Anno XLVI (2018), Fasc. I, N. 178

Anno XLVI (2018), Fasc. I, N. 178

  1. Saggi
    • ARNALDO DI BENEDETTO

      Federico Patetta e la «Nencia da Barberino» – pp. 3-8

      Si discute dell’attribuzione della Nencia da Barberino a Lorenzo dei Medici; gli fu
      attribuita già da Benedetto Varchi nel 1570. Ma nel 1934 Federico Patetta, storico
      del diritto, ritrovò e pubblicò la terza redazione dell’opera composta da 39
      ottave ed avanzò l’ipotesi che l’opera fosse costituita da ottave scritte da autori
      ignoti e riordinate da Lorenzo il Magnifico. Questa ipotesi fu poi corretta dal
      Patetta che negava sia questa attività di raccoglitore sia la paternità dell’opera a
      Lorenzo dei Medici. Ne nacque un lungo dibattito critico con varie ipotesi; ma
      oggi è generalmente accolta l’attribuzione a Lorenzo dei Medici.

      The attribution of Nencia da Barberino to Lorenzo dei Medici is a controversial
      issue. The poem was attributed to him by Benedetto Varchi in 1570. However,
      in 1934 Federico Patetta, a law scholar, found and published the third version
      of the work, composed in 39 octaves, and put forward the idea that it consisted
      of octaves written by unknown authors and then pieced together by Lorenzo
      the Magnificent. This hypothesis was later revised by Patetta who rejected both
      the “assembly” idea and Lorenzo dei Medici’s paternity. There ensued a long
      scholarly debate with varying points of view. Today, most are willing to attribute
      the poem to Lorenzo dei Medici himself

    • Cristiano Amendola

      Felice Feliciano epistolografo. Sondaggi sul codice Canon. Ital. 15 della Bodleian Library di Oxford e
      ipotesi per una cronologia degli epistolari
      – pp. 9-48

      Gli studiosi, che, nel passato, si sono interessati alla multiforme attività di Felice
      Feliciano, hanno messo in luce il profilo di un intellettuale colto e attentissimo
      agli stimoli del suo tempo. Numerosi aspetti di questa straordinaria personalità
      restano, tuttavia, ancora da sondare. La sua produzione epistolare, ad
      esempio, è nota solo attraverso la recente pubblicazione di una raccolta non
      autografa (2010). Il presente studio si prefigge di ampliare le conoscenze sul
      Feliciano epistolografo attraverso l’analisi della silloge trasmessa dal cod. Canon.
      Ital. 15 (Bodleian Library, Oxford), una raccolta di lettere autografa ancora
      oggi troppo poco nota anche agli studiosi dell’umanista veronese.

      Past scholars who have taken an interest in the multifaceted activity of Felice
      Feliciano have brought to light the profile of a well-educated intellectual, highly
      attentive to the stimuli of his period. Nevertheless, numerous aspects of this
      extraordinary character are yet to be explored. For instance, his epistolary production
      is solely known through recent publications of a non-autograph anthology
      (2010). The present study aims to widen our understanding of Feliciano’s
      epistolary work through the analysis of the anthology present in Cod. Canon.
      Ital. 15 (Bodleian Library, Oxford), an autograph collection of letters which to
      date has been rather neglected, even by scholars of the humanist from Verona.

    • ARTURO MAZZARELLA

      «Il poeta moderno». Sulla poesia ingenua e sentimentale di Leopardi – pp. 49- 62

      Il saggio analizza la svolta leopardiana che, attorno al 1819, segna il passaggio
      dall’”immaginazione” al “sentimento” e fonda una definizione del “poeta moderno”,
      come filosofo, capace di superare le illusioni offerte dalla poesia del
      passato con la consapevolezza di una nuova condizione della poesia e di chi la
      pratica. Ricordando Hölderlin e Keats o Schiller, si analizza il passaggio da una
      Stimmung “fantastica” ad una “sentimentale”. Per Leopardi solo gli antichi
      erano poeti, ma la nuova consapevolezza del moderno consente di cogliere ed
      enfatizzare la distanza tra immagine e vero e disegnarne la loro radicale divergenza.

      This essay looks at the shift in Leopardi’s writing around 1819 from “imagination”
      to “sentiment” and offers a definition of the “modern poet” as a philosopher
      who is able to go beyond the illusions conjured up by previous poetry
      through an awareness of the new condition of poetry and of its practitioners.
      With reference to Hölderlin and Keats or Schiller, it looks at the passage from a
      “fantastic” Stimmung to a “sentimental” one. According to Leopardi, only the
      ancients were true poets. However, a new awareness of modernity makes it
      possible to perceive and emphasise the distance between image and reality,
      highlighting their radical divergence.

    • Nunzio Ruggiero

      Zumbini e Pèrcopo all’Università di Napoli. Parabole della scuola storica meridionale tra Otto e
      Novecento
      – pp. 63-83

      Le biografie parallele di due seguaci della scuola storica come Bonaventura-
      Zumbini e il suo scolaro Erasmo Pèrcopo, l’uno autorevole ordinario di Letteratura
      italiana, l’altro aspirante a una meta mai raggiunta nei ranghi dell’Università
      di Napoli, configurano due opposte parabole intellettuali, osservate nel
      vario contesto della vita letteraria e accademica napoletana, lungo il cinquantennio
      compreso tra la metà degli anni Settanta del XIX e la metà degli anni
      Venti del XX secolo. La presente ricerca si avvale di documenti inediti conservati
      presso la Società Napoletana di Storia Patria, la Fondazione Biblioteca Benedetto
      Croce e la Biblioteca Nazionale di Napoli.

      The parallel biographies of two followers of the “historical method”, namely
      Bonaventura Zumbini and his disciple Erasmo Pèrcopo, epitomize two divergent
      intellectual journeys. Their careers, the former holding a prestigious chair
      of Italian Literature, the latter an aspiring academic who failed to obtain a faculty
      position, will be analyzed in the context of the multifaceted academic and
      literary milieu in Naples, in the fifty years between the end of the 19th century
      and the beginning of the 20th century. This study relies on unpublished documents
      from the Società Napoletana di Storia Patria, the Fondazione Biblioteca
      Benedetto Croce and the Biblioteca Nazionale di Napoli.

    • Virginia di Martino

      «La storia della nostra vita». Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino – pp. 86-102

      In Autobiografia di uno spettatore (1974) Calvino ripercorre il proprio rapporto
      con il cinema. Il bisogno che spinge Calvino verso le sale cinematografiche è
      quello della distanza, che motiva tante sue pagine. Da questo amore per ciò che
      è lontano deriva anche l’avversione per il doppiaggio o per film che cerchino di
      riprodurre mimeticamente la realtà, insieme alla delusione nel constatare che
      esso si è angosciosamente trasformato, negli anni della maturità, «nel cinema
      della vicinanza assoluta».

      In Autobiografia di uno spettatore (1974) Calvino describes his relationship with
      cinema. What draws him towards cinema is the need for distance, that same
      need that motivates much of his writing. The love for what is faraway goes to
      explain Calvino’s dislike for dubbing or for films that attempt to mimic reality,
      together with his disappointment upon realizing that cinema has sadly become,
      in its maturity, a “cinema of absolute proximity”.

    • Alessandro Carandente

      Pontiggia e la critica del linguaggio – pp. 103-129

      Questo è un saggio organizzato in una duplice direzione; se da un lato reagisce
      all’impasse ontologica che fa coincidere il linguaggio col pensiero, dall’altro risponde
      con una critica serrata al costume di un’intera società. Per restituire vitalità,
      energia e forza durevole alle parole, approda infine allo stile come conquista
      etica, all’inserzione dell’aforisma narrativo con la sua brevitas nel corpo
      scritturale dell’opera.

      This essay moves in two directions. If on the one hand it reacts against the ontological
      impasse that equates language with thought, on the other it answers
      with a strong critique relating to the habits of an entire society. In order to return
      vitality, energy and lasting strength to the written word, it considers style
      as being an ethical conquest, looking at the inclusion of the narrative aphorism,
      with its brevity, within the body of the written work.

  2. Meridionalia
    • ALDO MARIA MORACE

      Narrazione e memoria in Zanotti Bianco – pp. 131-144

      Splendida figura di missionario laico, per tutta la vita apostolo di crescita civile
      e culturale per le popolazioni dell’estremo Sud, oppresse dal disinteresse dello
      Stato, Umberto Zanotti Bianco è stato anche raffinato scrittore. In questo contributo
      si analizza puntualmente la prosa di Tra la perduta gente (1959), il volume
      in cui raccolse – a più di trent’anni dalla loro composizione – sette narrazioni
      documentarie (tra cronaca e memoria, tra esistenza e storia) sui ‘dannati della
      terra’ e sulla insoffribilità del loro «malvivere».

      A magnificent figure of a lay missionary, throughout his life Umberto Zanotti
      Bianco committed himself to the civil and cultural growth of the populations of
      the deep South of Italy, oppressed by the disinterest of the state. Zanotti Bianco
      was also a refined writer: the present work offers an in-depth analysis of the
      prose of Tra la perduta gente (1959), a volume which gathers together, thirty
      years after their composition, seven documentary stories (between chronicle
      and memory, existence and history) on the “dannati della terra” (“the wretched
      of the Earth”) and the pain of their «malvivere».

  3. Contributi
    • Ilaria Muoio

      Fenomenologia del naso tra Capuana e Pirandello. Il caso Roxa-Pascal – pp. 145-158

      La topica del naso e il valore polisemantico attribuito alla sfera olfattiva ricorrono
      con continuità nella novellistica di Luigi Capuana, accompagnando l’evoluzione
      della poetica e del metodo dell’autore, dal determinismo fisiognomico
      degli anni Settanta dell’Ottocento alla scomposizione umoristica dei primi del
      Novecento. Si propone una lettura della novella Il caso di Emilio Roxa alla luce
      del dispositivo intertestuale e dei rapporti Capuana-Pirandello.

      The topic of the nose and the complex meaning attributed to the sense of smell
      recur continually in Luigi Capuana’s short stories. They accompany the development
      of his poetics and method from the physiognomic determinism of the
      1870s to the humoristic turn at the beginning of the twentieth century. This essay
      offers a reading of the short story entitled Il caso di Emilio Roxa from an intertextual
      standpoint and with regard to the relationship between Capuana and
      Pirandello

    • Fabrizio Miliucci

      Guido Gozzano e “la film” – pp. 159-170

      L’articolo offre una panoramica dell’attività cinematografica di Guido Gozzano.
      Sebbene l’avvicinamento alla settima musa abbia occupato gli ultimi anni di
      vita del poeta, con risultati dubbi e di difficile ricostruzione, alcuni elementi,
      come la sceneggiatura del film San Francesco d’Assisi, fanno intravedere un rapporto
      giunto a maturazione e pronto ad evolvere, basato su presupposti ambivalenti,
      che da una parte respingono e dall’altra accolgono le istanze della nuova
      arte.

      This article provides an overview of Guido Gozzano’s work for the cinema.
      Although his interest in the medium dates back to the end of his life, with dubious
      results that are hard to reconstruct, certain elements, such as the screenplay
      for Saint Francis of Assisi, suggest a mature relationship, one ready to evolve on
      the basis of ambivalent presuppositions that simultaneously refute and embrace
      the requirements of the novel art form.

    • Valentino Baldi

      Commemorazione definitiva del personaggio-critico. Riflessione sullo stato di crisi permanente della
      critica letteraria
      – pp. 171-186

      In questo saggio l’autore riflette sulle condizioni della critica letteraria italiana,
      prendendo in particolare considerazione lo statuto della critica militante. Il saggio
      prende avvio dalle riflessioni sulla crisi della critica di Cesare Segre e Romano
      Luperini, ma poi si concentra su quei testi che tentano nuove forme di militanza
      attraverso il sempre più massiccio ricorso a elementi autobiografici e autofinzionali.

      In this essay the author dwells on the condition of Italian literary criticism, especially
      the status of militant criticism. Beginning with the reflections of Cesare
      Segre and Romano Luperini on the crisis of literary criticism, the essay focuses
      on those texts that attempt new forms of militancy through the intense use of
      autobiographical and self-fictional features.

  4. Recensioni
    • Erika Dumas

      Giuseppe Chiecchi, Nell’arte narrativa di Giovanni Boccaccio, Firenze 2017 – pp. 187-189

    • Anna Cerbo

      Carlo Vecce, La biblioteca perduta. I libri di Leonardo, Roma
      2017
      – pp. 189-192

    • Paola Trivero

      Paolo Regio, Lucrezia, edizione, introduzione e note di Anna Cerbo, Napoli 2017 – pp. 193-195.

    • Claudio Mariotti

      Gianni Oliva, D’Annunzio. Tra le più moderne vicende, Milano
      2017
      – pp. 195- 198

    • Viviana Tarantino

      Raffaele Cavalluzzi, La crudeltà dello scrittore, Bari 2017
      – pp. 198- 200

    • Salvatore Renna

      Giulio Iacoli, A verdi lettere. Idee e stili del paesaggio letterario, Firenze 2016 – pp.

    • Laura Diafani

      Fabrizio Scrivano, Oggi il racconto. Come resistere alla banalità dell’informazione, Milano 2016
      – pp. 201-204

Saggi
ARNALDO DI BENEDETTO
Federico Patetta e la «Nencia da Barberino»
Si discute dell’attribuzione della Nencia da Barberino a Lorenzo dei Medici; gli fu
attribuita già da Benedetto Varchi nel 1570. Ma nel 1934 Federico Patetta, storico
del diritto, ritrovò e pubblicò la terza redazione dell’opera composta da 39
ottave ed avanzò l’ipotesi che l’opera fosse costituita da ottave scritte da autori
ignoti e riordinate da Lorenzo il Magnifico. Questa ipotesi fu poi corretta dal
Patetta che negava sia questa attività di raccoglitore sia la paternità dell’opera a
Lorenzo dei Medici. Ne nacque un lungo dibattito critico con varie ipotesi; ma
oggi è generalmente accolta l’attribuzione a Lorenzo dei Medici.

The attribution of Nencia da Barberino to Lorenzo dei Medici is a controversial
issue. The poem was attributed to him by Benedetto Varchi in 1570. However,
in 1934 Federico Patetta, a law scholar, found and published the third version
of the work, composed in 39 octaves, and put forward the idea that it consisted
of octaves written by unknown authors and then pieced together by Lorenzo
the Magnificent. This hypothesis was later revised by Patetta who rejected both
the “assembly” idea and Lorenzo dei Medici’s paternity. There ensued a long
scholarly debate with varying points of view. Today, most are willing to attribute
the poem to Lorenzo dei Medici himself
La Nencia da Barberino, attribuita a Lorenzo de’ Medici, è assegnata
alla prima, e più felice, fase della produzione poetica del signore di Firenze.
Il metro scelto dall’autore è quello popolare e toscano del rispetto.
In essa il contadino Vallera celebra la bellezza dell’amata Nencia
(probabile ipocoristico di Lorenza). Il componimento può essere annesso
alla tradizione, d’origine feudale, della «satira del villano», dapprima
dura satira del contadino promossa dall’ambiente del signore, poi
diventata anche espressione del contrasto città-campagna. Non è inutile
ricordare inoltre che a Barberino del Mugello è la villa medicea di
Cafaggiolo, una delle predilette da Lorenzo.
La Nencia da Barberino è un’opera colta, ma anche apprezzabile da
Saggi
Autore: Università di Torino; prof. emerito; dibear60@hotmail.com
4 arnaldo di benedetto
persone di non raffinata cultura. Cito un solo esempio. A un certo
punto, Vallera declama:
I’ sono stato a Empoli al mercato,
a Prato, a Monticegli, a San Casciano,
a Colle, a Poggibonzi e San Donato,
a Grieve e quinamonte a Decomano;
Fegghine e Castelfranco ho ricercato,
San Piero, e ’l Borgo e Mangone e Gagliano:
più bel mercato ch’ento ’l mondo sia
è Barberin dov’è la Nencia mia.
Da qualche decennio è d’obbligo indicare nei commenti il riferimento
a un luogo di uno dei più importanti testi della scuola siciliana:
il «contrasto» Rosa fresca aulentissima, attribuito a Cielo d’Alcamo:
Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te prese.
Già i versi di Cielo d’Alcamo hanno peraltro una connotazione
scherzosa. L’elogio iperbolico della donna mira infatti alla sua seduzione;
e proprio della donna è l’esplicita esortazione finale, che allontana
dai toni cortesi:
A lo letto ne gimo a la bon’ora,
ché chissà cosa n’è data in ventura.
Non può sfuggire come alla dimensione davvero, per quei tempi,
“mondiale” della geografia del testo di Cielo faccia un comico contrasto
la geografia provinciale di Vallera: Empoli, Prato, Monticelli (oggi
parte della città di Firenze), Dicomano ecc. Sono i mercati da lui frequentati:
per lui, tutto il mondo. La parodistica ripresa è un esempio
sufficiente a indicare il tono bonario della satira di Lorenzo.
Grande, immediata e duratura fu la fortuna della Nencia da Barberino,
che aprì la strada a parodie e variazioni: dalla Beca da Dicomano di
Luigi Pulci alla Tancia, «commedia rusticale» del primo Seicento composta
da Michelangelo Buonarroti il giovane.
La Nencia è giunta in quattro redazioni diverse, che gli studiosi
hanno siglato con le lettere: A, V, P, M.
★ ★ ★
[ 2 ]
federico patetta e la «nencia da barberino» 5
Nel 1934 Federico Patetta – storico del diritto, ma ricco anche d’altre
feconde curiosità – dava notizia, nei «Rendiconti della R. Accademia
dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche», del
nuovo testo (il terzo), da lui scoperto, della Nencia da Barberino. Del
poemetto in ottave si conoscevano fino ad allora una versione in 50 o
in 51 strofe, che fu per vari secoli l’unica conosciuta, e una in 20: pubblicata,
quest’ultima, da Guglielmo Volpi nel 1908 negli «Atti dell’Accademia
della Crusca». Il testo scoperto da Patetta era in trentanove
ottave, e recava l’annotazione: «Finito adì 11 ottobre 1476».
La prima documentata attribuzione – data per scontata – della
Nencia da Barberino a Lorenzo de’ Medici allora nota era tarda, e si
doveva all’Ercolano di Benedetto Varchi, scritto nel 1560-65 ma pubblicato
nel 1570. In esso si citano «la Nencia di Lorenzo de’ Medici e la
Beca di Luigi Pulci» quali esempi di poesia pastorale cantata «in burla
» (Quesito ottavo). Indipendentemente dall’attribuzione testimoniata
da Varchi, la precedente edizione giuntina del 1568 delle Canzoni a
ballo del Magnifico pubblicava come opere sue anche le Stanze alla contadinesca
in lode della Nencia da Barberino (in cinquanta ottave) e la già
citata Beca, in realtà parodistico omaggio di Pulci a Lorenzo. Una nuova
edizione del volume delle Canzoni a ballo, con qualche meschina
censura di timbro clericale, si ebbe nel 1622.
L’attribuzione della Nencia da Barberino a Lorenzo ebbe séguito. Il
poemetto fu tra le sue opere più apprezzate da Pierre-Louis Ginguené
nella sua monumentale Histoire littéraire d’Italie; da Giacomo Leopardi;
da Paolo Emiliani Giudici nella Storia delle belle lettere in Italia. Francesco
De Sanctis, nella sua Storia della letteratura italiana, non esitò a qualificare
la Nencia – ovviamente anche a lui nota nella versione «vulgata» – come
il «capolavoro» letterario del Magnifico1. La successiva pubblicazione
della Nencia in 20 ottave da parte di Volpi fu accolta come la scoperta
della vera redazione originaria, tutta attribuibile a Lorenzo. Il «testo
vulgato» – si giudicò – era frutto di aggiunte e raffazzonamenti di altri.
Nel ricordato articolo del 1934, intitolato Un terzo testo della «Nencia
da Barberino» attribuita a Lorenzo de’ Medici, Patetta sostenne invece che
sia il «testo vulgato» in 50 o 51 ottave sia quello scoperto da lui sarebbero
disordinate raccolte di rispetti d’autori ignoti e composti autonomamente,
«alla spicciolata», dalle quali un letterato successivamente
avrebbe scelto e ordinato le venti ottave pubblicate da Volpi, perve-
1 Notevole anche l’accostamento della Nencia al «prete di Varlungo e monna
Belcolore» del Decameron, che ebbe séguito nel secondo Novecento.
[ 3 ]
6 arnaldo di benedetto
nendo a un èsito indubbiamente apprezzabile. E non escluse, allora,
che l’artefice dell’operazione potesse essere lo stesso Lorenzo. Solo
riordino e scelta, dunque? Sì, ma con qualche dubbio.
In un successivo articolo Patetta pubblicò sugli stessi «Rendiconti»
dei Lincei nel 1936 La «Nencia da Barberino» in alcuni componimenti latini
di Bartolomeo Scala. I componimenti dell’umanista e politico Bartolomeo
Scala dei quali trattava lo studioso erano un’ecloga intitolata Nencia
(dove la campagnola mugellana è presentata come una sgualdrinella)
e due lettere, anch’esse in latino: una introduttiva all’ecloga e
indirizzata a Sigismondo della Stufa, amico di Lorenzo, con l’invito a
leggere la ridanciana poesia con lo stesso Magnifico («ut cum Laurentio
nostro rideas»); l’altra, un breve biglietto attribuito alla stessa Nencia
e indirizzato a Lorenzo («Nencia Laurentio Medici salutem» ecc.).
Erano testi inediti, databili all’autunno del 1474, che Patetta ebbe il
merito di far conoscere agli studiosi. Quindici anni dopo, Alessandro
Perosa trovò un altro manoscritto dell’ecloga latina Nencia conservato
nella Biblioteca Nazionale di Firenze, che gli consentì di correggere
alcuni fraintendimenti di Patetta e qualche lezione del testo dell’ecloga
(La «Nencia» dello Scala, in «Rinascimento», II [1951], pp. 459-60; poi
in Studi di filologia umanistica, II. Quattrocento fiorentino, a cura di Paolo
Viti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, pp. 187-88).
Dalla lettura dei testi latini di B. Scala il Patetta credette di poter
trarre la conclusione che Lorenzo non solo non era l’autore dei rispetti
della Nencia da Barberino, ma neanche aveva a che fare con la “scelta”
e “riordino” in venti ottave di quei disordinati componimenti ormai
definiti d’«origine popolare» e «rispetti popolari», e quindi adespoti.
Altri due drastici articoli lo stesso studioso pubblicò nel 1936-37 e
nel 1939 negli «Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino»: Sulla
falsa attribuzione della «Nencia da Barberino» a Lorenzo de’ Medici, e Ancora
sulla «Nencia da Barberino» attribuita arbitrariamente a Lorenzo de’ Medici.
Tra quanti aderirono alla sua tesi vi fu un importante studioso:
Vittorio Rossi, il quale aveva considerato, nel suo Quattrocento vallardiano,
la Nencia e la Caccia col falcone i capolavori della produzione
poetica di Lorenzo. Nell’articolo del 1939 (Rossi era morto all’inizio
dell’anno precedente), infatti, Patetta dava notizia d’una lettera privata
inviatagli in data 12 marzo 1937 dallo studioso veneziano, nella
quale si leggeva: «Ormai mi pare assodato, per merito Suo, che la Nencia
non è di Lorenzo. Si tratterà di componimento dovuto forse a più
autori e venutosi da prima accrescendo da P a V, e poi rassettato da un
autore più colto in A» (dove P e V indicano il testo scoperto da Patetta
e quello vulgato, e A quello in 20 ottave).
[ 4 ]
federico patetta e la «nencia da barberino» 7
Ma vi furono anche i dissensi. Già all’articolo del 1934 replicò Santorre
Debenedetti, sostenitore della priorità della Nencia in 20 ottave (si
veda il «Giornale storico della letteratura italiana» del 1935, p. 169). L’articolo
di Patetta del 1939 fu una virulenta polemica col volume di Teresa
Sala La Nencia da Barberino e la questione della sua autenticità, pubblicato
l’anno precedente a Palermo (Edizioni Andò): la Sala, già allieva di Mario
Fubini, era una sostenitrice – alquanto maldestra, secondo lo stesso
Fubini – dell’assoluta priorità del testo A e della sua paternità laurenziana.
Alcune pagine dello stesso articolo del ’39 contro la Sala erano dedicate
alla negazione dell’attribuibilità a Lorenzo anche del poemetto La
caccia del falcone, oggi noto piuttosto col titolo L’uccellagione di starne.
Anche l’ultimo intervento sulla Nencia, Federico Patetta lo pubblicò,
nel 1942, sugli «Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino»: La
«Nencia da Barberino» attribuita arbitrariamente a Lorenzo de’ Medici. In polemica
con un ampio saggio di Fubini del 1941, ribadì le sue convinzioni.
Il saggio di Mario Fubini Note sulla «Nencia» di Lorenzo il Magnifico2
riprendeva e discuteva l’intera questione del poemetto, sostenendo
l’impronta colta (ma non allusivamente umanistica) della redazione in
20 stanze e la sua attribuibilità a Lorenzo; e il carattere in realtà argutamente
adulatorio nei confronti del Magnifico dei tre testi di Bartolomeo
Scala: così, scriveva Fubini,
«Messer Bartolomeo de’ begli inchini» cercava di insinuarsi nell’animo
del Magnifico, prendendo pretesto dalla popolarità della recente composizione
medicea per partecipare anch’egli, alla sua maniera, a quel “gioco
della Nencia”, che si era iniziato in una cerchia a cui egli era estraneo.3
Le stizzite lamentele effuse da Scala e da Nencia nelle loro epistole
per il tormento dei tanti rithmi Nenciales cantati giorno e notte nelle
strade cittadine non sono, in realtà, che indiretti omaggi resi a Lorenzo,
complimenti per la fortuna incontrata dai personaggi di Vallera e
di Nencia da lui creati. E di questa fortuna è testimone anche la scherzosa
ballata o «canzonetta rusticale» di Bernardo Giambullari (già attribuita
anche a Lorenzo) Chi ha ’l core innamorato, la quale annunzia la
morte della giovane contadina, e pertanto auspica che si sospenda la
produzione dei già tanti e troppi rispetti nenciali: «Non si canti or più
la Nencia / poi che l’è morta e finita…».
2 R istampato, col titolo: I tre testi della «Nencia da Barberino» e la questione della
paternità del poemetto, negli Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze, La Nuova
Italia, 19712, pp. 66-116.
3 «Messer Bartolomeo de’ belli inchini» è l’inizio d’un sonetto di Burchiello.
[ 5 ]
8 arnaldo di benedetto
Nel suo saggio Fubini ipotizzò anche una possibile data di composizione
della prima Nencia in 20 ottave: tra l’estate del 1473 e la primavera
del 1474 (D. De Robertis e E. Bigi poi sosterranno come termine
ante quem il 1470). E la contestualizzò nell’àmbito della produzione
letteraria del signore fiorentino, squisito dilettante di poesia. Anzi, come
Fubini anche sostenne, sia la Nencia sia la Caccia col falcone – o Uccellagione
di starne –, appartenenti «al suo periodo pulciano», rientrano
nel «momento geniale della sua vita artistica».4
Si sostenne successivamente, nel 1948, da parte di Alberto Chiari e
Italiano Marchetti, una nuova attribuzione del poemetto in 20 ottave
nel nome di Bernardo Giambullari. L’attribuzione, ripetutamente sostenuta
per molti anni dai due studiosi, fu subito contestata da Paolo
Toschi – e, con nuovi argomenti, vent’anni dopo, anche da me – e non
ebbe séguito.5 Di un altro testo – un frammento di 12 ottave (detto il
testo M) alle quali avrebbero dovuto seguirne altre 37, come annotò
l’antico trascrittore stesso – si ebbe notizia nel 1951 grazie a Michele
Messina. Non mancò qualche tentativo di riproporre, aggiornandola,
la tesi di Patetta. E fu segnalata, contemporaneamente, da Ghino Ghinassi
e da Francesco Bruni un’altra attribuzione a Lorenzo, anteriore a
quella di Varchi, presente nelle Satire alla berniesca di Gabriello Simeoni
pubblicate a Torino nel 1549, per Martino Cravotto.6
L’attribuzione a Lorenzo è oggi generalmente accettata.
Arnaldo Di Benedetto
Università degli Studi di Torino
4 Mario Fubini, Lezioni inedite sull’ottava, a cura di Maria Cristina Cabani, Pisa,
Edizioni della Normale, 2016, p. 155.
5 La pretesa attribuzione a Giambullari e l’illustrazione del fondo colto del
poemetto in 20 ottave sono gli argomenti del mio La «Nencia da Barberino»: una
questione attributiva e fonti, in Poesia e comportamento. Da Lorenzo il Magnifico a Campanella,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 20052, pp. 17-34. La versione originaria del
mio saggio nacque come relazione per un convegno del 1968, promosso dall’Accademia
dei Lincei, sulla Poesia rusticana nel Rinascimento. I quattro testi della Nencia
da Barberino si possono leggere in La Nencia da Barberino, a cura di Rossella Bessi,
Roma, Salerno Editrice, 1982. Il Contrasto di Cielo d’Alcamo è citato dai Poeti del
Duecento, a cura di Gianfranco Contini, tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960.
6 Il testo di Ghinassi, Esperimenti di linguaggio rusticale a Firenze fra Quattro e
Cinquecento, è nel volume degli atti del convegno La poesia rusticana nel Rinascimento
(Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1969, pp. 57-72); quello di Bruni, intitolato
Una nuova testimonianza sulla paternità laurenziana della «Nencia da Barberino», in
«Giornale storico della letteratura italiana», CXLIX (1969), pp. 49-51.
[ 6 ]
Cristiano Amendola
Felice Feliciano epistolografo. Sondaggi sul codice
Canon. Ital. 15 della Bodleian Library di Oxford
e ipotesi per una cronologia degli epistolari
Gli studiosi, che, nel passato, si sono interessati alla multiforme attività di Felice
Feliciano, hanno messo in luce il profilo di un intellettuale colto e attentissimo
agli stimoli del suo tempo. Numerosi aspetti di questa straordinaria personalità
restano, tuttavia, ancora da sondare. La sua produzione epistolare, ad
esempio, è nota solo attraverso la recente pubblicazione di una raccolta non
autografa (2010). Il presente studio si prefigge di ampliare le conoscenze sul
Feliciano epistolografo attraverso l’analisi della silloge trasmessa dal cod. Canon.
Ital. 15 (Bodleian Library, Oxford), una raccolta di lettere autografa ancora
oggi troppo poco nota anche agli studiosi dell’umanista veronese.

Past scholars who have taken an interest in the multifaceted activity of Felice
Feliciano have brought to light the profile of a well-educated intellectual, highly
attentive to the stimuli of his period. Nevertheless, numerous aspects of this
extraordinary character are yet to be explored. For instance, his epistolary production
is solely known through recent publications of a non-autograph anthology
(2010). The present study aims to widen our understanding of Feliciano’s
epistolary work through the analysis of the anthology present in Cod. Canon.
Ital. 15 (Bodleian Library, Oxford), an autograph collection of letters which to
date has been rather neglected, even by scholars of the humanist from Verona.
1. Un secolo e più di studi felicianeschi tra prestigiosi rinvenimenti e promesse
disattese
La poliedrica figura di Felice Feliciano Antiquario ha attirato negli
scorsi decenni la curiosità di numerosi studiosi i quali, affacciandosi
alla sua produzione da punti di vista spesso specialistici, sono giunti
a delineare con maggiore precisione i contorni di molti degli ambiti
nei quali si dispiegò la complessa attività culturale dell’umanista veronese.
L’immagine un po’ cialtronesca consegnataci in una delle No-
Autore: Université de Liège; dottorando di ricerca in Langues, Lettres et Traductologie;
mail: c.amendola@uliege.be
10 cristiano amendola
velle porretane dell’Arienti,1 nella quale il Feliciano figura quasi mendico
a causa di un’irrefrenabile quanto pericolosa passione per
l’alchimia,2 finì ben presto per vacillare di fronte alla riconsiderazione
critica della sua produzione manoscritta e a stampa,3 dalla quale
1 G. S. degli Arienti, Le porretane, a cura di B. Basile, Roma, Salerno, 1981,
nov. xiv pp. 111-115. L’Arienti dedica al Feliciano anche una seconda novella (nov.
iii, pp. 27-31), nella quale pure se ne sottolinea la passione per l’alchimia, sebbene
in toni alleggeriti: «Costui, adunque, avendo oltra la antiquità posto ogni suo studio
e ingegno in cercare e investigare l’arte magiore, cioè la quinta essenzia, se
transferitte per tal casone in la Marca anconitana» (p. 28). Le due novelle sono
narrate dal nobile veronese Gregorio Lavagnola (nov. iii) e dal mercante bolognese
Filippo Vitali (nov. xiv), entrambi corrispondenti del Feliciano negli epistolari. Filippo
era inoltre il fratello di quel Giacomo cui il Veronese dedica un codice contenente
un opuscolo alchimistico (Cambridge, Harvard University, Houghton Library,
Typ. 157). Alla moglie del Lavagnola, Francesca, il Feliciano dedicò la novella
Justa Victoria. Cfr. L. di Francia, Novellistica, t. i, Dalle origini al Bandello, Milano,
Vallardi, 1924, pp. 331-334.
2 U n quadro generale sull’attività alchimistica del Feliciano è offerto da G. Castiglioni
in Sperando de trovar la pietra sancta. I disegni alchemici di Feliciano, in
L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro,
Atti del Convegno di Studi, Verona, 3-4 giugno 1993, a cura di A. Contò e L. Quaquarelli,
Padova, Antenore, 1995, pp. 49-80.
3 L’ampia produzione del Feliciano nelle vesti di legatore, decoratore, copista,
scrittore, è testimoniata da un’ottantina di manoscritti. L’elenco più completo di
codici riconducibili al Feliciano è ancora quello proposto da S. Spanò Martinelli
in Note intorno a Felice Feliciano, in «Rinascimento. Rivista dell’Istituto Nazionale di
Studi sul Rinascimento», s. ii xxv (1985), pp. 232-238, privo, tuttavia, di più recenti
rinvenimenti e attribuzioni, e impreciso in alcuni punti. Correzioni relative soprattutto
ad errate attribuzioni al Feliciano di alcuni codici marciani provenienti
dall’officina del Marcanova sono in S. Marcon, Vale feliciter, «Lettere italiane», 40
(1988), pp. 536-556. Precisazioni, ancora, e integrazioni al censimento fornito dalla
Spanò si leggono in L. Quaquarelli, Felice Feliciano letterato nel suo epistolario, in
L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., pp. 148-149, n. 2. All’elenco già riccamente
ampliato dal Quaquarelli andranno ancora aggiunti: il cod. xii F.48, conservato
presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele iii di Napoli, segnalato da
D. Fattori nell’ambito dello stesso convegno (la scheda relativa alle pp. 38-41). Il
codice trasmette un’opera di Tommaso Morroni, il Cosmogaphus, e una lettera che,
per lo stile, ricorda molto da vicino la scrittura epistolare del Veronese, inviata ad
un non precisato amico da tale Ludovico Zerbi, identificabile, secondo la studiosa,
in «quell’Alvise Zerbi, soprannominato “Siringa” cui il Feliciano dedica i versi del
suo Canzoniere contenuto nel codice Z 100 Sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano,
il quale, come ci fa sapere un’annotazione di mano coeva, “erat cynædus Feliciani”
» (p. 40); il ms. xxiii, 17 della Biblioteca Nazionale di Firenze, che conserva
il compendio di Giustino delle Historiæ Philippichæ di Pompeo Trogo e lo pseudociceroniano
De re militari, qui falsamente attribuito a Catone, segnalato da F. di Benedetto
in Tre schede per Feliciano, in L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., pp.
[ 2 ]
felice feliciano epistolografo 11
emerse, fin dai primi sondaggi, la figura di un intellettuale colto e appassionato,
dotato di una spiccata tendenza alla sperimentazione e
non privo di una certa originalità.4
Una prima parziale riabilitazione dell’attività dell’umanista veronese
si ebbe nell’ambito degli studi epigrafici. I lavori preparatori dei
monumentali corpora ottocenteschi, basati in parte sullo spoglio sistematico
delle numerose raccolte di iscrizioni antiche messe insieme in
epoca umanistica e rinascimentale, consentirono agli studiosi – Theodor
Mommsen, Wilhelm Henzen e Giovanni Battista De Rossi in primis
– di restituire al Feliciano un ruolo di assoluto rilievo nella nascita
e nello sviluppo della disciplina.5 Le raccolte epigrafiche del Veronese,
99-103; il cod. P. B. 1099 della Biblioteca Civica di Padova, che trasmette un’opera
già trascritta dal Veronese, l’Hercules Xenophontius; il parigino It. 987 della BNF, un
testimone della Fiammetta di Boccaccio, per il quale l’intervento del Feliciano è però
limitato ad alcune decorazioni (entrambi questi codici sono segnalati in S. Zamponi,
In margine a Felice Feliciano antiquario, in «Schede umanistiche», 2 (1997) (n. s.),
pp. 21-22); il ms. 627 (ital. 259) della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, che
riporta una raccolta di rime petrarchiste dell’umanista veneziano Marco Piacentini,
segnalato da E. M. Duso in Un nuovo manoscritto esemplato da Felice Feliciano, in
«Lettere italiane», 50 (1998), n. 1, pp. 566-586; il ms. 794, conservato presso la Biblioteca
Riccardiana di Firenze, che trasmette una copia del De re militari di Roberto
Valturio, segnalato in T. De Robertis, Feliciano copista di Valturio, in Tra libri e carte.
Studi in onore di Luciana Mosiici, a cura di T. De Robertis e G. Savino, Firenze, Cesati
editore, 1998, pp. 73-97; il ms. Palatino 713, conservato presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze, che conserva il volgarizzamento di un’epistola di
Francesco Petrarca a Niccolò Acciaioli, un’epistola di Giovanni Boccaccio a Francesco
Bardi, la celebre orazione di Francesco Filelfo in lode di Dante, e una coppia di
orazioni di Stefano Porcari (Cfr. S. Bianchi, Un nuovo manoscritto di Felice Feliciano,
in «Medioevo e rinascimento», xv/n.s. xii (2001), pp. 209-215).
4 U n ottimo profilo biografico è in F. Pignatti, Felice Feliciano (Antiquarius),
DBI, 46 (1996), pp. 83-90. Per aspetti particolari sulla vita del Feliciano si rinvia
alla bibliografia relativa.
5 CIL v, ed. T. Mommsen (1872), pp. xvii, 427 et passim; CIL iii/1, ed. T.
Mommsen (1873), pp. xxiv, 967; CIL vi, ed. W. Henzen (1876), p. xlii; ICVR ii/1, ed.
G. B. De Rossi (1888), pp. 391-392 et add. pp. 463, 496. Mommsen e De Rossi, tuttavia,
non mancarono di sottolineare la trascuratezza con la quale il Veronese ricopiò
alcune iscrizioni. Sulla questione si veda anche A. Buonapane, Due iscrizioni romane
in una pagina inedita di Felice Feliciano (Verona, Biblioteca Civica, ms. 3117), in
L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., p. 109, n. 1. Approfondimenti sul Feliciano
epigrafista si leggono ancora in L. Pratilli, Felice Feliciano alla luce dei suoi
codici, in «Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere e arti», a. acc. 1939-40 t.
xcix, p. ii, pp. 45-48; C. Mitchell, Archaeology and Romance in Renaissance Italy, in
Italian Renaissance studies. A tribute to the late Cecilia M. Ady, ed. by E. F. Jacob, London,
Faber & Faber, 1960, pp. 455-83; e Id., Felice Feliciano “Antiquarius”, in «Proceedings
of the British Academy», xlvii (1961), pp. 197-221.
[ 3 ]
12 cristiano amendola
in parte derivanti da quella del fondatore Ciriaco D’Ancona, 6 in parte
frutto del lavoro di prima mano dell’umanista, che, costantemente in
viaggio per l’Italia, spese buona parte della sua vita nella ricerca di
nuove iscrizioni, vennero anteposte a quella del medico padovano e
suo amico personale Giovanni Marcanova,7 e ad altre del veronese
Giovanni Giocondo, rivelandone di fatto i debiti corposi.8 D’altronde
il Feliciano, curatore della biblioteca bolognese dell’amico medico fin
dal 1465 – anno in cui, da Verona, si stabilì presso il capoluogo romagnolo
–, partecipò direttamente alla compilazione della sontuosa silloge
marcanoviana, e non soltanto nelle vesti di epigrafista, ma anche in
quelle di miniaturista e peritissimo copista. Testimonianza della passione
verso ogni aspetto della cultura del suo tempo si coglie, infatti,
proprio nella grande cura con la quale il Feliciano si dedicò, durante
tutto l’arco della sua vita, alla confezione di quell’oggetto che ne era,
al tempo, stesso mezzo di trasmissione e simbolo: il libro.
Augusto Campana e Giovanni Mardersteig furono tra i primi a sottolineare
l’originalità con la quale il Veronese svolse il suo lavoro di
artefice del manoscritto e del libro stampato. Il primo riconobbe la sua
mano nelle decorazioni manoscritte di un incunabolo conservato alla
Biblioteca Vaticana, il De re militari di Roberto Valturio (stamp. Rossi
1335), stampato a Verona nel 1472 per i torchi di Giovanni di Niccolò
di Alemania.9 Fu probabilmente proprio presso l’officina di Giovanni
6 Composta dall’amico e corrispondente di Felice, Francesco Scalamonti, l’unica
copia pervenutaci della biografia di Ciriaco, la Vita viri clarissimi et famosissimi
Kyriaci Anconitani, di mano del Feliciano, ci è trasmessa dal cod. i.138 conservato
presso la Biblioteca Capitolare di Treviso. L’ipotesi di un collegamento tra Feliciano
e l’epigrafista anconitano per il tramite degli umanisti veronesi Martino e Giacomo
Rizzoni si legge in G. P. Marchi, Due corrispondenti veronesi di Ciriaco d’Ancona,
in «Italia medioevale e umanistica», xi (1968), pp. 317-329. Il Feliciano fu,
inoltre, in possesso di carte personali dell’anconitano, come dimostrano le aggiunte
di suo pugno all’ultimo fascicolo del cod. Trotti 373, conservato presso la Biblioteca
Ambrosiana di Milano, autografo di Ciriaco. La notizia si legge in C. Mitchell,
Felice Feliciano “Antiquarius”, cit., pp. 209 e ss.
7 La raccolta ci è trasmessa dal cod. Est. Lat. 992, conservato presso la Biblioteca
Estense di Modena.
8 Così il Mommsen: «Quid iam sequuntur auctores inter Cyriacum et Ferrariunm
interpositi, præsertim Felicianus Marcanova Redianus Iucundus Lilius Sanutus
[…].», in CIL v, ed. T. Mommsen (1872), p. 427. La collaborazione tra il Feliciano
e il Marcanova è stata ampiamente indagata da C. Mitchell in Felice Feliciano
“Antiquarius”, cit.
9 R. Valturio, De re militari libri, Verona, Iohannes ex Verona oriundus, Nicolai
cyrugie, medici filius, artis impressiorie magister, an. mcccclxxii. Sul ruolo svolto
da Feliciano nell’impresa si vedano A. Campana, Felice Feliciano e la prima edizione
[ 4 ]
felice feliciano epistolografo 13
che il Feliciano svolse il suo apprendistato in quell’arte che, nei primissimi
anni di vita, vide spesso miniatori e tipografi impegnati a lavorare
fianco a fianco. Sta di fatto che, passando per alcune esperienze
di minor prestigio svolte in area ferrarese,10 già dopo pochissimi anni
egli fu in grado di produrre autonomamente quello che è considerato
un vero e proprio capolavoro della nascente arte tipografica: il volgarizzamento
di Donato Albanzani del De viris illustribus di Francesco
Petrarca, uscito dai torchi a Poiano, nei dintorni di Verona, nel 1476.11
Al Mardersteig, illustre bibliofilo italotedesco, si deve, invece, l’attribuzione
al Feliciano del primato nella definizione di puntuali criteri
geometrici per la composizione delle litteræ lapidariæ romane.12 Lo studioso
avanzò inoltre l’ipotesi di un’influenza diretta dell’innovazione
grafica del Feliciano sulle iscrizioni impiegate dall’Alberti in alcune
sue opere: con questo grande artista, infatti, egli fu probabilmente in
contatto personale.13 Sotto i bellissimi torchi delle officine Bodoni, dal
Mardersteig fondate e dirette, videro la luce le prime edizioni felicianesche
del secolo: quella, raffinatissima, dell’Alphabetum Romanum,14 il
manuale, cioè, per la costruzione delle maiuscole antiquarie; e l’edidel
Valturio, in «Maso Finiguerra», v (1940), pp. 211-222; e D. Fattori, Per la storia
della tipografia veronese: Giovanni da Verona, in «La Bibliofilia» xcii (1990), pp. 269-
281.
10 Per le quali si rimanda a L. Quaquarelli, “Intendendo di poeticamente parlare”:
La bella mano di Giusto de’ Conti tra i libri di Feliciano, in «La Bibliofilia», vol.
xciii (1991), pp. 196-200
11 F. Petrarca, Il libro degli homini famosi, rure Polliano, Antiquarius istud aere
Felix impressit. Fuit Innocens Ziletus adiutor sociusque, 1476 Kl. octobris. Per un
quadro sull’attività prototipografica del Feliciano Cfr. A. Contò, “Non scripto calamo”.
Felice Feliciano e la tipografia, in L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., pp.
289-312.
12 G. Mardersteig, Leon Battista Alberti e la rinascita del carattere lapidario romano
nel Quattrocento, in «Italia medioevale e umanistica», ii (1959), pp. 285-307. Per
un profilo aggiornato sulla storia di questa innovazione grafica di epoca umanista
si rinvia a S. Zamponi, La metamorfosi dell’antico: la tradizione antiquaria veneta, in I
luoghi dello scrivere da Francesco Petrarca agli albori dell’umanesimo, atti del Convegno
internazionale di studio dell’Associazione italiana dei paleografi e diplomatisti,
Arezzo, 8-11 ottobre 2003, a cura di C. Tristano, M. Calleri e L. Magionami,
Spoleto, Fondazione centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2006, pp. 37-67.
13 Sulla questione è ritornata, in tempi più recenti, Alessandra Mulas, in
L’Inscriptionum Libellus di Jacopo Zaccaria e l’Umanesimo romano, «Albertiana», x
(2007), pp. 153-177.
14 F. Feliciano, Alphabetum Romanum, 1960, a cura di G. Mardersteig, Verona,
Officina Bodoni, 1960. L’Alphabetum è tratto dal cod. Vat. Lat. 6852.
[ 5 ]
14 cristiano amendola
zione della novella Justa Victoria, composta dal nostro presso la dimora
di Gregorio Lavagnola nell’estate del 1474.15
La novellistica non fu il solo genere letterario con il quale il Veronese
provò a cimentarsi: egli fu, come è noto, anche epistolografo e
poeta prolifico. L’interesse per la sua produzione lirica prese a manifestarsi
nei primissimi anni del secolo scorso, con interventi, però, per lo
più occasionali e rivolti solo a pochi componimenti.16 Per una più estesa
valutazione di quella esperienza poetica bisognerà attendere ancora
un quarantennio, grazie ad uno studio di Laura Pratilli che si rivelerà
di straordinaria importanza per le successive indagini sull’umanista
veronese.17
Questa produzione ci è principalmente trasmessa da quattro manoscritti
autografi: il canzoniere per Pellegrina da Campo (Venezia,
Biblioteca Marciana, ms. It. ix 257), le rime per Giacomo Vitali (Cambridge,
Harvard University, Houghton Library, Typ. 157), quelle per
Daniele Argentario (Parigi, BNF, ms. It. 7789) e quelle per “Siringa”
(Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. Z 100). Giulia Gianella, che ne
preparò l’edizione critica, ha contato 184 componimenti, tra sonetti (in
netta maggioranza), sonetti caudati, terze rime, canzoni, sirventesi,
ballate e strambotti.18 La carriera poetica del Feliciano non ha smesso
ancora in anni recenti di suscitare l’attenzione degli studiosi, sebbene
buona parte della sua produzione lirica resti ancora inedita.19
15 Vd. n. 1. La novella gode di una raffinatissima edizione moderna in tiratura
limitata, curata, appunto, dal Mardersteig. F. Feliciano, La gallica historia di Drusillo
intitulata Justa Victoria, Verona, Officina Bodoni, 1943.
16 Cfr. C. Mazzi, Sonetti di Felice Feliciano, in «La Bibliofilia», iii (1901-1902), pp.
55-68.
17 L. Pratilli, Felice Feliciano alla luce dei suoi codici, cit.
18 G. Pozzi e G. Gianella, Scienza antiquaria e letteratura: Il Feliciano. Il Colonna,
in Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, vol. 3, t. i, a
cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 469-472.
L’edizione delle rime avrebbe dovuto trovare esito in una pubblicazione, ma purtroppo
la studiosa morì prima di poterne dare una revisione finale.
19 Si vedano, in part., R. Avesani, Felice Feliciano artigiano del libro, antiquario e
letterato, in Verona e il suo territorio, vol. iv, t. 2, Verona, Istituto per gli studi storici
veronesi, 1984, pp. 113-144; A. Comboni, Rarità metriche nelle antologie di Felice Feliciano,
in «Studi di filologia italiana», lii (1994), pp. 65-92; Id, Una nuova antologia
poetica del Feliciano, in L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., pp. 161-176; S.
Carrai, La corrispondenza poetica di Feliciano con Giovanni Testa Cillenio, in
L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., pp. 177-196; M. Soranzo, Felice Feliciano
e il “Canzoniere per Pelegrina da Campo”. Una bottega della poesia nella Verona del
secondo Quattrocento, in «La parola del testo», bd. 6 (2002), pp. 289-308; e, più di
recente A. Mulas, Note sull’edizione dell’epistolario di Brescia e sull’edizione delle rime
[ 6 ]
felice feliciano epistolografo 15
Come quello poetico, anche il corpus epistolografico ci è trasmesso
in massima parte da raccolte messe insieme dal Feliciano stesso. Se ne
conservano tre, variamente realizzate in un arco cronologico che va
dal 1472 ca. al 1478 ca. Una quarta raccolta, riconducibile agli anni
1478 / 1479, ci è invece pervenuta non autografa.
La più corposa – e, probabilmente, anche la più antica –, è quella
tramandataci dal codice Harley 5271 della British Library di Londra
(Lo). Dedicata al notaio bolognese Alberto Canonici, essa conta 103
pezzi – 77 lettere e 36 modelli privi di destinatario –, di cui 36 – 6 lettere
e 30 modelli – assenti in altri manoscritti.20 La silloge fu probabilmente
messa insieme in almeno due fasi: si distinguono, infatti, tra le
missive in essa contenute, un nutrito gruppo di lettere inviate da Bologna
negli anni 1472 / 1473, alle quali seguono, nel codice, i modelli
epistolari; e un gruppo di 13 lettere trascritte dopo l’indicazione finis
che, a c. 124r, segnala la chiusura della raccolta secondo il progetto
originario. Alcune delle lettere di questa seconda sezione risalgono al
1475, anno in cui il Feliciano non risiedeva già più stabilmente nel capoluogo
romagnolo.
Quest’ultimo gruppo di lettere, pressappoco nel medesimo ordine,
ma con destinatari in parte mutati, compare in un’altra raccolta autografa,
quella trasmessaci dal cod. 3039 conservato presso la Biblioteca
Civica di Verona (Ve). Si tratta di un codicetto composto di sole 21
lettere, alcune delle quali datate o databili agli anni 1474 / 1475. Otto
di esse ci sono tramandate soltanto da questo codice.21
Nessuna delle lettere della silloge veronese compare in quella che
è con ogni probabilità la più tarda tra le raccolte autografe, quella trasmessaci
dal codice Canon. Ital. 15 della Bodleian Library di Oxford
del Feliciano, in «Letteratura Italiana Antica», xii (2011), pp. 409-427. In quest’ultimo
contributo, la studiosa annuncia la preparazione dell’edizione integrale delle
rime del Feliciano, che, però, non risulta a tutt’oggi pubblicata.
20 Per una descrizione dettagliata del codice e per una bibliografia relativa Cfr.
il Catalogue of illuminated manuscripts della British Library di Londra, consultabile
in rete. Si precisa che, in mancanza di una numerazione univoca delle lettere del
Feliciano, le cifre arabe indicano esclusivamente la posizione che ciascuna di esse
occupa nella silloge relativa. Per ragioni di comodità espositiva, ci riferiremo spesso
alle missive proprio attraverso l’indicazione della loro posizione. Laddove si
rinvii a lettere non presenti nell’elenco qui proposto a p. 9, si avrà cura di precisarne
le carte.
21 Per una descrizione del codice si rinvia a G. Fiocco, Felice Feliciano amico
degli artisti, in «Archivio veneto-tridentino», ix-x (1926), pp. 188-201; L. Pratilli,
Felice Feliciano alla luce dei suoi codici, cit., pp. 44 e 59-65.
[ 7 ]
16 cristiano amendola
(Ox), che tramanda 29 epistole, tre delle quali contenute esclusivamente
in queste carte. Purtroppo nessuna delle lettere trasmesse nella
raccolta bodleiana presenta una datazione.22
Un’ultima raccolta, non autografa, ci è trasmessa dal codice C.ii.14
della Biblioteca Queriniana di Brescia (Br). Questa silloge mette insieme
ben 138 lettere datate o databili agli anni 1478 / 1479.23 La raccolta
ci fornisce informazioni importanti sull’ultimo biennio di vita dell’umanista:
dalle frequentazioni con gli intellettuali dell’entourage del
patrizio romano Francesco Porcari, cui la silloge è dedicata, al ritiro di
Feliciano nei boschi della Storta dove, rifugiatosi per scampare ad
un’epidemia di peste che in quegli anni flagellava Roma, probabilmente
trovò la morte.
Il numero complessivo di lettere trasmesse dai quattro epistolari –
modelli, lettere non autografe e lettere dei corrispondenti comprese –
è di 187.24
22 Per una descrizione del codice si veda infra.
23 Descrizione del codice e bibliografia relativa nella Nota al testo a cura di A.
Triponi a F. Feliciano, Lettere. Il manoscritto C.ii.14 di Brescia, a cura di A. Triponi,
Manziana, Vecchiarelli, 2010, pp. xix-xxiii.
24 Mette conto notare che molte delle epistole sono accompagnate da componimenti
poetici, per lo più sonetti. Per questa ragione Alessandra Mulas suggerisce
di riferirsi ad esse con il termine di prosimetri, giacché nelle lettere prosa e versi
risultano complementari e inscindibili. A. Mulas, Epistole e prosimetri inediti del
Feliciano. Fonti delle Porretane, cit., p. 63. Escluse dagli epistolari, e quindi non considerate
nel computo, sono ancora: una lettera datata 1463, scritta in latino e indirizzata
ad Andrea Mantegna, in apertura di una silloge epigrafica a lui dedicata,
trasmessaci dal cod. cclxix della Biblioteca Capitolare di Verona e dal cod. Marciano
Lat. x, 196 della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (qui però datata
1464), non autografe (Cfr. L. Pratilli, Felice Feliciano alla luce dei suoi codici, cit., pp.
48-52); una lettera, l’unica in latino autografa, datata da Verona, 16 ottobre 1467,
inviata ad un non meglio identificato Georgius trasmessa dal cod. Correr 314
(vi.351) della Biblioteca del Museo Correr di Venezia (L. Quaquarelli, Feliciano
letterato nel suo epistolario, cit., p. 149 n. 1 e p. 153); due lettere autografe conservate
nel già citato codice di Cambridge Typ. 157, inviate la prima a Maestro Giovanni
da Ravenna, Lorenzo e Zanobio da Firenze dal castello di San Giorgio Bolognese,
presso il quale era in quel momento vicario, datata penultimo octobris 1471 (cc. 5v-
7r), e ad Antonio Nogarola la seconda, in apertura di un gruppo compatto di otto
sonetti dal tema alchimistico, datata vi piscis mcccclxxii (cc. 113v-118r. Cfr. G. Castiglioni,
I disegni alchemici di Feliciano, cit., pp. 72-75); ed infine una lettera, l’unica
di cui si conservi l’originale realmente spedito (cod. Vat. Lat. 5641, f. 228), indirizzata
a Bartolomeo Manfredi detto Aristofilo, personaggio vicino all’Accademia
pomponiana. Su quest’ultima lettera si veda anche A. Campana, Felice Feliciano e la
prima edizione del Valturio, cit., pp. 212-214. L’antichissimo sistema di datazione con
i segni dello zodiaco poteva essere giunto al Feliciano attraverso il Cosmographus di
[ 8 ]
felice feliciano epistolografo 17
Alla fortunata scoperta del codice veronese, rinvenuto dallo storico
dell’arte Giuseppe Fiocco nel castello di Bevilacqua, nei pressi di Verona,
si devono i primi contribuiti novecenteschi intorno a questo capitolo
del cursus letterario dell’umanista. Il Fiocco, che studiò attentamente
il manoscritto, rinvenne in quelle lettere l’insolita presenza di citazioni
provenienti dalla Commedia dantesca,25 e riconobbe nei corrispondenti
i nomi di alcuni dei principali artisti dell’ultimo quarto del ’400.26
Per un’indagine più estesa sull’epistolografia dell’umanista bisognerà
comunque attendere, ancora una volta, il già menzionato contributo
di Laura Pratilli. La studiosa propose in quelle pagine un’analisi
dell’intera produzione epistolare del Veronese, fornendo inoltre una
descrizione materiale dei codici che la conservano.27 Oggetto di culto da
parte dei tipografi veronesi, alcune lettere vennero stampate da Franco
Riva e da Francesco Corubolo in accuratissime edizioni limitate.28
Nonostante l’interesse mostrato anche di recente dalla critica verso
questo ramo della carriera letteraria del Feliciano, nessuna delle tre
raccolte autografe può vantare a tutt’oggi un’edizione integrale, mentre
un’edizione dell’unica silloge non autografa (incompleta, tuttavia,
e non priva di difetti) risale al 2010.29
Lacunose e a volte inesatte si dimostrano anche le notizie disponibili
intorno ai codici stessi. Degno di nota è, in tal senso, il caso che
interessa il codice Ox, per il quale si è ancora debitori della approssi-
Tommaso Morroni (vd. supra, n. 3). Alla c. 24 del codice, infatti, il Feliciano ricopiò
uno schema nel quale ad ogni mese dell’anno veniva fatto corrispondere un preciso
segno zodiacale. Queste le relazioni che se ne ricavano: Ianuarius, Aquarius; Februarius,
Piscis; Martius, Aries; Aprilis, Taurus; Madius, Gemini; Junius, Cancer; Julis,
Leo; Augustus, Virgo; September, Libra; October, Scorpio; November, Sagitarius; December,
Capricornus.
25 G. Fiocco, L’ammirazione di un umanista veronese per Dante, in «Nuovo archivio
veneto», lxxxi (1921), pp. 162-163.
26 Id., Felice Feliciano amico degli artisti, cit.
27 L. Pratilli, Felice Feliciano alla luce dei suoi codici, cit., pp. 58-72. Poche, tuttavia,
in quelle pagine, le notizie fornite sulla raccolta testimoniata da Lo.
28 F. Feliciano, Alcune piacevoli epistole, red. e postille di F. Riva, con due acqueforti
di W. Piacesi, Verona, Editiones Dominicæ, 1965; Id., Beata dolcissima cosa
fu sempre la vera amicizia. Epistola, a cura di F. Riva, Verona, Bibliotheca Veronensis,
1976; Id., Epistole e versi agli amici artisti, a cura di A. Corubolo e G. Castiglioni,
con un saggio di S. Marinelli, Verona, Ex Officina Chimærea, 1988. Dettagli su
queste e altre lettere pubblicate singolarmente si leggono nella Nota al testo di A.
Triponi in, Id., Lettere. Il manoscritto C.ii.14 di Brescia, cit., pp. xix-xx.
29 Ibidem. Sui limiti di questa edizione si leggano le osservazioni di A. Mulas
in Note sull’edizione dell’epistolario di Brescia e sull’edizione delle rime del Feliciano, cit.
[ 9 ]
18 cristiano amendola
mativa descrizione realizzata dal conte Alessandro Mortara negli anni
’60 dell’800, oltre che di pochi altri tentativi susseguitisi nei decenni
che, di fatto, poco di significativo aggiunsero al primo catalogo.30
Ignoti restano, ad esempio, alcuni importanti dettagli materiali e decorativi
della silloge, l’area in cui fu assemblata e la cronologia di composizione
rispetto alle altre raccolte conservate:31 colmare questo vuoto
negli studi sull’epistolografia del Feliciano è l’aspirazione delle
pagine che seguiranno.
2. Feliciano artigiano del libro, Feliciano epistolografo: dimensione materiale
e pratica intellettuale nel codice Canon. Ital. 15 della Bodleian Library
di Oxford
2.1. Descrizione materiale e ipotesi ricostruttive alla luce dei codici Lo e Br
Il ms. Canon. Ital. 15 (Ox) è un codice cartaceo in-4°, di 22,3 x 16,2
cm (misurato a c. 13r), composto da cc. I + 34 prive di filigrana, con
richiami fascicolari segnati in verticale sul margine destro dello specchio
di scrittura alle cc. 16v, 26v, 28v, 34v.32 Presenta una numerazione
moderna a lapis sul margine destro superiore al recto di ogni carta, che
numera 1-34. Lo specchio di scrittura misura 2,3 [15,4] 4,6 x 2.3 [10,1]
3,8 cm, con 21 righe in media; la rigatura è appena accennata.
Almeno quattro gli inchiostri utilizzati dal Feliciano, a riprova di
una consuetudine alla policromia già rilevata in altri manoscritti da
lui esemplati. Il testo delle epistole, scritto in nero ad eccezione della
prima, in violetto, è preceduto da salutationes o argumenta tracciate in
30 A. Mortara, Catalogo dei manoscritti italiani che sotto la denominazione di Codici
Canoniciani Italici si conservano nella Biblioteca Bodleiana a Oxford, Oxonii, e typographeo
Clarendoniano, 1864, coll. 14-18.
31 In A. Mulas, Note sull’edizione dell’epistolario di Brescia e sull’edizione delle rime
del Feliciano, cit., viene proposto, alle pp. 420-423, un elenco delle lettere presenti in
più di un epistolario. Tuttavia, da questo specchietto non emerge un aspetto importante
di questi epistolari: la condivisione, tra le sillogi, di alcuni gruppi ben
compatti di lettere. È proprio dallo studio dei rari scarti in tali sequenze, infatti, che
si ricavano le informazioni più interessanti sulla fisionomia delle singole raccolte.
32 La necessità di maneggiare il fragile codicetto con la massima cura mi ha
impedito un’analisi accurata della struttura fascicolare. Certamente un quinione è
il fascicolo formato dalle cc. 17-26, l’unico dell’intero codice a risultare privo di
lacune materiali. Per lo più da quinioni sono composti anche i mss. che conservano
le altre due sillogi autografe del Feliciano, Lo e Ve.
[ 10 ]
felice feliciano epistolografo 19
inchiostro rosso, salvo per la lettera a c. 23v, il cui testo è introdotto da
un argumentum in inchiostro verde scuro, e per quelle alle cc. 25v e 32r,
le cui salutationes sono in nero.33 Le lettere sono vergante in una chiara
ed elegante corsiva umanistica.
Nei margini si rinvengono postille di mano del Feliciano stesso,
che rinviano o al genere della lettera cui si riferiscono (ad es.: Gratulatiora
de filio nato, c. 6r), o al relativo passo latino da cui è tratta una citazione
nel testo (ad. es.: Una salus miseris, nullam sperare salutem, che
ricalca Virg., Aen., ii, 354: Una salus victis, nullam sperare salutem, c.
23v),34 o, ancora, al contenuto della lettera o a un suo breve passaggio
(ad es.: Andare a Verona da quella mala gente, c. 13v).
Contribuiscono alla varietà e alla bellezza del codice un motto in
latino a chiusura del primo pezzo della raccolta, a c. 1v, tracciato in
rosso e in elegante capitale antiquaria,35 e la dicitura rythimus che apre
il sonetto a c. 17r, segnata ancora secondo i medesimi stilemi grafici. In
rosso, ancora, e in lapidari, è il nome del destinatario della raccolta (Io
33 Alcune delle lettere della silloge sono introdotte da salutationes in latino (una
sola in volgare): Ox 4, Studioso et litterato iuveni Anselmo Donato bononiensi amico
precipuo. Altre sono invece aperte da brevi didascalie in volgare che ne illustrano il
genere o il contenuto (argumenta): Ox 26, Consolatoria fatta da Feliciano Antiquario al
nobile homo miser Pandulpho da Parma per la morte di Polidoro suo carissimo figliolo. Il
valore didascalico di questa seconda modalità di presentazione della lettera è evidente:
essa rimanda, infatti, alla tradizione dei dictamina, delle raccolte, cioè, di
modelli di lettere che si offrivano a coloro che desideravano apprendere tale ars.
Per una breve panoramica sulla tradizione dell’ars dictaminis e dei dictamina si veda
G. Alessio, Preistoria e storia dell’“ars dictaminis”, in Alla lettera. Teorie e pratiche
epistolari dai greci al Novecento, a cura di A. Chemello, Milano, Guerini, 1998, pp.
33-49. Per l’elenco delle intestazioni delle lettere di Ox vd. infra, pp. 8-10.
34 Per il testo della lettera vd. Appendice.
35 La dossologia, che recita DEO ET VIRTUTI OMNI[A] / DEBENT, posta a
conclusione di una lettera che nelle sue righe finali scrive: «Vivi con Dio e con la
virtù, a li quali dui ogni creato spirto è debitore» (c. 1v), si ritrova anche a c. 1r del
cod. Vat. Lat. 3616, silloge epigrafica attribuita a Publio Licinio, ma autografa del
Feliciano; in una seconda silloge epigrafica di Publio Licinio trasmessaci dal cod.
Hist. Qu. 316 (c. 61v) conservata presso la Württembergische Landesbibliothek di
Stoccarda, in apertura di una lettera inviata al Porcari ricalcata proprio sulla lettera
che, in Ox, precede la dossologia; a c. 1r del mss. Regg. C.398 conservato presso la
Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, latore di una silloge epigrafica dell’antiquario
reggiano Michele Ferrarini, conoscente diretto del Feliciano, databile tra il 1477 e il
1485 ca.; nella dedica a Ludovico Rodiano del cod. Vat. Lat. 5243 (c. 1r), copia di
Paolo Zanchi di una di un’silloge dello stesso Ferrarini (cod. 57 della Biblioteca
Universitaria di Utrecht, databile al 1477, mutila però dei fascicoli iniziali). La dedica
è trascritta integralmente in CIL iii/1, ed. T. Mommsen (1873), p. xxv.
[ 11 ]
20 cristiano amendola
ho iudicato Dominico),36 che occupa, a c. 1r, lo spazio di due righe. Stesso
carattere e stesso colore, infine, si ritrovano impiegati per le salutationes
alle cc. 6r (Leucadio facundo Felicianus), 9v (Menodorus Feliciano),
10v (Antiquarius Thideo Calvo), mentre in nero è l’epigrafe funeraria
trascritta a c. 34v, collocata in chiusura dell’ultima lettera della raccolta
(Feliciano ad Antonio da∙lLyno homo clariss[im]o, cc. 32r-34v).37 Si evidenziano
in più punti del manoscritto delle piccole foglioline decorative,
un motivo ornamentale, questo, frequente nei codici esemplati
dall’umanista.
Questi dettagli, che conferiscono al codice un aspetto pregevole,
evidenziano una cura nella confezione pienamente coerente con l’usus
del Feliciano nelle sue prove di maggior prestigio, e spingono a congetturare
un destinatario di elevato rango sociale.
Alle qualità estetiche appena rilevate non è pari, però, lo stato di
conservazione del codice. Alcune carte risultano cadute, mentre la fascicolazione
presenta diversi problemi di organizzazione (riorganizzazione?).
Fu forse proprio a causa di tali lacune che il Mortara non
36 In Domenico Zorzi, capitano di Verona nel 1467, potrebbe identificarsi, secondo
Martin Lowry, il Dominico destinatario della silloge. Non esistono, però, a
tutt’oggi, prove sufficienti a sostegno della tesi. M. Lowry, Nicholas Jenson and the
Rise of Venetian Publishing in Renaissance Europe, Oxford, Blackwell, 1991, pp. 40-41.
Sulla questione si veda anche L. Quaquarelli, Felice Feliciano letterato nel suo epistolario,
cit., p. 149 n. 1.
37 Il testo dell’epigrafe trascritto a c. 34v, recita: L[UCI] SCENNI ANNEI AFRI-
/ CANI FIL[I] DULCISSIMI / QUI VIX[IT] AN[NIS] XII MENS[IBUS] / VIII
D[IEBUS] X / PARENTES INFELICISSIMI / AMISSIONE EIUS PERPE- / TUIS
TENEBRIS ET / QUOTTIDIANA MISERA- / BILI ULULATIONE / DAMNATI.
L’epigrafe, proveniente da Benevento (=IRN 278* – CIL ix 01973), fu trascritta in
maniera imprecisa (probabilmente per la prima volta) dal Feliciano, e, con le medesime
imperfezioni, si ritrova in una silloge compilata da Fra Giocondo da Verona,
cui, dal Dressel e dal Mommsen era stato, fino a questo momento, attribuito il
rinvenimento. Per questa epigrafe Giocondo fu, dunque, forse emulo non dichiarato
dell’Antiquario. D’altronde lo stesso Feliciano, nella lettera che precede l’epigrafe,
se ne proclama scopritore: «Intanto che meglio seria esser stato morto inanci
a quegli, sequendo le lachryme deli genitori di Lucio Scennio Africano, la memoria
di quali non sono molti giorni che ritrovai scripta in uno antiquo marmore» (cc.
32v-33r). A sostegno della tesi, infine, un particolare grafico: nella già vista silloge
reggiana del Ferrarini, sotto l’iscrizione (c. 3r), si rinviene quello che è un vero e
proprio marchio di fabbrica del Feliciano: la fogliolina che il nostro adoperava
spesso per decorare i codici da lui esemplati. Forse un modo, quello del Ferrarini,
per rendere il giusto tributo all’amico veronese? Appunti sulla storia dell’epigrafe
si leggono in M. Kajava, A note on the Text Tradition of CIL ix 1973, in «Arctos. Acta
philologica Fennica», xvii (1983), pp. 21-22.
[ 12 ]
felice feliciano epistolografo 21
considerò, nel calcolo delle lettere in esso conservate, tre missive prive
di intestazione per la caduta delle rispettive carte, contandone, di fatto,
26.38 La nuova disanima consente, dunque, di portare a 29 il numero
totale delle lettere tramandate da Ox: per questa ragione, ne forniamo,
qui, nuova numerazione, segnalandone, inoltre, la presenza in
altre sillogi del Feliciano:39
1. c. 1r-v: Io ho iudicato Dominico (Lettera dedicatoria priva di intestazione);40
Simile a Br 90, c. 56r-v: Io ho iudicato Sempronio (Priva di intestazione.
Cambia il dest.); e a Br 95, c. 59r-v: Lucido ingenio et lucido corpore Petro
Vitello iuveni studioso et amico æternali (Cambia il dest. Intr.: Io ho iudicato
Pietro. Cambia il dest.);41
2. cc. 1v-3r: Modestatis et eloquentiæ iuveni Flavio Amynthæ sacri Apollinis camerario
ac musarum alumno; Br 1, c. 2r: acefala;
3. c. 3r-v: Sine Crimine iuveni Ioanni Petrucio phanestri amico bene merito suo;
Lo 2, c. 5r-v: Cominziano in questo presente libretto alchune vulgare epistole
composte per me Feliciano Antiq[u]ario e mandate ali amici e primo a Zuane
Peruzo phanestre; Br 2, c. 2r-v: Spectate laudis Ioanni Petrucio Phanestri amico
suo non vulgari;
4. cc. 3v-4v: Studioso et litterato iuveni Anselmo Donato bononiensi amico precipuo;
Lo 3, cc. 5v-6v: Felice antedicto al nobile e prestante zovene Anselmo Donato
da Perusa figliolo del spectabile doctore misser Baligano degli Albiçi, homo
di chiara fama; Br 3, cc. 2v-3r: Spectate laudis iuveni Anselmo Donato de Perusio
amico hon[orabili] Felicianus salute;
5. cc. 4v-5r: Moribus ornatissimo Rizardo bononiensi amico valde dilecto; Lo 4, cc.
6v-7r: Felice al suo dilecto Rizardo Bolognese; Br 5, c. 3r-v: Splendido et ornato
viro Rizardo de Bononia amico incomparabili;
6. cc. 5r-6r: Preterite antiquitatis indagatori solerti Feliciano Veronensi amico
opti[m]o; Lo 5, cc. 7r-8r: Anselmo Donato perusino a Felice Feliciano risponde;
Br 4, c. 3r: Humanitatis exemplo et viro prestanti Felici Feliciano antiquario
amico optimo;
7. c. 6r-v: Leucadio Facundo Felicianus; Lo 6, cc. 8r-9r: Felice a Galeazo da Imola
38 A. Mortara, Catalogo dei manoscritti italiani che sotto la denominazione di Codici
Canoniciani Italici si conservano nella Biblioteca Bodleiana a Oxford, coll. 14-18. Sulla
falsariga del Mortara, altrettante ne computano Laura Pratilli, Giulia Gianella e,
ancora di recente, Anna Triponi. Cfr. L. Pratilli, Felice Feliciano alla luce dei suoi
codici, cit., p. 65; G. Pozzi e G. Gianella, Scienza antiquaria e letteratura: Il Feliciano.
Il Colonna, cit., p. 473; Introd. a cura di A. Triponi in F. Feliciano, Lettere. Il manoscritto
C.ii.14 di Brescia, cit., p. viii.
39 Per i criteri adottati nella trascrizione delle salutationes vd. Appendice, p. 28.
40 Pubblicata in A. Mortara, Catalogo dei manoscritti italiani che sotto la denominazione
di Codici Canoniciani Italici si conservano nella Biblioteca Bodleiana a Oxford,
cit., col. 15.
41 Su questa lettera vd. infra, p. 25.
[ 13 ]
22 cristiano amendola
(Cambia il dest.); Br 6, cc. 3v-4r: Amplissimo et spectato viro d[om]ino Levandro
de Imola amico optime merito;
8. c. 8r: acefala;42 Lo 11, c. 12r-v: Nestore Firmano a me Feliciano; Br 11, c. 5v:
Splendido et amplissimo Francisco Porcario patriæ et splendori et amico optimo
(Cambia il dest.);
9. cc. 8v-9v: Felicianus Menodoro Anconitano; Lo 12, cc. 13r-14r: Feliciano sentendo
dil naufragio facto per Menodoro Anconitano a lui amicissimo et molto domestico
in quel tempo nella sua patria conversando; Br 12, cc. 5v-6v: Elegantissimo
et lucubrato viro Menodoro Anconitano mercatori equissimo amico optimo;
10. cc. 9v-10v: Menodorus Feliciano; Lo 13, cc. 14r-15v: Menodoro Anconitano naufrago
ad me Feliciano risponde e quanto più pò si conforta dela sua adversa fortuna;
Br 13, cc. 6v-7r: Munifico et liberali viro d[omi]no Francisco Porcario amicorum
splendori Menodorus Anconitanus salutem et felicitatem (Cambia il dest.);
11. cc. 10v-11v: Antiquarius Thideo Calvo; Lo 14, cc. 15v-16v: Ralegrassi Feliciano
dela nova amicicia contracta tra lui et il prestante Thideo Calvo de’ Marescotti;
Br 14, c. 7r-v: Splendido et claro viro Tideo Calvo de’ Marescotis bononiensi
amico suo;
12. cc. 11v-12v: Franciscus Nursius Feliciano Antiquario; Lo 15, cc. 17r-18r: Facundo
claroque viro Feliciano Antiquario; Br 15, cc. 7v-8r: Amoeno et faceto viro
Publio Licinio Romano Robertus Strocius salutem (Cambiano mitt. e dest.);
13. c. 13r-v: Heliconio vati Francisco Nursio Felicianus (mutila in fine); Lo 16, cc.
18v-21r: Heliconio vati Francisco T[imi]D[eo] Felicianus salutem; Br 16, c. 8rv:
Heliconio vati Roberto Strozio a[mico] o[ptimo] (Cambiano mitt. e dest.);
14. c. 14v: Amicorum principi et totius Ausonie splendori Alberto Ceruleo iuveni
integerrimo (mutila in fine); Lo 17, cc. 21v-23v: Amicorum principi ac totius
Felsinæ splendori ΑΛΒΕΡΤΩ ΚΑΝΩΝΗΚΩ hilarissimo viro atque pienti a me
summa dilectione colendo; Br 17, cc. 9r-10r: Amicorum principi et totius Italiæ
splendori Sigismundo Montano viro hilarissimo atque potenti Franciscus Porcarius
salutem (Cambiano mitt. e dest.);
15. c. 15r-v: acefala;43 Lo 19, cc. 26v-30r: Feliciano si duole d’un suo fratelo che li
habia scripto una insulsa e temeraria littera piena de ogni ignorantia e lui come
bestiale riprende di questo errore increpandolo come homo mecanico dice; Br 19,
cc. 11r-12v: Dolsi un fratello del’altro;
16. cc. 15v-7r-7v-16v: Feliciano Antiquario diputato per Antonio da∙lLino in loco
de vicario nel castel di San Zorzo in bolognese non li vol stare perché dice essendo
tra quelli villani li par essere tra orsi e tra porçi e poi se ne venne a Bologna; Lo
20, cc. 30v-32v: Feliciano Antiquario diputato per Antonio da∙lLino in loco de
vicario nel castel di San Zorzo non li vol stare perché dice essendo tra quili villani
pare esser tra orsi e tra porçi e poi sen venne a Bologna; Br 20, cc. 12v-13v:
Magnanimo et splendido viro Antonio de Lino bononiensi maiori precipuo;
42 Non segnalata nel catalogo dei codici canoniciani italiani della Bodleian Library.
43 Non segnalata nel catalogo dei codici canoniciani italiani della Bodleian Library.
[ 14 ]
felice feliciano epistolografo 23
17. cc. 17r-18v: Feliciano viro facundo et musis dilecto Fuscus Ariminensis salutem
et letitiam fatum; Lo 21, cc. 33r-34v: Feliciano viro facundo et musis dilecto
Fuscus Ariminensis salutem dicit et lætitiam; Br 21, cc. 13v-14r: Iacobus Zacharia
Felici Feliciano (Cambia il mitt.);
18. cc. 18v-20r: Bellerophonti ac heliconio viro Fusco de Arimino musarum alumno
et vati facundo; Lo 22, cc. 35r-36v: Bellerophonti ac heliconio viro Fusco de Arimino
musarum alumno et vati facundo Felician[us]; Br 22, cc. 14r-15r: Bellerophonti
et heliconio viro Iacobo Zachariæ Felicianus salutem (Cambia il dest.);
19. cc. 20r-21r: Felice al nobile zovene Pandolpho Parthenopeo per la morte de la sua
inclyta madona Constantia altramente chiamata Φιλενα; Lo 23, cc. 37r-38v: Felice
al nobile zovene Pandulpho Parthenopeo per la morte dela sua inclyta modona
Constantia altramente chiamata Φιλενα; Br 23, c. 15r-v: Pandulpho Parthenopeo
egregio concordiali suo Fel[icianus] Antiquarius;
20. cc. 21v-23v: Feliciano a quel medesimo amico continua questo proposito narandoli
el suo exilio amoroso; Lo 24, cc. 38v-41r: Feliciano a quel medesimo amico
continua questo proposito narrandoli il suo exilio amoroso; Br 24, cc. 15v-16v:
Ad eundem Pandulphum;
21. cc. 23v-25r: Hortensio Philadelpho per l’amore de Nicostrato Pandoro l’uno e
l’altro adolescente;
22. cc. 25v-26r: Innocenti et pudico iuveni Gregorio Saxo romano musarum alumno;
Lo 25, cc. 41r-42v: Felicianus Antiquarius innocenti et pudico iuveni Gregorio
Lavagnolo musarum alumno (Cambia il dest.); Br 25, 16v-17r: Splendido
viro Gregorio Silvano musarum alumno (Cambia il dest.);
23. cc. 26v-27r: Feliciano ad Lanzilago dice che Herminio con parole ridicule li ha
tolto il suo vestito di volpe con oppinione de mai nol rendere;
24. c. 27v: Feliciano a Lodovico unico lume degli ochi soi; Br 134, cc. 87v-88r: Divinarum
rerum amatori et cognitori Ludovico Platonico cum cumpetundissimo
suo Felicianus;
25. c. 28r: acefala;44
26. cc. 28r-29v: Consolatoria fatta da Feliciano Antiquario al nobile homo miser
Pandulpho da Parma per la morte di Polidoro suo carissimo figliolo; Lo 26, cc.
43r-44v: Consolatoria facta da Feliciano Antiquario al nobile homo miser Pandulpho
da Parma per la morte di Polidoro suo figliolo; Br 26, cc. 17r-18r: Iacobus
Zacharias moesto et infelici viro d[omi]no Rainaldo Bugardo multas lachrymas
dicit (Cambiano mitt. e dest.);
27. cc. 29v-31r: Dolse Feliciano dela morte di Labeone parte di Valerio Pisano il
quale cognobe negli anni dela sua adolescentia ritrovandossi a Roma; Lo 27, cc.
45r-47r: Dolse Feliciano e molto l’incresse dela morte di Labeone parte di Valerio
Pisano il qual esso cognobbe nella tenera ætà degli anni soi ritrovandossi a Roma;
Br 27, cc. 18r-19r: Valerio Pisano amicorum amicissimo;
28. c. 31r-v: Valerio Pisano a me Feliciano (mutila in fine); Lo 28, cc. 47r-48r:
Valerio Pisano ad me Feliciano risponde; Br 28, c. 19r-v: Responde l’amico;
44 Non segnalata nel catalogo dei codici canoniciani italiani della Bodleian Library.
[ 15 ]
24 cristiano amendola
29. cc. 32r-34v: Feliciano ad Antonio da∙lLyno homo clariss[im]o; Lo 29, cc. 48r-
51r: Feliciano al prestante Antonio da Lyno inclyto bolognese homo de molta
laude; Br 30, cc. 19v-21r: Famosissimo et optimo viro Antonio del Lino bononiensi
inclyto amicorum splendori.
Dall’elenco risulta che quasi tutte le lettere di Ox sono presenti anche
nelle raccolte Lo e Br pressappoco nel medesimo ordine. Per
un’immagine più chiara della condivisione tra le sillogi di sequenze
compatte di lettere proponiamo il seguente schema:
Fig. 1 Posizione delle lettere di Ox nelle sillogi Lo e Br45
cc. di Ox Ox in Lo in Br
1r -1v 1 * 90 e 95
1v-3r 2 * 1
acefala
3r-3v 3 2 2
3v-4v 4 3 3
4v-5r 5 4 5
5r-6r 6
Responsiva di 4
5
Responsiva di 3
4
Responsiva di 3
6r-6v 7 6 6
7r-7v
Dovrebbe
trovarsi tra le cc.
15 e 16
* * *
8r 8
acefala
11 11
8v-9v 9 12 12
9v-10v 10 13 13
10v-11v 11 14 14
11v-12v 12 15 15
13r-13v 13
mutila in fine
16 16
14v 14
mutila in fine
17 17
45 In orizzontale sono qui indicate le diverse posizioni che una stessa lettera
assume nei diversi epistolari (es. la lettera n. 12 di Ox occupa la posizione n. 15 in
Lo e la n. 15 in Br; la lettera n. 21 di Ox non figura nelle altre sillogi, etc.). Nessuna
delle lettere di Ve, lo ricordiamo, compare in Ox.
[ 16 ]
felice feliciano epistolografo 25
15r-15v 15
acefala
19 19
15v-16v (+ 7r-v) 16 20 20
17r-18v 17 21 21
18v-20r 18 22 22
20r-21r 19 23 23
21v-23v 20 24 24
23v-25r 21 * *
25v-26r 22 25 25
26v-27r 23 * *
27v 24 * 134
28r 25
acefala
* *
28r-29v 26 26 26
29v-31r 27 27 27
31r-31v 28
mutila in fine
28 28
32r-34v 29 29 30
L’attuale c. 7 di Ox, che trasmette la parte centrale della sedicesima
lettera della raccolta, doveva in origine trovarsi tra le attuali cc. 15 e
16. Al suo posto doveva invece figurare la perduta prima parte della
lettera 8 trascritta all’attuale c. 8r, difettosa, appunto, di questa sezione.
Il confronto con Lo e Br, con i quali, in questo primo gruppo di
lettere, Ox condivide quasi integralmente l’ordine, lascia supporre che
la caduta possa essere stata più corposa: tra le lettere 7 e 8 di Ox (alle
quali corrispondono le lettere Lo 6 e 11, e le lettere Br 6 e 11), infatti, Lo
e Br hanno in comune una serie compatta di ben quattro pezzi (Lo 7,
c. 9r-v = Br 7, c. 4r; Lo8, cc. 9v-10v = Br 8, c. 4r-v; Lo 9, cc. 10v-11r = Br
9, cc. 4v-5r; Lo 10, cc. 11v-12r = Br10, c. 5r-v). Andrà inoltre osservato
che le lettere Lo 7 – Br 7 trasmettono la responsiva di Ox 7 – Lo 6 – Br 6,
e che le lettere Ox 8 – Lo 11 – Br 11 trasmettono la responsiva di Lo 10
– Br 10.
Una carta almeno, ancora, manca certamente tra le cc. 13 e 14, mentre
tra le cc. 14 e 15 il numero di fogli caduti potrebbe essere maggiore,
giacché, ancora una volta, Lo e Br, concordi nell’ordine dei componimenti,
tra le lettere Lo 17 – Br 17 e Lo 19 – Br 19, che corrispondono
alle lettere Ox 14 (c. 14v, mutila in fine) e Ox 15 (c. 15r-v, acefala), condividono
una lettera assente in Ox (Lo 18, cc. 23v-26r – Br 18, cc. 9r-
10v). Per quanto riguarda la consistenza delle carte disperse prima
della c. 28, che riporta poche righe finali di una lettera presente esclu-
[ 17 ]
26 cristiano amendola
sivamente in Ox (n. 25), il confronto con gli altri manoscritti non soccorre,
giacché in questo punto Lo e Br non presentano interruzioni
nella sequenza delle lettere. Ancora una lacuna si registra tra le attuali
cc. 31 e 32, con la lettera Ox 28 (c. 31r-v) priva della sua sezione finale.
Di nuovo il raffronto con gli altri manoscritti non consente congetture.
Se Ox e Lo, infatti, sembrano concordare a prescindere dalla carta
caduta (Ox 28, mutila in fine – Lo 28 e Ox 29 – Lo 29), tra le rispettive
28 (Ox 28 – Lo28) e 30 (Ox 29 – Lo29) Br inserisce una ventinovesima
lettera, che in Lo è la n. 77 (cc. 144v-145r) e in Ve la n. 14 (cc. 24v-25r).
Va infine menzionato il richiamo fascicolare presente sul verso della
trentaquattresima e ultima carta del manoscritto, dove si riscontra, in
verticale sul margine destro, la scritta Risponde. Nel progetto originario,
dunque, certamente almeno un’altra lettera doveva figurare nella silloge:
la responsiva, appunto, inviata da Antonio da Lino al Feliciano.46
L’impressione che si ricava dalle precedenti osservazioni è che in
origine il codice accogliesse un numero ben maggiore di testi, e che la
sua fisionomia non dovesse differire di molto, prima dei guasti che lo
interessarono, da quella delle altre due sillogi qui prese in esame. Alcuni
fascicoli possono essere andati perduti prima che di esso prendesse
visione il Mortara, o forse il Feliciano, per ragioni a noi ignote, lasciò
cadere il progetto di completare il manoscritto. Per quanto difettosa e
contenuta nel numero delle epistole, ad ogni modo, la silloge trasmessa
da Ox è portatrice di missive non presenti nel resto della tradizione,
configurandosi così, almeno sul piano macrotestuale, come un testimone
autorevole che a torto la critica ha negletto fino ad ora.
2.2. Feliciano copista degli epistolari alla luce della silloge bodleiana47
Del tutto prive di un’edizione sono, dunque, le lettere Ox 21, 23 e
25, nonché la prima parte della 2, che in Br, la silloge non autografa,
figura priva proprio della parte iniziale.48 Quest’ultima lettera offre
46 In Lo 29, cc. 48r-51r e in Br 30, cc. 19v-21r si legge, infatti, il testo di tale responsiva.
Lo 29 titola: Antonio da Lyno risponde a Feliciano, e così Br 30: Famosissimo
et optimo viro Antonio del Lino bononiensi inclyto amicorum splendori.
47 Si avverte il lettore che non si prenderanno qui in considerazione gli aspetti
grafico-linguistici della varia lectio, né si affronterà la questione di una eventuale
evoluzione stilistica della prosa felicianesca. Si fornirà, in questa sede, soltanto un
breve repertorio di varianti sostanziali, con lo scopo di chiarire i processi di trasmissione
e di rielaborazione del Feliciano copista-autore degli epistolari.
48 Benché differenti per alcuni dettagli testuali, infatti, le altre lettere di Ox si
[ 18 ]
felice feliciano epistolografo 27
spunti interessanti non soltanto per riflettere sulla qualità delle lezioni
di Ox, spesso deteriori a causa della disattenzione con la quale il Feliciano
ricopiò se stesso, ma anche per rivalutare il grado di affidabilità
del discusso copista di Br. Quest’ultima silloge, in realtà, può rivelarsi
senz’altro utile nella restitutio textus di passaggi difettosi o poco chiari
negli autografi.
Si osservi, ad esempio, il caso seguente, in cui l’apografo Br consente
di riconoscere e colmare un saut du même au même prodottosi in
Ox probabilmente a causa del cambio di carta:
Ox 2: Ma per non navigare con mia debile barcha l’alto pelago di questa
amicicia [3r] non ti esca dal core il tuo Feliciano.
Br 1: Ma per non navigar cum questa mia debol barcha l’alto pelago di
questa amicitia in volerti quelle cosse descrivere che ’l tuo florido inzigno
melio cognosce, gitando l’anchore sorgo la nave, pregandoti che ’l
felice vinculo di questa amicitia non ti esca dil cuore, ricordandoti
spesso di Feliciano.
Benché, per molte delle lectiones singulares di Br, il sospetto di innovazioni
del copista resti alto, conterà pure osservare che, a causa della
cattiva fama che accompagna Ox fin dai tempi della descrizione del
Mortara, le varianti del codice bresciano sono state generalmente valutate
attraverso il solo confronto con la silloge più nota e completa,
quella trasmessaci da Lo.49 Un esame delle lettere conservate in almeno
tre codici rivela invece che, al di là di banalizzazioni e fraintendimenti
caratteristici dei processi di copia di tipo meccanico, molte delle
deviazioni che allontanano Br da Lo risultano testimoniate anche
dall’altro autografo Ox. Il numero delle singulares di Br ne risulterà,
pertanto, ridimensionato.50
possono leggere nella redazione offerta da Br in F. Feliciano, Lettere. Il manoscritto
C.ii.14 di Brescia, cit. I componimenti di Ox non trasmessi dalla raccolta bresciana
saranno qui pubblicati in Appendice.
49 Nell’Apparato critico dell’edizione del codice bresciano, ad esempio, la curatrice
non prende in considerazione le varianti testimoniate da Ox.
50 Le seguenti esemplificazioni sono relative a lectiones di Br che, testimoniate
in almeno uno degli autografi, non saranno da ricondursi all’inventiva del copista,
ma rispecchieranno con tutta probabilità le lezioni di un archetipo. Si suppone,
infatti, che gli autografi stessi siano frutto di copia, non mostrando questi in alcun
punto i caratteri di un esemplare di lavoro che pure certamente dovrà essere esistito,
data la complessità dei testi qui presi in esame. D’altronde, si dovrà tenere
conto, quanto meno in linea teorica, che, trattandosi di raccolte di lettere, le epistole
in possesso del mittente saranno plausibilmente delle copie. Si suppone, inoltre,
che, data la quantità e la qualità delle varianti riscontrate, delle quali solo in mini-
[ 19 ]
28 cristiano amendola
Alcune di queste variazioni sono determinate da errori di trascrizione
commessi dal Feliciano. Questo è quanto si verifica, ad esempio,
in un passaggio di una lettera di Lo nella quale, a causa della ripetizione
della congiunzione coordinante «et», il Veronese confuse l’ordine
dei periodi; resosi poi conto dell’errore, tentò in extremis una correzione,
che, però, determinò una goffa espressione ridondante:51
Lo19: 1) E perché credi tu che la mia conversatione sia da riprendere,
dando tu fede bestialmente a chui ti parla? 3) E perché hai tu preso
ardire de dire che io non me invillupi, essendo tu di ogni invillupo invillupatore?
2) E come posso io guastarmi el credito se quello che io
prometto attendo e servo, facendo tu di questo il contrario? 4) Et come
hai tu l’ardire cossì temerario volermi acusare del coito, essendo tu
stato cossì longamente sottoposto ad una meretrice in Rechanati nella
Marca, e dentro da Pesaro con la moglie di Saltarello?
Ox15: 1) E perché credi tu che la mia conversatione sia da poter riprendere,
dando tu fede bestialmente a cui ti parla? 2) Et come posso io
guastarmi el credito se quello che io prometto attendo e servo, facendo
tu di questo il contrario? 3) Et perché hai tu preso ardire de dire che io
non me invillupi, essendo tu de ogni invillupo invillupatore? 4) Et come
hai tu parlare cossì temerario volermi acusar del coito, essendo tu
stato cossì longamente sottoposto ad una meretrice in Recanati nella
Marca, e dentro da Pesaro con la moglie di Saltarello?
Br19: 1) E perché credi che la mia conversatione sia da riprendere, dando
tu fede bestialmente a cui ti parla? 2) E come posso io guastarmi il
credito se quello che io prometto attendo e servo, facendo tu di questo
sempre el contrario? 3) E perché hai tu preso a dire, scrivendomi, che
non me invilupi, essendo tu d’ogni altro inviluppo invilupatore? 4) Et
come hai tu parlare cossì temerario volermi accusar del coito, essendo
tu stato cossì longamente sotoposto ad una meretrice in Rechanati nella
Marca, e dentro de Pesaro cum la moglie di Saltarello?52
Nell’esempio appena visto, l’errore non sembra compromettere
ma parte sarà possibile dare esemplificazione in questa sede, i manoscritti siano
indipendenti l’uno dall’altro. Se il Feliciano (e il copista di Br) si sia servito di uno
o più originali, o se in differenti momenti vi abbia apportato delle modifiche, è
questione alla quale, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non sembra possibile
fornire risposta definitiva.
51 «Et perché hai tu preso ardire […]. Et come hai tu l’ardire cossì temerario
[…]». Ox e Br, invece, sembrano recare la lezione corretta: «Et come hai tu parlare
cossì temerario […]», con ordine concordante delle frasi interrogative. Br, tuttavia,
banalizza: «E perché hai tu preso a dire […]», invece di «E perché tu hai preso ardire
de dire […]».
52 La numerazione delle frasi, per chiarezza di lettura, è ovviamente mia.
[ 20 ]
felice feliciano epistolografo 29
particolarmente la logica del discorso. Il ricorso ad Ox, pertanto, consente
di rivalutare lectiones della copia che facilmente si sarebbero, invece,
reputate deteriori.
Anche nei casi di variazione adiafora, la mancanza di un confronto
con il codice Ox può facilmente ed erroneamente spingere a bollare
molte delle lectiones di Br come innovazioni del copista. In queste circostanze
non è sempre agevole intuire quando una lectio di Lo rispecchi
l’archetipo in una precedente fase redazionale, e quando, invece, essa
sia il risultato di una deviazione momentanea dalla copia di lavoro:
Lo4: Facilmente lo posso iudicare per le littere tue, le quale mi hai mandate,
in quele […];
Ox5: Facilmente lo posso iudicare per le tue littere, le quale dinovo me
hai mandate, in quelle […];
Br5: Facilmente lo posso iudicare per le tue littere le quale dinovo me
hai mandate […], in le quale […].
Lo4: […] per quanto mi sia riferito da miser Ubaldo da Siena. Ma sia o
tarda […];
Ox5: […] per quanto mi sia riferito. Ma sia o tarda […];
Br5: […] per quanto mi sia riferito. Ma sia tarda […].
Lo11: Io ti rispondo me non haver domenticate le cose che sapia inanzi
la partita mia, ma più presto imparate del’altre assai secundo la facultà
del’inzegno mio;
Ox8: Io te rispondo non haver domenticate le cose che sapia inanci la
partita mia, ma più presto havere imparate del’altre assai secundo la
facultà del’ingiegno mio;
Br11: Io te rispondo non haver domenticate le cosse che io sapia inanci
la partita mia, ma più presto haver impato (sic) dele altre secundo la
facultà del’inzegno mio.
Lo22: […] e possoti chiamare vero Asclepedio al mio languore;
Ox18: […] e possoti chiamare vero Esculapio al mio languore;
Br22: […] e possoti chiamare vero Esculapio al mio languore.
D’altronde, se è del tutto naturale che, ricopiando un proprio testo,
l’autore tenda anche a rielaborarne delle parti, negli epistolari qui presi
in esame il processo sembra essere particolarmente esteso. Si tratta
di un modus operandi peculiare, quello del Feliciano, che prevede una
certa libertà inventiva al momento della copia senza che le innovazioni,
però, determinino modifiche sulle carte dalle quali attingeva. Si
osservino, a mo’ di esempio, i seguenti casi in cui è questa volta Ox a
presentare lectiones singulares:
[ 21 ]
30 cristiano amendola
Lo14: E cossì, con villano silentio, me ne passava, unde essendo dala
mia indigna et invidiosa patria spontaneamente partito e non fugato
da alcuno […];
Ox11: E cossì, con villano silentio, me ne passai, essendo dala mia indigna
et invidiosa patria spontaneamente partito e non fugato da alchuno
[…];
Br14: E cum, vilano silentio, me ne passava, unde essendo dala mia
indigna e invidiosa patria spontaneamente partito e non fugato da alchuno
[…].
Lo20: […] e vivo in suspecto de non esser da quegli come martyre tractato;
Ox16: […] e vivo in suspecto de non esser de quegli che portino rocta
la testa o come martyre tractato;
Br20: […] e vivo in suspetto de non esser di quelli come martyre tractato.
Lo29: […] a Ruberto, con firma promissione che mai quella camera
dovesse aprire se prima non si atrovava in tanta inopia che non havesse
quel giorno che manzare, et se contrafacesse al suo comandamento
fusse privato d’ogni sua roba;
Ox29: […] a Ruberto suo, con firma promissione che mai quella camera
dovesse aprire se prima non si atrovava in tanta inopia che non havesse
quel giorno che manzare, et se rumpesse il suo comandamento fusse
privato di sua hereditate;
Br29: […] a Roberto suo figliolo, cum ferma promissione che mai quella
camera dovesse aperire se prima non se trovava in tanta inopia che
non havesse quel zorno che mangiare, e se contrafacesse al suo comandamento,
fosse privato de ogni roba sua.
Ad una modifica intervenuta sulla copia di lavoro sembra essere
riconducibile, invece, la variazione del pronome allocutivo adoperato
dal Feliciano per rivolgersi al suo destinatario, il nobile Tideo Calvo
de’ Marescotti, nella lettera Lo 14 – Ox 11 – Br 14. Il passaggio sistematico
dal «voi» al «tu» che si registra nella stessa missiva trascritta in
epistolari messi insieme in momenti diversi è forse indizio di un cambiamento
nelle relazioni interpersonali tra i corrispondenti:
Lo14: […] amandovi et observandovi;
Ox11: […] amandoti et observandoti;
Br14: […] amandoti et observandoti.
Lo14: […] a voi tutto mi profero;
Ox11: […] a te tutto mi profero;
Br14: […] ad te tuto me profero.
[ 22 ]
felice feliciano epistolografo 31
Lo14: […] le virtù vostre;
Ox11: […] le virtù tue;
Br14: […] le virtù tue.
Lo14: […] et parmi di proporre le virtù vostre a tutti gli altri amici;
Ox11: […] e parmi di proporre le virtù tue ad tutti gli altri amici;
Br14: […] e parmi di proporre le virtù tue ad tuti gli altri amici.
Lo14: […] se non a pregarvi che vogliati acresser la mia consolatione;
Ox11: […] se non pregarti che vogli acrescer la mia consolatione;
Br14: […] se non a pregarti che vogli acrescer la mia consolatione.
Del resto, in una lettera inviata qualche tempo dopo al nobile Tideo,
Feliciano si rivolgerà all’amico bolognese proprio mediante il più
confidenziale «tu».53
Dalle esemplificazioni sopra riportate si può concludere che Br
non reca lezioni che permetterebbero di affermarne la derivazione diretta
da uno degli autografi Lo e Ox. Il codice bresciano, come si è
detto, condivide con Ox alcune lettere non attestate altrove, ma la qualità
delle sue varianti a livello microtestuale induce ad ipotizzare che
esso sia stato copiato da un’ulteriore silloge, oggi perduta, quasi certamente
più tarda di Lo ed Ox. Sul piano della correttezza del cod. Br
andrà infatti almeno ricordato che, per quanto riguarda l’ordine delle
lettere, esso risulta, in un dettaglio, più corretto degli autografi stessi,
ricollocando la responsiva di Anselmo Donato (Ox 6, Lo 5, Br 4), subito
dopo la relativa missiva del Feliciano (Br 3), mentre in Ox e Lo le
due lettere (Ox 4 e 6, Lo 3 e 5), risultano separate dalla lettera del Feliciano
a Rizardo Bolognese (Ox 5, Lo 4).
La mancanza di una sistematica preferenza di Br verso lezioni di
un autografo a svantaggio dell’altro, inoltre, testimonia una propensione
del Feliciano alla rielaborazione dei propri testi nel momento
della copia senza che questo comportasse necessariamente delle modifiche
sui materiali da lavoro dai quali attingeva. Si tratta, del resto,
di un legittimo diritto dell’autore al quale il Feliciano sembra richiamarsi
in maniera particolarmente evidente nelle due sillogi autografe.
E, probabilmente, ad esso si sarà appellato anche quando si trovò a
realizzare l’antigrafo dal quale deriva Br.
53 Lo 70, cc. 135r-137v: Immortalis phame iuveni Thideo bononiensi amico unico e
Ve 6, cc. 16r-17r: Lucido Ingenii et lucido corpori Thideo bononiensi amico unico. Assente
in Ox.
[ 23 ]
32 cristiano amendola
3. Appunti in margine per una cronologia delle redazioni
Delle quattro raccolte epistolari del Feliciano, Ox è l’unica a non
trasmettere lettere datate o databili in base a elementi interni. Le ipotesi
relative alla sua collocazione nella traiettoria cronologica degli
epistolari, dunque, non potranno che essere fondate sulla base di indizi
provenienti da un lato dall’analisi della composizione materiale
delle sillogi, e dall’altro dall’individuazione della loro fisionomia culturale,
la quale si rivelerà coerente con quella dei circoli nei quali si
mossero il Feliciano e i suoi corrispondenti.
3.1. Il codice Harley 5271 della British Library di Londra: manuale epistolare
o raccolta d’autore?
In accordo con gli interessi culturali e professionali del suo dedicatario,
il notaio bolognese Alberto Canonici,54 il ms. Lo, senza dubbio il
più curato sul piano testuale e materiale tra i codici epistolari realizzati
dal Feliciano, si presenta, fin dall’iscrizione che inaugura la raccolta55
e dalla lettera dedicatoria (cc. 2r-3v), come un’opera intesa a celebrare,
attraverso l’esempio dato dalla prosa del suo autore, il valore e
l’importanza politica, morale ed estetica dell’ornato parlare.56 Un cor-
54 Su questo personaggio si veda L. Quaquarelli, “Intendendo di poeticamente
parlare”: La bella mano di Giusto de’ Conti tra i libri di Feliciano, cit., p. 195.
55 Scritta in capitale latina, con caratteri dorati, a tutta pagina: CANDIDA FULVO
NOBILIOR AURO FACUNDIA FELIX (c. 1r). Una differente versione del motto
si ritrova alla c. 79r del codice bresciano, dove si legge: CANDIDA FULVO CARIOR
AURO FELIX AMICITIA. Nella prefazione all’Octavius di M. Felice, pubblicata
a Heidelberg ex Officina Ludovici Lucii nel 1560, il giureconsulto lovaniese F.
Balduino riferisce che «Insculptum Romæ in veteri marmore esse dicitur, CANDIDA
FULVO NOBILIOR AURO FELIX ANTIQUITAS», p. 43. L’espressione utilizzata
dal Balduino rinvia alla fraseologia tipica delle raccolte epigrafiche quattrocinquecentesche,
dalle quali il giureconsulto potrebbe aver tratto l’iscrizione (si
leggano, ad es. le parole del Feliciano alla n. 37 di questo scritto). Tuttavia, non ho
trovato traccia di essa nei moderni corpora epigrafici.
56 La lettera, vero e proprio manifesto programmatico dell’epistolario, si effonde
in una solenne esaltazione dell’eloquenza attraverso esempi tratti dal mondo
classico tramite i Memorabilia di Valerio Massimo, che traduce quasi letteralmente.
Essa è in parte scritta in maiuscole antiquarie tracciate con inchiostri oro e argento
su bellissime pagine verdi. Eccone l’esordio (c. 1r): «Quanto sia la forza del ornato
parlare ce ’l dimostra Valerio [Massimo] nel suo octavo libro ponendo li exempli in
molti modi».
[ 24 ]
felice feliciano epistolografo 33
poso numero di lettere risale al biennio 1472 / 1473, ed è, per destinatari
e circostanze in esse riportate, di chiara ambientazione bolognese.
57 In virtù dell’origine bolognese del destinatario e di molti dei corrispondenti
della prima parte della silloge (cc. 1r-124r), si è spesso ritenuto
opportuno ricondurre la compilazione della stessa agli anni del
secondo soggiorno felsineo del Feliciano, risalente, appunto, al triennio
1471-1473. L’ultima lettera datata della silloge (cc. 142v-144v), collocata
nella seconda e più tarda sezione della raccolta, fu inviata da
Ferrara il xii sagitarii (novembre) del 1475.58 Questa data rappresenterà,
dunque, il termine post quem rispetto al quale dovrà essere collocata
la chiusura definitiva della raccolta.
Il codice trasmette lettere del Feliciano, lettere dei suoi corrispondenti
e modelli privi di destinatario. Questi ultimi ricordano molto da
vicino, per impianto retorico e temi affrontati nelle epistole, quelli
contenuti nel celebre Formulario di epistole missive e responsive attribuito
alternativamente al Miniatore o al Landino.59 Il carattere didattico del-
57 Sette, in particolare, le lettere inviate da Bologna in quegli anni, tutte presenti
nella prima parte di Lo. Seguendo l’ordine di apparizione nel ms.: la prima, destinata
al fratello Barnabò, è datata xxiiii capricornii 1472 (cc. 26v-30r); la seconda,
inviata ad Augusto Lavagnola, è datata vii capricornii celestis 1472 (cc. 57r-61r); la
terza, inviata ad uno sconosciuto Nicolao qui definito suavi sodali, è datata iiii piscis
1472 (cc. 75r-76r); la quarta si ritrova tra i modelli privi di destinatario, ed è datata
quinto sagitarii celestis 1472 (cc. 95r-96r); la quinta è indirizzata a Francesco Scalamonti,
e riporta la data quinto canchrii celestis 1473 (cc. 98v-100v); la sesta, inviata a
Roberto Montano, è datata quinto sagitarii 1473 (cc. 114v-115v); la settima e ultima
risulta indirizzata a tale messer Manfredo “locotenente”, fu spedita il quinto capricornii
1473 (cc. 122r-123r). Quest’ultima lettera fornisce l’ultima attestazione della
presenza dell’umanista nel capoluogo romagnolo. Dettagli sul secondo soggiorno
bolognese del Feliciano e sulla cerchia di nobili, mercanti e intellettuali con i quali
fu in contatto in quel periodo si leggono in L. Quaquarelli, “Intendendo di poeticamente
parlare”: La bella mano di Giusto de’ Conti tra i libri di Feliciano, cit., pp. 196-200.
58 Benché l’indicazione dell’anno manchi, elementi interni consentono facilmente
di ricondurre la lettera a questa data. Vd. infra, pp. 21-22.
59 Su questo celebre florilegio di exempla si rinvia al recente contributo di M. C.
Acocella, Il Formulario di epistole missive e responsive di Bartolomeo Miniatore: un
secolo di fortuna editoriale, in «La Bibliofilia», cxiii (2011), pp. 257-291, e relativa bibliografia.
Raccolte con le quali in vario modo il Feliciano poté entrare in contatto
e dalle quali poté ricavare suggestioni per i propri epistolari sono anche le Exercitatiuncule
di Francesco Filelfo, un manualetto che raccoglie lettere in latino e relative
traduzioni in volgare; e, ancora, quella trasmessa dal codice Ottob. Lat. 1982
della Biblioteca Apostolica Vaticana, che mette insieme lettere in latino e traduzioni,
realizzata nell’ambito dell’accademia romana di Pomponio Leto. Su questi due
ultimi manualetti si vedano, rispettivamente N. Marcelli, Filelfo “volgare”: stato
dell’arte e linee di ricerca, in Philelfiana: nuove prospettive di ricerca sulla figura di Fran-
[ 25 ]
34 cristiano amendola
la raccolta è inoltre ribadito dalla preferenza accordata nelle intestazioni
agli argumenta, brevi didascalie che informano sul genere della
lettera o sull’occasione in cui fu scritta.
La commistione di lettere d’autore e abbozzi di epistole con valore
esemplificativo rinvia ad una tipologia di raccolte diffusissima presso
le cancellerie settentrionali del Quattrocento.60 Di queste si servivano i
burocrati come prontuari di bello stile da riutilizzare all’occorrenza
nella pratica cancelleresca. Nella compilazione della silloge londinese,
il Feliciano dovette tenere presente questa tipologia manualistica, che
fuse col modello di raccolta che proprio in quegli anni registrava ampia
diffusione grazie allo sviluppo della stampa: quello della silloge
umanistica incentrata sulla corrispondenza di un autore singolo.61 Ne
veniva fuori, così, un’opera esemplare sul piano della prosa, puntualmente
ricalcata, questa, sul modello offerto dai Memorabilia di Valerio
Massimo, e al contempo celebrativa della personalità del suo autore
nella manifestazione e nei modi di conduzione dei sui rapporti personali
e sociali. Un inedito manuale-libro di lettere, dunque, l’epistolare
londinese, offerto a chi, pur servendosi del volgare nella quotidiana
pratica epistolare, desiderava dotarsi di una scrittura elaborata ed elegante
quanto quella del prestigioso modello latino.
3.2. Il codice 3039 della Biblioteca Civica di Verona: un libretto sull’amicizia.
Di sole 42 cc. è composto il ms. Ve, che trasmette una raccolta di
venti lettere introdotte da un’epistola dedicatoria.62 In bianco è stato
lasciato, all’interno della lettera introduttiva, lo spazio che avrebbe
cesco Filelfo, Atti del seminario di studi, Macerata, 6-7 novembre 2013, a cura di S.
Fiaschi, Firenze, Olschki, 2015, pp. 47-81, e W. Bracke, Fare la epistola nella Roma
del Quattrocento, Roma, Armellini, 1992.
60 U no studio su questa tipologia di raccolte è in C. M. Monti, Una raccolta di
exempla epistolarum ii. Lettere pubbliche e private di ambiente cancelleresco visconteo, in
«Italia medioevale e umanistica», xxxi (1988), pp. 151-203.
61 L. Quaquarelli, Feliciano letterato nel suo epistolario, in L’“Antiquario” Felice
Feliciano Veronese, cit., p. 148.
62 «Ma perché non passi del tutto questo amore inremunerato, offero a te gli
sensi, el spirito, et essa anima. Et in signo di ciò, a te viene il presente opuscolo, del
quale ne fazo ale virtù tue un picol dono, azioché del tuo Antiquario Feliciano
habii memoria, nel cui legiere non si vedrà latine né greche bataglie, ma vedrassi
alcune familiare epistole mandate agli amici con rime amorose» (c. 1v). Come già
in Lo, l’epistola dedicatoria rappresenta il luogo deputato per esporre il programma
di lavoro e per delineare i contorni della propria operazione poetica.
[ 26 ]
felice feliciano epistolografo 35
dovuto ospitare il nome del dedicatario, che resta, pertanto, ignoto.63
Definita dal Riva un vero e proprio “romanzo epistolare sull’amicizia”,64
la silloge è nota per la presenza di lettere inviate ad alcuni dei più celebri
artisti del tempo.65
Il codice che ci trasmette questa raccolta risulta interamente vergato,
caso alquanto raro nell’usus del Feliciano, con un unico ed elegante
inchiostro azzurrino. Privo di iscrizioni epigrafiche o di particolari
vezzi decorativi, il manufatto risulta, in verità, piuttosto monotono
allo sguardo. Pochissime sono le postille marginali, mentre sul margine
sinistro, in corrispondenza delle salutationes, si evidenziano alcuni
nomi di persona abbreviati. Alle cc. 7r-v e 14r-v, infine, si rilevano delle
correzioni effettuate con un inchiostro marrone probabilmente dal
Feliciano stesso.
La silloge riflette le peregrinazioni del Veronese negli anni immediatamente
successivi al suo secondo soggiorno bolognese, interrottosi,
come si è visto, negli gli ultimi mesi del 1473.66
La settima lettera della raccolta (cc. 17r-18r) è spedita da Venezia,
dove il Feliciano si trovava nei mesi centrali del 1474, ed è indirizzata
a Paolo Bevilacqua, forse un nobile conterraneo dell’umanista. Egli
riferiva all’amico di essere impossibilitato a ritornare in patria, essendo
in quel momento in procinto di partire per Napoli con Angelo Probi,
legato di Ferrante d’Aragona a Venezia e suo probabile protettore
in quel momento.67 Il viaggio, tuttavia, non dovette concretizzarsi,68 e,
dal capoluogo veneto, poco dopo il Feliciano si spostò a Verona, da
dove, nel gennaio del 1475, inviò una lettera al veneziano Luca Marin
63 Vd. supra, pp. 3-4 e nn. 18-19.
64 F. Riva, Saggio sulla lingua del Feliciano dalle “Epistole agli amici”, in «Atti
dell’istituto veneto di Scienze, Lettere e Arti», a. acc. 1962-63 t. cxxi, Classe di
scienze morali e lettere, p. 263.
65 Cfr. G. Fiocco, Felice Feliciano amico degli artisti, cit. Molte di queste lettere si
leggono in F. Feliciano, Epistole e versi agli amici artisti, cit.
66 Vedi supra, n. 53.
67 La missiva al Bevilacqua è priva di datazione. Tuttavia, si ha notizia di due
viaggi del Probi da Venezia verso Napoli, condotti rispettivamente nel ’73 e nel ’74.
Collocherei la presenza del Feliciano a Venezia nei mesi immediatamente precedenti
al secondo viaggio dell’ambasciate giacché, come si è visto, nel 1473 egli
sembra essere ancora stabilmente a Bologna. Cfr. X. Espluga, La carriera dell’ambasciatore
napoletano Angelo Probi, effimero “protettore” di Felice Feliciano, in «Archivio
Veneto», 12 (2016) (sesta serie), pp. 131-158.
68 X. Espluga, La carriera dell’ambasciatore napoletano Angelo Probi, effimero “protettore”
di Felice Feliciano, cit., p. 133.
[ 27 ]
36 cristiano amendola
(cc. 4r-8v).69 Proprio durante quel soggiorno in laguna il Feliciano potrebbe
avere conosciuto Luca e gli altri destinatari veneziani di Ve.70 A
quegli stessi mesi, ancora, risalirà anche l’inizio delle relazioni col vescovo
di Trento, il tedesco Giovanni Hinderbach, al quale, nel 1475,
dona un manoscritto contenente un libretto di carattere antiebraico, il
Prognosticon super Antichristi adventum di Giovanni da Lubecca.71
Forse fu proprio al seguito del vescovo che il Feliciano dovette
compiere un viaggio in Germania, prima di approdare, poco dopo, a
Ferrara, dove iniziò una collaborazione con lo stampatore ferrarese
Severino.72 È una lettera di Lo inviata ad Alberto Canonici nel novembre
del ’75 a rendere conto di questi spostamenti e ad informarci della
nuova attività tipografica intrapresa nella città emiliana (c. 143r-v):
Quella serà che renderà chiara la vostra mente del mio ben essere, e
dicavi come tornato sia di Germania già sono duo mesi, e poi capitato
a Vinesia, e finalmente qui gionto in Ferrara ove io ho assumpta provintia
imprimere alcuni libri, tra quali avemo impresso quello da le
menzogne, dil quale una copia te ne mando perché habii, ritrovandoti
fesso dal tuo studio, ristorar ridendo l’affaticato spirito. Excusomi non
69 cc. 4r-8v, datata xxix aquarii 1475. Ma lo sappiamo a Verona già nell’estate del
1474, ospite presso la dimora di Poiano di Gregorio Lavagnola (Vd. supra, p. 4). La
presenza a Verona, in questi primi mesi del 1475, è inoltre ancora confermata da
un’operetta, purtroppo oggi perduta, intitolata Una sceleragine de’ Giudei, stampata
nella città veneta il 22 maggio di quell’anno. Cfr. S. Spanò Martinelli, La biblioteca
del “Corpus Domini” bolognese: l’inconsueto spaccato di una cultura monastica femminile,
in «La Bibliofilia», lxxxviii (1986), pp. 1-23.
70 Altri corrispondenti veneziani della silloge sono: Antonio Marin (cc. 8v-11r),
Francesco Condulmer (cc. 14r-15v), Giovanni Bellini (cc. 20r-21r). Certamente attivo
a Venezia in quel torno di anni era, ancora, il pittore ferrarese Marco Zoppo (cc.
33r-34v). Una seconda lettera a Luca Marin è alle cc. 26v-29r (Vernonæ, penultimo
aquarii).
71 Oggi ms. 1659, conservato presso la Biblioteca del Museo provinciale d’Arte
di Trento. La compilazione del codice fu terminata a Padova nell’aprile del 1474 (di
mano di Felice: Patavii, calculatum (sic.) anno gratiæ millesimo quadrigentesimo
septuagesi[mo] qua[r]to de mense apriliis, c. 243), ma questo fu donato al vescovo solo
l’anno successivo (di mano dell’Hinderbach: Pronosticum (sic.) astonomicum de adventu
anthichristi 1526° messiæ ac prophetæ hebreorum, 1475° Venetiis. [Com]positum
per quondam doctum astrologum germanu[m] de Saxonia, c. 188). Cfr. Pro bibliotheca
erigenda: manoscritti e incunaboli del vescovo di Trento Iohannes Hinderbach, 1465-1486,
a cura di F. Leonardelli, Trento Provincia, Servizio beni culturali, 1989, scheda 48,
pp. 150-152.
72 Tale collaborazione durò, probabilmente, fino al marzo dell’anno seguente.
Cfr. L. Quaquarelli, “Intendendo di poeticamente parlare”: La bella mano di Giusto de’
Conti tra i libri di Feliciano, cit., pp. 196-197.
[ 28 ]
felice feliciano epistolografo 37
ti potere mandare l’Istoria Gallica di Drusillo, la quale più tempo fa fue
fornita, ma non è al presente presso di me.73
Proprio da Ferrara risulta spedita anche l’ultima lettera di Ve, indirizzata
all’arcivescovo di Ravenna Filasio Roverella in data 25 settembre
1475 (cc. 38v-41v).74 Stando all’intestazione, tuttavia, non ne fu il
Feliciano il mittente, bensì Francesco del Cossa, artista ferrarese che il
Nostro potrebbe avere conosciuto già durante il suo secondo soggiorno
Bolognese. Dietro l’accumulo di perifrasi astrologiche e di riferimenti
mitologici, tuttavia, non è difficile riconoscere la penna del Feliciano,
che, forse, aiutò l’amico a comporre la missiva.
La lettera di Lo poco sopra menzionata, datata, come si è visto, al
novembre 1475, risulta cronologicamente posteriore rispetto alla lettera
più tarda contenuta in Ve (settembre 1475). Quella stessa lettera di
Lo, inoltre, compare in Ve (cc. 22v-24r) priva di datazione e con alcune
modifiche. Non vi si fa cenno, ad esempio, né al viaggio in Germania,
né all’approdo a Ferrara. Accanto alla lettera, nel margine sinistro, il
Feliciano trascrisse, forse come promemoria, il nome del destinatario
di Lo, A. Canonico (c. 24v).
Anche la già vista lettera di Ve inviata a Luca Marin da Verona nel
gennaio del ’75, si ritrova in Lo con un destinatario mutato e con una
datazione più tarda: qui la missiva, indirizzata nuovamente ad Alberto
Canonici, figura spedita da Verona nell’ottobre del 1475 (cc. 130r-
134v). Sembra che al Canonici il Feliciano affidasse in quel momento
le proprie speranze per un rientro nell’amata città romagnola, e non
escluderei che proprio allora egli maturasse la decisione di dedicare al
prestigioso notaio bolognese quella silloge che andava mettendo insieme
forse fin dal 1471. Sta di fatto che la posteriorità cronologica
delle lettere della seconda parte di Lo sembra fornire un valido supporto
all’ipotesi di una posteriorità anche nella sua realizzazione.
73 Il testo cui si fa riferimento nell’epistola è l’operetta di Baldassarre da Fossombrone
intitolata il Menzognero overo Bosadrello (I.G.I. 1166), edita a Ferrara negli
ultimi mesi del 1475. L’Istoria Gallica di Drusillo è la novella Justa Victoria.
74 Si tratta di una responsiva ad una di Filasio Roverella inviata da Perugia
nell’agosto del ’74 (Ve, cc. 37r-38r). Il Roverella era legato papale a Perugia al
momento della missiva, mentre, dall’intestazione della responsiva, lo sappiamo
già arcivescovo di Ravenna, nomina che, in effetti, gli venne nel gennaio del 1475.
Questa lettera ha spinto gli studiosi ad individuare nell’arcivescovo un possibile
protettore del Feliciano. Non esistono, però, altri documenti a conferma dell’ipotesi.
[ 29 ]
38 cristiano amendola
3.3. Il Codice C.ii.14 della Biblioteca Querinana di Brescia: una silloge “inclusiva”
Certamente ultima, in ordine cronologico, è la silloge trasmessaci
dal codice Br.75 La raccolta fu probabilmente messa insieme durante
l’ultimo soggiorno romano dell’umanista, protrattosi dal 1478 ca. fino
al 1480 ca. La prima lettera a presentare una datazione risulta inviata
il 20 agosto del 1478 da Roma (c. 2r), mentre la più tarda, risalente al 4
agosto del 1479 (cc. 83v-84r), fu inviata dai boschi della Storta, nei
dintorni della città capitolina, dove si rifugiò per scampare ad un’epidemia
di peste e dove pure, probabilmente, trovò la morte. Nel gennaio
del 1479, intanto, si era iscritto alla confraternita di Santo Spirito e
Santa Maria in Sassia,76 e nell’aprile di quello stesso anno risiedeva nel
popolare quartiere Parione, area della città all’epoca posta sotto la giurisdizione
del suo protettore Francesco Porcari.77
Composto da 93 carte, prossimo a Lo per quanto riguarda l’ordine
dei componimenti che condividono, il codice Br si configura come una
vera e propria summa della produzione letteraria del suo autore. Nella
raccolta trovano spazio, accanto alle lettere agli amici e alle risposte
dei corrispondenti, un gruppo compatto di diciassette lettere fictæ che
danno vita ad un romanzetto amoroso in forma epistolare (cc. 59v-
70v), una vera e propria quæstio giuridica espressa ancora in forma
epistolare (cc 47r-48v), numerosi modelli privi di destinatario, e un
cospicuo numero di composizioni poetiche. Inoltre, il codice è testimone
di alcune delle più interessanti prove narrative del Feliciano, un
gruppo di lettere facete e di vere e proprie novelle epistolari.78 Privo di
75 R iflessioni sulla posteriorità di Br rispetto alle altre raccolte epistolari si leggono
in G. Pozzi e G. Gianella, Scienza antiquaria e letteratura: Il Feliciano. Il Colonna,
cit., pp. 468-469; L. Quaquarelli, Feliciano letterato nel suo epistolario, in
L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., pp. 150-151; A. Mulas, Note sull’edizione
dell’epistolario di Brescia e sull’edizione delle rime del Feliciano, cit., pp. 419-420; X.
Espluga, La carriera dell’ambasciatore napoletano Angelo Probi, effimero “protettore” di
Felice Feliciano, cit., p. 133.
76 Si ritrova, infatti, il suo nome, apposto manu propria, nei registri della confraternita,
in data die dominica xxiiii Januarii m°cccclxxix (cod. 328, c. 165, Biblioteca
Lancisiana di Roma). La notizia fu data dal Mardersteig nella sua Introd. a F. Feliciano,
Alphabetum Romanum, cit., p. 30.
77 È il Feliciano stesso a riferire la notizia in una lettera dell’aprile del 1479
conservata nella silloge Br (cc. 55r-v). Ragguagli sulla figura di Francesco Porcari
si leggono in A. Modigliani, I Porcari: storie di una famiglia romana tra medioevo e
rinascimento, Roma, Roma nel rinascimento, pp. 200-270.
78 Queste lettere erano ben note all’Arienti, che le riutilizzò come fonti del suo
[ 30 ]
felice feliciano epistolografo 39
una lettera dedicatoria – ma il manoscritto è acefalo –, la silloge è aperta
da un frontespizio sul quale si legge, in grosse capitali antiquarie, la
seguente iscrizione: Felix Felicianus Antiquarius. Materno sermone et soluta
oratio et amicum vernaculum carmen. Pro facundia et facultate Francisco
Portio viro ex romanæ nobilitatis stirpe præclara opusculum humiliter
impositum et dicatum (c. 1r). Concordemente con le altre raccolte del
Feliciano, dunque, la silloge intende offrire un prontuario di Ars oratoria
attraverso l’esibizione dell’abilità epistolare del suo compilatore.
Un’importante novità è, però, qui, l’estensione dei registri praticabili
nella composizione epistolare: a quelli aulici, tipici delle gratulatorie e
delle consolatorie, vengono ora affiancati quelli domestici e familiari
propri delle lettere facete, riconducibili alla tradizione delle forme del
racconto breve medievale e umanistico.79
Il massiccio intervento su mittenti e destinatari, messo in atto forse
novelliere. Sui rapporti di derivazione delle novelle arientesche dalle epistole del
Feliciano si vedano G. Pozzi e G. Gianella, Scienza antiquaria e letteratura: Il Feliciano.
Il Colonna, cit., p. 465 n. 28, e A. Mulas, Epistole e prosimetri inediti del Feliciano.
Fonti delle Porretane, in «Italique», x (2007), pp. 59-84. Sulla tradizione della novella
epistolare si vedano R. Bessi, La novella in volgare nel Quattrocento italiano:
studi e testi, in «Medioevo e Rinascimento», 12/n.s., 9 (1998), pp. 285-305; e M. L.
Doglio, L’arte delle lettere: idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento,
Bologna, Il Mulino, 2000, in part. il cap. i, Lettera come novella. Retorica ed exemplum
nella Storia di due amanti di Enea Silvio Piccolomini, pp. 13-28.
79 Direttamente dalla trattatistica retorica ciceroniana deriva la teoria della
conversazione familiare faceta come forma propria dell’otium e della relaxatio animi
(Cfr. De oratore, ii 216-219, passaggio noto come Excursus de ridiculis). La teoria è
riformulata dal Bracciolini nell’introd. alle sue Facetiæ, e ripresa poi, in maniera
più diffusa, nel trattato di Giovanni Pontano De Sermone e, dopo pochi anni ancora,
nel Cortegiano di Baldassar Castiglione. Questi scritti aspiravano a codificare in
maniera precisa i caratteri delle relazioni interpersonali di tipo amicale attraverso
una precisa definizione di temi e registri linguistici. La teoria della lettera, ancora
una volta ciceroniana, come “metà” di un dialogo che interviene tra interlocutori a
distanza propizierà l’intervento della scrittura novellistica – anch’essa, almeno in
teoria, riformulazione scritta di una performance orale – all’interno di quella epistolare.
Sui registri della novellistica l’umanista si era abbondantemente esercitato
nelle vesti di copista (nei codici Typ. 24 e 157 conservati presso la Houghton Library
di Cambridge, ricopiò novelle del Bruni, dell’Alberti, del Boccaccio, e anche alcune
anonime, tra le quali spicca quella, notissima, del “Grasso Legnaiuolo”), oltre
che, come si è visto, di autore in prima persona. Sui caratteri della “conversazione”
Quattro-Cinquecentesca si vedano G. Ferroni, La teoria classicistica della facezia da
Pontano a Castiglione, in «Sigma», xiii/2-3 (1980), pp. 69-93; G. Alfano, Dalla città
alla repubblica delle lettere: forme della conversazione e modelli della politica nel Cinquecento
italiano, Roma, Bulzoni, 2003, in part. alle pp. 17-80; A. Quondam, La conversazione:
un modello italiano, Roma, Donzelli, 2007.
[ 31 ]
40 cristiano amendola
da uno degli intellettuali della cerchia del Porcari,80 e le molte lectiones
singulares di cui è latore, hanno fatto spesso dubitare, come si è visto,
dell’affidabilità della raccolta. Numerose sono le lettere recuperate dagli
epistolari precedenti e qui attribuite agli stessi membri di quella
cerchia: dal dedicatario della silloge, Francesco Porcari,81 al bolognese
Iacopo Zaccaria, che al patrizio romano dedicò una raccolta di indirizzi
messa insieme su materiali probabilmente del Feliciano,82 al misterioso
personaggio celato dietro il nome umanistico di Publio Licinio,
cui è attribuita una silloge epigrafica ancora dedicata al Pocari, ma che
in realtà è autografa del Nostro (cod. Vat. Lat. 3616).83 Al Licinio, inoltre,
risulta attribuita pure una seconda silloge per il Porcari (cod. Hist.
Qu. 316, Württembergische Landesbibliothek di Stoccarda): giuntaci
attraverso una copia tardo-quattrocentesca, anche questa trasmette
materiali del Feliciano, cui, però, ne viene riconosciuta qui la paternità,
seppure solo per la sezione relativa alle iscrizioni epigrafiche veronesi.
84 La lettera indirizzata dal Licinio al Porcari in apertura di
quest’ultima raccolta epigrafica (c. 62r-v), inoltre, risulta ricalcata
sull’epistola dedicatoria che inaugura la raccolta epistolare trasmessa
da Ox (c. 1r-v), 85 e, come questa, figura accompagnata dal motto felicianesco
Deo et virtuti omnia debent. Assente nelle altre raccolte autografe,
ritroviamo la missiva anche in Br.86
Per le caratteristiche osservate in precedenza, la silloge bresciana
sembra rientrare a buon diritto in quel fenomeno di assimilazione –
quando non di appropriazione –, di materiali provenienti dallo scrittoio
del Feliciano presso quella cerchia di intellettuali che con lui trascorsero
gli ultimi anni della sua esistenza. Per il numero elevato di
lettere trasmesse, per la vastità di temi trattati, per la varietà di tipologie
epistolari qui riunite, essa resta, nonostante la sua non autografia,
la più interessante e affascinante tra le raccolte epistolari del Feliciano.
80 L. Quaquarelli, Feliciano letterato nel suo epistolario, in L’“Antiquario” Felice
Feliciano Veronese, cit., p. 150.
81 Di un noto parente di Francesco, Stefano Porcari, il Feliciano ricopiò anche
alcune orazioni. Vd. supra, n. 3.
82 Su questo manualetto Cfr. A. Mulas, L’“Inscriptionum Libellus” di Jacopo Zaccaria
e l’Umanesimo romana, cit.
83 La notizia è in L. Quaquarelli, Feliciano letterato nel suo epistolario, in
L’“Antiquario” Felice Feliciano Veronese, cit., p. 150. Su questo codice vd. supra, n. 35.
84 Ivi, p. 151.
85 Ibidem. Su questo codice vd. supra, n. 35.
86 Br 90, c. 56r-v e Br 95, c. 59r-v.
[ 32 ]
felice feliciano epistolografo 41
3.4. Prossimità tematiche e formali tra gli epistolari Ox e Br
Come la già menzionata lettera finita nella silloge epigrafica conservata
a Stoccarda, anche la lettera immediatamente successiva all’epistola
dedicatoria di Ox (cc. 1v-3r) non ha corrispettivi nelle sillogi
autografe, mentre figura nella raccolta trasmessa da Br (c. 2r). Proprio
come la dedicatoria, anche questa seconda lettera di Ox ci riporta agli
ambienti romani legati al misterioso Publio Licinio. Ne fu destinatario,
infatti, un personaggio che, come sembrano suggerire ben due
epigrafi funerarie ricopiate proprio nella raccolta di iscrizioni di Stoccarda,
del Licinio fu forse l’amante: Flavio Aminta.87 Dalle epigrafi
scopriamo, inoltre, che l’Aminta, così come il Licinio, si dedicò nella
sua vita agli studi letterari. Il ritratto trova conferma nella lettera inviatagli
dal Feliciano (Ox 2, c. 2r):
Io me ricordo già, tra tutte le tue voluptà, esser la prima il studio dele
liberali arti, et in quelle vederti tanto occupato che quasi ad uno Carneade
ti assimigliai. Le qual cosse mi persuade che non poco conosci
quanto sia indissolubile il legame di questa amicicia, sapendo che fusse
più noto Horreste ad Pillade che ad Agamennone il padre, et questo
di noi due si pò veramente narrare.
Il profilo tratteggiato da queste fonti sembra ricondurre l’Aminta a
quella cerchia di intellettuali frequentata dal Feliciano durante il suo
soggiorno romano. La presenza di questo oscuro personaggio tra i destinatari
della raccolta trasmessa da Ox, allora, indurrà a supporre
che, al momento della compilazione della silloge, i contatti con il cenacolo
del Porcari dovessero essere in qualche modo già avviati.
Ad arricchire la prosopografia di personaggi del mondo romano
presenti tra i destinatari di Ox, interviene un’altra figura che ritroviamo
esclusivamente in questa silloge (Ox 22) e in Br (125, cc. 81v-82r),
l’innocente e pudico giovane Gregorio Sasso.88 Nobilis vir del quartiere
87 La prima, presente anche nella silloge autografa del Feliciano attribuita al
Licinio (Vat. Lat. 3616, c. 39v), recita: d. m. P. Licinii et Fl. Amintæ cinerib. hic locu
sacer est: vix unani (f. 112’). La seconda, trascritta sulla superfice di un’urna disegnata
al f. 109, recita: d[is] d[eabus] s[acris] unra brevis geminum quamvis tenet
ista cadaver, attamen in coelo spiritus unus adest. Viximus unanimes Licinusque et
Flavius; idem sensus amor studium vita duobus erat. Ricavo il testo delle epigrafi
da T. Mommsen, Di una nuova silloge epigrafica del secolo xv, in «Bollettino dell’Imperiale
istituto Archeologico di Germania. Sezione romana», v (1890), p. 86.
88 Mittente della lettera di Br, inviata dalle Silve della Storta a dì xxv Luio 1479,
risulta, però, un certo Dominico.
[ 33 ]
42 cristiano amendola
Parione,89 il Sasso, definito nell’intestazione della lettera di Ox romano
musarum alumno, 90 ebbe con Feliciano, stando a quanto riferito nella
lettera, uno scambio epistolare su temi di carattere erotico.91
Un altro personaggio ancora, tale Picarda, figura esclusivamente
nella breve raccolta Ox e in Br. In Ox 23 ritroviamo il Feliciano intento
a discolparsi dall’accusa infamante di essersi intrattenuto con questa
in conversazioni lascive.92 Nella lettera Br 49 (cc. 30r-31r), invece, Picarda
figura impegnata in conversazioni cortesi con Francesco Porcari
e altre gentili signore della nobiltà romana nei giardini del gentiluomo
Astolfo de’ Conti.
Benché il Feliciano si fosse spesso recato a Roma, mosso dalla sua
passione per le iscrizioni antiche, fin dagli anni della gioventù, nessuno
di questi personaggi compare nelle altre raccolte autografe. In particolare,
è rilevante che di essi non vi sia traccia nella ricchissima raccolta
Lo, che, come sappiamo, il Feliciano andò incrementando nel
corso di un cospicuo numero di anni e che ultimò, probabilmente, nel
’76. Questo stato di cose fa pensare che le frequentazioni con questi
personaggi del mondo romano possano essere intervenute proprio nel
corso di un soggiorno posteriore alla chiusura di Lo.
Sono indizi, questi, che, pur nel loro insieme, certo non costituiscono
una prova, ma che pure possono rappresentare un punto d’inizio
per un ulteriore percorso di ricerca che, si spera, possa finalmente fornire
definitiva soluzione a questa intricata e affascinante questione.
Anche elementi di natura non strettamente prosopografica, ad
ogni modo, sembrano avvicinare le raccolte Ox e Br. Questi epistolari,
infatti, rivelano una certa comunanza di temi e di registri espressivi.
La lettera Ox 21,93 ad esempio, affronta esplicitamente un argomento
solo accennato nelle altre raccolte, e trattato con una certa frequenza
nella silloge trasmessa da Br: quello dell’amore omosessuale. La forte
89 Cfr. l’Indice ragionato dei nomi di persona e di luogo a cura di A. Modigliani, di
M. A. Altieri, Li nuptiali, pubbl. da E. Narducci, intr. di M. Miglio, Roma, Roma
nel Rinascimento, 1995, p. 124.
90 Per l’intestazione della lettera, vd. l’elenco delle lettere di Ox a p. 11.
91 c. 25v: «Havia quasi tolta ultima licentia il delphico idio da la virginal casa
del cielo, per voler rivedere l’antiquo albergo de la Statera vicina del freddo et venenoso
animale, e sua sorella nel amplo cerchio dimorando mandava a la terra
humidi raggi, quando l’amico, percotendo la porta delle nostre case, mi significò
haver tue littere. Le quale con lieta fronte ricevute, intesi te esser dinovo caduto nel
visco che sparge cupido in ogni parte del mondo […]».
92 Vd. Appendice.
93 Vd. Appendice.
[ 34 ]
felice feliciano epistolografo 43
caratterizzazione faceta riscontrabile in molte delle lettere del codice
Br, inoltre, trova riscontro nella lettera Ox 25, della quale restano, purtroppo,
solo poche righe finali.94
La presenza di corrispondenti provenienti dal mondo intellettuale
e della nobiltà romana dell’ultimo quarto del secolo, la condivisione
di temi e di registri espressivi con la silloge prodotta proprio in quell’area,
e la condivisione, infine, con Br, di lettere assenti nella ricca raccolta
Lo, suggeriscono che la composizione di Ox sia da ricondurre a ridosso
degli ultimi anni di vita del Feliciano, trascorsi dall’umanista
nella città capitolina tra il 1478ca. e il 1480ca.
Cristiano Amendola
Università di Liegi
Appendice
Criteri di edizione: Si segue nella trascrizione un criterio di conservatività,
uniformando il testo secondo l’uso moderno per quanto riguarda gli a capo, la
divisione delle parole, la regolarizzazione delle maiuscole e delle minuscole,
l’inserimento di segni diacritici e interpuntivi e lo scioglimento delle abbreviazioni.
Si uniscono, inoltre, le preposizioni articolate lì dove nel testo appaiano
disgiunte (a la > ala); si disgiunge la grafia unita di congiunzione più articolo
secondo il modello chel > che’l; si rende la grafia unita di congiunzione
o pronome più pronome secondo il modello chel > ch’el, mel > m’el. Ancora, si
segue l’uso moderno nella distinzione tra v e u, e si sostituisce i a j e z a ξ;95 si
conservano i grafemi ç e h, x, y etimologici (e paraetimologici); si conserva il
grafema h in ch seguito da vocale centrale o posteriore; si conservano i nessi
bs, ps, ct, pt, dv, fl, pl, ns, e l’alternanza ti/ci seguiti da vocale.
Ox 2 (cc. 1v-3r)
La lettera, un elogio dell’amicizia attraverso esempi tratti dal mondo antico,
propone una vera e propria epitome volgarizzata del par. 7 (De amicitia) libro
iv dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo. Gli esempi sono presentati
nello stesso ordine e secondo la medesima strategia argomentativa della
fonte, con la giustapposizione di facta tratti dal mondo latino (domestici) e facta
tratti dal mondo greco (externi). La missiva offre un campione ben rappresentativo
della prosa adottata dal Feliciano nei generi epistolari aulici. Trasmessa
parzialmente anche da Br, se ne riportano le varianti in apparato (righe 20-29).
94 Vd. Appendice.
95 Sull’uso, da parte del Feliciano, di tale grafema greco per l’indicazione delle
affricate dentali si veda F. Riva, Saggio sulla lingua del Feliciano dalle “Epistole agli
amici, cit., pp. 280-281.
[ 35 ]
44 cristiano amendola
Modestatis et eloquentiæ iuveni Flavio Amynthæ
sacri Apollinis camerario ac musarum alumno96
1
5
10
15
20
25
30
35
40
A te non die esser oscuro, cieneroso iovene, quanto sia tenace il vinculo
del’amicicia,96 havendone per dui testimonii alcun signali: el primo,
per lo contubernio urbanissimo tuo, essendo stato longo tempo in
noi commune el volere, se dela mente tua non è ussito il tuo dilecto
Feliciano; il secondo, per le domestiche historie romane e per le externe
similmente, se punto tieni del costume, [2r] qual tu tener solevi,
essendo vigile e desto a cotal studio et di ogni historia curioso lectore.
Io me ricordo già, tra tutte le tue voluptà, esser la prima il studio
dele liberali arti, et in quelle vederti tanto occupato che quasi ad uno
Carneade ti assimigliai. Le qual cosse mi persuade che non poco conosci
quanto sia indissolubile il legame di questa amicicia, sapendo
che fusse più noto Horreste ad Pillade che ad Agamennone il padre:
et questo, di noi due, si pò veramente narrare.
Inimico dela patria esser stato Caio Gracco niuno non dubita, e da
quella fugato rimase il suo amico Blosio Cumano, il quale, constituito
denanci al senato, e da Lenate et Rutilio adimandato se nel tempio di
Iove Optimo Maximo havesse del foco poste le fiamme, dicendolo
Gracco per la iactantia di tanta amicicia, il quale haverlo facto del tutto
afirmava, se questo Gracco commandato li havesse. Né hebbe timore
con franco parlare confessar l’amicicia; né volse, poco existimando
la morte, per honesto silentio o prudente sermone tenerla celata. Che
dirò io di Pomponio e Lectorio, per lo medesimo Gracco, uno, nella
trigemina [2v] porta morto di ferro, e l’altro, con celere corso, del ponte
Sublicio nel Tevere saltando, cadersi? E Lucio Rhegino, tribun dela
plebe, trahendo Cepio del carcere oscuro dela sua patria, con maxima
fuga spontaneo tolse lo exilio? Et Volumio, nela amicicia di Lucullo
constante, havendo di Brutto e Cassio seguita la parte, nel conspecto
di M. Antonio morte sostenne? Parli la Grecia di Peritoho e Theseo
l’amore, nephando nel esser disceso nel regno del padre de Dite: vano
è questo a narrare, et più a crederlo stulto.
L’animo mi si acosta ale historie domestiche, ma passiamo ale externe,
che ignorando la madre di Dario,a nel costume di Persia, Ephestio
salutando, credendossi salutare Alexandro, pentita del fallo, fece sua
scusa, ala quale Alexandro risposeb esser Ephestione nelle sue delicie
un altro Alexandro? Né per minore amicicia esser stato si trova in
Pompeo Valerio Maximo, qual fusse Ephestione Alexandro.
Ma per non navigare con mia debile barcha l’alto pelago di questa
amicicia, [3r] non ti esca dal core il tuo Feliciano,c né mi ascriver peccato
s’io sia stato tardo nel scriverti, che, havendo commesso el cala-
96 Postilla nel margine sinistro: Amicitiæ vinculum tenax, che ricalca Val. Max.,
Facta et dicta memorabilia, iv, 7: Amicitiæ vinculum potens et prevalidum.
[ 36 ]
felice feliciano epistolografo 45
45
mo errore, non è per questo maculata la mente, nella quale la tua viva
imagine vive et viverà per tutto il seculo sempre. E di tua mano non
tardi una epistola a farmi intendere di tua salute,d et quando la tua
felice tornata debb’io sperare. Rimanti con Dio, honore della patria, e
di nostra amicicia habii memoria, ala quale desidero che si faci fortuna
felice, fausta, serena e fecunda.e
Apparato: Br 1: a: che la madre di Dario ignorando; b: rispose Alexandro; c:
cum questa mia debel barcha l’alto pelago di questa amicitia in volerti quelle
cosse descrivere che ’l tuo florido inzigno melio cogosce (sic.), gitando l’anchore
sorgo (sic.) la nave, pregandoti che ’l felice vinculo di questa amicitia
non ti esca dil cuore, ricordandoti spesso di Feliciano, quanto lui del suo Hortensio
ricorda; d: E di tua mano non tardi una picola littera a farmi certo dila
tua salute; e: honor degli amici e dele muse vero compagno. Rome, xi Kalendas
celestis libre 1478.
Ox 21 (cc. 23v-25r)
La lettera ripercorre una topica diffusissima nell’epistolografia amorosa,
quella dei lamenti dell’innamorato tormentato dall’indifferenza della persona
amata. Nella missiva non si evincono elementi che consentano di riconoscere,
dietro i nomi classicheggianti dei personaggi, il Feliciano o qualcuno dei suoi
corrispondenti. Né appare chiaro, del resto, se la lettera sia reale o se debba
essere considerata piuttosto come un esercizio di stile. Sull’omosessualità del
Feliciano si veda la n. 2 di questo lavoro.
Hortensio Philadelpho per l’amore de Nicostrato
Pandoro l’uno e l’altro adoloscente97
1
5
10
Quanto più mi si ravolge nella mente la memoria delle passate cose,
del’amore e dela fede seminata in sterile campo, et quanto più considero
la incostantia delle humane cose, et come questo inganevele mondo
è pieno di tradimento e fallacia, tanto manco mi è cara la vita, et più
ferventemente desidero la morte. Ma lei, come sorda, fuggie da chi la
dimanda, et continuo seguita chi non la vole, et per questo conosco esser
vero il proverbio: che al misero una sol salute è, de mai sperare alcun
conforto.97
Io, adunque, ritrovandomi nel più profondo loco della roda di questa
[24r] fortuna, porto invidia a quel che è peggio morto, e maledico el
giorno che mai gionsi in questa misera vita, poiché uno amore honesto
e sancto, come sa chi ’l vide, sia pagato de villano scilentio e di perfidia,
97 Postilla nel margine sinistro: Una salus miseris, nullam sperare salutem, che ricalca
Publius Vergilius Maro, Æneis, ii, 354: Una salus victis, nullam sperare salutem.
[ 37 ]
46 cristiano amendola
15
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25
30
35
40
45
50
perché non credo che uno algido laçio, creato sotto il freddo aquilone
di tramontana, mai se riscaldi. E quale è sì rigido tigre, o leone africano,
o statua di fredissimo marmo che, havendoli scripto con tanta dilectione
et modestia, non havesse risposto et facto signale di qualche amore?
Certo, non credo che le dure querce de Lidia o li sordi mari delo Helespontho,
quantunche essi inanimati siano, supportassero de non fare
signo di qualche risposta. La quieta fonte di Phileno ale suave parole di
Philocolo, saltando con gorghi moventi, tutta tremando, parlò, e lo infestato
arbore de Idalago agli altrui prieghi diede dolce risposta.
Né posso considerare di haverti in niuna cosa offeso, salvo se io non
havesse fallito in troppo amarti, overo che io havesse male operato
quando te ricolsi nelle mie brace, nel tempo che fusti abandonato dal
tuo fratello per infirmità di peste.
Io non volia scrivere questa parola, perché non havesti a dire che io ti
exprobasse [24v] alcun beneficio, ma lo exmisurato dolore che io sento
nel pecto m’el fa dire, sapendo che ad un gentilhomo la più vil cosa che
sia s’intende la roba e ’l denaro, e la più preciosa l’amore e la fede;98 ma
io posso dire che né l’uno né l’altro valso mi sia. Certo, se il principio o
il mezo di questo amore mai per alchun tempo fusse per me stato lassivo
né turpe, io direi che meritamente della mia opera io fusse pagato,
che se ad amare sancta Ursula o qualunche nel cielo più vergine o casta
mi fusse disposto, io non saprei con più honestate haverli mostrato il
core mio quanto io ho facto verso di te. Come pò adunque consentire
questo Natura, che le mie parole inexorabile siano presso il tuo cuore?
Io credia che, nel tempo passato, havesti veduto in me qualche costume
et qualche signo d’amore, qualche virtù, benché non sia Eschine o Demosthene,
per la quale meritasse di essere amato da te. Ma tutto l’oposito
vedo e conosco, perché posso maledire quel giorno che gli ochi mei
vider li toi, che s’io li havesse drizati nel basilisco non ne serei peggio
contento.
Vagliami in questo il tuo perdono se troppo oltre mi stendo parlando,
perché questa littera dolente [25r] viene a te come ultimo testamento
del dolor mio, e voglio che le tue orechie per questa volta siano un poco
svegliate ad questa querella, con proposito di mai più quelle festare. Io
vado in Panonia dimane col mio reverendissimo signor cardinale, et
priego Idio che più felice faci questa mia andata che la mia speranza
non mi promette,99 perché la civveta et il bubone e ’l corbo, cantandomi
al lato sinistro di giorno in giorno, peggio mi anuntia, e de ogni male el
mio spirito è presago, et questa sconsolata anima non sa ussire del tristo
albergo. Io non ho scripte queste parole per volerti movere dal tuo pro-
98 99
98 Postilla nel margine sinistro: Ingenuis nil re numisque vilius, nil amore fideque
preciosius.
99 Postilla nel margine destro: Iter comprecatur sibi prosperum.
[ 38 ]
felice feliciano epistolografo 47
55
60
posito, neanche perché io speri che quelle facino alchun fructo, né per
darti tristitia, ma io l’ò facto per evomitare l’asenzo del’amaritudine che
sente il core mio.
E per non esserti troppo molesto con questa ultima conclusione, ti
lasso, che tanto Idio ti faci beato quanto al presente mi trovo infelice. E
nel extremo del mio parlare qualche salute ti lassaria, quando io l’avesse,
ma non l’avendo la posso promettere. Idio, per sua infallibile misericordia,
ale mie triste giornate presti bon fine, a ciò che il100 misero corpo
inseme con l’anima partendossi di questo seculo, ussendo di tanto
affanno con quiete e con pace se ripossi.
Ox 23 (cc. 26v-27r)100
La richiesta a Lanzilago di un mantello che un comune amico gli avrebbe
sottratto, sembra essere, in realtà, solo il pretesto dell’invio di questa lettera.
Ciò che sta davvero a cuore al Feliciano è discolparsi da un’accusa infamante:
quella di essersi, cioè, intrattenuto in conversazioni piccanti con madonna Picarda.
Chiude la lettera un sonetto in cui si scaglia contro i turpi chiacchiericci
del volgo.
Feliciano ad Lanzilago dice che Herminio con parole ridicule li ha
tolto il suo vestito di volpe con oppinione de mai nol rendere
101 102
1
5
10
Veduta da Dyoniso di Iove la toga e de Epidauro la barba, mosso dal
suo solito riso, dixe non conveniesi la state portare grave il mantello, et
stulta cosa esser barbuto il figliolo, imberbe trovandossi il padre.101
Cossì ha facto il mio Herminio Firmano che, vedendomi indosso di
luglio el mio vestito di volpe, non però molto diforme per queste frede
montagne onde mi trovo, mi dixe che ’l mio dicalvato mantello bastava
a questi tempi portare, e lui, non havendo la nocte coperta, haver bisogno
di questo vestito, et hasselo seco portato.
Seràmi caro che, vedendo Herminio Firmano, li ricordi che rimandi
il vestito, perché li venti che sono in queste alpe alcuna volta mi fomo102
suffiar sule mani.
Et perché il tuo nuntio a me mandato non venghi voto de mie littere,
intenderai come, iniustamente criminato dal vulgo, fu dicto che, parlando
con madona Picarda, havesse seco dishonesto sermone [27r] de
100 al nel ms.
101 Postilla nel margine sinistro: Stultum ut barbatus sit filius, imberbis pater. L’episodio
è narrato da Marcus Tullius Cicero nel De natura deorum, iii, 83 e ripreso
in Valerius Maximus, Facta et dicta memorabilia i, 2, 3.
102 Sic.
[ 39 ]
48 cristiano amendola
15 coito, et per questo modo è criminata la mia innocentia. A me interviene
come al bono heremita, il quale103 cavalcava l’asino col chierico suo.
Non ho potuto contener il calamo ch’io non invehisca con alchun
versi contra del vulgo. Rimànti con Dio, homo festevelle,104 e del tuo
Feliciano habii memoria.
103 104
Aspro, crudele, inexorabil vulgo,105
Speluncha rimanthea et nigro inferno,
Pestifero, malvaso e oscuro Averno,
Prophanato sia me se mai te indulgo!
Ché, per tua atroce lingua, ognor rifulgo
Sotto il fucille del tuo foco æterno,
Che risagal e venen in fiamma estherno
Da le tue poppe triste premo e mulgo!
Hai tu sì poco a fare del tuo negocio
Che, s’io parlo con donna, e tu procace
Dichi che di lascivia io parlo seco?
Segui con altro stille el tuo vil ocio,
E lassami parlar con cui mi piace,
Doppo che io non son Cacho o Synon græco!
Ox 25 (c. 28r)
Proprio come in una cornice di tipo novellistico, la lettera trasmette il resoconto
di una conversazione faceta intervenuta tra un medico e una certa madonna
Licisca. Quest’ultima richiama, nel nome come negli atteggiamenti, la
celebre cuoca boccaccesca che, col servo Tindaro, ritroviamo discutere della
verginità delle donne e degli amori extraconiugali nell’introduzione alla vi
giornata del Decameron, non a caso dedicata ai “leggiadri motti” e alle “pronte
risposte”. Come nel modello qui richiamato, il salace motto di spirito della
donna si sviluppa su di un licenzioso doppio senso.
106 107
1
5
[…] molto riso d’una parte e del’altra, venimo in sermone qual carote
meglio piacesse a le femine: le grande, le mezane o le picole. Al qual
medico, madona Licisca rispose che le mezane più piaceva ale femine,
perché dele grande non si atrovavano al mondo.106 Vedereti se nel libro
de’ Sapienter dicta107 mai trovasti cossì prudente parola!
Un altro giorno meglio diremo, e per lo dì di hoggi questo ti basti.
103 qale nel ms.
104 Sic.
105 Postilla nel margine destro: Prophanum vulgus suspiciosum.
106 Postilla nel margine destro: Membra fe[mi]nis placen[t] mediocria, quia non reperiunt
magna.
107 Così è intitolato il par. 2 libro vii dei Memorabilia di Valerio Massimo.
[ 40 ]
ARTURO MAZZARELLA
«Il poeta moderno». Sulla poesia ingenua e
sentimentale di Leopardi
Il saggio analizza la svolta leopardiana che, attorno al 1819, segna il passaggio
dall’”immaginazione” al “sentimento” e fonda una definizione del “poeta moderno”,
come filosofo, capace di superare le illusioni offerte dalla poesia del
passato con la consapevolezza di una nuova condizione della poesia e di chi la
pratica. Ricordando Hölderlin e Keats o Schiller, si analizza il passaggio da una
Stimmung “fantastica” ad una “sentimentale”. Per Leopardi solo gli antichi
erano poeti, ma la nuova consapevolezza del moderno consente di cogliere ed
enfatizzare la distanza tra immagine e vero e disegnarne la loro radicale divergenza.

This essay looks at the shift in Leopardi’s writing around 1819 from “imagination”
to “sentiment” and offers a definition of the “modern poet” as a philosopher
who is able to go beyond the illusions conjured up by previous poetry
through an awareness of the new condition of poetry and of its practitioners.
With reference to Hölderlin and Keats or Schiller, it looks at the passage from a
“fantastic” Stimmung to a “sentimental” one. According to Leopardi, only the
ancients were true poets. However, a new awareness of modernity makes it
possible to perceive and emphasise the distance between image and reality,
highlighting their radical divergence.
Se c’è una scansione che nell’itinerario intellettuale di Leopardi ha
il valore di una svolta cruciale, questa è sicuramente la ‘conversione’
filosofica del 1819. E non potrebbe essere altrimenti, dato il risalto che
lo stesso Leopardi le attribuisce in un’annotazione dello Zibaldone datata
1-2 luglio 1820:
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo
spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i
miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cerca-
Autore: Università Roma Tre; prof. ordinario; mail: arturo.mazzarella@uniroma3.
it
50 arturo mazzarella
va sempre di profittare riguardo alla immaginazione. […] Non aveva
ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume.
[…] In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come
quello degli antichi. […] La mutazione totale in me, e il passaggio dallo
stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819.
dove privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso,
cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente
sopra le cose, […] a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era),
a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo
anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava
dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. […] E s’io mi metteva a far
versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era
quasi disseccata; […] bensì quei versi traboccavano di sentimento. Così
si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi,
e non sono ora se non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno
questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni
sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile
alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo1.
È un passo fin troppo noto, ma merita ancora un’attenta considerazione,
dal momento che offre la possibilità di ricostruire la genesi di
una vocazione filosofica così spiccata e resistente da configurarsi, nel
corso degli anni, come un’attività coltivata con la stessa cura e dedizione
che Leopardi riserva al proprio esercizio letterario. Anzi, con
tale cura e dedizione da accreditare legittimamente nei suoi posteri
una duplice immagine di sé: poeta e, insieme, filosofo.
Prima di costituire un problema – un inaggirabile problema – per
tutti gli interpreti dell’opera leopardiana, la coesistenza di queste due
immagini non è certo pacifica per lo stesso Leopardi. Le singole tappe
attraverso le quali egli delinea, nel passo dello Zibaldone appena citato,
il processo della propria ‘conversione’ disegnano, infatti, uno scenario
solcato da aspri contrasti; scandito, soprattutto, da una cesura brusca,
traumatica: tanto da escludere decisamente la possibilità di una naturale
osmosi tra poesia e filosofia. Due modelli conoscitivi regolati da
un’irriducibile conflittualità reciproca, come Leopardi ha modo di
sperimentare personalmente trasformandosi da «poeta» in «filosofo
di professione».
1 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di
Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 1991, pp. 143-144 (il numero di pagina si riferisce
all’autografo leopardiano. Da ora in poi tale edizione sarà citata con la sigla
Zib.).
[ 2 ]
sulla poesia ingenua e sentimentale di leopardi 51
Non a caso, fin dall’inizio della propria narrazione retrospettiva,
Leopardi dispiega la sua «mutazione» intellettuale secondo le cadenze
di un malinconico congedo. È il mesto distacco che puntualmente
ricorre in ogni Bildungsroman: quando il protagonista abbandona l’epoca
della felice infanzia per entrare nell’età adulta, in uno stadio segnato
dall’ineludibile esperienza del dolore. Tale è, per Leopardi, il
definitivo riconoscimento che, «perduta la fantasia», egli è diventato
«insensibile alla natura». Si vede costretto, di conseguenza, a indossare
i panni di un fedele e integerrimo custode del «vero»: di un «filosofo
di professione», appunto. Per un poeta i cui «versi erano pieni d’immagini
» – come Leopardi si definisce –, consegnarsi interamente all’esercizio
di una ragione protesa verso la conoscenza del vero, disposta
a prendere atto dell’«infelicità certa del mondo», è un processo senza
dubbio traumatico, ma nello stesso tempo necessario, irrevocabile.
La perdita della fantasia non è, infatti, solo oggetto di rimpianto da
parte di Leopardi. È il risultato di una «mutazione» che, per essere
davvero accettata, gli richiede un perentorio scatto conoscitivo. Gli richiede
di analizzare capillarmente le ragioni di un trapasso che appare
come un «passaggio dallo stato antico al moderno». Leopardi sa di non
potersi sottrarre a questa esigenza conoscitiva. Proprio perché le antiche
immagini non sono, per lui, un semplice strumento espressivo al
servizio dell’arte poetica, ma il medium linguistico che gli è immediatamente
congeniale, egli non può evitare di interrogarsi sulla loro improvvisa
usura; sulla dissoluzione di quell’antica armonia che regolava
in un perfetto contrappunto i suoni della natura e la voce del poeta.
All’impenetrabile mutismo nel quale si è chiusa la natura, il poeta
– quel poeta «moderno» con cui si identifica Leopardi – oppone un
impasto di dolenti riflessioni, di martellanti domande. Ricapitolate
con esemplare pregnanza nella Primavera.
Perchè i celesti danni
Ristori il sole, e perchè l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s’avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d’amor desio, nova speranza
Ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l’atra
[ 3 ]
52 arturo mazzarella
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch’amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie2?
Sono le stesse riflessioni, le stesse domande di cui si alimenta il
canto di Hölderlin:
Seliges Griechenland! ! du Haus der Himmlischen alle,
Also ist wahr, was einst wir in der Jugend gehört?
Festlicher Saal! der Boden ist Meer! und Tische die Berge,
Wahrlich zu einzigem Brauche vor alters gebaut!
Aber die Thronen, wo? die Tempel, und wo die Gefäße,
Wo mit Nektar gefüllt, Göttern zu Lust der Gesang?
Wo, wo leuchten sie denn, die fernhintreffenden Sprüche?
Delphi schlummert und wo tönet das große Geschick?
Wo ist das schnelle? wo brichts, allgegenwärtigen Glücks voll,
Donnernd aus heiterer Luft über die Augen herein3?
Nel dialogo intessuto da Leopardi con la Primavera a risuonare
nelle sue tonalità più vivide e cristalline non è solo la voce di Hölderlin,
ma anche quella di Keats. Di Keats mentre si rivolge all’usignolo:
Fade far away, dissolve, and quite forget
What thou among the leaves hast never known,
The weariness, the fever, and the fret
2 G. Leopardi, Alla Primavera, o delle favole antiche, vv. 1-22, in Id., Canti, edizione
critica di Emilio Peruzzi, I, Milano, Rizzoli, 1998 (I ed. 1981), p. 193.
3 Friedrich Holderlin, Brod und Wein, vv. 55-64, in Id., Sämtliche Werke, Grosse
Stuttgarter Hölderlinausgabe, a cura di Friedrich Beisner, Stuttgart, Cotta,
1943 sgg., II, 1, pp. 91-92 («O Grecia felice, dimora di tutti i Celesti, /dunque udii
il vero nella mia giovinezza?/Una sala festosa. Pavimento è il mare, i monti/le
mense, erette a questo dall’origine dei tempi./Ma dove sono i troni? e i templi? e i
crateri/colmi di nettare? un canto per la gioia degli Dei?/I loro detti luminosi dal
compimento lontano?/Delfi dorme, non ha voce il grande evento,/ il rapido evento?
e quello che balena col tuono/ nell’aria limpida colmo di onnipresente gioia?»,
Pane e vino, in F. Holderlin, Le liriche, a cura di Enzo Mandruzzato, II, Milano,
Adelphi, 1977, pp. 115-117).
[ 4 ]
sulla poesia ingenua e sentimentale di leopardi 53
Here, where men sit and hear each other groan;
Where palsy shakes a few, sad, last gray hairs,
Where youth grows pale, and spectre-thin, and dies;
Where but to think is to be full of sorrow
And leaden-eyed despairs,
Where Beauty cannot keep her lustrous eyes,
Or new Love pine at them beyond to-morrow.
Away! away! for I will fly to thee,
Not charioted by Bacchus and his pards,
But on the viewless wings of Poesy,
Though the dull brain perplexes and retards:
Already with thee! tender is the night,
And haply the Queen-Moon is on her throne,
Cluster’d around by all her starry Fays;
But here there is no light,
Save what from heaven is with the breezes blown
Through verdurous glooms and winding mossy ways4.
Come per Keats, e come per Hölderlin, anche per Leopardi compito
supremo del poeta è ripercorrere l’intero tracciato che dalle vette
del Parnaso lo ha condotto sui lembi aridi e scoscesi di una terra desolata.
Se questo doloroso itinerario significa, per Keats, accarezzare le
lusinghe della poesia, sapendo, però, che il poeta «è certamente la più
impoetica di tutte le Creature di Dio»5, per Hölderlin si incrocia con il
dovere di misurare l’incolmabile distanza che separa gli dei dagli uo-
4 John Keats, Ode to a Nightingale, vv. 21-40, in Id., The Complete Poems, a cura
di M. Allot, London, Longman Publishing Group, 1972 – I ed. 1970 –, pp. 526-528
(«Sparire lontano dissolvermi, e dimenticare poi/Ciò che tu, tra le foglie, non hai
mai conosciuto:/La stanchezza, la malattia, l’ansia/Degli uomini, qui, che si sentono
soffrire,/Qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,/Dove la
gioventù impallidisce, si consuma e simile a un fantasma muore,/Dove il pensare
stesso è riempirsi di dolore,/E la disperazione regna, dalle ciglia di piombo,/Dove
la bellezza vede spenta la luce dei suoi occhi/E l’amore nuovo non riesce a piangerla
oltre il domani.//Andarsene, andarsene. E arrivare da te,/ Non portato da
Bacco e dai suoi leopardi,/Ma sulle ali della poesia, invisibili,/Anche se la mente,
lenta, ha perplessità e indugi:/E lì, con te, subito la notte è tenera/Con la sua luna
regina sul trono/E le fate stellate tutt’intorno:/Qui, invece, adesso, non ce n’è più
di luce, niente,/Se non quella che dal cielo è soffiata/Giù dal vento, nel buio verde
e tortuoso di muschio», Ode a un Usignolo, in J. Keats, Poesie, a cura di Silvano
Sabbadini, Milano, Mondadori, 1996, pp. 283-285).
5 «A Poet […] is certainly the most unpoetical of all God’s Creatures»: così si
esprime Keats in una celebre lettera del 27 ottobre 1818 a Richard Woodhouse (cfr.
The Letters of John Keats, a cura di Edward Rollins, I, Cambridge (Mass.), Harvard
University Press, 1958, p. 387; una traduzione italiana di questa lettera si trova in
[ 5 ]
54 arturo mazzarella
mini6. Per Leopardi, invece, ripercorrere le varie tappe attraverso le
quali si è snodata la dissoluzione delle «favole antiche» equivale a
diventare «filosofo di professione»: ad affidare al lavoro della ragione
il compito di verificare la fallacia di quelle immagini che costituivano
la lingua materna degli antichi.
È questa l’esigenza che spinge progressivamente Leopardi a integrare
la propria esperienza poetica con l’esercizio della puntuale riflessione
svolta nello Zibaldone. Le episodiche sortite teoriche di Keats
e di Hölderlin si complicano e arricchiscono grazie all’autonomo ordine
discorsivo entro il quale Leopardi inscrive la propria meditazione.
Un ordine frammentario, labirintico, certo; ma tutt’altro che casuale:
regolato, anzi, dalla più serrata compattezza logica. Sarebbe meglio,
comunque, non interpretare letteralmente le parole di Leopardi; non
lasciarsi suggestionare dai termini che egli adopera.
Mentre sembrerebbe, infatti, congedarsi dalla poesia, marcando il
netto stacco operato dalla propria ‘conversione’ filosofica, ecco che Leopardi
ripropone ancora una volta l’ambito della scrittura poetica come
tramite espressivo privilegiato. Chi è, per lui, il «filosofo di professione
» se non il poeta moderno»? Leopardi – nel passo dello Zibaldone
da cui siamo partiti – è esplicito: «In rigor di termini – egli afferma –
poeti non sono ora se non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che
hanno questo nome, non sono altro che filosofi». A rigor di termini,
cioè, possono ancora appellarsi poeti solo coloro i quali, perduta ogni
fiducia nella trasparenza semantica dell’immagine, sono disposti a
sottoporre la scrittura al vaglio di un’interrogazione assidua: rivolta a
dissolvere nelle tenaglie della più affilata ragione l’aura di naturale
immediatezza che tradizionalmente avvolge la poesia.
La cesura che passa tra gli «antichi» e i «moderni» non potrebbe
essere sottolineata con maggiore perentorietà. È uno stacco di carattere
antropologico-filosofico, prima che letterario. Leopardi lo riassume
in una semplice definizione: nell’avvenuto trapasso da una Stimmung
J. Keats, Lettere sulla poesia, a cura di Nadia Fusini, con una nota di Antonio
Prete, Milano, Feltrinelli. 1984, pp. 126-128).
6 «[…] Zwar leben die Götter,/Aber über dem Haupt droben in anderer Welt./
Endlos wirken sie da und scheinens wenig zu achten,/Ob wir leben, so sehr schonen
die Himmlischen uns./Denn nicht immer vermag ein schwaches Gefäß sie zu
fassen,/Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch», F. Holderlin, Brod und
Wein, vv. 109-114, cit., p. 93 («[…] Vivono certo gli Dei,/ma sopra il nostro capo, in
un diverso mondo./Operano senza fine e poco sembra si curino/se noi viviamo:
così i celesti ci risparmiano./Un ricettacolo fragile non sempre può contenerli/e
per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina», Pane e vino, cit., p. 119).
[ 6 ]
sulla poesia ingenua e sentimentale di leopardi 55
«fantastica» a una «sentimentale». Così egli indica la tappa finale alla
quale approda la propria ‘conversione’: «Ed io infatti non divenni sentimentale,
se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla
natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo».
«Fantasia» e «sentimento» si fronteggiano, dunque – almeno sul
piano categoriale –, secondo un rapporto di tipo antinomico: articolato
sull’opposizione che si viene a stabilire tra un’istintiva adesione alla
natura e la dolorosa consapevolezza di un’insopprimibile alterità
rispetto ad essa.
Proprio entro questo schema ermeneutico Schiller, nel suo celebre
saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, aveva dispiegato l’antitesi tra
naiv e sentimentalisch. Basta leggere uno dei passi cruciali del saggio di
Schiller per cogliere un’incontestabile affinità, anche terminologica,
con la genealogia del concetto di modernità tracciata da Leopardi:
Per gli antichi Greci tutto era diverso. Presso di loro la cultura non
degenerò al punto di far abbandonare per essa la natura. L’intero edificio
della loro vita sociale era fondato su sensazioni e non sul lavoro
composito dell’arte; la loro stessa teoria degli dei era l’ispirazione di
un sentimento ingenuo, il parto di un’immaginazione gioiosa, non di
una ragione tortuosa come accade per la fede delle moderne nazioni.
[…] In unità con se stesso e felice nel sentimento della sua umanità,
egli doveva fermarsi a questa come al suo massimo, cercando di armonizzare
ad essa ogni altra realtà, mentre noi, scissi in noi stessi e infelici
nelle nostre esperienze riguardo all’umanità, non abbiamo interesse
più urgente che di fuggire da essa e allontanare dai nostri occhi una
forma così imperfetta.
Il sentimento di cui qui si parla non è dunque quello degli antichi: è
piuttosto simile a quello che noi nutriamo per gli antichi. Essi sentivano
in modo naturale, noi sentiamo il naturale7.
Attenzione, però, a non sottovalutare anche le profonde divergenze
che i singoli passaggi della riflessione di Leopardi e di Schiller chiaramente
denotano. Se le polarità concettuali scelte come chiavi esegetiche
delle loro rispettive genealogie della modernità si rivelano molto
simili, non lo sono affatto gli esiti ai quali esse giungono. L’accorata
diagnosi della modernità da cui muove Schiller è solo il necessario
7 Friedrich Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung, in Schillers
Werke, Nationalausgabe, begründet von Julius Petersen, fortgeführt von Lieselotte
Blumenthal und Benno Von Wiese, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar
1943 sgg., XX (trad. it. di Elio Franzini e Walter Scotti, Sulla poesia ingenua
e sentimentale, Milano, SE, 1986, p. 30).
[ 7 ]
56 arturo mazzarella
preludio, logico e storico, di quella utopica tensione ideale nella quale
egli individuerà, nel corso del saggio, l’inconfondibile primato gnoseologico
dei moderni8.
Niente di più lontano dalle conclusioni maturate da Leopardi attraverso
la sua «mutazione» filosofica: rivolta proprio a escludere
qualsiasi possibilità di riscatto estetico per la modernità. Solo gli antichi
– al contrario di quanto aveva sostenuto Schiller – appaiono a Leopardi
veri poeti: un’identità del tutto preclusa ai moderni, la cui inestirpabile
natura riflessiva orienterà sempre in una direzione squisitamente
filosofica il loro anelito poetico.
Se la filosofia si identifica, per Leopardi, con l’inestinguibile avidità
di conoscenza che impregna l’attività originaria del philosopheîn9 (da
lui integralmente riproposta attraverso la strenua disposizione a «riflettere
profondamente sopra le cose» che ha caratterizzato l’inizio
della sua «mutazione»), nessuno più del poeta moderno potrà, allora,
definirsi a pieno titolo filosofo. Chi condivide più di lui il tormento
della sfibrante ricerca del «vero» alla quale lo costringe la consapevolezza
dell’assoluta artificialità del proprio strumento espressivo?
È una domanda che ci riconduce immediatamente al Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica, scritto da Leopardi – è bene ricordare
– nel 1818, solo un anno prima della propria «mutazione». Nelle
8 «Al poeta ingenuo – osserva Schiller – la natura ha concesso il favore di operare
sempre come un’unità indivisa, di essere in ogni istante una totalità autonoma
compiuta e di rappresentare nella realtà l’umanità nel suo pieno valore. Al poeta
sentimentale ha conferito la forza o, per meglio dire, ha impresso in lui il vivo
impulso di ristabilire quell’unità che fu in lui distrutta dall’astrazione, rendendo in
tal modo perfetta l’umanità e innalzandosi da uno stato limitato a uno infinito. […]
Ma se il poeta ingenuo supera il sentimentale per quanto riguarda la realtà, portando
ad esistenza reale ciò per cui l’altro può risvegliare soltanto un vivo desiderio,
il sentimentale è di gran lunga superiore all’ingenuo nella sua capacità di donare
al desiderio un oggetto più grande di quello che il poeta ingenuo ha dato e poteva
dare. Ogni realtà, lo sappiamo, è inferiore all’ideale; ogni cosa che esiste ha
dei limiti, mentre il pensiero è privo di limiti. Di questa limitazione cui è sottoposta
ogni cosa sensibile soffre anche il poeta ingenuo, mentre, al contrario, al sentimentale
è concessa l’assoluta libertà della facoltà di concepire idee. Il primo assolve
dunque il suo compito, ma il compito stesso è qualcosa di limitato; il secondo non
lo assolve mai totalmente, è vero, ma il suo è un compito infinito» (ivi, pp. 77-78).
9 «E parlando del filosofo, non diremo anche che non desidera solo un ramo
della sapienza, ma la sapienza tutta? […] Chi dunque è pronto a gustare ogni disciplina
e va volentieri ad apprendere senza mai saziarsene, avremo ragione di
dirlo un filosofo; non è vero?» (Platone, La Repubblica, 475b-c, trad. it. di Franco
Sartori, in Id., Opere complete, VI, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 189-190).
[ 8 ]
sulla poesia ingenua e sentimentale di leopardi 57
prime pagine del Discorso Leopardi non aveva avuto alcuna remora
nel definire la poesia un «inganno fantastico»:
Non c’è chi non sappia che bisogna distinguere due diversi inganni;
l’uno chiameremo intellettuale, l’altro fantastico. Intellettuale è quello
per esempio d’un filosofo che vi persuada il falso. Fantastico è quello
delle arti belle e della poesia a’ giorni nostri. […] L’intelletto non può
essere ingannato dalla poesia, ben può essere ed è ingannata molte
volte l’immaginativa10.
Per arrivare poco più avanti a questa conclusione:
Sappiamo che il poeta sì come per cristiano e filosofo e moderno che
sia in ogni cosa, non c’ingannerà mai l’intelletto, così per pagano e
idiota e antico che si mostri, c’ingannerà l’immaginazione ogni volta
che fingerà da vero poeta11.
È un’affermazione spregiudicata, quasi sconcertante, nella quale si
annida il presupposto della «mutazione» filosofica di Leopardi.
Una volta individuata la natura più propria del discorso poetico
nell’inaggirabile inganno prodotto dall’immaginazione, un nuovo
scenario si impone all’attenzione di Leopardi. Uno scenario di straordinaria
complessità teoretica: dal momento che ha il suo epicentro nella
riformulazione del rapporto tra l’immagine e il vero. Rivisitato, verificato
alla luce dell’intelletto, l’«inganno fantastico» si rivela a Leopardi
una forma di conoscenza già perfettamente compiuta, complementare
all’intelletto stesso, il quale non esita a sollecitarne l’intervento
per incrinare la pericolosa idolatria del «vero» praticata dai romantici
italiani: esplicito bersaglio polemico del Discorso leopardiano.
Dietro le parole del poeta, che non teme di revocare in dubbio le
rassicuranti utopie razionalistiche di cui si erano alimentate nel corso
dei secoli le varie versioni del classicismo, si distinguono i primi accenni
del filosofo: il quale accantona decisamente la presunta specularità
tra l’immagine e il vero per sottolineare, invece, la loro incolmabile
distanza, la loro radicale divergenza. Si tratta di un’acquisizione
che, per quanto si profili a Leopardi con innegabile evidenza, non può
essere assimilata, però, senza l’apporto di un profondo impegno con-
10 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Id., Poesie
e prose, II, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 1988, pp. 352-353.
11 Ivi, p. 353. Su questi, e altri, passi del Discorso ci siamo analiticamente soffermati
in Arturo Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni, Napoli,
Liguori, 1996, pp. 65-85.
[ 9 ]
58 arturo mazzarella
cettuale. Soprattutto se teniamo presente l’insopprimibile esigenza di
verità che programmaticamente impronta, fin dall’inizio, la ricerca di
Leopardi.
Per un poeta il quale nel 1817 aveva osservato che «non il Bello ma
il Vero o sia l’imitazione della Natura qualunque, si è l’oggetto delle
Belle arti»12, ammettere solo l’anno dopo, appunto nel Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica, che la poesia è costitutivamente,
intrinsecamente un inganno – un inganno, tra l’altro, connotato da
una straordinaria carica conoscitiva – significa di fatto destituire delle
loro tradizionali prerogative semantiche sia il concetto di «vero» sia
quello di «inganno». Significa liquidare la loro apparente opposizione
a favore di una sotterranea, paradossale, complicità.
È proprio la verifica che Leopardi affida alla scrittura poetica.
Nell’Infinito – prima, grande, testimonianza filosofica della lirica leopardiana,
composta non a caso nel 1819, l’anno della ümutazione» –
esiste, forse, un’altra verità fuori da ciò che il poeta «nel pensier» si
«finge»? Non è, forse, la vis imaginativa, esplicitamente riconosciuta
come tale, a istituire un rapporto tra il finito e il non-finito13?
Sono domande di fronte alle quali Leopardi non arretra. Anzi, le
ripropone in tutta la loro dirompente forza teoretica lungo i propri
versi. Versi lievi, piani; modulati come un canto. Egli sa bene, però,
che non è nelle possibilità del canto, di ogni canto poetico, prefigurare
una risposta, sia pure parziale, a tali domande. Qualora un canto avesse
anche l’ardire di offrire una risposta, come prenderla in considerazione
se ogni parola pronunciata dalla poesia è sempre un «inganno»?
Ecco che la scrittura di Leopardi, sollecitata dalla forza centrifuga
di domande così impegnative, è costretta a rivolgersi verso registri
discorsivi estranei alla poesia: praticandoli come necessario approfondimento
di problemi che, se trovano nell’esperienza poetica la propria
originaria formulazione, travalicano, tuttavia, le possibilità affidate
all’esile voce dei versi.
In questo senso – solo in questo senso – Leopardi è disposto a trasformarsi
in «filosofo di professione», a chiedere l’ausilio del lessico e
dello stile argomentativo della filosofia. È una richiesta «rarissima e
singolare», impregnata di una tensione squisitamente poetica14: la
12 Zib., p. 2. Per la datazione delle prime cento pagine dello Zibaldone, cfr. Giuseppe
Pacella, Datazione delle prime cento pagine dello Zibaldone, «Italianistica», XVI
(1987), pp. 401-409.
13 Anche per questo tema, cfr. A. Mazzarella, I dolci inganni, cit., pp. 47-63.
14 Leopardi non ha alcuna difficoltà nel riconoscere quanto sia ardito il percor-
[ 10 ]
sulla poesia ingenua e sentimentale di leopardi 59
quale, mentre riconosce la propria fragilità, non si lascia mai sedurre,
comunque, dalle suggestioni della pura teoresi15.
so da lui imboccato. Lungi dal teorizzare l’esemplarità della propria ‘conversione’
filosofica, egli definisce addirittura come «rarissima e singolare» la possibilità di
una convergenza tra poesia e filosofia («Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità
dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i
quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non
consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi
filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all’impossibile,
non sarà che rarissima e singolare», Zib., p. 1383, 24 luglio 1821). L’assoluta
singolarità del connubio tra poesia e filosofia realizzato da Leopardi è continuamente
sottolineata da Emanuele Severino nel suo ‘dittico’ leopardiano (Il nulla e
la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, 1990; Cosa arcana e stupenda.
L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1997), anche se rimane una petizione di
principio che non trova alcun riscontro effettivo nell’interpretazione complessiva
proposta da Severino: il quale riconduce nel solco del più strenuo teoreticismo
tanto la poesia quanto la riflessione di Leopardi, valorizzate entrambe per la loro
straordinaria «potenza filosofica», come Severino la definisce nella Prefazione a
Cosa arcana e stupenda, cit., p. 22. A partire da tali presupposti non può che essere
accreditata l’immagine di Leopardi quale filosofo tout court: un filosofo che si serve
della poesia come del più congeniale, e teoreticamente efficace, tramite espressivo.
Conclude, infatti, Severino: «Solo il vero poeta è vero filosofo. Solo il vero filosofo
è vero poeta. È, questo, il nodo centrale del pensiero di Leopardi. Alla poesia non
è più concesso di illudere, evocando il sogno dell’infinito e dell’eterno: la vera
poesia non detrae nulla alla verità, ossia è vera filosofia» (ivi, p. 519). Rispetto a
un’interpretazione così riduttiva della poesia leopardiana, i lavori di Prete si dimostrano
ben più aderenti all’irriducibile problematicità che anima l’intera gamma di
incroci tra poesia e filosofia stabiliti da Leopardi (cfr. Il pensiero poetante. Saggio su
Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1980; Finitudine e Infinito. Su Leopardi, Feltrinelli, Milano,
1998). Incroci che spezzano irrimediabilmente la compattezza e l’autosufficienza
tanto del linguaggio poetico quanto del discorso filosofico: «È qui il segreto,
l’energia di Leopardi – osserva Prete in alcune significative battute del suo dialogo
con S. Natoli –: preso dal punto di vista filosofico ti risponde da poeta, preso dal
punto di vista poetico, ti risponde da filosofo» (Salvatore Natoli – Antonio Prete,
Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p.
26). Sulle modalità del tutto particolari che regolano il rapporto tra poesia e filosofia
istituito da Leopardi insistono anche, da diverse prospettive, Franco Brioschi,
La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, il Saggiatore, 1980, pp. 112-
175; Cesare Galimberti, «Leopardi: meditazione e canto», Introduzione a G. Leopardi,
Poesie e prose, I, a cura di M. A. Rigoni, Milano, Mondadori, 1987, pp. XIIILXIX;
Aldo Trione, Ars combinatoria, Milano, Spirali, 1999, pp. 119-131; Anna
Dolfi, Ragione e passione. Fondamenti e forme del pensare leopardiano, Roma, Bulzoni,
2000; Massimo Donà Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Milano, Bompiani,
2013; Edoardo Boncinelli – Giulio Giorello, L’incanto e il disinganno: Leopardi.
Poeta, filosofo, scienziato, Parma, Guanda, 2016.
15 La filosofia, intesa come attività eminentemente speculativa, è oggetto di
costante critica da parte di Leopardi: cfr. Zib. pp. 103 (20 gennaio 1820); 115 (7 giu-
[ 11 ]
60 arturo mazzarella
In un passo dello Zibaldone datato 7 settembre 1821, quasi ricapitolando
le ragioni del «rarissimo e singolare» legame tra poesia e filosofia
che lo ha portato a scrivere fin lì 1649 pagine del suo journal, Leopardi
annota:
Quanto l’immaginaz. contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e
quanto sia vero che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere
un gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere
da lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo.
Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini. […]
L’animo in entusiasmo, nel caldo della passione qualunque ec. ec. discopre
vivissime somiglianze fra le cose. Un vigore anche passeggero del
corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei rapporti fra cose disparatissime,
trovare dei paragoni, delle similitudini astrusissime e ingegnosissime
(o nel serio o nello scherzoso), gli mostra delle relazioni a
cui egli non aveva mai pensato, gli dà insomma una facilità mirabile di
ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle specie le più distinte, come
l’ideale col più puro materiale, d’incorporare vivissimamente il pensiero
il più astratto, di ridur tutto ad immagine, e crearne delle più nuove
e vive che si possa credere. Nè ciò solo mediante espresse similitudini o
paragoni, ma col mezzo di epiteti nuovissimi, di metafore arditissime,
di parole contenenti esse sole una similitudine ec. Tutte facoltà del gran
poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltà di scoprire i rapporti
delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le
meno analoghe ec. Or questo è tutto il filosofo: facoltà di scoprire e conoscere
i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare16.
Paradossale, assolutamente paradossale, si rivela, dunque, la natura
di questa vis imaginativa. Mentre designa la facoltà precipua del
«gran poeta», essa si presenta, nello stesso tempo, come la forza che
più da vicino ne minaccia l’identità: dal momento che sottopone la
parola poetica a uno sfibrante confronto con i propri limiti. La costringe
ad andare costantemente oltre se stessa; contro se stessa. La obbliga
a instaurare una rete di rapporti fondati sui più ardui accostamenti,
sulle più marcate difformità.
gno 1820); 304-305 (7 novembre 1820); 1228-1229 (26 giugno 1821); 1231 (27 giugno
1821); 1252 (30 giugno 1821); 1359-1360 (20 luglio 1821); 1835-1837 (4 ottobre 1821);
1848-1858 (5-6 ottobre 1821); 2019-2020 (31 ottobre 1821); 3237-3240 (22 agosto
1823); ma si vedano anche i passi citati nella nota successiva.
16 Zib., p. 1650. Cfr. anche ivi, pp. 1715 (16 settembre 1821); 1833-1840 (4 ottobre
1821); 1854-1860 (5-6 ottobre 1821); 2132-2134 (20 novembre 1821); 3242-3245 (22
agosto 1823); 3269-3271 (26 agosto 1823); 3382-3386 (8 settembre 1823); 4160-4161
(20 dicembre 1825).
[ 12 ]
sulla poesia ingenua e sentimentale di leopardi 61
Non la semplice analogia, ma l’analogia generata dalla «contrarietà
» – come la definirebbe Giordano Bruno –17, la perlustrazione della
trama di contrasti che percorre inesauribilmente la realtà: ecco l’obiettivo
assegnato da Leopardi all’immaginazione; a quell’ars inveniendi
– nel senso etimologico del termine – che costituisce, per lui, la suprema
forma di conoscenza18.
17 È un concetto che percorre tutti gli scritti di Bruno: dal De umbris idearum fino
alle cosiddette «opere magiche». A evidenziarlo bastino queste citazioni, riportate
a semplice titolo esemplificativo. Osserva Bruno nel De umbris idearum: «Il vero
Chaos di Anassagora è una varietà priva di ordine. Così dunque nella stessa varietà
delle cose possiamo individuare un ordine mirabile, il quale, stabilendo la connessione
dei supremi con gli infimi e degli infimi con i supremi, fa cospirare tutte le
parti dell’universo nella bellissima figura di un unico grande animale (quale è il
mondo); poiché una diversità tanto grande richiede un ordine altrettanto grande, e
un ordine tanto grande richiede una diversità altrettanto grande. Nessun ordine si
ritrova infatti dove non esiste alcuna diversità. Per cui non è lecito intendere il primo
principio né come ordinato, né come in ordine» (Giordano Bruno, Le ombre
delle idee, trad. it. di Nicoletta Tirinnanzi, Milano, Rizzoli, 1997, p. 70). È quanto
egli ribadisce nello Spaccio de la bestia trionfante: «Il principio, il mezzo ed il fine, il
nascimento, l’aumento e la perfezione di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii,
ne’ contrarii, a contrarii: e dove è la contrarietà, è la azione e reazione, è il
moto, è la diversità, è la moltitudine, è l’ordine, son gli gradi, è la successione, è la
vicissitudine» (G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Id., Dialoghi italiani, nuovamente
ristampati con note da Giovanni Gentile, III edizione a cura di Giovanni
Aquilecchia, Firenze, Sansoni, 1958; II ristampa 1985, p. 573), e negli Eroici furori:
«Non è armonia e concordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto
l’essere; ma dove è ordine ed analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua
natura» (ivi, p. 1020). Proprio in rapporto a tale «contrarietà» l’immaginazione – o
spiritus phantasticus – manifesta, secondo Bruno, le sue eccezionali potenzialità conoscitive.
Nell’ambito delle poetiche otto-novecentesche sono molteplici, e in gran
parte ancora da scoprire, le diramazioni più o meno consapevoli della teoria
dell’immaginazione formulata da Bruno: con una complessità che trova pochi riscontri
nell’età moderna; cfr. a questo proposito i contributi, oramai classici, di Robert
Klein, L’imagination comme vêtement de l’âme chez Marsile Ficin et Giordano Bruno,
in Id., La forme et l’intelligible. Écrits sur la Renaissance et l’Art moderne, Paris,
Gallimard, 1970 (trad. it. di Renzo Federici, «L’immaginazione come veste dell’anima
in Marsilio Ficino e Giordano Bruno», in Id., La forma e l’intelligibile. Scritti sul
Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975, pp. 45-74); e di Frances A. Yates,
Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London, Routledge & Kegan, 1964
(trad. it. di Renzo Pecchioli, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Roma-Bari,
Laterza, 1981); Ead., The Art of Memory, London, Routledge & Kegan, 1966 (trad. it.
di Albano Biondi, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 1972, pp. 183-296).
18 Cfr., ad esempio, quanto Leopardi annota il 22 agosto 1823: «Si può con certezza
affermare che la natura, e vogliamo dire l’università delle cose, è composta,
conformata e ordinata ad un effetto poetico; […] relativam. al tutto, o a questa o
quella parte. […] Nulla di poetico poterono nè potranno mai scoprire la pura e
[ 13 ]
62 arturo mazzarella
Se, come Leopardi afferma nel passo dello Zibaldone appena citato,
tutte le facoltà del «gran poeta»sono «contenute e derivanti dalla facoltà
di scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani,
anche delle cose che paiono le meno analoghe», la poesia non può che
rivelarsi, di conseguenza, un’ars intrinsecamente aporetica. Un’attività
che porta impressa nei suoi stessi presupposti la necessità di stringere
un solido legame con il polo da essa più distante, maggiormente
«contrario» – per riprendere ancora la terminologia di Bruno –: con la
riflessione, appunto. Riflessione sull’indelebile potenza figurativa della
poesia e, insieme, sulla sua costitutiva mendacità.
Giunto, verso la fine del 1819, alla fatidica pagina 99 dello Zibaldone,
Leopardi si dimostra oramai consapevole che questi due principi,
verità e illusione, sono assolutamente inscindibili. Non a caso, in conclusione
della pagina, osserva lapidariamente: «Pare un assurdo, e
pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è
altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni».
Non è certo un’affermazione irrilevante. Il valore di cesura che Leopardi
le attribuisce è inoppugnabile. La pagina immediatamente successiva
del suo journal, la centesima, è la prima, infatti, che reca la data:
8 gennaio 1820. Una data cruciale nell’itinerario leopardiano, perché
sancisce la nascita ‘ufficiale’ dello Zibaldone: il quale, concepito fino
ad allora come una sporadica annotazione di pensieri, si avvia a
diventare un organico, e soprattutto necessario, esercizio di riflessione
da parte di un poeta che può continuare a scrivere versi solo a patto di
prolungare, e moltiplicare, l’eco delle domande da essi sollevate. Solo
a patto, cioè, di accogliere l’invito formulato da Keats. Di trasformarsi
anch’egli nella «più impoetica di tutte le Creature di Dio».
Arturo Mazzarella
Università Roma Tre
semplice ragione e la matematica. […] Spetta all’immaginazione e alla sensibilità
lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose. […] E siccome alla sola immaginazione
ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch’è poetico, però ad
essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri
della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della
natura. Essi solo possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare,
comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere di operare, di vivere,
i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini. Essi pronunziando o congetturando sopra
queste cose, sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di apporsi talora al vero o
di accostarsegli», Zib., pp. 3241-3243; cfr. anche ivi, pp. 1975-1978 (23 ottobre 1821),
oltre i passi richiamati nella nota 16.
[ 14 ]
Nunzio Ruggiero
Zumbini e Pèrcopo all’Università di Napoli
Parabole della scuola storica meridionale
tra Otto e Novecento
Le biografie parallele di due seguaci della scuola storica come Bonaventura-
Zumbini e il suo scolaro Erasmo Pèrcopo, l’uno autorevole ordinario di Letteratura
italiana, l’altro aspirante a una meta mai raggiunta nei ranghi dell’Università
di Napoli, configurano due opposte parabole intellettuali, osservate nel
vario contesto della vita letteraria e accademica napoletana, lungo il cinquantennio
compreso tra la metà degli anni Settanta del XIX e la metà degli anni
Venti del XX secolo. La presente ricerca si avvale di documenti inediti conservati
presso la Società Napoletana di Storia Patria, la Fondazione Biblioteca Benedetto
Croce e la Biblioteca Nazionale di Napoli.

The parallel biographies of two followers of the “historical method”, namely
Bonaventura Zumbini and his disciple Erasmo Pèrcopo, epitomize two divergent
intellectual journeys. Their careers, the former holding a prestigious chair
of Italian Literature, the latter an aspiring academic who failed to obtain a faculty
position, will be analyzed in the context of the multifaceted academic and
literary milieu in Naples, in the fifty years between the end of the 19th century
and the beginning of the 20th century. This study relies on unpublished documents
from the Società Napoletana di Storia Patria, the Fondazione Biblioteca
Benedetto Croce and the Biblioteca Nazionale di Napoli.
Val la pena di riflettere sulle circostanze dell’approdo di Bonaventura
Zumbini nell’Università di Napoli, tra il 1876 e il 1877, per molti
aspetti indicative di un autentico turning point nella storia della cultura
e delle istituzioni culturali della città.
Sappiamo che, con la fine del predominio della Destra Storica, nelle
cui file militavano i membri dell’intellighenzia napoletana che avevano
contribuito al compimento dell’Unità, la classe dirigente dell’excapitale
si trovò a occupare una posizione periferica nel nuovo assetto
Autore: Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli; prof. Associato;
nunzioruggiero1@gmail.com
64 nunzio ruggiero
politico della nazione1. Intanto, l’entrata in vigore della legge Bonghi
poneva fine all’anomalia dell’ateneo cittadino, il cui statuto autonomo
era definitivamente equiparato alle altre università del Regno2. Inoltre,
il processo di ammodernamento degli apparati e degli enti culturali
innescato dall’azione desanctisiana implicava la necessità e insieme
la difficoltà di conciliare istanze e metodi derivanti dai fronti opposti
del positivismo e dell’idealismo, attraverso l’interlocuzione con
i maestri settentrionali della scuola storica3.
Nel 1876, con l’edizione Morano dei Saggi critici, Zumbini otteneva
l’autorizzazione ministeriale a coadiuvare De Sanctis e Tari nelle lezioni
alla scuola di Magistero dell’ateneo napoletano4. Sicché, morto il
Settembrini, la sua ambizione a salire sulla cattedra di Letteratura italiana,
risultava legittimata dal consenso di De Sanctis e Bertrando
Spaventa, cui faceva eco il sostegno unanime della Facoltà di Lettere,
con il giovane D’Ovidio in prima linea. Tuttavia, la rete di rapporti
con la comunità accademica nazionale e la reputazione di abile interprete
di lettere italiane e straniere, pazientemente costruite nell’arco di
un buon decennio, non erano sufficienti a soddisfare tale aspirazione:
la mancanza di titoli dell’autodidatta Zumbini rendeva necessaria
l’autorizzazione del Consiglio Superiore dell’Istruzione al conseguimento
della qualifica di professore «pareggiato»5.
1 Cfr. Luigi Mascilli Migliorini, Una famiglia di editori. I Morano e la cultura
napoletana tra Otto e Novecento, Milano, FrancoAngeli, 1999, pp. 77-79.
2 Senato del Regno, Atti parlamentari, Sessione del 1874-75, Discussioni, LXXIV.
Tornata del 28 maggio 1875, pp. 1957-1980; cfr., inoltre, Maurizio Martirano, Il
senso del concreto. Contributo a una storia della cultura napoletana tra Otto e Novecento,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 19-20.
3 Sulla vasta opera di riforma dell’Università di Napoli attuata da De Sanctis
ministro, cfr. Luigi Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 3a ed., Firenze,
Sansoni, 1958, e Nino Cortese, Francesco De Sanctis ed il riordinamento dell’Università
di Napoli dell’ottobre 1860, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1972; Antonio
V. Nazzaro, F. De Sanctis riformatore dell’Università degli Studi e della Società
Reale di Napoli, Napoli, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti e Accademia
Pontaniana, 2016. Per un inquadramento del processo di riforma universitaria di
De Sanctis nel vario e complesso contesto culturale della Napoli postunitaria, si
veda ora Emma Giammattei, Risorgimento e letteratura a Napoli, in Ead., Il Romanzo
di Napoli. Geografia e storia della letteratura nel XIX e XX secolo, 2a ed. riv e a accr.,
Napoli, Guida, 2016, pp. 411-483 (con particolare attenzione al paragr. intititolato
Solitudini desanctisiane, alle pp. 67-77).
4 Bonaventura Zumbini, Saggi critici, Napoli, Morano, 1876.
5 Sulla condizione e il ruolo dei professori «pareggiati» nell’ateneo napoletano,
si vedano gli Atti parlamentari del Senato del Regno, Tornata del 28 maggio
1875, cit., pp. 1971-1972.
[ 2 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 65
Accadde allora che Terenzio Mamiani – notoriamente tra le personalità
più autorevoli e influenti nella politica dell’istruzione postunitaria
– negasse la concessione del nulla osta indispensabile al passaggio
di ruolo, approfittando di una seduta quasi deserta del Consiglio
Superiore6. Evidentemente, l’aspirante cattedratico faceva le spese del
conflitto tra hegeliani e spiritualisti riacutizzato dallo scontro di Fiorentino
con Acri, che vedeva Spaventa e Mamiani schierati sui versanti
opposti della polemica7. Si trattò, in ogni caso, di un incidente transitorio;
la nomina fu rimandata solo di qualche mese, mentre l’ascesa
di Zumbini ai vertici dell’università napoletana sarà fulminea: l’elezione
a rettore avverrà subito dopo il conseguimento dell’ordinariato,
tra il 1880 e il 18818.
Con tali premesse è chiaro che la sconfitta di Vittorio Imbriani, suo
rivale nel concorso a cattedra del 1878, non poteva derivare soltanto
dall’ostilità del commissario Giacomo Zanella, vittima eccellente di
una sua stroncatura9. Attestazioni di stima giunsero a Zumbini, sia in
privato che in pubblico, da un professore-poeta di tutt’altro valore,
che della commissione presieduta dal D’Ancona era membro ben più
autorevole, Giosuè Carducci: prima nella lettera dell’8 maggio 1877, in
ringraziamento per l’invio dei Saggi critici; poi nell’introduzione
all’Atta Troll di Heine tradotto da Chiarini, in cui il maremmano loda-
6 Si veda la lettera di D’Ovidio a Fiorentino dell’11 marzo 1877, conservata tra
le Carte Fiorentino, presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (Ba C8, 294), edita in
forma parziale e scorretta nel contributo non firmato, Appunti per la vita e i tempi di
Bonaventura Zumbini, «Bollettino del Comune di Napoli», N.S., XLI, 5-6, 1918, pp.
5-80, p. 33.
7 Francesco Fiorentino, La filosofia contemporanea in Italia. Risposta al professore
Francesco Acri, Napoli, Morano, 1876.
8 Limitata al triennio 1881-1883, l’attività di rettore fu condizionata dalle precarie
condizioni di salute di Zumbini. Sull’omissione delle relazioni rettorali nel
ventennio tra il 1863 e il 1884, per desuetudine del rito accademico ripreso poi da
Salvatore Trinchese, cfr. M. Martirano, Il senso del concreto, cit., pp. 18-21.
9 La stroncatura di Vittorio Imbriani, è Un preteso poeta: Giacomo Zanella,
«Giornale napoletano di filosofia e lettere», I, gennaio 1872, pp. 41-61, rist. in Id.,
Fame usurpate. Quattro studii, Napoli, Marghieri, 1877, pp. 289-332; cfr. Dante Della
Terza, Imbriani critico. Inizi desanctisiani ed itinerari polemico-eruditi, in Studi su
Vittorio Imbriani, a cura di Rosa Franzese e E. Giammattei, Napoli, Guida, 1990,
pp. 119-134, p. 128. Gli altri membri della commissione erano Giovan Battista Giorgini
e Marco Tabarrini. Sulla vicenda accademica di Imbriani, cfr. Nunzio Coppola,
Per la cattedra di letteratura italiana nella Università di Napoli (1878-1880): G. Carducci,
giudice, V. Imbriani, concorrente, «Nuova Antologia», LXXXVII (agosto 1952),
pp. 343-373.
[ 3 ]
66 nunzio ruggiero
va l’articolo sul Leopardi satirico edito nella «Nuova Antologia» e collocato
da Zumbini in apertura del volume10.
Si ricordi inoltre che, in chiusura dei Saggi critici, questi aveva ristampato
l’attacco alle Lezioni di letteratura italiana di Settembrini, in cui intese
dimostrare come all’intransigenza anticlericale del patriota e del politico
non corrispondeva quella del filologo e dello storico11. L’intervento
del 1868 aveva rivelato la personalità di un giovane abile e ambizioso: il
riconoscimento della funzione storica del Cristianesimo e delle istituzioni
ecclesiastiche nella cultura italiana, insieme con l’adesione al metodo
scientifico trionfante, gli avevano garantito l’appoggio di alleati preziosi.
Indubbiamente, si trattasse di polemica garbata – come la definì bonariamente
De Sanctis – o di «ferocia di novizi» – come la qualificherà
poi Luigi Russo – la denuncia delle sovrapposizioni e confusioni della
critica settembriniana tra storia e letteratura e tra scienza e arte coglieva
nel segno, se è vero che i rilievi che ne discendevano apparvero ai contemporanei
– e a De Sanctis per primo – tutt’altro che pretestuosi12.
Limite dello Zumbini, semmai, sarebbe stato quello di non saper
essere all’altezza delle aspettative alimentate dal coro unanime dei discepoli
e degli ammiratori13. Mentre sappiamo che il tono di scherno
usato verso il vecchio professore-patriota, in uno scritto che l’autore si
compiacque di ripubblicare più volte14, avrebbe pesato non poco sui
modi del contrattacco del giovane Croce, vindice inesorabile della fama
usurpata dal tanto più professorale Zumbini di fine secolo15.
10 «Già il prof. Zumbini notò la mediocrità satirica del Leopardi, e, poiché il
poeta della ginestra dai particolari (gli avvenimenti italiani del ’21 e del ’31) trascende
presto al generale, anche notò, con molta verità, pare a me, la impossibilità
del render comica l’irrisione di tutta la vita umana quale è, quale fu, quale sarà»
(Giosuè Carducci, Prefazione a Heinrich Heine, L’Atta Troll. Tradotto da Giuseppe
Chiarini, con note di Karl Hillebrand, Bologna, Zanichelli, 1878, rist. in G.
Carducci, Conversazioni critiche, Roma, Sommaruga, 1884); cfr. B. Zumbini, La Palinodia
e i Paralipomeni di Giacomo Leopardi, «La Nuova Antologia», XXIII (1874), pp.
195-208, rist. in Id., Saggi critici, cit., pp. 3-16.
11 B. Zumbini, Le lezioni di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana. Saggio,
Napoli, Morano, 1868; rist. in Id., Saggi critici, cit., pp. 251-320.
12 Francesco De Sanctis, Settembrini e i suoi critici, «Nuova Antologia», X, 3,
marzo 1869, pp. 439-59, poi in Id., Nuovi saggi critici, Napoli, Morano, 1872, pp.
229-253; L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, cit., p. 141.
13 Cfr. Carteggio Croce-Novati, a cura di Alberto Brambilla, Napoli-Bologna,
Istituto italiano per gli studi storici-Il Mulino, 1999, p. 24.
14 Il saggio venne ristampato anche nelle due edizioni Le Monnier degli Studi
di letteratura italiana, nel 1894 e nel 1906.
15 I modi della polemica, e nello specifico il fare disinvolto e canzonatorio del
[ 4 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 67
Si noti intanto che la provenienza geografica di Zumbini fu requisito
non secondario per la progressione della sua carriera: il cursus
honorum intrapreso a Cosenza – dall’ispettorato didattico e dalla direzione
del «Calabrese» nel 1861, alla presidenza dell’Accademia Cosentina
nel 1874, fino all’intitolazione al suo nome del circolo studentesco
fondato dagli alunni del Liceo Telesio nel 1891 – è indicativo del
radicamento di Zumbini nella sua terra natale16. È noto che gli hegeliani
di Calabria, Francesco Fiorentino e Felice Tocco (il «nostro Tocco» lo
chiamava Zumbini in una lettera a Fiorentino), occupavano postazioni
rilevanti nel sistema universitario nazionale17; analogamente, sappiamo
che i fratelli Morano, fondatori della più prestigiosa casa editrice
della Napoli postunitaria, erano di Monterosso Calabro. Strategica
in tal senso, all’altezza del 1875, è la collaborazione alla nuova serie
del «Giornale napoletano di filosofia» redatta dai corregionali Fiorentino,
nativo di Sambiase (Lamezia), e Carlo Maria Tallarigo, originario
di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro.
In tal senso, l’intervento intitolato Un nuovo libro francese intorno al
Leopardi, segna un passaggio rilevante nella storia della critica leopardiana
del secondo Ottocento. Non a caso, è stata da tempo segnalata
l’incidenza di questo testo nel leopardismo carducciano, a proposito
della «divisione interna in fasi del percorso poetico», fosse pure solo
«uno dei modi positivistici per anestetizzare il proprio oggetto entro
un circolo tautologico»18.
Il breve ma intenso apprendistato filologico in Toscana, tra Firenze
e Pisa, a contatto con i seguaci della scuola storica raccolti intorno al
D’Ancona, valse al perfezionamento nel metodo delle fonti applicato
a Boccaccio, e in quello della comparazione letteraria, di cui diede prorecensore,
erano mutuati dal De Sanctis: «poiché in lui ci è come una idea fissa, e
tutto ei vede per entro la sua idea fissa», p. 17, «il nostro Settembrini non ha fatto
che un lavoro informato al canone supremo della critica onde parliamo; ha fatto
come il Gioberti. Apriti cielo! Il Settembrini come il Gioberti!»; cfr. B. Zumbini, Le
lezioni di letteratura del prof. Settembrini, cit., p. 35.
16 Sulla direzione di Zumbini dell’Accademia Cosentina, cfr. Michele Chiodo,
L’Accademia cosentina e la sua biblioteca. Società e cultura in Calabria 1870-1998,
Cosenza, Pellegrini, 2002, pp. 47-52, p. 85.
17 Il riferimento a Felice Tocco si legge nella lettera di Zumbini a Fiorentino del
2 marzo 1877, edita negli Appunti per la vita e i tempi di Bonaventura Zumbini, cit., p.
33.
18 E. Giammattei, Nicola Zingarelli fra scuola storica e modello crociano, in I dintorni
di Croce. Tra figure e corrispondenze, Napoli, Guida, 2009, pp. 149-160, p. 153.
[ 5 ]
68 nunzio ruggiero
va nei primi scritti su Leopardi sulla «Nuova Antologia»19. Dallo stesso
De Sanctis, peraltro, Zumbini aveva accolto l’esortazione a studiare
la letteratura italiana con indagini più sistematiche e rigorose – «mi
dolgo soprattutto che presso noi sieno così scarse le monografie e gli
studii speciali sulle epoche e sugli scrittori» aveva detto il maestro irpino
–, a partire dalle opere minori20.
Il che spiega perché l’analisi delle opere giovanili di Boccaccio intrapresa
in Toscana fosse il tema scelto per la prolusione di Letteratura
italiana: il corso dell’A.A. 1878-1879 derivava dallo studio sul Boccaccio
minore, «di cui è tanto piccolo il pregio letterario quanto grande il
valore storico», in cui Zumbini ambiva a conciliare l’ermeneutica desanctisiana
del saggio del 1870 sulla «Nuova Antologia»21 con la moderna
critica delle fonti del D’Ancona, allora esemplarmente applicata
dal Rajna22.
Indubbiamente, gli studi su Boccaccio avevano il merito di inserirsi
nel dibattito coevo sulla tradizione letteraria del certaldese, correggendo
i fautori unilaterali del classicismo boccacciano, e di contro individuando
le reminiscenze medievali e sottolineando la matrice cavalleresca
dell’opera. Di qui l’omaggio al «finissimo studio» sul Filocolo del
«chiarissimo» Zumbini, tributato da un filologo giovane ma già autorevole
come Vincenzo Crescini, successore del Canello sulla cattedra padovana
di Storia comparata delle lingue e delle letterature neolatine23.
19 Prima dell’articolo sui Paralipomeni lodato da Carducci, Zumbini aveva pubblicato
l’intervento intitolato Giacomo Leopardi presso i Tedeschi, «Nuova Antologia
di scienze, lettere ed arti», XIV, 22, 1873, pp. 62-81. Sui maestri della scuola storica
italiana, artefici dell’introduzione del metodo scientifico nella storia della letteratura,
nel corso del primo ventennio postunitario, si rinvia a Guido Lucchini, Le origini
della scuola storica. Storia letteraria e filologia in Italia (1866-1883), Pisa, ETS, 2008.
20 F. De Sanctis, Settembrini e i suoi critici, cit., pp. 5-59; cfr. L. Mascilli Migliorini,
Una famiglia di editori, cit., p. 62.
21 F. De Sanctis, Boccaccio e le sue opere minori, «Nuova Antologia di scienze,
lettere ed arti», XIV, 1870, pp. 221-52 (anticipazione del capitolo compreso nella Storia
della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870; cfr. la 4a ed., Ivi, 1890, pp. 306-357).
22 B. Zumbini, Il Filocopo del Boccaccio, Firenze, Succ. Le Monnier, 1879; vedi poi
Id., Una storia d’amore e morte (Il «Ninfale fiesolano» di Boccaccio), «Nuova Antologia»,
a. XIX, vol. XLIV, s. II, 1° mar. 1884, pp. 5-27 (nuova ediz., riv. e accr., Il Ninfale Fiesolano
di Giovanni Boccaccio, Firenze, Sansoni, 1896); Di alcune novelle del Boccaccio e dei
suoi criteri d’arte, «Atti dell’Accademia della Crusca», 1905, pp. 25 e segg.; Le Egloghe
del Boccaccio, «Giornale storico della letteratura italiana», VII (1886), p. 24 e sgg.
23 Vincenzo Crescini, Contributo agli studi sul Boccaccio con documenti inediti,
Torino, Loescher, 1887, pp. 200-208; su Crescini, cfr., oltre alla voce di Gianfranco
Folena, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
1984, vol. 30, pp. 681-685, Amedeo Benedetti, Vincenzo Crescini nelle lettere
[ 6 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 69
Resta il fatto che gli appunti del corso raccolti da Erasmo Pèrcopo,
fedele scolaro di Zumbini nei primi anni Ottanta, recano una testimonianza
del modo approssimativo col quale avviava gli studenti all’analisi
dei fenomeni letterari, secondo i nuovi metodi storico-filologici:
[…] il compito dei nostri studj sarà appunto di seguire cronologicamente
alcune opere del B[occaccio] notandone le fonti.
Ma si dice: e sapute le fonti del B[occaccio], che cosa avete saputo? A
costoro si può rispondere: saputa l’opera tale bella, che avete saputo?
Se importante è l’arte, importante è anche la scienza. E pure in tutti i
libri che vengon fuori c’è un senso d’ironia in questi studi di ricerche.
Anzi i linguai e gli estetici non hanno nemmeno capito che il valore
artistico non si comprende o si giudica falsamente se non si son fatte
certe ricerche storiche24.
Lo zelo dei discepoli, si è detto, faceva eco ai più vari pronunciamenti
di Zumbini in materia di critica letteraria, con un’enfasi che il
professore non seppe o non volle scoraggiare. Ad esempio, il molisano
Luigi Ruberto, suo assistente alla cattedra di Letteratura italiana, esibiva
in esergo al saggio su Le egloghe del Petrarca una citazione – «Le
Egloghe sono componimenti bellissimi e tutti importanti per la storia
del Poeta, che sarebbe bene fossero commentati e tradotti dalla nuova
generazione un po’ meglio che non abbia fatta la generazione passata»
– col solo maldestro effetto di giustificare un lavoro modesto con il
suggello del maestro25.
agli amici letterati, «Esperienze Letterarie», XXXVIII (2013), 1, pp. 43-65. Su Canello
e le origini della scuola padovana, cfr. G. Folena, Ugo Angelo Canello e i primordi
della storia della lingua italiana, in Ugo Angelo Canello e gli inizi della filologia romanza
in Italia, a cura di Antonio Daniele e Lorenzo Renzi, Firenze, Olschki, 1987, pp.
15-70, rist., senza le Appendici, in Id., Filologia e umanità, a cura di A. Daniele, Vicenza,
Neri Pozza, 1993, pp. 53-92; A. Daniele, I corrispondenti di Ugo Angelo Canello
(con appendice di lettere), in Ugo Angelo Canello e gli inizi della filologia romanza in
Italia, cit., pp. 107-154; Alfredo Stussi, Ascoli, Mussafia e Canello, in Studi di Filologia
romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, Pisa, Pacini, 2006 [ma 2007], pp.
1525-1537, rist. in Id., Filologia e linguistica dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 2014,
pp. 145-159. Sui rapporti di Canello con Bonghi e D’Ovidio, cfr. Rossana Melis,
Ancora sul carteggio di Ugo Angelo Canello: lettere a Angelo De Gubernatis, Francesco
D’Ovidio, Adolfo Mussafia, Quintino Sella e altri, in Noi umili manovali della scienza.
Critica e filologia di Ugo Angelo Canello, a cura di Emilio Lippi e Gianfelice Peron,
Treviso, Biblioteca Comunale, 1994, pp. 73-128.
24 Erasmo Pèrcopo, Lezioni di Lett. Italiana dello Zumbini, a.a. 1878-79 (Biblioteca
della Società Napoletana di Storia Patria, Carte Pèrcopo, MS.II.9).
25 Luigi Ruberto, Le Egloghe del Petrarca. Studio seguito da un saggio d’edizione
critica di un codice napoletano sinora inedito, «Il Propugnatore», vol. XII (1879).
[ 7 ]
70 nunzio ruggiero
Di tenore analogo, negli anni seguenti, il discorso sulla lirica del
Settecento, condotto all’insegna di un generico eclettismo metodologico:
«Studieremo la lett. del sec. XVIII accennandone le fonti straniere.
[…] Studieremo esteticamente e storicamente». E al principio della
Lezione Terza: «Parleremo dell’Alfieri. Cominceremo dalle op. minori.
Le op. minori hanno grande importanza. Non è vero che muoiono
come crede la critica estetica. Si vuol sorprendere il pensiero dell’A. La
storia non si può fare senza tutte le opere»26.
Anche a voler giustificare la rapsodicità di siffatti rilievi con la forma
brachilogica e frammentaria degli appunti studenteschi, resta il
tono tra oracolare e spicciativo del giudizio critico che scimmiottava il
linguaggio desanctisiano svuotandolo tuttavia della sua linfa ermeneutica:
«Accenneremo a qualche altra produzione. L’Orazia di Aretino
ha una vastità di forme. È il fatto degli Orazi e Curiazi. C’è una
certa larghezza di forme che si è fatta ammirare dal Ginguené. Il Canello
dice che è tragedia shakespeariana ma è esagerazione. Si narra
sempre e ci è poca azione»; oppure, nel caso del Monti drammaturgo:
«Il bello dell’Aristodemo è la scena in cui egli racconta il sagrifizio della
figlia. Ci sono scene tragiche ma la trag. non è gran cosa»27.
Alla metà degli anni Ottanta, la collaborazione a «Napoli Letteraria
» è limitata a pochi interventi, ma di non scarso interesse. Intanto, la
nuova serie documenta la presenza degli accademici nel maggiore periodico
napoletano di quegli anni: ad esempio, l’articolo intitolato Il
Folengo precursore del Çervantes sollecitava il contributo di Annibale Gabrielli,
Il Folengo ed il Rabelais, circa la ricezione folenghiana nella Parigi
di primo Seicento di Naudé28. Analogamente, il suo migliore scolaro,
Pèrcopo, pubblicò una puntuale recensione all’edizione Renier degli
Strambotti e sonetti dell’Altissimo, l’improvvisatore quattro-cinquecentesco
Cristoforo Fiorentino, in cui offriva emendamenti e chiarimenti
all’edizione che dimostravano una piena padronanza della materia29.
26 E. Pèrcopo, Lezioni di Lett. Italiana dello Zumbini, Lezione Ia – Sec. XVIII°- Preliminari
– 15.I.’85 (Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Carte Pèrcopo,
MS. II.1, cc. 1-29).
27 E. Pèrcopo, Lezioni di Lett. italiana dello Zumbini, cit., Lezione IIIa, c. 29.
28 Cfr. «Napoli Letteraria», III, 10, 7 mar. 1886, p. 4; «Napoli Letteraria», n.s.,
III, 1, 3 gen. 1885, pp. 1-2 (rist. in Studi di letteratura italiana, Firenze, Successori Le
Monnier, 1906, pp. 163-177). Il saggio fu raccolto anche nell’Antologia della nostra
critica letteraria moderna, compilata da Luigi Morandi per uso delle persone colte e delle
scuole, Quinta edizione sulla quarta assai migliorata e accresciuta di ventidue scritti,
Città di Castello, S. Lapi, 1890, alle pp. 472-76.
29 E. Pèrcopo, L’Altissimo, «Napoli Letteraria», III, 9, 28 feb. 1886, p. 2.
[ 8 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 71
Nella nuova serie del 1886, il redattore capo Domenico Zuccarelli
si era assicurato un consiglio direttivo composto da Andrea Angiulli,
Giovanni Bovio, Michele Kerbaker, e Zumbini (che però dal novembre
1886 non figura più nel comitato). Per una ricostruzione dei rapporti
tra stampa e ateneo nella Napoli degli anni Ottanta, e in particolare
del ruolo assunto da accademici e politici autorevoli, benché non specialisti
di letteratura italiana, nell’introduzione dell’insegnamento
della «Letteratura dantesca» nel sistema universitario italiano, è indicativo
il contributo di Giovanni Bovio. Si tratta dell’intervento intitolato
Per le cattedre dantesche nelle università di Roma, di Napoli e nell’Istituto
superiore di Firenze, stralcio del discorso tenuto alla Camera per
presentare la Proposta di Legge, edito in prima pagina il 12 dicembre
1886.
Ma si tratta di un dibattito al quale Zumbini, scarso frequentatore
di critica e filologia dantesca, non partecipò. La sua presenza nel giornale
risulta di volta in volta sovraesposta o defilata per contingenti
ragioni di prudenza tattica o di autopromozione: ad esempio, ritenne
opportuno astenersi dal prendere posizione nella polemica tra Antona-
Traversi e il vecchio desanctisiano Bonari editore di un Leopardi
postumo del maestro irpino30; mentre il numero del 24 luglio 1886 presentava
in prima pagina il saggio su La Feroniade del Monti, «splendido
studio dell’illustre Bonaventura Zumbini», anticipazione del volume
Le Monnier dedicato a Gladstone, cui seguiva la polemica con il «Fanfulla
della domenica» a difesa del libro di Zumbini e l’accenno alla
recensione elogiativa del «Giornale Storico della Letteratura Italiana»31.
Si capisce allora che, contro l’opinione diffusa da critici autorevoli
come Torraca e D’Ovidio che «tra i pochissimi che si sono appropriato
davvero il metodo del De Sanctis è lo Zumbini», dovesse intervenire
con veemenza il giovane Croce32. Nel saggio su La critica letteraria,
30 F. De Sanctis, Studio su Giacomo Leopardi. Opera postuma curata da Raffaele
Bonari, Napoli, Morano 1885; cfr. la rist. anast. edita nel 1987 dall’Istituto Suor Orsola
Benincasa di Napoli.
31 B. Zumbini, La Feroniade del Monti, «Napoli Letteraria», III, n. 31, 1 ago. 1886,
p. 1; Per il nuovo libro del Prof. Zumbini (al Fanfulla della Domenica), 21 nov. 1886, pp.
1-2; firmato La Napoli letteraria, ma presumibilmente scritto dallo stesso Zumbini.
32 Francesco D’Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, 1878, p. 147. La linea De
Sanctis-Zumbini era formulata sin dalle prime pagine della Prefazione (p. IX e n.).
Il passo sarebbe stato ripreso da Torraca in un articolo sulla «Rassegna» del 31 dicembre
1883 (in replica a Edoardo Scarfoglio, autore di un attacco a De Sanctis e
Zumbini sulla «Domenica Letteraria» del 16 dicembre dello stesso anno), riedito in
Francesco Torraca, Saggi e rassegne, Livorno, Vigo, pp. 382-94, p. 386. Nello stes-
[ 9 ]
72 nunzio ruggiero
esemplare anche in quanto fondativo di un modello di analisi della
prosa critica applicata a un contemporaneo, si additavano i vezzi e i
vizi della scrittura del professor Zumbini, condotta all’insegna dello
svelamento, insieme demiurgico e tautologico, del mirabile33.
Sappiamo inoltre che gli ultimi strali saranno quelli indirizzati da
Croce all’oratore ufficiale, uomo d’apparato, e autore di belle e vuote
commemorazioni pubbliche, da Luigi La Vista a De Sanctis, da Niccola
Sole a Leopardi. Nella tornata del 5 marzo 1895, il socio residente
Alberto Agresti, libero docente di Letteratura italiana nell’ateneo cittadino,
partecipe del dilagante dantismo che Croce si diede a combattere
tra Otto e Novecento, rendeva conto del reperimento di un manoscritto
procurato da un compaesano e cultore del Sole, il «bravo giovane
Paolo De Grazia, già studente della Facoltà di filosofia e lettere
nell’università napoletana, ed ora insegnante nel Ginnasio di Acerenza
in Basilicata»; qui Agresti annunciava l’uscita imminente dell’edizione
Le Monnier dei Canti di Sole curata da Zumbini, contro la svalutazione
del De Sanctis «a cui non parve che il nostro poeta avesse avuto
un contenuto e una forma di arte tutta sua»34. La memoria ‘pontaniana’
su Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, oltre a regolare i
conti col Carducci, forniva l’occasione per la stroncatura della prefazione
ai Canti di Sole, in cui «Zumbini si va appoggiando sulle grucce
un po’ del sentimento provinciale e campanilistico […], e un po’ dei
giudizii espressi da altri», e lo spunto per il durissimo giudizio su
Zanella, «criticuccio e poetucolo, buono a compilar libri rubacchiando
pagine di scritti altrui, o a dare investiture feudali di principati in quei
territorii della critica letteraria, sui quali aveva così contestabili
diritti»35.
Intanto la reputazione di leopardista era pervicacemente promossa
dagli allievi nelle edizioni «ad uso delle scuole»: dalla dedica del commento
alle Operette morali di Nicola Zingarelli del 1895, a quella del
1900 dei Canti leopardiani curati da Michele Scherillo36. Del corso sulso
intervento si legge il giudizio: «Il Carducci e il Zumbini paiono a molti, e sono
a parer mio, i meno incompiuti critici italiani della generazione posteriore a quella
del De Sanctis» (Ivi, p. 393).
33 Cfr. B. Zumbini, Studi di letteratura italiana, cit., pp. 88-100.
34 Alberto Agresti, Breve notizia di un manoscritto dantesco inedito di Niccola
Sole, «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXV, 1895.
35 Benedetto Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti. Memoria letta
all’Accademia Pontaniana nella tornata del 3 aprile 1898, Napoli, Stab. Tip. della R.
Università, 1898, p. 28, n. 2.
36 Operette morali di Giacomo Leopardi, ricorrette sulle edizioni originali con introdu-
[ 10 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 73
la poesia tra Sette e Ottocento, tenuto nell’anno accademico 1897-1898,
riferisce Pèrcopo nella «Rassegna critica della letteratura italiana», citando
passi di critica foscoliana tratti dalle dispense intitolate Lezioni
di letteratura italiana che, nel riprendere i temi della monografia dedicata
a Monti quindici anni prima, miravano a raccordarsi con le celebrazioni
dell’anno leopardiano37.
Gran sacerdote dei rituali laici della Nazione, Zumbini era intervenuto
a celebrare il centenario del 1898, in occasione del quale la Regia
Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti promuoveva il restauro
della Chiesa di San Vitale che custodiva le spoglie del recanatese. In
tale circostanza, Zingarelli e Pèrcopo magnificavano Il Leopardi a Napoli,
discorso commemorativo del «migliore interprete vivente della poesia
leopardiana, […] letto il 27 giugno nell’Aula Magna dell’Accademia,
innanzi al pubblico più colto della nostra città», e da considerarsi
«uno dei saggi più felici della sua critica dotta e sottile», secondo il
resoconto dei discepoli38.
Nel 1907, ritiratosi dalla vita accademica per il peggioramento delle
condizioni di salute, Zumbini donò i libri della sua collezione leopardiana
alla Biblioteca Nazionale di Napoli39. Attraverso gli amici
Cocchia e Pèrcopo, in questi mesi si riconciliò con Croce, il quale si
recò spesso a trovarlo nella sua casa di Portici. Dopo la morte, all’oblio
degli anni Venti (pochissimi i cenni a lui dedicati dal Russo storico
dell’Università di Napoli) seguì la rivalutazione fascista del 1934, affidata
ad un comparatista prestigioso come Arturo Farinelli, ma destinata
tuttavia a rimanere circoscritta nel perimetro locale della provinzione
e note ad uso delle scuole da Nicola Zingarelli, Napoli, Pierro, 1895; I canti di
Giacomo Leopardi, illustrati per le persone colte e per le scuole con la vita del poeta narrata
di su l’epistolario da Michele Scherillo, Milano, Hoepli, 1900.
37 Nella recens. a Federico G. de Winckels, Vita di Ugo Foscolo (con pref. del
Prof. F. Trevisan, Verona, 1898), «Rassegna critica della letteratura italiana», III
(1898), pp. 32-37, p. 36, Pèrcopo rinviava a «B. Zumbini, Lezioni di letter. ital. (nell’Univ.
di Napoli, anno scolas. 1897-98), pp. 117 e sgg.».
38 N. Zingarelli, Il centenario leopardiano a Napoli, «Rassegna critica della letteratura
italiana», III (1898), pp. 132-134, p. 133. Cfr. l’estratto dal vol. A Giacomo Leopardi
edito dalla R. Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli; ma
vedi anche La canzone del Leopardi ad Angelo Mai, «Rassegna critica della letteratura
italiana», III, 1898 (n. 1, pp. 1-6) e il discorso sul Canto notturno di un pastore errante
nell’Asia, in A Giacomo Leopardi. Omaggio degli studenti recanatesi, XXIX giugno
MLCCCXCVIII (Recanati, Tip. di R. Simboli, 1898).
39 Fulvio Tuccillo, Leopardi nel tempo. La documentazione del fondo Zumbini e la
storia degli studi leopardiani. Con un saggio di Gaspare Tudisca, pref. di Mauro
Giancaspro, introd. di Fabiana Cacciapuoti, Napoli, Macchiaroli, 2001.
[ 11 ]
74 nunzio ruggiero
cia calabra, nel quale Zumbini aveva intrapreso i primi passi della sua
carriera40.
* * *
A trentacinque anni dalla requisitoria zumbiniana intorno a Le lezioni
di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana, la prelezione di
Pèrcopo al corso di «Letteratura nazionale» del 1902-1903, in supplenza
del «venerato maestro» Zumbini, s’inaugurava con un elogio – cauto
ma fermo – del magistero di Settembrini: «il primo dei nostri storici
moderni della letteratura che si occupi della nuova letteratura latina
con passione, in ispecie degli umanisti napoletani o vissuti a Napoli,
come il Valla ed il Pontano, i cui ritratti son fatti con molta verisimiglianza
»41.
Visto in termini di strategia accademica, nel contesto vario e dinamico
dell’organizzazione culturale della Nuova Italia, l’omaggio di
Pèrcopo è rivelatore di una distanza speculare tra allievo e maestro,
che simmetricamente si riflette sulle opposte sorti accademiche: se
l’attacco a Settembrini del 1868 aveva garantito al maestro un credito
valido per l’accesso all’ateneo cittadino, la difesa di Settembrini propugnata
dall’allievo è indicativa di una scelta di campo che avrebbe
decretato il fallimento delle sue ambizioni. Si noti d’altronde che questo
elogio denota il radicamento del giovane Pèrcopo nella cerchia napoletana
dei cultori di storia patria, al riparo delle antiche mura degli
archivi e delle biblioteche dell’ex-capitale, che valse ad alleviare fino
al termine della sua lunga carriera di studioso, la delusione per il
mancato approdo nei ranghi dell’università42.
40 L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, cit., ad ind. Bonaventura
Zumbini, 24 maggio 1934, nella commemorazione di Arturo Farinelli dell’Accademia d’Italia,
Cosenza, Domenico Chiappetta, 1935; cfr. M. Chiodo, L’Accademia cosentina e
la sua biblioteca, cit., pp. 220-23.
41 I termini cronologici indicati nella lezione inaugurale sono il 1443, «quando
Alfonso il Magnanimo entrò nella nostra città», e il 1530 «quando morì Jacobo
Sannazaro, il principale rappresentante della Rinascenza napoletana»; cfr., nel Fondo
Pèrcopo (per il quale si attende ancora un lavoro adeguato di riordino e descrizione,
soprattutto per quanto attiene ai documenti sulla vita universitaria dello
studioso) il ms. intitolato Il Rinascimento a Napoli, conservato presso la biblioteca
della Società Napoletana di Storia Patria, nella Busta 8.1, c. 1r. Sulla funzione e il
significato dell’antifiorentinismo di Settembrini nel dibattito sui modelli linguistici
e culturali dell’Italia postunitaria, cfr. Francesco Sberlati, Filologia e identità nazionale.
Una tradizione per l’Italia unita (1840-1940), Palermo, Sellerio, 2011, pp. 121-
127, 154-59.
42 Sulla vita e la carriera di Erasmo Pèrcopo (1860-1928), si vedano la commemorazione
di N. Zingarelli, nei «Rendiconti del R. Istituto lombardo di scienze e
[ 12 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 75
Pèrcopo sapeva bene che il passaggio sulla cattedra di Zumbini era
solo temporaneo, dovuto alla nomina di questi a professore emerito
della Facoltà di Lettere, in attesa che gli subentrasse Francesco Torraca,
ordinario di letteratura comparata «per chiara fama» dallo stesso
1902. Pure, il supplente prendeva sul serio il compito affidatogli, inaugurando
il corso intitolato Il Rinascimento a Napoli con un fervido incitamento
agli studenti meridionali, affinché riscoprissero le radici napoletane
dell’Europa laica, riconoscibili nei capolavori di Pontano e
Sannazaro: «di questo rinnovamento dell’anima umana, fatto dall’Italia,
han collaborato specialmente, fra le città italiane Firenze, Roma,
Venezia, Milano e Napoli. E Napoli ebbe una parte notevole in questo
movimento. Ma se nelle prime quattro città l’opera dell’umanesimo fu
principalmente erudita e critica, nella nostra città l’opera dell’umanesimo
fu eminentemente poetica»43.
L’attrezzatura necessaria allo scavo filologico e alla comprensione
storica di questi autori era, beninteso, di fabbrica germanica: reperibile
negli studi decisivi di «Jacopo Burkhardt», «Emilio Gebhardt», «Ludovico
Geiger», «Adolfo Gaspary», e soprattutto di «Eberardo
Gothein»44. Dall’esempio di siffatti maestri della moderna scienza letteraria,
Pèrcopo traeva l’impulso a saldare patria napoletana e identità
nazionale, per avvincere la platea studentesca: «io vi esorto a leggere
lettere», s. II, LXI, 1928, pp. 11-12, il profilo di Ezio Levi, negli «Atti dell’Accademia
Pontaniana», LXI, 1931, pp. 501-12, e il pregevole ritratto di Mario Del Treppo,
Un misconosciuto maestro dell’ateneo napoletano: Erasmo Pèrcopo, che mette a frutto
la prima esplorazione del Fondo Pèrcopo, presso la Biblioteca della Società Napoletana
di Storia Patria, edito dapprima come introduzione all’ed. anastatica di E.
Pèrcopo, Nuovi documenti sugli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, Napoli, Società
Napoletana di Storia Patria, 1997, pp. V-XIX, e poi raccolto in Id., Storiografia nel
Mezzogiorno, Napoli, Guida, 2006, pp. 133-47.
43 E. Pèrcopo, Il Rinascimento a Napoli, ms. cit., cc. 4r- 5r.
44 Con la sola eccezione italiana costituita da Il Quattrocento di Vittorio Rossi
(nella Storia letteraria d’Italia, Milano, F. Vallardi, 1901), la rassegna bibliografica
preliminare comprendeva anche il riferimento a Renaissance in Italy di John Addington
Symonds, 7 voll., London, Smith, Elder & Co., 1875-1886 (dei quali solo
il primo e il terzo erano editi in trad. italiana: Il Rinascimento in Italia. Le Belle Arti,
trad. di Sofia Fortini Santarelli, Firenze, Succ. Le Monnier, 1879; Il Rinascimento
in Italia. L’ era dei tiranni, prima versione italiana di Guglielmo de la Feld, Torino,
Roux e Viarengo, 1900) e la recente pubblicazione di Philippe Monnier (Le
Quattrocento. Essai sur l’histoire litteraire du XV siècle italien, 2 voll., Lausanne, Payot,
1901): «figliuolo di Marco Monnier (nome caro agli Italiani) che in una geniale
sintesi del Quattrocento, “saggio su la storia letteraria del XV secolo in Italia”, ci ha
dato, recentemente, uno studio, caldo e profondo, della società e dell’arte italiana
del Rinascimento» (E. Pèrcopo, Il Rinascimento a Napoli, cc. 22-24).
[ 13 ]
76 nunzio ruggiero
qualcuna di queste belle opere sul Rinascimento in Italia. Vedrete allora
che era ben grande la nostra patria quando stava a capo della cultura
europea. E mai, come dopo questa vostra lettura, vi sentirete più
orgogliosi di esser nati italiani»45.
All’altezza del 1903, nella facoltà di Zumbini e D’Ovidio, non sorprende
che Pèrcopo tacesse l’importanza delle pagine di erudizione
storico-letteraria sulla Napoli moderna di Croce. Eppure, al conseguimento
della libera docenza di Letteratura italiana ottenuta poco meno
di un decennio prima, nel 1894, aveva contribuito non poco il suo giovane
sodale: nel 1891, i due cospicui tomi del canzoniere del Cariteo
avevano inaugurato con successo la crociana “Biblioteca Napoletana
di Storia e Letteratura”, che mirava a riprendere, su altra base filologica,
la collana Morano ideata dal Settembrini46; analogamente, il Premio
Tenore dell’Accademia Pontaniana per la biografia del Sannazaro
gli era stato conferito, nel 1893, per diretto e fattivo interessamento di
Croce, autore della lusinghiera relazione di accompagnamento47.
Nel corso degli anni Novanta, la valorizzazione del modello desanctisiano
ai danni di Zumbini, e più in generale la repentina rivelazione
del Croce teorico e polemista nella comunità napoletana degli
eruditi e degli storici, implicarono il raffreddamento dei loro rapporti48.
Di qui il venir meno della collaborazione a periodici congeniali
agli interessi di Pèrcopo, come l’«Archivio Storico per le Province Napoletane
» e «Napoli Nobilissima», a vantaggio della «Rassegna critica
della letteratura italiana», il mensile fondato nel 1896 con Nicola Zingarelli,
che contava tra i collaboratori i maestri Zumbini e D’Ovidio e
i colleghi Torraca e Scherillo49.
45 Ivi, c. 24r.
46 Le rime di Benedetto Gareth detto il Chariteo, secondo le due stampe originali, con
introduzione e note di E. Pèrcopo, 2 voll., Napoli, tipografia dell’Accademia delle
Scienze, 1892.
47 B. Croce, Relazione pel concorso al premio Tenore letta nella tornata del 18 novembre
1894 dal socio Benedetto Croce, «Atti della Accademia Pontaniana», vol. XXV,
Napoli, Tipografia della Regia Università, 1895, pp. 1-6, p. 4). La Vita di Jacopo Sannazaro,
apparve postuma nel 1931, nell’«Archivio Storico per le Province Napoletane
» (n.s., XVII, pp. 87-198), mentre la relazione di Croce si legge negli «Atti
dell’Accademia Pontaniana» (XV, 1895, pp. 1-6); cfr. M. Del Treppo, Un misconosciuto
maestro, cit., p. 135, n. 6.
48 Sull’impatto di Croce nella vita intellettuale e accademica napoletana tra
Otto e Novecento, cfr. E. Giammattei, Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento,
Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 221-233.
49 Cfr. E. Pèrcopo, Una statua di Tommaso Malvico ed alcuni sonetti del Tebaldeo,
«Napoli Nobilissima», II (1893), 1, pp. 10-13; Id., Guido Mazzoni e le sue opere in
[ 14 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 77
È altresì noto che, per la rinuncia a definire un preciso orientamento
teorico, il compito del direttore si riduceva a un defatigante, benché
utilissimo, monitoraggio delle ricerche di filologia, storia e letteratura.
Sicché, nelle colonne di un periodico che nella struttura e nel metodo
si proponeva come onesto e modesto epigono della «Rassegna bibliografica
della letteratura italiana» di D’Ancona, un Pèrcopo più realista
del re si compiacque di dichiarare il suo fastidio per le incursioni teoriche
tentate da Vittorio Cian nella prolusione all’Università di Messina,
L’estetica della storia considerata specialmente nelle sue manifestazioni
letterarie, con implicita allusione a Croce: «e francamente avremmo
preferito che il C[ian], invece di questa benedetta estetica, scoperta ora
e invocata a proposito e a sproposito da novissimi filosofi, ci avesse
dato qualche inedito capitolo sul Bembo e sul Castiglione»50.
Fatto sta che Pèrcopo usciva sconfitto dalla competizione concorsuale
del 1895 per la cattedra di Letteratura italiana dell’Università di
Messina, vinta appunto da Cian, il quale si risentì con Croce per l’atteggiamento
ostile che «l’ometto ha assunto da alcuni mesi a questa
parte verso me, il Flamini, il Rossi, colpevoli, a quanto pare, d’averlo
battuto nell’ultimo concorso e d’avergli usurpato un posto, di cui egli
solo si ritenga degno»51.
Si aggiunga inoltre che, a partire dal 1897, subito dopo la nuova
Napoli, Ivi, III (1894), 3, pp. 41-43. Su Zingarelli e la «Rassegna critica della letteratura
italiana», cfr. E. Giammattei, Zingarelli e la cultura napoletana: fra scuola storica
e modello crociano, in Nicola Zingarelli. Umanità e scrittura. Atti del Convegno di studi
svoltosi a Cerignola nei giorni 29 e 30 marzo 1996, a cura di Carmen Di Donna
Prencipe, Bari, Mario Adda, 1996, pp. 243-57, poi in Ead., I dintorni di Croce. Tra
figure e corrispondenze, cit., pp. 149-160. Sui rapporti di Zingarelli con Vossler, nel
contesto del dibattito italiano su Dante nel primo Novecento, cfr. ora Diego Stefanelli,
Il problema dello stile fra linguistica e critica letteraria: Positivismo e idealismo in
Italia e in Germania, Berlin, Frank und Timme, 2017, pp. 320-21.
50 Cfr. la rubrica “Notizie”, a p. 95 (a. I, n. 6, giu. 1896); cfr. Vittorio Cian,
L’estetica della storia considerata specialmente nelle sue manifestazioni letterarie, Messina,
Principato, 1896. Il passo si trova citato anche in Paolo Trovato, Il clima di
Zingarelli. Mode, maestri, metodi, in Nicola Zingarelli. Umanità e scrittura, cit., pp. 65-
85, p. 71.
51 Si tratta della lettera del 21 agosto 1896, cui segue la replica di Croce nella
lettera del 12 settembre dello stesso anno: «Avevo notato anch’io, attribuendomela,
la trasparente allusione del Percopo. Cosa vuole che le dica? Io non sono più
nelle sue buone grazie. Che gli ho fatto? Me lo domando anch’io. Le sue scortesie
verso di me, che giungono al punto di non salutarmi per via o di evitarmi, risalgono
al tempo in cui pubblicai il mio libro sulla critica» (Carteggio Croce-Cian, a cura
di Clara Allasia, Napoli-Bologna, Istituto italiano per gli studi storici-Il Mulino,
2010, pp. 53-56).
[ 15 ]
78 nunzio ruggiero
edizione Loescher de La critica letteraria, Croce pubblicava con Morano
gli Scritti varii e la Letteratura italiana del secolo XIX52, contro qualsiasi
riduzione meridionalista di De Sanctis, «poco indugiando sulle
antiche memorie napoletane», e facendo invece «largo spazio agli
scritti desanctisiani sul verismo di Zola e sul darwinismo nell’arte, che
ai suoi mostravano di possedere capacità di riferirsi più direttamente
alle questioni attuali connesse al ritorno critico del letterato irpino»53.
Al culmine della battaglia per il riconoscimento del primato nazionale
del maestro irpino, nella replica a Carducci e agli esponenti della
scuola storica su Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, Croce tornava
a censurare il «vago frasario laudativo» sciorinato da Zumbini nella
celebrazione del poeta calabrese Niccola Sole, degna delle «festicciole
di paese che si fanno pei grandi uomini locali»54. Censura che
valeva altresì come risposta all’esaltazione del discorso di Zumbini
per il centenario leopardiano del 1898, salutato da Pèrcopo e Zingarelli
come «uno dei più importanti capitoli di storia critica della poesia
moderna»55.
Unica interlocuzione possibile restava quella limitata entro il perimetro
delle ricerche di erudizione storico-letteraria che avevano originato
il loro sodalizio giovanile, come risulta dai resoconti sulla «Rassegna
critica» delle Ricerche ispano-italiane e degli altri saggi coevi, e
dalla presenza di Croce tra i collaboratori della nuova collezione di
“Studi di letteratura italiana”56. Si tratta del giro di mesi in cui, oltre al
52 F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, scuola liberale-scuola democratica,
Lezioni raccolte da F. Torraca, con prefazione e note di B. Croce, Napoli, A.
Morano, 1897; Scritti varii inediti o rari di Francesco De Sanctis, raccolti e pubblicati
da B. Croce, 2 voll., Ivi, 1898.
53 L. Mascilli Migliorini, Una famiglia di editori, cit., p. 120. A proposito delle
edizioni crociane del De Sanctis, cfr. la lettera a Gentile del 25 nov. 1898: «La rivista
del Pèrcopo non ne parlerà, immaginandosi così di far dispetto a me e piacere allo
Zumbini» (B. Croce-G. Gentile, Carteggio, vol. I, 1896-1900. a cura di Cinzia Cassani
e Cecilia Castellani, con un’Introduzione di Gennaro Sasso, Torino, Aragno,
2014, p. 183).
54 B. Croce, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti. Memoria letta all’Accademia
Pontaniana nella tornata del 3 aprile 1898, Napoli, Stab. Tipogr. Della R. Università,
1898, p. 28 e n. 2.
55 N. Zingarelli, Il centenario leopardiano a Napoli, «Rassegna critica della letteratura
italiana», III (1898), pp. 132-34, p. 134.
56 Si veda in proposito la rubrica “Notizie”, in coda al vol. III (1898), p. 288.
Quanto alla schedatura delle pubblicazioni crociane sulla rivista di Pèrcopo, cfr.
[N. Zingarelli], recens. a B. Croce, Ricerche ispano-italiane. I-II («Atti dell’Accademia
Pontaniana» XXVIII), Napoli, Tip. d. R. Univ. 1898, «Rassegna critica della
[ 16 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 79
compte-rendu sul Rosmini e Gioberti di Gentile, il filosofo prometteva
una recensione dei saggi di Vossler e Spingarn sulla poetica rinascimentale,
che non giunse mai al direttore per l’assorbimento crescente
di Croce negli studi preparatori dell’Estetica57.
Nel successivo e progressivo distendersi dei rapporti personali, sarà
lo stesso Pèrcopo a favorire, nel 1900, la riappacificazione del filosofo
con il vecchio Zumbini58; e sarà a sua volta Croce a incoraggiare la
difficile ripresa dei contatti dell’amico con Cian59. Ma l’isolamento di
Pèrcopo era destinato ad accrescersi, lungo l’arco di una carriera che,
seppur operosa e regolare, non incontrò migliori fortune nel decennio
seguente: la mole di lavoro svolto negli archivi e nelle biblioteche cittadine
sui maggiori e i minori del Rinascimento meridionale, le tante
schede per la «Rassegna critica», e l’uscita di una Storia della letteratura
italiana dalle origini ai giorni nostri, scritta in collaborazione con l’autorevole
dantista Berthold Wiese, non gli ottennero altro che il conferimento
di un incarico di «Storia della letteratura umanistica» per l’A.A.
1906-1907, già concluso tre anni dopo60.
letteratura italiana», III (1898), pp. 216-217; Francesco De Simone Brower, recens.
a B. Croce, Pulcinella e il personaggio napoletano in commedia («Archivio storico
per le province napoletane, XXIII, 1899), Ivi, IV (1899), pp. 281-83; Id., recens. a B.
Croce, I predicatori italiani del Seicento e il gusto spagnuolo («Flegrea», I, 2, 1899), Ivi,
p. 40.
57 La recensione di Croce al vol. di Giovanni Gentile, Rosmini e Gioberti (Pisa,
Nistri, 1898), si legge nella «Rassegna critica della letteratura italiana», IV (1899),
pp. 79-83. L’annuncio delle altre schede crociane, mai pervenute a Pèrcopo, si legge
nella rubrica “Notizie ed appunti”, in coda al vol. IV (1899), p. 286; cfr. Joel
Elias Spingarn, A History of Literary Criticism in the Renaissance, with Special Reference
to the Influence of Italy in the Formation and Development of Modern Classicism,
New York and London, Macmillan, 1899; Karl Vossler, Poetische Theorien in der
italienischen Frührenaissance, Berlin, Felber, 1900. Cfr. Carteggio Croce-Spingarn, a cura
di Emanuele Cutinelli-Rèndina, Napoli-Bologna, Istituto italiano per gli studi
storici-Il Mulino, 2001, p. 9; Carteggio Croce-Vossler, a c. del medesimo, Napoli,
Bibliopolis, 1991, p. 22.
58 Cfr. la lettera, senza data, ma della seconda metà del marzo 1900: «Sissignore,
per l’intermedio degli amici Cocchia e Pèrcopo ci siamo stretti la mano, Zumbini
ed io. Del resto, nella mia acre polemica non s’era mescolato mai nessun motivo
personale» (Carteggio fra Benedetto Croce e Francesco Torraca, a cura di Ettore Guerriero,
Presentazione di Giovanni Pugliese Carratelli, Galatina, Congedo,
1979, pp. 97-98).
59 Cfr., nel Carteggio Croce-Cian, cit., pp. 147-48, la lettera del 2 dicembre 1901.
60 Storia della letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri dei professori Bertoldo
Wiese ed E. Pèrcopo, Torino, Unione tipografico-editrice, 1900 (trad. italiana di
Geschichte der Italienischen Literaur von den altesten Zeiten bis zur Gegenwart, von
Berthold Wiese und Erasmo Percopo, Leipzig-Wien, Bibliographisches Institut,
[ 17 ]
80 nunzio ruggiero
L’interruzione dell’insegnamento era infatti decretata dal Ministero
dell’Istruzione nel fatidico 1910, anno in cui «spirò un vento furioso
contro gl’insegnamenti complementari, dati per incarico o per comando
», come disse D’Ovidio nel commemorare una vittima di quel decreto:
il leopardista molisano Francesco Colagrosso, compagno di studi
di Pèrcopo, come lui insegnante liceale e libero docente di lettere
italiane nell’Università di Napoli, era morto suicida nel 1911, dopo la
soppressione del suo incarico di Stilistica, imposta dal decreto Rava61.
A nulla varrà, infine, l’estremo atto di pietas di Croce, inteso a risparmiargli
l’ultima e più umiliante bocciatura al concorso del 1910,
decretata dalla commissione composta da Barbi, Flamini, Cian, Scherillo
(e con il solo voto contrario di Zingarelli)62, che valse al cremonese
Alfredo Galletti la cattedra dell’Università di Genova:
Ho grande stima del Galletti, e credo molto imbarazzante un giudizio
tra persone di diversissima qualità quali il Percopo e il Galletti. Credo
che il secondo abbia più ingegno del primo; ma che non si possa non
tener conto di una vita intera, data agli studii: tanto più che, se il Galletti
farà bene in un campo, il Percopo avrebbe fatto bene in un altro, avviando
i giovani alle ricerche e fornendoli di tutti gli strumenti necessarii.
A ogni modo, comprendo interamente come tra il Percopo e il
Galletti si potesse restare incerti; e rispetto il giudizio che dà la preferenza
al secondo sul primo. Quello che non comprendo assolutamente
è come si sia potuto escludere il Percopo dalla terna. Mi pare, peggio
che un’ingiustizia, una crudeltà. Quel pover’uomo ha 50 anni, e chiude
tristemente la sua vita o, meglio, i suoi tentativi di vita universitaria,
con un’onta che gli viene inflitta e che non meritava, dati i suoi lunghi
e onesti servigi agli studii nostri63.
1899). Sulle «aberrazioni» di Pèrcopo circa «la partizione dei generi, logicamente e
stoltamente osservata […] nella sua Geschichte», cfr. la lettera di Croce del 28 giugno
1900, in Carteggio Croce-Cian, cit., p. 126.
61 Il necrologio di F. D’Ovidio apparve su «La Provincia di Campobasso» del
28 gennaio 1912. Sul provvedimento del ministro Luigi Rava, datato 19 luglio
1909, circa il riordino degli insegnamenti universitari, e sul dibattito parlamentare
che lo precedé, cfr. Giuseppe Galasso, L’Università e i suoi squilibri nella storia dell’Italia
unita, in Università e territorio. Squilibri e strategie di superamento, a cura di Salvatore
D’Agostino, Napoli, Guida, 1988, pp. 25-42, pp. 27-28.
62 Il giudizio della commissione si legge nel «Bollettino ufficiale del Ministero
della Pubblica Istruzione», 37 (1910), pp. 1944-45, riportato da C. Allasia nella
puntuale nota in calce alla lett. 221 del Carteggio Croce-Cian, cit., al pp. 233-34. Ma
per la posizione di Pèrcopo, si veda anche il suo opuscolo polemico, Pel concorso
alla cattedra di Letteratura italiana nell’Università di Genova, Palermo, Sandron, 1909.
63 Cfr. Carteggio Croce-Cian, cit., pp. 237-38 (lett. del 25 ottobre 1909).
[ 18 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 81
Per questo, nel 1913 Pèrcopo si determinava a lasciare Napoli, per
occupare un posto di ispettore scolastico a Roma, affidando al Lapi di
Città di Castello la stampa della «Rassegna critica»64. Nel dopoguerra,
tra il 1918 e il 1919, una più pacata frequentazione di Croce e dei
suoi amici nelle aule dell’Accademia Pontaniana, dell’Accademia di
Archeologia, lettere e belle arti, e della Società Napoletana di Storia
patria consentì di riprendere il dialogo, testimoniato dalle schede sui
Teatri di Napoli e le Storie e leggende napoletane65. Di qui la collaborazione
del 1921 alla nuova serie di «Napoli Nobilissima», edita da Ricciardi
e diretta da Ceci e De Rinaldis, con un articolo di garbata erudizione
letteraria e topografia storica sulla villa del Pontano, che rivela
sin dall’incipit – «Chi prenda il tram n.° 7, che va da piazza Dante
al Vomero, e scenda alla fermata di Antignano…»66 – l’omaggio al
modello di prosa ‘napolitana’ inaugurato da Croce e Di Giacomo che,
attraverso l’inflessione autobiografica del «pensatore che cammina»,
condurrà alle raffinate variazioni sulle strade di Napoli del Doria
flâneur67.
Si tratta tuttavia di una circostanza che non avrà più a ripetersi.
Mentre va invece rimarcato che la parte aragonese della prima storia
dell’Università napoletana, edita dallo stesso Ricciardi nell’occasione
celebrativa del 1924, sarà affidata non a lui, che pure era il maggior
esperto di storia della cultura napoletana del XV secolo, bensì all’archivista
Riccardo Filangieri, libero docente in paleografia e diplomati-
64 E. Giammattei, Nicola Zingarelli fra scuola storica e modello crociano, in I dintorni
di Croce, cit., p. 153.
65 Si vedano, nella rubrica “Notizie e appunti”, le schede bibliografiche dei
Teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, (Bari, Laterza, 1916) e
delle Storie e leggende napoletane (Ivi 1919), rispettivamente, nella «Rassegna critica
della letteratura italiana», XXII, 1918, pp. 126-28, e XXIV, 1919, pp. 272-73; cfr. Tobia
Raffaele Toscano, Bibliografia degli scritti di Erasmo Pèrcopo, in Luigi Tansillo,
Il canzoniere edito e inedito. Secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e
stampe. Con introduzione e note di Erasmo Pèrcopo, Vol. II, Poesie eroiche ed encomiastiche,
Edizione delle carte autografe di E. Pèrcopo a cura di T.R. Toscano, Napoli,
Fridericiana Historia-Liguori, 1996, pp. 329-66.
66 E. Pèrcopo, La villa di Pontano ad Antignano, «Napoli Nobilissima», n.s., vol.
II (1921), pp. 1-7; il saggio fu raccolto pochi anni dopo, nella ricorrenza del quinto
centenario della nascita del poeta, come memoria n°. 14 degli «Atti dell’Accademia
Pontaniana», vol. LXVI, s. II, vol. XXXI (1926), pp. 221-239.
67 Cfr. E. Giammattei, Il pensatore che cammina. Topografie napoletane nell’opera di
Croce, Napoli, Università degli studi Suor Orsola Benincasa 2016 rist. in Ead., Il
romanzo di Napoli, cit., pp. 427-449.
[ 19 ]
82 nunzio ruggiero
ca nell’ateneo cittadino dal 1923, passato alla cattedra di storia dell’arte
nel 1928, l’anno della morte di Pèrcopo68.
L’ultima opportunità per dimostrare la sua autentica passione didattica
giungerà nel 1925 con l’attribuzione, dovuta forse al Torraca,
di un corso gratuito di Storia della cultura letteraria del Mezzogiorno d’Italia,
tardivo e modesto riconoscimento del quarantennio di ricerche
dedicato a tali studi. Pèrcopo si applicò ad esso con immutato ardore,
riprendendo, integrando e riscrivendo la prolusione di vent’anni prima.
E così, nell’enfasi della nuova prelezione, tornava rinnovato e amplificato
l’elogio del meridionalismo militante di Settembrini: «Egli
era entusiasta della sua terra natale, egli amava i suoi napoletani. Nelle
sue Lezioni di letteratura italiana (1868-1870), tenute in questa università,
si parla per la prima volta, con una certa larghezza, di tutti i grandi
scrittori nostri del Mezzogiorno o si accenna ai minori con amore e
calore. È la prima volta che in una storia della letteratura italiana, si
parli dell’Accademia napoletana umanistica del Quattrocento, del
Pontano, del Sannazaro e degli umanisti minori di quel periodo. È la
prima volta che in una nostra storia letteraria si parli degli scrittori
nostri napoletani in prosa […]. È la prima volta che in una nostra storia
letteraria, si parli dei rimatori napoletani del Cinquecento»69.
Per questo, subito dopo il rinvio ai classici della filologia tedesca, la
rassegna bibliografica rendeva conto dei progressi compiuti dagli studiosi
meridionali: dagli hegeliani Imbriani, Fiorentino e Tallarigo, ai
membri della «Società storica» Capasso, De Blasiis, Volpicella, Minieri
Riccio. E soprattutto, la disamina delle ricerche più recenti comprendeva
stavolta il riconoscimento del magistero critico e storiografico di
Torraca e Croce, preceduto da un rapido cenno all’edizione «sbagliata
» dell’Arcadia del Sannazaro, procurata da Scherillo70.
A tre anni dalla morte, l’accorato appello del vecchio Pèrcopo vale-
68 F. Torraca, Gennaro M. Monti, Riccardo Filangieri, N. Cortese, Michelangelo
Schipa, Alfredo Zazo, L. Russo, Storia dell’Università di Napoli, Napoli,
Ricciardi, 1924 (rist. anast., Ivi, Istituto italiano per gli studi storici, 1993).
69 Si cita dalle cc. 6r-7r del ms. di 26 cc, di appunti su fogli sciolti per il corso di
Storia della cultura letteraria del Mezzogiorno d’Italia, del 1925, uniti a quelli per il già
citato corso di Letteratura italiana del 1903, Il Rinascimento a Napoli, conservato
nella Biblioteca della Società napoletana di Storia patria, Fondo Pèrcopo, busta 8 (1-
4). Cfr. il testo della prolusione ora edito in Nunzio Ruggiero, Oreste Trabucco,
Per il Rinascimento napoletano di Erasmo Pèrcopo, «Esperienze Letterarie» XLI, 4,
2016, pp. 75-85.
70 Arcadia di Jacobo Sannazaro, secondo i manoscritti e le prime stampe, con note ed
introduzione di M. Scherillo, Torino, Loescher, 1888.
[ 20 ]
zumbini e pèrcopo all’università di napoli 83
va ancora a confermare la validità della sua opera di avviamento e
ammaestramento dei giovani, riconosciutagli dall’amico filosofo, nei
limiti della sua problematica e sofferta biografia intellettuale:
Non starò qui a fare un’enumerazione delle monografie che ancora si
debbono scrivere o delle edizioni che si debbono ancora preparare. Ve
le indicherò nel corso delle nostre lezioni, man mano che se ne presenterà
l’occasione.
Io vorrei che voi v’innamoraste di questi studi che illustrano le vostre
terre natìe, le vostre patrie regioni. Senza l’amore non si fa nulla di
buono e di grande. Vorrei che voi vi dedicaste con interesse nel fare,
specialmente, le vostre tesi di laurea, a riempire queste lacune della
“Storia della cultura letteraria” delle nostre province. In uno dei tre
giorni settimanali dedicati al nostro insegnamento, io vi aiuterò a trovare
gli argomenti delle vostre tesi di laurea, indicandovi quali soggetti
potreste ben trattare con utilità dei nostri studi; dandovi la bibliografia
di esso, facilitandovi le ricerche negli archivi e nelle biblioteche.
Cominceremo anzi dal prossimo giovedì a discutere di questo argomento71.
Nunzio Ruggiero
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa – Napoli
71 Ivi, cc. 23r-24r; il passo si trova citato anche in M. Del Treppo, Un misconosciuto
maestro, cit., pp. 146-47.
[ 21 ]

Virginia di Martino
«La storia della nostra vita».
Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino
In Autobiografia di uno spettatore (1974) Calvino ripercorre il proprio rapporto
con il cinema. Il bisogno che spinge Calvino verso le sale cinematografiche è
quello della distanza, che motiva tante sue pagine. Da questo amore per ciò che
è lontano deriva anche l’avversione per il doppiaggio o per film che cerchino di
riprodurre mimeticamente la realtà, insieme alla delusione nel constatare che
esso si è angosciosamente trasformato, negli anni della maturità, «nel cinema
della vicinanza assoluta».

In Autobiografia di uno spettatore (1974) Calvino describes his relationship with
cinema. What draws him towards cinema is the need for distance, that same
need that motivates much of his writing. The love for what is faraway goes to
explain Calvino’s dislike for dubbing or for films that attempt to mimic reality,
together with his disappointment upon realizing that cinema has sadly become,
in its maturity, a “cinema of absolute proximity”.
In Autobiografia di uno spettatore, composta e pubblicata nel 1974
come prefazione al volume felliniano Quattro film, Calvino ripercorre
le tappe del proprio rapporto con il cinema, soffermandosi in particolare
sulle suggestioni ricevute durante l’adolescenza,
[…] diciamo tra i tredici e i diciott’anni, quando il cinema m’occupava
con una forza che non ha confronto col prima o col poi; dei film visti
nell’infanzia i ricordi sono confusi; i film visti da adulto si mescolano
con tante altre impressioni ed esperienze1.
Autore: Università degli Studi di Napoli Federico II; ricercatore a tempo determinato;
virginia.dimartino@unina.it
1 Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Id., Romanzi e racconti, edizione
diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto,
Milano, Mondadori, 1991-1994, III Racconti sparsi e altri scritti di invenzione, p. 29
[d’ora in poi citata AS].
86 virginia di martino
L’immaginario del bambino ha ben poche occasioni di subire sollecitazioni
da parte dell’universo del cinema: «allevato con le redini
tirate»2, da una madre che «sceglieva soltanto film educativi»3, il piccolo
Italo può però godere del privilegio di una macchina da proiezione
in casa, grazie alla quale i suoi genitori «proiettavano film istruttivi.
Anche comiche, ma mia madre pensava che Charlot fosse troppo
maleducato»4.
Lo scrittore ligure attribuisce proprio al «lento e contrastato» «apprendistato
di spettatore»5 l’esplodere della passione per la settima
arte, alla quale egli arriva «forte della reattività di chi s’imbatte per la
prima volta in questo o quell’aspetto della realtà»6, senza l’assuefazione
che sarebbe derivata da una frequentazione infantile: egli scopre le
sale negli «anni tra diciamo il Trentasei e la guerra […]. Anni in cui il
cinema è stato per me il mondo»7.
Sul telo bianco prende forma un universo organizzato secondo
proprie regole, che
consisteva in un campionario di facce d’attori senza uguali né prima
né poi (così almeno a me pare) e le vicende erano semplici meccanismi
per far stare insieme queste facce […] in combinazioni sempre diverse8.
2 Ibidem.
3 Lietta Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, intervista a Italo Calvino
apparsa su «La Stampa», 23 agosto 1981, p. 3 (ora in L’avventura di uno spettatore.
Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, Bergamo, Pierluigi Lubrina
Editore, 1990, p. 131).
4 Ibidem. Ancora in AS (pp. 29-30) Calvino annota: «Ho pochi ricordi del tempo
del muto e dei primi anni del parlato: qualche Charlot, un film sull’arca di Noè,
Ben Hur con Ramon Novarro, Dirigibile in cui uno Zeppelin naufragava al polo, il
documentario Africa parla […]. Generalmente mi venivano evitati i film con intrecci
amorosi, che del resto non capivo perché per mancanza di consuetudine con la
fisiognomica cinematografica confondevo gli attori del film uno con l’altro, specie
se avevano i baffetti, e le attrici, specie se erano bionde. Nei film d’aviazione che si
usavano molto ai tempi della mia fanciullezza i personaggi maschili s’assomigliavano
come tanti gemelli, e siccome la vicenda era sempre basata sulla gelosia di
due piloti che per me erano un unico pilota, me ne veniva una gran confusione».
5 AS, p. 30.
6 Mario Barenghi, Una storia, un diario, un trattato (o quasi), in Id., Italo Calvino,
le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, p. 143.
7 AS, p. 27.
8 Ivi, p. 33. A questo proposito, si legga quanto nota Goffredo Fofi: «Cosa imparava
Calvino da quel cinema? Una sorta di prestrutturalismo: il fatto che le trame,
gira e rigira, sono sempre le stesse, congegnate nello stesso modo, punti forti
e punti di transizione, costruzione della storia e del suspense, ecc.» (Goffredo
[ 2 ]
italo calvino e il cinema 87
Tuttavia questo universo fittizio possiede, per il giovane Calvino,
«la pienezza, la necessità, la coerenza»9 di un cosmo dotato di senso e
portatore di significato, mentre il mondo reale sembra disgregarsi in
disordine informe: «fuori dello schermo s’ammucchiavano elementi
eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della
mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma»10.
Senza il filtro della narrazione cinematografica, senza la selezione
operata dall’obiettivo della cinepresa, i dati del reale si fondono in un
«magma insondabile»11 e privo di forma, dominati dunque dalla casualità
e dall’indistinzione. «I materiali della mia vita», dice Calvino:
ciò che è troppo vicino, ciò in cui l’io è immerso e da cui è costituito, e
che andrebbe guardato da una certa distanza perché possa essere ordinato,
definito, nominato.
Da un lato, dunque, il cinema indica al futuro scrittore la necessità
di usare un diaframma, un filtro, uno ‘schermo’, per rendere raccontabili
(e quindi conoscibili, o viceversa) anche le proprie esperienze,
suggerendogli un bisogno di distanza che
rimarrà aspetto centrale nella riflessione calviniana anche e soprattutto
in sede letteraria, seppure riarticolato a livello di Weltanschauung e di
invenzione di situazioni narrative, e quindi su un diverso e più complesso
orizzonte problematico12.
Dall’altro lato il cinema risponde al bisogno adolescenziale di evasione
verso mondi diversi dal proprio:
Il cinema come evasione, si è detto tante volte, con una formula che
vuol essere di condanna, e certo a me il cinema allora serviva a quello,
a soddisfare un bisogno di spaesamento, di proiezione della mia attenzione
in uno spazio diverso, un bisogno che credo corrisponda a una
funzione primaria dell’inserimento nel mondo, una tappa indispensabile
d’ogni formazione13.
Al «bisogno di spaesamento» i film rispondono prima e meglio di
Fofi, Presentazione, in L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, cit., p.
14).
9 AS, p. 27.
10 Ibidem.
11 Francesca Serra, Calvino, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 351.
12 Luca Clerici, Tra carta e pellicola, in L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino
e il cinema, cit., p. 107.
13 AS, p. 27.
[ 3 ]
88 virginia di martino
quanto faccia la lettura. Anche per Calvino, che per sua ammissione
«non leggev[a] mica tanti libri»14, valgono le riflessioni compiute da
Gian Piero Brunetta a proposito di autori quali Sciascia e Bufalino: «il
cinema entra nelle loro biografie sotto forma d’influenza maggiore
della letteratura nella fase di formazione»15. Assistere ad una proiezione
rappresenta dunque – continua lo scrittore ligure nella sua Autobiografia
– «il modo più facile» «per crearsi uno spazio diverso […], quello
che istantaneamente mi portava più lontano»16.
Infilatosi in una sala cinematografica spesso nel primo pomeriggio,
col piacere clandestino del figlio che per uscire propina ai genitori «la
scusa d’andare a studiare da qualche compagno»17, Calvino sperimenta
i vantaggi di una proiezione quasi privata e godibile dall’inizio alla
fine; ma anche quando riesce a raggiungere il cinema più tardi, «a film
cominciato», è in grado di ricomporre «il filo temporale della storia»18
restando, dopo la fine della prima proiezione, a guardare l’inizio della
successiva. Ciò gli concede «soddisfazioni supplementari: scoprire
non lo scioglimento dei misteri e dei drammi, ma la loro genesi; e un
confuso senso di preveggenza di fronte ai personaggi»19.
L’evasione verso mondi altri provoca, però, un senso di spaesamento
spaziale e temporale quando, a film finito, si deve tornare nel
mondo che attende fuori dalla sala: «un leggero stordimento […], dannoso
per lo studio ma favorevole alle fantasticherie»20. Allontanarsi
dalla realtà, e tornarvi dopo l’immersione nel mondo dello schermo,
costringe a notare elementi che probabilmente sarebbero sfuggiti
all’attenzione, se non ci fosse stata la cesura offerta dal cinema:
all’uscita mi colpiva il senso del passare del tempo, il contrasto tra due
dimensioni temporali, dentro e fuori del film. […] Un’emozione speciale
era scoprire in quel momento che le giornate s’erano accorciate o
allungate: il senso del passare delle stagioni […] era all’uscita del cinema
che mi raggiungeva21.
Uscire dalla quotidianità e rientrarvi permette di provare una sen-
14 L. Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, cit., p. 131.
15 Gian Piero Brunetta, Gli intellettuali italiani e il cinema, Milano, Bruno
Mondadori Editore, 2004, p. 146.
16 AS, p. 27.
17 Ivi, p. 28.
18 Ibidem.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 Ivi, p. 30.
[ 4 ]
italo calvino e il cinema 89
sazione di straniamento che consente di cogliere meglio i dati del reale.
Passeggiando poi con gli amici davanti alla sala da cui è uscito da
poco, l’adolescente ha l’impressione di essere abitatore di due mondi,
ognuno dei quali, osservato stando nell’altro, sembra assurdo e incomprensibile:
ripassavo davanti al cinema da cui ero appena uscito e sentivo dalla
cabina di proiezione battute di dialogo risuonare sulla via, e le ricevevo
adesso con un senso d’irrealtà, non più d’immedesimazione, perché
ero ormai passato al mondo di fuori; ma anche con un senso simile alla
nostalgia, come chi si volta indietro su un confine22.
Simile situazione viene vissuta dal protagonista della Nuvola di
smog (1958): «certe sere per esempio andando al cinema, facevo tardi,
uscivo dal film con la testa un po’ balorda»23. Dopo aver visto il film,
l’io narrante si ritrova a vagare per le strade incerto sulla consistenza
propria e del mondo, finché non entra in una birreria. Il contatto con
la gente e il vario spettacolo di luci, suoni e colori che gli si offre diventano
un altro cinema, popolato stavolta di forme solide, al cui confronto
il reale, connotato paradossalmente dal buio e abitato da ombre
sfuggenti, mostra tutta la sua spettralità e inconsistenza:
Entrare dalla strada nel locale non era solo un passaggio dal buio alla
luce: cambiava la consistenza del mondo, fuori sfatto, incerto, rado, e
qui pieno di forme solide, di volumi con uno spessore, un peso […].
C’era pieno di gente e io che per la via m’ero abituato a considerare i
passanti ombre senza faccia e me pure un’ombra senza faccia tra le tante,
qui riscoprivo tutt’a un tratto una foresta di visi maschili e femminili,
colorati come frutti, ognuno diverso dagli altri e tutti sconosciuti24.
La birreria attrae con la forza e il fascino dell’ignoto, come fa il cinema,
e come il cinema rappresenta un «altro mondo che [è] il
mondo»25. È un universo variegato di uomini e donne che, contempo-
22 Ivi, p. 31. Che i due mondi siano estranei, e un contatto possa avvenire solo
sotto il segno del disagio e del perturbamento, è ribadito più avanti: «Le porte laterali
della sala davano su un vicolo; negli intervalli la maschera con gli alamari
sulla giubba apriva le tende di velluto rosso e il colore dell’aria di fuori s’affacciava
alla soglia con discrezione, i passanti e gli spettatori seduti si guardavano con un
po’ di disagio, come per un’intrusione sconveniente per gli uni o per gli altri» (ibidem).
23 Id., La nuvola di smog, in Id., Romanzi e racconti, cit., I, p. 922.
24 Ibidem.
25 AS, p. 31.
[ 5 ]
90 virginia di martino
raneamente, sono attori e pubblico dello spettacolo che ha luogo nel
locale: concreti pur nella loro inafferrabilità di estranei, essi disegnano,
con i loro visi «colorati come frutti, ognuno diverso dagli altri e
tutti sconosciuti», una copia di quel «sistema a sé, con le sue costanti e
le sue variabili» che è il «firmamento di Hollywood»26.
Il protagonista della Nuvola sembra assumere l’atteggiamento del
giovane Calvino che, osservando gli attori sullo schermo, ne cataloga
i tipi, cogliendo di ognuno la specificità. Ad esempio, «Clark Gable
rappresentava una certa brutalità rallegrata dalla spacconeria, Gary
Cooper un sangue freddo filtrato dall’ironia»27, e così via fino a Leslie
Howard, passando per James Stewart, Spencer Tracy e altri.
Altrettanto accade con le attrici: «s’andava dall’estrosa Carole
Lombard alla pratica Jean Arthur»28, senza che questa capacità di inventariare
tipi ne diminuisca la distanza.
Come i visi degli avventori della birreria restano sconosciuti all’io
narrante del racconto del ’58, così gli attori e, soprattutto, le attrici catalogate
con tanta padronanza restano abitanti di un mondo altro che,
nella sua coerenza e organicità, non ha punti d’intersezione con la vita
di fuori. Niente, nel mondo reale, somiglia al mondo del film:
Tra il catalogo delle donne incontrate nei film americani e il catalogo
delle donne che s’incontrano fuori dello schermo nella vita di tutti i
giorni non si riusciva a stabilire un rapporto; direi che dove finiva l’uno
cominciava l’altro29.
E come in Autobiografia di uno spettatore ripassare davanti alla sala
appena lasciata e udirne le voci provenienti provoca «uno smarrimento
crescente circa la natura stessa del reale, un dubbio angoscioso che
investe il proprio medesimo essere»30, così nella Nuvola di smog è straniante
ascoltare dall’interno le voci della birreria, solitamente udite
dalla camera da letto, nella casa adiacente al locale:
– Gnocchi al burro, per favore, – dicevo, e finalmente il cameriere al
banco sentiva e si faceva al microfono e scandiva: – Una di gnocchi al
burro! – e io pensavo al grido cadenzato come usciva dall’altoparlante
della cucina, e mi pareva d’essere nello stesso tempo qui al banco e
26 Ivi, p. 35.
27 Ibidem.
28 Ibidem.
29 Ivi, p. 36.
30 Mario Barenghi, Reti, percorsi, labirinti. Calvino 1984, in Id., Italo Calvino, le
linee e i margini, cit., p. 47.
[ 6 ]
italo calvino e il cinema 91
coricato lassù nella mia stanza, e le parole che s’incrociavano fitte […]
e il tintinnio di bicchieri e posate cercavo di frantumarli e attutirli nella
mia mente fino a riconoscere il rumore di tutte le mie sere31.
Il protagonista della Nuvola di smog cerca di ricondurre al noto il
nuovo, di separare nella propria percezione il mondo della stanza e
quello della birreria, di rimettere in vigore le barriere tra i due cosmi
diversi: quello interno, personale, e l’altro, esterno e affollato, la cui
sovrapposizione causa spaesamento.
In trasparenza tra le linee e i colori di questa parte del mondo andavo
distinguendo l’aspetto del suo rovescio, del quale soltanto mi sentivo
abitatore. Ma forse il vero rovescio era questo, illuminato e pieno d’occhi
aperti, mentre invece l’unico lato che contasse in ogni cosa era quello
in ombra, e la birreria «Urbano Rattazzi» esisteva solo perché se ne
potesse sentire quella voce deformata nel buio: «Una di gnocchi al burro!
» […], perché la nebbietta della via fosse interrotta dall’alone dell’insegna,
dal riquadro dei vetri appannati su cui si disegnavano confuse
sagome umane32.
È lo stesso spaesamento provato dal Calvino ragazzo che, passeggiando
con gli amici davanti al cinema, ascolta frammenti di dialoghi
uditi poco prima dall’interno, e non distingue più quale sia il mondo
da abitare con più diritto. Potremmo forse dire che anche il cinema,
come la birreria «Urbano Rattazzi», esiste perché se ne senta «deformata
» la voce, prima udita dall’interno, una volta fatto ritorno alla
vita di fuori: «la cabina dell’operatore apriva sulla via principale una
finestrella da cui risuonavano le assurde voci del film, metallicamente
deformate dai mezzi tecnici dell’epoca»33.
Finché assiste alla proiezione, Calvino subisce la forza incantatrice
del cinema; allontanandosi dallo spazio concluso in cui domina la magia
si può osservare il trucco che la genera: questa viene privata, così,
di tutto il suo incanto e della sua capacità di ammaliare. Il gioco di
prestigio è svelato nei suoi prosaici retroscena, e perde tutto il suo fascino,
perché perde il suo mistero. Paradossalmente, è proprio fuori
dal cinema che lo scrittore si fa più vicino ai meccanismi che operano
generando l’illusione. Finché è in sala può credere che l’artificio non
esista, che lo schermo sia una finestra aperta su un altro mondo da cui
31 I. Calvino, La nuvola di smog, cit., p. 923.
32 Ibidem.
33 AS, p. 31.
[ 7 ]
92 virginia di martino
provengono voci, visi, storie. Fuori la disillusione è in agguato. Fuori
si scoprono la cabina dell’operatore e i suoi strumenti che riproducono
metallicamente i suoni: e si nota, come già ebbe modo di fare Pirandello,
che «la voce […] viene fuori grottescamente dalla macchina,
voce di macchina e non umana, sguaiato borbottamento da ventriloqui,
accompagnato da quel ronzìo e friggìo insopportabile»34. Si perde,
così, la distanza necessaria alla passione.
Rilevando l’innaturalità delle voci Calvino riflette, come non ha
fatto in sala, sulla «natura deformante del doppiaggio»35: le «assurde
voci» gli sembrano «ancor più assurde per l’eloquio del doppiaggio
italiano che non aveva rapporto con nessuna lingua parlata del passato
o del futuro»36. Quando, più tardi, frequenterà la Mostra del cinema
di Venezia, egli si pronuncerà ancora sull’abitudine di doppiare i dialoghi:
«mi piace vedere i film in versione originale, cosa impossibile in
Italia: è una prova di barbarie credere che un film doppiato equivalga
a un film che parla la propria lingua»37.
Un film che parla la propria lingua, diversa da quella usata quotidianamente
dallo spettatore, è un film che, più di quelli doppiati, offre
«l’opportunità di un contatto obliquo»38 con il mondo, spalancando
porte su realtà lontane: è, quindi, un film che risponde meglio al calviniano
«pathos della distanza», quella «tensione tra la solitudine nella
distanza e la comunità necessaria, ma disgustosamente vicina e
infida»39.
È allora, forse, un bene che il doppiaggio sia almeno eseguito in
una lingua di fatto inesistente, in quell’italiano «che non aveva rap-
34 Luigi Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, in Id., Saggi e interventi,
a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza
di Andrea Pirandello, Milano, Mondadori, 2006, pp. 1369-1370.
35 Matteo Palumbo, «Quell’altro mondo che era il mondo». Calvino e il cinema,
«Italies» [En ligne], 16 (2012), mis en ligne le 01 janvier 2014, URL: http://italies.
revue.org/4554; DOI:10.4000/italies.4554.
36 AS, p. 31.
37 L. Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, cit., p. 127.
38 Antonio Saccone ha rilevato che «l’opportunità di un contatto obliquo con le
asprezze malefiche della vita, con il terribile vento della storia, riconferma la necessità,
da sempre sostenuta da Calvino, di affacciarsi sull’orlo dell’abisso, perscrutandolo
fino in fondo, senza tuttavia precipitarvi dentro» (Antonio Saccone,
«La continuità e la mobilità del tutto»: classici latini interpretati da Italo Calvino, in Il
miglior fabbro. Studi offerti a Giovanni Polara, a cura di Arturo De Vivo e Raffaele
Perrelli, Amsterdam, Adolf M. Hakkert Editore, 2014, p. 455).
39 Cesare Cases, Calvino e il “pathos” della distanza, in Id., Patrie lettere, Torino,
Einaudi, 1987, p. 160.
[ 8 ]
italo calvino e il cinema 93
porti con nessuna lingua parlata del passato o del futuro», e che meglio
può preservare, nella sua convenzionalità, la magia dell’alterità:
Eppure la falsità di quelle voci doveva pur avere una forza comunicativa
in sé, come il canto delle sirene, e io passando ogni volta sotto
quella finestrella sentivo il richiamo di quell’altro mondo che era il
mondo40.
Se «non c’è linguaggio senza inganno»41, anche sull’inganno il linguaggio
del cinema basa la propria capacità di seduzione. Doppiato in
senso realistico, in una lingua consueta, funzionale a esprimere anche
la vita di tutti i giorni, il film avrebbe perso parte del suo fascino. E
invece «l’astrazione» e «la convenzionalità del doppiaggio»42
entrava[no] a far parte dell’incantesimo del film, inseparabil[i] da
quelle immagini. Segno che la forza del cinema è nata muta, e la parola
– almeno per gli spettatori italiani – è sempre sentita come una sovrapposizione,
una didascalia in stampatello43.
Proprio per la sua capacità di spalancare le porte su mondi altri, il
cinema americano è preferito a quello italiano dello stesso periodo:
nell’Autobiografia Calvino tace dei «film italiani d’allora»,
pur avendoli visti quasi tutti […], perché contavano così poco, in male
o in bene, e in questo discorso sul cinema come altra dimensione del
mondo non potrei proprio farceli entrare44.
40 AS, p. 31.
41 Id., Le città invisibili, in Id., Romanzi e Racconti, cit., II, p. 395.
42 AS, p. 37.
43 Ibidem. La didascalia sentita come sovrapposizione non può non far pensare
al Calvino bambino che gode di una visione non appesantita da parole – spesso
nemmeno pertinenti all’immagine – e fantastica osservando le figure del «Corriere
dei Piccoli»: «Il “Corriere dei Piccoli” ridisegnava i cartoons americani senza balloons,
che venivano sostituiti da due o quattro versi rimati sotto ogni cartoon.
Comunque io che non sapevo leggere potevo fare benissimo a meno delle parole,
perché mi bastavano le figure. […] Quando imparai a leggere, il vantaggio fu minimo:
quei versi sempliciotti a rime baciate non fornivano informazioni illuminanti;
spesso erano interpretazioni delle storie fatte a lume di naso, tali e quali come le
mie […]. Comunque io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia
occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione» (Id.,
Visibilità, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano,
Mondadori, 1993, pp. 104-105).
44 AS, p. 37.
[ 9 ]
94 virginia di martino
Per lo stesso motivo con le pellicole hollywoodiane non possono
competere nemmeno quelle francesi, che richiamano mondi e situazioni
troppo familiari e vicini, frustrando il desiderio di evasione. Le
attrici d’oltralpe non assomigliano alle irraggiungibili dee dell’olimpo
hollywoodiano, ma evocano bellezze più quotidiane e concrete, dalla
«presenza carnale che le insedi[a] nella memoria come donne vive e
non come fantasmi erotici»45; e anche un divo come Jean Gabin è colto
in un’atmosfera eccessivamente casalinga, «pien[a] di odori, di umori
e di sudori, con la faccia […] che si solleva dal piatto, sporca di minestra,
nella prima scena de La Bandera»46.
La passione per i mondi lontani creati dal cinema americano degli
anni Trenta porta quindi il giovane protagonista dell’Autobiografia ad
esercitare «un’ostinazione da collezionista»47, in particolar modo d’estate,
quando con più libertà può dare
la caccia ai vecchi film […], perché si tornavano a programmare film
d’anni precedenti, di prima che questa fame onnivora si impadronisse
di me, e in quei mesi potevo riconquistare anni perduti, rifarmi un’anzianità
di spettatore che non avevo48.
Lo scrittore ligure ci tiene a sottolineare: anzianità di spettatore. È
questa l’identità in cui si riconosce, se più avanti, dopo aver vantato la
propria conoscenza dell’universo di celluloide49, ha modo di ribadire:
«un’erudizione da spettatore, la mia, si badi bene, e non da specialista
»50.
La passione adolescenziale per il cinema conserva i tratti di un
amore spontaneo, tanto attento nel conoscere i dettagli più minuti
dell’oggetto del desiderio, quanto restio ad aprirsi ad una dimensione
più che personale:
45 Ivi, p. 34. Se, come già visto sopra, tra le donne dei film americani e quelle
reali «non si riusciva a stabilire un rapporto», «con le donne dei film francesi invece
questo rapporto c’era» (ivi, p. 36).
46 L. Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, cit., p. 132. In AS leggiamo: «il
cinema francese era greve d’odori quanto quello americano sapeva di palmolive,
lustro e asettico» (p. 34).
47 AS, p. 38.
48 Ivi, p. 32.
49 «[…] il mio collezionismo s’estendeva allo stuolo dei generici che a quel
tempo erano un necessario ingrediente d’ogni film, specie nei ruoli comici […], o
nei ruoli di “cattivo”. […] Conoscevo i nomi di quasi tutti, anche di quello che faceva
sempre il portiere d’albergo permaloso[…], anche di quello che faceva sempre
il barista raffreddato» (ivi, p. 38).
50 Ibidem.
[ 10 ]
italo calvino e il cinema 95
Questi ricordi fanno parte d’un mio magazzino mentale dove non
contano i documenti scritti ma solo il casuale depositarsi delle immagini
lungo le giornate e gli anni, un magazzino di sensazioni private
che non ho mai voluto mescolare con i magazzini della memoria collettiva51.
Ai «magazzini della memoria collettiva», alla critica cinematografica
– e dunque ad una fruizione non privata ma funzionale alla comunicazione
di una determinata visione del mondo, della realtà circostante
e della società – si volgerà invece Calvino dopo un decennio,
negli anni Quaranta. Cosa ha provocato un tale mutamento nel modo
di concepire il cinema e di fruirne? La cesura è causata da una lontananza
forzata, iniziata nel 1938 e conclusa quando, nel 1948, appaiono
le prime recensioni52 che vedono Calvino nei panni del critico-militante
di sinistra.
Il periodo della passione adolescenziale è bruscamente interrotto
– ma anche preservato e distanziato come un’epoca felice, difeso dal
disincanto e dalla noia che potevano contaminarlo: come è stato notato
a proposito di Se una notte d’inverno un viaggiatore, «spesso si ha
difficoltà a riconoscere quali siano i veri piaceri finché non ci vengono
tolti»53.
Nell’Autobiografia così viene illustrato il momento della fine dell’idillio:
Va detto che tutta questa storia si concentra in pochi anni: la mia passione
ebbe appena tempo di riconoscersi e liberarsi dalla repressione
familiare, e fu soffocata d’improvviso dalla repressione statale. Tutto a
un tratto (mi pare nel 1938) l’Italia, per estendere la sua autarchia al
campo cinematografico, decretò l’embargo ai film americani54.
Si tratta, riconosce lo scrittore da adulto, certamente di «una privazione
minore o minima»55 rispetto «a tutte le proibizioni e gli obblighi
51 Ivi, pp. 38-39.
52 Charlot ha perso la pazienza, su «Partito e massa», nell’aprile; e Il regista di
Caccia tragica sta girando Riso amaro, su «L’Unità», nel luglio (ora con i titoli, rispettivamente,
Charlot e i finti tonti e Tra i pioppi della risaia la «Cinecittà» delle mondine,
in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995,
II, pp. 1879-1882 e 1883-1887).
53 F. Serra, Calvino, cit., p. 336.
54 AS, p. 39.
55 Ivi, p. 40.
[ 11 ]
96 virginia di martino
che il fascismo aveva imposto»56. Mentre però questi ultimi non sono
stati notati dal fanciullo, a causa della giovane età e del contesto di
una «vita provinciale […] dove la dimensione di massa dei fenomeni
non si coglieva»57, «il veto ai film americani»58 per la prima volta lede
un diritto, proibisce la soddisfazione di un bisogno:
Era la prima volta che un diritto di cui godevo mi veniva tolto: più che
un diritto, una dimensione, un mondo, uno spazio della mente; e sentii
questa perdita come un’oppressione crudele, che racchiudeva in sé
tutte le forme d’oppressione che conoscevo solo per sentito dire o per
averne visto soffrire altre persone59.
Tracciando un bilancio del periodo, Calvino riconosce che è proprio
grazie a questa proibizione improvvisa se l’universo meraviglioso
del cinema è diventato un Eden: «Se ancora oggi posso parlarne
come d’un bene perduto è perché qualcosa scomparve dalla mia vita
per non ricomparire mai più»60.
Quando potrà tornare al cinema, a distanza di anni ma soprattutto
di eventi – guerra e Resistenza – che hanno inciso un solco profondissimo
tra il prima e il poi, ci tornerà con altri occhi61, con ben altro bagaglio
umano e culturale. «I gusti dell’adolescenza erano stati spazzati
via, a raccontarli è come se appartenessero alla vita di un’altra
persona»62, dichiara a Lietta Tornabuoni; ma la sensazione di estraneità
rispetto alla propria passione adolescenziale è già esplicitata
nell’Autobiografia di uno spettatore. Come chi incontri, invecchiato, persone
o oggetti amati anni addietro e, trovandoli mutati, non riesca più
a provare le antiche emozioni, Calvino afferma:
56 Ivi, p. 39.
57 Ivi, p. 41.
58 Ivi, p. 40.
59 Ibidem.
60 Ibidem.
61 Per cogliere questo mutamento di prospettiva basti leggere quanto scritto
nella Prefazione apposta nel 1964 al Sentiero dei nidi di ragno: se per l’adolescente il
cinema rappresenta, come visto, «il richiamo di quell’altro mondo che era il mondo
» (AS, p. 31), durante la Resistenza il mondo diventa quell’insieme di «personaggi,
paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed
amplessi» (Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti,
cit., I, p. 1186) in cui si è immerso il giovane partigiano. Per l’autore del Sentiero i
«colori della tavolozza» (ivi, p. 1187) del reale sono questi, e diventa di cruciale
importanza la questione di «come trasformare in opera letteraria quel mondo che
era per noi il mondo» (ibidem).
62 L. Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, cit., p. 133.
[ 12 ]
italo calvino e il cinema 97
Finita la guerra tante cose erano cambiate: io ero cambiato, e il cinema
era diventato un’altra cosa, un’altra cosa in sé e un’altra cosa in rapporto
con me. […] Con tante altre cose per la testa, se ritornavo col
ricordo al cinema hollywoodiano della mia adolescenza, lo trovavo
una povera cosa […]. Anche i miei ricordi della vita di quegli anni
erano cambiati, e tante cose che avevo considerato come l’insignificante
quotidiano ora si coloravano di significato, di tensione, di premonizione
63.
Il mondo e il tempo informe che circondavano l’adolescente, il caos
indecifrabile da cui il ragazzo preferiva evadere verso universi lontani
diventano ora, a guardarli dalla prospettiva di un’età più matura,
densi del futuro che, in nuce, è già in parte raccolto lì. Se «l’inizio della
guerra contrassegna […] la soglia dell’età adulta»64, «il bambino, il
ragazzino, interessa per quanto di adulto sta germinando in lui»65. E
dunque, a fronte di altre esperienze più decisive, la passione per il cinema
subisce, nel ricordo, un ridimensionamento. O meglio, più che
un’operazione di ridimensionamento, si compie il tentativo di scoprire,
nella passione adolescenziale, il germe di un atteggiamento verso
il reale che sarà una costante:
Cos’è stato dunque allora il cinema, in questo contesto, per me? Direi:
la distanza. Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione
dei confini del reale, di veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili,
astratte come entità geometriche, ma anche concrete,
assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo
dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti66.
Dopo l’interruzione segnata dalla guerra, e il bilancio degli anni
che l’hanno preceduta, con le loro passioni e la loro visione del mondo,
Calvino torna a fare esperienza di cinema. Si tratta, tuttavia, di
un’esperienza molto diversa, dato il dichiarato mutamento subito
dall’io e dal cinema stesso: «La mia biografia di spettatore riprende
ma è quella d’un altro spettatore, che non è più soltanto spettatore»67.
Nel dopoguerra inizia il periodo dell’impegno. Sullo scorcio degli an-
63 AS, p. 40.
64 Mario Barenghi, Per non contrabbandare elegie, in Id., Italo Calvino, le linee e i
margini, cit., p. 90.
65 Ibidem.
66 AS, p. 41.
67 Ivi, p. 40.
[ 13 ]
98 virginia di martino
ni Quaranta e negli anni Cinquanta «il cinema è il luogo in cui vengono
messi in scena i problemi collettivi della nazione»68, di cui soppesare
«il contenuto, secondo quella metodologia ideologico-valutativa,
peculiare della critica marxista militante, organica al Partito comunista
italiano»69.
Ma anche dopo la fuoriuscita dal partito non sarà più recuperata
la dimensione dello spettatore puro: lo schermo non è più una porta
aperta su mondi altri, piuttosto «una lente d’ingrandimento posata
sul fuori quotidiano»70. Perduta la magia dell’altrove, il cinema diventa
strumento, tra gli altri, funzionale alla decodifica della società
circostante, «lente d’ingrandimento» appunto, che, se aiuta a mettere
a fuoco realtà contemporanee71, perciò stesso esclude la visione di
mondi diversi dal proprio, in cui soddisfare «quella necessità antropologica,
sociale, della distanza»72. Nonostante Calvino tenti, «in nome
del [suo] vecchio amore per il cinema»73, di mantenere una «condizione
di puro spettatore»74, nota subito l’impossibilità di tale proposito:
Ma la società italiana avendo poco spessore, con quelli che fanno il cinema
ci si trova insieme in trattoria, tutti si conoscono con tutti […]. Si
aggiunga il fatto che […] tra le cinematografie dei vari paesi sono presto
cadute le barriere: insomma il senso della distanza si è perso in
ogni sua accezione75.
Un’eccessiva vicinanza nuoce quindi alla fruizione del prodotto
cinematografico; e già vent’anni prima dell’Autobiografia, in un intervento
del 1953, Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa, l’autore
sanremese si è espresso in questi termini:
[…] io trovo che vedere i film ha perso molto del suo carattere meraviglioso,
adesso che quelli che li fanno sono dei nostri amici: il film non
68 Vito Santoro, Calvino e il cinema, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 27.
69 Ibidem.
70 AS, p. 41.
71 Come viene ad esempio affermato da Calvino nel 1948, in veste di critico per
le pagine dell’«Unità», a proposito dello stretto legame venutosi a creare, durante
le riprese di Riso amaro, tra le mondine e la troupe del regista De Santis: «[De Santis]
sa che solo con questi contatti tra cinema e popolo si può fare del cinema vero»
(Id., Tra i pioppi della risaia la «Cinecittà» delle mondine, cit., p. 1887).
72 AS, p. 41.
73 Ivi, p. 42.
74 Ibidem.
75 Ibidem.
[ 14 ]
italo calvino e il cinema 99
è più quello strano fiore d’una pianta spuria e contaminata, con radici
che vengono su dal circo equestre, dal castello dei misteri, dalle cartoline
al bromo, dai tabelloni del cantastorie. Ed è un fatto che io mi diverto
di meno76.
Tuttavia egli non rinuncia ad andare al cinema, in attesa di un «incontro
eccezionale» con una «visione filmata»77 che può comunque
avvenire, grazie all’arte dei registi o più spesso per caso, a patto di
farsi trovare pronti e recettivi. Eppure, per quanto riguarda il cinema
italiano, «ci si può aspettare molto dal genio personale dei registi, ma
pochissimo dal caso»78: sarà ben raro, dunque, che nasca, tra spettatore
e pellicola, quell’incontro inaspettato e sorprendente che più di
ogni altro pregio razionalmente riconoscibile fa scoccare la scintilla di
un amore. Calvino, infatti, così prosegue: «Questa dev’essere una delle
ragioni per cui il cinema italiano l’ho talvolta ammirato, spesso apprezzato,
ma non l’ho mai amato»79. Soprattutto trova «detestabile»80
la «commedia satirica di costume»81 degli anni Sessanta, in quanto
«caricatura dei nostri comportamenti sociali»82, incapace di «essere
spietata»83 critica dei vizi italiani, e inadatta (perché «simpatica e bonaria,
con un ottimismo che resta miracolosamente genuino»84) a far
progredire lo spettatore nella conoscenza di sé e del proprio contesto
storico-sociale.
Insomma, se la distanza è completamente annullata e l’obiettivo è
puntato sul vicinissimo, il cinema perde ogni attrattiva: «guardarci
direttamente negli occhi è difficile. La vitalità italiana è giusto che incanti
gli stranieri ma che lasci freddo me»85.
Di conseguenza, per preservare il piacere dello spettacolo, Calvino
«dev[e] uscire dal contesto italiano e ritrovar[si] un puro spettatore»86.
Tale evasione è resa possibile, paradossalmente, dal western all’italiana,
che costruisce «uno spazio astratto, deformazione parodistica d’u-
76 Id., Il realismo italiano nel cinema e nella letteratura, in Id., Saggi 1945-1985, cit.,
II, p. 1889.
77 AS, p. 42.
78 Ibidem.
79 Ibidem.
80 Ibidem.
81 Ibidem.
82 Ibidem.
83 Ibidem.
84 Ivi, p. 43.
85 Ibidem.
86 Ibidem.
[ 15 ]
100 virginia di martino
na convenzione puramente cinematografica»87; oppure dalla frequentazione
del Quartiere latino di Parigi con le sue sale «strette e puzzolenti
» dove
ripescare i film degli Anni Venti o Trenta che credevo d’aver perduto
per sempre, o lasciarmi aggredire dall’ultima novità magari brasiliana
o polacca, che arriva da ambienti di cui non so niente88.
Se dunque il cinema comunica «che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci
è addosso»89, l’unico modo per recuperare «il sentimento di distanza,
di mistero mitico, di dilatazione del reale»90 è volgersi a ciò che è altro:
accanto al cinema brasiliano o polacco, afferma Calvino, «dovevo
vedere i film giapponesi, appartenenti a un mondo totalmente
lontano»91.
È probabilmente per questa necessità di distanza che egli, nota
Guido Fink, «a differenza di tanti suoi colleghi […] resisterà dunque
agli allettamenti del cinema, del cinema vero e vicino, inteso come professione
o anche solo come hobby e fonte di guadagno»92. A parte rare
trasposizioni cinematografiche, «sono davvero poche le volte in cui il
cinema e/o la televisione hanno fatto ricorso all’autore delle
Cosmicomiche»93, che, da parte sua, in linea con la preferenza accordata
a ciò che è indiretto, mediato, distante, dichiara il proprio desiderio di
venire, più che “tradotto” dalla pagina allo schermo, plagiato dal cinema:
Gli scrittori della mia generazione sono andati subito in blocco verso il
cinema: li ho visti fare a gomitate, e allora mi sono tirato fuori. […]
però a me piacerebbe soprattutto venir plagiato dal cinema: rende meno,
ma è più lusinghiero94.
Calvino si augura, dunque, che la propria opera diventi un serba-
87 Ibidem.
88 Ibidem.
89 Ibidem.
90 L. Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, cit., p. 133.
91 Ibidem.
92 Guido Fink, Quel fascio di raggi luminosi in movimento, in L’avventura di uno
spettatore. Italo Calvino e il cinema, cit., pp. 75-76.
93 V. Santoro, Calvino e il cinema, cit., p. 64. Per una dettagliata ricostruzione
delle influenze calviniane su cinema e televisione si rimanda in part. al capitolo
terzo, Dalla pagina allo schermo, pp. 63-120.
94 L. Tornabuoni, Calvino: il cinema inesistente, cit., p. 133.
[ 16 ]
italo calvino e il cinema 101
toio di immagini e temi: non diversamente da quanto Brunetta ha notato
a proposito della produzione di Pirandello,
non è la riduzione o il centone del dramma e della novella pirandelliana
che ci dà la misura della sua influenza […], quanto piuttosto la naturalezza
con cui immagini, situazioni e problemi passano e vengono
ripresi e quasi dissolti in altri contesti da parte di altri autori95.
Più che un rispecchiamento diretto, viene espresso il desiderio di
un gioco di allusioni, di richiami schermati e indiretti: forse un augurio
che tenta di esorcizzare la sensazione di angoscia claustrofobica
suscitata da una cinema troppo esplicitamente vicino. Uscito dalle sale
del Quartiere latino, dove ha cercato «i vecchi film che mi illuminavano
sulla mia preistoria, o quelli tanto nuovi da potermi forse indicare
come sarà il mondo senza di me»96, l’io narrante dell’Autobiografia si
riconosce, non senza un fondo di amarezza, nell’opera di Fellini, in cui
«la biografia è diventata cinema […], è il fuori che invade lo schermo»97.
E sullo schermo invaso dalla vita reale, Calvino ritrova tratti della propria
adolescenza:
[…] riconosco una giovinezza insoddisfatta di spettatori cinematografici,
d’una provincia che giudica se stessa in rapporto al cinema, nel
confronto continuo con quell’altro mondo che è il cinema98.
Se è stato infastidito dal film come lente d’ingrandimento sulla società,
dalla commedia all’italiana incapace di trovare la giusta misura
tra senso critico e ottimismo, il fastidio si traduce invece in partecipazione
quando la lente d’ingrandimento opera al contrario: «il film di
Fellini è cinema rovesciato, macchina da proiezione che ingoia la platea
e macchina da presa che volta le spalle al set»99. Per la prima volta
Calvino sente che ciò che accade sullo schermo lo riguarda, è anche la
sua storia. Ma l’incanto della giovinezza, che gode istintivamente di
un bene, e slanciandosi verso mondi sconosciuti può crederli più reali
del reale, è perduto per sempre:
Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto
definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi
95 G.P. Brunetta, Gli intellettuali italiani e il cinema, cit., p. 78.
96 AS, p. 44.
97 Ibidem.
98 Ibidem.
99 Ibidem.
[ 17 ]
102 virginia di martino
stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; […] il
film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra
vita100.
Virginia di Martino
Università Federico II Napoli
100 Ivi, p. 49.
[ 18 ]
alessandro carandente
Pontiggia e la critica del linguaggio
Questo è un saggio organizzato in una duplice direzione; se da un lato reagisce
all’impasse ontologica che fa coincidere il linguaggio col pensiero, dall’altro risponde
con una critica serrata al costume di un’intera società. Per restituire vitalità,
energia e forza durevole alle parole, approda infine allo stile come conquista
etica, all’inserzione dell’aforisma narrativo con la sua brevitas nel corpo
scritturale dell’opera.

This essay moves in two directions. If on the one hand it reacts against the ontological
impasse that equates language with thought, on the other it answers
with a strong critique relating to the habits of an entire society. In order to return
vitality, energy and lasting strength to the written word, it considers style
as being an ethical conquest, looking at the inclusion of the narrative aphorism,
with its brevity, within the body of the written work.
1. Le parole non arrivano in porto: che sconforto! Deve essere uno
stato d’animo, a dir poco, irritante soffrire per la parola ridotta a involucro
rinsecchito, guscio vuoto, simulacro abbandonato su una immensa
spiaggia, non più abitata dalla vita. Una sensazione desolante
sentire che è stata svuotata per il troppo uso; un abuso turpe e scellerato
che ha finito per mutarla nel suo contrario, vanificarla e disincarnarla,
facendole perdere credibilità e fiducia, riducendola a brusìo fitto,
ad indistinto rumore di fondo.
Chi, sospeso, si è fermato per guardare giù nel precipizio, si è affacciato
per fissare questo abisso, che lascia sgomenti e smarriti, non ha
potuto sottrarsi alla sensazione desolante che tutto si è allontanato e
spostato oltre e altrove. Come sfuggire a questo risucchio nichilistico,
a questa impossibilità di dire che comporta il rischio di una immobilità
paralizzante?
Autore: Istituto Superiore Istruzione Secondaria “Rita Levi Montalcini”,
Quarto di Napoli; prof. Ordinario Materie Letterarie; alessandro.carandente@
istruzione.it
104 alessandro carandente
Interrogandosi a fondo sulle cose che ci riguardano, nella duplice
direzione di individuale e collettivo, cercando di conciliare sentire e
pensare nella inappagata ricerca della verità. E, in assenza di interlocutori
reali, cercando al proprio interno come destinatario quel sé esigente
che ci accomuna agli altri1.
Già nel 1982 Pontiggia, munito di una sferzante ironia, abituato
cioè a sopravvivere al dilagare illimitato e rassicurante della stupidità
incombente, ha elaborato una protezione immunitaria, anticorpi necessari
alla difesa, ed è già passato al contrattacco, cercando di ricomporre
questa scissione, questa sfasatura, e recuperare potere e fiducia
nella parola.
In che modo? Con lo studio, il lavoro, la lucidità, e aspettando in
silenzio, utilizzando perfino il pensiero taoista, cioè ricorrendo al paradosso
del non agire2, cominciando intanto a rispettare il linguaggio
nel suo significato letterale e a rispondere delle proprie parole: costanti
fondamentali di tutto il suo paziente lavoro di saggista e di romanziere.
Non esiterà a denunciare le ragioni della crisi che, favorita da
una chiacchiera eccessiva e fuorviante, è destinata a crescere come
l’inflazione. Per cui il conseguente aforisma – che Pontiggia applicherà
poi volentieri sia al disincantato astronomo del Cervino sia alle ambizioni
modeste di certi matrimoni riusciti –: «Ci si aspetta tanto poco
dalla parola, che essa finisce quasi sempre per darlo»3.
Territorio polemico e oggetto di critica diventa un presente cartaceo
sovrabbondante, tanto proliferante quanto inutile e inconsistente che
conduce a quella visione asfissiante e oppressiva del sapere, inteso come
valanga di segni, sterminato e ingombrante accumulo di macerie.
Si analizzi la selva degli aggettivi della critica tipo ‘autentico’,
‘graffiante’, ‘trasparente’, ‘sconvolgente’, ‘inquietante’, ‘esaustivo’,
‘incredibile’, ‘allucinante’, etc. presenti sui risvolti di copertina di romanzi,
che vorrebbero risvegliare una percezione distratta, sedata,
assuefatta perfino in presenza dell’ossimoro, un tempo figura del significato
pregna di smarrimento e tensione. Ma su questo e altre
1 «Non si scrive né per sé, né per gli altri. Si scrive per quel sé che coincide con
gli altri.» (Giuseppe Pontiggia, L’isola volante, Milano, Mondadori, 1996, p. 126).
2 R imandiamo qui a proposito del romanzo di Rex Stout, Nero Wolfe contro
l’FBI, alla prefazione dove Pontiggia parla del non-agire taoista come tecnica investigativa;
e scrive che uno dei tratti caratterizzanti del detective Nero Wolfe, è che
non si muove; si mantiene immobile e neutralizza il Nemico, ispirandosi al principio
orientale della rinuncia all’azione.
3 G. Pontiggia, Il giardino delle Esperidi, Milano, Adelphi, 1984, p. 226.
[ 2 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 105
amenità, sull’uso eccessivo dell’avverbio e di altre figure retoriche
come il paradosso, l’ossimoro, la reticenza e l’antidetto ritorneremo
più avanti e in dettaglio dettagliato. Intanto Pontiggia fa appello ai
poteri della musica, una sorta di antiparola, che, senza intermediazioni
necessarie, ha conservato intatta nella sua espressione allusiva
e metaforica, la magia di regalare emozioni e imporsi sulla totalità
del reale. Potere fondante che, invece, la parola ha perduto. L’invito,
con i tempi che corrono verso la verbalizzazione universale, è, quindi,
quello di stare fermi, non muoversi, indugiare, di usare cautela e
difendere quelle poche parole in cui ci riconosciamo, che ci appartengono
nel profondo, che ci soccorrono nei momenti di difficoltà, di
buio pesto.
Qui ci concentreremo soprattutto su tre testi fondamentali di Pontiggia:
La grande sera, L’isola volante e Prima persona, per poi chiudere
con un ritratto a tutto tondo, delineando il percorso di uno scrittore
dalla dimensione europea.
2. Con il romanzo La grande sera, pubblicato nel 1989, e poi alleggerito
nel 1995 di eccessivo peso retorico, “aforisticità insistita” e drastica
perentorietà dei dialoghi, Pontiggia dimostra non solo che si può
scrivere con libertà di movimento e in pienezza usando un linguaggio
chiaro e trasparente senza cadere nel ridicolo, nella banalità e mantenendo
la distanza, il passo critico raggiunto dalla ricerca estetica più
avvertita, ma di essere pronto a mutare, sia come critico sia come romanziere,
l’illusione della vita in certezza della forma, a rovesciare
cioè, da acuto osservatore, l’entusiasmo in ironia attraverso un pensiero
aforismatico che, facendo perno sulla chiarezza metaforica, si apre
all’insorgenza vitale del linguaggio, al gioco della molteplicità, al politeismo
scritturale.
Il tutto in un tempo che ha smarrito il proprio senso, in un’epoca
fissata nel contrario incastrato, specializzata nel decodificare tutto, ma
che ha perduto di vista il proprio codice, che permette lo slittamento
dal bianco al nero e viceversa, assicurando l’idea di movimento su un
fondo incolore.
Anche con La grande sera, titolo mutuato dal simbolismo francese
di fine secolo, – sullo sfondo si indovina il poeta Léon-Paul Fargue –
Pontiggia si confronta con l’esperienza del proprio tempo per trascendersi
nel linguaggio, penetra negli interrogativi universali che l’oggi
ha rimosso per mancanza di forza, di coraggio etico di prendere su di
sé. La letteratura torna ad essere confronto e sfida lanciata dal mondo
che lo scrittore raccoglie, non lascia cadere nel vuoto; anzi, si misura
[ 3 ]
106 alessandro carandente
con essa in un compito immane, enorme, smisurato, che esige tempo
e richiede l’impegno gravoso, penoso e frustrante di tutte le energie a
disposizione in una lotta impari, l’impiego dell’intero registro immaginativo.
Come si addice a ogni spirito riflessivo, egli cerca di rispondere
da lettore insofferente e silenziosamente a quelle domande fondamentali
che ci assediano e ci impegnano per tutta la vita.
Attento a quell’ignoto potenziale che è il linguaggio nella sua letteralità,
ma anche stratificazione di sensi, valenza allusiva, metaforica,
sfumata, egli comincia a fare per il romanzo ciò che la poesia contemporanea
ha già fatto: affidarsi a quella imprevedibilità linguistica che
giustifica dall’interno se stessa come ipotesi di scrittura. Infatti se l’avvio
è letterale, a ben vedere non coincide con l’ovvio. Il carattere di
non prevedibilità è sicuramente il risultato trasparente dell’avvenuto
attraversamento del linguaggio. Come scrittore va preso perciò alla
lettera, va letto cioè parola per parola fino al nucleo del suo enigmatico
significato rimasto intonso.
La trama del romanzo è alquanto esile, senza intrigo; povero se
non addirittura mancante l’intreccio; si può parlare di semplice spostamento
di percezione da un carattere all’altro, la scansione in capitoli
è talvolta quella saggistica, dove la ricerca formale si coniuga felicemente
al registro fantastico con uno scopo preciso in punta di penna:
abitare con la forza del desiderio il paradosso dell’evidenza. Un professionista
– esperto nell’arte della fuga, non nel senso di tema musicale
ma letterario – stanco di tutto, scompare dalla violenza della vita
per essere forse presente altrove, anche se in maniera invisibile, dietro
il nome di un Sudafrica immaginario. Siamo di fronte a un giallo, dove
la galleria dei personaggi che gli ruotano attorno vanno in bianco.
Infatti non c’è soluzione, che come parola è un inganno linguistico, né
ricerca ansiosa dello scomparso, ma solo ricostruzione retrospettiva
intorno al protagonista che ci permette di entrare nel mondo degli altri,
fatto di contraddizioni, conflitti, tratti maniacali, squallide relazioni,
menzogne, nevrosi, frustrazioni, fallimenti, inerzia operosa e passiva
adesione. Si susseguono in sequela molteplici ritratti di professionisti
gravitanti intorno al vuoto scaturito da una sparizione improvvisa,
una fuga inaspettata, un evento inatteso, una irruzione traumatica
che ha sconvolto il ritmo della loro vita consuetudinaria, ha provocato
il crollo di orizzonti e di aspettative. Mario, paragonato dalla moglie
ad un bradipo per la sua lentezza e pigrizia, vive ripiegato su se stesso;
giorno dopo giorno differisce il proprio fallimento come uomo e
come critico cinematografico. Sulle tracce del fratello, non fa in effetti
che piangere ed essere in lutto per la propria scomparsa.
[ 4 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 107
Aveva una nausea crescente delle parole. […] E il linguaggio gli appariva
una immensa spiaggia di gusci vuoti.
Un tempo le parole avevano racchiuso la vita, l’avevano celata e protetta
prima che erompesse all’aperto. Ora vedeva soltanto conchiglie
fossili e uova schiacciate dalle zampe dei predatori e perforate dai loro
becchi. E lui si sentiva ormai come un cacciatore attardato, arrivato
alla fine del saccheggio, quando la vita aveva abbandonato quegli involucri
ed era emigrata altrove4.
Ha tuttavia il merito di avvertire che il linguaggio si è allontanato ed
è stato abbandonato dalla vita, emigrata altrove, lasciando l’involucro
insecchito, vuoto su una spiaggia sterminata e che, per risalire la china,
scrivere poi non è indispensabile. Soprattutto quando manca il suo contrappunto,
il sostegno, l’aggancio essenziale e risolutivo con la vita.
L’analista Colucci, col suo linguaggio cosi poco aderenziale, non è
che una invenzione del suo stesso verbalismo. Lo gnomo della finanza
Terragni, impigliato nei reticoli di una contabilità celeste, il manager
Campisi, che nella sua euforia lessicale di arrivista, non si riconosce
come menzogna in atto, e l’investigatore Borghi, corpulento e animalesco,
sono il frutto vivente e ambulante di una mania delirante.
Le donne, invece, vivono, frustrate e in attesa, in un limbo fatto di
sospensione mentale. Con rassicurante compiacenza hanno scommesso
sul linguaggio della prevedibilità, proprio esattamente l’opposto di
ciò che fa la letteratura, la quale sa bene che, là dove manca il coraggio
di esistere e accettarsi nel proprio limite, non ci sono che scritture in
attesa. Adesso è giunta l’ora di rinascere: affrancarsi da un uomo che
non meritava attaccamento e acquisire consapevolezza di sé: pensare
nel presente alla propria autonomia di donne. Tutti non rimpiangono
tanto lo scomparso, ma si angosciano perché con l’assenza è venuto a
mancare l’interlocutore per estrinsecare le proprie manie e nevrosi: si
accaniscono a tenere in vita ciò che intimamente è già crollato.
Consumati da stanche abitudini, questi personaggi, facilmente riconoscibili
nella vita di tutti i giorni, sono marionette senza ilarità di
un mondo pietrificato e cristallizzato nelle sue spire tautologiche, modelli
che si ispirano a una copia, talvolta mere comparse caricaturali
che si compiacciono nella ripetizione dell’originalità rituale; se di alcuni
personaggi manca il nome è perché si tratta appunto di controfigure
intercambiabili.
Con un ritmo narrativo sfuggente, sfumato, si susseguono i capi-
4 G. Pontiggia, La grande sera, Milano, Mondadori, 1995, p. 87.
[ 5 ]
108 alessandro carandente
toli, mimesi di quel reale che non è mai l’apparenza per Pontiggia,
ma fusione di maschera e interpretazione del reale. La scrittura è vissuta
come centro irradiante e superamento della verità semplice, che
non rinuncia alla complessità del reale. Autoironica per poter essere
seria; irresistibilmente gioviale verso l’irrealtà spettrale e la mancanza
assoluta di stile, guarda al passato remoto per scoprire e sorprendere
il presente cosi a portata di mano, eppure talvolta imprendibile
proprio per la sua vicinanza; si prodiga nell’indagare e nello sfatare,
di fronte all’evidenza, tanti equivoci e luoghi comuni del vivere cittadino.
Con implacabile imparzialità, il linguaggio sceglie, senza nostalgie
residue, le sue prede, in una metropoli che assomiglia sempre più a
una foresta pietrificata. È tutto il negativo della vita, questo strano
capitale che non serve a niente, a fare il bene della letteratura, a darle
forza, respiro e risonanza, nutrimento interno.
Il ma avversativo, per esempio, è lo sgambetto che si mette a quel
bellissimo pronunciato per indulgenza, per pietà, e in cui fondamentalmente
nessuno più crede. Contro l’ottusità ufficiale di maschere, l’invadenza
disinvolta di riti mondani e lo spettacolo della stupidità infinita,
Pontiggia riesce a preservare l’essenziale nel suo essere reticente:
si espone al rischio di prendere il mondo in parola fino a salvarsi e ridere.
Ci muoviamo in un mondo situato a pochi passi dalla risata;
quante cose che ci tormentano sono, infatti, effettivamente necessarie
alla vita? Ecco che dai meandri investigativi di quell’interrogativo
continuo che è il linguaggio spunta un finale positivo a sorpresa: dal
fondo buio si risale alla superficie. L’ambigua utopia dello zio scomparso
dietro la metafora della fuga, – una delle parole chiave nella
poetica di Pontiggia –, lascia, infatti, un gruzzolo al nipote Andrea, si
mostra incoraggiante verso una nuova generazione che preme, cercando
il proprio equilibrio e spazio per esistere dignitosamente e senza
inganni speculari, lontano dal clima chiuso, opprimente e irrespirabile
delle pareti domestiche. Il lascito gli permetterà materialmente di
uscire da una infanzia e adolescenza soffocanti e di essere finalmente
indipendente.
Ecco la chiusura del romanzo che merita di essere riportata per
intero:
Uscendo nel viale sotto la luce delle foglie, Andrea provò una felicità
dolorosa. Aveva voglia di ridere, di piangere, di correre tra gli altri che
camminavano. Rivide suo zio che gli diceva, una sera, nello stesso viale:
«Tu hai bisogno di spazio».
[ 6 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 109
Avanzava tra le piante. Non sapeva se l’avrebbe mai visto, ma non era
la cosa più importante. La cosa più importante era quella mattina. La
sua presenza lontana, in quel viale5.
A lui, giovane e speranzoso, sono affidate la svolta vitale e la rinascita:
il compito di svaporare l’emozione della Grande sera in un mattino
di “felicità dolorosa”. Sarà proprio questo ossimoro, dove si incontrano
ricordo e desiderio, ad evocare la presenza lontana dello zio, e a
fargli capire che la vita continua e anche la forza morale e l’entusiasmo
di continuare a desiderare di nuovo.
3. Anche L’isola volante nasce in un contesto sociale congestionato e
inflazionato da tuttologi e opinionisti, da un accumulo eccessivo di
notizie, una proliferazione incessante di carta stampata, dove tutto si
confonde con tutto e tutte le idee rischiano di apparire delle opinioni
ugualmente legittime. Il danno non è tanto quello di assaporare la
propria inutilità, di vedere la propria differenza trattata con indifferenza,
ma vedere abolita quella comunicazione, annullato quel dialogo
cosi richiesti, a causa di un rumore incalzante e una apparente concorrenza;
vedere, sotto il dilagante verbalismo, la parola disabitata,
lasciata, come dicevamo all’inizio, ormai come involucro rinsecchito,
guscio vuoto sulla spiaggia del tempo.
Si è diventati più immediati, diretti, concreti eppure c’è una stasi
paralizzante: il linguaggio non garantisce le ragioni problematiche
della letteratura. Si agitano tante smorfie di superficie, ad occupare la
scena ci pensano tuttologi e grilli di turno: ad un dubbio gusto si associano
incompetenza e cinismo, improvvisazione e dilettantismo morale
in atto.
L’intellettualmente inquieto genera riluttanza, distacco, antipatia e
fastidio; si vuole rassicurazione, identificazione con modelli inesistenti
che scimmiottano la realtà; impera un cattivo gusto, pullula un verbalismo
che nell’illusione di colmare le distanze, sopprime il problema;
domina il far finta di vivere, l’incapacità di pensare, di misurarsi
col tarlo forte del pensiero. La gente si è mutata in un pubblico di lettori
non pensanti che amano compiacersi dell’immagine rassicurante
che loro hanno del mondo senza essere contraddetti.
In questo contesto nonsensico e nessunale, che ha ormai abolito
malattia e morte, rimosso quel gioco tragico che è la vita, si muove
Giuseppe Pontiggia. Pur allarmato per la folle corsa in picchiata, non
5 Ivi, p. 233.
[ 7 ]
110 alessandro carandente
lancia, tuttavia, anatemi o ultimatum apocalittici, ma, longanime, reagisce
con arte, come dovrebbe fare qualsiasi scrittore degno di questo
nome. D’altra parte di fronte a tanta moneta falsa circolante non resta
che insistere, senza desistere, in quel gioco invisibile e ambiguo che è
l’enigma e la forza della scrittura. Egli non stagna né si incaglia tra i
limiti del linguaggio come fa tanta filosofia contemporanea che, riflettendo
speculativamente, incassa la verità nel linguaggio, identifica il
pensiero con il linguaggio in un’impasse ontologica. Pontiggia va oltre
questo limite, non inclina al nulla, all’angoscia e al conflittuale e quindi
all’ineffabilità del senza nome; pur avvertendo la percezione di una
prossimità relazionale con l’invisibile, non si abbandona a cadute mistiche.
Non si ferma al pensiero di Heidegger né allo sforzo speculativo
di Wittgenstein in materia di logica, pur a lungo tanto amati e frequentati.
Egli ci viene incontro con la sorpresa linguistica confermata
da quella promessa d’ignoto conoscitivo che sempre l’accompagna. Il
momento negativo, abissale, problematico è dapprima sopportato e
poi maturato e riscattato – grazie a una pratica ascetica – con una autoironia
liberatoria dove si indovina che la distensione delle figure
non è, sia pure cambiata di tonalità, che l’illusoria faccia dell’orrore, il
nichilismo rovesciato nell’enigma del fabuloso.
Si intravede qui sullo sfondo l’apporto della cultura orientale: lo
sguardo quieto di chi ha nutrito interesse e accolto con simpatia la
distaccata meditazione taoista. Sappiamo quanto abbia influito sulla
sua esperienza, abbia influenzato il suo comportamento e sia stata importante
per una comprensione capillare della realtà la lettura di autori
come Lao-Tse e Krishnamurti6.
La polarità degli opposti, anche se presagita, appare dissolta e conciliata
virtualmente in seno alla scrittura. L’arte, erede legittima della
6 «Una cosa importante è stata l’influenza del pensiero taoista, e questo fin da
bambino. Ho letto Lao-Tse nella traduzione di Castellani, poi ho imparato a memoria
quasi tutto di quella traduzione e ha avuto molta influenza sia sui miei
comportamenti: non agire, non accettarsi, non… E poi la visione un po’ antitetica
del tao che non è il tao…Un pensiero paradossale.» (Giancarlo Calciolari,
Giuseppe Pontiggia, Lo splendore della parola, Soave (Verona), Transfinito, 2007, p.
98).
L’indiano Krishnamurti, tutto concentrato sul presente, lo ha aiutato, invece, a
liberarsi dall’accumulo quantitativo delle informazioni e a difendersi dall’insicurezza.
Quiete e spazio arrivano dall’oblio di sé. Ma come si vince la paura di essere
nulla? Nella comprensione di volgersi all’amore per gli altri, e senza paragoni:
«C’è intelligenza solo se non c’è paura e non c’è paura solo se c’è amore.» (G. Pontiggia,
L’isola volante, cit., p. 77).
[ 8 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 111
religione, riesce a pacificare e a dare senso a quella catastrofe tranquilla
che è il nostro assordante ed euforico mondo. Il territorio della parola,
pronto a mettere il discrimine in contatto, risolve ciò che non ha
soluzione.
Fraternamente legato a Il giardino delle Esperidi (1984), anche L’isola
volante (1996) è un libro di saggi scritto con una intensità aforistica e
narrativa che non scade mai a oggetto di consumo e praticando una
sorta di zapping letterario, soffermandosi cioè per scorci narrativi e
squarci folgorativi su quella parte della parola altrui che ci intrica e
siamo in grado di capire e seguire perché fatalmente consonante al
nostro intimo sentire.
Chiosatore impareggiabile, lettore complice, sollecito, parziale ma
mai indiscreto, Pontiggia ci regala assaggi assaporanti e scorci essenziali
di un percorso selezionato da uno sguardo critico che ormai è
diventato istinto. Ritroviamo in parte i temi, gli argomenti, le parole e
gli autori già frequentati in altri suoi lavori: la bibliomania, il gioco
degli scacchi, la Borsa, la lettura, la scrittura, la tradizione della stupidità,
la violenza sugli inermi, il mito, Morselli, emblema di autore postumo
postremo e poi l’amato Svevo, Hesse e la biblioteca universale,
Barlow, Borges, Brodkey, Larbaud, Manzoni e L’Anonimo, Forster,
lettura corroborante che gli consente di affrontare alcuni Aspetti del
romanzo e la sua presunta crisi, l’aforisma narrativo con i suoi effetti
discordanti dovuti all’estrapolazione dal contesto nativo e alla citabilità
fuori luogo, la scelta revocabile dell’Università, l’arte di fare debiti,
con esplicito riferimento al malcostume in atto e alla pratica diffusa
di far quadrare i conti della nostra classe politica, l’interesse per i luoghi
comuni e soprattutto l’indugio nello smascherare e denunciare
l’uso improprio, distorto, irresponsabile e senza cognizione letterale
del linguaggio fin nelle sue punte euforiche e ciniche.
Pontiggia si diverte nel sottolineare la promozione del lusso lessicale
come surrogato del niente, lancia occhiate trasversali al costume,
all’attualità e analizzando l’uso sciagurato del linguaggio ne critica il
comportamento poco responsabile; l’ironia è praticata in modo singolare:
egli accentua o sposta all’imperativo ciò che il personaggio di
turno già pensa orgogliosamente di sé, ovvero per non correre il rischio
di mancare l’obiettivo, si limita a citare il satireggiato, a farlo
parlare mentre si sta consegnando col suo stesso linguaggio.
Non perde l’entusiasmo scritturale situato al di là di certe apprensioni
attuali e discriminazioni ideologiche e embarghi vari; lascia le
parole alla letteratura per inoltrarsi nella tradizione e tradurre in vita
la differenza, il diverso. Prova a trasmettere ciò che sa attraverso l’e-
[ 9 ]
112 alessandro carandente
mozione del sentire: l’intensità, la pausa, la reticenza, l’omissione, rimandano
al presupposto e ci coinvolgono emotivamente.
Sganciata da finalità burocratiche, penitenziali, sovrastrutturali, la
letteratura può ritornare con innocenza a se stessa e viaggiare al suo
interno con gioia. Aprirsi in felici espansioni con una mobilità inventiva
ed esuberante verso mete incognite e forme non prevedibili. Né
sull’immediatezza né sulla realtà si fonda la sincerità dello stile, essa
si misura unicamente sulla forza inventiva e sorpresiva del linguaggio.
«La realtà escogita sorprese irreali, che non si possono introdurre
in un racconto, dove diventano inverosimili. I ricordi più veri, quando
si scrive, sono quelli inventati»7. L’irrealtà è la vera realtà della scrittura
come gli eteronimi fondano e vivificano la realtà plurale di quella
maschera che è il nome di Pessoa.
A proposito della lotta tra Manzoni e l’Anonimo, un vero e proprio
personaggio all’interno del romanzo, complice involontario su cui ricade
il silenzio, il rimosso e ciò che non si vuole dire, il narratore Pontiggia
si intrattiene sulla figura importante della reticenza.
Dire significa contemporaneamente tacere, omettere significa includere,
esitare significa suggerire. […] Quello che un narratore dice evoca
parallelamente quello che non dice. Non lo possiamo vedere perché è
invisibile. Ma possiamo immaginarlo. Il narratore lo incontra a ogni
parola8.
Il libro è come un tempio, uno spazio sacrificale tagliato su misura
per dare corpo e presenza alla necessità biologica della parola, sommersa
di macerie e arbitrio, ed evocare il non detto. In questo sguardo
selettivo, pesa sullo scrittore una responsabilità dolorosa, drammatica:
si insegue un miraggio per nasconderne un altro, si dice una cosa
per evocarne altre. Egli sa che scegliere è sbagliare: non solo si abolisce
e dissolve più che salvare, ma si infrange il sogno di totalità, di dominio
sistematico. «L’equilibrio misterioso tra il minimo che si dice e
l’immenso che non si dice è il sogno di ogni narratore. Raccontare significa
seguire questo discrimine immaginario»9. Non a caso Manzoni
sceglie una digressione per affrontare due lati oscuri: l’infanzia e la
passione di Gertrude, la monaca di Monza, verso cui la parola si mostra
riluttante. Due eventi dolorosi che avvicina allontanandoli, relegandoli
in una parentesi.
7 G. Pontiggia, L’isola volante, cit., p. 60.
8 Ivi, p. 161.
9 Ivi, p. 162.
[ 10 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 113
Ma ritorniamo alla poetica di Pontiggia.
Insofferente ricusa autenticità e impegno, sfronda il superfluo e,
infedele, si pone a una giusta distanza per attaccare l’indigenza immaginaria
del presente, la sua inattualità e inconsistenza, e inseguire
quella unità di stile giustificatrice che è proprio della poesia, della potenza
illusoria dell’arte: attraversa la porta dell’attimo in controcanto
e approda al presente come punto di convergenza per fondere passato
e futuro, unire desiderio e tempo, intersecare sguardo e memoria in
un viaggio fantastico.
Pontiggia è questa sobrietà nella modernità cosi ossimorica, immaginifica,
pregna di audaci antitesi e capovolgimenti repentini che l’abitudine
ha neutralizzato rendendoli accettabili e normali, satura di
sconvolgimenti orrorifici e panici resi innocui dalla frequenza. Non
solo, tramite la sorpresa espressiva ha reinventato la cultura attingendo
a piene mani da quest’archivio di materiale immaginario, ha tradotto
in vita la tradizione della parola, ma in un contrappunto di voci
dove confluiscono partecipazione e distanza, vivacità emozionale e
distacco, ha smantellato le acquisizioni del senso comune, si è liberato
della superstizione della Storia per scoprire infine quel sé universale
che coincide con gli altri. Fra tantissimi che respirano la letteratura
turisticamente, vivono la magia del luogo comune reso pubblicitariamente,
egli si connota per quella invenzione linguistica che è tutt’uno
con la responsabilità morale, per lo stile inteso come conquista etica.
Scoprire e comunicare il senso della letteratura comporta ogni volta
una operazione cui comprensibilmente riluttiamo: cioè interrogare il
senso della nostra vita, che generalmente non ne ha, e di quella degli
altri, che di solito non ne ha di più. Tutto questo si accompagna a un
tale allarmante disagio che si capisce come sia più agevole fuggire che
restare. Eppure, se la letteratura ha un senso, lo ha solo se si confronta
con le cose essenziali che ci riguardano. Tutto il resto è letteratura10.
La scrittura creativa non ammette esibizioni, compiacimenti e narcisismi;
è faccenda troppo tormentosa, è vicenda troppo faticosa: una
avventura rischiosa, aleatoria, che non si può programmare in partenza;
come Dante ci si smarrisce nella valle oscura per poi ritrovarsi; ci
si misura con le avversità del linguaggio nel suo caotico afflusso multiforme
e quando non si soccombe stremati, ma affannati si intravede
e approda alla meta agognata, si esce sollevati come un superstite lu-
10 Ivi, pp. 288-89.
[ 11 ]
114 alessandro carandente
po di mare, consapevole e felice di vedersi alla fine sopravvissuto a un
duello, a uno scampato pericolo di naufragio.
In questo atto di ridare vitalità, energia e forza durevole alle parole,
Pontiggia restituisce fiducia e conforto e interesse al lettore avvilito,
il quale può leggerlo fino in fondo e cominciare a rinsaldare il proprio
amore per la letteratura e sentire la vita alzare i propri sipari. Perché si
trova di fronte uno che, parlando a se stesso, parla agli altri, mentre
lui, leggendo un altro, potrà leggere se stesso.
4. Quando la postina mi ha consegnato Prima persona di Pontiggia
l’ho accolto con una interiezione anteriore alla parola: “Ah!”. E poi
leggendo le prime pagine mi sono imbattuto proprio in questo suono
arcaico pronunciato con reciprocità da Wagner e Garibaldi incontratisi
a distanza alla stazione di Acireale. Dalla glossa ho appreso poi che si
trattava di una frase ricca e completa e che può significare tante cose.
Ma non ho invenuto la mia nel campionario scorso e allora sono costretto
a spiegarla: me l’aspettavo questo libro – Pontiggia poco prima
in una lettera me l’aveva annunciato – e quindi è stato il suono familiare
di una conferma, l’eco condensato di un risveglio, di un dialogo
mentale che continuava a distanza. Ho letto oltre e pagina dopo pagina
e poi parola per parola – di ramo in ramo e poi di capello in capello,
come ne L’anguilla di Montale – ho aderito con simpatia ai suoi ritmi
d’entusiasmo, ho partecipato fisiologicamente ai suoi registri plurali e
ai cambi di marcia, ho sorriso anche di tanto in tanto, mi sono soffermato
per ricordare e dimenticare tante volte prima di arrivare alla fine
riconfortato e restituito alla libertà dell’immaginario. La mente guizzava
perché aveva riconosciuto durante la traversata alcuni dei tratti
essenziali e temi costanti che connotano la scrittura di Pontiggia: la
sua trasparenza imprendibile, la curiosità e l’amore smisurato per i
libri, la voracità alfabetica, il fondo visionario, l’attenzione al linguaggio,
il sottile tono ironico, la consapevolezza critica, il modo di citare,
la distanza classica e il coraggio etico di dire la verità anche se non
sempre edificante e piacevole, cioè quasi mai.
Scrive a commento dell’inesorabilità di Aleksandr Zinov’ev intervistato
da Susanna Nirenstein, in occasione dell’uscita in Italia de L’umanaio
globale:
Zinov’ev restituisce all’intellettuale l’azione politica più importante
nel mondo d’oggi: che non è di pensare in modo edificante – a questo
provvedono i politici, che edificano cattedrali perfino nel deserto – ma
di pensare secondo un’etica radicale.
[ 12 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 115
E conclude:
Non c’è figura credibile di intellettuale se non antepone il coraggio
etico del pensiero agli interessi di parte e di partito e agli interessi professionali
e personali11.
Ammirevole è in lui questa straordinaria capacità di muoversi con
arte dentro la metafora che noi siamo, restando all’interno di quell’orizzonte
linguistico che è la nostra società. Gli basta talvolta una parola
abusata, un aggettivo, un’espressione in libera circolazione e senza
licenza, un luogo comune, un’occhiata al risvolto di copertina di un
libro, una occasione televisiva, uno spot pubblicitario, un sondaggio,
un personaggio, una intervista minima per venir fuori con i suoi paradossi
e parassiti, le sue chiose, per mostrare l’ilarità sconvolgente e i
comici fraintendimenti di un costume in atto che, assuefatto alla menzogna
sistematica, per eludere il problema cambia la nomenclatura, o
peggio ancora, arriva perfino a difendere gli stupratori, a tutelare i
pedofili in nome della privacy e ad assolvere, a non voler penalizzare
i colpevoli; anzi, con complice indulgenza, a perdonare e a rilasciare
chi ha commesso atrocità efferate, perché virtualmente pronto a pentirsi
sulla parola.
Nell’era dell’ottimismo pubblicitario e dell’illusoria civiltà della
comunicazione, dove ormai tutto è fuori luogo, si vuol essere a tutti i
costi rassicuranti, balsamicamente bonari, e si finge che le contraddizioni
non esistano. Così in politica lo sdegno morale è diventato sdegno
verbale, l’immunità si è mutata per assonanza nella licenziosa
impunità e da strumento di prevenzione in privilegio d’abuso e di
offesa. Perfino di fronte a una sentenza definitiva, a una condanna irrevocabile,
c’è chi, riottoso, si ostina a chiedere impunemente l’agibilità
politica, come se l’agibilità linguistica potesse prescindere dal convergere
col momento etico, imperativo che sta a monte.
Si continua imperterriti, e a tutti i livelli, ad atteggiarsi, a tradire e
a scimmiottare il senso più elementare. Perfino spogliarelliste e pornostar
esibiscono non ciò che si vede sotto gli occhi, ma asseriscono incautamente
d’essere detentrici di una morale rigorosa, sorpassando
d’un balzo politici e preti e riuscendo a far impallidire un custode severo
come Catone: ostentano, compiaciute, di avere una condotta irreprensibile,
puntando addirittura sull’autoironia, pratica ascetica al limite
della dissociazione. Confondendo il linguaggio con la formuletta
11 G. Pontiggia, Prima persona, cit., p. 175.
[ 13 ]
116 alessandro carandente
da recitare alla bisogna, come si indossa un vestito, confermano non
tanto di non aver mai aderito al significato quanto di concorrere con
l’uso sconsiderato alla sua svalutazione.
Si capisce che siamo di fronte a un libro di critica sociale, politica e
psicologica,12 nato attraverso una disamina attenta dei modi della moda
e una critica spietata, inappellabile, delle locuzioni correnti, anche
di quelle che godono di un consenso plebiscitario. Ci muoviamo tra
un mosaico di annotazioni, memorie, pensieri dal taglio aforismatico,
commenti, brevissimi racconti, percorsi mentali organizzati da chi vive
il presente in prima persona, secondo uno schema imprevedibile,
casuale, leggero, che utilizza la brevitas della sorpresa linguistica come
risorsa espressiva primaria per carpire l’attenzione della mente. La
scrittura è frammentaria, non organica, ma impegnata su un unico
fronte ancora possibile: quello della critica del linguaggio affinché il
significato resista nei suoi valori fondamentali. Facendo reagire quasi
chimicamente le frasi fatte e i luoghi comuni col concetto poco frequentato
di verità ne indaga ironicamente i fasti italiani, ne dimostra
al minimo contatto la pochezza, l’inconsistenza, la velleità e il nonsenso
travestiti. Caricandoli con un piacevole tocco di stile, li mette in ridicolo,
ne accentua il paradosso e ne favorisce, con beffarda giovialità,
la disgregazione interna. L’insofferenza e lo scoramento iniziali sono
filtrati, infatti, da una tonalità che non esclude il divertimento, la leggerezza
e il piacere testuale.
Pensiamo, per esempio, al caso eclatante di quel candido intervistatore
di una televisione locale che s’annuncia con un lapsus da Giuseppe
a Francesco Pontiggia e poi, non avendo né letto il libro né il
risvolto di copertina, per mancanza cronica di tempo a disposizione,
chiede all’autore di suggerirgli alcune domande. Così Pontiggia commenta
l’incontro mancato: «Nell’intervista ho avuto più volte l’impressione
che io parlassi di un libro e lui di un altro e che io rispondessi
a domande che lui faceva a un altro»13.
Infine, questo ragazzo si mostra soddisfatto per l’ottimo risultato,
fino a commentare compiaciuto che le cose improvvisate riescono meglio:
la libera magia dell’ispirazione supplisce all’abitudine di giudi-
12 Angelo Guglielmi, Pontiggia, cento libri in uno, «l’Unità», martedì 29 ottobre
2002. «Prima Persona è molti libri in uno. […] È un libro di teoria e critica letteraria,
che ogni aspirante scrittore o anche scrittore già in armi dovrebbe tenere sul
comodino».
13 G. Pontiggia, Prima persona, cit., p. 143.
[ 14 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 117
care e presentare i libri senza leggerli. Un costume in atto molto diffuso
nell’Italia contemporanea e di cui non ci si vergogna minimamente.
Molteplici sono gli argomenti vagliati in contropelo: si va dalla tutela
dei pedofili, garantiti dalla protezione della privacy, ai falsi invalidi,
dagli animalisti all’intellettuale, dal calcio corrotto al degrado
scolastico con i suoi livelli di impreparazione, dalla psicanalisi all’ascesa
e al declino del fesso, – in ambito partenopeo parola scaturita da
disprezzo sessuale e finita, come insegna araldica dei furbetti d’Italia,
nell’area semantica di stupido –, dal telefonino ai modi “scostumati”
di Napoleone e Fischer etc., e quindi agli scacchi che con la letteratura
hanno in comune una consanguinea convergenza: entrambi sono giochi
che mantengono come nesso coesivo la sorpresa ma tendono a ridurre
al minimo se non ad eliminare la causalità; ma all’utile del lettore
e della letteratura, alla lettura e all’esperienza del libro come causa
e effetto di esperienze essenziali, di viaggi irripetibili e fantastici per la
mente umana sono riservate le schegge più luminose.
Già in precedenza, criticando l’illusione del possesso del testo e
l’obbligo della completezza, due tratti maniacali, e puntando sulla
metamorfosi, Pontiggia aveva ammesso: «Eppure il significato di un
libro non è mai in ciò che è, ma in ciò che siamo noi dopo averlo letto.
Il libro vive perché ci modifica»14.
Ora aggiunge, non senza un richiamo al Machiavelli, che si legge
un libro perché è cosa utile (o almeno tale dovrebbe essere) e fonte
incommensurabile di alimento vitale, piacere e felici illusioni. Se può
apparire una pazzia la bibliomania, ovvero la brama di avere libri e di
accumularli, ancora peggio e più folle risulta averne la casa priva, riflesso
speculare e convergente del vuoto della propria mente.
Certo, non possiamo leggere tutti i libri altrimenti, come per lo
stremato Mallarmé, la carne, già debole, si intristisce. Ma i libri piccoli
e la brevità sono l’alibi di chi ha negozio e dice di non avere tempo o
di chi legge per mestiere, cioè per finalità deviate. Un libro si assaggia
solamente in tempi rapidi, per chi vuole mangiare, cioè appropriarsi,
acquisire e interiorizzare emozioni, sono indispensabili i tempi lunghi
dell’ozio rimuginatore e una lettura aperta, sbocconcellata, con continui
indugi e ritorni su certe pagine.
«Leggere è un processo senza fine, che solo una immaginazione
debole può limitare a una lettura dell’opera»15.
14 G. Pontiggia, L’isola volante, cit., p. 69.
15 Ivi, p. 68. La lettura, scrive Pontiggia, va liberata da intenti fuorvianti e eredità
patologiche: l’idea fugace di ‘possesso’ del libro e l’ideale della completezza
[ 15 ]
118 alessandro carandente
Non si può confondere la dilagante mole d’informazione che ci
proviene da internet, dal flusso continuo della pagina web, così poco
incisiva nella sua frastornante velocità disturbativa, con la formazione
che richiede tempi lenti e lunghi, concentrazione e ripensamenti in
profondità e non può prescindere dal passaggio fondamentale per il
libro cui è intimamente legata.
Pur consapevole di vivere in tempi permeati dalla rivoluzione telematica
e relativi supporti cartacei, in un’epoca dominata dalla connettività
mondiale e da mutamenti profondi e rapidi della vita collettiva,
Pontiggia sembra non avere dubbi circa la funzione futura del libro e
la sua sopravvivenza:
Noi dobbiamo piuttosto difendere l’immagine della cultura che il libro
esprime rispetto ad altre fonti di sapere. E la lettura come esperienza
che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità,
della durata16.
Ammettiamolo: la rapidità si addice a chi deve correre al pronto
soccorso per salvare una persona in pericolo di vita, non certo a chi,
esigente e ambizioso mira in alto – come l’arciere di Machiavelli –,
vuole godersi la lettura in tranquillità e viaggiare in tutt’altra direzione:
abbandonarsi ai piaceri di lingua, assecondarne la corrente delle
parole con anse tranquille e cupi anfratti, abitare mondi e pensieri
sconosciuti e nuovi. Questa lettura è inattuale, fortunatamente inattuale,
cioè nietzscheanamente contro il tempo, prende le distanze e
cancella le nevrosi dei suoi fantasmi per qualcosa di più ricco, solido
e duraturo.
Pontiggia, si sa, è una testa classica, non è attratto tanto dal gioco
della pratica del significante quanto dall’abisso del significato, da
quello che le parole indicano all’origine, ma non è interessato a riprodurre
calchi pietrificati di un inaridito linguaggio comunicazionale,
né di un inerte passato quale può essere l’esperienza del classicismo o
del petrarchismo, sbocchi inevitabili di una mimesi diventata replica.
impossibile che finisce con inibirci l’accesso a uno spazio parziale, l’unico che ci è
consentito.
16 G. Pontiggia, Prima persona, cit., p. 264. Anche per quanto riguarda le opere
che resteranno, Pontiggia sembra non avere dubbi: nonostante il digitale, che va
decretando la fine imminente della carta stampata, saranno tramandati ai posteri gli
stessi libri che sono arrivati fino a noi. Rimarranno: Orazio, che dichiarava di aver
innalzato un monumento più duraturo del bronzo, più alto delle piramidi; e Petrarca,
con l’epistola alla posterità, che lettori in cerca d’altro leggeranno affascinati.
[ 16 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 119
Intervenendo sulla confusione della forma del romanzo, liberatosi intanto
da regole che non sente più sue e recuperato, in un aggancio risolutivo
del movimento, la propria libertà di raccontare, non a caso
scrive:«Non vuole, nei casi migliori, replicare una forma, ma scoprire
la propria»17.
La memoria è vissuta come abbandono incondizionato a un fantastico
viaggio visionario, come riserva feconda per stimolare e nutrire
la nascita di un proprio stile. Ora che il Novecento si è allontanato
anni luce e il dogma avanguardista, perpetrato a oltranza, con le sue
parole d’ordine da terrorismo culturale, è un ricordo svanito, recuperare
la letteratura a quella capacità forte di emozionare che è proprio
della potenza della parola, del suo istinto nomade di sopravvivenza,
al di là dei generi codificati, non è avventura da poco.
Pontiggia è riuscito ad attivare la ricchezza di un linguaggio inesauribile,
coniugando l’istanza speculativa del tessuto logico con la
risonanza emotiva di una intensità affettiva. Oltre a riabilitare un orizzonte
paralizzato nella sua immobilità lo ha anche dilatato, fondando
ciò che resta. I suoi freschi frammenti, da qualsiasi parte si comincino
a leggere, convergono nell’interrogare il linguaggio quale strumento
sensibile per una nuova relazione col mondo e scoprire strati silenti e
trasversali della realtà ignoti alla partenza.
Il suo stile si staglia per se stesso in tutta la chiarezza adamantina.
Le sue parole ritornano a noi in pienezza, come riserva di energia
pronta ad alimentare il fantasma dei nostri poveri giorni. Sono sorpresa
e conferma della nostra nascita e del nostro continuare ad esistere.
5. È vero, Pontiggia ci parla con la voce familiare e riposante, semplice
e potente dei classici. L’energia è concentrata in un nitore sfuggente;
l’orditura della trama di una rara precisione, il significato impresso
evidente, così a portata di mano, eppure imprendibile, inafferrabile
nella trasparenza della sua mobilità rotatoria, come il pallone
lanciato ad effetto da un campione che sfugge dai guanti del portiere18.
Chi punta dritto lo sguardo sul tratto inventivo di alcuni fram-
17 Ivi, p. 100.
18 Per spiegare il senso della letteratura, Pontiggia non esita(va) a ricorrere ad
esempi tratti dal calcio e dal tennis. «Per un professionista il problema è gettare la
palla al di là della rete, lontano dall’avversario e con un effetto rotatorio, in modo
che, se la raggiunge gli schizzi via.
Questi effetti hanno qualcosa di analogo alle connotazioni delle parole: sfuggono
da ogni parte.» (G. Pontiggia, Prima persona, cit., p. 154).
[ 17 ]
120 alessandro carandente
menti, sull’irruzione d’un ignoto conoscitivo imprevedibile, tenta una
rilettura in controluce, con attenzione al taglio inconfondibile dello
stile, al primato dello stile che, vivo e palpitante, giustifica la sua autorevolezza,
lo ritrova nella sua forza centrifuga, problematica e allusiva,
nella sua enigmatica potenzialità metaforica.
Davvero non solo la poesia, ma tutta la letteratura sperimenta il
proprio senso, che coincide poi con la propria sopravvivenza; affidandosi
alla valenza sorpresiva del proprio linguaggio, tenta la propria
nascita. Quelli che invocano i fatti – acta non verba – pensano di poter
prescindere dalle parole, considerandole più o meno un orpello sovrastrutturale,
metaforico che poi arriverà, un accessorio esornativo e un
mero strumento intercambiabile. Eppure la fedeltà ai fatti narrati si
esplica attraverso la forza dello stile, dalla tenuta di ciò che succede
sulla pagina, riportare i fatti nella loro immediatezza o così come sono
accaduti non significa niente. Chiunque abbia avuto un minimo di
pratica e dimestichezza con il fare creativo conosce questa verità elementare.
Non si può prescindere dal come della forma.
Il naturalismo è un equivoco in pieno giorno. E una concezione illusoria,
oltre che ingenua, quella di far salire la cosiddetta realtà, ciò
che appare, meccanicamente sul foglio in una semplice mimesi speculare.
La sincerità dell’arte risiede nel suo essere una costruzione artificiale,
condensata, una scansione ritmica, controllata e al limite dello
sdoppiamento. Spontaneità e naturalezza scaturiscono da questa familiarità
e consapevolezza interiorizzate. Lo stesso Pontiggia, chiosando
Pareto e Catone, lucido e fulmineo ammette:
Il primato della cosa da dire non è, come molti pensano, il dominio del
contenuto. Quando si riesce a esprimerla, diventa il primato dello stile.
L’arte non è la cosa prima di dirla, come vorrebbero i contenutisti, e
neanche il modo di dirla, come vorrebbero i formalisti. L’arte è la cosa
detta nel linguaggio più efficace19.
Come si vede, egli mette in guardia dal privilegiare un solo aspetto
della questione, una dimensione univoca, una visione unilaterale, e
mira, come al solito, a mettere d’accordo contenutisti e formalisti, tradizionalisti
e avanguardisti, un po’ come il filosofo Kant coniugava e
superava in una sintesi mirabile empirismo e innatismo, riuniva i vantaggi
della contingente concretezza e dell’astrattezza razionale nel
giudizio sintetico a priori.
19 G. Pontiggia, Il residence delle ombre cinesi, cit., pp. 157-58.
[ 18 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 121
Lo stile è l’arte di partecipare agli eventi da una giusta distanza; la
forma per dirsi e darsi del pensiero nel suo afflusso multiforme. Il
formalismo, ridotto a mero tecnicismo, per quanto ineludibile, rischia
di essere un limite insormontabile: esercizio retorico, scimmiottatura e
pallido ricordo di una parola un tempo abitata dal vissuto. Per questo
il classicismo, il petrarchismo diventano improponibili, in quanto ricalchi
simulacrali, imitazioni disincarnate di una parola una volta pregna
di vita.
Coinvolto particolarmente nelle cose che scrive, attento alle peculiarità
del linguaggio, sensibile alle parole e ai suoi minimi spostamenti,
impercettibili accenni e accenti, Pontiggia non rinuncia alla riscrittura
nel tempo, intesa come correzione, intima necessità e fedeltà
di aderire ai cambiamenti, dialogo incessante e conquista ulteriore di
realtà. Questo modo di sollecitare, esplorare e amplificare la lingua nei
suoi effetti speculari, a partire dall’ortografia, dall’uso dei segni di interpunzione,
coniugando sentimento ed espressione figurata, tenuta
emozionale e rigore logico, affetti essenziali e orizzonte speculativo,
gli appartiene in maniera congenita, indelebile.
Sul piano esistenziale scopre subito la sua autenticità quando un
giorno s’accorge che essa coincide con la coscienza della propria morte,
che in seguito definirà allegoria sovrana e riconoscerà come fondamento
ultimo, decisivo e invisibile di ogni scelta di vita. A impreziosire
il vissuto, a renderlo amabile, unico e luminoso, non tanto ad angosciarlo
con oscuri presagi, sarà proprio questa assunzione di consapevolezza
della fine. Il termine valorizza il percorso e motiva le scelte di
una vita, innalza le finalità e regala tensioni liriche autentiche.
La morte in banca è già un’esperienza in prima persona, intersezione
di autobiografia e sfondo collettivo, racconto di un impatto traumatico
di un adolescente in formazione col mondo meschino degli adulti.
Qui inizia a lanciare sguardi verso quella ramificazione plurale che
sarà la propria vita. La maturità consiste nell’accettare il presente e
intanto prepararsi a progettare possibili vie d’uscita e a vivere come se
fossero vere le ipotesi più azzardate, le finzioni di un doppio parallelo
e immaginario, insomma come se il nostro destino fosse un altro.
Con quella capacità visionaria di avvicinare il passato attraverso
l’immedesimazione, si apre all’attimo, a quell’eterno ritorno in cui
passato e presente tentano una coincidenza, e schiude una foresta di
possibilità decisionali per il futuro. Con la dovuta distanza tenta un
contatto emotivo e di conservare viva questa riserva feconda, inesauribile.
È questo, a ben vedere, lo stesso atteggiamento del romanziere che
[ 19 ]
122 alessandro carandente
partecipa alle avventure del personaggio, eppure ne è distaccato. Un
esercizio difficile, un raro equilibrio, frutto di un incontro tra memoria
e immaginazione, per evitare inutili preclusioni e fraintendimenti scaturiti
dalla postulazione di un miraggio irraggiungibile, ineffabile, di
tanti filologi o addirittura dalla soppressione della lontananza, sovrapponendo
comicamente in una illusione ottica i due piani temporali.
Ricorrendo alla verità dei fatti, distinguendo fra testo e lettura,
fatto e interpretazione, egli li legge in ciò che più ci riguarda ai fini di
un accrescimento di vitalità, si immette in quel flusso per riuscire ad
abitarlo dall’interno e raccontarlo nelle sue potenzialità fantastiche.
Parte dal significato letterale, dal sostrato etimologico, dalla definizione
materiale, segue le sue anse temporali, con attenzione agli spostamenti
metaforici, per approdare ai traslati mentali e astratti. Il viaggio
critico nel passato vive di un duplice movimento: verso un possibile
incognito, che riscopre e legge come partecipazione a mondi e sogni
familiari, e ritorno personale al significato come necessità interiore.
Anche sul piano narrativo c’è il ritorno del rimosso, è già diventato
più scaltro, avveduto, e si è spostato su un terreno più comprensibile,
meno ellittico ma non per questo meno enigmatico nelle sue potenzialità
irriducibili; con la sua foresta aforistica, le espansioni inventive,
irradianti alla luce del linguaggio, è attento al dettaglio d’un orrore
trionfante, alla ricerca, all’avventura speculativa, al rischio, ma anche
a muoversi nel linguaggio degli altri, a far coincidere l’esigenza del
proprio sé con quella del lettore.
La trilogia dei romanzi Il giocatore invisibile, Il raggio d’ombra e La
grande sera, ma anche i successivi Vite di uomini non illustri, un affresco
epocale attraverso diciotto personaggi immaginari, delineati con una
attenzione alla precisione burocratica dei particolari anagrafici, dei
dettagli biografici, contrassegnati dalla pochezza dell’umano, dalle
categorie del lirico, del tragicomico e del comico; e Nati due volte, incentrato
sul tema delicato della disabilità, più che ubbidire all’imperativo
dell’impegno ideologico e a regole precise, respirano già un’altra
libertà di movimento, mostrano qualcosa di più importante: il recupero
e la capacità di aprirsi, con infedeltà liberatoria, a nuovi orizzonti e
sviluppare il racconto alla scoperta sorpresiva della forma che gli è
propria. Scrive a proposito del romanzo:
Non stupisce che l’ipertrofia della critica nell’età contemporanea abbia
continuato a produrre forme contestative del romanzo. Così che il genere
forse più definibile all’interno della narrativa è quello dell’antiromanzo.
Mentre sulla forma del romanzo – a parte l’area immensa della
[ 20 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 123
produzione commerciale – esiste una salutare confusione. E la meta
dei narratori degni di questo nome non è di scrivere un romanzo che
rientri in un genere, ma di scoprire alla fine del viaggio che cosa sia20.
Pontiggia prende il mondo in parola, lo attraversa nelle sue contraddittorie
sfaccettature, nelle sue pieghe dolorose, con l’intento morale di
bonificarlo. Non si avventura nel racconto per gratificare una soggettiva
vanità narcisistica, ma per cercare sullo sfondo collettivo e in una terra
incognita quell’universale archetipico che mette in contatto lo scrittore
con gli altri. Se la sorpresa comporta l’attraversamento dei codici e conferma
il ritrovamento del linguaggio, la coscienza storica e la consapevolezza
critica fanno luce sul senso della letteratura, che è quello di restituire
energia e dignità alle parole attraverso l’immagine figurata:
Un romanziere dovrebbe essere responsabile del suo linguaggio. E risponderne
non solo frase per frase, ma parola per parola.
Non crediamo più nella parola giusta, ma conosciamo per esperienza
quella sbagliata. Ne siamo sommersi. Ritrovare l’energia biologica della
parola è una sfida che vale la pena sia raccolta21.
È già a lavoro quella partecipazione distaccata capace di delineare,
seguire e scandagliare percorsi visionari e deliranti di maschere disincantate
e disincarnate che si muovono tra corruzione e cinismo borghese,
di formicolanti Mirmidoni che sono i personaggi spettrali delle
nostre metropoli, dove il degrado ambientale e l’alienazione consumistica
convivono euforicamente con una parola svalutata da un abuso
eccessivo, goffo e distorto, da un accanimento verbale che, in preda a
una promozione edificante, una eccitazione iperbolica, ha contribuito
a svuotarla e ad aumentare quel rumore di fondo in tempo reale che è
il feticcio pubblicitario della comunicazione, dissolvenza di ogni autentico
contenuto conoscitivo.
Di fronte a un lessico caduto in disgrazia, a una caduta abissale,
egli cerca di riabilitare, di inventare e quindi trovare il senso, talvolta
a portata di mano come la semplice verità. Non disdegna di rivolgersi
ai miracoli della sintassi e, in sequenza surreale, annoverare le distorsioni
lessicali e i neologismi euforici.
Le sabbie immobili sono la testimonianza palese di chi, idiosincratico,
esercita il proprio istinto satirico e comico; insofferente, insorge
con il registro dell’ironia, cioè con l’arma temibile e micidiale del ridi-
20 G. Pontiggia, L’isola volante, cit., p. 246.
21 Ivi, p. 126.
[ 21 ]
124 alessandro carandente
colo per bonificare un territorio infestato dalla colonizzazione economica
e ideologica; è dal rispecchiamento del linguaggio nel costume
della società italiana che scaturisce un brioso controcanto espressivo,
antifrastico.
Per Pontiggia è sempre l’eccesso a tradire: chi sostiene euforicamente
che ha moltissimi amici, per esempio, si sta tradendo da solo: qualche
dubbio l’ha già insinuato in chi l’ascolta. Perché insistere con la
veemenza eccessiva del superlativo? perché caricare oltremodo l’abulia
di un linguaggio stremato, rischiando di sfociare nella caricatura?
D’altra parte come credere a un’epoca di miracoli pubblicitari,
che mostra modelle fenicottero, che stanno in piedi per scommessa,
e giovani palestrati coadiuvati da farmaci; e che trova tutto incredibile,
perfino la morte, l’unica certezza rimasta; che promette di raggiungere
l’obiettivo di dimagrire non rinunciando al piacere di mangiare
in abbondanza, di celare il grasso dietro l’alibi semantico di
grosso, di imparare senza studiare e perfino di lavarsi senza bagnarsi,
per non parlare poi del più sudi e più stai fresco, rimuovendo in
blocco non solo il detto antico che lo studio è fatica, ma addirittura il
problema?
Un’epoca in cui perfino il libro, da oggetto di godimento, piacere
di viaggiare da fermi, conoscenza, è stato trasformato in “strumento
di lavoro”: caricato di costrizioni opprimenti e finalità pedagogiche,
ha finito col negare quell’otium così caro ai latini; e parole come liberalizzazione,
competitività, concorrenza, produttività, onere fiscale, crescita,
sviluppo, sforamento del tetto, risorse, debito pubblico, bilancio,
target, marketing, fondo monetario, mercato mondiale segnano ormai,
con la progressiva colonizzazione, la vittoria del giogo economico
sul primato della politica, sia di destra che di sinistra. Per non parlare
della politica culturale ed editoriale, anch’essa sempre più aggiogata
al dominio incontrastato dell’economia.
La beffarda ilarità dei suoi strali critici è una risposta ferma al dominio
della stupidità rassicurante, all’orgoglio dell’ignoranza esibita,
all’ovvietà ostentata, alle perversioni della giustizia indiziaria, all’impunità,
al pentitismo, all’indulto buonista pronto a correre in soccorso
del delinquente, alla convivenza ideologica degli opposti e a tanti altri
fasti ascetici e comportamenti sociali della multicolore azienda Italia,
divisa tra microcriminalità e macroprocessi.
Pontiggia non rinuncia ad esercitare la propria ironia, via Manzoni,
mettendo in ridicolo un costume in atto, attento più che ai rapporti
alla nomenclatura, all’aspetto nominale, – siamo pieni di collaboratori
domestici e scolastici, di collaboratori di giustizia, di operatori
[ 22 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 125
ecologici, di operatori dell’occulto, di non vedenti, non udenti anziché
di servi, bidelli, spazzini, maghi, pentiti, ciechi e sordi, ritenuti
vocaboli troppo forti, altamente lesivi per la persona – che vuole sminuire
la gravità del problema e farci sentire a ogni costo protagonisti
quando non siamo altro che comparse e frattaglie di un’epoca in balia
di una chiacchiera vanverante, pubblicitaria, fortemente elusiva e traditrice,
che con propensione all’iperbole, fa ricorso alla funzione enfatica
e dilata a dismisura l’inesistente; con l’accentuazione si cerca invano
di animare un linguaggio logoro, di stimolare sensi stanchi e
assopiti, un’assuefazione restia alle reazioni; ciò che è banale e normale
subito diventa fantastico e mitico; e si ricorre al superlativo e all’esagerazione
avverbiale – onestamente, sinceramente, praticamente,
assolutamente – per supplire a un difetto di base: quello dell’inconsistenza.
Solo due esemplificazioni; assolutamente sì: questa rincorsa all’avverbio
precario, più che infondere sicurezza, rafforzare in senso perentorio,
colmare il vuoto finisce con l’evidenziarlo, accentuarlo:«Sono
sinceramente contento per te, credimi. Come credergli?»22
Anche questo avverbio esorcizzante, come onestamente, non fa che
evocare e sortire l’effetto contrario: esprimere inattendibilità.
A partire da dicembre del 1996, e poi puntualmente, fino a giugno
del 2003, la prima domenica di ogni mese, col suo Album, sul supplemento
domenicale del «Sole 24 Ore», scendeva in campo in Prima persona
e, con incursioni nel quotidiano, nella cronaca, discorreva di personaggi
come George Bush o Giorgio La Pira, ripercorreva le occasioni
del presente per viverlo e chiosarlo con l’occhio critico e attraverso il
filtro della letteratura, per rispondere delle responsabilità etiche che si
hanno di fronte al linguaggio, per assumersi le responsabilità del dire.
Si è in fuga da se stessi, dalle proprie responsabilità perché si ha
paura della verità, soprattutto quando questa è negativa e ci trasmette
smarrimento, angoscia e fallimento. La fuga nasconde una incapacità
di affrontarsi e accettarsi. Non si sospetta minimamente che, talvolta,
è proprio il passaggio per il rischio e la sfida che potrebbero schiudere
alternative ritenute a torto impraticabili e salvare.
Non a caso la visione di ciò che riteniamo sia la realtà è affidata e
racchiusa in quella figura semantica che la retorica definisce ossimoro,
coabitazione coatta dei contrari. L’ossimoro, se da un lato congiunge
l’avverso, ciò che è incompatibile, è accrescimento e superamento del-
22 G. Pontiggia, Opere, cit., p. 1051.
[ 23 ]
126 alessandro carandente
la lettura binaria, dall’altro racchiude una visione complessa del mondo
dove i contrari tentano non ad elidersi a vicenda ma aspirano alla
convergenza, a coesistere nel giorno. L’ossimoro, in quanto arco tensivo
di campi e forze simultanee che si escludono, è in termini conoscitivi
il momento più alto, una acquisizione ulteriore della mente umana
che nel suo equilibrio instabile percepisce di non poter eludere
ombre e contraddizioni del vivere. È la figura retorica che, pur nel suo
contrasto logico, più aderisce al presente e lo rappresenta nelle sue
connivenze, oscillazioni, idiosincrasie, sfasature, squilibri, dissociazioni
e molteplicità contraddittorie. La nostra epoca è diventata nelle
sue pieghe fortemente ossimorica. Accanto a uno sguardo familiare
c’è la consapevolezza di chi sa di non poter rinunciare all’ignoto.
Si intuisce che Pontiggia è accampato sulle sponde dell’essere più
che del divenire, del significato più che del significante, dell’eterno
più che dell’apparenza. È proteso al ritorno di un intero mitico che ci
è stato sottratto, alla coincidenza tra pathos e logos, alla consonanza
tra sentire e pensare, essere e pensiero, anche se, ovviamente, non nel
senso dell’idealismo. Nell’incessante e maniacale amore della verità
anch’egli non smette di inseguire e fissare un miraggio aurorale: un
immutabile di fondo, un eterno, una realtà ultima da collocare ben
Oltre il linguaggio, per dirla col titolo di un libro di Emanuele Severino23,
a lui caro.
Il pathos narrativo e la concentrazione aforistica si impongono nel
tempo al di là di ogni fedeltà e rigore ideologico. Certo, il suo antagonismo
non fa leva sulla forza ideologica, che implica una accentuata
istanza contestativa, ma fa perno sull’asse fondante della moralità,
vale a dire sulla responsabilità etica della scrittura, che rifugge ogni
concetto di settorialità e settarismo, e si esercita in tutta la sua ampiezza
come critica serrata al costume di un’intera società attraverso l’uso
del linguaggio.
Rientrano sicuramente all’interno di questo vasto orizzonte letterario
che è la critica del linguaggio, la ricerca annosa sul tema del linguaggio
autoritario, l’analisi tra autorità e linguaggio, la nutrita bibliografia
accumulata per un lavoro saggistico che Pontiggia, pur an-
23 R icordiamo che proprio col titolo Severino e l’aurora dell’occidente è dedicato
al filosofo del ritorno a Parmenide un meravigliante saggio, articolato sulla sfasatura
tra pensare in termini razionali, comunicazionali, e sentire nell’accezione latina
dei primordi: di convincimento e adesione piena al di là di qualsiasi prova argomentativa.
[ 24 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 127
nunciandolo varie volte, rinvierà sempre e non porterà mai a compimento.
Ha scritto in un suo studio ricco e meticoloso Cristiana De Santis:
La ricerca sul linguaggio autoritario, nata dalle ceneri delle critiche a
quello che Pontiggia definisce in un appunto “terrorismo delle avanguardie”,
si fa ricerca di un linguaggio autorevole, capace di imporsi
per la sua forza, brevità e chiarezza, tanto nella saggistica quanto nella
narrativa. Come salvaguardare la potenza del linguaggio senza che
essa diventi autoritarismo: questo sembra essere il programma di Pontiggia24.
Programma che per noi rappresenta solamente un capitolo che investe
le ragioni democratiche della letteratura. Quello col potere è solo
un aspetto del fare letterario e poetico, aspetto essenziale acquisito e
condiviso nell’era moderna da qualsiasi pratica artistica occidentale:
non si può essere d’accordo con la violenza in atto dell’autoritarismo,
con l’imposizione di un regime oppressivo e autoritario. La parola diventa
autorevole e parla agli altri solo in uno spazio ipotetico e libertario,
ma quando nasce, essa ubbidisce nel profondo a ben altre spinte
e motivazioni interiori.
Alquanto pertinente ci appare perciò la tesi di Battistini, secondo il
quale un giallo incompleto come La grande sera, privo di alcuni ingredienti
del giallo, per Pontiggia è solo una occasione ghiotta, funzionale
a mettere a fuoco «una critica di costume e una gnomica moralistica
», il genere poliziesco «risulta il genere più idoneo con cui esercitare
la critica del linguaggio da parte di uno studioso in caccia delle sue
potenzialità e delle sue “malattie”»25.
E siamo al cuore del problema, al tema centrale. L’investigazione si
sposta di continuo, dopo L’arte della fuga, anche quando arriva in am-
24 Cristiana De Santis, Il linguaggio autoritario dalla biblioteca alla scrittura, in
Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo, atti del convegno internazionale di studi
nel decimo anniversario della scomparsa, a cura di Alberto Cadioli, Giuseppe
Langella, Daniela Marcheschi, Gino Ruozzi, Novara, Interlinea, 2015, cit., p.
49. Il distacco dalla Neoavanguardia per la De Santis è motivato in parte dall’insopportabilità
di certi atteggiamenti intimidatori e autoritari. “Pontiggia sembra
dunque rivolgersi al tema del Linguaggio autoritario mosso dal bisogno – maturato
attraverso il confronto critico con la Neoavanguardia – di un linguaggio non
autoritario; dal rifiuto degli ideologismi in anni impregnati di ideologia.” Ivi, p. 41.
25 Andrea Battistini, I romanzi investigativi di Giuseppe Pontiggia, in Giuseppe
Pontiggia. Investigare il mondo, cit., p. 100.
[ 25 ]
128 alessandro carandente
bito universitario, con Il giocatore invisibile, lo fa per svelare ipocrisie,
frustrazioni e nefandezze, denunciare ambiguità, mistificazioni e un
certo modo di intendere la cultura. Mentre il professore conduce personalmente
la sua indagine per scoprire chi abbia potuto scrivere la
lettera anonima pubblicata in rivista, noi entriamo non visti in un
mondo sconosciuto: l’ambiente accademico con i suoi poco edificanti
retroscena, meschinità, intrallazzi e falsità di rapporti. Il tutto a partire
da un’etimologia.
Così risponde Pontiggia in una intervista a Giancarlo Calciolari:
Io penso che la letteratura sia critica del linguaggio. Chi adopera le
parole, chi se ne serve, dovrebbe sottoporle a un’analisi, come dire,
minuziosa, maniacale e scoprirne la validità e la responsabilità etica.
La parola può essere usata in senso paradossale, iperbolico, provocatorio,
ma deve avere una sua funzione insostituibile26.
Pontiggia ha un rapporto diverso con le parole, possiede una modalità
differente di frequentare e abitare la lingua, è rispettoso e attento
e sensibile alle sfumature, alle ambiguità, ai risvolti esistenziali e
antropologici più che alla politicità ideologica, all’estetica del potere.
E sa bene che esse non sono mai neutre e innocenti, hanno sempre responsabilità
morali.
La trama scritturale si sviluppa su se stessa con una tecnica digressiva
e in osmosi perfetta tra racconto e saggio, sempre pronti sul piano
formale a sorreggersi vicendevolmente; c’è tra il romanziere e il saggista
un rapporto interattivo; espansione inventiva e riflessione critica
convivono e si avvicendano pronte ad interferire, alimentarsi e all’occorrenza,
se necessario, a scambiarsi le parti.
L’inserzione aforismatica, con la sua brevitas, dà corpo e tensione e
solidità all’intero impianto scritturale. Di volta in volta, infatti, al personaggio
e al narratore vengono attribuiti una condensazione e una
sintesi peculiare al procedimento narrativo: ellittici e fulminanti riepiloghi
inseriti nel contesto e nella prospettiva di chi parla o riflette contribuiscono
allo svolgersi dell’azione.
Dopo decenni di proscrizioni, Pontiggia è stato fautore del ritorno
della figura dell’autore, non quello che racconta in prima persona, beninteso,
ma «di quel personaggio in seconda che è l’autore non coinvolto
nella storia»27, ed è insorto in ambito sociale contro la corruzione
26 G. Calciolari, Giuseppe Pontiggia, Lo splendore della parola, cit., p. 77.
27 G. Pontiggia, L’isola volante, cit., p. 100.
[ 26 ]
pontiggia e la critica del linguaggio 129
del linguaggio, le storture, i gerghi e gli usi scempiati e storpiati della
nostra lingua; refrattario al senso comune, non ha mai smesso di cavalcare
con arte il paradosso dell’evidenza. Quel paradosso28 di oggi
che è stato sostituito con l’ovvietà di ieri.
Alessandro Carandente
Napoli
28 In tal senso è interessante leggere quanto ha scritto René de Ceccatty circa la
postura di Pontiggia contro il paradosso. Egli non si limita a dire il contrario di
quello che comunemente si pensa, come di solito fa ogni ironia tradizionalmente
intesa, ma il suo paradosso è in effetti un controparadosso, egli non fa altro che
ripristinare, con l’arte paradossale dell’antiparadosso, la prospettiva di un senso
normale che avevamo dimenticato (René de Ceccatty, La tela, il filo, il velo, «Secondo
Tempo, Libro quarantasettesimo», Napoli, Marcus Edizioni, 2013).

ALDO MARIA MORACE
Narrazione e memoria in Zanotti Bianco
Splendida figura di missionario laico, per tutta la vita apostolo di crescita civile
e culturale per le popolazioni dell’estremo Sud, oppresse dal disinteresse dello
Stato, Umberto Zanotti Bianco è stato anche raffinato scrittore. In questo contributo
si analizza puntualmente la prosa di Tra la perduta gente (1959), il volume
in cui raccolse – a più di trent’anni dalla loro composizione – sette narrazioni
documentarie (tra cronaca e memoria, tra esistenza e storia) sui ‘dannati della
terra’ e sulla insoffribilità del loro «malvivere».

A magnificent figure of a lay missionary, throughout his life Umberto Zanotti
Bianco committed himself to the civil and cultural growth of the populations of
the deep South of Italy, oppressed by the disinterest of the state. Zanotti Bianco
was also a refined writer: the present work offers an in-depth analysis of the
prose of Tra la perduta gente (1959), a volume which gathers together, thirty
years after their composition, seven documentary stories (between chronicle
and memory, existence and history) on the “dannati della terra” (“the wretched
of the Earth”) and the pain of their «malvivere».
Eccezionale figura di ‘missionario’ laico,1 Zanotti Bianco spese
Autore: Università di Sassari; prof. ordinario; ammor@uniss.it
1 U mberto Zanotti Bianco nacque il 22 gennaio del 1889 a Canea, nell’isola di
Creta, da Gustavo, diplomatico piemontese, ed Enrichetta Tulin, di origine inglese.
Studiò nel collegio dei Barnabiti di Moncalieri dove entrò in contatto con padre
Giovanni Semeria, protagonista del fermento modernista di quegli anni. Nel 1908,
a diciassette anni, a Vicenza, entrò in contatto con Antonio Fogazzaro: dall’incontro
nacque un carteggio, del quale solo una parte, purtroppo esigua, è sopravvissuta.
Diresse, con lo pseudonimo di Giorgio d’Acandia, la rivista «La voce dei
popoli», testimonianza del suo interesse per la realtà dell’Oriente europeo, e in
particolare della Russia, dove era stato di persona nel 1922.
Nei primi giorni del 1909 arrivò a Messina per l’opera di soccorso dopo il terremoto
del 28 dicembre 1908. Vi incontrò Gaetano Salvemini, Gorkji, Tommaso
Gallarati Scotti, Giovanni Cena e Giuseppina Le Maire; e, al ritorno da quell’esperienza
decisiva, assieme a Villari, Fortunato, Franchetti, Malvezzi e Gallarati Scotti
Meridionalia
132 aldo maria morace
gran parte della sua esistenza in un’azione instancabile di promozione
sociale e culturale del Sud, ed in particolare dei paesi miserrimi della
fascia aspromontana. Aveva conosciuto le condizioni inenarrabili della
«perduta gente» in occasione del terremoto del 1908; e la sua vita ne
fu segnata per sempre. Venuto a Reggio per partecipare alle operazioni
di soccorso, constatò, di contro alla visione consueta di un Sud solare
e ubertoso, lo stato atroce di emarginazione, di sottosviluppo, di
quiete nella non speranza, sofferto dalle plebi meridionali. Da allora,
per un ventennio, rinunziando ad ogni sogno di carriera intellettuale,
cui pure si sentiva chiamato, e vivendo francescanamente nel “Cipresseto”
di Reggio, Zanotti dedicò la sua vita al riscatto del sottoproletariato
meridionale: insieme con Leopoldo Franchetti, Giustino Fortunato,
Gaetano Salvemini, Giuseppe Lombardo Radice ed altri, diede
vita ad un organismo propulsivo, l’«Associazione Nazionale per gli
Interessi del Mezzogiorno d’Italia», che aggregò in uno sforzo comune
le figure più generose dell’intellettualità meridionale e settentrionale,
al di sopra di ogni divisione partitica, nell’ambito di una dimensione
liberaldemocratica e riformista dell’impegno civile.
È stupefacente (soprattutto se rapportata al presente) l’opera ciclopica
che egli riuscì ad esplicare. Tra il 1910 ed il 1928, quando il regime
fascista gli impedì di risiedere in Calabria (dove si era trasferito dal
1912), Zanotti Bianco creò centinaia di asili, di scuole, di corsi serali, di
biblioteche popolari, di ambulatori antimalarici e di colonie montane
nei paesi più sperduti e poveri dell’Aspromonte: consentendo a migliaia
e migliaia di giovani e di adulti di uscire dalla condizione emarginante
dell’analfabetismo; organizzando nuove forme di cooperativismo
socio-economico; promuovendo la commercializzazione dei
prodotti meridionali in Italia e (soprattutto) all’estero; e, infine, attivando
la formazione professionale nel campo artigianale e industriale.
E non meno rilevante fu l’interventismo di Zanotti Bianco nell’ammaturò
il progetto per la costituzione dell’Associazione Nazionale per gli Interessi
del Mezzogiorno d’Italia, costituita nel 1910. Nel 1920 fondò, con Paolo Orsi, la
Società Magna Grecia e condusse importanti campagne di scavi archeologici. Durante
il fascismo fu impegnato in innumerevoli attività sociali e civili. Avviò una
serie di inchieste sulle regioni meridionali, a partire da quella sulla Basilicata nel
1926; si recò ad Africo nel 1928, accompagnato da Manlio Rossi Doria; preparò
un’indagine sulla Sicilia con l’aiuto di Caffi e la collaborazione di Lorenzoni. Per
questo impegno, non soltanto scientifico, fu sorvegliato e limitato nelle sue attività,
e nel 1941 anche arrestato.Fu tra i fondatori di «Italia Nostra» e della Croce
Rossa Italiana. Einaudi, nel 1952, lo nominò senatore a vita. Morì a Roma nel 1963.
[ 2 ]
narrazione e memoria in zanotti bianco 133
bito propriamente culturale2: convinto che il problema meridionale
avesse tra le sue cause anche la perdita della memoria storica e dell’identità
culturale, per dare esistenza e risonanza nazionale alle voci
migliori dell’intellighenzia meridionale fondò una prestigiosa rivista,
l’«Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», ed avviò una «Collezione
di Studi Meridionali», che si tradusse in un impulso fondamentale
per lo sviluppo degli studi storico-archeologici; e nel 1920 diede
vita ad una società, la «Magna Grecia», per finanziare importanti campagne
di scavi archeologici nel Sud, dirette dal grande Paolo Orsi,
avendo intuito – tra l’altro – le grandi potenzialità di indotto economico,
in termini di turismo, che sarebbe potuto scaturire da un’accorta
valorizzazione dei beni culturali.
Tutto questo fu possibile grazie alla fascinazione della sua figura,
che coinvolgeva schiere di volontariato entusiasta, ed agli aiuti finanziari,
che riusciva ad ottenere dai privati, ma soprattutto grazie a soluzioni
geniali di autofinanziamento (una lotteria, ad esempio, fruttò tre
milioni di allora). «Vade et repara domum meam»: era questo il motto
di Zanotti Bianco di fronte ad un’Italia dimenticata e ad uno Stato
colpevolmente assente, salvo il chiedere tasse inique «per tanto malvivere
». E nel dopoguerra, oltre che presidente dell’«Associazione per
gli Interessi del Mezzogiorno in Italia», Zanotti Bianco fu anche presi-
2 Archeologo, saggista, scrittore, Zanotti Bianco ha lasciato una vastissima
produzione. Per una esaustiva informazione bibliografica su di essa si rimanda al
“Fondo Zanotti Bianco”, custodito presso l’ANIMI, in parte depositato dallo stesso
Zanotti Bianco nel 1960, in parte acquisito dopo la sua morte nel 1963. Per gli scritti
sull’archeologia si rinvia ai saggi di M. Paoletti, Zanotti Bianco e la Società Magna
Grecia; e Bibliografia archeologica di Umberto Zanotti Bianco, in rete sul sito www.domusmazziniana.
it; e, per la critica, all’utilissima Bibliografia degli scritti su Z. B.,
«Arch. St. Calabria e Lucania»», XLVI, 1979. Operando uno spicilegio fra le voci
successive: Il Sud di U. Z. B. L’immagine e l’intervento, a cura di P. Amato, O. Pugliese,
E. Taramelli, Venezia, Marsilio, 1981; U. Z. B. meridionalista militante, Venezia,
Marsilio, introd. di M. Rossi Doria, a cura di P. Amato, Venezia, Marsilio, 1981
[contributi di P. Amato, N. Siciliani de Cumis, R. Battaglia, M. D’Angelo, C. Sabbione-
R. Spadea]; M. Paolino, U. Z. B. e il meridionalismo militante, Napoli, Ed.
Scientifiche Italiane, 1990; A. Jannazzo, Mezzogiorno e liberalismo nell’azione di U. Z.
B., pref. di G. Spadolini, Roma, Gruppo Edit. Intern., 1992; M. Giambalvo, U. Z. B.
e la colonia di Capri: dal mito della Russia alla sua dissoluzione, Palermo, Ed. Fondaz.
Fazio-Allmayer, 1998; S. Zoppi, U. Z. B.: patriota, educatore, meridionalista. Il suo progetto
e il nostro tempo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009; Id., Un singolare senatore
a vita: U. Z. B. (1952-1963), ivi, 2013; M. Grasso, Costruire la democrazia: U. Z. B. tra
meridionalismo ed europeismo, postfaz. di Salvatore Settis, Roma, Donzelli, 2015; A.
Focà, L’assistenza sanitaria nella Calabria di U. Z. B., Soveria Mannelli, Cittàcalabria,
2016.
[ 3 ]
134 aldo maria morace
dente della «Croce Rossa» italiana e di «Italia Nostra», di cui fu anche
tra i fondatori; nel ’52, infine, fu nominato da Einaudi senatore a vita,
per gli altissimi meriti conseguiti nel corso della sua lunga attività,
sempre «nobilmente ispirata alle esigenze dell’elevazione umana e sociale
».
Meno si conosce, di questa figura prismatica e carismatica, la sua
appartenenza al mondo della scrittura: accanto al diarista, o a colui
che ha tracciato profili assai intensi in memoriam (ad esempio, per Paolo
Orsi), o al nobile prosatore delle denunzie e delle battaglie civili,
esiste anche uno Zanotti Bianco che si avvicina ad una dimensione
narrativa, naturalmente nel modo documentario di intervento che è a
lui connaturato, poiché la sua pagina non nasce mai come esercizio
calligrafico, ma sempre da una radice d’azione in favore degli umili e
degli oppressi del Sud del mondo. In tal senso è lecito istituire un apparentamento
con la moralità vociana, nel nome di una nuova cultura
– civile e democratica – che attraverso la messa a fuoco di scottanti
problematiche sociali divenga mezzo di modificazione nel corpo della
realtà italiana: ma senza l’urlo di Jahier e i toni ieratici di Con me e con
gli alpini, e senza il criptopaternalismo della mitizzazione popolare.
Sostanzialmente estraneo alla prosa d’arte di un Baldini o di un Cecchi,
ma non alla sapiente modulazione musicale e alla densità aggettivale
che fu la lezione migliore della «Ronda», l’umanitarismo integrale
(e rivoluzionario nella sua pregnanza civile) di Zanotti Bianco non
rinunzia mai, nel suo appassionato urgere e donarsi, a divenire anche
stile; né poteva farlo.
Il carteggio con Fogazzaro, al tempo in cui era in procinto di operare
la sua scelta definitiva di vita, rivela una spiritualità macerata,
ancora pervasa da vagheggiamenti indefiniti e sottili, eppure già protesa
a trasformarsi in azione, al cospetto della vera sofferenza: «due
nature fremono nel mio essere: una attratta dalla bellezza d’una vita
fortificata, illuminata dall’intelletto; l’altra che sogna una vita dedicata
ad un altruismo assoluto, ad un’azione costante nell’amore» (6 novembre
1908). La scelta non poteva che essere l’«aspro apostolato di
giustizia in favore di classi abbandonate e oppresse», insieme a Giovanni
Cena e a Giuseppina La Maire, ma anche operando a contatto
con gli esuli russi di Capri, intervenendo sulla questione polacca, in
difesa delle nazionalità coartate, e collaborando alla «Rivoluzione liberale
» di Gobetti. Il prezzo pagato – con dolore ed iniziale smarrimento
– fu il doversi staccare da aspirazioni e da espressioni di vita e
d’arte che erano care al suo spirito, «anche se comprendevo tutta la
bellezza e la serietà del compito ch’io stesso avevo contribuito a pro-
[ 4 ]
narrazione e memoria in zanotti bianco 135
muovere, tutta la poesia di vivere tra gli oscuri, umili esseri ai quali
avrei potuto arrecare un raggio di vita».
Il sogno giovanile della scrittura letteraria, in realtà, aveva continuato
ad essere pudicamente coltivato ad intermittenza, negli interstizi
dell’apostolato. Nel 1959, quattro anni prima di morire, Umberto
Zanotti Bianco pubblicava presso Mondadori un volume, Tra la perduta
gente, in cui raccoglieva sette prose narrative scritte tra il 1916 (Ritorno)
ed il 1928 (l’ultima ed eponima). Riunire pagine sparse può essere
– come affermava con una punta di civetteria Montale nella nota prefatoria
al suo Auto da fé – un modo «di buttarle nel fuoco e di liberarmene
per sempre». Nel caso di Zanotti, invece, si è voluto compiere
una sorta di riepilogo – senza nulla di testamentario – della stagione
più fervida della sua vita, per ripercorrere un itinerario tra il dolore e
l’emarginazione del mondo, ed anche per riunire – esplicitandole e
rivendicandole – le disiecta membra di una vocazione letteraria, accantonata
ma non rimossa. Poiché si tratta di pagine nate tra cronaca e
memoria, tra esistenza e storia, e nelle quali figure, voci ed episodi si
ricompongono e si compenetrano nel tempo e nel ritmo di una scrittura
in equilibrio naturale tra istanza narrativa e diarismo, tra documento
e denunzia, dando vita – come è stato felicemente definito Tra la
perduta gente – a sobri «commentarii della guerra alla miseria spirituale
e sociale». Una novità non trascurabile, nel contesto di una letteratura
come quella italiana che – pur ricca di una storia plurisecolare e
di altezze assolute – non ha avuto alternative sostanziali tra il facilismo
populistico (o demagogico) ed il rifuggire dal contatto bruciante
con la realtà dei problemi sociali, con il corpo vivo della sofferenza di
classe. È accaduto, però, che la grandezza dell’apostolo e dell’apostolato
e della sua opera umanitaria abbia dettato una lectio facilior in
chiave meridionalistica (quando non documentaria tout court), senza
peraltro che il libro sia entrato a far parte – anche perché non più ristampato
– dei testi canonici della questione meridionale, irrisolta dopo
un secolo e mezzo di unità nazionale. E senza neppure che sia stata
posta in piena luce l’asciutta e nobile poesia (del dolore vissuto, della
carità donata) che lo pervade, divenendo forza e lievito della sua scrittura,
mai puramente letteraria (pur se permane talvolta qualche retaggio
della superiore padronanza stilistica della prosa d’arte, del suo
cursus musicale, della sua densità aggettivale) e sempre volta a coadiuvare
il riscatto degli emarginati, a proporre lacerti del loro colpevole
abbandono da parte dello Stato.
La percezione di ciò che Zanotti sarebbe potuto divenire come
scrittore la dà in modo palmare la prosa d’ouverture (ed anche la più
[ 5 ]
136 aldo maria morace
narrativa delle sette), Il ritorno3, in cui l’autore racconta in prima persona
un episodio vissuto nella prima guerra mondiale, quando si trovò
ad accompagnare il plotone da lui comandato fuori dalla trincea in
prima linea e dall’ombra incombente della morte. Ma quello verso
valle è un cammino pericoloso, un diverso calvario, che si snoda tra
monti aspri e boschi infidi, senza bussola e senza carte geografiche,
fasciati dal silenzio e da tenebre senza luna (gli elementi iterativi e
vettoriali di un dolorante fraseggio musicale), percossi da una pioggia
insinuante e dallo scoppio improvviso delle granate nemiche (e, genialmente,
la prosa si chiude senza rivelare se la traversata sia pervenuta
alla sua meta)4. Le voci di un’umanità disumanata, misera, sporca,
sfiancata, in marcia instabile tra il viscidume del fango, compongono
un quadro non dimenticabile dell’Italia contadina mandata a combattere:
un crogiolo plurivocale di razze e dialetti diversi che si intersecano
e si mescolano, rompendo il silenzio della notte, quasi ad esorcizzare
di tratto in tratto lo spessore delle tenebre, «l’ansare dei petti
sfiniti», l’«odore della putredine» e la paura oscura della morte. Nei
sette pezzi diaristico-narrativi, eccetto – et pour cause – Una notte sul
Volga e Profughi armeni, negli inserti dialogici gli umili parlano sempre
in dialetto, nel loro dialetto, senza essere prevaricati né traditi nel loro
codice fàtico, e secondo un modulo espressivo che costituisce una nota
costante del libro. Riprendendo la lezione di Fogazzaro5, ma spin-
3 Con un attacco di grande impatto: «È l’ora buia in cui i primi rialzi del terreno
diventano l’orizzonte; e l’orizzonte lontano scompare nel vuoto notturno. |Accompagnando,
sotto l’acqua implacabile, le truppe di ricambio sulle posizioni senza
trincea, tenute dal mio plotone, raccolgo i miei pochi uomini, immobili, irriconoscibili
nella melma. Stanchi, bagnati, affannati, senza pensiero, tanto da non
comprendere neppure il richiamo della partenza, danno il terrore di cose morte
battute dalla pioggia, in attesa di una seconda morte più iniqua e crudele» (Il ritorno,
in Tra la perduta gente, introd. di A.M. Morace, Nuoro-Soveria, Ilisso-Rubbettino,
2006, p. 23: edizione che meritoriamente ripropone il testo nella benemerita
collana “Scrittori di Calabria”).
4 Al termine del faticoso cammino, lungo una strada perduta tra i boschi e incognita,
brillano luci che possono essere amiche o nemiche: «I nostri visi, le nostre
anime sono tutte protese verso quell’incognito. | E intanto, sulla nostra stanchezza,
sul nostro smarrimento, mentre più profonda sembra la tenebra, più angoscioso
il silenzio dei boschi, lenta, indifferente ricomincia a cadere la pioggia» (ivi, 37).
Questa prosa narrativa è rimasta, purtroppo, sconosciuta agli storici della letteratura
sulla Grande guerra.
5 E, infatti, scatta «la nostalgia d’una dolcezza lontana», quella vissuta a Vena
di Fonte Alta, quando la mano di Fogazzaro, «il poeta della Montanina», prima
«conca sognante», ora «sotto la furia nemica», «m’aveva stretto a sé», guardandolo
con «quegli occhi abituati a richiamare dal profondo degli esseri le parole senza
[ 6 ]
narrazione e memoria in zanotti bianco 137
gendola ben più oltre, Zanotti è fra i pochi a far parlare il popolo – e
soprattutto i calabresi – nella propria lingua, per non tradirne la protesta
e la rassegnazione. E se anche da quell’inumano soffrire e penare
può scaturire una goccia di dolcezza, per la consapevolezza che «tutta
la nostra vita fino al limite estremo della morte» è stata data in sacrificio
totale alla patria nella sua ora più tragica, la nota dominante è il
disgusto della carne «ebbra di stanchezza» e della «nuda sofferenza»,
che fa scattare ad intermittenza il sogno molcente del macrocosmo
(altro leit-motiv dell’intero libro), l’accarezzamento della lontananza
astrale:
Oh, essere di fronte al gran mare consolatore, steso sulle tepide sabbie,
sfiorato dalla brezza piena della vertigine dei colori, dal tripudio dei
sali amari e dei fiori dischiusi… essere, essere nella vita senza dolore,
senza spasimo, ignaro come la luce, come gli astri…
Sono io che chiedo questo? Come devo soffrire!»6.
La vita non può che essere impegno, dedizione, oblazione: deve
essere spesa senza margini egoistici per risarcire e riscattare l’altra Italia,
quella che vive l’inferno in terra, che ha dato la sua carne alla patria
ricevendone in cambio – prima e dopo – tanto «malvivere». Alla
stazione di Catanzaro Marina è la narrazione di un ritorno, di un altro
aspro ritorno, ma anche di un’altra coraggiosa guerra da ingaggiare,
più lunga e sfibrante, anche se meno sanguinosa, per ridare vita e dignità
alla società calabrese («sarebbe bastato che spendessero per noi
quello che si è speso in un sol giorno di guerra»). Un’umanità violata
nei suoi diritti elementari, senza ribellione se non quella della parola
sussurrata e inane («inutile arrabbiarsi quaggiù»), oppressa dallo
squallore senza speranza del suo esistere, si accalca in uno spazio invivibile
in attesa di treni in ritardo apocalittico, senza neppure il conforto
di una sala d’attesa aperta7. Zanotti racconta per stacchi, per seespressione,
le parole ancora sepolte sotto il triste spasmo dell’ombra, della gravità
della carne» (ivi, 35).
6 Il ritorno…, 31. Il rimando intermittente, ma mai intermesso, al macrocosmo,
è un colloquio fidente con ragioni più alte della contingenza ed è anche, quando
non esplicitato, il dato sottaciuto di ciò che si opera sulla contingenza: operato con
religiosità profonda, ma senza nulla di fideistico. Al tempo stesso, proprio per la
sua carica lenitiva, è accompagnato da un senso pungente di colpa: «E ho potuto
sognare una serenità senza ombre?» (ivi, 33).
7 «Quanta armonia in alto, quanta disarmonia quaggiù», medita Zanotti guardando
con un confuso desiderio di liberazione «il grande stellato tremante al soffio
del vento invernale»; e le grosse nuvole che si accalcano gli riconducono alla me-
[ 7 ]
138 aldo maria morace
quenze cesurate da spazi bianchi: stazioni conoscitive di un inferno in
terra, viaggio nella coscienza dell’offesa;8 e nuovamente la promiscuità
forzata si punteggia coralmente di voci, di storie, tra le quali quella
di un sopruso alla Fontamara (non acqua, ma terre fertili usurpate con
bieca sopraffazione dai detentori del potere paesano, con la complicità
della legge), che viene narrato da un contadino nel suo dialetto terroso,
mentre la voce narrante misura tutto il tradimento disunitario della
mitografia risorgimentale, l’incrinarsi lacerante della «visione d’una
grande realtà patria», dato dalla «coscienza acuta d’una desolazione
sconfinata», dal contrasto irredimibile tra l’armonia infinita «del
grande stellato, tremante al soffio del vento invernale», e la «disarmonia
» di «quest’Italia dimenticata, che ci fa morire di pietà e di vergogna
» per «il dolore senza speranza di tutte queste povere e squallide
esistenze umane». Il treno li accoglie quando già si profilano le livide
luci dell’alba; e se «lacrime amare, «di quelle lacrime che tolgono alla
vita il sorriso per sempre», sembrano inaridire la volontà e la speranmoria
i versi che scandiva controvoglia a scuola: «Gli astri camminavano, Zeus
assembratore di nuvole sollevò un vento furioso in terribile raffica, e coprì di nembi
e terra e mare tutt’insieme: dal cielo cadeva la notte» (Alla stazione di Catanzaro
marina…, 41). Si tratta di una traduzione dei vv. 312-15 del libro XII dell’Odissea:
una bella traduzione letterale, che mostra la conoscenza del testo greco a memoria.
E non si tratta solo di un richiamo memoriale suscitato dalla notte e dalle nuvole
tempestose, perché a suggerirla è l’instaurarsi di una omologia tra la situazione di
Odisseo, e dei compagni scampati a Scilla e Cariddi, e quella di Zanotti e della sua
‘odissea’ conoscitiva tra la perduta gente, attestata dal richiamo in ouverture della
prosa: «Come si viaggia nell’ignoto su questo versante ionio. Pare Ulisse l’avventuroso
v’abbia impresso il suo fato».
8 Non a caso la sua enunciazione, con il corollario di una spaccatura irredimibile
fra il Nord e il Sud, è affidata alla voce di un dottore, incontrato casualmente
nella biblica attesa del treno: «Mi creda: non c’è nulla, nulla da fare. Il male è troppo
grande: ci vuole il cataclisma. […] Sa, la guerra mi ha insegnato a odiare i nostri
fratelli del nord […] Non è ragionevole: ma è così. Troppo belle, troppo ricche,
troppo privilegiate quelle terre. Come non misurare l’abbandono in cui siamo lasciati?
[…] Ma è colpa l’essere malati? Noi siamo come dei cachettici, come dei
malarici. […] Bisogna prima guarirci. […] A morire ci hanno insegnato. Ma a vivere?
Sarà irragionevole: ma sapesse che odio fermenta qui dentro». E, in contrappunto,
un volgare commerciante settentrionale, sputando a ripetizione dentro lo
scompartimento, dà voce a tutto il malanimo accumulato in quella attesa sfibrante
di un treno che non arrivava mai: «Che sono popolazioni queste? Faressimo meglio
a sopprimerle tutte. […] Come nei campi vecchi si brucia la stoppia, così (gesto
tagliente) via, la testa a tutti. […] La roba migliore, io almeno avrei fatto così,
sarebbe stata di consegnarceli tutti ai Tedeschi» (A Catanzaro marina…, 41-2 e 49).
Non può esserci più asciutta focalizzazione della ‘questione meridionale’ e della
genesi ‘leghista’.
[ 8 ]
narrazione e memoria in zanotti bianco 139
za, l’accento di chiusura è il «credere disperatamente»: un atto di fede
che diviene, in Zanotti, prassi combattiva contro la cancrena dell’alibi
e della rassegnazione.
Le tre prose narrative seguenti accennano pudicamente a questa
lotta condotta con pervicacia incrollabile per riaffermare le ragioni
dell’umano, per difendere e ridare dignità alle vittime della Storia,
divenendo un itinerario di conoscenza del (e nel) dolore. Una notte sul
Volga inocula un’atroce sofferenza per la morte in vita dei bambini
russi, per le loro palpebre che rimangono chiuse, quasi che la stanchezza
non riesca a vincere il peso delle lunghe ciglia. Sfilano nel silenzio
rammemorante della notte i fotogrammi dell’orrore, quali Zanotti
li ha percepiti nel suo periplo tra le camerate della sofferenza,
con una infermiera che ha assunto la funzione di un Virgilio dell’umano
dolore9: di stanza in stanza, di letto in letto, di volto in volto, tra
piccoli malati di tifo e colera e fame, senza conforto materno, è un
viaggio in un soffrire impietrato, tra il silenzio spettrale di «poveri
scheletri» senza sorriso, di «povere bocche torturate» e disperatamente
sole10. Il lavacro del viso in una pozza d’acqua per liberarsi, con la
freschezza del contatto, dall’incubo notturno, non è catarsi: «l’argine a
sì smisurato dolore non è forse affidato alla nostra volontà?». Un omologo
modulo compositivo è in Profughi armeni: la funzione virgiliana
del viaggio nell’inumanità del dolore è qui delegata alle parole di un
poeta di quel popolo, Hrand Nazariantz, che guida la voce narrante
ed il lettore in un percorso conoscitivo dei frutti perversi dell’odio razziale,
nel colpevole silenzio dell’Europa e di tutta la cristianità di fronte
all’immane tragedia del genocidio. In squallidi baraccamenti, rifiutando
con orgoglio l’assistenzialismo passivo, le donne armene lavorano
mute «su grandi telai immobili», senza mai far risuonare qualcu-
9 «Mangiarono foglie… scorze di alberi… radici… pasta di legno, tutto ciò che
era possibile: poi il padre fuggì con due fratellini in cerca di pane. Invano la madre
li attese: allora si decise a partire anch’essa con questa creaturina in braccio. Quante
verste ha fatto a piedi mendicando – sospira la mia guida – prima di venire qui
a morire! […] Non vi potete immaginare che cosa si erano ridotti a divorare questi
disgraziati, quando non si pascevano addirittura di carne umana: carne dissotterrata
nei cimiteri, carne rubata nelle camere mortuarie, carne talvolta di creature
uccise dagli stessi genitori!» (Una notte sul Volga…, 53 e 57).
10 «Come un alito di questa errante brezza notturna, passa sui miei capelli il ricordo
di una carezza di mia madre nell’ora del vespero orientale. […] Poter riversare
una goccia di questa indimenticabile dolcezza, che nel sepolcro degli anni conserva
tutta la sua luce e la sua vita, su quelle povere bocche torturate, su quegli occhi
sfiniti, su quei cuori esausti per una sconsolata e vana attesa di madre!» (ivi, 56).
[ 9 ]
140 aldo maria morace
no dei canti «che accompagnano così spesso l’urto secco e cadenzato
delle assi dei nostri piccoli telai campagnoli»: «in questo silenzio così
vivo di cose morte» stringono nodi su nodi, simili a suonatrici d’arpa
intente a rintracciare una melodia misteriosa, mentre le voci e le storie
della persecuzione («le loro parole non sono che di sangue e di morte
»), che emblematizzano quelle di migliaia e migliaia di armeni, si
susseguono in dizione scabra, asciuttamente referenziale, a trasmettere
la terribilità dell’orrore11 di massacri tanto cruenti da dover essere
rimossi dalla coscienza dei popoli ‘cristiani’12; e Zanotti vorrebbe, prima
di accomiatarsi, vincere la timidezza e stringere la mano di una
madre tatuata e violentata «per inginocchiarmi in ispirito davanti
all’infinito patire di questa razza»13, mentre «il cielo alto, freddo, immenso,
è cosparso di stelle tremanti».
Non a caso La pazza per amore è incastonata tra Una notte sul Volga e
Profughi armeni: a istituire un’equivalenza nel dolore, nella sacrificalità,
nella soffocazione della dignità. Attraverso la peregrinazione faticosa
in alcuni dei paesi più emarginati dell’entroterra ionico, lì dove
nessun funzionario aveva voluto risiedere e dove invece vengono impiantate
le scuole volute da Zanotti, per non far sentire gli abitanti
11 Nekdar racconta con voce dolce e mesta il sacco di Smirne: «I turchi avevano
abbattuto le porte della chiesa, massacrato gli uomini, portato via tutte le donne. Il
quartiere armeno era già tutto in fiamme: ora tentavano di dar fuoco anche alla
scuola americana. Le ragazze, allacciatesi sul braccio i distintivi della Croce Rossa
americana, erano fuggite per la strada, ove correvano pazzamente automobili turche
seminatrici di morte, verso il mare. Ma sulle navi degli Stati Uniti non riuscivano
a mettere piede che gli americani: i miseri armeni erano inesorabilmente ricacciati
indietro. Dei giovani si buttavano in acqua, sperando di raggiungere a
nuoto e di poter salire su qualche nave. Alcune scialuppe, cariche di armeni, riuscite
a staccarsi dalla riva, erano state raggiunte dal petrolio infiammato delle
pompe turche, incendiandosi in mezzo al mare. La madre di Nekdar, pazza di
terrore, aveva proposto alle sue due creature di morire assieme, gettandosi tutte in
acqua: ma le figlie resistevano piangendo. Si rivolse ai passanti, supplicandoli di
spingerle alle spalle, poiché esse non avevano il coraggio di uccidersi» (Profughi
armeni…, 94).
12 «Lacrime, soltanto lacrime, e non altro che lacrime: lacrime da saziare, da
impietrire più vite, lacrime da infastidire i cuori stanchi e disattenti dei popoli
presso i quali il destino ha gettato le sue vittime» (ivi, 94).
13 E torna ad essere espressa la ‘filosofia’ dell’interventismo zanottiano: «Ma
tendere la mano ad esseri vinti, per fare del loro martirio una bandiera di rivendicazioni;
[…] questo è sforzo d’azione, rinunzia di egoismo, accettazione di responsabilità,
questa è battaglia» (ivi, 96); e se è necessario aprire una scuola d’italiano,
dato che quasi nessuno dei profughi parla la lingua del paese in cui sono stati accolti,
lo si farà, anche se non ci sono risorse finanziarie: «Si troveranno» (ivi, 97).
[ 10 ]
narrazione e memoria in zanotti bianco 141
«sradicati dallo Stato», si compone per tessere musive di incontri e di
voci che parlano il loro irto dialetto l’immagine di una società che soffre
di secolari e ingiustificabili abbandoni da parte delle dominazioni
che vi si sono succedute, sempre depredando, mai curando i mali endemici
che l’hanno annichilita, quando non annientata. Ma è anche
una comunità – omologa nei vari paesi e frazioni del viaggio zanottiano,
sempre proteso a lenire fattivamente «tanto malvivere» – che soffre
patologicamente, per tabe indotta, di squallida atonia, di pigrizia
nella volontà (è sufficiente una canaletta creata sul momento da tre
picconi per porre rimedio alla deprecazione di una vecchietta), di violenza
implosiva (l’omicidio insensato di un ispettore scolastico) e di
resa alla paura ed alla dittatura (in treno una voce afferma: «dobbiamo
essere fascisti»), nel sormontare di un piccolo mondo sordido e privo
di luce, che vede l’intreccio malsano di interessi egoistici, di sopraffazioni
feudali, di calcoli elettoralistici, di connivenze e di complicità
statali, quando non di ruberie vergognose (un funzionario statale fugge
da Saccuti portando via i soldi che gli abitanti avevano versato per
divenire proprietari delle case in cui abitavano). Il mondo s’infiamma
per improvvise emergenze catastrofiche (i terremoti che l’hanno devastata),
ma non per quelle secolari, non per le stragi silenziose ed assidue
della malaria, che in Calabria è giunta a interessare ben più della
metà dell’intera popolazione, come attesta l’inserimento della relazione
di un medico, con impietosi dati statistici che vengono trasposti in
formula narrativa. E cosa non è forzatura, violentazione, alienazione,
solitudine, malattia – sembra dire Zanotti Bianco – in questa terra
«aspra e dolcissima, arida e lussureggiante, straziata e pur sempre rinnovata
», racchiusa fascinosamente nelle «mute rovine di cataclismi
obliati, soffocate dall’edera e dal caprifoglio», ma che «ovunque si fenda
lascia intravedere il volto marmoreo di una grande civiltà scomparsa
»? Da essa si può uscire con un atto di volontà, resistendole con
disperata intelligenza e dolorosa saggezza, oppure per deragliamento
della ragione14: è il caso (cifra emblematica di una condizione storica,
di una società) della pazza per amore, che con la sua presenza inter-
14 Di cui è prodromo l’episodio sintomatico del maestro Marando, che «aveva
posto tutto il suo orgoglio nello scrivere e far stampare, con i suoi magri risparmi,
un libro di novelle in francese, una lingua ch’egli poco conosceva e che nessuno
dei suoi compaesani avrebbe potuto mai leggere» e che richiede percussivamente
l’acquisto di un microscopio, quando la sua scuola ha bisogno di una dotazione
iniziale di libri: alienazione da solitudine intellettuale e da emarginazione coatta
(ivi, 76).
[ 11 ]
142 aldo maria morace
mittente punteggia le tre parti della prosa. Dopo il contatto con un’altra
vita, dopo il sogno di un’altra orbita, non ha resistito al ritorno
nella sofferenza quotidiana di una vita senza orizzonte e, poi, ad una
nuova disillusione d’amore, abbandonata dal cantastorie con cui aveva
iniziato a convivere15.
Questa terra disperatamente amata, nella quale egli esplicava il
suo prodigioso interventismo, è guardata dall’alto in Aspromonte. Il
sorgere di un’alba, l’improvviso rivelarsi di marine lontane, sono resi
in una stupenda prosa descrittiva che accarezza da Montalto i paesi
ormai parte dell’anima zanottiana, ma ora deprivati per questa diottria
sovraorbitante del loro quotidiano dolore di vivere, riassaporati
nel loro ritmo sillabico ed accentuativo e divenuti meditazione sulla
storia, sul tempo, sulla distruzione della memoria identitaria prodotta
da devastazioni, invasioni e rovinosità geologica: «tutto ciò che altrove
forma la vivente tradizione d’una terra, il retaggio d’arte e di bellezza
dei padri, […] qui è stato distrutto se non dalla violenza degli
uomini, dalla furia apocalittica degli elementi […]. Tutto ciò che non è
stato affidato esclusivamente alla vita dello spirito, penetrando nel
profondo delle esperienze umane, qui è naufragato nel silenzio e
nell’oblio»16, chiudendo però nel segno dell’attesa messianica di una
15 «Gli occhi, l’anima sperduti nelle tenebre, penso al dramma di quell’essere
demente per troppo amore. Ricordando le parole della vecchia filatrice, cerco di
immaginare l’infanzia di quella infelice nel misero comune da cui era partita sognando
chi sa quale destino; i suoi primi tentativi di artista a Messina; l’amore
improvviso, con tutto l’ardore e la dedizione della sua giovinezza inesperta, per
un compagno d’arte che forse non cercava che una breve avventura; il suo ritorno
desolato quassù e il lento ottenebramento del suo spirito nella disperata e vana
ribellione contro la bruta realtà. E quando la crudeltà del suo destino sembrava
mitigarsi e una rozza carezza era scesa sulle sue sofferenze senza espressione, ecco
la dissennatezza altrui sottrarle, con l’ultimo raggio dell’intelletto, la vita. | Mi
raffiguro quel misero corpo steso tra i suoi stracci, sulla polvere e le pietre con il
braccio proteso, mentre attorno a lei, dopo averla annusata rabbrividendo, guaivano
le sue quattro bestiole prigioniere della morte». E, come di consueto, la prosa si
chiude con un rimando catartico al macrocosmo: «Le stelle che avevano dato allora
un’ultima luce alla sua grottesca collana, dovevano brillare indifferenti, come in
questa mite e dolce notte, nell’immensa volta del cielo, fin laggiù all’estremo orizzonte,
ove danzano, mute e leggere, sulle nere onde del mare» (Pazza per amore…,
87).
16 «Che cosa resta più delle famose città che i Greci fondarono su questi due
mari e che ebbero una fortuna così vivida e intensa, oltre l’alone di poesia che circonda
i loro nomi?»; Roma, «che dovunque è passata ha lasciato tracce grandiose
della sua potenza», qui «ha fatto il deserto» ed «è quasi del tutto muta e assente»;
la stessa Bisanzio a null’altro «ha legato il suo nome che a qualche umile chiesetta,
[ 12 ]
narrazione e memoria in zanotti bianco 143
campanelliana città del sole e di un gioachiniano tempo di carità. Ma
è breve parentesi: si torna subito dopo tra la violentazione quotidiana
della «perduta gente». L’inchiesta su Africo – come nel caso delle altre
prose qui riversata in chiave narrativa – compone un affresco memorabile
di odori e suoni, paesaggi e stati d’animo della Calabria17; ed è
un’asciutta via crucis– anticipata in apertura da una lettera documentaria
dell’arciprete – nella piagata sofferenza di tutto un popolo, torturato
dalle tasse indiscriminate e dalle malattie, privo di un ambulatorio
e di un medico18, privo di un’aula per i pochi e scalzi studenti (le
lezioni si svolgono nella stanza da letto della maestra), quasi totalmente
analfabeta e annidato in case dirute («tane» in cui vivono insieme
con gli animali)19, ma avendo invece il telegrafo solo perché è servito
alla caccia del brigante Musolino, e devitalizzato da un immangiabile
pane, impastato alla peggio «con farina di lenticchie, di cicerchie
e d’orzo, dal gusto acido e amaro», che Zanotti compra e spedisce
nell’altra Italia, perché possa comprendere cosa significhi nascere e
a qualche lembo d’affresco»; Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, «quale testimonianza
della loro storia ci hanno tramandato in questo giustizierato se non la
taciturna solennità delle dirute rocche feudali?» (Aspromonte…, 105-06).
17 «Il sentiero saliva tra massi a strapiombo e precipizi velati di nebbie stagnanti
sulle ampie valli. Quel mondo notturno di pareti rocciose, di nebbie, dominato
dal Sasso di Bova che si protendeva possente come la prua d’una nave tra le
stelle, mi ricordava certi paesaggi di Scozia romanticamente riprodotti in un volume
che mi aveva fatto sognare nella mia fanciullezza. Là cavalieri che al suono del
corno chiedevano di penetrare nei castelli avvolti dalle brume notturne; qui rauchi
richiami di mulattieri, vaganti come fantasmi sull’orlo degli abissi fumanti» (Tra la
perduta gente. Africo…, 110).
18 «Non v’è mai stato servizio farmaceutico né v’è servizio medico, ché tale
non possono dirsi le visite rarissime (due quest’anno!) fatte da un “medico a scavalco”
che vive a sei ore di mulo da Africo». L’animi era riuscita a farvi destinare
un giovine dottore, confinato politico; ma il commissario prefettizio, l’unico uomo
obeso in tanta povertà, per acquisire merito si era ribellato «a che il suolo del suo
comune venga profanato da un antifascista e cerca di fare annullare il provvedimento
» (ivi, 121).
19 «Si tratta in genere di vani di tre o quattro metri per lato, alti due. Su vasti
pagliericci poggiati a terra o su di uno zoccolo di legno, dormono ammucchiate
sei, sette persone che poche coperte di ginestra debbono proteggere dal freddo: in
un angolo il forno e spesso il fornello per la cucina, accanto una cassapanca ove
viene riposto il grano e l’orzo; talvolta un telaio; dal soffitto pendono alcuni formaggi,
cipolle, fasci di ginestre, quanto la famiglia è riuscita a serbare per sé. Gli
animali, di notte, s’assestano dove possono. In uno di questi vani vidi nella penombra
steso su d’un letto, accanto ad un malarico febbricitante, un grosso maiale:
| – Issu trema pu frevi (febbre) – mi spiegarono – u porcu nci duna u focu soi» (ivi,
119).
[ 13 ]
144 aldo maria morace
vivere in una certa Calabria20. Si infittiscono i cenni al contagio ammorbante
del fascismo, al disgusto per la rapacità clericale, all’amarezza
del dover operare tra meschine inimicizie, meschini interessi
contrapposti, amando disperatamente i dannati della terra per «riscattare
secoli e secoli di assenza» statale, senza però poterli perdonare
per la loro secolare accidia (la passerella non costruita sull’Apòscipo)21
di esseri incapsulati senza sussulti ad una roccia, in cui si esaurisce il
loro orizzonte, senza speranza di vedere altra terra oltre la grigia cortina
che li fascia. Nella solitudine silenziosa del suo giaciglio, «così
vicina al cuore delle cose», Zanotti cerca invano «un perché a tanto
penare, una giustificazione, uno scopo, a tanta assenza di bene»; e gli
sembra di percepire «il gemito degli astri nel cielo remoto». Ma che
vale lamentarsi? «Vade et repara domum meam. Da quando percorro
le terre meridionali questa preghiera dell’Italia dolorante è la mia unica
guida» in questa dimensione in cui, shakesperianamente, «the time
is out of joint» (il tempo è fuori dai margini) per il suo essere stata respinta
da secoli ai margini della civiltà. Quasi a riprendere respiro e
forza, l’autore apre un volumetto di liriche inglesi ma subito lo chiude:
per immergersi nell’altra poesia, «forse più ricca, più varia, più
profonda, che offrono le umili, le misere cose che incontriamo ogni ora
sul nostro cammino, ma che trascuriamo come inutile cosa. || E reclinata
la testa sulle braccia mi posi ad ascoltare, sulla mia stanchezza,
scivolare silenzioso il tempo»22.
Aldo Maria Morace
Università di Sassari
20 «A che cosa non s’è ridotta l’inverno scorso questa disgraziata popolazione!
| – Mangiammo l’urtichi cotti comu li ’rimiti (eremiti) – si lamentavano– e l’agghianda,
cun permessu parrandu, com’i porcelluzzi!» (ivi, 120).
21 Alla consueta lamentazione sull’assenza del governo, da parte di un giovane
che li accompagna, l’ingegnere che collabora con Zanotti sbotta: «– Va bene. Ma
che tra tutti i milleottocento quanti siete non si siano trovati dieci, venti uomini di
buona volontà disposti a tagliare nei vostri boschi qualche albero d’alto fusto per
trascinarlo fin qui e fare una passerella, questo è per me incomprensibile» (ivi,
118).
22 Ivi, 136.
[ 14 ]
Ilaria Muoio
Fenomenologia del naso tra Capuana e Pirandello.
Il caso Roxa-Pascal
La topica del naso e il valore polisemantico attribuito alla sfera olfattiva ricorrono
con continuità nella novellistica di Luigi Capuana, accompagnando l’evoluzione
della poetica e del metodo dell’autore, dal determinismo fisiognomico
degli anni Settanta dell’Ottocento alla scomposizione umoristica dei primi del
Novecento. Si propone una lettura della novella Il caso di Emilio Roxa alla luce
del dispositivo intertestuale e dei rapporti Capuana-Pirandello.

The topic of the nose and the complex meaning attributed to the sense of smell
recur continually in Luigi Capuana’s short stories. They accompany the development
of his poetics and method from the physiognomic determinism of the
1870s to the humoristic turn at the beginning of the twentieth century. This essay
offers a reading of the short story entitled Il caso di Emilio Roxa from an intertextual
standpoint and with regard to the relationship between Capuana and
Pirandello.
Tout en nous correspond à une cause interne
A distanza di oltre un decennio dalla pubblicazione dei quattro
volumi dei Physiognomische Fragmente zur Beförderung der Menschenkenntnis
und Menschenliebe di Johann Caspar Lavater, nel 1791, la
Wild-Altheer di Utrecht dava alle stampe la monumentale Dissertation
physique sur les différences réelles que présentent les traits du visage chez les
hommes de différents pays et de différents âges, sur le beau qui caractèrise les
statues antiques et les pierres gravées. Suivie de la proposition d’une nouvelle
méthode pour déssiner toutes sortes de tétes humaines avec la plus grande
sûreté, opera-lascito intellettuale del fisiologo e anatomista Petrus
Camper.
La proposition d’une nouvelle méthode di Camper consisteva nell’ipo-
Contributi
Autore: Università di Pisa; dottoranda di ricerca in Studi italianistici; i.muoio1@
studenti.unipi.it
146 ilaria muoio
tesi del cosiddetto angolo facciale, ricavabile dall’intersezione di due
linee tracciate sul viso di profilo e rispettivamente tese l’una tra la
base del naso e l’orifizio dell’orecchio, l’altra dalla fronte alla parte più
esterna del mento. Sulla scorta dei dati ottenuti nelle varie misurazioni,
lo studioso era riuscito a elaborare il primo e accettato strumento di
craniometria rappresentato da una «scala graduata di angoli facciali»1,
in progressione crescente dalla scimmia all’Apollo Pizio, espressione
ideale della kalocagathìa.
Come immaginabile, l’angolo facciale diede vita a un complesso e
florido dibattito tra studiosi, talvolta degenerando in misinterpretazioni
e abusi propri del più spiacevole razzismo scientifico2, talaltra
influenzando sensibilmente, nel tempo del sincretismo tra scienza e
letteratura, anche la cultura umanistica.
Emblematico è il caso di Hegel. Nella parte terza della sua Estetica,
difatti, nell’ambito della riflessione sulla scultura ideale e, più nello
specifico, sul profilo greco, il filosofo tedesco cita espressamente l’anatomista
olandese come il teorico della linea di bellezza del volto, quella
ovvero per cui il rapporto tra fronte e naso è disegnato da una «linea
retta o solo leggermente incurvata»3. L’organo olfattivo rappresenta
per Hegel il punto di unione tra le parti superiore e inferiore del volto,
dunque tra la fronte, che è «solo teoretica e spirituale», e la bocca,
«l’organo pratico del nutrimento»4. Ora, se la fronte è inarcata e il naso
incavato nella porzione superiore e prominente in quella inferiore si
realizza una marcata opposizione fra la parte teoretica e quella spirituale;
in tal caso, il naso appartiene a «entrambi i sistemi», con una
prevalenza dell’inferiore, e «l’organo della nutrizione» lo prende «al
suo servizio come strumento per l’inizio del godimento, per il proposito
di odorare», mostrandolo «rivolto al bisogno fisico»5.
Di converso, l’armonia del profilo greco risiede nell’aurea connessione
tra le due parti: in questo stadio di bellezza ideale il naso assurge
all’incorporeo e i suoi arricciamenti e movimenti divengono l’espressione
di valutazioni e sentimenti di ordine spirituale6.
1 Lucia Rodler, Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Milano,
Mondadori, 2000, p. 71.
2 Stephen Jay Gould, Bravo brontosauro. Riflessioni di storia naturale, Milano,
Feltrinelli, 2002, p. 231.
3 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, a cura di Nicolao Merker, Milano,
Feltrinelli, 1978, II, p. 958.
4 Ivi, p. 960.
5 Ivi, p. 961.
6 Ibidem.
[ 2 ]
fenomenologia del naso tra capuana e pirandello 147
La teoria del profilo greco eserciterà non poco peso sulla nascente
scuola dell’antropologia criminale. Il sociologo francese Gabriel
Tarde, tra i primi, nel definire «les caractères anatomiques, physiologiques,
pathologiques, psychologiques enfin, qui se reproduisent
avec une fréquence remarquable parmi les malfateurs habituels»7,
seppur esprimendo perplessità rispetto all’utilità di giudizi estetici
in uno studio scientifico delle forme del naso, si ricorderà del passo
hegeliano8:
[…] je me suis rappelé l’importance un peu bizarre, non sans profondeur
pourtant, que le vieil Hegel, dans son Esthétique, attribue à la forme
du nez, pour expliquer la beauté du profil grec. […] Sur deux cent
soixante-quinze photographies (réduites) de criminels jointes à l’Uomo
delinquente et quelques dizaines d’autres portraits disséminés dans le
corps de l’ouvrage, je n’ai pu découvrir qu’un joli visage; encore est-il
féminin; le reste est repoussant en majorité, et les figures monstrueuses
ont en nombre. […] L’importance du nez, comme caractère anthropologique,
est très supérieure à celle d’autres caractères réputés à tort
plus importants ou dont l’importance, ce semble, s’expliquerait bien
mieux9.
Affermazioni di questo tipo, che allo sguardo attualizzante potrebbero
risultare risibili, assumono una loro valenza se opportunamente
contestualizzate nell’ambito dell’epopea positivista, di quel momento
storico in cui certa scienza, oggi pseudoscienza, inizia a individuare
nella corporeità elementi rivelatori di senso extra-corporeo10, fornendo
alla poetica naturalista alcuni fra i suoi motivi più battuti.
È proprio nella letteratura europea coeva a questi studi, nella prosa
dei narratori realisti, nella scrittura che attinge al «documento umano
», difatti, che la topica del naso – vi renderà il massimo omaggio
Pirandello – inizia a ricorrere sistematicamente.
Convinto sperimentatore di un determinismo fisiognomico e assertore
del principio lavateriano del Tout en nous correspond à une cause
interne11 fu, in primis, Honoré de Balzac. La sterminata galleria di ri-
7 Gabriel Tarde, La criminalité comparée, Paris, Alcan, 1886, p. 10.
8 Sul pensiero e l’opera di Tarde si veda Roberta Bisi, Gabriel Tarde e la questione
criminale, Milano, Franco Angeli, 2001.
9 G. Tarde, La criminalité comparée, cit., pp. 15-16.
10 Basterebbe sfogliare, a riprova di ciò, le discusse pagine della bibliografia
lombrosiana, in cui la stretta connessione tra asimmetria del naso e carattere criminale
è più volte ribadita.
11 «Certo Lavater ha pur detto, prima di me, che l’andatura dell’uomo doveva
[ 3 ]
148 ilaria muoio
tratti della Comedie humaine è tutta marcata da corrispondenze tra l’esteriore
e l’interiore, tra mondo sensibile e mondo delle idee, tra forma
del naso e psicologia del personaggio. Così, se gli occhi della signora
de Bargeton scintillano, le sue dita sono «affilate e curate, ma un po’
secche» e il suo colorito «luminoso», il suo naso si sostanzia di una
curva «borbonica», camusa, socratica, che ben si addice «al fuoco di
un viso allungato»12; allo stesso modo se lo sguardo di Eugénie Grandet
palesa un’espressione «fissa e ardente» e la sua fronte rugosa non
manca «di protuberanze significative», il suo naso presenta «una grossa
punta» dominata da «una verruca solcata da venuzze che la gente,
non senza ragione», sottolinea il narratore, «diceva piena di malizia»13;
ancora, sono i polpacci «ben in carne e prominenti» e soprattutto il
naso «lungo e quadrato» di Goriot a lasciare intuire alla vedova Vauquer
«certe qualità morali» verso cui ella si dimostra ben «sensibile»14.
Meno frequenti ma non isolate sono, invece, le occorrenze nei Rougon-
Macquart di Zola. Paradigmatico è il ritratto di Jouve nel sesto capitolo
di Au Bonheur des Dames, il cui «nasone» – come già precisava la
scheda manoscritta dedicata al personaggio15 – è l’elemento corporeo
deputato alla rivelazione dei suoi istinti e della sua bramosia.
essere almeno altrettanto eloquente della sua fisionomia, visto che in lui tutto è
omogeneo, e l’andatura è la fisionomia del corpo. Ma questa era solo una conclusione
semplicemente dedotta dal suo assioma principale: “Tutto quanto, in noi,
dipende da una causa interna”». (Honoré de Balzac, Teoria dell’andatura, in Id.,
Patologia della vita sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 62).
Sui rapporti Balzac-Lavater e sull’influenza della fisiognomica ne La Comedie
humaine si vedano: Fernand Baldensperger, Les Théories de Lavater dans la littérature
française, in Id., Études d’histoire littéraire, deuxième série, Paris, Hachette, 1910,
pp. 51-89; Gilbert Malcom Fess, The Correspondence of Physical and Material Factors
with Character in Balzac, Philadelphia, Publications of The University of Pennsylvania,
1924; Pierre Abraham, Créatures chez Balzac, Paris, Gallimard, 1931; The
Faces of Physiognomy: Interdisciplinary Approaches to Johann Caspar Lavater, a cura di
Ellis Shookman, Columbia, S. C.: Camden House, 1993; Christopher Rivers,
Face Value: Physiognomical Thought and the Legible Body in Marivaux, Lavater, Balzac,
Gautier, and Zola, Madison, Wisconsin, The University of Wisconsin Press, 1994;
Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione a H. de Balzac, La commedia umana,
Milano, Mondadori, 1994, I, pp. XXVI-XXXVIII.
12 H. de Balzac, Illusioni perdute, Milano, Rizzoli, 19992, pp. 82-83.
13 Id., Eugénie Grandet, in Id., La commedia umana, cit., I, p. 753.
14 Id., Papà Goriot, Ivi, p. 476.
15 Emile Zola, Au Bonheur des Dames, in Id., Romanzi, a cura di Pierluigi Pellini,
Milano, Mondadori, 2012, nota 13, p. 1541. Di seguito il passo a cui faccio riferimento:
«Gli tremarono i baffi e una vampata gli infiammò il nasone, un naso da
segugio, adunco, che tradiva i suoi appetiti animaleschi» (p. 687).
[ 4 ]
fenomenologia del naso tra capuana e pirandello 149
Tutto corrisponde a una causa interna e la riflessione sugli organi
demandati ai sensi si rivela funzionale a dimostrarlo, spesso anche sul
piano sociologico, perché se è vero che «la questione sociale non è
soltanto una questione etica, ma anche una questione di naso», come
evidenzia Simmel, allora l’olfatto, in qualità di strumento disvelatore
di qualcosa di nascosto ed esteriormente impercepibile, acquisisce
una valenza gnoseologica:
Nessuna vista della miseria del proletariato, e ancor meno la descrizione
più realistica di essa potrà – prescindendo dai casi più mastodontici
– sopraffarci così sensibilmente e immediatamente come l’atmosfera
che ci investe quando entriamo in un sottoscala o in una bettola16.
Questo concetto di «atmosfera» sensoriale non sfugge alla letteratura
ottocentesca, all’iconografia testuale balzachiana, alle sinestesie
zoliane, al Luigi Capuana verista e, ancor più, al Luigi Capuana postverista.
La topica del naso e il valore polisemantico attribuito alla sfera olfattiva
ricorrono con una certa continuità nella vasta produzione letteraria
dello scrittore di Mineo17, specie nella narrativa breve, dalle novelle
degli anni Settanta a quelle concepite negli ultimi anni di vita.
Un esempio significativo, in tal senso, è rappresentato da Un caso di
sonnambulismo. Datata 25 marzo 1873, la novella, di argomento propriamente
fantastico, confluisce dapprima nella raccolta Un bacio e altri
racconti (1881), poi, in versione definitiva, nel fortunato volume
Storia fosca (1883)18.
La vicenda, tutta incentrata su un fenomeno paranormale innestato
in una trama poliziesca19, principia con la descrizione balzachiana
del protagonista20. Il ritratto del signor Dionigi Van-Spengel, capo del-
16 George Simmel, Sociologia, Milano, Comunità, 1989, p. 557.
17 Occorre ricordare che il secondo romanzo di Capuana, Profumo (1892), prende
le mosse proprio da un caso di psicopatologia olfattiva, ispirato dalla lettura di
alcuni trattati e studi ottocenteschi sull’argomento. (Cfr. Carlo Alberto Madrignani,
Capuana e il naturalismo, Bari, Laterza, 1970, nota 58, p. 292).
18 Ancora, in ultimo, ne Il nemico è in noi, Catania, Giannotta, 1914.
19 Andrea Cedola, Introduzione a Luigi Capuana, Novelle del mondo occulto,
Bologna, Pendragon, 2007, p. 12.
20 Capuana asserisce di rifarsi a un memoriale medico redatto da tale dottor
Croissart, interpolandolo al testo e fornendone specifici riferimenti bibliografici in
nota. Si tratta in realtà di una finzione letteraria, di un espediente teso a conferire
veridicità al racconto. Si veda in merito Edwige Comoy Fusaro, Forme e figure
dell’alterità. Studi su De Amicis, Capuana e Camillo Boito, Ravenna, Pozzi, 2009.
[ 5 ]
150 ilaria muoio
la polizia di Bruxelles, che esperirà uno straordinario caso di scrittura
medianica e preveggenza di un efferato delitto, è posto in posizione
non casualmente incipitaria. Le sue caratteristiche fisiognomiche, descritte
con pervicace oculatezza scientifica dall’io narrante, rappresentano
la chiave d’accesso ai fatti, il prodromo testuale che lascia intuire
al lettore il nucleo tematico dell’intera vicenda: Van-Spengel, con
quella fisionomia singolare, vivrà circostanze altrettanto singolari.
Il signor Dionigi Van-Spengel ha cinquantatre anni. È una figura secca,
lunga, eminentemente nervosa, notevolissima soprattutto per il naso e
pel modo di guardare. […] La sua fronte, poco ampia ma molto elevata,
è coperta di rughe che si alzano e si abbassano con continuo movimento
come il mantice di un organino. Dietro di esse mulina un cervello
che ignora il riposo. […] La sua pupilla, un po’ neutralizzata da un
par di occhiali di presbite, ha un’espressione affascinante; non guarda,
ma penetra21.
Siamo di fronte alla resa pittorica di lineamenti austeri, spigolosi,
che richiamano alla mente l’architettura gotica, con le sue guglie e le
sue cuspidi, e che sono riflesso diretto di una personalità estremamente
ligia al dovere, da cui non si sfugge. In questa raffigurazione spicca
il naso, elemento «notevolissimo» e a cui il dottor Croissart attribuisce
una capacità ipnotica:
[…] il signor Van-Spengel mi guardava in viso con quell’aria scrutatrice
tutta propria, che forse un po’ gli veniva dalle abitudini del mestiere,
ma che in gran parte mi parve dovesse attribuirsi al suo naso lungo,
acuminato, un naso storto e rivolto in su, un naso stranissimo22.
Un naso lungo e acuminato, dunque, lontano dall’ideale di bellezza
del profilo greco descritto da Hegel, un naso da antropologia criminale
per uno scovatore irreprensibile e infallibile di criminali. E, in effetti,
la sensazione di essere nudo di fronte a Van-Spengel, il terrore di
essere spogliato della propria interiorità da quel naso indagatore di
coscienze atterrisce subito il dottore23:
21 L. Capuana, Un caso di sonnambulismo, in Id., Racconti, a cura di Enrico
Ghidetti, Roma, Salerno, 1973, I, pp. 209-210 [la presente edizione dei Racconti, in
tre tomi, sarà d’ora in poi citata con la sigla RAC].
22 Ibidem.
23 Come ha notato Comoy Fusaro, ha luogo, ivi, un ribaltamento di prospettiva,
uno scambio di ruoli: «Il terapeuta scivola insensibilmente nella posizione del
paziente, posizione poco invidiabile poiché è caratterizzata dalla subordinazione e
[ 6 ]
fenomenologia del naso tra capuana e pirandello 151
Dopo pochi minuti non fui più buono di prestare attenzione a quello
che lui diceva. Mi sentivo attaccato nel santuario della mia coscienza e
badavo a difendermi. Non son facile a subire illusioni di sorta; ma la
fisonomia di quell’uomo m’inspirava in quel punto un indefinibile
senso di paura. Giunsi fino a fantasticare che egli adoperasse quel naso,
pel morale, come lo spiedo delle guardie daziarie alle porte delle
città; infatti ricercava tutte le fibre e si ficcava più oltre.
Quando il signor Van-Spengel tacque, non ebbi alcun dubbio ch’egli
non conoscesse il mio cuore quanto e, forse, più di me24.
Mi preme qui sottolineare la duplice applicazione del principio di
Lavater: il naso camuso di Van-Spengel non solo rivela una personalità
attenta e indagatrice, ma è esso stesso strumento di indagine.
E tale resterà anche nella produzione primonovecentesca di Capuana,
seppur con nuove e moderne declinazioni.
Nella novella dell’VIII giornata del Decameroncino, In anima vili, il
protagonista è uno scienziato degenere che si accinge a un folle esperimento:
ricreare con una giovane donna molto somigliante alla moglie
le medesime drammatiche circostanze in cui, anni prima, egli aveva
conosciuto la futura consorte, al fine di valutare la similarità dei
comportamenti umani in determinate circostanze25. In opposizione al
motto cinquecentesco in corpore vili, In anima vili è titolo tematico teso
a dimostrare la cecità della scienza, sia essa la fisiologia o la moderna
psicologia, di fronte ai sentimenti umani. È il segno che i tempi sono
cambiati, che Capuana è sopravvissuto alla fine del positivismo e ha
saputo rigenerare il suo metodo e la sua scrittura. La scienza è andata
troppo oltre, ha superato la teoria, puramente tale, di Lavater, tentando
invano di renderla empirismo. Così è per il protagonista della novella,
accecato dalla tracotanza degli studi, destinato a esperire il fallimento
in un tragico epilogo:
Sono su la via di provare, assolutamente, che o è il corpo che foggia
quel che chiamiamo psiche, o è questa che foggia il corpo in una data
maniera. Non è un fatto accidentale avere il naso a un modo, i capelli
di un certo colore, gli occhi così e così. Ogni linea, ogni proporzione del
nostro corpo, ogni facoltà dell’animo sono determinate da una legge
dall’ansia, nonché dal disturbo delle percezioni sensoriali». (E. Comoy Fusaro,
Forme e figure dell’alterità. Studi su De Amicis, Capuana e Camillo Boito, cit., p. 128).
24 RAC, I, pp. 210-211.
25 Il caso del tentato suicidio per amore rivela la natura in parte autobiografica
del racconto: medesime, difatti, furono le circostanze in cui Capuana conobbe
Adelaide Bernardini.
[ 7 ]
152 ilaria muoio
d’intima corrispondenza. Il Gall e il Lavater hanno sbagliato strada;
erano, disgraziatamente, anche metafisici. L’esperienza soltanto potrà
dare risultati di questo genere, saremo sicuri26.
Se è vero che tutto corrisponde a una causa interna, è altrettanto
vero che tale causa non può essere sempre svelata e analizzata. Occorre
che la scienza e con essa la letteratura accettino la possibilità della
pluralità delle interpretazioni, dell’aporia, infine dell’«illusione ideologica
della realtà»27, limitandosi a raccontarle.
In tal senso, l’estetica capuaniana di questi anni precorre, se non
nella forma nei contenuti, diversi caratteri della letteratura modernista;
paradigmatica è la novella Il caso di Emilio Roxa, confluita nel volume
Coscienze (1905)28.
Angelo Piero Cappello ne ha segnalato, tra i primi, il carattere profondamente
pirandelliano29; proprio Pirandello, del resto, fu recensore
entusiasta di Coscienze30, voce solitaria insieme a Giuseppe Lippari-
26 RAC, II, p. 306.
27 Giancarlo Mazzacurati, «Il fu Mattia Pascal: l’eclissi del tempo e il romanzo
interdetto», in Id., Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 229.
28 Poi anche in L. Capuana, Passanti, Rocca S. Casciano, Cappelli, 1914.
Meriterebbe una riflessione a sé il titolo non casuale prescelto da Capuana per
la raccolta di novelle del 1905. Mi limiterò a segnalare la forte concomitanza tra i
personaggi che la popolano e l’«inanismo» denunciato da Pirandello in Arte e coscienza
d’oggi, di cui troviamo altresì riscontro – ricorda Luperini – nel «largo esame
della coscienza moderna» smarrita e destrutturata di Gregorio Alvignani ne
L’esclusa. (Cfr. Romano Luperini, Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 34-35).
29 Angelo Piero Cappello, Invito alla lettura di Luigi Capuana, Milano, Mursia,
1994.
Un accenno alla modernità del personaggio di Emilio, che «pirandellianamente
finge che il Signore abbia fatto alla moglie la grazia di avere un figlio», si ritrova
in Pietro Mazzamuto, La scena dell’immaginario, Palermo, Il Vespro, 1980, p. 217;
la presenza della topica del naso, quale elemento solo in apparenza alieno ai fatti
dell’esistenza, tanto per il protagonista della novella capuaniana, quanto per Vitangelo
Moscarda in Uno, nessuno, centomila, è stata segnalata in Corrado Pestelli,
Capuana novelliere. Stile della prosa e prosa “in stile”, Povegliano Veronese, Gutenberg,
1991, p. 375.
30 Dopo una breve discussione teorica in cui Pirandello sposa l’idiosincrasia
capuaniana per gli «ismi» e le etichette di scuola, si passa al giudizio lusinghiero
sulla raccolta di novelle: «Coscienze è senza dubbio fra i molti volumi di Luigi Capuana
uno dei migliori. […] Il Capuana è uno studioso acuto e profondo dei problemi
dell’anima; e tale si dimostra in non poche novelle di questo volume. […]
Egli ha sempre lo stile dell’argomento che tratta e del personaggio che mette in
iscena; o meglio, fa che ogni argomento trattato e ogni personaggio messo in iscena
abbiano il loro proprio stile, cioè la loro rappresentazione genuina e immediata.
[ 8 ]
fenomenologia del naso tra capuana e pirandello 153
ni31, a testimonianza del crepuscolo letterario del Capuana primonovecentesco
e della scarsissima attenzione critica rivolta all’evoluzione
della sua opera già dai contemporanei32.
Secondo Cappello, lo scrittore agrigentino avrebbe trovato nelle
ultime opere del mineolo e, più precisamente, nella novella in oggetto,
«un serbatoio di spunti per la propria narrativa»33. Una tesi senz’altro
condivisibile, specie in luce dell’omaggio alla topica del naso con cui
si apre il racconto, quanto mai vicino alle pagine di apertura di Uno,
nessuno, centomila34. Ma ritengo ci sia di più: se è vero, difatti, che l’allievo
ha attinto dal maestro, è altrettanto vero che il maestro ha recepito
la teoria dell’allievo. Mi riferisco, in particolare, alla significativa
catena intertestuale intercorrente tra Il caso di Emilio Roxa e Il fu Mattia
Pascal, che Capuana poté leggere con certezza35.
Rappresentazione naturale, e non letteraria, starei per dire. Vera arte, insomma, e
non falsa letteratura». (Luigi Pirandello, «Coscienze» di Luigi Capuana, «Nuova
Antologia», 16 giugno 1906; ora in Paolo Mario Sipala, Capuana e Pirandello. Storia
e testi di una relazione letteraria, Acireale, Bonanno, 1974, pp. 107-111).
31 Giuseppe Lipparini, Romanzi e novelle. Coscienze, di Luigi Capuana, «Marzocco
», 2 aprile 1905.
32 Se ne lamenta amaramente lo scrittore nella lettera dell’alter ego Renato,
posta a prefazione del testo: «I tuoi libri, i tuoi volumi – permettimi di esser spietato
con te – si seguono e passano quasi inosservati. Tu hai la coscienza – ed io
pure – che questi ultimi tuoi lavori siano assai superiori a quelli che allora destavano
appassionate discussioni, talvolta esagerate ed ingiuste come tutte le discussioni
appassionate; ma è un fatto che la stampa se n’accorge appena» (L. Capuana,
Coscienze, Catania, Battiato, 1905, p. X).
33 A. P. Cappello, Invito alla lettura di Luigi Capuana, cit., p. 133.
34 Per la topica del naso in Pirandello si vedano: G. Mazzacurati, Ombre e
nasi: da Tristram Shandy a Vitangelo Moscarda, in Id., Pirandello nel romanzo europeo,
cit., pp. 269-303; Remo Ceserani, «Per favore non modermi sul naso!», in Studi offerti
a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisani, a cura di Lucio Lugnani, Marco
Santagata, Alfredo Stussi, Lucca, Fazzi, 1996, pp. 193-208. Si vedano ancora:
Bruno Brunetti, Il naso, Vitangelo Moscarda, l’uomo dei lupi. Riflessioni a margine di
una coincidenza, «Pirandelliana», 2009, n. 3, pp. 57-68; Ivan Pupo, Il naso di Anita.
Menzogna romantica, realismo critico e verità umoristica in alcune novelle pirandelliane,
in Sul modernismo italiano, a cura di Romano Luperini e Massimiliano Tortora,
Napoli, Liguori, 2012, pp. 83-103. Interessante, infine, uno studio sulle ascendenze
della topica del naso nella letteratura per l’infanzia: Sofia Gravriilidis, Le trasformazioni
del naso come fonte d’umorismo nella Letteratura per l’Infanzia, «Studying Humour
– International Journal», 3 (2016), https://ejournals.lib.auth.gr/humour/
article/view/5275.
35 Sintomatico che le due uscite siano parallele: Il caso di Emilio Roxa apparve
su «Varietas» nel giugno 1904; Il fu Mattia Pascal fu pubblicato dapprima a puntate
sulla «Nuova Antologia» di Roma dal 16 aprile al 16 giugno 1904, poi in volume a
[ 9 ]
154 ilaria muoio
Come già anticipato, la novella si apre con un’interessante dissertazione
intorno al naso del protagonista. Nel quadro di una discussione
con un tacito professore, in realtà puro soliloquio, l’io narrante, cui
spetta il compito di rendere testimonianza della storia di Emilio, si
sofferma insistentemente su un dettaglio apparentemente insignificante,
marginale, ma che fornisce la chiave di lettura dell’intera vicenda,
dai contorni tragici, umoristici e intenzionalmente lasciata in sospeso:
«Emilio Roxa è tutto là», in quel suo naso «espressivo», «significativo
», «che scende dignitoso, severo», «pensoso», «tra gli occhi
piccoli e sbiaditi» e che «si libra su gli scarsi baffi e le labbra tumide
con un che di scettico e d’irridente, con qualcosa che non s’intende
bene se sia commiserazione od orgoglio»36.
«Per disgrazia della scienza», leggiamo ancora, «i nasi non si possono
asportare e tenere in laboratorio». Se si potesse, di certo, servirebbe
a poco giacché «un naso ha valore là, nel viso, nell’insieme delle
fattezze, nelle proporzioni, nell’armonia con gli occhi, col taglio delle
labbra, col mento e anche col colore dei capelli e la foggia dei baffi e
della barba…»37.
Sin dall’incipit emerge una concezione proteiforme della realtà, o
meglio delle realtà possibili. Ciò che appare strano agli occhi dell’uno,
proprio come un naso, è inevitabilmente ordinario agli occhi dell’altro:
Noi sogliamo stimare non naturale quel che non saremmo capaci di
fare e che pure vediamo fare dagli altri. […] Dovremmo esser foggiati
con lo stampo, alla stessa maniera, per pensare ed agire tutti a un modo.
[…] in questo mondo, non c’è […] un naso che rassomigli perfettamente
a un altro38.
Questa riflessione richiama le parole di Mattia Pascal nella terza
sequenza del romanzo pirandelliano:
A diciott’anni m’invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a
scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso
e la fronte spaziosa e grave. Forse, se fosse in facoltà dell’uomo la scelcura
della stessa rivista. Una copia del romanzo, edizione 1904 (Roma, Nuova Antologia),
con dedica di Pirandello e firma autografa («A Luigi Capuana/con l’antico
affetto/Luigi Pirandello») è conservata presso la Biblioteca comunale Luigi Capuana
di Mineo.
36 R AC, III, p. 177.
37 Ivi, p. 178.
38 Ivi, p. 177.
[ 10 ]
fenomenologia del naso tra capuana e pirandello 155
ta d’un naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un pover’uomo
oppresso da un naso troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo
dirgli: «Questo naso sta bene a me, e me lo piglio»; forse, dico, io avrei
cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della
mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato alle mie
fattezze, non me ne curavo più che tanto39.
È chiaro che siamo ormai distanti dalle «passioni catalogatrici del
positivismo lombrosiano»; tanto in Capuana quanto in Pirandello,
sulla scia di Sterne e Gogol, a questo punto, la fisiognomica «più che
alla fisica appartiene alla metafisica, e deposita sul viso segni, richiami,
avatars che, come rivelazioni, trascinano gli oggetti fuori di sé»40.
Non casualmente, come avverrà poi a Vitangelo Moscarda, la forma
del naso di Roxa si rivela agli occhi del narratore «tutt’a un tratto»41, in
un’epifania improvvisa e subitanea, a fornire gli strumenti ermeneutici
per comprendere la drammaticità del personaggio, cornuto inconsapevole
per il mondo, in realtà uomo conscio, vittima di se stesso e del
pervicace rifiuto della propria sterilità42. E qui risiede l’altro punto di
contatto con Il fu Mattia Pascal. I fatti occorsi a Roxa si rifanno al matrimonio
senza figli di Batta Malagna e Oliva43. Medesima vicenda, me-
39 L. Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, a cura di G. Mazzacurati, Torino, Einaudi,
1993, p. 22.
40 Ibidem, nota 298-306.
41 «È così: certe cose ci stanno sotto gli occhi e non ci ispirano nessun interesse.
Le guardiamo e quasi non le vediamo, tanto ci lasciano indifferenti. Poi, tutt’a un
tratto!… Che cosa avviene? Ci si schiarisce la vista? Le forme parlano più forte?
Tutt’a un tratto, noi vediamo quel che avremmo dovuto vedere da tanto tempo, e
sbarriamo gli occhi e spalanchiamo la bocca, stupiti della nostra incredibile cecità.
[…] Per poco non credetti che Emilio Roxa si fosse adattato un naso finto, un naso
di occasione, tanto mi sembrava irriconoscibile, assolutamente diverso dal suo di
tutti i giorni. Non faccio lo spiritoso, caro professore, per provocare anche con una
stupidaggine la vostra ilarità: dico cosa serissima. Rimasi a contemplarlo, muto,
sbalordito; e siccome anche lui mi fissava, tranquillamente, per incoraggiarmi a
parlare, pareva che stesse fermo davanti a me a fine di darmi tutta la comodità di
rendermi conto di quella inattesa rivelazione e della sua grande importanza».
(RAC, III, pp. 178-180).
42 «So, so», asserisce Emilio con convinzione, «Tu e tutti gli altri però non sapete
niente… Né m’importa che gli altri credano di sapere». (Ivi, p. 181)
43 Vale la pena ricordare che il motivo della sterilità tornerà nuovamente in
Liolà con il matrimonio infruttuoso di zio Simone e Mita. Anche zio Simone, ricco
contadino, alla stregua di Batta Malagna, sottoporrà la moglie a insistenti maltrattamenti
fisici e verbali, individuando in lei l’unico ostacolo alla propria paternità.
Scrive Kroha: «Liolà è un semplice bracciante che non ha i soldi di Simone, ma in
compenso riesce a far fruttare ogni donna con cui giace […] Il tesoro di Liolà è il
[ 11 ]
156 ilaria muoio
desimo impianto epistemologico, diversa tuttavia la psicologia del
personaggio.
Roxa ha sposato «per amore, […] quantunque sua moglie fosse
tutt’altro che bella»44. Passati due anni di matrimonio «senza che un figlio
o una figlia vengano a rallegrare la loro unione», il suo desiderio di
paternità inizia a tramutarsi in «angosciosa fissazione». Accecato dalla
convinzione della propria assoluta virilità e confortato dall’esistenza di
un figlio nato da una «relazione equivoca», egli si convince che l’impedimento
risieda nella moglie e intenta ai suoi danni un quotidiano e
snervante processo domestico: «L’ostacolo è in te! L’ostacolo è in te!»45.
Sicché la donna, modesta tanto nella fisicità quanto nell’intelletto,
si persuade e inizia a tradire il marito, semplicisticamente certa che
non ci sia «da temere» più che spinta da un desiderio di vendetta. Si
arriva dunque all’irreparabile: la gravidanza, la gabbia della falsità –
Emilio sa in realtà di esser divenuto sterile a seguito di una malattia –,
l’onta che seguirebbe alla sua confessione di aver mentito dopo anni
di accuse rivolte alla consorte. Non resta che edificare sulla finzione
familiare una nuova verità collettiva: «credere che il Signore, finalmente,
gli abbia fatto la grazia»46.
Siamo di fronte alla descrizione non di una figura grottesca, di una
macchietta comica, bensì di un personaggio dalla connotazione umoristica47,
propriamente tragica. Con la sua spiazzante tacita accettazione
del tradimento, Emilio sfida l’ordine precostituito, ribaltando la
psicologia del classico «cornuto ignaro»48, che popola la quasi totalità
della narrativa capuaniana, da Comparatico a Mostruosità. Di fronte a
un siffatto caso, la razionalità dell’io narrante, di formazione eminentemente
positivista, vacilla: egli si rifiuta di credere che l’uomo che gli
sta di fronte possa essere uno sciagurato inconsapevole «privo di disuo
seme, quello di Simone la sua roba». (Lucienne Kroha, Il “desiderio” di Mattia
Pascal ovvero Liolà: Pirandello maschilista?, «Quaderni d’italianistica», XV (1994), n.
1-2, pp. 75-94).
44 RAC, III, p. 182.
45 Ivi, pp. 183-184.
46 Ivi, p. 186.
47 Vannocci ritiene che la vicenda narrata sia solo potenzialmente tragica, sciogliendosi
di fatto nel comico misto al grottesco e nel paradossale. (Claudia Vannocci,
La casistica della coscienza, in Ead., emanuela scarano, lorenza vannocci,
francesca ferrara, manuela failli, carlo alberto madrignani, Novelliere
impenitente. Studi su Luigi Capuana, Pisa, Nistri-Lischi, 1985, pp. 108-109).
48 Frank Ignazio Caldarone, Il ciclo dei «vinti» da Verga a De Roberto, Ravenna,
Longo, p. 156.
[ 12 ]
fenomenologia del naso tra capuana e pirandello 157
gnità alcuna», ma è al contempo spaventato dalla possibilità che Emilio,
in realtà, sia lì per chiedergli conferma di una verità che già conosce.
Si realizza, pertanto, un evidente scacco tra opinione e senso comune,
da cui emerge un’illuminante rappresentazione della follia:
[…] se io avessi lasciato parlare Emilio senza guardarlo bene in viso, e se
gli avessi risposto: «Sì, è vero: ho qualcosa da dirti e che non trovo modo
di dirti» e poi egli mi avesse fatto la confidenza che doveva illuminarmi
intorno al suo caso di coscienza, come lo chiamava, io lo avrei giudicato
pazzo a dirittura: pazzo inoffensivo (ce ne sono tanti!) di quelli che riescono
a nascondere lo stato della loro mente anche alla penetrazione
degli stessi alienisti; pazzi ragionanti, pazzi calcolatori, pazzi curiosi,
pazzi pettegoli, insomma pazzi di ogni genere, che vivrebbero e morrebbero
senza che nessuno si accorgesse della loro pazzia, se un bel giorno
o un cattivo giorno, secondo le circostanze, improvvisamente non si
rivelassero con uno scatto, con un’esagerazione…49
La pazzia inoffensiva di Emilio è un evento privato, della persona
e personalizzante: il lettore sa, perché è l’io narrante a dirglielo, che
potrebbe bastare un evento subitaneo, anche apparentemente insignificante
– il fischio di un treno o il ronzio di una mosca – a rompere
definitivamente ogni precario equilibrio su cui si erige il modus pensandi
et operandi del protagonista. Lo squilibrio non è interpretato come
alterità, evento raro rispetto alla normalità, ma – pirandellianamente
– quale «metafora dell’alienazione dell’uomo contemporaneo e dunque
come sintomo della scissione della personalità e dell’implosionedivisione
dell’io»50. È in questo contesto di folle ragionamento, calcolo
e imperscrutabilità che va inquadrato il silenzio di fronte all’adulterio
e la sua diversa connotazione rispetto all’antecedente de Il fu Mattia
Pascal. Se la pervicacia con cui Emilio rifiuta l’ipotesi che l’ostacolo, in
verità, risieda proprio in lui è la stessa di Malagna51, ben differente,
difatti, è la ragione dell’accettazione delle corna: Emilio ha sposato per
49 RAC, III, p. 180.
50 Margherita Ganeri, Pirandello romanziere, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2001, p. 9.
51 «Aspettò ancora un anno, il terzo: invano. Allora prese a rimbrottarla apertamente;
e in fine, dopo un altro anno, ormai disperando per sempre, al colmo
dell’esasperazione, si mise a malmenarla senza alcun ritegno; gridandole in faccia
che con quella apparente floridezza ella lo aveva ingannato, ingannato, ingannato;
che soltanto per aver da lei un figliuolo egli l’aveva innalzata fino a quel posto, già
tenuto da una signora, da una vera signora, alla cui memoria, se non fosse stato
per questo, non avrebbe fatto mai un tale affronto». (L. Pirandello, Il fu Mattia
Pascal, cit., p. 30).
[ 13 ]
158 ilaria muoio
amore e non è avvinto da quell’attaccamento spasmodico alla roba, la
roba prima di tutto, che induce a concepire in chiave utilitaristica anche
i legami affettivi.
Da qui il finale dissimulato e al contempo sospeso, l’oscuro presentimento
– in verità poco persuasivo – che qualcosa di cruento possa
aver luogo, che la pazzia implosa possa disvelarsi in tutta la sua scarica
parossistica per un nonnulla; da qui l’attenzione portata nuovamente
sul naso, con chiusura circolare: proprio quel naso, con tutta la
sua carica di «commiserazione od orgoglio» dovrebbe fungere, in un
autoconvincimento dell’io narrante che in realtà non convince per
nulla, da garante di lieto fine:
Il figlio… di quell’altro… sta per nascere… Emilio non ha forza né coraggio
di disdirsi, dopo aver quasi rinfacciato tante volte alla moglie:
«L’ostacolo è in te!» né trova modo di far valere la sua dignità offesa.
[…] Io mi atterrisco pensando quel che può accadere da un momento
all’altro: una strage, forse! Un suicidio, forse! – Forse niente di tutto
questo, dite voi, caro professore. Indovino?
In certi momenti, riflettendo bene, quel naso mi rassicura. Non mi par
naso da suicida o da assassino. Son sicuro che esso mi darà occasione
di scrivere le più belle e più profonde pagine della mia Psicologia positiva
del naso… A questo mondo, caro professore, c’è sempre qualcuno
che guadagna con le disgrazie degli altri!52
La vicenda non finisce, non conclude. La riflessione ultima resa al
narratario e la minimizzazione della «disgrazia» prestata alle «belle e
profonde pagine» della programmata Psicologia lasciano trapelare una
sottile doppiezza, un’ironia affilata che sembra bruciare la possibilità
stessa dell’epilogo tragico. E tuttavia ciò che sembra non è e viceversa.
La prosecuzione della vicenda è delegata: spetta al lettore il compito di
superare il cut-off-ending e interpretare liberamente gli eventi, con esito
consolatorio o drammatico. Il narratore moderno non può più offrire
risposte definitive, ma si limita a troncare il racconto, a presentare una
pluralità di soluzioni possibili, tutte valide al contempo, destrutturando
in ultimo l’elemento prima fideiussore del determinismo scientifico,
quel naso in cui risiede la forma, che non è più una, ma centomila.
La strada per il romanzo della maturità pirandelliana è aperta.
Ilaria Muoio
Università di Pisa
52 RAC, III, pp. 185-186.
[ 14 ]
Fabrizio Miliucci
Guido Gozzano e “la film”
L’articolo offre una panoramica dell’attività cinematografica di Guido Gozzano.
Sebbene l’avvicinamento alla settima musa abbia occupato gli ultimi anni di
vita del poeta, con risultati dubbi e di difficile ricostruzione, alcuni elementi,
come la sceneggiatura del film San Francesco d’Assisi, fanno intravedere un rapporto
giunto a maturazione e pronto ad evolvere, basato su presupposti ambivalenti,
che da una parte respingono e dall’altra accolgono le istanze della nuova
arte.

This article provides an overview of Guido Gozzano’s work for the cinema.
Although his interest in the medium dates back to the end of his life, with dubious
results that are hard to reconstruct, certain elements, such as the screenplay
for Saint Francis of Assisi, suggest a mature relationship, one ready to evolve on
the basis of ambivalent presuppositions that simultaneously refute and embrace
the requirements of the novel art form.
«Si è scritto molto, a più riprese, su quel poco che sono stati i rapporti
fra Guido Gozzano e il cinema. Forse si è scritto troppo, anche
perché i dati aggiunti di recente a quanto già si sapeva – che pure
precisano fatti e situazioni un poco evanescenti – non hanno sostanzialmente
modificato lo stato delle conoscenze»1. Con queste parole,
Gianni Rondolino lanciava nel 1983 il suo monito a non sopravvaluta-
Autore: Università di Roma Tre; assegnista di ricerca; fabrizio.miliucci@uniroma3.
it
1 Gianni Rondolino, «La musa paziente osservatrice». Gozzano e il cinema, in
Guido Gozzano. I giorni, le opere, Atti del Convegno nazionale di Studi (Torino, 26-28
ottobre 1983), Firenze, Olschki, 1985, p. 267. A questo intervento si rimanda anche
per il ricco apparato di note e informazioni. Preziose indicazioni, come ad esempio
una buona bibliografia su Gozzano e il cinema, sono contenute anche in Guido
Gozzano, La sceneggiatura del San Francesco e altri scritti, a cura di Mauro Sarnelli,
prefazione di Enrico Ghidetti, Anzio, De Rubeis, 1996, pp. 52-54. Per lo stesso
argomento, si possono consultare i paragrafi 4 e 7 (Il cineasta contestato e Il “San
160 fabrizio miliucci
te la questione che lega il poeta della Signorina Felicita al nascente cinematografo.
In effetti, Gozzano avvicinò per certo il mondo del cinema,
ma a parte un documento di grande interesse e bellezza come la sceneggiatura
del film San Francesco, ci troviamo in un territorio di poche
certezze. Eppure, nonostante la scarsità e difficoltà della documentazione,
sembra oggi impossibile escludere da una panoramica generale
sull’operato artistico di Gozzano la parte, per quanto fumosa e sorretta
da supposizioni, che concerne la sua vicinanza al mondo della pellicola,
non fosse altro perché essa rappresenta l’ultimo tassello compiuto
della parabola autoriale e, di fatto, il congedo dell’autore dalla
sua vita artistica.
Per entrare nella psicologia del poeta che vede sorgere il fenomeno
di massa del cinematografo, si possono semplificare alcuni passaggi a
partire dalla perplessa degnazione con cui gli intellettuali guardano
all’innovazione “della film” e cominciano ad accostarsi al suo mondo,
attratti per lo più da compensi sostanziosi. Al parere illuminato di alcuni
come D’Annunzio e soprattutto Papini, in anticipo sui tempi –
mai come in questo periodo il volgere di pochi anni può segnare una
completa rivoluzione dei sistemi di valore – si contrappone un clima
di generale sospetto ed ironia, ben sintetizzato dalle parole di Enrico
Thovez che, nascosto dietro lo pseudonimo di Cranquebille, nel 1908
commenta così il proposito d’annunziano di nobilitare la settima arte:
La dignità tragica ed il mistero mitico entreranno col poeta nel cono di
luce evocatore di immagini. Non più soltanto la serva che spenna il
cappone o nasconde il caporale nella cassa della lingeria sudicia, l’attendente
che lascia scappare di gabbia il canerino e lo sostituisce con
un anitrotto, il prete che insidia la cameriera e si trova in mutande
nella via: vedremo in veste da camera Numa in colloquio con la Ninfa
Egeria, e San Francesco a cui il lupo pone nella palma la zampa. Grazie
alla rapidità meccanica dell’ordigno moderno, tutto il ginepraio di parentele
dell’Olimpo ellenico sarà dipanato in cinque minuti: le astrusità
della filosofia indiana, il mistero bramanico della metempsicosi e
quello buddistico del nirvana diventeranno plasticamente tangibili e
comprensibili anche alla psiche del pompiere di servizio o del negro in
giacchetta scarlatta che distribuisce il programma2.
Francesco”) del Terzo tempo di Giorgio De Rienzo, Guido Gozzano, Milano, Rizzoli,
1983.
2 L’articolo, uscito originariamente su «La Stampa» del 29 luglio 1908 con il
titolo L’arte di celluloide, attraversa varie sedi fino a trovare una sistemazione definitiva
in Enrico Thovez, L’arco di Ulisse, Napoli, Ricciardi, 1921. Riprendo infor-
[ 2 ]
guido gozzano e “la film” 161
Nell’algido sarcasmo del Thovez, stupisce il caso di due riferimenti
che possono valere come vere anticipazioni gozzaniane. Mi riferisco
alle «astrusità della filosofia indiana», dato che la scoperta della settima
arte precede di poco il viaggio del poeta in India, non immune da
riferimenti al lessico cinematografico, ad esempio nel caso di una
Bombay vista sfilare dal finestrino di un’auto «come in una film svolta
troppo vertiginosamente»3, e soprattutto al lupo che porge la zampa a
San Francesco; nell’unica sceneggiatura gozzaniana si legge infatti,
più o meno a metà della Seconda parte: «[scena]: Francesco (in primo
piano) e il lupo di profilo. Francesco ammonisce la belva. Il lupo solleva
la zampa destra e la pone nella mano del santo»4.
All’altezza del 1910, anche Gozzano si dichiara pubblicamente disposto
alla nobilitazione artistica della nuova tecnica, a fronte dell’operato
di «speculatori indegni [che] cercano di attirare il pubblico medio
col truce, il laido, il grottesco»5. Si tratta della prima occasione in
cui il poeta affronta tale argomento. «Ti stupisce che io, in fama di lavoratore
solitario e sdegnoso, mi sia deciso per una forma tanto popolare
come il cinematografo?»6 domanda il poeta al giornalista Carlo
Casella presso l’Esposizione di Arte femminile nei locali della Mole:
Non c’è di che. Non ho fatto che seguire la linea che mi sono prefissa e
alla quale sono fedele sempre. Io che ho resistito alle lusinghe… pecuniarie
dei massimi fogli quotidiani, perché sentivo che avrei sperperato
nel giornalismo ogni mia energia letteraria; io che ho resistito e resisto
alla prova del teatro, perché ancora lontana da quella maturità e da
quell’attenuazione che desidero, ho accettato con piacere di rivelare le
mie fantasie in una pellicola vertiginosa7.
Il poeta lega questa sua sdegnosa e divertita volontà ad alcuni studi
folklorici condotti nel corso degli ultimi anni, all’uscita imminente
di un suo libro di fiabe ed alla maturità raggiunta dal mezzo tecnico:
mazioni e citazione da Irene Gambacorti, Storie di cinema e letteratura. Verga, Gozzano,
D’Annunzio, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003, pp. 18-19.
3 Guido Gozzano, Verso la cuna del mondo, a cura di Giorgio De Rienzo, Milano,
Mondadori, 1983, p. 40.
4 Id., San Francesco d’Assisi, edizione critica a cura di Mariarosa Masoero,
Torino, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 21.
5 Carlo Casella, Poesia e cinematografo. Conversando col poeta Guido Gozzano,
«La Vita Cinematografica», I (20 dicembre 1910), n. 2, pp. 1-2. Cito il testo da G.
Gozzano, La sceneggiatura del San Francesco e altri scritti, cit., p. 169.
6 Ivi, pp. 167-168.
7 Ibidem.
[ 3 ]
162 fabrizio miliucci
«non più – dice – prolissità di dialogo e di scena, non più difficoltà di
accertamento, ma la proiezione muta ed eloquente ad un tempo; il
nastro prodigioso che rivela e commenta»8. Tutti questi fattori, uniti
ad una un poco snobistica idea di diletto e di avvicinamento al pubblico,
servono ad annunciare un progetto lasciato cadere tra le righe con
l’eleganza naturale e maliosa della confidenza:
Ho ridotto per cinematografo i temi più originali del mio volume di
fiabe; fiabe, ripeto, per grandi e piccoli, sceneggiate con grande sintesi
di trama e scaltrezza di effetto. I soggetti sono di mia completa invenzione;
ogni episodio sarà alternato da pochi versi semplici e concisi, a
commento della vicenda che segue. È cosa che ho fatta con grande
amore e con grande diletto, e ogni pellicola, col suo quadro favoloso e
il suo commento in versi, mi è cara come un mio lavoro letterario, e non
esiterò a firmarla e tutelarla come i miei volumi di prosa e di poesia. Questi
sono i miei riposi, egregio amico, gli ozi dilettevoli che mi piace alternare
al lavoro meditativo9.
Questo passaggio è una piccola miniera di impressioni utili per
descrivere l’atteggiamento del poeta nei confronti della nuova arte.
Innanzi tutto l’identificazione del lavoro cinematografico con il riposo
fra un lavoro “meditativo” e l’altro10 ma soprattutto l’intenzione
espressa di firmare e tutelare queste creazioni come se fossero lavori
letterari.
A questi primi anni, come noto, corrisponde un gran disordine nelle
collaborazioni che rende le attribuzioni particolarmente difficili e
che molto probabilmente ha inghiottito anche una zona del lavoro cinematografico
gozzaniano: riduzioni o didascalie non firmate di cui si
trovano sparuti e dubbi riferimento negli epistolari disponibili, senza
corrispondenza nella realtà verificata, sfumando via via nel campo
dell’ipotesi e dell’arbitrio. Come afferma Giorgio De Rienzo, «la storia
di Gozzano cineasta rimane una storia segreta, proprio perché il suo
rapporto con il cinema è esclusivamente, fino al momento del San
Francesco, un rapporto di lavoro “nero”, una fonte anonima di
guadagno»11.
Fra le ipotesi e le notizie che ci giungono in merito, vale la pena
8 Ivi, p. 169.
9 Ibidem. Corsivi miei.
10 «[…] fra un volume di prosa e di versi, forse di filosofia e di scienza, mi
piace di sorridere e di far sorridere con qualche bella fantasia leggera», Ibidem.
11 G. De Rienzo, Guido Gozzano, cit., p. 192.
[ 4 ]
guido gozzano e “la film” 163
segnalarne alcune, come quella relativa a un documentario intitolato
La vita delle api che ricalcherebbe il famoso poema di Maeterlinck e nel
quale non è escluso che il poeta abbia avuto parte, ed alcune riduzioni
dai libri del romanziere corso Michel Zevaco cui Gozzano fa riferimento
in una lettera del 1911 a Salvator Gotta12, in cui parla anche di
un film intitolato La statua si carne di cui non si trova traccia nella produzione
dell’‘Ambrosio’, ma che è invece presente negli elenchi della
‘Milano Films’, per la regia di Giuseppe De Liguoro, data 191213. Purtroppo
si tratta di film a tutt’oggi irreperibili, ma che potrebbero restituire
qualche dato per illuminare il cono d’ombra dell’apprendistato
cinematografico gozzaniano coltivato fra il 1911 e il 1913, o per lo meno
per stabilirne dimensioni più certe.
Nella prima parte della sua storia, il cinematografo è una sorta di
mostro divoratore delle opere letterarie più popolari, spesso rielaborate
e manipolate per incontrare il gusto del pubblico. Vendere i diritti
di una propria opera, o prestarsi alla riduzione delle altrui, significa,
per gli autori di fama, macchiarsi di un’onta a solo vantaggio del portafogli.
Scrive Verga dopo aver accettato di cedere i diritti per la prima
riduzione cinematografica della sua Cavalleria rusticana, evitando ogni
compromissione e rifiutando perfino di leggere gli scenari inviatigli
contestualmente: «Tu meglio di ogni altro puoi metterti nei miei panni
e in quelli del genitore che può acconsentire al matrimonio della sua
creatura, ma non ad assistere alla sua messa in letto»14.
È questo il periodo in cui il cinema attira a sé scrittori prossimi al
nostro, come Sandro Camasio e Nino Oxilia, autori di Addio giovinezza,
commedia teatrale e film (1913), ma anche Pier Antonio Gariazzo, pittore
e regista citato più volte nelle lettere ad Amalia, esordiente nel
1912 con L’ultimo amplesso. Ma quello che il cinema andava cercando
dai letterati del tempo era soprattutto una via per l’accettazione culturale.
In virtù di questa necessità, spesso venivano attribuiti ai poeti ed
agli scrittori coinvolti meriti che in realtà non avevano.
Capitava ad esempio che un poeta, partecipante a un film con il
12 «Sono a Torino da vari giorni per mettere in scena La statua di carne, le appendici
di Zevaco ed altre simili delizie… Coloro – e sono molti – che godono di
vedere la poesia ed i poeti profanati, possono esultare… Ma anche di questo vilipendio
scriverò forse un libro spaventoso», Fidenzio Pertile, Ancora su Guido
Gozzano cineasta, «Bianco e Nero», III (1939), n. 1, pp. 77.
13 Cfr. Archivio del cinema italiano, a cura di Aldo Bernardini, Roma, ANICA,
1991, I (Il cinema muto 1905-1931), p. 419.
14 Frase cassata nell’originale, cfr. I. Gambacorti, Storie di cinema e letteratura.
Verga, Gozzano, D’Annunzio, cit., p. 22.
[ 5 ]
164 fabrizio miliucci
contributo di un soggetto o semplicemente redigendo le didascalie e
pochi altri apparati, venisse indicato come il responsabile di tutta la
lavorazione, dalla regia, alle riprese, alla scenografia. Se da una parte,
dunque, spicca il ricorso ad un lavoro umile, sommerso e anonimo,
dall’altro lato si registra il pieno effetto di una sovrapposizione che
lega, in fronte al vasto pubblico, il film al nome del poeta che vi partecipa
con merito decisamente secondario. Irene Gambacorti, ad esempio,
ricorda come lo stesso Gozzano a partire dal 1916 fosse al centro
di alcuni rumors giornalistici che lo collocavano dietro la realizzazione
di alcune importanti pellicole, fino ad attribuirgli addirittura la regia
di Cabiria15.
È anche in virtù di questa dinamica che si può forse motivare l’animosità
con cui alcuni impiegati nella casa di produzione ‘Ambrosio’
di Torino allontanano l’idea di una collaborazione del poeta ai progetti
della casa stessa. Ha fatto storia, a tal proposito, la dichiarazione del
direttore dell’ufficio soggetti Arrigo Frusta, che attribuisce a Gozzano
un avvicinamento al cinema del tutto secondario, se non francamente
fallito. Questo è il primo segno della dismisura che il caso Gozzano
sintetizza: da una parte le esagerazioni pubblicitarie, dall’altra una
diminuzione che toglie dalla scena anche quanto oggettivamente da
riconoscere per la ricostruzione della vicenda.
O storici del Muto, a che la vostra levata? All’Ambrosio, che fu, a suoi
tempi, forse la prima, certo una delle più grandi case di produzione,
collaborarono con me a ordire, scrivere, sceneggiare, inscenare soggetti
di film, giovani entusiasti e di vivo ingegno, quali Guido Volante,
Renzo Chiosso, Vittorio Bravetta, Ermanno Geymonat. O storici del
Primo Muto, ne avete mai, per caso, nominato uno? E fecero centinaia
e centinaia di film, pubblicate, vendute in tutte le parti del mondo…
Non puri sogni, né semplici propositi, né argomenti, abbandonati poi
nel fondo d’un cassetto. Ma, se al cineasta proprio ci tenete, mano sulla
coscienza, non storpiate la Storia: dite una buona volta che il poeta
Gozzano tentò il cinematografo. E non riuscì. (Il linguaggio d’oggi direbbe
con delicata eleganza: Non ce la fece)16.
Il primo riferimento cinematografico nella storia di Gozzano è
quello relativo a La vita delle farfalle, documentario naturalistico girato
15 Cfr. Ivi, p. 211.
16 Arrigo Frusta, I ricordi di uno della pellicola, «Bianco e nero» XVII (1956), n.
10, pp. 46-50. In parte l’esternazione di Frusta è ripresa anche da G. Rondolino,
«La musa paziente osservatrice». Gozzano e il cinema, cit., p. 269.
[ 6 ]
guido gozzano e “la film” 165
per la ‘Ambrosio’ dal cineoperatore e pioniere Roberto Omegna (cugino
di Guido) premiato all’Esposizione Universale del 1911. Lo stesso
Omegna ridimensiona la partecipazione di Guido all’impresa, ricordando
come il suo contributo si limitasse all’aver procurato alcuni degli
esemplari filmati17, occorrenza confermata anche da una cartolina
gozzaniana18. Va però anche sottolineato come la struttura del documentario
e perfino la descrizione del film pubblicato sul Bollettino Ufficiale
dell’Esposizione, abbiano importanti consonanze con la struttura
delle Epistole entomologiche.
A raccontare questa storia con dovizia di particolari e puntualità di
raffronti testuali è stato Andrea Rocca: «alcuni dei tratti ascrivibili a
una non impersonale sapienza entomologica – conclude lo studioso
parlando del testo non firmato che presentava al pubblico il documentario
– parrebbero segnatamente tradire una penna ben conosciuta»19.
C’è da chiedersi quanto e se questa presenza invisibile – il nome di
Gozzano non compare nei titoli di testa né il poeta beneficia del premio
– abbia influito nel processo di ripiegamento che lascerà inconcluso
il terzo tempo della sua poesia. In ogni caso, è difficile non pensare
17 Cfr. Mario Verdone, L’ultima intervista con Omegna, «Cinema», n.s. I (1948),
n. 4, p. 111.
18 «Caro Roberto, da due giorni percorro la campagna e ho fatto una raccolta
discreta. Sabato spero di averne a sufficienza per portarle a Torino e fare i medaglioni
dei Podaliri ecc. I bruchi non li trovai ancora, ma ho certa speranza di scovarli
quanto prima. Arrivederci e saluti cordiali, tuo Guido Gozzano». La cartolina,
citata anche da Rondolino, è riprodotta in Virgilio Tosi, Il pioniere Roberto
Omegna (1876-1948), «Bianco e Nero», Roma, XL (1979), n. 3, p. 31.
19 «Essendo il quesito insolubile, anche la nostra indagine ne risulterebbe impedita
se non si accontentasse a questo punto di investigare sopra un aspetto di
per sé marginale, quantunque divenuto all’occorrenza risolutivo: vale a dire
sull’attribuzione del premio. Poiché, sfogliando le pagine meglio indicate al proposito,
quelle del “Bollettino Ufficiale dell’Esposizione Internazionale di Torino –
1911”, accadrà infine di imbattersi in qualcosa di pertinente. Nel numero 95 del
giornale (Martedì 17 ottobre 1911) […] una sorta di “indice” dell’anonima pellicola,
che non potrà fare a meno di richiamare (per similarità di struttura, se non
esattamente di contenuto) i “disegni” delle “Epistole entomologiche” dai quali ha
preso le mosse il discorso sul testo del poema [segue il suddetto “indice”]. Ma
ancor più ci cattureranno le sottostanti righe, dedicate all’esplicazione dell’“
Argomento”: ove alcuni dei tratti comunque ascrivibili a una non impersonale
sapienza entomologica parrebbero segnatamente tradire una penna ben conosciuta
», Andrea Rocca, Introduzione alle Epistole entomologiche, in Guido Gozzano,
Tutte le poesie, testo critico e note di Andrea Rocca, introduzione di Marziano
Guglielminetti, Mondadori, Milano, 1980, pp. 430-431.
[ 7 ]
166 fabrizio miliucci
che le farfalle immortalate nel bianco e nero di questo documento non
siano le stesse per sempre imbozzolate nei versi del poema.
Altro progetto che si ammanta di un’aura di ufficialità è quello che
riguarda le riduzioni di temi fiabeschi, come abbiamo già sentito annunciare
alla voce viva del poeta. In questo caso, sia Frusta che un testo
pubblicitario della casa produttrice confermano e quasi doppiano
le parole di Gozzano, che potrebbe celarsi dietro questo lancio pubblicitario:
La Ditta Ambrosio, fedele ai suoi ideali di ascesa artistica, all’interpretazione
di quanto c’è di grandioso e d’interessante nella scienza, nella
storia, nell’arte, aggiunge ora una nuova serie di films delicatamente
poetiche. Ogni episodio sarà alternato con pochi versi semplici e concisi
per commentare la vicenda che segue e gli argomenti saranno tali
da interessare piccoli e grandi20.
Il progetto si riduce ad un’unica breve pellicola che prende il nome
di Solo al mondo. La storia commovente di Piccolino, il minuscolo eroe randagio
per il mondo (1912), ricalcante i versi de La canzone di Piccolino,
poesia pubblicata sul «Corriere dei piccoli» il 5 settembre del 1909. La
pellicola purtroppo risulta ad oggi smarrita, ma conserviamo le didascalie
del film grazie ad uno scritto del 1938 di Maria Adriana Prolo21.
Sebbene il poeta rivendichi per tempo la paternità della piccola impresa
(«i soggetti sono di mia completa invenzione») sarebbe interessante
constatare se e come il suo nome compaia nel cartello di testa. Dopo
gli interessi entomologici, anche quelli per la letteratura infantile sembrano
piegarsi alle esigenze di una industria «lucrosa e attivissima»,
come il poeta la definisce in una lettera del 1911 a Maria Borgese, dicendosi
in essa «impegnatissimo»22.
Abbiamo poi quello che può essere considerato come lo scheletro
di un soggetto, un inedito rinvenuto da Mariarosa Masoero e pubblicato
nel volume di tutte le novelle I sandali della diva23, come appendice.
Si tratta di una storia che starebbe benissimo su uno schermo del
20 Il breve testo, comparso in «La Vita Cinematografica», II (giugno 1911), n. 10,
p. 6, è riprodotto in Maria Adriana Prolo, Storia del cinema muto italiano, Milano,
Poligono, 1951, p. 50.
21 Ead., Torino cinematografica prima e durante la guerra (Appunti), «Bianco e Nero
», II (ottobre 1938), n. 10, pp. 60-94.
22 G. Rondolino, «La musa paziente osservatrice». Gozzano e il cinema, cit., p. 270.
23 Cfr. Appendice, in Guido Gozzano, I sandali della diva, introduzione di Marziano
Guglilminetti, edizione e commento di Giuliana Nuvoli, Serra e Riva editori,
Milano, 1983, pp. 325-328.
[ 8 ]
guido gozzano e “la film” 167
1910: un amore impossibile, un aiutante benevolo, un tesoro da preservare,
un happy end conclusivo. Scrive in merito Giuliana Nuvoli:
L’ipotesi di un abbozzo di copione pare rispondere alle caratteristiche
che Gozzano – allineandosi al cliché medio della produzione cinematografica
del periodo – avrebbe ad esso attribuito. La bella fanciulla perseguitata
dai parenti malvagi, il giovane salvatore che con lei convolerà
a giuste nozze dopo l’agnizione finale, col Bene che trionfa sul Male
ricomponendo il giusto equilibrio degli elementi dopo la catastrofe
iniziale, sono dati che Gozzano avrebbe potuto plausibilmente elaborare24.
Siamo alla stagione conclusiva. Fra il 1915 e il 1916 si registra il
massimo sforzo che Gozzano compia in favore del cinema e, contemporaneamente,
la sua più dura sconfessione. Il copione del San Francesco,
che non riscuote in pieno l’attenzione che gli si dovrebbe come
testo letterario più che come mera testimonianza, segna la fine di un
apprendistato su cui come abbiamo visto gravano ancora delle ombre.
Nei progetti dello sceneggiatore, questo film avrebbe dovuto segnare
la sua vera entrata nel mondo del cinema: un lavoro di piena dignità
erudita e artistica. Si sarebbe trattato per altro di una entrata in scena
calcolata con grande intelligenza, in virtù del tema religioso allora già
affermato (fra gli immediati precedenti si annovera la pellicola Christus)
che avrebbe provveduto ad una sorta di auto-pubblicizzazione e
dunque di un ritorno commerciale auspicabilmente considerevole.
Alcuni preventivi della ‘Ambrosio’, riprodotti da Masoero nell’edizione
critica della sceneggiatura25, testimoniano in maniera inoppugnabile
lo stato di avanzamento del progetto e quanto la casa puntasse
potenzialmente su questa pellicola. In attesa dell’inizio della lavorazione,
Gozzano scrive all’amica Silvia Zanardini (22 aprile 1916): «Sono
[…] padre, e lo confesso non senza compiacenza, di una film che mi
lusinga anche artisticamente. Non so se l’esecuzione cinematografica
corrisponderà a quanto ho sognato io […] ma dovrebbe riuscire una
buona cosa»26. Mentre al fratello Renato scrive negli stessi giorni (17
aprile):
[…] si deve decidere in settimana il film su San Francesco ed in tal caso
sarei impegnato a presenziare per una ventina di giorni l’esecuzione,
24 Ivi, p. 404.
25 G. Gozzano, San Francesco d’Assisi, cit., pp. 139-143.
26 G. De Rienzo, Guido Gozzano, cit., pp. 204.
[ 9 ]
168 fabrizio miliucci
quasi tutta in Assisi. Non so se sarà commercialmente fortunata, ma
come opera d’arte incomincia ad affezionarmi. Vedrai che il libretto
non è male; gli artisti, fra i quali forse Ruggeri come protagonista, saranno
degni dell’opera27.
Stando al testo, devo ammettere di non scorgere nel San Francesco
segni di conversione o di avvicinamento alla fede. Si tratta di una sceneggiatura,
«poema e orditura fotogrammatica», divisa in cinque parti
ed esemplata sui diversi testi della tradizione (Fioretti) e sulla saggistica
otto/novecentesca che aggiornava e restituiva l’immagine del
Poverello di Assisi28.
In essa Gozzano dà prova di una certa esperienza del linguaggio e
delle tecniche cinematografiche, inserendo il riferimento a diversi effetti
speciali, come quando il giovane Francesco ha la visione di una
tavolata di gaudenti che si trasformano in lebbrosi prima ed in scheletri
poi, o quando un Francesco già trasfigurato viene sorpreso a lievitare
nella sua stanza da due amici che subito si convertono e si uniscono
a lui, o ancora quando il pane benedetto da Clara (secondo una
grafia medievaleggiante mantenuta in tutte le didascalie) si orna
spontaneamente di una croce. O ancora come quando il demonio
compare sulla scena con tanto di fumo infernale per tentare il santo:
[Scena] Paesaggio nevoso o brullo, con una fitta siepe di grosse spine
in primo piano. Francesco prega. Gli compare accanto (per dissolvenza)
il demonio, mettendogli innanzi uno specchio dove sorride una
donna procace. Francesco s’alza, si getta supino nelle spine, per castigarsi.
Ma tutta la siepe fiorisce miracolosamente. Satana, atterrito dal
prodigio, dispare (effetto di fumo infernale)29.
C’è in questa serie di “siparietti” un certo compiacimento nel mostrare
miracoli attraverso un uso calibrato ma costante dei trucchi cinematografici.
Gozzano ha capito che questa è l’arte dell’effetto e non
lesina di ricorrere alla nuova grammatica per mostrare ciò che la parola
può solo evocare. Leggendo la sceneggiatura si proietta nella propria
mente una sequenza di immagini ben articolata che, pur nella
necessaria elementarità di una prima prova, porta in sé il germe di
una evoluzione sicura, come quando lo sceneggiatore accenna ad
27 G. Rondolino, «La musa paziente osservatrice». Gozzano e il cinema, cit., p. 273.
28 Per maggiori chiarificazioni rimando a M. Masoero, Introduzione, in G.
Gozzano, San Francesco d’Assisi, cit. pp. VII-XXXIII.
29 Ivi, p. 19.
[ 10 ]
guido gozzano e “la film” 169
espedienti che danno dinamicità alla narrazione, ad esempio il montaggio
alternato di due scene.
Quanto allo stile della scrittura e alla fattura delle immagini, la mano
del poeta-novelliere si riconosce in virtù di moltissime spie, ad
esempio nel frammento in cui vediamo Francesco, infervorato da letture
di guerra, mettere la spada nel gran volume a guisa di segnalibro,
il che potrebbe riportarci mentalmente a Il responso per la vicinanza
della lama e della pagina; oppure quando vediamo Agnese e Beatrice,
sorelle di Chiara, cantare e suonare al cembalo nella posa di Carlotta e
Speranza.
[Scena] Gran sala medievale. Presentazione di tutta la famiglia degli
Scifi, stilizzata un poco secondo i pittori dell’epoca. Il Conte Favorino
degli Scifi, i figli Paolo e Monaldo, sono in fondo, nel vano d’una loggia,
discutendo un’armatura completa, da uomini tutti dati alle cose di
guerra. Più innanzi Agnese e Beatrice, sorelle di Clara sono al cembalo:
e l’una suona, l’altra canta. Ortolana, la madre, è alla rocca e fila. Clara
(in primo piano) legge estatica, assente da tutti30.
Ho fatto cenno ad una (apparente) sconfessione risalente agli stessi
anni della sceneggiatura. Mi riferisco ad un articolo intitolato Il nastro
di celluloide e i serpi di Laocoonte uscito sulla rivista «La Donna»31 che si
può leggere contestualmente a due novelle di ambientazione cinematografica
come Pamela-films e Il riflesso delle cesoie (1915)32 in cui Gozzano
si appropria degli ambienti cinematografici per fare il verso e mettere
in paradosso prima i film comici, genere da sempre popolare grazie
anche al lavoro di personaggi come Robinet o Cretinetti che Guido
ha sicuramente visto all’opera passeggiando per gli stabilimenti torinesi,
e in generale il languidume dei film sentimentali, parodiati nella
seconda novella da una coppia di malinconici artisti falliti.
Il nastro di celluloide è normalmente letto come un risentito rimbrotto
nei confronti di un amore deluso, e l’arte cinematografica è paragonata
a una mosca parassita che si annida nei bozzoli delle farfalle, è
detta «industria di celluloide», «avventuriera e cortigiana risalita»33
ed è infine additata come l’industria più inutile che, fra tante crisi di
industrie necessarie, meno risente del conflitto europeo. Tuttavia nello
30 Ivi, p. 26.
31 XII (5 maggio 1916), n. 273. Oggi si legge in G. Gozzano, La sceneggiatura del
San Francesco e altri scritti, cit., pp. 199-209.
32 Cfr. G. Gozzano, I sandali della diva, cit., alle pp. 136-143 e 279-286.
33 Id., La sceneggiatura del San Francesco e altri scritti, cit., p. 199.
[ 11 ]
170 fabrizio miliucci
stesso articolo si afferma anche che il cinema non attenta all’arte ma
contribuisce a rafforzarla eliminando i veri concorrenti mediocri: «il
cinematografo non è arte, non sarà mai arte. Ma come industria bisogna
rendergli giustizia contro le calunnie dello snob e del partito preso:
è, cioè, tra le industrie, quella che più si sforza di far dell’estetica e
che raggiunge, qualche volta, un attimo fugace di vera bellezza»34.
Ciò che Gozzano intravede, pure invischiato nella polemica intorno
al valore di una arte / non arte, è la possibile e fattiva rimedializzazione
di cui il cinema si fece, a volte brutalmente, portatore. Non c’è in
lui alcun dubbio di sorta circa un eventuale malanno che il cinema
arrecherà al teatro, e questo dubbio è fugato con grande anticipo, se in
verità rimane argomento di moda per molto altro tempo, rinfocolato
dall’innovazione del sonoro.
L’industria nuova rappresenta per Gozzano un quid medium in cui
il volgo come anche lo spettatore colto hanno asilo. Sottrarsi alla snobbistica
posizione di marginalizzare il cinema per motivi di purezza
artistica è per lui la sprezzatura più elegante (e snob) per credersi ingaggiato
dai tempi. Ma probabilmente non c’è solo questo nel rapporto
fra Gozzano e “la film”. In questo atto mancato della nostra tradizione
letteraria si intravede una paradossale verginità nuova, ennesimo
amore che avrebbe potuto essere e non fu. Letteralmente, per Gozzano
il cinema è stato ciò per cui non rimaneva più tempo. La doppiezza
di questa posizione “progressivamente conservativa” emerge
infine in tutta la sua forza, dipingendo il limite di un incontro che si
screzia di angosce esistenziali e storiche, fino al rifugio amato e contemplato
della grande rinunzia: «Certo in quest’ora storica tutto è sintomatico
ed enigmatico, anche il nastro che chiude il mondo in un intrico
sempre più fitto di celluloide figurata. Ma che cosa fare, che cosa
pensare? Forse ciò che fanno e pensano i poeti. Niente»35.
Fabrizio Miliucci
Università Roma Tre
34 Ivi, p. 203.
35 Ivi, p. 209.
[ 12 ]
Valentino Baldi
Commemorazione definitiva del personaggio-critico.
Riflessione sullo stato di crisi permanente
della critica letteraria
In questo saggio l’autore riflette sulle condizioni della critica letteraria italiana,
prendendo in particolare considerazione lo statuto della critica militante. Il saggio
prende avvio dalle riflessioni sulla crisi della critica di Cesare Segre e Romano
Luperini, ma poi si concentra su quei testi che tentano nuove forme di militanza
attraverso il sempre più massiccio ricorso a elementi autobiografici e autofinzionali.

In this essay the author dwells on the condition of Italian literary criticism, especially
the status of militant criticism. Beginning with the reflections of Cesare
Segre and Romano Luperini on the crisis of literary criticism, the essay focuses
on those texts that attempt new forms of militancy through the intense use of
autobiographical and self-fictional features.
1. Nella lunga disputa sulla crisi di critica e teoria della letteratura
in Italia e in Occidente è possibile individuare tre fasi, distinte da altrettante
date simboliche: 1993, 2003 e 2013. Venti anni scanditi da tre
movimenti in cui è contenuto uno degli ultimi grandi dibattiti che ha
coinvolto la nostra comunità intellettuale e accademica: un limite anteriore
che ne segna l’inizio, un limite medio che ha coinciso con l’apice
della discussione e un limite estremo definito da un atteggiamento più
composto, ma anche più rassegnato. Le date fungono da paletti da non
prendere in assoluto, ma sono state scelte in base all’uscita di testi che
funzionano come metonimie per valutare lo stato di salute di una disciplina:
Notizie dalla crisi di Cesare Segre, After Theory di Terry Eagleton
e Tramonto e resistenza della critica di Romano Luperini. Se c’è una
compatta unanimità nel considerare il libro di Segre come il termine
post quem nel dibattito italiano sulla crisi, il lavoro di Eagleton è coevo
a molti volumi usciti anche da noi, cito il solo Eutanasia della critica di
Autore: Ricercatore a tempo det. tipo A; Università per gli Stranieri di Siena;
mail: baldi.valentino@unistrasi.it
172 valentino baldi
Lavagetto, pubblicato nel 20051. Il libro di Luperini è apparso molto
recentemente, dunque è ancora troppo prossimo per valutare tutti gli
esiti. In quel libro, inoltre, le riflessioni sulla crisi riguardano poche
pagine dell’introduzione in cui l’autore ritorna su questioni affrontate
in altre sedi (soprattutto in Breviario di critica e in La fine del postmoderno)
e annuncia la fine della sua attività critica, una scelta mossa da ragioni
personali, ma anche dallo stato della cultura letteraria in Italia: «Questa
è la mia ultima raccolta di saggi. Giustificano questa affermazione
anzitutto le ragioni dell’età e il logoramento che questa comporta. Ma
ci sono anche altri motivi di natura culturale e politica»2. Queste parole
dimostrano che il caso di Luperini non può essere trattato singolarmente,
ma rappresenta la fine di un certo tipo di mondo.
C’è da fare una prima distinzione all’interno dello spazio segnato
da questi tre libri ed è quella che separa il libro di Eagleton dagli altri
due lavori. Mentre questi ultimi parlano di fine della critica, il discorso
di Eagleton valuta le conseguenze della crisi della teoria letteraria
nella cultura contemporanea. Ovviamente le questioni non sono so-
1 Si noti che in area americana questo dibattito è iniziato almeno dieci anni
prima il 1993: un punto di riferimento può essere l’interessante (ma a volte poco
incisivo) volume di William E. Cain, The Crisis in Criticism: Theory, Literature, and
Reform in English Studies, Baltimore, John Hopkins University Press, 1984. Nel 1989
le raccolte curate da Cohen e Kavanaugh hanno contribuito ad animare il dibattito,
godendo di una buona diffusione, si veda: Ralph Cohen (a cura di), The Future of
Literary Theory, New York, Routledge, 1989; Thomas M. Kavanaugh (a cura di),
The Limits of Theory, Stanford, Stanford University Press, 1989. Kavanaugh, in particolare,
riflette su quanto la teoria letteraria si sia disfatta progressivamente della
letteratura per rimirare soltanto sé stessa, aspetto su cui ritornerò a breve. Per
quanto riguarda la situazione in Italia, dopo il lavoro di Segre, il dibattito ha conosciuto
uno sviluppo all’inizio del 2000. Si pensi che in quattro anni sono stati pubblicati
testi come: Cesare Segre, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001; Margherita
Ganeri e Nicola Merola (a cura di), La critica dopo la crisi, (Atti del
Convegno di Arcavacata, 11-13 novembre 1999) Catanzaro, Rubettino, 2002; Carla
Benedetti, Il tradimento dei critici, Torino, Bollati Boringhieri, 2002; Alfonso
Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, 2002,
Venezia, Marsilio, 2002; Romano Luperini, Breviario di critica, Napoli, Guida,
2002; Giulio Ferroni, I confini della critica, Torino, Einaudi, 2005; Mario Lavagetto,
Eutanasia della critica, Torino, Einaudi, 2005. È ovvio che crisi della teoria e
della critica, unite a crisi della letteratura nel suo complesso, sono direttamente
collegate alla crisi degli intellettuali: è un concetto su cui ritornerò nel corso di
questo saggio, per ora faccio riferimento solo ad un volume di Bauman, che è continuamente
presupposto: Zygmut Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori
ad interpreti [1987], Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
2 Cfr. Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica, Macerata, Quodlibet,
2013.
[ 2 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 173
vrapponibili, ma le valutazioni degli autori restano negative: Eagleton
spiega come la stagione dei grandi teorici, da Saussure, Gramsci e Jakobson
fino a Jameson, Barthes e Foucault, sia oggi definitivamente
archiviata. La teoria contemporanea sembra una riserva in cui applicare
o confutare sistemi di pensiero nati trent’anni fa: le teorie originali
non esistono più, mentre gli studi umanistici si concentrano sulla
dilatazione del canone (nei generi, nelle forme, dal punto di vista geografico),
sulla mescolanza di cultura alta e cultura popolare e sulle
condizioni delle minoranze. Il problema della teoria è, da questo punto
di vista, opposto a quello della critica: la diffusione di sistemi di
pensiero sempre più distaccati dallo specifico letterario ha ampliato il
campo così tanto che la letteratura è stata sacrificata, subissata da
mezzi mediali più attraenti, o da una teoria spesso autoreferenziale. A
nulla è servito un movimento come il New Criticism, che ha anzi promosso
l’idea del testo come sistema chiuso, accelerando, se possibile,
la fine. A questa situazione si unisce un lungo periodo di stasi che
dura ormai dalla fine degli anni Ottanta. Già Keith Booker, all’altezza
del 1990, lamentava quanto il discorso teorico contemporaneo ritornasse
su posizioni di due decenni precedenti, al massimo provando a
mescidare teorie differenti3. Roland Barthes scompare nel 1980, Foucault
quattro anni dopo; Northorp Frye nel 1991 e Derrida nel 2004:
morti eccellenti di intellettuali che sono ancora i protagonisti del dibattito
teorico contemporaneo. Eccedenza e riuso sono le due costanti
della crisi della teoria in area statunitense da più di vent’anni, mentre
la critica letteraria nostrana sembra malata di penuria e irrilevanza.
Anche se Eagleton si muove a monte della crisi della critica, il suo discorso
mostra molte affinità con le analisi di Segre e Luperini, soprattutto
in passaggi come questo:
le rivoluzioni del Terzo Mondo hanno testimoniato a loro modo la potenza
dell’azione collettiva. […] La stessa cosa fecero i movimenti degli
studenti per la pace tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta,
che giocarono un ruolo centrale per porre fine alla guerra in Vietnam.
La maggior parte della teoria culturale contemporanea, invece, non
conserva il ricordo di simili eventi. […] In un mondo che ha osservato
l’ascesa e il declino di innumerevoli regimi totalitari, l’idea stessa di
“collettività” è stata screditata4.
3 Keith M. Booker, The Critical Condition of Literary Theory, «Papers on Language
& Literature», March 1990, pp. 289-298.
4 Terry Eagleton, After Theory, London, Penguin Books, 2003, p. 12 (traduzione
mia).
[ 3 ]
174 valentino baldi
Poco prima Eagleton lamenta, con una certa nostalgia, che quella
presa sul reale che il discorso teorico poteva vantare fra anni Sessanta
e Settanta si è smarrita. Sembra che il mondo possa definitivamente
fare a meno della teoria, aspetto confermato da quel generale sospetto
di irrilevanza sociale di cui parla Homi Bhabha in I luoghi della cultura:
«Si sostiene che il posto che spetta alla critica accademica sia quello
degli archivi eurocentrici di un Occidente imperialista o neocoloniale;
i regni olimpici di ciò che è erroneamente denominato “pura teoria”
sono considerati come eternamente isolati dai bisogni storici e dalle
tragedie dei dannati della terra»5. È qui che le riflessioni sulla crisi di
teoria e di critica della letteratura possono coincidere. Alcuni caratteri
sono gli stessi: l’incapacità di intervenire sulla realtà; l’impossibilità di
rappresentare la voce di una comunità; la perdita di senso del concetto
di collettività; la distanza dalle nuove minoranze; l’arretramento rispetto
ad altre discipline (vedi antropologia, sociologia, storiografia,
filosofia), che hanno mantenuto il proprio statuto e hanno anzi attinto
in maniera sempre più massiccia dal lessico di critica e teoria della
letteratura. Quest’ultimo aspetto è forse il più evidente e definitivo, lo
ha ben messo in evidenza Pellini in un recente intervento sui modelli
dell’intellettuale moderno:
Non è forse superfluo ricordare che la crisi postmoderna dello scrittore-
intellettuale non risponde solo (non tanto) alla difficoltà di individuare
un “agente storico” di riferimento dopo la crisi delle ideologie,
dei partiti, dei gruppi militanti: difficoltà che implica semplicemente
l’estinzione dell’intellettuale organico (e non sarebbe il caso di dolersene
oltre misura). Risponde soprattutto a una sottrazione di credito sociale
alla letteratura e (in misura variabile) a tutte le discipline umanistiche,
a tutte le attività artistiche6.
È difficile, per quel critico letterario che pure cercasse di prendere
parola per intervenire sulla società, non partire da una presa d’atto
della propria inessenzialità. Anche i casi fortunati si consumano rapidamente,
inglobati in logiche di spettacolo ben rilevate da Pellini, che
si rifà a quanto già sostenuto da Cortellessa7.
5 Homi J. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Metelmi, 2001, p. 35.
6 Pierluigi Pellini, Lo scrittore come intellettuale. Dall’affaire Dryfus all’affaire Saviano:
modelli e stereotipi, «Allegoria», n. 63, anno XXIII, terza serie, gennaio-giugno
2011, p. 147
7 Andrea Cortellessa, Intellettuali, Anni Zero, in Dove siamo? Nuove posizioni
della critica, Palermo, duepunti, 2011, pp. 14-40.
[ 4 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 175
2. Le nuove generazioni che si affacciano alla critica letteraria devono
fare anzitutto i conti con l’evaporazione di due attributi essenziali
per la critica militante: la sacralità ed il carattere collettivo8. Il
primo è un fenomeno di cui ha parlato a lungo Bourdieu: il rapporto
fra autore, testo e pubblico è leggibile alla stregua di quello che unisce
profeti, sacerdoti e fedeli, meccanismo che consente di attribuire senso
e tenere in riuso il discorso critico9. Il secondo, invece, ci porta molto
indietro nel tempo, alla nascita della forma-saggio e ad alcune sue
caratteristiche fondamentali. In quanto genere letterario argomentativo,
il saggio non può liberarsi da un certo grado di parzialità: i primi
saggisti moderni hanno abbracciato la particolarità del proprio punto
di vista facendo affidamento a ragione e stile. Ragione, stile e individualità
che si realizzano su un piano collettivo sono le forze che muovono
uno dei primi esempi di saggismo moderno: Il Principe di Machiavelli.
Già in alcuni passaggi della «Dedica» sono percepibili tutti i
caratteri che assumerà la scrittura saggistica:
[5] Né voglio sia imputata prosunzione se uno uomo di basso e infimo
stato ardisce discorrere e regolare e’ governi de’ principi; perché così
come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare
la natura de’ monti e de’ luoghi alti e, per considerare quella de’
luoghi bassi, si pongono alto sopra ‘monti, similmente, a conoscere
8 Da segnalare il recente Antonio Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento.
Poveri esercizi di critica non dovuta, Teramo, Galaad, 2014, che si concentra sul
binomio intellettuale precario e crisi della critica militante. Emanuele Zinato è partito
proprio da una valutazione del testo di Tricomi intervenendo sulla crisi della
critica contemporanea con una relazione intitolata Oltre la crisi? Le nuove posizioni
della critica nel convegno «La parola mi tradiva». Letteratura e crisi (Perugia, Biblioteca
degli Armeni, 6-7 novembre 2015). Sulla questione si veda anche il numero
65/66 di «Allegoria» (anno XXIV, terza serie, gennaio-dicembre 2012), la cui sezione
tematica è dedicata alla critica degli anni Zero, con un questionario curato da
Zinato e Gilda Policastro a cui hanno risposto: Giancarlo Alfano, Cecilia Bello Minciacchi,
Clotilde Bertoni, Federico Bertoni, Raoul Bruni, Alberto Casadei, Matteo
Di Gesù, Daniele Giglioli, Claudio Giunta, Gabriele Pedullà, Pierluigi Pellini,
Gianluigi Simonetti, Italo Testa, Antonio Tricomi, Paolo Zublena. Anche se le domande
erano di natura diversa, alcune si concentravano specificamente sul senso
della critica militante in rapporto all’universo accademico, o ai dibattiti in rete.
9 Bourdier ne parla spesso in modo negativo, visto che è proprio l’incapacità
della critica di riprodurre questo rapporto a rendere ridicolo il rapporto fra critico,
testo e pubblico: Pierre Bourdier, Homo academicus, Bari, Dedalo Edizioni, 2013,
pp. 185 sgg.
[ 5 ]
176 valentino baldi
bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e, a conoscere bene
quella de’ principi, conviene essere populare. […]
[7] E se vostra Magnificenza da lo apice della sua altezza qualche volta
volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente
sopporti una grande e continua malignità di fortuna10.
Il discorso di Machiavelli è nuovo, clamoroso e inaudito. Questi
brani sono scomponibili in tre parti che ci parlano, rispettivamente, di
democrazia, straniamento e individualità. Sostenere che la natura del
Principe possa essere compresa solo da chi la guarda “dal basso” della
scala sociale è un oltraggio che annulla le differenze di casta ed esalta
l’indistinzione fondata sulla ragione. La similitudine col cartografo,
che deve sempre trovarsi fuori da un qualunque sistema per descriverlo
adeguatamente, è una metafora dello sguardo straniato del critico
e sembra anticipare le parole con cui Benjamin guarda alla modernità
della poesia baudeleriana: il critico è un osservatore liminale, deve
stare sia dentro che fuori dal fenomeno di cui vuole parlare. Questa
marginalità (la condizione infima, angusta, bassa dell’intellettuale-
Machiavelli) diventerà lo statuto naturale della critica: l’intellettuale è
l’escluso a cui tocca sublimare ed allegorizzare la propria condizione.
L’ultima, clamorosa, infrazione sta in quelle parole finali in cui ritorna
il movimento alto/basso, con il basso che è il punto di arrivo di una
dolorosa e personalissima catabasi che ci parla dell’esperienza privata
del Machiavelli uomo, allontanato da Firenze ed isolato all’Albergaccio.
Rifiutando di piegarsi alle regole della retorica, l’autore inserisce
un riferimento a quella personalissima malignità di fortuna che sembra
perseguitarlo dal 1512. La fortuna, però, è anche il fiume carsico
che si muove fra le pagine di tutto il trattato: è la forza immensa che
favorisce e poi distrugge Cesare Borgia, che minaccia i dominatori di
stati nuovi o misti e che mette in crisi l’equilibrio del Principe nel venticinquesimo
capitolo. La condizione individuale è dunque una sineddo
che permette di leggere il mondo e il destino dell’uomo. Come ha
spiegato Luperini, rifacendosi ad un’idea della saggistica che eredita
proprio da Machiavelli, ma che si realizza con Lukács:
Il carattere privato, individuale e particolare viene travalicato non già
attraverso la sua negazione e l’assunzione di un punto di vista astratto
e universale, ma lavorando proprio su tale particolarità e sublimandola
con lo stile e con la forza o il timbro della pronuncia. A differenza
10 Niccolò Machiavelli, Il Principe, edizione a cura di Giorgio Inglese, Torino,
Einaudi, 1995, pp. 5-6.
[ 6 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 177
degli scritti scientifici, il soggetto, con le sue scelte stilistiche, le sue
impuntature e sprezzature, resta sempre presente sia quando il saggio
assuma la forma di un massimo di asistematicità – per esempio, quello
degli appunti (magari di lettura) e degli aforismi –, sia quando miri
invece a un massimo di sistematicità espositiva11.
Sono immagini che si prestano bene ad illustrare una sintesi fra
sistematicità e personalismo che si uniscono a creare un’opera unica
per coerenza e potenza, una lezione di metodo per chiunque voglia
intraprendere, ancora oggi, una ricerca in campo umanistico.
3. L’idea della saggistica che possiamo ricostruire a partire dalla
«Dedica» del Principe ha percorso alcune delle più grandi opere scritte
in Occidente: Montaigne, i filosofi illuministi, Lukács, Gramsci, Debenedetti,
fino a naufragare alla fine del XX secolo, negli anni in cui Segre
si mette a raccogliere le sue notizie dalla crisi. Allora è vero che
l’unica cosa che resta da fare è scrivere una commemorazione definitiva?
Nel leggere l’ultima raccolta di saggi di Luperini la parola Tramonto
vale più della successiva Resistenza? A vedere la produzione saggistica
oggi è possibile sostenere che, mentre la teoria sembra irreparabilmente
morta (ma quando, in Italia, ci siamo distinti per la teoria
letteraria, che non gode nemmeno dello statuto di disciplina autonoma?),
la critica va avanti assumendo forme che potrebbero risollevarla,
ma anche aggravare la sua salute già cagionevole. A resistere meglio
è quella produzione di stampo accademico – a dominante filologica
e/o archivistica –, che però non è rilevante in questo discorso: è
una critica direttamente legata al mondo universitario, spesso completamente
scollegata dalla realtà. È una produzione che è sempre esistita
e che difficilmente scomparirà, a meno che non scompaia l’istituzione
universitaria nel suo complesso. Ed è una critica che, come nota
Giglioli, ha spesso causato insofferenza negli addetti ai lavori di tutti i
livelli – insegnanti, studenti, ricercatori, per non parlare del pubblico
più ampio, che è lontano da avere persino un accesso a questa produzione12.
Della critica militante, invece, le tracce sono sempre più esigue, ma
11 Romano Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Bari,
Laterza, 1999, p. 19.
12 Daniele Giglioli, Oltre la critica, in «Enciclopedia Treccani. Il XXI Secolo»,
2009: http://www.treccani.it/enciclopedia/oltre-la-critica_(XXI-Secolo)/ [ultimo
accesso 23 ottobre 2016].
[ 7 ]
178 valentino baldi
forse guardiamo in direzione sbagliata. Per trovare un equivalente
contemporaneo del J’accuse sarebbe necessario effettuare una indagine
seria sui canali alternativi al cartaceo, quelli di riviste online e di
blog, che anzi sembrano abbondare di esempi di critica militante, fino
a contribuire in senso opposto allo smantellamento di una disciplina.
Sui blog e sul mondo di internet è condivisibile la posizione di Guido
Mazzoni che sottolinea quanto sia ancora lontana, sia in Italia che in
Occidente, una riflessione intellettuale seria e sistematica che, a partire
dalle statistiche, ambisca a comprendere la portata simbolica del
fenomeno13. Eppure resta il sospetto che il mondo informatico offra
una piattaforma di visibilità, ma non abbia ancora la sufficiente auctoritas
per imporsi con idee e materiale originali.
In questo paesaggio desertico si distinguono alcune alternative.
Sono quelle che anche l’editoria italiana sta cercando di sondare e che,
per adesso, hanno prodotto esempi eterogenei di non-fiction, penso a
collane come “Le Vele” di Einaudi, “Contromano” e “Solaris” di Laterza,
“Strade Blu” di Mondadori, “Houmboldt” di Quodlibet. Forme
generalmente brevi e in cui il saggismo si contamina con la narrativa
fino all’ibridazione: romanzi-saggi, reportage, saggi veri e propri ma
dall’alto tasso di letterarietà14. Perché se la critica militante annaspa,
mi sembra che si possa parlare dell’insorgenza di una funzione personaggio-
critico che si mette sulle spalle quell’eredità che ho fatto risalire
a Machiavelli. Recentemente Roberto Saviano ha riflettuto sullo
13 Cfr. Guido Mazzoni, I destini generali, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 3-4.
14 Sullo stile della critica e sulla sua capacità di esprimere un certo grado di
letterarietà si è recentemente espresso anche Emanuele Zinato (Stili e strategie di
sopravvivenza della critica, in «L’ospite ingrato», Anno Settimo, 1/2004, pp. 67-87),
che ha anche raccolto una serie di importanti riferimenti bibliografici soprattutto
relativi alla situazione italiana contemporanea: «È legittimo leggere […] un testo
che vuole comunicare nell’ordine del ragionamento come se quest’ultimo potesse
venire alterato dalle tensioni letterarie interne alla scrittura? No, se ciò equivale a
intendere il mondo delle scritture, per intero, come se fosse finzione. […] Sì, se con
l’ammettere la presenza di una qualche ‘letterarietà’ nello stile dei critici, si sceglie
di metterne in luce la quota di rimosso, e dunque la forza cognitiva dell’immaginazione
e il nucleo correlato alla densità figurale», p. 67. Oltre al saggio di Zinato
– le cui idee ritorneranno anche nel volume Le idee e le forme. La critica letteraria in
Italia dal 1900 ai nostri giorni, Roma, Carocci, 2010, pp. 99-208 –, il libro di Berardinelli
con cui Zinato entra spesso in polemica è La forma del saggio, cit. Sull’aumento
del tasso di letterarietà della produzione critica, messo in relazione con lo sviluppo
di una critica militante in rete, si veda Ugo M. Olivieri, Le teorie e in metodi, in
Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, 2014,
pp. 304-307.
[ 8 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 179
statuto di queste scritture, partendo da nuove accuse di plagio che
sono state mosse al suo Gomorra. Il discorso di Saviano ha assunto
nuova forza anche grazie al conferimento del premio Nobel alla scrittrice
di romanzi non-fiction Svetlana Aleksievic. Inserendosi in una
tradizione che guarda a Truman Capote, Tom Wolfe e Norman Mailer,
Saviano ha interpretato le accuse nei suoi confronti come sintomi di
un rifiuto generalizzato della comunità intellettuale per chi mescola
giornalismo e letterarietà:
Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca?
Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando
restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura,
quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili,
eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario?
Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo
in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel:
ed è, credo, l’unico modo davvero efficace per portare all’attenzione di
un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili
da comprendere15.
Le critiche a Gomorra, dunque, sarebbero la conseguenza dell’incapacità
di capire un genere a cui lo scrittore sente di appartenere. La
letteratura si appoggia alla cronaca per riguadagnare ciò che ha perduto
in termini di autorità, allo stesso tempo la cronaca diventa interessante
(l’attenzione del pubblico più vasto) e universale (le parole
non restano invisibili). Nonostante l’analisi di Saviano sia eccessivamente
solipsistica, vale come sintomo della diffusione di queste scritture,
tutt’altro che marginali nel panorama critico contemporaneo.
4. Per riflettere sulla crisi della critica militante e sul contemporaneo
sviluppo di scritture che ibridano generi e forme diversi per far
presa sulla realtà vorrei partire dall’analisi di un singolo testo: Come si
diventa «Michelangelo»di Claudio Giunta. Il primo motivo di interesse
sta nella persona dell’autore: Giunta si dimostra a proprio agio sia
conforme accademiche che nella frequentazione di scritture più militanti,
due ambiti che oggi sembrano difficili da conciliare. È importante
partire da valutazioni sulla persona che scrive, perché è la costante
che emerge nel pamphlet Come si diventa «Michelangelo», ma che caratterizza
anche i successivi Il paese più stupido del mondo o Una sterminata
15 Cfr. Roberto Saviano, “Vi spiego il mio metodo tra giornalismo e non fiction”,
«Repubblica», 25 settembre 2015, p. 46.
[ 9 ]
180 valentino baldi
domenica. In questi testi l’autore è presente anche come protagonista
delle inchieste, un personaggio-io che ci racconta aneddoti privati, si
muove per le strade, partecipa a cene e conferenze, visita il meeting di
Comunione e Liberazione. Ecco un esempio tratto dall’incipit di Come
si diventa «Michelangelo»:
Francesco Caglioti un po’ lo conosco perché faceva il dottorato alla
Normale di Pisa quando io sono entrato come studente del corso ordinario,
all’inizio degli anni novanta. Ero alla Normale, molto fiero di
essere alla Normale, da poche settimane ed ero andato a sentire una
conferenza di Carlo Ginzburg su Piero della Francesca. Mi ero trovato
seduto per caso accanto a Caglioti, e durante la conferenza lo sentivo
parlottare ogni tanto coll’altro suo vicino. Io a un certo punto gli avevo
detto qualcosa sottovoce, qualcosa che mi sembrava molto intelligente
o molto spiritosa, e lui altrettanto sottovoce mi aveva risposto senza
guardarmi: «Sì, però adesso fammi ascoltare». Non un incontro memorabile:
e invece me lo ricordo bene, ci si ricorda sempre delle umiliazioni.
Dopo quella volta l’ho perso di vista, poi l’ho ritrovato ogni tanto
insieme ad amici comuni, circondato da un’aura (molto meritata, per
quel poco che ne capisco) di competenza, rettitudine, meticolosità al
limite del maniacale, e anche un po’ oltre il limite16.
È una forma narrativo-autobiografica accattivante e significativa,
perché Giunta chiede ai propri lettori di accettare un patto, usando sé
stesso come garante: l’osservazione della realtà parte dall’esperienza
privata di chi scrive, ci fa sorridere e fa leva su meccanismi di identificazione
emotiva. Dietro a questo trattamento serio del privato-quotidiano
si distingue un movimento ampio e che coinvolge quasi tutti gli
autori che cercano di interrogare l’attualità con gli strumenti della saggistica.
Prendo come ulteriore esempio un passo di un saggio direttamente
collegato a quello di Giunta: A cosa serve Michelangelo? di Tomaso
Montanari
Il 9 settembre 2009 il mio solito treno Firenze-Napoli propiziò un incontro
decisamente insolito. Il posto che avevo prenotato, infatti, era
occupato dal ministro Sandro Bondi.
Oltre a cedermi il sedile prima ancora che dovessi chiederlo, il ministro
fu così gentile da ascoltare le mie rimostranze circa l’acquisto dello
pseudo Michelangelo17.
16 Claudio Giunta, Come si diventa «Michelangelo». Il mercato dell’arte, la retorica,
l’Italia, Roma, Donzelli Editore, 2011, pp. 5-6.
17 Tomaso Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Torino, Einaudi, 2011, p. 17.
[ 10 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 181
Si tratta di una coincidenza reale? Oppure, come abbiamo imparato
leggendo i romanzi di Saviano, Siti e Moresco, il personaggio Montanari
ci racconta realisticamente una vicenda finzionale producendo
un interessante esempio di autofiction? È certamente un modo per
interessare il pubblico, ma è anche la spia di una nuova forma di partecipazione
in un momento in cui la critica appare sempre più scollata
dal reale. Eppure i rischi dell’operazione sono innumerevoli: lasciando
i casi specifici di Giunta e Montanari – entrambi attenti a collegare
questi passaggi personali ad un discorso militante – sempre più spesso
l’unica cosa che supporta le inchieste è la persona dell’autore, i suoi
gusti, le idiosincrasie. Siamo di fronte alla nascita di un personaggio-io
che non è solo garante, ma rischia di diventare anche il punto d’arrivo
del saggismo.
È possibile ritrovare il personaggio-io anche in libri più prossimi al
discorso della critica letteraria. La pubblicazione di testi critici che tentano
nuove forme di militanza sta aumentando vistosamente ed è portata
avanti sia da scrittori di professione che da accademici tradizionali.
Sempre più spesso le parti che compongono queste opere sono apparse
prima su blog e poi in formato cartaceo, un particolare non trascurabile
visto che la rete si conferma piattaforma di sperimentazione,
ma anche territorio non abbastanza solido per reggersi autonomamente.
Eppure, come per Giunta e Montanari, la lettura è scorrevole e
i pregi teorico-stilistici degli autori gli consentono di dedicarsi ad analisi
inedite in territorio italiano. In Destini generali di Guido Mazzoni
abbiamo un Mazzoni auctor e un Mazzoni agens, due figure che spesso
si incontrano visto che l’autore si ritrae – nella seconda parte del libro
– come personaggio che vaga fra le strade di Berlino, la capitale di un
secolo che ha strappato l’allegorico primato alla benjaminiana Parigi.
In Mazzoni, anzi, quelli che in Giunta erano inserti episodici, diventano
principi strutturanti: non esisterebbe I destini generali senza il personaggio-
io Guido Mazzoni che fa il turista nella capitale: «Sono tornato
a Berlino due anni fa, nel maggio del 2013, per una decina di
giorni. Ho fatto il turista»18. Lo stesso si può dire per molti altri esempi:
ancora Giunta con Giovanna Silva in Tutta la solitudine che meritate,
Bassetti e Matteucci con Sacro GRA; Falco con Sottofondo italiano o Maino
con Cartongesso, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Il primo
fattore da rilevare è che non esiste un genere della tradizione che ci
permetta di collocare questi libri: quello di Maino è un romanzo con
18 G. Mazzoni, I destini generali, cit., p. 67.
[ 11 ]
182 valentino baldi
inserti da inchiesta giornalistica sul Veneto, il libro di Giunta e Silva è
un reportage di viaggio sull’Islanda, Sacro GRA, invece, un’inchiesta
politico-economico-sociale con elevato tasso di letterarietà. L’elemento
di coesione, però, è il personaggio-io: l’autore non si limita a prendere
posizione, ma si fa personaggio che parla, riflette e agisce. Prende
decisioni, fa domande, si innamora, ci fa ridere: un personaggio di
carta molto trasparente visto che coincide quasi sempre con l’autore.
Ma questa operazione, efficace da un punto di vista estetico, è molto
pericolosa in una prospettiva critica, perché rischia di svalutare e depotenziare
il messaggio: l’elemento di finzionalità può diventare uno
schermo dietro cui difendersi e su cui scaricare i rischi e le responsabilità
portati dalla militanza. Il personaggio-io non è la persona, rimane
un esercizio auto-finzionale di matrice letteraria. Dietro lo spazio sempre
maggiore occupato dall’io critico si distingue un contro-movimento
che sublima e squalifica il carattere delle inchieste: se questa operazione
è affascinante in un romanzo (si pensi al solo caso di Walter Siti
e alla sua Avvertenza a Troppi paradisi19) diventa paradossale in un’opera
in cui l’individualità dovrebbe essere il pretesto per parlare ad una
comunità. Registra il fenomeno anche Pellini, che evidenzia problematiche
simili: «l’imbridazione di generi e stili diversi […] può configurare
un’apertura dello spazio letterario capace di “sporcarsi” sul
terreno spurio della cronaca; o, all’opposto, produrre un effetto di generale
derealizzazione»20. I nuovi saggi finzionali e di inchiesta sul
presente sono sempre più spesso sguardi rivolti alle macerie di una
civiltà di cui sembra impossibile conservare qualcosa. Il ricorso all’io
è una traccia capace di creare attenzione e interesse, ma rischia di seppellire
qualsiasi aggancio con la collettività. L’unica cosa che resta
sembra l’individualità del personaggio-io: è come se, della Dedica del
Principe, rimanesse la sola componente particolare senza più il movimento
generalizzante che lega la malignità di fortuna che ha colpito
l’autore a quella che minaccia continuamente Cesare Borgia e il destino
di tutti gli uomini. I saggi sul presente denunciano la fatica degli
19 «Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li falsifica; la realtà è un
progetto, e il realismo una tecnica di potere. Come nell’universo mediatico, anche
qui più un fatto sembra vero, più si può stare sicuri che non è accaduto in quel
modo […]. Tutto l’impianto realistico, insomma, è un gigantesco soufflé pronto ad
afflosciarsi in una poltiglia di finzione; punta estrema, forse, del quesito paradossale
che regge la mia trilogia romanzesca: se l’autobiografia sia ancora possibile, al
tempo della fine dell’esperienza e dell’individualità come spot», Walter Siti,
Troppi paradisi, Torino, Einaudi, 2006, p. 2.
20 P. Pellini, Lo scrittore come intellettuale, cit., p. 147.
[ 12 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 183
autori contemporanei nell’individuare una comunità a cui rivolgersi.
Sono libri seducenti, ben scritti e ben confezionati, ma spesso autoreferenziali.
21 Quello sguardo straniato che caratterizza l’intellettuale
non ha più un aggancio con l’Altro: le masse sono distanti, gli emarginati
vivono mondi che il critico non capisce, o a cui non è più interessato.
Anche nei casi di reazione veemente, la rabbia è sterile e acefala,
si veda l’inchiesta di Luca Doninelli su Milano intitolata, indicativamente,
Il crollo delle aspettative. Nonostante l’autore raccolga i suoi
«scritti insurrezionali su Milano» in un saggio dai toni romanzeschi, il
fuoco del libro è la solitudine di chi dice io, staccato sia dalle classi più
emarginate, che da quella media borghesia che ha trasformato Milano
in una delle città più floride e mostruose del XX secolo22. Colpisce
quanto diversa sia la situazione fuori dall’Italia: si pensi ai lavori di
Žižek, tutti percorsi da un vibrante (a volte fino all’ingenuità) sentimento
di ribellione. Da intellettuale planetario, Žižek non disdegna di
riferirsi ai grandi materialismi del XX secolo, ma spostando il fuoco:
l’interesse non è più quello della lotta di classe, quanto il diventare
portavoce degli emarginati, dunque dei migranti, dei precari, di chi
lotta per affermare la propria natura sessuale. Senza Marx e Lacan non
esisterebbero i suoi lavori e mancherebbe anche quell’idea di militanza
volta a cambiare il mondo. La continua ricerca di azione si fa richiesta
di senso e Marx, in particolare, è un grimaldello per leggere e interpretare
le grandi contraddizioni del capitalismo contemporaneo.
Quando guardiamo agli esempi italiani, invece, la rabbia e la partecipazione
collettiva hanno lasciato il posto al narcisismo, al guizzo, o
alla solitudine di chi sa, come Pasolini, ma non è più interessato ad
agire. Anche quei testi percorsi da un’urgenza militante restano episodici,
o sublimati: un tentativo spurio che forse manifesta meglio degli
altri la difficoltà degli intellettuali italiani di occuparsi del mondo. Ma
forse una spiegazione potrebbe stare nel fatto che la critica militante,
in Italia, non è riuscita a perpetrare quel mandato che esercitavano
(anche se già in modo contraddittorio e tutt’altro che lontani da una
condizione di crisi) autori come Fortini e Pasolini. Intellettuali schiera-
21 U n intervento conciso ma efficace sugli effetti della crisi delle discipline letterarie
sul discorso critico è quello di Evan R. Goldstein, The Death of Literary
Studies, «The Cronicle of Higher Education», April 11, 2008, vol. 54, p. 31. L’autore
si concentra soprattutto sull’ansia della novità e dell’attualità che caratterizza molte
ricerche contemporanee nel campo della critica letteraria.
22 Cfr. Luca Doninelli, Il crollo delle aspettative. Scritti insurrezionali su Milano,
Milano, Garzanti, 2005.
[ 13 ]
184 valentino baldi
ti politicamente e convinti che la letteratura appartenesse ad «un rango
superiore rispetto alla cronaca e alla riflessione su di essa»23, come
scrive Donnarumma in Ipermodernità. Viviamo, ci spiega Eagleton, in
un momento di passaggio che sembra poter fare del tutto a meno della
critica, e anche della letteratura24: la stagione della cultural theory che
ha prodotto le opere di Foucault, Derrida, Barthes e Jameson, si è
esaurita. Teoria e critica della letteratura hanno perso quel supporto
fondamentale che le ha rese protagoniste nei movimenti di rivolta degli
anni Sessanta e Settanta.
5. Tutti i lavori citati condividono la presa d’atto della crisi definitiva
della critica letteraria tradizionale. Nonostante le differenze nelle
argomentazioni e nella postura, gli autori dimostrano la necessità di
evadere dal contesto letterario per dedicarsi ad analisi sociologiche,
antropologiche e filosofiche. Lessico e strumenti restano quelli della
critica tradizionale, ma l’equipaggio sembra aver abbandonato la nave
che affonda. I testi di “Solaris”, “Humboldt” o “Contromano” dicono
molto da un punto di vista simbolico: sono una fotografia di quanto
la critica letteraria sia diventata un terreno che non interessa più
nemmeno a chi si è formato entro i suoi confini. Se l’obiettivo è quello
di pronunciare una parola che possa essere ascoltata, le “scienze umane”
hanno surclassato la critica, che scienza non è mai stata, ma esercizio
dialogico, empirico e aperto, come nota Giglioli nel suo saggio
sulla crisi della critica25. È evidente che il critico si trovi, oggi, nell’impossibilità
di rivolgersi alla collettività. E non mi riferisco solo alla
scarsa presa che il suo lavoro può avere sul pubblico, quanto alla difficoltà
di parlare a nome di qualcuno. Il senso del saggismo, che della
critica è stato lo strumento principale, è stato proprio questo: rifuggire
dal discorso delle autorità trascendentali per fondarsi sugli strumenti
della ragione ed influenzare il mondo. Oggi è rimasto l’aspetto individuale,
ma si è smarrito il collegamento con la comunità, da qui lo sviluppo
di personaggi-io che si realizzano esclusivamente sul piano pri-
23 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea,
Bologna, il Mulino, 2014, p. 16.
24 Sulla condizione della cultura contemporanea, definita attraverso l’etichetta
storiografica (non priva di sfumature valutative) di “bassa modernità” si veda
Thierry Tremblay, Frontières du sujet. Une esthétique du déclin, Paris, L’Harmattan,
2015.
25 D. Giglioli, Oltre la critica, cit.
[ 14 ]
commemorazione definitiva del personaggio-critico 185
vato26. Eppure il personaggio-critico resta in scena. Quella mossa narrativa
che ho rilevato in tutti gli esempi citati è un sintomo di quanto
gli autori cerchino ostinatamente un contatto con il pubblico. È vero
che questa mossa si inceppa spesso senza produrre uno scarto sostanziale,
ma è tutt’altro che priva di interesse.
6. Il titolo di questo saggio ricalca quello di un famoso saggio di
Giacomo Debenedetti: Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo27.
È possibile che una commemorazione della critica militante contemporanea
rischi davvero di essere definitiva se vuole rimanere attendibile.
Eppure, proprio da un autore come Debenedetti si potrebbe
ripartire per riconsiderare alcune caratteristiche della militanza. Il
problema più grave, oggi, non è quello di un pubblico che ha smesso
di ascoltare, ma quello di una critica che, pur di coinvolgerlo, è pronta
a trasformarsi in pura seduzione, disconoscendo le proprie responsabilità.
Perché, nel deserto che spesso è associato alla contemporaneità,
c’è ancora spazio di manovra. C’è, per prima cosa, un bisogno di qualità
e quando un discorso è fondato l’attenzione generale sembra rianimarsi.
Il problema che emerge da tutti i testi analizzati fin qui non
sta nell’aspetto privato, ma nella difficoltà di passaggio dall’io al noi.
La letteratura è sempre stata discorso sull’Altro, territorio in cui, nei
secoli, gli uomini si sono confrontati per capire che cosa significa essere
umani. Il primo compito della critica è di riscoprire questa caratteristica.
Perché l’uomo non può smettere di interrogare la realtà e soprattutto,
direbbe Francesco Orlando, il suo negativo. I critici letterari
hanno la responsabilità di riprendersi questo spazio che altre discipline
continuano a reclamare. Ed è necessario farlo a partire dal testo, il
primo terreno di confronto con l’alterità. La fusione fra narrativa e
saggistica potrebbe essere importante per parlare dell’uomo, ma non
debba costituire il pretesto per il venir meno della responsabilità.
L’auto-fiction, di cui ha parlato approfonditamente Donnarumma in
Ipermodernità, è una postura comune tanto ai romanzieri quanto ai critici
e sempre più spesso assistiamo alla produzione di opere uniche,
non completamente romanzi, non esattamente saggi. Scritti pieni di
26 Anche se partito da presupposti diversi, il senso di questo lavoro sembra
coincidere con l’idea espressa da Carla Benedetti, che distingue fra critica e critici,
impuntando a questi ultimi un tradimento del proprio mandato: cfr. C. Benedetti,
Il tradimento dei critici, cit.
27 Giacomo Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, in
Id., Saggi, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1281-1322.
[ 15 ]
186 valentino baldi
limiti, ma che segnano anche un movimento più generale e che potrebbe
dare frutti di estremo interesse. A partire dall’uomo, o meglio
dal personaggio-uomo, che potrebbe salvare la letteratura facendoci
dimenticare il personaggio-io.
Valentino Baldi
Università per gli Stranieri – Siena
[ 16 ]
Giuseppe Chiecchi, Nell’arte narrativa
di Giovanni Boccaccio, Firenze, Leo
S. Olschki Editore, 2017, pp. 236.
Giuseppe Chiecchi si pone l’obiettivo
di esplorare l’opera narrativa di
Giovanni Boccaccio, sia dal punto di
vista formale sia dal punto di vista
contenutistico. Il libro è nuovo, ma
l’autore sottolinea che esso è collegato
al precedente (Dante, Boccaccio l’origine.
Sei studi e una introduzione, Firenze,
Olschki, 2013) e che il primo e
il terzo capitolo riprendono, sviluppandoli
e approfondendoli, due articoli
passati. Si susseguono, preceduti
da una «quasi-premessa», sette capitoli
che affrontano altrettante questioni,
ripercorrendo l’intera parabola
artistica dagli esordi boccacciani,
con un occhio di riguardo per il Decameron.
Il tema che li accomuna è sempre
quello della parola, intesa come
grande potenza creatrice, a condizione
che sia scritta o pronunciata da
veri intenditori. La scrittura di Boccaccio,
emanando una grande cultura
di origine tanto occidentale quanto
orientale, si confronta sempre con
la tradizione precedente o contemporanea,
ma innovandola dall’interno
e giungendo, così, a zone narrative
inesplorate.
Nella premessa, breve ma ricca di
contenuti, Chiecchi sostiene in particolare
che «la narrativa di Boccaccio
è una esplorazione del mondo; essa
stessa è un mondo da esplorare» (p.
XIII). Bisogna accostarsi a un testo
con umiltà, consci del fatto che non è
mai possibile una lettura definitiva,
perché è sempre presente l’obbligo
della rilettura.
Il primo capitolo analizza il genere
epistolare per Boccaccio. L’esilità del
suo epistolario (ci sono arrivate meno
di trenta epistole) è compensata
dalla frequente presenza di lettere
nelle sue opere. Il percorso delineato
sottolinea i punti di contatto e di innovazione
effettuati dalla sua penna
rispetto alla tradizione e alla retorica,
partendo però dal concetto che l’epistola
è sempre intesa come «dialogo
in absentia» con potere consolatorio
(p. 5). In particolare, nel panorama
boccacciano, essa nasce per dare sfogo
a sofferenze d’amore insorte a
causa della lontananza tra i due
amanti: l’assenza genera il desiderio
che si tenta di colmare attraverso la
scrittura. Chiecchi registra, come caratteristica
ricorrente, il fatto che non
siano mai riportati i veri e propri testi
delle lettere, ma che la corrispondenza
sia inserita negli ingranaggi
Recensioni
188 recensioni
della narrazione, all’interno della
trama oppure nelle zone paratestuali.
Fondamentale è la constatazione
che è proprio la capacità, o meno, di
impiegare la parola a stabilire la permanenza
o l’espulsione del mittente
e del destinatario dalle vicende narrative,
ma soprattutto dall’esperienza
di fin amor.
Nel secondo capitolo si visitano
giardini e paesaggi, osservando la loro
evoluzione dal Filocolo al Decameron,
con l’obiettivo di approdare al
«giardino d’inverno» (Dec., X, 5),
cioè a quello che l’autore del libro definisce
«estremo approdo del pensiero
autoriale […] sul rapporto tra parola
e natura» (p. 41). In generale, il
giardino differisce dal paesaggio, per
due motivi sostanziali: il primo consta
del fatto che esso si configura
sempre come un locus amoenus eternamente
primaverile, costruito artificialmente
sugli stessi topoi, ma combinati
tra loro in maniera diversa; il
secondo si riferisce al fatto che per
Boccaccio il giardino è sempre generatore
di parola. La rappresentazione
di questo raggiunge la sua definizione
più alta nel capolavoro, perché
appare conscia della propria artificialità.
In particolare, Chiecchi pone
l’attenzione su una novella, nella
quale attraverso parole magiche fiorisce
un giardino in pieno inverno,
perché è emblematica della narrativa
boccacciana: la parola crea e, dunque,
il giardino è «area creata dalla
affabulazione» la quale «combacia
con l’area della affabulazione e ne
condivide la differenza rispetto al
determinismo del reale» (p. 89).
Il terzo capitolo analizza l’Elegia di
madonna Fiammetta, con la consueta
attenzione alle influenze, in particolare
dantesche, esercitate sull’opera e
le conseguenti trasformazioni messe
in azione da Boccaccio. Ciò che colpisce,
innanzitutto, è la modernità di
Fiammetta. Essa non è solo un personaggio
agente, ma incarna la prima
persona, femminile per di più, che
scrive e racconta, scissa dalla voce
dell’autore in ogni luogo della narrazione,
anche nel Prologo, cioè «la zona
autoriale per eccellenza» (p. 99):
in ogni caso, un forte punto di contatto
tra i due consiste nell’erudizione
e nell’eloquenza. L’indipendenza,
aggravata dalla malattia psichica, la
conduce a inevitabili contraddizioni:
la più importante consiste nell’approdo
a riferimenti mitici, verso i
quali aveva promesso di distanziarsi
nell’esordio, con lo scopo di far
emergere la sua singolarità. Il genere
scelto, l’elegia, rispecchia bene la vicenda
della protagonista, la quale
vive più di parole che di fatti: emblematico,
sostiene Chiecchi, è proprio
il fallimento del suicidio.
Il quarto capitolo porta alla luce la
grande potenza creatrice della parola
di Boccaccio, anche quando applicata
al cosiddetto«campo ristretto del
narrare» (p. 133).
Vengono presi in esame tre casi
particolari all’interno del Decameron
per far emergere l’abilità narrativa
dell’autore certaldese anche in contesti
spaziali e/o temporali limitati: il
primo riguarda la peste, la cui narrazione
è racchiusa nei confini della
città di Firenze; il secondo concerne
la novella di Andreuccio da Perugia
(II, 5), la cui azione si concentra nella
brevità di una notte; il terzo e ultimo
caso risiede tra le mura della stanza
di Ghismonda (IV, 1), nel cui ristretto
campo visivo si stagliano prima una
breve fase di azioni e poi una distesa
fase di parole.
recensioni 189
Gli ultimi tre capitoli del libro, di
minore estensione rispetto ai primi
quattro, propongono ciascuno una
diversa e innovativa questione decameroniana,
sviluppata con l’ausilio
di una novella.
Il quinto capitolo affronta l’evoluzione
narrativa che conduce dalla
novella di Baligante (Novellino, LXII)
a quella di Masetto (Dec, III, 1). Boccaccio
parte dalla fonte, ma la innova
giungendo a trasformare la colpa del
suo protagonista «in azione virtuosa
» (p. 180), in quanto agisce dando
sfogo alla naturalità degli impulsi e
degli eventi. Chiecchi sottolinea la
capacità della parola di poter fronteggiare
qualsiasi evento reale, anche
quello più osceno, senza pudore.
Nel sesto capitolo riemerge la figura
di Fiammetta, ma con una funzione
diversa in quanto si osserva la sua
presenza napoletana o fiorentina nel
corso della letteratura boccacciana.
In particolare, nel Decameron, pur appartenendo
a Firenze, la donna si richiama
costantemente a Napoli e
dintorni: nel caso della prima città
con la presenza, nel caso della seconda
con la memoria. Non è un caso,
dunque, il fatto che mostri di «prediligere
il racconto napoletano, a partire
dalla novella di Andreuccio» (p.
193): le novelle raccontate riflettono
dunque i caratteri del suo personaggio
emersi nelle opere precedenti, in
particolare nell’Elegia. Ed è sempre
Fiammetta a raccontare la novella
napoletana di Ricciardo e Catella
(Dec., III,6), della quale è offerta
un’analisi accurata che insiste sul
concetto dell’importanza dell’esperienza
dell’amor cortese.
L’ultimo capitolo del libro porta
alle estreme conseguenze il concetto
della parola creatrice, attraverso la
novella di maestro Simone (Dec.,
VIII, 9), la quale presenta forti segni
metalinguistici. In primo luogo si
nota la forte sproporzione tra l’abbondanza
della parola e l’esiguità
dell’azione: è la prima che costruisce
la beffa, elaborata da Bruno e Buffalmacco,
i quali, sebbene siano socialmente
e culturalmente inferiori al
medico, sono superiori in eloquenza
grazie alla consapevolezza del potere
offerto dalla lingua madre fiorentina.
Erika Dumas
Carlo Vecce, La biblioteca perduta. I
libri di Leonardo, Roma, Salerno Editrice,
2017, pp. 214.
Carlo Vecce, filologo e studioso del
Rinascimento, completa con questo
volume la biografia intellettuale del
grande artista e scienziato da Vinci.
Ricostruendo, accanto agli studi artistici
e scientifici, gli interessi letterari,
retorici e linguistici di Leonardo, il
Vecce offre la figura di un umanista
interessato alla musica, alla poesia e
alla letteratura, in generale alla scrittura
e alla comunicazione.
Il volume, dopo la Premessa e il
Prologo – dal brillante sottotitolo
analogico, I libri di Prospero1, che introduce
il lettore alla biblioteca selecta
e itinerante vinciana –, si svolge
attraverso dodici capitoli, dai titoli
1 Nell’intervista di Sergio Caroli a
Carlo Vecce, sul «Giornale di Brescia», 28
maggio 2017, p. 36, l’Autore spiega «il
nesso» che lega il film di Peter Greenaway,
che interpreta La tempesta di Shakespeare,
alla biblioteca di Leonardo.
190 recensioni
significativi, molti dei quali riprendono
sintetiche espressioni di Leonardo.
I saggi, elaborati con un’ampia
documentazione e col consueto
acume filologico e critico dell’Autore,
si leggono con interesse e piacere
grazie all’eleganza e alla essenzialità
della scrittura.
A breve distanza dalla pubblicazione
delle Battaglie di Leonardo (Firenze
2012) e di Leonardo: favole e facezie
(Novara 2013), l’ultimo libro di
Vecce risulta prezioso per l’attenzione
al dibattito culturale nell’area artistico-
scientifica e umanistica di Firenze
nella seconda metà del Quattrocento,
con nuovi dati, riscontri e
precisazioni. È molto avvincente per
il contributo su Leonardo in cerca di
libri filosofici, grammaticali e letterari,
interessato a diventare scrittore, a
praticare cioè la scrittura accanto
all’oralità. L’artista e scienziato vuole
migliorare la scrittura epistolare e,
soprattutto, potenziare l’arte della
«confabulazione» (pp. 139-140). Attraverso
le dodici stazioni del viaggio
esplorativo, e insieme creativo, di
Vecce è facile seguire l’evolversi degli
interessi di Leonardo, che programma
e coordina le sue letture,
seleziona e costruisce unabiblioteca
in funzione delle proprie esigenze di
conoscenza, lasciandone le tracce attraverso
elenchi, schede, appunti e
brevi ma frequenti citazioni.
I capitoli-saggi di Carlo Vecce, intensi
ma agevoli, appassionano sia
chi studia le opere d’arte di Leonardo
e vuole indagare sui suoi rapporti
con i pittori e i teorici delle arti figurative
del tempo, sia chi si occupa
delle scoperte scientifiche della seconda
metà del XV secolo, in particolare
della meccanica, dell’astronomia
e dell’anatomia. Tuttavia, gli esiti
della ricerca di Vecce incuriosiscono
soprattutto per la ricostruzione filologico-
critica delle letture umanistiche
dello scienziato, per l’interpretazione
convincente della scelta che
Leonardo fa degli altori antichi e moderni.
Leonardo è radicato nella cultura
del proprio tempo ma è anche
proiettato verso la modernità. E perciò
La biblioteca perduta, che «si basa
sulla disamina delle circa cinquemila
pagine dei manoscritti» (cfr. intervista
citata), sollecita nuovi dibattiti
sulla cultura scientifica, filosofica e
letteraria italiana, soprattutto fiorentina,
del secondo Quattrocento.
Insieme ai numerosi elenchi di
opere e di autori, Carlo Vecce prende
in esame le liste lessicali e gli appunti
grammaticali che si leggono sui
fogli all’inizio o alla fine dei codici
vinciani, sulle soglie liminari dei
quaderni. Soprattutto riflette sul metodo
di ricerca e di lettura di Leonardo,
andando così oltre i precedenti
contributi di Garin, Dionisotti e Marinoni2.
La biblioteca di Leonardo è
presentata come un organismo vivo
e unitario (cap. II, «Tutti et ciaschaduno
li libri»), mentre a essere scrutato è
anche il rapporto del maestro con i
suoi discepoli: Gian Giacomo Caprotti,
detto Salai, e Giovanni Francesco
Melzi, educato alla scuola
umanistica (p. 25 e ss.).
Carlo Vecce riporta gli elenchi in
cui compaiono e ricompaiono i nomi
di alcuni classici segnati da Leonardo,
interpretando di volta in volta le
ragioni delle sue scelte e delle successive
aggiunte, discutendo le motivazioni
dell’evolversi di certi interessi
specifici dell’artista umanista per
Plinio il Vecchio, Ovidio (le Metamorfosi
e le Eroidi), Livio, Giustino e Lucano
della Pharsalia, letta nella tradurecensioni
191
zione popolare fiorentina di Luca
Manzoli da Montichiello (p. 82).
L’affascinante lavoro filologico e
critico si perfeziona nello studio dei
classici della letteratura italiana del
Trecento cercati e letti da Leonardo, e
ancora degli umanisti a lui contemporanei.
L’Alberti, con il De pictura e
il De re aedificatoria, gli Apologhi e le
Intercenali, è il più importante autore
moderno per Leonardo. Dopo l’Alberti:
Marsilio Ficino, Poggio Bracciolini,
Angelo Poliziano, Lorenzo il
Magnifico.
Dalla ricerca di Vecce risulta che
Leonardo da Vinci era lettore attento
delle poesie di Petrarca e dei Trionfi,
conosciuti nell’edizione milanese del
1494. Viene fuori il consistente dantismo
dello scienziato, lettore e fruitore
del Convivio, di cui accoglie innanzitutto
la modalità di divulgazione
scientifico-filosofica, della Commedia
e della Quaestio de aqua et terra (p. 52).
Lo studioso prende atto che le opere
di Dante offrono al genio da Vinci
ampio materiale scientifico, cosmologico,
astrologico, cartografico e geografico,
che va a integrarsi con le
letture dei testi di Tolomeo, Alfragano
e di Thabit ibn Qurra (Tebit), con
le informazioni sugli antipodi provenienti
da sant’Agostino (De civitate
Dei, libro XVI) e soprattutto con le
conoscenze della Sfera di Giovanni
Sacrobosco e delle opere di Marsilio
Ficino. Vecce si compiace di raccontare
come la Commedia veniva letta e
interrogata, ai tempi di Leonardo, da
parte di artisti e ingegneri, evocando
«postille e disegni sul cambio di posizione
degli astri durante il viaggio
di Dante» (p. 48). Leonardo condivide
e riprende molte immagini del
Convivio e del poema dantesco, così
come cita spesso dall’Acerba di Cecco
d’Ascoli. In un elenco, sulla copertina
del Codice F, Leonardo cita «il
Dante di Nicolò della Croce» (p. 51),
probabilmente alludendo all’opera
dantesca avuta in prestito.
Per Vecce, Leonardo avrebbe ripreso
dal Paradiso di Dante il tema della
velocità dei cieli derivato dalla Meccanica
di Aristotele. Leggendo il canto
X del Purgatorio, il geniale pittore
sarebbe stato colpito dal concetto
estetico del «visibile parlare», divenuto
oggetto di riflessione teorica
per il rapporto tra pittura e poesia,
figurare e descrivere, realizzato in opere
come l’Ultima cena, l’Annunciazione,
il Ritratto di Ginevra. Anche il canto
XXV del Purgatorio, vv. 76-78 (e
Convivio, IV, 21, 6), sarebbe stato ben
noto a Leonardo per il tema della circolazione
dei fluidi, e, quindi, del
sangue. Infine, scavando nei significati
delle voci e del binomio «altore e
maestro», Vecce risale a Inferno, I,
185.
Molto interessante è pure l’attenzione
per Leonardo scrittore in prosa
e in versi, in particolare per il cantico
Lalde del sole, nel Codice F, che Vecce
confronta con i testi simili di Ficino
(De sole) e di Matteo Palmieri (Città di
vita, libro I, cap. XIX), e ancora con le
ottave 16-22 della Spera di Agostino
Dati e col primo inno del terzo libro
2 E. Garin, La biblioteca di Leonardo, in
«Rivista critica di storia della filosofia»,
26, 1971, pp. 331-332; C. Dionisotti,
Leonardo uomo di lettere, «Italia medievale
e umanistica», V, 1962, pp. 183-216; A.
Marinoni, La biblioteca di Leonardo,
«Raccolta vinciana», XXII, 1987, pp. 291-
342. Cfr. pure il volume miscellaneo
Leonardo da Vinci. Metodi e tecniche per la
costruzione della conoscenza, a cura di P. C.
Marani e R. Maffeis, Busto Arsizio,
Nomos, 2016.
192 recensioni
degli Hymni naturales di Michele Marullo
Tarcaniota (pp. 54-57). Lo sguardo
sul mondo dall’alto sarebbe stato
ispirato a Leonardo ancora da Dante;
e così pure la contemplazione della
terra dalla luna, fantasie e immaginazioni
che eccitavano il genio dell’artista,
attraverso le quali Carlo Vecce
coglie la meraviglia dello scienziato e
dell’assorto contemplatore3.
A Leonardo, che frequentava le
botteghe di artisti e la cultura popolare
toscana del Quattrocento, non potevano
non interessare la novellistica,
i romanzi, le facezie e i cantari. Ciò
spiega l’interesse per la narrativa in
prosa: l’Aquila volante attribuita a Leonardo
Bruni e il Novellino di Masuccio
Salernitano; e ancora la conoscenza
delle favole di Esopo, e soprattutto
del Morgante di Pulci e delle Facezie di
Poggio Bracciolini. Forse, proprio
l’interesse per la cultura popolare e
allegorica può spiegare la registrazione
di uno dei primi incunaboli del
Quadriregio di Federico Frezzi tra i libri
di Leonardo da Vinci nel 1495(cap.
V, Libri, persone, cose, p. 71).
L’esperienza umanistica di Leonardo
si compie non solo attraverso i
contatti con gli autori fiorentini e le
loro opere, ma anche attraverso le loro
traduzioni. L’artista si lascia guidare
da Luca Pacioli nella conoscenza
degli Elementa di Euclide, leggendoli
nella traduzione in latino (Venezia
1482) dell’umanista Giovanni
Antonio Campano (p. 88), che esercitava
il ruolo di mediatore tra la cultura
umanistica e la cultura volgare,
al pari di Landino, volgarizzatore di
varie opere, tra cui la Historia naturalis
di Plinio il Vecchio.
Ma lo scienziato da Vinci era interessato
anche alla Bibbia, alle prediche
e alle Vite dei Santi, ai Sermoni di
Agostino e ad altri libri religiosi che
attestano contatti col mondo ecclesiastico.
Così la convinzione, diffusa
nel tempo, che Leonardo fosse «omo
sanza lettere» viene del tutto smentita
dal volume di Carlo Vecce.
Concludendo, il libro, se apporta
contributi inediti alla ricostruzione
della biblioteca letteraria di Leonardo,
arricchisce pure il profilo della
sua cultura filosofica, scientifica, cosmologica
e teorico-artistica. Approfondisce
la contemplazione vinciana
della macchina del mondo secondo
la tradizione aristotelica, grazie alla
traduzione delle opere naturalistiche
del filosofo fatta da Giorgio Valla.
Siamo alla fine del Quattrocento,
circa un secolo prima della nuova filosofia
telesiana che segnerà il superamento
dell’aristotelismo. Il volume
La biblioteca perduta è utile anche
per chi studia la cultura filosoficoletteraria
meridionale di tardo Rinascimento,
per esempio la poetica naturalistica
di Sertorio Quattromani,
Giulio Cortese e, soprattutto, di Tommaso
Campanella, più convinto di
Ficino e di Leonardo della fine del
mondo e della palingenesi, di un ritorno
alla condizione originaria, attraverso
un processo ciclico di rinnovamento.
A differenza di Leonardo,
per il quale – scrive Carlo Vecce – «le
stelle sono segni e parole del grande
libro della natura» (p. 50), Campanella
è molto attento a osservare la
congiunzione delle stelle per prevedere
il futuro.
Anna Cerbo
3 Sono molto belle le pagine 56-61 che
commentano i tre versi sul primo foglio
del Codice K, c. 1r: «la luna è densa / ogni
denso è grave / come sta la luna?».
recensioni 193
Paolo Regio, Lucrezia, edizione, introduzione
e note di Anna Cerbo,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
2017, pp. 220.
Dopo ben oltre tre secoli dalla prima
stampa, la presente edizione ha,
preliminarmente, il pregio di riportare
l’attenzione su una tragedia il cui
argomento, la storia della Lucrezia
romana, al di là della citazione dantesca
e delle celebrazioni di Petrarca
e, soprattutto, di Boccaccio, è stato
oggetto di drammatizzazioni in ambito
non soltanto italiano, come precisa
Anna Cerbo nella esaustiva Introduzione.
E, nell’incipit proemiale,
Cerbo ricorda gli autori che riscrivono
(tra Cinque e Settecento) la vicenda
della moglie di Collatino, non tralasciando
di segnalare la Lugrezia romana
in Costantinopoli di Carlo Goldoni,
singolare parodia melodrammatica
datasi l’improbabilità di una
Lucrezia che non solamente non si
suicida ma si trasferisce in Turchia.
Pubblicata nel 1572 a Napoli, per i
tipi di Giuseppe Cacchi e dedicata a
Ferrante Carafa marchese di San Lucido,
personalità di spicco nell’entourage
culturale partenopeo, la Lucrezia
si affranca dalla rigida osservanza
dello statuto tragico che aveva segnato
la nascita/rinascita del genere
nei primi decenni del Cinquecento.
Per gli esiti raggiunti potrebbe attagliarsi
l’assunto di Tzvetan Todorov
quando afferma che «il canone è
marcato al tempo stesso dalla continuità
e dalla trasformazione incessante;
è sempre stato così, almeno
nella tradizione europea» (L’uomo
spaesato. I percorsi dell’appartenenza,
trad. it. Roma, Donzelli, 1997, p. 158).
Già dal Prologo, là dove Regio sottolinea
come i soggetti romani iconograficamente
rappresentati acquistino
maggiore intensità vitale se trasposti
in teatro, si decifra «il cammino della
drammaturgia nella seconda metà
del Cinquecento, la quale, confrontandosi
con le altre arti e con gli altri
generi letterari, cerca le sue regole e
le innovazioni che possano assicurare
vitalità allo spettacolo» (p. 13).
Fondamentali allora, in una prospettiva
teorico-critica, sono da ritenersi i
versi presenti nella Tragedia al lettore,
versi che siglano il testo e in cui l’autore,
assumendo il ruolo della tragedia
stessa, svela la consapevolezza
delle proprie novità: l’estensione del
tempo di azione a due giornate, la
visualizzazione del suicidio di Lucrezia
e l’immissione di ombre e divinità
(«[…] in me si scorgon fatti, /
ch’occupan di due giorni il tempo
lungo, / cosa da lo stil tragico lontana;
/ over ch’in scena occidere si
veggia / Lucrezia, fuor de l’osservanza
greca; […] e ch’ombre, Furie e
Dèe venghino in scena», vv. 8-14).
Opportunamente, Cerbo rileva la
non originalità di una dolce morte in
scena rammentando il precedente
dell’Orbecche di Giraldi Cinzio che
mostra l’omonima protagonista nell’atto
di togliersi la vita di fronte alla
Nutrice: una scelta affermata da Giraldi
nella prima edizione della tragedia
(1543). Ancora in veste della
Tragedia al lettore, Regio enuncia la
sua poetica fondata su di un «classicismo
aperto e fecondo» riformulando
i principi di invenzione e imitazione
e rifiutando «la cieca e sterile
imitazione dei modelli classici, non
la vera imitazione che consiste in un
modo nuovo di seguire l’esempio
della natura o dell’arte […]. Questa
imitazione è senz’altro invenzione, è
senz’altro espressione dell’originali194
recensioni
tà dello scrittore» (pp. 15-16). Concetti
anticipatori dei trattatelli Dell’imitazione
e dell’invenzione e delle Regole
per fuggire i vitii dell’elocutione di
Giulio Cortese, da quanto si riscontra
nell’introduzione dove si intersecano
sincronismi letterari e analisi
peculiari del testo nei più svariati
esiti e valenze. Così per la vicenda
dell’eroina romana si dibatte la problematica
del peccato commesso a
seguito di una violenza imposta, ossia
lo scarto tra «volontà intera o assoluta
e volontà relativa» (p. 32) e si dimostra
come la nozione di imitazione
dalla fonte liviana si apra a più
vicine suggestioni, configurandosi,
teologicamente e psicologicamente,
sul passo dantesco relativo a Piccarda
Donati.
Oltre a essere tragedia morale, Lucrezia
è tragedia «ideologica e giuridica,
politica e antimachiavelliana»
(p. 35). Per l’ultimo attributo, interessante
è la riflessione sul fatto che, già
a cominciare dall’identico nome delle
due protagoniste e dai loro antifrastici
comportamenti, Regio voglia
confutare la Mandragola. Sul piano
ideologico la visione politica di Regio
propone la figura di un principe
dalle virtù innate e non acquistate
con la pratica del potere, un principe
non forzato dalla legge bensì spontaneamente
rispettoso della legge. Cerbo
precisa che la tesi del rispetto delle
leggi verrà ripresa circa trent’anni
dopo da Giovan Battista Della Porta
nel Georgio (rammento che il re Sileno
vorrebbe infrangere l’editto da lui
stesso emanato, per non immolare al
terribile drago la figlia Alcinoe).
Un’esigenza, quella delle doti di cui
un principe dovrebbe fregiarsi, presente
nell’Istitutio principis christiani
di Erasmo e in consonanza con l’ideologia
politica controriformista («l’armonia
uomo-Stato potrebbe realizzarsi
sulla terra nell’ipotesi di un
principato sotto la guida di Santa
Madre Chiesa», p. 41) ma per la quale
viene rimarcata la consapevolezza
da parte di Regio di appoggiarsi a
delle utopie, datasi la discrasia tra gli
ideali propugnati e il progredire delle
spinte tiranniche. Risulta chiaro
che Sesto Tarquinio simbolizza il tiranno,
che Sesto Tarquinio personifica
la tematica dell’adtemptata pudicitia
(p. 49), evidenziata nell’incontro
con la matrona romana (atto II, sc. 4)
tramite scambi di battute cadenzate
su oculati accorgimenti retorici mirati
a sottolineare, da un lato, le arti irretenti
dell’uomo e, dall’altro, l’alta
eticità della donna. All’unico dialogo
tra i due, e momento clou dell’atto,
seguono i commenti del Servo (di Sesto
Tarquinio) e di Camilla («donna
di Lucrezia»), il primo in cerca del
padrone e la seconda che ha intuito
le mire del patrizio, salvo poi immediatamente
smentirsi pensando
all’azzardo insito nell’attentare alla
virtù della consorte di Collatino. Il
«Choro» delle «donne romane» sigla
l’atto esaltando i pregi dell’onore e
invitando a imitare Lucrezia. Il Coro
chiude con versi premonitori del
perpetrato oltraggio quando, avvertendo
del sopraggiungere di un personaggio,
ipotizza si tratti di Sesto
Tarquinio («Forsi Sesto, che stassi /
dentro, mostrato s’è fuor de l’honesto,
se non m’inganna il suo parlare,
e il volto», vv. 517-519). In apertura
del terzo atto, è il Messo, in un interscambio
dialogico con il Coro, a narrare
quanto accaduto fuori scena, secondo
la lezione del dettato liviano:
dopo le infruttuose lusinghe e minacce
di Tarquinio, Lucrezia ha cerecensioni
195
duto all’infame ricatto per non infangare
la propria memoria. Sino all’epilogo,
dalla sottolineata vista del
suicidio, Regio porta avanti il suo
impegno ideologico affidandosi, sulla
base della collaudata prassi attinente
alla tragedia, pure al monologo.
In particolare degni d’essere rimarcati
sono quelli di Bruto (atto IV,
sc. 3) e di Collatino (atto V, sc. 1) che
comprovano il convergere del platonismo
umanistico «in una nuova visione
del mondo e della storia, che
utilizza il razionalismo aristotelico e
controriformistico per affrontare una
situazione sociale e politica certamente
non facile» (p. 19).
Nel corpus delle opere di Paolo Regio,
la drammatizzazione dell’eroina
romana precorre le imponenti biografie
di sante dell’Historia catholica e
del poema spirituale Sirenide, dovuto
anch’esso alla cura di Anna Cerbo
(2014). Resta da aggiungere che l’edizione,
arricchita dalla riproduzione
integrale dell’esemplare del 1572, è
corredata da un ricco apparato di note
organizzate, al pari dell’introduzione,
in ricorrente dialogo con la
tradizione letteraria intesa in ampia
accezione.
Paola Trivero
Gianni Oliva, D’Annunzio. Tra le più
moderne vicende, Milano, Bruno Mondadori,
2017, pp. 208.
Gianni Oliva, considerato uno dei
maggiori specialisti dell’Ottocento
italiano, ha dedicato numerosi lavori
a Gabriele d’Annunzio, curandone –
assieme a Giovanni Antonucci – anche
tutti i romanzi, novelle, poesie e
teatro. Esce adesso questo volume –
assieme ad un altro delizioso libretto
dannunziano per la collana Grandangolo
del «Corriere della Sera» –
che fa il punto con acume e intelligenza
sulle “più moderne vicende”
(da una lettera a Emilio Treves) con
cui lo scrittore abruzzese entrò in
contatto: dalla macchina, all’aereo
(ribattezzato velivolo), senza trascurare
il cinema, il teatro sperimentale,
lo sport, il gusto per la moda, per citare
solo alcune delle sue mille inclinazioni.
È noto, infatti, che d’Annunzio,
fedele al detto «O rinnovarsi o
morire», fu sempre interprete attento
della modernità, arrivando ad utilizzarne
tutti gli stimoli possibili, sempre
proteso com’era ad un costante
sperimentalismo che gli permetteva
di assimilare una varietà di suggestioni
artistiche.
Nella Premessa Oliva fornisce una
chiave interpretativa di questo libro
composito, un fil rouge che attraversa
tutti i capitoli: d’Annunzio, intuendo
che «la mentalità positivistica [ha
screditato] “l’officio dello spirito”»
(p. 1), riducendo le esigenze umane
all’utile, vi ha sempre opposto un’incrollabile
fede nella Bellezza, unica
in grado di salvare la realtà dalla barbarie
e dalla distruzione (e non sarà
certo un caso che Oliva abbia dedicato
il saggio ai propri cari, ammonendoli
a non perder «mai i sentieri della
Bellezza»). Dunque, l’arte dannunziana
non è evasione, poiché «il potere
accordato alla parola e l’attenzione
quasi maniacale alle forme pregiate
erano vissute da lui come modelli da
offrire ad una contemporaneità gretta,
bisognosa di iniezioni di leggerezza,
di una poesia vivificatrice e formatrice
della persona» (p. 2). E se loda
la macchina è comunque convinto
che «la forma segue la funzione, cioè
196 recensioni
la bellezza si accompagnerà maggiormente
alla sua efficienza» (p. 3).
Inoltre, poiché vita e arte rappresentano
un indissolubile connubio,
d’Annunzio sarà impegnato ad esercitare
la sua attenzione («Tutto parla
all’attenzione», si trova scritto in un
appunto) sui fenomeni del proprio
tempo, non ultimo il giornalismo e
l’editoria (su quest’ultima verte il capitolo
sulla corrispondenza con Treves
che offre anche uno spaccato sulle
strategie di vendita dannunziane).
Il capitolo con cui si apre il libro è
dedicato all’ironia e alla malinconia
dannunziane, due inclinazioni che
sono in contrasto con l’immagine accreditata
dalla tradizione. D’altra
parte, Oliva è abituato a fornire al
lettore nuove chiavi interpretative:
già nel 2007 con il volume D’Annunzio
e la malinconia aveva proposto un
inedito quanto sorprendente ritratto
di un uomo ripiegato su se stesso,
tutto pervaso dall’inarrestabile dissolversi
delle cose e dall’idea della
morte. L’ironia dannunziana è lieve,
sottile, leggera ed è forse per questo
che fino ad ora non era stata sufficientemente
colta, oscurata dai tratti
più artificiosi, solenni e talvolta
pomposi del suo stile declamatorio.
Gli esempi sono forniti dall’Oliva
con dovizia, ma basti solo analizzare
il nomignolo con cui firmò alcune
delle sue cronache mondane: il Duca
Minimo, che alludeva alla sua condizione
di diseredato dalla famiglia del
Duca di Gallese di cui aveva sposato
la figlia. Ed anche quando, durante il
suo tirocinio giornalistico, registrava
fedelmente il bel mondo capitolino,
fatto di eleganti pagine sulla moda,
«restitui[va] non senza il filtro dell’ironia
un mondo elegante e cosmopolita
nella consapevolezza che quello
stato di cose finisce per aprire le strade
dell’apatia e dell’abbandono» (p.
16). Quel lusso ostentato, quel vivere
nel superfluo, nascondono insomma
un vuoto esistenziale che si cerca di
riempire.
La macchina è la modernità: d’Annunzio
la celebra come rischio, folle
corsa di uomini lanciati verso la morte,
sfida eroica e la pone al centro del
suo Forse che sì forse che no. Non solo
perché le prime pagine del romanzo
si aprono con la folle corsa in automobile
di Paolo e Isabella, ma perché
come nota Oliva la prosa è essa stessa
scattante, rapida; il lessico è una
girandola di termine tecnici, come ad
esempio cofano (termine già attestato,
ma che probabilmente doveva piacere
perché etimologicamente legato al
greco cóphinos, ‘cesta, forziere’ e che
quindi coniugava antico e moderno)
e sterzo. Ma nel romanzo è presente
anche velivolo che recupera velivolus,
attestato nei classici e riferito agli
animali, che designa l’aereo che diviene
per lo scrittore abruzzese lo
strumento con cui si può cambiare il
mondo. Nota giustamente Oliva, che
«da qui alla “milizia celeste” della
Grande Guerra il passo è breve: il poeta
dell’estetismo si è trasformato in
poeta combattente» (p. 38). Ed è proprio
sui rapporti con l’interventismo
che verte il capitolo successivo. L’angoscia
di vivere dannunziana, la sua
noia di vivere può essere vinta solo
dall’agone della battaglia. La guerra
diviene così evento rigeneratore,
«potenziamento dello spirito» (p.
46). Il capitolo delinea il percorso
dannunziano: dalla prima favilla (inviata
al «Corriere della Sera» già dal
27 luglio 1914) sino al discorso per
l’inaugurazione del monumento dei
Mille a Quarto, anche se, come nota
recensioni 197
l’autore, questi aspetti dello scrittore
abruzzese (il mito religioso del sacrificio
per la patria e della sacralità del
soffrire) «sono concetti molto lontani
dalla sensibilità contemporanea» (p.
53). Tuttavia – aggiungo – saranno
molto presenti nella propaganda nazionalistica
che di lì a poco trionferà
in Italia (e non solo). Inoltre, alcuni
modi e espressioni riscontrabili nei
discorsi dannunziani saranno presenti
nelle orazioni mussoliniane:
penso – ad esempio – al celebre discorso
di Quarto in cui è usato il ritmo
ternario al fine dell’enfasi oratoria
e o l’in- privativo per creare un
avversario per poterlo negare, o per
poterne contrastare la posizione (es.:
«per testimoniare agli immemori,
agli increduli, agli indegni»; per
Mussolini basti per il primo punto:
«credere, obbedire, combattere»; per
il secondo, termini come infallibile,
inobliabile, intangibile); oppure il ritmo
franto («Il fuoco cresce, e non basta.
Chiede d’esser nutrito, tutto
chiede, tutto vuole»; Mussolini: «A
Roma e in Somalia. In Italia e fuori»).
D’altra parte, se Mussolini era grande
comunicatore, prima di lui lo fu
d’Annunzio, la cui forza derivava
«dalla mirabile ricchezza, dalla delicatezza
e proprietà del linguaggio,
dall’arte finissima di dar valore ad
ogni parola, di dire le cose più comuni
come le più difficili in modo che vi
penetrano e vi s’imprimono nel cervello
» (p. 94, citato da De Amicis).
Inoltre, egli era attentissimo allo spazio
scenografico: così che se partecipava
a ogni fase del progetto teatrale
(era un moderno regista), tanto più
doveva esser scevra da ogni dilettantismo
la sua tribuna oratoria.
Se il giornale diviene strumento di
comunicazione di massa, d’Annunzio
ne sarà attento fruitore, anche
tramite le interviste, che furono per
lui un mezzo efficace di autopromozione
e di propaganda. Spesso anche
di libri ipotizzati e mai conclusi. Ma
persino questo, nota con assennatezza
Oliva, fa parte della modernità
dannunziana: così facendo lo scrittore
abruzzese incarna «la mania di
progettualità tipica dell’uomo moderno,
adducendo quasi l’impossibilità
a comporre se non rendendo
provvisorio ciò che egli produce» (p.
111). Gli altri capitoli si soffermano
sul linguaggio dello sport (qui Oliva
non si limita a rilevare le parole sportive
introdotte da d’Annunzio, ma –
spunto che a mio parere potrebbe
essere fertile per indagini successive
– si sofferma sul modo in cui il suo
linguaggio influenzò i giornali sportivi),
sull’anti-wagnerismo dannunziano
(e si scopre che la conoscenza
della produzione musicale antica gli
derivava da Rolland), sui rapporti
fra la sua Fedra e quella di Bozzini,
sull’amicizia con De Lollis e sull’amore
per la Duse (la fine del loro rapporto
fu così dolorosa che arriverà a
ispirare ancora molti anni dopo alcune
pagine del Libro segreto). A chiusura
del volume, due appendici. La
prima è incentrata sui carteggi e sugli
studi recenti del laboratorio che fa
capo al centro ASAM (Archivio Scrittori
Abruzzesi e Meridionali) e al
dottorato di ricerca “Lingua e Letteratura
delle regioni d’Italia” entrambi
con sede presso l’Università “G.
D’Annunzio” di Chieti. La seconda,
invece, riscopre una «dolce rimatrice
», ossia Lalla Vicoli Nada – quasi
del tutto sconosciuta – che nel 1905
pubblicò un libro di versi che ebbe
una lettera-prefazione di d’Annunzio.
Cosa rara, del resto, visto che era
198 recensioni
poco incline a presentare nuovi poeti
(in questo, era affine al maestro avverso
Carducci, il quale fra l’altro
amava ripetere che “Ai preti e alle
donne è vietato far versi”, salvo poi
cedere alle grazie di Annie Vivanti).
Quest’ultimo capitolo è prezioso,
inoltre, per comprendere il metodo
d’indagine di Gianni Oliva. Il quale,
infatti, non si è mai limitato a ripetere
ciò che altri avevano detto (avviene
oggi troppe volte), ma ha saputo
sempre rinnovare l’interpretazione
dannunziana, dandone nuova luce e
nuovi godimenti.
Claudio Mariotti
Raffaele Cavalluzzi, La crudeltà dello
scrittore, Bari, Progedit, 2017, pp.
126.
Il sofferto lavorio dello scrittore
che descrive la realtà mettendo spesso
in discussione il suo stesso io, il
suo narcisismo e la sua falsa coscienza:
questo il focus della fine analisi,
davvero sagace, condotta da Raffaele
Cavalluzzi in questo ultimo lavoro.
La spietata rappresentazione delle
cose e ancor più lo spietato rinnegamento
di un sentire non sempre in
accordo con il reale genera quella
crudeltà sofferta, quella condizione
di ricerca insoddisfatta. L’animo sensibile
delle scrittore vede disattese le
sue stesse percezioni di realtà che gli
appare mutevole, sfuggente, percettibile,
evanescente e, pertanto, brutale.
E quanto più il reale si discosta
dal sentire dello scrittore, tanto più
lo costringe a ispezionare la profondità
del proprio ingegno; quanto più
il reale si ribella alla sua percezione
sfocata, tanto più la pagina narrata si
contorce, acquistando vigore e forza
dirompente.
Quanto mai calzanti in proposito,
e vibranti, le parole di Lukács dei
Saggi sul realismo, citate nella Premessa
(La “crudeltà”: un’etica, un metodo,
una metafora): «Uno scrittore realista
della statura di un Balzac, quando
l’intimo sviluppo artistico delle situazioni
da lui riposte e delle figure
da lui create vengono in contraddizione
con i suoi pregiudizi più cari e
con le sue più sacre convinzioni, non
esiterà un istante a metterle da parte
e a scrivere ciò che egli vede in realtà.
Questa crudeltà di fronte alla propria
immagine soggettiva del mondo è la
più profonda etica letteraria del
grande realista, ben diverso in ciò
dai piccoli scrittori, i quali riescono
quasi sempre a conciliare la propria
concezione del mondo con la realtà
ossia a imporre quella alla immagine
corrispondentemente contraffatta e
alterata della realtà». La chiave per
addentrarsi nella moltitudine di personaggi
e fatti narrati della letteratura
italiana – a partire dai dolori
dell’Ortis fino ad arrivare a scrittori
della nostra modernità, in un divenire
polittico di saggi ed interventi – è
data proprio dall’abbandono di un
narcisismo improduttivo e dal distacco
da un risicato afflato narrativo.
Il bisogno di affermare il proprio
grido di dolore contro la società borghese
spinge Foscolo a reprimere nel
protagonista suicida del suo romanzo
i sentimenti di passione d’amore e
desiderio di libertà (Passioni e dolori
dell’“Ortis” di Foscolo).
Similmente nel tagliente pamphlet
sul costume dei connazionali Cavalluzzi
rileva che il poeta marchigiano
descrive con una straordinaria epica
negativa le attitudini e i comportarecensioni
199
menti del popolo italico, che con il
suo cinismo ed egoismo ha cancellato
il fermento intellettuale della
grande età dei lumi (Il “Discorso sopra
lo stato presente dei costumi degl’italiani”
di Giacomo Leopardi: preterizione e
no). Non resta che affidarsi alla grottesca
Weltanschauung cui si ispira l’universo
dentro e fuori di sé. A Leopardi
sembra salvifico ridere indistintamente
e abitualmente di ogni
cosa e di ognuno, partendo in prima
istanza da se stessi.
La riflessione di De Sanctis – alla
ricerca di un realismo sempre più cogente
e scarno, percepito soprattutto
tramite il romanzo zoliano, ma indagato
anche tramite un altro acutissimo
interprete del suo tempo: Niccolò
Machiavelli – approda alla prospettiva
di una nuova materia, che purtroppo
la morte sopraggiunta ha reso
chiara solo nell’intenzionalità del suo
enunciato (De Sanctis, l’arte e la scienza).
Il fine della vita umana, secondo il
critico, «si cerca nel fine della vita animale,
conservare e godere la vita».
L’arte è pensata come espressione della
tendenza verso un’originale animalità,
che spinge l’uomo a comportarsi
secondo leggi naturali, senza destare
troppa avversione o indignazione negli
occhi di un comune spettatore.
Il ritratto, poi, di due protagoniste
femminili del romanzo Mastro-don
Gesualdo, diversamente passionali,
mette in luce un Verga quanto mai
conservatore, benché attento osservatore
di una realtà sociale dominata
dal machismo imperante nella contestualizzazione
di un Sud postunitario
(La passione e il rifiuto. Bianca Traoe
Diodata protagoniste verghiane: corpi e
sentimenti). «Da Bianca a Diodata, –
scrive Cavalluzzi – un filo rosso lega
a un destino sociale sempre crudele
le protagoniste verghiane, e le stringe
solo in una solidarietà che equivale
alla pietas dell’Autore. Ma è una
solidarietà fatta di amore e scolpita
nel cuore e nell’immagine fisica, non
nella fortuna che la rifiuta».
Proiettato verso una crudeltà sempre
più moderna nei suoi ultimi
drammi, oltrepassando il limite di
un naturalismo dal sapore ottocentesco,
Pirandello tende a squarciare i
veli dell’ideologia e della retorica di
regime, di cui pure aveva subito il
fascino (“La nuova colonia” di Luigi Pirandello).
Nella Nuova colonia l’integrazione
sociale appare uno slancio
velleitario ed imprudente, quasi ossimorico,
per cui il sogno da perseguire
rimane quello della rigenerazione
della carne, che culminerà,
com’è noto, con Lazzaro, nel mito –
inquietante – della resurrezione. Il
saggio dedicato a Campana (Il viaggio
dell’anima e “La verna”) riveste il
poeta toscano di geniale problematicità
che si concretizza nella ricerca
religiosa, nel contempo necessaria ed
impossibile. Campana risulta, pertanto,
diviso tra nichilismo e squarciamento
dell’anima, tra una realtà
equivoca e un bisogno disperato di
afflato religioso. E l’inquietudine del
protagonista Giovanni Drogo de Il
deserto dei Tartari è la stessa del suo
scrittore, che intravede, in un suadente
divenire convulso e incerto, il
susseguirsi dei giorni, un incedere a
tentativi sulle lastre di un futuro in
fieri, che ha per ultimo traguardo la
morte, in una visione però pacificata
(forse cristiana o forse epicurea) del
mondo e delle cose (Tempo e angoscia
nel “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati).
Nel breve ma incisivo saggio dedicato
alla poesia di Vendola che
conclude la prima parte del libro
200 recensioni
(Vendola: la poesia, la passione), Cavalluzzi
mette in luce la caparbietà di
uno studioso appassionato dei nostri
tempi, prima ancora che politico di
caratura nazionale. Spesso si sono rilevati
gli aspetti della debolezza e
della sconfitta nei temi cari del Vendola
letterato, mentre – rileva il critico
– «è forse in virtù di una sorta di
nostalgia di futuro, che – direi, conservatrice
e rivoluzionaria a un tempo
– si abbevera alla fonte di Pegaso,
che il Vendola pubblico è capace di
riformulare spesso il lessico della politica
e di dare nuova vitalità alla parola
del singolo che comunica».
La seconda parte del volumetto si
articola in tredici interventi, snelli e
di delicata piacevolezza, ma sempre
di grande densità problematica, che
interpretano la difficile realtà che sottende
talune significative espressioni
letterarie di particolare interesse storico.
La trattazione dei romanzi di
Rea, di Fois, della Veladiano, della
Terranova, di Bianchi, di Bologna, di
Garlini, di Tonon, insieme ai racconti
di Anglani e agli inediti di Volponi –
recentemente pubblicati da Ferretti e
Zinato –, passando per la crisi dell’analogia
machiavelliana, per una introduzione
al “Discursus florentinarum
rerum” et autres teste politiques di
Niccolò Machiavelli, e per L’elogio
della polemica di Luigi Russo, definisce
una realtà abitata dal caos. Lo
scrittore, in questa epoca di forti richiami
ad un nuovo realismo, appare
oggi sempre più frastornato. La
crudeltà tra metodo e metafora, dal
sapore fortemente connotativo, nonché
letterario, sta forse lasciando il
passo ad una alternativa invereconda
tra narcisismo e masochismo.
Viviana Tarantino
Giulio Iacoli, A verdi lettere. Idee e
stili del paesaggio letterario, Firenze,
Franco Cesati, 2016, pp. 170.
Tra gli ambiti di ricerca più battuti
dalla critica contemporanea la geocritica
è quello in cui l’aumento
esponenziale della bibliografia, causato
dalla natura intrinsecamente interdisciplinare
del concetto di paesaggio,
ha creato un reticolo in cui,
almeno a un primo approccio, orientarsi
non risulta impresa semplice. In
questa sempre crescente “babele paesaggistica”,
come l’ha definita Michel
Jakob, sono dunque da accogliere
con grande soddisfazione questi
contributi raccolti da Giulio Iacoli. Il
volume è, infatti, l’ultimo tassello di
una lunga e proficua frequentazione
critica sul tema da parte dello studioso,
di cui, tra gli altri, è bene ricordare
anche La percezione narrativa dello
spazio. Teorie e rappresentazioni contemporanee
(Roma, Carocci, 2008) e,
come curatore, Discipline del paesaggio.
Un laboratorio per le scienze umane
(Milano-Udine, Mimesis, 2012). Oltre
all’evidente e mai scontato pregio
di porsi in maniera coerente all’interno
del proprio percorso di ricerca, il
principale merito dello studio risiede
nel tentativo di rilanciare alcune consolidate
linee interpretative, fornendo
altresì aperture e nuovi possibili
tagli di lettura.
Nella prima parte, di natura più
teorica, l’autore cerca di estendere alcune
linee di sviluppo post-romantiche
(proprio alle soglie romanticismo
si fermava l’analisi del fondamentale
Paesaggio e letteratura del citato
Jakob), recuperando alcune categorie
elaborate da Michel Collot in
Paysage et poésie du romantisme à nos
jours (Parigi, Corti, 2005), nella conrecensioni
201
vinzione che “tali cornici interpretative
ci consentono di vedere, là dove
perdurano con l’avanzare del secolo
nuovo moduli rappresentativi di formazione
naturalistica, anche i germi
di un nuovo atteggiamento anticanonico”
(28). Così Iacoli rilegge alcuni
paesaggi di Deledda e Tozzi, per
compiere successivamente alcuni
sondaggi nelle poetiche paesaggistiche
di Zanzotto e Jacocottet: “brevi
illustrazioni di traiettorie”, quest’ultime,
attraverso le quali l’autore cerca
“di dare voce a un’idea relazionale
di poetica, capace di illuminare, a
partire da luoghi marginali ma intimamente
coerenti, la più ampia intelaiatura
delle loro opere”, predisponendo
così le basi di “una teoria della
letteratura fondata, attenta ai dati
qualitativi, alle strutture percettive e
rappresentative che danno forma a
un paesaggio letterario” (65).
Sondaggi tematici sono altresì
quelli che, col terzo capitolo, aprono
la seconda parte del volume, in cui
l’autore riesce a districare la rete polimorfica
del paesaggio in alcuni autori
per così dire laterali. È il caso
della Sardegna di Sergio Atzeni, di
cui viene riletta diacronicamente la
produzione narrativa e pubblicistica,
sino a Il quinto passo è l’addio (1995),
dove si ritrova un paesaggio compiuto
e articolato; della “paesologia”
di Franco Arminio, oggetto del quarto
capitolo, che riprende la tradizione
del celatiano Viaggio in Italia in
“una convergenza poetica che, “mediante
l’ascolto approfondito dei
luoghi minori, mediante l’insistenza
su di una posizione centrifuga, porta
in piena luce la disarmonia della
condizione dell’intellettuale rispetto
al suo tempo, la valorizzazione della
poesia del residuale […], le contraddizioni
patenti del paese” (107); e,
nell’ultimo capitolo, la via Emilia, in
cui lo studioso, tornando su un interesse
a lui caro – a Gianni Celati e
Pier Vittorio Tondelli fu dedicata la
sua prima monografia e a Silvio
D’Arzo l’ultimo lavoro – prende in
esame le raffigurazioni della via
Emilia in Esplorazioni sulla via Emilia.
Almanacco 2016, a cura di Ermanno
Cavazzoni. In particolare, quest’ultima
raccolta, apparsa nel trentennale
della celebre e omonima Esplorazione
curata da Luigi Ghirri, diviene l’occasione
per misurare “i tratti insieme
straordinariamente somiglianti e irrimediabilmente
deformati” del
“modo di vedere Ghirri” (130), coscientemente
ripreso e attualizzato
da autori come Daniele Benati, Ugo
Cornia, Francesco Marsibilio, Sandro
Campani, Giulia Niccolai e Paolo
Colagrande, in cui si ritrova “il volto
letterario della regione, oggi, sospeso
fra la rielaborazione delle immagini
fisse ricevute in eredità e il compito
non agevole di trovare nuove vie alla
descrizione dei luoghi, stili spaziali
qualificanti” (161).
Da quanto delineato si può concludere
sottolineando la profondità e
acutezza teorica mostrata dal lavoro,
sulle quali si innestano le stimolanti
riletture della seconda parte, lasciando
il tutto molti spiragli aperti per
successivi e proficui sviluppi.
Salvatore Renna
Fabrizio Scrivano, Oggi il racconto.
Come resistere alla banalità dell’informazione,
Milano, Meltemi («Meltemi
Linee», 3), 2016, pp. 122.
Il saggio contiene un’indagine re202
recensioni
torica sulla comunicazione letteraria,
come interessante contributo in tre
direzioni: individuare un criterio
semplice e chiaro per prendere in
esame la pratica del racconto – che è
stata un tempo appannaggio della
comunicazione letteraria e da anni
invece pertiene anche ad altre forme
di comunicazione, verbali e non, dal
cinema all’informazione giornalistica
– e fondarne una epistemologia;
invitare la critica, nello scenario
odierno così mutato, a tentare di elaborare
strumenti di navigazione del
racconto non classificatori e fuori
tempo e adeguati a un contesto dove
la letteratura è solo una delle forme
di comunicazione e non è più neanche
quella egemone nella formazione
della coscienze, incalzata su più
fronti dal visuale e dall’informazione;
invitarla insomma a cercare di
fornire strumenti che orientino nella
comunicazione non per classificazioni
tradizionali, ma per fondamenti
epistemologici perspicui. Ma così,
questo studio della narrazione è un
sasso lanciato nello specchio d’acqua
della critica e, nel contempo, anche
una ciambella di salvataggio gettata
nel largo mare odierno del comunicare
alla letteratura, annaspante perché
messa alle strette da altre comunicazioni
verbali e visuali che usano
il raccontare.
L’autore propone difatti una epistemologia
della narrazione come
punto di partenza necessario a sottrarre
la narrazione letteraria al pericolo
di essere annichilita e confusa
con la narrazione commerciale e anche
coinvolta nelle sue regole comunicative
e sociali, per scongiurare il
rischio che il racconto sia mortificato
e banalizzato nell’informazione; che
è quello che per lo più sta già avvenendo,
con la letteratura coinvolta
nei meccanismi economici che la declassano
a fiera, spettacolo, divismo,
attrezzatura per il tempo libero, misconosciuta
e annientata non solo nel
suo statuto comunicativo, ma anche
nel ruolo materiale e sociale di formazione
della coscienza; e, con essa,
analogo è il presente e il futuro di chi
la letteratura la scrive e la studia. Il
libro punta il dito sul paradosso per
cui l’inedita visibilità della letteratura
e dei letterati oggi nei molteplici
canali di informazione non solo non
lascia ben sperare, ma sembra l’inizio
della fine, perché questo scenario
stravolge il letterario nelle regole di
conoscenza nell’informazione, ne
tradisce e uccide la peculiarità, e rischia
di sottomettere alla lunga la
letteratura all’informazione, cui la
apparenta la natura di linguaggio di
comunicazione e narrazione fatto di
parole, con il grave danno della perdita
irreparabile della coscienza. E Il
pericolo di confusione e assorbimento
in posizione «ancillare» (p. 8) e
neutralizzante è avvertito come non
di là da venire, ma già in atto.
Nella presa d’atto che la letteratura
condivide il campo della narrazione
con l’informazione e il campo della
sensazione con altri canali non scritti
e non verbali e ha «perso la sua cardinalità
mediatica» (p. 19), il volume
vuole approfondire la consapevolezza
del racconto, dell’atto del narrare,
delle sue forme, per restituire alla letteratura
quello che è della letteratura.
Nasce, dichiaratamente, mettendo a
frutto ciò che si è imparato insegnando.
La lezione implica una relazione
con l’altro, e, come ogni relazione,
modifica il soggetto emittente, non
solo il ricevente. È anche da qui che si
può partire per parlare di questo lirecensioni
203
bro sulla comunicazione letteraria
che si presenta in limine come un possibile
distillato – «il più asciutto possibile,
il più essenziale leggero» (p.
13), come un buon distillato dovrebbe
essere, ottenuto meditando sull’esperienza
di anni di lezioni sull’argomento
–; un primo frutto, primaverile,
di un raccolto più abbondante: «In
futuro, mi piacerebbe proporre il lavoro
nella sua interezza: una maggiore
esposizione ed analisi delle pratiche
letterarie, un confronto più esplicito
con la critica, una più articolata
discussione degli spazi in cui sia attiva
la comunicazione per mezzo delle
narrazioni e soprattutto una più precisa
figurazione dei compiti e delle
funzioni del racconto» (p. 13). Ma è
un frutto che ha una sua urgenza. Il
saggio muove difatti dalla constatazione
che nello spazio culturale
odierno la letteratura ha un campo
risicato, da un lato, dal mondo visuale,
dall’altro, soprattutto dall’informazione,
che tende a monopolizzare
«le abitudini e le attività di conoscenza,
di esperienza e di intrattenimento
» (p. 7) e rischia di divenire un linguaggio
dominante. L’autore argomenta
che la salvezza, una sopravvivenza
vitale e non sterile e fittizia,
può venire solo, come da sempre accade,
facendo i conti con l’esperienza
che cangia e dunque non alzando
barriere aprioristicamente rifiutanti,
ma accettando in una visione panottica
questa molteplicità di comunicazioni,
anche percepibile come aliena
e assediante. E questo non per creare
un tutto unificato in cui tutte le vacche
sono nere, ma, al rovescio, per
promuovere una distinzione epistemologicamente
fondata e, di conseguenza,
una forma possibile di coesistenza
degli «elementi contraddittori
o incompatibili» senza reciproco annullamento
(p. 9).
Dopo questa premessa metodologica
e militante (Esistere e raccontare, pp.
7-14), il libro individua, in base alla
relazione dell’atto del narrare con il
tempo e con la memoria – intesa, per
non deviare troppo dall’argomento,
essenzialmente come percezione di
un fatto nel tempo –, diverse cinque
pratiche di racconto e le discute, cogliendo
queste diverse forme di narrazione
in autori antichi e moderni,
italiani e stranieri (da Boccaccio ai
contemporanei e contemporaneissimi,
come Emmanuel Carrère e Claudio
Morandini; tornano, tra gli altri, e
più di altri, il Manzoni della Storia
della colonna infame e Sciascia, per aver
esperito pratiche di racconto cronachistiche
e storiche che più si prestano
a chiaroscurare la distanza dalla narrazione
commerciale sul suo stesso
terreno). Le cinque pratiche così individuate
sono la cronaca, intesa come
documentazione di eventi che non ha
e non vuole avere compiutezza; la
narrazione, definibile al rovescio come
organizzazione degli eventi in una
temporalità e in un senso; la storia, come
sistema di narrazione che ordina e
rappresenta gli eventi «affidando loro
qualche logica possibile» e con rigore
e accuratezza nell’«assunzione dei
fatti» (p. 61); il discorso, cioè la narrazione
che esplica una tesi o una evidenza;
la realtà, intesa come «finzione
poetica che si esprime nel racconto e
che lo condiziona» (p. 90).
Approfondendo la pratica del racconto,
la distinzione tra comunicazione
letteraria e commerciale qui
non passa attraverso la tipologia di
racconto esperita, ma nella relazione
di senso che la letteratura instaura
con il fatto. La letteratura è còlta nel204
recensioni
la sua essenza come rinnovarsi perenne
di una grande illusione, creazione
verbale di una realtà virtuale e
dei suoi oggetti – fatti, storia, opinioni,
giudizi – che forma la coscienza e
il significato della propria esistenza e
non è in questo mai sostituibile
dall’informazione e dalla comunicazione
commerciale, con cui la letteratura
pur condivide il mezzo, la parola,
e anche può condividere l’organizzazione
dei narrabili, servendosi
ora della cronaca e della documentazione
di eventi, ora della narrazione
di un possibile, ora della storia e
dunque del racconto di un esistente
o di un’esistenza, ora del discorso e
dunque la spiegazione di una evidenza,
della realtà e cioè dell’invenzione
di un mondo ipotetico. I singoli
capitoli ricercano i tratti fondanti
della comunicazione letteraria come
bisogno della coscienza di «registrare,
archiviare, documentare, esemplare,
elaborare, scambiare notizie»
su se stessa, con un riconoscibile
«modo di organizzare e di immaginare
il tempo» (p. 9) e la memoria,
qualunque cosa essa sia («questa
sensazione di cosa accaduta»). A latere,
questo, come si diceva, offre il
destro per proporre alla critica, di
«sforzarsi di elaborare dei criteri un
po’ più semplici e trasparenti, un po’
più distaccati, un po’ meno parziali e
classificatori» (p. 103), per affrontare
la narrazione letteraria oggi e riportarla
al centro.
Chiude il volume come Appendice
(pp. 105-120) una narrazione bibliografica
di letture che compongono il
mosaico del libro, cui ciascuna ha
contribuito con qualche tassello, con
qualche idea, non necessariamente
univoca, come a ribadire, con uno
sberleffo finale, che si può fare narrazione
di tutto, anche delle letture, e a
manifestare l’evidenza della pratica
del racconto a prescindere dal suo
oggetto; come a inverare che letteraria
non è la pratica del racconto, ma
una costruzione della coscienza che
nei fatti che narra trova soltanto «un
pretesto» e non il fine (p. 102), e che è
per questo ontologicamente il contrario,
viene da dire, di banalità.
Laura Diafani
LIBRI RICEVUTI
De Blasi Nicola, Saggi linguistici sulla storia di Napoli, Napoli, Società
Napoletana di Storia Patria, 2017, pp. 280.
De Blasi Nicola, Scugnizzo. Una storia italiana, Firenze, Cesati, 2017,
pp. 184.
Di Giacomo Salvatore, Lettere a Lionello Balestrieri, a cura di Patricia
Bianchi, Roma, Salerno editrice, 2017, pp. 164.
Il borghese fa il mondo. Quindici accoppiamenti giudiziosi, a cura di
Francesco de Cristofaro e Marco Viscardi, Roma, Donzelli, 2017, pp.
450.
In Verbis. Lingue Letterature Culture (Carocci editore), anno VII, n. 1,
2017.
La novella nel Veneto tra Settecento e Ottocento, a cura di Beniamino Mirisola.
Introduzione di Aldo Maria Costantini. Con un saggio di Gilberto
Pizzamiglio, Ravenna, Longo, 2017, pp. 166.
Maffei Giovanni, La passione del metodo. Le teorie, le poetiche e le narrazioni
di Federico De Roberto, Firenze, Cesati, 2017, pp. 376.
Manferlotti Stefano, Rosso elisabettiano. Saggi su Shakespeare, Napoli,
Liguori, 2017, pp. 190.
Oliva Gianni, D’Annunzio. Tra le più moderne vicende, Milano, Bruno
Mondadori, 2017, pp. 204.
Quaderno gozzaniano, a cura di Franco Contorbia, Firenze, Società
Editrice Fiorentina, 2017, pp. 140.
Sistemi, norme, scritture. La lingua delle più antiche carte cavensi, a cura di
Rosanna Sornicola, Elisa D’Argenio, Paolo Greco. Con la collaborazione
di Valentina Ferrari e Cesarina Vecchia, Napoli, Giannini, 2017, pp.
420.
Tesauro Emmanuele, La Tragedia, a cura di Maria Luisa Doglio, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2017 (Centro Interdipartimentale di Studi su
Pascal e il Seicento-Università di Catania), pp. 98.
CODICE ETICO
DI
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saggi se non dopo l’avvenuta pubblicazione.
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2. Revisori e loro doveri
Secondo la tradizione storica di «Critica letteraria» i Revisori sono anonimi;
essi scelgono uno pseudonimo con il quale firmano il giudizio, che è
reso noto ai membri del comitato direttivo-scientifico quando viene richiesto
ed in forma succinta all’Autore del saggio. Queste comunicazioni
sono affidate al Direttore responsabile della rivista.
I Revisori, pur ricevendo i files dei saggi privi del nome dell’Autore,
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l’esito della valutazione.
L’elenco delle corrispondenze degli pseudonimi con i cognomi dei Revisori
è in possesso del Direttore responsabile, che può renderlo noto solo
alle figure istituzionali incaricate della valutazione della rivista.
Nell’ultimo fascicolo di ogni annata il Direttore responsabile pubblica
sia sulla rivista cartacea sia sul sito telematico della rivista il referaggio
dell’anno concluso.
I Revisori anonimi, una volta accettato l’incarico, s’impegnano a espletare
il loro compito con obiettività, rispettando la metodologia dell’Autore
del saggio, e a consegnare al Direttore responsabile il loro giudizio entro
tre mesi dalla ricezione del file da valutare.
I Revisori s’impegnano altresì a non trasmettere ad altri i files ricevuti in
lettura e a distruggerli dopo aver esaurito il loro compito.
Il giudizio dei Revisori deve essere sempre accompagnato da una circostanziata
relazione con riferimenti al contenuto; sarà cura del Direttore
responsabile trasmettere poi all’Autore in forma succinta il giudizio solo
qualora esso fosse negativo.
I Revisori s’impegnano a non utilizzare i giudizi espressi sugli Autori dei
saggi per fini personali.
3. I collaboratori
Gli Autori dei saggi (definiti anche Collaboratori) s’impegnano a fornire
alla rivista «Critica letteraria» per la valutazione un prodotto originale,
di cui posseggono i pieni diritti editoriali, confermando che esso è inedito
e che non è stato inviato in lettura ad altre riviste contemporaneamente.
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per la redazione del proprio saggio. Pertanto l’Autore s’impegna a citare
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l’Autore s’impegna ad affidare al proprio saggio tutti i risultati della relativa
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alcuna preclusione alla diffusione del proprio risultato.
L’Autore nell’affidare il proprio lavoro alla rivista deve preventivamente
dichiarare se esso è stato presentato ad un Convegno; in caso affermativo
l’Autore s’impegna a concederlo per una eventuale pubblicazione degli
atti congressuali solo dopo tre mesi dalla pubblicazione in rivista.
Napoli, 20 dicembre 2014
Il Direttore Responsabile L’Editore
Prof. Raffaele Giglio Paolo Loffredo