dei Re Longobardi i degli eremiti della Tebaide, è reale) e
dall’altro il correttivo dell’ironia, come ad avvertire che l’autore si rende
conto di questo distacco.
Due conseguenze vengono riferite come causa dell’impossibilità di
idealizzare la realtà, o per meglio dire di considerare la percezione
della realtà facilmente e naturaliter idealizzabile: in primis una frattura
netta fra realtà e sogno, con la demarcazione sempre più profonda fra
l’una e l’altro, e in secundis il ricorso all’ironia agita consapevolmente
come logico esito del distacco.
Benedetto Croce aveva scritto che «L’Ariosto vela e smorza tutti i
particolari affetti che rappresenta, mercé la sua divina ironia»32 e ancor
31 Sull’argomento cfr. Angelo Favaro, Il Boccaccio di Alberto Moravia, in Boccaccio
2013, a c. di Paola Benigni, Roma, Edicampus, 2013, pp. 187-196.
32 Benedetto Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, seconda edizione riveduta
e con un’appendice, Bari, Laterza, 1929, p. 90.
[ 15 ]
546 angelo fàvaro
prima, avendo enucleato negativamente il ricorso all’ironia, anche De
Sanctis aveva assicurato: «L’ironia è non solo nella concezione fondamentale
del poema, ma negli accessori i cavallereschi.», fissando più
precisamente, quando si dispone a individuare le tre forme dello spirito
italiano nel Rinascimento in Ariosto, Machiavelli e Aretino, che
«l’Ariosto spinge l’immaginazione fino al punto che provoca l’ironia
»33. Se la realtà è la realtà, e la percezione della realtà muta col mutare
non tanto della realtà stessa ma dell’esperienza umana, allora
Ariosto si trova a vivere e a scrivere il suo poema proprio nel momento
nel quale non è più possibile boccaccianamente essere “realistico
nell’immaginazione”.
A questo punto, non senza la scorta e il sostegno di De Sanctis e di
Croce, forse dello stesso Bertoni, che aveva avvisato l’ironia divenire
nell’Ariosto indizio di una mutata realtà, contrariamente alla lezione
del Carducci34, Moravia originalmente propone, con una acutissima sintesi
fra storia, antropologia e psicologia, “il diaframma della nostalgia e
dell’incredulità” come condizione epocale fra la percezione della realtà
nel Medioevo e nell’età moderna. Qualche anno dopo, nel 1953, lavorando
al suo saggio su Boccaccio, diffondendosi verbosamente e un poco
speciosamente sul rapporto fra azione e contemplazione, si spingerà
a riconoscere che l’Ariosto è un contemplativo, ma “invaghito d’azione”,
e che può rimediare a questo “inconveniente” attraverso l’ironia35.
Ariosto appare, al nostro recensore-critico letterario, più lirico che
narratore. Ciò lo rende capace di servirsi di due differenti qualità tonali:
da un lato riesce “immaginoso”, capace di generare ed esprimersi
per immagini, che è facoltà propria dei poeti (orazianamente ut pictura
poesis), dall’altro risulta ad una lettura attenta “leggermente canzonatorio”,
che è in altri termini, secondo Moravia, la caratteristica
della poesia dell’Ariosto, ovvero l’ironia.
33 Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit. pp. 86, 269.
34 Di opposto avviso rispetto all’ironia fu Giosuè Carducci, Su l’Orlando Furioso,
Bologna, Zanichelli, 1911, p. 37: «E male fu scambiato per intenzionale ironia
quel fino spirito del tempo nuovo che scherza luminoso e tranquillo fra i pennoni
dei paladini e i veli delle dame del buon tempo antico. E male si giudica prosaicamente
ironico e volgarmente scettico quel tempo, nel quale anzi lo spirito italiano
[…] giunto al sommo dell’ascensione parve abbracciare, se mi si conceda l’immagine,
l’antichità e il medio evo, l’occidente e l’oriente, con tale una potente gioia di
amore espansivo che anche parve un momento volerli e poterli in quel suo divino
abbracciamento fondere e confondere in sé.»
35 Alberto Moravia, Boccaccio, in Idem, L’uomo come fine, Milano, Bompiani,
1964, p. 148.
[ 16 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 547
Quest’ironia dell’Ariosto meriterebbe un trattamento particolare, una
spiegazione molto più lunga di quanto non comporti questa breve nota.
Essa è il tratto distintivo, più sottile, più prezioso e più enigmatico
del poema. È la luce di consapevolezza realistica che ne illumina i più
riposti angoli. È lo stile stesso dell’Ariosto.
Se ad alcuni l’ironia era apparsa soltanto come un mezzo tecnico o
come una qualità secondaria, utilizzata al fine di conseguire l’armonia
o l’equilibrio nel poema, per Pirandello, invece, nel noto capitolo
dell’Umorismo dal titolo L’ironia cosmica nella poesia cavalleresca, diviene
“coscienza dell’irrealtà della propria creazione”36: perciò Ariosto è in
grado di padroneggiare e dominare non solo il genere letterario del
poema cavalleresco, ma anche l’argomento e la sua “meravigliosa fantasia”.
Riesce, in tale direzione, continua l’agrigentino (che sembra
essere precisamente “citato” da Calvino), a giungere, nella rappresentazione
di quel mondo cavalleresco, ad«una leggerezza, quasi di sogno,
che si ilara tutta d’una sottilissima ironia diffusa, che non rompe
mai l’incanto di questa o di quell’opera di magia rappresentata», ovvero
non rompe mai l’incanto «che opera la magia del suo stile»37. Lo
stile, per Pirandello che sta dissertando su Ariosto, è quel peculiare
elemento attraverso il quale si dà “coerenza estetica e verità fantastica”
al mondo cavalleresco, e nello stile si trama l’ironia del poeta, che
assolve a numerose funzioni. Coniando una sapida similitudine, paragona
l’ironia a «una sottilissima sega, che ha tanti denti, e anche quello
della satira, che morde un po’tutti, fino fino, sotto sotto, a cominciar
dal cardinale Ippolito, suo padrone.»38Aggiunge, rimarcando contro
chi nega la possibilità al contempo dell’ironia e dell’immedesimazione
con il mondo narrato, che: «Bisogna riconoscere l’una cosa e l’altra
– l’immedesimazione e l’ironia – poiché nell’accordo, se non sempre
perfetto quasi sempre però raggiunto, d’entrambe queste cose a prima
vista contrarie, sta […] il segreto dello stile ariostesco.»39 Con queste
parole è presentato dall’agrigentino quanto proposto all’inizio di una
36 «… per il poeta l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera
propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealtà
delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso
evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di sé
stesso che la propria vita consacra a giocare.»: Luigi Pirandello, L’umorismo, seconda
edizione aumentata, Firenze, Battistelli, 1920, p. 15.
37 Ivi, p. 81.
38 Ivi, p. 84.
39 Ivi, p. 89
[ 17 ]
548 angelo fàvaro
sequenza problematica e tutta interrogativa, nella quale aveva suggerito
l’ironia come “ingrediente” segreto dello stile dell’Ariosto:
Ma là dove il poeta rispetta istintivamente le condizioni serie dell’arte,
cessa l’ironia? riesce il poeta a perder la coscienza della irrealità della
sua creazione? e come s’immedesima egli con la sua materia? Questo è
il punto da chiarire e che richiede l’analisi più sottile. È qui il segreto
dello stile dell’Ariosto.40
È del tutto evidente che quando Moravia sostiene che l’ironia è «la
luce di consapevolezza realistica che illumina i più riposti angoli [del
Furioso]. È lo stile stesso dell’Ariosto.», non sta facendo altro che
omaggiare, parafrasandolo, il suo vero maestro, Pirandello appunto41.
E come Pirandello riporta il medesimo verso a sostegno della sua affermazione
«Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!». Avanza, dunque,
Moravia, sostenendo le sue argomentazioni ancora sul magistero pirandelliano,
e attesta che l’ironia è ovunque nel poema, fin «nella
40 Ivi, p. 80. Da ultimo su Pirandello e Ariosto si consulti il pregevole lavoro di Antonio
Saccone, Ariosto letto da Pirandello, «Studi Rinascimentali», 2004, 2, pp. 143-149.
41 Giova ripetere, in questa sede, quanto ebbe modo di esprimere precisamente
e opportunamente Giulio Ferroni, La vocazione a narrare di Moravia: vicino a
Morante e a Pasolini: «Si tratta di un realismo nel tempo dello svuotamento del realismo,
realismo che prende frutto dall’ostilità della realtà: in questo si dà certo una
continuità con la tradizione postnaturalistica, su un asse Dostoevskij-Pirandello,
che fa sorgere in primo piano personaggi prigionieri dell’errore e dell’illusione,
preda di ambizioni e desideri deviati o sproporzionati, abitati da un interno vizio
sociale. Per molti dei suoi personaggi si può pensare alle tante figure di “inetti”
della letteratura tra fine Ottocento e primo Novecento (da Andrea Sperelli a Corrado
Silla a Emilio Brentani a Mattia Pascal, per rimanere in ambito italiano): ma
verso i suoi “inetti” Moravia sembra mostrare un di più di aggressività, quasi di
ostilità. La sua scrittura nega in effetti ogni identificazione col personaggio: come
non può identificarsi con il mondo, pur nell’atto di osservarlo e decifrarlo in tutte
le sue pieghe, così non può sentire il personaggio come cosa propria, non può
suggerire nessuna corrente di simpatia verso di esso. Molto spesso del resto dai
loro dati caratteriali, i loro vizi e le loro virtù, i personaggi moraviani vengono
condotti ad assumere, esplicitamente o meno, l’aspetto di marionette: nella loro
meccanica gestualità si sente peraltro l’eco di quella linea letteraria Pirandello-
Bontempelli, che è stata ben determinante nella formazione dell’autore.» p. 59, in
Alberto Moravia e gli Amici, Atti del convegno, Sabaudia, 30 novembre 2010, Introduzione
e cura di Angelo Favaro, Edizioni Sinestesie, Avellino, 2011. Recentemente
apparso in volume, di grande interesse e necessario il saggio di Giulio Ferroni,
Trasparenza e dissolvenza: l’«Orlando furioso», in Francesco De Sanctis e la critica letteraria
moderna. Tra adesione e distacco, a c. di Rosa Giulio, Avellino, Edizioni Sinestesie,
2018, pp. 123-136. Ringrazio sentitamente i professori e amici Giulio Ferroni,
Andrea Gareffi, Alberto Granese e Rino Caputo per i suggerimenti e il necessario
confronto sul presente lavoro.
[ 18 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 549
struttura stessa del discorso ariostesco nel cui giro, evocazione e riflessione,
immaginazione e celia si correggono e si confondono secondo
un contrappunto oltremodo naturale, sapiente e leggero.»
Non stupisce che il recensore ponga l’accento con tanta enfasi, modalità
lontanissima dal suo stile, su questa forma espressiva e non stupisce
per una semplice constatazione: l’ironia è un sistema comunicativo
altamente intellettuale e propriamente umanistico, colto, raffinato,
che provoca un processo distanziante dall’oggetto, fino a congegnare
la possibilità di una visione della vita, dell’arte, della letteratura.
Moravia comprende tutto questo, ma tutto questo non lo riguarda in
quanto scrittore e letterato, non riesce ad essere quasi mai veramente
ironico, se non forse in qualche rapido passaggio, in alcuni romanzi, e
in qualche racconto.
Una nota tutta personale, inserita al centro dello scritto, consente al
recensore-critico di aggiungere una tessera non irrilevante al suo discorso:
«S’è detto che il mondo dell’Ariosto è quello stesso del Boccaccio
» scrive Moravia, ma, invero, qualche riga sopra non ha affermato
esattamente questo. Anzi, ha dichiarato qualcosa di molto differente:
la percezione del mondo per Boccaccio è diversa da quella di Ariosto.
Nell’ansia incoercibile di semplificare e di chiarire, di esprimere in sintesi
concetti articolati e che maggiore segmentazione speculativa richiederebbero,
nell’impellenza di ridurre, Moravia è meno chiaro e
molto meno semplice di quel che vorrebbe. Egli preferisce, così sostiene
nella recensione, Boccaccio ad Ariosto, perché l’uno è un vero narratore
con il quale si trova maggiormente a proprio agio; la lettura del
Decamerone è, per lui, più piacevole, impegnativa e appassionante;«con
l’Ariosto, invece, bisogna stare attenti, fare uno sforzo di immedesimazione,
ascoltare più la sua voce che le cose che dice, inseguire un
piacere mediato e riflesso.» La difficoltà è nel cogliere la carica ironica,
e se non si agisce in questo modo, avverte, il rischio è di lasciarsi trasportare
dalla musica delle ottave, senza riconoscere nulla e null’altro
che l’abile versificatore. Tuttavia, tanto nel Boccaccio quanto nell’Ariosto,
egli individuala capacità di ricomporre un “quadro riassuntivo”
della penisola, in due momenti storici “felici”: «Nell’Orlando, come
nel Decamerone, si ammirano, per l’ultima volta forse, la robustezza,
la bella salute, il perfetto equilibrio, l’intelligenza chiara e adulta,
la bellezza varia e dolce della civiltà italiana nel suo fiore.» Nel Decamerone
come nel Furioso, Moravia rintraccia, forse con un’affermazione
ad effetto e strenuamente retorica, quasi in stile e con un lessico
desanctisiano, nonostante l’azione temperante dell’avverbio “forse”,
il carattere restitutivo e civile dei due capolavori, con i quali si erano
[ 19 ]
550 angelo fàvaro
conclusi rispettivamente il Medioevo e il Rinascimento, facendoli assurgere
a modelli di una vera Epochenbewufltsein che è sempre anche
coscienza dei limiti di una Epochenschwelle.
Quel che sorprende e gradisce il nostro recensore-critico è la pienezza
e la purezza dei sentimenti, che vengono espressi nell’uno e
nell’altro capolavoro, ma che poco tempo dopo la loro composizione,
«le mortificazioni e le velleità propagandistiche della controriforma»
impediranno per sempre.
Soltanto nella parte conclusiva, compare la vera ragione dell’articolo:
la nuova edizione del Furioso che Einaudi ha affidato a Vittorini.
Viene da pensare che l’intero articolo avrebbe dovuto riguardare l’oggetto
libro, la sua curatela, probabilmente le scelte e i criteri editoriali
e filologici, citare l’introduzione del curatore, in modo conveniente e
confacente alla prassi della recensione, certificando una presentazione
dell’opera al pubblico di lettori della rivista, i quali avrebbero potuto
o voluto acquistare i tre tomi, o almeno riceverne informazioni. All’opposto
Moravia, da recensore-critico che è prima di ogni altra definizione
un artista e un narratore, coglie sensatamente l’occasione per parlare
della propria prospettiva e di un’idea che si è formata nella sua
mente, in modo del tutto singolare, anche a partire da letture e studi
vari, dell’Ariosto e del Furioso. La scrittura critica prevale in modo
spregiudicato e del tutto irregolare sulle esigenze della recensione e
della presentazione del nuovo volume, e il recensore si comporta da
critico che è maggiormente interessato a porre un problema di persistenza,
di adeguatezza, di stile dell’opera e delle sue qualità, piuttosto
che concepire e architettare le ragioni dell’acquisto o del possesso di
una nuova edizione. Si direbbe che agisca da scrittore professionista,
che intende comunicare, dalle colonne di una rivista, il suo sguardo e
le sue idee inerenti all’Ariosto e al suo poema.
L’articolo di Moravia sull’Ariosto e sul Furioso è una lezione breve
sulla scrittura, sospesa fra impegno della letteratura, libertà dell’immaginazione,
funzione della critica quando è affidata ad un romanziere.
Ricorrendo alle categorie segnalate da Zinato42, rispetto ai generi
del discorso critico, il testo che Moravia appronta e fa pubblicare ne «Il
Mondo» assume l’aspetto di un intervento breve di carattere latamente
critico; nonostante si scopra, nella parte conclusiva, proprio nell’ultimo
capoverso, l’occasionalità del lavoro; non si adegua, tuttavia, alla
normatività della recensione, indugiando, invece, sulla propria idea e
42 Emanuele Zinato, Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai
nostri giorni, Bologna, Carocci, 2010.
[ 20 ]
l’ironia dell’ariosto in un articolo di alberto moravia 551
mettendo consapevolmente al centro del discorso i caratteri valoriali
del testo ariostesco, con una verve argomentativa e con quel suo particolare
stile. O secondo l’insolita forma che lo scritto assume grazie al
fatto, come riconosce Angelo Guglielmi, che Moravia è stato un “efficace
saggista”; ciò è stato possibile perché si è educato «nel grande
cerchio della cultura laica europea, aiutato dalla piega utilitaristica
della sua intelligenza […], ha sempre potuto disporre di un’innata libertà
e spregiudicatezza mentale»43. E tali libertà e disinvoltura le cogliamo
financo nella conclusione. Rimembrando le illustrazioni del
Dorè, quelle della sua infanzia, e che ancora valgono sorprendentemente
a “narrare” iconicamente il Furioso, Moravia finalmente perviene
ad informare che il curatore, come del resto già è avvenuto per l’edizione
del Decamerone, «ha voluto invece commentare l’Orlando con
riproduzioni di particolari di pittori dell’epoca, in buona parte conterranei
dell’Ariosto.» Il romanziere-recensore-critico plaude alla scelta
di Vittorini. Definisce “sottile” e “piena di intelligenza” l’inserzione
delle immagini, anche se talvolta appaiono allusive ed esclusive. Vittorini
aveva chiarito le ragioni delle sue decisioni, tanto degli esclusi
quanto degli artisti inclusi, e Moravia a sua volta, invece, pone in discussione
il fatto che non ci sia un pittore come Raffaello, perché, a suo
modo di vedere, è «un pittore a cui l’Ariosto è molto vicino come modi
di sensibilità». L’assenza di Raffaello non è comprensibile, alla sensibilità
e alle cognizioni di Moravia, perché è il pittore che, pur non
possedendo “l’immaginazione dell’Ariosto”, tuttavia dimostra, allo
stesso modo del poeta, la medesima«facoltà adulta e gentile, tutta
umana e terrena, di rappresentare il reale». Vittorini aveva studiato un
apparato iconografico che ricostituisse “il realismo quattrocentesco
della poesia dell’Ariosto”, e a tal fine aveva scelto di riprodurre opere
di Ercole de Roberti, Francesco del Cossa, Cosmè Tura, Mantegna, Pisanello:
il sospetto, non del tutto infondato, induce a rinviare ad una
variazione interpretativa del poema in chiave latamente e secondo un
tono vagamente neo-realista. A questo punto, invece, Moravia restituisce
l’Ariosto al Rinascimento, e con la proposta di inserire immagini
di quadri o di particolari dall’opera di Raffaello, in contrasto con il
progetto di Vittorini, non fa che ribadire e rafforzare questa idea44. «Il
43 Angelo Guglielmi, Il romanzo e la realtà. Cronaca degli ultimi sessant’anni di
narrativa italiana, Milano, Bompiani, 2010, p. 175.
44 Non inappropriato ricordare che Alberto Moravia aveva scritto entusiasticamente
a Guglielmo Alberti, dalla Marlia il 4 ottobre 1933, informandolo di una
mostra, che si stava svolgendo a Ferrara e si sarebbe conclusa a fine ottobre, alle-
[ 21 ]
552 angelo fàvaro
commento figurativo di Vittorini mette piuttosto in luce gli aspetti
“ariosteschi” del contenuto di molti pittori dell’epoca», e non di Ariosto
stesso. Se quel “commento figurativo” costituisce un ausilio alla
comprensione del Furioso, orientata ad una determinata idea del messaggio,
al contempo, soltanto se lo si osserva quasi per contrasto, sembra
alludere Moravia polemicamente, esalta gli elementi fantastici,
che sono la singolarità caratteristica di Ariosto, non solo a confronto
con i suoi contemporanei, ma con i poeti di tutti i tempi.
Qualche anno dopo la pubblicazione dell’articolo, il romanziere si
era recato a visitare, nuovamente dagli anni Trenta, Ferrara e la Casa
dell’Ariosto, parva sed apta mihi, e aveva lasciato la sua firma sul registro,
il 23 luglio 1954. Era solo a gustarsi l’atmosfera semplice e austera
del luogo, così contrastante con quella del poema, ma anche tanto
coerente con la vita del poeta. Nessun’altra firma compare per quel
giorno sul registro dei visitatori della Casa45.
Angelo Fàvaro
Università di Tor Vergata
stita al Palazzo dei Diamanti, per commemorare il IV centenario dalla morte
dell’Ariosto: la mostra è sui maestri del Rinascimento. La notizia è in Alberto
Moravia, Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto. Lettere 1926-1940, Milano,
Bompiani, 2015, p. 193. Due, in particolare, furono le mostre organizzate, di
entrambe rimangono consultabili i cataloghi: Giuseppe Agnelli, Giuseppe Ravegnani,
Guida-Catalogo. Mostra Iconografica Ariostea che si tiene nella Casa del Poeta,
Ferrara, Premiata Tip. Sociale (Per Comitato Ferrarese per le Onoranze del IV Centenario
a Ludovico Ariosto), 1933. L’altro: Catalogo della esposizione della pittura ferrarese
del Rinascimento. Ferrara maggio-ottobre 1933, Venezia, Ferrari, 1933, in particolare
segnalo che il volume si compone di 230 pagine all’interno delle quali vengono
descritte 254 opere pittoriche. La mostra era stata un vero evento: per la prima
volta a Ferrara tornavano opere, composte fra la fine del Trecento e gli inizi del
Cinquecento, di artisti del luogo o che avevano lavorato per la corte; il direttore
della mostra, Nino Barbantini, aveva compiuto un’operazione culturale e civile
unica, inoltre grazie alla mostra si celebravano le origini di Ferrara. La mostra era
stata inaugurata dai principi di Piemonte il 7 maggio 1933. Non sarebbe del tutto
peregrino ritenere che questo catalogo abbia ispirato Vittorini nella scelta delle
immagini per il volume del Furioso Einaudi. Dalla visita a questa esposizione,
compose uno dei suoi saggi più significativi il noto storico dell’arte Roberto Longhi:
Officina ferrarese, Firenze, Le Edizioni d’Italia – Sansoni, 1934.
45 I l mio più sentito ringraziamento va al dottor Umberto Scopa, della Biblioteca
di Palazzo Bonacossi di Ferrara, che ha in custodia alcuni registri storici con le
firme dei visitatori del Museo di Casa Ariosto. Lo ringrazio per il tempo impiegato,
per la cura nella ricerca e per il reperimento, fra tanti nomi, della firma di Alberto
Moravia su una pagina di un registro, che mi è stata inviata in formato fotografico.
Nulla si è trovato invece nei registri degli anni Trenta.
[ 22 ]
ANTONIO LUCIO GIANNONE
Il «prismatico genio»: momenti della ricezione
letteraria di Leonardo nel Novecento
Oggetto del presente articolo è la ricezione di Leonardo da Vinci in alcuni momenti
della letteratura italiana del Novecento, a partire soprattutto dagli anni
Trenta fino agli anni Ottanta. In questo periodo all’immagine decadente-estetizzante
del sommo artista, tipica della fin de siècle, se ne sostituisce un’altra, assai
diversa e decisamente più moderna. Questa immagine emerge negli interventi
di alcuni dei maggiori poeti e prosatori del secolo scorso che qui si esaminano:
da Ungaretti a Gadda, da Sinisgalli a Montale, da Cecchi a Quasimodo, fino a
Italo Calvino.

The subject of this paper is the reception of Leonardo da Vinci in twentieth-century
Italian literature, especially from the 1930s to the 1980s. In this period, the
decadent and aesthetic image of the great artist – typical of the fin de siècle – was
replaced by another one, very different and definitely more modern. This image
comes out in the works of some of the greatest poets and prose writers of
the last century, who are examined here: from Ungaretti to Gadda, from Sinisgalli
to Montale, from Cecchi to Quasimodo, up to Italo Calvino.
Nel corso dei secoli, la figura di Leonardo da Vinci ha suscitato costantemente
l’interesse dei letterati italiani che lo hanno interpretato in
base ai gusti e alle tendenze delle varie epoche. Tra Otto e Novecento,
ad esempio, si andò affermando, in Italia ma un po’ in tutta Europa,
un’immagine del sommo artista caratterizzata da alcuni aspetti particolarmente
cari alla sensibilità di quel periodo, come l’ambiguità, il
senso del mistero, il titanismo, l’eccezionalità. Nacque così un vero e
proprio “mito” di Leonardo, che si diffuse soprattutto attraverso le
opere di Walter Pater e di Gabriele d’Annunzio, di Dmitrij Merežkovkij
e di Sâr Joséphin Peladan, di Edouard Schuré e di Angelo Conti, di
Dino Campana e di Giovanni Papini, come è stato ampiamente dimostrato
in un volume a cui si rimanda per questo specifico approfondi-
Autore: Università del Salento; prof. Ordinario; antoniolucio.giannone@unisalento.
it
554 antonio lucio giannone
mento1. Meno esplorati sono stati invece, finora, i decenni successivi,
che costituiscono l’oggetto del nostro articolo, durante i quali a quella
immagine, decadente-estetizzante tipica della fin de siècle, se ne sostituisce
una assai diversa e decisamente più moderna, in cui, fra l’altro,
accanto alla componente artistica trova il giusto posto anche quella
scientifica. La figura di Leonardo perde così definitivamente quell’alone
di mito, di magia, quasi di soprannaturale da cui era circondata e
assume connotati più realistici, pur restando immutata ovviamente la
convinzione della sua assoluta unicità. Quest’immagine si viene delineando
in Italia soprattutto dalla fine degli anni Trenta, allorché una
grande mostra dedicata al genio di Vinci, con la “scoperta” dell’inventore
e dello scienziato, impone un ripensamento globale della sua personalità.
Da allora, di lui si occupano alcuni tra i maggiori poeti e prosatori
italiani che prendono in esame i diversi aspetti della sua multiforme,
geniale attività. E, sorprendentemente, alcuni di essi, anche a
causa della loro formazione, rivolgono l’attenzione proprio all’aspetto
scientifico, quasi completamente trascurato in precedenza.
★ ★ ★
Uno dei primi a occuparsi di Leonardo, nel Novecento, è stato Giuseppe
Ungaretti, per il quale è stato costante motivo di riflessione.
Uno dei punti che egli affronta, sulla scia dell’interpretazione di Paul
Valéry, autore di vari scritti sul grande artista, fra i quali Introduction à
la méthode de Léonard da Vinci (1894), riguarda il tentativo, da parte di
Leonardo, di trovare un metodo di ricerca comune tra arte e scienza. I
primi riferimenti, nei saggi di Ungaretti, risalgono alla seconda metà
degli anni Venti e fondamentale, già da allora, nella sua interpretazione,
risulta appunto la mediazione del grande poeta francese. Non a
caso, questi riferimenti figurano proprio in articoli a lui dedicati, come
La rinomanza di Paul Valéry, del 1925, dove, a un certo punto, Ungaretti
scrive che «il poeta di Charmes […] non cela che dal Petrarca, dal
Machiavelli, da Leonardo gli vengono i doni più grandi»2. E uno di
questi doni è l’idea leonardesca «che il nostro corpo sia fonte inesauri-
1 Ci riferiamo a Sandra Migliore, Tra Hermes e Prometeo. Il mito di Leonardo nel
decadentismo europeo Firenze, Olschki, 1994. Al momento della correzione delle
bozze, veniamo a conoscenza della recentissima pubblicazione di un fascicolo della
«Rivista di letteratura italiana», XXXVII (2019), n. 2, interamente dedicato a Leonardo.
La seconda sezione, Gli scrittori e Leonardo, contiene articoli sull’interpretazione
dell’artista da parte di d’Annunzio, Conti, Campana, Papini e Calvino.
2 Giuseppe Ungaretti, La rinomanza di Paul Valéry, in Id., Vita d’un uomo. Saggi
[ 2 ]
il «prismatico genio» 555
bile di studio, che nella contemplazione della natura vada ricercato
ogni stimolo intellettuale e ogni legge»3.
Anche la fusione di arte e scienza, che egli aveva attuato in maniera
mirabile, è un concetto, ripreso da Valéry, che ritorna altre volte in
Ungaretti. Infatti, in un articolo del 1927, dal titolo Commemorazione del
futurismo, a proposito del movimento marinettiano, scrive: «È mancato
forse al futurismo, un uomo, un Leonardo, il quale, non ignorando
nulla della scienza e dell’arte del suo tempo, fosse in grado di avviare
l’arte, di pari passo, su una strada parallela a quella dov’è in viaggio
la scienza»4.
Leonardo, inoltre, per Ungaretti, rappresenta uno dei vertici del
Rinascimento, in cui cambia totalmente la concezione medievale della
vita e dell’universo. Nell’articolo Naufragio senza fine, del 1931, infatti,
dopo aver accennato alla nozione del mondo che avevano Dante e
Petrarca, osserva:
E quando verrà Leonardo, e penserà che la metafora sta tra la facezia e
la profezia […] e ridurrà l’idea che del mistero possono farsi gli uomini
a una semplice figura rettorica, sarà perché sulla terra era ricomparso
in carne ed ossa il diavolo e bruciavano le streghe? Era aperto il Rinascimento,
e di già come aggravate la trasformazione dell’uomo e la
nozione del mondo apparse al Petrarca5.
In Introduzione a «Eupalino», del 1932, sostiene ancora che Valéry
«ostinatamente c’invita e c’inizia a capire l’opera»6 di Leonardo, dandogli
così atto di avere rappresentato con i suoi scritti, una svolta, in
senso moderno, nell’interpretazione del genio toscano. Nel tardo Discorso
per Valéry, del 1961, riprende infine il concetto dell’importanza
del corpo, per Leonardo e per il poeta francese, ai fini dell’avanzamento
delle conoscenze e osserva: «E quell’accogliere la lezione di
Leonardo secondo la quale nessuno spirito possa effettuare immagini
e avere conoscenze di sé e dell’universo se non in stretto concorso con
il proprio corpo, non è già riconciliarsi con la poesia?»7. Poco prima
aveva citato l’Introduction à la méthode de Léonard da Vinci e ritornando
e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori,
19823, p. 103.
3 Ivi, p. 101.
4 G. Ungaretti, Commemorazione del futurismo, ivi, p. 172.
5 Id., Naufragio senza fine (Risposta a un’inchiesta sulla poesia), ivi, p. 262.
6 Id., Introduzione a «Eupalino», ivi, p. 113.
7 Id., Discorso per Valéry, ivi, p. 635.
[ 3 ]
556 antonio lucio giannone
ancora sulla possibilità dell’esistenza di un metodo comune tra arte e
scienza, scrive: «Studiare Leonardo è per Valéry coordinare sondaggi
eseguiti allo scopo di ritrovare l’origine comune di tutte le operazioni
dello spirito, la legge universale della vita dello spirito. È la ricerca
d’un metodo. La scienza e l’arte dunque avrebbero un’origine
comune?»8.
★ ★ ★
Ma, al di là delle riflessioni ungarettiane degli anni Venti e Trenta,
una vera e propria rilettura novecentesca, di gusto moderno, di Leonardo
comincia forse in Italia soltanto nel 1939, anno in cui a Milano
si svolse una grande Mostra leonardesca, che ebbe «un carattere eccezionale,
per la complessità del tema affrontato e per le congiunture
storico-politiche»9. Quella, infatti, fu anche un’occasione che ebbe il
regime per esaltare il “genio italiano” e il fascismo. «Con un’ottica
distorta – è stato osservato – Leonardo era considerato l’antesignano
dell’“uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso duce»10. La mostra
allestita sui due piani del Palazzo dell’Arte del capoluogo lombardo,
attraverso venticinque sale, intendeva far conoscere non solo il
sommo artista, ma anche lo scienziato e l’inventore, come era provato
ormai dai suoi manoscritti, «fitti di annotazioni, di disegni tecnici e
anatomici, sistematicamente pubblicati dal 1880»11. Per la prima volta
vennero esposti macchine e modelli leonardeschi ricavati proprio dai
manoscritti, che colpirono fortemente l’immaginazione dei visitatori.
E la mostra rappresentò per l’appunto «il momento fondante, nonostante
qualche eccesso mitografico, della riscoperta di Leonardo
scienziato»12.
In quella occasione, Carlo Emilio Gadda pubblicò, sul numero del
16 agosto 1939 della «Nuova Antologia», una lunga, memorabile recensione
della mostra, poi compresa nel volume Le meraviglie d’Italia,
che costituisce «forse la maggiore eredità lasciata dalla manifestazione
8 Ivi, p. 634.
9 Roberto Cara, La mostra di Leonardo da Vinci a Milano tra arte, scienza e politica
(1939), in All’origine delle grandi mostre in Italia (1933-1940). Storia dell’arte e storiografia
tra divulgazione di massa e propaganda, a cura di Marcello Toffanello, Mantova,
Il Rio Edizioni, 2017. Allo studio di Cara si rimanda per un’accurata ricostruzione
di questo avvenimento.
10 Ivi, p. 138.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 160.
[ 4 ]
il «prismatico genio» 557
meneghina»13. Fin dall’inizio, Gadda non nasconde il suo stupore, la
sua meraviglia di fronte a tanta bellezza e genialità:
Avvicinare Leonardo! Ci ritroviamo, davanti a lui, come alla sorgente
stessa del pensiero. Qui la nativa acuità della mente si dà liberissima
dentro la selva di tutte le cose apparite, dentro la spera di tutti i «phaenomena
»: a percepire, a interpretare, a computare, a ritrarre, a profittare
per «li òmini» del profitto di ragione e di verità14.
Poi passa puntualmente in rassegna le venticinque sale, descrivendo
e commentando, a suo modo ovviamente, con la genialità e l’inventività
linguistica che gli erano proprie, i materiali esposti. Incomincia
quindi dalla sala dell’iconografia vinciana e da quella dei documenti
e dei luoghi dove Leonardo visse e operò (la Firenze medicea, la
Milano sforzesca, la Francia di Ludovico XII e di Francesco I), per
passare alla sala dedicata alla sua «biblioteca», che «ci dà – scrive Gadda
– brividi di delizia»15. Successivamente percorre, con particolare
attenzione, gli spazi riservati alle ricerche leonardesche nel campo
delle maggiori discipline scientifiche: astronomia, matematica e geografia,
idraulica, cartografia, biologia, botanica, anatomia, ottica e prospettiva,
acustica e musica, meccanica, architettura navale. Queste
sale, scrive Gadda, «esibiscono copia immensa di disegni e modelli, di
vividi espunti del pensiero annotato»16, e così commenta “incantato”:
«Leggiamo e guardiamo in una sorta d’incanto, verso tutte le direzioni
della prassi, della conoscenza, del mestiere, del metodo»17.
Allo stesso modo, non manca di esprimere la sua ammirazione nei
confronti del disegnatore:
Leonardo è soprattutto un meraviglioso disegnatore: tutti sanno. E disegnava,
del mondo che gli è così nitidamente apparito, ogni forma e
13 Ivi, p. 153.
14 Carlo Emilio Gadda, La Mostra leonardesca, in Id., Le meraviglie d’Italia. Gli
anni, Torino, Einaudi, 1964, p. 211; poi in Id., Saggi giornali favole e altri scritti I, a
cura di Liliana Orlando, Clelia Martignoni, Dante Isella, in Opere, edizione
diretta da D. Isella, Milano, Garzanti, 1991, pp. 401-418. Vd. in proposito la Nota
ai testi di L. Orlando, ivi, pp. 1261-1295:1282]. Su questo scritto cfr. anche Pierpaolo
Antonello, Leonardo, in Gadda Pocket Encyclopedia. Special Supplement to «The
Edinburgh Journal of Gadda Studies», 2004, n. 2; http://www.arts.ed.ac.uk/italian/
gadda/.
15 C. E. Gadda, La Mostra leonardesca, in Id., Le meraviglie d’Italia. Gli anni, cit.,
p. 218.
16 Ivi, p. 224.
17 Ibidem.
[ 5 ]
558 antonio lucio giannone
parvenza: fiori, angeli, visceri, paesi, torri, farfalle, macchine, uomini
in rissa e coagulo e cataratta di cavalieri ad Anghiari, e la Madonna
sotto la stillante rupe, e il volto del Cristo18.
Nel corso del lungo articolo, che qui è impossibile ovviamente ripercorrere
in tutti i suoi momenti, Gadda si sofferma e illustra alcune
invenzioni e riporta spesso frasi e brani tratti dai manoscritti. A proposito
della scrittura leonardesca, ne mette in rilievo la prodigiosa, innata
qualità:
Stupiamo noi una così giovanile aderenza all’obbietto, al fatto; un così
stupito amplesso della natura: e la innocente sillaba, quasi d’un bimbo,
nel tempio, che proferisca verità eterne, ignote ai dottori. Sì, certa
modalità infantile onde il pensiero di Leonardo si estrinseca, è l’infanzia
stessa dell’arte: (nel senso di tecnica). Vi ha una sua parte il secolo,
ed è poi necessariamente ingenuo quell’appunto che stendiamo per
memoria, e quasi nel segreto. Ma una tal qualità della frase è legata,
credo, al momento più lucidamente euristico del pensiero, è la limpidezza
dell’acqua nella sua fonte. Nessuna pseudo-organizzazione del
pensiero: nessuna messinscena sistematica. Il costoso addobbo sistematico,
a cui tanta gente, e anche di prim’ordine, dedica tanto clamorosa
e tanto inane fatica, è perfettamente sconosciuto all’italiano Leonardo19.
Alla fine, si sofferma sulle opere d’arte collocate nelle ultime sale,
insieme a quelle del Verrocchio, il suo maestro, degli allievi, dei copisti.
Nota l’assenza di alcuni capolavori, conservati al Louvre (dalla
Gioconda alla Vergine, Sant’Anna e il Bimbo, alla Vergine delle Rocce), e
in altri musei stranieri, mentre «delle pinacoteche italiane – scrive –
c’è tutto»20. E comunque – osserva – si tratta pur sempre di «una sì
stupefacente raccolta, quale credo arduo pervenire ad aver sott’occhio
in nessuna occasione della vita»21. Tra i dipinti esposti lo colpisce
«il celeberrimo Battista»22, del quale dà una sorprendente, imprevedibile
definizione: «l’equivoco e dulcoroso pollastrone che segnerebbe
il culmine del processo astrattivo, platonizzante del divino
Leonardo»23.
18 Ivi, p. 222.
19 Ivi, p. 223.
20 Ivi, p. 229.
21 Ibidem.
22 Ivi, p. 228.
23 Ibidem.
[ 6 ]
il «prismatico genio» 559
Tra i letterati che si occuparono di questa grande mostra, che peraltro
venne criticata dal maggior critico d’arte italiano del Novecento,
Roberto Longhi, che la definì addirittura «abominevole»24, figura pure
un altro scrittore-ingegnere come Gadda, il lucano Leonardo Sinisgalli,
anch’egli particolarmente sensibile, et pour cause, all’aspetto scientifico
dell’attività di Leonardo da Vinci. In un breve articolo del 1938,
dal titolo Note vinciane minori, in cui preannunciava la rassegna leonardesca,
già in preparazione, Sinisgalli ricordava all’inizio la visita
da lui fatta qualche anno prima, insieme al grande architetto francese
Le Corbusier, alla Mostra dell’Aeronautica, allestita sempre nel Palazzo
dell’Arte di Milano nel 1934, nella quale erano già esposti gli schizzi
di Leonardo, tratti dal Codice sul volo degli uccelli. Ebbene,
Le Corbusier era turbato “esasperato” davanti al mistero di quei segni
e di quella scrittura mancina, che gremivano le pagine del più meraviglioso
documento dell’umana intelligenza e pazienza. Leonardo, che
disegna macchine ed uccelli, monumenti e fortezze con la stessa curiosità,
la stessa astuzia con cui risolve i corpi in “chiaroscuro”, con la
magia che gli permise di rendere materiale quel che il volto umano ha
di più ineffabile, lo sguardo e il sorriso25.
E più avanti:
Perché non sappiamo ancora immaginare un genio diverso da lui che
possa fare al cielo tanta invidia. Nessuno più di lui ha saputo farsi
un’arma della solitudine e una muraglia, nessuno ha saputo ridurre al
minimo lo sperpero dei sensi e dell’intelligenza, ritrovare in ogni attimo
della vita una attenzione così desta26.
E nella mostra che si andava preparando – aggiungeva – «la presenza
superba di questo genio dell’“invenzione” e della “misura”
avrà una documentazione esauriente per i profani e per gli iniziati»27.
Ma Sinisgalli tornerà altre volte su Leonardo, che esercita su di lui
un’indubbia suggestione proprio a causa dei duplici interessi dell’ingegnere-
poeta lucano, la formazione scientifica, da un lato, e la passione
per l’arte e la letteratura, dall’altro. Ad esempio, nel volume Furor
24 I l giudizio di Longhi è riportato in R. Cara, La mostra di Leonardo da Vinci a
Milano tra arte, scienza e politica (1939), cit., p. 153.
25 Leonardo Sinisgalli, Note vinciane minori, «Sapere», IV (1938), fasc. 95, p.
419.
26 Ibidem.
27 Ibidem.
[ 7 ]
560 antonio lucio giannone
mathematicus, figurano due interventi a lui dedicati. Nel primo, dal titolo
Leonardo da Vinci e il volo degli uccelli, ritorna su quei disegni che
avevano tanto colpito lui e Le Corbusier in occasione della visita alla
Mostra dell’Aeronautica. Qui prende in esame le note del Codice Atlantico
e del Codice G riguardanti il volo degli uccelli stese a più riprese:
nel 1483, nel 1505 e nel 1515. All’inizio però riflette su quello che
per Leonardo rappresentava il cielo, che per lui non è simbolo del metafisico,
del trascendente. Non a caso, la parte del cielo che lo ha interessato
di più – sostiene Sinisgalli – è «la parte che sta al di qua dell’azzurro
[…] dove c’è aria, nubi e la nazione degli uccelli. A lui dunque
– continua ancora – non premeva l’azzurro del cielo, né il di là dell’azzurro
dov’è l’orrendo dominio infinito»28. Poi si intrattiene sui progetti
leonardeschi di paracadute, di elicottero e di altri tipi di macchine
volanti con i quali egli «preparava l’animo al grande giorno»29 in cui
l’uomo avrebbe potuto volare. Ma il messaggio che ha voluto lanciare,
secondo Sinisgalli, è che «l’uomo deve farsi un’anima da uccello, sentirsi,
come gli uccelli, le ali attaccate al cuore»30. Leonardo, da lui definito
«meccanico intransigente»31, a suo avviso, «non sospetta un mistero
(anche quando taglia a pezzi i cadaveri e gli uccelli), non sospetta
la presenza di un’anima»32.
L’altro scritto, compreso in Furor mathematicus, è intitolato Poetica
di Leonardo. Qui Sinisgalli contesta l’interpretazione di Paul Valéry che
«volle costringere la sregolatezza di Leonardo – scrive – a un metodo,
volle costringere la mente di Leonardo a un’attenzione perpetua, una
attenzione senza fine»33, senza tener conto del riposo di cui pure aveva
bisogno:
L’attenzione di Leonardo fu rivolta a scoprire, a indagare, a coordinare
alcuni fenomeni tipici della persona poetica. Si potrebbe dire ch’egli ci
diede i primi suggerimenti per comporre una fisiologia del poeta. Capì
innanzitutto la fulmineità dell’atto creativo. Troppi eventi nella natura
e nell’intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia
enorme, di energia animale e cosmica che distruggono la cosa per
creare l’immagine. Ci sono gesti istintivi di difesa e di offesa dai quali
28 L. Sinisgalli, Leonardo da Vinci e il volo degli uccelli, in Id., Furor mathematicus,
Milano, Mondadori, 1950, p. 33.
29 Ivi, p. 35.
30 Ibidem.
31 Ivi, p. 38.
32 Ibidem.
33 L. Sinisgalli, Poetica di Leonardo, ivi, p. 53.
[ 8 ]
il «prismatico genio» 561
è assolutamente esclusa la coscienza. La coscienza, se intervenisse, ritarderebbe,
sia pure di un attimo, quel gesto che spesso ci salva dalla
morte. Prima conseguenza, dunque: Leonardo non sopravvalutava la
presenza dell’anima nel corpo. L’anima, con le sue virtù, è un meccanismo
troppo torbido, troppo complicato, troppo lento. Non è una macchina
semplice. I suoi interventi possono essere catastrofici34.
In questo brano, insomma, Sinisgalli conferma la sua interpretazione
presente nell’altro articolo, e cioè la prevalenza data da Leonardo
alle qualità fisiche, corporee, rispetto a quelle puramente spirituali. Da
qui la sua «eresia». Così infatti precisa:
L’eresia di Leonardo è tutta qui, nell’aver invertito i gradi della gerarchia.
Noi siamo ancora impreparati a capire pienamente questa verità.
Secoli e secoli di indagini ci hanno fatto trascurare la grandiosa sfera
delle nostre attitudini fisiche. Noi ci siamo disprezzati come animali, e
ci siamo venduti come angeli. Nessuno ha sospettato che Lucifero era
veramente dèmone perché era tutto luce, tutta intelligenza. Lucifero
non poteva che distruggere. Si può creare qualcosa senza la partecipazione
del nostro corpo?
Leonardo ha precisato come meglio ha potuto gli attributi fisici della
persona poetica: lo scatto, l’impeto, tutte le facoltà di presentimento,
tutta la gamma delle soluzioni irriflesse. Ha capito che soltanto l’intelligenza
del corpo può abolire anche il minimo ritardo di registrazione
di tutta l’immensa vita dell’universo in sussulto. Il poeta è innanzi tutto
uno strumento della natura, e ne amplifica i moti in anticipo sul
pensiero, che soltanto dopo potrà legiferare. Bisogna dunque rifare sul
corpo una summa di esperienze almeno pari a quelle raccolte sulla natura
di Dio e sulle operazioni dell’intelletto. Il corpo non è dotato soltanto
di estensione e movimento, è dotato di intelligenza. Bisogna rivedere
tutte le attribuzioni delle nostre facoltà35.
E poi conclude: «Leonardo non poteva lasciarci altro che una fisica
(una fisica perfino della pittura), come i poeti, i grandi poeti, non ci
lasciano che una grammatica (una fisica delle parole)»36.
★ ★ ★
Un altro momento fondamentale per la fortuna di Leonardo nel
Novecento è rappresentato dal 1952. Quell’anno ricorreva il cinque-
34 Ivi, p. 54.
35 Ibidem.
36 Ibidem.
[ 9 ]
562 antonio lucio giannone
centesimo anniversario della nascita e il 15 aprile, infatti, incominciarono
a Vinci le celebrazioni ufficiali per l’importante ricorrenza. Tra i
presenti a quell’evento, nel borgo toscano, c’era un cronista d’eccezione,
Eugenio Montale, allora redattore del «Corriere della Sera», dove
il giorno dopo uscì appunto il suo “pezzo”, dal titolo A Vinci nella casa
di Leonardo. Un “giornalista” come Montale ovviamente non poteva
limitarsi a fare la semplice cronaca della giornata e infatti la arricchisce
con le sue ironiche e a volte pungenti osservazioni, non tralasciando
nemmeno di raccontare gustosi aneddoti, di riferire episodi curiosi.
Inizialmente accenna, ad esempio, al rapporto controverso, difficile
tra il «prismatico genio» (così lo definisce) e Firenze, che confermò nei
secoli, secondo Montale, la «diffidenza» che Lorenzo il Magnifico ebbe
nei confronti del giovane Leonardo:
Leonardo fu un toscano di mente universale quando la Toscana era
una culla di dèi; ma quando la figura di lui, divenuta leggendaria,
spaziò nelle regioni delle favole e uscì dalle nubi, mutata in un personaggio
che sta tra il dottor Faust e il demogorgone di Shelley; quando
si cominciò a vedere in Leonardo un Dante con il cervello di un Platone
e le qualità… accessorie di un Michelangelo e di un Galileo, e quando
infine entrarono nella mischia il dottor Freud ed ogni sorta di
scienziati e di scientisti, Firenze se non proprio tutta la Toscana, ebbe
l’aria di volgere le spalle al demiurgico genio nato a Vinci il 15 aprile
145237.
Poi descrive la «modesta casipola» di Anchiano, frazione di Vinci,
dove il «prodigioso fanciullo» ebbe i natali e dove – scrive – «catturando
lucertole, grilli ed anguille, s’iniziò – lui, uomo senza lettere – allo
studio della filosofia naturale»38. E in questo brano si può notare quasi
un’autocitazione da alcuni versi de I limoni («… dove in pozzanghere
/ mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla»39).
Ma anche più avanti, nell’articolo, compare un altro animale che fa
parte del bestiario poetico montaliano ed è quando scrive: «Un tempo,
la casa di Leonardo, reduce da Milano, fu protetta dagli intrusi, qui, a
Firenze, da un porcospino arrabbiato»40, che rimanda a «i porcospini /
37 Eugenio Montale, A Vinci nella casa di Leonardo, in Id., Il secondo mestiere.
Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1392.
38 Ivi, p. 1393.
39 E. Montale, I limoni, Ossi di seppia, in Id., Tutte le poesie, a cura di Giorgio
Zampa, Milano, Mondadori, 19978, p. 11.
40 Id., A Vinci nella casa di Leonardo, cit., p. 1395.
[ 10 ]
il «prismatico genio» 563
s’abbeverano a un filo di pietà»41, dell’ultimo verso di Notizie dall’Amiata.
Dopo aver riferito dei discorsi ufficiali pronunciati quel giorno dalle
autorità presenti, tra i quali figuravano il presidente della Repubblica,
Luigi Einaudi, e il capo del Governo, Alcide De Gasperi, Montale
si sofferma sulla tappa finale della cerimonia che ebbe luogo a Firenze
dove venne inaugurata una mostra di disegni e di autografi alla Biblioteca
Laurenziana. A questo punto, il poeta riprende il tema dei
rapporti tra il capoluogo toscano e Leonardo, tema nel quale non è
difficile intravedere una componente autobiografica, e scrive:
E se anche la Firenze d’oggi – che resta fedele al titanismo di Michelangelo
fino alla parodia di certi recenti artisti e scrittori – non possa pienamente
riconoscersi in lui, Firenze cosmopolita rende ormai omaggio
al mito d’un Leonardo platonico ed universale, all’enigma d’un artista
che dipinse piuttosto divinità e chimere che uomini del suo tempo42.
Anche Emilio Cecchi, nel 1952, intervenne su Leonardo con un
lungo e articolato saggio riguardante specificamente la sua attività
artistica, dal titolo Considerazioni su Leonardo, apparso sulla rivista «Lo
Smeraldo». Cecchi delinea un ritratto del sommo pittore, di gusto e
sensibilità moderna, anzi modernista. Non a caso, parte da una auctoritas
indiscussa in questo campo, Baudelaire, e da una sua lirica famosa,
Les Phares, tratta da Les fleurs du mal, nella quale il grande poeta
francese «rievoca ed interpreta il mondo leonardesco, – scrive Cecchi
– con una intensità visionaria e una esattezza d’intonazione critica
che, è lecito affermare, non erano state lontanamente concepibili, da
quando l’Epifania, la Vergine delle rocce, la Gioconda e la Santa Anna furono
dipinte»43. In quella lirica infatti, in cui rievoca con fulminanti
definizioni alcuni grandi artisti, «egli presenta in maniera diretta la
figurazione nella quale, secondo lui, è traducibile l’essenza della loro
opera»44. Ecco i versi, riguardanti Leonardo, della lirica di Baudelaire
citati da Cecchi:
Léonard de Vinci, miroir profond et sombre,
Où des anges charmants, avec un doux souris
41 Id., Notizie dall’Amiata, Le occasioni, in Tutte le poesie, cit., p. 192.
42 Ibidem.
43 Emilio Cecchi, Considerazioni su Leonardo, «Lo Smeraldo. Rivista letteraria e
di cultura», VI (1952), n. 1, p. 3.
44 Ivi, p. 4.
[ 11 ]
564 antonio lucio giannone
Tout chargé de mystère, apparaissent à l’ombre
Des glaciers et des pins qui ferment leur pays.
«Con un breve inciso: – commenta lo scrittore – miroir profond et
sombre, Baudelaire costituì criticamente la personalità di Leonardo sopra
un piano diverso»45 rispetto a tutte le precedenti interpretazioni. E
anche Cecchi, partendo da qui, intende toccare nel suo saggio qualche
aspetto particolare dell’arte e della fortuna leonardesca che lo interessa
in special modo, superando la formula di «perfetta imitazione del
vero»46 che ne aveva dato la critica a cominciare dalla precettistica naturalistica
e accademica del Rinascimento. Così passa in rassegna alcune
tappe dell’attività artistica di Leonardo, incominciando dalla
prima fase nella quale nella sua pittura «con stacco deciso dalla direzione
lineare si inizia quella forma chiaroscurale e luministica che, in
modi affatto nuovi, rapidamente egli portò alla intensità e complessità
della Vergine delle rocce»47. Cecchi storicizza cioè la sua esperienza pittorica
a Firenze, collocandola tra l’arte lineare di Donatello e del Pollaiuolo
e quella del giovane Michelangelo e, a proposito del periodo
fiorentino, così osserva: «se pur scarsissime in numero, di mano di
Leonardo, esistono alcune fra le massime opere che, da che mondo è
mondo, furono create dall’ingegno umano»48.
Più avanti si sofferma sull’Ultima Cena, che mette a confronto con
dipinti di pittori dell’epoca aventi lo stesso soggetto, facendone notare
le differenze:
Ciò nonostante, nella Cena, egli effettua una quantità di semplificazioni.
La tavola non è più a ferro di cavallo come nel Ghirlandaio, ed assai
sveltita e alleggerita, nella massa, nei drappeggi e nel vasellame […]
con l’effetto che gli apostoli, dei quali parecchi si sono alzati in piedi,
risultano aggruppati più strettamente, assumono maggior statura; né
meschinamente rimangono dispersi e schiacciati come nel Ghirlandaio;
o murati vivi, come nella Cena del Castagno, dentro un prezioso
carcere dalle pareti a specchi di marmi variegati, il cui lustro risalto
neutralizza quello delle figure.
Il mondo esterno non è respinto ed escluso, come dal policromo frigidario
di Andrea del Castagno. Né viene suggerito per mero ornamento,
come dal Ghirlandaio49.
45 Ivi, p. 5.
46 Ibidem.
47 Ivi, p. 6.
48 Ivi, p. 9.
49 Ivi, p. 11.
[ 12 ]
il «prismatico genio» 565
Ma è verso la fine del saggio che Cecchi arriva al nucleo centrale
della sua interpretazione, estremamente raffinata e profonda, allorché
accenna ai «tre dipinti supremi»50, la Vergine delle rocce, la Gioconda, la
Sant’Anna e Maria, nei quali – scrive – «le figure non fanno né debbono
far nulla, non conseguire ed esprimere nulla mediante l’azione»51, perché
[…] il loro significato lirico unicamente consiste nell’identificarsi della
loro ragione individuale con la ragione cosmica. Sono perché sono, in
un mondo che le sostiene e rivela […] nel cristallo d’una legge d’ordine
immanente. La loro unione col cosmo non è entusiastica, né erotica.
Non ha illusioni e non ha fini; ma è assolutamente libera e contemplativa;
è un attuale possesso, come potrebbe essere nella mente di divinità
in attitudine di mesto riposo52.
Qui riprende anche la straordinaria intuizione critica di Baudelaire,
perché sostiene che in fondo Leonardo, nel corso della sua lunga
carriera, non ha dipinto che un soggetto, un quadro solo. Egli infatti
«era perseguitato da questo tema lirico di montagne scoscese e azzurrastre,
avvolgimenti di plumbee, tarde e rapinose fiumane, e apparizioni,
velati scintillamenti di ghiacciai in una luce di miraggio e di
sogno»53. E in tali immagini, ribadisce Cecchi alla fine del suo saggio,
«si realizza quell’immedesimarsi di ragione individuale e ragione cosmica,
cui prima s’era accennato […] una forma riconoscibile nel mondo
e l’altra nello spirito umano: una visione cosmologica e una visione
psicologica»54.
★ ★ ★
Andando un po’ avanti negli anni, ci imbattiamo in un breve intervento
di Salvatore Quasimodo, apparso nel 1967 nella rubrica Lettere
aperte, da lui curata per il settimanale «Tempo» di Roma, in cui il poeta
siciliano si intrattiene su un aspetto marginale, ma piuttosto curioso,
dell’attività di Leonardo, servendosi di un saggio, del 1965, di una
sua autorevole studiosa, Giuseppina Fumagalli, dal titolo Gli «omini
salvatichi» di Leonardo. Questo aspetto riguarda la funzione da lui svol-
50 Ivi, p. 13.
51 Ibidem.
52 Ibidem.
53 Ivi, p. 14.
54 Ivi, p. 15.
[ 13 ]
566 antonio lucio giannone
ta nell’allestimento delle feste dei Signori di Milano, gli Sforza, quando
egli visse alla loro corte. Ebbene, anche qui si rivela la genialità
dell’artista toscano, il quale – scrive Quasimodo – «trasforma il tono
delle feste allora di moda con i suoi “figurini” e l’esigenza di perfezione
sostanziale e scientifica anche nella fuga favolosa. Cerimonie che
non sono più convenzionali, ossequiose, d’occasione, ma diventano
[…] una creazione, un’opera d’arte»55. Chi rappresentano infatti questi
figurini?
Alle loro origini c’è sempre un tempo ricco di storia, non escono all’improvviso
dalla fantasia dell’artista: sono i satiri e i fauni pagani, le metamorfosi
ovidiane, le divinità di Virgilio, la teoria darwiniana alla rovescia,
l’anello di congiunzione con la natura primitiva. Maschere,
uomini-bestia coperti di pelle, orecchie d’animali, proboscidi come
strumenti musicali: andate a vedere la riproduzione di qualche disegno
a proposito dei «salvatichi» (il nome è di Leonardo stesso) e troverete
la testa del caprone e le zanne d’elefante, la piva-naso che suona56.
Ma anche queste figure non costituiscono solo un gioco fine a sé
stesso, in quanto per Leonardo «sono – sostiene Quasimodo – la personificazione
(proprio nel senso di maschera) di una sua idea. Egli
vede in essi un aspetto strano della natura della quale è sublime filosofo,
sempre legato al sensibile anche dietro un travestimento immaginato,
nemico perciò del fantasma, dell’irrazionale»57.
Per finire, vorrei citare ora due scritti, risalenti agli anni Ottanta, di
Italo Calvino che si sofferma su due altri aspetti della poliedrica, inesauribile
attività di Leonardo, e cioè, in uno, sulle ricerche di ottica
(anche qui, quindi, un aspetto scientifico) e, nell’altro, sulla sua scrittura,
anzi sulla sua “battaglia con la lingua”. Nel primo articolo,
nell’ambito di un discorso più generale sulla teoria della visione, Calvino
accenna alle meditazioni di Leonardo sull’ottica, le quali
sono ora ispirate al suo modo geniale di aderire alla realtà fuor da ogni
schema, ora allo sforzo di far collimare l’esperienza con la tradizione
imparata sui libri. È lui il primo a capire che il nervo ottico non può
essere un canale cavo, come credevano l’antichità e il Medio Evo arabo
e cristiano, ma qualcosa di multiplo e complesso, altrimenti le immagini
finirebbero per sovrapporsi e confondersi. Intanto, nei suoi quadri,
55 Salvatore Quasimodo, Gli “omini salvatichi” di Leonardo, in Id., Un anno di
Salvatore Quasimodo, Genova, Immordino editore, 1968, p. 154.
56 Ibidem.
57 Ibidem.
[ 14 ]
il «prismatico genio» 567
è la natura fisiologica, non concettuale della visione che egli cerca di
cogliere58.
Il secondo scritto, invece, è la terza delle Lezioni americane, apparse
postume nel 1988, quella dedicata all’Esattezza, in cui Calvino affronta,
come si diceva, il problema della scrittura di Leonardo. Nelle ultime
tre pagine egli parla, infatti, del rapporto difficile che il sommo
artista, «omo sanza lettere», come lui stesso si definiva, aveva con la
parola scritta. Infatti i codici leonardeschi – osserva Calvino – sono
«un documento straordinario d’una battaglia con la lingua, una lingua
ispida e nodosa, alla ricerca dell’espressione più ricca e sottile e
precisa»59. E, a questo proposito, accenna alle brevi favole di Leonardo
su oggetti e animali e, in particolare, alla favola del fuoco, basandosi
per le citazioni sull’edizione degli Scritti letterari, curati da Augusto
Marinoni nel 1952 e poi nel 1974, e sulle sue note filologiche e linguistiche,
come ha dimostrato Carlo Vecce in un articolo60. Ebbene, questa
favola presenta «tre stesure successive, tutte incomplete, scritte in tre
colonne affiancate, ogni volta aggiungendo qualche dettaglio»61, chiara
dimostrazione, questa, secondo lo scrittore, che non c’è limite alla
minuziosità con cui si può raccontare anche la storia più semplice.
Nonostante questo rapporto difficile con la parola scritta, c’era però
in Leonardo
anche un incessante bisogno di scrittura, d’usare la scrittura per indagare
il mondo nelle sue manifestazioni multiformi e nei suoi segreti e
anche per dare forma alle sue fantasie, alle sue emozioni, ai suoi rancori
[…]. Perciò scriveva sempre di più: col passare degli anni aveva
smesso di dipingere, pensava scrivendo e disegnando, come proseguendo
un unico discorso con disegni e parole, riempiva i suoi quaderni
della sua scrittura mancina e speculare62.
A questo proposito, offre un secondo esempio relativo a un passo
58 Italo Calvino, La luce negli occhi, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario
Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, tomo I, p. 528. L’articolo, col titolo Il segreto
della luce, era apparso su «la Repubblica» il 17 luglio 1982 e poi raccolto col titolo
La luce negli occhi nel volume Collezione di sabbia, Milano, Garzanti, 1984.
59 Id., Esattezza (Lezioni americane), ivi, p. 694.
60 Cfr. Carlo Vecce, Calvino legge Leonardo, in Studi sulla letteratura italiana della
Modernità. Per Angelo R. Pupino, 2. Dal secondo Novecento ai giorni nostri, a
cura di Elena Candela, Napoli, Liguori, 2009, pp. 393-401.
61 I. Calvino, Esattezza, cit., p. 694.
62 Ivi, p. 695.
[ 15 ]
568 antonio lucio giannone
in cui Leonardo riflette sull’esistenza di prove che possano dimostrare
la crescita della terra. E, «dopo aver fatto l’esempio di città sepolte
inghiottite dal suolo, – scrive Calvino – passa ai fossili marini ritrovati
sulle montagne e in particolare a certe ossa che suppone abbiano appartenuto
a un immenso mostro marino antidiluviano»63. A questo
punto, Leonardo, per rappresentare il modo con cui immaginava questo
animale, ricorre a tre varianti, passando da «andamento» a «volteggiare
» fino alla forma definitiva, «solcare». In tal modo, a giudizio
di Calvino, egli, cercando di raggiungere una “esattezza” sempre
maggiore nella descrizione, dimostrava di aver vinto la sua battaglia
con la lingua.
Antonio Lucio Giannone
Università del Salento
63 Ibidem.
[ 16 ]
Gabriella Capozza
Galilei e la Stella nuova tra scienza e letteratura
In una notte del 1604 il cielo fu improvvisamente illuminato da un nuovo astro.
L’evento creò grande scalpore e curiosità. Galilei tenne tre Lezioni universitarie
al riguardo, in cui sostenne che la collocazione della Stella nuova fosse nella
sfera delle stelle fisse. Tale tesi innescò forti reazioni da parte dei peripatetici, a
cui Galileo rispose con La Difesa e un Dialogo. Le Lezioni, La Difesa e il Dialogo
appaiono, pertanto, scritti inscindibili e, al tempo stesso, preannunciatori di
quel tenace viaggio, continuamente negato e impugnato, compiuto da Galileo
verso la verità.

One night in 1604 the sky was suddenly lit up by a new star. The event caused
quite a stir. Galilei gave three university Lezioni on the subject, in which he
claimed that the location of the new star was to be found in the sphere of the
fixed stars. This view triggered off strong reactions amongst peripatetics, to
whom Galileo replied with La Difesa and a Dialogo. Lezioni, La Difesa and
Dialogo appear therefore closely related and, at the same time, harbingers of
that tenacious journey –repeatedly denied and contested – embarked upon by
Galileo in his search for truth.
L’intero pensiero galileiano, attraversato dai concetti ossimorici di autorità
ed esperienza, è teso alla lettura di quel «grandissimo libro che
continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi»1 e che è destinato a
essere indagato attraverso «gli occhi della mente» e non certo attraverso
approcci aprioristicamente definiti e lontanissimi dalla verità effettuale.
Acerrimo appare, difatti, l’atteggiamento di Galileo contro non
il filosofo Aristotele, naturalmente, ma contro gli aristotelici, quei peripatetici
che «non vogliono mai sollevar gli occhi da quelle carte, qua-
Autore: Università degli Studi di Bari Aldo Moro; assegnista di ricerca; gabricapozza@
gmail.com
1 Galileo Galilei, Saggiatore, in Le Opere di Galileo Galilei, Edizione nazionale
a cura di Antonio Favaro, Firenze, Barbèra, 1890-1909, nuova ristampa 1968 (dai
cui volumi si cita nell’articolo [d’ora in poi citata OG]), VI, p. 232.
Contributi
570 gabriella capozza
si che questo gran libro non fosse scritto dalla natura per esser letto da
altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta
la posterità»2. La ferrea convinzione di Galileo della infallibilità delle
«esperienze», definite di volta in volta «sensate», «manifeste», «esquisite
», quali bussole di un faticoso cammino di conoscenza, innerva
tutte le sue opere, racchiudendo il senso della sua grandiosa testimonianza
di uomo, scienziato e letterato animato dalla tenace volontà di
carpire i decreti della natura, scoprire come “funzioni” il cielo e, così,
far volgere le menti dei suoi contemporanei verso la luce della verità
che, inequivocabilmente, si rivela a chi la guardi. Da qui la sua vivace,
immediata e briosa prosa, da qui la sua acuta e pungente ironia verso
la miopia e la tendenziosità di tanti suoi avversari.
Fu, così, che durante il periodo del suo soggiorno a Padova, in un
ambiente dinamico e vivace culturalmente, se pur segnato al suo interno
da correnti di pensiero diverse e anche in contrasto tra loro, si
assiste a un fenomeno celeste la cui interpretazione si rivela ricca di
importanti conseguenze. La sua comprensione, difatti, porterà a inevitabili
sconfinamenti da un ambito prettamente astronomico, quale è
quello proprio dell’evento, a quello dell’epistemologia e della filosofia,
veri e propri campi minati in un periodo storico che fa del contrasto
tra tensione al “nuovo” e ancoraggio al “vecchio” il proprio tratto
distintivo. Accadde che una notte del 1604 il cielo venne improvvisamente
illuminato da un corpo celeste che, in congiunzione con Giove
e Marte, non era mai stato avvistato prima. Lo stupore e l’incredulità
verso quel «lume apparso circa il 9 ottobre in cielo, il quale sotto nome
di stella nuova viene addimandato»3, colpì profondamente l’immaginario
collettivo, destando grande curiosità negli ambienti scientifici
del tempo e in Galileo, a cui fu chiesto di tenere «a più di mille uditori»4
tre lezioni universitarie, in cui esporre la sua personale lettura del fenomeno.
Le teorie delineate da Galileo nel corso delle sue lezioni,
svoltesi in aule gremite di studenti, studiosi e curiosi, risultarono ai
più illuminanti e degne di plauso ma a una ristretta e tenace cerchia di
oppositori apparvero argomentazioni non condivisibili, se non oltraggiose,
e, pertanto, meritevoli unicamente di essere rifiutate come false
ed errate. Tali veementi critiche sono da addebitare, in gran parte, alla
2 Id., Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in OG, V, p.
190.
3 Lettera di Galileo a Onofrio Castelli del gennaio 1605, in OG, X, p. 134.
4 G. Galilei, Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldassarre Capra, in OG,
II, p. 520.
[ 2 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 571
tesi portata avanti dallo scienziato secondo cui quella stella è collocata
non nella zona elementare dei cieli, zona corruttibile, imperfetta e passibile
di modificazione, ma in quella «fuori della sfera elementare»5 e,
dunque, incorruttibile e immodificabile, secondo quelle che sono le
distinzioni indicate nella lezione aristotelica ed espresse con chiarezza
nei testi delle Sacre Scritture. Un nuovo astro era apparso in quella
zona celeste nella quale mai nulla sarebbe dovuto accadere. È pleonastico
sottolineare il grande scompiglio, nonché la profonda irritazione
che tali posizioni andarono a generare negli ambienti culturali conservatori,
nonché in quegli ecclesiastici refrattari ad ogni tipo di teoria o
scoperta che potesse andare a inficiare o scalfire, anche soltanto con il
dubbio e il sospetto, l’incrollabile saldezza di secolari poteri e autorità.
Ecco che una semplice stella rischiava di minare la solida impalcatura
su cui si era andata costruendo un’intera civiltà e con essa il sommo
potere della Chiesa6.
Galileo, consapevole della estrema delicatezza dell’argomento, indugiò
non poco prima di dare forma cristallizzata alle sue tre lezioni
in una versione a stampa se, come leggiamo in una lettera a Onofrio
Castelli, si vide costretto ad andar «differendo tale pubblicazione»7,
non tanto per la complessità del tema, quanto per una sorta di doverosa
cautela derivante dalla assoluta certezza che la diffusione delle sue
intuizioni e dei suoi calcoli in relazione quell’astro, avrebbe generato
«grandissime conseguenze et conclusioni»8. Non ci è dato sapere se la
stampa del testo fu relativa alla totalità delle tre lezioni o soltanto a
sezioni di esse, tanto più che a noi contemporanei il testo è giunto unicamente
in alcune parti, quali l’esordio, un brano finale e alcuni appunti,
in cui Galilei si preoccupa di definire la posizione della stella, di
argomentare su ciò che la stella sicuramente non è e su ciò che probabilmente
è, menzionando anche gli scrittori che si sono occupati della
stella che apparve all’improvviso nei cieli del 15729. Ciò che, invece, è
5 Ivi, p. 523.
6 R iguardo ai rapporti nel tempo tra lo scienziato e la Chiesa, cfr. Antonio
Beltràn Marì, Talento e potere. Storia delle relazioni tra Galileo e la Chiesa cattolica,
(trad. ital.), Milano, Marco Tropea Editore, 2011.
7 Lettera di Galileo a Onofrio Castelli, cit., p. 134.
8 Ivi, p. 135.
9 G. Galilei, Difesa, cit., p. 523. In effetti, già nel 1572 era stata avvistata nei
cieli una stella nova priva di moto e parallasse, per la quale il filosofo Tico Brae
aveva elaborato una teoria di compromesso tra le letture antitradizionali e quelle
in linea con l’autorità aristotelica. Insieme a Brae, si occuparono della stella molti
studiosi, non esenti da errori di calcolo nelle misurazioni, tra cui il Principe Wilhel-
[ 3 ]
572 gabriella capozza
fuori di dubbio è che le lezioni tenute da Galileo sollevarono, come si
è visto, reazioni entusiastiche e, al contempo, accese polemiche, che
trovarono nella Consideratione Astronomica di Baldassare Capra un efficace
esempio di quel tendenzioso e diffuso atteggiamento che, come
ebbe a dire Altobelli in una lettera a Galileo, e già condannato da Galeno
nel De diebus decretoriis, è teso a «negar la manifesta esperienza»10.
A quella Considerazione Galilei rispose con l’efficacissima Difesa
contro alle calunnie ed imposture di Baldassare Capra e con delle postille
poste in margine al testo di Capra, come commento assai colorito e
sarcastico, in linea con il suo carattere, in cui non risparmiava epiteti
burleschi nei confronti dell’avversario. La Difesa nasceva anche in
conseguenza di un libretto pubblicato da Capra dal titolo Usus et Fabrica
Circini, che altro non era che una semplice traduzione dal toscano
in latino (con qualche aggiunta, più che altro tesa a camuffare la spudorata
azione) del libretto sul Compasso Geometrico e Militare, pubblicato
l’anno precedente da Galileo relativo alla sua invenzione del compasso
geometrico, a cui aveva lavorato per circa dieci anni. Lo strumento,
peraltro, e il suo funzionamento erano stati mostrati a Capra e
a suo padre dallo stesso Galilei, per intercessione di Alvise Cornaro.
La Difesa, redatta con scrupolosa dovizia di particolari, in risposta alla
«abominevole, infame e detestabile operazione»11 del Capra, e giuntaci
nella sua interezza, rivela elementi chiari in relazione alla collocazione
della Stella nuova che, come afferma lo scienziato, essendo sempre
in linea retta con le stelle fisse e immobili «la lucida della Corona
e con la prima delle tre nella coda di Elice»12, risulta anch’essa immobile.
A conferma della sua immobilità e della sua appartenenza alla
sfera delle stelle fisse Galileo riferisce, inoltre, che quella stella, a distanza
di mesi, non ha mutato la sua posizione rispetto a quelle stelle,
né è mai apparsa dotata di parallasse, ossia di quello spostamento angolare
apparente di un oggetto rispetto allo sguardo dell’osservatore,
che, invece, è proprio delle stelle mobili, che sono assai vicine alla terra
e, dunque, all’osservatore. Galileo, alla luce di questi elementi tratti
dalla pura osservazione delle stelle, ossia acquisiti attraverso la mera
mo Landgravio di Assia, Taddeo Hagecio, Gasparo Peucero, Paulo Hainzelio, Michel
Mestlino, Cornelio Gemma, Girolamo Munosio. Ivi, p. 534.
10 Lettera di Altobelli a Galileo del 25 novembre 1604, in OG, II, p. 118.
11 G. Galilei, Difesa, cit., p. 532. Galileo, con sentenza del 4 maggio 1607, riuscì
ad ottenere il riconoscimento delle sue ragioni e che tutti i volumi stampati dal
Capra venissero ritirati dal libraio Tozzi e «suppressi» (cfr. ivi, p. 560).
12 Ivi, p. 526.
[ 4 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 573
esperienza e attraverso alcune misurazioni trigonometriche e le operazioni
matematiche dei moti, conclude, senza dubbio alcuno, che
quella Stella è immobile, che non ha moto proprio e che, dunque, appartiene,
come le altre due, alla sfera delle stelle fisse. «Nelle stelle
fisse né vi è, né vi può essere parallasse, essendo quelle gli ultimi ed
altissimi corpi visibili, in relazione de i quali le stelle inferiori, e molto
a noi vicine, fanno la diversità di aspetto, detta da li astronomi
paralaxe»13.
La Difesa è scritta, peraltro, in una moderna prosa scientifica estremamente
originale e snella, per l’elaborazione della quale Galilei «lasciò
da parte ogni modello e si mosse con la massima libertà, facendo
servire la parola al pensiero, non questo a quella; altrettanto incurante
dello stile come modo preconcetto ed esemplare di esprimersi, quanto
era fertile e copioso il suo ingegno e punto il suo intelletto»14.
Il maligno Capra, nella sua Considerazione, spacciando per la collocazione
della stella individuata da Galileo durante le sue lezioni un’altra
collocazione da lui calunniosamente indicata, intende far cadere in
contraddizione Galileo, smentendo, così, le sue conclusioni sulla immobilità
e sulla reale collocazione della nuova stella15. È obiettivo del
Capra, in linea con un atteggiamento assai diffuso tra i peripatetici,
assimilare la Stella nova a quella individuata da Tico Brae nel 1572 e
così riportare tale fenomeno nell’alveo della tradizione e della lezione
di Aristotele16. A tali reazioni vanno ad aggiungersi tante altre espres-
13 Ivi, p. 525
14 Raffaele Spongano, La prosa di Galileo e altri scritti, Messina-Firenze, Casa
Editrice G. D’Anna, 1949, p. 103.
15 I l Capra, come ci fa notare Galilei, continua falsamente a sostenere che Galileo
abbia detto che la Stella è in linea con la lucida della Corona e con la coda del Cigno,
asserendo, in tal modo, l’impossibilità della immobilità e dell’assenza di parallasse.
Galileo, in suo favore, allega nella Difesa numerose dichiarazioni di autorevoli personalità,
tra cui anche quella di Alvise Cornaro, che attestano quanto riferito, al riguardo,
da Galilei durante le sue lezioni. Cfr. G. Galilei Difesa, cit., p. 526 e ss.
16 Cfr. Baldassarre Capra, Considerazione, in OG, vol. II, pp. 294-295. Tico
Brae, difatti, notando che la stella nuova non aveva parallasse e che dunque dovesse
trovarsi in una zona superiore alla luna, elaborò una teoria di compromesso, a
metà strada tra quella tolemaica e quella copernicana, secondo cui i pianeti e le
comete girano attorno al sole, ma la luna, il sole e il suo corteo di pianeti e comete
ruotano intorno alla terra unitamente alla sfera delle stelle fisse. Tale teoria, da un
lato giustifica la mancanza di parallasse della nuova stella, dovuta alla distanza
dalla Terra, dall’altro lascia la terra immobile al centro dell’universo, come ebbe a
spiegare in diversi sui scritti tra cui nel De Mundi Aetherei recentioribus phaenomenis,
pubblicato a Francoforte nel 1610.
[ 5 ]
574 gabriella capozza
sioni antiscientifiche, quali «le argomentazioni degli astrologi, o, per
meglio dire, i loro vaneggiamenti, per ciò che nella nuova stella vollero
vedere significazioni ed influenze; e piovvero gli almanacchi e i
pronostici che s’affaccendavano a indovinare e a predire gli influssi e
gli effetti di quella insolita apparizione»17.
L’acredine di Capra nei confronti di Galilei è, per quest’ultimo, da
ricondurre anche al fatto che, essendo stato Capra, insieme al suo maestro,
tra i primi ad aver avvistato quella stella il giorno 10 di ottobre
(«una delle maggior lodi che il Capra fusse per guadagnarsi in tutto il
corso dei suoi studi matematici»18), non ha sopportato che altri ne parlasse
riscuotendo un «applauso universale»19. L’assurdità di tale pretesa
porta Galilei ad affermare, con la sua consueta ed efficace ironia,
che, allora, «sarà bene che quelli che nelle scienze matematiche aspirano
a qualche nobil grado di gloria, trapassino tutte le notti della loro
vita in osservar con gran vigilanza sopra i colmi delle case loro se
qualche nuova stella apparisce, acciò che altri, […] non riportassero la
palma di così glorioso scoprimento»20. Di fronte alle opposizione del
Capra e degli ambienti conservatori del tempo, si levarono immediate
le reazioni a sostegno di Galileo da parte dei suoi tanti colleghi e amici
che confermarono le sue teorie e attaccarono i suoi avversari. In tal
senso, è illuminante il fitto carteggio di quella vera e propria rete di
comunicazione, anche internazionale, (per quanto a quel tempo «la
notorietà di Galilei era circoscritta al giro delle persone da lui direttamente
frequentate»21) che lo scienziato fu capace di mettere in piedi
con i dotti dell’epoca. Ilario Altobelli, ad esempio, scriverà in una lettera
a Galileo, non senza compiaciuta ironia, che «il nuovo mostro del
cielo fa impazzire i Peripatetici, ch’anno creduto sin hora tante bugie
in quella stella nova e miracolosa del 1572, priva di moto e di
parallasse»22. Anche Ottavio Brenzoni in un’epistola indirizzata a Galileo
confermerà le sue teorie riguardo la collocazione della Stella nuova
tra le stelle fisse: «Osservai con un instromento, in ciò mediocre-
17 A. Favaro, Galileo Galilei e lo Studio di Padova, Padova, Antenore, 1966, p. 215.
18 G. Galilei, Difesa, cit., p. 520. È da sottolineare, peraltro, che, in linea con
l’onestà professionale di Galilei, questi in apertura delle sue lezioni aveva pubblicamente
affermato, come leggiamo nella Difesa stessa, che i primi a vedere la stella
erano stati, appunto, il Capra e il suo maestro, cfr. p. 520.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 Andrea Battistini, Galileo e i Gesuiti Miti letterari e retorica della scienza,
Milano, Vita e pensiero, 2000, p. 15.
22 Lettera di Ilario Altobelli a Galileo del 3 novembre 1604, in OG, X, p. 117.
[ 6 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 575
mente opportuno, una distanza da Marte et questa nova luce, et la
vidi se non maggiore, almeno equale, quando era alta da terra […].
Assai chiaro argomento, per il credere mio […], ch’ella non fosse sotto
il cerchio della luna»23. E lo stesso Altobelli, in una successiva epistola,
sottolineerà come tale stella mostrasse all’uomo i misteri dell’universo
e come quella «maravigliosissima maraviglia del cielo (permettesse di)
conoscere gl’ingegni e la verità della natura celeste»24, mettendo a dura
prova l’autorità aristotelica difesa, contro ogni evidenza, dai peripatetici.
Difatti, scriverà che quella stella «rende possibile ogni impossibilità
coniettura di Aristotele, distrugendo ogni sua imaginazione,
poi che è in parte australe nel zodiaco, vicino all’eclittica, in segno
igneo e fra i pianeti caldissimi nata, […] sì che è cosa manifesta ch’ella
habbi ottenuto il suo trono infra le fiamme ardenti. […] Ma questi Peripatetici,
o per dir meglio, semifilosofi, non intendono la dimostrazione
insuperabile della diversità dell’aspetto, per toccar con mano
ch’ella risiede in sin la sù nel ciel stellato»25.
E così, mentre le intuizioni galileiane si andavano definendo e rinsaldando
sempre più, aumentava l’intransigenza verso quegli avversari
che, mostrando un’ottusa ignoranza, continuavano a negare verità
che si palesavano sotto i loro occhi, trincerandosi dietro atteggiamenti
dogmatici, contrari a qualunque logica. Altobelli arriverà a
scrivere a Galilei che «io credo certo, che se l’istesso Autor (Aristotele)
vivesse, si renderebe a tanta forza»26 e lo stesso Galilei affermerà che «i
Peripatetici, più parziali di Aristotele che egli medesimo non
sarebbe»27. Finanche Aristotele, dunque, per i due, avrebbe mutato le
sue teorie di fronte alla forza della realtà, ma non gli aristotelici, il cui
fanatismo risultava essere una sorta di cancello chiuso che era vano
scrollare28. Si assiste ad una definizione sempre più chiara di due sistemi
di pensiero chiaramente antitetici e inconciliabili che, in assenza
assoluta di punti di contatto, avrebbero inevitabilmente finito con lo
scontrarsi duramente. La comparsa di una nuova Stella, difatti, pare
davvero dar corso a quelle «grandissime conseguenze» di cui Galileo
aveva avuto consapevolezza già dal suo primo apparire in cielo e che
23 Lettera di Ottavio Brenzoni a Galileo del 15 gennaio 1605, in OG, X, p. 138.
24 Lettera di Ilario Altobelli a Galileo del 25 novembre 1604, in OG, X, p. 118.
25 Ibidem.
26 Ibidem.
27 Lettera di Galileo a Paolo Sarpi del 12 febbraio 1611, in OG, XI, p. 46.
28 R iguardo ai rapporti conflittuali tra Galileo e gli Aristotelici, cfr. Luigi Guerrini,
Galileo e gli Aristotelici. Storia di una disputa, Roma, Carocci, 2010.
[ 7 ]
576 gabriella capozza
lo aveva portato a ritardare la pubblicazione dei testi delle sue lezioni
e a pubblicarle, probabilmente, in forma parziale.
Oggi la scienza ci permette di sapere che le stelle non sono immutabili
e che hanno un vero e proprio ciclo vitale, che prevede una nascita,
un’evoluzione e una morte. Per attrazione gravitazionale, difatti,
parti di nebulose si aggregano in maniera sempre più consistente,
andando a formare veri e propri corpi celesti che, per aumento della
temperatura interna del nucleo, giungono a fusioni termonucleari che
liberano continuamente una grandissima quantità di energia, visibile
sotto forma di luce di intensità variabile e discontinua. Ed è attraverso
tale processo che nasce una stella, destinata con il tempo a collassare
e, infine, a morire. L’esplosione più intensa ed estesa che può interessare
la fase finale della vita di una stella è detta Supernova. Tale esplosione
determina nella stella un’estensione e una luminosità milioni di
volte più intense29.
Fu probabilmente questo il fenomeno a cui assistettero Galileo e i
suoi contemporanei nella notte del 10 ottobre del 1604 consistente
nell’apparizione nel cielo di una luce «fulgentissima et admodum rutilans
atque scintillans»30 prima mai vista. «Lux quaedam peregrina,
die decima mensis octobris anni huis millesimi sexcentesimiquarti,
primum in sublimi conspecta est»31. E il cielo, rivelando al mondo un
nuovo elemento nella sua parte immodificabile, sanciva incontrovertibilmente
la propria generabilità e corruttibilità. Ma Galileo era conscio
che i tempi non erano ancora maturi per trattare apertamente tali questioni,
anche per questo le espose esaustivamente soltanto molti anni
dopo nella Giornata prima del Dialogo dei massimi sistemi32. Per il momento,
Galileo adotta doverose forme di cautela esprimendo le sue
convinzioni negli scritti suddetti e, in maniera indiretta, confidandole
al suo amico Girolamo Spinelli che, sotto lo pseudonimo di Cecco da
Ronchitti33, pubblicherà, soltanto un anno dopo l’apparizione della
29 Cfr. Maurizio Santilli, Geologica Capire le scienze della Terra, Milano-Torino,
Pearson, 2018, pp. 7-12.
30 G. Galilei, Frammenti di lezioni e studi sulla Nuova Stella dell’ottobre 1604, in
OG, II, p. 277.
31 Ibidem.
32 Galilei tornerà a parlarne anche nelle Postille alle Esercitazioni filosofiche di
Antonio Rocco, Esercitazione Quarta, Della corruttibilità de’ cieli, di alcune comete, stelle
nove e macchie, che in essi sono state osservate, in OG, VII, pp. 623-626.
33 Dietro la maschera di Cecco da Ronchitti si nasconde il benedettino Girolamo
Spinelli, come attesta una lettera di Pignoria indirizzata a Galileo in cui si legge
che «Il P. D. Girolamo Spinelli, alias Cecco d’i Ronchitti, è Priore qui in S.ta Giusti-
[ 8 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 577
stella, un dialogo in dialetto pavano dal titolo Dialogo de Cecco di Ronchitti
da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova34. Il dialogo, di chiara
ispirazione ruzzantiana, è una trasposizione letteraria, ad opera dell’amico
Antonio Querenghi35, delle idee scientifiche di Galileo in relazione
alla nuova stella, tradotta in lingua dialettale attraverso il prezioso
aiuto di Girolamo Spinelli36, un benedettino facente parte della cerchia
na», cfr. G. Galilei, Opere, XII, p. 502. Al riguardo cfr. Maria Luisa Doglio, Annunzi,
«Giornale storico della letteratura italiana», fasc. 554, (1994), n. 2, p. 315.
34 Il Dialogo fu pubblicato a Padova presso il libraio Pietro Paolo Tozzi nella
stamperia di Lorenzo Pasquati e poco tempo dopo a Verona presso la stamperia di
Bartolomeo Merlo. L’edizione qui presa in considerazione è quella presente in OG,
II, pp. 307-334.
35 R iguardo al ruolo di spicco ricoperto da Antonio Querenghi nella elaborazione
del Dialogo, Lovarini sostiene che questi «sposò la causa di Galileo come
fosse propria ed entrò nella battaglia suo sostenitore ad oltranza; […] ne accettò la
dedica, facendo così, lui tanto potente e in Padova e in Roma, scudo della propria
persona contro chiunque si sentisse la voglia di assalire l’astronomo amico», cfr.
Emilio Lovarini, Galileo scrittore pavano? [1928], in Studi sul Ruzzante e la letteratura
pavana, a cura di Gianfranco Folena, Padova, Editrice Antenore, 1945, pp.
395-396.
36 Sappiamo che Girolamo Spinelli, divenuto Priore nell’ordine di S. Giustina,
fu scolaro di Galilei ed ebbe parte attiva nella Difesa (come leggiamo nella stessa)
dello scienziato nei confronti di Baldassarre Capra con la stesura di «una lettera in
forma di apologia […] intorno alle calunnie e inezzie del Capra poste da lui contra
di me (Galileo) nella detta Considerazione Astronomica: la quale apologia con bellissimo
artifizio fu composta subito dopo la pubblicazione della detta Considerazione,
e nel portarmela il detto mio scolare a rivedere, la ritenni appresso di me, ed
ancora la ho, né volsi che fusse pubblicata, […] sarà nel fine di questa difesa nominata
», cfr. G. Galilei, Difesa, cit., pp. 531-532. Alla fine della Difesa, difatti, nell’elenco
dei documenti mostrati da Galileo agli «Illustrissimi Sig. Podestà e Capitano
di Padova» l’ultima voce recita: «una lettera apologetica di D. Girolamo Spinelli»,
ivi, p. 601.
Riguardo al ruolo di Spinelli nella composizione del Dialogo di Cecco De Ronchitti,
la critica è più o meno unanime nel riconoscergli unicamente la trasposizione
in lingua dialettale. Milani, di contro, insiste particolarmente su un ruolo più
ampio che possa aver avuto il brillante scolaro nella stesura dello scritto «Non si
capisce perché si voglia negare che un giovanotto di 25 anni, allevato negli studi,
familiare delle menti più brillanti della città, ammiratore e scolaro del Galilei e di
certo presente alle lezioni sulla stella e alle discussioni che ne erano seguite, potesse
buttar giù un dialogo, che da un lato rientrava nella tradizione giocosa padovana
e dall’altro si inseriva con inusuale forza in un dibattito fin troppo serio», Marisa
Milani, Galileo Galilei e la letteratura pavana, in Galileo e la cultura padovana,
Atti del Convegno a cura dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti, Padova
13-15 febbraio 1992, a cura di Giovanni Santaniello, Trieste, Lint, 19852, p.
206. Riguardo alla figura di Spinelli cfr. anche Marialaura Soppelsa, Un dimenticato
scolaro galileiano: il padre Girolamo Spinelli, «Bollettino del Museo Civico di Pa-
[ 9 ]
578 gabriella capozza
degli amici di Galileo. Il Dialogo, costruito sulla tecnica del plurimo
mascheramento, adottata sia in virtù di precise scelte stilistiche che di
necessarie forme di tutela con le quali esprimere concetti altamente
delicati, vede, in questo gioco di travestimenti, il patrizio veneto Querenghi
diventare il destinatario del Dialogo e i dialoganti, i portatori
delle scoperte astronomiche relative alla stella nuova, essere due semplici
contadini che, senza alcuna autorevolezza e senza i benché minimi
rudimenti scientifico-culturali necessari alla trattazione di tali argomenti,
esprimono, in maniera grossolana e caricaturale e in un linguaggio
dialettale, idee scientifiche sentite proferire da dottori esperti
in materia. Alla luce della lezione ruzzantiana, non stupisce che concetti
di inequivocabile rilievo vengano espressi da due bifolchi. Difatti,
ad esempio, anche nella Prima Orazione di Angelo Beolco sarà proprio
un contadino, Ruzzante, appunto, a lamentare al cardinale Marco Cornaro
(cugino di Alvise Cornaro), durante la cerimonia in onore della
sua nomina a cardinale posto a capo di tutte le diocesi del nord Italia,
il fatto che i poeti e i letterati siano soliti scrivere poesie che non ritraggono
in maniera realistica il mondo contadino. Difatti, usano un linguaggio
forbito e ricercato che non è espressione di quel mondo:
E sti cogòmbari de sti sletràn vol favelare per gramego o in fiorentinesco,
e cva çercanto megior pan ca de fromento. E perzòndena a’ i lagerè
bagiare a so muò, e sí a’ faverelerè a le nostre devise, che è le pì bele del
mondo, da bon pavan». (E questi cogliomberli di letterati vogliono
parlare in grammatica o in fiorentino, e vanno cercando miglior pane
che quello di frumento. E per questo li lascerò abbaiare a modo loro, e
parlerò secondo le nostre forme, che sono le più belle del mondo, da
buon pavano)37.
Dunque, il contadino stesso, già con Ruzzante, in virtù della sua
naturalità, condannava quei poeti e letterati che, attraverso l’artificio,
dova», LX (1971), pp. 97-114; e Ead., La disputa sulla “nuova stella” del 1604, in Genesi
del metodo galileiano e tramonto dell’aristotelismo nella scuola di Padova, Padova,
Antenore, 1974, pp. 21-45. Galilei, peraltro, rinnova la formula collaborativa a più
mani nella composizione della canzone Per le stelle medicee temerariamente oppugnate
che venne versificata da Andrea Salvadori nel 1610, dopo la scoperta galileiana
dei quattro satelliti di Giove, e poi rimaneggiata da Galileo. La canzone è presente
in G. Galilei, Scritti letterari, a cura di Alberto Chiari, Firenze, Le Monnier,
19712, pp. 22-29.
37 Ruzante, Prima Orazione, in Id., Teatro, a cura di Ludovico Zorzi, Torino,
Einaudi, 1967, pp. 1192-1193. La versione in italiano proposta è quella posta a fronte
del testo in lingua dialettale nel volume di Zorzi.
[ 10 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 579
rappresentavano realtà distorte e non rispondenti al vero. Il contadino,
tanto in Ruzzante quanto in Galileo, è portatore di verità e, in
quanto tale, mette all’angolo gli artefici di menzognere operazioni culturali,
arretrate rispetto al divenire storico. Come in Ruzzante sono
presi di mira i poeti “arcadici”, così nel Dialogo sono presi di mira i filosofi
peripatetici, quei filuorichi di cui Galileo soleva burlarsi anche in
lingua pavana, come dimostra un appunto autografo in dialetto che
sottolinea la faziosità delle loro posizioni ideologiche, incapaci di confrontarsi
in maniera oggettiva con il reale38. Il Dialogo, in particolare, si
scaglia contro il filosofo paripatetico Antonio Lorenzini da Montepulciano
che ha scritto il Discorso intorno alla nuova stella, pubblicato nel
1605 a Padova da Pasquati. Così, in una sorta di parallelismo, se la
Difesa nasce in risposta alla Considerazione di Capra, il Dialogo nasce in
risposta al Discorso di Lorenzini.
Quella del Dialogo appare, in verità, un’operazione culturale estremamente
abile in quanto, attraverso il carattere comico del dialogo,
dunque inappropriato alla serietà degli argomenti, e attraverso la connotazione
socio-culturale dei protagonisti, del tutto inadeguata alla
complessità delle questioni affrontate, si compie un apparente depotenziamento
di ogni possibile carica eversiva o di rottura dello scritto.
Tale strategia rientra nel tipico atteggiamento galileiano teso non a
simulare, quanto a dissimulare verità scomode e destinato, per necessità,
ad acuirsi sempre più39. Lasciar dialogare due ignoranti contadini
su questioni scientifiche molto complesse, significa dar vita ad uno
testo del tutto immune da quelle «grandissime conseguenze» che, invece,
sarebbero inevitabilmente scaturite da un ufficiale scritto scientifico
o da un dialogo letterario tra soggetti colti e preparati espresso
in una moderna prosa scientifica. A ciò si aggiunga l’uso del dialetto,
ossia una lingua di per sé ostica, se si è estranei a determinate zone
geografiche, e, dunque, intrinsecamente refrattaria a qualsiasi possibilità
di divulgazione e diffusione dello scritto. Eppure è bene ricordare
che, nonostante l’arduo idioletto, le opere di Ruzzante, di cui risente
38 Lovarini considera questo frammento, posto in Appendice al suo articolo,
una prova inconfutabile della collaborazione diretta di Galileo alla stesura del Dialogo,
cfr. E. Lovarini, Galileo scrittore pavano, cit., pp. 396-400.
39 Cfr. Pietro Redondi, Galileo eretico, Bari-Roma, Laterza, 2009, p. 28. Riguardo
al ventaglio molto ampio di dibattiti e polemiche che, in generale, suscitarono
le scomode intuizioni galileiane e i caratteri assolutamente originali della sua lezione,
cfr. L. Guerrini, Ricerche su Galileo e il primo Seicento, Pisa-Roma, Ist. Editoriali
e Poligrafici, 2004. Si veda anche Michele Camerota, Galileo Galilei. E la cultura
scientifica nell’età della Controriforma, Roma, Salerno Editrice, 2015.
[ 11 ]
580 gabriella capozza
fortemente il Dialogo, hanno lasciato un segno profondo nella cultura
del tempo e non solamente padovana40. Galilei, peraltro, aveva già
scritto due tracce di commedie, di cui una di chiaro stampo ruzzantiano
e contrassegnata da stilemi che ricalcavano appieno quelli della
Commedia dell’Arte41. Si pensi alla scelta dei personaggi, alla costruzione
della storia fatta di intrighi, burle, equivoci, amori, travestimenti,
al grande spazio conferito alla gestualità e al generale spirito di
spassoso divertimento che pervade l’intera traccia. L’avvicinamento
di Galilei alla teatralità della commedia improvvisa avviene nel segno
di una predilezione per la “realtà” e la “natura” guardate nella dimensione
vitalistica delle spontanee pulsioni amorose ed erotiche, proprie
della sagace tradizione della commedia rinascimentale e barocca
esplicitata nelle sue molteplici declinazioni42.
40 I testi ruzzantiani, difatti, sono riusciti a varcare i confini padani, se finanche
Shakespeare li ha conosciuti, usandone chiavi e situazioni nel suo teatro, proprio
attraverso l’instancabile lavoro dei comici dell’Arte che hanno portato in tutt’Europa
i testi dei maggiori scrittori italiani dell’epoca e, dunque, anche quelli di Beolco.
Naturalmente, quei testi venivano adattati, tagliati, contaminati, tradotti e,
così, fatti conoscere ad ampi pubblici. Riguardo alla dimensione itinerante dei comici
del’Arte su un territorio europeo e il legame con l’opera di Ruzzante cfr. Siro
Ferrone, La Commedia dell’Arte Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo),
Torino, Einaudi, 2014 e Id., Attori mercanti corsari La Commedia dell’Arte in
Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 2011. Riguardo ai comici dell’Arte
quali tramiti tra letteratura italiana (tra cui quella ruzzantiana), pubblico europeo
e Shakespeare cfr. Dario Fo, Dario Fo e Franca Rame ripropongono e recitano Ruzzante,
Torino, Einaudi, 2012. Al proposito, così leggiamo a p. 29: «Dice un noto ricercatore
inglese, il professore Christopher Cairns: “Senza l’incontro con i comici italiani,
non sarebbe potuto nascere il teatro elisabettiano, Shakespeare compreso”.
Quindi non ci deve meravigliare se nel Re Lear incontriamo il matto che dice al re
spodestato: “Troppo in fretta sei invecchiato, non hai fatto in tempo a diventare
saggio”. Bellissimo concetto. Ebbene sentiamo l’originale di Ruzzante: “Inveg’io
asdrússeo mé sòo, e no’ ho fàit témp de slunzondàrme dell’embolzité lezíra de la
zointèzza!” (“Troppo in fretta sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi
della leggera imbecillità della giovinezza!”)». E riguardo a Ruzzante precursore
della Commedia dell’Arte cfr. L. Zorzi, Prefazione a Ruzante, Teatro, cit., pp. XXIVXXVI,
e S. Ferrone, Introduzione a Id., Attori mercanti corsari, cit., pp. XVII-XX.
41 Cfr. G. Galilei, Argomento e traccia d’una commedia, in Flaminio Scala, Il
teatro delle favole rappresentative, a cura di Ferruccio Marotti, I, Appendice III,
Milano, Il Polifilo, 1976, pp. LXXVI-XC; cfr. OG, IX, pp. 197-209; Id., Scritti letterari,
cit., pp. 30-44.
42 A tal riguardo cfr. Grazia Distaso, Canovacci teatrali nel primo Galilei e collaborazioni
“esterne”, in La prosa di Galileo. La lingua la retorica la storia, a cura di Mauro
Di Giandomenico e Pasquale Guaragnella, Lecce, Argo, 2006, pp. 63-81, saggio
ristampato in Dialogo e scena tra antico e moderno, Bari, Progedit, 2017, pp. 3-18.
[ 12 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 581
Il Dialogo galileiano si apre con una lettera dedicatoria43, una sorta di
prologo, a Querengo «Al Lostrio, e Rebelendo Paron, el Segnor Antuogno
Squerengo Degnetissimo Calonego de Pava» («All’Illustre e Reverendo
Padrone, il Signor Antonio Querengo Degnissimo Canonico
di Padova») da parte di Cecco Di Ronchitti, suo servitore. Cecco afferma
di voler per una volta uscire dal proprio ruolo di «puovero serviore,
que no fè mè altro, che la boaria, e ’l mestiero de pertegar le campagne
» («di povero servitore, il quale non s’è mai occupato d’altro che
del proquoio, né altro mestiero ha fatto che misurare le campagne») e
indossare le vesti di dottore per parlare di questa nuova stella:
Stella nuova, que dà tanta smeravegia a tutto el roesso mondo; per
conto de dire on la sea, a ghe n’hì, per muò de dire, fatto lotomia; faellanto,
e desbutanto cò quanti disea, che la n’iera in Cielo (Stella nuova,
che dà tanta meraviglia a tutto l’universo mondo, in quanto a dire dove
la sia, n’avete, per mo’ di dire, fatta notomia, parlando e disputando
con quanti dicevano che la non era in cielo).
Il servitore, pur non avendo un «celibrio speculativo» («cervello
speculativo»), ha ascoltato attentamente le parole proferite al riguardo
dal suo Padrone, il Reverendissimo Signor Antonio Querengo, e le ha
memorizzate. Il dialogo sarà, dunque, un’apparente innocua e grossolana
chiacchierata tra due contadini sulla Stella nuova.
Lo stile e la lingua dello scritto sono vistosamente ruzzantiani, per
quanto «Cecco non è Ruzzante, del quale non ha né la dissacrante vis
comica né la straordinaria abilità e ricchezza di linguaggio»44, tuttavia
sappiamo quanto Galilei amasse quello scrittore e la sua capacità di
colpire, in maniera diretta e senza inutili orpelli, al cuore delle cose.
Quando Galilei si trasferisce a Padova, Ruzzante è già morto da cinquant’anni,
ma la sua opera è ormai impressa in quella città e la stessa
casa dell’illuminato Alvise Cornaro, protettore di Ruzzante, è stata
ereditata dal nipote Giacomo Alvise Cornaro ed è ancora un luogo di
Nell’articolo viene messo in luce come l’accostamento di Galilei al teatro, attraverso
le due tracce e il Dialogo de Cecco di Ronchitti, sia da ricondurre a quell’attenzione
alla realtà e alla natura che, centro nevralgico delle articolazioni del pensiero galileiano,
risulta essere il tratto distintivo della commedia rinascimentale, della poesia
giocosa e della commedia ruzzantiana, così tanto amate dallo studioso.
43 Dialogo de Cecco di Ronchitti, (Lettera dedicatoria), cit., pp. 311-312 (stesse pagine
per le successive citazioni dalla Lettera dedicatoria). La versione in italiano proposta
è quella posta a fronte del testo in dialetto nella stessa edizione di Favaro.
44 M. Milani, Varietà il “Dialogo in perpuosito de la Stella nuova” di Cecco di Ronchitti
da Brugine, «Giornale storico della Letteratura italiana», 170, (1993), p. 77.
[ 13 ]
582 gabriella capozza
incontro per gli intellettuali del tempo e, dunque, anche per Galilei
(peraltro, una delle case padovane in cui alloggiò lo scienziato, quella
in Borgo dei Vignali, era attigua a quella di Alvise Cornaro, ossia «confinante
con la parte posteriore»45). Padova, inoltre, al tempo era la «capitale
incontrastabile del plurilinguismo italiano»46. Riguardo la predilezione
per Ruzzante, leggiamo nella Vita scritta da Niccolò Gherardini
che Galileo, oltre al Berni e all’Ariosto, «fu familiarissimo d’un libro
intitolato ’l Ruzzante, scritto in lingua rustica padovana, pigliandosi
gran piacere di quei rozzi racconti con accidenti ridicoli»47, in linea con
quella goliardica complicità che si respirava nei circoli culturali padovani
di Pinelli, Querenghi, Cornaro48 e in cui si soleva scherzare nello
«snaturale» pavano, di cui era stato maestro Angelo Beolco. E il sol
fatto di amare «il piacevolissimo Ruzzante»49 diventava, nel gruppo
degli amici dello studioso, un elemento indicatore dello spessore di
una persona, come si evince da una lettera indirizzata a Galileo, nella
quale, in riferimento al Signor Pier Francesco Rinucci, Benedetto Castelli
scrive: «dirò solo questo, che è persona che sente gusto incredibile
della lettura di Ruzante: hor V.S. Ecc.ma faccia la conseguenza»50.
Sappiamo anche che Galilei era solito allietare gli amici toscani con
l’esposizione di testi ruzzantiani e che era atteso da loro con ansia se,
così gli scrive, sollecitandolo ad un celere arrivo, l’amico Filippo Sal-
45 Lino Lazzarini, Galileo e i Ricovrati, in Galileo e la cultura padovana, cit., 181.
46 Gianfranco Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo (1969), in
Id., Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino, Einaudi, 1988, p. 9. Si veda anche Patrizia
Bertini Malgarini, La letteratura dialettale a Venezia e nel Veneto, in Ugo Vignuzzi
e patrizia Bertini Malgarini, L’alternativa regionale e dialettale. Storia della letteratura
italiana, a cura di Enrico Malato, V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma,
Salerno editore, 1997, pp. 787-791.
47 Vita scritta da Niccolò Gherardini, in OG, XIX, pp. 644-645.
48 I n relazione al circolo di Pinelli e all’ambiente padovano cfr. A. Battistini,
Al servizio della Serenissima, in Id., Introduzione a Galilei, Roma-Bari, Laterza, 1989,
pp. 15-29. Cfr., inoltre, Aldo Stella, Galileo, il circolo culturale di Gian Vincenzo Pinelli
e la «Patavina libertas», in Galileo e la cultura padovana, cit., pp. 325-344. In relazione
ad un profilo di Antonio Querenghi cfr. Uberto Motta, Scienza e poesia nella
cerchia dei galileiani di Padova, in Id., Antonio Querenghi (1546-1633). Un letterato
padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Milano, Vita e Pensiero, 1977, pp.
151-229. Si veda anche Luigi Gaudenzio, Il «Dialogo de Cecco di Rochitti da Bruzene»
e il canonico Antonio Querengo, in Scritti e discorsi nel IV centenario della nascita di
Galileo Galilei, a cura dell’Università di Padova e dell’Accademia Patavina di Scienze
Lettere Arti, Padova, Società cooperativa tipografica 1966, pp. 159-165.
49 Lettera di Filippo Salviati a Galilei del 2 aprile 1612, da «Le selve», in OG, XI,
p. 290.
50 Lettera di Benedetto Castelli a Galileo del 4 giugno 1614, OG, XII, pp. 69-70.
[ 14 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 583
viati: «Qui non si può pigliare ricreazione del piacevolissimo Ruzzante
senza la sua esposizione»51.
E la scelta di una lingua dialettale per scrivere il Dialogo, oltre che a
un preciso gusto galileiano, risponde a quell’idea di Galileo, già
espressa da Speroni quando così si esprime:
Vo’ credere che lingua alcuna del mondo (sia qual si voglia) non possa
aver da se stessa privilegio di significare i concetti del nostro animo,
ma tutto consista nello arbitrio delle persone, onde chi vorrà parlar di
filosofia con parole mantovane, o milanesi, non gli può esser disdetto
a ragione, più che disdetto gli sia il filosofare et l’intender la cagion
delle cose52.
Dunque, si può scrivere di filosofia, di logica, di astronomia anche
in una lingua dialettale. Ma utilizzare una lingua che ricalca gli stilemi
del ruzzantesco sletran in un dialogo tra i contadini Matthio (l’interlocutore
che rappresenta Galileo) e Nale, ha in sé una valenza anche
ideologica, in quanto rappresenta una forma di opposizione alla lingua
del latino, che è «lingua insieme del privilegio sociale e del pensiero
aprioristico: un simbolo-limite del volgare quale espressione della
realtà e della natura»53. In un accostamento dicotomico, difatti, «il
dialetto contadinesco in forma parodistica»54 parlato dai due villani
risulta essere la lingua della verità, mentre il latino utilizzato dai filosofi
peripatetici, risulta essere la lingua dell’artificio e dell’arroccamento
a posizioni dogmatiche e tautologiche. Naturalmente, «il rifiuto
del latino per l’adozione del volgare non è il rifiuto della lingua
dotta per l’accettazione di una lingua accessibile a livelli artigianali: è
rifiuto della lingua peripatetica piena di comode formule illusorie e
mistificatorie, che nessuno si permette di analizzare o di sottoporre a
una nuova definizione perché tutto è già definito da secoli»55. Un’antitesi,
peraltro, già espressa da Beolco che, in nome di un realismo esasperato
che rappresenta il contadino nei suoi bisogni primari dell’esi-
51 Lettera di Filippo Salvati a Galileo, cit., p. 290.
52 Sperone Speroni, Dialogo delle lingue e dialogo della rettorica, Lanciano, R.
Carrabba Editore, 1912, p. 74.
53 Gianfranco Contini, La poesia rusticale, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-
1987), Torino, Einaudi, 1989, p. 8. Riguardo alla concezione del volgare da parte di
Galilei cfr. anche la Lettera di Galileo a Paolo Gualdo del 16 giugno 1612, in OG, XI, p.
327.
54 L. Lazzarini, Galileo, Padova e i Ricovrati, cit., p. 185.
55 Maria Liusa Altieri Biagi, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Firenze,
Olschki, 1965, p. 15.
[ 15 ]
584 gabriella capozza
stenza, adotta una lingua dialettale dal «violento e ruvido spessore»56
di contro alla lingua cittadina, «moscheta», appunto, propria dell’artificio
e dell’inautenticità. E, come ci fa notare Marisa Milani57, all’interno
del Dialogo numerose sono le espressione tratte dai testi ruzzantiani,
tra cui ricordiamo «questa strenze senza penole» (p. 317) che riprende
il ruzzantiano «la vo strenzer guano senza penole»58; «l’è pi
chiara que n’è il un graizzo da vacche» (p. 330) molto simile a «la n’è
miga pi chiara che n’è un graizzo da vacche»59; «questa sarae ben de
porco» (p. 333) che rievoca «la sarae ben de porco»60; e ancora «on se
cazzè Tofano le spetie» (p. 334) recupera il ruzzantiano «don cazè Tofano
le speçie, quando el sentì i zafi»61. L’opera di Galileo, difatti, «non
è meno ricca di interesse per gli storici della lingua che per quelli delle
scienze, della filosofia e della letteratura»62.
La caricaturale chiacchierata tra Nale e Matthio ruota intorno alla
Stella nuova e si rivela una confutazione punto per punto delle argomentazioni
relative ad essa riferite da Matthio in quella sede e dallo
stesso ascoltate qualche giorno prima da un dottore che le aveva, a sua
volta, apprese dalla lettura di un libricciuolo scritto da un dottore di
Padova. Il libricciuolo in questione è il Discorso intorno alla nuova stella63
del filosofo Antonio Lorenzini da Montepulciano, esplicitamente
richiamato nei margini dei vari capitoli del Dialogo, e summa delle
56 Nino Borsellino, Ruzante, in Id., Gli anticlassicisti del Cinquecento, Laterza,
Roma-Bari 1994, p. 97.
57 M. Milani, Galileo Galilei e la letteratura pavana, cit., p. 207.
58 Ruzante, Dialogo Facetissimo, in Ruzante Teatro, cit., p. 693.
59 Id., Dialogo Facetissimo, ivi, p. 697.
60 Id., Il Parlamento, ivi, p. 519.
61 Id., Vaccaria, ivi, p. 1131.
62 Lorenzo Tomasin, Galileo e il pavano un consuntivo, «Lingua nostra», XXXIX,
(2008), n. 1-2, p. 23.
63 Antonio Lorenzini, Discorso Dell’Ecc: Signor Antonio Lorenzini dà Montepulciano,
Padova, Pietro Paolo Tozzi, 1605. Visionabile in versione digitale all’indirizzo
bibdig.museogalileo.it. Drake sostiene che Cesare Cremonini abbia partecipato
attivamente alla stesura del discorso di Lorenzini, cfr. Stilmann Drake Galileo
Galilei pioniere della scienza, (trad. ital.), Padova, Muzzio, 1992; Galileo. Una biografia
scientifica, (trad. ital.) Bologna, Il Mulino, 1988; inoltre, Galileo against the philosophers
in his “Dialogue” of Cecco di Ronchitti (1605) and “Considerations” of Alimberto
Mauri (1606), Los Angeles, Zeitlin and Ver Brugge, 1976. Di Cremonini Asor Rosa
scrive che «poteva vantare l’onore di essere considerato dal senato veneto come il
luminare dell’Università padovana, e che rappresentava in quegli anni la maggiore
autorità dell’aristotelismo ortodosso in Italia, sebbene non di orientamento cattolico
bensì laico», Alberto Asor Rosa, Galilei e la nuova scienza, Roma-Bari, Laterza,
1981, p. 10.
[ 16 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 585
miopi e ottuse convinzioni dei peripatetici in relazione alla Stella nuova.
Lo scritto di Lorenzini rivela argomentazioni talmente deboli e
piene di pregiudizi da portare Antonio Favaro ad affermare che la fazione
peripatetica «difficilmente avrebbe trovato un più infelice difensore:
e basti a giudicarlo, che le sciocchezze da lui date alle stampe
fecero ripetere al Keplero: “O curas hominum, o quantum est in rebus
inane!”»64.
Il libricciuolo diviene motivo di scherno e derisione da parte di
Matthio e Nale, al punto che i due concluderanno il loro dialogo con
l’augurio che il dottore di Padova pubblichi al più presto il suo nuovo
libro in latino, così che loro abbiano nuovamente motivo per ridere e
divertirsi. In linea con un atteggiamento antiscientifico, al limite della
superstizione, è scritto in quel libretto, così riferisce Matthio, che la
causa dell’attuale siccità e mancanza di piogge è da ricondurre alla
presenza della stella. Così i due, nella loro elementare logica, controbattono
affermando che difficilmente una stella posta così lontano
dalla Terra possa determinare tali conseguenze climatiche. Eppure in
quel libretto è scritto che quella stella non è così lontana, in quanto
non è neppure sopra la luna. Ecco che si è toccata la scottante questione
relativa alla collocazione della stella, per i contadini (dunque per
Galileo) nella zona superiore alla luna, per i peripatetici (e dunque per
il dottore autore del libretto, ossia Lorenzini) nella zona sublunare e
corruttibile. In linea con il tipico sarcasmo galileiano verso i filuorichi,
Matthio afferma che i filosofi non hanno le competenze e gli strumenti
per fare misurazioni: «C’hà da fare la so filuoria col mesurare?»
(«Che ha a che fare la filosofia col misurare?»65). Tale domanda, difatti,
ripropone il noto contrasto, esposto anche nelle tre lezioni universitarie
tenute da Galileo, tra il partito dei filosofi legati al principio della
infallibilità del sistema aristotelico, di cui Galileo si è sempre burlato,
e quello dei matematici capaci di solide e dimostrabili argomentazioni66.
Per cui «chi era culturalmente conscio dei rapporti tradizionali tra
osservazione astronomica e metafisica coglieva immediatamente la
64 A. Favaro, Galileo Galilei e lo Studio padovano, cit., pp. 221-222. A quanto riferisce
Keplero, Lorenzini aveva fatto stampare in latino il suo scritto, cfr. Johannes
Kepleri, De Stella nova in pede Serpentari, Pragae, Typis Pauli Sessij, impensis Authoris,
1606, p. 80.
65 Dialogo de Cecco di Ronchitti, cit., p. 315.
66 Galileo nella Giornata terza del Dialogo sopra i due massimi sistemi, in relazione
alle argomentazioni di Lorenzini espresse in tale Discorso, afferma che si tratta
di «sciocchezze di un tal Lorenzini contro gli astronomi», G. Galilei, Dialogo sopra
i due massimi sistemi, in OG, XIV, p. 299.
[ 17 ]
586 gabriella capozza
portata e la profondità della frattura che Galilei disegnava per bocca
di Matthio»67.
Riguardo l’incorruttibilità dei cieli, costituiti da quella «quintessenza
» del tutto diversa dalle quattro sostanze di cui è costituita la
Terra e la sua atmosfera, affermata da Aristotele, Matthio si chiede
quale certezza vi sia. E Nale, con la consueta leggerezza che appartiene
al genere comico, proferisce una frase di grande peso e serietà, ossia
che «se sta stella foesse in Cielo, tutta la filuoria snaturale serae na
bagia» («se questa stella fosse in cielo, tutta la filosofia naturale sarebbe
una baia»68). E Matthio, di fronte al rischio che una stella faccia
crollare le fondamenta della filosofia aristotelica, rincara la dose e sferzante
dice:
L’hà bio torto sta stella, a deroinare così la filuoria de questoro. S’a foesse
in iggi a farae cetarla denanzo al Poestò mi, e si a ghe darae na
quarela de pussession trubata, e si a torrae na cedola reale, e personale
incontra de ella. (L’ha avuto torto questa stella a rovinare così la filosofia
di costoro. S’io fossi in loro, i’ la farei citare al Podestà, la farei, e le
darei una bella querela di turbato possesso, e spiccherei una cedola
reale e personale contra di essa)69.
Così, tra il serio e il faceto, «la dimostrazione galileiana mirava già
ad abbattere l’antica petizione di principio che separava radicalmente
il mondo terreno, imperfetto, irregolare, corruttibile, precario, contingente
e mutevole, dal mondo celeste, perfetto, regolare, incorruttibile,
immutabile»70. Matthio, inoltre, passando a trattare la fondamentale
questione della parallasse, afferma che il dottore di Padova nega le
tesi secondo cui la Stella nuova essendo priva di parallasse apparterrebbe
alla sfera delle stelle fisse, adducendo spiegazioni talmente imbrogliate
e contraddittorie che, se pur chi leggeva il libro le ha spiegate
ben tre volte, nessuno le ha capite: «El gh’è on brutto intrigo de
Prealasse. […] Pensate, che quellù, che lezea la disse, e si la deschiarè
pì de trè botte, e si gnegnuno no l’intendè». («E c’è un brutto intrigo di
parallasse […] Immaginati che colui che leggeva l’ha detta, e poi l’ha
dichiarata più di tre volte, e pure nessuno l’intese»71. Al contrario
67 Enrico Bellone, La stella nuova L’evoluzione e il caso Galilei, Torino, Einaudi,
2003, p. 23.
68 Dialogo de Cecco di Ronchitti, cit., p. 318.
69 Ibidem.
70 A. Battistini, Introduzione a Galilei, Bari, Laterza, 1989, p. 23.
71 Dialogo de Cecco di Ronchitti, cit., p. 324.
[ 18 ]
galilei e la stella nuova tra scienza e letteratura 587
Matthio con un esperimento lineare e facilmente dimostrabile spiega
a Nale che cosa sia la parallasse. Matthio fa guardare a Nale un pioppo
e un salice prima da terra e poi salendo su di un noce, mostrandogli,
in tal modo, come uno stesso oggetto guardato da punti di osservazione
differenti pare posto in posizioni diverse. Così il pioppo pareva più
basso del salice visto da giù, ma salendo sul noce risulta il contrario.
Questo esperimento, che può essere riproposto anche sfruttando le
posizioni di destra e sinistra, spiega cosa sia la parallasse, ossia
quell’apparente spostamento di un oggetto rispetto ad un osservatore,
una sorta di «defenientia de guardamento» («differenza di mira»72),
come la definisce Matthio. Galileo sostiene, come si è visto, che tale
parallasse non interessi le stelle fisse in quanto troppo lontane dall’osservatore
e quindi non suscettibili, allo sguardo, di alcun apparente
spostamento. Allo stesso modo, essendo la Stella nuova priva di parallasse,
visto che la vedono nel medesimo luogo «Spagnaruoli, Toischi
e Pulitani» («Spagnoli, Tedeschi, Napoletani»73), significa che è
lontanissima e appartenente alla sfera delle stelle fisse.
Le affermazioni e le risate dei due mostrano inequivocabilmente
l’inconsistenza di quel libro e, insieme, l’inconsistenza dell’intera filosofia
peripatetica, letteralmente smontata e demolita nelle sue false
certezze. Una demolizione che, paradossalmente, risulta ancora più
feroce proprio perché compiuta non da due dottori, ma da due ignoranti
villani che hanno fatto affidamento nei loro ragionamenti unicamente
sul buon senso, sulla logica e su quelle «sensate esperienze»
che risultano essere le uniche e vere guide della conoscenza. I due
contadini con la loro testimonianza hanno dimostrano con grande
candore come per leggere quel «grandissimo libro che continuamente
ci sta aperto innanzi agli occhi» non siano necessarie elucubrazioni o
contorti sofismi, ma unicamente occhi e mente liberi da ogni pregiudizio.
Matthio e Nale sono la prova che «anche uomini digiuni di studi
capiscono le verità della scienza e che a significarle non fa bisogno il
gergo dei dotti né la lingua latina, e basta il volgare, fino il più incondito
volgare»74.
72 Ivi, p. 329.
73 Ivi, p. 330.
74 E. Lovarini, Galileo interprete del Ruzzante [1927], in Studi sul Ruzzante e la
letteratura pavana, a cura di G. Folena, cit., p. 382. Galileo, in relazione a coloro che
non hanno potuto studiare, scrive: «li quali poi, benché, come dice Ruzzante, forniti
d’un bon snaturale, tuttavia, non potendo vedere le cose scritte in baos, si vanno
persuadendo che que’ slibrazzon ghe suppie de gtan noelle de luorica e de filuorica, e
[ 19 ]
588 gabriella capozza
In questo dialogo si coglie la tipica vis polemica galileiana che, in
un incalzante procedere, attacca l’avversario, continuamente chiamato
in causa e confutato in maniera sempre più stringente, fino alla fatale
stretta finale. Colpisce rintracciare nel Dialogo quella stessa potenza
demolitoria che si rintraccia nella Difesa contro il Capra come, peraltro,
una sintonia di temi e argomentazioni con la Difesa e con le tre
Lezioni universitarie. Un’ulteriore conferma, laddove ve ne fosse bisogno,
della partecipazione di Galilei alla realizzazione del Dialogo.
Un’estrema coerenza e circolarità caratterizza, dunque, le Lezioni, la
Difesa e il Dialogo che appaiono tre espressioni differenti di uno stesso
fenomeno, eppur complementari; definendosi sinergicamente, esse
vanno a illuminare un momento significativo della vita di Galilei in
cui si colgono, se pur in nuce, meccanismi, dinamiche e intuizioni che,
in maniera assai più complessa, esplicita e drammatica, si andranno
sviluppando nell’esistenza futura dello scienziato, in quella lunga
«strada verso il vero lastricata di difficoltà»75.
Ecco che il dialetto, l’ironia, la comicità, la «snaturalitè» divengono
strumenti di smascheramento e garanzia di una reale conoscenza che,
nel momento in cui si fa conquista, si traduce immediatamente in nuova
tensione, pervasa dalla «coscienza commossa di chi si avventura in
una terra inesplorata […] e in un mondo infinito ancora pieno di
misteri»76. Di qui una scrittura che rivela, come dice Italo Calvino, una
sorta di «incantata sospensione»77 propria di chi guarda con occhi nudi
e stupiti un mondo che non smette di disvelarsi nella sua meravigliosa
verità.
Gabriella Capozza
Università degli Studi di Bari
conse purassè, che strapasse in elto purassè, et io voglio che’ vegghino che la natura, sì
come gl’ha dati gl’occhi per vedere l’opere sue così bene come a i filuorchi, gli ha
anco dato il cervello da poterle intendere e capire». Lettera di Galileo a Paolo Gualdo,
cit., p. 327.
75 P. Guaragnella, Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano, Bari, Palomar,
1997, p. 251.
76 A. Battistini, Introduzioni a Galilei, cit., p. 35.
77 Italo Calvino, Una pietra sopra Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi,
1980, p. 186.
[ 20 ]
Ignazio Castiglia
«L’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni»:
osservazioni sul teatro di Francesco Benedetti
(1785-1821)
L’articolo fa luce sulla figura del tragediografo Francesco Benedetti, patriota
affiliato alla Carboneria dal 1808 e morto suicida nel 1821. Ostile tanto al modello
alfieriano quanto alle poetiche romantiche, Benedetti concepiva il teatro come
scuola di «virtù pubbliche e domestiche» e incentrava le sue opere su personaggi
eroici il cui sacrificio doveva suscitare negli spettatori e nei lettori una
nuova coscienza dei doveri da assolvere nei confronti della patria oppressa.

This article sheds light on the tragedian Francesco Benedetti, a patriot affiliated
with the Carboneria from 1808 onwards and who committed suicide in 1821.
Ill-disposed both towards Alfieri and Romanticism, Benedetti thought of theatre
as a school of “public and private virtue” and centred his works on heroic
characters whose sacrifice was supposed to engender in audiences and readers
alike a new awareness of their duties towards the downtrodden fatherland.
«Dirvi ch’io sia, saria parlare indarno: / ché il nome mio… molto non
suona»1. Questa citazione dantesca (Pg XIV, vv. 20-21), collocata in epigrafe
all’Orazione alla Sacra Lega intorno alle cose d’Italia in occasione del
Congresso d’Aquisgrana, dice parecchio della personalità dell’estensore
di tale allocuzione, Francesco Benedetti, persino per la vistosa omissione
(«ancor molto non suona») che la contraddistingue, quasi che
questi, a trentatré anni compiuti, disperasse oramai di pervenire a una
pur minima considerazione all’interno del Parnaso italiano. E i fatti
sembrano indiscutibilmente avergli dato ragione: oggi come allora, il
nome di questo poeta di Cortona, prolifico e indefesso autore di tragedie,
patriota affiliato alla Carboneria dal 1808, morto suicida nel 1821,
Autore: Università degli Studi di Palermo; dottore di ricerca e docente a contratto;
ignazio.castiglia@unipa.it
1 Francesco Benedetti, Orazione alla Sacra Lega intorno alle cose d’Italia in occasione
del Congresso d’Aquisgrana, in Id., Opere, a cura di Francesco Silvio Orlandini,
Firenze, Le Monnier, 1858, II, p. 434.
590 ignazio castiglia
rimane quello di un autentico carneade della nostra letteratura2. Una
damnatio memoriae non avrebbe sortito effetti più lusinghieri. Ma a cosa
può essere imputato tanto immeritato oblio?3 È plausibile che a
sconcertare e a confondere lettori e studiosi dell’Ottocento sia stata la
complessa personalità dell’autore. Carattere schivo e spigoloso, sferzante
e caustico coi suoi avversari sia nell’agone politico che in quello
letterario, Benedetti s’atteggia sovente a bastiancontrario nella cultura
coeva: nel campo delle «pubbliche cose», in particolare, egli pare non
di rado compiacersi di questo suo isolamento, se nella succitata Orazione
alla Sacra Lega arriva a celebrare se stesso al pari di uno dei tanti
eroi delle proprie tragedie che, in splendida solitudine, difende, lui
solo, i diritti calpestati della patria oppressa e ha l’ardire di svelarne ai
regnanti europei la miseria e lo squallore celati loro dalle altrui «timidità
» e «obblique mire»:
Parrà strano ed ardito consiglio il mio, potentissimi principi e rettori di
popoli, che privato cittadino e di niuna magistratura rivestito, m’intrometta
a parlar di pubbliche cose: ma conosciuta la cagione che mi muove,
il desiderio, cioè, di vedere questa misera mia Patria riposta in migliore
stato che al presente non è, non mi sarà certamente apposto a
delitto: né sarà tenuta baldanza la mia, se […] mi farò interprete dei
sensi di un popolo che bisognoso di tanto ajuto, non ha presso di voi
né chi lo rappresenti, né oratori che la sua causa si facciano a propugnare.
[…] Voi, o principi, cangiaste sì fatta Italia, e ve ne chiamaste
liberatori. Se niuno dei vostri prefetti, niuno dei tanti che vi circondano
ha osato mai farvi la narrazione fedele dello stato in cui l’avete posta,
io ve la farò: io non lusingato dal desiderio di splendida fortuna, né
avvilito dall’aspetto della miseria, io porterò in mezzo a voi la nuda e
semplice verità, solo bisogno vostro, che per timidità o per obblique
mire vi è tenuta sempre celata4.
Ma il vero problema – ciò che forse più d’ogni cosa ha contribuito
a eclissarne la fama – è che si tratta di un poeta difficilmente classificabile:
anticonformista per natura, ostenta la sua ostilità nei confronti
del romanticismo proprio quando esso maggiormente raccoglie ade-
2 Per un profilo biografico di F. Benedetti, si rinvia a F. S. Orlandini, Di Francesco
Benedetti e delle sue opere, introd. a F. Benedetti, Opere, cit., I, e Giulia Camerani
Marri, DBI, VIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1966, ad vocem.
3 Cfr. Beatrice Alfonzetti, Ritratti di carbonari: Francesco Benedetti, in Ead.,
Dramma e storia. Da Trissino a Pellico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013,
p. 214.
4 F. Benedetti, Orazione alla Sacra Lega, cit., pp. 434-437.
[ 2 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 591
sioni e consensi fra i principali scrittori italiani5; inoltre, non si limita a
rifiutare il modello alfieriano (cui rimprovera essenzialmente la mancanza
di naturalezza nella lingua e nella condotta dei personaggi, ciò
che lo pone già ai margini delle principali tendenze del teatro contemporaneo)
preferendogli il Maffei (nemmeno lui, del resto, immune ai
suoi occhi da difetti)6, ma si dissocia platealmente dall’ammirazione
entusiastica dei colleghi romantici per il Bardo inglese demolendone
impietosamente le colonne portanti della drammaturgia:
[…] Shakespeare […] ti pone in una tragedia persino trentotto personaggi,
e fa passar l’azione ora in Roma, ora in Modena, ora in Grecia: i
Tribuni dialogizzano coi falegnami e coi calzolai; duplicità e triplicità
5 Nel fascicolo del settembre 1816 del «Giornale di Letteratura e Belle Arti» da
lui fondato e diretto, apparve (alle pp. 16 ss. del vol. I) una feroce satira del romanticismo
intitolata La Romanticomania. Dialogo fra Madonna [Madame de Staël], Messer
lo Giornalista [l’autore stesso] e il Cavaliere [L. Di Breme], che può servir d’antidoto
alla Lettera inserita nel n. 6 della «Biblioteca Italiana», p. 417, e al libro di Monsieur de
Breme intitolato «Discorso» ecc., trovato dopo la morte di detto Messere fra gli altri suoi
manoscritti. Ambientato nel castello di Fanfaluconia, ove si svolgono le riunioni di
una fantomatica Accademia Romantica, il dialogo assume come privilegiato bersaglio
polemico i Canti di Ossian: «Perché nuove scuole si hanno da introdurre fra
noi? Qual dono funesto non ci ha fatto il Cesarotti con il suo Ossian? Cucullino ha
tentato arrogantemente di assidersi fra Goffredo ed Orlando, e poco è mancato che
i boschetti incantati di Armida e di Alcina non si sian cangiati nelle selve e nei
monti di gelo della Scandinavia» (citiamo il testo da Silvio Marioni, Francesco
Benedetti [1785-1821], Arezzo, Premiato Stabilimento Tipografico Operaio E. Sinatti,
1897, p. 137). Al pamphlet replicò con un certo aplomb il Borsieri in una nota alle
Avventure letterarie di un giorno, cap. VI, in cui fra l’altro si legge: «Ci troviamo in
debito di dire a quel Giornalista che un Messere che fa lo spiritoso è una gran brutta
cosa; e ch’egli non ha ancora capito ciò che significhi la parola romantico» (Pietro
Borsieri, Avventure letterarie di un giorno o Consigli di un galantuomo a vari scrittori,
in I manifesti romantici del 1816 e gli scritti principali del «Conciliatore» sul Romanticismo,
a cura di Claudio Calcaterra, Torino, Utet, 1951, p. 224; si veda altresì,
nella stessa pagina e nella successiva, la nota del curatore).
6 «Comparve finalmente l’Alfieri, che avendo composto un buon numero di
tragedie, fu chiamato, a preferenza del Maffei, il creatore dell’italiana tragedia.
Coll’aver egli voluto superarlo nell’istesso soggetto, ben si può vedere da chi ha
fior d’ingegno quanto ei sia rimasto indietro al suo rivale nello stile, che non ha
l’eleganza, naturalezza e rotondità di quello del Maffei, negli affetti, che per amor
di novità ha traditi, nelle situazioni sforzate, nella condotta strana ed inverosimile
[…]. È ben vero, che anche il Maffei ha non pochi difetti, che mi sembrano consistere
in una troppa grecità, in una semplicità soverchia, che confina col basso, in
qualche situazione mendicata e non propria della tragica dignità, nello stile qua e
là trascurato, troppo fiorito e talor languido» (F. Benedetti, Discorso intorno al teatro
italiano, in Id., Opere, cit., II, p. 386).
[ 3 ]
592 ignazio castiglia
di azione; tragedie della durata di tre delle nostre: ombre, furie, fate,
prosa e verso, riso e pianto, ed un accozzo delle più strane ed insociabili
cose. Saranno queste delizie per gl’Inglesi, pei Tedeschi e pei popoli
tutti settentrionali; ma a noi che abbiamo un sentimento più delicato
del bello, che amiamo d’imitare la nobile e non la greggia natura, tale
abuso di fantasia, tali inverisimiglianze, e dirò pur francamente tali
indecenze, non ben si confanno7.
Con maggior benevolenza guarda invece ai tragediografi francesi
(e segnatamente a Voltaire), sebbene non risparmi critiche neanche ad
essi, fra l’altro riprendendo senza molta originalità alcuni dei rilievi
già avanzati nel secolo precedente dai vari Martello, Maffei, Conti e
Calepio:
Gl’istessi Francesi, che più converrebbero a noi perché si sono formati
sui Greci nostri comuni maestri, non debbono essere che con molto riserbo
imitati. I loro amori elegiaci, il carattere parigino onde atteggia-
7 Ivi, pp. 403-404. La posizione del Benedetti, come si vede, è assai più oltranzistica
di quella dei classicisti come V. Monti, nel cui Galeotto Manfredi non solo si
infrangono le unità di tempo e d’azione classicamente intese e si prende di mira lo
Stagirita con parole esplicite già nella dedica («[…] qui non tocca a noi il decidere,
bensì al pubblico, dinanzi al cui tribunale spariscono i privati giudizj e Aristotele
medesimo deve star cheto»: Vincenzo Monti, Galeotto Manfredi principe di Faenza,
a cura di Arnaldo Bruni, Bologna, CLUEB, 2005, pp. 5-6), come d’altronde era già
avvenuto nell’Esame critico dell’autore sopra l’“Aristodemo”, ma viene preso a modello
nientemeno che l’Otello di Shakespeare, di quel poeta, cioè, che più d’ogni altro
costituisce per i romantici l’emblema della loro volontà di spezzare le consuetudini
più trite dell’arte drammatica. Dei rilievi del Nostro sembra far tesoro, invece, il
Pagani Cesa allorché impreca con la sua consueta veemenza contro le «mostruosità
di Shakespear [sic], e d’altri, nelle quali sono tutte offese le regole del nostro
Teatro; e gli uomini più insigni d’Inghilterra […] assistono a quelle rappresentazioni,
vi applaudiscono con furore, e non sanno immaginar cose più sublimi di quelle.
Senza norme di alcun bello ideale (secondo noi) il loro Shakespear dipinge la Natura
nella sua prima selvatichezza. Rozzi costumi, feroci, crudeli, servi sciocchi,
padroni brutali, velenj, assassinj, ombre, facezie di volgo, personaggi all’infinito;
ora si piange, or si ride; s’aprono l’Inferno e il Cielo: e tutti piangono e raccapricciano.
Tutti gli Autori più gravi e sensati lo imitano […]. Miseri noi! Che sarà mai
di questa nostra ragione?» (Giuseppe Urbano Pagani Cesa, Sovra il teatro tragico
italiano. Considerazioni, Firenze, Presso il Magheri, 1825, p. 81). Sulla ricezione del
Bardo in Italia agli inizi del XIX secolo si vedano, fra gli altri, Siro Attilio Nulli,
Shakespeare in Italia, Milano, Hoepli, 1918, pp. 153-192, Giorgio Pullini, Teatro
italiano dell’Ottocento, Milano, Vallardi, 1981, pp. 5 e 16, Ezio Raimondi, Romanticismo
italiano e romanticismo europeo, Milano, B. Mondadori, 1997, pp. 1-5, e Ignazio
Castiglia, Sull’orme degli eroi. Silvio Pellico e il teatro romantico, Palermo, Kalós,
2015, pp. 32-35.
[ 4 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 593
no i più severi eroi dell’antichità, la nojosa verbosità del dialogo, la
languidezza dell’azione, l’abuso dei personaggi secondari e la stemperatura
del loro stile, sono scogli da evitarsi, mentre la saggezza e profondità
della condotta, la bellezza delle situazioni, l’effetto teatrale e lo
stile medesimo, dove non rilutta la lingua povera e nuda, li ripongono
a lato degli antichi, ed è necessità pur confessarlo, sopra tutte le moderne
nazioni8.
L’esito finale di siffatte considerazioni è un teatro necessariamente
di compromesso, che da Alfieri ricava il gusto per la brevità, il ritmo
«ad ora ad ora rapido ed incalzante dei dialoghi»9 e la maestosità dei
caratteri; da Maffei (ma anche da Metastasio)10 «l’eleganza, naturalezza
e rotondità»11 dello stile, assai lontano da quella «espressione forte, ma
inceppata e anche dura dantesca»12 che il Calzabigi tanto ammirava
nell’Astigiano; dai francesi e dai greci, infine, l’umanità dei personaggi,
la sfera dei sentimenti, la tenerezza della dimensione affettiva che fa
breccia anche nei cuori più inflessibili e che non di rado si manifesta nel
pianto liberatorio dell’eroe: «Quel delizioso fremito che ti ricerca le viscere
e ti spreme le lagrime dagli occhi […] tu provi alla lettura delle
tragedie greche e francesi […]. Il pianto non è stato considerato cosa
effeminata e vile eccetto che dall’Alfieri. […] Guai a chi non ha mai
pianto, e più a chi si vergogna di far piangere!»13. Non a caso, anche
nelle tragedie più connotate ideologicamente, Benedetti evita che la
politica la faccia da padrona e che vi si parli solo «della vendetta e della
libertà»14, e introduce tematiche amorose che mai scadono nel patetico
o nello sdolcinato e che ben si equilibrano con quelle patriottiche.
Ora, nel valutare il corpus tragico del Cortonese non si può non tener
conto della funzione pedagogica e parenetica ad esso assegnata: «L’arte
drammatica incivilisce e nobilita le nazioni»15, si legge nel Discorso sulla
necessità di un teatro nazionale, sicché è indispensabile che «il popolo si
8 F. Benedetti, Discorso intorno al teatro italiano, cit., p. 404.
9 Ivi, p. 395.
10 «[…] lo stile del Metastasio è tragico. La troppa armonia, che non è stata
stimata delitto in poesia se non dopo l’Alfieri, mi sembra giovare, invece che nuocere,
allo stile tragico» (ivi, p. 405).
11 Ivi, p. 386.
12 Lettera di Ranieri de’ Calsabigi all’autore sulle quattro sue prime tragedie, in Vittorio
Alfieri, Tragedie, a cura di Gianna Zuradelli, Torino, Utet, 1973, t. II, p.
1817.
13 F. Benedetti, Discorso intorno al teatro italiano, cit., p. 389.
14 Ivi, p. 393 n.
15 Id., Discorso sulla necessità di un teatro nazionale, in Id., Opere, cit., II, p. 478.
[ 5 ]
594 ignazio castiglia
aduni, onde vedere, per via di finti argomenti, dipinte le vicende di chi
regge, e di chi è retto; dei re, e dei cittadini»16. Per questa via, il teatro
viene a configurarsi come «una nuova scuola, in cui s’insegnano le virtù
pubbliche e domestiche, che formano la prosperità e lo splendore delle
nazioni»17. E i maestri chiamati a educare il popolo in questa «nuova
scuola» sono ovviamente gli eroi, la cui abnegazione e il cui sacrificio
rappresentano un modello di virtù suprema per le nuove generazioni,
stimolate così alla realizzazione dell’alta e magnanima impresa – la redenzione
della patria – di cui essi sono i profeti. Proprio agli eroi Benedetti
dedica dei ritratti nelle Vite d’illustri Italiani, una raccolta di biografie
di ‘patrioti’ ante litteram che s’inserisce nel solco di una recente tradizione
à la page proveniente d’Oltralpe, dal luogo, cioè, «dove la maggiore
intensità dei rivolgimenti, il più rapido mutare degli uomini e dei
regimi rendeva immediato il desiderio di “ritrarre” nel succedersi di
profili individuali un’epoca in cui il protagonismo dei singoli sembrava
aver preso il sopravvento sulle logiche profonde del processo storico»18.
Nella Vita di Giovanni di Procida, in particolare, dopo aver narrato con
esaltato fervore la sollevazione dei Vespri, l’autore osserva:
Questa carneficina di stranieri, la sola per ora accaduta in Italia, serva di
esempio a noi, e di terrore agli stranieri, che tanto baldanzosi e sicuri vengono
a trescar nella misera Italia. Procida morì qualche anno dopo a
Roma amato e venerato da’ suoi concittadini; e il suo nome sarà sempre
di conforto ad ogni buon Italiano, e formidabile a chiunque ha sangue
francese nelle vene19.
Il buon esempio non ha, dunque, una funzione meramente moralizzatrice
e didascalica, ma serve a suscitare nel lettore una nuova –
eppure antica – coscienza dei doveri da assolvere nei confronti della
patria, che potrà tornare alla grandezza avita se i suoi abitanti sapranno
imitare le gesta di siffatti eroi. È lo stesso biografo a dichiararlo
apertis verbis nella Vita di Lorenzo de’ Medici, detto Lorenzino il Traditore,
laddove, rivolgendosi direttamente con un’infuocata orazione al personaggio
celebrato, dichiara: «[…] te alla imitazione dei contempora-
16 Ibidem.
17 Ivi, p. 483.
18 Luigi Mascilli Migliorini, Biografie della rivoluzione: tra storia e letteratura,
in I riflessi della rivoluzione dell’89 e del triennio giacobino sulla cultura letteraria italiana,
a cura di Giorgio Varanini, Pisa, Giardini Editori e Stampatori, 1992, p. 217.
19 F. Benedetti, Vite d’illustri italiani, Lione, Blanc e Hervier Editori, 1843, p. 31
(il corsivo è nostro).
[ 6 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 595
nei e a vituperio dei servili ingegni ho proposto con animo impavido,
fermo e da ogni presente bruttura incontaminato»20. Ma è nella Vita di
Francesco Burlamacchi che il Benedetti maggiormente esplicita – e quasi
teorizza – la funzione esortatoria delle vite dei grandi allorché immagina
che il martire lucchese abbia tratto ispirazione per le sue battaglie
dalle Vite di Plutarco, e specialmente da quella di Pelopida, che
«più che altre gli aveva ferito l’animo»21, ciò a dimostrazione di «quanto
sia efficace la lettura degli scrittori che narrano le gesta dei liberatori
della loro patria, e quanto ne restino infiammati gli animi di coloro
che sono dalla natura ad alte cose destinati»22.
Tale principio può tranquillamente essere esteso alle tragedie benedettiane,
che assumono così un’analoga finalità suasoria e parenetica.
A tal proposito va però chiarito un punto fondamentale. Come è
stato rilevato esemplarmente in un recente saggio, agli inizi dell’Ottocento
«la storia contemporanea (anche quella consegnata al filtro di
una fictio d’ambientazione) assume nella scrittura, nella rappresentazione
teatrale e nell’immaginario intellettuale i connotati dell’universalità
spaziale e temporale»23, motivo per il quale le tragedie, al pari di
altri generi, «trovano la loro ragion d’essere e il proprio motivo ispiratore
in situazioni paradigmatiche e accolgono come protagonisti i personaggi
più illustri tra gli attori reali della storia contemporanea, protagonisti
di vicende effettuali, di cui plutarchianamente si evidenziano
le competenze catartiche, ora in senso positivo ora in senso negativo,
invitando lo spettatore all’esaltazione o alla riprovazione»24. Da
qui l’assidua presenza nei palcoscenici del tempo di figure in cui è
possibile ravvisare allusioni al Bonaparte, ai suoi congiunti, ai suoi
alleati o ai suoi avversari nello scacchiere europeo. I drammi del Benedetti,
tuttavia, non vanno letti come mere trasposizioni sceniche di
eventi politici prive di autonomo interesse drammaturgico, ché anzi
egli sembra sovente servirsi della storia contemporanea per vivificare
e rendere attuali e plausibili personaggi e avvenimenti richiamati dalle
caligini di un passato mitico, ancestrale. Lo prova il fatto che i riferimenti
a Napoleone non rivestono qui alcuna finalità propagandisti-
20 Ivi, p. 263.
21 Ivi, p. 267.
22 Ibidem.
23 Francesco Saverio Minervini, Ontologia dell’eroe tragico. Prospettive civili
e modelli etici nel teatro fra età dei Lumi e primo Risorgimento, Modena, Mucchi,
2010, p. 41.
24 Ibidem.
[ 7 ]
596 ignazio castiglia
ca, anzitutto perché la maggior parte delle tragedie del Cortonese risale
al periodo successivo alla disfatta di Waterloo, quando anche il più
infervorato bonapartista avrebbe compreso che in Europa si era definitivamente
conclusa quella fase storica, e poi perché lo stesso Benedetti
si rivela tutt’altro che un irriducibile partigiano del deposto imperatore.
Se infatti già nell’ode Per la nascita del figlio di Napoleone I, risalente
al 1811, quando la potenza del grande corso era allo zenit, il
poeta, «vergin di servo encomio», osava scrivere: «Sottoporla [l’Italia]
del Franco al crudo artiglio / amor non è di figlio. / Alla stirpe magnanima
di Bruto / è questa la mercede / che serbi, e questa è la giurata
fede?»25, più tardi, nell’Orazione alla Sacra Lega, astenendosi dal
«codardo oltraggio» da altri attivamente praticato, con non minore
audacia e determinazione asserisce che «l’Italia sotto il dominio di un
solo […], se non libera interamente, schiava non era»26, e nel confronto
fra la dominazione francese e quella dei sovrani testé riposti sugli aviti
troni non ha dubbi: «Fra l’Italia del Bonaparte e la vostra, o re, il
giudizio è dato. Era abborrito il nome di quell’ingrato Italiano; ma voi,
voi stessi l’avete fatto caro»27. Non esattamente una professio fidei nel
bonapartismo, come si vede, valutato, col senno di poi, alla stregua di
un male minore rispetto al soffocamento di ogni libertà perpetrato durante
la Restaurazione. Ora, esaminando nello specifico il corpus tragico
benedettiano ci si accorge non solo di quanto l’autore sia alieno da
qualsivoglia intento di proselitismo neo-napoleonico, ma anche del
fatto che il suo teatro, pur presentando frequenti richiami alla fase
politica appena trascorsa o a quella coeva, non istituisce mai corrispondenze
ferree tra circostanze reali ed eventi inscenati. Il problema
è che queste tragedie sono popolate da figure che appartengono a un
mondo lontano, atavico, comunque irrimediabilmente perduto, e alle
loro vicissitudini difficilmente lo spettatore ottocentesco potrebbe appassionarsi
e commuoversi in assenza di una prospettiva più ravvicinata:
gli accadimenti del proprio tempo vengono perciò chiamati a
rendere attuali, moderni – e dunque credibili e verosimili – soggetti
sottratti definitivamente all’obsolescenza cui sembrava averli condan-
25 F. Benedetti, Rime, in Id., Opere, cit., II, pp. 263-264. «Ma come il poeta è
lungi dall’adulare il dominatore del mondo», osservava parimenti S. Marioni,
«come francamente lo consiglia a deporre le mire ambiziose! […] Con che caldi
versi e con che liberi detti il poeta rammenta a Napoleone i suoi doveri verso l’Italia
» (Francesco Benedetti, cit., p. 33).
26 F. Benedetti, Orazione alla Sacra Lega, cit., p. 437.
27 Ivi, p. 446.
[ 8 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 597
nati la storia e chiamati a svolgere la funzione edificatoria e parenetica
assegnata loro di volta in volta dal poeta.
La veridicità di tale assunto ci pare risulti di tutta evidenza già nel
primo capolavoro del Benedetti, il Mitridate28, allestito con successo
alla Pergola di Firenze il 7 agosto 1815 ma composto nel 1809. La recensione
anonima pubblicata cinque giorni dopo sulla «Gazzetta di
Firenze» elogia significativamente la «maestria [dell’autore] nel tratteggiare
i grandi caratteri»29, rilevando altresì che «quello di Mitridate
sì celebrato nella storia nulla ha perduto della sua forza, e grandezza»30.
L’articolista, con comprensibile prudenza, non esplicita i motivi per
cui il protagonista avrebbe mantenuto le doti umane tradizionalmente
attribuitegli dalle fonti, e tuttavia essi risultano facilmente intellegibili
fin dal suo primo apparire in scena: in lui si adombra infatti la figura
di Napoleone che con eroica spavalderia, momentaneamente vinto
ma non domo, intende affrancare il mondo dal giogo tirannico di Roma
– nella quale, di conseguenza, andrebbero riconosciute le potenze
coalizzate a suo tempo contro la Francia31:
Empi! rapir, svenare;
toglier con falsi nomi altrui gl’imperi;
sparger discordie fra l’incaute genti;
poi farsi usurpatori, e il ferro e il fuoco
portar dovunque libertà s’adora.
E poi ne fanno sì gran pompa! In altri
la premiano così. Chi cittadino
non è di Roma è barbaro, che suona
28 Prima del Mitridate, Benedetti aveva composto un’unica tragedia, il Telegono
(1803), una scipita variazione sul tema edipico dell’incesto che trasporta il mito
originale da Tebe ad Itaca. Su di esso si vedano i rilievi – giustamente severi – di S.
Marioni in Francesco Benedetti, cit., p. 34, e di Emilio Bertana ne La tragedia, Milano,
Vallardi, s.d., pp. 355-356.
29 «Gazzetta di Firenze», 12 agosto 1815, p. 4.
30 Ibidem.
31 Se volessimo indulgere in interpretazioni storicistiche, dovremmo riconoscere
in tali potenze quelle della V coalizione anglo-austriaca, formatasi appunto
nel 1809, e quindi nella sconfitta di cui parla Mitridate un rimando a quella subita
da Napoleone ad Aspern-Essling il 21-22 maggio (riscattata però dalla vittoria di
Wagram il 5 luglio e dalla conseguente occupazione di Vienna), oppure un’eco
delle battaglie di Oporto (12 maggio) e di Talavera (28 luglio) vinte dagli inglesi
(compensate però dal successo francese nella battaglia di Ocaña il 19 novembre).
Ma ammesso (e non concesso) che ciò sia possibile e legittimo, risulterebbe alla fine
nient’altro che un esercizio ozioso: il cuore della tragedia, come si vedrà fra
poco, risiede in ben altro.
[ 9 ]
598 ignazio castiglia
per lor men ch’uom, benché pe’ suoi Penati
pugni, per le sostanze e per la vita,
e non per vana ambizïon d’impero.
Ladroni universali, il ferreo scettro
sulle immense ruine alzan del mondo (I iv, p. 61)32.
A più riprese Mitridate si esalta nel proclamare la propria missione
‘democratica’ e umanitaria: «Io sempre / contro la tirannia pel mondo
oppresso / ho combattuto: io solo argine fui / di Roma alla fortuna»
(III ix, p. 84), afferma; eppure le rispondenze fra questi e il Bonaparte
si fermano qui: una volta ‘rianimato’, ‘galvanizzato’ il personaggio
grazie al bagno lustrale nell’attualità politica, la vicenda prosegue autonomamente
da essa, come si intuisce già dal fatto che, più che sugli
accenti trionfalistici del sovrano, è sul suo disastrato contesto familiare
che si concentra l’attenzione del poeta. Ingannato e tradito dal figlio
Farnace, deluso nelle sue speranze amorose, Mitridate s’aggira sulla
scena in preda alle passioni più disparate passando repentinamente
«dalla simulazione, al furore, e alla tenerezza»33, come notava già l’entusiasta
recensore fiorentino. Nella tragedia s’intrecciano abilmente
due piani: la vicenda pubblica, relativa alla guerra del Ponto contro
l’esercito di Pompeo, e quella privata imperniata sulle contese domestiche
innescate dall’audace e ambizioso disegno di Farnace di detronizzare
il padre facendo leva sul suo unico punto debole, l’amore per
la schiava Cleonice, figlia del deposto re di Bitinia e occulta amante
dell’altro figlio di Mitridate, Sifare. La trama, come si vede, non si discosta
troppo da quella dell’opera omonima di Racine34, ma c’è un
aspetto sul quale Benedetti sembra maggiormente puntare rispetto
32 Per quanto riguarda i testi delle tragedie benedettiane presentate da qui in
avanti, avvertiamo che le citazioni dal Mitridate e dalla Pelopea sono desunte dal I
vol. delle Opere curate da F. S. Orlandini, mentre quelle dal Timocare e dal Cola di
Rienzo sono tratte dal II vol.
33 «Gazzetta di Firenze», cit., p. 4.
34 I pochi studiosi del passato occupatisi della nostra tragedia hanno insistito
molto sulla derivazione di essa dalla pièce francese («Nel Mitridate ormeggiò il Racine
», si legge per es. in E. Bertana, La tragedia, cit., p. 356); posto che istituire un
confronto fra due lavori così lontani cronologicamente l’uno dall’altro e fra due
drammaturghi di così diverso estro ha poco senso, va almeno rilevato che la differenza
maggiore con cui Benedetti intese smarcarsi dall’ingombrante modello va
individuata nel personaggio di Cleonice (Monima in Racine), qui contesa dai soli
Sifare e Mitridate, lì concupita anche da Farnace, con l’ovvia conseguenza che in
Racine «l’amore, si può dire, è tutto, mentre nel Benedetti è un episodio» (S. Marioni,
Francesco Benedetti, cit., p. 45).
[ 10 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 599
all’archetipo barocco, ovvero la commiserazione per la sorte del protagonista:
raggirato come un fanciullo dall’astuto Farnace, prigioniero
dei suoi sogni, incapace di distinguere fra i suoi stessi congiunti chi gli
è fedele da chi non lo è («Chi t’ama / talor confondi con chi più t’aborre
» [II ii, p. 65], gli rimprovera la moglie Stratonica), egli è oramai
l’ombra dell’antico guerriero. Si veda, ad esempio, con quanta tenerezza
e commozione l’eroe di cento battaglie rievochi l’istante in cui
gli apparve Cleonice e se ne invaghì:
La notte al padre suo fatal rammento
ch’espugnai Nicomedia, e di guerrieri
inondai la sua reggia. Io la scorrea
tutto di sangue asperso, e il brando in alto
ferocemente. Risonar s’udia
di gemiti, di misero tumulto
l’atrio regale, e di femineo pianto.
Vidi allor fra mille aste e mille faci
Cleonice apparir: quei truci volti,
dei ferri ignudi il balenar, le incerte
ombre notturne la rendean più bella.
Tremante, sbigottita, semiviva,
sparse le chiome e di pallor dipinta,
ai piedi miei cadendo, il volto alzava
irrigato di pianto; e fra i sospiri
e i singulti interrotta era la voce,
che flebilmente ancor mi suona in core.
[…]
Da quell’istante arsi per lei d’amore,
né spengerà tal fiamma altro che morte (I iii, pp. 58-59).
Infiacchito dall’amore senile per una giovinetta più che dagli anni,
Mitridate è preda di un cupio dissolvi che lo conduce a un passo dalla
morte e che solo nell’ultima scena viene spazzato via dall’esortazione
di Sifare ad «ascoltare il campo / che freme, e vuol battaglia» (V x, p.
99) e a punire l’orgoglio romano.
La pièce, nel complesso, appare sospesa a metà fra tradizione e innovazione:
se infatti nei dialoghi amorosi fra Cleonice e Sifare Benedetti
si rifà smaccatamente a Metastasio e, più in generale, alla librettistica
sette-ottocentesca con l’uso intensivo di espressioni quanto mai
convenzionali e usurate35, con la scena di pazzia di Stratonica il poeta
35 È il caso, in particolare, di questo ‘duetto’ che sembra quasi un pot-pourri di
luoghi comuni dell’opera seria: «Sifare: Veder l’amato oggetto in gran periglio, / né
[ 11 ]
600 ignazio castiglia
anticipa di poco i deliri di Tecmessa nell’Ajace foscoliano36 e inaugura
un topos del teatro romantico destinato a lungo successo sia in ambito
tragico che in ambito melodrammatico:
Non odi intorno intorno
un lagrimevol gemito confuso?
Larve, di sangue orribilmente asperse,
si aggiran per la truce ombra notturna:
– Vieni, vieni – mi gridano. Vi uccise
Mitridate, lo so; me pur fra poco…
[…]
Chi, chi m’immerge
il ferro in sen? Sei tu? Svenami pure:
ma il figlio, il figlio mio…
[…]
Nera, profonda
notte di morte e tradimento è questa (V v, p. 95)37.
poterlo aitar, né di un sol detto / né di un cenno giovarlo! Ah! no, che pena / aver
non può l’Averno a questa eguale. / […] Credimi, non è più per me la vita. / O il
genitor m’uccide, o il mio dolore / m’ucciderà; se accogliere poss’io / speranza
dolce che il mio freddo avello / verrai talor di lagrime furtive / a spargere, mi fia
cara la morte. / Cleonice: Crudel che sei! con sì teneri sensi / non lacerarmi il cor»
(IV iv, pp. 88-89). Benedetti non era davvero portato per la rappresentazione dei
trasporti amorosi, e coglieva nel segno S. Marioni nel rilevare un dato incontestabile:
«L’amore scambievole di Monima e di Sifare, […] nutrito fra le speranze più
dolci e fra i timori della vendetta di Mitridate, è dipinto da Racine con finezza
psicologica mirabile. In questo il Benedetti rimane immensamente inferiore»
(Francesco Benedetti, cit., p. 45)
36 Cfr Ugo Foscolo, Ajace, V i.
37 Autentico locus classicus del teatro ottocentesco, la follia, genericamente intesa
come un’alterazione momentanea o perenne della personalità, prende forme
assai diverse, dal delirio al sonnambulismo, dalla psico-nevrosi alla visionarietà
allucinata, ma in ogni caso intende destare nel pubblico un senso d’inquietudine e
di terrorizzante mistero. Largamente sfruttato nel melodramma (dal Sigismondo di
Rossini al Nabucco di Verdi, passando attraverso le varie eroine di Bellini, Donizetti
e Mercadante) ma non privo di significative attestazioni nell’ambito della tragedia
(Pellico ne farà un uso intensivo e sistematico fin dalla giovanile Laodamia),
questo tipo di scena deve il suo intensivo impiego in Italia all’influsso del teatro di
Shakespeare (Amleto, Re Lear, Macbeth) da un lato, e dall’altro al fatto che, essendo
«la passione […] rivelatrice dei più riposti moti dell’io, più che nei termini dell’analisi
razionale essa si presta a essere manifestata dai linguaggi privilegiati dell’inconscio,
donde la predilezione per le situazioni in cui il personaggio è presentato
in stato di parziale o totale obnubilamento della coscienza» (Fabrizio Della Seta,
Italia e Francia nell’Ottocento, in Storia della musica, Torino, Utet, 1993, IX, p. 169). Si
rinvia in merito anche al recente saggio di Marzia Pieri, Ossessioni, deliri e trance:
[ 12 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 601
Come s’è detto precedentemente, Benedetti rifugge dalle durezze e
dalle asperità tipiche dello stile alfieriano, sicché, a parte alcuni versi
frammentati38 o qualche citazione dell’Astigiano39, il Mitridate, rara
avis nel coevo panorama teatrale, è fra i pochi esempi di tragedia completamente
affrancata dal deferente omaggio all’illustre modello. In
due opere del 1817, la Pelopea e il Timocare, il Cortonese si confronta
invece coi maggiori drammaturghi del tempo, Foscolo e Monti. Pelopea
è concepita quale ideale sequel del Tieste foscoliano: siamo ancora
una volta nella reggia di Argo, sei lustri dopo l’infame banchetto allestito
da Atreo e il ratto da parte di Tieste della cognata Erope, ma, nonostante
il tempo trascorso da quei terribili eventi, i rancori fra i due
fratelli sono tutt’altro che sopiti, ed anzi, per via della maledizione che
pende sulla stirpe di Tantalo, l’astio reciproco e il comune desiderio di
vendetta sembrano l’unica loro ragione di vita. Al centro del plot, dunque,
è sempre il conflitto tra i due Pelopidi, con una differenza, tuttavia,
rispetto alla tragedia del Foscolo: lì il contrasto fra di essi è fondato
su ragioni eminentemente politiche, tant’è vero che Atreo rivela di
aver spodestato Tieste a causa dei suoi ideali ‘democratici’ e antiaristocratici,
ideali orgogliosamente rivendicati da quest’ultimo, che si
proclama «re cittadino» e nemico dei «pochi potentissimi»40, mentre
la recita della pazzia nel teatro borghese italiano, in Follia, follie, a cura di Maria Grazia
Profeti, Firenze, Alinea, 2006, pp. 345-370.
38 Si veda, per es., il seguente dialogo fra l’infido Gordio, complice di Farnace,
e Mitridate: «Che fia quando saprai / che un figlio… – Un figlio… – T’è rivale? –
Oh cielo! / Ed è? – Sifare. – Ed essa?… – L’ama. – Ed io?…» (I iii, p. 59).
39 U na delle più evidenti si trova nel monologo di Farnace all’inizio dell’ultimo
atto, in cui è facile rinvenire echi del finale del Filippo: «Fa’ cor, Farnace; alma
sicura ha vinto / questa notte, e di Ponto il re tu sei. / Ma diverrai felice allor? Può
darti / pace un trono a cui strada apre il delitto?» (V i, p. 92).
40 «Atreo: Tu troppo / concedevi alla plebe, e prepotente / troppo a’ grandi
toglievi. Alla ruïna / argin por volli del fraterno regno, / ch’era mio pure; ed argin
posi; ch’arte / usai co’ grandi, e con la plebe scure. / Ed io fui re. Se a te in natio
retaggio / veniva il solio, sotto a te crollava. / Io sol fermo l’eressi; ed io più fermo
/ sul trono sto. – D’Erope il padre, il sommo / sacerdote di Calcide, Clëonte / ti diè
la figlia, ed io volealo: incauto / fosti oppressor di suo poter sublime: / e in me
affidossi, e la ritolse, e diella / a me, e possanza per regnar mi porse. / Tieste: Capo
Clëonte in Calcide sorgea / dei pochi potentissimi; calcava / il popol denudato; e
di sue spoglie / ei più feroce divenia. Cotanta / autorità smodata io temprar volli,
/ re cittadino, e mal mercaimi – Atreo, / non fui tiranno» (Ugo Foscolo, Tieste, IV
iii, vv. 181-202, in Id., Opere, I, Poesie e tragedie, a cura di Franco Gavazzeni, Maria
Maddalena Lombardi e Franco Longoni, Torino, Einaudi – Gallimard,
1994). Cfr, fra i numerosi studi dedicati al Tieste e particolarmente a questi versi,
Giuseppe Nicoletti, Alfierismo mediato e controcorrente nel “Tieste” foscoliano, in Id.,
[ 13 ]
602 ignazio castiglia
nella Pelopea la componente politico-ideologica ha un peso minore e si
sostanzia nell’avversione della plebe verso la lunga tirannia di Atreo e
nella conseguente rivolta finalizzata alla liberazione di Tieste, la cui
condizione di esule tornato a riprendersi lo scettro e a scalzare il despota
ricorda da vicino l’impresa napoleonica dei Cent Jours41. È la saga
familiare a interessare maggiormente il poeta, il convulso affastellarsi
di delitti atroci, l’iniquità di una stirpe esecrata flagellata da un
fato inesorabile che induce i propri membri a darsi la morte gli uni con
gli altri: in questo senso il dramma è concepito come una sorta di ritorno
alle radici del genere tragico mediante il repechage dei topoi che ne
hanno contrassegnato gli antichi fasti (incesti, agnizioni, oracoli equivoci
e ingannevoli, efferate catastrofi). Fatte salve le buone intenzioni
del Benedetti, l’esito dell’operazione non può certo definirsi positivo:
più ancora che a riprodurre meccanicamente i collaudati schemi della
tragedia ellenica (procedimento che sarebbe comunque riuscito di discutibile
efficacia), egli sembra deciso a portarli alle estreme conseguenze,
pervenendo così ad una involontaria parodia di essa. È il risultato
paradossale di un classicismo archeologico, chiuso in se stesso
e velleitariamente proteso a un’autarchia culturale ostile – almeno per
ora – a ogni compromesso con le nuove istanze romantiche. D’altra
parte, Benedetti non appare insensibile alle esigenze di un certo moralismo
borghese e perbenista per il quale, evidentemente, il mito nella
sua originaria crudezza si sarebbe rivelato oltremodo scandaloso e indigesto:
così, mentre nella versione autentica della saga Tieste consapevolmente
stupra Pelopea per far nascere da quel rapporto incestuoso
Egisto, destinato a vendicarlo uccidendo Atreo, qui si opta per un
misterioso e assurdo matrimonio notturno fra il padre (celato sotto il
falso nome di Forbante) e la figlia («di Minerva / addetta ai sacri riti»),
ambedue sconosciuti l’uno all’altra e bendati:
La memoria illuminata, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 131-145, e F. S. Minervini, Ontologia
dell’eroe tragico, cit., pp. 76-81.
41 Ai Cent Jours di Napoleone è dedicato uno dei migliori componimenti delle
Rime, Il 1815: «Lascia dell’Elba l’infamato nido, / che tanto or va pel grand’esule
altero, / la nave carca del fatal Guerriero, / e fulminando afferra il franco lido. //
Le congiurate schiere odono il grido / dell’antico lor duce, ed il sentiero / gli
apron fra l’aste all’avvilito impero; / scende l’incauto re dal soglio infido. // Cessan
conviti e danze, e l’alta speme / del mondo i re pensosi in fronte mesta; / e
arme, arme, Europa orribilmente freme. // Oh spettacolo sublime! Oh nuova lutta,
/ rimirar Bonaparte che s’appresta / solo a pugnar contro l’Europa tutta!» (F.
Benedetti, Rime, in Id., Opere, cit., II, p. 366).
[ 14 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 603
Il sacerdote uno stranier m’offerse
fra le sacre del bosco orgie notturne.
Perché l’un fosse all’altro ignoto, ad ambi
delle mistiche bende il capo avvolto,
celebrò l’imeneo: disse che tale
era il voler del fato; e sol concesso
mi fu talvolta di parlar fra l’ombre
al mio sposo. Forbante era il suo nome.
Madre lasciommi al suo partir di un figlio,
dell’arcano imeneo pegno fatale (I i, pp. 355-356).
Un altro punto debole dell’opera risiede nel responso dell’oracolo
di Delfo, tutt’altro che «arcano», come lo ritiene Pelopea, sicché anche
lo spettatore più sprovveduto comprende ab initio quali saranno i futuri
sviluppi del plot, annullando l’efficacia dei vari colpi di scena faticosamente
architettati:
È ver che lieti eventi a me predice
l’Oracolo di Delfo. Il senso arcano
di sue sorti fu questo: «A un tempo istesso
al seno stringerai padre e consorte,
figlio e fratello; onde otterrai vendetta,
e, a te nota, avran fine i mali tuoi» (ivi, p. 356).
Se a ciò s’aggiunge che i caratteri di buona parte dei personaggi
appaiono manifestamente stereotipati, se non del tutto privi di interesse,
e che la stessa applicazione dei meccanismi convenzionali della
tragedia risulta quantomeno problematica, fra agnizioni presenti in
quantità esponenziale e a gettito continuo, peripezie scarsamente credibili
o immotivate e una catastrofe forzata e artificiosa, ben si comprende
come Benedetti si sia parecchio sopravvalutato nel cercare un
confronto diretto con la drammaturgia classica.
Bisogna nondimeno riconoscergli una certa ingegnosità nella resa
della figura di Atreo, senza dubbio l’elemento più felice della Pelopea,
non già perché si differenzi significativamente per condotta e ossessioni
dai coevi tiranni coturnati, ma perché dà prova di una notevole vocazione
istrionica e di un macabro sense of humour nell’ordire inganni.
Incapace di commiserare la sorte dei suoi congiunti, se si mostra pietoso
e indulgente è segno che medita nuovi delitti, come ben sa la protagonista:
«Placarsi Atreo? / Guai se benigno appare! Il padre mio / vide
di sua pietà pur troppo i frutti» (ivi, p. 357). Così, allorquando questi
finge di voler consolare la nipote, le sue parole hanno un suono tanto
sinistro e minaccioso da giustificare appieno il terrore dell’infelice:
[ 15 ]
604 ignazio castiglia
Atreo: Ma son sei lustri assai. Vedi? placato
sono; tempo è ch’ei rieda.
[…]
Tu, donna, in breve il padre
abbraccerai. Senza il fratel mi sembra
questa reggia deserta: avrà fra poco,
sì degno ospite avrà: festa novella
l’attende: a questa tu sarai presente.
Pelopea: Ah! il tengano gli Dei d’Argo lontano (I ii, p. 359).
Altre volte, poi, i suoi discorsi hanno un lieto inizio, falsamente
rassicurante, e una fine amara, come quando promette a Pelopea di
allontanarla da quella reggia, luogo di crimini tanto efferati, salvo poco
più avanti destinarla a servire il coppiere del sanguinoso banchetto
di Tieste, infliggendole in tal modo un nuovo, fantasioso supplizio:
Atreo: Vivrai: destin men crudo io ti riserbo;
e a recarten l’annunzio io qua sol venni.
D’Atreo l’aspetto, e questi luoghi istessi
ti son grave supplizio; onde tranquilla
il ritorno del padre attendi altrove.
Al nuovo sol schiava n’andrai… Pelopea: Sì, schiava,
purché lungi da te. Atreo: Schiava n’andrai
di quel coppiere eletto alla gran cena.
Pelopea: Io? Di colui?… Atreo: Gli sii ministra a mensa.
Ei fu del padre, sia di lui la figlia.
Farai con esso libamenti ai Numi (ivi, p. 360).
È nell’anfibologia che Atreo dà il meglio (o il peggio, in termini
etici) di sé, ostentando una compartecipazione emotiva alle altrui sofferenze
sotto cui si celano un odio e una ferocia senza pari42. Esemplare,
in tal senso, è la disinvoltura con cui, alla notizia – diffusa ad arte
– della morte di Tieste, esibisce sentimenti d’amore fraterno che lasciano
trapelare il suo reale rammarico per non aver potuto egli stesso far
strazio del detestato nemico:
42 Si tratta, a ben vedere, di un procedimento estesamente impiegato dal Bardo
inglese nel Riccardo III, tragedia di cui Benedetti fornirà di lì a poco (nel 1819) una
sua personale versione nella quale, tuttavia, il personaggio verrà inopinatamente
privato di questa sua caratteristica (come pure della deformità fisica, delle sottigliezze
psicologiche e della perversa fantasia omicida che hanno fatto la fortuna
dell’istrionico sovrano skakespeariano), caratteristica qui invece messa a frutto
con sicura perizia.
[ 16 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 605
Duolmi che dell’Oracolo la voce
non s’è adempita; l’avea pur promesso
ai cari Argivi, all’amorosa figlia!
No, che in Micene non dovea d’oscura
morte perir; ma qui nella sua reggia,
alla sua prole accanto, in mezzo a’ suoi (II ix, p. 372).
Secondo Bertana, il Timocare attesterebbe un avvicinamento, se non
stilistico almeno tematico, all’Alfieri, essendo questa, a suo dire, «una
specie di tragedia di libertà»43. Ambientata in una Sicione retta dal tiranno
Nicocle, la pièce, fra le più schiettamente rivoluzionarie del Benedetti,
sembra in realtà maggiormente debitrice nei confronti del teatro
giacobino, con l’ovvia differenza che il poeta non ha istituzioni
democratiche da difendere e a cui garantire consenso contro i ‘nemici
del popolo’: si tratta, dunque, di una tragedia d’opposizione, tesa non
a evocare nostalgicamente una fase politica oramai lontana, bensì a
indurre gli spettatori o i lettori a prendere coscienza dello stato di oppressione
in cui versa la nazione dopo il definitivo tramonto del bonapartismo
e il ritorno sul trono dei precedenti sovrani e ad agire onde
provocarne nuovamente la caduta. Se ne ha una diretta conferma già
nell’orazione iniziale dell’eroe eponimo, in cui la denuncia del giogo
tirannico si mescola al rimpianto della libertà perduta e alla necessità
di trarre ispirazione dai «paterni esempi» per portare a compimento i
«gran disegni»:
Generosi compagni, è omai vicina
l’ora di liberar la Patria oppressa.
L’altera Sicïon, quando vivea
di se stessa sicura e de’ suoi dritti,
non ultima fu vista in fra le greche
città fiorir per senno, leggi ed armi.
Ed or la preme con superbo scettro
Nicocle inumanissimo tiranno!
[…]
Egli m’ha ucciso
un genitor cadente! E di che reo?
Di aver lodato sol gli antichi tempi.
[…]
ma dei paterni esempi
rimango erede, e della sua vendetta (I i, p. 3).
43 E. Bertana, La tragedia, cit., p. 360.
[ 17 ]
606 ignazio castiglia
La successiva riunione dei congiurati risente dell’esperienza personale
del poeta nella Carboneria, per cui riti di affiliazione, giuramenti
e modalità di discussione interna descritti qui e altrove rinviano
alle consuetudini delle società segrete del tempo44. In questa scena,
tuttavia, l’autore sembra più che altro dialogare con qualche fonte a
lui ben nota: nel contrasto fra la determinazione di Timocare nel portare
avanti la cospirazione senza per questo abdicare ai propri principî
di umanità e il fanatismo sanguinario di Tessandro, pronto ad «arder
[…] il tempio» e i navigli e a far strage di tutti i nemici sì da destare il
tumulto, è facile cogliere una reminiscenza, più ancora che de La congiura
de’ Pazzi dell’Alfieri, che si apre col confronto tra il focoso e impulsivo
Raimondo e il più prudente Guglielmo, del Cajo Gracco del
Monti, ove al liberalismo moderato di stampo girondino del tribuno si
oppone il giacobinismo demagogico di Fulvio45. A quest’ultimo modello
Benedetti guarda con maggior interesse non tanto da un punto
di vista ideologico (le distanze fra i due son in quest’ambito incolmabili),
quanto per l’abile intreccio fra pubbliche virtù e affetti privati: in
Arsinoe, moglie del protagonista, sono compendiate infatti la risolutezza
e il coraggio di Cornelia e l’amorevole sollecitudine di Licinia,
rispettivamente madre e moglie di Cajo. Sempre ad Arsinoe viene altresì
assegnato un ruolo fondamentale nello scioglimento dell’intreccio
intuibile già nel primo dialogo fra i coniugi:
Timocare: Io t’amo, o donna, assai,
ma più la Patria. Arsinoe: Lei salvar non puoi
tu, me potresti. Non sperar ch’io viva
44 È il caso, in special modo, oltre che del Cola di Rienzo, di cui si parlerà più
avanti, de Gli Eleusini (1819), in cui «Benedetti trasferiva l’esperienza dell’iniziazione
carbonara quando il rituale era ancora assai prossimo e contiguo a quello
massonico che a sua volta presentava delle variazioni secondo le diverse appartenenze
massoniche» (B. Alfonzetti, Ritratti di carbonari: Francesco Benedetti, cit., p.
222). Non escluderemmo, comunque, una qualche eco del Flauto magico mozartiano
(del resto, opera massonica per antonomasia), la cui première italiana era avvenuta
a Milano nel 1816: i personaggi ci paiono strettamente imparentati con quelli
del libretto di E. Schikaneder (Ciso e Cefisa ricordano da vicino Tamino e Pamina,
nello Jerofante sembrano rivivere il rigore e la saggezza di Sarastro, mentre Argia
rinnova ed esaspera la perfidia della Regina della Notte), senza contare poi che la
grande scena corale con cui principia il II atto presuppone un’intonazione musicale.
45 Cfr Walter Binni, Monti poeta del consenso, Firenze, Sansoni, 1981, pp. 158-
161, e, fra i contributi più recenti, Duccio Tongiorgi, «E libertade / in Erinni cangiò
». Monti e la Rivoluzione, «Laboratoire italien. Politique et Societé», IX (2009), pp.
135-150.
[ 18 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 607
se tu soccombi, né che mai mi svelga
da questo seno. Timocare: Ah! tu mi sforzi al pianto.
Arsinoe: Cesserai dall’impresa? Ah! sì che certa
ne son; sì che il promette il caro sposo,
e il farà, non diffido. Ah! non è vero,
o Timocare mio, di’, nol farai?
Timocare: (Deluderla convien.) Sì, sposa mia,
tue parole m’han vinto; io ti prometto
la congiura troncar. Arsinoe: Oh gioia! Alfine
pago è ’l mio core; ma d’un solo istante
non ti abbandono. Vieni, o sposo amato:
agli sguardi di ognuno occulto vivi
nei pacifici lari; e di sospetto
ogni cagion togliendo al rio tiranno,
restar potrai dimentico e sicuro.
Io Patria ti sarò, madre, sorella:
più amorosa consorte esser non posso (I iii, p. 12).
Il fatto che Timocare anteponga l’amor patrio a quello per la sposa
parrebbe ricondurre l’opera nei consueti binari della tragedia di libertà,
con la sua retorica antitirannica artificiosa e prevedibile, ma la successiva
promessa di Arsinoe – «Io Patria ti sarò, madre, sorella» – rende
di fatto superata questa scala di valori, dal momento che solo grazie
all’amore della consorte l’eroe riuscirà ad affrancare Sicione. E se la
scena di Timocare in carcere visitato dalla moglie potrebbe di primo
acchito far pensare all’Agide alfieriano, e segnatamente all’incontro fra
il prode spartano recluso e la madre Agesistrata46, pure va detto che
Arsinoe, a differenza di quest’ultima, non è personaggio astratto e stereotipato,
chiuso nel culto di un patriottismo che non ammette esitazioni
o incertezze, ma un’amante appassionata che non esita a umiliarsi
genuflettendosi innanzi al despota pur di aver salva la vita del
marito – cosa inconcepibile per l’Astigiano –, al punto che persino
Nicocle per un istante rimane sinceramente commosso; e lo stesso
stratagemma attuato per farlo uscire di prigione – lo scambio di vesti
fra i due sposi, sì da permettere a Timocare di fuggire e ad Arsinoe di
rimanere in sua vece47 – non è frutto di considerazioni politiche, ma di
puro amor coniugale, come lei medesima orgogliosamente rivendica:
46 Cfr V. Alfieri, Agide, V iv-v.
47 L’espediente non è nuovissimo, ma è manifestamente prelevato dalla Théodore
vierge et martyre di Corneille, dove pure l’episodio (a parti rovesciate, con
Théodore che evade e Didyme che prende il suo posto) non è rappresentato, bensì
narrato a posteriori da Cléobule a Placide: «Cléobule: Sous l’habit de Didyme elle-
[ 19 ]
608 ignazio castiglia
Non per oppormi,
o mio signore, al tuo sovrano impero,
non già per ischernir la tua sentenza,
io moglie in felicissima fui spinta
a salvar con inganno il mio consorte;
ma sol m’indusse il maritale affetto.
[…]
questo fallo,
se pur fallo è salvar le amate cose,
non è di me, ma di un immenso affetto
che sì altamente nel mio core avea
messo radici, che giammai potuto
svellere io non l’avrei (V iii, pp. 35-36).
Il lieto fine, che sancisce la restaurazione dell’antica libertà con
l’uccisione del tiranno e celebra la virtù di Arsinoe, «onor del sesso, e
delle mogli esempio» (V vii, p. 40), rende altresì definitivamente esplicita
l’appartenenza dell’opera non al genere della tragedia di libertà
come supposto da Bertana, bensì a quello della pièce à sauvetage, un
tipo di dramma à la page caratterizzato dall’inatteso salvataggio di un
personaggio incarcerato da parte di un altro disposto a morire pur di
affrancarlo48 – ciò che dimostra quanto il Benedetti, al di là di un certo
conservatorismo fieramente esibito, fosse permeabile alle influenze
delle nuove esperienze drammaturgiche europee.
* * *
[…] a’ giorni passati fu rappresentata qui una tragedia, Francesca da
Rimini, di un giovane nostro piemontese, il quale fa più bei versi, e sa
même est sortie. / Placide: Qui? Cléobule: Votre Théodore, et cet audacieux / sous
le sien au lieu d’elle est resté dans ces lieux» (Pierre Corneille, Théodore vierge et
martyre, IV iv, 1332-34, in Id., OEuvres complètes, a cura di Georges Couton, II,
Gallimard, 1984).
48 La pièce à sauvetage si affermò in Francia durante la rivoluzione e si diffuse
presto nel resto d’Europa soprattutto nel campo del melodramma con esiti pregevolissimi
(si pensi specialmente alla Lodoïska di L. Cherubini, al Fidelio di L. van
Beethoven e alle due opere semiserie di G. Rossini Torvaldo e Dorliska e La gazza
ladra). Cfr. David Charlton, On redefinitions of ‘rescue opera’, in Music and French
Revolution, edited by Malcolm Boyd, Cambridge, Cambridge University Press,
1992; Id., Rescue opera, in The New Grove Dictionary of Opera, London, Macmillan,
1992, ad vocem; Donald Jay Grout, A short history of opera, Columbia University
Press, 2003, pp. 345-348.
[ 20 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 609
trovar meglio le vie del cuore, che non l’Alfieri. Se il cielo gli dà vita e
modo di continuare la ben intrapresa carriera, forse avremo coll’andar
del tempo, chi a più buon diritto potrà chiamarsi l’Euripide piemontese,
di quello che si chiami l’Alfieri il Sofocle49.
Allorché il conte Galeani Napione manifesta al Benedetti il suo entusiasmo
per la Francesca da Rimini del Pellico, «l’Euripide piemontese
» s’è ricoperto di gloria da oltre due anni (la prima della tragedia
risale al 18 agosto 1815, mentre la lettera è datata 25 gennaio 1818).
Ciononostante, il Cortonese mostra di non aver ancora preso visione
della pièce se nella risposta all’insigne patrizio, sollevando non poche
dubbi sulla possibilità che i patri avvenimenti si prestino a esser tradotti
sulla scena, osserva fra l’altro:
Il solo Dante offre la Francesca, ma sembrami che quel soggetto, bello
di altronde in molte sue parti, urti in un grande scoglio circa alla catastrofe.
Come fare uccidere da Lancillotto [sic] i due amanti ad un tempo,
se pure non si fa per narrazione, compenso per cui la fine riuscirebbe
più fredda, e forse di niuno effetto?50
L’eventualità che il duplice delitto possa avvenire dinanzi agli spettatori,
come si verifica appunto nel capolavoro del Saluzzese, non viene
nemmeno contemplata dal Nostro, prigioniero di una concezione
del teatro in cui il rispetto delle regole canoniche non ammette deroga
alcuna. E tuttavia, di lì a non molto, di fronte al crescente successo di
produzioni drammatiche ispirate ai «fatti patrii» – non ultimo l’Eufemio
di Messina del Pellico51 –, anche il Benedetti si ‘converte’ a questa
moda dando alla luce nel 1820-21 il suo ultimo testo teatrale, Cola di
Rienzo, il cui primo nucleo va individuato nella biografia dell’ultimo
dei tribuni contenuta nelle Vite d’illustri Italiani52. Da un punto di vista
49 Lettera del Conte Galeani Napione di Cocconato a Francesco Benedetti, in F. Benedetti,
Opere, cit., II, p. 455.
50 F. Benedetti, Lettera seconda al Conte Galeani Napione, in Id., Opere, cit., II, p.
466. Sui problemi non indifferenti che comporta la drammatizzazione del celebre
episodio dantesco, cfr Carlo Levi, Le “sfortune” di Dante sul teatro, in «Il Marzocco
», 19 settembre 1920, p. 2; Achille Corbelli, Introduzione a Silvio Pellico, Tragedie.
Francesca da Rimini, Corradino, Torino, Utet, 1927, p. XVI; I. Castiglia,
Sull’orme degli eroi, cit., pp. 71-72.
51 Su di esso, oltre al nostro Sull’orme degli eroi, cit., pp. 75-84, si vedano Guido
Mazzoni, L’Ottocento, Milano, Vallardi, 1964, II, p. 166, e F. S. Minervini, Ontologia
dell’eroe tragico, cit., pp. 89-91.
52 La tragedia appare a tratti una sorta di parafrasi della Vita di Cola di Rienzo
(in Vite d’illustri Italiani, cit., pp. 53-100), che di essa costituisce una sorta di cartone
[ 21 ]
610 ignazio castiglia
ideologico, in realtà, l’opera non smentisce le premesse iniziali del teatro
benedettiano, ragion per cui in essa abbondano come non mai
lunghe filippiche antiaristocratiche e anticlericali d’inaudita violenza.
L’influenza degli innovatori si registra, semmai, nella scelta di focalizzare
l’intreccio, oltre che sulla rivoluzione popolare che conduce al rovesciamento
del regime pontificio e alla proclamazione della repubblica,
sull’infelice relazione tra i figli dei due antagonisti, Giulia e Giovanni,
rispettivamente figli di Cola e di Stefano Colonna, e dunque sul
tema tipicamente romantico del divieto d’amare: il conflitto tra passione
e dovere, tra un amore proibito da ragioni politiche e familiari e
l’obbligo della coerenza coi propri ideali, è soggetto prediletto dal
pubblico popolare e piccolo-borghese53 e perfettamente in linea col gusto
del tempo, essendo i «contrasti fra la volontà e la coscienza»54 uno
dei capisaldi della cultura romantica, come spiega Ermes Visconti.
Questo tema viene però declinato dal Benedetti in maniera del tutto
personale, assai diversamente da quanto avevano fatto Pellico nella
Francesca o, ancor prima, Foscolo nella Ricciarda, non solo perché l’amore
ha un peso nettamente inferiore alle vicende politiche55, ma soprattutto
perché la catastrofe, a ben vedere, non è determinata dall’opposizione
delle famiglie rivali alle nozze fra i due giovani: Giovanni
muore in battaglia nel tentativo di difendere il padre dall’attacco dei
nemici, mentre Giulia si trafigge sul corpo dell’amato allorché Cola le
impone di sposare un suo protetto. Rispetto ai due drammi succitati,
inoltre, manca qualsiasi invito ai compatrioti a ricomporre le fratture
ataviche e a ritrovare una maggior coesione in vista delle future sfide:
pur essendo l’opera coeva ai primi moti risorgimentali del 1820-21,
sembra che per Benedetti la chiave di volta della situazione politica
italiana, l’unica in grado di assicurare una palingenesi della nazione,
sia il recupero di un giacobinismo ortodosso, alieno da ogni compromesso
con «patrizi e sacerdoti» che «han fatto lega insieme» (I i, p. 200)
– sintomo di una certa inattualità del suo pensiero, quasi egli stentasse
preparatorio. Nel dramma (e segnatamente nel discorso di Cola ai congiurati, II xi,
pp. 214-216) confluisce altresì, con le debite trasformazioni, uno dei più violenti
componimenti delle Rime, il sonetto A Roma (lo si veda nel II vol. delle Opere, cit.,
p. 366).
53 Cfr. G. Pullini, Teatro italiano dell’Ottocento, cit., p. 64.
54 Ermes Visconti, Idee elementari sulla poesia romantica, in Momenti del Romanticismo
italiano, a cura di Mario Scotti, Roma, Elia, 1974, p. 169.
55 «Quest’amore è un episodio, non compenetrato nell’azione principale, e appiccicato
lì per far morire qualcuno nella catastrofe», rileva S. Marioni (Francesco
Benedetti, cit., p. 243).
[ 22 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 611
a ritrovarsi nella mutata Europa post-napoleonica. Poiché «il cristianesimo,
/ quale i maligni divenir l’han fatto, / è stato sempre a libertà
nemico» (II xi, p. 218), l’abbattimento del soglio petrino diviene un
imperativo categorico, conditio sine qua non e premessa ineludibile per
far «tornar Roma / nell’antico suo stato» (ivi, p. 214).
Ciononostante, il personaggio eponimo appare fortemente ambiguo:
se infatti nei convincimenti ideologici l’autore ne sposa in toto il
sovversivismo, nell’atteggiamento tirannico nei confronti della figlia
par già trapelare quell’alterigia che lo porterà in poco tempo alla rovina.
Del resto, il severo monito indirizzatogli da Stefano Colonna morente
sembra mettere in guardia i lettori circa i rischi di un processo
rivoluzionario sganciato da ogni principio filantropico: «Sia la patria
ogni tua cura: / gióvale, tu che il puoi; né mai t’acciechi / tanto il poter
di sovrastare altrui, / che alfin ti faccia divenir tiranno» (V xiii, p.
253). E in effetti la conclusione della tragedia è tutt’altro che ottimistica
sulla concreta possibilità che la vittoria della plebe si configuri come
una svolta autentica e duratura: l’imperturbabilità di Cola dinanzi
al corpo esanime della figlia, vanamente giustificata col richiamo agli
exempla – qui del tutto fuori contesto – di Virginio e Orazio, lascia ben
intendere a quali scelleratezze si avvii chi non serba entro di sé alcun
sentimento d’umana pietà:
Or veggio ben che di mostrare è tempo
ch’io son romano. Ogni altro affetto taccia
che non sia della Patria. Han pur perduto,
senza pianger, la figlia il gran Virginio,
ed Orazio, e tante altre anime eccelse:
imitarli degg’io. Seguiam, collega,
l’opera glorïosa; e sappia il mondo,
ch’è leggiero ogni duol per chi la Patria
all’artiglio strappò de’ suoi tiranni (ivi, p. 254).
Un’impassibilità persino maggiore, a ben vedere, di quella precedentemente
manifestata dal suo rivale, il Colonna, che pure aveva esitato
dinanzi alla prospettiva di punire con la morte la disobbedienza
di Giovanni come preteso dai suoi cinici fiancheggiatori e dallo spietato
Cardinale di Ceccano, personaggio sinistro in cui rivive il fanatismo
sanguinario del Grande Inquisitore schilleriano:
Colonna: Vorrei che in faccia alla ragion di stato
in cor tacesse la ragion di padre;
ma un cor mi dié natura, ed a mia voglia
non m’è concesso governarne i moti.
[ 23 ]
612 ignazio castiglia
[…]
Chi crederebbe mai che il proprio figlio
fra i congiurati annoverar dovessi?
[…]
Né sol congiura,
ma tenta il sangue di sua schiatta illustre
contaminar; di Cola ama la figlia.
Cardinale: Irresoluto ancor fra la ruina
del figlio pendi, e della Santa Chiesa?
Che fai? Che pensi? E non ti senti in core
romoreggiar l’onnipotente voce?
È quella voce istessa, onde l’eterno
Abram chiamò dalla profonda valle
di visïon. Pronto a svenare il figlio
in olocausto al ciel, saliva il monte
il santo vecchio, e già snudava il brando.
Quel che far dèi, non io, forse il men degno
fra i ministri di Dio; tel dice ei stesso.
Di Galád il guerrier non sciolse il voto
a Dio, svenando la sua figlia? E cerco
mortali esempi? Non mandò l’Eterno
la sua prole a vestire umana carne,
e non permise che immolato ei fosse,
in noi la colpa a cancellar d’Adamo? (III xi, pp. 230-231)56.
È l’esito estremo e paradossale del giacobinismo benedettiano: come
la libertà dell’Alfieri era più un sentimento o una fantasia poetica
che un’ideologia politica, così la rivoluzione vagheggiata dal Cortonese
finisce per assumere anch’essa una natura vaga e indeterminata,
nell’impossibilità di trovare in Italia chi ne sappia ben interpretare e
mettere in pratica i principî. Per questa strada il poeta, in un empito
d’indignazione e di stizza, arriva a scagliare contro la terra natia un
formidabile anatema che rappresenta probabilmente il suo ultimo, di-
56 La derivazione del Cardinale di Ceccano dal Grande Inquisitore del Don
Carlos di Schiller è palese: ambedue contrassegnati da un’invalidità fisica (alla cecità
del domenicano corrisponde la difficoltà a deambulare del porporato, sorretto
da un altro prelato), avanzano argomenti assai simili per affermare la liceità
dell’infame delitto: «Re: Mio figlio medita la rivolta. […] Puoi diffondere una nuova
fede che legittimi l’assassinio del proprio figlio? G. I.: Per riconciliarci con l’Eterna
Giustizia, il figlio di Dio è morto sulla croce. […] Re: Io commetto un delitto
contro natura… anche questa voce possente vuoi ridurla al silenzio? G. I.: Davanti
alla fede, la natura non può far altro che tacere» (F. Schiller, Don Carlos, V x, in
Id., I masnadieri – Don Carlos – Maria Stuarda, a cura di Enrico Groppali, Milano,
Garzanti, 1991, p. 361).
[ 24 ]
«l’arte drammatica incivilisce e nobilita le nazioni» 613
sperato lascito, la dolorosa attestazione di una sconfitta anche personale,
suggellata poco dopo dal fatale colpo di rivoltella con cui il 1°
maggio 1821 egli pone fine ai suoi giorni:
Italia non più mia, ma di bordello,
non temer che per nome altri ti chiame,
se sorger non volesti dal letame,
in cui star godi, di te degno ostello.
Dal dì che vidi questo popol fello
sé stesso strazïar con ira infame,
e dei barbari offrirsi a tutte brame,
se questo è lieve, abbi maggior flagello.
Poich’avvien che in te sempre il miglior gema,
chi tua viltà mirando e tua laid’opra,
non fia che cerchi alcuna isola estrema?
L’onde del mare che a Tifeo sta sopra,
e ti fe un tempo del gran fianco scema,
t’inghiotta or tutta, e la tua infamia copra57.
Ignazio Castiglia
Università di Palermo
57 F. Benedetti, All’Italia [1821], in Id., Rime, cit., p. 368.
[ 25 ]

Annalisa Carbone
«Il desiderio di un altrove»:
Calvino e «il vivere da straniero»
L’intervento è circoscritto sul libro di Italo Calvino, Eremita a Parigi, nel quale
prose, pagine diaristiche, testimonianze e articoli di taglio autobiografico hanno
come fondale scenografico e oggetto tematico quell’«instabilità geografica»
che sollecita lo scrittore verso «il desiderio di un altrove». In particolare sono tre
i luoghi in cui Calvino inscena questo atteggiamento intellettuale: Torino, Parigi
e New York.

This study looks at Italo Calvino’s Eremita a Parigi in which prose, diary entries,
accounts and autobiographical articles revolve around that “geographical instability”
that spurs the writer on in his “longing for somewhere else”. This intellectual
attitude regards three places in particular: Turin, Paris and New York.
Nell’ottobre del 1994 nella serie mondadoriana “I libri di Italo Calvino”
1 trova una sua particolare collocazione il volume Eremita a Parigi,
una raccolta di scritti autobiografici arricchita da una autopresentazione
dell’autore, un “ritratto su misura” che lo stesso Calvino aveva
destinato alla rivista «Gran Baazar» nel 1980.
All’interno del volume sono illustrati «gli aspetti più importanti
della sua vita, con l’esplicita intenzione di precisare le sue scelte: politiche,
letterarie, esistenziali, di farne conoscere il come, il perché, il
quando»2.
Autore: Università L’Orientale di Napoli; dottore di ricerca con contratto di
insegnamento; ancar1978@libero.it
1 La traduttrice argentina, sposata a Cuba nel 1964, progetta e realizza la pubblicazione
di un volume contenente dodici scritti, già collocati da Calvino in varie
sedi, un inedito, Diario americano, che racconta di un viaggio «importante» nella
vita dell’autore, e di un inedito in Italia. Tale volume è inteso dalla moglie di Calvino
come un «essenziale documento autobiografico», in qualità di autoritratto «il
più spontaneo e diretto»: Esther Calvino, Nota introduttiva, in Italo Calvino,
Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1996, p. 3.
2 Ivi, p. 2.
616 annalisa carbone
Le prose raccolte in questo libro, le pagine diaristiche, le testimonianze
e gli articoli di taglio autobiografico hanno come fondale scenografico
e tematico quell’«instabilità geografica»3 che sollecita lo
scrittore verso «il desiderio di un altrove»4. Un senso di estraneità che
richiama immediatamente alla mente un grande classico della letteratura
italiana, europea e mondiale: anche Petrarca come Calvino dichiara
di sentirsi nato sotto il segno dell’esilio, insomma, straniero in
ogni luogo, sollecitato, in quanto tale, a cercare una patria da abitare,
trovandola, realmente ed essenzialmente, nella scrittura5:
[…] Sono nato nel segno della Bilancia: perciò nel mio carattere equilibrio
e squilibrio correggono a vicenda i loro eccessi. Sono nato mentre
i miei genitori stavano per tornare in patria dopo anni passati nei Caraibi:
da ciò l’instabilità geografica che mi fa continuamente desiderare
un altrove6.
È questa una visione del mondo certamente moderna che supera
di gran lunga il teocentrismo e la chiusura medioevale. Docenti e studenti
medievali, infatti, uniti da programmi di studi molto simili,
dall’uso del latino scritto e parlato in un mondo che comprendeva
ormai solo le lingue volgari costituivano un’élite internazionale che
applicava di fatto il motto dei sapienti greci e romani: dappertutto
potrò dirmi in patria.
Il riferimento a Petrarca appare tutt’altro che peregrino, dal momento
che il poeta, nato ad Arezzo, trasferitosi a Pisa, e vissuto tra
Avignone, Bologna, Roma, Firenze, Padova, Venezia senza contare i
numerosi soggiorni in nord Europa, incarna, alla metà del XIV secolo,
3 I. Calvino, Presentazione, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit., p. V.
4 Ibidem.
5 Scrive Theodor Adorno a proposito della scrittura intesa come luogo da abitare
e della cultura come patria da vivere: «[…] per chi non ha più patria, anche e
proprio lo scrivere può diventare una sorta di abitazione»: Theodor Adorno, Minima
moralia: meditazioni della vita offesa, traduzione di R. Solmi; intr. e nota all’edizione
1994 di L. Ceppa, Torino, Einaudi, 1994, p. 94. Secondo Theodore J. Cachey
Jr è, in effetti, proprio la condizione di apolide che provoca in Petrarca «una specie
di placepanic (“panico da luogo”: la terminologia è del filosofo americano Edward
Casey) che diede una forma caratteristica alla sua scrittura, sia rispetto al profilo
generale del canone delle sue opere che al rapporto delle opere stesse tra loro»:
Theodore. J. Cachey, Poetry in motion, in The Cambridge Companion to Petrarch,
a cura di A. R. Ascoli, U. Falkeid, Cambridge, Cambridge University Press, 2015,
pp. 13-25, © Cambridge University Press.
6 I. Calvino, Presentazione, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit., p.
V.
[ 2 ]
«il desiderio di un altrove»: calvino e «il vivere da straniero» 617
un nuovo modello di intellettuale che rompe con l’esperienza comunale
e si apre ad una dimensione europea spinto da un ideale di libertà
che solo la cultura e la letteratura sono in grado di garantire. Le
aperture al nuovo, la consapevolezza dell’alto valore del proprio ruolo,
la forte coscienza di sé accomunano questi due autori che, in momenti
diversi, incarnano le contraddizioni di un’epoca. Calvino, come
Petrarca, riflette la crisi e le inquietudini di una società con la lucida
consapevolezza di chi assiste al tramonto di un sistema di valori ma
decide di non restare ai margini del processo, nel ruolo cioè di spettatore
passivo bensì di interpretare tale crisi, di farsene portavoce e comunque
di esserne protagonista e testimone attivo. Ne sono una testimonia
viva e sagace le pagine pubblicate da Calvino nel 1980 dell’Apologo
sull’onestà nel Paese dei corrotti7. Esse denunciano un evidente
scollamento della politica dalle masse che rappresentano e lo fanno
con una sofferenza che evidenzia invece l’esigenza di una forma attiva
di impegno atto a garantire una libertà reale piuttosto che una democratizzazione
della società prodotta dalla cosiddetta cultura di
massa8.
Sradicato precocemente dall’ambiente toscano, Petrarca si mostra
estraneo alla dimensione comunale, lontano dalle logiche cittadine e
alla ricerca di ambienti istituzionali e culturali di più ampio respiro. Il
modello è quello dell’intellettuale cosmopolita che guarda ad una cultura
internazionale che incroci esperienze e istanze varie e diverse.
Sulla scorta di quanto sostenuto finora mi pare utile e opportuno
riportare le parole di Calvino che, a proposito della propria condizione
di torinese d’adozione, scrive:
Sono d’una terra, la Liguria, che d’una tradizione letteraria ha solo
frammenti o accenni, cosicché ognuno può – gran fortuna! – scoprirsi
o inventarsi una tradizione per suo conto; d’una terra che non ha un
capoluogo letterario ben definito, cosicché il letterario ligure – raro uccello,
in verità –, è pure uccello migratore9.
Il luogo ideale a cui consegnare i suoi giorni e la sua immaginazio-
7 I. Calvino, Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti, «La Repubblica», 15 marzo
1980, p. 32 poi in Id., Romanzi e racconti, vol. III, Milano, Mondadori, 1994, p. 345.
8 Cfr. Pierpaolo Antonello, Intellettuali e mass-media: incomprensioni, mediazioni,
strategie di sopravvivenza, in Id., Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno
nell’Italia contemporanea, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 67-98.
9 I. Calvino, Forestiero a Torino, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche,
cit., p. 7.
[ 3 ]
618 annalisa carbone
ne è, per Calvino, quello «in cui è più naturale vivere da straniero»10.
Viaggiatore instancabile, che ha inscritto nel proprio codice genetico
lo status di cittadino del mondo, Calvino condivide con Petrarca la
condizione di instancabile poeta errante.
In Forestiero a Torino, «città ideale per lo scrivere»11, con il suo invito
al «rigore»12 e alla «linearità»13, Calvino si mostra attratto dall’ironia
civile e razionale della città di Gobetti e Pavese. Forte è il fascino che
esercita su di lui l’«immagine morale e civile» prima ancora che quella
«letteraria»:
Era il richiamo di quella città di trent’anni prima, che un altro torinese
«d’adozione», il sardo Gramsci, aveva individuato e suscitato, e che un
torinese di schietta tradizione, il Gobetti, aveva definito in certe sue
pagine così stimolanti ancor oggi14.
La Torino di Calvino è il luogo che accoglie, consacra la più importante
e suggestiva amicizia: quella con Pavese, l’uomo che gli da «un
mestiere»15 precettandolo come collaboratore nell’attività editoriale. Lo
scrittore non esita a riconoscere come, nella sua memoria, «la Torino degli
intellettuali antifascisti che non erano scesi al compromesso»16 si
identifichi soprattutto con lui, che di Calvino è una sorta di mallevadore:
La mia Torino si identificò soprattutto con una persona, cui ebbi la
fortuna d’essere vicino per alcuni anni e che troppo presto mi mancò
[…]. Parlo di Cesare Pavese17.
È sempre di Pavese il merito di avergli insegnato a guardare la
città, «a gustarne le sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le
colline»18.
Tra la Torino che lo adotta e, in un certo senso, lo sceglie e la Liguria,
sua terra d’origine, sono piuttosto evidenti le antinomie, le opposizioni
raffioranti a partire dalla geografia:
10 Id., Presentazione, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit., p. VII.
11 Ivi, p. 10.
12 Ibidem.
13 Ibidem.
14 Ivi, p. 8.
15 Ibidem.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
[ 4 ]
«il desiderio di un altrove»: calvino e «il vivere da straniero» 619
Qui toccherebbe di cambiar discorso e dire come con questo paesaggio
un forestiero come me riesca a armonizzare; come mi ci ritrovo io, pesce
di scoglio e uccel di bosco trapiantato tra questi portici, a fiutare le
nebbie e gli algori subalpini19.
Ma è proprio dalla crisi, dal caos che si può immaginare di dare
ordine al ‘labirinto del mondo’. Ed ecco che tra «la spoglia geometria
di queste vie squadrate»20 e «la spoglia geometria dei muri a secco
delle mie campagne»21 va a stabilirsi un «segreto gioco di motivi»22
che crea un legame sottile, quello tra «l’uomo a confronto col mondo
naturale più vasto»23.
Ancora una volta non si può non citare Petrarca quando l’autore de
Il sentiero dei nidi di ragno afferma che a Torino «il passato e il futuro
hanno più evidenza del presente»24. Calvino lamenta l’impossibilità di
riflessione critica, l’assenza di immaginazione in quelle città dove le
«immagini del presente sono così soverchianti, così prepotenti, da non
lasciare un margine di spazio e di silenzio»25. Torino, al contrario, appare
ai suoi occhi e alla sua sensibilità, l’unico luogo possibile dove
poter essere scrittore:
Se ammettiamo che il lavoro dello scrittore possa essere influenzato
dall’ambiente in cui si compie, dagli elementi dello scenario circostante,
allora dobbiamo riconoscere che Torino è la città ideale per lo scrivere26.
Anche Petrarca, tenacemente in conflitto con i propri tempi, privilegia
il dialogo ideale con gli autori classici e cristiani del passato e con
i lettori del futuro. In questa posizione Petrarca continua a rivendicare
un impegno civile, il negotium dei latini, in nome dell’assoluta libertà
dell’intellettuale di fronte al potere. Un impegno che non si traduce
mai in urgenza di visibilità, in smania di protagonismo o in baldanzosa
e sovrabbondante uso della parola poetica. Calvino condivide la
stessa idea di impegno27 quando scrive:
19 Ivi, p. 9.
20 Ivi, p. 9.
21 Ibidem.
22 Ibidem.
23 Ibidem.
24 Ivi, p. 10.
25 Ibidem.
26 Ibidem.
27 La partecipazione alla vita politica diviene, nel tempo, «meno entusiastica:
[ 5 ]
620 annalisa carbone
Io credo che la condizione ideale dello scrittore sia questa, vicina all’anonimato:
è allora che la massima autorità dello scrittore si sviluppa,
quando lo scrittore non ha un volto, una presenza, ma il mondo che
egli rappresenta occupa tutto il quadro. […] Invece, oggi, quanto più la
figura dell’autore invade il campo, tanto più il mondo rappresentato si
svuota; poi anche l’autore si svuota, resta il vuoto da tutte le parti28.
Nella Prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, aggiunta al volume
nell’edizione del 1964, Calvino mette in discussione la sua originaria
idea di ‘impegno’, di «letteratura impegnata»29:
Posso definirlo un esempio di «letteratura impegnata» nel senso più
ricco e pieno della parola. Oggi, in genere, quando si parla di «letteratura
impegnata» ci se ne fa un’idea sbagliata, come ad una letteratura
che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente
dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava
l’«engagement», l’impegno, può saltar a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto
essere immagini e parola, scatto, piglio, stile, sprezzatura, sfida30.
Nel gennaio 1956 la rivista «Il Caffè» presentava Italo Calvino nella
rubrica “La nuova letteratura” con un racconto31. A precederlo c’è una
sorta di intervista che, tra le altre cose, richiama in causa il motivo
dell’impegno e le possibili ragioni che spingono gli intellettuali alla
partecipazione alla vita politica. Certo il 1956 significa, soprattutto per
il P.C.I un anno di svolta. Si registrano, in seguito ai fatti di Polonia,
Mosca e Ungheria, moltissimi abbandoni. Nel febbraio del 1956, a Mosca,
Kruschev pronuncia un discorso sui crimini di Stalin: si tratta del
cosiddetto ‘rapporto segreto’ divulgato successivamente dal quotidiano
americano «New York Times». In tutto il mondo politico, soprattutall’intellettuale
militante, animato da una fervida tensione utopica, subentra dopo
anni di silenzio un osservatore appartato e pensoso, disilluso, lucido, che interviene
quasi con riluttanza, più per un senso di dovere civico che per passione politica
»: Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, Il Mulino, 2007, p.
127.
28 I. Calvino, Eremita a Parigi, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit.,
p. 175.
29 Id., Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, ed.
diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, pref. di J. Starobinski,
Milano, Mondadori, 1991, p. 1190.
30 Ibidem.
31 I l racconto si intitolava Un viaggio con le mucche e verrà successivamente a
confluire nel volume Marcovaldo, Torino, Einaudi, 1963.
[ 6 ]
«il desiderio di un altrove»: calvino e «il vivere da straniero» 621
to a sinistra, molti intravedono per il comunismo una possibilità di
rinnovamento in senso democratico. Queste speranze saranno deluse
per via dei moti di protesta che la polizia soffoca nella repressione
violenta a Poznan in Polonia e a novembre dello stesso anno per il
pugno di ferro con cui i tank sovietici pongono fine al tentativo ungherese
di instaurare un socialismo non autoritario. In questo clima di
fermento politico e culturale Gian Battista Vicari chiede a Calvino se
sia giusto per i letterati partecipare alla vita politica, come e quale sia
la tendenza politica alla quale si sente più vicino. Calvino risponde
così:
Credo che debbano parteciparvi gli uomini. E i letterati in quanto uomini.
Credo che la coscienza civile e morale debba influire sull’uomo
prima e poi anche sullo scrittore. È una via lunga, ma non ce n’è altra.
E credo che lo scrittore debba tener aperto un discorso che nelle sue
implicazioni non possa non essere anche politico. Fedele a questi principi
[…] la mia coscienza di comunista e la mia coscienza di scrittore
non sono entrate in quelle lancinanti contraddizioni che hanno divorato
molti dei miei amici. […] Alla politica e alla letteratura partecipo in
modo diverso secondo le mie attitudini, ma m’interessano entrambe
come uno stesso discorso intorno al genere umano32.
Ma torniamo alle città di Calvino: la planimetria, in cui appena si
immette, offre allo scrittore ligure familiarità e insieme la possibilità di
essere «invisibile» è quella di Parigi:
C’è un punto invisibile, anonimo che è quello da cui si scrive, ed è per
questo che definire il rapporto tra il luogo in cui scrivo e la città che lo
circonda mi riesce difficile. Posso scrivere molto bene nelle stanze d’albergo,
in quella specie di spazio astratto, anonimo che sono le stanze
d’albergo, in cui mi trovo di fronte la pagina bianca, senza alternativa,
senza scampo33.
A Parigi si stabilisce con la sua famiglia, in una villetta di Square de
Châtillon e conduce una vita appartata, senza negarsi però il piacere
d’incontrare e frequentare alcuni intellettuali, allora molto in voga,
con i quali stringe legami di amicizia. Gran parte di loro: George Perec,
32 Gian Battista Vicari, Intervista a Italo Calvino, «Il Caffè», IV, 1, gennaio
1956 poi in Elio Filippo Accrocca, Ritratti su misura, Venezia, Sodalizio del libro,
1960 e infine in I. Calvino, Questionario 1956. Risposte di Italo Calvino all’inchiesta de
«Il Caffè», in Id., Eremita a Parigi, cit., p. 16.
33 I. Calvino, Eremita a Parigi, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit.,
p. 175.
[ 7 ]
622 annalisa carbone
François Le Lionnais, Jacques Roubaud, Paul Fournel, Raymond Queneau
fanno parte dell’Oulipo. Queste frequentazioni si traducono presto
in audaci riflessioni e suggestioni letterarie: Calvino sperimenta
nuove possibilità per la narrativa intesa come processo combinatorio,
frammenti separati e autonomi che danno vita a un materiale su cui
interviene la razionalità ordinatrice dell’autore che, ricombinando gli
elementi all’interno di una cornice, costruisce architetture complesse.
Parlare di Parigi non è semplice per Calvino:
Forse per poter scrivere di Parigi dovrei staccarmene, esserne lontano:
se è vero che si scrive sempre partendo da una mancanza, da un’assenza.
Oppure esserci più dentro, ma per questo avrei dovuto esserci vissuto
fin dalla giovinezza34.
In effetti gli anni parigini, vissuti da ‘eremita’ nonostante la totale
immersione nelle correnti filosofiche e letterarie d’avanguardia, sono
quelli del suo allontanamento dalla scena politica e dall’impegno. Lo
scrittore smette i panni dell’intellettuale militante per vestire quelli
dell’osservatore attento ma distaccato. Sul tema dell’osservazione
Calvino spende acute riflessioni. Marco Belpoliti intitola L’occhio di
Calvino una raccolta di saggi ispirati al tema della visione e della visualità
nelle opere dello scrittore a partire da una considerazione:
Tutta l’opera di Calvino è […] una riflessione sul punto di vista35.
L’io che osserva è sempre portatore di una visione, di un punto di
vista per ragionare intorno alla complessità dell’uomo e, più in generale,
del mondo stesso:
Calvino è uno scrittore “visivo”, egli stesso ne è conscio, e a più riprese
ha cercato di descrivere questo aspetto di sé36.
Tra i libri di Calvino dedicati al tema della visione una menzione
particolare va a Palomar. L’occhio e la mente esercitano il loro sguardo
su oggetti che mutano di volta in volta: gli animali, il cosmo, lo società
e infine lo sguardo stesso, oggetto e soggetto della narrazione37.
34 Ivi, p. 171.
35 Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, p. 74.
36 Ivi, p. 83.
37 Esemplari a riguardo i titoli degli ultimi capitoli di Palomar: Il mondo guarda
il mondo, L’universo come specchio, Come imparare ad esser morto. In particolare
nel primo dei tre è il signor Palomar che si interroga su quale sia la posizione
[ 8 ]
«il desiderio di un altrove»: calvino e «il vivere da straniero» 623
Il rovesciamento prospettico operato da uno sguardo che produce
distorsioni e assurde combinazioni induce il Marco Polo di Calvino a
non andare troppo lontano a cercare l’inferno dei viventi perché «ce
n’è uno già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo
stando insieme»38. La sfida più difficile è quella di «saper riconoscere
chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli
spazio»39.
Secondo Calvino la realtà va vissuta oppure compresa. Per essere
compresa bene bisognerebbe «esserci più dentro»40 ma, per quanto riguarda
Parigi, sarebbe stato necessario esserci nato. Sono, infatti, secondo
l’autore de Le città invisibili, «gli scenari dei primi anni della
nostra vita che danno forma al nostro mondo immaginario, non i luoghi
della maturità»41. Nelle pagine in apertura al volume, quelle destinate
alla rivista «Gran Bazaar», Calvino sembra andare addirittura
oltre la teoria elaborata a proposito dei luoghi dell’infanzia capaci di
suscitare forme immaginarie e fantastiche. L’autobiografia, così come
ogni scritto che inevitabilmente parla del proprio autore42, si configura
come una «esplorazione delle origini»43 dove, a ben guardare, il limite
non è dato dalla nascita e dalla morte ma piuttosto dall’esigenza di
perlustrare il mondo prenatale:
M’accorgo che in questa autobiografia mi sono dilungato soprattutto
sulla nascita, e delle fasi successive ho parlato come d’un proseguimento
del venire alla luce, e ora tendo a tornare ancora più indietro, al
mondo prenatale. Questo è il rischio che corre ogni autobiografia senmigliore
per il soggetto osservante e sulla difficoltà di mettere a margine l’io
nell’atto di guardare: «Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io?
Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato
ai propri occhi come al davanzale d’una finestra e guarda il mondo che si
distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui»: I. Calvino, Palomar, in Id., Romanzi
e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, vol. II, 2005,
pp. 968-69.
38 I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 498.
39 Ibidem.
40 Id., Eremita a Parigi, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit., p. 171.
41 Ibidem.
42 Nella sua monografia dedicata a Calvino Francesca Serra insiste sul rapporto
difficile, definito da lui stesso «nevrotico» con l’autobiografia, «quasi che lì fosse
il pungolo dell’insoddisfazione che lo aveva spinto ogni volta a cambiare, il nucleo
insolvente del proprio essere scrittore, ciò che gli era sempre mancato di dire»:
Francesca Serra, Calvino, Roma, Salerno, 2006, p. 20.
43 I. Calvino, presentazione, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit., p.
VII.
[ 9 ]
624 annalisa carbone
tita come esplorazione delle origini, come quella di Tristam Shandy
che si dilunga sugli antecedenti e quando arriva al punto in cui dovrebbe
cominciare a raccontare la sua vita non trova più niente da dire44.
A proposito dello sguardo immaginativo sarebbe interessante soffermarsi
brevemente su un appunto datato 30 novembre 1828 che il
poeta/filosofo Leopardi include nel suo Zibaldone:
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran
tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti
sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna;
udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso
coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un
altro suono45.
Nelle città che Leopardi ha occasione di visitare dopo che, a lungo
negata, riesce finalmente ad assecondare la violenta smania di fuggire
via dal suo ‘borgo selvaggio’, coesistono zone ambigue, feconde per la
letteratura ma ricche di contraddizioni. Le città non esistono in sé ma
solo in quanto capaci di suscitare emozioni e ricordi. Anche per Leopardi,
come per Calvino, queste mete restano approdi provvisori, terre
d’esilio. Quasi a significare, in un certo senso, che l’unico viaggio
davvero gratificante sia quello immaginato, e che latente serpeggi
continuamente un senso di straniamento che costringe a venir fuori
dal proprio mondo fantastico, costruito come estrema difesa nei confronti
di una realtà avvertita come ostile.
Scrive Calvino:
Prima che una città del mondo reale, Parigi, per me come per milioni
d’altre persone d’ogni paese, è stata una città immaginata attraverso i
libri, una città di cui ci si appropria leggendo. Si comincia da ragazzi,
coi Tre moschettieri, poi coi Miserabili; contemporaneamente, o subito
dopo, Parigi diventa la città della Storia, della Rivoluzione francese;
più tardi, nel procedere delle letture giovanili, diventa la città di Baudelaire,
[…] la città dei grandi cicli romanzeschi, Balzac, Zola,
Proust…46
44 Ibidem.
45 Giacomo Leopardi, Zibaldone (30 novembre 1928), a cura di R. Damiani,
Milano, Mondadori, vol. II, pp. 2977-78.
46 I. Calvino, Eremita a Parigi, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit.,
p. 171-172.
[ 10 ]
«il desiderio di un altrove»: calvino e «il vivere da straniero» 625
Questa duplicità di visione si combina con uno sguardo selettivo
che travalica ogni possibile dimensione turistica47. I luoghi abitati,
percorsi, i monumenti sono soltanto sfiorati e la città diviene luogo
dell’anima, specchio interiore che nulla o poco ha a che fare con l’immagine
falsata e stereotipata che si impone di dare:
Quando ci venivo da turista, era ancora quella Parigi che visitavo, era
un’immagine già nota che riconoscevo, un’immagine a cui io non potevo
aggiungere nulla. […] Forse, identificandosi con la mia vicenda
personale, con la vita quotidiana, perdendo quell’alone che è il riflesso
culturale, letterario della sua immagine, Parigi potrebbe ridiventare
una città interiore, e mi sarebbe possibile scriverne. Non sarebbe più la
città di cui tutto è già stato detto, ma una città qualsiasi in cui mi trovo
a vivere, una città senza nome48.
Vissuta da turista Parigi è per Calvino, in un primo momento, una
città a cui «non potevo aggiungere nulla»49. Guardata dall’interno, essa
cambia volto e lo scrittore, divenuto invisibile, ne riesce a cogliere
gli insondati misteri:
Forse, identificandosi con la mia vicenda personale, con la vita quotidiana,
perdendo quell’alone che è il riflesso culturale, letterario della
sua immagine, Parigi potrebbe ridiventare una città interiore, e mi sarebbe
possibile scriverne. Non sarebbe più la città di cui tutto è già
stato detto, ma una città qualsiasi in cui mi trovo a vivere, una città
senza nome50.
Insomma c’è uno spazio immaginario che è insieme luogo della
mente e del cuore. Parigi assume l’aspetto di «una gigantesca opera di
consultazione»51, una città, insomma, da consultare come una sorta di
enciclopedia, per rispondere ad ogni sorta di domanda, per spiegare e
47 Quello di ‘doppia vista’ è un concetto caro a Calvino. Nella «qualità oculare
» lo scrittore ha sempre individuato un valore aggiunto. È una specifica caratteristica
del personaggio Palomar, protagonista dell’omonimo libro, che con l’uso
acuto della vista avvia una serie continua di riflessioni che sono il prodotto di
esercizi di descrizione. Nelle Lezioni americane all’Esattezza è dedicato un intero
capitolo: si tratta di affinare una pratica mentale di attenzione e osservazione che
lo scrittore ritiene fondamentale per vincere «la battaglia col linguaggio» dei poeti:
cfr. F. Serra, Calvino, cit., p. 344; I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-
1985, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto Milano, Mondadori, 1995, I vol., p. 692.
48 I . Calvino, Eremita a Parigi, cit., p. 172.
49 Ibidem.
50 Ivi, p. 176.
51 Ivi, p. 175.
[ 11 ]
626 annalisa carbone
mettere a disposizione del vorace lettore ogni sorta di informazione,
di codice, di regola o formula:
A Parigi ci sono negozi di formaggi dove vengono esposti centinaia di
formaggi tutti diversi, ognuno etichettato col suo nome, formaggi avvolti
nella cenere, formaggi con le noci: una specie di museo, di Louvre
dei formaggi. […] Ma è anche soprattutto il trionfo dello spirito della
classificazione, della nomenclatura52.
La città di Parigi occupa, senza dubbio, un posto di primo piano
nell’itinerario privato e professionale di Italo Calvino. Fra il 1967 e il
1980 esso diventa il punto invisibile, anonimo e tuttavia imprescindibile
dal quale avviare qualsiasi riflessione: serve da «pre-testo»53, suggerisce
opportunamente Sylvie Barral, a una riflessione sulla storia e
la società, sulla letteratura e la scrittura. Strutturata dal suo passato, la
città mitica appare prima una città assoluta, poi una città di riferimento
e in seguito una gigantesca opera di consultazione. Infine, è un centro
di civiltà che condiziona e genera la scrittura, e funge da supporto
all’attività letteraria. Questa interazione fra la città e la scrittura permette
di trasformare di volta in volta Parigi in città-romanzo, in cittàbiblioteca,
in città-catalogo, e ci invita a pensare che Parigi «città di
carta» si sfogli come le pagine di un libro che non cessa di scriversi54.
Un’altra delle città da Calvino ‘vissute’ da straniero è New York,
definita la ‘mia’ città, «dove c’è la grande IBM machine 705 che in tre
minuti può leggere tutto Via col vento». New York, scrive Calvino, «è la
città più semplice, almeno per me, più sintetica, una specie di prototipo
di città: come topografia, come aspetto visuale, come società»55. Le
pagine dedicate a New York, adunate sotto il titolo di Diario americano
1959-1960, avviano una serie di acute riflessioni sull’architettura, lo
scenario e la spettacolarità delle metropoli americane:
La noia del viaggio è largamente ripagata dall’emozione dell’arrivo a
New York, la più spettacolare visione che sia data di vedere su questa
terra56.
52 Ivi, p. 177.
53 Cfr. Sylvie Barral, Le Paris d’Italo Calvino, «Cahiers d’étudesromanes», 6,
2001, pp. 331-348.
54 Ibidem.
55 I. Calvino, Eremita a Parigi, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, cit.,
p. 172.
56 Ivi, p. 23.
[ 12 ]
«il desiderio di un altrove»: calvino e «il vivere da straniero» 627
La vista di New York, città simbolo del nuovo mondo, sconvolge
Calvino almeno quanto quei migranti alla conquista del sogno americano.
Allo scrittore italiano New York si offre come «la più spettacolare
visione che sia data di vedere su questa terra»57:
I grattacieli affiorano grigi nel cielo appena chiaro e sembrano enormi
rovine d’una mostruosa New York abbandonata di qui a tremila anni.
Poi poco a poco si distinguono i colori diversi da qualunque idea che
uno se ne faceva, e uno complicatissimo disegno di forme58.
Di lì a qualche anno un altro scrittore che con Calvino condivide la
generazione e non solo, arriverà a New York intuendone la novità del
linguaggio e della comunicazione. Dino Buzzati porterà da quella città
un ricco bagaglio di esperienze e di conoscenze in merito, soprattutto,
alle «nuove modalità di espressione e di percezione che i nuovi
strumenti e le nuove tecniche di comunicazione inducono nella letteratura
e nella pittura»59. Egli sdogana, in tempi non sospetti, la pop-art
promuovendo artisti come Klein, Bacon, Oldenburg e Wharol.
Insomma New York, la città che più lo affascina, e in cui vive per la
maggior parte del tempo, viene definita «elettrica»; qui la vita viene
scandita da appunti che la gente prende sul proprio taccuino e consulta
al momento opportuno. Quando parla di New York Calvino intende
Manhattan, poiché di rado esce dall’isola. Il vero newyorkese si
muove in taxi, e lui confessa di avere affittato persino un cavallo, pur
di riuscire ad accedere a luoghi più genuini della città. Manhattan è
definita come il cervello del mondo industriale, separato dal corpo. E
qui lo scrittore è colpito dal progresso: dalla tv a colori, per giungere a
quella Borsa che regola l’attività finanziaria dell’intero globo. New
York si configura approdo essenziale, centro nevralgico di un cambiamento
che si annuncia vorticoso e «produce un decisivo ampliamento
di orizzonti»60: nuovi mondi vengono concepiti dopo essere stato nel
Nuovo Mondo:
57 Id., Diario americano 1959-1960, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche,
cit., p. 23.
58 Ibidem.
59 Per lo sviluppo di argomentazioni che attengono allo scrittore milanese e ai
suoi rapporti con l’arte, in particolare la pop-art, e all’intreccio tra scrittura e arti
figurative mi permetto di rinviare al mio volume: Annalisa Carbone, Dipingere e
scrivere sono per me la stessa cosa. Dino Buzzati tra parola e immagine, Catanzaro, Rubbettino,
2016, p. 8.
60 M. Barenghi, Calvino. Un ottimista in America, «Doppiozero», 10 novembre
2014.
[ 13 ]
628 annalisa carbone
Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di
possesso totale di una realtà multiforme e complessa e altra da me,
come non mi era mai capitato. È successo qualcosa di simile a un innamoramento61.
In un intervista di Ugo Rubeo registrata a Palermo nel 1984, inserita
in Mal d’America – da mito a realtà62 nel 1987, Calvino parla della ‘sua’
America, quella di Hamingway e Faulkner, una terra piena di energia
vitale finita come fondale scenografico in alcuni tra i suoi libri più celebri:
L’incontro materiale con l’America è stato un’esperienza veramente
bella: New York è una delle mie città, e infatti, sempre negli anni Sessanta,
nelle Cosmicomiche, e anche in Ti con zero, ci sono dei racconti che
si svolgono proprio a New York63.
Di questo contagioso entusiasmo traboccano le pagine su New
York, sulla beat generation, su Broadway e le pagine dedicate ai luoghi
simbolo dell’America da bere: San Francisco, «tutta a colline, con le
vie in salita rapidissima, e un vecchio tram a cremagliera sotto il suolo
stradale [che] è il segno distintivo della città, come a New York il fumo
che esce dai tombini del riscaldamento»64, Los Angeles, «la città impossibile
da quanto è sterminata e per me che sto bene solo nelle città
enormi è quel che ci vuole: è lunga come se da Milano a Torino ci fosse
una città sola che arriva in su fino a Como e in giù fino a Vercelli»65. Il
diario occupa, del volume Eremita a Parigi, lo spazio più significativo.
Pagine animate da una felicità narrativa, da un entusiasmo disarmante
e disarmato di fronte alla vivacità, all’impulso creativo della grande
Mela e, tutt’altro che incomprensibile risulta l’ipotesi di un’epigrafe
che reciti sulla sua tomba: «Italo Calvino, newyorkese»66.
Annalisa Carbone
Università L’Orientale – Napoli
61 I. Calvino, Un ottimista in America (1959-1960), Milano, Mondadori, 2014,
pp. 7-235.
62 Ugo Rubeo, Mal d’America – da mito a realtà, Roma, Editori Riuniti, 1987.
63 I. Calvino, Diario americano 1959-1960, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche,
cit., p. 245.
64 Ivi, p. 77.
65 Ivi, p. 93.
66 Ivi, p. 112.
[ 14 ]
Virna Brigatti, Diacronia di un romanzo.
«Uomini e no» di Elio Vittorini
(1944-1966), Milano, Ledizioni, 2016,
pp. 514; Virna Brigatti, Elio Vittorini.
La ricerca di una poetica, Milano,
Unicopli, 2018, pp. 372.
Elio Vittorini (1908-1966) è stato
uno dei principali “letterati editori”
del Novecento (italiano e straniero):
narrativa, critica militante, direzione
editoriale e impegno politico sono
solo alcune delle infinite tracce che lo
scrittore siciliano ci ha lasciato, e che
ancora oggi necessitano di essere approfondite,
sia in rapporto alla cultura
italiana che a quella europea del
ventesimo secolo. Attraverso due
brillanti monografie, che si muovono
nel terreno della filologia e della storia
letteraria, Virna Brigatti restituisce
un quadro completo di Vittorini,
inserendosi, da una parte, all’interno
di una consolidata scuola milanese
di studi vittoriniani – da cui la stessa
autrice proviene (si vedano i numerosi
lavori di Alberto Cadioli, Edoardo
Esposito e Giuseppe Lupo) –, e,
dall’altra, offrendo nuovi stimoli per
un ritorno all’opera di Vittorini secondo
uno sguardo plurale che tiene
conto dei molteplici orizzonti culturali
(e filologici) attorno ai quali sono
nati testi come Uomini e no (1944-
1966).
In questo senso, i titoli delle due
monografie di Brigatti riassumono
efficacemente questa linea di ricerca:
la ricostruzione del senso di un testo
a partire dalla sua genesi filologica e
lungo le sue diverse edizioni approvate
dallo scrittore; la progressiva
costruzione di una poetica attraverso
l’idea di scrittura e di letteratura che
emerge dal dialogo che l’autrice instaura
tra i diversi scritti di Vittorini
e la cultura (milanese, italiana, europea
e americana) del Novecento.
«L’obiettivo», scrive Brigatti nell’introduzione
a Diacronia di un romanzo,
è di «individuare l’interpretazione
dell’opera riconducibile alla volontà
dell’autore, quella storicamente accertabile,
e misurarla con le altrui letture
che nel tempo si sono sovrapposte
» (p. 14).
Come è noto, Le opere narrative di
Vittorini sono uscite in due volumi
per i “Meridiani” Mondadori nel
1974, a cura di Maria Corti. Nella
prefazione, la curatrice rimarcava il
«problema delle varianti redazionali
[…]: Vittorini non travasa mai un’opera
intatta da una rivista a un volume,
raramente da una stampa in volume
a una ristampa. Di tale fluido
Recensioni
630 recensioni
processo correttorio, che mette a fioco
la squisita e paziente attenzione
dello scrittore al dato formale, poco
si è occupata finora la critica». Attraverso
lo studio dei documenti d’archivio
conservati presso il Centro
APICE dell’Università degli studi di
Milano – così come delle carte, per lo
più di natura epistolare, conservate
presso gli archivi storici delle case
editrici Bompiani e Arnoldo Mondadori
(in particolare presso la Fondazione
Arnoldo e Alberto Mondadori)
–, Diacronia di un romanzo completa,
ampliando, lungo un’indagine filologica
che copre quasi cinquecento
analisi, le note ai testi di Uomini e no
curate da Raffaella Rodondi per i
Meridiani (pp. 1210-1226, vol. I), offrendo
ai suoi lettori la storia compositiva
ed editoriale del primo romanzo
sulla resistenza italiana, così come
un esame dei risvolti narrativi che le
varianti di Vittorini comportano per
la costruzione di Uomini e no: «per
comprendere in che modo il testo del
1945 è andato formandosi», nota Brigatti,
«occorre procedere secondo
due linee guida: da un lato è fondamentale
tenere conto della cronologia
degli interventi, dall’altro è necessario,
per chiarezza espositiva e
per dare risalto ai singoli nuclei compositivi,
isolare alcune sequenze narrative
per unità di rappresentazione»
(p. 83). Infine, come emerge dal secondo
capitolo (1945-1966. Le tre edizioni
successive e le varianti testuali),
alla de-costruzione del romanzo attraverso
lo studio dei materiali compositivi
segue un’attenta contestualizzazione
storico-culturale – anche
su di un piano sovranazionale in termini
di storia ed estetica della ricezione
(«in Francia – o meglio a Parigi,
in una cerchia ristretta di intellettuali
», p. 379) – sia di Uomini e no che
dello stesso Vittorini quale intellettuale
engagé.
Su questo sostrato storico-filologico
si situa la ricostruzione della poetica
vittoriniana tracciata da Brigatti
nella sua seconda monografia. La
‘ricerca’ (di Vittorini) procede secondo
un paradigma diacronico: gli anni
Trenta (pp. 13-79), dove Vittorini consolida,
per usare il sottotitolo di Brigatti,
un’idea di letteratura; gli anni
Quaranta (pp. 81-212), dove l’A. traccia
con acribia la stratificazione della
cultura americana nel pensiero e nell’opera
di Vittorini, nonché nella sua
attività editoriale; gli anni Cinquanta
(pp. 213-261), le cui pagine costituiscono
il capitolo più audace e probabilmente
più significativo del libro
nella misura in cui l’A. mette in discussione
lo statuto stilistico ed epistemologico
del ‘realismo’ (e del neorealismo)
contemporaneo in rapporto
allo sviluppo della poetica di Vittorini;
e, infine, gli anni Sessanta (pp.
263-350), dove l’A. mette a fuoco le
premesse della nuova ricerca (letteraria)
di Vittorini. Chiudono il volume
una preziosa bibliografia (pp.
351-365) e un indice dei nomi (pp.
367-372) – uno strumento, quest’ultimo,
che sarà di grande aiuto al lettore
per affrontare la complessa rete di
nomi che ruotava attorno a Vittorini.
«Non è possibile ricostruire la storia
della letteratura del Novecento
senza considerare l’opera narrativa e
l’attività di militanza culturale di
Elio Vittorini» (La ricerca di una poetica,
p. 7). Il macrotesto vittoriniano di
Brigatti assolve così entrambe le funzioni:
da un lato, offre una lettura
storico-filologica dell’opera di Vittorini,
ricostruendone i nodi centrali,
gli elementi di continuità e discontirecensioni
631
nuità nel panorama italiano contemporaneo;
dall’altro, procedendo secondo
un metodo induttivo, situa
Vittorini nel Novecento, delineando
la figura di un intellettuale tout court,
la cui attività letteraria ed editoriale,
nella parabola ricostruita dall’A., ci
permette di addentrarci nel cuore
della storia del ‘secolo breve’.
Alberto Comparini
Franco Fortini, La guerra a Milano.
Estate 1943. Edizione critica e commento
a cura di Alessandro La Monica,
prefazione di Stefano Carrai,
Pisa, Pacini, 2017, pp. 320.
Il 2017 è stato l’anno del centenario
della nascita di Franco Fortini, occasione
perfetta per fare il punto sugli
studi dedicati all’intellettuale fiorentino
e per rilanciare indagini critiche
sempre più penetranti e allargate
all’intero raggio della sua multiforme
produzione. Com’è giusto che sia
per uno scrittore del suo calibro, sono
state licenziate anche nuove edizioni
delle sue opere, come ad esempio
quella critica e commentata di
Foglio di via e altri versi curata da Bernardo
De Luca (che abbiamo discusso
proprio in questa sede; cfr. «Critica
letteraria», XLVI 2018, f. IV, n. 181,
pp. 828-831). Altra edizione critica,
stavolta del Fortini prosatore, è quella
della Guerra a Milano. Estate 1943,
allestita da Alessandro La Monica.
Pubblicato solo nel 1963 nel mondadoriano
Sere in Valdossola e poi riproposto
– con significative modifiche
nella disposizione interna dei testi
che compongono il volume – nel
1985 da Marsilio, lo scritto è il racconto
autobiografico del sottotenente
Fortini, che assiste in pochi mesi
alla caduta del fascismo, alle prime
manifestazioni di entusiasmo popolare
e rabbia operaia, fino ad arrivare
ai giorni dell’armistizio, che provocano
ulteriori moti di rinnovamento
ma anche sbandamenti nell’esercito
e nella vita civile tutta del Paese.
In fuga da un Nord Italia vittima
delle scorribande e delle razzie nazifasciste,
Fortini arriva al campo rifugiati
di Adliswil, nei pressi di Zurigo,
il 5 ottobre del 1943; da lì sarebbe
stato liberato in anticipo dal pastore
valdese Albert Fuhrmann. Comincia
un periodo di febbrile attività scrittoria,
che consente di comprendere
quali generi letterari evitare e su
quali, invece, concentrare le proprie
energie; e cominciano del resto anni
di incontri determinanti per la formazione
culturale e politica di Fortini,
che tra la Svizzera e l’Ossola entra
in contatto con interlocutori quali Jean
Starobinski, Cesare Cases o ancora
Giansiro Ferrata e Gianfranco
Contini. Era però urgente, per il giovane
scrittore, mettere per iscritto le
impressioni vive dell’estate appena
trascorsa, e tra l’ottobre e il dicembre
del ’43 viene completata la prima stesura
della Guerra a Milano. Il manoscritto
frammentario è conservato
presso l’Archivio “Franco Fortini” di
Siena, ed è stato per molto tempo il
testimone principale antecedente le
edizioni in volume (una stampa parziale
era stata pubblicata in sette numeri
del quotidiano ticinese «Libera
stampa»).
Nel 2007, però, Alessandro La Monica
scopre un dattiloscritto con correzioni
autografe dello scritto fortiniano
presso gli archivi della Zentralbibliothek
di Zurigo. Lo studioso
aveva già dato prova delle sue com632
recensioni
petenze di filologo del Novecento
lavorando su un altro dattiloscritto
conservato presso la stessa biblioteca,
relativo al Seme sotto la neve di
Ignazio Silone (anche questo da noi
recensito; cfr. «Critica letteraria»,
XLV 2017, f. I, n. 174, pp. 202-204).
Altro libro di uno scrittore antifascista,
ma soprattutto altro libro che attraversa
il complicato iter della Censura
svizzera. Nella sua ricostruzione
della storia editoriale della Guerra
a Milano, La Monica ricorre a numerosi
documenti conservati presso il
Sozialarchiv di Zurigo e l’Archivio
Federale Svizzero di Berna, che attestano
l’alta considerazione di cui godeva
il racconto di Fortini, definito
«opera fuori dal comune» che «arricchisce
di molto la […] conoscenza
del comportamento esteriore e intimo
» (p. 45) dei ‘vicini’ italiani e le riserve
delle autorità a pubblicare un
volume che inaugurerebbe una letteratura
dedicata alla politica estera
«ad opera dei profughi», e come tale
«indesiderabile» (p. 46). Una considerazione
che potrebbe suonare sospetta,
tanto più se si considera la
radicale opposizione al fascismo che
permea ogni paragrafo della Guerra,
ma che trova una spiegazione in
quelle che risultano le novità più sostanziose
del lavoro filologico di La
Monica.
Uno dei motivi di maggior interesse
dell’edizione critica è infatti costituito
dal recupero di paragrafi in corsivo
leggibili nel dattiloscritto ma
successivamente eliminati dall’autore.
Questi passaggi espunti rendono
ancor più complesso il lavoro memoriale,
«poiché al Fortini-narratore e al
Fortini-personaggio […] il dattiloscritto
zurighese comprendeva anche
il Fortini-autore, che quelle pagine
utilizzava per descrivere il luogo
in cui si trovava e i compagni con cui
condivideva le sue giornate» (p. 39).
Non solo: lo studioso di letteratura
non può non rilevare l’importanza
metaletteraria dei corsivi introduttivi,
nei quali Fortini si dichiara diffidente
nei confronti delle operazioni
diaristiche, riconoscendo «l’insufficienza
e la provvisoria eloquenza»
(p. 60) dei ricordi proposti e «l’ambiguità
e quasi la viltà» (ibidem) della
forma adottata, che rimarrà in effetti
la meno frequentata dal pur prolifico
prosatore dei decenni venturi. Nelle
stesse pagine, e in special modo in
quelle conclusive, Fortini si effonde
in considerazioni di carattere politico
e militare molto acute, oggi pure
condivisibili, ma che negli anni Quaranta
dovettero rappresentare uno
dei maggiori ostacoli alla pubblicazione
della Guerra, come riconobbe
con lucidità lo stesso autore nella
prefazione all’edizione Mondadori,
nella quale dichiarava di aver espunto
dal testo «la parte che più direttamente
si rivolgeva ai miei connazionali
in Svizzera e che per la sua polemica
immediata aveva potuto essere
giustamente sgradita alle autorità
del paese che ci ospitava» (p. 304). È
difficile pensare che la cautela del
censore potesse accettare pacificamente
un giudizio duro sul Governo
Badoglio, al quale «mancò la forza di
dare parole d’ordine per la nazione
in guerra, se non quella sciaguratissima
e simbolica della sua inettitudine,
di “la guerra continua”» (p. 225),
così come non potevano essere ammessi
richiami espliciti alla «portata
rivoluzionaria» (p. 229) che la consegna
delle armi agli operai dei grandi
centri industriali avrebbe comportato.
Le ‘impressioni belliche’ di Fortirecensioni
633
ni dovranno attendere ancora qualche
anno per raffinarsi nelle forme
della poesia e trovare così una collocazione
editoriale. In questo senso,
sarebbe interessante rileggere Foglio
di via alla luce del dattiloscritto ritrovato,
le cui parti espunte potrebbero
essere state rimodulate in forma poetica.
Spiccano, tra i legami già rilevati
dal critico, quello tra E questo è il sonno,
edera nera, nostra e un passaggio
del diario in cui il motivo del sonno è
associato alla città di Firenze, che
nella raccolta del 1946 figura in un
testo quale La città nemica a breve distanza
dal componimento proemiale,
e ancora la decisa ripresa dell’espressione
«tessuta di plebi», presente
in uno dei corsivi eliminati ma
nota ai lettori della poesia fortiniana
come decimo verso di Italia 1942.
Completano l’edizione un commento
e due appendici. Piuttosto
scarno, il commento mira soprattutto
a sciogliere sigle e abbreviazioni
onomastiche,
poi corroborate da informazioni
sui personaggi a cui fa
riferimento l’autore. Si riconosco così
Alberto Carocci nell’«Alberto C.» di
p. 81, o Pietro Ingrao in «P.» e «Pietro
» (pp. 85 e 106), la cui presenza si
fa ancora più decisiva grazie al confronto
costante che La Monica compie
tra La guerra a Milano e Volevo la
luna, mémoire licenziato negli ultimi
anni di vita del dirigente comunista,
in cui trovano conferma e nuove sfumature
i resoconti fortiniani.
Di grande utilità sono le due appendici:
la prima è la trascrizione del
manoscritto senese, strumento ulteriore
per analizzare la composizione
del testo (meritevolmente La Monica
dà conto delle modifiche interne in
un apposito apparato), e quelle dei
più brevi dattiloscritti depositati
presso l’Istituto Storico della Resistenza
in Toscana; la seconda propone
invece la prefazione a Sere in Valdossola
e l’avvertenza all’edizione del
1985. Tali paratesti consentono di inquadrare
meglio la scelta di ripubblicare,
a distanza di tanti anni, scritti
giovanili dall’impianto formale piuttosto
distante dai gusti del Fortini
maturo. Piace allora concludere valorizzando
il senso politico di un «lascito
trasmesso a quei posteri che sapranno
e vorranno scoprire la messa
in forma di un’esistenza, e ne utilizzeranno
virtù ed errori, traducendoli
nel loro linguaggio» (p. 41); una nobile
consegna per un’opera letteraria,
forse adatta anche al lavoro meticoloso
ma pieno di passione civile di La
Monica, che rimette in circolazione
una testimonianza vivace di alcuni
dei mesi più duri e però significativi
del nostro Novecento con nuovi attrezzi
filologici che ne agevolino la
lettura e la storicizzazione.
Giuseppe Andrea Liberti
Giampaolo Borghello, Sequenze.
Percorsi, problemi e scorci di storia della
letteratura italiana, Venezia, Marsilio,
2019, pp. 266.
La metafora cinematografica che
dà il titolo a questa raccolta di saggi
di Giampaolo Borghello suggerisce il
montaggio a cui lo studioso veronese,
per anni docente all’Università di
Udine, ha sottoposto capitoli differenti
della sua attività critica. Sequenze
raccoglie 13 saggi, quasi tutti pubblicati
negli ultimi 20 anni tranne
uno, risalente al 1991 e proveniente
da una miscellanea in ricordo dell’amico
Paolo Zolli, una fra le tante pre634
recensioni
senze che animano le pagine di un
libro che non senza ragione Andrea
Battistini interpreta come «un’autobiografia
culturale dello stesso Borghello,
nella quale a essere privilegiati
sono gli incontri con figure decisive
della sua formazione» (p. 13).
Emerge, in effetti, il ritratto di uno
studioso con chiare predilezioni letterarie
e scientifiche, votato allo studio
della letteratura otto-novecentesca
e interessato alla storia della critica
che su quei testi ha esercitato magisteri
più o meno duraturi, non
sempre fortunati, giammai banalizzanti.
Il volume si apre con quattro Percorsi
decisamente variegati per argomento.
E si comincia, in tutti i sensi,
dalle origini, con un’analisi dei rapporti
tra i personaggi della quinta
novella della decima giornata del Decameron.
Quella di Dianora si inserisce
in un ciclo di novelle che riprendono
le «questioni d’amore» del Filocolo.
Sarebbe però scorretto provare a
interpretare il poemetto come una
‘preparazione’ di questi testi (quasi
agisse «una sorta di meccanica logica
di variantistica ascensionale, […] del
tutto fuorviante», p. 26), ed è allora
opportuno valorizzare gli elementi
di realismo che connotano la struttura
come i soggetti della narrazione.
Per quanto riguarda la prima, Decameron
X 5 presenta un impianto fiabesco
ibridato con numerosi aprosdóketon
e altri effetti di sorpresa che
traghettano i topoi fantastici su un
piano realistico; il sistema dei personaggi,
invece, esibisce personalità
plastiche, non esenti da ribaltamenti
di ruolo rispetto alle dinamiche boccacciane,
e profondamente umane
nelle loro molteplici sfaccettature e
contraddizioni. Lo prova, per limitarci
a un esempio eloquente (definito
peraltro «tassello essenziale nell’interpretazione
complessiva del testo
», p. 31), la ‘paura del negromante’
confessata da Gilberto, che come
scrive Borghello restituisce la «complessità
e la tridimensionalità di un
personaggio che non risponde a
un’unica logica né a un’unica linea di
condotta» (ibidem).
Con notevole salto temporale, si
passa dal Trecento della «lieta brigata
» alla contemporaneità di Pier Paolo
Pasolini, personaggio destinato a
tornare nelle pagine successive. Non
il poeta è però qui indagato in dettaglio,
né il romanziere, bensì il critico e
antologista, che con Passione e ideologia
licenzia «uno dei più significativi
libri di critica del secondo dopoguerra
» (p. 54). Oggetto dell’indagine è
l’interpretazione pasoliniana di Pascoli,
poeta al quale dedicò la sua tesi
di laurea (discussa nel 1945 presso la
Facoltà di Lettere di Bologna). Sin da
quel lavoro giovanile, Pasolini riconosceva
una «potenzialità novecentesca
» (p. 50) del Pascoli, che nella sua
lettura si configura come autore influente
fino al periodo vociano, e solo
gli ostracismi congiunti di Benedetto
Croce e della «Ronda» poterono interrompere
il suo successo. Eppure,
osteggiato ai piani alti della società
letteraria, Pascoli trova lettori sensibili
in quelle ‘periferie’ che producono
la maggiore poesia dialettale del
Novecento. Proprio da Pascoli, o meglio
da un pascolismo prende le mosse
il successivo saggio tematico, dedicato
alla presenza della cedrina nella
poesia primo-novecentesca. La piantina
che per il poeta di San Mauro costituiva
l’unico modo per possedere
«questa Terra nostra» diffonde il suo
profumo in testi di D’Annunzio come
recensioni 635
di Palazzeschi, che nella Visita di Mr.
Chaff la cita in quanto «pascoliana dimensione
del piccolo e dell’utile» (p.
81) e dunque parte del mondo – incomprensibile
all’americano e concreto
Chaff – del poeta; ma è soprattutto
la lirica di marca crepuscolare a
valorizzare al meglio la cedrina, che
compare in numerosi componimenti
di Corazzini, Gozzano e soprattutto
Moretti, il più sottovalutato tra i poeti
in questione, di cui Borghello lamenta
l’inesistenza di «un adeguato spoglio
linguistico […] che potrebbe consentire
l’individuazione di una precisa
mappa delle scelte, delle stratificazioni
e delle influenze della sua strategia
stilistica e del suo […] lavoro
correttorio» (p. 67).
Il quarto e ultimo Percorso è dedicato
a Biagio Marin, per il quale viene
proposta la definizione di ‘poetafilosofo’.
In effetti, lo studio è dedicato
soprattutto a tracciare un quadro
della poetica del Gradese a partire
dall’impasto tra neo-idealismo di
fondo e religiosità «sub specie aeternitatis,
universale, quasi metaforica»
(p. 85), che denota fortissima tensione
spirituale più che una piena adesione
a una qualsiasi fede. Questi
due poli consentono la compresenza
di ipotesi perfino contraddittorie: il
categorico individualismo di Marin,
nemico di qualsiasi forma di egualitarismo
e anzi tutto teso a interrogarsi
sulla «dimensione libertaria e “liberante”
dell’individuo» (p. 96), si
traduce in una concezione «spontanea,
libera e istintiva della creazione
artistica» (p. 90), che non può essere
soggetta ad alcun condizionamento
esterno o sociale. E però, pur nel suo
rifiuto di una dimensione che non sia
quella individuale, Marin non riesce
a rifiutare una visione manicheista
della società, divisa tra eletti e reprobi
o, come scrive, tra «bruti e spiriti
supremi» (p. 97); allo stesso modo,
pur restando fedele al suo spontaneismo
in campo estetico, deve riconoscere
l’esistenza di almeno due tipologie
di poeti: quelli «molto intellettuali
», talmente complessi da richiedere
l’ausilio della critica letteraria, e
altri «semplicemente umani», come
gli amati Giotti e Saba, sui quali proietta
(anche in virtù della comune
origine friulana) la propria figura di
poeta distaccato, lontano, in qualche
modo estraneo alle tendenze della
poesia italiana del secolo.
La seconda parte del libro è incentrata
su due autori carissimi a Borghello
e all’area del Friuli, il già citato
Pasolini e il romanziere Carlo
Sgorlon. Il legame tra i due è ben restituito
dall’organizzazione ‘dialettica’
dei saggi: un primo contributo
dedicato al solo Sgorlon conduce
all’analisi delle interpretazioni sgorloniane
della figura e dell’opera di
Pasolini, per trapassare infine a una
ricognizione della Roma di quest’ultimo.
Occasione ghiotta per rileggere
Sgorlon, meritevole vincitore di diversi
premi letterari ma oggi poco
frequentato dalla critica, contrariamente
al profluvio persino eccessivo
di studi su Pasolini.
Si propone innanzitutto un’analisi
della Poltrona, il primo romanzo di
Sgorlon datato 1965. Claustrofobico,
tutto svolto in interni, è un libro che
l’autore definisce kafkiano (p. 125); e
si direbbe che l’aggettivo, per quanto
usato con una certa libertà dalla critica
contemporanea, funziona bene
per questa narrazione di un’«esistenza
angosciosa e angosciante» (p. 128)
come quella di Giacomo Cojaniz,
aspirante scrittore di una ‘grande
636 recensioni
opera’
sul modello di Joyce e Musil, e
invece ennesimo caso di personaggio
letterario nevrotico.
Pasolini conosceva l’opera di Sgorlon:
risale al 1973 una sua recensione
del Trono di legno, romanzo pubblicato
in quello stesso anno e al quale
venne assegnato il Premio Campiello.
Ma alle poche righe dedicate dal
Bolognese al Trono – che, però, Borghello
mette in guardia dal liquidare
come una «stroncatura» (p. 153) – si
contrappone una lunga frequentazione
critica della sua opera da parte
di Sgorlon. Sono, le sue, osservazioni
di grande intelligenza, che affrontano
questioni tutt’ora irrisolte, come
quella del ‘pasolinismo’. Il Pasolini
prediletto non è infatti il ‘profeta’ del
quale si promuove, oggi ancor più di
ieri, un’acritica agiografia, un vero e
proprio culto che non si tributa a nessun
altro intellettuale italiano, e che
spesso cela una semplice – o politicamente
interessata? – incomprensione
degli ‘scritti corsari’. Pur confrontandosi
con questa impostazione pseudo-
critica, discutendo per esempio i
volumi del pittore Giuseppe Zigaina
che si convinse «di aver scoperto da
solo la chiave unica per comprendere
tutto Pasolini» (p. 141), Sgorlon rifugge
da qualunque assolutizzazione
delle frasi e degli interventi dello
scrittore, proponendo invece una più
serena storicizzazione della sua figura
e una contestuale riscoperta di autori
coevi ma poco studiati, come
Stefano D’Arrigo ed Elsa Morante.
Quasi a dichiarare la propria adesione
alle tesi sgorloniane, Borghello
chiude la sezione con uno studio sulle
rappresentazioni di Roma nelle
Ceneri di Gramsci e nei grandi romanzi
degli anni Cinquanta. È il Pasolini
della crisi politica dei poemetti, che
vive «la fine del decennio in cui ci
appare / tra le macerie finito il profondo
/ e ingenuo sforzo di rifare la
vita», come anche quello del canto
disperato di una città che è «qualcosa
di più di un semplice sfondo» alle
bravate dei Ragazzi di vita, «quasi
partecipe protagonista»: è però,
sempre, il Pasolini letterato, da leggere
prescindendo dalle incrostazioni
profetiche
sedimentatesi sul suo
nome.
I Viaggi della terza sezione di Sequenze
aprono ai contributi maggiormente
dedicati alla storia della critica.
Il titolo suggerisce spostamenti,
grandi distanze da coprire con corpi
e scritture, e rappresenta l’ampiezza
degli interessi di ricerca di Borghello.
L’esordio è ancora una prova dell’interprete:
è un viaggio il commento
puntuale alla poesia Levania di Sergio
Solmi, a metà tra immaginario
onirico e fantascienza, lì dove l’apertura
con il nome del mitico luogo
«esprime l’approdo come ansia d’arrivo
» (p. 186). Viaggi, trasferte e altri
spostamenti fanno poi continuamente
capolino nel libro al centro del terzo
contributo della sezione, Le corrispondenze
di Silvio Guarnieri. Spicca
tuttavia, tra questi attraversamenti, il
profilo di Concetto Marchesi, la cui
figura di latinista militante continua
a fungere da metro di paragone per
tanti umanisti che non intendono nascondere
passioni anche politiche
nelle ossature dei loro studi. L’opera
su cui si sofferma l’attenzione dell’autore
è la Storia della letteratura latina
(1925-27), antidoto alla «retorica
della romanità, baluardo ideologico
del fascismo» (p. 200) che non comprese
la portata sovversiva delle pagine
di Marchesi, costruite attorno a
«una sorta di nucleo marxiano» (p.
recensioni 637
201). Se il regime le avesse interpretate
correttamente, le avrebbe di certo
censurate; ma l’«ignoranza e l’ottusità
del fascismo» denunciate da
Ezio Franceschini consentirono la
circolazione di quest’opera capace di
offrire ancora oggi interpretazioni
originali della storia e dei personaggi
della latinità (basti il passo, giustamente
riportato per intero da Borghello,
dedicato a Catilina). Merita
particolare elogio il tentativo di inquadramento
complessivo della figura
di Marchesi nella cultura primo-
novecentesca. Più che alle grandi
correnti del pensiero marxista o cattolico,
è opportuno ricondurre l’impostazione
teorica dello storico della
letteratura a una ‘proposta di prudenza’
intesa come alternativa alla
sicumera positivista del filologismo
del tempo. È però altrettanto doveroso
riabilitare la politicità di Marchesi,
evitando di affibbiargli ulteriori etichette
di comodo quali quella (ormai
usata a sproposito) di ‘marxista critico’.
Fu piuttosto, e fino alla fine, un
uomo del Partito comunista; anzi,
Borghello propone «il modulo di
“Marchesi uomo di Partito” come
strumento per accostarsi proficuamente
alla sua figura e alla sua opera
», poiché «si tratta, in qualche modo,
di una scelta “preliminare”, inquadrante
l’attestazione di una fedeltà
di fondo al Partito, all’organizzazione,
agli “uomini”» (p. 212). Solo
tenendo presente la sua azione all’interno
del Pci e la paziente costruzione
di un rapporto tra attività critica e
politica si può comprendere il senso
della sua interpretazione della letteratura
latina – e quindi della società
antico-romana.
La storia della critica domina anche
l’ultima parte di Sequenze, ma si
sfuma ormai nelle storie d’amicizia.
Giampaolo Borghello rende infine
omaggio a tre maestri e amici come
Bruno Maier, Paolo Zolli e Giuseppe
Petronio. Personalità ricche e differenti,
come differenti sono le tipologie
di contributi a loro dedicati: se
quello dedicato a Zolli ha la sintetica
precisione della voce enciclopedica,
il ricordo di Petronio, insospettabile
coach della squadra «rossoalabardata
» dell’Istituto di filologia moderna
dell’Università di Trieste, serve anche
a fare i conti con una delle figure
più importanti per la formazione di
tante generazioni di studenti. A metà
strada tra l’affettuosa rievocazione e
l’analisi rigorosa è il contributo su
Maier, correlatore della tesi post lauream
alla Normale di Borghello in
qualità di «massimo esperto nazionale
degli argomenti in discussione»
(p. 235; l’allora matricola si perfezionò
su Svevo). Dello studioso capodistriano
si discutono le ricerche su
autori come Marin e Giorgio Voghera,
insomma su quella letteratura
friulana che, come testimonia anche
questo libro, pure ha costituito uno
dei punti nevralgici dell’attività critica
di Borghello.
Apertosi con una lectura Boccaccii,
il volume si chiude con il ritrovamento
fortunato di una copia del Decameron
commentato da Petronio tra
le bancarelle di Piazza Mercanti a
Milano. È una circolarità eloquente,
che testimonia una volontà di inoltrarsi
nella macchia della letteratura
italiana, sfruttando i sentieri inaugurati
da grandi precursori e preparandone
al contempo di nuovi per gli
studiosi che gireranno nuove ‘sequenze’
critiche.
Giuseppe Andrea Liberti
638 recensioni
Raffaele Cavalluzzi, Sogni da sogni.
Studi di letteratura e cinema, Bari,
Progedit, 2018, pp. 196.
La raccolta di saggi e recensioni
dell’ultimo lavoro di Raffaele Cavalluzzi
coniuga il rapporto tra scrittura
cinematografica e realizzazione filmica.
Lo studioso si sofferma meticolosamente
a osservare come cambia
la forma della narrazione, una volta
immaginata, per assumere i connotati
di una pagina scritta o di una visione
filmica. Il libro contempla sei saggi
puramente letterari e sette dedicati
allo stretto intreccio tra cinema e
letteratura. Seguono quindici recensioni
cinematografiche e un’appendice
su Franco Fortini.
Una narrazione, prima di essere
concepita, deve essere prima di tutto
sognata. I film sono sogni da sogni:
concepiti da espressioni fortemente
connesse, pur restando scritture fondamentalmente
separate. Per dare
maggior significazione e pregnanza
alle due scritture, originate entrambe
da un sogno, Cavalluzzi parte dalla
suggestione che offre il critico Arcangelo
Leone de Castris, una sorta di
lente di osservazione che permette di
mutare la realtà in visione poetica.
Nel saggio (L’esperienza di Pasolini tra
“poesia” e “storia”, in «Lavoro critico
», n. 4 n.s., aprile 1986), Leone de
Castris scrive a proposito della poesia
pasoliniana:«La poesia – per Pasolini
– può essere l’involucro trasparente
attraverso il quale passa la
storia, l’acquario attraversato dagli
oggetti in sospensione». La metafora
dell’acquario, riprende l’autore del
libro, pare cogliere almeno in parte
una dimensione formale che mal si
concilia con il realismo. Tra realtà visibile
e realtà occulta, celata, tra
espressione soggettiva e oggettivo
manifestarsi delle cose, fra “interno”
ed “esterno” si frappone la lente personalissima
dell’emozione e di una
essenza spirituale che rende unici i
vissuti e le loro espressioni.
L’immagine dell’acquario sembra
essere proprio quella lente, quel punto
di vista straniato, talvolta sfocato
che tende verso lo spettatore, al quale
l’arte del narrare si mostra in tutta
la sua sublime unicità creativa. La
straziante dicotomia tra soggetto e
oggetto della rappresentazione, l’incolmabile
differenza di resa sembra
essere il più allarmato punto di vista
dell’intellettuale isolato, nella magnifica
e prodiga sensibilità solitaria
e nella abominevole e famelica massificazione
dilagante. Il poeta vive
con tenace impegno per mettere ordine
nella verità di questa ferocia e
nella sofferenza etico-esistenziale
che da essa deriva. Poesia e narrativa
erano state per Pasolini – fino all’esordio
nel cinema e agli inizi degli
anni ’60 – i luoghi della ricerca intellettuale,
in cui la realtà veniva sublimata
dalla bellezza e dall’arte, ma
anche aberrata dal delirio perfezionistico
e formale. «La rappresentazione
della realtà – scrive ancora Cavalluzzi
–, intesa a mano a mano sempre
di più come dolorosa condanna, come
inferno del destino, come incubo
penetrato a fondo nella corruttibile
vitalità dei sensi», esprime tutto un
disagio esistenziale. «Cominciando
ad affidare tale rappresentazione alla
cifra stravolta di stupite, o talora rabbiose
visioni figurali, che, tuttavia,
solo nell’esperienza cinematografica
avrebbe poi raggiunto […] convinta
pienezza espressiva» (p. 8).
Il senso dello smascheramento delle
illusioni su cui si permea l’incredirecensioni
639
bile vicenda umana e narrativa del
Tasso è il perno attorno al quale ruota
l’indagine del primo saggio del libro
(“Il Monte Oliveto” di Torquato
Tasso: le metafore, la fede). Dopo un’esistenza
breve e tormentata, Torquato
Tasso è a Napoli nel marzo del
1588 e sente più che mai il desiderio
di rifugiarsi esclusivamente nella fede.
Dopo la pubblicazione della Gerusalemme
Liberata, della Apologiae
della stesura della tragedia del Re
Torrismondo, sviluppa una ricerca poetica
improntata al divino. Ed è proprio
quest’ultima oggetto di analisi
di gran parte della critica novecentesca.
La poesia subisce una suadente
fascinazione del misterico canto corale
e del movimento liturgico. La
stessa è connotata di un sentito e costante
sentimento malinconico e di
una accorata invocazione mistica.
Una malinconia diversa definisce
il sogno d’amore felicemente agognato
da Vittorio Alfieri (“Alceste Seconda”
di Vittorio Alfieri, tragedia postuma).
Cavalluzzi si sofferma ad
analizzare la scrittura di quest’opera
ispirata all’amata contessa Luisa
Stolberg-Gedern, in cui Alfieri si rifà
alla lingua dei classici greci, soprattutto
Euripide. Molte delle espressioni
che Alfieri adopera nella scrittura
della tragedia valorizzano i disegni
di una provvidenza imperscrutabile,
ovvero le misteriose vie del destino
dei viventi. La scrittura dinamica di
Alfieri che rispecchia una metrica di
ordinati enjambements conserva un’espressione
prevalentemente elegiaca,
secondo il gusto neoclassico, e
insieme rimanda ad un impulso più
profondo di un animo rinnovato dalla
passione.
Il sogno patriottico, basato su principi
di etica civile individuale è alla
base della ricerca letteraria di Francesco
De Sanctis, che in gioventù si
era imbattuto anche nel “galantomismo”
della borghesia meridionale
con non poche tracce, per la verità, di
miopico osservare (Francesco De Sanctis:
da “Un viaggio elettorale” al ritorno
alla “Giovinezza”). A partire da
quel primo tocco di visionarietà riscontrabile
in alcuni tratti puntuali
ed efficaci dell’esordio intellettuale,
«i dettagli esistenziali – scrive Cavalluzzi
–, come le fondamentali linee di
sviluppo del suo pensiero e delle sue
straordinarie interpretazioni, stanno
lì infatti a rilevare, sopra ogni cosa, il
decisivo passaggio dalla dimensione
idealistica alle intuizioni realistiche come
matura sin dalla genesi di quello
che possiamo chiamare il secolo desanctisiano
» (p. 53).
Il visionarismo maturo di Giovanni
Pascoli (Ancora nel “romanzo” pascoliano:
“Eros” e “Thànatos”) non riesce
sempre a placare il dramma del
romanzo. E, poiché spesso sentimenti
di alienazione e nichilismo attingono
a temi ed emozioni profonde, tutta
la produzione letteraria dell’intellettuale
decadente è intrisa di pulsione
sessuale commista a pulsione di
morte, perché l’amore consiste nel
bisogno di annientarsi e di raggiungere
profondità altre, simili alla voragine
fatale della morte.
Di nichilismo è permeata anche la
visione pirandelliana della condizione
dell’uomo: una condanna alla solitudine
e alla sofferenza ascritta
dall’intellettuale a quel nucleo primordiale
del vivere civile: la famiglia
(Novelle pirandelliane: la famiglia “a
nudo”). Proprio quella disperata condizione
è descritta con i tratti derisori
del grottesco e ritrae l’abnegazione
del sogno vivifico e vitale. Dalle no640
recensioni
velle emerge un teatro fatto di deliri
diversi, di ombre equivoche e di personaggi
angoscianti, che si ha modo
di osservare in tutta la loro grama
nudità.
Nel saggio L’“Ordigno dell’amore”.
Personaggi e figure femminili nell’“
ultimo tempo” di Italo Svevo Cavalluzzi
si sofferma sulle pulsioni d’amore
di Zeno Cosini, l’alter ego di
Svevo. Lo stesso ordigno d’amore
scoppierà sia per il protagonista nel
suo celeberrimo romanzo sia per il
suo autore, rinvigorendo fiamme e
ferite di uno spirito del tempo della
decadenza, in una condizione di assoluta
inquietudine esistenziale.
Dell’intreccio tra cinema e letteratura
si occupa la seconda parte del
libro, che si apre con il racconto-testamento
di Kezich su Svevo e con
l’incontro con Roth (Kezich tra Svevo e
Joseph Roth: la crudeltà dello scrittore),
tocca il cinema di Giorgio Pàstina
(Sulla scia del verismo. Le fonti letterarie
di Giorgio Pàstina regista e sceneggiatore),
analizza gli scritti dello sceneggiatore
De Feo (Sandro de Feo narratore:
le improbabili dinamiche della “realtà”),
discute delle fonti letterarie della
produzione cinematografica di
Greco (Le fonti letterarie del cinema di
Emidio Greco). E poi l’autore tratta
della raccolta di recensioni radiofoniche
sul cinema di Morante (“La vita
nel suo movimento” di Elsa Morante),
della visione da storico dell’arte di
Stoichita che guarda al cinema come
mera arte visiva (“Effetto Sherlock” di
Victor I. Stoichita: trappole dello sguardo),
dei materiali narrativi per i documentari
e per i soggetti dei primi
lungometraggi del regista polacco
Kieslowski (“Il caso e altre novelle” di
Krzysztof Kieslowski).
La terza parte, infine, è fatta di
quindici recensioni cinematografiche
snelle, dalla resa fresca e immediata,
che narrano di un presente vicino ai
giorni nostri aberrato da visioni multiple
e sogni infranti, talora incubi.
Tra l’altro, si prendono in esame il
noir post-moderno di Anderson, tratto
dal romanzo di Pynchon, il thriller
di Sodebergh Effetti collaterali, il
dramma psicologico Ida, film di straordinaria
intensità di Pawlikowski,
due lavori di Ozon, il capolavoro
della Von Trotta Hannah Arendt, il
Moliére in bicicletta del francese Philippe
Le Guay e Anime nere di Francesco
Munzi.
Nell’immaginario caleidoscopico e
onirico filtrato in Sogni da sogni, lo
sguardo indagatore e penetrante di
Raffaele Cavalluzzi rintraccia aspetti
insondabili dello smarrimento del
presente.
Viviana Tarantino
Vetrine di cristallo. Saggi su Silvana
Grasso, a cura di Gandolfo Cascio,
Venezia, Marsilio, 2018, pp. 190.
La raccolta di studi dedicata a Silvana
Grasso, scrittrice contemporanea
di grande risonanza, principalmente
dedita alla narrativa, ma capace
di attraversare i generi letterari e
di cimentarsi anche nella scrittura
poetica, teatrale e nella traduzione
classica, costituisce un importante
tassello critico, che aggiorna e completa
le ricerche a lei dedicate. Nell’opera
sono confluite buona parte delle
relazioni presentate al convegno internazionale
L’opera di Silvana Grasso:
poetica, generi e filologia, tenutosi all’università
di Utretch il 24 maggio
2017. Come nota Cascio nella Premesrecensioni
641
sa al volume, l’obiettivo del convegno
era quello di «coinvolgere studiosi
provenienti da prestigiose istituzioni
europee e statunitensi, impegnati
in varie discipline […] per indagare
alcuni aspetti dei lavori editi e
inediti, ancora poco vagliati» (p. 11).
Ciò spiega anche il titolo Vetrine di
cristallo, che, ripreso da uno dei racconti
di Pazza è la luna, esplicita l’intenzione
di mettere in mostra, come
«in una scintillante bacheca» (p. 11)
quanto era emerso nel corso dell’incontro
del 2017. Se dunque il curatore
si proponeva, da un lato, di avvicinare
i libri di Grasso con metodologie
nuove (la narratologia, i gender studies)
e con strumenti come le digital
humanities, e dall’altro di considerare
anche gli «altri mestieri» (p. 11) della
scrittrice, – poesia, traduzioni, teatro
ed elzeviri civili – si può affermare
che sia riuscito nel suo intento. Il volume,
infatti, muovendo da alcuni
punti fermi nella storiografia – l’espressionismo
linguistico, l’attenzione
al paesaggio e alla società siciliana,
il realismo stilistico – conduce il
lettore alla scoperta di nuovi aspetti e
nuovi spazi della letteratura di Grasso.
Ci si riferisce in particolare ai concetti
di maternità e di vedovanza, alla
funzione della donna nella società,
ad alcuni elementi parodistici e alle
problematiche connesse ai queer studies
oltreché alla sua attività, prima
mai studiata, di poeta e traduttrice
dal greco. In altre parole, l’opera si
distingue per la sua completezza e
per la ricchezza delle tematiche proposte.
Si passeranno ora brevemente
in rassegna i saggi presenti, seguendo
l’ordine alfabetico proposto nel
volume, per evidenziare di ciascuno i
tratti peculiari e la freschezza critica
dell’approccio.
Marco Baldini, in La strategia della
vedova, si occupa del racconto 7 uomini
7 (2006), e nota che quello che apparentemente
sembra un «racconto
fallito, e a tratti spiacevole» (p. 20) si
rivela invece un racconto auto-finzionale,
capace, attraverso l’inventio,
di rilegittimare l’autore. Il poeta latitante
di Gandolfo Cascio ci porta nel
territorio inesplorato della poesia di
Grasso. Lo studio, di estrema chiarezza
e completezza, da un lato cerca
di riordinare filologicamente la sua
produzione, dall’altro riflette sulle componenti
metriche, stilistiche e linguistiche
della sua poesia, che deve essere
considerata in un panorama ellenistico,
più che italiano. Marina
Castiglione, in Tra uomo e donna, si
occupa di certe ricorrenze figurali
nella scrittura grassiana, concentrandosi
su alcuni avantesti di Enrichetta
e confrontando testi editi e inediti. Il
cibo ne “La pupa di zucchero” di Francesca
Cristante offre un’intelligente
rilettura del romanzo di Grasso, mettendo
in luce le varie funzioni svolte
dal cibo – «descrivere vari aspetti
culturali, emotivi, sociali, religiosi»
(p. 92) – e la complessità extra-testuale
dell’opera. Claudio Felice, con
un’attenta analisi delle tecniche diegetiche
adottate da Grasso per portare
sulla pagina la parola dei personaggi,
in particolare nel romanzo
Solo se c’è la luna, chiarisce che la mimesi
dell’oralità, finemente raggiunta,
è intenzionale nella scrittura del
romanzo (L’oralità rivestita). Pierluigi
Lanfranchi studia, in Creare felici analogie.
Le traduzioni dal greco, la Grasso
come traduttrice dal greco e, attraverso
il confronto tra una traduzione
sul mimo di Eronda e la raccolta di
racconti Nebbie di ddraunàra, rivaluta
la sua competenza filologica e dimo642
recensioni
stra come i due tavoli, quello della
scrittrice e quello della traduttrice,
siano strettamente connessi. Stefania
Lucamante analizza il romanzo Ninna
nanna del lupo in Buone solo a figliare
e introduce nuove prospettive di
ricerca, soprattutto nell’ambito della
vulnerabilità e della femminilità, oltreché
della migrazione quale spazio
dell’immaginario e dell’immaginato,
mostrando le soluzioni narrative con
cui la scrittrice problematizza alcuni
temi peculiari della letteratura siciliana.
Il volume si conclude con un
saggio di Raniero Speelman, Tradurre
il libro più bello, sulla traduzione di
alcune opere di Grasso in neerlandese.
Mentre lo studioso riflette sulle
difficoltà che si possono incontrare
nel corso della traduzione, sul metodo
da lui seguito e su una traduzione
pre-esistente (Il bastardo di Mautàna),
altro non fa che confermare il valore
della scrittura grassiana e l’esigenza
che la sua produzione raggiunga respiro
internazionale.
Mara Boccaccio
LIBRI RICEVUTI
Battistini Andrea, Svelare e rigenerare. Studi sulla cultura del Settecento,
a cura di Andrea Cristiani e Francesco Ferretti, Bologna, Bononia
University Press, 2019, pp. XVI- 390.
Bedin Cristiano, Il viaggiatore metaforico. L’odeporica contemporanea
e la scrittura di viaggio nell’opera di Antonio Tabucchi, Napoli, Paolo Loffredo,
2019, pp. 182.
Borghello Giampaolo, Sequenze. Percorsi, problemi e scorci di storia
della letteratura italiana, Venezia, Marsilio, 2019, pp. 266.
Britonio Girolamo, Gelosia del sole. Edizione critica e commento di
Mikael Romanato, Genève, Droz, 2019, pp. 834.
Casadio Asteria, Ugo Piscopo tra critica e scena. Prefazione di Rino
Caputo, Teramo, Evoè edizioni, 2018, pp. 170.
Conoscenti Domenico, I Neoplatonici di Luigi Settembrini. Gli amori
maschili nel racconto e nella traduzione di un patriota risorgimentale.
Prefazione di Maya De Leo, Milano-Udine, Mimesis edizioni, 2019, pp.
222.
D’Annunzio Gabriele, Alcyone, edizione critica a cura di Pietro Gibellini,
commento di Giulia Belletti, Sara Campardo ed Enrica
Gambin; scheda metrica di Gianfranca Lavezzi, Venezia, Marsilio, 2018
(Edizione Nazionale delle opere di Gabriele D’Annunzio), pp. 926.
Fraccacreta Alberto, Montale errante. Cronache di una tensione religiosa,
Napoli, Paolo Loffredo, 2018, pp. 300.
Fragnito Gigliola, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto
gli occhi dei censori (secoli XV-XVII), Bologna, il Mulino, 2019, pp. 326.
Galanti Giuseppe Maria, Osservazioni intorno a’ romanzi. Edizione
critica a cura di Domenica Falardo, con un saggio di Sebastiano Martelli,
Napoli, Istituto degli Studi Filosofici, 2018, pp. LXXXII- 244.
Giannantonio Valeria, Le autobiografie della Grande guerra. La scrittura
del ricordo e della lontananza, Firenze, SEF, 2019, pp. 360.
Lettura dell’«Orlando Furioso», diretta da Guido Baldassarri e Marco
Praloran, a cura di Gabriele Bucchi e Franco Tomasi, Firenze, Edizioni
del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2016-2018, vol. I, pp.
542; vol. II, pp. 742.
Piscopo Ugo, Crepitii. Epilli, prefazione di Vincenzo Guarracino;
postfazione di Stefano Verdino, Salerno, Oèdipus, 2018, pp. 90.
Piscopo Ugo, LIT all’incanto. Dramma satiresco in quattro quadri, Castiglione
di Sicilia, Il Convivio, 2018, pp. 80.
Vitale Vincenzo, Secondo i precetti della perfetta amicizia. Il Novellino di
Masuccio tra Boffilo e Pontano, Roma, Carocci, 2018, pp. 596.