Anno XLVI (2018) Fasc. III, N. 180

Anno XLVI (2018) Fasc. III, N. 180

  1. Saggi
    • STEFANO BIANCHI

      Le rime e le lettere di Veronica Gambara e l’edizione bresciana del 1759 – pp. 423-448

      La prima edizione delle Rime e lettere della poetessa cinquecentesca Veronica
      Gambara uscì a Brescia per le cure di Felice Rizzardi nel 1759, più di due secoli
      dopo la morte dell’autrice. L’articolo esamina la struttura di questa edizione,
      che conteneva anche un’ampia e particolareggiata biografia scritta da Baldassarre
      Camillo Zamboni. Viene inoltre affrontata la questione dell’identità del
      destinatario delle ventisette stanze Quando miro la terra ornata e bella.

      The first edition of the sixteenth-century poet Veronica Gambara’s Rime e lettere
      was published in Brescia by Felice Rizzardi in 1759, more than two centuries
      after the author’s death. The present article examines the structure of this edition,
      which also contains a long and detailed biography penned by Baldassarre
      Camillo Zamboni. It also investigates the question of the identity of the addressee
      of the twenty-seven stanzas entitled Quando miro la terra ornata e bella.

    • John Butcher

      «Dove Hippocrene è l’Istro». Antonio Abati al servizio dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria*
      – pp. 449-467

      Antonio Abati, nella sua attività letteraria tesa alla rappresentazione e all’ulteriore
      promozione della dinastia asburgica, diede un contributo difficilmente
      valutabile nelle conseguenze ma senz’altro efficace per l’immagine pubblica di
      una delle massime potenze europee, fornendo un nutrito gruppo di componimenti
      propagandistici in grado di rafforzare la statura politica dell’arciduca
      Leopoldo Guglielmo, dell’imperatore Ferdinando III e dell’intero meccanismo
      di potere installato sulle rive del Danubio ed esteso ad altre località ben più
      distanti nel Sacro Romano Impero e altrove.

      Antonio Abati, in his literary efforts to bolster the strength of the Habsburg
      dynasty, made a meaningful (albeit hard to gauge) contribution to the public
      image of one of Europe’s major powers, marshalling an array of poetic works
      of propaganda able to corroborate the political stature of Archduke Leopold
      Wilhelm, Emperor Ferdinand III and, indeed, the entire system of power installed
      on the banks of the Danube and reaching out further afield into the
      Holy Roman Empire and beyond.

    • Giulia Tellini

      Le amiche rivali: la scrittura teatrale di Angelica Palli – pp. 469-493

      Angelica Palli è figura di spicco nella Livorno dell’Ottocento: improvvisatrice
      estemporanea negli anni della giovinezza, animatrice di salotti e giornalista,
      autrice di commedie e drammi, di romanzi, racconti e poesie. Le amiche rivali è
      un suo dramma che, assegnabile al 1830 e lasciato inedito manoscritto nel Fondo
      Palli della Biblioteca Labronica di Livorno, è stato pubblicato per la prima
      volta nel 2016. Il saggio analizza il dramma dal punto di vista stilistico-tematico,
      sottolineandone la modernità e l’originalità, soprattutto per quanto riguarda
      le dinamiche dei rapporti fra i sessi.

      Angelica Palli was a major personality in nineteenth-century Livorno. She was
      an extemporizer as a young lady, a society woman, a journalist, as well as being
      the author of comedies and dramas, novels, short stories and poems. Her drama
      Le amiche rivali, written probably in 1830 and left unpublished in the Fondo
      Palli of Livorno’s Biblioteca Labronica, was printed for the first time in 2016.
      This essay offers a stylistic-thematic analysis of the drama, showing both its
      modernity and originality, especially as concerns the relationship between the
      two sexes.

    • Dino Manca

      Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione di due romanzi di Giuseppe Dessì – pp. 495-515

      L’oggetto della trattazione riguarda lo studio critico dei nuclei generativi di due
      opere di Giuseppe Dessì: Luciana, ipotesi e progetto di un romanzo in fieri, al
      quale l’autore aveva lavorato per molti anni, e Michele Boschino, pubblicato nel
      1942 con le edizioni Mondadori. Lo studio si pone in continuità col lavoro di
      approntamento dell’edizione critica che ha visto la luce nel 2011.

      The subject of the discussion concerns the critical study of the generative nuclei
      of two works by Giuseppe Dessì: Luciana, hypothesis and project of a novel in
      progress, to which the author had worked for many years, and Michele Boschino,
      published in 1942 with the Mondadori editions. The study is in continuity
      with the work of preparation of the critical edition that saw the light in 2011.

    • Angelo Castagnino

      Il romanzo della positività – pp. 517-538

      Prendendo spunto dalle recenti teorie filosofico-sociologiche di Byung-Chul
      Han e Vanni Codeluppi sui concetti di positività, trasparenza e vetrinizzazione
      dell’individuo, il presente saggio discute il ricorrere di questi temi nei romanzi
      di Nicola Lagioia e Alessandro Perissinotto, con ulteriori riferimenti alla narrativa
      di Edoardo Albinati e Tiziano Scarpa. Particolare rilievo è dato allo studio
      di come l’influenza dei social media contribuisce ad una diversa percezione del
      singolo in relazione alla società, al conflitto sociale, e all’ostentazione iperbolica
      delle attività dell’individuo che, sempre costretto a mostrarsi attivo, vive una
      nuova fase del rapporto fra sé e il potere.

      Inspired by the recent philosophical and sociological theories of Byung-Chul
      Han and Vanni Codeluppi regarding the concepts of positivity, transparency
      and commodification of the individual, this essay discusses the recurrence of
      these topics in the novels of Nicola Lagioia and Alessandro Perissinotto, with
      further reference to the narratives of Edoardo Albinati and Tiziano Scarpa. Particular
      relevance is given to how the influence of social media contributes to a
      new perception of the self in its relation with society, the social conflict, and the
      hyperbolic display of the actions of the individual that, always forced to appear
      active, experiences a new phase of the relation between him/herself and power.

  2. Meridionalia
    • Marco Manotta

      Un polittico narrativo di Seminara, tra favola e mito – pp. 539-558

      È possibile parlare di un realismo a sfondo mitico per la narrativa di Fortunato
      Seminara. Dal contatto col dato oggettivo si protende un orizzonte di ricerca
      che curva la temporalità nell’ordine della ripetizione: dopo aver attraversato le
      dimensioni del galateo sociale, della favola, del rito, del mito e della tragedia si
      torna al punto di partenza, ispessito a questo punto da un doloroso senso di
      ineluttabilità, di cui i personaggi femminili sono ora vittime ora vindici. Una
      realtà rurale arcaica rappresentata nella sua esplosiva complessità, senza misericordia,
      in testi narrativi coevi e consentanei, quali La fidanzata impiccata e Quasi
      una favola.

      It’s possible to outline a mythical background beneath the realism which characterizes
      Fortunato Seminara’s novels. Objective temporal order bends itself
      towards cyclic repetition: from the very beginning to the end, along the sequence
      of social narrative patterns such as etiquette, fable, rite, myth and, finally,
      tragedy, the story designes a motionless history. In this universe, female
      characters are, alternately, victims and avengers. A rural archaic reality, which
      Seminara represents in its complexity, without mercy, in coeval and specular
      novels, such as La fidanzata impiccata and Quasi una favola.

  3. Contributi
    • FRANCO MAIULLARI

      Una nuova lettura dell’Ulisse dantesco (ovvero, l’interpretazione anamorfica del canto XXVI
      dell’Inferno)1
      – pp. 559-581

      È possibile un’altra lettura dell’Ulisse dantesco, rispetto a quella tradizionale, la
      quale vede nell’eroe greco l’alter ego del poeta; infatti, una particolare analisi del
      canto XXVI, che definisco anamorfica, dimostra che la sua lettura canonica è
      parziale, a iniziare dal fatto che, di regola, scotomizza cinque dei sei personaggi
      presenti nel canto e focalizza l’attenzione ormai unicamente sulla figura di Ulisse.
      Secondo la lettura anamorfica, invece, i sei personaggi costituiscono tre coppie
      schermo (Elia-Eliseo, Eteocle-Polinice, Ulisse-Diomede) che, ognuna a suo
      modo, ma in particolare la coppia Ulisse-Diomede, rinviano a quella Cavalcanti-
      Dante.

      Compared to the traditional reading of Dante’s Ulysses, which considers the
      Greek hero an alter ego of the poet, another reading is possible. In fact, a close
      analysis of canto XXVI, one that I call anamorphic, reveals that the standard
      reading is partial, especially because it usually sidelines five of the canto’s six
      characters and concentrates solely on the figure of Ulysses. According to an
      anamorphic reading, on the other hand, the six characters form three allusive
      pairs (Elijah-Elisha, Eteocles-Polynices and Ulysses-Diomedes), each in its own
      way, but especially that of Ulysses-Diomedes, alluding to the Cavalcanti-Dante
      couple.

    • Marino BOAGLIO

      Il sogno come rimozione. Il poemetto Paulo Ucello di Giovanni Pascoli – pp. 583-602

      Il poemetto Paulo Ucello del Pascoli sembra delineare il quadro artistico e morale
      del pittore del ’400; in realtà non è poesia storica o celebrativa, bensì exemplum
      di sublimazione poetica e di rimozione del profondo sotto il segno dell’amore
      fraterno e di una semplicità edificante di ascendenza francescana. Pascoli
      finisce per proiettare le proprie moderne inquietudini nelle ambagi oniriche del
      pittore fiorentino, in cui prova a riconciliare le sue due nature: lo spirito turbato
      e la rigorosa passione per la perizia formale.

      Pascoli’s long poem Paolo Ucello appears to sketch out an artistic and moral
      portrait of the fifteenth-century painter. In reality, however, the poem is not so
      much a historical or celebratory text as an example of poetic sublimation and of
      the repression of the innermost self under the trappings of fraternal love and an
      edifying simplicity belonging to the Franciscan tradition. Pascoli ends up projecting
      his own modern anxieties onto the dream world of the Florentine painter
      in whom he attempts to reconcile a twin nature: a troubled spirit and a rigorous
      passion for formal perfection.

  4. Recensioni
    • Antonio Iurilli

      Quinto Orazio Flacco. Annali delle edizioni a stampa. Secoli XVXVIII, 2 tomi, Ginevra 2017 (Pietro
      Sisto) » 603
      – pp. 603-605

    • Francesco Tateo

      Pontano poeta. Carmi scelti e frammenti con traduzione italiana, Foggia, 2018 (John Butcher) – pp.
      607- 609

    • Maurizio Capone

      Nievo e Tolstoj. Le Confessioni d’un italiano e Guerra e pace: un confronto inedito, prefazione di
      Simone Casini, Roma 2017 (Giuseppe Andrea Liberti)
      – pp. 612-614

    • Carlo Nitsch – Guido Trombetti

      Anche le cicale sanno contare, Roma 2018 (Matteo Palumbo) – pp. 626-629

saggi
STEFANO BIANCHI
Le rime e le lettere di Veronica Gambara
e l’edizione bresciana del 1759
La prima edizione delle Rime e lettere della poetessa cinquecentesca Veronica
Gambara uscì a Brescia per le cure di Felice Rizzardi nel 1759, più di due secoli
dopo la morte dell’autrice. L’articolo esamina la struttura di questa edizione,
che conteneva anche un’ampia e particolareggiata biografia scritta da Baldassarre
Camillo Zamboni. Viene inoltre affrontata la questione dell’identità del
destinatario delle ventisette stanze Quando miro la terra ornata e bella.

The first edition of the sixteenth-century poet Veronica Gambara’s Rime e lettere
was published in Brescia by Felice Rizzardi in 1759, more than two centuries
after the author’s death. The present article examines the structure of this edition,
which also contains a long and detailed biography penned by Baldassarre
Camillo Zamboni. It also investigates the question of the identity of the addressee
of the twenty-seven stanzas entitled Quando miro la terra ornata e bella.
1. Nel 1759 Felice Rizzardi pubblicò a Brescia, presso la tipografia
del padre Giammaria, la prima edizione delle Rime e lettere di Veronica
Gambara1. La Gambara nacque nella notte tra il 29 e il 30 novembre
1485 a Pralboino, nella pianura bresciana, e sposò nell’ottobre del 1508
Giberto X signore di Correggio. Dopo la morte del marito, avvenuta
nell’agosto del 1518, assunse la guida del piccolo stato padano. Non
dette mai alle stampe un canzoniere e diversi suoi componimenti circolarono
nelle antologie di rime che si susseguirono nel corso del Cinquecento.
Veronica scrisse anche in latino: ci restano una sua lettera al
correggese Annibale Camilli e un suo epigramma su di lui, apparsi nel
Autore: Università degli Studi di Firenze; dottore di ricerca in italianistica;
stef.bianchi@unifi.it.
1 Su Felice Rizzardi (1732-1801) cfr. Ugo Vaglia, Tipografie e tipografi a Brescia
nel sec. XVIII, «Commentari dell’Ateneo di Brescia», clxxx (1981), pp. 150-151, e
Giuseppe Nova, Stampatori, librai ed editori a Brescia nel Settecento, Brescia, Fondazione
Civiltà bresciana, 2011, p. 128.
Saggi
424 stefano bianchi
1520 alla fine di una raccolta dello stesso Camilli2. Morì a Correggio il
13 giugno 1550; l’indomani «fu portata alla chiesa di San Domenico
fuor di Correggio, ov’eran quasi tutti i signori sepelliti, con un ramo
d’uliva et un di lauro nella bocca, ben degna impresa di lei»3.
Il frontespizio dell’edizione bresciana era preceduto da una pagina
con un’incisione che, eseguita da Domenico Cagnoni su disegno di
Francesco Savanni, mostrava la Gambara accolta in Parnaso da Apollo
e dalle Muse. L’incisione trasferiva visivamente la citazione riservata
dall’Ariosto a Veronica nel Furioso: un cartiglio sorretto dal becco di
un cigno, in alto a destra, recava la scritta «Veronica da Gambara sì
grata a Febo e al santo aonio coro. Arios. Cant. 46». Nell’ottobre del
1531 la Gambara ricevette la visita dell’Ariosto, incaricato dagli Estensi
di una missione diplomatica presso Alfonso d’Avalos marchese del
Vasto, capitano di Carlo V che con i suoi soldati si trovava allora a
Correggio. Nello studiolo del palazzo della Gambara, dietro le più che
probabili sollecitazioni della padrona di casa, il marchese del Vasto
assegnò all’Ariosto, per i suoi meriti letterari, una pensione annua di
cento ducati d’oro. Nel seguente 1532, in ottobre, vide la luce la terza
edizione del Furioso, dove l’Ariosto, che nelle due edizioni del 1516 e
del 1521 aveva dedicato uno sfocato cenno a Veronica («quella che
scende con Ginevra al mare / Veronica da Gambara mi pare», xl, 3,
7-8), ne lodò le qualità di donna «sì grata a Febo e al santo aonio coro»
(xlvi , 3, 8), rappresentandola, come già nelle precedenti edizioni, accanto
ad altre donne della corte correggese, a inaugurazione della rassegna
di coloro che sul molo attendono il ritorno del poeta dalle sue
peregrinazioni fantastiche4.
2 Annibale Camilli, De subiecto totius logicae questio. De maximo et minimo tractatus.
Quadraginta asinina sophismata, Bologna, «per Benedictum Hectoris» [Benedetto
Faelli], 1520, c. G3r-v. Un’ode saffica tradizionalmente attribuitale, Inger ingentes
pateras, minister, appartiene in realtà al conte e letterato trentino Nicolò d’Arco:
cfr. Mariano Welber, I «Numeri» di Nicolò d’Arco, Trento, Edizioni Uct, 1996,
pp. 158-159, n. 387.
3 Rinaldo Corso, Vita di Veronica Gambara, in Id., Vita di Giberto terzo di Correggio
detto il Difensore, Ancona, Astolfo de’ Grandi, 1566, c. F1v.
4 «Mamma e Ginevra e l’altre da Correggio / veggo del molo in su l’estremo
corno: / Veronica da Gambera è con loro, / sì grata a Febo e al santo aonio coro»,
«Veggo un’altra Genevra, pur uscita / del medesimo sangue, e Iulia seco» (Ludovico
Ariosto, Orlando furioso, a cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 1976,
II, pp. 1207-1208, xlvi , 3, 5-8, e 4, 1-2). L’«altra Genevra, pur uscita / del medesimo
sangue», era la figliastra della Gambara, che Giberto X aveva avuto dalla prima
moglie, Violante Pico della Mirandola. Veronica fu in corrispondenza con Galasso,
fratello di Ludovico e destinatario della seconda delle sue Satire (cfr. la lette-
[ 2 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 425
Il Savanni e il Cagnoni furono anche gli autori delle altre due tavole
del libro: una, tra le pp. xxiv e xxv, raffigurava la Gambara a mezzo
busto in una cornice ovale, con l’indicazione in basso che il ritratto
era stato esemplato su quello della «Pinacotheca nob. viri Antonij Alexandri
Arrivabenj corrigensis»; la terza tavola, tra le pp. 94 e 95, introduceva
la sezione epistolare dell’edizione e ritraeva Veronica nell’atto
di scrivere una lettera «al cardin. Bembo», attorniata da due putti alati,
uno dei quali, quello a destra, teneva tra le mani una lettera «al
card. Ridolfi»: il tutto tra due lesene reggenti un architrave che riportava
i versi di Virgilio «Ille meos primus qui me sibi iunxit amores /
abstulit: ille habeat secum, servetq[ue] sepulcro»5.
La terza tavola richiamava dunque i nomi del Bembo e del cardinale
fiorentino Niccolò Ridolfi. La Gambara entrò in relazione con il
Bembo negli anni della giovinezza. Il Bembo era amico di Giovan
Francesco, il padre di Veronica, e nel 1504 quest’ultima, che ancora
non lo aveva incontrato di persona, gli indirizzò un sonetto, Non t’ammirar,
s’a te, non visto mai, che il Bembo contraccambiò con il son. Certo
ben mi poss’io dir pago homai, poi incluso nella princeps delle proprie
Rime del 1530 (Venezia, Giovanni Antonio e fratelli da Sabbio, c. C4r)6.
ra alle pp. 134-135 dell’ed. Rizzardi, n. xvii, s.d.). E si veda Conor Fahy, L’esemplare
già «Charlemont» dell’«Orlando furioso» del 1532 «donato alla signora Veronica Gambera
dallo auttore istesso», «Lettere italiane», xiv (1962), n. 4, pp. 441-450, su un
esemplare pergamenaceo del Furioso del 1532 presso la Pierpont Morgan Library
di New York, con la nota manoscritta cinquecentesca «Donato già alla s.ra Veronica
Gambera dallo auttore istesso». Sulla citazione della Gambara nel passaggio dal
primo al terzo Furioso si sofferma Carlo Dionisotti, Elia Capriolo e Veronica Gambara,
in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, Atti del
Convegno di Brescia e di Correggio, 17-19 ottobre 1985, a cura di Cesare Bozzetti,
Pietro Gibellini, Ennio Sandal, Firenze, Olschki, 1989, pp. 14-16.
5 Morto il consorte, la Gambara, come riferito da R. Corso, Vita di Veronica
Gambara, cit., c. F1r, «accommodati i pensieri a voler sempre star vedova, volle
anchora che a chiunque entrasse nelle sue camare fosse ciò subitamente noto senza
fatica alcuna di domandarne. Onde copertele di nero, vi scrisse intorno con sano et
casto giudicio quei versi di Didone in Vergilio: “Ille meos, primus qui me sibi
iunxit, amores / abstulit; ille habeat secum servetque sepulchro”» (Aen., iv, 28-29).
Il Cagnoni incise inoltre la marca tipografica sul frontespizio (con un riccio e con il
motto «non solum nobis»), lo stemma dei Gambara in alto a p. v e lo stemma della
famiglia Rizzardi alla fine del volume. E cfr. U. Vaglia, Tipografie e tipografi a Brescia
nel sec. XVIII, cit., p. 150; Ugo Spini, L’attività incisoria di Domenico Cagnoni per
edizioni bresciane (1756-1775), «Commentari dell’Ateneo di Brescia», clxxxii
(1983), pp. 75-76; Ugo Vaglia, La fortuna di Veronica Gambara nel Settecento bresciano,
in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, cit., p. 183.
6 Il sonetto di Veronica fu fatto conoscere nel 1845 da Angelo Lodovico Rampi-
[ 3 ]
426 stefano bianchi
Insieme con Certo ben mi poss’io dir pago homai il Bembo spedì alla
Gambara un altro sonetto, a cui allude un passo della missiva dell’11
settembre 1504 con la quale il letterato veneziano rispose alla giovane
bresciana: «[…] Per che, temendo di solo innanzi venirvi, [il son. Certo
ben mi poss’io dir pago homai] s’ha cerca compagnia»7; si trattava di O
d’ogni mio penser ultimo segno8. La pubblicazione della princeps delle
Rime bembiane coincise con un nuovo scambio di sonetti: il 1° aprile
1530 il Bembo inviò alla Gambara Quel dolce suon, per cui chiaro s’intende,
responsivo al suo A l’ardente desio ch’ognor m’accende9. Qualche anno
più tardi, nel 1535, il sonetto di Veronica comparve tra i cinque sonetti
di corrispondenza ospitati dal Bembo nell’appendice della «seconda
impressione» delle Rime (Venezia, Nicolini da Sabbio, c. F7rv)
10. Per il Bembo la Gambara scrisse nel 1536 il son. Quella donna genni
nell’opuscolo Per le faustissime nozze Barea Toscan-De Humbracht, Padova, Tip. del
Seminario (senza numerazione di pagine); il Rampini lo ricavò dal ms. 91 della
Biblioteca del Seminario Vescovile di Padova (c. 73v).
7 Pietro Bembo, Lettere, a cura di Ernesto Travi, Bologna, Commissione per i
testi di lingua, 1987, I, p. 180, n. 193.
8 Cfr. Andrea Donnini, Nota ai testi, in Pietro Bembo, Le rime, a cura di Andrea
Donnini, Roma, Salerno Editrice, 2008, II, pp. 769-770.
9 «Mando a V.S. la mia risposta al vostro leggiadro sonetto; la quale se io ho
penato a mandarvi, non è da maravigliarsene, tante sono state le sue parti che
m’hanno spaventato dal porvi mano. Ma come che sia, nessuna scusa volendo che
mi vaglia con voi, nella vostra buona grazia senza fine mi raccomando» (P. Bembo,
Lettere, cit., 1992, III, p. 122, n. 1072). Da Bologna il 22 marzo Vittore Soranzo si era
incaricato di sollecitare il Bembo a inviare la risposta ai versi di lei: «Alla signora
Veronica baciai la mano in vece di V.S., la quale vi si raccomanda senza fine; hieri
partì per Coreggio et prega V.S. che si ricorde di respondere, s’ella n’è però degna,
ai due suoi sonetti» (Delle lettere da diversi re et principi et cardinali et altri huomini
dotti a mons. Pietro Bembo scritte, Venezia, Sansovino, 1560, c. 109r). Dal Soranzo
veniamo pertanto informati che la Gambara aveva indirizzato al Bembo A l’ardente
desio ch’ognor m’accende e un altro sonetto, che risulta ora ignoto.
10 Nell’edizione tre erano i sonetti per la Gambara: Certo ben mi poss’io dir pago
homai (c. 20r), già pubblicato nella princeps, O d’ogni mio pensier ultimo segno (c. 20v)
e Quel dolce suon, per cui chiaro s’intende (c. 42r). A Veronica il Bembo spedì una copia
della «seconda impressione» l’11 maggio 1535: «[…] Mandovi non di meno la
seconda impressione, nuovamente fatta, delle mie Rime, nelle quali leggerete voi
stessa più volte, e vi ricorderete di me che vostro lungo tempo sono stato e sono».
Nella medesima lettera la ringraziava di un nuovo suo sonetto (oggi sconosciuto),
proponendole, «con un puntiglio grammaticale davvero degno dell’estensore del
iii libro delle Prose» (Giorgio Dilemmi, «Ne videatur strepere anser inter olores»: le
relazioni della Gambara con il Bembo, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo
nell’Italia settentrionale, cit., p. 31), una correzione al terzo verso: «[…] se del terzo
verso si levasse quella voce cotanti, perciò che non avete fatto prima menzion di
[ 4 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 427
til, ch’amaste tanto, in memoria della Morosina11; e nel 1547, in occasione
della morte di lui, compose due sonetti, Riser gli spirti angelici e celesti
e Or che sei ritornata, alma felice12.
Quanto alle relazioni con il cardinale Niccolò Ridolfi, nelle intenzioni
di Veronica esse avrebbero dovuto principalmente agevolare il
figlio Girolamo nella carriera ecclesiastica e assicurargli la porpora
cardinalizia; ma Girolamo ottenne la nomina a cardinale soltanto nel
1561, undici anni dopo la morte della madre13. In una lettera ad Agostino
Ercolani, senza data ma scritta nell’ottobre del 1534, successivamente
alla scomparsa di Clemente VII, Veronica si augurava che il
nuovo papa fosse proprio il Ridolfi: «Sarei contenta che fosse papa
Ridolfi: perché con questa occasione non solamente mi risolverei di
veder Roma, ma avrei ancora animo che in tanta grandezza il mio
Girolamo avesse quel ch’io desidero»14; auspicio ripetuto in una lettera
del 31 dicembre 1549 a Francesco Gonzaga di Novellara, figlio della
figliastra Costanza15, durante il conclave che si stava svolgendo in
male alcuno, al quale quella cotanti, che par voce relativa, si dia, crederei che ben
fosse. Voi vi pensarete. Potrebbesi anche dir così: “sol duo conforti omai tra molti
mali trovo”» (P. Bembo, Lettere, cit., 1992, III, p. 588, n. 1683).
11 Il sonetto, tramandato dal ms. 2835 (O iv 4) della Biblioteca Riccardiana di
Firenze (c. 84r), venne reso noto da Alan Bullock, Per una edizione critica delle rime
di Veronica Gambara, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale,
cit., p. 123. La Morosina era morta nell’agosto del 1535 e dal 1513 era stata
compagna del Bembo, che da lei aveva avuto tre figli. In una lettera alla Gambara
del 16 ottobre 1536 il Bembo elogiò il suo «bello e leggiadro sonetto», affermando
di averlo «baciato molte volte, ringraziandone cotesto felicissimo ingegno vostro
che dettato l’ha e la bella mano che l’ha vergato»; a Veronica, che lo aveva invitato
a correggerlo, rispondeva che il sonetto «è sì vago e sì gentile, che non si può aggiugner
cosa che nol guasti e faccia men caro» (P. Bembo, Lettere, cit., 1992, III, pp.
673-674, n. 1791); e tornava a parlare di quel «divino sonetto» il 14 novembre in
un’altra lettera alla Gambara (ivi, p. 683, n. 1804).
12 Nel 1551 Ercole Bottrigari li inserì nel Libro quarto delle rime di diversi eccellentiss.
autori nella lingua volgare (Bologna, Giaccarelli, p. 19).
13 Da Giberto X Veronica ebbe due figli, Ippolito e Girolamo, nati nel gennaio
del 1510 e nel febbraio del 1511; «et sarebbe stata, quanto all’età, per partorirne
degli altri, se non le sopragiugneva una infermità, per la quale i medici dissono al
marito che gli conveniva o perder la moglie o la speranza de’ figliuoli. Et esso,
vero conoscitore et estimatore dei meriti di Veronica, antepose la vita di lei al desiderio
de’ figliuoli. Et così ella, presa una medicina, guerì, ma rimase sterile […]»
(R. Corso, Vita di Veronica Gambara, cit., c. F1r). Girolamo seguì la carriera ecclesiastica,
Ippolito quella militare.
14 Cfr. pp. 214-215 dell’ed. Rizzardi, n. LXV.
15 Era sorella di Ginevra (vd. nota 4) e aveva sposato Alessandro Gonzaga di
Novellara nel 1518.
[ 5 ]
428 stefano bianchi
quel periodo: «la nova che mi havete dato del ill.mo Ridolphi […] mi
è stata carissima e quasi ch’io la tengo per ferma. Dio volesse, figliol
mio, che havessimo questa gratia dal cielo, che invero penso ne haveressimo
mille commodi et utili, salvo se li honori e le grandezze non li
facessero cangiar natura, il che mi pareria miracolo, considerato la
bontà et virtù di quel sig.re»16. Non sarà da dimenticare, tra l’altro, che
la Gambara amministrò per conto del Ridolfi l’abbazia di San Genesio
di Brescello, di cui egli era commendatario17; dell’abbazia la Gambara
continuò a interessarsi anche dopo la sua morte, come documenta una
lettera da lei inviata il 21 febbraio 1550 a Maria Ridolfi, cognata del
cardinale18. A un ritratto di Veronica appartenuto al Ridolfi accennava
Antonio Petrei, che ne era stato servitore, in una lettera del 13 maggio
1550 sempre a Maria Ridolfi («[…] tre quadri, cioè una Vergine, il ritratto
del duca Giuliano vostro zio et quello della s.ra Veronica da
Coreggio»)19.
2. L’edizione del Rizzardi si apriva con la lettera dedicatoria del
curatore a un discendente della poetessa, il conte Niccolò Gambara,
«patrizio veneto, barone del S.R.I., signore d’Ajello, feudatario di
Verola Alghise, Prat’Alboino, Milzano, ec.» (pp. v-x), dalla quale si
apprendeva che lo stesso Gambara si sarebbe dovuto occupare di
quel lavoro «se altre più gravi cure a sé chiamandovi», scriveva il Rizzardi,
«non ve ne avessero inopportunamente levato l’animo e distornato
».
Nella Prefazione (pp. xi-xx), oltre a illustrare il contenuto dell’edizione,
il Rizzardi dava notizia dei sette ritratti a sua conoscenza ritenuti
raffiguranti la Gambara, di cui cinque visti di persona, e dichiarava
di avere anteposto agli altri, riproducendolo nel volume, quello a
lui fornito e garantito come autentico dal correggese Antonio Alessan-
16 Cfr. Luigi Amaduzzi, Undici lettere inedite di Veronica Gambara e un’ode latina
tradotta in volgare, Guastalla, Tip. Pecorini, 1889, p. 32; l’Amaduzzi trasse la lettera
dall’Archivio storico comunale di Novellara.
17 Cfr. Lucinda Byatt, «Una suprema magnificenza»: Niccolò Ridolfi, a Florentine
Cardinal in Sixteenth-Century Rome, Ph.D. Thesis, Fiesole, European University Institute,
1983, I, pp. 44 e 175, e II, p. 110, nota 110, e Davide Muratore, La biblioteca
del cardinale Niccolò Ridolfi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, I, p. 17 e nota 79.
18 Archivio di Stato di Firenze, Acquisti e doni, 70, c. 19r-v; e cfr. L. Byatt, «Una
suprema magnificenza», cit., ii, p. 40, nota 134. Una lettera della Gambara al Ridolfi
si legge alle pp. 129-132 dell’ed. Rizzardi, n. XV, s.d.
19 Archivio di Stato di Firenze, Acquisti e doni, 69, c. 69r-v; e cfr. L. Byatt, «Una
suprema magnificenza», cit., i, p. 311, e ii, p. 177, nota 31.
[ 6 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 429
dro Arrivabene, che lo possedeva nella propria pinacoteca20. Ma Girolamo
Colleoni, quindici anni dopo l’uscita dell’edizione, in una lettera
a Ireneo Affò dell’8 ottobre 1774 scrisse che l’Arrivabene «battezzò un
quadro a capriccio, asserendolo il ritratto di Veronica Gambara»21. Più
tardi Girolamo Tiraboschi informò Eustachio Cabassi in una lettera
del 19 maggio 1785 che il ritratto della Gambara mandato dall’Arrivabene
a Brescia «fu preso, come mi ha detto il sig. ab. Contarelli, da un
ritratto di donna che ei vide in casa Contarelli e che non si sapeva di
chi fosse; ed egli s’immaginò che fosse della Gambara e lo spacciò
francamente come tale»; il Tiraboschi chiedeva dunque al Cabassi di
permettergli «che il dott. Arrivabene si lasci da me in silenzio, per non
dirne ciò che forse non potrebbe piacere»22.
Alla fine della Prefazione il Rizzardi citava gli eruditi che gli avevano
prestato la loro collaborazione: veniva menzionato, tra gli altri, l’abate
bergamasco Pierantonio Serassi, che aveva pubblicato importanti
edizioni di poeti del Cinquecento, progettandone una anche della
Gambara e riunendo «varie cose» che, affermava il Rizzardi, «volle
poi a me largamente comunicare» (p. xx)23.
Dopo la Prefazione si trovava una serie di Testimonianze onorevoli di
eccellenti scrittori intorno a Veronica Gambara (pp. xxi-xxii): un passo
20 Vd. par. 1.
21 Biblioteca Comunale «Giulio Einaudi» di Correggio, Archivio di memorie
patrie, b. 127.
22 Carteggio fra l’ab. Girolamo Tiraboschi e l’avv. Eustachio Cabassi, a cura di Policarpo
Guàitoli, Carpi, Tip. Rossi, 1894-1895, p. 164, n. cxiii.
23 Nel terzo volume delle Poesie volgari e latine di Francesco Maria Molza (Bergamo,
Lancellotti, 1754) il Serassi aveva pubblicato di Veronica il fino ad allora
inedito son. Molza, sebben dal vago aer sereno (p. 19), insieme con la lettera al Molza,
senza data, in cui esso compariva (p. 102). La lettera contenente il sonetto si trova
attualmente nella Raccolta Molza Viti, b. 11, fasc. 231, della Biblioteca Estense di
Modena: cfr. Andrea Barbieri, Biografia di Francesco Maria Molza dalle lettere,
«Nuovi annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari», xii (1998), p. 137;
Franco Pignatti, Francesco Maria Molza, in Autografi dei letterati italiani. Il Cinquecento,
a cura di Matteo Motolese, Paolo Procaccioli, Emilio Russo, Roma,
Salerno Editrice, 2013, ii, p. 258; Andrea Barbieri, Il Molza: la sua vita e le sue lettere,
Padova, Padova University Press, 2014, pp. 29 e 80. Il sonetto non è autografo,
mentre sono autografe le righe di accompagnamento (cfr. Stefano Bianchi, Veronica
Gambara, in Autographa, II.1. Donne, sante e madonne (da Matilde di Canossa ad
Artemisia Gentileschi), a cura di Giovanna Murano, Imola, Editrice La Mandragora,
2018, p. 126); ovviamente il componimento fu vergato sotto il diretto controllo
dell’autrice. Questo testimone manoscritto non è censito in Veronica Gambara,
Le rime, a cura di Alan Bullock, Firenze, Olschki – Perth, University of Western
Australia, 1995.
[ 7 ]
430 stefano bianchi
della lettera dedicatoria di Giovanni Stefano da Montemerlo al conte
Cesare Gambara, vescovo di Tortona e figlio di un cugino di Veronica,
del suo repertorio di Phrasi toscane24; due ottave dell’Amadigi di Bernardo
Tasso25; un’ottava del Discorso sopra il principio di tutti i canti
d’Orlando furioso di Laura Terracina26; e brani ricavati dal secondo dei
Dialogi duo de poetis nostrorum temporum di Lilio Gregorio Giraldi27, dal
terzo tomo delle Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium
del domenicano spagnolo Alfonso Chacón28, dal quarto libro
del Peplus Italiae di Giovanni Matteo Toscano29 e dalle Heroinae dei Po-
24 «[…] alla quale huopo sarebbe o la rarissima eloquenza di molti illustri signori
della stirpe medesima, che già in grande stima furono et hoggi sono, o lo
stile immortale della signora Veronica parimente da Gambara» (Giovanni Stefano
da Montemerlo, Delle phrasi toscane lib. xii, Venezia, Franceschini, 1566, c. *3v).
25 «Qual cigno sì canoro e sì gentile / lungo ’l Meandro mai cantò ’l suo fato, /
che la Gambera mia col vago stile, / col dotto stil, ch’ognor fia più lodato, / parer
non fesse roco corvo e vile, / Coreggio il sa, che del suo honore ornato / viverà,
mentre i fiumi haveran l’onde, / augelli il ciel, le selve arbori e fronde»; «Con quai
parole questa coppia essalto, / degne del merto loro e dever mio? / Che potran far
con stil leggiadro et alto / andare il monte et arrestare il rio; / che faran schermo
ad ogni duro assalto / de la morte e del tempo invido e rio, / Gambara l’una, e
l’altra Colonnese, / ambe eterne d’honor facelle accese» (Bernardo Tasso, L’Amadigi,
Venezia, Giolito, 1560, pp. 210 e 271, quarta ottava del canto xxxv e settantesima
del canto xliv).
26 «Deh fosser molte al mondo, come voi, / donne che agli scrittor mettesser
freno, / ch’a tutta briglia vergan contra noi / scritti crudeli e colmi di veleno: / che
forse andrebbe in fino ai liti eoi / il nome nostro e ’l grido d’honor pieno; / ma
perché contro a lor nulla si mostra, / però tengono vil la fama nostra» (Laura
Terracina, Discorso sopra il principio di tutti i canti d’Orlando furioso, Venezia, Giolito,
1551, c. 59r, ottava proemiale del canto xxxvii, dedicato «a la eccell. signora
Veronica da Gambara»; la prima edizione del Discorso è del 1549).
27 «Fuere pene non viris inferiores duae illustres principes et poetriae, Victoria
Columnia Piscariae et Veronice Gambara corrigiensis, quarum utriusque pro sexus
qualitate divina leguntur poemata quae eo cupidius a plerisque leguntur, quo sunt
ab illustribus matronis composita» (Lilio Gregorio Giraldi, Dialogi duo de poetis
nostrorum temporum, Florentiae, s.n.t. [Torrentino], 1551, p. 99).
28 Dalle Vitae dello Chacón il Rizzardi riprodusse l’incipit della biografia del
cardinale Girolamo da Correggio, «filius Gilberti et Veronicae Gambarae Uberti
cardinalis sororis, foeminae primariae, cuius nomen bonarum litterarum cognitione,
italicorum carminum et epistolarum scriptione illustre ac morum sanctimonia
illustrius, apud Bembum, Casam, Molsam et similes claros poetas sui temporis
commendatissimum extat» (Alfonso Chacón, Vitae et res gestae pontificum romanorum
et S.R.E. cardinalium ab initio nascentis Ecclesiae usque ad Clementem IX, Romae,
cura et sumptibus Philippi et Antonii de Rubeis, 1677, iii, col. 942). Il figlio di
Veronica era stato fatto cardinale da papa Pio IV nel 1561 (vd. anche par. 1).
29 «Gambara Corrigium decorat, Victoria Romam, / utraque sed sexus debilio-
[ 8 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 431
ematia di Giulio Cesare Scaligero30. Alle Testimonianze onorevoli di eccellenti
scrittori seguivano due sonetti di settecentisti bresciani in lode di
Veronica: Se dal lieto ove stai chiaro soggiorno di Camilla Solar d’Asti
Fenaroli e Ben nel mirar di nova luce aspersi di Antonio Brognoli (pp.
xxiii-xxiv)31.
Era pubblicata quindi la Vita della Gambara allestita da Baldassarre
Camillo Zamboni, professore di teologia dogmatica e morale presso
il Seminario di Brescia e uno dei maggiori rappresentanti della cultura
erudita del secondo Settecento bresciano (pp. xxv-lxxxv)32. Lo
Zamboni si avvalse della biografia cinquecentesca di Rinaldo Corso,
servendosi di una sua copia manoscritta procuratagli dal già ricordato
Antonio Alessandro Arrivabene di Correggio33, e della relativa traduris
honos. / Quamlibet his priscam quis comparet heroinam, / aut non docta, vel
est illa pudica minus»; con il seguente encomio in prosa: «Veronica Gambara corrigiensis
sanctissima doctissimaque mulier, carmina scripsit gravitate et suavitate
ita condita, ut utrum in iis superet haud proclive sit explicare. In epistolis vero non
video cui nostrorum temporum accurato scriptori cedere debeat» (Giovanni Matteo
Toscano, Peplus Italiae, Lutetiae, ex officina Federici Morelli, 1578, pp. 94-95,
n. clv ).
30 «Siquis adhuc vacat ad sacram Permessidos umbram / pectoribusque novis,
numinibusque locus, / huc date. Si non est: alium mihi sola reponam / pectoribus
priscis, numinibusque parem» (Giulio Cesare Scaligero, Poematia ad illustriss.
Constantiam Rangoniam, Lugduni, apud Godefridum et Marcellum Beringos
fratres, 1546, p. 354).
31 Camilla Solar d’Asti Fenaroli rievocò della Gambara la «cetra famosa» in un
altro suo sonetto, Portommi il mio pensier tra l’onorate, apparso all’inizio della raccolta
Rime di varj autori bresciani viventi, curata da Carlo Roncalli Parolino e uscita nel
1761 (Brescia, Pianta), e che ricostituì, a distanza di oltre due secoli, la tipologia
antologica delle Rime di diversi eccellenti autori bresciani di Girolamo Ruscelli (Venezia,
Pietrasanta, 1553; e vd. più avanti, par. 3).
32 Sullo Zamboni ordinatore teorico e materiale della collezione libraria della
prestigiosa famiglia bresciana dei Martinengo da Barco, poi donata alla Biblioteca
Queriniana di Brescia, cfr. Alessia Cotti, Camillo Baldassarre Zamboni ordinatore
della biblioteca Martinengo, in Viaggi di testi e di libri. Libri e lettori a Brescia tra Medioevo
e età moderna, a cura di Valentina Grohovaz, Udine, Forum, 2011, pp. 147-170.
Sulla sua vita e sulla sua attività di erudito cfr. Jacopo Gussago, Memorie intorno
alla vita e agli scritti di Baldassarre Zamboni arciprete di Calvisano, Brescia, Stamperia
Vescovi, 1798.
33 La biografia del Corso era stata pubblicata nel 1566 alla fine della di lui Vita
di Giberto terzo di Correggio detto il Difensore (vd. par. 1, nota 3). «Di tale operetta»,
scriveva lo Zamboni, «la quale per diligenze adoperate non ci è mai riuscito di
vedere stampata, una copia ms. ottenuta abbiamo dalla somma cortesia del sig.
Antonio Alessandro Arrivabene di Correggio» (p. XXVI, nota 1). Antecedente
all’opera del Corso era un breve profilo biografico della Gambara che aveva visto
la luce nel 1545, vivente ancora Veronica, nell’Additione di Giuseppe Betussi al suo
[ 9 ]
432 stefano bianchi
zione latina di Girolamo Catena34, così come di documenti dell’archivio
della casa Gambara e di memorie conservate dall’Arrivabene35.
Nella sua ampia e particolareggiata biografia lo Zamboni si soffermò,
tra l’altro, sugli studi giovanili di Veronica, ipotizzando una sua conoscenza
della lingua greca sulla base di un esemplare di un’edizione
aldina in greco posseduto dall’abate ed erudito bresciano Filippo Garbelli
e recante la dicitura «ad usum Veronicae Gambarae» (p. XXXV e
nota 18)36; e riportando citazioni da una memoria manoscritta di casa
Gambara, dove Veronica è detta «d’una esquisita virtù e cognizione
nella filosofia, in cui ottenne la laurea», e da una pagina della seicentesca
Universitas heroum urbis Brixiae literis et armis nulli secunda di Illuminato
Calzavacca: «Veronica de Gambara comitissa, philosophiae
volgarizzamento del De mulieribus claris del Boccaccio: Libro di m. Gio. Boccaccio
delle donne illustri, tradotto per messer Giuseppe Betussi. Con una Additione fatta dal
medesimo delle donne famose dal tempo di m. Giovanni fino ai giorni nostri et alcune altre
state per inanzi, Venezia, Comino da Trino, 1545, cc. 213v-214v, cap. xl. La Vita di
Veronica Gambara del Corso venne successivamente riproposta, nel XIX secolo, in
Cenni biografici intorno a Veronica Gambara da Correggio di Rinaldo Corso e lettere della
stessa, a cura di Ferdinando Rossi Foglia, Correggio, Tip. Palazzi, 1884, pp. 5-13.
34 Girolamo Catena, Veronicae Gambarae Vita, in Id., Latina monumenta, Papiae,
apud Hieronymum Bartolum, 1577, cc. 134r-138r. Sia il Corso che il Catena
furono al servizio del cardinale Girolamo, figlio della Gambara.
35 Prima dello Zamboni, il canonico Paolo Gagliardi aveva raccolto informazioni
sulla vita della Gambara nell’ambito di un lavoro su ventiquattro illustri
letterati bresciani corredato dei rispettivi ritratti, ma le sue ricerche erano poi rimaste
interrotte (cfr. Giammaria Mazzuchelli, Notizie intorno alla vita e agli scritti del
sig. canonico Paolo Gagliardi bresciano, in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, a
cura di Angelo Calogerà, Venezia, Occhi, 1742, xxvii, p. xv, e U. Vaglia, La
fortuna di Veronica Gambara nel Settecento bresciano, cit., pp. 184-185). Lo Zamboni,
presa visione di quel materiale, lo definì «un ammassamento confuso» di «digiune,
scarse e tumultuarie notizie» che «nulla hanno giovato a questo nostro lavoro»
(p. xxvi, nota 1).
36 Purtroppo resta impossibile localizzare oggi quell’esemplare, dato che la biblioteca
del Garbelli è andata dispersa nel corso del tempo: cfr. Paolo Guerrini, I
corrispondenti bresciani del Muratori, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», iv
(1950), n. 1, pp. 141-142, e Beatrice Maschietto, Garbelli, Filippo, in Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1999, lii, p. 258.
Esperto di greco fu certamente uno dei fratelli della Gambara, Camillo, come risultava
dalla lettera dedicatoria con la quale Bartolomeo e Pietro Rositini di Pralboino
gli offrirono la prima versione in prosa italiana delle commedie di Aristofane, uscita
a Venezia dal Valgrisi nel 1545, Le comedie del facetissimo Aristofane, tradutte di
greco in lingua commune d’Italia (cfr. Ennio Sandal, Casa gambaresca, i libri, la tipografia,
in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, cit., pp. 73
e 76).
[ 10 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 433
laurea et poeseos floribus ornatissima» (pp. xxxv-xxxvi, nota 19)37.
Lo Zamboni pubblicò anche la solenne lettera in latino che Carlo V le
inviò il 7 marzo 1521: lettera che ne elogiava la «fides» e la «singularis
observantia» all’impero (p. XLIX, nota 51)38, attestando ufficialmente
lo schieramento della signora di Correggio, che pur proveniva da una
famiglia fieramente filofrancese, sotto le insegne imperiali39.
37 Illuminato Calzavacca, Universitas heroum urbis Brixiae literis et armis nulli
secunda, Brixiae, apud Antonium Rizzardum, 1654, p. 34. Ma il Tiraboschi osservò
in seguito che il correggese Annibale Camilli, accennando agli studi filosofici
della Gambara nella lettera dedicatoria, a lei indirizzata il 12 maggio 1516, della
sua De subiecto totius logicae questio (A. Camilli, De subiecto totius logicae questio. De
maximo et minimo tractatus. Quadraginta asinina sophismata, cit., c. A2r-v), non aveva
fatto alcun riferimento alla laurea in filosofia (cfr. Girolamo Tiraboschi, Biblioteca
modenese o Notizie della vita e delle opere degli scrittori natii degli Stati del serenissimo
signor duca di Modena, Modena, Società Tipografica, 1782, ii, p. 136). Tale laurea non
venne ricordata neppure, occorrerà aggiungere, nelle biografie del Betussi e del
Corso.
38 Lo Zamboni pubblicò la lettera, inviata da Worms durante la Dieta che
avrebbe messo al bando Lutero, utilizzando una sua copia e precisando che l’originale
«con appesovi il sigillo imperiale tempo fa esisteva nelle mani d’un certo
Flaminio canonico di Correggio».
39 Al biografo sfuggì l’episodio del viaggio della Gambara a Brescia dopo la
morte del padre Giovan Francesco, avvenuta nel novembre del 1511, con il suo
conseguente coinvolgimento nelle ostilità franco-veneziane che ebbero luogo nella
città lombarda. Dell’episodio dette notizia Luigi Pungileoni, Memorie istoriche di
Antonio Allegri detto il Correggio, Parma, Stamperia ducale, 1817, i, pp. 29-30; e cfr.
Id., Memorie intorno alla vita ed agli studj di Veronica Gambara principessa di Correggio,
Brescia, Tip. Nicoli-Cristiani, 1827, pp. 8-9. Veronica si trovava ancora a Brescia
quando, ai primi di febbraio del 1512, l’esercito veneziano entrò nella città per
scacciare i Francesi che nel 1509 l’avevano occupata e con i quali si erano schierati
anche il Gambara e la sua famiglia. I Francesi si rifugiarono nella fortezza e con
loro «Maria Alda da Gambara e sua fiola maridada nel signor Gilberto da Corezo»,
annotava Marin Sanudo (Marin Sanudo, I diarii, a cura di Federico Stefani, Guglielmo
Berchet, Nicolò Barozzi, Venezia, a spese degli editori [Tip. Visentini],
1886, xiii, col. 469). Lo stesso Giberto X scrisse il 5 febbraio 1512 a Francesco II
Gonzaga marchese di Mantova per chiedergli di intercedere presso i Veneziani
affinché alla moglie fosse permesso di ritornare a Correggio (Archivio di Stato di
Mantova, Archivio Gonzaga, b. 1315; e cfr. L. Pungileoni, Memorie intorno alla vita
ed agli studj di Veronica Gambara principessa di Correggio, cit., pp. 20-21, nota 4). Le
vicende bresciane determinarono di lì a poco l’arrivo da Bologna delle truppe francesi
capitanate da Gaston de Foix, che ripresero possesso della città dopo un ferocissimo
saccheggio: «in conclusion», rilevava il Sanudo, «tutta la terra è stata sachizata;
apena è restato le case di Gambareschi. Mai in Italia, da 200 anni in qua, fu
la magior tajata» (M. Sanudo, I diarii, cit., col. 520). Altre integrazioni e qualche
correzione alla biografia dello Zamboni provennero dal Tiraboschi (G. Tiraboschi,
Biblioteca modenese, cit., 1781, I, pp. 34-36, e 1782, II, pp. 135-141).
[ 11 ]
434 stefano bianchi
Tra la p. xxviii e la p. xxix della Vita era inserita una pagina ripiegata
con due tavole genealogiche, una della famiglia Gambara e l’altra
della famiglia Pio da Carpi, alla quale apparteneva Alda, la madre di
Veronica40. Sarà infine da ricordare che Jacopo Gussago scrisse che «il
sig. Bartolommeo Sabbionato della Motta» aveva trasmesso allo Zamboni
«due sonetti inediti della Gambara», che lo stesso Gussago si riservava
di rendere noti in un «articolo che tesseremo della mentovata
poetessa»41; ma tale articolo non sembra essere stato mai pubblicato.
3. Le poesie raccolte alle pp. 1-58 assommavano al numero di quarantadue,
di cui le ultime due presentate come edite per la prima volta,
il son. Quando Amor mi condusse al duro gioco e la frottola Or passata
è la speranza; i quaranta componimenti già pubblicati, inaugurati dai
due sonetti per Vittoria Colonna Mentre da vaghi e giovenil pensieri e O
de la nostra etade unica gloria42, consistevano in trentasei sonetti, in due
40 Nella famiglia paterna si annoveravano la colta nobildonna veronese Ginevra
Nogarola, nonna della Gambara, e la sorella di lei Isotta, celebre umanista.
Anche l’omonima Isotta, una delle due sorelle minori di Veronica, si dedicò alle
humanae litterae, scrivendo alcune lettere in latino citate da Agnolo Firenzuola
nell’Epistola in lode delle donne inviata a Claudio Tolomei il 7 febbraio 1525: «[…] io
non dubito punto che, se [Cicerone] vivesse oggidì e vedesse la eleganzia delle
epistole della vergine Isotta da Gambaro, egli non arebbe a schifo riconoscerle per
sue» (Agnolo Firenzuola, Epistola in lode delle donne, in Id., Opere, a cura di Delmo
Maestri, Torino, utet, 1977, p. 223). La linea ereditaria femminile ed erudita
che conduceva dalle sorelle Nogarola a Veronica e a Isotta venne proseguita dalla
figlia di Violante Gambara, l’altra sorella di Veronica, ovvero dalla mantovana Camilla
Valenti, che giovanissima riscosse fama di latinista: si veda l’intero cap. xlix
della cit. Additione del Betussi al volgarizzamento del De mulieribus claris (cc. 229v-
230v); lo stesso Betussi la menzionò nel 1544 nel dialogo Il Raverta (Venezia, Giolito)
come «donna non meno dotta che onesta e bellissima», e poi, nel 1557, nell’altro
dialogo La Leonora (Lucca, Busdraghi), nel quale ne ricordò la morte prematura,
omaggiandone anche la madre Violante (cfr. Trattati d’amore del Cinquecento, a cura
di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza, 1912, pp. 54 e 333-334).
41 J. Gussago, Memorie intorno alla vita e agli scritti di Baldassarre Zamboni arciprete
di Calvisano, cit., pp. 51-52.
42 Senza dubbio indovinata fu la scelta di aprire l’edizione con i due sonetti
alla Colonna, che richiamavano già da subito l’altra grande ‘madre’ della poesia
femminile cinquecentesca; mi sembra assurdo ritenere che il Rizzardi volesse con
ciò rinchiudere la produzione poetica della Gambara «nel recinto protetto» del
«discorso fra donne», «deprivandolo ab ovo di una sua forza comunicativa originale
» (Tatiana Crivelli, L’immagine di sé negli occhi dell’amato: per una lettura del canzoniere
di Veronica Gambara, in «Pigliare la golpe e il lione». Studi rinascimentali in
onore di Jean-Jacques Marchand, a cura di Alberto Roncaccia, Roma, Salerno Editrice,
2008, p. 208). I sonetti di risposta della Colonna sono Lasciar non posso i miei
[ 12 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 435
madrigali e nelle stanze Con quel caldo desio che nascer suole e Quando
miro la terra ornata e bella. La disposizione dei testi era la seguente:
Mentre da vaghi e giovenil pensieri (p. 1, n. I);
O de la nostra etade unica gloria (p. 2, n. II);
La bella Flora che da voi sol spera (p. 3, n. III);
Vinca gli sdegni e l’odio vostro antico (p. 4, n. IV);
Là dove più con le sue lucid’onde (p. 5, n. V);
Quella felice stella e in ciel fatale (p. 6, n. VI);
Quel che di tutto il bel ricco oriente (p. 7, n. VII);
Vincere i cor più saggi e i re più alteri (p. 8, n. VIII);
Ecco che già tre volte, Italia mia (p. 9, n. IX);
Tu che di Pietro il glorioso manto (p. 10, n. X);
Là dove or d’erbe adorna ambe le sponde (p. 11, n. XI);
Se lunge dagli amati e cari lumi (p. 12, n. XII);
Vero albergo d’amor, occhi lucenti (p. 13, n. XIII);
Occhi lucenti e belli (p. 14, n. XIV);
Dal veder voi, occhi sereni e chiari (p. 15, n. XV);
Se stan più ad apparir quei duo bei lumi (p. 16, n. XVI);
Poscia che ’l mio destin fermo e fatale (p. 17, n. XVII);
Se quando per Adone over per Marte (p. 18, n. XVIII);
Quel nodo in cui la mia beata sorte (p. 19, n. XIX);
Poiché, per mia ventura, a veder torno (p. 20, n. XX);
Con quel caldo desio che nascer suole (pp. 21-22, n. XXI);
Onorate acque e voi, liti beati (p. 23, n. XXII);
Tu che mostrasti al rozzo mondo prima (p. 24, n. XXIII);
Sciogli le trecce d’oro e d’ogn’intorno (p. 25, n. XXIV);
Donna gentil, che così largamente (p. 26, n. XXV);
In giovenile etate il mondo vinse (p. 27, n. XXVI);
saldi penseri e Di novo il cielo de l’antica gloria (Vittoria Colonna, Rime, a cura di
Alan Bullock, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 35, A1: 65, e p. 209, E13). Lo scambio
sonettistico avvenne nel 1532, poiché il Bembo il 5 luglio di quell’anno scriveva a
Marcello Palone: «[…] Ringraziovi delli sonetti della s.ra marchesa e della s.ra Veronica,
i quali mi sono suti carissimi, belli e gentili tutti e tre. Ma di più fatica
quello della s.ra marchesa, sì come fatto in risposta per le rime» (P. Bembo, Lettere,
cit., 1992, III, p. 353, n. 1385; al Bembo erano dunque giunte le due proposte di
Veronica e una delle due risposte di Vittoria). Su questa corrispondenza poetica cfr.
ora Maria Chiara Tarsi, Intorno a Veronica Gambara. 1. I sonetti per Vittoria Colonna,
in Ead., Studi sulla poesia femminile del Cinquecento, Bologna, I libri di Emil, 2018,
pp. 11-36. Non ci rimane oggi conservata alcuna lettera della Gambara alla Colonna,
né della Colonna alla Gambara, ma su un loro possibile carteggio, poi andato
perduto, cfr. L. Amaduzzi, Undici lettere inedite di Veronica Gambara e un’ode latina
tradotta in volgare, cit., p. 22, ed Elisabetta Selmi, Per l’epistolario di Veronica Gambara,
in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, cit., pp. 145
e 147.
[ 13 ]
436 stefano bianchi
Quando miro la terra ornata e bella (pp. 28-41, n. XXVII);
Ite, pensier fallaci e vana spene (p. 42, n. XXVIII);
Ne la secreta e più profonda parte (p. 43, n. XXIX);
Scelse da tutta la futura gente (p. 44, n. XXX);
Guida con la man forte al cammin dritto (p. 45, n. XXXI);
O gran misterio e sol per fede inteso (p. 46, n. XXXII);
Oggi per mezzo tuo, Vergine pura (p. 47, n. XXXIII);
A l’ardente desio che ognor m’accende (p. 48, n. XXXIV);
Or che sei ritornata, alma felice (p. 49, n. XXXV);
Riser gli spirti angelici e celesti (p. 50, n. XXXVI);
Altri boschi, altri prati ed altri monti (p. 51, n. XXXVII);
Se tardo a dir di voi, Dolce gentile (p. 52, n. XXXVIII);
Molza, se ben dal vago aer sereno (p. 53, n. XXXIX);
Ben si può dir che a voi largo e cortese (p. 54, n. XL);
Quando Amor mi condusse al duro gioco (p. 55, n. XLI);
Or passata è la speranza (pp. 56-58, n. XLII).
Il Rizzardi ristampò come di Veronica Vincere i cor più saggi e i re più
alteri (p. 8, n. VIII), sonetto della Colonna, ma attribuito da Lodovico
Domenichi alla Gambara nelle Rime diverse d’alcune nobilissime et virtuosissime
donne del 1559 (Lucca, Busdraghi, p. 156)43. Il sonetto inedito
Quando Amor mi condusse al duro gioco (p. 55, n. XLI) era stato tratto
«dalla Magliabecchiana» e comunicato al Rizzardi dal «chiarissimo
sig. conte Giammaria Mazzuchelli», che lo aveva ricevuto «dal sig.
Gaetano Cambiagi bibliotecario della stessa Libreria» (Prefazione, p.
43 Cfr. Alan Bullock, Veronica o Vittoria? Problemi di attribuzione per alcuni sonetti
del Cinquecento, «Studi e problemi di critica testuale», 6 (1973), p. 127, e V.
Colonna, Rime, cit., p. 216, E27. Nel corpus delle rime il Rizzardi incluse anche il
son. Vinca gli sdegni e l’odio vostro antico (p. 4, n. IV), pubblicato per la prima volta
dal Domenichi sotto il nome di Veronica nel Libro primo delle Rime diverse di molti
eccellentiss. auttori nuovamente raccolte del 1545 (Venezia, Giolito, p. 286), insieme
con altre dieci sue poesie, e tramandato come della Colonna solo dal manoscritto
cinquecentesco I xi 49 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena (c. 44r),
mentre il ms. Milich iv 18 della Biblioteka Uniwersytecka di Wrocław, sempre cinquecentesco,
ne conferma l’attribuzione alla Gambara (c. 13v; secondo l’errata indicazione
di Emilio Torchio, Considerazioni sul «Libro primo» delle «Rime diverse»
(Giolito, 1545) a partire dall’edizione Res, 2001, «Studi e problemi di critica testuale»,
70 (2005), p. 92, nota 28, questo manoscritto trasmetterebbe la stessa attribuzione
del codice senese). Il sonetto figura nella moderna edizione critica delle Rime della
Colonna (V. Colonna, Rime, cit., p. 217, E29), dove le viene assegnato esclusivamente
sulla base del manoscritto senese; e cfr. Alan Bullock, Un sonetto inedito di
Vittoria Colonna, «Studi e problemi di critica testuale», 2 (1971), pp. 229-235, e Id.,
Veronica o Vittoria? Problemi di attribuzione per alcuni sonetti del Cinquecento, cit., pp.
128-131.
[ 14 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 437
xii). Assieme a quel sonetto, derivato dal manoscritto cinquecentesco
Magl. vii 727 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (c. 166v,
dove l’incipit suona esattamente Quando Amor mi condusse a quel dur
gioco), il Mazzuchelli aveva ricevuto dal Cambiagi e poi fornito al Rizzardi
altri sette testi giudicati tutti inediti, sei sonetti e una frottola,
attribuiti dal medesimo codice fiorentino alla Gambara44. Ma il Rizzardi
decise di pubblicare come componimenti nuovi solo il sonetto suddetto
e la frottola, ovvero Or passata è la speranza (pp. 56-58, n. XLII),
apparsa nel 1505 nel quinto libro delle Frottole di Ottaviano Petrucci e
dunque tutt’altro che inedita45. I restanti sei sonetti non vennero pubblicati
perché, spiegava il Rizzardi, «non mi sono paruti scritti con
quella felicità con cui la nostra Veronica soleva dettarli» (Prefazione, p.
xii)46.
Nel caso della trascrizione della frottola Or passata è la speranza dal
44 Il Cambiagi, in realtà, aveva comunicato soltanto otto dei dodici componimenti
attribuiti dal manoscritto alla Gambara. I testi, preceduti dalla dicitura
«Compositioni di m.a Veronica da Gambara», si trovano alle cc. 166v-172v e sono
nell’ordine i sonn. Quando Amor mi condusse a quel dur gioco, Poiché Fortuna volse
farmi priva, Libra non son, né mai libra esser spero, Più non temo di morte alchun dispetto,
Lasso, che debbo far? mia sorte e Amore, Cognoscendo, signor, cosa più grata, Febre crudel,
il cui mal tanto noce, Essendo l’hora del partir mio gionta e Più volte il miser cor havea
assaltato (con l’intestazione «P[rim]o sonetto di detta m.na Veronica»), la frottola
Hor passata è la speranza e gli altri due sonn. Non bastava ad Amor empio et fallace e
Amor, quanto i mei giorni aspri sian stati. Il son. Lasso, che debbo far? mia sorte e Amore
reca in calce alla carta in cui è trascritto (168v) l’attribuzione alternativa al veneziano
Niccolò Tiepolo («Nicol. Teupolus»); ma di esso non si rinviene traccia nella
ricostruzione della tradizione manoscritta e a stampa delle rime del Tiepolo dovuta
a Valentina Marchesi, Pietro Bembo, la crisi italiana e la genesi delle «Historiae
venetae» (1527-1530). Con appunti sulla tradizione delle rime di Niccolò Tiepolo, «Aevum
», lxxxvi (2012), fasc. 3, pp. 921-947.
45 Frottole. Libro quinto, Venezia, Petrucci, 1505; la frottola, adespota, è alle cc.
6v-8r, musicata, come riportato nell’indice, da «B.T.», ossia da Bartolomeo Tromboncino.
46 Il codice magliabechiano fu riutilizzato nel 1890 da Emilio Costa, che pubblicò
cinque dei dieci sonetti a quell’epoca ancora inediti: Poiché Fortuna volse farmi
priva, Libra non son, né mai libra esser spero, Più volte il miser cor havea assaltato, Non
bastava ad Amor empio et fallace, Amor, quanto i mei giorni aspri sian stati (Veronica
Gambara, Sonetti amorosi inediti o rari, a cura di Emilio Costa, Parma, Battei, 1890,
pp. 23-27). Uno degli altri cinque sonetti, Essendo l’hora del partir mio gionta, venne
pubblicato da Abdelkader Salza nel 1915 (Veronica Gambara, Rime inedite o rare,
a cura di Abdelkader Salza, Cirié, Tip. Capella, 1915, p. 10), e un altro, Cognoscendo,
signor, cosa più grata, da Alan Bullock nel 1989 (A. Bullock, Per una edizione
critica delle rime di Veronica Gambara, cit., p. 116). I rimanenti tre sonetti, Più non temo
di morte alchun dispetto, Lasso, che debbo far? mia sorte e Amore e Febre crudel, il cui mal
[ 15 ]
438 stefano bianchi
codice fiorentino (c. 171r-v), il lei del v. 24, «Mentre ch’ebbi lei per scorta
», riferito alla parola speranza, fu sostituito con lui, così come il v. 26,
nella fonte manoscritta «senza lei smarrita e morta» (sempre con riferimento
alla speranza), risultò modificato in «senza lui smarrita e morta
» (p. 57). Questa manipolazione testuale portò in tempi successivi
alcuni critici, ai quali rimase ignota la raccolta di frottole del 1505, a
considerare la poesia legata alla scomparsa del marito, risalente invece
al 151847.
Dopo i quarantadue componimenti veniva presentata una sezione
di Rime di varj eccellenti autori scritte a Veronica Gambara (pp. 59-78). Ai
due sonetti della Colonna Lasciar non posso i miei saldi pensieri e Di novo
il cielo de l’antica gloria, responsivi a quelli collocati in apertura di edizione,
seguivano quattro sonetti del Bembo, Certo ben mi poss’io dir
pago omai, O d’ogni mio penser ultimo segno, Quel dolce suon, per cui chiaro
s’intende48 e Rime leggiadre, che novellamente, quest’ultimo indicato
come dedicato alla Gambara nella tavola dei capoversi della terza edizione
postuma delle Rime bembiane del 1548, curata da Carlo Gualteruzzi
e uscita a Roma presso i fratelli Valerio e Luigi Dorico (p. 158)49.
Erano quindi pubblicati un sonetto di Alfonso d’Avalos, Lunge da quegli
amati e cari lumi50, uno di Benedetto Varchi, Donna, che veramente
tanto noce, sembrano tutti di appartenenza maschile (cfr. A. Bullock, Per una edizione
critica delle rime di Veronica Gambara, cit., p. 115 e nota 63).
47 Cfr., per esempio, Luigi Baldacci nella sua antologia Lirici del Cinquecento,
Firenze, Salani, 1957, p. 276. E cfr. sulla questione Claudio Vela, Poesia in musica:
rime della Gambara e di altri poeti settentrionali in tradizione musicale, in Veronica Gambara
e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, cit., p. 404 e nota 12.
48 Vd. par. 1 e nota 10.
49 Ma Guglielmo Gorni ne ha dimostrato la pertinenza con Maria Savorgnan,
che negli anni 1500-1501 tenne un carteggio d’amore con il futuro cardinale (cfr.
Guglielmo Gorni, Veronica e le altre: emblemi e cifre onomastiche nelle rime del Bembo,
in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, cit., pp. 39-43).
50 Il sonetto rispondeva a quello della Gambara Se lunge dagli amati e cari lumi
(p. 12, n. XII). Entrambi furono stampati nel 1552 da Lodovico Dolce nelle Rime di
diversi illustri signori napoletani e d’altri nobiliss. ingegni […]. Libro quinto (Venezia,
Giolito, p. 4). Figurava invece soltanto il sonetto del marchese del Vasto nella prima
edizione di quell’antologia, apparsa nello stesso 1552 come «terzo libro» (p.
180): dicitura che, scriveva il Dolce nell’anonima lettera dedicatoria della seconda
edizione a Ferrante Carafa, aveva fatto sorgere nei lettori il dubbio «se esso fosse
nuovo volume o il medesimo già dato in luce da altri» (c. A2r; il Dolce alludeva al
Libro terzo delle rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori, curato da Andrea
Arrivabene, Venezia, «al segno del Pozzo» [Bartolomeo Cesano], 1550). Secondo
quanto erratamente riportato da Alan Bullock in V. Gambara, Le rime, cit., p. 92, il
[ 16 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 439
unica il mondo51, due di Bernardo Cappello, Tutto quel che da me, donna,
sen venne e Nulla d’altrui favor, donna gradita52, uno del Sannazaro, Presago
di sì rara e degna sorte53, uno di Giovan Battista Giraldi Cinzio,
sonetto di Veronica venne edito per la prima volta nel 1565 nell’antologia di Dionigi
Atanagi De le rime di diversi nobili poeti toscani […] Libro primo (Venezia, Avanzo).
51 Benedetto Varchi, De sonetti […] Parte prima, Firenze, Torrentino, 1555, p.
83. Nel sonetto, indirizzato a Veronica con onomastico calembour incipitario («veramente
unica»), il Varchi si riferiva al suo componimento in memoria della Morosina
(vd. par. 1 e nota 11), invitandola a non disdegnare «che ’l mio rozzo e frale /
stil coll’ornato vostro eterno tenti / l’alto asciugar di lui [il Bembo] continuo pianto:
/ morta non già, ma ben fatta immortale / è la sua bella donna, per cui tanto /
e tanti sparge in van preghi e lamenti» (vv. 9-14).
52 Bernardo Cappello, Rime, Venezia, Guerra, 1560, p. 76. Un altro sonetto
del Cappello per la Gambara è Oggi vedrem quell’onorata e degna, non incluso nella
princeps del 1560: lo si può leggere nella versione elettronica dell’edizione di Enrico
Albini in Archivio della tradizione lirica da Petrarca a Marino, a cura di Amedeo
Quondam, Roma, Lexis, 1997 (e cfr. Enrico Albini, La tradizione delle rime di Bernardo
Cappello, in Studi di filologia e di letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1973, p. 239, ed E. Torchio, Considerazioni sul «Libro primo
» delle «Rime diverse» (Giolito, 1545) a partire dall’edizione Res, 2001, cit., p. 98, nota
40). Pier Alessandro Paravia segnalò che un ulteriore sonetto del Cappello assente
nella princeps, Se cantando ritrar potessi in carte (Bernardo Cappello, Rime, con la
Vita dell’autore scritta da Pierantonio Serassi e le annotazioni di Agamiro Pelopideo
[Ludovico Flangini], Bergamo, Lancellotti, 1753, II, p. 23, son. XXXIV), era
stato composto in lode della Gambara (cfr. Pier Alessandro Paravia, Della vita e
degli scritti di Carlo Cappello patrizio veneziano, in Id., Memorie veneziane di letteratura
e di storia, Torino, Stamperia reale, 1850, p. 232, nota 10).
53 Iacobo Sannazaro, Rime disperse, in Id., Opere volgari, a cura di Alfredo
Mauro, Bari, Laterza, 1961, pp. 230-231, n. XI. Non contenuto nella princeps postuma
dei Sonetti et canzoni sannazariani del 1530 (Napoli, Sultzbach), il sonetto venne
pubblicato quasi vent’anni dopo nelle Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti
nella lingua thoscana. Libro secondo (Venezia, Giolito, 1547, c. 47v, con didascalia
«Del Sannazaro sopra uno armelino mandato in dono alla s. Veronica Gambara»).
In morte del Sannazaro Veronica compose due sonetti, come apprendiamo da una
lettera al Bembo del 22 gennaio 1531: «[…] Ho fatto a questi giorni due sonetti per
la morte del Sanazzaro. Li mando a V.S. come a mio lume e scorta» (cfr. p. 111
dell’ed. Rizzardi, n. vi). Alla lettera il Bembo rispose il 16 giugno, scrivendo che
«quanto a’ sonetti, essi mi sono paruti bellissimi, l’uno e l’altro. […] Per aventura
non ne averà, la buona anima del Sannazzaro, alcuno da veruno altro così bello
come questi sono. De’ quali sicuramente non saprei dire quale più leggiadro sia, se
non quello che incomincia “Se a quella” mi prende più l’animo» (P. Bembo, Lettere,
cit., 1992, III, pp. 250-251, n. 1239). I fratelli Giovanni Antonio e Gaetano Volpi annotarono
che quei due sonetti «furono da noi finora in vano cercati» (Jacopo Sannazaro,
Le opere volgari, a cura di Giovanni Antonio e Gaetano Volpi, Padova,
Comino, 1723, p. xlviii ). Esiste un sonetto in memoria del Sannazaro, con capoverso
Se a quella gloriosa e bella etate, attribuito da Alan Bullock a Vittoria Colonna
[ 17 ]
440 stefano bianchi
Donna, cui pensier basso unqua non tolse54, due di Lucia Bertani dell’Oro,
Ebbe l’antica e gloriosa etade e La santa veramente unica ebrea55, e uno di
Rinaldo Corso, A quest’anima eletta e singolare56; infine, l’ode alcaica O
diva, blandae quae citharae potes di Nicolò d’Arco57.
Trovavano poi spazio le Annotazioni (pp. 79-91) e l’indice dei capoversi
delle rime della Gambara e delle poesie altrui a lei indirizzate
(pp. 92-94). Nelle Annotazioni nessun dubbio sussisteva per il Rizzardi
sul destinatario delle ventisette stanze Quando miro la terra ornata e
bella (pp. 28-41, n. XXVII), «che la nostra poetessa mandò a Cosimo I
gran Duca di Toscana» (p. 86)58. Il Rizzardi allegava in proposito la
testimonianza di Girolamo Ruscelli nell’avviso ai lettori posto al termine
della sua antologia Rime di diversi eccellenti autori bresciani del
1553 (Venezia, Pietrasanta): «[…] le quali [stanze] ella scrisse già
molt’anni all’illustrissimo sig. duca di Fiorenza, come in esse ne fan
fede i versi “Dico di voi, o de l’altera pianta / felice ramo del ben nato
Lauro [Lorenzo de’ Medici], / in cui mirando sol si vede quanta /
virtù risplende dal mar Indo al Mauro” [vv. 201-204]»59. Le stanze, tut-
(V. Colonna, Rime, cit., p. 211, E16) in base al manoscritto cinquecentesco It. ix 300
(6649) della Marciana di Venezia (ivi, pp. 244 e 474), unico testimone antico a trasmetterlo;
ma le parole del Bembo non lasciano dubbi sulla sua effettiva appartenenza
alla Gambara.
54 Giovan Battista Giraldi Cinzio, Le Fiamme, Venezia, Giolito, 1548, c. 72r.
55 I due sonetti della bolognese Bertani dell’Oro comparvero nella cit. antologia
del Domenichi Rime diverse d’alcune nobilissime et virtuosissime donne del 1559
(pp. 112 e 114): nel son. Hebbe l’antica et gloriosa etade l’autrice omaggiò la Gambara
e la Colonna lodandole come superiori alle greche Saffo e Corinna, mentre alla
sola Veronica dedicò il son. La santa et veramente unica hebrea, il cui incipit esibiva lo
stesso gioco di parole onomastico del primo verso del sonetto del Varchi sopra citato,
presente già al v. 2, «vergine veramente unica et sola», del son. O d’ogni mio
penser ultimo segno del Bembo, del 1504 (P. Bembo, Le rime, cit., I, p. 163, n. 69 [lxix];
e vd. par. 1 e nota 8).
56 Il sonetto fu scritto dal Corso in morte della Gambara e pubblicato, insieme
con l’epitaffio latino da lui dettato per il suo sepolcro, in Vita di Veronica Gambara,
cit., c. F2r-v, e, ancora prima, nell’antologia curata da Vincenzo Pippi De le rime di
diversi eccellentissimi autori nuovamente raccolte. Libro primo, Lucca, Busdraghi, 1556,
c. H6v.
57 Cfr. M. Welber, I «Numeri» di Nicolò d’Arco, cit., pp. 87-88, n. 205.
58 Si tratta di un’affermazione tuttora largamente condivisa dalla critica.
59 C. Q3r; e cfr. Girolamo Ruscelli, Dediche e avvisi ai lettori, a cura di Antonella
Iacono e Paolo Marini, Manziana, Vecchiarelli, 2011, p. 41. Il Ruscelli
sempre in quell’avviso rivendicò alla Gambara l’authorship delle stanze, dopo la
loro ricorrente apparizione a stampa sotto il nome della Colonna, ricordando che
«io in Viterbo l’anno mdxxxvii l’hebbi di mano stessa della fe[lice] memo[ria] del
card. Ridolfi, il quale, essendo io molto giovene, senza dirmi altrimenti a chi erano
[ 18 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 441
tavia, furono pubblicate per la prima volta nel 1536 in appendice al
Vocabulario di cinq[ue]mila vocabuli toschi non men oscuri che utili e necessarij
del Furioso, Bocaccio, Petrarcha e Dante di Fabrizio Luna (Napoli,
Sultzbach, cc. Ff3r-Gg1r), quando cioè Cosimo de’ Medici non era ancora
diventato duca di Firenze. Lo stesso Ruscelli, pochi anni dopo
l’uscita dell’antologia di rime di autori bresciani, nel settimo capitolo
del suo trattato Del modo di comporre in versi nella lingua italiana, stampato
nel 1558 (Venezia, Sessa), nell’affrontare le «stanze d’ottava rima
» riservò una citazione anche alle ottave «bellissime della signora
Veronica Gambara», definendole però indirizzate «al cardinal Redolfi
» (p. CVI). Nel medesimo anno, all’interno dell’edizione curata sempre
dal Ruscelli di Tutte le rime della Colonna (Venezia, Sessa), nel
commento di Rinaldo Corso alla prima parte di quelle rime comparve
un rinvio alle «stanze» di Veronica «al reverendiss. cardin. Ridolfi», a
cui ne seguiva un altro alle sue «stanze all’illustrissimo et reverendiss.
cardinal Ridolfi» (pp. 248 e 327)60. Il Ridolfi era figlio di Contessina de’
scritte, me le diede, dicendo queste formate parole: “Togli, se tu vuoi haver copia
d’una bella cosa, queste stanze, che sono della sorella di monsig. reverendiss. di
Gambara”. Et la bened[etta] me[moria] del sig. conte Fortunato Martinengo mi
disse haver egli inteso di bocca propria della sig. Veronica che quelle stanze eran
sue. Et il s. Luca Contile in Napoli mi disse similmente haver udito di bocca propria
della sig. Vittoria Colonna che quelle stanze erano della sig. Veronica, et non
sue» (c. Q3r-v; e cfr. G. Ruscelli, Dediche e avvisi ai lettori, cit., p. 42). La falsa attribuzione
delle stanze iniziò a circolare nel 1539 in quattro edizioni delle rime colonnesi:
cfr. V. Gambara, Le rime, cit., p. 38, e Tatiana Crivelli, The Print Tradition of
Vittoria Colonna’s «Rime», in A Companion to Vittoria Colonna, ed. by Abigail Brundin,
Tatiana Crivelli, Maria Serena Sapegno, Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. 89
segg. Ma quanto dichiarato dal Ruscelli non pose affatto fine alla loro diffusione
apocrifa, visto che successivamente si continuò ad attribuirle alla Colonna: si veda,
per esempio, la stampa delle Stanze della sig.ra Vittoria Colonna marchesana di Pescara
illustrissima, musicate dal toscano Nicolò Dorati (Venezia, Scotto, 1570-1571).
60 Nel 1542 il giovanissimo Rinaldo Corso, correggese di adozione e futuro
biografo della Gambara, pubblicò il commento a trentasei testi spirituali della Colonna,
la Dichiaratione fatta sopra la seconda parte delle Rime della divina Vittoria Collonna
[sic] marchesa di Pescara, indirizzandone la lettera dedicatoria a Veronica,
«chiarissimo splendore del femminil sesso e dell’età nostra». Il solo esemplare oggi
conosciuto della stampa, presso la Biblioteca dell’Istituto italiano per gli studi
storici di Napoli, è mutilo di alcune carte, compresa quella con i dati sul luogo di
pubblicazione e sul tipografo: cfr. Sarah Christopher Faggioli, Di un’edizione del
1542 della «Dichiaratione» di Rinaldo Corso alle rime spirituali di Vittoria Colonna,
«Giornale storico della letteratura italiana», cxci (2014), fasc. 634, pp. 200-210. La
Dichiaratione riapparve nel 1543 (Bologna, Faelli) in una nuova versione che presentava,
tra l’altro, l’aggiunta di due sonetti commentati. La prima parte del commento
vide la luce soltanto quindici anni più tardi, appunto nell’edizione ruscel-
[ 19 ]
442 stefano bianchi
Medici, a sua volta figlia di Lorenzo de’ Medici: risultava dunque più
che pertinente, verso la fine del testo, il riferimento a lui in quanto
«felice ramo» dell’«altera pianta» del «ben nato Lauro», mentre costituiva
un’allusione alla condizione cardinalizia il richiamo alla sua
«ombra gloriosa e santa» (v. 205)61.
4. La sezione successiva dell’edizione comprendeva le lettere, numerate
fino a centodiciannove, in realtà centodiciotto (pp. 97-293; solo
ventotto quelle datate)62, e corredate di note a piè di pagina e di un
indice (pp. 294-295). Le centodiciotto lettere erano ordinate in base ai
destinatari:
Caterina de’ Medici duchessa d’Orléans (pp. 97-99, n. I, 3 luglio 1534);
liana delle Rime della Colonna. In una pagina di quella prima parte il Corso si rivolgeva
a «voi sonnacchiosi» circa una «lite gran tempo durata nella nostra academia
sopra una mia compositione se si potesse dire “fare spento”» (V. Colonna,
Tutte le rime, cit., p. 257). Il Corso era infatti iscritto all’accademia bolognese dei
Sonnacchiosi, come anche la Gambara: cfr. nella Miscellanea di notizie storiche bolognesi
raccolte dall’erudito settecentesco Baldassarre Antonio Maria Carrati, ossia
nel ms. B 691 della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, l’elenco
degli accademici Sonnacchiosi negli anni 1542 e 1543 (pp. 353-354); e cfr. la lettera
di Veronica del 31 marzo 1543 a Paolo Emilio Veralli, principe dell’accademia, al
quale ella prometteva che «tutti li frutti che nasceranno nel mio sterile terreno
all’accademia saranno consecrati» (in G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, cit., 1782,
II, pp. 139-140).
61 Sui rapporti della Gambara con il Ridolfi vd. par. 1. Dopo il loro esordio
editoriale nel Vocabulario del Luna, le stanze uscirono nel 1537 in due stampe autonome,
non censite in V. Gambara, Le rime, cit.: Stanze bellissime della s. Veronica da
Gambara con un capitolo in laude delle gotte a messer Benedetto Bontempi novamente
stampati, Genova, «per Anthonio Bellono», e Perugia, «per Luca Bina mantuano ad
instantia del Faentino» (il capitolo in lode delle gotte era di Mattio Franzesi). Le
due stampe sono registrate in Biblia. Biblioteca del libro italiano antico, diretta da
Amedeo Quondam, La biblioteca volgare. 1. Libri di poesia, a cura di Italo Pantani,
Milano, Editrice Bibliografica, 1996, p. 139, nn. 2233-2234, sulla scorta di Max Sander,
Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu’à 1530. Essai de sa bibliographie et de son
histoire, Milano, Hoepli, 1942, iii, Addenda, p. 1347, n. 198. Sulla stampa del Bellone
cfr. Giovanna Petti Balbi, Le edizioni genovesi del Cinquecento, «Atti e memorie
della Società savonese di storia patria», n.s., ix (1975), p. 99, e Oriana Cartaregia,
Per un censimento delle edizioni uscite dall’officina tipografica della famiglia Bellone
(1534-1579), «La Berio», xxxviii (1998), n. 2, p. 24, n. 11. Un suo esemplare rarissimo
si conserva attualmente nella Houghton Library della Harvard University di
Cambridge, Mass. Neppure un esemplare della stampa di Luca Bini è invece oggi
localizzabile.
62 A p. 145 si passava dalla lett. xxii alla lett. xxiv; a p. 282 la lett. cxiv era
inoltre numerata erratamente civ.
[ 20 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 443
Leonora da Correggio (pp. 99-102, n. II, s.d.)63;
Uberto Gambara (pp. 102-106, nn. III-IV, 26 gennaio 1535 e s.d.)64;
Pietro Bembo (pp. 106-129, nn. V-XIV, tre s.d. e le altre scritte tra il 7
aprile 1529 e il 29 ottobre 1540)65;
Niccolò Ridolfi (pp. 129-132, n. XV, s.d.);
Lodovico Leoni (pp. 132-134, n. xvi, «l’ultimo di febbraio nel…»);
Galasso Ariosto (pp. 134-135, n. xvii, s.d.);
Gabriele Cesano (pp. 136-137, n. xviii, 12 ottobre 1535);
Francesco Maria Molza (pp. 137-140, nn. xix-xx, s.d.)66;
Lodovico Dolce (pp. 140-142, n. xxi, 28 aprile 1537)67;
63 Chi fosse questa Leonora da Correggio, accolta alla corte francese grazie ai
buoni uffici di Veronica come dama di compagnia di Caterina de’ Medici, è difficile
dire: di sicuro non era, come scriveva il Rizzardi nelle annotazioni alla lettera (p. 99,
nota 1), e come ripetuto ultimamente da Molly M. Martin (Introduction, in Veronica
Gambara, Complete Poems: A Bilingual Edition, ed. by Molly M. Martin and Paola
Ugolini, introd. by Molly M. Martin, Toronto, Iter Inc. – Centre for Reformation
and Renaissance Studies, 2014, p. 22, nota 60), figlia di Giangaleazzo da Correggio
e di Ginevra Rangoni, che non avevano avuto prole (cfr. G. Tiraboschi, Biblioteca
modenese, cit., 1783, IV, pp. 295-296); e non era nemmeno figlia di Niccolò II il Postumo,
come vorrebbe Riccardo Finzi, Umanità di Veronica Gambara (1485-1550), Reggio
Emilia, Tipolitografia emiliana, 19692, p. 19 (la lettera a Leonora è verosimilmente
del 1534, mentre Eleonora figlia di Niccolò si era spenta a Mantova nel 1523).
64 Le due lettere sono le sole rimasteci della Gambara a Uberto, «nonostante i
legami di affetto che sempre unirono i due fratelli, e malgrado il potente appoggio
che Veronica ricercò (soprattutto dopo la morte del marito) presso Uberto, in pochi
anni asceso ad ambite dignità ecclesiastiche» (Sergio Pagano, Il cardinale Uberto
Gambara vescovo di Tortona (1489-1549), Firenze, Olschki, 1995, p. 14, nota 7).
65 L’ultima lettera del Bembo a Veronica risale al 21 dicembre 1544: cfr. P. Bembo,
Lettere, cit., 1993, IV, p. 518, n. 2464. Qui il letterato veneziano le formulava i
complimenti per un nuovo suo sonetto: «Il sonetto di V.S., fatto a m.or reverendiss.
Farnese, è delli vostri: che son belli tutti […]». Tale sonetto per il cardinale Alessandro
Farnese è da considerarsi perduto: cfr. in proposito le osservazioni di Alan
Bullock in V. Gambara, Le rime, cit., p. 161.
66 Per la seconda delle due lettere vd. par. 2, nota 23.
67 Al Dolce la Gambara spedì con quella lettera il son. Se tardo a dir di voi, Dolce
gentile (p. 52, n. XXXVIII), in risposta a due suoi sonetti (la lettera è ora anche in
Lodovico Dolce, Lettere, a cura di Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli,
2015, p. 170, n. 57). Dello scambio di rime tra Veronica e il Dolce ci resta soltanto il
sonetto gambaresco, stampato dallo stesso Dolce nell’antologia da lui curata Rime
di diversi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi, tra le quali se ne
leggono molte non più vedute, Venezia, Giolito, 1553 (p. 395). Di un poema epico-cavalleresco
del Dolce, il Sacripante, Veronica faceva menzione in una lettera all’Aretino
del 17 settembre 1537: «[…] E pregovi me raccomandiate al virtuoso m. Lodovico
Dolce, e ditegli che ’l suo Sacripante non men leggiadro che innamorato mi ha
fatto passare un pezzo di caldo questa estate senza noia […]» (cfr. p. 292 dell’ed.
Rizzardi, n. cxviii).
[ 21 ]
444 stefano bianchi
Francesco Covos (Francisco de los Cobos, pp. 142-144, n. xxii, s.d.);
Alfonso d’Avalos (pp. 145-146, n. xxiv, 31 ottobre 1540)68;
Giovanni Michiel (pp. 147-149, n. xxv, 31 dicembre 1542);
Lodovico Rossi (pp. 149-197, nn. xxvi-lvi , s.d., tranne quattro, dell’8
luglio 1520, del 1522, del 24 agosto 1522 e del 1° settembre 1524)69;
Vincenzo Ercolani (pp. 197-199, n. lvii , s.d.);
Agostino Ercolani (pp. 199-274, nn. lviii -cviii, s.d., tranne una, del 3
settembre 1535);
Pietro Aretino (pp. 274-293, nn. cix-cxix, una s.d. e le altre scritte tra il
24 agosto 1533 e il 10 dicembre 1537)70.
68 Al marchese del Vasto la Gambara indirizzò i due sonn. Là dove or d’erbe
adorna ambe le sponde e Se lunge dagli amati e cari lumi, che danno voce all’infelicità
della moglie Maria d’Aragona per la sua lontananza (pp. 11-12, nn. XI-XII). L’Avalos
rispose al secondo componimento con il son. Lunge da quegli amati e cari lumi
(vd. par. 3 e nota 50).
69 Quattro di queste lettere al Rossi (XXVII, XXVIII, XXXIII, LII) recano in clausola
la dicitura «del [o dal] mio Casino». Il Casino era un grande palazzo fatto costruire
da Niccolò II il Postumo al di fuori della cinta muraria di Correggio e quindi
passato, dopo la sua morte e quella del figlio Giangaleazzo che non aveva lasciato
eredi, al cugino Giberto X e poi alla Gambara e ai due figli, fino a essere distrutto
nel 1557 durante la guerra tra Correggio e la lega franco-pontificia.
70 L’Aretino, pur ingiuriandola con l’epiteto di «meretrice laureata» in un libellistico
Pronostico (Pietro Aretino, Pronostico dello anno MDXXXIIII, in Id., Operette
politiche e satiriche, a cura di Marco Faini, Roma, Salerno Editrice, 2012, ii, p. 177),
elogiò nel prologo della seconda redazione della Cortigiana, pubblicata nel 1534, le
«gloriose fatiche» in cui Veronica adoperava «la altezza» del suo «ingegno» (Pietro
Aretino, Cortigiana (1534), in Id., Teatro, i. Cortigiana (1525 e 1534), a cura di
Paolo Trovato e Federico Della Corte, Roma, Salerno Editrice, 2010, p. 233); e
le rese omaggio, ancora nel 1534, nella lettera dedicatoria dei Sette salmi della penitentia
di David ad Antonio de Leyva (la «spiritale Veronica Gambara»). All’Aretino
la Gambara inviò nel 1536 il son. Ben si può dir che a voi largo e cortese (p. 54, n. XL),
per Angela Serena, la donna amata in quel periodo dallo scrittore toscano e da lui
celebrata in sessanta stanze che uscirono nel 1537, seguite da un suo sonetto, Questa
del ciel Sirena ha ne’ bei chrini, e dal sonetto di Veronica, nella stampa Stanze di m.
Pietro Aretino (Venezia, Marcolini). Le stanze e i due sonetti furono pubblicati successivamente,
nel 1544, negli Strambotti a la villanesca freniticati da la quartana de
l’Aretino, con le Stanze de la Serena appresso, in comparatione de gli stili (Venezia, «al
segno de la Verità per Francesco Marcolini»; la stampa non è censita in V. Gambara,
Le rime, cit.). Nelle Stanze del 1537 il sonetto di Veronica si trova a c. D2r; negli
Strambotti del 1544 a c. K3r. Un’ulteriore lettera della Gambara all’Aretino, sfuggita
al Rizzardi, è dell’8 marzo 1532, dunque antecedente a tutte le altre: fu inclusa
nella seconda edizione del primo libro delle Lettere aretiniane, Venezia, Marcolini,
1542, p. 501 (e cfr. Pietro Aretino, Lettere. Libro I, a cura di Paolo Procaccioli,
Roma, Salerno Editrice, 1997, p. 467, Lettre diverse a l’autore, n. I; a causa di un refuso
l’anno risulta «M.D.XXXVII»).
[ 22 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 445
Il Rizzardi indicò con un asterisco le lettere già pubblicate, mentre
le altre, quelle inedite (ben novantasei), erano state ricavate, come si
leggeva nella Prefazione, «da un codice ms. del chiariss. p. Stanislao Bardetti
della Compagnia di Gesù e teologo del duca di Modena per opera
del p. Federico Sanvitali della stessa Compagnia» (p. xiv). Si trattava
dell’odierno ms. It. 644 (α F 4 19) della Biblioteca Estense di Modena,
seicentesco, formato da due serie di copie di lettere, della Gambara e di
Torquato Tasso71. Il curatore dichiarava di essere intervenuto in «quei
luoghi» delle lettere «dei quali bene non si poteva rilevare il sentimento
», apponendovi «dei punti», ossia dei puntini di sospensione72.
Chiudevano il volume il Catalogo de’ libri dai quali si sono tratte le
Rime e le Lettere di Veronica Gambara e le poesie d’altri a lei indirizzate e il
privilegio di stampa dei Riformatori dello Studio di Padova, datato 25
marzo 1759 (pp. 296-298)73. Nel Catalogo non era però citata, pur essendo
stata sicuramente utilizzata, l’antologia di Dionigi Atanagi De le
rime di diversi nobili poeti toscani […] Libro primo del 1565 (Venezia,
Avanzo), unica cinquecentina a tramandare i sonn. Ecco che già tre vol-
71 L’ultima delle lettere della Gambara, non datata (c. 34r), è l’unica assente
nell’edizione bresciana ed è indirizzata a Bernardo Tasso, a diretto contatto con la
serie di lettere di Torquato, per cui «una lettura frettolosa od un semplice equivoco
potrebbero aver indotto i lettori del manoscritto a trascurarla o ad assegnarla al
Tasso, al cui padre si rivolge» (E. Selmi, Per l’epistolario di Veronica Gambara, cit., p.
166; la lettera, all’inizio della quale Veronica si riferiva a precedenti missive del
Tasso da lei ricevute, è pubblicata dalla Selmi alle pp. 164-165). Per la duplice citazione
della Gambara nell’Amadigi del Tasso vd. par. 2 e nota 25. Sul codice modenese
cfr. anche Gianvito Resta, Studi sulle lettere del Tasso, Firenze, Le Monnier,
1957, pp. 184-187, e sui suoi rapporti con l’edizione del Rizzardi G. Tiraboschi,
Biblioteca modenese, cit., 1782, II, p. 140, e C. Fahy, L’esemplare già «Charlemont» dell’
«Orlando furioso» del 1532, cit., p. 445, nota 11.
72 Il Rizzardi, dopo avere informato della trascrizione effettuata dal Sanvitali
dal codice del padre Bardetti, ricordava che, poiché «queste lettere in parecchi luoghi
erano malamente scritte, mandai copia del mio esemplare al celebre p. Anton
Francesco Zaccaria, il quale per la nota sua cortesia favorì di collazionarlo col testo
del p. Bardetti. Ma essendosi smarrito disgraziatamente per viaggio da Modena a
Brescia e il ms. e le correzioni, ho dovuto a quei luoghi, dei quali bene non si poteva
rilevare il sentimento, apporvi dei punti» (Prefazione, p. XV).
73 Su un primo stato di stampa di due fascicoli dell’edizione (con la numerazione
romana che si interrompe a p. xxiv, prosegue con le pp. 1-32, in corrispondenza
con la prima parte della Vita dello Zamboni, e riprende con p. lvii fino a p.
lxxxv), cfr. Daniela Mena, Libro, cultura e società. Viaggio nella grafica del libro
bresciano del Settecento attraverso alcuni esemplari della Fondazione Morcelli-Repossi, in
La cultura della memoria. Uomini, libri e carte della Biblioteca Morcelliana, Chiari, Fondazione
Biblioteca Morcelli – Pinacoteca Repossi, 2002, pp. 28-31.
[ 23 ]
446 stefano bianchi
te, Italia mia, Tu che di Pietro il glorioso manto, Là dove or d’erbe adorna
ambe le sponde, Ite, pensier fallaci e vana spene, Ne la secreta e più profonda
parte, O gran misterio e sol per fede inteso e Oggi per mezzo tuo, Vergine
pura (pp. 9-11, nn. IX-XI, pp. 42-43, nn. XXVIII-XXIX, pp. 46-47, nn.
XXXII-XXXIII)74.
5. Le Rime e lettere della Gambara, che andarono ad affiancarsi all’edizione
che ventuno anni prima Luisa Bergalli aveva procurato delle
Rime di Gaspara Stampa (Venezia, Piacentini, 1738)75, apportarono un
contributo significativo a quel recupero della letteratura femminile
cinquecentesca avviato a Napoli alla fine del Seicento dal tipografolibraio
francese Antonio Bulifon76. Si può dire che nessuna delle poesie
74 I sette sonetti si trovano nell’antologia dell’Atanagi alle cc. 192v, 193r-v, 194v
e 195r. Dalla stessa antologia (cc. 193r e 194r) il Rizzardi derivò il son. Se lunge dagli
amati e cari lumi (p. 12, n. XII), già pubblicato nel 1552 dal Dolce nel Libro quinto (vd.
par. 3, nota 50), non citato nel Catalogo, e gli altri due sonn. Or che sei ritornata, alma
felice e Riser gli spirti angelici e celesti (pp. 49-50, nn. XXXV-XXXVI), in morte del
Bembo, già stampati nel 1551 dal Bottrigari nel Libro quarto (vd. par. 1 e nota 12),
anch’esso non citato nel Catalogo. Altri due sonetti, Tu che mostrasti al rozzo mondo
prima e Sciogli le trecce d’oro e d’ogn’intorno (pp. 24-25, nn. XXIII-XXIV), furono pubblicati
sempre nel Libro quarto del 1551 (p. 20) e poi da Luisa Bergalli nel primo dei
due tomi della sua antologia Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni
secolo, Venezia, Mora, 1726 (pp. 61-62), che era invece registrata nel Catalogo, e dalla
quale perciò il Rizzardi li trasse. Riguardo al sonetto spirituale Ite, pensier fallaci e
vana spene, apparso per la prima volta nell’antologia dell’Atanagi, Alan Bullock in
V. Gambara, Le rime, cit., pp. 72-73, lo ritiene non della poetessa lombarda, ma di
Veronica Franco, sulla base di quanto attestato da un codice miscellaneo, oggi perduto,
della biblioteca del convento di Santa Maria dei Servi di Venezia (cfr. Novelle
della repubblica letteraria per l’anno MDCCLVII, Venezia, Occhi, 1757, p. 320; Emmanuele
Antonio Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, Venezia, Tip. Andreola, 1853,
vi, p. 884; Gaspara Stampa – Veronica Franco, Rime, a cura di Abdelkader Salza,
Bari, Laterza, 1913, pp. 360 e 384). È soprattutto il fatto che il sonetto sia tramandato,
attribuito alla Gambara, da un manoscritto, il 91 della Biblioteca del Seminario
Vescovile di Padova (c. 73v), risalente al decennio 1520-1530 (cfr. Armando
Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, in Petrarca, Venezia e il Veneto,
a cura di Giorgio Padoan, Firenze, Olschki, 1976, p. 264), a escludere nel modo più
assoluto la possibilità di una sua appartenenza alla Franco, nata nel 1546. Dallo
stesso manoscritto Angelo Lodovico Rampini ricavò nel 1845 il son. Non t’ammirar,
s’a te, non visto mai, inviato dalla Gambara al Bembo nel 1504 (vd. par. 1 e nota 6).
75 Nel 1726 si era dovuta alla Bergalli anche la prima antologia femminile compilata
da una donna, ovvero la cit. raccolta di Componimenti poetici delle più illustri
rimatrici d’ogni secolo, contenente della Gambara quindici sonetti, due madrigali e
le stanze Con quel caldo desio che nascer suole (pp. 56-65 del primo tomo).
76 Il Bulifon aveva pubblicato edizioni di Laura Terracina (1692, 1694, 1698),
della Colonna (1692 e 1693), di Tullia d’Aragona (1693), di Laura Battiferri Am-
[ 24 ]
le rime e le lettere di veronica gambara 447
pubblicate nel XVI secolo sfuggì all’attenzione del Rizzardi, fatta eccezione
per le poche rime tràdite in forma adespota dalle raccolte musicali77.
Notevole fu poi la quantità dei documenti epistolari messi per la
prima volta a disposizione dei lettori; si consideri che le lettere conosciute
fino al 1759 erano soltanto poco più di venti unità78.
Il volume costituì inoltre una delle testimonianze della riscoperta
da parte dell’editoria bresciana settecentesca di autori del Cinquecento
‘locale’. A Brescia nel 1728 vide la luce una ristampa della tragedia
Polissena di Bongianni Gratarolo (Venezia, Salicato, 1589) per iniziativa
di Faustino Avogadro, mentre tra il 1746 e il 1747 apparve dalla tipografia
di Jacopo Turlini un’edizione delle Opere volgari e latine di
Jacopo Bonfadio, curata da Antonio Sambuca e fornita di una Vita
dell’autore scritta da Giammaria Mazzuchelli79, e alla quale seguì una
nuova edizione tra il 1758 e il 1759 presso Pietro Pianta. Un’altra edizione
bresciana delle sole Lettere del Bonfadio, «ristampate a comodo
della studiosa gioventù», uscì nel 1769 per i tipi di Giovan Battista
Bossini, che nel 1775 pubblicò anche le Venti giornate dell’agricoltura e
mannati (1694 e 1697) e di Isabella Andreini (1696), così come una scelta di testi di
Lucrezia Marinelli, della Gambara e di Isabella Morra (Rime delle signore Lucrezia
Marinella, Veronica Gambara ed Isabella della Morra, 1693; di Veronica erano stati riuniti
dieci sonetti e due madrigali); e aveva riproposto la cit. antologia del Domenichi
Rime diverse d’alcune nobilissime et virtuosissime donne del 1559 con il titolo Rime
di cinquanta illustri poetesse (1695).
77 La frottola Or passata è la speranza, comparsa nel 1505 nel quinto libro delle
Frottole di Ottaviano Petrucci con la musica di Bartolomeo Tromboncino, venne
però recuperata attraverso il ms. Magl. VII 727 della Nazionale di Firenze (vd. par.
3). Le altre rime adespote ospitate nelle raccolte musicali cinquecentesche erano il
son. Quando fia mai quel dì felice tanto (nella stampa Canzoni nove con alcune scelte de
varii libri di canto, curata da Andrea Antico, Roma, Silber, 1510, cc. 23v-24r, ancora
con la musica del Tromboncino, e successivamente nel Primo libro de madrigali a
quattro, a cinque et a sei voci di Giovan Battista Moscaglia, Venezia, Gardano, 1575,
pp. 14-16), il madr. Così extrema è la doglia (in Madrigale de m. Constantio Festa. Libro
primo, s.l., s.n.t., 1538, n. 25, e poi in altre raccolte musicali, per cui cfr. V. Gambara,
Le rime, cit., pp. 39-41, 44 e 46), e lo strambotto Tosto ch’il sol si scopr’in oriente (nel
Primo libro delle Muse a quattro voci, Roma, Barré, 1555, pp. 10-11, e poi in altre raccolte
musicali, per cui cfr. V. Gambara, Le rime, cit., pp. 48-49, e Mary S. Lewis,
Antonio Gardano, Venetian Music Printer, 1538-1569: A Descriptive Bibliography and
Historical Study, New York, Garland, 1997, II, p. 369).
78 Tra queste, sette delle dieci lettere al Bembo (pp. 106-117, 120-121, 124-127, nn.
V-VIII, X, XII-XIII), che si potevano leggere alle cc. 22v-26r del cit. libro delle Lettere
da diversi re et principi et cardinali et altri huomini dotti a mons. Pietro Bembo scritte.
79 Del Bonfadio il Mazzuchelli tornò a occuparsi nel 1748 nella Lettera […] in
cui si tratta della patria di Jacopo Bonfadio e dello stato antico e presente della riviera bresciana
(Brescia, Bossini).
[ 25 ]
448 stefano bianchi
de’ piaceri della villa di Agostino Gallo (la princeps dell’opera risaliva al
1569, Venezia, Percacino).
A distanza di quasi due secoli e mezzo dal lavoro del Rizzardi, è
comparsa nel 1995 l’edizione critica delle Rime (Firenze, Olschki –
Perth, University of Western Australia), comprendente sessantasette
componimenti, che il curatore Alan Bullock ha tentato di ordinare cronologicamente,
nonostante le oggettive difficoltà di datazione esistenti
per la maggior parte di essi80. Manca ancora oggi, invece, un’edizione
critica delle lettere che tenga conto sia dei documenti pubblicati
dopo l’edizione del Rizzardi, sia delle eventuali lettere inedite81.
Stefano Bianchi
Università degli Studi di Firenze
80 Trentanove i testi comuni all’edizione settecentesca. I sonn. Vinca gli sdegni e
l’odio vostro antico e Vincere i cor più saggi e i re più alteri sono attribuiti a Vittoria
Colonna (vd. par. 3 e nota 43), mentre il son. Ite, pensier fallaci e vana spene è assegnato
a Veronica Franco (vd. par. 4, nota 74). Ma il son. Vinca gli sdegni e l’odio vostro
antico è stato reintegrato nella più recente edizione V. Gambara, Complete Poems,
cit., p. 110, n. 59 (sarebbe stato opportuno reintegrare anche il son. Ite, pensier fallaci
e vana spene e aggiungere il son. Se a quella gloriosa e bella etate, in morte del Sannazaro,
sul quale vd. par. 3, nota 53). Nell’ed. Bullock figurano inoltre i venticinque
inediti divulgati a partire dal 1827 (cfr. le pp. 33 e 50-51 del regesto delle Testimonianze),
nonché il sonetto, il madrigale e lo strambotto presenti adespoti nelle raccolte
musicali del Cinquecento (vd. nota 77). La ricostruzione dell’aspetto graficolinguistico
delle rime è fondata da Bullock su rilevazioni statistiche condotte sui
manoscritti cinquecenteschi e fatte valere anche per i componimenti tramandati
soltanto dalle stampe: si vedano in merito le riserve di Simone Albonico, La poesia
del Cinquecento, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, Roma,
Salerno Editrice, 2001, x, p. 720, nota 72.
81 È molto lacunoso l’elenco delle lettere edite dopo il 1759 in Fernando Manzotti,
Cataloghi delle lettere di Veronica Gambara preceduti da un saggio critico (con lettere
inedite), Verona, Quaderni di «Nova Historia», 1951, pp. 21-23. Non vi risulta
registrata, tra l’altro, la lettera del 3 settembre 1528 a Isabella d’Este su una Maddalena
genuflessa e penitente nel deserto dipinta dal Correggio (poi andata perduta),
resa nota da Luigi Pungileoni, Elogio storico di Giovanni Santi pittore e poeta padre
del gran Raffaello di Urbino, Urbino, Guerrini, 1822, pp. 110-111 (la lettera si conserva
nell’Archivio di Stato di Mantova, Autografi, b. 8, c. 141r). Alcune delle lettere pubblicate
da Manzotti come inedite (pp. 26-28, nn. I, II, III e V) sono in realtà apocrife,
non appartenendo alla Gambara ma alla nipote di suo figlio Girolamo, Veronica da
Correggio, che visse a Parma nella seconda metà del Cinquecento e sposò il conte
Alfonso Fontanelli di Reggio Emilia: cfr. Gian Paolo Barilli, Veronica Gambara
non patrocinò Antonio Allegri «il Correggio», «Reggio Storia», n.s., 1995, n. 69, pp. 49-
51, dove si segnalano anche altre due lettere ugualmente scritte da Veronica da
Correggio ed erroneamente attribuite alla Gambara in Veronica Gambara, Rime e
lettere, a cura di Pia Mestica Chiappetti, Firenze, Barbèra, 1879, pp. 357-361.
[ 26 ]
John Butcher
«Dove Hippocrene è l’Istro».
Antonio Abati al servizio dell’arciduca
Leopoldo Guglielmo d’Austria*
Antonio Abati, nella sua attività letteraria tesa alla rappresentazione e all’ulteriore
promozione della dinastia asburgica, diede un contributo difficilmente
valutabile nelle conseguenze ma senz’altro efficace per l’immagine pubblica di
una delle massime potenze europee, fornendo un nutrito gruppo di componimenti
propagandistici in grado di rafforzare la statura politica dell’arciduca
Leopoldo Guglielmo, dell’imperatore Ferdinando III e dell’intero meccanismo
di potere installato sulle rive del Danubio ed esteso ad altre località ben più
distanti nel Sacro Romano Impero e altrove.

Antonio Abati, in his literary efforts to bolster the strength of the Habsburg
dynasty, made a meaningful (albeit hard to gauge) contribution to the public
image of one of Europe’s major powers, marshalling an array of poetic works
of propaganda able to corroborate the political stature of Archduke Leopold
Wilhelm, Emperor Ferdinand III and, indeed, the entire system of power installed
on the banks of the Danube and reaching out further afield into the
Holy Roman Empire and beyond.
Oggi di Antonio Abati (Gubbio 1603 – Senigallia 1667)1 si ricorda
Autore: Centro Studi «Mario Pancrazi», Sansepolcro (AR); direttore scientifico
della sezione di arte e letteratura; johncbutcher@hotmail.com.
* Il presente saggio rielabora il testo di una relazione presentata nell’ambito del
pomeriggio di studi «Antonio Abati. Satira e encomio», Biblioteca comunale Antonelliana,
Senigallia, 14 dicembre 2017. Le mie ricerche intorno ad Abati e alla corte
asburgica hanno beneficiato di scambi epistolari con Mark Hengerer, Silke Leopold,
Alfred Noe, Herbert Seifert, Andrea Sommer-Mathis e Thomas Winkelbauer;
qui desidero esprimere loro la mia gratitudine, la quale estendo altresì a Chiara
Pietrucci.
1 Per la biografia Giammaria Mazzuchelli, Abati (Antonio), in Gli scrittori
d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani,
vol I, parte 1, Brescia, Giambatista Bossini, 1753, pp. 11-12; Luigi Mancini, Antonio
Abati e le satire nelle “Frascherie”, Senigallia, Puccini e Massa, 1904; Roberto Zapperi,
Abati, Antonio, in DBI, vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960,
450 john butcher
soprattutto il volume Delle frascherie2; poche parole invece sono state
spese sulle Poesie postume3, nonostante il discreto valore storico ed
estetico di cui il libro si faccia portatore. Il curatore delle Postume, l’eugubino
Curzio Picotti, provvede a chiarire in una prefazione ai lettori
che la raccolta mandata in tipografia costituisce solo una parte delle
poesie dell’autore: altre erano state rubate, altre – giovanili e bizzarre
– consegnate alle fiamme dall’autore stesso, approdato ormai a un’età
più adulta e devota4. Ulteriore precisazione degna di nota nella medesima
prefazione interessa la struttura della silloge: di fronte agli originali
del concittadino, Picotti afferma di non aver voluto operare alcuna
selezione né imporre una disposizione ordinata5. E difatti un’analisi
della sequenza dei testi rivela che, al di là di alcuni nuclei affini sul
piano tematico o formale, la macrostruttura delle Postume fa a meno di
una logica unitaria. In particolare è necessario segnalare l’assenza di
un criterio cronologico nell’ordinamento: così ad esempio si susseguono
Nelle nenie cantate da alcuni proletarij scrittori in morte del cardinal
Giulio Mazarino (pp. 120-122), quartine che hanno come termine post
quem il 9 marzo 1661; un sonetto per una vittoria delle armi di Ferdinando
III (p. 123), il quale deve precedere la pace di Vestfalia del 1648;
una petizione per denaro che riguarda l’elezione di Leopoldo I a imperatore
nel 1658 (p. 133); un epitalamio per le nozze di Cosimo III de’
Medici con Margherita Luisa d’Orléans (pp. 156-158) avvenute il 20
giugno 1661; una canzone sollecitata dalla peste napoletana del 1656
(pp. 158-163); All’altezza serenissima dell’arciduca Leopoldo in occasione
della cannonata che gli diè vicino senza nocumento (p. 195), databile al
1645; un encomio dell’ormai anziano maestro di cappella Giovanni
Valentini (p. 197), scomparso a Vienna nel 1649; infine un sonetto Nella
ricuperata salute del signor cardinal Mazzarino (p. 204)6.
La citazione di Giovenale che orna il frontespizio delle Frascherie,
pp. 7-8; Elena Turchi, Antonio Abati, un poeta satirico nella Senigallia del Seicento,
Senigallia, Ventura, 2017.
2 Antonio Abati, Delle frascherie fasci tre, Venezia, Matteo Leni, 1651.
3 Antonio Abati, Poesie postume, Bologna, Gio. Recaldini, 1671 (dedicate al
cardinal Flavio Chigi).
4 Curzio Picotti, Ai cortesi lettori, in A. Abati, Poesie postume, cit., pp. 7-13 (p.
8).
5 Ivi, p. 10.
6 Si avverte che nel presente saggio per la trascrizione delle poesie ho normalizzato
l’accento, l’apostrofo, la maiuscola, l’u per la v e la punteggiatura secondo
la prassi di scrittura oggi in uso. I numeri di pagina senza ulteriore indicazione si
riferiscono alla citata edizione delle Poesie postume.
[ 2 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 451
«Quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas, / Gaudia, discursus,
nostri farrago libelli est» (I, 85-86), si adatterebbe altrettanto
bene al contenuto delle Postume, una raccolta di circa quattrocento
componimenti piuttosto eterogenei uniti dalla ponderazione sui vizi e
sulle virtù dell’uomo. Si alternano poesie sull’illusorietà dei beni terresti
a invettive contro l’amore, meditazioni religiose a stramberie barocche
per la solita b. d. – ad es. B.d. che si spulcia (p. 132)
e B.d. che porta nelle mammelle una pezzetta con dentro i vermi da seta per
farli nascere (p. 177). Il tono muta tra il solenne e il burlesco, tra il tragico
e il ridanciano, tra il panegirico e la denuncia in una miscela di sonetti,
madrigali, canzoni, quartine, capitoli berneschi e forme più libere;
svariati testi risultano composti per essere musicati, ivi compresi
veri e propri drammi musicali. Sovente è la ricerca dell’arguzia e della
spiritosaggine a determinare l’esito di una data situazione; se le preferenze
lessicali rispondono a un’esigenza di massima espansione linguistica,
nell’armamentario retorico prevalgono il metaforismo e la
freddura – «Et in amor chi non vuol pianti, pianti» (Canzonetta di sdegno,
pp. 63-64). Si coglie la quintessenza della poetica abatiana, ben
radicata nell’estetica secentesca, in una strofe come la seguente, tratta
da una poesia in settenari e endecasillabi liberamente rimati intitolata
Che per haver fortuna in amore non v’è mezzo così efficace come il lodare i
difetti della dama (pp. 268-271). Il guizzo comico balza dall’accostamento
con il pittore Guercino, natio di Cento in Emilia:
Ma qual vanto darò
Quando la donna mia guercia è di vista?
Occhio torvo in amor tanto rattrista,
Che s’ardisco lodarlo, il torto havrò.
Darei con tutto ciò
Al suo lusco mirar simile fregio.
Questo è un gran privilegio,
Fillide mia, d’un amoroso guardo
Dove non minacciò, spingere il dardo,
Anzi a honor di Cupido
Così guercia, qual siete,
Voi più di cento femine valete,
Che fra i pittor di grido
Io nominar non sento
Guercin da uno, ma Guercin da Cento.
All’interno degli elementi che connotano le Postume emerge in primo
piano l’attenzione riservata al ramo austriaco degli Asburgo. Una
decina di poesie si occupano dei pregi, delle glorie e delle sciagure di
[ 3 ]
452 john butcher
Ferdinando III d’Austria (1608-1657), imperatore del Sacro Romano
Impero dal 1637 sino alla morte: Nel giorno natalitio di sua maestà cesarea
(pp. 114-116); In occasione d’una vittoria havuta dall’armi di sua maestà
cesarea contro i vaimaresi, alludendo al motto di sua maestà «Pietate et iustitia
» (p. 123); In persona d’un nano a sua maestà cesarea nel suo giorno natalitio
(p. 194: «Non ridete, o mortali, / S’hoggi il minor fra noi / Del
monarca maggior vanta i natali»); Alla maestà di Ferdinando Terzo (p.
372); Consolatione alla maestà di Ferdinando Terzo nella morte dell’imperatrice
sua moglie (p. 386: «Preme la sposa tua reggia migliore, / Ond’io
dirò, s’adolorato giaci, / Perché viva è Maria [l’imperatrice], Cesare
muore»); S’annuntiano a i moti di sua maestà cesarea vittoriosi progressi
contra il nemico (p. 429); Febo austriaco (pp. 469-478: un poemetto completo
di argomento e epigrafe ripresa dal prediletto Giovenale in cui le
muse, abbandonate da un Apollo innamorato di Dafne, scelgono di
consacrarsi ai plausi del più casto e munifico Ferdinando); Per l’honore
ricevuto da sua maestà cesarea della sua medaglia d’oro, mentre pensava partire
contro i nemici (p. 478, pendant ideale del poemetto precedente); Nel
giorno natalitio di sua maestà cesarea (p. 479). Non sarà fuori luogo rilevare
che la disponibilità palesata nei confronti del sovrano fu premiata
dal dono di un madrigale acrostico a elogio dell’autore composto
da niente meno che l’imperatore in persona, caso rimarchevole di capovolgimento
della dinamica encomiastica solitamente instaurata tra
principe e poeta cortigiano:
Antonio Abati, sei stupor del mondo,
Base ferma delle arti.
Al tuo sì gran valor cede giocondo
Teban poeta e ancor, per coronarti
In ciel, suo loco dà Phebo facondo7.
Sono da notarvi i rimandi a Pindaro («Teban poeta»), archetipo del
vate encomiatore, e a Febo, deità onnipresente tanto ai carmi abatiani
quanto all’ideologia barocca (indicativo l’esempio di Luigi XIV); sarebbe
ridondante insistere su quanto un sintagma quale «stupor del
mondo» rispecchi l’anima del seicentismo8.
7 A. Abati, Poesie postume, cit., p. 15 (pagina erroneamente numerata 17 nella
stampa).
8 U na discussione del madrigale di Ferdinando III in Michael Ritter, «Man
sieht der Sternen König glantzen». Der Kaiserhof im barocken Wien als Zentrum deutschitalienischer
Literaturbestrebungen (1653 bis 1718) am besonderen Beispiel der Libretto-
Dichtung, Vienna, Edition Praesens, 1999, p. 73.
[ 4 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 453
Altri versi tra le Postume celebrano Maria Anna d’Asburgo (1606-
1646) e Eleonora Gonzaga-Nevers (1630-1686), rispettivamente prima
e terza consorte di Ferdinando III: per Maria Anna sono gli Encomij
musicali all’imperatrice Maria d’Austria. Nel suo giorno natalitio nel mese
di agosto (pp. 233-234) e Mentre l’imperatrice d’Austria assisteva allo sparo
de’ fuochi del castello di Milano (p. 243: la sovrana vi è definita «ibera
Giunon»); per Eleonora Alla maestà della imperatrice Leonora. Si lodano le
sue christiane operationi nella morte di Cristo (p. 193). Alcuni componimenti
hanno per tema i figli nati dall’unione di Ferdinando III e Maria
Anna, sia Ferdinando IV (1633-1654) in S’essortano i cavalieri di corte a
lasciar lo scoruccio in occasione della coronatione del serenissimo arciduca
Ferdinando re di Boemia (p. 374: la suddetta incoronazione ebbe luogo a
Praga nel 1646) sia il più giovane Leopoldo I (1640-1705) in Nella tarda
assuntione all’impero di Leopoldo d’Austria, re di Boemia (p. 39) – il 1 agosto
1658 Leopoldo, dal 1656 re di Boemia, fu incoronato imperatore nel
duomo imperiale di S. Bartolomeo a Francoforte sul Meno.
Similmente i membri di quella linea minore degli Asburgo che dal
1564 al 1665 governava in autonomia la contea del Tirolo e l’Austria
Anteriore dalla residenza di Innsbruck sono innalzati agli onori: Claudia
de’ Medici (1604-1648), consorte del conte Leopoldo V e facente
funzione di reggente dal 1632 al 1646, compare in Alla sereniss. arciduchessa
d’Ispruch già principessa d’Urbino (p. 192); Ferdinando Carlo
d’Austria (1628-1662), figlio e successore di quest’ultima, in Nella venuta
alla Santa Casa di Loreto del serenissimo Ferdinando Carlo d’Austria
arciduca d’Ispruch (p. 167), in Sopra l’incerta venuta del serenissimo arciduca
d’Ispruch a Loreto. L’autore alla sua Musa (p. 181) e in Al serenissimo
arciduca d’Ispruch (p. 223: «Voi premete su l’Eno [il fiume Inn il quale
bagna Innsbruck] un regio trono, / Et io, servo d’Astrea, sul Tebro ho
il seggio, / E pur di voi nuovo idolatra io sono»). Ancora, per la sposa
di Ferdinando Carlo, Anna de’ Medici (1616-1676), Abati stendeva
una Riflessione poetica sopra sant’Anna, madre della Vergine, e la serenissima
arciduchessa Anna di Toscana nel viaggiare alla Vergine di Loreto (pp.
167-168).
Eppure tra tutte le personalità appartenenti per nascita alla dinastia
asburgica o strettamente legatevi tramite vincoli matrimoniali,
nessuna, nell’economia delle Postume, assume un rilievo paragonabile
a quello di Leopoldo Guglielmo d’Austria. L’arciduca nacque a Wiener
Neustadt nel 1614, ultimogenito dell’unione tra Ferdinando II e
Maria Anna di Baviera. Il padre era convinto assertore della dottrina
di primogenitura e ne conseguiva che il figlio venisse destinato alla
carriera ecclesiastica: già nel 1619 riceveva la tonsura, a breve distanza
[ 5 ]
454 john butcher
fu nominato vescovo di Passavia e di Strasburgo, dal 1641 si fregiava
del titolo di gran maestro dell’Ordine teutonico. Nonostante l’obbedienza
alla volontà paterna, il giovane avrebbe preferito una carriera
diversa da quella ecclesiastica, tantoché si sarà senz’altro felicitato
della nomina nel 1639 al comando supremo delle truppe imperiali
nell’ambito della guerra dei Trent’anni. Uomo militare capace e valoroso
ma privato dei necessari mezzi economici, avrebbe combattuto in
varie occasioni contro gli svedesi, subendo una sconfitta catastrofica
nel 1642 durante la seconda battaglia di Breitenfeld in Sassonia. Nel
1647 seguì un trasloco a Bruxelles come governatore dei Paesi bassi
spagnoli su incarico del sovrano Filippo IV di Spagna; vi rimase sino
al 1656, raccogliendo un’eccezionale galleria di dipinti immortalata da
una serie di quadri di David Teniers il Giovane; circa la metà della
raccolta sarebbe entrata a fare parte delle collezioni del Kunsthistorisches
Museum a Vienna. Nel 1662 si spense nella capitale austriaca9.
Una caratteristica determinante dell’indole di Leopoldo si individua
nella propensione alla cultura italiana, passione ereditata dal padre
ammiratore della musica veneziana, rafforzata dal legame affettuoso
con la colta matrigna Eleonora Gonzaga di Mantova con la quale
Ferdinando II era convolato in seconde nozze nel 1622, e approfondita
per il tramite dell’istruzione musicale e poetica impartita dal
maestro di cappella Giovanni Valentini. A Bruxelles Leopoldo fece
rappresentare nel 1650 la prima opera italiana, Ulisse all’isola di Circe di
Gioseffo Zamponi10; nella sua galleria figuravano oltre cinquecento
quadri italiani11 tra cui una santa Margherita di Raffaello. Ottimo conoscitore
della lingua italiana, la anteponeva allo spagnolo nella corrispondenza
con Filippo IV12 e disseminava di italianismi le lettere al
fratello Ferdinando III. Sempre a Bruxelles, istitutiva un’accademia
italiana che avrebbe poi proseguito la sua attività a Vienna: i due argomenti
di confronto documentati riguardano Se la bellezza dell’animo a
quella del corpo prevaglia (1 gennaio 1657) e Se la gelosia sia tormento o
condimento in amore (14 febbraio 1657)13.
9 Per la biografia, Nicola Avancini, Leopoldi Guilielmi, archiducis Austriae,
principis pace et bello inclyti, virtutes, Anversa, Ex officina Plantiniana Balthasaris
Moreti, 1665 e Renate Schreiber, «Ein galeria nach meinem humor». Erzherzog Leopold
Wilhelm, Vienna, Kunsthistorisches Museum / Milano, Skira, 2004.
10 Ivi, pp. 147-148.
11 Ivi, p. 122.
12 Ivi, p. 73.
13 M. Ritter, «Man sieht der Sternen König glantzen»…, cit., pp. 26 e 28 (sono
intervenuto sulla scrittura secondo i criteri esposti nella n. 6).
[ 6 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 455
Soprattutto l’arciduca licenziava alle stampe un’ampia raccolta di
versi intitolata Diporti del Crescente14, certamente una delle testimonianze
più impressionanti della fortuna della lingua e della cultura
italiane oltre i confini della penisola durante il Seicento. Alla dedica
indirizzata al fratello compositore Ferdinando III, in cui si esprime
l’augurio che vorrà musicare i componimenti messigli a disposizione,
fanno seguito poesie in onore del Crescente – nome accademico di
Leopoldo – in quanto poeta e guerriero, firmate dal Caliginoso, dal
Distillato (Raimondo Montecuccoli), dallo Sprezzato, dal Sitibondo e
dall’Errante. Il canzoniere vero e proprio si divide in quattro sezioni:
se le rime “morali” insistono sul topos della vanitas e sull’urgenza di
alzare gli occhi al cielo e a Dio, le “devote” esaltano l’amore inesauribile
dell’Onnipotente verso l’uomo, la nascita, la crocifissione e la misericordia
di Cristo e la figura di Maria, conforto dei peccatori: l’empatia
col clima controriformistico si lasica riconoscere nel vivo senso di
colpa e nella spinta a redimersi attraverso il pentimento. Le rime “heroiche”
lodano in primis Ferdinando III, ma ancora Maria Leopoldina
d’Asburgo, seconda moglie di quest’ultimo, il feldmaresciallo e letterato
Raimondo Montecuccoli, il tragediografo Prospero Bonarelli (entrambi
forniscono risposte per le rime), Maria Anna di Spagna e Eleonora
Gonzaga-Nevers. Nell’abbondante sezione delle “amorose” infine
pare intuire, a prescindere dagli esercizi di composizione e dai
luoghi comuni del genere (Clori sdegnosa, la cecità dell’amore, gli
strali vibrati dai bei rai, l’ambientazione pastorale), l’impatto di un’attrazione
reale nei confronti del sesso femminile, tracce di ardori e tormenti
sperimentati sulla propria pelle. Tra numerosi madrigali, canzonette
e una ventina di sonetti15, l’arciduca si conferma nei Diporti
aggiornato sulle ultime novità della lirica italiana tra Gabriello Chiabrera
e Girolamo Preti; versificatore non meno modesto che ambizioso,
di rado geniale come nella canzonetta Pupillette già v’intendo…16,
14 [Leopoldo Guglielmo d’Austria], Diporti del Crescente. Divisi in rime morali,
devote, heroiche, amorose, Bruxelles, Giov. Mommartio, 1656.
15 U n’utile tabella che dà conto delle forme adottate (madrigale, canzonetta,
sonetto, idillio, oratorio) nelle singole sezioni e nel libro nel suo complesso si trova
a p. 164 di Alessandro Metlica, Il canzoniere di un arciduca. I “Diporti” (1656) di
Leopoldo Guglielmo d’Austria, in Canzonieri in transito. Lasciti petrarcheschi e nuovi
archetipi letterari tra Cinque e Seicento, a cura di Alessandro Metlica e Franco
Tomasi, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 149-177 (rimane tuttavia poco condivisibile
l’entusiasmo per i Diporti sostenuto da Metlica, ad es. a p. 155).
16 [Leopoldo Guglielmo d’Austria], Diporti del Crescente, cit., p. 182.
[ 7 ]
456 john butcher
mirava a una cantabilità leggiadra che doveva andare incontro al favore
dell’imperatore.
In quanto arciduca, vescovo e gran maestro dell’Ordine teutonico,
Leopoldo poteva permettersi una corte che sarebbe arrivata a contare
fino a 150 persone circa17: di fronte alla sopradescritta inclinazione alla
lirica italiana appare coerente la decisione di associare all’Hofstaat di
consiglieri segreti, camerlenghi, segretari, medici, pittori, scultori, nani
e buffoni, anche la figura di un poeta di madrelingua italiana. A
motivazioni di interesse strettamente personale si affiancavano calcoli
di opportunità pubblica e dinastica: in un secolo in cui le monarchie
europee investivano larga parte degli introiti nell’autorappresentazione
e autocelebrazione, versando somme considerevoli per l’allestimento
di intrattenimenti teatrali e musicali e per la realizzazione di
apparati sontuosi, un bravo poeta di corte aveva la capacità di svolgere
una valida operazione di propaganda nel cantare i fasti del proprio
signore e di coloro che lo circondavano. Analogamente a un ritratto di
un Rubens o di un Velázquez, un sonetto o un madrigale di buona
tornitura incorporava il potenziale di consolidare la reputazione di un
principe sia tra la nobiltà di corte che presso un pubblico più vasto
tramite la circolazione manoscritta e, nel migliore dei casi, a stampa.
La scelta di un poeta di lingua italiana risultava particolarmente adeguata
a tali fini per la diffusa conoscenza dell’italiano presso la corte
viennese18 e nelle altre sedi di potere europee, per il legame implicito
con Roma e quindi con il motore della Controriforma, e, non ultimo,
per il prestigio di cui godeva la poesia italiana mediante la fortuna
internazionale di Petrarca, Ariosto, Guarini, Tasso e Marino – una
scrittura in lingua tedesca invece avrebbe riscosso una considerazione
assai minore nei territori asburgici e sarebbe rimasta indecifrabile fuori
dei confini del Sacro Romano Impero. Così già nel 1642 il fiorentino
Orazio Persiani si recava come poeta di corte presso l’arciduca grazie
alla mediazione dell’agente a Venezia Giacinto Cornacchioli19. Antonio
Abati sarebbe stato il suo immediato successore in riva al Danubio.
Questi aveva già conquistato una certa notorietà con la pubblicazione
di opere quali Il forno (1632) e il Ragguaglio di Parnaso contra i
poetastri e partegiani delle nationi (1636). Vagare per l’Italia e l’Europa in
cerca di protezioni era allora la sorte di una schiera di letterati italiani
17 R. Schreiber, «Ein galeria nach meinem humor»…, cit., p. 21, n. 34.
18 Alfred Noe, Die italienische Literatur in Österreich. Teil I. Von den Anfängen bis
1797, Vienna-Colonia-Weimar, Böhlau, 2011, p. 11.
19 R. Schreiber, «Ein galeria nach meinem humor»…, cit., pp. 131 e 141, n. 10.
[ 8 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 457
e in tal senso Abati non faceva eccezione: il trasloco a Vienna costitutiva
un’altra tappa in una vita di peregrinazioni alla ricerca di un’accettabile
sistemazione: «E per toccare un scudo / Ne la gratia d’un
grande, oh quanto sudo!», avrebbe dichiarato ne Le corti son simili alle
montagne (pp. 274-275) Il ragionamento rispetto all’impegnativo spostamento
in Austria doveva corrispondere a quello di Giovenale, secondo
un ben noto passo sfruttato quale epigrafe al già ricordato Febo
austriaco: «Et spes et ratio studiorum in Caesare tantum. / Solus enim
tristes hac tempestate Camenas / Respexit» (VII, 1-3). Unicamente lo
scavo nei fondi archivistici conservati in Italia, a Vienna e a Bruxelles
potrà finalmente fare piena luce sulla dinamica dei rapporti instaurati
tra Abati e l’arciduca: purtroppo a Vienna i libri di pagamento di Leopoldo
coprono soltanto i periodi 1646 e 1648-1652; a Bruxelles invece
il libro di pagamento ufficiale spagnolo si ferma al cinquennio 1647-
5220. Per il 1646 si registra il versamento ad Abati di 210 fl. 36 kr.;
nell’ottobre 1647 gli viene liquidato il viaggio dall’Italia; nel 1651 un
mercante veneziano a Vienna intascava per lui la somma di 366 fl. 4021.
È infine necessario indicare come il sodale Picotti limita la durata del
servizio in qualità di poeta presso l’arciduca a un quadriennio, a quanto
pare anteriore all’uscita delle Frascherie nel 165122.
L’itinerario verso il nord doveva avere inizio dalla Lombardia e
più precisamente dalla rocca sforzesca di Soncino di proprietà degli
Stampa23 in base a un madrigale dedicato al conte Diego Gera e dotato
di un titolo che si direbbe umoristicamente verboso: Mentre l’autore
si trovava alloggiato in un castello de’ signori Stampa nello Stato di Milano
gli sopraggiunse una febre, in tempo massime che attendeva aiuti di costa
d’Alemagna per passarsene al servitio del serenissimo arciduca (p. 390). Tema
dei versi, il quale riaffiorerà più volte nei testi concernenti Leopoldo,
è l’attesa preoccupata della materializzazione di denaro; la pointe
finale dipende da una freddura allusiva alla dieta imperiale, al ben
noto Reichstag:
Ne la soncina rocca
Dove disgratia e cortesia m’assedia,
Diego, ho patita una febrile inedia.
O adesso sì che giungeranno a meta
D’Alemagna i denari,
20 Ivi, p. 163.
21 Ivi, p. 141, nn. 14 e 15.
22 C. Picotti, Ai cortesi lettori, in A. Abati, Poesie postume, cit., pp. 9-10.
23 Cfr. Brindisi al signor conte Hermes Stampa poeta (p. 426).
[ 9 ]
458 john butcher
Mentre si sa che gli alemanni affari
Sogliono terminar con la dieta.
Il viaggio di Abati alla volta della corte di Leopoldo avrà forse avuto
luogo nell’estate del 1643, mentre il vescovo si tratteneva a Passavia
– la prima poesia rivoltagli nella seconda persona singolare, una consolazione
per la morte della sorella, risale alla primavera del 1644 (cfr.
sotto) –, e avrà eventualmente previsto l’attraversamento del passo
del Brennero24. A quei tempi le aree geografiche rette dagli Asburgo
annoveravano tre città principali, Vienna, Praga e Breslavia, di cui la
prima costituiva la Residenzstadt e contava una popolazione di 50.000
cittadini all’incirca; l’agglomerato dei territori austriaci, boemi e ungheresi
si faceva forte di alcuni milioni di abitanti. Se l’ascesa della
Monarchia Austriaca a superpotenza europea sarebbe giunta soltanto
con la conquista di tutta l’Ungheria nel 1699, la famiglia regnante –
per la quale le terre ereditarie ormai primeggiavano rispetto alla guida
del Sacro Romano Impero – era riuscita, dalla vittoria della Montagna
Bianca (1620) in poi, a imporsi con forza contro le tendenze centrifughe
delle aristocrazie locali. Il programma di ricattolicizzazione
voluto da Ferdinando II in linea con il principio cuius regio, eius religio
si trovava ormai in uno stadio avanzato, ma di riflesso le città e le
campagne avevano subito devastazioni durante la guerra dei Trent’anni
e il popolo e i beni finanziari si erano ormai ridotti allo stremo, il che
doveva inevitabilmente raffreddare le speranze di lauti guadagni da
parte del neoarrivato poeta. Questi avrà preso alloggio nei luoghi adibiti
a ospitare il seguito dell’arciduca e in cambio di un salario avrà
avuto l’onore e l’onere di accompagnare Leopoldo nei suoi vari spostamenti,
offrendogli compagnia, conversazione brillante in italiano e
opere poetiche stese a seconda delle circostanze dell’ora. D’altronde
non v’è motivo per supporre che egli abbia mai conseguito un alto livello
di conoscenza di lingua tedesca, il quale da parte sua non sarebbe
stato né necessario né con ogni probabilità ben gradito alla famiglia
reale, alle persone di fiducia che la frequentavano e ai colti, austriaci o
meno, che partecipavano alla vita movimentata di corte.
Una primizia della collaborazione arciducale reca il titolo La musa
dell’autore nell’ingresso al servizio dell’arciduca Leopoldo d’Austria (pp. 55-
24 Per i viaggiatori dell’età moderna che valicavano il Brennero, AA. VV., Der
Weg in den Süden / Attraverso le Alpi. Reisen durch Tirol von Dürer bis Heine / Appunti
di viaggio da Dürer a Heine, 2.8.98 – 6.11.98, [Meran/Merano, MEDUS, 1998] (catalogo
di una mostra tenuta a Castel Tirolo).
[ 10 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 459
57), la cui contenuto esplicita sin dalla prima strofe la missione celebrativa
della quale il poeta si sentiva investito – nel brano che segue
Libetra è una città ai piedi del monte Olimpo in Pieria, regione nella
quale vennero al mondo le Muse; l’Ippocrene è la sorgente generata
dallo zoccolo del cavallo Pegaso sull’Elicona (Ἱπποκρήνη), mentre per
l’Istro nel significato del Danubio, cfr. almeno il Tasso della Liberata I,
41, 7; il Caïstro invece è un fiume della Lidia, regione conosciuta per
l’abbondanza d’oro nonché per il re Creso (il toponimo viene qui adoperato
anche per la facondia della rima con Istro):
Da la sacra Libetra,
Fatto il mio suon ministro
De’ vostri honor [di Leopoldo], con l’inesperta cetra
Men vengo io qui, dove Hippocrene è l’Istro.
Il piacer di Caïstro,
Augusto heroe, con regia pompa io muto:
Ecco a darvi tributo
Febo, che meco vien, l’arte mi mostra.
Ecco lieto io rifiuto
Tutti i lumi del sol per l’ombra vostra.
Nell’esercizio della cortigianeria una valenza speciale assumeva il
compleanno del principe. Leopoldo era nato il 5 gennaio 1614 alle ore
10:45 di sera; tuttavia si era sempre creduto che la data del compleanno
ricorresse il 6 gennaio25. In un madrigale Abati istituiva un parallelo
tra l’adorazione cristiana dei Re Magi e quella dell’arciduca, resa
quest’ultima incoscientemente mediante la coincidenza della data di
nascita. È legittimo immaginare che componimenti simili venissero
recitati ad alta voce dall’autore al cospetto del festeggiato e della cerchia
di sostenitori; modello prevalente del genere panegirico doveva
essere il Tasso cosiddetto “minore”:
In regio dì regio signor nascete;
E di maggior natale,
Benché picciol di membra, hoggi voi siete
Fra i Re già grandi, adorator rivale.
Privilegio è divino.
Essi adoran col senno e voi bambino26.
25 R. Schreiber, «Ein galeria nach meinem humor»…, cit., pp. 11 e 20, n. 2.
26 All’altezza serenissima dell’arciduca nella festa de’ tre Magi. Giorno natalitio di s.
altezza (p. 181). Cfr. ancora, immediatamente successivo, Nel medesimo soggetto (p.
182).
[ 11 ]
460 john butcher
Tale madrigale celebrativo, analogamente ad altri non meno concettosi
quale Che le pompe terrene del serenissimo arciduca lodevolmente
discordano dalle miserie d’un Christo nato (p. 421: «Ah del nato Giesù
tempio già sei [Leopoldo], / Ond’è inegual l’esempio, / Che se povero
è un Dio, splendido è il tempio»), si inserisce in quella lunga e illustre
tradizione di poesia encomiastica italiana a maggiore gloria degli
Asburgo. Basti citare qui il Carmen in laudem Friderici Caesaris di Enea
Silvio Piccolomini (vero fondatore della letteratura italo-austriaca), gli
Encomiastica ad divos caes. Fredericum et Maximilianum regem Roman. di
Giovanni Stefano Emiliano, un Epithalamion di Pietro Bonomo per le
nozze imperiali del 1494 tra Massimiliano I e Bianca Maria Sforza, il
Carmen Latinum in mortem Friderici III imperatoris di Cornelio Paolo
Amalteo, l’Ad Carolum V imperatorem de coronatione di Girolamo Balbi
Accellini, l’epopea Austrias del perugino Riccardo Bartolini (in quanto
poeta umbro in Austria, predecessore ideale di Abati) e un altro poema
epico dal titolo La genealogia della gloriosissima casa d’Austria di Gieronimo
Bossi27.
Sempre a tale filone appartiene il genetliaco polimetrico I numi tutelari.
Componimento da musica nel giorno natalitio del serenissimo arciduca
Leopoldo Guglielmo d’Austria (pp. 409-419), da considerare l’opera più
ambiziosa compiuta da Abati a elogio del datore di lavoro. Alla nascita
di Leopoldo i patrizi della reggia esultavano; cresceva l’infante, e
Marte, Giove e Minerva elargivano i donativi di ardore, pietà e sapere;
più tardi Venere avrebbe fatto di tutto perché si innamorasse, ma il
casto giovanetto, già dedito alla vocazione ecclesiastica, resisteva alla
tentazione28; prendono la parola infine Diana, Apollo e un coro apollineo
consistente in un soprano, un tenore, un alto e un basso. Non è
dato conoscere se il poemetto in oggetto fu mai musicato e cantato in
pubblico. Di seguito la strofe finale ruotante intorno alla passione arciducale
per la caccia e per la musica, entrambe maestre di vita:
Un Leopoldo pudico
Ch’alto splendore a queste piaggie rende
E con ragione amico
D’una pudica dea, d’un dio che splende;
Leopoldo sol ne’ musici conforti
Pensa a vita divina,
27 A. Noe, Die italienische Literatur in Österreich…, cit., passim.
28 Si narra che da giovane Leopoldo avrebbe provato del tenero per una dama
di corte della sua matrigna Eleonora Gonzaga: R. Schreiber, «Ein galeria nach meinem
humor»…, cit., pp. 34 e 36.
[ 12 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 461
Ne la strage ferina
Pensa a l’humane morti,
E contempla immortale e moribondo
Nel canto il cielo e ne la caccia il mondo.
In cambio di incensamenti dell’estensione e complessità dei Numi
tutelari, la cui composizione avrà richiesto un investimento di tempo
non indifferente, era ragionevole attendersi una gratifica congrua; del
resto, più che per motivi di fama personale, è probabile che sia stata
soprattutto la prospettiva di un compenso liberale a persuadere Abati
dell’opportunità di scambiare le corti italiane con la Hofburg viennese
e di aggregarsi al seguito dell’arciduca. Lo splendore del mecenatismo
asburgico era proverbiale e della Casa d’Austria Leopoldo Guglielmo
costitutiva uno dei membri più in vista e meglio disposti nei confronti
delle lettere e delle arti. Tuttavia le fonti di reddito dell’arciduca avrebbero
pagato le spese delle calamità della guerra dei Trent’anni, mentre
a Bruxelles – anche dopo la conclusione delle ostilità nel Sacro Romano
Impero tramite la pace di Vestfalia – la situazione economica di
Leopoldo sarebbe rimasta tutt’altro che rosea, obbligato com’era a fare
i conti con il proseguirsi del conflitto tra Spagna e Francia; in particolare,
durante il governatorato belga le risorse riservate alla cultura dovevano
essere largamente assorbite dal collezionismo pittorico. Tutto
ciò va a spiegare la genesi di sollecitazioni di regalia quali L’autore chiede
all’arciduca Leopoldo d’Austria denari nella festa de’ tre Re, giorno natalitio
di sua altezza (p. 48) e Non può far versi perché il serenissimo arciduca
non manda denari (p. 141). Sull’argomento giova riportare una terzina
faceta tratta dal sonetto Perché i principi facciano sempre tardi le gratie (p.
132): «Qui cito dat, bis dat; ma perché molte / Spese fan l’huomo avaro,
il potentato / Dà tardi a noi per non donar due volte» (al quale proposito
viene naturale richiamare la settima satira giovenaliana: «Nam si
Pieria quadrans tibi nullus in umbra / Ostendatur», vv. 8-9)29.
Accanto alle ristrettezze economiche, l’arciduca doveva affrontare
alcuni gravi lutti familiari. Un rapporto tenero lo legava alla sorella
Cecilia Renata (1611-1644), amante del teatro con una ricca vena umoristica
che chiamava il fratello affettuosamente «mein auserwählts
Pfafl»30, vale a dire ‘il mio pretaccino scelto’. Convolata a nozze nel
29 Ciononostante non c’è motivo per sospettare che Abati abbia abbondonato
Leopoldo a causa della sua taccagneria, come invece vorrebbe R. Zapperi, Abati,
Antonio, cit., p. 7.
30 R. Schreiber, «Ein galeria nach meinem humor»…, cit., p. 14.
[ 13 ]
462 john butcher
1637 con Ladislao IV re di Polonia, passava a migliore vita il 24 marzo
1644 in seguito al parto di un bambino morto. Per la tragedia il parente
volle comporre in italiano il sonetto Nella morte della regina di Polonia
Cecilia Renata arcidsa d’Austria: «Tal maestà fra noi non fu già vista, / In
terra lascia il soglio e il regio manto, / E l’impero de regni in cielo
acquista»31. È dubbio che Abati abbia mai fatto la conoscenza della
regina Cecilia; le ottave “eroiche” della Consolatione all’altezza serenissima
dell’arciduca. Per la morte della serenissima Cecilia Renata d’Austria
regina di Polonia, sua sorella (pp. 210-212) miravano piuttosto a ingraziarsi
il protettore delle arti e a entrare nei suoi affetti. La morte non si
ferma davanti a nessuno, persino di fronte alle teste coronate; il trapasso
di Cecilia assomiglia a un frutto che precipita da un ramo mosso
dalla brezza, immagine squisitamente barocca:
Signor [Leopoldo], dal regio tuo tronco agitato
Ecco un frutto caduto in un momento;
Ma qual stupor? Cadono i frutti al fiato,
E non è nostra vita altro che un vento.
Colpo antico è del ciel, colpa è del fato
Gioie troncar, rinovellar tormento;
Tu’l sai, che in ben’oprar l’hore dispensi,
E non degno di morte a morte pensi.
Presto altre nubi si addensavano all’orizzonte, la furia bellica si
appressava a Vienna: «Fin su l’austriache mura / Il ghiaccio de la Svetia
attacca fuoco», recita Contro la guerra (pp. 96-99). Per la Domus
Austriae il teatro bellico si trasformava in una tragedia: la sconfitta
contro gli svedesi alla battaglia di Jankov in Boemia, il 6 marzo 1645,
metteva a dura prova Ferdinando III; l’imperatore e suo fratello si trovarono
costretti a scappare in fuga dalla città di Praga; già nell’aprile
dello stesso anno gli svedesi ponevano l’assedio a Vienna, cosicché
nell’emergenza il 1 maggio Leopoldo otteneva per la seconda volta il
comando supremo delle forze dell’Impero. In una tale luce andrebbe
interpretato il sonetto S’esorta l’a. serenissima dell’arciduca Leopoldo a ripigliar
l’armi contra i nemici, e se le annunciano vittorie (p. 116), per cui se
un tempo il nemico prevaleva, ora stramazzerà tremando. Si auspica
che il generalissimo lo vada a raggiungere nell’aldilà con un buon ritardo:
«Sol questo è il mal. Con bellicoso telo / Presto da te [Leopoldo]
spirti infernal fian vinti, / Ma tardi andrai per trionfarne in cielo».
Sempre al comando supremo sarebbe da ricondurre il madrigale
31 [Leopoldo Guglielmo d’Austria], Diporti del Crescente, cit., p. 85.
[ 14 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 463
Nel giorno dell’Assuntione l’altezza serenissima dell’arciduca prega la Vergine
a proteggere le sue arme contra il nemico (p. 263, per errore segnata 237
nella stampa): «Fa [Maria Vergine] che ’l nemico homai, / Da la mia
giusta spada, / Mentre al ciel tu salisci, a terra cada», vien fatto dire
all’arciduca in un abile testo di propaganda forse pensato per la distribuzione
tra gli ufficiali e i soldati dell’armata imperiale. Precisamente
attraverso la loro profonda devozione alla fede cattolica, del resto, gli
Asburgo amavano distinguersi dalle altre monarchie europee e in particolare
dalla potenza in crescita dei Borboni di Francia. Alla gloire e
alla grandeur dei rivali più a occidente si contrapponeva la Pietas Austriaca32.
Soprattutto si collocava in primo piano il culto della Vergine,
fenomeno religioso culminante nell’elevazione di Maria a signora e
patrona d’Austria su ordine di Ferdinando III nel 1647.
Due anni prima, durante la difesa di Vienna contro gli svedesi, una
palla avrebbe colpito il tetto della tenda dove Leopoldo era raccolto in
preghiera a S. Brigida di Svezia, senza tuttavia ferirlo33, altro spunto
per un elogio propagandistico in chiave religiosa, All’altezza serenissima
dell’arciduca Leopoldo in occasione della cannonata che gli diè vicino senza
nocumento (p. 195). Da evidenziare il caratteristico gioco di parole
all’ultimo verso:
Acceso globo a i danni tuoi fu spinto,
Signor, né ti ferio,
Perché una torre è Dio
E tu di lui nel guerreggiar sei cinto.
Tua bontade a lo stral tolse il vigore,
Ch’ove colpa non vive il colpo muore.
In una lettera al fratello Ferdinando III del giugno 1646 Leopoldo
avvertiva: «Dem poeten ist so angst, so daß er pald in die hosen thuet.
Es wird ein groß operation darzue geheren, ihn hirher zue lokhen».
Quindi, nell’agosto dello stesso anno, scriveva: «der poet hebt schon
an, auff zue reimen. Ich schick etwas, was er mir in Fulda gemacht hat,
seint aber nit pes. Es khumen auch 3 madrigal von mir»34. Il poeta im-
32 Cfr. Thomas Winkelbauer, Ständefreiheit und Fürstenmacht. Länder und Untertanen
des Hauses Habsburg im konfessionellen Zeitalter, parte II, Vienna, Ueberreuter,
2003, p. 185. Eloquente al riguardo il titolo del già menzionato sonetto In occasione
d’una vittoria havuta dall’armi di sua maestà cesarea contro i vaimaresi, alludendo al
motto di sua maestà «Pietate et iustitia».
33 R. Schreiber, «Ein galeria nach meinem humor»…, cit., p. 62.
34 Ivi, p. 141, nn. 11 e 12.
[ 15 ]
464 john butcher
paurito dalle azioni belliche non è – come sostiene Renate Schreiber
nella sua pur autorevole biografia35 – Orazio Persiani bensì Abati; i tre
Madrigali fatti in fretta, more militari, acciò l’Abati affretti il suo camino [sic]
del principe conservati manoscritti senza data a Stoccolma e riprodotti
nel volume di Schreiber con trascrizione a fronte36 saranno i 3 madrigal
a cui faceva cenno Leopoldo nel brano di sopra37. Il terzo di essi
documenta eloquentemente il peso che fattori conviviali ed economici
assumevano nella relazione stabilita tra l’Erzherzog e il suo poeta:
Al nettare soave
Tra guerrieri nel campo,
Alla grata moneta
T’invitto [sic], o gran poeta [Abati].
Deh vieni, e non più pave
Il martiale lampo.
Che di Bacco il liquor, la pioggia d’oro,
Alla tua borsa e al cuor daran ristoro.
Abati da parte sua non sentiva alcuna inclinazione a partire per
estenuanti campagne belliche e a guadagnarsi gli allori militari accanto
a un signore di guerra. In All’altezza serenissima dell’arciduca che haveva
chiamato l’autore alla guerra (p. 387) si interrogava su quanto la sua
arte poetica potesse effettivamente servire al fronte: «E quando
havvran vantaggio / Sovra i fatti guerrieri i detti miei, / Se non movo
in cantar carmi circei?». Similmente in L’autore nel partirsi dall’armata a
sua altezza serenissima (p. 374) egli non esita ad allontanarsi dal datore
di lavoro, precisando che la sua è una fuga da Marte piuttosto che da
Giove, vale a dire Leopoldo. Da lì e dalle altre testimonianze precedentemente
riportate emerge un quadro che discorda dallo stereotipo
del cortigiano servile obbligato a stare agli ordini del principe: è evidente
al contrario che Abati godesse di un ampio margine di libertà e
che un grado di dissenso venisse tollerato nei rapporti con l’arciduca.
Questi come comandante supremo delle truppe imperiali doveva
far fronte a gravi insufficienze economiche e a un frangente che non
consentiva di illudersi su un esito positivo della guerra in corso. I quinari,
settenari ed endecasillabi di Clio. Panegirico a s. a. serenissima in
occasione della vittoriosa fuga data dal suo imperial comando a i nemici di là
35 Ivi, p. 131.
36 Ivi, pp. 132-133 e 141, n. 13 (ms. Stoccolma, Riksarkiv (223)).
37 Già me lo segnalava Herbert Seifert in una comunicazione privata del 19
dicembre 2017.
[ 16 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 465
dal Reno (pp. 378-383) commemorano ampollosamente un momento
tra i più felici, a proposito del quale tuttavia non è stato sinora possibile
rintracciare un corollario di notizie documentarie. Clio, musa della
storia, informa Leopoldo che ora i fati gli arridono, lo schernitore
francese è vinto di scherno; «Al nome tuo più, ch’al tuonar metalli, /
Di rapace potenza / S’allontanaro oltre le selve i falli»; il nemico omicida
si è rivelato un codardo, l’arciduca si è coperto di gloria.
Vissuto nel “secolo del ferro”, perseguitato dalla cattiva sorte e da
tribolazioni costanti, ben meritava Leopoldo la dedica dell’oratorio
abatiano Il Giobbe (pp. 442-457). Il governatorato dei Paesi bassi spagnoli
comportava perlomeno l’opportunità di cambiare aria, sebbene
le condizioni del territorio dopo anni di conflitto fossero tali da destare
inquietudine finanche nel principe più intrepido e l’ultima parola
nell’amministrazione spettasse sempre a Madrid. Il trasferimento a
Bruxelles occasionava un nuovo peana, La Ragione appare in sogno alla
altezza serenissima dell’arciduca Leopoldo, e lo consiglia ad andar in Fiandra
(pp. 117-120), databile al principio del 1647. Ora due deità terrestri – la
Ragione avverte Leopoldo – dovranno separarsi; Ferdinando III resterà
sul Danubio a combattere contro gli svedesi, mentre il fratello prenderà
dimora nei pressi della Mosa a combattere le armate della Francia
e delle Province Unite, pronto a emulare le prodezze di Apollo già
trionfatore del drago Pitone:
Si dividano i numi in doppia parte.
Se propitio il suo cielo
Volge al Latio un Saturno, a Tracia un Marte,
Un Giove a Creta e un Apollo a Delo,
Resti, resti Fernando,
De l’Austria il Giove, a fulminar col brando
Su le rive de l’Istro i fier Giganti,
E tu [Leopoldo], c’hai teco i vanti
D’un Febo armato in militar tenzoni,
Vanne a la Mosa a saettar Pithoni.
Del proprio viaggio per raggiungere lo Statthalter, Abati lasciò una
descrizione colorita in terzine, modellata sul collaudato Orazio Serm.
I, 5 con orlature ariostesche, Compendio de’ patimenti dell’autore nel suo
viaggio di Fiandra (pp. 213-215): «Tutto questo io patij per un padrone
[Leopoldo] / A cui convien che tributario io venga». Da ricollegare
alla permanenza belga sono altresì le ottave di S’invita l’altezza serenissima
dell’arciduca Leopoldo dall’armata alla solenne festa del Miracolo del
Sacramento in Bruselles (pp. 202-203) e i due madrigali A i contignosi
[ 17 ]
466 john butcher
musici dell’arciduca Leopoldo, che contro le preghiere di tutti non volsero
cantare in Bruselles nella festa del Santissimo Sacramento (p. 213) e A musici
dell’arciduca Leopoldo, che con loro perdita vennero in quattro ad assaltar
l’autore con le spade in Brusselles (p. 63 bis) – prevedibile la freddura
relativa alla notazione musicale: «Mentre con vostro duolo [dei musici]
/ Far seppi a quattro una battuta io solo». All’elenco si potrebbe
forse appendere Per l’imagine da stamparsi dell’altezza serenissima dell’arciduca
(p. 189), presumibilmente steso per essere riprodotto accanto a
un ritratto.
Attraverso mezza Europa Abati aveva seguito il principe asburgico,
tollerando ogni maniera di scomodità e mettendo la propria vita a
repentaglio di fronte ai pericoli della guerra dei Trent’anni. Durante il
periodo di servizio quadriennale aveva svolto con tatto, acume e originalità
il compito che gli era stato affidato di estollere l’«aquila
augusta»38, realizzando un corpus encomiastico di dimensioni riguardevoli
ben allineato ai precetti metaforici e concettosi della poetica
barocca allora in voga: accanto ai testi sinora citati andrebbero nominati
a tal proposito Nella venuta alla Santa Casa dell’arciduca Leopoldo
d’Austria (pp. 93-94) e All’altezza serenissima dell’arciduca, che haveva richiamato
l’autore d’Italia al suo servitio (p. 373). Nella sua attività letteraria,
tesa alla rappresentazione e all’ulteriore promozione della dinastia
regnante, egli diede un contributo per ora difficilmente valutabile
nelle conseguenze ma senz’altro efficace per l’immagine pubblica di
una delle massime potenze europee, fornendo un nutrito gruppo di
componimenti propagandistici in grado di rafforzare la statura politica
dell’arciduca, dell’imperatore e dell’intero meccanismo di potere
installato sulle rive del Danubio ed esteso ad altre località ben più distanti
nel Sacro Romano Impero e altrove.
Ciononostante Abati mal sopportava i vincoli e gli intrighi di corte,
troppo sognatore e amante di libertà qual era. Ai dettami della reggia
preferiva un’esistenza autonoma, specie dal momento che le gravi circostanze
economiche in cui versava Leopoldo non consentivano di
soddisfare del tutto le aspettative di rimunerazione addotte39. Un soggiorno
prolungato a Vienna come quello che nel secolo successivo
38 Al signor principe Matthias di Toscana, nella venuta dell’autore dalla corte del serenissimo
arciduca Leopoldo (p. 183).
39 Oltre a quanto già richiamato, cfr. Ricorda l’autore al serenissimo arciduca Leopoldo
i trecento scudi, che gli haveva promessi dopo l’elezione all’imperio del re d’Ungheria
(p. 133) e In occasione della peste d’Italia chiede all’arciducha [sic] Leopoldo alcuni denari
promessili (pp. 223-224).
[ 18 ]
a. abati al servizio dell’arciduca leopoldo guglielmo d’austria 467
avrebbero compiuto i poeti cesarei Apostolo Zeno (1718-1729) e Pietro
Metastasio (1730-1782) non gli sarebbe stato congeniale. In tal senso
l’approdo finale al podere detto “La Stelletta” a Senigallia rappresentava
da ogni angolazione un’emancipazione e un incremento di qualità
di vita.
John Butcher
Centro Studi «Mario Pancrazi», Sansepolcro (AR)
[ 19 ]

Giulia Tellini
Le amiche rivali: la scrittura teatrale
di Angelica Palli
[…] il nostro cuore à la chiave delle passioni. Ohimé!
Indarno talvolta vogliamo far credere agli altri, ed anche
ce lo immaginiamo noi medesimi, che la virtù le ha
superate!… esse non si assopiscono qualche momento se
non per tiranneggiarci poscia con più violenza!
(Angelica Palli, Le amiche rivali, II, v)
Angelica Palli è figura di spicco nella Livorno dell’Ottocento: improvvisatrice
estemporanea negli anni della giovinezza, animatrice di salotti e giornalista,
autrice di commedie e drammi, di romanzi, racconti e poesie. Le amiche rivali è
un suo dramma che, assegnabile al 1830 e lasciato inedito manoscritto nel Fondo
Palli della Biblioteca Labronica di Livorno, è stato pubblicato per la prima
volta nel 2016. Il saggio analizza il dramma dal punto di vista stilistico-tematico,
sottolineandone la modernità e l’originalità, soprattutto per quanto riguarda
le dinamiche dei rapporti fra i sessi.

Angelica Palli was a major personality in nineteenth-century Livorno. She was
an extemporizer as a young lady, a society woman, a journalist, as well as being
the author of comedies and dramas, novels, short stories and poems. Her drama
Le amiche rivali, written probably in 1830 and left unpublished in the Fondo
Palli of Livorno’s Biblioteca Labronica, was printed for the first time in 2016.
This essay offers a stylistic-thematic analysis of the drama, showing both its
modernity and originality, especially as concerns the relationship between the
two sexes.
1. Testi e contesti
Il tratto distintivo che maggiormente caratterizza la produzione
teatrale nell’Italia di primo Ottocento è la straordinaria varietà dei ge-
Autore: Università di Firenze; assegnista di ricerca; giulia.tellini@unifi.it
470 giulia tellini
neri: nel novero dei testi rappresentati e pubblicati dal 1796 alla Rivoluzione
di Luglio compaiono tragedie d’impostazione alfieriana e tragedie
urbane o domestiche1 su modelli francesi e tedeschi, azioni allegoriche,
drammi storici e romanzeschi, commedie dell’arte e commedie
di carattere sul modello goldoniano, melodrammi, e «fiabe con
maschere»2. A sé sta la tragedia giacobina, che teatralizza le vicende
della politica contemporanea (da Salfi a Gioia, dai due Pindemonte a
Monti).
Fra i nomi all’epoca più popolari, nella produzione di largo consumo,
possiamo ricordare il piemontese Camillo Federici, che dà alle
stampe più di settanta lavori teatrali, fra drammi spettacolosi e commedie
lacrimose; il genovese Giuseppe Zanoia e il romano Giovanni
Gherardo De Rossi, particolarmente attivi con commedie alla maniera
goldoniana; il veneziano Francesco Antonio Avelloni, detto il Poetino,
autore, attore e capocomico, che non lascia intentata nessuna forma
teatrale, mettendosi alla prova con commedie, allegorie, drammi lacrimosi
e romanzeschi, tragedie, fiabe e azioni drammatiche, per un ammontare
complessivo (con ritmi quasi da catena di montaggio…) di
circa seicento opere; il padovano Antonio Simeone Sogrofi, che firma
commedie goldoneggianti, oltre a farse, drammi storici, tragedie domestiche;
il veneziano Giuseppe Foppa, applaudito per le commedie,
le tragedie, le farse, le fiabe, redatte e pubblicate con generosa prolificità;
e infine il torinese Stanislao Marchisio, capocomico dell’Accademia
filodrammatica della sua città, pronto a mettere in scena senza risparmio
commedie di tipo goldoniano e tragedie d’impianto alfieriano.
Su un piano più alto, si colloca il romano Giovanni Giraud, autore
di drammi, farse e soprattutto commedie, fra cui L’ajo nell’imbarazzo
(1807) e il Don Desiderio disperato per eccesso di buon cuore (1808), nelle
quali, sotto il benefico influsso dell’«arte buona del Goldoni»3, si mostra
osservatore caustico e acuto ritrattista satirico-malinconico della
società del tempo4, nonché professionista esperto nell’arte del dialogo.
Sono gli anni dell’avvento di Shakespeare in Italia (tramite la for-
1 Cfr. l’ancora utile, almeno sul piano informativo, Guido Mazzoni, Il teatro
dalle vittorie francesi alla Restaurazione, in Id., L’Ottocento, Milano, Vallardi, 1911-
1913, 19648, 2 voll., I, p. 117.
2 Ibidem.
3 Ivi, p. 124.
4 Cfr. Guido Nicastro, Il teatro nel primo Ottocento, in Niccolò Mineo e Guido
Nicastro, Giusti e il teatro del primo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp.
75-76.
[ 2 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 471
tunata traduzione francese di Pierre Letourneur, edita a Parigi, presso
Rémond, in 10 volumi tra il 1776 e il 1782)5e delle prime tragedie borghesi
(come Il tradimento notturno, 1808, di Pietro Vettor Corner); sono
gli anni degli esordi teatrali di Giovan Battista Niccolini, di Francesco
Benedetti e di Silvio Pellico, che, con la Francesca da Rimini, sintesi bilanciata
di tradizione classicistica e rinnovamento romantico6, ottiene,
in occasione della prima7, un successo di pubblico annunciato e clamoroso8.
Sono gli anni di chi si proclama seguace d’Alfieri e di chi invece,
piuttosto che la tragedia pura (in versi, con tono acuto, azione
semplice, pochi personaggi storici, nessun excursus episodico, e unità
rigorosamente rispettate), preferisce il dramma (sempre azione semplice,
sempre unità rigorosamente rispettate, però in prosa, con tono
più colloquiale, sempre con pochi personaggi, ma discesi in terra
dall’alto piedistallo della storia ufficiale).
Alla crisi graduale ma irreversibile di Melpomene corrisponde una
superproduzione tragica, per iniziativa di «troppi»9 che non si stancano
nell’incrementare un repertorio già sovraffollato: così, mentre«mille
scrittorelli ignoti o mal noti»10 contribuiscono a tenere viva la produzione
del genere11, in tutta la Penisola si arrivano a contare centocinquanta
compagnie drammatiche che hanno in repertorio testi tragici,
«ripetitivi e tuttavia confezionati, in casi d’eccezione, con una certa
esperienza della tecnica teatrale»12. Pur nella corriva approssimazione
5 Manzoni possiede un esemplare della «Nouvelle édition», Paris, Ladvocat,
1821, 13 voll., ma è emersa anche una copia dell’ed. Rémond, con postille di Manzoni,
per cui cfr. Gianmarco Gaspari, Le biblioteche di Manzoni, nell’opera collettiva
Manzoni scrittore e lettore europeo, Roma, De Luca, 2000, p. 38.
6 Il «perplesso drammaturgo» sceglie «un itinerario a mezza strada fra tradizione
e rinnovamento, con risultati di compromesso ai quali da tempo la critica ha
assegnato un giudizio di mediocrità» (Emilio Faccioli, Introduzione, in Id., Il teatro
italiano. La tragedia dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1981, V, i, p. xx).
7 Milano, Teatro Re, 18 agosto 1815, con Carlotta Marchionni e Luigi Domeniconi.
8 U n successo che, destinato a durare per tutta l’età del Risorgimento e oltre, è
probabilmente «da attribuire alle note di un sospiroso patetismo propinato con
abbondanza dallo scrittore per corrispondere alla sensibilità di un pubblico che lo
vuole, meglio se esibito entro gli schemi drammaturgici d’uso convenzionale» (E.
Faccioli, Introduzione, cit., pp. xx-xxi).
9 G. Mazzoni, Il teatro dalle vittorie francesi alla Restaurazione, cit., p. 156.
10 Yorick [Pier Coccoluto Ferrigni], La morte di una Musa, Firenze, Soc. Editrice
Del Fieramosca, 1885, poi Firenze, Bemporad, 19022, p. lvi.
11 Misurarsi col genere tragico era «ritenuto un passaggio d’obbligo per quanti
si sentissero chiamati alla poesia, al di là di ogni interesse per la realizzazione scenica
» (E. Faccioli, Introduzione, cit., p. xii).
12 Ivi, p. xxvi.
[ 3 ]
472 giulia tellini
dei testi, vanno riconosciute al genere non solo una forza ammirevole
di resistenza, bensì anche una capacità notevolissima di diffusione
pressoché capillare nei tanti teatri anche provinciali e periferici. Mentre
Melpomene si avvia a un inesorabile declino, non mancano tuttavia
interventi da parte di autori d’alto prestigio.
Nel 1797, 1811 e 1813 debuttano sulle scene, rispettivamente, il Tieste,
l’Aiace e la Ricciarda, le tre prove foscoliane sul modello sofocleo e
alfieriano. Al 1816-1817 risalgono le pagine manzoniane sulla moralità
delle opere tragiche13, nelle quali lo scrittore poco più che trentenne,
appassionato lettore di Shakespeare e del Corso di August Wilhelm
Schlegel14, difende la tragedia dalle accuse di immoralità pronunciate,
fra il XVII e il XVIII secolo, da filosofi come Pierre Nicole, Jacques
Bénigne Bossuet e Jean-Jacques Rousseau15. Nel 1820 e nel 1822 appaiono
a stampa il Carmagnola e l’Adelchi, testi che, volti al «bello poetico
» quanto al «vero morale», non cercano l’immedesimazione emozionale,
bensì, tramite la «verisimiglianza» nella «rappresentazione dei
fatti dell’animo», la profonda «riflessione sentita»16 dello spettatore. Con
la svolta segnata dalle tragedie manzoniane, cambia il modo di intendere
il teatro17, in termini spettacolari quanto in termini etico-morali.
Come il Carmagnola e l’Adelchi, che non sono pensati per essere rappresentati,
anche il Manfred (1817) e il Cain (1821) di Lord Byron non lo
sono, ma puntano a infrangere le barriere che separano il genere della
13 Pubblicato postumo da Ruggero Bonghi, questo scritto in forma d’appunti è
da Bonghi titolato Della moralità delle opere tragiche (Alessandro Manzoni, Opere
inedite e rare, per cura di Ruggero Bonghi, Milano, Richiedei, 1883-1898, 5 voll., III,
1887). Ora si può leggere in A. Manzoni, Tutte le opere, a cura e con introduzione
di Mario Martelli, premessa di Riccardo Bacchelli, Firenze, Sansoni, 1973, 2
voll., II, pp. 1663-1667; anche in Id., Tutte le opere, a cura di Alberto Chiari e Fausto
Ghisalberti, V (Scritti linguistici e letterari), III, Scritti letterari, a cura di Carla
Riccardi e Biancamaria Travi, Milano, Mondadori, 1991, pp. 53-72.
14 Cfr. Luciano Bottoni, Drammaturgia romantica. Il sistema letterario manzoniano,
Pisa, Pacini, 1984.
15 «Le obbjezioni contro il dramma si risolvono in questa – si legge –: Che si
eccitano le passioni – e che non si può esser poeta drammatico altrimenti. Questo
giudizio è nato dal non esaminare che drammatici francesi. Essi sono tali; ma si
può e si deve interessare altrimenti. Essi fanno simpatizzare il lettore colle passioni
dei personaggi, e lo fanno complice. Si può farlo sentire separatamente dai personaggi
e dei personaggi, e farlo giudice. Esempio insigne Shakespeare» (A. Manzoni,
Della moralità delle opere tragiche, in Id., Tutte le opere, cit., p. 1665).
16 Ivi, pp. 1666-1667.
17 Cfr. Claudio Meldolesi – Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel primo
Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 98.
[ 4 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 473
poesia lirica da quello della poesia drammatica18. Di lì a poco, Victor
Hugo, nella Préface al Cromwell (1827), si spinge oltre e proclama che
«le drame romantique» dovrebbe in ogni momento far passare il pubblico
«du sérieux au rire, des excitations bouffonnes aux émotions
déchirantes, du grave au doux, du plaisant au sévère. Car […] le drame,
c’est le grotesque avec le sublime, l’âme sous le corps, c’est une
tragédie sous une comédie»19.
Il che significa mescolare le carte in tavola e sconvolgere i territori
di pertinenza dei generi canonici. Sull’onda di questa movimentata
temperie riformistica, complice anche il progressivo ampliarsi e rinnovarsi
di un pubblico teatrale sempre più stanco dell’antagonismo
tragico di eroi titanici e solitari, ecco, sul declinare degli anni Venti,
arridere un buon successo alla commedia20: genere prediletto non solo
dal già ricordato Giraud ma anche dal magistrato torinese Alberto
Nota (1775-1847) che, nelle sue «commedie-moralità»21, mescola sapientemente
patetico e comico, dramma romanzesco e farsa. Ma non
sono pochi i commediografi e drammaturghi neo-romantici che, seguendo
«un eclettismo esitante tra l’imitazione e l’innovazione, tra gli
antichi e i moderni»22, riescono a conferire alle loro opere «forme semplici,
naturali, popolari, sincere, libere da ogni involucro artificiale e
convenzionale, dalle esagerazioni rettoriche e accademiche»23.
18 Ivi, p. 97.
19 Victor Hugo, Cromwell, Préface (Octobre 1827), in OEuvres complètes, Paris,
Librairie Ollendorff, 1912, p. 48.
20 «[…] alla commedia venne delegato il compito più delicato e arduo: la regimentazione
e l’ordinamento del flusso di realtà che penetrava nel teatro. Il contatto
più diretto che essa manteneva con il mondo comune, grazie ai suoi personaggi
e al suo linguaggio quotidiani, le consentivano di svolgere una più agevole ricognizione
nella società alla ricerca delle prerogative di maggiore o minore ammissibilità
nell’arengo del teatro ufficiale» (Siro Ferrone, Introduzione, in La commedia e
il dramma borghese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1979, 2, I, p. xiii).
21 La definizione di «commedia-moralità», a proposito di Alberto Nota, appartiene
a Giosue Carducci, rec. di Giuseppe Costetti, Confessioni d’un autore drammatico,
Bologna, Zanichelli, 1883, in Ceneri e faville. Serie seconda, in Opere, Ed. Naz.,
Bologna, Zanichelli, 1935, 19542, xxvii, p. 184.
22 Giuseppe Mazzini, Moto letterario in Italia, in «London and Westminster Review
», ottobre 1837, poi in Opere di G. Mazzini. Scritti editi e inediti, edizione diretta
dall’autore, Milano, Daelli, 1862, IV, p. 312; ora in Id., scritti sul romanzo e altri saggi
letterari, a cura di Luca Beltrami, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, pp.
219-257.
23 Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Niccolò
Gallo, con introduzione di Natalino Sapegno, Torino, Einaudi, 1966, 2 voll., II,
p. 964.
[ 5 ]
474 giulia tellini
In tale clima culturale, vive e opera, a Livorno, Angelica Palli (1798-
1875)24, figura di assoluto spicco nel panorama intellettuale e ideologico
contemporaneo; prodigiosa improvvisatrice tragica durante l’adolescenza25,
e poi autrice di composizioni teatrali in versi e in prosa, di
poesie e racconti, di traduzioni, discorsi, saggi e articoli, nonché di un
romanzo storico (Alessio ossia Gli ultimi giorni di Psara) pubblicato
nell’anno della morte di Foscolo, in quel fatidico 1827 che, con l’uscita
delle Operette morali e dei Promessi sposi (e della Battaglia di Benevento di
Guerrazzi, del Castello di Trezzo di Giovan Battista Bazzoni, del Cabrino
Fondulo di Vincenzo Lancetti, della Sibilla Odaleta di Carlo Varese e delle
Quattro storiche novelle di Francesco Ottavio Renucci), segna, nel panorama
graniticamente lirico-classicistico della nostra letteratura, un
significativo (almeno per il momento) declino del primato della poesia.
2. Il piacere della scrittura
Nel Fondo Palli, presso la Biblioteca Labronica Francesco Domenico
Guerrazzi di Livorno, sono conservate, in cinque Buste, le carte
della scrittrice: si tratta di appunti sparsi, atti e documenti, diari e
agende (Busta 3), lettere di mittenti vari, ordinati alfabeticamente (Buste
4 e 5) e soprattutto composizioni per il teatro in versi e in prosa
(Buste 1 e 2)26.
Le composizioni teatrali manoscritte, da lei stessa qualificate con
precisa definizione di genere, sono le seguenti: sei «tragedie» (Buondelmonte,
Deifira, Ettore Fieramosca, La presa di Costantinopoli, Giulietta e
Romeo, Ruggieri degli Ubaldini), una «tragedia biblica» (Debora), cinque
«drammi» (Adolfo, Le amiche rivali, Geltrude, Iacopo Fortebraccio, Torquato
Tasso), un «dramma storico» (Efrosina), due «drammi lirici» (Saffo, La
24 Sulla vita e le opere di Angelica Palli, cfr. soprattutto Alessandra D’Alessandro,
Vivere e rappresentare il Risorgimento. Storia di Angelica Palli Bartolomei, scrittrice
e patriota dell’Ottocento, prefazione di Alberto Mario Banti, Roma, Carocci,
2011.
25 Sono gli stessi anni in cui il celebre Tommaso Sgricci (Castiglion Fiorentino,
1789 – Arezzo, 1836) suscita entusiasmi sia in Italia che in Francia e in Inghilterra
improvvisando brani tragici su temi proposti dagli spettatori.
26 Per una scrupolosa descrizione del Fondo, cfr. A. D’Alessandro, «Scritte
senza avere il pensiero che forse un giorno potrebbero vedere la luce». Le carte Angelica
Palli della Biblioteca Labronica, in Sul filo della scrittura. Fonti e temi per la storia delle
donne a Livorno, a cura di Lucia Frattarelli Fischer – Olimpia Vaccari, Livorno,
Plus, 2005, pp. 463-475.
[ 6 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 475
crociata del conte Verde), quattro «azioni drammatiche» (Elena, Raffaello,
La congiura Bedmaro, Nello Della Pietra), due «azioni drammatiche in
prosa» (Celestina ossia il De Profundis, Un divorzio), una «azione drammatica
in versi» (Dante a Verona), due «azioni teatrali» (La Dama spagnola,
Giulio), tre «commedie»(La fantasima di Faglia, L’oste di Certaldo,
Il finto ammalato), una «commedia di carattere» (Salier), tre «farse»
(Don Pasquale ossia il fanatismo, I poeti e gli scienziati, Le Preziose ridicole)
e una «fiaba» (Il gobbo di Santa Fiora). A questi trentadue testi se ne affiancano
altri cinque, classificati dall’autrice con il ricorso a categorie
eterogenee: un «componimento teatrale» (Sampiero), un «frammento»
(La patria di Colombo), una «prosa in 1 atto» (La lista), un «inedito»
(Edwige ossia lo Stucchinajo Polacco), e infine un altro senza specificazione
di categoria (Catinca Valcof e i tre ufficiali italiani).
Di questi manoscritti, Angelica decide di pubblicarne, nell’arco di
mezzo secolo (dal 1823 al 1874), solo sette: il «dramma lirico» Saffo27, le
«tragedie» Buondelmonte28, Ruggieri degli Ubaldini29, Ettore Fieramosca30,
l’«azione drammatica in versi» Dante a Verona31, il «dramma storico»
Efrosina32 e la «fiaba» Il gobbo di Santa Fiora33. Altri testi teatrali che, non
presenti nel Fondo, vengono editi prima del 1875 sono la «tragedia»
Tieste34, il Sogno fantastico di una notte di Carnevale35, la «tragedia» Girolamo
Olgiati36, il «componimento teatrale» Corinna37, la «tragedia» Corrado
e Imelda ossia Gregorio VII e la contessa Matilde38 e il «dramma popolare
» Lella39.
L’attività drammaturgica, coltivata anche dal punto di vista teori-
27 Angelica Palli, Saffo: dramma lirico in un atto, Livorno, Masi, 1823.
28 Ead., Buondelmonte Buondelmonti: tragedia, Livorno, Pozzolini, 1828.
29 Ead., Ruggieri degli Ubaldini: azione tragica in quattro atti in versi, Torino, Pomba,
1852.
30 Ead., Ettore Fieramosca, in «La viola del pensiero», Livorno, Vigo, 1864.
31 Ead., Dante a Verona: azione drammatica in tre atti, in Ead., Componimenti drammatici,
Livorno, Ferroni-Cascinelli, 1872, pp. 3-47.
32 Pubblicata nella versione francese, da lei stessa redatta (e presente, manoscritta,
nel Fondo): Ead., Euphrosines, Paris, Firmin Didot Frères, 1874.
33 Ead., Il gobbo di Santa Fiora: fiaba, Livorno, Stefanini, 1874.
34 Ead., Tieste: tragedia, Livorno, Masi, 1820.
35 Ead., Sogno fantastico di una notte di Carnevale, Livorno, Pozzolini, 1848.
36 Ead., Girolamo Olgiati: tragedia, Milano, Tipografia internazionale, 1865.
37 Ead., Corinna: componimento teatrale, in Ead., Componimenti drammatici, cit.,
pp. 49-102.
38 Ead., Corrado e Imelda ossia Gregorio VII e la contessa Matilde: tragedia, in Ead.,
Componimenti drammatici, cit., pp. 103-168.
39 Ead., Lella: dramma popolare in cinque atti in prosa, Livorno, Meucci, 1872.
[ 7 ]
476 giulia tellini
co, accompagna Angelica per tutta la vita40, nelle alterne vicende d’una
lunga e mai oziosa esistenza: dalla seconda metà degli anni Dieci,
quando, non ancora ventenne, incanta gli ospiti dell’Accademia Labronica
con le sue tragedie estemporanee improvvisate, all’inizio degli
anni Venti, quando decide di dare alle stampe i componimenti migliori
(Tieste, Saffo); dall’anno che segna la sua svolta romantica (1824)
e che registra, di lì a poco, l’opzione della tragedia storica (Buondelmonte),
fino all’alba del nuovo decennio, quando, chiusa la stagione
delle proprie deludenti vicende sentimentali, sposa il nobile Giovan
Paolo Bartolomei (29 agosto 1831) e dà alla luce il primo e unico figlio
Luciano (22 novembre 1831). Per quanto poi, nei lunghi anni dell’agguerrita
militanza politica e sociale41, si dedichi soprattutto alla libellistica
impegnata e al giornalismo, non abbandona mai la scrittura per
le scene, componendo fra l’altro l’apocalittico e shakespeariano Sogno
fantastico di una notte di Carnevale (1848), oltre a drammi, commedie,
apologhi fiabeschi in versi (Il gobbo di Santa Fiora).
È stato scritto che i temi da lei preferiti sono la passione amorosa e
l’impegno politico, spesso fusi insieme in un’unica trama42, ma in real-
40 Attività continuativa e contraddistinta dall’impegno di tutelare la dignità
culturale dell’ambiente livornese di fronte all’egemonia fiorentina. Cfr. Angelica
Palli a Antonio Benci, [Livorno], 3 marzo 1827: «Le son grata d’avermi dato avviso
che nessuna delle comiche Compagnie di Firenze veniva qui. Infatti avemmo [l’autografo,
reca, erroneamente, «avvemo] quella di Parma, e si dice mediocre assai. Se
ella avesse volontà di far rappresentare in Livorno qualche commedia, le farò sapere
se vi sono soggetti di qualche merito… non abbia poi a sdegno d’esporsi al
giudizio del nostro pubblico. L’amor dello studio fa tra noi progressi ben rapidi e
non si trova qui quella crassa ignoranza che piace all’orgoglio dei fiorentini di attribuirci
» (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, d’ora in poi BNCF, Sala Manoscritti,
C. Vari 13, 105). La lettera è edita, con sviste di trascrizione, in Giancarlo
Bertoncini, Epistolario, in Alessio, «romanzo istorico» di Angelica Palli, Pisa, Tipografia
Editrice Pisana, 2001, pp. 132-133.
41 R iguardo all’attività culturale, politica e sociale della Palli, cfr. Toni Iermano,
Angelica Palli Bartolommei, in Id., Intellettuali e stampatori a Livorno tra ’700 e ’800,
Livorno, Editrice Nuova Fortezza, 1983, pp. 105-114. Molto interessanti sono gli
scambi epistolari che lei intrattenne con Guerrazzi e con Bini. Cfr., in proposito,
Luca Toschi, L’epistolario di F. D. Guerrazzi. Con il catalogo delle lettere edite e inedite,
Firenze, Olschki, 1978; Sebastiano Timpanaro, Alcuni chiarimenti su Carlo Bini, in
Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa, Ets, 1982, pp. 199-285; Laura
Diafani, Carlo Bini. Una poetica dell’umorismo, Firenze, Società Editrice Fiorentina,
2015. Negli Scritti di Carlo Bini (Firenze, Le Monnier, 1900), sono pubblicate le
otto affettuose lettere da lui inviate alla Palli dal 20 maggio 1840 al 12 ottobre 1842
(pp. 388-395).
42 Cfr. G. Bertoncini, Alessio, «romanzo istorico» di Angelica Palli, cit., p. 13; A.
[ 8 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 477
tà il motivo che risalta con più evidenza in ogni sua opera, e che sembra
perciò starle più a cuore, è l’antitesi fra la debolezza maschile, determinata
da un plurisecolare bagaglio genetico-culturale che dà agli
uomini un pericoloso senso di onnipotenza, e la forza delle donne, che
risiede nella loro lucida capacità raziocinante, nella loro educazione
alla solidità e al buon senso.
Si tratta di un argomento ricorrente, anche nell’epistolario. Basti
leggere una lettera di Angelica a Vieusseux, del 5 ottobre 1824, poco
dopo l’uscita, sull’«Antologia», della recensione che Giuseppe Montani
ha dedicato alle Poesie di lei, apparse in volume a Livorno, da Masi,
nel 182443:
Io avea deciso di scrivere al Sig. Montani […]. Non ho poi scritto perché
non avrei potuto farlo senza lagnarmi col Sig. Montani della rigida
sentenza colla quale condanna le donne a non poter né riflettere, né
meditare… Entrar in lite con lui, e non voglio, e non oso… quindi è
meglio tacere… Senza dubbio le doti dell’animo son superiori a quelle
dell’intelletto… ed egli ne stabilisce la sede nell’animo delle donne…
ma senza meditare profondamente… come mai si potrà e profondamente
e fermamente sentire gli affetti?… Se non si crede possibile, colui
che suppone le donne capaci soltanto di violente ma passeggere
emozioni, non è poi loro amico quanto vanta di esserlo. Invero, son gli
uomini quelli che profondamente riflettono!44
D’Alessandro, «Scritte senza avere il pensiero che forse un giorno potrebbero vedere la
luce». Le carte Angelica Palli della Biblioteca Labronica, cit., p. 472.
43 «[Le donne], come è stato già ripetuto troppe volte, per ciò stesso che sentono
molto, riflettono poco; e la tragedia par che richiegga un singolare equilibrio tra
la vivacità del sentire e la forza del meditare e del combinare» (M. [Giuseppe Montani],
Poesie di Angelica Palli, Livorno presso Masi, 1824; un volume in 8°, in «Antologia
», xlv, settembre 1824, p. 85).
44 Angelica Palli a Giovan Pietro Vieusseux, Livorno, 5 ottobre 1824 (BNCF,
Sala Manoscritti, C. Vieuss., 77, 134; la lettera è edita in G. Bertoncini, Epistolario,
cit., pp. 126-127). Ed ecco la risposta di Vieusseux, che cerca di smussare e neutralizzare
con accenti conciliativi la questione sollevata da Angelica: «Ella avrebbe
fatto piacere a me, ed onore e piacere al mio amico Montani, scrivendogli la lettera
della quale mi accenna l’argomento colla pregiatissima sua del 5 stante… Montani
avrebbe avuto a cuore, senza dubbio, di provarle che non fu mai la sua intenzione
a condannare le donne a non poter né riflettere né meditare… tutto al contrario,
egli ha voluto provare, e credo che egli lo abbia fatto, che le donne più degli uomini
devono riflettere e meditare quando scrivono, perché più sensibili di noi devono
stare in guardia contro il loro cuore che troppo spesso inganna il loro spirito. Ma
quando, come accade in lei, le doti dello spirito sono all’unisono di quelle del cuore,
non devesi temere la tenzone» (Giovan Pietro Vieusseux ad Angelica Palli, 12
[ 9 ]
478 giulia tellini
L’aspetto più interessante di questa risposta indiretta a Montani è
la consequenzialità del ragionamento, che ha il rigore di un teorema e
l’armonia di un crescendo rossiniano, con tanto di preterizione iniziale
e paradosso conclusivo: come si può dare un cuore caldo senza una
mente fredda? Come si possono dare «doti dell’animo» senza «doti
dell’intelletto»? Condizione necessaria per saper «sentire gli affetti»,
«profondamente e fermamente», è saper «meditare profondamente»:
separare sentimento e ragione non ha senso, perché per dare effettiva
realtà alla dimensione degli affetti bisogna essere in grado di renderli
saldi razionalmente. Connettendo fra loro le inconseguenti dichiarazioni
montaniane, Angelica finisce perciò col provare la validità della
tesi opposta rispetto a quella del suo recensore. Ovvero la tesi in base
alla quale a riflettere «profondamente» non sono gli uomini, bensì le
donne.
Poco tempo prima, nel marzo 1822, sull’«Antologia» era uscito un
lungo, erudito saggio riguardante due sue tragedie (Tieste e Giulietta e
Romeo): recava in calce le iniziali «A.G.C.», ed era prodigo d’apprezzamenti
quanto anche di riserve e d’affettuosi consigli45. Lei aveva insistito
con Vieusseux per conoscere l’identità dell’anonimo recensore46,
ottobre 1824, ivi; la lettera è edita, con sviste, in G. Bertoncini, Epistolario, cit., p.
128).
45 Dopo aver lodato, con riserve, la struttura e il disegno dei personaggi del
Tieste, il recensore esorta affettuosamente la giovane autrice a prestare più attenzione
allo stile: «[…] l’arte di ben tornire i versi ci è parsa quella in cui la signora
Palli ha principalmente bisogno di perfezionarsi e studiare. […] si affatichi maggiormente
nel tornire e limare i suoi versi, togliendone quelle forme prosastiche e
quella monotonia, che non di rado infelicemente li snerva; dimentichi, allorché scrive,
di essere stata e di essere Poetessa estemporanea, e sopra tutto chiuda l’orecchio
alle domande importune di alcuni attori più avidi assai di applauso, e di lucro per
loro stessi, che teneri per la gloria degli autori» (A.G.C. [Giovanni Castinelli], Tieste,
Tragedia di Angelica Palli. Livorno dai torchi di Glauco Masi; Giulietta e Romeo.
Tragedia inedita della stessa, «Antologia», xv, marzo 1822, pp. 499-500).
46 «Ho letto nell’ultimo fascicolo dell’Antologia il ragionamento sopra i miei
tragici tentativi; l’autore è anonimo e quindi io mi rivolgo a lei pregandola d’esser
l’interprete della mia gratitudine. Gli dica che una giusta critica mi è più cara assai
d’ogni lode; e che perciò mostrandosi troppo gentile e avaro di biasimo egli mi dà
motivo di lagnarmi di lui. Ma perché celarsi? davvero pare che gli anonimi sieno
congiurati per porre la mia curiosità a dura prova; con dei versi ne costrinsi due a
palesarsi, ma questa volta voglio far pompa di virtù e lasciare che il terzo si avvolga
fra le tenebre del mistero; ella non rida, perché in una donna questo sforzo è
grande» (Angelica Palli a Giovan Pietro Vieusseux, Livorno, 20 marzo 1824, BNCF,
Sala Manoscritti, C. Vieuss., 77, 133; la lettera è edita in G. Bertoncini, Epistolario,
cit., pp. 122-123).
[ 10 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 479
Vieusseux aveva ceduto alle insistenze47ed era così iniziata una corrispondenza
fra la giovane tragediografa e «A.G.C.», ossia Giovanni
Castinelli (1788-1826), avvocato pisano con la passione per il teatro,
formatosi in Francia e residente a Livorno dal 1814.
Stabilitosi fra i due un rapporto di confidenza intellettuale oltre
che di reciproca stima, dal settembre al dicembre 1825 Castinelli le
scrive una serie di lettere articolate e puntuali sullo stile, sulla struttura,
sulla dinamica scenica e sui personaggi del Buondelmonte, la tragedia
che Angelica ha in lavorazione e di cui gli spedisce via via gli abbozzi.
Il 25 settembre 1825, in una delle più lunghe missive che lui le
invia, si legge:
[…] mi permetta di palesarle un mio pensiero intorno alla moralità
tragica nel trattare i soggetti moderni. Gli antichi avevano il fato: esso
rendeva quasi scusabili i più atroci delitti, ma quale insegnamento morale
poteva ricavarsene?… Le conseguenze ne erano anzi perniciose, e
false. Ora quale è il sentimento che ha rimpiazzato la opinione della
fatalità?… La falsa credenza degli uomini deboli che le passioni sieno
invincibili, e che una specie di fato insuperabile vi presieda, e ci spinga
in loro balìa… ma chi sono questi uomini deboli?… quasi tutti gli uomini.
Bisogna invece mostrar loro che l’abbandonarsi cecamente alla
voce delle passioni ingiuste ed effrenate gli conduce nel precipizio, che
possono superarsi, purché si spieghi abbastanza energia; che deve
ascoltarsi unicamente e sempre la voce della propria coscienza, anche
a fronte dei pericoli, anche ove si debba incorrere l’ingiusto sdegno
delle persone che si amano e si stimano. Quindi la fonte inesausta di
bei caratteri tragici: i molti che soccombono, i pochi che resistono:
egualmente morali sì gli uni che gli altri, perché lo spettatore si ritrova
pur troppo spesso nell’uomo buono e direi quasi virtuoso che cede, e
cerca di approfittare dell’esempio, e se ha camminato con fermezza nel
sentiero della virtù, vi s’inoltra ognora più franco. L’uom debole non è
affatto vile, egli è uomo. Può dunque essere interessante, sebbene si
debba biasimare la sua debolezza, ed evitare d’imitarla48.
47 «Punto non mi sorprende che una donna come Lei, tanto superiore al suo
sesso, sappia frenare un momento di curiosità; e per provarle ch’io penso quello
ch’io le scrivo, vengo a palesarle il nome che lei desidera di conoscere, ben persuaso
che una donna capace di frenare la sua curiosità saprà ancor più facilmente tenere
un segreto. Le dirò dunque in tutta confidenza che l’autore dell’articolo ultimamente
inserito nell’Antologia sulle bellissime di lei composizioni è cotesto avv.
Giovanni Castinelli mio particolare amico e come me suo costante ammiratore»
(Giovan Pietro Vieusseux ad Angelica Palli, s.l., s.d., ivi; la lettera è edita in G. Bertoncini,
Epistolario, cit., pp. 124-125).
48 Giovanni Castinelli ad Angelica Palli, 25 settembre 1825 (Biblioteca Labronica
Francesco Guerrazzi di Livorno, Fondo Palli, Busta 4, 58).
[ 11 ]
480 giulia tellini
Ecco di nuovo il tema della debolezza, che questa volta viene però
affrontato in merito alla «moralità tragica nel trattare i soggetti moderni
», e, più precisamente, in merito al personaggio di Buondelmonte,
riguardo al quale sempre Castinelli, in una lettera del 22 settembre
1825, aveva confidato ad Angelica: «vorrei che il carattere di Buondelmonte
figlio fosse rappresentato amabile e interessante, sebbene alquanto
debole e cangiante, preparando così gli animi degli spettatori
alla lotta che dovrà sostenere, e soccombervi»49. Le scrive ancora il 24
ottobre, il 4 novembre, il 21 dicembre, in mesi che per il giovane avvocato
pisano sono di preoccupazioni lavorative e di gravi disagi fisici,
con grafia sempre più dilatata e tormentata. Le scrive fluviali e appassionate
lettere sui protagonisti del Buondelmonte fino a che non viene
colpito, nel febbraio del 1826, dalla prima di quelle coliche biliari che,
pochi mesi dopo, in ottobre, lo condurranno, trentasettenne, alla morte50.
Le parole dell’amico sul fascino drammaturgico dei personaggi
deboli, la giovane autrice, per la quale tanta importanza rivestono la
forza d’animo e la coerenza51, non le dimenticherà mai52, e ne farà tesoro,
per la stesura del Buondelmonte e non solo.
49 Giovanni Castinelli ad Angelica Palli, 22 settembre 1825 (ivi).
50 «Nel febbraio dell’anno corrente ebbe l’avvocato Castinelli un grave insulto
di bile, dopo il quale cominciò a notarsi in lui un sensibile deperimento. Dolorose
rimembranze, mal corrispostigli benefici, altre cause non poche trafiggevano da
un pezzo quell’infelice, che candido e semplice come un fanciullo e pieno il petto
d’altissimi sensi, parea fatto per altro secolo e certo per altra professione che la sua.
Una graduale alterazione di carattere fu come il primo indizio di quella fine, a cui
egli correa senza che alcuno potesse presagirla. Gli altri segni, che si succedettero
con terribile rapidità, non permisero dubbi e non lasciarono speranze […]. Le poche
cose da lui poste a stampa sono un elogio del generale Spannocchi composto
nel 1823, e vari articoli dati in più anni all’Antologia, e da lui firmati A.G.C. Poche
cose dissi, ma non piccole del tutto, giacché manifestano quel sapere, quella maturità,
quell’amore del vero e del bene, ch’è il principio delle cose grandi, e che pur
troppo nel mondo è troppo raro» (Necrologia. Vaccà – Castinelli, «Antologia», lxix,
settembre 1826, pp. 192-193)
51 Quanto per lei sia importante la coerenza personale, e quanto al riguardo sia
severa con se stessa, emerge da questo passo tratto da una sua lettera a Piero Bagnoli:
«Io non le inviava l’unico e cattivo sonetto che ho potuto scrivere dopo il
mio ritorno da i bagni, perché oltre il suo nulla come poesia, è anche impertinente
verso le Muse, ed io temeva il suo giusto biasimo. Nel mio mal umore per non
potermi occupare ho voluto sfogarmi maltrattando l’arte de carmi che pure è l’oggetto
del mio entusiasmo… che coerenza!… ella dirà… e davvero se mi grida… io
non posso che tacere» (Angelica Palli a Pietro Bagnoli, Livorno, 20 agosto 1844, in
BNCF, Sala Manoscritti, C. Vari 507, 111).
52 In una lettera a Niccolini del 20 aprile 1829, ricorda così l’amico, fra dolcezza
[ 12 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 481
Ispirata alla stessa vicenda storica da cui è tratta anche la coeva
tragedia di Carlo Marenco53, la trama del Buondelmonte è nota. Nella
Firenze del 1216, il protagonista eponimo, per sanare la storica rivalità
fra i Buondelmonti e gli Amidei, si accinge a sposare Bianca, l’ultima
rampolla della casata avversa, quando è raggiunto dalla notizia che
Vanina Uberti, suo grande amore da sempre, è appena tornata in città,
fresca di vedovanza. Dopo averla rivista, malgrado sappia di incorrere
nelle ire del vendicativo Lamberto Amidei (fratello di Bianca), decide,
la mattina stessa della cerimonia, di mandare all’aria le nozze. Nella
seconda scena dell’atto quarto, nella sala di casa Amidei, confessa il
proprio sempiterno amore per Vanina: «[Lei] amai / Ci divise un inganno;
oggi l’amata / Sciolta, fedel riveggo, amor dal core / Le recenti
promesse mi scancella, / Rinnovando le antiche; ed io le adempio»54.
Innamorata di Buondelmonte, senza essere ricambiata, Bianca cerca di
salvarlo, rivelandogli i piani omicidi dei familiari e implorandolo di
non partire con Vanina almeno fino all’alba del giorno dopo. Ma lui
rifiuta di farsi aiutare, e lei si scaglia verbalmente contro la rivale:
Bianca
Cedi al terror che m’agita, tel chieggo
Mercè del pianto mio, vieni.
Buondelmonte
Non posso.
Bianca
Barbaro! Oh tu [rivolta a Vanina], che tanto in lui potesti,
Nel suo periglio taci?
Vanina
O Giovinetta!
L’amor che vive oltre la speme intendi?
Né sai, che tutto anzi sé stesso immola?55
e struggimento: «ora, potendo scrivere, non mi occuperò di tragedie… il coturno è
osso troppo duro per i miei denti… e se oserò in breve calzarlo in faccia al pubblico
per l’ultima volta, lo farò per la memoria del Castinelli, a cui l’idea del mio lavoro
fu il pascolo de gli ultimi pensieri letterari» (Angelica Palli a Giovan Battista
Niccolini, Livorno, 20 aprile 1829, in BNCF, Sala Manoscritti, C. Vari 64, 198).
53 Cfr. K.X.Y. [Niccolò Tommaseo], Rivista letteraria. Buondelmonte e gli Amedei.
Tragedia di Carlo Marenco da Ceva, Torino, Gius. Pomba, 1827; Buondelmonte Buondelmonti.
Tragedia di Angelica Palli, Livorno, 1827, «Antologia», lxxxxii, agosto 1828,
pp. 133-139.
54 A. Palli, Buondelmonte Buondelmonti: tragedia, cit., pp. 47-48.
55 Ivi, pp. 57-59.
[ 13 ]
482 giulia tellini
Nell’ultima scena dell’atto quinto, Buondelmonte è ucciso a tradimento
da Mosca Lamberti, dopodiché Vanina raccoglie il pugnale col
quale è stato appena compiuto l’assassinio e si trafigge.
Probabilmente intorno al 1830, poco dopo aver dato alle stampe
questa sua tragedia storica in versi, dalla lunga e sofferta gestazione,
Angelica scrive Le amiche rivali56, dramma in tre atti, in prosa, di ambientazione
contemporanea, conservato manoscritto nel Fondo Palli e
pubblicato la prima volta nel 201657. Le trame dei due testi sono molto
simili, ma, rispetto alla tragedia, nelle Amiche rivali l’interesse drammaturgico
si sposta dall’uomo (debole) alla coppia di donne (entrambe
forti), e, di conseguenza, dalla passione amorosa al sentimento dell’amicizia
(dato che, in questo caso, le due donne sono amiche): dall’irrazionalità
maschile (in versi) alla razionalità femminile (in prosa).
3. Le amiche rivali
Due donne, amiche d’infanzia, vivono da tre mesi rinchiuse in un
castello nelle campagne intorno a Bologna. Una, Elvira, di nobili natali,
è stata abbandonata sull’altare dal promesso sposo, un certo Dalmanzi.
L’altra, Stefania, di modesta estrazione sociale, è fidanzata col
fratello d’Elvira, Davila, ma è innamorata di Evaristo, un giovane che
tempo prima le ha giurato amore eterno ma che da mesi non le dà più
notizie di sé. Nel frattempo, Davila vaga nei boschi alla ricerca di Dalmanzi,
per ucciderlo e vendicare così l’onta subita dalla sorella.
Questa la situazione che si prospetta nella scena iniziale delle Amiche
rivali. Ma ecco qualcuno bussare al portone del castello (I, ii). È
Dalmanzi che, in fuga da Davila, è ben lungi dall’immaginare che ad
accoglierlo, in qualità di padrona di casa, sarà proprio Elvira:
Elvira: Avvicinatevi Signore… Cielo!… Stravedo… oppure… Dalmanzi!
Dalmanzi: Ah, vista tremenda!
Elvira: Io son fuor di me stessa… egli… il perfido…
Dalmanzi: Io non ardisco mirarla!
56 Dei testi conservati nel Fondo, gli unici datati sono Efrosina (presente in triplice
copia: una del 1830 e una del 1835, oltre alla versione francese), Dante a Verona
(1864), Un divorzio (1864), Celestina ossia il De Profundis (1867) e Debora (1872).
Per la proposta di datazione delle Amiche rivali, cfr. Giulia Tellini, Un dramma
inedito di Angelica Palli, «Rivista di Letteratura Teatrale», 9, 2016, p. 120.
57 Ivi, pp. 103-121.
[ 14 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 483
Elvira: Sì… voglio parlargli… la mia vista vi turba… chinate gli
sguardi al suolo… Dalmanzi, il barbaro Dalmanzi, sarebbe egli capace
di qualche rimorso? Uomo fatale, nato solo per turbare la pace d’una
onorata famiglia, rispondimi, dimmi… che ti trasse fra queste mura?58
In apertura, il fraseggio esclamativo del linguaggio tragico stenta
ancora a trovare un ductus più piano e più colloquiale. A complicare
ulteriormente il quadro è la scoperta (I, iv) che Dalmanzi ed Evaristo
sono lo stesso uomo, che si è sottratto alle nozze con Elvira perché innamorato
di Stefania:
Stefania: Chi sarà mai lo straniero?
Elvira: Avvicinati, mia cara Stefania, sappi.
Dalmanzi: Stefania… questo nome… Dio giusto! Tu sai.
Stefania: Ohimè che veggo… Evaristo!
Elvira: Evaristo… oh colpo! (cade sopra una sedia).
Stefania: Elvira… qual pallore improvviso le copre il volto.
Dalmanzi: Ah, soccorrila!
Stefania: Mia tenera amica.
Dalmanzi: Scellerato!… e ancora vivo!
Stefania: Elvira mia cara Elvira.
Elvira: (la respinge).
Stefania: Oh, lampo terribile… sarebbe mai!
Dalmanzi: Apriti o terra… nascondimi nel tuo seno!
Stefania: Evaristo… Elvira… io sono…
Elvira: La mia rivale.
Stefania: Stelle… Dalmanzi.
Dalmanzi: Son io… son quel mostro59.
Da questo momento ha inizio il dramma psicologico che vede protagoniste
le due amiche e che sostiene fino alla fine l’intera azione
scenica, con Elvira che ama e odia Stefania, e Stefania in balìa delle
oscillazioni umorali dell’amica. Si vedano, a riprova, le battute seguenti,
alla fine della scena quarta dell’atto primo:
Elvira: Ed io credeva d’aver sofferto quanto mai si possa soffrire.
Questo è tormento! Tu dunque sei quella per cui ho perduto l’amante
e la pace? Tu nel cui seno io versava le mie lacrime, tu che mi eri tanto
cara? Va, fuggi da me… la tua vista mi è insopportabile… io ti detesto…
e tu traditore trema!
Dalmanzi: Pietà di lei!
58 Ivi, I, iii, p. 107.
59 Ivi, I, iv, pp. 108-109.
[ 15 ]
484 giulia tellini
Elvira: Fate che più non vi vegga… (fa per uscire).
Stefania: Anzi, Elvira, fa che io spiri ai tuoi piedi… no… non ti lascio.
Elvira: (si volta a guardarla) Ah, la mia terribile situazione snatura i
miei sentimenti… tu non sei rea, ed io potei!… Vieni infelice, vieni tra
le braccia della tua amica… lo sono ancora pur troppo. L’avversa mia
sorte, per porre il colmo ai miei affanni, mi condanna ad amare la mia
rivale!60
A questo punto, a movimentare una fabula che ha appena imboccato
la china del thriller psico-introspettivo, è annunciato l’imminente
arrivo di Davila, e le due donne si affrettano a nascondere Dalmanzi
(I, v). Il primo atto si conclude quindi col ritorno di Davila (I, vii), che,
in un clima di tensione determinato soprattutto dal riaffiorare inconscio
dell’odio di Elvira verso Stefania, riabbraccia sorella e fidanzata:
Davila: […] qual tetra malinconia è dipinta sui vostri visi. È questa la
gioia che v’ispira la vista d’un fratello, e d’uno sposo?
Elvira: Tu sai che io vivo nel pianto.
Davila: Dovrebbe ora cessare… ma Stefania… qual motivo?
Elvira: Interrogala.
Davila: Anima mia… che t’affligge?
Stefania: Davila.
Davila: E che nemmeno mi guardi?
Stefania: (Io tremo…).
Davila: Elvira, non ti deve essere ignota la cagione del suo affanno…
parla, rischiara i dubbi d’un amante geloso… che deggio credere?
Elvira: Io non saprei che dirti, ella non ha nessuna cagione d’essere
afflitta.
Stefania: Ingiusta!
Davila: Dunque ne hai? (fremendo).
Stefania: Sì… le pene d’Elvira sono ancor mie61.
Ad aprire e chiudere il secondo atto, simmetrico e claustrofobico,
sono due colloqui sul filo del rasoio fra Stefania e il geloso, possessivo,
violento Davila (II, i e vi), che, a causa della «tetra malinconia»dipinta
sul viso dell’amata, comincia a sospettare d’essere tradito. Si veda la
scena prima, verso l’inizio:
Davila: […] Guai a te se risvegli nel mio seno le sopite furie della gelosia…
tu mi conosci… son capace d’ogni eccesso… nel mio furore nulla
mi sarebbe sacro… tu stessa.
60 Ivi, p. 109.
61 Ivi, pp. 110-111.
[ 16 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 485
Stefania: Inorridisco… così mi amate… così! Ahi che cosa deggio sopportare!…
oh, qual lugubre prospettiva mi presenta l’avvenire!… Io
non avrò dunque uno sposo, ma un tiranno… misera!
Davila: Stefania… tu piangi!
Stefania: Crudele… lasciami.
Davila: È vero, io non so reprimere l’impeto del mio violento carattere,
ma vedi qual è l’impero che hai sovra di me, una tua sola lagrima
basta a disarmarmi, e a farmi cader pentito ai tuoi piedi. No, non ti
renderò infelice… il tuo volere sarà sempre una legge per il tuo tenero
sposo… Oh, divina sovrana di Davila… volgi al tuo passionato amante
quegli occhi che dettano nel mio seno un così soave languore, lascia
che imprima nella tua mano un bacio in cui [è effusa] tutta l’anima
mia… Ma che? Mentre io m’abbandono a tutti i trasporti della più viva
tenerezza, tu piangi ancora… tu volgi al Cielo disperati sguardi! No!
Tu non m’ami, non sono così credulo per ingannarmi, tuttavia… tu mi
tradisci!… Oh perfida! Oh spergiura.
Stefania: Uccidimi… ma cessa di tormentarmi62.
È solo al termine del secondo colloquio (II, vi) che Stefania trova il
coraggio di confessare al promesso sposo di non poter diventare sua
moglie perché innamorata di un altro. Subito dopo, uscito Davila, Stefania
sviene (vii):
Stefania: Ahi che feci!… Il mio dovere… non deggio pentirmene…
qual strazii m’aspettano… e il mio povero padre!… Oh Dio… soccorrimi,
io più non resisto… io manco (cade sopra una sedia)63.
Nelle scene centrali del secondo atto (II, ii-v) s’assiste invece a un
virtuoso girotondo di risoluzioni e ripensamenti da parte di Dalmanzi,
Stefania ed Elvira. Mentre Elvira incita Stefania a fuggire nottetempo
con l’amante, Stefania esorta l’amica a sposare Dalmanzi per renderlo
«alla virtù, alla società»64. Quanto a lui, dichiara dapprima di
anelare solo alla morte per mano di Davila, e, poi, di volersi rinchiudere
in un convento. La medesima volontà, nella scena quinta, è
espressa anche da Elvira:
Elvira: Stefania ho risoluto… io pure voglio rifugiarmi tra le braccia
del solo consolatore degli infelici, cinta del sacro velo… forse.
Stefania: Io perdo dunque tutto!
Elvira: Noi non possiamo più vivere insieme.
62 Ivi, p. 111.
63 Ivi, p. 115.
64 Ivi, p. 112.
[ 17 ]
486 giulia tellini
Stefania: Ahi lassa… tu m’odi… lo veggo.
Elvira: No la mia amicizia è sempre la stessa, e appunto per conservarla
io deggio da te separarmi. Stefania non giova lusingarsi… il nostro
cuore à la chiave delle passioni. Ohimé! Indarno talvolta vogliamo
far credere agli altri, ed anche ce lo immaginiamo noi medesimi, che la
virtù le ha superate!… esse non si assopiscono qualche momento se
non per tiranneggiarci poscia con più violenza! Tu mi sei cara ma vedendoti
la prima idea che mi si presenta è che tu sei la mia rivale, e rivale
amata… ah lascia che lunge da te, e da quanto richiama alla mia
mente questa immagine desolante, io mi rammenti solo dell’amica65.
Ambientato nei sotterranei del castello, il terzo atto è una ripida
discesa verso la tragedia: a partire dall’inizio dell’atto, quando Davila
sta per uccidere Stefania ma viene tempestivamente bloccato da Dalmanzi,
per giungere alla fine, quando sempre Davila sta per scagliarsi
con la spada su Dalmanzi, ma quest’ultimo, con fulminea azione autopunitiva,
lo previene suicidandosi.
Sorprendentemente pre-cechoviano, il finale del dramma vede i tre
sopravvissuti, naufraghi alla deriva nel mare dell’«empia / Virtù
d’amor»66, farsi àncore di salvezza l’uno per l’altro:
Dalmanzi: Iddio… io sento… ah… (spira).
Elvira: Più non vive!…
Stefania: Dalmanzi… tu muori… ed io!
Elvira: (stringendola al seno) tu vivrai per l’amicizia, noi piangeremo
insieme.
Stefania: (dopo un profondo gemito, e guardando teneramente Elvira) Sì,
mi sento capace di vivere per te…
Davila: Stefania… questo terribile esempio m’illumina… ohimè che
sarei divenuto se avessi vibrato il fatale colpo! Detesto i miei furori…
oh, non negarmi il tuo perdono, la tua amicizia… non temere che io
più parli dell’amor mio… non ti prometto d’estinguerlo… ma saprò
celarlo.
Stefania: Siamo tre infelici… possiamo noi non amarci!
Elvira: Fratello… amica… O Dio!
Stefania: Ah, giacché per noi non v’è più felicità sulla terra rendiamoci
degni di goderla un giorno là dove le umane passioni non hanno più
forza, dove la virtù riceve il premio di ciò che ha sofferto67.
Si tratta d’un finale che, mentre contribuisce a sottolineare la forza
65 Ivi, II, v, p. 114.
66 A. Manzoni, Adelchi, IV, Coro, vv. 67-68, in Id., Tutte le opere, cit., p. 627.
67 A. Palli, Le amiche rivali, cit., III, scena ultima, p. 119.
[ 18 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 487
morale delle due amiche, mette in luce per l’ennesima e ultima volta
l’autoreferenzialità di Davila, che pensa solo a sé e alle conseguenze
dei propri atti su se stesso, con una profusione di aggettivi possessivi
di prima persona singolare. L’amore (l’«amor mio»), menzionato soltanto
da Davila, appare come un generatore automatico di «furori»,
come un tabù di cui è proibito discutere, come un incendio impossibile
da estinguere, come qualcosa di vergognoso che va nascosto.
L’ultima battuta, che evoca la morte di Ermengarda, è affidata a
Stefania, ovvero, delle due donne, quella amata troppo (e male).
4. Uomini che amano troppo (e male)
Figur. Incapacità a resistere alle tentazioni, mancanza di forza morale,
di carattere, di perseveranza; incostanza, irresolutezza; facilità alla
commozione, pusillanimità, viltà, dappocaggine, limitatezza, fragilità
spirituale (per lo più considerate intrinseche alla natura umana).
Questa, sul Battaglia, la definizione di «debolezza» in senso figurato
(nel par. 2)68, il tratto comportamentale che meglio qualifica i due
protagonisti maschili delle Amiche rivali: Dalmanzi ama ricambiato e,
all’amore in eccesso, reagisce abbandonando una donna sull’altare e
facendo perdere le proprie tracce all’altra; Davila ama non ricambiato
e, alla mancanza d’amore, reagisce con la violenza, arrivando fin quasi
al punto di compiere un duplice omicidio. Quanto alle due donne,
invece, Stefania ama ricambiata e, all’amore in eccesso, reagisce rifiutandosi
sia di fuggire con l’amante sia di sposare un uomo che non
ama; Elvira ama non ricambiata e, alla mancanza d’amore, reagisce, a
parte alcuni istanti di cedimento emotivo, con lucido altruistico distacco.
L’aspetto più interessante dell’opera risiede proprio nel chiasmo
che si viene a creare fra la coppia di uomini e la coppia di donne, e
soprattutto nel rapporto d’amicizia, e di rivalità, fra le due amiche. Il
confronto-scontro fra due figure femminili antitetiche e complementari
è un tema molto caro ad Angelica69, che, nelle Amiche rivali, ne svi-
68 Salvatore Battaglia, Debolezza, in Grande dizionario della lingua italiana, Torino,
Utet, 1961-2002, 21 voll., IV, p. 61.
69 È un tema centrale, per esempio, nell’Alessio (1827), nel Buondelmonte (1828),
e nei racconti Giulietta, ossia La donna tradita («La viola del pensiero», 1839, pp. 137-
165, poi ripubblicato in A. Palli Bartolommei, Racconti, Firenze, Le Monnier,
1876, pp. 139-169) ed Elsa (Pinerolo, Chiantore e Mascarelli, 1874, e ripubblicato, a
[ 19 ]
488 giulia tellini
luppa una variazione significativa, prendendo probabilmente spunto
da alcune battute che Vanina e Bianca pronunciano nella penultima
scena dell’atto quinto del Buondelmonte:
Buondelmonte
Sia di me che vuolsi.
Quanto ha di puro il ciel, quanto ha la terra
Di seducente, a mio confronto il fato
Pone, ond’io nullo al paragon rimanga.
Ma se il più vil d’ogni vivente io fossi,
Come il più reo mi sono, or nell’udirvi
Fiamma d’onor m’accenderebbe il cuore.
Parto… Vanina! Addio!
Bianca
Straniera io sono
A quell’addio, che è l’ultimo, e il più caro […].
Vanina
La mia destra stringi;
D’una lagrima è molle, ei l’ha versata
Non per me tutta; la tua parte n’ebbi,
Ti riconforta…70
La dinamica di rivalità-identificazione fra la donna troppo amata e
la donna amata troppo poco è motivo che, incidentale nel Buondelmonte,
diventa centrale nelle Amiche rivali, dove, messe a confronto con le
due unidimensionali figure maschili, Stefania ed Elvira brillano per
profondità, coerenza, integrità, abnegazione. Memore della lettera inviatale
da Castinelli il 25 settembre 1825, Angelica dà vita a due «amiche
rivali»dedite a mostrare, col loro comportamento esemplare, «che
l’abbandonarsi cecamente alla voce delle passioni ingiuste ed effrenate
[…] conduce nel precipizio […]; che deve ascoltarsi unicamente e
sempre la voce della propria coscienza»71.
Al contrario del Torrismondo tassiano, dove l’amicizia maschile si
spinge a odiosi misfatti72, nelle Amiche rivali l’amicizia, che in questo
caso riguarda due donne, risulta sentimento onorevole e pulito, che
cura di Francesca Favaro, e con un saggio di Patrizia Zambon, Padova, Padova
University Press, 2017).
70 A. Palli, Buondelmonte Buondelmonti: tragedia, cit., V, iii, pp. 61-62.
71 Giovanni Castinelli ad Angelica Palli, 25 settembre 1825, cit. (Biblioteca Labronica
Francesco Guerrazzi di Livorno, Fondo Palli, Busta 4, 58).
72 Cfr. G. Tellini, Tasso tragico. Il primo monologo di Alvida (I, i, 16-124), in Ead.,
[ 20 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 489
l’amore, a tratti, con sconcertante irrazionalità, arriva a macchiare, ma
che non riesce a inquinare del tutto. Basti pensare alla parte finale del
primo colloquio di Dalmanzi con Stefania ed Elvira (I, iv):
Elvira: [rivolta a Dalmanzi] Contempla barbaro le tue vittime, esulta
alle nostre lagrime, esse sono i trofei dei tuoi tradimenti… hai avvelenato
la nostra vita, ci hai ridotte a non vedere un fine alle nostre pene
fuorché nella tomba, ecco il risultato di ciò che tu chiami debolezza.
Stefania: Ma il tuo trionfo non è compiuto, non hai potuto infrangere
i legami della santa amicizia.
Elvira: Essa ci unisce ancora tuo malgrado73.
La scioltezza della prosa, sottentrata all’inamidato verseggiare del
Buondelmonte, diventa il mezzo espressivo più efficace per dare voce,
in modi piani e con naturalezza di ritmo, ai moti e ai tumulti degli affetti
(«hai avvelenato la nostra vita, ci hai ridotte a non vedere un fine
alle nostre pene fuorché nella tomba»).
Si veda anche la scena sesta dell’atto d’apertura, che precede il primo
incontro fra Stefania e Davila:
Stefania: Come ardirò presentarmi a Davila? O incontro per me tremendo…
infelice!
Elvira: Tu sei amata! Io sola sono da compiangere.
Stefania: Crudele! Ti pare che io non sia misera abbastanza?
Elvira: In mezzo alle tue pene tu gusti la suprema felicità! La colpa
stessa di Dalmanzi ti mostra a qual segno tu gli vieni cara… per te mi
ha tradita… per te ha affrontato il disonore… e ti chiami infelice.
Stefania: L’ira tua mi è insopportabile, ahi lassa, che posso fare per
placarla?
Elvira: Prendermi il cuore di Dalmanzi… io sola ne ho diritto… tu
perfida… l’usurpasti… ah, ch’io vaneggio!74
Doppiamente amata, Stefania è più equilibrata e meno imprevedibile
di Elvira, che, sebbene sia apparentemente tetragona, salda, indefettibile,
lascia talvolta affiorare in superficie, sotto forma di allarmanti devianze
umorali, l’odio per Dalmanzi e per la rivale: segno di una emotività
tenuta a freno e sotto controllo, ma intensa. L’impegno che dedica
nel cercare di vincere il proprio odio e di risolvere, se possibile, la que-
Tasso tragico e altri studi di letteratura teatrale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
2016, pp. 13-69, in particolare le pp. 25-28.
73 A. Palli, Le amiche rivali, cit., I, iv, p. 109.
74 Ivi, p. 110.
[ 21 ]
490 giulia tellini
stione è una ulteriore prova della sua statura morale. Alla fine, non a
caso, è Elvira ad architettare lo «strattagemma»75 che potrebbe permettere
alle Amiche rivali di concludersi senza spargimenti di sangue: è lei,
infatti, che consiglia a Dalmanzi di adagiare Stefania (che è svenuta) su
un sasso per farla credere morta a Davila, ed è sempre lei che obbliga
Dalmanzi a spegnere la lampada e a nascondersi. Stefania, però, appena
riprende i sensi, domanda dove sia Dalmanzi, tradendo così, di fronte a
Davila, la presenza dell’amante, che, poco dopo, si trafigge:
Davila: Io son fuor di me stesso… Elvira… costui…
Elvira: Sì… io sono l’amica e la rivale di Stefania… io sola merito l’odio
tuo, io che volli salvare il suo amante, io che la consigliai a fuggir
seco… se mi ascoltava, saresti deluso…
Stefania: Io ho tradito Dalmanzi! Me uccidi, me sola… Davila, il tuo
cupo silenzio mi atterrisce più che la morte.
Dalmanzi: Davila… in me affissa lo sguardo… su me sfoga l’ira tua,
su me che fui spergiuro alla tua sorella, e adoro Stefania.
Davila: Oh mostro… poss’io odiarti tanto che basti?
Dalmanzi: No… mai… ma tu pure non sei innocente. Io non ebbi virtù
bastante per vincere un amore violento… tu ti sei abbandonato a un
ingiusto furore. Le conseguenze potevano esserne terribili. Ti ho veduto
nel punto d’immergere un ferro nel seno di lei che tanto ami. Ah,
Davila, io lo avrei prima immerso mille volte nel mio!
Davila: Ma tu dimmi conosci che sia l’amare senza speranza? Il sapere
che un altro?… Oh nuova pena tu che tutto mi togli… tu ardisci ancora…
e sei amato… muori… ma no… fra i tormenti…
Dalmanzi: Ti prevengo… sii pago (trae fuori un pugnale e se ne trafigge)76.
L’amore, quindi, si conferma produttore di tragedie. Le amiche rivali,
tuttavia, è un dramma, non una tragedia. È in prosa e non in versi.
E le protagoniste sono due donne. Evidentemente, dopo il 1827, Angelica
si rende conto che l’esilità morale d’un Torrismondo merita meno
attenzione della statura eroica di un’Alvida, e decide di celebrare l’amicizia
femminile con un dramma in prosa, che si collochi a metà strada
fra tragedia e commedia. Da non sottovalutare anche lo sfondo
ambientale dell’opera.
Il castello nel quale il dramma si svolge non è più lo spazio mitico,
topico, leggendario, dal fascino ambiguo e misterioso, proprio del
mondo medievale e cortese, così come dell’universo epico-cavalleresco.
Non è un palazzo incantato, banco di prova di arditi cavalieri, né
75 Ivi, III, iv, p. 118.
76 Ivi, p. 119.
[ 22 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 491
una dimora favoleggiata capace di stupefacenti illusioni. Non ha neppure,
in senso moderno, la sinistra e aspra nobiltà del «castellaccio»
dell’Innominato, bensì si presenta come casa appartata e solitaria, luogo
di travaglio interiore, di tortuosi passaggi psicologici per spiriti
inquieti. Il castello si lascia alle spalle i drappeggi gotici o rinascimentali
come anche il fascino terrifico del romanzo nero e si umanizza,
acquista misure, dimensioni, fattezze umane. Diviene un ambiente da
teatro borghese, dove si consumano drammi individuali, sul piano
quotidiano degli affetti privati77.
Uno dei principali modelli di riferimento per le Amiche rivali è, infatti,
La novella sposa (1827) di Alberto Nota. Si tratta d’una commedia
in prosa, ambientata a Trieste, che ruota intorno alla vicenda di Elisa,
innamorata ricambiata d’Alfredo, ma«sposa novella» di Tebaldo: dopo
averle giurato amore eterno, a Milano, Alfredo torna a casa, promettendole
di sciogliere il fidanzamento che lo lega a un’altra e di ottenere
l’assenso del padre, ma, durante il viaggio di ritorno, si ammala
senza più riuscire a farle avere sue notizie. Elisa, nel frattempo,
dando credito alla voce in base alla quale lui ha moglie, si sposa con
Tebaldo. Quando l’azione ha inizio, Elisa è a Trieste col marito: inaspettato,
Alfredo si reca da lei per parlarle, e lei lo congeda per sempre.
Poi, dopo aver spiegato la situazione a Tebaldo, accetta di condurre
una serena esistenza matrimoniale insieme a lui:
Tebaldo: […] mia sposa, ti riconcilia meco, perdona all’agitata mia gelosia…
non dubito della tua fedeltà. Pensa che sarà beato quel giorno,
sarà il più bel giorno di mia vita, quando sentirò dal tuo labbro che mi
hai donato tutto l’affetto e di sposa e di amante.
Elisa: Il cielo vede tutti i miei pensieri, conosce il candore de’ miei
sentimenti; egli darà a me ed a voi quanto può abbisognarci perché sia
perfetta e sicura la nostra pace78.
A differenza di Alfredo e Tebaldo, che hanno entrambi ragione e
sono entrambi senza colpa, Dalmanzi e Davila hanno tutti e due torto,
e commettono errori a causa della loro debolezza: sono i tipici perso-
77 Sul tema del castello, utile il rinvio almeno a Italo Calvino, Castelli di delizie
e castelli del terrore (1974), in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Marino Barenghi, Milano,
Mondadori, 1995, 2 voll., II, pp. 1635-1647; Tiziana Lazzeri, Castello e immaginario
dal Romanticismo ad oggi, Parma, Battei, 1991; Camilla Giunti, Castello, in
Luoghi della letteratura italiana, introduzione e cura di Gian Mario Anselmi e Gino
Ruozzi, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 86-98.
78 Alberto Nota, La novella sposa, in Id., Comica Italiana dopo il Goldoni, Venezia,
Giuseppe Antonelli, 1832, V, viii, p. 73.
[ 23 ]
492 giulia tellini
naggi mezzani, da tragedia, di cui parla Tasso nel primo libro dei Discorsi
dell’arte poetica79. La debolezza di Dalmanzi, descritto come uomo
ipersensibile e malinconico80 nonché dotato di una dolce fisionomia81,
consiste nel cedere alla passione per Stefania venendo meno
alla promessa fatta a Elvira. Così troviamo nella scena terza dell’atto
primo:
Elvira: Un’altra amante! Per quanto la mia immaginazione mi offrisse
continuamente quest’idea, par che mi giunga nuova del tutto! E chi fu
l’indegna che accolse i voti d’un uomo la cui mano era già impegnata?
Dalmanzi: Deh non offenderla. Ella è innocente! L’ingannai.
Elvira: Opra degna di te. Scellerato.
Dalmanzi: La debolezza mi rende tale pur troppo; tardi il conobbi.
Amato da te e credendo di nutrire io pure una vera passione, viveva
felice attendendo il tempo delle nozze nostre, quando l’infausta mia
stella mi fece conoscere un oggetto che destò nel mio seno il tumulto
dell’amore il più ardente. Da quel momento mio padre, il sacro impegno
che mi legava, Elvira stessa, si dileguarono dalla mia mente; colei
che mi aveva tanto infiammato ne assunse sola l’impero.
Elvira: Ed io l’ascolto!82
La debolezza di Davila consiste nell’irascibilità, nel suo carattere
vendicativo e violento. Chi si crede forte (come Dalmanzi e Davila) in
realtà è debole, e chi pensa d’essere debole (Stefania ed Elvira) alla fine
si rivela forte. Tutti i dialoghi vertono infatti su un malinteso con-
79 Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica, in Discorsi dell’arte poetica e del poema
eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 12: «Richiede la tragedia
persone né buone né cattive, ma d’una condizion di mezzo: tale è Oreste, Elettra,
Iocasta […]. L’epico all’incontra vuole nelle persone il sommo delle virtù, le quali
eroiche dalla virtù eroica sono nominate. Si trova in Enea l’eccellenza della pietà,
della fortezza militare in Achille, della prudenza in Ulisse, e, per venire a i nostri,
della lealtà in Amadigi, della costanza in Bradamante; anzi pure in alcuni di questi
il cumulo di tutte queste virtù».
80 «Egli univa all’aspetto il più amabile l’aria d’una dolce malinconia, – dice
Stefania all’inizio, ricordando Evaristo – ogni sua parola portava l’impronta del
sentimento…» (A. Palli, Le amiche rivali, cit., I, i, p. 106).
81 Ivi, I, ii, p. 107. È molto probabile che, per il personaggio di Dalmanzi, Angelica
s’ispiri a Jean François Champollion (1790-1831), l’illustre egittologo che ha
una moglie e una figlia piccola a Grenoble, e che lei frequenta a Livorno dal marzo
al settembre 1826. Dopo il ritorno di lui in Francia, i due continuano a scriversi fino
all’agosto 1828. Le trenta lettere che Champollion le ha inviato sono state integralmente
pubblicate in Jean François Champollion, Lettres à Zelmire, éd. par Edda
Bresciani, Mayenne, L’Asiathèque, 1978.
82 A. Palli, Le amiche rivali, cit., I, iii, p. 108.
[ 24 ]
le amiche rivali: la scrittura teatrale di angelica palli 493
cetto di debolezza: Stefania dichiara che il proprio cuore è debole perché
non ha saputo resistere alle «troppo seducenti attrattive» di Dalmanzi83,
Davila definisce debole la sorella perché ama ancora Dalmanzi84,
Elvira si autodefinisce debole dopo che Stefania ha rifiutato la sua
proposta di fuggire con Dalmanzi85.
Chi è debole è destinato a soccombere, e chi non è debole soccombe
a sua volta: dei due uomini, uno si suicida, e l’altro, dopo aver ammesso
le proprie colpe, si rassegna alla solitudine; le due donne, però,
malgrado siano condannate a una perenne infelicità, si salvano grazie
alla loro «santa amicizia»86. L’amore, al contrario dell’amicizia, è uno
strumento di perdizione, una sciagura, una maledizione. E il cuore è
un piccolo e mendace organo muscolare che ha la tendenza a portare
le persone in luoghi dove sarebbe molto meglio non andassero mai.
Giulia Tellini
Università di Firenze
83 Ivi, I, i, p. 106.
84 Cfr. ivi, I, vii, p. 110.
85 Cfr. ivi, II, ii, p. 112.
86 Ivi, I, iv, p. 109.
[ 25 ]

Dino Manca
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione
di due romanzi di Giuseppe Dessì
L’oggetto della trattazione riguarda lo studio critico dei nuclei generativi di due
opere di Giuseppe Dessì: Luciana, ipotesi e progetto di un romanzo in fieri, al
quale l’autore aveva lavorato per molti anni, e Michele Boschino, pubblicato nel
1942 con le edizioni Mondadori. Lo studio si pone in continuità col lavoro di
approntamento dell’edizione critica che ha visto la luce nel 2011.

The subject of the discussion concerns the critical study of the generative nuclei
of two works by Giuseppe Dessì: Luciana, hypothesis and project of a novel in
progress, to which the author had worked for many years, and Michele Boschino,
published in 1942 with the Mondadori editions. The study is in continuity
with the work of preparation of the critical edition that saw the light in 2011.
L’oggetto della trattazione riguarda lo studio critico dei nuclei generativi
e delle primitive tradizioni avantestuali di due opere di Giuseppe
Dessì: Luciana, ipotesi e progetto di un romanzo in fieri, al quale
l’autore aveva lavorato per molti anni, e Michele Boschino, pubblicato
nel 1942 con le edizioni Mondadori.
Un tale studio si pone in evidente continuità col lavoro di approntamento
dell’edizione critica che ha visto la luce nel 20111. Per comprensibili
ragioni di foliazione, ma anche di fenomenologia e organizzazione
dei processi costitutivi, allora si decise di non pubblicare, ancorché
allogata in appendice, la sezione contenente i tre quaderni restituiti
(con l’eccezione del primo, contenente proprio il lacerto diegetico
di Luciana, storia incompleta e inedita), che rappresentano le prime
fasi di elaborazione di due opere conservate sotto un unico titolo.
Con il ritorno alla primitiva gestazione, dunque, si completa à
Autore: Università degli Studi di Sassari; professore associato di Filologia della
letteratura italiana; dinomanca@uniss.it
1 Cfr. G. Dessì, Le carte di Michele Boschino, ed. critica a cura di Dino Manca,
Centro di Studi Filologici Sardi, Cagliari, Cuec, 2011, pp. XI-LXXXVII.
496 Dino Manca
rébours quel processo testuale che, nella completa esplicazione della
parabola evolutiva, può offrire agli studiosi utili indicazioni di natura
non solo formale e contenutistica, ma altresì ecdotica, relativamente
alla genesi di due romanzi intrecciati in cuna:
Sto riscrivendo per la quarta volta la storia di un vecchio contadino che
abitava vicino a casa mia, in Sardegna. Un uomo che io ho conosciuto
sempre vecchio. Io sono cresciuto e lui si è conservato tale e quale per
tanti anni, fino a che […] ho saputo che era morto […] abbarbicato a
certi mai vecchi rancori e sostenuto da una nobiltà e fierezza d’animo2.
L’intera tradizione del romanzo Michele Boschino si trova conservata,
come si sa, nella Sala Manoscritti dell’Archivio Contemporaneo
«Alessandro Bonsanti», costituito presso il Gabinetto Vieusseux a Firenze.
Essa è parte del «fondo Dessì», tra i più importanti dei circa
centocinquanta ospitati nelle sale trecentesche di Palazzo Corsini Suarez,
in via Maggio 423.
Per più di vent’anni le carte erano state custodite a Roma, in via
Prisciano 75, in casa di Luisa Babini, compagna dello scrittore dal 1954
e sua seconda moglie dall’aprile del 1972. L’intenzione di donare gli
scritti del marito all’«Archivio Bonsanti» risalirebbe alla fine degli anni
Novanta e sarebbe testimoniata da una lettera datata sei gennaio
1997, anche se il vero atto formale di trasferimento delle carte è certificato
da uno scritto del ventuno gennaio 2000 indirizzato all’allora
Presidente del Gabinetto Vieusseux, Giovanni Ferrara, e al direttore
Enzo Siciliano4.
Il fondo consta di numerosi quaderni e taccuini, appunti preparatori,
stesure dattiloscritte in parte compiute, diari, carteggi, fogli sparsi
e annotazioni varie che precedono le redazioni definitive e autografe
dei racconti e dei romanzi, quando non rimaste allo stato embrionale
di nota o di abbozzo. Si deve al rigore e all’acribia filologica della
2 Lettera di Giuseppe Dessì a Renzo Lupo, 1941. La lettera si trova pubblicata
in Le corrispondenze familiari nell’archivio Dessì, a cura di Chiara Andrei, Firenze,
University Press, 2003, p. 30.
3 Sull’archivio Dessì cfr. Giuseppe Dessì. Storia e catalogo di un archivio, a cura di
Agnese Landini, Firenze, University Press, 2002; Le corrispondenze familiari nell’archivio
Dessì, cit.; Francesca Nencioni, A Giuseppe Dessì. Lettere di amici e lettori,
Firenze, University Press, 2009; D. Manca, Introduzione a G. Dessì, Le carte di Michele
Boschino, ed. critica, cit., pp. XI-LXXXVII.
4 Le clausole sottoscritte per la donazione furono: la catalogazione completa
del materiale, la pubblicazione del catalogo e l’affidamento ad Anna Dolfi del ruolo
di supervisione.
[ 2 ]
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 497
signora Babini la conservazione altresì – insieme al prezioso corpus
avantestuale e testuale – di una ricca documentazione paratestuale
fatta di carteggi, interviste, articoli, recensioni, traduzioni, pubblicazioni
periodiche con anticipazioni antologiche dei suoi romanzi migliori,
corrispondenze, informazioni accessorie che rendono edotto il
lettore della circolazione e della ricezione dell’opera5.
Analoghi criteri di raccolta e di organizzazione si riscontrano per i
testi drammatici, cinematografici e televisivi. Ai testimoni manoscritti
e dattiloscritti di sceneggiature, documentari, soggetti, elaborati vari
per il teatro, per la televisione e la radio, fa da corollario dell’altro materiale
completivo (articoli, opuscoli, lacerti di stampa, notizie sulle
traduzioni, copioni, riduzioni da romanzi, commenti a film). A ciò si
aggiunge una piccola raccolta di componimenti poetici dall’autore
mai definiti o perfezionati. Seguono saggi, introduzioni, presentazioni,
recensioni, traduzioni, monografie, interviste, dello e sullo scrittore
apparsi su antologie, riviste, quotidiani e cataloghi d’arte. Altre sezioni
del fondo sono costituite, inoltre, da quaderni, taccuini, agende con
annotazioni di carattere personale e, soprattutto, dalla preziosa corrispondenza
di ambito familiare, amicale e lavorativo6. Finisce la raccolta
una sezione miscellanea con materiali sui premi letterari e sulla sua
attività di pittore.
Michele Boschino è, quindi, giunto sino a noi secondo forme e modi
di trasmissione differenti, ossia: attraverso redazioni autografe non
compiute (tre quaderni di abbozzi, appunto, che precedono le redazioni
strutturalmente compiute e la stesura definitiva del romanzo e
che documentano i nuclei generativi e le primitive fasi di elaborazione
dell’opera); attraverso redazioni strutturalmente compiute ma non
5 Il materiale riordinato e schedato nel rispetto delle norme archivistiche giunse
a Firenze già organizzato in faldoni e raccoglitori sistemati a loro volta dentro
quattordici scatoloni accuratamente predisposti e numerati dalla vedova. Si tenga
conto, peraltro, che la Babini partecipò tanto alla formazione e alla conservazione
dell’archivio del marito quanto alla scrittura (con appunti, note, integrazioni di
titoli, segnalazioni, trascrizioni) fin da quando iniziò a vivergli accanto e in particolar
modo dopo che nel dicembre del 1964 l’uomo fu colpito da un’emiplegia. È
stato quindi dovere del catalogatore «presupporre da parte sua la conoscenza dei
criteri in base ai quali lo scrittore amava ordinare e conservare le proprie carte».
6 Il corpus è costituito dalle lettere dello scrittore al padre Francesco (e viceversa),
alla madre, al fratello Franco (e viceversa), a Luisa Babini (e viceversa), a parenti,
ad amici e a destinatari del mondo letterario, editoriale e massmediologico
(case editrici, riviste, giornali, teatro, televisione, radio); dalle missive della prima
moglie Lina Baraldi e di mittenti vari (colleghi, amici, scrittori, critici).
[ 3 ]
498 Dino Manca
ancora considerate definitive (tre elaborati dattiloscritti e un’ultima
bozza di stampa con correzioni manoscritte della prima edizione
Mondadori); attraverso redazioni parziali (due articoli usciti rispettivamente
su rivista quindicinale e mensile, i cui testi corrispondono in
larga parte al VI – con brani del X – e al XIII capitolo del romanzo);
attraverso, infine, redazioni compiute e considerate definitive (due
edizioni a stampa autorizzate, la prima del 1942 – edizione Mondadori
«Lo Specchio» – la seconda del 1975 – edizione Mondadori «Scrittori
italiani e stranieri»).
Il primo quaderno di abbozzi (Q – GD.1.2.1) reca nella copertina
illustrata il titolo Studi per Michele Boschino. Esso è a righe e il testo –
composto verosimilmente tra il 1939 e il 1942, generalmente in pulito
e con poche correzioni autografe a penna e a matita rossa – è contenuto
entro sei carte numerate nel recto e in cifre arabe da mano aliena
(probabilmente del catalogatore). Ogni carta misura 204×150 mm. La
scrittura, di una mano, è distribuita su ventidue righe nel recto e nel
verso, tranne la carta numerata 6, il cui specchio è contenuto nelle ventuno
righe; essa è corsiva, inclinata verso destra, con un angolo di 45°
circa, prodotta con un inchiostro nero. Il tratteggio, morbido, si caratterizza
per l’ampio calibro dei caratteri e per gli allunghi sopra la media.
Il ductus appare uniforme per intensità, ampiezza e altezza. Lo
stato di conservazione del testimone è buono.
Il secondo quaderno (Q1 – GD.1.2.2) non reca alcun titolo, è a righe
e il testo – composto anch’esso tra il 1939 e il 1942, con correzioni autografe
a penna e a matita blu, nera e rossa – è contenuto entro settantasei
carte doppiamente numerate sino alla quindicesima (la numerazione
autografa a penna coesiste, infatti, con quella a lapis probabilmente
del catalogatore da c. 5r a c. 15r), poi unicamente a matita nel
recto e in cifre arabe da mano aliena e recenziore. Ogni carta misura
307×210 mm. La scrittura, di una mano, è generalmente contenuta in
uno specchio di trentuno righe nel recto e nel verso; essa è corsiva, inclinata
verso destra, con un angolo di 45° circa, prodotta con un inchiostro
nero. Il ductus appare uniforme per intensità, ampiezza e altezza.
Intenso è il processo correttorio. Lo stato di conservazione del
testimone, nonostante si riscontrino gore d’umido, sbavature d’inchiostro
e residui di carte strappate (una tra le cc. 19-20, due tra le cc.
43-44 e otto tra le cc. 74-75), è nel suo complesso accettabile. Il contenuto
narrativo riguarda la seconda parte del romanzo.
La tradizione avantestuale si chiude con un terzo quaderno di abbozzi
(Q2 – GD.1.2.3), recante sulla copertina il titolo a penna Michele
[ 4 ]
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 499
Boschino, di trentacinque carte, a righe, il cui testo – composto tra il
1939 e il 1942, con correzioni autografe a matita e a penna nera e blu
– è contenuto dentro le trenta carte numerate (2-31) a lapis nel recto e
in cifre arabe da una mano altra (verosimilmente del catalogatore).
Ogni carta misura 310×204 mm. La scrittura, di una mano, è (tranne la
c. 31v) generalmente contenuta in uno specchio di trentadue righe nel
recto e nel verso; essa è corsiva, inclinata verso destra, con un angolo di
45° circa e prodotta con un inchiostro nero e blu. Per la grafia e il tratteggio
valgono le stesse argomentazioni sugli altri testimoni. Residui
di fogli tagliati ci sovvengono tra le cc. 1-2 e 24-25. Anche in questo
caso intenso è il lavoro revisorio dell’autore e, analogamente a quanto
già scritto, anche il contenuto diegetico di questa sorta di terzo brogliaccio
rinvia al «secondo racconto».
Il primo dei tre elaborati dattiloscritti (D – GD.1.2.4) – che ha trasmesso
testimonianza totale e strutturalmente compiuta del romanzo
(ancorché non ancora definitiva), dal quale si è approntata l’edizione
critica del 2011 e che costituisce altresì la matrice sulla quale si sono
geneticamente evoluti i due dattiloscritti che seguono – si compone di
duecentoventi carte sciolte, raccolte in cartella, con correzioni autografe
a penna. Ogni carta misura 282×220 mm. Lo specchio di scrittura
è, quando a pagina piena, contenuto nel recto e nel verso entro le ventinove
interlinee. In questa prima fase redazionale il lavoro correttorio
è ancora poco sostenuto. Lo stato di conservazione del testimone è
buono.
Il secondo e il terzo dattiloscritto (D1 – GD.1.2.5; D2 – GD.1.2.6), sono
copie carbonate del primo e contengono altre correzioni manoscritte a
matita e a penna (inchiostro nero, blu e rosso), attestando, come prima
evidenziato, la presenza di nuove fasi elaborative e di più stratificazioni
di varianti realizzate. In un caso (D1) le correzioni apportate sono di
mano autorale, nell’altro (D2) di mano diversa, verosimilmente intervenuta
in una fase successiva (ma sotto stretta sorveglianza dell’autore)
per ricopiare in forma leggibile e su una terza copia in pulito la
prima campagna correttoria condotta dallo scrittore e testimoniata da
D1. Era una consuetudine codificatoria, infatti, porre uno o due fogli di
carta carbone tra due o tre fogli di carta supplementari per poterne ricavare,
attraverso la pressione applicata dalla macchina per scrivere,
una o due copie dell’originale su cui poter continuare un eventuale e
prevedibile lavoro seriore di revisione testuale. Mentre D1 si compone
di duecentoventi carte sciolte, D2 si presenta cucito con fermagli.
Il processo rielaborativo continua, anche se solo in minima parte,
[ 5 ]
500 Dino Manca
con la bozza di stampa dell’edizione Mondadori del 1942 (B – GD.1.2.7),
che si compone di duecentocinquantanove carte sciolte, raccolte in
busta, con correzioni autografe a penna7. Ogni carta misura 228×165
mm. Lo specchio di scrittura è, quando a pagina piena, contenuto nel
recto e nel verso entro le trentadue interlinee. La numerazione [1-4], 11-
264, è a stampa, progressiva e in numeri arabi. Lo stato di conservazione
del testimone è buono, anche se mancano le carte numerate 144 e
145.
Per quanto riguarda le redazioni parziali ci restano due articoli rispettivamente
su rivista mensile e quindicinale: il primo uscito su
«Lettere d’oggi» (L – GD.1.2.8), il cui brano corrisponde, seppur con
difformità redazionali, al XIII capitolo del romanzo8; il secondo pubblicato
dalla rivista «Primato» (P – GD.1.2.9), il cui testo corrisponde,
con talune innovazioni, in larga parte al VI capitolo, con brani, parzialmente
modificati, del X capitolo9. Infine, chiudono la tradizione
testuale del romanzo, le due edizioni a stampa di Arnoldo Mondadori
Editore, rispettivamente del luglio 1942 (M1) e dell’agosto 1975 (M2)10.
Michele Boschino è un «doppio racconto», ciascuno con propria fonte
di emittenza narrativa, proprio orientamento ideologico e orizzonte
percettivo, proprio incrocio di punti di vista con rispettivi percorsi conoscitivi,
proprie situazioni pratico-esistenziali dinanzi alle quali si
pongono in relazione gli eventi narrati, non sempre legati fra loro e,
tuttavia, complementari e funzionali a una storia principale. Episodi
apparentemente diversi confluiscono, in modo non di rado speculare,
nell’alveo di un percorso condiviso riproducendone il paradigma diegetico.
Il «doppio racconto» ruota intorno a un centro di gravità, Michele
7 R accomandata espresso dalla Casa Editrice A. Mondadori, 20 maggio 1942
all’Illustre Prof. Giuseppe Dessì, R. Provveditore agli Studi di Sassari.
8 Cfr. G. Dessì, Dal romanzo inedito Michele Boschino di Giuseppe Dessì, «Lettere
d’oggi. Rivista mensile di letteratura», III (maggio 1941), 4, pp. 30-33. Nell’archivio
è conservata l’intera rivista.
9 Cfr. G. Dessì, Michele Boschino di Giuseppe Dessì, «Primato. Lettere e arti d’Italia
», II (1 aprile 1941), 7, pp. 9-11. Nell’archivio sono conservate tre copie dell’intera
rivista.
10 Cfr. G. Dessì, Michele Boschino, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1942
[Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1975]. Tenendo conto che il testo risultante
dal processo correttorio di B corrisponde a quello di M1 (B = M1). La sigla B designa
sia B (ultima bozza di stampa) che M1 (Iª edizione, 1942). Tra le edizioni seriori
si ricordano: Milano, Mondadori, 1978 (M3); Nuoro, Ilisso, 2002 (IL).
[ 6 ]
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 501
Boschino, appunto; ci restituisce la sua storia, il suo vissuto, la sfera
pragmatica in cui è coinvolto, la sua visione del mondo e della vita.
Questa sorta di «racconto ripetuto» sembra ripercorrere – secondo direzioni,
orientamenti e prospettive differenti – il corso di un fiume, in
un certo qual modo metafora della vita di un contadino del centro
Sardegna, vittima di soprusi e rancori che lui stesso vorrebbe a un
certo punto dimenticare per poter finalmente morire in pace:
Cose e gesti che ritornano, situazioni che si ripetono, dovrebbero vivere
nel libro come un albero vive nella campagna; vivere e rivelarsi dai
diversi punti di vista da cui l’occhio dello scrittore e del lettore lo guardano,
e nei mille possibili e taciuti punti di vista. Avere in sé queste
mille possibilità come cose reali. Credo che tutto il libro sia impostato
in questo senso. Ci sono due punti di vista che interferiscono, quello
oggettivo e quello soggettivo del giovane e della introspezione, ma il
racconto è solo apparentemente continuato: in realtà è ripetuto […]
Tutto sta in questa ripetizione, in questo aprire due punti differenti
sull’orizzonte, da cui convergono due raggi in un solo punto. Vorrei
che si sentisse la possibilità di mille altri raggi. Il lettore, nel mio ideale,
dovrebbe sentire, al di là della più rigorosa precisione della mia immagine,
il desiderio fantastico di ripensarla11.
Si tratta di un viaggio, soprattutto in un caso, dal forte taglio analitico-
memoriale, condotto in profondità (in entrambi i racconti attraverso
una marcata alterazione dell’ordine lineare degli eventi) da due
narratori diversi per statuto e funzione. La prima istanza produttrice
del discorso narrativo richiama, molto sinteticamente, un narratore
onnisciente, extradiegetico ed eterodiegetico. La seconda, più complessa,
ricorda un narratore omodiegetico, rappresentato, protagonista,
testimone (diretto e indiretto) e implicato nella vicenda12; emittente
della narrazione e agente della storia, quest’ultimo gravita intorno
al pianeta Boschino.
Nel secondo racconto, a forte connotazione psicologica, si accentuano
significativamente le incrinature (in parte già presenti nel primo)
degli schemi canonici della rappresentazione. La narrazione si
snoda attraverso una successione di eventi interiori che accompagnano
lo stesso sviluppo narrativo. Alla logica obiettiva e spazio-tempo-
11 Lettera di Giuseppe Dessì a Carlo Varese, 1947. La lettera si trova pubblicata
in G. Dessì, Dal romanzo inedito Michele Boschino, cit., pp. 32-33; Carlo Varese, Introduzione
a Michele Boschino, Milano, Mondadori, 1975, p. VII.
12 L’io narrante racconta innanzitutto se stesso, e fa di una parte della sua vita
l’oggetto del racconto.
[ 7 ]
502 Dino Manca
rale dei fatti, pur sperimentata e volutamente cercata13, si sostituisce la
coscienza particolare e frammentaria del personaggio, con effetti d’ingrandimento
dell’episodio rievocato quasi a scapito dell’economia
dell’insieme.
La dissoluzione dell’ordine lineare degli eventi – cifra strutturale
anche del primo racconto – è data ora, non più da un narratore onnisciente,
ma è il risultato di una percezione tutta soggettiva della durata,
lì dove cioè il tempo si riduce e si dilata secondo lo stato di coscienza
del giovane intellettuale, Filippo, che vive e racconta in prima
istanza il proprio vissuto; il ritmo del racconto è lo stesso del suo flusso
memoriale e coscienziale. Pensieri, retrospezioni, ricordi, riflessioni,
immagini, concorrono a costruire quella struttura a recuperi analettici
multipli che smaterializza, polverizzandolo, il tempo diegetico
e lo traduce, questa volta per il personaggio protagonista, in tempo
interiore. Il tempo storico si confonde cioè col tempo psicologico, soggettivo
e pulviscolare. La massa compatta del reale – come significato,
come storia e come gerarchia di valori – si frantuma, ricostituendosi
sotto forma di differenti galassie di senso. La realtà assume così aspetti
diversi secondo i punti di vista e l’angolazione prospettica. La memoria
dell’io narrante, secondo la dinamica dei cerchi concentrici, finisce
quasi fatalmente (grazie per altro all’aiuto di personaggi come
Maria e Linda con i quali lo studente istituisce una serie di relazioni)
con l’inglobare, nel dilatarsi, la memoria e il vissuto di Boschino. Il
lettore si trova piacevolmente coinvolto in un viaggio à rébours, a ritroso,
perduto tra i sentieri più reconditi della mente e dell’anima, in una
trama intimistica di ricordi, di sensazioni, di flash-back, partecipe di
un’opera di ripiegamento su se stessi, alla ricerca di un tempo perduto,
ora ritrovato e rivissuto, quello dell’infanzia e della vita del giovane
studente, che interseca, a un certo punto, il tempo immobile del vecchio
ortolano.
Si assiste a un lavoro di scavo, di riesumazione e riabilitazione alla
ricerca di un senso, di un file rouge, in un momento favorevole e gradito,
segnato da una sorta di beata solitudo che diviene balsamo e lenimento
di un presente segnato dall’immobilità fisica14. Passato e presente
si alternano e si sovrappongono in un susseguirsi, a tratti sfumato,
di accadimenti e di figure inestricabilmente legate fra loro; una
13 Si confronti, a tal riguardo, la ricostruzione «obiettiva», logico-cronologica
delle vicende di Boschino fatta per via epistolare da Maria.
14 L’evocazione, intesa come atto di coscienza del presente, non può non rimanere
condizionata dall’adesso temporale.
[ 8 ]
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 503
successione che si dissolve nell’indefinitezza temporale e nell’impercettibile
confine che talvolta corre fra pensiero e realtà. Il tempo della
memoria diventa tempo elastico, fluido e soggettivo, della fantasia e
della trasfigurazione, di là della realtà, su una dimensione altra che
non tollera la misura oggettiva:
Vale la pena di scrivere solo per raccontare fatti che non sono accaduti,
o per “travisare”, trasformare, rivivere con la fantasia fuori del tempo
reale, nel tempo della memoria, i fatti accaduti. Vale la pena di parlare
di Elisa, che non è mai esistita, e di Boschino, che continua, completa,
interpreta, spiega Giuseppe Rasino […]15.
I dati emersi dalla collatio attestano l’esistenza di numerose lezioni
divergenti tra i testimoni. Le varianti interne a D e quelle intercorrenti
fra D, D1, D2, B e M2, mostrano un percorso correttorio vario e articolato
per tipologia, tempi e modi d’esecuzione, fasi elaborative e impianto
stratigrafico. Il risultato di tale processo restituisce un’identità
testuale e redazionale che generalmente coincide, almeno nell’impalcatura
diegetica e nella struttura segnica del racconto, con le edizioni
a stampa. Le varianti intercorrenti tra i vari testimoni sono, infatti, di
prevalente natura discorsiva, linguistica e stilistica.
Discorso differente va fatto per Q, Q1 e Q2. Sebbene essi contengano
nuclei narrativi che trovano sviluppo integrale nelle redazioni
strutturalmente compiute del romanzo, tuttavia, come già scritto all’inizio,
la fenomenologia dei processi costitutivi e comparativi, proprio
in ragione della natura stessa del testo tràdito, non ha consentito un
confronto proficuo tra tradizione organica e disorganica. Si tratta, infatti,
di abbozzi, canovacci, embrioni di racconto, tracce e imbastiture
diegetiche, prime formulazioni utili per sorprendere in nuce il laboratorio
di scrittura e la palestra compositiva del suo auctor. Spesso la
stessa unità di contenuto narrativo autonomo è riproposta più volte,
con varianti e difformità di lezione formali e sostanziali. Nessun chiaro
riferimento temporale aiuta a stabilire in modo certo l’ordine logico-
cronologico e il rapporto genetico intercorso tra i quaderni (tutti e
tre composti tra il 1939 e il 1942).
Per la qualità e l’identità ancora marcatamente informe del testo
eper gli avulsi ed estemporanei contenuti diegetici – visti e consideratiin
relazione alla fabula nel tempo evolutasi – appare da subito chiaro
15 G. Dessì, Diari (1931-1948), a cura di Franca Linari, Roma, Jouvence Dessì,
1999, p. 81.
[ 9 ]
504 Dino Manca
che il testimone siglato Q rappresenti lo stadio primigenio di un altro
romanzo. Infatti, nonostante il titolo dato al quaderno (Studi per Michele
Boschino), quasi nulla corrisponde alla vicenda del contadino di
Sigalesa.
Per di più non aiuta il fatto che il racconto si interrompa nella sua
fase aurorale, dopo undici pagine. I soli riferimenti testuali che si trovano
confermati nella tradizione seriore sono due toponimi di fantasia,
Acquapiana e Ruinalta, che però ricorrono in altre opere di Dessì
(Il disertore e La scelta), e quindi da ritenersi di trascurabile valore probante.
Si narra invece di Battista Aricutu ed Edoardo Babila, di Alina Eudes
e Maurilia Cabras, di Sabina Zae e del fidanzamento della figlia
Luciana con Giovanni, figlio di Edoardo. Sono antroponimi questi che
semmai abitano il microcosmo narrativo di un altro romanzo, l’incompiuto
Luciana:
Sabina si legò il grembiale alla vita, si fasciò16 il mento con le cocche del
fazzoletto rimboccate l’una sotto l’altra in modo da lasciare appena
scoperta la bocca, e si pose17 sulla testa la corba vuota. Dritta come un
fuso, con i neri vestiti vedovili che la facevano apparire anche più magra,
fece un mezzo giro su se stessa, e con una sola occhiata ispezionò18
la stanza prima di uscire e chiudere la porta: il tavolo19 spaccato e lustrato20
per tutta la lunghezza e annerito dal tempo, le rustiche seggiole21
contro il muro, i ventagli di cartoline illustrate sotto le rotonde paniere
grandi come ruote di carro e infiocchettate di sbiaditi nastri di
lana, i cesti22 d’aranci da portare // a vendere ad Acquapiana il giorno
dopo. Girò due volte la grossa23 chiave nella toppa, scosse24 la porta per
vedere se fosse chiusa a dovere. Un’occhiata al cancelletto del portico25,
alla legnaia, sempre diritta26, alle finestre delle case prospicienti al
vasto cortile27 scosceso e roso dalle piogge, poi, sempre tenendo28 in
16 vita, si fasciò] vita, >alo bs’aggiustò il fazzolett sott< si fasciò 17 si pose] •si pose (>portan<) 18 ispezionò] |ispezionò| (>abbra<) 19 porta: il tavolo] porta: >Sabina non aveva mai visto un teatro< il tavolo 20 e lustrato] /.e lustrato/ 21 le rustiche seggiole] >ae le, bglicseggi< le rustiche seggiole 22 nastri di lana, i cesti] |nastri| (›stracci‹) di lana, >ala grande bla cle co< i cesti 23 grossa] /grossa/ 24 toppa, scosse] toppa, >se la infilò nella cintura< scosse 25 del portico] del >forno< portico 26 diritta] >rigò< diritta 27 al vasto cortile] al >cortile< vasto cortile 28 tenendo] >con< tenendo [ 10 ] Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 505 equilibrio la corba sulla testa, con un movimento da acrobata29 si chinò rapida30 e nascose la chiave in un buco del muro a livello del suolo. I suoi occhi chiari come quelli delle capre nel31 viso segnato da una costante volontà di difesa e, in quel momento, da un pensiero che l’assorbiva e stimolava tutte le sue energie di donna // abituata a difendersi da sola in un mondo malevolo o nemico32, diedero intorno un’altra occhiata sospettosa. Calcolò l’ora, il tempo che avrebbe impiegato ad arrivare33 all’orto di Battista Aricutu, e quello che ci34 avrebbe messo Carmela35 a tornare dal fiume. Le premeva tornare a casa prima della figlia minore in modo da mandarla, come le sere precedenti, in casa di36 sua sorella Rosa. Per37 ora era bene che i Giovanni Babilanon trovasse in casa altri che lei e Luciana. Voleva però parlare con Lica, quella sera, e prevenirla, perché sentiva che la tempesta stava per scoppiare. Lica, bisognava prevenire, e anche le38 sorelle: Rosa, Lucia e Anna, perché a loro volta // lavorassero i loro uomini, se no, questa39 volta, non avrebbe evitato le legnate che suo zio Martino le aveva promesso. Sfortunatamente una donna non può far nulla senza dar conto ai parenti. Lei se n’era sempre infischiata, e aveva sempre fatto ciò che le era tornato utile, ma pure bisognava, almeno in apparenza, sottomettersi, se si voleva vivere in pace. Eppoi essa aveva bisogno del loro aiuto. Dell’aiuto di tutti i parenti, femmine e maschi. Uscì40 dal cortile, chiuse anche, con cura, il cancelletto di legno, e nascose la chiave in un buco del muro, dalla parte interna, passando il suo magro braccio tra le stecche41, benché chiunque, salendo, potesse entrare nel cortile // scavalcando l’altro42 cancello, largo come una porta carraia, e da cui appunto, in altri tempi, entrava il carro, quando viveva il marito. Ma nessuna43 casa di Ruinalta aveva porte che non si potessero buttar giù con una spallata, cancelli che non si potessero scavalcare. Le serrature dei cancelli erano le stesse di cento, di mille, di 29 movimento da acrobata] movimento |da acrobata| (>rapido da acrobata<) 30 rapida] /rapida/ 31 capre nel] capre >nelle [-]< nel 32 malevolo o nemico] |malevolo| (>nemic<) o >[-]< nemico 33 arrivare] |arrivare| (>andare<) 34 ci] /ci/ 35 messo Carmela] |messo Carmela| (>impiegato Carmela<) 36 di] •di (>del<) 37 Per] >aPerbAnche< Per 38 le] •le (>gli<) 39 se no, questa] se no, >|l’avrebbero| (›l’avrebbe‹)< questa 40 maschi. Uscì] maschi. >Chiuse anche con cura il cancell< Uscì 41 stecche] stecche >di legno< 42 l’altro] |l’altro| (>il<) 43 Ma nessuna] Ma >non sempre si< nessuna [ 11 ] 506 Dino Manca duemila anni fa: serrature di legno, con chiavi44 di legno a due o tre denti, che potevano essere facilmente sostituite dalle dita con l’aiuto di uno stecco manovrato abilmente. Se non che, chiudere una porta, o un cancelletto, non significa altro, per la // gente di Ruinaltache, chiudere un circolo magico entro il quale ci si sente al sicuro. Non è un simbolo. È molto di più. Dentro il circolo magico si dorme sicuri, e si può lasciare sicuri la propria casa, nella quale resta sempre una parte della nostra anima mentre noi siamo assenti. Noi possiamo andare su le strade con una corba in testa, guardare la gente, salutare e rispondere ai saluti, comprare e vendere, ascoltare e rispondere, e la nostra anima sta seduta nella casa, come un odore che un soffio di vento può portarsi via, seduta al sicuro al centro del circolo. Sabina passò davanti alle // finestre di Maurilia Cabras e diede un’occhiata rapita e penetrante, ma di quelle occhiate che penetrano da uno spiraglio e girano tutta la casa e guai se incontrano qualcuno perché lo colpiscono diritto al cuore e per un momento gli troncano45 il respiro. Guardò una dopo l’altra le finestre. In una sala c’era luce: quella del salotto. Sabina sapeva che lì stavano i ragazzi e le ragazze46, la sera, a ricamare47, a scrivere, a giocare a dama o a poker, Giulia, Ines, Paolo, Emanuele…48 mentre la vita vera si svolgeva nelle stanze in fondo che davano all’altra strada. Quelle finestre erano più alte e protette da inferriate. Non si vedeva dalla strada la famiglia della vedova // Maurilia Cabras intorno alla tavola49 riccamente imbandita, né si vedeva la ricca e fonda cucina, né le stanze piene di ogni ben di dio. Qui nella50 stanza illuminata, rivedeva il soffitto dipinto, i tendaggi, il gambo del lampadario sotto il quale stava, Sabina lo sapeva, una tavola tonda sulla quale Eugenia posava51 il suo cestino da lavoro e Ines ed Emanuele i loro libri e i loro quaderni. Gli altri stavano seduti sul sofà. Domani o dopo avrebbero saputo che loro cugino, Giovanni Babila, figlio di Edoardo Babila e di Alina Erides, unico erede s’era fidanzato52 con Luciana Zae. // La tempesta sarebbe scoppiata. Ma Sabina è abituata alle tempeste è abituata53 alla siccità. Non teme nulla. Quando la gente si sarà sfogata ben bene, questo fatto rimarrà: Luciana fidanzata a Gio- 44 legno, con chiavi] legno, >usate certo dagli antichi che si potevano< con chiavi 45 al cuore…troncano] al cuore e /per un momento/ gli |troncano| (>danno<) 46 ragazzi e le ragazze] ragazzi >, la sera, a< e le ragazze 47 a ricamare] a |ricamare| (>giocare<) 48 Giulia, Ines, Paolo, Emanuele…] /Giulia, Ines, Paolo, Emanuele…/ 49 intorno alla tavola] |intorno alla tavola| (>a tavola<) 50 Qui nella] Qui >si< nella 51 posava] |posava| (>teneva<) 52 s’era fidanzato] >di due< s’era fidanzato 53 è abituata] >com’< è abituata [ 12 ] Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 507 vanni Babila, Giovanni Babila compromesso, impegnato, e tutti i parenti di lei, Sabina, e del suo povero marito, maschi e femmine, impegnati a difendere l’onore54 della famiglia. Chi sa! Sabina aveva, su questo punto, i suoi dubbi; ma tuttavia qualcosa sarebbe rimasta: il ragazzo era già fin troppo legato, «cotto» era, e non capiva più nulla. Non avrebbe mai immaginato che sua figlia potesse far perdere // la testa a un uomo, né che un uomo potesse perderla a quel modo. Lei era avvezza a vedere gli uomini infoiati sì, ubriachi55 di desiderio, ma non pazzi come questo. Perché era pazzo, così tranquillo, discreto, e risoluto a non lasciarsi smuovere nei suoi propositi. Sembrava che neppure la desiderasse, Luciana. Lei, Sabina, non sapeva cosa facevano quand’erano soli, ma tutto lasciava pensare che Luciana dicesse la verità quando affermava che non le aveva mai messo le mani addosso. Diceva di voler fare scuola a Luciana, e le aveva56 portato libri e quaderni. Pazzo era. Un pazzo quieto. E // lei non era donna da lasciarsi sfuggire un’occasione simile. V’erano nove probabilità su dieci che la cosa non riuscisse: ma v’era pur sempre, su dieci, una probabilità. E se anche qualcosa, Dio non voglia, fosse successa alla ragazza… Ma a questa probabilità Sabina non vuol neppure pensare. È troppo sicura di sé, e oramai è troppo tardi, in tutti i casi, per metterlo fuori dalla porta. In casa Babila tutte le finestre sono spente57. Questa è la finestra dello studio di Edoardo, questo il salotto, questa la stanza da lavoro di Alina58 //59 La gestazione del romanzo Luciana fu lunga. Il progetto fu avviato a partire dal 1940, dopo la pubblicazione di San Silvano60. La stesura incompleta del testo (Dessì lasciò solo la prima delle tre parti che dovevano comporlo) è giunta sino a noi tramite un dattiloscritto conservato nell’Archivio «Bonsanti» (GD – 0.1.76). L’elaborato si compone di centodieci pagine: sei carte iniziali, aggiunte in tempi successivi da Luisa Babini, un’introduzione autorale (dodici pagine nelle quali si 54 difendere l’onore] difendere >il< l’onore 55 ubriachi] >ma< ubriachi 56 e le aveva] e /le/ aveva 57 spente] /chiuse/ >spente< 58 Edoardo, questo…Alina] Edoardo, >che certo< questo il salotto, questa la stanza da lavoro •di (>dove<) Alina >andava a sedersi la sera< 59 Cfr. G. Dessì, Le carte di Michele Boschino, ed. critica, cit., pp. 283-286. 60 Su Luciana cfr. F. Linari, Luciana, ipotesi di un romanzo, «La Scrittura», V (2000), 12, pp. 6-11; Anna Dolfi, Prefazione a G. Dessì, Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, Nuoro, Ilisso, 2004, pp. 12-13; Nicola Turi, Giuseppe Dessì. Storia e genesi dell’opera con una bibliografia completa degli scritti e sull’autore, Firenze, University press, 2014, pp. 107-109. [ 13 ] 508 Dino Manca spiegano, in prima e in terza persona, le ragioni del romanzo), la storia narrata in terza persona (novantatre pagine)61. Luciana Zae era una ragazza di Villacidro, conosciuta da Dessì nel 1928 e della quale era stato innamorato (si chiamava Natalina ed era stata donna di servizio presso la casa delle cugine dello scrittore). La stessa Luciana che incontriamo nelle pagine di Vacanze nel Nord62, racconto di Lei era acqua, silloge composta tra il 1945 e il 1965, dell’Inverno63 e di Cacciatore distratto (La sposa in città)64, del romanzo I passeri65, che riprende i personaggi già apparsi nell’Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo66: Giacomo Scarbo… Luciana… A Luciana ho lavorato, senza mai finire il libro: ma credo che lo finirò. È una cosa legata anche al dubbio che ben conosci: autobiografia o forma oggettiva. È una continua oscillazione … Credo … che scriverò subito un altro piccolo libro, e non penso neppure alla forma autobiografica, benché c’entrino anche esperienze mie. Luciana e Giacomo Scarbo sono legati alla prima giovinezza quasi carnalmente, sono anzi “adolescenti”67. Secondo la testimonianza di Luisa Babini, la storia di Luciana sarebbe dovuta essere organicamente sviluppata ne La scelta68, romanzo rimasto incompiuto per la morte dell’autore. Peraltro anche altri personaggi, presenti nel romanzo in fieri, si ritrovano rifranti nelle pagine di differenti racconti. Il protagonista, Giovanni Babila, ad esempio, lo troviamo come una variante attanziale del Giacomo Scarbo di San Silvano69 61 La prima delle sei carte – con sul retro pinzato un foglietto recante una breve nota biografica su Natalina (ispiratrice reale di Luciana) – riporta la scritta «Giuseppe Dessì storia incompleta e inedita di Luciana». Seguono due pagine con la poesia La più piccola stella Aldebaran. Chiudono quattro carte contenenti il riassunto del romanzo estrapolate da una lettera a Claudio Varese. Cfr. F. Linari, Luciana, ipotesi di un romanzo, cit., p. 6. 62 Cfr. G. Dessì, Vacanze nel Nord, in Id., Lei era acqua, Milano, Mondadori, 1965, pp. 239-265. 63 Cfr. G. Dessì, Inverno, in Id., La sposa in città, Modena, Guanda, 1939, pp. 143- 151. 64 Cfr. G. Dessì, Cacciatore distratto, in Id., La sposa in città, cit., p. 161. 65 Cfr. G. Dessì, I passeri, Milano, Mondadori, 1953. 66 Cfr. G. Dessì, Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, «Il Ponte», III, maggioottobre (1948), 2, vol. 4, pp. 699-706. 67 Lettera di Giuseppe Dessì a Claudio Varese, 26 giugno 1945. Cfr. A. Dolfi, Prefazione a G. Dessì, Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, cit., pp. 12-13. 68 Cfr. G. Dessì, La scelta, Milano, Mondadori, 1978. 69 Cfr. G. Dessì, San Silvano, Firenze, Le Monnier, 1939. [ 14 ] Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 509 e dell’Introduzione70 alla Sposa in città71. Analogamente ciò accadrà per Barbara72. Perché, dunque, un lacerto di Luciana, che ha conosciuto sviluppi e diseminazioni molteplici, si trova in un quaderno che reca come titolo Studi per Michele Boschino? In questo caso è verosimile l’ipotesi meccanica, ossia che l’autore, dopo aver dato il titolo al quaderno, abbia utilizzato lo stesso per abbozzare l’inizio di un’altra storia. Tuttavia non escludiamo, anche alla luce degli intrecci e delle contaminazioni tra opere diverse del ciclo Alicandia-Scarbo (San Silvano, Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, I passeri, La scelta) riscontrate in Q1 e Q2, che Dessì abbia sperimentalmente voluto inserire nuclei generativi di racconto destinati nelle prime intenzioni a evolvere in opere strutturate, entro un progetto articolato e un cantiere creativo e compositivo sempre aperto. Certamente legato alla genesi del romanzo e alle origini elaborative di Michele Boschino è il testimone autografo Q1. In esso troviamo l’originaria stesura di episodi riguardanti sia la prima (Severina si accorge di essere incinta) che la seconda parte del libro (le lettere di Maria, il ricordo della caduta, la descrizione di Linda, il primo incontro con Boschino e la visita in casa del vecchio). Come non mancano le lezioni che, presenti nel manoscritto, non trovano accoglienza nel dettato dei testimoni strutturalmente compiuti. Relativamente al lavoro di potatura intercorso tra Q1 e D, in questo contesto argomentativo merita menzione una riflessione su I sogni del pigro73 di Moravia fatta dallo studente Filippo che non avrà seguito nelle redazioni seriori: Questo74 libro di Moravia ha avuto una sorte curiosa. Ha trovato, al75 suo apparire, una sistemazione critica bella e pronta. Il giudizio76 di valore è stato concorde, deciso77. Tale facilità78 deriva forse dal fatto che al giudizio di valore si giunge per via diretta seguendo lo sviluppo 70 Cfr. G. Dessì, Introduzione a Id., La sposa in città, cit., pp. 7-16. 71 Cfr. F. Linari, Luciana, ipotesi di un romanzo, cit., p. 6. 72 Cfr. G. Dessì, Innocenza di Barbara, inId., Racconti vecchi e nuovi, Roma, Giulio Einaudi Editore, 1945, pp. 211-226. 73 AlbertoMoravia, I sogni del pigro, Milano, Bompiani, 1940. 74 soltanto. Questo] soltanto. >Alzarsi dopo quaranta giorni dal letto, mentre
fuori piove. Avere la sensazione che nulla è cambiato, che nulla cambierà. Sentirsi
la testa pesante, le< Questo 75 al] |al| (>nel<) 76 Il giudizio] >Come per i capolavori il< Il giudizio 77 concorde, deciso] concorde, (← concorde) >e< deciso 78 Tale facilità] >[-] nel dire che il libro [-] come avviene all’apparire di un capolavoro
[-]< Tale facilità [ 15 ] 510 Dino Manca della maniera del Moravia dalle sue opere narrative propriamente dette a questi Sogni del Pigro, che sono una raccolta79 di ritratti morali, // I Sogni del Pigro hanno avuto la sorte di trovare una sistemazione critica bella e pronta nel loro apparire. Il giudizio di valore, senza incertezze, deciso80 e concorde è scoccato, al suo nascere, come un rintocco; e la mancanza81 di dubbi in questo giudizio si deve forse al fatto che esso si appoggia alla linea di svolgimento che unisce quest’ultimo libro alle altre opere del Moravia. Per questo82 ci vien fatto naturale di83 ricordare quel che // Nei racconti84 mitici allegorici dei Sogni del Pigro di Albero Moravia, si è voluto vedere una ricerca di stile; un’«influsso della prova d’arte». «Sia benedetta ancora una volta la santa letteratura (scrive E. Falqui…) per essere riuscita a mettere la pulce dello stile nell’orecchio a un narratore che pareva, e l’ostentava, non volesse saperne» Sia benedetta perché Moravia85, che «ha pieno atto di determinati problemi e di conseguenza ne assume i relativi impegni», se anche non ha raggiunto qui, in tutti i capitoli del suo nuovo libro «la sua più giusta e compiuta espressione », in avvenire «la perseveranza gliene darà certo il possesso». È un invito dunque, da parte di Falqui, a persistere, a persistere con fiducia, con impegno, anche a rischio di rompersi l’osso del collo. Ma guai se Moravia, come il personaggio86 del suo Chiromante, avesse perduto la fiducia nel futuro. //87 Volta al sottinteso è invece la scelta di non riportare successivamente l’unico luogo del testo nel quale Filippo ricorda il padre, partito per la guerra da cui non fece ritorno: Prima di88 partire per il fronte, il babbo avrebbe voluto lasciarci una 79 una raccolta] una >sorta di< raccolta 80 senza incertezze, deciso] senza certezze, >senza< deciso 81 e la manzanza] >Si giudicano con tanta prontezza e sicurezza solo i capolavori,
e la [-]< e la mancanza 82 Moravia. Per questo] Moravia. (← Moravia,) >chiarissima per se stessa, anche
troppo< Per questo 83 ci vien fatto naturale di] ci vien ›fatto naturale‹ fatto naturale (← naturalmente) di 84 Nei racconti] >Il [-]< Nei racconti 85 Moravia] |Moravia| (>Falqui<) 86 il personaggio] il >suo chiromante< personaggio 87 nel futuro] nel futuro. >|A malincuore mia madre s’era adattata| (>ad abitare
in quella casa<) a prendere in affitto quella casa né rustica né civile< 88 Prima di] >aQuando il babbo era partito per il fronte nel [-] bNel breve periodo
di [-] tra la guerra libica e la guerra mondiale< [ 16 ] Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 511 casa nostra. Ormai89 non potevamo più abitare in casa del nonno, essendosi sposati anche i fratelli della mamma, e non c’era nessuna convenienza a stare in città, dove la vita diventava90 ogni giorno più difficile. […] La speranza rinacque così nel loro cuore91 prima che la guerra fosse finita, quando l’avvenire era ancora sicuro. Il babbo ripartì e poche settimane più tardi giunse la notizia dell’armistizio. Per me la storia del nostro soggiorno in quella casa comincia da questo punto. // L’autore tende a espungere soprattutto quelle digressioni informative e descrittive sulla vita del personaggio che altrimenti avrebbero dilatato oltremodo il racconto sull’asse crono-topico, riducendo l’efficacia rappresentativa di Filippo e depotenziando la sua primaria funzione di «filtro diegetico», attraverso il quale ci viene restituito l’altro Boschino. Dessì lavora perciò sul non detto, preferendo la reticenza, la falla diegetica, la dissolvenza narrativa. Ma il dato più interessante emerso dallo studio riguarda le prime pagine. In esse muta l’identità segnica di eventi ed esistenti. Intorno ad alcuni episodi, infatti (la morte di Boschino prima, il suo incontro con il protagonista e la visita in casa del vecchio poi), gravita e agisce una fauna umana che non comprende ancora Filippo, Maria, Isabella, la signora Bianca e la signora Amelia. Il paese non è Ultra. Il protagonista, che parla in prima persona, dopo aver trascorso l’infanzia in casa del nonno Uras, va a vivere a San Silvano, presso Maria Scarbo, insieme ai fratelli Elisa e Giulio. Il personaggio principale perciò non può che essere Pino Alicandia, lo stesso di San Silvano. In questo gioco di scomposizione, riproposizione e rimandi – tipico del modus dessiano (lo stesso personaggio può presentarsi in ruoli e modalità differenti in romanzi diversi) – sembra che l’autore abbia, almeno nella fase di gestazione, tentato di inserire la storia bipartita di Michele Boschino all’interno del filoneAlicandia- Scarbo. La qual cosa potrebbe peraltro restituire un senso logico anche alla scelta narrativa (Luciana), apparentemente incomprensibile, testimoniata dal primo quaderno92: 89 Ormai] >Se tornava dalla guerra< Ormai 90 dove la vita diventava] >perch< dove la vita >era p< diventava 91 loro cuore] |loro cuore|(>cuore di l<) 92 Dessì pubblica una serie di romanzi accomunati dalla presenza costante di personaggi appartenenti alla famiglia Alicandia e alla famiglia Scarbo, tra cui San Silvano, Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, I passeri e La scelta. Non si tratta di un ciclo sistematico che intende seguire le vicende delle due famiglie in ordine [ 17 ] 512 Dino Manca Io avevo lasciato da poco la casa del nonno Uras ed ero venuto ad abitare con donna Maria Scarbo e i miei fratelli e donna93 Maria faceva venire qualche ragazzo del paese a tenermi compagnia94. È stato questo l’ultimo periodo della mia infanzia nel95 quale io, e non per mia volontà, abbia frequentato ragazzi di San Silvano. Forse donna Maria vedendomi incline alla solitudine cercava di vincere questa tendenza, secondo lei deleteria, procurandomi quei compagni di giuoco che io, da me solo, non avrei mai cercato. I Ben, a quel tempo, non erano ancora venuti a San Silvano. […] Solo96 quando incontrava donna Maria Scarbo si toglieva la berretta. Noi ragazzi non ci salutava: si fermava e si voltava per vederci allontanare e i suoi piccoli occhi grigi brillavano di simpatia nel viso rugoso. Ma questa simpatia sembrava allora interamente rivolta a Elisa e a Giulio. Di me, forse perché ero venuto da poco in casa dei miei fratelli, non sembrava neppure accorgersi, questo atto mi dispiaceva, perché avrei voluto vedere ricambiato l’interesse che nutrivo per lui. // Anche l’abbozzo di racconto contenuto nel terzo quaderno (Q2) presenta un narratore interno alla storia che ripropone alcune unità diegetiche che troveranno emanazione nelle redazioni compiute, alcune inedite (la morte di Giuseppe e la successiva vendita dei buoi da parte di Michele, che intende licenziare il servo) altre già scritte nel secondo brogliaccio (la morte di Boschino, il primo incontro e la visita in casa del vecchio). Dessì inserisce Pino Alicandia come protagonista del romanzo ma la porzione di testo si presenta questa volta cassata. Le principali differenze sostanziali rispetto agli altri testimoni riguardano alcuni antroponimi: la signora Amelia diventa la signora Gianna e Donato, fratello di Maria e Isabella, diventa Filippo. In una visione d’insieme, sul piano contenutistico, a prescindere dalle varianti, gli ultimi due quaderni portano testimonianza quasi totale della genesi della seconda parte del romanzo. Nello specifico accolgono tutti gli eventi che Filippo ricorda durante la sua convalescenza fino alle lettere di Maria (il ricordo della caduta, la descrizione di Linda, il racconto del primo incontro con Boschino e le loro successive conversazioni) e la scoperta della morte del vecchio. Manca invecronologico. Lo stesso personaggio può presentarsi prima come adulto, poi come bambino; può essere il protagonista o un personaggio marginale, oppure essere presente solo come un ricordo. 93 fratelli e donna] fratelli >nella ca< e >donna Maria [-]< donna 94 tenermi compagnia] tenermi >a< compagnia 95 infanzia nel] infanzia >che io abbia< nel 96 Solo] >Quando incontrava< Solo
[ 18 ]
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 513
ce tutta la parte risolutiva in cui Filippo si reca dall’avvocato Antonino
Colliva per cercare di capire chi si è appropriato del denaro di Boschino
e Linda va a Ultra per conoscerlo.
Il lavoro di comparazione svolto tra l’avantesto e l’edizione a stampa
(M2) ci ha restituito un percorso evolutivo ricco di varianti e difformità
sostanziali relativamente a quasi tutti gli aspetti della storia e del
discorso: esistenti, pragmatica, unità descrittive, informanti spaziotemporali,
dispositio logico-cronologica degli eventi (che, come detto,
seguono il flusso memoriale del protagonista e proustianamente si
dilatano nella sua coscienza). Una difformità strutturale importante,
riguarda, ad esempio, la genesi delle riflessioni di Filippo che seguono
le lettere di Maria: queste erano concepite nel primo quaderno come
una serie di considerazioni appuntate su una sorta di diario chiamato
Giornale di Filippo F. e datate rispettivamente C… 3 dicembre, C… 4 dicembre
e 5 dicembre:
Q1 M2
Giornale di Filippo F.
C… 3 dicembre
Mi sono chiesto quale differenza
passa tra la conoscenza che io ho di
me stesso e la conoscenza che ho di
quest’uomo che si chiama Michele
Boschino. […]
C… 4 dicembre.
Se anche Maria si fosse fatta di Boschino
una idea falsa? I nostri pensieri
s’incontrano spesso. Abbiamo
la stessa educazione, gli stessi gusti,
le stesse avversioni, anche se io stesso
la contraddico urtato dalla logica
dei ragionamenti che in lei mi disturba.
[…]
5 dicembre
Anche oggi mi sembra di conoscere
Ultra meglio di ogni altro. Meglio
dei nostri parenti di Ultra, per esempio,
che raramente da Ultra si sono
allontanati, gli zii e i cugini della
mamma. […]
Mi sono chiesto quale differenza
passa tra la conoscenza che ho di me
stesso e la conoscenza che ho di
quest’uomo che si chiama Michele
Boschino. […]
E se anche Maria si fosse fatta di lui
un idea falsa? Io e Maria potremmo
avere di Boschino la stessa idea falsa.
I nostri pensieri s’incontrano
spesso, e tale incontrarsi ci dà la certezza
della loro giustezza. La sua logica
è così simile alla mia che spesso
mi disturba, e la contraddico, contraddicendo
così me stesso. […]
Anche oggi mi sembra di conoscere
Ultra meglio di ogni altro, meglio
dei nostri parenti, per esempio, che
raramente da Ultra si sono allontanati,
i cugini e gli zii della mamma,
[…]
[ 19 ]
514 Dino Manca
Le lettere che Maria spedisce a Filippo costituiscono uno snodo
diegetico e narrativo importante. Attraverso queste missive, infatti, il
lettore scopre, insieme al protagonista, la triste sorte toccata a Boschino
dopo essersi riappacificato con gli zii. Nella versione a stampa le
lettere sono dieci, mentre quelle dell’avantestosono solo sette.
Vi sono inoltre due luoghi del testo, all’inizio di Q1 e Q2, nei quali
l’autore anticipa l’episodio in cui il protagonista prende coscienza
dell’avvenuta morte del vecchio e la trasferisce al lettore. Solo a quel
punto si attiva il processo rimemorativo e con esso il ricordo del loro
incontro. Per il secondo racconto Dessì sperimenta, dunque, varie
possibilità di attacco e di organizzazione del discorso narrativo. Abbiamo
da una parte un Boschino che si insinua lentamente nei ricordi
di Filippo, suscitando la curiosità del lettore, dall’altra invece il subitaneo
attacco segnato dalla notizia improvvisa della sua morte. La
scelta finale sarà quella di evitare qualsiasi anticipazione e di collocare
in cauda, nella chiusa della storia, l’evento della dipartita del contadino
di Sigalesa.
In questo quadro la categoria del tempo si dilata e si frantuma nello
spazio, che è altresì spazio verticale, dell’anima, dell’immaginazione
e del vissuto. La memoria, individuale, familiare e collettiva, si convoglia
entro percorsi apparentemente immotivati e distanti che si intersecano
e si risolvono invece sullo sfondo di un paesaggio carsico, in
una tramatura fitta puntellata di recuperi rimemorativi gestiti, nella
prima parte, da una coscienza narrante depositaria di una verità ontologica
di cui investe gli esistenti e che, nel sapiente atto della rappresentazione,
diventa la verità stessa dei personaggi che interagiscono
in vario modo e a vari livelli. L’io-narrante conosce bene il microcosmo
trasfigurato in finzione letteraria; lo conosce dall’interno, tanto
da insinuarsi, confondendosi e mimetizzandosi, ad esempio, in non
pochi eventi verbali, soprattutto scenici.
Solo alla fine del secondo quaderno la struttura narrativa coincide
con il testo definitivo in cui Filippo, durante la sua convalescenza, ricorda
Michele Boschino e racconta come lo aveva conosciuto. Alla fine,
privo della comprensione della propria comunità d’appartenenza
(«quel mondo che per lui è di irreparabile colpa»), Boschino vive in se
stesso, chiuso nella propria realtà incomunicabile. Egli diventa per Filippo
un tramite, senza sbocchi risolutori, verso l’altro, verso un qualcosa
che resta comunque misterioso e inconoscibile.
Il passato non si conserva, lo si costruisce partendo dal presente, e
la sua struttura dipende dalle circostanze dell’evocazione e si modifica
con esse. Per dirla con Merlau-Ponty, i ricordi non sono nella coscien-
[ 20 ]
Nuclei generativi e primitive fasi di elaborazione 515
za, ma è la coscienza stessa che costituisce il ricordo ponendo il passato
come passato. Infatti è il presente il vero tempo del nostro esistere.
Il passato in Dessì non è una linea di demarcazione astratta ma un
frammento della durata che avvolge il passato e il futuro. La memoria
affettiva non è altro che la risurrezione dei sentimenti sotto forma di
ricordi. Risurrezione spesso proustianamente suscitata da uno stimolo
sensoriale, non di rado uditivo e olfattivo. Si attiva così un percorso
conoscitivo (ma anche riabilitativo) volto a comprendere le ragioni, la
profondità e la validità morale di un mondo, quello di Boschino, guardato
dagli altri con ritrosia e sospetto. Un mondo per certi versi lontano,
insondabile, statico, che mette a dura prova la capacità decifratoria
del protagonista, Filippo, il giovane intellettuale cittadino, espressione
di una cultura osservante, ciononostante figlia in qualche modo di
quella osservata, contadina, primitiva, archetipica, sardofona (Boschino
è l’«uomo dei boschi», la Sardegna arcaica). Due mondi, due culture,
due orientamenti prospettici, due Sardegne, dunque; o, se si vuole,
due generazioni che, nel caso di Filippo e Michele, riescono a dialogare
e a momenti a intendersi. Ma anche altre due Sardegne, coesistenti
e confliggenti, attraversano i due racconti: quella degli «olivi» e degli
«olivastri», del lavoro e della grassazione, del rispetto e dell’invidia,
della pace e della violenza, della giustizia e della sopraffazione. La
seconda agisce sulla prima come un tarlo, condizionandola e ostacolandola.
Una molteplicità di codici e di sistemi valoriali cerca tuttavia
di ricomporsi grazie ad una volontà vitalistica tesa a conoscere e a capire
quella diversità morale e antropologica, se non anche ad apprezzarne
e a valorizzarne il portato su se stessi, sul proprio presente e
sulla definizione di una identità individuale e collettiva.
Dino Manca
Università di Sassari
[ 21 ]

Angelo Castagnino
Il romanzo della positività
Prendendo spunto dalle recenti teorie filosofico-sociologiche di Byung-Chul
Han e Vanni Codeluppi sui concetti di positività, trasparenza e vetrinizzazione
dell’individuo, il presente saggio discute il ricorrere di questi temi nei romanzi
di Nicola Lagioia e Alessandro Perissinotto, con ulteriori riferimenti alla narrativa
di Edoardo Albinati e Tiziano Scarpa. Particolare rilievo è dato allo studio
di come l’influenza dei social media contribuisce ad una diversa percezione del
singolo in relazione alla società, al conflitto sociale, e all’ostentazione iperbolica
delle attività dell’individuo che, sempre costretto a mostrarsi attivo, vive una
nuova fase del rapporto fra sé e il potere.

Inspired by the recent philosophical and sociological theories of Byung-Chul
Han and Vanni Codeluppi regarding the concepts of positivity, transparency
and commodification of the individual, this essay discusses the recurrence of
these topics in the novels of Nicola Lagioia and Alessandro Perissinotto, with
further reference to the narratives of Edoardo Albinati and Tiziano Scarpa. Particular
relevance is given to how the influence of social media contributes to a
new perception of the self in its relation with society, the social conflict, and the
hyperbolic display of the actions of the individual that, always forced to appear
active, experiences a new phase of the relation between him/herself and power.
Uno degli aspetti che più colpiscono de La scuola cattolica di Albinati
è il ricordo di un’adolescenza caratterizzata dall’ostentazione iperbolica
della mascolinità e della sessualità, espressa tramite un linguaggio
e un atteggiamento aggressivi. La memoria comune della
generazione a cavallo fra contestazione ed anni di piombo, tradizionalmente
così difficile da ricostruire in modo condiviso, trova nei rituali
adolescenziali del gioco e della scoperta della sessualità un terreno
in cui ogni maschio può riconoscersi1. Espressa in questi termini, la
Autore: University of Denver; Assistant Professor; angelo.castagnino@du.edu.
1 Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Milano, Rizzoli, 2016.
518 angelo castagnino
proiezione esteriore della propria personalità segue sempre un meccanismo
menzognero: più che essere uomini, è imperativo apparire ed
imporsi come tali, anche se si è ancora ragazzini. Da questo bisogno
deriva un’incessante competizione, lo sfoggio di una mascolinità che,
ancor più che in opposizione al genere femminile, è votata alla sistematica
negazione di essere omosessuali. Vantare prestazioni erotiche
mai avvenute ed ostentare una conoscenza precoce del sesso diventa
parte di una necessità di mostrarsi agli altri, di esprimersi in funzione
dell’immagine che il singolo trasmette al gruppo degli amici, ricevendo
in cambio il riconoscimento di appartenenza desiderato. Tutti questi
comportamenti rientrano nell’ottica di una priorità conferita non
solo all’ambito del fare, ma a quello del dimostrare, alla capacità di
provare agli altri le qualità pratiche dell’individuo che
è sempre costretto a fare, studiare, correre, allenarsi, chiacchierare, divertirsi,
sì, persino divertirsi è un impegno, viene sempre svalutato in
nome dell’azione e della relazione. Relazionarsi con gli altri è bene, con
se stessi no. Al ragazzo impegnato a valutare se giudicare se stesso
occorre subito rammentare che solo gli altri hanno diritto a giudicarlo,
solo la valutazione che il mondo gli assegnerà è valida, credibile2.
L’ostentazione del proprio pragmatismo, del mostrarsi pronti ad
agire quando richiesto, del non essere mai colti impreparati si estende
dalle attività ludiche a quelle sessuali e sfocia nella violenza, prima
simulata e poi espletata nel delitto del Circeo. Anziché essere lontana
dall’immaginario adolescenziale, la morte violenta assume un ruolo
centrale nei rituali di gruppo, che le conferiscono la funzione di una
recita sottoposta a regole chiare, anche se non scritte:
Ogni volta che giocavamo, facevamo fuori una quantità di nemici e
quasi sempre toccava pure a noi, a un certo punto, morire. Era una
necessità della storia. La scena che credo di aver recitato più volte in
vita mia è quella del pistolero che si accartoccia dopo essere stato colpito.
Esisteva una vasta gamma di velocità e modi di cadere, piegando
le gambe, barcollando, premendosi il petto o spalancando le braccia, e
poi il volo o il crollo all’indietro, seguito da sussulti e un ultimo tentativo
di restituire il colpo al nemico prima di spiare. […] Era una scuola
integrale di vita, e a pensarci è abbastanza strano che così pochi, dopo
tutto, abbiano tradotto la simulazione in realtà, facendo vittime in carne
e ossa3.
2 Ivi, pp. 96-97.
3 Ivi, pp. 17-18.
[ 2 ]
il romanzo della positività 519
Similmente alle millantate prestazioni sessuali dell’adolescente,
morire non è, di per sé, sufficiente: è necessario saper morire, esternarlo
in modo soddisfacente per il resto del gruppo. Nelle riflessioni di
Albinati, l’ostentazione iperbolica del «fare» vive la sua trasformazione
strettamente contemporanea negli omicidi di massa commessi nei
videogiochi e nei programmi televisivi i cui protagonisti «ingoiano
vermi, legano razzi sotto i pattini, si fanno frullare via da un ventilatore
da soffitto o incornare da caproni»4, in cui l’eccessività della forma
maschera la pochezza del contenuto.
Trasferita nel mondo lavorativo, questa continua aspettativa di essere
sempre attivi è oggi studiata come positività dal filosofo coreano
naturalizzato tedesco Byung-Chul Han, che la pone al centro del rapporto
fra l’individuo ed un potere che, anziché manifestarsi come imposizione
o divieto autoritario, si esprime tramite il continuo invito a
fare, esprimersi, apparire. L’alzamento del livello della produttività è,
per Han, la ragione primaria di quelle patologie che nascono dall’interno,
che non sono frutto di invasione e che l’individuo si autoinfligge,
come la depressione, il burnout e le malattie psicosomatiche5. In
quella che diventa un’internalizzazione del conflitto sociale, queste
condizioni sono accelerate dalla sovrapposizione fra padrone e servo
nella stessa persona: colui che si impone aspettative irrealistiche come
se fossero raggiungibili è lo stesso individuo che dovrà poi soddisfarle,
a scapito della propria salute. La tecnologia, rendendoci ininterrottamente
reperibili e produttivi, ci sfianca, smontando il mito dell’evoluzione
tecnica come soluzione per alleviare le fatiche del lavoro e favorendo
un processo di consunzione dell’individuo, seppur con implicazioni
molto differenti da quelle che investivano l’eroe romantico
ottocentesco. In una interessante distopia intitolata Internet Apocalypse,
Wayne Gladstone ha immaginato la vita di una metropoli improvvisamente
privata di accesso a internet. Il romanzo, un tragicomico richiamo
alla struttura narrativa delle epidemie di Camus e Saramago, fornisce
spunti di discussione sull’aspetto compulsivo dell’uso di internet,
suggerendo il collegamento fra tecnologia, produttività e schiavitù
che preoccupa Han. In uno degli incontri più significativi dell’avventura
picaresca di Gladstone fra le vie di New York, il personaggio
di Mr. Burke pronuncia le seguenti parole:
Gli elaboratori di testo ti permettono di fare ciò che di solito la tua se-
4 Ivi, p. 49.
5 Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Roma, Nottetempo, 2012.
[ 3 ]
520 angelo castagnino
gretaria faceva per te. Internet, BlackBerry, iPhone, sì, ti tengono collegato,
ma non è questo il problema principale. È che insieme a una crescente
produttività, aumenta l’aspettativa di produttività. Non diventa
più un’eccezione fare il lavoro di un uomo e mezzo, ma la norma. E a
quel punto, quando tutti stanno lavorando al centocinquanta per cento
della capacità, possono licenziare un terzo della forza lavoro e mantenere
comunque la stessa efficienza6.
Dal punto di vista della positività e del suo sfruttamento da parte
del potere economico e politico, Han conferisce particolare rilevanza
alla funzione dei social media che, alimentando l’illusione di una libertà
di espressione illimitata, sono lo strumento tramite il quale l’individuo
rinuncia volontariamente (ma, spesso, inconsapevolmente) ai
propri diritti per soddisfare la richiesta di positività. Non più censurati
– come nei regimi dittatoriali – da un’autorità tangibile, ma invitati
subdolamente a comunicare quanto più possibile, gli utenti affidano a
profili virtuali informazioni sui propri gusti, acquisti e preferenze politiche,
seguendo la logica della positività e della trasparenza, la cessione
di tutte le nostre informazioni su internet: andare in vacanza non è
sufficiente, ma deve essere documentato e ostentato in un contesto
che, se non è più il cortile o l’oratorio di Albinati, segue delle logiche
simili ad essi7. Entrate a far parte dell’universo dei big data, queste informazioni
servono, secondo Han, gli scopi della psicopolitica e della
possibilità di «predire il futuro», anticipare quali idee influenzeranno
la massa e i suoi orientamenti commerciali e politici. Il like fornisce
all’utente soddisfazione immediata, ma esso è in realtà strumento della
sua sottomissione, del suo essere sempre geolocalizzato, spiato,
6 Wayne Gladstone, Internet Apocalypse, Terni, Multiplayer, 2014, p. 140.
7 Per una migliore contestualizzazione del tema, è opportuno soffermarsi sulla
terminologia qui usata. Il concetto di «positività» mutua dagli studi Byung-Chul
Han, ed è particolarmente riferito all’influenza delle nuove tecnologie sulla sfera
professionale, la quale genera un ininterrotto accrescimento della aspettative sulla
produttività dell’individuo. Il termine «trasparenza», anch’esso usato da Han, è
più precisamente legato alla diffusione dei social media e al volontario trasferimento
di dati personali dell’utente su internet. Il concetto di «vetrinizzazione»
mutua invece dai saggi di Vanni Codeluppi, e si riferisce in particolare alla mercificazione
della persona che, con tecniche simili a quelle della pubblicità, attua una
commercializzazione di sé attraverso le possibilità offerte da internet 2.0, mezzo di
cui l’utente è protagonista, non più semplice fruitore. Le tesi di Han sono illustrate
nei saggi La società della stanchezza (2012), La società della trasparenza (2014) e Psicopolitica
(2016), mentre il discorso su Codeluppi si riferisce in particolare al suo
saggio Mi metto in vetrina (2015).
[ 4 ]
il romanzo della positività 521
classificato: per funzionare bene, questo sistema deve apparire benevolo,
non coercitivo; deve invitare, più che obbligare o vietare. In Italia,
il sociologo che più ha intercettato queste tematiche è Vanni Codeluppi,
che le ha studiate nella loro forma autocomunicativa, caratterizzata
da un utente che produce informazioni riguardanti se stesso in
un processo di «vetrinizzazione», di messa in mostra dell’individuo
come se fosse una merce. Albinati ha raccontato questo fenomeno nella
sua forma tradizionale, ambientando il suo romanzo negli anni Settanta.
Nelle prossime pagine, mi soffermerò su alcuni autori che ne
hanno rappresentato la trasformazione narrativa prettamente contemporanea,
legata alle nuove tecnologie e all’uso dei social media in
relazione ai concetti di positività, trasparenza e vetrinizzazione: Nicola
Lagioia, Alessandro Perissinotto e Tiziano Scarpa.
Nel suo La ferocia, Nicola Lagioia porta il tema della trasparenza
fino alla sua interpretazione più estrema, con i profili Twitter che seguono
la giovane Clara Salvemini fin dopo la sua morte, accompagnando
le vicende della famiglia Salvemini nei suoi loschi affari di
corruzione ed inquinamento del territorio pugliese. La ricomparsa di
Clara nella dimensione virtuale diventa una lettura strettamente contemporanea
del tema, tipicamente fantastico, dello spettro che si insinua
in uno sfondo altrimenti realistico, fatto di tangenti, concorsi
d’appalto truccati, e sfruttamento del corpo femminile. Clara è introdotta
come abitante di un luogo liminale, personaggio a metà strada
fra il mondo sensoriale e quello, inafferrabile, di uno spirito che tormenta
il camionista Orazio e gli altri protagonisti del romanzo. Nel
ricordo di Orazio, «Doveva trattarsi di un fantasma, una forma fittizia
emersa dai baratri della coscienza»8, che non si limita ad incutere terrore,
ma costringe ognuno a fare i conti con le proprie responsabilità,
ed il proliferare di utenti internet che interagiscono col profilo di Clara
ne amplifica la caratterizzazione di presenza spettrale in relazione al
mondo reale. Quando la figura principale di un romanzo viene a mancare,
la sua assenza aziona un meccanismo ricorrente, specie se, come
Clara, il personaggio era centrale alle dinamiche del microcosmo familiare
descritto: la personalità della protagonista è costruita tramite
il ricorso alla vox populi, proiettata attraverso il ricordo lasciato ai personaggi
secondari, e ad uno di essi è riservata la funzione di agire, nel
mondo reale, per conto del «fantasma». La ferocia affida questo compito
a Michele, fratellastro di Clara, il quale pretende di andare al di là
8 Nicola Lagioia, La ferocia, Torino, Einaudi, 2014, p. 16.
[ 5 ]
522 angelo castagnino
della verità imposta sulla morte della ragazza, stabilendo col suo ricordo
una relazione talmente forte da permettergli di avvertire le
emozioni provate da Clara, a ulteriore riprova della connessione fra la
dimensione reale e quella fantastica: «la viva impronta che le persone
che abbiamo amato lasciano in noi per continuare a condizionarci, ci
guidano, ci ossessionano con la loro voce inesausta, questa la loro eredità,
la differenza tra corpo morto e ciò che sopravvive, sua sorella era
arrabbiata, lui lo sentiva»9.
Giuseppe Greco, giornalista che aveva avuto una relazione con
Clara, è il personaggio che più si presta non solo allo studio della «resurrezione
» di Clara nella dimensione virtuale, ma anche all’interpretazione
della positività nel mondo lavorativo. La notizia della morte
di Clara si diffonde fra gli amici tramite i social media, metodo di informazione
che travalica la segretezza imposta dai Salvemini, che
scelgono una chiesa stranamente appartata per il funerale della figlia.
Il personaggio di Greco – giornalista che ha aiutato Michele a pubblicare
alcuni articoli in passato – è il filtro attraverso cui il lettore riflette
sulla contraddizione dei profili sui social media che sopravvivono ai
loro intestatari. Nell’epoca di internet 2.0, in cui ognuno non è solo
fruitore, ma partecipe dei contenuti sul web, i nostri profili elettronici
continuano ad interagire con amici e followers anche quando noi non
possiamo più farlo, attività che subisce un’impennata proprio quando
noi non possiamo più saperlo: Greco «Pensò ai profili Facebook che
rimanevano attivi dopo che l’intestatario era morto. Centinaia di commenti
subito dopo il decesso e poi uno stillicidio indegno. Per non
parlare di chi postava vecchie foto rimaste intrappolate nella memoria
di un cellulare»10. Nel progressivo trasferimento dell’esperienza umana
su internet, ci è oggi possibile lasciare una sorta di testamento virtuale.
Per esempio, Facebook permette di designare un utente che erediti
il diritto a gestire la nostra pagina, o la possibilità che il nostro
profilo si trasformi in un memoriale. Queste opzioni non possono però
impedire che, in mancanza di una nostra espressa volontà e senza
che qualcuno comunichi la scomparsa dell’utente, il profilo resti attivo
e aperto all’interazione con i nostri contatti. La ferocia sfrutta un’altra
opportunità, la creazione di un falso profilo Twitter che, registrato col
nome di Clara, permette al «fantasma» della ragazza di continuare ad
influenzare le vicende familiari dei Salvemini. La dimestichezza con le
9 Ivi, pp. 386-387.
10 Ivi, p. 93.
[ 6 ]
il romanzo della positività 523
nuove tecnologie, acquisita ai tempi della sua posizione di vicecaporedattore
al «Corriere del Mezzogiorno», accompagna Greco attraverso
le fasi descritte da Byung-Chul Han sul rapporto fra l’individuo, la
professione ed il mondo dei social media. La rubrica cinematografica
online di Greco diventa il terreno sul quale la positività di Han incontra
la vetrinizzazione di Codeluppi: il giornalista crea una serie di profili
Twitter fittizi, attraverso i quali simulare un acceso dibattito sulle
proprie recensioni, con falsi fan e contestatori di sé e dei registi recensiti.
L’ossessione verso il riconoscimento pubblico dei propri meriti e
per l’ostentazione di essi viene da una delle condizioni al centro del
discorso di Han, il burnout del lavoratore che è simultaneamente vittima
e carnefice di se stesso. La prospettiva di perdere il proprio impiego
getta Greco nell’ossessione della performance:
Passò dalle dieci alle quattordici ore di lavoro quotidiano. Certi giorni
scriveva tre pezzi per l’indomani, intervistava un musicista, ingoiava
due pasticche di metamfetamina e schizzava a vedere uno spettacolo
teatrale. Qualcosa di illusorio lo stava persuadendo che spremere in
quel modo le energie psicofisiche rallentasse l’avanzata degli interessi
passivi. La metamfetamina divenne un’abitudine. L’accumulo dei pezzi
un’ossessione. Nel bel mezzo della giornata si ritrovava a inseguire
le tracce delle ore precedenti scoprendosi davanti a una voragine che
ricordava il Mar Morto fotografato dai satelliti11.
Greco diviene così interprete del cambiamento di valori operato
dalla società contemporanea, in cui ricoprire egregiamente la propria
posizione professionale è subordinato a quanto lucrativa essa sia, e
l’attività intellettuale non corrisponde più a un prestigio sociale garantito,
se essa non è accompagnata da statistiche e dati di vendita
adeguati.12 Perfettamente inserito nei meccanismi dell’interazione con
la rete, è proprio Greco il primo ad accorgersi del falso profilo Twitter
di Clara che, con una sua fotografia in posa provocante, denuncia
«Non mi sono suicidata»,13immagine che assume le caratteristiche sacrileghe
della profanazione di una tomba nel mondo di internet 2.0. Il
romanzo si spinge fino all’interpretazione psicanalitica del fenomeno
11 Ivi, pp. 96-97.
12 Nel saggio L’ombra lunga dell’autore, Carla Benedetti ha descritto questo fenomeno
nella sua manifestazione inversa, quella di un autore che, incapace di
pubblicare testi artisticamente degni di nota, genera comunque dei profitti grazie
alla propria presenza sui canali comunicativi pubblicitari (Cfr. Carla Benedetti,
L’ombra lunga dell’autore: indagine su una figura cancellata, Milano, Feltrinelli, 1999).
13 N. Lagioia, La Ferocia, cit., p. 101.
[ 7 ]
524 angelo castagnino
dell’esternazione aggressiva su internet, considerandola un’odierna
valvola di sfogo per quell’inconscio che era stato studiato, cento anni
prima dei social media, come una dimensione che necessitava di precise
terapie per emergere, e che oggi si libera invece nella illimitatezza
delle possibilità offerte dalla rete. A prorogare in senso virtuale la vita
di Clara è stata la sorella, Gioia, in risposta al silenzio con cui la famiglia
ha reagito alla tragedia. Fra gli esecutori materiali e coloro che
tacciono sulle reali responsabilità, la morte di Clara ha molti colpevoli,
e ciò porta i Salvemini a dissimulare l’insabbiamento sotto la maschera
della riservatezza. La mancanza di comunicazione nell’elaborazione
del lutto è percepita come insostenibile da Gioia e dal fratellastro,
Michele:
Nessuno fa come nei film, d’accordo. Ma qui siamo all’opposto. Guarda
la mamma, – Annamaria corresse lui tra sé, – le hai sentito pronunciare
il nome di Clara da quando sei tornato? Papà ha tutti i suoi casini
con quelle ville di merda nel foggiano. Ruggero. Sai che si dice di certi
medici, no? Salvare gli altri in ospedale per fottersene il resto del tempo.
Persino io e te, ora – era come se le lacrime le si solidificassero addosso,
– perché ci siamo ridotti a parlarne solo ora?14
Inevitabilmente, il profilo Twitter di Clara finisce per attirare le attenzioni
di chi usa internet a scopi erotici, con il corpo della giovane
donna che, abusato nella vita reale fino al massacro, diviene oggetto
delle fantasie di sconosciuti che fanno richieste spinte a chi impersona
Clara, nella ricostruzione virtuale di un role play a sfondo sessuale. Il
corpo di Clara, sulla foto del profilo come al suo stesso funerale, continua
ad interagire con chi vive. Esso diventa trasformazione strettamente
contemporanea di quella immagine che, in tono dissacrante,
Aldo Nove aveva raffigurato in Woobinda, con lo sciatore di fama
mondiale che, per onorare gli obblighi di sponsorizzazione, continuava
la sua carriera anche dopo essere divenuto cadavere, nell’estrema
rappresentazione dell’obbligo di «fare», in una società che non ammette
l’idea che la morte interferisca con il mondo degli affari15.
14 Ivi, p. 222.
15 In Drammatico caso nel mondo dello sci, la narratrice prova a trovare una sintesi
fra i valori perbenisti della società italiana e la loro stessa negazione, in uno dei
capisaldi di tutta l’opera, cioè la dissacrazione dell’istituzione familiare: «Vi giuro
che avrei preferito seppellirlo subito, piuttosto che vederlo portare via sottobraccio
da un inserviente del suo team alla fine della competizione. Credo nei valori della
famiglia. Credo nei valori umani. Ma come potrei dirvi che il contratto firmato da
mio fratello con lo sponsor prevedeva l’esibizione televisiva del loro marchio fino
[ 8 ]
il romanzo della positività 525
Oltre al perverso uso della vetrinizzazione che segue l’individuo
dopo la morte biologica, il romanzo si presta ad una più generale riflessione
sul ruolo che i social media ricoprono nel mondo contemporaneo.
A causa della loro attività di imprenditori edili, i Salvemini rappresentano
un’economia convenzionale, in cui il denaro deriva dalla
produzione di beni tangibili. Vittorio, il capofamiglia, si spinge fino a
dichiarare il proprio disprezzo per tutto ciò che esula dall’ambito pratico
della vita, osteggiando la decisione del figlio Ruggero di studiare
oltre la scuola superiore. La convinzione che «l’università era importante.
Ma era importante per i figli degli edicolanti»16denota una filosofia
di vita secondo la quale l’unica possibilità di elevazione sociale
viene da ciò che è concreto, come i mattoni che hanno costruito dal
nulla la reputazione di Vittorio.
Alla fine del romanzo, Michele riesce a denunciare le pratiche illegali
condotte dal padre. Il tradimento di Michele sgretola l’impero dei
Salvemini, ma tale sconfitta trasmette anche un forte valore allegorico:
nel mondo di oggi, fatto di youtuber e social influencer, le carriere si
basano sempre più su fondamenta virtuali, non di cemento, e ciò genera
un corto circuito con i principi che hanno decretato il successo di
Vittorio, spaesato nel riconoscersi estraneo a tale trasformazione:
Telefonini. Pupazzetti. Fenomeni infantili che nascevano su internet e
pochi mesi dopo valevano milioni. Un tempo si costruivano automobili.
Televisori, tostapane, calcolatori elettronici. Ma adesso si produceva
roba che neanche esisteva. Potevi pensarla, al limite vederla. Grandi
costellazioni ruotavano nel cielo della notte, svincolate dal fenomeno
fisico che le aveva generate. Tutto questo generava denaro. Generava
futuro17.
In quella che Han definisce società della trasparenza, in cui ognuno
consegna ingenuamente i propri dati al potere economico, è lecito
interrogarsi sul ruolo ricoperto dal segreto, che il filosofo interpreta
nella sua capacità di generare fascino. Nel panottico digitale contemporaneo,
la forma di coercizione studiata da Bentham si trasforma in
sorveglianza inconsapevole di un individuo che è invece convinto di
essere libero grazie alle nuove tecnologie. I frequenti richiami alla traalla
fine della stagione se sempre per contratto la cosa deve sottostare al più rigoroso
silenzio in quanto la morte non è prevista da nessuna clausola» (Aldo Nove,
Woobinda, Roma, Castelvecchi, 1996, p. 84).
16 N. Lagioia, La Ferocia, cit., p. 134.
17 Ivi, p. 352.
[ 9 ]
526 angelo castagnino
sparenza non implicano fiducia illimitata, ma l’esatto contrario: laddove
esistesse fiducia incondizionata, la trasparenza non sarebbe necessaria.
Il segreto è funzionale al mantenimento del potere, e chi vi
rinuncia volontariamente diventa strumento, non partecipe, del potere.
La mancata trasmissione delle informazioni non è prevista da un
sistema che ne viene messo in crisi e, se essa si verifica, obbliga il potere
a manifestarsi con metodi più convenzionali. La ferocia introduce
questo tema nell’interazione fra Vittorio ed il figlio Ruggero, oncologo
di fama internazionale, rappresentanti di diversi modi di intendere il
potere in relazione alla raccolta dati. Vittorio, abbiamo visto, è estraneo
ai meccanismi della web economy, e rimane legato alla concezione
della produttività in un senso strettamente «pesante» e concreto. L’episodio
con cui Vittorio convince la borghesia locale ad accettarlo porta
alla costruzione della pista da ballo per l’esclusivo circolo del tennis,
atto con cui l’imprenditore aggira il requisito di essere invitato a
far parte del circolo e fonda simbolicamente il suo impero sulla concretezza
di un bene fisico. La proiezione dell’identità di Vittorio sulla
comunità è quindi inscindibile dalla produzione concreta di beni immobili
e chiaramente quantificabili. La sua intenzione di incrociare,
per scopi lucrativi, i dati catastali delle nude proprietà con quelli anagrafici
dei malati di cancro – dati che, con le sue pratiche edilizie illegali,
egli stesso contribuisce a generare – si scontra con il suo restare
esterno alle logiche economiche del mondo informatico. Vittorio incarna
una forma di potere tradizionale, che ha ancora bisogno della
coercizione per impadronirsi delle informazioni altrui, e raggiunge il
suo scopo estorcendo a Ruggero i dati di tutti i malati di Puglia e Basilicata.
La separazione fra Vittorio e le logiche economiche contemporanee
permea tutto il romanzo e, al di là della ricaduta sugli affari familiari,
la questione investe la filosofia che ha regolato i suoi rapporti
interpersonali. Vecchio e malato, Vittorio porta sul proprio fisico i sintomi
del declino del suo mondo, e la scomparsa del suo impero – ad
opera del figliastro – è allegoria dell’avanzata di un nuovo tipo di
mercato:
Per non parlare di come era cambiato il mondo. Avrebbe scommesso
cento volte contro l’Argentina ma non avrebbe immaginato come pensieri,
sfoghi e confidenze di adolescenti sbattuti davanti allo schermo
di un computer potessero gonfiare il portafogli del più furbo di loro.
Un tempo erano sufficienti le confidenze di un sindacalista – una soffiata
sui quadri Fiat pronti a scendere in piazza contro i metalmeccanici
– e lui comprava un po’ di azioni. Adesso sulle reti viaggiavano algoritmi
che emettevano enormi ordini di acquisto, li cancellavano una
[ 10 ]
il romanzo della positività 527
frazione prima che diventassero operativi ed emettevano all’istante
nuovi ordini in modo da lucrare sulle variazioni da essi stessi generate.
Certe notti osservava il cielo stellato – la linea del mondo stava di nuovo
ruotando su se stessa, e lui temeva che lo spettacolo si consumasse
fuori dal suo punto di vista18.
L’approccio immorale agli affari non è dunque sostituito da un sistema
di valori più nobili: semplicemente, la vecchia generazione non
dispone degli strumenti (mentali, più che tecnici) per stare al passo
con questa trasformazione.
Una visione analoga del crimine finanziario è resa nei romanzi di
Perissinotto, autore la cui produzione incrocia spesso i temi delle nuove
tecnologie, della positività e della vetrinizzazione19. Particolarmente
i suoi polizieschi hanno raccontato l’odierna trasformazione di pratiche
quali l’evasione fiscale, l’occultamento di capitali e lo sfruttamento
dei paradisi fiscali che, nella retorica permissiva del berlusconismo,
legittimano ogni cittadino a crearsi un sistema di valori personalizzato
e confacente agli interessi dell’individuo, più che della comunità.
Ne è un esempio Al mio giudice, romanzo epistolare che introduce
una sorta di democratizzazione del crimine finanziario, non più riservato
a pochissimi eletti ma ormai percepito come un diritto che chiunque
può esercitare:
Una volta, non tanto tempo fa, se volevi portare dei soldi in Svizzera,
reclutavi uno “spallone” e lui, in cambio di una modesta percentuale,
si riempiva lo zaino di biglietti di banca e te li portava di là attraverso
sentieri che conosceva solo lui. A pensarci oggi fa quasi tenerezza.
Quella lotta epica tra doganieri col binocolo e contrabbandieri che corrono
su per le montagne è cosa da commedia oramai. Gli “spalloni”
appartengono a un’epoca in cui la costituzione di capitali all’estero era
una faccenda artigianale, quasi artistica: un lavoro fatto a mano e riversato
a pochi. Adesso è diventata un prodotto industriale su vasta scala,
un processo codificato, con una divisione di tipo taylorista; tra un po’
sarà persino certificata ISO-novemilaqualchecosa. Dopo l’automobile
per tutti, dopo la lavatrice in ogni casa, eccola la nuova frontiera: diamo
a chiunque abbia dei soldi da nascondere al fisco la possibilità di
portarli in qualche posto al caldo. Basta con la Svizzera, roba superata!
18 Ivi, p. 30.
19 Oltre che nella sua narrativa, Perissinotto ha anche discusso internet ed i
social media nella sua produzione saggistica, particolarmente nel volume Come
creare corsi on line, Roma, Carocci, 2003 e, più recentemente, nell’articolo L’opera
letteraria nell’epoca della sua lettura digitale, in «Form@re», Vol. 15, N. 1, 2015.
[ 11 ]
528 angelo castagnino
Adesso vanno di moda Antigua, Grenada, St. Kitts e Nevis, Vanuatu e,
perché no, Trinidad e Tobago. Perché solo i ricchi possono evadere le
tasse? Loro possono continuare con le grandi somme, con i miliardi di
euro. Ma vogliamo dare qualche strumento anche al piccolo industriale?
Vogliamo fare in modo che anche i commercianti all’ingrosso, che
anche gli impresari edili che fanno lavorare i rumeni in nero, che anche
i ginecologi, gli avvocati, i dentisti, i salumieri abbiano modo di trasferire
in qualche paradiso fiscale i loro guadagni faticosamente sottratti
alla voracità del fisco?20
L’espediente retorico sta dunque nel trasferire la responsabilità da
chi compie il crimine a chi lo subisce, stabilendo il principio per cui, se
lo Stato esagera con le pretese, il singolo cittadino è moralmente legittimato
a sottrarsi al sistema fiscale, e chi compie questa impresa è addirittura
degno di quell’ammirazione riservata a chi concretizza un
desiderio che, segretamente, molti condividono. La logica che punisce
l’obsoleto approccio di Salvemini diventa ancora più spietata ne Al
mio giudice, dove persino abilissimi hacker subiscono la legge del più
forte, in un contesto basato sul principio di mors tua, vita mea. Nella
narrativa poliziesca di Perissinotto, un esempio di positività che porta
al burnout come studiato da Han21è il romanzo L’ultima notte bianca, in
cui la frustrazione di un’operatrice sociale che vede i suoi sforzi continuamente
vanificati porta all’uccisione di chi è visto come ostacolo al
successo dell’attività professionale22.
Più che una semplice riflessione sulle moderne tecnologie, i romanzi
di Perissinotto isolano i temi dell’autoinduzione delle condizioni
psicologiche (per esempio, il burnout) in relazione al bisogno di
produttività e all’ostentazione dell’Io sui social media. In particolare,
Perissinotto trova un terreno comune fra queste tematiche ed il romanzo
a sfondo investigativo, il genere che più degli altri ha incorporato,
negli ultimi decenni, la discussione sulle sfide che l’Italia contemporanea
si trova ad affrontare. Per esempio, la perversione del
concetto di vetrinizzazione è correlata, ne L’orchestra del Titanic, all’e-
20 Alessandro Perissinotto, Al mio giudice, Milano, Rizzoli, 2004, p. 169.
21 Per Han, «Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di
attenzione (ADHD), il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da
burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non
si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò
che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività.
Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere
la negatività dell’Estraneo» (B. Han, La società della stanchezza, cit., p. 8).
22 A. Perissinotto, L’ultima notte bianca, Milano, Rizzoli, 2007.
[ 12 ]
il romanzo della positività 529
mergenza riguardo alla violenza sulle donne e l’esposizione del corpo
femminile. Il romanzo, ultima parte della trilogia della psicologa/investigatrice
Anna Pavesi, usa la tecnica dell’ambientazione estera – un
villaggio turistico tunisino – per filtrare considerazioni sull’Italia,
espediente narrativo che rimanda, nel giallo italiano, al Tabucchi de La
testa perduta di Damasceno Monteiro. La costruzione del microcosmo è
basata sulle logiche della vetrinizzazione di Codeluppi: andare in vacanza
non basta, ma è necessario che ogni istante sia documentato e
condiviso in rete, altrimenti l’esperienza non può dirsi completa. In
tale contesto, la caratterizzazione di Anna è quella dell’outsider che,
dotata di una certa dose di spocchia intellettuale, osserva con sufficienza
i turisti che si prestano a giochi infantili e, oltre a consumare
cibo in quantità industriale, ne sprecano altrettanto, sincronizzando le
proprie attività ricreative al racconto di esse tramite i telefonini ed i
social media. Il crimine al centro del romanzo nasce dalla pratica del
file sharing in relazione all’abuso del corpo femminile: se, nel romanzo
di Lagioia, il corpo di Clara continua a stuzzicare le fantasie degli
utenti su Twitter, ne L’orchestra del Titanic l’attività sessuale di Serena è
condivisa su Emule dopo il suo suicidio, dovuto proprio all’esistenza
di un filmato pornografico girato a sua insaputa.
Inevitabilmente, i temi della trasparenza e della positività incrociano
quello dell’interazione fra diverse generazioni. Perissinotto ha vissuto
da adolescente l’epoca del terrorismo e, successivamente, l’ascesa
delle reti televisive private. Proprio in questo periodo, nella prima
metà degli anni Ottanta, lo scrittore identifica l’inizio della sua esperienza
con il tema del «fare» inteso come un obbligo da ottemperare
per considerarsi integrati nella società italiana. La diffusione dei canali
televisivi privati cambia radicalmente il rapporto fra l’individuo e
gli input sensoriali ricevuti dal mondo della comunicazione: ogni minuto
della giornata viene riempito di stimoli audiovisivi, stravolgendo
una generazione cresciuta nel rispetto della distinzione fra lo spazio
della trasmissione e quello del silenzio, alternanza che il segnale
della «fine delle trasmissioni» simboleggiava. Si inizia dunque a notare
come la discussione della positività e della trasparenza odierne sia
la trasformazione, nel mondo dei media 2.0, di tematiche che già investivano
l’individuo in epoche di minore evoluzione tecnologica. La
generazione di Albinati viveva già l’ostentazione iperbolica dell’Io,
specie in chiave sessuale, mentre quella di Perissinotto, dieci anni dopo
lo scrittore romano, è la prima ad essere persuasa che non esiste
uno spazio che non può essere riempito a scopi comunicativi. Lo stesso
Perissinotto, nel romanzo Coordinate d’oriente, usa le medesime te-
[ 13 ]
530 angelo castagnino
matiche allo scopo di paragonare generazioni differenti, confronto
reso agevole dalla caratterizzazione del narratore come professore alle
prese con studenti che non hanno familiarità con i decenni successivi
alla Seconda Guerra Mondiale. Più che avanzare un banale paragone
fra generazioni ovviamente influenzate da diversi livelli di tecnologia,
Perissinotto collega questo tema al rapporto fra l’individuo e il potere,
relazione che ritorna prepotentemente nella sua produzione narrativa.
Coordinate d’oriente riflette su come la minacciosa entità dittatoriale
paventata da Orwell, abbandonati i metodi di imposizione coercitiva,
ha assunto la forma di subdola adulazione dell’individuo. Come nota
Han, l’ordine di «dovere fare» qualcosa è stato soppiantato da un più
rassicurante invito a «potere fare»23, con cui il Grande Fratello raggiunge
i suoi scopi tramite la volontaria partecipazione del singolo. Il
romanzo di Perissinotto trasporta il tema della trasparenza di Han
nella dimensione della finzione narrativa, in relazione al periodo che
va dai primi anni Ottanta ad oggi:
La sua presenza si faceva sempre più pervasiva: videocitofoni, impianti
di controllo a circuito chiuso, le prime videocamere, il VIC 20 e il
Commodore 64. Da semplici fruitori stavamo diventando produttori,
spesso inconsapevoli, di immagini elettroniche. Pensavamo che il
Grande Fratello fosse chi stava dietro lo schermo e non capivamo che
egli è lo schermo stesso, l’insieme di tutti gli schermi: il trionfo del
Grande Fratello è la riduzione del mondo a immagine di se stesso.
Questo neppure Orwell era riuscito a prevederlo. La sua fantasia si limitava
a rappresentare schiere di schiavi controllati dal teleschermo,
ma non poteva concepire la società dei social network dove gli schiavi,
felici di esserlo, spiano in continuazione se stessi, consegnando spontaneamente
al Grande Fratello le loro vite riprodotte in migliaia di fotografie,
di filmati, di registrazioni audio, le loro vite appena concepite
e già trasformate in immagini ecografiche da condividere in rete24.
La caratterizzazione del narratore come professore universitario,
per antonomasia figura che contribuisce a formare e tramandare la
coscienza condivisa del paese, introduce il tema della positività in relazione
al ruolo accademico inteso come professione, prima che come
opportunità di influenzare la società. La dittatura del fare ha influenzato
la percezione delle arti umanistiche che, nell’università che tende
23 Nelle parole di Han, «The modal verb that determines achievement society
is not the Freudian Should, but Can» (B. Han, The Burnout Society, Stanford, Stanford
University Press, 2015, p. 36).
24 A. Perissinotto, Coordinate d’oriente, Milano, Piemme, 2014, p. 13.
[ 14 ]
il romanzo della positività 531
sempre più ad essere strutturata tramite logiche aziendali di produttività,
devono dare prova costante di trasmettere una forma di conoscenza
che non resti fine a se stessa25. Lo studio della retorica, della
letteratura, dello storytelling è giustificato dal mercato lavorativo solo
a patto che venga commercializzato in chiave strettamente pragmatica:
studiare narrativa diventa dunque funzionale (ma subordinato) ad
ampliare i propri orizzonti di pubblicitari, esperti di marketing, responsabili
di campagne elettorali26. L’ambientazione cinese di Coordinate
d’oriente permette a Perissinotto di ampliare il suo approccio letterario
ai temi della trasparenza e della vetrinizzazione in relazione
alle diverse generazioni. Il personaggio di Jin è introdotto come appartenente
ad un diverso cronotopo rispetto al protagonista, Pietro.
Interagire con la donna, priva di cellulare, email e social media, obbliga
l’imprenditore italiano – abituato alla frenesia dell’industria e della
produttività – a modificare il proprio ritmo e ritornare ai tempi in cui
gli appuntamenti andavano fissati di persona o, nel migliore dei casi,
con l’uso segreto di un telefono fisso. Proprio da questa relazione sentimentale
emerge un’immagine diversa del concetto di vetrinizzazione.
Seguendo le tradizioni locali, la famiglia di Jin le ha trovato un
marito affiggendo in People’s Square un cartello con la sua descrizione
fisica. Il meccanismo ricalca quello dell’online dating, in cui gli utenti
provano a destare l’attenzione altrui pubblicando la migliore descrizione
possibile di sé. L’esempio di Jin aggiunge a questo tema l’imposizione
del volere paterno sulla giovane donna: è la famiglia, non
25 La trasformazione del ruolo dell’umanista nell’ambito di un’universitàazienda
è al centro dell’intervento di Federico Bertoni, pubblicato sul blog Le parole
e le cose, dal titolo Microfisica della bêtise. Con un registro tragicomico, Bertoni dà
voce alla preoccupazione per la sempre più frequente tendenza a considerare la
cultura un bene materiale e, per questo, quantificabile attraverso l’uso di tabelle,
certificazioni e coefficienti di rendimento. Non più identificato nel valore intrinseco
dell’insegnamento e della ricerca, l’umanista si trova ad alimentare la macchina
della produttività universitaria scrivendo lettere di presentazione, rispondendo ad
una serie infinita di email, ed inseguendo la classificazione delle proprie pubblicazioni
fra le riviste di miglior ranking internazionale. Nella produzione narrativa di
Perissinotto, una pressione analoga investe il ruolo del ricercatore medico in Quello
che l’acqua nasconde, in cui l’aspetto umanitario della cura di una malattia rara
deve forzatamente andare di pari passo con l’assegnazione di finanziamenti e riconoscimenti.
26 Tale interpretazione si verifica in modo ancora più vistoso nel mondo anglosassone,
dove la scelta frequente di una materia letteraria come minor, double
major o secondary major ne esplicita la subalternità nei confronti della «vera» materia
di specializzazione.
[ 15 ]
532 angelo castagnino
l’individuo, a rendere pubblica la condizione di chi cerca un partner,
ma mai come in questo caso la vetrinizzazione si esprime facendo a
meno della tecnologia.
La relazione fra Jin e Pietro si fonda sul trauma comune di essere
sopravvissuti ai propri figli. Se Jin elabora il proprio lutto affiggendo
cartelli accusatori contro il pirata della strada che ha ucciso il suo
Zheng – altro espediente che rimanda all’epoca che precedeva i post su
internet – Pietro incarna una particolare interpretazione della positività.
Al contrario della positività come fonte di malattie psicosomatiche
– come è studiata da Han – Pietro trova nell’eccesso di lavoro una cura
alla depressione derivante dal lutto:
Le benzodiazepine sono indicate in stati di agitazione o per l’insonnia
temporanea, anche lo zolpidem cura l’insonnia, mentre la duloxetina e
la paroxetina fanno miracoli per la depressione. La carbamazepina cura
le manie e la clotiapina le psicosi. Di tanti rimedi contro le malattie
che intaccano l’anima, l’ingegner Pietro Fogliatti ne conosce uno solo:
il lavoro. È lavorando come un pazzo che ha affrontato la perdita di
Giorgia, è dedicandosi anima e corpo alla Nazca China che ha superato
l’abbandono di Francesca, ed è facendo fronte all’enorme richiesta
di GS, che cerca di superare l’uscita di Jin dalla sua vita27.
Lo stato in cui Pietro si trova è dunque quello di un’altra condizione
psicosomatica, la dipendenza dal lavoro che va al di là della semplice
necessità di impegnarsi duramente per ottenere un obiettivo
professionale. Ciò che il mondo anglofono chiama workaholism assume
i connotati di un disturbo ossessivo-compulsivo, in cui l’ossessione
(la perdita di Giorgia) genera la compulsione (lavorare per il successo
di una rivoluzionaria auto elettrica) affinché il primo fattore,
Giorgia, possa essere sostituito da un’altra forma di progenie per Pietro:
non a caso, il progetto GS prende il nome dalle iniziali della figlia,
Giorgia Solero.
Le colpe dei padri introduce, con il tema letterario del doppio, quello
più esistenzialista della ricerca della propria identità in relazione alle
nuove tecnologie. In questo caso, la trasparenza sui social media si
spinge quasi in una dimensione grottesca. Il personaggio di Guido,
anche se non ne è cosciente, nel cercare su internet informazioni sul
misterioso Ernesto, cerca se stesso. Allo stesso modo, quando spera di
trovare Ernesto creando un falso profilo internet a nome dell’oscura
presenza che lo tormenta, Guido gioca con la costruzione fittizia della
27 A. Perissinotto, Coordinate d’oriente, cit., p. 243.
[ 16 ]
il romanzo della positività 533
sua stessa identità. A causa del suo ruolo di manager dell’azienda Moosbrugger,
Guido è rappresentante del potere moderno, che deve influenzare
senza apparire minaccioso, e immagazzina informazioni
senza condividere ciò che non èstrettamente necessario. Per Guido, la
trasparenza e le vetrinizzazione colpiscono i deboli, non chi, come lui,
ha maturato esperienza nel canettiano rapporto fra masse e potere:
«Di questo era estremamente convinto: le creature dell’ombra non
hanno un profilo Facebook, non twittano, non condividono fotografie,
non lanciano petizioni; le creature dell’ombra lasciano che il resto del
mondo viva l’illusione di contare qualcosa e decidono l’agenda delle
illusioni»28. In modo ancor più marcato, questa trasformazione del potere
nell’era digitale è qui incarnata da Jean Marc Morani, lo spietato
manager che impone le sue decisioni restando nell’ombra, servendosi
di Guido come strumento per la delocalizzazione dell’azienda ed i licenziamenti
che ne derivano. Come emerso dagli studi di Han e dalla
citazione da Internet Apocalypse, l’eccesso di positività e della presenza
dell’individuo su internet è funzionale agli interessi del potere economico,
e la capacità di porre un freno a queste pratiche conferisce maggiore
libertà a Morani e Guido. L’eccesso di positività implica la possibilità
di essere sempre rintracciati, aumentando a dismisura le aspettative
di produttività del singolo lavoratore. È il narratore de Le colpe
dei padri che trasferisce nel mondo finzionale l’approccio filosofico di
Han, ancora una volta andando oltre i luoghi comuni sulla presenza
della tecnologia nel mondo odierno.29 Il romanzo, pur basato sulla
rappresentazione tradizionale del conflitto sociale, alimentato da contrattazioni,
scioperi e picchetti, vi affianca l’immagine dell’individuo
come sede autoreferenziale di un nuovo e contraddittorio tipo di conflitto
sociale, in un sistema in cui sfruttato e sfruttatore si sovrappongono:
Tra le forme di schiavitù della contemporaneità, la posta elettronica è
probabilmente tra le più subdole. Nell’era dell’e-mail, la battaglia per
l’orario di lavoro diventa anacronistica; grazie alla mail, il lavoro ti
segue ovunque, ti tende agguati in piena notte, di ritorno da una cena
in compagnia, ti guasta il weekend, ti avvelena le ferie. Basta commet-
28 Id., Le colpe dei padri, Milano, Piemme, 2013, p. 201.
29 «La tecnica di potere del regime neoliberale ha una forma subdola. Non si
impadronisce direttamente dell’individuo: piuttosto, si preoccupa che l’individuo
agisca in autonomia su se stesso così da riprodurre in sé il rapporto di dominio e,
di conseguenza, da interpretarlo come libertà» (B. Han, Psicopolitica, Roma, Nottetempo,
2016, pp. 37-38).
[ 17 ]
534 angelo castagnino
tere l’imprudenza di accendere il computer e le preoccupazioni, che
credevamo di aver chiuso dentro l’ufficio, si materializzano in altri
luoghi. Se poi hai ceduto alla tentazione di portare la posta elettronica
sul telefono cellulare, non ti resta che affidarti alla provvisoria leggerezza
di una momentanea assenza di segnale. Non sono in pochi a ritenere
che oggi il vero lusso sia quello dell’irreperibilità, dell’eclissi.
Chi può scomparire da ogni circuito elettronico di comunicazione non
solo gode del privilegio di non dover rendere conto a nessuno della
proprie azioni, ma dà prova di autentica sicurezza, rinunciando all’idea
che in ogni email si nasconda, come in un biglietto della lotteria,
l’occasione della vita, che ogni messaggio possa essere quello che ci
offre un impiego importante, un incontro eccezionale, una svolta improvvisa.
Ma chi può e riesce ad astenersi dalla mail è anche chi, con
sano realismo, ammette che il mondo può fare a meno di lui per qualche
giorno30.
Oltre a questo inedito tipo di conflitto sociale, uno degli effetti più
evidenti che derivano dalla diffusione dei social media è la differente
interpretazione del confine fra ciò che è privato o pubblico. Codeluppi
studia questo aspetto in relazione alla sincerità degli utenti internet.
Sarebbe facile suggerire che la trasparenza sui social media priva l’utente
di ogni forma di riservatezza, ma è chiaro che la proiezione della
personalità su internet raramente rispecchia l’individuo nella sua forma
più sincera. La dimensione privata che riversiamo su internet, più
spesso, non è rappresentativa della nostra vera sfera privata, quanto
dell’immagine che noi vogliamo sia proiettata, e che è maggiormente
funzionale al meccanismo della vetrinizzazione. Codeluppi teorizza
così uno sdoppiamento della dimensione privata, tramite il quale una
parte del privato è adattata alle esigenze della mercificazione della
persona, mentre l’altra parte continua ad essere custodita gelosamente31.
L’utente dei social media diventa quindi esperto nel manipolare
la raffigurazione della propria persona, più che della personalità: chi si
espone su internet non può farlo senza considerare di essere sotto costante
osservazione, e la «vera» dimensione privata resta esclusa dalla
vetrinizzazione. Le colpe dei padri discute questa nuova interpretazione
del confine fra pubblico e privato, aggiungendo che si può essere anche
utenti involontari di internet, nel momento in cui altri utenti ci
obbligano a nostra insaputa:
30 Ivi, p. 219.
31 Vanni Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi
e altre “vetrinizzazioni”, Milano, Mimemis, 2015, p. 40.
[ 18 ]
il romanzo della positività 535
Potremmo definirlo “spazio ultra-pubblico”. È quello che attraversiamo
ogni giorno, appena varchiamo la soglia di casa, appena usciamo
dal nostro “spazio privato”. Un tempo, fuori dalla porta trovavamo lo
spazio pubblico, i marciapiedi, le strade, gli autobus, i bar, lo spazio
dove, sapendo di essere sotto gli occhi dei presenti, ci comportavamo
di conseguenza. Oggi quei luoghi si sono dilatati, attraverso le telecamere
fisse, le foto scattate dai telefonini, le riprese filmate di centinaia
di cineoperatori occasionali. Oggi, l’ingenuo che regola i suoi comportamenti
adattandoli alla quantità e alla qualità del pubblico fisicamente
presente è destinato, prima o poi, a rendere conto delle sue azioni a
qualcuno che presente non era, ma che, come lui, abita il mondo virtuale
dei social-media. Oggi, gli amanti clandestini non possono più
concedersi la gioia di camminare mano nella mano in una città lontana
con la certezza di non essere riconosciuti; quella città lontana, dove lui
è andato per lavoro e lei per ritrovare una vecchia zia (o viceversa),
non è più lontana da nulla e da nessuno: le città lontane non esistono
più. E non esiste casetta isolata e inaccessibile dove la propria nudità
possa essere offerta solo al mare senza essere mostrata, al tempo stesso,
all’elicottero che riprende una corsa ciclistica poco distante e, attraverso
quello, a migliaia e migliaia di persone in tutto il mondo, vicinissime.
E se prima di internet le bugie avevano le gambe corte, nella società
della rete esse non hanno più gambe. Eppure ci ostiniamo ancora
a mentire, a omettere, a negare, sperando che nessuno dei mille obiettivi
che ci circondano fosse puntato su di noi proprio nel momento
cruciale32.
Nel mondo di internet e della positività, la trasformazione del linguaggio
segue delle logiche iperboliche, in cui eventi comuni sono
discussi con una retorica della tragedia. Come nota Daniele Giglioli, il
disastro ha oltrepassato i confini dell’eccezionalità, ed è diventato parte
integrante del linguaggio comune, in cui la stanchezza corrisponde
allo stato comatoso, una novità diventa una bomba, ed una situazione
imprevista è allucinante33. Perissinotto partecipa, con tono non entusiasta,
alla discussione sull’iperbole della tragedia nel linguaggio influenzato
dai social media, in riferimento alla metafora della malattia
infettiva e all’uso del termine «virale». Nel dittico sugli anni Settanta,
i personaggi che vivono nel mondo strettamente contemporaneo incarnano
il ritorno della contestazione e dell’atmosfera del conflitto
sociale. Essi sono portatori di valori che difficilmente si sposano con il
32 A. Perissinotto, Le colpe dei padri, cit., p. 254.
33 Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo
millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 18.
[ 19 ]
536 angelo castagnino
pubblico di internet, convinto che un like speso in nome di una questione
sociale sostituisca la presa di posizione dell’individuo che si
mette fisicamente al centro della lotta, accettandone gli eventuali rischi.
Questa separazione genera, nel lettore, l’impressione che i personaggi
di Ernesto ne Le colpe dei padri, Balistreri ed il giovane Edoardo
in Quello che l’acqua nasconde appaiano come degli «intrusi», entità
provenienti da un’altra dimensione temporale, non a caso caratterizzate
con tecniche derivate dal modo fantastico e dalla raffigurazione
di uno spettro. Anche Aldo, il narratore di Quello che l’acqua nasconde,
simbolizza il tentativo di introdurre le nuove generazioni alla discussione
sugli anni del terrorismo; data la sua funzione di narratore, proprio
tramite lui il romanzo riflette sull’interpretazione della malattia
come artifizio retorico, come metafora:
Virale. Fino a qualche anno fa, c’era nel suo significato un che di ripugnante:
“virale” come “contagioso”, come “infettivo”, come “influenza”,
come “peste”, come “lebbra”, come “aids”. “Virale” come qualcosa
da evitare, come qualcosa di vergognoso, come qualcosa che ti disegna
intorno l’alone viola dell’ignominia. Oggi la parola “virale” ha
traslocato, nella mente dei miei allievi, dal mondo della malattia a
quello dell’intrattenimento: video virali, notizie virali, marketing virale.
Ogni divertimento che si trasmette di persona in persona è virale.
Ma io, che come mio nonno fatico a adeguarmi ai tempi, guardo ancora
con sospetto al diffondersi dei virus34.
Nel romanzare la positività, la trasparenza e la vetrinizzazione, le
narrazioni analizzate finora alternano un ritratto strettamente contemporaneo
di queste tematiche a delle riflessioni che rimandano
all’epoca precedente a internet. Per muovere verso la conclusione di
questo discorso, è lecito interrogarsi su quale sia stato il momento di
passaggio in cui l’influenza di internet ha iniziato a cambiare i rapporti
interpersonali e la percezione dell’individuo in relazione alla società.
Da questo punto di vista, il romanzo di Tiziano Scarpa, Kamikaze
d’occidente, può essere considerato il precursore delle narrazioni di
Lagioia e Perissinotto, perché ambientato in un preciso momento di
transizione in cui il pubblico, da fruitore di messaggi su internet, si
apprestava a divenirne produttore. Nel 2003, anno di pubblicazione
del romanzo, ci si avvicinava verso la transizione a ciò che si sarebbe
definito web 2.0, cioè l’interpretazione di internet come strumento attraverso
cui il singolo utente può produrre contenuti, non più limitan-
34 A. Perissinotto, Quello che l’acqua nasconde, Milano, Piemme, 2017, p. 55.
[ 20 ]
il romanzo della positività 537
dosi a riceverli. È questo il cambiamento che avrebbe definitivamente
rivoluzionato il modo di fare comunicazione, grazie alla possibilità di
intrattenere rapporti sociali su Facebook (lanciato nel 2004) e caricare
video suo YouTube (2005) senza necessariamente disporre di spiccate
capacità informatiche. Kamikaze d’occidente si sofferma sul tema della
positività in relazione ai rapporti sessuali al tempo di internet, con
particolare attenzione sull’influenza generata dall’illimitata disponibilità
di pornografia, anch’essa studiata da Han come una forma di
eccesso di positività35. Il romanzo di Scarpa, incentrato sulle vicende
di uno scrittore-gigolò, dotato di un preciso listino dei prezzi per le
proprie prestazioni, propone anche un evidente ritratto allegorico della
funzione sociale di una classe intellettuale pronta a vendersi al miglior
offerente: in questo caso, il protagonista firma un ricco contratto
con il governo cinese, impegnandosi a pubblicare un diario a scopi
propagandistici antioccidentali36. Il tema della positività è introdotto
nella sfera sessuale, in modo diverso dall’ostentazione verbale degli
adolescenti in Albinati: stavolta è il consumo eccessivo di video pornografici
a stabilire, nella vita reale, un livello di aspettativa insostenibile.
Ciò che Scarpa definisce fantarealtà indica, già nel 2003, la sovrapposizione
della dimensione del reale e quella virtuale, con il meccanismo
subdolo dell’infiltrazione nella vita del singolo attraverso una
passione di massa, come verificatosi con il Fantacalcio: «La Fantarealtà
ha vinto. È riuscita a inculare tutte le generazioni, tutte le classi sociali.
Il calcio, poi, è la testa d’ariete della Fantarealtà, ha sfondato tutto
lo sfondabile, soprattutto nella vita dei maschi (ma negli ultimi anni
ha fatto gravi danni anche presso le femmine)»37. La rivoluzione nelle
relazioni interpersonali non è da meno: persino la comunicazione di
notizie di enorme rilevanza per l’individuo, come l’annuncio di una
gravidanza, arrivano ora su freddi messaggini che si contraddicono,
trasmettendo il dubbio sul fatto che il passaggio della comunicazione
a nuovi strumenti corrisponda effettivamente ad un più alto livello di
35 «Simply reduced to the state of being exposed, the naked visage that has no
secret and has become transparent proves obscene» (B. Han, The Transparency Society,
cit., 24).
36 Permeato da toni a tratti molto sarcastici, il romanzo smantella la retorica
dello scrittore che vorrebbe presentare la propria produzione letteraria come figlia
di sincera passione e di ispirazione intellettuale. Dopo un lungo dialogo sulla passione
come forza motrice dell’opera commissionata, il protagonista chiede: «A
proposito: quanto… Voglio dire… Mi diceva che è previsto un compenso?» (Tiziano
Scarpa, Kamikaze d’occidente, Milano, Rizzoli, 2003, p. 40).
37 Ivi, p. 126.
[ 21 ]
538 angelo castagnino
efficacia. Proprio questo è il dubbio che le narrazioni di Lagioia e Perissinotto
insinuano, che la disponibilità illimitata di informazioni e di
nuove forme di espressione non sia usata in modo appropriato dagli
utenti o che, come suggerisce Han, essa non sia addirittura il veicolo
di nuove forme dittatoriali. Nel loro richiamo agli anni Settanta, dagli
esempi di Albinati e Perissinotto sulla positività e la vetrinizzazione
emerge anche una considerazione di rilievo: quelli che studiamo come
fenomeni filosofici e sociologici legati alla diffusione dei social media
altro non sono che la trasformazione strettamente contemporanea di
tematiche preesistenti, in un quadro in cui la trasparenza di Han e la
ridiscussione del confine tra sfera pubblica e privata appaiono come le
vere novità nel rapporto tra l’individuo e le odierne forme del potere.
Angelo Castagnino
University of Denver
[ 22 ]
Marco Manotta
Un polittico narrativo di Seminara, tra favola e mito
È possibile parlare di un realismo a sfondo mitico per la narrativa di Fortunato
Seminara. Dal contatto col dato oggettivo si protende un orizzonte di ricerca
che curva la temporalità nell’ordine della ripetizione: dopo aver attraversato le
dimensioni del galateo sociale, della favola, del rito, del mito e della tragedia si
torna al punto di partenza, ispessito a questo punto da un doloroso senso di
ineluttabilità, di cui i personaggi femminili sono ora vittime ora vindici. Una
realtà rurale arcaica rappresentata nella sua esplosiva complessità, senza misericordia,
in testi narrativi coevi e consentanei, quali La fidanzata impiccata e Quasi
una favola.

It’s possible to outline a mythical background beneath the realism which characterizes
Fortunato Seminara’s novels. Objective temporal order bends itself
towards cyclic repetition: from the very beginning to the end, along the sequence
of social narrative patterns such as etiquette, fable, rite, myth and, finally,
tragedy, the story designes a motionless history. In this universe, female
characters are, alternately, victims and avengers. A rural archaic reality, which
Seminara represents in its complexity, without mercy, in coeval and specular
novels, such as La fidanzata impiccata and Quasi una favola.
«Nati tutte e due nella stessa regione ma uno emigrato e quasi sradicato;
l’altro, io, con le radici profondamente abbarbicate alla mia terra
ed uno dei pochi scrittori che abbia resistito nell’inferno calabrese.
Uno, Alvaro, dal quale la realtà è vista con la mediazione del mito e
della favola; l’altro, io, che l’ho vista e rappresentata […] in presa diretta
e senza veli». Con queste parole Fortunato Seminara, nel contesto di
una conferenza tenuta a Strasburgo il 14 maggio 1981, ribadiva la peculiarità
e, implicitamente, l’autenticità della propria ispirazione intellettuale
e poetica rispetto a quella dell’autorevole corregionale1. La
Autore: Università degli studi di Sassari; prof. associato; mmanotta@uniss.it
1 L’intervento di Seminara, originariamente in lingua francese, s’intitolava
Paysannerie calabraise; è stato raccolto, con testo italiano e nuovo titolo (Narrativa
Meridionalia
540 autore
tardiva pubblicazione, nel 1976, del dittico narrativo confezionato sotto
il titolo di Quasi una favola, può essere letta come manifestazione di
una postuma resa dei conti. Lo specchiarsi dei titoli è significativo,
addirittura icastica manifestazione di poetiche inconciliabili, se si pensa
al journal alvariano edito nel 1950. Quasi una vita, per Alvaro, si
poneva sotto la disincantata consapevolezza dell’impossibile tangenza
fra scrittura e verità, fra Dichtung und Wahrheit in senso goethiano,
anche quando per verità s’intenda il primum dell’autobiografia. Quando
la scrittura traduce in racconto la verità dell’esistenza, rompe naturalmente
gli ormeggi verso la dimensione della favola, non arretra per
recuperare, in senso quasi evenemenziale, la memoria di ciò che è stato,
semmai alimenta la fantasia col falso ricordo di ciò che avrebbe
potuto essere, continuo alimento del desiderio: «siccome sono nell’età
dei ricordi e dei ritorni, cerco di ricordare quello che avrebbe potuto
accadere, quello che avrei desiderato accadesse», confessa Alvaro
nell’Ultimo diario2. Senza giungere all’estremo della mistificazione
programmaticamente esibita dal D’Annunzio del Libro segreto – eroico
logoteta della «Favola breve d’una vita lunga»3 – la confessione, dal
sapore sveviano, che sigillava il libro di Alvaro – «La favola della vita
m’interessa ormai più della vita»4 – rivelava il limite imposto dalla
presenza solo apparentemente discreta dell’avverbio nel titolo: Quasi
una vita, perché la vita, qualunque cosa essa sia, non si può raccontare
se non affabulandola, affatturandola in un certo senso. Ma allora,
nell’ottica di Seminara, Quasi una favola richiede una lettura speculare,
un percorso ermeneutico inverso: impossibile trasfigurare fino in fondo
il dato reale, la pesantezza materiale dell’esistenza tarpa le ali della
fantasia anche quando cerchi di sollevarsi verso il cielo dell’astrazione
mitica. Il pessimismo antropologico dell’Autore, severo richiamo di
un dovere morale, riporta all’ordine la tentazione del plazer, dell’idillio,
a cui aveva ammiccato, per esempio, il Montale di Quasi una fantasia.
Ma la cautela modale con cui si specchiano “vita” e “favola” nei
meridionale), in Fortunato Seminara, Le baracche, Introd. di Walter Mauro, Marina
di Belvedere, Grisolia, 1988 (la citazione alle pp. 212-213). Cfr. Id., Carteggio
einaudiano (1950-1980), a cura di Monica Lanzillotta, Rende, Università della
Calabria, 2002, p. XV.
2 Corrado Alvaro, Note autobiografiche, in Id., Ultimo diario (1948-1956), Milano,
Bompiani, 1956, p. 216.
3 Così nell’Avvertimento preposto dal suo fittizio editore al Libro segreto dannunziano.
4 C. Alvaro, Quasi una vita, Introd. di N. Borsellino, Milano, Bompiani, 1994,
p. 426.
[ 2 ]
titolo 541
due autori calabresi lascia trasparire un ulteriore terreno di confronto,
allude a un comune denominatore mitico, in un senso funzionale, che
può articolare meglio le peculiarità. Certamente il narrare di Alvaro,
quando si misura col mondo doloroso e arcaico della sua terra, si alleggerisce
di determinazioni materiali attraverso l’ottica slontanante
della memoria; senza indulgere all’elegia – «È una civiltà che scompare,
e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il
maggior numero di memorie», osserva il narratore di Gente in Aspromonte5
–, lo scrittore di San Luca decanta l’urgenza dolorosa e realistica
della scrittura confidando nell’identità di memoria e invenzione, in
linea col vagheggiato programma di regressione fantasiosa enunciato
in Ultimo diario, e così può attingere al mito, un mito di grana essenzialmente
soggettiva. La narrazione di Seminara è concentrata invece
sul presente, di cui ritrae senza misericordia – l’annotazione è proprio
di Alvaro6 – l’implicazione fatale di rassegnazione e violenza, ma non
si esaurisce nella pittura realistica: quando il destino si traveste da
tragedia, individui, coralità paesana e paesaggio implementano le
connotazioni riconoscibili dell’esperienza con gli aloni, o i miasmi, di
un perturbante sostrato mitico. Il mito, in Seminara, scrittore senza
ombra di dubbio più “primitivo” di Alvaro, sarà allora un mito a fondamento
oggettivo.
Nel contesto di un altro intervento sulla Narrativa meridionale, risalente
al 1955, Seminara aveva trovato la formula per scolpire i termini
di una fedeltà necessaria seppure ombrosa al dato realistico: «Un
frammento di villaggio calabrese ha una carica atomica. È una temperatura
alla quale pochi resistono. Se lacrime e sangue si trovano nelle
mie opere, è perché lacrime e sangue costa vivere qui»7. Lacrime non
asciugate dal realismo di stampo progressista o provvidenzialistico
che aveva avuto corso dall’immediato secondo dopoguerra: la Calabria,
terra di contrasti naturali ma di sostanziale immobilismo antro-
5 C. Alvaro, Gente in Aspromonte, in Id., Opere. Romanzi e racconti, a cura di
Geno Pampaloni, Milano, Bompiani, 1990, p. 354.
6 Lettore partecipe del romanzo d’esordio del corregionale, Alvaro esorta Seminara
a spandere una luce di pietà su quel mondo asfittico, a guardare i personaggi
con «l’occhio benigno […] di un dio, cioè di un autore non soltanto intelligente
ma misericordioso» (la lettera di Alvaro, datata 17 maggio 1936, si legge in F.
Seminara, Le baracche, nuovo testo a cura di Antonio Piromalli, Roma-Reggio
Calabria, Gangemi, 1990, pp. 14-15).
7 F. Seminara, in La narrativa meridionale, a cura del Centro Democratico di
Cultura e di Documentazione, Roma, Editrice di Cultura e di Documentazione,
1956, p. 130.
[ 3 ]
542 autore
pologico, di imprese abortite, si era imposta immediatamente all’immaginazione
del giovane narratore attraverso la sua realtà rurale, come
«universo paesano improntato dall’impossibilità del riscatto, murato
nel suo arcaico stato d’arretratezza»8. Ma l’incisività nella rappresentazione
del reale poteva assurgere, in seguito alla lezione di realismo
“visionario” degli amati autori russi, a valori universali e quindi
simbolici. Questo perlomeno il punto di mira di Seminara, già dal romanzo
d’esordio, Le baracche, giocato nel microcosmo asfittico, puteolente,
di un’umanità senza redenzione, nonostante l’apparente azzeramento
catartico prodotto dall’incendio finale. È significativo che il
romanzo sia stato vergato tra il 1932 e il 1934, proprio in occasione del
ritorno al paese natale, Maropati (“oscuro sentiero”, secondo l’etimologia),
in provincia di Reggio Calabria, dopo l’esperienza antifascista
in Svizzera, come dire che l’ispirazione dell’allora trentenne scrittore
(era nato nel 1903), addottorato in legge a Napoli nel 1927, poteva
prendere vigore solo dal contatto fisico con l’ambiente che riconosceva
come suo. Ma il ritorno al paese del piccolo proprietario, che avrebbe
da allora in avanti trascorso vita ritirata nel vicino e modesto podere
di Pescano, non confermò il mito agricolo e naturalistico del fascismo
d’apparato e di quello strapaesano; non sorprende dunque che il
romanzo, in linea di collisione con l’ideologia della “sanità” contadina,
dovesse attendere il 1942 per vedere le stampe. Dopo la caduta del
regime si apre per Seminara la possibilità di collaborare con giornali e
riviste, dove colloca la propria produzione narrativa breve e articoli
sul costume e sulle condizioni materiali della società rurale calabrese
(le novelle saranno raccolte nel 1957 in Il mio paese del Sud, mentre saggi
e articoli andranno a sostanziare i volumi L’altro pianeta, 1967, e
Calabria, pianeta sconosciuto, postumo, del 1991). Ma l’ingresso nel
grande circuito del mercato letterario nazionale gli appare precluso,
nonostante riesca a pubblicare, dal 1951 al 1954, quattro romanzi presso
Einaudi e Garzanti. Fruisce di un momento di notorietà fra gli addetti
ai lavori dell’industria culturale settentrionale – nei confronti
della quale Seminara non sarà mai tenero, imputandole proterva incomprensione
per le problematiche sollevate dalla narrativa meridionale9
– in seguito alla pubblicazione nei «Gettoni» del Vento nell’oliveto
8 Aldo Maria Morace, Introd. a F. Seminara, Le baracche, Cosenza, Pellegrini,
2003, p. 11.
9 Ecco una tagliente replica a un giudizio di Calvino (dicembre 1961): «Circa
l’ultimo romanzo [ndr. La masseria] ti sei lasciato travolgere… Alla fine ti sei allineato
coi più grossolani detrattori della letteratura meridionale accusata di essere
[ 4 ]
titolo 543
(1951), il diario di un piccolo possidente che, con equivoco costruito
ad arte dai redattori di Einaudi, Calvino in testa, poté essere scambiato
per la manifestazione diretta delle convinzioni dell’Autore, presunto
apologeta dell’ideologia padronale10. Con l’avvento, negli anni Sessanta,
della stagione dello sperimentalismo, finisce la breve e chiaroscurale
stagione di rilievo nazionale per la narrativa di Seminara: il
realismo a sfondo paesano, che fermenta da sedimenti arcaici e oscuramente
tragici, sconta una precoce inattualità, da cui non si risolleverà
più vivente l’Autore (Seminara si spegne a Grosseto nel 1984)11.
Eppure, a distanza di anni appare sempre più chiaro il fondo non
piattamente documentaristico della sua narrativa: se di naturalismo
postverghiano si tratta, bisogna precisare che Seminara lo ha approfondito
in senso psicologico, memore senz’altro della lezione della
Deledda e presto dimentico della giovanile infatuazione per il D’Annunzio
pastorale di Terra vergine12. Per questo motivo l’ethos del personaggio
può arricchirsi di sfumature, in direzione di una complessità
che però risalta sempre dalla continuità-contrasto col mondo della
elementare arcaicità popolare: è la tematica dell’«incivilito» che si dipana,
per esempio, in un romanzo come Disgrazia in casa Amato (1954);
e non si può passare sotto silenzio l’incisiva capacità di ritrarre la psicologia
femminile, posta in drammatica tensione dall’impossibile e
contraddittorio rifiuto di un pregiudizio sociale e sessista interiorizzato
– di cui Il diario di Laura (1956) costituisce, come vedremo, uno specimen
di finissima rappresentazione psicologica. Una tale ricchezza di
partitura espressiva si riflette anche nelle scene corali di vita contadina,
che, è bene ricordarlo, non sono scrutate con l’occhio dell’antropologo
alla ricerca di universali umani nelle condizioni primitive – con
quel tanto di piacere per la regressione che ciò comporta; l’universale
di Seminara alla fin fine è simbolico e tragico, proprio perché porta
con sé la pesantezza della realtà scabra da cui prende le mosse. La sua
documentaria e cronachistica: accusa che a me nessuno ancora aveva avuto il coraggio
di rivolgere» (F. Seminara, Carteggio einaudiano, cit., p. 155). Altrettanta polemica
chiarezza nella lettera datata 24 gennaio 1975 (cfr. ivi, p. 215).
10 Cfr. M. Lanzillotta, Introd. a F. Seminara, Carteggio einaudiano, cit., pp.
XXXII-XXXVI.
11 È «proprio a partire dagli anni ’60 che gli editori si rifiutano di pubblicare i
suoi romanzi o raccolte di novelle, sicché Seminara finisce col chiudersi nella sua
terra e nell’orizzonte di un’editoria calabrese» (ivi, p. XIII).
12 Cfr. Carmine Chiodo, «Il mio paese del Sud» e «L’altro pianeta» di Fortunato
Seminara, in Id., Da Francesco Dall’Ongaro a Fortunato Seminara Studi di letteratura
italiana fra Ottocento e Novecento, Roma, cisu, 2001, p. 193.
[ 5 ]
544 autore
Calabria, come è stato autorevolmente suggerito, «si differenzia da
quella romantica del Misasi, da quella mitica e favolosa di Corrado
Alvaro e da quella barocca di Repaci»13: ma questo perché il rifiuto di
trasfigurare in chiave idillica o elegiaca comporta di per sé che la strenua
fedeltà al dato oggettivo prenda una curvatura tragica. Realismo
allora, ma simbolico, sulla scia di certo parossismo descrittivo che
spinge al limite le situazioni, appreso dalla meditazione della lezione
di Dostoevskij14.
Parlando della sua terra, Seminara avverte: «A un senso tragico
della vita, il tragico della tragedia greca, si è aggiunto quello di un
tragico che direi cosmico, derivante dai fenomeni naturali»15. È la condizione
e la mentalità arcaica che permette la sopravvivenza della dimensione
tragica nell’epoca moderna secolarizzata. La possibilità della
tragedia costituisce il rimosso della civilizzazione borghese di stampo
progressista. Seminara attinge a quelle forze arcane, le riattiva e le
mette in gioco, magari dissimulandole sotto l’apparente leggerezza di
un titolo fiabesco, nel tardo dittico narrativo Quasi una favola (1976),
oppure sovradeterminandole con la falsa promessa, recata dal titolo
La fidanzata impiccata, di un romanzo gotico.
I due testi, che possono essere messi a specchio per la centralità
assegnata alla figura femminile e per la struttura a dittico, sono stati
ideati e realizzati negli anni Cinquanta. Per la Fidanzata impiccata possiamo
determinare con certezza la data di inizio della composizione,
annotata sul manoscritto depositato presso l’archivio della Fondazione
Fortunato Seminara: 12 maggio 195016. Le 223 carte vergate dovettero
essere ben presto sottoposte al giudizio di Elio Vittorini, se in una
cartolina postale del 16 maggio 1951 Seminara si lamenta presso Calvino
della restituzione del manoscritto, mandato «tempo fa», «senza
13 A. Piromalli, Fortunato Seminara, ed. riv. e accr., Soveria Mannelli, Rubbettino,
1985, p. 181.
14 Il protagonista dell’Arca «si muove ormai in una dimensione di delirio, quella
dostojewskiana che Seminara induce nei suoi personaggi nei momenti in cui si
prepara la tragedia» (A. Piromalli, Intorno a tre romanzi inediti di Fortunato Seminara,
in Società meridionale ed esiti tecnico stilistici nell’opera di Fortunato Seminara, atti
del convegno (Polistena 18-19 ott. 1997), Cosenza, Pellegrini, 1999, p. 14).
15 F. Seminara, L’altro pianeta, Cosenza, Pellegrini, 1967, p. 110.
16 Il figlio di Seminara ha ceduto alla Fondazione i diritti sui manoscritti, affidati
dall’Autore alla municipalità di Maropati. Per informazioni circostanziate sulla
storia testuale del dittico narrativo seminariano, da cui estrapoliamo le notizie
essenziali, si veda Giuseppe Lombardo, Nota al testo, in F. Seminara, La fidanzata
impiccata, Cosenza, Pellegrini, 2000, pp. 29-35.
[ 6 ]
titolo 545
una riga» di commento17. Una settimana dopo Calvino, consulente
editoriale della Einaudi, risponde:
A me piace assai il tono e il colore generale del racconto, quei rapporti
padrone-servo, quell’aria da reame omerico, e anche il paese, la fidanzata,
le cugine, e quell’aria trasognata del protagonista. Ma sono d’accordo
con Vittorini nel non essere convinto del personaggio del forestiero
cantore. Lì il gusto un po’ estetizzante di tutto il racconto appare
molto più accentuato, e la suggestione della voce di quest’uomo è
un’immagine solo vagheggiata e detta, non espressa poeticamente.
Quella scena della mietitura non convince, non ci credi18.
Lo scrittore di Maropati accetta di buon grado il rilievo critico, avvertendo
la necessità di procedere a una revisione; tiene tuttavia a precisare
che il romanzo non va misurato secondo «un metro rigorosamente
realistico»19. Negli anni immediatamente successivi tramonta
definitivamente la speranza di collocare La fidanzata impiccata nei
«Gettoni» o, in alternativa, nella PBSL. Il fatto che Calvino, e ancor
meno Vittorini, non credano nel romanzo20 probabilmente ha il suo
peso nel determinare un ripensamento radicale dell’opera, che viene
riscritta cambiando drasticamente il punto di vista della narrazione:
dalla prospettiva onnisciente, a sfondo oggettivo e corale, del narratore
eterodiegetico a quella ristretta e autodiegetica della protagonista,
svelata nella sua recondita intimità attraverso le pagine del suo diario.
Fortunatamente Seminara, per riprendere una espressione critica applicata
da Contini a Leopardi, è un autore che difficilmente si dà torto
correggendo: dai primi di giugno all’8 luglio del 1955, secondo le date
attestate dal manoscritto (anch’esso conservato presso la Fondazione),
la storia viene raccontata secondo la nuova prospettiva del Diario di
Laura, che non sostituisce la precedente versione ma la integra, con
felicissima intuizione che dà la misura della qualità dell’impegno narrativo
dell’Autore. All’inespresso mitico della Fidanzata impiccata si
giustappone lo scavo psicologico del Diario di Laura, seguendo un impulso
quasi sadiano di usare la scrittura romanzesca come supporto
per “dire tutto”, senza lasciare margini di indecisione semantica.
Quest’ambizione totalizzante troverà ben presto riscontro editoriale
con la pubblicazione del romanzo, nel 1957 in edizione fuori commer-
17 F. Seminara, Carteggio einaudiano, cit., p. 23.
18 Ivi, pp. 24-25.
19 Lettera del 2 giugno 1951 (ivi, p. 25).
20 Cfr. la lettera del 2 settembre 1952 (ivi, p. 50).
[ 7 ]
546 autore
cio a Venezia presso i tipi del Sodalizio del libro, in due ante e col titolo
di La fidanzata impiccata. Con ciò non termina la hybris correttoria di
Seminara, affidata ora alle annotazioni vergate a margine di due copie
del testo edito, una in brossura e una in copertina rigida (custodite
dalla Fondazione). Non era infatti tramontata la speranza di trovare
una collocazione più visibile, presso Einaudi. Finalmente le insistenze
trovano un riscontro positivo quando, nel dicembre 1961, propone ancora
a Calvino di realizzare un unico volume coi tre romanzi in cui il
realismo psicologico dell’analisi si dispiegava secondo le volute monologanti
del protagonista: Il vento nell’oliveto, Disgrazia in casa Amato
e, appunto, Il diario di Laura. La trilogia viene pubblicata nel 1963 nei
«Supercoralli». La successiva edizione, postuma, comprensiva delle
due parti, riveduta sulla base dei manoscritti e delle annotazioni marginali
alle copie del 1957, esce a cura di Giuseppe Lombardo nel 2000
presso l’Editore Pellegrini di Cosenza21.
Il primo “critico” di La fidanzata impiccata, Italo Calvino, ha in effetti
prodotto un’analisi esemplare, dal punto di vista di un lettore razionalista:
colpisce col suo strale, non a caso, dove l’addomesticamento
illuministico del mito viene contraddetto da istanze narrative che, in
mancanza di categorie interpretative adeguate, vengono dimidiate come
“estetizzanti” – la figura realisticamente eslege del forestiero. Con
ciò, ancor prima di provare a determinare la fisionomia tipica di questo
antieroe, occorrerà precisare che la sua funzione diegetica consiste
nel rendere possibile la storia: come non avremmo avuto I promessi
sposi se un signorotto locale non avesse posato gli occhi su una contadina
brianzola, così nulla avrebbe scosso l’atavica catena che lega, attraverso
le maglie delle quotidiane sopraffazioni e della dolorosa rassegnazione,
la realtà superstiziosa dell’insediamento rurale di Poggio
Fiore a quella pettegola del paese22, se un elemento di disequilibrio
non fosse penetrato dall’esterno a inoculare i veleni di una misteriosa
tabe cittadina, che corrode il senso dell’appartenenza comunitaria, radicata
nei saldi legami tradizionali e familiari, per consegnare gli individui
a una realtà parcellizzata, campo d’interazione per monadi senza
finestre; in città un individuo, assicura il forestiero, «Va dove non è
conosciuto e non conosce nessuno, dove non è spiato, né seccato, né
disgustato, dove insomma è libero» (FI, 249). Quindi, a un primo livel-
21 Da questa edizione, abbreviata in FI, saranno ricavati i riferimenti testuali
alla Fidanzata impiccata e al Diario di Laura.
22 «Siamo tutte legate alla stessa ruota, tutte abbiamo dentro lo steso tarlo in
questo paese dove niente cambia mai», lamenta la protagonista (FI, 215).
[ 8 ]
titolo 547
lo di lettura, la coerenza simbolica non fa certo violenza alla verisimiglianza
del racconto: è diegeticamente coerente e funzionale che il
Forestiero appaia misterioso – gli abitanti del Poggio e del paese non
conoscono la realtà cittadina; che affascini col canto – metafora delle
sconosciute attrattive urbane; che sia senza nome – l’anonimato come
usbergo dell’impersonalità dei rapporti borghesi.
Se il forestiero è il vettore delle istanze storiche, Teodoro, il piccolo
proprietario promesso sposo di Laura, è per eccellenza il personaggio
senza storia, addirittura “senza mondo”, dal momento che si presenta
come un “idiota” dostoevskyano svincolato anche dalle logiche partecipative
ma spesso brutali che riflettono la temporalità ciclica della
natura. È un personaggio perennemente fuori contesto, che tuttavia
custodisce in sé i germi di una dolorosa maturazione interiore. La sua
storia paradossalmente comincia alla fine del romanzo, dopo la scoperta
della tragedia: «Raggiunse la cavalla che pascolava tranquilla,
saltò in sella e partì. Doveva trovarlo, avrebbe percorso tutte le strade
del mondo per trovarlo: lui gli doveva dare quella risposta» (FI, 179).
Ma nel momento in cui Teodoro, aperti finalmente gli occhi, diviene
un eroe cercatore, produttore di storia, viene abbandonato dal narratore:
il suo futuro, assolutamente impregiudicato, viene schiacciato
dalla violentissima analessi che riconvoca sulla scena la suicida che
narra per la seconda volta la storia filtrandola attraverso il proprio
punto di vista. Come si sa, l’essenza del racconto mitico è la ripetizione:
Seminara pare suggerire che la Storia, anche quando sembra sconvolgere
l’ordine fattuale del mito, costituisce un epifenomeno che non
corrode la persistenza delle strutture formali profonde, antropologicamente
irrevocabili, del mito. Contro ogni illuminismo e materialismo
dialettico.
L’universo narrativo di Seminara non è tuttavia immobile, è attraversato
da faglie profonde e da contrasti, che in maniera emblematica
risaltano dalla giustapposizione delle due ante del dittico: alla irrevocabilità,
ipoteticamente naturale del mito, raccontata nella Fidanzata
impiccata, si salda l’irrevocabilità convenzionale dei ruoli, così come
viene statuita in una società sessista, introiettata e patita dall’autrice
del Diario di Laura. L’Autore dispiega grande finezza psicologica
nell’analisi dell’animo femminile; certa condiscendente leggerezza
nelle movenze della scrittura diaristica ha a volte il sapore del monologo
da commedia goldoniana o da libretto d’opera, ammiccante al
pubblico – «Io sono puntigliosa, lo sappiano tutti, e se qualcuno mi
contrasta un desiderio, è peggio» (FI, 207); ma in effetti la sicumera
ostentata dalla giovane nella gestione degli affari sentimentali, orien-
[ 9 ]
548 autore
tata secondo il codice delle bienséances, lascia aperto il varco verso l’esito
tragico, annunciato dal memento di uno degli “articoli” fondamentali
del codice: «Ora per tutti sono una ragazza rispettabile e se qualcuno
si attenta di dirmi un’insolenza, gliela posso rendere raddoppiata;
se mi offende, posso difendermi e offendere; ho diritti uguali a
quelli degli altri e posso farli valere. Non debbo perdere questo vantaggio
» (FI, 233)23. La violazione del codice è il frutto di un’insorgenza
naturale contro le regole del conformismo sociale: ma non si tratta
dell’ipotetica naturalità mitica, sebbene di un’insorgenza più profonda,
autenticamente primigenia e si vorrebbe dire biologica, che si
esprime attraverso le pulsioni del corpo. Il discorso di Seminara si fa
assolutamente complesso: retrocedendo dalla Storia, latrice di cambiamento,
al “galateo”, e da questa laccata cerimoniosità al mito, vengono
svelate le radici somatiche che mettono in discussione gli schemi
ordinatori dell’esperienza. Nel procedere lungo le pagine del diario, il
corpo di Laura diventa il doppio sempre più insidioso e sinistro della
sua buona e falsa coscienza di donna rispettabile: da quando osserva
compiaciuta le proprie forme allo specchio, a quando si abbandona a
un languore pericolosamente pieno di desiderio, a quando si fa possedere
e addirittura battere sadicamente dal suo amante, fino all’invasamento
finale che, nella sua regressione ctonia a una visceralità corporea,
prelude alla decisione tragica: «Perdo i sensi e quando rinvengo,
ho un sapore di sangue in bocca e il viso imbrattato di terra» (FI, 269)24.
La dialettica psicologica in cui si consuma l’esistenza di Laura è
assai complessa, poiché al polo opposto di quella riappropriazione
della corporalità che l’inibizione sociale non poteva far maturare che
in forme svisate o parossistiche, sta l’astrazione dell’esperienza: per le
giovani del paese il rapporto col mondo è filtrato attraverso lo schermo
della finestra, allo stesso tempo punto di osservazione ristretto e
diaframma che protegge dalla pericolosa tangenza col reale. La scrit-
23 R accomandazioni dello stesso tenore, per fare un esempio, costipano le paterne
preoccupazioni di Pietro Verri che scrive i Ricordi a mia figlia Teresa.
24 Nel suicidio per impiccagione della ragazza viene amplificato, probabilmente,
lo spunto narrativo consegnato a una nota di diario del 1949: «Due uomini
(cognati) sospettano che la cognata abbia avuto rapporti col prete… vogliono verificare
la sua verginità… La ragazza acconsente: quella sera è indisposta; li aspetta
la mattina dopo… Vanno (la sua casa è isolata in campagna) e la trovano […] (pende
appesa ad una corda al soffitto). Inorriditi. Era colpevole? Era innocente? (Uno
degli uomini le mette un dito per verificare verginità: è pura)» (F. Seminara, Diari
1939-1976, testo, note e introd. a cura di Erik Pesenti Rossi, Cosenza, Pellegrini,
2009, p. 130).
[ 10 ]
titolo 549
tura in questo caso non sublima l’angustia della prospettiva, come accade
per esempio a una Dickinson; la dinamica dei rapporti oscilla
attorno a un baricentro costituito da sguardi furtivi, ciarle, invidie,
pettegolezzi. Non sorprende che il limitato punto di osservazione,
porgendo una visione mentitamente oggettiva, possa generare la fantasticheria,
evidente tutte le volte che Laura si atteggia a maîtresse di
un gioco sentimentale che ella conosce solo in astratto, e di cui quindi
rimane vittima. Eppure, dolorosamente ma invano, ella acquista coscienza
della propria inadeguatezza – parlando di sé in terza persona,
scrive, quando ormai è troppo tardi per ritrarsi dall’abisso in cui stava
precipitando: «Le manca l’esperienza, non l’intelligenza» (FI, 225).
Ma la mancata capacità di interpretare l’esperienza deriva da un
movimento tellurico che scuote le fondamenta tradizionali del mondo
rurale e paesano, inetto a produrre gli anticorpi necessari per metabolizzare
il contatto con l’elemento allogeno. E se, come vedremo, tale
elemento allogeno viene presentato con tinte diaboliche, ne consegue
che Seminara da un lato depreca l’identità socioculturale assolutamente
rigida del microcosmo rurale calabrese, ma dall’altro ne paventa
la prevedibile e non pacifica scomparsa per il contatto corruttore
con l’esterno. Si tratta dunque di un mondo che, ci suggerisce l’Autore,
non collasserà per cause endogene; il pessimismo antropologico
che apparenta, per certi versi, Seminara a Pavese (e forse anche a Tozzi),
si limita a registrare la persistenza del collante mitico che nelle
campagne rinsalda il contratto sociale sotto i denominatori della violenza
e della rassegnazione. In realtà Teodoro potrebbe promuovere,
dall’interno, un movimento di “dolce” trasformazione: ma il punto di
vista straniato di cui è portatore serve solo ad accrescere il senso di
arcano e inesplicabile che si annunzia fin dalle prime pagine del romanzo,
in anticipo sulla stessa comparsa misteriosa del forestiero. Teodoro
è l’erede del più fortunato personaggio della narrativa novecentesca,
l’inetto; si muove spaesato attraverso segni che annunziano
la possibile rovina di un modo di pensare tradizionale25, ma è incapace
di leggerli come fattori di cambiamento. Alla fine il suo ruolo si riduce
a quello di inconsapevole termometro degli effetti di arcano generati
dalla comparsa del forestiero.
«Vengo di lontano e ho camminato molto» (FI, 74): l’arrivo dello
straniero porta a maturazione i germi di temporalità favolosa ed epi-
25 Ecco un paio di esempi: «Alla fine pensò che forse ogni cosa era avvenuta
secondo un disegno fatale. Ma tutto era assurdo e inesplicabile»; «Si potevano
rintracciare le ragioni immediate e concrete, le altre sfuggivano» (FI, 45 e 119).
[ 11 ]
550 autore
fanica che erano stati introdotti fin dall’inizio della narrazione – che
quindi perde, a scanso di equivoci, ogni connotato urgentemente realistico26.
L’irresolutezza ermeneutica di Teodoro si combina con le dicerie
su un probabile prossimo cataclisma e al rimpianto per la perduta
età dell’innocenza che ormai impedisce la nascita di autentici profeti27.
La fiaba inizialmente mantiene le sue promesse: l’uomo che nessuno
conosce si rivela portatore di un dono, un canto meraviglioso che è
facilmente riconducibile al mito orfico28. Ma il mito, celebrazione apollinea
della poesia e del potere psicagogico della parola cantata, presenta
un lato ombroso, dionisiaco, che Seminara approfondisce per
realizzare un sorprendente ribaltamento: all’Orfeo sbranato dalle Menadi,
offese dalla sua rinuncia all’amore eterosessuale in seguito alla
perdita di Euridice, si sostituisce un Orfeo sadico che si vendica delle
donne. «Non vuole lasciare in paese una ragazza intatta» (FI, 260), riferisce
Laura nel suo diario, ormai masochisticamente legata al suo
carnefice. Orfeo matura quindi nella figura di Don Giovanni – «Aveva
un solo torto, di amare le donne, tutte le donne» (FI, 168) –, meglio
ancora in quella di un libertino di estrazione sadiana che corrompe la
purezza ed educa alla perversione. La sua vocazione alla menzogna, il
depistaggio che dissolve in una nube di fumo verbale ogni possibile
inchiesta sulla sua identità, gli sfoghi di empio titanismo29, non lasciano
soverchi dubbi sulla matrice diabolica della sua personalità. Alla
fine il forestiero sparisce inghiottito dallo stesso nulla da cui era emerso.
Lascia alle sue spalle il cumulo di macerie prodotte dall’incrinatura
di un tessuto di rapporti tradizionali, e un eroe suo malgrado, Teo-
26 «Come la luce diminuiva, le voci e i rumori parevano diradarsi e i gesti,
sciolti da ogni riferimento coi discorsi, diventavano quasi assurdi; le case che limitavano
la piazza dai quattro lati parevano avanzare lentamente e invadere lo spazio
libero» (FI, 39).
27 Cfr. FI, pp. 49, 92. Éschaton e archè vengono richiamati solo come idoli dialettici;
questo mondo ciclico, e immobile, non conosce inizio o fine, tantomeno può
vagheggiare la restaurazione di una favolosa età dell’oro: «nel mondo di Seminara
è sempre assente il mito di una Calabria pastorale e arcadica» (Olga Lombardi,
Fortunato Seminara, in Letteratura italiana 900. Gli scrittori e la cultura letteraria nella
società italiana, dir. e cura di Gianni Grana, Milano, Marzorati, 1979, VIII, p.
7427).
28 Il motivo della fascinazione del canto ha un lontano antecedente nel giovanile
racconto Adolescenza, forse risalente al 1920 (cfr. E. Pesenti Rossi, Vita di Fortunato
Seminara scrittore solitario, cit., p. 53).
29 «In una specie di delirio impreca contro il genere umano, contro tutto il
mondo e poi dal mondo terreno passa a quello celeste, scagliando tali immonde ed
empie bestemmie, da farmi inorridire» (FI, 257).
[ 12 ]
titolo 551
doro, che forse è vettore dell’unica istanza positiva di cambiamento
per un mondo chiuso come un’ostrica in se stesso. Seguendo Teodoro
che cerca risposte il microcosmo rurale si apre alla dimensione della
Storia; ma questa “storia” Seminara non ha voluto raccontarla.
È pur vero che il percorso del novizio eroe cercatore si stempera in
un alone di favola: non si possono forzare i limiti di una leviana comunità
rurale per rincorrere altre risposte che sostituiscano quelle statuite
una volta per sempre dall’iterarsi del male “perenne”, nella sua primitiva/
originaria necessità e insensatezza. Non c’è nulla che possa
accadere “dopo”30, il racconto non può avere sviluppo, la funzionalità
diegetica della fabula, del mythos in senso aristotelico, sbozza i contorni
della tragedia, col suo esito da sempre predeterminato. Non a caso,
l’Autore ci ammonisce a ravvisare nel racconto Quasi una favola, seppure
dissimulata dalla allusiva attenuazione del titolo, la sinopia di
una tragedia31.
Il dittico narrativo, composto dal romanzo breve, in tre parti, che
dà il titolo al volume, e dall’apologo Primitivo perenne, è rimasto a lungo
inerte fra le carte di Seminara, prima di trovare la via della stampa
nel 1976 presso l’editore Parallelo 38 di Reggio Calabria. Ma la stesura
risale alla metà degli anni Cinquanta (aprile-maggio 1954) – in stretta
implicazione cronologica, e ideativa, con La fidanzata impiccata32. Secondo
una testimonianza dell’Autore, di nuovo Calvino avrebbe inizialmente
equivocato in senso «faulkneriano» l’ispirazione che sostanziava
il romanzo breve33. Dopo aver apportato alcune modifiche,
lo ripropone qualche anno dopo allo stesso Calvino, e quindi a Einaudi:
siamo nel giugno del 1964. La risposta si fa attendere, per una serie
di disguidi, fino alla fine di gennaio dell’anno successivo, e non sarà
lusinghiera; dopo un avvio «cupo e struggente», il romanzo cederebbe
per un sovraccarico mitico-simbolico:
30 Nel senso delle marche della narratività individuate da Benjamin nel suo
saggio su Nikolaj Leskov.
31 «Il mio vero “teatro” è nei miei racconti. Lei dovrebbe leggere l’ultimo: Quasi
una favola. È una tragedia» (Ginette Herry, Seminara in Francia, in Società meridionale
ed esiti tecnico stilistici nell’opera di Fortunato Seminara, cit., p. 232).
32 E a suggellare, si potrebbe aggiungere, una simpatia per il ritmo cadenzato
del logos fiabesco che risale ad almeno un decennio prima, come conferma la raccolta
di 83 brevi favole in un quaderno di scuola, silloge inedita che aveva intitolato
Una favola al giorno (cfr. E. Pesenti Rossi, Vita di Fortunato Seminara scrittore solitario,
cit., p. 108).
33 Cfr. F. Seminara, Carteggio einaudiano, cit., p. 187 (lettera del 20 giugno
1964).
[ 13 ]
552 autore
[…] il tono più acceso e drammatico; il tipo di poeticità arcaica e solenne
a cui tu tendi nelle figure del vecchio e dei pastori; Gregoria che
ormai, perduta nella follia, non è più un personaggio ma solo una presenza
tra lirica e simbolica; una certa indulgenza per il folklore (per
esempio i lamenti di Gregoria); il sostituirsi al dramma sottile e pieno
di pudore della prima parte una battaglia di istinti sanguinari senza
più profondità psicologica: questi sono gli elementi che mi mettono in
un atteggiamento critico verso la seconda e la terza parte34.
Seminara tiene a puntualizzare, a stretto giro di posta, che quel
mutamento di ritmo narrativo, imposto dallo sforamento dell’iniziale
ambientazione realistica in una dimensione arcaico-rituale, è consustanziale
al profilarsi della vicenda35. Sarà Guido Davico Bonino nel
gennaio del 1966, con una lettera dai contenuti piuttosto secchi che
riprendeva il giudizio di Calvino, a liquidare la possibilità che il romanzo
potesse trovare ospitalità presso le edizioni Einaudi36. Nel frattempo
Quasi una favola aveva cercato fortuna presentandosi al “Premio
Letterario Sambucina di Luzzi” (cittadina in provincia di Cosenza)
nel 1965. La commissione, composta dai “settentrionali” Luciano
Anceschi, Mario Spinella, Francesco Leonetti, non ritenne di dover
assegnare a Seminara, profeta in patria, niente più della menzione
d’onore37. Costretto a rivolgersi al canale dell’editoria locale, Quasi
una favola, accresciuto di Primitivo perenne, viene pubblicato nel 1976,
tra la distrazione generale38. La fortuna sarà postuma e, curiosamente,
dovuta all’attenzione di lettori stranieri, che percepiscono la grande
urgenza rappresentativa, e quindi teatrale, del testo. Lo stesso Seminara
era stato sollecitato, da un’insegnante di origine calabrese di
Strasburgo, Dora Mauro, a curare una riduzione scenica del romanzo.
La morte impedisce la realizzazione del progetto, che viene ripreso da
Ginette Herry, in seguito alla traduzione in francese che esce nel 1999
col titolo di Gregoria de Calabre39. Alla tournée teatrale, curata dalla
34 Ivi, p. 194 (lettera del 28 gennaio 1965).
35 Cfr. ivi, p. 195 (lettera del 4 febbraio 1965).
36 Davico Bonino ribadisce «lo scarto di qualità fra la prima parte […] e la seconda,
di una eccessiva e grave effusione di tipo postdannunziano, e di un lirismo
panico di ritorno a momenti arcaistici che lasciano interdetti» (ivi, p. 200).
37 Cfr. M. Lanzillotta, Introd. a F. Seminara, Carteggio einaudiano, cit., p. XLI.
38 F. Seminara, Quasi una favola, Reggio Calabria, Parallelo 38, 1976 (d’ora in
poi citata QF).
39 Nel materiale d’archivio inventariato presso la Fondazione si trova segnalato,
fra le altre cose, un raccoglitore che contiene: a. locandine e manifesti della
rappresentazione teatrale; b. un libretto del Thèatre Germani Muller; c. un libretto
[ 14 ]
titolo 553
compagnia Scarface Ensemble, si affianca anche l’adattamento radiofonico
di Primitivo perenne, con il titolo di Le grillon et la mule40.
Il lettore/editore Italo Calvino scolpisce con nettezza i termini di
uno slittamento simbolico che prelude a uno scollamento diegetico;
ma il curatore delle coeve Fiabe italiane indietreggia, ancora una volta,
di fronte al riemergere di un’arcaicità ctonia, che non si lascia addomesticare
entro orizzonti narratologici proppiani. Il fatto è che l’attacco
della narrazione sembra promettere ben altro, un apologo sulle
sofferenze erotiche o al limite una tragedia sull’impossibile purezza
dell’amore. Il protagonista maschile, Matteo Lupis, viene immediatamente
presentato nell’alone arcano del mistero: poco si sa di questo
contadino benestante, che vive isolato e in solitudine, privo di compagnia
femminile. Ma l’immagine di una donna comincia gradualmente
a occupare i pensieri di Matteo, donna mai vista e pertanto favolosa,
sposata a un suo amico, il sarto Cosimo. L’incontro avviene per una
irresistibile casualità, forse favorito dal marito, anziano e impotente,
che viene ritrovato dai due ormai prossimi amanti agonizzante sulla
porta di casa di Matteo. Il prolungarsi dell’agonia consolida l’intimità
tra Matteo e Gregoria, ma rende sempre più penosa l’attesa della liberazione,
finché Matteo prende l’iniziativa di incoraggiare il fatale corso
degli eventi. Ma l’omicidio viene vissuto da Gregoria come un tradimento
e insieme una chiamata di correità. La fuga della donna, e la
follia, aprono il varco al riemergere dei fantasmi di una Calabria arcaica;
i suoi incontri con i pastori materializzano un arcano senso di giustizia
che si rivelerà spietato e letale per l’amante, su cui si rovescia la
punizione per colpe passate e presenti. Il tenue palinsesto fiabesco
viene squarciato, la quiete dell’idillio erotico-pastorale volge tragicamente
in una ordalia che attrae il colpevole perché sconti la condanna,
o perché antichi torti siano risarciti: per due volte Matteo è costretto a
comparire di fronte ai suoi accusatori proprio nel momento dell’agnizione,
grazie alla preterintenzionale, ma sagace, regia di Gregoria.
Il fatto che per questo romanzo breve Seminara avesse inizialmendel
Centre Dramatique National de Franche-Comtè; d. un articolo apparso su «Il
Quotidiano» dal titolo In Francia le passioni di Seminara; e. una carpetta con la scritta:
«Spettacolo teatrale Strasburgo: Corrispondenza, autorizzazioni, pubblicazioni
»; f. un fascicolo con la scritta «Gregoria» contenente manifesti, locandine, articoli
di giornali, recensioni; g. l’adattamento teatrale di Gregoria: La folle chez les
bergers.
40 Per queste e altre notizie sulla fortuna di Seminara nella cultura transalpina,
si veda G. Herry, Seminara in Francia, cit., pp. 231-237, e E. Pesenti Rossi, Vita di
Fortunato Seminara scrittore solitario, cit., pp. 351-361.
[ 15 ]
554 autore
te pensato al titolo Una folle tra i pastori41, suggerisce qualche richiamo
intertestuale, a situazioni celebri rilette in senso ironico o addirittura
antifrastico. Così viene da pensare alla fuga di Erminia, che nella Gerusalemme
liberata (vii, 1-22) si ricrea dalle pene d’amore grazie al conforto
di una famiglia di pastori; il richiamo potrà apparire meno peregrino
qualora si ponga mente al fatto che la Calabria ha conosciuto
una lunga tradizione di assimilazione demotica dei romanzi popolari
cavallereschi (si pensi al ciclo dei Cantari d’Aspromonte), fino a produrre
una fortunata versione in dialetto della stessa Gerusalemme (nel
1737, grazie a Carlo Cosentino di Aprigliano)42.
Il secondo racconto, Primitivo perenne, è un genuino apologo, giocato
sui contrasti e le dismisure consentite dall’iperbole favolistica: protagonisti
il Grillo, povero contadino malato di inettitudine fantasticante,
e la moglie, la Mula, oppressa da una fame pantagruelica che la
costringe a continue fughe dal marito per saziare, con metodi non ortodossi,
quel suo «corpo così grande» (QF, 132). Era prevedibile che la
donna avrebbe finito col concedersi passionalmente a una reincarnazione
dell’orco delle favole, quel Biasi, capraio con collusioni malavitose,
di cui ella si innamora masochisticamente. E quando il marito
prende il coraggio a quattro mani per reclamarla, la paventata tragedia
prende i colori della farsa: Biasi allaccia i due sposi con una corda
e li fa rotolare per un pendio, esponendoli allo scherno di tutto il paese
– con probabile ricordo, ironico, di Ares e Afrodite incatenati al talamo
da Efesto ed esposti al ludibrio degli dei.
C’è un fattore che accomuna le donne protagoniste dei due racconti:
vivono entrambe in una dimensione in cui la razionalità sintetica,
che dovrebbe consentire di elaborare giudizi sulla base del rapporto
41 Cfr. G. Herry, Seminara in Francia, cit., p. 234.
42 Cfr. Rocco Mario Morano, Stile di vita e stile letterario nella produzione saggistica
di Fortunato Seminara, in Società meridionale ed esiti tecnico stilistici nell’opera di
Fortunato Seminara, cit., p. 215. Si può aggiungere un ulteriore riferimento intertestuale,
dopo aver scartato come eccessivamente generiche le affinità con la poor
Maria di Sterne, la Lauretta foscoliana, la Nina pazza per amore musicata da Paisiello,
la Lucia di Lammermoor scottiana, messa in musica da Donizetti: il tema
della follia femminile e l’ambientazione pastorale si intrecciano nella commedia La
Fingida Arcadia di Tirso de Molina (1621), in cui la protagonista Lucrecia, ammiccando
ora a Cervantes ora a Lope de Vega, versa nell’infatuazione per la letteratura
di argomento bucolico il proprio disinganno amoroso, mettendo in scena una
rappresentazione della propria follia che presenta singolari analogie con quanto
farà Pirandello con l’Enrico IV. Ma si può pensare agli stessi interludi pastorali del
Don Chisciotte, in particolare alla storia di Marcela e di Grisostomo (I, 12-14).
[ 16 ]
titolo 555
istituito tra i fatti, viene messa tra parentesi. Così la Mula «non voleva
pensare a nulla: vivere, fare del male e riceverne, soffrire e far soffrire,
essere disprezzata, battuta a sangue; ma non pensare mai» (QF, 153),
in modo da eludere la domanda sull’origine della sofferenza e quindi
sulla possibilità-necessità della resipiscenza. Ciò che la determina è la
coazione a ripetere: la fuga e i ritorni, dopo aver scontato oscuramente
la propria colpa tra le grinfie del capraio. Dal canto suo Gregoria è
incapace di sintesi: «Non era avvezza ad analizzare i suoi sentimenti,
solo i fatti vedeva chiari, uno dopo l’altro, uno conseguenza dell’altro,
talvolta confusi e inestricabili» (QF, 25). Gregoria vive l’esperienza
sotto la formula dell’accumulazione paratattica di eventi: in questo
senso non potrà mai esser giudice, ma semmai strumento inconsapevole
di una giustizia occulta. La primitività dell’universo mentale ha
il suo riflesso anche a livello linguistico: l’uso frequente della coordinazione
polisindetica da una parte («Venne un pomeriggio a casa e mi
vide e gli piacqui e lui piacque a me come nelle storie d’amore» [QF,
67]), e le ripetizioni che fanno emergere un fondo naturalmente sentenzioso
del discorso, giocato su una sintassi elementare e modulare
(«Il sapere è come il pane che si mangia ogni giorno, ogni giorno un
po’. Non fa male, perché il pane è buono e non può far male. Anche la
carne, la pasta, il pesce sono buoni, ma solo il pane è veramente necessario
» [QF, 99]). Le parole sembrano perdere la loro astratta convenzionalità
per motivarsi animisticamente, fino al punto di materializzarsi:
«le parole lasciano una traccia come il fosforo strofinato su un
muro al buio» (QF, 60), «Parlò come se incidesse un legno col coltello»
(QF, 36).
Sulla base di un tale sostrato linguistico e antropologico, l’indulgenza
per il folklore di cui si rammarica Calvino costituisce l’emersione
di pratiche rituali che fanno corpo con un mondo nel complesso
prelogico, se pesato sul criterio della razionalità strumentale e laica
della modernità. In realtà non si tratta di condiscendenza per il tratto
di colore locale, né di allentamento delle fibbie razionali: Gregoria si fa
strumento di rivelazione di una logica altra che è consustanziale alla
rappresentazione che quel mondo arcaico fa di sé. Il carattere formulare
del lamento di Gregoria, vero canto del lutto per una donna che,
indossato l’abito di prefica, piange l’amato defunto43, trova la sua intima
ragione nella “rappresentazione” del dolore, secondo pratiche secolari
che imponevano la pubblicità del lamento per la perdita paren-
43 Cfr. QF, 52-55.
[ 17 ]
556 autore
tale. Non si tratta di sfogo lirico, poiché il lamento sarebbe inconcepibile
come espressione della soggettività solipsistica: occorre un pubblico
per la rappresentazione rituale del dolore; in questo senso l’incontro
con l’anziano pastore rivela una sua intima necessità. Certamente
Seminara, che da bambino aveva accompagnato la madre ad
alcune veglie funebri44, è riuscito a catturare l’atmosfera del pianto rituale,
creando un canto personale eppure assai verisimile e tradizionale.
Della medesima grana il “calendario delle stagioni” intonato
qualche pagina dopo da Gregoria, a due voci, con l’interlocutore maschile
che si appropria della funzione di coro in controcanto45. Occorre
rimarcare il fatto che il vecchio pastore, in quanto punto di vista interno
al narrato, non trovi affatto “peregrine” le effusioni querule di Gregoria:
la salmodia antifonale rampolla da un fondo prelogico di valori
condiviso; Gregoria ai suoi occhi non è folle, semmai è una «donna
infelice» (QF, 53)46.
L’infelicità sembrerebbe il prezzo della colpa, di «un senso di colpa
ignota» (QF, 104) che punge la donna, ogni donna, da tempo immemorabile:
di fronte a Cosimo agonizzante Gregoria si sente «piegata
come all’insorgere di un rimorso antico» (QF, 20). La Mula, nell’altro
racconto, è assai esplicita in merito: «La donna, si sa, è colpevole: ha
avuto a che fare una volta col demonio» (QF, 138). Questo originario
senso di reità induce nella donna, rispetto alla superficialità comportamentale
dell’uomo, il seppure oscuro approfondimento di una dimensione
coscienziale. Partecipare all’omicidio diventa un problema
per Gregoria perché significherebbe assommare colpa (esistenziale) a
colpa (metafisica): ella rifiuta l’irrevocabile dannazione inscritta nel
destino della donna perduta, che l’avrebbe condotta a riformulare in
chiave rurale il percorso esiziale di Teresa Raquin, né può acquistare,
da innocente, la felicità nel delitto come accade alla protagonista del
Vento (1928), celebre pellicola del regista svedese Victor Siöström. Nel
film l’inameno paesaggio americano sferzato dal vento viene infine
44 Cfr. il ricordo di Dora Mauro, in Fortunato Seminara a la filature de Mulhouse,
causerie du 12 novembre 1998 (http://www.sbti.it/bibliotelematica/herry.htm).
45 Cfr. QF, 65-66.
46 Ma quei pastori che tentano di violare con indiscrezione la fluidità delle sue
identificazioni possibili, approderanno a uno sconfortante risultato: «Non sembra
una donna, ma un fantasma» (QF, 85). Quanto valeva per lo Straniero nella Fidanzata
impiccata, si replica nella figura di Gregoria: i personaggi che veicolano le
istanze più genuinamente mitiche non si lasciano circoscrivere nell’ordine della
definizione. «Ich habe keinen Namen dafür», si potrebbe chiosare con le parole del
Faust goethiano.
[ 18 ]
titolo 557
trasfigurato dalla forza dell’amore47; in Quasi una favola il già angusto
spazio per l’idillio erotico, con cui si era aperta la narrazione, si chiude
sulla follia e fuga di Gregoria, che diventa vero agente di rivelazione
di un universo maschile soggiogato dalla violenza e regolato dal codice
della vendetta.
Lo sfondo è quello di un’amara terra calabrese spazzata da un vento
che pare raccogliere gli uomini solo per disunirli, per instillare i
germi di «una collera insensata» (QF, 24) eppure naturale e ineluttabile,
«perché l’uomo del Sud ha la violenza nel sangue come può avere
i germi del tifo, del vaiolo e della malaria» (QF, 49). La regressione rivela
un universo ferino; Gregoria tra i pastori è l’agnello che ricerca
sciaguratamente, eppure a ragion veduta, la compagnia dei lupi: «Io
potrei guardarti e tenerli lontano da te come i lupi dalla greggia. Ma a
che serve? Tu domani li cerchi di nuovo, o loro cercano te, e ve ne andate
in qualche posto di nascosto… È il tuo destino» (QF, 86). I segni
del fato si erano rivelati estremamente leggibili già in occasione
dell’incontro a lungo vagheggiato con l’amante, quel Matteo Lupis
che nel cognome porta inscritti i semi del negativo bestiale – la negazione
dell’umano, di cui si fa allegorica rappresentazione anche Lupigna,
la campagna circostante l’ammorbata città di Urania nel romanzo
La peste a Urania (1943) del cosentino Raoul Maria de Angelis. La prossimità,
tipica delle società arcaiche, tra uomo e animale, caratterizza il
rapporto tra i sessi nei termini della strumentalità – ben lungi quindi
dall’idillio erotico che lasciava presagire l’incipit fiabesco della narrazione.
Se è vero che il capraio Biasi in Primitivo perenne fa più conto di
una capra della donna, perché dalla capra ricava un utile48, la medesima
situazione, rovesciata, era stata già ritratta in un lontano racconto
del Mio paese del Sud, La donna e l’asino.
Ma se Gregoria è la rappresentante di una condizione di subalternità
femminile che giunge fino al punto di interiorizzare le ragioni
della discriminazione sessuale, il senso di colpa arcano che la perseguita
le consente quel minimo distacco dalla propria condizione che
47 Ma l’incombere metamorfosante del vento, che sferza e rende mutevole il
paesaggio, duplica in chiave simbolica l’instabilità e la conseguente inaffidabilità
caratteriale del tipo femminile. Così si legge in una delle didascalie introduttive
della pellicola, che avrebbe potuto suscitare la consentanea attenzione della Deledda
del Paese del vento (1931): «Injuns call this the “land o’ the winds” – it never
stops blowing here – day in, day out, whistlin’ and blowin’ – makes folks go crazy
– especially women!».
48 Cfr. QF, 155.
[ 19 ]
558 autore
può prendere le fogge della recita della follia. Il suo riso, che fa da
contrappunto ai momenti drammatici di violenza minacciata e anche
subita, è lo stigma, più che della follia, di una superiore intelligenza
della situazione: è il varco attraverso il quale può manifestarsi nel concreto
il giudizio di condanna. Gli uomini possono farsi solo inconsapevoli
esecutori del decreto di colpevolezza, mentre Gregoria, una
volta fatta giustizia, può dileguarsi come un fantasma49. Proprio come
una Figliastra, che abbandona con una stridula risata il teatro, lasciando
i suoi congiunti sul palcoscenico inchiodati all’irrevocabile rivelazione
della loro parte in commedia. E mentre fugge, superiore strumento
di giustizia come Gregoria, squarcia il sensibile diaframma che
separa la verità del mito dalla prassi mondana50. Esito perturbante per
la coscienza rischiarata della modernità, ma da cui scaturisce un senso
che l’universo arcaico ha da sempre gelosamente custodito51: col ritorno
di Astrea, necessariamente implacata, si sbriglierà il furor di una
vendicativa Erinni.
Marco Manotta
Università di Sassari
49 E come un fantasma, revenant, se la troverà di fronte l’anziano scrittore nella
figura non gestibile della donna che frequenta nell’ultimo periodo della vita, la
scrittrice calabrese, insegnante di italiano a Strasburgo, Dora Mauro, che in un suo
racconto autobiografico annota, con sorriso sardonico (e umore pirandelliano):
«Cominciava a sanguinare il vecchio, a contatto di Gregoria fattasi carne. Quel
personaggio suo geniale, a lui stesso sconosciuto, era ora uscito dalla fissità della
pagina e si batteva vitale contro chi l’aveva creato» (Dora Mauro, Incontro, presentazione
di Giorgio Barberi Squarotti, Forlì, Forum, 1989, p. 14).
50 L’accostamento tra le due figure femminili, per quanto peregrino, intende
dare rilievo al magnetismo rappresentativo del testo di Seminara, che ha trovato,
come si è visto, un assetto elettivo nell’intelaiatura teatrale.
51 È il dubbio che le antiche divinità pagane in fuga si siano in realtà acclimatate,
in una sopravvivenza priva di Heimat, nel sottobosco popolare del folklore,
come entità demoniache: così almeno, con provocatoria lungimiranza, argomentava
Heinrich Heine (Gli dei in esilio, 1853).
[ 20 ]
FRANCO MAIULLARI
Una nuova lettura dell’Ulisse dantesco
(ovvero, l’interpretazione anamorfica
del canto XXVI dell’Inferno)1
È possibile un’altra lettura dell’Ulisse dantesco, rispetto a quella tradizionale, la
quale vede nell’eroe greco l’alter ego del poeta; infatti, una particolare analisi del
canto XXVI, che definisco anamorfica, dimostra che la sua lettura canonica è
parziale, a iniziare dal fatto che, di regola, scotomizza cinque dei sei personaggi
presenti nel canto e focalizza l’attenzione ormai unicamente sulla figura di Ulisse.
Secondo la lettura anamorfica, invece, i sei personaggi costituiscono tre coppie
schermo (Elia-Eliseo, Eteocle-Polinice, Ulisse-Diomede) che, ognuna a suo
modo, ma in particolare la coppia Ulisse-Diomede, rinviano a quella Cavalcanti-
Dante.

Compared to the traditional reading of Dante’s Ulysses, which considers the
Greek hero an alter ego of the poet, another reading is possible. In fact, a close
analysis of canto XXVI, one that I call anamorphic, reveals that the standard
reading is partial, especially because it usually sidelines five of the canto’s six
characters and concentrates solely on the figure of Ulysses. According to an
anamorphic reading, on the other hand, the six characters form three allusive
pairs (Elijah-Elisha, Eteocles-Polynices and Ulysses-Diomedes), each in its own
way, but especially that of Ulysses-Diomedes, alluding to the Cavalcanti-Dante
couple.
1. Lo stato della ricerca sul canto XXVI e alcune perplessità iniziali. Nel
Autore: medico, psicoanalista adleriano, libero professionista, fmaiullari@
bluewin.ch
1 Per non appesantire il testo ho limitato le citazioni degli studiosi di Dante.
Specifico, però, che la mia critica dell’interpretazione tradizionale del canto XXVI
è riferita in generale a tutti, anche se alcuni intendono differentemente l’eroe greco,
o il rinvio Ulisse-Dante (cfr. note 3 e 4); in particolare, tutti si soffermano sul personaggio
Ulisse e scotomizzano gli altri cinque personaggi del canto. Per questi motivi,
cito ampiamente dal saggio del 1951 di Mario Fubini, Il peccato di Ulisse, in
Id., Due studi danteschi, Firenze, Ed. Sansoni, 1951, pp. 5-53, il quale, seppure datato,
corrisponde ancora, in buona sostanza, alla vulgata e alla posizione della maggior
parte degli studiosi. Per il concetto di anamorfosi, cfr. il paragrafo 5.
Contributi
560 franco maiullari
canto XXVI dell’Inferno Dante menziona tre coppie di personaggi: una
biblica, una tragica e una epica. La prima è composta da Elia ed Eliseo,
due profeti in rapporto di maestro e allievo (dei due, si menziona solo
Elia, al v. 352); la seconda, da Eteocle e Polinice, i due famosi fratelli,
figli di Edipo, che si uccisero sotto le mura di Tebe (dei due, si menziona
solo Eteocle, al v. 54); la terza, infine, da Ulisse e Diomede, due dei
più noti eroi omerici, in rapporto di apparente complicità (entrambi
menzionati al v. 56). Ora, nelle note, nei commenti e nei saggi relativi
a questo canto, dei sei personaggi si parla praticamente soltanto di
Ulisse, dietro al quale, in genere, si vede l’alter ego di Dante, pure nella
diversità delle loro storie: Ulisse è il pagano, privo della Grazia, considerato
una specie di santo laico, mentre Dante è il grande convertito,
una specie di profeta che parla dell’uomo e della sua salvezza3; e pure
nell’opposizione dei loro destini: l’eroe greco si perde e sprofonda negli
abissi marini, mentre Dante si salva, portato fino all’Empireo infuocato
di Dio. Gli altri cinque personaggi sono come dimenticati, o
accantonati, degni appena di qualche cenno marginale.
La scotomizzazione da parte della critica di così tante figure nello
stesso canto è la prima osservazione che suscita stupore, a maggior
ragione, se si pensa che Dante non li menzioni per caso, o per semplice
sfoggio di erudizione; pertanto, questo è il primo input, per quanto
extra-testuale, che invita a guardare il canto in senso anamorfico. Vi è
poi un secondo input, sempre extra-testuale, che va nella medesima
direzione, ed è quello costituito dal rinvio Ulisse-Dante, divenuto ormai
un must della critica; senonché, appena si tiene conto della scotomizzazione
detta sopra, anch’esso non manca di suscitare stupore.
La lettura del XXVI e una prima osservazione della sua interpretazione,
pertanto, suscitano stupore e perplessità, e fanno sorgere il
dubbio che tutto ciò possa essere funzionale a un’idea edificante di
Ulisse e alquanto agiografica dell’autore della Commedia; un’idea,
2 Quando non altrimenti specificate, le citazioni con v./vv. seguiti dal numero
si riferiscono al canto XXVI.
3 Questa idea del poeta è antica e si è imposta nei commenti alla Commedia già
con Guido da Pisa nella prima metà del 1300 (cfr. Guido da Pisa, Expositiones et
glose super Comediam Dantis, a cura di M. Rinaldi, Roma, Salerno Ed., 2013); per
quanto riguarda l’idea di un Ulisse-figura-positiva, se non proprio di un santo
laico, vi è qualche rara eccezione, come ad esempio quella di Edoardo Fumagalli,
Tra falsi profeti e profeti veri: l’Ulisse di Dante, in Id., Il giusto Enea e il pio Rifeo.
Pagine dantesche, Firenze, Olschki Ed., pp. 55-88, che si colloca all’estremo opposto,
dato che parla dell’eroe omerico come di un personaggio «mostruoso» e «repellente
» (p. 79).
[ 2 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 561
quest’ultima, che risale implicitamente anch’essa al commento di Guido
da Pisa (vedi nota 3), ma che poi è divenuta sempre più esplicita e
consolidata4.
I due fattori di perplessità, appena menzionati, fanno porre allora
una questione circa il modo di intendere il XXVI, cioè circa la stessa
chiave interpretativa del canto, che continua a essere di tipo verosimile/
realistico; in altri termini, Ulisse e la sua orazion picciola sono sempre
stati presi per “buoni” e “seri”, cioè sono sempre stati considerati
in senso verosimile e realistico, appunto: non si è mai sospettato che,
nel presentarceli, l’intento dantesco potesse essere di tipo ironico/parodistico.
2. Perché una nuova lettura del canto XXVI. La nuova proposta di
lettura del canto XXVI prende lo spunto dai tre fattori menzionati nel
paragrafo precedente (la scotomizzazione di cinque personaggi su sei,
il must Ulisse-Dante e la lettura verosimile/realistica). I tre fattori si
sostengono l’un l’altro, perché sono funzionali l’uno all’altro, tanto da
essersi incrostati sulla chiglia della nave ermeneutica dantesca. Per
questi motivi, risulta alquanto difficoltoso isolarli e, soprattutto, scioglierli
per tentare di rimettere la rotta interpretativa del poema in direzione
testuale. La nuova lettura opera su queste incrostazioni e si
propone due obiettivi, strettamente intrecciati tra loro: il primo con-
4 In Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia,
Milano, B. Mondadori, 2001, si afferma che fu Petrarca a considerare per primo il
personaggio Ulisse come un «doppio» di Dante (p. 97). Anche su questo versante
non mancano le eccezioni; ad esempio, quella di Andrea Battistini, La retorica
della salvezza. Studi danteschi, Bologna, Il Mulino, 2016, che parla di Dante come di
un «anti-Ulisse» (p. 29). Accenno qui alla posizione di Maria Corti, Scritti su Cavalcanti
e Dante. La felicità mentale. Percorsi dell’invenzione e altri saggi, Torino, Einaudi,
2003, una delle più articolate su Ulisse e sul rinvio Ulisse-Dante; la studiosa
intende l’Itacese come un personaggio oscillante tra il segno positivo della curiositas
e il segno negativo della temerarietà (Ivi, p. 335), che, come si sa, per l’antica
Grecia configura il peccato di hybris, e che in qualche modo rinvia al Dante stilnovista;
non solo, ma, avendo sostenuto che se Dante mette Ulisse all’Inferno «lo ha
messo per qualcosa» (Ivi, p. 343), come a dire che nulla è per caso in Dante, Corti,
vera eccezione, si pone anche il problema della presenza di Diomede, sebbene lo
risolve in maniera alquanto contorta, alludendo al fatto che i due eroi omerici,
racchiusi nella doppia fiamma, possano rinviare a Sigieri di Brabante e a Boezio
(Ivi, p. 341, nota 27), i due propugnatori della rinascita di Aristotele, nella seconda
metà del Duecento presso l’Università di Parigi, i quali, per questo insegnamento,
furono espulsi e condannati dal vescovo di quella città (l’aristotelismo radicale
aveva ispirato Cavalcanti e il giovane Dante). Per l’altro studioso (Donadoni) che
parla estesamente di Diomede, cfr. nota 14.
[ 3 ]
562 franco maiullari
cerne l’Ulisse dantesco, al fine di comprendere chi egli sia veramente;
il secondo concerne Guido Cavalcanti e la ricerca di sue tracce nella
Commedia. Guido, indicato da Dante come “primo amico”, è materialmente
assente nel poema, anche se, a dire, ad esempio, di Gianfranco
Contini, la sua presenza vi aleggia in modo ubiquitario5.
A proposito del terzo fattore, anticipo che, in base alla mia analisi,
vi possono essere due modi di vedere/leggere il XXVI: uno verosimile/
realistico (modo tradizionale) e uno ironico/parodistico (modo
anamorfico); essi corrispondono a due testi che, in séguito, indicherò
come testo uno (T1), quello che appare ad una prima lettura, e testo
due (T2), quello che emerge dall’analisi degli “inciampi testuali”, cioè
delle varie allusioni, perplessità, ambiguità e contraddizioni che Dante
dissemina lungo il canto.
L’Ulisse dantesco è considerato un personaggio centrale in tutta la
Commedia, cosa ben comprensibile, dato che la sua grandezza umana
e poetica sono impareggiabili, se lo si considera in senso serio e realistico.
Infatti, le novità con cui il poeta ce lo presenta sono tali da renderlo
veramente un eroe epico, più di quanto lo sia mai stato presso
ogni altro autore precedente, addirittura più che nello stesso Omero.
In poche terzine, Dante traccia una figura grandiosa che sopravanza
tutte le altre quanto a sete di conoscenza, brama di sapere e capacità di
affrontare qualsiasi rischio pur di soddisfare quella sete. Anche a costo
di trascurare i beni famigliari e di mettere a repentaglio la propria vita.
Per questo infinito desiderio di apprendere/conoscere, l’Ulisse dantesco
appare come una figura nobilissima, molto vicina a noi moderni,
di cui non si finirebbe mai di declamare i tre famosi versi dell’orazion
picciola, una terzina immortale che si trova nel breve discorso ai soldati-
marinai, declamato per spingerli a seguirlo nel «folle volo» (v. 125),
cioè a seguirlo nell’avventura oltre le Colonne d’Ercole: «Considerate
la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir
virtute e canoscenza» (vv. 118-120). Tre versi in cui risplende il senso
più alto dell’umanità, la più completa sintesi psicologica e socio-an-
5 L’indicazione di Cavalcanti come «primo de li miei amici» è di Dante (cfr.
Vita Nuova III 14-15); cfr. anche Mario Marti, 1970, nell’Enciclopedia Dantesca, s.v.
“Guido Cavalcanti”, e Guglielmo Gorni, Guido Cavalcanti. Dante e il suo «primo
amico», Roma, Aracne, 2009, che usa la locuzione nel sottotitolo di una raccolta di
saggi. Per la supposizione di una presenza ubiquitaria di Cavalcanti nella Commedia,
cfr. Gianfranco Contini, Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, p. 143; cfr.
anche E. Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., che,
riprendendo Contini, conferma che Cavalcanti è «l’assente più presente» della
Commedia (p. 271).
[ 4 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 563
tropologica, comprensiva in un certo senso, potremmo dire oggi, di
Aristotele, Marx e papa Francesco.
Tutto molto bello, tutto in apparenza molto verosimile/realistico, a
guardare la descrizione così, di primo acchito, cioè a leggere il testo
dantesco con uno sguardo superficiale; senonché, se si osserva bene, il
personaggio Ulisse e l’orazion picciola non sono né verosimili, né tantomeno
realistici, ma mendaci: sono apparentemente serî, ma in realtà
falsi; apparentemente belli e coinvolgenti, ma in realtà ingannevoli,
inventati da Dante ironicamente, parodisticamente, per dirci in apparenza
una cosa, ma in realtà un’altra. Tutto il canto XXVI, in definitiva,
a un’attenta analisi testuale appare costruito dal poeta in doppia versione:
una apparente (versione schermo verosimile/realistica), e l’altra
nascosta (versione anamorfica, ironica/parodistica). Quest’ultima
non è una mera estrapolazione interpretativa, ma a mio avviso corrisponde
agli intenti dell’autore della Commedia, il quale, per indurre il
lettore a spostarsi dalla prima alla seconda versione (cioè da T1 a T2),
pone lungo tutto il canto quelli che sopra ho chiamato “inciampi testuali”.
Ora, lo stupore che si prova di fronte al XXVI non è più suscitato
dall’atteggiamento della critica, ma è suscitato dalla struttura
stessa del canto e dai suoi contenuti, da supporre voluti da Dante. Gli
inciampi, che egli pone per portare l’attenzione su T2, si riducono a
due tipi, a volte coincidenti: il primo serve a Dante per far dubitare del
carattere lineare/serio/realistico di ciò che si sta leggendo, cioè viene
impiegato per fare sorgere nel lettore il dubbio che il poeta stia raccontando
qualcosa che rinvia ad altro; il secondo serve a Dante per orientare
il lettore a cercare ciò che la versione nascosta tiene in serbo e a cui
gli inciampi testuali alludono, come se si trattasse di una caccia al tesoro,
guidata da cenni e indizî.
La versione T1 del canto XXVI, cioè quella superficiale, di prima
lettura, soprattutto quando giunge all’orazion picciola, è talmente bella
e luminosa che è difficile pensarla inverosimile, o ironica/parodistica;
ed è talmente ben architettata che è difficile non ritenerla realistica,
anzi, l’unica voluta dal poeta. Per questi motivi, il viaggio di Ulisse è
stato visto come una delle più grandi aspirazioni dell’animo umano,
oltre che come un’allusione al viaggio giovanile di Dante (cfr. nota 4),
assetato anch’egli di un sapere “troppo umano”, almeno fino a quando
la Grazia divina non guidò il suo cammino. Ed è per questa grande
bellezza dell’orazion picciola che in genere ci si ferma ad analizzare il
personaggio Ulisse e si dimenticano gli altri. Nessun commento finora
ha mai analizzato in dettaglio la versione T1 del canto, prendendo in
considerazione globalmente tutti i suoi personaggi e tutti i suoi in-
[ 5 ]
564 franco maiullari
ciampi, per cui nessuno ha posto in dubbio il suo senso verosimile/
realistico. Di conseguenza, nessuno finora si è spinto a cercare una
versione nascosta, che vada al di là del rinvio canonico Ulisse-Dante.
L’indagine anamorfica tiene conto di tutti questi aspetti, messi in
oblio dalla critica sul XXVI, e, ad esempio, mette in evidenza che vi
sono numerose tracce nella Commedia che portano al “primo amico”,
tanto da confermare l’ipotesi di una sua presenza ubiquitaria, come
sostiene Contini; senonché, la traccia più importante, da essa individuata,
è costituita proprio dal personaggio Ulisse, che si direbbe rinviare
a Cavalcanti, e molto meno a Dante.
3. Il senso dell’interpretazione tradizionale. In questo paragrafo presento
alcune citazioni di studiosi del canto XXVI, andando dal saggio
del 1951 di Mario Fubini, Il peccato di Ulisse, cit. [d’ora in poi citato
MFU] ad alcuni lavori recenti, sia per esplicitare il senso dell’interpretazione
tradizionale, concentrata sul personaggio Ulisse e sulla sua
orazion picciola, sia per fare intendere che quell’interpretazione permane
sostanzialmente stabile; alcune variazioni, anche notevoli (cfr. note
3 e 4), non sono significative ai fini del presente lavoro, perché non
scalfiscono il valore generale di quanto qui si sostiene. Per questi motivi,
mi soffermo sul lavoro di Fubini, che, per quanto datato, non è
molto lontano dai sostenitori moderni della versione tradizionale
dell’Ulisse dantesco6. Il saggio inizia con una domanda retorica: «Occorre
tornare ancora sull’episodio dantesco di Ulisse?», la cui risposta
sarebbe “no”, visto che il personaggio, secondo lui, è «limpido e piano,
facilmente accessibile ad ogni lettore» (MFU, p. 5); ma in realtà è
“sì”, dato che, intorno a quel personaggio, afferma, è stato costruito
«un fastidioso [sic!] edificio di fantasie e di congetture» (MFU, p. 6). La
posizione di Fubini, come detto, è certamente datata, ma si consideri
che una domanda retorica analoga si trova in Marco Ariani7, a significare
che la sostanza dell’impianto interpretativo del XXVI permane
sostanzialmente immutata.
Ma ecco alcuni passi in cui Fubini commenta specificamente la figura
di Ulisse: l’eroe «non è simile a un Dio ribelle», come vorrebbe
Nardi (MFU, p. 22), ma è soltanto da «ammirare», in quanto «puro
6 Per tutti, si vedano i numerosi saggi di Piero Boitani e, in particolare, il suo
libro più recente, dedicato all’eroe omerico: Piero Boitani, Il grande racconto di
Ulisse, Bologna, Il Mulino, 2016.
7 Cfr. Marco Ariani, La folle sapienza di Ulisse, in Inferno, a cura di G. Rati,
Roma, Bulzoni, pp. 85-105 (p. 87).
[ 6 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 565
spirito» che suscita in noi «soltanto meraviglia» (MFU, p. 11) e «commossa
rievocazione della grandezza antica» (MFU, p. 14); «non a essere
più che uomini egli esorta i suoi compagni, bensì a essere fedeli a
quella che è la legge dell’umanità tutta (“considerate la vostra semenza”)
e a compiere perciò quell’impresa, che ogni altro uomo posto nelle
medesime condizioni sarebbe stato indotto ad affrontare» (MFU, p.
23); e ancora: lui che «parla così pacato, così “onesto”, non già a qualche
figura michelangiolesca ci fa pensare, bensì, come gli altri personaggi
del poema, a una figura di Giotto» (MFU, pp. 23-24), «così compatto
è quel racconto, così privo di ombre, da escludere che in esso si
nascondano sentimenti contrastanti con quello che palesemente lo
informa» (MFU, p. 17), tanto che, addirittura, il lettore «viene gradatamente
portato in un mondo che non è quello infernale, e preparato ad
ascoltare le parole di un nobile spirito, il “grande solitario di Malebolge”
» (MFU, p. 15)8.
Da Ulisse “grande solitario”, a eroe magnanimo, a santo pagano, il
passo è breve nel commentare di Fubini che ha l’andamento di un’omelia
pseudoreligiosa, non molto lontana dal commento del frate
Guido da Pisa e da quello di altri commentatori successivi. Le differenze
più grandi tra Fubini e il frate carmelitano consistono nel fatto
che il primo rende esplicito il rinvio Ulisse-Dante, e che “santifica”
quasi l’eroe greco, scrivendo, ad esempio, che il lettore «può riconoscere
in Ulisse un lontano precursore del protagonista della Commedia,
il quale accoglie in sé la virtù dell’antico eroe, ma sa contemperarla
con le virtù cristiane, e riesce perciò a compiere quell’impresa non
concessa ad altro vivente» (MFU, p. 32).
L’interpretazione dell’Ulisse dantesco appare come influenzata da
una deriva edificante che, partendo da lontano e passando attraverso
il contributo ineludibile di Fubini, giunge ai commenti moderni. I quali,
pur non giungendo agli eccessi agiografici del nostro studioso, non
ne modificano la sostanza. Alcune rare eccezioni, come ad esempio
quelle di Fumagalli, che intende negativamente il personaggio Ulisse
(cfr. nota 3), e quella di Battistini, che intende Dante come un «anti-
Ulisse» (cfr. nota 4), meriterebbero di essere discusse, cosa impossibile
ora, ma anch’esse dimostrano che l’impianto interpretativo generale
del canto è rimasto identico, cioè di tipo verosimile/realistico.
8 Quest’ultima indicazione è già di Francesco De Sanctis: «Ulisse è il grand’uomo
solitario di Malebolge»; cfr. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana,
Milano, Feltrinelli, 1970, p. 196.
[ 7 ]
566 franco maiullari
4. Diomede e gli altri personaggi non considerati dalla critica. Sui due
profeti biblici (Elia ed Eliseo) e sui tre eroi greci (Eteocle, Polinice e
Diomede) non vi sono commenti che vadano oltre il loro ricordo da
piccolo manuale tematico, mentre nei saggi sul XXVI, tutti protesi verso
la figura di Ulisse, sovente non se ne parla nemmeno. Ad esempio,
nelle circa 50 pagine dell’articolo di Fubini del 1951, i cinque personaggi
non sono mai menzionati, né lo sono in lavori più recenti come
quelli di Ariani, di Battistini, o di Boitani. Quando, poi, un personaggio
viene maggiormente considerato, lo è in modo piuttosto estemporaneo,
cioè non in riferimento alla sua funzione/economia all’interno
del canto9. Lo stesso Giorgio Padoan dice solamente che il Tidide era
un amico inseparabile di Ulisse10, motivo per cui Dante li colloca assieme
in un’unica fiamma a due punte, e che il legame dei due era noto a
Dante da Ovidio e Stazio. In questo contesto, tra l’altro, Padoan non
menziona Virgilio, di cui Dante conosceva bene sia il giudizio negativo
e senza appello contro Ulisse (il famoso Timeo Danaos, su cui torneremo),
sia l’importanza attribuita a Diomede nell’Eneide: dopo il ritorno
da Troia, l’eroe abbandonò la patria, a causa della vergogna subita
per il tradimento della moglie, e si rifugiò sul Gargano; qui fondò una
specie di nuovo regno (cosa che ricorda, per analogia, quello a cui
aspirava Dante), da dove, nel corso degli eventi, benedisse il futuro
regno di Enea11, quindi la nascita di Roma.
In genere, Diomede è commentato con qualche parola in più rispetto
a Elia ed Eliseo, e rispetto a Eteocle e Polinice, perché è pur
sempre significativo che Dante crei, per lui e per Ulisse, l’unica fiamma
a doppio corno della bolgia, ma sostanzialmente egli è un personaggio
silente. Tace Diomede, quando Virgilio interroga i due della
fiamma biforcuta, e tacciono gli studiosi su di lui: e ciò è quasi sinto-
9 Boitani, ad esempio, è lo studioso che più di altri evoca la figura di Elia, ma
lo fa per parlare del turbine che lo rapì in cielo e paragonarlo con altri turbini della
Bibbia, oltre che con quello che affondò la nave di Ulisse: tutti aspetti interessanti,
ma che restano sostanzialmente alla superficie della cifra interpretativa del canto
(cfr. Piero Boitani, Esodi e Odissee, Napoli, Liguori, 2004, p. 123).
10 Cfr. Giorgio Padoan, 1970, s.v. “Diomede”, in Enciclopedia Dantesca; si ha
l’impressione che l’idea di un Diomede “amico inseparabile” sia di derivazione
dantesca, cioè che sia dovuta al fatto che Dante accomuni i due eroi nella stessa
fiamma, e non tanto a un’analisi della tradizione, in particolare di Virgilio e Ovidio.
11 Dopo l’arrivo di Enea nel Lazio, il re Latino manda un’ambasciata a Diomede
per chiedere aiuto contro lo straniero, ma l’eroe greco consiglia di accogliere
Enea in amicizia e di permettergli di fondare le mura («et moenia condant», Eneide
XI, v. 323).
[ 8 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 567
matico di un doppio inciampo, che spinge ad analizzare meglio la
questione. A proposito del tacere di Diomede, farò dopo un confronto
con il tacere di Paolo nell’episodio con l’amata Francesca; invece, a
proposito del tacere degli studiosi, va detto che forse si potrebbe comprendere
il loro silenzio su Elia ed Eliseo; forse si potrebbe trovare una
giustificazione per il loro silenzio su Eteocle e Polinice (in fondo, si
potrebbe pensare che quella di Dante, alla vista della doppia fiamma,
sia una semplice reminiscenza staziana, quindi che si tratti solamente
di una citazione erudita); ma è più difficile comprendere il loro silenzio
su Diomede, sul grande eroe che, pòsto da Dante nella stessa fiamma
dell’infame Ulisse (quello del Timeo Danaos virgiliano)12, è però
considerato da Virgilio degno di essere nominato accanto ad Achille, e
degno di benedire la fondazione di Roma13.
La figura positiva di Diomede, passata sotto il silenzio della critica
– sostanzialmente da tutti gli studiosi, eccetto Maria Corti e Eugenio
Donadoni14 – è un caso eclatante del rischio, che a volte si corre, di
perdere di vista il bosco (tutto il canto XXVI) se ci si sofferma troppo a osservar
un suo particolare (Ulisse).
Donadoni è l’unico che si dilunga sulla figura di Diomede e che, in
un certo senso, si pone il “problema Diomede” (per la posizione di M.
Corti, cfr. nota 4). Non solo, ma lo fa evocando dei riferimenti che
dànno alla coppia Ulisse-Diomede una sfumatura ironico-parodistica,
molto interessante per la mia lettura anamorfica, motivo per cui gli
rendo qui il privilegio di qualche citazione, tratta dal suo saggio, ricco
di arguzia e di notizie in genere accantonate.
Dopo aver simpaticamente immaginato la Roma del Giubileo del
1300, e dopo qualche altra interessante digressione, lo studioso entra
nel merito del XXVI; riferendosi ad Eteocle e Polinice, menziona il relativo
passo del canto XII della Tebaide staziana e lo collega con i tre
verbi di XXVI, vv. 55-60 (si martira, si geme, si piange), di cui scrive:
Indicano un dolore lungo, sottile, misto di spasimi e di disperazioni: di
12 La posizione di Fumagalli, che definisce «mostruoso» e «repellente» Ulisse
(cfr. nota 3), in fondo, è quella più virgiliana.
13 Si tratta di aspetti dell’eroe, che Dante doveva conoscere molto bene, e che
vanno ampiamente al di là degli episodi indicati da Virgilio ai vv. 59-63 del canto
XXVI; nella narrazione virgiliana, Diomede assume una statura da gigante rispetto
al malefico Ulisse (giudizio, quest’ultimo, ampiamente confermato nelle Metamorfosi
di Ovidio).
14 Per lo spunto critico di Maria Corti, breve, ma molto tecnico, cfr. nota 4,
mentre per Donadoni, lo studioso che parla più estesamente di Diomede, cfr. dopo.
[ 9 ]
568 franco maiullari
quei dolori che spremono le lacrime dell’avvilimento anche ai fortissimi.
E Ulisse e Diomede, indivisibili compagni d’arme nel mondo, sono
inimici ardenti laggiù; chè le amicizie de’ malvagi non durano: ardenti
sì, che la fiamma, come sulla pira de’ due famosi fratelli, si sparte. E il
reciproco odio senza fine è la più grave pena dei due peccatori: i quali
vivono in una rissa continua, e vigilano per tutta l’eternità a cogliere,
senza coglierlo mai, il momento della vendetta: castigo raffinato sì, che
la mente ne rimane smarrita. Chè questo senso dà a me il verso alla
vendetta corron come all’ira; benché i più dei commentatori interpretino
che, come i due corsero sempre insieme nel mondo a provocare la vendetta
di Dio, così corrono ora insieme a provocarne l’ira e il castigo. (p.
90)15
Come si vede, pur restando anch’egli all’interno della posizione tradizionale,
Donadoni non compie il rinvio Ulisse-Dante, ma rimane sul
testo e collega la coppia Eteocle-Polinice alla coppia Ulisse-Diomede,
a causa del tipo di patimento che caratterizza il loro andare post mortem:
la vendetta e l’ira. È vero che non vi sono riscontri né nel testo, né
nella storia mitologica, per parlare così dell’epica coppia, messa da
Dante all’Inferno, ma è interessante il rinvio agli epigoni tebani perché
è come una premessa per intendere in un altro modo i rinvii del canto
XXVI: da Elia ed Eliseo, a Eteocle e Polinice, a Ulisse e Diomede, le tre
coppie che, a vario titolo, secondo la versione anamorfica (T2), fanno
da schermo alla coppia Cavalcanti-Dante, e tutte e quattro accomunate,
in vario modo, dall’ira e dalla vendetta.
Last but non least, infine, menziono l’arguta riflessione di Donadoni
circa il furto del Palladio (è la terza impresa citata da Virgilio al v. 63)16,
particolarmente congruente alla mia lettura, nella quale lo studioso,
unico, a mia conoscenza, si rifà al commento di Servio, che narra una
storia che si direbbe affatto burlesca. Eccola. Dopo aver affermato che
«conviene ricorrere ai commenti virgiliani che vanno sotto il nome di
Servio» (Ivi, p. 91), Donadoni scrive: «[Ulisse] penetrato poi col fido
amico in Troja, salì l’acropoli e involò la statua di Pallade, protettrice
15 Eugenio Donadoni, Nel sesto centenario della visione dantesca, in Id., Scritti e
discorsi letterari, Firenze, Ed. Sansoni, 1921, pp. 63-112; in realtà, il verbo usato da
Dante è più discretamente “vanno” e non “corrono”, ma qui Donadoni si lascia
forse prendere dall’enfasi.
16 Il furto del Palladio si trova in Eneide II, v. 163 ss., che non contiene l’epilogo
menzionato da Servio (da notare, però, che Virgilio mette l’episodio in bocca al
mendace Sinone, il quale, spergiurando, lo racconta così ai Troiani per indurli a
portare il cavallo dentro le mura; pertanto, in definitiva, non si può sapere se l’episodio
sia realmente avvenuto come raccontato dal bugiardo Sinone).
[ 10 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 569
dei cittadini: sacrilegio: e anzi nel ritorno, per mostrarsi egli solo autore
della temeraria impresa, ebbe la tentazione di uccidere il compagno:
– che forse suggerì a Dante l’idea del mutuo odio de’ due nella
fiamma punitrice –; ma questi, accortosene al lume della luna, gli fu
addosso, lo legò strettamente e lo cacciò innanzi a sé fino alle navi»
(Ivi, p. 92).
Servio è un grammatico e commentatore romano del IV-V secolo,
conosciuto soprattutto per un lungo e dettagliato commento alle opere
di Virgilio. Questo buffo e succoso intermezzo (che solo in Donadoni
ho trovato menzionato tra le fonti dell’Ulisse dantesco), racconta di un
Ulisse che rassomiglia, più che a un eroe, a un trickster che si diletta a
operare di notte, al buio; una figura che è sicuramente di tradizione
popolare, ma che, almeno in parte, doveva corrispondere a qualcosa di
presente anche nella letteratura cosiddetta “alta”, visto che una sfumatura
di questo “eroe notturno” è presente in Omero e in Ovidio17.
Per concludere su Diomede, va apprezzata la posizione memore di
Donadoni, tenuto conto che la critica si muove in direzione opposta,
come dimostra il recente libro di Battistini (cfr. nota 4), che non cita
l’eroe tra i nomi dei personaggi, pur avendolo menzionato nel testo, e
come sottilmente dimostra anche il saggio di Ariani che parla ormai
“al singolare”, quando, a proposito della fiamma biforcuta che contiene
Ulisse e Diomede, scrive della «lingua di fiamma in cui Ulisse è
tutto immerso» e poco dopo parla della «visione del dannato nascosto
nella fiamma»18.
5. Inciampi e indagine anamorfica del canto XXVI 19. Per “indagine
anamorfica”, intendo l’analisi di un testo T1 (pittorico o letterario),
17 Per Omero, cfr. Franco Maiullari, Omero anti-Omero. Le incredibili storie
di un trickster giullare alla corte micenea, Pisa-Roma, Ed. dell’Ateneo, 2004; per
Ovidio, cfr. la prima parte del libro XIII delle Metamorfosi, dedicata al discorso di
Aiace, per convincere i capi dell’esercito a concedergli le armi di Achille; il grande
eroe pronuncia un impietoso atto di accusa contro la vigliaccheria di Ulisse, il quale,
sostiene Aiace, «nulla ha mai fatto alla luce del sole […], agisce sempre di nascosto,
senza un’arma in mano, e inganna l’incauto nemico con tranelli» (XIII, vv.
100-104).
18 Cfr. M. Ariani, La folle sapienza di Ulisse, cit., pp. 92-93.
19 Per un’analisi più approfondita dell’anamorfosi pittorica e letteraria, oltre
che degli inciampi del canto XXVI, cfr. F. Maiullari, Chi è veramente l’Ulisse dantesco?,
Milano, Jouvence, 2018, mentre per lo stesso metodo, applicato all’analisi
dell’Edipo Re, cfr. Id., L’interpretazione anamorfica dell’Edipo Re. Una nuova lettura
della tragedia sofoclea, Introduzione di Oddone Longo, Pisa-Roma, IEPI, 1999.
[ 11 ]
570 franco maiullari
che per qualche motivo susciti un senso di stupore/perplessità/stranezza
e di cui si possa ipotizzare un significato T2, nascosto dietro al
testo apparente. Il reperimento di T2 costituisce la nuova interpretazione20.
Il processo d’indagine presuppone i seguenti passaggi: che vi
sia un testo che susciti un’impressione di stranezza; che tale impressione
iniziale venga confermata da precise perplessità, incoerenze, o
ambiguità, cioè da degli inciampi testuali; che si possa fare l’ipotesi
che gli inciampi non siano casuali, bensì voluti dall’autore; che tali
inciampi possano essere reperiti, collegati tutti assieme e opportunamente
interpretati; che l’interpretazione individui una nuova immagine
del testo (T2) che spieghi gli inciampi, cioè che li risolva/sciolga,
meglio di quanto avvenuto con le proposte precedenti. Per “interpretazione
anamorfica”, di conseguenza, si deve intendere l’analisi di un
testo “strano” e l’individuazione di un suo significato secondo (T2),
celato dall’autore dietro/dentro al testo superficiale (T1), cioè dietro/
dentro a quello, volutamente incoerente/ambiguo, che l’autore fa apparire
in superficie.
Lo svolgimento dell’indagine anamorfica del XXVI inizia col reperimento
degli inciampi. Nel nostro caso, al di là di quello costituito dal
personaggio Ulisse e dall’orazion picciola, su cui torneremo, il primo
inciampo da considerare è la strana atmosfera del canto XXVI, che si
direbbe poco infernale, accompagnata dal fatto di trovarsi di fronte a
una strana colpa su cui molti commentatori hanno espresso perplessità.
Dopo l’attacco violento contro Firenze, Dante rallenta il ritmo narrativo
e porta il lettore gradualmente nel cuore del canto, attraverso
sequenze che alludono a delle insidie, quindi a qualcosa di impervio
da intendere, come è stata impervia fisicamente l’ascesa sulla cornice
della bolgia («lo piè sanza la man non si spedia», v. 18). Una volta in
cima, Dante osserva la valle sottostante costellata di fiammelle, che
ricordano al poeta dei punti luminosi come lucciole che un contadino
d’estate osserva all’imbrunire da sopra un poggio (vv. 25-30), quasi si
20 L’anamorfosi è in origine un concetto pittorico, il cui esempio più famoso è
costituito dagli Ambasciatori di Hans Holbein (1533, National Gallery); in questo
caso, il testo T1 corrisponde alla strana immagine ai piedi dei due personaggi, variamente
interpretabile, mentre T2 ne costituisce l’interpretazione corretta come
“teschio”. L’anamorfosi di un testo letterario (per interpretarlo così bisogna presupporre
che l’autore del testo l’abbia composto in doppia versione), è invece una
mia idea, che ho applicato per la prima volta per interpretare la tragedia sofoclea
(cfr. la nota precedente). Una deformazione anamorfica letteraria in genere non è
così precisa come quella pittorica (cfr. l’esempio discuso in nota 29), a meno che
non si tratti di un codice cifrato.
[ 12 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 571
trattasse di una volta celeste ribaltata21: un’immagine bellissima, più
bucolica che infernale, che suscita meraviglia e che, per un attimo,
potrebbe indurci a dimenticare di essere nelle Malebolge.
In questa singolare bolgia, la colpa dei condannati non è esplicitata,
e che si tratti di “consiglieri fraudolenti” lo si desume in genere da
quanto Virgilio dirà dopo, a proposito di Ulisse e di Diomede, ma soprattutto
da ciò che si racconta nel canto successivo, a proposito di
Guido da Montefeltro e di Bonifacio VIII. Vi è, però, ancora qualcosa
che rende questo primo inciampo (che concerne, come si vede, l’atmosfera
d’entrata nel canto più che un passo ben preciso: un’atmosfera
che a tratti è come sospesa, sognante) capace di generare un clima
estraniante: non soltanto la colpa e la pena sono male esplicitate, ma,
appena si approfondisce la questione, ci si rende conto che esse si applicano
impropriamente a Ulisse e più ancora a Diomede, sia individualmente
che come coppia. E poi, per quale peccato, se è vero che le loro
azioni in definitiva non sono altro che delle abilità guerriere? La difficoltà
a orientarsi “emozionalmente” nell’atmosfera del canto emerge
quindi nei primi versi, si amplia al cospetto della valle sfavillante di
fiamme-lucciole, e si riempie di tanti particolari narrativi, tra i quali
permane la relazione peccato-pena, che è poco perspicua.
Dopo questo inciampo, che si potrebbe chiamare ambientale, vanno
analizzati gli inciampi legati ai personaggi, ai quali ora posso solamente
far cenno. Innanzitutto vi è la coppia Elia-Eliseo, di cui Dante
sottolinea due aspetti: il loro legame di maestro-allievo, e il loro carattere
vendicativo (questo aspetto è implicito per il maestro – lo si apprende
dalla storia narrata nella Bibbia – ma è esplicitato così da Dante
per l’allievo, al v. 34: «colui che si vengiò con li orsi»). Si ha qui un
21 La scena della valle colma di fiamme-lucciole all’imbrunire, osservata
dall’alto di un poggio, evoca il cielo stellato, come se fosse riflesso in uno specchio
lì in basso. Sappiamo che Dante non conosceva i poemi omerici; pertanto, colpisce
l’analogia poetica tra questa scena del XXVI, in cui il cielo stellato non è esplicitamente
menzionato, e una scena simile dell’Iliade, che Omero descrive come guardando
dall’alto delle mura della città di Troia e che paragona esplicitamente al
cielo stellato. Nel libro VIII si racconta che i Troiani stanno prevalendo sui nemici,
quando interrompono il combattimento per il calare della notte. Ettore allora invita
i soldati a non rientrare in città, ma a restare sul campo di battaglia, per essere
già pronti all’alba per l’attacco decisivo. Vengono accesi molti fuochi e il poeta,
appunto, come osservando la scena dall’alto, aggiunge: «Come le stelle in cielo,
intorno alla luna lucente / brillano ardendo, se l’aria è priva di venti; / […] tanti
così, fra le navi e lo Xanto scorrente / lucevano i fuochi accesi dai Teucri davanti a
Ilio; / mille fuochi ardevano nella pianura» (Iliade VIII, vv. 555-562).
[ 13 ]
572 franco maiullari
primo accenno alla vendetta e, implicitamente all’ira, due passioni che
caratterizzano la vicenda della coppia successiva, Eteocle e Polinice22,
su cui però Virgilio sorvola, per soffermarsi sulla terza coppia Ulisse-
Diomede, di cui al v. 57 predica proprio la vendetta e l’ira (un hysteron
proteron per l’ira e la vendetta; cfr. nota 22), due passioni che mal si
adattano ai due eroi omerici, mentre definiscono perfettamente la relazione
dei due fratelli tebani, menzionati poco prima da Dante. In
particolare, dai riferimenti di Virgilio e di Ovidio, non c’è nulla che
faccia pensare all’astuto/calcolatore Ulisse come a un personaggio
soggetto all’ira e alla vendetta, le quali, per antonomasia, tra gli eroi
omerici, spettano ad Achille; l’inventore del cavallo non è un consigliere,
ma un ingannatore, e per ingannare serve pazienza, furbizia e
capacità di tramare di nascosto.
Giustamente, nella voce compilata per l’Enciclopedia Dantesca, Fubini
allude al carattere machiavellico di Ulisse23. Infatti, è così che l’eroe
greco appare nelle principali fonti (Virgilio e Ovidio), per cui, a un
primo sguardo, dal canto XXVI sorgono non pochi motivi di imbarazzo,
soprattutto se si osserva l’inversione di 180° compiuta da Dante
rispetto alle sue due principali fonti, appena menzionate24. Senonché
il rivolgimento è talmente eclatante e ben riuscito, che, nella stessa
“voce”, addirittura, Fubini aggiunge: «Ulisse compare nella bolgia dei
cosiddetti, non da Dante, consiglieri fraudolenti (meglio si direbbero i
‘politici’, i machiavellici che dell’ingegno si valsero a ingannare altrui
a pro della loro patria o della loro Parte), avvolti dentro nobile fiamma
» (Ivi, corsivo aggiunto).
Insomma, i motivi di stupore/stranezza si accumulano, non solo
22 L’inciampo connesso con questa coppia di personaggi è piuttosto complesso
da analizzare; esso inizia con la strana/eccessiva inquietudine di Dante alla vista
della fiamma a doppio corno, e continua, come si sta per vedere, con la menzione
di Eteocle e Polinice e l’esplicitazione di Virgilio che si tratta di Ulisse e Diomede
che «insieme / a la vendetta vanno come a l’ira» (vv. 56-57).
23 Cfr. M. Fubini, 1970, s.v. “Ulisse”, in Enciclopedia Dantesca.
24 L’imbarazzo di cui si sta parlando deriva dalla figura dell’Itacese, senza che
si sia ancora parlato della strana presenza di Diomede nella fiamma a doppio corno,
lui che ha una storia molto diversa e un destino opposto al suo compagnocomplice
(secondo la versione T1). Il sorprendente rivolgimento compiuto da Dante
riguarda solamente Ulisse, che il poeta trasforma da personaggio infame, come
gli risultava da Virgilio e da Ovidio, in personaggio “nobile”, per usare un termine
di Fubini. La sorpresa, però, diviene confusione, quando si incrocia questa storia
con quella di Diomede, positiva nei due autori latini menzionati, e da Dante trasformato
in spettatore muto (e così aumentano le sensazioni di stranezza di T1, che
spingono a cercare un eventuale testo T2).
[ 14 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 573
rispetto all’improbabile consigliare fraudolento, ma anche rispetto
all’andare per ira e per vendetta, sia di Ulisse che ancor di più di Diomede;
nel frattempo, però, gli inciampi iniziano a definirsi, in particolare,
in riferimento al legame che unisce le tre coppie di personaggi del
XXVI, che si direbbero accomunate, in vario modo, proprio dal leitmotiv
dell’ira e della vendetta, e così inizia a delinearsi una nuova immagine.
A proposito della fiamma biforcuta, l’unica in tutta la bolgia, mi si
permetta una digressione sul procedere di Dante-poeta: dopo la regola,
egli viene attratto dall’eccezione (vedi, ad esempio, If V, con l’episodio
di Paolo e Francesca, che riprenderò dopo). Ed è proprio questa,
tra le numerose fiamme, che fa aumentare in Dante-personaggio l’inquietudine.
Virgilio se ne accorge e, quasi per tranquillizzarlo, gli dice
che in ogni fiamma vi è lo spirito di un condannato (vv. 47-48). A questo
punto, alquanto stranamente, Dante ha una specie di premonizione,
ed è come se, mettendo fretta al suo maestro, gli dicesse: sì certo,
questo lo so, l’avevo già capito, ma grazie che me lo confermi; piuttosto,
dimmi «chi è ’n quel foco che vien sí diviso / di sopra, che par
surger de la pira / dov’Eteòcle col fratel fu miso?» (vv. 52-54). Nel dire
questo, Dante si riferisce alla versione di Stazio sulla fine dei due fratelli-
figli di Edipo. E questo immediato ricordo associativo è un altro
elemento che contribuisce a destabilizzare il lettore, oltre ad essere la
prima allusione ai “fratelli”. Dopo il chiarimento di Virgilio che si tratta
di Ulisse e di Diomede non vi sono altri nomi.
Abbiamo ora sufficienti elementi per riassumere le differenti sfumature
insite nelle tre coppie di personaggi incontrati, e i diversi modi
in cui esse sembrano realizzare il rinvio a Cavalcanti-Dante, dato che
questo, per la lettura anamorfica, è il controcanto composto da Dante
nel XXVI. I due poeti, in tal senso, di volta in volta, vengono connotati
come coppia maestro-allievo (Elia ed Eliseo), come coppia di fratelli,
divenuta poi coppia di fratelli-coltelli (Eteocle e Polinice), e come coppia
di amici-fraterni in avventure belliche (Ulisse-Diomede), almeno
fino a un certo punto della loro esistenza. In queste diverse coppie e
nelle loro differenti sfumature relazionali, vi è la storia del rapporto
Cavalcanti-Dante, terminato in ira e vendetta mortale. Il collegamento
poi dei “fratelli” tebani con i “frati” compagni di viaggio di Ulisse,
evoca due follie, entrambe finite tragicamente, che si riverberano
anch’esse sui due poeti: nel primo caso, i due fratelli di sangue morirono
colpiti da reciproca mano “irata e vendicativa”, mentre, nel secondo,
Ulisse e i suoi fratelli-compagni morirono colpiti da un turbine
«com’altrui piacque» (v. 141).
[ 15 ]
574 franco maiullari
Vediamo più da vicino alcuni altri aspetti dell’inciampo più importante
del canto XXVI, che è costituito dall’accomunare i due eroi greci
nella stessa fiamma. Osserviamo ora il silente Diomede, mentre Ulisse
declama la sua fine negli abissi marini, e rivolgiamo una particolare
attenzione al dialogo con Virgilio, che in realtà dà poco l’idea di essere
un dialogo. Si è detto che è singolare che due eroi così simili e così
diversi come Ulisse e Diomede siano accomunati nella stessa fiamma,
ma è altrettanto singolare ciò che avviene nel corso dello scambio, come
il fatto che, dopo l’invito di Virgilio a raccontare la loro fine, dei
due parli soltanto Ulisse, e che Diomede resti muto, come se fosse un
convitato di pietra. Anche nel celeberrimo episodio del V, a parlare è
solamente Francesca, ma il contesto narrativo tra i due episodî, in vita
come post mortem, è opposto. I nostri eroi omerici, al di là dell’apparenza,
risultano sempre più come due che hanno poco a che fare l’uno
con l’altro, mentre i due amanti si presentano come una cosa sola, quasi
la realizzazione dell’“Uno” platonico, per cui, che parli soltanto
Francesca, è più che sufficiente, anzi è poeticamente più bello: Paolo
non potrebbe aggiungere altro al dramma dei due amanti, non avrebbe
null’altro da dire, cosa che conferma con le sue “parole liquide”,
cioè con le sue lacrime, ultimo tocco sublime che Dante dona all’episodio,
alla fine del canto, prima di svenire.
Rispetto all’indissolubile coppia costituita da Paolo e da Francesca,
la coppia Ulisse-Diomede è discordante25, perché i due eroi sono stati
sì complici, ma non tali da poterli considerare accomunati, né dallo
stesso ingegno, né dalle stesse azioni, né dalle stesse passioni, né dalla
stessa sorte, o dalla stessa fine. Virgilio li accomuna nelle stesse imprese
(o meglio, Dante glieli fa accomunare, secondo la versione T1), ma
in modo non perspicuo: Ulisse è lo stratega della menzogna, la mente,
una specie di genio del male, mentre Diomede è, a volte, un complice
nell’azione, ma essenzialmente è il rappresentante dei valori eroici
tradizionali. Nell’ottica virgiliana dell’Eneide (quella vera del poeta,
non quella falsa proclamata da Sinone26), egli rappresenta un’istanza
25 A proposito dell’impressione di perplessità/stranezza del testo (T1) che è
all’origine dell’indagine anamorfica, il confronto tra l’episodio del V e quello del
XXVI può aiutare a chiarire la procedura: la figura e il silenzio di Paolo sono del
tutto comprensibili, mentre la presenza e il silenzio di Diomede lo sono molto
meno e suscitano perplessità (che va a sommarsi alle altre perplessità, ad esempio,
a quella suscitata proprio dalla menzione dell’episodio degli orsi in riferimento
alla storia di Eliseo).
26 Cfr. la prima parte del libro II dell’Eneide, dedicata all’inganno di Sinone, al
fine di indurre i Troiani a portare il cavallo nella città.
[ 16 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 575
etica infinitamente superiore a quella di Ulisse. Con l’Itacese, della
stirpe di Sisifo, siamo di fronte al prototipo della mente luciferina (secondo
Virgilio e Ovidio), mentre Diomede è il prototipo del valore
guerriero27. Pertanto, mettere assieme i due eroi nella stessa fiamma è
come far combaciare due opposti che saltuariamente si “incrociano”.
Ora, se dopo la domanda “aperta” di Virgilio è Ulisse che prende immediatamente
la parola, ed è solo lui che parla, la cosa non avrebbe
dovuto far sorgere qualche sospetto in Virgilio, grazie alla locuzione
proverbiale da lui stesso coniata? Quidquid id est, timeo Danaos et dona
ferentis, aveva scritto (Eneide II, v. 49), una frase che, esplicitata sul
personaggio a cui, comunque, egli la riferiva, non avrebbe dovuto indurlo
a mettersi sùbito in guardia e a fargli apparire in mente, a caratteri
cubitali, la locuzione equivalente
TIMEO ULIXEM ET GRAVITER LOQUENTEM
appena Ulisse inizia a parlare, qualsiasi cosa avesse avuto intenzione
di dirgli? “Temo i Greci anche/soprattutto quando fanno regali”, dice
Virgilio nell’Eneide; “temo Ulisse soprattutto quando parla in modo
serio/grave”, avrebbe dovuto pensare nel XXVI. La scena poetica creata
da Dante, tra il serio e il faceto, è magnifica: Ulisse parla/recita,
imperturbabile, Virgilio non replica, Diomede e Dante ascoltano in
silenzio, forse perplessi, forse rassegnati e addirittura un po’ divertiti,
sapendo bene entrambi, seppure ognuno a suo modo, che con un
compagno simile (Diomede pensando ad Ulisse, Dante pensando di
riflesso a Cavalcanti) volersi opporre era fiato sprecato.
Ma non basta. In questo clima ambiguo ed estraniante dello scambio
Virgilio-Ulisse, vanno poi analizzati alcuni inciampi di tipo linguistico-
retorico, di cui faccio solo due esempi. Il primo si riferisce a
un’affermazione che Ulisse esprime ai vv. 116-117, che ricorda gli impossibilia28,
e che nel nostro caso potrebbe suonare così: fare esperienza
27 I due poeti latini sono sulla stessa lunghezza d’onda, quanto al giudizio sui
due eroi: Virgilio, esplicitamente, pone Diomede insieme ad Achille (Eneide I, vv.
457-474 e 752-753), di gran lunga lontano da Ulisse, il quale viene menzionato per
la capacità di ingannare con i doni (Eneide II, vv. 43-44); Ovidio, dal canto suo, in
Metamorfosi XIII, vv. 5-122, implicitamente paragona Diomede alla nobiltà di Aiace,
in posizione addirittura opposta a quella di Ulisse.
28 Gli impossibilia, o adynata, sono delle arguzie, dei “giochi verbali”, basati su
delle affermazioni pragmaticamente impossibili perché vanno contro la logica degli
eventi naturali, come, ad esempio: “Farò una certa cosa / avverrà una certa
cosa, ma solo quando l’acqua dei fiumi scorrerà indietro verso la sorgente, o quan-
[ 17 ]
576 franco maiullari
dei luoghi (= conoscere le abitudini degli uomini che abitano quella
parte di mondo?) dove non vi sono uomini. Il secondo si riferisce
all’uso di “frati” all’inizio dell’orazion picciola (v. 112).
A proposito del primo esempio, se si mettono a confronto due frasi
pronunciate da Ulisse, ai vv. 97-99 («l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del
mondo esperto / e de li vizi umani e del valore») e ai vv. 116-117 («non
vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente»),
non si può non restare perplessi per un dubbio di incoerenza insita
nella seconda frase, oltre che nel confronto tra le due. Nella prima
frase, Ulisse espone a Virgilio l’ardore da cui era sempre stato posseduto,
di divenire una specie di antropologo ante litteram; motivo per
cui, quando andò via da Circe («che sottrasse / me più d’un anno là
presso a Gaeta / prima che sí Enëa la nomasse», vv. 91-93), rinunciò al
desiderio del figlio, del padre e della moglie, e si mise di nuovo in
mare con l’unica nave e con gli unici compagni rimasti. Superate le
Colonne d’Ercole, tenne loro quella che lui chiama «orazion picciola»
(v. 122), al fine di indurre i «frati» (v. 112) a seguirlo nell’avventura. Si
giunge così alla seconda frase, che fa da pendant alla prima: in essa,
l’eroe esprime un concetto alquanto contraddittorio, perché sembra
dire il contrario di ciò che aveva detto con la prima frase; infatti, è come
se ora esortasse i compagni… a non rinunciare all’esperienza di conoscere
i vizi e le virtù di quelli che abitano il mondo “sanza gente”, una specie
di contraddizione in termini, di antinomia, che diviene un vero e proprio
adynaton se lo si intende così: ci fermeremo solamente quando conosceremo
le abitudini degli uomini che abitano il mondo dove non ci sono uomini29.
do il sole sorgerà a oriente ecc.”. Gli antichi si servivano di tali espressioni, a volte
usate in senso diretto (se ne trovano in Omero, Virgilio e Ovidio), a volte usate in
senso indiretto, come nelle seguenti affermazioni, in cui Virgilio fa parlare Enea
così, rivolto a Didone: «Finché i fiumi correranno al mare, e le ombre / esploreranno
il cavo dei monti, e il cielo pascerà le stelle, / sempre durerà il tuo onore e il
nome e la gloria» (Eneide I, vv. 607-609; un adynaton diretto si sarebbe espresso così:
“La tua gloria svanirà solamente quando i fiumi correranno alla montagna ecc.”).
29 I vv. 116-117, secondo la visione anamorfica, costituiscono un inciampo, ma
la loro ambiguità permette di ragionare sulla difficoltà di passare da T1 a T2. Infatti,
in questo caso, vi è adynaton, ma solamente se si intende l’espressione dantesca
come un’antinomia: “conoscere gli uomini che abitano il mondo senza uomini”.
L’esegesi del passo, però, non ha mai inteso l’espressione in questo modo, sia perché
ha sempre inteso in senso coerente la parte “incerta” dell’espressione vv. 116-
117, sia perché, se l’avesse fatto, sarebbe stata costretta a modificare il punto di vista
interpretativo del canto più in generale (cosa impossibile finché si resta nell’ottica
tradizionale, disponibile a molte concessioni, ad esempio, a considerare “nobi-
[ 18 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 577
A proposito del secondo esempio, l’uso di «frati» al v. 112, se non si
vuole restare a una generica captatio benevolentiae, evoca qualcosa che
ha a che fare con la pratica di un gruppo esclusivo, i cui membri usano
chiamarsi amici fraterni / confratelli. Una tale pratica è ipotizzabile in
riferimento al gruppo che si raccoglieva intorno a Cavalcanti, a maggior
ragione se Dante stesso, evocando Eteocle e Polinice, sembra voler
orientare il senso del loro rapporto verso la fratellanza, per quanto
divenuta conflittuale. Il rapporto Cavalcanti-Dante, infatti, a un certo
punto, dopo l’idillio, si ruppe drammaticamente, lasciando dietro di
sé gli strascichi insuperati come di una malattia, quasi di una sindrome
post-traumatica, con memorie intrusive, negazione/repressione
di alcune, trasformazione e idealizzazione di altre, nella quale, cioè, le
memorie traumatiche, in vario modo, continuano a ossessionare la
mente del traumatizzato. Alcune osservazioni di Contini sul fatto che
Dante continuò per tutta la vita a confrontarsi con Cavalcanti, e sul
fatto che la presenza di questi, pur nell’assenza, si percepisce dappertutto
nella Commedia30, andrebbero proprio in questa direzione, cioè
le” una figura “infame” e a scotomizzare cinque personaggi in un unico canto). Va
detto, comunque, che l’espressione permette varie oscillazioni semantiche, le quali
costituiscono l’essenza stessa dell’anamorfosi. Per analogia, se Holbein ai piedi
dei due Ambasciatori avesse dipinto un teschio in tutta evidenza, e non in bilico
tra un’apparenza T1 e una realtà T2, non avrebbe creato un testo anamorfico. Allo
stesso modo, Dante ha creato un testo “incerto”, in bilico, in questo caso, tra più
interpretazioni: 1) una perifrasi riferita a luoghi disabitati, come si dice, ad esempio,
in Dante, Commedia, a cura di A.M. Chiavacci Leonardi, Bologna, Zanichelli,
1999, commento al passo; secondo la studiosa, Dante si riferisce «all’emisfero opposto
a quello di Gerusalemme, che si credeva occupato soltanto dall’oceano»; 2)
una perifrasi riferita a “uomini che abitano una parte del mondo non occupata da
vere e proprie genti/razze, o popoli (lat. gens)”; 3) un adynaton vero e proprio:
“esperto di vizi umani e del valore, anche di quella parte di mondo dove non vi
sono uomini (sottinteso: anche di quegli uomini che abitano quella parte di mondo
dove non vi sono uomini)”. Come si vede, l’espressione permette di andare da un
estremo, per così dire, coerente (l’ipotesi 1; un’interpretazione che, comunque, non
manca di incoerenza, dato che “fare l’esperienza dell’oceano, dove non vi è gente”,
non si capisce che tipo di esperienza possa essere, senza considerare l’incoerenza
rispetto ai vv. 97-99), a una posizione intermedia (l’ipotesi 2), a un estremo incoerente
(l’ipotesi 3). E questo, sempre secondo la visione anamorfica, è stato volutamente
creato da Dante.
30 Contini scrive che l’ombra e il pensiero di Cavalcanti accompagnano Dante
fino al termine di una carriera in cui continua a «rifare i conti col patrono della sua
giovinezza poetica (dico: a rifare, perché, con la consueta perentorietà dell’autore,
essi sono o sembrano fatti una volta per tutte)» (G. Contini, Un’idea di Dante, cit.,
p. 143), e aggiunge che la presenza di Cavalcanti aleggia in modo tanto più inquietante
quanto più indiretto: «Scomparso nell’angolo morto (meno di cinque mesi) a
[ 19 ]
578 franco maiullari
nel senso che il legame con Cavalcanti era stato qualcosa di speciale,
quasi un legame di sangue: di maestro-allievo prima e di amici fraterni
dopo, impegnati assieme nel primo tratto della stessa entusiasmante
navigazione poetica rivoluzionaria, motivo per cui la rottura del
sodalizio fu traumatica. E questi esiti sarebbero un ulteriore segno,
per quanto indiretto, del legame come di fratellanza tra i due poeti,
almeno nel vissuto di Dante.
Si potrebbe allora aggiungere che Dante sembra tormentato da ricordi
traumatici che riversa nella Commedia; lo è, in particolare, rispetto a due
grandi traumi, causati dalla fine/perdita di due grandi amori: quello di Beatrice
e quello di Cavalcanti che egli continua a far vivere nel suo immaginario
poetico31. Parafrasando la frase sul “salare il sangue” che Contini scrive32
proprio per cercare di comprendere il turbamento/tormento di
Dante rispetto a Cavalcanti, sulla tomba dell’amato/odiato maestrofratello-
mentore, si potrebbe incidere il seguente epitaffio: “Qui giace
Cavalcanti che salò il sangue a Dante”.
6. Interpretazione anamorfica del canto XXVI. La lettura anamorfica
del canto XXVI risponde a due obiettivi, uno esplicito e uno latente: il
primo è quello di comprendere chi sia veramente Ulisse; il secondo è
quello di scoprire cosa si nasconda dietro la scomparsa di Cavalcanti
dal poema. I due obiettivi sono strettamente legati, tanto da poter afridosso
del viaggio immaginato, è sottratto alla sentenza finale, sottratto anche
alle profezie; e non occorrerebbe neppure precisare che tutto ciò appare predisposto
al fine di non giudicarlo esplicitamente: indizio di per sé rivelatore dell’importanza
assegnata al già “primo amico”» (Ibidem; il termine “indizio”, che ho posto
in corsivo, non è molto distante da ciò che nell’indagine anamorfica chiamo “inciampo”).
31 Il rapporto poetico e umano tra Cavalcanti e Dante si interruppe ben prima
della morte di Guido. Però, fermo restando che la morte è sempre un evento che
sconvolge e modifica ulteriormente le relazioni e le passioni, il loro rapporto affettivamente
non si interruppe mai, cosa che, appunto, trova espressione simbolica
nella Commedia. La rottura tra i due poeti, avvenuta già nei primi anni del 1290 per
“ira e vendetta”, e rimasta esplosiva – tanto da spingere Dante a compiere un gesto
quasi infame, quello cioè di negare il consenso al rientro di Guido a Firenze, ormai
malato, pochi mesi prima di morire – verosimilmente cambiò registro espressivo
dopo la morte di Guido, avvenuta il 29 agosto 1300. L’ira e la vendetta mai risolte
del tutto, unite forse alla colpa per la morte dell’amico fraterno, possono rendere
ragione dell’assenza formale di Cavalcanti dalla Commedia (Dante anticipa l’inizio
del viaggio alla Pasqua del 1300, cioè di pochi mesi rispetto alla sua morte), ma nel
contempo della sua presenza ubiquitaria.
32 Cfr. G. Contini, Un’idea di Dante, cit., p. 157.
[ 20 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 579
fermare che solo la comprensione del primo può permettere di rispondere
al secondo, e viceversa.
Il folle volo di Ulisse è la grande novità dantesca rispetto al viaggio
tradizionale di andata-ritorno. Ulisse è un personaggio scandalo, promotore
di un viaggio inconcepibile, inaudito, non solo materiale, ma
anche culturale, politico e in un certo senso spirituale. Senonché, questo
viaggio inaudito, apparente segno di grandezza (versione T1), in
realtà è un segno di inanità (T2). Dante apparentemente esalta la sete
di conoscenza dell’eroe greco, ma in realtà la condanna, visto che si
tratta di una cattiva conoscenza. Per questa grande invenzione, l’Itacese
funziona come una figura schermo cangiante: in apparenza sembra
rinviare al Dante degli inizi, ma in realtà rinvia ad un’altra avventura
senza ritorno, quella di Cavalcanti. A Ulisse si contrappone Diomede,
come a Cavalcanti si contrappone Dante. E come Diomede,
dopo la grande avventura troiana, non ebbe più nulla a che fare con
Ulisse, così Dante, dopo la grande avventura stilnovistica, non ebbe
più nulla a che fare con Cavalcanti.
Ulisse continua a impregnare il nostro sogno di viaggiare, ma dopo
Dante la trama di quelle avventure si è complicata; anzi, paradossalmente
(ed eticamente) si è quasi semplificata: si potrebbe quasi dire
che essa si sia banalizzata nella ricerca di una meta effimera, che, senza
eliminare la tragedia, l’ha resa tragicomica. Infatti, rimasto solo a
contrastare la tragedia, l’effimero si inabissa nell’insensato e folle andare.
Spingendo Ulisse oltre le Colonne d’Ercole, assetato di una conoscenza
fine a se stessa, Dante destina l’eroe a una mala morte: metafora
di tutti quelli che vanno senza una visione etica e senza Grazia (Cavalcanti
in primis), quasi anticipando e mettendo in guardia i nuovi
esploratori della terra, i nuovi conquistatori, divenuti colonizzatori
senza scrupoli e accumulatori seriali di conoscenze, di ricchezze e di
beni materiali. Spinto alla deriva sopra una “barca vagabonda”, o una
“nave dei folli”, Ulisse/l’uomo diviene preda di una specie di pseudologia
fantastica migratoria. Il viaggio dell’eroe non traccia un cerchio
con il punto fermo nell’origine, ma tanti cerchi che girano su se
stessi, o un segmento di retta, seguito da altri segmenti, e altri ancora,
che valgono in quanto tali, svincolati dal primo e dal dopo, perché il
prima e il dopo si perdono all’infinito. Questo procedere, forse, è più
antico di quanto si possa pensare, come Dante sembra suggerire, ma,
sicuramente, corrisponde a una mentalità molto moderna, ravvivatasi
nell’era della tecnica e della liquefazione delle ideologie, forse perché
l’uomo moderno, deluso dalle mete fin qui raggiunte, ha smarrito
quelle che la religione gli indicava, e non vede ancora la possibilità di
[ 21 ]
580 franco maiullari
raggiungere quelle (quali?) che narcisisticamente la tecnica gli fa balenare
davanti agli occhi.
In conclusione, ecco qualche ulteriore considerazione su Ulisse, comandante
di un gruppo di compagni che chiama “frati”, da lui spinti
oltre le Colonne d’Ercole, per un viaggio che li avrebbe portati fino
alla surreale conoscenza del «mondo sanza gente» (v. 117). L’eroe greco
si direbbe un personaggio schermo di Cavalcanti, a sua volta guida
di un gruppo di compagni fraterni (tra cui innanzitutto Dante),
anch’essi in un certo senso spinti oltre le Colonne d’Ercole della ricerca
poetica, ma soprattutto di una conoscenza vuota. Dante era rimasto
affascinato in gioventù da quello stile di vita, estraneo ad ogni orizzonte
etico-religioso, ma soprattutto da quel comandante, un aristotelico
radicale, disincantato e cupo. Dante, però, se ne separò in tempo
(come Diomede da Ulisse), almeno in apparenza, dato che nel profondo
gli restò “fratello”, non se ne separò mai. La presenza ubiquitaria
di Cavalcanti nella Commedia ne è la dimostrazione, anche se il poeta
trasformò il “primo amico” in un’ombra fioca per tenerselo accanto.
L’evocazione di Guido da parte di Dante nel poema va al di là del
canto XXVI e del simbolico “frati” dell’orazion picciola, e la si riscontra
in numerosi altri passi: ad esempio, nel termine «fioco» (If I, v. 63)33 già
all’inizio del poema; durante l’incontro fra Dante e Cavalcante, quando
il padre di Guido chiede a Dante notizie del figlio (If X, vv. 58-60);
attraverso l’implicita fratellanza di Guido e Dante, in una specie di
apprendistato poetico, entrambi figli d’arte del padre Guinizzelli (Pg
XXVI, vv. 97-98), con Guido maggiore di Dante, quasi a evocare il rapporto
di Elia ed Eliseo; attraverso la loro implicita fratellanza nella
gloria poetica (Pg XI, vv. 97-99), Dante ormai rivale che sopravanza
Guido, quasi ad evocare il rapporto di Eteocle e Polinice.
La nuova lettura del canto XXVI, svelando i collegamenti tra Elia-
Eliseo, Eteocle-Polinice e Ulisse-Diomede, che si direbbero rinviare a
Cavalcanti-Dante, vale anche come un “ritorno al testo”, contro la sua
deriva edificante, che ha finito per condizionarne l’interpretazione e
per fare accogliere dalla cultura occidentale, via Dante, una visione
“buonista” del personaggio Ulisse, che gli antichi, in particolare Virgi-
33 Per questo spunto, cfr. Sebastiano Aglianò, 1970, s.v. “fioco”, in Enciclopedia
Dantesca; inoltre, Federico Sanguineti, L’ombra di Miseno nella Commedia,
«Belfagor», LX (1985), n. 4, pp. 403-416, per quanto riguarda il personaggio che
«per lungo silenzio parea fioco» (If I, v. 63) e che, a parere dello studioso, evoca
Cavalcanti.
[ 22 ]
una nuova lettura dell’ulisse dantesco 581
lio e Ovidio, consideravano pessimo; anzi, la quintessenza dell’infamia,
per la sua capacità di mentire e di imbrogliare34.
Gli inciampi (le tracce, gli indizi) a favore della presenza di Cavalcanti
nel poema, come si è visto, sono numerosi, come numerosi sono
quelli del canto XXVI a favore dell’identificazione di Ulisse come alter
ego di Cavalcanti, e a favore del rinvio Ulisse-Diomede a Cavalcanti-
Dante. A questo punto, però, non si può non concludere ammirando il
vero colpo di genio di Dante. Non era difficile criticare l’andare senza
meta e senza Grazia di Ulisse-Cavalcanti, ma il poeta, avendo di mira
la nave stilnovistica, lo fa seguendo una strada del tutto singolare: non
racconta il viaggio che lo vide partecipe diretto, ma mette in scena il
viaggio più famoso dell’antichità, quello di Ulisse, portandolo all’inabissamento
nell’Oceano. L’eroe greco, come un attore che reciti a teatro,
racconta/declama le sue ultime imprese “mentendo seriamente”,
mentre Dante, come un funambolo, si mantiene in bilico tra il serio
(T1) e l’ironico-parodistico (T2), nella costruzione sia del personaggio
che della sua storia. T2 serve a Dante per delegittimare, cioè per dimostrare
tutta l’inanità, l’insensatezza, la follia dell’avventura di Ulisse-
Cavalcanti in mare aperto, nell’Oceano, senza una guida superiore;
T1, invece, serve al poeta per dire che l’avventura della conoscenza fu
da lui perseguita, e va comunque perseguita, ma con ben altri criterî,
come lui, novello Diomede, illuminato dalla Grazia, dopo una navigazione/
sbandamento iniziale, ben presto comprese.
Franco Maiullari
(Minusio-Svizzera)
34 Aspetti che Dante conosceva bene e che, se li modifica, deve averlo fatto per
un motivo ben preciso, si potrebbe dire, parafrasando M. Corti, Scritti su Cavalcanti
e Dante, cit., p. 343. Prendere per “buona” la superficie schermo del racconto
di Ulisse, vuol dire scambiare l’apparenza con la realtà: sarebbe come se, ad esempio,
si prendesse per un bell’oggetto la strana macchia ai piedi degli Ambasciatori,
oppure (ma di esempi se ne potrebbero fare molti) si credesse a certe dichiarazioni
politiche, palesemente false. D’altra parte, i trucchi linguistici e le astuzie retoriche,
arte in cui Ulisse eccelleva, in particolare se accompagnati da “sincero” pentimento,
o da lacrime “forzate”, costituiscono ancora la base per indurre gli altri alla
creduloneria; è ciò che, ad esempio, Ulisse fa con la complicità di Sinone, il quale,
con un racconto falso simile al vero (Eneide II, v. 57 ss.) e con forzate lacrime («dolis
lacrimisque coactis», Eneide II, v. 196), riesce laddove non erano riusciti dieci anni
di ridicola guerra: ingannare i Troiani e conquistare Troia.
[ 23 ]

Marino BOAGLIO
Il sogno come rimozione.
Il poemetto Paulo Ucello di Giovanni Pascoli
Il poemetto Paulo Ucello del Pascoli sembra delineare il quadro artistico e morale
del pittore del ’400; in realtà non è poesia storica o celebrativa, bensì exemplum
di sublimazione poetica e di rimozione del profondo sotto il segno dell’amore
fraterno e di una semplicità edificante di ascendenza francescana. Pascoli
finisce per proiettare le proprie moderne inquietudini nelle ambagi oniriche del
pittore fiorentino, in cui prova a riconciliare le sue due nature: lo spirito turbato
e la rigorosa passione per la perizia formale.

Pascoli’s long poem Paolo Ucello appears to sketch out an artistic and moral
portrait of the fifteenth-century painter. In reality, however, the poem is not so
much a historical or celebratory text as an example of poetic sublimation and of
the repression of the innermost self under the trappings of fraternal love and an
edifying simplicity belonging to the Franciscan tradition. Pascoli ends up projecting
his own modern anxieties onto the dream world of the Florentine painter
in whom he attempts to reconcile a twin nature: a troubled spirit and a rigorous
passion for formal perfection.
Quando nel 1903 Pascoli compone Paulo Ucello, primo dei Poemi
italici, sta terminando i Canti di Castelvecchio ed è consapevole di trovarsi
a una svolta della sua vita di autore. Una stagione si è chiusa («le
poesie della sua vita, dirò così, materiale, della sua casa, della sua
famiglia»”,1 annota la sorella Maria) e il poeta vorrebbe aprirne un’altra,
pubblica e ufficiale, di argomenti civili e di stile elevato («le poesie
del suo pensiero politico e sociale e artistico»),2 oltre le umili myricae
romagnole e garfagnine. Sarà la stagione storico-politica di Odi e inni
(1911), delle medievaleggianti Canzoni di re Enzio (1909), dei poemi su
Autore: Liceo classico “G. F. Porporato”- Pinerolo; Docente di Lettere; boaglio.
marino@libero.it
1 Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961, p.
714.
2 Ibidem.
584 marino boaglio
Garibaldi e Mazzini e degli inni a Roma e a Torino che vedranno la
luce sotto il titolo di Poemi del Risorgimento.
Paulo Ucello si pone alle origini di tale svolta: terminato non senza
fatiche e ripensamenti il 17 giugno 1903 e pubblicato a luglio sul «Marzocco
», è probabilmente quel «grande poema: il mio capolavoro»3 che
Pascoli aveva annunciato all’amico Caselli l’anno prima, pensando a
una raccolta di Poemi moderni. In effetti, verrà a costituire il primo dei
tre Poemi italici, editi nel cinquantenario dell’Unità d’Italia, e insieme
con Rossini e Tolstoi4 avrà la funzione di illustrare i fondamentali
dell’estetica pascoliana: che l’artista, pur non possedendo nulla, tutto
possiede grazie alla sua arte (Paulo Ucello), che l’arte è rivelazione
dell’interiorità dell’uomo in armonia con il mondo (Rossini) e che essa,
se è vera arte, ha in sé una suprema utilità morale e sociale (Tolstoi).
Queste sono le indicazioni esplicite, gli intendimenti del poeta di San
Mauro sulla via di assumere una funzione civile e parenetica nei confronti
dell’Italia e dell’umanità, ma poi, nella realtà concreta del testo,
nei suoi significati impliciti e taciuti – e quindi nelle sue implicazioni
profonde –, le cose stanno diversamente. Il poemetto sul pittore fiorentino
del Quattrocento, inventore della prospettiva, può sembrare
inteso a delineare il quadro storico-morale di un artista e della sua
straordinaria epoca, e quindi a rinnovare gli antichi fasti italici, ma
non di poesia “storica” e celebrativa si tratta, bensì di «racconto esemplare
o agiografia»5 (Giovanni Barberi Squarotti), che per di più va situato
sotto il segno della sublimazione poetica e della rimozione dei
“fantasmi” pascoliani del mistero e del nulla, le cui tracce inquietanti
vengono qui cancellate entro un quadro idilliaco e consolatorio.
La sostanza rimotiva del Paulo Ucello agisce innanzitutto sulla pau-
3 Ivi, p. 696.
4 La complessa formazione della raccolta, «palesemente atipica» e probabilmente
da integrare in futuro, è ricostruita da Cristiana Felici Puccetti nel saggio
Note sull’ultimo Pascoli: genesi estetica e ideologica dei “Poemi Italici” («Rivista
pascoliana», 1992, n. 4, pp. 93-110).
5 «Né del resto Pascoli vuol fare storia. Il suo è piuttosto racconto esemplare o
agiografia, e in questo àmbito, promuovendosi a co-protagonista […] egli viene a
dare una versione d’atmosfera tardo-medievale e francescana della propria idea
dell’ispirazione come illuminazione mistica e trascendente e come conquista che
implica una rinuncia» (Giovanni Barberi Squarotti, Introduzione a “Paulo Ucello”,
in Giovanni Pascoli, Poesie, vol. 4: Poemi conviviali, Poemi italici, Le canzoni di
Re Enzio, Poemi del Risorgimento, Inni per il cinquantenario dell’Italia liberata, Torino,
Utet, 2009, p. 408). Su questa edizione, puntuale ed accurata, sono condotte le citazioni
del poemetto pascoliano.
[ 2 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 585
ra della morte e si esprime in una sequela di piccoli antidoti stilistici e
ideologici al dramma della storia (che per il Pascoli è sempre il luogo
del tradimento e della malvagità umana, in contrapposizione al rifugio
protettivo del «nido»). L’angoscia dell’esistenza viene così filtrata
attraverso il duplice ricorso a una decorazione arcaicizzante, che delinea
i tratti di un mondo sereno, astorico ed assoluto, e al genere
“esemplare” della fiaba edificante, della favola umana quale controcanto
alla tragedia della vita. Abbiamo così, da un lato, l’aurea leggenda
della Firenze pre-rinascimentale (una città che cresce insieme alla
sua bellezza, solerte e cordiale) e dall’altro l’idillio pauperistico e francescaneggiante,
ispirato ai Fioretti e alle Mistiche nozze di San Francesco
e Madonna Povertà e distante dalla figura storica del santo di Assisi,
dalla sua esistenza tormentata e conflittuale. Siamo in un mondo di
gioconda curiosità e di ingenuità, secondo la lezione estetica del «fanciullino
», in cui la natura pare animarsi e mostrarsi nella sua freschezza
e verginità. L’età di Paolo di Dono è ridotta a un fondale di maniera
(come il Medioevo comunale delle poco più tarde Canzoni di re Enzio),
ad un’atmosfera commossa e raddolcita, soltanto un poco malinconica,
ma senza tensioni profonde né inquietudini né guerre, perché è
stato espunto con cura ogni elemento potenzialmente perturbante, di
carattere artistico, politico o religioso.
La Firenze quattrocentesca è un mondo di operosità serena e bonaria,
di quotidianità attiva, e al mercato del borgo si vedono Donatello
e «ser Filippo» Brunelleschi comprare uova (secondo un suggerimento
vasariano) e restare amabilmente «a crocchio», da vecchi amici e
sodali, più che da rivali. E in quel frangente arriva Paolo, che vorrebbe
comprare un fringuello dai superbi colori («rosso / cinabro il petto, e
nero un suo mantello»), ma non ha denari, e allora se ne torna al suo
povero «abituro» e affresca «con la sua bella maniera» (il suo stile originale)
l’intera parete di casa di alberi, campi, fiori, animali e soprattutto
uccelli, di ogni specie e forma, di ogni tonalità e gradazione. Siamo
in presenza di una morale edificante e consolatoria e di un quadretto
sublimante, tipico di un’opera nata dal bisogno di evadere dal
tempo della storia, dal rischio dello “scontro”, per trasferirsi con l’immaginazione
in età pure e incontaminate, dove sia possibile vivere in
parca serenità e in armonia con il creato.
Persino il motivo del sogno, che nell’opera pascoliana più alta attinge
alla dimensione “altra” dell’inconscio e ne veicola in modo simbolico
e allusivo le verità profonde, oscure, inconfessabili, assume invece
in Paulo Ucello i caratteri consolatori di una visionarietà decorativa,
depurata dei conflitti e pacificata. Ed è un tratto volutamente para-
[ 3 ]
586 marino boaglio
dossale, perché mentre di norma il sogno è il luogo privilegiato dell’emersione
del rimosso, come insegna Freud, nel poemetto “italico” esso
si presenta invece come un ulteriore elemento di nascondimento e
di rimozione. È infatti un sogno messo in scena con abilità di composizione
e leggerezza di stile: un sogno non di ricerca, di quête nel mistero
del mondo e sugli incerti confini del reale, ma anzi di conferma
del reale stesso, del mondo consueto, e in particolare del mito francescano
che fa loro da irenico sfondo di senso. Per cui le diverse sequele
del sogno di Paolo di Dono trovano una sicura continuità nella descrizione
minuta, insistita, quasi iperrealista, delle figure e dei personaggi
che ne sono oggetto, delineati in ogni loro aspetto e caratteristica, descritti
e spiegati compiutamente, perché non ci sia spazio per dubbi o
sospensioni del giudizio e non vi si possa instillare la figura della reticenza,
che sarebbe comunque spia retorica di un’inquietudine non risolta,
e quindi potenzialmente perturbante. L’abolizione del tempo e
dello spazio, consueta nell’alterata sintassi onirica, riesce qui a un presente
d’abitudine che elimina ogni angoscia del cambiamento e a uno
spazio artificiale, finto, disposto con cura nei suoi rapporti tra linee e
colori e ben disciplinato dal gioco della prospettiva. La paratassi visiva
che ne deriva segnala dunque non l’emergere caotico di figure e di
simboli del profondo, tutti parimenti allineati, giustapposti senza gradi
né gerarchie (come capita proprio, ad esempio, in uno dei capolavori
di Paolo Uccello, La battaglia di San Romano), bensì invece l’ordine
compiuto di un “paesaggio” umano e naturale che rimane saldo, sicuro
di sé, e può dunque essere contemplato senza turbamenti.
In questa direzione, ovviamente, viene radicalmente rivisitata anche
la figura del pittore fiorentino, a cominciare dalla versione arcaizzante
del nome, «Paulo Ucello», scorta nel Vasari6. Certo, nella scelta
della forma arcaica è percepibile l’attenzione per la lingua poetica delle
origini, in sintonia con la patina medievaleggiante del poemetto (e
la cosa si farà ancora più evidente nei versi di Re Enzio, con la “reinvenzione”
della lingua due e trecentesca), ma vi opera soprattutto la
predilezione per la voce desueta e raffinata, altamente decorativa. Il
6 Giorgio Vasari, Paulo Uccello, pittore fiorentino, in ID., Le vite dei più celebri
pittori, scultori e architetti (1568), Firenze, Salani, 1913, pp. 253-258. Si veda la ricostruzione
operata in Carla Chiummo, Il “Paulo Ucello” tra ritratti immaginari e
francescanesimo “fin de siècle” («Rivista pascoliana», 1997, n. 9, p. 26), ma prima ancora
le fondamentali osservazioni di Gianni Oliva, Medievalismo e francescanesino
nell’estetismo italiano, in Id., I nobili spiriti (1979), Venezia, Marsilio, 20022, pp. 738-
756.
[ 4 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 587
Paulo del Pascoli è altro dal Paolo di Dono storico, e anche dal pittore
di «ingegno sofistico e sottile» descritto dal Vasari. Nel poemetto diventa
addirittura un terziario francescano, per poter riuscire esemplare
in una vicenda di «mormorazione» e pentimento al cospetto di san
Francesco: è un uomo ormai anziano, umile e semplice, che avendo
famiglia ha aderito al Terzo Ordine (promosso dal santo «per universale
salute di tutti»,7 secondo quanto riportano i Fioretti) e ha quindi
promesso la strada della povertà. «Chi non ha, non pecca», lo ammonisce
in sogno il santo di Assisi, e Paulo si accontenta del poco e del
piccolo, ritrovando nella sua arte la consolazione alla vita di stenti e
nell’atto creativo la gioia gratuita del vero possesso. Così dipinge
campi e animali e uccelli a lode di Dio, con animo festevole e schietta
letizia, mentre il vero Paolo Uccello fu un pittore di battaglie e di cacce,
più che di usignoli e di lavori agresti, e prestò attenzione all’azione,
al gesto convulso e drammatico, più che alla contemplazione rasserenante.
Del resto, egli non fu per nulla francescano, né in vita né in arte.
Non vi sono notizie che abbia mai appartenuto alla milizia regolare di
san Francesco (Pascoli esemplò il suo Paulo terziario su un testo d’arte
dell’amico Paladini, citato quale «fondamento del poemetto»8 insieme
al Vasari) o che sia vissuto in povertà e segregazione; e soprattutto le
sue opere sembrano piuttosto anti-francescane che francescane, in rilevato
distacco da quella linea giottesca che dalla fine del Duecento
aveva riempito di stupori “francescani” le pareti delle chiese italiane.
Paolo Uccello è animato da uno spirito tragico e contrastivo, anche
nelle scene bibliche affrescate nel chiostro verde di Santa Maria Novel-
7 Nel borgo di Cannario, sulla strada tra Assisi e Montefalco, san Francesco
«predicò in tanto fervore, che tutti gli uomini e le donne di quel castello per divozione
gli voleano andare dietro e abbandonare il castello. Ma santo Francesco non
lasciò […] E allora pensò di fare il terzo Ordine per universale salute di tutti. E
così lasciandoli molto consolati e bene disposti a penitenzia, si partì indi» (Francesco
d’Assisi, I Fioretti del glorioso messere santo Francesco e de’ suoi frati, in id., Gli
scritti e la leggenda, Milano, Rusconi, 1983, p. 818).
8 Il «fondamento del poemetto» è da Pascoli indicato in alcune parole del Vasari
(«tenne sempre per casa dipinti uccelli, gatti e cani e d’ogni sorta animali strani
che potette aver in disegno, non potendo tenerne de’ vivi per esser povero») e
soprattutto nel volume di Carlo Paladini San Francesco d’Assisi nell’arte e nella
storia lucchese, edito nel 1901: «Che il dipintore fosse francescano, sembra affermare
il Paladini; ma poiché il Vasari ricorda di lui la moglie e una figlia, io ho immaginato
che fosse sì, ma del terzo ordine». Questi appunti autografi si trovano
nell’Archivio di Casa Pascoli a Castelvecchio, come riportato dalla Salibra nel saggio
Parola e immagine in “Paulo Ucello” (cfr. Elena Salibra, Pascoli e Psyche, Roma,
Bulzoni, 1999, p. 120).
[ 5 ]
588 marino boaglio
la, e nella sua produzione più nota a dominare sono il conflitto e la
morte. La sua tecnica espressiva, inoltre, si mostra sempre ardua e
fiera, tutta scorciata e visionaria, ricca di ardimenti prospettici: è
un’arte problematica, insomma, che coniuga geometria e fantasia, rigorosa
scienza delle linee e bizzarria delle forme, e che proprio per
questo allude a un reale molteplice e dinamico, sempre sfuggente,
quasi inconoscibile, non a un mondo idealizzato nel pacifismo dei Fioretti
francescani.
Il fatto è che Pascoli proietta se stesso nel pittore fiorentino e in lui
vede conciliate come per miracolo le proprie due nature: lo spirito
sensibile e aperto ai fatti di natura e la passione per la tecnica compositiva
– nel pittore la «dolce prospettiva» e lo scortar mazzocchi,9 nel
poeta la perizia metrica e la finezza del verso –, e in più vi aggiunge il
proprio anelito, indeterminato quanto sincero, verso l’amore e la pace
“francescana”, riletti alla luce delle idealità spirituali e misticheggianti
dell’estetismo tardo-ottocentesco dei preraffaelliti, di Ruskin e di
D’Annunzio. Ecco perché di Paulo si passano sotto silenzio le opere
storiche, eroiche o drammatiche (il monumento equestre a Giovanni
Acuto, le tre “cantiche” visionarie della Battaglia di san Romano), e si fa
cenno invece all’«arco / di porta a San Tomaso», in Mercato Vecchio,
dove il «vecchio dipintore» affrescò l’apparizione del Cristo al discepolo
incredulo della resurrezione. La disposizione del “vecchio” Pascoli
è quella della conversione del cuore, della riappacificazione,
dell’armonia con la natura e con le creature del Signore, ovvero è la
radicale rimozione di quelle inquietudini e di quei turbamenti interiori
che tanta parte avevano avuto nelle sue raccolte maggiori, da Myricae
ai Canti di Castelvecchio ai Poemi conviviali. L’esempio emblematico
di questa nuova “maniera” estetica (e più ancora psicologica) lo troviamo
nella parete che Paulo dipinge nel proprio «abituro», per amore
della vita semplice e per aver compagnia nella sua povera vecchiaia:
Ché la parete verzicava tutta
d’alberi: pini dalle ombrelle nere
e fichi e meli; ed erbe e fiori e frutta.
E sì, meraviglioso era a vedere
che biancheggiava il mandorlo di fiori,
e gialle al pero già pendean le pere.
9 I mazzocchi erano figure geometriche, per lo più cerchi armati di punte, che
derivavano il loro nome dall’omonimo copricapo gentilizio fiorentino e che servivano
a Paolo Uccello per esercitarsi nella tecnica della prospettiva.
[ 6 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 589
Lustravano nel sole alti gli allori:
sur una bruna bruna acqua di polle
l’edera andava con le foglie a cuori. [canto II]
Siamo alla sublimazione del bello e del buono, in un tripudio di
fiori e di frutti, per cui l’arte si fa consolazione di linee e di puri colori,
oltre che proiezione fantastica della realtà. Poi la descrizione prosegue
con gli strumenti del lavoro agreste, accomunati al di là del loro utilizzo
nelle diverse stagioni («Qua zappe in terra si vedean, là falci»), con
i «diritti solchi» dell’aratura e «due bovi» sotto il giogo e, appena poco
discosto, nello stesso quadro, come per magia, «un biondo mar di
messi», cioè il grano ormai maturo e pronto per essere falciato. L’armonia
delle tonalità e dei ritmi che nel canto I caratterizzava la Firenze
delle architetture brunelleschiane ritorna in questa parete “privata”,
dipinta a fresco, come per ribadire la stretta somiglianza tra vita
cittadina e vita dei campi, perché la natura coltivata e la vita sociale
ordinata sono parimenti benedette dal cielo. Si tratta, con tutta evidenza,
di una nuova età dell’oro, nell’illusione dell’inesistenza di ogni
turbamento, come è garantito dalla compresenza delle diverse stagioni
in un unicum edenico: l’autunno vi si fonde con la primavera, la
semina con la mietitura, i fiori del mandorlo con i frutti del pero. Siamo
entro la categoria estetica del «meraviglioso», poiché la pittura
(come la poesia) può sovvertire anche il ciclo della natura e creare un
tempo eternamente presente ed esemplare. La parete di Paulo è davvero
“picta”, allora, non soltanto, in senso tecnico, perché dipinta “a
fresco”, ma proprio perché finta, artificiale, delineata secondo le direttive
di un’ossessione di armonia e di equilibrio che espunge dal quadro
ogni accenno al mistero, al dolore delle cose, alla morte.
Pascoli piega a questo uso rimotivo persino l’invenzione più celebrata
di Paolo Uccello, la prospettiva, che anche un critico poco benevolo
come il Vasari aveva dovuto riconoscere come vanto al pittore
fiorentino («introdusse via, modo e regola di mettere le figure in su’
piani dove elle posano i piedi, e di mano in mano dove elle scortassimo,
e diminuendo a proporzione sfuggissino; il che prima si andava
facendo a caso»)10. Nel testo pascoliano, infatti, la prospettiva non è
uno dei tanti «ghiribizzi» dell’ingegno «sofistico e sottile» di Paolo,
come voleva il Vasari, che lo aveva descritto perso e affaticato nelle
astruse «cose di prospettiva» fino a divenir «solitario, strano, malinco-
10 G. Vasari, Paolo Uccello pittore fiorentino, cit., p. 254.
[ 7 ]
590 marino boaglio
nico e povero»,11 bensì lo strumento principe per suscitare «stupore» e
meraviglia, cioè per esprimere un nuovo modo di vedere (e di pensare)
e per abbracciare in una dimensione onnicomprensiva e irenica
tutta la realtà: «E là, stupore, due bovi che sotto / il giogo aprivan
grandi grandi un solco, / non eran grandi come era un leprotto //
qua, che fuggiva a un urlo del bifolco». Proprio «la dolce prospettiva»
è la parola-chiave del poemetto, tanto da ritornare due volte anche
nelle didascalie arcaicizzanti che Pascoli premette, al modo dei Fioretti,
ai suoi dieci capitoli poetici. Essa esemplifica il miracolo ordinatore
dell’arte, la perfezione dello stile, ma anche l’affetto che tiene insieme
le cose tra di loro; ha cioè valore morale e parenetico, oltre che tecnico
ed artistico, chiamando a uno «stupore» che è insieme quello del «fanciullino
» (del poeta, per Pascoli) e quello del frate minore, fratello in
Cristo di tutte le creature del Signore. La spontaneità e la leggerezza
del mondo affrescato sono ulteriormente vivificate dal sapiente uso
dei deittici: qui, nel canto II, la serie insistita di «qua» e di «là» offre la
giustificazione pittorica del variare dei piani e degli spazi, come più
avanti, nel canto VI in cui «Santo Francesco discese per la bella prospettiva
che Paulo aveva dipinta», il fulmineo «Ecco» a inizio di strofa
anticiperà la lievità dell’apparizione miracolosa del santo e la sua valenza
salvifica.
In questo paradiso fatto delle realtà più comuni della vita agreste,
dove anche il lavoro non è dannazione e sudore della fronte ma adeguamento
ai dolci ritmi della natura, sorge poi improvvisa la perturbazione
del cuore, che conduce alla «mormorazione» del vecchio artista.
È una lagnanza interiore («e fu tentato, e mormorò nel cuore»,
chiude il canto IV; e il VI apre in ripresa, quasi eco a distanza: «Cotale
fu la mormorazïone, / sommessa, in cuore»), un’insoddisfazione che
principia da una piccola invidia verso l’arte da mercanti dell’amico
Donatello, il quale aveva avuto da Piero de’ Medici «un podere in
Cafaggiolo»,12 e dalla consapevolezza che le proprie qualità artistiche
vengono poco riconosciute e mal ricompensate («E s’io non son Donato,
/ son primo in far paesi, alberi, e sono / pur da quanto chi vende
uova in mercato»). Ha quindi i tratti della superbia d’artista, al pari di
11 Ivi, p. 253.
12 Vi si può leggere in tralice un’allusione di Pascoli ai successi mondani del
D’Annunzio, il «fratello minore e maggiore» con cui al tempo della composizione
del Paulo Ucello permaneva una certa ostilità, prima della riappacificazione avvenuta
in contemporanea con la pubblicazione del poemetto sul «Marzocco», nel
luglio del 1903.
[ 8 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 591
quella che Oderisi da Gubbio sconta nella prima cornice del Purgatorio
dantesco, ma soprattutto è un malumore che nasce dalla propria indigenza,
da una condizione di povertà che gli impedisce di avere un
uccellino tutto per sé:
Ora, al nome di Dio, Paulo di Dono
sta contento, poderi, orti, a vederli:
ma un rosignolo io lo vorrei di buono.
U no di questi picchi o questi merli,
in casa, che ci sia, non che ci paia!
un uccellino vero, uno che sverli,
e mi consoli nella mia vecchiaia. [canto V]
Si tratta di una reazione comprensibile e naturale, ma inadatta al
«dolce frate uccello» che ha promesso la via francescana dell’«ignuda
Povertà tranquilla». Paulo non sembra più contentarsi di contemplare
le cose belle del mondo, ma vuole ora possederle, sia pure in così piccola
parte. E allora cede al peccato, prima nominando invano il nome
di Dio, poi venendo meno nel profondo del cuore alle nozze con la sua
“sposa”. Fonte diretta di questo canto, come di tutta la seconda parte
del poemetto, è ovviamente la letteratura di edificazione francescana,
in primis i Fioretti: lì, nel capitolo XIII, la povertà è detta «preziosissima
e amantissima ed evangelica» ed è paragonata a un «tesoro
ismisurato»,13 perché è via di perfezione e pegno di vita eterna; e va
accolta senza malinconie né tristezze, anzi con pienezza di gioia ed
umiltà, lodando ogni giorno il Signore, dato che, come ha insegnato
san Francesco a frate Leone, la «perfetta letizia» (ovvero la felicità
umana) consiste proprio nel restarle fedeli e nel sostenere con pazienza
ogni ingiuria e infermità «sanza turbazione e sanza mormorazione»14.
Ma la «mormorazione» di Paulo – il lettore del Pascoli lo capisce
subito – non nasce soltanto dal desiderio di un fringuello colorato o di
un usignolo dal bel canto. Come ha notato Emilio Cecchi in un saggio
ormai storico: «Voi sentite bene che frate Paulo, o, meglio, Giovanni
Pascoli, d’altro soffre che di un rosignolo che sverli. Lo sentite oppresso
da una malinconia tutta moderna, scavata in dentro, inappagabile,
chiusa»15. Nella parabola edificante del pittore quattrocentesco (scan-
13 F. d’Assisi, I Fioretti, cit., pp. 812 e 811.
14 Ivi, p. 798.
15 Emilio Cecchi, La poesia di Giovanni Pascoli (1959), in Letteratura italiana del
[ 9 ]
592 marino boaglio
dita in tre momenti: la serenità edenica, l’infrazione del desiderio, infine
il pentimento e la reintegrazione nella serenità originaria) Pascoli
inscrive i propri turbamenti e la propria ansia di consolazione, non
peritandosi affatto di cadere in evidenti anacronismi16 o di reinventare
il personaggio secondo la propria sensibilità inquieta, come ha fatto
anche con altri personaggi del mito e dell’arte. Si pensi soltanto, per
restare agli anni di Paulo Ucello, alla “lettura” personale e stravolta
attuata nei Poemi conviviali: dall’Odisseo dell’Ultimo viaggio, deluso
dalla verifica negativa delle imprese eroiche per cui era vissuto, ad
Achille, che la notte prima di morire sotto Troia lamenta il comune
destino dei mortali (La cetra di Achille), fino a colui che ha saputo davvero
tradurre l’eroismo nelle vie della storia, sottomettendo ogni nemico,
e cioè Alessandro il Macedone, il conquistatore del mondo, che
di fronte all’inadeguatezza di ogni possibile conquista comprende che
«era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: // il sogno
è l’infinita ombra del Vero» (Alexandros). E anche negli altri due
«poemi italici», Rossini e Tolstoi, pur con sorprendente povertà poetica
ed inventiva Pascoli procede nella stessa direzione: nel primo prende
a pretesto una visione notturna del musicista marchigiano per riconciliarsi
con la propria anima, «la Parvoletta», partecipe del divino, nel
secondo riscrive per l’ennesima volta il proprio anelito alla giustizia e
alla religione universale dell’amore, inserendolo entro un comune
orizzonte di patetismo e di rimozione (e proprio la cornice rimotiva,
paradossalmente, finisce poi per essere l’unico vero legame fra i tre
poemetti «italici», non certo le loro pretese motivazioni ideologiche o
sociali).
In Paulo Ucello Pascoli è insieme il Pascoli fanciullo, allegro, curioso
del mondo, che si contenta di poco (della propria poesia, che tutto gli
fa possedere), e il Pascoli che tutto d’un tratto si fa ombroso, insoddisfatto
di un destino di rinunce e di incomprensione. Nel poemetto prevale
ovviamente l’aspetto della consolazione (nella vita le cose sono
state per lui meno semplici…), perché alla «mormorazione» viene dietro
un rapido rimorso, e poi il pentimento, che è tutto interiore, come
Novecento, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, vol. I, Milano, Mondadori,
1972, p. 89.
16 L’affresco del San Tommaso in Mercato Vecchio, citato nel primo canto, fu
secondo il Vasari l’ultimo di Paolo Uccello e mal s’accorda col fatto che il Brunelleschi
fosse ancora in vita e, di più, con il particolare che la costruzione della cupola
di Santa Maria in Fiore (terminata nel 1434) fosse in quegli anni ancora in costruzione.
[ 10 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 593
intima era stata la lagnanza. Ogni cosa avviene nel «cuore» del «vecchio
dipintore», e subito la commozione dello spirito gli si concreta in
visione onirica, attraverso l’improvvisa animazione dell’affresco da
lui dipinto. Che è notazione poetica, ma soprattutto metapoetica, come
ha rilevato Giovanni Barberi Squarotti17. Lungo la bella parete ecco
infatti scendere direttamente san Francesco, il garante della fede di
Paulo e della sua stretta fedeltà al Cristo (per Pascoli è nel francescanesimo
che si è compiutamente tradotto in vita l’insegnamento cristiano,
per cui, non per caso, l’intero poemetto è intessuto su una combinazione
di fonti evangeliche e di fonti francescane). È un sogno, ovviamente.
Un sogno dolcissimo di palingenesi e di purificazione, che
esemplifica appieno la consolazione patetica e l’espunzione rimotiva
del male (che qui assume la forma della «mormorazione» personale
del povero terziario, mentre prima, nell’ordinata e laboriosa Firenze
quattrocentesca, sembrava piuttosto riferirsi al timore della disunione
civile, tenuta lontana ed esorcizzata con «l’Avemaria dal campanil di
Giotto»). Nel sogno “infantile” di un «poverel di Dio» come il «frate
Paulo» pascoliano, san Francesco non può che mostrarsi quale lo dipingeva
la tradizione popolare: negli umili panni del poverello che
loda Dio e benedice il creato, che predica agli uccelli, ammansisce il
lupo feroce e quale definitivo sigillo della sua azione riceve dal Cristo
crocifisso le «cinque stelle bellissime» della croce (le stimmate, cui alludono
le «cinque stelline d’oro» del poemetto)18. Nei versi di Paulo
Ucello, quindi, il santo si immedesima appieno con la propria leggenda,
secondo quanto narrano l’iconografia giottesca e la figurazione
consolatoria dei Fioretti (opera quant’altri mai edificante e rimotiva).
Ed è per questo che Pascoli la fa propria e le conferisce il valore di
exemplum, al di là del tempo e della storia. Qui abbiamo un Medioevo
17 «Si allude, fuor di metafora, alla scoperta nell’artista del “fanciullino”, cioè
di quella peculiare facoltà data come visione profonda sotto la superficie del reale
che rende viva l’arte. La quale allora acquisterà il suo profondo valore […] dalla
rivelazione per via mistico-contemplativa del senso nascosto delle cose» (Giov.
Barberi Squarotti, Introduzione a Paulo Ucello, cit., pp. 407-408).
18 Il Croce ha frainteso, in questo punto come altrove, il poemetto pascoliano,
parlando del santo di Assisi come di «una figurina grottesca, una caricaturina, un
follettino, da divertir bimbi», che predica «con vocaboli e formole tolte di peso ai
Fioretti e gestisce con attucci che mal traducono le pitture trecentesche» (Benedetto
Croce, Il “Paulo Ucello”, «La critica», XVIII, 1920; poi in id, Giovanni Pascoli.
Studio critico, Bari, Laterza, 1920, p. 124). Ma va detto che il saggio crociano, più che
di un argomentato rifiuto critico, è dimostrazione di un’irrimediabile lontananza
di estetica e di gusto.
[ 11 ]
594 marino boaglio
artificioso e di maniera, senza le guerre tra Perugia e Assisi, senza gli
screzi tra «il fi di Pietro Bernardone» e il padre mercante, senza nemmeno
un urto tra poveri e ricchi. Manca anche la sostanza eroica e
drammatica del primo francescanesimo (i giovani benestanti che si
spogliano dei panni preziosi, si fanno interdire dai padri scandalizzati
e dalle autorità politico-religiose e vanno gioiosi a servire i lebbrosi),
come pure i durissimi scontri entro l’Ordine appena formato tra i conventuali
e gli spirituali sul modo di seguire Madonna Povertà, il vero
«retaggio» del santo. Al Francesco d’Assisi storico Pascoli sostituisce
una figurina edulcorata e consolatoria del «poverello di Dio», tradizionale
nella raffigurazione, nei gesti («discendea bel bello», «con un
gesto pio / gli pose al petto sopra il cuor la mano») e negli ammonimenti
(«O frate Paulo cattivello!», «O Paulo uccello, sii come i foresti
/ fratelli tuoi! Ché chi non ha, non pecca») – una versione, va detto,
avvalorata nella letteratura fin de siècle dalla rilettura estetizzante e
mistico-ascetica di certo diffuso decadentismo.
La lotta contro il male (in questo caso la «mormorazione» di «frate
uccello») è breve e quasi indolore. Il santo scende lungo la parete affrescata
senza neppure sfiorare il suolo («Ecco e dal colle tra le viti e i
meli / Santo Francesco discendea bel bello / sull’erba senza ripiegar
gli steli») e sconfigge il nemico con le armi della sua leggenda. Siamo
portati direttamente nell’atmosfera dei Fioretti, nelle cui pagine edificanti
egli conosce tutti i segreti dei suoi confratelli e converte i cuori
più duri, anche quelli dei ladroni che infestano Borgo San Sepolcro,
con la dolcezza piuttosto che «con crudeli riprensioni». Anche in Paulo
Ucello il santo si presenta «scalzo, e vestito di bigello», cioè dell’umile
saio di panno bigio, la veste «color foglia secca» che in terra è negletta
e vile, ma che in cielo risplenderà della gloria di Dio19. Le sue
parole sono esemplari come la sua vita e hanno sempre al centro l’ammonimento
alla povertà e il lieto paragone con i «foresti / fratelli»
alati. Prima fra tutti la cara «lodoletta», l’allodola, la «sirocchia santa»
che nell’opera del Pascoli occupa stabilmente una posizione di preminenza
quale simbolo della poesia che trasfigura nel canto la realtà
umile delle cose: in Myricae rimanda all’ispirazione poetica («Frulla
19 Si veda il capo II della prima Regola, redatta nel 1221: i frati «che hanno già
promesso obbedienza, abbiano una sola tonaca con il cappuccio e un’altra senza
cappuccio, se sarà necessario, e il cingolo e i calzoni. // E tutti i frati portino vesti
umili e sia loro concesso di rattopparle con stoffa di sacco e di altre pezze […] né
cerchino vesti preziose in questo mondo perché possano avere una veste nel regno
dei cieli» (Regola non bollata, in F. d’Assisi, Gli scritti e la leggenda, cit., p. 74).
[ 12 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 595
un tratto l’idea nell’aria immota; / canta nel cielo», Il cacciatore); nella
lirica omonima dei Nuovi poemetti rappresenta la felicità che a tutti è
concessa dalla gioia del dovere compiuto e dall’armonia «in mezzo al
grande ciel sereno»; in Odi e Inni invita il poeta ad innalzarsi con la
poesia «libero e solo» fino a lei e al suo canto supremo, oltre le insidie
del «volo / nero» del falco (La lodola); e qui, per l’indicazione stessa
del santo amico degli uccelli, assicura il trionfo dei beni spirituali su
quelli materiali attraverso la beatitudine della contemplazione mistica
(e di quella poetica, che per il «fanciullino» pascoliano le è prossima).
San Francesco scorge nel cuore di Paulo l’eco di una sottile «mormorazione
», il desiderio che lo fa cadere: un semplice «tremolio, /
d’ale d’uccello» (e si noti come anche in questo poemetto, lontano dal
simbolismo delle raccolte maggiori, tornino i più caratteristici stilemi
innovatori del Pascoli, dal frequentativo in «–io» a quel particolare
sintagma, tipico dell’impressionismo, in cui il rapporto tra sostanza
ed epiteto si inverte e il sostantivo finisce per determinare lui la qualità,
come se fosse un semplice epiteto: questo a rimarcare la sostanziale
continuità del linguaggio pascoliano, al di là delle svolte vere o presunte).
E allora lo ammonisce dolcemente: «O frate Paulo cattivello!»,
richiamandolo alla povertà e alla purezza di spirito. L’eredità (il «retaggio
») del santo è la medesima per i suoi frati e per i liberi uccelli del
cielo: è l’assoluta fedeltà a Madonna Povertà, che sola può portare alla
libertà, all’armonia con le altre creature e con la natura, e quindi alla
gioia del canto e della poesia:
A’ miei frati minori il mio retaggio
lascia! la dolce vita solitaria,
i monti, la celluzza sur un faggio,
il chiostro con la gran cupola d’aria! [canto VII]
La povertà dunque non è miseria, ma vera ricchezza, ed è pace,
perché in essa lo spirito si appaga, ed è principio d’amore, in quanto
l’indigenza del vecchio pittore diventa la prima garanzia del suo rispetto
verso la libertà altrui, dal momento che gli impedisce di rinchiudere
in gabbia un uccellino e quindi di peccare. Perché se è vero
che il suo desiderio è piccolo, è altrettanto vero che le conseguenze
sull’alato prigioniero sarebbero drammatiche: «È poco a te quel che
desii, ma tanto / per l’uccellino che tu vuoi prigione / perché gioia a
te faccia del suo pianto!». Contro la tentazione c’è solo la preghiera,
quell’Angelus che il vecchio terziario aveva dimenticato di dire al momento
della «mormorazione» e che il santo partendosi e «lontanando»
[ 13 ]
596 marino boaglio
lo invita a recitare («Di’ Ave / Maria»). È la stessa voce di pietà e di
dolcezza con cui la madre del poeta, morta e dunque anch’ella in sogno,
si era accoratamente rivolta al suo «Zvanî», prossimo al suicidio,
per consolarlo della malvagità degli uomini e raccomandargli di dire
le preghiere («Oh! la terra, com’è cattiva! /la terra, che amari bocconi!
/ Ma voleva dirmi, io capiva: / – No… no… Di’ le devozioni!», La
voce), ma in una disposizione d’animo del tutto rovesciata: nella lirica
dei Canti di Castelvecchio la madre era una figura di strazio e di rimorso,
un vero e proprio “mostro” dell’inconscio (parlava con «voce stanca,
voce smarrita», la voce «d’una accorsa anelante», e si esprimeva a
fatica, perché «piena ha la bocca di terra»); qui invece le parole di esortazione
del santo si risolvono in un sussurro lieve, suadente, in un
«murmure» sommesso, in conformità con l’intento rassicurante e consolatorio
della visione e dell’intero poemetto.
A questo punto della parabola, implorato e ottenuto il perdono,
ovvero riconquistata la propria serenità di spirito attraverso la mediazione
del santo, Paulo può davvero capire il senso più profondo del
suo soprannome, che dal puro valore artistico viene trasportato al significato
mistico: «o dolce frate uccello!». Dall’interpretazione comune,
fissata nelle pagine del Vasari («perché si dilettò più degli uccelli
che d’altro, fu cognominato Paolo Uccelli»)20 si passa a un senso più
alto, spirituale, che è anche indice di una nuova responsabilità e di un
più impegnativo progetto di vita: il pittore fiorentino è davvero fratello
di san Francesco, come i «foresti / fratelli» suoi dell’aria, e quindi è
un artefice privilegiato delle lodi che le creature levano – gli uccelli
con il volo e il canto, lui con la sua «bella maniera» pittorica – al comune
Creatore.
La conferma della veridicità delle parole del santo viene dalla sùbita
vivificazione epifanica della parete affrescata. Tutti gli uccelli dipinti
si animano d’improvviso e si precipitano verso san Francesco, riconoscendone
l’amorosa signoria, mentre lui, prendendo congedo dal
vecchio terziario rinsavito, sparge intorno a sé «a mo’ di pio seminator
» le «brice» cadute dalla mensa degli angeli (con richiamo a Giotto
e alle Mistiche nozze francescane), ovvero le briciole di pace, di amore
e di sapienza che saziano i cuori e gli spiriti. I fratelli alati ringraziano
il loro santo perché li riconosce come creature di Dio e li benedice nel-
20 G. Vasari, Paolo Uccello pittore fiorentino, cit., p. 255. Un’altra tradizione spiega
il soprannome con l’ipotesi che Paolo di Dono, quale aiuto del Ghiberti, abbia
atteso alla raffigurazione dei volatili dell’incorniciatura della prima porta del Battistero
di Firenze.
[ 14 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 597
la loro immensa varietà e numero: essi vogliono abitare il cielo, «il
chiostro con la gran cupola d’aria», non la gabbia, e amano l’inno libero,
gioioso, aperto, non il lamentoso singulto della prigionia. Ancora
una volta, i versi pascoliani vanno letti in chiave metapoetica, come
discorso sul fare poesia, in quanto il destino dei liberi uccelli è speculare
al destino del vero artista, che come la «lodoletta» si contenta di
poco («becca // due grani in terra») e trova il suo bene più certo nella
felicità dell’atto creativo («e vola in cielo, e canta»), un atto con cui a
tutti dona gratuitamente bellezza e gioia, senza arrecare sofferenza ad
alcuno.
È proprio l’immensa varietà degli uccelli ad arricchire la “favola”
di Paulo e a costituire la trama del poemetto, scandendone i momenti
successivi: prima il ciuffolotto in gabbia al mercato, con il cappuccio
nero come «un fraticino di San Marco», che fa sorgere nel pittore il
desiderio del possesso, e poi quelli dipinti sulla parete del povero
«abituro», ovvero il suo “risarcimento” artistico, che nel canto III vengono
a formare un vero catalogo ornitologico, con le loro diverse specie,
i loro differenti ambienti di vita (la «macchia», le «stipe di sodaglie
», i «falaschi») e persino i particolari più minuti dei loro corpi
(«ciuffo», «cresta», «collare»). È un trionfo di suoni, di voli e di colori.
Alla maniera degli antichi pittori che in una sola tavola si studiavano
di convogliare le bellezze più varie, Pascoli accosta i suoi uccelli in
funzione essenzialmente fonica e decorativa, sublimandoli via via in
puri suoni, fino alla clausola finale costituita di soli nomi: «Sicuri sulle
stipe di sodaglie, / tranquilli su’ falaschi di paduli, / stavano rosignoli,
forapaglie, // ciocie, verle, luì, fife, cuculi». La loro presenza anima
anche stilisticamente la pagina, tutta intessuta di iterazioni, di parallelismi
e di allitterazioni, conferendole quell’esultanza per la bellezza
della natura (nei colori dei piumaggi non manca neppure il richiamo
ai quattro elementi fondamentali della fisica antica: l’acqua, il fuoco, la
terra e l’aria) che il poeta andava cercando nel suo sogno rimotivo:
E uccelli, uccelli, uccelli, che il buon uomo
via via vedeva, e non potea comprare:
per terra, in acqua, presso un fiore o un pomo:
col ciuffo, con la cresta, col collare:
uccelli usi alla macchia, usi alla valle:
scesi dal monte, reduci dal mare:
con l’ali azzurre, rosse, verdi, gialle:
di neve, fuoco, terra, aria, le piume:
con entro il becco pippoli o farfalle. [canto III]
[ 15 ]
598 marino boaglio
La realtà ornitologica ha però anche un fine parenetico e morale,
dato che in Paulo Ucello, come nei bestiari medievali, ogni volatile assume
un suo preciso significato di emblema. Le gru fuggono le «brume
» dell’inverno (della malinconia, del freddo dei cuori), i cigni «come
bianche navi» fendono l’acqua nobili e puri, le rondini tornano a
primavera «alle lor note travi», al nido dei loro affetti. E così fa la sua
apparizione nel poemetto anche il nido, che sarà richiamato in allusione
anche più avanti, al canto IX, dove tra gli uccelli più prossimi a san
Francesco sono nominate per «la dolce voce mesta» le «fedeli tortole
del Greccio». Il pensiero va immediatamente a un passo molto noto
dei Fioretti, in cui il santo ammira le sorelle tortore per la loro mansuetudine,
purezza e fedeltà e le benedice davanti ai suoi frati: «O sirocchie
mie tortore, semplici, innocenti e caste, perché vi lasciate pigliare?
or è ch’io vi voglio scampare dalla morte, e farovvi i nidi, acciò che voi
facciate frutto e multiplichiate, secondo il comandamento di Dio, vostro
creatore»21. Il nido è figura centrale in Pascoli, sia come dimora
propria dei volatili, sia soprattutto, in forma traslata, come casa, culla,
rapporto intimo tra madre e figlio, viluppo oscuro di affetti e di sangue.
È per lo più simbolo della paura dell’esistenza, proiezione dell’incapacità
di vivere, luogo regressivo del calore prenatale, “protezione”
ambigua dall’età adulta e dal passo devastante della storia; denuncia
cioè una situazione di profonda sofferenza esistenziale, tanto da rivelarsi
nel poemetto Il giorno dei morti (posto ad introduzione di Myricae)
un vero e proprio nido per la morte: «O casa di mia gente, unica e
mesta, / o casa di mio padre, unica e muta, / dove l’inonda e muove
la tempesta; // o camposanto…»22. Quello delle tortore del Greccio è
invece un nido per la vita, fecondo, festoso, benedetto da Dio, che
moltiplica i suoi piccoli e canta le lodi al Creatore, in piena concordia
con i frati che lo ospitano (a ulteriore riprova che nei versi di Paulo
Ucello opera una primaria intenzione sublimante e rimotiva delle più
inquietanti figure poetiche pascoliane).
Un’altra significativa presenza ornitologica è quella del fringuello,
che nel canto I Paulo ammira voglioso al mercato e che poi – attraverso
la metafora dell’uccello accecato – diventa nelle parole ammonitrici
di san Francesco il suo “doppio” di peccatore, il suo emblema morale:
21 F. d’Assisi, I Fioretti, cit., p. 835.
22 Per la trattazione del motivo funebre, connesso agli affetti familiari, si rimanda
a Marino Boaglio, Il calendario funebre di “Myricae” (Dai sonetti di “Anniversario”
a “X Agosto”), «Critica letteraria», 2001, n. 111, pp. 355-375; e a Un nido per
la morte. Pascoli e “Il giorno dei morti”, «Terzo millennio», II (2010), n. 2, pp. 57-67.
[ 16 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 599
«Sei come uccello ch’uomini crudeli / hanno accecato, o dolce frate
uccello! / E cerchi il sole, e ne son pieni i cieli, // e cerchi un chicco, e
pieno è l’alberello». Il pittore è accecato dalla «mormorazione», per
cui non discerne il lume della grazia divina (il sole che splende per
tutti, indistintamente) e non capisce che la vera ricchezza è in un cuore
libero dal voler possedere, aperto alla provvidenza di Dio. Per Pascoli,
il messaggio più profondo del francescanesimo risiede proprio
qui, nella povertà gioiosa, e insieme sta nel sogno irenico di un’armonia
universale, quale si può desumere da un altro motivo ornitologico
presente nella parete affrescata: una «bruna aquila» che sembra sul
punto di calare rapace sulle sue prede. Ma tutto poi si rivela soltanto
un abile gioco di prospettiva, che ingrandisce e rimpicciolisce ad arte
gli spazi e le figure («Ella era lì, pur così lungi!»), di modo che, in realtà,
l’aquila rimane lontanissima nel cielo, fissata eternamente nel suo
«gran volo», mentre in primo piano le tortore e le quaglie, sue possibili
vittime, stanno al sicuro nei loro nidi. Il gesto predatore è congelato
sulla parete dipinta: «E tu, bruna aquila, a piombo / dal cielo in vano
sopra lor calavi». Il pericolo semmai sarebbe altrove, nella vita reale,
ma dal poemetto pascoliano, già lo si è visto, la vita è rigorosamente
tenuta fuori, sostituita da una sua proiezione edulcorata, sublimata,
depurata del male e della morte.
Lo dimostra definitivamente proprio la funzione che vi assumono
gli uccelli, presenze tra le più decisive (e ambigue) dell’opera del Pascoli.
Come ha scritto Giorgio Barberi Squarotti, in Paulo Ucello «la
funzione inquietante che l’elencazione ornitologica ha nella poesia pascoliana
precedente, sia sul piano della relazione di messaggi incomprensibili
ma fondamentali, sia come enigmatizzazione della lingua,
si risolve nel semplice gioco della meraviglia prospettica, insieme con
l’insistente serie delle opposizioni delle forme e delle apparenze delle
cose, col gusto dell’accumulo puramente verbale»23. Qui essi sono i
liberi abitatori dell’aria, gli strumenti “naturali” della consolazione, i
portatori al livello più ingenuo (e quindi più valido, se si presta ascolto
al «fanciullino») della bellezza e del canto, mentre in Myricae, nei
Canti di Castelvecchio, ma anche in più luoghi dei Poemi conviviali e di
Odi e Inni assumono invece un diverso rilievo, enigmatico ed inquietante.
Si pensi, uno per tutti, a un vero capolavoro di Myricae come La
civetta, dove l’uccello notturno è colto attraverso sottili catene analogi-
23 Giorgio Barberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Messina-
Firenze, D’Anna, 19762, p. 311.
[ 17 ]
600 marino boaglio
che e sinestetiche quale simbolo del mistero e della morte che insidiano
la povera vita del «nido». Tutto vi è appena accennato, evocato,
alluso per via di metafore oscure, e queste a loro volta privano verbi e
sostantivi di ogni saldezza di azione («svolò», «scivolò nel lume / pallido
e muto», «sussulta») e di sostanza («orma sognata d’un volar di
piume», «ali molli come fiato»), privilegiando al contrario il procedimento
fonosimbolico e allitterante («ombre»-«orma», «erti cipressi»),
per cui davvero, alla fine, il «grido» acuto della civetta, la sua «stridula
risata / di fattucchiera», diventa la voce stessa della morte. Niente
di tutto questo avviene in Paulo Ucello, che nella sua azione rimotiva
di ogni allusione funebre e luttuosa toglie di mezzo gli uccelli notturni
e le presenze ctonie, per indirizzare l’attenzione di preferenza sugli
uccellini più graziosi e canori e colorati: le «forapaglie», i «luì», le
averle e le «fife» (le pavoncelle, dal verde manto cangiante, con il bel
pileo nero che sostiene un ciuffo di piume sottili).
Lo stesso procedimento, del resto, è attuato anche nei riguardi di
un’altra tipica presenza inquietante del mondo pascoliano, le campane,
anch’esse elemento aereo e dunque facilmente assimilabili, per il
valore simbolico del loro suono, alle voci oracolari degli uccelli. In
Alba festiva, che di fatto apre Myricae, i tre momenti del loro squillare
sono rappresentativi della struttura della raccolta: prima si sente la
«voce d’oro», in allusione al sogno d’amore, poi quella «argentina»,
che chiama i fedeli alla messa, ma infine a dominare è il suono cupo
del campanone, che rinvia alla morte (simbolicamente: alla domanda
degli affetti più cari e alle preghiere non può che rispondere la «voce
della tomba», il nulla). E nella strofa conclusiva di La mia sera, nei Canti
di Castelvecchio, le campane si fanno tramite privilegiato di un ritorno
regressivo all’infanzia, alla madre, al mondo pre-natale, ovvero
all’annullamento di ogni vita e azione, bisbigliando in cantilenante
sequela il loro suono enigmatico e onomatopeico («Don… Don… E mi
dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano,
Dormi! / là, voci di tenebra azzurra…»). Ebbene, di simili inquietanti
simbolizzazioni non v’è traccia nella favola edificante di Paulo
Ucello, che è indirizzata a tutt’altre significazioni, ireniche e consolanti,
e quindi può contemplare al più la voce rasserenante di un convento,
per di più dipinto e non reale: «Venìa quel suono fievole e lontano
/ di squilla, lì dai monti, da un convento / che Paulo vi avea messo di
sua mano». Le campane, come gli uccelli, vi hanno dunque una funzione
decorativa ed estetica, oppure sublimante e consolatrice, e quindi
rimotiva, ma sempre comunque di rassicurazione, di conferma della
realtà, di cancellazione dei conflitti e di ogni possibile turbamento.
[ 18 ]
il poemetto paulo ucello di giovanni pascoli 601
L’ultima voce, nel poemetto pascoliano, spetta non per caso a un
altro volatile, il più melodioso di tutti: l’usignolo, che si mette a cantare
dopo che san Francesco ha lasciato la parete dipinta. È l’uccello che
nell’estrema varietà dei gorgheggi sa imitare il suono di ogni elemento
di natura, dal sottile stormire delle foglie al fruscio del grano al
gorgoglio di un rivo, suscitando ammirazione e meraviglia. Il sublime
cantore della notte ridona la voce alle cose (la voce e i suoi diversi significati:
di nostalgia, di pace, di malinconia), ne scopre lo stupore
segreto e le risonanze meno attese, proprio come il poeta, che nella sua
vergine sensibilità «parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole,
alle stelle» e «popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei», temperando
la felicità e la sventura e «facendone due cose ugualmente soavi al ricordo
» (Il fanciullino)24. In gara con il canto dell’usignolo, il poeta-fanciullino
non solo si fa voce primigenia della Natura, ma entra in competizione
con la musica (imitandone i toni, i timbri, i suoni), come
prima aveva gareggiato con la pittura (descrivendo la parete dipinta
da Paulo: i suoi colori, la sua disposizione delle forme e dei volumi).
D’altro canto, la struttura del poemetto pascoliano disegna una forma
chiusa, perfetta, costruita sul modulo ternario,25 con precise misure
accostabili a una sinfonia musicale o a un polittico rinascimentale, dove
la disposizione ordinata delle terzine incatenate ha la stessa funzione
di un accostamento calcolato di suoni o di campi di colore.
Nell’ultimo canto, Paulo dolcemente si assopisce, sotto la luce soffusa
della luna, cullato dal canto multiforme dell’usignolo (che conosce
il “pianto” dell’elegia, non meno del «trillo alto» dell’inno), finalmente
pacificato con sé stesso e con i «frati» uccelli:
E poi ne pianse al lume della luna,
bianca sul greto, tremula sul prato;
che alluminava nella stanza bruna
il vecchio dipintore addormentato. [canto X]
24 G. Pascoli, Il fanciullino (1903), ora in Saggi di critica e di estetica, a cura di
Pier Luigi Cerisola, Milano, Vita e Pensiero, 1980, p. 106.
25 Il poemetto consta di dieci brevi canti di terzine, con il verso di chiusura alla
maniera dantesca. All’interno, i canti si situano secondo un rigoroso modulo ternario:
il primo gruppo di tre ritrae la vita fiorentina e l’arte di Paulo, il secondo
gruppo (i canti IV-VI) presenta il dramma interiore del pittore, il terzo (canti VIIIX)
descrive il suo incontro ristoratore con san Francesco, mentre il canto X rimane
a sé, con la melodia dell’usignolo e l’acquietamento di Paulo, sigillando la narrazione
dei gruppi precedenti così come il verso isolato al termine di ogni canto sigilla
il ritmo delle terzine.
[ 19 ]
602 marino boaglio
Il sonno del vecchio terziario non conosce turbamenti o inquietudini,
perché è pegno della riconquistata serenità di spirito ed è sicura
promessa di un prossimo sonno definitivo, nella pace perfetta della
morte26. Una morte serena, però, tranquilla e rasserenante, quale naturale
epilogo di una vita operosa e pura (non la «notte di tenebra» che
Elena Salibra vi ha visto, per analogia con la selva dantesca)27. Infine
Paulo ha ritrovato la pace dello spirito nella riscoperta della povertà e
nella pratica dell’amore fraterno: non ha più da scontrarsi con la realtà,
con la storia, con il male, perché ne è definitivamente protetto dalla
leggenda edificante di santo Francesco (ovvero dal carattere sublimante
e rimotivo del “francescanesimo” del Pascoli).
In questa direzione, il poemetto sul pittore fiorentino è davvero un
testo di svolta nell’opera pascoliana: quasi una ritrattazione dei testi
poetici maggiori, più compromessi con le tensioni del profondo, ovvero
una tarda palinodia che si aggiunge all’esplicita rimozione della
storia operata in Odi e Inni e alla vera e propria “fuga in Arcadia” vagheggiata
nei poemi dell’ultimo periodo (Poemi del Risorgimento, Inno
a Roma e Inno a Torino), che solo una lettura superficiale può scambiare
per poesia politica e civile. Ma allora Paulo Ucello va decifrato anche in
filigrana, come un testo “allo specchio”, in modo da scorgervi per litote
quelle sottili inquietudini e quei taciuti turbamenti che pure gli sono
sottesi.
Marino Boaglio
Pinerolo (To)
26 Per Giovanni Barberi Squarotti, invece, la chiusa sull’immagine del «dipintore
addormentato» chiarisce che «tutto si è svolto nella dimensione del sogno»,
svelando che il messaggio profondo del poemetto risiede nell’«antitesi pascoliana
fra sogno e realtà, dove al sogno è associata la profondità della percezione artistica
e poetica sotto il velo opaco della realtà oggettiva» (Giov. Barberi Squarotti, Introduzione
a “Paulo Ucello”, cit., p. 428).
27 «L’usignolo trasforma il suo “trillo alto” in un pianto sommesso, perché la
luna, pur presente in tutta la sua potenza luminosa, non riesce a rischiarare l’oscurità
della stanza di Paulo. Il riflesso bianco-tremulo non scalfisce la penombra dello
spazio chiuso, permane il “bruno” di una notte di tenebra» (E. Salibra, Pascoli e
Psyche, cit., p. 146).
[ 20 ]
Antonio Iurilli, Quinto Orazio Flacco.
Annali delle edizioni a stampa. Secoli
XV-XVIII, 2 tomi, Ginevra, Droz,
2017, pp. 1538 con numerose ill.
Il grande poeta venosino Orazio
ha goduto di una straordinaria fortuna
nella storia della letteratura antica
e moderna, diventando modello di
eleganza ed equilibrio formale soprattutto
per la nostra res publica litteraria,
gelosa come poche altre dei canoni
e delle regole della tradizione
classicista e perciò disposta solo in
qualche stagione a cedere alle lusinghe
della modernità e alle “mode”
d’Oltralpe. Delle numerosissime edizioni
oraziane pubblicate in tutto il
mondo dal Quattrocento al Settecento
si occupa Antonio Iurilli in due
corposi tomi sorretti da un profondo
gusto per l’erudizione e per la ricerca
bibliografica. Una laboriosa, paziente
ricerca che ha tra l’altro ricevuto
dalla “Weiss Brown Foundation-
Newberry Library” di Chicago un
consistente premio in denaro destinato
a cofinanziarne la pubblicazione
per i tipi della Casa editrice ginevrina
Droz.
Si tratta di un’opera che da un lato
appare come prosecuzione e approfondimento
di un testo pubblicato
diversi anni or sono (Orazio nella letteratura
italiana, Vecchiarelli 2004),
dall’altro come indagine parallela ad
altri studi di carattere storico-letterario
e filologico condotti da Iurilli sulla
cultura umanistico-rinascimentale
italiana ed europea e sulla fortuna
editoriale di alcuni classici come Virgilio
e Properzio in età moderna. Ma
appare soprattutto come una vera e
propria “sfida” nei confronti di una
pur agguerrita, accreditata tradizione
bibliografica ottocentesca che aveva
finito per “gettare le armi” di
fronte a una simile impresa, ritenendola
pressoché impossibile per le innumerevoli
edizioni dedicate al poeta
latino.
L’autore invece, avvalendosi delle
più aggiornate metodologie della ricerca
bibliografica, ricostruisce gli
annali delle opere a stampa oraziane
conservate in numerose biblioteche o
annoverate nei repertori bio-bibliografici:
il primo tomo raccoglie le
schede di oltre duemilatrecento edizioni
arricchite, per tutte quelle di
cui è stato possibile ritrovare almeno
un esemplare, da interessanti e utili
note esplicative di carattere bibliologico,
filologico ecc.; il secondo comprende
una nutrita serie di indici (oltre
a quello generale dei nomi di per-
Recensioni
604 recensioni
sona e di luogo: fonti bibliografiche,
catalografiche e biografiche; census
delle biblioteche; autori secondari;
editori, librai, tipografi; luoghi di
stampa; autori delle imitazioni, delle
parafrasi, delle parodie, delle traduzioni
e delle edizioni musicali; illustrazioni)
che facilitano la consultazione
dell’opera da parte degli studiosi.
E per evitare i limiti di un approccio
puramente, strettamente bibliografico
che avrebbe finito per trasformare
il lavoro in un elenco più o meno
lungo e ragionato, Iurilli in
un’ampia introduzione di carattere
storico-culturale ripercorre la fortuna
del pensiero e dell’opera di Orazio
lungo un arco di tempo compreso
fra l’introduzione della stampa a caratteri
mobili e la fine del secolo dei
Lumi. Si tratta, in realtà, di pagine
che attraverso l’esame di aspetti e
problemi legati in gran parte alla storia
delle biblioteche, delle istituzioni
culturali e dell’operosità di tipografi
ed editori ricostruiscono momenti e
protagonisti importanti non solo
dell’attività letteraria, ma anche di
tutte quelle altre espressioni ad essa
più o meno direttamente legate: si
pensi, per es., al ruolo svolto da incisori
e artisti, commentatori e traduttori,
parodisti e moralizzatori nonché
da musicisti e compositori impegnati
a far rivivere l’opera di Orazio
nelle corti rinascimentali, nelle accademie,
nelle scuole laiche ed ecclesiastiche,
nei salotti galanti della società
di Antico Regime.
La correttezza e la coerenza bibliografica
della ricerca sono legittimate
dalle pagine che precedono immediatamente
le schede nelle quali l’autore
spiega le ragioni e gli obiettivi
dell’approccio metodologico scelto
che da un lato non tradisce i più noti
standard descrittivi internazionali,
dall’altro intende favorire una lettura
più ampia e per certi versi intertestuale
dei dati raccolti. Si tratta, precisa
lo studioso, di una «bibliografia
repertoriale-enumerativa, secondo
un ordine cronologico ascendente»
(dal 1465 al 1800) che comprende, oltre
ad un cospicuo numero di studi
critici importanti e fondamentali per
la storia dell’esegesi oraziana, «i testi
in lingua originale, le traduzioni, le
antologie, le parodie, le parafrasi, i
rifacimenti, le versioni musicali, le
trasposizioni verbo-figurative». Per
quanto riguarda invece i criteri di registrazione,
l’autore afferma di aver
catalogato le opere attraverso l’esame
autoptico e la consultazione di
bibliografie primarie accreditate e
ampiamente affidabili; inoltre, pur
avendo adottato formule citazionali
omogenee e standardizzate a livello
internazionale (norma ISO 690-1975),
in virtù della finalità essenzialmente
letteraria dell’opera ha evitato «la
descrizione iconica (o diplomatica o
facsimilare) degli individui bibliografici,
imprescindibile per lavori di
interesse bibliologico o di impianto
filologico-testuale». Una scelta opportuna
e ampiamente condivisibile
sia perché rinvia al principio, per così
dire, oraziano dell’“esatta misura”
sia perché di fatto consente di intrecciare
l’analisi delle forme letterarie,
artistiche e musicali con la storia delle
idee e delle istituzioni culturali,
del libro a stampa e dell’editoria.
L’opera è infine impreziosita da un
ricco apparato iconografico (frontespizi,
marche tipografiche, fregi, finalini,
incisioni e note di possesso)
che offre un’idea ancora più precisa
della grande, straordinaria fortuna
recensioni 605
della poetica oraziana, destinata a
sopravvivere ben oltre la fine del
mondo antico e, come dimostra ampiamente
la ricchezza di questi due
tomi, a contagiare con i princìpi
dell’ut pictura poesis, dell’utile dulci e
dell’aurea mediocritas diverse generazioni
di scrittori convinti che per lasciare
ai posteri “monumenti più duraturi
del bronzo” occorreva attraversare
la modernità guardando ancora
al pensiero e ai versi del poeta di
Venosa come a modelli sempre attuali
di sapienza e di bellezza.
Pietro Sisto
«Diverse voci fanno dolci note». Il Dante
di Aldo Vallone, a cura di Vincenzo
Caputo, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 2017, pp. 192.
La memoria di Aldo Vallone (1916-
2002) è ancora viva in ambiente accademico.
Ne sono prova le iniziative
volte a ricordare l’attività del saggista
salentino, che hanno coinvolto le
Università di Lecce, Bari e Napoli a
dieci anni dalla sua scomparsa. In tal
senso, l’ateneo federiciano, con la Società
Napoletana di Storia Patria e la
Società Nazionale di Scienze Lettere
e Arti, si è fatto promotore del convegno
«Diverse voci fanno dolci note». Il
Dante di Aldo Vallone (16-17 aprile
2013), a cui hanno partecipato studiosi
e allievi, ricordando uno dei
maggiori dantisti del Novecento. Ciò
che emerge dalle “diverse voci” intervenute
per l’occasione è l’impronta
storico-geografica dell’attività di
Vallone. In particolare, come sottolinea
Vincenzo Caputo nella Premessa
al volume, il suo contributo alla critica
dantesca durante il magistero alla
Federico II (a partire dal 1972) coincide
«con un intensificarsi della già feconda
attività scientifica lungo una
precisa direzione di “sintesi” e “organicità”
rispetto a quanto si va scrivendo
e a quanto si è già scritto» (p.
6). Altro elemento caratterizzante è il
sodalizio crociano ricordato da Giancarlo
Vallone (Il ricordo di Aldo Vallone):
«Del Croce si sentiva allievo, e
grande amico» (p. 20). In questo modo
si pongono in limine i fattori che
delineano la fisionomia del saggista
e lettore salentino, dialetticamente
inserita nell’ambiente critico del secondo
Novecento.
A tracciarne un profilo accademico
e umano è Pasquale Sabbatino (Il
dantismo di Aldo Vallone negli anni della
«bella scola» federiciana (con lettera
inedita di Contini)), ricordando legami
con studiosi come Salvatore Battaglia,
Giorgio Petrocchi e Gianfranco
Contini, di cui, inoltre, si pubblica
una lettera inedita indirizzata allo
stesso Vallone (pp. 104-105). Mettendo
in risalto il rapporto che intercorre
tra scuola toscana e napoletana,
scrive infatti Sabbatino: «[…] le vite
parallele di Contini e Vallone, del filologo
che tenne scuola a Firenze e
del critico che tenne scuola a Napoli,
fanno toccare con mano che la storia
del dantismo novecentesco passa attraverso
la geografia delle scuole e il
confronto tra studiosi e metodologie
» (p. 106).
Sulla letteratura critica dantesca si
sofferma Corrado Calenda (Il Dante
della Vallardi tra storia della critica e
prospettive esegetiche), ponendo l’attenzione
sul volume del 1971 rievocato
nel titolo dell’intervento. Egli,
riflettendo sull’evidenza della figura
poetica rispetto a quella filosofica di
Dante, rileva «l’ispirazione in senso
606 recensioni
lato “umanista” del dantismo di Aldo
Vallone» (p. 70). Gli interventi,
poi, di Valter Leonardo Puccetti (Vallone
lettore delle Rime dantesche) e
Marcello Ciccuto (Sistemazione critica
di due canzoni dantesche: Voi che ’ntendendo
e Tre donne intorno al cor: la
lettura interna di Aldo Vallone) riflettono
sullo sviluppo del pensiero dantesco:
Puccetti, ripercorrendo l’idea di
Vallone che vede nella compresenza
di temi tra Vita nuova e Rime un importante
nodo poetico, rileva nell’esegesi
della lirica un andamento
«processuale, [che] muove dalla mira
di cogliere uno svolgimento unitario
» (p. 24); Ciccuto sottolinea, poi,
l’idea del critico salentino per cui le
varie fasi della riflessione del poeta si
arricchiscono di esperienze concrete:
«Viene figurata in questo contesto
[…] la necessità razionale che Beatrice
ha della donna gentile […] di spinta
alla conoscenza del mondo, incarnata
a questo punto e finalmente
nella figurazione della Filosofia» (p.
39). Richiamandosi al rapporto che
intercorre tra poesia e realtà, Leonardo
Sebastio (Lo spirito laico in/di Dante)
si concentra sulla componente
laica, osservata da Vallone, nell’opera
dantesca. Identificando “vita” con
“ragione”, Sebastio sottolinea, infatti,
come «lo spirito laico, che permea
la produzione dantesca, riviene dal
turbinoso contemporaneo contesto
storico» (p. 93).
Sul versante filologico si colloca
l’intervento di Rosario Coluccia (Filologia
e linguistica negli scritti di Aldo
Vallone), il quale sostiene, a partire
dalle note di Vallone all’edizione della
Commedia allestita da Giorgio Petrocchi,
che il testo del poema necessiti
di un’approfondita analisi dei
caratteri morfo-sintattici, tenendo
conto «dell’intero tesoro lessicale
della tradizione» (p. 62). Sull’idea totalizzante
dell’esperienza umana e
poetica dell’uomo dantesco si soffermano
Ruggiero Stefanelli (Il Dante di
Vallone; uno studio, una passione) e Luigi
Scorrano (Fra tradizione e novità: il
“dialogato” del Commento). Stefanelli
sottolinea come Vallone tenda a saldare
i modelli ideali danteschi, dalla
chiesa primitiva alla classicità, fino a
vivere dall’interno in merito alla sue
opere (dalla Vita nuova alla Commedia)
«il percorso strutturale e a fruire
sempre della sua godibilità esteticostilistica
» (p. 83); Scorrano, poi, rievocando
il commento alle cantiche
dantesche a cui lavorò a quattro mani
con Vallone stesso dal 1985 al 1988,
si sofferma sull’idea per cui il messaggio
della Commedia, mediato dalla
voce esemplare dei defunti, vada inteso
come una guida finalizzata a «ricondurre
l’uomo […] ad statum felicitatis
» (p. 173).
Sul valore poetico che la Commedia
ebbe anche per altri autori si sofferma
Vincenzo Caputo («Un serbatoio
di idee»: Aldo Vallone e il dantismo di
Torquato Tasso), il quale si concentra
sul lavoro esegetico tassiano, analizzando
l’idea di Vallone secondo cui il
poema dantesco abbia costituito per
Tasso, in una compresenza di consensi
e dissensi, «una sorta di laboratorio
poetico» (p. 124). Sempre in
questo solco, all’attività di storico
della critica dantesca sono poi dedicati
gli interventi di Domenico Cofano
(Aldo Vallone e gli studi sul dantismo
pugliese) e Massimiliano Corrado
(Aldo Vallone e l’esegesi dantesca nel
primo Novecento: il «realismo criticostorico
» di Vittorio Rossi). In particolare,
Cofano si sofferma sugli studi
dedicati da Vallone al dantismo purecensioni
607
gliese, sancendo «la legittimità di
percorsi di ricerca volti a verificare in
quali termini si sia manifestata la sua
penetrazione nei vari ambiti territoriali
» (p. 136), e rievocando nomi come
quello di Nicola Zingarelli; Corrado,
nello studio del dantismo novecentesco,
si concentra sulla figura
di Vittorio Rossi, critico che proiettava
il profilo poetico di Dante sul concreto
piano della storia e per cui «la
precisa disamina del testo poetico si
affianca a equilibrati rilievi estetici,
vòlti soprattutto a evidenziare la peculiare
fisionomia del Dante uomo»
(p. 157).
In questo modo, le “diverse voci”
si fanno “dolci note” nel ricordo
dell’uomo e del saggista Vallone. A
prendere forma è soprattutto la figura
del maestro, che con il suo instancabile
lavoro di ricerca ha restituito
una totalizzante visione dell’opera e
della fortuna critica relativa all’Alighieri,
figurando così tra i punti di
riferimento fondamentali del dantismo
novecentesco.
Salvatore Di Marzo
Francesco Tateo, Pontano poeta.
Carmi scelti e frammenti con traduzione
italiana, Foggia, Edizioni del Rosone,
2018 («Letteratura e interpretazione
», VIII), pp. 278.
Lungo il Cinque e Seicento la conoscenza
del latino era in tal modo
diffusa in Italia tra i lettori colti da
rendere il volgarizzamento di opere
in versi poco più che un esercizio di
stile. Solo con il progredire del Settecento
e l’affermarsi dello spirito illuminista
le prime avvisaglie di una
crisi del bagaglio umanistico giunsero
a incrinare una tradizione erudita
senza pari in Europa. Pertanto non
appare casuale che già nel 1761 usciva
a cura di Giannantonio Deluca
una prima traduzione in endecasillabi
sciolti del De hortis Hesperidum insieme
a cinque egloghe pontaniane.
Più sporadica invece era destinata a
essere l’attenzione verso Pontano di
Ugo Foscolo, il quale avrebbe reso
liberamente in italiano il solo Hend.
II, 8. Del 1810 è la pubblicazione della
versione a cura di Giulio Perticari
di un epitalamio dal De amore coniugali;
nel 1874 vedeva la luce, quale
estratto dalla nota monografia di
Carlo Maria Tallarigo, un volumetto
di Poesie scelte tradotte da Pietro Ardito;
nel 1898 il tipografo-editore S.
Lapi di Città di Castello dava alle
stampe Versioni poetiche dai lirici latini
dei secoli XV e XVI di Luigi Grilli, tra
le quali figuravano tre componimenti
dell’autore locale. Con il Novecento
l’attività di mediazione linguistica
assumeva dimensioni più imponenti.
Nel 1920 Adriano Gimorri firmava
per la Carabba versioni dell’intero
De amore coniugali assieme a poesie
di tema affine, censurando tuttavia i
brani più scabrosi in ossequio all’etica
dell’epoca postbellica («la poesia
non ci perde nulla e la decenza ci
guadagna assai»). Una miscellanea
di studi critici Da Dante al Manzoni
(1923) in onore di Giovanni Antonio
Venturi riportava traduzioni, realizzate
da Marcello Campodonico, di
elegie derivanti dall’Eridanus; di ampio
respiro l’antologia messa a punto
da Andrea Gustarelli per la Signorelli
nel 1934. Un passo decisivo nella
storia della fortuna di Pontano si
compiva tuttavia con la pubblicazione,
un trentennio più tardi, di Poeti
608 recensioni
latini del Quattrocento a cura di Francesco
Arnaldi, Lucia Gualdo Rosa e
Liliana Monti Sabia: guida autorevole
alla riscoperta della lirica rinascimentale,
il florilegio avrebbe valorizzato
come mai prima l’opera pontaniana,
dall’elogio appassionato di
Arnaldi nelle pagine introduttive sino
al rilievo conferito ai testi stessi, i
quali – dalla Monti Sabia abilmente
curati e tradotti in prosa e talvolta in
versi (Naeniae, De tumulis, Hendecasyllabi)
– arrivavano a occupare un
buon terzo del tomo ricciardiano.
Non sarà inopportuno citare perlomeno
altri due interventi più recenti
che hanno goduto di una certa risonanza:
il volumetto einaudiano di
Poesie d’amore (1978) a cura di Sesto
Prete e i tre Dialoghi (2014, BUR Rizzoli)
a cura di Lorenzo Geri, dotati di
consistenti brani in versi.
La nuova traduzione di Francesco
Tateo si divide in due parti, Carmi
scelti e Frammenti. La prima, antologizzando
i cosiddetti Carmina editi
sotto la direzione di Pietro Summonte
nel 1505, presenta versioni con testo
latino a fronte del Parthenopeus,
De amore coniugali, De tumulis, Iambici,
De laudibus divinis, Hendecasyllabi,
Lyra ed Eridanus. Dal momento che il
traduttore ravvisa nei Trionfi petrarcheschi
un modello strutturale della
prima parte dei Carmina, la sezione
riguardante il Parthenopeus porta il
titolo Cupido, quella del De amore coniugali
Pudor e quella di De tumulis,
Iambici e De laudibus divinis Mors Fama
Divinitas; alle altre tre sillogi si
assegnano rispettivamente i titoli Iocus,
Carmen e Solamen. La seconda
parte dell’antologia mette a disposizione
segmenti tratti dai dialoghi
Antonius e Aegidius all’interno della
sezione Academica, in quella denominata
Vergiliana esempi dei generi virgiliani
del bucolico (Lepidina e Maeon),
del georgico (De hortis Hesperidum)
e dell’epico (Sertorius), e in
quella intestata Signa brevi passi dal
poema astrologico Urania. La selezione
ignora i Meteora, poemetto sui
fenomeni atmosferici di consueto ritenuto
meno valido sul piano estetico,
mentre le ninnenanne delle Naeniae,
nei confronti delle quali il parere
letterario risulta diametralmente
opposto, si guadagnano un’edizione
integrale.
Tateo si mostra perfetto conoscitore
del latino classico e umanistico,
oltreché assiduo frequentatore della
poesia volgare trecentesca. Le trasposizioni
metriche “barbare” riproducono
il distico elegiaco prevalentemente
mediante un settenario e
novenario seguito da un doppio settenario,
l’endecasillabo falecio con
l’endecasillabo italiano, l’esametro
didascalico ed epico con il medesimo
metro in omaggio alla tradizione recepita;
non si contemplano schemi
rimici. Della capacità del traduttore
di restituire i tratti fonici dell’originale
dà testimonianza Parth. II, 12,
13, laddove «Molle foemur tractasse
manu, tractasse papillas» si lascia riplasmare
in «Un soffice fianco toccare
con la mano, toccar le papille». Le
apocopi, le elisioni e gli arcaismi lessicali
e morfologici – verginitade, capei,
porrìan, giammai, priego, aita, ecc.
– conferiscono una gradevole patina
neoclassica alla resa in italiano, impreziosita
di petrarchismi (Er. I, 36, 1:
«Le belle membra pose nelle acque
chiare del fiume / Venere») e leopardismi
(Sert. 158: «il fier disio»); le
proprietà squisitamente retoriche del
verseggiare pontaniano risuscitano
attraverso gli artifici stilistici schierarecensioni
609
ti tra anastrofe, inarcatura, amplificazione,
ipallage, aferesi, sillessi e tmesi.
La traduzione è accompagnata da
una generosa e bibliograficamente
aggiornata introduzione, attenta alla
fortuna dei carmi, ai modelli e ai generi
letterari: suggestivo risulta l’accostamento
tra la Camera degli sposi
di Mantegna e il De amore coniugali;
su altre puntualizzazioni qualche lettore
vorrà dissentire, come è il caso
della «scarsa tradizione di poesia religiosa
della letteratura italiana» (p.
20). Alla comprensione delle poesie
latine concorrono le note in calce al
volume, le quali presentano le fonti
nella poesia antica, chiarimenti lessicali
specie riguardanti gli ipocoristici,
osservazioni sulla retorica, rimandi
ad altre poesie e prose pontaniane,
la delucidazione di riferimenti storico-
geografico-mitologici, la messa in
rilievo di invenzioni («Atqui poetarum
haec non modo licentia, sed pene
ars est; quin etiam ab aliis enarratas
fabulas in alium atque aliam formam
convertere permittitur, ne dum
fingere novas liceat», secondo il testo
dell’Antonius di recente curato da Tateo),
la segnalazione dei topoi, dei
moduli dei generi letterari e delle valenze
simboliche di determinati elementi
e, ancora, annotazioni sul metro,
contestualizzazioni e rinvii alla
suddetta traduzione di Gustarelli.
Completa il volume una bibliografia
della traduzioni da Pontano poeta,
con relativa tabella statistica, allestita
da Claudia Corfiati.
«Inter socraticos licet libellos /
Atque inter studium decet sophiae /
Miscere et teneros, amice, lusus»
(Hend. II, 6, 1-3), dichiarava il maestro.
Tale aspetto ludico e spregiudicato
della poetica pontaniana, tanto
umanistico quanto antitetico al contemptus
mundi tardomedievale, emerge
con evidenza dalla scelta di carmi
effettuata da Tateo, magari anche a
rischio di velare un filone di malinconia
che pervade l’insieme. Non
sempre d’altronde l’antologia, per
quanto esemplifichi la versatilità della
scrittura di Pontano, privilegia al
meglio i più alti esiti letterari. Così,
mentre il florilegio degli Hendecasyllabi
coglie bene nel segno, al contrario
i carmi tratti dai Tumuli e dall’Eridanus
vanno a costituire un quadro
meno che rappresentativo; spiace ad
esempio l’omissione di un componimento
commosso e riflessivo quale
Er. II, 32, Ad uxorem mortuam de obitu
Lucii filii deploratio: «At mea canities
et despectata senectus […] / Nuda
iacebit, egens et desolata nepotum, /
Sola toro ac mensis, sola die ac tenebris
» (vv. 41 e 43-44). Resta infine da
constatare che se la relativa libertà
della traduzione italiana qua e là
scende a un prosaicismo tale da compromettere
il carattere dell’originale,
le prove più eccelse del genio pontaniano,
siano le nenie per Lucio siano
le saffiche di Polifemo, tirano fuori il
meglio del traduttore, guidandolo a
versioni così riuscite da giustificare
lo sforzo profuso nell’impresa di volgarizzare
il vate umbro.
John Butcher
La letteratura italiana e la nuova scienza.
Da Leonardo a Vico, a cura di Simone
Magherini, Milano, FrancoAngeli,
2017, pp. 272.
Nel ventaglio d’anni che va dalla
seconda metà del Quattrocento ai
primi del Settecento si assiste alla
610 recensioni
maturazione di una nuova concezione
della struttura del mondo. Il metodo
scientifico galileiano, basato
sulla realtà esperita e la capillare osservazione,
costituisce un approdo e
un trampolino per la complessiva
visione dell’universo. A tal proposito,
gli interventi contenuti nel volume
La letteratura italiana e la nuova
scienza. Da Leonardo a Vico, a cura di
Simone Magherini, intendono riflettere
sui punti di contatto e separazione
tra cultura scientifica e letteraria.
Identificativo di questo binomio è
l’intervento dello stesso Magherini
(«Provando e riprovando»: presenze
dantesche nella prosa scientifica di Redi):
egli osserva che la Commedia, intesa
nel Seicento come poema universale,
costituisce in particolare per Francesco
Redi un importante metro di paragone
e fonte sia enciclopedica, sia
poetica, in quanto è intesa come un
«serbatoio da cui attingere immagini,
similitudini, metafore […] decontestualizzate
e risemantizzate» (p.
204).
Figura chiave è quindi Galileo Galilei,
sulle cui qualità di autore si concentra
Andrea Battistini («Inesorabilità
» della scienza e «placidità» della letteratura
in Galileo). Egli «fu capace di
investigare con successo il mondo
della natura e fu al tempo stesso
competente di letteratura, scrivendo
su Dante, su Ariosto e su Tasso» (p.
125). Tali competenze favorirono una
vasta diffusione delle sue teorie grazie
ad artifici letterari che si esplicano
nella scelta di un rinnovato genere
dialogico. La prospettiva galileiana
sulla ricerca della verità mediante
l’osservazione, oltre che nella prosa
scientifica, come osserva Gianluca
Forgione (La rivoluzione di Caravaggio
nella cultura del suo tempo), è abbracciata
anche nella pittura, di cui Michelangelo
Merisi, che «testimonia in
modo esemplare la libertà e la modernità
della sua osservazione della
natura» (p. 165), è esponente identificativo.
La rivoluzione scientifica costituisce,
oltre che il trampolino, l’approdo
di una variegata concezione delle
scienze rinascimentali. Ciò è testimoniato
dal progetto editoriale di Giovanni
Regimontano, presentato da
Michele Rinaldi (Haec opera fient in
oppido Nuremberga: Giovanni Regimontano
e le origini della rinascita),
avente come scopo la pubblicazione
di scritti astrologici classici e moderni;
ciò mette, infatti, in primo piano il
contributo degli umanisti nella divulgazione
delle discipline scientifiche.
Altra connessione importante,
su cui riflette Enrico Mattioda (Vasari,
Michelangelo e l’opposizione tra matematica
e percezione in architettura), è
l’interesse che Giorgio Vasari dimostra
nelle sue Vite per un’impostazione
percettiva dell’architettura, e
quindi più attenta a una certa forma
estetica, di stampo michelangiolesca,
rispetto all’applicazione della regola
matematica di Leon Battista Alberti
(p. 76). In virtù del rapporto, poi, tra
scienza e felicità, Maurizio Cambi
(Tommaso Campanella, i Solari e la musica
medicinale) analizza le facoltà
taumaturgiche e regolatrici della
musica nella società utopica di Campanella:
«[…] l’ascolto di una musica
lontana dagli eccessi di tonalità
estreme, influisce beneficamente sugli
uomini» (p. 120).
Altra questione circa l’osservazione
scientifica cinquecentesca è la
compresenza del mondo sensibile e
intellegibile, su cui puntano l’attenzione
Matteo Palumbo (Scienza e corecensioni
611
noscenza nei «Ricordi» di Francesco
Guicciardini) e Vincenzo Caputo (Gli
«occhi» del Tasso: la «scienza delle stelle
» nel «Messaggiero»). Palumbo sottolinea
come in Guicciardini una corretta
analisi della realtà debba basarsi
sulla minuziosa osservazione dei
fenomeni: «La teoria di Guicciardini
[…] si fonda […] sulla valutazione di
qualunque elemento, anche il più
piccolo e apparentemente irrilevante,
che caratterizza ogni evento» (p.
35). Tuttavia, il carattere limitato della
comprensione umana si palesa di
fronte all’inattingibilità degli eventi
ultraumani, i miracoli. Tale senso di
finitudine umana, come osserva poi
Caputo, viene superata grazie allo
spirito protagonista del Messaggiero,
ovvero l’elemento sovrannaturale,
grazie al quale l’occhio umano diviene
agens nel processo di comprensione
della dimensione occulta della
natura.
Si tratta di elementi connaturati alla
struttura portante del discorso poetico,
sulla sua retorica e dunque sulla
coerenza e la credibilità sottesa alla
poesia; in questo senso, Giancarlo
Alfano (Una nuova scienza della letteratura.
La poesia tra retorica e logica)
rievoca i volgarizzamenti e i commenti
cinquecenteschi della Poetica
aristotelica, che definisce un certo
ordine di verisimiglianza della materia
poetica. Gli studi, poi, di Pier Mario
Vescovo (Ottica, clinica e teatro
della metafora. «Amor nello specchio» di
Giovan Battista Andreini) e Adriana
Mauriello (La scienza ridicolizzata: tra
novella e commedia) intendono ripercorre
la dimensione di disordine del
genere della commedia: Vescovo
analizza il carattere barocco della
commedia Amor nello specchio di Andreini,
nella quale lo specchio diviene
simbolo di distorsione della realtà
riflessa; Mauriello analizza il carattere
denigratorio incontro al quale va
la scienza, attraverso le figure mendaci
di medici, negromanti e astrologi,
dal Decameron di Boccaccio al Candelaio
di Bruno. Proprio su quest’ultimo
si sofferma Pasquale Sabbatino
(Il «Diluvio universale» di Michelangelo,
i dubbi di Leonardo, l’apocalisse interiore
di Bruno). A partire dalla volta
della Cappella Sistina affrescata da
Michelangelo Buonarroti, passando
per l’intuizione di Leonardo da Vinci
circa la circoscrizione del Diluvio
universale, Sabbatino evidenzia come
Bruno sostenga l’impossibilità di
un termine per l’universo in quanto
prodotto di Dio eterno, sostituendo
«il giudizio di tutti gli uomini alla fine
del mondo, sostenuto dal cristianesimo,
con il giudizio di ogni singolo
uomo “nel mondo”» (p. 107).
Sui caratteri della retorica della
prosa scientifica si soffermano Pasquale
Guaragnella («Nuova scienza»
e modelli di comunicazione linguistica) e
Francesca Castellano (Dietro la «quiete
motiva» dell’universo. Lorenzo Magalotti
tra letteratura e scienza): Guaragnella
evidenzia come nella prosa
dialogica, al fine di rendere maggiormente
ampio il ventaglio di diffusione
delle sue teorie, Galilei attui «una
ricerca di chiarezza e brevità, una
genuina costruzione dell’identità fra
“cose da esprimere” e “parole che
esprimono”» (p. 150); Castellano rileva
la coesistenza di retorica letteraria
e retorica scientifica nelle opere di
Magalotti, in cui è adoperato «il metodo
elegante della conversazione
galante, restituendo all’indagine
scientifica e alla prosa letteraria valori
di gentilezza e di squisita affidabilità
» (p. 217).
612 recensioni
Infine, con Giovan Battista Vico si
attua quell’approdo, come osserva
Fabrizio Lomonaco (Vico, le nuove
scienze, la scienza nuova), a una nuova
scienza. L’uomo non solo sperimenta
alla maniera galileiana, ma crea nuove
forme di codificazione della realtà,
basandosi sulle sue cause e sui
suoi princìpi. Siamo di fronte a una
proiezione cosciente verso la ventura
epoca dei Lumi.
Salvatore Di Marzo
Maurizio Capone, Nievo e Tolstoj. Le
Confessioni d’un italiano e Guerra e
pace: un confronto inedito, prefazione
di Simone Casini, Roma, Fondazione
Mario Luzi, 2017, pp. 362.
Per quanto trascorse in sordina, le
celebrazioni per il Centocinquantenario
dell’Unità d’Italia sono state
l’occasione per fare il punto sugli
studi critici dedicati a un autore centrale
del Risorgimento nostrano come
Ippolito Nievo, oggetto di una
messe di lavori volti a offrirne nuove
edizioni filologicamente affidabili e
ricostruzioni del profilo intellettuale:
bastino, come esempi, il secondo tomo
delle Opere, edito nel 2015 dall’Istituto
Treccani per le cure di Ugo
Maria Olivieri, e il volume di Giovanni
Maffei Nievo, pubblicato per i
tipi della Salerno nel 2012. Tuttavia, e
nonostante la ‘primavera nieviana’,
si ha come l’impressione che moltissimo
rimanga da dire su questioni
rilevanti come, per esempio, il posto
occupato dallo scrittore padovano
nel quadro del romanzo europeo
dell’Ottocento. Si muoveva forse in
direzione di questo problema la suggestione
avanzata in prima battuta
da Dino Mantovani nel lontano 1899
e successivamente ripresa da Vittore
Branca: è possibile supporre un’influenza
di Nievo su un autore russo
quale Lev Tolstoj, e segnatamente
sullo sviluppo di Guerra e pace? Ipotesi
azzardata, per quanto intrigante,
che ha però il merito di inserire Nievo
in un contesto più vasto di quello
latamente angusto della letteratura
italiana ottocentesca.
Maurizio Capone tenta di rispondere
alla proposta di Mantovani e
Branca con il suo primo lavoro critico,
licenziato per i tipi della Fondazione
Mario Luzi. L’enigma dell’influenza
delle Confessioni d’un italiano
su Guerra e pace viene risolto nel primo
capitolo, con esito negativo. A
una ricostruzione dei processi elaborativi
dei due romanzi – il primo
scritto tra il dicembre 1857 e l’agosto
1858 ma pubblicato solo nel 1867, il
secondo scritto tra il 1862 e il 1867
(ma l’idea risale addirittura al 1856) e
pubblicato tra gli ultimi mesi del
1867 e il 1868 – e tenendo conto degli
spostamenti degli autori, Capone
tende a scartare un’influenza diretta
di Nievo su Tolstoj. È vero che i due
avrebbero potuto confrontarsi sui rispettivi
embrioni testuali in un pugno
di occasioni, anche se viene non
poco ridimensionato il fantomatico
incontro a Torino del 1857 dato che
Tolstoj giunge in città «il 15 giugno
1857 e vi soggiorna solo pochi giorni,
fino al 17 giugno o poco più» (p. 50),
ma è pur vero che in questi anni Nievo
è tutt’altro che un frequentatore di
salotti, essendo profondamente coinvolto
nell’impresa garibaldina. In definitiva,
«è difficile immaginare che
Guerra e pace possa aver subito ponderose
variazioni per azione di un
romanzo italiano pubblicato nel
recensioni 613
1867» (p. 53) e di cui non esiste tuttora
una traduzione in russo.
Quanto è davvero interessante è
che «i due testi potrebbero essere nati
e ‘cresciuti’ in due contesti affini, in
due “narratori di uno stesso periodo,
con interessi e passioni analoghe”»
(p. 55). Si giustifica in questo modo
un confronto tra i testi che consenta
di individuare e spiegare le curiose
coincidenze tra due realismi sorti in
contesti diversi eppure simili. Si tenga
presente infatti che nell’Ottocento,
in un’Europa di stati nazionali
come l’Inghilterra e la Francia, che
hanno già vissuto le loro rivoluzioni
politiche, «in Italia si sta lottando per
l’indipendenza e la Russia […] è ancora
uno stato feudale-reazionario»
(p. 217). A partire dalla situazione di
arretratezza politica e sociale che avvicina
i due contesti, Capone procede
a una comparazione tra Le confessioni
e Guerra e pace, constatandone le
differenze ma anche i numerosi punti
di contatto che rendono questi romanzi-
fiume degli insospettabili anticipatori
di istanze proprie del modernismo.
Potrebbe suscitare qualche perplessità
la decisione di affrontare l’epopea
di Tolstoj senza conoscere la
lingua russa, ma Capone osserva che
buona parte della critica italiana ed
europea si è occupata con profitto
dei romanzieri russi pur avendoli
letti in traduzione, data anche la conoscenza
specialistica – e certo non
facilmente aggirabile – che richiede il
russo. Convincente, invece, appare la
scelta di definire il ruolo delle Confessioni
d’un italiano nel romanzo europeo
adoperando gli strumenti della
teoria della letteratura: la mancanza
di un indice dei nomi non impedisce
di tracciare una costellazione di riferimenti
che va da Orlando, Benjamin
e Starobinski a Cohn, Genette e Sklovskij,
sebbene resti centrale il confronto
con i saggi di Lukács sulla teoria
del romanzo e sul genere del romanzo
storico. Il risultato non è solo
un lavoro di respiro comparatistico,
che ha il merito di aprire al confronto
con le pianure ancora tutte da attraversare
della grande tradizione russa.
La scelta di stilare due distinte
introduzioni si giustifica col fatto che
si fondono, qui, almeno due libri: il
primo, appunto, dedicato ai rapporti
tra Guerra e Pace e le Confessioni; l’altro,
invece, volto a inserire l’opera
nieviana all’interno della teoria del
romanzo, valorizzandone gli elementi
di novità anche attraverso il
paragone con un riconosciuto classico
della letteratura ottocentesca
mondiale.
Gli esiti del confronto rilevano non
poche affinità tra il capolavoro nieviano
e Guerra e pace, e si direbbe ancor
prima tra gli stessi Nievo e Tolstoj,
che condividono l’ideologia populista
del mitizzato mondo dei contadini,
visti come portatori di una
morale superiore e di un rapporto
autentico con la Natura, «l’entità più
vera dell’universo per entrambi gli
scrittori» (p. 75). Certamente, tra i
due vi sono anche divergenze, e il
netto antistoricismo di Tolstoj è distante
dal valore che Nievo assegna
alla storia, concepita come «un insegnamento
per capire il presente in
vista di preparare il futuro» (p. 239).
Da un punto di vista letterario, invece,
entrambi sostengono l’irruzione
della «prosa della vita», che spezza
la gravitas delle vicende di Pierre e
Carlino – entrambi, guarda caso, degli
eroi medi, se non proprio degli
anti-eroi – per emulare il fatto che la
614 recensioni
vita oltrepassa la forma del romanzo,
in quanto «più ampia dei singoli destini
narrati» (p. 299). A conferma di
questa tesi, Capone procede all’analisi
delle strutture formali delle Confessioni:
il romanzo di Nievo è ancora,
per molti versi, ‘ottocentesco’, con
una trama tutto sommato lineare e
un’oggettività lontana dalla crisi della
conoscibilità del mondo di marca
modernista; e però, è anche un romanzo
in cui si aprono squarci nella
narrazione grazie a lunghe digressioni
saggistiche e spinte centrifughe
che sgretolano l’ordine narrativo, fino
all’inserimento di un «post-finale
», come lo chiama Capone, che nel
ritorno di Carlino al ruolo di marito e
padre celebra «l’irriducibile continuum
asimmetrico della vita, che non
può essere pienamente e artificiosamente
contenuta nell’opera romanzesca
» (p. 335). Ancora una volta, la
somiglianza con il caso di Guerra e
pace, il cui ‘controfinale’ dedicato al
matrimonio di Pierre e Nataša esonda
nel saggio di filosofia della storia,
è notevole e certifica una convergenza
di intenzioni narrative che, se non
trova riscontri storico-filologici, merita
in ogni caso attenzione e potrebbe
valorizzare in modo nuovo l’originalità
delle Confessioni d’un italiano.
Giuseppe Andrea Liberti
Bibliografia di Luigi Capuana (1968-
2015), a cura di Mario Bocola, premessa
di Gianni Oliva, Lanciano,
Carabba, 2016, pp. 476.
L’opera è un aggiornamento della
Bibliografia di Luigi Capuana (1839-
1968) curata da Gino Raya (Roma,
Ciranna, 1969). Mario Bocola ne riprende
fedelmente la struttura prolungando
la ricerca fino al 2015, anno
del centenario della morte dello
scrittore siciliano. Di conseguenza, le
oltre mille schede bibliografiche, corredate
da un folto indice dei nomi e
delle opere e da una serie di grafici
che documentano nel dettaglio l’andamento
in percentuale della produzione
di studi su Capuana nel corso
degli anni, sono in ordine progressivo
e la loro numerazione riprende da
dove si era interrotta quella di Raya.
Si tratta, dunque, di un lavoro assolutamente
indispensabile che riordina
tutto ciò che è stato pubblicato su
Luigi Capuana in quasi cinquant’anni:
monografie, articoli, saggi, recensioni,
edizioni di novelle, racconti,
fiabe e romanzi, atti di convegni e
miscellanee. L’autore ha reperito il
materiale bibliografico nelle maggiori
biblioteche e negli archivi italiani e
ha tenuto conto anche delle biblioteche
comunali coperte dall’OPAC.
La Bibliografia è certamente uno
strumento indispensabile a servizio
di tutti gli studiosi dello scrittore di
Mineo e del realismo ottocentesco
dal momento che, come asserisce
nella Premessa al volume Gianni Oliva,
«con l’affermazione della dimensione
Sicilia negli anni Sessanta e
Settanta, cioè la riscoperta dei principali
scrittori siciliani (Tomasi di
Lampedusa, De Roberto, il caso Verga),
Capuana ha di riflesso accumulato
un’ingente mole di studi che ne
hanno indagato in lungo e in largo la
poliedrica attività». Pertanto, è necessario
da parte degli studiosi confrontarsi
con i risultati precedenti
per non correre il rischio di produrre
materiali già “logori” o di affrontare
temi già dibattuti: la funzione della
Bibliografia è fondamentale infatti per
recensioni 615
evitare ripetizioni ed orientarsi nel
miglior modo possibile nell’articolato
sistema della produzione critica
riguardante l’autore.
L’opera di Luigi Capuana, teorico,
critico, giornalista, drammaturgo e
poeta, narratore di fiabe e racconti,
appassionato di folklore e fotografia,
curioso di scienze occulte e di spiritismo,
è varia ed eterogenea ed è stata
oggetto nel corso degli anni di una
doverosa attenzione critica. L’interesse
per Capuana comincia a riaffiorare
negli anni Sessanta, dopo il successo
del Gattopardo di Giuseppe Tomasi
di Lampedusa: fino ad allora, la
sua fortuna era stata legata a quella
verghiana, dalla quale trasse meriti e
privilegi. Non si può prescindere
dunque dal prezioso lavoro compiuto
dal Raya che ha apportato un contributo
prezioso e ha determinato
un’assoluta novità nel tracciato della
critica capuaniana. Su questi presupposti,
Mario Bocola si occupa di esaminare,
accertare ed ampliare fino ai
giorni nostri, completandolo, l’attento
e puntuale lavoro di spoglio bibliografico
condotto a suo tempo da
Gino Raya, risultato indispensabile
per generazioni di studiosi.
Nell’ampia introduzione al volume,
il curatore ripercorre le tappe
principali del lungo percorso esperito
dalla critica capuaniana dal 1968
al 2015, con opportune distinzioni
relative agli interessi culturali e alle
manifestazioni del pensiero dello
scrittore siciliano e sui quali hanno
messo l’accento gli studiosi che a lui,
nel frangente di tempo in oggetto, si
sono interessati. Gli esperti hanno
esplorato ogni aspetto della produzione
del menenino, a partire dagli
scritti critici, passando per i romanzi,
le novelle, i racconti e le fiabe, senza
trascurare il teatro, riconosciuto però
solo in seconda istanza come elemento
determinante negli interessi
dell’autore. In particolare, accanto ai
testi che richiamano la considerazione
sui canoni portanti del verismo, si
riesamina l’attenzione di Capuana
per la critica teatrale: egli infatti,
com’è noto, auspicava un miglioramento
del teatro nazionale attraverso
lo svecchiamento delle opere rappresentate
nei palcoscenici. Tali posizioni
sono state ben evidenziate da
Luciana Pasquini (2016), curatrice di
numerosi inediti dell’autore e di carteggi,
che restituisce al lettore e alla
comunità scientifica un articolo uscito
su «La Nazione» il 27 agosto 1865
in cui il critico punta il dito contro lo
stato di arretratezza del teatro italiano
rispetto ai modelli europei più
all’avanguardia e afferma la necessità
di procedere ad un radicale rinnovamento
dell’arte drammatica in Italia:
il teatro autoctono, ancora intriso
di echi risorgimentali, doveva mutare
completamente per rigenerarsi e
incedere incontro alla modernità,
portando sulla scena personaggi e
situazioni aderenti in misura sempre
maggiore alla realtà. Accanto al dibattito
sulla critica e sul teatro capuaniani
si intensifica, a partire dagli
anni Settanta, la pubblicazione di
carteggi inediti puntualmente segnalati
da Mario Bocola, fonti inesauribili,
per gli studiosi, di informazioni di
prima mano.
Il curatore della Bibliografia passa
poi alla disamina degli scritti relativi
alla produzione narrativa di Capuana
in cui si inserisce la riproposta di
novelle, fiabe e romanzi i cui aspetti
epistemologici, filologici, tematici e
linguistici sono stati dibattuti in saggi
e monografie precedute da efficaci
616 recensioni
note introduttive. Si apprezza infatti
un incremento deciso dell’interesse
per la narrativa capuaniana già sul
finire degli anni Sessanta: a stimolare
gli studiosi è soprattutto il Capuana
post-naturalista, appassionato dal
genere della letteratura per l’infanzia,
che si trova ad interagire con una
realtà autoctona in cui le opere dedicate
ai più piccoli accoglievano la
tradizione della fiaba popolare e
stentava ad identificarsi in un genere
autonomo.
Accanto alla riproposta di molta
produzione narrativa si aprono, fa
notare Bocola, nuovi orizzonti di ricerca
ed analisi dei testi capuaniani:
la critica più recente, infatti, ha indirizzato
la sua attenzione sui temi riguardanti
le scienze occulte, lo spiritismo,
il magnetismo, le visioni, l’aldilà
e la fotografia, ritenuta vera e
propria arte dagli scrittori veristi.
D’altra parte, le manifestazioni degli
stati alterati della personalità avevano
entusiasmato il dibattito critico
sin dagli ultimi anni dell’Ottocento,
procurando interesse e reazioni positive
anche in Luigi Pirandello.
L’immane e pregiato lavoro di Bocola
mette in luce, come si evince
dalle sue stesse parole nell’introduzione
alla Bibliografia, che «quello di
Capuana fu un eclettismo culturale
che trova il suo evidente limite in un
dilettantismo che rende improponibili
certe etichette onnicomprensive,
come è stato riconosciuto dalla critica
contemporanea, che ha visto dicotomicamente
nello scrittore siciliano
un mediatore tra la vecchia e la nuova
cultura italiana».
Il libro, in definitiva, offre un quadro
completo, ricco ed esauriente e
un’analisi approfondita di quanto è
stato pubblicato su Capuana e mette
in luce quali aspetti della produzione
dello scrittore abbiano ottenuto maggior
riscontro da parte della critica,
nonché quali siano stati i periodi più
fecondi riservati agli studi sul Capuana
da parte della comunità scientifica.
Bambina Chiavelli
L’archivio di Paul-Henri Michel e alcuni
nuovi testimoni di commedie sveviane, a
cura di Luca Curti, Antonio Lucio
Giannone, Beatrice Stasi, «Aghios.
Quaderni di studi sveviani», 10,
2017, pp. 143.
L’ultimo numero dell’unica rivista
monografica sull’autore della Coscienza
di Zeno è interamente riservato
a studi di tipo filologico; e in modo
specifico, ma non esclusivo come si
vedrà, all’ardua (e in qualche caso
aleatoria) questione della ricostruzione
filologica della tradizione testuale
delle opere teatrali dell’autore
triestino. Questione ardua si è detto,
poiché si tratta in massima parte di
scritti rimasti inediti per volontà
dell’autore: dei quattordici testi teatrali
due soltanto furono pubblicati o
rappresentati vivente Svevo, Prima
del ballo e Terzetto spezzato. Il fascicolo
speciale di «Aghios» ricostruisce in
modo estremamente analitico la tradizione
di sei di queste commedie –
Le ire di Giuliano, Le teorie del conte
Alberto, Il ladro in casa, Un marito,
L’avventura di Maria e Inferiorità –,
ospitando gli Atti della sessione sveviana
del seminario «Carte d’autore
online: archivi e biblioteche digitali
della Modernità letteraria», svoltosi
a Lecce il 14 dicembre 2015.
Risale al 2011 la scoperta a Parigi
recensioni 617
del Fondo Paul-Henri Michel e il
conseguente ritrovamento di testimoni
sconosciuti di opere sveviane,
tra cui copie dattiloscritte con varianti
delle sei commedie sopra citate.
Poco, anzi pochissimo si sapeva
sino a oggi su questi testimoni, e cioè
l’assenza di correzioni manoscritte
da parte di Svevo, diversamente
dall’importante testimone, sempre
dattiloscritto, della novella Una burla
riuscita, rinvenuto in questo stesso
archivio e alla base della recente edizione
critica di Beatrice Stasi (Lecce/
Rovato, Pensa MultiMedia, 2014). A
questa studiosa si deve la scoperta
del Fondo, ricco di materiali di sicuro
interesse per la filologia sveviana,
tra i quali anche lettere della moglie
Livia Veneziani e soprattutto una copia
con interventi d’autore della prima
edizione della Coscienza di Zeno
(1923), che registra tagli e varianti nei
capitoli centrali voluti da Svevo per
la traduzione in francese del romanzo
proprio di Paul-Henri Michel (cfr.
della stessa studiosa Svevo e Zéno. Tagli
e varianti d’autore per l’edizione
francese della Coscienza, Roma, Storia
e Letteratura, 2012).
Proprio alla Stasi è affidato il compito
di ricostruire il profilo dell’erudito
traduttore e il suo sorprendente
archivio, oggi scisso tra il Museo Sveviano
di Trieste, a cui l’erede Olivier
ha donato tutti i testimoni delle opere
di Svevo, e la Biblioteca Nazionale
di Parigi, che possiede tutto il resto
(compresi gli originali delle lettere).
Sebbene si disponga in non pochi casi
degli originali la studiosa rivendica
la «posizione senz’altro non trascurabile
» dei nuovi testimoni nella
tradizione di questi sfortunati testi,
poiché i sei dattiloscritti – o per meglio
dire il raccoglitore che li conteneva
– sono databili ai primi anni Trenta,
prima cioè del bombardamento
del 20 febbraio 1945 di Villa Veneziani,
in cui presumibilmente andarono
distrutte molte delle carte sveviane.
A spedirli a Parigi fu Livia alla fine di
novembre del 1933, nel tentativo (poi
rivelatosi fallimentare) di promuovere
in Francia le opere teatrali del marito.
Non è però da escludere la possibilità
che i testimoni, o quantomeno
alcuni di essi, possano essere anche
molto anteriori a questa data,
battuti a macchina magari quando
Svevo era ancora in vita (eventualità
molto interessante, l’autore come è
noto muore nel 1928). In altri termini
non si può escludere l’eventualità
che i nuovi testimoni possano conservare
varianti d’autore.
I contributi oltre a descrivere materialmente
i testimoni parigini e a lavorare
sulle varianti – a volte minime,
mai però insignificanti nel loro
complesso – forniscono pure utili informazioni
sulla mancata fortuna
francese del teatro sveviano, sulla
presunta ‘inaffidabilità filologica’ del
primo editore delle commedie Umbro
Apollonio (in queste pagine ampiamente
riabilitato), sul confronto
con la scelte linguistiche adottate da
Svevo nella seconda edizione di Senilità
e soprattutto sulla questione della
datazione, su cui non mancano dissertazioni
molto interessanti a livello
congetturale, che certamente contribuiscono
al progresso degli studi su
tale spinosissima materia. Forse è per
questo che in taluni passaggi il problema
del valore filologico da attribuire
ai nuovi testimoni sembra quasi
passare in secondo piano e il discorso
si amplia, anche moltissimo,
come quando si ragiona sugli accorgimenti
adottati dall’entourage sve618
recensioni
viano per rendere le commedie ‘più
rappresentabili’ (il noto problema
dell’inadeguatezza linguistica sveviana
a cui rimediare, ma non solo).
Giuseppe Stellardi ha avuto in
consegna il testimone di Le ire di Giuliano,
commedia di cui esiste un manoscritto
autografo conservato presso
il Museo Sveviano e due dattiloscritti
identici: quello inviato nel
1933 a Parigi, che è sicuramente una
copia carbone «come si deduce dai
segni tipici lasciati dalla carta copiativa
» (p. 21) su alcune pagine, e un
secondo inviato nel 1937 sempre da
Livia a Enzo Ferrieri, oggi conservato
nell’Archivio Mondadori di Milano,
che potrebbe essere l’originale o
un’altra copia della copia carbone
rinvenuta a Parigi.
Prima di iniziare il confronto tra il
testimone parigino e il manoscritto
lo studioso illustra ciò che differenzia
materialmente il dattiloscritto di
Le ire di Giuliano e quello di Le teorie
del conte Alberto dagli altri quattro del
faldone: condividono il colore dell’inchiostro,
che è nero e non azzurro
come per le altre commedie, e sono
stati battuti con la stessa macchina
da scrivere. L’analisi comparativa
documenta certamente la dipendenza
di Parigi da Trieste, per la presenza
«di evidenti errori inesistenti nel
manoscritto, ma che ne presuppongono
la lezione» (p. 22). Stabilire poi
se tale dipendenza sia diretta, o se vi
sia una versione intermedia, cosa che
farebbe del nuovo testimone la copia
di un antigrafo andato perduto, non
sembra al momento possibile; come
pure non è possibile determinare la
responsabilità di quello «stranomisto
di fedeltà a oltranza […] e relativamente
grande libertà nel manipolare
un testo sicuramente autoriale» (p.
29) che si registra nel dattiloscritto
parigino (molto interessanti a tal
proposito le considerazioni di Stellardi
sulla sostituzione della parola
«fiorini» con «lire»).
Molto ampio è il contributo di Donatella
Nisi, a cui sono affidati i testimoni
di ben due commedie: Le teorie
del conte Alberto e Il ladro in casa. In
considerazione dello sguardo d’insieme
che il saggio offre sulla tradizione
del teatro di Svevo, nonché per
l’utile quadro riepilogativo del materiale
conservato presso il Museo Sveviano
e per le notazioni finali sulla
mancata fortuna francese, sarebbe
forse stato auspicabile collocarlo prima
di quello di Stellardi. Ma come
spiegano i direttori della rivista nella
Nota che apre il volume si è scelto,
per coerenza, lo stesso criterio (l’ordine
di consegna dei saggi da parte
dei curatori degli Atti) che fu adottato
qualche anno prima per il fascicolo
speciale («Aghios», 7-8) ospitante
gli Atti del Convegno di Bochum del
febbraio 2012.
In apertura si nota più che altrove
una certa premura nel voler ribadire
l’interesse scientifico dei testimoni
parigini, per i quali non è possibile
escludere a priori l’eventualità di
ipotetiche varianti d’autore – la studiosa
ricorda i casi di rilettura di Senilità,
Una burla riuscita e della Coscienza
di Zeno per la traduzione francese
– o di un revisore incaricato da
Svevo o da altri. Il fatto poi che non
di rado le varianti vadano nella direzione
di un aggiornamento linguistico
o di un miglioramento della resa
scenica dei testi mi pare confermi la
legittimità di un tale giudizio (sebbene,
va detto, è molto probabile che
non si arriverà mai alla verità sull’identità
del o dei revisori).
recensioni 619
Alla studiosa si deve soprattutto il
ritrovamento di un documento inedito,
citato in tutti i saggi del volume
e riprodotto fotostaticamente in appendice:
l’Elenco dei lavori teatrali di
Italo Svevo consegnati in visione al dr.
Umbro Apollonio. Tale documento, allegato
a una lettera inviata da Livia
ad Apollonio il 12 marzo 1954 e rinvenuto
nell’archivio della Biennale
di Venezia, elenca il materiale spedito
dalla vedova di Svevo al critico
per approntare l’edizione Mondadori
delle commedie. Grazie a esso oggi
sappiamo che nella maggior parte
dei casi non furono inviati da Livia
soltanto gli originali, ma pure copie
dattiloscritte delle commedie.
La parte del lavoro della Nisi dedicata
a Il ladro in casa è estremamente
articolata, anche perché i testimoni
messi a confronto non sono pochi: il
testo della prima edizione a stampa
apparso sulla rivista «La Porta
Orientale» nel novembre del 1932,
quello dell’edizione mondadoriana,
il manoscritto autografo (oltre che la
sua fotocopia) donato al poeta tristino
Giulio Piazza da cui dipende il
testo apparso in rivista (che dovrebbe
essere, tra l’altro, la trascrizione di
un manoscritto originale), un dattiloscritto
conservato a Trieste e naturalmente
il dattiloscritto parigino, il cui
testo è molto simile a quello riportato
da Apollonio. Proprio le somiglianze
tra il testimone parigino e il
testo dell’edizione mondadoriana
inducono la Nisi a ipotizzare l’esistenza
di un antigrafo comune: tutta
una serie di varianti portano infatti
la studiosa a escludere la possibilità
che uno dei due testimoni inviati da
Livia al critico fosse una copia carbone
di quello spedito a Parigi. Tale antigrafo
deriverebbe, come pure il
dattiloscritto triestino, da un testimone
oggi perduto e non direttamente
dal testo apparso su «La Porta
Orientale» (si veda l’ipotesi di stemma
a p. 47, ricostruzione per altro
messa scrupolosamente in discussione
dalla stessa studiosa poco più
avanti). La studiosa al termine della
sua ricostruzione può però dirsi certa
di aver scagionato Umbro Apollonio
«da alcune accuse le quali tutt’ora
ingiustamente pendono sul suo
conto» (p. 49).
Apprezzabile la scelta di affidare i
testimoni di Le ire di Giuliano e di Le
teorie del conte Alberto a due diversi
studiosi (Stellardi e Nisi). In questo
modo il lettore può approfittare di
due differenti punti di vista su questioni
filologiche e su tradizioni testuali
che risultano fortemente associate
(non a caso nell’elenco dei materiali
spediti a Venezia le due commedie
figuravano nello stesso punto
della lista). Per esempio la Nisi torna
sulla questione della datazione
dell’autografo di Le ire di Giuliano e
dunque sul problema della veridicità
della data del 1881 che Apollonio sosteneva
di aver letto in quelle carte.
Appurato che il critico non disponeva
di un secondo manoscritto (lo
conferma ora l’Elenco rinvenuto a Venezia)
viene prospettata come più
plausibile la difficile ipotesi di una
«caduta accidentale delle prime carte
nel manoscritto», ma anche in questo
caso la studiosa invita alla prudenza
(«non è possibile sciogliere il mistero
» si legge a p. 51).
Questi i testimoni per Le teorie del
conte Alberto: un manoscritto autografo
conservato presso il Museo
Sveviano, il dattiloscritto parigino e
un dattiloscritto milanese (gemello
ma non copia carbone del parigino).
620 recensioni
Pur essendo stati battuti con macchine
da scrivere differenti i due dattiloscritti,
gemelli si è detto, deriverebbero
dal manoscritto conservato a
Trieste. L’ipotesi finale, alla luce dei
risultati ricavabili dalla collazione, è
che il testimone parigino non sarebbe
un dattiloscritto autografo (una
conclusione decisamente più netta di
quella espressa da Stellardi per Le ire
di Giuliano).
I testimoni oggi noti per Un marito
– se ne occupa Beatrice Stasi – sono
tre: l’unico certamente autografo, un
manoscritto conservato presso il
Museo Sveviano datato 14 giugno
1903, «che possiamo presumere sia il
frutto di una revisione d’autore» (p.
63) perché la prima stesura, andata
perduta, dovrebbe risalire al 1895; la
prima edizione della commedia apparsa
su due numeri del 1931 della
rivista «Convegno», il testimone parigino.
Poiché nell’elenco dei materiali
inviati dalla vedova di Svevo ad
Apollonio si legge di un «Originale e
una copia dattiloscritta» la studiosa
include nella collazione anche l’edizione
Mondadori (che si rivelerà la
più fedele al manoscritto). Primariamente
la Stasi ricostruisce le modalità
della prima pubblicazione del testo
su «Convegno», utilizzando delle
lettere inedite di Livia al direttore
della rivista e anticipando la vicinanza
tra il testimone parigino e
quello della rivista che poi emergerà
dalla collazione. Alcune osservazioni
inducono a scartare l’ipotesi che il
nuovo testimone sia autografo: la
macchina da scrivere, che certamente
non è una di quelle utilizzate da
Svevo, e il fatto che Livia, qualche
anno prima, avesse scelto di non inviare
un originale del marito per la
pubblicazione su «Convegno», ma
una semplice copia. Le numerose lezioni
che il testimone parigino condivide
con il testo apparso su rivista
indurrebbero a credere a una dipendenza
diretta da quest’ultimo, ma la
collazione rivela anche altro. Per
esempio il testimone parigino possiede
qualche lezione in comune con
il manoscritto autografo, una caratteristica
che il testo apparso su rivista
non può invece vantare. Allo
stesso tempo «le lacune e gli altri errori
monogenetici» (p. 72) condivisi
con il testo di «Convegno» escludono
una dipendenza diretta dal manoscritto.
Si profila allora un’ulteriore
ipotesi, quella di un antigrafo comune
derivato dal manoscritto originale
e di conseguenza l’ipotesi di
un rapporto solo indiretto tra i due
testimoni degli anni Trenta. Ovviamente
non è da escludere la possibilità
che questo antigrafo possa essere
una riscrittura d’autore e dunque
possa aver tramandato delle modifiche
dal carattere autoriale. In particolare
la Stasi fa riferimento a un’operazione
di ripulitura linguistica
paragonabile a quella effettuata da
Svevo con Senilità ed effettivamente
le strategie utilizzate per il dattiloscritto
parigino sembrano molto simili
a quelle utilizzate per la seconda
edizione del romanzo (si confronti
il terzo paragrafo del saggio alle
pp. 73-75). Vi si aggiunga un particolare
di non poco conto segnalato nel
terzo paragrafo del saggio, e cioè che
la prima stesura di Un marito risalirebbe
proprio agli stessi anni in cui
fu composto il secondo romanzo di
Svevo.
Altra ipotesi plausibile è che l’operazione
di ripulitura linguistica sia
stata commissionata da Livia a qualcuno,
ma non certamente nell’ottica
recensioni 621
di un invio in Francia, dove la traduzione
in un’altra lingua avrebbe vanificato
alcuni di questi interventi (è
un’intuizione di Patrizia Guida che
si legge nel saggio successivo). L’analisi
delle varianti di tipo linguistico
permette comunque di tracciare
un profilo del revisore, quello «di un
revisore almeno parzialmente sovrapponibile
a quello di Svevo» (p.
77). A conclusione del saggio un paragrafo
sulle varianti di tipo semantico.
Quattro sono i testimoni di L’avventura
di Maria, commedia in tre atti
studiata da Patrizia Guida. Anzitutto
i due manoscritti posseduti dal Museo
Sveviano, uno in tre atti, l’altro,
noto con il titolo Casa Galli, di uno
soltanto. Vi è poi la prima edizione a
stampa, apparsa su «Convegno» nel
1937 e diversissima dai manoscritti
triestini (la collazione della Guida lo
dimostra ampiamente, soprattutto
quando l’analisi comparata riguarda
elementi sintattici), e naturalmente il
dattiloscritto parigino, il cui testo è
quasi identico a quello della rivista.
Nella sua indagine la studiosa si avvale
della corrispondenza inedita tra
Livia e i responsabili della redazione
della rivista, ma anche di quella intercorsa
tra la vedova di Svevo e il
solito Apollonio. Nella prima va ricordato
il fermo proposito della redazione
di non voler tradire la volontà
dell’autore, contrariamente a
quanto il testo apparso sulla rivista
potrebbe indurre a credere. Alcune
lettere della seconda inducono invece
la studiosa ad affermare che la
scelta di pubblicare il testo apparso
su «Convegno» nell’edizione mondadoriana
non fu del curatore ma di
Livia. Si spiega allora l’utilità di
prendere in esame proprio questo testimone,
che, come la studiosa ricordava
fin dalle prime battute, è praticamente
lo stesso del dattiloscritto
parigino (le varianti sono infatti minime).
È possibile allora che i due
testimoni siano derivati da un antigrafo
comune, magari rivisto da Svevo;
un’eventualità che renderebbe
comprensibile la scelta operata nell’edizione
mondadoriana di adottare
il testo apparso su «Convegno», perché
«più vicino all’ultima volontà
dell’autore» (p. 104).
Nelle ultime battute va segnalata
una tesi dalla stessa studiosa definita
«audace ma al tempo stesso ragionevole
» (p. 101). La Guida ipotizza
un’impropria composizione del manoscritto
triestino in tre atti da parte
degli eredi di Svevo. Si sarebbe cioè
riunito un primo atto rivisto dall’autore
e dunque successivo con il secondo
e il terzo atto di una prima
versione. In realtà quel posto in apertura
sarebbe spettato al testimone
oggi noto come Casa Galli. Si tratta di
un’ipotesi ben motivata, se è vero (e
non c’è naturalmente alcun motivo
per dubitarne) che «l’analisi degli interventi
correttori, la grafia e persino
la dimensione dei fogli sembrano
suggerirlo» (p. 101). Del resto il primo
dei tre atti del manoscritto parigino
– riferisce sempre la Guida –
presenta le caratteristiche di una
scrittura in bella copia, mentre altrettanto
non può dirsi per il secondo e il
terzo atto di questo stesso testimone.
L’ultimo dattiloscritto del faldone
inviato a Parigi è quello dell’atto unico
Inferiorità, su cui ha lavorato Francesca
Nassi. Tre i testimoni della
commedia: l’originale, ovvero un
dattiloscritto con interventi manoscritti
posseduto dal Museo Sveviano,
il testo apparso nel 1932 sulla ri622
recensioni
vista «la Panarie» e il dattiloscritto
parigino. Il nuovo testimone sembrerebbe
ricavato proprio da quello apparso
in rivista, oppure si dovrebbe
congetturare l’esistenza di un antigrafo
comune andato perduto (che è
l’ipotesi su cui lavora maggiormente
la studiosa). In ogni caso alcune divergenze
tra i due lasciano intendere
che il misterioso redattore non fosse
particolarmente soddisfatto del testimone
a sua disposizione. E difatti il
testimone parigino è certamente
quello che maggiormente si distanzia
dall’originale posseduto a Trieste.
Anche la Nassi poggia le sue deduzioni
sul confronto tra i criteri che
ispirarono le correzioni linguistiche
della seconda edizione di Senilità e
quelli che emergono dall’esame delle
varianti della commedia. La studiosa
ipotizza che l’antigrafo comune sia
opera delle stesse persone che collaborarono
con Svevo alla revisione
linguistica del suo secondo romanzo;
una revisione che in questo caso tenne
anche conto della natura teatrale
dell’opera e che dunque coinvolse
anche aspetti semantici ricollegabili
a una più efficace resa scenica del testo.
Le ultime considerazioni sono
riservate ai tre finali alternativi della
commedia.
Il fascicolo speciale di «Aghios»
termina con delle conclusioni affidate
a Luca Curti, che ricorda come
questi studi abbiano indagato «il
più antico progetto organico di diffusione
del teatro di Italo Svevo
messo in atto dagli eredi» (p. 134), in
anni in cui l’autorità di Livia sui testi
del defunto marito non era ancora
stata messa in discussione da nessuno.
Luca Mendrino
The poetics of decadence in fin-de-siècle
Italy. Degeneration and regeneration in
Literature and the Arts, a cura di Stefano
Evangelista, Valeria Giannantonio
ed Elisabetta Selmi, Oxford,
Peter Lang, 2018, pp. 312.
Decadenza, ammoniva Jacques Le
Goff, «è uno dei concetti più confusi
che siano stati applicati in campo storico
». Anche uscendo dall’ambito propriamente
storico e accedendo a quello
della letteratura e delle arti, «decadenza
» si fa termine quanto mai (fecondamente)
ambiguo e polisemico,
chiave di lettura per intendere e percorrere
quel vasto e sfuggente territorio
dai labili confini che viene comunemente
(ma non concordemente) definito
come Decadentismo, o meglio
poetica decadente, che non si identifica
propriamente con una decadenza.
Ed è proprio da questa parola-snodo
che parte il percorso storico-letterario
di questo volume. Si tratta di
una diversificata raccolta di saggi, in
lingua italiana e in lingua inglese,
che offrono importanti tasselli alla
comprensione della letteratura europea
di fine secolo.
Già il titolo offre una costellazione
di lemmi ciascuno di per sé problematico:
«Decadence», «degeneration»,
«regeneration», e naturalmente il sintagma
«fin-de-siècle». Com’è noto
infatti, molto più che semplice delimitazione
cronologica, come spiega
Stefano Evangelista nell’ampia introduzione
al volume, «fin-de-siècle» è
una «disposizione che si fa poetica».
È senso della fine, una riflessione che
in quegli stessi anni si univa alle coeve
elaborazioni dell’immagine della
nozione stessa di «tempo», da Proust
a Bergson (Materiae Memoria è del
1895).
recensioni 623
Come osservava anche Giacomo
Debenedetti in quell’aureo libretto
che è Le poetiche della modernità, «nessun
secolo come il Novecento invita
a chiedersi quando esso abbia veramente
inizio». Un difficile nodo storiografico,
dunque, che ha impegnato
alcuni tra i maggiori intellettuali
sin da subito, in questo secolo da
molti definito come narcisistico, che
ha subito pensato a ‘storicizzarsi’ a
partire già dal primo conflitto mondiale.
Come pure, difficile nodo è
una periodizzazione interna, con la
quale segnare e seguire i filoni culturali
e artistici degli ultimi decenni
dell’Ottocento. Nel lucidissimo saggio
Di un carattere della più recente letteratura
italiana, Benedetto Croce per
esempio, distingueva due periodi
del fine-secolo: il primo «dal 1865 al
1885 (o dal 1870 al 1890)» da mettere
sotto il nome di Carducci; il secondo
«dal 1885 (o 1890) ai giorni nostri»
(eravamo ai primi del Novecento).
Questo secondo periodo si riassumeva
nella triade Pascoli, D’Annunzio,
Fogazzaro. Il primo periodo sarebbe
stato segnato dall’ideale carducciano
«di ogni animo forte e sensibile, complesso
e sereno»; il secondo, sulla
strada di «una maggiore finezza e
sottigliezza spirituale» si rifletteva
su uno squilibrio interiore, da «malati
di nervi», del mistico e dell’esteta,
con gesti superlativi prodotti dalla
«industria del vuoto».
Entro la cornice implicita ma evidente
del fin-de-siècle, la modernità
veniva definita da Croce attraverso
la sua patologia e correlata a una condizione
dello spirito: Egoarchia, Egocentricità
della vita contemporanea.
Ed in questa dilagante cultura dell’ego
e dell’industria del vuoto, magna
pars aveva naturalmente il radicale
mutamento di quella che veniva maturando
sempre più come industria
culturale, quella «industria del vuoto
» era quella del giornalismo. Sullo
sfondo, naturalmente, era l’industrializzazione,
la crescita ipertrofica
delle «metropoli», una «nuova immensità
» avrebbe detto Mario Morasso
dalle colonne della stessa rivista
crociana «La Critica», uno «spettacolo
vorticoso» di uomini e mezzi
meccanici.
Al centro della prima parte di questo
volume è dunque il lemma decadenza,
declinato in abbinamento a
quello di «degenerazione»; quel pervasivo
senso di una più generica
«malattia» che attraversa la poesia e
la scrittura in genere, oltre che le arti
figurative. È solo una delle chiavi di
lettura della sfrangiatissima poetica
decadente, dai labili confini cronologici
e tematici, oltre che stilistici.
Vengono in mente le riflessioni che
D’Annunzio rilasciò a chiusura di secolo
nella celebre intervista a Ugo
Ojetti: «La malattia […] concorre ad
allargare il campo della conoscenza.
Lo studio dei degenerati, degli idioti,
dei pazzi è per la psicologia contemporanea
uno dei più efficaci modelli
di speculazione, perché la malattia
aiuta l’opera dell’analisi decomponendo
lo spirito. Essendo un disordine
patologico l’esagerazione d’un
fenomeno naturale, la malattia fa
l’officio di uno degli strumenti che
servono ad isolare e ad ingrandire la
parte osservata. In fatti, le conquiste
più notevoli della psicologia contemporanea
sono dovute a psichiatri».
È solo una delle testimonianze di
un clima che percorreva l’Italia e
l’Europa (da Max Nordau a Théodule
Ribot, ad Alfred Binet o Pierre Janet),
nel forte legame tra discipline, saperi
624 recensioni
e linguaggi artistici; un clima e una
riflessione che i letterati e i pittori seguivano
da vicino, dando vita a personaggi
e profili che si facevano immagini
del degenerativo (soprattutto
al femminile), di cui l’Iconographie
photographique de la Salpêtrière di
Charcotè forse uno dei più efficaci
modelli.
«Decadenza», dunque viene inserita
dagli autori del volume nello
stesso campo semantico, pur non sinonimo,
di «degenerazione» e «malattia
», in particolare nevrosi come
morbo sine materia (uno dei più riusciti
titoli di Paolo Mantegazza è appunto
Il secolo nevrosico, 1887).
Ma la «malattia» supera i confini
della patologia – come invece opponeva
Croce – e si fa ben presto condizione
stessa del vivere, stato fisiologico,
quando non necessario dell’essere.
Nonostante il positivismo continuasse
a studiare la mente e le psicopatologie
– fino a Freud, che continua
a utilizzare un metodo positivista,
la degenerazione si fa propriamente
«condizione». Un modello,
ma utilizzato per lo più in funzione
reattiva dagli stessi decadentisti, è
naturalmente uno dei più fortunati
studi di fine Ottocento, firmato da
Max Nordau nel 1892 Degenerazione
(Entartung), quello che William James
ha definito «a pathological book
on a pathological subject», che non a
caso attraversa molte pagine del volume.
Dedicato a Cesare Lombroso,
questo studio inserisce «degenerazione
» all’interno del grande campo
semantico della «malattia», e coglie
come una delle massime espressioni
di degenerazione quel misticismo
che – paladini Fogazzaro o Boine –
veniva diffondendosi negli stessi anni.
Stefano Evangelista insiste a ragione
sull’ideale continuità, o almeno
dialogo, tra l’oltreuomo dannunziano,
il santo di Fogazzaro e il fanciullino
pascoliano. Sono tre figli della
crisi dei valori positivisti, che – per il
panorama italiano – lo studioso collega
direttamente alla crisi della borghesia
e dei valori risorgimentali.
Sono tre figli diversi dello stesso male,
di quella frattura tra l’io e il mondo.
Una frattura insanabile, di fronte
alla quale molti intellettuali reagiscono
chiudendosi in un dandismo di
maniera, come evoluzione di un culto
della personalità tutto romantico;
fuga dalla massificazione. O anche
prendono le vie di un’arte per pochi,
Arte aristocratica per attingere a un
titolo di Vittorio Pica, figura tutt’altro
che secondaria per la storia del
decadentismo in Italia, nel dialogo
con la cultura francese, come emerge
anche dal saggio di Linda Garosi.
E il pensiero a questo punto non
può non correre alla fortunata formula
«malattia dell’ideale», un sintagma
contro cui combattevano i positivisti
(e gli hegeliani di Napoli
raccolti intorno al «Giornale napoletano
di filosofia e di Lettere». E De
Sanctis dichiarava di voler «romper
guerra» contro «la terribile malattia
dell’ideale») e che invece il fine secolo
riabilita come forma non primitiva,
piuttosto evoluta dell’umanità.
Fu soprattutto il primo Nietzsche
vedeva la malattia dell’ideale come
necessaria conseguenza dell’affinamento
dello spirito. Era la più nobile
forma di estraneità al tempo «attuale
» (da cui il fiero sentirsi «inattuale»
appunto).
Collegata direttamente alla parola
«degenerazione» è, nel volume, «rigenerazione
».
recensioni 625
Nel suo saggio Sara Boezio parte
dalla risposta a Nordau, tutta centrata
sulla rigenerazione, firmata da Egmont
Hake nel 1895: Regeneration. A
reply to Max Nordau. In pochi anni
l’effetto Nordau era stato esteso e radicale:
Svevo progettava una commedia,
Rigenerazione, Fogazzaro scriveva
Ascensioni umane (1899), Pascoli
L’era nuova (1899) sul tema della palingenesi.
Sembra dunque che si consumi
nel segno del misticismo la tensione
al rinnovamento. E qui, a ideale
prosecuzione del saggio della Boezio,
si collocano i saggi successivi,
quello di Giulia Brian sulla «mistica
ebbrezza» dell’arte di Fogazzaro e
quello di Elisabetta Selmi sul modernismo
mistico di Fogazzaro e Boine
in dialogo.
Caso diverso, ma perfettamente
integrato in questo percorso, mi sembra
il saggio di Valeria Giannantonio
sul Panzacchi storico dell’arte, secondo
un percorso non insolito di
attraversamento di confini (per Vittorio
Pica si trattò addirittura di una
conversione dalla letteratura alle arti
figurative). L’arte nuova di Panzacchi,
l’arte come segno di civilizzazione
di un popolo, riconduce direttamente
all’arte aristocratica, pur nella
ferma presenza di Carducci come
modello, nella ferma adesione anche
a un gusto naturalistico condito di
moralismo.
Originale senza dubbio, e ben fondata
naturalmente, la lettura di Anna
Zuccari (più nota come Neera) condotta
da Patrizia Zambon, che – consultando
il carteggio Zuccari con Angiolo
Orvieto – giunge a leggere il
romanzo di Neera Nel sogno nella sua
forte carica innovativa, come avanzata
sperimentazione di romanzo
simbolista.
Meritorio anche il saggio di Elena
Borelli, che ha riletto la consueta vulgata
di un D’Annunzio non filosofo,
la sua sostanziale incomprensione di
Nietzsche e Schpenhauer se non nei
loro aspetti esteriori. E il discorso critico
della Borelli naturalmente ruota
intorno a quel gran monumento di
estetismo e di desire che è il Piacere,
ma anche L’innocente o Il trionfo della
morte. Il d’Annunzio poeta è rivelato
invece da Aldo Putignano, che offre
una puntuale lettura dell’Alcyone.
Un decadentismo tra morte e rigenerazione
è anche il tema del saggio
si Michael Subialka che conclude il
volume attraversando le «dive» decadenti,
tra teatro e cinema, Eleonora
Duse e Lyda Borelli.
Attingendo a una bibliografia per
lo più recente e internazionale, nella
piena consapevolezza della vastità
dei nodi e della provvisorietà della
ricerca, questa raccolta di saggi propone
percorsi, interrogativi e alcuni
tasselli utili alla ricostruzione di un
quadro sul quale ancora molto resta
da indagare, sul piano testuale come
su quello teorico. Senescenza, morte,
malattia e insieme bonheur de vivre,
elanvital: spinte contrastanti che si rivelano
qui a illuminare una letteratura
di fine secolo che annunzia a
tinte fosche la consunzione di un
mondo, la consunzione del mondo,
ma insieme anche una rinascita (intesa
come «regeneration»). E così il tema
della malattia, della senescenza
del crepuscolo, si unisce a quello
dell’infanzia.
In questo difficile confine tra vita e
morte, salute e malattia, nella caduta
dei confini tra generi e arti e su una
soglia temporale così incerta come
quella del cambio secolo, forse val la
pena chiudere con una pagina scritta
626 recensioni
a caldo da uno dei protagonisti di
quei decenni, Giovanni Papini. Proprio
nel gennaio del 1900, con il fervore
di un giovanissimo allo specchio
che cerca di comprendere se
stesso e il suo tempo, Papini volgeva
una riflessione che è forse valida per
tutti i tempi, ancora oggi:
«Tutto il giorno m’è frullata in testa
l’idea di un romanzo. Sarebbe
intitolata Giovani […]. L’idea madre
sarebbe che oggi manca un grande
ideale che faccia battere il cuore a
tutti. In me grande e giusta è la sfiducia
per gli uomini della generazione
che ci regge, e d’altra parte ci
accorgiamo di non essere migliori di
loro. […] Non c’è unità, non c’è
azione, non c’è meta. Siamo scettici
e pessimisti, indifferenti o ottimisti
incoscienti; siamo nevrotici, strani,
anormali […]. Che fare? Ecco la terribile
domanda […]. La risposta nessuno
la sa dare. È un crepuscolo di
anime: forse una notte. L’alba sorgerà?
E quando? E da qual parte? O
forse questa notte sarà eterna? Mistero.
Il misticismo vorrebbe essere
la luce futura, ma esso non è che un
bagliore di una luce che passò. La
scienza, benché rosa dallo scetticismo
assoluto, è il nostro vangelo e
non la possiamo rinnegare. Neppure
ci sentiamo così puri, così religiosi
da abbandonare la vita e compiere
la solenne rinunzia […]. Questo stato
di cose io vorrei riprodurre nel mio
romanzo».
Forse allora oggi, in questo tempo
inqualificabile, proprio a inizio secolo
e ai inizio millennio, vien da chiedersi
se stiamo vivendo una condizione
(sociale, culturale, morale) di
fin-de siècle…
Paola Villani
Carlo Nitsch – Guido Trombetti,
Anche le cicale sanno contare, Roma,
Salerno Editrice, 2018, pp. 94.
Il titolo del libro non è innocente. È
naturalmente provocatorio e problematico.
La provocazione, tra l’altro, è
ripresa nel titolo dell’ultimo dei nove
capitoli, in cui il libro si suddivide:
Anche i poeti sanno contare. I poeti, si
sa, sono tradizionalmente distratti.
Come tutti i sapienti, hanno la testa
tra le nuvole. Guardano il cielo e non
vedono un fosso che si spalanca davanti
ai loro piedi. E vi finiscono
dentro, procurando il riso della giovane
serva che assiste al capitombolo.
Se è così, è quasi un miracolo che
sappiano contare.
Le cicale, a loro volta, sono da sempre
una figura del nostro immaginario.
Sono legate al principio di piacere
e perciò sono opposte alla ragione
calcolante delle formiche. Esopo e La
Fontaine stanno decisamente dalla
parte dell’animale laborioso, che
provvede al suo futuro. Ma già Gianni
Rodari scelse di stare dalla parte
della cicala contro l’avara formica.
La cicala non vende ma regala il suo
bel canto. Le cicale sono gli animali
da cui parte il racconto di Nitsch e
Trombetti. Gli autori sottolineano
una strana circostanza. In Nord
America vive un esemplare di cicala
che esce dal letargo ogni 13 anni. Un
altro della medesima famiglia riappare
ogni 17. 13 e 17 sono numeri primi.
Le cicale in realtà, ci rassicurano
gli autori, «non sanno contare» (p.
14). La loro apparizione è regolata da
un principio naturale, che agisce in
loro come un istinto.
Proprio per questa via, attraverso
il gioco di paradossi clamorosi, il libro
svela il suo obiettivo principale.
recensioni 627
Di fatto è, nel suo senso generale, l’epopea
dei numeri primi. Essi sono
un’«entità che prescinde dall’ingegno
umano». (p. 8). I numeri primi
stanno agli autori come i quattro elementi
stanno ai Presocratici, a quei
filosofi, cioè, che incarnano, per dirla
alla Giorgio Colli, la sapienza greca.
Un lettore che non sia matematico
può leggere il libro esattamente come
l’epica dei numeri primi. Può attraversarlo
come la ricostruzione
della loro presenza ininterrotta nella
cultura degli uomini. La storia parte
da molto lontano. Almeno dall’osso
di Ishango, che risale a più di 20.000
anni fa. Su quest’osso sono incise
delle tacche in cui compaiono i numeri
primi compresi tra 10 e 20. Successivamente
Euclide dimostra che
lo studio dei numeri primi è stato un
tema di esplorazione fin dall’antichità.
E per millenni i matematici hanno
cercato un principio che trovasse una
giustificazione nel disordine di quella
successione apparentemente anarchica
e arbitraria.
Se «la matematica è la regina delle
scienze, la teoria dei numeri è la regina
della matematica», osserva Gauss.
Così si spiega l’interesse per la loro
distribuzione e la loro vicinanza. Il
viaggio avventuroso in mezzo alla
selva dei numeri, ci dicono gli autori,
è simile a una favola. I loro percorsi
«si possono raccontare a chiunque
passeggiando. O seduti a un caffé.
Sono intrisi del fascino ‘dell’inutile
intelligente’» (p. 30).
Il percorso, che il libro costruisce,
si snoda attraverso i capitoli in cui il
ragionamento si organizza. Ci imbattiamo
nei numeri primi gemelli e
nelle congetture che provano a mettere
un ordine dove la regola sembra
assente. Incrociamo soprattutto i
problemi dei messaggi cifrati, lungo
una sequenza temporale avvincente,
che ci porta dai Romani al disco cifrante
di Leon Battista Alberti fino a
Arthur Scherbius. Questi, nel 1918,
mise a posto la macchina Enigma.
che «se non è il più complesso gioco
enigmistico, è il più famoso» (p. 42).
e provocò, a sua volta, ulteriori sviluppi,
che produssero sistemi ancora
più sofisticati.
Lungo questo cammino incontriamo
quelli che, nella trama del racconto,
diventano i grandi eroi epici,
per le cui imprese batte il cuore degli
autori. Pierre Fermat (morto nel
1665) enuncia un problema (più che
un teorema) che, negli ultimi quattro
secoli, spinge i grandi protagonisti
della scienza a trovare una risposta,
«probabilmente intrigati dal contrasto
tra l’incontenibile semplicità del
problema e la complessità della sua
soluzione» (p. 48). Da Fermat si può
tornare indietro a un matematico cinese
del terzo secolo, Sunzi, per arrivare
nel XII secolo a Fibonacci. La ricerca
è senza fine. Letteralmente interminabile.
Può procedere nel tempo
avanti e indietro. Assume sollecitazioni
curiose e prova a trovare una
spiegazione adeguata e inoppugnabile.
E la scoperta di un numero primo
grandissimo, da record, non è
solo una nuova voce nel Guiness dei
primati. Permette di creare chiavi
più grandi e quindi sistemi più sicuri
nella codificazione dei messaggi.
Da Fremat si può passare a un giovane
matematico di Bologna, Pietro
Mengoli, che si pone nuove domande
a cui dare risposte. Spesso i quesiti
nascono proprio da ricercatori giovanissimi.
Con assoluto candore essi
mettono in gioco enigmi raffinati,
che richiedono spiegazioni scientifi628
recensioni
camente articolate. E queste domande
si incrociano con paradossi antichissimi,
come l’esempio clamoroso,
proposto da Zenone, di Achille e la
tartaruga e del loro inseguimento.
Questi esempi obbligano a dare interpretazioni
convincenti. Costringono
a proporre tesi originali e contestare
ipotesi preesistenti. Il problema,
suscitato da Mengoli, genera
ipotesi fino a quando uno svizzero
geniale, Eulero, nel 1753, lo risolve,
guadagnando ammirazione e suscitando
stupore.
Eulero è l’eroe massimo di questo
poema. Rappresenta l’Achille di una
particolare epica, che ha al suo centro
la ricerca degli uomini e il loro tentativo
di fornire risposte. Eulero vanta
900 pubblicazioni e un’opera omnia di
74 volumi. La sua capacità di lavoro
procedeva al ritmo di una pubblicazione
a settimana. Gli storici e i contemporanei
hanno evocato per il suo
caso la magia Eulero è paragonato a
un mago: a uno stregone, che fa prodigi
senza svelare il trucco di cui si serve.
Condorcet, che svolse l’elogio funebre,
afferma che Eulero morì quando
smise di calcolare. Nel suo caso vita
e numeri, esistenza e lavoro scientifico
trovano una perfetta sintesi.
Naturalmente nel campo della ricerca
non ci sono risultati definitivi.
Nessuna scoperta chiude il circolo. I
numeri primi sono infiniti e diventano
sempre più rari, via via che aumenta
la loro grandezza. Quando se
ne trova un altro, prima ignoto, i limiti
della conoscenza si spostano in
avanti. Non significa che una nuova
acquisizione immediatamente serva.
La tecnologia sfrutterà ogni conquista,
ma nessuna sembra avere un’immediata
ricaduta pratica. Questa osservazione
riguarda qualunque scoperta:
anche quelle più avanzate o
rivoluzionarie come il bosone o simili.
La vera importanza sta altrove:
«Ovviare o risolvere nuovi problemi
aguzza, per così dire, l’ingegno». (p.
80). Proprio dentro un tale ambito
possiamo trovare la forza e anche la
bellezza di quel continuo rompicapo
che è la scienza. Tuttavia, mentre
procede, la storia della scienza non è
mai radicalmente nuova. Dietro ogni
conquista si nasconde un’idea radicata
nel passato. Euclide, Fremat, Eulero,
Gauss, Riemann tracciano una
linea progressiva. Ma l’itinerario che
essi descrivono si può anche percorrere
all’indietro e procedere da Riemann
ad Archimede ed Euclide.
Il nono e ultimo capitolo mostra in
che modo i poeti sappiano contare.
Gli autori riprendono uno dei racconti
più inquietanti di Buzzati: I sette
messaggeri. Analizzando il suo contenuto
(sette messaggeri che dovrebbero
tornare indietro al punto di
partenza del viaggio e poi raggiungere
di nuovo il loro comandante secondo
un movimento continuo) Buzzati
racconta lo scorrere del tempo,
l’intervallo sempre più grande tra
partenza e arrivo e l’attesa senza fine
di un evento: fino a quando fatalmente
la morte interrompe la catena
di questi arrivi e partenze. A questo
esempio chiarissimo si può aggiungere
che, nella struttura della Ginestra,
a Leopardi il punto serve per
mostrare quanto sia piccolo il sistema
solare nei grovigli di stelle che
formano la via lattea. Proprio sulla
base di questa osservazione egli abbatte
ogni idea di supposta grandezza
del genere umano e lo riporta precisamente
alla dimensione di punto
nell’Universo.
Forse sì, hanno ragione gli autori. I
recensioni 629
poeti, le cicale e forse anche chi continua
a pensare che i numeri siano
segni del demonio possono contare:
anche se non sanno che cosa siano i
numeri primi e non sono consapevoli
che la loro serie è infinita. Dai numeri
non c’è salvezza. Possiamo
ignorarlo ma la cosa non cambia. Mi
sembra perciò che si possa condividere
questa conclusione. Si può «nascondere
la matematica senza nascondersi
dalla matematica».
Matteo Palumbo

LIBRI RICEVUTI
Bussotti Alviera, «Belle e savie». Virtù e tragedia nel primo Settecento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2018, pp. 104.
Bussotti Alviera, Forme della virtù. La rinascita poetica da Gravina a
Varano, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2018, pp. 232.
Castagnino Angelo, «Fatevi portatori di storie». Alessandro Perissinotto
fra giallo e romanzo sociale, Ravenna, Giorgio Pozzi, 2018, pp. 174.
Chiodo Domenico, Torquato Tasso poeta gentile, Manziana, Vecchiarelli,
2018, pp. 228.
De Liso Daniela, Salvator Rosa tra pennelli e versi. Con la raccolta di
tutte le Poesie, Firenze, Cesati, 2018, pp. 26.
Drago Angela Gigliola, Verga. La scrittura e la critica, Pisa, Pacini,
2018, pp. 334.
Giorgino Simone, Poeti in rivolta. Lavoro e industria nella poesia italiana,
Avellino, Edizioni Sinstesie, 2018, pp. 174.
Parini Giuseppe, «La Gazzetta di Milano» (1769), a cura di Giuseppe
Sergio. Edizione Nazionale delle Opere di Giuseppe Parini, Pisa-Roma,
Serra editore, 2018, pp. 506.
Raimondi Andrea, Il multilinguismo degli scrittori piemontesi. Da Cesare
Pavese a Benito Mazzi. Introduzione e cura di Gigliola Sulis, Domodossola,
Grossi, 2018, pp. 294.
Rati Anna Rita, «Una vaghissima mescolanza». Sondaggi sul “patetico”
nel teatro comico italiano fra Cinquecento e Seicento, Canterano (Roma), Aracne,
2018, pp. 254.
Sodano Rossana, Cavalcanti restituito agli Epicuri, Manziana, Vecchiarelli
editore, 2018, pp. 464.
Studi di letteratura italiana in onore di Gino Tellini, a cura di Simone Magherini,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2018, 2 tomi, pp. 1180 (Biblioteca
Palazzeschi, 17).
Tateo Francesco, Pontano poeta. Carmi scelti e frammenti con traduzione
italiana, Foggia, Edizione del Rosone, 2018, pp. 278.
Toscano Tobia R., Tra manoscritti e stampati. Sannazaro, Vittoria Colonna,
Tansillo e altri saggi sul Cinquecento, Napoli, Paolo Loffredo, 2018 (Le
ricerche di «Critica letteraria», 29), pp. 368.