Anno XLV (2017), Fasc. IV, N. 177

Anno XLV (2017), Fasc. IV, N. 177

  1. Saggi
    • ANNARITA PLACELLA

      «Vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende». Dante poeta-teologo e il modello paolino
      di visione e profezia
      – pp. 641-666

      Il costante misurarsi di Dante col paradigma paolino di visionario si rivela la chiave privilegiata per
      accedere alle strutture profonde della coscienza che Dante aveva delle modalità e degli scopi della propria
      visione. Nei riferimenti testuali alle visioni sulla via di Damasco e del terzo cielo si alternano, nel giro
      anche di uno stesso verso, consapevolezza della continuità e consapevolezza del ‘superamento’ di San
      Paolo.★Dante’s constant interest in the Pauline paradigm of the visionary proves vital for understanding the
      profound structures of his consciousness of the modes and purposes of his own vision. In the textual
      references visions on the road to Damascus and of the third heaven are accompanied, even within the space of
      a single verse, by the awareness of the continuity and of the “surpassing” of Saint Paul

    • ANNA RITA RATI

      Sul Canzoniere di Lorenzo Spirito Gualtieri – pp.

      La lettura delle rime d’amore di Lorenzo Spirito Gualtieri, fondata su una puntuale ricognizione degli
      autografi H 64 della Biblioteca Comunale “Augusta” di Perugia e 232 della Classense, attesta con tutta
      evidenza la loro connessione con il grande modello dei Fragmenta petrarcheschi. La fenomenologia amorosa che
      è al centro di esse prescinde però dalla sua struttura profonda, esibendo temi e stilemi ossessivamente
      ripetitivi. Si riproducono, a conclusione del saggio, cin-que sonetti del poeta.

      A reading of Lorenzo Spirito Gualtieri’s love poetry, based on the examination of the autographs H 64 in the
      Biblioteca Comunale “Augusta” in Perugia and 232 at the Classense, highlights its ties with the grand model
      of Petrarch’s Frag-menta. the amorous phenomenology at its core ignores however Petrarch’s structural
      complexity, manifesting obsessively repetitive themes and stylistic traits. the essay ends with five sonnets
      by the poet.

    • PATRIZIA CASTELLI

      «Theophrastus humanas affectiones depingere novisset». La crisi della teoria delle proporzioni:
      fisiognomica, caratteri, affetti
      – pp. 687-719

      Queste note riguardano la traduzione dei Caratteri di Teofrasto da parte di Willibald Pirckheimer, amico e
      consigliere di albrecht Dürer, a cui li dedica nel 1527, suggerendogli di illustrarli. a tal proposito ho
      ripercorso la storia della teoria delle proporzioni, della fisiognomica, dei caratteri e degli ‘affetti’ da
      le-on Battista alberti a Gian Paolo lomazzo per indicare il complicato intreccio delle proporzioni
      matematiche ai moti dell’anima che Dürer espone e rappre-senta nei trattati e nei suoi autoritratti.

      these notes concern the translation of theophrastus’ Characters by Willibald Pirckheimer, a friend and
      advisor of albrecht Dürer, to whom he dedicated the work in 1527, suggesting that he might wish to
      illustrate it. in this regard i have traced the history of the theory of proportions, of physiognomy and of
      “affec-tions” from leon Battista alberti to Gian Paolo lomazzo in order to show the complex intertwining of
      mathematical proportions and emotions that Dürer displays and represents in his treatises and in his
      self-portraits.1.

    • Alviera Bussotti

      Bivi tra accademia e corte. Ercole e la virtù nella Toscana di primo Settecento – pp.

      Il saggio evidenzia la persistenza dell’uso del paradigma, etico e retorico, della
      figura di Ercole al bivio nelle esperienze letterarie del Granducato di Toscana
      nel primo Settecento. Attraverso l’analisi di alcuni contributi di Antonio Maria
      Salvini in seno all’accademia degli Apatisti e del panegirico Il tempio della Virtù
      (1707) del meno noto Carlo Angelo Mazza, l’articolo ricostruisce la vitalità del
      ricorso alla favola di Prodico di Ceo e la sua lettura attualizzante.

      This essay highlights the continuing use of the ethical and rhetorical paradigm
      of the figure of Hercules at the crossroads in the literature of the Grand Duchy
      of Tuscany during the early Eighteenth century. By means of the analysis of
      several contributions by Antonio Maria Salvini within the Accademia degli
      Apatisti and of the panegyric Il tempio della Virtù (1707) by the less well-known
      Carlo Angelo Mazza, the article reconstructs the vitality of the reuse of Prodicus’
      tale and the way in which it was modernised.

    • SIMONE MAGHERINI

      I consulti medici di Francesco Redi – pp. 721-745

      Agli inizi del Seicento la scienza medica in Italia s’indirizza gradualmente verso
      l’applicazione del nuovo metodo sperimentale galileiano, che invita a leggere
      il «libro della natura» (e quindi anche il corpo umano) in termini matematico-
      meccanici. Il saggio intende indagare, attraverso una lettura critica dei Consulti
      medici, il contributo originale dell’empirismo di Francesco Redi alla riforma
      morale della professione medica.

      At the beginning of the Seventeenth century Italian medical science gradually
      started putting into practice Galileo’s new experimental method which suggests
      that the “book of nature” (and thus the human body) should be read from
      a mathematical-mechanical standpoint. This essay aims to study, through a
      critical reading of Consulti medici, the original contribution of Francesco Redi’s
      empiricism to the ethical reform of the medical profession.

    • ANNA CERBO

      Giacomo Leopardi e l’Europa letteraria contemporanea – pp. 769-785

      Scorrendo gli Elenchi delle letture leopardiane, il saggio studia le conoscenze che
      Leopardi ebbe della letteratura europea contemporanea e prende in esame la
      critica che il Recanatese mosse al Romanticismo, prima nel Discorso di un italiano,
      successivamente nell’Epistolario e negli appunti dello Zibaldone che presentano
      una puntuale caratterizzazione delle singole letterature europee, col rilievo
      di una serie di sottili differenze. Attraverso una critica acuta e costruttiva,
      confrontando gli eccessi delle nuove poetiche con i modelli classici, Leopardi
      realizza la poesia dei Canti e la prosa moderna e filosofica delle Operette morali.

      This essays investigates Leopardi’s knowledge of contemporary European literature
      and looks at his criticism of Romanticism, first in Discorso di un italiano,
      then in Epistolario and in the notes from Zibaldone that offer a detailed overview
      of European literature country by country, demonstrating a series of subtle differences.
      Through penetrating and constructive criticism, comparing the more
      extreme modern literary tendencies with classical models, Leopardi creates the
      poetry of Canti and the modern and philosophical prose of Operette morali.

  2. Meridionalia
    • MARIELLA MUSCARIELLO

      Il Principe e il maestro. Lampedusa, Sciascia e il Risorgimento – pp. 787-796

      Nel 1958 vengono pubblicati Il Gattopardo di Tomasi di lampedusa e Il quarantotto di Sciascia. l’analisi
      testuale del racconto sciasciano, fatta al controluce del romanzo lampedusiano, evidenzia le differenti
      fisionomie intellettuali dei due scrittori che si palesano nelle rispettive intenzionalità narrative, nelle
      forme e nello stile con cui entrambi rivisitano il risorgimento. ciò nonostante il Principe e il maestro si
      incontrano sul terreno della comune revisione critica di un’epopea, quella risorgimentale, che fu,
      soprattutto per la Sicilia, “un’epopea senza eroi”.

      in 1958 Tomasi di lampedusa’s The Leopard and sciascia’s Il quarantotto were published. The textual analysis
      of sciascias’s short story, compared and con-trasted with The Leopard, highlights the different intellectual
      natures of the two writers, evident in the respective narrative intentions, in the forms and in the style
      with which both tackle italian unification. Nonetheless, the Prince and the master find common ground in
      their critical revision of an age, that of italian unification, which was, above all for sicily, one
      “without heroes”

  3. Contributi
    • FRANCESCO SIELO

      Ungaretti e l’arte informale: l’ossessione apocalittica della materia – pp. 797-812

      Nella riflessione di Ungaretti risulta centrale l’opposizione all’ossessione lirica della materia propria
      dei futuristi: parallelamente tuttavia il poeta dimostra un’intensa attenzione, in diversi saggi critici,
      verso l’arte informale e le poetiche della materia di Fautrier, Burri e Michaux. Nell’Informale Ungaretti
      vede la protesta di un uomo disumanizzato dalla macchina, che si esprime attraverso un linguaggio ormai
      ridotto a pura materia, per riuscire a testimoniare la «di-smisura da apocalisse» del nostro tempo.

      If on the one hand Ungaretti objected to the lyrical obsession with material typical of the Futurists, on
      the other hand he showed a deep interest, in his critical essays, towards non-representational art and the
      material poetics advo-cated by Fautrier, Burri and Michaux. In non-representational art Ungaretti saw the
      rebellion of man dehumanized by machines, a protest centred on a lan-guage whittled down to pure material,
      aiming to bear witness to the “apocalyp-tic excess” of our time.

    • ELLA IMBALZANO

      Le visionarie microstorie degli «indigenti» di Matteo Collura – pp. 813-825

      Questo romanzo disgrega le residue resistenze del neorealismo mediante una scrittura che, in sintonia anche
      con un clima diffuso della narrativa d’oltreoce-ano, inietta nella cronaca e in un tassello della Storia una
      tensione visionaria in grado di slanciare le più elementari esigenze esistenziali di un umile microco-smo
      palermitano verso il sogno di un riscatto. Da qui, un tono epico-lirico al quale è controcanto il larvato
      commento che l’autore accorda al grido e all’ele-gia di fondo.

      This novel disrups the remaining endurance of neo realism through the use of a writing that, according to
      the overseas popular way of story-telling, instils into the chronicle and in an inlay of History e visionary
      look able to launch the very basic existential needs of a poor microcosm in Palermo towards a dream of
      redemption. From thi outlook it appears an epic-lyrical tone whose counter melody is the veiled comment that
      the writer tunes to the sufferings and the hidden elegy.

  4. Note e discussioni
    • ENNIO SCANNAPIECO

      Il Maelström di Norvegia descritto nell’Jcosameron: un’ulteriore critica al romanzo-fiume di Giacomo
      Casanova
      – pp. 827-833

      Localmente noto come Moskenstraumen, il Maelström è un fenomeno marino
      localizzato tra due isole della Norvegia settentrionale, divenuto leggendario
      nel corso del Medio Evo, e che è stato introdotto per la prima volta nella letteratura
      d’invenzione dal veneziano Giacomo Casanova nelle pagine del suo ponderoso
      romanzo Jcosameron (1787). Il saggio si propone tuttavia di dimostrare
      che, a fronte dell’impressionante lunghezza del romanzo, la descrizione del
      Maelström vi appare sbrigativa e letterariamente insoddisfacente, mentre si
      cerca di dare, nel contempo, una spiegazione di ordine filologico-linguistico al
      termine “Maelstrand” che Casanova volle adoperare al posto di quello più comunemente
      usato ai suoi tempi.

      Giacomo Casanova (1725-1798) was without doubt the first author to write
      about the sinister legend of the Norwegian maelstrom, in his 1787 novel Jcosameron.
      This essay demonstrates that, compared with the impressive length of
      the work, the description of the phenomenon is hurried and disappointing
      from a literary standpoint. It also attempts to offer a philological-linguistic explanation
      for the inexact term of “Maelstrand” used in the novel.

  5. Recensioni
    • ANNALISA CHIODETTI

      Mirko Tavoni, Qualche idea su Dante, Bologna 2015
      – pp. 835-839

      Dante Alighieri

    • JOHN BUTCHER

      Dennis Weh, Giovanni Pontanos Urania Buch 1. Einleitung, Edition, Übersetzung und Kommentar, Wiesbaden
      2017
      – pp. 840-843

      Pontano Giovanni
      Weh Dennis

    • PATRIZIA C. HANSEN

      Giani Stuparich, L’opera di Pasquale Besenghi degli Ughi, a cura di Waltraud Fischer, Trieste 2016
      – pp. 844-845

    • MARIO AVERSANO

      William Blake, Visioni e profezie. Inquadratura traduzioni e commenti di Pasquale Maffeo, Minturno (LT)
      2017
      – pp. 845-848

    • UGO PISCOPO

      Carlangelo Mauro, Liberi di dire. Saggi sui poeti contemporanei, Avellino 2017 – pp. 848-849

Saggi
ANNARITA PLACELLA
«Vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù
discende». Dante poeta-teologo e il modello paolino
di visione e profezia1
Il costante misurarsi di Dante col paradigma paolino di visionario si rivela la
chiave privilegiata per accedere alle strutture profonde della coscienza che
Dante aveva delle modalità e degli scopi della propria visione. Nei riferimenti
testuali alle visioni sulla via di Damasco e del terzo cielo si alternano, nel giro
anche di uno stesso verso, consapevolezza della continuità e consapevolezza
del ‘superamento’ di San Paolo.

Dante’s constant interest in the Pauline paradigm of the visionary proves vital
for understanding the profound structures of his consciousness of the modes
and purposes of his own vision. In the textual references visions on the road to
Damascus and of the third heaven are accompanied, even within the space of a
single verse, by the awareness of the continuity and of the “surpassing” of Saint
Paul.
1. La profezia in Dante e nel Cristianesimo delle origini
Il costante misurarsi di Dante col modello di San Paolo si rivela, nel
presente studio, la chiave privilegiata per accedere alle strutture profonde
della coscienza che Dante aveva delle modalità e degli scopi
della propria visione. L’assiduo confronto con il paradigma paolino di
visionario emerge dai riferimenti testuali, sia espliciti che impliciti,
sparsi nella Commedia e nell’Epistola XIII, alle visioni sulla via di Damasco
e del terzo cielo. In questi riferimenti, letti anche alla luce delle
esegesi medievali di tali visioni, si alternano, nel giro anche di uno
stesso verso, consapevolezza della continuità e consapevolezza della
Autore: Università degli Studi “Roma Tre”; dottore di ricerca in Italianistica;
annarita.placella@gmail.com
1 Pubblico qui, con l’aggiunta delle note e di diversi passaggi, il testo dell’intervento
che ho tenuto al Congresso Dantesco Internazionale-International Dante Conference
Alma Dante (Ravenna, 24-27 maggio 2017).
Saggi
642 annarita placella
differenza rispetto a San Paolo. Il ‘vuoto’ del modello paolino lasciato
dal superamento da parte di Dante di alcune caratteristiche della visione
del terzo cielo, in particolare per quel che riguarda la partecipazione
dell’Alighieri col corpo alla visione e il suo superamento dell’ineffabilità
di II Cor. XII, è stato da lui ‘riempito’ con l’altro modello di
Visionario indicato in If II, Enea, che viene così a ‘compensare’, come
vedremo nel quinto paragrafo, l’assenza in II Cor. XII di alcune caratteristiche
della visione dantesca.
Per intendere appieno il modello paolino di profezia2 e visio-
2 Tra i maggiori contributi sul Profetismo della Commedìa cfr. Raoul Manselli,
‘voce’ Profetismo nell’Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 1970-1978, 5 voll. (con Appendice), IV, pp. 695-699; Bruno Nardi, Dante
profeta, in Id., Dante e la cultura medievale, a cura di Paolo Mazzantini, Roma-Bari,
Laterza, 1983, pp. 265-326; B. Nardi, Dante e Gioacchino da Fiore, in Id., “Lecturae” e
altri studi danteschi, a cura di Rudy Abardo, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 277-283;
Nicolò Mineo, Gli spirituali francescani e l’Apocalisse di Dante, «Rassegna della
Letteratura Italiana», CII (1998), n. 102, pp. 26-46, oggi in Id., Dante: un sogno di
armonia terrena, Torino-Catania, Tirrenia Stampatori-Università di Catania. Dipartimento
di Filologia Moderna, 2005, 2 voll., II, pp. 219-242; Id., Profetismo e Apocalittica
in Dante, Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1968; Id., Saggi e letture per
Dante, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2008; Raffaello Morghen, Dante profeta. Tra
la storia e l’eterno, Milano, Jaca Book, 1983; Rocco Montano, Introduzione a Dante.
Con scelta di testi commentati da Fernando Gagliuolo, Napoli, Ed. Tip. Conte, 1957;
Giorgio Padoan, La “Mirabile visione” di Dante e l’epistola a Cangrande, in Dante e
Roma, Atti del convegno di studi, Roma, 8-9-10 aprile 1965, Firenze, Le Monnier,
1965, pp. 284-314; Giuseppe Ledda, La Bibbia di Dante, Torino-Bologna, Claudiana-
EMI, 2015; Id., L’esilio, la speranza, la poesia: modelli biblici e strutture autobiografiche
nel canto XXV del “Paradiso”, «Studi e Problemi di Critica Testuale», XC (2015), 1,
pp. 257-277; Maurizio Palma di Cesnola, Semiotica dantesca. Profetismo e diacronia,
Ravenna, Longo, 1995. Mi permetto di rimandare anche ad Annarita Placella,
Profetismo e archetipo del Puer in Dante tra Isaia, Virgilio e Paolo, Roma, Aracne,
2017. Dal momento che il presente articolo costituisce l’ampliamento di un aspetto
particolare (la costruzione dantesca delle modalità e degli scopi della sua visione
in un continuo misurarsi con le visioni paoline e la consapevolezza che Dante ha
della sua continuità con San Paolo e insieme del suo ‘superamento’) della ricerca
più generale, che ho svolto nel mio libro appena citato, sulla presenza nell’opera
dantesca di San Paolo e di altri autori, rimanderò al mio libro per alcuni aspetti che
riguardano tangenzialmente l’argomento preciso di questo articolo. Tra i maggiori
contributi sul Profetismo dantesco sul modello paolino cfr. Marco Ariani, Introduzione
al Paradiso, «Rivista di studi danteschi», VIII (2008), 1 pp. 3-41; Id., Lux
inaccessibilis. Metafore e teologia della luce nel Paradiso di Dante, Roma, Aracne,
2010; G. Ledda, La guerra della lingua. Ineffabilità. Retorica e narrativa nella «Commedia
» di Dante, Ravenna, Longo, 2002 (in particolare pp. 243-258); Id., Semele e
Narciso: miti ovidiani della visione nella «Commedia» di Dante, in Le «Metamorfosi» di
Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Gian Mario Anselmi
[ 2 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 643
ne3 in Dante, è necessaria una sia pur minima riflessione sul concetto
e Marta Guerra, Bologna, Gedit, 2006, pp. 17-40; Id., Modelli biblici e identità profetica
nelle “Epistole” di Dante, «Lettere italiane», LX (2008), pp. 18-42; Id., Dante e la
tradizione delle visioni medievali, «Letture Classensi», XXXVII (2008), pp. 119-142; Id.,
Modelli biblici e profetismo nelle “Epistole” di Dante, in Sotto il cielo delle Scritture. Bibbia,
retorica e letteratura religiosa (secc. XIII-XVI), Atti del Colloquio organizzato
dal Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna (Bologna, 16-17 novembre
2007), Firenze, Olschki, 2009, pp. 57-78; Id., Autobiografismo profetico e costruzione
dell’identità. Una lettura di “Paradiso” XVII, «L’Alighieri», LI (2010), n. 36,
pp. 87-113; Id., Modelli biblici nella Commedia: Dante e san Paolo, in La Bibbia di Dante.
Esperienza mistica, profezia e teologia biblica in Dante. Atti del Convegno internazionale
di Studi (Ravenna, 7 novembre 2009), a cura di G. Ledda, Ravenna, Centro
dantesco dei frati minori conventuali, 2011, pp. 179-216; Joseph Anthony Mazzeo,
Dante and the Pauline Modes of Vision, «The Harvard Theological Review», L
(1957), 4, pp. 275-306; Giuseppe Di Scipio, The Presence of Pauline Thought in the
Works of Dante, Lewinston, New York, The Edwin Mellen Press, 1995; Id., Dante and
St. Paul. The Blinding Light and Water, «Dante Studies», XCVIII (1980), pp. 151-
157; Angelo Penna e Giovanni Fallani, ‘voce’ Paolo (santo) dell’Enciclopedia dantesca,
cit., IV, pp. 271-275.
3 U na bibliografia sulla visione nella Commedìa, anche se sintetica, non può
non partire da Ugo Foscolo, Studi su Dante. Parte prima: Articoli della Edimburgh
Review-Discorso sul Testo della Commedia, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze, Le
Monnier, 1979. Egli è stato il primo in epoca moderna a riprendere con forza il
motivo di Dante profeta e visionario, collegandolo strettamente e principalmente
con San Paolo. Gli scritti foscoliani su Dante sono eccezionali anche per la ricchezza
di informazioni e la competenza dimostrata per quanto riguarda le Sacre Scritture,
i Padri della Chiesa e gli scrittori mediolatini. Foscolo si occupò espressamente
di Dante in due articoli apparsi sulla Edimburgh Review nel 1818, nel Discorso
sul testo della Commedia del 1825 e nelle ricche postille manoscritte che appose su un
esemplare della stampa di quest’ultimo, in vista di una ristampa e, soprattutto, di
un nuovo commento integrale al Poema fondato sulle proprie nuove acquisizioni
(cose che la morte, sopraggiunta nel 1827, non consentì), «per consolidare la tesi
centrale […] della Divina Commedia come ‘reale’ visione» (G. Da Pozzo, Introduzione
a Ugo Foscolo, Studi su Dante, cit., p. LXXVIII) e quella di una ‘Missione
apostolica’ affidata a Dante dai tre Apostoli nel cielo delle stelle fisse e che il critico-
poeta sostenne non essere mai stata sottolineata da altri lettori del Poema. Si
veda anche l’importante ‘voce’ a cura di Mario Scotti, Foscolo, in Enciclopedia
Dantesca, cit., II, pp. 988-992: «Per il Foscolo il viaggio di Dante nell’oltremondo
non è una finzione poetica su cui si struttura il poema, ma una visione vera, come
quelle di s. Paolo e dell’Apocalisse». Cfr. anche Nicolò Mineo, Foscolo e la riscoperta
di Dante, «Le forme e la storia», n. s., VIII (1996), pp. 69-87 (poi in Id., Dante: un
sogno di armonia terrena, cit., I, pp. 133-147). Foscolo poteva trovare già tra i commentatori
trecenteschi, come Guido da Pisa, dei precedenti sul Profetismo di Dante.
Guido da Pisa aveva parlato di un Dante ispirato dallo Spirito santo e per questo,
come richiesto dall’Epistola a Cangrande della Scala, applicava alla Commedìa i
quattro sensi biblici. Tra i più recenti lavori su Guido vi è quello di Lucia Battaglia
Ricci, L’allegoria dantesca. Il contributo dei primi commentatori, in Lectura
[ 3 ]
644 annarita placella
di profezia alle origini del Cristianesimo. Il Profetismo cristiano, pur
ponendosi in continuità con l’Antico Testamento, acquisisce sin dalle
origini caratteristiche proprie. Innanzitutto, il carisma di profezia, che
Dante vede presentato dal suo maggior teorizzatore, Paolo, appare
maggiormente diffuso rispetto all’Antica Legge. Dante poteva leggere
nelle testimonianze di San Paolo, negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere,
che il dono di profezia, che era fondato sul culto dello Spirito Santo,
era diffuso ed apprezzato nelle assemblee dei primi cristiani e veramente
prezioso per edificare la Comunità: «unicuique autem datur
manifestatio Spiritus ad utilitatem» (I Cor. XII, 7)4. L’Apostolo lo prefe-
Dantis 2002-2009. Omaggio a Vincenzo Placella, a cura di Anna Cerbo con la collaborazione
di Mariangela Semola, 4 tt, t. III: Lectura Dantis 2006 e 2008, Napoli,
Università degli Studi di Napoli L’Orientale, “il Torcoliere”, 2011, pp. 795-815.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita» veniva interpretato da Guido da Pisa come
‘nel sonno’, per cui l’intera azione del Poema era da lui intesa come una ‘visio in
somniis’: una visione, veritiera, avvenuta nel sogno. Anche un altro commentatore
trecentesco, Benvenuto da Imola, riteneva che Dante avesse avuto in sogno l’intera
visione narrata nel poema. Bruno Nardi, che ha ripreso gli studi di Foscolo (B.
Nardi, Dante letto dal Foscolo, in Saggi e note di critica dantesca, 166-189, Milano-
Napoli, Ricciardi, 1966), è tra i primi sostenitori del Novecento della tesi dell’autenticità
della visione dantesca (Id., Dante profeta, cit.). Anche altri studiosi novecenteschi
hanno difeso la tesi della visione: si pensi a R. Montano (Introduzione a
Dante, cit.) a G. Padoan (La “Mirabile visione” di Dante e l’epistola a Cangrande, cit.),
a Egidio Guidubaldi, Dante europeo, III. Poema sacro come esperienza mistica
(Dalla «visio in somniis» affermatasi nell’esegesi trecentesca alla lettura onirica
consentita dalla «psicologia del profondo»), Firenze, Olschki, 1968; Étienne Gilson
(La Mirabil visione, in Id., Dante et Béatrice. Études dantesques, Parigi, Vrin,
1974, pp. 103-117, pp. 109 sgg.) collega il discorso della visione alla forte capacità
di concentrazione di Dante; Romano Guardini (Studi su Dante, Brescia, Morcelliana,
1967, pp. 137-169 e 370-372) ritiene che occorre riguardare gli episodi della
Commedìa, a cominciare dal primo Canto dell’Inferno, dalla selva oscura, le tre fiere,
l’apparizione di Virgilio, dal punto di vista della visione. Per uno studio sistematico
sulla visione dantesca cfr. Vincenzo Placella, ‘visione’, ‘Viaggio’, ‘Salvezza’,
missione’ nella Commedia, in Miscellanea di Studi danteschi in memoria di Silvio Pasquazi,
a cura di Alfonso Paolella, V. Placella, Gianni Turco, Napoli, Federico
& Ardia, 1993, pp. 685-723; cfr. anche Id., «Guardando nel suo Figlio…». Saggi di
esegesi dantesca, Napoli, Federico & Ardia, 1990 (in particolare pp. 63-124) e Id.,
Dante e l’anagogia, «Studi medievali e moderni», 1, 2003, pp. 71-86.
4 In questo articolo cito i testi biblici dalla Vulgata di San Girolamo, servendomi
dell’edizione critica Biblia Sacra iuxta Vulgatam Versionem adiuvantibus B. Fischer
Osb, I. Gribomont Osb, H. F. D. Sparks, W. Thiele, recensuit et brevi apparatu
instruxit R. Weber Osb, Editio Tertia Emendata, quam paravit B. Fischer cum sociis
H. I. Frede, I. Gribomont, H. F. D. Sparks, W. Thiele, Stuttgart, Deutsche Bibelgesellschaft,
1983, 2 voll. Per i criteri editoriali di questa edizione cfr., ivi, p. VII, soprattutto
per la scelta di non inserire la punteggiatura («distinctionibus omissis»).
[ 4 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 645
risce agli altri carismi, in particolare quello delle ‘Lingue’, che egli vede
più nell’ambito del rapporto personale, diremmo ‘privato’, tra
l’uomo e Dio: «qui prophetat hominibus loquitur aedificationem et
exhortationem et consolationes qui loquitur lingua semet ipsum aedificat
qui autem prophetat ecclesiam aedificat» (I Cor. XIV, 3-4). Si tratta
del Profetismo come missione, «ad utilitatem» (I Cor. XII, 7) e «ad aedificationem
Ecclesiae» (I Cor. XIV, 12), che è anche il presupposto della
Commedia.
Se il profetismo dantesco ha le sue radici nella concezione paolina
di profezia e nelle visioni del terzo cielo e di Damasco, il modello paolino
arriva a Dante anche mediato dall’esegesi di Sant’Agostino e
San Tommaso. In particolare il De Genesi ad Litteram costituisce un importante
punto di riferimento per Dante, sia per l’esegesi di Sant’Agostino
della visione al terzo cielo di Paolo di II Cor. XII che per il forte
legame che egli istituisce tra visione e profezia citando I Cor. XII e XIV.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’esegesi di II Cor. XII, Sant’Agostino
nel capitolo XII del De Genesi ad Litteram classifica le visioni in
tre diversi tipi: ‘corporale’ (come quella raccontata in Dan. V del re
Baldassarre), ‘spirituale-immaginaria’ (come quelle di Giovanni dell’Apocalisse
e di Pietro in Act. Apost. X, 11-13) e ‘intellettiva’, la quale
è ineffabile, dal momento che si ha esclusivamente tramite l’intelletto,
per cui non può rimanere impressa nella memoria di chi la ha avuta e
tanto meno essere raccontata5.
San Tommaso farà propria la triplice classificazione agostiniana6,
consolidandola7.
Sant’Agostino si dichiara convinto che la visione del terzo cielo riferita
in II Cor. XII sia stata del terzo tipo, ‘intellettivo’, che è quella
propria dei Beati che, dopo la morte, vedono Dio direttamente, «facie
ad faciem», secondo l’espressione usata dallo stesso Paolo in I Cor
XIII, 12. In questo passo, però, San Paolo aveva detto che in vita non si
può avere questo tipo di visione, dal momento che «videmus nunc per
speculum in enigmate» (I Cor XIII, 12).
Sant’Agostino, invece, sostiene non soltanto che la visione diretta
di Dio possa essere ricevuta da una persona ancora in vita, ma anche
che Paolo con la sua visione di II Cor. XII abbia superato ciò che aveva
5 Cfr. V. Placella, «Guardando nel suo Figlio…», cit., pp. 102-103.
6 Thomas De Aquino, Summa Theologiae, IIª-IIae, q. 174 a. 1 ad 3.
7 Dopo la ‘consacrazione’ che la classificazione del De Genesi ad Litteram riceve
da San Tommaso, essa ancora ai tempi di Dante permane come la classificazione
‘ufficiale’ della visione.
[ 5 ]
646 annarita placella
scritto in I Cor XIII, 12 circa il fatto che da vivi non si possa vedere Dio
«facie ad faciem»; Sant’Agostino dice che la visione ‘intellettiva’ è rara,
ma tali casi esistono e addita come esempi la visione di Paolo del
terzo cielo e una di Mosè8. Dal momento che Agostino (e neppure San
Tommaso, come vedremo) non limita ai soli Mosè e Paolo l’ottenimento,
in vita, della visione dell’essenza divina, Dante nell’Epistola a Cangrande9,
come vedremo nel quinto paragrafo, può legittimamente dichiarare
che era ben possibile che anche lui avesse avuto questo tipo
di visione. Tuttavia, mentre era invalso nella letteratura teologica il
parallelo, risalente a Sant’Agostino, di Mosè-San Paolo come quelli
che ancora in vita hanno avuto la massima esperienza del divino, in
Dante troviamo un’altra coppia di Veggenti, Paolo ed Enea, che, come
vedremo, sono tra loro perfettamente complementari.
Agostino nel De Genesi ad Litteram si dichiara certo che Paolo fu
rapito al terzo cielo senza il corpo e che vide Dio nella sua realtà, «facie
ad faciem», e non sotto un’immagine (altrimenti la visione sarebbe
stata del secondo tipo). Afferma che Paolo era ben consapevole di essere
stato rapito senza il corpo: il suo dubbio («nescio») riguarda solo
se il rapimento fuori del corpo lasciò il suo corpo veramente morto
durante la visione o se la sua anima restò in qualche modo presente
nel corpo durante il periodo in cui la sua mente fu rapita per vedere e
udire i segreti ineffabili della visione10. Come vedremo nei paragrafi 5
e 7, è questa la profonda differenza (che avvicina quindi la visione dei
tre Regni a quella paolina di Damasco e a quella di Enea del VI libro
dell’Eneide) della visione di Dante con quella di II Cor. XII: Dante, infatti,
dichiara di aver avuto la visione col corpo.
Diversamente da Sant’Agostino, e analogamente a quel che dice
Paolo sulla visione «facie ad faciem» in I Cor XIII, 12, San Bernardo nel
De Consideratione dice che nessuno sulla terra ha mai avuto né potrà
mai avere la visione del terzo tipo e attribuisce al Paolo di II Cor. XII il
più alto grado di visione possibile su questa terra, ma non la visione
intellettiva:
8 La visione di tipo intellettivo che secondo Sant’Agostino Mosè ha avuto non
è quella del roveto ardente (che è una visione corporale, del primo tipo), ma una
visione ‘faccia a faccia’ che non è esplicitamente narrata dalla Bibbia, ma soltanto
allusa in Num. XII, 5-8.
9 Per il dibattito sull’autenticità dell’Epistola a Cangrande e per la relativa biliografia,
cfr. A. Placella, Profetismo e archetipo del Puer in Dante, cit., pp. 21-22.
10 Augustinus Hypponensis, De Genesi ad Litteram libri duodecim, XII, 5, 14. In
questo articolo cito quest’opera, da ora con l’abbreviazione De Genesi ad Litteram,
da http://www.augustinus.it/latino/genesi_lettera/index2.htm.
[ 6 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 647
At omnium maximus, qui spreto ipso usu rerum et sensuum, quantum
quidem humanae fragilitati fas est, non ascensoriis gradibus, sed inopinatis
excessibus, avolare interdum contemplando ad illa sublimia
consuevit. Ad hoc ultimum genus illos pertinere reor excessus Pauli.
Excessus, non ascensus: nam raptum potius fuisse, quam ascendisse
ipse se perhibet11.
Si noti che, per un vero e proprio contrapasso12, che certamente
11 Bernardus Claraevallensis, De consideratione, in Sancti Bernardi abbatis
Claraevallensis Opera omnia, post horstium denuo recognita, repurgata, et in meliorem
digesta ordinem, necnon novis praefationibus, admonitionibus, notis et observationibus,
indicibusque copiosissimis locupletata et illustrata, curis D. Joannis Mabillon, vol. 1, Parisiis,
apud Gaume Fratres, Bibliopolas, 1839, p. 1073.
12 Ho esposto per la prima volta nel corso della mia relazione ravennate (che,
come ho detto nella nota 1, riproduco, con aggiunte, in questo articolo) la mia tesi
del contrapasso che a mio parere Dante ha assegnato a San Bernardo. Questa mia
tesi su un contrapasso pensato da Dante anche per alcuni personaggi della Commedìa
che non si trovano a scontare delle pene (nell’Inferno come nel Purgatorio)
per dei peccati commessi in vita è estensibile anche ad altri personaggi della Commedìa,
come ad esempio Virgilio che in vita fu, secondo Dante, profeta inconsapevole.
Per le profezie di cui Virgilio è portavoce inconsapevole sia nell’Eneide che
nella IV Egloga secondo il pensiero di Dante, rimando a A. Placella, Profetismo e
archetipo del Puer in Dante, cit., pp. 193-209, 231-235 e 240. Rispetto a quanto ho già
detto in tali pagine sul dono della profezia inconsapevole che Dante attribuisce a
Virgilio, nel presente articolo desidero aggiungere che è in questo che a mio parere
consiste il contrapasso assegnato al personaggio di Virgilio: se in vita egli è stato
profeta inconsapevole sia nell’Eneide che nella IV Egloga, il cui autentico senso profetico
sarebbe stato invece colto da Dante (il quale a sua volta attribuisce l’interpretazione
in senso cristiano della profezia della IV Egloga anche al personaggio di
Stazio, tanto da attribuirgli, come conseguenza della lettura di quest’ultima, la
conversione al Cristianesimo), nella Commedìa, nel suo ruolo di guida, è lui a svelare,
questa volta con precisa consapevolezza (rispetto alle profezie inconsapevoli
dell’Eneide e della IV Egloga), a Dante il significato di molti momenti della visione
dei primi due Regni. Si pensi, ad esempio, al sogno della «femmina balba» di Pg
XIX, 7-33. Dante personaggio non riesce a capirne il significato ed è Virgilio a spiegarglielo
(Pg XIX, 58-63), mostrando anche di sapere perfettamente i particolari del
sogno senza che Dante glielo abbia prima raccontato. Questo episodio richiama un
passo del De Genesi ad Litteram XII, 9, 20, dove Sant’Agostino attribuisce al profeta
Daniele, riferendosi a Dan. II, 27-45, le stesse doti dimostrate da Virgilio in questo
episodio (Daniele infatti mostra di sapere già cosa ha sognato Nabucodonosor ed
è in grado di interpretare il sogno) definendolo per questo ‘sommamente profeta’:
«Minus ergo propheta, qui [Nabucodonosor, e, nel caso del sogno della femmina
balba, Dante] rerum quae significantur, sola ipsa signa in spiritu per rerum corporalium
imagines videt; et magis propheta, qui solo earum intellectu praeditus est:
sed et maxime propheta, qui utroque praecellit, ut et videat in spiritu corporalium
rerum significativas similitudines, et eas vivacitate mentis intellegat, sicut Danielis
[ 7 ]
648 annarita placella
Dante gli ha assegnato con precisa consapevolezza, in Pd XXXIII è
proprio il personaggio di San Bernardo a chiedere alla Vergine di mediare
perché a Dante sia concessa l’ultima visione, parte della quale
sarà di tipo intellettivo, quello, cioè, che il Bernardo storico dichiarava
impossibile da ricevere in questa vita.
2. La profezia ‘utile’ in quanto ‘effabile’ perché non ‘intellettiva’ di I Corinzi
XII e XIV nel De Genesi ad Litteram
Esaminato il primo aspetto dell’esegesi agostiniana della visione in
San Paolo (quello relativo alla visione del terzo cielo di II Cor. XII),
passiamo al secondo aspetto: quello, cioè, dell’esegesi di I Cor. XII e
XIV. Nel De Genesi ad Litteram XII, 8, 19, Agostino dà la definizione di
profezia fondata sul Paolo di I Cor. XII e XIV: il contenuto della profezia
per essere vitale e ‘utile’ non deve solo essere percepito dallo ‘spirito’,
ma deve essere anche compreso dalla ‘mente’ del profeta, in modo
che egli a sua volta possa trasmetterlo in termini comprensibili agli
altri; per questo cita il seguente passo: «nunc autem fratres si venero
ad vos linguis loquens quid vobis prodero nisi si vobis loquar aut in
revelatione aut scientia aut prophetia aut in doctrina» (I Cor. XIV, 6).
Agostino spiega che Paolo qui intende dire che il profeta è colui che
con l’intelligenza afferra il senso dei segni, affinché ciò che è percepito
con lo spirito sia percepito anche con la mente13; egli distingue fra i
segni inviati allo spirito in forma di figure corporee e l’interpretazione
di essi con la mente: in quest’ultima consiste la vera profezia14.
Come abbiamo finora visto, Agostino distingue il concetto di profezia
espresso da Paolo in I Cor. XII e XIV da II Cor. XII. Anche in Dante
questi passi sono ben distinti: Dante infatti condivide con I Cor. XII
excellentia tentata est et probata, qui regi et somnium quod viderat dixit, et quid
significaret aperuit. Et ipsae quippe imagines corporales in spiritu eius expressae
sunt, et earum intellectus revelatus in mente» (De Genesi ad Litteram, XII, 9, 20). Il
fatto che Dante tenga ben presente questo episodio di Nabucodonosor (motivo per
cui è lecito ipotizzare che Dante abbia potuto pensare, nell’episodio della spiegazione
del sogno della «femmina balba», a un parallelo tra se stesso e Nabucodonosor
e tra Virgilio e Daniele) è dimostrato da Ep. XIII, 81. Qui Dante fa un parallelo
tra se stesso e Nabucodonosor, per far notare, a chiunque possa obiettare che lui
non possa avere avuto la visione perché peccatore, che Dio concede il dono delle
visioni anche ai peccatori, come dimostra appunto il caso di Nabucodonosor.
13 De Genesi ad Litteram, 8, 19.
14 Ivi, 9, 20.
[ 8 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 649
e XIV il concetto della missione del Profeta di comunicare agli uomini
i contenuti della profezia ricevuta e per questo segue il modello di I
Cor. XII e XIV in tutta la visione. Il modello di II Cor. XII è da Dante
direttamente seguito solo nell’ultima parte della visione di Pd XXXIII,
quella del Mistero dell’Incarnazione, dove la visione, diventando di
tipo intellettivo, diventerà ineffabile, e, quindi, senza immagini e senza
descrizione, come quella di II Cor. XII. Per il resto del Poema Dante
integra, come vedremo nel quinto paragrafo, il modello di visione di
II Cor. XII con quello della visione di Enea, in quanto Dante viaggia col
corpo e in quanto la sua visione non è ineffabile.
Per la missione di rivelare agli uomini i contenuti della visione e
delle profezie ricevute da Dio, Dante, oltre a rifarsi a I Cor. XII e XIV, ha
per modello la visione di Damasco. Infatti, come la missione di Apostolo
che Dante riceve nel cielo delle stelle fisse ha il suo fondamento nella
sua visione, dal momento che la sua missione è rivelare agli uomini,
tramite la scrittura, il suo viaggio nei tre Regni, allo stesso modo Paolo
aveva dichiarato che la sua missione di Apostolo ha il suo fondamento
nella visione di Damasco. Mi riferisco al luogo degli Atti in cui Paolo
racconta al re Agrippa la visione di Damasco, soffermandosi in particolare
sulla missione affidatagli da Gesù durante la visione stessa:
sed exsurge et sta super pedes tuos ad hoc enim apparui tibi ut constituam
te ministrum et testem eorum quae vidisti et eorum quibus apparebo
tibi (Act. Ap. XXVI, 16).
Come si vede, già in Paolo, e di questo Dante se ne accorse, e per
questo la assunse anche per indicare la propria elezione e la propria
missione, la formula «exsurge», presente negli Atti già nel racconto diretto
dell’episodio di Damasco (Act. Ap. XXII, 16: «et nunc quid moraris
exsurge baptizare et ablue peccata tua invocato nomine ipsius»), ha la
funzione di sottolineare l’elezione divina avvenuta durante la visione.
Ecco perché la presenza di tale formula nelle parole di Virgilio, che
sprona Dante, subito dopo la visione avvenuta in sogno della «femmina
balba», a rialzarsi e proseguire il suo viaggio, obbedendo all’invito
di Dio (secondo l’esempio del falcone che obbedisce al segnale del padrone),
è particolarmente importante: «Surgi e vieni» (Pg XIX, 35)15;
15 Si veda anche la frase, «surgi: che fai?» (Pg XXXII, 72), pronunciata da Matelda
per risvegliare Dante caduto nel sonno a seguito di una visione spirituale
come lo era stata quella della «femmina balba» che precede l’analogo invito di
Virgilio appena citato (torneremo più avanti sull’appartenenza di queste due visioni
dantesche alla seconda tipologia della classificazione agostiniana). Il verso Pg
[ 9 ]
650 annarita placella
tale formula, infatti, serve a Dante a sottolineare che anche la missione
che ha ricevuto lui stesso da Dio ha il suo fondamento nella visione
itinerale dei tre Regni.
3. Il concetto di profezia ‘utile’ in quanto ‘effabile’ di I Corinzi XII e XIV
nella Summa Theologiae
Oltre a Sant’Agostino, anche San Tommaso, che, come abbiamo
detto nel primo paragrafo, fa propria la triplice classificazione agostiniana
della visione, offriva a Dante definizioni di profezia e visione a
lui congeniali. Nella Summa Theologiae II-II, q. 171, l’Aquinate dà una
definizione di profezia sulla scia di I Corinzi XII e XIV e del De Genesi
ad Litteram: la profezia è conoscenza e i profeti conoscono cose che sfuggono
alla conoscenza umana16. Ma, continua l’Aquinate, poiché per
San Paolo (I Cor. XII, 7; XIV, 12) a ciascuno è data una manifestazione
particolare dello Spirito ‘per un’utilità’ («ad utilitatem»), cioè ‘per l’edificazione
della Chiesa’, la profezia in secondo luogo consiste nella
‘enunciazione’, in quanto i profeti annunziano «ad aedificationem
aliorum» le cose rivelate ad essi da Dio17. San Tommaso insiste molto
su questo punto, che diverrà centrale in Dante. Infatti, l’Aquinate, citando
I Cor. XIV, 3, sulla scorta del De Genesi ad Litteram ribadisce che
il profeta parla agli uomini per loro edificazione, per cui il vero profeta
deve comprendere con la mente i contenuti della rivelazione avuta
da Dio per poi poterli rivelare alla comunità; nella profezia si richiede
l’ispirazione divina per elevare la mente18.
Dante, sulla scia dei passi che abbiamo finora citato di San Paolo,
Sant’Agostino e San Tommaso e sulla base del pensiero di San Bona-
XXXII, 72, oltre a richiamare l’ambito semantico dell’«exsurge» che compare nel
racconto degli Atti della visione di Damasco, richiama anche un altro luogo paolino:
«Surge qui dormis et exsurge a mortuis et illuminabit te Christus» (Eph. V, 14).
Qui a sua volta Paolo si rifà a Is. LX, 1: «Surge illuminare quia venit lumen tuum et
gloria Domini super te orta est» e a Prov. VI, 9: «Usquequo piger dormies quando
consurges e somno tuo».
16 «Respondeo dicendum quod prophetia primo et principaliter consistit in
cognitione, quia videlicet cognoscunt quaedam quae sunt procul remota ab hominum
cognitione» (Thomas De Aquino, Summa Theologiae, IIª-IIae, q. 171 a. 1 co). In
questo articolo cito la Summa Theologiae da http://www.corpusthomisticum.org/
iopera.html#OM.
17 Ibidem.
18 Ivi, IIª-IIae, q. 171 a. 1 ad 4.
[ 10 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 651
ventura, su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo, è convinto
che il dono della profezia apra ad una missione19 e che la sua sia quella
di far conoscere «in pro del mondo che mal vive»20 (Pg XXII, 103) le
rivelazioni ricevute durante la visione.
4. Il Profetismo dantesco tra San Paolo, San Bonaventura e Gioacchino da
Fiore. La continuità del «poema sacro» con le Sacre Scritture e di Dante
con lo scriba Dei biblico
In questo suo rifarsi al Profetismo delle origini e all’inscindibile
legame esistente tra visione, profezia e missione in San Paolo e nelle
teorizzazioni di Sant’Agostino e San Tommaso, Dante risente delle
istanze palingenetiche del suo tempo e in particolare di Gioacchino da
Fiore e della interpretazione ‘ortodossa’ resa da San Bonaventura del
concetto di profezia presente nella Filosofia della Storia dell’Abate florense21.
Secondo la lettura della Storia della Salvezza di Gioacchino e
di San Bonaventura, la Rivelazione divina non si conclude con la Rivelazione
del Nuovo Testamento, ma continua nelle epoche successive.
San Bonaventura, infatti, vede la Rivelazione non come statica e
inerte acquisizione, ma in progress nella storia della Chiesa, e scandita
da autentiche profezie. Questo pensiero è alla base della Commedia,
che, sulla scia di Gioacchino da Fiore e Bonaventura, condivide le caratteristiche
della profezia in epoca neotestamentaria incoraggiate
nelle prime Comunità cristiane da San Paolo. Questi nel secondo capitolo
della lettera agli Efesini scrive che la Chiesa è fondata ‘sugli Apostoli
e sui Profeti’. Un tempo si pensava che Paolo si riferisse ai dodici
Apostoli e ai Profeti dell’Antico Testamento. Secondo un’esegesi più
recente22, fondata sullo studio del concetto di profezia che dalla Chie-
19 Sullo stretto legame tra profezia e missione e tra vita contemplativa e vita
attiva nella Commedìa e nel Convivio, anche alla luce del pensiero di Aristotele e di
San Tommaso e della presenza di II Tim IV, 2 e di Act. Ap. XVIII, 9-10 nei versi
dell’episodio di Cacciaguida relativi alla missione dantesca di rivelare le profezie
ricevute durante la visione (Pd XVII, 124-128), cfr. A. Placella, Profetismo e archetipo
del Puer in Dante, cit., pp. 138-139.
20 In questo articolo cito La Commedìa dall’edizione Dante Alighieri, La Commedìa.
Testo critico secondo i più antichi manoscritti fiorentini. Nuova edizione, a
cura di Antonio Lanza, Anzio, De Rubeis, 1996.
21 Per la presenza di Gioacchino da Fiore e di San Bonaventura in Dante, cfr. A.
Placella, Profetismo e archetipo del Puer in Dante, cit., pp. 116-141.
22 Cfr. Joseph Ratzinger, Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura, Mün-
[ 11 ]
652 annarita placella
sa delle origini arriva fino a Gioacchino da Fiore e San Bonaventura,
nella lettera agli Efesini il termine ‘Apostolo’ deve essere inteso in modo
più ampio, come pure il concetto di ‘Profeta’, da riferirsi ai Profeti
della Chiesa, anche quelli a venire. È in questo senso che è vissuta la
funzione della profezia da Dante: come ritorno ai primordi del Cristianesimo
e alla pratica neotestamentaria di profezia affermatasi nelle
assemblee delle Comunità primitive cristiane, ma rivitalizzata, sulla
scia di Gioacchino da Fiore e soprattutto di San Bonaventura, da nuove
figure di Profeti, in particolare i fondatori degli Ordini Mendicanti,
San Domenico e San Francesco.
La coscienza di sé di Dante in quanto Profeta e scriba Dei e le profezie
della Commedia sul messo di Dio (a partire da quella del veltro)
vanno considerate anche in riferimento a tali istanze escatologiche del
suo tempo. Ed è nella sua convinzione che il suo poema sia l’espressione
di una nuova Rivelazione da parte di Dio, quella dell’imminente
arrivo di un Suo inviato, e che egli ne sia quindi il Profeta, che rientra
la definizione di Dante di «poema sacro» in Pd XXV, 1. Qui Dante dichiara
che il poema è stato scritto da Dio e da lui stesso in quanto
scriba Dei: «ha posto mano e cielo e terra» (Pd XXV, 2). In tale contesto,
il riconoscimento cui Dante aspira in questi stessi versi è qualcosa che
va ben al di là di una semplice incoronazione poetica: lo si deduce già
dal fatto che egli dichiara di aspirare a prendere il «cappello» sul suo
fonte battesimale, dove divenne Cristiano, quasi un secondo Battesimo,
il Battesimo del poeta teologo. Dunque una incoronazione non di
semplice poeta, ma di poeta Profeta cristiano, di scriba Dei, che si inserisce
infatti nei versi in cui definisce «sacro» il suo poema, in quanto
ispirato da Dio. Risulta dunque, in questo luogo, un superamento di
Pd I, 13-15 e 25-30: Dante non aspira più all’incoronazione poetica di
tipo terreno, cioè al simbolo poetico dell’«alloro», ma al «cappello»
teologale23: «in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello» (Pd
XXV, 8-9).
chen, Verlag Schnell &Steiner, 1959, citato in Sergio Cristaldi, Dante di fronte al
Gioachimismo. I. Dalla “Vita Nova” alla “Monarchia”, Caltanissetta-Roma, Sciascia
Editore, 2000, p. 53. Dell’opera si può leggere oggi la traduzione in italiano: J.
Ratzinger, San Bonaventura: la teologia della storia, ed. it. a cura di Letterio Mauro,
trad. di Marcella Montelatici, Assisi, Edizioni Porziuncola, 2008.
23 Per la complessa questione della speciale incoronazione a poeta teologo cui
Dante aspira in Pd XXV, 1-12, che supera l’iniziale aspirazione all’alloro di Pd I 13-
15 e 25-30, laddove il simbolo poetico dell’alloro richiama anche la simbologia
delle fronde di Pg XXXIII, 142-144, rimando a A. Placella, Profetismo e archetipo del
Puer in Dante, pp. 135-137 e 219-223.
[ 12 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 653
È lecito ipotizzare che in questi versi Dante, sentendo di far parte
di quelli di cui parla San Paolo come destinatari della corona di giustizia24,
tenga presente la profezia di Paolo sull’incoronazione in cielo:
«in reliquo reposita est mihi iustitiae corona quam reddet mihi Dominus
in illa die iustus iudex non solum autem mihi sed et his qui diligunt
adventum eius» (II Tim. IV, 8). In ogni caso (che ci sia o meno un
consapevole richiamo, in Pd XXV, 8-9, a II Tim. IV, 8), nel corso del
canto XXV avviene senz’altro l’investitura di Dante a poeta teologo in
Paradiso, proprio come in Paradiso avverrà l’incoronazione che Paolo
profetizza in II Tim. IV, 8. Dante infatti riceve l’investitura da San Giacomo
a ‘confortare’ gli uomini, tramite il suo poema, alla virtù della
Speranza:
Poiché per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù ben innamora,
in te e in altrui di ciò conforte (Pd XXV, 40-45).
Il verso 45 costituisce un forte richiamo ad If II, 29, riferito allo scopo
della visione del terzo cielo di Paolo: «per recarne conforto a quella
fede» (corsivo mio). Questo verso può ricevere a mio parere tre diverse
letture, nelle quali però il senso profondo del messaggio rimane lo
stesso.
Se si interpreta, con alcuni critici, il «ne» come ‘a noi’, allora il senso
di If II, 29 è che Paolo ha ricevuto il dono della visione perché finalizzato
alla missione, conferita da Dio, di «recare» ‘a noi’, cioè al Mondo,
«conforto» alla Fede, proprio come Dante in Pd XXV, 45 riceve la
missione di portare ‘conforto’ alla Speranza. Le loro visioni, oltre ad
avere come scopo queste rispettive missioni, sono anche il segno della
loro elezione divina. Infatti, come nei versi appena citati San Giacomo
dice a Dante che il suo apostolato (la sua missione di poeta teologo)
tra gli uomini ha il suo fondamento nella visione, così anche Paolo in
II Cor. XII aveva indicato nella sua visione al terzo cielo il fondamento
e la prova del suo essere Apostolo di Cristo. Per rispondere ai suoi
detrattori che chiedevano segni visibili della sua elezione divina, Paolo
mette in luce le caratteristiche essenziali che fanno di lui un vero
24 Del resto sono molti i luoghi in cui Dante profetizza la propria salvezza, cioè
il suo ritorno in Paradiso, sulle orme di questo versetto della Seconda lettera a Timoteo
(cfr., ad esempio, Pg XXXII, 100-105, Pd XV, 29-30).
[ 13 ]
654 annarita placella
Apostolo: elenca per prima le sofferenze e i pericoli patiti nell’annuncio
del Vangelo (II Cor. XI, 23-27) e solo poi riporta il segno della visione.
Il suo ‘vanto’ (II Cor. XI, 18, 21, 30; II Cor. XII, 1, 5-6, 9) si fonda
dunque allo stesso modo sulle sofferenze e sulla visione. Ecco perché
Dante scrive, a proposito del raptus paolino: «per recarne conforto a
quella fede»: perché, pur non avendo Paolo potuto rivelarci i particolari
della visione, il fatto che essa sia avvenuta è già di per sé (senza
bisogno di una descrizione particolareggiata), agli occhi dei suoi detrattori
e anche nostri (di ‘noi’ destinatari del «ne»), la prova e il fondamento,
assieme alle tribolazioni da lui affrontate, del suo apostolato.
Inoltre, il verso «per recarne conforto a quella fede» ha anche la
funzione di sottolineare che il fatto che Paolo abbia, sebbene laconicamente,
dichiarato di essere andato in Paradiso è già di per sé la prova
(«conforto»), per ‘noi’ uomini e per la ‘nostra’ Fede («quella fede», If
II, 29), dell’esistenza del Paradiso.
Se invece si volesse interpretare, con altri critici, il «ne» di «per recarne
conforto a quella fede» come avverbio di luogo, e si intendesse
quindi leggere in If II, 29 il significato di ‘per recare dalla sua visione del
Paradiso conforto alla Fede’, il discorso non cambierebbe di molto: anche
secondo questa lettura del «ne», il fatto che Paolo dichiari di aver
avuto la visione del Paradiso è già di per sé, secondo Dante, la conferma
e la prova («conforto»), per la Fede («quella fede», If II, 29) che egli
contribuiva a diffondere, dell’esistenza del Paradiso.
Si può infine leggere questo verso secondo una terza interpretazione
che non cambia il nostro discorso di fondo (e cioè l’intimo legame
che Dante istituisce tra visione e apostolato, il quale per Paolo consiste
nel «conforto» degli uomini alla Fede, If II, 29, e per Dante nel ‘conforto’
degli uomini alla speranza, Pd XXV, 44-45): a San Paolo sarebbe
stata concessa la visione del Paradiso ‘per trarne’ (col significato ancora
una volta di avverbio di luogo) ‘conforto’ prima di tutto e in un primo
tempo per se stesso e per la ‘propria Fede’ personale, per poi ‘trarre’
da questa straordinaria esperienza mistica nuovo slancio per continuare
il suo apostolato di diffusione della Fede cristiana tra gli uomini.
Tale interpretazione di If II, 29, del resto, coincide con il senso che
Dante attribuisce, nei versi precedenti, alla visione di Enea, il quale
avrebbe tratto, dalle profezie udite da Anchise, la causa («cagione», If
II, 26) della sua vittoria sui popoli latini, che è stata determinata appunto
dal nuovo slancio che l’eroe troiano ha tratto dalla consapevolezza,
ricevuta dalle profezie, del grandioso obiettivo che doveva raggiungere.
Anche per Dante segni del suo apostolato sono, oltre la visione ri-
[ 14 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 655
cevuta (così come sottolineato anche da San Giacomo in Pd XXV, 40-
45), le tribolazioni patite, di cui ‘si vanta’, sul modello di II Cor. XI, 18,
21, 30 e XII, 1, 5-6, 9, allo scopo di sottolineare ancora una volta la
continuità del suo apostolato con quello di Paolo. Si confrontino, ad
esempio, un versetto del brano della seconda lettera ai Corinzi introdotto
dalla formula: «dico audeo et ego» (II Cor. XI, 21) in cui Paolo ‘si
vanta’ delle sue tribolazioni e i versi danteschi che lo parafrasano (corsivo
mio):
in labore et aerumna in vigiliis multis in fame et siti in ieiuniis multis in
frigore et nuditate (II Cor. XI, 27)
O sacrosante vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi (Pg XXIX, 37-38).
Dal momento che in Paolo il vanto delle tribolazioni introduce il
racconto-rivelazione (introdotto dal preambolo «si gloriari oportet
non expedit quidem veniam autem ad visiones et revelationes Domini
», II Cor. XII, 1) della visione ricevuta in dono di II Cor. XII, 2-5, è lecito
dedurre che anche in Dante le lodi delle proprie tribolazioni (tra
cui si veda, oltre ai versi appena citati, quelli sull’impresa di scrivere
che lo «ha fatto per molti anni macro», Pd XXV, 3)25 hanno lo scopo di
sottolineare la continuità con Paolo e quindi l’autorevolezza della propria
visione-Rivelazione.
5. Dante nella Commedìa supera la reticenza di Paolo di II Cor. XII a descrivere
la visione
Riporto i seguenti versi del proemio del Paradiso dai quali partiremo
per riflettere su come Dante ‘spieghi’ il suo superamento della reticenza
di Paolo:
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende:
perch’, appressando sé al suo Desire,
nostro intelletto si profonda tanto
che dietro la memoria non può ire.
25 Tra le sofferenze collegate alla visione rientrano anche le rivelazioni che il
pellegrino Dante riceve sul proprio futuro esilio durante il suo viaggio nell’oltretomba.
[ 15 ]
656 annarita placella
Veramente quant’io del regno santo
nella mia mente potei far tesoro
sarà ora materia del mio canto (Pd I, 4-12).
I versi 5-6 si riferiscono, com’è noto, al celebre versetto II Cor. XII,
4: «raptus est in paradisum et audivit arcana verba quae non licet homini
loqui». Dante, quindi, nel proemio del Paradiso, nell’esporre la
propria difficoltà a ricordare la visione, indirettamente ci dice anche il
motivo («perch’», v. 7) per cui lo stesso Paolo (e in generale «chi di là
sù discende») non ha potuto «ridire» (v. 5) la sua visione: l’elevarsi
dell’«intelletto»26 trascese l’umana ragione a tal punto che la memoria,
finita la visione, non poté ricordare. Lo stesso Dante, nel suo commento
nell’Epistola a Cangrande a questi versi, ribadisce la difficoltà della
memoria (a tale difficoltà riconduce il significato dell’espressione di
Pd I, 6 «né sa») che aveva già dichiarato ai versi Pd I, 7-9, ma a questa
prima difficoltà ne aggiunge una seconda (con la quale spiega il senso
dell’espressione da lui usata in Pd I, 6 «né può»): quella di riuscire a
descrivere quel poco che la memoria ha potuto ritenere27:
Vidit ergo, ut dicit, aliqua ‘que referre nescit et nequit rediens’. Diligenter
quippe notandum est quod dicit ‘nescit et nequit’: nescit quia
oblitus, nequit quia, si recordatur et contentum tenet, sermo tamen deficit.
(Ep. XIII, 83)28.
L’ultima espressione, «sermo […] deficit», è un’autocitazione di un
luogo dell’Inferno in cui aveva già espresso, in termini analoghi a Pd I,
6, la sua difficoltà a esprimere un episodio della sua visione:
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’hanno a tanto comprender poco seno (If XXVIII, 4-6).
26 Cfr. anche Conv. III, iii, 15: «la lingua non è di quello che lo ’ntelletto vede
compiutamente seguace» (cito dall’edizione Dante Alighieri, Convivio, a cura di
Gianfranco Fioravanti, Canzoni a cura di Claudio Giunta, in Dante Alighieri,
Opere. Edizione diretta da Marco Santagata, Milano, Arnoldo Mondadori, 2014,
II, pp. 3-805).
27 Frequenti sono gli accenni meta-linguistici (per i quali rimando a A. Placella,
Profetismo e archetipo del Puer in Dante, cit., pp. 80-92) di Dante nel Paradiso alla
difficoltà della sua scrittura. In questi luoghi la difficoltà presentata è, come in Pd
I, 6 e Ep. XIII, 83, duplice: quella della memoria a ritenere la visione e quella della
lingua a esprimere quel poco che la memoria è riuscita a conservare.
28 In questo articolo cito l’Epistola XIII dall’edizione Dante Alighieri, Epistole,
a cura di Claudia Villa, in Dante Alighieri, Opere, cit., II, pp. 1494-1521.
[ 16 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 657
Anche in tale occasione, alla iniziale dichiarazione della difficoltà
della lingua (Inf. XXVIII, 5), seguiva poi la descrizione di quanto Dante
aveva appena definito ineffabile. È molto importante che Dante
stesso in Ep. XIII, 83 colleghi a If XXVIII, 4-5 l’espressione «né può» di
Pd I, 6, che egli stesso, nel commentarla, riferisce alla difficoltà della
lingua. Infatti, i due luoghi sono analoghi: come succede dopo la dichiarazione
di ineffabilità di If XXVIII, 4-6, così anche in Pd I, 10-12
Dante annuncia che si sta accingendo a descrivere la propria visione
paradisiaca (‘contrariamente’ a «chi» «né sa né può», Pd I, 6). Questo
annuncio, fatto immediatamente dopo una precedente dichiarazione
di ineffabilità, ricorda anche altri passi in cui Dante parimenti dichiara
di accingersi a descrivere episodi della visione nonostante essi siano
superiori ai comuni limiti e alla comune capacità della mente umana e
del linguaggio29.
Nell’Epistola Dante come esempi di ineffabilità per impossibilità di
ricordare aveva fatto riferimento non solo a Paolo, ma anche ad altri
due luoghi biblici: «Et hoc est insinuatum nobis in Matheo, ubi tres
discipuli ceciderunt in faciem suam, nichil postea recitantes, quasi
obliti. Et in Ezechiele scribitur: “Vidi, et cecidi in faciem meam”» (Ep.
XIII, 80). Tuttavia Dante, in Pd I, 10-12, immediatamente dopo aver
indicato la propria continuità con «chi» (Pd I, 6) prima di lui ha avuto
delle visioni rese ineffabili dall’insufficienza della memoria (e nel suo
commento a questi versi in Ep. XIII, 80, come abbiamo appena visto,
porta altri due esempi biblici per questo tipo di ineffabilità accanto
all’esempio di San Paolo il cui «quae non licet homini loqui» di II Cor.
XII, 4 era già parafrasato in Pd I, 5-6), dichiara di accingersi a descrivere
ciò che riesce a ricordare. Al verso 10, con la fortissima avversativa
«veramente», inizia il distacco con «chi» «né sa né può»; e se prima
aveva usato l’espressione «nostro intelletto» (6) per segnalare le caratteristiche
che egli stesso condivideva con Paolo e gli altri mistici che
avevano avuto la stessa difficoltà dell’ineffabilità, ora utilizza le
espressioni «mia mente» (11), «mio canto» (12) per segnalare la sua
unicità e il superamento di questi suoi predecessori. Infatti, al loro
‘silenzio’ si contrappone il suo «canto», sebbene questo avrà per oggetto
non l’intera visione, ma solo ciò che di essa la sua memoria ha
potuto ritenere (vv. 10-12). E nell’auto-commento che fa nell’Epistola
29 In particolare, oltre a If XXVIII, 1-6, si veda If XXXII, 1-9, Pd XXIII, 64-69. Mi
soffermo sull’analisi di questi luoghi in A. Placella, Profetismo e archetipo del Puer
in Dante, cit., pp. 78-80, 84-85, 105-107. Per la difficoltà dantesca, propria del mistico,
di esprimere l’inesprimibile, cfr. ivi, pp. 75-92.
[ 17 ]
658 annarita placella
Dante spiega anche cosa lo distingue dai tre esempi che ha appena
portato di ‘visionari silenziosi’, e cioè il suo essere poeta:
Multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt:
quod satis Plato insinuat in suis libris per assumptionem metaphorismorum;
multa enim per lumen intellectuale vidit que sermone proprio
nequivit exprimere (Ep. XIII, 84).
Il fatto che Dante abbia fatto riferimento alla figura retorica della
metafora proprio a questo punto del suo commento ai versi Pd I, 4-12
è molto importante, perché ci aiuta a capire cosa permette lo scatto dai
versi Pd I, 5-9 di continuità con Paolo ai versi 10-12 di superamento
del «non licet» paolino: se Dante riesce a risolvere il problema dell’ineffabilità
è anche grazie agli strumenti retorico-poetici, quali in particolare
l’analogia e la metafora, che gli consentono di alludere per via
analogica all’inesprimibile30. Tali strumenti sono i primi cinque elencati
nell’Epistola a Cangrande:
Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus,
transumptivus (Ep. XIII, 27).
Infatti Dante, nella costruzione della propria identità di Profeta,
non si rifà solo al modello di Paolo di II Cor. XII, il quale ebbe la visione
del Paradiso ma non fu in grado di descriverla, ma anche a quello
del poeta, Virgilio, che già prima di lui descrisse un viaggio nell’oltretomba.
Dante, per questo, ha uno strumento in più rispetto a Paolo:
egli, oltre ad essere, come quest’ultimo, Profeta e Apostolo, è anche
poeta, autoproclamandosi, sin da If I, 85-87, continuatore della poesia
epica di Virgilio.
Come nei brani che abbiamo appena letto dell’Ep. XIII, 84 e 27,
anche ai versi Pd I, 13-15 Dante fa riferimento al suo essere poeta, proprio
per indicare in questo suo status uno dei motivi per cui ha superato
l’ineffabilità dei suoi predecessori. Da qui l’invocazione ad Apollo,
dio della poesia e nello stesso tempo figura del Dio cristiano, per
chiederne l’ispirazione. Ma Dante non chiede ad Apollo soltanto l’ispirazione
poetica che aveva già chiesto alle Muse nelle precedenti
invocazioni (If II, 7-9; Pg I, 7-12; Pg XXIX, 37-42): Dante chiede ad
Apollo anche di ispirarlo in quanto scriba Dei.
30 Per l’uso dell’allegoria e dell’analogia nella Commedìa cfr. ivi, pp. 27-30 e 143-
153.
[ 18 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 659
E il fatto che Dante sia stato scelto da Dio stesso come scriba Dei31 è
il secondo motivo (oltre a quello, appena visto, del possesso da parte
di Dante degli strumenti poetici che gli consentono di esprimere per
via analogica l’inesprimibile) per cui egli può superare il «non licet» di
Paolo. Anche nell’allusione al suo essere scriba Dei e quindi proprio
nel momento in cui dichiara il suo superamento del «non licet», utilizza
un’espressione paolina, «vaso», per sottolineare allo stesso tempo
la sua continuità con l’Apostolo (allo stesso modo in cui la parafrasi,
in Pd I, 5-6, delle parole di Paolo «quae non licet homini loqui» serviva
a segnalare, come abbiamo visto, nello stesso tempo il superamento di
esse e la continuità con Paolo):
O buono Apollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso
come dimand’a dar l’amato alloro! (Pd I, 13-15).
L’espressione «vaso» ha la funzione di sottolineare la continuità
della sua missione con quella di Paolo32, che, secondo l’espressione
degli Atti degli Apostoli (IX, 15), è definito da Dante stesso, in altri luoghi
del Poema, «Vas d’elezïone» (If II, 28) e «gran Vasello dello Spirito
Santo» (Pd XXI, 127).
Ma l’espressione «vaso» si arricchisce in Pd I, 14 di un significato
ancora più complesso, alludendo anche a Dante come scriba Dei. Dante,
infatti, come lo scriba Dei biblico, si fa ‘tramite’ di Dio, da cui viene
ispirato nella scrittura; al v. 19 chiede ad Apollo: «Entra nel petto mio,
e spira tùe». Dante-scriba Dei diventa quindi un vero e proprio ‘contenitore’,
«vaso», appunto: un ‘invasato’ nel senso etimologico del termine.
L’invocazione ad Apollo, figura del Dio cristiano, è direttamente
collegata da Dante all’episodio di Marsia (vv. 20-21): il collegamento
che Dante compie tra la richiesta ad Apollo a fare di lui «vaso» del
suo «valor» (14) e il riferimento a Febo, al quale implicitamente si
paragona nel chiedere ad Apollo di ‘spirare’ nel suo «petto» (19), ser-
31 Infatti la sua missione è, come gli viene rivelato progressivamente, tramite
diverse investiture (per le quali cfr. ivi, pp. 69-70, 113-116, 242-243) che riceve nel
corso del suo viaggio, a partire da quelle di Beatrice del Paradiso Terrestre (Pg
XXXII, 103-105 e Pg XXXIII, 52-54), di descrivere nel suo Poema la visione e le profezie
in essa rivelategli.
32 If II, 28. Per la continuità che Dante sottolinea della sua missione-apostolato
con quella di Paolo rimando a A. Placella, Profetismo e archetipo del Puer in Dante,
cit., pp. 113-116.
[ 19 ]
660 annarita placella
ve ad avvalorare l’allusione33 da parte di Dante a se stesso come scriba
Dei. I versi 19-20 sono stati infatti interpretati da alcuni, a partire da
Jacopo Della Lana, secondo la lettura del mito che distingue tra Apollo
e Febo: secondo Jacopo Della Lana, Dante in questi versi dice che
Apollo penetrò in Febo e cantò per lui, facendo sì che Febo vincesse
nella gara con Marsia. Questo è il senso che Dante attribuisce anche
al suo canto del Paradiso: egli si fa «vaso», come Febo34, strumento
per esprimere contenuti profetici, ispirati da Apollo-Dio, della cui intera
portata neanche lui può essere sempre pienamente consapevole35.
Finora abbiamo visto, quindi, che Dante supera il «non licet» paolino
sia perché egli possiede, rispetto a Paolo, gli strumenti poetici per
esprimere l’inesprimibile, sia perché ha ricevuto, per elezione divina,
la missione di scriba Dei (che gli è rivelata in progressive tappe del suo
viaggio), per cui è Dio stesso a ispirarlo, come ha ispirato lo scriba Dei
biblico.
Una terza differenza col racconto di Paolo della visione sta nel fatto
che il Poeta viaggia col corpo. Ciò rende la visione dantesca di una tipologia
diversa rispetto a quella del raptus paolino di II Cor. XII, che,
come abbiamo detto nel primo paragrafo, è ineffabile in quanto è di
tipo intellettivo secondo la classificazione di Sant’Agostino fatta propria
anche da San Tommaso. In questo Dante ha come modello Enea,
che per questo aspetto ‘completa’ il modello paolino di visione, proprio
come abbiamo visto che la ‘dicibilità poetica’ del viaggio di Enea,
descritto senza reticenze da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, ‘completava’
l’ineffabilità del viaggio di Paolo.
I riferimenti di Dante alla presenza del suo corpo sono molto frequenti
nella Commedia, e servono innanzitutto a ribadire la verità della
33 Tale allusione al suo essere scriba Dei dà più forza a questa invocazione rispetto
a quelle precedenti, sopra citate, alle Muse.
34 Anche Francesco da Buti e l’Anonimo Fiorentino distinguono Apollo da
Febo: cfr. V. Placella, Il riuso del mito classico nel Paradiso di Dante, in Atti del
Convegno Il simbolo del mito attraverso gli studi del Novecento (Recanati-Ancona,
13-14 ottobre 2006), Ancona, Accademia Marchigiana di Scienze, Lettere ed Arti,
2008.
35 Per la complessa questione di Dante profeta in parte inconsapevole, come
anche lo scriba Dei biblico (laddove invece, come abbiamo visto qui, nel primo
paragrafo, in nota, Virgilio è per Dante profeta del tutto inconsapevole delle profezie
che veicola nell’Eneide e nella IV Egloga), dell’intera portata delle profezie di cui
si fa tramite nella Commedìa, rimando a A. Placella, Profetismo e archetipo del Puer
in Dante, cit., pp. 231-235.
[ 20 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 661
visione36. Essi, inoltre, servono a ricordarci che la visione dantesca,
essendo avvenuta con la partecipazione del corpo e quindi dei cinque
sensi, non è ineffabile come quella paolina del terzo cielo avvenuta,
nell’esegesi agostiniana, esclusivamente per via intellettiva. Infatti, secondo
la teoria aristotelico-tomistica della conoscenza, condivisa da
Dante, gli uomini apprendono tramite l’ausilio dei cinque sensi; perciò,
essendo la visione dantesca avvenuta con il corpo e quindi anche
con la partecipazione dei cinque sensi, essa è stata compresa dalla
mente del poeta e quindi anche ritenuta nella sua memoria e può essere
perciò raccontata agli uomini.
L’importanza del fatto che l’esperienza di Dante della visione avvenga
tramite i cinque sensi è spiegata allo stesso Dante in Pd IV,
40-4837 da Beatrice; a lui è offerta una visione sensibile dei regni ultraterreni
perché l’ingegno umano apprende tramite i sensi ciò che
poi rielabora in conoscenza intellettuale (Beatrice, infatti, si riferisce
alla teoria aristotelico-tomistica della conoscenza): «vostro ingegno
/ […] solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno
» (Pd IV, 40-42). Per questo motivo, come spiega la stessa Beatrice
in Pd IV, 28-39, le anime, che in realtà risiedono tutte nella Candida
Rosa, gli appaiono dislocate nei diversi cieli: affinché gli siano maggiormente
comprensibili i diversi gradi della loro beatitudine. Si
pensi anche alla visione della Candida Rosa: Beatrice spiega a Dante
che a causa della sua capacità di conoscenza unicamente sensibile è
per lui possibile giungere a quella visione soltanto per gradi (Pd
XXX, 76-81)38; perciò egli vede prima un grande fiume di luce in cui
si rispecchiano i beati (61-69), perché tale tipo di visione è più vicina
alle sue capacità di comprensione; poi vede le anime beate in maniera
diversa, perché la sua capacità di sostenere la visione si è evoluta
e vede il fiume prendere forma circolare e divenire la candida rosa
(82-132).
La partecipazione di Dante alla visione col corpo e con i cinque
sensi è dunque una delle fondamentali differenze con la visione di
36 Per i discorsi di Dante sulla verità della visione e sulla fedeltà ad essa della
sua scrittura cfr. ivi, pp. 75-80.
37 L’importanza di questo luogo, anche ai fini della comprensione del «sensus
parabolicus», che fa parte del livello letterale dell’allegoria dantesca sul modello di
quella biblica, è illustrata da V. Placella, «Guardando nel suo figlio…», cit., p. 122-
124.
38 Il valore dell’esperienza e dei sensi nel processo di conoscenza razionale è
ribadito in Pd II, 95 (cfr. anche If XVII, 38 e If XXVI, 116).
[ 21 ]
662 annarita placella
Paolo del terzo Cielo che spiegano come Dante abbia potuto superare
l’ineffabilità di II Cor. XII. Abbiamo già visto che Sant’Agostino negava
che Paolo fosse col corpo durante la visione di II Cor. XII, e che lo
stesso Paolo esprimeva reticenza anche su questo punto:
scio hominem in Christo ante annos quattuordecim sive in corpore nescio
sive extra corpus nescio Deus scit raptum eiusmodi usque ad tertium
caelum et scio huiusmodi hominem sive in corpore sive extra
corpus nescio Deus scit quoniam raptus est in paradisum et audivit
arcana verba quae non licet homini loqui (II Cor. XII, 2-4).
Dante parafrasa questo passo: «S’io era corpo, e qui non si concepe
» (Pd II, 37). Tuttavia egli lo fa per dire proprio il contrario di Paolo,
e cioè per dire che egli era lì, invece, col corpo: infatti, com’è noto, il «si
concepe» introduce la considerazione che, nonostante qui sulla terra
non si possa concepire la compenetrazione tra due corpi (la sostanza
lunare e il corpo del poeta), essa invece si verificò in quella circostanza,
e Dante la spiega al lettore tramite l’analogia con l’unica compenetrazione
tra corpi possibile sulla terra, e cioè il raggio di luce che penetra
l’acqua. L’uso del «se» iniziale del verso 37 è pertanto un tributo a
Paolo, un’espressione di modestia che vorrebbe attenuare, con questo
artificio linguistico, la dichiarazione, successiva al «se», di aver ‘superato’
Paolo, il quale invece diceva di non sapere se la sua visione fosse
avvenuta col corpo o meno. Lo stesso scopo ha quindi anche l’analogo
«se» di Pd I, 73 che introduce una parafrasi dello stesso luogo paolino
espressa dal punto di vista dell’anima, ma che costituisce una similare
espressione di modestia (Pd I, 73-75). Allo stesso luogo paolino Dante
aveva fatto riferimento, come abbiamo visto all’inizio di questo paragrafo,
nell’incipit dello stesso canto, in Pd I, 5-6. L’omaggio al luogo
paolino con la triplice citazione diretta del medesimo passo nel giro
dei primi due canti del Paradiso esprime nello stesso tempo la continuità
col modello paolino e insieme la consapevolezza dantesca di averne
superato la reticenza.
Del resto Dante ‘compensa’ questa sua implicita dichiarazione di
aver ‘superato’ Paolo essendo andato in Paradiso col corpo, con l’alludere
a Paolo proprio in alcuni luoghi del Paradiso in cui fa riferimento
alla propria corporeità. Si tratta di quei luoghi in cui Dante, come Paolo
sulla via di Damasco, perde, di fronte all’oltranza della visione, la
vista, che gli viene poi restituita da Beatrice, come a Paolo da Anania
(cfr. Pd XXIII, 118, Pd XXVI, 1-12). Tuttavia la differenza fondamentale
tra Paolo e Dante è che, mentre il primo riacquista la vista dopo che la
[ 22 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 663
visione è già terminata, Dante la riacquista durante la visione stessa,
affinché la sua vista sia potenziata per poter ‘sopportare’ con gli occhi
del corpo ulteriori accrescimenti dell’oltranza della visione, come avviene
anche durante la visione della Candida Rosa. Un attimo prima
di ricevere una nuova capacità visiva (Pd XXX, 58), Dante aveva subito
un accecamento che aveva descritto tramite un richiamo letterale
alla visione sulla via di Damasco:
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva (Pd XXX, 49-51).
Sulla ripresa da Paolo del termine «circunfulse» si è soffermato
Marco Ariani, che riporta i seguenti luoghi degli Atti degli Apostoli: «et
subito circumfulsit eum lux de caelo» (Act. Ap. IX, 3); «subito de caelo
circumfulsit me lux copiosa» (ivi, XXII, 6); «vidi […] de caelo supra
splendorem solis circumfulsisse me lumen, et eos qui mecum simul
erant» (ivi, XXVI, 13)39.
6. Gli scopi delle visioni di Paolo e di Dante
Se lo scopo immediato della visione sulla via di Damasco è la conversione
e quindi la salvezza personale di Paolo, tale visione ha anche
lo scopo, per Paolo, come abbiamo visto nel secondo paragrafo, di
sottolineare la sua elezione divina e quindi il suo essere Apostolo di
Cristo. Anche la visione del Terzo cielo, come abbiamo visto nel quarto
paragrafo, è portata da Paolo come prova dell’elezione divina ed è,
anche nell’interpretazione che ne dà Dante, il fondamento dell’apostolato
paolino.
La visione dantesca condivide questi due scopi delle visioni paoline.
I due blocchi del Poema, costituiti da Inferno e Purgatorio il primo e
dal Paradiso il secondo, sono rispettivamente caratterizzati dal primo
e dal secondo scopo: innanzitutto la salvezza personale di Dante e poi,
raggiunta questa, il suo apostolato tramite la missione della scrittura.
Questo secondo scopo della visione comincia a essere rivelato a Dante
39 M. Ariani, Lux inaccessibilis, cit., p. 342. Rimando alle pp. 341-342 e 389 di
questo libro anche per l’analisi delle diverse fonti del «circunfulse» dantesco. Sulla
ripresa dantesca dei tre luoghi paolini appena citati cfr. anche G. Ledda, Modelli
biblici nella Commedia: Dante e san Paolo, cit., p. 215.
[ 23 ]
664 annarita placella
personaggio negli ultimi canti del Purgatorio e diviene il fondamento
del Paradiso. Questi due diversi scopi, ai quali, come vedremo subito,
fanno riferimento rispettivamente Beatrice in Pg XXX, 136-138 e San
Giacomo in Pd XXV, 43-45, contraddistinguono a tal punto i due blocchi
del poema da far sì che Dante si riferisca a ciascuno di essi con un
diverso titolo40.
Partiamo dal primo dei due scopi della visione. Anche Dante, come
Paolo sulla via di Damasco, deve ottenere la salvezza personale
prima di poter divenire strumento della salvezza dell’umanità: Beatrice
nel Paradiso Terrestre gli spiega, Pg XXX, 136-138, che era caduto
così in basso quando si ritrovò nella selva oscura, che per uscire dal
peccato doveva fare il viaggio attraverso i primi due Regni. Abbiamo
anche visto, nel secondo paragrafo, che l’esplicito riferimento alla visione
di Damasco, fatto attraverso la parafrasi dell’«exsurge» di Act.
Ap. XXII, 16 e XXVI, 16, serve a Dante a sottolineare l’elezione divina
anche per se stesso (come già il termine «exsurge» aveva indicato l’elezione
divina di Paolo) e per il proprio apostolato. Ed è questo il secondo
scopo della visione di Dante: la sua missione, alla quale è definitivamente
consacrato nel cielo delle stelle fisse dai tre Apostoli che
avevano già conferito a Paolo l’apostolato, di contribuire alla salvezza
del Mondo tramite la descrizione, nel suo poema, della visione e delle
profezie ricevute nei tre Regni. Tale scopo della visione dantesca è in
continuità con la missione dell’apostolato di Paolo e col suo essere
Profeta secondo le caratteristiche della profezia ‘utile’ indicate in I
Cor. XII e XIV. La missione di Dante è, in ottemperanza a quello che
diceva San Tommaso (come si è visto nel terzo paragrafo) sulla scorta
di I Cor. XII e XIV e diversamente da quanto compiuto da Paolo in
relazione alla visione di II Cor. XII, quella di rivelare al Mondo e alla
Chiesa il contenuto e i particolari delle Profezie apprese durante la
visione.
7. L’esperienza dei tre Regni secondo la triplice classificazione medievale
della visione
Come dicevamo, Dante sottolinea più volte nel corso del poema di
aver avuto la visione col corpo, e che quindi ha potuto avvalersi dei
40 Per la questione dei due titoli del Poema (Commedìa in If XVI, 128 e «sacrato
poema» e «poema sacro» rispettivamente in Pd XXIII, 62 e in Pd XXV, 1), cfr. A.
Placella, Profetismo e archetipo del Puer in Dante, cit., pp. 67-69.
[ 24 ]
dante poeta-teologo e il modello paolino di visione e profezia 665
cinque sensi per comprenderla (secondo la già citata teoria della conoscenza
aristotelico-tomistica) con la mente, in modo tale da poterla poi
descrivere al mondo.
Ma la visione dantesca non è semplicisticamente riducibile a quella
del primo tipo della classificazione di Agostino, cioè corporale, sul
modello di quella che Dante attribuisce ad Enea («ad immortale/ secolo
andò, e fu sensibilmente», If II, 14-15). Alla visione di tipo corporale-
realistico si può ricondurre interamente quella dell’Inferno, che
infatti molto è debitrice del libro VI dell’Eneide, a proposito del quale
specialmente si parla di ‘realismo’ dantesco. Già nel Purgatorio, all’interno
di una visione anch’essa di tipo corporale, ne avvengono altre
che rientrano nel secondo tipo, quello ‘spirituale-immaginario’, della
classificazione agostiniana: la visione degli Angeli a difesa della Valletta
(Pg VIII, 19-39), la visione in sogno dell’aquila di Pg IX, 1-33,
l’estasi durante il sonno di Pg XV, 82-114, l’estasi fuori dai sensi di Pg
XVII, 13-45, dove un lume celeste muove la sua fantasia; la visione in
sogno della «femmina balba» di Pg XIX, 1-33; la visione in sogno di
Lia e Rachele; la visione dell’Eden di Pg XXIX-XXXIII che richiama la
visione dell’Apocalisse, la quale non a caso era riportata da Agostino
del De Genesi ad litteram appunto come esempio di visione ‘immaginaria’.
La visione di Dante è del tipo di quella del terzo cielo di Paolo,
‘intellettivo’, solo nella parte finale, relativa all’Incarnazione, visto
che la pedagogia divina di cui parla Beatrice in Pd IV, 28-48 non fa
uso, per far comprendere a Dante la visione dell’Incarnazione, né di
modi ‘sensibili’ (come nel primo tipo di visione, quello ‘corporale’) né
‘immaginario-simbolici’ (ancora presenti invece nella visione precedente
della Trinità, essendo quest’ultima del secondo tipo, visto che si
svolge attraverso immagini simboliche). A proposito della visione del
Mistero dell’Incarnazione, infatti, Dante dichiara: «se non che la mia
mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne41. / A l’alta
fantasia qui mancò possa» (Pd XXXIII, 140-142). In quell’istante, gli
viene a mancare la facoltà di ritenere e quindi descrivere la visione. Si
tratta evidentemente della visione «facie ad faciem» che Paolo in I
Cor. XIII, 12 definisce propria dei Beati e che Agostino definisce di ti-
41 I versi Pd. XXXIII, 140-141, pur costituendo un ulteriore, oltre al già citato Pd.
XXX, 49-51, richiamo lessicale ai tre luoghi degli Atti riportati alla fine del paragrafo
5, non sottolineano la continuità della visione finale della Commedìa con quella
di Damasco, dal momento che essa fu una visione di tipo ‘corporale’, secondo la
classificazione agostiniana.
[ 25 ]
666 annarita placella
po intellettivo, facendo Agostino rientrare in questa tipologia quella
di II Cor. XII, 1-4. Questa identificazione della visione finale di Pd
XXXIII, 140-142 con quella paolina del terzo cielo chiude il cerchio
aperto in If II, 28-32 dell’intimo legame tra le visioni del Paradiso di
Dante e Paolo.
Annarita Placella
Università degli Studi “Roma Tre”
[ 26 ]
Anna Rita Rati
Sul Canzoniere di Lorenzo Spirito Gualtieri
La lettura delle rime d’amore di Lorenzo Spirito Gualtieri, fondata su una puntuale
ricognizione degli autografi H 64 della Biblioteca Comunale “Augusta” di
Perugia e 232 della Classense, attesta con tutta evidenza la loro connessione con
il grande modello dei Fragmenta petrarcheschi. La fenomenologia amorosa che
è al centro di esse prescinde però dalla sua struttura profonda, esibendo temi e
stilemi ossessivamente ripetitivi. Si riproducono, a conclusione del saggio, cinque
sonetti del poeta.

A reading of Lorenzo Spirito Gualtieri’s love poetry, based on the examination
of the autographs H 64 in the Biblioteca Comunale “Augusta” in Perugia and
232 at the Classense, highlights its ties with the grand model of Petrarch’s Fragmenta.
The amorous phenomenology at its core ignores however Petrarch’s
structural complexity, manifesting obsessively repetitive themes and stylistic
traits. The essay ends with five sonnets by the poet.
Con Lorenzo Spirito Gualtieri, venturiero e poeta perugino del XV
secolo1, non tutti i conti sono stati ancora fatti. Se è vero che non pochi
Autore: Università degli Studi di Perugia; dottore di ricerca in Italianistica;
ratiannarita@gmail.com.
1 U na bibliografia degli studi sul Gualtieri, aggiornata fino alle soglie del 2000,
si può vedere nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 60, 2003, a cura di Guido
Arbizzoni. Mi limito a richiamare qui: Abdelkader Salza, Lorenzo Spirito Gualtieri
rimatore e venturiere perugino del sec. XV, in Raccolta di studi critici dedicati ad Alessandro
D’Ancona, Firenze, Barbera, 1901, pp. 277-294; Maria Iraci, Lorenzo Spirito
Gualtieri, Foligno, Campitelli, 1912; A. Salza, recensione al volume, cit., di M. Iraci,
«Giornale storico della letteratura italiana», LXIV (1914), pp. 191-209; Ignazio
Baldelli, Correzioni cinquecentesche ai versi di Lorenzo Spirito, «Studi di filologia
italiana», IX (1951), pp. 39-122, e Altri autografi di Lorenzo Spirito Gualtieri, «Studi di
filologia italiana», XIII (1955), pp. 363-369 (studi ripubblicati in Medioevo volgare da
Montecassino all’Umbria, Bari, Adriatica, 1971, pp. 419-517); Id., Umanesimo volgare
in Umbria, in L’Umanesimo umbro, Atti del IX Convegno di Studi Umbri, Gubbio,
22-23 sett. 1974, a cura della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Stu668
anna rita rati
studiosi hanno mostrato interesse per le sue rime d’amore, va anche
detto che nessuna edizione di esse, sia pure in forma antologica, ha
visto la luce in epoca recente, sicché si rende ancora necessario il ricorso,
da parte di chi voglia prenderne visione, ai non facilmente reperibili
opuscoli, in prevalenza per nozze, che hanno visto la luce nel corso
dell’Ottocento. Le rime d’amore dello Spirito, come si sa, ci sono
pervenute da due copie autografe, delle quali la prima segue immediatamente
il poemetto La Fenice nel ms. H 64 della Biblioteca Comunale
“Augusta” di Perugia e perciò risale, con tutta probabilità, al 1461
– data posta in calce allo stesso poemetto – mentre la seconda, molto
più tarda e molto più corposa, è contenuta nel ms. 232 della Classense2.
Va poi ricordato che il primo dei due autografi – designati da qui
in avanti con P e R –, oltre a presentare interventi correttori dello stesso
autore, risulta sistematicamente variato da un anonimo che nel
1526 si era proposto di emendarlo, prima di darlo alle stampe, sulla
base delle Regole del Fortunio (1516) e delle Prose del Bembo (1525). Di
alcuni sonetti dello Spirito si ha anche un terzo testimone nella trascrizione
fattane da Frate Francesco Florenario da Cortona, probabilmente
nel 1473 secondo Baldelli3, nel ms. 249 della Biblioteca comunale
della sua città (C): un manipolo di 26 sonetti che, se costituiscono una
copia intermedia tra P e R, derivano per circa la metà – non presente
in P – da altra o altre copie di manoscritti del poeta perugino. Sul numero
dei componimenti di P e di R si è fatta finora qualche confusione.
Ne è il primo responsabile Crescimbeni, che attribuì a P «dugento
sonetti, ventuno capitoli, e alcune canzoni e sestine», e a R, considerata
addirittura «copia più antica», 536 sonetti, 12 capitoli, 5 canzoni e 4
di di Perugia, 1977, pp. 67-85; Raoul Blomme, Note sur la sextine. Cinq sextines
inédites de Lorenzo Spirito, «Les lettres romanes», extrait du tome XXVI, Louvain,
1972, pp. 270-285; Roberto Pasanisi, Lorenzo Spirito e la sua “Finice”, «Esperienze
letterarie», XV (1990), n. 2, pp. 83-96; Marco Santagata, Fra Rimini e Urbino: i
prodromi del petrarchismo cortigiano, in Marco Santagata, Stefano Carrai, La lirica
di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 47-73.
2 Dall’autografo perugino sono stati tratti in prevalenza i testi degli opuscoli
sopra richiamati, dei quali dà conto M. Iraci, che ne riproduce alcuni altri anche
dall’autografo classense (M. Iraci, Lorenzo Spirito Gualtieri, cit., pp. 258-298). Più
rispettose della grafia e delle particolarità linguistiche dello Spirito le trascrizioni,
dai due autografi, di Baldelli (Correzioni cinquecentesche ai versi di Lorenzo Spirito,
cit.) e di Blomme (Note sur la sextine. Cinq sextines inédites de Lorenzo Spirito, cit., pp.
278-285).
3 Cfr. I. Baldelli, Correzioni cinquecentesche ai versi di Lorenzo Spirito, in Medioevo
volgare da Montecassino all’Umbria, cit., p. 435.
[ 2 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 669
sestine4. Lo stesso Mazzatinti assegna a R 5 canzoni (invece di 4) e 559
sonetti5 (nel manoscritto, malgrado la perdita di alcuni fogli, se ne
contano attualmente 562). A proposito delle canzoni di P va poi precisato
che esse non sono quattro ma tre6, mentre, per quanto riguarda i
sonetti, il medesimo autografo è mutilo del sonetto 487 (di cui è riportato
soltanto il primo verso: serà ’l ciel prima da bifolce arato), dell’intero
sonetto 49 e di quasi tutto il sonetto 50, di cui restano soltanto gli ultimi
due versi poi depennati (Albero che le radice suoi non perde / per
qualche tempo fa le fronde verde). Indizio dello scarso controllo del codice
da parte dell’autore copista è la riproduzione, dopo il sonetto 188, dello
stesso testo del sonetto 9. Per quanto riguarda R va aggiunto che
sono mutili i sonetti 20 (dei versi 1-3), 118 (dei versi 1-9), 126 (dei versi
4-14), 143 (dei versi 9-14).
Sul piano strutturale sia P sia R – che ne incorpora massicciamente
i testi – sono da connettere, per l’incidenza primaria dei sonetti e la
significativa apertura alle canzoni e alle sestine, oltre che per gli schemi
metrici adottati (il modulo ABBA ABBA CDE CDE per i sonetti,
con la variante CDC DCD), al grande modello dei Fragmenta petrarcheschi,
che più ampiamente incide a livello degli stilemi e del lessico.
Il sonetto incipitario – che trascrivo da P8 – presenta peraltro una sostanziale
differenza da quello del poeta trecentesco, in quanto lo Spirito
attribuisce non a un proprio «errore» ma al destino la causa della
sua vita amara, da cui mette in guardia «ognie altro viventi», senza
tuttavia venir meno al dovere di servitore fedele, fino alla morte, della
sua «singular Fenice».
Serà principio il mio amoroso stato
d’imfiniti sospiri e di lamenti
e vero exemplo ad ognie altro viventi
che servir non si vole signiore imgrato. 4
Io so l’exemplo, io so lo sventurato
conducto a crudele morte imgiustamenti;
4 Giovan Mario Crescimbeni, Della volgar poesia, V, p. 399, n. 17.
5 I dati sono quelli riportati nel volume degli Inventari de’ manoscritti delle biblioteche
d’Italia, relativo alla Biblioteca Classense.
6 La precisazione è stata fatta da M. Santagata, che in O chiarita stella e resplendente
sole ha riconosciuto il metro del serventese. Cfr. Id., Fra Rimini e Urbino: i
prodromi del petrarchismo cortigiano, in M. Santagata, S. Carrai, La lirica di corte
nell’Italia del Quattrocento, cit., p. 69.
7 La numerazione in cifre arabe dei sonetti di P, come di quelli di R, è fondata
sugli autografi e non tiene conto delle sestine, delle canzoni e dei capitoli.
8 Irrilevanti, sul piano del senso del messaggio, le varianti di R.
[ 3 ]
670 anna rita rati
tardo chi dopo il fatto alfin se penti
se dal principio accorto non è stato. 8
Voi trovarete i miey versi imfilice
in tucti y modi mey dolersi forte
sì di mia vita amara è la radice. 11
Questo fu ’l mio distino, questa è mia sorte
che questa sola singular fenice
me força di seguir fino a la morte. 14
Non in grado di interpretare in tutta la sua complessità il senso del
“dissidio”9 di Petrarca, lo Spirito ne riprende il formidabile armamentario
retorico per un esercizio di stile sorretto da una concezione “cortese”
dell’amore inteso come esperienza dolorosa ma obbligata per
l’uomo virtuoso che voglia perseguire il fine cui Dio e la natura lo
hanno destinato, cioè la fruizione della bellezza10. Se ne ha la conferma
da un esame dell’articolazione tematica delle canzoni. «Aymè tanti
sospiry / tante lagrime sparse / da quello giorno ch’io arse / doverieno
pure alfin trovare soccorso», scrive il poeta nella prima di esse –
Cresscie di giorno in giorno il gram disio11 – (vv. 9-12), dove il suo stato
d’animo angosciato è reso, più che dalla sottolineatura enfatica degli
Aymè (Oimè in R), dall’inasprimento del lessico di stampo cavalcantiano
(pena aspra e ria, v. 19; longo affanno, v. 24; l’anima impaurita vive im
pianto, v. 40; questo imferno, v. 48; soma d’infiniti affanni, v. 52; gran dolore,
9 Sempre utile, sull’argomento, la consultazione della classica monografia
Francesco Petrarca di Umberto Bosco (Bari, Laterza, 1946; seconda edizione aggiornata
e ampliata, 1961). Particolarmente attinenti ad esso, tra i non pochi e talora
pregevoli studi più recenti, quelli di M. Santagata. Cfr. M. Santagata, I frammenti
dell’anima. Storia e racconto nel “Canzoniere” di Petrarca, Bologna, il Mulino,
1992; Id., L’amoroso pensiero. Petrarca e il romanzo di Laura, Milano, Mondadori, 2014.
Per gli aspetti fondamentali della presentazione moderna di Petrarca sono da vedere
anche le tre edizioni del Canzoniere a cura di Ugo Dotti (Roma, Donzelli,
1996; seconda edizione, 2004), M. Santagata (Milano, Mondadori, 1996; seconda
edizione, 2004) e Rosanna Bettarini (Torino, Einaudi, 2005). Sulle prime due cfr.
Franco Suitner, Commenti e interpretazioni delle Rime, in Dante, Petrarca e altra poesia
antica, Fiesole, Cadmo, 2005, pp. 163-174.
10 Esula dal presente studio il proposito di un’indagine sul milieu in cui si svolge
l’esperienza petrarchista dello Spirito, che è la Perugia dominata da Braccio II
Baglioni, allora sede di «una ricca, se non splendidissima corte», come afferma
Salza, non mancando di offrircene uno squarcio suggestivo nella già citata recensione
a M. Iraci, pp. 196-201.
11 La corrispondente prima canzone di R, Cresscie a giorno per giorno il gram desio,
è ridotta drasticamente con il taglio dei vv. 11-16 della terza stanza, delle stanze
quarta, quinta e sesta, dei vv. 1-2 della settima. Le citazioni sono da P.
[ 4 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 671
v. 68; l’alma sconsolata, v. 70; l’imfinita doglia, v. 115). L’origine del suo
dolore, così «accerbo e grave» da suscitare pietà in un cuore di serpe12,
sta nel fatto che non gli è concesso di vedere i «belli occhie» nei quali
il suo cuore risiede. In essi egli ha potuto contemplare un mondo di
pura bellezza divenuto subito l’unico oggetto del suo desiderio, ma
che per sua colpa, a seguito delle molte partenze, e più ancora per la
mutata disposizione di lei, gli è dolorosamente precluso. Si pasce allora
di lacrime e di sospiri13, invidia il sole di mezzogiorno che può vedere
i capelli ora sciolti e ora raccolti del «bel capo adorno»14, sfoga il
suo dolore sulla riva di un «chiaro lagho» ai piedi di un duro scoglio15,
chiede a Dio di conservarla nella pudicizia16 e «nel bem far più ferma
sempre» (ibidem, v. 85). E piange e ride17 nello stesso tempo e apre il
cuore alla speranza nella «merçede» di cui il suo lungo servire lo renderà
degno:
Io veggio per continuo passare
ognie fiume corrente
condursi alfine al mar disiderato.
E veggio per continuo spirare
di più diversi venti 70
l’aer seren turbarsi im bruno stato.
Giogniere a roma il pover fatigato
dopo longo camin perseverando.
E ’l marmo romper per continue aqque.
12 Non poi l’anima mia se non con doglia, canz. II, v. 19. Per il numero delle stanze
la seconda canzone di P, collocata dopo il sonetto 37, coincide con la seconda canzone
di R.
13 P, canz. II 40. RVF 155, 14: «lagrime rare et sospir’ lunghi et gravi»; 212, 13:
«pur lagrime et sospir et dolor merco»; 366, 126-128: «Vergine, i’ sacro et purgo /
al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile, / la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri».
14 P, canz. II 45-50. RVF 90, 1-2: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi / che ’n
mille dolci nodi gli avolgea»; 227, 1-4: «Aura che quelle chiome bionde et crespe /
cercondi et movi, et se’ mossa da loro, / soavemente, et spargi quel dolce oro, / et
poi ’l raccogli, e ’n bei nodi il rincrespe».
15 P, canz. II 56-57. RVF 301, 1-2: «Valle che de’ lamenti miei se’ piena, / fiume
che spesso del mio pianger cresci»; 305, 9-11: «Mira ’l gran sasso, donde Sorga nasce,
/ et vedra’vi un che sol tra l’erbe et l’acque / di tua memoria et di dolor si
pasce».
16 P, canz. II 83. RVF 254, 6: «questa più d’altra è bella et più pudica».
17 P, canz. I 29. Il paradosso d’amore fa parte di un genere già coltivato in Provenza
(devinhals, coblas reversas) e portato poi alla perfezione da Petrarca, che ne
offrì un prestigioso paradigma con il sonetto 134 (Pace non trovo, et non ò da far
guerra), tradotto in esametri latini dal Salutati. Della sua fortuna quattrocentesca
rende testimonianza anche l’uso fattone in più occasioni dallo Spirito.
[ 5 ]
672 anna rita rati
Io spero che pur quando18 75
tempo serà, per lumga e vera fede,
trovarò in costey qualche merçede19.
È precisata poi, nel “congedo”, la «merçede» che il poeta si aspetta
dalla sua donna:
Vogliami nel secreto suo amare
e dil suo capo biondo
vogliami una grillanda fare al collo,
da poy m’ancida20 in sul bello petto mollo. 90
La conclusione “ingegnosa” non cancella l’impressione di scarsa
originalità che si ricava dall’articolazione tematica delle tre canzoni
(comuni a P e a R21), egemonizzata dal modello petrarchesco. La povertà
inventiva, all’origine della replicazione dei concetti, incide sulla
sintassi e sulla fisionomia metrica, per non dire dell’«ampiezza limitata
del lessico» già rilevata da Roberto Pasanisi nel poemetto La Finice22.
Ben visibile il rilievo dato dal poeta al tema della lode della donna
amata: tema su cui è incentrato il serventese O chiarita stella e resplendente
sole, costituito da una serie di microtemi (la leggiadria23, il bel
18 Il verso 75 è così variato dal “correttore” cinquecentesco: «spero che pur poi
che questo al ciel piacque». La stanza, riprodotta da P, manca però di un verso, che
è il quarto della sirma (ogni stanza della canzone, il cui schema è AbC, AbC; CDEE
dFF, comprende tredici versi). Nella terza canzone di R, Amor mi prese im più felice
stato, corrispondente a questa di P anche per il numero delle stanze, la lacuna viene
colmata con l’aggiunta del verso seguente, che è il decimo della stanza sesta:
«Onde el viso ligiadro che mi piaqque».
19 P, canz. III, Quantumche amor posto abbia in dolce stato, vv. 66-77.
20 U n auspicio siffatto ricorre più volte nei sonetti, tra i quali il 252 di R, Ben
ch’io pure arda in invisibile foco, dì cui riporto la seconda terzina: «quella che sorda
acresscie alli mey guay / facciame uno dì contento e puoi m’occida / che meglio è
tardo che non esser may». Il tema della «dolce morte d’amore» assume particolare
rilievo nel Canzoniere di Lorenzo de’ Medici.
21 Nessun elemento di novità offre la quarta canzone di R, Dura, acerba, crudele,
aspra mia vita, in cui il poeta ripropone, con enfasi, il suo «dolore mortale» (v. 12)
per il fatto di non poter vedere gli occhi di Fenice, sempre chiusa in casa, e di dover
considerare morta ogni sua speranza quando è più che mai «acceso» il suo «gram
disio» (v. 53).
22 A questo fondamentale aspetto della Finice «biunivocamente corrisponde»
– secondo lo studioso – «un campo ristretto d’idee e di motivi. Le lodi di Fenice, ad
esempio, iterano i medesimi concetti e la stessa aggettivazione con ossessiva, martellante
insistenza» (R. Pasanisi, Lorenzo Spirito e la sua “Finice”, cit., p. 91).
23 Parola associata, nei RVF, alle «belle membra» (son. 184) e alle qualità morali
di Laura (son. 261).
[ 6 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 673
viso adorno24, il colore bianco e vermiglio, le trecce d’oro ora raccolte
e ora disciolte25, lei fiore dell’altre belle26, la cara e felice finestra27 dalla
quale partirono le saette e i lacci benedetti, ecc.) che ricorrono insistentemente
anche nei sonetti. Riproduco qui di seguito il serventese:
O chiarita stella e resplendente sole28,
nel cui lume sta la vita mia,
amor per te m’envia
rendendo força al debile intelletto. 4
Io sento il cor nell’imfiammato petto
tolto da libertà voler narrare,
anima singulare,
la vita tua magnifica e gentile. 8
O luce sancta, qual mortale stile
quale humana virtù se daria vanto
24 RVF 85, 7: «et più colei, lo cui bel viso adorno». Cfr. anche Dante, Vita Nuova
XIX 11, Donne ch’avete intelletto d’amore, 43-44: «Dice di lei Amor: “Cosa mortale /
come esser po’ sì adorna e sì pura?”» e Guido Guinizzelli, Rime, Tegno∙l di folle
’mpres’, a lo ver dire, 31-32: «Ben è eletta gioia da vedere / quand’apare ’nfra l’altre
più adorna»; Io voglio del ver la mia donna laudare, 9: «Passa per via adorna, e sì gentile
». «Lo bello viso», «l’adorno viso» ricorrono in un sonetto, Lo viso mi fa andare
alegramente, di Giacomo da Lentini (v. 2 e v. 4), di cui vanno anche segnalati, per
l’influenza che possono aver esercitato sulla memoria poetica dello Spirito, i sonetti
Madonna ha ’n sé vertute con valore e Diamante, né smiraldo, né zafino.
25 Cfr. la nota 14.
26 La metafora floreale, che ricorre anche (e non solo) nei sonetti 436 (Veggio da
lunge il mio pensier pensoso, v. 12: «Così contemplo il fior de l’altre belle») e 507 di R
(Fenice mia più che l’usato dura, v. 11: «o fior de l’altre belle»), è ampiamente attestata
nella poesia d’amore del Quattrocento. Ne fa uso Poliziano nei Rispetti o riprendendola
letteralmente (XIV 2), o variandola (X 7-8, XXVII 1, LXXVI 8). Documenta
puntualmente la sua origine provenzale Letterio Cassata, che, muovendo dalla
canzone Oi lasso (forse di Federico II), richiama testi dei trovatori Aimeric de Peguilnan,
Rambertino Buvalelli, Gaucelm Faidit. Cfr. Federico II di Svevia, Rime, a
cura di L. Cassata, Roma, Quiritta, 2001, pp. XX-XXIII. Cfr. anche Laude cortonesi,
a cura di Giorgio Varanini, Luigi Banfi, Anna Ceruti Burgio, Firenze, Olschki,
1981, Cort. IX 19: «Vergine bella, fior sovr’ogne rosa». Nei RVF, 289, 1: «L’alma mia
fiamma oltre le belle bella».
27 La «cara» e «filice» finestra. Cfr. il son. 436 di R: «Veggio da lunge il mio signor
pensoso / star sopra la sua cara alma finestra». RVF 100, 1: «Quella fenestra
ove l’un sol si vede».
28 Il serventese presenta lo stesso schema metrico di Nel verde tempo della vita
nostra di Antonio Di Guido, il celebre poeta improvvisatore elogiato dal Poliziano
(il testo si può leggere in Lirici toscani del ’400 a cura di Antonio Lanza, Roma,
Bulzoni, 1973, I, pp. 174-178). Per l’incipit, Urb. XIV 45: «O aurora clarita plu ke
sole» (riferito alla Vergine). Cfr. R. Bettarini, Jacopone e il Laudario urbinate (con i
testi), Firenze, Sansoni, 1969.
[ 7 ]
674 anna rita rati
che redicesse alquanto
di tanta legiadria sola una parte? 12
Qual força, quale imgiegnio, over quale arte
o natura giamay podde formare
el bel viso ove appare
che la gloria del ciel sia tucta imsieme? 16
El sol non ch’altri tuoy belleççe teme;
chiarita, viva, fulvida e serena,
certo ch’io credo appena
che nel ciel sia più bella creatura. 20
Anima gratiosa, amgiola pura,
belleçça simgular, tu fuste quella
che co la vista bella
hai posta in dolce stato la mia vita. 24
O gemma oriental chiara e polita,
col tuo vago color biamcho e vermiglio,
al volgere del bel ciglio
tu m’imfiammasti di novello amore, 28
Io ardo, io sento nel ferito core
l’inmagin tua che sempre m’è palese
e benedetto il mese
e ’l giorno, e l’ora e ’l ponto ch’io t’amay. 32
Oymè, ch’amanti al mondo non fu may
felice quanto io quando io comtemplo
che di belleççe un templo
amore ha dato a mirare gli occhie mey. 36
Luce inmortal, tu sey sola coley
che coy belli occhie poy beato farme
ed affanno cavarme
pure che tu voglie, o dolce mio signiore, 40
Et se giamay senthij per te dolore
o sento o sentirò: certo io non curo,
che non m’è forte o duro,
amor, per te sintir tormenti e guay. 44
Ma quando io penso ad quello: ch’io non fuy may
degnio d’amarte o anima gintile,
essendo basso e vile
rispetto al pregio de la tua belleçça, 48
sento nel mio servire una dolceçça
con tanta força inusitata e nova
ch’io conosco per prova
ch’a l’alte imprese ognie anima è filice. 52
O di mia vita principal radice,
bem posso benidire el tempo el locho
dove s’accese il focho
che sempre è più cressciuto a giorno a giorno. 56
[ 8 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 675
Cara finestra che ’l bel viso adorno
mi dimostraste ove io m’innamoray,
quando serà giamay
ch’io ti reveggia como io fey quella ora? 60
O da me molto amata mia signiora,
principio fu la dolce gillosia
de la servitù mia
quel primo dì dove io ti vidde stare. 64
O finestra filice al mio guardare,
di lì vennero i colpi e le saette
e y lacci benedette
ch’amor mi tese ney belli occhie toy. 68
Quel dì fuy preso e non fuy may dapoy
liber né may serò finché la vita,
o stella mia chiarita,
mi durerà che serà quanto vole. 72
Em quel dì gli occhie mey viddero il sole
degli occhie mey che prima era acechato:
im quel dì mutay stato
per poder sempre viver sença affanno. 76
Ad questo modo i tuoy belli occhie m’anno
comducto, signior mio, per sempre amarte
e col cor siquitarte
in ognie luocho di pace o di guerra. 80
Filice il mondo e filice la terra
dove nasscieste o fior dell’altre belle,
che um sol sey fra le stelle
lucido, chiaro, amgellico e polito. 84
Ognior ch’io penso, o viso colorito,
nel tempo che me stava nel giardino
per voler fare inchino
debitamente a la tua gramde alteçça, 88
a milli doppie cresscie la dolceçça
remembrando le belle treccie accolte
per me esser dissciolte
che magiore atto non podde io vedere. 92
Questi fu ’l fuocho, questi fu ’l piacere,
qui la richeçça e ’l mio primo tesoro,
o bionda treccia d’oro,
che te degniasti el servo far comtento. 96
Qui pose io fine a ognie mio tormento:
ad questo ponto io mi legay più forte
né may altro che morte
mi poderà levar dal gram disio 100
Ed essendoti servo, o signior mio,
sì como io so che sempre io ti vagheggio,
[ 9 ]
676 anna rita rati
una gratia ti chieggio
o animo gintil dolce e benignio: 104
che tu non guarde perché io non sia dignio
d’esserte servo, ma guarda a la fede
del cor ch’altro non crede
che in te sola aver ferma sperança. 108
Sij pur contenta d’esser la mia mança,
ch’io te serva com fede e ch’io t’adore,
ch’io te segua e honore
in tucti y giorni mey com più volere. 112
Dè fammi signior mio questo piacere:
ch’io sia sol quello ch’io ti sia servitore
e dal tuo dolce amore
ognie altro lieva e me sol ne fa degnio. 116
Io non ho im questo mondo altro sostegnio:
se non ch’io veggio in te senno e prudença
perché giamay fallença
tu nom fareste a chi t’ama com fede. 120
Spero da te piatà, somma merçede
che ’l mio fidel servir merito aspetta:
ligiadra giovinetta,
contempla omay la fede e ’l gram disio. 124
Et poy t’aviso, dolce signior mio,
che tu poy sempre credere e pemsare
ch’io non voy may lassciare
ch’io non sia servo al tuo lucente viso,
che quando il veggio io sono im paradiso. 129
Credo non sia un caso che questo componimento non compaia in
R. Situato prima del penultimo sonetto di P, in un’area omologa a
quella della finale canzone Alla Vergine dei Fragmenta petrarcheschi,
esso risulta strategicamente funzionale al progetto del sonetto incipitario
in cui il poeta manifesta la sua volontà non di ravvedimento ma
di incondizionata disponibilità a «seguire», fino alla morte, la sua
«singular fenice»; concetto ripreso nei due sonetti finali – Prima ch’io
veggia e Vive in te onestà – che fanno da corollario alla laus mulieris. Ben
diversa, dopo la più ampia e complessa sequela di sonetti e capitoli
che offrono una rappresentazione assai più variegata dell’esperienza
non solo amorosa dello Spirito, la conclusione di R, affidata, in linea
con lo schema dei Fragmenta, non più alla laus mulieris ma al capitolo
Onnipotente Dio padre superno. Ne deriva una conseguenza non certo
irrilevante: il fatto che P, malgrado la confluenza della più gran parte
dei suoi componimenti in R, conservi un profilo di “canzoniere” autonomo
rispetto ad esso. Non convince la tesi di Maria Iraci che, ritenen-
[ 10 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 677
do non autografo il codice ravennate, considera apocrifo Onnipotente
Dio padre superno come altri componimenti di R successivi al capitolo
scritto in morte del conte Jacopo Piccinino29 e formula nel contempo
l’ipotesi che a scriverli sia stato il più modesto poeta petrarchista Nicolò
Grisanti da Montefalco, possessore del codice ravennate e amico
e ammiratore dello Spirito. Stupisce che Salza, così severo censore del
volume della studiosa, non abbia avuto da rilevare alcunché sulle fragili
ragioni di cui quest’ultima – dilazionata la «prova scientifica» di
un riscontro da effettuarsi, a suo giudizio, sui testi del Montefalco – si
avvale in sostegno della sua tesi30: la non spontaneità della disperazione
e dello stesso maledire del poeta nel capitolo Spinto dal duro stil
d’una alicorna, in cui riconosce «le stesse movenze, quasi le identiche
espressioni»31 dello Spirito, e la presenza di «intonazione e movimento
alquanto diversi»32 nei capitoli Alma gentile e bella, ançi crudele, Colui
che vinse giove & haltry dei, Con grave sdegno, amor, mi movo & scrivo, El
pianto mio che may non ha riposo, Sacra, diva, alma ninfa triumphale, Onnipotente
Dio padre superno, «capitolo lungo e fiacco». In realtà, a prescindere
dal fatto che il problema non si pone quando si ritenga autografo
il codice classense, a una lettura attenta di R non potrà sfuggire che già
alcuni componimenti che precedono il capitolo in morte del Piccinino
paiono comprovare, oltre una perentoria condanna dell’amore come
«veleno aspro e mortale» (son. 487: Amor ciecho, losinghier fallace) e come
«volubil cosa / in cor di donna» (son. 512: Alma gintil che proprio in
paradiso), una consapevolezza amara della brevità della vita e della
vanità dei piaceri mondani che è forse all’origine della decisione
dell’ormai vecchio poeta di uniformare al modello petrarchesco anche
la conclusione delle sue rime. Esemplari i sonetti 504 (Questo viver
mortale è un laberinto) e 506 (Quando io penso qual fui e quel ch’io sono),
frammisti ad altri ancora ispirati dall’amore per Fenice, viva (son. 507:
29 Il capitolo si legge anche nell’edizione vicentina del 1489 dell’Altro Marte,
prima del poema, ed è stato pubblicato in «Archivio storico lombardo», XIV (1887),
n. 4, pp. 755-764, da Antonio Medin, che lo considera a ragione «il documento più
importante per gli ultimi eventi del Conte» (p. 735) – vittima della congiura tra
Francesco Sforza, duca di Milano, e Ferrante d’Aragona, re di Napoli (1465) –, dei
quali lo Spirito fu, almeno in parte, testimone oculare.
30 Alla studiosa, Salza (recensione a M. Iraci, cit., p. 196) si limita a rimproverare
la mancata conoscenza del saggio dedicato al Filenico, canzoniere del Grisanti
contenuto nel codice classense 289, da Antonietta Fantozzi, Un canzoniere inedito
del secolo XV, «La Favilla», rivista dell’Umbria e delle Marche, XXI (1900), n. 2.
31 M. Iraci, Lorenzo Spirito Gualtieri, cit., p. 289.
32 Ivi, p. 291.
[ 11 ]
678 anna rita rati
Fenice mia più che l’usato dura) e morta (son. 543: Quando io credea che ’l
foco fusse spento).
Significativo anche l’incipit del primo capitolo, che segue il sonetto
498:
Ingegnio stancho sotto al grave peso
d’amor, nel chui laberinto ai tanto perso
che migliore era assai non esser preso
svegliate omai dal tuo ciecho e sommesso
stato & miglior fortuna ti conduca
lo stil ponendo ad più felice verso.
A rendere possibile l’ipotesi di un ripiegamento devozionale dello
Spirito, all’altezza di R33, concorre anche il contesto storico tardoquattrocentesco,
in cui si riacutizzano i contrasti tra gli Stati italiani34 e il
ricorso alla violenza e a ogni genere di abusi dissolve l’ideale umanistico
dello Stato razionale, cioè libero e giusto. «Se i signor sonno e lor
legge spregiate, / repara omai tu, Dio, che tutto vede», afferma il poeta
nel sonetto 531, Pensando noi l’anticha destructione, in cui lamenta la
fine della pace e della ragione, mentre nel sonetto 532, Portate l’operar
vostro palese, esortando al bene comune gli animi accesi, ammonisce:
«Pensate, o ciechi, abbiate bene a mente, / che fugir non si può morte
alla fine / cento o milli anni alfin son niente».
Bolla infine, nel sonetto 533, La rete de peroscia ogge non tene, il degrado
dell’amministrazione della giustizia a Perugia («Criminale o
civil che sien le pene, / non van se non a povere persone; / battitor di
monete o gram ladrone, / la sperança d’aiuto li mantene») e rende con
una fitta rete di impossibilia, nel sonetto 558, Per longa pioggia seccharansi
i fiume, il fatto che gli Oddi e i Baglioni non «possano stare insieme
sença guerra» (v. 11).
Resta tuttavia da spiegare, qualora si convenga con quanto da me
scritto in queste righe, come mai il poeta non abbia cercato di rendere
più esplicito, magari modificando il sonetto proemiale, che è lo stesso
33 Baldelli addebita alla senilità dell’autore i molti errori di R, da collocarsi,
a suo giudizio, «almeno dopo il 1485» (Correzioni cinquecentesche, cit., p. 425, nota
10).
34 Già più di venticinque anni prima, nel suo noto poema-lamento in 16 capitoli
ternari, Il Pubblico, mai dato alle stampe ma composto intorno al 1458, lo Spirito
aveva aspramente censurato la lotta tra le fazioni e “profetizzato”, in un contesto
inventivo che fa propri alcuni topoi della Commedia, le sventure che avrebbero
colpito Perugia a partire dalla caduta di Costantinopoli.
[ 12 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 679
di P, il suo nuovo e ultimo orientamento; e non saprei fornire altra
motivazione che quella della sua età avanzata, che gli ha impedito
anche di eliminare alcune incongruenze nella parte finale del manoscritto.
Di un’oscillazione sul tema della scelta tra amore e liberazione
dall’asservimento al suo potere rende testimonianza il capitolo Tra fiori
& herba e sotto verde fronde, in cui si proietta lo stato d’animo diviso
del suo autore, che, dopo aver ascoltato le diverse voci del cuore, finisce
con l’assoggettarsi all’amore. Ne riporto i versi 127-147:
Ond’io rimango quasi senza lume:
odir tanti parlari, tante rasgione
ch’a scriver non bastarà un gran volume. 129
Et con tremante voce in ginocchione
ad amore mi rivolto et dico: io chieggio
perdono, si non fie tardo, io son prisgione 132
et s’io mai di lasciarte io sequii il peggio,
pentuto so et da me mi relego
perché d’ogni virtù sei pieno, il veggio 135
et sotto ogni tua voglia hora mi piego.
Sempre sequiroti per omni camino
et d’esser tuo per niente nol niego. 138
Et tu madonna facta per divino
volere non disprezzare ’l tristo core
ch’ora ’l ti do benché sia piccolino 141
rispecto al tuo altissimo valore.
Degna d’imperio et di celeste regno,
in cui trova ricepto sempre Amore, 144
tuo servo so et d’esser tuo m’ingegno
infin ch’io vivo al mondo; a l’altro poi
s’el s’ama io t’amarò per omni segno. 147
Il capitolo e le canzoni Essendo la casgione dogliosa assai, Stanco già di
pensier fallaci et torti, Cor mio pien d’ogni affanno, Quanto più col pensier
cercando vegnio – di cui la prima è un lamento di Costantinopoli conquistata
dai Turchi nel 1453, mentre le altre insistono sulla condanna
dei beni del mondo e sulla necessità, da parte degli uomini, di riporre
in Dio i loro desideri – si leggono subito prima e all’interno del già
menzionato manipolo di ventisei sonetti, sicuramente dello Spirito,
nel manoscritto 249 della Biblioteca Comunale di Cortona. Non posso
sostenere che si tratti con certezza di componimenti attribuibili allo
Spirito – non avendone trovato alcun riscontro in altri manoscritti –,
ma mi pare non priva di significato la loro collocazione contigua ai
[ 13 ]
680 anna rita rati
suoi sonetti, in ogni caso sollecitata, nel trascrittore cortonese, da connotazioni
tematiche e stilistiche riconducibili al poeta perugino35.
In una raccolta di rime che si rifà ai Fragmenta ma non alla loro
struttura profonda, fondata sull’autobiografia ideale del poeta, non
basta una scansione cronologica tutta di maniera per garantire lo sviluppo
della “narrazione” e una conclusione coerente della “storia”.
L’amore, non il poeta, resta il protagonista assoluto delle rime dello
Spirito e per amore si intende la sua fenomenologia di origine cortese,
influenzata, oltre che da Petrarca, anche da Dante e dagli stilnovisti o
direttamente o attraverso la mediazione petrarchesca: fenomenologia
di un sentimento totalizzante non corrisposto, che ingenera da un lato
un esasperato desiderio di morte e dall’altro una pervicace fedeltà da
cui scaturiscono le lodi nei riguardi della donna amata e la speranza
di renderla, attraverso di esse, “pietosa”. La dismisura dei sonetti di R
si spiega con la centralità di questa fenomenologia, la cui rappresentazione
è alimentata da un meccanismo di “ripetizione” già rilevato in
Petrarca36, ma che si dilata al di là di ogni limite nel suo imitatore quattrocentesco37.
Si prenda come esempio il microtema della donna-sole, anzi della
donna che «sparir fa ’l sole» com’è detto di Laura38; nelle rime dello
Spirito non solo se ne moltiplicano le occorrenze ma se ne esibiscono
sfaccettature semantiche della più assoluta banalità come quelle del sole
che, vinto da Fenice, pensa di vendicarsene con la pioggia39 e che poi
decide, rassegnato, di andarla a trovare ogni mattina a letto, facendo
onore a lei e però suscitando il sospetto del poeta40. Fra i temi più ricor-
35 Il v. 58 della canzone Cor mio pien d’ogni affanno, «io veggio per continuo
passare», è identico al v. 66, da me già citato, della terza canzone di P.
36 Sulla “tenuta” dei Fragmenta nella loro interezza avanza forti riserve Suitner,
che osserva: «I Rerum vulgarium fragmenta, letti dal principio alla fine, presentano
non pochi difetti. Il buono è molto mescolato al cattivo. La ripetizione vi domina
assoluta, con i suoi effetti suggestivi ma anche con la possibilità di una certa pesantezza
» (cfr. F. Suitner, Il brutto in Petrarca, in Dante, Petrarca e altra poesia antica, cit.,
p. 164).
37 Temi, stilemi e immagini delle canzoni e dei sonetti costituiscono anche gli
ingredienti delle cinque sestine liriche dello Spirito, edite da Blomme (Note sur la
sextine. Cinq sextines inédites de Lorenzo Spirito, cit.): La mia dogliosa e malcontenta vita,
Quamdo io remembro la mia prima vita, El giorno non adpare sença il mio sole, Non aspetto
dal ciel più lieto giorno, Lassa ch’io pianga la passata vita. Va detto che la loro connotazione
ossessiva e vacuamente ripetitiva è ancor più accentuata dalla forma metrica.
38 RVF 181, 9.
39 R 155, El sol che in guerra mille volte aperto.
40 R 157, Da puoy che febo mille volte ’n terra. Per la «gelosia» nei riguardi del
[ 14 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 681
renti dei sonetti, ancora: l’origine divina di Fenice, «angiola pura
»41, le
cui membra «non pigliaro forma da terrestre seme»42 e la sua «virtù e
leggiadria» cui si connettono i microtemi delle metafore floreali relative
ai colori del viso – rose, viole, gigli –, della mano candida, della
treccia bionda, ecc.; la potenza dei suoi occhi e il dominio esercitato da
essi (anche sul paesaggio, essendo capaci di far arrestare i fiumi e placare
i venti43); la fedeltà amorosa mantenuta dal poeta nonostante le
sofferenze; il suo continuo invocare la morte44 come rimedio alle «mille
morti» cui è sottoposto per l’impossibilità di vedere Fenice, anche se
a volte si accontenta di fruire dell’immagine di lei, impressa nel suo
cuore45, o di poterla vagheggiare nel sogno46.
È stato giustamente osservato che nel manoscritto classense le rime
dello Spirito sembrano via via orientarsi verso «una rappresentazione
meno astratta della vicenda amorosa»47, la quale, sviluppandosi secondo
una ben precisa scansione temporale, si arricchisce di numerosi
particolari realistici: la lontananza del poeta, costretto a lasciare la città;
la gelosia del marito di Fenice, Simone48; la morte di Simone; la
morte di Fenice. A parte la dispositio arruffata di questa serie di fatti,
non mi pare che lo Spirito riesca a trarre da essi un arricchimento della
propria ispirazione. Nel sonetto 470, Lo stil suave e ’l dolce scriver mio,
sole cfr. RVF 115, 9-11: «Subito in allegrezza si converse / la gelosia che ’n su la
prima vista / per sì alto adversario al cor mi nacque».
41 R 6, Rechiedese al mio stili quella figura, v. 4. La divinità di madonna è topos
stilnovistico, ripreso da Petrarca. Cfr. RVF 90, 9-11: «Non era l’andar suo cosa mortale,
/ ma d’angelica forma; et le parole / sonavan altro, che pur voce humana».
42 R 115, Alma creata in cielo coi membra insieme, v. 4. Il sonetto riprende P 75, di
cui il v. 7, «così viva dey tornar tra loro», è variato in R con il più congruo «el biondo
capo colle treççe d’oro». Per quanto pieno di errori, il manoscritto classense attesta
un positivo lavoro correttorio sui testi che già leggiamo in P.
43 R 15, Se ’l cielo per sua piatà dimostrare volse.
44 Il modello, come sempre amplificato, è costituito dalla doppia sestina petrarchesca
di RVF 332, Mia benigna fortuna e ’l viver lieto, vv. 67-72.
45 R 53, Torre mi puoi ben fortuna el sacro aspecto.
46 Non si legge più in R, forse perché appartenente a uno dei fogli mancanti del
manoscritto, il bel sonetto di P 130, In sognio il dolce mio legiadro amore, registrato nel
suo indice autografo. Il tema è presente anche in P 121, Sento spesso apparire quel
vivo sole (sonetto pubblicato da Giacinto Vincioli, Rime di Francesco Coppetta, di
Leandro Signorelli e di altri poeti perugini, scelti con alcune note, Perugia, Ciani, 1720,
I) e in R 499, Quella che col suo lume me distorse.
47 Cfr. G. Arbizzoni, in DBI, vol. 60, cit., p. 211.
48 Sulla realtà storica di Fenice, che sarebbe stata «una giovane donna avvenente
e restia, moglie di un tal mastro Simone, medico» cfr. M. Iraci, Lorenzo Spirito
Gualtieri, cit., pp. 209-219: p. 216.
[ 15 ]
682 anna rita rati
angustiato e sconvolto dall’umiliante “offesa” ricevuta dalla donna
così tanto esaltata e amata49, egli dichiara, è vero, di voler abbandonare
«lo stil suave e ’l dolce scriver» per un’esigenza di verità, ma si
tratta di una minaccia subito rientrata se, ad altri due sonetti che ne
rinnovano il proposito ne fa seguire uno (il 473) che riproduce il 189 di
P, dal quale lo trascrivo50:
L’alta ligiadra tua belleçça vera,
gintil madonna, e lo splendente sole
di tuoy belli occhie e y gesti e le parole,
l’andar soave e la gintil manera 4
m’han fatto servo assay più che io non era.
O viso pien di gigli e di viole,
nelle belleççe tuoy, nel mondo sole,
convien che sempre la mia vita spera. 8
Finice mia, perché non day tu fede
al vero servo e tuo fedel sugetto
che sopra ognie altra t’ama e tu nol crede? 11
Caccia da tte signiore ognie sospetto:
null’altra donna il mio intelletto vede,
te solo porto scritta nil mio petto. 14
Ognie pena è diletto
Per lo tuo amore e may penso altra cosa
se non piacerte donna valorosa.
Lo «stil soave», in realtà, caratterizza la poesia amorosa dello Spirito,
che dà il meglio di sé nei sonetti che descrivono e lodano la donna
amata. Sonetti regolati da un ritmo lento, assecondato da una sintassi
elementare e da un lessico concentrato ma fortemente evocativo in
virtù dei fitti rimandi intertestuali. Le metafore floreali (di ascendenza
stilnovistica51), come le accumulazioni degli aggettivi, ne alimentano
l’alto grado di figuratività. Concludo con la trascrizione di cinque di
essi, che sono tra quelli sui quali ho fondato il mio giudizio.
49 Da vedere a questo proposito anche il sonetto 467, Amor leale a che sei tu condutto,
di cui segnalo i vv. 9-11: «Quelle candide man che ’l decimo anno / o consacrati
in versi & alte strida / con lor vergognia ingiuriato m’anno».
50 Il testo di R presenta molti errori ed è privo della coda. Al v. 6 vi si legge «rose
» e non «gigli», variante già segnata a lato dal correttore di P; del quale R non recepisce
invece il rifacimento del v. 12 («Scaccia da te mia dea ogni sospetto») e la
sostituzione, al v. 14, di «scritta» con «sculta». Una trascrizione del sonetto, da P e da
R, è in Baldelli, Correzioni cinquecentesche ai versi di Lorenzo Spirito, cit., pp. 429-430.
51 G. Guinizzelli, Rime, «Io voglio del ver la mia donna laudare / ed asembrarli
la rosa e lo giglio».
[ 16 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 683
U na finice, uno habito celeste52,
una luce più bella assay che ’l sole,
un dolce canto, angelliche parole,
una virtù tra tucte donne honeste; 4
andar suave, sguardi, modi e geste,
in uno bello viso pallide viole,
amor negli occhie dove star si sole,
a infiammarme son veloce e preste. 8
Ma la vera piatà, che nel bel seno
alberga com quella anima gintile
che dovumque ella appar fa ’l ciel sereno, 11
soccurga l’alma e ’l portamento humile
surga sperança al mio viver terreno
che bel fin faccia il mio amoroso stile. 14
In nel primo dolce tempo caro53
mi prese amor co le tuoy trecce d’oro,
i tuoy belli occhie prima cagion foro
ad infiammarmi sença alcuno reparo. 4
Tanto suavi e lieti si mostraro
che sempre son poi stati il mio tisoro
e quando io non li veggio io ardo e moro
consumando mia vita im pianto amaro. 8
Non fuoro creati in cielo doy altre stelle
como i belli occhie tuoy lucente e chiare,
dove amore e virtù par che favelle. 11
Fortuna e ’l ciel posso io rengratiare
dapoi che ’l fior di tucte l’altre belle
nei miey dolci pensier m’han fatto amare. 14
Quante viole e fior nascon d’aprile54
con quante rose e gigli il maggio honora
tucte nel viso de la mia signiora
natura pose con ornato stile. 4
Nel bello aspetto altero e signorile
belleçça e honestà fuor poste amcora:
negli occhie dove il sol se discolora
vi pose amore ognie habito gintile. 8
Candida neve in forma di cristallo
52 Il sonetto, che traggo da P 11, è anche in R 30, dove, al v. 9, si ha cara invece
di vera.
53 P 51. Il sonetto è registrato nell’indice autografo di R.
54 Traggo da P 52 il testo, riportato anche da R 100 e da C 1. Varianti di R: «in
bello ornato stili» (v. 4); «nel sacro aspetto» (v. 5). «Gola», invece di «neve», è un
errore (v. 9). Varianti di C: «Nel bellandare» (v. 5); «quanto fortuna» (v. 14).
[ 17 ]
684 anna rita rati
la gola, el petto, e quel color vermiglio
che natura e non altri el porria dare. 11
Et dentro ai dolci labbri di corallo
le biamche perle e sotto al nero ciglio
veggio quanto natura e ’l ciel poi fare. 14
O chiaro specchio ove ’l bello viso appare55
con lo splendore de l’una e l’altra stella
dil mio sommo tisoro, dove scorge ella
mia pena e sua virtù quanto poy fare, 4
piacciati sença ley voler servare
l’inmagin sua nel cielo fatta sì bella,
rithiella sempre et non te perder quella
acciò che in te la possa vaghegiare. 8
Filice vetro agli occhie che m’anno morto,
se tanto bene da tte piglia costey,
serva la sua ligiadra forma vera 11
et poi mi viene a dar lieto comforto,
a starte mecho tucti i giorni mey
com quella donna che ognie donna impera. 14
Ite felice fiore e verde piante56
com più lieta fortuna al mio signore;
ive v’aparechiato a gramde honore
havere la vita da le suoi man sancte. 4
Partitive da me, misero amante,
per far nel paradiso i vostri fiore
pigliando da le guance el bel colore
che m’an data cagion de sospiri tante. 8
Ite ad far fede dil mio dolce adfanno
e como in vita assai crudele & dura
queste lacrime miei cresciute v’anno. 11
Voi non terrete el verde per natura
ma le dolce aqque suoi vi manterranno:
che mutar miglior luoco è gram ventura. 14
È chiaro che la dulcedo petrarchesca, frutto di una sintassi tanto più
elaborata e complessa, di una ricerca tanto più appassionata e severa,
è altra cosa. E anche dai poeti stilnovisti e dal Dante di Tanto gentile,
dei quali nella sua opera si avvertono gli echi, il poeta quattrocentesco
si distingue per certe facili cadenze di “aria” popolare e cantabile.
55 È il testo di P 7, riportato, con le consuete variazioni d’ordine grafico, anche
in R 159.
56 Il testo è in R 147.
[ 18 ]
sul canzoniere di lorenzo spirito gualtieri 685
«Dolce», «dolcemente», «dolcezza», presentano un alto tasso di frequenza
nei suoi versi. Né è certo un caso che molti di questi componimenti
– come s’è già ricordato – siano stati pubblicati in occasione di
nozze nel corso dell’Ottocento e che su di essi un uomo di gusto come
Jacques-Camille Broussolle abbia potuto scrivere: «On éprouve une
douceur infinie à se chanter tous bas ces délicieux sonnets, que l’on
sait avoir été rythmés par un rude capitaine, mais capable, quand il le
voulait, de dire ses affections avec une incomparable délicatesse»57.
Anna Rita Rati
Università degli Studi di Perugia
57 La citazione è in M. Iraci, Lorenzo Spirito Gualtieri, cit., pp. 297-298.
[ 19 ]

Pat rizia Castelli
«Theophrastus humanas affectiones depingere
novisset». La crisi della teoria delle proporzioni:
fisiognomica, caratteri, affetti
Queste note riguardano la traduzione dei Caratteri di Teofrasto da parte di Willibald
Pirckheimer, amico e consigliere di Albrecht Dürer, a cui li dedica nel
1527, suggerendogli di illustrarli. A tal proposito ho ripercorso la storia della
teoria delle proporzioni, della fisiognomica, dei caratteri e degli ‘affetti’ da Leon
Battista Alberti a Gian Paolo Lomazzo per indicare il complicato intreccio
delle proporzioni matematiche ai moti dell’anima che Dürer espone e rappresenta
nei trattati e nei suoi autoritratti.

These notes concern the translation of Theophrastus’ Characters by Willibald
Pirckheimer, a friend and advisor of Albrecht Dürer, to whom he dedicated the
work in 1527, suggesting that he might wish to illustrate it. In this regard I have
traced the history of the theory of proportions, of physiognomy and of “affections”
from Leon Battista Alberti to Gian Paolo Lomazzo in order to show the
complex intertwining of mathematical proportions and emotions that Dürer
displays and represents in his treatises and in his self-portraits.
1. «Altri in ogni vita… perfidi, fallaci…»: passioni e caratteri
Nel 1527 l’umanista Willibald Pirckheimer (1470-1531), amico e consigliere
di Albrecht Dürer (1471-1528), pubblicava la traduzione latina
di quindici libri dei Caratteri di Teofrasto e li dedicava al pittore; un’opera
le cui vicende, soprattutto nei secoli XVI e XVII, per ciò che concerne
le arti figurative, si intrecceranno con gli scritti di fisiognomica.
Il manoscritto era stato donato a Pirckheimer da Gianfrancesco Pico
della Mirandola con cui era in contatto1.
Autore: Università di Ferrara; prof. associato; ctp@unife.it
1 Theophrastus Kharacteres, cum interpretatione Latina…, iam recens edita, Norimbergae,
per Ioannem Petreium, 1527. Cfr. Repertorio delle traduzioni umanistiche a
stampa: secoli XV-XVI, a cura di Mariarosa Cortesi e Silvia Fiaschi, 2 voll., Firenze,
SISMEL/Edizioni del Galluzzo, 2008, I, p. 1668. Cfr. Giuditta Moly Feo,
L’arte e la natura. Osservazioni in margine all’«excursus teorico» nel Bücher von men688
patrizia castelli
Non è un caso che Pirckheimer, la cui solida preparazione umanistica
era stata d’ausilio all’opera del pittore tedesco, avesse deciso di
dedicare tempo e fatica alla traduzione di Teofrasto che sembrava
completare ciò che i testi di fisiognomica avevano lasciato intravedere,
ovverosia la possibilità di ritrarre il carattere. La necessità di misurare
i corpi e di costituire modelli secondo uno schema proporzionale per
ogni tipo fisico, da quello corpulento a quello minuto o slanciato, aveva
impegnato Dürer per molto tempo tanto che le sue ricerche erano
state poi pubblicate nei celebri Vier Bücher von menschlicher Proportion.2
I Caratteri di Teofrasto, in realtà, erano già stati tradotti, dal libro I
al XV, da Lapo da Castiglionchio il Giovane che li aveva dedicati a
Francesco Patavino con il titolo De caracteribus sive notis. Libellus aureus3,
e pubblicati a Vienna da Hyeronymus Victor nel 1517. Questa
edizione fu ristampata, sempre nel XVI secolo, per oltre cinque volte:
a Basilea nel 1531 (in officina Andreae Cratandri) e nel 1549 (per Ioannis
Oporini) con le Sententiae di Stobeo tradotte dal Konrad Gesner; a
Tiguri nel 1559 (apud Chistophorum Frosh) sempre con le Sententiae e
il De iusto dello pseudo-Platone e il De virtute, anche questi tradotti da
Gesner; a Francoforte nel 1581 (ex officina Andreae Wecheli) con le
Sententiae; a Parigi nel 1583 (apud Federicum Morellum) unitamente
alla Oratio suasoria ad artes di Galeno tradotta da Erasmo da Rotterdam,
anche se la versione è stata erroneamente attribuita a Poliziano.4
schlicher Proportion di Albrecht Dürer, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di
scienze e lettere “La Colombaria”», LXIX (2004), pp. 189-212. Cfr. Charles Bernard
Schmitt, Gianfrancesco Pico della Mirandola and His Critique of Aristotle, The
Hague, Nijhoff, 1967, p. 27, nota 121.
2 Albrecht Dürer, Vier Bücher von menschlicher Proportion. Quattro libri sulle
proporzioni umane, introduzione, testo e traduzione a cura di Giuditta Moly Feo,
2 voll., Bologna, Bonomia University Press, 2007, I.
3 Sulle sua traduzione cfr. Francesco Paolo Luiso, Studi su l’epistolario e le
traduzioni di Lapo da Castiglionchio juniore, «Studi italiani di filologia classica», VII
(1899), pp. 205-299: 285. Secondo Luiso, Lapo tradusse invece il testo tra il ’34-35.
Sulle vicende della traduzione cfr. Charles Bernard Schmitt, Theofrastus, in Catalogus
translationum et commentariorum. Medieval and Renaissance Latin Translation
and Commentaries, eds. Paul Oskar Kristeller and Ferdinand Edward Cranz,
Washington, The Catholic University of American Press, 1971, p. 253. Nel 1583
l’opera fu ristampata sotto il nome di Poliziano, una attribuzione che contribuì
alla realizzazione di numerosi errori.
4 Cfr. Repertorio delle traduzioni umanistiche a stampa: secoli XV-XVI, cit., I, pp.
1667-1668; Catalogus translationum et commentariorum. Medieval and Renaissance Latin
Translation and Commentaries, cit., pp. 212-288: 255-256; Bibliography of Theophrastus’
Characters Basic Edition, http://www.ut.ee/klassik/theo/charbiblio.html. Si
veda infra, pp. 42-43.
[ 2 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 689
Tutte queste edizioni dimostrano l’attenzione dei lettori nei confronti
di un’opera che ben si adattava, ancora nel XVI secolo, alla definizione
dei diversi individui che caratterizzavano la società, esempi
insostituibili non solo per le rappresentazioni teatrali ma anche per un
completamento alle definizioni fisiognomiche degli individui dei quali
si hanno esempi notevoli nella letteratura o nella pittura contemporanee.
La traduzione dei Caratteri dell’amico-patrono di Dürer, a mio
parere, si innesta nella complessa situazione che aveva portato Dürer
a ricercare con tanta acribia le misure del corpo dell’uomo che cerca di
animare rendendo intellegibile anche il carattere attraverso il disegno.
La sperimentazione tassonomica dell’artista tedesco lo inserisce nella
tradizione italiana che aveva visto in pensatori come Leon Battista Alberti
la necessità di fornire, per ciò che concerne la rappresentazione
del corpo umano nella pittura e nella scultura, regole precise e tali da
restituire il senso della vita unitamente alle caratteristiche peculiari
delle diverse età dell’uomo: giovinezza, maturità e vecchiaia. Aspirazione
dell’Alberti è quella di rappresentare le passioni dell’uomo:
«Poi moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno
suo propio movimento d’animo»5. L’attenzione verso la rappresentazione
dei movimenti dell’animo si affianca alla necessità di
raffigurare il corpo in movimento: «Dicesi vivere il corpo quando a
sua posta abbia certo movimento»6 che permette di conoscere i movimenti
d’animo: «Ma questi movimenti d’animo si riconoscono dai
movimenti del corpo».7 Il testo è anche il primo e vero vademecum dei
tipi. Alberti descrive il malinconico e l’irato, denotati l’uno dalle braccia
e le gambe che cadono stanche, l’altro dagli occhi gonfi per la rabbia
e il volto acceso.8 Il suo interesse per il typus è già evidente nella
giovanile Philodoxeos fabula, dove dimostra di conoscere sia Plauto che
Terenzio.
Cesarini Martinelli ha richiamato con efficacia l’attenzione sulla
trama della composizione che risentiva ampiamente dei personaggi
5 Leon Battista Alberti, De pictura, a cura di Cecil Grayson, Roma-Bari,
Laterza, 1975, p. 70.
6 Ivi, p. 64.
7 Ivi, p. 70.
8 Patrizia Castelli, «Viso cruccioso e con gli occhi turbati». Espressione e fisiognomica
nella trattatistica d’arte del primo Rinascimento, in L’ideale classico a Ferrara e in
Italia nel Rinascimento, a cura della stessa, Firenze, Olschki, 1989, pp. 41-63; Ead.,
Capelli «in aria simile alle fiamme»: il concetto di moto negli scritti di Leon Battista Alberti,
in Achitettura e cultura, Atti del Convegno internazionale (Mantova, 16-19 novembre
1994), Firenze, Olschki, 1999, pp. 163-198.
[ 3 ]
690 patrizia castelli
che popolavano le opere dei due autori: il servo astuto, l’amante e
così via9. Il carattere di questi personaggi viene nel tempo a cosituirsi
quale exemplum fisso e inamovibile che si protrarrà non solo nella
commedia dell’arte ma anche nell’ambito della tradizione figurativa.
Gli interessi verso l’espressione maturarono nell’Alberti allorché
nel 1440 completò il IV dei Libri della Famiglia. I primi tre erano stati
stesi tra il 1433 e il 1434 e riveduti poi a Firenze nel ’37. In questo famoso
scritto Alberti si era soffermato molto sui moti dell’animo e naturalmente
sui gesti che ne denunciano i caratteri espressi dal volto10.
Alberti, come egli stesso ricorda, fa riferimento per lo studio dei
caratteri a Callicles conosciuto attraverso Plauto. Questi, nelle sue
commedie, aveva fornito brillanti esempi riguardo i ‘tipi’ che, quali
maschere fisse, presenziavano nelle sue opere. Egli infatti descrive il
servus, il parasitus, il miles gloriosus, il lenone, il senex, l’adolescens, la
meretrix, la matrona, fornendo di ognuno il profilo come definizione di
un typus, la cui fortuna perdura nei secoli, oggetto di analisi anche da
parte di Teofrasto11.
Alberti attinge soprattutto dall’opera di questo che, con grande
probabilità, aveva conosciuto attraverso la traduzione dell’amico Lapo
da Castiglionchio, dimostrando così la sua attenzione verso il carattere
in generale e verso il carattere e la psicologia dei singoli individui:
Teofrasto, quello antiquo filosofo, in età sino anni novanta, si maravigliava
che cagion così facesse e’ Greci, tutti nati sotto un cielo e con
ordine d’una equale disciplina e costume educati e instrutti, tanto fra
9 Lucia Cesarini Martinelli, Introduzione, in Leon Battista Alberti, Philodoxeos
fabula, ed. critica a cura della stessa, «Rinascimento», XVII (1977), pp. 117-
234.
10 Leon Battista Alberti, I Libri della Famiglia, a cura di Ruggero Romano,
Alberto Tenenti e Francesco Furlan, Torino, Einaudi, 1994, p. 364. Cfr. L. Lambertini,
Arte, Medicina e fisiognomica. Alcune osservazioni sui Libri della Famiglia di
Leon Battista Alberti, tesi di laurea, relatore Patrizia Castelli, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Università degli Studi di Ferrara, 2001-2002, pp. 27-32.
11 Sebbene l’editio princeps di Plauto ad opera del Merula a Venezia sia stata
stampata solamente nel 1472, già verso gli anni Trenta del Quattrocento erano state
aggiunte ben dodici commedie alle otto compendiate nel manoscritto che Nicola
Cusano aveva dato nel 1429 a Giordano Orsini. Il 1 novembre 1409 Leonardo
Bruni aveva inviato a Niccolò Niccoli la versione latina del Gorgia. Nel 1469 Giovanni
Andrea Bussi e Teodoro Gaza inserivano la rhesis di Callicles all’interno
dell’edizione delle Noctes Atticae che spesso è messa a confronto con quella del
Bruni, contribuendo alla notorietà dell’assunto di Callicles. Platonis Gorgias Leonardo
Bruni Aretino interprete, a cura di M. Venier Firenze, SISMEL/Edizioni del Galluzzo,
2011.
[ 4 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 691
loro l’uno essere all’altro dissimile. E onde questo, che alcuni, quando
molto mostrano lodarti, v’aggiungono cose che più siano a biasimo e
vituperazione che a lode, in modo sì escusato che tu non hai aperto da
dirti offeso. Altri in ogni vita ambiguo; altri ostinato, arrogante; altri
perfidi, fallaci, quali aperto lodando a applaudendo e cedendo e studiando
locar sé superiori, e da te molto essere ubiditi e beneficiati12.
La tradizione classica aveva fissato per ciò che concerne gli affetti e
le passioni dei precisi parametri. La passio adfectus è definita da Quintiliano
(Inst. orat. VI, 2, 8) come un alterazione dell’anima che secondo
Aristotele (De anima, I, 1, 403a) coinvolge il corpo.13 Quintiliano stende
un intero capitolo sulle passioni, intitolato De affectibus, che avrà grande
impatto nel Rinascimento. Spetta ad Aristotele, nell’Etica Nicomachea,
ormai ben nota all’inizio del Quattrocento, la distinzione delle
passioni dai vizi e dalle virtù (II, 5, 110 5b 20).
Di grande significato appaiono le considerazioni del Filosofo riguardo
la virtù della giustizia e la figura del giusto che è, «in qualche
modo, il risultato di una proporzione» (Et. Eu. IV, 1131 a). Il passo è di
grande significato perché ci permette di capire come il concetto di giustizia
possa essere considerata in chiave proporzionale. Poiché «I matematici
chiamano “geometrico” questo tipo di proporzione», una
virtù è dunque inserita in un sistema di valutazione matematico-geometrico
rapportabile alla definizione proporzionale si cui argomentarono
umanisti ed artisti:
Quindi il giusto è in qualche modo il risultato di una proporzione. Infatti
la proporzione non riguarda solo il numero strictu sensu ma ciò
che è misurabile in generale; infatti la proporzione costituisce un’uguaglianza
di rapporti e implica almeno quattro termini. Dunque, che
la proporzione discreta implichi quattro termini, è chiaro, ma questo
vale anche per la proporzione continua. […] I matematici chiamano
“geometrico” questo tipo di proporzione: infatti nella proporzione geometrica
l’intero sta all’intero come ognuno dei termini sta all’altro. E
questa proporzione non è continua; infatti la persona e la cosa non
possono essere espressi con un unico termine numerico. Questo tipo di
giusto è quello che rispetta la proporzione, mentre l’ingiusto è ciò che
non la rispetta14.
12 L. B. Alberti, I Libri della Famiglia, cit., pp. 364-365.
13 Cfr. Patrizia Magli, Il volto e l’anima. Fisiognomica delle passioni, Milano,
Bompiani, 1995, p. 100.
14 Aristotele, Etica Nicomachea, in Id., Le tre Etiche, a cura di Arianna Ferma-
[ 5 ]
692 patrizia castelli
È bene ricordare che nell’Etica Nicomachea (X, 8, 1178 a 15ss.) la virtù
del carattere è per molti aspetti connesso alle passioni (X, 8, 1178),
pertanto chi avesse voluto raggiungere una buona reputazione avrebbe
dovuto pervenire alla medietà in ciascuna di esse (G. E. I, 59, 1186 b
33ss.). Questo sistema proporzionale applicato alla morale troverà un
riflesso, ancora poco studiato per questo aspetto, nella trattatistica
d’arte a partire dal Quattrocento soprattutto nell’opera dell’Alberti, il
cui concetto di mediocritas apre la via ad analisi diverse. La discussione
sui caratteri e le passioni, argomentate da Cicerone, da Svetonio e da
Seneca, avrà una ricaduta enorme anche nell’età moderna. Quest’ultimo
ha una attenzione particolare verso il charaktérismós, ovverosia la
descrizione fisica e morale del comportamento derivato da Teofrasto,
e proprio questo aspetto inciderà sul pensiero dell’Alberti.
La fortuna del De ira nel Medioevo è ben rappresentata nell’Ecerinis,
la tragedia di Albertino Mussato (1261-1329) che descrive il livore
di Ezzelino da Romano, figlio di Lucifero, sul modello di Seneca che
delinea efficacemente questa alterazione. Egli, infatti, seguace della
scuola galenica, che discuteva del fondamento fisiologico delle passioni,
afferma l’esistenza di un legame tra la predisposizione del temperamento
e le passioni (De ira, II, 19, 2). Anche nel ’400 e nel ’500 l’opera
fu utilizzata per la descrizione dei caratteri e dopo l’edizione
veneziana del 1636 alimentò ancora per molto tempo la letteratura
coeva.
La resa figurativa delle affezioni dell’anima, che Alberti propone
come un nuovo parametro figurativo ai pittori del primo Rinascimento,
risente ancora della teoria delle proporzioni della quale gli artisti e
i teorici nel Rinascimento esaltano «il significato metafisico»15.
2. Leon Battista Alberti tra retorica e fisiognomica
Quando Leon Battista Alberti stese in latino il De picturanel 1435,
volto poi in volgare nel ’3616, l’incontro con alcuni artisti e con le loro
ni, presentazione di Maurizio Migliori, Milano, Bompiani, 2008, pp. 639-641
(1131 a segg).
15 Erwin Panofsky, La storia della teoria delle proporzioni del corpo umano come
riflesso della teoria degli stili, in Id., Il significato nelle arti visive, trad. it., Torino, Einaudi,
1962, pp. 60-106: 93.
16 C. Grayson, Introduzione a Leon Battista Alberti, De pictura, cit., pp. VXXVI:
XXVI. Per altre datazioni cfr. Lucia Bertolini, Sulla precedenza della redazio-
[ 6 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 693
opere nella città di Firenze risultò fondamentale. Costoro, con sua sorpresa,
avevano saputo mettere in atto, differenziandosi da altri contemporanei,
una vera e propria riforma del processo di rappresentazione
tanto che «sanza precettori, sanza essemplo alcuno [avevano
trovato] arti e scienze non udite e mai vedute». Gli artisti in questione,
Brunelleschi, Donatello, Lorenzo Ghiberti, Luca della Robbia e Masaccio,
sono nominati solamente nel prologo volgare indirizzato a Filippo
Brunelleschi17. Di questi non parla più nelle due redazioni dell’opera,
ma risulta evidente che il suo apprezzamento verso il loro modo di
operare emerge in diversi passi del De pictura a proposito di formule
innovative che rimandano all’operato degli artisti citati a partire
dall’adeguatezza delle vesti al personaggio (II, 38, 20) alla composizione
dei corpi (II, 39, 4) ai movimenti dell’animo (II, 41, 20-25) che si
conoscono dai movimenti del corpo (II, 41, 25; II, 42, 25-29).
Alberti non fornisce elementi proporzionali per rappresentare il
volto e la figura in questa sua osservazione, come farà invece nel De
statua ove indica anche l’uso di strumenti che assicurano all’artista la
possibilità di effettuare precisi rilievi antropometrici. Si affida invece a
formule desunte dalla retorica e dai classici per rendere palesi tali immagini.
La conoscenza del Brutus e del De cohibenda ira di Cicerone e
di Plutarco gli fornisce d’altro canto anche un modello per descrivere
le proprie infermità fisiche nella sua Autobiografia18. Ma è soprattutto
dal De ira di Seneca che trae le esemplari descrizioni di questa affezione
del volto e del corpo dell’irato19.
Tranne Masaccio, gli altri artisti citati sono scultori sulle cui opere
Alberti formula le proprie innovative teorie che nel De statua trovano
uno sbocco tutto matematico nell’uso dell’exempeda, strumento necessario
per misurare le lunghezze, e della squadra mobile che determina
ne volgare del De pictura di Leon Battista Alberti, in Studi per Umberto Carpi. Un saluto
da allievi e colleghi pisani, a cura di Marco Santagata e Alfredo Stussi, Pisa,
ETS, 2000, pp. 181-210: «la traduzione latina andrà collocata tra il 1439-1441». Cfr.
Michel Paoli, Leon Battista Alberti, trad. it., Torino, Boringhieri, 2007, p. 41.
17 Cfr. L. B. Alberti, De pictura, cit., pp. 7-8.
18 Emanuele Levantino, L’autobiografia albertiana: la rappresentazione di sé attraverso
Plutarco, «Comenae» X (2012), pp. 1-8.
19 Seneca, L’ira, a cura di Costantino Ricci, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 26-27.
Sull’argomento si veda anche Mario Vegetti, Passioni antiche: l’io collerico, in Storia
delle passioni, a cura di Silvia Vegetti Finzi, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 30-71.
Per indicazioni sull’ira nella tradizione cristiana si veda Silvana Vecchio, Ira mala/
ira bona. Storia di un vizio che qualche volta è una virtù, «Doctor Seraphicus», XLV
(1968), pp. 41-62.
[ 7 ]
694 patrizia castelli
invece i diametri20. L’attenzione verso le misure nasce nell’Alberti anche
dalla necessità di studiare i monumenti antichi, le cui proporzioni
riverserà nel De re aedificatoria. Le misure, tuttavia, non restituiscono
visivamente le capacità persuasive che rendono viva una figura né
permettono di rendere palesemente manifeste le passioni, le virtù, gli
impulsi e le emozioni. Nello scritto dell’Alberti incide, per ciò che concerne
il sistema tassonomico della definizione e descrizione degli stati
d’animo, una conoscenza del pensiero aristotelico che illustra non solo
la disposizione ma anche le entità delle passioni esposte nella Retorica
e nell’Etica Nicomachea, tema poi veicolato da illustri autori.
Cicerone (De fin. III, 35; Tusc. IV, 11ss.) contribuisce a diffondere
questi modelli derivati dalla filosofia stoica, gettando così un ponte tra
il pensiero dei Greci e dei Latini. Per gli stoici l’ideale sarebbe stato
raggiungere l’apatia, liberandosi così dalla forza negativa delle passioni,
ad esempio intellegibile nell’ira, per raggiungere infine l’equilibrio
e l’autocontrollo. Altro ideale è quello, già ricordato, della mediocritas.
Non a caso Alberti infine sembra prediligere le immagini che esprimono
una forma di equilibrio, ovverosia di misura non ancora, almeno
nel caso del De pictura, fondata su rapporti matematici ma sull’osservazione
dell’alterazione dei tratti fisiognomici. L’ira degli «occhi infiammati
» non è del tutto inscrivibile in uno schema proporzionale
ché palesemente esula dalla normalità, difatti di per sé è anormale. Se
il pittore deve cogliere l’atto comunicativo, contemporaneamente utilizza,
quale modello, schemi consueti e rapporti metrici, ma soprattutto
si vale degli aspetti caratterizzanti una rappresentazione dal vivo
che Cicerone felicemente definisce enàrgheia, come ricorda Quintiliano
(Inst. orat. VI, 2, 23-32). L’artista deve saper cogliere quelle emozioni
transitorie o «affetti», come li definisce l’Umanista anticipando, anche
con questo termine, in un certo senso una tipologia di caratteri la cui
rappresentazione, nel ritratto dei singoli, presenterà successivamente
pur nell’individualità un carattere di universalità21. Alberti non fa mai
riferimento nelle sue note ad un ritratto individuale. Le sue osservazioni
riguardano alcuni aspetti delle tipologie delle espressioni: non a
caso si riferisce esclusivamente alle divinità, Venere, Minerva, Marte,
Giove, Castore, Polluce, Vulcano ed altri dei, il cui aspetto è realizzato
sulla scorta della fantasia ma anche attraverso l’osservazione del na-
20 Cfr. Marco Collareta, La figura e lo spazio. Una lettura del De statua, in Leon
Battista Alberti, De statua, Livorno, Sillabe, 1998, pp. 33-50: 39-40.
21 Georg Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, trad. it., Bologna, il Mulino,
1985, p. 144.
[ 8 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 695
turale dei tipi che potrebbero presentare elementi utili alla raffigurazione
di queste immagini, perché potenzialmente hanno caratteri assimilabili
a quelli degli dei.
3. L’‘ansia’ delle proporzioni nel Rinascimento
Le proporzioni del corpo umano e del volto, nello scorcio del Quattrocento,
furono vivificate attraverso lo studio dei semeia, di quei particolari
visibili che si rivelano mezzo efficace per comprendere le segrete
inclinazioni dell’uomo. Le teorie e gli esperimenti che mettevano a confronto
le misure degli edifici con quelle del corpo umano, come indicano
Alberti, Filarete, Francesco di Giorgio Martini e, successivamente,
Lomazzo ed altri, sono indubbiamente prove di una costante ricerca
che metteva in relazione altezza con larghezza attraverso l’applicazione
della prospettiva. Occorreva tuttavia agli artisti qualcosa di più per
dar vita alle immagini, come efficacemente enuncia Bartolomeo Facio
(1400-1457) negli anni Quaranta quando teorizza la sua idea di bello
basata sul «vigor figuratus»22. L’umanista, allievo di Guarino, conosce
il testo sulla pittura dell’Alberti da cui ha ricavato l’idea della forza
espressiva delle immagini. Nel Viribus illustribus annota: «Picturae studiosus
ac doctus, de artis ipsius principius librum unum edidit»23. Ma
è nelle Invectivae in Vallam che egli celebra l’ethopoeia24, cioè l’espressione
dei caratteri e delle emozioni: «nessun pittore viene considerato eccellente,
se non distingue nel rappresentare i caratteri reali dei soggetti
che dipinge».25 Il Facio sembra accettare e tener pienamente conto non
solo delle osservazioni dell’Alberti, ma anche di quelle del suo maestro
che, in una lettera indirizzata da Ferrara nel luglio 1430 a Stefano Todesco,
descrive le sensazioni illusorie che ricava dall’osservare26.
Tra gli autori celebrati sono Gentile da Fabriano per i movimenti e
i gesti; van Eyck per aver realizzato un «San Gerolamo, similissimo ad
essere realmente vivo, van der Weyden è invece abile a rappresentare
22 Bartholomaei Facii De viribus illustribus liber, Florentiae, ex typographia
Joannes Pauli Giovannelli, 1745, p. 13. Cfr. Michael Baxandall, Giotto e gli umanisti.
Gli umanisti osservatori della pittura in Italia e le scoperte della composizione pittorica,
1350-1450, trad. it., Milano, Jaca Book, 1994, p. 142.
23 Bartholomaei Facii De viribus illustribus liber, cit., p. 13.
24 Isidoro, Ethym. II, XIV, 1.
25 M. Baxandall, Giotto e gli umanisti, cit., p. 144.
26 Guarino Veronese, Epistolario, a cura di Remigio Sabbadini, Venezia, Reale
Accademia di Storia Patria, 1916, II, pp. 111-112: 111r.
[ 9 ]
696 patrizia castelli
i sentimenti e le passioni nella scena dei supplizi di Cristo». Pisanello
è esaltato per ritrarre i moti dell’animo; Donatello tra gli scultori è celebrato
in quanto rappresenta «vivos vultus»27. Questa attenzione rivolta
dal Facio a pittori e scultori innovativi dimostra l’ansia di esaltare
quegli artisti che riuscivano a restituire la vita alle loro creazioni e
quindi a commuovere e ad infiammare gli animi.
Della capacità di commuovere tratta in altro contesto Marsilio Ficino
nel De vita (III, 17). Egli pensa che l’aspetto dell’uomo sia specchio
dell’anima. Non a caso fa dipingere le perdute immagini di Eraclito e
Democrito che piangono e ridono. Il significato simbolico delle immagini
dei due filosofi contrassegnati dal pianto e dal riso assume una
valenza più vasta che dal particolare conduce all’universale, attraverso
la condanna della miseria e della stoltezza degli uomini. Appare
evidente che sulla scorta di Seneca le espressioni dei due filosofi sono
il tramite che permette di condannare le stoltezze e le miserie degli
uomini che sempre si affannano invece di godere di una vita tranquilla28.
L’immagine dei due filosofi ebbe un certo apprezzamento tanto
che ne troviamo eco nell’affresco realizzato da Bramante a Milano29.
La fisiognomica e gli affetti vengono fatti oggetto di grande attenzione
da parte di Leonardo. Non a caso Vasari, nel Proemio delle Vite,
a distanza di anni coglie gli elementi basilari dell’opera dell’artista:
Leonardo, «con buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno
perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di
arte dette veramente alle sue figure il moto e il fiato»30. Dalle osservazioni
di Vasari appare evidente che Leonardo aveva saputo conferire
vita alle sue creazioni intrecciando la teoria delle proporzioni al moto
ed al «fiato», un vero e proprio connubio perfetto. Leonardo aveva
cercato infatti di fissare i canoni della rappresentazione degli stati d’animo.
Leonardo infatti, come già aveva fatto Alberti, in modo assertorio,
afferma: «non farai il viso di chi piange con uguali movimenti di
27 Cfr. P. Castelli, «Viso cruccioso e con gli occhi turbati». Espressione e fisiognomica
nella trattatistica d’arte del primo Rinascimento, cit., p. 51.
28 Albert Blankert, Heraclitus and Democritus by Marsilio Ficino, «Simiolus», I
(1966-67), pp. 128-135; Carlo Pedretti, Heraclitus and Democritus, «Achademia
Leonardi Vinci. Journal of Leonardo Studies and Bibliography of Vinciana», VI
(1993), pp. 143-144.
29 Peter Murray, «Bramante milanese». The Paintings and Engravings, «Arte
lombarda», VII (1962), pp. 25-42.
30 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed achitettori, in Id.,
Tutte le opere, con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, Firenze,
Sansoni, 1904, IV, p. 11.
[ 10 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 697
quel che ride, perché spesso si somigliano»31. Il pittore dovrà comunque
«notare negli uomini le attitudini e i moti nati da qualunque accidente
immediato o messi nella mente»32. I segni dei volti «mostrano in
parte la natura degli uomini, i loro vizi e le loro complessioni».33 Osservazioni
che, oltre ad avere un carattere speculativo e normativo
generale, possono altresì essere oggetto di rilevamento nei singoli individui
da parte dell’occhio dell’osservatore, organo per eccellenza:
«Or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo?»34.
L’elogio dell’occhio tessuto da Leonardo è via della conoscenza35.
La fisiognomica si occupa dei segni permanenti del corpo che un occhio
attento può classificare parallelamente a ciò che concerne i caratteri
ed i tipi. Socrate, non a caso, aveva chiesto: «Potresti tu vedere con
organi diversi dagli occhi? No certamente»36.
Tuttavia a questi occhi fisici si aggiungono occhi interiori. Attraverso
questi occhi interiori all’uomo è concesso di entrare in un «mondo
invisibile, inaccessibile per gli occhi corporali»37. L’occhio come
strumento di conoscenza esteriore ed interiore è l’unico mezzo che
consente queste analisi che Leonardo applica non solo alla fisiognomica
ed ai temperamenti umani ma anche all’osservazione dei fenomeni
naturali, come si nota in tanti disegni38.
La rappresentazione degli ‘affetti’, che in genere designa le disposizioni
permanenti e le manifestazioni passeggere conduce, nello scorcio
del ’500, ad una riflessione sul moto, fra ciò che è nascosto e ciò che
è visibile tra l’interiorità e la visibilità.39 Mentre filosofi, trattatisti e
artisti si cimentavano in questi percorsi cognitivi, anche i letterati ope-
31 Leonardo, Trattato della pittura, introduzione di Ettore Camesasca, Milano,
TEA, 1995, pp. 190-191 (cap. 380). Cfr. L. B. Alberti, De pictura, cit., p. 72.
32 Leonardo, Trattato della pittura, cit., p. 156 (cap. 288).
33 Ivi, p. 156 cap. 288).
34 Ivi, p. 25 (cap. 24).
35 Svetlana Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese,
trad. it., Torino, Einaudi, 1983, pp. 65-68.
36 Platone, La Repubblica, I, XXIII, 352c.
37 Aristotele, Metafisica, II (a), 993 b; cfr. Waldemar Deonna, Il simbolismo
dell’occhio, trad. it., a cura di Sabrina Stroppa, introduzione di Carlo Ossola,
Torino, Boringhieri, 2008, pp. 20-21, 130-131; sui poteri dell’occhio si veda anche
ivi, pp. 57-58.
38 Si veda, ad esempio, Sanguigne, Windsor, Royal Library, 12409.
39 Édouard Pommier, Il volto di Lomazzo, in Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed
espressione nell’arte del Rinascimento, Atti del Convegno di studi (Torino, 28-29 novembre
2001), a cura di Alessandro Pontremoli, Firenze, Olschki, 2003, pp. 61-
81.
[ 11 ]
698 patrizia castelli
ravano ricerche in questa direzione presentando tuttavia pur nella loro
individualità diversi tipi: Baldassarre Castiglione, ad esempio, fornisce
una articolata descrizione del cortigiano in tutte le sue facies.
Francesco Bocchi (1548-1618), nella Eccellenza della statua di S. Giorgio
di Donatello, stampata a Firenze nel 1586, presenta un campionario
di ragionamenti sul rapporto tra fisiognomica e passioni, con particolare
attenzione a Donatello che è celebrato da Pomponio Gaurico nel
suo De sculptura. Al volto avevano prestato particolare attenzione
Giambattista Della Porta e Girolamo Cardano, realizzando un repertorio
di cui giovarsi per conoscere il «carattere e il comportamento
degli uomini»40. Gli artisti che scrivevano sulla fisiognomica, sui caratteri
non sono uomini privi di conoscenze, in genere hanno una infarinatura
di tipo umanistico o hanno vicino, come nel caso di Dürer, degli
uomini di cultura.
Tra questi pittori competenti e sperimentatori deve essere ricordato
Giampaolo Lomazzo che tra il 1584-1590 scrisse due opere fondamentali,
il Trattato dell’arte della pittura, scoltura et achitettura e l’Idea del
tempio della pittura, nelle quali discute gli aspetti delle «affezioni dell’animo
e dei movimenti». Nel definire la pittura stabilì un fondamentale
rapporto tra proporzione, imitazione della natura, il moto e le passioni
dell’animo:
Pittura è arte la quale con linee proporzionate e con colori simili a la
natura de le cose, seguitando il lume perspettivo, imita solamente la
natura delle cose corporee, che non solo rappresenta nel paino la grossezza
et il rilievo de’ corpi, ma anco il moto, e visibilmente dimostra a
gl’occhi nostri molti affetti e passioni de l’animo.41
4. Dürer: proporzioni e fisiognomica
Quando Pirckeimer dedicò i Caratteri di Teofrasto a Dürer, questi si
era cimentato da tempo in studi particolareggiati sulle proporzioni
del corpo umano basati sui rapporti matematici. Tale interesse si era
sviluppato soprattutto tra il 1500-1507, quando per brevi periodi si era
stabilito in Italia, e maturato poi tra il 1513-1515. L’attenzione nei con-
40 Édouard Pommier, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi,
trad. it., Torino, Einaudi, 2003, pp. 102-103.
41 Gian Paolo Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et archietttura, in
Id., Scritti sulle arti, a cura di Roberto Paolo Ciardi, 2 voll., Firenze, Centro Di,
1974, II, p. 25 (lib. I, cap. I).
[ 12 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 699
fronti di Vitruvio, Plinio e, fra i moderni, Leon Battista Alberti, è già
stata sottolineata da Panofsky42. Leon Battista Alberti e Leonardo
«avevano rimesso in vigore l’idea classica di “antropometria estetica”
cioè non avevano più interesse a costruire delle figure, ma si erano
volti a studiare le proporzioni dell’“homo bene figuratus” puro e
semplice»43. Una ricerca, quella di Leon Battista Alberti, come ho ricordato,
fondata non solo sull’applicazione teorica delle proporzioni matematiche,
ma basata anche sull’uso di strumenti che egli stesso progetta
e utilizza sia per ciò che concerne la scultura ma anche per la
misurazione delle distanze (Descriptio urbis Romae) e delle parti che
compongono un edificio (De re aedificatoria). Alla base di tutto questo
sta chiaramente l’opera di Vitruvio a cui guarda anche Leonardo.
Dürer segnò una svolta decisiva per lo studio delle proporzioni
dell’uomo. Un incontro che tuttavia non lo dissuase ad abbandonare
l’idea della proporzione ideale. Egli infatti modifica le regole di questo
rigido parametro della tradizione classica che fino al 1507 era stato il
suo punto di riferimento. Si era infatti accorto «che l’artista doveva
fare la sua scelta da ogni sorta di tipi» per ammettere infine «che era
impossibile fermare o definire “il bello”»44. Nel 1513, distolto da altre
questioni ed incarichi, abbandonò il progetto di pubblicare il libro sulle
proporzioni che riprese solo nel ’19.
Oltre Vitruvio per Dürer era stata fondamentale la conoscenza di
Euclide, il cui peso, per ciò che concerne le teorie artistiche dal ’400 in
poi, è ancora sottovalutato. Egli dimostra anche di conoscere la sezione
aurea, di cui dà conto nei Vier Bücher von Menschlicher Proportion (1,
2, 16-17)45.
Nel III libro dei Vier Bücher Dürer, nell’affrontare la questione delle
fisionomie irregolari, mostra la personale interpretazione dei sistemi
proporzionali attuati attraverso strumenti geometrici che gli permettono
di variare le caratteristiche facciali anche attraverso nuove interpretazioni
fisiognomiche che pur sempre riporta a formule geometri-
42 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit. Mi limito a segnalare G.
M. Feo, «All’antico splendere». I Vier Bücher von Menschlicher Proportion tra Moderni
e Antichi, in A. Dürer, Vier Bücher von menschlicher Proportion. Quattro libri
sulle proporzioni umane, cit., I, pp. IX-LXXXVI: XVII.
43 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit., p. 342.
44 Ivi, p. 344.
45 Sulla sezione aurea si veda Albertvan der Schoot, Die Geschichte des goldenen
Schnitts. Aufstieg und Fall der göttlichen Proportion, trad. ted., Stuttgart, Frommann,
2005.
[ 13 ]
700 patrizia castelli
che46. È proprio in questo libro, ove affronta la questione della rappresentazione
dei tipi caratteristici, che specifica come rappresentare la
trasformazione della testa di una donna senza distruggere il carattere
femminile «dasweybs art»47. Per spiegare che cosa sia il carattere maschile
o femminile disserta sul rapporto esistente tra individuo, genere
e specie attraverso l’esempio della specie canina che ognuno sa riconoscere.
Questo riferimento è poi allargato ad una breve ma significativa
osservazione di tipo fisiognomico che mostra la sua conoscenza di
questa pseudo-scienza la cui fortuna, in quel periodo, non si limita
all’Italia ma si estende soprattutto nei paesi d’oltralpe. Nell’opera di
Dürer, infatti, si riflettono aspetti legati alla fisiognomica ed alla teoria
degli umori che emergono nella Melancolia I48. Non ignora poi il De
animalibus libri XXVI e conosce il Liber medicinalis ad Almansorem di
Rhazes. La sua attenzione rivolta anche verso il mostruoso e il grottesco,
a cui già Leonardo aveva dedicato numerose ricerche, si innesta
sullo studio delle complessioni, la cui eco ritorna in numerose opere49.
Nel 1522, a Strasburgo, era stato pubblicato un libro molto significativo,
anche perché illustrato, per ciò che concerne la fisiognomica. Il
testo, scritto da Johannes ab Indagine, Introductiones Apotelesmaticae
elegantes, in Chyromantiam, Phisiogmomiam, Astrologiam naturalem,
Complexiones hominum. Naturas planetarum…, ebbe una grande fortuna.
Fu tradotto in tedesco, francese e inglese, sempre accompagnato
dalle figure che illustrano i vari casi esemplati. L’opera compendiava
gli scritti antecedenti sull’argomento e offriva ai suoi lettori una galleria
di ritratti50. Già Dürer aveva realizzato alcune esercitazioni sul te-
46 Claire Barbillon, Les canons du corps humain au XIXe siècle. L’art et la règle,
Paris, Jacob, 2004, pp. 38-43.
47 Albrecht Dürer, Vier Bücher von menschlicher Proportion. Quattro libri sulle
proporzioni umane, cit., I, p. 353 (III, 9, 16).
48 Karl Giehlow, Dürers stich «Melancolia»und der maximilianische Humanistenkreis,
«Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», XXVI (1903),
pp. 29-41; Id., Dürers stich «Melencolia I»und der maximilianische Humanistenkreis,
«Mitteilungen der Gesellschaft für vervielfältigende Kunst», XXVII (1904), pp.
6-18, 57-78; 63-67.
49 Si vedano almeno le fondamentali osservazioni di Ernst Hans Gombrich,
Le teste grottesche, in Id., L’eredità di Apelle. Studi sull’arte del Rinascimento, trad. it.,
Torino, Einaudi, 1986, pp. 80-106; e Jonathan Woolfson, Andrew Gregory,
Aspects of Collecting in Renaissance Padua: A Bust of Socrates for Niccolò Leonico Tomeo,
«Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LVIII (1995), pp. 252-265.
50 Su Indagine cfr. Ulrich Reisser, Physiognomik und Ausdruckstheorie der Renaissance.
Der Einfluss charakterologischer Lehren auf Kunst und Kunsttheorie des 15.
[ 14 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 701
ma51 ripreso da Leonardo; ciò che scrive nel III dei Vier Bücher mostra
da parte di Dürer la piena conoscenza e il superamento della tradizione
fisiognomica che aveva già sperimentato nella sua opera figurativa:
Per fare un esempio, tutti gli uomini e anche gli altri animali entro la
loro specie si somigliano, eppure nella maggior parte di essi si può
distinguere la femmina dal maschio. Allo stesso modo la donna e l’uomo,
con tutte le loro differenze, devono mantenere carattere umano.
Tra gli animali si vede che mai nessun leone è così malformato da poterlo
prendere per un asino, né una volpe può essere scambiata per un
lupo. Perciò nessuna specie del creato dev’essere stravolta nella propria
natura. Che poi talvolta si dica che un uomo ha un aspetto leonino,
o d’orso, o di volpe o di cane, per quanto non abbia quattro zampe
come quell’animale, questo non significa che egli abbia la loro stessa
corporatura, ma piuttosto che l’aspetto esteriore di quell’uomo indica
in esso, secondo il nostro modo di pensare, una disposizione d’animo
simile a quella di quel dato animale, e questo genere di analogia che
concepiamo dentro di noi non riguarda affatto le membra; perciò non
si mescoli l’una cosa con l’altra52.
Queste osservazioni sono dunque preziose in quanto indicano la
conoscenza delle teorie fisiognomiche da parte di Dürer o dei suoi
consiglieri, senza tralasciare di far riferimento al ‘carattere’ che, pur
rientrando in questo tipo di trattatistica già nell’opera dello Pseudo-
Aristotele, acquista un suo particolare statuto nell’ambito della teoria
artistica dall’inizio del ’500 a partire dal De sculptura di Pomponio
Gaurico, ove l’autore dimostra una precisa conoscenza soprattutto dei
testi di fisiognomica del mondo greco.
Il citato brano di Dürer mette in rilievo, come ho ricordato, la somiglianza
nella differenza e che «le modificazioni della forma non cambiano
la natura». Non a caso aveva specificato come l’aspetto esteriore
di un uomo indichi «una disposizione d’animo simile a quello di quel
dato animale, e questo genere di analogia che concepiamo dentro di
und 16. Jahrhunderts, München, Scaneg, 1997, pp. 61-73; si vedano anche le pagine
dedicate a Dürer: ivi, 238-251, 263-2666, 307-312; e Patrizia Castelli, Fisiognomica,
metoscopia, chiromanzia e divinazione nel Cinquecento, in Il Futuro. Previsione, pronostico
e profezia, Atti del Convegno (Venezia, 19-21 ottobre 2000), a cura di Antonio
Lepschky e Manlio Pastore Stocchi, Venezia, Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti, 2005, pp. 277-328.
51 Cfr. Friedrich Winkler, Die Zeichnungen Albrecht Dürers, 4 Bde., Berlin,
Deutscher Verein für Kunstwissenschaft, 1936-39, vol. I, dis. 657, p. 457.
52 A. Dürer, Vier Bücher von menschlicher Proportion. Quattro libri sulle proporzioni
umane, cit., I, pp. 353-355 (III, 9, 16-22). Il testo tedesco è accessibile in questa edizione.
[ 15 ]
702 patrizia castelli
noi non riguarda affatto le membra; perciò non si mescoli l’una cosa
con l’altra»53. Il passo lascia supporre che Dürer, o chi per lui, nel momento
della pubblicazione dell’opera si stia ambiguamente allontanando
dalla technè ristretta e limitata alla ricerca proporzionale per
allargarsi ad una resa psicologica dell’individuo che si riscontra soprattutto
in certe sue opere figurative dell’ultimo periodo. È questa
osservazione relativa alla mutazione dell’espressione del viso in dipendenza
dallo stato d’animo, ma specialmente dalle qualità morali
che contribuiscono a definire i caratteri, a segnare una svolta nell’opera
di Dürer il quale teorizza e realizza i ritratti e figure attraverso una
profonda resa psicologica, come dimostrano non solo le opere da lui
realizzate nel tempo, ma soprattutto i suoi autoritratti54. Non è dato
sapere se Dürer conoscesse direttamente gli Analitici primi (II, 70 b ss.)
dove Aristotele parla dei pathemata, ovverosia delle affezioni naturali
che contemporaneamente mutano il corpo e l’anima, né se abbia avuto
l’opportunità di consultare di prima mano testi di fisiognomica, ma
sembra invece che conoscesse il De sculptura di Pomponio Gaurico
attraverso Pirckheimer55.
In questo scritto, è bene ricordarlo, compare per la prima volta nella
trattatistica d’arte un capitolo che specifica come attraverso l’osservazione
dei segni si percepiscono le qualità dell’anima nella fisiognomica
«observatio, que ex iis quae corpori insunt signis, animorum
etiam qualitates denotamus»56. Gaurico dimostra una notevole conoscenza
della materia e soprattutto attinge da Adamanzio il quale nel
IV d.C. aveva steso un’epitome dell’opera di Polemone il cui originale
greco oggi è perduto57.
Nella raccolta dei trattati sulla fisiognomica che il fratello Luca
pubblicò a Bologna nel 1551, inserì il lavoro di Pomponio, Aristotelis
Physiognomonia Adamantio interprete, il De physionomia libellus dello
Pseudo-Aristotele e il suo Phisionomia pleraque axiomata. Nell’introduzione
mise in rilievo come il fratello avesse steso questa sua prima
53 Ivi, p. 353.
54 Sul tema del ritratto sono da vedere le considerazioni di M. Levey, Dürer,
Bergamo, Istituto d’arti grafiche, 1965.
55 Cfr. U. Reisser, Physiognomik und Ausdruckstheorie der Renaissance. Der Einfluss
charakterologischer Lehren auf Kunst und Kunsttheorie des 15. und 16. Jahrhunderts,
cit., p. 193, nota 207.
56 Pomponio Gaurico, De sculptura, a cura di Paolo Cutolo, Napoli, Edizioni
scientifiche italiane, 1999, p. 170.
57 Giampiero Raina, Introduzione, a Pseudo Aristotele, Fisiognomica. Anonimo
Latino, Il trattato di fisiognomica, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 5-49: 40.
[ 16 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 703
opera a diciotto anni, cioè nel 149858. Quando Pomponio si dedicò allo
studio della fisiognomica, questa pseudo-scienza era entrata a far parte
non solo delle conoscenze di chi indagava dal punto di vista speculativo
e pratico le relazioni tra anima e corpo, ovverosia tra i semeia
esterni e le affezioni interne, ma anche dei medici e degli artisti. Lo
studio della fisiognomica prevedeva e necessitava infatti di alcune
competenze anche di tipo antropometrico che permettevano di inserire
in una griglia i semeia che lasciavano trasparire il carattere, ovverosia
l’ethos, come aveva suggerito Aristotele nell’Historia animalium.
Caratteri, questi, che nell’uomo sono espliciti perché il carattere umano
è più complesso59.
Pomponio Gaurico60 riversa in quest’opera le sue febbrili ricerche
nate in seno alle discussioni tenute all’interno di una piccola ma ideale
accademia di cui faceva parte Leonico Tomeo, professore di greco
nell’università patavina e studioso di Aristotele61 ed anche collezionista62.
Un libro originale questo del Gaurico che afferma come gli artisti
avessero la necessità di prendere in considerazione questa pseudoscienza
unitamente alla conoscenza del corpo per la realizzazione di
una statua perfetta.
58 Liliane Defradas, Introduction, in Pomponius Gauricus, De sculptura
(1504), éds. André Chastel et Robert Klein, Genève, Droz, 1969, pp. 115-127:
121; P. Castelli, «Viso cruccioso e con gli occhi turbati». Espressione e fisiognomica
nella trattatistica d’arte del primo Rinascimento, cit., p. 60.
59 Maria Michela Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Torino, Boringhieri,
1988, pp. 53 segg.
60 Su Pomponio Gaurico e il trattato d’arte si vedano: A. Chastel, R. Klein,
Introduction, a Pomponius Gauricus, De sculptura (1504), cit., pp. 11-26; Liliane
Defradas, Les sources du «De Physiognomonia» de Pomponius Gauricus, «Bibliothèque
d’Humanisme et Renaissance», XXXII (1970), pp. 7-39; Luigi Torraca, La cultura
classica di Pomponio Gaurico e il testo del trattato «De sculptura», in I Gaurico e il Rinascimento
meridionale, Atti del Convegno di studi (Montecorvino Rovella, 10-12 aprile
1988), a cura di Alberto Granese, Sebastiano Martelli ed Enrico Spinelli,
Salerno, Centro Studi sull’Umanesimo meridionale/Università degli Studi di Salerno,
1992, pp. 109-135.
61 Sull’argomento si vedano: Daniela De Bellis, Leonico Tomeo interprete di
Aristotele naturalista, «Physis», XVII (1975), pp. 71-93; Ead., Autokineton e entelechia.
Niccolò Leonico Tomeo: l’anima nei dialoghi intitolati al Bembo, «Annali dell’Istituto di
filosofia dell’Università di Firenze», I (1979), pp. 47-68.
62 Irene Favaretto, Appunti sulla collezione rinascimentale di Niccolò Leonico Tomeo,
«Bollettino del Museo civico di Padova», LXVIII (1979), pp. 15-29; Ead., Arte
antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma, L’Erma
di Bretschneider, 1990, pp. 100-103; J. Woolfson, A. Gregory, Aspects of Collecting
in Renaissance Padua: A Bust of Socrates for Niccolò Leonico Tomeo, cit.
[ 17 ]
704 patrizia castelli
Se a Padova tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento
si discuteva dei testi aristotelici e si utilizzavano i suggerimenti
fisiognomici come guida per rappresentare l’uomo secondo i modelli
della tradizione classica, nel nord Europa si sviluppava un’attenzione
sempre più forte nei confronti del naturalismo che non solo guardava
alla raffigurazione del paesaggio ma anche a quella del typus ed ancora
di più al ritratto. Per il typus, secondo i modelli desunti dalla fisiognomica,
basti pensare al Cristo tra i Dottori (1506; Lugano, Collezione
Thyssen) di Dürer dove i volti degli ebrei sono segnati da caratteristiche
fisiche che lasciano trasparire la loro ottusità ed avidità. Un genere,
questo, che nei secoli ha avuto una sinistra fortuna.
5. Pomponio Gaurico e i ‘nuovi modelli’ per la rappresentazione dell’uomo
Pomponio cita esplicitamente alcune auctoritates nel campo della
fisiogonomica: Plinio, Trogo Pompeo, Aristotele e Polemone, estratto
da Adamanzio63, i cui suggerimenti, secondo Gaurico, aiutano gli
scultori
nella realizzazione dello loro opere. Il testo risente inoltre fortemente
della fisiognomica astrologica che era giunta fino a Ficino. Le
testimonianze in questo senso erano molteplici. È presente persino un
frammento del Corpus Hermeticum (24 Stobeo I, 49, 45) che trattava
della fisiognomica astrologica attraverso l’influsso dei climi64. L’influenza
della fisiognomica araba riflette la tradizione medica passata
negli scritti di autori latini come Gilles de Corbeil, Michele Scoto, Alberto
Magno, Pietro d’Abano, Michele Savonarola e infine Ficino per
essere poi sviluppata successivamente. L’umanista congiunge con finezza
fisiognomica, phantasia e aspetti della retorica epidittica. L’attenzione
di Pomponio verso l’ékphrasis emerge in più luoghi del suo
trattato, un tema comune, questo, negli scritti degli umanisti del Rinascimento;
ma con sottigliezza avverte il lettore di essere il primo ad
aver congiunto, in linea pratica e in linea teorica, la scultura con le
lettere65. Di ciò Gaurico fornisce un esempio significativo nel I libro,
63 Richard Foerster, Zur Epitome des Adamantios, «Rheinisches Museum für
Philologie», LV (1900), pp. 139-148.
64 A. Chastel, R. Klein, Introduction, cit., p. 117.
65 Norberto Gramaccini, Wie Jacopo Bellini Pisanello besiegte: der Ferrraser
Wetbetwerb von 1441, cit. Sull’argomento si veda il bel saggio di Silvio Ferri, Le
categorie artistiche di Pomponio Gaurico, «Accademia nazionale dei Lincei. Rendiconti
della Classe di scienze morali, storiche e filologiche», II (1947), pp. 31-48.
[ 18 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 705
dove descrive l’artista come euphantasíotos, capace cioè di immaginare
gli infiniti stati d’animo di un individuo: sofferente, ridente, ammalato,
moribondo, angosciato; caratteristiche, queste, necessarie ai poeti
ed agli oratori66.
L’artista inoltre è cataleptikós: deve saper cogliere e imitare le forme
ideali concepite nella sua mente: «sculptori rerum omnium species
comprehendendae et hominem ponat»67. Il sistema proporzionale viene
dunque a stemperarsi attraverso l’esegesi dell’anima; i versi dei
poeti che forniscono materia per cogliere l’essenza del soggetto da
rappresentare, come ad esempio Fidia il quale, avendo ammirato il
Giove di Olimpia, affermò come i versi di Omero68 fossero stati l’unico
maestro da cui aveva attinto.
L’opera di Gaurico si presenta dunque all’inizio del Cinquecento
molto innovativa e testimonia l’ineluttabile intreccio e paragone tra
arte e letteratura. Il fine dell’umanista era quello di realizzare un repertorio
di immagini che potessero essere utilizzate per la rappresentazione
degli stati d’animo dell’uomo, dalla passione all’amore, dall’odio
alla pietà. Il gesto imperioso delle immagini medievali, che dovevano
comunicare gli stati d’animo dei personaggi rappresentati, era
stato aristocraticamente ripreso attraverso la tradizione classica dei
caratteri e della fisiognomica intesa come una scienza obiettiva. Non è
un caso che altri umanisti, come Alessandro Achillini e Bartolomeo
della Rocca (Cocles),69 si occupassero in quegli anni della fisiognomica
come scienza universale e lo sottolineassero, rispettivamente, nella
Quaestio de subiecto physionomiae et chyromantiae, pubblicata nel 1503, e
nel volume Chyromantiae ac physionomiae Anastasis del 1504, poi ristampato
nel 1515 a Pavia unitamente ad altre opere sulla fisiognomica
sotto il titolo Infinita natura secreta quibuslibet hominibus contingentia,
previdenda, cavenda…70. Nell’Anastasis, messo all’Indice da Sisto V nel
66 Pomponio Gaurico, De sculptura, ed. P. Cutolo, cit., p. 138.
67 Ivi, p. 140.
68 Ivi, p. 145.
69 Sull’argomento di vedano: Paola Zambelli, «Aut Diabolus aut Achillinus».
Fisionomia, astrologia e demonologia nel metodo di un aristotelico, «Rinascimento»,
XVIII (1978), pp. 59-86; Patrizia Castelli, L’oroscopo di Pico, in Giovanni e Gianfrancesco
Pico. L’opera e la fortuna di due studenti ferrares, Atti del Convegno (Ferrara,
15-17 dicembre 1994), a cura della stessa, Firenze, Olschki, 1998, pp. 17-44; U.
Reißer, Physiognomik und Ausdruckstheorie der Renaissance. Der Einfluss charakterologischer
Lehren auf Kunst und Kunsttheorie des 15. und 16. Jahrhunderts, cit., pp. 53-73.
70 Sull’argomento si veda Lynn Thorndike, A History of Magic and Experimental
Science, 8 voll., New York, Columbia University Press, 1941, V, pp. 63-65; ma
[ 19 ]
706 patrizia castelli
1590, il Cocles sottolinea la teoria della fisiognomica in riferimento
all’influenza dei pianeti, riprendendo le idee esposte da Ficino e che
giungeranno ad Agrippa di Nettesheim e a Cardano.
Appare evidente che chi aspirava a stendere dei trattati d’arte proiettati
al di là della mera didattica doveva affrontare ciò che poteva
non solo restituire un «vigor figuratus» all’immagine ma anche la definizione
del carattere. La rappresentazione dei moti dell’anima diventerà
prima in modo pionieristico e poi sempre più specialistico
l’esercizio in cui tra ’400 e ’500 si cimenteranno numerosi artisti. Se
nello scorcio del Trecento Filippo Villani indicava in Giotto la capacità
di restituire i moti dell’anima attraverso gli atteggiamenti e le positure,
altra sarà l’analisi e la ricerca successiva degli umanisti, degli estensori
dei trattati d’arte e degli artisti che intendevano descrivere il processo
con cui gli artisti rappresentano «varias animorum affectiones»,
cioè i diversi caratteri degli individui.
6. Le questioni proporzionali nel Rinascimento
Le proporzioni possono essere «oggettive» o tecniche: «i rapporti
matematici potevano essere espressi mediante la divisione di un tutto
in tante parti, come pure mediante la moltiplicazione di un’unità
base»71. Nel Rinascimento «la teoria pratica delle proporzioni» fu
«nuovamente investita di un significato metafisico […]. Forse la teoria
delle proporzioni apparve così preziosa al pensiero del Rinascimento
proprio perché solo essa, che era matematica e speculativa a un tempo,
poteva soddisfare alle disparate esigenze spirituali dell’epoca»72. I
tentativi e le sperimentazioni da parte di umanisti ed artisti sui rapporti
matematici furono molteplici, non ultima fu quella pratica di
cercare corrispondenze fra le parti che compongono gli edifici con le
membra degli uomini.
Quest’ansia di rapportare tutti i sistemi di composizione, sia antropometrici
sia architettonici, al sistema proporzionale si sviluppa nel
Rinascimento nel momento in cui la matematica non è più solo esercianche
Flavio Caroli, Storia della fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud,
Milano, Leonardo, 1995, pp. 19-29.
71 Erwin Panofsky, La storia della teoria delle proporzioni del corpo umano come
riflesso della teoria degli stili, in Id., Il significato nelle arti visive, trad. it., Torino, Einaudi,
1962, pp. 60-106: 62.
72 Ivi, pp. 91-92.
[ 20 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 707
zio commerciale ma speculativo, tanto che i giovinetti come Gianlucido
Gonzaga, allievo di Vittorino da Feltre, pronunciano orazioni non
più basate su aspetti letterari o filosofici, bensì fondate sull’esposizione
di principi matematici. Nel 1435 questi dimostrò a Mantova problemi
euclidei e le relative figure al monaco camaldolense Ambrogio Traversari
che ricorda l’episodio nelle sue epistole: «ostendit proportiones
duas in geometria Euclidis ab se additas cum figuris suis»73. I signori
come Federico da Montefeltro non disdegnavano poi la conoscenza
e il diletto che si può trarre dalla geometria e dall’aritmetica74.
Lo stesso Alberti dette prova del suo interesse e della sua competenza
nei confronti di Euclide, tanto che stese in volgare tra il 1450-52 i Ludi
matematici, indirizzandoli a Meliaduso d’Este al quale, nella lettera dedicatoria,
sottolinea come «queste sono materie molto sottili, e male si
possono trattare in modo sì piano che non convenga stare attento a
riconoscerle»75. L’osservazione, anzi il monito, si rivela significativa
perché indica che all’epoca pochi discutevano di temi euclidei.
7. Le nuove tendenze del ’400: matematica e proporzione
Le arti che nel Rinascimento aspirano a divenire scienze trovano il
loro statuto nei trattati che, nello scorcio del ’400, divengono sempre
più radicali per ciò che concerne le applicazioni matematiche. Piero
della Francesca ne dà un esempio chiarissimo nel De perspectiva pingendi
ove assimila la pittura alla prospettiva, cercando di dimostrare,
sulla scorta di Euclide, la possibilità di riprodurre il mondo attraverso
le regole della prospettiva e della geometria. I tre libri che compongo-
73 Ambrosii Traversarii Latinae epistolae…, ed. Laurentius Mehus, Florentiae,
ex typographico Caesario, 1759 [ed. anast., Bolologna, Forni, 2 voll., 1968], col.
33 (VII, 3). Cfr. Patrizia Castelli, La proporzione “divina”. Alcuni aspetti della cultura
scientifica alla corte di Federico da Montefeltro, in Presenze filosofiche in Umbria dal
Medioevo all’età contemporanea, a cura di Antonio Pieretti, Milano-Udine, Mimesis,
2012, pp. 127-148: 128.
74 Patrizia Castelli, La citta ideale di Federico da Montefeltro: geometria e matematica
discipline senza retorica, in La città ideale. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra
Piero della Francesca e Raffaello, a cura di Alessandro Marchi e Maria Rosaria
Valazzi, Milano, Electa, 2012, pp. 40-63: 53-54.
75 Leon Battista Alberti, Ludi rerum mathematicarum, in Id., Opere volgari, a
cura di Cecil Grayson, 3 voll., Bari, Laterza, 1973, III, p. 133. Cfr. Ludovico
Geymonat, Prefazione, a Leon Battista Alberti, Ludi matematici, a cura di Raffaele
Rinaldi, Parma, Guanda, 1980.
[ 21 ]
708 patrizia castelli
no l’opera si fondano su rigorose teorie che dimostrano il progresso
rispetto alle formulazioni dell’Alberti.
Questo scritto fu subito apprezzato non solo dagli artisti come Leonardo
ma anche da matematici come Luca Pacioli. È proprio con questi
che emerge l’attenzione verso la matematica nei poli pulsanti
dell’Italia rinascimentale. Nel De divina proportione, stampata a Venezia
con la data del 1509, anche se all’interno porta la data 1497, espone
i suoi molteplici interessi e rimandi non solo ad Euclide ma anche a
Platone. Nel titolo l’aggettivo «divina» palesa chiaramente il significato
eccelso che era stato attribuito alla proporzione aurea, di cui spiega
l’importanza nella letterea indirizzata a Ludovico Sforza76. Sempre nel
1509 veniva data alle stampe da Paganinus de Brixia per la sua curatela
la traduzione di Euclide77.
La Divina Proportio del Pacioli, ovvero la ‘sezione aurea’ della matematica
antica, esalta la realizzazione di cinque corpi regolari e diviene
modello non sterile per analizzare la rappresentazione del corpo
umano, delle parti dell’edificio ed anche delle lettere dell’alfabeto.
Pacioli, nel De divina proportione, non dimentica di citare con ammirazione
Piero della Francesca. La conoscenza della matematica e l’applicazione
dei sistemi proporzionali erano ormai diventati elementi
indispensabili nell’esercizio delle pratiche artistiche. Non a caso Leonardo,
tutto proiettato allo studio della prospettiva e della geometria,
rivolgendosi ai lettori del suo Trattato della pittura scrisse: «Nessuna
umana investigazione si può dimandare vera scienza, se essa non
passa per le matematiche dimostrazioni»78. Se la pittura è scienza deve
essere fondata sulla matematica; tuttavia Leonardo non si fermò a
queste considerazioni ma indicò ai pittori l’importanza di rappresentare
l’afflato dellle espressioni come momento normativo ed essenziale
della pittura. I continui riferimenti al sistema proporzionale da
parte di Leonardo sono infatti arricchiti da considerazioni su come
rappresentare i moti dell’animo, il modificarsi delle passioni, delle
espressioni, come il pianto e il riso, che illustra nel capitolo Del ridere
e piangere e differenze loro79, ai quali, fra l’altro, fa cenno Dürer nei due
76 P. Castelli, La proporzione “divina”. Alcuni aspetti della cultura scientifica alla
corte di Federico da Montefeltro, cit., pp. 129-130.
77 Bernardino Baldi, Le vite de’ matematici, edizione annotata e commentata
nella parte medievale e rinascimentale, a cura di Elio Nenci, Milano, Angeli, 1998,
p. 334 (Fra Luca da Borgo S. Sepolcro).
78 Leonardo, Trattato della pittura, cit., p. 2 (cap. 1).
79 Ivi, p. 190 (cap. 380).
[ 22 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 709
dei soli abbozzi per i Vier Bücher che però non sono inseriti nel testo a
stampa ove elimina questa contrapposizione80. Il rilevamento dei semeia
del volto è arricchito dell’ammonimento di come «il buon pittore
» debba dipingere non solo l’uomo ma anche le sue passioni81:
la figura non sarà laudabile s’essa non mostra le passioni dell’animo,
non sarà degna di lode se non esprimerà coll’atto le passioni dell’animo
suo82.
Lo scritto di Leonardo indica da parte sua l’esigenza di conciliare
ed integrare proporzioni matematiche ed espressioni, nonché i caratteri
come ad esempio quello dell’uomo irato.
La preminente attenzione verso il sistema proporzionale, alla cui
base sta Vitruvio, nello scorcio del ’500 stava allentandosi, lasciando
spazio ai moti dell’animo che infondono vita alle rigide leggi della
matematica, creatrici di perfette armonie ma incapaci di comunicare
gli afflati degli uomini. Alcune resistenze relative al sistema proporzionale
sussistono, ad esempio in Lombardia, dove il Foppa, a dire del
Lomazzo, avrebbe realizzato un trattato oggi perduto sulla costruzione
del corpo del cavallo basato sulle «figure quadrate» di Lisippo.
Un’opera illustrata, di cui, secondo il trattatista lombardo, si sarebbero
serviti Dürer e Daniele Barbaro nell’ottavo libro della sua Pratica
della prospettiva (Vienna, 1569). Secondo Schlosser in questa notizia c’è
qualcosa di vero poiché lo stesso Lomazzo avrebbe ricordato Bernardino
Butinone e Bernardo Zenale, due allievi del Foppa attivi fino al
1526 e autori, rispettivamente, di opere perdute riguardanti questioni
di architettura e prospettiva83. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e
per accennare a questa mania proporzionale mi limito a citare il fondamentale
De Harmonia mundi totius cantica tria del francescano Francesco
Zorzi, pubblicato a Venezia nel 1525, ove è esaltato il concetto di
armonia basato non solo sulla speculazione neoplatonica e cabbalistica
ma anche sulla classica idea di misura della quale dà un’eccellente
dimostrazione nel Modulus tertius ove la discute in senso teologico ed
80 Ivi, pp. 190-191 (cap. 380). Cfr. G. M. Feo, «All’antico splendere». I Vier Bücher
von Menschlicher Proportion tra Moderni e Antichi, cit., pp. LIX-LX.
81 S. Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, cit., pp.
65-68.
82 Leonardo, Trattato della pittura, cit., p. 184 (cap. 364).
83 Julius von Schlosser Magnino, La letteratura artistica, a cura di Otto
Kurz, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 19673, p. 124.
[ 23 ]
710 patrizia castelli
esoterico84. Né si deve dimenticare che da quest’opera Dürer ebbe notizia
dell’exempeda descritto dall’Alberti, lo strumento essenziale per
misurare l’altezza dei corpi.
È appena superfluo rammentare come Ficino nel suo commento al
Timeo si sia soffermato sui tre tipi di modi proporzionali85 che furono
studiati non solo dallo Zorzi ma anche da Daniele Barbaro e, successivamente,
da Palladio. Alberti aveva discusso nel libro IX, cap. 6 del De
re aedificatoria dei modi proporzionali che determinano le proporzioni
armoniche. Lo studio delle proporzioni musicali degli antichi era assai
diffuso a partire dal Brunelleschi. Antonio Manetti, nella vita
dell’Architetto, ricorda la sua propensione. All’Alberti, che dedica
grande spazio alla questione nel De re aedificatoria, spetta poi un ruolo
di primo piano per l’uso delle proporzioni armoniche86. Questa «exactissima
armonia» su cui si basa il corpo umano è poi oggetto di discussione
nel De sculptura, la straordinaria opera di Pomponio Gaurico.
8. La ‘psicologia’ artistica di Dürer
Dürer aveva dato prova di grande abilità non solo nel ritrarre i
corpi ma anche i volti, cimentandosi persino in una serie di autoritratti
già dalla prima giovinezza, quando questo genere non era così diffuso,
fino alla piena maturità. Gli autoritratti a penna, a partire da
quello del 148487 realizzato all’età di quattordici anni, cui seguono
quelli del 1491 circa e del 1491, denunciano già una forte attenzione
alla restituzione psicologica. I dipinti, nei quali si auto rappresenta,
del 1493, del 1498 e del 1500 ed infine il disegno del 1522 confermano
questa sua ricerca che non tende tanto a una mera restituzione fisiognomica,
ma alla rappresentazione della mutevolezza del suo essere
secondo le sue inclinazioni e alle vicissitudini degli eventi della vita
che lo stava plasmando. Lo stesso procedimento è visibile nel ritratto
della vecchia madre la cui fronte segnata dalla rughe, gli occhi acquo-
84 Francesco Zorzi, L’armonia del mondo, a cura di Saverio Campanini, Milano,
Bompiani, 2010, pp. 2332-2349.
85 Marsilii Ficini Opera omnia, Basileae, ex Officina Henricpetrina, 1576 [ed.
anast., lettera introduttiva di Paul Oskar Kristeller, premessa di Mario Sancipriano,
Torino, Bottega d’Erasmo, 1962], II, pp. 1454-1462.
86 È ancora indispensabile sull’argomento il testo di Rudolf Wittkower, Principi
architettonici nell’età dell’Umanesimo, trad. it., Torino, Einaudi, 1964, pp. 115-122.
87 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit., p. 23.
[ 24 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 711
si, il lungo naso, le labbra sottili, le gote cadenti denunciano gli stenti
e le amarezze che le aveva riservato la vita. I ritratti di Dürer sono ben
lontani dalla tradizione italiana contemporanea per la loro sofisticata
ricerca del carattere che mutava anche in relazione all’evolversi del
suo stile.
Esaminando i tipi dei singoli autoritratti di Dürer si ha l’impressione
che si sia rappresentato in modo icastico, ma abbia anche voluto
costituire dei tipi: il primo (1484)88 e il secondo (1491 ca.), adolescenziale;
quelli del ’9389 e quello del ’9890, quale uomo consapevole del
proprio stato sociale; quello del 1500, come alter Christus; ed infine il
disegno del ’22, ormai malato, quale uomo di dolore (Man of Sorrow)91,
sempre ispirato al modello cristologico. I dati fisiognomioci si erano
ormai fusi con il typus e con l’esigenza di rappresentare le affezioni
dell’anima. L’attenzione dell’artista verso la teoria degli umori che
esalta nella Melancholia I è costante in tutta l’evoluzione della sua ricerca
formale che oscillava fra la tradizione nordica e quella classica.
La valutazione di questi ritratti è più complessa di quello che si
può supporre e sembra legata ad una progressiva attenzione alla resa
psicologica dei soggetti da rappresentare da parte di Dürer, le cui interpretazioni
e lo studio delle opere dei contemporanei lo avevano
reso artista raffinato del quale si coglie il riflesso persino nel suo aspetto
esteriore, secondo quanto ricorda Joachim Camerarius nella biografia
che premette alla traduzione latina dei primi due libri del trattato
sulle proporzioni umane ove descrive Dürer, attraverso dettagli che
delineano non solo i suoi tratti fisici ma anche quelli morali:
Erat caput argutum, oculi micantes, nasus honestus et quem Greci
τετράγωυον vocant proceriusculum collum, pectus amplum, castigatus
venter, femora nervosa, crura stabilia. Sed digitis nihil dixisses vidisse
elegantius. Sermonis autem tanta suavitas atque is lepor, ut nihil esset
audientibus magis contrarium quam finis. […]92.
88 Vienna, Albertina. Disegno L 448 (996), mm 275×196. Per il luogo di conservazione
degli autoritratti ho fatto riferimento all’elenco fornito da E. Panofsky, La
vita e le opere di Albrecht Dürer, cit., 548-563.
89 New York, Collezione Robert Lehman (già) nel Museo Lubomirski di Lamberg.
Disegno L 613 (998), mm 276×202.
90 Parigi, Louvre.
91 Disegno 1366 (1174).
92 Alberti Dureri De Symmetria partium in rectis formis humanorum corporum.
De varietate figurarum et flexus partium ac gestibus imaginum libri duo qui prioribus de
symmetria quondam editis ac nunc primum in latino conversi[a Joach. Camerario], Norimbergae,
in aedibus viduae Dureriane, 1532, c. AijR.
[ 25 ]
712 patrizia castelli
Appare significativo, per le considerazioni qui sviluppate, l’ultimo
autoritratto del 1522 nella facies di uomo di dolore. Egli, in realtà, aveva
spesso rappresentato l’immagine di Cristo secondo questa tipologia
a partire dal primo Cinquecento in bulini, acqueforti, puntesecche
e xilografie. Nella puntasecca (mm. 116 x 74) siglata e datata 151293,
Cristo stante, coronato di spine e parzialmente coperto da un manto,
con le mani legate, fa compartecipi i riguardanti del suo dolore espresso
dagli occhi. La medesima espressione è ripresa nell’acquaforte
dell’Uomo dei dolori seduto del 1515. Il Cristo, sempre coronato di spine,
con il busto denudato, porta sul grembo il flabello e un fascio di verghe
mentre mostra nelle mani i segni della crocifissione94. Nella xilografia
del 1511 (mm. 165 x 112), frontespizio dell’edizione di Norimberga
della Piccola Passione, è raffigurato Cristo seduto che appoggia
il volto chinato sul braccio destro95, un particolare, questo, parzialmente
presente nella Grande Passione. Un posto a parte spetta alla
xilografia Il Cristo penitente (mm. 192 x 132) datata 155096. Il personaggio
rappresentato è stato riconosciuto come re David; io invece suppongo,
come già aveva suggerito Thausing, che sia lo stesso Dürer a
rappresentarsi in una fase penitenziale identificabile dal flabello che
poi è l’unico attributo del citato autoritratto del ’22, dove si disegna
con il torso denudato, macilento, ma senza aver perduto del tutto il
primitivo vigore, e con le mani incrociate che stringono rispettivamente
il flagello e il fascio di verghe. È soprattutto la testa, disegnata
di tre quarti, con i capelli mossi dal movimento repentino più che da
un vento immaginario, e gli occhi che guardano obliquamente un possibile
astante, particolare che rende vivo ed inquietante questo autoritratto,
a dimostrare la grande resa interpretativa del pathos delle proprie
sofferenze causate in un primo tempo dal disagio di natura spirituale
dovuto agli eventi religiosi occorsi in Germania, dai quali «Il
Maestro emerse con una nuova sicurezza spirituale»97. Successivamente,
durante il viaggio nei Paesi Bassi, fu colpito a più riprese da
una malattia che ne indebolì la fibra98. Sempre nel medesimo tempo,
93 Giovanni Maria Fara, Albrecht Dürer. Originali, copie, derivazioni, Firenze,
Olschki, 2007, pp. 65-66, n. 6.
94 Ivi, p. 66, n. 7 (5086 st. sc.).
95 Ivi, pp. 204-205, n. 90a (4840 st. sc.). Per altre varianti nel Cristo uomo di dolori
si veda ivi, pp. 226s., n. 90v (4822 st. sc.); 352-353, n. 119.
96 Ivi, p. 346, n. 115 (5037 st. sc.).
97 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit., p. 257.
98 Jane Campbell Hutchison, Albrecht Dürer. A Biography, Princeton, Princeton
University Press, 1990, pp. 162-167: 162.
[ 26 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 713
questa infermità fu alimentata anche dall’angoscia dovuta alle notizie
riguardo la sorte di Lutero. Del quale annota le tribolazioni nel suo
taccuino in data 17 maggio 142199.
Ormai Dürer aveva allentato le gabbie proporzionali ed era riuscito
a restituire la penetrazione psicologica dei soggetti da rappresentare
attraverso un’abilità pratica basata su fondamenti teorici. Dürer,
con il passare degli anni, sentiva ormai la necessità di rappresentare
ciò che caratterizzava i mutamenti del corpo attraverso i processi interiori
e di trasporre nelle proprie opere l’interpretazione psicologica
del soggetto raffigurato, e quindi anche del carattere del typus, come
nel suo autoritratto quale Cristo sofferente. Egli sa ricondurre le sofferenze
di Cristo alla sua. Rappresenta così con il typus del Cristo flagellato
i propri dolori, pur mantenendo le proprie fattezze fisiche ed il
suo carattere melanconico accentuato dalla penitenza simboleggiata
dal flagello che stringe tra le mani100.
I sistemi di rappresentazione, nello scorcio della sua vita, stavano
andando verso la resa di quei mutamenti dell’anima che trasformano
il corpo. Pirchkeimer stesso, nella dedica che gli indirizza nei Caratteri,
sembra suggerirgli di andare al di là della pura ricerca figurativa basata
sulla matematica e la geometria per rappresentare i moti dell’anima.
Suggerisce a Dürer di esercitarsi in nuove indagini per rappresentare
il riso, l’ironia, la satira e il grottesco, aspetti, questi, della complessa
psicologia umana che Teofrasto aveva descritto nella sua opera.
Se poi il pittore non avesse voluto rappresentare questi aspetti, la lettura
dell’opera lo avrebbe comunque dilettato:
Bilibaldus Pirckeymherus suo Albertio Durero s.
Lepidum hunc libellum a lepido quondam mihi amico donatum tibi,
mi lepidissime Alberte, dono dare constitui non solum ob amicitiam
nostram mutuam, sed quoniam pingendi arte admodum parcellis, cerneres
etiam, quare affabre senex ille et sapiens Theophrastus humanas
affectiones depingere novisset. Quae quidem legibus et institutione
aliquantisper refrenatae diutissime tamen aliquando se occulere solent
et non nisi data oportunitate ex altissimis cordium erumpere recessibus,
acsi tum primum oriantur et non potius legalis illius paedagogi
timore iam pridem constrictae delituerint, quo e medio sublato tum
demum palam in lucem prodire et manifeste se ostendere audent,
quod quidem verissimum esse vel praesentia tempora prae ceteris declarant,
quibus numia libertas nimium etiam procreat contemptum, ita
99 Ivi, p. 162.
100 E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit., p. 313.
[ 27 ]
714 patrizia castelli
ut, licet passim veritas praedicetur, nil minus tamen interim quam
quod illa exigit, peragitur, perinde ac regnum dei in verbis potius nudis
quam operibus consistat peragendis. Proinde quum omnes edeo
teneri simus, ut nemo vitia sua libenter reprehendere audiat, nihil utilius
censeo quam eos relegere libellos, in quibus unusquisque proprii
animi habitum tanquam in speculo quodam contemplari ac contemplando
emendare potest. Ex quibus hunc vel praestantissimum iudico,
ita acri perlutus aceto festivissime circa praecordia ludit.
Accepi illum dono olim graecum a doctissimo et amicissimo principe
Iohanne Pico Mirandulae comite et domino Concordiae. Nunc autem
tibi quoque amicissimo, et graecum pariter dedico et latinum, ut
studiosi habeant, quo se in utraque lingua valeant oblectare. Tametsi
plerisque in locis sciptoris incuria aut etiam cura non parum fuerit corruptus,
restitui tamen illum, quantum licuit, donec emendatius aliquando
prodierit exemplar. Proinde etsi eum stilo elegantiori vertere
potuissem, nolui tamen longius a graeca discedere phrasi, etiamsi eam
ob causam obscurior nonnumquam videri possit. Sed mox ut graeca
cum latinis fuerint collata, omnia reddentur clariora, tametsi in dictionibus
quibusdam transferendis nec mihi ipsi satisfacere potuerim. Quod
quidem non tam culpa propria quam latinae linguae accidit penuria.
Quo pacto enim ἁϱεσϰείαν, λογοποιίαν, μιϰϱολογίαν ac πεϱιεϱγείαν aliter
vertere potuissem? Nec ignoro quaedam esse, quae coniectore potius
quam interprete indigeant. Verum unicuique liberum erit iudicare aut
singula pro libito vertere. Tu vero, mi Alberte, benigne graphicam hanc
Theophrasti picturam accipe et, si illam penicillo imitare nequis, mente
saltem diligente revolve. Nam praeterquam quod non parum proderit,
abunde risum praebebit ac multum oblectare poterit. Bene vale.
Ex aedibus nostris kal Septembris anno salutis MDXXVII101.
La dedica, che fino ad oggi è stata trascurata dalla critica, è un documento
di grande rilievo che rivela le aspettative di Pirckheimer nei
confronto dello sviluppo stilistico dell’artista. Non è un semplice dono
la traduzione dell’opera di Teofrasto che dedica a Dürer, a cui è legato
da un reciproco rapporto di amicizia, ma è un incitamento affinché
rappresenti le «humanas affectiones» descritte da Teofrasto. Dopo
aver insistito sulle difficoltà trovate nel volgere il testo dal greco al
latino, invita ancora l’artista a illlustrare l’opera. Quest’ultima osservazione
apre nuovi orizzonti verso ciò che il pittore deve rappresentare.
Il riso, l’ironia e la satira hanno ormai raggiunto la loro dignità figurativa
e non vengono meno al concetto di decoro.
101 Willibald Pirckheimers Briefwechsel, Bd. VI, bearbeitet und herausgegeben
von Helga Scheible, München, Beck, 2004, pp. 386-387. Il testo è anche riportato
in C. B. Schmitt, Theofrastus, cit., p. 256.
[ 28 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 715
Si può infine supporre che Pirckheimer pensasse ad un’edizione
illustrata della sua traduzione, dato che Dürer non era nuovo a simili
imprese102.
9. Giampaolo Lomazzo: proporzione, affetti, caratteri
Anche Giampaolo Lomazzo (1538-1600) non trascurò il sistema
proporzionale nel Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura,
pubblicato nel 1584 a Milano né nell’Idea edita nel ’90. Il Trattato, introdotto
da un lungo proemio, è aperto dal libro De la proporzione naturale
et artificiale de le cose, articolato in trentadue capitoli nei quali dimostra
non solo la conoscenza di Gaurico ma anche di Dürer e, naturalmente,
di Vitruvio, dalla cui opera i due artisti avevano tratto materia.
Egli cita esplicitamente Vitruvio, probabilmente desunto dalle traduzioni
del Cesariano e del Barbaro: «ora, da la proporzione ne seguono
e risultano infiniti et importanti effetti, de’ quali il principale è la maestà
e bellezza ne’ corpi da Vittruvio chiamata euritmia»103. Lomazzo
conosce non solo i trattati ma è anche un esperto delle opere degli artisti
famosi come Dürer, Leonardo da Vinci, Bramante, Isibil Peumm104
e altri pittori che forniscono regole a chi vuole intendere «le minute
parti delle proporzioni e trasportazioni sue dall’un corpo all’altro»105.
Lomazzo conosce bene l’opera di Dürer. Nelle tavole che concludevano
il Trattato nell’edizione del 1584 fa un ulteriore riferimento all’artista
tedesco106. Sembra poi che, come ricorda nei Grotteschi avesse avuto
contatti con i parenti del pittore107. Sia nel Trattato sia nella successiva
Idea, Lomazzo fa diretti riferimenti a Dürer, soprattutto per ciò che
102 Cfr. G. M. Feo, «All’antico splendere». I Vier Bücher von Menschlicher Proportion
tra Moderni e Antichi, cit., pp. X-XI.
103 G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et archietttura, cit., p. 38,
nota 2.
104 Ivi, p. 92, nota 3. Hans Sesald Beham (Isibil Peumm).
105 Ibidem.
106 Barbara Agosti, Giovanni Agosti, Le tavole del Lomazzo, Brescia, L’obliquo,
1997, p. 15.
107 Ivi, p., 15. Sui Grotteschi cfr.: Silvia Maspoli Genetelli, Il filosofo e le grottesche.
La peculiarità estetica di Montaigne, Lomazzo e Bruno, Roma-Padova, Antenore,
2006, pp. 163-240; Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’Accademia della Val
di Blenio, Lomazzo e l’ambiente milanese, Catalogo della Mostra (Lugano, Museo
Cantonale d’Arte, 28 marzo-21 giugno 1998), a cura di Giulio Bora, Manuela
Kahn-Rossi e Francesco Porzio, Milano, Skira, 1998; Dante Isella, Introduzione,
a Giovan Paolo Lomazzo, Rabisch, Torino, Einaudi, 1993, pp. X-LXII.
[ 29 ]
716 patrizia castelli
concerne la proporzione, la cui applicazione sembra conoscere attraverso
le incisioni dell’artista «che sono poste in stampa»108.
Credo poi che Lomazzo con «stampe» alluda anche al testo di
Dürer sulle proporzioni tradotto in latino dal Camerario già dal 1528
nell’edizione di Norimberga, a cui fecero poi seguito le edizioni del
1532, 1534 e quelle parigine del 1535, 1537, 1557. Mi limito poi a segnalare,
per la diffusione dell’opera in Italia, la famosa traduzione italiana
del Gallucci del 1591 e del 1594109.
Nel Trattato Lomazzo stempera la teoria delle proporzioni con
quella degli affetti umani basata sul confronto tra pittura e poesia.
Non a caso nel capitolo VII del libro II, nel trattare De i moti dei sette
governatori del Mondo, specifica l’utilità degli «studi sottili delle buone
lettere» per capire il sistema della rappresentazione: «Che ben si sa
che queste cognizioni non si apprendono punto per la pratica del dipingere,
ma dagli studi sottili delle buone lettere, come fecero i pittori
antichi»110, proponendo così la pittura anche come poesia.
Tra i moderni, Dante, Ariosto, Pontano, Tasso forniscono i registri
dei vari stati d’animo a partire dall’ineffabile gioia di Penelope nel riconoscere
il marito: «Vigor non ebbe a sostenersi in piedi,/Chiusa restò
la voce e la parola,/Tal ebbe in un dolore et allegrezza/E fersi ruggiandosi
gl’occhi suoi» (Od. XXIII, 90-95)111. Ai ‘ritratti’ della gioia fa
seguire quelli del dolore, della paura, dell’invidia, dello sdegno,
dell’infingardaggine, della meraviglia, della devozione, del sospetto,
della sollecitudine, della vergogna, della cortesia ed anche della morte
108 G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et archietttura, cit., p. 92.
Sulla ricezione delle incisioni di Dürer in Italia cfr.: Rainer Schoch, «Un gran numero
di carte stampate dell’Alemagne…». Zur Italienischen Dürerrezeption des 16.
Jahrhunderts, in Quasi centrum Europae. Europa kauft in Nürnberg, 1400-1800, Ausstellungskatalog
(Germanisches Nationalmuseum, Nürnberg, 20. Juni-6. Oktober
2002), hrsg. H. Maué und C. Kupper, Nürberg, Germanischen Nationalmuseums,
2002, pp. 432-449; Id., Specchio di due mondi. Dürer in Italia, in G. M. Fara, Albrecht
Dürer. Originali, copie, derivazioni, cit., pp. XI-XV: XV. Si vedano anche le considerazioni
di Otto Kurz, La storiografia artistica del Seicento in Europa, in Il mito del classicismo
nel Seicento, presentazione di Stefano Bottari, Firenze-Messina, D’Anna,
1964, pp. 47-60: 59.
109 Alberto Durero pittore e geometra chiarissimo, Della simmetria de i
corpi humani libri quattro tradotti dalla lingua latina nell’italiana da M. Gio. Paolo Gallucci
Solodiano, in Venetia, presso Domenico Nicolini 1590 (ed. anast., Milano, Marrotta,
1973). J. von Schlosser Magnino, La letteratura artistica, cit., p. 274.
110 G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura, cit., p.
111.
111 Ivi, p. 421.
[ 30 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 717
che, «sebbene non sia affetto, tuttavia succedendo quasi sempre ad
alcun di essi unita, e per tale per lo più descrivendosi, in quest’ordine,
presso la prodezza che sovente l’affretta, mi <è> piaciuto collocarla»112.
In questo contesto è di grande efficacia la scelta dei versi di Virgilio
che si riferiscono alla morte di Didone: «[…] Cadde rivolta sovr ’l letto,
e luce/Cercò nell’alto ciel con gl’occhi oranti,/E poi le dolse che
trovata l’ebbe»113. Per simili suggestioni, ad esempio, rimanda ad alcuni
versi di Ovidio per la morte di Procri e del Tasso per quella di Didone,
episodi nei quali agli occhi è riservato il momento culminante del
trapasso, l’allontanarsi dalla vita. Appare evidente la familiarità del
pittore non solo verso la letteratura ma anche verso l’iconografia coeva,
soprattutto dell’ambiente lombardo, che fissa sulla tela questi momenti
così tragici in cui gli sguardi accorati generano piacere e commozione
nel riguardante. Magistrali sono poi i capitoli riguardanti la
Composizione dei ritratti naturali per arte, dove egli stesso, sulla scorta
degli Hieroglyphica del Valeriano, elenca una serie di atteggiamenti e
di attributi che denotano il carattere, il typus della figura da rappresentare:
«due donne che si battono sono simbolo di lite e di rissa»114. È
appena il caso di ricordare a tal proposito la cultura astrologica ed
esoterica di Lomazzo che egli palesa in Idea, la sua opera più innovativa
ed inquietante115.
Lomazzo comunque lascia all’artista il compito di comprendere e
dare un giudizio sulle emozioni, ovverosia di interpretare e valutare,
attraverso una disamina culturale e psicologica, il soggetto che si rappresenta.
116 Nell’Idea Lomazzo cita a più riprese Dürer non tanto per la
sua attenzione ad una plausibile e visibile, anche se non teorizzata,
attenzione alla psicologia degli individui rappresentati, ma per la sua
112 Ivi, p. 443.
113 Ibidem.
114 Ivi, p. 383. Un esempio simile si trova negli affreschi del Palazzo della Ragione
a Padova.
115 Robert Klein, «I sette governatori dell’arte» secondo Lomazzo, in Id., La forma
e l’intellegibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, prefazione di André Chastel,
trad. it., Torino, Einaudi, 1975. Cfr. anche: R. P. Ciardi, Introduzione, in G. P.
Lomazzo, Scritti sulle arti, cit., I, pp. IX-LI; Robert Klein, Introduction a Giovan
Paolo Lomazzo, Idea del tempio della pittura, edizione commentata e traduzione di
R. Klein, 2 voll., Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, 1974, I, pp.
464-465.
116 Sulla storia delle passioni nel ’600 cfr.: Andrea Battistini, Vico and the Passions,
in Teoria delle passioni, a cura di Elena Pulcini, Dordrecht-Boston-London,
Kluwer, 1989, pp. 113-128; Id., La retorica delle passioni fra Vives e Vico, «Rivista di
letterature moderne e comparate», III (1994), 4, pp. 197-223.
[ 31 ]
718 patrizia castelli
eccellenza nel rapportarsi alla geometria, all’architettura, alla prospettiva
e simmetria117, nonché per la sua abilità nel costruire, attraverso
geometria ed aritmetica, ovverosia tramite un processo proporzionale,
le figure118.
Lomazzo si riferisce a Dürer come il «gran druvido», ma appare
siginificativo il fatto che lo apostrofi come «tutto filosofo», la cui opera
pone vicino a quelle di Leonardo, del «ginnosofista Buorarroto», del
«matematico Mantegna» e dei «filosofi Raffaello e Gaudenzio»119. Lomazzo
riconosce a Dürer un’‘intelligenza filosofica’ impareggiabile,
come si può cogliere nella rappresentazione degli umori, in specie
della melancolia e negli ultimi anni della mutevolezza degli stati d’animo
soprattutto in soggetti religiosi, e prima di ogni altro nella Passione120.
Ma è soprattutto nel capitolo XXXVI del Tempio della pittura che
Lomazzo dimostra come la proporzione sul modello degli antichi, se
ben applicata, possa rappresentare le emozioni, significativamente intitolato
Come s’infondano le proporzioni fra di loro e da quelle nascono gli
affetti e moti nostri121:
E chi saprà osservare queste proporzioni, sia certo che averà acquistatosi
sia certo che averà acquistatosi assai per iscaturire di qui il bello e
’l buono dell’arte, sendo che per cotali introduzioni viene a rappresentarsi
la propria varietà delle nature e degli affetti, delle faccie, degli
animi d’ogni qualità e passione delle figure rappresentatesí come osservarono
gl’antichi pittori in Castore e Polluce122.
Ormai Lomazzo aveva definitivamente incrinato l’universo della
proporzione, addolcendolo con la rappresentazione degli affetti e
117 G.P. Lomazzo, Idea del tempio della pittura, cit., I, p. 18 (cap. IV).
118 Ivi, I, pp. 68-69 (cap. XIX).
119 Ivi, I, p. 277, nota 22 (cap. VIII). Le citazioni, qui riportate dall’edizione
stampata a Milano nel 1590-91 da Paolo Gottardo Da Ponte, sono reperibili, con
altre riguardanti sempre l’operato di Dürer nell’antologia curata da G. M. Fara,
Albrecht Dürer. Originali, copie, derivazioni, cit., pp. 227-234.
120 Cfr. Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturno e la melancolia.
Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, trad. it., Torino,
Einaudi, 1983, p. 349. Per altri aspetti si veda Maurizio Calvesi, La Melancolia di
Albrecht Dürer, Torino, Einaudi, 1993, pp. 104-106.
121 Cfr.: Paolo Getrevi, Le scritture del volto. Fisiognomica e modelli culturali dal
Medioevo ad oggi, Milano, Angeli, 1991, pp. 46-49; P. Magli, Il volto e l’anima. Fisiognomica
delle passioni, cit., pp. 203-204.
122 G. P. Lomazzo, Idea del tempio della pittura, cit., I, p. 354, nota 2 (cap. XXXVI).
[ 32 ]
«theophrastus humanas affectiones depingere novisset» 719
aprendo la strada al trionfo del typus reso attraverso fini interpretazioni
psicologiche123.
Non è un caso che il testo di Teofrasto nel ’600 e nel ’700 venisse più
volte stampato sia in greco sia in traduzione, tra le quali fu molto diffusa
quella del Casaubon del 1592 seguita da quella del ’99, edite ambedue
a Lione, né mancarono le traduzioni pubblicate in Inghilterra a
partire da quella di John Healey (1610) e da quella francese di Hierosme
de Benevent o Bienvenu (1613) e di Jean de la Bruyèr (1688), che
scrisse anche un’opera sui caratteri124. È soprattutto l’imponente imitazione
letteraria dell’opera di Teofrasto, oltre alle traduzioni, che fa
riflettere sulla fortuna di questo scritto, studiato soprattutto per l’incidenza
nella commedia ma non per ciò che concerne la tradizione figurativa.
Il ritratto, infatti, spesso rappresenta gli individui al ‘naturale’,
in modo icastico, ma riflette il carattere del rappresentato imponendo
così la necessità di analizzare nell’individualità gli aspetti ereditati dal
typus.
Patrizia Castelli
Università di Ferrara
123 Emma Spina Barelli, Il Lomazzo o il ruolo delle personalità psicologiche nella
estetica dell’ultimo manierismo lombardo, «Arte lombarda», III (1958), pp. 119-124.
124 Cfr. C. B. Schmitt, Theophrastus, cit., pp. 248-249.
[ 33 ]

Simone Magherini
I consulti medici di Francesco Redi
Agli inizi del Seicento la scienza medica in Italia s’indirizza gradualmente verso
l’applicazione del nuovo metodo sperimentale galileiano, che invita a leggere
il «libro della natura» (e quindi anche il corpo umano) in termini matematico-
meccanici. Il saggio intende indagare, attraverso una lettura critica dei Consulti
medici, il contributo originale dell’empirismo di Francesco Redi alla riforma
morale della professione medica.

At the beginning of the Seventeenth century Italian medical science gradually
started putting into practice Galileo’s new experimental method which suggests
that the “book of nature” (and thus the human body) should be read from
a mathematical-mechanical standpoint. This essay aims to study, through a
critical reading of Consulti medici, the original contribution of Francesco Redi’s
empiricism to the ethical reform of the medical profession.
Da tutto ciò appare chiarissimamente che gli scritti di questo ristoratore
sovrano della Medicina […] conferivano mirabilmente al pubblico bene,
conciossiaché da essi […] apparar si possa di leggieri a distinguere
il vero dal falso, l’utile dall’inutile, il superfluo dal necessario […]; e
quello, che è più considerabile, la salute degli Uomini per vie più corte,
e spedite, e sicure si giunge a conseguire; cosa, che io non so, se tra le
temporali, ed umane vi abbia giammai la maggiore.
Lo stampatore a’ lettori, in Francesco Redi, Opere, VI (Consulti medici),
Firenze, Giuseppe Manni, 1726, p. 17.
1. La scienza medica italiana nel Seicento
Agli inizi del Seicento la scienza medica in Italia, ancora fortemente
condizionata nella prassi clinico-terapeutica dall’«antico presupposto
ippocratico-galenico che la salute è dovuta all’“eucrasia” degli
Autore: Università degli Studi di Firenze; prof. associato; simone.magherini@
unifi.it
722 simone magherini
umori»1 (all’armonico equilibrio di caldo-freddo, secco-umido), s’indirizza
gradualmente verso l’applicazione, nel campo delle discipline
naturalistiche e medico-biologiche, del nuovo metodo ipotetico-sperimentale
galileiano, che invita a leggere e interpretare i segni del «libro
della natura» (e quindi anche il corpo umano) in termini matematicomeccanici,
secondo una logica quantitativa, diversa dalla logica qualitativa
del tradizionale modello filosofico aristotelico.
Il dominio assoluto dell’arte galenica, nel Cinquecento, era già stato
in parte ridimensionato in campo epidemiologico da Girolamo Fracastoro
(De contagione et contagiosis morbis, 1546), in campo anatomico
da Andrea Vesalio, explicator chirurgiae all’università di Padova (De
humani corporis fabrica, 1543), e in campo ideologico-scientifico dal naturalismo
magico-alchemico di Paracelso (Opera omnia medico-chemicochirurgica,
raccolta postuma in latino nel 1603). Ma in epoca barocca
questo dominio è definitivamente incrinato anche in campo fisiologico
e clinico dagli studi tecnico-sperimentali (quantitativi e meccanici)
di alcuni medici, come l’istriano Santorio Santorio (De statica medicina,
1614) e l’inglese William Harvey (De motu cordis et sanguinis in animalibus,
1628), che si sono formati o hanno a lungo operato nella scuola
padovana, dove lo stesso Galileo ha insegnato matematica dal 1592 al
1610.
Le ricerche di questi precursori della medicina moderna, pur muovendo
da un sapere empirico, privo di basi teoriche e ancora fedele
agli autori del mondo classico, si sviluppano alla luce della rivoluzione
epistemologica e gnoseologica di Galileo. Il momento ipoteticosperimentale
e la teoria matematico-meccanica della natura, che lo
scienziato toscano elabora «non più per immaginazione, ma per sensata
esperienza et per necessaria dimostrazione»2, sono infatti indispensabili
per comprendere le nuove istanze di una pratica medicoclinica
(o tecnoprassi), basata su un «metodo che si avvale di congegni
meccanici»3.
La «medicina statica» di Santorio, che interpreta la classica armo-
1 Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea
alla guerra mondiale. 1348-1918, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 154 [d’ora in poi
l’opera è citata con il solo titolo, seguito dal numero di pagina].
2 Galileo Galilei a Gallanzone Gallanzoni, Firenze, 16 luglio 1611, in Galileo
Galilei, Le opere di Galileo Galilei, Carteggio 1611-1613, nuova ristampa della edizione
nazionale, a cura di Antonio Favaro, Firenze, Barbèra, 1968, XI, p. 142 [d’ora
in poi l’opera è citata con il solo titolo, seguito dal numero del volume e della pagina].
3 Storia della medicina e della sanità in Italia, p. 158.
[ 2 ]
i consulti medici di francesco redi 723
nia qualitativa dei quattro umori come equilibrio quantitativo tra materia
ingerita e materia evacuata, e la «medicina cinematica» di Harvey,
che offre una dimostrazione matematico-meccanica del circolo
chiuso del moto del sangue, documentano nella storia della medicina
il momento del «passaggio dello sguardo medico da qualitativo a
quantitativo»4. L’impiego nella pratica clinica dei potenti “strumenti
filosofici” galileiani (dagli studi di termometria derivano i primi termometri
clinici o il pulsilogium per la misurazione dei battiti del polso,
dall’«occhialino» o perspicillum il moderno microscopio) consente
non solo di osservare con più precisione i processi vitali dell’organismo
animale, ma di elaborare nuove teorie anatomo-fisiologiche secondo
una prospettiva meccanica e chimica (la iatromeccanica di Giovanni
Alfonso Borelli e la iatrochimica del paracelsiano Jean Baptiste
van Helmont), che anticipa gli sviluppi tecnologici della medicina
moderna.
Senza voler diminuire l’importanza di questi risultati della scuola
medica padovana, notevoli se si considera che sono stati conseguiti in
una università dove domina ancora il paradigma scientifico aristotelico,
la diffusione e l’applicazione in campo medico-clinico del metodo
sperimentale galileiano si deve soprattutto alle “naturali esperienze”
promosse in Italia dalle Accademie: dall’Accademia dei Lincei, fondata
a Roma nel 1603 dal principe Federico Cesi, all’Accademia degli
Investiganti, costituita a Napoli nel 1650 per iniziativa di Tommaso
Cornelio e Leonardo di Capua, dall’Accademia del Cimento, sorta a
Firenze nel 1657 con il patrocinio del granduca di Toscana Ferdinando
II e sotto la protezione del principe Leopoldo dei Medici, all’Accademia
degli Inquieti, nata a Bologna nel 1690 in casa del giovane astronomo
e matematico Eustachio Manfredi (poi dal 1711 trasformata in
Accademia delle Scienze), senza dimenticare in campo europeo l’inglese
Royal Society (1660) e la francese Académie Royale des Sciences
(1666).
In questi luoghi della cultura e della ricerca scientifica gli eredi della
tradizione sperimentale galileiana contribuiscono a un primo significativo
rinnovamento del sapere medico (e alla conseguente crisi
dell’ideologia galenica e della tradizionale prassi polifarmaceutica)
non solo con indagini empiriche e osservazioni di carattere prevalentemente
tecnico-pratico, ma anche con l’elaborazione di nuovi modelli
matematico-meccanici per lo studio dei fenomeni naturali.
4 Ivi, p. 155.
[ 3 ]
724 simone magherini
2. L’attività sperimentale dell’Accademia del Cimento
Nella seconda metà del Seicento il centro propulsore della rivoluzione
scientifica in Toscana ruota attorno alla fiorentina Accademia
del Cimento, voluta dai Medici per applicare soprattutto nel campo
delle discipline naturalistiche e biologiche il nuovo metodo sperimentale
di Galileo5.
La scelta di abbandonare le ricerche cosmologiche e fisico-matematiche
per orientare l’attenzione su indagini bio-fisiologiche, dipende
in questo caso particolare da un duplice condizionamento storico. Il
primo, di natura culturale e politica, è determinato dalla recente esperienza
drammatica di Galileo (il processo e la condanna per eresia nel
1633), e dal timore dei rischi incombenti su chi si avventura incautamente
in “speculazioni” dense di implicazioni filosofiche e religiose,
che potrebbero suscitare ancora una volta la violenta reazione censoria
dei tutori dell’ortodossia religiosa, ma ancora più di quella ideologica-
dottrinale della scienza tradizionale. Il secondo, di natura più
espressamente tecnica, è costituito dall’influsso della tradizione baconiana
della Royal Society (e in particolare di Henry Boyle), che rafforza
la tendenza dei discepoli di Galileo a indirizzare gli studi non già
verso progettazioni sistematiche, bensì verso un’instancabile sperimentazione
empirica6.
5 Per una valutazione storica dell’Accademia del Cimento, cfr. Carlo Alberto
Madrignani, Il metodo scientifico di Francesco Redi, «Rassegna della letteratura
italiana», LXV (1961), p. 479 [d’ora in poi l’opera è citata con il solo titolo, seguito
dal numero di pagina]: «nella seconda metà del Seicento, nello scorcio prearcadico
e preilluministico che introduce al Settecento riformista, si era venuta formando a
Firenze un’atmosfera di studi e interessi, che, svolgendo e continuando l’opera
galileiana anche in altri campi lasciati inesplorati dallo scienziato pisano, aveva
caratterizzato in maniera tutta particolare la cultura fiorentina, permettendo ad
essa e di elaborare una particolare istanza di concretezza e serietà scientifica, attraverso
il Cimento, e di assumere una posizione di mediazione e trasformazione del
gusto moderato-barocco in direzione prearcadica, attraverso la Crusca».
6 Sui punti di contatto tra i due ambienti scientifici (toscano e anglosassone) e
i rispettivi metodi di ricerca, cfr. Id., Scienza e “filosofia” in Francesco Redi, «Rassegna
della letteratura italiana», LXVI (1962), pp. 94-95 [d’ora in poi l’opera è citata con
il solo titolo, seguito dal numero di pagina]: «la scienza postbaconiana e quella
postgalileiana, pur partendo da matrici così diverse, si erano orientate verso forme
scientifiche abbastanza consimili, organizzandosi in istituti di collaborazione tecnico-
scientifica come il Cimento e la Royal Society, che senza subire il tirannico
indirizzo di un filosofo sistematico, si erano volte ad uno spassionato e “scettico”
lavoro d’indagine, lontano da ogni ambizione sistematica e da ogni coronamento
metafisico». Sul “baconismo” dell’Accademia del Cimento, cfr. anche Maria Lui-
[ 4 ]
i consulti medici di francesco redi 725
All’intenso decennio di attività sperimentale dell’Accademia del
Cimento (1657-1667), documentato dalle relazioni edite (senza riportare
il nome degli accademici) dal segretario Lorenzo Magalotti con il
titolo Saggi di naturali esperienze (1667)7, partecipano numerosi letterati
e scienziati italiani, come i fiorentini Vincenzo Viviani (allievo e biografo
fidato di Galileo), Paolo e Candido Del Buono, Carlo Dati, Alessandro
Segni (il primo segretario), il senese Alessandro Marsili, l’anconetano
Carlo Rinaldini, il calabrese Antonio Oliva, e stranieri, come
il danese Niels Steensen e il gesuita francese Honoré Fabri.
Ma tra le eminenti personalità di questa variegata comunità scientifica,
in cui convivono e collaborano figure di provata fede galileiana
insieme a garanti della tradizione scolastica, e persino qualche esponente
del naturalismo magico-alchemico post-rinascimentale8, un
ruolo di primo piano per il rinnovamento della scienza medica spetta
in particolare al napoletano Giovanni Alfonso Borelli e all’aretino
Francesco
Redi.
Agli studi fisiologici di Borelli, che si avvalgono dei risultati sperimentali
delle esercitazioni anatomiche svolte in quegli stessi anni dal
collega universitario Marcello Malpighi (De pulmonibus, 1661), lettore
di medicina teorica prima all’Università di Pisa, poi a Bologna e Messina,
e dall’allievo Lorenzo Bellini (De structura et usu renum, 1662), si
deve infatti la prima elaborazione di un modello meccanicistico-corpuscolare
dell’organismo animale (De motu animalium, 1680-1681)9.
A Redi, medico e letterato, poeta d’alta originalità, prosatore e
sa Altieri Biagi, Lingua e cultura di Francesco Redi, «Atti e Memorie dell’Accademia
Toscana di Scienze e Lettere», XXXIII (1968), p. 221 [d’ora in poi l’opera è citata
con il solo titolo, seguito dal numero di pagina].
7 Sul carattere antisistematico e antispeculativo del nuovo modello di sapere
elaborato dall’Accademia, cfr. [Lorenzo Magalotti], Proemio a lettori, in Saggi di
naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento sotto la protezione del serenissimo
principe Leopoldo di Toscana e descritte dal segretario di essa accademia, Firenze, per
Giuseppe Cocchini all’insegna della Stella, 1667, p. [10]: «se talora per far passaggio
da una ad un’altra esperienza, o per qualunque altro rispetto si sarà dato qualche
minimo cenno di cosa specolativa, ciò si pigli pur sempre come concetto, o
senso particolare di Accademici, ma non mai dell’Accademia, della quale unico
istituto si è di sperimentare, e narrare».
8 Mi riferisco in particolare alla contradditoria figura del naturalista calabrese
Antonio Oliva, «rappresentativa delle complessità e ambiguità della scienza medica
italiana nella transizione, e commistione tra naturalismo post-rinascimentale e
galileismo, tra cortigianeria e libertinismo erudito», cfr. Storia della medicina e della
sanità in Italia, pp. 163-164.
9 Nell’opera di Borelli «l’organismo animale è visto come una macchina anato-
[ 5 ]
726 simone magherini
scienziato naturalista, occorre senza dubbio riconoscere, anche se la
sua attività scientifica si svolge più prudentemente, a differenza di
Borelli, «all’insegna di un’interpretazione meramente metodologica,
“tecnica”, del galileismo»10, il merito di fondamentali scoperte in campo
biologico e parassitologico, e tra queste la definitiva confutazione
della dibattuta teoria della generatio aequivoca o produzione spontanea
ex putri degli insetti. A lui si deve in campo medico il ritorno al paradigma
ippocratico con la sperimentazione di una nuova prassi clinica
(tecnologica e antropologica), basata su cure mediche più rispettose
della natura umana. Dal punto di vista terapeutico questo ritorno a
metodologie curative più semplici e naturali comporta un netto rifiuto
della prassi medica del tempo: si dimostra alternativo alla farmacologia
galenica e apertamente in contrasto con i superstiziosi rimedi offerti
dalla medicina d’ispirazione magico-alchimistica e panpsichica11.
3. Redi medico e il primato delle «sensate esperienze»
Fedele alle istanze investigative dell’Accademia del Cimento, condensate
nel motto «provando e riprovando»12, che ricalca più nella
mo-fisiologica con strutture e funzioni esprimibili in termini quantitativi, nonché
come “paradigma della iatromeccanica italiana da Malpighi a Bellini”» (Ivi, p. 160).
10 Sul significato del contributo di Redi scienziato al rinnovamento della scienza
medica, cfr. Ivi, p. 164-166: «L’attività scientifica di Redi, diversamente da quella
di Borelli, si svolge all’insegna di un’interpretazione meramente metodologica,
“tecnica”, del galileismo, tra concessioni tendenti a evitare lo scontro tra aristotelismo
e nuova scienza sperimentale e cautele tendenti a evitare ogni screzio tra nuova
scienza e teologia. Tutto ciò non impedisce alle scoperte naturalistiche di Redi,
in campo biologico e parassitologico, di figurare tra i risultati più importanti della
rivoluzione scientifica del Seicento. […] le scoperte naturalistiche di Redi rappresentano
il primo apporto sperimentale secentesco alla teoria contagionista. Inoltre
esse fanno del medico aretino il fondatore della moderna biologia». Sulla «complessa
e, spesso, contradditoria» attività di Redi medico e «filosofo sperimentatore
», cfr. anche Lingua e cultura di Francesco Redi, pp. 191-209, e Walter Bernardi,
Introduzione, in Francesco Redi, Esperienze intorno alla generazione degli insetti, a
cura dello stesso, Firenze, Giunti, 1996, pp. 5-62 [d’ora in poi l’opera è citata con il
solo titolo, seguito dal numero di pagina].
11 Su questo aspetto, cfr. Il metodo scientifico di Francesco Redi, pp. 492-493.
12 Il significato empirico e antimetafisico del motto del Cimento è illustrato dal
segretario Lorenzo Magalotti nel Proemio a lettori, in Saggi di naturali esperienze, cit.,
p. [7]: «nell’investigazione delle naturali cose […] bisogna confessare che non v’ha
miglior mano di quella della geometria, la quale dando alla bella prima nel vero,
ne libera in un subito da ogn’altro più incerto e faticoso rintracciamento. Il fatto è,
[ 6 ]
i consulti medici di francesco redi 727
forma che nel significato tecnico le parole dell’incipit dantesco del III
canto del Paradiso13, Redi promuove e applica, non solo nel campo delle
scienze naturali ma anche nella pratica medica (è nominato archiatra
granducale da Ferdinando II nel 1660), un«metodo di vaga impronta
galileiana»14. Si tratta infatti di un’indagine prevalentemente
empirica che privilegia, dopo la definizione di una rigorosa procedura
di ricerca e di controllo dei dati (la ripetizione sistematica dello stesso
esperimento secondo parametri standardizzati), l’esperienza diretta e
personale dei fenomeni viventi, attraverso «un’indagine di tipo morfologico
dei caratteri macroscopici e comportamentali delle specie
animali e vegetali»15.
Nuovi e potenti strumenti diagnostici, come il microscopio o il terch’ella
ci conduce un pezzo innanzi nel cammino delle filosofiche speculazioni, ma
poi ella ci abbandona in sul bello: non perché la geometria non cammini spazi infiniti,
[…] ma perché noi di questa sì lunga e sì spaziosa via per anche non le tenghiamo
dietro che pochi passi. Or quivi dove non ci è più lecito metter piede innanzi,
non vi ha cui meglio rivolgersi che alla fede dell’esperienza; la quale […]
adattando effetti a cagioni e cagioni ad effetti, se non di primo lancio, come la geometria,
tanto fa che “provando e riprovando” le riesce talora di dar nel segno.
Conviene però camminar con molto riguardo, che la troppa fede nell’esperienza
non ci faccia travedere e n’inganni».
13 In Pd III, v. 3, Dante sintetizza i due momenti essenziali della quaestio scolastica
(“dimostrare il vero e confutare il falso”), ma in ordine inverso rispetto all’argomentazione
sulle macchie lunari esposta da Beatrice nel canto precedente: nel II
canto del Paradiso, dopo una preliminare esposizione dell’argomento (Pd II, vv.
58-60), Beatrice aveva infatti prima confutato la tesi erronea (Pd II, vv. 61-63) e poi
dimostrato quella vera (Pd II, vv. 106-111).
14 Il metodo scientifico di Francesco Redi, p. 486: «È stato notato, da un valente
storico delle scienze biologiche [Pietro Omodeo], che il Redi opera con un metodo
di vaga impronta galileiana, partendo cioè da un’ipotesi, che deve subire le varie
fasi del controllo sperimentale, per giungere, dopo un rigoroso esame selettivo dei
singoli risultati, ad una deduzione di carattere generale, senza con tutto ciò aver
mai la pretesa di una qualche assolutezza definitoria».
15 Cfr. W. Bernardi, Introduzione, in Esperienze intorno alla generazione degli insetti,
p. 8: «Redi applicò in modo sistematico il metodo sperimentale nelle scienze
biologiche grazie alla definizione e alla rigorosa utilizzazione di una serie di procedure
che sono state acquisite in modo permanente dalla scienza occidentale: la
standardizzazione delle condizioni sperimentali relativamente ai materiali ed ai
reperti di indagine; la ripetizione dello stesso esperimento su diversi individui
della stessa specie e il successivo confronto con individui di specie diverse […]; il
confronto sistematico tra esperimenti di controllo ed esperimenti di ricerca che,
serializzando una procedura convenzionale con la sola variazione di un parametro
alla volta, permetteva di valutare esattamente la sua specifica incidenza nell’economia
del fenomeno oggetto di indagine».
[ 7 ]
728 simone magherini
mometro, consentono ora allo scienziato-medico, il cui ideale sempre
più coincide con l’impegno pragmatico di un «Filosofo esperimentatore,
che non ha intenzione mai di affermar con certezza, se non quando
con gli occhi propri, dopo molte prove e riprove, ha osservato»16, di
comprendere (“vedere e toccare” grazie a un potenziamento degli organi
sensoriali) la «verità» del gran libro della natura, non più solo «a
tavolino su’ libri» degli antichi e moderni «scrittori delle cose naturali
», ma con esperimenti fatti «di propria mano» e osservati direttamente
«con gli occhi propri»:
ma più di ogni altra cosa ho considerato la poca credenza che si può
dare agli Scrittori delle cose naturali; onde sempre più mi confermo
nella mia antica opinione, che chi vuol ritrovar la verità, non bisogna
cercarla a tavolino su’ libri, ma fa di mestiere lavorar di propria mano,
e veder le cose con gli occhi proprj17.
Già nel procedimento scientifico esposto nel 1668, in apertura delle
Esperienze intorno alla generazione degli insetti, il primo momento della
ricerca (l’ipotesi da verificare) coincide con una serie di «accurate e
continue esperienze»:
Laonde ancorché io con più fervore di animo che con altezza d’ingegno
seguitati abbia gli studi della filosofia, nientedimeno ho posta
sempre ogni possibile pena ed ogni sollecitudine in far sì che gli occhi
miei corporali in particolare ci soddisfacciano bene, prima per mezzo
di accurate e continue esperienze, e poi somministrino all’estimazione
della mente materia di filosofare18.
Questo momento preliminare della “soddisfazione” dei sensi consente
a Redi di diffondere, presso un pubblico di «intendenti» («capaci
di ragione, e desiderosi di saper il vero»)19, le conquiste del nuovo
16 F. Redi, Osservazioni intorno agli Animali viventi che si trovano negli Animali
viventi (1684), in Opere, 9 voll., Milano, Società Tipografica de’ Classici, 1809-1811,
III, 1810, p. 261 [d’ora in poi l’opera è citata con il solo titolo, seguito dal numero
del volume, dell’anno e delle pagine].
17 Francesco Redi a Jacopo del Lapo, Dalla Corte alle cacce d’Artimino, 30 settembre
1682, in Opere, V, 1811, pp. 147-148.
18 Esperienze intorno alla generazione degli insetti, p. 74.
19 Galileo Galilei a Benedetto Castelli, Firenze, 30 dicembre 1610, in Le opere di
Galileo Galilei, Carteggio 1574-1610, X, pp. 503-504: «Mi ha quasi V. R.a fatto ridere,
col dire che con queste apparenti osservazioni si potranno convincere gl’ostinati.
Adunque non sapete, che a convincere i capaci di ragione, e desiderosi di saper il
vero, erano a bastanza le altre demostrazioni, per l’addietro addotte; ma che a
[ 8 ]
i consulti medici di francesco redi 729
metodo sperimentale galileiano, privilegiando più il momento della
ricerca empirica, condotta con «forza di possenti argumenti o replicate
esperienze», piuttosto che il metodo ipotetico-deduttivo delle «geometriche
dimostrazioni»20. L’evidenza dell’esperimento scientifico
conferma che solo ciò che si osserva direttamente attraverso la lente
dei sensi (ovvero di «proporzionati strumenti» che permettono alla
ragione di conoscere la vera natura delle «cose naturali»)21, offre «all’estimazione
della mente» la necessaria «materia di filosofare», come
oggetto di reale conoscenza22. Da queste premesse teoriche e metodoconvincere
gl’ostinati, et non curanti altro che un vano applauso dello stupidissimo
et stolidissimo volgo, non basterebbe il testimonio delle medesime stelle, che
sciese in terra parlassero di sé stesse? Procuriamo pure di sapere qualche cosa per
noi, quietandosi in questa sola sodisfazione; ma dell’avanzarsi dell’opinione popolare,
o del guadagnarsi l’assenso dei filosofi in libris, lasciamone il desiderio e la
speranza».
20 I capisaldi del metodo sperimentale sono da Redi riepilogati a conclusione
delle Osservazioni intorno alle vipere (1664), ora in F. Redi, Scritti di botanica zoologia
e medicina, a cura di Piero Polito, Milano, Longanesi, 1975, p. 79: «E volentieri
desisto favellarne, perché so molto bene, quanto sieno a voi in ira, o Signor Lorenzo
[Magalotti], e per lo contrario ognun sa, quanto voi saggiamente siete cauto e
avveduto in non credere alla bella prima tutto ciò che ne’ libri de’ filosofi si trova
scritto, se dove non s’arriva con le geometriche dimostrazioni, forza di possenti
argumenti o replicate esperienze maturamente non ve lo persuadono». Nel passo
di Redi è però assente la chiarezza e la forza argomentativa della prosa galileiana:
«Ma avvertisca bene al caso suo, e consideri che per uno che voglia persuader cosa,
se non falsa, almeno assai dubbiosa, di gran vantaggio è il potersi servire d’argomenti
probabili, di conghietture, d’essempi, di verisimili ed anco di sofismi, fortificandosi
appresso e ben trincerandosi con testi chiari, con autorità d’altri filosofi,
di naturalisti, di rettorici e d’istorici: ma quel ridursi alla severità di geometriche
dimostrazioni è troppo pericoloso cimento per chi non le sa ben maneggiare; imperocché,
sì come ex parte rei non si dà mezo tra il vero e ’l falso, così nelle dimostrazioni
necessarie o indubitabilmente si conclude o inescusabilmente si paralogiza,
senza lasciarsi campo di poter con limitazioni, con distinzioni, con istorcimenti
di parole o con altre girandole sostenersi più in piede, ma è forza in brevi parole ed
al primo assalto restare o Cesare o niente. Questa geometrica strettezza farà ch’io
con brevità e con minor tedio di V. S. Illustrissima mi potrò dalle seguenti prove
distrigare» (Le opere di Galileo Galilei, Il Saggiatore, 1623, VI, p. 296). Sulla mancanza
nel procedimento scientifico di Redi della «dimensione metodologica ipoteticodeduttiva
», cfr. Lingua e cultura di Francesco Redi, pp. 234-236.
21 Cfr. Esperienze intorno alla generazione degli insetti, p. 73.
22 Su questo aspetto, cfr. Il metodo scientifico di Francesco Redi, p. 488: «al Redi
non interessa proporre una definizione teoretica della scienza, ma additare, con
spirito pragmatico, le vie che questa deve percorrere per porsi in una posizione di
piena autonomia: in questo senso la scienza del Redi non è mai filosofia, ma piuttosto
concreta metodologia, accertamento e definizione del valore della strumen-
[ 9 ]
730 simone magherini
logiche deriva la rinuncia a una spiegazione metafisica dei fenomeni
del «mondo sensibile», nonché l’accettazione di una visione meccanicistica
della natura e della fisiologia umana.
Il primato assoluto delle «sensate esperienze» sulle pur «necessarie
dimostrazioni»23 caratterizza l’attività scientifica e clinico-medica di
Redi in un senso eminentemente pratico, «in una direzione di impegno
umano e di pubblica utilità, contro gli oscurantismi della cultura
e gli errori tradizionalmente cristallizzati»24. Applicare il metodo empirico,
anche se non comporta un aperto rifiuto dei «principj metafisici
», che restano ancora validi per spiegare il «mondo intelleggibile, il
quale è totalmente diverso dal mondo sensibile», significa operare dal
punto di vista gnoseologico, come Redi afferma nell’anonima prefazione
A chi leggerà, pubblicata nel 1698 come premessa alla canzone La
luce di Gian Michele Milani25, una prima fondamentale e pragmatica
distinzione tra le varie forme della conoscenza:
Primieramente dunque l’Autore in questo luogo suppone colle nuove
Scuole migliori, che tutte le operazioni della natura si faccino per via
tazione, sensoriale e tecnica, come prolegomeni indispensabili allo schietto e verace
conoscere».
23 Nel procedimento scientifico galileiano i due momenti (empirico e filosofico)
sono invece inscindibili, cfr. Galileo Galilei a Cristina di Lorena granduchessa
di Toscana (1615), in Le opere di Galileo Galilei, Scritture in difesa del sistema copernicano,
V, pp. 307-348: «Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali
non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle
sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie […]. Ma che quell’istesso Dio
che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso
di questi, darci con altro mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire, sì che
anco in quelle conclusioni naturali, che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie
dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli occhi e all’intelletto, doviamo
negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo, e massime in
quelle scienze delle quali una minima particella solamente, ed anco in conclusioni
divise, se ne legge nella Scrittura; quale appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così
piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti, eccetto il Sole e la
Luna, ed una o due volte solamente, Venere, sotto nome di Lucifero» (Ivi, pp 311-
318).
24 Il metodo scientifico di Francesco Redi, p. 500.
25 La luce, Canzone di Gio. Michele Milani, Romano, Accademico Umorista,
dedicata alla Sacra Real Maestà di Cristina Regina di Svezia, Aggiuntevi in fine
alcune poche Annotazioni dello stesso Autore, Amsterdam, Appresso Henrico
Starkio, 1698. Per l’attribuzione a Redi della prefazione anonima (A chi leggerà), cfr.
Lettere inedite di Francesco Redi a Gian Michele Milani, a cura di Luigi Manzoni, «Il
Propugnatore», IV (1871), II, pp. 229-241 (il testo è ristampato alle pp. 238-241), e
Scienza e “filosofia” in Francesco Redi, pp. 90-91.
[ 10 ]
i consulti medici di francesco redi 731
mecanica e perciò, volendo egli trattare le materie fisiche, non si fondò
sui principj metafisici, che conosciamo per sola opera dell’intelletto
[…]; percioché tal forma di conoscere appartiene al mondo intelleggibile,
il quale è totalmente diverso dal mondo sensibile, secondo gli insegnamenti
del divino Platone, ed in niun modo tali principj astratti
ponno adattarsi alle bisogne della Medicina, e di altre professioni necessarie
per lo nostro commodo vivere, le quali richiedono la precisa
notizia delle parti materiali per mezzo delle quali si fanno in natura i
moti mecanici26.
Lo stesso metodo critico è applicato da Redi anche nella prassi clinico-
terapeutica dei Consulti medici. La scienza medica, come le «altre
professioni necessarie per lo nostro commodo vivere», non dipende
più da una speculazione filosofica (da «principj astratti»), ma si avvale
di una corretta conoscenza della fisiologia umana («la precisa notizia
delle parti materiali per mezzo delle quali si fanno in natura i moti
mecanici»), emersa dall’osservazione scientifico-strumentale27.
4. Storia editoriale dei Consulti medici
La prima edizione dei Consulti medici è pubblicata postuma a Firenze
da Giuseppe Manni in due volumi (1726 e 1729), che completano
la raccolta delle Opere di Redi, inaugurata a Venezia nel 1712 da
Gabbriello Hertz in tre volumi (I-III)28. Manni, per proseguire l’edizio-
26 [F. Redi], A chi leggerà, in La luce, cit., pp. [5-6].
27 Cfr. Storia della medicina e della sanità in Italia, p. 167.
28 F. Redi, Opere, 3 voll. (I-III), Venezia, Gabbriello Hertz, 1712. Il primo volume
comprende: Vita di Francesco Redi scritta dall’Ab. Salvino Salvini; Orazion delle
Lodi di Francesco Redi, recitata nel suo funerale dal Sig. Anton-Maria Salvini; Esperienze
intorno alla Generazione degl’Insetti; Osservazioni intorno agli Animali Viventi, che si
trovano negli Animali Viventi; Osservazioni intorno a’ Pellicelli del corpo umano; Lettera
del Sig. Giacinto Cestoni al Sig, Antonio Vallisnieri; Miglioramenti e Correzioni d’alcune
Esperienze e Osservazioni del Redi, fatte dal Sig. Antonio Vallisnieri; il secondo: Esperienze
intorno a diverse cose naturali, e particolarmente a quelle, che ci son portate dall’Indie;
Osservazioni intorno alle vipere; Lettera sopra alcune Opposizioni fatte alle Osservazioni
intorno alle vipere; Osservazioni intorno alle Gocciole, e Fili di vetro, che rotte in
qualsiasi parte, tutte quante si stritolano; Esperienze intorno a quell’Acqua, che si dice, che
stagna subito tutti quanti i flussi del sangue, che sgorgano da qualsiasi parte del corpo;
Lettera intorno all’Invenzione degli Occhiali; Esperienze intorno a’ Sali fattizi; Lettera del
Sig. Tommaso Platt, d’alcune Esperienze intorno al Veleno delle Vipere; Lettere; Etimologie
Italiane; il terzo: Bacco in Toscana, Ditirambo, colle Annotazioni accresciute; Sonetti;
Giunte a’ Sonetti; Giunta di varie poesie. Questa prima edizione delle opere di Redi è
[ 11 ]
732 simone magherini
ne di Hertz, stampa due volumi di Lettere (IV, 1724 e V, 1727)29 e due di
Consulti (VI, 1726 e VII, 1729)30.
Nel primo volume (VI) sono raccolti, insieme ad altri scritti inediti
di simile argomento31, 55 consulti medici (alcuni in forma
frammentaria)32, rintracciati dall’editore fiorentino presso numerosi
amici e corrispondenti di Redi: la maggior parte provengono da Antonio
Vallisnieri di Padova e Giuseppe Lanzoni di Ferrara, altri dal dottore
Giuseppe Bianchini («Piovano d’Ajuolo», Pistoia), Antonio Benevoli
(«Cerusico, e Maestro qui nello Spedale di Santa Maria Nuova»),
Pier Caterino Zeno («Ch. Reg. Somasco») e Gregorio Redi («Nipote
dell’Autore»)33. I testi, pubblicati con il corredo di brevi note dell’abate
Antonio Maria Salvini e dei medici Crescenzio Vaselli e Giovanni Battista
Felici, sono stati dall’editore integrati con l’aggiunta di un breve
titolo redazionale, corrispondente alla malattia trattata nel consulto:
poi accresciuta dall’editore veneziano con l’aggiunta dei volumi pubblicati a Firenze
da Giuseppe Manni (voll. IV-VII, 1724-1729), cfr. Id., Opere, 7 voll., Venezia,
Gabbriello Hertz, 1728-1730, e la successiva ristampa (corretta e migliorata), Venezia,
Appresso gl’Eredi Hertz, 1742 (voll. I-III)-1745 (voll. IV-VII).
29 Id., Opere, 2 voll. (IV-V), Firenze, Giuseppe Manni, 1724-1727 [d’ora in poi
l’opera è citata con il solo titolo, seguito dal numero del volume, dell’anno e delle
pagine]. Per la notizia della decisione dell’editore fiorentino di proseguire la «Raccolta
fatta l’anno 1712 da Gio. Gabbriello Ertz in Venezia, dell’Opere» di Redi, cfr.
Lo stampatore a’ lettori, Ivi, IV, 1724, pp. 11-12. Il vol. IV delle Opere è stato ristampato
da Manni nel 1731 con l’aggiunta di alcune nuove lettere, fornite da Giovanni
Inghirami di Prato e Sebastiano Benedetto Bartolozzi di Pistoia (Terza impressione
con aggiunta, Firenze, Giuseppe Manni, 1731).
30 Id., Opere, 2 voll. (VI-VII), 1726-1729.
31 Gli scritti inediti seguono i Consulti medici e sono rubricati sotto il titolo Opuscoli
di Francesco Redi, Appartenenti alla Medicina, ed alla Storia Naturale: Forma d’istituire
la dieta lattea; Trattato de’ tumori; Notizie Intorno alla natura delle palme. Il vol. VI
dell’edizione Manni presenta anche sotto il titolo Consultationes medicae due consulti
in lingua latina: Pro intermissione pulsus, Anhelitus difficultate, atque in hypochondriis
murmure; Ill.mo Excell.moque Dom.o D. March. De Albizis Sereniss. Principis Etr.
Supremo animi morumque Formatori, Supremoque Aulae Praefecto.
32 Per il ritrovamento dei Consulti e la decisione di stamparli in un «nuovo
Tomo», distinto da quello delle Lettere, cfr. Lo stampatore a’ lettori, in Opere, V, 1727,
pp. 24-25: «Io poi, confesso il vero, non ho avuto in quest’Opera altra parte, che
d’indagare diligentemente, ove fossero cotali monumenti, e di impegnare all’acquisto
loro alcuna fiata Persone di autorità, e di stima, tanto che mi è sortito non
pure di trovare ciò, che io qui sono per pubblicare, ma di avere un tal capitale
nelle mani da incominciare prontamente un nuovo Tomo, principalmente di Consulti,
dacché il ritrovamento loro è avvenuto fuori del tempo da poterli inserire a
suo luogo».
33 Cfr. Lo stampatore a’ lettori, in Opere, VI, 1726, pp. 18-19.
[ 12 ]
i consulti medici di francesco redi 733
Occupa il primo luogo di quest’Opera un buon numero di Consulti
Medici in Toscano, collazionati per lo più (a riserva di pochi di loro, in
cui mi è stato forza il fidarmi di copie) colle minute originali di propria
mano dell’autore; a’ quali Consulti ho stimato necessario per facilitarne
a chicchessia il ritrovamento, di preporre una piccola Tavola delle
Infermitadi per cui furon fatti; ed in fine di questi un piccol novero di
Frammenti Consultivi, cui è stato reputato non doversi ommettere per
le ragioni, che io spiegai nel Tomo delle Lettere34.
Nel secondo volume (VII) sono raccolti, insieme ad alcune Lettere
per lo più consultive e a vari componimenti poetici (tra cui si segnala il
ditirambo Arianna inferma)35, 18 consulti medici, rimasti esclusi dalla
prima silloge, solo perché rintracciati in un secondo momento:
Ma per far passaggio adesso al divisamento di quello, che contenga il
presente volume, […] egli si dee supporre dal nostro Lettore in primo
luogo, che più, e più Consulti, e Lettere comparsi mi sieno nelle mani
allorquando chiusi erano i Tomi a quello precedenti; i quali per altro
assai erano acconci, mediante la loro mole, a contenerli. […] I largitori
ne furono quei medesimi chiari soggetti, che all’aumento de’ passati
Volumi dierono mano, a riserva di alcune sì fatte Scritture a penna, che
hanno favorito di somministrarmi il Sig. Dott. Domenico Civinini, e il
Sig. Dott. Lorenzo Serafini, amendue Professori di Medicina36.
Il testo dei 73 Consulti medici stabilito da Manni è riprodotto senza
34 Ivi, p. 21. Per le «ragioni» che spingono l’editore a non omettere dall’edizione
«un piccol novero di Frammenti Consultivi», cfr. Lo stampatore a’ lettori, in Opere,
V, 1727, pp. 12-17: «Nel genere poi esortativo, o dissuasorio, quali insegnamenti, e
con qual brio, e con quale arte non suggeriscono, e quali inganni lepidamente, e
quali ridendo e tralle barzellette non iscuoprono quelle altre [lettere], che a’ Professori
di Medicina, o ad inferme persone egli scriveva intorno agli affari della salute?
Le quali certamente, siami lecito il parlar qui colla voce altrui, non sono mica inferiori,
avvengadioché più brevi, a quelle, che di cotal maniera scritte si trovano […]
da altrettali Professori. […] Non fia adunque maraviglia, se io per queste riflessioni
ripreso cuore, son ito alquanto a rilente in iscartare, e rigettare con larga mano le
Lettere del Redi al parer d’alcuno troppo brevi, o che poco hanno in fe d’erudizione,
e di notizie. […] Che poi di quegli Uomini famosi […] si debba dar fuori anco
le piccole produzioni, e i frammenti, è stato maisempre il parere de’ più dotti».
35 Si tratta di 14 lettere: 4 a destinatari sconosciuti, 4 a Lodovico Civinini, 1 a
Pier Andrea Forzoni, 3 a Marco Antonio Macani, 2 Federigo Nomi. Per quanto riguarda
le opere poetiche al ditirambo Arianna inferma seguono le Annotazioni di
Anton Maria Salvini e Giuseppe Bianchini, e una Giunta di varie poesie (I. Scherzo; II.
Altro scherzo per musica; III. Altro scherzo per musica; IV. Ballatella per musica; V. Ferragosto).
36 Cfr. Lo stampatore a’ lettori, in Opere, VII, 1729, p. 9.
[ 13 ]
734 simone magherini
notevoli cambiamenti nelle numerose ristampe settecentesche (veneziane
e napoletane)37e confluisce integralmente (ma con aggiustamenti
nella punteggiatura e nell’ortografia) nel nono e ultimo volume delle
Opere di Redi, pubblicato nel 1811 a Milano dalla Società Tipografica
dei Classici Italiani38. Dopo questa stampa, se si escludono le due ampie
ma parziali sillogi ottocentesche, curate e commentate rispettivamente
da Lorenzo Martini (1831)39 e Carlo Livi (1863)40, il testo completo
dei 73 consulti dell’edizione Manni è stato ripubblicato per l’ultima
volta nel 1958 dall’editore Paolo Boringhieri in un volume della
collana “Enciclopedia degli autori classici”, diretta da Giorgio Colli41.
L’edizione critica dei Consulti medici, curata da Carla Doni nel 1985,
non presenta i testi tramandati dall’edizione Manni, ma pubblica nuovi
testi tratti da manoscritti autografi di Redi conservati in vari fondi
archivistici42. La decisione di escludere a priori i consulti dell’edizione
Manni è motivata dalla curatrice per l’«irreperibilità»degli autografi, e
per il sospetto che «l’editore fiorentino non si sia astenuto dall’intervenire
sullo scritto rediano, pensando magari di migliorarlo o di renderlo
più comprensibile alla lettura dei moderni»43.
L’operazione, ineccepibile dal punto di vista filologico, ma più discutibile
dal punto di vista storico-critico (perché non prende in considerazione
una consolidata tradizione testuale), ha il merito di avere
37 I due volumi di Consulti medici, pubblicati da Manni (VI, 1726 e VII, 1729),
sono ristampati nell’edizione delle Opere di Redi (7 voll.) a Venezia da Gabbriello
Hertz (1728-1730 e 1742-1745) e a Napoli da Raffaello Gessari (Napoli, Angelo Carfora,
1740-1741 e 1760).
38 Cfr. Opere, IX, 1811 (il vol. IX dell’edizione ottocentesca delle Opere di Redi
contiene i Consulti medici pubblicati nei voll. VI-VII dell’edizione Manni 1726-
1729).
39 F. Redi, Consulti medici, scelti e commentati da Lorenzo Martini, Capolago,
Tip. Elvetica, 1831.
40 Id., Consulti e opuscoli minori, scelti e annotati da Carlo Livi, Firenze, Le
Monnier, 1863.
41 Cfr. la nota redazionale in Id., Consulti medici, Torino, Boringhieri, 1958, p. 10
[d’ora in poi l’opera è citata con il solo titolo, seguito dall’anno e dal numero di
pagina]: «La presente edizione dei Consulti è completa e riproduce esattamente e
integralmente il testo del Manni, corrispondente alle pp. 1-267 del volume del 1726
e alle pp. 1-118 del volume del 1729. […] Abbiamo invece ritenuto opportuno tralasciare
l’introduzione dello stampatore e le note di commento». Per la citazione
dei Consulti medici pubblicati da Manni si rinvia a questa edizione.
42 Id., Consulti medici, edizione critica a cura di Carla Doni, Firenze, Centro
Editoriale Toscano, 1985 [d’ora in poi l’opera è citata con il solo titolo, seguito
dall’anno e dal numero di pagina].
43 C. Doni, Tradizione a stampa: Manni, Hertz, Cambiagi, Moreni e Livi, Ivi, p. 47.
[ 14 ]
i consulti medici di francesco redi 735
riportato alla luce un numero considerevole di lettere consultive in
gran parte inedite e finora disperse. Trattandosi di testi non sempre
omogenei («nel senso che molti consulti non hanno destinatario, non
tutti sono datati e molti si presentano sotto forma di minute o di
appunti»)44, la curatrice ha scelto di organizzare il materiale, separando
preliminarmente in due distinte sezioni gli scritti in volgare da
quelli in latino, per poi procedere a un’ulteriore suddivisione interna
delle lettere per gruppi affini. Nella prima sezione, sotto il titolo Consulti
in volgare, figurano 137 scritti, distribuiti in Destinatari noti (44),
Casa Medici (32), Casa Redi (41), Destinatari anonimi (7), Frammenti (13).
Nella seconda, sotto il titolo Consulti in latino, altri 24 scritti, ripartiti,
secondo lo stesso criterio, in Destinatari noti (6), Frammenti (4), Adnotata
medica (14). La presenza di varianti, nel caso di stesure plurime di uno
stesso consulto, o la presenza di una lezione diversa, nel caso di testi
editi, sono segnalati in un apparato critico, riportato alla fine di ogni
singolo gruppo di lettere consultive. Con questa nuova edizione il corpus
dei consulti si accresce notevolmente e risulta formato (compresi i
testi dell’edizione Manni) da 209 scritti in volgare45 e 26 in latino46, confermando
la preferenza di Redi per il volgare come lingua della scienza
e della professione medica.
L’opzione per il volgare dimostra che lo scienziato toscano resta
coerente e fedele alle direttive linguistiche galileiane, e in particolare
all’esigenza di evidenza e chiarezza espressive. Ma occorre anche segnalare
che questa insistenza sul volgare, da parte di Redi, se collocata
nel quadro storico-culturale di un generale ritorno al latino da parte
degli scienziati nella seconda metà del Seicento47, è sembrata, a qualche
interprete, come la prova di una sostanziale mancanza di «coeren-
44 Ead., Criteri di edizione, Ivi, p. 53.
45 Nel numero complessivo degli scritti è conteggiato una sola volta il consulto
Per una Vertigine tenebrosa in un gran Personaggio, edito nell’edizione Manni (ora in
Consulti medici, 1958, pp. 191-199), e ripubblicato con il nome del destinatario
([Francesco] Albizi) e il titolo in latino ([Vertigine tenebrosa], Pro Eminentissimo Albitio
/ vertigine et aliis affectibus vexato) nell’edizione critica curata da Carla Doni (Consulti
medici, 1985, pp. 105-111).
46 Il latino è utilizzato da Redi per «risposte “ufficiali” a richieste altrettanto
“ufficiali” stilate da accademici» e per gli adnotata medica, in cui sono trascritti secondo
l’uso delle lezioni universitarie i signa, la definitio e i remedia di alcune malattie,
cfr. C. Doni, Francesco Redi o della “Restauratio Magna”, in Consulti medici, 1985,
pp. 32-33.
47 Sul significato del ritorno all’uso del latino come lingua della scienza, cfr.
Lingua e cultura di Francesco Redi, pp. 256-266.
[ 15 ]
736 simone magherini
za scientifica»48. Secondo questa interpretazione, l’uso del volgare toscano
per le opere scientifiche e i Consulti medici, pur continuando a
funzionare da realistico correttivo nei confronti delle oscure e vuote
formule filosofiche della medicina secentesca («belli e pellegrini nomi,
inventati per buttare la polvere negli occhi a’ creduli cristianelli»)49,
sarebbe in realtà una scelta di retroguardia, se messa in rapporto al
latino veicolare dei medici-scienziati, più funzionale alla comunicazione
delle nuove scoperte presso un pubblico internazionale di «intendenti
», e si rivelerebbe più «congeniale» a esprimere «il minor impegno
speculativo del Redi, il più limitato orizzonte culturale e scientifico
» e la «minor portata delle sue osservazioni»50.
5. La prassi clinica dei Consulti medici
Nella prosa dei Consulti medici è forse possibile individuare le ragioni
socio-culturali e pragmatiche della difesa a oltranza dell’uso del
volgare come lingua della professione medica e della divulgazione
scientifica. Redi, come medico e archiatra granducale, a differenza dei
colleghi Borelli, Bellini e Malpighi, impegnati con rigore scientifico
nello sviluppo di una medicina moderna e razionale («costruita sulle
nuove teorie chimiche e meccaniche e sulla “notomia delle parti
minime”»)51, si occupa in prevalenza, anche se non disdegna il tavolo
anatomico e le moderne ricerche sperimentali52, di una medicina pra-
48 Cfr. Ivi, p. 266: «quella che manca, in lui, nei confronti degli altri medici del
suo indirizzo, è la coerenza scientifica: il nuovo viene irrimediabilmente mescolato
al vecchio, in continui compromessi».
49 Francesco Redi a Giacinto Cestoni, Firenze, 30 giugno 1682, in Opere, IV,
1811, p. 359.
50 Lingua e cultura di Francesco Redi, pp. 265-266.
51 Storia della medicina e della sanità in Italia, p. 169.
52 Per la conferma di una prudente apertura alla pratica del «taglio anatomico
», cfr. Per un Edema, in Consulti medici, 1958, pp. 48-49: «Quel tumore, che Edema
comunemente si chiama da’ Medici, fu dagli antichi creduto per lo più, ed in specie
da Galeno, e da tutt’i suoi seguaci, essere cagionato dalla Pituita tenue […].
Nondimeno se io dovessi dire intorno a questo proposito ciò, che la mia debolezza,
e poca esperienza mi può somministrare, a molta diversa materia di quella, assegnerei
io la vera cagione di questo male, giacché oggimai chi non è più che cieco,
chiaramente conosce, non esser così conforme alla verità l’antico sistema degli
umori del Corpo umano, quanto atto, e proporzionato per ingegnosamente spiegare
tutt’i mali, e le loro cause, a chi poco amatore della verità risparmia la fatica
del taglio anatomico»; e [Polipi del cuore], a Gilberto Gualtieri, in Consulti medici,
[ 16 ]
i consulti medici di francesco redi 737
tica. La lingua volgare è lo strumento comunicativo più funzionale a
una prassi clinico-medica che ha tra i suoi obiettivi dichiarati non solo
la semplificazione di una «terminologia complessa, pluristratificata,
spesso inadeguata e mistificatoria»53, ma anche un’azione riformatrice
della cultura tradizionale54:
Non ho prerogative da comparire nel congresso de’ primi Uomini del
nostro secolo. Una sola prerogativa riconosco in me, ma ella è una prerogativa
di desiderio, e non di fatto. Desidererei di potere sciogliere gli
uomini da que’ lacci, e da quella cecità, nella quale sono stretti, ed imbavagliati
dalla birba, dalla ciurmeria, dalla ciarlataneria, dalla furfanteria
de’ Medici ignorantoni, e dei Filosofi, che tormentano i poveri
Cristiani, e poi gli fanno morire con cirimonia e con lusso di pellegrini,
e superstiziosi rimedj55.
Si tratta di un passo di alta dignità etica e civile, esemplificativo di
un «costume» e di «una maniera di scrivere», che si mantiene costante
in tutti i consulti medici:
Mi vien comandato di scrivere alcuni consigli di medicina intorno alle
malattie che affliggono il Nobilissimo Signore N.N. e si vuole che io gli
scriva in lingua italiana o latina, e con parole semplici e schiette e lontane
da quei termini oscuri mezzi greci, e mezzi latini che comunemente
si sogliono usare dal volgo de’ medici. Obbedirò alle leggi che mi
sono state imposte, e tanto più obbedirò volentieri, quanto che questo
è il mio solito costume e la mia solita maniera di scrivere ed in ciò vorrei
avere l’abilità uguale alla aspettazione56.
1985, p. 163: «Posso dire a Vostra Signoria Eccellentissima che in infiniti cadaveri
ho trovato ne’ ventricoli del cuore, e ne’ vasi, che da esso escono, di quelle materie
grosse che ho mentovate, le quali dagli autori moderni sono chiamati polipi del
cuore, e si assicuri che quasi tutti que’ cadaveri allor che vivevano, erano afflitti da
medesimi accidenti da’ quali è afflitto il nostro Signor Cavaliere».
53 Lingua e cultura di Francesco Redi, p. 218. Cfr. anche Ivi, p. 230: «Come Galileo,
anche il Redi, non ama le parole difficili, i tecnicismi impenetrabili […] Non è che
il Redi rifiuti la terminologia medica già accreditata; solo, come faceva anche Galileo,
associa al termine dotto la spiegazione del termine stesso, assegnando così ad
esso un valore non essenziale, di etichetta linguistica convenzionale».
54 Sul carattere “illuministico” della scienza di Redi, come strumento di un’azione
riformatrice della cultura tradizionale, cfr. Scienza e «filosofia» in Francesco
Redi, pp. 98-99.
55 Francesco Redi a Stefano Pignattelli, senza data, in Opere, V, 1811, pp. 142-
143.
56 [Flusso di sangue dalle vene emorroidali], in Consulti medici, 1985, p. 355.
[ 17 ]
738 simone magherini
Per comprendere le ragioni di questa scelta professionale, sicuramente
più congeniale alle istanze empiriche del metodo scientifico di
Redi, occorre non dimenticare che nella seconda metà del Seicento la
nuova avanguardia medica attraversa un momento di crisi, per il fatto
che, «pur dimostrando l’inadeguatezza della fisiopatologia galenica a
dar conto di funzioni e disfunzioni organiche»57, non riesce a offrire in
campo clinico valide cure alternative alla medicina tradizionale. Su
questa difficoltà oggettiva dei medici iatromeccanici si concentrano le
critiche di quanti negano o si dimostrano scettici sull’effettiva portata
terapeutica dei nuovi studi fisiologici-anatomici. Si tratta di una variegata
schiera di oppositori che comprende da una parte i medici tradizionalisti,
difensori del dogma galenico, e dall’altra i medici pratici,
che si richiamano all’empirismo di Ippocrate. Un fronte solo a prima
vista compatto, ma che in realtà muove da istanze profondamente diverse.
Se i medici “dogmatici” rifiutano in toto l’evidenza delle nuove
scoperte scientifiche con la strenua difesa delle dottrine aristoteliche e
la riproposizione del sistema medico di Galeno (Triumphus Galinestarum,
1665), i medici “pratici” hanno una posizione meno ideologica e
più pragmatica. Alcuni di questi, infatti, come il bolognese Giangirolamo
Sbaraglia, si oppongono alle conquiste del sapere medico-biologico,
non solo per ragioni di potere accademico, ma perché praticano
e concepiscono la medicina «come un’arte, osservativa e intuitiva, basata
cioè sul cumulo delle osservazioni e descrizioni e sulla metodica
dell’intuito clinico»58; altri, invece, come il dalmata Giorgio Baglivi,
allievo di Malpighi e poi archiatra pontificio, autore del De praxi medica
(1696), ritengono indispensabile giustapporre alla concezione meccanicistica
della iatromeccanica, che pur condividono con i medici
“razionali”, «il programma neoippocratico di “ricondurre la prassi
medica alla prisca ragion di osservare”», perché solo «l’esperienza è il
filo che deve guidare le conclusioni del medico» e «nella terapia l’esperienza
non si può ottenere che colla pratica»59.
A questa battaglia partecipa anche Redi con una funzione di mediazione
tra le ragioni pratiche della “medicina empirica” e quelle teoriche
della “medicina razionale”, confermando che «al fondo della
sua scienza e della sua polemica antiautoritaria vi è l’ambizione di
57 Storia della medicina e della sanità in Italia, p. 169.
58 Ivi, p. 170.
59 Ivi, p. 173. Gli aforismi ippocratici di Baglivi, citati da Cosmecini, sono trascritti
da Arturo Castiglioni, Il volto di Ippocrate, Milano, Unitas, 1925, pp. 276 e
279.
[ 18 ]
i consulti medici di francesco redi 739
una vasta riforma culturale»60. Tale posizione si presenta nei Consulti
medici come un primo embrionale (anche se non sempre coerente) contributo
per il conseguimento di una piena integrazione tra una prassi
clinica tradizionale e induttiva, fondata sull’esperienza e sulla capacità
d’osservazione del medico, e le nuove conoscenze razionali della
scienza meccanico-sperimentale.
L’ars curandi dei Consulti medici trova infatti la sua prima giustificazione
in un preliminare studio del quadro clinico del paziente, che
comporta sia l’esercizio di un esperto occhio medico, per rilevare i
segni e i sintomi macroscopici della malattia, sia un’esatta e approfondita
conoscenza anatomo-fisiologica degli organi interni e delle «parti
minime». Un campione significativo di questa tendenza può essere
rintracciata in un consulto scritto, probabilmente nel 1663, per il «Signore
Cardinale Albizi», che si avvale del parere autorevole e della
«relazione» di altri titolati colleghi, verso cui Redi mostra sempre un
certo rispetto (anche se qualche volta velato da una dissimulata ironia):
Ho letta, et esaminata la diligentissima et esattissima relazione de’ mali
del Signore Cardinale Albizi, e di quei tanti, e tanti medicamenti, che
dal principio della sua vita fino al 69, e 70 anno, per mano di diversi
medici ha messi in opera. […] Ma se tante medicine per 70 anni continovi
adoprate non hanno mai apportato a Sua Eccellenza la desiderata
salute, che s’ha egli da fare da qui in avanti di tante medicine intorno,
e di tante medicine di diversa natura? Io per me sarei di parere, che si
tralasciassero tutte le sorti di medicamenti, eccetto alcuni familiari,
piacevoli, e gentili da introdursi nel corpo più tosto sotto forma di vitto,
che sotto forma di medicamento. […] Io credo dunque, che in oggi
il male di Sua Eccellenza non sia altro, che quella malattia, che da’
medici è chiamata vertigine tenebrosa, con dolore di quella parte nella
quale si ruota questa vertigine, cioè a dire nella testa, il che produce
ancora, come suol produrre in tutti quanti gli altri uomini qualche melancolica
apprensione. Questi mali hanno la loro sede in luogo molto
dalla testa lontano, imperoché credo, che tal sede sia, e nello stomaco,
e nel piloro, e in tutto quanto il lunghissimo, e ravvolto canale degl’alimenti.
Credo in somma, che la cagione del male di Sua Eccellenza
non sia altro, che un mescuglio di certi fluidi soverchiamente acidi, e
soverchiamente salsuginosi, i quali mescolati insieme bollono, e si fermentano,
e crescono di mole, e fanno crescere di mole tutto ciò che
toccano, e ancora pungono, e irritano tutte le cavità nelle quali si trovano.
Onde le fibre, et i sottilissimi fili nervosi dello stomaco, del piloro,
60 Il metodo scientifico di Francesco Redi, p. 492.
[ 19 ]
740 simone magherini
e dell’intestino duodeno restano afflitti, e per conseguenza li spiriti
ancora, che per essi nerviccioli corrono, e ricorrono pigliando un moto
disordinato, mediante i nervi maggiori attaccati a i minimi si comunica
al cervello, e così in esso cervello vien prodotta la vertigine et in tutta
quanta la testa il dolore61.
La diagnosi e la prognosi della malattia («vertigine tenebrosa»),
pur inserendosi dal quadro di un ippocratismo tradizionale, che prevede
dopo un’attenta anamnesi del malato una spiegazione teorica
della patologia, si distaccano dallo stile neutro dei consulti tradizionali
(da cui «era bandita ogni considerazione subiettiva, ogni intromissione
dell’individualità dell’estensore dei “referti”»)62 mediante il ricorso
sistematico a ragionevoli e «sensate esperienze»:
Ma perché in oggi quei fluidi si conservano soverchiamente acidi, e
soverchiamente salsuginosi? Perché conservano così ostinatamente il
loro vizio? E perché non s’è mai potuto addolcirli, e renderli più mansueti?
Io non saprei addurre altra ragione, che quella di qualcheduno
di quei esempi, che giornalmente ci si parano avanti gl’occhi; per nostro
esempio serva una botte di legno, che per molti, e molt’anni abbia
conservato l’aceto, e che d’esso aceto si siano inzuppate le doghe, e se
lo sieno per così dire convertito in natura; tutto quel vino più generoso,
e più potente, che vi si metterà in cotal botte, tutto diventerà aceto, tali
sono l’infezioni abituali63.
La terminologia usata per descrivere il fenomeno patologico consente
ancora di individuare la causa della malattia in un forte squilibrio
umorale («un mescuglio di certi fluidi soverchiamente acidi, e
soverchiamente salsuginosi»), ma i rimedi proposti dall’archiatra per
la cura del malato, a differenza di quelli di solito prescritti dalla medicina
galenica, sono «tutti piacevolissimi» (semplicissimi), e «da introdursi
nel corpo più tosto sotto forma di vitto, che sotto forma di medicamento
». Per procurare all’illustre personaggio «la prosperità di una
lunga vita, e lontana per quanto sia possibile, e da i dolori di testa, e
da gli accidenti vertiginosi», e per «temperare con mano discreta l’aci-
61 [Vertigine tenebrosa], a [Francesco] Albizi, in Consulti medici, 1985, pp. 105-
108. Il testo, presente nell’edizione Manni, è pubblicato con qualche variante e il
titolo Per una Vertigine tenebrosa in un gran Personaggio, in Consulti medici, 1958, pp.
191-199.
62 Bruno Basile, I «Consulti medici» di Francesco Redi, «Atti della Accademia
delle Scienze Morali di Bologna», Rendiconti LXX (1981-1982), p. 195.
63 [Vertigine tenebrosa], a [Francesco] Albizi, in Consulti medici, 1985, p. 108.
[ 20 ]
i consulti medici di francesco redi 741
do, et il salso de’ fluidi, e l’imperfezioni delle di loro sorgenti», è sufficiente
astenersi da «tutte le sorti di medicamenti» e seguire una nuova
regola di vita («un modo di vivere conveniente»)64, che consiste in una
corretta dieta alimentare (a base di «brodo di cappone ben disgrassato,
senza sale», «qualche mela, o qualche pera cotta», acqua di fonte in
quantità, la «bevanda dell’erba tè», specie «quella chiamata tè nero»)
e richiede il «frequente uso de’ clisteri», preferibilmente di acqua pura,
oppure di brodo zucchero e «butirro», senza aggiunta d’ingredienti
artificiosi («correttivi»):
Quei diacattoliconi, quei diafiniconi, quelle benedette lassative, quei
lattuari di iera, che come sacri sogliono dal vulgo essere fitti ne’ clisteri,
si debbono fuggire come un veleno, e come una peste, sì come ancora
tutti quegli altri olii di ruta, camomilla, e d’aneto65.
Ma la terapia presuppone allo stesso tempo, per essere efficacemente
praticata, la presenza di una serie di condizioni di contorno,
che favoriscono il rapporto empatico tra medico e paziente. Anzitutto
si rende necessario un rapporto collaborativo e di fiducia tra il medico
e il malato, da cui deriva anche l’esigenza di servirsi di una terminologia
scientifica più semplice e comprensibile dei «termini reconditi e
misteriosi, che usa l’arte medicinale, e ancora de’ suoi Greci, e Arabici,
e Barbari Nomi da fare spiritare i cani»66. Utili sono anche la coscienza
64 Per ulcere in bocca, piaghe nelle gambe, rogna, magrezza, stitichezza e malinconia,
in Consulti medici, 1958, p. 60. La formula ricorre con grande frequenza in tutti i
consulti, accoppiata alla messa al bando degli eccessivi e innaturali «Medicamenti,
che si traggono dalla Bottega dello Speziale», cfr. Per una ostinatissima ostruzione
nelle vene dell’utero d’una Dama, Ivi, p. 70 («una lunga, e buona regola di vivere»);
Per una dama Inglese afflitta da dolori di testa, e di ventre, da maninconia, ec., Ivi, p. 136
(una lunga, ed ostinata regola di vivere»); a Consiglio [Cerchi], in Consulti medici,
1985, p. 119 («aggiustata regola di vivere»); [Lingua esulcerata], a Mario Fiorentini,
Ivi, p. 151 («volesse contentarsi di mettere tutta la sua fiducia negli aiuti della natura
e di una esattissima e ben continuata regola di vivere»).
65 [Vertigine tenebrosa], a [Francesco] Albizi, Ivi, p. 109. Anche l’invettiva contro
l’uso dei «correttivi» dei clisteri ha uno schema tipico, cfr. [Ipocondria], a Domenico
David, Venezia, 12 giugno 1688, Ivi, p. 136: «Ma sieno cristeri piacevoli gentili, e
non di quella razza che sogliono esser prescritti da noi medici, per far cosa grata
agli speziali, con un’infinità d’ingredienti indiavolati che sconcerterebbero una
torre non che il canale degl’intestini. Oh poter del mondo il bel lavoro che fanno
nelle nostre budella quelle decozionacce imbrogliate con una infinità di erbe i cento
vescovadi, con quelle jere, benedette lassative, diacattoliconi diafiniconi diatriontonpipereoni
ed altri: / Nomi da far spiritare i cani».
66 Per dolor di stomaco, gravezza di testa ec., in Consulti medici, 1958, pp. 213-214.
[ 21 ]
742 simone magherini
del limite della professione medica e il riconoscimento del primato
della natura, da rispettare e comprendere anche nelle sue manifestazioni
patologiche: il «primo e principale» scopo del medico verso il
malato non consiste in quella «specie di malattia» (oggi si direbbe accanimento
terapeutico) che è volerlo guarire a tutti i costi «da que’
mali, che lo molestano, ma bensì il conservarlo lungamente in vita, per
poter porgere a que’ mali nello scopo secondario tutti quei rimedi lenitivi,
che rendono il vivere men travaglioso»67. Si tratta di una pratica
clinica rivoluzionaria, che rovescia «quel consueto ordine, che ne’ loro
Consulti tengono i Medici»:
il buon Medico, prudente, e giudizioso, quando è chiamato alla cura di
chi che sia, non dee avere per primo scopo, e per prima massima il
volerlo guarire da’ suoi mali; ma per primo scopo, e massima dee essere
il conservarlo lungamente in vita; e la massima secondaria dee essere
di guarirlo, perché quando non si pensa ad altro, che a voler guarire
un ammalato da qualche male, soventemente avviene, che precipiti in
un maggiore, con evidente pericolo della vita68.
Ne consegue il rifiuto di un’eccessiva medicalizzazione a base di
farmaci galenici e soprattutto di «quei rimedj misteriosi, che si cavano
da’ bossoli dello Speziale, e particolarmente quelli, che dal volgo son
chiamati rimedi grandi, e generosi, ne’ quali si trova sempre l’incertezza
del giovamento, congiunta per lo più con la certezza del
danno»69. I troppi medicamenti e l’inclinazione dei medici «ad empie-
67 Per un Podagroso in età avanzata, Ivi, pp. 26-27. Questo atteggiamento dubbioso
verso i rimedi della scienza medica ricorre con grande frequenza nelle lettere
consultive, cfr. Per una Gotta con Nefridite, Ivi, p. 35: «Parlando dunque come Servidore,
e non osservando quel consueto ordine, che ne’ loro Consulti tengono i Medici,
dico, che il buon Medico, prudente, e giudizioso, quando è chiamato alla cura
di chi che sia, non dee avere per primo scopo, e per prima massima il volerlo
guarire da’ suoi mali; ma per primo scopo, e massima dee essere il conservarlo
lungamente in vita; e la massima secondaria dee essere di guarirlo, perché quando
non si pensa ad altro, che a voler guarire un ammalato da qualche male, soventemente
avviene, che precipiti in un maggiore, con evidente pericolo della vita».
Dietro queste «affermazioni di polemica antisistematica» si nasconde, per Madrignani,
«un programma più ambizioso e più “pericoloso”, quello di attuare il disegno
di una scienza liberata da ogni incombenza metafisica, non solo dalle astrattezze
“speculative”, ma anche dalla supremazia religiosa» (Il metodo scientifico di
Francesco Redi, p. 493).
68 Per una Gotta con Nefridite, in Consulti medici, 1958, p. 35.
69 Per un Podagroso in età avanzata, Ivi, p. 27. Verso i medicamenti degli speziali
lo scienziato ha una diffidenza sistematica, cfr. Francesco Redi al Padre Gio. Maria
[ 22 ]
i consulti medici di francesco redi 743
re altrui lo stomaco di mille intingoli, e di mille pestiferi guazzabugli»70,
invece di recare un qualche ristoro al malato, finiscono il più delle
volte per condurlo «appoco appoco in evidente pericolo di morte»71.
La cautela di Redi nella prescrizione di questi «rimedi grandi, e
generosi» non esclude la possibilità di«ricorrere qualche volta per necessità
a qualche medicamento» (come nel caso del sempre lodato
«serviziale semplice»), ma deriva dalla necessità di operare una netta
separazione tra l’attività professionale dei medici e le pratiche miracolistiche
dei ciarlatani:
Ho detto sin quì, che il Sig. Abate si dovrebbe astenere da quei rimedj
generosi, e grandi, che si cavano da’ bossoli dello Speziale. Soggiungo
ora, che molto più dee astenersi da que’ Medicamenti, che con encomj
di miracoli, e con nomi di segreti reconditi sogliono essere proposti
giornalmente, e celebrati da’ Ciarlatani, e dal volgo ignorante, e son
creduti operare per via di qualità occulte, e non capite dall’umano intendimento72.
Altra conseguenza, come già segnalato, è il frequente ricorso a terapie
naturali, non invasive (come brodi lunghi e non sugosi, lavativi,
polpa di cassia ed estratto di china-china), che devono essere accompagnate
da una «convenevole dieta» alimentare (strettamente vegetariana,
povera di carni rosse e ricca di frutta e verdura, con pochi vini e
molta acqua di fonte viva):
Ma egli è cosa necessaria necessarissima che la Signora aiuti i Medici
con una totale obbedienza, senza la quale obbedienza non otterrà mai
la salute: e però non si maravigli se tra i medicamenti miei vi sarà dolcemente
mescolata, e la severità, e la piacevolezza73.
Questa premessa è indicativa, perché avverte che l’aspetto psicologico
è rilevante nella terapia, vale a dire che la cura per essere efficace
deve essere dal medico («artefice orario»)74 regolata non con rigidità
Baldigiani della Compagnia di Gesù, Firenze, 10 agosto 1688, in Opere, V, 1811, p.
326: «Rispondo, confessando ingenuamente la mia ignoranza, che io non ho medicamento
veruno da potergli prescrivere. Che se pure dovessi prescrivergli qualche
cosa, gli prescriverei, che da qui avanti si astenesse da tutte le sorte di quei medicamenti,
che si cavano da’ vasi degli speziali».
70 Per un Podagroso in età avanzata, in Consulti medici, 1958, p. 29.
71 Ivi, p. 27.
72 Ivi, pp. 28-29.
73 Per alcuni Tubercoli nelle palpebre degli Occhi, Ivi, p. 21.
74 [Ascesso renale], a [Girolamo Barbagli], in Consulti medici, 1985, p. 119: «il
[ 23 ]
744 simone magherini
prescrittiva, ma con discrezione e sensibilità, nel rispetto del carattere
e della personalità del paziente. Il consulto continua così:
Con questo medicamento (siroppo solutivo, siero, cavar sangue) continuato
lunghissimamente, stimerei che si potesse ritrar molto frutto.
Ma maggiore si ricaverà dalla buona regola del bere, e del mangiare,
congiunta con una stentatissima, e lunga astinenza, regolata dalla prudenza
del Medico, che assiste, e dall’ardente desiderio, che la Signora
ha, di guarire. […] Io non dico, che questa Signora si tenga senza mangiare,
dico bene, che senza una gran parsimonia nel mangiare, ella non
farà frutto. Io non dico, che ella non beva né poco, né punto. Dico bene,
che credo, che sia necessario necessarissimo, che per molti, e molti mesi
ella tralasci totalmente il vino, ed in sua vece beva dell’acqua, e l’acqua
quanto più pura, e semplice sarà, tanto fia migliore, e ne beva pure,
perché nella quantità non voglio, che osservi il consiglio di Celso,
per non rendere il sangue, e gli altri fluidi più acri, più mordaci, e più
salsuginosi. I cibi sieno carni lesse, e le ministre fatte de’ loro brodi, con
erbe. Si mangi dell’erbe, e de’ frutti; e se si ha mai da eccedere, l’eccesso
sia nell’erbe, e ne’ frutti, e non nelle carni, e ne’ cibi di gran nutrimento75.
Sotto l’aspetto clinico-terapeutico l’empirismo medico di Redi si
basa su un’incondizionata(e ippocratica) fiducia nella forza risanatrice
della natura («vera medicatrice de’ mali»)76. E su tale presupposto
s’innesta il realismo etico di uno scienziato che avverte con acume il
senso del limite e non condivide la fiducia nelle magnifiche sorti e
progressive della scienza:
Io sono un uomo, che ho molto del semplice, e del materiale, ed osservo,
che la natura gode della semplicità delle cose, e trovo per esperienza,
che questa stessa semplicità delle cose nella medicina è molto più
profittevole di quei tanti miscugli, guazzabugli, intingoli, e triache, che
noi altri Medici tutto giorno ordiniamo; ma bisognerebbe, che quando
medico è artefice orario che bisogna che pigli i suoi consigli secondo lo stato del
male del paziente, e questi simili mali i quali voglion lunghezza a poter essere
guariti spesse volte di giorno in giorno vanno variando e secondo il loro variare,
bisogna che anche il medico vada variando i suoi pensieri et i suoi medicamenti».
La stessa immagine ritorna nel consulto [Febbre con intumescenza di corpo], a Felice
Morassini, Ivi, p. 170: «il medico è Artefice Orario e che tanto opera bene quanto che
determina, e muta e cangia le sue operazioni di ora in ora secondo l’occorrenze il
che non può essere fatto dal medico che è lontano».
75 Per alcuni Tubercoli nelle palpebre degli Occhi, in Consulti medici, 1958, p. 23.
76 Per una Raucedine, o Fiocaggine, Ivi, p. 31.
[ 24 ]
i consulti medici di francesco redi 745
le abbiamo ordinate, noi fussimo subito condennati ad ingollarle noi
medesimi, e saremmo nell’ordinare molto più caritatevoli, e discreti77.
Il senso del limite aiuta Redi, uomo «semplice» e «materiale», a rispettare
«la natura» che «gode della semplicità delle cose». Lo aiuta a
guardare con sospetto i «miscugli», i «guazzabugli», gli «intingoli», i
mille toccasana a cui molti medici fanno quotidianamente ricorso.
Questa schiettezza e questo empirismo, che comportano anche un’attitudine
di misura e rigore intellettuale, non sono doti occasionali né
accessorie, bensì costituiscono il presupposto di una auspicata riforma
morale della professione medica78.
Simone Magherini
Università di Firenze
77 Per una gravezza nello stomaco, Ivi, p. 212.
78 In questa prospettiva si chiarisce il significato del contributo originale di
Redi nel campo della clinica medica e si ridimensiona il severo giudizio di Corrado
Tumiati, Un naturalista letterato: Francesco Redi, in Il Sei-Settecento, Libera cattedra
di storia della civiltà fiorentina (Unione fiorentina), Firenze, Sansoni, 1956, p.
126: «Se a un titolo egli ambì, fu quello di riformatore della Medicina. […] Riformatore
fu […] ma in senso negativo. Vide, con altri, gli errori della Medicina del
suo tempo, li combatté con un ardore nel quale era soprattutto una cordiale simpatia
per le vittime, ma non portò alcun contributo alla conoscenza della patologia
umana e dell’arte di guarire». Sul «proposito» riformatore dell’opera del medico
aretino, cfr. P. Polito, Introduzione, in F. Redi, Scritti di botanica zoologia e medicina,
cit., p. 31: «il proposito rediano nel campo della medicina non è, in sostanza, quello
dell’innovatore per via di scoperte specifiche: semmai è quello del riformatore
morale in nome dell’onestà e della modestia».
[ 25 ]

Alvie ra Bussotti
Bivi tra accademia e corte. Ercole e la virtù
nella Toscana di primo Settecento
Il saggio evidenzia la persistenza dell’uso del paradigma, etico e retorico, della
figura di Ercole al bivio nelle esperienze letterarie del Granducato di Toscana
nel primo Settecento. Attraverso l’analisi di alcuni contributi di Antonio Maria
Salvini in seno all’accademia degli Apatisti e del panegirico Il tempio della Virtù
(1707) del meno noto Carlo Angelo Mazza, l’articolo ricostruisce la vitalità del
ricorso alla favola di Prodico di Ceo e la sua lettura attualizzante.

This essay highlights the continuing use of the ethical and rhetorical paradigm
of the figure of Hercules at the crossroads in the literature of the Grand Duchy
of Tuscany during the early Eighteenth century. By means of the analysis of
several contributions by Antonio Maria Salvini within the Accademia degli
Apatisti and of the panegyric Il tempio della Virtù (1707) by the less well-known
Carlo Angelo Mazza, the article reconstructs the vitality of the reuse of Prodicus’
tale and the way in which it was modernised.
All’alba del Settecento il tema di Ercole al bivio è particolarmente funzionale
alla celebrazione delle figure del potere. Il richiamo all’eroe
mitico, ancora vivo nella poesia e nell’arte, è infatti spesso espressione
di un’ideale di governo fondato sulla pace e sulle virtù della giustizia
e della fortezza; virtù, queste, che trovano largo consenso sia nella
corte imperiale asburgica, travagliata dalla guerra di successione, sia
nelle realtà politiche italiane, anch’esse in parte attraversate da crisi
dinastiche1. Dalla celebrazione dell’imperatore Leopoldo I e dei suoi
eredi, alla Toscana degli ultimi Medici, la favola di Prodico e il para-
Autore: Sapienza Università di Roma; dottore di ricerca in Italianistica; bussottialviera@
gmail.com
1 Questo studio deriva da una parte del mio lavoro di tesi di dottorato che è
ora in corso di pubblicazione con il titolo Le forme della virtù. Dalle “antiche favole”
alla “pubblica felicità” (1691-1749).
748 alviera bussotti
digma di Ercole si caricano di significati attuali, secondo le pratiche
del riuso dell’antico proprie del classicismo2.
Guardando soprattutto al caso toscano negli anni di Cosimo III
(1642-1723), Ferdinando (1663-1713) e Gian Gastone I de’ Medici (1671-
1737)3, il riferimento a Ercole al bivio, con il topico motivo della scelta,
percorre due direzioni. Accanto all’espressione delle virtù del regnante
da parte dei poeti e degli artisti, si situa infatti un impiego ulteriore
del tema che coinvolge l’ambito accademico e la figura del letterato,
visto come Ercole di fronte a una scelta. È importante precisare che il
Granducato di Toscana, soprattutto Firenze, ribadisce con il ricorso
alla figura di Ercole un’identità precisa. Recuperando ad esempio la
tradizione dell’Ercole libico, eroe di discendenza orientale (ebraica),
quale fondatore della Toscana e di Firenze, la corte degli ultimi Medici
afferma una sua ben determinata genealogia. La questione si inserisce
nelle dispute sul primato cronologico che caratterizzano il primo Settecento,
anche per quanto riguarda l’eredità morale dell’antichità: i
due fronti del contendere sono infatti riassumibili nella tradizione delle
virtù greco-romane, e quindi pagane, da un lato, e dall’altro nella
linea di continuità delle virtù del codice scritturale, dalla sua matrice
ebraica e cristiana alla virtù perfezionata dai moderni.
Secondo questa versione l’Ercole libico, figlio di Osiri e lontano
discendente di Noé, fa della Toscana la prima provincia dove portare,
dopo il diluvio, i suoi segreti e la sua lingua misteriosa, l’aramea, dalla
quale avrebbe avuto origine l’etrusco4. Sulla scorta delle narrazioni
di Annio da Viterbo e del recupero cinquecentesco, Ercole incarna
dunque l’immagine del civilizzatore, di un principe «benefico, pacifi-
2 Per il tema di Ercole al bivio nelle arti figurative cfr. Erwin Panofsky, Ercole
al bivio e altri materiali iconografici dell’antichità tornati in vita nell’età moderna, a cura
di Monica Ferrando, Macerata, Quodlibet, 2010. Sul classicismo di Antico regime
cfr. Amedeo Quondam, Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti
italiani, Bologna, Il Mulino, 2010.
3 Per un quadro generale cfr. L’Età dei Lumi, in Storia della civiltà toscana, IV, a
cura di Furio Diaz, Firenze, Le Monnier, 1999.
4 La discussione circa l’origine linguistica del fiorentino assume implicazioni
più profonde fino a coinvolgere la questione ‘nazionale’ e identitaria. Gli apporti
più significativi provengono da Scipione Maffei e da Anton Francesco Gori. Non
potendo trattare diffusamente l’argomento in questa sede, rinvio ad Arnaldo
Momigliano, Gli studi classici di Scipione Maffei, in Id., Secondo contributo alla storia
degli studi classici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960; Mauro Cristofani,
La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquari nel ’700, Roma, Consiglio Nazionale
delle Ricerche, 1983; Annalisa Andreoni, Omero italico. Favole antiche e
identità nazionale tra Vico e Cuoco, Roma, Jouvence, 2003, pp. 42-44.
[ 2 ]
bivi tra accademia e corte 749
catore e operoso» a cui legare la propria «genealogia incredibile» e il
tema della renovatio dell’impero universale5.
Tuttavia, è soprattutto esaminando l’uso della tradizione greca legata
all’eroe che, nel panorama della Toscana di primo Settecento, è
possibile rintracciare due forme retoriche principali con le quali è
espresso lo schema del dubbio e della scelta. Esse prendono corpo nei
due luoghi simbolo della cultura di Antico regime, l’accademia e la
corte, e hanno come referente implicito la città di Firenze. Tramite i
due centri è possibile mostrare l’interesse nei confronti dell’etica, sia
quella individuale – del cittadino o del saggio – sia quella pubblica, e
le forme retoriche attraverso le quali i letterati la travestono. Nello
specifico si tratta delle esperienze nate in seno all’Accademia degli
Apatisti, specie del contributo di Antonio Maria Salvini, e di alcuni
componimenti poetici scritti all’interno della corte medicea settecentesca,
tra i quali il più significativo è Il Tempio della Virtù, panegirico di
Carlo Angelo Mazza. I testi di Salvini e Mazza permettono di esaminare,
vista la relazione con la corte medicea (l’abate toscano con Gian
Gastone de’ Medici, di cui è precettore; Mazza con il Gran Principe
Ferdinando III, dedicatario dei suoi versi), le strategie retoriche tramite
cui il discorso sulla Virtù si concreta al tramonto della linea dei principi
naturali nel Granducato di Toscana e al limine dell’avvento della
Reggenza lorenese6.
La dialettica dimensione singola / dimensione pubblica assume
nel Settecento sempre più importanza, sin dai trattati dell’institutio
principis, in cui l’oscillazione è però tutta interna al ruolo del principe,
tenuto a governare prima se stesso e poi la cosa pubblica, come testimonia
anche l’opera di Ludovico Antonio Muratori. Antonio Maria
5 Cesare Vasoli, Postel e il ‘mito’ dell’Etruria, in Id., La cultura delle corti, Bologna,
Cappelli, 1980, p. 196. Cfr. Renato Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di
storia nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 9-47.
6 Sulla dinastia dei Medici in Toscana cfr. Furio Diaz, Il Granducato di Toscana.
I Medici, Torino, UTET, 1976. Sul Seicento e primo Settecento cfr. Franco Angiolini,
Il lungo Seicento (1609-1737): declino o stabilità?, in Storia della civiltà toscana, III. Il
Principato Mediceo, a cura di Elena Fasano Guarini, Firenze, Le Monnier, 2003,
pp. 41-76. Cfr. soprattutto Marcello Verga, Il Granducato di Toscana tra Sei e Settecento,
in Il Granducato di Toscana e i Lorena nel secolo XVIII, incontro internazionale
di studio (Firenze, 22-24 settembre 1994), a cura di Alessandra Contini, Grazia
Parri, Firenze, Olschki, 1999, pp. 3-33; Id., Da “cittadini” a “nobili”: lotta politica e
riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano, Giuffré, 1990, pp.
13-45; Id., Pitti e l’estinzione della dinastia medicea. Materiali per una storia politica della
reggia di Firenze tra Sei e Settecento, in Vivere a Pitti. Una reggia dai Medici ai Savoia, a
cura di Sergio Bertelli, Renato Pasta, Firenze, Olschki, 2003, pp. 271-287.
[ 3 ]
750 alviera bussotti
Salvini, richiamandosi all’ideale platonico del buon governo e ripercorrendo
la formula della coppia Principe-cittadino, esprime al meglio
questa prospettiva nelle sue Prose sacre, ma vi aggiunge una dimensione
pubblica strettamente cittadina. Sulla base del «detto famoso
» di Platone, secondo cui «esser felici gli Stati, quando o Filosofi regnassero,
o i Governanti filosofassero», Salvini estende la filosofia dai
regnanti ai «particolari»: «essendo la vera filosofia arte della vita indirizzata
alla felicità», uomo «dabbene» e «buon cittadino» verrebbero,
infatti, a coincidere, contribuendo così a rendere la città «Filosofa, e in
conseguenza felice»7. La ricetta per combinare filosofia e vita felice rispetta
in Salvini l’ordine piramidale che destina ad alcuni uomini virtuosi,
e illuminati dalla grazia divina, il compito di fornire l’«esempio
del ben vivere»8; tra questi modelli di virtù un ruolo di primo ordine è
dato alle figure dei santi e dei monaci, all’insegna di un sincretismo tra
pensiero platonico e religione cristiana che cifra i contributi dell’autore
anche a proposito dell’uso della favola di Ercole al bivio.
L’uso più frequente dell’apologo da parte di Salvini si ha all’interno
dell’Accademia degli Apatisti con una chiara finalità didascalica. Il
tema è accolto nella Firenze di Cosimo III de’ Medici con molto interesse
ed è utilizzato secondo differenti declinazioni nei Discorsi Accademici9
dell’abate, «novello Platone della Toscana»10, rivolti ai suoi sodali.
L’accademia viene fondata da Agostino Coltellini nel 1631 e Salvini
vi entra a far parte da giovanissimo, fin dal 1669. Membro della
Crusca e dell’Accademia Fiorentina (1677), arcade fin dal 1691 come
Aristeo Cratio, Salvini è anche un prolifico traduttore. Oltre ai classici,
soprattutto greci (Teocrito, Mosco, Bione, Omero, Esiodo, Pitagora,
Platone), egli porta a compimento la traduzione di una delle tragedie
repubblicane più rappresentativa del Settecento, il Cato dell’inglese
Joseph Addison11.
7 Anton Maria Salvini, In lode di San Benedetto. Orazione XV, in Id., Prose sacre
[…], Firenze, Nella Stamperia di S. A. R. per Gio: Gaetano Tartini e Santi Franchi,
MDCCXVI, pp. 222-233.
8 Ibidem.
9 Si cita da A.M. Salvini, Discorsi Accademici […], tt. 3, Venezia, Angelo Pasinelli,
MDCCXXXV.
10 Marco Antonio Mozzi, Delle lodi dell’Abate Anton Maria Salvini orazione funerale
[…], Firenze, Nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini e Franchi, MDCCXXXI,
p. 26.
11 Sull’Accademia degli Apatisti vd. Michele Maylender, Storia delle Accademie
d’Italia, voll. 8, Bologna – Rocca San Casciano, L. Cappelli Editore, I, 1926, pp.
219-226; cfr. Alessandro Lazzeri, Intellettuali e consenso nella Toscana del Seicento:
[ 4 ]
bivi tra accademia e corte 751
Il ricorso all’apologo è talmente frequente nelle prolusioni accademiche
di Salvini da poter essere considerato una vera e propria formula
retorica a cui il letterato ricorre per affrontare all’istante i quesiti
posti in questo ambito. In effetti, il contenuto della favola di Prodico,
l’immagine del bivio e il momento decisivo della scelta a seguito della
deliberazione diventano essi stessi parte del procedimento retorico
utilizzato dall’oratore nelle sue prolusioni a sfondo morale. Il modello
di Ercole al bivio, basilare in alcune architetture drammaturgiche e
poetiche di Metastasio (dal Sogno di Scipione all’Alcide al bivio), è impiegato
da Salvini non unicamente per la trattazione dell’institutio principis
e dei suoi ministri, ma anche per affrontare le tematiche più vicine
alla figura del letterato. Anche solo scorgendo i titoli delle sue prolusioni
recitate presso le «virtuose adunanze», e seguendo la prevalente
formula dubitativa, rintracciamo numerose prose di interesse etico,
come ad esempio: «Se la virtù intellettuale, o Morale sia la più nobile, e
necessaria» (quesito proposto da Giovambattista Fantoni), «Quale sia
più atta alla correzione dei costumi, o la Satira o la Commedia», «Qual cosa
sia più lodabile in un Principe, il reggere da se, o il servirsi de’ Ministri», «Se
per ammaestrar la gioventù nella morale abbia più forza la teorica de’ precetti,
o la pratica degli esempi» e molte altre su cui varrebbe la pena soffermarci12.
Salvini è un letterato cosmopolita («stimo tutti gli uomini come
fratelli e paesani […]; paesani come tutti di questa gran città che si
l’Accademia degli Apatisti, Milano, Giuffé, 1983. Per le notizie biografiche su Salvini
cfr. Carmelo Cordaro, Anton Maria Salvini. Saggio critico biografico, Piacenza,
Arti Grafiche Favari, 1906; Maria Pia Paoli, Anton Maria Salvini (1653-1729). Il
ritratto di un letterato nella Firenze di fine Seicento, in Naples, Rome et Florence. Une
histoire comparée des milieux intellectuels italiens (XVII-XVIIIe siècles), sous la
direction de Jean Boutier, Brigitte Marin, Antonella Romano, Rome, École
française de Rome, 2005, pp. 1-69. Per la traduzione del Cato cfr. Gustavo Costa,
Un avversario di Addison e Voltaire: John Shabbeare, Alias Battista Angeloni, S. J. Contributo
allo studio dei rapporti italo-britannici da Salvini a Baretti (con due inediti
addisoniani), in Atti della Accademia delle Scienze di Torino, XCIX, 1964-1965, pp.
565-761; Mario Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni ‘repubblicane’
di Machiavelli, Pisa, Edizioni della Normale, 2005; Beatrice Alfonzetti,
«Cato» fra preziose traduzioni e tavole di teatro, in Ead., Il corpo di Cesare. Percorsi di
una catastrofe nella tragedia del Settecento, Modena, Mucchi, 1989, pp. 81-134.
12 L’espressione «virtuose adunanze» è usata da Salvini a proposito del preciso
indirizzo dato all’Accademia degli Apatisti, dove appunto le «Muse non solo poetiche
dover essere, ma filosofiche»: cfr. A.M. Salvini, Sopra la Filosofia. Coll’occasione
di una lezione di essa recitata nell’Accademia. Discorso XXIII, in Id., Discorsi Accademici
[…], cit., p. 117.
[ 5 ]
752 alviera bussotti
chiama Mondo»), dalla cui scuola usciranno personalità quali Antonio
Cocchi, Tommaso Crudeli e Giovanni Lami13. Egli ripudia i modi contraffatti
dei “virtuosi”, facendosi «così degnevole, umano, comune e
popolare», nemico dell’etichetta, dell’affettazione e delle «cerimonie».
Uomo non cortigiano, nonostante la vicinanza ai Medici, e, pur senza
muoversi dalla Toscana, membro a pieno titolo della Repubblica delle
Lettere e in contatto epistolare con i suoi maggiori esponenti, Salvini
ricorre all’episodio di Ercole al bivio nella sua risposta al quesito accademico
Se maggior diletto si ricavi dal fuggire il piacere, o dal seguirlo, affrontando
il tema del nesso fatica-virtù14. Qui, avanzando la tesi di un
Epicuro più stoico degli stoici, Salvini non ripudia del tutto le passioni,
ritenendo che esse possano «far lega colla virtù»15. È quindi a tale
proposito che l’abate introduce la favola di Prodico, impiegandola come
forma primaria del discorso morale:
È notissima, e perché bella e leggiadra, da molti scrittori rappresentata,
come da Senofonte, da Luciano, da Silio nella persona del giovanissimo
Scipione, la favola di Prodico di Ceo sofista, nella quale s’introduce
Ercole a capo di due strade, una a prima vista fiorita, piana, ed amena;
l’altra spinosa, erta, e selvaggia. Quella è della voluttà, che conduce in
orride balze, e precipizj; questa della virtù, che superate le prime
asprezze, ad un vago e delicato colle ne guida. Mentre stava in dubbio
Ercole, quale delle due strade intraprendere, gli apparirono in testa di
quelle, due femmine, una lisciata ed adorna, e tutta cascante di lusinghe
e di vezzi, a guisa di meretrice; l’altra maestosa nel sembiante, e
insieme avvenente e leggiadra, d’una bellezza vera e massiccia; che la
prima la voluttà figurava, l’altra era la virtù16.
L’orditura lessicale del passo tornerà costante in tutti gli altri luo-
13 Salvini impiega il termine «cosmopolitano» per indicare il cittadino del
mondo; cfr. Id., Se sia meglio il vivere a se nella solitudine, o negli affari pubblici alla
patria, in Id., Discorsi Accademici […] tomo secondo, cit., p. 178. Sugli allievi di Salvini
vd. Ferdinando Sbigoli, Tommaso Crudeli e i primi frammassoni in Firenze, Bologna,
Forni Editore, 1967 (rist. anastatica ed. Milano, Battezzati, 1884).
14 A.M. Salvini, Se maggior diletto si ricavi dal fuggire il piacere o dal seguirlo. Discorso
XXXV, in Id., Discorsi Accademici […], cit., t. I, pp. 97-99.
15 Ivi, p. 98. Più in generale sulla tangenza tra passione e virtù cfr. Giovanna
Gronda, Scienza, cultura e critica letteraria, in Ead., Le passioni della ragione. Studi sul
Settecento, Pisa, Pacini, 1984, pp. 11-52; Silvia Contarini, Passions claires, in Ead.,
«Il mistero della macchina sensibile». Teorie delle passioni da Descartes a Alfieri, Pisa,
Pacini, 1997, pp. 17-108.
16 A.M. Salvini, Se maggior diletto si ricavi dal fuggire il piacere o dal seguirlo. Discorso
XXXV, in Id., Discorsi Accademici […], cit., pp. 98-99.
[ 6 ]
bivi tra accademia e corte 753
ghi in cui, seppure variandolo, Ercole al bivio viene riproposto da Salvini.
L’abate ha qui lo scopo di mostrare che il vero piacere consiste
nella virtù, dichiarando che «Questo è vero, e unico piacere», «stabile,
e fermo, e sussistente». È un motivo assai frequente anche nella poesia
di sfondo filosofico-morale di primo Settecento17. Lo stesso Salvini,
nella sua raccolta poetica del 1728, ricorre al nesso fatica-virtù tramite
un sonetto in cui la virtù è definita «per se stessa orrida in vista, / E
faticosa, e di sembiante austero»18.
Tra i testi direttamente collegati all’Accademia degli Apatisti il secondo
dei loci in cui si presenta il bivio di Ercole è la prolusione dal
titolo Se sia più facile divenire sapiente o Santo19. In questo caso il tema
del bivio è declinato dall’autore toscano sulle figure del sapiente e del
santo, apparentemente distanti. In particolare, è chiamata in causa la
virtù della «sapienza»: Ercole è ora lo studioso, l’accademico apatista,
poiché secondo anche «l’erudito Scoliaste d’Apollonio Rodio», così
«la sapienza, in lui viene figurata». Dopo un primo rapido elogio della
filosofia stoica, di cui la figura del sapiente è frutto, Salvini ricorre
quindi all’exemplum di Ercole per mostrare ancora una volta quale sia
l’ardua via che permette l’acquisto della «virtù» dell’apologo:
Ben l’additò nella sua morale, e gravissima novella il sofista Prodico,
che ad Ercole giovanetto, che dubbioso, e perplesso, di quale dovesse
intraprendere, a capo di due strade si stava, fa comparire due femmine,
l’una la voluttà, l’altra la virtù, che cercano ognuna di trarlo alla
sua via. L’una imbellettata, effeminata negli atti, nelle maniere, e meretriciamente
abbigliata, tenta con finti vezzi, e risi, e con artate lusinghe
di persuadere al giovane, che dietro lei ne venga per istrada facile, piana,
larga, amena, fiorita. L’altra in abito matronale, di virile bellezza, di
gravità, e di modestia atteggiata, lo sveglia da’ mortiferi incanti dell’altra,
e mostragli l’altra via, erta sì, e ripida sul principio, ed aspra, ed
inamena, ma ben l’assicura di felicissima riuscita; laddove l’altra, per
la facilità, e per l’agevolezza presi, ed incantati gli uomini, mena al precipizio20.
17 Vd. Gianvincenzo Gravina, Pronea, in Amedeo Quondam, Filosofia della
luce e luminosi nelle egloghe del Gravina. Documenti per un capitolo della cultura filosofica
di fine Seicento, Napoli, Guida, 1970, vv. 187-190, p. 101.
18 A.M. Salvini, Sonetti di Antonmaria Salvini Accademico della Crusca, Firenze,
Nella Stamperia di Sua Altezza Reale, Appresso li Tartini, e Franchi, MDCCXXVIII,
p. 227.
19 Id., Se sia più facile il divenire sapiente o santo. Discorso LXXXVIII, in Id., Discorsi
Accademici […], cit., t. II, pp. 382-385.
20 Ivi, p. 383.
[ 7 ]
754 alviera bussotti
Alla prossemica tradizionale, articolata sul contrasto voluttà-effeminatezza-
fatica vs. virtù-virilità-fatica, e volta a rendere riconoscibili
le due allegorie, fanno eco i versi tradotti dallo stesso Salvini da Esiodo,
in cui, di nuovo, è ripetuto lo schema21.
Nell’Ercole prodicio Salvini individua la figura del sapiente che
abbraccia finalmente la virtù; allo stesso tempo il letterato avvia una
sintesi originale attorno al motivo del crocicchio: egli, infatti, equipara
gradualmente la figura del sapiente a quella del santo, mostrando la
rigenerazione del modello classico. Allora Ercole è il santo del Vangelo
in cui sapienza umana e sapienza divina si combinano e quella di
Prodico diventa, pertanto, «appresso a noi» la parabola evangelica,
anch’essa forma del discorso morale, «della via larga, che conduce
all’Inferno» e «della stretta, che al Cielo ne guida», secondo l’accordo
tra il Vangelo e «la buona morale»22. La dottrina cristiana assume lo
statuto di vera e propria filosofia, una «scuola del vivere» che perfeziona
le filosofie antiche, raccogliendo «ciò ch’elle possedevano di
buono, dettato dal diritto discorso, e francheggiato dal lume eterno
della natura» e diventando, così, «scuola delle vere virtù» e «via all’eterna
felicità»23. Questo aspetto è particolarmente significativo, poiché,
proprio alla luce del sincretismo, Ludovico Muratori si farà promotore
nel trattato La filosofia morale (1735) di una nuova morale antiprecettistica,
che, rivolgendosi ai giovani, ha lo scopo di fornire una
via pratica delle virtù.
La frequenza dell’impiego dell’apologo da parte di Salvini, oltre a
fornirci indicazioni circa la costruzione delle orazioni accademiche secondo
un bacino di argomenti a cui l’autore poteva attingere per affrontare
i quesiti posti – ed Ercole al bivio è indubbiamente tra questi
–, mostra la grande adattabilità della favola ai temi più diversi, tanto
che il tema è riproposto persino nel discorso di Salvini Sopra il nome
degli Apatisti24. Ancora una volta è ribadito il percorso del saggio stoico:
per Salvini è essenziale dedicarsi con «lo sforzo dell’animo» al
cammino della virtù, perché è in questa attitudine che si riconosce
l’essere accademico apatista. Il riferimento a Ercole al bivio giunge in
21 Ibidem: «Poser davanti alla virtù gl’Iddii / Immortali sudore, e lungo, ed
erto / Cammin ver di lei, ed aspro in sul bel primo; / Ma poscia ché s’è giunti in
sulla cima, / Agevol ne diviene, ancorché duro».
22 Ibidem.
23 Id., Delle lodi di Agostino Coltellini orazione […], in Id., Discorsi Accademici […],
cit., t. II, p. 5. L’orazione risale al 1695.
24 Id., Sopra il nome degli Apatisti, ivi, p. 431.
[ 8 ]
bivi tra accademia e corte 755
questo caso a cifrare addirittura l’identità e l’appartenenza accademica.
Talvolta lo schema è soggetto a variazioni, come nella prolusione
Se nelle cose dubbiose l’uomo debba attenersi alla speranza o al timore25. Si
tratta di una vera e propria riscrittura:
Quale Ercole al Bivio costituito intra due, si è nelle deliberazioni ardue
e dubbiose l’animo umano. Gli si rappresenta primieramente una vaga
giovane, e baldanzosa, la quale tutta lisciata, ed adorna con dolci attrattive
maniere camminandogli innanzi, e a lui di quando in quando
con pietoso occhio lusinghevolmente volgendosi lo conforta, e lo spinge
a seguire volenteroso i suoi passi, anzi il suo volo. Dall’altra banda
un Uomo carico di senno, e di pensiero, che in lui si covano, pieno
d’esperienza, e d’autorità gli fa cenno, che o dall’entrare in cammino
del tutto si ritragga, o pure non gli si stacchi dal fianco; perché prendendolo
per mano il guiderà soavemente, e con sicurezza. A quale di
costoro credete, che egli si debba appigliare, o Signori? Lasciata la baldanzosa,
non andrà egli dietro all’orme di quell’antico; e poco curando
l’ardire dell’una seguirà il senno dell’altro? Chi sieno questi personaggi
sotto brevità da me pur ora adombrati senza che io vel dica, voi già
coll’acutezza de’ vostri intelletti precorrendomi l’indovinate, per la
giovane Donna comprendendo la Speranza, e nel Personaggio del vecchio,
figurato ravvisando il Timore. Egli ammaestrato dal precipizio di
molti, e sapendo quanto varie, ed instabili sieno l’umane cose, viene ad
essere gran maestro degli uomini, custode della Giustizia […] e franco
mantenitore di lor salute: laddove l’altra con falsi vezzi allettandoci,
spesso spesso al precipizio miseri, ed incauti ne conduce26.
Speranza e Timore prendono il posto, in qualità di «personaggi»,
della Voluttà e della Virtù al bivio: la speranza, «vaga e giovane»,
mantiene inalterata la sua natura femminile «baldanzosa», perdendo
però, anche perché virtù cristiana, l’attributo di «meretrice» assegnato
alla voluttà; il timore è descritto, invece, attraverso le caratteristiche
maschili che ne fanno un «uomo carico di senno», «di pensiero» e di
«esperienza», custode della virtù della giustizia. Giunto al bivio dunque
tra Speranza e Timore, l’uomo secondo Salvini può intraprendere
la via della virtù operando una sintesi. Per tutta la prima parte dell’orazione
l’autore sembra parteggiare per il timore; ma al termine della
prolusione il finale conduce a una soluzione originale e inaspettata.
Con grande efficacia retorica Salvini suggerisce che «sia da desiderare
alquanto di fuoco di speranza, che dia moto, e vita alle azioni; contem-
25 Id., Discorsi Accademici [….], cit., t. I, pp. 12-14.
26 Ivi, pp. 12-13.
[ 9 ]
756 alviera bussotti
perata però talmente col suo contrario, che se ne formi di due diversissime
specie», di cui speranza e timore sono appunto un «meraviglioso
composto». Frutto di questa sintesi è la «Prudenza»27, virtù che, da
sempre legata al tempo (passato, presente e futuro) e soprattutto all’azione
del principe, ora è riferita a una più generale condotta dell’uomo28.
Negli stessi anni assistiamo nella Toscana degli ultimi Medici a
un’ulteriore codificazione, questa volta poetica, del tema di Prodico.
La citazione dell’apologo interviene, infatti, nella complessa architettura
del panegirico di Carlo Angelo Mazza Il tempio della virtù (1707)29,
dedicato al gran principe Ferdinando de’ Medici, figlio di Cosimo III.
In quest’opera le virtù del regnante si saldano all’interno di una prospettiva
cristiana, con un’esaltazione della trasmissione genealogica
della virtù tipica dell’ambito nobiliare e cortigiano. Pur avvalendosi
del sincretismo, il panegirico di Mazza è chiaramente distante dagli
esempi sopracitati a proposito del Salvini apatista.
Ferdinando, mecenate e fondatore dell’Accademia dei Nobili e
protettore di quella degli Immobili30, è collezionista di opere d’arte e
dotato da una smisurata curiosità intellettuale. Egli fa della residenza
a Palazzo Pitti e della Villa di Pratolino nei dintorni di Firenze il fulcro
stesso della Corte, mediante l’organizzazione di feste, tra le quali
quella in onore di San Francesco da Paola. È in questa occasione che,
nell’anno 1706, Mazza, letterato e teologo fiorentino amico di Magliabechi
e accademico apatista, omaggia il principe con i suoi versi, pubblicati
nell’anno successivo. Nel Tempio della Virtù l’autore attribuisce
a Ercole un valore civile: l’eroe è, infatti, il fondatore della città di Fi-
27 Ibidem.
28 Sul legame tra la prudenza e il tempo si veda il primo capitolo di E. Panofsky,
Ercole al bivio, cit., pp. 25-65.
29 Carlo Angelo Mazza, Il Tempio Della Virtù Allusivo al Tempio di Gerosolima
Eretto nel Regio Appartamento Del Sereniss. Principe di Toscana Ferdinando III in occasione
di celebrarsi in esso dalla sua somma pietà l’anniversaria Festa di S. Francesco di
Paola l’anno MDCCVI […], Roma, per Francesco Gonzaga, MDCCVII. Sono scarse
le notizie biografiche sull’autore: cfr. «Giornale de’ letterati d’Italia», t. XVIII, 1714,
pp. 16-17; Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini […], Ferrara, per Bernardo
Pomatelli Stampatore Vescovale, MDCCXXII, p. 120.
30 Ferdinando offre il suo patronage anche per il veneziano «Giornale de’ letterati
d’Italia», che ne esalta le qualità di mecenate nel primo numero: cfr. «Giornale
de’ letterati d’Italia», t. I, a. MDCCX. Sull’Accademia dei Nobili cfr. Jean Boutier,
De l’Académie royale de Lunéville à l’«Accademia dei nobili» de Florence. Milieux
intellectuels et transferts culturels au début de la régence, in Il Granducato di Toscana
e i Lorena nel secolo XVIII, cit., pp. 327-353.
[ 10 ]
bivi tra accademia e corte 757
renze e assume la funzione di mediatore tra l’immagine della corte
medicea e la città fiorentina, in forza della celebrazione del potere dei
Medici in questi anni. Lo stesso Salvini nelle sue Prose sacre ribadisce
più volte a proposito di Cosimo il Vecchio il ruolo del «Principe
cittadino»31. Tale immagine è ispirata in primo luogo al buon governo
guidato dalle virtù della pietà e della giustizia. Essa prelude all’espressione
del nesso religione-legge che si riflette, secondo Salvini,
anche nel regno dei discendenti di Cosimo e che esprime il riconoscimento
nel principe del ruolo di padre, pastore, cittadino, eroe e santo.
Queste equivalenze trovano una forma di espressione anche nell’uso
del mito di Ercole. Il ricorso a quest’ultimo è indicativo, infatti, del
tentativo di sintesi tra le due anime del Granducato, quella cittadina e
repubblicana e quella cortigiana.
Attorno a Ferdinando, passato ai clamori, ed entrato in contrasto
con il padre, per i suoi atteggiamenti libertini, Mazza costruisce nel
suo Tempio della Virtù una corona di virtù cardinali e teologali che contribuisce
al ritratto del principe estremamente virtuoso. Possiamo ricondurre
questa operazione, nonostante i dissidi tra padre e figlio, al
più generale «carattere conventuale» e «devozionale» del Granducato
perpetuato da Cosimo III, oltre che alla serie di iniziative religiose collettive,
come la Processione della Madonna dell’Impruneta del 171132.
Il poeta inoltre si accinge a scrivere questo panegirico in anni che precedono
di poco la discussione sulla possibilità di convertire il Granducato
in repubblica oligarchica; in una fase in cui l’estinzione della casata
è sentita come imminente, vengono riscoperti gli scrittori ‘repubblicani’
(Giannotti, Segni, Nerli, Varchi, Machiavelli) e non a caso sorge
un rinnovato interesse per la tragedia repubblicana, come attesta,
fra l’altro, la traduzione del Cato di Salvini33.
Il panegirico di Mazza è una sorta di itinerario poetico verso la
31 A.M. Salvini, In lode di Cosimo de’ Medici il padre della Patria, in Id., Prose sacre,
cit., p. 261.
32 Marcello Fantoni, Il bigottismo di Cosimo III: da leggenda storiografica ad oggetto
storico, in La Toscana nell’età di Cosimo III, Atti del Convegno (Pisa-San Domenico
di Fiesole, Firenze, 4-5 giugno 1990), a cura di Franco Angiolini, Vieri Becagli,
Marcello Verga, Firenze, Edifir, 1993, pp. 389-402: p. 390, p. 393; per la
processione del 1711, cfr. Pasquale Palmieri, Firenze sacra. Culti cittadini e culti
dinastici nel secolo XVIII, in La città nel Settecento. Saperi e forme di rappresentazione,
a cura di Marina Formica, Andrea Merlotti, Anna Maria Rao, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 295-310.
33 Anche nel poema possiamo intravedere una eco di questa preoccupazione
relativa all’estinzione della linea dei principi naturali Medici: cfr. C.A. Mazza, Il
[ 11 ]
758 alviera bussotti
virtù eroica del principe, identificata con la carità e per questo assimilata
alla virtù di San Francesco da Paola. Tutte le arti concorrono, invece,
fin dall’antiporta del Tempio della Virtù, alla creazione di uno scenario
in cui si affaccia anche il tema di Ercole al bivio. L’intera composizione
è costruita su un impianto allegorico-architettonico che «sotto il
manto della […] pietà» mostra il «treno delle […] Virtù» principesche.
Essa prende spunto, oltre che dalla disposizione e architettura effettiva
delle stanze della dimora principesca, dall’occasione offerta dalla
celebrazione di San Francesco, al quale lo stesso Principe dedica una
statua, dando prova anzitutto della sua pietà e conferma della sua carità,
riflessa in quella del Santo («Schiettissima pietate a noi palese»;
«Fiamma di Carità tanto ti accese»)34. Come il principe trasforma le
sue stanze «in tempio», così la poesia può essere considerata un edificio
allegorico destinato a porre in versi e a custodire le virtù, secondo
l’equivalenza tra il Tempio di Gerosolima, richiamato dal titolo del poema,
e il cuore della residenza di Ferdinando a Palazzo Pitti. Significativamente
il corrispettivo poetico si ispira, in virtù della concezione
del palazzo come figura degli «Oracoli del Cielo», al Tempio di Salomone;
con la sua geometria spaziale e la sua sacralità esso si staglia
come unico modello possibile, rispetto agli altri luoghi chiamati in
causa nel testo con il valore di anti-tempio, vale a dire il giardino e il
Palazzo di Armida, spazi della perdizione e dell’irrazionalità35. Il riferimento
al tempio permette a Mazza inoltre di rinsaldare il rapporto
tra poesia e belle arti all’insegna della Virtù, chiarito dal poeta fin dalla
seconda strofa, quando fa riferimento al «Tempio, che a Virtù formar
disegna / Fortunato scalpel la penna sua / Su’ fogli incide», richiamando
espressamente gli strumenti anticipati dall’incisione
dell’antiporta e l’attività del poeta-pittore e scultore della Virtù: il poeta
che «forma» l’abito morale dell’uomo, in questo caso del principe36.
Tempio della Virtù […], cit., p. 59. Cfr. M. Verga, Pitti e l’estinzione della dinastia medicea
[…], in Vivere a Pitti. Una reggia dai Medici ai Savoia, cit., pp. 271-287.
34 C.A. Mazza, Il Tempio della Virtù […], cit., st. X, p. 4.
35 Ivi, st. XVI, p. 6: «La [In Giudea] d’Armida non fur foglie incantate, / Ne
d’arse selve immagini bugiarde, / (Sagge follie del maggior nostro Vate) / Ma ciò,
che a ben capir menti non tarde / Vider di proporzion, di travi e mura, / D’Oracoli
del cielo era figura».
36 Ivi, p. 1 (corsivi miei); per «forma» cfr. ivi, st. XCVI, p. 33 (corsivo mio): «Tu
sola puoi Virtù chiara, e sublime, / Che d’un’Alma real Tempio, ed Altare / Oggi
a te formi, le più folte, ed ime / Caligini del senso diradare; / E a ben scoprirti in
quella essermi duce: / Giacché a se stessa sol la luce è luce». Ancora l’equivalenza
tra poesia e architettura e scultura è confermata alla st. XXI, ivi, p. 8.
[ 12 ]
bivi tra accademia e corte 759
I significati allegorici del testo vengono espressi chiaramente da
Mazza: egli precisa che nel Palazzo del principe va individuato il
‘monte della virtù’ e che quest’ultima, sul piano «mistico», equivale
alla virtù eroica di Ferdinando. Il basamento dell’intera residenza
principesca, corrispettivo delle fondamenta dell’anima di Ferdinando,
è supportato dalla Prudenza, dalla Giustizia, dalla Fortezza e dalla
Temperanza, virtù «del Serenissimo Principe». È solo inoltrandosi
all’interno delle stanze del Palazzo, a loro volta ‘stanze’ poetiche, che
si giunge a cospetto delle virtù teologali della Fede, della Speranza e
della Carità, nelle tre sezioni finali della dimora. A tale proposito possiamo
supporre che il poeta si sia ispirato direttamente agli affreschi
del Quartiere dei Cardinali e Principi forestieri voluto da Ferdinando I de’
Medici per Palazzo Pitti con l’obiettivo di illustrare il suo programma
di governo, opera di artisti quali Passignano, Civoli, Bronzino e Allori.
Nelle sette sale che costituiscono questa parte dell’edificio, dove ora
risiede la consorte del principe, Violante di Baviera, sono dipinte infatti
le virtù cardinali e teologali, ciascuna posta sulla volta della stanza
corrispondente, a eco delle virtù gemelle rinvenibili all’interno degli
altri lati del Palazzo37. Nel panegirico l’uso delle stanze, specie
quelle più interne, assume un significato preciso in base alle virtù che
vi abitano e trascende del pari il piano puramente interiore. Le stesse
virtù teologali aspirano, infatti, a una sociabilità che le renda validi
strumenti della vita politica. Ad esempio la prima stanza, quella della
‘fede’, è aperta all’intera corte e alle adunanze popolari; rappresenta
dunque il luogo dell’incontro e del patto tra sovrano e sudditi alla luce
della fiducia reciproca, che corrisponde sul piano architettonico al vestibolo.
Lo spazio in cui alberga la virtù della ‘speranza’ è, invece, appartato:
la stanza rappresenta, in effetti, il tempio vero e proprio e vi
possono entrare soltanto i ministri e i servitori del Principe. La ‘carità’,
virtù dell’animo di Ferdinando, detta «Oracolo», risiede nella parte
più interna e nascosta38, dove è collocata la statua di San Francesco da
37 Cfr. Serena Padovani, La decorazione del Quartiere dei Cardinali e dei Principi
forestieri, in Palazzo Pitti, L’arte e la storia, a cura di Marco Chiarini, Firenze, Nardini
Editore, 2000, pp. 43-53. La studiosa rimarca quanto la storia degli affreschi
delle virtù del Quartiere sia ancora per certi aspetti oscura e tutta da ricostruire,
soprattutto in merito alla stanza in cui avrebbe dovuto essere l’affresco della virtù
teologale della fede, sostituita, invece, dalla virtù della giustizia. Cfr. M. Verga,
Pitti e l’estinzione della dinastia medicea […], cit., p. 3.
38 Si veda il secondo libro delle Cronache, 1-9, dedicato alla costruzione del
Tempio a opera di Salomone, dopo la riforma del culto operata da suo padre, il Re
Davide.
[ 13 ]
760 alviera bussotti
Paola in atteggiamento estatico, in preda al fuoco della carità, appellata
appunto «Real Virtute»39. Qui sono presenti l’altare e l’arca dell’alleanza,
simboli per eccellenza del rinnovato patto tra Salomone (Ferdinando),
il Re d’Israele che chiese a Dio la saggezza e la scienza, e il
suo popolo, cioè la Toscana. Quest’ultima, notoriamente ‘novella Atene’,
ora è identificata, anche grazie a reminiscenze di un linguaggio
che ha diversi punti di contatto con i valori repubblicani, con la Giudea
(«Che l’Etruria emulasse un dì Giudea / riservassi al tuo
braccio»)40.
La commistione di immagini qui originata poggia sul perno della
virtù della Carità, analogamente a quanto viene teorizzato da Paolo
Mattia Doria e Muratori nei trattati coevi, fino a dare luogo alla totale
osmosi del principe con la Virtù e con lo stesso Tempio («Che se Virtù
è con Te una cosa stessa, / Cosa non v’è, che sopravanzi ad essa»)41.
L’identificazione afferma il «crisma pubblico», come è stato definito
da Marcello Fantoni, qui portato all’estremo: il poeta sanziona il patto
finale tra sacralità e potere, mediante la figura del «principe santo»;
un’immagine, questa, che chiaramente appare, rispetto anche all’impiego
dell’attributo in Salvini, più come un necessario strumento politico,
legato alle dinamiche dinastiche, che come una sentita adesione
del principe a questo tipo di religiosità e devozione42.
Alla santificazione di Ferdinando certamente contribuisce l’apparato
delle virtù, al quale, Mazza affida molto spazio. Descritte come
indaffarate, pronte a scoprire il loro «valor che nell’operar rapido ha il
corso», le virtù sono sempre coadiuvate dalla madre ragione. Le prime
a essere introdotte, seguendo lo schema della residenza del Gran Principe,
sono le virtù cardinali. Dapprima è presentata la Prudenza, «la
più illustre», «luce dal Sol», «legislatore, e legge» «Regina» e «Provida
39 C.A. Mazza, Il Tempio della Virtù […], cit., st. LXV, p. 23. Sulla funzione sociale
di questi luoghi all’interno della corte cfr. Norbert Elias, Strutture e significato
delle abitazioni, in Id., La società di corte, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 31-67; Pierpaolo
Merlin, Il Re nascosto, in Id., Nelle stanze del re. Vita e politica nelle corti europee
tra XV e XVIII secolo, Roma, Salerno Editrice, 2010, pp. 45-46.
40 C.A. Mazza, Il Tempio della Virtù […], cit., p. 7. Sulla valenza repubblicana
delle storie bibliche, cfr. Lea Campos Boralevi, Tra politica e Bibbia: i linguaggi del
repubblicanesimo, in Repubblicanesimo e repubbliche nell’Europa di antico regime, a cura
di Elena Fasano Guarini, Renzo Sabbatini, Marco Natalizi, Milano, Franco
Angeli, 2007, pp. 47-60: pp. 50-51.
41 C.A. Mazza, Il Tempio della Virtù […], cit., p. 7.
42 M. Fantoni, Il bigottismo di Cosimo III […], in La Toscana nell’età di Cosimo III,
cit., pp. 400-402.
[ 14 ]
bivi tra accademia e corte 761
di consigli» specie verso l’uomo che, come Ercole al bivio, si avventuri
«nel sentier dubbioso e tardo»43. Viene poi annunciata la Giustizia, distinta,
sull’onda del dettato classico, in distributiva e commutativa44.
Mazza sembra accordarsi con le idee proposte da giuristi e letterati
all’inizio del secolo e poi riprese nel secondo Settecento: la virtù, infatti,
non esercita il suo potere attraverso la vendetta («Esempio non sono
io qui di vendetta»), bensì con equilibrio e ragione. È in gioco il rifiuto
della vendetta come strumento personale, nonostante in Mazza permanga
comunque il riferimento all’esercizio del timore, che si riallaccia
alla linea più tradizionale della trattatistica di governo.
Penultima ad apparire è la Fortezza, sia intesa come Fortitudo, cioè
appetito sensitivo, ma ancor più come virtù atta a sopprimere le passioni
dell’animo («che più che un Mondo oppresso / È vittoria maggior,
vincer se stesso»), metaforicamente raffigurate nell’«Idra
implacabile»45. È quest’ultima a preannunciare l’ingresso della Temperanza
e, finalmente, il riferimento a Ercole al bivio.
Va precisato che, rispetto al tema, varie sollecitazioni potevano provenire
dai dipinti distribuiti tra le stanze di Palazzo Pitti. L’avo del
principe, Ferdinando II de’ Medici, aveva commissionato un dipinto
vicino alle questioni richiamate dall’apologo: Il Principe adolescente
strappato a Venere da Minerva e da Ercole avviato alla sua educazione, opera
di Pietro da Cortona. Nel dipinto, collocato nella Galleria Palatina (Sala
di Venere), Ercole – «guida all’attività e alla virtù»46 – assume il ruolo
di precettore e accompagnatore dell’adolescente, allegoria a sua
volta di un giovane principe. In quest’ultimo, attraverso un evidente
intarsio di rimandi e allusioni, va visto una sorta di doppio dell’eroe
mitico. L’archetipo è appunto l’episodio del bivio. La presenza delle
allegorie di Venere e Minerva sta a significare l’amore sensuale e la
voluttà, da un lato, e la saggezza e il buon consiglio, dall’altro. Minerva
strappa il giovane dalle braccia di Venere, enfatizzando così, nella
tensione delle linee del grande dipinto, la biforcazione tra la via della
virtù e quella del vizio. Lo spazio figurativo è diviso in due parti: a
sinistra si trova il vizio e a destra la virtù. La dea della sapienza solleva
43 C.A. Mazza, Il tempio della Virtù, cit., st. CV, pp. 36-37.
44 Ivi, st. CX, pp. 38-39.
45 Ivi, p. 40.
46 La definizione è di Francesco Inghirami, Descrizione dell’Imp. e R. Palazzo
Pitti di Firenze, Firenze, Presso Giuseppe Molini e Comp. All’insegna di Dante,
1819, p. 21.
[ 15 ]
762 alviera bussotti
l’adolescente e procede verso Ercole, situato nella metà del quadro destinata
alla Virtù, pronto ad afferrare il ragazzo con il braccio47.
Nel Tempio della virtù l’episodio di Ercole al bivio è espresso come
una sorta di metaracconto attraverso i moduli metaforici dell’ut pictura
poësis: la Temperanza dipinge con il suo pennello la scena edificante di
Ercole, confrontata con l’episodio della condotta di Rinaldo trattenuto
da Armida nella Gerusalemme liberata (canto XVI)48. Il riferimento conserva
dunque il suo valore di apologo, in linea con il tono encomiastico
del poema, per la sua valenza didascalica. Accanto a questo aspetto
celebrativo, l’eccezionalità della condotta di Ercole è impiegata da
Mazza anche per far sì che la «genealogia incredibile» legata al mitico
eroe, fondatore di Firenze, possa servire da esempio correttivo al principe
Ferdinando, in riferimento ai suoi comportamenti dissoluti:
Opra così nella vicina parte
Del Tempio la minor Donna tra loro:
Benché suo grande impiego, e sua grand’arte
Superi di ciascuna il bel lavoro;
Poiché nel bivio dell’ambiguo suolo
Orme stampa sicure Ercole solo.
Effigiando va sovra d’un Colle
Erbe, fior, prati, e selve, e laghi, e fonti:
E lieta Mensa poi sull’erba molle
Fa, che ricca di cibi eletti, e pronti
S’appresti al gusto; e quivi onesto incanto
Formino delle Ninfe il ballo, e il canto.
Il confronto tra Ercole e Rinaldo, «cavalier d’acciaro armato», avviene
nelle strofe successive all’insegna di una radicale distanza tra i
47 Gli episodi che vedono partecipe Ercole, quasi a nume tutelare di Ferdinando
II, sono diversi: nella volta della Sala di Giove è raffigurato Giove che accoglie
nell’Empireo il Principe accompagnato da Ercole alla presenza delle quattro virtù cardinali
mentre la Fama iscrive le sue imprese immortali; mentre nella volta della Sala di Saturno
il soggetto di Ercole è proposto nella pittura di Ciro Ferri Il Principe sale
nell’Empireo accompagnato dal Valore e dalla Prudenza; e nella parte bassa è raffigurato
Ercole che siede sulla pira del monte Etna. Tutti i dipinti sono dedicati alla formazione
del principe.
48 Andrebbero presi in considerazione a tale proposito i canti XIV-XVI. Un riferimento
ad Alcide e all’episodio di Onfale si trova anche all’interno del canto
XVI della Gerusalemme, cfr. Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di Lanfranco
Caretti, Torino, Einaudi, 1993, canto XVI, st. 3, vv. 1-2, p. 473 («Mirasi qui
fra le meonie ancelle/favoleggiar con la conocchia Alcide»).
[ 16 ]
bivi tra accademia e corte 763
due. Ercole è un eroe temperato, padrone di se stesso, mentre il cavaliere
tassiano è imbrigliato e indebolito dall’arte seduttiva di Armida,
tanto da sedersi «in grembo della Maga Donna» e cadere addormento.
Questo atteggiamento è subito stigmatizzato da Mazza come vergognoso49,
tramite l’intervento del dispettoso Amore. L’espediente consente
all’autore di giungere alla clausola didascalica finale, dove è racchiusa
la morale del metaracconto:
A lettere immortali indi v’incide
Sotto la saggia Donna. O Tu, che vedi
Scherno d’amor questo novello Alcide,
Non istupir, che son queste mercedi
Di quei, che in dolce arringo ingordo, e baldo,
Nell’impresa maggior non fu Rinaldo.
E sembra a noi, che dica. Il piè guardingo
Or tu muovi: Ecco ti porgo il freno
Sul vero a gir di quel, ch’io qui dipingo.
Franco passeggia pure il Colle ameno:
Mira quel bel, perciò Natura il fece;
Ma guarda e passa che dormir non lece.
Lo stesso principe è qui posto di fronte a un bivio: seguire l’eccezionale
modello virtuoso di Ercole o arrendersi alla voluttà di Armida
come Rinaldo? Solo nella virtù etica della temperanza il principe può
trovare la soluzione, poiché soltanto questa virtù può costituire il correttivo
di Rinaldo, la moderazione capace di rendere quest’ultimo un
nuovo Ercole. La poesia stessa si fa strumento della virtù, fornendo al
cavaliere, cioè all’uomo nobile (Rinaldo nel testo, Ferdinando nella
realtà), la via per temperare e porre il freno alle passioni. Non va poi
trascurato il fatto che le strofe appena esaminate costituiscono strutturalmente
lo snodo centrale del panegirico, ‘bivio’ metaforico anch’esso.
Da qui in poi, dopo lo schiudersi della «strada sicura e degna» e
dopo il freno posto al destinatario per «camminar da saggio», avviene
l’introduzione delle virtù teologali. La strada descritta dal poeta è ora
quella in salita, proiettata verso il monte dove risiede la virtù eroica,
cioè la carità, apoteosi e premio finale dell’Ercole-principe santo,
all’insegna di un’ulteriore identificazione tra questi e il Tempio stesso:
49 C.A. Mazza, Il Tempio della Virtù, cit., p. 50: «O sonno indegno! A lui tosto si
toglie / Coll’armi il vanto di fedel Campione. / Già dal fianco la spada Amor gli
scioglie, / Intempestivo arnese al fier Garzone. / L’appende a un mirto; e in vergognose
forme / Mostra il trofeo d’un Cavalier, che dorme».
[ 17 ]
764 alviera bussotti
«Onde sia ver che il Tempio da te fatto / (Ch’io poi su’ fogli qui ritrassi)
sia / Misterioso del tuo cor ritratto: / Ed or conosco per l’aperta via
/ Ciascun di tue Virtudi al chiaro lume, / Che Tu se’ il Tempio, ed il
tuo core è il Nume»50.
L’ascesa di Ferdinando non si ferma alla scelta di Ercole, che pure
rappresenta una tappa fondamentale nel cammino del regnante. Una
volta intrapresa la strada della virtù, infatti, il principe temperato e
saggio inizia il percorso che lo condurrà alla finale santificazione. È
soprattutto attraverso la virtù della Carità che Ferdinando, prima identificato
con Salomone, poi con Ercole, finalmente può testimoniare il
grado sacrale del potere mediante la finale trasfigurazione nella virtù
di San Francesco da Paola. La carità, infatti, è la virtù la cui trattazione
occupa maggiore spazio, assieme alla Giustizia e alla Prudenza, nell’economia
generale del poema: identificata con lo stesso principe, collocata
nel «più sacro a Virtude alto ritiro», appellata dal poeta «Donna»
e «Matrona Real», tale virtù «parla / d’ardentissimo amore» ed è abbigliata,
come tradizione vuole, con «purpureo manto». È la stessa donna
a scoprire il «gran soglio» in cui è mostrato nell’apparizione e apoteosi
finale «il Gran Fernando», le cui gesta verranno poi affidate alla
memoria grazie alla tromba della Fama e al «plettro» del poeta51.
Nella conclusione del poema Mazza torna all’iniziale assimilazione
del principe al tempio della virtù. Nei riferimenti all’Etruria, al
Tempio, all’arca e al patto, va colta l’allusione dell’autore alla contemporaneità.
Mantenendo viva la genealogia delle virtù dei Medici, attraverso
il sincretismo dei simboli della tradizione legata a Firenze e
alla casata, il poeta contribuisce poeticamente al tentativo di arginare
l’imminente crisi della stessa forma del Granducato di Toscana. È soprattutto
guardando al rinnovamento del patto tra principe e popolo,
qui esemplificato sul modello Etruria-Giudea-Ferdinando-Salomone,
che si riscontra ancora l’uso del valore etico-esemplare del codice
scritturale, secondo una finalità politica, caratteristica di tutto il governo
di Cosimo III52. Nel poema, con l’arrivo del principe dal cuore della
50 Ivi, st. CLXXVI, p. 59. L’ultimo verso è quello con cui termina anche la strofa
V: «Tu di questa, che innalzo eccelsa Mole, / Se’ la nobil idea; e le più rette / Misure,
l’arte da Te prender vuole: / Onde ciascun, che in lei poscia riflette, / Di tu’ altera
Virtù conosca al lume, / Che Tu se’ il Tempio, ed il tuo core è il Nume», ivi, p.
2.
51 Ivi, pp. 49-53.
52 Per i culti sotto Cosimo III e per l’intero arco temporale del Settecento fiorentino,
vd. P. Palmieri, Firenze sacra. Culti cittadini e culti dinastici nel secolo XVIII,
in La città nel Settecento. Saperi e forme di rappresentazione, cit.
[ 18 ]
bivi tra accademia e corte 765
corte alla città, ha luogo il plauso e l’acclamazione finale del popolo. È
così confermata l’immagine civile, pia e caritatevole di Ferdinando,
che proprio nella figura di Salomone, di Ercole e del Santo trova i tre
esempi virtuosi, spia di una ‘genealogia incredibile’, religiosa, morale
e politica insieme53.
Tale commistione è usuale nella prima metà del secolo: Muratori
avrebbe utilizzato nel 1749 proprio l’esempio del Re Salomone, tra gli
altri, per designare quel «felice stato» caratterizzato dall’«allegro vivere
». Citando, infatti, un passo dal Libro dei Re nel suo Della pubblica felicità
scrive: «Innumerabile e somigliante alla rena del mare era il popolo
di Giudea o d’Israelo, mangiando e bevendo ognuno, e stando in
allegria; ed abitava senza alcun timore ciascuno sotto la vite sua, o
sotto il suo fico, dall’un confine del Regno all’altro finché visse
Salomone»54. Questa forse era la traduzione di una delle forme del
vivere più vicina alla pubblica felicità che gli ultimi Medici volevano
preservare. Essa trova spazio nel Granducato anche durante la fase
della Reggenza lorenese, quando, proprio dalle pagine delle «Novelle
letterarie» di Giovanni Lami, allievo di Salvini, sono avanzate proposte
culturali non riducibili, come ha mostrato Mario Rosa, a un’univoca
tendenza morale-religiosa55.
A tale riguardo, e ancora a segno della vitalità dell’apologo di Ercole
al bivio nella Toscana settecentesca, è particolarmente significativa
l’edizione del De Officiis di Cicerone a opera dello stampatore Andrea
Bonducci. Licenziata nel 1756, quest’opera, caposaldo della tradizione
classicista, è ora proposta in una veste ‘cristianizzata’, mediante
la traduzione e il commento del portoghese Andrea Luigi de Silva56.
53 Cfr. C.A. Mazza, Il Tempio della Virtù […], cit., pp. 61-62.
54 Ludovico Antonio Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi
[…], In Lucca [i. e. Venezia], MDCCXLIX, p. 12.
55 Mario Rosa, Atteggiamenti culturali e religiosi di Giovanni Lami nelle Novelle
Letterarie, «Annali della Scuola Normale superiore di Pisa», s. 2, v. 25 (1956), fasc.
3-4, pp. 260-333. Per un quadro generale sulla produzione libraria e sulle condizioni
dell’editoria fiorentina nel Settecento, cfr. Renato Pasta, Editoria e stampa nella
Firenze del Settecento, in Id., Editoria e cultura nel Settecento, Firenze, Olschki, 1997,
pp. 1-37.
56 Cfr. Cicerone, Gli uffici Di M. Tullio Cicerone […], Firenze, appresso Andrea
Bonducci, MDCCLVI. L’emblema posto nel frontespizio è quello di Ercole al bivio
con il motto «Est iter in silvis», mentre la trattazione dell’episodio da parte di Cicerone
si trova alle pp. 113-114. È lo stesso De Silva nella dedicatoria a dichiarare
l’inserimento dei commentari al fine di sviluppare e rettificare «alcune massime,
riducendole soprattutto ad alcuni principi della Morale Cristiana», ivi, p. VI. Su
Andrea Bonducci cfr. Maria Augusta Morelli Timpanaro, Per una storia di An-
[ 19 ]
766 alviera bussotti
L’editore sceglie di porre a emblema del frontespizio, e come insegna
della stessa opera, l’effige di Ercole al bivio ideata da Tommaso Gentili.
Del resto, all’interno dell’opera ciceroniana sui Doveri, l’episodio è citato
per ben due volte: esso è introdotto nella trattazione generale del
tema della scelta (I, 32), poiché Cicerone individua nel libero arbitrio
il fondamentale presupposto per il perfetto compimento del destino
umano, ed è poi espressamente richiamato attraverso l’apologo narrato
da Senofonte nel capitolo successivo. In Cicerone il problema della
deliberazione sul proprio destino e sul corso della vita è cruciale: di
fronte a questo bivio ciascuno deve impiegare, secondo l’Arpinate,
«tutta la prudenza per conformarsi al genio e alla inclinazione
naturale»57 e mantenersi costante rispetto ai doveri.
Il volgarizzamento ebbe una immediata ricezione, come testimonia
l’articolo a esso dedicato dalle «Novelle letterarie» di Lami58. L’estensore
insiste sulle immagini impiegate a illustrare l’antiporta: «Precede
al Frontespizio un rame bene inteso, e meglio intagliato, rappresentante
il ritratto del Reale Infante Duca di Parma Don Filippo di Borbone,
sostenuto in aria dalla fama» − a Filippo di Borbone l’opera è
dedicata − «e il Ritratto intero di Cicerone sedente in mezzo alle Virtù
Cardinali con molte figure simboliche denotanti la protezione che ha
questo serenissimo Principe delle scienze, e delle belle arti». Quanto
all’effige di Ercole al bivio, viene osservato: «Lo stesso Frontespizio è
adorno di un piccolo rame, il quale mostra Ercole giovane, a cui si
drea Bonducci (Firenze, 1715-1766). Lo stampatore, gli amici, le loro esperienze culturali
e massoniche, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea,
1996, pp. 322-323 e nota 658.
57 Cicerone, Gli Uffici […], cit., p. 114.
58 Cfr. «Continuazione delle Novelle Letterarie pubblicate in Firenze», t. XVIII,
a. MDCCLVII, n. 21, Firenze, 27 Maggio 1757, pp. 322-324. Probabilmente l’articolo
fu scritto dallo stesso Lami in quanto Andrea Luigi de Silva gli aveva chiesto un
contributo di revisione. Cfr. M.A. Morelli Timpanaro, Per una storia di Andrea
Bonducci […], cit., pp. 322-323. Per l’amicizia e le prime imprese editoriali del sodalizio
Lami -Bonducci, cfr. ivi, pp. 6-7. Vd. anche Françoise Waquet, Presse et societé:
le public des «Novelle Letterarie» de Florence (1743-1767), «Bibliothèque de l’Ecole
des Chartes», CXXXVIII (1980), pp. 217-229. Per le notizie biografiche su Giovanni
Lami, oltre a Maria Pia Paoli, ad vocem, in DBI, 63, 2004, pp. 226-233, cfr. Giovanni
Lami e il Valdarno Inferiore. I luoghi e la storia di un erudito del Settecento, a cura di
Valerio Bartolini, introduzione di Mario Rosa, Pisa, Pacini Editore, 1997, pp.
15-22; Giuseppe Ricuperati, L’affermazione della critica. Giovanni Lami e le «Novelle
letterarie», in Carlo Capra, Valerio Castronovo, Giuseppe Ricuperati, La
stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 165-187.
[ 20 ]
bivi tra accademia e corte 767
propongono le due diverse strade della Virtù e del Piacere»59. Ancora
una volta l’Ercole al bivio è un principe, Filippo di Borbone. L’episodio,
in linea con le politiche intraprese in Toscana in questi anni, esprime
ulteriormente la portata attuale del modello classico: un invito rivolto
ai regnanti a operare conformemente alla virtù e ai doveri.
Alviera Bussotti
Sapienza Università di Roma
59 Cfr. «Continuazione delle Novelle Letterarie pubblicate in Firenze», cit., p.
322.
[ 21 ]

ANNA CERBO
Giacomo Leopardi e l’Europa letteraria contemporanea
Scorrendo gli Elenchi delle letture leopardiane, il saggio studia le conoscenze che
Leopardi ebbe della letteratura europea contemporanea e prende in esame la
critica che il Recanatese mosse al Romanticismo, prima nel Discorso di un italiano,
successivamente nell’Epistolario e negli appunti dello Zibaldone che presentano
una puntuale caratterizzazione delle singole letterature europee, col rilievo
di una serie di sottili differenze. Attraverso una critica acuta e costruttiva,
confrontando gli eccessi delle nuove poetiche con i modelli classici, Leopardi
realizza la poesia dei Canti e la prosa moderna e filosofica delle Operette morali.

This essays investigates Leopardi’s knowledge of contemporary European literature
and looks at his criticism of Romanticism, first in Discorso di un italiano,
then in Epistolario and in the notes from Zibaldone that offer a detailed overview
of European literature country by country, demonstrating a series of subtle differences.
Through penetrating and constructive criticism, comparing the more
extreme modern literary tendencies with classical models, Leopardi creates the
poetry of Canti and the modern and philosophical prose of Operette morali.
Il primo profilo che Leopardi ha dato dell’Europa romantica si legge
nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818. La posizione
del giovane Recanatese è senz’altro molto rigorosa nei confronti
della letteratura europea contemporanea, ed è polemica soprattutto
verso le letterature francese e inglese.
Al contrario dei moderni che sostengono che la poesia «si venga
mutando»1, Leopardi afferma che «nei suoi caratteri principali, essa è,
come la natura, immutabile», e che «l’ufficio del poeta è imitar la na-
Autore: Università L’Orientale-Napoli, prof. associato; annacerbo@libero.it
1 Cfr. ad esempio il ben noto frammento 116 dell’Athenaeum, dove si insiste sul
continuo «divenire» della poesia romantica, sul suo essere «una poesia universale
e progressiva» (Friedrich Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, traduzione
italiana di Vittorio Santoli, Firenze, Sansoni, 1967; Frammenti critici e poetici,
traduzione di Michele Cometa, Torino, Einaudi, 1998). Rinvio al saggio di Clau770
anna cerbo
tura, la quale non si cambia né incivilisce»2. Leopardi indica subito
una delle differenze più profonde tra i poeti romantici e i poeti antichi:
Perché in somma una delle principalissime differenze tra i poeti romantici
e i nostri, nella quale si riducono e contengono infinite altre,
consiste in questo: che i nostri cantano in genere più che possono la
natura, e i romantici più che possono l’incivilimento, quelli le cose e le
forme e le bellezze eterne e immutabili, e questi le transitorie e mutabili,
quelli le opere di Dio, e questi le opere degli uomini3.
Di conseguenza il Recanatese fa notare che i poeti antichi traggono
le similitudini dalle «cose naturali» («campestri»), al contrario i romantici
«s’ingegnano di cavarle dalle cose cittadinesche», indicando
per romantici quasi tutti i poeti inglesi e tedeschi contemporanei. Leopardi
accusa i moderni di aver ridotto la poesia «al patetico e al sentimentale
», convinti che la natura non si possa imitare in altro modo se
non in maniera patetica; li accusa di «far incetta di cose vili e oscene e
fetide e schifose», di cercare unicamente «il singolare», «il terribile» o
«l’orribile», «le oscenità e le brutture», «la novità o la rarità». E così
facendo «allo stile semplice e al primitivo» l’Europa romantica ha sostituito
«lo stile corrotto e cittadinesco e moderno»4.
Nel corso del Discorso di un italiano, polemizzando con Ludovico di
Breme e con i moderni che sostengono la vanità poetica della mitologia,
Leopardi difende la naturalezza e la bellezza delle favole greche,
rifiuta decisamente «il sistema vitale» dei moderni in difesa del «sistema
mitologico» degli antichi5.
Il profilo già ampio del Discorso di un italiano si arricchisce nell’Epistolario
e soprattutto negli appunti dello Zibaldone che presentano una
dio Colaiacomo, L’immagine romantica del canone, «Critica del testo», III / 1 (2000):
Il canone alla fine del millennio, Roma, Viella, pp. 277-301.
2 Cito dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Giacomo Leopardi,
Opere, a cura di Giuseppe De Robertis, vol. II, Milano, Rizzoli, 1965, pp.
484-574: pp. 496 e 504.
3 Ivi, p. 505.
4 Ivi, pp. 510 e 520.
5 «E così riprovando il sistema mitologico, e opponendogli il vitale, ch’è seguìto,
dice con predilezione dalla poesia moderna, vuole in sostanza che il poeta avvivi checchessia
tal qual è, non trasmutandolo in persona umana; e che tutto senta e viva,
non però tutto il mondo sia popolato di persone: e reca per esempio certi versi del
Byron dove toccando una novella Persiana degli amori della rosa e dell’usignolo,
attribuisce alla rosa innamorata sospiri odoriferi. Della qual sentenza discorrerò
brevemente». Cfr. Zib. 19.
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giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 771
puntuale caratterizzazione delle singole letterature europee col rilievo
di una serie di sottili differenze.
Nell’Indice del mio Zibaldone alla voce “Romanticismo” si legge:
«Vedi polizzine a parte intitolate Romanticismo»6, il che significa che la
voce aveva un posto di rilievo negli appunti leopardiani. E se poi scorriamo
gli Elenchi delle letture leopardiane7 veniamo a conoscenza degli
autori frequentati da Leopardi e delle opere romantiche lette nella lingua
originale o in traduzione o ancora a lui note per via indiretta.
Probabilmente Leopardi ebbe il primo approccio col Romanticismo
tedesco attraverso l’Allemagne di Madame de Staël. Le pagine dello
Zibaldone che rimandano a quest’opera vanno dal novembre 1820 al
novembre 1821; parallele e altrettanto folte sono le pagine sull’altra
opera della Baronessa: Corinne, molto utili a Leopardi per impostare
un discorso sull’arte e sulla poetica, partendo dalla considerazione
della differenza tra i «caratteri» dei popoli meridionali e quelli dei popoli
settentrionali, come conseguenza delle diversità climatiche, differenza
che comporta «naturalmente» e quindi necessariamente letterature
diverse8.
Nello Zibaldone l’attenzione di Leopardi si rivolge in generale ai
romantici e alle letterature europee contemporanee, in particolare alla
lingua alla prosa e alla poesia di ogni nazione europea. Le prime pagine
(Zib. 15-21) riprendono le osservazioni intorno alla poesia romantica
formulate nel Discorso di un italiano.
Leopardi continua la polemica contro i poeti romantici che si vanno
allontanando sempre più dalla natura e dalla «naturale disinvoltura
e negligenza» a favore dell’arte e addirittura dell’affettazione. Non
condivide il fatto che essi corrono «dietro alle minuzie della cosa»9, in
cerca di «oggetti forestieri ed ignoti»10 tralasciando gli argomenti na-
6 Cfr. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Giuseppe Pacella, in 3 voll.,
Milano, Garzanti, 1991, vol. III, p. 1200.
7 Ivi, pp. 1135-1166.
8 R invio al mio saggio Leopardi critico delle letterature e teorico della letteratura.
Un percorso attraverso lo “Zibaldone”, «Annali»-Sezione romanza, Università degli
Studi di Napoli “l’Orientale”, LII, 1-2 (2010), pp. 151-166. Su Madame de Staël e
Leopardi cfr. Mario Fubini, Giordani, Madame de Staël, Leopardi, «La Rassegna della
letteratura italiana», I /2 (1953), pp. 20-31; Anna Dolfi, Leopardi e il pensar filosofico
di Madame de Staël, in Leopardi e la cultura europea, a cura di Franco Musarra,
Serge Vanvolsem, Rosalia Guglielmone Lamberti, Roma, Bulzoni, 1989, pp.
191-205.
9 Cfr. Zibaldone 100.
10 Cfr. Zibaldone 1303 e ancora 1777-1778, dove con tono ironico si parla dei
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772 anna cerbo
zionali e la vita campestre che li circonda, smaniosi di novità e di originalità,
col risultato che producono opere incapaci di commuovere,
di suscitare emozioni e di innalzare l’immaginazione e la mente. Il
Recanatese indica la loro contraddizione di fondo nel volere una poesia
frutto della ragione mentre ricorrono a superstizioni e si compiacciono
di stranezze e di bizzarrie11. Disapprova l’abuso che i romantici
fanno dell’orrido e del terribile, che egli giudica contrari al sentimento
e all’immaginazione.
Queste fitte considerazioni e questi giudizi severi sulla letteratura
romantica (in particolare sulla poesia) sono senz’altro sollecitati dalla
polemica esplosa in Italia tra i classicisti e i romantici a partire dal 1816
con l’articolo di Madame de Staël, Sulla maniera e l‘utilità delle traduzioni,
pubblicato sulla «Biblioteca italiana»12, ma nascono dal confronto
che Leopardi fa, attraverso la lettura parallela, degli autori classici
(greci latini e italiani) con gli autori contemporanei (italiani ed europei).
Rimandando ancora agli Elenchi delle letture leopardiane, ricordo
l’importanza che Leopardi ha assegnato alla lettura come teorico («La
lettura per l’arte dello scrivere è come l’esperienza per l’arte di vivere
nel mondo»)13, e soprattutto nella prassi letteraria, cioè nella sperimentazione-
creazione di una nuova poesia idillica e di una prosa moderna
e filosofica da dare all’Italia14.
Attraverso la lettura affiancata Leopardi può cogliere le differenze
profonde tra la poesia degli antichi e quella dei moderni o romantici,
così come le indica e le illustra nello Zibaldone. Attraverso la lettura
della poesia romantica, confrontata col Canzoniere di Petrarca, Leopardi
si accorge della superficialità e degli effetti negativi dell’arte psicopoeti
contemporanei: «Quindi si veda con quanto giudizio i bravi tedeschi, inglesi,
romantici (ed anche francesi moderni) scelgano di preferenza le similitudini, gli
argomenti, i costumi ec. dell’Oriente, dell’America ec. ec. per le immagini ec. della
loro poesia». Sull’orientalismo dei romantici, che ha coinvolto pienamente anche
l’Inghilterra («il paese de’ più settentrionali d’Europa […]. Un paese poi come l’Inghilterra,
così pieno di filosofia, e cognizioni dell’uomo, e de’ caratteri nazionali e
fisici ec. ec.»), cfr. Zibaldone 986-987, dove Leopardi cita il romanzo Lalla Roca (1817)
dell’irlandese Thomas Moore, intitolato Romanzo orientale sullo Spettatore di Milano,
1 giugno 1818, Parte straniera, quaderno 101, p. 233 ss.
11 Cfr. Zibaldone 18.
12 L’articolo comparve nella traduzione italiana di Pietro Giordani.
13 Zibaldone 222. Cfr. anche Zibaldone 2228-2229, in cui Leopardi sottolinea l’importanza
di leggere, mentre si sta componendo un’opera, autori vicini a quello che
si sta trattando, per argomento, stile e lingua.
14 Cfr. la Lettera a Pietro Giordani del 13 luglio 1821.
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giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 773
logica dei romantici, muovendo la propria critica in particolare a
Saint-Pierre e a Chateaubriand15, del modo eccessivo di analizzare il
cuore, piuttosto che farlo parlare come faceva il Poeta di Laura16. La
constatazione di una diversità sostanziale porta Leopardi alla grande
poesia dei Canti e alla prosa moderna delle Operette morali. Una poesia
delicata semplice e familiare, capace di «imitare la natura ma anche
manifestarla», di «ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora
presente e bella come in principio, e farcela vedere e sentire, e cagionarci
quei diletti soprumani di cui pressoché tutto, salvo il desiderio,
abbiamo perduto»17. Una prosa speculativa e fantastica, ironica e caricaturale,
varia elegante e naturale insieme, che si serve delle «armi del
ridicolo»18, ma un ridicolo che cade su cose serie. Una letteratura veramente
moderna che, senza prendere le distanze da quella passata,
mette insieme poesia filosofia immaginazione e psicologia. Già nel
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica Leopardi si esprime
con ironia sulla «grande scienza psicologica della nuova scuola», che,
nello Zibaldone, contrappone a quella di Cartesio, di Spinoza, di Condillac
e soprattutto di Locke19.
La riflessione leopardiana sulla miseria della vita umana è preceduta
e supportata sempre da un’indagine psicologica, attraverso l’esperienza
della propria e dell’altrui esistenza: una serrata indagine psicologica
che si rintraccia negli appunti dello Zibaldone con continui ritorni
e rinvii a meditazioni precedenti, in una fitta rete di intuizioni e di illuminazioni,
di prove e di certezze. Così matura nella poetica e nelle opere
di Leopardi, in opposizione all’ottimismo dei romantici, il concetto
15 Cfr. Zibaldone 53 («Spesso ho notato negli scritti de’ moderni psicologi che in
molti effetti e fenomeni del cuore ec. umano, nell’analizzarli che fanno e mostrarne
le cagioni, si fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone
certe ragioni particolari solamente, e questo perché vogliono farli parere maravigliosi,
come il Saint-Pierre negli studi della natura lo Chateaubriand ec., e non
vanno alla prima o quasi prima cagione che troverebbero semplice e in piena corrispondenza
col resto del sistema di nostra natura»), e 181-182. Per l’orientalismo
presente negli scritti di Chateaubriand cfr. Zibaldone 987.
16 Cfr. Zibaldone 112-113.
17 Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, ed. cit., pp. 504-505.
18 Cfr. Zibaldone 1393.
19 Attento e costante è lo studio degli stati d’animo e delle passioni nello Zibaldone
e nelle Operette morali (amore, odio, gioia, tristezza, timore, paura, attesa, ammirazione,
inquietudine, scontentezza, curiosità, invidia, assuefazione, irresoluzione,
disperazione ecc.). Leopardi considera la prima delle passioni il «desiderio
», in senso sia psicologico sia ontologico (desiderio del piacere e desiderio di
conoscere).
[ 5 ]
774 anna cerbo
di vita come pena e fatica di vivere, come «desiderio infinito di felicità»
contro la «infelicità necessaria» e il «patimento inevitabile». Pertanto la
vita, impossibilitata a raggiungere la felicità, è «continuamente imperfetta:
e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento»20. Il
piacere è solo futuro e «quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che
si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la
futura»; perciò l’uomo desidera «una vita a caso»21.
Si consolida sempre più la visione della vita divisa tra il dolore (e il
timore) e la noia, espressa con immagini e paragoni concreti che ne
rafforzano il concetto. E così Leopardi scrive che «spessissimo» la vita
viene dolorosamente «strascinata coi denti», quando l’uomo non riesce
a «trarsela dietro» o «portarla in sul dosso» come un peso22. I diletti
sono inconsistenti come le ragnatele o come quel cuore di un carciofo
che si può gustare per poco solo dopo aver mangiato tutte le foglie
dure che lo nascondono, se poi non accade di trovare carciofi «senza
castagna»23. La noia, passione e «desiderio puro della felicità; non soddisfatto
dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere», è come
l’aria, nel senso che l’aria riempie tutti gli spazi vuoti e la noia tutti gli
spazi dell’esistenza che si creano tra i «piaceri e i dispiaceri»24.
Queste sottili riflessioni si susseguono nelle Operette morali25, sia in
20 Sono enunciati che si ripetono nelle Operette morali. Cfr. il Dialogo di Torquato
Tasso e del suo genio familiare e il Dialogo della Natura e di un Islandese.
21 Cfr. il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.
22 Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare.
23 Per il paragone dei diletti con le ragnatele cfr. il Dialogo di Torquato Tasso e del
suo genio familiare; per la similitudine del piacere con la «castagna del carciofo» cfr.
i Detti memorabili di Filippo Ottonieri (cap. II) e Zibaldone 4095. In questa pagina
dello Zibaldone si leggono due brani molto simili datati 30 maggio 1824 e 31 maggio
1824; i Detti memorabili furono composti a Recanati dal 29 agosto al 26 settembre
dello stesso anno.
24 Cfr. ancora il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (composto dal
1° al 10 giugno 1824) e Zibaldone 3713-3715 (17 ottobre 1823).
25 Sulle Operette morali cfr. Walter Binni, Lettura delle “Operette morali”, Genova,
Marietti, 1987; Luigi Blasucci, La posizione ideologica delle “Operette morali”, in
I segnali dell’Infinito, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 165-226; Angiola Ferraris, La
vita imperfetta. Le “Operette morali” di Giacomo Leopardi, Genova, Marietti, 1991;
Filippo Secchieri, Con leggerezza apparente. Etica e ironia nelle “Operette morali”, Modena,
Mucchi, 1992; AA.VV., «Quel libro senza eguali»: Le “Operette morali” e il Novecento,
a cura di Novella Bellucci, Roma, Bulzoni, 2000; Nicoletta Fabio, L’entusiasmo
della ragione. Studio sulle “Operette Morali”, Firenze, Le Lettere, 1995; Giuseppe
Sangirardi, Il libro dell’esperienza e il libro della sventura. Forme della mitografia filosofica
nelle “Operette morali”, Roma, Bulzoni, 2000; Antonio Prete (a cura di), Sulle
“Operette morali”. Sette studi, Lecce, Manni Editori, 2008.
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giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 775
quelle molto serie e articolate (nel Dialogo di un fisico e di un metafisico
per esempio, dove attraverso l’espressione del fisico: «Di grazia, lasciamo
cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante sottigliezze,
rispondimi sinceramente», Leopardi sembra ricordare al lettore
le «sottigliezze» del Manuale di Epitteto26, uno dei suoi modelli
fondamentali), sia nei dialoghi brevi e scherzosi ma sempre ironici
(Dialogo di Ercole e di Atlante e Dialogo della Terra e della Luna), come
pure nelle Operette che hanno una struttura mista, narrativa e dialogica
insieme, e in quelle in forma di saggio morale (il Parini ovvero della
gloria e i Detti memorabili di Filippo Ottonieri).
La materia delle Operette morali è definita «troppo malinconica» dal
Fisico nel Dialogo di un fisico e di un metafisico, e lo stesso libro è detto
«malinconico, sconsolato, disperato» dall’Amico nel Dialogo di Tristano,
e in generale dai lettori contemporanei che nutrono una fiducia
cieca nel progresso, sono convinti della «vita perfetta» o della sua
«perfettibilità»27 («perfettibilità indefinita dell’uomo»)28, e credono
persino che le macchine perfette possano sostituire gli uomini virtuosi
che non ci sono più29. Ma il paradosso è che gli interlocutori antitetici
intendono la malinconia a modo loro, alla maniera dei romantici, e
non secondo Leopardi.
Nel Discorso di un italiano e nello Zibaldone il Recanatese discute sul
patetico sul sentimentale e sui temi malinconici che abbondano nella
poesia romantica o moderna, presenti con misura e convenienza nella
poesia degli antichi. Al contrario i moderni (il Di Breme, lo Chateaubriand,
il Delille, il Saint-Pierre e tutti i romantici) sono convinti che la
somma arte consiste «nell’eccitare il patetico, questa profondità di
sentimento nei cuori»30.
Leopardi, che non si ferma mai agli effetti delle cose ma ne studia
le cause, cerca le ragioni dello sviluppo della malinconia e le trova nel
26 Cfr. il Preambolo del volgarizzatore.
27 Si vedano le battute di Timandro nel Dialogo di Timandro e di Eleandro. Leopardi
rimprovera ai filosofi coevi di confondere la «perfettibilità» con la «conformabilità
» (cfr. Zibaldone 239 e 1568-1569).
28 Così viene definita dall’Amico nel Dialogo di Tristano e di un Amico.
29 Contro la cieca fiducia che i contemporanei nutrivano nelle macchine Leopardi
ha scritto la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi.
30 Cfr. Zibaldone 15, dove Leopardi, commentando le osservazioni di Ludovico
di Breme sulla poesia moderna (apparse sullo «Spettatore», tomo X, gennaio 1818,
pp. 46-58 e 113-145), cerca di chiarire: «E questo patetico è quello che i francesi
chiamano sensibilité e noi potremmo chiamare sensitività».
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776 anna cerbo
progresso della filosofia e della conoscenza dell’infelicità umana: la
malinconia deriva proprio dal vero31. In un passo dello Zibaldone, pagina
1691 datata 13 settembre 1821, contrapponendo la «malinconia»
all’«allegrezza», Leopardi ci offre la chiave di lettura degli interlocutori
antitetici presenti in molte Operette morali, e soprattutto ci dice che
cosa è la malinconia e quale è la sua funzione:
La malinconia per es. fa veder le cose e le verità (cosí dette) in aspetto
diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa vedere l’allegria. V’è
anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, cioè la
noia. E l’allegro e il malinconico ec. (sieno pur due pensatori e filosofi,
o uno stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono persuasissimi di
vedere il vero, ed hanno le loro convincenti ragioni per crederlo. Vero
è pur troppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce
per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia e soprattutto
la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che
persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il
vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar
qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno32.
Questa dichiarazione fa luce sugli enunciati contrappositivi, in forma
sentenziosa (aforistica), che si susseguono nei dialoghi delle Operette
morali e che rimandano di volta in volta a Leopardi e ai romantici
europei: la vita è una cosa bella in se stessa / la vita è bella se è felice; gli
uomini desiderano la vita / gli uomini desiderano la vita felice, ovvero la felicità
non la vita in sé; insegnare l’arte del vivere lungamente / insegnare
l’arte del vivere felicemente33. E in un altro passo dello Zibaldone, 1584 – a
mio avviso molto interessante – scritto qualche mese prima, il 29 agosto
1821, Leopardi profetizza quello che accadrà dopo la prosa delle
Operette morali, sostenendo che «una malinconia viva ed energica»
preannuncia il risorgere della sensibilità:
Ora il sintoma del ritorno della sensibilità ec. o della maggior forza e
frequenza abituale de’ suoi effetti, è, si può dir, sempre, una scontentezza,
una malinconia viva ed energica, un desiderio non si sa di che,
una specie di disperazione che piace, una propensione ad una vita più
vitale, a sensazioni più sensibili. Anzi la sensibilità e l’entusiasmo in
tali ritorni non compariscono bene spesso che sotto queste forme34.
31 Cfr. Zibaldone 109.
32 Zibaldone, ed. cit., vol. I, p. 987.
33 Gli enunciati abbastanza sintetizzati derivano dal Dialogo di Torquato Tasso e
del suo genio familiare e dal Dialogo di un fisico e di un metafisico.
34 Zibaldone, ed. cit., vol. I, p. 934.
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giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 777
Effettivamente «viva ed energica» è la malinconia delle Operette,
cui seguirà la seconda stagione poetica, quella dei Canti pisano-recanatesi
e dei Canti napoletani. Nel libro malinconico di Leopardi vibrano
una forza speculativa e inventiva e un’immaginativa calda e feconda.
Nei versi della Palinodia al Marchese Gino Capponi, fingendo la ritrattazione
del proprio pensiero, come nel Dialogo di Tristano e di un amico
del 1832, Leopardi continua a ridicolizzare il secolo «superbo e sciocco
», il generale ottimismo dei contemporanei e il sapere facile e illusorio
diffuso dalle gazzette. Nel Dialogo della Terra e della Luna, dove si
combinano insieme l’ironia dell’Icaromenippo di Luciano35 e l’erudizione
degli Entretiens sur la pluralité des mondes di Fontenelle, Leopardi
ironizza contro le gazzette tedesche36. Accanto alle favole anche le ricerche
scientifiche, che volevano spiare ogni luogo della luna attribuendone
persino i nomi, suscitano il sorriso e lo scherzo di Leopardi. Nel
Dialogo della Terra e della Luna, ricordando le fantasticherie dei contemporanei
circa la possibilità che anche gli altri pianeti fossero abitati, il
Poeta di Recanati se ne serve per elaborare e comunicare in modo familiare
e scherzoso la propria tesi di un pessimismo universale. Le Operette
del 1824 e ancora le Operette del 1827 e del 1832 mettono in scena
l’ottimismo, le curiosità, le ambizioni e le illusioni del proprio secolo.
Il confronto con i classici e con l’Europa romantica porta Leopardi a
creare una poesia nuova e soprattutto una prosa moderna caratterizzata
da un riso filosofico, da un comico serio che, se ha le sue radici nei Dialoghi
di Luciano e nelle Commedie di Aristofane e di Alfieri, presenta mol-
35 In generale sull’influenza di Luciano sul Recanatese cfr. il saggio di Emilio
Mattioli, Leopardi e Luciano, in Leopardi e il mondo antico, Atti del V Convegno internazionale
di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980, Firenze, Olschki,
1982, pp. 75-98; Michela Sacco Messineo, Menippo ed Eleandro (il ‘riso’ in Luciano
e Leopardi), in Leopardi e il mondo antico, cit., pp. 529-539.
36 «Terra Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di
strade larghe e nette; e che tu sei coltivata: cose che dalla parte della Germania,
pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente». Nelle Note Leopardi scrive:
«Vedi nelle gazzette tedesche del mese di marzo del 1824 le scoperte attribuite al
sig. Gruithuisen». Cfr. anche il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani
composto nello stesso anno delle Operette («Le visioni anche in fisica, se sono
proprie di alcune nazioni oggidì, lo sono dei tedeschi, testimonio la fortezza e le
belle strade scoperte nella luna dal prof. Gruithuisen di Monaco e la coltivazione
mensuale scoperta pur nella luna dal medesimo e dallo Schrotes e dall’Herschel»).
Sempre nel Dialogo della Terra e della Luna Leopardi mette in ridicolo l’astrologo
olandese Davide Fabricio.
[ 9 ]
778 anna cerbo
te affinità con l’umorismo tedesco, come rilevò con acutezza critica il
cremonese Giuseppe Montani in una delle sette recensioni leopardiane
pubblicate sull’«Antologia» del Vieusseux, quella all’edizione delle Operette
morali del 182737, richiamando in particolare il nome di Jean Paul
(Johann Paul Friedrich Richter), autore della Vorschule der Ästhetik38:
Chi prenderà questo riso per un segno d’indifferenza o di sprezzo?
Uno de’ più bei passi che ho letto in alcuni estratti della vita di Gian
Paolo scritta recentemente da Doering (v. la Bib. Un. Di Ginevra) è
quello che riguarda l’intimo segreto degli scrittori umoristi, a cui taluno
sembra negare ogni calor d’animo ed ogni bontà. Leggendo mi son
rammentato di queste parole d’Eleandro: «non dovete pensare ch’io
non compatisca alla infelice umanità… son nato ad amare, ho amato,
e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva ecc.
ecc.».
Montani coglieva nel segno. E, al brano del Dialogo di Timandro e di
Eleandro che il critico citava, si può aggiungere la parte finale del Dialogo
di Plotino e di Porfirio, dove Plotino convince l’amico filosofo a sopravvivere
per amore dell’amicizia.
L’ironia leopardiana è sottile e incalzante e tende a confondere e a
disorientare l’interlocutore ottimista e spesso ottuso, per esempio nel
Dialogo di Tristano e di un amico39. Il comico delle Operette morali è concentrato
su situazioni e su cose serie, richiamando l’attenzione del lettore
su problemi esistenziali e impegnandolo a seguire il ragionare
stretto e incalzante dell’Autore, le avvertenze intratestuali e intertestuali,
e quindi la dialogicità interna dell’opera. Ci sono delle pagine
nello Zibaldone in cui Leopardi, notando nell’eloquenza di Jacques-
Bénigne Bossuet il continuo e brusco passaggio dal sublime al banale
come innaturale anzi «penoso» per il lettore, che non vorrebbe essere
«arrestato» improvvisamente40, spiega le ragioni estetico-psicologiche
37 «Antologia», vol. XXIX, 1828, 86, pp. 158-161 (in Novella Bellucci, Giacomo
Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte
del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, pp. 116-120: 118).
38 Nell’opera di Richter vengono affrontati i temi dell’ironia, del comico, del
ridicolo, dell’umorismo e dell’arguzia, comuni al pensiero estetico di Leopardi.
39 In generale sull’ironia leopardiana cfr. Guido Guglielmi, Leopardi satirico, in
Id., Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974, pp. 47-65; Ugo Dotti, Leopardi e la
funzione dell’ironia (1984), in Id., Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi, Roma, Editori
Riuniti, 1986, pp. 39-59.
40 Cfr. Zibaldone 217-220. Qui Leopardi, contrapponendosi alla comune opinione
della Francia contemporanea sulla «robustissima eloquenza» di Bossuet, col
[ 10 ]
giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 779
del «movimento forte, sublime, e straordinario» che egli realizza nei
dialoghi delle Operette morali.
Alla prosa francese ed europea, uniforme e senza stile, Leopardi
contrappone una prosa ragionativa e fantastica, impegnata nello stile
e nelle scelte sintattiche (tutto leopardiano è l’uso della punteggiatura)
linguistiche e lessicali41: il libro delle Operette, dove le idee e le parole
si corrispondono, dove – scriveva il Giordani – «tutto suo proprio,
non imitato da nessuna parte, tutto naturale e scorrevole è un girare di
pensieri e di parole sciolto e spigliato; […] un’acutezza niente sofistica,
una evidenza a convincere, una efficacia a persuadere […]»42. Se
nel Dialogo di Timandro e di Eleandro Leopardi scrive un’apologia della
propria opera contro i filosofi contemporanei43, nel Parini ovvero della
gloria rivela le proprie modalità di scrittura e, quindi, la chiave di lettura
del suo libro filosofico-metafisico. È molto significativo questo
brano dell’Operetta morale che, mentre sembra riproporre le note di
Petrarca sul nesso lettura-scrittura44, conduce al concetto romantico di
critica, in particolare al presupposto schlegeliano della centralità del
lettore «vivace e reattivo»:
Di maniera che l’uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente
l’eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la
facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza
non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e
dell’esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E
riferimento alla propria esperienza di lettore, pone il gran problema del rapporto
scrittore-lettore.
41 Sulla prosa e sulla lingua delle Operette morali si rinvia in particolare agli
studi di Riccardo Tesi, Pluralità di stili e sintassi del periodo nelle «Operette morali» di
Giacomo Leopardi, «Lingua nostra», L (1989), 2-3, pp. 33-46, 4-17, 117-120; LI (1990),
pp. 9-13, e di Maurizio Vitale, La lingua della prosa di G. Leopardi: le “Operette morali”,
Firenze, La Nuova Italia, 1992.
42 Pietro Giordani, Delle “Operette morali” del Conte Giacomo Leopardi, in Id.,
Scritti inediti e postumi, a cura di Antonio Gussalli, Milano, Borroni e Scotti, 1857,
vol. IV, pp. 152 e ss.
43 Cfr. la Lettera all’editore Antonio Fortunato Stella del 16 giugno 1826: «Nondimeno
ho voluto supplire col Dialogo di Timandro ed Eleandro, già stampato nel
Saggio [dell’“Antologia”], il qual Dialogo è nel tempo stesso una specie di prefazione,
ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni. Però l’ho collocato nel
fine. Quivi è dichiarato, a me pare, abbastanza lo spirito di tutta l’opera, ed esso
Dialogo potrebbe servir di norma alla Censura, per farsi un’idea complessa del
sistema seguìto nel libro».
44 Cfr. la Senile XVII, 2, indirizzata a Boccaccio.
[ 11 ]
780 anna cerbo
innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente
il perfetto scrivere45.
Mi pare che qui Leopardi vada ben oltre la riflessione estetica di
Friedrich Schlegel che vedeva nel lettore la parte integrante della poesia46,
e richiedeva «un giudizio d’arte» che fosse esso stesso «un’opera
d’arte»47, se Parini, parlando al discepolo, ipotizza come necessario,
per «poter discernere e gustare pienamente» gli scrittori eccellenti, un
lettore non solo «assuefatto a scrivere» ma capace di scrivere «quasi
così perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare»,
un lettore che sappia prima di tutto «trasferire in se stesso», nell’esercizio
della propria scrittura, l’eccellenza dell’opera che va leggendo.
Un lettore più che idealizzato in cui si specchia il Leopardi lettore dei
suoi “autori”48.
Leopardi spera che nel suo libro i lettori possano trovare quegli
insegnamenti di morale pratica che egli ha trovato nelle opere di Luciano,
di Epitteteo49 e di Isocrate; quel calore che egli ha provato leggendo
il Werther di Goethe piuttosto che leggendo le opere di Byron,
45 Cito da Leopardi, Operette morali, Presentazione di Giovanni Getto, Commento
di Edoardo Sanguineti, Milano, Mursia, 1982, p. 121.
46 Cfr. questo frammento del Lyceum, dedicato al lettore: «Lo scrittore sintetico
si costruisce e si crea un lettore come deve essere. Non se lo immagina quieto e
inanimato, bensì vivace e reattivo. Fa sì che quanto egli ha inventato prenda gradualmente
forma davanti ai suoi occhi, oppure lo induce a inventare a sua volta.
Non vuole produrre su di lui un effetto determinato, bensì entra con lui nel sacro
rapporto della più intima sinfilosofia o simpoesia» (Schelegel, Frammenti critici e
scritti di estetica, tradotti da Vittorio Santoli, cit., p. 40 (Lyceum 112). Sulla novità
della critica romantica cfr. Walter Benjamin, Der Begriff der Kunstkritik in der
deutschen Romanik, Bern, Francke Verlag, 1920, poi Frankfurt, Suhrkamp Verlag,
19731 (trad. it. Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Torino, Einaudi, 1982) e
nel volume miscellaneo Walter Benjamin tra critica romantica e critica del romanticismo,
Firenze, Aletheia, 2000.
47 Ivi, p. 41 (Liyceum 117).
48 Cfr. Umberto Casari, Alla ricerca del lettore: saggio su Leopardi, Verona, Fiorini,
1990.
49 Cfr. il Prembolo del volgarizzatore al Manuale di Epitteto tradotto da Leopardi:
«Ora la noncuranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici,
viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere
infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dovere amar se medesimo con
quanto si possa manco di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma, sì
della filosofia di Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella
appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare. Ed io, che dopo
molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare
per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia ri-
[ 12 ]
giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 781
«non ostante che trattino e dimostrino la stessa infelicità degli uomini,
e vanità delle cose»:
Io so che letto Verter mi sono trovato caldissimo nella mia disperaz.
letto Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno; molto meno
consolazione. E certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile
alla mia disperazione: piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo50.
Molto utili per l’intelligenza della poetica e della scrittura di Leopardi
sono pure i Detti memorabili di Filippo Ottonieri, soprattutto dove
si parla della scrittura autobiografica, molto cara ai letterati dell’età
romantica.
La ricezione europea di Leopardi trova le prime importanti testimonianze
nelle traduzioni diffuse in Francia da De Sinner o col suo
favore, nei saggi di Saint-Beuve e di Gladstone e soprattutto nella monografia
di Heinrich Wilhelm Schulz, storico dell’arte che fu in Italia
negli anni 1828-1842, e conobbe Leopardi a Napoli51. Il critico tedesco
ha saputo cogliere il valore filosofico e stilistico delle Operette e si è
soffermato a individuare le affinità e le differenze tra Leopardi e il
conte August von Platen52. Le osservazioni critiche di Schulz sulle
Operette morali sono originali e profonde. Si segnalano nella generale
indifferenza con cui il libro fu accolto: rifiuto dovuto alla sua inattualità
e soprattutto all’incapacità dei lettori coevi di penetrare nella sua
sostanza metafisica, di comprenderne il contenuto filosofico autonomo,
pur partendo dal materialismo illuministico:
Leopardi parte da un punto di vista materialistico, che può essere considerato
come una sua elaborazione assolutamente autonoma, e si serve
poi in parte dell’insegnamento degli antichi greci, in parte di più
recenti speculazioni, a titolo di semplice «ornamento»53.
porto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno
queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione».
50 Zibaldone, 261-262, ed. cit., vol. I, p. 229.
51 Intorno alla fortuna di Leopardi in Italia e in Europa si rinvia al volume di
Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in
vita e in morte del poeta, cit. Cfr. pure Leopardi e la cultura europea, cit.
52 Heinrich Wilhelm Schulz, Giacomo Leopardi, Vita e opere, in Italia, Annuario
di Alfredo Reumont, II Annata, Berlino, 1840, pp. 235 e ss.
53 Il saggio di Schulz (in traduzione italiana di Laura Bocci) è riportato nel
vol. di Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei, cit., pp. 445-473: 455.
[ 13 ]
782 anna cerbo
I pensieri le idee e le riflessioni degli Illuministi europei vengono
rielaborate e riscritte secondo la poetica di Leopardi, come autorevole
sostegno alla sua meditazione e come materia che offre spunti alla
creazione letteraria.
Schulz è stato in grado di cogliere il valore contenutistico e stilistico
del libro, forse anche in virtù delle lunghe conversazioni che il critico
tedesco ebbe a Napoli con Leopardi − scrive Bellucci54 −, l’impianto
dei testi e i numerosi «lampeggiamenti» fantastici da cui sono attraversati.
Sembra aver fatto proprio il metodo di lettura suggerito nel
Parini, di cui si parlava poco prima. Acuta è anche l’interpretazione
che il critico tedesco ha fatto di Filippo Ottonieri55. Forse è opportuno
ricordare che un decennio prima, Giuseppe Montani scriveva: «Ma
non sarebbe meraviglia che il Leopardi fosse per ora più inteso sul
Reno o sulla Spree che sull’Arno o sul Po»56, e che lo stesso Pietro Giordani
già nel 1826 nel saggio Delle Operette morali raccomandava: «Non
sono già da ascoltare quelli che lo biasimeranno di aver esposto senza
nessuna diminuzione o dissimulazione, con dettato lucido…»57.
Da parte sua anche Leopardi ha letto, nel corso del secondo ventennio
dell’Ottocento, la letteratura tedesca e ha trascritto le osservazioni
nello Zibaldone, attraverso un confronto con le altre letterature
europee. Così, in una pagina dello Zibaldone (17 ottobre 1821) ha annotato
che gli scrittori tedeschi parlano volentieri di sé e delle proprie
cose, e lo fanno in un modo che in Francia risulterebbe ridicolo58. E,
nell’agosto 1822, osserva che, mentre le altre nazioni ormai «filosofano
anche poetando», i tedeschi «poetano filosofando»59, e aggiunge
che i tedeschi «meglio e più spesso colgono il vero quando scherzano
che quando ragionano», adducendo come esempio Christoph Martin
54 Ivi, p. 446. Assai intensa fu anche l’intesa di Leopardi con Louis de Sinner,
caratterizzata da una stima reciproca, al punto che il Recanatese affidò allo studioso
svizzero tutti i suoi manoscritti filologici. E de Sinner contribuì alla diffusione
delle opere di Leopardi in Europa: scelse tre testi delle Operette morali che apparvero
in traduzione in «Le siècle», nel 1833.
55 «Filippo Ottonieri è descritto dall’autore come un filosofo socratico dei nuovi
tempi, un uomo d’ingegno, fornito di grandi doti e di lucida intelligenza, che
rinuncia a ogni tipo di illusione. Egli osserva la vita dal suo isolamento, che solo si
addice, secondo Leopardi, al filosofo del presente, ed esprime profonde considerazioni
sulla vita e sulla natura dell’uomo».
56 Cfr. Giuseppe Montani, Recensione all’edizione del 1827 delle Operette morali,
cit. (in Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei, cit., p. 119).
57 Giordani, Delle “Operette morali”, cit. (ivi, p. 55)
58 Cfr. Zibaldone 1934.
59 Cfr. Zibaldone 2616-2618.
[ 14 ]
giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 783
Wieland, i cui romanzi – a suo avviso – contengono maggiori e più
solide verità che non ne contenga la Critica della ragion pura di Kant60.
E piene di «solide» verità sono le sue Operette morali, che concordano
col pensiero dell’illuminista tedesco sulla specie umana e con le idee
e i motivi di fondo delle sue opere. Il Dialogo Galantuomo e Mondo e il
Dialogo di Timandro e di Eleandro hanno significative affinità con la Storia
del saggio Danischmend e dei tre Calender, o l’Egoista ed il Filosofo (Milano,
Batelli e Fanfani, s.d., primi dell’Ottocento), citata in Zibaldone
1630-1631 dove Leopardi rinvia al capitolo XI dell’opera (Il Calender
dice in confidenza a Danischmend ciò che pensa della specie umana), a proposito
della perfezione della ragione di cui gli uomini fanno gran vanto.
Ad accomunare Leopardi a Wieland è la finissima satira, sono l’ironia
e il pessimismo, la polemica contro l’ipocrisia mascherata della
vita sociale e contro l’intransigenza dogmatica della Chiesa61. Le Operette
morali di Leopardi hanno una certa consonanza anche con i Racconti
comici (1765) di Wieland, che presero ispirazione dai Dialoghi di
Luciano, e diedero inizio al genere della parodia mitologica, accolta e
messa in atto anche da Leopardi, soprattutto nella Scommessa di Prometeo.
Alla prosa filosofica (metafisica e psicologica) e moderna delle
Operette, che ha per fondamenta la tradizione greca e latina e la tradizione
letteraria italiana, contribuiscono la filosofia illuministica francese
e la scrittura filosofico-letteraria tedesca. Così all’Italia e all’Europa
Leopardi, senza simulare e senza dissimulare – come afferma nel
Dialogo di Timandro ed Eleandro –, ha offerto una prosa scritta «con leggerezza
» solo «apparente», perché essa si occupa di verità esistenziali:
del destino dell’uomo nell’universo, della sua miseria e della sua «infelicità
necessaria», nonché della «infelicità straordinaria» del genio
nel Dialogo della Natura e di un’Anima e nel Parini ovvero della gloria.
Nelle Operette morali il riuso del mito classico, in forma parodica, è
in funzione del pensiero e della poetica dell’Autore; il comico cade su
situazioni e su tematiche serie (e non su cose insignificanti o su parole
vuote) e il riso è quello filosofico (il «rider alto») col quale si ride dei
mali comuni, come unico rimedio e come mezzo per «trovare un qualche
conforto», come arma per sopravvivere e difendersi dal mondo
60 Si rinvia al saggio di Liana Cellerino, Wieland e Kant nello «Zibaldone» di
Leopardi, «La Cultura», XXXII (1994), 2, pp. 285-302.
61 Per la polemica leopardiana contro l’ipocrisia e le maschere della società
contemporanea si veda il Dialogo di Timandro e di Eleandro; per la polemica contro
l’intransigenza dogmatica della Chiesa si veda Il Copernico.
[ 15 ]
784 anna cerbo
(per «essere padrone del mondo»)62. Nel costruire l’impianto delle sue
Operette Leopardi utilizza, mettendoli insieme e spesso in uno stesso
testo, fonti e modelli antichi e moderni. Come esempio può valere la
Scommessa di Prometeo, dove fanno da sfondo i due Dialoghi di Luciano:
l’Icaromenippo e l’Ermotimo, mentre per i due episodi colombiano e
indiano Leopardi si serve della Cronaca del Perù scritta dallo spagnolo
Pedro Cieza de Léon e di un passo della Missione al Gran Mogor di
Daniello Bartoli. Per l’episodio londinese una probabile fonte potrebbe
essere la notizia del suicidio di Richard Smith, letta nella Storia d’Inghilterra
di Smollet, nell’Enciclopedia del Diderot e nel Dizionario filosofico
di Voltaire63.
Nella Scommessa di Prometeo sono presenti luoghi esotici, tanto cari
ai letterati romantici europei64, ma per Leopardi l’episodio colombiano
e l’episodio indiano (compreso ovviamente quello londinese) sono
solo in funzione della sua tesi che la vita dell’uomo è infelice e imperfetta.
E così pure lo spazio dell’Africa equatoriale in cui l’Islandese,
che richiama il Candide di Voltaire, s’imbatte con la Natura personificata
in una donna di «forma smisurata», «seduta in terra, col busto
ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna […] di volto
mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi»65. Col Dialogo
della Natura e di un’Anima e col Dialogo della Natura e di un Islandese
Leopardi mostra di superare l’errore dei filosofi tedeschi (e di parecchi
inglesi) che analizzavano la natura con la pura ragione, «scomponendola
» e facendola diventare un corpo morto, senza l’aiuto dell’immaginazione
e del sentimento66. Il Cantico del gallo silvestre, nell’omonima
operetta, è un testo orientale che Leopardi traduce (in prosa), come
ha tradotto le opere di Mosco di Isocrate e di Epitteto, ma il volgarizzamento
è in piena armonia con il credo e le verità del Poeta di Recanati.
Anzi quel Cantico che egli finge di aver trovato e di aver tradotto,
62 Sul riso cfr. in particolare il Dialogo di Timandro e di Eleandro e l’Elogio degli
uccelli. In quest’ultima Operetta il riso è definito «una specie di pazzia non durabile,
o pure di vaneggiamento e delirio». Cfr. anche Zibaldone 3990, 4138, 4391.
63 Nel Dialogo di Cristoforo Colombo Leopardi si servì di fonti storiche e scientifiche,
soprattutto della Storia d’America di William Robertson.
64 Sia nel Discorso di un italiano, sia nello Zibaldone Leopardi mostra il suo disappunto
per i poeti romantici che sceglievano luoghi lontani e sconosciuti invece
della campagna che avevano sotto gli occhi, poeticamente feconda di una «doppia
vista», del presente e del passato, quella reale e quella dell’immaginazione e della
ricordanza.
65 Operette morali, ed. cit., p. 109.
66 Cfr. Zibaldone 3237-3239.
[ 16 ]
giacomo leopardi e l’europa letteraria contemporanea 785
gli permette di ritornare sull’infinito dello spazio e del tempo come
nell’idillio giovanile del 1819, ma non più con l’illusione di «naufragare
» nella dolcezza dell’infinito, bensì per contemplare lo «spazio immenso
» dell’universo riempito da un «silenzio nudo» e da una «quiete
altissima», dominato dalla morte, ovvero dal Nulla assoluto.
Leopardi poeta e prosatore ha messo in pratica le sue teorie letterarie,
annotate e difese nello Zibaldone, e ha dato prova concreta che le
sue critiche ai contemporanei non erano affatto sterili e gratuite, piuttosto
costruttive e volte alla ricerca del fondamento della letteratura
moderna67 e alla conoscenza piena della tradizione greca e latina68.
Una modernità fondata saldamente sulla classicità.
Anna Cerbo
Università L’Orientale-Napoli
67 Si veda il libro di Bortolo Martinelli, Leopardi tra Leibniz e Locke. Alla ricerca
di un orientamento e di un fondamento, Roma, Carocci Editore, 2003. Cfr. pure
Pino Fasano, L’entusiasmo della ragione. Il romantico e l’antico nell’esperienza di Leopardi,
Roma, Bulzoni, 1985.
68 Nel corso del 1828, nello Zibaldone, Leopardi si confronta assiduamente con
Pierre Louis Courier, con Friedrich August Wolf e con Wilhelm Müller sulla letteratura
greca, in particolare su Omero e la questione omerica.
[ 17 ]

Mariella Muscariello
Il Principe e il maestro.
Lampedusa, Sciascia e il Risorgimento
Nel 1958 vengono pubblicati Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e Il quarantotto
di Sciascia. L’analisi testuale del racconto sciasciano, fatta al controluce del
romanzo lampedusiano, evidenzia le differenti fisionomie intellettuali dei due
scrittori che si palesano nelle rispettive intenzionalità narrative, nelle forme e
nello stile con cui entrambi rivisitano il Risorgimento. Ciò nonostante il Principe
e il maestro si incontrano sul terreno della comune revisione critica di un’epopea,
quella risorgimentale, che fu, soprattutto per la Sicilia, “un’epopea senza eroi”.

In 1958 Tomasi di Lampedusa’s The Leopard and Sciascia’s Il quarantotto were
published. The textual analysis of Sciascias’s short story, compared and contrasted
with The Leopard, highlights the different intellectual natures of the two
writers, evident in the respective narrative intentions, in the forms and in the
style with which both tackle Italian unification. Nonetheless, the Prince and the
master find common ground in their critical revision of an age, that of Italian
unification, which was, above all for Sicily, one “without heroes”.
Per quella che Nunzio Zago ha definito «una fortuita ma eloquente
coincidenza»1, nello stesso anno, il 1958, vengono pubblicati Il Gattopardo
di Tomasi di Lampedusa e Il quarantotto di Leonardo Sciascia.
Benché quest’ultimo non sia un romanzo ma un racconto lungo presente
ne Gli zii di Sicilia, per la materia trattata – la demistificazione del
Risorgimento e dei suoi “eroi”, la coscienza critica della Storia come
impostura – contribuisce ad arricchire la tradizione dell’‘antistoricismo
siciliano, fondata da Verga e proseguita, tra costanti e varianti,
dai Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello e, per l’appunto,
Il gattopardo2.
Autore: Università di Napoli Federico II; prof. associato; marmusca@unina.it
1 Nunzio Zago, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La figura e l’opera, Marina di
Patti (ME), Pungitopo editrice, 1987, p. 23.
2 Vittorio Spinazzola, ll romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990.
Meridionalia
788 mariella muscariello
Ma l’evidente difformità della fisionomia intellettuale dei due
scrittori in oggetto non poteva non palesarsi nelle rispettive intenzionalità
narrative, nelle forme e nello stile con cui un nodo della storia
siciliana – l’impresa garibaldina e la forzata annessione al Piemonte –
e la percezione dello scollamento tra Storia e progresso venivano tradotti
nel linguaggio finzionale della letteratura.
Discendente di una nobile famiglia palermitana decaduta, lettore
raffinato della letteratura europea3, Tomasi approda tardi alla stesura
del suo unico romanzo che, per le difficoltà editoriali che incontrò – è
noto il “gran rifiuto” di Vittorini –, fu pubblicato postumo. La vicenda
si snoda, tra ellissi più o meno ampie, dal 1860 al 1910, dallo sbarco di
Garibaldi in Sicilia alla forzata annessione al Piemonte e oltre. Orlando
ci ha avvertiti che qui la Storia funziona da semplice sfondo mentre
in primo piano è la coscienza del principe di Salina, astronomo di fama,
che assiste impotente al tramonto della propria classe ma soprattutto
alle farse, ai falsi movimenti, se non alla degenerazione della
politica, i cui nuovi protagonisti sono i rappresentanti di una borghesia
becera e incolta. Di qui la scelta, per far risaltare la centralità del
protagonista, di una complessa strategia del punto di vista: «Il narratore
racconta la storia servendosi di un personaggio come “riflettore”», sicché
attraverso l’uso del monologo interiore e del discorso libero indiretto,
il narratore «calibra il suo vedere, il suo sapere e il suo valutare
su quelli del suo personaggio che funge da coscienza ordinatrice del
racconto»4. «Un gran signore» è il principe di Salina per Romano Luperini,
per il quale «“pathos della nobiltà” e “pathos della distanza”»,
intesi come aristocratica lontananza dalle miserie della condizione
umana, «sono un’unica cosa»5. Una grandeur che Tomasi simbolicamente
materializza nella cifra della “dismisura” che connota il Principe
e quanto gli appartiene: «L’urto del suo peso da gigante faceva
tremare l’impiantito»; «era immenso e fortissimo, la sua testa sfiorava
(nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari;
le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da
3 Si vedano le sue lezioni di Letteratura inglese e di Letteratura francese, ora in
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Opere, a cura di Nicoletta Polo, introduzione e
premesse di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 2006, pp. 617-1937.
4 Francesco Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino,
Einaudi, 1998, pp. 38-39.
5 Romano Luperini, Il «gran signore» e il dominio della temporalità, in Giuseppe
Tomasi di Lampedusa. Cento anni dalla nascita, quaranta dal Gattopardo, a cura di F.
Orlando, Palermo, Assessorato alla cultura, 1999, p. 203.
[ 2 ]
il principe e il maestro. lampedusa, sciascia e il risorgimento 789
un ducato»; un «Ercole Farnese», monumentale nella sua nudità6; il
suo è «un grandissimo, altissimo letto di rame»7; smisurati sono i suoi
palazzi, quello di Palermo e quello di Donnafugata nelle cui stanze è
possibile, incautamente, perdersi8; ad accompagnarlo è il suo ingombrante
e fedele alano, Bendicò.
Costretto, per l’affetto che lo lega al nipote Tancredi, ad abdicare
alla propria aristocratica refrattarietà alle questioni economiche stipulando
con Calogero Sedara, padre della giovane e bella Angelica e parvenu
di abissale ignoranza, un contratto matrimoniale – il prestigio del
suo casato in cambio di una cospicua dote –, “corteggia” la morte che
ha, per lui, custode e apologeta della tradizione, la stessa perennità
delle stelle, immuni dagli incongrui sovvertimenti della Storia.
Per questo personaggio di intellettuale, “amletico”9, afflitto da continue
associazioni mentali che ne influenzano gli umori con rapidi
passaggi dallo scoraggiamento al rasserenamento, Tomasi di Lampedusa
appronta uno stile sontuoso, barocco, ipotattico, affollato di antitesi
e ossimori nel quale si insinua, con sapiente maestria, il registro
dell’ironia e il ricorso ad un linguaggio plebeo soprattutto quando è in
scena don Calogero Sedara:
Preceduti da un mozzo di scuderia con una lanterna accesa che con
l’oro incerto della sua luce accendeva il rosso delle foglie cadute dai
platani, padre e figlia rientrarono in quella casa, l’ingresso della quale
era stato vietato a Peppe «’Mmerda» [suocero di don Calogero] dalle
lupare che gli strafotterono i reni10.
Tutt’altra storia è quella di Leonardo Sciascia. Di umili origini, ma-
6 G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo (d’ora in poi citato G), Milano, Feltrinelli,
2005, pp. 25, 26, 72. Si vedano le suggestive pagine di Salvatore Silvano
Nigro, L’Ercole Farnese, in Id., Il principe fulvo, Palermo, Sellerio, 2012, pp. 81-95.
7 G, p. 39.
8 Ci riferiamo all’episodio del “turbine amoroso” di Angelica e Tancredi che si
inseguono nelle inquietanti e deserte stanze del palazzo di Donnafugata, raccontato
nella parte IV del romanzo, pp. 144-150.
9 È stato Orlando ad istituire un possibile parallelo tra Amleto e Don Fabrizio:
«Beninteso, nei precisi limiti di quella che è la sua contraddizione fondamentale, e
che può sembrare davvero la stessa di Don Fabrizio se enunciata così: contraddizione
fra un compito, imposto dalla propria posizione e dalle circostanze, e un
difetto della capacità di decidere e di agire», F. Orlando, L’intimità e la storia, cit.,
pp. 30-31.
10 G, p. 136. Sullo stile del Gattopardo si veda Simonetta Salvestroni, Tomasi
di Lampedusa, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 78-97.
[ 3 ]
790 mariella muscariello
estro elementare a Racalmuto, la sua passione per la scrittura ha origini
remote. Ha scritto, infatti, Claude Ambroise:
Verso i sei anni, Sciascia comincia ad andare a scuola con i figli dei
contadini e degli zolfatari. […] La scuola, retrospettivamente, appare
come il luogo d’incontro con la scrittura: Sciascia non nasconde il feticismo
per gli strumenti della scrittura: carta, penne, matite, inchiostro:
“forse lo bevevo l’inchiostro”. Scrivere è un’operazione magica: nella
scrittura si possono mettere le cose, nella scrittura si riesce a fermare il
pensiero. Sulla prima pagina di un quaderno, lo scolaro scrive in bella
calligrafia: “Autore: Leonardo Sciascia”, anticipando il proprio destino
di scrittore11.
Una profezia che si concretizza, a partire da Le favole della dittatura
del ’50 fino alla morte12, in un’incessante produzione letteraria: pamphlets,
saggi, poesie, romanzi affollano la sua biografia intellettuale,
tutti nel segno di un’idea di letteratura come continua ricerca della
verità e della giustizia, come impegno a demistificare le imposture
della Storia e le connivenze del Potere. E tra queste non poteva mancare
una rilettura del Risorgimento in Sicilia affidata, per l’appunto, al
racconto Il quarantotto.
Coerentemente alla sua formazione gramsciana, Sciascia racconta
le rivoluzioni che investono il paese di Castro dal ’48 al ’60 attraverso
un punto di vista e una voce narrante “dal basso”, quello del figlio del
giardiniere del barone Garziano, prototipo dell’esecrabile trasformismo
ampiamente praticato dalle classi dirigenti ostinate a mantenere
il proprio potere. Il narratore che, diventato adulto, si arruola nelle file
garibaldine, racconta quando è ormai vecchio:
[…] sono vecchio e stanco. E scrivere mi pare un modo di trovare consolazione
e riposo; un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni
della vita, finalmente in un destino di verità13.
I suoi ricordi iniziano con la descrizione del giardino e della casa
del Barone, tutto giocato su di un significativo controcanto tra la meschinità
oggettiva dei luoghi quale appare alla voce narrante e la visione
nobilitante contrabbandata dal loro padrone:
11 Claude Ambroise, Cronologia, in Leonardo Sciascia, Opere 1956-1971, a cura
di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1987, p. XLII.
12 L’ultima sua opera, pubblicata postuma nel 1989, dal titolo eloquente, è A
futura memoria (se la memoria ha un futuro).
13 L. Sciascia, Il quarantotto (d’ora in poi citato Q), in Id., Gli zii di Sicilia, Torino,
Einaudi, 1978, p. 97.
[ 4 ]
il principe e il maestro. lampedusa, sciascia e il risorgimento 791
Mio padre curava il giardino del barone Garziano, due salme di terra
che si aprivano a ventaglio intorno allo spazio dove sorgeva il palazzo;
terra che a piantarci un palo dava acqua, nera e fitta di alberi; pareva si
fosse a due ore di notte, dentro quel nero di alberi e di terra, anche se il
sole vampava da scorticare […] Il barone lo chiamava giardino perché
c’erano anche delle magnolie e degli alberi d’India dai tronchi che parevano
ammassi di corde, e i rami che come corde scendevano a radicarsi
nella terra; e c’era anche, nel breve semicerchio intorno alla casa,
un bordo di rosai che nel mese di maggio s’accendeva di grandi rose
che subito spampanavano. E il barone chiamava palazzo la casa, grande
e brutta come una masseria dal lato del giardino, dal lato che dava
sulla strada ugualmente brutta ma con due donne nude in pietra arenaria
che stavano ai lati del portone, e teste di gattoni che sostenevano
le balconate14.
Una descrizione che, posta in posizione incipitaria, sembra svolgere,
simbolicamente, la funzione di un avvertimento al lettore: il barone
è l’esponente di una piccola aristocrazia di provincia, avvezza all’inganno;
lo spazio in cui si muove è tutto nel segno del brutto e dell’oscurità;
gli alberi e i fiori, solitamente pregnanti metafore dell’anima15,
nella loro infruttuosità suggeriscono che quella che sta per entrare in
scena non è certo ‘un’anima bella’. Anche Sciascia ricorre per lui alla
figuralità dei bestiari, solo che all’elegante maestosità del gattopardo,
qui, in linea con il progetto narrativo di diminutio del suo antieroe,
sostituisce l’immagine figurata del coniglio con cui il Barone condivide
viltà e pavidità:
[…] a due ore di notte il barone diventava un coniglio, ombre e fruscii
gli facevano dare sfagli improvvisi, mio padre ad ogni sbalzo che faceva
gli domandava – che c’è, signor barone? – con voce sicura; e il barone
si rimetteva in sesto e diceva – niente, mastro Carme’, mi era parso
di vedere un movimento da questo lato – mio padre alzava la lanterna
e affiorava dallo scuro un cane o un gatto o magari una persona che
andava per il fatto suo. – Il fatto è – si giustificava il barone – che la
notte è brutta, tutte le male cose si fanno di notte16.
Traditore nella cosa pubblica come nella vita privata, fa arrestare
dalle guardie regie, arrivate a Castro per contrastare il brigantaggio, il
14 Ivi, p. 97.
15 Lionello Sozzi, Gli spazi dell’anima. Immagini d’interiorità nella cultura occidentale,
Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 187.
16 Q, p. 102.
[ 5 ]
792 mariella muscariello
suo innocente servitore, Pepé, solo per continuare indisturbato la sua
tresca con la moglie di lui, Rosalia:
Mio padre, quando raccontava a mia madre le paure che ogni sera il
barone provava, diceva – ha ragione a dire che le male cose si fanno di
notte, le lettere che manda all’intendente lui di notte le scrive – perché
nessuno gli levava dalla testa che certi arresti che la polizia faceva fossero
ispirati da lettere che il barone, a mezzo di persone fidate, faceva
pervenire all’intendente di Trapani17.
Con il vescovo, il giudice regio e il sottintendente esercita sui contadini
del paese un potere subdolo ed iniquo, sempre pronto a cambiare
casacca, a trasformarsi così come gira il vento degli eventi politici:
Vescovo barone giudice e sottintendente formavano un quartetto così
affiatato, unanime nelle segrete decisioni che poi la polizia traduceva
in dolorosissimi fatti che a un castrese […] veniva naturale, capitandogli
un guaio, augurare ad uno dei quattro, e a tutti e quattro insieme, la
morte subitanea il cancro e l’etisia18.
Ma resta pur sempre una macchietta da vaudeville, un protagonista
da farsa – per il quale la nitida prosa di Sciascia si colora di ridicolizzante
comicità19 – accompagnato da adeguati comprimari: la moglie,
donna Concettina, ottusa bigotta, «tutta frusciante, col libro nero ed
oro e la corona a grani di madreperla in mano»; il figlio Vincenzino
«secco e spiritato, con il vestito che il barone gli aveva fatto confezionare
raccomandando al sarto di tener conto che il ragazzo era in età di
crescenza, e Vincenzino invece non cresceva poi tanto»20. L’onomastica,
tutta al diminutivo, è un ulteriore indizio della strategia narrativa
sminuente che trama il racconto se, come ha scritto Orlando a proposito
del Gattopardo, l’uso dei diminutivi è «la spia linguistica costante»
della «diminuzione» che don Fabrizio riserva ai personaggi dell’Italia
continentale ma soprattutto ai siciliani «del nuovo mondo in antitesi
al vecchio»21, a don Calogero Sedara – «piccolissimo», «sciacalletto»22
– e a suo nipote Fabrizio:
17 Ibidem.
18 Q, p. 116.
19 Quando donna Concettina scopre la tresca del marito con Rosalia, il lettore
assiste ad un’esilarante “sceneggiata”; decide, infatti, di parlare con lui per un’interposta
persona che assume il ruolo di farsesco “traduttore”; si veda Q, pp. 118-120.
20 Ivi, p. 98.
21 F. Orlando, L’intimità e la storia, cit., pp. 125-126.
22 G, p. 118.
[ 6 ]
il principe e il maestro. lampedusa, sciascia e il risorgimento 793
C’erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello,
così vivace, tanto caro. Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue
Màlvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza
borghese. […] Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a
quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche,
di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo
l’occhio al loro prezzo più che ai loro pregi […]23.
Ma non mancano certo nel Quarantotto personaggi positivi: lo speziale
Napoli e il medico Alagna, entrambi imprigionati in quanto liberali,
e soprattutto don Paolo Vitale, il povero prete di Castro che insegna
al narratore a leggere e scrivere. Liberale non per fede politica, ma
perché «l’amore alla libertà gli nasceva dalla sofferenza del popolo», è
a lui che Sciascia affida il compito di chiarire la sua visione lucidamente
critica delle logiche del Potere e delle promesse fraudolente della
Storia:
Finita la lezione mi trattava come se fossi stato grande […]. E mi parlava
anche della rivoluzione vera, quella che stavano facendo gli pareva
un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento né musica:
e a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri24.
Don Garziano sa che le cose vanno così e sa che è sufficiente essere
duttili a repentine metamorfosi per non perdere i propri privilegi.
Collerico reazionario, soddisfatto del fallimento della spedizione di
Pisacane – «[…] bella fine hanno fatto: sotto i colpi di forcone dei villani!
Così bisogna trattarli, questi nemici di Dio, a forconate. E quel
loro capo, che razza di nome. Pisacane; e come un cane è morto»25 –,
quando, nel ’60 Garibaldi sbarca in Sicilia e arriva a Castro in compagnia
del colonnello Carini e di Ippolito Nievo, il barone, viscido camaleonte,
così lo accoglie nella sua casa dalle cui pareti ha opportunamente
rimosso stampe del Re e della famiglia reale e il ritratto di Pio
nono:
Io – ricorda il narratore – guardavo come allucinato: e veramente il
sole la stanchezza il sonno che dentro mi ronzava, rendevano come in
sogno la visione del barone Garziano incoccardato e commosso con la
mano di Garibaldi tra le sue26.
23 G, p. 221.
24 Q, p. 133.
25 Ivi, p. 153.
26 Ivi, p. 157.
[ 7 ]
794 mariella muscariello
Il “monumento” Garibaldi, già scalfito da Tomasi di Lampedusa –
quel «barbuto vulcano» lo chiama don Fabrizio in una delle sue frequenti
associazioni mentali27, perché entrambi, Vulcano e Garibaldi,
affilano le armi, entrambi recano sul proprio corpo il segno di un’alterazione,
la gamba zoppa, e Vulcano è anche e soprattutto il dio cacciato
con una rovinosa caduta dal monte sacro degli Dei –, subisce nel
Quarantotto un ulteriore sfregio. Intento ad un «laico accertamento
d’un “risorgimento senza eroi”», Sciascia ne sottolinea l’irresponsabile
credulità, rappresentandolo così:
[…] a braccetto col possidente borbonico che a malincuore lo blandisce,
e così ostinato a non vedere «la viltà, la paura e l’odio che si mascherano
di festa e agitano bandiere a salutarci»; ma li vede Nievo, che
glielo dice invano, e con lui verosimilmente ne patisce il colonnello
Carini, campione dei «siciliani che non si agitano» ma «si rodono dentro
e soffrono», covando sotto l’abito della malinconia «la silenziosa
fragile speranza dei siciliani migliori»28.
La luminosa presenza finale di Ippolito Nievo è già stata, per così
dire, anticipata nel Quarantotto da alcune citazioni dalle Confessioni
presenti nell’ordito della trama che non sono sfuggite a lettori attenti:
la scelta di un narratore ormai anziano che rievoca la propria storia
dalla fanciullezza alla maturità; la somiglianza tra Cristina, la figlia
del barone, e Pisana, ma soprattutto, direi, alcune analogie del rapporto
negli anni dell’infanzia tra quest’ultima e Carlino e Cristina e il figlio
del giardiniere di casa Garziano29. Ma c’è un frame, all’apparenza
insignificante, che può farci ipotizzare un’altra citazione, ma questa
volta da Calvino e dal suo Barone rampante:
E un giorno Cristina vide, dall’alto di un noce su cui insieme stavamo,
suo padre entrare in casa di Rosalia, così silenzioso e guatando intorno
con faccia spaventata, che le parve stesse facendo un giuoco: e con
meraviglia ed allegria riferì poi a sua madre 30.
Che molti siano gli aspetti in comune tra Sciascia e Calvino – la
passione per l’Illuminismo, il culto della ragione contro il caos dell’e-
27 «Quel Garibaldi, quel barbuto vulcano aveva dopo tutto vinto», G, p. 221.
28 Antonio Di Grado, L’ombra dell’eroe. ll mito di Garibaldi nel romanzo italiano,
Acireale-Roma, Bonanno, 2010, p. 55.
29 Si veda Gaspare Giudice, Le citazioni di Leonardo Sciascia, «Belfagor», XLVI,
3, Maggio 1991, p. 329.
30 Q, p. 111.
[ 8 ]
il principe e il maestro. lampedusa, sciascia e il risorgimento 795
sistenza, la sostanza morale di una scrittura programmaticamente
limpida – è noto, ma l’immagine di Cosimo Piovasco che trascorre la
sua vita sugli alberi, di lì agendo «a beneficio della comunità di Ombrosa
», colpì con forza lo scrittore siciliano, gli apparve come una
«sentinella della ragione, vigile e scattante contro tutti i mostri della
natura e della storia»31. Un po’, su scala ridotta, come il suo umile narratore
a cui don Paolo Vitale, oltre che a leggere e scrivere, «ha insegnato
a trar compagnia e fede dalla natura dai libri e dai miei pensieri
stessi»32.
Una pratica, questa della citazione, così rivendicata dallo stesso
Sciascia in un’intervista rilasciata a Claude Ambroise in tempi più recenti,
quando in lui la fede nell’affabulazione ormai vacillava:
Non è più possibile scrivere: si riscrive. E in questo operare – più o
meno consapevolmente – si va da un riscrivere che attinge allo scrivere
(Borges) a un maldestro e a volte ignobile riscrivere. Del riscrivere io
ho fatto, per così dire, la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro
e certamente non ignobile riscrivere. Tutto pagato33.
Una griffe d’autore che, come ha scritto Consolo, coinvolge le epigrafi,
i titoli, le dediche, insomma tutti gli spazi del “paratesto”, sapientemente
selezionati da Sciascia perché funzionassero come «rimemorazione
della letteratura, la grande letteratura d’altri tempi e d’altri
contesti, cielo di verità sopra un mondo, contro una storia di menzogna
e di sconfitta, di offesa all’uomo»34.
Negli anni ’50-’60 la militanza marxista e l’idea gramsciana di letteratura
influenzarono il giudizio critico negativo dello scrittore di
Racalmuto su Verga e Tomasi di Lampedusa. Ma l’onestà intellettuale
di Sciascia e la sua apologia del rileggere35 lo portarono, più tardi, a
ritrattare queste stroncature, entrambe dettate dal pregiudizio ideolo-
31 L. Sciascia, Romanzi di Italo Calvino, ora in Id., Fine del carabiniere a cavallo.
Saggi letterari (1955-1989), Milano, Adelphi, 2016, p. 20.
32 Q, p. 132.
33 C. Ambroise, 14 domande a Leonardo Sciascia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971,
cit., p. VIII.
34 Vincenzo Consolo, Prefazione a Pino Di Silvestro, Le epigrafi di Leonardo
Sciascia, Palermo, Sellerio, 1996, p. 11.
35 «E sarebbe allora il rileggere un leggere: ma un leggere inconsapevolmente
carico di tutto ciò che tra una lettura e l’altra è passato su quel libro e attraverso
quel libro, nella storia umana e dentro di noi. Ed è perciò che la gioia del rileggere
è più intensa e luminosa di quella del leggere», L. Sciascia, Del rileggere, in Id.,
Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 256-257.
[ 9 ]
796 mariella muscariello
gico che gli aveva impedito di apprezzare il quoziente di “verità” e di
smascheramento presente nelle opere dei suoi conterranei. La rilettura
dei Malavoglia, fatta nel segno della comune difesa della “memoria”
dall’oltraggioso oblio del presente, lo riconciliò con lo scrittore catanese36;
il vistoso strappo con il Gattopardo, un romanzo in cui «col suo
“particulare” illuminismo da gran signore, Giuseppe Tomasi guarda
[gli umili] di sfuggita, in quanto “sgradevole manifestazione della
condizione umana”»37, viene ricucito nel tempo se, in una lettera a
Giuseppe Paolo Samonà del giugno 1973, Sciascia scriveva:
Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo,
sull’idea che l’informava, oggi è portato a riconoscere che quello che
allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti
della nostra storia che allora era legittimo ricusare, come legittimo
era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle. Certo, mancherebbe
molto, alla letteratura italiana di questi anni, se il libro non fosse
stato pubblicato. E credo sia venuto il momento di rileggerlo; e per i
giovani di conoscerlo38.
Come afferma Onofri, «il suo piccolo Gattopardo, senza saperlo né
volerlo, confuso com’era nella nutrita schiera degli intellettuali di sinistra,
Sciascia l’aveva già scritto» perché, nelle pagine del Quarantotto,
complice la comune denuncia dello «scandalo della ragione di contro
ad una realtà immobile e disperata», il Principe e il maestro si erano
già incontrati39.
Mariella Muscariello
Università Federico II- Napoli
36 La lettura “di parte” della novella Libertà (L. Sciascia, Verga e la libertà, in
Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1982, pp. 79-94)
indusse Sciascia ad accusare Verga di mistificazione della rivolta di Bronte. Più
tardi, dismesso lo strumento interpretativo dell’ideologia, rileggendo I Malavoglia
e la novella La Chiave d’oro, trovò nel tema della “memoria” un fertile terreno di
riconciliazione con lo scrittore catanese. Si veda L. Sciascia, Verga e la memoria, in
Id., Cruciverba, cit., pp. 150-160. Sull’argomento si legga A. Di Grado, L’ombra
dell’eroe, cit., pp. 54-55 e il nostro Sciascia e la memoria, in L’eredità di Leonardo Sciascia,
a cura di Caterina De Caprio e Carlo Vecce, Napoli, Il Torcoliere, 2012, pp.
187-194.
37 L. Sciascia, Il Gattopardo, in Id., Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 2010,
p 179.
38 Ora in calce a L. Sciascia, I luoghi del Gattopardo, in Id., Fatti diversi di storia
letteraria e civile, Milano, Adelphi, 2009, p. 159.
39 Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Bari, Laterza, 2004, p. 67.
[ 10 ]
FRANCESCO SIELO
Ungaretti e l’arte informale: l’ossessione apocalittica
della materia
Nella riflessione di Ungaretti risulta centrale l’opposizione all’ossessione lirica
della materia propria dei futuristi: parallelamente tuttavia il poeta dimostra
un’intensa attenzione, in diversi saggi critici, verso l’arte informale e le poetiche
della materia di Fautrier, Burri e Michaux. Nell’Informale Ungaretti vede la
protesta di un uomo disumanizzato dalla macchina, che si esprime attraverso
un linguaggio ormai ridotto a pura materia, per riuscire a testimoniare la «dismisura
da apocalisse» del nostro tempo.

If on the one hand Ungaretti objected to the lyrical obsession with material
typical of the Futurists, on the other hand he showed a deep interest, in his
critical essays, towards non-representational art and the material poetics advocated
by Fautrier, Burri and Michaux. In non-representational art Ungaretti saw
the rebellion of man dehumanized by machines, a protest centred on a language
whittled down to pure material, aiming to bear witness to the “apocalyptic
excess” of our time.
In un saggio del 1927, Commemorazione del futurismo, Ungaretti afferma
che il principale errore dei futuristi è stata la «cieca fiducia nella
materia grezza, nella sensazione, nella materia caotica». I futuristi,
«invocando l’esempio della macchina, e cioè di una materia formata»
hanno al contrario prodotto «parole in libertà», ovvero pura materia e
si sono dunque «dannati a non veder della realtà che l’aspetto estemporaneo,
provvisorio, futile»1.
Perché allora Ungaretti, che rimprovera ai futuristi di ridursi alla
pura materia, si interessa così profondamente agli artisti informali,
Autore: Università della Campania “Luigi Vanvitelli”; docente a contratto;
francescosielo@gmail.com
1 Giuseppe Ungaretti, Commemorazione del futurismo, in Id., Vita d’un uomo.
Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono, Milano, Mondadori, 1974, pp. 172-173
[d’ora in poi citata SI].
Contributi
798 francesco sielo
che fondano la loro arte appunto sull’attenzione alla pura materia, al
puro gesto o al puro segno?
Una possibile risposta è che, come Michelangelo o i barocchi tanto
amati dal poeta, gli informali avvertono la sofferenza della materia,
l’ossessione della materia «innocente», ovvero senza memoria, senza
forma, nell’epoca a loro contemporanea.
Giulio Carlo Argan definisce in questo modo l’arte informale:
Le poetiche dette dell’Informale, che tra il 1950 e il ’60 prevalgono in
tutta l’area europea […] sono indubbiamente poetiche dell’incomunicabilità.
Non è una libera scelta; è la condizione di necessità in cui l’arte,
che tutta una tradizione culturale aveva posta come forma, viene a
trovarsi in una società che svaluta la forma2.
Non è una scelta, afferma Argan, e qui si pone una differenza fondamentale
con i futuristi: Marinetti e altri avevano deciso di ignorare
volontariamente il peso della memoria e delle forme, di affidarsi, direbbe
Ungaretti, all’«innocenza», ovvero alla distruzione della tradizione,
come fonte di nuova salvezza. Al contrario, secondo Ungaretti, l’artista
e il poeta contemporanei fanno davvero arte solo quando mostrano la
sofferenza insita nello scegliere consapevolmente di abbracciare un
modo di espressione in realtà imposto dalla condizione storica.
Gli informali (e Ungaretti stesso) sanno dunque che attingere nuovamente
alle forme date dalla tradizione non è effettivamente possibile,
nel nostro tempo, poiché siamo stati sprofondati, dall’eccesso di
memoria, in un’innocenza che è soltanto un immenso buio.
La mancanza di forma delle poetiche informali è allora una protesta
per il tradimento delle forme, ovvero delle ideologie, e prima fra
tutte l’ideologia della razionalità, il razionalismo positivista che prometteva
un progresso tecnico infinito tradotto simultaneamente in un
progresso conoscitivo ed esperienziale. Anche l’arte rifletteva in passato
questa fiducia nell’ordinamento razionale della società: la ricerca
della forma era dunque ricerca del principio ordinatore del mondo,
individuabile infine nella razionalità.
Scrive ancora Argan:
L’informale […] è una situazione di crisi e precisamente della crisi
dell’arte come «scienza europea», momento di quella più vasta «crisi
delle scienze europee» che Husserl descrive come caduta della finalità
[…] Ma ciò di cui ora v’era ampio motivo di dubitare, data la piega che
2 Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770/1970, Firenze, Sansoni, 1970, p. 634.
[ 2 ]
ungaretti e l’arte informale 799
prendevano le cose, era la razionalità fondamentale dell’organizzazione
della società: la «virtù» razionale aveva già perduto la battaglia contro il
«furore» dei regimi totalitari, delle politiche di forza. A che pro seguitare
a contrapporre l’utopia della ragione al brutale realismo del potere?3
La razionalità era stata la forma di pensiero fondamentale in occidente
eppure essa si era arresa alla follia del totalitarismo; peggio ancora,
aveva dato luogo ai primi tentativi di sterminio razionalizzato e
sistematico della storia umana. Infine, a conclusione della seconda
guerra mondiale, la ricerca tecnologica, solo apparentemente basata
sulla razionalità, era riuscita a creare uno strumento in grado di eliminare
del tutto la vita umana sulla Terra.
Il tradimento della razionalità diventa negli anni uno dei cardini
del pensiero ungarettiano: la razionalità si incarna nella memoria
umana e sostituisce lo spirito sugli altari rendendosi un nuovo dogma.
Per reazione l’uomo, «esausto dal suo sforzo temerario di memoria,
e dalla dannata superbia che gliene veniva»4 si rifugia nell’oscurità
del proprio io, negli abissi del puro istinto legato alla materia bruta,
non razionale né logicamente strutturabile: è il predominio allora dell’
«innocenza». Tuttavia tanto l’eccesso di innocenza quanto l’eccesso
di memoria sono catene per lo spirito di un uomo non più in equilibrio
con se stesso, vere e proprie ossessioni.
Ungaretti stigmatizza dapprima l’ossessione dell’innocenza, identificandola
con l’«ossessione lirica della materia»5, propria dei futuristi.
Successivamente nota, in una prosa intitolata Difficoltà della poesia,
come anche le scienze della memoria, le scienze naturali, siano oggi
ossessionate dalla materia:
La materia oggi ci soverchia, e i mezzi di sempre più paurosamente
crescente potenza che il sapere dell’uomo trae incessantemente dalla
materia, anch’essi ci soverchiano, ci fanno ogni giorno più soverchiante
la materia6.
In arte questo «soverchiamento» viene espresso dagli artisti attraverso
«chiazze ossessive, o per via d’ideogrammi, o per via di spolpa-
3 Ibidem.
4 Innocenza e memoria, SI, p. 133.
5 Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in
Id., Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983, p. 44.
6 Difficoltà della poesia, SI, p. 808.
[ 3 ]
800 francesco sielo
menti spettrali della materia [o] manifestato […] in automatismi»7. In
queste parole Ungaretti descrive i tre filoni principali dell’arte informale,
l’arte come segno illeggibile, come materia ‘disanimata’ e come
gesto automatico: nella riflessione ungarettiana compaiono a più riprese
soprattutto tre artisti che si potrebbero forse considerare come i
rappresentanti perfetti delle tre correnti, ovvero Fautrier per la materia
svuotata di forma, Michaux per l’ideogramma e Burri per il gesto
(non) automatico.
La questione degli automatismi è d’altro canto cruciale anche per
quanto riguarda Fautrier poiché, volendo sottolineare la natura di
protesta dell’arte contemporanea, Ungaretti decide di svalutare qualsiasi
arte, sia pittorica sia poetica, che si affidi ciecamente all’automatismo,
diffidando quindi tanto degli automatismi psichici del dada
quanto della scrittura automatica surrealista. Il gesto degli informali e
di Burri è invece quanto di più distante dall’automatismo dadaista o
surrealista: è un gesto volontario, che infligge alla materia dell’opera
una sofferenza. Allo stesso tempo tuttavia è una sorta di automatismo,
in quanto riflesso sulla materia di altri gesti, inflitti da uomini ad altri
uomini. Le bruciature, i tagli, le saldature sono gesti precisi e coscienti
dell’artista ma hanno il loro precipuo valore nell’essere echi o rimandi
dei terribili gesti con cui gli uomini riducono altri uomini a pura materia,
a pura carne.
Ecco quindi che a Pollock e all’action painting americano Ungaretti
preferisce ad esempio il francese Fautrier, come afferma anche nella
prefazione a un volume di Palma Bucarelli: «egli è un informale che
non si abbandona come un Pollock, o un Wols, o chi vorrete, a un automatismo
psichico, ma che ricorre a un operare voluto. I risultati che
ottiene, gli effetti che raggiunge non sono frutto fortuito […] di sonnambulici
dettati, ma di lucidità di intelletto»8.
L’informale Fautrier non lascia che sia un automatismo a disporre
la materia della sua opera, né ritiene che la materia senza forma debba
necessariamente essere strutturata da un principio psichico inconscio:
l’abbandono delle forme tradizionali quindi non significa affatto cede-
7 Ivi, p. 809. Da notare che Ungaretti parla qui anche dell’espressione del soverchiamento
attraverso la «canzonatura dell’umana persona soverchiata, in manichini
», riferendosi quindi implicitamente non più agli artisti dell’Informale bensì
a De Chirico.
8 G. Ungaretti, Prefazione, in Jean Fautrier, pittura e materia, a cura di Palma
Bucarelli, Milano, Il Saggiatore, 1960. Ora leggibile, con il titolo La pittura di Fautrier,
anche in SI, p. 671.
[ 4 ]
ungaretti e l’arte informale 801
re all’irrazionalismo. Come scrive Nello Ponente: «se la ragione infatti
non doveva intervenire in senso positivo, non c’era bisogno alcuno di
far intervenire il suo contrario, l’impulso inconscio»9.
Nella serie degli Otages Fautrier arriva addirittura a proporre una
pittura ancora sicuramente incentrata sulla materia ma non più priva
di tema.
La tematica è infatti quella dell’ostaggio che Palma Bucarelli definisce
così:
La condizione dell’ostaggio […] è latente nella condizione umana, è
una delle condizioni-limite dell’uomo moderno com’è pensato dalle
filosofie esistenzialiste. È lo stato della non-libertà che consiste, più ancora
che nella privazione, nell’offesa della libertà. È più che la negazione
individuale, che crea lo schiavo: l’ostaggio è la negazione della libertà
universale […] Fautrier lo rappresenta come corpo mutilato, senza
testa o senza tronco, carne anonima che ha subìto la violenza estrema10.
L’uomo privato della forma e dunque della figura, ridotto a puro
impasto di materia, è un uomo reso ostaggio della sua stessa carne,
eppure, anche così ridotto, sembra esprimere la sua protesta, aspirare
a una liberazione dalla materia, al riconoscimento in una nuova forma.
Il soverchiamento della materia conduce, per paradosso, quasi
all’annullamento della materia: secondo Ponente accade spesso negli
Informali che «la materia si è posta come in contraddizione con se
stessa e sembrava che quasi tendesse alla sua stessa abolizione»11.
La ricerca artistica di Fautrier è rivolta a un oggetto artistico che in
qualche modo renda misurabili e ricolleghi al soggetto umano le nuove
dimensioni di spazio e tempo come sono esperite nella contemporaneità.
È infatti la percezione odierna di spazio e tempo ad aver messo
in crisi la forma come espressione misurabile e razionale dell’uomo.
Tra le forme in crisi c’è ovviamente anche la poesia come forma
del linguaggio, al punto che il poeta Ungaretti come ogni altro poeta
moderno è costretto a interrogarsi sulla possibilità stessa di poesia nel
nostro tempo.
Esiste ancora la possibilità d’un linguaggio di poesia? Oggi il tempo è
divenuto tanto veloce che pare non esista più la possibilità di rapporto tra
9 Nello Ponente, L’arte astratta informale: il valore della materia, in L’arte moderna,
a cura di Franco Russoli, Fratelli Fabbri Editori, 1977, p. 283.
10 P. Bucarelli, Jean Fautrier, pittura e materia, cit., p. 82.
11 N. Ponente, L’arte astratta informale: il valore della materia, cit., p. 300.
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802 francesco sielo
tempo e spazio, che pare non esista più durata, cioè non esista più possibilità
di contemplazione e, per conseguenza, di espressione di poesia12.
Nella prefazione a Palma Bucarelli, Ungaretti si chiede come può
l’artista contemporaneo trovare una «misura liberatrice» da questa
«dismisura da Apocalisse».
Se l’uomo si dilata sino ad abolire il proprio spazio, le sue dimensioni,
i propri connotati e lo spazio; sino ad avere spavento del tempo e dei
caratteri del tempo incessantemente e innumerevolmente mutevole
nei suoi segni, e del perire; sino ad avere paura della memoria da cui
nascono di continuo strumenti, i sempre più terribili mezzi che l’uomo
non sa più dominare se non per esserne travolti – se in giro c’è una
dismisura da apocalisse, come il pittore (la pittura può come ogni linguaggio,
essere linguaggio essenziale, linguaggio di poesia), come il
pittore ne troverà misura liberatrice nella sua arte?13
Ogni epoca, secondo il poeta, deve necessariamente trovare un
nuovo linguaggio per la propria poesia, un linguaggio che «non è la
poesia. Ma […] ne è come il corpo all’anima»14 e, cercando un linguaggio
che possa sussistere anche senza forma, Ungaretti riscopre il frammento
poetico.
Prosegue quindi il suo discorso critico sulle tracce di Leopardi, il
quale «rifece in modo oracolare terribile come è buia la verità frammenti
di sue poesie dell’adolescenza, dando loro intensissimo l’effetto
di frattura abissale all’origine, di frattura abissale da ultimo». A partire
da Leopardi la forma della poesia può essere solo un «inciso allarme
tra due catastrofi», attraverso un «linguaggio macellato ma il più
ricco di indeterminatezza», poiché «noi che non percepiamo le mutazioni
della realtà, per la fretta eccessiva nella quale esse oggi avvengono
fuori e dentro di noi, se non per minime particole di frammenti,
non possiamo, se osiamo ancora scrivere poesia, se non ricorrere a
espressioni mutile»15.
Secondo Antonio Saccone la poetica del frammento, che tenta di
12 Durante i lavori del convegno sulle Avanguardie del 1965 presso la Comunità
Europea degli Scrittori a Roma, Ungaretti lesse un suo dattiloscritto del saggio
Difficoltà della poesia, apportandovi diverse aggiunte, tra cui il brano citato, ora
leggibile, insieme a varie altre informazioni, nelle Note a cura di Mario Diacono, in
SI, p. 1014.
13 La pittura di Fautrier, SI, p. 672.
14 Difficoltà della poesia, SI, p. 803.
15 Ivi, p. 810.
[ 6 ]
ungaretti e l’arte informale 803
riutilizzare la materia linguistica abolendo le vecchie forme, è riscontrabile
direttamente nei versi di Ungaretti, ad esempio nei quattro
frammenti della poesia Apocalissi:
La verità, per crescita di buio
Più a volarle vicino s’alza l’uomo
Si va facendo la frattura fonda16
Dove «l’anacoluto, che nell’ultimo dei quattro frammenti lascia in
rarefatta sospensione la parola “verità”, ne intensifica il valore di meta
attingibile solo per un incremento di oscurità»17.
Se Leopardi adoperò il frammento come soluzione sperimentale
per dare nuova vita alla materia linguistica dopo l’abuso di forme
classicistiche (ovvero nelle parole di Ungaretti lo «spavento della bellezza
»), oggi secondo il poeta «noi potremmo parlare di spavento
della materia, della materia che soffoca la bellezza, della materia che
rende a noi l’esprimere poesia, difficile più che in qualsiasi altra
epoca»18.
Il frammento è tuttavia una materia particolare: isolata dal contesto,
essa non è misurabile, non è riconducibile a una retorica, risulta
avere valore solo in quanto memoria di un organismo più vasto, ormai
perduto. Gli informali, influenzati in questo, secondo Argan, dalla
filosofia di Bergson (a cui fu sensibile anche Ungaretti stesso), riconoscono
quindi che, ove sparisca la forma, è possibile continuare a
creare arte, anche se in «regressione dall’oggetto» attraverso una materia
che «conserva come sua unica struttura la memoria»19.
16 Apparsa sulla rivista «Paragone» nel 1961 poi in volume nel 1964 con la didascalia
«Quattro Cori inediti in volume», quasi a ricollegarla agli Ultimi cori per la
Terra Promessa. G. Ungaretti, Apocalissi, in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a
cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, p. 289 [d’ora in poi citato con la
sigla TP].
17 Antonio Saccone, Ungaretti, Roma, Salerno Editrice, 2012, p. 259. Il secondo
frammento di Apocalissi («Se unico subitaneo l’urlo squarcia / L’alba, riapparso
il nostro specchio solito, / Sarà perché del vivere trascorse / Un’altra notte all’uomo
/ Che d’ignorarlo supplica / Mentre l’addenta di saperlo l’ansia» TP, p. 329) è
invece messo in relazione da Spignoli con le opere di Fontana. Teresa Spignoli,
Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura, Pisa, ETS, 2014, p. 261. Si potrebbe aggiungere
che l’urlo è materia linguistica informe che squarcia la trama ordinaria
della poesia come il gesto di Fontana lacera la tela, impedendo una rappresentazione
formalizzata.
18 Difficoltà della poesia, SI, p. 804.
19 G. C. Argan, L’arte moderna 1770/1970, cit., p. 635.
[ 7 ]
804 francesco sielo
La memoria è infatti «un frammento di realtà: ma proprio perciò
realizza tragicamente la nostra esistenza frammentaria, il dramma del
nostro essere-nel-mondo e tuttavia estraniati dal mondo […] la condizione
di un “esistere” che non è un “vivere”, quella che Sartre ha descritto
nella Nausée»20.
Eppure per Ungaretti la civiltà occidentale si distingue dalle altre
in quanto civiltà della misura e rischia di perdere il proprio unicum
laddove si arrenda alla dismisura, ovvero alla mancanza di memoria
in quanto solida forma e tradizione del passato. Secondo Ungaretti è
inoltre un paradosso che le scienze della misura, le cosiddette scienze
esatte, abbiano contribuito nella modernità a relativizzare ogni misura
fino a riconoscere, con Heisenberg, che una misurazione esatta, in
alcuni casi, non è possibile21.
L’avanzare delle scienze della materia rischia di tradursi in un imprigionamento
spirituale dell’uomo, il quale sembra contemporaneamente
prigioniero e senza più limiti.
La dismisura da Apocalisse è per l’Ungaretti critico di Fautrier, l’abolizione
dei propri limiti umani e dei limiti di qualsiasi oggetto. Nel
momento in cui la materia non è più delimitata, sulla superficie del
quadro, da linee e segni significanti che descrivano una natura esterna
e oggettuale, ecco che la nozione stessa di spazio entra in crisi. L’Informale
rende visibile l’abolizione dei limiti che le nuove tecnologie hanno
già messo in atto: l’uomo si confonde sempre di più con i propri
strumenti, tanto interiorizzati da diventare vere e proprie protesi. La
smaterializzazione di parte della vita umana, la virtualizzazione già
iniziata a fine ’800 e inizio ’900 grazie a strabilianti invenzioni come il
telegrafo, la radio o il telefono, fa sì che il sentimento dell’infinito,
proprio della poesia e dell’arte in genere, non possa più essere espresso.
Come infatti Ungaretti confida a Paulhan: «le sentiment de l’infini
ne peut être communiqué que par l’objet dont la précision des limites
est à l’extrême rigoureuse»22.
20 Ivi, p. 640.
21 La natura «terribile, di cui parla Heisenberg e di cui si ha nozione dalla fisica
d’oggi, per la quale i vecchi numeri sono incapaci a trovare sviluppi di misure
esatte, e che procede ancora si direbbe per demenza». G. Ungaretti, Lettere a un
fenomenologo, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1972, p. 61-62.
22 Lettera di Ungaretti a Paulhan in Correspondance Jean Paulhan Giuseppe Ungaretti
1921-1968, a cura di Jacqueline Paulhan, Luciano Rebay e Jean-Charles
Vegliante, Paris, Gallimard, 1989. Su rapporti e parallelismi tra Ungaretti,
Paulhan, Fautrier e Sartre vedi Maria Carla Papini, Ungaretti e la pittura informale,
«Revue des Études Italiennes» 54 (2008), n. 1-4, pp. 225-244 e pp. 236-241.
[ 8 ]
ungaretti e l’arte informale 805
La dismisura ovviamente riguarda anche il tempo, e l’Ungaretti
lettore di Bergson non può non considerare come la percezione del
tempo sia modificata da «i sempre più terribili mezzi che l’uomo e la
sua memoria non sanno più dominare»: i mezzi che l’uomo ha creato
dalla materia per poter dominare la materia lo illudono di poter in
qualche modo dominare anche la sua stessa essenza, ovvero il tempo
interiore, la sostanza della vita.
In un componimento de L’Allegria, L’affricano a Parigi, Ungaretti
aveva già espresso questa feroce illusione propria dell’uomo civilizzato
e urbanizzato, oramai distante da quella vita naturale a cui il poeta
si era sentito vicino nella sua infanzia e adolescenza ad Alessandria
d’Egitto.
Parafrasando la complicata prosa poetica ungarettiana leggiamo
infatti come, all’uomo civilizzato,
la morte non saprebbe più mettergli paura, snaturato, ma scelto senza
scampo come preda del terrore assiduo del futuro, tornerà sempre a
lusingarsi di potersi conciliare l’eterno se a furia di noiosi scrupoli, indovinata
in un brevissimo soffio la grazia fortuita di un istante raro,
vagheggi che in mente gliene possa a volte restare un qualche emblema
non offensivo23.
L’uomo civilizzato ha addirittura la pretesa di «potersi conciliare
l’eterno», di dominare il tempo, non appena riesca, grazie alla sua memoria,
(la scienza che è figlia di memoria24) a crearsi un innocuo emblema
del tempo.
In una stesura precedente (1931) troviamo una versione più semplice
rispetto all’edizione ne varietur: l’intero brano è infatti assente e
al suo posto si trova la frase «qui non si teme la morte, ma l’avvenire»25.
La paura della morte, nella vita civilizzata, è stata sostituita dall’angoscia,
anche ingiustificata, verso il futuro e dunque verso un’ipotetica
Apocalisse che il futuro ci riserva.
23 «Non saprebbe più mettergli paura, snaturato, la morte, ma senza scampo
scelto a preda dall’assiduo terrore del futuro, tornerà sempre a lusingarsi di potersi
conciliare l’eterno se a furia di noiosi scrupoli un giorno indovinata nel brevissimo
soffio la grazia fortuita d’un istante raro, vagheggi che in mente gliene
possa a volte restare un qualche emblema non offensivo». L’affricano a Parigi, TP,
p. 92.
24 E non più la poesia e le altre muse, figlie di Mnemosine secondo la mitologia
greca.
25 Varianti, TP, p. 660.
[ 9 ]
806 francesco sielo
Ma qual è l’innocuo emblema di cui parla Ungaretti? Interpretare
un’allegoria senza possederne la chiave può essere un’operazione illegittima
oltre che infruttuosa. Pure, se non si azzarda un’ipotesi su
quest’emblema, la comprensione dell’intero componimento risulta
vaga.
Notiamo innanzitutto l’ambiguità di «gliene», che può sembrare
riferito tanto alla «grazia fortuita» dell’istante raro (a cui logicamente
e sintatticamente si collega), quanto all’«eterno» stesso con cui l’uomo
vuole conciliarsi. L’emblema allora, che non può essere semplicemente
un oggetto definito, si identifica come incarnazione dell’istante
raro in cui l’uomo si riconcilia con l’eterno, ovvero accetta la propria
mortalità senza angoscia del futuro, al di là di tutti i «noiosi
scrupoli» dell’esistenza civilizzata. Altro elemento essenziale è però
che l’emblema sia «non offensivo», il che potrebbe farci supporre che
normalmente gli emblemi con cui l’uomo tenta di conciliarsi l’eterno
siano invece emblemi offensivi. Considerando che questa prosa poetica
ha come suo tema la differenza tra una civiltà ancora naturale
(quella, idealizzata, di Alessandria d’Egitto dove il poeta ha trascorso
la sua infanzia) e la civiltà urbana, si potrebbe supporre che l’emblema
offensivo sia proprio la macchina su cui si basa la civiltà moderna.
Frutto di millenari sforzi metrici, figlia della «memoria» dell’uomo,
la macchina è per Ungaretti l’estremo tentativo dell’uomo per dominare
il mondo materiale e quindi per controllare razionalmente la
propria esistenza. Protetto dalla macchina l’uomo impara a non aver
più paura della morte, a credersi scioccamente immortale e cade quindi
preda senza scampo del terrore del futuro. L’emblema, teoricamente
eterno come è eterna la materia, il metallo o la plastica di cui è composto,
rischia di offendere l’uomo, di rinchiuderlo in una dimensione
esclusivamente materiale, una ‘cattiva infinità’ dello spazio e del tempo.
È in effetti l’idolatria della macchina come soggetto che Ungaretti
imputava ai futuristi, ossessionati dalla materia.
Nel saggio L’ambizione dell’avanguardia, in cui riprende alcune argomentazioni
di un suo saggio precedente, ovvero Naufragio senza fine,
Ungaretti ribadisce come a suo avviso la macchina non possa essere
considerata qualcosa di «innocente», ovvero vitalistico e istintivo
come avevano affermato i futuristi. Questi avevano finito per fare della
macchina l’emblema della materia istintuale contro la forma, simbolo
della tradizione ormai invecchiata. Al contrario la macchina è per
Ungaretti «una materia formata, severamente logica nell’ubbidienza
di ogni minima fibra a un ordine complessivo: la macchina è il risulta-
[ 10 ]
ungaretti e l’arte informale 807
to di una catena millenaria […] non è materia caotica […] nella macchina
si attuano prodigi di metrica»26.
In quanto materia metricamente informata e regolata, anche la
macchina può avere un valore estetico – ed è il merito che Ungaretti
riconosceva a Marinetti già in Commemorazione del futurismo – eppure
Ungaretti vede nella macchina un paradosso: essa è nata dalla misurazione
e accorta disposizione della materia naturale ma ad un certo
punto essa diventa, nell’immaginario umano, innaturale e senza misura.
C’è in esse [nelle macchine] un conflitto tra metrica e natura; ed essere
umani è invece il disperante tentativo di mettere in armonia natura e
metrica […] di continuo viviamo l’acceleramento portato alla storia
dalla macchina, la precarietà che ne viene agli istituti sociali, e al linguaggio
che non sa più come fare per avere qualche durata27.
La macchina è uno strumento che ha realizzato alcune grandi fantasie
dell’uomo – Ungaretti cita il volo nello spazio e la «parola udita
[…] senza ostacoli di distanza temporale o spaziale» – ciononostante
realizzandole le ha in qualche modo sottratte all’uomo, come se le
avesse realizzate autonomamente. Ungaretti si chiede allora «Quale
sforzo dovrà sempre più fare per ridare valore sacro alla vita e alla
morte? […] come potrà l’uomo di fronte a tali miracoli sentirsi ancora
grande? […] Come farà l’uomo a non essere disumanizzato dalla
macchina?»28
Inaspettatamente, a fronte di queste domande, Ungaretti risponde
che gli «sforzi folli» che occorrono per ottenere questo risultato sono
stati compiuti oggi dagli artisti migliori e, tra gli altri, conclude con i
nomi di Fautrier e Burri.
Gli informali dunque, secondo Ungaretti, riescono da un lato a
protestare contro il soverchiamento della materia, dall’altro a esprimere
correttamente questa materia, giungendo infine a riconciliare i
due grandi poli della riflessione ungarettiana, ovvero innocenza e me-
26 L’ambizione dell’avanguardia, SI, p. 870.
27 Ivi, pp. 871-872.
28 Ivi, pp. 872-873. La macchina, oggetto, materia formata dall’uomo, diventa
soggetto, in grado addirittura di disumanizzare e alienare l’uomo. In questo testo
Ungaretti esprime l’angoscia propria anche degli Informali riguardo gli oggetti
che dominano i soggetti. È interessante notare come Ungaretti finisca tuttavia per
esprimere lo stesso pensiero dei futuristi a cui si oppone, colpevolizzando l’oggetto
quasi fosse un vero e proprio soggetto. Nella riflessione ungarettiana non c’è
mai in effetti una problematizzazione su chi utilizza le macchine e a quale scopo.
[ 11 ]
808 francesco sielo
moria. La materia di Fautrier non è più una materia tecnologicamente
misurata e formata, la materia-macchina cara ai futuristi e non è nemmeno
una materia «totalmente disanimata», correlativo di un uomo
ormai irrimediabilmente alienato e reificato. È invece una materia che
attende nuove possibilità di forma e dunque di memoria complessiva
e di tradizione.
Esprimere le ragioni della materia abolendo la forma non significa
in effetti, per gli informali, eliminare ogni possibilità di forma ma semplicemente
mettere da parte le forme tradizionali per lasciare che nuove
ipotesi di forma si sviluppino spontaneamente. Come scrive Francesco
Arcangeli «l’informale non è il senza forma ma la forma non
premeditata»29, quindi non razionale e non inquinata da quell’eccesso
di memoria che ha reso la razionalità colpevole.
Il caos della materia informale diventa dunque opportunità di scoprire
nuove forme. Senza più un destino razionalmente prefissato ci si
concede la possibilità di immaginare nuovi destini.
Il processo dialettico tra materia e forma non è però indolore, come
abbiamo visto, ed è per questo che Ungaretti sviluppa un profondo
interesse per Burri e il suo «manifestare l’oppressione della soverchiante
materia», grazie ai «tentativi d’evasione dalla materia e di liberazione
dell’anima»30, sempre presenti nelle sue opere. Al contrario
di Fautrier, Burri non vuole che la materia sia aperta all’acquisizione
futura di nuove forme, né desidera conservare al fondo della pittura
un oggetto naturale31.
Burri utilizza volutamente materia non predisposta alla sublimazione
cioè stracci, sacchi, lamiere, plastiche ecc.: in queste materie ‘ultime’,
in questi rottami e spazzature, l’immaginazione non si impiglia
facilmente e dunque non è possibile cercare una nuova forma nella
materia caotica.
D’altronde, secondo Calvesi: «Ungaretti aveva ben chiaro come la
pittura, tra tutte le arti, è già l’arte “meno adatta ad astrazioni per la
stessa specie delle materie a cui è legata: polveri intrugliate” ma per
29 Francesco Arcangeli, Romanticismo, neoclassicismo, informale, razionalità, in
Id., Dal romanticismo all’informale 1970-71, Bologna, Alfa, pp. 10-14.
30 Difficoltà della poesia, SI, p. 809. Una combustione di Burri viene scelta da
Ungaretti nel 1968 come complemento alla raccolta Dialogo, realizzata in pochi
esemplari numerati e fuori commercio e contenente le poesie di Ungaretti e di
Bruna Bianco.
31 Fautrier affermava la necessità di un tema, di un soggetto reale che non deve
essere «troppo preciso» ma la cui «assenza totale è peggio ancora che la presenza
stessa». Jean Fautrier, Écrits publics, Paris, L’Échoppe, 1995, p. 38.
[ 12 ]
ungaretti e l’arte informale 809
avvertire come su questa bruta materialità possa e debba insistere
“l’influenza trasfiguratrice della mente”», dove però si deve anche avvertire
che «trasfigurare non è astrarre»32. Burri nelle sue combustioni,
nei suoi sacchi, parla da un lato della materia che non riesce a sublimarsi
più attraverso la trasfigurazione dell’attività artistica (pur elevandosi
ancora in un diverso senso); d’altra parte Burri sta parlando
del ‘materiale umano’, dell’esistenza dolorosa di uomini soggetti alla
brutalità della storia e della guerra. Scrive Argan che «è certo possibile
individuare nelle lacerazioni e ferite della materia un’iconografia della
sofferenza e, al di là di essa, un principio formale o di struttura (la
coscienza) che l’offesa e lo strazio della materia (la carne) non riesce a
cancellare»33.
Quello che affascina Ungaretti è dunque la rappresentazione tragica
della materia: questa materia bruciata, forata, lacerata e variamente
ricombinata non è altro che l’uomo stesso ridotto a materia.
Non a oggetto né ad automa ma a pura e semplice carne disanimata.
La follia della razionalità al servizio dei totalitarismi l’ha ridotta a
questo stato: inferiore anche alla macchina poiché la macchina ha una
funzione e ha dunque un destino. L’uomo invece no.
Nel primo numero della rivista «Civiltà delle Macchine» Ungaretti
pubblica una Lettera a Leonardo Sinisgalli per rispondere alla sua domanda
su «quali riflessioni […] vengano suggerite dal progresso moderno,
irrefrenabile, della macchina». Questo testo viene poi ripubblicato,
con minime varianti, con il titolo L’ambizione dell’avanguardia, su
«Il Verri» dell’ottobre 1963: ad essere cassata è sostanzialmente una
parte in cui il poeta, parlando della possibilità di ispirazione poetica in
una civiltà dominata dalla macchina, istituisce un interessante parallelismo
tra Fautrier e Burri:
Quando io guardo gli Otages di Fautrier, e sono le pitture dove si vede
come durava fatica a spezzare le sue catene la passione di libertà della
Resistenza, so che il pittore ha compiuto opera umana in modo stupendo.
Quando io guardo un quadro di Burri e vedo che, ritornato dai
campi di concentramento nazisti, egli mostra come un bubbone che si
vuota, la fantasia di quei carnefici, e mostra il sangue e il fuoco che
furono il prezzo della libertà, come un’eruzione imposta da un disumano
cratere, io sento che Burri è profondamente umano34.
32 Maurizio Calvesi, Ungaretti. La biblioteca di un nomade, Roma, De Luca,
1997, p. 106.
33 G. C. Argan, L’arte moderna 1770/1970, cit., p. 642.
34 Note, SI, p. 1021.
[ 13 ]
810 francesco sielo
Sembra in effetti che il poeta stia confondendo il campo di prigionia
americano in cui Burri fu rinchiuso durante la guerra con i campi
di concentramento nazisti ma non importa: l’artista contemporaneo è,
sempre e inevitabilmente, un disperato testimone del valore della libertà
di spirito in mezzo alla prigionia della materia.
Tornando ora a una prosa che abbiamo già esaminato, Difficoltà della
poesia, possiamo ricordare come uno dei modi che l’artista contemporaneo
ha, secondo Ungaretti, per esprimere il soverchiamento della
materia sia attraverso «ideogrammi», ovvero segni senza materia, secondo
un procedimento opposto eppure coincidente nel risultato a
quelli di Fautrier e Burri.
Il segno serviva infatti tradizionalmente a contenere la materia in
una forma, per esempio a delimitare parti di diversa materia colorata
affinché assomigliassero a oggetti della realtà da rappresentare. Se
Fautrier aveva presentato una materia non racchiusa in nessun limite,
Michaux al contrario ci mostra un segno senza più materia, quasi
‘spolpato’ direbbe Ungaretti, ridotto a ideogramma. È noto l’interesse
di Michaux per le scritture orientali ma in effetti questo interesse derivava
dal fatto che Michaux non sapeva leggere gli ideogrammi cinesi
o giapponesi. Per lui erano quindi segni senza significato, o per meglio
dire con tutti quei residui di significato che l’immaginazione può
attribuire loro attraverso un procedimento che si potrebbe definire
pittografico.
L’interesse di Ungaretti per Michaux deriva quindi dal fatto che
l’artista utilizza un linguaggio (quello dei segni pittorici) svuotandolo
del suo significato tradizionale ma lasciandolo al contempo aperto
all’acquisizione di nuovi significati.
Ciò in poesia è più difficile perché il segno poetico minimo, ovvero
la parola, non può rinunciare a quella che Montale definiva «la pretesa
di significare». Eppure come Ungaretti scrive nel Delle parole estranee e
del sogno d’un universo di Michaux e forse anche mio, le nostre parole
sembrano non servirci più, non significare nulla che riguardi la nostra
profondità. Per usare ancora il linguaggio occorre dunque spogliare le
parole della loro funzione di segni e per farlo, secondo Ungaretti, occorre
aumentare la loro indeterminatezza come aveva già fatto Leopardi.
Leopardi, che già distingueva tra parola e termine, il termine essendo
determinato, oggettuale, scientifico, la parola invece essendo
indeterminata, polisemica e poetica, attraverso l’indeterminatezza disarticolava
il discorso e riusciva quindi a togliere al linguaggio il suo
[ 14 ]
ungaretti e l’arte informale 811
valore tradizionale di segno. Il poeta dava alla parola «al di là del suo
significato preciso, quel margine di illusione infinita nella quale potessero
vagare la fantasia e il sentimento, quel margine dove la parola
fattasi poesia contiene l’inespresso inesprimibile»35.
Sono diversi i sistemi con cui si può aumentare l’indeterminatezza
delle parole e si potrebbero disporre in una gamma che va dalla totale
assenza di significato alla presupposta precisione assoluta di un termine
tecnico. La parola del tutto non significante è ad esempio quella
della poesia metasemantica, dove pure il neologismo scherzoso e senza
significato (il «lonfo») acquisisce un senso dal contesto e dall’accostamento
con parole e altre strutture linguistiche significanti («Il Lonfo
non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando
soffia il bego a bisce bisce, / sdilenca un poco e gnagio s’archipatta»36).
Parola significante ma impastata di puro materiale sonoro («nel centro
di quei tam-tuuumb spiaccicati»37) è l’onomatopea, di cui Ungaretti
segnalava l’abuso nei futuristi. Infine è possibile l’uso della parola come
segno significante ma inserita in una struttura che ne rende complicata
la comprensione, come nel caso di molti versi dello stesso Ungaretti:
«dondolo di ali in fumo / mozza il silenzio degli occhi»38 oppure
«gracili arbusti, ciglia / di celato bisbiglio»39.
La coincidenza del procedimento criptico di Michaux con l’Ungaretti
più ermetico è chiaro. La parola non è più rappresentazione ma
oggetto naturale, cresciuto secondo sue proprie regole, talvolta inesplicabili,
esattamente come Ungaretti afferma dell’opera d’arte informale.
Nel caso di Fautrier ad esempio: «non sono però i suoi dipinti
imitazioni della natura ma sono come fossero vita vivente della natura,
particolari casi nuovi, indimenticabili, della natura stessa»40.
Nel saggio dedicato a Michaux, o che per meglio dire prende a
pretesto Michaux, Ungaretti tira le fila del suo discorso:
le parole stesse […] certi movimenti nella pittura, ci sono diventati del
tutto estranei. Li accettiamo come sprofondati nella storia, con una loro
vita storica che però non ci può riguardare da vicino. […] Oggi tutto
35 Difficoltà della poesia, SI, p. 809.
36 Fosco Maraini, Il lonfo, in Id., Gnosi delle Fànfole, Milano, Baldini & Castoldi,
1995, p. 47.
37 F. T. Marinetti, Zang Tumb Tumb, in Id., Teoria e invenzione futurista, cit., p.
639.
38 Lindoro di deserto, TP, p. 24.
39 Lago luna alba notte, TP, p. 115.
40 La pittura di Fautrier, SI, p. 671.
[ 15 ]
812 francesco sielo
quello che era convenzione e rettorica sulle quali si fondava il discorso
umano, è diventato insostenibile […] L’uomo, mi pare, non riesce più
a parlare. C’è una violenza nelle cose che diventa la sua propria violenza
e gli impedisce di parlare. […] Le cose mutano e ci impediscono di
nominarle […] Forse è perché testimoniano un mondo apocalittico dove
l’uomo vive con la possibilità di autodistruggersi. Tutto si accumula
sullo stesso piano, e tutto questo presente accumulato forma una specie
di buio dove non si distinguono neppure i connotati del proprio
tempo perché il tempo va avanti con una velocità che non è di misura
umana. Potrebbe essere questa l’apocalisse41.
Francesco Sielo
Università della Campania “Luigi Vanvitelli”
41 Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux e forse anche mio, SI, p.
842.
[ 16 ]
ELLA IMBALZANO
Le visionarie microstorie degli «indigenti»
di Matteo Collura
Questo romanzo disgrega le residue resistenze del neorealismo mediante una
scrittura che, in sintonia anche con un clima diffuso della narrativa d’oltreoceano,
inietta nella cronaca e in un tassello della Storia una tensione visionaria in
grado di slanciare le più elementari esigenze esistenziali di un umile microcosmo
palermitano verso il sogno di un riscatto. Da qui, un tono epico-lirico al
quale è controcanto il larvato commento che l’autore accorda al grido e all’elegia
di fondo.

This novel disrups the remaining endurance of neo realism through the use of
a writing that, according to the overseas popular way of story-telling, instils
into the chronicle and in an inlay of History e visionary look able to launch the
very basic existential needs of a poor microcosm in Palermo towards a dream
of redemption. From thi outlook it appears an epic-lyrical tone whose counter
melody is the veiled comment that the writer tunes to the sufferings and the
hidden elegy.
Le macerie della società e della Storia, lette nelle loro molte sfaccettature
dal vigile sguardo di Matteo Collura, giornalista assiduo, nei suoi
impegnati inizi, nel seguire la cronaca, rimbalzano in una folta produzione
narrativa che allarga il campo di osservazione dall’iniziale Associazione
indigenti1, romanzo paradigmatico di una condizione esisten-
Autore: Università di Messina; docente a contratto; eimbalzano@libero.it
1 Matteo Collura, Associazione indigenti, Torino, Einaudi, 1979. II romanzo,
ristampato nel 2001 per i tipi della Tea (da qui le nostre citazioni), con l’aggiunta
del sottotitolo (ovvero «I miserabili a Palermo»), aveva ricevuto il pieno consenso
di Italo Calvino che, accogliendolo nella collana “I nuovi coralli”, lo aveva definito
«romanzo-documento […] tenuto con mano di scrittore molto sicura e sobria e efficace
», e ne aveva rilevato lo slancio innovativo della tradizione verghiana per la
«coloritura epico-metaforica molto contenuta» e di nessun disturbo alla «resa funzionale
dei fatti, delle voci, degli ambienti». Romanzo significativo di un preciso
momento storico perché «della protesta atomizzata, generalizzata, ma isolata di
814 ella imbalzano
ziale che va oltre quella della nativa Sicilia, fino alle opere successive,
fra cui Eventi2, «il racconto dell’Italia del Novecento», come lo definisce
il sottotitolo, per l’individuazione di tappe miliari della documentata
vicenda, complessa e varia, del secolo alla quale l’Isola non è
estranea. Con Associazione indigenti3 siamo nell’ambito di una riproposizione
del realismo, che non è tardivo recupero, né batte le strade
della scrittura programmaticamente spoglia, non coinvolta sul versante
scivoloso delle passioni, qual è quella del realismo canonico (nonostante
qualche sua faglia di partecipazione soggettiva), ma si vena
di un’abbagliante visionarietà e di elementi di un grottesco caro all’anima
siciliana (pensiamo anche, esemplarmente, a Pirandello), ma, in
Collura, più sofisticato e intriso di pensosa pietà e, insieme, di un battente
impulso di protesta contro l’ingiustizia e il male. Si tratta di un
male sociale, che si impone, subito, nello straniamento di azioni, costernate
esclamazioni, gesti, meccanicamente ripetuti in una sorta di
alienazione disperata: «Come ogni mattina, verso le nove, l’uomo passò,
braccia dietro la schiena e testa penzoloni, davanti al cumulo di
mondi sociali che smaniano ognuno per sé senza quell’ipotesi d’un riscatto generale
possibile o almeno immaginabile che sarebbe stata implicita in un simile romanzo
di denuncia di 30 o 20 o 10 anni fa», si propone, pertanto, attuale solo nel
senso che «la disperazione ormai accettata come un dato di fatto e resa con una
sorta di pazienza nell’osservare il male, torna a rendere attuale il verghiano corale
dei “vinti”».
2 Matteo Collura, Eventi, Milano, Longanesi, 1999; poi con il titolo Novecento,
Tea, 2001.
3 L’opera, giudicata da Giovanni Raboni («Corriere della sera», 9 marzo
2001) il risultato di un «calcolato equilibrio fra credibilità documentaria e indipendenza
fantastica», definita da Bruno Rossi («Gazzetta di Parma», 18 aprile 2001)
«stupefacente» nel respiro narrativo inedito di una «levità» coniugata alla durezza
della denuncia, e da Giuseppe Quatriglio («Giornale di Sicilia», 20 giugno 2012),
«fondamentale» nel cammino di Collura nel mondo delle lettere, punta, in una
nota in appendice, su una voce dell’autorevole dizionario Tommaseo-Bellini per
ribadire e rendere ancor più chiaro il proprio assunto: «indigenza è bisogno delle
cose più necessarie; inopia è il difetto ora di tale o tal cosa, or di tutte. Nel traslato
(ma nella lingua scritta): inopia di consiglio, d’amici, d’ingegno». Pertanto, non
appare troppo corsivo il giudizio di Calvino, che dà il via alla pubblicazione del
romanzo, sull’«unica rivendicazione possibile» per lo strato sociale che vi si muove,
«due pasti gratuiti anziché uno al giorno alla mensa dell’assistenza pubblica, e
pasti mangiabili anziché schifosi». Rivendicazione da cui, fa notare Calvino, il
Partito Comunista, probabilmente evocato sullo sfondo, prende le distanze, né
quello democristiano viene toccato, né mai si fa controparte dinanzi alla responsabilità
violata dall’assistenza pubblica espressa soprattutto nel personaggio di Lannina.
[ 2 ]
le visionarie microstorie degli «indigenti» di matteo collura 815
macerie. Erano lì da trent’anni, eppure quell’uomo, ogni mattina, seguitava
a lamentarsi: ah, la guerra, la guerra!». Le «occhiaie annerite»
di vecchi palazzi, le quali ricordano passi morantiani, sposate a un
quasi apocalittico scirocco, veritiero elemento dell’iperbolica natura
della Sicilia, erigono uno scenario indicativo di collettiva disperazione
e del senso di annientamento e solitudine dei personaggi: «di carta e
bestemmie» – un assemblaggio, di lessico concreto e astratto, lontano
dalle convenzioni del realismo –, i «mulinelli» dispersi dal fuoco del
vento, metaforici avvisi di vita annullata, precedono la caduta di un
passero «floscio di morte» (tipico costrutto di matrice simbolista), che
ulteriormente connota la pagina di una cupa simbologia, replicata a
sua volta da altra morte. È la simbologia di un topo «pendulo» e «gonfio
», impiccato tra le replicate «macerie» da ragazzini, di verghiano
spirito nella loro naturale crudeltà di sconfitti inclini a infierire sui più
deboli: e fra loro passato di mano in mano prima che un «gatto magro
» lo aggraffi. Dai suoi «dentini bianchi fuori dalla bocca ritratta»,
assimilati alla «dentiera arrogante» del dottor Lannina, opaco e cinico
Direttore dell’Ente Assistenza Poveri, nell’incipit del romanzo, millimetrato
nella struttura in particolari prolettici dell’intricato percorso
tematico, prende abbrivo la corrente dei fatti che vedono quale primo
attore, in un’azione corale, l’umile campione, difensore della giustizia
offesa, Giuseppe Boscone. Ne scaturisce un’epopea del quotidiano, in
cui un soggetto astratto, la «smania» generale che anima i balconi in
una notte di luna piena, si accende del significato dei bisogni di rivalsa
dei «miserabili» di Palermo, abusivi della corrente elettrica pubblica
con una «ragnatela» di fili. Intanto si fa strada un pesante gergo
realistico, dell’insurrezione contro il «Governo […] ladro» e della sfiducia
nei sindacalisti incuranti di dare una mano alla nascita dell’Associazione
indigenti promossa da Boscone. Mano a mano cresce una
elementare coscienza civica, ragguardevole il numero degli iscritti.
Ma tutto appare stagnante: «tuguri» (il termine ricorre più volte) abbandonati
dai proprietari in vana aspettazione di un risanamento del
centro storico, sempre sbandierato dai politici, che ne consenta la riappropriazione;
pozze maleolenti in cui saltellano ragazzini; gente «dimenticata
», case «dimenticate»; vicoli-labirinti impenetrabili dalle
Forze dell’ordine. Un torpore parallelamente comprovato dalla triade
di binomi lessicali definitori dell’insensibile Direttore Lannina: «sagoma
tozza […], faccia molliccia […], occhiali antipatici». Ma prende
piede, con apparente noncuranza, a onta di tale stasi, l’azione, come
preannunciata da quelle pupille «risentite» di Boscone propulsore di
questa vicenda di riscatto, metaforicamente «perforanti […] il buio»,
[ 3 ]
816 ella imbalzano
dalla «nausea» di lui che è insieme fisica e interiore, azione che nasce
da un «morso» fisico e diviene morso.
Il clima arroventato che l’azione, convulsa, convoglia verso una
scrivania dai «precedenti inconfessabili» prelevata per i lavori di segreteria
della nuova Associazione, stimola un pullulare di triadi verbali
che generano una scrittura scolpita in fulminazioni e non l’andamento
piano proprio della pagina realistica ritualmente descrittiva.
Triadi che, facendo capo allo sguardo di un Boscone sempre consapevole
(sguardo caratterizzante il personaggio che, quasi alter ego del
narratore, sempre fissa), benché «bastonato» dal vino (così da «tastare
col fondoschiena tutti gli scalini della chiesa»: un’immagine che stravolge
ma al contempo percuote il reale) sotto un cielo nero, ritagliano
il campo memoriale di oggetti sintomatici di povertà e abbandono da
lui raccattati, e focalizzano quello visivo sull’intreccio palpitante: si
arresta, «si sgranchisce sbadigliando in faccia alla Martorana», «si lascia
cadere sul divano tremolante» davanti a Boscone immobile, i gomiti
piantati su uno scalino, il conduttore di un furgoncino prima che il
racconto abbia una ripresa in un crescendo verbale di quattro membri:
«Il furgoncino si lanciò nel traffico mattutino, scansò per un pelo una
bancarella di fiori in piazza San Domenico, finì inghiottito in un vicolo
della Vucciria e si arrestò davanti a una scrivania ammuffita». Così che
la pagina, nella geometria di un’escalation di quattro indicatori verbali
dopo, nelle rapide mosse del racconto-rappresentazione, sposta la scena
verso una Palermo mai nominata4, avulsa dal rilievo di ogni nobile
memoria, come lo sarà da ogni orpello di colorato folklore quando la
celebrazione della patrona, Santa Rosalia, occuperà un intero capitolo
appuntato sulla rassegnata e, tuttavia velleitaria, psicologia degli
sconfitti. Su questo piccolo mondo, già messo in subbuglio dal delinearsi
di una speranza, da un progetto, per i quali i vinti si sono affannati
a imprimere «incomprensibili moduli» con «crocette terremotate»,
indugia l’attenzione di un narratore il cui libro, come dice Sciascia,
«nato dalla cronaca, scritto da un giornalista attinge alla fantasia, è
diventato fantasia», sbalzando una «disperata epopea» dagli «anfratti
più antichi e fatiscenti di una città meridionale»5. È implicito, nell’at-
4 Vincenzo Consolo («Giornale di Sicilia», 13 settembre 1979) fa notare: «Palermo
non è nominata neppure una volta». Sergio Ramat («La Nazione», 12 aprile
1980), dal canto suo, parla di una «capitale in cenci, mai chiamata per nome».
5 Leonardo Sciascia, Storie della Palermo dei poveri raccontate da Collura, «Il
Mattino», 13 dicembre 1979. L’articolo documenta con scrupolo la vicenda di quella
via dei Coltellieri macchiatasi nel tempo di un elemento legato ai «micidiali ri-
[ 4 ]
le visionarie microstorie degli «indigenti» di matteo collura 817
tingere di Collura alla fantasia, per dar corpo a questa realtà e spessore
di convincimento alla nuda cronaca, dichiarati da Sciascia, quel lirismo
che è filo conduttore di tale epica6. Ciò avviene attraverso il processo
fonico discreto di modulazioni endecasillabiche allusive7, e attraverso
lampi di immagini che trafiggono il testo divenendo indizi
dei suoi nuclei fondanti, in una pagina essenziale nel ritmo descrittivo
e in quello dialogico, la quale pure si infoltisce talora per calibrarsi in
funzionali quadri e consuntivi, in cui si elabora la visione critica di
uno stato diffuso di malessere e di volontà generale di una più vivibile
condizione. La citazione da I miserabili di Hugo, preposta a sigla
epigrafica dell’opera, sembra sporgersi direttamente sull’attacco, facendo
Collura propria, come doverosa, l’urgenza professata dall’autore
francese, «d’intravedere altre profondità, le profondità luride». Sono
quelle, inconfessate, di una società piagata, addentata da un potere
minuscolo, e però determinante, che annienta i deboli e si ammanta di
sarcimenti dell’onore» o alla «professione del disonore», e diventata, «al numero
18, sede di una Associazione degli Indigenti. Disoccupati e Assistiti dell’ECA».
6 Collura stesso, in un’intervista rilasciata a Loredana Cacicia Biondo («Giornale
di Sicilia», 10 marzo 2001), sottolinea la scelta di consegnare i propri dati di
cronista non a un «saggio sociologico», ma a una «chiave narrativa» che adottasse
un «linguaggio epico-lirico», l’unico che potesse narrare con efficacia questa storia.
Perché «anche il più miserabile degli uomini merita un racconto». Rileva Giuseppe
Amoroso («Gazzetta del Sud», 10 marzo 2001): «Battendo l’accento sugli elementi-
cardine della pagina scabra e umorosa Collura stacca in una verghiana rappresentazione
lirico-narrativa, vocale o ripiegata in un sigillo d’ombra, i suoi poveri
eroi dai “lembi della città infame”». Il critico, poi, ravvisa nel realismo dell’autore
«quelle linee di tangenza che conducono a cristallini stupori metafisici, a un che di
stravolto e sublimato nello scarto degli incastri nebbiosi delle cose terrene», con
esiti di «estri romanzeschi» che scaturiscono pure da «certi dettagli fermi». E si
sofferma sull’«allucinazione collettiva», simile all’altra che «infiammerà un’altra
folla di perduti, quella convocata da Collura in Baltico (’88), sull’onda di una mortuaria
musica barocca».
7 «Serpeggiò a passi lenti tra le sedie»: annunciato, nella sua prima connotazione
comportamentale prudente e inquieta, dalla sonora cadenza dell’endecasillabo,
Boscone rivela subito dopo, nello stesso metro, con tono eloquente, la sua
nativa vena pensosa rivolta ai miserabili che «trovano sempre il modo di arrangiarsi
». Sul disagio dell’uomo di fronte alla frana morale del suo povero mondo
giunge quasi salvifico il «respiro della sera» quando «canto di donna gli arrivò più
limpido». Ancora, il verso nobile dell’epica mostra il personaggio come svincolato
dalla tirannia del «sole» e dall’angustia del «vicolo»: «si trovò sotto un cielo spalancato
». Tale scelta ritmico-stilistica impronta anche l’indifferenza misteriosa del
paesaggio posata sugli otto «scalcinati» nella Roma dell’inutile speranza: quel «riverbero
azzurrino di un tramonto».
[ 5 ]
818 ella imbalzano
quell’ipocrisia di cui l’autore sbalza l’ottusa protervia negli esponenti
degli organi istituzionalmente deputati al sociale.
Così, secondo un modo proprio di qualche luogo verghiano, non è
data come larvato simbolo, ma come l’avviso, dichiarato, di un alitante
presagio di spiacevole accadimento, una pioggia di fine estate. Si
tratta della funzione in arsi, indispensabile, di una pronuncia fisica del
cielo che fa diramare nervosismo nei refettori dei poveri e negli asili
notturni dei vecchi: «e un forte tuono fu come un esclamativo e come
un presagio. La pioggia fu improvvisa, furiosa […]. Ma l’acqua, tanto
avara a far capolino dai rubinetti quanto prodiga a cadere dal cielo,
quell’anno non fiaccò l’esercito dei disperati». E riprende subito quota,
e con un attacco sonoro, il realismo nell’insistita presenza umana:
«Costruendo argini di fango le donne si preparavano alla lotta, istigavano
gli uomini, insegnavano l’odio ai figli. Ci furono i soliti crolli nei
tuguri e l’atmosfera di emergenza accrebbe il prestigio dell’Associazione.
Le assemblee, affollate, non si contavano». Concorrono, dunque,
anche le donne a questa leggendaria rivolta degli umili, sottolineata
– ma anche altrove la scrittura ne è conferma – dall’occhieggiare
delle incalzanti, classiche simmetrie dei costrutti che effigiano i comportamenti8.
Bisognerà attendere, fra altre prove della scrittura al femminile
del successivo ventennio, almeno il Canto al deserto di Maria
Rosa Cutrufelli che, con asciutto passo di cronaca trapunto di stravolgenti
rialzi iconici, incide nei mali della disoccupazione e della miseria
8 In un «inverno malvagio» le cui «nebbie e nuvolaglie» impediscono quasi
del tutto la vista della «città prostrata», città che è presente in questa pagina per
una topografia di borghi di pescatori, solo enunciata e non descritta perché funzionale
al castigo del mare e del cielo imperversanti sui piccoli loro «ripari» e sui
quartieri di poveri raggelati nel sangue dal persecutorio suono delle sirene, sono le
donne ad agire, «non […] guardate neanche» dal Sindaco in fuga da una «porticina
laterale»: quasi forze di natura adirata come a prolungare la furia del paesaggio
sconvolto, esse, ponendosi quali poli di contrapposizione all’indifferente Autorità
locale, «imbestialite, corrono in Municipio, graffiano le guardie, si rotolano, sbavando
sui lastroni di Piazza Pretoria». Di queste donne e dei «paladini»-guida della
coraggiosa Associazione è il movimento la cifra interpretativa da estendere all’intero
libro, poiché viene posto in antitesi con la quiete codarda e disonesta delle
modeste Autorità e con quella quasi fatalistica dei miseri lambiti da una prospettiva
di essenziale riscatto. Una quiete per la quale la scrittura attrezza il modulo
della personificazione nei soggetti astratti che a distanza si richiamano corrispondendosi
per antitesi, con l’efficace esito di clima collettivo focalizzato nella sua
essenza. Pertanto: «la cattiveria dell’autorità raffredda i piatti; i tranci di pesce malscongelato
[…] immangiabili» soddisfano la prontezza di «sei code inalberate di
gatti»; «la timidezza dei commensali si specchia nel marmo dei tavoli».
[ 6 ]
le visionarie microstorie degli «indigenti» di matteo collura 819
e dei loro risvolti fra delinquenza e azione mafiosa, e, di Maria Attanasio,
Di Concetta e le sue donne, con la parola risentita, «impugnata»,
volitivamente forzata in un’irregolarità immaginosa (ma tale tensione
risulta, in vario modo, denominatore unico della produzione narrativa
femminile, intorno al Duemila, dell’impegno), e con la mimesi naturalistica
e compiaciuta di modi dialettali, consegnati a stampi sintattici
appositamente turbati, perché la corale voce delle donne rinverdisca,
nella scrittura, il realismo. Il quale, di certo, contrae in queste
scrittrici un debito rilevante con la tenuta narrativa di Collura, non
senza ereditare, anche in esiti prolungati, qualche incursione espressionistica
che colpisce, stravolgendoli, ma centrandoli, personaggi e
situazioni. Un espressionismo, quello di Collura, che, indice di un’ottica
etica risentita, mosso anche dalla lirica compassione di cui si è
detto, è fedele al vero9; e si avvale, secondo Mario La Cava, di una
9 Ammicchi espressionistici sopperiscono alla del tutto assente descrizione lineare
dei personaggi e ne effigiano i tratti gnomici che afferiscono al quadro complessivo
di uno stato psicologico ed esistenziale: pertanto, «le bocche aperte dei
bambini mostrano il cibo malmasticato»; «una cinquantina di bocche spalancate
mostra denti marci alla schiena sdegnosa del dottor Lannina»; la bocca di una moribonda,
«fessura violacea, sfiata più forte», e sono gli occhi «così spenti» da non
distinguersi nel buio; fra i manifestanti in via Maqueda, la «prima ad apparire […]
è la testa piccola e scarmigliata» di un’anziana, «occhietti puntuti», che inalbera,
insieme con un elementare turpiloquio insultante, un cartello che «non sa leggere»;
poi, un giovane brigadiere si illividisce redarguendo il drappello dei rivoltosi. A un
«modulo narrativo naturalistico-espressionista», il romanzo di Collura risponde,
secondo Salvatore Addamo («Il Mattino», 13 dicembre 1979), nel richiamare una
«farneticante ballata, un grottesco, ma nel senso del dolore, un picarismo quasi
perverso».
Ma, ancora, la pagina suscita atmosfere collettive di stravolgimento: «nel vicolo
crepitano le voci dei pettegoli»; una notizia è «un uccello notturno che gracchia da
un balcone all’altro, svolazza nei bar, distrae i giocatori di scala a quaranta»; nell’ospedale
psichiatrico che surrettiziamente imprigiona Boscone per un malessere
solamente fisico, «rotoli di garza assorbono la schiuma rabbiosa» del «delirio» del
personaggio; una «folla di pigiami» […] ascolta» ansiosa Boscone che tiene comizio;
medici e infermieri «sono occupati a togliere dalle teste rapate residue velleità». E
Boscone «per l’ultima volta attraversa corridoi di frustrazioni e cortili di noia» evitando,
nel congedarsi da questo luogo di pena, su cui gravano «nuvole di malinconia
», di «scoprire negli occhi che gli avevano tenuto compagnia paure bestiali e
ansie indecifrabili. Per troppe notti lo sfavillio freddo di pupille aveva vegliato sui
suoi sonni riluttanti a dargli pace». Un taglio più documentario e un linguaggio
meno allertato caratterizzeranno la pagina di Collura in Perdersi in manicomio (Messina,
Pungitopo, 1999), ma sempre tali da piegare il dato concreto quasi sciogliendolo
nel simbolo e facendogli oltrepassare le barriere del contingente.
[ 7 ]
820 ella imbalzano
corda epigrammatica, nel mettere a fuoco luoghi e uomini, desunta
tanto da una tecnica cinematografica quanto dalla letteratura10.
A premessa della narrazione, nel vivo della quale impera la brutalità
del potere, e il debole interesse sociale dei galantuomini viene suggerito
alla lontana da qualche sporadica figura di ecclesiastico, l’epigrafe
di Sciascia, che ironizza nel richiamo all’Eca, allude alle responsabilità
sociali, obliate dalle autorità preposte, e con un’indifferenza
sprezzante o blanda, che in Associazione indigenti prende corpo, con
forte impatto visivo, in personaggi chiave. La voce di Lannina è «unta
di fastidio»; pupille «acquose» si dilatano; «sorriso stentato» è quello
del «gigante intonacato» il cui stigma di autorità è il rosseggiare dello
zuccotto nella Roma papale a cui si rivolge la richiesta di aiuto da
parte degli indigenti, infine placata con un buon assegno: sono, questi,
fra gli indizi dell’ipocrisia di chi, immeritevole e inadempiente, ha un
compito di dominio. Ma, di contraltare a tale ipocrisia, che nel libro
non sfugge alle modalità della frequente personificazione (ha
un’«impennata», ad esempio, l’ipocrisia di un funzionario), è il candore
primigenio degli indigenti: l’indignazione che accende di «faville»
gli occhi di Boscone, il suo dubbio addolorato che di essi fa «due punti
interrogativi»; la speranza che accende di «lampi di audacia» quelli
di Vincenzo Stura, segretario della neoassociazione; l’«attesa»,
anch’essa personificata, che regolarmente contraddistingue questi
sconfitti e «languisce» nei loro «occhi immobili» che, per converso,
«occhi di coniglio», con slancio espressionistico la «divorano»; l’ingenuo
e vano espediente di una «pelleossa», («scheletro di donna» che
apre un movimentato capitolo) a favore suo proprio e della comunità.
Il diagramma della drammatica situazione ha una sottile valenza sim-
10 Mario La Cava, «Gazzetta del Popolo», 2 febbraio 1980. Dell’influsso dell’
«ultimo e più intellettualizzato realismo anche cinematografico», di cui risente il
romanzo, dice Antonio Debenedetti («Corriere della Sera», 28 ottobre 1979), il
quale riconosce ad Associazione indigenti un suo specifico timbro, dal momento che,
pur non mancandovi scorci che «hanno l’inconfondibile taglio di quella scuola»,
personaggi e ambienti, sebbene immersi nella vita di ogni giorno, si configurano
spesso al lettore come «stralunati e lontani». Franco Pappalardo La Rosa, Matteo
Collura e Carmelo Samonà, in Gli eredi di Verga. Atti del Convegno nazionale di studi
e ricerche, Randazzo 11-13 dicembre 1983, a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti,
Comune di Randazzo, 1984 (ora, Catania, Prova d’Autore, 2002, p. 363), punta,
esclusivamente, sulla capacità creativa della parola letteraria, che non ha bisogno
di «scomodare la tecnica cinematografica» per la propria intrinseca carica espressiva
e simbolica. Sul dibattito riguardo al rapporto di Collura narratore con il cinema,
cfr. Maria Grazia Caruso, I testimoni assenti nell’opera di Matteo Collura, Caltanissetta-
Roma, Sciascia, 2007.
[ 8 ]
le visionarie microstorie degli «indigenti» di matteo collura 821
bolica: «breve» è l’ombra che lo sconfitto proietta di primo mattino
sporgendosi dal proprio angusto spazio su una giornata di «acida
fame»11; emblematico è il circoscritto ambiente di un vicolo, in cui un
misero emerge (sullo sfondo il carcere, appena sfumato, dell’Ucciardone),
poiché sovrastato da un «buco di cielo». E dunque, il campo
visivo dell’uomo risulta ancora limitato dall’esiguità del paesaggio. Il
buio contraddistingue il vinto e il suo contesto12. Al vinto il buio presiede,
fin dalla tenera età, come uno straniante scatto della scrittura
suggerisce in quella piazzetta, fra altre, «vomitante l’allegria di […]
mocciosi», i quali altrove giocano «zampettando nel buio» come predestinati
a una vita anonima e arresa, o improntano filastrocche quasi
come medicina e scongiuro, mentre i retroscena degli abitacoli li vedono
bastonati (il termine è tematico nel libro) e usi a «sopportare tutto»
e a venire strumentalizzati per azioni di piccola delinquenza. Ragazzi
«di vita», loro malgrado, che ricordano luoghi narrativi pasoliniani e
una letteratura filmica neorealista. Costantemente, dalla pagina di
Collura si sprigiona la sostanza umana di una frustrazione e di un
disagio. Anche i luoghi topici più quieti di un letterario realismo novecentesco
vengono reinventati sulla scorta di una visione sfigurante,
per nulla cristallizzata, e veritiera fino in fondo: e così, l’impotente
11 Anche qui un costrutto triadico che rispecchia uno stilema sintattico dell’epica
canonica ma, in modo significativo, convocato a significare la degradazione
ambientale e morale: «Scese in strada con il cuore vivace dei suoi venticinque anni,
ma le braccia già infiacchite dalle troppe fatiche senza profitto: vide le teste tremule
dei mattinieri far capolino dalle persiane, inghiottì i miasmi dei rifiuti lasciati sul
selciato, udì le bestemmie degli uomini spinti fuori di casa dalle mogli stufe».
12 M.G. Caruso (I testimoni, cit., p. 20) vede la «condanna» dei personaggi all’
«immobilità» timbrata nella loro rappresentazione «quasi sempre in angoli bui,
in vicoli scuri, in luoghi dove a stento penetra un raggio di luce», e coglie nel «nero
» che li accerchia la «metafora della cecità del mondo dinanzi alla loro sofferenza
». Questa tematica è stata indagata dalla Caruso anche in certi risvolti della scrittura
che talora si fa più distesa per sostenere «un’unica nota di malinconia». A
nostro avviso, alla coltre di tenebra, diffusa nel libro, l’autore fa rispondere, con un
tocco elegiaco, la «luce ostinata» di una caparbia speranza che in essa si fa strada e
trova sbocco. Come in quella scena di grande serenità e delicatezza zampillanti da
una canzoncina di bimbi intenti, quasi a conclusione del romanzo, a reinventare
«passi di danza»: sono loro quell’«esercito sempre allegro» e pronto ad «animare i
vicoli», mentre il «buio nasconde i lividi». Un buio, in Associazione indigenti, non
solo segnale di un destino immutabile, ma anche correlativo, da intendere eticamente,
di quella calma incolore, «tutta burocratica», della piccola autorità proterva
che tale immutabilità simboleggia e che è sponda opposta di quella natura avversa,
ora sconvolta, ora apocalittica nella sua fissità, e sempre protesa a sanzionare
un castigo.
[ 9 ]
822 ella imbalzano
disperazione di una donna, informata dell’arresto del marito in una
«notte di nuvole fradice», è come «scacciata dalle narici» con un soffio;
irrisorio, e quasi non reale, un corteo di protesta viene visto sfilare dai
passanti «fra i riverberi delle vetrine» nel centro storico della città, con
sottolineatura di «coro scordato e stridulo», e viene atteso da una testa
«imberrettata». Lo sguardo, in apparenza casuale di Collura, snida a
oltranza la verità della Storia posandosi anche sui suoi lasciti di monumenti
d’arte simbolica, per eccellenza, del potere. Allora, in una
sottile allusione metaforica, la Cattedrale è presente soltanto con i suoi
«merletti», quasi elementi voluttuari, accusati dai fari su di essi «puntati
», e assediati dal «riverbero giallorosa», invece, della luce sulle catapecchie,
«come di un incendio lontano». E, dopo un «cielo livido
[…] sorpreso da lampi furiosi» spalancato sullo scandalo dell’abitazione
abusiva di un pubblico edificio (fallito è il «miraggio» di case popolari),
la cupola «smaltata» di San Giuseppe dei Teatini, in prossimità
dei Quattro Canti, nella città capitale la cui topografia solenne è appena
disegnata, provoca la protestataria riflessione di Boscone (incaricato
dallo scrittore di farsi suo portavoce) sulle cupole monumentali,
«paracqua», «ombrelli», riparo di chi da sempre ha causato le afflizioni
dei miseri.
L’arte, peraltro, distratta dalla sua valenza estetica, ha sollecitato la
memoria visuale di Lannina (sempre contraddistinto dall’untume) che
si guarda retrospettivamente studente «sensibile» nell’esorcizzare,
con la volgarità di un gesto, il solenne messaggio del Trionfo della morte
di palazzo Abatellis, dalla cui immagine scaturisce in lui ora il confronto
con l’esiguo drappello dei dimostranti. In questo romanzo d’esordio
agisce nettamente un impiego al laser della parola, connotativa
della grumosa rapidità della sintesi propria della scrittura del cronista
che si consegna alla lapidaria invenzione, da intendersi etimologicamente
quale indagine, affondo creativo nella verità. Quasi a complemento
e sberleffo della pochezza dell’uomo, la maestosità del paesaggio
ribadisce l’inarrestabile procedere e l’ineluttabile dominio della
natura su persone, luoghi, fatti, con un reiterato rilievo del castigo del
mare, del sole, del cielo che evoca la cupezza minacciosa di certa letteratura
americana13: e con una raffica di personificazioni degli elementi
13 Vengono in mente paesaggi di Steinbeck di Uomini e topi, che, anche se talora
ben più parossistici di quelli di Associazione, si configurano analogamente quali
parabola del destino tirannico che preclude agli uomini di un misero microcosmo
ogni possibilità di emancipazione e di gioia. A Hemingway, altro scrittore di riferimento,
Collura si avvicina per alcuni segmenti di paesaggio scarnificato, oltre che
[ 10 ]
le visionarie microstorie degli «indigenti» di matteo collura 823
paesistici, convogliati anche con un moto centripeto verso l’apocalittica
visionarietà del grande «melone del sole precipite», «ansimante il
mare», il «vento di burrasca» narcisistico regista di una potenza che
subordina l’uomo a un ruolo di margine:
Le prime raffiche di vento sollevarono una nebbia di polvere, graffiarono
le facce dei passanti, poi i mulinelli rovistarono tra le immondizie
e ai bambini rimasti in strada bruciarono gli occhi irritati. Si sentì qualche
goccia di pioggia qua e là, ma le strade non si bagnarono. Il mare
ansimò scuro; investite dai primi spruzzi rabbiosi le automobili degli
innamorati, appartate sul lungomare, si allontanarono spedite, i polipari
abbandonarono le bancarelle con gli occhi rivolti al volo basso dei
gabbiani, onde gonfie martellarono gli sbarramenti rompendosi in
possenti boati. Il grande melone del sole precipitava, spento, dietro
Sferracavallo. Nella parte opposta del cielo nuvole colore antracite sollecitarono
il buio, gli spruzzi salati lambirono i marciapiedi della Passeggiata.
Il vento di burrasca ebbe decine di spettatori, appannò gli
obiettivi dei turisti. I ragazzi tifarono per una sagoma scura all’orizzonte:
la petroliera appariva e scompariva; scompariva per lungo tempo
dopo paurosi beccheggiamenti ingigantiti dalla distanza. Poi tutto
il cielo si colorò d’inchiostro e il vento sparpagliò spruzzi di pioggia. I
baraccati trattennero con le mani cartoni e lamiere; nelle catapecchie
scoperchiate l’acqua irruppe sulle preghiere degli anziani spaventati.
Era un temporale estivo, ma i calendari indicavano il mese di novembre.
Negli interrati le donne non trafficarono con secchi e con stracci;
per il trasparente stile realistico, accordato nel ritmo sia alla scansione serrata dei
dialoghi, sia alla rapida successione degli «eventi». A Marquez egli guarda, soprattutto,
per quella compresenza di allegoria e simbolo che si innerva della suggestione
di un surreale kafkiano nell’ingabbiare le storie degli sconfitti in un labirintico
destino di perdite, nonché per certa tensione panvitalistica di una natura sceneggiata
nel suo tirannico incombere, tale da richiedere uno stile epico-lirico adeguato.
L’influsso di Marquez (indicato unanimemente dalla critica e confermato dallo
stesso Collura, «Giornale di Sicilia», cit.), si affaccia, come in molta scrittura del
realismo magico siciliano (ricordiamo, per vicinanza di uscita, L’enorme tempo, del
’77, e Dolcissimo, del ’78, di Giuseppe Bonaviri), sulla ripetitività dei giorni e dei
fatti, sul ciclico ritorno delle stagioni in una specie di inalienabile sortilegio. Ciò
non impedisce la concretezza, tradotta da Collura pure in conduzioni cronachistiche
della giornaliera lotta dei personaggi per la conquista, sempre differita, dei
loro diritti. Con Associazione indigenti, facendo parlare in prima persona gli attori
della vicenda e seguendoli passo passo, lo scrittore si riappropria dell’identità del
cronista senza mai abdicare alla lettura poetica delle cose e a un prosa anche assottigliata
fino a ridursi a nucleo simbolico. Ma il messaggio civile del libro non ne
risente. E infatti, «questo è un libro politico nella sua ingenuità apparente di fiaba»
(così Gianni Riotta, «Il Manifesto», 8 novembre 1979).
[ 11 ]
824 ella imbalzano
rincantucciate con i piedi assediati dall’acqua, tremarono spaventate
da tuoni apocalittici. p. 62.
In questo romanzo, in cui le «profondità luride» sono quelle della
tendenza a un primordiale incesto, pur annotata con pudore dalla
scrittura, o di un suicidio istigato in una donna dall’estremo stato di
umiliazione e di dolore14, è la natura a far da padrona: cartina al tornasole
della condizione umana, ma quasi mai partecipe (anche quando
lo sembra, ad esempio in quel «cielo affollato di stelle rischiarante l’insonnia
degli otto delegati» alla petizione rivolta al Papa, la notte prima
della partenza; e infatti, in loro, «la stanchezza della notte bianca
strozza l’euforia») e come ostile, la martella: lo fa con suoi malumori,
con l’insidia di un sole che posa su tutto la sua luce livida e di tutti
marca, alla fine, il rassegnato accomodamento. È il correlativo, la natura,
di un’ingiustizia storica alla quale da sempre gli umani soggiacciono,
con la parentesi di qualche parvenza di tregua balenata da appuntamenti
corali, segnata dal calendario di una passiva professione
del culto religioso. Brulicame ancora, gli indigenti, ancora improvvisati
si prospettano i loro mestieri; resisterà il «dedalo di miserie» che li
ha visti nascere, nonché l’illusoria fede in una Santa Patrona che cancella
definitivamente, e quasi in chiusa del romanzo, l’immagine di
quel Papa a cui, attraverso condiscendenti e disincantati funzionari,
essi, ingenui, sono ricorsi per ottenere aiuto. Resta, dietro l’urna di
quella Santa, che ritroveremo in Sicilia sconosciuta, tutto un addensarsi
di passioni15; e il rituale della «malinconica veglia […] di mazzetti di
14 Nuovamente, l’incisivo procedere della pagina, e con sottile valenza allusiva,
effigia l’annosa ingiustizia storica nel mettere in rapporto lo sconfitto e i nobili
simboli architettonici dell’autorità negligente. Lo sguardo di Antonietta Pedara,
«perduto» nel crudele bilancio di un intero vissuto, ignora la facciata barocca di una
chiesa: la donna, passandole davanti, «non si segna» mentre, incalzata dal proposito
di chiudere i propri giorni, si dirige verso il porto. Non senza significato simbolico,
nel «mistero di un mare e di un cielo di pece» finirà inghiottito il biancore
gioioso di una nave di sposini in partenza; e parimenti, nel gorgo dell’acqua scura,
Antonietta, che, lasciatasi calamitare dal buio definitivo, «sprofonda trascinandosi
per alcuni istanti i riverberi di un’esistenza dannata». Corre nel libro una rispondenza
di altri riverberi, e un virare dei riflessi della luce fatto balenare là dove si
profila il morire della speranza.
15 Si posano luci di «riverbero lontano», in Associazione indigenti, con crisma di
disillusione e di precarietà, sulla grotta della Santa. Ma, indice del sogno, v’è anche
il «riverbero d’oro dell’urna». Riverbero che, invece, non sfiora Sicilia sconosciuta
(Milano, Rizzoli, 20164), là dove nella «veste di stagnola dorata» – dono di Carlo di
Borbone alla statua –, perfetta imitazione di una «stoffa riccamente intessuta d’o-
[ 12 ]
le visionarie microstorie degli «indigenti» di matteo collura 825
fiori inodori», appassiti bouquets nuziali. Il sole, firmando l’annoso immobilismo,
continuerà a denudare strade e palazzi-«muraglia» che rimarranno
serrati, con «immenso scenario» di finestre che non si apriranno
mai; e sovrasterà «imbrogli, scippi, prostituzione, contrabbando,
accattonaggio» che «avrebbero puntualmente fatto la grazia che
santi restii alle preghiere si rifiutavano di fare». Palermo continuerà
ad acquietarsi nelle annuali celebrazioni di culto. Pallida è la figura
del Papa, lontana l’Associazione con la sua povera corte e le bandiere,
già coinvolte negli eventi e animate dallo scrittore tramite i consueti
slanci personificanti. Sul vuoto si sporgono gli occhi di Boscone che
ora, inerte e spento, di più sente appannarsi il cervello in un «magma
vaporoso». Crepitano nel buio le risate dei perdenti, sigillo di autoflagellazione
dinanzi al bilancio di un fallimento. La considerazione finale
dello stesso Boscone, gridata con un brutale linguaggio della
quotidianità, viene avvolta da una irridente «zaffata di fumo bianco»
che, accompagnata da un «odore di grasso e di fritto» e dalla «musichetta
televisiva di un programma pubblicitario», invade la sede, ora
deserta, dell’Associazione.
Ella Imbalzano
Università di Messina
ro», l’autore, in modo indiretto, attraverso una scelta citazione da Goethe, insinua
l’inganno della Storia e la simbolica dicotomia apparenza/verità che fa dell’Isola
una metafora universale. Il racconto-illustrazione di Collura (la prima edizione
risale al 1984), dettagliato e agile, aggiunge un di più alla pur veritiera descrizione
di Goethe, commosso, peraltro, dinanzi alla seduzione suscitata dalla stilizzata e
tuttavia naturale scultura della Santa sui pellegrini. Si prosciuga un po’ quell’andamento
elegiaco che nella pagina del romanzo del 1979 accoglieva la scena di
«facce contratte» di stupore in quel «riverbero d’oro», nonché la rassegna delle tumultuanti
«offerte» votive, preziose per i poveri, perché, riproposta in modo più
secco, ora, apra maggior spazio alla realtà dell’emigrazione. In questi “itinerari”
siciliani, che sembrano propagare i borgesiani «sentieri», la macchina da presa circoscrive,
per riconfermarli nella loro efficacia iconica di messaggio, non per un
effetto di straniamento, quei mazzolini di fiori, bouquet nuziali destinati ad appassire.
E infatti, se sia «guida o enciclopedia borgesiana», questa luminescente e ombrosa
immersione in una Sicilia totale, si chiede G. Amoroso, con un intervento in
occasione della presentazione del libro, promossa a Messina, il 21 giugno 2016, dal
Gabinetto di Lettura. Questo intervento, quello di Rocco Della Cava e la relazione
di Melchiorre Briguglio si leggono in «Il Maurolico», VII, 2016, pp. 67-76.
[ 13 ]
Il corso “Dante tra poesia e scienza” su edX
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professore ed esperto di Dante che ha pubblicato diversi studi sul poeta.
La Commedia di Dante è una delle opere più tradotte e stampate nelle
lingue e nei dialetti del mondo. Un testo scritto nel Trecento che affronta
temi ancora oggi attuali, e che può rendere l’uomo del nostro tempo più
vicino «a quell’amore che move il sole e l’altre stelle».
Questo corso affronta non solo la poesia presente nel percorso che il
poeta-personaggio Dante ha tracciato nella sua opera quale viaggio
dall’umano al “divino”, ma anche la parte scientifica dell’opera.
In questo viaggio nella Commedia dantesca s’incontrano personaggi
come Beatrice, Pier delle Vigne, Ulisse ma anche il più grande dei nostri
scienziati, Albert Einstein, che consente di valutare come esatta la descrizione
del cosmo fatta da Dante Alighieri nel Trecento.
In tal modo la Commedia riesce meglio a suggerire al lettore il valore
del pensiero dantesco offrendo ai lettori del XXI secolo un esempio di come
la poesia e la scienza non devono vivere in “camere separate”, ma costituiscono
l’unità del sapere universale.
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Ennio Scannapieco
Il Maelström di Norvegia descritto nell’Jcosameron:
un’ulteriore critica al romanzo-fiume
di Giacomo Casanova
Localmente noto come Moskenstraumen, il Maelström è un fenomeno marino
localizzato tra due isole della Norvegia settentrionale, divenuto leggendario
nel corso del Medio Evo, e che è stato introdotto per la prima volta nella letteratura
d’invenzione dal veneziano Giacomo Casanova nelle pagine del suo ponderoso
romanzo Jcosameron (1787). Il saggio si propone tuttavia di dimostrare
che, a fronte dell’impressionante lunghezza del romanzo, la descrizione del
Maelström vi appare sbrigativa e letterariamente insoddisfacente, mentre si
cerca di dare, nel contempo, una spiegazione di ordine filologico-linguistico al
termine “Maelstrand” che Casanova volle adoperare al posto di quello più comunemente
usato ai suoi tempi.

Giacomo Casanova (1725-1798) was without doubt the first author to write
about the sinister legend of the Norwegian maelstrom, in his 1787 novel Jcosameron.
This essay demonstrates that, compared with the impressive length of
the work, the description of the phenomenon is hurried and disappointing
from a literary standpoint. It also attempts to offer a philological-linguistic explanation
for the inexact term of “Maelstrand” used in the novel.
Sul n. 304 della rivista culturale «Silarus», è stato di recente pubblicato,
a firma di Massimo Acciai Baggiani1, un pregevole saggio sull’Jcosameron,
il ponderoso romanzo di pre-fantascienza (o di “letteratura
utopistica”, come si diceva nel secolo XVIII) scritto da Giacomo Casanova
nel 1787, quando l’ex avventuriero e tombeur de femmes si era ormai
convertito in un anziano bibliotecario in servizio presso il castello
di Dux, in Boemia, alle dipendenze del conte Karl Joseph Emmanuel
von Waldstein. L’edizione originale dell’opera, com’è risaputo, non
diede mai la sperata immortalità letteraria al suo autore, a causa
Autore: già funzionario Biblioteca Provinciale di Salerno; e.scannapieco@libero.it
1 Massimo Acciai Baggiani, Casanova autore di fantascienza, ovvero una lettura
moderna dell’Jcosameron, in «Silarus». Rassegna bimestrale di cultura, n. 304/2016,
pp. 32-36.
Note
828 ennio scannapieco
dell’insopportabile lunghezza del testo – un vero “mattone” anche per
l’epoca in cui fu scritto –, e delle continue, pedanti ed interminabili
digressioni filosofiche e scientifiche attraverso le quali Casanova riverberava
la sua quasi enciclopedica cultura illuminista.
D’altra parte, non si può dimenticare che l’opera in questione resta
pur sempre un testo pionieristico del genere filosofico-fantascientifico,
ed introduce nella letteratura fantastica (assieme ad un romanzo
ugualmente “utopistico” pubblicato in latino nel 1741 dallo scrittore
norvegese Ludwig Holberg, Nicolaii Klimi Iter Subterraneum) il tema
della “Terra cava”, che sarà sviluppato con successo da numerosi
scrittori dell’Ottocento e del Novecento (come John Cleves Symmes
jr, Jules Verne ed Edgar Rice Burroughs). E per quanto mi riguarda
personalmente, ho scoperto che Giacomo Casanova è stato il primo
autore in assoluto ad introdurre, nella fiction narrativa, attingendo ad
una leggenda vecchia di secoli (e con cinquantatre anni di anticipo
rispetto ad Edgar Allan Poe), il mitema sinistro ed affascinante del
Maelström di Norvegia. È infatti attraverso questo fenomeno naturale,
oggi pesantemente ridimensionato rispetto ai secoli passati, che i
due protagonisti dell’Jcosameron possono penetrare all’interno del
globo terrestre e prendere conoscenza del mondo alieno dei “Megamicri”.
In una nota del citato articolo pubblicato su «Silarus», Acciai Baggiani
si chiede se il “Maelstrand” menzionato da Casanova equivale al
Maelström descritto da E.A. Poe nella sua celebre novella del 1841.
Posso rispondere affermativamente, anche perché mi occupo da tempo
di questo soggetto, sulla cui storia mitografica ho pubblicato finora
un paio di articoli2 e sto scrivendo un intero volume. Il Maelström
(localmente noto come Moskenstraumen) è un fenomeno naturale localizzato
sulle coste della Norvegia settentrionale, tra due isole dell’arcipelago
delle Lofoten, ed è nello stesso tempo un mitema la cui origine
si perde nella notte dei tempi. A parte alcuni riferimenti riscontrabili
nell’antica poesia eddica, in termini geografici e naturalistici ne parlò
per primo lo storico Paolo Diacono (sec. VIII), e per tutto il Medio Evo
si sussurrò, sulle sponde del Mare del Nord, la paurosa leggenda relativa
ad un “abisso” o vortice fatale in agguato tra i mari nebbiosi
dell’estremo Settentrione. A partire dal 1539, con la Carta Marina di
Olao Magno, e soprattutto nel secolo XVII, il mito sinistro del Mael-
2 Il più lungo dei quali pubblicato sul n. 1/2014 della rivista «L’Universo»
dell’Istituto Geografico Militare di Firenze (Ennio Scannapieco, Umbilicus maris:
il Maelström tra realtà e fantasia, p. 76-109).
[ 2 ]
il maelström di norvegia descritto nell’jcosameron 829
ström (termine usato per la prima volta dal geografo e cartografo
fiammingo Gerhard Mercator nel suo celebre Atlante del 1595, e che in
antico olandese significa “corrente che macina”) raggiunse il suo apice
nell’immaginario europeo dell’epoca barocca, grazie soprattutto
agli scritti di alcuni eruditi di area germanica come il geografo Bernhard
Varenius, il viaggiatore Johannes Herbinius ed il celebre gesuita
“tuttologo” Athanasius Kircher. Costui, nel suo Mundus subterraneus
descrisse il Maelström come un immenso gorgo di quattordici chilometri
di circonferenza, che inghiottiva e risputava alternativamente le
acque del mare facendole passare, mediante un tunnel sotterraneo
scavato sotto l’intera Scandinavia, fino al golfo di Bothnia. Solo in epoca
illuministica (secolo XVIII) il fenomeno fu alfine ridimensionato e
ridotto alla sua natura essenziale di semplice corrente di marea, pericolosa
solo in alcune circostanze atmosferiche. Ma a partire dal 1841,
con la pubblicazione della novella A Descent into the Maelström di Edgar
Allan Poe, e del romanzo di Jules Verne Ventimila leghe sotto i mari
(1870), il mito riesplose influenzando non solo il mondo della letteratura
narrativa, ma anche – come ho scoperto durante le mie ricerche
– i mass-media più qualificati dell’epoca tardo-romantica, repertori
enciclopedici inclusi. Tuttavia, nel secolo XX, col ritorno del positivismo
scientista che domina tutt’ora la cultura occidentale, Il Maelström
perse nuovamente la sua aureola di fenomeno straordinario e pericoloso,
ed oggi costituisce piuttosto una fonte di delusione per i numerosi
turisti che in estate si recano in visita alle isole Lofoten.
All’epoca in cui Giacomo Casanova scriveva il suo Jcosameron, in
Europa si conservava ancora il pauroso ed ineffabile ricordo della
“Charybdis Septentrionalis” (come qualcuno aveva chiamato, nel secolo
precedente, il vortice delle Lofoten). Ciò nonostante, la descrizione
che Casanova fece nel suo romanzo del Maelström di Norvegia (che
egli chiama però “Maelstrand”, e cercheremo di capire perché) appare
peggio che deludente. Soprattutto se si considerano la lungaggine e la
pignoleria con cui lo scrittore veneziano si attardò a descrivere le innumerevoli
altre cose e circostanze passate in rassegna nel suo interminabile
racconto.
Partiti a bordo di una nave diretta verso le regioni polari (il capo
della spedizione, Lord Artur, aveva intenzione di visitare “le regioni
della Tartaria e della Russia asiatica”), Edouard ed Elisabeth, i protagonisti
principali dell’Jcosameron, osservano affascinati i sinistri paesaggi
del Mar Glaciale Artico, dove vedono persino tre enormi mostri
marini che la fantasia di Casanova chiama Haffstramb, Margugner e
Hafgierdinguer. Ma, all’altezza di Capo Nord, i venti contrari respingo-
[ 3 ]
830 ennio scannapieco
no la nave lungo la costa settentrionale della Norvegia, «dove la calma
alfine ci fermò»:
Noi eravamo tra la piccola isola di Vero, e la parte meridionale delle
isole Loffouren, a 28 gradi di longitudine e 75 minuti di latitudine. Era
la mattina del ventesimo giorno di agosto quando cademmo in balìa di
una marea la cui violenza ci trascinò invincibilmente verso il precipizio.
L’imminente pericolo di morte in cui eravamo non lasciò alcun
dubbio all’equipaggio: una voce generale e spaventosa si mise a gridare
Maelstrand, Maelstrand: è il nome di un vasto spazio di questo mare,
che ha una circonferenza di sei delle nostre miglia, e il cui centro mostra
uno scoglio che ha nome Muske. Questo posto è un gorgo, che è
soggetto ad una così forte attrazione sotterranea da ingoiare qualsiasi
corpo solido che si trovi sulla sua superficie3.
Sono in tutto quindici righe (almeno nell’edizione di Spoleto del
1928, da me consultata), a fronte di un’opera che, nell’originale, contava
circa 1800 pagine, e che dedica ben tre di tali pagine alla meticolosa
descrizione della cassa di piombo nella quale, cadendo incidentalmente
durante il naufragio, i due fratelli si poterono salvare e penetrare
– dopo altre numerose pagine di interminabili li descrizioni dei vari
momenti della discesa – nell’interno del nostro pianeta ed essere
accolti infine nel mondo dei “Megamicri”. Intanto
Il nostro vascello cominciava a mostrare il solo movimento di girare in
cerchio senza cambiare posto, come vediamo fare alla trottola quando
il giocatore la lancia fuori dalla corda. Il vascello, sempre girando su sé
stesso, andava affondando nell’acqua come se fosse sovraccarico, o attirato
nella profondità del mare da una forza occulta. Tutti gridavano
“Siamo perduti, non c’è più speranza per noi, Dio misericordioso, aiutaci”…
Tutto qui? Poche righe, insomma, per descrivere un fenomeno naturale
che negli scritti dei secoli precedenti aveva fatto versare parecchio
inchiostro coinvolgendo sicuramente le emozioni di chi, da Olao
Magno a Jonas Ramus, aveva consacrato parte del proprio tempo a
dipingere coi colori più sinistri e spettacolari il fenomeno medesimo.
Casanova conosceva probabilmente la descrizione del Maelström fatta
da Varenius e perfezionata da Kircher, forse una copia del testo di
Herbinius era parimenti conservata presso la biblioteca del conte di
3 Tradotto dal testo originale francese come appare nella ristampa fatta a Spoleto
nel 1928.
[ 4 ]
il maelström di norvegia descritto nell’jcosameron 831
Waldstein, e mostra anzi di condividere la concezione di questi autori
relativa ad un immenso gorgo di vari chilometri di circonferenza che
girava, per sei ore al giorno, intorno allo scoglio di Mosken. E da Kircher
aveva inoltre mutuato l’idea – funzionale alla prima parte del suo
racconto – delle acque del Maelström che precipitavano nelle viscere
della terra4. Aveva pertanto sottomano un’immagine davvero straordinaria
da sviluppare ai fini dell’estetica del racconto, che gli avrebbe
consentito di consegnare ai posteri una descrizione fantastico-letteraria
del Maelström quale sarebbe stata forse eguagliata, un secolo più
tardi, soltanto dal genio allucinato di Edgar Allan Poe…
Invece, perdendo l’occasione davvero irripetibile di coinvolgere i
lettori dell’Jcosameron nelle emozioni di una pagina di alta letteratura
fantastica, si limita ad offrire del fenomeno in questione soltanto pochi
e banalissimi riferimenti geografici, facilmente deducibili dal più piccolo
dizionario enciclopedico dell’epoca. Come se la sua fantasia creativa,
per altro evidente in tante altre parti del suo ponderoso racconto,
avesse in quel momento cessato di funzionare, e trovasse l’argomento
del tutto privo di attrattive o non meritevole di soverchia attenzione.
Inoltre, nelle poche righe dedicate alla descrizione del naufragio
della nave sulla quale viaggiavano i due protagonisti del romanzo,
è anche possibile riscontrare una mancanza di logica che rende forse
l’Jcosameron ulteriormente meritevole delle numerose critiche di cui è
stato sempre fatto oggetto. Mentre infatti Casanova parla di un grande
“gouffre”, ossia di un gorgo marino le cui acque penetrano nel sottosuolo
girando vorticosamente intorno al grande scoglio di “Mouske”
(Mosken), e che quindi avrebbe dovuto far roteare a lungo la nave
nelle sue chilometriche spire, il battello si limita invece «a se tourner
en circle sans changer de lieu»: resta cioè pressappoco nello stesso posto
girando su sé stesso come una «toupie» (una trottola) mentre affonda
gradualmente nell’acqua («entournant sur lui même s’enfonçant
dans l’eau»). Una descrizione letterariamente davvero misera,
o addirittura miserabile, se lo scopo era quello di visualizzare una
nave del XVI secolo alle prese col “grande” Maelström di Norvegia;
del quale, ai tempi di Casanova e nonostante il massiccio ridimensionamento
subìto in epoca illuministica, restava pur sempre l’eco di una
paurosa leggenda pronta ad essere ulteriormente sviluppata e rinver-
4 Ovviamente, Casanova non teneva conto del semplice fatto che se le acque
del vortice fossero sbucate davvero nel “Protocosmo” (altrimenti, in che modo
Edouard ed Elisabeth sarebbero potuti arrivare nel paese dei Megamicri?), l’intero
oceano si sarebbe col tempo svuotato per riempire l’interno del pianeta!
[ 5 ]
832 ennio scannapieco
dita nella letteratura d’invenzione. Così, a commento finale di questa
occasione letteraria tanto stranamente perduta, mi pare che resti valido
quanto da me brevemente osservato nel corso del mio articolo sulla
mitografia del Maelström pubblicato nel 2014 sulla rivista geografica
“L’Universo”: «Bisogna tuttavia precisare che, introducendo il Maelström
nel suo racconto, Casanova non si attarda per nulla a descrivere
fisicamente il fenomeno: la nave su cui viaggiavano i due protagonisti
sparisce quasi all’improvviso, velocemente risucchiata verso il
fondo marino, ed i ragazzi si salvano rifugiandosi in una cassa di
metallo. Evidentemente allo scrittore veneziano, che non era un romantico
bensì un illuminista ben radicato nella cultura del suo tempo,
non interessava offrire al lettore una rappresentazione “thriller” a carattere
orrifico, per cui il Maelström entra nel suo romanzo come una
semplice e veloce scorciatoia narrativa, un espediente per rendere appena
plausibile una trama che di plausibile aveva in effetti ben poco».
Un’altra cosa che, come anticipato poc’anzi, costituisce di fatto un
piccolo enigma di ordine filologico-linguistico, è il termine “Maelstrand”
con cui, nel testo dell’Jcosameron, viene designato il fenomeno
delle Lofoten. Non si tratta tuttavia di un’invenzione di Casanova,
perché un nome simile si riscontra davvero, anche se una volta soltanto,
nel corso della storia mitografica del Maelström: è citato infatti in
una relazione di viaggio del diplomatico ed esploratore inglese di
epoca elisabettiana Anthony Jenkinson (1529-1611), che nel 1589 scriveva
nel suo diario di bordo: «Da notare che esiste, tra le dette isole di
Rost e Lofoot, un vortice (“whirle-poole” nel testo originale) chiamato
Malestrand, che tra la metà della bassa marea e la metà della marea
alta, fa un rumore così terribile da far vibrare i campanelli delle abitazioni
a dieci miglia di distanza. E se qualche balena capita nella stessa
corrente, viene risucchiata emettendo delle grida pietose. Inoltre, se
grandi alberi sono afferrati dalla forza della corrente, quando vengono
rigettati il tronco ed i rami vi appaiono così sbattuti e scorticati da
sembrare simili a steli di canapa spezzati». Nel volume che sto scrivendo
ho chiarito che il termine Malestrand fu, con ogni probabilità,
una pessima variante linguistica di un fonéma che doveva già esistere
da molto tempo nella tradizione orale della marineria gravitante sulle
sponde del Mare del Nord (qualcosa forse come “Mal-Streymur” se si
opta per l’origine faeroica del nome), e che nel 1595 sarà definitivamente
codificato come “Maelström” nel predetto Atlante di Gerhard
Mercator. Qualche anno prima, la relazione di Jenkinson era stata
pubblicata nella collana Hakluyt’s Voyages curata dal viaggiatore ed
editore inglese (ma di origine olandese) Richard Hakluyt (1552-1616);
[ 6 ]
il maelström di norvegia descritto nell’jcosameron 833
e la collana, con molta probabilità, doveva essere presente nella biblioteca
del castello di Dux all’epoca in cui Casanova vi lavorava. Questa,
a mio parere, rappresenta l’unica quanto opinabile soluzione dell’enigma
linguistico in parola. Altrimenti, non vedo in quale altra maniera
lo scrittore veneziano (che certamente masticava abbastanza bene
pure la lingua inglese) avrebbe potuto impossessarsi di un termine,
tra l’altro parzialmente errato, che nella storia del Maelström di Norvegia
era stato adoperato soltanto una volta, e per giunta due secoli
prima che l’Jcosameron fosse concepito.
Che cosa abbia poi spinto Casanova ad usare, nel suo romanzo, il
nome “Maelstrand” al posto di quello di “Maelström”, comunemente
adoperato ai suoi tempi tanto nella forma classica che nelle sue varianti
germaniche “Malstroom” e “Mahlström”, e che solo in tali forme
era allora reperibile nei testi geografici e nelle enciclopedie (compresa
la famosa Encyclopédie di Diderot e d’Alembert) sicuramente
disponibili nel castello di Dux, resta un piccolo mistero difficile da
decifrare. Tra l’altro, l’autore dell’Jcosameron si diverte ad ibridare il
temine “Maelström” col “Malestrand” adoperato da Jenkinson, ottenendo
un terzo termine linguisticamente imbastardito (ossia “Maelstrand”),
mai attestato da nessuna altra fonte. L’unica spiegazione che
viene facilmente alla mente, è che Casanova abbia voluto giocare con
questo arbitrario neologismo nella speranza di esibire, nel tessuto del
suo racconto, un’ulteriore punta di originalità sul piano espressivo e
linguistico. Ma, ammesso che l’ipotesi sia corretta, questa fantasiosa
(quanto inutile e capricciosa) “originalità” semantica non compensa
l’assoluta mancanza di fantasia letteraria e descrittiva dimostrata nella
rappresentazione del fenomeno marino che tanto funzionale appare,
almeno inizialmente, nell’economia narrativa della lunga (anzi interminabile)
storia raccontata dallo scrittore veneziano.
Insomma, se come penso l’italiano Giacomo Casanova è stato quasi
certamente il primo autore di fiction ad introdurre la sinistra immagine
del Maelström nella letteratura narrativa, mi sembra giusto ed
onesto concedergli il beneficio di questo primato nell’ambito della storia
della letteratura d’invenzione. Anche se, ripeto, nell’elaborare e
presentarci la sua personale visione del “monstrum” delle isole Lofoten,
poteva sforzarsi un tantino di più.
Ennio Scannapieco
[ 7 ]
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launched on edX
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Giglio, a professor at the University of Naples Federico II and expert on
Dante, who has authored widely on the poet.
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of all time. Written in the thirteenth century, it deals with themes which are
still relevant today, and make today’s generations feel closer «to that love that
moves the sun and other stars».
This course looks at the journey that the poet-character Dante takes his
readers on from the human to the “divine” and focuses on the science as well
as the poetry.
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Pier delle Vigne and Ulysses, and the most famous of all scientists, Albert
Einstein, who will show how accurate Dante Alighieri’s description of
the cosmos in the 1300s proved to be.
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shows 21st century readers that science and poetry do not have to be kept
apart but comprise the unity of universal knowledge.
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Mirko Tavoni, Qualche idea su Dante,
Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 414.
Questo libro di Mirko Tavoni è
suddiviso in nove capitoli dedicati a
questioni varie, molto coesi tra loro
perché tutti accomunati dallo scopo
di comprendere alcuni aspetti tra i
più trascurati o fraintesi delle opere
di Dante. Nel libro rientrano lavori
scritti, nella loro forma originaria, in
momenti diversi: i capp. V, VIII e IX
risalgono agli anni 1994-1998, mentre
gli altri sei «risultano dalla ristrutturazione
e riscrittura unitaria e condensata
di contributi pubblicati tra il
2012 e il 2014», o che nel 2015 erano
in corso di stampa (p. 15). Il dichiarato
approccio interdisciplinare colloca
in primo piano, in molte parti del libro,
la storia dei comuni attraversati
da Dante dopo l’esilio e la sua biografia,
segnata da un evento politico
(la fine della prospettiva guelfo-bianca
nel 1306) che imprime una svolta
di interesse e di identità nel suo percorso
intellettuale; al di qua e al di là
di questa svolta Tavoni identifica due
fasi fondamentali della produzione
dantesca cui sono dedicate le prime
due parti del libro: la prima parte,
«Dante filosofo laico e teorico del
volgare (1303-1306)», è dedicata a individuare
e a seguire una comune
vocazione politica sottesa a Convivio
e De vulgari eloquentia (Cv e Dve); la
seconda parte, «Dante poeta politico
e profetico», riguarda principalmente
la Commedia (Comm), nella quale si
riconoscono i segni di una profonda
cesura rispetto ai due trattati, e della
quale si sostiene di valore profetico.
Nella terza parte, «Dante teorico della
poesia», viene ricostruita l’elaborazione
dantesca dei concetti di poesia e
poeta, costruiti anche su fonti classiche
ancora non unanimemente riconosciute
dagli studiosi.
Nel I capitolo l’Autore definisce Cv
e Dve come reazione alla medesima
esperienza del particolarismo municipale.
La solidarietà fra i trattati è
sostenuta tramite l’analisi strutturale
e contenutistica delle due opere, che
condividono, oltre ai tempi di composizione,
la volontà edificante: etico-
politica nel Cv e linguistico-retorica
nel Dve. In entrambi i trattati, la
ragione è allo stesso tempo oggetto e
principio fondativo, anche sulla base
delle occorrenze dei termini ragione e
derivati nel Cv e ratio e derivati nel
Dve, incomparabilmente maggiori
rispetto alle opere precedenti, Vita
nova (Vn) e Rime, e alla successiva
Comm. Un’analoga ricerca di fre-
Recensioni
836 recensioni
quenza lessicale evidenzia che un altro
cardine del discorso di entrambi i
trattati è quello della nobiltà: la nobiltà
è parte fondamentale del progetto
di rifondazione etico-politica d’Italia,
per questo è in primo piano nel
Cv, col quale Dante «vuole insegnare
ai nobili che cosa sia la vera nobiltà»
(p. 37); nel Dve Dante delinea le più
nobili caratteristiche della locutio,
grazie alla quale, secondo la dottrina
aristotelica, si consegue il fine naturale
dell’uomo: la società civile. Nel
Dve la lingua volgare rappresenta il
correlativo di un’azione politica unificante,
riuscita soltanto nella Magna
curia federiciana, cui Dante mostra,
in compromettente antitendenza rispetto
al mondo guelfo fiorentino,
un incondizionato apprezzamento
culturale attraverso alcune spie lessicali
come heros-heroicus riferito a Federico
II, e benegenitus riferito a Manfredi
(I xii).
Il II capitolo si occupa dei motivi
che hanno portato Dante a descrivere
le caratteristiche di una lingua ancora
inesistente. L’originalissima riflessione
sulla lingua, scrive Tavoni,
deve essere stata stimolata da una
serie di fattori, tra cui il contesto assolutamente
nuovo in cui Dante si
trova a vivere da esule e dalla volontà
di accreditarsi come “filosofo laico”
non più di fronte ai suoi concittadini,
ma agli intellettuali e alle classi
dirigenti di tutt’Italia, cercando per
questo una lingua con la quale superare
il municipalismo. La trama politica
sottesa al discorso linguistico del
Dve ha basi filosofiche (la metafisica
necessità di una lingua cardinale, secondo
il principio della reductio ad
unum –argomentazione impiegata
anche nella Monarchia e nei testi politici
di idee anti-imperiali contemporanei
ai primi anni dell’esilio), ma
anche storiche e personali: il sostegno
all’idea imperiale è affermato
attraverso il primato nella letteratura
volgare riconosciuto alla corte di Federico
II e Manfredi, senza i quali
l’avvio della poesia volgare non si
sarebbe dato. La priorità accordata ai
poeti siciliani è legata al valore della
loro lingua, giudicata, come è noto,
attraverso il filtro della toscanizzazione
dei loro componimenti, portando
Dante ad affermare che il pregio
dei poeti siciliani stesse nella capacità
di essersi allontanati dal loro
volgare naturale. Questo merito, tra i
poeti contemporanei, è attribuito ai
fiorentino-pistoiesi (cioè a Dante
stesso e a Cino da Pistoia) e ai bolognesi,
doctores eloquentes che hanno
plasmato il volgare illustre, prefigurazione
della lingua di tutta Italia,
quando sarà pronta per ospitare la
sede dell’Impero.
Nel III capitolo si indagano i destinatari,
i tempi e i luoghi di composizione
di Cv e Dve. Nel Cv, pur scrivendo
che «tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere» (I i 1),
Dante applica via via delle restrizioni
sociali che portano a identificare il
vero pubblico storico del trattato nei
«principi, baroni e molt’altra nobile
gente» (I ix 5) escludendo (oltre chi è
impedito per natura) i cittadini dediti
alle artes mechanicae che per impegni
di produzione e scambio di ricchezze
sono tenuti lontani dalla filosofia.
Riemerge il «filo rosso della
nobiltà» individuato nel I capitolo,
acquisendo una fisionomia molto
concreta: i nobili cui Dante si rivolge
«non sono altro che i responsabili dei
reggimenti feudali e cittadini fra i
quali Dante è andato peregrinando
nei primi due anni del suo esilio» (p.
recensioni 837
82) e si rivolge a loro come dotto capace
di offrire supporto teorico al loro
potere. Il Cv sarebbe stato composto
tra il 1303 e il 1306 (e non terminato,
secondo l’A., nel 1308), nello
stimolante ambiente di corte di Verona,
città dal modello politico ben
amalgamato (sostenitore per altro
della pars imperii), in un clima familiare
per le attività mercantili, ma regolate
dal potere nobiliare (p. 95 n.
16). Se a metà del 1034 Dante ha lasciato
Verona alla volta di Bologna e
se il Dve è stato iniziato leggermente
dopo il Cv, probabilmente nel 1304,
Bologna sembra essere la città in cui
è stato proseguito il Cv e concepito e
scritto il Dve. L’A. riconosce nella città
di Bologna la presenza del pubblico
ideale per il trattato sul volgare:
gli studenti e i docenti dello studium
e dell’Università, i continuatori della
tradizione poetica inaugurata da
Guinizzelli, notai, giudici, e cancellieri
esperti di artes dictandi, oltre alle
biblioteche che garantivano una disponibilità
di libri senza pari. L’ipotesi
della presenza di Dante a Bologna
a partire dal 1304 sarebbe sorretta
dal regime guelfo bianco presente
fino al 1306, anno nel quale il governo
è stato rovesciato con la conseguente
espulsione dei fuoriusciti
bianchi fiorentini, evento che sembrerebbe
giustificare l’interruzione
di Cv e Dve.
Molti degli spunti biografici presenti
nei capitoli precedenti trovano
piena esplicazione nel IV capitolo,
dedicato alla biografia politica di
Dante. Il capitolo è fondato sul presupposto,
introdotto negli studi danteschi
da Carpi (La nobiltà di Dante,
2004), che le opere di Dante siano
determinate dalle circostanze, dai
luoghi e dai tempi dell’esilio, a loro
volta condizionati dalle vicende politiche
della città di Firenze e di comuni
e signorie che hanno ospitato
Dante. A partire dallo studio di Carpi,
rileva l’A., la cosiddetta disfatta
della Lastra è stata generalmente
considerata un momento di svolta
per la vita e la produzione dantesca,
basandosi principalmente sulla Vita
di Dante di Leonardo Bruni. Le analisi
di commenti e biografie antiche
condotte nei paragrafi 2-7 portano a
riconoscere che l’interpretazione
vulgata sulla profezia di Cacciaguida,
cui è generalmente riconosciuto
un legame con la disfatta della Lastra,
è però sbagliata: un momento di
forte distacco con gli altri esuli sarebbe
avvenuto con la battaglia di Castel
Pulciano del 12 marzo 1304. Bologna
diventerà terra bruciata per
Dante solo dopo il 1306, a seguito
dell’instaurazione del regime nero, e
solo a quel punto Dante maturerebbe
l’idea di chiedere individualmente
perdono alla città di Firenze con la
lettera Popule mee quid tibi feci? entro
una svolta biografica che porterà al
cambio di interesse e di identità sancito
dall’abbandono dei due trattati e
l’inizio del poema sacro.
La parte del libro dedicata alla
Commedia inizia con lo scandaglio
(capitolo V) di un passo normalmente
lasciato in sospeso dai commentatori
moderni e frainteso dai commentatori
antichi: Par. XIX 18-21.
Escludendo le interpretazioni correnti
sulla digressione autobiografica
della rottura di un battezzatoio, l’A.
supporta l’agnizione di Jacoff (Dante,
Geremia e la problematica profetica,
1988) la quale sostenne che in quel
passo è citato Geremia IX, di cui
Dante imiterebbe il gesto di rottura
di un’anfora, come «segno profetico
838 recensioni
che Dio ha concesso all’individuo-
Dante fuori e prima del poema sacro:
nella vita reale, pubblicamente» (p.
161). Con l’ausilio soprattutto di fonti
iconografiche l’A. conclude che,
malgrado l’archeologia non dia prove
della presenza di anfore, il fonte
battesimale doveva essere costruito,
al tempo di Dante, in modo da ospitarne
in appositi fori nel pavimento
«fatti per loco di battezzatori». Grazie
a questa acquisizione Inf. XIX 18-
21 diventa un passo fondamentale
per l’interpretazione della terza bolgia
e dell’ottavo cerchio, perché il
pavimento della terza bolgia, luogo
di papi simoniaci, è come il pavimento
del bel San Giovanni e di tutta
la Chiesa: fraudolenta e corrotta fin
nelle fondamenta. Questa interpretazione,
insieme a quella proposta per
Inf. XIX 21 sul valore del termine sugello
(p. 179), rinforza l’idea, sostenuta
in tutto il libro, che la Comm sia da
leggersi in chiave profetica. A conclusione
di questo densissimo capitolo,
l’A. dedica un paragrafo alla
datazione di Inf. XIX, che generalmente
si ritiene sia stato riscritto dopo
il 1314, e cioè dopo l’effettiva
morte di Clemente V (p. 218 n. 106).
L’A. si pronuncia invece a favore di
una profezia scritta ante eventum,
perché nel 1308 era plausibile sostenere
che Clemente V, «notoriamente
molto malato, sarebbe morto prima
del 1323 […]. Morirà in effetti ben
nove anni prima del termine vaticinato,
e il fatto che Dante si sia “tenuto
così largo” nella previsione depone
molto più a favore del 1308 che
del 1314» (p. 219).
Il VI capitolo è dedicato alla triplice
rappresentazione di Bologna in
Inf., che sancisce un drastico rovesciamento
di giudizio sulla città rispetto
al Dve e che costituisce ulteriore
prova del forzato abbandono del
comune nel 1036.
Il VII capitolo ha come oggetto l’episodio
la scena di Inf. XXVII, che fissa
per l’eternità Guido da Montefeltro
«nella sua identità di frodatore»
(p. 287) ed è in contraddizione con il
Guido che emerge dal Cv: il ritratto
dato in Inf. XXVII è quasi identico a
quello del IV libro del trattato (e noi
non possiamo sapere se Dante volesse
o meno che i lettori riconoscessero
la auto-citazione del Cv, che era rimasto
incompiuto e inedito, p. 155),
se non che nella Comm Guido si pente
del proprio percorso, che invece
nel Cv aveva benedetto. Questa opposizione
–«generalmente non vista»
(p. 256)– è centrale perché, secondo
l’A., dà un nuovo significato alla conversione
di Guido da Montefeltro: il
consiglio fraudolento sarebbe una
indimostrabile invenzione storica
che racchiude il senso della colpa e
della condanna di Guido, al quale
Dante «non doveva avere perdonato
di aver chiuso la propria storia con
un accordo interessato [con Bonifacio
VIII] che azzerava il valore di tutto
quello che aveva fatto e di cui era stato
simbolo» (p. 288). Se la ricostruzione
proposta da Tavoni è corretta, il
Cv, in cui è assente la condanna a
Guido anche se le informazioni sul
suo conto dovevano essere le stesse,
e il Dve, scritto nello stesso periodo,
appartengono a una fase precedente
alla rottura con i bianchi, e questa
non può essere avvenuta in coincidenza
con la battaglia della Lastra,
ma deve essere successiva (p. 290).
Nel capitolo VIII, che apre la terza
parte del libro, a partire dalle occorrenze
(in Vn, Dve, Cv, Monarchia e
Comm) delle parole poeta, poetare, poerecensioni
839
ma e poesia, l’A. traccia il percorso
della concezione dantesca di poesia.
Nella Vn per la prima volta il titolo
di poeta viene esteso ai rimatori volgari,
idea in vario modo confermata
ed ampliata nel Dve. Un cambio di
paradigma radicale avviene nella
Comm, in cui il titolo di poeta occorre
solo in riferimento agli autori classici
e a Dante stesso autore del poema.
Delle due occorrenze di poeta nel Paradiso,
una è riferita a Dante, nell’episodio
dell’incoronazione poetica del
canto XXV 8. Poema occorre due sole
volte nella Comm («sacrato poema»
XXIII 62; «poema sacro» Pd XXV 8)
entrambe nel Paradiso ed entrambe
riferite alla scrittura in corso, così come
poetare, che ha cinque occorrenze
nelle prime due cantiche e una sola
nel Paradiso, in cui indica l’azione di
scrivere la Comm. Questa palingenesi
nella concezione poetica si spiegherebbe,
secondo l’A., con l’affermarsi
di una nuova idea di poesia, un’idea
profetica, elaborata con e per la
Comm, fondata su di «un’ispirazione
ora pienamente profetica, tanto travolgente
da azzerare qualunque canone
dei moderni, lasciando Dante
solitario pioniere di una scrittura cristiana
in volgare» (p. 334).
Nell’ultimo capitolo del libro si indaga
il perché il poema di Dante sia
una commedia. Comedìa è termine
usato da Dante stesso (in Inf. XVI 128
e XXI 2), ma non deve essere inteso
come titolo dell’opera (Casadei, Il titolo
della «Commedia» e l’Epistola a
Cangrande, 2009). Commedia si riferisce
piuttosto alla «cifra stilistica profonda
», anche se il perché Dante dovesse
definire la propria cifra stilistica
profonda come comica non è chiaro,
visto che l’aggettivo comico, «è
ovviamente calcato a posteriori,
sull’esperienza unica dell’inclassificabile
poema dantesco» (p. 337). Per
capire quale fosse la concezione dantesca
di comico ci si è spesso chiesti
quale fosse la conoscenza di Dante
dell’autore comico classico per antonomasia:
Terenzio. Sulla base dell’unico
riuso dantesco delle commedie
terenziane, l’A. sostiene che Dante
non abbia mai conosciuto direttamente
le opere dell’autore latino, o
che al limite sia entrato in contatto
con una o più lecturae Terentii usate
nelle scuole medievali (anche se l’ipotesi
è inverificabile vista anche la
posizione di Villa, La «Lectura Terentii
», 1984). Al di là della citazione, peraltro
stravolta, dell’Eunuchus, la
commedia di Terenzio e la Commedia
di Dante non hanno niente a che vedere
l’una con l’altra, a parte nel nome
del genere letterario. Piuttosto
una definizione positiva del genere
commedia, deriverebbe dalle Etimologiae
di Isidoro di Siviglia in cui è
stabilita un’identità tra commedia e
satira, genere con il quale, «con direttissima
pertinenza alla sostanza del
poema dantesco» (p. 350), i comici novi
Orazio, Persio e Giovenale, hanno
denunciato i costumi corrotti dei loro
tempi. L’A. sostiene che, oltre la fonte
isidoriana, Dante abbia conosciuto,
riusato e citato la teoria sulla satira
esposta da Orazio nella Satira I 4 vv.
45-60, quando, nello scambio di battute
tra Omero e Virgilio di Inf. IV,
viene istituita la «bella scola» di poesia,
formata da Omero, «Orazio satiro
», Ovidio, Lucano, Virgilio e, «sesto
fra cotanto senno» Dante: il canone
oraziano viene ribaltato, legittimando
«Orazio satiro», il genere satirico,
e, in ultima analisi, Dante stesso.
Annalisa Chiodetti
840 recensioni
Dennis Weh, Giovanni Pontanos Urania
Buch 1. Einleitung, Edition, Übersetzung
und Kommentar, Wiesbaden,
Harrassowitz, 2017 («Gratia. Tübinger
Schriften zur Renaissanceforschung
und Kulturwissenschaft»,
58), pp. XIV + 430.
Oltre a occuparsi di poesia, linguistica,
storiografia, retorica, etica e politica,
Giovanni Pontano nutrì sempre
un vivo interesse nei confronti
dell’astrologia: lo testimoniano il
trattato De rebus coelestibus e la traduzione
e il commento al Centiloquio
pseudo-tolemaico. Sulla scia della riscoperta
degli Astronomica maniliani
da parte di Poggio Bracciolini nel
1417, fonte di ispirazione per altri
umanisti quali Basinio Basini e Lorenzo
Bonincontri (cfr. Benedetto
Soldati, La poesia astrologica nel Quattrocento,
1906), sin dagli anni Cinquanta
Pontano tentava la via del
poema astrologico, come d’altronde
lascia intuire Bartolomeo Facio nel
De viris illustribus. Durante gli anni
Settanta la prima versione dell’Urania
prendeva corpo; alla fine del decennio
successivo risalirebbe l’elaborazione
dell’autografo Vat. lat. 2837
(U). Nell’estate 1500 l’allievo Girolamo
Borgia trascriveva a Napoli, secondo
un autografo, il testo conservato
nel Vat. lat. 5175 (B); lo stesso
Borgia riferisce alla c. 4a del codice:
«Cal. februarii 1501 Pontanus legere
coepit suam Uraniam in sua achademia,
cui lectioni fere semper quindecim
generosi et eruditissimi viri affuere
». Quattro anni dopo la lettura
del poema in Accademia, Aldo Manuzio
ne curava la stampa a Venezia
(A), in base a un testo fattogli pervenire
dall’autore.
Da sempre l’Urania rivendica la fama
di essere l’opus maximum pontaniano,
acrocoro di una catena di cime
letterarie sviluppatasi lungo un mezzo
secolo di attività irrefrenabile: già
una medaglia bronzea di Adriano
Fiorentino di fine Quattrocento raffigurava
sul recto il profilo dell’umanista
umbro, sul verso la musa Urania
in piedi reggente nella mano destra
un globo e nella sinistra una lira.
Eppure l’unica edizione moderna
integrale del poema rimane tuttora
quella data alle stampe nel 1902
dall’ancor ventiseienne Benedetto
Soldati nel primo volume dei Carmina,
edizione esemplata su una ristampa
imperfetta dell’aldina e con
un apparato confinato alle sole varianti
di U. Ora Dennis Weh fornisce
un’edizione critica e commentata del
primo libro dell’Urania, preponendovi
una minuziosa sintesi della struttura
e del contenuto dell’opera intera,
una discussione della poetica
dell’admiratio, dell’appropriazione di
brani provenienti da altri autori – in
primis Virgilio – e del complesso pensiero
astrologico all’origine del poema,
nonché una ricostruzione autoptica
della non vasta tradizione manoscritta
e a stampa sino all’enchiridio
del 1505.
L’Urania, dedicata al figlio Lucio
Francesco, consta di 6049 esametri
latini divisi in cinque libri: il primo
presenta i sette pianeti, il secondo e
la prima metà del terzo i dodici segni
dello zodiaco, la seconda metà del
terzo e il quarto le costellazioni extrazodiacali,
il quinto una topografia
astrologica. In rapporto alla Tetrabiblos
tolemaica e alla Mathesis di Firmico
Materno, oltreché alla cosmologia
aristotelica, il poema affronta
l’universo astrologico attraverso il
filtro di una poetica umanistica, mirecensioni
841
tologica e allegorica. Formativa per
la cultura astrale di Pontano doveva
essere la frequentazione nel capoluogo
meridionale di dotti come il già
ricordato Bonincontri, il catanese Tolomeo
Gallina, Giorgio da Trebisonda
detto il Trapezunzio e Gregorio
Tifernate – Weh passa sotto silenzio
la De astrologia oratio di quest’ultimo,
già edita nel 1899 da Karl Müllner e
ora leggibile in edizione critica e
commentata a cura di Roberto Cardini
all’interno del volume miscellaneo
Gregorio e Lilio. Due Tifernati protagonisti
dell’Umanesimo italiano, a cura di
J. Butcher, A. Czortek e M. Martelli
(2017).
Nell’illustrare la tradizione manoscritta
e a stampa dell’Urania, rivisitata
qualche decennio fa – dopo le
ricerche pioneristiche di Soldati – da
Mauro de Nichilo in I poemi astrologici
di Giovanni Pontano (1975), Weh
presta la debita attenzione non soltanto
a U B A ma anche al meno noto
codice 3939 della Biblioteca Provinciale
di Avellino, Fondo Giulio e Scipione
Capone (C), testimone apografo
localizzabile nella cerchia dell’Accademia
e a livello cronologico da
inserire tra le ultime correzioni ad U
e la stesura di B. Il testo di Weh – curatissimo,
ad eccezione di un tumoloque
al v. 14 – riproduce quello conservato
da A in quanto ultima volontà
dell’autore, conformando tuttavia la
grafia alle norme trasmesse da U, soluzione
ibrida che non andrà incontro
all’approvazione dei filologi più
rigorosi. Similmente appare una scelta
poco felice quella di rinunciare alla
maiuscola dei nomi propri, decisione
che risulta in lezioni a tratti disorientanti,
quale ad es. il v. 713: «Litore
in hesperio tusci prope tibridis
amnem». Un utile apparato critico in
piè di pagina condensa le varianti di
U C B.
Questo in sintesi il contenuto del
libro I dell’Urania. Dopo la preghiera
alla musa dell’astronomia affinché
venga in soccorso nella composizione
del poema, Pontano descrive le
fasi della Luna, l’influenza del satellite
sul mondo sublunare e i pronostici
che se ne possono trarre. Mercurio,
pianeta osservabile solo per un
breve lasso di tempo prima dell’alba
e dopo il tramonto, è insieme messaggero
degli dèi e protettore del
commercio: di qui l’appellativo romano,
derivato da merx, mentre altre
nazioni prediligono il nome greco di
Stilbonte, “lo Splendente”. Venere
comanda una felix regio abitata da
Voluttà, Lascivia e Flora; per virtù
del pianeta citereo la terra, il mare e
l’aria concepiscono. Sole, principe
dei Superi e guida del moto circolare
degli astri, illumina tutta la Terra;
non esiste consenso tra i popoli né
sul principio dell’anno solare né sulla
divisione temporale del periodo
corrispondente: la vittoria di Apollo
contro Pitone allegorizzerebbe la forza
dei raggi solari di contrastare le
nubi serpentiformi emesse dalla Terra
ancora in formazione; il mito di
Adone e Venere troverebbe una radice
naturalistica nell’allontanarsi del
sole (Adone) dalle terre dell’emisfero
settentrionale (Venere) durante i mesi
invernali: a buon diritto cento altari
e cento nomi esaltano il padre Sole,
tanto potente da accecare all’istante
chi lo fissa con lo sguardo. Nell’orbita
del pianeta successivo impera la
qualità maschile della virtus; dal feroce
Marte discendono quei romani i
quali, oltrepassati i confini del Lazio
e delle Alpi, non ancora contenti della
conquista militare dell’Egitto e
842 recensioni
della Britannia, fecero guerra ai battriani
e agli indiani. Il corpo celeste
di Giove esercita una forza benefica
sui mortali, per quanto molti credano
a torto, per stolta superstizione,
che sia l’omonima divinità a incutere
terrore attraverso il tuonare e il lancio
di fulmini. Saturno infine, l’anziano
dal volto scuro posto ai lembi
del sistema planetario, è ricordato
per aver impiantato l’agricoltura e la
produzione di vino nelle antiche terre
laziali.
Portato a termine il catalogo dei
sette pianeti con i relativi miti nonché
quantificata la durata di ciascuna
rivoluzione, Pontano chiarisce che la
Luna riflette i raggi solari senza
emettere una luce propria; ritorna
inoltre sulla questione delle fasi lunari
e indaga il fenomeno delle macchie
visibili sulla superficie del satellite.
L’artefice della Luna e dell’intero
universo (qui identificabile con il Dio
cristiano), dopo avere generato gli
astri con un semplice cenno del capo,
convocò un’assemblea degli dèi
sull’Olimpo. Le divinità delle stelle
erranti giunsero al consiglio accompagnati
dai corrispondenti segni dello
zodiaco: Saturno con Capricorno e
Acquario, Giove con Sagittario e Pesci,
il bellicoso Marte con Scorpione e
Ariete, il Sole – ossia Febo, bene accetto
per la voce canora e per la giovinezza
lucente – con Leone, Venere
con Toro e Bilancia, Mercurio con
Vergine e Gemelli e la Luna, risplendente
in un vello di lana nivea, insieme
a Cancro. Ai pianeti il demiurgo
impartì l’ordine di riempire di esseri
animati l’aria, il mare e la terra del
mondo sublunare e di prestare speciale
cura alla generazione dell’uomo.
Così i monti si ricoprirono di
verde, alberi da frutto misero radici, i
fiumi si cinsero di flora, viole, rose e
crochi spiegarono i loro petali, intanto
che le acque marine iniziarono a
pullulare di pesci, il cielo di volatili, i
campi di quadrupedi. Ultimo a sorgere
dal suolo gravido era l’uomo il
quale seppe giovarsi del fuoco e civilizzarsi
con matrimoni, leggi eque e
santuari consacrati agli dèi.
I versi dell’Urania non si lasciano
sempre decifrare senza fatica: il ricorso
al soggetto indeterminato
espresso tramite la terza persona
plurale del verbo attivo frena la comprensione;
alcuni periodi flessuosi
che fanno la grandezza del verseggiare
pontaniano esigono un notevole
sforzo di lettura, come la sintatticamente
articolata esortazione di Dio
alle sette divinità-pianeti ai vv. 951-
54, «Imprimis teretes hominum [vobis]
fingentibus artus / Artificem
nauare operam, tum condere membra
/ Cura sit, ætherios diuini seminis
haustus / Apta haurire animos
coelesti e fomite ductos», dove ætherios…
haurire dipende dal sostantivo
membra per il tramite dell’aggettivo
apta, mentre il sintagma animos…
ductos è predicativo dei precedenti
haustus (qui una virgola posta dopo
il verbo haurire avrebbe spianato l’intelligenza).
Altre frasi di complessa
formazione sintattica si incontrano ai
vv. 1003-15 e 1126-38, questi ultimi,
non a caso, aventi ancora per oggetto
la creazione dell’uomo. Ora, mentre
il lettore italiano deve ancora accontentarsi
di traduzioni frammentarie
del primo libro dell’Urania, come
quella realizzata da Liliana Monti Sabia
dei vv. 322-64, De solis prognosticis,
per l’antologia Poeti latini del
Quattrocento (a cura di F. Arnaldi, L.
Gualdo Rosa e L. Monti Sabia, 1964),
Weh dà una traduzione completa e
recensioni 843
pressoché irreprensibile del testo arduo
col quale ha voluto misurarsi. La
versione tedesca è insieme aderente
al latino originale ed elegante, concedendosi
di tanto in tanto qualche libertà,
senza tuttavia stravolgere il
significato del poema. Se sul piano
lessicale la traduzione si discosta necessariamente
dal latino più che lo
avrebbe fatto una resa in lingua italiana,
la più ampia flessione morfologica
del tedesco permette una maggiore
conservazione dell’andamento
sintattico; possono fungere da esempio
i vv. 188-89 intorno alla gaiezza
della dea Voluttà, «Lætatur dea;
laætanti risusque iocique / Assiliunt
somnique leues et mollior aura»,
brano squisitamente pontaniano nella
sua delicatezza erotica che viene
qui trasformato in: «Die Göttin freut
sich; der sich Freuenden springen
Lachen und Scherze / zur Seite und
sanfte Träume und ein zarter Lufthauch
» (da evidenziare la preferenza
accordata a Lufthauch il quale abilmente
riproduce qualcosa del fonetismo
dell’aura).
Sarebbe difficile eccedere nelle lodi
del commento al primo libro dell’Urania
di Weh, affidato a quasi duecento
pagine ricchissime. Innanzitutto
occorre elogiare le cognizioni lessicologiche
del commentatore il quale
ha soppesato il valore e l’evoluzione
diacronica di ciascuna parola formante
il tessuto di Urania I. Ne è
esemplare il paragrafo riguardante
l’aggettivo grecizzante auricomus riferito
al Sole, al v. 237, per cui si chiamano
in causa Marziano Capella,
l’Olimpica VI pindarica, i Saturnalia
di Macrobio, Valerio Flacco e gli
Hymni naturales di Marullo insieme
ad altri luoghi paralleli nell’Urania
(omettendo tuttavia l’aggettivo auricomos
di Aen. VI, 141, il quale, sebbene
adoperato da Virgilio in ambito
botanico, sarebbe stato tra tutti il meglio
noto all’autore umbro). Altrettanto
comprensiva risulta l’esegesi
della dottrina astronomica e astrologica,
della mitologia antica e dei vari
riferimenti esterni, una prestazione
eccezionale quando si pensa che la
sola toponomastica regge a volte la
concorrenza col furore catalogatore
di RVF CXLVIII, Non Tesin, Po, Varo,
Arno, Adige et Tebro… I debiti con i
due maestri del poema didascalico
latino, Lucrezio e il Virgilio delle Georgiche,
vengono puntualmente registrati,
accanto alle riprese da Ovidio,
Manilio, Plinio il Vecchio, Censorino,
Claudiano e altri; né si ignorano i
punti di convergenza con gli umanisti
italiani, dal Bucolicum carmen petrarchesco
a Bonincontri e a Battista
Spagnoli detto il Mantovano, e con il
resto della sterminata opera pontaniana.
Weh vi aggiunge osservazioni
riguardanti gli aspetti formali del testo,
dimostrando una rara sensibilità
all’organismo metrico dell’esametro
latino (un’integrazione stimolante è
costituita dall’analisi metrico-stilistica
di Ur. I, 464-73 svolta alle pp. 371-
73); simultaneamente presta la dovuta
attenzione ai contributi critici più
recenti, senza esitare a muovere rimproveri
ben fondati ad alcuni interventi
meno avveduti. Mai prima d’ora
un commento si era sforzato con
altrettanto acume a sviscerare sul
piano lessicale, formale, strutturale,
retorico, contenutistico e intertestuale
la poesia di Pontano, approfondendola
con il medesimo impegno
scientifico che si riserva a un classico
della letteratura italiana ed europea.
John Butcher
844 recensioni
Giani Stuparich, L’opera di Pasquale-
Besenghi degli Ughi, a cura di Waltraud
Fischer, Trieste, EUT (Edizioni
Università di Trieste), 2016, pp.
140.
Nel 1910 il giovane triestino di origine
istriana Giani Stuparich si iscrisse
all’Università tedesca di Praga, la
k. k. Karl Ferdinand, frequentandone
i corsi di lingua e letteratura tedesca
e italiana, di filosofia e pedagogia. Se
ne allontanò l’anno successivo, che
trascorse a Firenze come semplice
«uditore» del suo Ateneo sino al 1912
entrando, grazie a Scipio Slataper,
nell’ambiente della «Voce» e respirandone
il fervido clima culturale sul
quale esercitava la sua vigorosa
ascendenza Prezzolini, con il quale
strinse un’amicizia di lunga durata.
«Mesi fiorentini d’ansia, di vita intensa,
di fraternità, intessuta alla più
geniale amicizia», avrebbe ricordato
Giani alla vigilia della Grande Guerra,
confortato dalla presenza nel vivace
cenacolo vociano di altri esponenti
«irredenti» a partire dal fratello
Carlo e Guido Devescovi, senza dimenticare
i fiumani Enrico Burich e
Gemma Harasim: persuasi tutti, con
diverse sfumature, della funzione
etico-politica della cultura e dell’intellettuale.
Sulla rivista fiorentina Stuparich
pubblicò nel 1913 due articoli, Gli
Czechi e La Boemia czeca – prodromi
del successivo volume La nazione ceca,
edito nel 1915 –, risultando tra i
primi ad introdurre in Italia la conoscenza
di quelle aree geo-politiche
soggette, al pari della sua Trieste e di
quell’Istria amatissima in cui era originario,
all’Impero absburgico. Per
quali sensibilità e inclinazione un
giovane studente triestino abbia maturato
a quel tempo un vivo interesse
per gli ambienti della rinascenza nazionale
boema percepita a Praga, lo
illustra adeguatamente Waltraud Fischer,
studiosa austriaca e collaboratrice
dell’Archivio degli Scrittori e
della Cultura regionale dell’Università
di Trieste, alla cui curatela si deve
la pubblicazione dell’inedito manoscritto
di Giani Stuparich L’opera di
Pasquale Besenghi degli Ughi, la sua
tesi in italiano discussa a Praga per la
disciplina di lingue romanze, depositata
nel luglio 1914, a Impero austriaco
già in stato di guerra e conservato
nel Fondo Giani Stuparich dello
stesso Archivio degli Scrittori e della
Cultura regionale, cui l’hanno donato
gli eredi.
Fu complesso il percorso intellettuale,
politico e spirituale di Giani,
immerso in due dimensioni esistenziali
e culturali, l’italiana e l’austrotedesca,
compresenti ma potenzialmente
contrastanti: un’antinomia che
tuttavia non gli impedì di ritrovarsi,
almeno in parte, nello spirito dei
grandi autori classici germanici, come
ancora nel febbraio 1914 avrebbe
confidato nel suo diario. «Un giovane
intellettuale a cavallo di due mondi e
di due epoche», lo definisce Waltraud
Fischer che nell’introduzione ne esamina
accuratamente le lettere e il diario
di quegli anni praghesi, dai quali
emerge l’aspirazione a riconoscersi in
pieno nella cultura e nella lingua italiane
ma anche la incalzante riflessione
politica sulla relazione tra i popoli
dell’Impero austriaco.
Scaturisce da questa posizione
duale la scelta di Giani di dedicare la
sua tesi d’italiano ad un autore, l’istriano
Pasquale Besenghi degli
Ughi, nato nel 1797 a Isola d’Istria da
una famiglia della piccola nobiltà verecensioni
845
neta: «maggiore poeta moderno
ch’ebbe la Venezia Giulia», a giudizio
di Stuparich, che «merita d’essere
accolto nella letteratura nazionale».
Nella scelta di dedicargli la tesi furono
dunque determinanti, come scrive
la curatrice, non soltanto «ragioni
puramente estetiche ma anche […]
motivi politico nazionali», attinenti
sia alle aspirazioni degli italiani “austriaci”,
ben presenti al laureando,
sia alla percezione della marginalità
culturale della regione Giulia, già patita
dal liberale Besenghi nell’Istria
del XIX secolo e ben stigmatizzata da
Stuparich nella sua tesi. Più che ammirarlo
come poeta – forse non proprio
eccelso – Giani riconobbe in lui
il ribelle alla stucchevole cultura letteraria
della Trieste del suo tempo,
incapace di creare le premesse di un
risveglio civile e politico dell’elemento
italiano, e un fratello di sentimenti
risorgimentali per la patria bisognosa
di risorse intellettuali moderne
e consapevoli, in grado di interpretare
e dirigere la nazione nelle
incipienti turbolenze dell’Europa
centro-orientale e di immaginare con
cognizione di causa la funzione degli
intellettuali giuliani nel nuovo assetto
geo-politico e culturale della regione
confinaria allorquando le fosse
stato riconosciuto il diritto a congiungersi
all’Italia.
Patrizia C. Hansen
William Blake, Visioni e profezie. Inquadratura
traduzioni e commenti
di Pasquale Maffeo, Minturno (LT),
Caramanica Editore, 2017, pp. 112.
Se, volendo presentare il libro in
titolo, cominciassi annunziando che
siamo al cospetto di una nuova traduzione
dell’opera dell’autore inglese,
darei sì un’idea del lieto evento,
ma cadrei pure nel classico difetto
del “parlar corto” (a dirla con Dante).
Limitandoci infatti a segnalare
un’impresa che nei lessici viene spiegata
come “trasferimento” di un testo
in una lingua diversa dall’originale
(e giova ricordare, in proposito,
che il latino reca pure il vocabolo
traductio, ma con significato diverso
da quello odierno, con accezioni finanche
politico-giudiziali), non renderemmo
piena giustizia al più recente
lavoro di Maffeo, il quale non a
caso pone il termine al plurale (traduzioni),
in sottotitolo, e neppure in prima
fila.
È un invito a ben guardare, che
muove innanzitutto dal convincimento
che la prima di copertina è
una cosa seria, che non andrebbe mai
piegata a gusti facili, e a calcoli di
mera propaganda. E ciò massime
quando si volgono nel nostro italiano
lingue di ceppo diverso: per le
quali la traduzione, lungi dal porsi
come un’arte, e delle più difficili,
può trasformarsi all’uopo in solo mestiere.
Un mestiere-professione, asservibile
al consumo, cui da ultimo,
come si temeva, s’è data legittimazione
formale con un neologismo indicante
una vera e propria disciplina,
con distinzioni (alla lettera, a senso,
all’impronta, elettronica, simultanea,
ecc.), regole e metodi propri: la
“traduttologia”.
Non a caso, dunque, Maffeo inserisce
dopo lo spazio alfabetico anche
una delle illustrazioni più rappresentative
di Blake, quella che forse
meglio riassume ed emblematizza il
suo concetto drammatico della vita e
dell’arte: in basso, Eva sdraiata e nel846
recensioni
le spire del serpente; sopra di lei, in
parallelo, Satana che esulta. Immagini
che, come è noto, trovano il pendant
nelle ipostasi poetiche, non
escluse quelle basate sulla contrapposizione
Tigre-Agnello. Egli vuole
in tal modo porsi al riparo dalle accoglienze
superficiali, e avvertire che
non calca la scena in veste esclusiva
di “traduttore”. È un equivoco in cui
è facile incappare quando ci si affidasse,
senza leggere, unicamente alla
notizia delle non poche versioni da
lui realizzate come anglista, alle prese
con testi di Keats (1963 e 1968), di
Collins (1969), di Dickens (1973), di
C. G. Rossetti (1983), di French
(1984), e già di Blake nel 1977.
Maffeo invece, riprendendo il discorso
sospeso, sceglie ancora una
volta di farsi testimone totalizzante e
interprete di marca etico-spirituale, e
quasi per affinità elettiva, ben deciso
ad operare in continuo con quanto
ha sempre perseguito nella sua vasta
e multiforme produzione, di poeta,
narratore e drammaturgo (una quarantina
di libri, ci dice egli stesso); e
così atteggia le parti che compongono
il nuovo lavoro finalizzandole a
ricostruire ab imis la fisionomia di
Blake e contenerla in tessere il più
possibile veritiere e complete, disgiunte
dalle troppe mitizzazioni e
distorsioni tuttora reperibili. Egli
parte ovviamente dai testi, ma non
solo per tradurli sì bene anche per
riportarli con commenti essenziali
ad un comun denominatore e fornire
a chi legge un ritratto lineare ed
equilibrato, idoneo a fargli strada
verso il proprium di questa singolare
personalità a cavallo tra il secolo dei
lumi e il romanticismo, e verso le
plaghe della sua immaginazione e
dei suoi enigmi predicativi dei segreti
dell’Oltre e dei destini dell’uomo
in terra.
E veramente a lettura terminata ci
resta vivo e indelebile, come in una
riscoperta, il volto d’un autore non
evitabile del passato, che Maffeo
scruta e definisce – non senza, forse,
qualche riporto autobiografico – decisamente
Fuori codice, nel primo dei
tre capitoli (il secondo è dedicato alle
Traduzioni, il terzo alla Biobibliografia);
e che a conti fatti risulta, tra i
maggiori, forse il più arduo da decifrare
e proporre. E tuttavia moderno,
che – ci viene ricordato – ha dischiuso
nuovi orizzonti alla ricerca intellettuale
ed estetica dell’Ottocento e
poi del secolo scorso, italiana ed europea,
ed è stato l’idolo e il rovello di
tanti, di Campana come di Ungaretti,
per fare dei nomi.
Col quale ultimo Maffeo si misura
non certo per sfidarne l’operazione
di investimento poetico-critico, ma
per riprenderne il discorso relativamente
al dopo, più volte inficiato da
improvvisatori che di Blake non hanno
«letto riletto e quanto possibile
metabolizzato i testi in versi e in prosa
». Sono le parole con cui egli dà
principio al suo discorso di “inquadratura”,
e ci lasciano pensosi anche
per quel che sommessamente sottendono.
Maffeo è consapevole che non
avrebbe senso calcare le orme dell’Ungaretti
eternamente in battaglia
col Blake più profetico e visionario, e
di certi suoi tracciati ormai leggendari,
com’è ad esempio quello dell’agghiacciante
simmetria nel finale di The
Tiger, in rima con spia: «Tigre! Tigre!
divampante fulgore / nella foresta
della notte,/ quale mano, quale immortale
spia/ osa fermare/ la tua
agghiacciante simmetria?». E da poerecensioni
847
ta anch’egli – ma per nulla convinto
dell’idea (tipica dei nuovi relativismi
e soggettivismi), che la traduzione
debba trasformare l’unicità del testo
in un “multi-universo” (col che verrebbe
messo a rischio il concetto medesimo
della ‘identità’ creativa) –
opera invece in tensione oggettivante,
con ogni suo mezzo di fantasia, di
umanità e di cultura.
Ed è così che viene a chiarezza genetica
– per entrare nello specifico –
la novità con cui egli rende il testo
del celebre Sunflower (Girasole): una
versione degna di essere ventilata
come emblematica della sua esigenza
di fedeltà all’autore a cui s’è votato,
e per più aspetti e riflessi (il primo
lo indicherò subito): «O girasole
fiaccato dal tempo,/ tu conti incessante
i passi dell’astro/ sempre pensando
il rosato paese/ dove approda
il viaggio dell’errante./ Dove si
estinsero desiderio e giovinezza/ e
le pallide vergini in sudari di neve/
sorgono dalla tomba sognando la
terra/ che l’amante girasole spasima
di toccare».
Imbattendosi in questo modo di
affrontare le cupezze e le ambiguità
dell’originale (modo alieno per principio
da quell’enfasi che non di rado
insidia i lettori delle Visioni e profezie),
è giocoforza che la nostra memoria
si diriga al montaliano Portami
il girasole, pezzo non periferico degli
Ossi di seppia, risalente al 1923: a ciò
disposta anche per il contatto di
Montale con Blake che A. Castellani
ha rilevato or non è molto (nel 2006),
a proposito dell’Angelo nero (in Satura
II, recante la data del 1968). Esigenza
di attenzione quasi obbligata,
primamente per i titoli identici delle
due liriche, e poi per le concordanze
tematiche (specie quelle del viaggio,
dell’inaridimento e del transito dal
buio alla luce) e infine per la peculiarità
del dato cromatico. In ordine al
quale annoterei che Maffeo “italianizza”
l’aggettivo golden risolvendolo
in rosato, invece di fermarsi al così
ordinario come diffuso dorato, anche
oltre il bionde preferito da Montale. E
sarebbero da riscontrare oltretutto le
coincidenze del tu, del dove e del sorgono,
l’uguaglianza tra terra e terreno,
e l’analogia tra lo spasimare e l’impazzire
d’amore e di luce: a malgrado
degli spostamenti e delle ricollocazioni
di contesto, che però non coprono
l’evidenza del rapporto intertestuale.
Abbiamo insomma quanto
serve per essere invogliati a individuare
nella trama del girasole settecentesco,
adiuvante Maffeo, un’ascendenza
della lirica degli Ossi:
«Portami il girasole ch’io lo trapianti/
nel mio terreno bruciato dal salino
…Tendono alla chiarità le cose oscure…
Portami tu la pianta che conduce/
dove sorgono bionde trasparenze/
e vapora la vita quale essenza;/ portami
il girasole impazzito di luce».
Che poi Maffeo conti molto sulle
proprie risorse ermeneutiche ed evocative
anche nella stesura dei commenti,
ne danno saggio le parole con
cui egli circoscrive il concetto della
“simmetria”, nelle quali peraltro c’è
già un ammicco alla pianta eliotropica
e alla metamorfosi raccontata nella
favola antica. Ne citiamo due soli
righi, estraendo dalla glossa dedicata
all’immortal hand or eye di The Tiger,
nella quale è avanzata l’idea che la
“immortalità” di Blake debba essere
intesa come eterna sospensione e insanabile
contrasto: «l’eternità si regge
bilicata sull’asse dei contrari; tenerezza
e ferocia, amore e rancore».
Qui si vede chiaro che Maffeo si848
recensioni
gilla i suoi atti cognitivo-espressivi
col mezzo linguistico che gli è proprio,
dolce e rovente ad oltranza, diremmo:
capace di annullare ad ogni
svolta la differenza tra prosa e poesia,
frutto com’è di selezione terminologica
scrupolosa e di puntualità
nelle campiture, ma l’una e l’altra
vivificate da un soffio perfetto di sensibilità
e passione, e da speciale finezza
nella tecnica traslativa. Per il
che vorremmo acclararlo, almeno in
questo ambito, come miglior fabbro del
parlar materno: ma certamente egli è
dei pochi scrittori d’oggi che può
vantare una cifra compositiva immediatamente
riconoscibile in tutto
quello che produce ed offre, e da
ogni punto di osservazione, oltre gli
stessi confini della letteratura e della
specialistica.
Mario Aversano
Carlangelo Mauro, Liberi di dire.
Saggi sui poeti contemporanei, Avellino,
Sinestesie, 2017, pp. 286.
Carlangelo Mauro, accreditato studioso
di letteratura italiana moderna
e contemporanea soprattutto sul versante
poetico, dà un seguito al primo
volume col medesimo titolo, pubblicato
dalla medesima casa, e ne svolge,
integra e allarga i reticoli di analisi
e di sistemazione critica della poesia
italiana contemporanea.
La maggiore e più significativa novità,
che introduce questo secondo
libro non solo rispetto al precedente,
ma anche sull’orizzonte complessivo
degli scandagli critici a livello nazionale,
è la scommessa sull’importanza
e sulla consistenza della produzione
e delle proiezioni di gusto, di sensibilità
e di creatività della poesia a Napoli
e nel Sud oggi: su quattordici
autori esaminati, nove sono di quest’area
geografica, sollecitati (in maniera
esplicita o implicita) nel loro
immaginario dai rapporti con la terra
di provenienza e con i suoi linguaggi.
Oggettivamente, questo nuovo lavoro
di Mauro, senza farne dichiarazione,
per un forte senso di pudore,
ma facendo parlare i risultati e le
prospettive degli autori, delinea in
controluce un’effervescente e persuasiva
situazione della letteratura e
della poesia nel Mezzogiorno, sul cui
conto circolavano e circolano come
gettoni di uso giudizi sommari e preconcetti,
secondo cui la nostra letteratura
nel Sud degli ultimi decenni
del secolo scorso e dei primi due –
ammesso che si possa dire – del XXI
secolo sia una piccola, povera, mortificata
cosa, se considerata sullo scenario
nazionale.
Più complessivamente, poi, la prospettiva,
che è questa volta dichiarata,
è quella dello scandaglio di una
vicenda che riguarda anche il Sud,
ma entro una situazione più ampia:
il dialogo tormentato nella poiesi di
questi anni di consonanza e di dissonanza
dalla neoavanguardia, dall’epigonismo,
dalle grandi narrazioni
unilineari e ottimistiche di un nuovo
sempre più nuovo all’infinito.
Nel libro gli autori non meridionali
sono Elio Pagliarani, Maurizio Cucchi,
Giancarlo Pontiggia, Umberto
Piersanti,
Loretto Rafanelli.
Per quanto concerne i meridionali,
non è possibile, per l’economia della
nota, soffermarsi dettagliatamente
su tutti e nove gli autori analizzati da
Mauro, ma ci si può velocemente affacciare
su alcune situazioni.
recensioni 849
Su quella, innanzitutto, di Antonio
Spagnuolo, che appartiene alla generazione
dei nati negli anni Trenta, e,
dopo aver fondato la rivista «Prospettive
culturali», è attualmente direttore
di una collana editoriale per Kairòs.
Autore di testi di poesia, di teatro,
di narrativa, a molti dei quali sono
stati attribuiti premi e sono stati dati
riconoscimenti significativi da Saba
ad Asor Rosa, si connota per strappi e
spaesamenti della scrittura in omologia
con le esperienze traumatiche e
sconvolgenti del mondo di oggi.
Vengono, poi, scrutinate le ricerche
suggestive e motivate da lucide e coerenti
ragioni intellettuali, insieme
con una scrittura lavorata al bulino,
dei poeti delle generazioni successive.
Come Luigi Fontanella, in ascolto
della bouche d’ombre, come diceva
Breton, e dei richiami dell’Altro. Come
Sebastiano Aglieco, che disocculta
il lontano nel vicino. Come Luigia
Sorrentino, impegnata in tessiture
aracnoidee di testi nel testo. Come
Domenico Cipriano, preso dalle malie
dell’appartenenza che chiama in
causa la storia. Come Mario Fresa,
assorto nelle trame delle analogie.
Come Stelvio Di Spigno, attentissimo
e coerente nel lavoro di spegnimento
del sublime e dell’oratorio.
Come Vincenzo Frungillo, che si ricollega
a Pagliarani, ma per narrare
in densità di rarefazioni.
Ugo Piscopo

LIBRI RICEVUTI
Arato Franco-Bazzocchi Marco Antonio, Le forme arcaiche. Pasolini
e lo Yemen, a cura di Mathias Balbi, Novi Ligure, Citta del Silenzio,
2017, pp. 48.
Barberi Squarotti Giorgio, Dialogo infinito, a cura di Valter Boggione,
2 voll., Torino, Genesi editrice, 2017, pp. 2240.
Biografie ottocentesche di Giuseppe Parini, a cura di Marco Ballarini e
Paolo Bartesaghi. Edizione Nazionale delle Opere di Giuseppe Parini,
Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore 2017, pp. 540.
Casali Elide, Il bambino e la lumaca. Rileggere Piero Camporesi (1926-
1997), Bologna, Bononia University Press, 2017, pp. 300.
Cavalluzzi Raffaele, La crudeltà dello scrittore. Saggi e interventi, Bari,
Progedit, 2017, pp. 126.
Centinaro Alessandro, Varia materia dell’aria (Poesie), Ascoli Piceno,
Librati, 2017, pp. 108.
Corcione Noemi, Sulla prima scrittura poetica di Mario Luzi. Dalla Barca
a Ebe, Firenze, Cesati, 2017, pp. 102.
Dimaggio Salvatore, La riva invisibile del mare. Pref. di Lia Quartapelle;
postfazione di Piero Dominici, Cinisello Balsamo, Edizioni San
Paolo, 2017, pp. 158.
Ezio Raimondi lettore inquieto, a cura di Andrea Battistini, Bologna, il
Mulino, 2016, pp. 338.
Giammattei Emma, Il romanzo di Napoli. Geografia e storia della letteratura
nel XIX e XX secolo. 2a edizione riveduta e accresciuta, Napoli, Guida
editore, 2016, pp. 470.
Giannantonio Valeria, Enrico Panzacchi. Il critico e il letterato, Pisa,
Edizioni ETS, 2017, pp. 172.
Giglio Raffaele, Il lettore innamorato. Studi danteschi. Presentazione
di Daniela De Liso, Napoli, Paolo Loffredo, 2017, pp. 622.
Iannaco Domenico, Aurora dai biondi capelli. Il Giudizio, Roma, Fondazione
Mario Luzi editore, 2017, pp. 244.
Jovine Francesco, Viaggio nel Molise. Edizione ampliata a cura e con
un saggio di Sebastiano Martelli, Isernia, Cosmo Iannone editore,
2017, pp. 214.
Lawson Lucas Ann, Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura,
politica, società. I. Fine secolo 1883-1915. La verità di una vita letteraria,
Firenze, Olschki, 2017, pp. XIV-444.
Lazzarin Stefano et alii, Il Fantastico italiano. Bilancio critico e bibliografia
commentata (dal 1980 a oggi), Firenze, Le Monnier Università,
2016, pp. 986.
Luzi Mario, «Autoritratto». Scritti scelti dall’Autore con versi inediti, a
cura di Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino. Introduzione e note
di Paola Baioni, Mendrisio, Metteliana, 2017, pp. 460.
«Luziana». Rivista internazionale di studi su Mario Luzi e il suo tempo,
1 – 2017 (Pisa-Roma, Istituti editoriali e Poligrafici Internazionali,
2017), pp. 160.
Mazzarella Eugenio, L’uomo che deve rimanere. La moralizzazione del
mondo, Macerata, Quodlibet Studio, 2017, pp. 214.
Pozzi Rosanna, Mario Luzi lettore dei poeti italiani del Novecento, Firenze,
Franco Cesati Editore, 2017, pp. 368.
Riccardi Carla, Milano-Europa. Sette capitoli sull’Ottocento tra letteratura
e storia, Novara, Interlinea, 2017, pp. 172.
Ruggiero Raffaele, Baldassarre Castiglione diplomatico. La missione
del Cortegiano, Firenze, Olschki, 2017, pp. XVI- 154.
Sanfilippo Maria Valeria, Giuseppe Bonaviri e le novelle saracene. Presentazione
di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Aracne, 2016, pp. 348.
Savoretti Moreno, L’orto delle Muse. Studi sulla poesia bernesca del
Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2016, pp. 120.
Scrivano Fabrizio, Oggi il racconto. Come resistere alla banalità dell’informazione,
Milano, Meltemi, 2016, pp. 124.
Soro Antonio, Le trombe d’oro della solarità. Studio sui primi Ossi di
seppia di Montale, Sassari, EDES, 2017, pp. 190.
Spalanca Lavinia, Il governo della menzogna. Antonfrancesco Grazzini e
l’allegoria del potere, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 2017, pp. 180.
Tellini Gino, Storia del romanzo italiano, Firenze, Le Monnier, 2017, pp.
668.
«Tracce» di Novecento. Storia, letteratura e cinema, a cura di Guido
D’Agostino, Ugo Maria Olivieri, Mario Rovinello, Francesco Soverina,
Napoli, Esi, 2017, pp. XII-174.
Villani Giorgio, Il convitato di pietra. Apoteosi e tramonto della linea
curva nel Settecento, Firenze, Olschki, 2016, pp. 122.
indici dell’annata 2017 (a. xlv )
saggi
Alessandro Metlica, Memoria epica e rivoluzione militare,
dal Furioso alla guerra degli Ottant’anni pag. 3
Guglielmo Barucci, «Questi fia del tuo sangue» (GL X). La
profezia per Solimano: una sconfitta tra storia e destino » 21
Jesús Ponce Cárdenas, Salcedo Coronel e Marino: tessere sabaude
in un panegirico spagnolo » 37
Anna Maria Pedullà, L’ombra di Maddalena » 63
Raffaele Cavalluzzi, Ancora nel “romanzo” pascoliano: eros
e thànatos » 83
Federico Italiano, Isole (proto)moderniste. La Non-Trovata
di Guido Gozzano tra Francis Jammes e Gottfried Benn » 97
Roberto Gigliucci, Ermetismo e petrarchismo » 123
Mariella Muscariello, Immagini di memoria in Ritratto
in piedi di Gianna Manzini » 141
Arnaldo Di Benedetto, Gli Scheiwiller e Pound, Pound e
Dante » 151
Tobia R. Toscano, Per la datazione del manoscritto dei sonetti
di Vittoria Colonna per Michelangelo Buonarroti » 211
Francesco Rizzo, Il tema della Annunciazione,tra iconografia
e letteratura, nella tradizione di matrice umanistica » 239
Renato Ricco, Lodovico Dolce volgarizzatore del Petrarca epistolografo
» 259
Ugo M. Olivieri, “L’odore del tabacco”. Intertestualità e modelli
letterari nella Storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito
Nievo » 275
Giovanni Maffei, La prima formazione di Federico De Roberto:
la questione della lingua e le risorse della scienza » 289
Alessandro Baldacci, Giorgio Bassani e la “ricerca del dolore”
» 317
Pietro Sisto, Il “volto oscuro” di Dio e il viso bianco di Laura.
I colori della peste fra storia e finzione letteraria » 431
Graziella Bassi, «Mansuete donne»: Griselda-Piccarda.«E ’n
la sua volontade è nostra pace» » 445
854 indici dell’annata 2017 (a. xlv)
Moreno Savoretti, Il sogno e la morte: le Rime della Selva
di Arturo Graf pag. 475
Francesca Castellano, Giorgio Vigolo e «Il Mondo» di Giovanni
Amendola » 491
Luca Danti, Il carillon del Principe: Lampedusa e l’opera (con
un prologo balzachiano e un epilogo camilleriano) » 507
Salvatore Renna, Cesare Pavese e la polemica classico-romantica
sulla mitologia » 527
Alberto Comparini, Sereni e il nichilismo metodico di Stella
variabile» (1981) » 557
Annarita Placella, «Vidi cose che ridire / né sa né può chi
di là sù discende». Dante poeta teologo e il modello paolino
di Visione e Profezia » 641
Anna Rita Rati, Sul Canzoniere di Lorenzo Spirito Gualtieri » 667
Patrizia Castelli, «Theophrastus humanas affectiones depingere
novisset». La crisi della teoria delle proporzioni: fisiognomica,
caratteri, affetti » 687
Simone Magherini, I consulti medici di Francesco Redi » 721
Alviera Bussotti, Bivi tra accademia e corte. Ercole e la virtù
nella Toscana di primo Settecento » 747
Anna Cerbo, Giacomo Leopardi e l’Europa letteraria contemporanea
» 769
Meridionalia
Valeria Giannantonio, Contraddizioni e convergenze di poetica
e poesia a Napoli nella seconda metà del Seicento » 163
Francesco Saverio Minervini, Michelangelo Grisolia, un
pontaniano alla fine del Settecento » 329
Laura Restuccia, Dalla parte degli immigrati:Alfredo Strano,
un Calabrese in Australia » 581
Mariella Muscariello, Il Principe e il maestro. Lampedusa,
Sciascia e il Risorgimento » 787
Contributi
Nicola Contegreco, Isolitudine: la Sicilia di Gesualdo Bufalino
» 181
Annalisa Comes, Anatomia, ermeneutica psicanalitica e critica
del testo » 349
Monica Bisi, «Pellegrini della forma»: la conversione della
scrittura ne Le farfalle di Gozzano » 357
indici dell’annata 2017 (a. xlv) 855
Agata Irene De Villi, Il volto mistico dell’erotica in Mario
Soldati pag. 381
Isabella Zanni Rosiello, Archivi di scrittori e scrittrici: note
a margine » 605
Francesco Sielo, Ungaretti e l’arte informale: l’ossessione apocalittica
della materia » 797
Ella Imbalzano, Le visionarie microstorie degli «indigenti»
di Matteo Collura » 813
Note
Paola Villani, Il secondo mestiere di Ungaretti » 399
Ennio Scannapieco, Il Maelström di Norvegia descritto nell’Jcosameron:
un’ulteriore critica al romanzo-fiume di Giacomo
Casanova » 827
recensioni
Roberto Salsano, Pirandello, Firenze 2016 (Fara Autiero) » 201
Ignazio Silone, Il seme sotto la neve, edizione critica a cura
di Alessandro La Monica, Firenze 2015 (Giuseppe
Andrea Liberti) » 202
Ugo Piscopo, Giovinezza in coturno. Il teatro i giovani lo Stato
fra le due guerre, con un’Appendice da «IX maggio»,
premessa di Rino Caputo, Avellino 2016 (Fara Autiero) » 204
Fabio Pierangeli, È finita l’età della pietà. Pasolini, Calvino,
S. Nievo e i “mostri” del Circeo, Avellino 2015 (Mario Visone)
» 205
Giampaolo Borghello, Come nasce un best seller. Gli editori,
il mercato, le strategie, il successo di Piero Chiara, Udine
2016 (Fara Autiero) » 206
Mario Aversano, Dante, Iacopone da Todi e il canto XXXIII
del Paradiso, Manocalzati (Avellino) 2015 (Laelio Graffige)
» 405
Giovanni Pontano, Il dialogo di Antonio e il canto di Sertorio,
a cura di F. Tateo, Napoli, 2015; Giovanni Pontano,
Il dialogo di Caronte, a cura di F. Tateo, Napoli 2016 (Daniela
De Liso) » 407
Giampiero Di Marco, In mezzo al guado. Pasquale De Luca
(1856-1929), Napoli 2016 (Fara Autiero) » 411
Eduardo De Filippo e il teatro del mondo, a cura di Nicola De
Blasi e Pasquale Sabbatino, Milano 2015 (Fara Autiero) » 412
856 indici dell’annata 2017 (a. xlv)
Il teatro fra scrittura e pratica della scena. Per Franco Carmelo
Greco, a cura di P. Sabbatino e G. Scognamiglio, Napoli
2015 (Fara Autiero) pag. 413
Poesia religiosa nel Novecento, a cura di Maria Luisa Doglio
e Carlo Delcorno, Bologna 2016 (Franco Quaccia) » 414
Il libro al centro. Percorsi fra le discipline del libro in onore di
Marco Santoro. Studi promossi da R.M. Borraccini, A. Petrucciani,
C. Reale, P. Zito, a cura di C. Reale, Napoli 2014
(Pietro Sisto) » 417
Narrare l’Alto Adige. 25 anni di racconti intorno alla provincia
meno italiana d’Italia. Un’antologia, a cura di Toni Colleselli,
Meran-Merano 2015 (John Butcher) » 419
Dino Claudio, Incontri nella nebbia, Torino 2016 (Emmanuele
Colonna) » 423
Domenico Chiodo, Donna me prega: la Caporetto dell’italianistica,
Manziana 2016 (Giuseppe Andrea Liberti) » 631
Enrico Mattioda, Giorgio Vasari tra prosa e poesia, Alessandria
2017 (Cristiano Amendola) » 633
Nicola De Blasi, Eduardo, Roma 2016 (Fara Autiero) » 636
Mirko Tavoni, Qualche idea su Dante, Bologna 2015 (Annalisa
Chiodetti) » 835
Dennis Weh, Giovanni Pontanos Urania Buch 1. Einleitung,
Edition, Übersetzung und Kommentar, Wiesbaden 2017
(John Butcher) » 840
Giani Stuparich, L’opera di Pasquale Besenghi degli Ughi, a
cura di Waltraud Fischer, Trieste 2016 (Patrizia C.
Hansen) » 844
William Blake, Visioni e profezie. Inquadratura traduzioni
e commenti di Pasquale Maffeo, Minturno (LT) 2017
(Mario Aversano) » 845
Carlangelo Mauro, Liberi di dire. Saggi sui poeti contemporanei,
Avellino 2017 (Ugo Piscopo) » 848
indice dei collaborato ri
Amendola Cristiano, 633
Autiero Fara, 201, 204, 206, 411, 412, 413,
636
Aversano Mario, 845
Baldacci Alessandro, 317
Barucci Guglielmo, 21
Bassi Graziella, 445
Bisi Monica, 357
Bussotti Alviera, 747
Butcher John, 419, 840
Castellano Francesca, 491
Castelli Patrizia, 687
Cavalluzzi Raffaele, 83
Cerbo Anna, 769
Chiodetti Annalisa, 835
Colonna Emanuele, 423
Comes Annalisa, 349
Comparini Alberto, 557
Contegreco Nicola, 181
Danti Luca, 507
De Liso Daniela, 407
De Villi Agata Irene, 381
Di Benedetto Arnaldo, 151
Giannantonio Valeria, 163
Gigliucci Roberto, 123
Graffige Laelio, 405
Hansen Patrizia C., 844
Imbalzano Ella, 813
Italiano Federico, 97
Liberti Giuseppe Andrea, 202, 631
Maffei Giovanni, 289
Magherini Simone, 721
Metlica Alessandro, 3
Minervini Francesco Saverio, 329
Muscariello Mariella, 141, 787
Olivieri Ugo M., 275
Piscopo Ugo, 848
Placella Annarita, 641
Ponce Cárdenas Jesùs, 37
Quaccia Franco, 414
Rati Anna Rita, 667
Renna Salvatore, 527
Restuccia Laura, 581
Ricco Renato, 259
Rizzo Francesco, 239
Savoretti Moreno, 475
Scannapieco Ennio, 827
Sielo Francesco, 797
Sisto Pietro, 417, 431
Toscano Tobia R., 211
Villani Paola, 399
Visone Mario, 205
Zanni Rosiello Isabella, 605
REFERAGGIO 2017
«Critica letteraria» applica il criterio dei due revisori anonimi; il primo è
interno al Comitato scientifico della rivista; solo dopo l’approvazione da parte
dell’interno il Direttore sottopone al revisore esterno il saggio da valutare per
la pubblicazione; il saggio viene inviato privo del cognome dell’autore e di
ogni altra citazione che possa far risalire ad esso.
I valutatori esterni sono conosciuti solo dal Direttore; ognuno si sceglie
uno pseudonimo; è con questo che il Direttore comunica il risultato della valutazione
all’autore del saggio.
Per l’anno 2016 hanno svolto tale attività i colleghi che hanno scelto questi
pseudonimi: Contessa Lambertini, Lorenzo Segàla Assom, Galletta, Ghibellin
fuggiasco, Franzen, Egmont, Perelà, Raffaello.
Questa è la tabella riassuntiva del lavoro svolto nell’anno:
SAGGI: pervenuti 36 saggi; approvati dai referees interni 28; approvati
dai referees esterni e pubblicati 28.
MERIDIONALIA: pervenuti 5 saggi; approvati dai referees interni 3; approvati
dai referees esterni e pubblicati 3.
CONTRIBUTI: pervenuti 12 saggi; approvati dai referees interni 8; approvati
dai referees esterni e pubblicati 7.
NOTE: pervenute 4 note; approvate dai referees interni 2; approvate
dai referees esterni e pubblicate 2.
Il Direttore responsabile di «Critica letteraria», a nome del Comitato direttivo/
scientifico e dell’Editore Paolo Loffredo, ringrazia i Docenti italiani e
stranieri che, generosamente, hanno accettato di collaborare alla revisione
anonima dei contributi scientifici.