Anno XLVI (2018), Fasc. II, N. 179

Anno XLVI (2018), Fasc. II, N. 179

  1. Saggi
    • BRUNO CAPACI

      La rosa di Lucrezia Borgia – pp. 211-229

      Questo studio analizza la relazione tra il romanzo Lucrezia Borgia di Maria Bellonci
      e la sua fonte principale verificando i punti di contatto e di allontanamento
      tra la voce romanzesca di Lucrezia e quella che sale dai carteggi dell’Archivio
      Segreto Estense. Lo scopo non è quello di censurare la libertà interpretativa
      delle carte da parte di Maria Bellonci ma di arricchire la prospettiva critica mediante
      la lettura delle Familiares di Lucrezia Estense de Borgia.

      This study analyses the relationship between Maria Bellonci’s novel Lucrezia
      Borgia and its main source, highlighting the similarities and differences between
      the fictional voice of Lucrezia and that arising from the letters held at the
      Archivio Segreto Estense. The aim is not to censure Maria Bellonci’s free interpretation
      of the archive material but rather to enrich our critical understanding
      through the reading of Lucrezia Estense de Borgia’s Familiares.

    • STELLA CASTELLANETA

      Napoli Incauta. Eroi martiri e tiranni, tra scienza nuova teatro e utopia – pp. 231-265

      La ricerca, condotta presso le biblioteche e gli archivi di Napoli, Roma e Firenze,
      indaga il rapporto fra culture scientifiche, teosofiche, teologiche e letterarie
      del Viceregno. Dal rogo degli scritti astrologici di Pontano e del De rerum natura
      di Telesio all’Incendio del Vesuvio del 1631, si vuol far luce sulla composita stratigrafia
      accademica partenopea e sulla scrittura scenica del Liceo Incauto, intrisa
      di umori civili. Tale drammaturgia si apre al dibattito sulla sovranità e sul
      libero arbitrio, tesaurizzando, tra gli altri, Dante, Boccaccio, Ariosto, Tasso, Della
      Porta e Marino.

      This study, carried out in libraries and archives in Naples, Rome and Florence,
      delves into the relationship between scientific, theosophical, theological and
      literary cultures in the Viceroyalty. From the burning of Pontano’s astrological
      writings and Telesio’s De rerum natura to Incendio del Vesuvio (1631), it aims to
      shed light on the complex academic stratification in Naples and on the civicminded
      theatrical output of the Liceo Incauto. This dramaturgy engages with
      the themes of sovereignty and free will, drawing on Dante, Boccaccio, Ariosto,
      Tasso, Della Porta, Marino and others.

    • Francesca Bianco

      Le poesie di Ossian. Osservazioni critiche di Cesarotti a Le Tourneur – pp. 267-292

      Lo studio mette a confronto le tre maggiori edizioni dell’Ossian cesarottiano (le
      due cominiane del 1763 e 1772 – sostanzialmente sovrapponibili per l’aspetto
      qui indagato– e la pisana del 1802), tenendo conto della versione francese di Le
      Tourneur, apparsa nel 1777. Nell’apparato critico l’abate dialoga con il collega
      francese commentando le sue scelte linguistiche e stilistiche, che non mancheranno
      di influenzare l’ultima edizione italiana.

      This essay compares the three major editions of Cesarotti’s Ossian (the two published
      by Giuseppe Comino in 1763 and 1772 – essentially the same from the
      standpoint of the present essay – and the one published in Pisa in 1802), taking
      into account the French translation by Le Tourneur which came out in 1777. In the
      critical apparatus the writer dialogues which his French colleague, commenting
      on a language and style that would eventually influence the final Italian edition.

  2. Meridionalia
    • NUNZIO RUGGIERO

      Una vittoriana della Nuova Italia Mediazione culturale e militanza politica nell’opera di Fanny Zampini
      Salazar
      – pp. 341-360

      Pioniera della battaglia per l’emancipazione femminile nell’Italia postunitaria,
      Fanny Zampini Salazar (1853-1937) promosse un intelligente tentativo di sintesi
      tra le istanze del cattolicesimo liberale italiano e quelle del riformismo sociale
      anglosassone. L’analisi della sua misconosciuta produzione letteraria, in seno
      alla civiltà dei traduttori e dei mediatori culturali fiorita a Napoli nel secondo
      Ottocento, è essenziale per intendere gli sviluppi della sua lunga carriera di
      giornalista, dedita alla costruzione di una rinnovata identità civile per le donne
      italiane.

      As a pioneer in the battle for women empowerment after the Italian unification,
      Fanny Zampini Salazar (1853-1937) proposed an intelligent synthesis between
      the principles of the Italian liberal Catholicism and those of social reformism
      derived from the Anglo-Saxon tradition. The analysis of her unrecognized literary
      activity, within the thriving Neapolitan milieu of translators and cultural
      mediators in the second half of the 19th century, is essential to understand her
      long career as a journalist, towards the development of the public identity of
      Italian women.

  3. Contributi
    • Davide Colombo

      Ettore Cozzani fra Dante e Pascoli – pp. 361-375

      L’articolo indaga gli studi danteschi di Ettore Cozzani (1884-1971) secondo tre
      linee di ricerca: le postille inedite a due biografie dantesche; le lecturae Dantis e
      le conferenze conservate presso l’archivio dell’Istituto Lombardo di Milano; il
      rapporto con Pascoli dantista, al quale Cozzani dedicò il volume del 1939 Pascoli.
      Il poeta di Dante.

      This article investigates the work on Dante carried out by Ettore Cozzani (1884-
      1971), looking at three distinct aspects: the unpublished marginal notes in two
      Dante biographies; the lecturae Dantis and the conference papers kept in the
      archives of the Istituto Lombardo in Milan; the relationship with Pascoli’s writings
      on Dante, a subject to which Cozzani devoted a book published in 1939,
      Pascoli. Il poeta di Dante.
      1. Nel 1913 un numero speciale

    • Michele Mongelli

      Forma epigrammatica ed inventio letteraria nelle Epistolae ad Hiaracum di Elisio Calenzio – pp.
      377-399

      Nelle sue epistole dirette a Iaraco, pseudonimo del principe Federico d’Aragona,
      l’umanista Elisio Calenzio seppe armonizzare temi e forme appartenenti
      tradizionalmente ai due generi ‘pedestri’ dell’età classica, la satira e l’epigramma.
      Il contributo analizza le riscritture, i motivi metaletterari ed i parallelismi
      concettuali che legano la raccolta epistolare quattrocentesca con i Sermones di
      Orazio e gli Epigrammi di Marziale, di cui Calenzio si dimostra attento lettore.

      In his epistles to Iaraco, pseudonym of prince Frederick of Aragon, the humanist
      Elisio Calenzio harmonises themes and forms traditionally belonging to the
      two ‘pedestrian’ genres of the classical age, satire and epigram. This essay analyses
      the rewritings, the metaliterary motifs and the conceptual parallelisms
      that link the fifteenth-century epistolary collection with Horace’s Satires and
      Martial’s Epigrams, of which Calenzio proves to be an attentive reader.

  4. Recensioni
    • Ilaria Macera

      In trincea. Gli scrittori alla Grande Guerra. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze, 22-24
      ottobre 2015, a cura
      di Simone Magherini, Firenze 2017
      – pp. 401-404

    • Pietro Sisto

      Antonio Lucio Giannone, Sentieri nascosti. Studi sulla Letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Lecce
      2016
      – pp. 404-405

    • Claudio Brancaleoni

      Raul Mordenti, I sensi del testo. Saggi di critica della letteratura, Roma 2016 – pp. 405-409

    • Simona Lomolino

      L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, a cura di Maria Agostina Cabiddu, prefazione di
      Francesco Sabatini,
      Milano 2017
      – pp. 409-411

    • Gandolfo Cascio

      Giorgio Montefoschi, Il corpo, Milano 2017 – pp. 412-414

    • Paola Villani

      Fuoco. Terra. Aria. Acqua, a cura di Edoardo Sant’Elia, Lecce 2017 – pp. 415-418

Saggi
BRUNO CAPACI
La rosa di Lucrezia Borgia*
Questo studio analizza la relazione tra il romanzo Lucrezia Borgia di Maria Bellonci
e la sua fonte principale verificando i punti di contatto e di allontanamento
tra la voce romanzesca di Lucrezia e quella che sale dai carteggi dell’Archivio
Segreto Estense. Lo scopo non è quello di censurare la libertà interpretativa
delle carte da parte di Maria Bellonci ma di arricchire la prospettiva critica mediante
la lettura delle Familiares di Lucrezia Estense de Borgia.

This study analyses the relationship between Maria Bellonci’s novel Lucrezia
Borgia and its main source, highlighting the similarities and differences between
the fictional voice of Lucrezia and that arising from the letters held at the
Archivio Segreto Estense. The aim is not to censure Maria Bellonci’s free interpretation
of the archive material but rather to enrich our critical understanding
through the reading of Lucrezia Estense de Borgia’s Familiares.
Non esiste oggi un’edizione critica delle lettere di Lucrezia Borgia1,
sebbene la sua corrispondenza punteggi il dettato di celebri romanzi a
lei dedicati nel tentativo di renderli più simili a una biografia. Proprio
dalle lettere contenute nell’archivio segreto estense e conservate pres-
Autore: Alma Mater Studiorum – Università di Bologna; ricercatore confermato;
mail: bruno.capaci2@unibo.it.
* Il titolo è suggerito da un epigramma di Ercole Strozzi dedicato alla Duchessa
di Ferrara: «Laeto nata solo, dextra, rosa, pollice carpta /undetibi solito pulcriorunde
color?/ Num te iterumtinxit Venus?an potiustibi tantum/Borgia purpureo
praebuit ore decus?».
1 Per quanto riguarda le edizioni e gli studi sulle lettere di Lucrezia Borgia si
veda quanto segue: Guy Le Thiec, Lucrèce Borgia. Lettres d’une vie, Paris, Payot,
2014; Sara Locci, La correspondenciaentre Isabella d’Este y Lucrezia Borgia: arte, piedad
y linaje en las cortes del renacimiento italiano, Múrcia, Universidad de Murcia: Departamento
de Historia del Arte, 2015; Rita Fresu, Alla ricerca delle verità intermedie
della scrittura femminile tra XV e XVI secolo: lettere private di Lucrezia Borgia e di
Vannozza Cattanei, «Contributi di filologia dell’Italia mediana», XVIII (2004), pp.
41-82.
Saggi
212 la rosa di lucrezia borgia
so l’Archivio di Stato di Modena trarremo i documenti di una narrazione
che scorre parallela accanto a quella più nota verificando i punti
di contatto e di allontanamento tra le due, non tanto per scrupolo post
positivista, quanto per dar voce alle lettere estensi di Lucrezia Borgia.
Se nel Cinquecento fu oggetto nel contempo di laudatio (Ariosto2,
Bembo3, Giovio4) e vituperatio (Guicciardini5 Sannazaro e Savonarola6),
di versi encomiastici e satirici, dediche di opere e annotazioni pesantemente
critiche, Lucrezia Borgia nel secolo XIX salì sul palcoscenico
prima con Victor Hugo, e poi con l’opera di Romani e Donizetti per
divenire “mostro morale”, allorché gli arcana imperii si trasformarono
in voci declamate.
Dal 1878 e dallo studio di Ferdinand Gregorovius è iniziato il processo
di riabilitazione della Duchessa di Ferrara mediante l’escussione
2 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Canto XIII, LXIX, LXX, Canto XLII,
LXXXII.
3 La dedica di Pietro Bembo collega il mondo della corte ideale a quello di
Lucrezia e per culminare nell’elogio delle virtù intellettuali della Signora di Ferrara:
«Et averra; che quello, che altri giovani hanno con altre donne tra gli sollazzi
d’altre nozze ragionato, voi nelle vostre con le vostre damigelle et cortigiani da me,
che vostro sono, iscrittivi leggerete. Il che et farete voi peraventura volentieri; si
come quella; che vie più vaga d’ornare l’animo delle belle virtù, che di care vestimenta
il corpo, quanto più tempo per voi si può, ponete sempre o leggendo alcuna
cosa o scrivendo; forse acciò che di quanto con le bellezze del corpo quelle delle
altre donne soprastate, di tanto con queste dell’animo sormontiate le vostre, et
siate voi di voi stessa maggiore, amando troppo più di piacere a voi sola dentro,
che a tutti glialtri di fuora (quantunque questo infinitamente sia) non piacete», cfr.
Pietro Bembo, Gli Asolani di Messer Pietro Bembo, Venetia, Case d’Aldo romano,
1505, p. 14. Per l’epistolario tra Pietro Bembo e Lucrezia Borgia, cfr. La grande fiamma:
lettere 1503-1517, Pietro Bembo, Lucrezia Borgia, a cura di Giulia Raboni, Milano,
Archinto, 2007.
4 Paolo Giovio, La vita di Alfonso d’Este, Venezia, Gio. Battista e Gio. Bernardo
Sessa, 1507, p. 13.
5 «Al quale matrimonio, molto indegno della famiglia da Esti, solita a fare parentadi
nobilissimi, e perché Lucrezia era spuria e coperta di molte infamie, acconsentirono
Ercole e Alfonso perché il re di Francia, desideroso di sodisfare in tutte
le cose al pontefice, ne fece estrema instanza; e gli mosse oltre a ciò il desiderio di
assicurarsi con questo mezzo (se però contro a tanta perfidia era bastante sicurtà
alcuna) dall’armi e dall’ambizione del Valentino: il quale, potente di danari e di
autorità della sedia apostolica e per il favore che aveva dal re di Francia, era già
formidabile a una grande parte d’Italia, conoscendosi che le sue cupidità non avevano
termine e freno», cfr. Francesco Guicciardini, Storia di Italia, a cura di Silvana
Seidel Menchi, Torino, Einaudi 1971, l. 5, cap. VI, p. 198.
6 Girolamo Savonarola, Prediche sopra Ezechiele, a cura di Roberto Ridolfi,
Roma, Bellardetti, 1955, II, p. 59.
[ 2 ]
bruno capaci 213
delle fonti archivistiche, imprescindibile presupposto filologico. Si è
cominciato così a scrivere la storia vera di Lucrezia Borgia, dal romanzo
di Maria Bellonci (1939) a quello Sarah Bradford (2014). Ora, in
considerazione del fatto che ogni romanzo si proclama storia vera,
sulla base della finzione autobiografica e talvolta dell’espediente del
manoscritto ritrovato7, si deve dire che nel caso di Lucrezia Borgia la
situazione è rovesciata in quanto le fonti manoscritte sono reali e, soprattutto,
continuano a interrogare, più che a rispondere, chi pretende
di interpretarle. Possiamo chiederci se è vero che lo scrittore nel suo
approccio ai documenti di archivio non affidi al proprio fantasma letterario
la scelta di quali leggere e quali lasciar cadere. D’altra parte è
vero che la storia non può insegnare se non narrando e senza particolari
responsabilità su ciò che si tralascia perché quello che conta per
chi scrive è fornire ai propri lettori un ritratto e nello stesso tempo un
modello di azione8.
A volte pare che il narratore preferisca una storia già raccontata,
una cronaca con aspetti paraletterari a un fascio di documenti ancora
da organizzare. Manzoni non lesse gli atti del processo canonico a Virginia
de Leyva ma si nutrì della Storia del Ripamonti nello scrivere le
pagine sulla monaca di Monza. Così Maria Bellonci, pur sostando a
lungo tra le lettere di Lucrezia, si è cibata non meno della “biografia
scientifica” del Gregorovius che del racconto iconografico di Lucrezia9
ma soprattutto ha utilizzato i materiali organizzati sotto il profilo
cronachistico e memorialistico, cogliendone il punto di vista sul suo
personaggio10. Voglio dire che Lucrezia Borgiadi Maria Bellonci si era
già specchiata in questi racconti che a loro volta si riflettono sulle pa-
7 Monica Farnetti, Il manoscritto ritrovato. Storia letteraria di una finzione, Firenze,
Società editrice fiorentina, 2006.
8 Nadia Fusini, Introduzione, in Narrare la storia. Dal documento al racconto, Milano,
Mondadori, 2006, p. 12.
9 Anna Pozzi, Il Museo di Maria Bellonci: la letteratura tra e con le arti, in Cantieri
dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del
XVIII congresso dell’ADI Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 Settembre
2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giulio Ferroni e Ester
Pietrobon, Roma, ADI editore, 2016, p. 86.
10 Sto pensando a cronache illustri come quelle di Marin Sanudo, Diarii, a
cura di Rinaldo Fulin, Venezia, Visentini, 1879; Bernardino Zambotti, Diario
ferrarese dall’anno 1476 sino al 1504, appendice al Diario Ferrarese dall’anno 1409 sino
al 1502 di autori incerti, a cura di Giuseppe Pardi, in Rerum Italicarum Scriptores,
XXIV//7 Bologna, Zanichelli, 1928, e principalmente il Diarium sive Rerum Urbanarum
Commentarii (1483-1506) del vescovo alsaziano Johannes Burckardt il quale a
partire dal 1491 annota, tra gli altri, i fatti salienti della vita di Lucrezia.
[ 3 ]
214 la rosa di lucrezia borgia
gine del suo romanzo creando la patina di antichità che costituisce
uno dei pregi maggiori del récit bellonciano11. Ma certamente Lucrezia
Borgia è entrata in contatto con Maria Bellonci mediante la sua corrispondenza.
Quali tracce abbiano lasciato queste fonti nella narrazione
della scrittrice romana è cosa che ci proponiamo di verificare. Interesse
di questo studio non è quello di contestare a posteriori la colta e
fervida ispirazione letteraria della Bellonci e tantomeno quello di censurare
il diritto di orchestrare, e manipolare le carte, sancito dagli statuti
del narratore, con un incongruo quanto tardivo intervento censorio.
Bensì si vorrebbe far emergere le ipotesi critiche suscitate dalla
corrispondenza personale della Duchessa che la stessa Bellonci ammetteva
non essere né copiosa né continuata mentre riteneva che la
fonte più viva fosse data dalle informazioni degli oratori e dei corrispondenti12.
Proprio questo ha ostacolato la non completa presa in carico
delle lettere di Lucrezia, cioè la loro discontinuità temporale e la
non omogenea distribuzione tra gli interlocutori. Si è preferito il ricorso
ad altre più continue sorgenti del flusso narrativo. Inoltre è possibile
provare che Maria Bellonci quando scrive Lucrezia Borgia ha già attivato
il processo di empatia nei confronti delle donne illustri che Scurati
individua all’altezza di Rinascimento privato e che dunque non si è
limitata ad assumere la posizione del «detective che scova scopre e
studia fino a scoprire aspetti inediti che rivaleggiano con lo studio
degli storici protagonisti»13. Pare che Maria Bellonci abbia sovrastato
la impercettibile voce epistolare di Lucrezia con la calda, appassionata
e carezzevole nuance, quasi un«sapore d’epoca», cosparsa magistralmente
sulle pagine del romanzo. In questo racconto Maria Belloncinon
assume la parola della duchessa di Ferrara, bensì quella offerta
dal commento dei tanti narratori che popolano le corti cinquecentesche14.
Maria Bellonci, che non fa mai parlare Lucrezia in prima persona,
al contrario di quanto farà con Isabella15, dà vita a un personaggio
filtrato dal racconto delle storie più di quanto sia espresso dal dettato
11 Giuseppe Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di Maria Bellonci, in
Narrare la storia. Dal documento al racconto, cit., p. 101.
12 Maria Bellonci, Quaderno di Lucrezia Borgia, in Ead., Opere, a cura di Ernesto
Ferrero, Milano, Mondadori, 1994, vol. I, p. 662.
13 Antonio Scurati, Dal Tragico all’osceno. Raccontare la morte nel XXI secolo,
Milano, Bompiani, 2016, p. 145.
14 G. Antonelli, La voce dei documentinella scrittura di Maria Bellonci, in Narrare
la storia. Dal documento al racconto, cit., p. 99.
15 Ibidem.
[ 4 ]
bruno capaci 215
delle lettere16 nel secolo in cui il volgare si era fatto lingua pratica arricchendosi
di tecnicismi e accogliendo l’eredità del latino cancelleresco17.
1. «Obediente figliola»
Non è rimasta una sola lettera di Lucrezia ad Alfonso I che sia anteriore
al 1505 e dunque non ci è dato sapere di cosa trattasse il loro
dialogo epistolare negli anni che precedettero l’ascesa della coppia al
rango di duchi di Ferrara. Durante le trattative nuziali dell’autunno
1501, Lucrezia scriveva di proprio pugno lettere al suocero e riusciva
in questo modo ad accreditarsi presso di lui come «obediente figliola
et servitrice». Scriveva anche al cognato Ippolito per confermargli i
benefici richiesti e previsti a margine del suo contratto nuziale. La
ventunenne nubenda tratta la felicità futura come un affare diplomatico
dimostrando in questo modo quanto le fossero chiare le ragioni di
realpolitik poste alla base del suo nuovo legame. Cominciando a dar
voce al “ventriloquo narrativo” prodotto dalle due narrazioni osserviamo
come Maria Bellonci ci induca a pensare che Lucrezia ricorresse
a lettere altrui per operare una sorta di revisione della propria immagine
presso la corte ferrarese:
Chi ha seguito fin qui gli accordi tra gli Este e i Borgia e ha visto con
che impasse procedessero non riesce a trovare una relazione fra una
Lucrezia ansiosa di mostrarsi perfetta, una Lucrezia che mobilitava i
suoi amici perché scrivessero di lei ad Ercole martellando sulla parola
virtù con questa Lucrezia alla vigilia di Ognisanti[si fa riferimento a un
convito i cui particolari scabrosi sono testimoniati dal Burcardo18.
16 Le lettere di Lucrezia Borgia presentano una doppia natura sia cancelleresca
sia privata senza che si possa avvertire una netta soluzione di continuità. Se il
contenuto e spesso il formulario in cui sono redatte senz’altro rispecchia le tecniche
retoriche del dispaccio e dell’«adviso», molto simili a quelle che possiamo in
quegli anni riscontrare nella corrispondenza di legazione di Niccolò Machiavelli, è
pur vero che il dialogo in esse contenuto concerne non solo lo Stato ma anche
aspetti della vita privata e che, accanto all’uso di frasi formulari, troviamo il ricorso
alla brevitas e all’ironia misurata come indicazione dello stile proprio della Duchessa
di Ferrara.
17 Gianfranco Folena, Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale,
Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 10.
18 M. Bellonci, Lucrezia Borgia, cit., p. 265.
[ 5 ]
216 la rosa di lucrezia borgia
Vedremo come Lucrezia gestisse personalmente la corrispondenza
con il Duca di Ferrara e come le preoccupazioni delle sue lettere fossero
concrete e non interessate a smentire la sua partecipazione al banchetto
baccanale del 31 Ottobre 1501, descritto da Johannes Burckardt
nel Diarium. Giunti all’altezza temporale della più tarda Lucrezia Borgia.
Una intervista impossibile (1974) Maria Bellonci mette in scena uno
stato di latente ostilità tra la figlia del papa e il Duca ferrarese descritto
come un ladro di dote:
Volevo salvarmi, volevo non tremare più e soprattutto non volevo più
accusare gente del mio sangue. Scelsi bene in quel momento. Loro gli
Este erano feudatari della Chiesa non potevano dire di no a mio padre.
Il duca di Ferrara mio suocero era duro ma avaro. Gli ho portato settanta
carri stipati di oro19.
Non è forse questa la visione che aveva Lucrezia di Ercole I bensì
quella che aveva espresso esplicitamente Alessandro VI parlando con
gli ambasciatori ferraresi che avevano visto il loro signore trattato da
mercatante20, come scrive la vera Lucrezia quando si rivolge a Ercole
I?
Non appare così fredda e distaccata ma, anzi, si mostra tenera, devota,
e pronta a proporsi oratrice presso il Papa dei punti più spinosi
del negoziato matrimoniale, che, pur già siglato il 1 Settembre 1501,
presentavauno strascico di clausole in via di definizione. Certo tutto
quanto scrive Lucrezia è nei limiti del dettato cancelleresco, ma in lettere
redatte di proprio pugno. Questa attenzione non è indifferente
perché rappresenta il massimo segno di distinzione riservata al destinatario
da parte di chi scrive una missiva.
Basta leggere qualche stralcio della loro corrispondenza per comprendere
come Ercole e Lucrezia sapessero suscitare tra loro uno stato
di reciproca attenzione e benevolenza. La figlia del papa affina le proprie
attenzioni nei confronti del Duca alla prima notizia di una sua
indisposizione esibendo l’esibizione di un vero e proprio galateo della
sofferenza:
Avendo per lettere de sua Signoria a questi soi oratori qui intesa la indisposition
de vostra Signoria illustrissima, ne ho presa tanta displia-
19 Ead., Lucrezia Borgia. Una intervista impossibile, in M. Bellonci, Opere, cit.,
vol. I, p. 775.
20 F. Gregorovius, Lucrezia Borgia secondo documenti e carteggi del tempo, Firenze,
Le Monnier, 1876, p. 196.
[ 6 ]
bruno capaci 217
centia quanto de cosa molesta avessi potuto intender, et maxime in
non essermi trovata presente per posserla servirecomo è mio unicho
desiderio, et havendo il tutto fatto intender alla Santità de nostro Signore
ne ha dimostrato sua Beatitudine fastidio e dispiacer non mediocre,
como quella che non meno desidera la prosperità e sallute de vostra
Signoria illustrissima, como più difusamente per il breve di sua
Santità intenderà. Pur essendo stato poi il successo dessa per gratia di
Dio assai bono et breve ne simo stati tutti con l’animo quieto e riposato.
Supplico dunque vostra Signoria che li piaccia per l’avvenire avere
bona cura e riguardo per la preservazione de sua valitudine e longa
vita in satisfatione precipua della paternità santa e poi dello illustrissimo
signore mio fratello e mia como dei suoi servitori e figlioli21.
La risposta del Duca, che ricevendo i 300.000 ducati dalla dote pretendevaanche
una berretta cardinalizia per il cancelliere Zoanne Luca
Pozzo e un episcopato per il figlio Julio, appare molto affettuosa e
paterna, anticipatrice in questo senso di quello che le scriverà due anni
più tardi, quando Lucrezia perderà padre e fratello. Ora risponde
così alle preoccupazioni della «obediente figliola»:
La lettera che questo dì vostra Excellentia ne scrisse c’è stata summamente
grata si perché tuttele cose che da quella pervengononon possono
portare se non piacere e satisfactione sia perchéper la istantia de
epsa lettera vedemo quanto vostra Signoria ha acore la salvaguardia
nostra dolendosi di quel pocha indisposizione che nei giorni preteriti
ci sopraggiunse e desiderando il nostro ben stare. Ringratiamo la Signoria
vostra di questa optima voluntà et persua consolatione le facemo
intender come nui in gratia de nostro Signore fussimo presto liberatidalla
indisposizione e se trovamo inbona valitudine. Et il simile
desideriamo continuamente delaSignoria vostra e la esortiamo a conservarsi
sana lieta e gagliarda e la ringratiamo delle amorevoli offerte
che ella mi fa infine de epsa lettera22.
Si potrebbe pensare che il rapporto tra Lucrezia e il vecchio Duca
fosse così affettuoso in vista del comune interesse nella definizione
delle clausole matrimoniali, se altre lettere non ci confermassero questa
consuetudine di familiarità e reciproca attenzione ancora viva nei
21 Lucretia Estense De Borgia a Ercole I, Roma, 18 Ottobre 1501 in ASMo, Ase,
Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 141. Devo la trascrizione delle lettere di Ercole I
alla prof.ssa Maddalena Modesti, docente di Paleografia presso il Dipartimento di
Filologia Classica e Italianistica dell’Alma Mater-Università di Bologna.
22 Ercole I d’Este a Lucretia Estense de Borgia, Ferrara, 1 Luglio 1502, ASMo,
Ase, Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 61.
[ 7 ]
218 la rosa di lucrezia borgia
primi mesi del 1503, forse gli ultimi tempi sereni della vita di Lucrezia
a Ferrara. In questa missiva la duchessa si rivolge al suocero che si era
scusato in precedenza di non averle inviato il “pescato del giorno”,
consuetudine paterna riservata solo a lei e alla marchesa di Mantova.
Scrive la «obediente figliola»:
Non era necessaria l’excusatione che per troppo sua clementia s’è degnata
vostra excellentiafarme de non se esser possuto pescare per el
tempo. Recependo maxime per summa mia satisfactioneogne bona
dispositione de quella. Ben mi recresce(a) del despiacere che vostra illustrissima
Signoria per tal causa ne ha preso. Dall’altro canto me alegro
che per lo medesmorespecto quella se appropinqui di qua23.
Di queste righe appare una conferma di quanto scrive Marco Folin
a proposito del cambio di immagine che Lucrezia mette in atto a Ferrara
risultando perfetta coniuge e figlia devota anche ai più intransigenti
detrattori24. Ma cosa pensare di questa lettera davvero determinante
che Ercole le scrisse quando i Borgia erano finiti perché Alessandro
VI morto e Cesare in definitiva disgrazia:
Illustrissima filia nostra dilettissima. Havemo inteso quanto ni responde
la Signoria vostra per lo adviso li havemo dato de le cose del illustrissimo
signore Duca suo fratello. Unde li replicamo che la stia de
bono animo, che così come noi la amamo sinceramente et cum ogni
tenereza de core come figliola, così non siamo mai per mancarli et volemo
esserli bon patre et bon fratello in ogni cosa25.
Interessante notare come Dario Fo, che mai ha messo piede all’Archivio
di stato di Modena e che certamente non aveva cognizione diretta
delle carte, avesse intuito come il rapporto tra Lucrezia e Ercole
fosse qualcosa di più che un’intesa di convenienza, ma esprimesse
23 Lucretia Estense de Borgia a Ercole I, Belriguardo VII Maii, 1505 in ASMo,
Ase, Sez Cancelleria, Casa e Stato, b. 141.
24 «Tuttavia, se a Roma il nome di Lucrezia appare macchiato delle peggiori
turpitudini, a Ferrara invece – dopo il matrimonio con Alfonso d’Este e il definivo
distacco dalla famiglia d’origine – la sua immagine di duchessa sembra associata
alle più specchiate virtù femminili e coniugali». Cfr. Marco Folin, Sul Quoloquium
ad Ferrariam urbem splendidissimam di Giovanni Sabadino degli Arienti, in Tracce dei
luoghi, tracce della storia. L’Editore che inseguiva la Bellezza. Scritti in onore di Franco
Cosimo Panini, Roma, Donzelli, 2008, p. 7.
25 Ercole I D’Este a Lucrezia Estense de Borgia, Codegorii XX Octobre 1503, in
Asmo, Ase, Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 69.
[ 8 ]
bruno capaci 219
uno stato di reciproca tenerezza e devozione messo in atto fin dalla
preparazione della tavola matrimoniale:
In queste trattative Lucrezia non rivestiva il ruolo di contrattatrice a
proprio vantaggio ma sfacciatamente a vantaggio del futuro suocero e
di Alfonso d’Este lo sposo26.
2. «Qualche reliqua de malo animo»
Se Cesare Borgia e Alfonso d’Este sono uomini d’arme, Giovanni
Sforza, il primo marito di Lucrezia, appare nel romanzo di temperamento
meno bellicoso. Indotto a fuggire da Roma alla prima minaccia
di morte del Valentino, riferitagli da un cameriere di Lucrezia, sembrerebbe
un vaso di coccio tra gli uomini di ferro che rappresentano il
presente e il futuro di Lucrezia. Nel romanzo lo Sforzino è ritratto dalla
Bellonci nella penosa solitudine che lo attanaglia dopo la fuga a Pesaro:
A Pesaro Giovanni Sforza si aggira tutto solo e pieno di paurosa ira e
di amara vergogna nel palazzo comitale per quelle camere che due
anni prima la giovane contessa chiara e senza ombre aveva animato
della sua presenza27.
Nella successiva Intervista impossibile Maria Bellonci raccoglie la
confidenza della figlia del Papa che appare tenera, quasi materna, nei
confronti del primo marito del quale dice:
Era uno spaventato. Lo vidi subito la prima volta che venne al Palazzo
di Santa Maria in Portico. Mi guardava con occhi aperti e fissi come se
scorgesse qualcosa dietro di me. Quando ci sposammo alla cena di
nozze stava lì con la sua collana raggiante di gemme sul petto, zitto e
intento, ora sogguardando i miei fratelli ora sforzandosi di ridere con
mio padre […]. Volevo proteggerlo Giovanni ma si era aperto un precipizio
tra i Borgia e lui: io stavo dalla parte della mia famiglia: lui era
solo dall’altra. Non ci sarebbero stati ponti28.
Privato della sposa, umiliato con un processo canonico per impotentia
coeundi, minacciato di morte e alla fine spodestato da Pesaro,
Francesco Sforza scrive a Gonzaga:
26 Dario Fo, La figlia del Papa, Milano, Chiare Lettere, 2014, p. 103.
27 M. Bellonci, Lucrezia Borgia in Opere, cit., vol. I, p. 131.
28 Ead., Lucrezia Borgia. Una intervista impossibile, cit., vol. I, p. 771.
[ 9 ]
220 la rosa di lucrezia borgia
La Excellentia vostra avrà inteso como domenica mattina el populo di
Pesaro per subornatione de quatrogiottise levò in armi et fomi forza
redurre in roccha con pochi de li miei al meglio che io puote. Dove
presentendo le genti nemiche vicinarse ad mi[…]con consiglio con
opera et con favore de Jacomo Albanese me partì la note de rocha et
son gionto qua in salvamento dopo malissima via e pessimi passi29.
Uno strano destino condanna Francesco Gonzaga a essere confidente
degli spodestati, quando con lettere di chi chiede la sua protezione
(Giovanni Sforza e Cesare Borgia), quando con drammatiche e
urgenti richieste di ospitalità (Guidobaldo Montefeltro e lo stesso Giulio
d’Este). È un fatto che da questo momento le cronache usino a torto
o a ragione il nome di Giovanni Sforza per sostenere ogni affermazione
calunniosa su Lucrezia Borgia. Matarazzo da Perugia non solo ritiene
il conte di Pesaro testimone dell’incesto tra la figlia del Papa e il
duca di Gandia ma lo indica come a come suo probabile assassino di
quest’ultimo.
Non è forse un caso se le missive segrete degli Estensi registrano la
preoccupazione di Alessandro VI che l’ex coniuge di Lucrezia possa,
con la sua sola presenza, disturbare le nozze ferraresi. Lo “Sforzino”
parrebbe nella missiva degli ambasciatori romani uno “stalker”ante
litteram. Dato come presente a Mantova, si teme che possa raggiungere
la capitale del Ducato e imbarazzare a tal punto Lucrezia da sottrarle
la serenità il giorno del nuovo trionfo nuziale e indurla a rientrare
precipitosamente nelle sue segrete stanze. Questo il senso delle preoccupazioni
riferite dagli ambasciatori romani a Ercole I da parte del
Papa:
Ce ha ammoniti che vogliamo scrivere alla Excellentia Vostra et avertirla
che al tempo delle noze operi talmente che lo signore Iohanne da
Pesaro lo quale sua santità disse havereadviso essere a Mantua non se
retrovasse a Ferrara perché se bene quela separazione che fu tra luy e
la illustrissima predetta madama seguite justissimamente et cun la pura
et mera verità comopubblice consta et non solum per lo processo
facto in questa causa sedetiam per la pubblica confessione de ipso Signor
Joanne. Tamen non è che qualche reliqua de malo animo forsi non
le sia restato etiam da ogni canto; per il che quando si ritrovasse in loco
ove verisimilmente la predecta Signoria potesse da lui essere veduta;
saria sua Excellentia costretta sequestrarsi in qualche camera per non
29 Ioannes Sfortia de Aragona a Francesco Gonzaga, Bononie 17 octobre 1500,
in F. Gregorovius, Lucrezia Borgia secondo i carteggi e i documenti del tempo, Documenti,
XXIV, cit., p. 397.
[ 10 ]
bruno capaci 221
se representar a la mente le cose passate exortando la Excellentia vostra
cun la solita sua prudentiaproveder a questo30.
3. Adulterio a Borgoforte
Un’altra narrazione concorrente tra archivio e romanzo è stabilita
nel racconto di una vicenda avvenuta alla fine dell’ottobre 1505 e che
coinvolge il carteggio in corso tra Lucrezia e il marito Alfonso. Lucrezia
Borgia era dal 25 Gennaio divenuta duchessa di Ferrara in seguito
all’ascesa al potere di Alfonso I. Proprio a partire da quell’anno troviamo
un fitto scambio di lettere31 pertinente al viaggio del marito a Venezia,
alla peste che si è diffusa a Modena, alla salute del neonato Alessandro,
destinato a morire dopo un solo mese di vita, e infine all’attività
in corso per liberare il fratello Cesare, prigioniero in Spagna. In questo
estremo tentativo politico la Duchessa coinvolge tutti coloro che
possono aiutarla, a partire dal duca Alfonso, per giungere al Cardinale
Estense e infine al Marchese di Mantova suo cognato. Maria Bellonci
dispone delle carte presenti negli Archivi di Mantova e Modena sicché
può cogliere la febbrile attività di Lucrezia nell’autunno del 1505. Molte
in quell’anno sono le lettere inviate al marito e al cognato Cardinale
con lo scopo di creare una regia diplomatica che autorizzi la missione
del Cardinale Regino32 alla corte del cattolicissimo Re di Spagna.
Maria Bellonci pare al corrente di questa segreta attività negoziale
ma stabilisce il momento d’inizio della passione di Lucrezia per il
Gonzaga ricercandone il primo movente emotivo nella riconoscenza
per il Marchese, propenso a inviare un messo a re Ferdinando II di
Spagna per indurlo alla liberazione di Cesare. La Duchessa non troverebbe
altra consolazione della triste perdita del figlio e della disgrazia
politica del fratello che nel mettere a repentaglio l’alleanza tra Ferrara
e Mantova. Un’ipotesi non coerente con la sensibilità politica di Lucrezia
ma in armonia con il canone occidentale dell’amore passione33 che
30 Gerardus Saracenus et Hector Beringerius a Ercole I, Roma, XXIII Septembris
1501 in F. Gregorovius, Lucrezia Borgia secondo i carteggi e i documenti del tempo,
Documenti, XXXIX cit., p. 408.
31 Non esistono in ASMo tracce di corrispondenza tra Lucrezia e Alfonso che
siano precedenti al 1505.
32 R egino: Pietro Isualles, vescovo di Reggio dal 1497 e Cardinale dal 1500,
Legato di Bologna e Romagna, era particolarmente vicino al partito dei Borgia
dovendo la sua carriera ecclesiastica al papa Alessandro VI.
33 Denis De Rougement, L’amore e l’occidente, Milano, Rizzoli, 1998.
[ 11 ]
222 la rosa di lucrezia borgia
antepone l’amore tra cognati alla fedeltà maritale. Lucrezia starebbe
dunque attivando un’improvvida quanto rischiosa relazione extraconiugale
di cui sarebbe l’esordio il viaggio a Borgonovo tra il 28 e 29
Ottobre 1505.
Le pagine di Maria Bellonci descrivono Borgoforte alla stregua di
un locus amoenus visitato dalla Duchessa che si intrattiene con Francesco
Gonzaga in dolci ragionamenti:
Tutta Borgoforte specchia questa allegrezza nei prati di pelo verde intorno
al Po, nella fortezza, la Rocchetta, piccola e conchiusa nella forma
di un nocciolo liscio, nelle sue vie linde e ondeggianti[…]il 28 e il
29 Novembre trascorrono in quella smemorataggine che sta al principio
dell’amore: viene la sera, ma non è possibile separarsi ancora, le
scoperte sono troppo vive, tocca al Gonzaga inventarsi qualcosa. Ecco
perché Lucrezia non verrà a Mantova a salutare Isabella?34.
Qualche dubbio sull’adulterio di Lucrezia lo manifesta anche Guy
le Thiec il quale osserva le tonalità di un rapporto che non lascia nulla
di scabroso sulla carta ma mette i motivi della dolorosa reciprocità rivelata
all’infausta notizia della morte del «molto caro e molto piccolo
Alessandro» confidata al marchese il 16 ottobre 1505 con l’avvertenza
che voglia tenere la notizia riservata per non addolorare la Isabella
d’Este35.
Nella busta 141 presente in ASMo si trovano 4 lettere scritte da
Lucrezia al marito e al cognato Ippolito relative al suo viaggio di ritorno
a Belriguardo, che si annuncia scomodo per l’impossibilità di effettuarlo
sui bucintori ducali. Maria Bellonci cita solo una di queste lettere,
che vuole suscitatadall’estro di Francesco Gonzaga il quale avrebbe
indotto la cognata a scrivere al Duca di Ferrara dichiarando di arrendersi
alle pressioni del suo ospite:
Ecco perché Lucrezia non verrà a Mantova a salutare Isabella? Lucrezia
scrive ad Alfonso come sia stata combattuta e «sforzata con vehementia
e desiderio che io vadidimani a visitare la illustrissima Marchesana
»36.
La figlia del Papa apparirebbe qui vittima della lex potentior di un
amore passione e accamperebbe la prima scusa per ritardare il ritorno
a Ferrara. Maria Bellonci nello scrivere la sua psicobiografia ha biso-
34 M. Bellonci, Lucrezia Borgia, cit., p. 492.
35 G. Le Thiec, Lucrece Borge. Lettres d’une vie, cit., p. 275.
36 Ibidem.
[ 12 ]
bruno capaci 223
gno di questa tappa a Borgoforte per stabilire un punto di inizio a
partire dal quale la relazione adultera prendeconsistenza:
le simpatie di Lucrezia e del cognato avviate a Borgoforte avevano col
tempo progredito e si sa cosa vuol dire progredire tra un uomo e una
donna di quella tempra37.
In questo passo la scrittrice romana svolge una sorta di reticente
entimema salottiero che francamente diventa ancora meno convincente
quando viene aggiunto che il tentativo di liberare Cesare Borgia era
l’alibi della relazione con Francesco Gonzaga38. Sappiamo dalla busta
141 che la stretta relazione tra Cesare e Lucrezia è comprovata da decine
di lettere dense di allusioni e riferimenti devoti e orgogliosi all’illustrissimo
Duca di Romagna. Certo gioverebbe meno al romanzo della
Bellonci se fossero riferite le lettere in cui Lucrezia e Francesco discorrono
ora dell’aggravarsi della malattia di Ercole I39 ora di un supposto
miracolo avvenuto inun convento mantovano40. L’ipotesi narrativa si
qualifica ancor più come una felice esperienza letteraria se pensiamo
quanta prudenza Lucrezia esprima nellacorrispondenza con il marchese
di Mantova. Tutto questo ci impone di procedere con riscontri
anche storici. Prima di tutto va precisato di quale genere fosse l’intervento
che Lucrezia Borgia richiedeva al Gonzaga per la liberazione di
Cesare. Certo non era di tipo personale in quanto coinvolgeva altri
attori di un’azione persuasiva da svolgersi nei confronti del Papa Giulio
II. Pertanto non un messo del Gonzaga doveva andare in Spagna41
ma il cardinale Regino e a nome del Papa. Ma affinché la missione del
cardinale legato fosse efficace occorreva che fosse accompagnata da
una lettera di Giulio II, non troppo disposto in quel momento a rimettere
in circolazione il duca di Valencia. Solo pensando a una soluzione
di così ampia portata Lucrezia si rivolgeva a Francesco Gonzaga:
Illustrissime et Excellentissimedomine cognate et fraternosterhonorandissime
37 Ivi, pp. 528-529.
38 Ivi, p. 530.
39 Lucrezia Estense de Borgia a Francesco Gonzaga Ferrara 27 Agosto 1504 in
Gabriella Zarri, La religione di Lucrezia. Le Lettere inedite del confessore, II Appendice,
Roma, Roma nel Rinascimento, 2006, p. 295.
40 Lucrezia Estense de Borgia a Francesco Gonzaga Ferrara, 24 Gennaio 1519 in
G. Zarri, La religione di Lucrezia. Le Lettere inedite del confessore, cit., p. 311.
41 «Francesco promette di mandare lui personalmente alla corte del re di Spagna
un suo messo», in M. Bellonci, Lucrezia Borgia, cit., vol. I, p. 492.
[ 13 ]
224 la rosa di lucrezia borgia
Havendo sempre conosciuto vostra Excellentia che per ogni fortuna
portare singulare amore allo illustrissimo signor Duca mio fratello ed
essere bene disposita a tutte le cose che gli sienodi honore et comodo
non altimenti che se la gli fusse carnale fratello: con ogni fiducia ricorro
al favore suo per la liberatione de sua Excellentia per la quale etiam
per opera et diligentia mia si pratica al presente in Roma de mandare
alla Cattolicissima Maestà lo reverendissimo cardinale Regino cumlicentia
della Santità de nostro Signore et essendosi pregato vostra signoria
che livogli andare volentieri, ha gratiosamente risposto essere
molto contento. Resta la licentia e il favore del Papa: unde sapendo
l’amore che sua Beatitudine porta a vostra Excellentia la prego quanto
più posso che la vogli dignarsi scrivere a Sua Beatitudine, pregandola
grandemente che la vogli dignarsi prestare dictalicentia ad espso Cardinale
et scrivere cum tale efficacia alla predicta cattolica Maestà che il
dicto Signor ducha sia liberato, perché si tiene che sarà fatto quando
SuaSantitàvorrà et quando lo illustrissimo signor Duca di Urbino fosse
a Roma, prego vostra Signoria che li vogli scrivere opportunamente
sopra a ciò perché sua illustrissima Signoria tenga ben disposta la predicta
Beatitudine al predicto effetto. Et non graverà a vostra Signoria
mandare epse lettere per questo cavallaro che li mando a posta a ciò le
possi cum le mie mandare al suo viaggio et se anche paresse a sua Signoria
oltre de questo scrivere a qualche suo in Roma che etiam ne
parli alla Samtitàde nostro Signore42.
Lucrezia, a quanto si evince dalla lettera, chiede a Francesco di fare
pressioni su Guidobaldo I da Montefeltro che è marito di Elisabetta
Gonzaga. Per essere più chiari, Lucrezia sta facendo convergere su
Roma gli interventi degli Este (Alfonso e Ippolito), dei Montefeltro e
infine dei Gonzaga e dunque non avrebbe proprio l’interesse a creare
uno stato di tensione tra il marchese di Mantova e il duca di Ferrara.
La prima lettera che la busta 141ci mette sotto gli occhi è quella del
23 ottobre 1505 nella quale Alfonso I ordina alla consorte un immediato
ritorno a Ferrara. Lucrezia gli risponde tempestivamente ripetendo
diligentemente le disposizioni ricevute e promettendo di eseguirle
punto per punto:
Illustrissimo Princeps et domineconsorsdomine mi observandissime.
Ho recevuto oggi la lettere del XXIII del presente data in Ferrara per la
quale la me scrive che desiderando de vedermila ha deliberato che facendo
io trovare una barcha bona a Bresselloluniproximo me metta in
42 Lucretia Estense de Borgia a Francesco Gonzaga, Regii XVIII Augusti 1505
in F. Gregorovius, Lucrezia Borgia. Secondo documenti e carteggi del tempo, Documento
LI, cit., p 430.
[ 14 ]
bruno capaci 225
cammino per nave e venga a Monschirolo e da lie a Belriguardo. Facendo
la excusatione se non manda li bucintori, ad che respondendo
dico che ho inteso il suo desiderio et io non mancho desiderosa de veder
vostra Signoria illustrissima ho fatto subito mandar uno a Bresello
a veder e provedere se ci sono navi a sufficientia[…]»et potendone haver
mi forzarò fare ogni cosa per partir lunidì per obedir a vostra
Excellentia, et quando non si possa Luni, un altro die43.
Non sarebbe proprio questo il caso di una donna che non vuole
riabbracciare il proprio marito e signore. Ricevuta la lettera di Alfonso,
Lucrezia chiede, nello stesso giorno, l’intervento del Cardinale che
tutto può in casa d’Este, sia che si voglia fare giungere un fervente
predicatore a Ferrara44 sia che si debba trovare chi possa condurre in
sicurezza il nuovo destriero acquistato da Sigismondo d’Este per
ilDuca di Ferrara45, esponendogli la situazione in cui si trova:
Reverendissimo e illustrissimo Monsignor Cognato e fratello honorandissime
Questa sera havimo adviso dall’illustrissimo Signor nostro per lettera
del XXIII et ha deliberato che Luni per sera se metemo in camino per
43 Lucretia Estense de Borgia a Alfonso I Regi, XXIIII Ottobre 1505, ASMo, Ase,
Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 141.
44 «Reverendissimo et illustrissimo Monsignore cognato fratello mio honorandissimo.
Vostra signoria sa quanto desiderio tengo che il reverendissimo padre
Egidio venga questa solennità prossima a predicare a Ferrara per lo quale effecto
lei a nostre preci ha qualche volta scripto al reverendissimo Cardinale de San Giorgio
e lui è ben disposto a venirli, ma secundointendemo pare che li sia commesso
per dicto Monsignore de San Giorgio che vadi a predicare a Roma et per la Santità
de nostro Signore vadi a Siena et per questo mi è significato se crede che lo optineremosel
si scrive in bona forma a San Giorgio. Unde prego quanto posso vostra
reverendissima Signoria li piaccia, per mia satisfactione et per fare qualche bon
fructo, scriverli opportunamente e con quella efficacia che la saperà ordinare et
farmi mandare la sua lettera che io la possi dare insieme con quella che scriverò a
Roma[…]». Lucretia Estense de Borgia a Ippolito d’Este, Belriguardi, 30 Dicembre
1505, in ASMo, Ase, Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 141.
45 R everendissimo et illustrissimo Monsignore cognato e fratello honorandissimo.
Bisognando mandare all’illustrissimo mio consorte el cavallo che ge ha comprato
lo illustrissimo Sigismondo da Este, come vostra Signoria reverendissima
intenderà [per Her]cule de Zoboli et non havendo io persona acta a condurlo in
salvamento, cum fiducia ho datoquesta cura a dicto H[ercule] credendone poter
disponere dei servitori de vostra reverendissima Signoria come lei po dei miei et
non dubito farà quell’ufficio con quella diligentia come se el cavallo fosse de vostra
Signoria. Cfr. Lucretia Estense de Borgia a Ippolito d’Este, Regii [Octobre?] 1505 in
ASMo, Ase, Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 141.
[ 15 ]
226 la rosa di lucrezia borgia
andare a Belriguardo per aqua da Bressello a Monschirolo et poi di lì
per tera a Belriguardo, exusandosi se non manda li bucintori perché
sono in fasso da non potersi cussì presto cunzar. Così per obedire facemo
pensiero de partire de qui Luni, dopo desinare, e andare a Bresello
e di lì continuare il viagio. Il che ci è parso significar a vostra Reverendissima
Signoria.
Il giorno dopo la «obsequentissima consors» scrive di nuovo al
Duca descrivendogli con minuzia tutte le tappe del viaggio da Regio
a Belriguardo, il quale prevede le opportune soste a Brescello, Borgoforte,
Mellara, e infine alla fortezza Stellata. La tappa a Borgoforte è
prevista fin dal primo momento, previo avvertimento del Duca di
Mantova. La stessa cosa avviene per la sosta a Mellara. Il lento viaggio
per via d’acqua è predisposto per un corteo di donne e dignitari che si
muovono con carri e cavalli, musici e palafrenieri. Lucrezia dettaglia
ogni momento di questo percorso lungo il Po. Il lettore può immaginare
il fasto di questo ritorno a casa di Lucrezia, mentre osserva il
lento procedere delle barche condotte dalla favorevole corrente del
grande fiume e dal pacato battere dei remi in acquaScrive Lucrezia:
Illustrissimo Princeps et domineconsorsdomine mi observandissime.
Per questa significo a vostra Excellentia che, secundo la deliberatione
ferma che si è facta, io partirò Luni prossimo cum tutta la comitiva et
andremo quello die a Bresello et li staremo tutto Marti et il Mercorì si
partiremo per andare a cena a Borgoforte et Zobia a cena a Mellara. Et
per lo allogiamento di Borgoforte ho scripto all’illustrissimo signor
Marchese de Mantua et ho mandato la lista della comitva delle persone
perché li cavalli se manderanno da Bresello a Carpi e da lì a Monschirolo
per la via drita et cussì ho mandato la lista a Mellara al conte Raimondo
del Sacrato, che questo die mi ha mandato messo per posta
cum lettere et cum tanta instantia che nel ritorno vadi ad allogiare a
casa sua che non ho potuto contradirli et perché mi è fatto intender che
quel die che partiremo da Mellara non poteremo arrivare a Monischirolo
et a Belriguardo che ’l serà molto nocte, attesa la lunga via, et che
haremo le nostre carette in nave che a metterle insieme ortariano tempo,
il si è pensato che seria necessario fermarseel venerdì alla Stellata e
al Bondeno a cena e a dormire, che poi il sabbato, più comodamente
per ognuno, se venirà a Belriguardo. Il tutto mi è parso significar a
vostra Excellentiaaciò che quando li parà che veneri restiamo in uno
dei due luoghi, li possa ordinari che sia fatta provisione per la cena e li
alloggiamento e per il desinare del sabbato et mandarce uno ad advi-
[ 16 ]
bruno capaci 227
sare e quando anche gli parà che facciamo altrimenti, se farà secundo
la ordinarà. Alla quale sempre me ricomando46.
Non pare che ci sia margine per cambio di programma. A meno
che non siano intervenute necessità di forza maggiore o migliori opportunità
di viaggio. La marchesa di Mantova e il Cardinale Ippolito
potrebbero rappresentare entrambe le cose e quindi il motivo del cambio
di programma di Lucrezia. Sappiamo che Isabella era solita rivolgersi
al fratello per aver modo di vedere la illustre cognata la quale
non si concedeva facilmente alle sue insistenze. Prova quanto scrivo
una lettera Isabella a Ippolito che contiene la sua insoddisfazione per
l’indisponibilità della Duchessa a concederle udienza nello stesso castello
in cui è nata:
Nulla cosa mi è mancata se non la presentia della Signoria vostra reverendissima
che è però tutto quello che io desiderava. La prego che andando
a visitare la signora Duchessa se digni dirli che molto mi pare
stranio di essere privata della comodità di vedere sua Signoria e che se
questa mattina non andai a visitarla fu per non sconzarla e disturbarla
dal sonno havendoli compassione per lo esempio di me medesima47.
Dunque non è impensabile e anzi probabile che Ippolito, richiesto
da Lucrezia di provvedere al suo ritorno, abbia pensato che la cognata
potesse agevolmente procurarsi un passaggio sulbucintoro dei Gonzaga,
se si fosse concessa almeno per un giorno alla ospitalità di Isabella
la quale dava in smanie se era privata della comodità di vederla.
Come accade spesso nelle lettere di Lucrezia al marito, tutto è già
stato deciso. Tuttavia è necessario chiedere consiglio e mostrarsi pronti
a ogni cambiamento. E invece è la «obsequentissima consors» a
cambiare idea, facendoci però pensare che il movente di questo mutamento
di volontà dipenda meno da una relazione extreconiugale che
da una disposizione del Cardinale il quale avrebbe procurato a Lucrezia
un viaggio diretto da Mantova a Monschirolo, e a Isabella la possibilità
di godersi la compagnia obtorto collo di Lucrezia. Forse ora si
comprende meglio da cosa sia stata ispirata la lettera della Duchessa a
Alfonso I di cui parlava la Bellonci e che ora riprendiamo per intero:
46 Lucretia Estense de Borgia a Alfonso I d’Este, Regii 25 Ottobre 1505. in
ASMo, Ase, Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 141.
47 Isabella d’Este a Ippolito d’Este Ferrarie [?] in ASMO, ASE, Carteggio con
Principi esteri, B. 1196.
[ 17 ]
228 la rosa di lucrezia borgia
La vostra Excellentiavederà per la lettera che gescripse lo Illustrissimo
Signor Marchese come veramente el mi ha combattuta e sforzata cum
tanta vehementia che io vadi domani a visitar la illustrissima signora
Marchesana che quantunche abbia usato renitentia assai nientedimanco
mi ha convenuto obedire et cussìbiogna che che io vadi domani in
ogni modo et ha mandato per molte carette et cavalli et dice che secretamente
mi farà condurre in Castello et lie starò domani in compagni
della marchesana et li albergherò cum le donne menarò con mi et la
mattina a bon ora nel suo bucintoro mi farà condurre dovi io haveva
ordinato di andare il venerdì zoo alla Stellata o al Bondeno secundo
che havevascripto a vostra Excellentia et menaròcum mi a Mantua
quelle persone che mi parea necessarie et il resto cum bono ordine
manderò domani cum le navi per venire poi tutti insieme a Monschirolo
et Belriguardo. Qui el prefato Marchese mi fa molte feste et homori
et hami molto bene allogiata in una bona casa che è di Hieronymo-
Stariga. Et a vostra Excellentia sempre mi ricomando48.
L’escursione narrativa di Maria Bellonci a proposito dell’amore
passione di Francesco Gonzaga e Lucrezia Borgia sulle rive del Po risulta
costruita sull’esclusione di una parte dei documenti che avrebbero
potuto far cogliere ladevozione di Lucrezia per il marito, nonché
il desiderio di Lucrezia di viaggiar comodamente, come traspare da
quanto scritto al Cardinale: «il tutto mi è parso significar a Vostra Signoria[…]
per intender quel che si possa far». Ma non è solo questione
di puntualizzazione filologica perché le lettere ci mostrano il mondo
in cui si muoveva la duchessa di Ferrara, mondo in cui non era consigliabile
fare troppi errori. Intrigante la situazione immaginata dalla
Bellonci e affascinante la descrizione dell’arrivo di Lucrezia a Borgoforte
come l’approssimarsi di un punto raggiante sull’orizzonte di un
luogo tiepido e ovattato, posto ai confini delle due piccole signorie
dell’Italia padana agli albori del secolo di Ariosto e Tasso. Ma non
siamo alla corte di re Artù bensì a Ferrara e alla vigilia di guerre sanguinose
che uniranno ancora di più sovrani di un piccolo stato a rischio
di disintegrarsi sotto i colpi di eserciti potenti. Forse il romanzo
è proprio da cercarsi in questa fides inter pares che permette ad Alfonso
I e Lucrezia di affrontare le emergenze delle guerre contro Venezia e
poi contro lo stesso Giulio II. Più significativa di qualsiasi altra appartenenza
e più seducente di ogni altro risvolto narrativo appare la fedeltà
di Lucrezia Borgia al suo destino estense. Ma questo è il roman-
48 Lucretia Estense de Borgia a Alfonso I d’Este, Borgoforte, Ottobre 1505, in
ASMo, Ase, Sez. Cancelleria, Casa e Stato, b. 141.
[ 18 ]
bruno capaci 229
zo che ha scritto la storia e che le lettere della busta 141 tentano di
raccontare.
Bruno Capaci
Università Alma Mater Studiorum- Bologna

STELLA CASTELLANETA
Napoli Incauta. Eroi martiri e tiranni,
tra scienza nuova teatro e utopia
La ricerca, condotta presso le biblioteche e gli archivi di Napoli, Roma e Firenze,
indaga il rapporto fra culture scientifiche, teosofiche, teologiche e letterarie
del Viceregno. Dal rogo degli scritti astrologici di Pontano e del De rerum natura
di Telesio all’Incendio del Vesuvio del 1631, si vuol far luce sulla composita stratigrafia
accademica partenopea e sulla scrittura scenica del Liceo Incauto, intrisa
di umori civili. Tale drammaturgia si apre al dibattito sulla sovranità e sul
libero arbitrio, tesaurizzando, tra gli altri, Dante, Boccaccio, Ariosto, Tasso, Della
Porta e Marino.

This study, carried out in libraries and archives in Naples, Rome and Florence,
delves into the relationship between scientific, theosophical, theological and
literary cultures in the Viceroyalty. From the burning of Pontano’s astrological
writings and Telesio’s De rerum natura to Incendio del Vesuvio (1631), it aims to
shed light on the complex academic stratification in Naples and on the civicminded
theatrical output of the Liceo Incauto. This dramaturgy engages with
the themes of sovereignty and free will, drawing on Dante, Boccaccio, Ariosto,
Tasso, Della Porta, Marino and others.
Dall’osservazione delle cose naturali e dall’esperienza d’essa nascono
li veri e certi fondamenti dell’amica ragione, d’onde poi si causano le
perplessità dell’historie, e la fama de’ mortali; e sì come dai successi e
fatti hanno avuto origine l’antiche historie, così dall’esercitar la penna
nel vergar le carte si conserva a lungo tempo l’immortalità della fama.
Che dunque maggior historia tragica e lagrimevole può la mia penna
oggi descrivere per documento de’ mortali […] che il presente incendio
de’ nostri tempi?
Così l’Inutile Lanelfi scriveva il 5 gennaio del 1632 a Don Ferdinando
Afan de Ribera, Duca d’Alcalà, Viceré Luogotenente e Capitano
Generale del Regno di Napoli, principiando l’opuscolo che con habitus
Autore: Università degli Sudi di Bari ‘Aldo Moro’; prof. associato; stellamaria.
castellaneta@uniba.it
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scientifico-fideistico e gusto antropologico inscenava la violenta eruzione
del Vesuvio avvenuta nel theatrum naturae di Napoli nella notte
tra il 15 e il 16 dicembre del 16311.
L’apparenza di questo incendio mi fa osservare più cose; tempo, terremoti,
fumosità densa, fremito, fiamme, acque, e ceneri. Quanto al tempo,
dico che per causa naturale è proceduto dall’Ecclisse antecedente
del Sole, che fu a 24 Ottobre 1631 a ore 18 e minuti 20 dopo mezo giorno.
Viddesi […] nelli crepuscoli matutini, e dall’antica voragine d’esso
Monte, con veemenza più che straordinaria, anzi dico con minacci
grandissimi e spaventosi, uscir fuori una denza e palpabile fumosità
caliginosa, piena de baleni, tuoni e corustazioni, in che si scorgeva veramente
esservi l’ira d’Iddio, et ascendeva questo fumo, per non esservi
vento forte […] a tanta altezza per linea retta, che trapassava la situazione
de le nubi; formando ivi grande et altissima montagna di
oscura caligine, che ottenebrava gran parte dell’aria; […] stava questa
città molto timorizzata, quando per misericordia di Nostro Signore e
per l’intercessione di Nostra Signora di Constantinopoli, di San Gennaro,
et altri Santi Protettori di essa, restò illesa a fatto dal certo pericolo
che gli soprastava; et altro fin’oggi non ha patito, che alcuni pochi
terremoti, e due volte pioggia di cenere, ma lievemente a guisa di rugiada,
et altro riparo più opportuno non abbiamo ritrovato a caso sì
formidabile, che il ricorrere affetuosamente all’orazione et alla penitenza
generalmente da tutti, ordinando il Signor Cardinale Arcivescovo,
che per tutte le chiese si esponesse il Santissimo Sacramento, e se
facessero le processioni per la Città, e s’andasse al Ponte, cominciando
prima egli una processione grandissima di tutte le religioni, e portando
la Testa e Sangue del glorioso San Gennaro, e seguita poi dal Signor
Conte di Monterei, da tutti i ministri reggi, e signoria di Napoli, oltre
l’infinito popolo dell’uno e dell’altro sesso, implorando l’aiuto divino
e la misericordia a viva voce, et apparendo sul ponte, si cominciò in un
tratto a goder gli effetti dell’intercessione del Santo. Seguitò appresso
un insolito fremito, con rumore e tremore inaudito, che faceva stupire
l’udito di alcuno, e durò questo continuamente dalle 18 ore d’Italia fino
alle 4 ore della notte seguente del martedì; in questo tempo si vedevano
scuotere le porte e le finestre di tutta questa città, oltre al convicino,
ritirosse il mare circa 40 passi per tutta questa riviera, e durò per
spazio di 6 minuti. Or consideri Vostra Eccellenza che a cossì orendo
spettacolo, et al rumor del popolo per il timore, ci parve di già giunto
il giudizio universale, che fu causa di radoppiar l’orazione, devozione,
affetto e penitenza, con le continue processioni giorno e notte; giudicai
che questo sì fatto fremito procedesse dalla straordinaria veemenza e
furia, che seco portava quest’esaltazione, e quel rumore e tremore si
1 Incendio del Visuvio del Lanelfi, Napoli, Ottavio Beltrano, 1632, c. a2r.
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caggionasse dalle rovine e consumpzioni che si facevano in quella voragine
delle grutte et immense pietre che poi venivano di là portate
dalla caligine, e piovute in diverse parte con quel detrimento che può
Vostra Eccellenza imaginarse. […] Essendo dunque così, possiamo et
in genere et in specie congetturare, che questi vapori terrestri constipati
nella terra siano caggionati dall’influenze celesti, e particolarmente
da Marte focoso, per la lunga dimora in Leone […]. E questo è quel
poco ragguaglio che posso significar a Vostra Eccellenza con quei fundamenti
veri et reali che si richiedono ad una tanta apparizione, e prego
Iddio che quello, che questo malefico pianeta può esserci di portento,
ce lo rivolga in consolazione, con l’unione de’ fedeli nel grembo di
Santa Madre Chiesa Catolica2.
Il breve scritto, apparso a Napoli per i tipi di Ottavio Beltrano nel
1632, è un chiaro speculum di quel diffuso sincretismo ideologico della
nuova scienza, che accoglie sia le ragioni pragmatiche dell’indagine
naturalistica sia forme irrazionali ed eclettiche correlate alle filosofie
naturali: quelle istanze spiritualistiche, con venature metafisiche, talora
gnostiche, che in un clima apocalittico e messianico, funzionale al
mito della renovatio mundi, si riflettono anche nella dimensione magico-
miracolistica delle pratiche cultuali.
La doppia maschera, accademica e anagrammatica dell’autore, celava
il volto dell’Incauto Filippo Finella. «Napolitano, filosofo e astrologo
celeberrimo»3, mosso dall’urgenza di conciliare la libertas investi-
2 Ivi, cc. a2v-a3r, a4r-v, a5r, a7v, a8r.
3 Nicolò Toppi, Biblioteca Napoletana et apparato a gli uomini illustri in lettere di
Napoli e del Regno, delle famiglie, terre, città e religioni che sono nello stesso regno, dalle
origini per tutto l’anno 1678, Napoli, Antonio Bulifon all’insegna della Sirena, 1678
(rist. anast. Bologna, Arnaldo Forni, 1971), pp. 85-86. Per notizie bio-bibliografiche
relative a Finella, cfr., inoltre, Della storia e della ragione d’ogni poesia, volume terzo, di
Francesco Saverio Quadrio della Compagnia di Gesù, dove le cose alla drammatica pertinenti
son comprese, alla Serenissima Altezza di Francesco III […], Milano, Francesco
Agnelli, 1743, p. 82; Leone Allacci, Drammaturgia, accresciuta e continuata fino
all’anno MDCCLV, Venezia, Giambattista Pasquali, 1755, coll. 412, 619, 807; Autori
Italiani del ’600. Catalogo bibliografico, a cura di Sandro Piantanida, Lamberto
Diotallevi, Giancarlo Livraghi, Milano, Libreria Vinciana, 1951 (rist. anast.
Roma, Multigrafica Editrice, 1986), vol. IV, pp. 10-11; Raffaele De Bello, Bibliografia
della Collana Palatina delle Pastorali, «Studi Secenteschi», 5 (1964), pp. 161-174:
162-165; Ugo Fera-Vincenzo Morlicchio, Regno di Napoli e delle due Sicilie. Repertorio
bibliografico, pref. di Antonio Cestaro, Salerno, Edizioni Magna Grecia, 1987,
vol. I, p. 231; Claudio Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo,
Bertola e Locatelli Editori, 1990 (vol. I, p. 267; vol. II, p. 129; vol. III, p. 371; vol. V,
p. 452); Antonella Pagano, Filippo Finella, in DBI, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 1997, vol. 48, pp. 28-30. Per aspetti storico-critici, cfr. Giovanni Aquilec-
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gandi con l’assioma dell’immanenza divina, Finella sottoponeva allo
sguardo del Viceré – in qualche modo ‘protettore’ di quell’accademia4
come il conte di Lemos lo era stato degli Oziosi5 –, un’opera intrisa di
magia naturale e umori profetici, l’uno e gli altri evidentemente non
estranei alla biblioteca di Don Ferdinando, «nell’astrologia… più che
un dilettante… direbbe il nostro anonimo»6. Convinto assertore della
chia, «In facie prudentis relucet sapientia». Appunti sulla letteratura metoposcopica tra
Cinque e Seicento, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», s. VI, 65 (1986), pp.
310-330: 329; Anna Cerbo, Drammaturgia meridionale. La tragedia di tardo Rinascimento,
«Annali dell’Istituto Universitario Orientale. Sezione Romanza», 31 (1989),
pp. 331-356; Ead., Il teatro dell’intelletto. Drammaturgia di tardo Rinascimento nel Meridione,
Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1990, pp. 9, 11-14, 23, 26-28, 83-84;
Benedetto Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, a
cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi Edizioni, 1992, pp. 99-100.
4 Sull’accademia degli Incauti, cfr. Camillo Minieri Riccio, Cenno storico delle
Accademie fiorite nella città di Napoli, «Archivio storico per le provincie napoletane
», 4/2 (aprile-giugno 1879), pp. 527-528; Michele Maylender, Storia delle Accademie
d’Italia, Bologna, Arnaldo Forni, 1929, vol. III, p. 196; Francesco Saverio
Perillo, L’accademia degli Incauti di Napoli e i suoi soci dalmati, «Atti e Memorie
della Società Dalmata di Storia Patria», n.s., 12 (1987), pp. 143-168 (Perillo mette a
frutto, quale utile repertorio per far luce sulla composizione dell’accademia, Le
glorie cadute della famiglia Comnena a cura di Lorenzo Miniati, Venezia, Domenico
Valvasense, 1663, e in particolare gli Applausi academici all’Eminenza dell’ingegno
sublime e fertile del Reverendissimo Padre Maestro Fra Vincenzo Comneno Domenicano.
Fra gli Academici Otiosi detto l’Estatico […] composti da’ Signori Academici Incauti di
Napoli: il IX tomo dello ‘zibaldone’ raccoglie numerosi componimenti scritti per
l’elezione di Comneno a principe degli Incauti).
5 Si legge nelle Declamazioni del Capaccio: «Il felicissimo governo del conte di
Lemos, onor degli eroi di Spagna, che la prosperità delle desideratissime academie
ha con la sua protezione e con la vivacità del suo purgatissimo ingegno richiamata
alla sua antica possessione» (Declamazioni in difesa della poesia recitate nell’Academia
degli Oziosi da Giulio Cesare Capaccio, Academico Tranquillo e Secretario della Fedelissima
città di Napoli, Napoli, Giovan Domenico Roncagliolo, 1612, p. 45). Cfr. Amedeo
Quondam, La politica culturale del conte di Lemos, in Id., La parola nel labirinto. Società
e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 247-269; Pietro
Giulio Riga, Giovan Battista Manso e la cultura letteraria a Napoli nel primo Seicento:
Tasso, Marino, gli Oziosi, Bologna, I libri di Emil, 2015.
6 Forse non è fuori luogo ricordare la celebre biblioteca manzoniana che annoverava
tra i suoi volumi la Magia naturale di Della Porta. In quella biblioteca sembra
di intravedere proprio il nostro viceré: «Don Ferrante passava di grand’ore nel
suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento
volumi: tutta roba scelta […]. Nell’astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che
un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel
vocabolario comune, d’influssi, d’aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a
proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de’ circoli massimi, de’
gradi lucidi e tenebrosi, d’esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de’
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napoli incauta. eroi martiri e tiranni 235
fondatezza scientifica delle profezie astrologiche e dell’oniromanzia,
seguace di quella tradizione paracelsiana che in ambiente napoletano
sarebbe confluita nell’accademia degli Investiganti, l’astrologo napoletano
ricordava all’interlocutore di aver congetturato l’evento in un
pronostico del 7 ottobre 16317.
Dunque una pièce en travesti, quella dell’Incendio del Visuvio, che se
ben denota l’attitudine teatrale della prosa scientifica di Finella8, e ad
principii insomma più certi e più reconditi della scienza. […] Conosceva anche,
più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più
celebri predizioni avverate e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri
predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma
di chi non l’aveva saputa adoprar bene». (Alessandro Manzoni, I promessi sposi,
a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, 2002, cap. XXVII, p. 521).
7 L’eruzione del 1631, la terza per gravità nell’area vesuviana dopo quelle del 79
e del 472 d.C., diede luogo ad una cospicua produzione di opuscoli. Si ricordano
almeno Il Vesuvio fiammeggiante di Filocalo Caputo e i due trattati di Giulio Cesare
Braccini e Gianbernardino Giuliani (ristampati per le cure di Enzo Boschi ed Emanuela
Guidoboni, Bologna, Arnaldo Forni, 2006). Sulla letteratura vesuviana, cfr.:
Tre catastrofi. Eruzioni, rivolta e peste nella poesia del Seicento napoletano, a cura di Giancarlo
Alfano, Marcello Barbato, Andrea Mazzucchi, Napoli, Edizioni Cronopio,
2000; Lorenza Gianfrancesco, Accademie, scienze e celebrazioni a Napoli nel
primo Seicento, «Quaderni di symbolon», 1 (2010), pp. 175-209: 187; Rosa Casapullo
e L. Gianfrancesco, Napoli e il gigante. Il Vesuvio tra immagine scrittura e memoria,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014; Giuseppina Scognamiglio, Giovan Battista Bergazzano
e il risveglio violento del “Bello Addormentato” nel 1631, Napoli, Edizioni Scientifiche
italiane, 2015; Daniela De Liso, L’eruzione del Vesuvio, in Ead., Da Masaniello
a Eleonora Pimentel. Napoli tra storia e letteratura, Napoli, Loffredo, 2016, pp. 109-116.
8 Numerose le opere scientifiche di Filippo Finella, alcune conservate presso la
Biblioteca Nazionale di Napoli (cfr. Le secentine napoletane della Biblioteca Nazionale
di Napoli, a cura di Marco Santoro, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato,
1986, p. 166): Fisionomia naturale […] divisa in due parti. Nelle quali si contiene la geometria
delle membra humane, con un brevissimo discorso delli segni ch’appariscono nell’ugne
delle mani, Napoli, Gaffaro, 1629; Libri tres nevorum, Antverpiae ex officina Platiniana
apud Balthassarem Moretum, [1630]; Delle vertù occulte delle vipere per le 28
mansioni delli segni del Zodiaco. Con le tavole astronomiche a che hora se leva il sole e che
tempo sia mezo giorno […] Con le tavole perpetue in che segno, gradi, minuti se ritrova la
lune, Napoli, Gaffaro, 1634; De Metroposcopia seu de Methoposcopia naturali, Antverpiae
ex officina Plantiniana apud Balthassarem Morenum [sic], 1648; De ea planetaria
naturali phisonomia, Neapoli typis Iacobi Gaffari, 1649 (a carta 4v vi è il ritratto
dell’autore e l’indicazione dell’età: «Philippus Finella aetatis suae annorum
XXXXVIII-1632»); De quatuor signis quae apparent in unguibus manuum, Neapoli
typis Iacobi Gaffari, 1649; Soliloquium salium, Neapoli ex typographia Iacobi Gaffari,
1649 (di arte ‘distillatoria e farmacopea’ si occuparono anche gli Incauti D’Eremita
e Perillo; per quest’ultimo si rinvia all’elenco delle opere manoscritte e a
stampa curato dal nipote Domenico Ignazio Majone per l’edizione postuma, apparsa
nel 1651, della sacra rappresentazione Onofrio il costante); Speculum astrono-
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un tempo quella singolare commistione più volte realizzata nella scrittura
scenica tra astrologia e teatro – da Ariosto a Bruno a Della Porta
–, è parimenti indizio di una prudenza storicamente fondata e per così
dire rinnovata da una coeva reprimenda di Urbano VIII: la Constitutio
contra Astrologos Iudiciarios9, apparsa nel 1631, che, in ideale continuità
con la bolla Coeli et terrae creator Deus emanata da Sisto V il 5 gennaio
1586, siglava una rinnovata condanna delle arti divinatorie10. E certo
era ancor vivo nella memoria degli intellettuali napoletani quell’esemplare
rogo che il 20 giugno del 1610 aveva dato alle fiamme, tra gli
altri libri messi all’Indice, gli scritti astrologici di Pontano, l’opera omnia
di Cornelio Agrippa e il De rerum natura di Telesio11. Un secolo
prima dell’Incendio del Visuvio, nasceva a Caserta Giulio Antonio Santori,
futuro cardinale di Santa Severina e allievo in giovane età del
grammatico Luigi Antonio Sompano, l’illustre Sidecino precettore del
pedante del Candelaio. Autorevole voce del Santo Uffizio, Santori prese
parte ai lavori della commissione sistina che approntò la bolla conmicum
tripartitum, medicis necessarium, agriculturae et navigationi valde proficuum,
item et tabula ad sciendum quoquo die, quot minutis, quotve secundis hora planetaria
constet, ut in die sic et in nocte, Neapoli ex typographia Iacobi Gaffari, 1649; De duabus
conceptionis et respirationis figuris et de connexione inter eas et figuram coelestem. De
naturali philosophia planetaria. Speculum Astronomicum. De revolutionibus annorum,
Antverpiae ex officina Plantiniana apud Baldassarrem Morenum [sic], 1650; De
Methoposcopia Astronomica de duodecim signis coelestibus, Antverpiae ex officina
Plantiviana [sic] apud Baldassarem Morenum [sic], 1650.
9 S.D.N. / D. Urbani / Divina Providentia / Papae VIII / Constitutio / contra Astrologos
Iudiciarios, qui de statu Reipublicae / Christianae, / vel Sedis Apostolicae, / seu vita
Romani Pontifi- / cis, aut eius consaguineorum iudicia facere, / necnon eos qui illos desuper
consulere / praesumpserint / [stemma] / Romae / ex typographia Re. Ca. Apost.
MDCXXXI.
10 Saverio Ricci, Il sommo inquisitore. Giulio Antonio Santori tra autobiografia e
storia (1532-1602), Roma, Salerno Editrice, 2002, p. 400. Sul diffuso interesse, non di
rado congiunto a denigrazione, per la scienza astrologica in età umanistica cfr.
Francesco Tateo, Astrologia e moralità in Giovanni Pontano, Bari, Adriatica, 1960;
Magia e scienza nella civiltà umanistica, a cura di Cesare Vasoli, Bologna, il Mulino,
1976; La città dei segreti. Magia, astrologia e cultura esoterica a Roma (XV-XVIII), a cura
di Fabio Troncarelli, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 103-118; Eugenio Garin,
Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari,
Laterza, 19964; Claudio Gigante, Il profeta e le stelle, introd. a Girolamo Savonarola,
Contro gli astrologi, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 7-29; Cesare Vasoli, La
polemica contro l’astrologia, in Le filosofie del Rinascimento, a cura di Paolo Costantino
Pissavino, Milano, Mondadori, 2002, pp. 374-397.
11 Pasquale Lopez, Un elenco dei libri bruciati nel 1610, in Id., Inquisizione stampa
e censura nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli, Edizioni del Delfino, 1974, pp.
215-218.
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napoli incauta. eroi martiri e tiranni 237
tro gli astrologi ed ebbe un ruolo di primo piano sia nella vicenda
processuale che tra il 1574 e il 1578 vide inquisito Giovan Battista Della
Porta per sospetta vicinanza ad ambienti napoletani dediti all’occultismo,
sia negli interventi censori sulle opere dello scienziato napoletano,
in particolare la Magia Naturalis e la Phisionomia12.
Il 22 giugno del 1633 Galileo Galilei avrebbe rinnegato davanti
all’Inquisizione la sua dottrina sulla rotazione della terra. È la scena
quindicesima della drammatizzazione brechtiana, ove uno sfiduciato
Andrea Sarti afferma con amarezza: «Stanno uccidendo la verità»13.
Quell’abiura è l’epilogo simbolico di una stagione di conflitti tra
scienza e fede che annovera tra i suoi protagonisti nel Regno di Napoli
Bruno, Della Porta, Campanella e il teologo carmelitano Antonio
Foscarini. Quest’ultimo nel 1615 fu condannato per copernicanesimo
a seguito della Lettera sopra l’opinione de’ Pitagorici e del Copernico della
mobilità della Terra e stabilità del Sole14, pubblicata presso la stamperia
napoletana di Lazaro Scoriggio, i cui torchi, ad un anno di distanza,
stampano La notte, overo il nascimento di Cristo, poema drammatico
del letterato beneventano Orazio Comite15, a quella data Appartato
12 Cfr. Nicola Badaloni, I fratelli Della Porta e la cultura magica e astrologica a
Napoli nel ’500, «Studi storici», 1 (1959-1960), pp. 677-715; Giovanni Aquilecchia,
G.B. Della Porta e l’Inquisizione, in Id., Schede di italianistica, Torino, Einaudi, 1976,
pp. 219-254; Luisa Muraro, Giambattista Della Porta mago e scienziato. In appendice
l’Indice della Taumatologia, Milano, Feltrinelli, 1978; Giorgio Fulco, Per il “Museo”
dei fratelli Della Porta, in Id., La «meravigliosa» passione. Studi sul Barocco tra letteratura
e arte, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 251-325.
13 Bertolt Brecht, Vita di Galileo, a cura di Emilio Castellani, Torino, Einaudi,
1963, pp. 111-113.
14 Paolo Ponzio, Copernicanesimo e Teologia. Scrittura e Natura in Campanella, Galilei
e Foscarini, presentazione di William Shea, Bari, Levante Editori, 1998, pp. 83-113.
15 Il tema della natività, cui si ricollega il poema del Comite, trova ampie attestazioni
nel teatro meridionale e più in generale accademico, se si considera l’opera
dell’Innominato Visdomini e l’elogio tributato dall’entourage ozioso al Parto della
Vergine del Sannazaro nel proemio de I problemi accademici di Francesco de’ Pietri;
è del 1624 Il parto della vergine del leccese Giovan Vincenzo Piccini e del 1630 Il
parto della vergine e Gesù adorato, le due rappresentazioni spirituali dell’Incauto
Perillo (A. Cerbo, Il teatro dell’intelletto, cit., p. 46). Le prime notizie relative ad
Orazio Comite sono affidate ai suoi scritti. Si vedano la dedicatoria del Nascimento,
la seconda impressione della tragedia Il re Teodoberto (1626) e il poema eroico Il
Barberino overo Parnasso liberato (Napoli, Domenico Maccarano, 1626), in lode di
Urbano VIII, illuminato mecenate, ove Comite ricorda il padre Cesare (V, 47: «Questi
fè ch’io spasseggi e vegga il mondo / […] questi allegrò lo stil, questi in giocondo
/ canto i sensi d’amor poeta apria») e il fratello Giovan Battista (V, 82-83), membro
dei Ravvivati di Benevento e autore della commedia Amor fido, stampata a
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Ozioso, quindi Maniaco Infuriato16 e Sproveduto principe degli Incauti17.
Napoli presso Carlino nel 1606 (Su Giovan Battista Comite e i Ravvivati, cfr. Alfredo
Zazo, Un’inedita «memoria» sulla beneventana accademia dei Ravvivati, «Samnium
», 43 [1970], pp. 1-14). Altre fonti bio-bibliografiche sono: Giovanni De Nicastro,
Beneventana Pinacotheca, in tres libros digesta, Benevento, Tipografia Arcivescovile,
1720, p. 199; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, cit., vol.
III, pp. 81, 103; L. Allacci, Drammaturgia, cit., coll. 580, 563, 657, 665, 684, 764; De
illustribus scriptoribus qui in civitate et regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque
MDCXXXXVI floruerunt, auctore Bartholomeo Chioccarello Neapolitano et in
supremis eius regni foris caussarum patrono, Neapoli ex officina Vincentii Ursini,
MDCCLXXX, tomus I, p. 220; N. Toppi, Biblioteca Napoletana, cit., p. 182; M. Santoro,
Le secentine napoletane, cit., pp. 130-131; Giulio Cesare Capaccio, Il Forastiero,
rist. anast. Napoli, Luca Torre Editore, 1989, vol. III, p. 617. Cfr. anche A. Cerbo,
Drammaturgia meridionale, cit., p. 337; Ead., Il teatro dell’intelletto, cit., pp. 11, 46, 56,
83-84; B. Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 67.
16 Traccia della partecipazione ai consessi accademici napoletani è nelle opere
del Comite. All’Accademia degli Oziosi rinvia il frontespizio della parte seconda
delle Rime, Napoli, Giovan Domenico Roncagliolo, 1621 (cfr. Girolamo De Miranda,
Una quiete operosa. Forma e pratiche dell’Accademia Napoletana degli Oziosi
(1611-1645), Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2000, pp. 62, 176-177, 212 e
223). ‘Maniaco Infuriato’ si legge sul frontespizio della favola silvestre Tigurina e
della citata parte seconda delle Rime, entrambe pubblicate per i tipi di Roncagliolo
nel ’21. La stampa delle rime risulta di particolare interesse in quanto permette di
far luce sul consesso degli Infuriati – di cui sarebbe stato principe Francesco Maria
Carafa –, sul ruolo che Comite ebbe al suo interno, e su altri scritti del medesimo
autore: «Così nobile e virtuosa Academia» fu patrocinata da Giuseppe Anello de’
Fusco, che «la tenne sontuosamente in sua casa; et poscia per sodisfare all’utile
publico, avanzandola magiormente, nel convento di san Lorenzo l’introdusse, dove
giornalmente fa avanzamenti così segnalati, che non solo ha dato all’autore di
queste spirito di compor la presente seconda parte, ma eziandio la terza, un poema
pedantesco in ottava rima, due comedie, che l’una gl’Incanti, et la Clelia l’altra vien
detta, et Lucifero incatenato tragedia infernale, et non tanto in persona del nostro
autore mostra questa Academia l’effetto dell’acqua del suo Pozzo (poiché un pozzo
fa per impresa) quanto negli altri Signori Academici, de’ quali se vegono fra le
stampe le maravigliose loro composizioni, et è da stupire, che se non erro, del
mese di luglio del 1620 ella nacque» (nota dello stampatore che si legge, a carta
non numerata, a conclusione della raccolta di rime stampata nel ’21). Gli Infuriati,
nati dalle ceneri dei Sileni, si riunivano nel chiostro di S. Lorenzo Maggiore (cfr.
Giovan Battista Marino, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino,
Einaudi, 1966; G. De Miranda, Una quiete operosa, cit., p. 223). Infuriato col nome
di Ardente fu Ottavio Argentino, nativo di Taranto, autore delle commedie I felici
infortuni (Venezia, Evangelista Deuchino, 1622) e Angelica amante (Napoli, Domenico
Maccarano, 1623) e delle ‘rappresentazioni tragiche’ Martirio de’ Santi Acisclo
e Vittoria (Napoli, Roberto Mollo, 1637) e Martirio de’ Santi Crisanto e Doria (Roma,
senza stampatore, 1638).
17 Nove anni nel Forastiero di Capaccio, tredici anni secondo la testimonianza
[ 8 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 239
Si è detto del teologo carmelitano. Un ulteriore tassello a parziale
introduzione della koiné dei nostri autori, il Convento del Carmine fu
la sede prescelta dagli Incauti per le prime riunioni accademiche, come
è dato leggere sia al termine della Penelopea, tragicommedia pastorale
di Filippo Finella, la prima opera teatrale patrocinata dal consesso,
stampata a Napoli per i tipi di Giovan Domenico Roncagliolo nel
1624 ma già composta alla data del 10 giugno 1622 – come si ricava
dalla dedica a Caterina Gonzaga, duchessa di Mantova18 –, sia nell’odi
Nicastro nella Beneventana Pinacotheca, la lunga durata del principato Incauto di
Comite ha molteplici attestazioni. Per definirne la cronologia mi limiterò a ricordarne
due. La prima testimonianza a noi giunta è del 30 gennaio 1624: è la licenza
di stampa della Penelopea di Finella. Il consesso approva nella persona del principe
Orazio Comite, che definisce Finella «nostro secondo assistente», dei revisori Paulo
Magliano, Mario Viola e Sebastiano d’Alessandro, e del segretario Marcantonio
Perillo. L’ultima testimonianza del principato è nella Lucerna de’ Corteggiani del
Crisci (Napoli, Giovan Domenico Roncagliolo, 1634, p. 359). Se nel 1634 Comite è
detto principe degli Incauti, bisognerà tuttavia rilevare che nel 1632 il principato
risulta essere di Tommaso Lanario nella licenza di stampa concessa a Don Giuseppe
Castiglione, accademico Incauto detto il Trabocchevole, il 17 agosto del 1632,
per il Discorso in lode del niente detto in Napoli nell’accademia degl’Incauti, riunita nel
convento di S. Agostino Maggiore (cfr. Le antiche memorie del nulla, a cura di Carlo
Ossola, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, pp. 77-89). Alla guida
dell’Accademia avrebbero fatto seguito: Mario Rota dal 1637 (cfr. Giovan Battista
Castaldo, Pacificum certamen, Sorrento, Ottavio Beltrano, 1637, p. C1) almeno
fino al 1640 (cfr. Marc’Antonio Perillo, Antonio da Padova, Napoli, Secondino
Roncagliolo, 1640, pp. 141-142); Francesco Bernaudo, come si evince dal sonetto
«All’Illustrissima Signora Prencipessa Donna Anna Colonna Prefetessa di Roma»,
premesso, a p. 3r non numerata, alla Lezione accademica in lode della favola del padre
maestro Niceforo Melisseno, Comneno Agostiniano, Accademico Ozioso. Detta nell’Accademia
de gli Oziosi di Napoli in S. Domenico a i 21 di Novembre 1642, stampata a Napoli,
per i tipi di Francesco Savio, sul principio del 1643 (cfr. la dedicatoria di Niceforo
Comneno a Carlo e Maffeo Barberini datata 5 febbraio 1643). Ultimi in ordine
di tempo si registrano i principati di Francesco Dentice (dagli Elogi del Crasso,
Venezia, Combi e La Nou, 1666, p. 307, apprendiamo che Dentice nacque il 26 novembre
del 1625 e che: «d’anni diciotto venne eletto principe dell’accademia degli
Incauti, in cui molto in prosa e in verso esercitò l’amenissimo ingegno»), e del domenicano
Vincenzo Comneno. Quest’ultimo fu membro degli Oziosi col nome
d’Estatico dal 1637 al 1644, e prima del 13 agosto 1643 (cfr. la dedicatoria di Bartolo
Partivalla, segretario degli Incauti a quella data, premessa al IX tomo degli Applausi
academici cit.) fu eletto principe degli Incauti probabilmente fino al 1653 (cfr.
Applausi academici, cit., pp. 14-17 non numerate e tomo VIII, p. 1r non numerata;
Perillo, L’accademia degli Incauti, cit., p. 150).
18 «Sott’abito mentito di pastore» Apollo recita il prologo e tesse le lodi dell’antichissima
casa dei Medici. Ferdinando Gonzaga aveva sposato Caterina de’ Medici
il 7 febbraio del 1617: cfr. Sergio Bertelli, Mantova, in I Gonzaga e l’Impero. Itine-
[ 9 ]
240 stella castellaneta
razione che il carmelitano Filocalo Caputo lesse nell’accademia degli
Incauti il 16 luglio 1624, in occasione della festività del Carmine, un
testo che contribuisce a far luce sulle origini e sulla complessa stratigrafia
del nuovo Liceo:
Se dunque è vero, come è verissimo, che in questo vago seno di Partenope
partitosi dal Parnasso venne con le muse a soggiornare Apollo,
chi non vede che conoscendo quanto meglio sia il fabricare ne’ monti,
che di dimorare nelle pianure, volle l’antica sua sede stabilirla nel Carrari
dello spettacolo. Con una selezione di materiali dall’Archivio informatico Herla (1560-
1630), a cura di Umberto Artioli e Cristina Grazioli, con la collaborazione di
Simona Brunetti e Licia Mari, Firenze, Le Lettere, 2005, pp. 1-27: 15. Frequenti
erano già stati i contatti tra gli accademici Oziosi ed esponenti di vari rami della
famiglia Gonzaga (De Miranda, Una quiete operosa, cit., p. 201, n. 359). Particolarmente
felice e nel segno dei rapporti tra Mantova, Claudio Monteverdi, l’opera
veneziana e Napoli fu il ruolo della cantante Adriana Basile che lavorò con la corte
mantovana a partire dal 1610 (I Gonzaga e l’Impero, cit., p. 400) e dal 1620 al 1624
soggiornò a Mantova (cfr. Alessandro Ademollo, La bell’Adriana ed altre virtuose
del suo tempo alla corte di Mantova. Contributo di documenti per la storia della musica in
Italia nel primo quarto del Seicento, Città di Castello, Lapi, 1888; De Miranda, Una
quiete operosa, cit., pp. 209, 215-216; I Gonzaga e l’Impero, cit., pp. 515-516). Ma nella
fitta trama dei legami tra accademie napoletane e corte mantovana si consideri
anche il ruolo di Giovanbattista Basile e del capocomico degli Accesi Pier Maria
Cecchini, al secolo Frittellino. I rapporti tra Incauti e Accesi persistevano ancora nel
1643, se negli Applausi academici per il principato di Comneno (p. 31) figura un sonetto
dell’Acceso Francesco Antonio Rocco, autore della tragedia Eolo sdegnoso
(Napoli, Scoriggio, 1633; per Cecchini cfr. Vittorio Viviani, Storia del teatro napoletano,
Napoli, Guida Editori, 1992, pp. 124-125, 140-143; Siro Ferrone, Il pirata
senza terra, in Id., Attori mercanti corsari. La commedia dell’arte in Europa tra Cinque e
Seicento, Torino, Einaudi, 1993, pp. 274-320). Sui contributi partenopei alla scene
dei Gonzaga, cfr. Teresa Megale, Partenope sul Mincio: relazioni teatrali fra Napoli e
Mantova in età moderna, in Maestranze, artisti e apparatori per la scena dei Gonzaga
(1480-1630). Atti del Convegno, Mantova, 26-28 febbraio 2015, a cura di Simona
Brunetti, Bari, Edizioni di Pagina, 2016, pp. 405-421. Da ultimo Teresa Megale ha
indagato ulteriormente i dedali teatrali partenopei nel volume Tra Mare e Terra.
Commedia dell’arte nella Napoli Spagnola (1575-1656), Roma, Bulzoni, 2017. Frequente
anche il dialogo tra Incauti e Incogniti, e più in generale tra la cultura napoletana
e la cultura veneziana. Se Giovanfrancesco Loredan e Pietro Michiel sono presenti
negli Applausi (p. 18) che, peraltro, si stampano a Venezia, Maiolino Bisaccioni attorno
al 1622 fu chiamato alla corte del principe di Avellino Marino Caracciolo,
quindi fu ammesso tra i Dogliosi di Avellino e gli Oziosi di Napoli. Nel 1633 l’Incauto
Francesco Bernaudo stampa il Gostavo re di Svezia (Napoli, Scoriggio), Bisaccioni
negli anni 1633-1634 scrive tre volumi sul re Gustavo di Svezia e sempre a
Venezia si stampa nel 1634 Il soldato svezzese. Istoria della guerra tra Ferdinando II
imperatore e Gustavo Adolfo re di Svezia, opera di Friedrich Spanheim, tradotta dal
francese da Pompeo Bellanda il vecchio.
[ 10 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 241
melo? Dubitava Apollo che non li mancasse la fama mancando il tempo,
ma sentendo che il profeta Elia protettore del suo monte non era
per morire fino all’ultimo giorno di secoli pensò non dilongarsi da lui;
vidde Apollo che tutti i suoi letterati divisi per il gran teatro napolitano
con istupore di tutti già se univano nel Carmelo, decretò che qui si
fondasse con eterno riposo il suo Liceo; riconoscendo bene egli che li
suoi figli Incauti già discorrevano d’altissimi segreti di teologia, già
praticavano i Bartoli, et i Giasoni, già commentavano li Platoni, e gli
Aristoteli, già spiegavano gli Hippocrati e gli Avicenni, già rinovellavano
le storie de’ Greci, e di Romani, già contendevano delle più belle
lettere che gradiscono; ammirò l’opere di loro in così breve spazio di
tempo esposte alle stampe con dottissimi discorsi di teologia e di astrologia,
maravigliosi componimenti di tragedie, tragicommedie, orazioni,
poemi, et altre opere insigne, e se ne rallegrò registrandole nella
biblioteca Delfica, inghirlandò il nostro principe Orazio Comite d’eterni
allori, e volle che fra’ primi poeti sedesse Annibalo Brancaccio, Francesco
Ladro19, Filippo Finelli, Marc’Antonio Perillo et altri degni di
grandi onori; volle però che sopra ogn’altra composizione se coronassero
d’edere e mirti, e collocate fussero sulla porta della libreria di poeti
burleschi al destro corno della macaronica di Merlin Cuccai, l’opere
de l’Arcincauto Giulio Cesare Cortese; e che le sentenze della Vaiasseda,
le braure di Micco Passaro, gli travigliusi ammuri di Ciullo e Perna,
il viaggio di Parnasso, la Rosa, le lettere, et altre composizioni se registrassero
ad perpetuam rei memoriam con intaglio di marmo essendo
di più onori degne, che le composizioni di Giulio Cesare Caporali, che
con tanto fausto furono ricevute in quel monte dopo il viaggio dell’autore20.
Pur di diversa formazione, lo scienziato Finella, vicino alla colonia
lincea di Napoli, e il letterato Comite sono dunque a vario titolo legati
al sodalizio Incauto – una tessera significativa di quella secentesca
19 Francesco Capecelatro, autore dell’Istoria del Regno di Napoli, di cui Comite
scrive nel Barberino V, 68: «Quel Capece, che ’n dir l’historie, e i gesti / del Regno
in cui Partenope star piacque, / ebbe sì dotta penna […]». Su Francesco Capecelatro,
cfr. da ultimo Daniela De Liso, La scrittura della storia. Francesco Capecelatro
(1594-1670), prefazione di Francesco Tateo, Napoli, Loffredo, 2004.
20 Il Parnasso / trasferito nel Monte / Carmelo / Orazione / del M. R. P. M. Filocalo
Caputo Carmelitano / de’ Padri Teologi dell’Illustrissimo Signore / Cardinale Carafa Arcivescovo
di Napoli / uno dei deputati, et Academico Incauto detto l’Estatico. Recitata nel dì
festivo di N. S. del Carmine nell’Academia degli Incauti, Napoli, Domenico Roncagliolo,
1624, pp. 25-26. La sede dell’accademia risulta essere il Convento del Carmine
almeno fino al 1625, cfr. il giudizio dei revisori relativo a Il parto della vergine di
Perillo, datato 7 marzo 1625.
[ 11 ]
242 stella castellaneta
‘miniera del Niente’ esplorata da Carlo Ossola21 –, che avrebbe avuto
una definizione formale nel biennio 1621-162222.
Si è detto della stampa del Nascimento nel 1616: a quella data Comite
aveva già pubblicato la parte prima delle Rime (Napoli, Giovanni
Giacomo Carlino, 1615) e la tragicommedia piscatoria La rete amorosa
(Napoli, Giovan Domenico Roncagliolo, 1615). Dalla dedicatoria del
Nascimento, firmata da Francesco Avitabile, apprendiamo, inoltre, che
Comite aveva composto anche una favola ‘marinaresca’ in versi, la
Rosselia, la favola silvestre Tigurina e la tragedia Il re Teodoberto23. Una
seconda tragedia, l’Orispide, di cui non vi è traccia nel Nascimento,
21 Le antiche memorie del nulla, a cura di Carlo Ossola, Roma, Edizioni di Storia
e Letteratura, 2007 (II edizione con un Epilogo di José Ángel Valente).
22 L’ipotesi di una simile datazione è confortata sia dalla testimonianza del
Forastiero circa il principato di Comite sia dall’assenza di riferimenti all’accademia
nelle stampe del Beneventano o di altri Incauti alla data del 1621.
23 La Rosselia apparve a stampa nel ’17, la Tigurina nel ’21, del Teodoberto ci è
giunta una seconda impressione priva di note tipografiche, ma con lettera di dedica
a Marc’Antonio Lanzoni del 30 luglio 1626. È del 1628 la seconda impressione
viterbese del poema pedantesco Il pedante innamorato e del 1636 la stampa per i tipi
di Beltrano della favola allegorico-politica La Ragione offesa o vero l’Asino innamorato,
di matrice apuleiana. La stampa del Teodoberto riporta in appendice, sotto forma
di ode dell’Ozioso Zizza in lode dell’autore, l’elenco delle opere di Comite al 1626:
«Hactenus aonia segnes cessavimus umbra / nec cytharam digitis / movimus aut
latio pulsavimus organa plectro. / Quae nova, Pyerides, / segnities vos assueta
revocavit ab arte? / Cur silet ille Helicon, / qui modo vocali resonabat carmine?
Tandem / tangite fila chelys, / tangite, iam pleno dicendus Horatius ore / Castalidum
Comes et / Parnassi cultor, vestris sat cognitus oris, / tempora cui viridi /
cinxistis lauro, cui fontibus ora rigastis / vestraque nunc renovat / munia, quae
turpi languerent victa veterno, / ni veteres caneret / heroas, veteres revocaret Horatius
artes. / Quicquid Apollo suis / vatibus infundit, quicquid vos vertice Pindi
/ aut datis aut dabitis, / ille tenet, vestro sed munere, reddite vestro / munera
nunc Comiti. / Nam sileat Verona suum nec iam Umbria vatem / tollat ad astra
suum, / Mantua Minciaden sileat, quando ille Cothurnum / non tetigit tragicum,
/ quamvis pastores, mox arva atque arma canendo / vicerit ingenia, / Bellerophontaeo
quae iam geminantur in amni. / At Comes Aonides, / piscatorum hamos
et retia lusit amantum, / dumque leves calamos / inflaret, molli substratum
litus arena / plausit et aequor aqua / substitit et saevi posuerunt murmura venti.
/ Hic quoque Nympha tuos / extulit ad coelum, Rosselia, carmine amores; / mox,
Tigurina, tuam / sylvestri late laudavit arundine formam; / mox varios cecinit /
rithmos, ethruscis resonat quos vallibus Arnus, / innumeros numeros / atque sales
et dicta, sophus queis cederet omnis; / mox sacra virginei / concinuit partus,
nascentis et ora Tonantis / Bethlemiis specubus. / En dedit et tragicis scriptum
regale cothurnis / alite Maeonio / utque actus nuper memoravit Orispidis, en te,
/ Theodoberte, canit. / Plaudite vos Comiti, Musae, geminate coronas» (pp. 90-91
non numerate).
[ 12 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 243
scritta in quegli stessi anni, apparirà priva di note tipografiche nel
’1924.
Il 15 settembre del 1615, Filippo Finella dedicava le sue «rozze e
mal composte rime di tragico ornamento» al Signor Giovan Pietro
Morbillo25. La tragedia Cesonia è la sua prima opera teatrale, cui seguiranno
la tragicommedia pastorale Penelopea, gli intermedi Grazie concesse
da Giove ai cupi abissi e La vendetta di Giove contro i Giganti (Napoli,
Domenico Maccarano, 1625) – tra le prime attestazioni del teatro per
musica a Napoli26 –, la favola boschereccia Cinzia (Napoli, Domenico,
24 Il 1 maggio 1619 Comite dedicava con «sincera amicizia» la sua «inesperta e
vagabonda verginella fuggitrice» al Signor Anello Trotta. La copia conservata
presso la Biblioteca Nazionale di Roma (6.16.G.56.2) reca l’«ex libris Moraldi».
Sempre nel 1619, si stampano per i tipi di Costantino Vitale Gli affetti pietosi, canzonette
di Orazio Comite. Cfr. Keith A. Larson-Angelo Pompilio, Cronologia delle
edizioni musicali napoletane del Cinque-Seicento, in Musica e cultura a Napoli dal XV al
XIX secolo, a cura di Lorenzo Bianconi e Renato Bossa, Firenze, Olschki, 1983,
pp. 103-139: 126.
25 Sulla famiglia Morvillo, cfr. Archivio di Stato di Napoli, Serra di Gerace, vol.
4, p. 1370; Archivio di Stato di Napoli, Regia Camera della Sommaria, Cedolari, vol. 13,
f. 164. Precedono la tragedia i componimenti encomiastici di Francesco Vecchione,
Giovanni Andrea De Cunzi, Giovanbattista Morbillo, Giovanni Bartolomeo Fenice,
Francesco De Morra e Domenico Grisario.
26 B. Croce, I teatri di Napoli, cit., pp. 99-100. Nei primi anni venti, musici ‘ottimi’
annoverava la corte di Marino Caracciolo, dove spesso «brevi favolette in stile
rappresentativo si recitavano co’l canto» (cfr. la testimonianza di Maiolino Bisaccioni
in Michele Rak, La maschera della fortuna. Lettura del Basile «toscano», Napoli,
Liguori Editore, 1975, p. 207, n. 98). Gli intermedi di Finella, che risentono della
scuola monteverdiana e delle prove madrigalistiche di Basile, sono dedicati rispettivamente
a Francesco Angeloni, in data 5 aprile 1625, e ad Alessandro Ruffinelli,
in data 11 giugno 1625. La vendetta di Giove è preceduta dai componimenti encomiastici
dei seguenti autori: Giovanni Andrea de Cunzi, Incauto detto lo Smemorato
(già presente nella Cesonia ma non in veste accademica), Bartolomeo Fenice,
Diego Mammana, Sconcertato Incauto e Marcus Antonius Perillus Neapolitanus
Zelotypus Academicus Incautus. Michele Rak attribuisce a Finella anche gli intermedi
Arianna e Proserpina (Napoli, Ettore Cicconio, 16532), composti per l’allestimento
de Il pazzo finto di Cristoforo Sicinio curato dagli Accademici Indefessi di
Monte Regale (cfr. Michele Rak, Cento anni a teatro, in Da Dante al secondo Ottocento.
Studi in onore di Antonio Piromalli, a cura di Toni Iermano e Tommaso Scappaticci,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, pp. 203-264: 261). Allacci e Toppi
danno notizia della rappresentazione, ma ne attribuiscono gli intermedi a Francesco
Zucchi, come testimonia la stampa dell’opuscolo: L’Arianna e la Proserpina. Poesie
drammatiche di don Francesco Zucchi, Napoli, Ettore Cicconio, 1653 (L. Allacci,
Drammaturgia, cit., coll. 614-615; N. Toppi, Biblioteca Napoletana, cit., p. 331). Cfr.
inoltre Saverio Franchi, Drammaturgia romana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
1988, pp. 27-28; C. Sartori, I libretti italiani a stampa, cit., vol. I, p. 267 (L’A-
[ 13 ]
244 stella castellaneta
Maccarano, 1626)27 e il dramma storico La Giudea distrutta da Vespasiano
e Tito (Napoli, Domenico Maccarano, 1627).
La prima tragedia di Finella fu stampata per i tipi di Scipione Bonino
nel 161728. Sin dal frontespizio e poi nel principio dei singoli atti,
il libro nasce come libro-teatro29, ove la diacronia della fabula si comrianna
e la Proserpina di Zucchi); vol. III, p. 371 (Grazie di Finella); vol. V, p. 452
(Vendetta di Finella). L’opera di Zucchi, assieme a Il gigante abbattuto del medesimo
autore, è conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.
27 Collocandosi nel solco di una cospicua tradizione letteraria e figurativa ispirata
al mito della maga Circe, Finella forgia una fabula d’iniziazione che, auspice
Merlino, dopo aver «scorso gli abissi e sviscerato quanto d’occulto in sé la terra
chiude», procede dalla sconfitta del potere metamorfico circeo alla ricomposta armonia
arcadica. L’opera fu dedicata, il 6 febbraio 1626, da Marc’Aurelio Marconi a
Don Belardino De Montalvo marchese di S. Giuliano, Cavalier de l’abito di San
Iacomo del Conseglio Collateral di Sua Maestà e Luogotenente della Regia Camera
della Summaria nel Regno di Napoli. La lettera di dedica offre un prezioso elenco
delle opere scritte da Finella a quella data, alcune delle quali non sono state reperite:
«La grande familiarità e dimestichezza continua c’ho tenuto, Illustrissimo
Signore, con Filippo Finella, porta seco un vigore così nobile e degno, che ben
posso preggiarmi d’avere seco ogni tempo professato quell’amicizia […], mentre
dalla sua magnanimità e prodigalità ho preso quel piacere e quella gioia delle sue
discipline così Fisonomiche, come Astronomiche e Poetiche, che da uomo virtuoso
prender si possa, avendo del giardino del suo ingegno colti frutti assai dolci e saporosi,
i quali oltre alla suavità del gusto, che portano fra loro, recano ancora utilità
grande a coloro che saggiano di quelli, ancora che in picciola quantità: or quanto
fu maggiore la mia stella, poiché gran tempo prima mi fe’ vedere buona parte
de’ fruttuosissimi suoi componimenti, gli quali a pena partoriti, e prima di cacciarli
alla chiara luce del bel nascente giorno a me fe’ pago di godere de quelli. Fra
l’infinità degli altri preggiatissimi fiori, e delettosi frutti ch’io viddi fu la Cesonia,
la Penelopea, la Vendetta di Giove contro Giganti, le Grazie concesse da Giove a’
cupi abissi, li tre libri in prosa de’ suoi Discorsi poetici, la Marianna, l’Aureliana, la
prima e la seconda parte di rime amorose, le due parte Sacre, li discorsi Academici,
le due parte di Fisonomia Naturale, la sua Metroscopia, la vendetta di Vespasiano
e Tito in Giudea […]».
28 In Autori Italiani del ’600. Catalogo bibliografico, cit., pp. 10-11 si registra una
seconda edizione della Cesonia, Napoli, Scipione Bonino, 1625, dedicata a Francesco
Tappia de Leva, conte di Guastamerola e cavaliere dell’abito di San Giacomo.
Precedono la tragedia versi italiani di Comite, Marco Aurelio Marcone, Francesco
De Morra, versi latini di Giovan Battista della Bella e Domenico Grisario, versi
francesi di Christophan Chapelle e spagnoli di Francisco Pinario. La licenza di
stampa del 1617 è concessa dal padre Cornelio Tirobosco e da Alessandro Boschi,
vicario generale di Decio Carafa dal 1616. Per entrambi cfr. P. Lopez, Inquisizione,
cit., pp. 197, 213.
29 Sul libro-teatro in età barocca, cfr. Paola Zito, L’effimero barocco in tipografia.
Feste e rappresentazioni teatrali nell’editoria del Seicento, in I luoghi dell’immaginario
barocco, a cura di Lucia Strappini, Napoli, Liguori Editore, 2001, pp. 329-340.
[ 14 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 245
bina con la sincronia del corredo iconografico e del linguaggio figurato30.
Prima di far riferimento alle principali fonti della tramatura drammaturgica,
mediante il richiamo ad alcuni elementi che diremmo simbolicamente
significanti l’intera parabola tragica – il sogno, la lettera e
il veleno – non sarà superfluo richiamare l’argomento della fabula.
La favola della presente tragedia intitolata La Cesonia prende il nome
dalla istessa Cesonia figlia unica et erede di Artabone, re di Atene, la
quale, amando ardentissimamente Evandro, povero cavaliere della
corte del re suo padre, la spinse a porre in essecuzione quel tanto che
appresso intenderete. Regnando in Siracusa il re Coriteo, nobilissimo
di sangue, egreggio per li costumi et invitto per le tante vittorie ricevute
de’ suoi nemici, intendendo (e come forsi era commun grido) che
Cesonia figlia del detto re Ateniese era la più bella e nobile creatura che
l’Eterno Architetto avesse formata in quel tempo, si risolse mandar lettere
al re Artabone, chiedendogli quella per moglie, promettendoli però
di farla non sol regina, ma l’imperatrice di tutta la parte dell’Oriente.
Et avutone il consenso, li mandò finalmente ambasciadore, acciò
che confermasse a viva voce quello che per lettere tante volte promesso
avea. Si parte insomma Coriteo da Siracusa con molte navi e galee e
navigò alla volta del porto Falera di Leone. Raccolto finalmente con
non picciolo onore dal re Artabone nel suo palaggio, si celebrano le
30 Si veda la copia conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (Palat.
12.1.0.1/6c). Sul frontespizio l’incisione di un monumentum teatrale, con due figure
femminili probabilmente significanti la tragedia e la commedia, o la regalità e la
simulazione; a tergo un’impresa incorniciata in uno scudo bipartito che sembra
proporre una doppia immagine del dedicatario dell’opera, pubblica e privata o
accademica: a destra, l’aquila coronata su un albero frondoso, simbolo di vita sobria
e appartata, a sinistra uno speculum principis christiani, sorretto dalla religione,
dalle armi e dalla prudenza (la prudenza nell’Iconologia del Ripa è resa attraverso
uno specchio) o dalla saggezza (per lo speculum sapientiae cfr. Giorgio Stabile, La
ruota della fortuna: tempo ciclico e ricorso storico, in Id., Scienze credenze occulte livelli di
cultura, Firenze, Olschki, 1982, pp. 477-503, fig. n. 5). La copia ha l’ex libris del cardinale
Giuseppe Renato Imperiali. Nella biblioteca dell’Imperiali vi era una sezione
di teatro meridionale comprendente, tra le altre opere, il Georgio di Della Porta,
il Pompeo Magno di Orazio Persio, il Demetrio di Girolamo Rocco e la Reina di Scotia
del Ruggeri (Sull’Imperiali cfr. Stefano Tabacchi, Cardinali zelanti e fazioni cardinalizie
tra fine Seicento e inizio Settecento, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento.
“Teatro” della politica europea, a cura di Gianvittorio Signorotto e Maria Antonietta
Visceglia, Roma, Bulzoni Editore, 1998, pp. 139-165: 150-151). Copia della
Cesonia, senza frontespizio, si conserva presso la Biblioteca Nazionale di Roma
(34.2.C.6). L’esemplare, rilegato in un volume miscellaneo, ha la nota di possesso
di Belardino Biagio, il quale scrive dell’avvenuta rappresentazione della tragedia
«che tutto Napoli ha fatto spantare».
[ 15 ]
246 stella castellaneta
nozze d’un tanto matrimonio; ma prima che Coriteo infelice fusse entrato
in Atene, si ritirorno in stretti ragionamenti Evandro con la sua
amata Cesonia e, non potendo concludere cosa alcuna per alcuni impedimenti
che a loro sovragiungessero, Evandro non potendo far altro
mandò un suo servitore a Cesonia con una lettera, nella quale si conteneva
la congiura fatta tra loro di porgere all’infelice Coriteo quel medesmo
giorno il veleno, et avendone ricevuta grata risposta, per lo
medesimo servitore lo veleno l’invia, che tanto tempo innanzi a questo
effetto preparato aveva. Cesonia instigata dallo spirito invisibile del
suo furore, porge il veleno a Coriteo, mischiandolo nella tazza piena di
generoso vino. E cadendo sotto la mensa morto il misero et infelice
Coriteo, Cesonia cangia colore, impaurita e spaventata e come quasi
insensata s’alza dalla sua ricca mensa, senza avedersi che la lettera, che
teneva nel seno, mandata dal suo Evandro, inavedutamente era caduta
sotto la mensa regale, della quale, accortosi Artabone suo padre, la prese
nelle mani e leggendola scorse il tradimento fatto dal cavaliero. Per
la qual cosa subito gli fa troncar la testa e le mani, le quali in un piattello
d’oro invia alla sua mal nata figlia, che semiviva in camera poc’innanzi
ridutta si era. E mentre si fanno l’essequie al re di Siracusa, Cesonia
spinta da più grave furore avendo ricevuto lo non aspettato dono
del suo cotanto amato e desiato Evandro dal suo padre mandatole,
scapigliata sen va dove essangue morto giaceva il cadavero suo e giunta
dopo lungo lamento con il medesimo pugnale, che ancora al fianco
Evandro teneva, si trafigge il petto. E il tutto dice la favola fu successo
per opra di Plutone, invidioso della fortuna degli Ateniesi, li quali in
quel tempo principalmente adoravano lo non conosciuto Dio31.
Il motivo del pharmacon come remedium amoris e ‘dono nuziale’ ha i
suoi archetipi, diversamente formulati, in Medea e in Deianira. Sofocle
nelle Trachinie, Euripide nella Medea e Seneca nell’Hercules Oetaeus
avevano scenicamente mostrato come il veleno potesse essere un ‘antidoto’
all’infedeltà, nello specifico di Ercole e Giasone. Pur nella sostanziale
diversità del nodo tragico, la filigrana della Cesonia dissimula
una vigile memoria delle fonti classiche, alla stregua di un’idea del
teatro che, innestando l’arbor neoplatonica sulle radici euripidee
dell’hoc erat demonstrandum, allestisce un sistema di personaggi «da
soverchio amoroso desir spronati e vinti» (V iii). Cesonia non ha lo
spessore tragico della barbara Medea, sola nel tessere un lucido disegno
di vendetta, né lo statuto tragico dell’eroina di Finella è in qualche
31 Come nella Marianna del Dolce, anche il prologo della Cesonia è affidato a
Plutone. Finella sembra dar seguito nella Cesonia a quella che in realtà era la falsa
accusa rivolta a Marianna.
[ 16 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 247
modo accostabile a quello di Deianira, di fatto artefice della morte di
Ercole, ma ambiguamente complice/vittima della perfidia di Nesso,
quest’ultimo artefice senza ombre della morte dell’eroe. Diversamente
da Deianira, che pur ordisce una trama, Cesonia aderisce al progetto
di amore e morte messo a punto da Evandro per lettera, e quel disegno,
con piena premeditazione e perseveranza, pone in essere. Né la
perseveranza e la premeditazione incrinano il profilo mezzano del
personaggio, dimidiato tra gli affetti e la ragion di stato. Come Clitemestra
– peraltro evocata nella scena VII dell’atto v, dopo Mirra32 –,
Cesonia uccide il marito con l’aiuto dell’amante, ma diversamente da
Egisto, Evandro è artefice in absentia del delitto. Secondo un cliché consolidato,
a colmare il vuoto dell’assenza vi è la lettera33. Nell’Agamennone
di Seneca lo spettatore ‘antevedeva’ quell’eccidio con gli occhi di
Cassandra: «Nella reggia si celebra un banchetto allestito, simile
all’ultimo banchetto dei Troiani […]. Il destino è giunto; la fine del
banchetto vedrà spargere il sangue del mio padrone, e mescolarsi al
vino»34. E l’immagine di quel banchetto sospeso tra la festa e la morte
32 Finella ne ricorda il parricidio, alludendo probabilmente alla responsabilità
di Mirra nella morte del padre, significativamente tacendo il nome di Orbecche.
Tuttavia l’attestazione scenica della morte di Cinira e l’idea di accostare la fabula di
Cesonia alla storia siriaca di Mirra può esser derivata dalla lettura delle Antichità
giudaiche di Giuseppe Flavio, autore ben noto al Finella, ove si narra della congiura
ordita contro Caligola (19, 13, 92-95). Prima di assassinare il tiranno e la sua famiglia
(41 d.C.), fu rappresentata la duplice morte di Cinira e Mirra: «L’eroe e sua figlia
Mirra restano uccisi e una quantità di sangue artificiale veniva sparso intorno
all’uomo crocifisso e intorno a Cinira» (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, a cura
di Luigi Moraldi, Torino, Utet, 1998, vol. II, p. 1178). La medesima tragedia intitolata
Cinira era stata rappresentata nel 336 a.C., nel giorno in cui Filippo II di
Macedonia fu ucciso per mano di Pausania. Cfr. Svet. Cal., 57. La suggestione di
quel dramma perduto potrebbe aver orientato la soluzione del parricidio? Si ricorda,
inoltre, che il teatro cinquecentesco avrebbe potuto a sua volta fornire delle
indicazioni in tal senso. Si intende dire della Mirra alla cui stesura attese Luigi
Groto tra il 1560 e il 1572, della quale ad oggi non vi è traccia (cfr. Marzia Pieri, Il
«laboratorio» provinciale di Luigi Groto, «Rivista italiana di drammaturgia», 4 [1979],
p. 18).
33 Cfr. Maria Luisa Doglio, Lettera come novella. Retorica ed exemplum nella
Storia di due amanti di Enea Silvio Piccolomini, in L’arte delle lettere. Idea e pratica
della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 13-28;
Guglielmo Barucci, Silenzio epistolare e dovere amicale. I percorsi di un topos dalla
teoria greca al Cinquecento, «Critica letteraria», 33 (2005), pp. 211-252. Sul motivo
della lettera nella librettistica secentesca, cfr. Paolo Fabbri, Il secolo cantante. Per
una storia del libretto d’opera nel Seicento, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 180-186.
34 Lucio Anneo Seneca, Agamennone, introd. di Alessandro Perutelli, trad.
di Guido Paduano, Milano, BUR, 1996, pp. 125-127.
[ 17 ]
248 stella castellaneta
ritorna nella Cesonia. Fin qui il possibile repertorio teatrale classico, e
forse non è inopportuno il riferimento all’eziologia onomastica della
mulier maga. Circa le ragioni dell’insania di Caligola, Svetonio aveva
scritto: «Creditur potionatus a Caesonia uxore amatorio quidem medicamento,
sed quod in furorem verterit» (4, 50, 12-14). Ma per ricostruire
le intersezioni plurime della memoria poetica di Finella converrà
guardare anche al repertorio novellistico, all’epica e al teatro
europeo cinque-secentesco. Il veleno come strumento di morte è presente
sin dal primo testo tutore della Cesonia, ossia la fabula di Tancredi
e Ghismonda: l’eroina di Boccaccio «si fe’ dare l’orcioletto» con l’acqua
avvelenata «la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte
delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta
la bevve». Così Boccaccio inscenava il suicidio di Ghismonda che beve
dalla medesima coppa d’oro in cui Tancredi aveva riposto il «morto
core» di Guiscardo. Sul versante teatrale italiano, nel 1514 il Trissino
affidava al suicidio per avvelenamento la lysis del dramma di Sofonisba
e nel 1542 Speroni verificava scenicamente la soluzione prospettata
da Boccaccio nella settima novella della quinta giornata: Eolo ordina
ad un suo ministro di portare a Canace un pugnale e un nappo
contenente del vino misto a veleno, perché la figlia possa scegliere «tra
due guise di morte», ma tra il ferro e il tosco l’infelice Canace optava
per il ferro. A differenza di Ghismonda e di Sofonisba il veleno serve a
Cesonia per procurare la morte, non per darsi la morte. Il vino misto a
veleno, sorseggiato dallo sposo ignaro durante il rito nuziale, è un’immagine
che rinvia all’Orlando furioso (XXXVII, 66-75). Per vendicare
l’uccisione di Olindro e «di vita torre / il traditor figliuol di Marganorre
», Drusilla «di vin dolce di Candia un fiasco pieno / trovò da por
con quel succo malvagio» e lo conservò per il giorno delle sue seconde
nozze. Drusilla finge «di quelle nozze aver sommo disio», ma in cuor
suo medita vendetta. «Imaginosse / una bugia» e disse a Tanacro «di
voler le nozze a guisa / de la sua patria»: «la vedovella che marito
prende» deve libare sacrifici per placare l’anima del marito defunto
«nel tempio ove di quel son l’ossa messe». Durante il macabro rito
propiziatorio il sacerdote avrebbe offerto agli sposi il vino benedetto.
Apparecchiato il veleno con la complicità di «una sua vecchia», giunto
il giorno stabilito, dopo che il sacerdote ebbe versato in una coppa
d’oro «col tòsco il vino benedetto», Drusilla ne bevve quel tanto che
conveniva al suo decoro, quindi «diè allo sposo con viso giocondo / il
nappo». In questo caso l’espediente del veleno porta alla morte sia
Drusilla che Tanacro, ma pur nella variazione dell’esito – quel veleno
sulla scena napoletana sarà causa indiretta di una triplice morte – Fi-
[ 18 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 249
nella mostra chiaramente il suo debito compositivo nei confronti
dell’Ariosto, con una significativa variante: l’infelice Coriteo muore
senza colpa, è il martire innocentissimo, sicché la sua parabola scenica
diviene in qualche modo metafora dell’esperienza terrena del Nazareno,
prima acclamato dalla folla festante, quindi messo a morte35.
[…] Dunque a me pare,
ch’al re non apri il tuo sdegnato core,
anzi con viso allegro, e lieta fronte
mostri d’aver contento, e gioia interna
de le future nozze, e quando a mensa
presso si sederà quel re superbo,
tu con giocondo aspetto gli farai
carezze, et accoglienze, e spessi inviti,
e con destrezza al fin poscia nel vino,
che ne la tazza d’or per lui si serba,
il dito bagnerai, il qual ne l’ugna
terrà celato un crudo, empio veleno,
ch’a quest’effetto io preparar disegno,
et in poche ore il vederai languire,
e ne le mani tue lasciar la vita;
lo qual poi morto, fingerai dolente
pianti, e sospiri, e di fortuna iniqua
lamentar ti potrai, che pria la morte,
35 Sulla figura del martire nel teatro post-tridentino, cfr. Mauro Sarnelli, Riflessioni
preliminari sulla problematica dell’eroe innocente nella drammaturgia manieristico-
barocca, in I luoghi dell’immaginario barocco, cit., pp. 81-93. Sulla fortuna del Furioso
e della Liberata si vedano da ultimo: L’Orlando furioso nello specchio delle immagini,
dir. da Lina Bolzoni, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2014; Christian
Rivoletti, Ariosto e l’ironia della finzione: la ricezione letteraria e figurativa
dell’Orlando furioso in Francia, Germania e Italia, Venezia, Marsilio, 2014; La fortuna
del Tasso eroico tra Sei e Settecento. Modelli interpretativi e pratiche di riscrittura, a cura
di Tancredi Artico ed Enrico Zucchi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2017. Sul
Furioso e la Liberata nel teatro napoletano del Seicento, cfr. Monica Brindicci, Il
libro di teatro a Napoli nel XVII secolo, Tesi di dottorato di ricerca in Italianistica (con
particolare attenzione alla letteratura meridionale), Università degli Studi di Napoli
‘Federico II’, 1994; Ead., Epos e romanzi tradotti nel libro di teatro a Napoli nel
XVII secolo, «Quaderno dell’Aprosiana», n.s., 7 (1999), pp. 57-71; Grazia Distaso,
Sulla fortuna meridionale del Tasso: esempi di ricezione fra narrativa e teatro per musica,
in Scenografia epica. Il trionfo d’Alfonso – Epigoni tassiani, Bari, Adriatica Editrice,
1999, pp. 49-83; Thomas Stein, Quando Olindo diventa Aminta. Aspetti della fortuna
teatrale di un episodio tassesco, «Studi Secenteschi», 42 (2001), pp. 59-84; Fabiana
Fago, Dalla narrazione alla scena: le riscritture teatrali dell’Orlando furioso e della Gerusalemme
liberata nel Regno di Napoli tra Cinque e Settecento, Tesi di dottorato di
ricerca in Italianistica, Università degli Studi di Bari, 2004.
[ 19 ]
250 stella castellaneta
che ’l letto maritale abbia gustato,
e così poi ne goderem mai sempre
il nostro amor, le sue ricchezze, e i doni.
È la «carta piena di lacrime e di pianto»36 che Evandro invia a Cesonia
per mano del fido Nicanore nella scena III dell’atto ii: riscrittura
della «lettera tutta piena di lagrime» di Giulietta a Romeo nella celebre
novella del Bandello37 e nel contempo trasposizione tragica di un
espediente comico caro al teatro rinascimentale – «trovare una ruffiana
e scrivere una lettera» è il remedium amoris per antonomasia che il
cortigiano Valerio offre a messer Parabolano nella Cortigiana (II x). Finella
si avvale dell’espediente della lettera intercettata, il cui archetipo
tragico probabilmente è nell’incipit dell’Ifigenia in Aulide, per costruire
l’epitasis e la katastrophé. Alla stregua della visio profetica di Cassandra
nell’Agamennone, la lettera promuove un teatro dell’intelletto nella misura
in cui consente allo spettatore di prefigurarsi la morte di Coriteo,
inscenata attraverso un procedimento che di fatto cassa l’opsis e interpreta
l’aristotelico en tô phanerô in senso acustico: all’ascolto della lettera
che predispone alla morte farà da pendant, a morte avvenuta, l’ascolto
degli orrendi stridi provenienti dall’interno del Palazzo reale (V
i). Nessuna pruderie di oraziana memoria connota il seguito della tragedia,
che in linea con il teatro dell’orrore senecano e giraldiano, peraltro
ben frequentato dalle tragedie luperciane, offre una ‘indecorosa’
visione dei disiecta membra di Evandro ed esibisce la pièce del suicidio
di Cesonia.
Attraverso il tópos della lettera Finella porta a soluzione il circuito
tragico del dramma, quel viluppo inestricabile di amore e morte, simulazione,
menzogna e verità. La scrittura promuove dapprima la
morte di Coriteo, quindi, come epistola intercettata e probatoria, la
36 F. Finella, Cesonia, cit., II iii, p. 44. Nella scena prima dell’atto terzo del
Tancredi, Ridolfo Campeggi ritrae Guiscardo morente che «nel proprio sangue /
immergendo la penna, / sovra il candido foglio / a formar cominciò note sanguigne
». Alla maniera delle Heroides, Guiscardo scrive un’epistola amatoria all’indirizzo
di Gismonda e affida la lettera ad un soldato perché la consegni all’amata. La
carta rigata dal sangue di Guiscardo sarà lavata dalle lacrime di Gismonda (III iii).
Dunque non una lettera dove si ordisce un intrigo o una congiura. Sulla rappresentazione
dell’opera presso l’accademia dei Gelati di Bologna si veda Marina
Calore, Accademie e teatro: il Tancredi di Ridolfo Campeggi a Palazzo Zoppio nel 1615,
«Strenna storica bolognese», 32 (1982), pp. 85-97.
37 Matteo Bandello, Giulietta e Romeo, a cura di Daria Perocco, Venezia,
Marsilio, 1993, p. 63.
[ 20 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 251
morte di Evandro e Cesonia38. «Intercetti fogli e segreti messaggi»
muoveranno anche la «macchina giudiziale»39 del Filippo dell’Alfieri.
Ma la scrittura come accusa è anche un segno rovesciato di un archetipo
tragico, si pensi alle tavolette accusatrici di Fedra40. Segno rovesciato
si diceva, perché sulla scena napoletana la veridicità della scrittura
confuta e smaschera la menzogna e la doppiezza della parola
agita, tradendo di fatto la medesima natura mendace, simulatoria e
dissimulatoria, del teatro e della corte. Inoltre, se rapportiamo la pièce
al clima censorio dell’epoca, il motivo della lettera quale prova di colpevolezza
si fa nel contempo tramite di un’idea del teatro che inscena
i rischi della scrittura e gli effetti della sua imprudente circolazione. Il
delitto di cui si macchia Cesonia, pur richiedendo la complicità nella
menzogna, fa leva sulla topica ingenuità della mulier che, incapace di
assolvere sino in fondo al proprio ruolo nella congiura, si lascia ‘fanciullescamente’
e ‘donnescamente’ cogliere in flagranza di reato, contravvenendo,
come già Orbecche, al precetto giraldiano della donna
tragica ‘grave, prudente e accorta’41.
Tragedia dell’apparente disimpegno, la Cesonia riscrive la celebre
novella di Tancredi e Ghismonda mettendo in gioco la realtà concreta
del Viceregno. Il tema della nobiltà, motivo ricorrente nella trattatistica
degli umanisti meridionali, scenicamente reso nel contrasto Evandro
vs Coriteo, rinvia sia all’endemica rivendicazione autonomistica
delle istituzioni partenopee, tratto che risaliva al mito fondativo della
Partenope greca – sottolineata dal rinvio ellenistico dell’ambientazione
tragica –, sia alla eterogeneità della classe nobiliare e al mosaico del
ceto popolare regnicoli. Sotto il velame della fabula vi è il problema
della legittimità sociale del potere, della ricerca dell’identità civile,
38 Il motivo della congiura per lettera ha ulteriori attestazioni nel teatro napoletano
del Seicento. Lettere di congiura sono nel Demetrio (III iv) e nel Leone (II vii
e viii), tragedie rappresentate nell’entourage del Collegio dei Nobili partenopeo.
Holkham Hall, Library of the Earl of Leicester, ms. 526: cc. 127r-219r (Demetrio); cc.
44r-125v e 220r-296r (Leone).
39 Così Lucio Lugnani, L’ascendente dimenticato del Filippo alfieriano: Don Carlos
Prince of Spain, in Studi offerti a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisani, a
cura di Lucio Lugnani, Marco Santagata e Alfredo Stussi, Lucca, Maria Pacini
Fazzi, 1996, pp. 309-349: 323.
40 Sul modello letterario della donna che scrive, cfr. Maria Luisa Doglio, Il
libro, «lo ’intelletto e la mano»: Fiammetta o la donna che scrive, «Studi sul Boccaccio»,
33 (2005), pp. 97-115.
41 Discorso ovvero Lettera di Giovanbattista Giraldi Cintio intorno al comporre delle
commedie e delle tragedie a Giulio Ponzio Ponzoni, in Scritti estetici, rist. anast. Bologna,
Arnaldo Forni, 1975, p. 104.
[ 21 ]
252 stella castellaneta
dunque le tensioni interne alla dialettica degli status. Lungi dall’appiattirsi
a mero esercizio di retorica teatrale nella riproposizione di
una storia peraltro ben nota alla tradizione tragica42, il recupero storicizzato
della cifra boccacciana, nell’ottica riformistica di ampliamento
delle basi della monarchia, diviene una tessera della coeva riflessione
sociologica e politica concernente gli equilibri tra le classi sociali – si
pensi agli scritti di Summonte, Imperato, Palazzo, Capaccio e Tutini43
ed anche agli studi storico-araldici di Francesco Zazzera che nel 1615
pubblica, per i tipi di Gargano e Nucci, Della nobiltà di Napoli, un’opera
dedicata al Lemos, di chiara matrice filonobiliare.
Si è detto della pièce portata a soluzione dalla lettera, ma il meccanismo
dell’azione scenica si avvale in maniera efficace anzitutto della
retorica del linguaggio onirico –strumento di rivelazione profetica
nella prassi della magia astrologica44 –, a sperimentare altre possibili
soluzioni dell’opsis mediante il ricorso alla visio onirica affidata a moduli
diegetici. In uno spazio dell’anima senza tempo, sulle orme di
Cardano, Melantone, Rabelais e della tradizione onirica rinascimentale,
l’astrologo Finella sostanzia il simbolismo scenico di figure e forme
dell’irrazionale. Onirocritica e arti divinatorie hanno larga parte nella
fabula, che, come l’Ulisse di Della Porta, principia con il sogno funesto
42 Cfr. Federico Poletti, Fortuna letteraria e figurativa della ‘Ghismonda’ (Dec.
IV, 1) fra Umanesimo e Rinascimento, «Studi sul Boccaccio», 32 (2004), pp. 101-143;
Davide Conrieri, Scritture e riscritture secentesche, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2005,
p. 146. Tra le riscritture non teatrali della novella boccacciana nel circuito accademico
napoletano, si ricorda la XIII epistola eroica di Antonio Bruni. Negli stessi
anni della Cesonia vedevano la luce L’Andreuccio del Boccaccio ridotto al rappresentabile
per Francesco Canali Vicentino, dedicato a Girolamo Maganza, Vicenza, Francesco
Grossi, 1612; La Griselda del Boccaccio tragicommedia morale da Paolo Mazzi dedicata
a Filippo Aldrovandi conte Viano, Bologna, Bartolomeo Cochi, 1620.
43 Cfr. Rosario Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647),
Bari, Laterza, 1967; Aurelio Musi, Momenti del dibattito politico a Napoli nella prima
metà del secolo XVII, «Archivio Storico per le Province Napoletane», s. III, 11 (1972),
pp. 345-372; Id., Il Viceregno spagnolo, in Storia del Mezzogiorno, dir. da Giuseppe
Galasso e Rosario Romeo, vol. IV/1. Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma,
Edizioni del Sole, 1986, pp. 213-267; Giovanni Muto, Il regno di Napoli sotto la dominazione
spagnola, in Storia della società italiana, dir. da Giovanni Cherubini,
Franco Della Peruta, Ettore Lepore, Mario Mazza, Giorgio Mori, Giuliano
Procacci e Rosario Villari, vol. XI. La Controriforma e il Seicento, Milano, Teti,
1989, pp. 225-316; Giovanni Muto, Gestione politica e controllo sociale nella Napoli
spagnola, in Napoli Viceregno Spagnolo, cit., tomo I, pp. 65-100.
44 Cfr. Cesare Vasoli, Le tradizioni magiche ed esoteriche nel Quattrocento, in Id.,
Le filosofie del Rinascimento, cit., pp. 133-153: 140.
[ 22 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 253
del re Artabone (II v)45. Ricordando la postilla tassiana al sogno premonitore
della Sofonosba del Trissino, diremmo che «questo sogno
contiene nodo e scioglimento»46.
Artabone racconta il sogno
[…] Mentre sopiva a me più dolce il sonno
la stanca mente, e che nel ciel languiva
l’ultima stella, e l’alba
incominciava a dileguarsi intorno,
pareami starmi assiso
sovra un bel prato adorno
di varii fiori, e da’ sacrati velli
stillar le perle liquefatte in giro
e cantar gli augelletti in varie torme,
et indi, a schiera a schiera,
fra verdi rami al tremolar de l’aura
alternavano il canto e i molli baci.
E mentr’intento a le carole, al suono
de’ dolci accenti i’ stava, mi pareva
ch’avessi chino il capo
nel grembo de la mia felice madre,
che già gran tempo fa volò leggiera
nei campi Elisi ai fortunati alberghi,
quando spiccar da le più erte cime
d’un elice vedea bianca colomba,
che ver me fuggitiva il corso e l’ali
45 Il sogno premonitore, affidato al racconto del re macedone Filippo, è anche
in apertura del Demetrio, rappresentato il 29 ottobre del 1651 presso il Collegio dei
Nobili partenopeo: «Torbido sogno / mi confonde il pensiero: a me pareva / nel
mio trono real vedere assiso / coronato un leone, / a cui da fianco un picciolo suo
figlio / scotea la giubba d’oro / ferocemente bello; ecco da lungi / giunge un altro
leon, che press’al soglio / si trasforma in pantera, / la cui cangiata pelle / per
macchie havea più stelle, / questa, ma non so come, / spinse a tanto furore / il
leon coronato, che sol detto / preso il figlio innocente / l’uccise, lo sbranò; poscia
pentito / su le belle reliquie, e sospirate, / lasciò cadersi. / A questa vista in tal
dolor sommersi / furono i sensi miei: quasi mirassi / nel lacero leon il mio Demetrio
/ da furia belva ucciso» (I viii, vv. 10-31). Se la particolare tipologia zoomorfa
del sogno rinvia all’Ecuba di Euripide (vv. 68-97), il leone e la pantera maculata di
Filippo rinviano alla lonza «che di pel macolato era coverta» (If 1, 33), «quella fiera
a la gaetta pelle» (If 1, 42) allegoria della frode, e al leone «con la test’alta e con
rabbiosa fame» (If 1, 47), simbolo della violenza e della matta bestialitade.
46 È la postilla alla stampa Bindoni del 1549. Cfr. Claudio Scarpati, Dire la
verità al principe. Ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano, Vita e Pensiero,
1987, pp. 168-169.
[ 23 ]
254 stella castellaneta
spingea oltre l’usato, e parea tutta
di paura tremar, tinta di morte;
et accostando le sue bianche penne
in questo sen, parea che con il becco
facesse segno di dolor, di pianto,
e spesso rivolgeasi intorno intorno
e quasi volea dir con rauco suono
o scoprire il dolor, ma sua natura,
instituita dal superno Giove,
le vietava il poter scovrirsi meco.
Et io vedendo gli occhi volgo e miro
che la bianca colomba era seguita
d’un falcon peregrin, ch’avea l’artiglio
aguzzo e parea tutto
colmo di sdegno e d’ira, onde levato
in piè fui tosto e mi volgea nel core
che ’l falcone oltraggiar quella volea,
e vinto da furor la spada strinsi
et in tre colpi il fei lasciar la vita;
ma la colomba, quel falcon vedendo
esangue e morto, le sue bianche penne
tosto mutò in color negro e bigio
e volò sopra il falcon spento, e tanto
fortemente battendo le mutate
piume parea che si dolesse insieme
de la sua morte e, vinta
da soverchio dolor, consorte fusse
a la sua morte et a l’essequie amare;
e non sì tosto si lasciò cadere
sovra ’l falcone esangue anch’ella morta,
che languir viddi l’erbe e sudar tutti
stille di sangue i fiori e fuor del letto
versare Illiso il turbidato umore
et il cielo vestir di negra nube
e di tuoni e di lampi in un momento
empir l’aria e la terra
e sparir l’ombra de la bella madre […].
Un espediente narrativo e drammaturgico ben frequentato, dall’epos
omerico al dramma pirandelliano47. Memore della lezione ome-
47 Cfr. Achille Crespi, Il sogno come artificio drammatico nella letteratura greca e
latina, «Rivista di storia antica», 9 (1904), pp. 439-455; Francesco Gandolfo, Il
«dolce tempo». Mistica, Ermetismo e Sogno nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1978 (in
particolare le pp. 173-179); I linguaggi del sogno, a cura di Vittore Branca e Carlo
[ 24 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 255
rica e dei tragici greci, Finella affida all’astrologo Bibolo, «lo saggio
alto consorte / del fato, e delle stelle» (I vi), il compito di decifrare il
linguaggio onirico, sì che il dramma possa ‘antevedersi’ come nella
profezia di Cassandra. La scelta drammaturgica varrà agli occhi dei
profani la riabilitazione della scienza astrologica e di quanti ‘secretamente’
la professano.
Bibolo
Se ’l sogno tuo, alto Signor, non fusse
così vicino a l’alba, io giurarei
che vano fusse e che timore alcuno
non dovrebbe ingombrar la mente altera.
Ma poich’è certa visione e certo
oracol questo, io quanto al parer mio
et in quanto al saper de’ vaticini,
ond’esperto natura a me tuo servo
mi fè sin dal natal, ma con gli studi
divenuto perfetto, oggi esplicare
mi farà a pieno il sogno e ’l dubio caso,
con l’aita però del sommo Giove.
Sappi dunque, Signor, che l’erbe e i fiori
altro rappresentar non ti si deve
che l’antiche d’Atene altere mura
e gli abitanti insieme; e l’aver posto
Ossola, Firenze, Sansoni, 1984; Carlo Brillante, Studi sulla rappresentazione del
sogno nella Grecia antica, Palermo, Sellerio, 1991; Il sogno raccontato. Atti del Convegno
internazionale di Rende (12-14 novembre 1992), a cura di Nicola Merola e
Caterina Verbaro, Vibo Valentia, Monteleone, 1995; Teatro del Cinquecento. La tragedia,
a cura di Renzo Cremante, tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi-Mondadori,
1997, pp. 43-44, 46; Heather Gardner, Oltre la porta di corno e d’avorio. Funzioni del
sogno nel teatro shakespeariano, Manziana, Vecchiarelli, 1997; Benedetta Papasogli,
Esperienze del tragico nel sogno premonitore, in Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali
nella drammaturgia europea fra ’500 e ’600, a cura di Silvia Carandini, Roma,
Bulzoni, 2001, pp. 151-166; Paola Cosentino, Sogni tragici/Sogni epici: per uno studio
del sogno nella tragedia cinquecentesca (primi sondaggi), in Le metamorfosi del sogno
nei generi letterari, a cura di Silvia Volterrani, con introd. di Lina Bolzoni e
Sergio Zatti, Firenze, Le Monnnier, 2003, pp. 96-111; Grazia Distaso, L’«instabil
scena» del potere nella tragedia politica italiana del Seicento, in Ragion di stato a Teatro.
Atti del Convegno Foggia, Lucera, Bari, 18-20 aprile 2002, a cura di Stella Castellaneta
e Francesco Saverio Minervini, Taranto, Lisi, 2005, pp. 161-173 (in
particolare le pp. 171-172); Fabio Ruggirello, Strutture immaginative nella tragedia
del Cinquecento: il topos del sogno premonitore, «Forum Italicum», 2 (2005), pp. 378-
397; I sogni e la scienza nella letteratura italiana. Atti del Convegno Siena, 16-18 novembre
2006, a cura di Natascia Tonelli, Pisa, Pacini, 2008.
[ 25 ]
256 stella castellaneta
nel grembo di tua madre il regio capo
altro non suona e non dimostra aperto
che ne la madre antica imperar devi
ancor per lungo tempo, onde dispensa
a te con larga man de’ suoi favori.
Ma la colomba sarà quella appunto
che dovrebbe dopo tua morte avere
lo scettro universal del tuo bel regno,
et il falcon tuo genero: ma tosto
l’un dopo a l’altro lascieran la vita;
et i fiori sudar stille di sangue
saran i fidi abitator d’Atene,
per la cui morte versaran gran pianto;
e l’onde tranquillissime d’Illiso
uscir dal letto fuora, ahi ahi dimostra
(ahi, non fia ver, Signor) esser noi privi
de la prole regal de’ germi tuoi.
Nel mosaico dell’inventio non manca la iunctura sogno-viaggio.
Un’aurea trasognata avvolge anche il nostalgico threnos del capitano
dinanzi alle spoglie del suo re. È la scena III dell’atto v, che sigla la
beatificazione del martire, attraverso il modulo del makarismós, rituale
in origine epitalamico, intonato dal coro di sacerdoti e sommi eroi.
Napirio chiede che sia fermato il cataletto prima del rogo: «[…] Acciò
col pianto / facia le prime esequie al corpo morto, / perché solo a me
spetta e a questi Eroi / principio dare a le funeste pompe». Lo circondano
gli eroi giunti ad Atene al seguito di Coriteo, «vestiti di lugubri
vestimenti con le bandiere per terra e armi e funesti tamburi». Napirio
principia il lamento con il racconto del viaggio per mare compiuto da
Siracusa ad Atene, toccando Malta e Zante, e offre in tal modo, attraverso
la tecnica dell’ekphrasis, un breve saggio di poesia catalogica che
risente del modello epico-celebrativo e odeporico. È un raffinato intarsio
pittorico affidato alle suggestioni tonali del chiaroscuro, modulato
sul fioco riverbero della «candida luna» sulle acque increspate da una
lieve brezza. Finella interseca la fonte virgiliana (Aen. 7, 8; 8, 22-23) e
ovidiana (Heroides 11, 75-76) con la lezione dantesca (Pg I 115-117), peraltro
già confluita nel registro epico di Boiardo (Orlando innamorato,
II, XIX, I 3-4) e Ariosto (Orlando furioso, VIII 71, 5-6) e nelle riscritture
teatrali di Trissino (Sofonisba, vv. 2085-2093) e Giraldi (Orbecche, III v;
Cleopatra, IV v), questi ultimi ben presenti al letterato napoletano che
nella rimodulazione di quei prelievi lemmatici ne rievoca anzitutto il
contesto.
[ 26 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 257
Esper tuffato avea l’aurata chioma
ne l’Oceano, indi felice il vento
spirava e sovra l’onde
il tremolante lume
de la candida luna
senz’alcun velo riflettea nel cielo,
quando da Siracusa i remi a l’acque
diemmo felicemente et a le vele
l’aura spirava, avendo pria dal porto
l’ancore alzate, onde tenean le navi,
et al nostro partir tutta facea
la città festa e concorrean nel lido
di gaudio pieni i popoli e le genti,
e così ciaschedun ne l’allegrezze
giubilando, partimmo, e insino al golfo
varcammo il mar, dove conforto alquanto
prendemmo, et indi poi l’Isola bella
toccammo, che di Malta il nome prende,
e con il vento prospero e felice
Cefonia noi scoprimmo inver la sera
e non firmammo il cielo insin che Zante
non fu da noi veduto48.
Il richiamo esibito al XXVI dell’Inferno diviene preludio al naufragio
dell’eroe: come il viaggio di Ulisse, il viaggio di Coriteo non ha
ritorno.
La dimensione onirica pervade anche le due tragedie di Comite:
sull’eziologia del sogno si sofferma la Nutrice nel Re Teodoberto (III iii),
ricordando la tradizione confluita nella pagina dellaportiana dei Miracoli
et maravigliosi effetti dalla natura prodotti49, mentre il sogno del re
48 If. 26, 142: «Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
49 Nodrice. «Non t’attristar, non dar tosto credenza / a sogno, se sei saggio
[…]. / Tre gran cause a sognar danno: / gli umori le primere, e son gli insogni; / i
spirti le seconde, e fan gli auguri; / le terze Iddio, che ne’ veraci oggetti / ogni
futur ne mostra. Il primo ei vienne / nel principio del sonno; il secun dopo / che
sarà l’alma stanca alquanto scarca / del fumo che l’avea il cibato oppressa; / il
terzo sul mattin, quando ch’in tutto / leggera a la più bella e somma idea / del ciel
sen vola a contemplar da quivi / le cose a lei sol pari, a lei sembianti. / E da qui
poscia avien ch’ella comprende / in gran parte il futuro, o in bene o in male». Cfr.
De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti. Libri IIII, di Giovanbattista Porta.
Con due tavole, l’una de’ capitoli, l’altra delle cose più notabili, Venezia, Lodovico
Avanzi, 1560, pp. 98b-99; Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni
del mondo, a cura di Giovanni Battista Bronzini, Firenze, Olschki, 1996, vol. I,
pp. 503-504.
[ 27 ]
258 stella castellaneta
Teocle nell’Orispide (I iii), attraverso l’immagine del cacciatore che diviene
preda dei propri veltri, inscena l’incauto cammino dell’amore
volgare50 e per converso l’arduo cammino dell’amore ‘eroico’, cui
Giordano Bruno aveva dedicato il dialogo quarto degli Eroici furori.
Teocle
Mentre dormia, cosa m’apparve
di non poco stupor […].
Vide l’oppressa mente
in un folto querceto (ov’è il mio stile
di sovente ir cacciando) un’umil cerva,
qual, perché bella parve agli occhi miei,
ogni opra, ogni fatica
v’impiegai perché l’abbia; e, non possendo
far contento il desio di ciò bramoso,
quasi che mi sdegnai, seguir la feci
da veltri, i quai ritenni al primo assalto.
Questi mentre fuggia non gli gir dietro.
Poi che coi lacci e con l’industria io l’ebbi,
un can che men d’ogni altro amico m’era,
che sciolto appresso gli altri io meco aveva,
quando sicur più stava
per l’acquistata caccia,
saltò di fianco e l’umil cerva ancise.
Donde adirati i veltri
contro me si voltar d’ogni duol carco
per l’ancisa cervetta, e tinser l’ugne
e nascoser i denti entro il mio sangue,
e volendo io difesa
far dai feroci morsi, il sonno sparve.
Comite riscrive petrarchescamente in forma di ‘apparizione’ – ma
l’archetipo tragico è nel sogno di Ecuba51 – la caccia alla cerva52 e lo
50 Cfr. Marsilio Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a cura e con
uno scritto di Giuseppe Rensi, Milano, ES, 1992, VII xii (Del danno dello amore vulgare),
p. 153: «Quanto sia pestilenziale questo adulterato Amore per le persone
amate e per le Amanti, copiosamente lo disputa Lisia tebano e Socrate nel Fedro di
Platone».
51 Euripide, Ecuba, vv. 90-91: «Ho visto una cerva screziata: sanguinose zanne
di lupo la artigliavano, strappandola crudelmente dal mio grembo» (introd. di
Umberto Albini, traduzione e presentazione dei drammi di Umberto Albini e
Vico Faggi, note di Claudio Bevegni, Milano, Garzanti, 2003, p. 11).
52 Sul sonetto petrarchesco cfr. Maria Luisa Doglio, La candida cerva. Il sonetto
CXC, in Ead., Il segretario, la cerva, i versi dipinti. Tre studi su sonetti del Petrarca, Ales-
[ 28 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 259
strazio di Atteone, tassello della più ampia cifra magico-onirica di una
parabola scenica che reca i segni della philosophica venatio d’ascendenza
platonica, della sapienza iniziatica e teurgica della tradizione ermetica,
e in una accorta ars combinatoria rielabora motivi ovidiani e apuleiani53,
tessere della nolana filosofia e la contemporanea lezione mariniana
confluita nell’allegoria premessa al canto V dell’Adone:
La rappresentazione d’Atteone ci dà ammaestramento quanto sia dannosa
cosa il volere irriverentemente e con soverchia curiosità conoscere
de’ secreti divini più di quel che si conviene e quanto pericolo corra
la gioventù di essere divorata dalle proprie passioni, seguitando gli
appetiti ferini54.
Il sogno di Teocle non è che la riduzione simbolica di una scrittura
scenica che sin da principio si configura come quête, percorso speculativo
che approda alla conoscenza intellettiva mediante un procedimento
catartico che fa leva sulla finitezza e l’errore dell’indagine sensibile.
Un’inchiesta che può esser resa in due assunti: «nimis cupidus
cognoscendi quae sunt rara miraque»55 e «sub umbra sedi, vel
sedebam»56.
La metafora venatoria informa la venerea tenzone dell’Orispide e si
sandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 19-37. Sul tópos della caccia alla cerva cfr.
Giovanni Barberi Squarotti, Selvaggia dilettanza. La caccia nella letteratura italiana
dalle origini a Marino, Venezia, Marsilio, 2000.
53 Si fa riferimento anche alle fabulae ovidiane di Ciparisso (met. 10, 86-142) e di
Cefalo e Procri (met. 7, 694-862). Sulla fortuna di Apuleio nel Rinascimento cfr.
Riccardo Scrivano, Avventure dell’Asino d’oro nel Rinascimento, in Il modello e l’esecuzione.
Studi rinascimentali e manieristici, Napoli, Liguori, 1993, pp. 81-102; Stefano
Benassi, Apuleio e la magia del romanzo, in L’ermetismo nell’Antichità e nel Rinascimento,
a cura di Luisa Rotondi Secchi Tarugi, Milano, Nuovi Orizzonti, 1998,
pp. 7-30.
54 Giovan Battista Marino, L’Adone, a cura di Giovanni Pozzi, Milano,
Adelphi, 19882, vol. I, pp. 263-264. A ridosso della tragedia di Comite, nel biennio
1616-1617 Marino aveva rappresentato nel canto V dell’Adone «d’Atteone il miserabil
caso», preceduto dalla ‘tragedia’ di Ciparisso, il «bel garzon» che «fra molte
querce antiche, che tessean di folt’ombra un verde velo, dopo lungo cacciar stanco
ne venne» (56, 5-7). Variando la fonte ovidiana, Marino consegnava a Comite l’immagine
di Ciparisso, «cacciatore afflitto» (59, 3), che per errore trafigge il «vezzoso
cervo» con la freccia destinata al «vago fagian» (57, 3). Ma già nell’ottava 46 del
primo canto e nella chiusa del secondo canto dell’Adone Marino aveva ritratto lo
sviamento del cacciatore che insegue la preda.
55 Apul. met. 11, 4.
56 Giordano Bruno, De umbris idearum, a cura di Rita Sturlese, premessa di
Eugenio Garin, Firenze, Olschki, 1991, p. 29.
[ 29 ]
260 stella castellaneta
innesta, sin dall’anagramma del titolo, sulla tradizione orientale del
mito osirico e isiaco57, definendo una parabola ermeneutica che presenta
vistosi debiti nei confronti della tradizione epica, sì da render
vana e riduttiva l’individuazione di un unico architesto58.
Lo slittamento dal piano dell’eros al piano storico-politico porta alla
stigmatizzazione del sovrano asservito al furor e alla legittimità del
tirannicidio: «Il re con questo / viver senza ragion denigra ogni atto /
ch’ad eroe si convien» (I ii). Sono gli anni della ‘fellonia’ dell’Ossuna
e della profonda frattura tra il partito filopopolare e la fazione dell’alta
magistratura e dell’aristocrazia di seggio59. Nell’Orispide Comite
inscena tutte le insidie di una mobilità politica affidata all’iniziativa
confusa ed emotiva dei singoli, e si fa portavoce di un’ideologia oligarchica
che auspica per la mesta Partenope, snaturata dalla corte madrilena,
il ripristino dei valori civili e delle virtù umanistiche, attraverso
la concordia tra le fazioni nobiliari nella lotta per la libertà dal potere
tirannico.
Se la composizione dell’Orispide si colloca a cavaliere tra il fallito
progetto riformistico del conte di Lemos e il terrorismo antifeudale
del duca d’Ossuna, l’ultima prova teatrale di Finella nasce negli anni
dell’imperialismo dell’Olivares e della razionalizzazione fiscale del
Viceregno coordinata da Carlo di Tapia, in un clima di tensioni sempre
maggiori nei rapporti tra centro e periferia.
La dottrina dell’ombra, il profetismo, la ierofania, la riflessione sulla
teologia della storia, sulla sacralità del monarca e soprattutto la religione
della libertà dell’uomo, drammatica ed eroica, sono le coordi-
57 Per gli aspetti isiaci della tragedia mi permetto di rinviare a Stella Castellaneta,
Misteri egizi e storia ebraica nel teatro napoletano del Seicento, in Sacro e/o
profano nel teatro fra Rinascimento ed Età dei Lumi. Atti del Convegno Bari, 7-10 febbraio
2007, a cura di Stella Castellaneta e Francesco Saverio Minervini, Bari,
Cacucci, 2009, pp. 57-79.
58 La protagonista, Orispide, eredita i tratti di almeno quattro eroine del mondo
epico: Bradamante, Angelica, Erminia e Clorinda. Dal motivo incipitario della
fuga al motivo delle chiome recise (III ii: cfr. Orl. Inn., III viii, 61) al rifugio presso
il romito (III iii: cfr. Orl. Inn., III viii, 52; Orl. Fur., II, 12-15 e XI, 10-13; Ger. Lib., VII,
5-18) alle nuove spoglie di amante guerriera, alla morte per mano dell’amato
amante che novello Tancredi/Ruggero crede di vedere sotto quelle spoglie guerriere
il gemello di lei Tireste (IV iv). Ma si consideri anche il ruolo del finto araldo
interpretato da Talamea (III v) che si reca nel campo nemico camuffando vesti e
voce sulla falsariga di Vafrino, lo scudiero di Tancredi.
59 Cfr. Raffaele Colapietra, Il governo spagnolo nell’Italia meridionale (Napoli
dal 1580 al 1648), in Storia di Napoli, Napoli, Società Editrice Storia di Napoli, 1972,
vol. V/1, pp. 161-278.
[ 30 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 261
nate ideologiche di una scrittura scenica politicamente atteggiata.
L’argomento de La Giudea distrutta da Vespasiano e Tito, tratto dal VI
libro del Bellum Iudaicum di Giuseppe Flavio, aveva già un parziale
riscontro nella bibliografia mariniana.
Nella chiusa della lettera a firma Onorato Claretti, premessa alla
terza parte della Lira60, tra le «assaissime opere incominciate, ma non
finite» del Marino comparivano il poema eroico Gierusalemme distrutta,
che «per essere machina grande richiede tempo e sofferenza»61, e
due tragedie ‘imperfette’, il Modrecche e la Madre ebrea «che fu quella
donna, la quale nell’assedio di Gerosolima divorò il proprio figlio per
la fame». Era il 1614, ma i primi cenni al «poema più grave» ad imitazione
del Tasso risalivano ad un decennio precedente, come rivelano
due lettere rispettivamente del febbraio e del settembre 1602. Nella
prima delle lettere, la dedicatoria a Melchiorre Crescenzi della prima
parte delle Rime, è il Marino a dar notizia dell’argomento dell’opera,
«fondato sopra la vendetta della morte di Cristo, esseguita per divina
volontà da Tito imperatore nella città di Gierusalemme». La seconda
testimonianza è affidata ad una missiva inviata a Giulio Giordani da
Maurizio Cataneo, promotore, assieme ad Angelo Grillo, di una raccolta
di versi in morte del Tasso. In essa si ritrae un Marino «giovane
d’anni, ma vecchio di senno et di sapere», autore già noto per la raccolta
di Rime, il quale andava componendo «il Poema della Destruttione
di Gierusalemme, imitando per il più il Tasso»62. A quella data
Giordani affermava che il letterato napoletano aveva già terminato il
settimo libro «di trenta che pensa di farne, et altri tanti ne ha abbozzati,
che in breve li distenderà et colorirà»63. Se si esclude la metamorfosi
del materiale della Distrutta nel corpus delle opere mariniane – si pensi
a La strage degli innocenti e all’Adone –, quel VII canto, apparso in
editio princeps a Venezia nel 1626 e a Napoli nel 1633 (con il discorso
60 Per la paternità mariniana della lettera del 1614, cfr. da ultimo Emilio Russo,
Le promesse del Marino. A proposito di una redazione ignota della lettera Claretti, in
Id., Studi su Tasso e Marino, cit., pp. 101-184: p. 111, n. 37.
61 G. Marino, Lettere, cit., pp. 602-613: 612.
62 Emilio Russo, Una nuova testimonianza sulla Distrutta del Marino, in Id., Studi
su Tasso e Marino, cit., pp. 68-100: 71-76.
63 Notizia, quest’ultima, che troverebbe conferma nella pagina del Meninni.
Nel Ritratto del sonetto e della canzone, Federico Meninni affermava di aver visto
altri autografi mariniani della Distrutta nella biblioteca di Lorenzo Crasso. Cfr.
Giorgio Fulco, Bibliografia mariniana sommersa, in Id., La «meravigliosa» passione,
cit., pp. 69-82: 74-75; Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di Clizia Carminati,
Lecce, Argo, 2003, vol. I, p. 77.
[ 31 ]
262 stella castellaneta
accademico del Marino principe degli Oziosi), è ad oggi la sola traccia
di una scrittura eroica mariniana che narri gli oltraggi della «scelerata
e perfida Giudea»64.
Ma il medesimo argomento della Distrutta sarà motivo ispiratore
dell’otium di illustri letterati secenteschi. Si ricorderà almeno la duplice
scrittura di Ridolfo Campeggi – il Pianto terzo (ottave 6-15) delle
Lagrime di Maria Vergine, e, stando alla testimonianza del Fantuzzi, La
Distruzione di Gerusalemme, apparsa postuma a Roma, per i tipi di Grignani
nel 162865 – cui segue cronologicamente, nel 1630, la stampa milanese
del poema di Giambattista Lalli Tito Vespasiano, o vero Gerusalemme
desolata66.
Riduzione à la page sub specie elegiae, sul modello delle Heroides, e
forse non esente da suggestioni mariniane, nell’aprile del 1627 apparve
a stampa, dedicata al Signor Camillo Gessi Senatore in Bologna,
l’epistola La madre ebrea a Tito Vespasiano dell’Ozioso Antonio Bruni.
Così il letterato manduriano principiava il libro primo delle sue ventidue
Epistole eroiche67.
Alla lente del Bruni, il monologo di quella madre carnefice «ebra e
cieca nel male»68 diviene immagine metaforica di una chiara istanza
ideologica.
Narra la madre ebrea a Tito Vespasiano le miserie della città di Gerusalemme,
per dar ad intendere che per impetrar pietà da Principe ma-
64 Cfr. l’edizione del VII canto della Distrutta: Giambattista Marino, Gierusalemme
distrutta e altri teatri di guerra, a cura di Marzio Pieri, Parma, La Pilotta,
1985, p. 25. La fortuna di Giuseppe Flavio, in particolare del Bellum Iudaicum, ha
anche altre attestazioni nella bibliografia mariniana: si pensi all’episodio del teschio
d’asino evocato nella lettera burlesca a Lorenzo Scoto (G. B. Marino, Lettere,
cit., p. 556).
65 Giorgio Fulco, Marino, “Flavio” e il Parnaso barocco, in Id., La «meravigliosa»
passione, cit., pp. 152-194: 157, 177.
66 Cfr. Guido Arbizzoni, La tradizione epica fra modelli e innovazione. Italiano e
latino, in Storia della Letteratura Italiana, dir. da Enrico Malato, Roma, Salerno
Editrice, 1997, vol. V, pp. 727-735: 729.
67 La versione bruniana, come la presunta prova del Marino, riscrive l’episodio
alla stregua della testimonianza storiografica tramandata da Giuseppe Flavio
nel Bellum Iudaicum, piuttosto che aderire alla lectio scritturale (2 Re 6, 26-31). Il 1
aprile del 1627 Antonio Bruni dedicava al duca d’Urbino Francesco Maria Feltrio
della Rovere le sue ventidue Epistole eroiche stampate in due libri a Roma per i tipi
di Guglielmo Facciotti.
68 Antonio Bruni, La madre ebrea a Tito Vespasiano, v. 98, in Antonio Bruni,
Epistole Eroiche, a cura di Gino Rizzo, Galatina, Congedo Editore, 1993, pp. 71-76:
74.
[ 32 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 263
gnanimo non v’è mezzo più valevole dello spettacolo dell’altrui e delle
proprie disgrazie. Il zelo che mostra della vita e del sostegno della patria,
fra le rigidezze di madre, spinta da gli stimoli della fame per serbar
viva se stessa, accenna quanto nell’animo d’ogni cittadino debbe
esser efficace l’affetto e ’l desiderio verso il ben publico, conforme a
quel che scrisse Cicerone nel IV della retorica: «non mihi soli, sed etiam
atque adeo multo potius natus sum patriae»69.
Si è detto della lettera del Claretti e dell’epistola prefatoria del
Marconi alla favola boschereccia Cinzia. Era il 6 febbraio 1626: anche
quell’epistola offriva un catalogo delle opere composte da Finella. Figuravano,
tra le altre, La Marianna e La vendetta di Vespasiano e Tito. A
distanza di un anno si stampava una sola opera delle due annunciate:
l’8 marzo del 1627 Finella dedicava La Giudea distrutta da Vespasiano e
Tito a Don Ferdinando Alvarez de Toledo e Beamonte, Contestabile de
Navarra, Marchese di Villanova del Rio, Imbasciatore Estraordinario
in Roma per Sua Maestà. Nulla sembrerebbe giunto della storia tragica
di Marianna, intendo dire come organismo tragico in sé conchiuso
che, come la Marianna del Dolce, riproponga le vicende narrate nel XV
libro delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio. Eppure Marianna,
almeno onomasticamente, è la protagonista di una tessera testuale
emblematica della Giudea distrutta. Variante di Erode infanticida, di lì
a poco stigmatizzato artefice del massacro degli innocenti nell’omonima
tragedia di Daniel Heinsius (1632), Marianna, da vittima divenuta
carnefice, meglio vittima e carnefice a un tempo, è la madre ebrea che
con un gesto sacrilego, resa cieca dalle violenze della storia si ciba del
proprio figlio.
Con un gusto per l’orrido non riconducibile alla sola emulazione
della moda senecana, Finella avverte l’urgenza di riscrivere una delle
pagine più cupe del Bellum Iudaicum70, anticipando sulla scena secentesca
una delle icone della storia dell’arte figurativa europea: Saturno
devorando a su hijo. Se l’immagine mitologica di Goya è allegoria del
Sant’Uffizio o dell’assolutismo monarchico di Ferdinando VII, Marianna
che fa scempio del proprio figlio è sì denuncia raccapricciante
delle aberrazioni della guerra, ma nel contempo metafora dell’ebreo
deicida e della potestas absoluta della corte spagnola che con una politica
economica di rigide imposizioni fiscali aveva reso esangue il vice-
69 Ivi, pp. 71-72. Così recita l’allegoria che precede l’epistola.
70 Ios. Flav. 6, 201-219 (Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, a cura di Giovanni
Vitucci, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 1995, vol. II, pp. 356-
361).
[ 33 ]
264 stella castellaneta
regno71. Riscrivere l’Olocausto del 70 d.C. durante la guerra dei
Trent’anni significava evidentemente stigmatizzare le radici della cultura
anticristiana e alludere ad una sotterranea convergenza tra il motivo
della lotta nazionalistico-religiosa degli Ebrei e le inquietudini di
un mondo attraversato da slanci eretici. La vicinanza tra ambienti eretici
e ambienti giudaici o giudaizzanti è una preoccupazione costante
nelle cronache dell’Inquisizione.
La colpa di Gerusalemme è l’esser divenuta cieca, per aver distolto
lo sguardo dal «vero lume» e cercato «d’ogn’intorno le tenebre»72, e
incapace di intendere il senso manifesto dei segni prodigiosi della natura
evocati dalle profezie di Gisnano. La cifra del profetismo astrologico
domina la scena napoletana, postulando l’ineluttabilità degli
eventi. Il demone barocco per eccellenza, Proteo, si insinua tra le pieghe
della scrittura, dove risuona l’eco delle parole senza tempo di Tiresia
a Creonte nell’Antigone sofoclea: «E allora sappi che adesso cammini
sul filo del destino»73. Ma la tragedia di Finella richiama il medesimo
determinismo che aveva costituito nel 1599 l’essenza dell’utopia
rivoluzionaria antispagnola di Tommaso Campanella, il quale, peraltro,
nella Narrazione della istoria sopra cui fu appoggiata la favola della ribellione
ricordava i prodigi di Gerusalemme al tempo di Tito74.
Alla veridicità del «dir sovrano e pellegrino […] almo e divino» del
profeta che non fu inteso dalla «gente discortese» (V v)75 Finella affidava
l’apologia delle arti divinatorie, verificando scenicamente che
«procedono di pari dal Verbo divino la Sacra Scrittura e la natura»76.
La chiusa della tragedia delinea in modo problematicamente interlocutorio
una cupa visione della storia e del principe. Agli occhi di
Tito, strumento della vindicatio Salvatoris, la strage di Gerusalemme
71 Sulla vicenda della madre ebrea, si rinvia al nostro Misteri egizi e storia ebraica,
di cui sopra alla nota 57.
72 Così recita nel prologo la Sibilla persica.
73 Sofocle, Antigone, introd., trad. e note a cura di Franco Ferrari, Milano,
Rizzoli, 1998, p. 133 (v. 996).
74 Cfr. Luigi Firpo, I processi di Tommaso Campanella, a cura di Eugenio Canone,
Roma, Salerno Editrice, 1998, p. 291; R. Villari, La rivolta antispagnola, cit., pp.
100-105.
75 Similmente nel De christiana religione Marsilio Ficino ricordava l’importanza
delle profezie che preannunciavano l’avvento di Cristo e sottolineava come esse
non fossero state intese dai «pertinaci, obtusi et avari giudei». Cfr. C. Vasoli, Le
filosofie del rinascimento, cit., p. 209.
76 Lettera di Galileo Galilei a Benedetto Castelli (21 dicembre 1613), in Galileo
Galilei, Opere, a cura di Ferdinando Flora, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, pp.
986-993.
[ 34 ]
napoli incauta. eroi martiri e tiranni 265
non è che il compimento di una «scritta del Ciel sentenza» (V x), la
storia è rivelazione. La crociata contro l’infedele, specchio dell’identità
culturale e politica della monarchia spagnola anche dopo il tramonto
del partito olivarista77, legittima l’eccidio. Nello spazio mimetico
della natura e della storia si consuma il dramma della libertà dell’uomo.
E tuttavia, sub velamine, attraverso l’esibito richiamo alla finitezza
della conoscenza umana – «E sol, che la cagion dal Ciel proceda /
creder mi giova, s’il pensier non falle» (V x) – Finella sembra suggerire
una cauta revisione dell’idea di sovranità intesa come emanazione
della volontà divina78.
Ancora una volta il teatro napoletano dava voce alle Idee bruniane:
«Nell’orizzonte della luce e della tenebra, nient’altro possiamo infatti
intendere se non l’ombra. Questa è nell’orizzonte del bene e del male,
del vero e del falso»79.
La tragedia ci insegna che il dominio della ragione, dell’ordine e della
giustizia, è terribilmente circoscritto […]. All’esterno e dentro l’uomo,
è l’autre, l’alterità del mondo. Chiamatela come volete: un dio nascosto
o malefico, il destino cieco, la tentazione diabolica, la furia bruta del
nostro sangue animale; ci tende l’agguato al bivio, ci deride e ci distrugge80.
Stella Castellaneta
Università di Bari
77 Si veda, al riguardo, Orietta Filippini, La coscienza del re. Juan de Santo
Tomás confessore di Filippo IV di Spagna (1643-1644), Firenze, Olschki, 2006.
78 Paolo, Lettera ai Romani, 13: «Non c’è potere se non da Dio».
79 Giordano Bruno, Le ombre delle Idee. Il canto di Circe. Il sigillo dei sigilli, introd.
di Michele Ciliberto, trad. e note di Nicoletta Tirinnanzi, Milano, Rizzoli,
1997, p. 62.
80 George Steiner, Morte della tragedia, trad. it. di Giuliana Scudder, Milano,
Garzanti, 2005, p. 12.
[ 35 ]

Francesca Bianco
Le poesie di Ossian.
Osservazioni critiche di Cesarotti a Le Tourneur
Lo studio mette a confronto le tre maggiori edizioni dell’Ossian cesarottiano (le
due cominiane del 1763 e 1772 – sostanzialmente sovrapponibili per l’aspetto
qui indagato– e la pisana del 1802), tenendo conto della versione francese di Le
Tourneur, apparsa nel 1777. Nell’apparato critico l’abate dialoga con il collega
francese commentando le sue scelte linguistiche e stilistiche, che non mancheranno
di influenzare l’ultima edizione italiana.

This essay compares the three major editions of Cesarotti’s Ossian (the two published
by Giuseppe Comino in 1763 and 1772 – essentially the same from the
standpoint of the present essay – and the one published in Pisa in 1802), taking
into account the French translation by Le Tourneur which came out in 1777. In the
critical apparatus the writer dialogues which his French colleague, commenting
on a language and style that would eventually influence the final Italian edition.
All’interno del complesso dibattito sulla traduzione, acuitosi nel
XVIII secolo1 grazie all’apporto teorico delle più autorevoli personali-
Autore: Università degli Studi di Padova; Dipartimento di Studi Linguistici e
Letterari; Assegnista di ricerca (Tipo A) di Letteratura Italiana; francesca.bianco@
unipd.it
1 La bibliografia sull’argomento è molto nutrita. Per rimanere nell’ambito cesarottiano
cfr. almeno Melchiorre Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, a
cura di Mario Puppo, Milano, Marzorati, 1969; Stefano Gensini, Traduzioni, genio
delle lingue, realtà sociale nel dibattito linguistico italo-francese (1671-1823), in Il genio
delle lingue: le traduzioni nel Settecento in area franco-italiana, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1989, pp. 9-36; Grazia Melli, «Gareggiare con il mio originale
». Il “personaggio” del traduttore nel pensiero di Melchiorre Cesarotti, in Aspetti dell’opera
e della fortuna di Melchiorre Cesarotti, a cura di Gennaro Barbarisi e Giulio
Carnazzi, Milano, Cisalpino, 2002, I, pp. 369-390; Augusta Brettoni, Idee settecentesche
sulla traduzione: Cesarotti, i francesi e altri, e Enza Biagini, Nota sulle teorie
della traduzione del Settecento, entrambi in A gara con l’autore: aspetti della traduzione
nel Settecento, a cura di Arnaldo Bruni e Roberta Turchi, Roma, Bulzoni, 2004,
rispettivamente alle pp. 17-51 e 53-55. Per ulteriori approfondimenti sull’argomen268
francesca bianco
tà letterarie dell’epoca, fra le quali si pone in primo piano l’italiano
Melchiorre Cesarotti2, si inserisce uno dei casi più celebri: la traduzione
delle Poesie di Ossian composta dall’abate padovano. Dello sperimentalismo
linguistico operato nel testo, dell’importanza culturale
dal punto di vista non soltanto del dibattito sul ‘genio delle lingue’ ma
anche del nuovo contesto letterario in cui i poemetti si inseriscono,
della grande influenza che ha determinato sulla letteratura successiva,
e dell’alta qualità artistica dell’opera molto si è già detto, ma non è
stato ancora indagato adeguatamente il suo rapporto con la corrispondente
versione francese.
Nel 1777 viene infatti pubblicata a Parigi la prima traduzione integrale,
composta da Pierre Le Tourneur3. La data di edizione si colloca
fra la seconda e la terza versione cesarottiana4 e la rende un termine di
to e per un quadro bibliografico più ampio sul fenomeno della traduzione tardo
settecentesca, cfr. Francesca Bianco, Traduzioni a confronto: “I Canti di Ossian” di
Le Tourneur e Cesarotti, «Testo», LXXI (2016), pp. 9-28.
2 U na panoramica completa degli innumerevoli aspetti, che caratterizzano
questa particolare figura del Settecento, è reperibile in Claudio Chiancone, Bibliografia
di Melchiorre Cesarotti, «Quaderni per la Storia dell’Università di Padova»,
XLVI (2013), pp. 50-52; e nell’enciclopedica nota bibliografica presente in Melchiorre
Cesarotti, Poesie di Ossian, secondo l’edizione di Pisa, 1801, a cura di
Guido Baldassarri, Milano, Mursia, 2018, pp. 33-44.
3 Pierre Le Tourneur, Ossian, fils de Fingal, barde du troisième siècle. Poésies
galliques, traduites sur l’Anglois de M. Macpherson par M. Le Tourneur, Paris, Chez
Musier, Fils, 1777, I-II. Pierre-Prime-Félicien Le Tourneur (1737-1788), colto esponente
dell’ambito letterario francese a cavallo fra la prima e la seconda metà del
Settecento, tanto conosciuto all’epoca per la sua attività quanto trascurato in età
moderna, censore reale, segretario generale della biblioteca del re e segretario ordinario
del fratello di Luigi XVI, si distingue soprattutto per le sue numerosissime
traduzioni dall’inglese (fra i lavori più significativi, oltre all’Ossian, spiccano le
Night thoughts di Young, le Meditations di Hervey, Clarisse Harlowe di Richardson e
la traduzione integrale – la prima francese – delle opere di Shakespeare), dal tedesco
e dall’italiano (fra le quali compare anche una Choix d’Élégies d’Arioste), cui si
aggiunge anche una produzione originale significativa per le tematiche affrontate
(come per esempio Le jardin anglois e Voyage à Emeronville). La bibliografia di cui ad
oggi si dispone su questa figura così importante, ma estremamente trascurata, è
molto esigua: per un primo quadro complessivo che riguardi anche l’Ossian sono
imprescindibili Mery Gertrude Cushing, Pierre Le Tourneur, New York, Columbia
University Press, 1908; Paul Van Tieghem, Le Préromantisme. Études d’histoire
littéraire européenne, Paris, F. Rieder e Co., 1924, I-II; e Id., Ossian en France, Genève,
Slatkine Reprints, 1967, I-III. Per un’analisi più puntuale della figura e dello stile
dell’autore e per ulteriore bibliografia cfr. F. Bianco, Traduzioni a confronto: “I Canti
di Ossian” di Le Tourneur e Cesarotti, cit.
4 Rispettivamente Poesie di Ossian Antico Poeta Celtico, Trasportate dalla Prosa
[ 2 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 269
confronto obbligato per il traduttore italiano: in fase di revisione del
suo lavoro, egli studia l’opera del collega, che ebbe uno straordinario
successo in patria5, e, tenendo fede a quella sua sensibilità e curiosità
letteraria che lo portano ad essere sempre ricettivo verso le esperienze
culturali non solo italiane, manifesta gli esiti delle sue riflessioni in
margine all’edizione del 1801, nel cui apparato critico istaura un dialogo
a distanza con il traduttore francese. Qui Cesarotti interpella
esplicitamente il collega per avvalorare la propria versione nei loci critici
in cui essa coincide con quella francese, nel qual caso quest’ultima
diventa un supporto decisivo e discriminante nelle situazioni più problematiche;
oppure, al contrario – e ben più spesso – per criticare il
lavoro di Le Tourneur, opponendogli le proprie scelte, ritenute migliori,
sulla base di argomentazioni rivelatrici di una perizia linguistica
dell’idioma inglese pienamente matura. Lo spazio di dialogo unidirezionale6
che si crea lascia affiorare la dimensione polemica del professore
patavino che contesta lo stile e le scelte del collega.
Esaminando diacronicamente alcuni episodi confrontati nelle tre
edizioni di Cesarotti, emerge una sottile trama di influenze dal francese
di cui l’abate non riconosce l’apporto, benché queste siano evidenti
e determinino una tangibile virata della resa italiana, sulla quale egli è
costretto a ritornare con un labor limae affrontato con orgogliosa nonchalance.
In altri casi, invece, si palesa una differente sensibilità linguistica:
a fronte di un’impronta in direzione della clarté illuminista, di
cui è prova la scelta della prosa in francese (al posto dei blank verse), si
pone lo spirito moderato del professore padovano, il quale ne condivide
gli ideali, ma vi affianca una maggiore empatia nei confronti delle
nuove istanze che ormai preludono alla nuova sensibilità anticipatrice
del Romanticismo e ai quali si sente affine. Di tali componenti
Inglese in verso Italiano dall’ab. Melchior Cesarotti, edizione II, ricorretta e accresciuta
del restante dei Commenti dello stesso Autore, Padova, appresso Giuseppe
Comino, 1772, I-IV; e M. Cesarotti, Poesie di Ossian antico poeta celtico, Pisa, Tipografia
della Società letteraria, 1801, I-IV.
5 Le fasi dell’affermazione e del conseguente successo del lavoro letourneriano
sono descritte nelle fonti bibliografiche di cui a n. 3.
6 Il mite bibliotecario reale non risponde mai agli eventuali detrattori animati
dalla pubblicazione delle sue opere; soltanto in un caso – e una sola volta – è stato
ipotizzato che ciò sia velatamente accaduto, ossia durante la lunga e violenta polemica
iniziata da Voltaire con le sue pesanti accuse alla traduzione di Shakespeare
(cfr. C. Pichois, Préromantiques, rousseauistes et shakespeariens (1770-1778), «Revue
de Littérature comparée», XXX (1959), pp. 348-355).
[ 3 ]
270 francesca bianco
alla base delle due officine di lavoro si desidera proporre qui una prima
panoramica.
1. Fingal
Il primo canto del poema di apertura è un banco di prova emblematico.
All’interno del Fingal, infatti, Cesarotti si richiama a Le
Tourneur in quattro luoghi. Il primo si riscontra nei vv. 360-3647, relativamente
a un passo dedicato alla descrizione di Cucullino, uno dei
più valorosi comandanti. Dopo aver appreso con dispiacere della
morte di Catbar e Ducomano, eroi del suo esercito, proprio nel momento
in cui si apprestava a prepararsi per la battaglia contro Svarano,
Cucullino decide di partire comunque assieme agli altri guerrieri
per respingere il nemico. Segue a questo punto la descrizione della
magnificenza del carro del comandante e dello stesso Cucullino. Il
punto critico riguarda il paragone costruito su una caratteristica del
volto del condottiero: «Within the car is seen the chief, the strong
stormy son of the sword, the hero’s name is Cuchullin, son of Semo
king of shells. His red cheek is like my polished yew»8. Nel testo inglese
Ossian stabilisce un confronto fra le guance del condottiero e il suo
«lucido, liscio tasso», metonimia per indicare l’arco da caccia solitamente
costruito con questo legno.
Il passo, però, è frainteso da Le Tourneur: «Sur le char s’élève le
Chef des guerriers: le nom du héros est Cuchullin, le fils de Semo. Sa
joue basanée a la couleur de mon arc»9. Il traduttore crea il suo parallelo
fra le guance e l’arco (nominato esplicitamente, con conseguente
soppressione della figura retorica), modificando così l’aspetto dell’arma
sulla quale è costruito il paragone, poiché egli non considera tanto
la sua levigatezza, quanto la nota cromatica: il termine «basanée» infatti
significa ‘dalla tinta bruna, abbronzato’. In questo modo, però, Le
7 È questo il secondo caso presente nell’opera. Il primo, che fa riferimento
all’episodio di Morna, è stato analizzato nel già citato F. Bianco, Traduzioni a confronto:
“I Canti di Ossian” di Le Tourneur e Cesarotti, cit.
8 I passi inglesi presenti nello studio sono tratti da: James Macpherson, Fingal,
an ancient epic poem, in six books, together with several other poems, composed by
Ossian the son of Fingal, translated from the gaelic language by James Macpherson,
London, printed for T. Becket and P. A. De Hondt, 1762.
9 Per la versione francese, cfr. P. Le Tourneur, Ossian, fils de Fingal, barde du
troisième siècle. Poésies galliques, traduites sur l’Anglois de M. Macpherson par M. Le
Tourneur, cit.
[ 4 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 271
Tourneur è costretto ad intervenire sul testo, in quanto al volto di Cucullino
era originariamente attribuito un colorito vermiglio («red
cheek»). Cesarotti, nell’annotazione relativa al passo, osserva che questo
colore non è mai attestato all’interno dei poemi come elemento
descrittivo riferito ai personaggi e pertanto la ritiene una forzatura.
Cioè a paro del mio arco di tasso10. Del resto, credo d’aver colto il vero
senso delle parole dell’originale: la sua rossa guancia è simile al mio polito
tasso. Il Le Tourneur suppose che questa somiglianza stesse nel colore,
e dà alla guancia di Cucullino la tinta bazanée in cambio di vermiglia,
al fine di accostarla a quella del tasso. Ma questa tinta non è mai quella
degli eroi di Ossian, e l’epiteto di polito mi parve determinar il rapporto11.
Grazie a uno sguardo che abbraccia tutta l’opera inglese, Cesarotti
intuisce le intenzioni di Macpherson e concretizza il risultato del suo
ragionamento nei seguenti versi:
Sul carro assiso alto grandeggia il duce,
il tempestoso figlio della spada,
il forte Cucullin prole di Semo,
re delle conche: le sue fresche guancie
lustrano a paro del mio tasso
(vv. 360-364)
Il poeta si attiene quindi al paragone originale, ma ciò non toglie
che anche lui, in certa misura, intervenga sul testo. Se infatti da una
parte critica Le Tourneur per aver modificato il colore della guancia di
Cucullino trasformandola da rossa a bruna, dall’altra nella sua traduzione
l’aspetto cromatico addirittura non è presente e ad esso sostituisce
l’aggettivo «fresche», più in linea con la tradizione lirica italiana;
esso di certo può indicare indirettamente la tonalità di colore a cui fa
riferimento, ma attenua la sfumatura originale, seguendo uno schema
di lavoro che si rivelerà tipico del suo stile, anche alla luce di un confronto
fra le tre edizioni12: anche in questo caso, quindi, la parola si fa
10 I corsivi presenti nelle citazioni sono tutti d’autore.
11 Per le citazioni della traduzione italiana si è fatto riferimento a M. Cesarotti,
Poesie di Ossian, cit., ma il lettore può agevolmente servirsi di M. Cesarotti, Le
poesie di Ossian, a cura di Enrico Mattioda, Roma, Salerno, 2000.
12 L’utilizzo dell’aspetto cromatico da parte di Cesarotti è presentato in G. Baldassarri,
Sull’«Ossian» di Cesarotti. III. Le varianti e le «parti liriche». Appunti sul
Cesarotti traduttore, «Rassegna della letteratura italiana», XCIV (1990), n. 3, pp. 21-
[ 5 ]
272 francesca bianco
immagine, ma in un modo più sfumato e soprattutto più evocativo
(oltre che più elevato) rispetto alla pretesa energheia del blank verse. A
ciò inoltre bisogna aggiungere il cambiamento operato sul verbo, sostituito
con un più incisivo «lustrano», in cui viene riassunto tutto il
paragone originale. Con questo stratagemma, al di là delle modifiche
apportate all’aggettivo riferito al volto del condottiero, l’idea macphersoniana
viene dipinta in modo più sintetico e pregnante, rendendola
immediata nella comprensione e apprezzabile nell’immaginazione
visiva del lettore.
La terza occasione in cui Cesarotti chiama in causa Le Tourneur
riguarda la scena del banchetto. Cucullino si avvia alla battaglia con
gli altri eroi; le due armate si scontrano con molta violenza, ma, nonostante
l’impegno di entrambe le parti, dopo una prima giornata di
duro combattimento la vittoria rimane incerta. A sera gli scontri vengono
sospesi e Cucullino, secondo le regole della φιλοξενία, offre un
banchetto al quale invita anche Svarano. Il passo introduce l’atmosfera
di ritrovata serenità durante la pausa notturna e i preparativi per il
convito serale: l’esercito si disperde in cerca di sterpaglie e pietre per
cuocere la cacciagione13; Cucullino, allontanato l’animo dalle recenti
crude violenze, prende posto al banchetto e si rivolge a Carilo, uno dei
suoi principali cantori. Il disaccordo fra i due traduttori nasce dalla
diversa interpretazione dello stato d’animo di Cucullino.
A hundred youths collect the heath; ten heroes blow the fire; three
hundred chuse the polish’d stones. The feast is smoaking wide. Cuchullin,
chief of Erin’s war, resumed his mighty soul. He stood upon
his beamy spear, and spoke to the son of songs; to Carril […]
La difficoltà sorge a proposito di «resumed his mighty soul». L’area
semantica di afferenza di «mighty» è in forte correlazione con l’idea
di possanza e imponenza della cosa cui si riferisce14. Probabilmen-
68, in cui viene proposto uno studio comparato delle tre edizioni sottolineando
l’evoluzione di questo particolare stilistico.
13 Cfr. infra. Per la dinamica della preparazione dei banchetti celtici, si veda la
nota cesarottiana relativa ai versi più oltre riportati, in cui viene riproposta la spiegazione
del Macpherson.
14 A questo proposito, il più importante dizionario storico della lingua inglese
dell’epoca – il più recente dal punto di vista cronologico in rapporto all’attività di
Macpherson – curato da Samuel Johnson, che avrebbe influenzato per moltissimi
anni il lessico inglese, alla voce ‘mighty’ riporta in modo piuttosto scarno: «Mi’ghty.
adj. [from might] 1. Powerful; strong. (Nimrod began to be a mighty one in the
earth. Gen, X, 8; Great is the truth, and mighty above all things. Esd. IV, 41; He is
[ 6 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 273
te non era questo il significato che Macpherson intendeva dare al termine,
e forse, come osserva Cesarotti, lo scozzese si è espresso in modo
inappropriato15. Tuttavia la scelta dell’inglese si schiera in favore di
uno degli aspetti cardine della poetica settecentesca, ossia l’evidenza,
la concretezza che ben rispecchia l’asciutta materialità dell’epos barbarico,
quale l’Ossian voleva apparire. Un tale significato mal si lega con
ciò cui è riferito e andrebbe piuttosto interpretato in senso metaforico,
come si accingono a fare i due traduttori: la loro sensibilità si sposta in
direzione di un’altra fondamentale componente del secondo Settecento,
una bienséance gravitante attorno alla sfera morale e tesa a smussare
gli angoli più acuti della poetica dell’eroismo primordiale. Entrambi,
infatti, pur con metodi diversi sul piano della resa finale, intendono
in questo senso l’intera locuzione, affermando l’incongruenza del termine
inglese16, e le assegnano un valore al di là della lettera, in cui si
può intendere ‘la grandezza dell’animo’, piuttosto che la sua potenza.
Il più deciso in questa direzione si rivela il professore padovano:
Cento guerrieri a raccor scope in fretta
dansi, trecento a scêr le lisce pietre,
dieci accendon la fiamma; e fuma intorno
l’apprestato convito. Allor d’Erina
il generoso duce il suo leggiadro
spirito ripigliò: sulla raggiante
lancia chinossi, e a Carilo si volse […]
(vv. 487-493)
La frase è molto rivisitata: il nome di Cucullino, esplicito nel testo
originale, è qui sostituito da una perifrasi che solo per alcuni aspetti
riprende il significato inglese e la locuzione che segue il nome dell’eroe;
inoltre, dell’idea della guerra rimane soltanto il temine «duce» che riwife
in hearth and mighty in strengh. Job. II, 1). 2. Excellent, or powerful in any act.
(The mighty master smil’d. Dryden)». (Cfr. A Dictionary of the English Language in
which the Words are deduced from their Originals, and illustrated in in their different significations,
by examples from the best writers to which are prefixed, a History of the
Language and an English Grammar by Samuel Johnson, A. M., in two Volumes, London,
Printed by W. Strahan, 1755, II, s. n. p.).
15 Cfr. infra.
16 In realtà è soltanto Cesarotti che si esprime con chiarezza in merito, grazie
alle annotazioni nelle quali spiega le proprie convinzioni e commenta argomentando
puntualmente la sua traduzione. Per quanto riguarda Le Tourneur, non esistendo
alcun apparato critico, si può dedurre la sua posizione soltanto dall’analisi
della traduzione proposta.
[ 7 ]
274 francesca bianco
calca l’inglese «chief», ma nello stesso tempo è inglobato in un discorso
omogeneo senza corrispondenza precisa con la versione originale.
Inoltre, l’aggettivo «generoso» abbinato al termine «duce» non ha alcuna
relazione con l’originale, ma forse si lega più ad una poetica del
pittoresco dai contorni sfumati e indefiniti, ancorché piacevoli ed armonici17.
Il termine mira ad enfatizzare la scelta in direzione di una
marca della sensibilità in movimento e a sottolineare il termine «leggiadro
» posto subito dopo, che rappresenta la resa dell’inglese «mighty».
Il lavoro linguistico messo in atto si rivela più elaborato rispetto alla
linea del testo originale e lo rivisita nel nome di una maggiore chiarezza
espositiva che rende più immediata la comprensione, nel tentativo
di migliorarne – quando possibile – la forma e disambiguarne le espressioni
considerate poco appropriate. Nell’osservazione relativa a questo
passo il poeta spiega sia le sue riflessioni sia la sua logica di traduzione:
Le parole del testo sono: Cucullino, duce della guerra d’Erina, ripigliò la
sua possente anima. Da ciò che segue è visibile che il senso non può esser
che questo: che quel duce tornò alla sua naturale generosità. Se così è,
l’aggiunto di possente non è il più proprio, o certo non il più chiaro. Il
termine di leggiadro quadra assai meglio avendo presso i buoni scrittori
un senso misto di gentilezza e nobiltà d’animo, qualità caratteristiche
di questo eroe. Del resto, il traduttor francese non colse nel segno
quando tradusse: Cucullin a recuelli sa grande âme.
A fronte della tradizione lessicale epica della prestanza fisica, della
potenza legata all’idea di un selvaggio posto sul solco del sublime,
Cesarotti riconduce la scena ad un pittoresco all’insegna del vago e
dell’equilibrio morale. Alle giustificazioni per le proprie scelte, confortate
da personali nozioni sugli usi lessicali della tradizione storica
italiana e dall’analisi del personaggio, si associano le critiche sia a
Macpherson sia a Le Tourneur, poiché il primo ha utilizzato un termine
non appropriato al contesto, il secondo non ha interpretato correttamente
l’originale:
17 Sul pittoresco cfr. Raffaele Milani, Le categorie estetiche, Parma, Pratiche,
1991; Id., Il Pittoresco. L’evoluzione del Gusto tra classico e romantico, Bari, Laterza, 1996;
Raffaella Bertazzoli, Gli intrecci fra la poesia descrittiva e i temi del sublime nelle
traduzioni settecentesche, in Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto: dal Neoclassicismo
al primo Romanticismo, a cura di Giuseppe Coluccia e Beatrice Stasi, presentazione
di Giuseppe Antonio Camerino, Atti del Convegno Internazionale, Lecce-
Castro, 15-18 Giugno 2005, Galatina, Mario Congedo, 2006, pp. 73-107 e Andrea
Battistini, Lo specchio e la lampada. Il paesaggio letterario settecentesco dal bello al sublime,
passando per il pittoresco, «Atti e memorie dell’Arcadia», III (2014), pp. 293-311.
[ 8 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 275
Cent jeunes guerriers amassent la bruyère: dix héros excitent la flamme:
trois cent choisissent des pierres polies; la fumée se répand au loin,
et annonce la fête. Cuchullin a recueilli sa grande âme. Appuyé sur sa
lance, il adresse ce discours au vieux Carril […].
Il traduttore sceglie di utilizzare l’aggettivo «grande» riferito all’animo
di Cucullino: da una parte esso può essere considerato la traduzione
letterale dell’originale inglese e di tutte le sue implicazioni contestuali
(e certamente in questo modo ha inteso Cesarotti), dall’altra
però, sulla scorta di un confronto con i dizionari dell’epoca, emerge
che il significato dell’aggettivo «grande» non si riferisce soltanto all’aspetto
dell’imponenza, ma presenta numerose modalità di interpretazione;
in questo senso, allora, entra in sintonia con il figurativo neoclassico
winckelmanniano della «nobile semplicità e quieta grandezza
». Nel Dictionnaire de l’Académie française18 il primo significato è infatti:
«Grand, se dit généralement de toutes les choses ou physiques
ou morales, qui surpassent la plupart des autres du même genre». A
tale definizione segue una serie di esempi, tra i quali vi è anche «il a
l’âme grande», mentre come seconda accezione è data: «en parlant de
l’âme par rapport à ses bonnes ou mauvaises qualités, on dit, Âme
belle, noble, grande […]». La scelta letourneriana può sembrare ambigua
poiché questo aggettivo si presta a molteplici interpretazioni, ma
nonostante ciò il significato del termine francese è perfettamente in
linea con l’interpretazione data da Cesarotti.
È significativo analizzare come nel corso delle elaborazioni redazionali
sia cambiata la versione italiana del passo:
19
Cesarotti
1763
Il generoso duce in
cotal guisa / se
stesso rampognò19.
Cesarotti
1772
Il generoso duce
in cotal guisa / se
stesso rampognò.
Le Tourneur
1777
Cuchullin a recueilli
sa grande
âme
Cesarotti
1801
Allor d’Erina / il
generoso duce il
suo leggiadro /
spirito ripigliò
18 Dictionnaire de l’Académie française, quatrième édition, chez la Veuve de Bernard
Brunet, Imprimeur de l’Académie française, Grande Salle du Palais, et rue
basse des Ursin, Paris, 1762, I, p. 835. La quarta edizione del Dizionario era la più
recente per Le Tourneur e di certo, vista la sua posizione, poteva accedervi e servirsene
con facilità.
19 I passi della cominiana del 1763 sono tratti da Gaetano Costa, Un moderato
delle lettere. Le varianti ossianiche di Cesarotti, Catania, Cooperativa Universitaria
Editrice Catanese di Magistero, 1994, I.
[ 9 ]
276 francesca bianco
La prima traduzione, ribadita a distanza di anni nella seconda edizione,
cambia tanto improvvisamente quanto radicalmente dopo l’edizione
francese: rimane l’idea del «generoso duce», fondamentale
per l’autore, ma dall’altra parte l’impianto complessivo subisce una
metamorfosi integrale. Probabilmente, nonostante le critiche che in
apparenza Cesarotti rivolge al collega, l’opinione di un traduttore tanto
elogiato nel suo Paese non è proprio così inattendibile agli occhi
dell’abate, come invece egli spesso tende a far credere.
Il quarto caso si verifica a pochi versi di distanza dal precedente.
Cucullino si appresta a iniziare il banchetto ed esorta Carilo, il suo
cantore, a recarsi presso Svarano per portargli l’invito, ma questi rifiuta
in modo sprezzante e, con atteggiamento di sfida, afferma che neppure
le bellezze di tutte le fanciulle presenti presso il popolo del suo
avversario gli farebbero cambiare idea e che preferisce rimanere dove
si trova aspettando il sorgere del sole, affinché sia rischiarata la prossima
morte del nemico. Il punto controverso risiede nell’espressione
conclusiva di questa prima parte della battuta di Svarano:
Though all thy daughters, Inisfail! Should extend their arms of snow;
raise high the heavings of their breasts, and softly roll their eyes of love;
yet, fixed as Lochlin’s thousand rocks, here Swaran shall remain;
till morn, with the young beams of my east, shall light me to the death
of Cuchullin.
Svarano si atteggia con arroganza, è aggressivo e sprezzante, ma
nello stesso tempo possiede un’intima compostezza che conferisce fierezza
al suo intervento. Ciò non toglie che egli sia un personaggio
molto crudo, come è richiesto dal suo ruolo e dal suo scopo; tuttavia,
lo stile energico e la potenza impressa nelle sue parole suscitano nel
suo interlocutore un sentimento di rispetto e di riverenza. Non si tratta
di spavalderia provocatoria, ma di un comportamento tipico di chi
è abituato alla guerra e sa cosa questa richieda. Se da una parte Svarano,
in quanto personaggio negativo, non può godere di una luminosa
descrizione celebrativa come quella riservata a Cucullino, dall’altra il
poeta non manca di riconoscere anche a lui una sorta di grandezza
d’animo, intesa come un insieme di coraggio e di forza, comune a tutti
i personaggi raffigurati nei canti, compresi quelli più meschini o
malvagi. Ma questa è di natura diversa, più guerriera e achilleica (in
accordo con la tradizione epica20 che vede in questa dimensione uno
20 È noto che il dialogo tra l’epica classica e le Poesie dell’‘Omero del Nord’,
[ 10 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 277
dei suoi simboli maggiori), e perciò meno legata alla dimensione della
“misura umana ed eroica”. In questo senso, l’osservazione di Cesarotti
relativa al discorso dell’eroe è utile per capire come considerasse il
tono del personaggio e di conseguenza anche l’effetto che aveva cercato
di ottenere attraverso la sua traduzione:
Il Vico riconoscerebbe con piacere nella cruda selvatichezza di costui
que’ primi Polifemi che secondo Platone erano i capi di famiglia nella
natura selvaggia e viveano nelle loro grotte ricusando qualunque commercio
e società. Nec visu facilis, nec dictu affabilis ulli21. Abborre tutto
quello che non è suo, e si fa centro della natura. Il mattino non ha altro
ufficio che di servir alla sua fierezza. L’oriente appartiene a lui. Se il
sole spuntasse dall’Irlanda, l’aborrirebbe come suo nemico. Il suismo di
questo gran carattere ciclopico e la stranezza che ne segue sono scolpiti
con una forza che sbalordisce.
La dimensione dell’energheia trova qui un radicamento ancora più
deciso grazie al sensismo vichiano caro al professore patavino e tale
osmosi si arricchisce ulteriormente in quanto ambedue gli aspetti sono
intessuti in una fitta tramatura omerica che emerge dall’evidente
continuo parallelismo tra la «cruda selvatichezza» di Svarano e quella
di Polifemo22.
secondo la definizione cesarottiana, è molto ravvicinato, in quanto entrambi simboli
di una civiltà e di una letteratura primordiali che diventano ora il nuovo modello
di interesse. Su quest’ultimo aspetto cfr. Christian Del Vento, Foscolo, Cesarotti
e i “poeti primitivi”, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti, cit.,
I, pp. 33-54; Duccio Tongiorgi, “Rozze rime e disadattate forme”: (pre)istoria di una
traduzione elegiaca, Ivi, II, pp. 569-596 e Arnaldo Bruni, Il Settecento e l’idea dell’antico
da Ossian a Omero, in La Repubblica delle lettere, il Settecento italiano e la scuola del
secolo XXI, Atti del Congresso internazionale di Udine, 8-10 aprile 2010, a cura di
Andrea Battistini, Claudio Griggio e Renzo Rabboni, Pisa-Roma, Fabrizio
Serra Editore, 2011, pp. 9-18.
21 Eneide, III, 621 (“Né gradevole d’aspetto né affabile con alcuno”. Cfr. M. Cesarotti,
Poesie di Ossian, cit. p. 926).
22 Sul nodo sensismo-classicità-sublime si esprime emblematicamente Guido
Baldassarri: «Qualche filone almeno delle discussioni ormai classiche, teoriche e
non, circa il sublime trova qui il suo punto d’incontro con l’estetica e le poetiche
del sensismo, all’insegna comune di un “eccesso” emotivo e sensoriale inteso a
sopraffare più che a persuadere il lettore. Che nel Cesarotti questo possa avvenire
nella direzione di un’“energia” prontissima a recepire le istanze della sensiblerie di
tardo Settecento, senza per questo rinunciare agli apporti di una tradizione secolare
sostanzialmente classicistica, è garanzia sin dall’inizio del successo dell’operazione,
dell’avvenuto innesto dell’Ossian all’interno della cultura italiana, come
difficilmente avverrà per altri autori e altre frequentazioni pur significative di se-
[ 11 ]
278 francesca bianco
Egli, quindi, riconosce a questa figura un «carattere ciclopico», orgoglioso
delle sue forze e consapevole della sua potenza, un comportamento
che certo «sbalordisce» il lettore per la sua sicurezza, ma che
non può non meritargli la sua ammirazione, creando attorno a sé
un’aura di sublime, come osserverà lo stesso abate in un’altra nota23.
Un’osservazione va poi aggiunta in merito alla frase «L’oriente appartiene
a lui»: in essa, infatti, è già concentrata tutta l’interpretazione
del passo. Rispetto all’Irlanda, la terra che sta per essere invasa, Svarano
si trova ad Oriente, poiché viene dalla Scandinavia: in questo
senso, quindi, Cesarotti intende la perifrasi («my east») che il personaggio
usa per indicare la sua provenienza e con essa i numerosi territori
sottomessi al suo comando:
[…] Quand’anche, Erina,
le giovinette tue mi stendan tutte
le lor braccia di neve, e faccian mostra
dei palpitanti petti, e dolcemente
girino a me gl’innamorati sguardi;
fermo quai mille di Loclìn montagne
qui Svaran rimarrà, finché ’l mattino
venga co’ raggi suoi dal mio orïente
a rischiarar di Cucullin la morte.
(vv. 515-523)
La scelta lessicale («venga co’ suoi raggi dal mio orïente»), oltre che
più aderente al testo macphersoniano, è più appropriata e poetica. Appropriata
in quanto l’idea di oriente in sé lascia immaginare qualcosa
di molto più vasto e in questo modo sottolinea maggiormente l’immensa
considerazione che Svarano aveva di se stesso (risultando così
pertinente anche dal punto di vista psicologico); poetica perché l’idea
di ‘oriente’, non essendo limitata come il concetto di ‘stato’ o di ‘paese’,
lascia spazio a un pensiero indefinito e affascinato dalla lontanancondo
Settecento» (cfr. G. Baldassarri, Introduzione a M. Cesarotti, Poesie di Ossian,
cit., p. 9). Sul rapporto Cesarotti-Vico cfr. Robert T. Clark Jr., Herder, Cesarotti
and Vico, «Studies in Philology», XLIV (1947), n. 4, pp. 645-671; G. Costa, Melchior
Cesarotti, Vico, and the Sublime, «Italica», LVIII (1981), n. 1, pp. 3-15; Giovanni
Santinello, Vico e Padova nel secondo Settecento: Sibiliato, Gardin, Colle, Cesarotti, in
Vico a Venezia, a cura di Cesare De Michelis e Gilberto Pizzamiglio, Firenze,
Olschki, 1982, pp. 77-89 e Andrea Battistini, Un “critico di sagacissima audacia”: il
Vico di Cesarotti, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti, cit., I, pp.
19-70.
23 Cfr. infra.
[ 12 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 279
za del luogo descritto, oltre che da un sentimento di vastità degli spazi
sconosciuti, caratteristiche che si legano molto da vicino all’idea del
sublime, aspetto fondamentale della poetica successiva, ma che già a
questa altezza stava radicando le sue basi concettuali24. Alla luce di
queste riflessioni, quindi, il padovano non poteva non criticare la traduzione
del suo collega francese che così si esprimeva:
Quand toutes tes jeunes filles, odieuse Inisfail, étendraient vers moi
leurs bras de neige, offriraient à ma vue leur sein palpitant, et rouleraient
avec douceur des yeux pleins d’amour, immobile comme les montagnes
de Loclin, Swaran restera dans ce lieu, jusqu’à ce que l’aurore,
se levant sur mes états, couronnée de jeunes rayons, vienne m’éclairer
pour donner la mort à Cuchullin.
Le Tourneur sembra non fare attenzione a ciò che per Cesarotti era
davvero scontato: la sua traduzione («se levant sur mes états») si incammina
esattamente nella direzione opposta a quella sostenuta
dall’abate poiché il termine «états» riprende alla lettera il significato
concreto delle parole di Svarano, nel senso che indica effettivamente
tutti i possedimenti territoriali ai quali l’eroe fa riferimento, ma dall’altro
lato vanifica completamente la sfumatura poetica che nobilita il
discorso con la sua idea di orizzonte sconfinato e sconosciuto e che lo
rende perciò più sublime; diventa vana cioè quella sfumatura che Cesarotti
mantiene e della quale riconosce l’importanza stilistica e concettuale.
Su queste basi è argomentata la sua annotazione:
Il Le Tourneur fece svanire affatto la bellezza singolare di questa
espressione traducendo jusqu’à ce que l’aurore se levant sur mes états. Ho
sviluppato altrove25 i pregi originali di questa parlata, unica nella sua
brutale sublimità.
Il traduttore italiano dimostra, in questo modo, di essere entrato
nello spirito più intimo del personaggio e di volerne rispettare la sua
24 Anche riguardo all’aspetto evocativo delle scelte lessicali di Cesarotti, cfr. F.
Bianco, Traduzioni a confronto: “I Canti di Ossian” di Le Tourneur e Cesarotti, cit. e
Ead., I Canti di Ossian: notturni letterari di fine Settecento, in I cantieri dell’italianistica.
Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVIII congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di
G. Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Roma,
Adi editore, 2016, pp. 1-12, reperibile anche in rete all’indirizzo [http://www.italianisti.
it/Atti-di-Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=
776].
25 Si riferisce all’annotazione riguardante l’incipit dell’intervento di Svarano
che è stata riportata precedentemente («Il Vico riconoscerebbe ecc.»).
[ 13 ]
280 francesca bianco
dimensione psicologica, rivelando una maggiore sensibilità linguistica
e percependo che il vocabolo scelto da Le Tourneur è fuori luogo,
troppo poco vago, per usare un termine che sarà poi molto caro alla
poetica successiva. La sensibile ricerca, da parte dell’abate, di un sublime
che egli ritrova in questo discorso, si manifesta anche in un singolo
termine che da solo, se errato, può far svanire l’intera atmosfera.
2. Calloda
Dopo il Fingal, il punto successivo in cui Cesarotti cita Le Tourneur
si trova nel primo canto di Calloda, nell’episodio dell’incontro fra Fingal
e Conbacarla. Fingal si reca nelle isole Orcadi per fare visita a un
amico, ma una tempesta lo spinge in una baia della Scandinavia, vicina
alla residenza di Starno, padre di Svarano. Starno vede arrivare il
nemico e, convinto di essere sotto attacco, prepara la difesa, ma dopo
aver riconosciuto il valoroso Fingal, celebre per la sua fama di condottiero
invincibile, non osando affrontarlo direttamente, pensa di ricorrere
al tradimento e lo invita ad un suo banchetto. L’eroe, però, capisce
fin da subito quali sono le reali intenzioni del suo ospite, così rifiuta
l’invito e durante la notte rimane di guardia per timore di essere attaccato
da Starno. È nel corso di questa sua veglia notturna, durante la
quale vaga nel territorio circostante, che si imbatte in una grotta in cui
è tenuta prigioniera Conbacarla, figlia di un capo locale ucciso da Starno,
che sta implorando lo spirito del padre perché venga a prenderla.
Fingal si avvicina e mentre la libera chiede informazioni su di lei. La
ragazza allora racconta la tragica sconfitta del padre per opera di Starno,
che dopo la sua vittoria la fa prigioniera e la rinchiude nella grotta
in cui ora si trova. Il suo unico conforto è «un raggio di giovinezza»
che talvolta vede passare da lontano e che la rasserena. Il bel giovane
di cui Conbacarla confessa di essersi innamorata durante la sua prigionia
è Svarano. A queste sue parole Fingal risponde in un modo che
è stato interpretato diversamente dai due traduttori, i quali trovano –
a ragione – qualche ambiguità nel testo originale:
«Maid of Lulan» said Fingal «white-handed daughter of grief! A cloud,
marked with streaks of fire, is rolled along thy soul. Look not to that
dark-robed moon; look not to those meteors of heaven26.
26 Non essendo il poema Calloda presente nell’edizione consultata finora, la
citazione in questo caso è stata estrapolata da The poems of Ossian, translated by Ja-
[ 14 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 281
Ciò che non viene compreso è la frase «marked with streaks of fire
», in quanto non è ben chiaro a cosa si riferisca: Fingal si rivolge alla
fanciulla riconoscendo il suo dolore («daughter of grief», locuzione
che curiosamente non è stata ripresa in nessuna delle due traduzioni,
ma che invece rappresenta un particolare non insignificante in vista di
una più corretta interpretazione del passo), cercando di portarle conforto
e paragonando il suo stato d’animo a una nube con strisce di
fuoco che avvolge l’anima della fanciulla. Proprio la simbologia di
questa nube è stata interpretata in modo diverso e in essa sono state
viste due immagini differenti, entrambe però incentrate sull’esperienza
emotiva vissuta da Conbacarla.
Così traduce Le Tourneur:
Aimable Carglas, reprit Fingal, le nuage de la douleur s’étend sur ton
âme, et le feu de l’amour la consume. Mais rassure-toi, ne crains point
cette lune obscurcie, ces météores qui volent autour de toi.
L’autore francese rielabora a tal punto il testo originale, che quasi
non è rimasta traccia dell’incipit della battuta di Fingal, in cui il giovane
si rivolge alla ragazza definendola ‘figlia di Lula’, con l’appellativo
di origine tipico dello stile macphersoniano, e ‘figlia del dolore’. Tuttavia,
senza contare l’omissione dell’aggettivo composto («white-handed
») – espunzione molto frequente nella traduzione francese – se il
primo appellativo è completamente eliminato e sostituito dal nuovo
attributo «aimable», in linea con la metodologia di traduzione tipica
di Le Tourneur, il secondo («daughter of grief») viene riassorbito nella
resa della frase successiva, dove Fingal fa esplicito riferimento alla situazione
dolorosa in cui si trova la ragazza: la ‘nuvola’ diventa infatti
emblematicamente «nuage de douleur». Le Tourneur vede quindi nella
nube la rappresentazione simbolica del dolore provato dalla fanciulla
rapita dalla propria casa, costretta a rimanere prigioniera in una
grotta oscura e orfana dell’amato padre ucciso dal suo rapitore, mentre
le «streaks of fire» che colorano la nuvola diventano «le feu de l’amour
», con riferimento all’amore non corrisposto («la consume») che
la fanciulla prova per il giovane Svarano. L’interpretazione francese
riassumerebbe quindi perfettamente la situazione che Conbacarla
aveva appena finito di illustrare a Fingal.
mes Macpherson, in two volumes, a new edition carefully corrected and greatly improved,
London, printed for W. Strahan and T. Becket, in the Strand, Bookfeller to their
Royal Highnesses the Prince o Wales and Bishop of Osnabruqh, 1773, I, pp. 10-11.
[ 15 ]
282 francesca bianco
La traduzione è plausibile anche perché lascia pensare che il giovane
eroe, vista la fama della sua magnanimità, dopo aver ascoltato le
drammatiche vicissitudini subite dalla fanciulla (definita «daughter of
grief»), abbia voluto riassumere in un’immagine tutto ciò che essa
aveva raccontato, per continuare poi con il proprio discorso incoraggiandola
ragazza e portandole concreto aiuto. Il repentino cambio di
soggetto nella frase successiva di Fingal, in cui l’eroe tenta di incoraggiare
la fanciulla e di offrirle il suo aiuto – cambiamento osservato
puntualmente da Cesarotti –, secondo Le Tourneur non sarebbe altro
che la conseguenza logica del discorso del giovane, il quale, dopo aver
preso atto della triste situazione in cui si trova Conbacarla, si offre
appunto di aiutarla.
Non così invece la pensa il padovano: secondo il suo parere, infatti,
la nube del testo originale rappresenta tutta la negatività e la malvagità
del personaggio di Starno, le difficoltà e la sofferenza che il suo
comportamento ha determinato nella vita della giovane. A supporto
di questa teoria, Cesarotti porta il fatto che il discorso di Conbacarla è
dedicato prevalentemente a queste vicissitudini, mentre la vicenda
amorosa occupa uno spazio più contenuto, e inoltre lo stesso Fingal,
quando prende la parola, fa riferimento alla sua liberazione dalla prigionia
di Starno e non ritorna sull’argomento amoroso:
Par ch’ei parli di Starno. Nell’originale ciò è detto generalmente: una
nube segnata di focose strisce rotola intorno l’anima; il che non fa un senso
ben chiaro. Il Le Tourneur traduce in modo, come se la nube fosse il
cordoglio della bella e le strisce di foco fossero l’amore di lei per Svarano;
ma tutto ciò che segue non si riferisce che a Starno e al soccorso che
volea darle Fingal contro quel brutale.
Una volta riconosciuta l’effettiva opacità del testo inglese, il traduttore
spiega la versione del collega d’oltralpe e afferma di non essere
d’accordo. Leggendo questa annotazione, però, si ha la sensazione che
neppure la convinzione dell’abate sia così forte: sembra quasi che si
limiti a prendere atto della traduzione del collega aggiungendo il suo
parere. La sua stessa proposta, nonostante le critiche sia al testo originale
sia alla versione francese, rende pressoché letteralmente il testo
macphersoniano, in modo tale da evitare ogni sbilanciamento, come
invece accade in Le Tourneur:
Vaga figlia di Lula, a te soprasta
nembo segnato di focose strisce,
– disse Fingallo: – eh di guardar tralascia
[ 16 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 283
la fosca luna, o le meteore ardenti.
(vv. 149-152)
Il risultato sembra per certi versi più vicino alla traduzione francese
che non all’inglese, almeno per quanto riguarda la parte iniziale.
Anche qui infatti manca del tutto l’aggettivo composto e, benché venga
mantenuto uno dei due appellativi originali («figlia di Lula»), non
vi è traccia del secondo e più ricco di contenuti «daughter of grief»,
che invece è emblematico per comprendere non solo lo stato d’animo
della giovane, ma anche con quale partecipazione sincera Fingal si
senta turbato dal suo racconto; al suo posto compare invece l’aggettivo
«vago», molto più simile al francese «aimable» che non alle dolorose
sfumature del testo inglese. Questo atteggiamento di neutralità, più
che a una volontà filologica, sembra ascrivibile a un’insicurezza personale
che non gli permette di andare più in là di una traduzione mot
à mot.
3. I canti di Selma
Un’altra occasione in cui l’abate padovano fa riferimento al traduttore
francese si trova all’interno nel primo dei Canti di Selma. Questo
poemetto rappresenta, all’interno dell’opera, un momento di festa che
si svolge secondo la tradizione celtica, la quale prevedeva che durante
ogni cerimonia i cantori declamassero solennemente le loro canzoni.
Nel primo canto viene raccontata la storia di Salgar e Colma, due giovani
amanti appartenenti a famiglie nemiche27: Colma decide di fuggire
con il suo innamorato, i due si danno appuntamento sopra ad una
27 Secondo un tòpos ampiamente accreditato che, passando per Romeo e Giulietta,
risale a ritroso fino al mito ovidiano di Piramo e Tisbe, quest’ultimo particolarmente
significativo per la mancata coincidenza delle tempistiche dell’appuntamento.
Che la componente letteraria classica in direzione di un dialogo con l’epica
illustre abbia un ruolo importante all’interno dell’opera di Macpherson è evidenziato
anche dal commento di Malcom Laing (The Poems of Ossian, containing the
Poetical Works of James Mac Pherson, Esq., in Prose and Rhyme, with Notes and Illustrations
by Malcom Laing Esq., in two volumes, Edimburgh, printed by James Ballantyne,
for Archibald Constable and Co. Edimburgh, Longman, Hurst, Rees and
Orme, Cadell and Devies and L Mawman, London, 1805), il quale tra le fonti greco-
latine del poemetto individua l’Iliade e l’Odissea tradotte da Pope e l’Eneide nella
versione di Dryden (cfr. The Songs of Selma, in The Poems of Ossian, cit., I, pp. 447-
468).
[ 17 ]
284 francesca bianco
collina dove la fanciulla giunge per prima e attende Salgar. Il giovane
però non arriva, poiché viene coinvolto in un combattimento con il
fratello di lei, durante il quale entrambi rimangono uccisi. Il poemetto
si apre con il celebre incipit «Stella maggior della cadente notte»28 per
lasciare spazio, dopo una breve descrizione della quieta atmosfera che
avvolge la notte, al primo racconto che inizia in medias res. La protagonista
siede già sulla collina e sta aspettando il fidanzato, ma con il ritardo
sempre maggiore di Salgar crescono anche la sua preoccupazione
e il timore che gli sia accaduto qualcosa di irreparabile.
Durante il suo monologo, Colma si rivolge direttamente all’amato
esortandolo a giungere presto presso di lei e proprio in questo punto
è situato un passo che vede questa volta il traduttore italiano d’accordo
con il collega, tanto da chiamarlo in causa a sostegno della sua
traduzione. Il problema, in questo caso, scaturisce da un errato utilizzo
della punteggiatura nell’originale che rende molto difficile l’esegesi
della frase: «Ah! Whither is my Salgar gone? With thee I would fly,
my father; with thee, my brother of pride».
Il testo inglese, così strutturato, non permette di capire a chi si stia
rivolgendo la fanciulla né che cosa stia dicendo. A questo proposito
l’annotazione cesarottiana alle edizioni del 1763 e del 1772 esprime in
modo efficace gli ostacoli incontrati dal traduttore italiano e quali sono
state le sue impressioni e conclusioni in merito:
Le parole precise dell’originale son queste: Teco voglio fuggire, o mio padre,
teco o mio fratello dell’orgoglio. Confesso ch’io non so raccapezzarne
alcun senso ragionevole. Quello ch’io lor ho dato, se forse non esprime
il preciso intendimento del poeta, almeno è chiaro e conveniente.
La traduzione letterale della frase inglese lascia perplessi riguardo
al suo possibile significato: lo stesso Cesarotti non riesce a trovarne
uno plausibile. Egli, quindi, cerca di risolvere la situazione apportando
alla punteggiatura alcune modifiche che da sole sembrano essere
sufficienti a rendere il testo più comprensibile. La soluzione proposta
in ultima istanza è infatti la seguente:
28 Che Laing fa risalire al Paradise Lost e al Lycidas di Milton: «‘Star of descending
night! Fair is thy light in the west’. From Paradise Lost, v. l66: ‘Fairest of stars
last in the train of night’. But ‘the star of descending night – in the west’ is from
Lycidas, 30: ‘Oft till the star that rose at evening bright, / towards heaven’s descent
had sloped his westering wheel» (corsivi d’autore. Cfr. The Songs of Selma, in The
Poems of Ossian, cit., p. 449).
[ 18 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 285
[…] ove se’ ito mai,
amor mio dolce? Ah con che gioia adesso
l’ira del padre e del fratel l’orgoglio
fuggirei teco! […]
(vv. 73-76)
L’autore sopprime interamente la punteggiatura originale e interviene
sul testo inserendo i sentimenti di «gioia», «ira» e «orgoglio»,
dei quali soltanto il primo era presente nella versione inglese, e li riferisce
alle singole persone protagoniste del racconto. In questo modo
ottiene più chiarezza e riesce a far risaltare meglio i singoli personaggi
abbinando loro un particolare stato d’animo, in modo tale da conferire
a ciascuno di essi un maggior spessore psicologico.
Il passo è frutto di una lunga gestazione, tanto che se si raffronta la
versione finale con le due precedenti, si notano dei cambiamenti sostanziali;
nelle redazioni del 1763 e del 1772 il testo appare come segue:
Ah con che gioia adesso
fuggirei teco! Tu fratel, tu padre,
tu mi sei tutto […]
Questa prima versione della traduzione ben rappresenta lo stato
d’animo di Colma ed il suo amore totalizzante per Salgar, ma dall’altra
parte si allontana fortemente dall’originale: non vi è quasi traccia
della frase inglese È invece evidente l’influenza dei testi omerici intensamente
frequentati dal Cesarotti studioso e professore. L’espressione
si ritrova infatti, molti anni più tardi, anche nella Morte di Ettore, nel
momento dell’addio tra Andromaca e il marito:
[…] tu solo
mi resti, Ettorre, tu fratel, tu padre,
tu mi sei tutto, o mio diletto sposo29
L’influenza dell’epos antico è ancora più penetrante nella versione
italiana se si considera la formazione profondamente classica del precoce
professore di greco ed ebraico: anche se la triplice traduzione
dell’Iliade non è ancora sulla sua scrivania, il prezioso sostrato del cursus
studiorum riemerge nei versi di colui che egli stesso, non a caso, ha
29 M. Cesarotti, La Iliade di Omero, Pisa, dalla Tipografia della Società letteraria,
1802, II, canto VI, vv. 577-579.
[ 19 ]
286 francesca bianco
definito come ‘Omero del Nord’, a conferma di un dialogo tra i due
filoni che si concretizzerà con il travaso linguistico tra le due officine
cesarottiane nel momento dell’impresa iliadica30.
Nella prima versione, quindi, tutto è stato rimaneggiato in un’esaltazione
psicologica che, per quanto pertinente al personaggio, si fa
troppo libera, e probabilmente anche per questo motivo nella redazione
successiva Cesarotti decide di attenersi maggiormente all’originale,
perché, per sua stessa ammissione, questa sua prima proposta di
traduzione molto probabilmente non corrispondeva all’idea che l’autore
dei canti desiderava trasmettere. La criticità del locum emerge anche
nell’ultima edizione, dove sembra aver bisogno del supporto di
Le Tourneur per avvalorare la propria ipotesi:
Le parole precise dell’originale nella lingua e colla puntuazione del
traduttore inglese sono le seguenti: with thee I would fly, my father, with
thee my brother of pride. Parmi visibile che la puntuazione è sbagliata. Il
testo non può aver che il senso che gli ho dato, e così spiega anche il Le
Tourneur.
Il francese, dunque, di solito criticato per le sue scelte lessicali e
interpretative, in questo caso funge da supporto alla sua teoria, visto
che almeno in questa occasione i due hanno inteso il testo nello stesso
modo: «Ah! Mon cher Salgar, où es-tu? Pour toi, j’ai quitté mon frère:
pour toi, j’ai fui mon père».
La traduzione francese presenta a sua volta altri rimaneggiamenti:
innanzi tutto non vengono aggiunti sentimenti o psicologismi e addirittura
viene eliminato l’‘orgoglio’ («pride») che costituiva uno dei
punti principali, nonché una delle difficoltà maggiori, del testo
macphersoniano. Non è semplice stabilire se l’espunzione del termine
sia dovuta allo spirito creativo del francese oppure se risponda a una
precisa scelta adottata per superare le difficoltà dell’originale; certo è
che nemmeno la punteggiatura è esente da interventi ed è inserita l’iterazione
dell’enfatico «pour toi», che conferisce un tono più dramma-
30 Sulla connessione linguistica tra le due opere cfr. Ileana Della Corte, Gli
aggettivi composti nel Cesarotti traduttore di «Ossian», «Studi di lessicografia italiana»,
XIV (1988), pp. 283-346; Michele Mari, Le tre Iliadi di Melchiorre Cesarotti, «Giornale
Storico della Letteratura Italiana», CLXVII (1990), n. 539, pp. 321-395; Tina Matarrese,
Su Cesarotti traduttore dell’“Iliade”, in Melchiorre Cesarotti, a cura di Antonio
Daniele, Padova, Esedra, 2011, pp. 107-116 e F. Bianco, In margine alle Puerili
leopardiane: tra l’Ossian e l’Omero di Cesarotti, «Sinestesieonline/Sguardi», VI,
(2017), n. 20, pp. 1-14, reperibile all’indirizzo http://www.rivistasinestesie.it/
[ 20 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 287
tico alle esclamazioni della triste Colma. Al di là delle modifiche, è
evidente che, per ragioni stilistiche o di comprensione, anche qui è
stata avvertita la necessità di modificare il testo, e l’interpretazione finale
è la stessa ipotizzata da Cesarotti nella sua versione definitiva.
Quindi, la lezione della cominiana del 1763, invariata nel 1772, è
poi radicalmente cambiata nel 1801, in seguito alla revisione comparata31.
Uno schema riassuntivo può aiutare a visualizzare il percorso con
cui si evolve il passo:
31 «L’abate Cesarotti si compiacque di riveder nuovamente la sua traduzione
da capo a fondo, collazionandola col testo inglese e insieme anche colla traduzione
francese del Le Tourneur» (M. Cesarotti, Poesie di Ossian, cit., pp. 811). Tale intenzione
era già stata manifestata in un’epistola datata Padova, 25 luglio 1798 a Giovanni
Rosini: «Io intanto rivedo di nuovo tutte le Poesie di Ossian ritoccando qualche
luogo, e aggiungendoci varie noterelle che faranno sentir l’industria del Traduttore
nel maneggiar un testo spesso intrattabile. A perfezionar l’Edizione di
Ossian avrei gran bisogno di avere non solo la traduzione Francese del Le Tourneur,
ma inoltre, l’altra opera contenente i poemi d’altri Bardi e di Ossian medesimo
pubblicati dallo Smith in Inglese, e tradotti poscia in Francese, stampati in Parigi
nel 1795 in 3 tomi in 18°» (Cfr. M. Cesarotti, Epistolario, Pisa, presso Niccolò Capurro,
1813, IV, pp. 37-38). L’edizione a cui si riferisce è Poésies d’Ossian et de quelques
autres Bardes, pour servir de suite à l’Ossian de Letourneur, par Jean-Joseph Alexis
David de Saint-Georges et Antoine Gilbert Griffet de Labaume, Paris, Impr. de
Gueffier, 1795, I-V, in 18°. Cesarotti recupera in effetti lo Smith nell’edizione pisana
del 1801, sia nell’apparato critico sia, molto più ampiamente, nel nuovo Ragionamento
storico-critico intorno alle controversie sull’autenticità dei poemi di Ossian, ma,
allo stato attuale, non è dato sapere se l’edizione di riferimento sia quella inglese o
francese (devo a Guido Baldassarri la precisone di quest’ultimo riscontro sullo
status quaestionis). Il brano citato è l’unico accenno al collega francese presente
nell’epistolario dell’abate curato da Barbieri; una simile stranezza può essere forse
giustificata ricordando la lacunosità dei fittissimi carteggi intrecciati dal professore
con una nutrita rete di interlocutori a livello locale ed europeo. Sulla situazione di
questa importante miniera di informazioni, di cui è tuttora aperto il cantiere dell’edizione,
cfr. M. Cesarotti, Cento lettere a Giustina Renier Michiel, proemio e note di
Vittorio Malamani, Ancona, A. Gustavo Morelli, 1885; Gilberto Pizzamiglio, Per
l’Epistolario di Melchiorre Cesarotti, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre
Cesarotti, cit., I, pp. 71-79; Ilaria Crotti, Presenze traslate: Giustina Renier Michiel
nelle lettere di Melchiorre Cesarotti, in Sentir e meditar: omaggio a Elena Sala Di Felice, a
cura di Laura Sannia Nowè, Francesco Cotticelli, Roberto Puggioni, Roma,
Aracne, 2005, pp. 227-242; Michela Fantato, C. Chiancone, «All’arrivo di una
mia lettera tutti sono avidi di sentirla»: passato e futuro dell’epistolario di Cesarotti,
«Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXXXVII (2010), 617, pp. 108-117 e
Roberta Quattrin, Dialogicità e forme allocutive nelle lettere di Cesarotti a Giustina
Renier, in «Acme», Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli
Studi di Milano, LXIV (Gennaio-Aprile 2011), 1, pp. 205-220.
[ 21 ]
288 francesca bianco
Cesarotti
1763
Ah con che gioia
adesso / fuggirei
teco! Tu fratel, tu
padre / tu mi sei
tutto
Cesarotti
1772
Ah con che gioia
adesso / fuggirei
teco! Tu fratel, tu
padre / tu mi sei
tutto
Le Tourneur
1777
Pour toi, j’ai quitté
mon frère: pour
toi, j’ai fui mon
père.
Cesarotti
1801
Ah con che gioia
adesso / l’ira del
padre e del fratel
l’orgoglio / fuggirei
teco!
L’interpretazione di Cesarotti cambia completamente prospettiva
nell’ultima redazione, in cui, con buone probabilità, agisce l’idea proposta
da Le Tourneur: le due figure (del fratello e del padre) sono ora
distinte, mentre nella prima edizione erano unite e ancor più accomunate
dal «tutto» finale. La soluzione francese ha il vantaggio di non
stravolgere completamente il testo originale, come invece accade nella
prima versione cesarottiana, e allo stesso tempo di chiarire con una
certa semplicità il significato del passo. Che la nuova interpretazione
vada nella direzione corretta lo dimostra un confronto con i Fragments
originali, in cui la punteggiatura risulta più chiara: «With thee I would
fly my father; with thee, my brother of pride»32.
Qui il senso del testo è più simile alla nuova interpretazione data
per primo da Le Tourneur, ma non è da escludere che, contrariamente
a Cesarotti, la cui traduzione si basa sostanzialmente sull’edizione inglese
del 1762-1763, il francese abbia avuto modo di osservare anche
le edizioni macphersoniane precedenti, visto che queste erano entrate
fin da subito in Francia ed egli stesso si era cimentato nella traduzione
di alcuni frammenti, fino alla pubblicazione dei Contes et poésies erses
nel 1768. Non è quindi fuorviante ipotizzare che, nella traduzione di
questo passo, Cesarotti si sia servito del lavoro del collega, anche se
neppure questa volta è disposto a concedergli il merito («Il testo non
può aver che il senso che gli ho dato, e così spiega anche Le Tourneur»).
4. Oitona
L’ultimo caso in cui Cesarotti si riferisce al lavoro di Le Tourneur è
presente nel breve poemetto Oitona. L’opera racconta la tragica fine di
una fanciulla che non riesce a sopravvivere alla perdita del proprio
onore: il giovane Gaulo accompagna nella sua patria il nemico appena
32 M. Cesarotti, Annotazioni ai Canti di Selma, in Id., Poesie di Ossian, cit., n. 9,
p. 1128.
[ 22 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 289
sconfitto, qui viene accolto dal padre di questi e da sua figlia, Oitona,
della quale subito si innamora ricambiato. Dopo essere stato richiamato
da Fingal, Gaulo lascia la sua amata promettendole di ritornare, ma
durante la sua lontananza e in coincidenza con una temporanea assenza
sia del padre sia del fratello della fanciulla, questa viene rapita
da Dunromath, signore di una delle isole Orcadi, che la rinchiude in
una grotta e la disonora. Quando il giovane innamorato ritorna, viene
a conoscenza del fatto e si mette in viaggio per raggiungere la ragazza
trovandola in preda ad una disperazione assoluta. Appresone il motivo,
Gaulo si appresta ad affrontare Dunromath per vendicarla, ma
questi si rivolge al giovane con atteggiamento arrogante e irrispettoso
sia nei confronti del suo interlocutore sia nei riguardi di Oitona.
In una di queste sue esclamazioni risiede appunto la difficoltà interpretativa,
a proposito della quale, tuttavia, non si può nemmeno
parlare di criticità reale, poiché il significato è chiaro in tutte e tre le
versioni e non lascia dubbi: il problema riguarda piuttosto la modalità
di espressione, il risultato finale della resa del concetto originale. Dunromath
afferma con volgare orgoglio la sua volontà di godere da solo
e a suo piacimento delle bellezze della fanciulla e dimostra di considerare
il giovane innamorato alla stregua di un mero inconveniente fastidioso
che potrebbe disturbare i suoi piaceri. La critica di Cesarotti a
Le Tourneur verte sull’omissione da parte del traduttore francese di
una metafora che avrebbe reso meno esplicito il tono del monologo di
Dunromath:
Oithona is a beam of light, and the chief of Cuthal enjoys it in secret;
wouldst thou come on its loveliness like a cloud, son of the feeble
hand! — Thou mayst come, but shalt thou return to the halls of thy
fathers?
Il breve passo è interamente imperniato su una metafora meteorologica
in cui la fanciulla è rappresentata da un raggio di luce, mentre
al suo innamorato viene attribuito il ruolo di una nuvola che in modo
inopportuno oscura questa piacevole felicità. L’unico elemento che attenua
i riferimenti espliciti di Dunromath è appunto la figura retorica,
grazie alle sue impalpabili componenti.
Proprio su questa considerazione si basa la traduzione italiana in
cui è riprodotto in modo fedele il testo originale:
[…] Oitona è un raggio,
e ’l sir di Cuta lo si gode ascoso.
Vorrestù tu spazïar come una nube
[ 23 ]
290 francesca bianco
sopra l’amabilissima sua luce,
figlio della viltà? Vieni a tua posta:
venir tu puoi; ma del tornar che fia?
(vv. 192-197)
Nell’elaborazione di Cesarotti non ci sono particolari modifiche,
giacché l’unica variatio risiede nell’ampliamento dell’immagine: il generico
verbo «come», ad esempio, è trasformato in un più aereo
«spazïar», molto più consono alla descrizione dei movimenti di una
nuvola, mentre «loveliness» diventa l’«amabilissima sua luce», con
ripresa della simbologia iniziale attribuita alla fanciulla. Il labor limae
lascia affiorare l’intima profondità con cui viene recepita ogni componente,
compresa la sensibilità fonetica; l’autore sembra voler coraggiosamente
ricostruire anche in italiano gli stessi effetti acustici dell’originale,
in modo particolare per quanto riguarda la ‘s’ sorda33:
Oithona is a beam of light, and the chief of Cuthal enjoys it in secret;
wouldst thou come on its loveliness like a cloud, son of the feeble
hand! — Thou mayst come, but shalt thou return to the halls of thy
fathers?
[…] Oitona è un raggio,
e ’l sir di Cuta lo si gode ascoso.
Vorrestù tu spazïar come una nube
sopra l’amabilissima sua luce,
figlio della viltà? Vieni a tua posta:
venir tu puoi; ma del tornar che fia?
Il suono appare quasi negli stessi punti dell’originale (a «secret»
corrisponde «ascoso», notevole poi è la ripresa del verbo «wouldst»
che diventa «vorrestù», «its» viene trasformato in «sua», e perfino la
doppia ‘s’ di «loveliness» ha il suo corrispondente nell’aggettivo
«amabilissima», mentre «mayst» trova il proprio abbinamento nella
formula «a tua posta») ai quali ne aggiunge degli altri quasi ad enfatizzarne
l’eco («sir», «si», «spazïar»). Un impegno stilistico così preciso
non poteva considerare sotto una luce positiva la traduzione francese,
dove la principale figura retorica viene quasi cassata e il tono
dell’eloquio di Dunromath si fa molto più diretto:
33 Sull’aspetto fonetico del lavoro cesarottiano si è soffermata in modo cursorio
l’attenzione di Sergio Maria Gilardino nel suo La scuola romantica. La tradizione
ossianica nella poesia dell’Alfieri, del Foscolo e del Leopardi, Ravenna, Longo Editore,
1982, pp. 78-79.
[ 24 ]
osservazioni critiche di cesarotti a le tourneur 291
Oithona est pour moi un astre solitaire. Je jouis seul de sa beauté. Foible
guerrier, prétends-tu troubler mon bonheur. Tu viens sans doute
dans ce dessein: oui; mais retourneras-tu dans le palais de tes pères?
La metafora riappare soltanto nell’immagine dell’«astre solitaire»,
poiché Le Tourneur predilige qui un tono meno delicato e più esplicito
(«je jouis seul de sa beauté», «prétends-tu troubler mon bonheur?»),
e tuttavia adatto a un personaggio rozzo come Dunromath; non vi è
traccia di tutti gli accorgimenti stilistici della traduzione cesarottiana,
anche se lo stile francese potrebbe essere giustificato proprio dalla
malvagità che contraddistingue questo guerriero, così da rappresentarne
in modo più verosimile la sua figura. L’osservazione del padovano,
la cui chiusura del commento è stata aggiunta nell’edizione del
1801, è a questo punto prevedibile (e un po’ pungente):
Non potevasi far sentire con più vivezza e decenza la sozza idea che
Dunromath attribuisce a Gaulo, né fargli intender meglio ch’egli era
indegno d’Oitona. Questa finezza si cercherebbe indarno nella traduzione
del Le Tourneur.
Il precipitato delle osservazioni fin qui condotte si dipana quindi
in un doppio filo: le due traduzioni rispondono a un impianto estetico
diverso che si sostanzia nelle scelte linguistiche e stilistiche. Nei casi in
cui questo aspetto emerge maggiormente (Fingal, I, vv. 515-523 e Oitona,
vv. 192-197) si evidenzia una sensibilità specifica per ciascun autore,
sia nei confronti della lingua dell’originale sia di quella propria: il
razionalismo deciso di Le Tourneur, interessato alla clarté informativa
rivolta a un pubblico curioso di novità letterarie, contrasta con il cesello
di Cesarotti, il quale, pur non allontanandosi da tali principi, vi associa
una ricerca psicologica della sfumatura linguistica; i suoi versi
devono ricostruire non solo il contenuto, ma anche l’atmosfera della
scena, che viene ricreata attraverso accorgimenti fonetici raffinati.
Ma Cesarotti sceglie anche di muoversi all’interno di un sentiero
non sempre limpido e unidirezionale, bensì coinvolto in un effetto di
rifrazioni di luci e di ombre dalle quali affiora un gioco di sfumature
compenetrantisi in una vasta gamma di tonalità che lascia emergere il
sensismo vichiano, l’evidenza del pittoresco, la tensione verso il sublime
romantico, il tutto amalgamato nel crogiolo di un sostrato classico,
fondamento di tutto il labor limae messo in atto. Con l’Ossian, l’abate
recupera il linguaggio originale e caratteristico dell’epos, ma in chiave
moderna, filtrato cioè dal prisma della nuova sensiblerie in movimento;
dall’altra parte il denominatore comune fra i laboratori linguistici
[ 25 ]
292 francesca bianco
della grecità epica e dell’omerismo nordico si ritroveranno a dialogare
di nuovo fittamente a metà degli anni ’80, quando il professore inizierà
la grande esperienza della triplice traduzione iliadica, in cui il travaso
ossianico è evidente.
Il secondo dato che emerge è poi il contributo dell’edizione francese
al perfezionamento di quella cesarottiana (Fingal, I, vv. 487-493 e I
canti di Selma, I, vv. 73-76), un apporto misconosciuto dall’abate, nonostante
gli evidenti cambiamenti nell’edizione del 1801. Il piano dialettico
in cui in questi casi si pone il padovano si tinge di un orgoglio
lievemente piccato nel costatare che le intuizioni del collega restituiscono
una versione del testo talvolta più appropriata.
Se nel complesso le puntualizzazioni cesarottiane rivolte al francese
scaturiscono da una maturità artistica, da una conoscenza e consapevolezza
linguistica consolidata (Fingal, I, vv. 360-364 e Calloda, I, vv.
149-152) forse maggiore rispetto a quanto riesce a trasmettere il pur
onesto impegno informativo di Le Tourneur, che spesso si concretizza
in un lavoro di servizio; a quest’ultimo va comunque riconosciuto il
merito non solo di aver egregiamente sostenuto un confronto con una
delle massime icone di tale genere letterario, ma di aver anche contribuito,
pur in misura ancillare, all’ultima redazione italiana delle Poesie
di Ossian, la cui influenza si sarebbe estesa su gran parte della letteratura
successiva.
Francesca Bianco
Università di Padova
[ 26 ]
Nunzia D’Antuono
Settembrini e l’antico
Il saggio ricostruisce l’ideale educativo di Settembrini, che nell’antico trovò un
modello identitario. Tale prospettiva, che postulava l’Archeologia come educazione
all’antico e non accumulo di «anticaglie», fu nettamente divergente dall’ideologia
estetizzante di «Cronaca Sibarita». Il dialogo dell’antico con la modernità
rappresentò il volano di una pionieristica proposta di tutela del patrimonio
artistico-culturale.

This essay reconstructs Settembrini’s educational ideal whereby the ancient
world provides an identity model. Such an attitude, by considering Archaeology
as the study of the ancient world rather than as the accumulation of outdated
objects, differed significantly from the aestheticism spearheaded by
«Cronaca Sibarita». The dialogue between the ancient and the modern world
constituted the basis of a groundbreaking approach to the safeguarding of the
cultural-artistic heritage.
È anch’egli un Principe ed un Signore, ma solitario:
il suo regno è nell’antichità dove egli
fa ogni giorno ricerche e conquiste, e dopo le
conquiste di un nuovo libro ha la gioia del
trionfo […].
L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana
(cap. XXV)
La cultura europea, ricercando affinità ideali, ha continuato a metabolizzare
l’antichità, volgendo lo sguardo ora all’indietro, per ricercare
le proprie radici, ora in avanti, per segnare una solida traccia da
percorrere. Quella della civiltà classica è una storia di rappresentazioni
fatta di imitazioni e idealizzazioni, che non sono soltanto modello
estetico, ma anche morale e politico. Il modello dell’antichità classica,
come ebbe a scrivere Lukács, «è l’ideale politico necessario della classe
Autore: Università di Salerno; prof. a contratto; ndantuono@unisa.it
294 nunzia d’antuono
borghese che combatte per la propria indipendenza e per la conquista
del potere statale»1. L’affermazione del filosofo ungherese, che pur
non vuole schematizzare tutto in una forma qualunque di sociologia
volgare e attribuire «determinate tendenze formali a determinate posizioni
di classe», evidentemente, è appropriata per la situazione tedesca,
ma a noi può essere utile per avviare, tenendo conto di una diversa
specificità, un discorso sul “culto dell’antico” in Italia e che, nelle
diverse fasi risorgimentali, vide Luigi Settembrini2 quale massimo
rappresentante di una determinata declinazione del classicismo.
Molti intellettuali italiani hanno rintracciato nella «nobile semplicità
» e nella «quieta grandezza» descritte da Winckelmann l’armonia,
l’equilibrio e il rigore, non solo estetici, necessari per veicolare valori
politici ed etici, maggiormente nelle fasi progressive del corso storico
e culturale. Luigi Settembrini fu uno di loro e rivolgendosi all’“antico”
scelse come modello il periodo greco-latino, che non solo ha il prestigio
del passato, ma anche l’aureola rinascimentale3, perché l’antico
presuppone una forma di progresso ciclico, che pone l’antichità nella
parte più alta della curva. Studioso dell’antichità classica e mirabile
traduttore di Luciano di Samosata4, proprio nello scrittore greco rintracciò
l’elemento coesivo dell’intera produzione intellettuale. Il professore
napoletano, che coltivò sogni di libertà politica e artistica (per
citare Adolfo Omodeo)5, costruì le Lezioni di letteratura italiana su uno
schema tripartito, mutuato da Silvestro Centofanti, per dimostrare
che la nostra letteratura riproduceva direttamente il periodo antico
«greco-latino»6.
Bisogna fare attenzione – ammoniva Settembrini – a non scambiare
1 György Lukács, Goethe e il suo tempo, in Id., Scritti sul realismo, a cura di Alberto
Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, I, p. 266.
2 Mi si permetta di rinviare a Nunzia D’Antuono, L’Asino che ride. Saggi e
ricerche su Luigi Settembrini, Angri, Gaia, 2012.
3 Carlo Dionisotti, Rinascimento e Risorgimento, in Id., Ricordi della scuola italiana,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1998, pp. 263-275.
4 La prima edizione del Corpus Lucianeum tradotto da Settembrini è Lucianus,
Opere, voltate in italiano da L. Settembrini, Firenze, Le Monnier, 1861-1862. La traduzione
del Settembrini è considerata ormai un classico. Valga come dimostrazione
ulteriore la scelta effettuata ancora nel 2007 per l’edizione di Tutti gli scritti, a
cura di Diego Fusaro, Milano, Bompiani, 2007 (basata «sulla traduzione italiana
di Luigi Settembrini, realizzata nel carcere napoletano di Santo Stefano negli anni
1851-58 e pubblicata per la prima volta a Firenze negli anni 1861-1862»).
5 Adolfo Omodeo, Luigi Settembrini, in Id., Figure e passioni del Risorgimento,
Palermo, Libreria Ciuni, 1932, p. 74.
6 Cfr. N. D’Antuono, L’Asino che ride, cit., pp. 43-46.
[ 2 ]
settembrini e l’antico 295
l’antico per anticaglia e a non fare erudita e sterile archeologia, come
aveva già segnalato in un testo del 1863, nel quale si rammaricava
perché il «severo bugnato» di palazzo Como, una delle più belle costruzioni
di Napoli, era ignorato o tutt’al più considerato un’«anticaglia
». La costruzione della strada che dal Duomo di Napoli avrebbe
portato fino al mare prevedeva la distruzione di un’antica dimora aragonese,
palazzo Como. Settembrini si oppose alla devastazione della
facciata monumentale del palazzo, ottenendo che «in nome dell’arte»
fosse risparmiato un altro danno alla città. Con il sostegno di Catalani
e di Carlo Tito Dalbono riuscì a ottenere che il palazzo tutto «nero,
tutto di macigno sino alla cima» fosse smontato pietra per pietra e
trasportato «alla fine della strada»7.
L’impegno continuò tenace durante le lezioni universitarie, quando
ripeteva agli studenti che uno scrittore non è pregiato «soltanto
perché antico», e che molti studiosi italiani di antiquaria avevano ingaggiato
gare municipali e sfoggiato «citazioni che parevano dottrina
recondita»8. Egli apprezzava molto il Muratori, che non aveva lavorato
in modo sterile, ma aveva gettato «uno sguardo intelligente» sulla
«morta storia» e aveva cercato di «scoprirvi la vita», come testimoniano
le Dissertazioni sopra le antichità italiane. Settembrini, che stimò Winckelmann,
il quale aveva studiato l’arte senza slegarla dalla vita civile
dei popoli, tra tutti gli archeologi italiani, riservò un posto privilegiato
a Ennio Quirino Visconti, studioso del museo Pio-Clementino, nel
quale erano stati raccolti «monumenti pregevoli per arte, e non chiodi
e padelle»9. L’archeologo italiano, avendo
innanzi a sé nel Museo romano una copia maravigliosa di monumenti
di arte di ogni specie, e studiandoli con suo padre fin da fanciullo,
poté paragonarli tra loro e con altri, poté comprenderli tutti, ordinarli,
disporli per tempi e per luoghi. Questo egli fece nella sua opera in
sette volumi, Il Museo Pio-Clementino descritto da lui […] che spande lume
su tutta l’archeologia in una gran sintesi, e che vi deve far considerare
il Visconti come il vero e più grande archeologo italiano10.
7 Si veda l’articolo Il Palazzo Como che, pubblicato originariamente nella «Rivista
napoletana» tra il 10 e il 20 agosto del 1863, è ora in Luigi Settembrini, Scritti
vari di Letteratura, Politica, ed Arte, riveduti da Francesco Fiorentino, Napoli,
Morano, 1879, I, p. 209. Nelle Lezioni Settembrini richiama questo articolo e ne cita
un passo. Cfr. L. Settembrini, Lezioni di Letteratura Italiana, a cura di Giuliano
Innamorati, Firenze, Sansoni, 1964, p. 359.
8 Ivi, p. 869.
9 Ibidem.
10 Ivi, pp. 869-870.
[ 3 ]
296 nunzia d’antuono
Nelle pagine delle Lezioni dedicate alle esplorazioni ottocentesche
del territorio, tra i tanti ricercatori che avevano individuato antichi
siti, fu ricordato anche Luciano Bonaparte, che nel 1828 a Musignano,
nella Maremma laziale, aveva dato inizio a una serie di campagne di
scavo, riportando alla luce la necropoli di Vulci, convinto, però, di
aver scoperto il sito di Vetulonia, città che insieme alla prima fa parte
della dodecapoli etrusca. Settembrini era fermamente convinto che riportare
alla luce un antico sito significasse riscoprire le virtù e le capacità
del popolo che lo avevano abitato. Non amò, quindi, l’accumulo
sterile, ma la rievocazione di valori politici e morali. In tale prospettiva
va dato atto all’autore delle Ricordanze di aver inteso il profondo
significato del Platone in Italia, che non è «archeologia italiana», ma un
gran libro che arricchisce di sapienza11.
A voi, o giovani, io consiglio di leggere il Platone che è un gran libro, il
quale vi arricchirà di sapienza, vi ornerà di modestia, vi spingerà a
qualche bello ardire nell’arte: e se tra voi è qualche sannita, perché egli
non pensa a scrivere degnamente di Vincenzo Cuoco mostrandone il
sapere e gl’intendimenti? Questa opera è stata tradotta in tutte le lingue
colte d’Europa, ed è stata dimenticata dagl’Italiani occupati ad
ammirare astruserie straniere, cronichette e leggende del Medio Evo. E
se a queste mie parole voi vedrete scrollare qualche testa grigia, ditegli
così: Tu hai letto il Platone quando tutti dicevano che era un libro comune:
ora che taluno lo ha detto un gran libro, rileggilo, e poi ne giudicherai12.
Nel romanzo a chiave, come è stato dimostrato negli ultimi anni,
Vincenzo Cuoco, rielaborando fonti pitagoriche, aveva delineato una
profonda analisi della società e articolato «una polifonia di motivi
patriottici»13.
L’arte, poiché svolge una funzione civile, è cifra sostanziale nella
poetica dell’intellettuale napoletano, il quale vede nella produzione
artistica la «rappresentazione di tutta la vita di un popolo», riconoscendole
la stessa sostanza della religione e della scienza. Fin dagli
anni giovanili aveva attribuito all’arte un intento morale. Nel mano-
11 L. Settembrini, Lezioni di Letteratura Italiana, cit., p. 1044. Si veda anche
Nunzia D’Antuono, I «mille frutti ancora selvatichi». Orti e giardini nel Platone in
Italia, in Occasioni e percorsi di letture. Studi offerti a Luigi Reina, a cura di Raffaele
Giglio e Irene Chirico, Napoli, Guida editori, 2015, pp. 251-266.
12 L. Settembrini, Lezioni di Letteratura Italiana, cit., p. 1044.
13 Paolo Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Bologna, il
Mulino, 1998, p. 224.
[ 4 ]
settembrini e l’antico 297
scritto Della Italiana Letteratura, ad esempio, aveva scritto che «il santissimo
scopo delle arti è quello di avviarci alla virtù, di persuaderci a
ben fare»14. Era convinto che le culture nel corso dei secoli hanno configurato
e trasmesso la loro identità15 non solo attraverso i poemi e i
romanzi ma anche costruendo edifici, strade, statue e affreschi. L’arte
«rappresenta quello stesso vero che la religione sente e la scienza medita
». Discorrendo d’arte – si legge negli Scritti vari – emergono tutti i
«fatti della vita esteriore d’un popolo, della sua storia, della sua religione,
del suo sapere, della sua civiltà, perché sono tutte cose legate
insieme e nascono dalla medesima cagione»16. L’arte, è ripetuto nelle
Lezioni, deve rappresentare in una struttura armonica e in una forma
fantastica un contenuto di verità. In tale prospettiva, in un precedente
studio, ho analizzato anche un nutrito gruppo di articoli – originariamente
apparsi tra il 1863 e il 1870, poi raccolti da Francesco Fiorentino
nel volume degli Scritti vari – in cui Settembrini descrisse agli studenti
monumenti trascurati, con l’intento di stimolare l’interazione tra il
sapere universitario e la vita culturale del territorio per attuare una
reale e fattiva educazione civile. Con una circolarità di pensiero e di
scrittura sollecitava il rispetto per il patrimonio culturale e artistico,
perseguendo un intento educativo che caratterizza tanto le Lezioni
quanto le Ricordanze.
Potrebbe dirsi che l’autore delle Lezioni abbia svolto un’attività di
mediazione, tentando di ricostruire un’intesa o un patto fra le generazioni,
riproponendo, ai suoi studenti prima, ai lettori poi, un mondo
etico ricco di passioni, in cui arte e letteratura sono intrecciate e vòlte
ad esprimere un intento non soltanto estetico. Come aveva scritto
Giuseppe Mazzini, la letteratura, che «precede e indovina», deve “inviscerarsi”
nella vita civile e politica delle nazioni e, aggiungeva, «le
antiche glorie si tutelano con le nuove»17. Tenacemente convinto che le
14 Il trattato giovanile, ancorché inedito, è stato ampiamente analizzato da Mario
Themelly, Tradizione classica e storia nazionale in un trattato inedito di Luigi Settembrini,
«Belfagor», il, (1994), n. 5, p. 517.
15 Michele Rak, Letteratura come finzione, premessa a M.me de Staël, Saggio
sulle finzioni, a cura di Anna Eleanor Signorini, Napoli, Liguori, 2004, p. 7.
16 Luigi Settembrini, Su le antiche pitture di Donna Regina. Lettera al Rev. Don
Gennaro Maria de Pompeis, in Id., Scritti vari, cit., p. 362. Si veda anche Mario Santoro,
L’impegno meridionalistico e le «Lezioni» del Settembrini, «Esperienze letterarie
», ii, (1977), nn. 2-3, pp. 78-116.
17 G. Mazzini, D’una letteratura europea, in Id., Scritti sul romanzo e altri saggi
letterari, a cura di Luca Beltrami, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, pp.
50-51.
[ 5 ]
298 nunzia d’antuono
nuove generazioni dovessero conoscere l’arte antica, per riuscirne a
percepire la tensione morale che l’aveva generata, Settembrini proseguì
con tecnica circolare un discorso sull’arte quale impegno etico e
civile, legato al sacrificio e al dolore. La tutela del patrimonio artistico
divenne un impegno morale e, pertanto, assunse la funzione di un
grande “uffizio”.
Il professore, tra coloro che si erano “spoltriti” e avevano lavorato
alacremente nella direzione tanto agognata, annoverò il noto archeologo
Giuseppe Fiorelli, più giovane di un decennio, col quale aveva
condiviso esperienze politiche per aver partecipato ai moti del 1848 ed
essere stato rinchiuso nel carcere di Santa Maria Apparente18. Dopo
l’Unità d’Italia fu nominato professore di Archeologia nell’Università
di Napoli (1860-1863) e poi direttore del Museo di Napoli e degli Scavi
di Pompei. Fu Senatore del Regno nel 1865, in seguito direttore generale
per le Antichità e Belle Arti.
Giuseppe Fiorelli, nel 1866 all’indomani della legge sulla “Soppressione
delle Corporazioni religiose e destinazione dell’asse ecclesiastico”
(7 luglio 1866), aveva salvato la Certosa di San Martino, destinandola,
con eccezionale tempismo, a sede di un nuovo museo nazionale.
Diresse il neonato istituto culturale con un’azione tanto efficace
e accorta da riuscire a consolidarne le basi. Già nel 1867 nella Biblioteca
cominciarono ad arrivare i primi manoscritti. Il Direttore, che lavorò
al Museo fino al 1872, prima di questa meritoria operazione culturale
ne aveva firmata un’altra di uguale se non maggiore valore.
Aveva diretto, infatti, la sistemazione degli scavi archeologici di Pompei,
che decise di aprire al pubblico, istituendo, inoltre, nella città una
scuola italiana di archeologia. Fu sua l’idea di ottenere con il gesso il
calco dei corpi delle vittime dell’eruzione:
Il Fiorelli accorre, e con lunghe mollette cava alcune ossa dal foro, e fa
18 Giuseppe Fiorelli (Napoli 1823 – ivi 1896), coinvolto nei moti del 1848, fu
rinchiuso nel carcere di Santa Maria Apparente. Dopo l’Unità d’Italia fu nominato
professore di Archeologia nell’Università di Napoli (1860-1863) e, successivamente,
direttore del Museo di Napoli e degli Scavi di Pompei. Senatore del Regno nel
1865, in seguito fu direttore generale per le Antichità e Belle Arti. Ha pubblicato
opere di numismatica e di argomenti pompeiani. Fondò le «Notizie degli scavi di
antichità», pubblicate a cura dell’Accademia dei Lincei, della quale fu socio nazionale
dal 1875. Si vedano: Gianluca Kannes, Giuseppe Fiorelli, in Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. 48, 1997 e Giuseppe
Fiorelli, La descrizione di Pompei, a cura di Umberto Pappalardo, Napoli, Massa,
2001.
[ 6 ]
settembrini e l’antico 299
entrare nella cavità gesso liquido; il quale poi che è indurato e rasciutto
e rinettato della cenere attaccatavi, presenta la figura di un uomo, che
giace supino con la bocca aperta, il petto ed il ventre gonfi, come sogliono
averli gli annegati. Intero è il braccio sinistro, disteso, con la
mano contratta, alla punta gli ossi delle dita misti al gesso, e nel dito
mignolo un anello di ferro. […] Pare un uomo di una cinquantina d’anni:
gli si vede bene il naso e le gote; gli occhi per niente, né i capelli; nella
bocca aperta gli si vede mancare alcuni denti. Qua e là apparisce il
tessuto delle vesti19.
Settembrini, nel febbraio del 1863, si era recato nella città vesuviana
e aveva osservato «il nuovo miracolo» operato dall’archeologo napoletano,
al quale riconobbe di essere riuscito a far percepire l’agonia
di creature morte da diciotto secoli:
Lì non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa, le reliquie della
loro carne e de’ loro panni mescolate col gesso; è il dolore nella morte
che racquista corpo e figura […]. Finora si è scoperto templi, case, mura,
dipinti, scritti, sculture, vasi, arnesi, utensili, ossa, ed altri oggetti che
interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti, e degli archeologi;
ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoperto il dolore umano, e chiunque
è uomo lo sente20.
Nel volgere di pochi anni il mutamento del contesto storico avrebbe
eroso buona parte della dimensione storico-artistica in cui aveva
operato Luigi Settembrini. La contrapposizione tra antico e moderno
si sarebbe irrigidita. La modernità si sarebbe legata alla moda e al dandismo,
conoscendo un’evoluzione rettilinea che privilegia ciò che si
allontana dall’antichità greco-romana per allearsi con altre antichità.
Gli intellettuali nati all’indomani dell’Unità sarebbero stati “sedotti”
da un atteggiamento estetistico21. Tra questi a Napoli ricordiamo Federigo
Casa, Luigi Conforti, Pasquale Farnese, Carlo Parlagreco, Vittorio
Pica, Michele Siniscalchi, Francesco Stendardo e Francesco C.
Vasquez, che fondarono l’«elegante rivista» dal titolo «simpatico» di
«Cronaca Sibarita», «in elegante formato di 8 pagine con covertina, e
che fu redatta con la collaborazione dei più chiari scrittori d’Italia»22.
19 Luigi Settembrini, I pompejani, in Id., Scritti vari, cit., pp. 334-335.
20 Ivi, p. 336.
21 Paola Villani, La seduzione dell’arte. Pagliara, Di Giacomo, Pica: i carteggi,
Napoli, Guida, 2010.
22 «Cronaca Sibarita» (1884-1885), introduzione e cura di Alessandro Gaudio,
premessa di Andrea Dardi, Manziana, Vecchiarelli, 2006.
[ 7 ]
300 nunzia d’antuono
La rivista, «malgrado l’intestazione archeologica», fu salutata a Palermo
come «ottima ed elegante effemeride letteraria» e come «modernista
» sul «Sole» di Milano:
Malgrado l’intestazione archeologica, questa Rivista bimensile di letteratura,
d’arte e di vita vissuta vuole essere modernista in sommo grado
e (come lo indica Sibari) raffinata, squisita quale poteva vagheggiarla
il Des Esseintes nell’A rebours23.
In realtà, gli obiettivi dei redattori non furono univoci, tanto che tra
il 1884 e il 1885 la rivista contò solo otto uscite. Gli animatori del periodico,
che furono comunque profondi conoscitori e traduttori di testi
greco-latini e autori di poemetti quali Pompei (mi riferisco a Luigi Conforti
jr.), intesero «Sibari come tipo dell’arte splendidamente fine,
squisitamente tornita una ricercatura di cesello» e invitarono i lettori a
non aspettarsi «di sentire il tanfo, che sale dalla mefite impura del
dottrinalismo»24. Federigo Casa avvertì che il fenomeno più curioso
dei periodi di decadenza consisteva nell’«irrompere a vivi sprazzi
dell’elemento nuovo tra le screpolature dell’antico»25.
Nel primo fascicolo di «Cronaca Sibarita», Antonio Sogliano, libero
docente di archeologia e professore di Antichità pompeiane, specificò
che la nascita della rivista era stata sollecitata dagli scavi di Sibari.
Smindiride, nome de plume di Luigi Conforti, scriveva di voler riparare,
sull’eco di una «civiltà che fu la prima e più splendida gloria d’Enotria
», «al lungo sonno con un risveglio alla piena luce del progresso
», per raggiungere «l’ideale d’un’arte profumata, colta, elegante»26.
I neosibariti, che promettevano di «ripudiare ogni cosa» che non
avesse «l’arte di mira», incarnavano la figura dell’intellettuale che viveva
l’arte come gioco, ricerca di perfezione e di bellezza irraggiungibile.
Il «sibaritismo» fu perciò a Napoli il naturale sviluppo della moda
scapigliata. È interessante, però, ritrovare tra le pagine della rivista,
nell’articolo di Antonio Sogliano, il richiamo all’abnegazione del popolo
italiano «che alle memorie della passata grandezza attinge la forza
e la speranza di raggiungere una grandezza avvenire». La riscoper-
23 Cfr. «Cronaca Sibarita», i, (1884), 3.
24 Metagène, La Cronaca Sibarita, «Cronaca Sibarita», i, (1884), n. 1, seconda
edizione, p. 1.
25 Federigo Casa, Per un poemetto, «Cronaca Sibarita», i, (1884), n. 1, seconda
edizione, p. 4.
26 Smindiride, Fra il Sibari e il Crati, «Cronaca Sibarita», i, (1884), n. 1, seconda
edizione, p. 7.
[ 8 ]
settembrini e l’antico 301
ta delle grandi opere dell’arte antica, continuava Sogliano, è un «servigio
grandissimo che si rende alla civiltà» e ricorda, elogiandolo,
l’illustre concittadino Giuseppe Fiorelli.
Meno di un decennio dopo, il passato sarebbe stato “ravvivato”
sulle pagine di «Napoli nobilissima», che avrebbe iniziato le sue pubblicazioni
nel 1892. La rivista di Riccardo Carafa, Giuseppe Ceci, Luigi
Conforti, Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, Michelangelo Schipa
e Vittorio Spinazzola si prefisse l’obiettivo di riassumere «pel gran
pubblico gli speciali lavori degli eruditi», poiché le ricerche degli studiosi
devono «con utile efficacia penetrar nella cultura generale»27.
Con il medesimo vigore del Settembrini, sulle pagine di «Napoli nobilissima
» fu denunciata l’incuria delle autorità comunali e dei privati
cittadini nei confronti «d’ogni umano lavoro che arricchisca ed onori
la patria», e si sottolineò che i risultati delle riunioni delle commissioni
provinciale e municipale per la conservazione dei monumenti cadevano
nel vuoto. Lo scopo dei redattori, se non ci inganniamo, seguiva
il solco tracciato da Settembrini, che non aveva guardato nostalgicamente
al mondo classico come a un rifugio dal presente, ma vi aveva
rintracciato una fonte di valori morali e di lucidità operativa. Risolutamente
gli agguerriti redattori di «Napoli nobilissima» promisero di
far seguire agli «scritti illustrativi» delle «proposte pratiche, ispirate,
come si può immaginare, alla conservazione, al rispetto, al miglioramento
di tutto quel che rappresenta il nostro patrimonio antico, disseminato
per le vie della città, ma non amorosamente sorvegliato, non
coltivato mai». Obiettivo comune fu il risveglio benefico, che avrebbe
potuto seguire nel pubblico interessamento, «intorno a quel che riguarda
gli studi gentili dell’arte, le patrie memorie nostre».
I tempi e l’incuria verso i beni culturali intesi come memoria storica
da preservare impedirono che fossero alimentati i tentativi di Settembrini
e di pochi altri. Nei decenni successivi molto vicini a noi la
politica culturale dell’intellettuale napoletano sarebbe stata ripresa e il
suo messaggio sarebbe diventato patrimonio collettivo.
Luigi Settembrini, infatti, era stato tra i primi a encomiare le capacità
e l’abnegazione di Fiorelli28, che tanto merito ha avuto nella tutela
27 Ai nostri benevoli lettori, «Napoli nobilissima. Rivista di topografia ed arte
napoletana», i, (1892), nn. 1-2, pp. 1-2 (si cita dalla ristampa anastatica, con introduzione
di Gino Doria, Napoli, Berisio, 1969).
28 Ci sembra significativo che anche sulle pagine di «Napoli nobilissima», in
anni più vicini a noi, sia stata elogiata l’opera meritoria di Giuseppe Fiorelli, con
un Omaggio in due parti, in cui si è ricostruita la nascita del Museo della Certosa di
[ 9 ]
302 nunzia d’antuono
del patrimonio archeologico-culturale. È utile rammentare che Settembrini
descrisse il lavoro di Fiorelli quando l’archeologo era ancora
impegnato a Pompei. Dopo aver visitato gli scavi archeologici ne elogiò
l’“ordine”, la “nettezza”, la “disciplina” applicata in ogni cosa, con
osservazioni ironiche e sferzanti:
tutto si conserva, di tutto si fa tesoro, non si porta via un lapillo. Le
mura cadute si ripongono al loro posto mentre che prima si portavan
via per mostrar che maggiore spazio s’era cavato ed avere maggior
compenso, sicché le mura ultimamente scavate sono assai più alte delle
antiche: dov’erano porte, s’è presa con gesso l’impronta del legno
già consumato: i vasi rotti di qualche pregio si restaurano: gli affreschi
sono coperti di cera che li rende più vivi e li difende dalle intemperie,
e sono guardati gelosamente. Per le vie non v’è filo d’erba. […] Ognuno
che entra paga due lire, e niente più ai ciceroni, che sono gentili, ben
vestiti, e discretamente pagati. La domenica libera a tutti l’entrata senza
pagamento. Insomma la città dei morti è tenuta meglio che quella
dei vivi29.
È impossibile negare che alcuni dei problemi affrontati e risolti da
Fiorelli sono tornati, in seguito, prepotentemente alla ribalta. Settembrini
rimase, anche negli anni della maturità, l’uomo diretto e sanguigno
della Protesta del popolo delle due Sicilie, per la quale aveva pagato
con il carcere. Il suo classicismo risiede anche in una incrollabile fermezza
morale, che gli permise di non scendere a patti con il potere
costituito. Nel Dialogo tra Lei e Me aveva ricordato che nella storia civile
e culturale gli unici passi avanti sono stati compiuti per “contrasto”,
perché «non ci è stata e credo non ci possa essere nel mondo nessuna
grande riforma o rivoluzione che non sia nata da un mutamento della
coscienza»30. Egli, come ha più volte sottolineato Marcello Gigante, si
era formato al «gusto discriminato e alla intransigenza stilistica»31 della
scuola di Basilio Puoti, e aveva lavorato con ironia, “alla buona”,
con sincerità e dirittura morale, teorizzando che «chi studia nei grandi
San Martino. Cfr. Raffaello Causa, A proposito della Certosa di San Martino (1).
Nascita di un Museo – Omaggio a Giuseppe Fiorelli, «Napoli Nobilissima», i-ii, (1967),
6, pp. 5-13.
29 L. Settembrini, I pompejani, cit., p. 337.
30 Luigi Settembrini, Dialogo tra Lei e Me, in Id., Dialoghi, a cura di Nunzia
D’Antuono, Bologna, Millennium, 2010, p. 33.
31 Marcello Gigante, Luigi Settembrini, in Id., (a cura di), La cultura classica a
Napoli nell’Ottocento, Napoli, Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia classica
dell’Università degli Studi di Napoli, 1987, pp. 411.
[ 10 ]
settembrini e l’antico 303
scrittori non apprende sola lingua, ma cose massicce, e si avvezza ad
esser galantuomo»32.
Il messaggio delle Lezioni sarebbe stato appannato dal successo ottenuto
dalla Storia del De Sanctis, che puntò ad attenuare i conflitti con
una mediazione necessaria33. Eppure, e ci riferiamo al giudizio di Getto,
il «presentimento»34 della Storia desanctisiana è rintracciabile proprio
nell’opera del Settembrini. Purtroppo, dell’autore delle Ricordanze
è stata tramandata soprattutto la figura di martire ed eroe risorgimentale
e da romanzo, piuttosto che quella di critico e autobiografo.
L’appello ai valori della civiltà classica del mondo greco e latino
evoca soprattutto la lezione civile laica e repubblicana, posta a fondamento
della storia nazionale35. Mondo classico e moderno risultano
inscindibili, perché – scriveva Settembrini – l’arte non è relegata soltanto
nel primo, ma continua a vivere nel secondo e non si esprime
solamente in letteratura, in pittura o nella scultura, ma è ancora nell’azione.
Il giovane Francesco Torraca rintracciò la verace essenza dell’ideologia
del maestro, frequentato negli anni di formazione, molto
prima di diventare allievo prediletto di Francesco De Sanctis, proprio
nel legame col mondo classico, che nelle Notizie su la vita e gli scritti di
Luigi Settembrini vide personificato in Giunone, simbolo di “realtà”, di
“concreto”, di “palpabile”.
Va riconosciuto a Settembrini, a voler tacere di altre questioni, almeno
il merito di aver percepito immediatamente quale e quanta fosse
l’importanza della tutela del patrimonio artistico-culturale, cui ancor
oggi, a corrente alternata, continuiamo ad affidare le sorti di Napoli
e dell’intera regione campana. Di lui dovremmo, oggi, raccogliere
l’invito a «intender l’arte» e a «rifare la vita», metabolizzando il valore
32 Luigi Settembrini, Gaspare Gozzi. Dialogo, in Id., Dialoghi, cit., p. 6.
33 Le Lezioni di Settembrini e la Storia di De Sanctis, lanciate da Morano a Napoli
quasi contemporaneamente tra il 1866 e il 1872, sono portatrici di due tendenze
culturali, che rispondono a diverse opzioni ideologiche: quella dura di un Settembrini
ancora pronto alle barricate si scontrò con De Sanctis, il quale puntò ad
attenuare gli scontri con un risultato di mediazione che rispecchia il suo progressismo
“neocavouriano”. Cfr. Raul Mordenti, Storia della letteratura italiana di Francesco
De Sanctis, in Letteratura italiana. Le Opere, iii. Dall’Ottocento al Novecento, a
cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1995, p. 586.
34 Giovanni Getto, Storia delle storie letterarie, nuova edizione a cura di Clara
Allasia, Napoli, Liguori, 2010, p. 205.
35 N. D’Antuono, L’Asino che ride, cit., p. 135. Si veda anche Francesco Torraca,
Notizie su la vita e gli scritti di Luigi Settembrini, Napoli, Morano, 1877.
[ 11 ]
304 nunzia d’antuono
di cosa pubblica proprio della classicità, recuperando un sistema etico-
culturale talvolta eluso.
Nunzia D’Antuono
Università di Salerno
[ 12 ]
Francesca Longo
Componenti visive e arti figurative in Kaputt
fra non fiction e fiction
L’articolo si propone di dimostrare che il ricorso alle immagini, la spiccata tendenza
alla visività e i riferimenti alle arti figurative in Kaputt costituiscono non
soltanto una componente imprescindibile del tessuto narrativo e un principio
di organizzazione testuale, ma anche un’efficace strategia di cui Malaparte sapientemente
si avvale per trasformare la non fiction in fiction e per trasfigurare
la realtà.

This article aims to show how the use of images, a strong tendency towards
visual representation and references to the figurative arts in Kaputt constitute
not just an essential part of the narrative structure and a principal of textual
organisation, but also an effective strategy employed dexterously by Malaparte
in order to transform nonfiction into fiction and to transfigure reality.
Kaputt (1944) si presenta come un testo ibrido1 nel quale i dati di
realtà e gli elementi d’invenzione risultano così inestricabilmente intrecciati
da rendere complesso – persino oggi, in un panorama nel
quale il non fiction novel sta acquisendo vasta diffusione a livello editoriale
e sempre meno incerta fisionomia a livello critico – un tentativo
di classificazione, di inquadramento nei generi letterari tradizionali.
Prendendo le mosse da una definizione in negativo, nel 1968 Grana
afferma che non si tratta «in nessun modo di un “romanzo” di concezione
tradizionale, neppure un romanzo autobiografico, e tanto meno,
Autore: Università degli Studi di Torino; dott.ssa magistrale; francesca.longo@
edu.unito.it
1 Discorso analogo per La pelle (1949). Un interessante precedente – quasi un
laboratorio delle successive ibridazioni malapartiane – può essere individuato in
Téchnique du Coup d’État (1931), «storia romanzata» e «libro inchiesta» secondo
Giorgio Luti, Malaparte tra le due guerre: politica, giornalismo e letteratura, in Curzio
Malaparte: il narratore, il politologo, il cittadino di Prato e dell’Europa, Atti del Convegno
Prato, giugno 1998, a cura di Renato Barilli e Vittoria Baroncelli, Napoli,
CUEN, 2000, pp. 21-22.
306 francesca longo
di un resoconto o diario di guerra»2. Trent’anni dopo anche Barilli si
schiera a favore di una negazione dello statuto romanzesco al testo,
giungendo a rilevare in esso una mancanza di invenzione e ravvisando
in Kaputt e ne La pelle le sezioni di «una sorta di unica, illimitata
autobiografia»3. Posizione forse troppo netta, dalla quale prende le
distanze Biondi, il quale, accennando ad un altro fondamentale termine
della questione, la discendenza di Kaputt dai reportages giornalistici
de Il Volga nasce in Europa, rimarca che il Malaparte di Kaputt «non è
un “reporter” che riporta, ma uno scrittore che depreda la realtà della
sua selvaggina e la cuoce sempre a suo modo»4. Si potrebbe allora ricorrere
ad una formula definitoria attuale, sintetica e calzante: quella
di fiction based on facts, cui esplicitamente ricorrono Martellini5 e Lagioia.
Quest’ultimo spende sul carattere ibrido de La pelle considerazioni
estendibili a Kaputt («tutto […] è raccontato sì con lingua letteraria, ma
sostituendo i codici del romanzo con quelli del reportage, della cronaca
storica e giornalistica»), individuando un’anticipazione delle «pur
diverse forme ultraoceaniche di gonzo- e new-journalism»6 e di due
linee italiane di narrativa referenziale-finzionale, la fiction based on
facts e l’autofiction7, rappresentate rispettivamente (per indicare almeno
due titoli fra i più significativi) da Gomorra di Roberto Saviano e da
Troppi paradisi di Walter Siti8. Nel primo caso l’eredità malapartiana si
riscontrerebbe nell’utilizzo di fatti reali per la descrizione di una «gal-
2 Gianni Grana, Malaparte, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 74.
3 Renato Barilli, Malaparte solo un cronista (anche Dante lo fu), «L’Unità», 19
luglio 1997.
4 Marino Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, in Curzio Malaparte: il
narratore, il politologo, il cittadino di Prato e dell’Europa, cit., p. 231.
5 Luigi Martellini, Introduzione, in Curzio Malaparte, Opere scelte, a cura di
Luigi Martellini, con una testimonianza di Giancarlo Vigorelli, Milano, A.
Mondadori, 1997, p. LXXI e Id, Stato attuale delle opere di Malaparte, in Curzio Malaparte:
il narratore, il politologo, il cittadino di Prato e dell’Europa, cit., p. 346.
6 Nicola Lagioia, Il libro maledetto, «Minima et moralia», 11 gennaio 2001,
http://www.minimaetmoralia.it/wp/il-libro-maledetto/.
7 Se si segue la definizione di autofiction fornita da Raffaele Donnarumma,
Ipermodernità: dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 130
(«una narrazione in cui, come in un’autobiografia, autore, narratore e protagonista
coincidono; ma in cui, come in un romanzo, il protagonista compie atti che l’autore
non ha mai compiuto, e ai fatti riconosciuti come empiricamente accaduti si
mescolano eventi riconoscibili come non accaduti»), i requisiti per l’appartenenza
al genere autofinzionale risultano in effetti rispettati.
8 Per una riflessione sull’intreccio di verità e finzione in Gomorra e in Troppi
paradisi si veda R. Donnarumma, Ipermodernità: dove va la narrativa contemporanea,
cit., pp. 126-127, 190-191, 219.
[ 2 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 307
leria di orrori» nella quale la voce narrante «diventa ambigua e problematica
quanto più pericolosamente si approssima al Male, fino a
distorcersi e a subirne la fascinazione, denunciandone così […] i rischi
di contagio»9; nel secondo, nella presenza di un io narrante che «si
appropria del nome del suo autore servendosi di quest’ultimo come
personaggio letterario»10.
Se ci si volesse concentrare sugli aspetti finzionali di Kaputt, non
sarebbe difficile menzionare un cospicuo numero di episodi che l’autore
ha distorto e nei quali ha introdotto elementi d’invenzione. Ne
basti una ristretta rassegna: Malaparte non assistette di persona al pogrom
di Jassy, di cui descrive con vividezza la ferocia come se ne fosse
stato testimone oculare11; il ministro spagnolo in Finlandia, il conte
Augustín de Foxá, si distingueva per allegria e socievolezza, caratteristiche
che avrebbero creato una nota stridente nel ritratto delineato
dallo scrittore, che lo vuole campione di una cultura spagnola tutta
declinata in senso barocco, crudele e funereo12; il dittatore croato Ante
Pavelić non ricevette mai in dono un paniere di occhi cavati dai suoi
ustascia a malcapitati serbi13; per concludere con un celebre episodio
de La pelle, il cane Febo non morì fra i tormenti della vivisezione, ma si
spense dolcemente nella villa di Capri14. In casi quali quelli citati Malaparte
deforma il dato reale per ottenere un effetto di meraviglia, di
shock, talvolta di orrore, per far emergere una verità soggiacente agli
9 Altro punto di tangenza con Gomorra un io onnipresente e che si qualifica
«come un testimone, come la figura di mediazione tra il mondo del racconto e il
mondo del lettore» (R. Donnarumma, Ipermodernità: dove va la narrativa contemporanea,
cit., p. 191). Sulla«testimonianza malapartiana» che «si esprime innanzitutto
nell’atto del vedere e del descrivere» cfr. G. Grana, Malaparte, cit., p. 77; sulla
«ubiquità di testimone onnisciente» cfr. M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento,
cit., p. 241; su Malaparte «formidabile accentratore in sé di ogni testimonianza
» cfr. Giorgio Barberi Squarotti, L’allegoria degli orrori della guerra, in Curzio
Malaparte: il narratore, il politologo, il cittadino di Prato e dell’Europa, cit., p. 297.
10 N. Lagioia, Il libro maledetto, cit.
11 Cfr. Curzio Malaparte, Kaputt, Milano, Adelphi, 20098, pp. 117-155 e Maurizio
Serra, Malaparte: vite e leggende, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 299-300.
12 Cfr. C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 196 e M. Serra, Malaparte: vite e leggende,
cit., p. 340.
13 Cfr. C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 296 e M. Serra, Malaparte: vite e leggende,
cit., p. 354.
14 Cfr. Curzio Malaparte, La pelle, Firenze, Vallecchi, 19653, pp. 137-138; M.
Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 354; Jean Noël Schifano, Napoli e “La pelle”,
in Malaparte scrittore d’Europa, Atti del Convegno Prato, 1987, coordinazione di
Gianni Grana, redazione e cura bibliografica di Vittoria Baroncelli, Prato,
Marzorati, 1992, p. 218.
[ 3 ]
308 francesca longo
eventi che solo l’opera d’arte letteraria può cogliere. In Kaputt e ne La
pelle, sospesi come sono «tra umana testimonianza e violento
camuffamento»15, si instaura una dialettica sconcertante fra verità e
menzogna, tanto da creare persino una sottile ambiguità, in particolare
nella sezione I topi, dove non si riesce a comprendere «se l’autore si
sia infiltrato negli ambienti del potere per screditarli e per perorare la
causa dei reietti, oppure abbia deciso di mescolarsi con il popolo e
condividerne le sofferenze al fine di guadagnarsi la materia di un racconto
straordinario e granguignolesco»16. Questi gli esiti di una poetica
del sorprendente che origina dagli anni della collaborazione di Malaparte
alle riviste «900» e «Prospettive», dove trovano sede le sue
considerazioni rispettivamente sul realismo magico bontempelliano e
sul surrealismo francese. Tra il ’40 e il ’41 ripropone la poetica della
surprise, tentando una strada italiana al surrealismo, fondata sull’esigenza
di un’arte che non soltanto meravigli, ma soprattutto ricrei,
reinventi e interpreti magicamente la realtà, in opposizione al realismo
obiettivo, che si limita a rappresentarla17. Forse estrema la posizione
di Kundera, che ritiene Malaparte così inteso alla «poesia
dell’inverosimile» da concentrarsi sulla realizzazione di una potentissima
intuizione estetica in un’opera letteraria che risulterebbe priva di
valore storico e testimoniale18. Più condivisibili le opinioni di Biondi e
Grana, che nell’episodio del pranzo a base di kouskous ne La pelle19 individuano
un realismo dell’inverosimile e una farsa, dove la deformazione
comica e il riso amaro e liberatore scongiurano la caduta nel
morboso20. Si può perciò affermare che per lo scrittore pratese la realtà
15 Giorgio Luti, Malaparte narratore d’inchiesta e di memoria, in Malaparte scrittore
d’Europa, cit., p. 222.
16 Sergio Campailla, Malaparte e la cultura ebraica, in Curzio Malaparte: il narratore,
il politologo, il cittadino di Prato e dell’Europa, cit., p. 69.
17 Sulla mancanza di una vocazione realistica riflette G. Grana, Malaparte, cit.,
pp. 75-6; sulla rimeditazione del surrealismo L. Martellini, Introduzione, cit., pp.
XLIX-L; sulla reinvenzione della realtà nelle raccolte di racconti – Sodoma e Gomorra
(1931), Fughe in prigione (1936), Sangue (1937), Donna come me (1940) – Luigi
Martellini, Racconti di Malaparte, tra memoria e poesia, in Malaparte scrittore d’Europa,
cit., p. 158 e Id., Malaparte narratore, in Id., Nel labirinto delle scritture, Roma, Salerno,
1996, pp. 121 e 167.
18 Cfr. Milan Kundera, La pelle: un arciromanzo, in Id., Un incontro, Milano,
Adelphi, 2009, pp. 170-171 e 180.
19 Cfr. C. Malaparte, La pelle, cit., pp. 223-227.
20 Cfr. M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 237 e G. Grana,
Malaparte, cit., pp. 118-119.
[ 4 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 309
può essere alterata, ma a patto di «preservare il senso di ciò che
indica»21, facendone scaturire il profondo significato di verità poetica.
Malaparte osserva e descrive, vede e racconta «cose viste e trasfigurate,
visive e visionarie»22. Si riconosce indubitabilmente nella sua
scrittura una matrice visiva, da porre in relazione con la particolarissima
sensibilità nei confronti delle arti figurative che emerge dai dati
biografici. Forse figlio naturale dello scultore Trubetzkoy23, fonda giovanissimo
la rivista «Oceanica» (1921), dove trovano spazio le sue riflessioni
sulle avanguardie artistiche del primo Novecento e sulla opportunità
di un ritorno all’ordine: un’esperienza parallela a quella di
«Valori plastici», anche se certamente in tono minore24, che gli consente
di entrare in contatto con la pittura metafisica di Giorgio De Chirico
e Alberto Savinio. Si lega particolarmente al secondo e diventa collezionista
delle sue opere25. Nel 1939 affida la progettazione e la costruzione
di una villa a Capri ad uno dei maestri dell’architettura razionalista
italiana, Adalberto Libera, seguendo fin nei minimi dettagli tutte
le fasi del lavoro26. Il risultato concretizza in forma architettonica gli
aspetti sia di tangenza sia di divergenza dell’estetismo di Malaparte
rispetto a quello dell’odiato ed amato precursore D’Annunzio27, tanto
21 M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 336.
22 M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 226. Sulla dialettica fra
visività e visionarietà si sofferma anche G. Barberi Squarotti, L’allegoria degli orrori
della guerra, cit., p. 294. Sull’importanza della trasfigurazione nell’opera d’arte
sia letteraria sia figurativa si veda Roberto Longhi, Breve ma veridica storia della
pittura italiana, con uno scritto di Cesare Garboli, Milano, Abscondita, 2013, p. 15.
Si noti che Longhi fa della trasfigurazione uno dei cardini della propria teoria estetica.
23 La fondatezza di una simile affermazione è discussa da Giancarlo Vigorelli,
Testimonianza e proposta di revisione, in C. Malaparte, Opere scelte, cit., pp.
XII-XIV.
24 U n confronto fra le due riviste in Anna Panicali, Il dramma della modernità
in Malaparte, in Malaparte scrittore d’Europa, cit., pp. 76-77.
25 Cfr. M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 83.
26 Cfr. ivi, pp. 513-526, vivace descrizione di una visita del biografo alla villa.
27 Su questo aspetto riflettono G. Grana, Malaparte, cit., p. 124 e M. Biondi,
Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 231. Un saggio della distanza che intercorre
fra l’estetismo dannunziano e quello malapartiano è fornito da un confronto fra
le rose che adornano la residenza di Andrea Sperelli, «immerse in certe coppe di
cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa
d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel
tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese» (Gabriele D’Annunzio, Il piacere,
Milano, A. Mondadori, 1965, p. 9), e le rose «nei vasi di Nymphenburg e di
Meissen […] e nell’ampia conchiglia di vetri di Murano» (C. Malaparte, Kaputt,
[ 5 ]
310 francesca longo
che Serra definisce significativamente la villa «Controvittoriale»28.
Nello stesso anno parte per l’Etiopia come inviato del «Corriere della
Sera» e scatta una serie di fotografie per documentare il suo viaggio
dal Lago Tana ad Addis Abeba. Dal materiale, che si distingue «sia per
la qualità fotografica, sia per la capacità di annotazioni di carattere, di
realtà, di umanità»29, affiora la tendenza, che diventerà ancor più viva
in occasione dei reportages anche fotografici realizzati da Malaparte in
Jugoslavia e in Russia durante il secondo conflitto mondiale, ad instaurare
uno stretto e fecondo rapporto fra parola ed immagine. Soggetti
frequenti nelle fotografie del corrispondente i cavalli e le case
distrutte dai bombardamenti, motivi che ricopriranno un ruolo centrale
in Kaputt: le immagini si fanno strumento per stimolare la parola
e «preludono all’andamento concitato e visionario»30 di molte pagine
del libro. Nel 1950 si dedica ad una nuova avventura, il cinema, girando
Il Cristo proibito (nato come romanzo), che l’anno dopo viene favorevolmente
accolto ai Festival di Cannes e Berlino. La pellicola rivela
un senso raffinato del montaggio e una resa pittorica del paesaggio
toscano che non nasconde i suoi debiti nei confronti di Giotto, Masaccio,
Piero della Francesca31 ed oscilla fra il rispetto dei canoni allora
imperanti del neorealismo cinematografico e il loro trascendimento
tramite una «forte carica simbolica»32.
Abbandonando i cimenti malapartiani nella cinematografia e tornando
alla sua opera letteraria, è opportuno insistere sul ruolo insostituibile
svolto dalla figuratività, in particolare in Kaputt e ne La pelle.
Avendo sperimentato, spesso con i proprio occhi, gli orrori della guerra,
Malaparte li sa rendere con tonalità accese e allucinate, dimostrando
una «magistrale bravura descrittiva» nelle «qualità pittoriche dei
cit., p. 300) all’Ambasciata d’Italia sul Wannsee. Nel primo caso, un tocco atmosferico,
a suggerire una sensualità che intride ambienti ed oggetti; nel secondo, l’introduzione
di un motivo simbolico più profondo e dell’asse tematico portante del
cap. Of their sweet deaths, i destini delle rose immortali e di quelle che invece, come
Giuseppina Antinori von Stum, «amano morire» (ivi, p. 300).
28 M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 522.
29 Michele Bonuomo, Malaparte tra parola e immagine, in Malaparte scrittore
d’Europa, cit., p. 250.
30 Ivi, p. 252.
31 Cfr. M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., pp. 438-448, che valuta positivamente
il film, rimarcandone i pregi dal punto di vista tecnico, a differenza dell’altro
biografo, Giordano Bruno Guerri, L’arcitaliano: vita di Curzio Malaparte, Milano,
Bompiani, 1980, pp. 243-249, che non risparmia giudizi negativi anche agli altri
film malapartiani, meno riusciti de Il Cristo proibito.
32 G. Luti, Malaparte tra le due guerre: politica, giornalismo e letteratura, cit., p. 32.
[ 6 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 311
grandi […] quadri simbolici»33. Di una fitta rete di motivi visivi34 –
quando non esplicitamente pittorici – tramati con sapienza è intessuto
Kaputt, dove gli occhi assurgono a tema fondamentale, soprattutto
nella sezione Gli uccelli. Paesaggi, interni, nature morte, ritratti nei
quali l’autore dà prova di abilità compositiva e coloristica si intrecciano
in una «gigantesca tela»35, a rappresentare l’Europa in preda alla
guerra, alla decadenza e alla morte, in un’anticipazione dell’incompiuto
Mamma marcia, pubblicato postumo nel 1959, ultimo capitolo di
quella che si potrebbe considerare una trilogia sulla decomposizione
di un continente-madre36. L’estetismo, il ricchissimo bagaglio di citazioni
dalle arti figurative e decorative e gli insistenti richiami alle tematiche
della degradazione e della morte discendono dal Decadentismo,
un’eredità che Malaparte – se si eccettuano alcuni momenti di
compiacimento morboso per spettacoli rari, inusitati, repulsivi e persino
orribili – riesce a sfruttare superandola, cogliendone le strategie
più sottili37. Infatti, come si cercherà di dimostrare nel seguito, l’estetismo
in Kaputt (e in misura minore ne La pelle) non è quasi mai fine a se
stesso, né funzionale soltanto alla creazione di atmosfere, ma strumento
per la valorizzazione di verità profonde.
Malaparte sa comporre maestosi scenari, fitti di presenze umane,
come nei grandi quadri della Napoli diroccata dai bombardamenti38,
dove non mancano echi manzoniani: «si vedeva un brulicar di gente,
uno stare, un andare, un gesticolare, un raggrupparsi accoccolati per
terra»39. Ma eccelle soprattutto nell’uso del colore. Nel capitolo Le côté
de Guermantes le note coloristiche abbondano nelle descrizioni del paesaggio
svedese e di Parigi, per sottolineare il nesso tematico fra un
Paese che non ha ancora conosciuto l’occupazione tedesca e la città
che ha rappresentato fra fine Ottocento ed inizio Novecento la capitale
delle arti e di una cultura ormai quasi scomparsa, quasi kaputt per-
33 G. Grana, Malaparte, cit., p. 104.
34 Id., Malaparte «europeo»: dall’Europa ripulsa all’Europa Kaputt, in Malaparte
scrittore d’Europa, cit., p. 119, pone l’accento sulla testimonianza che si traduce in
«ossessione visiva».
35 L. Martellini, Introduzione, cit., p. LXVIII.
36 Si vedano in proposito le osservazioni di Sandro Veronesi, L’Europa marcia
di Malaparte e Pasolini, in Curzio Malaparte: il narratore, il politologo, il cittadino di
Prato e dell’Europa, cit., pp. 371-379. Veronesi considera Mamma marcia il capolavoro
di Malaparte.
37 Cfr. G. Grana, Malaparte, cit., p. 114.
38 Cfr. C. Malaparte, Kaputt, cit., pp. 427 e 436-438.
39 Ivi, p. 427.
[ 7 ]
312 francesca longo
ché travolta dagli orrori del secondo conflitto mondiale. Una cultura
che, come la giovinezza del principe Eugenio di Svezia, apprendista
negli ateliers parigini di Puvis de Chavannes e di Bonnat, si può rievocare
fugacemente ma non riportare in vita, come se «ormai Parigi, ai
suoi occhi di pittore, fosse soltanto un colore, la memoria, la nostalgia
di un colore (quei rosa, quei grigi, quei verdi, quegli azzurri
appassiti)»40. Contemplando con il suo interlocutore «le biacche trasparenti,
i vermigli tiepidi, i freddi turchini, i verdi umidi, i celesti lucenti
» del paesaggio svedese41, Malaparte ricorda con struggimento
Parigi, «quei vermigli spenti, quei rosa accesi, quei grigi azzurri delle
nuvole nel delicato accordo col nero sfumato dei tetti di ardesia»42.
Tanto lontana dai colori tenui e impressionistici del capitolo iniziale
ed anzi dominata dalle tinte forti appare la tavolozza della sezione I
topi, quanto distanti le atrocità subite dagli Ebrei nel ghetto di Varsavia
e durante il pogrom di Jassy dalle atmosfere proustiane della Stoccolma
del principe Eugenio. Il bombardamento di Jassy scatena una
violenza che Malaparte traduce anche cromaticamente:
neri brandelli di nuvole, di alberi, di case, di strade, di uomini, di cavalli,
saltano in aria, turbinano nel vento. Un torrente di sangue tiepido
erompe fuor delle nuvole squarciate dalle folgori rosse verdi turchine43.
Ma già nella sezione I cavalli compaiono suggestioni coloristiche
perturbanti, in particolare l’abbinamento giallo-verde, cui Malaparte
ricorre più di una volta per richiamare un’idea di decomposizione e di
morte. In Patriacavallo la presenza onirica della cavalla putrefatta di
Alexandrowka acquisisce consistenza fisica grazie ad una sinestesia
– una delle più efficaci del capitolo – nella quale l’olfatto, il tatto, la
vista si mescolano: «era un fetore molle e grasso, un odore molle e viscido,
profondo, un odore giallo, tutto macchiato di verde»44. Ad un
analogo processo di degrado fisiologico – che inizia già prima del decesso,
è simbolo della situazione delle truppe tedesche sul fronte russo-
finlandese ormai votate alla sconfitta e sancisce l’ultima tappa della
metamorfosi dei carnefici-Sigfrido in vittime-koppâroth – vanno incon-
40 Ivi, p. 40.
41 Ivi, p. 31.
42 Ivi, p. 40.
43 Ivi, p. 146.
44 Ivi, p. 46.
[ 8 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 313
tro gli Alpenjäger del generale Dietl. Oltre ad avere «uno sguardo di
bestia mansueta e rassegnata» e occhi simili a quelli delle renne, essi
mostrano nel viso, nel colore verde e giallo della pelle, […] i segni di
quella lenta dissoluzione […] cui gli esseri umani soggiacciono fatalmente
nell’estremo Nord, di quel senile disfacimento che […] avvolge
il corpo umano, ancora vivo, in quel velo verdognolo e giallo che avvolge
i corpi in putrefazione45.
Ben diverso il ritratto che Malaparte tratteggia dei Finlandesi, che,
pur prostrati dal rigidissimo inverno e dalla fame, non appaiono in
preda al disfacimento: gli stenti causati dalla guerra hanno sì scarnito
i loro visi, ma facendo loro acquisire una fisionomia eroica, dai lineamenti
«duri, ossuti»46 simili a quelli dei protagonisti del poema epico
Kàlevala dipinti da uno dei massimi pittori finlandesi, Gallen Kàllela.
La citazione di artisti, in questo ed in altri casi che si esamineranno nel
seguito, non è quasi mai fine a se stessa: così accade anche nel precedente
proustiano47, dove, ad esempio, i tratti botticelliani nella fisionomia
e nelle movenze di Odette de Crécy48 delineano le caratteristiche
salienti del personaggio e della natura del sentimento che Swann prova
per lei. Si presta al riferimento a celebri ritrattisti la descrizione di
Ilse, dove Malaparte chiama in causa Gainsborough e Goya: «l’ingenuità,
l’orgogliosa tristezza, la languida dignità» che accomunano la
ragazza ai soggetti del primo sono contemperate da «alcunché di
estroso, una capricciosa pazzia» che soltanto il secondo saprebbe rappresentare49.
Anche ne La pelle lo scrittore accosterà la grazia malinconica
di un altro grande artista del Settecento, Watteau, alla perturbante
potenza del Goya dei Capricci e dei Disastri della guerra in una scena
di festa campestre nella quale si staglia il corpo di un soldato moren-
45 Ivi, p. 348.
46 Ivi, p. 62.
47 Sulla eredità proustiana in Kaputt si veda Jean Claude Thiriet, L’influenza
perenne: Malaparte «francese», in Malaparte scrittore d’Europa, cit., pp. 140-145.
48 Swann nota la somiglianza della donna con la figura di Sefora, una delle figlie
di Jetro, nell’affresco delle Prove di Mosè nella Cappella Sistina (cfr. Marcel
Proust, La strada di Swann, Milano, A. Mondadori, 1970, pp. 222-225).
49 C. Malaparte, Kaputt, cit., pp. 287-288. Un commento a questa citazione figurativa
in Victoriano Peña Sánchez, “Kaputt” de Curzio Malaparte: crónica de un
viaje al abismo de la guerra, in El tema del viaje: un recorrido por la lengua y la literatura
italianas, coordinadoras María Josefa Calvo Montoro y Flavia Cartoni, colaboradores
Paolo Gimelli y Marilena Da Rold, Cuenca, Ediciones de la Universidad
de Castilla-La Mancha, 2010, p. 164.
[ 9 ]
314 francesca longo
te50. Poco frequenti le notazioni ironiche nei ritratti in Kaputt51, dove
prevalgono le venature tragiche: si pensi a quello dell’«uomo di
Himmler», che sconfina con la natura morta, vista la sconcertante somiglianza
con «il teschio di un agnello»52, a ribadire la centralità nella
sezione I topi della riflessione antropologica sui temi della «paura tedesca
» dei deboli, del sacrificio degli innocenti e della trasformazione
dei carnefici in vittime. Quest’ultimo motivo, in particolare, viene ne I
topi soltanto accennato per poi emergere in modo patente ne Le renne.
Tutto il libro, del resto, è disseminato di riferimenti alla sofferenza animale,
che si configura come una costante utilizzata da Malaparte al
fine di articolare il testo in una struttura omogenea e coerente e di arginare
le spinte centrifughe causate dalla presenza potenzialmente
dispersiva di sotto-narrazioni. Questa costante e il ricorso a cornici
conviviali in apertura e in chiusura di ogni sezione, ad un io narrante
onnipresente e a fitti riferimenti visivi costituiscono le strategie adottate
da Malaparte per ricondurre ad unità il suo racconto di racconti.
La tematica del sacrificio assume una valenza cristologica53 esplicita
nel sogno della crocifissione del Cristo-cavallo54 o nella visita al Golgota
delle renne55, più velata nella serie di nature morte rappresentate
dalle pietanze a base di selvaggina imbandite alla tavola del Generalgouverneur
di Polonia Frank e del governatore Fischer: un cinghiale,
un’oca e un daino56.
Si passeranno ora in rassegna i periodi e i movimenti artistici dai
quali Malaparte attinge più frequentemente. Nei ritratti di soldati della
Wehrmacht e di gerarchi nazisti prevalgono i riferimenti al gotico
tedesco, a rimarcare un tipo di bellezza al quale si accompagnano
sempre la durezza e l’inesorabilità: il reggente Stahl ha un «freddo e
50 Cfr. C. Malaparte, La pelle, cit., p. 149.
51 Discorso analogo per La pelle. Ci si limiterà a menzionare un’eccezione notevole:
nella descrizione di Mrs. Flat le affinità con le Madonne del Quattrocento
toscano si accompagnano a quelle con «certe immagini colorate di Vogue o di Harper’s
Bazar per la pubblicità di qualche Institut de Beauté o di qualche fabbrica di
conserve alimentari» (ivi, p. 168).
52 Id., Kaputt, cit., p. 91. Il senso di sconcerto si acuisce riportando alla mente
raffigurazioni come l’Agnus Dei di Francisco de Zurbarán (straordinario autore
barocco di nature morte finalizzate alla meditazione religiosa), dove campeggia
l’animale cristologico per eccellenza.
53 Cfr. M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 355.
54 Cfr. C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 71.
55 Cfr. ivi, pp. 372-373.
56 Cfr. ivi, pp. 83, 86, 113.
[ 10 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 315
tagliente viso gotico»57, le SS un «gotico viso glabro e tagliente»58, «un
gotico viso triangolare, dal mento aguzzo, dal profilo tagliente»59. Lo
scrittore ha forse in mente in particolare la scultura lignea del Medio
Evo germanico60, nella quale prevalgono i tratti netti e spigolosi di una
bellezza crudele, da «Angelo annunziatore della collera di Dio»61, quale
appare il giovane della Guardia Nera agli Ebrei del ghetto di Varsavia.
La stessa implacabilità, che Malaparte ritiene connaturata nell’animo
tedesco, si riscontra nell’ossessione analitica con la quale il generale
von Schobert scruta il campo di battaglia nella pianura a sud-est
di Kiew – quasi una «lastra di rame» pronta a ricevere l’azione del
bulino – e che ricorda quella delle incisioni düreriane. È il Dürer della
«secca precisione», della «cura, tutta gotica, dei particolari» anche minutissimi62.
Nessuna traccia, in Malaparte, del Dürer che oltrepassa il
gotico nordico per approdare, dopo i viaggi nella penisola ed il folgorante
incontro con l’arte rinascimentale italiana, a quella che è forse
l’espressione più alta dell’Umanesimo tedesco, quella che Thomas
Mann – il quale per il pittore di Norimberga nutre una vera e propria
venerazione – considera uno dei capisaldi della Kultur germanica63.
Affascinanti le pagine manniane sul Dürer campione di autosuperamento,
autodisciplina, tormento interiore, ansia di esattezza ed esigenza
di assoluto, perfetta incarnazione della maestria tedesca64: tut-
57 Ivi, p. 89.
58 Ivi, p. 269.
59 Ivi, p. 279.
60 Il richiamo viene esplicitato a proposito della fisionomia del generale Dietl:
cfr. ivi, p. 347.
61 Ivi, p. 107. La comparazione malapartiana è analizzata da S. Campailla,
Malaparte e la cultura ebraica, cit., p. 72. Per M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento,
cit., p. 235 si tratta di «angelismo perverso».
62 C. Malaparte, Kaputt, cit., pp. 235-236.
63 Cfr. Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di Marianello
Marianelli e Marlis Ingenmey, Milano, Adelphi, 19972, pp. 22, 162, 172, 539. G.
Grana, Malaparte, cit., p. 85 vede in Malaparte e Mann due profondi conoscitori
dello spirito tedesco.
64 Cfr. Thomas Mann, Dürer, in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di
Andrea Landolfi, con un saggio di Claudio Magris, Milano, A. Mondadori,
1997, pp. 993-996 e Id., La professione di scrittore tedesco nel nostro tempo, in Id., Nobiltà
dello spirito e altri saggi, cit., pp. 1605-1607. Per una suggestiva disamina delle
influenze düreriane sul pensiero e sulla scrittura di Mann si veda Ulrich Finke,
Dürer and Thomas Mann, in Essays on Dürer, edited by Charles Reginald Dodwell,
Manchester, Manchester University Press, 1973, pp. 121-146, che si concentra sul
rispecchiamento manniano nel «nordic Germanic bourgeois Dürer-oriented moralistic
ethos» (p. 129).
[ 11 ]
316 francesca longo
tavia lo spirito tedesco in Kaputt è decaduto da simili vette, pervertito
dalla paura e dalla crudeltà. E se Malaparte dichiara «la Germania è
un paese di alta Kultur», non è che per amara ironia nei confronti di un
potere che con metodica ferocia cerca di perseguire lo sterminio degli
Ebrei65. L’esistenza condotta da questi ultimi nei ghetti di Varsavia,
Cracovia, Czenstochowa e il pogrom di Jassy richiamano un ben diverso
mondo figurativo, quello di Marc Chagall. Jassy, sconvolta dai
bombardamenti,
sembrava un paesaggio dipinto da Chagall. Il cielo ebreo di Chagall,
popolato di angeli ebrei, di nuvole ebree, di cani e di cavalli ebrei, dondolantisi
a volo sulla città. I suonatori ebrei di violino seduti sui tetti
delle case, o librati in un cielo pallido a picco sulle strade66.
Malaparte individua quale motivo dominante nell’opera del pittore
russo il volo, una surreale leggerezza che permette ai personaggi di
innalzarsi sugli orrori della Storia. Diventano così figure chagalliane
anche i bambini ebrei perché, come il protagonista dice a Frank, non
camminano ma «hanno le ali»67.
Assai vicino alle scelte stilistiche ma anche al bagaglio di memorie
figurative dello scrittore è l’Espressionismo tedesco con i suoi precursori
Bosch e Brueghel, cui lo accomunano i «modi polemici di esasperazione
drammatica e deformazione ironica del reale» e le «rivelazioni
ossessive di crudeltà e brutture iperboliche», segno di una «violenza
programmatica su una realtà quotidiana ripudiata»68. Memorabile, a
questo proposito, la descrizione del sinistro convito nella Deutsches
Haus in Polonia, dove lo scrittore ritrova «intorno alle tavole, riccamente
imbandite, le nuche, i ventri, le bocche, gli orecchi disegnati da
Grosz: e quegli occhi tedeschi freddi e fissi, quegli occhi di pesce»69. I
coniugi Fischer sulla scalinata del palazzo Brühl di Varsavia sembrano
«due massicce statue di carne»70 e incombono come una cantante alla
ribalta con il braccio alzato e la bocca spalancata, forse una distorsione
in direzione espressionistica del modello iconografico della Cantante
con guanto di Degas. Per limitarsi ad altri due esempi, i cavalli intrap-
65 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 112.
66 Ivi, p. 149.
67 Ivi, p. 115. Sulle presenze chagalliane in Kaputt si veda M. Serra, Malaparte:
vite e leggende, cit., pp. 345-347.
68 G. Grana, Malaparte, cit., p. 79.
69 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 84.
70 Ivi, p. 100.
[ 12 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 317
polati nel ghiaccio del lago Ladoga ricordano una scena dipinta da
Bosch (forse un particolare de Il trittico del Giardino delle delizie)71 e le
schiere di nani, gobbi e storpi ne La pelle richiamano Brueghel72. Il gusto
per la deformazione spinto fino ai limiti del mostruoso si manifesta
più acutamente ne La pelle, in particolare nella scena del processo
dei feti73, che Grana definisce «l’ultima creazione di una torbida fantasia
grottesca e raccapricciante»74. Ma già nel capitolo Il sangue, quasi
anello di congiunzione fra Kaputt e La pelle, il catalogo delle «orde
plutoniche»75 di uomini e donne deformi che a causa dei bombardamenti
fuoriescono dai luoghi oscuri e segreti nei quali vivono per poi
immergersi nell’oscurità delle gallerie sotterranee di Napoli76 rivela
una sensibilità per il bizzarro e il mostruoso che si situa al confine fra
espressionismo e barocco. Fra questi due territori si muove anche un
altro grande esponente delle poetiche di deformazione della realtà,
Carlo Emilio Gadda, che, pur non conoscendo gli eccessi teratologici
di Malaparte, gli è prossimo nei riferimenti figurativi77.
Quanto all’interesse dello scrittore per il Barocco, si noti che esso si
manifesta già nell’articolo La folie du «Seicento» italien, risalente al 1927,
dove si evoca «l’immenso popolo cencioso […] che brulica nelle stampe
di Callot»78, progenitore della «folla cenciosa» della Napoli de Il
sangue79. Nel capitolo conclusivo di Kaputt e ne La pelle le miserie e gli
stenti del popolo partenopeo sono ritratti con la potenza del Caravag-
71 Cfr. ivi, p. 67. Sul riferimento a Bosch si veda Bertrand Poirot Delpech,
Malaparte europeo esemplare, in Malaparte scrittore d’Europa, cit., p. 215.
72 Sulle citazioni bruegheliane si vedano M. Biondi, Malaparte e le guerre del
Novecento, cit., p. 238 e M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 372.
73 Cfr. C. Malaparte, La pelle, cit., pp. 258-263.
74 G. Grana, Malaparte, cit., p. 113.
75 M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 229.
76 Cfr. C. Malaparte, La pelle, cit., pp. 429-432.
77 L’Ingegnere vede in Bosch un esempio di «maccheronea» (Carlo Emilio
Gadda, Fatto personale…o quasi, in Id., I viaggi la morte, in Id., Saggi Giornali Favole e
altri scritti I, a cura di Liliana Orlando, Clelia Martignoni, Dante Isella, Milano,
Garzanti, 2008, p. 499) e il precursore di uno dei pittori da lui più amati, il
pre-espressionista James Ensor, come si evince dalla recensione Una mostra di Ensor,
in Id., I viaggi la morte, cit., pp. 587-594. L’affinità con Brueghel e Bosch è comune
anche a Ferdinand Céline, come rileva Lorella Libeccio, Céline, Malaparte.
Malaparte, Céline: una poetica del disincanto, «Cahiers d’études italiennes [Online]»,
2017, n. 24, http:// cei.revues.org/3424.
78 Curzio Malaparte, La folie du «Seicento» italien, «900», 1927, n. 3, p. 101.
L’articolo è commentato da Morena Pagliai, Malaparte e i miti della Controriforma,
in Malaparte scrittore d’Europa, cit., pp. 56-59.
79 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 432.
[ 13 ]
318 francesca longo
gio delle Sette opere di Misericordia, capolavoro del primo soggiorno
napoletano del maestro80. Un’altra figura di spicco della pittura barocca
a Napoli, Luca Giordano, è chiamata in causa nella straordinaria
pagina de La pelle sulla sirena-bambina servita in tavola, in una sottile
rete di corrispondenze, tutte giocate sul tema marino, con il Trionfo di
Venere dipinto sul soffitto della sala da pranzo81. Ma l’umore barocco
di Malaparte emerge soprattutto nell’ossessione per le atmosfere funebri
(«non può essere che effimera la durata della carne, della vita, il
cui risvolto è baroccamente la putredine»)82, per tacere degli orribili
spettacoli di morte83: la guerra, del resto, è «della natura l’epifania più
deforme e barocca»84. Il senso del macabro, del mortuario apparenta la
pittura napoletana del Seicento a quella spagnola coeva, dalla quale
Malaparte riceve molteplici suggestioni. In Kaputt ricorre più di una
volta l’accostamento arte iberica-morte, come emerge esemplarmente
dalla conversazione fra il protagonista, il ministro di Svezia Westmann
e il conte de Foxá, che non a caso si presenta «crudele e funereo
come ogni buon spagnolo»85 e
parla […] dei cadaveri vivi del Greco, dei volti putrefatti dei Re e dei
Grandi di Spagna dipinti dal Velázquez sullo sfondo di orgogliose architetture
d’oro, di porpora e di velluto, nella penombra verde e dorata
di regge, di chiese, di conventi86.
Per menzionare un solo precedente iconografico probabilmente
noto a Malaparte, si pensi al Ritratto del cardinale Tavera, dipinto da El
Greco grazie all’ausilio della maschera mortuaria del prelato, il cui
volto si staglia con un pallore cadaverico nel fondo oscuro87. De Foxá
80 Scena da «quadrivio napoletano», ripresa «dalla verità nuda di Forcella o di
Pizzofalcone» (Roberto Longhi, Caravaggio, in Id., Da Cimabue a Morandi, Saggi di
storia della pittura italiana scelti e ordinati da Gianfranco Contini, Milano, A.
Mondadori, 201112, p. 868).
81 Cfr. C. Malaparte, La pelle, cit., pp. 175-176. Per una riflessione sull’ekphrasis
pittorica ne La pelle cfr. Elisa Martínez Garrido, Tra scrittura e immagine: “La
pelle” di Curzio Malaparte, «Forum Italicum», L (2016), n. 3, pp. 1143-1160.
82 M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 245.
83 Si pensi alla descrizione degli Ebrei morti di Varsavia e di Podul Iloaiei: cfr.
C. Malaparte, Kaputt, cit., pp. 154 e 184-5 e le considerazioni di G. Grana, Malaparte,
cit., p. 88.
84 M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 236.
85 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 196.
86 Ivi, p. 205. I due pittori compaiono, questa volta senza suggestioni funebri,
nel ritratto di Consuelo ne La pelle, cit., pp. 194-195.
87 Cfr. El Greco. Identità e trasformazione, catalogo della mostra (Madrid, Museo
[ 14 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 319
cita poi un grande erede degli spagnoli del Seicento, Goya, che, come
già notato, risulta prossimo all’immaginario di Malaparte ed affine
alla sua sensibilità, tanto che a ragione il biografo Serra ravvisa in Kaputt
una versione letteraria e novecentesca delle incisioni dei Disastri
della guerra88.
Il fasto dello scenario «sensuale e funereo»89, sovraccarico di oggetti
d’antiquariato, della sala da pranzo della Legazione di Spagna a
Helsinki conduce all’ultimo capitolo di questa rassegna: le arti decorative.
Gli ambienti di Kaputt, nelle cornici soprattutto, sono disseminati
di mobilia pregiata, argenteria, broccati, arazzi, cristalli, vetri di Murano,
porcellane di Meissen e di Nymphenburg90. Non si tratta, in questi
casi come in quelli precedenti, relativi alle arti maggiori, di superficiale
estetismo, ma di una strategia adottata per suggerire temi centrali
della narrazione e per svelare significati profondi91, in analogia con
l’operazione condotta da Filippo Tuena – scrittore, storico dell’arte e
antiquario – ne Le variazioni Reinach (2005)92. Del resto, le rapine perpetrate
ai danni dei nobili polacchi dagli antiquari al seguito della Wehrmacht93
non possono non richiamare alla mente i sequestri delle proprietà
della famiglia Camondo-Reinach ad opera degli occupanti tedeschi.
Gli espropri non risparmiano i vasi di Sèvres e le commodes,
destinati ad essere «inviati all’Est con uno dei molti convogli che stanno
spogliando la Francia di cose e di esseri umani»94, e neppure il Portrait
de la petite Irène (madre di Bèatrice de Camondo) di Renoir, cuore
della struggente ekphrasis contenuta nella Variazione sul ritratto d’Irène95.
Thyssen-Bornemisza, 3 febbraio-16 maggio 1999), a cura di José Álvarez Lopera,
Ginevra-Milano, Skira, 1999, pp. 444-445.
88 Per l’influenza di Goya su Malaparte si veda M. Serra, Malaparte: vite e leggende,
cit., pp. 335-338.
89 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 246.
90 La quasi onnipresenza di queste ultime nella decorazione degli interni delle
cornici di Kaputt è oggetto di autoironia nella scena del pranzo a base di kouskous
ne La pelle, cit., pp. 223-224.
91 Secondo Luigi Martellini, Invito alla lettura di Malaparte, Milano, Mursia,
1977, p. 100, «Malaparte […] dava veramente l’odore dell’Europa morta puntando
una lente d’ingrandimento sui velluti, sui broccati, sui gioielli, sull’argenteria».
92 A ragione Stefania Ricciardi, Filippo Tuena, “Le variazioni Reinach”: una memoria
‘estetica’ della Shoah, «Italianistica», XXXVI (2007), n. 3, pp. 99-107, sostiene
che il «taglio estetizzante» non penalizza il libro, bensì ne rappresenta un pregio
(p. 100).
93 Cfr. C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 92.
94 Filippo Tuena, Le variazioni Reinach, Roma, BEAT, 2015, p. 148.
95 Ivi, pp. 89-91.
[ 15 ]
320 francesca longo
Così, le vicende dei «monatti» del ghetto di Varsavia, «una volta ricchi
e felici», «cresciuti tra mobili di lusso, tra quadri antichi, fra libri, fra
strumenti di musica, fra preziose argenterie e fragili porcellane», che
«ora si trascinano faticosamente sulla neve, i piedi avvolti in stracci, i
vestiti a brandelli»96, sono drammaticamente simili alla caduta dei
Camondo-Reinach «dal potere alla povertà, dall’identità allo zero»97.
In Kaputt i riferimenti alle eleganze antiquarie sono particolarmente
frequenti nelle cornici de I cavalli e de I topi. Nel primo caso essi rimarcano
la distanza fra la dolcezza del vivere ancora possibile nella
Svezia non occupata dai Tedeschi e i disastri del conflitto: Malaparte
sosta «per breve tempo in Svezia, in quell’isola felice in mezzo all’Europa
umiliata e corrotta dalla fame, dall’odio, e dalla disperazione», e
«ritrova il senso della vita serena, il sentimento della dignità umana»98.
Le porcellane di Marieberg e i cristalli di Orrefors – le eccellenze
dell’artigianato svedese che adornano la residenza di Eugenio99 – altro
non sono che relitti di una civiltà raffinata. «Lemuri» di un’Europa
quasi scomparsa100, al pari della principessa Louise Hohenzollern di
Prussia e soprattutto delle figure, tratteggiate in modo indimenticabile,
della principessa polacca Radziwill e del console Sartori, che non
sanno frapporre fra sé e le violenze irragionevoli della guerra che un
fragile diaframma di ironica, signorile compostezza101. Ma forse nessuna
pagina di Kaputt sa rendere il senso dell’estinzione di una cultura,
della decadenza di un intero mondo come la descrizione del palazzo
del Belvedere nel parco di Lazienki a Varsavia, teatro fra il ’19 e il
’20 di un incontro dello scrittore con il maresciallo Pilsudski, emblematico
protagonista della politica polacca fra le due guerre102. Il degrado
del palazzo dalla originaria grazia settecentesca alla volgarità ad
opera degli occupanti tedeschi, che vi hanno collocato oggetti preten-
96 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 107.
97 F. Tuena, Le variazioni Reinach, cit., p. 118.
98 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 33.
99 Cfr. ivi, p. 21.
100 M. Biondi, Malaparte e le guerre del Novecento, cit., p. 228.
101 Folgorante per drammatica ironia lo scambio di battute fra il flemmatico
Sartori, impegnato nella ricerca della salma di una vittima del pogrom, e il Capo
della polizia di Jassy: ««Non ho il tempo di occuparmi di cadaveri,» disse il Capo
della polizia con un sorriso gentile «ho già fin troppo lavoro con i vivi». «Per fortuna
» disse Sartori «i vivi vanno rapidamente scemando di numero, e potrete
prendervi presto un po’ di riposo».» (C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 181).
102 Malaparte conosce Pilsudski svolgendo incarichi diplomatici: cfr. G. Luti,
Malaparte tra le due guerre: politica, giornalismo e letteratura, cit., p. 19.
[ 16 ]
componenti visive e arti figurative in kaputt 321
ziosi, non intonati all’ambiente («massicci mobili olandesi», nature
morte di scuola fiamminga con «una meravigliosa varietà di selvaggina
») o persino di cattivo gusto (un pergolato di glicini che, «orribile a
dirsi, pare vero»103), diventa simbolo del destino dell’intera Polonia e,
su un piano ancor più generale, della rottura di un’armonia da intendersi
in senso universale e non soltanto estetico. L’incantevole grazia
settecentesca è nota dominante anche nella boiserie del Museo Nissim
de Camondo, dedicato alle arti decorative104, e forse non si potrebbero
trovare uno stile e un’atmosfera in contrasto più stridente con gli orrori
del secondo conflitto mondiale.
Se il ricordo, soffuso di citazioni proustiane, di una cultura perduta
e l’estetismo mai superficiale accomunano Malaparte e Tuena, occorre
sottolineare tuttavia alcune divergenze. Innanzitutto, a livello strutturale,
la presenza ne Le variazioni Reinach di un’orditura musicale – assente
in Kaputt105 – giocata su variazioni106, a inseguire le tracce di Léon
Reinach compositeur de musique. In secondo luogo, si nota che Malaparte,
pur essendo un valente fotografo, non acclude mai fotografie, laddove
Tuena non soltanto le incorpora ma le fa diventare testo vero e
proprio, con una funzione centrale e non meramente didascalica: l’immagine
che ritrae Léon Reinach in salotto offre all’autore lo spunto per
una minuziosa descrizione107 che dal dato esteriore prende le mosse
per la penetrazione psicologica del personaggio108 e le fotografie scattate
nel campo di internamento di Drancy formano con il testo della
Variazione sul pazzo e sul fotografo di Drancy109 un organismo unitario.
Infine, gli oggetti di antiquariato in Tuena rappresentano i veicoli della
memoria e i simboli del peso dell’eredità110, due temi cardine ne Le
variazioni Reinach ma di scarso rilievo in Kaputt.
103 C. Malaparte, Kaputt, cit., p. 171.
104 Cfr. F. Tuena, Le variazioni Reinach, cit., pp. 6-13. La visita del Museo ha stimolato
l’autore alla scrittura del libro.
105 Osservazioni sulla netta preponderanza della sensibilità visiva rispetto a
quella musicale in Malaparte in M. Serra, Malaparte: vite e leggende, cit., p. 50.
106 Con una prevalenza del re minore, «la tonalità del vuoto, dell’assenza, della
morte» (F. Tuena, Le variazioni Reinach, cit., p. 75).
107 Cfr. ivi, pp. 87-88.
108 Perciò, «lungi dall’essere gratuito, l’estetismo rappresenta una chiave di accesso
alle latebre umane» (S. Ricciardi, Filippo Tuena, “Le variazioni Reinach”: una
memoria ‘estetica’ della Shoah, cit., p. 104).
109 Cfr. F. Tuena, Le variazioni Reinach, cit., pp. 251-254.
110 Cfr. S. Ricciardi, Filippo Tuena, “Le variazioni Reinach”: una memoria ‘estetica’
della Shoah, cit., pp. 103-104.
[ 17 ]
322 francesca longo
In entrambi i testi le arti visive sono il segno della bellezza minacciata
dal dramma della guerra, della nostalgia per un’armonia che
sembra perduta111. In entrambi, inoltre, esse sono funzionali al passaggio
dalla non fiction alla fiction. Ma, mentre ne Le variazioni Reinach tendono
a concretizzarsi in oggetti portatori di memoria, in testimonianze
documentarie della vita dei personaggi chiamate in causa dall’autore
come garanzia di autenticità e di autorevolezza del suo processo
di indagine e di esperienza rivissuta112, in Kaputt, anche quando il
punto di partenza è un dato effettuale, si fanno strumento di trasfigurazione
della realtà, di reinvenzione immaginosa, simbolica e talvolta
surreale.
Francesca Longo
Università di Torino
111 Analoga la strategia adottata da Gadda ne La meccanica, dove ai feroci spettacoli
delle trincee nel primo conflitto mondiale si contrappone l’eco lontana e
struggente della bellezza, con la rievocazione dei grandi maestri della pittura veneta,
Giorgine e Tiziano in primis. Per citare, poi, un parallelo in ambito musicale,
di fronte al desolante spettacolo della guerra Massimo Mila così esprime in uno
dei suoi saggi mozartiani la nostalgia per l’armonia ordinatrice: «quando il gusto
è offeso dal ferreo imperio della violenza che popola il mondo di disarmonia;
quando le strade stesse delle città offrono immagini sinistre di regresso dal cosmo
nel caos – vuote occhiaie di isolati distrutti, rivelazioni oltraggiose di case sventrate,
disordine di muri abbattuti e di sostegni divelti –, allora questi poemi di suoni
[…] si ergono innanzi al nostro spirito nella loro adorabile euritmia come pure
espressioni della Forma» (Massimo Mila, Programma per un circolo mozartiano, in
Id., Wolfgang Amadeus Mozart, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1980, pp. 170-171).
112 Secondo una movenza tipica del non fiction novel attuale, che si avvale del
realismo documentario e dell’autenticazione del coinvolgimento testimoniale
dell’autore-narratore nelle vicende narrate al fine di fronteggiare l’«angoscia di
derealizzazione» (R. Donnarumma, Ipermodernità: dove va la narrativa contemporanea,
cit., p. 175) che affligge il mondo contemporaneo, dove labile è il confine fra
realtà e finzione.
[ 18 ]
Giorgio Sica
Pantumas. Il fantasma di García Márquez
in Salvatore Niffoi
La straordinaria fortuna di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez ha
spalancato in Italia le porte al realismo magico sudamericano, contribuendo a
un profondo rinnovamento della nostra narrativa, che si manifesta in maniera
evidente almeno a partire dagli anni ’90. In questo saggio analizzo la presenza
di un immaginario e di stilemi cari a Márquez nella scrittura di Salvatore Niffoi
e, in particolare, nel suo romanzo Pantumas, che possiamo leggere come un
omaggio al capolavoro del maestro colombiano.

The extraordinary success of One Hundred Years of Solitude by Gabriel García
Márquez helped establish in Italy South American magical realism, contributing
to a profound renewal of Italian fiction at least from the 1990s onwards. In
this essay I analyse the presence of imaginary and stylistic features typical of
Márquez in Salvatore Niffoi’s writing, especially in his novel Pantumas which
we may define as a tribute to the Columbian writer’s masterpiece.
Lo studio della disseminazione nel tempo e nello spazio di un testo
tradotto o soggetto a una trasmutazione in un altro codice – secondo la
celebre definizione di Roman Jacobson1 – è uno dei campi di studio
più fecondi della moderna comparatistica; e ci rivela, spesso, quanto
fragile sia il destino del genio. Si tratta di un fenomeno irriducibile a
qualsiasi tentativo di previsione e, tanto meno, di schematizzazione;
una sorta di apparente arcano che portava George Steiner a chiedersi:
Perché certi autori, libri, movimenti letterari «passano» (per usare una
locuzione francese) mentre altri rimangano caparbiamente radicati
nella loro lingua d’origine? A dispetto della sua immensa complessità
Autore: Università degli studi di Salerno; ricercatore a tempo determinato,
tipo a, tempo pieno; gsica@unisa.it
1 Roman Jacobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale,
a cura di Luigi Heilmann, trad. di Luigi Heilmann e Letizia Grassi, Milano,
Feltrinelli, 1994.
324 giorgio sica
verbale e lessicale, Shakespeare «passa», persino a livello di fumetto,
nelle lingue del mondo. Invece Racine, dotato secondo me di altrettanta
forza drammatica e a volte persino più adulto per via della sua impareggiabile
capacità di sintesi, non «passa»2.
Probabilmente il ’900 sarà ricordato come «il secolo delle traduzioni
». Da europei ed eurocentrici, negli ultimi cento anni abbiamo assistito
a uno straordinario e rapido allargamento del canone occidentale,
avvenuto secondo direttrici molteplici che hanno finito per convergere,
spesso, in geniali figure di poeti-critici-traduttori in cerca, presso
altre culture e epoche, di strumenti in grado rinnovare la propria tradizione.
L’emblema di questo secolo delle traduzioni e, vale la pena
sottolinearlo, dei traduttori è senza dubbio Ezra Loomis Pound; consapevole
che «all ages are contemporaneous»3, Pound ha rinnovato in
un breve vortice di anni la lingua e le forme della tradizione poetica
anglo-americana attraverso, innanzitutto, le sue straordinarie versioni
di poesie cinesi e giapponesi4.
Dopo il notevole lavoro di Pound, portato avanti nel secondo dopoguerra
da molti poeti della generazione successiva, tra cui spicca il
messicano Octavio Paz5, negli ultimi trent’anni stiamo assistendo a un
altro fenomeno che mi pare assai interessante: parlo di una sorta di
“fabulizzazione” del romanzo contemporaneo occidentale, coniugata
2 George Steiner, Che cos’è la letteratura comparata, Conferenza inaugurale tenuta
all’Università di Oxford nel 1994 (disponibile on-line in italiano sul sito di
Stefano Manferlotti: www.stefanomanferlotti.com)
3 Ezra Pound, Prefazio ad Lectorem Electum, The Spirit of Romance, London,
Dent, 1910.
4 R icordiamo che, studiando da autodidatta l’ideogramma sui taccuini di Ernest
Francisco Fenollosa, Pound costruì un proprio sistema di decifrazione che lo
porterà a tradurre dal giapponese haiku e drammi del teatro No, e poesie di guerra
e d’amore dei maestri cinesi Li Po e Tu Fu che confluiranno in Cathay, definita da
Steiner «la sua opera più ispirata e l’impresa che più si avvicina a giustificare l’intero
programma imagista» (in George Steiner, After Babel: Aspects of Language
and Translation, Oxford, 1975; trad. it. di R. Bianchi e C. Béguin: Dopo Babele.
Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti, 1984, p. 426).
5 Anch’egli traduttore capace di entrare in empatia quasi medianica con il testo
e con l’autore prescelto, Octavio Paz ci ha donato, com’è noto, una versione
incantevole dell’Oku no Hosomichi di Basho, oltre che di numerosi haiku dello stesso
maestro nipponico e dell’altro grande poeta-pittore Yosa Buson, per non parlare
delle sue ultime versioni dal sanscrito e dal cinese, tra i quali lo splendido Trazos de
Chuang-tse. Su Paz e la cultura giapponese si veda il mio Una catena tra Oriente e
Occidente. Octavio Paz, la poesia giapponese e il Renga di Parigi, Salerno-Milano,
Oèdipus, 2014.
[ 2 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 325
a un’esplosione linguistica e tematica dovuta, in primis, al rapido innalzamento
a livello di classici dei maggiori romanzieri del realismo
magico sudamericano, a cominciare da Gabriel García Márquez. Nel
caso di Márquez, la rapidità e l’alta qualità delle traduzioni hanno
contribuito a rendere nel giro di pochissimi anni il suo capolavoro,
Cent’anni di solitudine, il romanzo per antonomasia della contemporaneità.
Il suo successo è stato un formidabile volano all’internazionalizzazione
di altri scrittori che, fino ad allora noti per lo più al solo pubblico
ispanofono, hanno rapidamente acquisito una dimensione mondiale:
da Juan Rulfo a Mario Vargas Llosa, da Julio Cortázar all’amico
Carlos Fuentes il quale, come è noto, lesse in anteprima i primi capitoli
del manoscritto di Márquez, preannunciando il romanzo in una serie
di articoli entusiastici che crearono una forte aspettativa. A mezzo
secolo di distanza dalla sua pubblicazione, possiamo ben dire che il
capolavoro di Márquez costituì la definitiva consacrazione del realismo
magico sudamericano quale corrente più feconda della narrativa
del secondo ’900, favorendo la riscoperta dei suoi padri nobili. Mi riferisco
al venezuelano Arturo Uslar Pietri, al cubano Alejo Carpentier
e al guatemalteco Miguel Ángel Asturias, che vissero a Parigi negli
anni ’20 e ’30 e presentarono al pubblico europeo «esa realidad casi
desconecida y casi alucinatoria que era la de América Latina para revelar
el gran misterio creador del mestizaje cultural»6.
Márquez sarà l’incarnazione letterariamente più feconda, oltre che
il simbolo perfetto di questo «mestizaje cultural», e alla sua penna sarà
destinato svelare il mondo creolo intriso di magia – «el mundo criollo
esta lleno de magia en el sentido de lo inhabitual e de lo increible», come
sottolineava Uslar Pietri7 – che i suoi colti antecessori avevano iniziato
a narrare da un punto di vista ancora parzialmente legato all’ottica
europea. È chiaro che, negli anni ’30, nessuno di loro avrebbe potuto
neanche lontanamente immaginare che, pochi decenni dopo, un loro
‘erede’ sarebbe stato insignito del Premio Nobel per la letteratura.
Il folgorante cursus honorum di Márquez e del suo romanzo – votato
durante il IV Congresso internazionale della Lingua Spagnola, tenutosi
a Cartagena nel marzo del 2007, come seconda opera più importante
mai scritta in lingua spagnola, preceduto solo dal Don Quijo-
6 Arturo Uslar Pietri, Letras y hombres del Venezuela, Caracas, Monte Avila,
1995, p. 259.
7 Ivi, p. 261. Entrambe le citazioni di Uslar Petri sono tratte da Rosa Maria
Grillo, Cinque secoli di cIviltà e barbarie, in L’America Latina tra cIviltà e barbarie, a
cura di R. M. Grillo, Salerno-Milano, Oèdipus, 2006, pp. 224-26.
[ 3 ]
326 giorgio sica
te – sarebbe stato impensabile senza la rapidità e la molteplicità delle
traduzioni di Cien años de soledad. Se al giorno d’oggi la saga dei
Buendía è stata tradotta in oltre quaranta lingue, giova ricordare che,
a pochi mesi dalla pubblicazione, piovvero richieste per la traduzione
in diciotto lingue, tra cui l’italiano.
In Italia l’ammirazione del pubblico, ancor prima che dei critici,
per Márquez è stata immediata, grazie alla tempestiva traduzione di
Enrico Cicogna per Feltrinelli nel ’68, ed è cresciuta di pari passo con
la pubblicazione e la relativa traduzione degli altri capolavori del maestro
colombiano, da Cronaca di una morte annunciata a L’amore ai tempi
del colera, fino all’ultimo, «triste, solitario y final»8 Memoria delle mie
puttane tristi.
Nonostante la clamorosa stroncatura di Pasolini, che aveva dato
del romanzo una lettura superficialmente ideologica9, all’interno del
nostro ambiente letterario il successo di Márquez e dei suoi sodali ha
rapidamente dato vita a interessanti tentativi di trasposizione e adattamento
nella nostra tradizione di quelli che ormai possiamo definire
elementi canonici del realismo magico: un tentativo effettuato soprattutto
da parte di giovani narratori cresciuti leggendo i suoi testi e che,
per una serie di consonanze ‘ambientali’, ha generato ottimi risultati
specialmente in Sardegna. Penso, su tutti, a Sergio Atzeni, Marcello
Fois, Michela Murgia e Salvatore Niffoi: autori che sembrano avere
trovato nel romanzo sudamericano un modello per effettuare un’operazione
di ripresa e di rivitalizzazione della propria tradizione regionale,
di cui valorizzano l’aspetto arcano, l’antica oralità densa di storie
di janas e di giganti, di religiosità popolare e magia, di folli gesti d’onore
e secolari faide familiari. Un’operazione compiuta attraverso un
sapiente reintegro linguistico del dialetto che, spesso in versioni ibridizzate,
sta conoscendo, forse per la prima volta in epoca moderna, un
deciso innalzamento al rango di veicolo privilegiato di espressione di
alta letteratura, e non solo in Sardegna10.
8 La citazione è un omaggio al romanzo d’esordio omonimo dell’argentino
Osvaldo Soriano, uno dei più brillanti scrittori della generazione successiva a
quella di Márquez.
9 «Un altro luogo comune […] è quello di considerare Cent’anni di solitudine
[…] di Gabriel García Márquez un capolavoro. Ciò mi sembra semplicemente ridicolo.
Si tratta del romanzo di uno scenografo o di un costumista, scritto con grande
vitalità e spreco di tradizionale manierismo barocco latino-americano, quasi ad
uso di una grande casa cinematografica americana (se ne esistessero ancora)». Pier
Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, 1979, pp. 127-128.
10 U n altro caso particolarmente significativo, su cui ho in preparazione uno
[ 4 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 327
Non essendo chiaramente possibile affrontare un discorso così
complesso in poche pagine, in questa sede mi soffermerò, dunque,
sull’interessante serie di topoi marquesiani riscontrabili in Pantumas,
ultimo romanzo di Salvatore Niffoi che, in maniera anche piuttosto
scoperta, sembra aver voluto omaggiare in filigrana Cien Años de Soledad,
riprendendone numerosi personaggi e stilemi.
Una premessa è doverosa, e ci aiuterà a comprendere perché il
mondo di Márquez sia sovrapponibile, senza troppe forzature, a quello
dello scrittore sardo: Niffoi è nato e cresciuto a Orani, provincia di
Nuoro; è dunque sardo di Barbagia e la sua narrativa è intrisa del
mondo arcaico e magico di questa regione che è stata e rimane una
delle più restie, nell’intera Europa, ad accordarsi all’unisono della
contemporaneità. Non è un caso che in un suo romanzo precedente,
La leggenda di Redenta Tiria, il primo pubblicato con Adelphi nel 2005,
Niffoi ponga in epigrafe due altri grandi maestri del realismo magico,
nelle sue declinazioni peruviana e brasiliana: il Mario Vargas Llosa de
La guerra della fine del mondo, uno dei romanzi più cupi e apocalittici
dello scrittore di Arequipa, e l’inimitabile João Guimarães Rosa di
Grande Sertão.
Per familiarizzare con la scrittura di Niffoi, vorrei prendere le mosse
proprio da La leggenda di Redenta Tiria, che si presenta, apparentemente,
come una raccolta di racconti brevi ma che, data la circolarità
di personaggi e situazioni, va letto come un romanzo corale. In brevi
capitoletti Niffoi ci presenta il microcosmo di un villaggio al di fuori
del tempo in cui l’elemento principale che accomuna gli abitanti è il
loro essere destinati a suicidarsi per impiccagione, nel momento in cui
ascoltano il richiamo della Voce – ispirata proprio da un passo del citato
romanzo di Vargas Llosa: «come se gli sturassero le orecchie, sentì,
molto chiara, la voce della Madre degli Uomini…»11. Ma lo strano
destino accordato da Niffoi ai suoi protagonisti ricorda anche una celebre
affermazione di Márquez nel racconto giovanile El mar del tiempo
perdido: «Aveva sentito dire che la gente non muore quando deve, ma
quando vuole»12. Una frase che ritornerà, trasfigurata in altra veste,
studio, è la scelta effettuata da alcuni dei maggiori narratori campani contemporanei
del napoletano parlato ai giorni nostri – una lingua, dunque, chiaramente ibridizzata
con un italiano del tutto peculiare – come veicolo principale d’espressione.
11 Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria, Milano, Adelphi, 2005, p. 11.
12 Gabriel García Márquez, Il mare del tempo perduto (1961) ora in La incredibile
e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata, trad. di E. Cicogna,
Milano, Mondadori, 1988, p. 31.
[ 5 ]
328 giorgio sica
secondo quella circolarità di motivi cara a Márquez, nell’affermazione
del colonnello Aureliano Buendía alla madre Ursula: «Non si muore
quando si deve, ma quando si può»13.
Tornando a La leggenda di Redenta Tiria, il suo mondo è un mondo
duro, a tratti spietato, dove gli abitanti sono abituati da tempi immemori
a dover lottare ogni giorno con una terra aspra e arcigna, nella
costante attesa di un destino già scritto. Donne e uomini che si muovono
in una sorta di interregno tra la vita e la morte che ricorda, oltre
alle regioni interne del Brasile dominate dalla superstizione e dalla
magia descritte da Rosa, le atmosfere oniriche della narrativa di Juan
Rulfo, in particolare del suo straordinario Pedro Paramo, il cui protagonista,
Juan Preciado, si avventura nella città desolata di Comala alla
ricerca del padre, Pedro Paramo, in un viaggio in cui la vita e la morte,
il mondo del sogno e la realtà fisica sono inestricabilmente fusi14.
13 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, trad. di E. Cicogna, Milano,
Mondadori, 1989 (I ediz.: Milano, Feltrinelli, 1968), p. 238.
14 Nel suo discorso radiofonico intitolato Asombro por Juan Rulfo, pronunciato
il 18 settembre 2003, Márquez riconosce in maniera commovente il suo debito con
il grande messicano. Ne trascrivo un brano in spagnolo, con una mia traduzione di
servizio (il testo integrale è disponibile on-line: http://www.ciudadseva.com/
textos/teoria/opin/ggm6.htm):
«Mi problema grande de novelista era que después de aquellos libros me
sentía metido en un callejón sin salida y estaba buscando por todos lados una brecha
para escapar. Conocí bien a los autores buenos y malos que hubieran podido
enseñarme el camino y, sin embargo, me sentía girando en círculos concéntricos,
no me consideraba agotado; al contrario, sentía que aún me quedaban muchos libros
pendientes pero no concebía un modo convincente y poético de escribirlos.
En ésas estaba, cuando Álvaro Mutis subió a grandes zancadas los siete pisos de
mi casa con un paquete de libros, separó del montón el más pequeño y corto, y me
dijo muerto de risa: “Lea esa vaina, carajo, para que aprenda”; era Pedro Páramo.
Aquella noche no pude dormir mientras no terminé la segunda lectura; nunca,
desde la noche tremenda en que leí La metamorfosis de Kafka, en una lúgubre pensión
de estudiantes de Bogotá, casi 10 años atrás, había sufrido una conmoción
semejante».
(«Il mio grande problema da romanziere era che, dopo quei libri, mi sentivo
chiuso in un vicolo cieco e stavo cercando dappertutto un varco per fuggire. Avevo
conosciuto bene gli autori buoni o cattivi che avrebbero potuto mostrarmi la via e,
di sicuro, mi sentivo girare in cerchi concentrici, non mi ritenevo soddisfatto; al
contrario, sentivo che mi restavano molti libri in sospeso, ma non trovavo un modo
convincente e poetico di scriverli. Questa era la situazione, quando Álvaro Mutis
salì a grandi falcate i sette piani di casa mia con un pacchetto di libri in mano,
separò dal mucchio il più piccolo e breve e, sbellicandosi dal ridere, mi disse: “Leggi
questo, cazzo, e impara!”; era Pedro Páramo. Quella notte non potei dormire
prima di averlo letto una seconda volta. Mai, dalla notte tremenda in cui lessi La
[ 6 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 329
Per iniziare ad assaggiare la scrittura di Niffoi, leggiamo l’incipit de
La leggenda di Redenta Tiria:
Abaca, abaco, Abacuc… Abacrasta, il nome del mio paese, non lo troverete
in nessuna enciclopedia, e neanche segnalato nelle carte geografiche.
Al mondo non lo conosce nessuno, perché ha solo milleottocentoventisette
anime, novemila pecore, millesettecento capre, novecentotrenta
vacche, duecentoquindici televisori, quattrocentonovanta vetture
e millecentosessantatré telefonini.
Abacrasta è famoso solo nel circondario, dove lo chiamano «il paese
delle cinghie». A Melagravida, Ispinarva, Oropische, Piracherfa, Orotho,
quando passa uno di Abacrasta, si fanno il segno della croce e si
domandano:
«E a quello, quando gli tocca?»
Ad Abacrasta, di vecchiaia non muore mai nessuno, l’agonia non ha
fottuto mai un cristiano. Tutti gli uomini, arrivati a una certa età, fiutano
la fine imminente, si slegano i calzoni come per andare a fare i bisogni,
si slacciano la cinghia e se la legano al collo15.
Una scrittura diretta, capace di collocare il lettore immediatamente
in medias res, in cui possiamo rintracciare echi di Márquez nel tono
favolistico, nella coralità delle voci, nel gusto per i toponimi astrusi, e,
ancor più, nell’utilizzo di due delle tecniche più care al maestro colombiano
e a molti altri adepti del realismo magico: l’iperbole e l’enumerazione.
Nel presentare il microcosmo ai confini dell’irrealtà che fa da sfondo
alle vicende dei suoi protagonisti, Niffoi richiama alla mente del
lettore, in maniera quasi inevitabile, uno dei più celebri incipit marquesiani,
quello del cap. 6 di Cien Años, che descrive le avventure militari
di Aureliano Buendía:
Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate
e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse,
che furono sterminati uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il
maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a
settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione, Sopravvisse a una
dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata a ammazzare un cavallo16.
Metamorfosi di Kafka, quasi dieci anni prima, in una lurida pensione per studenti a
Bogotá, avevo provato una commozione simile»). (La traduzione è mia).
Ricordo anche che con Carlos Fuentes, Márquez sceneggerà nel 1966 una versione
cinematografica del romanzo di Rulfo.
15 S. Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria, Milano, Adelphi, 2005, p. 15.
16 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, cit., p. 103.
[ 7 ]
330 giorgio sica
L’aver destinato tutti gli abitanti di Abacrasta a una morte per impiccagione,
spesso descritta con una comicità nera e straniante, è, inoltre,
un’iperbole che non sarebbe certo dispiaciuta al maestro colombiano.
In questo microcosmo maledetto, inevitabile quanto il suicidio
pesa la balentia, la massima virtù sarda che fonde coraggio e onore e li
esalta fino ai limiti del sacrificio e della crudeltà. Una virtù che, nella
sua pratica estrema, porta distruzione e morte, e che ci appare sorella
della temerarietà dei gauchos di João Guimarães Rosa pronti, come i
pastori di Niffoi, a uccidere a sangue freddo per questioni d’onore.
Come accade nella narrativa del grande brasiliano, anche in Niffoi la
vita si svolge in piccole enclavi ai confini del nulla, dove la natura è
allo stesso tempo madre e matrigna e dove il confine tra realtà e sogno,
tra opera e magia è labile come la vista accecata dal sole nello
sterminato Sertão. Permettetemi, a questo punto, di congedarmi da
Guimarães Rosa con una delle sue frasi più celebri, tratta da Grande
Sertão – anche in questo caso, un romanzo tradotto in maniera egregia
per Feltrinelli da Edoardo Bizzarri, forse il nostro miglior traduttore
contemporaneo: «Sertão é o sozinho»17.
In un contesto analogo, anche se in un’atmosfera per molti versi
più leggera e fiabesca, è ambientato Pantumas che, come dicevo all’inizio,
possiamo leggere in filigrana come un piccolo omaggio al capolavoro
di García Márquez. Anche se a chi accosta le sue storie al realismo
magico Niffoi risponde che nei suoi libri «c’è molto realismo e
pochissima magia»18, a livello tanto stilistico quanto tematico e contenutistico
la matrice latino-americana traspare piuttosto evidente. In
Pantumas l’inizio che ricorda Dona Flor e i suoi due mariti di Jorge Amado
– un fantasma tornato in vita per amore – è pretesto per narrare la
vita di Lisandru Niala. Ma il racconto avverrà solo dopo che il patriarca
dei Niala è già diventato un pantuma, un fantasma. Morto da un
anno, Mannoi Lisandru ritorna, infatti, dal regno dei morti grazie alle
preghiere della moglie Rosaria, che lo aspetta per andarsene insieme a
lui. E anche qui, il motivo del ritorno dal regno dei morti per sconfiggere
la solitudine ci ricorda la decisione dello zingaro Melquiades
quando, di ritorno da un viaggio misterioso, decide di stabilirsi a Macondo:
«Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nel-
17 João Guimarães Rosa, Grande Sertão. Veredas, trad. di E. Bizzarri, Milano,
Feltrinelli, 1964.
18 Francesca Frediani, Il fantasma racconta, recensione a Pantumas di S. Niffoi,
«La Repubblica delle Donne» (16/6/2012). Disponibile on-line: http://ilmiolibro.
kataweb.it/recensione/catalogo/2605/il-fantasma-racconta/.
[ 8 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 331
la morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare
la solitudine»19.
Elevando a regola categorica questa melanconica intuizione marquesiana,
Niffoi stabilisce che a Chentupedes, il suo villaggio, si possa
morire esclusivamente in coppia. Così, il fatto che il vecchio Lisandru
Niala muoia in un incidente sul lavoro, in un giorno in cui nessun altro
suo compaesano, amico o nemico, rende l’anima al Padreterno crea un
precedente a cui è necessario porre rimedio. Il ritorno del vecchio avviene,
dunque, la sera del giorno dei morti del 1964. Pochi minuti dopo,
sulle pareti calcinate della cucina della vecchia casa dei Niala, il
proiezionista Serafinu Marradu srotola le bobine del film della vita del
vecchio Lisandru che intanto, come una sorta di Benjamin Button, ringiovanisce
a mano a mano che la sua storia avanza, fino a tornare bambino
fra le braccia della sua amata Rosaria, prima di affrontare insieme
l’ultimo viaggio. La sua è una storia costellata di eventi drammatici e,
per molti versi, straordinari, molti dei quali sconosciuti ai suoi familiari
e, in particolare, al nipote omonimo, l’undicenne Lisandretto, che fa
da voce narrante. In un misto di incredulità e commozione, il ragazzino
ritrova la sua intera famiglia raccolta nella casa dei nonni e viene
incaricato di riempire costantemente il bicchiere di vino del nonno
che, come intuisce, è tornato per chiudere definitivamente il cerchio
della sua vita e potersene finalmente andare in cielo con la sua amata.
La circolarità del tempo è, come vedremo, un motivo centrale di
Pantumas. Non a caso, il romanzo si apre con la descrizione della fondazione
del villaggio di Chentupedes, che non può non ricordarci la
ormai mitica fondazione Macondo. Il paesino si rivelerà un luogo
estraneo ai mutamenti, dove ogni elemento introdotto dal progresso e
dalla civiltà dei consumi riveste un ruolo del tutto marginale, o quasi
ornamentale, potremmo dire. È un luogo dove la vita atavica dei fondatori
continua fondamentalmente immutata, e questa continuità è
simboleggiata dal costume dello spagnolo che i Niala si tramandano
di padre in figlio. Se volessimo descrivere Chentupedes rubando un
paio di espressioni marquesiane, potremmo dire che, come Macondo,
il villaggio sardo è uno «stato d’animo»20 dove «il tempo passa senza
fare rumore»21; un luogo dove i vivi e i morti convivono in un «tempo
19 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, cit., p. 50.
20 «Macondo no es tanto un lugar como un estado de ánimo», secondo la celebre
dichiarazione di García Márquez al suo amico Plinio Apuleyo Mendoza.
21 Gabriel García Márquez, La mala ora (1962), trad. di E. Cicogna, Milano,
Mondadori, 1988, p. 63.
[ 9 ]
332 giorgio sica
curvo»22, che fa rabbrividire la vecchia matriarca Ursula: «E ancora
una volta rabbrividì constatando che il tempo non passava (…) ma
che continuava a girare in giro»23.
L’immaginario villaggio barbaricino viene, infatti, fondato il 4
marzo 1392 ad opera dell’antenato Lisandru Niala che indossava, per
l’occasione, un raffinato costume donatogli da Don Rogeiro Sanchez
Pineira, un castigliano incontrato agonizzante dal pastore in seguito a
una ferita da arma da taglio. Lisandru lo porta con sé in casa e gli dona
una morte in pace e una degna sepoltura cristiana e, in cambio, il galantuomo
gli dona la sua veste insieme all’ammonizione che «Roba
morta mai moriti!». Questa frase diventa una sorta dei mantra per la
famiglia Niala che la tramanderà di padre in figlio insieme alle vesti
ormai tarlate indossate da Lisandru al momento della fondazione del
villaggio. La descrizione di questo atto costitutivo è un omaggio discreto
alla piccola epopea che portò alla nascita di Macondo. Nel romanzo
di Niffoi, il viaggio delle cinquanta anime che, dopo essersi
messe in cammino, si fermano «un anfiteatro naturale circondato da
monti di granito che si allungavano verso il cielo come tette scolpite
dal vento»24 evoca, seppure in tono minore e anti-eroico ma permeato
da uguale ironia, l’avventura dei ventuno esploratori guidati da José
Arcadio Buendía e sua moglie, e cugina di primo grado, Ursula
Iguarán, costretti a lasciare Riohacha dopo l’assassinio, da parte di
José Arcadio, di Prudencio Aguilar, la cui anima torna, muta e triste, a
tormentare la vita del capostipite dei Buendía. Dopo quattordici mesi
di cammino instancabile nella selva e nelle paludi nel tentativo di raggiungere
il mare, una notte José Arcadio sogna una città fatta di ghiaccio
e ode pronunciare il nome «Macondo», così decide di fermarsi lungo
il fiume dove è accampato. Vi fonda una città che, molti anni dopo,
suo figlio, il colonnello Aureliano, ricorderà così di fronte al plotone
d’esecuzione, nel celeberrimo incipit del romanzo25: «Macondo era allora
un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito
22 Così Cesare Segre definisce il tempo del romanzo di Márquez nel suo illuminante
«Tempo curvo di García Márquez» in I segni e la critica, Torino, Einaudi,
1969.
23 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, cit., p. 328. L’espressione originale:
«daba vueltas en redondo» rende molto meglio l’idea della circolarità che si
perde, purtroppo, nella traduzione.
24 S. Niffoi, Pantumas, cit., p. 17.
25 Un incipit che ricalca un periodo dell’amato Juan Rulfo in Pedro Paramo (Ciudad
de Mexico, 1955, p. 34): «El padre Rentería se acordaría muchos años después
de la noche que la dureza de su cama lo tuvo despierto».
[ 10 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 333
sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto
di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo
era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle
bisognava indicarle col dito»26.
Vari elementi collocano il piccolo villaggio barbaricino su un piano
fantastico analogo a quello del suo modello, inclusa la comicità un po’
straniante che accompagna la scelta del nome, effettuata nell’imbarazzato
silenzio generale da dona Leonora Carbia, moglie di Lisandro
Niala, «femmina di lingua tagliente e di peso forte»27 che conta i cinquanta
fondatori a voce alta e ne moltiplica il numero per i due piedi
di ciascuno. Ma ancor più è intrisa di realismo magico la regola stabilita
dagli abitanti che a Chentupedes si debba morire in coppia per
affrontare meglio il viaggio verso l’aldilà – amanti, amici o rivali non
importa.
Vi è, poi, una specie di aria di famiglia tra i due patriarchi, e la figura
del capostipite dei Buendía pare tornare trasfigurata in quella del
suo discendente barbaricino. Con lo svolgersi della narrazione, Niffoi
si inserisce sempre più scopertamente nel filone del realismo magico
attraverso la trovata del ritorno di Lisandru dal regno dei morti per
farlo assistere insieme ai suoi familiari alla proiezione sui muri di casa
del film della propria vita. Così Niffoi ci descrive la sua rinascita: «Subito
dopo un urlo lamentoso, poi qualcosa iniziò a muoversi tra la
cenere. Era Mannoi Lisandru che resuscitava reincarnandosi come
una pantuma che si riempie lentamente di osso, nervi e sangue»28.
Un evento straordinario che viene vissuto in maniera del tutto naturale
dai familiari di Mannoi, in quella compresenza di mondo dei
morti e mondo dei vivi che è uno dei tratti distintivi della narrativa di
Márquez, come ha ben sintetizzato Ángel Esteban del Campo:
El tema de la muerte domina toda la obra narrativa de García Márquez,
desde sus primeros relatos (…) La obsesión por el mundo de los
muertos en Márquez tiene unas raíces culturales y personales bastante
bien definidas desde la infancia. (…) propone dos tipos de miradas: la
del mundo real hacia el vacío de la muerte, y la del mundo de los
muertos, más real en ocasiones que la primera… 29.
26 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, cit., p. 13.
27 S. Niffoi, Pantumas, cit., p. 16.
28 Ivi, 18.
29 Ángel Esteban del Campo, La muerte en los Doce cuentos peregrinos in «Cuadernos
Hispanoamericanos», 539-40, Madrid (mayo-junio 1995), p. 281-282 («Il
tema della morte domina tutta l’opera narrativa di García Márquez, sin dai suoi
[ 11 ]
334 giorgio sica
Una stessa ossessione domina i romanzi di Niffoi, come abbiamo
accennato ne La leggenda di Redenta Tiria, ma come pure è evidente nel
suo romanzo d’esordio, La vedova scalza. In Pantumas, tuttavia, la morte
è vissuta in un tono più lieve, come dimostra la surreale tavola imbandita
che accoglie il redivivo Lisandru. I suoi parenti, del tutto a
proprio agio con questo ritorno soprannaturale, versano al vecchio
continuamente vino e lo rimpinzano di cibo, mentre si srotola il film
della sua vita, che li porta a scoprire aspetti e vicende segreti della vita
del capofamiglia.
La narrazione dello svolgersi di questa pellicola che, per certi versi,
mi ricorda la progressiva fusione tra vita reale e dramma radiofonico
descritta da Vargas Llosa nella sua La tia Julia y el escribidor, viene intelligentemente
affidata alla voce del nipote, Lisandreddu, che dichiara
di aver scritto questa storia folle e surreale «proprio per non
impazzire»30. Così Niffoi sottolinea l’intreccio tra magia e realtà: «Di
quello che accadde in quelle ore, io porto ancora un ricordo indelebile,
anche se alla fine non riuscivo più a distinguere il film dalla realtà»31.
Lisandreddu, un ragazzino alle soglie della pubertà che assiste allo
spettacolo e alle reazioni dei suoi parenti con sguardo all’inizio impaurito,
poi via via sempre più sorpreso e carico di tenerezza, vive
durante la proiezione della vita del nonno una sorta di improvvisa
maturazione: in una notte il bambino diventa adulto, un adulto carico
del peso e dell’orgoglio di essere discendente di un uomo che ha vissuto
una vita straordinaria, e di cui lui sente di essere la prosecuzione,
in una magistrale intuizione del tempo ciclico:
Il momento del trapasso, quello l’ho vissuto io per conto di mio nonno.
Perché? Perché so di portarmi dentro la sua anima e, dopo quell’esperienza
della notte dei Morti, mi sono convinto che la vita ha una sua
ciclicità, che ad andare e tornare, a vivere e morire, siano sempre le
stesse persone. Solo che, per uno strano scherzo del destino, non sanno
di avere già vissuto, di essere già morte. Io sono mio nonno che racconta
la sua storia e sono anche i miei nipoti che racconteranno la mia.
Cambia il palcoscenico, ma le maschere e gli attori sono sempre gli
stessi32.
primi racconti […] L’ossessione per il mondo dei morti in Márquez ha radici culturali
e personali ben definite sin dall’infanzia. […] propone due tipi di visioni: quella
del mondo reale verso il vuoto della morte, e quella del mondo dei morti, a
volte più reale della prima…). (La traduzione è mia).
30 S. Niffoi, Pantumas, cit., p 21.
31 Ibidem.
32 Ibidem.
[ 12 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 335
Nulla di più simile all’architettura fantastica di Cent’anni di solitudine,
dove questa idea della immutabilità degli attori nonostante i vari
cambi di palcoscenico è stata resa da Márquez con la geniale trovata
– spesso maledetta da tanti suoi lettori – di ripetere ad infinitum i nomi
dei suoi personaggi, in una vera e propria ipotiposi del tempo ciclico.
In Mannoi Lisandru, questo balente che svolge una vita apparentemente
ordinaria, ma in realtà segnata in più momenti dal coraggio e
dal sangue, sembrano convivere il saggio patriarca José Arcadio e lo
spirito ribelle e coraggioso del suo secondo figlio Aureliano, come dimostra
la sua decisione di seppellire il costume dei Niala, «per darci
un taglio con certe minchiate, per seppellire insieme a quel costume
secoli di buoi frustati e pane d’orzo, battorine e morre, vino forte e
strumpe di uomini che si credevano divinità e invece erano solo ragni
tisici che si strappavano la tela con uno sgambetto»33. Una rivolta contro
la tradizione, e le storture e i privilegi di classe che essa comporta,
che assume, nel microcosmo di Chentupedes, un valore sacrilego e
che, una volta compiuta, fa scoppiare in lacrime il nostro protagonista;
e le sue lacrime vengono lavate da una pioggia provvidenziale di
pioggia leggera, che «sapeva d’infanzia dolorosa, di nidi di scricciolo,
di radici cresciute nel buio delle bare, di ossa marce e maniglie di
bronzo consumate nell’umidità. Lo scrosciare monotono di quella
pioggia – continua Niffoi – dava il senso vero della morte, della vita
che continua a scorrere sotto terra, senza nome né cognome»34.
Una scrittura lirica, olfattiva e ‘sinestetica’, capace di descrivere
con estrema delicatezza, come in Márquez, le emozioni più intime dei
personaggi e, in particolare, il sentimento amoroso, come ci dimostra
il tenero amore che Lisandro mantiene sempre per la moglie – un
amore per nulla scontato in una società rude e violentemente maschilista
come quella sarda. Un amore ricambiato fino all’ultimo istante e,
in questo caso, anche post-mortem, che ci fa venire in mente il legame
altrettanto indissolubile di José Arcadio con Ursula, la matriarca dei
Buendía che sopravvive prima alla lucida follia e, poi, alla demenza
finale del marito, mentre è testimone sempre più angosciata del tragico
destino di cinque generazioni di figli e nipoti, fino alla morte, a 120
anni, poco prima dell’apocalissi finale che aveva sempre presentito.
Ma il legame tra i coniugi Niala rimanda anche, discretamente, a
quella che è forse la storia d’amore più celebre della letteratura con-
33 Ivi, p. 80.
34 Ibidem.
[ 13 ]
336 giorgio sica
temporanea, durata anch’essa oltre cinquant’anni, tra Florentino Ariza
e Fermina Daza nell’altra pietra miliare di Márquez, L’amore ai tempi
del colera. Una delle pagine più commoventi del romanzo di Niffoi è
proprio quella in cui è descritta la gioia di Mannai Rosaria per il ritorno
del marito:
Mannai Rosaria invece era calma, perché lo sapeva che lui sarebbe arrivato,
se lo sentiva. Per prima cosa gli ripulì il viso e gli inumidì le
palpebre socchiuse con un lembo di fazzoletto bagnato in acquasanta,
poi gli avvicinò il crocifisso alle labbra: “Vasa a Gesugristu redentu e
redentore!”. Solo dopo trovò la forza per tirarlo su come una sacchetta
e spolverarlo dolcemente con le mani. “Ohi amore meu, ma questa
cosa è vera, cosa successa a noi è? Anche se me lo diceva il cuore che
Dio mi avrebbe accontentato, giuro che non ci sto credendo che sei
tornato a prendermi!”. Per convincersi che non era una visione, mannai
Rosaria gli fece una carezza sulle guance e se lo strinse forte al
petto. Piangeva e rideva, come una bambina ammacchiata per troppa
sorpresa o per colpa di un grande spavento. “Bene torrau, amore meu
adorau! Bene torrau!”35.
Ma non mancano altri elementi pittoreschi che sembrano voler
omaggiare il romanzo di Márquez: il proiezionista Serafinu Marradu,
ad esempio, è stato troppo dotato in quel punto da madre natura ed è
soprannominato in paese Minciaepuleddu (minchia d’asino). Questa
sua sproporzione, che fa fuggire sgomenta perfino «tzia Lirpina Orgomelonte,
la bagassa pubblica di Chentupedes»36 lo costringerà a mantenersi
vergine per tutta la vita, sembra un’ironica inversione del destino
toccato in sorte a José Arcadio II, figlio primogenito di José Arcadio
e Ursula, che ha ricevuto un identico dono. In questo caso, però, a
differenza del povero Serafinu, il rampollo dei Buendía farà felice più
di una abitante di Macondo, a cominciare da Pilar Ternera, la prostituta
per antonomasia della narrativa contemporanea sudamericana, iniziatrice
al sesso di varie generazioni di giovani di Macondo, madre di
figli nati da padri diversi.
Vediamola consolare l’amica Ursula, preoccupata per la sproporzione
del figlio:
In quel tempo andava per casa una donna allegra, sboccata, provocante,
che dava una mano nelle faccende domestiche e sapeva leggere
l’avvenire nelle carte. Ursula le parlò di suo figlio. Pensava che la sua
35 Ibidem.
36 Ivi, p. 116.
[ 14 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 337
sproporzione fosse qualcosa di snaturato come la coda di maiale del
cugino. La donna scoppiò in una risata espansiva che si propagò per
tutta la casa come uno scroscio di vetri. “Al contrario” disse. “Sarà
felice.”37.
Una figura, quella di Pilar Ternera, che Niffoi sembra riprendere
nella sua Luchia la fornicadora (cap. 9), esperta nel dare il piacere con le
mani e con la bocca a tanti uomini di Chentupedes, ma che ha fatto il
voto di darsi una volta sola e poi farsi suora. Il tredicenne Lisandro
verrà iniziato al sesso proprio dalla solare e allegra Luchia, di dieci
anni più vecchia, con cui condividerà il terribile segreto del rapimento
del piccolo Fisieddu a cui ha assistito, e su cui torneremo a breve. I
due ragazzi si ameranno un’unica notte, e all’alba Luchia lascerà le
cose di questo mondo per compiere il suo voto ed entrare per sempre
in convento.
Un altro tratto che accomuna i due romanzi è il continuo ricadere
delle colpe dei padri sui figli; motivo che Niffoi drammatizza nel misterioso
rapimento di Fisieddu, il figlioletto di Tadeu Suveranu ordinato
dalla ricca possidente Dona Juditta Pessoto, per vendicare un’antica
offesa. Un rapimento di cui l’unico testimone sarà Lisandro Niala
appena ragazzino, che verrà impiegato dalla donna come tramite con
il padre del bimbo. La vendetta a sangue freddo escogitata da Juditta,
che era stata platealmente rifiutata da Tadeu e da lui chiamata bagascia,
costringerà il padre di Fisieddu a riparare all’offesa commessa in
gioventù dandole ora, a distanza di anni, un figlio. Tadeu vivrà, dunque,
confinato nell’enorme casa di Juditta per quaranta giorni e quaranta
notti, e sarà costretto a prenderla all’alba e al tramonto, fino a
che la donna non resterà incinta. Una volta riparato il torto, Tadeu e il
figlioletto saranno finalmente liberi, ma Fisieddu uscirà impazzito da
questa terribile esperienza e, dopo mesi di follia, morirà in maniera
atroce nel presepe vivente, dove impersonava Gesù bambino: «Prima
della messa di mezzanotte si gonfiò e diventò nero, pesante e molliccio
come un’immensa bolla di piombo liquido. E poi fece “Bouuum!”,
sparrancando per l’ultima volta le labbra, come se prima di morire
avesse voluto sparare a qualcuno»38.
Un’identica fine toccherà a Dona Juditta e alla creatura che si portava
nel ventre: entrambe moriranno dopo atroci coliche, sotto gli occhi
commossi di Tadeu Suveranu, a cui la donna chiederà un ultimo
37 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, cit., p. 26.
38 S. Niffoi, Pantumas, cit., p. 77.
[ 15 ]
338 giorgio sica
bacio. Ed è con un finale decisamente marquesiano che Niffoi pone
fine a questa triste vicenda: «Tadeu piegò la testa e lei allungò il braccio
per infilargli le dita tra i capelli bagnati. In quel preciso momento
le loro labbra si sfiorarono e l’ultimo alito di vita s’incontrò con quello
della morte. Dona Juditta Pessoto aveva finito di espiare in vita la colpa
di amare un uomo che non era il suo»39.
Non mancano ulteriori elementi comuni col romanzo di Márquez:
potrei citare ancora l’uccisione a sangue freddo da parte di Mannoi
Lisandru di Partemiu Disisperu, colpevole di averlo sfregiato con un
vile attacco a sorpresa durante una lite da ubriachi seguita a una
scommessa, che ricorda l’assassinio da parte del patriarca dei Buendía
del rivale Prudencio Aguilar – e la sua anima che tornerà ad aggirarsi
tristemente per il cortile di casa di Aureliano resta una delle invenzioni
più poeticamente toccanti del romanzo di Márquez.
Come pura l’intrecciarsi della storia locale con la Storia con la S,
così importante in Cent’anni, trova riscontro nella partenza di Lisandru
per la guerra (cap. 19), o meglio nella sua diserzione fortunata e
avventurosa avvenuta di fronte alla stazione da cui partivano i coscritti,
in un momento di profonda lucidità: «Perché sono qui? Per chi sto
partendo? Dove sto andando?», si chiede il giovane già sulla pensilina
del treno che lo avrebbe portato in trincea. E consapevole che la vita è
ben più preziosa della gloria, si decide a giocarsi il tutto per tutto e
corrompe, con i guadagni di un anno di lavoro che si era portato nei
pantaloni, un colonnello che lo lascia fuggire. «Le guerre giuste sono
quelle non fatte!»40 commenta Mannoi Lisandru strizzando l’occhio al
nipote che vede la scena della diserzione del nonno, fino ad allora tenuta
segreta a tutti. E in questa saggezza del vecchio ci sembra di sentire
l’eco del disincanto del colonnello Aureliano Buendía che, dopo
aver guidato le ventuno sollevazioni che conosciamo, si ritira nel suo
laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro, comprendendo finalmente
che «il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto
con la solitudine»41.
Sulla base di questa profonda affinità tra i due romanzi, credo si
possa serenamente considerare Pantumas un omaggio di Niffoi ad uno
dei suoi maggiori maestri. A differenza dell’apocalissi finale di Márquez,
Pantumas si congeda dal lettore con un messaggio consolatorio,
attraverso la descrizione del viaggio dei due vecchi sposi che ascendo-
39 Ivi, p. 78.
40 Ivi, p. 114.
41 G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, cit., p. 210.
[ 16 ]
pantumas. il fantasma di garcía márquez in salvatore niffoi 339
no al cielo insieme. L’intera famiglia prepara il loro funerale, in un rito
ancestrale che fonde il sangue, il cibo e la morte. Coricati insieme sul
carro funebre, i due vecchi «sembravano una persona sola, una Madonna
di Chentupedes col suo marito bambino. Prima di morire, lei se
lo era schiacciato forte al petto, come se avesse voluto portarselo dentro
al cuore»42.
I due vecchi vengono condotti in processione al fiume e la nonna,
con lo sposo bambino in braccio, viene fatta sedere sull’acqua. Mentre
i loro corpi affondano lentamente, «tutti sentirono distintamente
un’invocazione appena sospirata: “Oooohi! Deus meus caru! Voi, che
tutto avete visto e capite, se potete perdonate! Mannai Rosaria morì
davvero solo in quel momento»43.
Al nipote resta tra le mani un palmo di pellicola e la certezza che il
tempo – e forse, insieme al tempo, noi potremmo includere i romanzi
– dà «vueltas en redondo».
Giorgio Sica
Università di Salerno
42 S. Niffoi, Pantumas, cit., p. 170
43 Ivi, p. 171.
[ 17 ]

NUNZIO RUGGIERO
Una vittoriana della Nuova Italia
Mediazione culturale e militanza politica nell’opera
di Fanny Zampini Salazar
Pioniera della battaglia per l’emancipazione femminile nell’Italia postunitaria,
Fanny Zampini Salazar (1853-1937) promosse un intelligente tentativo di sintesi
tra le istanze del cattolicesimo liberale italiano e quelle del riformismo sociale
anglosassone. L’analisi della sua misconosciuta produzione letteraria, in seno
alla civiltà dei traduttori e dei mediatori culturali fiorita a Napoli nel secondo
Ottocento, è essenziale per intendere gli sviluppi della sua lunga carriera di
giornalista, dedita alla costruzione di una rinnovata identità civile per le donne
italiane.

As a pioneer in the battle for women empowerment after the Italian unification,
Fanny Zampini Salazar (1853-1937) proposed an intelligent synthesis between
the principles of the Italian liberal Catholicism and those of social reformism
derived from the Anglo-Saxon tradition. The analysis of her unrecognized literary
activity, within the thriving Neapolitan milieu of translators and cultural
mediators in the second half of the 19th century, is essential to understand her
long career as a journalist, towards the development of the public identity of
Italian women.
Nell’ambito delle ricerche recenti sui meccanismi di produzione e
diffusione della cultura di massa del XIX secolo, si avverte la necessità
di uno studio sistematico sulla conferenza intesa come istituto socioculturale
dell’Italia postunitaria, e come atto retorico che fonde insieme
le dimensioni pedagogica, militante e performativa del discorso
pubblico1. Sappiamo che la funzione storica della conferenza non si
afferma solo come pratica ritualizzata delle élites, ma è altresì indica-
Autore: Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli; prof. Associato;
nunzioruggiero1@gmail.com
1 U n contributo prezioso in tale prospettiva giunge ora con il vol. di Luca
Clerici, Libri per tutti. L’Italia della divulgazione dall’Unità al nuovo secolo, Roma-
Bari, Laterza, 2018, per le riflessioni sul rapporto tra giornalismo e conferenza che
si leggono alle pp. 197-207, utili a sollecitare analisi ulteriori sui paradigmi retorici
Meridionalia
342 nunzio ruggiero
tiva di una sociabilità democratica e popolare, diffusa nei tanti circoli
sparsi nei centri maggiori e minori della penisola, soprattutto a partire
dagli anni Ottanta2.
A giudicare dalla quantità e dalla varietà delle conferenze approdate
alla stampa – dalle pubblicazioni sui quotidiani ad alta tiratura,
fino alle plaquettes distribuite a una ristretta cerchia di amici – gli italiani
di fine Ottocento si scoprono un popolo di conferenzieri: consiglieri
comunali e parlamentari del Regno, poeti e giornalisti, ricercatori
e professori, sacerdoti e prelati, ufficiali, cavalieri e commendatori,
avvocati, medici e ingegneri, maestri e maestre elementari, membri
dei ranghi alti e bassi della nobiltà, tengono orazioni e discorsi per
circostanze di ogni tipo: feste e adunate pubbliche, concerti di beneficenza
e concorsi a premi, inaugurazioni di mostre e di fiere campionarie,
celebrazioni di centenari, commemorazioni funebri; fino alle curiose
formule che definiscono i generi e sottogeneri del diletto borghese:
le conferenze recitate «in versi martelliani», le «semiconferenze», le
conferenze «umoristiche» e di «storia comica».
In modo speculare, alla forza ipnotica, o alla smania logorroica degli
oratori corrisponde la partecipazione silente e plaudente dei pubblici
disposti ad assecondarla: dalle signore dei comitati di beneficenza
agli alunni delle scuole serali, dai soci delle deputazioni di storia
patria agli operai dei comitati di fabbrica, dai ricoverati degli orfanotrofi,
agli iscritti del Club Alpino o di quello Automobilistico; una miriade
di discorsi che si estendono dalla propaganda sovversiva all’intrattenimento
leggero, pronunciati negli spazi più diversi: sale consiliari,
sezioni sindacali, aule universitarie; e ogni sorta di scuole, collegi,
musei, chiese, ospizi, accademie, hall di ristoranti e alberghi, teatri
e ridotti teatrali, palestre e società di ginnastica.
In attesa di indagini basate su una bibliografia completa e su una
rigorosa documentazione statistica, ci si limiti, in via preliminare, a
una scorsa delle pubblicazioni censite dal nostro Sistema Bibliotecario
Nazionale: si passa dalle 320 conferenze, o poco più, edite nel primo
ventennio postunitario, alle 3.600 e oltre del secondo, per cui il numee
antropologici implicati dal «discorso ad alta voce», per la sociabilità culturale
dell’Otto-Novecento.
2 Per la nozione e la categoria storiografica di «sociabilité», il rinvio d’obbligo
è a Maurice Agulhon, Le cercle dans la France bourgeoise, 1810-1848. Etude d’une
mutation de sociabilité, Paris, Colin, 1977 (trad. it.: Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi
della sociabilità nella Francia borghese, 1810-1848, a cura di Maria Malatesta, Roma,
Donzelli, 1993).
[ 2 ]
una vittoriana della nuova italia 343
ro dei conferenzieri, risulta in pratica più che decuplicato; se si guarda
poi alle percentuali delle conferenze tenute dalle donne, il dato non è
meno significativo: solo 6 su un totale di 321 pubblicate nel periodo
tra il 1861 e il 1880; 97 su 3615 negli anni compresi tra il 1881 e il 1900;
cifre che tornano a testimonianza del fatto che, alla fine del secolo, il
contributo femminile, benché ancora largamente minoritario, era in
proporzione aumentato del 50%3.
Si tratta, beninteso, degli indizi di un mutamento antropologico
connesso all’affermazione impetuosa dell’editoria di largo consumo, e
del diffondersi di una nuova sensibilità culturale che attraversa tutto
il secolo. In tal senso è stato giustamente osservato che «al paradigma
“verticale” classicistico che guarda ai grandi modelli del passato da
imitare ed emulare si affianca uno sguardo “orizzontale”, orientato
verso ciò che succede “oggi” e altrove – prospettiva sollecitata dall’articolo
di M.me de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni (1816),
sempre più diffuse»4. Va da sé che tale fenomeno, benché promosso in
larga misura dai centri più dinamici del Nord, non si intende a pieno
ignorando il contributo rilevante dell’ex-capitale borbonica alla geografia
culturale della nazione, se è vero che proprio a Napoli si afferma
una civiltà di traduttori che agisce efficacemente nel sistema giornalistico-
letterario italiano, di volta in volta imitando o integrando,
anticipando o contrastando le iniziative dell’editoria settentrionale5.
Come risulta dagli ultimi bilanci storiografici, il contributo delle
élites femminili al processo di nation building che ebbe corso nell’Italia
dell’Otto e Novecento, è un fatto assodato, e non solo dagli specialisti
di gender studies; eppure esso rimane ancora in gran parte da ricostru-
3 Le cifre del sondaggio, qui riportate a titolo puramente esemplificativo di
una tendenza culturale, ma senza alcuna pretesa di sistematicità, sono state ricavate
interrogando il catalogo on-line dell’Opac SBN tramite la ricerca per titolo del
termine Conferenza.
4 L. Clerici, Libri per tutti, cit., p. 12.
5 Si rinvia qui, nell’ambito dell’ampia bibliografia critica sul giornalismo letterario
napoletano prodotta nel corso dell’ultimo trentennio, almeno ai bilanci più
recenti di Emma Giammattei, Il romanzo di Napoli. Geografia e storia della letteratura
nel XIX e XX secolo, Napoli, Guida, 20162; Raffaele Giglio, Di letteratura e giornalismo
a Napoli tra Otto e Novecento, Napoli, Loffredo, 2012; Paola Villani, La seduzione
dell’arte. Pagliara, Di Giacomo, Pica: i carteggi, Napoli, Guida, 2010; Rossana
Melis, La letteratura quotidiana a Napoli nel secondo ottocento, «Annali della Fondazione
Verga», vol. 13 (1996), pp. 105-162, e vol. 14 (1997), pp. 117-186. Per il caso
specifico della traduzione e della promozione dei modelli narrativi stranieri, sia
lecito rinviare a Nunzio Ruggiero, La civiltà dei traduttori. Transcodificazioni del realismo
europeo a Napoli nel secondo Ottocento, Napoli, Guida, 2009.
[ 3 ]
344 nunzio ruggiero
ire nei dettagli, nelle singole e talvolta straordinarie vicende biografiche,
nell’analisi della fittissima rete di relazioni personali, familiari,
politiche e professionali6. In tal senso, definire le circostanze dell’esordio
di una scrittrice, conferenziera e traduttrice pressoché dimenticata
come Fanny Zampini Salazar, nel fermento letterario napoletano degli
anni Settanta dell’Ottocento, è essenziale per intendere il significato
della sua attività di instancabile mediatrice culturale a favore dell’emancipazione
femminile7.
La prima pubblicazione di cui si abbia notizia è la novella Povera
Lina! apparsa nel maggio 1878, con lo pseudonimo di Roberto, sulla
Parte Letteraria del «Corriere del Mattino» di Federigo Verdinois8.
L’anno dopo, con il dramma intitolato Cuor di donna, la giovane scrittrice
avrebbe conseguito il primo premio del circolo teatrale Goldoni,
ente promotore del «Corriere del Mattino letterario» presieduto da
Achille Torelli. Nel 1879, la raccolta di novelle di orientamento antizoliano
Fra l’ideale e il reale, proponeva una formula che si colloca al
punto di convergenza tra educazione linguistica e disciplina morale:
edito nello stesso anno della celebre conferenza desanctisiana sull’Assommoir,
il libretto era subito recensito sul «Roma» dal filologo di
scuola puotiana Emmanuele Rocco, il quale ne lodava l’onestà dei
contenuti e la limpidezza della scrittura9. Analogamente, secondo il
giudizio accorto di una scrittrice di ben altra tempra come Matilde
6 Cfr. E. Giammattei, Il guanto rovesciato. Storia della cultura e storie di genere,
«L’Acropoli», XVIII, 5-6 (2017), pp. 430-449.
7 Francesca Salazar (detta Fanny) nacque a Bruxelles l’11 maggio 1853 e morì a
Napoli il 6 aprile 1937 (la data si ricava dal Registro degli atti di morte nell’anagrafe
del Comune di Napoli) e non nel 1931, come si legge nelle sparse notizie biografiche
sulla scrittrice; cfr. Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, diretto da
Angelo De Gubernatis, Firenze, Successori Le Monnier, 1879, p. 908; Carlo Villani,
Stelle femminili. Dizionario bio-bibliografico, nuova ed. riv. ampl. e corr., Napoli-
Roma-Milano, Albrighi, Segati & C., 1915, pp. 747-749.
8 Fanny Zampini Salazar, Povera Lina!, «Corriere del Mattino», III, 141, 8
mag. 1878, p. 3; cfr. N. Ruggiero, Tra Dickens e Zola. Sul realismo “sentimentale” dei
novellieri napoletani nel secondo Ottocento, in La civile letteratura. Studi offerti ad Antonio
Palermo, I, L’Ottocento, a cura di Pasquale Sabbatino, Napoli, Liguori, 2002,
pp. 431-450, p. 433.
9 F. Zampini Salazar, Fra l’ideale e il reale, Napoli, Rondinella, 1879. Il volumetto
comprende quattro racconti, ciascuno corredato di una dedica personale che
rende conto della sua rete di rapporti familiari e intellettuali: Povera Lina! Ricordi
fantastici di Arghilla (a Giulio Minervini), Raggio di sole (a Evangelina Morelli), Ombra
e luce (a Luigi Landolfi), Illusione e realtà (a Giulia Sozi-Carafa). La recensione di
Emmanuele Rocco apparve nelle Notizie bibliografiche del «Roma» del 20 agosto
1879 (n. 230, p. 3).
[ 4 ]
una vittoriana della nuova italia 345
Serao, lo stile semplice della Salazar definiva l’aura ‘vittoriana’ di una
prosa che si poneva consapevolmente agli antipodi dello sperimentalismo
francese:
Niuna ricerca di forma pomposa, di effetti volgari: invece uno stile
chiaro, senza fronzoli, senza leccature, che va diritto al suo scopo, che
dice quel che vuol dire; una lingua pura e corretta, senza contorsioni e
bizzarrie contrarie alla grammatica. È più di tutto un libro di novelle
che le giovinette, le spose, le madri possono leggere con un diletto vivo
e senza che si turbi mai quell’aura di sana virtù che vi si respira. L’autrice
deve amare molto la serena e familiare letteratura inglese, che
vorrei più conosciuta dalle nostre donne; e questa letteratura le ha confortato
lo spirito, esercitando sovra di esso e sovra le sue manifestazioni
una benefica influenza10.
Allo stesso modo, nella novella di intonazione dickensiana intitolata
Chiara-Stella e accolta da Francesco Fiorentino nel «Giornale napoletano
della domenica», la riabilitazione sociale di una vecchia popolana
disprezzata per la sua deformità fisica avviene in seno alla famiglia
di una dama colta e caritatevole – modellata sul profilo già mitico
della duchessa Ravaschieri – la quale nulla trova da ridire nel suo
comportamento, se non qualche rozzezza di modi e una lingua «non
buona»11.
Intanto, la Salazar aveva proposto un Manuale di economia domestica
«tradotto, annotato, raccomandato con una gravità che in donna gentile
può forse apparir soverchia», come ebbe ad osservare Angelo De
Gubernatis12. L’intento dichiarato dalla curatrice era quello di «conferire
al miglioramento morale e materiale delle nostre famiglie» – proseguiva
il recensore – «con l’offrirci a modello una casa ideale
inglese»13. Tale iniziativa rientrava a pieno titolo nel programma editoriale
del giovane libraio-editore Enrico Detken che, sulla scia della
divulgazione scientifica praticata dalle maggiori case editrici del
10 Matilde Serao, Libri nuovi. Fra l’ideale e il reale per Fanny Zampini Salazaro,
«Giornale di Napoli», 8 ott. 1879, n. 278, p. 3. Sullo stesso giornale, qualche mese
dopo, la Salazar avrebbe pubblicato una novella intitolata La prima festa di Nina,
con dedica alla Serao (27-30 gennaio 1880).
11 F. Zampini Salazar, Chiara-Stella, «Giornale Napoletano della Domenica»,
I, 2, 8 gen, 1882, pp. 3-4, p. 4. La novella apparve con la data «Pozzuoli 18 dicembre
1881» e la dedica «a Virginia Alhaique».
12 Cfr. A. De Gubernatis, Annuario della letteratura italiana nel 1880, Firenze,
Barbera, 1881, p. 131.
13 Ibidem.
[ 5 ]
346 nunzio ruggiero
Nord, mirava a ritagliarsi uno spazio nel nuovo mercato napoletano
della manualistica di ampio smercio e di largo consumo14.
Nel 1881, la giovane scrittrice passava a misurarsi con la traduzione
di un ‘classico’ della narrativa vittoriana: si tratta della prima e
unica versione italiana di The Ogilvies, romanzo di esordio di Dinah
Craik Mulock, risalente alla metà del secolo, proposto in una fase decisiva
per la ricezione del naturalismo, in cui le opere di Zola e dei
Goncourt erano all’apice della popolarità15.
Nella lunga prefazione al romanzo, la traduttrice delineò con precisione
l’orizzonte ideologico in cui poneva la sua iniziativa editoriale,
negli anni del conflitto tra i codici narrativi che fa da sfondo al dibattito
sul realismo: «in certi romanzi del nostro secolo il vizio è rappresentato
con tali rosei colori da farlo apparire come la più deliziosa
delle debolezze. Di questo genere di libri è un numero infinito nella
letteratura francese e disgraziatamente son quelli che si scelgono a
preferenza per le traduzioni in italiano; mentre che, se volessimo dare
un appoggio valido alla nostra giovane letteratura, potremmo rivolgerci
alla ricca e bella collezione di opere stupende che possiede
l’Inghilterra»16. L’allusione polemica è alla “Bibliothèque Rose” la popolare
collana di narrativa dell’editore Hachette, alla quale la Salazar
intendeva contrapporre la sua “Biblioteca Azzurra”, edita da Morano:
caso cospicuo nell’Italia del tempo, in cui una donna si mostrava in
14 L. Clerici, Libri per tutti, cit., pp. 109-173. Sull’attività editoriale di Enrico
Detken il quale, nel corso degli anni Ottanta, «imprime nuovo vigore all’impresa
paterna con l’apertura di filiali a Palermo e a Roma e con la proposta di un ventaglio
di opere scientifiche che si condensano sia in periodici che in collane come la
“Nuova Biblioteca Utile”, a carattere popolare, impostata sul modello di quella
trevesiana», cfr. Vincenzo Trombetta, L’editoria napoletana dell’Ottocento. Produzione
circolazione consumo, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp. 214-216.
15 Cfr. N. Ruggiero, La civiltà dei traduttori, cit., pp. 82-84. La prima edizione
del romanzo della Craik, risalente al 1849, ebbe diverse edizioni tra le quali la più
popolare è quella proposta nella “Collection of British authors” del Tauchnitz: Dinah
Maria Craik Mulock The Ogilvies. A novel, by the author of John Halifax, Gentleman,
Leipzig, B. Tauchnitz, 1863. La trama del romanzo è fondata sull’antitesi tra
l’istinto distruttivo per smania di possesso dell’amour-passion, impersonato da Katharine,
e la disciplina di self-control che fonda la solidarietà coniugale di Eleanor.
Sul rilievo della forma-romanzo nell’Inghilterra vittoriana per il «treatment of
emotions within a domestic context», cfr. l’introduzione di Shirley Forster, Woman
and Marriage in mid-nineteenth-century England, in Ead., Victorian Women’s Fiction.
Marriage, Freedom, and the Individual, London-New York, 2012 (1a ediz., London-
Sidney, Croom Helm, 1985), pp. 1-39, pp. 1-2.
16 F. Zampini Salazar, Introduzione a D.M. Craik Mulock, Gli Ogilvie, versione
dall’inglese di F. Zampini Salazaro, Napoli, Antonio Morano, 1881, p. VI.
[ 6 ]
una vittoriana della nuova italia 347
pubblico nel ruolo inedito di fondatrice e direttrice di una collezione
di narrativa straniera17. Che la collana si fermasse al primo numero,
poi, rimane il caso indicativo di un esperimento tutt’altro che agevole
nella Napoli di fine secolo, concepito com’era in una capitale della ricezione
del romanzo europeo, che non riuscì a esprimere un’editoria
capace di competere con i maggiori centri italiani.
Sarà utile allora definire le ragioni che orientano una scelta di campo
che a più di un lettore doveva apparire inattuale – se non proprio
ingenua e arretrata – negli anni decisivi per l’affermazione del gruppo
dei veristi napoletani, alla testa dei quali militava la stessa Serao18. Di
fatto, l’attenzione della Salazar era sollecitata dal nesso esemplare tra
la biografia e l’opera della scrittrice vittoriana: la Craik, letterata celebre
ai suoi tempi per l’infaticabile attività narrativa, come per la tenace
militanza femminista, aveva vissuto una giovinezza di stenti e sacrifici,
dovendo badare al sostentamento dei fratelli minori, dopo l’abbandono
del padre e la morte prematura della madre19. Di qui l’identificazione
di Fanny con la personalità di una donna che da sola era
riuscita a sbarcare il lunario in una metropoli immensa come Londra,
giungendo a pubblicare quasi quaranta romanzi, molti di largo consumo,
oltre a una cospicua produzione giornalistica, lirica e saggistica.
Come ricordava la Salazar, l’autrice inglese fu un’abile agente di se
stessa: con i guadagni del suo romanzo più noto, il John Halifax (250.000
copie) aveva acquistato una villa nel Kent, vent’anni prima di quando
Zola aveva potuto permettersi la famosa residenza di Medan, finanziata
con i proventi dell’Assommoir. Il che bastava a fare della Craik
una figura straordinaria anche per gli standards dell’ultra-moderna
Inghilterra.
Dal canto suo, la traduttrice, figlia di un esule calabrese del Quarantotto
e di una colta nobildonna irlandese convertitasi dalla religione
protestante al cattolicesimo, era stata data in sposa, all’età di quindici
anni, al borghese benestante Giuseppe Zampini; e proprio allora
maturava la decisione – scandalosa per il tempo e il luogo in cui avvenne
– di separarsi dal marito, trasferirsi a Roma e impegnarsi nella
carriera giornalistica, assumendosi la tutela dei figli. Sulla scelta consapevole
della vita coniugale, infatti, è impostata la trama del roman-
17 Cfr. Luigi Mascilli Migliorini, Una famiglia di editori. I Morano e la cultura
napoletana tra Otto e Novecento, Presentazione di Fulvio Tessitore, con un inedito di
Pietro Piovani, Milano, FrancoAngeli, 1999.
18 Cfr. E. Giammattei, Il romanzo di Napoli, cit.,
19 Cfr. Sally Mitchell, Dinah Mulock Craik, Boston, Twayne, 1983.
[ 7 ]
348 nunzio ruggiero
zo della Craik, che si prestava bene all’obiettivo dichiarato nella Prefazione:
dissuadere le giovani donne dal compiere scelte matrimoniali
dettate da impulsività o opportunismo, ignoranza o fantasticheria.
Per questo la Salazar scriveva, con trasparente allusione autobiografica:
«L’esistenza della donna si riassume, si concentra nell’amore; anche
quando si vuole che ne ignori l’esistenza, essa lo sente in sé: pura
ed ingenua lo prodiga in secreto ad un ideale che è riflesso dell’anima
sua, ma che pel bisogno che ha di personificarlo, è sovente consacrato
ad un uomo che è di spirito inferiore, talvolta anche indegno di quel
tesoro di affetti»20. Le conseguenze che ne deduce sono chiare: vittima
sacrificale dell’ipocrisia borghese, la fanciulla che si concede a «un uomo
assai differente da quello vagheggiato ne’ suoi sogni, debole e senza
carattere», è condannata a uno stato di soggezione penosa e immorale,
e «si troverà inabile a sostenere le terribili lotte di una vita infelice
e sbagliata»21. Sottovalutare i rischi indotti da questa mentalità deteriore
significa tradire i valori del Risorgimento, causando una patologia
sociale che mina le basi della famiglia, e di conseguenza quelle
della Nazione: affermazione dell’identità femminile e costruzione
dell’identità nazionale risultavano esemplarmente connesse dal richiamo
a questo paradigma vittoriano; e così The Ogilvies fu scelto
dalla Salazar per veicolare il suo messaggio al pubblico femminile della
borghesia postunitaria.
Si aggiunga infine che gli avvertimenti della Salazar erano concepiti
sulla falsariga di un testo famoso della Craik, Woman’s Thoughts about
Women, che avrà una circolazione notevole anche oltreoceano, grazie a
un’autorevole esponente dell’intellighenzia latinoamericana di fine
Ottocento come Soledad Acosta de Camper22. In tal senso, come si potrà
verificare, l’attività della Salazar narratrice, traduttrice e saggista fu
sollecitata dall’intreccio di idee che contribuirono in modo determinante
alla maturazione dell’attività politica svolta tra Otto e Novecento.
L’impegno per il riconoscimento dell’autonomia professionale della
donna derivò infatti dalla convergenza di istanze culturali e ideologiche
diverse ma complementari: da un lato, le suggestioni del riformismo
anglosassone recepito dall’educazione materna, la contessa, pittrice
e scrittrice Dora Calcutt Mac Namara23; dall’altro l’influenza del
20 F. Zampini Salazar, Prefazione a D.M. Mulock, Gli Ogilvie, cit., pp. X-XI.
21 Ivi, p. XII.
22 Cfr. Beatriz Aguirre, Soledad Acosta de Samper y su performance narrative de
la nación, «Estudios de Literatura Colombiana», n. 6, gen.-giu. 2000, pp. 18-34.
23 Cfr. le notizie biografiche sulla notevole personalità intellettuale di Dora
[ 8 ]
una vittoriana della nuova italia 349
cattolicesimo liberale professato dallo schieramento dei moderati napoletani
che facevano capo a Ruggero Bonghi24; sullo sfondo, il magistero
del padre Demetrio, artista, patriota e grande esperto di conservazione
dei beni culturali: a Napoli, dopo il trionfale ritorno al fianco
di Garibaldi, Demetrio Salazar mise a frutto la conoscenza delle istituzioni
museali estere che aveva acquisito nell’esilio; di qui gli incarichi
ispettivi e direttivi assunti presso diversi enti del Mezzogiorno (dal
Museo di San Martino al Museo Nazionale, dal Museo provinciale di
Capua al Civico di Reggio Calabria) tra i quali spicca il contributo all’istituzione
del Museo Artistico Industriale, di cui si dirà più avanti25.
La stessa peculiarità del ‘femminismo cattolico’ di Fanny Salazar
va rapportata al mito dell’Inghilterra – caro ai moderati ma trasversale
agli schieramenti (da Bonghi ad Arcoleo, da Verdinois a Villari, da
Torraca a Giordano Zocchi, da Cafiero a Zumbini) – coltivato in un
contesto, come quello della Napoli postunitaria, particolarmente sensibile
alle ragioni e ai valori del «compromesso vittoriano»26. Un contesto
in cui l’anglofilia napoletana si sovrapponeva e si avvicendava
con la passione per la letteratura dei popoli dell’Europa orientale, un
maestro della traduzione letteraria come Verdinois era passato dalla
narrativa anglosassone a quella slava. Nel corso degli anni Ottanta,
infatti, la distanza dal modello culturale veicolato dalle avanguardie
francesi, si misura anche osservando i termini della tempestiva ricezione
del romanzo russo e polacco27. La diffidenza verso i modi e i
Calcutt MacNamara, raccolte dal fratello di Fanny, Lorenzo Salazar, in La vita
d’una madre, Napoli, Pierro, 1899.
24 Tre lettere della Salazar a Bonghi, rispettivamente del 10 (da Pozzuoli) e 21
gennaio 1882 e del 23 agosto 1889 (da Napoli), e una a destinataria ignota («Cara e
buona amica»: forse Carlotta Bonghi) del 29 luglio 1889 (da Londra) sono registrate
in Archivio privato Ruggiero Bonghi. Inventario, a cura di Stefania D’Aquino, Rosanna
De Simine, Fortunata Turino Carnevale, Napoli, Guida, 1998, pp. 203 e 423.
25 Su Demetrio Salazar, cfr. Antonio Monte, Demetrio Salazar, «Rassegna storica
del Risorgimento», XXIII, 5 (maggio 1936), pp. 607-616; Ugo Campisani, Demetrio
Salazar, in Artisti calabresi, Otto-Novecento, pittori – scultori – storia – opere, Cosenza,
Pellegrini, 2005, pp. 326-328; Placido Olindo Geraci, Il Museo Artistico
Idustriale di Napoli e Demetrio Salazar attraverso i documenti dell’archivio Dito, «Brutium
», XLVI, 4, 1967, pp. 13-16.
26 Mario Praz, Storia della letteratura inglese, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 360 e
sgg.; cfr. Piero Boitani, La letteratura inglese, in Scritti in onore di Mario Praz, 1896-
1982, 2012, a cura di Piero Boitani e Patrizia Rosazza-Ferraris, Roma, Gangemi,
2013, pp. 31-44.
27 N. Ruggiero, Il mito anglosassone e la ‘funzione-Dickens’, in Id., La civiltà dei
traduttori, cit., pp. 67-119.
[ 9 ]
350 nunzio ruggiero
valori narrativi del naturalismo francese, acuita dalla crisi del positivismo
che stava conducendo alla ‘bancarotta della scienza’, fornì una
base comune agli esponenti dell’élite che permanevano stabilmente
nell’area cattolica. Non a caso, al versante del liberalismo cattolico afferente
alla Destra storica guardava con simpatia Margherita di Savoia,
destinataria di questa lettera di Marco Minghetti del 10 luglio 1886:
Sto leggendo un volume di Vogüé laudatore dei romanzi russi che sono
oggi più di moda. Non posso negare che quelli soprattutto di Tostoi
sono belli, ma nelle analisi che ne fa il Vogüé trovo solo un’idea che mi
colpisce e mi par giusta, ed è la seguente: tanto il romanzo francese
quanto il russo sono come oggi dicesi realisti, ma il romanzo francese
è una pittura indistinta di fenomeni sociali senza sentimento, mentre il
romanzo russo senza distinzione alle descrizioni di essi mescola un
effetto profondo di compassione; e sotto questo riguardo non solo
commuove, ma può migliorare il lettore28.
A partire da tali premesse andrà analizzata la funzione divulgativa
delle traduzioni e delle conferenze nel nuovo assetto culturale dell’Italia
unita e il coinvolgimento crescente delle donne nei moderni apparati
dell’alfabetizzazione di fine secolo, funzionali al processo di
allargamento della base dei lettori e degli elettori, al quale contribuiva
in modo così determinante la stampa periodica.
In tal senso, tra gli spazi più dinamici della sociabilità napoletana
era proprio il Circolo Filologico fondato da Francesco De Sanctis, il
quale volle attribuire grande risalto alla partecipazione delle donne,
con la formazione di un comitato femminile presieduto da una leader
indiscussa del movimento caritativo napoletano come la duchessa Teresa
Ravaschieri29. Si deve alla lungimiranza della politica culturale
desanctisiana, nel passaggio dalla Destra alla Sinistra storica, il difficile
negoziato tra le istanze degli anticlericali più intransigenti con i
conservatori cattolici, tra i quali spiccavano giuristi come Federico
28 Alla corte della Regina. Carteggio fra Margherita di Savoia e Marco Minghetti 1882-
1886, a cura di Carlo M. Fiorentino, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 186-188, p. 187.
29 Per l’istituzione del «comitato delle Signore», la cui direzione venne affidata
a Teresa Ravaschieri, cfr. la lettera di De Sanctis a Camillo De Meis, del 12 dicembre
1876, in B. Croce, Ricerche e documenti desanctisiani. IX. Dal carteggio inedito di Angelo
Camillo de Meis, «Atti dell’Accademia Pontaniana», Napoli, a. XLV (1915), memoria
9, pp. 1-68. Sulla nascita del Circolo Filologico, cfr. Toni Iermano, Il giovane
Croce e il Circolo filologico di Napoli. Materiali per una storia, «Giornale storico della
letteratura italiana», CV 11, 538, 1990, pp. 217-53, rist. in Id., Lo scrittoio di Croce, con
scritti inediti e rari, Napoli, Fiorentino, 1992, pp. 13-77.
[ 10 ]
una vittoriana della nuova italia 351
Persico ed Enrico Cenni i quali militavano nello schieramento politico
che governava la città, in cui si collocavano la Ravaschieri e molte altre
nobildonne napoletane30.
In una fase in cui l’emancipazionismo sembrava appannaggio
esclusivo del gruppo radicale delle socialiste milanesi – si pensi alla
linea Mozzoni-Kuliscioff – la Salazar poteva osservare, dalla sua postazione
‘moderata’, il vasto orizzonte d’attesa composto dalle donne
cattoliche della Nuova Italia. Verso questa maggioranza silenziosa,
apparentemente inerte, ma potenzialmente decisiva per le sorti della
nazione, la giornalista mirava a portare la sua pervicace azione di mediatrice
culturale. Il che spiega perché non inclinasse a riforme concesse
dall’alto o rivendicazioni agite dal basso, ma pensasse piuttosto alla
conquista di una disciplina interiore, che si poteva raggiungere solo
con la lotta per l’indipendenza economica e il diritto al lavoro: una
rivoluzione della mentalità femminile già avviata nella cerchia dell’élite
napoletana a cui la Salazar apparteneva, ma che implicava lo sforzo
di una persistente e diffusa azione pedagogica.
Per compiere questa missione doveva raccordarsi agli intellettuali
che cooperavano al progressivo reinserimento dei cattolici nella vita
politica italiana; una tessitura di rapporti che imponeva il trasferimento
nella capitale, in contatto con il sodalizio Minghetti-Acton, che gravitava
a sua volta intorno alla corte dei Savoia. Determinante in tal
senso è il biennio 1886-1887, compreso tra la pubblicazione del saggio
Uno sguardo all’avvenire della donna e la fondazione della «Rassegna
degli interessi femminili»31. Nel primo numero del mensile, fondato
nel gennaio 1887, proponeva la traduzione di un discorso di Maria
Georgina Grey, esponente di spicco del femminismo inglese, nonché
esperta di levatura internazionale nel campo dell’educazione delle
fanciulle32.
In tale ottica, l’insegnamento delle arti per l’industria, introdotto a
30 Cfr. Pasquale Lopez, Enrico Cenni e i cattolici napoletani dopo l’Unità, Roma, 5
lune, 1862, pp. 173 e sgg. Sul neoguelfismo napoletano del secondo Ottocento, cfr.
Fulvio Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta, Napoli,
Morano, 1962; Antonio Cestaro, La stampa cattolica a Napoli dal 1860 al 1904, Roma,
Edizioni di storia e letteratura, 1965; Michelangelo Mendella, Napoli di parte
guelfa. Saggio sui cattolici napoletani dalla restaurazione al primo Novecento, Napoli,
Giannini, 1985.
31 F. Zampini Salazar, Uno sguardo all’avvenire della donna in Italia, Napoli,
Detken, 1886.
32 Maria Georgina Grey, La donna e la coltura, «La Rassegna degli interessi
femminili», I, 1, 15 gen. 1887, pp. 6-17. Per un profilo della Grey, cfr. Philippa Le-
[ 11 ]
352 nunzio ruggiero
Napoli dal padre Demetrio, appariva uno strumento ancor più efficace
per l’emancipazione femminile. L’iniziativa del ministro De Sanctis di
istituire a Napoli un Museo Artistico Industriale nel 1878, implicò la
nomina di una commissione presieduta dal principe Filangieri, e composta
da Morelli e Palizzi, con Demetrio Salazar in funzione di segretario33.
Riferimento imprescindibile di quel progetto era il South Kensington
Museum di Londra, ben noto al Salazar reduce dall’Inghilterra:
com’è noto, nell’arco di pochi anni a Napoli era sorto un istituto
all’avanguardia nel campo delle arti applicate; sicché a buon diritto,
alla fine del 1881, il desanctisiano Arcoleo poteva richiamarsi alla politica
lungimirante del maestro, incitando il ceto dirigente napoletano
all’azione e all’emulazione, nel riferire al Circolo Filologico i risultati
dell’Esposizione nazionale di Milano che consacravano il capoluogo
lombardo come capitale industriale del Paese34. A questo patrimonio
di idee e di fatti si richiamava la Salazar nel saggio sull’avvenire della
donna cui abbiamo accennato, per evidenziare i vantaggi che l’Italia
avrebbe tratto dall’introduzione del lavoro femminile applicato alle
arti decorative, nel contesto dinamico della nascente società di massa:
La finezza del gusto femminile, l’istintivo suo sentimento del bello, la
naturale eleganza, la delicatezza, a cui può informare i suoi lavori, la
mobilità nervosa della sua fantasia, sono tutte qualità che tendono a
segnalarsi nel campo dell’Arte.
Perché non profittarne, dunque, per aprir loro le porte degli Stabilimenti
di Arte Industriale?
Certamente da qualche anno l’Arte Industriale ha fatto molti progressi
in Italia, ma possiamo noi sostenere oggidì, con vantaggio, il paragone
rispetto ad altre nazioni?
vine, Maria Georgina Grey (1816-1906), in Oxford Dictionary of National Biography,
Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 11-23.
33 Cfr. Anna Villari, Dall’Istituto al Museo Artistico Industriale. Filantropia e impegno
sociale, in Ead., Introduzione a Domenico Morelli, Lettere a Pasquale Villari,
II, 1860-1899, Napoli, Bibliopolis, 2004, pp. LII-LXXXIV.
34 Cfr., tra le molte pubblicazioni descrittive e celebrative dell’evento, Ricordo
dell’esposizione di Milano 1881, Milano, Garbini, 1881. La conferenza di Giorgio
Arcoleo, Arte e industria a proposito dell’Esposizione, datata 18 dicembre, è una delle
sette che tenne tra il 1877 e il 1881, e che fecero del giurista e letterato siciliano il
conferenziere più assiduo del Circolo Filologico di Napoli durante la gestione desanctisiana.
Parte degli argomenti di Arcoleo, circa gli stereotipi del Nord ‘operoso’
opposto al Sud ‘contemplativo’, rifluiranno a distanza di vent’anni nel discorso
Ciò che insegna l’Esposizione. Conferenza detta in Milano il 31 ottobre 1906, Roma, Tip.
dell’unione cooperativa editrice, 1906, rist. in Id., Forme vecchie e nuove, Bari, Laterza,
1909, pp. 123-156.
[ 12 ]
una vittoriana della nuova italia 353
Gli è che queste hanno quasi tutte l’aiuto femminile e noi no.
Quanta grazia artistica e quanta originalità ne verrebbe alle nostre maioliche,
a’ nostri mobili, alle nostre stoffe, a’ nostri gingilli di ogni specie,
alle decorazioni delle nostre case, a tutto ciò, insomma, che oggi
entra nel dominio dell’Arte applicata all’Industria?35
A maggior ragione, sul versante strategico della comunicazione, la
direttrice della «Rassegna degli interessi femminili» tenne a sottolineare
la funzione benefica della stampa che promuoveva i generi e i settori
dell’«attività muliebre», espressione di un associazionismo ormai
diffuso nelle nazioni dell’Occidente più progredito:
Solo a Londra, senza parlare delle altre Capitali d’Europa, e tanto meno
dell’America, vi sono centinaia di associazioni femminili atte a rappresentare
le varie classi sociali, ciascuna delle quali ha i suoi giornali,
le sue riviste femminili, che sono tutte lette, che fanno del bene, che
sono utili ed indipendenti ciascuna nella propria sfera.
E così i molti campi dell’attività muliebre fecondati dal lavoro serio,
multiforme, perseverante, creano alla donna una onesta e fiera indipendenza
che giova al suo carattere, perché la rende sicura di bastare a
se stessa e sovente a chi dipende da lei36.
Intanto, nel dicembre 1886 era morto Minghetti, precettore della
regina e capo carismatico dei ‘gladstoniani d’Italia’, impegnato sin
dall’Unificazione nella politica di cooperazione delle élites femminili
al progresso del Paese. Nel tragitto da Torino a Firenze a Roma, al
seguito dei trasferimenti delle istituzioni regnicole verso la capitale, il
salotto Minghetti-Acton aveva dimostrato l’azione efficace e durevole
di un modello della sociabilità politico-culturale per l’Italia unita.
Non a caso, l’autobiografia della scrittrice napoletana si apre con una
dedica alla vedova di Minghetti, donna Laura Acton, valida a rilanciare
un discorso programmatico che enfatizzava il nesso tra emancipazione
e modernizzazione, quale tratto distintivo di una nuova politica
sociale:
Finché non muteranno le condizioni intellettuali delle Donne nostre,
finché non sorgerà potente in esse il sentimento di amor patrio, di orgoglio
nazionale, per cui ambiranno non solo di raggiungere il livello
morale delle loro sorelle di oltre monti ed oltre mare, ma di sorpassar-
35 F. Zampini Salazar, Uno sguardo all’avvenire della donna, cit., pp. 17-18.
36 F. Zampini Salazar, Associazioni femminili, «La rassegna degli interessi femminili
», I, 2, 15 feb. 1887, pp. 74-79, p. 78.
[ 13 ]
354 nunzio ruggiero
lo, – e lo potrebbero – no, non vedremo elevarsi al posto che le spetta
fra le Nazioni civili l’Italia nostra37.
In tal modo, i valori del Risorgimento legittimavano la lotta per la
questione femminile, per cui alla redenzione della patria doveva corrispondere
la liberazione della donna, a compimento del diritto all’autodeterminazione
dei popoli, meta di una conquista faticosa ma inesorabile,
così come è enunciata nel suo appassionato autoritratto di
‘femminista’ liberale38. Si tratta appunto di un testo che mira a intrecciare
narrazione autobiografica e saggistica militante, e dove il ricordo
di sé è sorretto da un fervido impulso alla propaganda, come attesta il
titolo del libro – Antiche lotte, speranze nuove – in cui la rievocazione dei
trascorsi personali vale a rilanciarla nell’azione39. E furono infatti anni
di grande operosità, in cui la Salazar allacciò i rapporti utili alla collaborazione
con la «Nuova Antologia», testimoniata dal carteggio con
Francesco Protonotari, e quelli necessari a intraprendere i viaggi in
Europa e negli Stati Uniti, in costante dialogo con le associazioni e gli
organismi che promuovevano l’emancipazione della donna nel mondo40.
Il dialogo con il giovane Croce ispettore degli educandati regi e
tempestivo recensore sulla «Rassegna Pugliese di Uno sguardo all’avvenire
della donna, consentì alla Salazar di accogliere sulla «Rassegna degli
interessi femminili», i primi articoli di erudizione storica dell’amico,
dedicati alle grandi protagoniste della politica e della letteratura
napoletana41.
37 F. Zampini Salazar, Introduzione a Antiche lotte, speranze nuove, Napoli, Tocco,
1891.
38 F. Zampini Salazar, Antiche lotte, speranze nuove, cit. Il libro è stato opportunamente
definito «Uno dei rendiconti più ricchi e intricati del femminismo ‘moderato’
italiano fin de siècle» da Franco Contorbia, Croce e lo spazio del femminile, in
Les femmes écrivains en Italie (1870-1920): ordres et libertés, actes du colloque des 25 et
26 mai 1994, Université de Paris III, Paris, Chroniques Italiennes – Université de la
Sorbonne Nouvelle, 1994, pp. 15-31, p. 19.
39 Ibidem.
40 U na prima analisi della corrispondenza della Salazar col Protonotari si legge
nella Tesi di Dottorato di Maria Cecilia Vignuzzi, La partecipazione femminile al
giornalismo politico-letterario. Italia e Francia tra Otto e Novecento (in co-tutela tra Università
di Bologna ed École Pratique des Hautes Études, tutors Ilaria Porciani e
Gilles Pécout), discussa nel 2008, alle pp. 248-249.
41 Nella recensione, datata dicembre 1885 ed edita con lo pseudonimo di Gustave
Colline sulla «Rassegna pugliese di scienze lettere e arti» (vol. III, n. 1, 15 gen.
1886, p. 15), Croce apprezzò l’ampio spettro delle fonti estere edite e inedite alle
quali attingeva la saggista: «In Francia, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in
[ 14 ]
una vittoriana della nuova italia 355
Contemporanea alla pubblicazione della sua autobiografia militante,
era la prima conferenza al Circolo Filologico di Napoli, La donna
nella politica, tenuta, su invito di Bonghi, nel maggio 1891, cui seguì il
discorso intitolato La ricchezza d’Italia, nell’aprile 1893; mentre a Roberto
ed Elisabetta Browning, tema che prepara la monografia di dieci anni
dopo, intitolò l’intervento del febbraio 1895, su invito di Croce che, in
qualità di vicepresidente del circolo, era subentrato a Bonghi nel governo
dell’istituzione culturale fondata da De Sanctis42.
L’esperienza acquisita nel corso della carriera di pubblicista in Italia
e all’estero le avevano assicurato una reputazione nei circuiti romani
di inizio secolo, che le consentirà di approdare alla cattedra di Lingua
e letteratura inglese al Magistero di Roma nel 1897, e di entrare in
contatto con alcuni tra i più noti giornalisti italiani43. Alla mediazione
della Salazar, ad esempio, si deve l’approdo di Esther Modigliani nella
redazione del «Giornalino della Domenica» di Luigi Bertelli, che
offrì a Vamba l’opportunità di avvalersi di una collaboratrice decisiva
per la nascita del Giamburrasca44.
Olanda, nel Belgio, nella Scandinavia, in Danimarca, in Russia, in Polonia, finanche
in Spagna, ci sono per le principali città scuole d’arte per le donne, spesse di
numero e rare di qualità. Le notizie accurate e diligenti, tratte da libri inglesi, francesi,
e da informazioni private, che ne dà la Signora Salazaro, son forse la parte più
importante del suo lavoretto»: cfr. F. Contorbia, Croce e lo spazio del femminile, cit.,
pp. 18-19; Salvatore Cingari, Alle origini del pensiero ‘civile’ di Benedetto Croce.
Modernismo e conservazione nei primi vent’anni dell’opera (1882-1902), Napoli, Editoriale
Scientifica, 2002, pp. 413-416.
42 A questa fase risale il profilo del giovane Croce edito dalla Salazar sul «Fortunio
» di Scalinger: F. Zampini Salazar, Benedetto Croce, «Fortunio», VIII, 51, 21
dic. 1894, pp. 1-2; cfr. F. Contorbia, Croce e lo spazio del femminile, cit., pp. 19-20; S.
Cingari, Alle origini del pensiero ‘civile’ di Benedetto Croce, cit., pp. 412-413. Sull’attività
di Croce al Circolo Filologico, cfr. T. Iermano, Il giovane Croce e il Circolo Filologico
di Napoli, cit., e ora N. Ruggiero, Pica, Croce e il Filologico. Appunti in margine
a un carteggio inedito, in Diffondere la cultura visiva. L’arte contemporanea tra riviste,
archivi e illustrazioni, a cura di Giorgio Bacci, Davide Lacagnina, Veronica Pesce,
Denis Viva, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa». Classe di
Lettere e Filosofia, s. 5, 2016, 8/2, pp. 639-662.
43 La Salazar fu ordinario di Lingua e letteratura inglese nell’Istituto superiore
femminile di Magistero di Roma tra il 1897 e il 1923. Legata alla sua attività didattica
è la pubblicazione del Manuale di storia della Lingua Inglese, con prefazione del
prof. Pietro Bardi, Torino, Paravia, 1916.
44 Si veda la lettera della Salazar a Luigi Bertelli, datata Roma 21 maggio 1906,
edita in «Santa giovinezza!». Lettere di Luigi Bertelli e dei suoi corrispondenti (1883-
1920), a cura di Anna Ascenzi, Maila Di Felice, Raffaele Tumino, Macerata,
Alfabetica, 2008, pp. 287-288.
[ 15 ]
356 nunzio ruggiero
I rapporti con Laura Acton e con gli esponenti della Destra storica
la incoraggiarono a contribuire alla promozione del mito della regina
Margherita, che incarnava il modello della donna cattolica della Nuova
Italia. Non a caso, nel 1890, un’insegnante e saggista di valore come
la molisana Giovanna Vittori, autrice a sua volta di una biografia della
regina, aveva chiuso la sua memorabile conferenza fiorentina Le eroine
e le patriotte, con una profezia sulla conciliazione tra Stato e Chiesa, in
nome della tradizione italiana che da Santa Caterina da Siena giungeva
fino a Margherita di Savoia:
Mie care signore […] vi dico addio, e vi prego di ricordare il testamento
di Caterina da Siena. Sì, io debbo richiamarlo alla vostra memoria
perché se è vero […] che le donne sono in po’ profetesse, io vorrei profetizzare
alla mia volta – parlo con quella logica facile della donna che
è logica del cuore – che la Conciliazione tra la Chiesa e lo Stato che a me
piace di credere ancora possibile, verrà compiuta pel patriottismo opportuno
delle donne italiane capitanate da quell’angelo d’ogni virtù
che è Margherita di Savoia.
Sì, a me pare – dite pure che sono un’idealista – che questo mandato
nobilissimo sia affidato dal Cielo alla Prima Regina d’Italia, a quella regina
che potrà dirsi felicissima se i posteri, non ammaliati dalla sua
grazia e dal suo sorriso, potranno unirsi coi contemporanei in un giudizio
solo45.
Sappiamo bene che la profezia della Vittori non si avverò e il Con-
45 La conferenza venne stampata nel volume intitolato La donna italiana descritta
da scrittrici italiane in una serie di conferenze tenute all’Esposizione Beatrice in Firenze,
Firenze, Civelli, 1890, pp. 152-183. Il volume, frutto della collaborazione tra i fratelli
Angelo e Teresa De Gubernatis, e Sofia Besobrasoff, la consorte dell’orientalista
torinese che ebbe un ruolo significativo nella tessitura dei rapporti delle élites intellettuali
tra Firenze e Napoli, essendo la cugina di Bakunin; cfr. Amedeo Benedetti,
Angelo De Gubernatis nelle lettere agli amici letterati, «Lares», vol. 80, n. 2
(Maggio-Agosto 2014), pp. 305-336. Teresa De Gubernatis, allora Presidente della
Società per l’istruzione superiore della donna, posta sotto il patronato della regina,
coordinò questo ciclo di conferenze nell’ambito dell’Esposizione Beatrice svoltasi
in occasione del VI Centenario della Beatrice dantesca, tra le quali spiccavano, con
la Invernizio e la Bonacci Brunamonti, le napoletane Maria Savi Lopez, Giovanna
Vittori e la stessa Salazar che inviò il discorso intitolato La donna italiana nella beneficenza,
alle pp. 249-262. La figura di Giovanna Vittori Cerelli, nata a Campobasso
il 21 marzo 1856, laureatasi in Lettere a Napoli dove insegnò a lungo nella Scuola
normale femminile Margherita di Savoia, e pubblicò una cospicua messe di manuali
scolastici e biografie storiche, è ancora tutta da ricostruire; cfr. Maria Bandini
Buti, Scrittrici italiane. Serie VI. Poetesse e scrittrici, vol. II, Roma, Istituto editoriale
italiano Bernardo Carlo Tosi, 1942, p. 358.
[ 16 ]
una vittoriana della nuova italia 357
cordato fu fatto da altri; ma resta il contributo rilevante delle maestre-
‘patriotte’ alla costruzione dell’identità nazionale, fondato sulla ripresa
del dialogo tra laici e cattolici che si riconoscevano nel modello di
un liberalismo moderato, conservatore e nazionalista46. Come è stato
ricordato anche recentemente, la regina era «l’emblema di questo modello:
cattolica, esempio di ogni virtù, moglie e madre esemplare, angelo
del focolare, anzi dell’intera corte e dell’inserimento nell’italianità
di un’intera élite cattolica»47. Sappiamo peraltro che l’appello all’emancipazione
della donna cattolica promosso dalla Salazar derivò da
un atteggiamento per nulla supino all’ortodossia papale, che la aprì
anche alle suggestioni del misticismo e del cattolicesimo inquieto di
Fogazzaro. Lo scrittore vicentino condivideva con la Salazar l’amicizia
con un personaggio-chiave dello schieramento dei moderati napoletani
come il cardinale Alfonso Capecelatro, arcivescovo di Capua48.
Di qui la collaborazione, favorita dalla comune adesione alla cultura
letteraria dell’Inghilterra vittoriana, per il rilancio dell’opera dei coniugi
Browning49.
Dopo la morte dello scrittore vicentino, nel marzo 1911, la Salazar
fu indotta a rivolgersi a un vecchio amico, lo scrittore e politico Riccardo
Carafa d’Andria, per ottenere la prefazione alla sua biografia di
Margherita di Savoia edita l’anno dopo. Il prestigio del casato del duca
d’Andria – consorte della scrittrice e traduttrice Enrichetta Capecelatro
che era dama di compagna della regina – giustificava la sua presenza
nel circuito esclusivo delle relazioni tra i membri dell’élite napo-
46 Cfr. Simonetta Ulivieri, Le maestre elementari «apostole» dei valori del Risorgimento.
Tra emancipazione politica e misoginia sociale, in La nazione tra i banchi. Il contributo
della scuola alla formazione degli italiani tra Otto e Novecento, a cura di Vittoria
Fiorelli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 279-297.
47 Cfr. Cecilia Dau Novelli, Sorelle d’Italia: presenze e immagini femminili, in
Cristiani d’Italia, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2011; consultato nel sito:
www.treccani.it/enciclopedia/sorelle-d-italia-presenze-e-immaginifemminili_%
28Cristiani-d%27Italia%29/.
48 Cfr. Piero Nardi, Antonio Fogazzaro, Milano, Mondadori, 1945, pp. 374-377.
49 Fanny Zampini-Salazar, L’Italia dal 1847 al 1861 nelle lettere di Elisabetta
Barrett Browning, «Nuova antologia di scienze, lettere ed arti», Serie 4, vol. 76, 1898,
pp. 686-708; la prefazione al discorso della Salazar su Roberto ed Elisabetta Browning
tenuto al Circolo Filologico il 10 febbraio 1895, a corredo dell’edizione a stampa
della conferenza (Napoli, Tocco, 1896) venne ristampata nel vol. La vita e le opere di
Roberto Browning ed Elisabetta Barrett-Browning, con prefazione di Antonio Fogazzaro,
Torino-Roma, Società Tip. Ed. Nazionale, 1907. La prefazione fu altresì raccolta
in Antonio Fogazzaro, Ultime, Milano, Baldini e Castoldi, 19133.
[ 17 ]
358 nunzio ruggiero
letana che si teneva nell’orbita della corona d’Italia50. Ciononostante,
la presentazione del senatore Carafa risultò alquanto debole e di circostanza,
limitata com’era alla rievocazione sentimentale di una eroica
giovinezza:
Sembra appena ieri, non è vero? Mio padre mi conduceva dal vostro:
erano tutti e due commissari di non so più che cosa, si trattava di arte,
di quadri… mi pare. Mi ricordo di voi bambina che passavate saltellando,
i capelli biondi che vi battevano sulle spalle, vostro fratello Lorenzo
si educava alle civili arti del mare: era un gran bel ragazzo. Quanti
sogni allora! Io avrei voluto essere un ufficiale delle guide con l’uniforme
azzurra e argento…cariche di cavalleria… Un corso imbandierato…
una pioggia di fiori, Vittorio Emanuele che mi metteva una medaglia
sul petto e… voi?… voi sognavate forse un Prince Charmant, che
aveva fatto un mondo d’azioni generose e brave oppure un angelo
vestito d’argento, coi capelli d’oro che vi rapiva e vi portava in alto in
alto in un paese incantato e colà giunto vi dava da mangiare tanti soupirs
à la crème… ma chi l’avrebbe detto allora? Chi avrebbe potuto pensare
che la vispa e leggiadra Fanny avrebbe dedicato tutta la sua vita al
lavoro, allo studio, alla famiglia51.
L’assenza del benché minimo cenno alla militanza femminista
dell’autrice lascia intendere che il duca guardasse, se non con sospetto,
con distacco al fervido emancipazionismo della Salazar. D’altronde
è noto che la stessa Serao, che con la Salazar aveva intrattenuto rapporti
cordiali negli anni della giovinezza, non dissimulò mai il proprio
scetticismo verso le rivendicazioni politiche del femminismo contemporaneo.
Bisogna attendere l’edizione inglese del libro, apparsa due
anni dopo, per leggere il più calibrato discorso del giornalista inglese
Richard Bagot, puntuale osservatore della realtà italiana contemporanea
e autore di due libri sull’Italia che la Salazar recensì a sua volta
sulla «Nuova Antologia»:
50 Fanny Zampini Salazar, Margherita di Savoia prima regina d’Italia, (la sua
vita e i suoi tempi), con prefazione del senatore Riccardo Carafa duca d’Andria,
Roma, Tipografia editrice italo-irlandese, 1912.
51 Il duca d’Andria Riccardo Carafa (1859-1920), consorte di Enrichetta Capecelatro
dama di compagnia della regina, politico e letterato, nonché fondatore e
redattore di «Napoli Nobilissima», era amico e sodale di Croce sin dalla giovinezza.
Un ricordo si legge in Benedetto Croce, Pagine sparse, II, 2a ed. riv., Bari, Laterza,
1960, dove è ristampata la commemorazione tenuta in Senato nella tornata del
2 dicembre 1920, alle pp. 401-402. Su Croce e Carafa membri della commissione
per la mostra del 1911, cfr. E. Giammattei, Il romanzo di Napoli, cit., p. 87 che qui
pubblica una lettera di Carafa a Croce, datata 18 gennaio 1911.
[ 18 ]
una vittoriana della nuova italia 359
In the present volume the part played by Margherita di Savoia in encouraging
every legitimate and practical effort to enlarge the sphere of
feminine action in her country, and to employ feminine influence as an
intellectual and civilizing influence instead of confining it entirely
within the walls of palaces and cottages, is largely dwelt upon. This
feature of the authoress’s work needs no introductory remarks from
me. The attitude of Queen Margherita towards all questions relating to
what I may term the traditional disabilities of woman as a factor in the
national life and national progress is described by Signora Zampini
Salazar both accurately and faithfully52.
Nel passaggio dagli anni Venti ai Trenta del Novecento, la transizione
del fascismo da movimento a regime vanificò ogni velleità riformistica
per la parità dei diritti politici, che progrediva un po’ ovunque
all’estero nel primo dopoguerra, dalla Russia al Canada, dall’Irlanda
alla Turchia: com’è noto, il progetto di introduzione del suffragio femminile
in Italia, scomparso dall’agenda politica di Mussolini, sarebbe
tornato al centro del dibattito nazionale solo nel secondo dopoguerra.
Cionondimeno, la Salazar accettò l’interlocuzione col fascismo e diede
il suo contributo alla fondazione dell’ANDPA, l’Associazione Nazionale
Donne Professioniste e Artiste che segnò un passo avanti nella
conquista dell’autonomia delle donne in campo artistico53.
In una delle sue ultime conferenze, sull’Unione italo-americana in
rapporto all’avvenire di Napoli, la scrittrice tornava a rilanciare i temi
della modernizzazione sociale ispirati al moderatismo cattolico nel
quale sempre si riconobbe, in un discorso «in presenza delle autorità
ecclesiastiche, civili e militari» raccolte nell’aula consiliare del convento
di Santa Maria La Nova, in cui invocò e sostenne l’appoggio del
regime per l’emancipazione della donna fascista54. Di fatto, con l’ina-
52 F. Zampini Salazar, Margherita of Savoy. First Queen of Italy, Her Life and Times,
with a preface by Richard Bagot, London, Mills and Boon, 1914, pp. 12-13. La
traduzione fu procurata dalla stessa autrice. La Salazar aveva recensito i libri sulla
vita e la cultura italiana di Richard Bagot, The My italian year (London, Mills &
Boon, 1911) The Italians of to-day, Leipzig, Bernhard Tauchnitz, 1912), nell’articolo
Un vero amico dell’Italia. Riccardo Bagot, «La nuova antologia di lettere, scienze ed
arti», Serie V, vol. 167, 1 set. 1913, pp. 29-40.
53 Cfr. Sabrina Spinazzè, Artiste nel Ventennio. Il ruolo dell’associazionismo femminile
tra emancipazione e nazionalizzazione, in Donne d’arte. Storie e generazioni, a
cura di Maria Antonietta Trasforini, Roma, Meltemi, 2006, pp. 57-75.
54 F. Zampini Salazar, La Unione italo-americana in rapporto all’avvenire di Napoli.
Discorso tenuto nella sala del Consiglio provinciale a S. Maria La Nova, domenica 27
marzo 1927 […], con prefazione di Angelo Conti; e cenni sull’attività della Salazar
negli Stati Uniti dal 1887 ad oggi, Napoli, F. Giannini & figli, 1927.
[ 19 ]
360 nunzio ruggiero
sprirsi della dittatura, gli Stati Uniti d’America dovevano rappresentare
anche per lei un modello opposto all’oscurantismo e al provincialismo
culturale dei regimi totalitari della vecchia Europa. Nonostante
la tarda età, la conferenziera napoletana proseguì l’attività politica
disponendosi a un nuovo tour oltreoceano: la ritroviamo quasi ottantenne,
secondo la testimonianza del periodico statunitense «Il Carroccio
», nell’azione di «propagandista indefessa dell’unione italo-angloamericana
», con l’ultimo ciclo di conferenze per l’Associazione Nazionale
Femminile di New York, per mantenere vivo fino all’estremo il
suo sogno di libertà.55
Nunzio Ruggiero
Università Suor Orsola Benincasa – Napoli
55 L’annuncio si legge nel mensile di «coltura propaganda e difesa italiana in
America», stampato a New York «Il Carroccio (The Italian Review»): «La scrittrice
contessa Fanny Zampini-Salazar, propagandista indefessa dell’unione italo-angloamericana,
è ospite in New York dell’Associazione Nazionale Femminile, sotto i
cui auspici ha tenuto diverse conferenze. – La contessa Salazar tenne la cattedra di
letteratura inglese all’Istituto Superiore Femminile di Magistero. Fra le sue pubblicazioni
è notevole un’opera sui Brownings e una biografia della Regina Margherita
» (XVII, 1931, voll. 33-34, p. 180).
[ 20 ]
Davide Colombo
Ettore Cozzani fra Dante e Pascoli*
L’articolo indaga gli studi danteschi di Ettore Cozzani (1884-1971) secondo tre
linee di ricerca: le postille inedite a due biografie dantesche; le lecturae Dantis e
le conferenze conservate presso l’archivio dell’Istituto Lombardo di Milano; il
rapporto con Pascoli dantista, al quale Cozzani dedicò il volume del 1939 Pascoli.
Il poeta di Dante.

This article investigates the work on Dante carried out by Ettore Cozzani (1884-
1971), looking at three distinct aspects: the unpublished marginal notes in two
Dante biographies; the lecturae Dantis and the conference papers kept in the
archives of the Istituto Lombardo in Milan; the relationship with Pascoli’s writings
on Dante, a subject to which Cozzani devoted a book published in 1939,
Pascoli. Il poeta di Dante.
1. Nel 1913 un numero speciale dell’«Eroica» commemora il primo
anniversario della morte di Giovanni Pascoli. Il direttore e cofondatore
della rivista, Ettore Cozzani, ricorda che Pascoli, suo maestro per
due anni a Pisa, chiamava Dante a testimone della propria grandezza
non ancora riconosciuta dalla critica1. La familiarità che Cozzani, in
questa e in altre occasioni, lascia intendere d’aver avuto con Pascoli,
Autore: Univ. degli Studi di Milano; docente a contratto; Davide.Colombo@
istruzione.it
* Il saggio è stato presentato all’incontro di studio Ettore Cozzani e l’Eroica organizzato
dall’Istituto Lombardo di Milano. L’autore desidera ringraziare Adele
Bianchi Robbiati, Carla Conforto Pagano, Francesco Spera, Maurizio Vitale.
1 «L’Eroica», III (1913), fasc. 3-4, pp. 144-147. Sulla rivista «L’Eroica» e su Cozzani
mi limito a segnalare tre recenti contributi, dai quali sarà possibile trarre una
prima bibliografia orientativa: Valerio Bona, Ettore Cozzani ed il sogno di un’arte
“eroica”, in Una lunga fedeltà all’arte e alla Valsesia. Studi in onore di Casimiro Debiaggi,
a cura di Enrica Ballarè, Gianpaolo Garavaglia, Borgosesia, Società
valsesiana di cultura, 2012, pp. 205-226; Cecilia Gibellini, «La bella scuola»: L’Eroica
e la xilografia, in Letteratura e riviste, a cura di Giorgio Baroni, Pisa, Giardini,
Contributi
362 davide colombo
non trova riscontro nelle ricerche all’archivio di Castelvecchio. Esso
conserva meno di dieci missive di Cozzani, concentrate nel 1905,
quando Pascoli gli aveva affidato il commento dei Poemi conviviali. La
probabile insoddisfazione per il lavoro dell’ex allievo aveva indotto
Pascoli ad allentare prima e poi a interrompere i rapporti con lui2.
Proprio la prefazione dei Poemi conviviali contiene indicazioni, rilevanti
sebbene ripetute, sugli studi danteschi di Pascoli, Minerva oscura,
Sotto il velame e La mirabile visione, studi in cui un sistema alternativo
di significati è sovrapposto a quello letterale, secondo una lettura
allegorica della Commedia. Pascoli scrive che quegli studi sono stati
derisi, ma si dice convinto che un giorno saranno apprezzati: «così
credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra
gente, Dante, la additerà ai suoi figli». Anche per questi toni profetici
e risentiti gli studi danteschi di Pascoli non incontrarono il consenso
della comunità dei dantisti, allora divisa tra la critica estetica di Benedetto
Croce e la scuola filologica di Michele Barbi3. Croce, convinto
che la lettura allegorica della Commedia fosse allotria, distinta dall’unica
legittima, quella estetica appunto, definì «singolare aberrazione» il
dantismo pascoliano. Barbi, direttore del prestigioso Bullettino della
Società dantesca, affidò la recensione di Sotto il velame a Ermenegildo
Pistelli. Questi non parlò dei contenuti del libro, ma ne criticò la forma
espositiva, ridondante e impossibile da seguire: «chi tentasse di riassumere,
o meglio chi esponesse compiutamente, ma in tutt’altra forma
da quella onde qui è vestito, il pensiero del Pascoli, farebbe cosa
grandemente utile non solo agli studi danteschi, ma al Pascoli stesso»4.
2004, pp. 69-75; Ead., Gli amanti di Morgana: Ettore Cozzani, L’Eroica e l’architettura,
«Rivista di letteratura italiana», XXIII (2005), 1-2, pp. 195-202.
2 Umberto Sereni, Notizie e riflessioni intorno a Ettore Cozzani da utilizzare per la
storia dell’«italianismo», in Il senso dell’eroico. Cozzani, Pascoli, D’Annunzio, a cura di
Marzia Ratti, La Spezia, Silvana Editoriale, 2001, pp. 31-52. Sull’interpretazione
di Pascoli da parte di Cozzani, cfr Paolo Senna, «Pascoli non ha mai perdonato»: un
dibattito e uno scambio epistolare tra Augusto Guido Bianchi, Ettore Cozzani e Vittorio
Cian, «Giornale storico della letteratura italiana», CXCIII (2° trimestre 2016), fasc.
642, pp. 212-244.
3 Si vedano due interventi contenuti nella miscellanea L’idea deforme. Interpretazioni
esoteriche di Dante, a cura di Maria Pia Pozzato, Milano, Bompiani, 1989:
Sandra Cavicchioli, Giovanni Pascoli: del segreto strutturale nella “Divina Commedia”,
pp. 107-145; Regina Psaki, La critica dantesca ortodossa e gli allegoristi, pp. 263-
279.
4 Ermenegildo Pistelli, rec. a Giovanni Pascoli, Sotto il velame […], «Bullettino
della Società Dantesca Italiana», VIII (dicembre 1900-gennaio 1901), fasc. 3-4,
pp. 73-75.
[ 2 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 363
Qualche tempo dopo, nella Prolusione al “Paradiso”, Pascoli ammise
che «dal suo punto di vista» l’amico Pistelli aveva «ragione».
Da qui muove Cozzani, dal suggerimento di Pistelli avallato da
Pascoli. Dal 1936 al 1955 egli pubblica un saggio in cinque parti su
Pascoli. La quarta parte, del 1939, Pascoli. Il poeta di Dante, altro non è
che un riassunto non soltanto di Sotto il velame, ma di tutti gli studi
danteschi di Pascoli5. Cozzani stesso ammette che il suo libro del ’39 è
«il riordinamento e la sintesi con cui ha cercato di facilitare la lettura
dell’immensa esegesi» pascoliana. Questa sintesi presenta tre caratteristiche:
1. è apologetica, animata cioè dallo stesso convincimento dei Poemi
conviviali: Pascoli dopo sei secoli ha scoperto la verità sulla
Commedia, ma c’è stata una congiura del silenzio da parte dei
dantisti di professione per negargli il giusto riconoscimento;
2. è acritica: le tesi di Pascoli sono talmente autoevidenti che per
provarne la fondatezza basta riassumerle, senza portare ulteriori
argomenti a sostegno;
3. è servile: Cozzani indica i numeri precisi delle pagine di Minerva
oscura riassunte dal suo saggio.
L’ostentata subordinazione all’originale pascoliano conquista il
lettore, che vede le duemila pagine degli studi danteschi di Pascoli
ricondotte a un più condivisibile principio di economia interpretativa,
ma nel contempo ne tradisce la fiducia: egli si aspetta un riassunto di
Pascoli e invece talvolta si imbatte in osservazioni mimetizzate di
Cozzani. «L’inno che pervade tutta la Commedia è l’obbedienza alle
leggi»: questa è un’interpolazione di Cozzani che non rispecchia il
pensiero di Pascoli. Beninteso, i capisaldi di quel pensiero – ovvero
che la Commedia è un’Eneide novella composta a Ravenna e basata su
simmetrie strutturali fra i tre regni – sono pienamente colti da Cozzani,
che però via via li semplifica e quindi li banalizza6.
Malgrado questi e altri limiti7, occorre riconoscere a Cozzani il me-
5 Ettore Cozzani, Pascoli. Il poeta di Dante, Milano, L’Eroica, 19392, IV (da cui
sono tratte anche le successive citazioni). Un estratto ristampato è Verso il VII centenario
di Dante Alighieri: gli studi pascoliani, «Fogli sparsi», II (1964), n. 5, pp. 7-9.
6 Diversa l’interpretazione di Pietro Iannuzzi, Ettore Cozzani animatore di
energie spirituali, «La Zagaglia», IV (1962), n. 13, pp. 74-82, a p. 80.
7 Pochi e poco interessanti sono anche gli spunti aneddotici su Pascoli dantista:
in primo luogo la sorella Maria avrebbe scritto a Cozzani che Pascoli aveva
studiato la Commedia «con tanta fatica e tanta fede d’essere nel vero»; in secondo
[ 3 ]
364 davide colombo
rito di aver intuìto che, quando parla di Dante e della Commedia, Pascoli
parla pure di sé e del suo modo di intendere la letteratura. La
chiave di lettura del Pascoli dantista è il parallelismo fra i due poeti
suggerito dallo stesso Pascoli. Vediamo qualche dettaglio. Secondo
Pascoli Dante non ha mostrato subito la verità della Commedia perché
voleva che i lettori partecipassero a quel difficile processo interpretativo.
Secondo Cozzani Pascoli ha fatto lo stesso: ha scoperto la verità
della Commedia, e nel contempo ha narrato «il viaggio stesso, negli
stati d’animo successivi, e nei successivi stadii della scoperta». Pascoli
è come Dante, poeta e mistico: per questo lo capisce, per questo aspira
a ricreare nella propria opera critica l’accidentato percorso del suo capolavoro
poetico. Infatti «l’opera di interpretazione pascoliana» – ammonisce
Cozzani – «è anche opera di creazione: poesia con la poesia:
vera e sola critica che abbia valore e regga nel tempo».
Chi studia il Pascoli dantista oggi dà quasi per scontata l’intuizione
di Cozzani, cioè che gli scritti danteschi di Pascoli vadano intesi
come discorsi di poetica e di teoria della critica. In questa direzione
s’inoltra il commento pascoliano di Maurizio Perugi per i classici Ricciardi
(1980): se Pascoli rifà Dante, allora le considerazioni su Dante
da parte di Pascoli critico si possono applicare anche a Pascoli poeta.
A ciascuno il suo: Cozzani dovrebbe essere incluso nel novero di quei
pochi ma valenti interpreti che hanno contribuito alla prima rivalutazione
del Pascoli dantista nei limiti del poeta recuperato a critico di sé
stesso8.
2. Su Cozzani interprete del Pascoli dantista getta luce un esemplare
della prima edizione della Vita di Dante di Tommaso Gallarati Scotluogo
Cozzani avrebbe avuto notizia diretta della volontà di Pascoli di scrivere un
commento integrale alla Commedia con l’aiuto dei suoi giovani discepoli.
8 Su questa strada s’è incamminato, ma senza approfondire la questione,
Giampaolo Pignatari, La vicenda culturale di Ettore Cozzani, «La Martinella di Milano
», XXXVI (gennaio-febbraio 1982), fasc. I-II, pp. 359-365, p. 362: «l’aspetto più
significativo di tale lavoro [i libri di Cozzani su Pascoli] si deve riconoscere nella
riscoperta delle letture dantesche da parte di Pascoli». Di contro Luigi Picchi, Ettore
Cozzani critico letterario, «Otto Novecento», XIX (1995), 1, pp. 125-145, a p. 134
parla della sua presunta «mancanza di un contributo personale rilevante» in campo
dantesco. Riserve sul metodo di Perugi sono state espresse da Giorgio Bàrberi
Squarotti, La critica pascoliana oggi, in Testi ed esegesi pascoliana. Atti del Convegno
di studi pascoliani. San Mauro Pascoli, 23-24 maggio 1987, Bologna, Clueb, 1988,
pp. 9-22.
[ 4 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 365
ti (1921) con postille autografe dello stesso Cozzani9. Tra le pagine 174
e 175 il nome di Pascoli compare quattro volte a margine di osservazioni
sulla «violenza di volontà creatrice» del poeta, sui «materiali
plasmati con ansia febbrile» da Dante, sulla sua «capacità di penetrare
oltre la lettera, fino a udire le voci nascoste, che non parlano ai pedanti
». Non si capisce se secondo Cozzani queste idee critiche siano state
anticipate da Pascoli (così farebbe pensare un’altra postilla di tipo cronologico,
«Il libro è del 1921. Pascoli è morto nel 1912»), oppure se tali
idee siano valide sia per Dante sia per Pascoli. Quel parallelismo fra i
due di cui si diceva prima è così forte da sfiorare addirittura l’identità.
Gallarati Scotti osserva che per Dante «lo scrivere è la forma più alta
di vita e di azione». Cozzani dissente: «e allora!? Questo è il punto. La
Commedia non è il dolente abbandono della lotta[,] ma una fase della
lotta[:] è tutto della propria idea e della propria vita». Cozzani lungo
tutta la sua attività di interprete cerca di ravvisare questo alfieriano
forte sentire anche in Pascoli, di cui rifiuta il cliché di poeta «delle piccole
cose», infantile e bamboleggiante.
Il parallelismo tra Dante e Pascoli riguarda pure i critici «pedanti»
che non li capiscono. Due postille segnano le pagine 174-175 del libro
di Gallarati Scotti: «povero Benedetto Croce» la prima, la seconda «e il
critico non ha da insegnargli nulla; ha solo da vergognarsi di non
averlo capito». Queste postille si riferiscono alla «costruzione architettonica
inscindibile e immodificabile» della Commedia secondo Gallarati
Scotti. Cozzani ha in mente il capitolo della Poesia di Dante in cui
Croce attacca il paragone tra la Commedia e un oceano di perle, con cui
Pascoli nel Fanciullino aveva voluto dire che non tutto nella Commedia
è poesia. Croce ribatte con la distinzione fra ciò che è strutturale e ciò
che è poetico, in contrasto con dantisti come Gallarati Scotti, ammiratori
dell’architettura della Commedia10. «O Croce – postilla perciò Cozzani
a p. 220 – di quanto la Commedia è piena, e non solo di squarci di
poesia»11.
9 La terza e definitiva edizione della Vita di Dante (Milano, Rizzoli, 1957) è
stata ripubblicata a cura di Francesco Spera, con una nota al testo di Claudia
Crevenna (Milano, Franco Angeli, 2008).
10 Benedetto Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 196110, pp. 64-66.
11 Il recupero delle parti strutturali del poema dantesco informa la lettura di If
XI da parte di Cozzani. Nel 1908 un tal Luigi Righetti aveva pubblicato un opuscoletto,
Di un canto falso della “Commedia” di Dante, in cui sosteneva che l’XI canto
dell’Inferno fosse apocrifo: eliminandolo, ogni cantica sarebbe stata lunga trentatré
canti. Cozzani invece osserva: «il canto ci rivela la passione di Dante per la vita del
pensiero […]: una passione che non si capisce perché non debba diventare argo-
[ 5 ]
366 davide colombo
Rivolta non soltanto a Croce, ma altresì a certi studiosi del poeta è
l’annotazione di pagina 177. Gallarati Scotti osserva che «Dante è un
rinnovatore e creatore della poesia italiana»; Cozzani commenta che il
poeta è «padrone di dire quello che vuole come vuole, e non come
vogliono gli eruditelli e criticoni». Tra Otto e Novecento era diffusa
l’insofferenza verso gli esegeti della Commedia. Da una parte De Sanctis
e lo stesso Croce esortavano a gettar via i commenti indipendentemente
dalla loro qualità; dall’altra studiosi del calibro di Parodi, Cian
e Barbi lamentavano invece un abbassamento della qualità dovuto al
dilettantismo di molti sedicenti dantisti12. Era legittimo il sospetto che
tra «gli eruditelli e criticoni» che fanno dire a Dante ciò che vogliono
loro figurasse pure Pascoli, scopritore di oscure simmetrie nel poema.
Cozzani nel libro del ’39 lo esclude: «è a ogni modo oggetto di meraviglia
che il Pascoli scopra queste rispondenze, e le illumini e ci paian
subito esatte. E comunque, ammettiamo che Dante non abbia egli stesso
vedute queste armonie; le ha tuttavia create, se qualcuno può rivelarcele
». L’interprete, Pascoli, è messo sullo stesso piano dell’oggetto
delle sue ricerche, Dante, sicché il libro del ’39 si chiude sulla convinzione
che Pascoli verrà ricordato insieme a Dante, poiché dopo sei
secoli è stato il primo a capirlo veramente.
3. Queste premesse orientano le spigolature nella sezione dantesca
del ricchissimo fondo Cozzani pervenuto all’Istituto Lombardo nel
1984 in donazione dai familiari. Per parlare di Dante in pubblico, a
Cozzani bastava aver tra le mani o un’edizione della Commedia senza
note13, o pochi appunti schematici, che non consultava quasi mai. Alla
mento e fonte di poesia, come, per esempio, la passione amorosa: il che varrà per
tutti i passi e i canti dottrinali del Purgatorio e del Paradiso».
12 L’invito di Francesco De Sanctis («se volete gustar Dante […], leggetelo
senza comenti»), in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli, Torino,
Einaudi, 1955, p. 635, era stato ripreso da B. Croce, La poesia di Dante, cit., p. 19.
«Nulla in Italia è più facile che diventare un egregio o un insigne o anche un illustre
dantista. S’intende che la cosa riesce molto difficile quando uno sia un dantista
sul serio e un uomo serio», aveva detto Ernesto Giacomo Parodi, Dantofobi, dantisti,
dantomani e metodo storico (1906), in Id., Il dare e l’avere fra i pedanti e i geniali,
Genova, Perrella, 1923, pp. 27-28. La diatriba era rilanciata da Vittorio Cian, Dilettantismo
e scienza negli studi letterari, «Nuova antologia di scienze lettere e arti»,
CCXXV (maggio-giugno 1909), p. 37; e, a più ampio respiro, da Michele Barbi,
Per un nuovo commento della “Divina Commedia”, «Studi danteschi», XIX (1935), poi
in Id., Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze, Le Monnier, 1941, p. 5.
13 Lo rammenta lui stesso parlando della sua prima lectura Dantis nel volume
postumo Alcuni dei miei ricordi, Pisa, Giardini, 1978, p. 140 (testimonianza già in
[ 6 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 367
segnatura Arch.mss.72(1-9) il fondo conserva diciotto tracce manoscritte
di conferenze dantesche. Questo materiale grezzo – la Commedia
senza note o le minute per la lettura pubblica – si può sviluppare
in due direzioni confluite nel faldone siglato Arch.mss.59(1-5), da una
parte le lecturae Dantis, dall’altra le conferenze vere e proprie. Entrambe
gli sviluppi sono consegnati perlopiù a dattiloscritti con correzioni
manoscritte, alcune di mano di Cozzani stesso, altre forse della sua
collaboratrice Ginia Bordogna. Le letture dantesche, una trentina circa,
indagano quasi tutto l’Inferno e un canto del Purgatorio. Il nucleo
più consistente (i primi quindici canti dell’Inferno) risale a un ciclo tenuto
alla Società del Giardino di Milano negli anni 1956-57. Una trentina
sono anche le vere e proprie conferenze, non più schematiche ma
del tutto rifinite, in parte poi pubblicate14.
Questi materiali contribuiscono a ridefinire la figura intellettuale
di Cozzani, a partire dalla sua posizione ideologica. A detta del Dizionario
biografico degli Italiani, Cozzani sarebbe stato poco più che un volgarizzatore
dell’estetica fascista15. In effetti il fondo custodisce una
conferenza, autografa e inedita, dal titolo eloquente Dante poeta d’Impero:
vi si legge che l’impero è inteso in senso italiano, come conquista
dello spazio vitale e missione di civiltà. Secondo il libro su Pascoli del
’39, Dante «esprime l’anima della più armoniosa delle razze, la razza
italiana». Espressioni siffatte sono dettate non dall’obbiettività critica,
bensì dalla strumentalizzazione politica di un Dante in camicia nera16.
parte edita: cfr Id., La mia prima lettura dantesca: un giovane parroco in un consesso di
cardinali, Roma, Biblioteca de L’Eloquenza, 1962). La prima lettura non si trova nel
fondo Cozzani dell’Istituto Lombardo. Mancanti risultano pure alcune delle otto
lecturae Dantis romanae, tenute da Cozzani nel palazzo degli Anguillara dal 1940 al
1962.
14 Le note della presente ricerca forniscono una bibliografia orientativa degli
studi danteschi di Cozzani. Il suo primo intervento sulla Commedia dovrebbe essere
una Nota dantesca, «Gazzetta del Popolo della Domenica», XX (12 ottobre 1902),
n. 41 (di cui si ha notizia indiretta dalla Bibliografia dantesca di Luigi Suttina, Cividale
del Friuli, Fulvio, 1902, p. 132). Si vedranno altresì: Parlano Ulisse e Farinata.
Due “orazion picciole”, «L’Eloquenza», XLV (1955), 1-2, pp. 34-40; I peccator carnali
nella “Divina Commedia”, «L’Eloquenza», XLVII (1957), fasc. 5-6, pp. 303-328; Il canto
di Farinata, «L’Eloquenza», XLVIII (1958), 5-7, pp. 373-393; La musica di Dante,
«Dante, per Dante, La Brigata degli amici del libro italiano», X (1965), 12, pp. 6-9;
San Francesco e Dante, «Cammino. Annali francescani», XCVI (sett./ott. 1965), n. 5,
pp. 3-4.
15 Marcello Carlino, Cozzani, Ettore, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell’enciclopedia italiana, 1984, XXX, pp. 552-555.
16 Cfr. Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta
[ 7 ]
368 davide colombo
Del resto già la temperie in cui s’era formato Cozzani alimentava l’intreccio
fra culto di Dante e retorica nazionalista, elementi dell’Italia
postunitaria assimilati dall’ideologia fascista. I più importanti maestri
di Cozzani a Pisa, Pascoli appunto, Gioacchino Volpe e il già citato
Vittorio Cian, sono stati nazionalisti e fascisti. Per meglio dire: Volpe e
Cian hanno firmato il manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925; allora
Pascoli era già scomparso, anche se il suo saluto per l’inizio della
guerra in Libia, La grande proletaria si è mossa, sarebbe stato letto come
il preludio della “rivoluzione” ugualmente proletaria di Mussolini.
Termini come nazionalismo e fascismo andrebbero ricalibrati
quando si tratta di Cozzani dantista. Nazionalismo non significa chiusura
autarchica rispetto ai contributi degli altri paesi. Nel fondo del
Lombardo è conservato un autografo di Cozzani che descrive il suo
progetto di un volume celebrativo per l’anniversario dantesco del
1921. I primi due punti prevedevano di «ottenere da ciascuno dei geni
più rappresentativi delle nazioni del mondo […] un giudizio sul valore
di Dante», e anche «una serie di studi storici su ciò che Dante ha
valso nella cultura di ciascun popolo, e di quello che ciascun popolo
ha fatto per illustrarlo e commentarlo»17. Lo studio di Dante è stata
anzi un’occasione di ripensamento critico del regime fascista e del suo
esito ferale. Per tre volte Cozzani scrive la data «1943» sui margini
della biografia dantesca dell’antifascista Gallarati Scotti, con l’intento
di riferire a quell’anno tragico le seguenti affermazioni: «i critici […]
nell’ora della disfatta hanno sempre ragione»; l’accusa di «essersi lasciato
corrompere dal denaro [è una] insinuazione di tutti i tempi,
quando crolla la fede in un uomo e fallisce un suo piano di guerra».
Il punto decisivo è che Cozzani mai s’è iscritto al Partito fascista
(invitato a una conferenza, destò scandalo il fatto che si presentasse
senza distintivo né divisa18), e mai ha cercato vantaggi di alcun tipo
nell’Italia fascista, «The Italianist», XVI (1996), pp. 117-142; Luigi Scorrano, Il Dante
“fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 89-125; Martino
Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale del Novecento, Firenze, Cesati, 2015.
17 Carlo Dionisotti (Varia fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura
italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 234) rileva che E. G. Parodi e altri «insigni
maestri universitari», pur essendo «nazionalisti», intendevano celebrare Dante nel
quadro di una «pacifica ripresa degli studi in tutta Europa». Era una posizione
quasi obbligata: negli ultimi anni dell’Ottocento, stando almeno alla denuncia di
Michele Barbi nel saggio del 1893 Gli studi danteschi e il loro avvenire in Italia, i più
rilevanti contributi all’intelligenza della Commedia (edizione critica, concordanze,
commenti antichi) si dovevano a dantisti stranieri.
18 E. Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, cit., p. 43.
[ 8 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 369
dal regime. E dire che ne avrebbe avuto bisogno: l’«Eroica» non aveva
finanziatori e non accettava inserzioni pubblicitarie. Sembra che per
Cozzani la ricerca della verità sia – almeno sulla carta – più importante
dell’utile immediato e delle convenienze personali. Al riguardo la
recensione autografa a un libro di un dantista pascoliano, Luigi Valli19,
contiene un passaggio significativo: il libro si rivolge a quei «giovani
[…] che vogliono “arrivare”, ma non a un buon posto nell’insegnamento
e nella stampa letteraria – ma alla radice della verità». Nella
Commedia Cozzani cercava – si legge nella conferenza del 1937 Un
Dante nuovo per una nuova Italia, tenuta in diversi Istituti di cultura fascista20
– «una verità iniziatica, una grande terribile verità, forse una
verità ereticale che Dante non poteva manifestare ai suoi tempi poiché
altrimenti egli avrebbe salito il rogo». Benché il riferimento al carattere
eterodosso della verità dantesca rimandi piuttosto alle ricerche di Valli21,
non v’è dubbio che per Cozzani sia stato Pascoli a scoprire il velame
della Commedia, a coglierne la «verità iniziatica». In altre parole il
Dante nuovo per una nuova Italia è quello che ci hanno dato Pascoli e i
suoi seguaci, non Mussolini e i lettori fascisti. Contaminazioni ideologiche,
sebbene presenti e vive negli studi danteschi di Cozzani, rimangono
però minoritarie rispetto all’analisi letteraria della Commedia. In
questo campo Cozzani cercava la verità avendo Pascoli come guida.
La lettura del primo canto dell’Inferno per la Società del Giardino
realizza l’obiettivo in parte mancato dal libro del ’39, fornisce cioè
un’esposizione didascalica delle ardue visioni di Pascoli. Ad esempio
per il verso «sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso», Cozzani spiega
che Dante zoppicava da un piede, come Giacobbe dopo la lotta con
Dio, e riconduce questa immagine al legame del pellegrino con la vita
attiva22. Persiste inoltre l’idea che leggere Dante significhi ricrearlo.
19 Luigi Valli, La struttura morale dell’universo dantesco, Roma, Ausonia, 1935.
20 Ettore Cozzani, Un Dante nuovo per una nuova Italia. Conferenza tenuta al
Teatro Regio di Parma il 1 giugno 1937, Bergamo, Tip. Ravasio, 1972. Il saggio è
stato poi ristampato, col titolo Grandezza di Dante e del suo messaggio, sia in «La
Brigata degli amici del libro italiano», XVII (1972), n. 11, pp. 2-8, sia in «Sotto il
Velame», n. s., I (1999), pp. 137-157 (segue il Ricordo di Ettore Cozzani di Donatello
Viglongo, pp. 159-162).
21 «L’interpretazione da me proposta» – scrive Luigi Valli alla fine de Il segreto
della Croce e dell’Aquila nella “Divina Commedia”, Bologna, Zanichelli, 1922, p. 286
– «non esclude affatto che, nella Divina Commedia, siano adombrati altri concetti
mistici di origine non ortodossa, di quelli che […] furono segnalati da Gabriele
Rossetti e dall’Aroux».
22 Cfr. Dante Della Terza, Pascoli dantista. Risvolti metodologici e analogie pro-
[ 9 ]
370 davide colombo
Cozzani espande il testo, inserisce dettagli che non ci sono ma che
avrebbero potuto esserci: «la selva è tutta punte di tronchi spezzati, di
rami divelti, di bronchi». Pascoli fa lo stesso quando dice che Dante
smarrito nella selva «si rivolgeva come se avesse incontrato fossi e
catene». L’espansione del testo di Dante tramite una similitudine è un
procedimento cui Cozzani ricorre spesso nelle sue letture23.
Anche in campo dantesco, insomma, i documenti del fondo restituiscono
un’immagine di Cozzani diversa dalla vulgata. Recensendo
una sua conferenza pubblicata nel ’58, Francesco Mazzoni parlava di
«una lettura in chiave psicologica», della «finezza di alcune notazioni
», soprattutto di una «manifesta facilità di loquela, che indulge spesso
alla parafrasi verbale»24. Ciò che a Mazzoni pare un difetto, la «facilità
di loquela», in realtà è una scelta consapevole di Cozzani, che si
può spiegare di nuovo in rapporto a Pascoli. Questi nel 1902 a Orsanmichele
tenne la già citata Prolusione al “Paradiso” con esiti disastrosi.
La forma congestionata aveva reso quasi inaccessibile il contenuto
agli ascoltatori. Era lo stesso problema segnalato qualche mese
prima dalla recensione di Pistelli, il problema che Cozzani nel libro
del ’39 avrebbe provato a risolvere approntando un «riordinamento»
e una «sintesi» dei saggi danteschi di Pascoli. Di fronte alla Prolusione
Cozzani propone la stessa diagnosi e la stessa terapia, nel senso che a
una forma troppo compatta occorre far fronte con un alleggerimento
dei toni e dei contenuti:
Parlando a un pubblico, fin che si voglia preparato e attento, ma ridotto
al solo aiuto dell’ascoltare, e obbligato a seguir l’oratore, senza possibilità
di soste, se è stanco, di ritorni, se si è distratto o non ha capito
– si può certo presentare una sintesi di pensiero, anche profonda, audace
e inattesa; ma soltanto a grandissime linee, con poche idee fondamentali,
con uno schema semplice e chiaro; e aiutandosi a tener desto
e seguace l’uditorio, con molto ardore di sentimento25.
iettive, «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri», II (2005), pp.
135-145, p. 144.
23 Cfr. Ettore Cozzani, Il canto di Francesca, Roma, Biblioteca de L’Eloquenza,
1957, p. 5: Minosse, davanti al dannato che confessa i suoi peccati, «“vede”, come
in un lampo il tutto, – proprio come noi nella vita cogliamo con uno sguardo lo
stato d’animo di un interlocutore».
24 La breve recensione a Cozzani, Il canto di Farinata, cit., si legge in «Studi
danteschi», XXXVII (1960), p. 324 (nello stesso numero un’altra scheda bibliografica
di Mazzoni su Cozzani a p. 315).
25 E. Cozzani, Pascoli. Il poeta di Dante, cit., p. 316.
[ 10 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 371
In un’ideale antologia del Cozzani dantista, questa pagina meriterebbe
rilievo speciale. Vi si sostiene che chi commenta Dante in pubblico
dovrebbe esporre in modo chiaro e coinvolgente «poche idee
fondamentali». È il metodo delle conferenze di Cozzani: la lettura delle
terzine di un canto della Commedia è intercalata dalla loro parafrasi
(interpretativa piuttosto che verbale) o dall’introduzione di problemi
critici generali. Al contrario di Pascoli, Cozzani compie un (in apparenza)
umile lavoro di servizio, che accetta in piena coscienza il rischio
della «facilità di loquela» pur di venire incontro alle esigenze e alle
aspettative di chi legge o ascolta.
Ci sono due modi di interpretare la Divina Commedia [aggiunge Cozzani
nella già menzionata lettura di If I]: il primo è di quanti desiderano
che gli ascoltatori se ne vadano dicendo: «come è istruito questo commentatore!
»; il secondo è di quanti desiderano che gli ascoltatori se ne
vadano dicendo: «che grande poeta è Dante!». Io faccio parte di
quest’ultima schiera.
Si delineano in modo sempre più chiaro le differenze tra Pascoli e
Cozzani. Negli studi danteschi del poeta di San Mauro è molto forte la
soggettività del critico. Pascoli ritiene di poter chiarire da solo gli enigmi
di cui Dante avrebbe disseminato la Commedia, in modo da spingere
i suoi lettori a intraprendere un particolare cammino ermeneutico. Anche
di questo lo accusano i primi recensori, di non aver tenuto conto
dei contributi degli altri dantisti: «Pascoli non cita e non confuta nessuno:
fa solo qualche eccezione per qualche suo amico personale»26. Cozzani
invece imposta in modo diverso il rapporto fra autore e critico.
Egli non pensa che Dante sia volutamente oscuro («sono sempre certo
che è colpa mia se non sono riuscito a raggiungere la sua altezza»), né,
d’altro canto, che sia possibile spiegare tutto della Commedia («è inutile
cercare di raggiungere una certezza dove Dante ha voluto vestir di mistero
il proprio pensiero»). La spiegazione s’avvantaggia dei contributi
vuoi di seguaci di Pascoli come il già citato Valli e Luigi Pietrobono27,
26 Lorenzo Filomusi Guelfi, rec. a Giovanni Pascoli, Sotto il velame […],
«Giornale dantesco», VIII (1900), pp. 507-518, a p. 518 (poi in vol.: Id, Studii su
Dante, Città di Castello, Lapi, 1908, p. 233).
27 Valli e Pietrobono – a dispetto (o forse a causa) dei quali l’interpretazione
pascoliana della Commedia non entrò nel circolo vivo della nostra cultura – sono
presenze discrete ma assidue negli scritti di Cozzani, senza che questi ne intenda
il ruolo storico di garanti di una possibile assimilazione del Pascoli dantista al canone
critico ufficiale: come tramite a Pascoli Valli è menzionato da Auerbach nel
’29, Pietrobono da Gilson nel ’35.
[ 11 ]
372 davide colombo
vuoi di suoi avversari come Barbi28. Diversamente da Pascoli, Cozzani
sul piano del metodo è fedele a un’idea sinergica della critica dantesca:
si sente una voce nel coro, e cerca di contribuire al meglio a un risultato
collettivo. Sul piano dei contenuti, invece, le proposte innovative di
Cozzani riguardano l’interpretazione di singoli passi più che lo scioglimento
di questioni generali. Un esempio è la topografia del canto proemiale,
che si svolgerebbe in una «selva a diversi livelli e a diverso
spessore d’alberi», composta «di una valle, di una piaggia, di un’erta».
Questa tesi poggia su una premessa oggi non più accreditata, cioè che
i versi «per trattar del ben ch’i’ vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho
scorte», alludano a Virgilio e alle tre fiere29.
4. La biografia di Dante è l’ambito in cui Cozzani percorre una strada
autonoma rispetto a Pascoli. È vero che le ricerche biografiche non
sono estranee all’orizzonte d’interessi del Pascoli dantista. La mirabile
visione collega l’architettura della Commedia alla biografia di Dante, il
quale avrebbe scritto il poema a Ravenna, negli ultimi otto anni della
sua vita (tesi poi ripresa da Karl Vossler). Senza nutrire ambizioni così
elevate, Cozzani si è limitato a studiare la figura di Gemma Donati, la
moglie del poeta. Il Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio
rivela che il matrimonio con Gemma fu combinato dai parenti di Dante
per consolarlo della morte di Beatrice. Dopo l’esilio i due coniugi
non si videro più, anzi si sfuggirono a vicenda. Per giustificare Dante,
Boccaccio ricorre al topos misogino secondo cui le donne, le mogli in
particolare, sono un ostacolo per chi si dedica allo studio. Sebbene
costruita con alcune delle fonti letterarie messe a frutto per il Corbaccio
(e non ignote allo stesso Alighieri, che nel Convivio indica la «cura familiare
» tra i deterrenti allo studio), la versione del Trattatello è indirettamente
convalidata da Petrarca: la sua celebre Familiare a Boccaccio
del 1359 ricorda che nemmeno l’amore per la moglie (amor coniugis)
frenò Dante dal cammino verso la fama30.
Un esemplare dell’edizione del 1908 del Trattatello, dal titolo Vita di
28 L’esigenza, avvertita da Cozzani nella lettura di If I del ’56, di accostarsi al
poema di Dante «come se fossimo quei contemporanei a cui Egli lo offriva», era già
stata espressa da Barbi. Una citazione implicita dello stesso filologo dà il via al
commento di Cozzani a passi della Vita nuova in Morte di Beatrice e di Laura. Commento
estetico di Ettore Cozzani e Andrea Gustarelli, Milano, Il Maglio, 1952
(la parte di Cozzani alle pp. 9-29).
29 Ettore Cozzani, Dante … non sapeva esprimersi, «Idea», V (1953), 30, p. 2.
30 Sono utili due interventi di Gennaro Sasso, «La Cultura. Rivista trimestrale
di filosofia letteratura e storia», XL (2002), 3: A proposito di If XXVI, 94-98. Varia-
[ 12 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 373
Dante, arricchisce la collezione privata di Carla Conforto Pagano. Tale
esemplare presenta alcune postille autografe di Cozzani, che vanno
accostate da una parte a quelle della Vita dantesca di Gallarati Scotti,
dall’altra a una serie di quattro articoli di Cozzani su Gemma, usciti
fra il 1965 e il 1970, che ripropongono più o meno gli stessi argomenti31.
In primo luogo Cozzani dubita dell’attendibilità del Trattatello. Infatti
Boccaccio prima riporta il topos misogino per cui chi studia non
dovrebbe sposarsi, poi nega ch’esso sia riferito a Dante. Viene naturale
questa postilla: «Non c’è una parola di particolare reale documentato
o saputo: e la vecchia favola misogina è confessata». Inoltre Cozzani
rileva che Gemma non entra nella vita di Dante nel 1290, alla morte di
Beatrice: «Gemma “sposata” (anello) nel 1277», recita un’altra postilla
al Trattatello. Nel 1277 infatti era stato stipulato il contratto dotale (ovvero
l’impegno a contrarre matrimonio) fra le famiglie di Dante e di
Gemma. «E Gemma “inanellata pria” [cioè sposata, come dice di sé
Pia de’ Tolomei]?» è una delle prime postille di Cozzani alla vita scritta
da Gallarati Scotti. Questi ritiene che Gemma non abbia avuto un
ruolo significativo nell’esistenza di Dante, il quale infatti non ne parla
nella Commedia. Cozzani postilla: «è volontà di riserbo: non parla
nemmeno de’ figli che collaborano con lui; ma “ogni cosa diletta più
caramente” e “d’amor[e] punge”»: sono citazioni scorciate di versi
della Commedia (Pd XVII, vv. 55-56, Pg VIII, vv. 4-5), che alludono al
focolare domestico, alla moglie e ai figli. Gallarati Scotti riporta poi il
passo decisivo di Boccaccio sulla separazione fra Dante e Gemma:
«egli una volta da lei partitosi […], mai né dove ella fosse volle venire,
né sofferse che dove egli fusse ella venisse giammai». Mentre la postilla
ironizza sul fatto che «non era facile prendere (per lei) un diretto; e
(per lui) trovarle albergo o pensione», l’articolo Difendo Gemma offre
argomentazioni più ragionate: Dante esiliato non poteva certo tornare
a Firenze per vedere la moglie, e a sua volta Gemma rimaneva in città
sia per salvaguardare il patrimonio a lei intestato (e quindi non requisito
dagli avversari del marito), sia per non coinvolgere i figli nel calvario
di un padre costretto a spostarsi di continuo e quindi non facilzioni
biografiche per l’interpretazione, pp. 377-396; Una postilla per Nella e Gemma Donati,
pp. 443-451.
31 Beatrice o Gemma?, «La Brigata degli amici del libro italiano», X (1965), pp.
8-12; Difendo Gemma Donati, la moglie di Dante, in Id., Chi è Beatrice? Milano, L’Eroica,
1968, pp. 65-76; Difendo la moglie di Dante Alighieri, «Frontiera», III (1970), 6, pp.
216-218; Arringa in difesa della moglie di Dante Alighieri, «Gli oratori del giorno. Rassegna
mensile di eloquenza», XXXVIII (1970), 11, pp. 30-34.
[ 13 ]
374 davide colombo
mente raggiungibile. Del resto i figli che Gemma partorì a Dante sono
la prova vivente che, almeno fino all’esilio, non venne meno l’amore
tra lui e la moglie. Rimane il fatto che nella Commedia la «sposa dal
Libano» è Beatrice, non Gemma32, sicché la glorificazione della donna
«beata e bella» sembrerebbe inconciliabile con l’amore per la legittima
consorte. Cozzani crede di risolvere il problema negando la natura
umana di Beatrice. Se costei fosse l’amante di Dante e non un simbolo,
argomenta Cozzani, la figlia di Dante, Antonia, certo non avrebbe assunto
da monaca il nome di Beatrice. Sui vivagni di Gallarati Scotti
spiccano due annotazioni, «Non è la Beatrice simbolo di Sapienza?», e
«come tutte le contraddiz[ioni] scompaiono se si crede in Beatrice-Sapienza
», secondo la tesi sostenuta da Francesco Perez33 e rilanciata da
Pascoli.
Proprio questo è il punto, che gli argomenti di Cozzani non sempre
sono originali: si possono trovare riassunti, tranne il riferimento al
contratto del 1277, nelle ricerche di Giovanni Andrea Scartazzini (brani
di questo studioso sono trascritti nel faldone dell’Istituto Lombardo
intitolato Appunti vari per conferenze), come Dante in Germania o Prolegomeni
della “Divina Commedia”34. Nell’ambito saturo d’informazione
del secolare commento, in cui minimi avanzamenti della ricerca richiedono
sforzi talvolta sproporzionati al risultato finale, è legittima
la scelta di Cozzani, selezionare e ricapitolare ciò che ha disposizione.
Viceversa Pascoli ambisce a rifondare il paradigma degli studi danteschi,
pur temendo che i suoi contributi vengano ridotti a «mutazioni,
magari lievissime, di nessun conto e merito, di sistemi altrui»35. Coz-
32 Giuseppe Autiero, Gemma Donati e la sposa del Libano. Immagini e metafore
matrimoniali nella “Commedia” di Dante, «Filologia antica e moderna», XXIII (2002),
12, pp. 35-61.
33 Francesco Perez, La Beatrice svelata, Palermo, Lao, 1865.
34 Giovanni Andrea Scartazzini, Digressione sulla Gemma di Dante, in Id.,
Dante in Germania. Storia letteraria e bibliografia dantesca alemanna, Napoli, Hoepli,
1881, I, pp. 263-271; Id., Prolegomeni della “Divina Commedia”. Introduzione allo studio
di Dante Alighieri e delle sue opere, Leipzig, Brockhaus, 1890, pp. 42-50. Già nel secondo
Ottocento la questione «se Gemma fu buona o cattiva moglie» pareva ad
Adolfo Bartoli, Storia della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1884, V, p. 140
nota 2, «oziosa e insolubile. Oziosa, perché noi studiamo Dante e non sua moglie;
insolubile, perché non abbiamo nessun dato di fatto su cui appoggiarci». In mancanza
di dati di fatto, Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 20085,
p. 199, ipotizza che Gemma fosse a Ravenna a fianco di Dante esule. Da ultimo
affronta la questione Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Milano,
Mondadori, 2012, p. 43.
35 Giovanni Pascoli, La mirabile visione. Abbozzo d’una storia della “Divina Com-
[ 14 ]
ettore cozzani fra dante e pascoli 375
zani non rincorre l’originalità ad ogni costo. Non appena cerca di impostare
in modo personale la questione di Gemma, allora sacrifica le
ragioni della storia letteraria a quelle della psicologia, e finisce col prestare
a Dante pensieri ed emozioni appartenenti ai suoi lettori: Gemma
era brutta?, si chiede a un certo punto: no, risponde, altrimenti
Boccaccio l’avrebbe detto. Sorprende infine che per Cozzani Dante
s’identifichi in sostanza con la Commedia, mentre altre opere avrebbero
potuto offrire argomenti contro Boccaccio: nel Convivio (I iii 4), ad
esempio, Dante afferma a chiare lettere il suo desiderio di tornare a
Firenze, il che significava rientrare sotto il tetto coniugale e quindi rivedere
Gemma.
In definitiva gli studi danteschi di Cozzani sembrano talvolta troppo
in anticipo (la riscoperta di Pascoli dantista), o troppo in ritardo (la
questione di Gemma) sui tempi. Tali studi sono ispirati da una doppia
convinzione, che Dante sia indispensabile per capire Pascoli, e che a
sua volta Pascoli, in una circolarità intensa e ben verificabile, sia fondamentale
per intendere Dante. L’allegorismo, il metodo di lettura di
Pascoli ripreso da Cozzani, si rivela una bussola efficace per esplorare
la lirica postpascoliana, da Eugenio Montale (Le occasioni e La bufera),
sino a Giancarlo Majorino (Viaggio nella presenza del tempo). Sulla falsariga
di Pascoli Cozzani ha poi cercato di recuperare la Commedia ad
una fruizione attuale, rivolgendosi in particolare a non specialisti, attraverso
un’opera di sintesi e revisione più che di nuove acquisizioni.
Per questo le pagine dantesche di Cozzani andrebbero riscattate
dall’indifferenza del tempo, perché, rispetto al canone critico ufficiale
del primo Novecento, esse offrono sulla Commedia uno sguardo alternativo,
dotato sì di rigore scientifico, ma comunque lontano dagli eccessi
del filologismo e dell’erudizione.
Davide Colombo
Università di Milano
media”, Bologna, Zanichelli, 19132, p. 319 nota 1.
[ 15 ]

Michele Mongelli
Forma epigrammatica ed inventio letteraria
nelle Epistolae ad Hiaracum di Elisio Calenzio
Nelle sue epistole dirette a Iaraco, pseudonimo del principe Federico d’Aragona,
l’umanista Elisio Calenzio seppe armonizzare temi e forme appartenenti
tradizionalmente ai due generi ‘pedestri’ dell’età classica, la satira e l’epigramma.
Il contributo analizza le riscritture, i motivi metaletterari ed i parallelismi
concettuali che legano la raccolta epistolare quattrocentesca con i Sermones di
Orazio e gli Epigrammi di Marziale, di cui Calenzio si dimostra attento lettore.

In his epistles to Iaraco, pseudonym of prince Frederick of Aragon, the humanist
Elisio Calenzio harmonises themes and forms traditionally belonging to the
two ‘pedestrian’ genres of the classical age, satire and epigram. This essay analyses
the rewritings, the metaliterary motifs and the conceptual parallelisms
that link the fifteenth-century epistolary collection with Horace’s Satires and
Martial’s Epigrams, of which Calenzio proves to be an attentive reader.
1. «epigrammi in prosa»
Elisio Calenzio1, precettore e poi collaboratore di Federico d’Ara-
Autore: Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Dottore di ricerca in
Scienze letterarie, linguistiche, artistiche; michele.mongelli@uniba.it.
1 La biografia del Calenzio è ricostruita nei seguenti contributi: Antonio Altamura,
Un umanista del ’400 innamorato di Taranto, «Voce del popolo», XL (1938),
pp. 3-8; Id., L’Umanesimo nel Mezzogiorno d’Italia, Firenze, Bibliopolis, 1941, pp. 53-
55; Vittorio Rossi, Il Quattrocento, Milano, Vallardi, 1960, p. 489; Mario Santoro,
La cultura umanistica, in Storia di Napoli, vol. IV, t. II, Napoli, Soc. ed. Storia di Napoli,
1974, pp. 452-454. Spesso il suo nome storico è stato confuso col suo nome
accademico, Luigi Gallucci, sotto cui compare in Simona Foà, Gallucci, Luigi, in
Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
1998, pp. 743-745, ma Angelo De Santis aveva già dimostrato che il suo reale
nome è quello adoperato in questa sede: Il vero cognome dell’umanista Elisio Calenzio,
«La bibliofilia», XLVIII (1946), pp. 29-33. Fu per primo il Croce a riportare all’attenzione
degli studiosi l’esistenza di questa raccolta in un intervento volto ad illustrare
l’opera letteraria dell’umanista nella sua globalità (Benedetto Croce, I carmi e
378 michele mongelli
gona a partire dal 1465, dedicò al suo discepolo una raccolta epistolare
assai singolare. L’opera risulta composta da centocinquantadue epistole
in lingua latina precedute da una dedica al giovane Federico,
celato sotto l’appellativo Hiaracus, probabilmente per la passione che
nutriva per i falconi, in greco ieraki, a cui più volte si fa riferimento2.
Nel presentare al principe aragonese una silloge che sottolineasse
l’importanza di virtù regali quali la clemenza, la giustizia, la liberalità,
Calenzio operò una scelta decisamente fuori dagli schemi. Molte epile
epistole dell’umanista Elisio Calenzio, «Archivio Storico per le Province Napoletane
», n.s. XIX, 1933, pp. 248- 279, poi in Id., Varietà di storia letteraria e civile, Bari,
Laterza, 1949, pp. 7-28). Si deve a Liliana Monti Sabia il primo esteso studio incentrato
specificatamente sulla raccolta epistolare: Liliana Monti Sabia, L’humanitas
di Elisio Calenzio alla luce del suo epistolario, «Annali della Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Napoli», XI (1964-1968), pp. 175-251. La studiosa è poi
tornata sull’argomento, soffermandosi sull’ultimo ciclo di epistole che chiude l’opera
in L’umanista Elisio Calenzio e le terme di Pozzuoli, in Gli umanisti e le terme. Atti
del Convegno Internazionale di Studio, Lecce, Santa Cesarea Terme, 23-25 Maggio
2002, a cura di Paola Andrioli Nemola, Olga S. Casale, Paolo Viti, Lecce,
Conte, 2004, pp. 207-218. Ultimamente l’opera è risultata nuovamente al centro di
interesse da parte di Paola Caruso, Nostri ordinis homo: per una nuova interpretazione
dell’epistolario di Elisio Calenzio, «Vichiana», LIII (2016), pp. 113-138. Io stesso
mi sono soffermato su un testimone di una particolare forma brevior dell’epistolario
in «Neapoli scripsi»: una miscellanea umanistica di Raphael de Penchenat, «Rinascimento
meridionale», III (2012), pp. 39-53 e sulla ‘fortuna’ italiana ed europea della silloge
in Editori e lettori dell’epistolario ad Hiaracum di Elisio Calenzio, in Roma, Napoli
e altri viaggi. Per Mauro de Nichilo, a cura di Davide Canfora e Claudia Corfiati,
Bari, Cacucci, 2017, pp. 325-331. Ad oggi le edizioni di opere calenziane risultano:
Elisii Calentii Poemata, a cura di Mauro de Nichilo, Bari, Adriatica, 1981, dove
sono pubblicati il Croacus e l’Hector libellus; Elisio Calenzio, La guerra delle ranocchie.
Croaco, edizione critica con introduzione, traduzione e commento e con
un’Appendice del Testamentum del Calenzio a cura di L. Monti Sabia, Napoli,
Loffredo, 2008, dove la studiosa ripropone nel saggio iniziale il suo Omero e Virgilio
nel Croacus di Elisio Calenzio, in Storia, poesia e pensiero nel mondo antico. Studi in
onore di Marcello Gigante, Napoli, Bibliopolis, 1994, pp. 495-520 e nella parte finale
il testamento che l’umanista redasse nel 1474, prima di partire con Federico in
Francia, già pubblicato in L. Monti Sabia, Il testamento dell’umanista Elisio Calenzio,
«Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», n.s. XVI
(1973-1974), pp. 103-120. Molti altri poemetti composti dall’autore, insieme agli
stessi Hector e Croacus, sono editi in Maria Grazia De Ruggiero, Il poetico narrare
di Elisio Calenzio, umanista del Quattrocento napoletano, Vatolla (Sa), Palazza Vargas
Edizioni, 2004.
2 La predilezione di Federico per i falconi, nominati nella forma latina accipitres,
è oggetto delle epistole XCVI, CXXXII, CXLIV. Da tale parola greca deriva
inoltre il cognome ancora oggi diffuso in area napoletana Iaraco/Ieraco, cfr. I Cognomi
d’Italia. Dizionario storico ed etimologico, vol. II H-Z, Torino, Utet, 2008, p. 922.
[ 2 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 379
stole da lui composte non sono infatti rivolte direttamente a Iaraco,
bensì ad altri destinatari, che ricorrono frequentemente, seppur in modo
discontinuo, all’interno della raccolta. Ad essi l’umanista porge
discorsi totalmente estranei alla canonizzata topica de principe, come si
nota particolarmente in alcuni biglietti che colpiscono per la mordace
incisività. Un esempio è quello indirizzato a un certo Collo, conoscente
che spesso gli proponeva di passeggiare insieme per ristorare l’animo
dai vari negotia imposti dalla vita quotidiana (ep. LXXXIII)3:
Invitas me quotidie deambulatum, Colle, demulcendi recreandique
animi gratia, utqui negotiis interdum exuti, sermone vario locorumque
mutatione dum transigamus. Equidem tibi in ea re morem gererem, ni
tu obvio cuique haberes quod dictitares, quasi omnium in te negotia et
consilia sunt solo sita. Iube, obsecro, mihi sellam deferri, ut saltem sedeam
quotiens tu aut monere aut consulere aut narrare aliquid coeperis
aut exordiri. Nam pedibus stare difficile est meque post id rectius
sessum quam deambulatum, Colle, invitabis. Vale.
Nell’incipit Calenzio sembra accettare di buon grado l’invito, per
3 Le citazioni sono tratte dalla cinquecentina dell’opera omnia del Calenzio, a
cura del figlio Lucio e di Angelo Colocci: Elisii Calentii Opuscula, Romae, per
Ioannem da Besicken, 1503, epistolario alle cc. Ar-C8r (epistola LXXXIII a c. B5r).
Ho collazionato il testo con l’autografo ed esemplare di stampa Vat. lat. 3909. Sulle
vicende editoriali relative all’editio princeps romana e sullo status quaestionis della
tradizione manoscritta del corpus calenziano rimando a B. Croce, I carmi e le epistole,
cit., pp. 248-249; L. Monti Sabia, L’humanitas, cit., pp. 175-9; Augusto Campana,
Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno
di studi su Angelo Colocci, Jesi, 13-14 settembre 1969, Jesi 1972, pp. 257-272: 265-268;
M. de Nichilo, Prefazione a E. Calentii Poemata, cit., pp. 81-85; M. de Ruggiero, Il
poetico narrare, cit., pp. 17-19; Paolo Veneziani, Besicken e il metodo degli incunabolisti,
in Id., Tracce sul foglio. Saggi di storia della tipografia, a cura di Paola Piacentini,
Roma, Roma nel Rinascimento, 2007, pp. 117-165: 155 (già in «Gutenberg-
Jahrbuch», LXXX, 2005, pp. 71-99); Marco Bernardi, Angelo Colocci, la biblioteca e
il milieu napoletano: nuovi interventi, qualche precisazione e un frammento inedito, «Roma
nel Rinascimento», 2008, pp. 59-78: 73; Id., Per la ricostruzione della biblioteca colocciana,
in Angelo Colocci e gli studi romanzi, a cura di Corrado Bologna e Marco
Bernardi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2008, pp. 21-83: 49; L.
Monti Sabia, Nota critica a E. Calenzio, Croacus, cit., pp. 40-41; Antonietta Iacono,
Le Elegiae ad Aurimpiam tra tradizione e novità, «Bollettino di Studi Latini»,
XLIV (2014), pp. 505-531: 506; Giuseppe Germano, Alcune considerazioni su tradizione,
costituzione e struttura degli Elegiarum Aurimpiae ad Colotium Libri dell’umanista
Elisio Calenzio, «Bollettino di Studi Latini», XLV (2015), pp. 549-565, passim; P.
Caruso, Nostri ordinis homo, cit., passim. Sullo stampatore, Giovanni Besicken,
vd. inoltre Martin Davies, Besicken and Guillery, in The italian book, 1465-1800. Studies
presented to Dennis E. Rhodes on his 70th Birthday, London 1993, pp. 35-54.
[ 3 ]
380 michele mongelli
poi ritrattare le sue posizioni. Con un netto e improvviso contrasto di
toni, quasi un aprosdoketon situato nel mezzo dell’epistola, accusa infatti
Collo di annoiarsi terribilmente in sua compagnia, poiché è costretto
a sopportare le sue frequenti lamentele e le continue chiacchiere
scambiate con qualsiasi passante. Addirittura arriva a desiderare
una sedia per mettersi comodo mentre sopporta la sua eccessiva verbosità.
Il procedimento retorico adottato si conforma all’architettura
tipica di molti epigrammi di Marziale, il quale nel giro di pochi versi
riusciva ad attirare la curiosità del lettore attraverso una composizione
solitamente tripartita. In apertura presentava l’oggetto del componimento,
nella parte centrale sviluppava il tema, legato perlopiù ad
episodi contingenti, tramite una gradatio di particolari che conduceva
verso la chiusa, vera ‘punta’ dell’epigramma. Proprio in quest’ultimo
passaggio, accentuato da una ricercata intensità espressiva, il poeta
latino chiariva il punto di vista da cui il lettore stava in realtà osservando
la scena fin dal principio4.
4 Questa struttura-tipo degli epigrammi di Marziale fu proposta nel XVIII secolo
da Lessing, il quale denominò la prima parte Erwartung e la seconda Aufschluss,
contenente anche l’aprosdoketon finale. Nonostante non si tratti di un formalismo
applicabile uniformemente a tutti i componimenti del poeta latino, si dimostra
tuttavia utile per mostrare con efficacia il modello strutturale epigrammatico ravvisabile
in alcune epistole del Calenzio. Dibatté su questa interpretazione criticoestetica
in particolare Mario Citroni, La teoria lessinghiana dell’epigramma e le interpretazioni
moderne di Marziale, «Maia», XXI (1969), pp. 215-243. Fra i contributi più
recenti: Epigramma longum. Da Marziale alla tarda antichità. Atti del Convegno Internazionale,
Cassino, 29-31 maggio 2006, a cura di Alfredo Mario Morelli,
Cassino, Ed. dell’Università degli Studi di Cassino, 2008, in particolare l’introduzione
del curatore: Epigramma longum: in cerca di un básanos per il genere epigrammatico,
pp. 17-51; Alessandro Fusi, La musa epigrammatica di Marziale, in Lo spazio
letterario di Roma antica. VI. I testi: 1. La poesia. a cura di Alessandro Fusi, Alessandro
Luceri, Piergiorgio Parroni, Giorgio Piras, Roma, Salerno Editrice, 2009,
pp. 716-751; Ewen L. Bowie, Epigram as narration, in Archaic and classical Greek epigram,
ed. Manuel Baumbach, Cambridge-New York, Cambridge University Pr.,
2010, pp. 313-384; Pierre Laurens, Rhétorique et poésie: le cas de l’épigramme, in
Charmer, convaincre: la rhétorique dans l’histoire. Actes du 24e colloque de la Villa
Kérylos, Beaulieu-sur-Mer les 4 et 5 octobre 2013, ed. Jacques Jouanna, Paris,
Académie des inscriptions et belles-lettres, 2014, pp. 83-96.
Sul genere epigrammatico e sulla ricezione di Marziale nel XV secolo, in particolare
in ambito meridionale, segnalo gli studi di Donatella Coppini: La scimmia
di Marziale. «Veteres» e «novi» nella poesia di Giano Pannonio, in Italia e Ungheria all’epoca
dell’Umanesimo corviniano, a cura di Sante Graciotti e Cesare Vasoli, Firenze,
Olshki, 1994, pp. 71-88; «Nimium castus liber»: gli Epigrammata di Michele Marullo
e l’epigramma latino del Quattrocento, in Poesia umanistica latina in distici elegiaci.
Atti del Convegno Internazionale, Assisi, 15-17 maggio 1998, a cura di Giuseppe
[ 4 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 381
Una tale strutturazione del testo è proposta da Calenzio in molte
altre epistole, tra cui la diciannovesima della sua raccolta, indirizzata
a Forbiano5:
Visendi tui gratia veneram ad te, Forbiane. Occlusum reperi rem saevam
facientem. Aliud te puto agere quam cum superis loqui. Si rediero
posthac, amplius neca hominem. Valeas.
Nel primo periodo, breve ma chiaramente scandito, Calenzio presenta
al lettore il contesto che fa da sfondo all’epistola, una visita ad
un suo amico/nemico. Due altri periodi formano la parte centrale, dove
assistiamo ad una scena chiaramente singolare: Forbiano, rinchiuso,
è intento a compiere una «rem saevam». L’autore non ci fornisce
altri particolari, se non una precisazione mordace: di certo in quella
circostanza il suo ospite non era impegnato a pregare gli dei. Infine la
battuta salace: se Forbiano persevera in questo genere di atteggiamenti,
durante la prossima visita lo coglierà mentre uccide un uomo.
Un gran numero di epistole segue questo schema compositivo,
tanto da aver meritato l’appellativo di «epigrammi in prosa»6, tuttavia
Catanzaro e Francesco Santucci, Assisi, Accademia properziana del Subasio-
Centro studi poesia latina in distici elegiaci, 1999, pp. 67-96; Da «dummodo non castum
» a «nimium castus liber»: osservazioni sull’epigramma latino del Quattrocento, «Le
cahiers de l’Humanisme», I (2000), pp. 185-208; Memoria dei poeti classici fra Medioevo
e Rinascimento, in L’eredità classica in Italia e Ungheria fra tardo Medioevo e primo
Rinascimento. Atti dell’XI Convegno italo-ungherese, Venezia, 9-11novembre 1998,
a cura di Sante Graciotti e Amedeo di Francesco, Roma, Il Calamo, 2001, pp.
139-162; Il rinnovamento umanistico della poesia. L’epigramma e l’elegia, a cura di Roberto
Cardini e Donatella Coppini, Firenze, Polistampa, 2009. Cfr. anche Sesto
Prete, Some observations on epigram in the Quattrocento, «Res publica litterarum», II
(1979), pp. 263-272; Ugo Carratello, L’Epigrammaton liber di Marziale nella tradizione
tardo medievale e umanistica, «Giornale italiano di filologia», XXVI (1974), pp.
1-17; Maurizio Campanelli, Angelo Poliziano e gli antichi manoscritti di Marziale,
«Interpres», XVII (1998), pp. 281-308; Jean-Louis Charlet, Une lettre philologique
de Niccolò Perotti à Pomponio Leto, «Humanistica», I (2006), pp. 63-70; Anastasia
Viti, Per la storia del testo di Marziale nel secolo XV. I ‘Commentarii in M. Valerium
Martialem’ di Domizio Calderini, «Eikasmos. Quaderni Bolognesi di Filologia Classica
», XV (2004), pp. 401-34; Simona Mercuri, A scuola di latino nel Quattrocento:
l’esercizio del componere epistolas (tre esempi inediti), «Interpres», XXVI (2007), pp.
245-263; Nigel Guy Wilson, An incunable, a greek epigram and a renaissance painting,
«Italia Medioevale e Umanistica», XLVIII (2007), pp. 285-89; Ferdinand Stürner,
Landino, Martial und Beccadelli: Bemerkungen zur Rezeption des antiken Epigramms in
der «Xandra», «Neulateinisches Jahrbuch», XVII (2015), pp. 307-332.
5 Ed. I. Besicken, c. A3v.
6 Le epistole sono così definite da L. Monti Sabia, L’humanitas, cit., p. 191.
[ 5 ]
382 michele mongelli
il modello marzialiano si sente vivido nella raccolta anche per delle
precise strategie metaletterarie.
Il già nominato Forbiano è uno dei personaggi maggiormente presenti
nella silloge, introdotto da Calenzio fin dall’epistola noncupatoria
come il rappresentante di tutti i principali vizi di cui sono soliti
macchiarsi gli uomini. Nella stessa lettera Calenzio avverte: «Forbianum
vero ne credas vivere, sed quae ulli vitia deprehenderim homini
tribuisse quem scelestissimum cognovissem», vuole cioè informare
che Forbiano non esiste realmente, è una maschera creata ad hoc, come
l’uomo più scellerato in assoluto. Subito dopo però aggiunge: «Si quis
autem se Forbianum dici putaverit, optimum se vitae suae censorem
profitebitur»7, se qualcuno si riconoscerà in questo personaggio, sarà
stato capace di operare una corretta analisi su se stesso. Naturalmente,
per la costruzione del profilo scelleratissimo di Forbiano, Calenzio deve
aver tenuto presente alcuni uomini che conosceva realmente, di cui
però, per varie ragioni, ha voluto tacere il nome. Marziale già ammetteva
di aver compiuto una simile scelta, ossia includere nei propri
componimenti esclusivamente la denuncia dei vizi di cui era macchiata
la società romana, risparmiando i nomi di coloro che ne erano affetti:
«hunc servare modum nostri novere libelli, / parcere personis, dicere
de vitiis»8 (Epigram., X 33, 9-10).
Entrambi gli autori furono inoltre criticati da alcuni denigratori per
la misura dei loro scritti, ritenuti troppo verbosi. A Furiano, che lo accusa
di comporre lettere troppo lunghe, Calenzio scrive (ep. XLI)9:
Petis, Furiane, tibi a me brevius scribi quo legendi tibi inter negotia
plurima facile sit. Geram, hercle, more melancholico, itaque brevissimas
a me posthac espistolas expectato. Vale.
L’incipit e il contenuto generale dell’epistola sembrano modellati
su Marziale, Epigram., I 11010:
Scribere me quereris, Velox, epigrammata longa.
Ipse nihil scribis: tu breviora facis?
Se il nostro umanista è accusato di scrivere troppo estesamente,
7 Ed. I. Besicken, c. A1r.
8 Le citazioni sono tratte da Martial, Epigrams, edited by David R. Shackleton
Bailey, Cambridge-London, Harvard University Press, 1993, X 33 al vol. II, p. 354.
9 Ed. I. Besicken, c. A7r.
10 Ed. D.R. Shackleton Bailey, vol. I, p. 126.
[ 6 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 383
Marziale sembra difendersi dalla critica di essere eccessivamente sintetico.
Il vero significato di questo distico è in realtà esattamente opposto:
il poeta latino sta qui ribaltando con il tono salace che gli si addice
il biasimo circa l’eccessiva lunghezza dei suoi epigrammi, che sappiamo
essere stato frequente da parte dei suoi contemporanei11. Calenzio
ripropone quest’antica quaestio in un lusus metaletterario dello spazio
di quattro epistole, di cui quella appena citata rappresenta il primo
atto. Come promesso nel finale, rivolge successivamente a Furiano
due identici brevissimi bigliettini: «Furiane, salve. Vale, Furiane»
(epp. XLIII e XLVI), di cui dà spiegazione nella successiva epistola
XLVII, ancora diretta a Furiano, in cui difende con tono sferzante la
lunghezza dei suoi scritti12:
Quaero me, hercule, Furiane, quonam tibi gratus esse ingenio possim,
qui me adeo incusas quod inscribendo tibi modo longior sim quam
velis, modo brevis nimium, ut nihil in epistolis habeas praeter valitudinem
et salutem, neque id quidem parum esse existimo. Caetera sine
verbis dici, Furiane, non possunt, quae te legere desidem piget. Profecto
in omni re difficilis es, nec mirum si tecum vivere nesciam, qui neque
vivo patre neque mortuo laetus sis. Valeas.
Il brano risulta chiaramente centrale nella definizione della poetica
‘epigrammatica’ dell’umanista. Secondo Calenzio le epistole non possono
contenere esclusivamente la formula di saluto (valetudo) e il congedo
finale (salus), poiché qualsiasi contenuto necessita di verba. Il criterio
compositivo che qui Calenzio difende è quello della brevitas, inteso,
in modo simile a Marziale, come armonia del discorso. Un testo armoniosamente
strutturato non deve risultare né troppo ampolloso né troppo
scarno; potrà essere composto anche solo da una salutatio se questa
11 In molti altri luoghi Marziale si difende dalla stessa accusa: II 77; III 83; VIII
29; IX 50. L’epigramma era associato dai romani solitamente alla misura di un paio
di distici, cfr. Mario Citroni, Motivi di polemica letteraria negli epigrammi di Marziale,
«Dialoghi di archeologia», II (1968), pp. 259-301: 268-269; Id., Marziale, Plinio il
Giovane e il problema dell’identità di genere dell’epigramma latino, in Giornate filologiche
Francesco Della Corte, a cura di Ferruccio Bertini, Genova, Istituto di filologia
classica e medievale, 2003, pp. 7-29; Antonella Borgo, Retorica e poetica nei proemi
di Marziale, Napoli, Loffredo, 2003, pp. 47-57; Craig Williams, Epigrammata longa
e strategie metapoetiche in Marziale, in Epigramma longum, cit., pp. 217-236; Rainer
Nickel, Was ist ein Epigramm?, «Der altsprachliche Unterricht: Latein, Griechisch
», LIV (2011), pp. 4-15; Nina Mindt, Martials ‘epigrammatischer Kanon’, Munchen,
Verlag C. H. Beck, 2013.
12 Ed. I. Besicken, c. A8r.
[ 7 ]
384 michele mongelli
è sufficiente, mentre saranno da adottare più parole se il concetto da
esprimere le necessita. L’umanista dà infatti prova di non temere la
composizione di epistole anche più brevi di un distico se questa misura
è funzionale al raggiungimento dell’effetto comico-satirico che si era
prefissato. È il caso dell’ep. III, breve biglietto faceto rivolto a Colocci13:
Coloti, si me amas, utere. Si non uteris, illud in argumento est: non
amabis. Vive.
forse modellato su Marziale, Epigram., I 3214:
Non amo te, Sabidi, nec possum dicere quare:
Hoc tantum possum dicere, non amo te.
ma recante tracce anche di altri modelli, fra cui Terenzio («Sic sum: si
placeo, utere», Phormio, 526) e Cicerone («Si me amas» è tipica formula
di apertura epistolare ciceroniana, cfr. Att. I 20, II 1, II 23).
I verba, secondo Calenzio, si devono adattare alle res, secondo i criteri
di una lunghezza conveniente e di un registro adeguato al contenuto.
È quanto afferma nell’ep. LV, rivolta a Veliano15:
Nimium me, Veliane, in dicendo facilem putas. Possum equidem, si
velim, obscurius scribere. Verum ego, latinus cum sim, latine dicere
non barbare pro ingenio nitor et cupio non doctis modo sed et pueris
quoque intellectum iri. Difficilius quidem existimo graves res clara
oratione quam scabra et obscura posse pronuntiari. Tace.
Al suo destinatario, che non apprezza l’eccessiva semplicità del suo
stile, Calenzio replica che le parole e i discorsi devono essere immediatamente
collegabili alla realtà, senza tendere all’obscuritas. Se avesse
voluto, continua l’umanista, avrebbe potuto comporre periodi più tor-
13 Ivi, c. A1v. Sembrerebbe ovvio identificare questo destinatario in Angelo Colocci,
editore dell’edizione postuma degli Opuscula, eppure risulta più probabile
che il vero ospite invitato a cena da Calenzio sia lo zio del più noto cardinale jesino,
Francesco Colocci, presso cui l’umanista soggiornò nella casa di Sulmona durante
gli ultimi anni della sua vita. Non risultano infatti particolari legami di amicizia
con Angelo, con il quale sicuramente Elisio si conobbe nel circolo dell’Accademia
napoletana, ma da cui lo dividevano anche diverse generazioni. Fortunatamente
questa identificazione non grava sulla definizione del testo critico dell’epistolario,
in cui è indicato il solo cognome Colotius. Sulla questione riflette con particolare
dovizia di particolari G. Germano, Alcune considerazioni, cit., pp. 556-557.
14 Ed. D.R. Shackleton Bailey, vol. I, p. 62.
15 Ed. I. Besicken, c. A8v.
[ 8 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 385
tuosi, ma non è nella complessità verbale che cerca una legittimazione
letteraria. Al contrario, egli desidera rendere limpido il suo linguaggio
e per esprimere questo concetto nella lingua degli auctores recupera un
nesso, con variatio, caro a Marziale. Scrive infatti: «Verum ego, latinus
cum sim, latine dicere nitor», che ricalca il motto «latine loqui» espresso
dal poeta d’età flavia nella apostrofe al lettore in apertura del I libro di
epigrammi16. Attraverso la chiarezza dell’eloquio l’umanista si augura
di allargare il suo pubblico non solo agli intellettuali, ma anche ai giovani,
che avranno piacere nel leggere le sue opere poiché immediatamente
comprensibili. Infine afferma chiaramente che la vera difficoltà
sta nel costruire una oratio clara piuttosto che scabra et obscura: è la facilitas
che richiede particolare impegno ed esercitazione nella scrittura.
Al poeta di Bibilis Calenzio sembra richiamarsi anche in altri luoghi
dell’epistolario. Interpellato dal sodale Furiano, desideroso di ottenere
consigli circa le migliori qualità che una donna deve possedere
per essere una buona moglie, risponde (ep. LXVII)17:
Qualem futuram existimem teneram adhuc puellam quae tibi nupserit,
Furiane, me iubes dicere. Nescio, tu solus experiere. Verum quidem
a me sic habeto: neque ferro neque ratione insaniam vincere potis est,
neque uxorem minis aut baculo. Furiane, deos roga ut bona tibi nata sit
quam hodie ducis. Nam et natam facere tum bonam poteris, cum destrues
artifex ac denuo tuo more facias mulierem. Credas.
L’intero contenuto dell’epistola, con particolare riferimento all’incipit,
appare modulato su Marziale, Epigram., I 57, dove il poeta affronta
la medesima questione, postagli dall’amico Flacco: «Qualem, Flacce,
velim quaeris nolimve puellam?». Anche Marziale raccomandava
di sposare una donna il cui comportamento fosse adeguato all’ideale
della medietas: «Illud quod medium est atque inter utrumque probamus:
nec volo quod cruciat, nec volo quod satiat»18, ma nella nostra
16 Anni più tardi Antonio de Ferrariis Galateo avrebbe chiarito nel suo Eremita
che nell’uso degli intellettuali del XV secolo l’espressione «latine dicere» indica un
eloquio semplice e chiaro. L’eremita protagonista del dialogo afferma, rivolgendosi
a San Luca: «Tu in graeca natus urbe, graece Evangelium scripsisti, graece loqueris;
mihi latine, hoc est aperte, loqui fas sit» (ed. a cura di Sebastiano Valerio,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, p. 53).
17 Ed. I. Besicken, c. B2v.
18 Ed. D.R. Shackleton-Bailey, vol. I, p. 85. Sulla tematica del matrimonio in
età flavia cfr. Claude-Emmanuelle Centlivres Challet, Like man, like woman:
Roman women, gender qualities and conjugal relationships at the turn of the first century,
Oxford-Berlin, Lang, 2013.
[ 9 ]
386 michele mongelli
epistola ritroviamo un elemento aggiuntivo, cioè la centralità attribuita
alla figura del marito, il quale viene descritto come potenziale artifex
della donna. Il coniuge dovrà infatti possedere la capacità di ‘ricreare’
sua moglie come persona a sé più gradita nel caso in cui il carattere
di lei non coincida esattamente con le sue aspettative.
Più in generale ciò che correla la produzione epigrammatica di
Marziale con l’epistolario di Calenzio è il comune atteggiamento nei
confronti della vita, improntato alla ricerca di una serenità quotidiana,
fatta di piccole cose, in cui non trovano spazio vani desideri di beni
effimeri. Ne parla chiaramente Marziale nell’epigramma III 5619:
Sit cisterna mihi quam vinea malo Ravennae,
cum possim multo vendere pluris aquam.
Rispetto al dono di una vigna, egli preferirebbe una semplice cisterna,
poiché potrebbe vendere l’acqua ad un prezzo maggiore del vino
(con evidente riferimento all’uso degli osti, avvezzi a vendere vino annacquato,
come spiega nel componimento successivo), secondo un criterio
improntato all’utilitas e non al prestigio dell’elargizione ricevuta.
Gli fa eco Calenzio, il quale ritiene inutile l’omaggio di una cagna
da parte del suo discepolo, al posto della quale avrebbe desiderato un
animale di più certa funzionalità, come un bue o un asino (ep. CXVI)20:
Gratias tibi me pro donata cane habiturum ne credas, Hiarace. Utilius
existimarem, si bovem aut asinum, qui rei adderet, donavisses. Vive.
Entrambi gli autori si lamentano di una società incapace di considerare
correttamente il valore delle cose, giudicate esclusivamente dal
fascino esteriore che esse esercitano. I giudizi scriteriati che Marziale e
Calenzio descrivono con tono amareggiato guastano naturalmente
anche la gerarchia sociale. Capita frequentemente che gli uomini non
vengano considerati meritevoli e capaci in relazione alla propria virtus,
ma semplicemente a seconda della propria posizione economica,
spesso raggiunta immeritatamente. Marziale, rivolgendosi alla fortuna,
deplora la condizione umile di Mevio, poeta abile nel comporre
versi in latino e greco, ma costretto a soffrire per il freddo. Posizione
opposta è quella di Incitato, un semplice mulattiere, che si copre di
una veste di porpora (Epigram., X 76)21:
19 Ed. D.R. Shackleton-Bailey, vol. I, p. 238.
20 Ed. I. Besicken, c. C1v.
21 Ed. D.R. Shackleton-Bailey, vol. II, p. 394. Sull’argomento cfr. Annika B.
[ 10 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 387
Hoc Fortuna, tibi videtur aequum?
Civis non Syriaeve Parthiaeve,
nec de Cappadocis eques catastis,
sed de plebe Remi Numaeque verna,
iucundus, probus, innocens amicus,
lingua doctus utraque, cuius unum est,
sed magnum vitium, quod est poeta,
pullo Mevius alget in cucullo,
cocco mulio fulget Incitatus.
Similmente Calenzio attribuisce alla cieca sorte la colpa di aver reso
ricco Forbiano, capace solo di adulare, mentire, rubare (ep. LXXII)22:
Fortunae tribuito, Forbiane, quod dives ex inope factus sis. Nam quod
virtuti tribuas nihil vides, nisi tu virtutem existimes assentari, fallere,
mentiri, rapere, lenonem esse, quae te ditem foecere et quibus te putare
maxime potes. Nam si virtuti opes darentur, alios videres esse divites
quos non vides, tu autem, Forbiane, mendicares. Peri.
Ben altri avrebbero meritato la sua ricchezza, se solo fosse la virtù
ad essere premiata e non le scelleratezze.
2. «Formabat puerum dictis»: l’educazione all’autarkeia
L’epistolario ad Hiaracum si pone però diversi e più complessi
obiettivi rispetto alla raccolta di Marziale, il quale costruisce la sua
poetica intorno alla pura rappresentazione della società romana d’età
flavia, mirando ad una descrizione spesso espressionistica che esclude
l’attacco moralistico nei confronti dei soggetti ritratti. Calenzio, al contrario,
inserisce in ogni brano una ferma disamina etica della condotta
assunta dai destinatari delle sue missive, ai quali fornisce consigli o di
Kuhn, The Dynamics of Social Status and Prestige in Pliny, Juvenal and Martial, in Social
status and prestige in the Greco-Roman world, ed. by Annika B. Kuhn, Stuttgart,
Steiner, 2015, pp. 9-28; William J. Dominik, Epigram and Occasional Poetry: Social
Life and Values in Martial’s Epigrams and Statius’ Silvae, in A companion to the Flavian
age of imperial Rome, ed. by Andrew Zissos, Chichester, Wiley Blackwell, 2016, pp.
412-433. Anche Orazio si confessa assai diffidente verso gli arricchimenti indegni:
Rita Degl’Innocenti Pierini, Mestieri, professioni, lavoro in Orazio fra tradizione
letteraria e realtà romana, in Politica e cultura in Roma antica. Atti dell’incontro di
studio in ricordo di Italo Lana, Torino, 16-17 ottobre 2003, a cura di Federica Bessone,
Bologna, Pàtron, 2005, pp. 101-122.
22 Ed. I. Besicken, c. B3r.
[ 11 ]
388 michele mongelli
cui disapprova alcuni comportamenti. Donne incoraggiate a rimanere
fedeli al proprio marito, tarantini fannulloni spronati a coltivare la terra,
genitori elogiati per l’educazione impartita ai propri figli, sodali
lodati per la loro moderazione, giovani redarguiti per il loro atteggiamento
sempre triste e adulti spendaccioni popolano le pagine dell’epistolario
e danno corpo ad una vera e propria ‘commedia umana’, in
cui è la voce narrante di Calenzio a farci da guida. Il personaggio letterario
dell’umanista, nelle veci di singolo mittente di tutte le epistole,
si impone implicitamente come unica voce autorizzata a dare delle
valutazioni su quella parte di mondo che sceglie di portare sulla scena,
facendosi sola fonte per la definizione dell’insegnamento morale23.
Tale voce autoriale è modulata in maniera differente in ciascun
brano. Calenzio non abbandona mai il registro medio, ma lo differenzia
vivacemente a seconda del tono che vuole imprimere a ciascuna
epistola, se moraleggiante o ironico-satirico. Acuto ed efficace, ad
esempio, il contrasto fra i toni assunti dalla sua voce in due lettere
giustapposte, che ben rende l’idea del talvolta repentino cambio di
modulazione tematica e formale. Nell’epistola LX Elisio assume un
atteggiamento da magister, per esprimere un importante monito rivolto
a Iaraco sull’osservazione e la valorizzazione della virtù della giustizia,
«divinarum humanarumque rerum moderatrix et fautrix». L’umanista
sprona il principe a praticare la giustizia poiché essa è defini-
23 Dagli studi sulla satira e sull’epigramma classico ho mutuato il concetto di
persona autoriale, su cui vd. in particolare: Mario Labate, La satira di Orazio: morfologia
di un genere irrequieto, introd. a Quinto Orazio Flacco, Satire, Milano, Rizzoli,
1987, pp. 5-43: 33; Mario Citroni, Musa pedestre, in Lo spazio letterario di Roma
antica, vol. I La produzione del testo, Roma, Salerno, 1989, pp. 311-341: 315, 339; Id.,
L’autobiografia nella satira e nell’epigramma latino, in La componente autobiografica nella
poesia greca e latina fra realtà e artificio letterario. Atti del Convegno, Pisa, 16-17 maggio
1991, a cura di Graziano Arrighetti e Franco Montanari, Pisa, Giardini
editori e stampatori, 1993, pp. 275-292: 280-281; Franco Bellandi, Dogma e inquietudine.
Persio, Orazio e la vox docens della satira, in Pervertere: Ästhetik der Verkehrung,
herausgegeben von Luigi Castana und Gregor Vogt-Spira, Leipzig, K.G. Saur
München, 2002, pp. 167-175; Mario Labate, Poetica minore e minima: Mecenate e gli
amici nelle Satire di Orazio, «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici»,
LIV (2005), pp. 47-63; Stephen J. Harrison, Author and speaker(s) in Horace’s Satires
2, in The author’s voice in classical and late antiquity. ed. Anna Marmodoro, Oxford-
New York, Oxford University Press, 2014, pp. 153-171; David Sedley, Horace’s «Socraticae
chartae»: (Ars poetica 295-322), «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi
classici», LXXII (2014), pp. 97-120; Chris Carey, Negotiating the public voice, in La
poésie lyrique dans la cité antique: les «Odes» d’Horace au miroir de la lyrique grecque
archaïque. Actes du colloque, Lyon 6-8 juin 2012, ed. Bénédicte Delignon, Paris,
De Boccard, 2016, pp. 177-192.
[ 12 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 389
ta come principale prerogativa del bonus rex: «Reges ob eam rem creatos
accepimus ut se bene primum, inde alios regant». Specifica poi che
in passato erano i più anziani, poiché più saggi e privi di tentazioni,
ad essere nominati re, da cui l’appellativo seniores: «Hi cum seniores
ex populo fuere qui saperent, qui voluptate carerent, unde id est ut et
nunc quoque seniores, qui caeteris praesint, vulgo nominentur»24.
Nell’epistola successiva, allo scopo probabilmente di alleggerire la lettura
dopo un brano dottrinale, il tono muta radicalmente, diventando
comico e mordace. Descrive infatti la curiosissima attività di un siciliano,
Branca25, che riesce a ricostruire nasi, cosa che doveva evidentemente
interessare Orpiano, destinatario della missiva:
Orpiane, si tibi nasum restitui vis, ad me veni. Profecto res est apud
homines mira. Branca, siculus ingenio vir egregio, didicit nares inserere,
quas vel de brachio reficit vel de servis mutuatas impingit. Hoc ubi
vidi, decrevi ad te scribere, nihil existimens carius esse posse. Quod si
veneris, scito te domum cum grandi quantum vis naso rediturum. Vola.
La centralità della persona autoriale e la sua modulazione fra brani
più seri ed altri più faceti era una caratteristica riscontrabile già negli
epigrammi di Marziale, ma altri sono i generi e le raccolte della letteratura
classica a cui Calenzio dovette guardare per definire le modalità
del suo insegnamento etico26, tra cui occupano di certo un posto di
primo piano i Sermones oraziani27.
24 Ed. I. Besicken, c. B1v.
25 Ibidem. Anche Pontano nell’Antonius racconta di un medico abile nel trapianto
dei nasi di nome Blancas, il quale godeva di una notevole reputazione a
Napoli. Di questo personaggio ci parla anche Bartolomeo Facio nel suo De viris illustribus,
in cui ci informa di due chirurghi siciliani, Gustavo e Antonio Branca,
noti per la pratica della rinoplastica (ed. Laurentius Mehus, Florentiae, Giovannetti,
1745, pp. 38-39). Sulla particolarissima ‘fortuna’ di questa singola epistola cfr.
M. Mongelli, Editori e lettori, cit., pp. 330-331.
26 Sono note le differenze fra l’atteggiamento oraziano e quello di Marziale nei
confronti dei personaggi che ritraggono e della società in genere, come espresso in
questa efficace sintesi: «A differenza che nella tradizione satirica, nell’epigramma
comico-realistico di Marziale l’interesse non è però rivolto all’analisi e alla valutazione
morale del comportamento, bensì in primo luogo alla sua rappresentazione
in quanto tale. La forza attiva che sentiamo operare in questa poesia è il gusto nel
ritrarre la realtà quotidiana, il piacere di scoprire gli aspetti curiosi, contraddittori
ed anche spregevoli del suo funzionamento» (M. Citroni, Musa pedestre, cit., p.
339).
27 Sulla presenza di Orazio nella letteratura umanistica: Francesco Tateo,
Orazio nell’Umanesimo napoletano, in Orazio e la letteratura italiana. Atti del Conve-
[ 13 ]
390 michele mongelli
La strategia paideutica che l’umanista adotta con il suo discepolo
riflette il procedimento moralistico sotteso alle satire del poeta venosino:
l’insegnamento è proposto per via induttiva, attraverso la presentazione
di vari esempi positivi e negativi tratti dalla vita quotidiana. È
quanto Calenzio stesso afferma nell’epistola CXLIV, indirizzata al re
Ferrante28:
Si meas has legeris, bone Rex, neque despexeris epistolas, aspicies
quonam modo tibi filium instituerim, sive ad illum scribens, sive ad
alios cuiusvis ordinis homines. Nam caeteris etiam quae scripta sunt,
illi tribui legenda, ut inde quoque hauriat disciplinam. Longe tamen ei
plura verbis tradidi, monens et quidem non leviora.
L’umanista-precettore immagina di mostrare al re i risultati della
prassi pedagogica attuata nei confronti del principe che gli era stato
affidato, a cui aveva sottoposto sia epistole destinategli in prima persona
che missive indirizzate ad altri destinatari, affinché cogliesse insegnamenti
anche dalle vicende altrui. Orazio era stato formato allo stesso
modo da suo padre, come ci informa nella satira I 4 (vv. 120-126)29:
Sic me
formabat puerum dictis et, sive iubebat
gno, Licenza, 19-23 aprile 1993, a cura di Mario Scotti, Roma, Istituto Poligrafico
e Zecca dello Stato, 1994, pp. 40-52; Karsten Friis-Jensen, Commentaries on Horace’s
art of poetry in the incunable period, «Renaissance Studies», IX (1995), pp. 228-
239; Antonio Iurilli, Orazio nella letteratura italiana. Commentatori, traduttori, editori
italiani di Quinto Orazio Flacco dal XV al XVIII secolo, Roma, Vecchiarelli, 2004,
pp. 30-44; Francesco Tateo, Presenze di Orazio nella letteratura italiana. Dall’editoria
alla storia della cultura, «Critica letteraria», XXXV (2007), pp. 367-372; Jean-Louis
Charlet, La réception d’Horace à l’époque humaniste. À propos de deux livres récents,
«Humanistica», II (2007), pp. 149-152; Luciano Nicastri, Classici nel tempo. Sondaggi
sulla ricezione di Properzio, Orazio, Ovidio, Salerno, Edisud, 2003; Karsten
Friis-Jensen, Humanist use of medieval commentaries on Horace’s ‘art of poetry’, «Studi
Umanistici Piceni», XXVIII (2008), pp. 239-248; Antonio Iurilli, Orazio nelle biblioteche
napoletane fra Quattro e Cinquecento, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento.
Atti del Convegno di Studi, Bari, 6-7 febbraio 2008, a cura di Claudia Corfiati
e Mauro de Nichilo, Lecce, Pensa, 2009, pp. 225-244; Bernard Stenuit, Le
texte d’Horace à la fin du XVe siècle: l’essor de la philologie moderne, «Latomus», LXVIII
(2003), pp. 742-753; Angelo Brumana, Bartolomeo Fonzio commentatore di Orazio e
di Persio in un codice autografo, «Italia Medioevale e Umanistica», LIII (2012), pp.
225-333.
28 Ed. I. Besicken, c. C6v.
29 Quinti Horati Flacci Opera, edidit Fridericus Klingner, Leipzig, Teubner,
1970, p. 180.
[ 14 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 391
ut facerem quid, ‘habes auctorem, quo facias hoc’
unum ex iudicibus selectis obiciebat,
sive vetabat, ‘an hoc inhonestum et inutile factu
necne sit, addubites, flagret rumore malo cum
hic atque ille?’
Erano gli esempi ripresi da uomini che incontravano quotidianamente
a fungere da libro della vita per il giovane poeta attraverso il
commento del suo genitore, che gli indicava i comportamenti istruttivi
da seguire e quelli sfavorevoli da evitare30.
Non è un caso che entrambe le raccolte presentino svariate figure
di personaggi stulti, emblemi di differenti disvalori quali l’ambizione,
l’invidia, la spasmodica ricerca del denaro. La figura del seccatore oraziano,
ad esempio, è riproposta da Calenzio in un certo Coliberto (ep.
LI), colpevole di eccessiva loquacità e vanagloria, alla pari del Bolano
oraziano31:
Promiseram me, Sipontine, ad coenam venturum. Quod fefellerim
gratias habe. Detinuit me Colibertus, hominum molestissimus, deambulando
et se usque adeo magnificiendo, ut scis, quousque defessum
redderet. Quem si cenatum apud te mecum adduxissem, timeo ne
mensas etiam post epulas vorasset. Vive.
Mentre Calenzio si sta recando a cena dal suo sodale Sipontino (da
identificare probabilmente in Niccolò Perotti, vescovo di Siponto) è
trattenuto da Coliberto, un uomo talmente presuntuoso che non ha
altri argomenti se non le lodi di sé e delle proprie azioni. Nel personaggio
di Coliberto è però assente uno dei tratti peculiari di Bolano,
l’acrimonia nei confronti del suo interlocutore per l’intimo rapporto
con persone potenti. Calenzio scelse probabilmente di eliminare questa
caratteristica nella propria personale riproposizione del seccatore,
per affrontare l’argomento in modo più specifico in altre epistole.
Anch’egli si dichiara infatti vittima di gelosie e maldicenze a causa
della sua familiarità col principe (ep. XLIV)32:
Invidere mihi aliquot aemuli, puer Hiarace, quod tibi adeo gratus sim
30 Cfr. in merito: Sandra Citroni Marchetti, I precetti paterni e le lezioni dei
filosofi: Demea, il padre di Orazio ed altri padri e figli, «Materiali e discussioni per l’analisi
dei testi classici», LIII (2004), pp. 9-63; Ehlers Widu-Wolfgang, “Libertino
patre nati”, «Hyperboreus», I-II (2014), pp. 274-278.
31 Ed. I. Besicken, c. A8r.
32 Ivi, c. A7v.
[ 15 ]
392 michele mongelli
nihilque umquam mihi nisi ridens laetusque loquare. Hoc ego nescio
cui potius tribuam vel mansuetudini tuae, vel meae potius facilitati,
quae nemini umquam bono et honesto nisi gratissima fuit. At id
gaudeo vitam mihi talem instituisse ut invideant. Nihil enim timeo
quando te iustissimum et me satis sincerum novi. Ego enim, quantum
in me est, Hiarace, dabo operam ut ardeant in dies magis, id est ut tibi
carior sim in dies. Illi autem se pessundabunt suapte natura. Nam,
cum caetera malorum vitia bonis usque officiant, sola invidia est quae
primum ulciscitur possessorem. Vive.
Molti sono gli uomini invidiosi del suo bel rapporto con Federico/
Iaraco, ma questo non gli crea preoccupazione, poiché è certo della
sincerità e della rettitudine del suo allievo, tanto da chiosare il brano
con un’efficace considerazione: tra i vizi l’invidia è l’unica che colpisce
per primo chi la prova. Le stesse dicerie circolavano a Roma sul conto
di Orazio, tra i più intimi amici dell’influente ‘ministro della cultura’
di Augusto, Mecenate: «Nunc ad me redeo libertino patre natum, /
quem rodunt omnes libertino patre natum, / nunc, quia sim tibi, Maecenas,
convinctor» (Serm. I 6, vv. 45-47)33.
Tra i comportamenti stolti Calenzio riscontra naturalmente diverse
gradazioni di insania, tra cui si distingue per violenza nell’attacco verbale
l’epistola rivolta a Saguntino34. Nella raccolta quest’ultimo diventa
il personaggio simbolo di superbia e altezzosità (ep. L): «Male tibi
sit perpetuo, Saguntine, qui nunquam nisi male dicere consueveris
[…] Neque pati velis quempiam secundum virtutem laudari, neque tu
quempiam laudes nisi te tuamque optimam progeniem saguntinam».
La futile ostentazione dei propri meriti nasconde spesso una vacuità
di fondo della propria persona e del proprio valore, non a caso Sagun-
33 Ed. F. Klingner, p. 187. Ne parla ampiamente Mario Labate, La satira e i
suoi bersagli: dallo spazio della «ciuitas» allo spazio della corte, in Letteratura e «ciuitas»:
transizioni dalla Repubblica all’Impero: in ricordo di Emanuele Narducci, a cura di Mario
Citroni, Pisa, ETS, 2014, pp. 269-293.
34 Ed. I. Besicken, c. A8r. Il nome farebbe pensare a Niccolò Sagundino, intellettuale
proveniente dall’Eubea, attivo in varie corti italiane, soprattutto Venezia e
Napoli, nella prima metà del secolo. Egli arrivò alla corte di Alfonso il Magnanimo
nel 1454, per poi tornare nella città lagunare due anni dopo, dove si spense nel
1464. Riprendo questi dati dalla biografia del Sagundino presente nell’introduzione
all’Ad serenissimum principem et invictissimum regem Alphonsum Nicolai Sagundini
oratio, introduzione, testo critico, commento a cura di Cristian Caselli, Roma,
Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2012, pp. 9-30. Se, dunque, davvero si
conobbe con Calenzio, l’incontro dovette avvenire nei primissimi anni di frequentazione
della corte aragonese o nel precedente soggiorno romano. Su questa identificazione
concorda P. Caruso, Nostri ordinis homo, cit., p. 126.
[ 16 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 393
tino riesce a far presa con le sue vane parole esclusivamente su ascoltatori
creduloni, al contrario coloro che sono dotati di un minimo di
senno lo deridono alle spalle: «Desine, stultissime, de te dicere: hoc
alii videant, virtutem tuam melius ceteri probent. Verum quia nemine
laudari te scis, aliorum vices accipis, qui vero tibi post tergum rideant
non vides».
Meno duri sono i toni utilizzati nei confronti di Furiano, probabilmente
amico reale dell’umanista, come si può supporre dai toni usati
oltre che dalla quantità di brani a lui dedicati. L’uomo presenta una
spiccata e spiacevole propensione all’ira, vizio che Calenzio lo esorta
a misurare, praticando piuttosto la virtù della pazienza: «Ne te, per
Deum, ita perdere, ut coepisti, Furiane, persevera. Priusquam irascare,
priusquam litiges, patere» (ep. II). Dopo il duro monito presente
nell’incipit dell’epistola, i toni sono però alleggeriti attraverso questa
precisazione: «Litiges, autem, coactus si litigas, vel tuendae rei gratia
vel tuendae famae vel tandem vitae, cui omnia cedunt et quam iure
servare aut iniuria nefas non est», in alcuni casi è giusto adirarsi, ma
solo per difendere le sostanze, l’onore o la vita. Nella conclusione, tuttavia,
si riprende l’ammonimento iniziale: «Frustra enim irasci, ut assoles,
vitae perniciosum. Litigare vero autem ni cessaveris poenitebit
te aliquando fuisse hominem, Furiane»35.
Il mondo degli amici è d’altronde speculare rispetto alla rappresentazione
degli stulti, in quanto i sodali dell’umanista divengono emblema
della sincera fratellanza fra homines boni, capaci di intessere rapporti
umani basati sulla condivisione di valori comuni e non di vani
interessi contingenti36. Con gli amici Calenzio condivide un comune
ideale di vita semplice, a cui possono concorrere anche momenti vis-
35 Ed. I. Besicken, c. A1r.
36 Il continuo confronto fra mondo degli amici e dei nemici è un procedimento
attuato anche da Orazio, secondo l’analisi di Mario Labate: «il comportamento
degli stulti assicura quel corpo opaco che permette agli amici di riconoscere come
in uno specchio la propria sanità morale» (Poetica minora, cit., p. 52). Sulla morale
‘empirica’ di Orazio vd. anche M. Citroni, Musa pedestre, cit., p. 316; M. Labate,
La satira di Orazio, cit., p. 71; Andrea Cucchiarelli, Rovesciamento e satira romana,
«Griseldaonline», VII (2007-2008). Sulla satira umanistico-rinascimentale come descriptio
morum cfr. Giuseppina S. Galbiati, Per una teoria della satira fra Quattro e
Cinquecento, «Italianistica», XVI (1987), pp. 9-37: 13; vd. inoltre Sabine Verhulst,
Pascal Debailly, Jean Vignes, Fonction sociale de la poésie au Quattrocento, in Poetiques
de la renaissance. Le modele italien, le monde franco-bourguignon et leur heritage en
France au XVI siecle, a cura di Perrine Galand-Hallyn, Fernand Hallyn,
Genève, Droz, 2001, pp. 346-411.
[ 17 ]
394 michele mongelli
suti convivialmente, tra ottimo cibo e interessanti libelli, così come leggiamo
nel dettagliatissimo invito a cena rivolto all’amico Colocci (ep.
LXV)37:
Coloti, si cenare apud me hodie vis, disce suem imprimis edere salitum
veteri decoctum mero. Perdices praeterea non aspernaberis neque
ficedulas, quarum mihi ruri copia est. Salsamenta alia ne quaere praeter
uvam tunsam marathro, allio ac pipere addito. Hoc enim tostis rebus
optimum est salsamentum, quo maxime utor, dum non immatuverit
uva. Allium quidem non nudo, sed parum tundo: nam in cortice
sapor est longe maior. Vini mihi sunt genera duo, quae neque Cecubo
neque Massico cedant. Poma, quae tu tibi deliges manu, haec a me tibi
parata invenies. Tu libellos aliquos tecum defer, quos saturi legamus
ad sobrietatem. Veni.
Nella singolare epistola, che appare molto curiosa per la descrizione
dei cibi che componevano un semplice menù di metà XV secolo,
l’umanista descrive le pietanze che offrirà al suo sodale, tutte cucinate
da sé e condite con verdure colte personalmente dal suo podere. Il
messaggio che probabilmente doveva veicolare questo breve brano, in
una sfumatura difficilmente riconoscibile per un lettore attuale, si
identifica nella semplicità della composizione della tavola e soprattutto
nell’impegno personale da parte dell’ospitante ad organizzare in
prima persona la cena da offrire al suo amico. Quest’interpretazione
sembra d’altronde lecita se pensiamo a un possibile modello dell’epistola,
il componimento I 20 dei Carmina di Orazio, che contiene un
invito a cena per Mecenate. Al suo protettore Orazio annuncia allo
stesso modo un pasto sobrio, che ugualmente ha preparato lui stesso
senza alcun aiuto: «Vile potabis modicis Sabinum / cantharis, Graeca
quod ego ipse testa / conditum levi» (vv. 1-3); nell’ultima strofe il poeta
avverte Mecenate che non gli servirà il noto vino Cecubo («Caecubum
et prelo domitam Caleno / tu bibes uvam; mea nec Falernae temperant
vites neque Formiani pocula colles» vv. 9-12)38, che neanche
Colocci troverà sulla tavola di Calenzio.
37 Ed. I. Besicken, c. B2r.
38 Ed. F. Klingner, p. 24. Orazio avvertiva Mecenate che non avrebbe servito
né il Cecubo né il Caleno, Calenzio nomina invece i vini Cecubo e Massico. La variazione
è probabilmente modulata su Hor., Carm., II 7, 21-22: «Oblivioso levia
Massico / Ciboria exple» e Verg., Georg., II 143: «sed gravidae fruges et Bacchi
Massicus umor impeuere». Il gusto per la semplicità nei banchetti era particolarmente
cara a Orazio, come apprendiamo anche dall’invito a cena a Torquato (Epistulae,
I 5). Su tali questioni ‘oraziane’ vd. Francesco Citti, Orazio, l’invito a Tor-
[ 18 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 395
Fra gli amici più cari spicca inoltre Jacopo Solimena, il noto medico
personale di Ferrante, che l’umanista loda per la sua serenità d’animo,
per il volto sempre sorridente, per la capacità di non rammaricarsi mai
e di essere sempre gioviale: «te laeto animo semper, vultu semper hilari
esse invideo et admiror qui nunquam dolere, iocari autem continue
consueveris» (ep. LIII). Egli, a differenza di molti altri, non è un
«medicus acer» né un «philosophus tristis», anzi è testimonianza vivente
della gioia che la natura ha provato mentre lo metteva al mondo:
«Naturam existimo, cum te genuit, solito fuisse alacriorem»39.
La pars costruens del discorso morale va quindi rintracciata in quella
galleria di personaggi positivi che Calenzio presenta a Iaraco, tuttavia
non v’è dubbio che il primo e più autentico modello etico proposto
al discepolo sia da rintracciare nell’autoritratto del suo stesso precettore.
La precipua fonte dei precetti morali è la voce, ma soprattutto la
vita stessa dell’autore-personaggio, le sue abitudini e il suo stesso modo
di agire, sempre improntato ad una ponderata medietas morum. In
uno dei primi pezzi della raccolta (ep. V, rivolta a Portiliaco) Calenzio
si descrive sempre operoso e mai ozioso nelle faccende quotidiane:
«Ego, Portiliace, non is sum qui otio mihi quietem comparem, sed negotio
animi iocunditatem nanscicar. Eam me diem vixisse non aestimo
qua nihil aut foeci aut saltem vidi novi». Elisio ama dedicarsi ai negotia,
mentre non sopporta spendere del tempo inutilmente, anche
quando di notte, insonne, non ha nulla che lo diletti: «Noctem quoque
perdidisse arbitratus sum qua nihil insomnis habui quod animum delectaret
»; allo stesso modo, quando non è oberato da altre occupazioni,
decide di «lectulum sternere, libellos purgere, vestem verbere aut
deambulare divini aliquid humanive, publici aut privati operis
spectans»40.
quato (Epist. 1,5). Introuzione, testo, traduzione e commento, Bari, Edipuglia, 1994;
Antonio La Penna-Michael C. J. Putnam, Il vino di Orazio, nel modus e contro il
modus, in In vino veritas, ed. by Oswyn Murraye Manuela Tecusan, London,
The British School at Rome, 1995, pp. 262-288; Giuseppe Broccia, Appunti sul tema
del vino in Orazio, «Maia», LVIII (2006), pp. 25-32; Renata Fabbri, Orazio e la moralità
del bere, in Poesia latina e la nuova e-filologia. Opportunità per l’editore e per l’interprete.
Atti del Convegno Internazionale, Roma, 13-15 settembre 2007, a cura di
Loriano Zurli e Paola Mastandrea, Roma, Herder, 2009, pp. 311-320.
39 Ed. I. Besicken, c. A8v.
40 Ivi, c. A1v. In contrasto con queste abitudini di Calenzio appaiono quelle di
Rutilio (ep. LXXVIII) che ricopre, seppur bonariamente, il ruolo di esempio negativo,
poiché eccessivamente pigro. Per questo gli è offerta una proposta che non
può rifiutare, trasferirsi in Boemia, dove una corporazione di militari del re ha il
[ 19 ]
396 michele mongelli
È nell’epistola CXIX che rintracciamo l’affresco più particolareggiato
del carattere e del temperamento dell’umanista41:
Vellem profecto, Laviane, meam hanc naturam posse immutari et dimittere
me hanc rerum bonarum verecundiam, quam severitatem putant
qui me nondum novere. Pudet – nescio qua causa – obvios quosque
salutare, blandiri amicis, assentari, polliceri, eos etiam vocare
atque alloqui quos viderim nunquam, trahere tam subito in necessitudinem,
laudare me palam, libellos ostendere, imprudenter postulare,
quae omnia fieri ab his video qui me hominum gratia antecellunt. Verum
ego neque mentiri umquam didici neque me magni facere. Erubescere
autem cum me alii laudent, libellos lectitent, ingenio faveant,
consuevi. Et cum caeteris quae scribam non mala visa sint, mihi quidem
non placent, ideoque neque cuipiam legenda homini do, neque
recipio a quopiam hominum meritum, nam laudare quempiam non
possum, qui non id sane promereatur. Amicos, si quos habeo, mea causa
nunquam amitto. Si me quispiam experiatur, dicet esse familiarem
neminem magis, neminem fidei magis fautorem. Nam quod subito
partum est, ita recedere assuevit, raro autem deperit quod mature ac
tarde nansciscamur. Vides.
La rappresentazione che Calenzio vuole lasciare di sé ci consegna
l’immagine di un uomo mite, timido e profondamente onesto. La sua
indole è totalmente opposta rispetto ai mala exempla che ha presentato
in altre epistole: non sa farsi grande, non riesce ad ingraziarsi falsamente
i potenti con adulazioni, lusinghe o bugie, ripone la sua fiducia
in pochi amici, è fortemente pudico nel mostrare i suoi scritti, prova
profonda vergogna quando riceve dei plausi per le sue opere, non accetta
indistintamente i complimenti, ma li ritiene fondati solo se ottenuti
da persone che stima.
È un autoritratto che riecheggia (e in certi aspetti ricalca perfettamente)
la filosofia di vita di Orazio, il quale si descriveva come un
poeta profondamente modesto, assolutamente contrario alla circolazione
indistinta dei suoi versi, recitati esclusivamente agli amici
(Serm., I 4, vv. 71-76)42:
solo compito di dormire tutto il giorno, ricevendo anche del cibo squisito direttamente
a letto. Se coglierà quest’occasione, sarà di certo nominato princeps collegii.
Paola Caruso identifica questo destinatario in Rutilio Zeno, istitutore dei tre fratelli
minori di Federico, facendo risalire questa epistola all’occasione del viaggio che
Zeno compì nel 1475 in Ungheria al seguito di Beatrice d’Aragona, cfr. P. Caruso,
Nostri ordinis homo, cit., pp. 130-131.
41 Ed. I. Besicken, c. C2r.
42 Ed. F. Klingner, pp. 179-180.
[ 20 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 397
Nulla taberna meos habeat neque pila libellos,
quis manus insudet volgi Hermogenisque Tigelli,
nec recito cuiquam nisi amicis idque coactus,
non ubivis coramve quibuslibet. in medio qui
scripta foro recitent, sunt multi quique lavantes:
suave locus voci resonat conclusus.
Entrambi gli autori rigettano l’idea di dover mostrare forzatamente
il proprio valore, abbracciando piuttosto il desiderio di un’esistenza
libera dagli affanni.
Quel senso di pacata e ricercata autosufficienza che traspare dalle
pagine di Calenzio era infatti la cifra caratterizzante anche della quotidianità
descritta nei sermones oraziani (Serm. I 6, vv. 110-131 passim)43:
Hoc ego commodius quam tu, praeclare senator,
milibus atque aliis vivo. quacumque libido est,
incedo solus […]
Deinde eo dormitum, non sollicitus, mihi quod cras
surgendum sit mane […]
Ad quartam iaceo; post hanc vagor aut ego lecto
aut scripto quod me tacitum iuvet unguor olivo […]
Pransus non avide, quantum interpellet inani
ventre diem durare, domesticus otior. Haec est
vita solutorum misera ambitione gravique;
his me consolor victurum suavius ac si
quaestor avus pater atque meus patruusque fuisset.
La vita appare come una continua ricerca dell’autarkeia, da praticare
lontano dagli sfarzi cortigiani, a cui tuttavia sia Orazio che Calenzio
erano costretti a prender parte dati i loro rapporti coi potenti. L’aspirazione
che li anima è di trascorrere i propri giorni in una villa in piena
campagna, un angulus di mondo, così descritto dalla voce dell’umanista
(ep. CXLI)44:
43 Ivi, p. 189. Per un’analisi della filosofia oraziana in riferimento all’ideale di
vita espresso nei Sermones rimando a Carl J. Classen, Principi e concetti morali
nelle Satire di Orazio, in Bimillenario della morte di Q. Orazio Flacco, cit., pp. 111-128;
L’invention de la vie privée et le modèle d’Horace, sous la direction de Bénédicte Delignon,
Nathalie Dauvois, Line Cottegnies, Paris, Garnier, 2017; Patrizia
Montefusco, Disagio sociale e riscatto della memoria in Orazio, Roma, Carocci, 2007;
David Armstrong, Horace’s Epicurean voice in the «Satires», in The philosophizing
muse: the influence of Greek philosophy on Roman poetry, Newcastle-upon-Tyne, Cambridge
Scholars Publ., 2014, pp. 91-127.
44 Ed. I. Besicken, c. C6r.
[ 21 ]
398 michele mongelli
Agri fundum mihi esse cupio iam, Hiarace, ubi quantulumcumque supererit
aetatis consumam. Satis quidem elaboratum est; quietem postulo,
si tu sinas. Verum quo loco fundum deligam nondum comperi,
namque inter moenia loci angustia prohibet, prope urbem civium concursus,
ad mare piratarum insidiae, in montibus sterilitas dissuadet.
Qualem igitur velim si rogites, sic habeto: planum atque ex parte editum,
boreae ac subsolano ignotum, hespero oppositum aut stratum ad
meridiem, ubi vivus fons depetra exiliens, quo late iam profuso piscis
plurimus ludat atque inde fluentes rivuli agrum totum irrigent, milibus
ab urbe passuum duobus totidemque amare destinctum. A septentrione
vero nemus, quo sese ferae aut urgente sole aut abeunte recipiant,
umbras praeterea prope aquam densissimas, quae soporem gignant
aut Musas excitent ad canendum. Has si conditiones compereris,
me vocari iube. Caeteras quidem arbores arbitrio mihi disponendas
dimitte atque herbas seminandas, inferendos surculos, palmites
amputandos, cuius rei artifex sum peritissimus. Vive.
Il luogo ideale dove Calenzio vorrebbe soggiornare per riposarsi e
dedicarsi alla poesia è un podere, lontano dalla turba della gente, isolato
sia rispetto alla città che ai porti costruiti sul litorale marino, non
su di un monte, poiché il terreno sarebbe eccessivamente arido, ma in
campagna, orientato verso la stella di Venere, con attiguo un boschetto
e una fonte d’acqua viva, dove poter riposare o ascoltare il canto delle
Muse. Dall’epistola emerge una memoria oraziana che ci riporta alla
satira II 6, in cui il poeta ringrazia gli dei per avergli donato il piccolo
podere in Sabina (vv. 1-5)45:
Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus,
hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
et paulum silvae super his foret. auctius atque
di melius fecere. bene est. nil amplius oro,
Maia nate, nisi ut propria haec mihi munera faxis.
Nei versi del poeta di età augustea Calenzio sembra aver ritrovato
quella stessa ricerca della metriotes che caratterizzava il suo animo,
secondo un paradigma che ha contraddistinto molti intellettuali, i
quali, per via dei propri meriti letterari e diplomatici, vissero da vicino
45 Ed. F. Klingner, p. 227. Su questa precisa tematica cfr. Orazio Bianco, Orazio,
Taranto, l’angulus, in Dai Gracchi alla fine della Repubblica. Atti del Convegno di
Studi sulla Puglia romana, Mesagne, 9-10 aprile1999, a cura di Salvatore D’Alessandri
e Pietro Grelle, Galatina, Congedo, 2001, pp. 207-218; Silvana Rocca,
“Sub tegmine fagi”: natura e paesaggio in alcuni scrittori greci e latini, «Silvae di Latina
Didaxis», XXX (2010), pp. 9-23.
[ 22 ]
forma epigrammatica ed inventio letteraria 399
le vicende politiche del proprio tempo, seppur si dimostrarono sempre
alla ricerca di una esistenza semplice e serena, lontana dall’opulenza
di corte, sentimenti che attesterà circa un secolo dopo nuovamente
Ariosto nelle sue Satire.
Michele Mongelli
Università di Bari
[ 23 ]

In trincea. Gli scrittori alla Grande
Guerra, Atti del Convegno Internazionale
di Studi, Firenze, 22-24 ottobre
2015, a cura di Simone Magherini,
Firenze, Società Editrice Fiorentina,
2017, pp. xi-528.
Dal 22 al 24 ottobre 2015, in occasione
del centenario dell’entrata in
guerra dell’Italia, si è svolto a Firenze
il Convegno Internazionale In
trincea. Gli scrittori alla Grande Guerra,
promosso dal Centro di Studi «Aldo
Palazzeschi» dell’Università di Firenze,
con la collaborazione della
Fondazione Primo Conti e del Gabinetto
Scientifico Letterario «G. P.
Vieusseux». Il volume raccoglie gli
atti del Convegno e presenta, come
precisa la Premessa di Simone Magherini
(pp. ix-xi), venticinque contributi
che si propongono di analizzare
la rappresentazione del conflitto
in letteratura mostrando «la realtà
psicologica, affettiva, emozionale,
ma anche antropologica e fisiologica
di chi la guerra l’ha combattuta e patita
» (p. x). Attraverso le pagine private
o letterarie di D’Annunzio, Marinetti,
Serra, Jahier, Soffici, Malaparte
e Bontempelli, Palazzeschi, Gadda
e Lussu, i versi di Giuseppe Ungaretti,
Clemente Rebora, Lorenzo Montano,
Carlo Betocchi e Eugenio Montale,
ma anche i testi di Ernst Jünger e
Jaroslav Hašek, combattenti dall’altro
lato della linea del fuoco, è restituito
un mosaico variegato, all’insegna
di una «prospettiva polivalente»
(p. x) del conflitto che ha cambiato il
volto della società moderna.
I primi contributi del volume offrono
l’esempio della vocazione pluriprospettica
del libro: Percorsi, meandri,
risorgive fra due dopoguerra (pp.
3-18) di Mario Isnenghi percorre un
intreccio di destini e biografie a partire
dalla generazione nata negli anni
Ottanta dell’Ottocento, responsabile
di aver «collettivamente evocato la
guerra farmaco come via d’uscita
dalla crisi» (p. 5); le derivazioni degli
ideali dell’Ottocento risorgimentale
nella letteratura di primo Novecento
sono indagati da Giuseppe Langella
in Il mito in trincea. La letteratura
della Grande Guerra e l’ideologia risorgimentale
(pp. 19-48); la complessità
degli studi – la differenza di approcci
e prospettive, la molteplicità di figure
cardinali e di tipologie di discorso
– è ripercorsa da Marino Biondi in
Epocalità. La vigilia e la guerra (pp. 49-
82), una lucida rassegna della più
aggiornata storiografia letteraria. Segue
il saggio di Annamaria Andre-
Recensioni
402 recensioni
oli, D’Annunzio, la guerra e l’Europa
mediterranea (pp. 83-96), nel quale
l’autrice esorta a lasciare da parte
una lettura superficiale e viziata
dell’opera dannunziana per apprezzarne
invece «autenticità e coerenza»
(p. 84), in particolare nelle scritture
per il teatro, luogo di comunicazione
e esaltazione delle masse nazionali.
Allargano lo spazio geografico degli
interventi Battisti oratore dell’intervento
(pp. 97-114) di Fabrizio Rasera,
che ripercorre le tappe dell’arte
oratoria di Cesare Battisti, dalle prime
conferenze interventiste al momento
in cui sui palchi dei comizi «la
poesia tende a risucchiare con prepotenza
la prosa» (p. 110), e Scrittori giuliani
nella Grande Guerra (pp. 115-
130), in cui Fulvio Senardi si sofferma
sull’attività letteraria di tre autori
accomunati dalla nascita triestina e
dalla lotta irredentista, Giulio Camber
Barni, Umberto Saba e Giani Stuparich.
Uno sguardo sul confronto
tra Italia e Germania lo offre Marc
Föcking in Amiamo la guerra? «Der
Sturm», «Lacerba» e l’inizio della prima
guerra mondiale (pp. 131-150, che analizza
le divergenze tra le due riviste
negli anni precedenti il conflitto, tra
la dimensione europea dell’avanguardia
e lo schieramento nazionalista
degli articoli di «Lacerba».
Nel volume si segnalano interventi
tesi a recuperare materiale inedito
d’archivio, come Renato Serra e l’“uomo
rosso”: ultime lettere dal fronte (pp.
161-184) di Franco Contorbia, nel
quale l’autore presenta le lettere inviate
da Serra appena prima della
morte all’avvocato Gino Giommi, Ricordare
Caporetto: Carlo Betocchi al
fronte (pp. 239-270) di Gloria Manghetti,
che propone in Appendice il
«piccolo taccuino» nel quale Betocchi,
giovanissimo sottotenente, annota
con scrupolo fatti privati e militari,
e Scritture dal fronte. Giuseppe
Ungaretti e l’esperienza della Grande
Guerra (pp. 161-184) di Pasquale
Guaragnella, che rilegge la scrittura
ungarettiana con richiami ampi e
puntuali alla sua opera poetica e ai
carteggi privati. Le pagine belliche di
Filippo Tommaso Marinetti sono rivisitate
da Paolo Valesio «sotto la
categoria dell’immagine», categoria
che «non sminuisce il loro contenuto
propriamente conoscitivo» (p. 187)
nel saggio Marinetti e le immagini della
Grande Guerra (pp. 185-200).
Luigi Martellini ripercorre in
Malaparte. Le due Italie: la verità, la
menzogna (ovvero «La rivolta dei santi
maledetti») (pp. 201-216) i tempi e le
modalità della composizione del libro
di denuncia sulla disfatta di Caporetto,
mentre Simone Magherini
in «Cacciati nel buio»: Clemente Rebora
in trincea (pp. 217-238) si concentra
sull’analisi di Senza fanfara, «poesia
prosa» pubblicata da Rebora nel
marzo 1917 e sofferta requisitoria
sulle illusioni interventiste destinate
a scontrarsi con la tragica realtà della
trincea. Winfried Wehle con Guerra
cubista. Pace fascista. Come l’arte fa politica.
Il caso Ardengo Soffici (pp. 271-
308) si accosta all’opera di Soffici,
interrogandosi sul nesso tra lo scontro
culturale delle avanguardie storiche,
la «guerra mentale», e la «guerra
militare» (p. 272). Poesie nate dalla
necessità di raccontare l’indicibile
sono anche quelle scritte da Lorenzo
Montano e presentate da Gian Paolo
Marchi, in «Il figlio di Marte». Poesie
di guerra di Lorenzo Montano dedicate
a Luigi Russo «per ricordo di Quota
93» (pp. 309-336), che ne propone la
storia compositiva corredando il
recensioni 403
saggio con il carteggio inedito tra
l’autore e il dedicatario. Anche Giovanna
Scianatico
pone come fulcro
del suo intervento (Le lettere dal fronte
di Bontempelli, pp. 337-352) un carteggio,
le lettere inviate da Massimo
Bontempelli dal fronte, confrontando
le missive risalenti alla prima presenza
al fronte, nel 1915, come inviato
di guerra, e quelle del 1917, quando
partecipa alla guerra come ufficiale.
Alla figura di Carlo Emilio Gadda
sono dedicati i tre saggi seguenti. Gino
Tellini in Nelle retrovie e in prima
linea: Palazzeschi e Gadda (pp. 353-
368) si sofferma sulle «verità antitetic[
he]» (p. 366) del Giornale di guerra
e di prigionia e dei Due imperi… mancati
di Aldo Palazzeschi, mettendo a
confronto l’amor patrio che muove la
penna di Gadda con il neutralismo
non «di genesi politica» ma «psicologica
e culturale» di Palazzeschi (p.
355). Michael Schwarze, in Psicologia
narrativa nei diari di guerra di Jünger
e Gadda (pp. 369-392), si occupa
invece di Gadda e Ernst Jünger, analizzando
le due differenti concezioni
di scritture diaristiche, la «scrittura
della distanza» con cui Jünger tenta
di modellare l’evento terribile e la
scrittura all’insegna della «vicinanza
» con cui Gadda pone al centro la
sua esperienza soggettiva (p. 383).
Infine, Giulia Fanfani in I due Gadda
alla guerra (pp. 393-418) ripercorre
la vicenda di Enrico, fratello minore
di Carlo Emilio, attraverso documenti
e lettere conservati alla sua morte
con scrupolo da Carlo Emilio
Con Il mondo delle retrovie. Buoni
soldati che non combattono (pp. 419-
432), Alice Flemrovà si occupa dei
soldati non inviati al fronte, confrontando
l’opera e la vicenda militare di
Aldo Palazzeschi con le Avventure del
bravo soldato Švejk nella Grande Guerra
di Jaroslav Hašek. Non poteva mancare
il nome di Eugenio Montale tra i
protagonisti del volume, e Anna
Nozzoli in Montale e la guerra rimossa
(pp. 433-456) ricostruisce con l’aiuto
delle rare testimonianze, dei documenti
e degli epistolari con la sorella
Marianna e con Francesco Meriano
«la complessa rete di relazioni» che
permette di rintracciare nell’attività
poetica i luoghi del «ritorno della
guerra rimossa» (p. 448). La scrittura
diaristica è al centro dell’intervento
di Giovanni Capecchi Fronte esterno,
fronte interno e fronte interiore: diari
e memorie di guerra di Valentino Coda,
Giuseppe Personeni, Ardengo Soffici e
Arturo Stanghellini (pp. 457-477), dedicato
all’analisi di consonanze e divergenze
nelle modalità di rappresentazione
in quattro diari di guerra,
composti tra il 1918 e il 1922.
Il volume si chiude con Emilio
Lussu e il suo Un anno sull’altipiano,
grazie al saggio di Elizabeth Leake,
Dalle trincee al testo. Appunti su Emilio
Lussu (pp. 477-488), rivolto a una lettura
approfondita del romanzo che
affianca il racconto alle riflessioni
tratte dal saggio filosofico Teoria
dell’insurrezione, e a quello di Pasquale
Sabbatino, «Uomini contro»:
dal libro di Lussu al film di Rosi (pp.
489-506), che pone il volume a confronto
con il film di Francesco Rosi.
Esaminando le divergenze tra il libro
e la sceneggiatura, Sabbatino si sofferma
sull’esecuzione del tenente
Sassu (alter ego di Lussu), episodio
non presente nel libro: la rappresentazione
dell’estremo sacrificio del
soldato chiude il volume con la speranza
di «costruire le premesse per la
svolta verso l’auspicabile età del pro404
recensioni
gresso dei popoli e degli oppressi»
(p. 506).
Ilaria Macera
Antonio Lucio Giannone, Sentieri
nascosti. Studi sulla Letteratura italiana
dell’Otto-Novecento, Lecce, Milella,
2016, pp. 208
In questo volume Antonio Lucio
Giannone, attento e apprezzato studioso
della tradizione letteraria meridionale
tra Otto e Novecento nonché
della figura e dell’opera di Vittorio
Bodini, raccoglie una serie di
saggi scritti in occasioni e sedi diverse,
dedicate a scrittori un po’ trascurati
dalla critica o ad aspetti meno
noti dell’opera di altri.
Nella prima delle tre parti in cui si
articola il volume, l’autore si occupa
di un protagonista della memorialistica
risorgimentale, il duca Sigismondo
Castromediano, autore di Carceri e galere
politiche (Lecce 1895-96), una serie
di memorie che raccontano la triste,
difficile esperienza vissuta dallo scrittore
insieme ad altri patrioti nelle galere
borboniche dal 1848 al 1859. Non
tralasciando rinvii e confronti con
opere ‘carcerarie’ più note e conosciute
come Le mie prigioni di Silvio Pellico
e le Ricordanze di Luigi Settembrini e
lamentando una sostanziale assenza
degli scrittori meridionali dalle antologie
e dai repertori dedicati ai memorialisti
dell’Ottocento
da studiosi
ed editori dell’Italia centro-settentrionale,
Giannone
evidenzia lo sdegno e
l’indignazione del duca di Cavallino
nei confronti del sistema carcerario di
cui fu vittima, simbolo evidente del
malgoverno borbonico: «Le carceri
del Napoletano erano e sono da considerare
come la più nefanda creazione
della ingiustizia e della malvagità
umana, la negazione d’ogni bene, l’affermazione
di ogni male, bolge d’espiazioni
crudeli, affatto prive dello
scopo di migliorare i traviati» (p. 20).
E simbolo ancora più vistoso di ingiustizia
e malvagità umana diventa nelle
pagine del memorialista la catena
alla quale Castromediano fu costretto
per quasi un decennio e che teneva
legati i prigionieri due a due: «È un
filo di sedici oblunghe maglie, l’una
all’altra coordinate; si estende per oltre
tre metri e mezzo e, insieme cogli
altri ordigni accennati, supera di peso
i dieci chilogrammi. Il suo rauco stridore
e il perenne cigolio assordano e
ammattiscono. È un perfidioso serpente
la catena, (…) un serpente tenacemente
ostinato che, mentre dorme e
stringe coi denti e con le spire, stritola
l’intelletto e annienta la vita» (p. 21).
E lo studioso ricorda che la figura
di questo aristocratico patriota salentino,
moderato e monarchico, ammiratore
di Cavour e dei Savoia piuttosto
che di Mazzini e Pisacane, ritorna
da protagonista nel romanzo Noi credevamo
di Anna Banti (1967) al quale
si è poi liberamente ispirato Mario
Martone per la realizzazione del film
omonimo. Un romanzo che si conclude
con l’incontro tra Castromediano,
ormai diventato parlamentare,
e un vecchio compagno di prigionia,
Domenico Lopresti, avo tra l’altro
della scrittrice, «rivoluzionario
impenitente» e «sincero democratico
» (p. 66): all’indomani dell’Unità
nazionale entrambi finiscono per
ammettere il crollo degli ideali per i
quali avevano combattuto (Noi credevamo)
e la fine del sogno ‘comune’ in
un’Italia diversa e più giusta.
E mentre non mancano pagine derecensioni
405
dicate a scrittori e scrittrici che hanno
avuto legami più o meno diretti con
la Puglia (Michele Saponaro, Ada
Negri, Anna Maria Ortese, Rina Durante,
Nicola G. De Donno) nonché a
noti e illustri critici letterari come Luigi
Russo, Mario Marti e Donato Valli,
un particolare rilievo assume il
saggio che si occupa di un’opera giovanile
di Vittorio Bodini, rimasta tra
l’altro incompiuta. Si tratta de Il fiore
dell’amicizia, un romanzo di formazione
dagli evidenti richiami autobiografici
letto e interpretato da Giannone
come interessante «serbatoio di
figure, motivi e immagini che l’autore
svilupperà successivamente» (p.
104): dal «vuoto» (p. 104) fisico e improvviso
della piazza principale che
preannuncia quello metafisico e profondo
del barocco leccese al cielo salentino
«che schiaccia contro una
pianura di calce i pochi alberi di fico
e le siepi irte dei fichidindia» (p.105)
e destinato a diventare metafora ossessiva
del Barocco del Sud nonché
vera e propria summa della riflessione
bodiniana. E – continua lo studioso
– in questo Fiore compaiono in
nuce le principali caratteristiche dei
leccesi che ritorneranno a lasciare il
segno nelle opere della maturità: la
passione per il gioco, la mania del
pettegolezzo, la pigrizia dei proprietari
terrieri, gli amori dal «muso storto
» delle fanciulle salentine sottoposte
a vigilanza strettissima dalla «dominazione
materna» (p. 107).
Immagini e temi non solo di grande
fascino sul piano strettamente poetico
ma che tra l’altro richiamano le
parole che lo stesso Bodini scrisse nel
1952 a proposito dei «fatti di Otranto
del 1480, completamente ignorati nonostante
la loro importanza dai manuali
di storia» (p. 38) e che invece
sono ancora oggi di una straordinaria
attualità perché possono aiutare
le nuove generazioni, docenti e studenti
della ‘buona scuola’ a riflettere
sulla vera e propria damnatio memoriae
che continua ad essere riservata
a memorialisti, scrittori e poeti del
Mezzogiorno d’Italia e della Puglia:
«la storia d’Italia è stata scritta unilateralmente
secondo una prospettiva
centro-settentrionale, cosicché una
parte degli Italiani studia solo la storia
degli altri senza saper nulla della
propria» (p. 38).
Pietro Sisto
Raul Mordenti, I sensi del testo. Saggi
di critica della letteratura, Roma,
Bordeaux, 2016, pp. 348.
Il libro di Mordenti raccoglie una
serie di saggi (alcuni già pubblicati in
riviste e in volumi collettanei, altri
inediti) che focalizzano l’attenzione
del lettore sul rapporto tra critica e
lettura e, allo stesso tempo, articolano
una critica al nostro presente attraverso
la lettura ermeneutica di alcuni
testi e il dialogo che l’autore ingaggia
con il pensiero di alcuni intellettuali
sulla funzione della letteratura.
Naturalmente, nel periodo attuale,
già proporre un libro così articolato
rappresenta una notevole forza
oppositiva alla logica imperante che
tende a considerare come un inutile
orpello non tanto (e non solo) il critico,
nella sua funzione di discernitore
e di interprete privilegiato, quanto
l’operazione stessa della critica: leggere,
riconoscere, scegliere, argomentare
sono categorie che male si
accordano con tratti della contemporaneità
in cui il massimo giudizio è
406 recensioni
affidato alla categoria (coniugabile
allo stesso modo in diversi contesti:
lettura, televisione, cinema…) del
“mi piace/non mi piace”. Il libro si
divide in quattro parti.
Nella prima, intitolata “Lo sguardo
dell’altro”, due saggi indagano il linguaggio
letterario nella sua specifica
funzione di «dare un senso alle cose
per comunicarle» (p. 22). Nel primo,
“L’altro e il senso del testo”, Mordenti
si sofferma ad analizzare, all’interno
del vasto campo letterario, il funzionamento
del racconto narrativo e i
meccanismi linguistici e retorici usati
dagli scrittori per conferire un ordine
alla vastità delle vicende che compongono
il mondo (p. 23). Naturalmente,
nota Mordenti, ogni racconto
è un incontro con l’alterità (formale
concettuale) e, come tale, essa modifica
nella struttura e nella sostanza la
narrazione stessa. L’apporto delle
esperienze differenti che in essa vi
giungono costituiscono il punto di
contatto con la realtà; questo ascolto
costante e problematico è forse ciò
che mantiene viva la letteratura nei
secoli. Il secondo saggio affronta, con
ampio margine cronologico, la presenza
e la funzione del mare nella letteratura
italiana. Il dato che emerge
con più forza, e che un po’ stupisce
(data la conformazione geografica
del Paese), è che il mare si trova come
soggetto privilegiato in pochissime
opere della nostra letteratura nazionale
(almeno in quelle canonicamente
riconosciute come “capolavori”).
Inoltre, dando conto di un’interrogazione
per via informatica sulle occorrenze
della parola ‘mare’ nelle opere
della letteratura italiana raccolte
nell’archivio digitale della Liz, essa
risulta essere presente in una percentuale
nettamente minore rispetto alle
altre parole usate come termine di paragone:
‘amore’, ‘cuore’, ‘terra’ e ‘cielo’.
Mordenti sottolinea come già dal
Medioevo l’accezione realistica che
accompagna la parola ‘mare’ nella
Commedia dantesca si trasformi, dalle
rime del Canzoniere, in metafora
dell’incertezza esistenziale: da qui
prenderebbe avvio una tradizione
letteraria che riconsegna per lo più
un «mare metaforico e solo poetico
retorico che neppure lo sguardo mercantile
di Boccaccio riesce a restituire
pienamente alla sua natura referenziale,
cioè di tramite commerciale, di
distanza (ma superabile e padroneggiata),
di luogo di imprese militari e
di intraprese economiche, di mezzo
per la comunicazione e l’incontro fra
gli uomini» (p. 51). Dopo una rapida
carrellata attraverso gli altri secoli, in
cui sostanzialmente si consoliderebbe
la tradizione derivata dalla interpretazione
petrarchesca, in seguito
all’importante parentesi ottocentesca
segnata dai poemetti pascoliani e dalle
opere di Verga (si pensi ai Malavoglia
su tutte), nemmeno il Novecento
sarebbe riuscito davvero a raccontare
il mare, quanto, piuttosto, la sua assenza
(il libro di Ortese, Il mare non
bagna Napoli, costituisce un forte paradigma
di questa marcata reticenza).
La conclusione a cui giunge dunque
Mordenti è che la nostra letteratura
non sia riuscita davvero a parlare del
mare «perché gli italiani non hanno
mai posseduto e non possiedono il
loro mare», dato che da esso sono
giunte spesso invasioni e scorrerie
che forse si preferisce dimenticare.
Allo stesso tempo, la sua scarsa presenza
letteraria si deve anche alla
mancanza storica di grandi avventure,
imprese coloniali o conquiste che
hanno visto protagonista il nostro porecensioni
407
polo e che, a differenza di quanto appunto
è avvenuto nelle altre letterature
europee, avrebbero potuto generare
narrazioni (p. 62).
Se l’esclusione del mare è associata
all’incapacità che la nostra letteratura
ha di parlare anche di un altro
grande emarginato dalle patrie lettere,
ossia del lavoro umano («il lavoro
vero, quotidiano e produttivo, per
strappare alla natura col sudore e lo
sforza collettivo il pane e la vita», p.
63), la seconda parte del volume si
apre con un ampio saggio sulle Affinità
elettive, lette proprio a scandagliare
questa problematica, mettendola
in rapporto con il tema del doppio
che domina la costruzione dei
personaggi del romanzo goethiano.
Attraverso un’analisi articolata e persuasiva
del testo, Mordenti, che segue
una traccia appena abbozzata da
Benjamin nel noto saggio su Goethe
pubblicato in Angelus Novus, mette in
luce come nel meccanismo del raddoppiamento
che permea la costruzione
delle figure romanzesche delle
Affinità, emerge in filigrana proprio
la doppiezza di Goethe stesso, insita
nella sua appartenenza alla classe intellettuale
borghese. Scrive Mordenti,
riferendosi a una lettera che Goethe
indirizza a Carl August in cui egli
accetta l’invito rivoltogli dal suo
principe di tornare a Weimar dall’Italia
(Paese in cui si trovava) in cambio
dei privilegi che lo avrebbero atteso:
«il modello signorile dell’intellettuale
e della sua assoluta autonomia vive
in realtà di questa abiezione servile
(che deve tuttavia nascondere); ed
è un tale contraddittorio, e doppio,
modello che anche la borghesia,
ascendendo alla sua rivoluzione, non
riesce a non fare proprio» (p.128).
All’inizio dell’Ottocento si sarebbero
potute aprire due strade alla borghesia
tedesca: cedere le armi alla Restaurazione
o tentare un’alleanza
egemonica con le classi popolari che
avrebbe aperto la via a una rivoluzione
di marca socialista. Goethe respingerà
la prima strada, ma, al contempo,
a causa del suo conservatorismo,
non seguirà nemmeno la seconda.
Dunque, l’unica via percorribile sarebbe
stata quella di un compromesso:
soluzione tuttavia per lui inconfessabile
e, quindi, da tenere nascosta.
Pertanto, afferma Mordenti: «ciò
che Goethe ci nasconde (nel momento
stesso in cui la sua arte preterintenzionalmente
ce lo rivela) è che
Edoardo e il Capitano, che Carlotta e
Ottilia sono la stessa persona e (soprattutto)
che aspirano a esserlo e che,
proprio per questo, la loro unione è
statica e portatrice di morte. Il raddoppiamento
dell’identità non consente
infatti né la dialettica né la procreazione;
a ben vedere, non comporta
nemmeno adulterio se non nel
senso che tale raddoppiamento rappresenta
il contrario del matrimonio e
la sua derisione» (p. 129). E sarebbero
proprio queste le affinità di cui parla
il romanzo, le quali non darebbero
luogo nemmeno a una vera e propria
tragedia, perché prive di uno sviluppo
e di una dialettica, ossia: «l’alleanza
con la nobiltà si rivela per la borghesia
illuministica tedesca, al tempo
stesso, necessitata e priva di senso:
nec tecum nec sine te» (Ibid.). Il libro
sarebbe un’allegoria dell’incapacità
della borghesia e dell’intellettuale
borghese,
che Goethe appunto personifica,
di procedere verso una scelta di
totale rinnovamento in senso rivoluzionario
e socialista, per abbracciare,
viceversa, la strada mortifera dell’alleanza
col privilegio signorile.
408 recensioni
Cuore della sezione e del volume è
poi un lungo saggio su Primo Levi,
che affronta in maniera complessiva
le sue opere letterarie. Il tratto che
accomuna la differente produzione
leviana (al di là della querelle sulla
classificazione della sua scrittura che
ha mosso, sin dagli esordi, alcuni critici
ad avere delle riserve sulla pubblicazione
e sull’etichettatura da assegnare
a molti suoi testi) è il nesso
inscindibile che si trova tra la volontà
di scrivere e di raccontare, affinché
la parola (che dopo Auschwitz ha subito
una forte perdita di significato)
riacquisti quella capacità immediata
di comunicazione che le appartiene.
La funzione della scrittura e, quindi,
della scrittura letteraria non è, per
Levi, un esercizio estetico o una sperimentazione
formale, ma un tentativo
morale di condivisione di un’esperienza
che deve essere lasciata a
futura memoria. La scrittura, cioè, è
volontà di testimoniare. Sull’analisi
del rapporto che intercorre tra etica e
scrittura, tra scrittura e testimonianza,
tra critica letteraria e impegno civile
si innestano i saggi che occupano
la terza parte: “Maestri di una
generazione senza maestri”. Sia i capitoli
che riguardano Walter Binni
che quelli su Alberto Asor Rosa, ferme
restando le specifiche differenze,
sono accomunati da un’idea della
critica alla (e della) letteratura che
tiene conto di una produzione saggistica
legata indissolubilmente al tessuto
sociale in cui essi operano, in
epoche ovviamente diverse. Così se
il discorso di Binni si incontra con
una società appena uscita dalla Seconda
guerra mondiale e dal fascismo,
per proseguire con i fermenti
sessantottini nei quali avviene – anche
da un punto di vista personale –
un primo distacco con l’operato di
questo maestro, dalla fine degli anni
cinquanta, passando per il Sessantotto
e per la Nuova sinistra, si propagano
fino al Postmoderno le letture e
gli incontri con Asor Rosa.
Nell’ultima sezione (“Il nuovo
contesto della ricerca letteraria”), il
tema della didattica della letteratura
s’intreccia con quelli dell’assetto
dell’università e della diffusione della
ricerca scientifica. A fianco di una
spietata radiografia delle storture derivate
al mondo universitario dalle
varie “riforme” che si sono succedute
nell’ultimo ventennio, che hanno,
di fatto, precarizzato e decimato il
comparto del personale docente e
dei ricercatori, Mordenti rileva come
le nuove forme di reclutamento del
personale (le varie abilitazioni) e
quindi le valutazioni degli insegnanti
e delle loro ricerche scientifiche abbiano
in realtà favorito la mercificazione
della conoscenza scientifica,
ingabbiando in assurdi parametri
valutativi (decisi però dai vari governi
che stabiliscono norme e valutatori)
il criterio di scientificità di un’opera
(subordinato all’inclusione della
stessa in fantomatiche collane editoriali,
per l’ingresso nelle quali è spesso
il docente a pagare o in costosissime
riviste rigidamente suddivise in
fasce di importanza) o il valore di
specifici Dipartimenti. Ignorando o
decidendo di non puntare sulle pubblicazioni
in rete o in parametro di
“creative commons”, si favorisce un
modello di accesso al sapere scientifico
che è fortemente regressivo e indice
di un’ideologia elitaria della conoscenza
e della diffusione del sapere.
Un’altra stoccata è poi inferta al
sistema di valutazione della qualità
della ricerca scientifica nel saggio
recensioni 409
“Valutare è finire. La VQR e la distruzione
dell’Università pubblica in Italia”.
Sin dal titolo, il giudizio globale
di Mordenti sul sistema è piuttosto
chiaro. Non solo, dice il critico, per il
Ministero e quindi per i Rettori sono
insufficienti i momenti di verifica già
esistenti all’interno della carriera di
un docente universitario (che partono
dalla tesi di laurea, fino al conseguimento
dell’abilitazione per l’ordinariato),
criteri viceversa assenti da
qualsiasi altra carriera professionale,
pubblica o privata; ma, aggiunge: «se
una quindicina di valutazioni nel
corso di una carriera non bastano e si
deve valutare ancora i professori, si
ricordi che è obbligo consegnare ogni
fine anno due registri personali, uno
delle lezioni svolte […] e uno del
complesso delle sue attività didattiche.
Perché non partire da questi?»
(p. 319). Ossia, Mordenti evidenzia il
quasi totale disprezzo per la didattica
che proviene dai vertici stessi,
mentre, fa notare, come l’Università
sia anzitutto «fatta del nesso inscindibile
tra didattica e ricerca, e un professore
è un ricercatore che riversa la
sua ricerca nella didattica e – al tempo
stesso – un docente che prende
continuamente spunto dalla didattica
per sviluppare la sua attività di
ricerca» (p. 320). Pertanto, suggerisce
di integrare i registri delle attività didattiche
(con i giudizi espressi dagli
studenti in merito alla didattica che
hanno ricevuto) con «analoghi Registri
delle attività di ricerca, che contengano
le pubblicazioni fatte dai
docenti». In più, «agili, e gratuite,
commissioni composte da professori
emeriti o fuori ruolo potrebbero
prenderne visione e attestare che attività
di ricerca è stata svolta con impegno
e assiduità dal docente in questione
». E non a caso egli sottolinea
che la commissione debba valutare
l’impegno e l’assiduità dell’attività
di ricerca, «perché altro non lo può
valutare né una Commissione né
nessun altro senza violare la libertà
garantita a tutti/e noi dalla nostra
Costituzione: “L’arte e la scienza sono
libere, e libero ne è l’insegnamento
(art. 33)» (Ibid.). Dunque, è il meccanismo
del riconoscimento e dell’inclusione
dell’altro mediante un processo
partecipativo e non competitivo
ciò che sostanzia l’attività culturale
e la ricerca scientifica, in quanto
processi orientati alla ricerca e alla
diffusione libera della conoscenza.
Anche la letteratura, che in questa
ricerca di inclusione e di apertura
all’altro è una componente non marginale,
torna a ribadire Mordenti nel
saggio che conclude il volume (“In
spem contra spem”), deve accogliere
tutto ciò che sta ai margini, con una
tensione che riesca ad andare oltre
l’osservazione di ciò che, dal centro,
definiamo periferico (come avviene
nei pur benemeriti studi coloniali,
sull’emigrazione fino ai vari gender
studies). Ossia, si dovrebbe riuscire a
guardare «anche il centro a partire
dal margine, di assumerne il punto
di vista, di considerarlo come il fattore
cruciale dell’innovazione e della
vitalità stessa del sistema» (p. 331).
Claudio Brancaleoni
L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione,
a cura di Maria Agostina
Cabiddu, prefazione di Francesco
Sabatini, Milano, Guerini Associati,
2017, pp. 158.
Tutto ha inizio nel dicembre 2011,
410 recensioni
quando il Senato accademico del Politecnico
di Milano, interpretando in
modo arbitrario l’art. 2, c.2, lett 1 della
legge 240/2010 (c.d. Gelmini) inerente
l’internazionalizzazione del sistema
universitario, delibera che, a
partire dal 2014, tutti i corsi di laurea
magistrale e di dottorato siano impartiti
esclusivamente in lingua inglese.
Alcuni docenti presentano ricorso
contro tale decisione – peraltro
il Governo non ha avuto nulla da eccepire
di fronte all’estromissione della
lingua nazionale – e nel 2017 la
Corte Costituzionale, con sentenza n.
42/2017, dà loro ragione, affermando
che i corsi impartiti in lingua straniera
potranno affiancare, ma non
sostituire quelli in italiano: il percorso
formativo nella nostra lingua dovrà
essere sempre garantito perché
«le legittime finalità dell’internazionalizzazione
non possono ridurre la
lingua italiana, all’interno dell’università
italiana, a una posizione marginale
e subordinata, obliterando
quella funzione, che le è propria, di
vettore della storia e dell’identità
della comunità nazionale, nonché il
suo essere, di per sé, patrimonio culturale
da preservare e valorizzare».
La discussa decisione della suprema
Corte offre l’occasione per riflettere
sulla politica linguistica italiana
in relazione alle sfide della globalizzazione.
L’invito è colto da una serie
di studiosi di diverse discipline, non
solo linguistiche, ma anche scientifiche,
che offrono il loro contributo al
dibattito: Maria Agostina Cabiddu,
Paolo Caretti, Giancarlo Consonni,
Michele Gazzola, Nicoletta Maraschio,
Claudio Marazzini, Alessandro
Masi, Lucilla Pizzoli, Francesco
Sabatini, Luca Serianni, Maria Luisa
Villa.
Cabiddu, ordinario di Diritto pubblico
al Politecnico di Milano e avvocato
dei ricorrenti, ripercorre con
chiarezza e rigore l’iter della vicenda,
fornendo i concetti-base di diritto
per orientarsi: l’ufficialità della lingua
italiana e la tutela delle lingue
minoritarie, lingua e cittadinanza,
Europa e plurilinguismo. La nostra
Costituzione, a differenza di altre,
«non contempla ancora, formalmente,
il riconoscimento dell’italiano come
lingua ufficiale, dando per scontato
che essa sia, non solo la lingua
stabilmente e comunemente utilizzata
nel territorio della Repubblica, ma
anche il fattore portante dell’identità
nazionale» (p. 21). Forse è giunto il
momento di inserire nella Carta l’italiano
come lingua ufficiale, per poterlo
tutelare e valorizzare, nell’ambito
di una politica linguistica che riconosca
il nesso essenziale fra lingua
e cittadinanza.
Come ricorda Sabatini nella prefazione,
la lingua si accompagna spesso
alla potenza di uno Stato, per cui il
latino, dopo il greco, è stato a lungo
la lingua dei dotti del commercio internazionale,
poi l’italiano si è affermato
fra Cinque e Settecento come
idioma degli scambi, della musica,
della letteratura, per lasciare quindi
posto al francese, lingua dell’aristocrazia
e della diplomazia.
Oggi è il momento dell’inglese. Peraltro,
l’egemonia culturale dell’inglese
non è nata per caso, ma, come
sottolinea Cabiddu, è stata pianificata
a tavolino da Winston Churcill durante
la seconda guerra mondiale
per garantire la leadership mondiale
del proprio paese, con lo spostamento
del baricentro geo-politico dall’Europa
continentale alle due sponde
anglofone dell’Atlantico. Il suo ‘piarecensioni
411
no’, puntualmente realizzatosi nel
corso del secondo Novecento, prevedeva
una ‘lingua internazionale’
adatta alle attività pratiche e alla comunicazione,
composta da meno di
mille parole, il cosiddetto Basic English,
strumento adatto alla comunicazione
di massa, ma che nulla ha da
spartire con la cultura.
Il letterato e Accademico della
Crusca Lorenzo Magalotti già due
secoli fa individuava la causa della
scarsa affermazione dell’italiano nella
mancanza di un’entità statale forte
e rispettata all’estero. Ancora oggi la
lingua italiana è meno sostenuta dallo
Stato di lingue come il francese e
lo spagnolo.
Inoltre, una lingua non è mero
strumento di scambio, ma forma e
sostanza del pensiero e dunque
dell’insegnamento e dell’apprendimento,
perciò per contribuire attivamente
allo sviluppo della ricerca
scientifica occorre non solo parlare,
ma pensare in una certa lingua. È il
concetto di ‘mondo interiore individuale’,
che si identifica non solo con
l’universo degli affetti e dell’intimità,
ma anche con il pensiero libero e
creativo, tipico di chi deve produrre
conoscenza. Se si usasse solo l’inglese
nelle discipline, l’italiano verrebbe
espropriato da interi territori del sapere,
trasformandosi in una specie di
dialetto adatto all’uso familiare o poetico.
Chi – e sono i più – asserisce l’esclusività
dell’insegnamento in inglese
si basa in modo acritico sull’argomentazione
secondo cui l’inserimento
dei nostri studenti nel mercato
internazionale è favorito dall’erogazione
di corsi di laurea in inglese,
senza tener conto del fatto che i nostri
laureati, già oggi molto numerosi
in enti ed aziende oltrefrontiera, sono
apprezzati in primis per la qualità
della loro formazione. Inoltre, essendo
l’università italiana finanziata
prevalentemente dalla fiscalità generale,
non è sostenibile la priorità assegnata
a ipotetici studenti stranieri
e anglofoni rispetto agli autoctoni, né
l’idea di formare programmaticamente
professionisti per il mercato
estero. Naturalmente, non si intende
contestare l’insegnamento delle lingue,
ma la lingua dell’insegnamento,
che deve essere tale da assicurare il
massimo livello dei contenuti trasmessi,
obiettivo non facilmente raggiungibile
con l’insegnamento in inglese.
Peraltro, lingua è anche democrazia,
come afferma Zagrebelsky: «Il
numero di parole conosciute e usate
è direttamente proporzionale al grado
di sviluppo della democrazia e
dell’uguaglianza delle possibilità.
Poche parole e poche idee, poche
possibilità e poca democrazia.»1
Claudio Marazzini osserva che nella
nostra Costituzione, a differenza
che in quella francese, austriaca, spagnola
e svizzera, non si faccia cenno
alla lingua, probabilmente perché i
costituenti, appena usciti dal fascismo,
temevano l’idea di una ‘lingua
autoritaria’. Oggi però la situazione si
è capovolta, con l’italiano minacciato
da un lato dall’inglese e dall’altro dalle
parlate locali. Forse si potrebbe
percorrere la strada lusitana: la Costituzione
portoghese colloca infatti la
lingua fra le funzioni primarie dello
stato, al pari delle libertà fondamentali
e della qualità della vita.
1 Gustavo Zagrebelsky, Lezione alla
Biennale Democrazia di Torino (Torino,
22-26 aprile 2009)
412 recensioni
Peraltro, l’Italia è sempre più multilingue
e un rigido monolinguismo
in ambito universitario non avrebbe
senso, né sarebbe in linea con le direttive
europee, favorevoli al multilinguismo.
La nostra lingua – occorre
ricordarlo – è una delle quattro lingue
di cultura europee, parlata da
sessanta milioni di persone, studiata
da più di due milioni di persone
all’estero e lingua ufficiale anche in
Svizzera. Non è quindi possibile paragonare
la situazione italiana a
quella olandese o finlandese, in cui
l’inglese di fatto affianca la lingua nazionale,
parlata da pochi milioni di
persone e non avente alle spalle una
tradizione secolare come la nostra.
Concludendo con le sagge parole
di Sabatini, dall’avvincente lettura di
questo libro si trae «l’impressione
che la corsa sfrenata all’anglicizzazione
degli studi e della vita nel nostro
Paese, se collegata allo scarso rilievo
che ha nei programmi educativi
ufficiali il consolidamento della
padronanza della lingua italiana, sia
anche effetto di una martellante promozione
puramente commerciale
della lingua inglese. Il tutto, ovviamente,
sullo sfondo di pianificazione
politica» (p. 12). Insomma, occorre
prendere coscienza del fatto che una
lingua è un bene culturale in sé e ha
un valore simbolico per l’intera comunità
dei parlanti.
Simona Lomolino
Giorgio Montefoschi, Il corpo, Milano,
Mondadori, 2017, pp. 220.
Quando in Madame Bovary vengono
descritte le mani di Emma, Flaubert
è tanto preciso quanto impietoso,
perché, sebbene ne ammiri la perfezione
delle unghie, nel complesso
le trova «pas belle». Egli giustifica il
proprio giudizio perché non sono abbastanza
bianche e per quelle falangi
«un peu sèche». Il ritratto non paga
solamente il pegno al Naturalismo
ma dovrebbe essere un indizio per
Charles – e per il lettore – del destino
di quella sventurata. Dal peso e dal
significato di quest’immagine deve
essere rimasto assai impressionato
Giorgio Montefoschi1, ché pure principia
il suo ultimo romanzo, Il corpo,
con un annuncio di morte, benché
più grave e cristallino, cioè il primo
attacco al cuore del protagonista,
Giovanni Dalmati. Di segnali mortiferi,
e questi, sì, velati, ce ne sono parecchî
altri e sparsi in più punti, quasi
a rammentare, in modo angoscioso,
che da quel timore che accomuna
gli umani, non si scappa. Si pensi, ad
esempio, alla morte dell’amica Ada;
al malinconico ricordo di Laura (ripresa
tra l’altro da Le due ragazze con
gli occhi verdi, 2009); il necrologio di
due poeti (forse Lars Gustafsson e
Péter Esterházy) scomparsi nell’agosto
del 2016, l’anno in cui si svolge la
vicenda; una biografia che tratta degli
ultimi anni di Puškin (verosimilmente
Il bottone di Puškin di Serena
Vitale, 1995); così come l’accenno al
Sorpasso farà prevedere l’incidente
del finale; per non dire d’un altro elemento,
ma che forse è solamente una
mia immaginazione, ossia il nome
dell’amata, Ilaria, che m’ha portato
alla mente il monumento funerario
1 Cfr. Giorgio Montefoschi, Flaubert:
gli occhi di Emma Bovary, in Id., Quando
leggere è un piacere. Passione e sentimento
amoroso nei grandi libri, Milano, Rizzoli,
2000, p. 107.
recensioni 413
di Jacopo della Quercia. Tanta attenzione
alla morte ha come obiettivo
quello di lasciare intravedere l’autentico
tema: il tempo o, per meglio
dire, il suo trascorrere. Non a caso in
esergo si trova una battuta dal Cavaliere
della rosa di Von Hoffmansthal,
«a volte lo sento scorrere… Senza
scampo…», che dovrebbe dare una
mano a interpretare la storia nel suo
insieme.
La trama, come sempre per
quest’autore, viene ridotta al minimo,
e si lascia riassumere in pochi
eventi funzionali. L’inizio e la conclusione
si svolgono sulle Dolomiti,
indicando così una circolarità del
racconto. In questi posti rustici e,
perciò, lontani dalla quotidianità, appaiono
i vari personaggî, e tra questi
il protagonista e suo fratello Andrea,
che per una passeggiata, una quasiscalata,
rievocano l’Ascesa al Monte
Ventoso, e non solo per la situazione,
ma soprattutto per la messa in evidenza
di due caratteri che, a grandi
linee, corrispondono a quelli di Francesco
e Gherardo Petrarca. Subito
dopo avviene il fattaccio: l’infarto, e
ci si sposta a Roma – quella struggente
e non ostile di Montefoschi –
dove viene narrata la breve storia
d’amore tra il sessantenne Giovanni
e la quarantenne Ilaria, sensuale in
un modo che sfianca Giovanni, e che
è intenta a dare un qualche ordine
alla propria esistenza; ed è la compagna
d’Andrea. La relazione scaturisce
per Giovanni dalla consapevolezza
della propria età e condizione
fisica, fatti che lo inciteranno a un
ultimo, e chimerico, sussulto di vita;
mentre per lei la scelta dell’adulterio
parrebbe essere, paradossalmente,
l’unico rifugio sicuro, ma momentaneo,
per la personale instabilità e frenesia.
Da quest’occasione dunque (e
uso di proposito una parola profondamente
montaliana) viene fuori
una serie di episodî in cui quello che
conta non saranno le emozioni in sé
– poche e ripetute, irragionevoli – ma
il sentimento che le ha eccitate: un
sentimento che, per quanto smuova
il loro trantran, rimane sottomesso
alla prepotenza dell’istinto egoistico
di Giovanni che nella cognata ha trovato
solamente un feticcio, una bambola
graziosa e pericolosa. Credo che
sia fuorviante cercare delle coincidenze
con il triangolo Paolo-Francesca-
Gianciotto perché, per quanto
l’attrazione di Giovanni sia sincera e
ossessiva, non arriva mai ad arderlo
completamente, tant’è che non reagirà,
almeno non per davvero, alla decisione
– netta e saggia – di Ilaria. La
sua mediocrità lo rende insensibile
nei confronti della moglie, del fratello
e, in fondo, anche verso sé stesso,
al punto che, per sfogare il suo tormento,
crede di non dover dare conto
a nessuno. Per descrivere al meglio
il contesto dove gli uomini e le
donne si confrontano in modo diseguale,
Montefoschi ha messo insieme
un repertorio di strumenti che
includono la crudeltà di Maughamper
gli uni, e la compassione di Cassola
per le altre, sia che si tratti della
spregiudicata amante, sia per la placida
moglie Serena che, a conoscenza
del suo gesto, lo attenderà, nonostante
la sua insopportabile cattiveria.
Non nomino a caso Cassola, visto
che Montefoschi cita stavolta La
ragazza di Bube, romanzo dove c’è
un’altra, Mara, che resta ad aspettare.
È bene capire che, già come per la
biografia del poeta russo che ho nominato
sopra, per questo caso, e invero
in ogni romanzo di Montefo414
recensioni
schi, i libri citati non servono solamente
a caratterizzare caratterialmente
chi li sta leggendo, ma sono
piuttosto delle spie utilissime a prevedere
il corso degli avvenimenti2.
Poi, oltre alla psicologia, c’è il corpo:
quello malandato e sgraziato di
Giovanni e quello incantevole e insidioso
di Ilaria. A compensare tanta
ingiustizia ci penserà la sorte, visto
che lui può comunque ritenersi soddisfatto
della sua agiatezza di avvocato,
e della certezza degli affetti
(non solo quello della moglie ma anche
del simpaticissimo Bruno Levi e
del fratello); mentre lei, madre singola,
coproprietaria d’una boutique,
vive nella ‘provvisorietà’ tipica della
sua generazione. I due corpi non rappresentano,
dunque, solamente un
opposto fisico ma anche emozionale
e, perfino, economico. A metà strada
tra queste due posizioni, c’è Andrea:
vecchio anche lui ma che, a differenza
del fratello ben piantato, è sconclusionato
perché è rimasto impigliato
nelle proprie ambizioni sbagliate,
e si agita, inutilmente nei ricorrenti
delirî mentali. Insomma, Montefoschi
ritrae, con una schiettezza prossima
alla parodia, certi sessantottini,
sfasciati da mali e dispiaceri tanto
gravi quanto spesso illusorî, visto
che ormai s’è consumata anche quell’
«epica dell’esistenza»3 con cui Debenedetti
aveva segnato lo sguardo
verso il Novecento. Montefoschi è
andato ben oltre – il Novecento, del
resto, è bell’e andato – decidendo di
rispecchiare, com’è suo diritto e dovere,
questa nostra contemporaneità,
segnata da un’avvilente e rinsecchita
post-moralità.
Giovanni, nonostante tradisca la
fiducia di Serena e del fratello, non
percepisce le sue azioni con il brio amorale
di qualche decennio fa, ma
ad esso ha sostituito una silenziosa e
distaccata noncuranza. Il desiderio
di Giovanni, infatti, per quanto legittimo
e comprensibile, non arriva a
diventare né tragico né riesce a risolversi
in un senso di piena libertà,
perché in esso non v’è né un conflitto,
privato o sociale, né c’è traccia di
‘sporco’, quella tensione tra alto e
basso, cui tende la poesia. Per capire
quello che voglio dire, si pensi ai versi
di Penna: «Questo corpo che stringo
(e mi stringe!) | ha sapore di fango
e di stelle»4. Nel romanzo di Montefoschi
questa magnifica combinazione
è stata sciolta perché lo scrittore
ha compreso la realtà e l’ha rappresentata,
senza aggiungere e senza
censurare.
Lo stile risulta ancora più stringato
di quello cui lo scrittore ci aveva abituato
nei suoi precedenti sedici romanzi.
Taglia perfino la frequenza di
descrizioni, per quanto quelle pre-
2 Altri libri nominati in questo romanzo
sono l’Odissea, Lolita, Il conte di Montecristo,
il dramma Ivanov di Čechov e un
non nominato ‘mattone’ americano che
dovrà tradurre Andrea; sul tema rimando
anche al mio Montefoschi: la letteratura come
vita, in «Corriere di Gela», 5 aprile
2014.
3 «Nell’epica moderna, non vediamo
che due grandi specie, e anch’esse fluttuanti,
compenetrate: una che ammette la
possibilità di legittimare la vicenda, l’altra
che nega questa possibilità. Alla prima
diamo il nome di epica della realtà; alla
seconda quello di epica dell’esistenza»:
Giacomo Debenedetti, Personaggi e destino
(1947), ora in Id., Saggi critici. Terza
serie, Venezia, Marsilio, 1994, p. 112.
4 Sandro Penna, «Erotica», in Id., Poesie,
prose e diari, a cura di R. Deidier, cronologia
di E. Pecora, Milano, Mondadori,
2017, p. 285.
recensioni 415
senti – d’un frutto, d’una gonna, della
città e delle valli – siano d’un’amorevolezza
che commuove. Montefoschi
ha deciso qui di affidarsi ai dialoghi,
tanto che il testo rammenta un copione
teatrale. Si potrebbe parlare di piccoli
drammi, garbati e interiorizzati
talmente bene che nessuno, al di là di
chi li mette in scena, sembra accorgersene.
Le conversazioni risultano
insensate, sovente sono lasciate in sospeso,
o si limitano a delle umilianti
frasi fatte. Questa scelta, oltre che stilistica,
esalta la ‘tesi’ del romanzo, per
cui ogni attività razionale, e supremamente
quella dell’argomentazione,
vengono svilite dall’inconsistenza
di chi parla. Il corpo invece usa una
sua lingua, chiara, precisa e onesta,
fatta di sete e di freddo, di stanchezza
e di spasimi: necessità che si possono
appagare, un’irrequietezza che si sa
soddisfare. Per questo motivo, i sentimenti
vanno ridotti a quelli che hanno
a che fare con la memoria, con il
passato. Il tono della scrittura non
potrà dunque essere che quello
dell’elegia, dove gli stessi protagonisti
non hanno altra scelta che convivere
con le proprie frustrazioni.
Per le ragioni che ho brevemente
esposto, mi sono persuaso che questo
sia il miglior romanzo di Giorgio
Montefoschi; e che queste medesime
motivazioni lo rendano un eclatante
esempio di anti-besteseller.
Gandolfo Cascio
Fuoco. Terra. Aria. Acqua, a cura di
Edoardo Sant’Elia, Lecce, Terra
d’ulivi Edizioni, 2017, pp. 100.
Molto più di una riuscita raccolta
di poesie, questo prezioso volumetto
ha l’ambizione di proporsi testo-snodo
all’interno dell’incerto e magmatico
panorama della poesia contemporanea.
La successione delle brevi
raccolte intitolate ai quattro elementi
da quattro riconosciuti poeti (Giuseppina
De Rienzo per il fuoco, Rossella
Tempesta per la terra, Edoardo
Sant’Elia per l’aria e Valerio Grutt
per l’acqua) senza troppe premeditazioni
e senza cedere al «poetese», si
trova quasi a comporre un grande
poema del mondo. O, ancor meglio,
un dramma del grande teatro del
mondo, in una geopoetica collezione
di versi che molto dialoga con la filosofia
e che vuol rifarsi apertamente,
sin dal manifesto introduttivo, all’unico
filosofo greco che ha messo in
versi il suo pensiero, Empedocle.
Ed è proprio sul fragile crinale tra
poesia e filosofia che i quattro poeti
conducono il lettore in questa rappresentazione
cosmica nella quale i
suoi protagonisti/elementi si fanno
autori, quando non propriamente
demoni: della materia, della storia,
degli uomini e dei loro incerti destini.
Gli ‘elementi’ sono le «simboliche
e concrete suggestioni alla base di
questo volume», come spiega in apertura
l’ideatore del progetto, Edoardo
Sant’Elia. La successione di versi dà
spazio a loro: fuoco, terra, aria e acqua
sono quattro personaggi in cerca
di autore, si presentano con una
grande storia da rappresentare a un
lettore, che quasi si trasforma in un
pirandelliano capocomico al quale
essi chiedono attenzione. Sono loro
dunque i protagonisti, quattro guerrieri
che si contendono il dominio
del mondo e che muovono vicende
di personaggi umani.
Autonome e differenti, nei registri
e nello stile, oltre che propriamente
416 recensioni
nelle poetiche, le quattro sezioni
sembrano comporsi propriamente in
un poema. Nel primo libro Giuseppina
De Rienzo vede fuoco nella natura,
negli animali, nell’universo. Fuoco
in epifanie multiple, non ultima
quella luciferina del destino: «Forse
l’inferno salva / dal sole di gesso /
acqua blu inchiostro allunga letti agli
amanti / nasconde abissi, la vita di
pesci senza branchie / il baratro salva
/ perdizioni amaranto / musiche
tamburi mandolini senape». Alla impetuosa
piena della De Rienzo fa seguito
la pacata preziosità degli
Haiku che Rossella Tempesta dedica
alla Terra; «avvistamenti», come recita
il sottotitolo della sezione: «Mia
Arcadia, / Terra, pianeta stella / tu
fosti e noi?». Torna con forza l’anelito
conoscitivo, la ricerca di un approdo
concreto alla incerta fluidità dell’essere
contemporaneo: «Lei mi ripara,
/ la terra è verità. / Lei mi genera».
Ed è sempre la terra a mostrare l’unico
certo destino ultimo dell’uomo:
«Nelle ossa abbiamo / la terra che
noi siamo. / Terra torniamo».
Un poema narrativo è senza dubbio
la «storia degli spiriti» narrata
nella sezione Aria da Edoardo
Sant’Elia. Il poeta non è che «il narrante
spettatore […] della storia, scelto
per seguirla». Così inizia il viaggio in
versi ordito dagli stessi «spiriti
dell’aria» che guidano le vicende degli
ignari (ma non ignavi) protagonisti.
Registi dunque delle vite umane
sono gli spiriti dell’aria, che si fanno
persona, in una sorridente, leggera
quanto intensa prosopopea dell’aere.
Si presentano con un’apostrofe al lettore
(che qui mi piace chiamare spettatore)
secondo la migliore tradizione
del teatro classico: «Siamo gli spiriti
dell’aria, / il vento cavalchiamo
/ senza sosta, / seguendo l’umore /
e l’orizzonte! / Siamo gli spiriti irrequieti,
/ le nubi traversiamo / a bella
posta, seguendo le correnti / ed ogni
fonte! /[…] Siamo gli spiriti del Mezzogiorno,
/ nascondi gli occhi tra le
mani / se proprio non vuoi vederci
attorno. / Se invece non ti stanchi di
ascoltare, / se ti concedi al gusto del
narrare, / se l’ansia t’attanaglia sul
più bello, / pronuncia senza indugio
i nostri nomi: / Lello, Aniello e Farfariello!
».
A concludere questo teatro del
mondo è l’ingresso in scena dell’acqua,
nella sezione di Valerio Grutt:
«L’acqua ride negli occhi / di Greta e
gli scogli di Sorrento sono la schiena
serena del pianeta. […] Ci sono persone
/ che non c’è bisogno di salutare,
/ gente che ci portiamo in giro /
da millenni, sorrisi / chiusi come
perle / sul fondo del mare».
Poesia primordiale, si direbbe, che
ambisce a cogliere l’essenza del mondo,
in un rinnovato panismo lirico,
che negli anni duemila si fa cosmico:
«Il mare mi scorre nelle vene / e tutte
le persone, gli uccelli, / persino i motorini,
l’asfalto, / gli alberi, gli interruttori,
/ sono dentro di me».
Fuoco. Terra. Aria. Acqua. Non è solo
una riuscitissima raccolta di poesie,
piuttosto un piccolo denso volumetto
che senza altisonanti proclami
ha comunque l’ambizione di segnare
uno snodo nella storia della poesia
contemporanea. Questo libro è una
raccolta, dunque, un dialogo tra
quattro poeti contemporanei, ma è
anche un progetto, che si fa manifesto.
Un piccolo grande messaggio di
estetica e poetica che trova centro, e
direi fondamento, geografico e assiologico
nella Magna Grecia. È al grande
Mezzogiorno classico, infatti, e
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non solo ad Empedocle, che il poemetto
sull’origine del mondo fa riferimento
e direi trova le sue radici.
Poeti «esploratori», novelli ulissi in
cerca di senso (irraggiungibile Itaca
ormai) sulla navicella della loro poesia,
alla quale consegnano l’ultima,
novissima, missione. Fedeli alfieri
contro la «egorrea epidemica» che
già lamentava Caproni nel 1947, lungi
da una poesia della soggettività, i
quattro poeti sembrano sceneggiatori
in versi di questo grande poema
filosofico meridiano oltre che meridionale.
Ed è sempre a quel Mezzogiorno
dalla nobile storia che vogliono
orientarsi i due testi metapoetici che
aprono e chiudono il volume; in una
perfetta simmetria, consueta d’altronde
nell’ingegnere del verso, dall’indole
catalogatoria, Edoardo Sant’Elia,
intelletto vesuviano per la sua
vitalità creativa, ma magno-greco per
una rigorosa tensione all’ordo. Quell’ordo
come ricerca che ha guidato
anni di attività poetica e di promozione
culturale, dall’ingegnoso progetto
dei numeri della rivista «Il rosso
e il nero», alla alchemica formula e
cadenza cronologica dei volumi di
«La freccia e il cerchio». Un ordo che
non si traduce in confini o steccati,
per un intellettuale a tutto tondo che
ha sempre ‘osato’ superare gli steccati
disciplinari, con coraggiosi attraversamenti
tra le arti, tra i saperi, tra
i linguaggi, tra colto e popolare.
Sognando una foresta e Poesia portale
Sud sono da leggersi entrambi come
manifesti e impegni, testi insoliti,
postmoderni ma non postmodernisti,
che si aprono e chiudono con la
stessa domanda. Sognando una foresta
propone l’interrogativo «Chi l’ha
detto che dalla filosofia non può germogliare
la poesia?»; domanda coraggiosa
e puntuale, alla quale fa riscontro
l’interrogativo del manifesto
di chiusura: «Esiste un pubblico per
la poesia?». Una domanda, quest’ultima,
che non si traduce in una deresponsabilizzazione
del poeta, al quale
invece torna immediatamente l’interrogativo
e l’impegno: «Tracciare
un percorso della poesia contemporanea
nell’Italia meridionale basandosi
sulla forza delle voci, cogliendone
tanto la contiguità antropologica
quanto le diversità irriducibili. Il Meridione,
la sua natura violata e inviolata,
[…] come campo d’indagine
privilegiato per far emergere la poesia
che c’è, senza inutili trionfalismi
né patetici vittimismi e senza pretese
d’esaustività».
In un tempo nel quale il vero filosofo
(lo proclama Derrida) è quello
che dichiara di non poter filosofare,
ecco la proposta della poesia, una
poesia «da sentire» che, lontana dalla
sofia, punta dritto a cogliere una
scheggia di aletheia, a superare gli
steccati dei saperi.
Il progetto Poesia Portale Sud vuol
segnare il futuro tornando alle radici,
alle origini del mondo, alle origini
della sapienza, a un sapere primitivo,
al ‘prima’ della platonica separazione
dei saperi. Il ritorno ad un tempo
edenico (riuscita è la metafora del
giardino utilizzata in apertura da
Sant’Elia) nel quale poesia e filosofia
erano «alberi della stessa foresta».
Questa poetica raccoglie i frutti ultimi
del Novecento, ma per superarli
proponendo con coraggio una poesia
di «verità» («La terra è verità» scrive
Rossella Tempesta), che non sia ancella
della scienza ma (crocianamente?)
rivendichi il suo forte valore conoscitivo,
quasi a rispondere al dila418
recensioni
gante relativismo gnoseologico ed
etico che è poi quello che ha consegnato
lo scettro alle hard sciences, nel
segno di una abdicazione e di una
resa senza condizioni. I poeti di Poesia
Portale Sud vogliono invece proporre
una via di fuga, un percorso
conoscitivo alternativo, saggio nella
stessa incertezza dell’incedere e nella
stessa frequenza dell’interrogare.
«Portale», d’altronde non può non
richiamare «passages», la provvisorietà
(temporale e assiologica) di un
attraversamento che è itinerario e
non arrivo.
È un volume dunque di rottura,
questo curato da Edoardo Sant’Elia,
ma anche di fondamento e costruzione.
Un progetto ambizioso – mai presuntuoso
– che fonda sull’imperativo
etico ed estetico, che è poi il punto di
congiunzione tra il verso e la ragione,
la poesia e la filosofia: l’importante
è interrogare.
Paola Villani
LIBRI RICEVUTI
100 Years of Futurism. One Hundred Years of Futurism. Aesthetics, Politics,
and Performance, edited by John London, Bristol (Uk)/Chicago (Usa), Intellect,
2017, pp. 290.
Boccaccio Mara, Massimo Bontempelli critico e poeta, Napoli, Loffredo,
218, pp. 230.
Dell’Aia Lucia, L’antico incantatore. Ariosto e Plutarco, Roma, Carocci,
2017, pp. 128.
Furstenberg-Levi Shulamit, The Accademia Pontaniana. A model of a
Humanist Network, Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. 224.
Manitta Giuseppe, Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici
(2004-2008). Con appendice (2009-2012), Castiglione di Sicilia (Ct), Il Convivio
Editore, 2017, pp. 294.
Muscariello Mariella, Paradigmi siciliani. Saggi di letteratura dell’Otto
e del Novecento, Roma, Salerno editrice, 2017, pp. 138.
Pomilio Mario, Scritti sull’ultimo Ottocento, a cura di Mirko Volpi.
Introduzione di Paola Villani. Con una nota di Maria Antonietta
Grignani, Novate Milanese, Prospero editore, 2017, pp. 306.
Tansillo Luigi, L’ecloga e I poemetti. Testi a cura di Tobia R. Toscano.
Commento di Carmine Boccia e Rossano Pestarino, Napoli, Paolo
Loffredo, 2017, pp. 540.
The Poetics of Decadence in Fin-de-siècle Italy, edited by Stefano Evangelista,
Valeria Giannantonio and Elisabetta Selmi, Wien, Peter
Lang, 2018, pp. 312.
Traina Giuseppe, Un altro De Roberto. Esperimenti e ghiribizzi di uno
scrittore, Napoli, Paolo Loffredo, 2018, pp. 118.