Anno XLV (2017), Fasc. I, N. 174

Anno XLV (2017), Fasc. I, N. 174

  1. Saggi
    • Alessandro Metlica

      Memoria epica e rivoluzione militare, dal Furioso alla guerra degli Ottant’anni – pp. 3-20

      L’articolo esamina il ruolo giocato dalla rivoluzione militare cinquecentesca nel
      campo della poesia epica. Le innovazioni tecnologiche e ingegneristiche che
      modificano l’arte della guerra nella seconda metà del XVI secolo, infatti, mal si
      accordano con gli ideali cavallereschi della tradizione letteraria. Per quanto
      concerne l’encomio dell’eroe, ciò si ripercuote nell’adozione di nuove piste celebrative,
      come si evince dal testo studiato in queste pagine: l’Anversa conquistata
      (1609) di Fortuniano Sanvitali, consacrata alla vittoriosa campagna di Alessandro
      Farnese nelle Fiandre (1585).

      This article investigates how 16th-century military technologies transformed
      the representation of war in the field of poetry. Modern warfare does not fit
      with epic conventions, shaped by an idea of heroism that is more inclined towards
      chivalry. As the portrait of the commander in chief follows the very same
      principles, new encomiastic strategies prove necessary. This applies to the case
      study on which the article focusses: the Anversa conquistata (1609), a poem written
      by Fortuniano Sanvitali to celebrate Alessandro Farnese’s triumph during
      the siege of Antwerp in 1585.

    • Guglielmo Barucci

      «Questi fia del tuo sangue» (GL X). La profezia per Solimano: una sconfitta tra storia e destino
      pp. 21-36

      La profezia di Ismeno a Solimano nel canto X della Liberata si colloca per certi
      versi nel filone epico dei vaticinii sulla discendenza dell’eroe. Già il fatto che,
      però, Solimano sia invece il grande antagonista dei crociati rende la profezia
      anomala. L’episodio è inoltre al centro di un’architettura di rimandi e opposizioni,
      che cambia sensibilmente nella parabola dalle fasi più antiche della Liberata
      alla Conquistata. Tali variazioni illuminano il mutare della fisionomia e del
      ruolo di Solimano, nonché delle diverse concezioni del poema stesso.

      Ismeno’s prophecy to Solimano in the tenth canto of Jerusalem Delivered may be
      situated within the epic tradition of the vaticinations of the hero’s descendants.
      However, the fact that Solimano is the great antagonist of the crusaders makes
      the prophecy anomalous. Furthermore, the episode appears at the centre of a
      network of references and oppositions that alters substantially from the most
      remote phases of Jerusalem Delivered all the way to Jerusalem Conquered. These
      variations shed light on the changing character and role of Solimano, as well as
      the diverse conceptions of the poem itself.

    • Jesús Ponce Cárdenas

      Salcedo Coronel e Marino: tessere sabaude in un panegirico spagnolo – pp. 37-62

      In questo articolo si analizza lo stretto rapporto del Retrato Panegírico del conde
      duque de Olivares del poeta sivigliano García de Salcedo Coronel con la sua fonte:
      il Ritratto Panegirico di Carlo Emanuello duca di Savoia. Lo studio si centra sulle
      diverse forme dell’imitatio e la ricezione del codice laudatorio mariniano nella
      Spagna barocca.

      This paper focuses on the relationship between the Retrato Panegírico del conde
      duque de Olivares, written by the Sevillian poet García de Salcedo Coronel, and
      its model: the Ritratto Panegirico di Carlo Emanuello duca di Savoia. We analyse the
      imitatio in its different approaches and the reception of the Marinist eulogistic
      code in Spain during the XVIIth century.

    • Anna Maria Pedullà

      L’ombra di Maddalena – pp. 63-82

      Il personaggio evangelico di Maddalena costituisce un mito che ha numerose
      risonanze nella tradizione letteraria. Il mito della peccatrice, convertita dall’amore
      per Gesù di Nazareth, fu creato dai Padri della Chiesa al fine di far rilevare
      la profonda metamorfosi operata sulle coscienze dal Cristianesimo. La Maddalena
      – novella Eva cristiana – ha un trionfo nella cultura del Seicento. Ne sono
      artefici Caravaggio, Marino Pona, Brignole Sale, tra molti altri. La ribellione
      e la sfida di Eva rivivono in questa figura femminile, protagonista di storie che,
      parafrasando Hannah Arendt, valgono ben più di intere opere filosofiche.

      The gospel figure of Mary Magdalene forms a myth with numerous resonances
      in the literary tradition. The myth of the sinner, converted by the love of Jesus
      of Nazareth, was invented by the Church Fathers in order to underline the profound
      change wrought on consciences by Christianity. Mary Magdalene, a new
      Christian Eve, was widely popular in Seventeenth-century culture thanks to
      Caravaggio, Marino Pona, Brignole Sale and others. Eve’s rebellion and challenge
      live on in this female figure, the hero of stories that, to paraphrase Hannah
      Arendt, are worth far more than entire philosophical treatises.

    • RAFFAELE CAVALLUZZI

      Ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos – pp. 83-96

      Le caratteristiche della poesia di Pascoli si fanno, nel tempo, sempre più “visionarie”:
      ne sono, tra l’altro, testimonianza efficace, nella loro tenuta limpidamente
      classicheggiante, i Poemi conviviali. Tuttavia esse si continuano a intrecciare
      a motivi propri del nichilismo del “romanzo” pascoliano (Garboli) come
      emergevano già dai capolavori di Myricae e dei Canti di Castelvecchio. E in particolare
      prendono sostanza dalla dialettica, di forte impronta decadente, di eros e
      thanatos.

      The characteristics of Pascoli’s poetry become ever more “visionary”: a fine example
      may be found in the classically inspired Poemi conviviali. Yet these characteristics
      remain tied to themes linked to the nihilism of Pascoli’s “novel”
      (Garboli), as they already emerged from the masterpieces Myricae and Canti di
      Castelvecchio. In particular, they take their form from the dialectic, typically
      decadent, between eros and thanatos.

    • Federico Italiano

      Isole (proto)moderniste. La Non-Trovata di Guido Gozzano tra Francis Jammes e Gottfried Benn – pp.
      97-122

      In prospettiva comparatistica, il saggio colloca la scrittura cartografica de La più
      bella di Guido Gozzano in ambito modernista, interpretandola quale espressione
      di un più vasto sentire transnazionale, che proietta sull’isola immaginata il
      conflitto tra visioni planetarie, attitudini cosmopolite e la crisi del soggetto. Partendo
      dalla Non-Trovata di Gozzano, il saggio esplora le isole post-simboliste e
      inattuali di Francis Jammes e l’isola regressiva e post-coloniale di Gottfried
      Benn.

      From a comparative literary perspective, this essay locates Guido Gozzano’s
      cartographic writing of La più bella in a Modernist context and interprets it as an
      expression of broader transnational tendency that projects onto the imagined
      island the clash among cosmopolitanism, planetary visions and the subject’s
      crisis. Starting from Gozzano’s Unfound Isle, this essay explores Francis
      Jammes’ un-actual, post-symbolist islands and Gottfried Benn’s regressive and
      post-colonial island’s imagery.

    • Roberto Gigliucci

      Ermetismo e petrarchismo – pp. 123-140

      Il saggio ripercorre alcune delle fasi salienti della stagione ermetica italiana,
      ponendo in relazione la lingua “pura” di quella lirica con il modello petrarchesco,
      rilevando forme imitative ed escursioni, in un complesso di proposte poetiche
      in realtà più ricche di interne diversificazioni e complicazioni stilistiche,
      come d’altronde “pluralistico” era stato il petrarchismo dei secoli passati, rispetto
      a cui il Novecento è, come si sa, un grandioso palinsesto.

      This essay examines some of the major phases in Italian Hermeticism, comparing
      its “pure” language with the Petrarchan model and highlighting imitative
      forms and original traits, in a poetic landscape rich in internal diversifications
      and stylistic complications. Indeed, Petrarchism was equally “pluralistic” in
      previous centuries, regarding which the Twentieth century is, of course, a magnificent
      palimpsest.

    • MARIELLA MUSCARIELLO

      Immagini di memoria in Ritratto in piedi di Gianna Manzini – pp. 141-150

      La parola “ritratto” ricorre con significativa frequenza nella scrittura di Gianna
      Manzini, soprattutto nel suo Ritratto in piedi. La vocazione intimistica della sua
      scrittura predilige la ritrattistica, in quanto volto, corpo, posture, abbigliamenti
      sono carichi di senso, sono un medium per penetrare nell’animo dei personaggi.
      È in tale prospettiva che questo intervento intende analizzare, partendo dalla
      difficoltà del linguaggio verbale a tradurre in parole l’incisività di un’immagine,
      le strategie con le quali la Manzini riesce mirabilmente a “dire” ciò che “ha visto”,
      a consegnare al lettore la figura poetica di un padre degno di essere ricordato.

      The word “portrait” occurs frequently in Gianna Manzini’s writing, above all in
      her Ritratto in piedi. An intimist vocation privileges portraiture, in as much as
      face, body, postures and clothing abound with meaning, being a means for penetrating
      the souls of characters. Thus, this essay, beginning with the difficulty
      posed to verbal language by the translation into words of the incisiveness of an
      image, aims at analysing the strategies by which Manzini achieved her goal of
      “saying” what she “saw”, of consigning to the reader the poetic figure of a father
      worthy of being commemorated.

    • Arnaldo Di Benedetto

      Gli Scheiwiller e Pound, Pound e Dante – pp. 151-162

      Prendendo spunto dalla comparsa della recente edizione italiana dei saggi di
      Ezra Pound su Dante, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani (2015), l’articolo
      ripercorre i rapporti del poeta statunitense con gli editori Giovanni e Vanni
      Scheiwiller e la natura del suo interesse critico nei confronti di Dante e Cavalcanti.
      A mo’ di conclusione si fa riferimento alla presenza della figura di Pound
      in due poesie di Giovanni Giudici.

      Taking its point of departure from the appearance of the recent Italian edition
      of Ezra Pound’s essays on Dante, edited by Corrado Bologna and Lorenzo Fabiani
      (2015), this article recalls the relationship of the American poet with the
      publishers Giovanni and Vanni Scheiwiller and the nature of his critical interest
      in Dante and Cavalcanti. The article concludes by making reference to the presence
      of the figure of Pound in two poems by Giovanni Giudici.

  2. Meridionalia
    • VALERIA GIANNANTONIO

      Contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a Napoli nella seconda metà del Seicento – pp.
      163-180

      La persistenza del classicismo a Napoli, già nella prima metà del Seicento con
      l’Accademia degli Oziosi, si evince anche dall’analisi e dal confronto dei trattati
      di poetica e dalle raccolte poetiche della seconda metà del Seicento, quando
      la rivolta masanielliana impresse una svolta alla cultura barocca.

      The lasting influence of classicism in Naples, as early as the first half of the
      Seventeenth century through the Accademia degli Oziosi, becomes apparent by
      means of an analysis and comparison of poetic treatises and collections of poetry
      dating from the second half of the same century, when Masaniello’s revolt
      ushered in a new era in baroque culture.

  3. Contributi
    • Nicola Contegreco

      -la Sicilia di Gesualdo Bufalino – pp. 181-200

      Le connessioni a livello tematico con la propria terra d’origine rappresentano
      per un autore come Gesualdo Bufalino – il quale trascorse la quasi totalità della
      propria esistenza nel paese natio di Comiso – il fulcro principale, interrelato
      all’altro grande tema, quello della memoria, intorno al quale ruota la sua intera
      opera letteraria. Il contributo intende delineare un percorso, attraverso le diverse
      espressioni del linguaggio bufaliniano, dal quale prorompe un’idea composita
      e complessa di Sicilia, quella che fa riferimento alla dimensione poetica di
      isolitudine.

      For an author like Gesualdo Bufalino, who lived almost solely in his native village
      of Comiso, the thematic connections with the homeland represent the main
      fulcrum, interrelated with the other great theme of memory, around which his
      entire literary output revolves. This contribution aims to outline an interpretation,
      through the various expressions of Bufalini’s language, from which a composite
      and complex idea of Sicily gushes forth, one referring to the poetic dimension
      of isolitudine.

  4. Recensioni
    • Fara Autiero

      Roberto Salsano, Pirandello, Firenze 2016 – pp. 201-202

      Pirandello Luigi

    • Giuseppe Andrea Liberti

      Ignazio Silone, Il seme sotto la neve, edizione critica a cura di Alessandro La Monica, Firenze 2015
      – pp. 202-204

      Silone Ignazio

    • Fara Autiero

      Ugo Piscopo, Giovinezza in coturno. Il teatro i giovani lo Stato fra le due guerre, con un’Appendice da
      «IX maggio»,
      premessa di Rino Caputo, Avellino 2016
      – pp. 204-205

    • Mario Visone

      Fabio Pierangeli, È finita l’età della pietà. Pasolini, Calvino, S. Nievo e i “mostri” del Circeo,
      Avellino 2015
      – pp. 205-206

      Pasolini Pier Paolo
      Calvino Italo

    • Fara Autiero

      Giampaolo Borghello, Come nasce un best seller. Gli editori, il mercato, le strategie, il successo di
      Piero Chiara, Udine
      2016
      – pp. 206-207

Saggi
Alessandro Metlica
Memoria epica e rivoluzione militare,
dal Furioso alla guerra degli Ottant’anni
L’articolo esamina il ruolo giocato dalla rivoluzione militare cinquecentesca nel
campo della poesia epica. Le innovazioni tecnologiche e ingegneristiche che
modificano l’arte della guerra nella seconda metà del XVI secolo, infatti, mal si
accordano con gli ideali cavallereschi della tradizione letteraria. Per quanto
concerne l’encomio dell’eroe, ciò si ripercuote nell’adozione di nuove piste celebrative,
come si evince dal testo studiato in queste pagine: l’Anversa conquistata
(1609) di Fortuniano Sanvitali, consacrata alla vittoriosa campagna di Alessandro
Farnese nelle Fiandre (1585).

This article investigates how 16th-century military technologies transformed
the representation of war in the field of poetry. Modern warfare does not fit
with epic conventions, shaped by an idea of heroism that is more inclined towards
chivalry. As the portrait of the commander in chief follows the very same
principles, new encomiastic strategies prove necessary. This applies to the case
study on which the article focusses: the Anversa conquistata (1609), a poem written
by Fortuniano Sanvitali to celebrate Alessandro Farnese’s triumph during
the siege of Antwerp in 1585.
Negli ultimi trent’anni, il volume ormai classico di Geoffrey Parker
sulla rivoluzione militare1 è stato al centro di un vasto dibattito, che ha
ridiscusso non poche delle conclusioni del grande storico inglese. La
portata di quelle innovazioni in termini di logistica e di reclutamento
– dalle novità tattiche alla crescita numerica degli eserciti – è stata
puntualizzata e talvolta ridimensionata, mentre l’arco cronologico del
fenomeno, che Parker aveva inizialmente collocato tra il 1500 e il 1800,
è andato incontro a un’analisi più severa, che ne ha evidenziato gli
Autore: Università degli Studi di Padova; assegnista di ricerca; alessandro.
metlica@unipd.it
1 G. Parker, The Military Revolution: Military Innovation and the Rise of the West,
1500-1800, Cambridge University Press, 1988.
Saggi
4 alessandro metlica
scarti interni e le soluzioni di continuità2. Ciò nonostante, la tesi centrale
del libro, che rielaborava intelligentemente il concetto di rivoluzione
militare avanzato da Michael Roberts negli anni cinquanta3, è
diventata un portato largamente comune (e per certi versi indispensabile)
agli studi storici consacrati al XVI e al XVII secolo. L’allusione va,
in primo luogo, al ruolo dell’ingegneria militare quale fattore concreto
di una guerra in larga parte inedita, perché giocata, come mai accaduto
prima di allora, sul dislocamento dell’artiglieria e sul dominio strategico
delle piazzeforti. In un breve giro d’anni, intorno alla metà del
Cinquecento, la cosiddetta trace italienne (ma sarebbe meglio non adoperare
questo termine)4, vale a dire la fortificazione “alla moderna”,
costituita da bastioni e progettata per resistere alle armi da fuoco, riplasma
in maniera radicale l’arte della guerra, facendo dell’assedio,
prima che dello scontro in campo aperto, la chiave di ogni campagna
militare. Per citare la formula adoperata dallo stesso Parker in un altro
studio fondativo, The army of Flanders and the Spanish road, «the siege of
an artillery fortress constituted the greatest engineering venture of
early modern Europe»5.
In The army of Flanders, che si muoveva in parallelo alla più vasta
riflessione sulla rivoluzione militare, Parker eleggeva gli antichi Paesi
Bassi a sede privilegiata di questi fenomeni. Il contesto era la guerra
degli Ottant’anni (1566-1648), nata in scia all’insurrezione delle Diciassette
Province – comprendenti i territori degli attuali Olanda, Belgio
e Lussemburgo, con l’eccezione del principato vescovile di Liegi e
con l’aggiunta della regione francese del Nord-Pas de Calais – contro
Filippo II di Spagna. La rigida politica fiscale e l’intransigenza confes-
2 Per un quadro della questione, cfr. The Military Revolution Debate, a cura di
C.-J. Rogers, Boulder, Westview Press, 1995.
3 Cfr. M. Roberts, The Military Revolution, 1560-1660, Belfast, Boyd, 1956, poi
in Essays in Swedish History, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1967.
4 Questa espressione, che si deve allo stesso Parker, ha avuto ampia diffusione
in sede critica, ma non è priva di ambiguità: cfr. P. Martens, Ingénieur (1540), citadelle
(1543), bastion (1546): apparition et assimilation progressive de termes italiens
dans le langage de l’architecture militaire aux Pays-Bas des Habsbourg, in Les mots de la
guerre dans l’Europe de la Renaissance, a cura di M. M. Fontaine e J. L. Fournel,
Genève, Droz, 2014, pp. 105-140, in particolare pp. 111-112. Per le ragioni qui esposte,
che mi sembrano pienamente convincenti, preferisco adoperare, in queste pagine,
espressioni più generiche ma più corrette come “sistema bastionato” o fortificazione
“alla moderna”.
5 G. Parker, The Army of Flanders and the Spanish Road, 1567-1659: the Logistics
of Spanish Victory and Defeat in the Low Countries’Wars (1972), Cambridge University
Press, 20042, p. 6.
[ 2 ]
memoria epica e rivoluzione militare 5
sionale del reportarono nel 1566 a una prima rivolta, che fu repressa
nel sangue dal duca d’Alba. La rinnovata egemonia spagnola ebbe
però vita breve: una seconda rivolta, dettata da motivi analoghi, scoppiò
nel 1572. Dopo le vittorie sul mare di Guglielmo d’Orange, capo
riconosciuto della ribellione (1573, 1574), il duca d’Alba fu richiamato
in Spagna, mentre le sue truppe, che da mesi non venivano pagate,
disertarono in massa e si diedero al saccheggio. L’emergenza favorì
un’alleanza tra le province cattoliche del Sud (Brabante, Fiandra e
province francofone) e quelle protestanti del Nord (Olanda, Zelanda),
dove si trovava l’epicentro della seconda insurrezione: nel 1576
quest’intesa si concretizzò nella pacificazione di Gand. Fu in questa
congiuntura assai delicata che il principe di Parma (duca dal 1586)
Alessandro Farnese (1545-1592) fu incaricato di subentrare a don Giovanni
d’Austria, morto nel 1578, in qualità di governatore spagnolo.
Farnese, che vantava un legame di sangue con Filippo II – era figlio di
una sua sorellastra, Margherita d’Austria – seppe approfittare abilmente
dei dissidi interni alle Diciassette Province. Davanti alle sue
proposte concilianti, i firmatari della pacificazione di Gand si divisero
nuovamente: nel 1579, le province del Nord firmarono l’Unione di
Utrecht, rifiutando la sovranità di Filippo II e lo statuto monoconfessionale
del Sud; le province cattoliche risposero con l’Unione di Arras,
che al contrario riconosceva, dietro precise garanzie economiche e fiscali,
la piena autorità del re di Spagna e del principe di Parma. Incassato
questo successo diplomatico, Farnese fu libero di progettare la
riconquista di Bruges, Gand, Bruxelles e Anversa, che avevano aderito
all’Unione di Utrecht. Tra il 1579 e il 1585, nel corso di una travolgente
campagna, il principe di Parma espugnò queste città una dopo l’altra;
l’ultima a cadere fu Anversa, allora uno dei centri più ricchi e potenti
d’Europa, che si arrese dopo un assedio di tredici mesi (dal luglio 1584
all’agosto 1585). Da Anversa Farnese avrebbe voluto puntare su Amsterdam;
ma Filippo II, forse preoccupato dal crescente prestigio del
suo generale, decise diversamente. Anversa divenne così una città di
confine. Era una situazione destinata a rimanere invariata sino alla
morte di Farnese (1592) e alla fine della guerra, quando, nell’ambito
dei negoziati di Vestfalia (1648), furono ratificati da un lato l’appartenenza
di Anversa all’area cattolica e filospagnola, dall’altro il controllo
esercitato dalle neonate Province Unite sull’estuario della Schelda6.
6 Per la bibliografia in materia, ovviamente ricchissima, rimando a un mio intervento
in corso di pubblicazione, T. Artico, A. Metlica, L’angoscia dell’encomio.
L’Anversa conquistata di Fortuniano Sanvitali (1609) e altri versi per Alessandro Far-
[ 3 ]
6 alessandro metlica
Le pagine seguenti intendono riflettere sul modo in cui le innovazioni
ingegneristiche di medio Cinquecento influiscono sulla rappresentazione
della guerra nel campo della poesia narrativa, dove tali
cambiamenti intaccano e trasformano alcuni topoi fondamentali dell’epica.
Per tale ragione, non si tratterà di ridiscutere gli snodi più tecnici
(e più controversi sul piano critico) della rivoluzione militare, come ad
esempio la progressiva crescita delle spese di mantenimento delle
truppe, bensì di lavorare su alcuni fenomeni più generali e di lunga
durata, in primis la crisi dell’ideale cavalleresco7. In linea con la scelta
compiuta a suo tempo da Parker, si privilegerà un caso di studio inerente
alla guerra degli Ottant’anni, vale a dire l’Anversa conquistata di
Fortuniano Sanvitali: un poemetto di 1802 endecasillabi sciolti, suddiviso
in cinque libri, che narra della vittoria con cui si chiuse la trionfale
campagna farnesiana del 1578-1585. L’Anversa conquistata uscì a
stampa nel 1609, a Parma, presso la stamperia di Erasmo Viotti, la
stessa che quasi un trentennio prima aveva dato i natali all’edizione
della Gerusalemme liberata a cura di Angelo Ingegneri8. Sanvitali, che è
noto ai secentisti soprattutto per una dozzina di lettere indirizzategli
da Giovan Battista Marino, tentava di procacciarsi la benevolenza del
duca Ranuccio Farnese, il primogenito di Alessandro, e di suo fratello
minore, il cardinale Odoardo, cui il poemetto era dedicato9.
nese, «Filologia e critica», XLI, 2, 2016. Come annunciato dal titolo, il saggio affronta
anche il poema di Sanvitali, ma senza addentrarsi nel tema bellico. Ringrazio
Tancredi Artico, che ha curato quello studio a quattro mani con il sottoscritto: queste
pagine hanno tratto non pochi spunti da quella proficua collaborazione.
7 Alla crisi dell’ideale cavalleresco non corrisponde la crisi della nobiltà, come
sosteneva il volume ormai classico di D. Bitton, The French Nobility in Crisis, 1560-
1640, Stanford University Press, 1969. È un fatto, però, che la creazione e la crescente
importanza di un esercito professionale provochino degli smottamenti profondi
in seno alla cultura aristocratica, largamente influenzata dalla tradizione cavalleresca
e romanzesca: cfr. The Chivalric Ethos and the Development of Military Professionalism,
a cura di D. J.B. Trim, Brill, Leida-Boston, 2003, e C. Storrs, H. Scott, Military
Revolution and the European Nobility, 1600-1800, «War in History», III, 1, 1996,
pp. 1-41.
8 Per la descrizione dei testimoni (la stampa del 1609 e il ms. Parmense 3593
della Biblioteca Palatina di Parma) si rimanda a P. Bonardi, Vita ed opere di Fortuniano
Sanvitale (1564-1626), «Archivio Storico Province Parmensi», XXVII, 1975,
pp. 261-318, e in particolare 277-278. Tutte le citazioni sono tratte dall’esemplare
della princeps conservato alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia con segnatura
C 095 C 281. La trascrizione, ispirata a criteri di sobria modernizzazione (distinzione
di u da v, normalizzazione della h etimologica), è di Tancredi Artico, che
qui nuovamente ringrazio.
9 Maggiori dettagli in T. Artico, A. Metlica, L’angoscia dell’encomio, cit., cfr.
[ 4 ]
memoria epica e rivoluzione militare 7
Uno dei motivi di maggior interesse dell’Anversa conquistata risiede,
per l’appunto, nei tentativi compiuti da Sanvitali per rappresentare
una guerra moderna, aggiornata, nei principi strategici e nelle risorse
tecnologiche, alla rivoluzione militare cinquecentesca. L’elezione a
soggetto del poema di un episodio storico assai recente implica una
nuova messa in scena del fatto bellico, come emerge in maniera nitida
dal ruolo che ricoprono, all’interno della narrazione, due temi essenziali
per le tesi di Parker: da una parte il sistema bastionato, vale a
dire un tracciato difensivo poligonale, senza angoli morti, in cui a rinforzo
e difesa delle cortine sono posti dei terrapieni, al fine di assorbire
i colpi di cannone; dall’altra, in maniera speculare, le applicazioni
sempre più frequenti e diversificate della polvere da sparo, che non
concernono soltanto l’utilizzo, ormai comune, dell’archibugio e del
moschetto, ma pure l’invenzione e l’impiego di una vasta gamma di
bombarde ed esplosivi.
Prima di procedere all’analisi di questi due punti, è indispensabile
una premessa. L’irruzione nel poema eroico dei temi della rivoluzione
militare, lungi dal verificarsi senza contraccolpi, produce inevitabilmente
un forte attrito – o, per così dire, uno sbalzo di tensione – nei
confronti della tradizione poetica italiana. Il soggetto dell’Anversa, infatti,
viola apertamente il decalogo formulato da Tasso, per cui l’elezione
della materia storica era esito e al contempo requisito fondamentale
della scrittura epica10. Vero è che anche il poeta della Liberata
si era largamente rifatto, per l’assedio di Gerusalemme, alla trattatistica
bellica dei suoi tempi, con esiti di spettacolarizzazione narrativa e
di riuscita mimesi delle azioni militari; e tuttavia il poema sulla prima
crociata, saldamente ancorato alla verosimiglianza storica, non aveva
messo in scena né le trovate ingegneristiche, né gli esplosivi tipici delle
campagne cinquecentesche. Perciò la scelta di un episodio contemporaneo
da parte di Sanvitali implica un brusco allontanamento
dall’archetipo tassiano. Allo stesso tempo, quell’archetipo non cessa
di esercitare la sua onnipresente influenza. I primi tre libri dell’Anversa
costituiscono una sorta di palinsesto della Liberata, offrendo in stretinoltre
i contributi di F. Salsano, Fortuniano Sanvitale, «Studi Secenteschi», V, 1964,
pp. 69-92, e L. Denarosi, L’Accademia degli Innominati di Parma: teorie letterarie e
progetti di scrittura (1574-1608), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2003.
10 Cfr. T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, in Id.,
Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, 1935, p. 351: «La materia,
che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge […] o si toglie dall’istorie.
Ma molto meglio è, a mio giudicio, che da l’istoria si prenda».
[ 5 ]
8 alessandro metlica
ta successione (e in forte scorcio) una serie di episodi tassiani: nel libro
I, il sogno del capitano, l’adunanza dei generali, la rassegna dell’esercito,
l’arrivo sotto le mura nemiche e la sistemazione degli alloggiamenti;
nel libro II, il concilio infero e l’arringa di Satana, che annuncia
la linea d’azione degli anversani; nel libro III, l’incanto diabolico gettato
sulla selva, con i demoni che, dopo aver preso le sembianze di
corvi per negare agli Spagnoli la legna necessaria all’assedio, sono
cacciati ex machina da una preghiera di Farnese. L’impressione è che i
continui rimandi alla Liberata (libri I-III) si ergano a garanti di un secondo
blocco testuale (libri IV-V) di taglio più schiettamente celebrativo11,
quasi a inquadrare il poemetto encomiastico nella più prestigiosa
cornice del poema eroico. Alla base del testo di Sanvitali vi è dunque
un dissidio: da una parte i topoi dell’epica e la tradizione del genere
letterario, dall’altra le direttive di un encomio puntuale, che sappia
descrivere, anche con l’ausilio di termini tecnici, il genio militare e
strategico di Farnese.
Il bifrontismo dell’Anversa, che si esplicita nel tentativo di accomodare
e di integrare queste due linee, è evidente nella rappresentazione
del sistema bastionato. La centralità delle fortificazioni “alla moderna”
nella campagna del 1578-1585 è un dato storico, che non si lega
soltanto dall’altezza cronologica di quei fatti d’arme – nel secondo
Cinquecento molti progetti risalenti agli anni trenta, volti a ingrandire
e rammodernare le cinte murarie, erano stati completati – ma pure
alla loro latitudine geografica. In un ambiente fortemente urbanizzato,
come quello dei Paesi Bassi meridionali, anche molti centri minori,
oltre alle città principali, si erano dotati di sistemi difensivi bastionati12,
così che la campagna farnesiana era stata puntellata da una lunga
serie di assedi, affrontati dal principe di Parma con le ultime risorse
11 Dopo la resa degli anversani, un musico canta le imprese di Carlo V, nativo
di Gand e nonno di Farnese; questi riceve uno splendido arazzo raffigurante le sue
gesta alla battaglia di Lepanto, ed entra poi in città tra monumentali apparati festivi.
Su questa lunga ekphrasis a scopo celebrativo, si veda il contributo di E. Grootveld,
Arazzi ad Anversa: ecfrasi dopo Tasso, «Civiltà italiana», VIII, L’Italia e le arti,
atti del XX Congresso AIPI (Salisburgo, 5-8 settembre 2012), 2014, pp. 31-42. Più
ampia, ma per certi versi affine, è l’indagine condotta dalla stessa Grootveld in un
articolo steso a quattro mani con N. Lamal, Impious heretics or simple birds? Alexander
Farnese and Dutch rebels in post-tassian italian poems, «Quaderni d’italianistica»,
XXXV, 2, 2014, pp. 63-98.
12 P. Martens, Ingénieur (1540), citadelle (1543), bastion (1546), cit., p. 129, che
si riferisce al periodo 1530-1560, conta non meno di 35 fortificazioni “alla moderna”,
munite complessivamente di un centinaio di bastioni.
[ 6 ]
memoria epica e rivoluzione militare 9
dell’ingegneria militare. Anversa, in particolare, possedeva all’epoca
una delle cinte murarie più imponenti d’Europa, al punto che la città
era considerata da più parti imprendibile13. Nel poema di Sanvitali le
mura sono presentate, sin dal primo sopralluogo compiuto da Farnese,
come il principale ostacolo all’impresa (I 172-177):
[Farnese] colà s’invia dove a le stelle inalza,
d’arco teso in sembianza, alteramente
le grosse mura la città superba
in riva al fiume in cui si specchia e bagna.
Gran baloardi e molti a lei fan cinto
e muro inespugnabile d’intorno.
La descrizione è più puntuale di quanto potrebbe apparire a una
prima lettura: «baloardi» (dal tedesco “bolwerk”, francese “boulevard”)
e infatti il termine tecnico che designa i bastioni, mentre “bastione”,
a quest’altezza, indica genericamente un terrapieno eretto a
scopo difensivo. È significativo che la parola “baloardo”(o “baluardo”),
che comincia a farsi strada nel secondo quarto del Cinquecento,
non ricorra mai né nel Furioso, né nella Liberata: segno che nei due
poemi, a differenza che nell’Anversa, non vi era la necessità di designare
questi realia14.
Oltre che dalle fortificazioni cittadine, il compito degli assedianti
era stato reso improbo dalla mossa preventiva dei difensori, che avevano
rotto in più punti gli argini della Schelda. Dato l’ampio bacino
13 Per alcune testimonianze in proposito, cfr. P. Lombaerde, Antwerp in its golden
Age, in Urban Achievement in Early Modern Europe: golden Ages in Antwerp, Amsterdam
and London, a cura di P. O’ Brien, Cambridge University Press, 2001, pp.
99-107.
14 Le ragioni di tale assenza sono ovviamente diverse. Se nella Liberata i bastioni
avrebbero cozzato con il verosimile storico, all’altezza dell’ultimo Furioso (1532)
i sistemi bastionati erano ancora rari, tanto che il termine “baloardo”era appena
entrato nell’uso. La più antica occorrenza registrata dal Grande dizionario della lingua
italiana, a cura di S. Battaglia, Torino, Utet, 1961-2002, ad vocem, si deve a Matteo
Bandello; seguono esempi da Berni, Vasari e Bruno, che adoperano tutti la parola
in senso tecnico. In Ariosto ricorre una volta “bastioni” (XVIII, 163, vv. 5-6: «il
pagan si provede, e cava terra, / fossi e ripari e bastïoni stampa»), che però si riferisce
a delle fortificazioni in terra battuta, erette a difesa di un accampamento.
“Baluardo” si ritrova, come sinonimo di “bastia” (da cui ovviamente “bastione”),
anche nel primo Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612). Sono dati che confermano
quanto osservato, su un corpus assai differente, da P. Martens, Ingénieur
(1540), citadelle (1543), bastion (1546), cit., pp. 133-134. Una seconda occorrenza
di “baloardo” si registra in Anversa conquistata III, 323.
[ 7 ]
10 alessandro metlica
del fiume, i territori a ridosso delle mura erano stati completamente
allagati, facilitando le comunicazioni tra Anversa e i Paesi Bassi del
Nord. Sanvitali descrive la situazione in alcuni versi particolarmente
felici (I 228-234):
Fuor de l’acque apparire a pena i tetti
scorger ponno e de gli arbori le cime
i Belgi, e quel terren ch’era sentiero
a le stridenti ruote è fatto albergo
di veleggianti bellicosi legni,
e d’ogni parte già scorron vagando
e gli uni e gli altri in su gli armati pini.
Per venire a capo di queste difficoltà, Farnese ordinò la costruzione
di un ponte di barche sulla Schelda. Il principe di Parma intendeva
replicare quanto egli stesso aveva compiuto a Maastricht, durante il
vittorioso assedio del 1579, quando il corso della Mosa era stato sbarrato
dalle sue truppe privando gli assediati dei rifornimenti. Nel caso
di Anversa, però, le dimensioni dell’opera erano assai maggiori, e
maggiori erano i rischi e le difficoltà tecniche che essa comportava, a
causa della portata e delle forti correnti della Schelda. Per tali ragioni,
la costruzione del ponte fu attentamente pianificata dagli ingegneri
militari al seguito di Farnese. All’altezza di Calloo, in mezzo alle terre
inondate, dove un banco di sabbia diminuiva in parte la profondità
del fiume, furono costruiti due forti di legno, uno per sponda; da una
parte e dall’altra furono conficcati nel letto della Schelda dei piloni,
anch’essi di legno, fin dove l’altezza dell’acqua lo consentiva. I due
pontili così abbozzati furono uniti, nel tratto centrale, da una passerella
di trentadue grandi barche, ciascuna legata alle altre da catene e
ciascuna sormontata da due pezzi di artiglieria. Altre trentatré barche,
di dimensioni minori, furono ancorate alle prime e disposte più avanti,
su entrambi i lati del fiume, con gli alberi maestri messi di traverso
e rinforzati da punte di ferro, a mo’ di speroni. Per condurre sul posto
i materiali di costruzione, fu scavato ex novo un canale artificiale, che
prese il nome di Parma; Farnese fece importare i chiodi addirittura
dalla Danimarca, grazie a un mercante francese, lautamente ricompensato,
che riuscì a far transitare il carico attraverso l’Olanda senza
che i ribelli sospettassero la sua destinazione15.
15 Per queste informazioni rimando al vasto affresco erudito di L. Van der
Essen, Alexandre Farnèse: prince de Parme, gouverneur général des Pays-Bas (1545-
1592), 5 voll., Bruxelles, Librairie nationale d’art et d’histoire, 1933-1937, in parti-
[ 8 ]
memoria epica e rivoluzione militare 11
Nell’Anversa conquistata il cantiere diretto dal principe di Parma è
illustrato con abbondanza di dettagli. Poiché non è possibile attaccare
direttamente le mura di Anversa – «alte», «grosse», «ben munite» (II
10) e circondate per centinaia di metri dalle acque della Schelda – Farnese
«industria militare usar propone» (II 11)16. Si tratta, per l’appunto,
del progetto del ponte, che costituisce il centro simbolico, oltre che
narrativo, dei primi tre libri del poema. Quest’opera ingegneristica è
oggetto di un’ampia descrizione (II 30-61):
Le più strette
rive del vasto e del profondo Scalde
serran di legni fabricate moli,
né tempo si tralascia o notte o giorno
da i soleciti fabri, che, trovato
l’imo fondo, ove men rapido il fiume
se ’n corra e meno irato ingorghi l’acque
salate, e ’n su l’arena il suol fangoso
più si rassodi et affidar vi possa
sicuramente le sue squadre armate
il saggio duce, il qual quivi presente
solecita ciascuno a l’opra intorno,
né perdona a i soldati e gli affatica,
né men di loro ei s’affatica e suda –
del fiume l’ampio letto è chi restringe,
s’assicuran le sponde coi ripari,
ma nel mezzo, ove l’acqua è più profonda
e più corre e le forze ha più possenti,
fannosi attraversar le barche addotte
colare il vol. IV, Le siège d’Anvers (1584-1585), 1935, p. 15. Su Farnese si vedano
inoltre gli studi, più recenti, di B. De Groof, Alexander Farnese and the origins of
modern Belgium, «Bulletin de l’Institut historique belge de Rome», LXIII, 1993, pp.
195-219; S. Pronti, Alessandro Farnese. Condottiero e duca (1545-1592), Piacenza, Tipleco,
1996; A. Pietromarchi, Alessandro Farnese: l’eroe italiano delle Fiandre, Roma,
Gangemi, 1998; R. Sabbadini, L’uso della memoria. I Farnese e le immagini di Alessandro,
duca e capitano, in Il “perfetto capitano”. Immagini e realtà (secoli XV-XVII), a cura
di M. Fantoni, Roma, 2001, pp. 155-182; V. Soen, Reconquista and Reconciliation.
The campaign of Governor-General Alexander Farnese in the Dutch Revolt (1578-1592),
«Journal of Early Modern History», XVI, 2012, pp. 1-22.
16 Se nel primo Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) troviamo, alla
voce “industria”, una definizione in linea con l’etimologia latina («diligenza ingeniosa
»), già la seconda edizione (1623) aggiunge che «diciamo anche industria, per
esercizio, e per arte». Mi sembra legittimo vedere nel verso di Sanvitali un’allusione
all’arte della guerra, che nell’Anversa viene pressoché a coincidere, come si vedrà,
con l’ingegneria militare.
[ 9 ]
12 alessandro metlica
per la picciola Parma a l’ampio Scalde.
Queste ferrea catena insieme annoda
e ritengon ben ferme ancore spesse:
così la mole fabricata stassi
su cento e cento collegate navi,
e sovra i legni grandi insieme uniti
i dotti fabbri, come lor fu imposto,
un ponte fan con sì mirabil arte
che lega de lo Scalde ambe le rive,
sopra cui si può gir vagando e sotto
mirar l’acque ondeggianti e i flutti alteri
schernir, qualor se ’n van superbi e gonfi
al vicin mar che li raccoglie in grembo.
Di là dagli intoppi della sintassi, l’esito della descrizione, che celebra
il dominio dell’uomo sulla natura (vv. 58-61), si muove in accordo
ai principi più noti dell’estetica barocca, arricchendo il quadro epico
di tinte insolite e spettacolari. Allo stesso tempo, i moduli della narrazione
appaiono riplasmati dall’interno, con innovazioni di non poco
conto, al fine di aderire implicitamente alle coordinate della rivoluzione
militare. L’allusione va alla ridistribuzione sostanziale dei ruoli
previsti dall’epos, di cui testimoniano, in particolare, lo spazio concesso
ai «soleciti fabri» (v. 34; e vedi poco oltre, v. 55, dove sono definiti
«dotti»)17 e l’elogio, altrettanto inusuale, di Farnese, che non è lodato
per qualche atto di eroismo, ma per la solerzia con cui incoraggia (vv.
40-43) e contribuisce attivamente (v. 44) alla costruzione del ponte.
Ora, già in Tasso l’aristia di Tancredi o di Rinaldo è imbrigliata in
un disegno più vasto, che ne ricontestualizza il significato: le gesta dei
paladini, nella Liberata, acquistano un senso soltanto all’interno
dell’impresa comune, nel quadro della conquista di Gerusalemme stabilita
ab ovo dalla Provvidenza. Ciò nonostante, il topos dello scontro
individuale, all’incrocio tra duello omerico e singolar tenzone cortese,
rimane decisivo: se privassimo Tancredi dei suoi exploits in solitaria
(contro Argante, ma soprattutto contro Clorinda), l’identità del personaggio
ci si sbriciolerebbe tra le mani. D’altronde la dialettica tra Rinaldo
e Goffredo, che regge l’intera architettura del poema, si basa
17 È rivelatorio, in tal senso, che al momento di introdurre in scena gli alleati
degli anversani («Zelandi, / Olandi, Franchi et Angli e Scotti», I 284-285) Sanvitali
non passi in rassegna le loro truppe, ma i loro artigiani, cui è dedicato un passo
singolare per dimensioni (sedici versi: non pochi, se calcolati sul totale del poemetto)
e sede diegetica (in luogo esposto, in chiusura del libro: I 286-301).
[ 10 ]
memoria epica e rivoluzione militare 13
proprio sul compromesso – geniale perché ambiguo, e mai veramente
risolto – tra l’eroismo individuale del primo e la fedeltà del secondo al
disegno provvidenziale. In altre parole, la Liberata segna un punto di
equilibrio, ancorché precario e sofferto, tra idealismo cortese e realismo
bellico. Come avviene, già prima di Tasso, in tanta parte della
produzione eroica cinquecentesca, la dimensione cortese della giostra,
intesa «come punto di riferimento implicito e come tramite fra il poema
e l’esperienza cortigiana», frena e condiziona «con esiti talora contraddittori
» la rappresentazione di una guerra di massa, fedele al vasto
respiro delle campagne militari del XVII secolo18.
Viceversa, in Sanvitali la dimensione del duello è completamente
assente. Le violente battaglie per la conquista di Anversa sono narrate
con una focalizzazione a distanza, dove gli atti individuali di aristia si
diradano, sin quasi a scomparire, per far spazio all’orizzonte collettivo
della guerra moderna. Si potrebbe concluderne, paradossalmente,
che l’aristia di Farnese consista proprio nel controllo logistico e strategico
del territorio, nell’abilità con cui egli dirige i suoi soldati e nella
dedizione con cui «né men di loro ei s’affatica e suda»19. Non è un’affermazione
riduttiva, quasi che, a dispetto del progetto celebrativo,
l’Anversa si accontentasse di un ritratto in minore del principe di Parma.
Al contrario, questo tipo di elogio si situa con piena coerenza
nell’apparato encomiastico di parte cattolica, che in Spagna come in
Italia aveva fatto di Farnese un vero e proprio «principe ingegnere»20.
Si prenda ad esempio una serie di disegni di Giovanni Guerra
(1544-1618) oggi conservata alla Biblioteca Nacional di Madrid. Qui
Farnese è raffigurato mentre dirige i lavori in preparazione di un asse-
18 G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale
e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, 1982, p. 45.
19 Mi riferisco, per esempio, ai versi del libro III, 99-105: «Ché come avvicinar
l’armata scorge / il provido Farnese a le sue sponde, / pon l’oste in ordinanza e la
dispone / sovra i ripari ed egli a tutti avante / duce e soldato appare, e co ’l consiglio
/ e con l’opre dà leggi, e core a i cori / aggiunge con l’essempio suo guerriero
». Va precisato che nel poema si ritrovano puredelle risorse celebrative più tradizionali,
che però vengono a corroborare, e non a contraddire, questa linea encomiastica.
I versi in cui Farnese è paragonato a illustri generali della latinità come
Mario o Cesare, per esempio, si riferiscono precisamente al progetto del ponte (II
62-65: «Così aggiunse del Tebro ambe le sponde / il nemico di Silla, e sovra il Reno
/ con simil varco agevolassi il corso / chi la fama spennò del gran Pompeo»).
20 È il titolo di un eccellente saggio dedicato a questo tema: cfr. P. Martens, Alexander
Farnese, principe ingegnere in the Low Countries, in Alexander Farnese and the
Low Countries, a cura di H. Cools, K. De Jonge, S. Derks, Turnhout, Brepols. Ringrazio
l’autore per avermi inoltrato le sue pagine, al momento in corso di stampa.
[ 11 ]
14 alessandro metlica
dio, o mentre studia, compasso alla mano, la pianta di una fortezza.
Ancora alla fine del Seicento (1685-1687), in un dipinto di Giovanni
Evangelista Draghi, Farnese è ritratto con carta e penna, nell’atto di
tracciare uno schema strategico per la conquista di Anversa21. Questa
linea encomiastica affondava le proprie radici nella concreta familiarità
di Farnese con gli ingegneri e l’ingegneria militare. In quanto capitano,
oltre che governatore dei Paesi Bassi spagnoli, il principe di Parma
era personalmente responsabile della fortificazione dei confini;
per tale ragione, egli aveva al suo servizio una fitta schiera di architetti
militari provenienti dall’Italia. Già prima di lasciare la Penisola, del
resto, Farnese aveva intrattenuto dei rapporti non superficiali con
molti ingegneri del suo tempo, da Francesco Paciotto, sotto la cui guida
aveva condotto studi di disegno tecnico, a Francesco De Marchi, di
cui aveva letto il Della architettura militare (uscito a stampa postumo,
nel 1599), discutendone a più riprese con l’autore22. A questa preparazione
teorica si affiancò poi l’esperienza maturata sul campo, nel corso
di una campagna che, come si è detto, aveva contato un numero elevatissimo
di assedi. Nel 1589, infine, a conferma della sua padronanza
delle più moderne tecniche di fortificazione, Farnese ebbe un ruolo
decisivo nell’edificazione della cittadella di Parma, che forse progettò
lui stesso, e fu interpellato per un consulto dalla Repubblica di Lucca,
che nello stesso anno aveva avviato i lavori di restauro e di ricostruzione
delle mura cittadine23.
Benché l’ingegneria militare facesse parte a tutti gli effetti della cultura
aristocratica dell’epoca, e costituisse anzi un capitolo essenziale
nella formazione del perfetto uomo politico, il caso di Farnese resta
eccezionale, sia per le sue effettive conoscenze della materia, sia per
l’impatto che queste ebbero nella rappresentazione delle sue vittorie.
21 I disegni di Guerra e il quadro di Draghi sono riprodotti ivi.
22 Su De Marchi si vedano i saggi di G. Bertini, Ottavio Farnese e Francesco De
Marchi: una proposta identificazione nel Doppio ritratto maschile di Maso da San Friano,
«Aurea Parma», LXXVIII, 2, 1994, pp. 150-155, e Id., Dalla Lombardia ai Paesi
Bassi: il viaggio di Margherita d’Austria e Alessandro Farnese nel 1556 descritto dal furiere
Francesco de Marchi, «Archivio storico per le province parmensi», LVI, 2004, pp.
531-558.
23 Martens ha però respinto, con argomentazioni convincenti, la paternità farnesiana
dei Commentarii conservati alla Biblioteca Corsiniana di Roma. Si tratta di
uno zibaldone manoscritto che racchiude note, schizzi e postille su questioni di
architettura e di ingegneria militare. L’opera fu scritta con diversi inchiostri da
diverse mani, che vi lavorarono in fasi differenti tra il 1550 e il 1580, per lo più
saccheggiando le opere di Paciotto e De Marchi.
[ 12 ]
memoria epica e rivoluzione militare 15
Alcune incisioni24 si spingono a raffigurare il principe di Parma mentre
impugna pala e piccone, scavando da sé le fortificazioni per l’assedio
di Maastricht o il canale artificiale vicino ad Anversa. Con ogni
evidenza, anche questo filone celebrativo obbediva a sollecitazioni
assai concrete: nel corso della guerra degli Ottant’anni le fortificazioni
in terra battuta, che potevano essere erette rapidamente e che assorbivano
con discreta efficacia i colpi di cannone, costrinsero spesso le
truppe spagnole ad adoperare il badile anziché la spada. Ritraendo
Farnese con la pala in mano, la propaganda di parte cattolica sosteneva
la dignità di simili operazioni, e sdoganava implicitamente una
nuova idea della guerra, dove non c’era spazio né per gli ideali cortesi,
né per l’aristia dei singoli. Il risultato era una rielaborazione profonda
dei moduli dello speculum principis, in perfetto accordo con la parabola
della tecnologia e della strategia militari tra Cinque e Seicento, ma
in stridente contrasto con l’etica cortese che aveva informato, sin allora,
la tradizione eroica italiana.
Il dissidio che anima la messa in versi di questa contesa “ingegneristica”,
giocata interamente attorno alla costruzione, e poi alla difesa, del
ponte di barche sulla Schelda, emerge con vividezza ancora maggiore
dal trattamento che Sanvitali riserva all’artiglieria e alla polvere da sparo.
Le armi da fuoco, infatti, ricorrono con notevole frequenza nella narrazione,
al punto da costituire la chiave di volta di tutte le scene belliche.
Anche in questo caso, verrebbe da pensare a una soluzione ovvia,
poiché il Cinquecento aveva visto crescere in modo esponenziale la diffusione
e l’efficacia dell’artiglieria: all’altezza della guerra degli Ottant’anni,
i complicati dislocamenti dei cannoni e l’utilizzo massiccio
delle bombarde non erano certo una novità. E tuttavia va appuntato
che, sin dalla loro comparsa sul finire del Quattrocento, le armi da fuoco
avevano faticato a ritagliarsi uno spazio all’interno del poema eroico, a
causa della loro manifesta incompatibilità con gli ideali cavallereschi.
Ariosto, che pure, nel Furioso, guardava a quegli ideali con malinconico
e sorridente distacco, le aveva fatte oggetto di una severa condanna:
Rendi miser soldato alla fucina
pur tutte l’arme c’hai fin’alla spada,
24 La prima incisione, realizzata dall’artista fiammingo Jan Miel per il De bello
belgico del gesuita Famiano Strada (1632-1647), è descritta da M.-R. Nappi, Le imprese
di Alessandro Farnese fra cronaca ed epopea, in La dimensione europea dei Farnese,
cit., pp. 310-316. La seconda è riportata in calce a P. Martens, Alexander Farnese,
cit.: si tratta di un’acquaforte di Romeyn de Hooghe tratta da un disegno di Juan
de Ledesma (1681-1682).
[ 13 ]
16 alessandro metlica
e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi,
che senza, io so, non toccherai stipendi.
Come trovasti, o scelerata e brutta
invention, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l’arme è senza onore,
per te è il valore e la virtù ridutta,
che spesso par del buono il rio migliore;
non più la gagliardia, non più l’ardire
per te può in campo al paragon venire25.
Sono versi celebri, che chiudono un episodio dislocato tra i canti IX
e XI del Furioso. Il fucile fa la sua comparsa in mano al re di Frisa, Cimosco,
che nel corso di un duello, dopo aver abbattuto con un colpo
del suo archibugio il cavallo di Orlando, è da questi raggiunto e decapitato
(IX 73-80). L’arma di Cimosco, che in questi versi è descritta in
termini piuttosto vaghi – Ariosto la designa dapprima come «cavo
ferro» (73, v. 4), per poi paragonarla al tuono (75, v. 2) e al fulmine (88,
v. 8), mentre lo sparo è detto «ardente stral» (IX 75, v. 5) – è quindi
raccolta da Orlando, che la scaglia in fondo al mare perché non possa
più ledere alle leggi cavalleresche. In questa occasione il conte pronuncia
un’invettiva26 cui farà eco, nel canto XI, la condanna del narratore:
al momento di tornare, con la consueta tecnica dell’entrelacement,
alla vicenda di Orlando, Ariosto racconta infatti come il fucile di Cimosco
sia stato ritrovato a distanza di secoli, e abbia dato il la allo
sviluppo impetuoso dell’artiglieria (XI 21-28). Alle armi moderne discese
da questa «machina infernal» (23, v. 1) è consacrato un catalogo
minuzioso:
Alcuno il bronzo in cave forme spande,
che liquefatto ha la fornace accesa;
bugia altri il ferro; e chi picciol, chi grande
il vaso forma, che più e meno pesa:
e qual bombarda e qual nomina scoppio,
qual semplice cannon, qual cannon doppio;
25 Cfr. Orlando furioso, XI 25-26.
26 Cfr. Orlando furioso, IX, 90-91: «Lo tolse, e disse: – Acciò più non istea / mai
cavallier per te d’esser ardito, / né quanto il buono val, mai più si vanti / il rio per
te valer, qui giú rimanti. // O maladetto, o abominoso ordigno, / che fabricato nel
tartareo fondo / fosti per man di Belzebù maligno / che ruinar per te disegnò il
mondo, / all’inferno, onde uscisti, ti rasigno. – / Così dicendo, lo gittò in profondo
».
[ 14 ]
memoria epica e rivoluzione militare 17
qual sagra, qual falcon, qual colubrina
sento nomar, come al suo autor più agrada27.
È stato osservato28 che vi è una singolare discordanza tra queste
notazioni, precise anche nel lessico, e la descrizione assai più generica
del funzionamento delle armi da fuoco nel Furioso29. Con ogni evidenza,
Ariosto coltiva posizioni contrastanti al riguardo: il cortigiano di
lungo corso, capitano della rocca di Canossa e governatore in Garfagnana,
oltre che intimo di un esperto d’artiglieria come Alfonso d’Este,
possiede una conoscenza non superficiale dei ritrovati della tecnica
militare dei suoi tempi; il poeta, però, rigetta in maniera inappellabile
questo portato della guerra moderna, e si rifiuta di consacrargli
una rappresentazione tangibile all’interno della propria opera. Se ne
evince, come chiosa esemplarmente Alberto Casadei, che all’altezza
del 1532 «la tecnica non è ancora entrata pienamente a far parte
dell’immaginario della letteratura»30.
Tra il Furioso e l’Anversa, naturalmente, corre quasi un secolo intero.
Va rimarcato però che il Cinquecento ridiscute, ma non risolve la
polarità ariostesca; e se nel poemetto celebrativo di argomento contemporaneo
l’artiglieria può guadagnare talvolta il proscenio, come
accade nei testi consacrati alla battaglia di Lepanto31, la linea alta della
poesia narrativa continua ad affrontare il tema con cauta diffidenza. Si
aggiunga che Tasso, a dispetto delle sue conoscenze in fatto d’ingegneria
militare, che sono solide e ben documentate, aggira il problema
in ossequio alla verosimiglianza storica: la Liberata non partecipa in
alcun modo della rivoluzione militare cinquecentesca, tanto che la pa-
27 Cfr. Orlando furioso, XI, 24-25.
28 Cfr. A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel
Rinascimento, Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 62-66, da cui risalire a D. Henderson,
Power Unparalleled: Gunpowder Weapons and the Early Furioso, «Schifanoia»,
XIII-XIV, 1994, pp. 109-131, e a E. Scarano, Guerra favolosa e guerra storica nell’Orlando
Furioso, in Studi offerti a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisani, Lucca,
Pacini Fazzi, 1996, pp. 497-515.
29 La cosa è valida non solo per l’archibugio, cui già si è fatto cenno, ma pure
per il cannone, detto «gran diavol»: cfr. Orlando furioso, XXV, 14, vv. 6-8.
30 A. Casadei, La fine degli incanti, cit., p. 64.
31 Per una rassegna di tale produzione si veda C. Dionisotti, La guerra d’Oriente
nella letteratura veneziana del Cinquecento, in Id., Geografia e storia della letteratura
italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 163-182, nonché il più aggiornato A. Casadei,
Panegirici per la vittoria, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto
e G. Pedullà, Torino, Einaudi, 2011, vol. II, Dalla Controriforma alla Restaurazione,
pp. 224-231.
[ 15 ]
18 alessandro metlica
rola «bombarda», nel poema, ricorre esclusivamente con valore metaforico32.
È dunque significativo che in Sanvitali le armi da fuoco siano
rappresentate concretamente e quasi con crudezza, come accade nel
libro III, 115-117:
S’ode il suono mortal, si vede il fumo
de le bombarde, e mille uccisi a un tratto,
spettacolo crudele, il suol coprire
dove la rapida sequenza suono-fumo-morte riesce incisiva proprio
perché improntata a un vivido realismo. Un’occorrenza analoga si registra
poco oltre (III, 215-219):
Quinci piovon gran sassi, e quindi s’ode
fulminar la bombarda che l’insegne
rotte da lei son con li scudi, e atterra
molti, e sì denso fumo il cielo imbruna
che non si vede u’ la vittoria penda.
Più in generale, sono numerose le allusioni, anche tecniche, al dispiegamento
strategico dell’artiglieria. Si tratta per lo più di dettagli,
che prendono lo spazio di pochi versi, ma che al contempo innervano
una rappresentazione a tutto tondo, attenta alla mimesi dell’insieme,
del fatto bellico. La rassegna delle truppe spagnole, per esempio, non
prevede soltanto luccicanti armature e cavalli splendidamente bardati,
ma pure alcune tessere non riconducibili all’archetipo tassiano, come
le squadre dei fucilieri (I, 147-149):
D’archibugi carchi
son diece compagnie d’uomini forti,
che a più lievi destrier premono il dorso.
La medesima rassegna offre, in conclusione, uno scorcio sulle masserizie,
tra cui spiccano per l’appunto la polvere da sparo e le palle di
cannone (I, 161-163):
Poi altri in sella d’armatura lieve
precorrono gli Ispani et il sentiero
assicurano al campo, a cui fan siepe
le carra, entro al cui grembo e polve e palle,
di guerra il vitto et ogni arnese è posto.
32 Cfr. Gerusalemme liberata, XII 44 e XIX 37.
[ 16 ]
memoria epica e rivoluzione militare 19
Non appena l’esercito è giunto sotto le mura di Anversa, Farnese,
da eccellente «principe ingegnere», ha cura di far scavare le trincee e
di sistemarvi i cannoni (I, 182-186):
Indi fatto ritorno a le sue tende
altri a quercie tagliar, altri comparte
a cavare il terreno, e poscia farne
ripari atti non pure a le difese,
ma per locarvi i bellici tormenti.
Come evidenziano questi esempi, il rilievo assegnato all’artiglieria
nell’Anversa è un fatto di sistema, riconducibile alle coordinate complessive
della narrazione. Poiché l’elogio di Farnese passa per il resoconto
delle sue effettive competenze militari e ingegneristiche, cannoni
e bombarde vengono a integrarsi naturalmente nell’affresco di una
guerra di massa, giocata sul piano strategico prima che su quello
dell’aristia individuale.
Nel libro II, le armi da fuoco incrociano un altro tema tipicamente
barocco, vale a dire la passione per i congegni complicati e insoliti.
Sollecitato da uno spirito infernale, che obbedisce al disegno esposto
in precedenza da Satana33, un anversano mette a punto una «machina
orrenda» (II 228); si tratta di una grande nave carica di «zolfo a nitro
congiunto» (II 254), che è stata progettata per distruggere il ponte sulla
Schelda. Abbandonata di notte alla corrente, perché non possa essere
avvistata per tempo dagli spagnoli, la «machina orrenda» si schianta
sul ponte, facendone saltare in aria una parte. Gli olandesi, alleati
degli anversani, sono pronti a fare breccia e a calare sull’accampamento
spagnolo; tuttavia uno stratagemma di Farnese, che fa agitare delle
torce su quel che resta del ponte, inganna i nemici e salva la situazione
in extremis.
L’episodio è storicamente attestato:l’autore della «machina orrenda
» fu un ingegnere militare italiano, tale Federico Giambelli, nato a
Mantova attorno al 1530 e trasferitosi ad Anversa all’inizio degli anni
ottanta34. L’attacco ebbe successo, poiché nell’impatto tra la bomba e il
ponte morirono circa 800 soldati spagnoli; il danno, però, fu di media
entità, e Farnese vi pose rapidamente rimedio. La descrizione che Sanvitali
dedica a questi fatti è ampia e dettagliata, e testimonia di letture
33 Cfr. II, 97-99: «Itene dunque, o miei fedeli, e sia / di voi chi ’l ponte di novello
ordigno / fatto disfaccia de’ suoi fabri ad onta».
34 Cfr. L. Van der Essen, Alexandre Farnèse, cit., p. 56, e D. Busolini, Giambelli,
Federico, Dbi, LIV, 2000, ad vocem.
[ 17 ]
20 alessandro metlica
puntuali, condotte sulla ricca produzione in prosa che, già nell’ultimo
quarto del Cinquecento, l’assedio di Anversa aveva consegnato alle
stampe35. A riprova di ciò, l’Anversa riporta fedelmente come, nella
stiva della «machina orrenda», gli anversani avessero costruito una
camera di mattoni, riempita con pietre, detriti, ferraglia e persino con
lapidi tombali (II 251-252), oltre che con un gran quantitativo di polvere
esplosiva. Questa specie di mina era stata coperta da un tetto a dorso
d’asino, affinché l’esplosione si propagasse in orizzontale e non in
verticale; il meccanismo d’innesco, verso cui Sanvitali mostra un notevole
interesse (II 253-257), era stato ideato con la collaborazione di alcuni
celebri artigiani di Anversa. Quando la nave incendiaria imbocca
infine la Schelda, il risultato è una scena di grande impatto, che tocca
la sua climax, come è ovvio, al momento dell’esplosione (II, 285-295):
L’occulta stoppa e gli aridi fomenti
e la pece e la polve allora il foco
gli aveano dentro al cavo ventre acceso,
che giunta quivi al destinato segno,
tutta ad un tempo s’apre la gran mole
e lancia fulminante e sassi e ferri.
Qual impeto sì altier, qual sia rimbombo
simil non so trovar, né giù dal cielo
sì ruvinoso e strepitante scende
il folgore fra noi: bombo d’Inferno
al rimbombo d’Inferno è solo eguale.
Come nel Furioso, l’unico comparante adatto a descrivere gli effetti
della polvere da sparo è il fuoco infernale. Diversamente da Ariosto,
però, Sanvitali non può sorvolare sull’importanza dell’artiglieria, non
solo per ragioni di realismo, ma soprattutto perché l’impiego strategico
di fucili e cannoni gioca un ruolo decisivo nel ritratto del «principe
ingegnere». È una delle ragioni per cui, all’altezza dell’Anversa, il poema
eroico ha ormai raccolto il fucile che Orlando aveva gettato a mare.
Alessandro Metlica
Università degli Studi di Padova
35 T ra le fonti di Sanvitali ci fu quasi sicuramente l’Assedio e racquisto d’Anversa
di Cesare Campana: il monologo di Aldegonda al libro II pare, in effetti, una ripresa
puntuale da questo testo (cfr. E. Grootveld-N. Lamal, Impious heretics or simple
birds?, cit., pp. 71, 76).
[ 18 ]
Guglielmo Barucci
«Questi fia del tuo sangue» (GL X). La profezia
per Solimano: una sconfitta tra storia e destino
La profezia di Ismeno a Solimano nel canto X della Liberata si colloca per certi
versi nel filone epico dei vaticinii sulla discendenza dell’eroe. Già il fatto che,
però, Solimano sia invece il grande antagonista dei crociati rende la profezia
anomala. L’episodio è inoltre al centro di un’architettura di rimandi e opposizioni,
che cambia sensibilmente nella parabola dalle fasi più antiche della Liberata
alla Conquistata. Tali variazioni illuminano il mutare della fisionomia e del
ruolo di Solimano, nonché delle diverse concezioni del poema stesso.

Ismeno’s prophecy to Solimano in the tenth canto of Jerusalem Delivered may be
situated within the epic tradition of the vaticinations of the hero’s descendants.
However, the fact that Solimano is the great antagonist of the crusaders makes
the prophecy anomalous. Furthermore, the episode appears at the centre of a
network of references and oppositions that alters substantially from the most
remote phases of Jerusalem Delivered all the way to Jerusalem Conquered. These
variations shed light on the changing character and role of Solimano, as well as
the diverse conceptions of the poem itself.
Che il canto X della Liberata sia «più tosto metà del quanto che della
favola», come puntualizzava già il Tasso nella lettera al Gonzaga del
27 aprile 1575, è cosa nota1. Ancora troppe difficoltà si devono assommare
sui crociati (ossia, all’altezza della composizione della lettera, la
ferita di Goffredo; la sortita di Argante e Solimano; l’incidente alla torre
e la sua successiva distruzione; gli scacchi personali nella selva di
Saron; la siccità), e ancora troppo lontano – ricordava lo stesso Tasso
– è il crinale del tredicesimo canto, allorché si avvia un «novello ordin
di cose» con la pioggia divina a cui segue, nel canto successivo, l’apparizione
in sogno di Ugone a Goffredo che porterà al ritorno di Rinaldo.
Autore: Università degli Studi di Milano; ricercatore confermato; guglielmo.
barucci@unimi.it
1 T. Tasso, Lettere poetiche, a cura di C. Molinari, Milano / Parma, Fondazione
Pietro Bembo / Guanda, 2008, VI, 2-3. (D’ora in poi LP)
22 guglielmo barucci
Eppure anche il «quanto» vuole la sua parte. Anche il canto X fu
infatti un sofferto palinsesto per quanto riguarda la distribuzione della
materia e un perno instabile di dubbi e riscritture sedimentati nelle
Lettere poetiche: in particolare, nello stadio più arcaico attestato del poema,
il Barberiniano latino 4052 (Br1), era proprio nel canto X che aveva
luogo il sogno di Goffredo2. La «metà del quanto», quindi, vedeva
l’inizio del lento prevalere cristiano, così creando un’evidente struttura
a dittico in cui la seconda metà dell’opera sarebbe stata un progressivo
e inarrestabile avvicinamento all’espugnazione della Città Santa,
tant’è che il canto era chiuso dal verso «Quel dì rivolse ad espugnar le
mura»3, di evidente simbolicità strutturale. Tale rigida dicotomia poneva
però serie implicazioni critiche, perché così si avviava il ritorno
di Rinaldo prima di un ulteriore peggioramento della situazione dei
crociati («innanzi al bisogno», secondo l’espressione tassiana), compromettendo
di conseguenza l’essenzialità del ruolo del giovane eroe.
Se la dislocazione del sogno al canto XIV4 disequilibra dunque la
struttura dell’opera, resta comunque traccia nella Vulgata di un canto
X pensato come fulcro narrativo. L’intera macrosequenza IX-X, che
vede l’ingresso in scena di Solimano, si apre infatti con una biografia
del re di Nicea, esito di progressive riscritture attestate nella lettera al
Gonzaga del 15 aprile 1575 (peraltro non tutte realizzate) e nate con
l’intento di «unire l’attione maggiormente in quanto alla parte ch’appartiene
a i saracini e ridurre i lor progressi ad un capo»5. Coerentemente
con questa centralizzazione delle forze musulmane, è nel X che
si ha l’ingresso di Solimano in città, la quale così non solo acquista il
suo più formidabile difensore, ma anche vede raccolta nelle sue mura
l’intera costellazione degli eroi pagani (Emireno a parte, va da sé, nel
rispetto della storia). L’esplicitazione della deviazione di Solimano,
non più volto «di Gaza antica a gli arenosi lidi» ma verso Gerusalemme,
segna inoltre l’inizio della fine delle dispersioni spaziali e l’impor-
2 Il sogno era costituito da dieci ottave, di cui due sole preservate, collocate
dopo la 78. Cfr. E. Scotti, I testimoni Br1, Mg ed M1 della «Gerusalemme Liberata»,
«Studi tassiani», XXXIX (1991), pp. 7-44.
3 Si veda la Bibliografia dei manoscritti in T. Tasso, Gerusalemme liberata: poema
eroico, ed. critica […] a cura di A. Solerti, Firenze, Barbera, 1895-1896, I, p. 124. Cfr.
anche LP XIV, 12.
4 LP XV, 11.
5 LP V, 18. Che il canto IX segni l’ingresso «nel vivo della “materie non oziose”,
ovvero nel cuore della guerra per la liberazione di Gerusalemme» è stato osservato,
ad esempio, da R. Gigliucci, Canto IX, in Lettura della «Gerusalemme liberata», a
cura di F. Tomasi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pp. 209-241: 214.
[ 2 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 23
si della città assediata come unico polo di attrazione6. Così è la presenza
in Gerusalemme del negativo di Rinaldo ad agire da innesco per il
ritorno del giovane eroe, in un movimento centripeto di vettori che
proprio l’originaria collocazione del sogno di Goffredo rendeva ancora
più evidente negli strati più antichi della Liberata.
La centralità strutturale del canto X, ancora riconoscibile nella Vulgata,
è inoltre rafforzata da un elemento la cui singolarità richiede
forse qualche ulteriore riflessione. Allorché sul carro di Ismeno si avvia
alla città7, Solimano interroga il mago su «le cose remote anco e
lontane» e sul destino («riposo» o «ruina») fissato in cielo per l’Asia8.
Occasione perché Ismeno enunci una brevissima profezia di circa
un’ottava e mezza sull’avvento del Saladino e il suo impatto sulla Terrasanta9.
Ma pur dirò, perché piacer ti debbia,
ciò che oscuro vegg’io quasi per nebbia.
Veggio, o parmi vedere, anzi che lustri
molti rivolga il gran pianeta eterno,
uom che l’Asia ornerà co’ fatti illustri,
e del fecondo Egitto avrà il governo.
Taccio i pregi de l’ozio e l’arti industri,
mille virtù che non ben tutte io scerno;
basti sol questo a te, che da lui scosse
non pur saranno le cristiane posse,
ma insin dal fondo suo l’imperio ingiusto
svelto sarà ne l’ultime contese,
e le afflitte reliquie entro uno angusto
6 Nello stesso canto si ha infatti il ritorno dei cinquanta erranti che seguirono
Armida; significativo è che la loro identità è svelata solo successivamente all’ingresso
in città del sultano turco.
7 E pisodio complessivamente poco felice, peraltro, secondo G. Getto, La tragedia
di Solimano, in Id., Nel mondo della Gerusalemme, Firenze, Vallecchi, 1968, 87-128:
108.
8 T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di F. Tomasi, Milano, Rizzoli, 2009, X 18
(d’ora in poi GL).
9 La profezia, a conferma della poca attenzione che le è stata dedicata, non è
peraltro menzionata nel sunto del poema presentato a Orazio Capponi nel 1576
(«Si narra come Solimano sia condotto da Ismeno mago per via secreta nella città
– di Gerusalemme – e come, giungendo improvvisamente nel consiglio, interrompa
i parlamenti di pace e di tregua»), né trova spazio negli argomenti e nelle allegorie
raccolti nel paratesto della Gerusalemme liberata: poema eroico, ed. critica […] a
cura di A. Solerti, cit., II, pp. 366-367.
[ 3 ]
24 guglielmo barucci
giro sospinte e sol dal mar difese.
Questi fia del tuo sangue. […]
(GL X 21-23)
Richiesta e profezia, è da rimarcare, non hanno alcuna funzione
narrativa. Certo, sono l’occasione per introdurre nel poema – peraltro
per via assai allusiva – una figura che godeva di fortuna letteraria propria
già nei grandi capolavori della nostra tradizione; e forse l’interrogativo
di Solimano vale a veicolare la «pensosità […] dell’anima inutilmente
desiderosa di certezza […] pur nella malinconica coscienza
dei mali e del dolore»10; così senz’altro l’episodio rafforza l’immagine
di un Solimano totalmente e vendicativamente proiettato nell’attesa
di un futuro risarcitorio anche oltre la propria vita11 – anzi, il preannuncio
del futuro liberatore di Gerusalemme costituisce, per trasposizione,
l’inveramento delle continue minacce del Soldano di tornare a
infuriare contro i Cristiani anche dopo morto («Risorgerò nemico
ognor più crudo, / cenere anco sepolto e spirto ignudo»12). E probabilmente
alla domanda stessa di Solimano deve essere attribuita importanza
autonoma e pari alla risposta, se si considera che il pagano – volendo
conoscere il futuro e dunque avanzando pretese su ciò che dovrebbe
essere di sola pertinenza divina – dà prova di una curiositas, se
non libido sciendi, tradizionalmente e duramente condannata dal pensiero
cristiano; il contrasto è evidente quando si consideri che ogni
conoscenza del futuro è invece impartita ai crociati dall’intervento
divino, o dei suoi intermediari, senza alcuna sollecitazione umana. Se
già tutti questi elementi danno senso proprio alla profezia, sono però
da rimarcare al contempo almeno due elementi che rendono, come
osservato da Russo, «sorprendente» la profezia13.
In primo luogo assistiamo – sia pure con una modalità singolare su
cui si tornerà più avanti – non a un generico vaticinio, ma alla profezia
sulla discendenza di un personaggio; un elemento proprio alla poesia
narrativa, e che ha il suo archetipo ovviamente nel catalogo sui membri
della gens Julia discesa da Enea nel sesto libro del poema virgilia-
10 G. Getto, La tragedia di Solimano, cit., p. 109.
11 Ivi, p. 97.
12 GL IX 99, 7-8. La connessione tra il passo e la profezia è istituita, sia pure con
altra prospettiva, anche da F. Pignatti, Le morti di Argante e di Solimano: indagini
intertestuali sulla Liberata, in Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di G.
Patrizi, Roma, Bulzoni, 2002, I, pp. 307-333: 309.
13 E. Russo, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, Roma-Bari,
Laterza, 2014, p. 100.
[ 4 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 25
no, e poi passato al romanzo e alla tradizione volgare, in primis il Furioso
e la stessa Liberata. L’episodio virgiliano era di per sé sufficiente a
legittimare ogni riuso futuro, ma qualche attenzione si trova, nella
critica rinascimentale, anche a livello teorico. Tale elemento è ad esempio
menzionato tra gli accorgimenti per restare nel «giusto termine»
della misura secondo il Discorso intorno al comporre dei romanzi di Giraldi
Cinzio («fare predire alcune cose da indovini, farne dipingere alcune
altre, alcune altre farne narrare») e così nel Breve discorso intorno alla
narrazione poetica del Verdizzotti, in cui ekphrasis e profezia vengono
indicate come narrazione «quasi obliqua»14. Fondamentale però è che
tali profezie riguardano sempre e unicamente il personaggio positivo
per eccellenza, che sia Enea, Bradamante, Girone, l’Ercole giraldiano o
lo stesso Rinaldo; o, per dirla meglio con l’Ariosto, riguardano, in virtù
de «i donati palazzi e le gran ville / dai discendenti lor», i capostipiti
più o meno fittizi dei committenti. In un certo senso, inoltre, proprio
la profezia sulla discendenza è il signum nobilitante dell’eroe, il
codice facilmente decriptabile dell’eccellenza, nonché una delle componenti
del percorso di crescita e consapevolezza del protagonista.
Che dunque il glorioso destino della discendenza (sia pure limitato
a un unico individuo) sia profetizzato al nemico più feroce e più dominato
dalle forze demoniache – e ovviamente senza che vi sia riconoscibile
alcuna necessità encomiastica – è un elemento indubbiamente
straniante; l’eccezionalità di tale tributo è accentuata dal fatto che il
decimo canto della Liberata si chiude sulla cosiddetta “profezia dell’aquila”
di Pietro l’Eremita sulla discendenza di Rinaldo («De’ figli i figli,
e chi verrà da quelli»15) che saprà farsi protettrice della Chiesa e
della Fede. Nel cuore del poema, dunque, si crea un dittico di profezie
dalla marcata forza oppositiva, reso più evidente non solo dalla compresenza
di tema politico-militare e virtù individuali, ma anche da
alcuni elementi formali, quali la misura circoscritta (13 versi per Solimano
e 14 per Rinaldo), le formule introduttive, che sono una l’oppo-
14 R ispettivamente in G.B. Giraldi Cinzio, Discorso intorno al comporre dei romanzi
in Scritti critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati, 1973,
pp. 45-167: 56 e G.M Verdizzotti, Breve discorso intorno alla narrazione poetica, in
Trattati di poetica e di retorica del ’500, a cura di B. Weinberg, Roma, Laterza, 1974,
IV, pp. 5-13. Si veda ad esempio Z. Rozsnyói, Dopo Ariosto. Tecniche narrative e discorsive
nei poemi ariosteschi, Ravenna, Longo, 2000, pp. 68-72. Purtroppo incentrato
sulle profezie religiose sui viaggi e l’espansione della fede è A. Cerbo, Forme di
poesia profetica tra Cinquecento e Seicento, «Bruniana & Campanelliana», XI (2005), n.
2, pp. 451-467.
15 GL X 76, 1.
[ 5 ]
26 guglielmo barucci
sizione dell’altra («oscuro vegg’io» per la prima e «chiaro vegg’io» per
la seconda), e un assai affine sintagma usato per indicare il potere antagonista
(«imperio ingiusto» per il Saladino16 e «Cesari ingiusti» per
gli Este17). Le implicazioni strutturali, e ideologiche, della profezia di
Ismeno arrivano però a coinvolgere un ulteriore personaggio: nel sogno
di Goffredo del canto XIV Ugone profetizza non solo la morte del
capitano e la nascita del Regno di Gerusalemme, ma anche – e sono le
ultime parole prima di sparire «come fumo leve / al vento» – che lui e
Rinaldo saranno uniti nella discendenza: «sarà il tuo sangue al suo
commisto, e deve / progenie uscirne gloriosa e chiara» (XIV 19, 3-4),
peraltro con significativo ritorno del termine «sangue».
Anzi, probabilmente legate al vaticinio della discendenza comune,
erano originariamente previste qui «le lodi della casa da Este»18 (poi
spostate al XVII), con l’effetto che sarebbe stato rafforzato il nesso dinastico
tra i due cristiani; ma anche – ricordando che originariamente
il sogno era previsto proprio nello stesso canto X – con l’effetto di far
affiorare una sinopia in cui ancora maggior rilevanza ha per contrasto
la profezia sul Saladino. Non a caso, quasi a suggello della polarizzazione
tra il comandante pagano e la coppia di condottieri cristiani,
Ugone introduce la profezia sulla discendenza comune ai due con una
formula («E chiuderò il mio dir con una breve / conclusïon, che so che
a te fia cara») che si contrappone e richiama quella usata da Ismeno
per Solimano («Ma pur dirò, perché piacer ti debbia»)19. È da osservare
peraltro che nella Conquistata la profezia dell’apostata non si chiuderà
più con «Questi fia del tuo sangue» ma con «questo [l’«angusto
cerchio» in cui le forze cristiane saranno risospinte] i tuoi lor
torranno»20. La focalizzazione viene dunque a essere sulla perdita degli
ultimi territori, e non più sul discendente destinato a risospingere
i Cristiani in tale condizione; soprattutto, inoltre, il pregnante «tuo
sangue» (che serrava il nesso Solimano-Saladino ma anche, come visto,
permetteva la contrapposizione con Rinaldo e Goffredo) cede a un
più generico «tuoi», così attenuando la dimensione personale (e così
anche mettendo in secondo piano quella parentela che era schietta invenzione
tassiana ma dava ulteriore risalto alla figura del Soldano).
16 GL X 23, 1.
17 GL X 76, 3.
18 LP XXXVI 4.
19 Rispettivamente GL XIV 19, 1 e GL X 21, 7.
20 T. Tasso, Gerusalemme Conquistata, a cura di L. Bonfigli, Bari, Laterza, 1934,
XI 34, 5. (D’ora in poi GC)
[ 6 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 27
Solimano, proprio attraverso questo sistema di profezie, assurge
così a vero protagonista di un contro-poema infernale, la cui ultima
emersione può essere considerata lo sguardo che, nell’ultimo canto,
questo eroe oscuro sospinge dalla torre di David sul groviglio convulso
della sofferenza umana:
salse in cima a la torre ad un balcone
e mirò, benché lunge, il fer Soldano;
mirò, quasi in teatro od in agone,
l’aspra tragedia de lo stato umano:
i vari assalti e ’l fero orror di morte,
e i gran giochi del caso e de la sorte.
(GL XX 73, 3-8) 21
Questo embrione di teichoscopia – estremo tassello della macrostruttura
della verticalità – si contrappone in primo luogo allo sguardo divino
che, all’inizio del poema, aveva avviato la macchina narrativa.22 L’antitesi
non è data solo dalla verticalità dello sguardo, ma anche dall’esplicita
distanza rispetto all’osservato («quanto è da le stelle al basso inferno,
/ tanto è più in su de la stellata spera»23 per lo sguardo divino, e
forse contribuisce al contrasto anche il ritornare in entrambi i passi di
lunge, sia pure con senso diverso). Soprattutto l’antitesi è data dalla forte
anadiplosi mirò … mirò («mirò ciò ch’in sé il mondo aduna. // Mirò
tutte le cose» per il dio cristiano24) e in generale dall’insistenza sul “vedere”.
Due sguardi che abbracciano tutto l’esistente: Solimano nel ristretto
spazio, in sé autosufficiente, di un metaforico palcoscenico25, e la
21 Il passo sarà significativamente cancellato nella Conquistata, in cui Solimano
(peraltro connotato negativamente: «Gran ministro parea del cieco Inferno», XXIV
64) muore combattendo con l’esercito egiziano dopo avere abbandonando la città,
così a mio vedere perdendo buona parte del proprio ruolo di simbolo dell’anti-
Gerusalemme e dei suoi valori. Qualche dubbio nutro sull’analogia tra lo sguardo
di Solimano e quello di Turno in Aen. XII 665-680, presupposta da F. Pignatti, Le
morti di Argante e di Solimano, cit., p. 327.
22 L’osservazione è già in U. Leo, Torquato Tasso. Studien zu Vorgeschichte des
Sezentismus, Bern, Francke Verlag, 1951, pp. 144-146 e A. Martinelli, La demiurgia
della scrittura poetica. Gerusalemme liberata, Firenze, Olschki, 1983, pp. 39-40. Così
ancora in F. Pignatti, Le morti di Argante e di Solimano, cit., p. 330, però con prospettiva
diversa, collocando Solimano in una «luce provvidenziale di superiore coscienza
», in contrapposizione alla sua reazione proprio alla profezia di Ismeno.
23 GL I 7, 5-6.
24 GL I 7, 8 e 8, 1.
25 Sulla metaforicità teatrale, cfr. G. Scianatico, L’arme pietose. Studio sulla Gerusalemme
liberata, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 57-58.
[ 7 ]
28 guglielmo barucci
divinità nel reale del cosmo; ma anche il Dio che guarda nel segno
dell’unità che gli è propria («in un sol punto e in una / vista» e «il
mondo aduna»26, con rima leonina una : aduna quanto mai significativa),
e il pagano che può contemplare solo una varietà molteplice e
disordinata («i vari assalti» e «i gran giochi»); lo sguardo del «Re del
mondo» che è già in sé operativo e provvidenziale27, e quello dell’uomo
che può essere solo contemplativo e stupefatto; e, infine, il primo
che apre il poema e il secondo che sancisce il fallimento di ogni resistenza
e dunque la conclusione del contro-poema.
Lo sguardo di Solimano dalla torre di David, per di più, è in evidente
antitesi con quello che Goffredo, nel sogno del già considerato
canto XIV, è invitato da Ugone a rivolgere al «globo ultimo» della terra28.
Il sogno di Goffredo, però, è un momento di comunicazione con
il divino, come dimostra la sua costruzione sulla matrice dell’oraculum
secondo l’oneirocritica di Macrobio: risulta così ancora più marcata la
contrapposizione tra la proiezione ultraterrena di Goffredo e quella
tragicamente umana di Solimano, perduto, alla fine della sua vita, nelle
«nude solitudini» terrene indicate da Ugone. E ovviamente, il fascino
del passo tassiano è dato anche dall’ambiguità, destinata a rimanere
irrisolta, se si tratti di focalizzazione interna nel personaggio pagano
(poiché tale la vita può apparire solo a un non cristiano), o se questi,
pur nel breve giro di pochi versi, assurga – come una verità che
repentina prorompe per essere subito negata – a portavoce dell’autore
e dunque a osservatore del destino comune.
Peraltro, la «tragedia» a cui assiste Solimano dalla torre è tale anche
in senso tecnico, come vana lotta soccombente dell’uomo contro
«caso» e «sorte», ferrigni motori della vicenda umana ed estranei
all’ottica unificatrice divina29. Non a caso, la bellissima immagine del-
26 GL I 7, 7-8.
27 U na «funzione […] generativa», per G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione
narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni,
1982, p. 88.
28 F. Tomasi, nel suo commento ad locum, osserva: «priva della luce della grazia
divina, questa prospettiva aerea di Solimano ricorda nella sostanza quella di Goffredo
a XIV, 10-11»; cfr. T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di F. Tomasi, Milano,
Rizzoli, 2009, p. 1254.
29 Con efficace immagine Russo parla di un «corpo a corpo con la miscela nefasta
di sorte e destino»; cfr. E. Russo, Canto X, in Lettura della «Gerusalemme liberata
», a cura di F. Tomasi, cit., pp. 243-268: 246; ed è da ricordare che è il destino a
portarlo ad affidarsi ad Aletto, a schiacciarlo nella sconfitta, ma anche a volere che
siano i suoi successori a riconquistare Gerusalemme.
[ 8 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 29
la Fortuna che, alla morte di Solimano, «ferma i giri» militando definitivamente
dalla parte dei crociati30 non significa solo che non più dubbie
sono le sorti della guerra, ma pare quasi simboleggiare la morte di
colui che è stato portatore della dimensione caoticamente e instabilmente
terrena. Lo sguardo di Solimano dalla torre, dunque, costituisce
per certi versi l’emblema di uno sguardo umano, su una realtà interamente
umana, con i limiti dell’umano. Quella di Solimano è dunque
la prospettiva ottica del mondo terreno, nella sua sofferenza, nella
sua attonita incomprensione della violenza insensata della storia.
Davvero simbolica è la contrapposizione allora tra l’immediatamente
successivo «convien ch’oggi si vinca o che si mora»31 di Solimano,
quando si riscuote e si avvia alla morte, con l’auspicio di Sveno, figura
martirologica del campo cristiano, strutturato anch’esso su un unico
verso: «corona o di martirio o di vittoria!»32. La sconfitta, che per Sveno
è martirio, per Solimano è invece solo una morte interamente terrena
e senza senso33.
Si accennava però precedentemente a un secondo elemento che
rende sorprendente la profezia del Saladino. La menzione delle «scosse
[…] cristiane posse» e del loro regno sradicato e risospinto «entro
uno angusto / giro» lungo la fascia costiera costituisce una sorta di
compendio estremo della reconquista musulmana della Terra santa per
mano del Saladino34. Conseguenza di tutto ciò è che alla esatta «metà
30 GL XX 108, 5-8.
31 GL XX 74, 8.
32 GL VIII 15, 2.
33 Si ricordi che nella Conquistata, con la morte di Solimano fuori dalla città
modellata su quella del Mezenzio virgiliano, viene anche cassato lo sguardo dalla
torre, così cancellando uno di quegli elementi che contribuivano all’«ambiguità»
dell’ultimo canto che era «una vera e propria insidia al trionfo»; cfr. S. Verdino,
Canto XX, in Lettura della «Gerusalemme liberata», a cura di F. Tomasi, cit., pp. 499-
519: 508.
34 Propendo per l’identificazione dell’«angusto giro» con i territori della Palestina
in mano cristiana al termine delle campagne del Saladino; in tale prospettiva
«sol dal mar difese» avrebbe il senso di “che dipendono per la difesa solo dal mare”.
Riconoscervi l’isola di Cipro a mio parere comporterebbe uno strano anacronismo,
poiché sarebbe una situazione non riconoscibile né nell’epoca del Saladino né
ormai negli anni 1575-76, quando Cipro era già perduta. Probabilmente in conseguenza
di ciò è stata proposta come soluzione alla perifrasi anche Rodi, a mio
giudizio però troppo lontana dal quadrante militare della Terra santa perché abbia
senso una sua menzione da parte di Ismeno, ma soprattutto non in mano crociata
né ai tempi del Saladino né a quelli della stesura dell’opera. Cfr. F. Chiappelli, Il
conoscitore del caos. Una «vis abdita» nel linguaggio tassesco, Roma, Bulzoni, 1981, p.
138.
[ 9 ]
30 guglielmo barucci
del quanto» del poema si inscrive la perdita definitiva di Gerusalemme
da parte delle forze cristiane, e il fallimento sui tempi lunghi (dalla
battaglia di Hattin alla contemporaneità del Tasso) di quella crociata
che è argomento storico del poema. Certo il controllo musulmano su
Gerusalemme (né ovviamente era ignoto a qualsivoglia lettore) era
ricordato nel proemio, con l’auspicio che il duca Alfonso si facesse
emulo di Goffredo per «ritòr la grande ingiusta preda»35; cose diverse
sono però la menzione della sconfitta nello spazio encomiastico della
dedica (e in forma allusiva) e l’esplicito riferimento ad essa all’interno
della dimensione narrativa, e in posizione così strutturalmente centrale.
E ciò tanto più che la futura perdita di Gerusalemme costituisce, a
ben vedere, il trionfo di quelle forze demoniache che, durante il concilio
infernale, si erano riproposte di impedire che «forza ognor maggiore
/ il suo [di Dio] popol fedele in Asia prenda» e che «Giudea
soggioghi»36. Insomma, in un certo senso proprio nel centro dell’opera
si deposita una sorta di “perturbante”, il rimosso della sconfitta militare
e dell’inquietante crisi religiosa contemporanea, la cui ombra si
estende all’intera opera come un cupo controcanto.
Il ruolo centrale, strutturalmente e ideologicamente, della profezia
nella Liberata è dimostrato per antitesi dal fatto che nell’espansione
della Conquistata l’episodio cadrà nell’XI canto, in anticipo rispetto al
fulcro gravitazionale del poema riformato (che è, naturalmente, il
XII37); tale marginalizzazione sarà ulteriormente accentuata anche dalla
soppressione della profezia dell’aquila che le faceva da contraltare
e in cui si rispecchiava, così scardinando il sistema di opposti destini e
interventi soprannaturali che erano la matrice del canto X. La profezia
della caduta di Gerusalemme, peraltro, sarà in realtà enfatizzata nella
Conquistata, allorché nel libro XX, durante il sogno “paradisiaco” di
Goffredo modellato sul Somnium Scipionis e sul poema dantesco, viene
anticipata al comandante crociato non solo la caduta di Gerusalemme,
ma anche quella, forse ancor più traumatica per l’Occidente, di Costantinopoli:
Di novo il sol con vergognosa fronte
mirar pareva, e con turbate ciglia
soffrir gli oltraggi di catene e l’onte
di Sion, mesta e nubilosa figlia;
35 GL I 5.
36 GL IV 13, 3-5.
37 M.T. Girardi, Tasso e la nuova “Gerusalemme”. Studi sulla ‘Conquistata’ e sul
‘Giudicio’, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, p. 52.
[ 10 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 31
e ’n Acra alzarsi e ne l’opposto monte,
non più la croce del Signor vermiglia;
ma de l’Egitto la superba insegna,
e ’l trofeo di Satàn, ch’è sciolto e regna.
(GC XX 88)
L’intero episodio (anche per il montaggio sul modello dell’Apocalisse
ma in parte forse anche sulle descrizioni evangeliche del lutto
dell’universo per la morte di Cristo) è da ricondursi però alla vanitas
vanitatis che caratterizza tutto il sogno – nella contrapposizione tra la
Gerusalemme Celeste e quella Terrestre, condannata alla corruzione e
all’instabilità – e più in generale all’inarrestabile inabissarsi delle fragili
costruzioni umane. La sconfitta terrena viene così a porsi, ed è in
tale ottica che deve essere interpretata, nella «prospettiva dell’eternità
» e «nel contesto di una grandiosa visione della storia dell’umanità
e del regno celeste»38; il preannuncio della sconfitta crociata non a caso
questa volta non è demandato al mago Ismeno, che «i suoi demon ne
gli empi uffici impiega / pur come servi»39, ma a un intervento divino,
che ne disinnesca ogni possibile dimensione eversiva. La disfatta dei
crociati e la perdita della Terra santa sono così ridimensionate da un
lato dalla rassegna delle casate europee, e in primo luogo degli Asburgo
con la loro missione salvifica, dall’altra dallo sguardo di Goffredo
sulla piccolezza della terra che riconduce gli eventi mondani alla loro
vera non-significanza40.
La profezia ha però un ulteriore effetto collaterale; Solimano apprende
infatti per via indiretta la caduta immediata di Gerusalemme
e di conseguenza la propria personale, e ulteriore, sconfitta nel tentativo
di proteggerla dagli assalti dei nemici41. Che la Città Santa passerà
in mani crociate non è naturalmente esplicitato; il riferimento alle forze
cristiane «scosse» e a un dominio “franco” risospinto in pochi fragili
capisaldi non può però presupporre una situazione cristallizzata
all’hic et nunc del vaticinio, ma implica un «imperio» cristiano ulteriormente
espansosi, e dunque la caduta della città. D’altronde vale la
38 M.T. Girardi, Tasso e la nuova “Gerusalemme”, cit., pp. 139 e 138.
39 GL II 1-2.
40 Sull’episodio si vedano anche C. Gigante, “Vincer pariemi più sé stessa antica”.
La Gerusalemme conquistata nel mondo poetico di T. Tasso, Napoli, Bibliopolis,
1996, p. 129, e M. Residori, L’idea del poema. Studio sulla Gerusalemme Conquistata di
Torquato Tasso, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2004, pp. 148-153.
41 Sconfitta che si inserisce nella sua «storia individuale dominata dalla tyche
della sconfitta», F. Pignatti, Le morti di Argante e di Solimano, cit., p. 307.
[ 11 ]
32 guglielmo barucci
pena di osservare che la lezione della Conquistata sostituisce il generico
«l’imperio ingiusto / svelto sarà»42 con il puntuale «il regno di Sion,
a’ nostri ingiusto, / svelto sarà»43, rendendo evidente che il pensiero
dell’autore andava al formalizzato Regno di Gerusalemme già all’altezza
della Liberata. Lo stigma della sconfitta si accentua quando si
consideri che la scorciata biografia del Saladino contenuta nella profezia
costituisce il ribaltamento dell’altrettanto breve biografia del Soldano
che aveva aperto il dittico dei canti IX-X.
Questi fu re de’ Turchi ed in Nicea
la sede de l’imperio aver solea,
e distendeva incontra a i greci lidi
dal Sangario al Meandro il suo confine,
ove albergàr già Misi e Frigi e Lidi,
e le genti di Ponto e le bitine;
ma poi che contra i Turchi e gli altri infidi
passàr ne l’Asia l’arme peregrine,
fur sue terre espugnate, ed ei sconfitto
ben fu due fiate in general conflitto.
(GL IX 3-4)
Certo tali ottave, come osservava già Getto, avevano la funzione
connotativa di marcare la sua crisi, sociale e umana, di uomo del passato,
come rivelato dalla sequenza di remoti (fu… fur… fu)44, e agiscono
come «memoria di una catastrofe originaria»45, ma proprio il confronto
tra le due biografie esplicita il destino di sconfitta del personaggio
della Liberata46. Il preannuncio di un futuro liberatore, dunque,
42 GL X 23, 1-2.
43 GC XI 34, 1-2.
44 G. Getto, La tragedia di Solimano, cit., p. 96.
45 S. Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Milano, il Saggiatore,
1983, p. 133.
46 Sconfitta ribadita peraltro dalle parole dello stesso Argante di fronte alle
speranze suscitate dall’attesa dell’arrivo dell’ex-re: «ei, che perdé il suo regno, il
tuo difenda» (VI 13, 1). Peraltro la prima profezia di cui è oggetto Solimano, quella
dei due eremiti del canto VIII, sembra serrare – grazie al parallelismo poliptotico
– il sultano in un’inarrestabile meccanica degli eventi che porterà alla sua morte
(«Soliman Sveno uccise, e Solimano / dée per la spada sua restarne ucciso», VIII
36, 1-2). Da ricordare altresì che Tasso aveva anche ipotizzato di fare raccogliere i
cristiani a concilio nel primo canto in un tempio in cui era dipinta la storia della
crociata; unico nome menzionato è proprio quello di Solimano e nel segno della
sconfitta «sian dipinti il concilio di Chiaramonte, il passaggio per terra e per mare
de’ cristiani, la unione fatta da loro sotto Nicea, l’espugnazione di Nicea, le rotte di
[ 12 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 33
comporta anche la consapevolezza della sconfitta individuale da parte
del Solimano, e l’invidioso «O lui felice» porta del resto la piena
consapevolezza che non lui sarà il vittorioso; stridente, nella profezia
di Ismeno, diventa il contrasto con il fallimentare vaticinio con cui il
Soldano stesso aveva concluso l’esortazione ai predoni arabi nel canto
IX («Oggi fia che di Cristo il regno cada, / oggi libera l’Asia, oggi voi
chiari»), rinviando a un remoto futuro ciò che l’ex re di Nicea aveva
sperato di potere ottenere egli stesso47. La cupezza implicita nella profezia,
peraltro, è rafforzata dall’evidente riecheggiamento, al limite
del centone, del dantesco «E detto l’ho, perché doler ti debbia»48 nel
«Ma pur dirò, perché piacer ti debbia» che esprime le ragioni del vaticinio
di Ismeno. La maligna frase con cui Vanni Fucci postillava la sua
profezia sulla disfatta dei Bianchi riaffiora infatti inevitabilmente alla
mente del lettore, proiettando un senso doloroso di sconfitta personale
(e riverberandosi anche con luce fosca sullo stesso Ismeno). A causa
di tale profezia, dunque, Solimano conosce la propria sconfitta, ma
anche, lui solo, quella del suo popolo e della sua città; lui solo ha piena
consapevolezza del destino che incombe. Proprio tale amara ed esclusiva
consapevolezza può dunque essere un ulteriore elemento di quella
solitudine di cui parla Getto e che è uno dei tratti più caratterizzanti
del personaggio49. In tale dimensione, particolare senso ha la convinzione
di Solimano, espressa al termine della profezia, che il futuro
non potrà «dal diritto / torcere un sol suo passo»50: prospettiva militare,
strategia politica e ambizione alla riconquista hanno ormai ceduto
al puro spirito della lotta e alla sanguinosa determinazione a seguire il
proprio percorso di eroe tragico51.
La profezia assume infine ulteriori implicazioni se si guarda alla
formula da cui è aperta: «ciò che oscuro vegg’io quasi per nebbia. //
Veggio, o parmi vedere». Un enunciato che condensa quel «sapere
manchevole che fruga nella probabilità, che si dichiara attraversato da
alea» che è proprio di Ismeno (e che si deposita ad esempi anche in
Solimano, la presa d’Antiochia, la rotta de’ persi, il passaggio oltre l’Eufrate» (LP
XXXVII 7). È da sottolineare peraltro infine che l’ottava 4, che costituisce il nucleo
della biografia del Soldano, sarà cassata nella Conquistata.
47 GL IX 19, 5-6.
48 If XXIV 151.
49 G. Getto, La tragedia di Solimano, cit., p. 98.
50 GL IX 24, 6-7.
51 Forse da sottolineare è che nella Conquistata a Solimano vengono attribuite
una sorella (Nicea/Erminia) e un figlio, attenuandone così la radicale solitudine
umana.
[ 13 ]
34 guglielmo barucci
«un […] al quale / in parte è noto», X 10, 1-2, e «s’io m’appongo […] io
m’indovino», X 11, 1 e 4)52. La formula presenta, tuttavia, due aspetti
contigui ma distinti: l’incertezza epistemica («parmi»), ma ancor più il
campo metaforico del confuso («oscuro», «nebbia»), quasi un vedere
in aenigmate contrapposto al facie ad faciem di Pietro e, in alcuni casi, di
Goffredo53. Si potrebbe anzi dire che siamo di fronte a una sorta di
mise-en-abyme della visione oscura, come suggerisce il fatto che la profezia
sia pronunciata mentre Solimano e Ismeno si trovano in una condizione
di invisibilità, marcata all’ottava 16 dai termini «nuvolo»,
«nube», «nebbia», in una sorta di correlativo oggettivo del confuso limite
umano54. Un’area semantica che torna nell’ultima grande profezia
del poema, allorché nel canto XVII il mago di Ascalona, dopo l’esposizione
degli antenati di Rinaldo effigiati sullo scudo secondo il
modello virgiliano, rivela la grandezza della dinastia estense dell’epoca
tassiana. È una conoscenza in realtà negata al mago, per il quale il
futuro «troppo occulto giace / se non caliginoso e dubbio e scuro /
quasi lunge, per nebbia, incerta face»55; un’affinità semantica e tematica
che conferma i limiti dell’umano nel confuso disordine in cui brancola.
La metafora, nella sua dimensione insieme teologica e intellettuale,
si impone peraltro con tutta la sua evidenza, nel poema riformato,
con la riscrittura e l’ampliamento del discorso di Filaliteo/Mago di
Ascalona a Ruperto e Araldo: l’enunciazione dell’impossibilità umana
di conoscere il vero («Nol vider gli avi miei, ned io discerno / ne l’altissima
nube il vero appunto: / che son fra ’l suo splendore e i lumi
nostri / di diece spere i luminosi chiostri»56), assente nella Liberata,
giunge infatti dopo l’innovativa ottava 35, in cui il linguaggio della
Scolastica – giocato sul poliptoto di Uno («sol per unirmi a l’Un c’ha
nulla parte, / ed unir può ciò che si sparge o parte»57) – radicalizza
l’opposizione di luce e ombra, vero e apparente, rispetto a quanto avviene
nella Vulgata58.
52 E. Russo, Canto X, cit., p. 249.
53 Non a caso il primo vero preannuncio di Solimano è connotato dall’«aria
nera» in cui si svolgono le sue azioni (VI 10, 9).
54 Si rimanda alle osservazioni sul lessico dell’involucrum, in F. Chiappelli, Il
conoscitore del caos, cit., p. 140. Con angolatura un po’ diversa Russo osserva: «Persino
una profezia che è già storia diviene, dalla conoscenza tassiana alle parole del
mago, possibilità incerta, visione imprecisa»; cfr. E. Russo, Canto X, cit., p. 254.
55 GL XVII 88, 2-4.
56 GC XII 36, 5-8.
57 GC XII 35, 7-8.
58 Il passo di confronto nella Liberata è naturalmente a XIV 45-46. Peraltro il
[ 14 ]
«questi fia del tuo sangue» (gl x) 35
La grande differenza tra Ismeno e il mago di Ascalona è, però, che
per il primo la miopia è insanabile, come per i dannati danteschi che
vedono nel futuro come «quei c’han mala luce» (è un elemento già
ampiamente osservato59), mentre al secondo è concesso di attingere al
futuro grazie alla mediazione di Pietro l’Eremita; è questi infatti la
fonte delle informazioni sulla discendenza di Rinaldo, poiché a lui
«senza velo» le «rivelò luce divina»60, ove è da notare la figura etimologica
che rimanda alla metafora della liberazione dal tegumentum:
una capacità propria solo a quello sguardo divino che sa «a dentro
spiare / nel più segreto»61. D’altronde il richiamo alla difettività di visione
dei dannati danteschi comporta di per sé una evidente connotazione
negativa: il fatto che sia Farinata a enunciare natura e limiti della
visione infernale (qui al netto della questione se le parole del ghibellino
riguardino i soli epicurei o tutti i dannati) fa sì che l’ombra dell’aristocratico
fiorentino si proietti sull’intero episodio, i cui personaggi
vengono così ricondotti tra coloro che l’anima col corpo morta fanno,
a ribadirne la dimensione totalmente terrena e l’incapacità di aprirsi al
divino.
Nella nebbia oscura in cui si aggirano i protagonisti della Gerusalemme
Liberata, la profezia di Ismeno aveva dischiuso uno spiraglio su
un futuro totalmente umano, su una speranza di risarcimento, quale
che fosse, della sconfitta individuale; dall’alto della torre di David,
però, Solimano vede la fine di quella recita «full of sound and fury»
che è la vita e scopre improvvisamente di non essere egli stesso altro
che un «poor player that struts and frets his hour upon the stage»,
dopo di che è silenzio62. La tragedia dell’ultimo canto, tragedia di pagani
e di cristiani, individuale e collettiva, è però già tutta condensata
in quell’ambiguo vaticinio inaspettatamente incastonato al centro del
poema.
Guglielmo Barucci
Università degli Studi di Milano
tema della non conoscibilità è nella Liberata assai meno insistito rispetto alla Conquistata
anche solo dal punto di vista quantitivo.
59 Ad esempio nel commento di S. Ferrari, (ora nella nuova edizione curata e
riveduta da P. Papini, Firenze, Sansoni, 1957) e in S. Multineddu, Le fonti della
Gerusalemme liberata, Torino, Clausen, 1895, p. 111.
60 GL XVII 88, 7 e 89, 1.
61 GL I 8, 3-4.
62 W. Shakespeare, Macbeth, V 5, 24-28.
[ 15 ]

Jesús Ponce Cárdenas
Salcedo Coronel e Marino: tessere sabaude
in un panegirico spagnolo
In questo articolo si analizza lo stretto rapporto del Retrato Panegírico del conde
duque de Olivares del poeta sivigliano García de Salcedo Coronel con la sua fonte:
il Ritratto Panegirico di Carlo Emanuello duca di Savoia. Lo studio si centra sulle
diverse forme dell’imitatio e la ricezione del codice laudatorio mariniano nella
Spagna barocca.

This paper focuses on the relationship between the Retrato Panegírico del conde
duque de Olivares, written by the Sevillian poet García de Salcedo Coronel, and
its model: the Ritratto Panegirico di Carlo Emanuello duca di Savoia. We analyse the
imitatio in its different approaches and the reception of the Marinist eulogistic
code in Spain during the XVIIth century.
Il successo riscosso dalle proposte liriche di Giovan Battista Marino
nella letteratura spagnola è stato analizzato con maestria da filologi
della fama di Dámaso Alonso, Joseph G. Fucilla o Juan Manuel Rozas.
Sebbene le loro scoperte e i loro sforzi abbiano contribuito a gettar
luce su alcuni aspetti, la vastità e la complessità dell’argomento han
fatto sì che rimangano ancora in penombra numerosi punti di contatto
tra i modelli mariniani e i testi dei suoi imitatori nella penisola iberica1.
In questa sede intendiamo occuparci di un capitolo finora scono-
Autore: Universidad Complutense de Madrid; professor titular; jesusponcecb@
hotmail.com
* Questo articolo fa parte di un Progetto di ricerca finanziato dal Ministerio de
Economía y Competitividad FFI2015-63554-P «Las Artes del Elogio: Poesía, Retórica
e Historia en los Panegíricos hispanos» (ARELPH), inserito nel ‘Programa Estatal
de Fomento de la Investigación Científica y Técnica de Excelencia’. Vorrei ringraziare
i miei cari colleghi Mercedes Blanco, Clizia Carminati e Tobia R. Toscano
per l’attenta lettura della redazione originale di questo studio e per i preziosi consigli
che mi hanno offerto con tanta gentilezza.
1 Idea già sottolineata da Rafael Bonilla Cerezo e Linda Garosi, ‘Con arguta
sambuca il fier sembiante’: la Polifemeida de Giovan Battista Marino, in La Hidra bar38
jesús ponce cárdenas
sciuto della ricezione creativa del Marino, identificando la fonte precisa
di un testo encomiastico indirizzato al valido di Filippo IV: il Panegírico.
Retrato del conde de Olivares y duque de Sanlúcar la Mayor, pubblicato
da García de Salcedo Coronel nel 1627.
A tal fine si traccerà un percorso d’indagine costituito da tre tappe
fondamentali. In primo luogo, si effettuerà un’incursione, seppur fugace,
nella vita e nella produzione lirica di Salcedo Coronel, scrittore
di spicco della cerchia cultista, oggi più conosciuto per i suoi commenti
all’opera di Góngora che per i volumi di poesia che aveva pubblicato
nel Seicento2. In seconda istanza sarà l’influsso esercitato da Marino
sugli autori barocchi spagnoli della prima metà del secolo a essere
oggetto di una breve valutazione in termini generali, per poi addentrarsi
nello studio concreto del modello encomiastico costituito dal
Ritratto del serenissimo Carlo Emanuello, duca di Savoia e l’imitazione che
fece di questo poema lo scrittore sivigliano all’interno del suo panegirico
al conte-duca. L’ultima parte dell’articolo raccoglierà conclusioni
e spunti di riflessione intorno ai contatti ispano-italiani nell’ambito
della categoria eroico-encomiastica del panegirico barocco.
1. Salcedo Coronel: percorsi di un poeta cortigiano nel primo Seicento
Ogni ricostruzione degli itinerari biografici e poetici di don García
de Salcedo Coronel (Sevilla, 1593-Madrid, 1651) deve prendere come
punto di partenza la testimonianza dell’erudito Nicolás Antonio, che
tra le pagine della Bibliotheca Hispana Nova forniva i seguenti dati:
D. Garsias de Salcedo Coronel, Hispalensis, Eques D. Iacobi, Ambrosio parente
in hac urbe natus, qui cum Zafrensis esset civis ad id praetorium, acturus
strenue advocatum, se contulit. Poeta fuit excultus et maiestate quadam, veluti
charactere proprio, dignoscendus. Humaniora studia coluit historiamque liroca.
Varia lección de Góngora, a cura di Rafael Bonilla Cerezo, Sevilla, Junta de Andalucía,
2008, pp. 181-218 (p. 187): «la herencia de Marino en España [conforma
un] legado todavía espinoso y desprovisto de análisis puntuales».
2 Lo studio della lirica di Salcedo è stato trascurato per decenni, come accennava
José María de Cossío, Fábulas mitológicas en España, Madrid, Istmo, 19982,
vol. II, p. 135: «Este poeta no ha merecido todavía una mención en nuestras historias
literarias, antiguas o recientes, sino como comentarista de Góngora. Sería desproporcionado
presentarle como un gran lírico, de acento personal y poderoso,
pero entre los poetas secundarios merece, sin duda, un puesto, tras Góngora o
Jáuregui, como el que nadie ha regateado tras Lope de Vega a un Esquilache, por
ejemplo».
[ 2 ]
salcedo coronel e marino 39
bris, quos sedula et perpetua cura in bibliothecam bene instructam collegerat,
navata omnis fere aetatis opera. Neapoli apud Ferdinandum de Ribera, ducem
Alcalitanum, proregem, stipatoribus corporisque custodibus praefuit; Capuamque
urbem administrauit; inter stratores etiam Ferdinandi Austriaci Infantis
serenissimi connumeratus. Poemata sua duobus voluminibus comprehensa
voluit, quae hac nuncupatione nota in vulgus sunt: Rimas. Primera
parte (ubi La Ariadna ni fallor est. Matriti edita 1624). Cristales de Helicona
o segunda parte de las Rimas (Matriti apud Didacum Diaz de la Carrera
1649. in 4). Edidit etiam non dedignatus poetam illustrare poeta: Obras de
don Luis de Góngora comentadas, quatuor voluminibus […]. Inscripción
del sepulcro de Saturnino, que se halló en Mérida año MDCL. ilustrada.
Matriti in 4. Obiit disertus urbanusque, ac mihi amicissimus vir, Matriti
anno MDCLI. Septima die Octobris, maligna febre correptus3.
García de Salcedo Coronel nacque a Siviglia nell’autunno del 1593,
secondogenito di Ambrosio Coronel e Francisca de Salcedo. Il padre
del futuro poeta si era trasferito nella città betica anni prima per lavorare
come avvocato della Real Audiencia4. Secondo i registri ufficiali,
il bambino fu battezzato nella chiesa della Maddalena il dieci ottobre
di quell’anno5.
Al di là del breve cenno fatto da Nicolás Antonio («Humaniora studia
coluit»), non son stati ancora reperiti documenti che ci orientino sui
possibili studi del giovane Salcedo Coronel.
3 Bibliotheca Hispana Nova sive Hispanorum Scriptorum qui ab anno MD ad
MDCLXXXIV floruere notitia, Matriti, Apud Ioachymum de Ibarra Typographum
Regium, 1783, p. 516.
4 Il cronista reale José Pellicer de Salas dava puntuali informazioni sulla consanguineità
di questo matrimonio: «Ambrosio Coronel, hijo segundo de Francisco
Coronel y doña Leonor de Salcedo, juntó las Casas y Mayorazgos casando con
doña Francisca Coronel de Salcedo, dos veces sobrina suya, [al ser] hija de Diego
Coronel, su hermano mayor y de doña Leonor de Salcedo, su prima hermana». Il
prologo di Pellicer Al que leyere è integrato nei paratesti dei Cristales de Helicona.
Segunda parte de las Rimas, Madrid, Diego Díaz de la Carrera, 1649, s.f.
5 La scoperta del dato si deve a Pedro Iván García Jiménez. Questo studioso
incorpora una breve biografia dello scrittore in Las Rimas (1627) de Salcedo Coronel.
Edición y estudio, Sevilla, Universidad de Sevilla, 2014, pp. 5-28 (tesi di dottorato,
sotto la direzione di Juan Montero Delgado). José Manuel Rico García, «García
de Salcedo Coronel», in Diccionario Biográfico Español, Madrid, Real Academia de la
Historia, 2013, vol. XLV, p. 421-422. Ringrazio J. M. Rico per avermi fatto pervenire
copia di questo articolo. La critica ricente ha sottolineato che il lignaggio dei Coronel-
Salcedo era originario della città di Zafra in Extremadura e apparteneva a un
ceto aristocratico con indubitabili origini converse (José María Moreno González,
Educación y cultura en una villa nobiliaria: Zafra 1500-1700, Huelva, Universidad
de Huelva, 2014, pp. 155-160).
[ 3 ]
40 jesús ponce cárdenas
Tra i giardini dei Reales Alcázares, l’imponente Casa di Pilatos e la
casa-taller di Francisco Pacheco gravitava allora la vita culturale della
orgogliosa Nuova Roma spagnola6. I contatti di Salcedo Coronel con
le litterae humaniores nella Siviglia dei primi anni del secolo si sarebbero
potuti forgiare sia nelle accademie poetiche, sia nelle justas convocate
dagli ordini religiosi7. Due figure della nobiltà sivigliana avrebbero
potuto giocare un ruolo determinante nel noviziato poetico e nella
futura carriera di Salcedo Coronel: il mecenatismo nella capitale andalusa
in questo periodo è strettamente legato ai nomi di don Fernando
Afán de Ribera Enríquez (1583-1637), III duca di Alcalá de los Gazules,
e di don Gaspar de Guzmán y Pimentel (Roma, 6 gennaio 1587-Toro,
22 luglio 1645), III conte di Olivares ed Alcaide de los Alcázares
Reales de Sevilla. In relazione a quest’ultimo, John H. Elliott indica
come dal 1607 Olivares «empezó a proteger a poetas y artistas con una
prodigalidad que le hizo ganar el sobrenombre de Manlio, en memoria
del generoso patrono romano, Marco Manlio Capitolino»8. È probabile
che in questo frangente cominciassero a stringersi i rapporti del
colto e ambizioso nobiluomo con il milieu di poeti ed umanisti della
capitale andalusa9.
Seppure nelle monumentali ricerche di Elliott sul valido non appaia
tra l’elenco degli autori betici protetti nella corte madrilena dall’onni-
6 Vicente Lleó Cañal, Nueva Roma. Mitología y Humanismo en el Renacimiento
sevillano, Madrid, Centro de Estudios Europa Hispánica, 2012.
7 Inmaculada Osuna, Poesía y devoción pública en Sevilla en los inicios del siglo
XVII, in La ‘Idea’ de la Poesía Sevillana en el Siglo de Oro, a cura di Begoña López
Bueno, Sevilla, Universidad de Sevilla, 2012, pp. 255-285.
8 John H. Elliott, El conde-duque de Olivares. El político en una época de decadencia,
Barcelona, Grijalbo-Mondadori, 1998, p. 53. Se consideriamo le affermazioni
raccolte dal primo biografo del futuro privado di Filippo IV, Juan Antonio de Vera
y Figueroa, don Gaspar de Guzmán scrisse poesie negli anni giovanili. In un brano
dei Fragmentos históricos de la vida de don Gaspar de Guzmán, conde de Olivares, Vera
afferma che il prolungato soggiorno in Italia (dalla nascita fino alla prima adolescenza),
la solida formazione accademica (studi all’Università di Salamanca tra il
1601 ed il 1604) e la compagnia delle Muse portarono il conte a scrivere poesie,
destinate poi al fuoco: «la peregrinación de fuera del reino y los estudios de Salamanca
le habían formado una grande inclinación a todas las artes y buenas letras.
Y las suyas las cultivaba con la comunicación de las Musas, como lo manifiestan
ciertos versos que desde este tiempo existen en varios poderes, bien que los originales los
quemó todos el año de 1626». Semanario Erudito, 2 (1787), p. 152.
9 Vicente Lleó Cañal, El círculo sevillano de Olivares, in Poder y saber. Bibliotecas
y bibliofilia en la época del conde duque de Olivares, a cura di Oliver Noble Wood,
Jeremy Roe y Jeremy Lawrance, Madrid, Centro de Estudios Europa Hispánica,
2011, pp. 47-69.
[ 4 ]
salcedo coronel e marino 41
potente privado il nome di Salcedo Coronel, è lecito supporre che fosse
stato proprio don Gaspar de Guzmán a favorire la sua carriera.
L’anno d’ingresso del poeta nei circoli olivariani di Madrid fu il
1624. Dai paratesti delle sue opere possiamo ricostruire il brillante
percorso che don García de Salcedo Coronel cominciò nell’aula regia e
continuò in Italia. La sua prima nomina conosciuta fu quella di Caballerizo
del Cardinale-Infante don Ferdinando d’Austria e svolse le mansioni
di questo incarico di rilievo tra il 1624 e il 1629. Al servizio del
fratello minore di Filippo IV lavorava all’epoca un altro scrittore cortigiano
destinato a diventare uno dei più cari amici di Salcedo: Gabriel
Bocángel.
L’esordio poetico di Salcedo Coronel nella corte ebbe luogo con la
pubblicazione di un epillio, non a caso dedicato a don Gaspar de
Guzmán: Ariadna (Madrid, Juan Delgado, 1624)10. Non molto dopo sarebbe
uscito il volume delle Rimas (Madrid, Juan Delgado, 1627), dove
il poeta sivigliano includeva due testi encomiastici consacrati al primo
ministro di Filippo IV: il Panegírico. Retrato del conde duque e la Silva IV
Al excelentísimo conde duque. I possibili legami con altri membri dell’entourage
olivariano si evincono da altre lodi, come la canzone I, indirizzata
a don Manuel de Acevedo y Zúñiga, conte di Monterrey, cognato
del valido e Presidente del Consiglio d’Italia. La reputazione di Salcedo
come dotto umanista cominciò a consolidarsi allora, con la pubblicazione
del Polifemo de don Luis de Góngora comentado (Madrid, Juan
González, 1629). Risulta piuttosto rilevante che apra questo volume di
commenti gongorini il Panegírico a don Fernando Afán de Ribera Enríquez,
duque de Alcalá, virrey y capitán general de Nápoles11.
Sotto la protezione del nobile sivigliano don Fernando Enríquez
Afán de Ribera (1583-1637), III duca d’Alcalá, García de Salcedo Coronel
si dispose, tra il 1629 ed il 1631, ad affrontare un lungo soggiorno
a Napoli, prima con la nomina di capitano della guardia del vicerè,
poi come governatore e capitano d’armi della città di Capua12. Non
10 Joaquín Roses Lozano, La Ariadna de Salcedo Coronel y el laberinto barroco, in
Estado actual de los estudios sobre el Siglo de Oro, Salamanca, Universidad de Salamanca,
1993, pp. 887-894.
11 Flavia Gherardi, ‘La Fama que en ti advierto sucesiva’. Estética laudatoria en la
órbita virreinal: el caso del Panegírico al duque de Alcalá de Salcedo Coronel, in El duque
de Medina Sidonia. Mecenazgo y renovación estética, a cura di José Manuel Rico
García e Pedro Ruiz Pérez, Huelva, Universidad de Huelva, 2015, pp. 189-201.
12 E ntrambi gli incarichi furono descritti da Nicolás Antonio in questi termini:
«Neapoli apud Ferdinandum de Ribera, ducem Alcalitanum, proregem, stipatoribus corporisque
custodibus praefuit; Capuamque urbem administrauit».
[ 5 ]
42 jesús ponce cárdenas
molto dopo l’arrivo nella capitale partenopea il poeta sivigliano celebrò
le nozze della figlia del suo mecenate in un raffinato componimento
encomiastico, l’Epithalamio en las bodas de don Luis de Aragón y Moncada
y doña María Enríquez de Ribera, príncipes de Paternò (Napoli, Lazaro
Scoriggio, 1630)13.
Durante il periodo trascorso a Capua, Salcedo ebbe qualche contatto
con i membri dell’Accademia dei Rapiti, come prova il sonetto XVI
dei Cristales de Helicona, dove si evocano una seduta accademica e una
dissertazione in lode della poesia14. Tra le sue annotazioni alla Soledad
segunda del Góngora affiorano occasionalmente ricordi delle esperienze
vissute in area campana, ad esempio in questo brano piscatorio:
Y el sollo se coge en muchas partes y no poca cantidad, pues en una
Cuaresma, siendo yo Gobernador y Capitán a guerra de la ciudad de
Capua, en el reino de Nápoles, se cogieron diecinueve sollos en el Vulturno,
río que ciñe aquella ciudad, y el que menos pesó de ellos tenía
setenta rótulos, que son otras tantas libras que llamamos carniceras, y
alguno tuvo ciento y veinte15.
Non si tratta dell’unico caso in cui emerge lo spiccato interesse che
il poeta nutre nei confronti della realtà capuana. Così parla anche dei
reperti archeologici della zona in un altro frammento:
Era costumbre entre los antiguos poner en la boca del difunto estas
monedas para que pagasen el pasaje, lo que yo observé siendo gobernador
de Capua en algunos sepulcros que descubrí, de los muchos que
se hallan donde ahora está el casal que llaman de Santa María la Mayor,
donde fue la antigua población. Fue que en todos estaba una moneda
junto a la urna donde se conservaban las cenizas, por ventura la ponían
los gentiles creyendo necesitaban las almas de ella para el fin referido16.
13 L´unica copia conosciuta dell’edizione esenta di questo poema si trova nella
Biblioteca Nazionale di Napoli, coll. 74.C.5(6). Il testo è stato reperito da Encarnación
Sánchez García, Ecos gongorinos en la Nápoles del III duque de Alcalá: el Epitalamio
de Salcedo Coronel en honor de María Enríquez de Ribera y Luis de Aragón y Moncada,
in Lingua spagnola e cultura ispanica a Napoli fra Rinascimento e Barocco, a cura
di E. Sánchez García, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2013, pp. 241-272.
14 «Habiéndose discurrido en la Academia de los Arrebatados de la ciudad de
Capua sobre cuál merecía mayor gloria el Historiador, el Orador o el Poeta, escribió
el autor en alabanza del que defendió la poesía». Cristales de Helicona. Segunda
parte de las Rimas, Madrid, Diego Díaz de la Carrera, 1649, c. 7r.
15 Soledades de don Luis de Góngora comentadas, Madrid, Imprenta Real, a costa
de Domingo González, 1636, cc. 214r-215r.
16 Soledades de don Luis de Góngora comentadas, cit., c. 106v.
[ 6 ]
salcedo coronel e marino 43
Questo gusto per le antichità sfocerà nella redazione di un sonetto
di tematica amorosa consacrato A las ruinas del anfiteatro de Capua17.
Nell’orbita dei rapporti di carattere poetico ed intellettuale che Salcedo
coltivava non è trascurabile il nome di Fernando Afán de Ribera
(Sevilla, 21 settembre 1614-Nápoles, 19 novembre 1633), erede del vicerè
duca di Alcalá, conosciuto per le sue inclinazioni alle litterae humaniores,
il che contribuisce, fra l’altro, a consolidare l’idea di uno
stretto legame con il lignaggio degli Afán de Ribera, basato sulla fedeltà
e sull’amicizia. Prova di questo sodalizio è la Fábula de Mirra, escrita
por el excelentísimo señor don Fernando Afán de Ribera Enríquez, marqués
de Tarifa. Hecha dar a la estampa por don García de Salcedo Coronel, caballerizo
del Serenísimo Infante Cardenal, Gobernador de Capua, data alle stampe
di Lazzaro Scoriggio, pubblicata nel 1631 e curata proprio da Salcedo
Coronel18. Le pagine dei Cristales de Helicona contengono una lettera
poetica in terza rima, indirizzata da Salcedo al suo nobile amico:
Habiéndose retirado a Caserta el marqués de Tarifa (mientras el excelentísimo
duque de Alcalá, virrey de Nápoles, vino a España por orden de su majestad)
compuso la Fábula de Mirra y, sabiéndolo el autor, le escribió desde un lugar
de la jurisdicción de Capua, donde era gobernador, exhortándole a que se divirtiese
con éste y otros ejercicios19. L’esortazione a perseverare nel culto
delle Muse si accompagna nelle strofe di quest’epistola poetica all’invito
a trascorrere un soggiorno a Capua, per apprezzare la bellezza del
luogo e contemplare le antiche rovine: «Visitar puedes con mayor decoro
/ estas campañas, donde apenas miro / igual ejemplo al que infelice
lloro. / En vano hallar a mi dolor aspiro / consuelo, aunque por
tierra derribados / bronces contemplo y mármores admiro. / Aquí
donde los muros levantados / de aquella antigua Capua florecieron /
otro siglo, de estrellas coronados. / Donde gloriosos fines consiguieron
/ cuantos felicemente a su riqueza / los ambiciosos pasos dirigieron.
/ Aquí donde la heroica fortaleza / con igual premio se miró
aplaudida / y en aras venerada la belleza, / de rústicos arados confundida
/ la alta memoria, apenas las señales / se miran de su luz
17 Cristales de Helicona, cit., c. 3r. Salcedo Coronel avrebbe riprodotto l’intero
sonetto di nuovo nel volume delle Soledades de don Luis de Góngora comentadas,
cit., c. 57r.
18 José Luis Gotor, La Fábula de Mirra, dilatada en español de Valladolid a Nápoles,
in Metamorfosi. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Sulmona, 20-22 Novembre
1994), a cura di Giuseppe Papponetti, Sulmona, Centro Ovidiano di Studi e Ricerche,
1997, pp. 405-418.
19 Cristales de Helicona, cit., cc. 44r-46v.
[ 7 ]
44 jesús ponce cárdenas
esclarecida. / Y donde preciosísimos metales / expendió noble afán,
cuidado rudo, / tardas espigas coge desiguales […]»20. La parentesi
italiana
di Salcedo Coronel forse si prolungó, al servizio del duca di
Alcalá, che fu destinato in Sicilia tra il 1632 ed il 1635, e più tardi a
Milano (1635-1636). Tra i commenti allaSoledad segunda, Salcedo Coronel
faceva un breve riferimento alle attività piscatorie nella zona di
Messina21.
I progressi dello scrittore andaluso nel cursus honorum dell’epoca
non si esaurirono con il ritorno alla penisola iberica. L’8 agosto del
1638 Filippo IV firmò infatti la Real Cédula notificando a don Juan de
Chaves y Mendoza, marchese di Santa Cruz de la Sierra, conte della
Calzada, presidente del Consejo de Órdenes, la nomina di don García de
Salcedo Coronel a cavaliere dell’Ordine di Santiago22. La preziosa documentazione
conservata nell’Archivio dei Conti di Luque permette
di ricostruire le tappe di questo procedimento che tardò, forse a causa
di una malattia del poeta, dato che il sovrano dovette emanare una
nuova Real Cédula il 15 agosto 1639, affinché don García «pudiera tomar
hábito de la Orden de Santiago desde la ciudad de Baeza (Jaén),
sin desplazarse al convento por estar enfermo»23.
Il rientro in patria dello scrittore sivigliano non è databile con certezza,
ma probabilmente avvenne verso il 1636. Da questo momento
in poi si succedono a buon ritmo i volumi consegnati alla stampa: las
Soledades de don Luis de Góngora comentadas por don García de Salcedo
Coronel (Madrid, Imprenta Real, 1636), la España consolada. Panegírico
al serenísimo Infante Cardenal (Sevilla, Simón Fajardo, 1636), los Sonetos
de don Luis de Góngora comentados. Primera parte del tomo segundo de las
Obras (Madrid, Diego Díaz de la Carrera, 1644), las Canciones y otros
poemas de Luis de Góngora comentados. Segunda parte del tomo segundo de
las Obras (Madrid, Diego Díaz de la Carrera, 1648). Il coronamento o
l’epilogo lirico della sua carriera coincide con la pubblicazione dei Cristales
de Helicona. Segunda parte de las Rimas (Madrid, Diego Díaz de la
Carrera, 1650). Don García de Salcedo Coronel muore nella corte di
Madrid il sette ottobre del 1651.
20 Ivi, cc. 45v-46r.
21 «En el mar de Sicilia, en la costa de Messina, se coge grande abundancia de
este pescado [si riferisce al pesce spada]. Siendo yo capitán de la guardia del excelentísimo
duque de Alcalá […] le vi vender a muy bajo precio, respeto de la mucha
cantidad». Soledades comentadas, cit., c. 257r.
22 Archivio dei Conti di Luque (AHN, Luque, C. 883, D. 60-61).
23 Archivio dei Conti di Luque (AHN, Luque, C. 883, D. 121-123).
[ 8 ]
salcedo coronel e marino 45
2. Imitazione e panegirico: dal Ritratto del duca di Savoia al Ritratto del
conte-duca di Olivares
La nutrita bibliografia sulla fortuna di Giovan Battista Marino in
Spagna ha messo in luce il grande e precoce interesse riscosso dalla
sua opera multiforme presso autori quali don Juan de Tassis y Peralta,
conte di Villamediana, Pedro Soto de Rojas, Francisco de Quevedo24. Il
presente studio intende segnalare un nuovo episodio di questa vasta
ricezione che vede protagonista García de Salcedo Coronel, noto commentatore
di Gongora e autore di varie opere poetiche. Negli ultimi
decenni nessuna ricerca comparatistica ha intrapreso lo studio della
fortuna dei panegirici del Marino nella penisola iberica. Vista l’ammirazione
suscitata dai sonetti, madrigali, epitalami, inni ed epilli
dell’autore partenopeo tra gli autori castigliani, non risulta azzardato
indagare anche su questo argomento. Conviene, inoltre, considerare
l’importanza che avrebbe assunto la scrittura d’encomio nella cultura
europea della prima metà del Seicento. Nelle pagine successive si offrirà
una prima riflessione su questa materia.
Alla luce dei dati biografici ed editoriali, l’attività del Marino come
24 Joseph G. Fucilla, Giovan Battista Marino y el conde de Villamediana, in Id.,
Relaciones hispano italianas, Madrid, C.S.I.C., 1953, pp. 154-162; Dámaso Alonso,
Marino deudor de Lope (y otras deudas del poeta italiano), in Id., Obras completas, Madrid,
Gredos, 1974, pp. 741-833; Juan Manuel Rozas, Sobre Marino y España, Madrid,
Editora Nacional, 1978; CLizia Carminati, Marino e la Spagna nel Seicento, in
Il prisma di Proteo. Riscritture, ricodificazioni, traduzioni fra Italia e Spagna (sec. XVIXVIII),
a cura di Valentina Nider, Trento, Università di Trento, 2012, pp. 307-320;
Joseph G. Fucilla, Riflessi dell’Adone di Marino nelle poesie di Quevedo, in Romania.
Scritti offerti a Francesco Piccolo, Napoli, Armanni, 1962, pp. 279-287; Encarnación
Juárez, Algunas notas más sobre Quevedo y Marino, «RILCE», V, 2 (1989), pp. 285-
290; Giulia Poggi, Ruiseñores y otros músicos naturales. Quevedo entre Góngora y Marino,
«La Perinola», 10 (2006), pp. 257-269; María José Alonso Veloso, Los madrigales
de Quevedo, «Bulletin Hispanique», 114, 2 (2012), pp. 621-644; Rodrigo Cacho,
La poesía entre las estrellas, in Id., La esfera del ingenio. Las silvas de Quevedo y la
tradición europea, Madrid, Biblioteca Nueva, 2012, pp. 159-184. Lo studioso rintraccia
pure in questa monografia il modello mariniano della canzone Il ferro nella silva
di Quevedo intitolata Execración contra el inventor de la artillería (pp. 134-146). J. M.
Rozas, Marino frente a Góngora en la Europa de Villamediana, in Id., Sobre Marino y
España, cit., pp. 69-88; Cristina Barbolani, Ancora sul Marino in Spagna: il rapimento
d’Europa, «Rassegna Europea di Letteratura Italiana», 4 (1994), pp. 53-71;
Jesús Ponce Cárdenas, Sobre amplificatio y minutio. El rapto de Europa en los versos
de Marino y Villamediana, «Il Confronto letterario», 33 (2000), pp. 127-147; Paolo
Cherchi, El sueño de Adonis en Marino y Soto de Rojas, «Boletín de la Biblioteca de
Menéndez Pelayo», LXV (1989), pp. 97-108.
[ 9 ]
46 jesús ponce cárdenas
panegirista comprende un periodo di poco più di un decennio. La serie
di testi nei quali il cavaliere assume l’eredità del modello tardo-antico
di Claudiano si trova in un noto frammento epistolare del 1614,
contenuto nella famosa lettera Claretti:
Sonvi cinque Panegirici, parte in ottava e parte in sesta rima, della quale
egli ancora è stato il primo ritrovatore. Il Ritratto di D. Carlo Emanuello
duca di Savoia, indirizzato al Figino, e questo fu già stampato in Torino.
Il Tebro festante nella creazione di Papa Leone Undecimo, parimente
stampato in una scelta di Pier Girolamo Gentile, ma poco corretto e
molto alterato dal primo essemplare. La Fama, composto già per la Reina
d’Inghilterra nel tempo che correva voce ch’ella fusse catolica; et
esso introduce la Fama che passando l’Oceano Britannico viene a dargli
in Roma relazione delle sue qualità. Il Tempio, nel quale invitando le
Muse a fabricare un Tempio alla Cristianissima Reina di Francia Maria
de’ Medici, disegna l’Architettura di esso e scolpisce nelle porte molte
azioni principali d’Arrigo Quarto. Il Destino, dedicato a Filippo terzo
Re delle Spagne, dove poeticamente descrivendo l’abitazione, il trono,
l’abito e le fattezze del Destino, canta le grandezze della casa d’Austria25.
Dei cinque panegirici citati in questo brano, oggi se ne conoscono
soltanto quattro, indirizzati nell’ordine alla regina Anna di Danimarca,
sposa di Giacomo I d’Inghilterra e V di Scozia (verso il 1604); al
cardinale Alessandro de’ Medici, creato Papa Leone Undecimo (databile
con precisione nell’aprile del 1605 e corretto negli anni successivi,
fino al 1608); a Carlo Emanuele, duca di Savoia (composto nel 1608 e
stampato lo stesso anno) e a Maria de’ Medici, regina di Francia
(1615)26. Purtroppo possediamo dati molto scarsi sull’encomio consacrato
a Filippo Terzo di Spagna, Il Destino, testo avvolto nel mistero,
del quale non è rimasta alcuna traccia. Solo in poche righe di una lettera
al Ciotti, databile forse al 14 giugno 1620, Marino avrebbe fatto
qualche riferimento – poco chiaro – a questo encomio:
i Panegirici di Spagna e di Roma non posso né voglio per ora pubblicare,
per alcuni degni rispetti di mio interesse importante; onde potrete
25 Emilio Russo, Le promesse del Marino. A proposito di una redazione ignota della
Lettera Claretti, in Id., Studi su Tasso e Marino, Padova, Antenore, 2005, pp. 101-184.
Il testo della Lettera Claretti si legge a pp. 138-184 (il frammento citato a pp. 153-
154).
26 E. Russo, Le prime prove encomiastiche, L’arrivo a Torino, Il Ritratto per Carlo
Emanuele, e Il Tempio e l’arrivo a Parigi, in Id., Marino, Roma, Salerno Editrice,
2008, pp. 75-81, 87-96 e pp. 149-157.
[ 10 ]
salcedo coronel e marino 47
ristampargli uniti insieme con gli Epitalami, ma vorrei che facessi senza
altro titolo generale nel principio, come già fu fatto. Basterà solo legargli
insieme, che faranno un volumetto onesto27.
Questa enigmatica situazione del panegirico a Filippo III ha portato
gli studiosi a chiedersi se questa composizione «rimase prudentemente
nel cassetto» oppure se restò semplicemente «nelle intenzioni
dell’autore» e non fu mai scritta28.
Le varie incursioni del Marino nell’antico genere laudatorio inaugurato
da Claudiano furono lette e ammirate in Italia e in altre nazioni
europee. Per capire l’ampia diffusione dei testi mariniani a stampa,
citerò unicamente due casi rilevanti. Dovremmo aver presente che Il
Tebro Festante. Panegirico del Marino a Leone XI fu stampato otto volte
nell’arco di un ventennio, dall’editio princeps del 1608 fino alla tiratura
veneziana del Ciotti nel 162829. Un successo editoriale di maggiori
proporzioni fu quello del Ritratto del Serenissimo don Carlo Emanuello
duca di Savoia. Panegirico del Marino al Figino, che conobbe ben nove
edizioni tra il 1608 ed il 1624 (Torino, Venezia, Milano, Macerata, Torino,
Venezia, Napoli, Venezia, Venezia)30. Se si considera che una parte
delle suddette edizioni fu stampata nelle capitali sotto il controllo della
corona spagnola (Milano, Napoli), sembra lecito immaginare che i
poeti iberici interessati alle novità liriche italiane potessero avere facile
accesso ai panegirici del Marino.
Una volta chiarita l’importanza che poterono assumere i testi encomiastici
dello scrittore partenopeo e l’inarrestabile divulgazione dei
27 E. Russo, Studi su Tasso e Marino, cit., p. 154-155, n. 82.
28 Giuseppe Alonzo, introduzione a Giovan Battista Marino, Il Ritratto del
Serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia, Roma, Aracne, 2011, p. 38.
29 Emilio Russo, Per il Tebro Festante del Marino, «L’Ellisse», V (2010), pp. 121-
143. L’elogio indirizzato al Somo Pontefice e alla Casa dei Medici si conserva in un
importante manoscritto della Biblioteca Vaticana (Barb. Lat. 3978), in una redazione
di trenta strofe. «L’importanza del manoscritto è duplice: da un lato trasmette
una redazione fin qui ignota del panegirico, 30 ottave contro le 28 del testo a stampa
lungo tutto il Seicento; d’altra parte riporta non soltanto il testo delle ottave, ma
anche, a margine, una serie dei varianti e lezioni alternative» (Emilio Russo, art.
cit., p. 124). Per capire la distribuzione dell’encomio, il testo fu stampato a Venezia,
Macerata, Napoli, Milano, in successive ristampe il 1608, 1610, 1614, 1615, 1616,
1616, 1619, 1624, 1628. Oggi il testo del Tebro festante si può leggere alle pp. 128-143
del citato studio di Emilio Russo.
30 U na «panoramica comparativa, ordinata cronologicamente, delle impressioni
a stampa del Ritratto» è offerta da G. Alonzo, introduzione a G. B. Marino, Il
Ritratto del Serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia, cit., pp. 39-58.
[ 11 ]
48 jesús ponce cárdenas
suoi volumi, passiamo a mettere a fuoco il contesto del Ritratto del Serenissimo
don Carlo Emanuello. Com’è noto, dopo il soggiorno a Ravenna,
Marino aspirò ad «ottenere una sistemazione» nella corte di Torino
e a tal fine cominciò la redazione di un panegirico in sesta rima, rivolto
al duca di Savoia (Carlo Emanuele) e al pittore milanese Giovanni
Ambrogio Figino (1553-1608), figura molto aprezzata nei circoli artistici
ed intellettuali della corte sabauda31. A questo proposito, Emilio
Russo precisa che «il dato di partenza della matrice figurativa, e
dell’encomio come ritratto, determinava non solo la triangolazione
con il Figino e con i progetti iconografici di casa Savoia ma anche quel
reciproco inseguirsi e specchiarsi di pittura e poesia che Marino proprio
in quegli anni prendeva a meditare e praticare con insistenza»32.
Tra poesia e pittura, la dispositio dell’ambizioso panegirico si sviluppa
secondo un complesso disegno strutturale, in cui il moderno editore
ha individuato diciannove sezioni:
1. Invocazione encomiastica al Figino (1-11), 2. Descrizione dell’Italia,
delle Alpi e del Po (12-30), 3. Carlo Emanuele fanciullo erculeo (31-53),
4. pinacoteca sabauda e nuova esortazione al Figino (54-69), 5. ritratto
fisico di Carlo Emanuele: volto, attributi ducali, destriero (70-86); 6.
prologo al ritratto delle virtù del duca: pittura vs. poesia (86-93); 7.
prudenza in politica (94-102), 8. temperanza con exempla di moderazione
(103-113), 9. fatiche e fortezza nelle imprese militari (114-136), 10.
giustizia, clemenza, equità (137-156), 11. formazione umanistica del
duca (157-166), 12. generosità, prodigalità e rifiuto della corona reale
(167-180), 13. il duca religioso ed antieretico che muove contro Ginevra
(181-196), 14. Sindone (197-204), 15. Santuario di Vicoforte (205-213),
16. intercessione del beato Carlo Borromeo per la guarigione-rinascita
di Carlo Emanuele (214-222), 17. profezia di una nuova crociata antiturca
con a capo Carlo Emanuele (223-230), 18. sublimazione di Carlo
Emanuele ad astro della costellazione del Centauro (231-235), 19. dichiarazione
d’ineffabilità (235-238)33.
Com’è propio del rampino del cavaliere, la scrittura del Ritratto parte
dalla ricreazione di numerose tessere provenienti da «una fonte»
principale «rappresentata da un solo autore: Claudiano». La tecnica
d’intarsio di fragmenta memorabili estratti dagli «scritti dichiaratamente
encomiastici» del poeta alessandrino s’identifica senza proble-
31 Giovanni Ambrogio Figino, pittore (1553-1608), Pisa, Università di Pisa, 2012.
32 E. Russo, Marino, cit., p. 92.
33 G. Alonzo, introduzione a G. B. Marino, Il Ritratto del Serenissimo don Carlo
Emanuello duca di Savoia, cit., pp. 14-15.
[ 12 ]
salcedo coronel e marino 49
mi nella combinazione di passaggi, immagini e tòpoi che procedono
dal Panegyricus dictus Probino et Olybrio consulibus, Panegyricus de tertio
consulatu Honorii Augusti, Panegyricus de quarto consulatu Honori Augusti,
Panegyricus dictus Manlio Theodoro consuli, De consulatu Stilichoni,
Panegyricus de sexto consulatu Honorii Augusti34. Grazie alle «postille di
Stigliani vergate su un esemplare dell’editio princeps del Ritratto» disponiamo
oggi di una panoramica più completa delle fonti imitate dal
Marino, che oltre ai panegirici di Claudiano, avrebbe recuperato diversi
passaggi intertestuali del suo ricchissimo zibaldone. Tra le fonti
classiche rispondono all’appello Virgilio e Marziale, tra gli autori italiani
vanno citati Petrarca, il Tasso epico, Giovanni della Casa, Luigi
Tansillo, Antonio Ongaro e lo stesso Stigliani35.
Per avviare la comparazione del Ritratto del Serenissimo don Carlo
Emanuello ed il Retrato del conde duque de Olivares dobbiamo innanzitutto
evidenziare che le dimensioni di entrambe le poesie encomiastiche
rilevano palesemente la disparità dei due intenti. In effetti, il maestoso
panegirico mariniano è composto da 238 sestine narrative (1428
endecasillabi), mentre il testo di Salcedo Coronel risulta, invece, molto
più succinto (solo trentasei stanze: 288 endecasillabi). Il parallelismo
tra le sezioni dei poemi getterà piú luce su questo aspetto concreto:
1. Invocazione ad un «Sabio pintor» innominato (1-6), 2. Descrizione
della Spagna e della Mantua Carpetana – Madrid – (7-11), 3. Presentazione
dell’eroe della Casa di Guzmán modulata con qualche dichiarazione
d’ineffabilità (12-17), 4. Esortazione al pittore (nuovo «Apeles» e
«Prometeo») per cominciare l’opera d’arte (18-19), 5. Prosopografia del
conte-duca: fronte, occhi, bocca, destriero (20-23), 6. prologo al ritratto
delle virtù del duca: superiorità della poesia (24-27), 7. elogio della
prudenza del valido (28-33), 8. formazione umanistica del privado (34-
35), 9. auguri di buona fortuna al mecenate (36).
La mera successione delle sequenze della laudatio mette in rilievo
l’operatività del modello mariniano e nello stesso tempo evidenzia
importanti soppressioni e adattamenti. Ad esempio, le lunghe sezioni
3-4, 8-10, 12, 13-18 del Ritratto spariscono dal panegirico di Salcedo
34 Marco Corradini, Forme dell’intertestualità nel Ritratto del Serenissimo don
Carlo Emanuello, in Marino e il Barocco, da Napoli a Parigi, a cura di Emilio Russo,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 57-100 (p. 71).
35 Clizia Carminati, Le postille di Stigiliani al Ritratto del Serenissimo don Carlo
Emanuello del Marino, in Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, a cura
di Eraldo Bellini, Maria Teresa Girardi e Uberto Motta, Milano, Vita e Pensiero,
2010, pp. 443-477.
[ 13 ]
50 jesús ponce cárdenas
senza lasciar traccia. Come si vedrà, i passaggi restanti si adattano
all’encomio del primo ministro di Filippo IV in modo amplificativo a
volte, e in occasioni opportune riducono alla minima essenza i prelievi
di quegli elementi ritenuti nucleari. A seguire, il confronto di otto
frammenti disposti in parallelo ci permetterà di individuare quali furono
le principali tecniche imitative messe in atto dal Caballerizo del
Cardinal-Infante.
Le quattro stanze iniziali del Ritratto, indirizzate al pittore Giovanni
Ambrogio Figino, si sottomettono ad un esercizio di riscrittura amplificativa,
notevolmente fedele al modello36:
Saggio Figin, che per fatal mistero Sabio pintor, en quien gloriosa el arte
hai dal fingere il nome, e mentre fingi es suspensión a la Naturaleza,
rendi in guisa il tuo finto eguale al vero, que preferirte en vano, que igualarte
ch’altrui sembri crear ciò che depingi; prueba engañada en la mayor belleza,
e da gli essempi della tua pittura cuando imitas parece que imitarte
quanto forma di bel prende Natura. solicita su próvida destreza,
debiendo algún engaño a tus colores
repetida ocasión de sus amores.
Se’l ciel depingi, il ciel si move e gira, Si el cielo pintas, grato el cielo gira;
se’l sol figuri, il sol splende e sfavilla, si el sol, el sol hermoso resplandece;
se formi il vento, il vento soffia e spira, si figuras el viento, el viento expira;
se fingi il lampo, il lampo arde e scintilla, si el rayo ardiente, fulminar parece;
se le stelle descrivi, ecco le stelle si obscura noche, su horror admira
rotano i raggi lor tremule e belle. y el ánimo en tinieblas desfallece;
y cuando tú describes las estrellas
conozco en tu pincel sus luces bellas.
S’arboscelli, se fior, s’erbette ombreggi, Si la yerba, los árboles las flores,
vivon l’erbette, i fiori e gli arboscelli. viven las flores, árboles y yerba;
S’augelli o fere in vaga guisa atteggi, si ya las fieras copias, sus rigores
scherzan le fere e volano gli augelli; huye medroso quien su edad reserva;
e la voce, ch’espressa in lor si vede, si los canoros dulces ruiseñores,
udir l’un senso nega e l’altro crede. no expresas voces la atención observa,
creyendo el un sentido dulcemente
lo que infelice el otro no consiente.
Se prendi ad imitar liquido argento, Si el río imitas, a tu noble engaño
già già ne l’onde sue mi lavo e specchio, se sujetan los ojos y el oído,
correr le veggio e mormorar le sento imposible juzgando el desengaño
con inganno de l’occhio e del’orecchio. de la razón apenas prevenido;
E nele carte tue tranquillo il mare si airado el mar, a su furor extraño
(come a te piace) e tempestoso appare. se niega el que fïar quiso atrevido
a su instabilidad en tabla breve,
la dulce vida que a los cielos debe.
36 Ritratto, p. 71. Rimas, pp. 351-353.
[ 14 ]
salcedo coronel e marino 51
Nella prima stanza mariniana assistiamo al contrasto tra Ars e Natura,
quest’ultima vinta dal genio creativo del maestro lombardo. Il
gioco della interpretatio nominis si colloca proprio nell’incipit della lode
a Figino, che assume così le vesti di un figulus (come Prometeo) o quasi
di un deus pictor («sembri crear ciò che depingi»). Salcedo Coronel
evita di nominare l’artista spagnolo – la cui identificazione resta nel
mistero – ma riesce a prendere i concetti della strofa del modello italiano,
alleggerendo alquanto le implicazioni divine dell’elogio37.
Le sestine II-IV si rispecchiano fedelmente nelle ottave castigliane
II-IV, dato che tutte si strutturano sulla scansione anaforica delle orazioni
condizionali, in una lunga catena di otto giochi bimembri di
protasi-apodosi. Inoltre va notato che la trasformazione strofica (sesta
rima > ottava rima) implicherà occasionalmente l’addizione di un elemento
nuovo nella serie forgiata dal modello. Cosí l’elenco «ciel / sol
/ vento / lampo / stelle» diventa nel panegirico spagnolo «cielo / sol
/ viento / rayo / noche / estrellas», con l’aggiunta della «oscura noche
» il cui «horror admira» e nella quale «el ánimo en tinieblas desfallece
». In altri casi, un elemento semplice va amplificato significativamente
(cfr. III 3-6 del modello con III 3-8 di Salcedo). L’amplificatio può
interessare delle unità nominali isolate, come il nome generico («augelli
»), sostituito dalla specie concreta con doppia epitesi («los cano-
37 Anche se non essistono dati istorici o testuali per confermare con assoluta
certezza questo particolare, Pierre Civil ritiene che il destinatario intratestuale del
panegirico di Salcedo non fosse altro che Velázquez: «Dans un recueil de pièces
poètiques publié en 1627, le sévillan García de Salcedo Coronel inclut un long
panégyrique intitulé El Retrato del Excelentísimo Señor don Gaspar de Guzmán, conde
de Olivares, duque de Sanlúcar. Cet éloge convenu du tout-puissant favori de Philippe
IV s’inspirait directement d’un portrait équestre peint par Diego Velázquez,
oeuvre aujourd’hui perdue». Pierre Civil, L’image du favori à travers la gravure.
Iconographie et politique dans l’Espagne de la première moitié du XVIIe siècle, in La représentation
du favori dans l’Espagne de Philippe III et de Philippe IV, a cura di Hélène
Tropé, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2010, pp. 197-219 (p. 197). Se non si perde
d’occhio il modello letterario che Salcedo Coronel stava imitando allora, la prima
questione che andrà notata è che il panegirista napoletano, nelle prime sestine
del poema, esortava Figino a dipingere un ritratto del duca di Savoia. In secondo
luogo, bisognerebbe sottolineare che tale pittura non fu nemmeno iniziata, perché
l’artista milanese morì anche prima della diffusione della versione a stampa del
Ritratto del Serenissimo Carlo Emanuello. Con questi antecedenti, che riguardano la
fonte letteraria, sembra lecito dedurre che lo scrittore sivigliano si disponeva anche
a formalizzare con le stanze del suo Retrato un invito a un pittore innominato
per cominciare un dipinto, che oggi non abbiamo modo di identificare. Per questa
ragione non sembra del tutto corretto pensare che il panegirico salcediano parli di
un’opera di Velázquez allo stato perduta.
[ 15 ]
52 jesús ponce cárdenas
ros dulces ruiseñores»). Salcedo Coronel s’avvale anche del procedimento
contrario, eliminando talvolta la potenza metaforica dell’ipotesto,
riducendo i materiali alla minima essenza: «Se prendi ad imitar
liquido argento» > «Si el río imitas». Le capacità illusionistiche dei
quadri del Figino vengono esaltate a proposito delle acque: per questo
motivo se lui dipinge un mare o un fiume l’io lirico afferma: «già già
ne l’onde sue mi lavo e specchio, / correr le veggio e mormorar le
sento». È da notare che questa ponderazione iperbolica risulta del tutto
soppressa nella quarta strofa di Salcedo, forse poco incline a queste
espressioni proprie della ‘meraviglia’.
Nelle stanze VIII-X, Marino proponeva al pittore milanese una materia
degna della sua genialità, esortandolo a dipingere un ritratto del
duca di Savoia, opera che gli avrebbe assicurato una fama eterna. Salcedo
Coronel prese quasi alla lettera una buona parte del contenuto di
questo passaggio e adattò diversi elementi nelle ottave V-VI, applicando
delle strategie di minutio38:
Or, se per degna e non vulgare imago T ú, pues, de cuyas altas atenciones
giamai t’alzasti a gloriosa fama, se ilustra el mundo generosamente
e se di novo onor cupido e vago hallando las heroicas perfecciones
vigili e sudi e d’eternarti hai brama, eterna vida en tu pincel valiente;
o qual materia ingiuriosa a Morte si a mayor gloria el ánimo dispones,
d’essercitar la man t’offre la sorte! ¡oh cuán dichoso el hado te consiente
digna ocasión para lograr gustoso
efectos de tu brío generoso!
Sembiante tal, c’han di restarne impresse Héroe feliz, cuyo real semblante
ambizion non pur tavole e cere, diestro animara en mármores Lisipo;
ma’l terso avorio e, con le gemme istesse, en lino, en tabla Apeles vigilante,
qual più fin’or del’indiche miniere. mejor que al hijo magno de Filipo.
Degno, per cui Mirone i bronzi affini, Si el alto nombre esperas anhelante
Lisippo i marmi, Apelle i legni e lini. de este cuyos honores anticipo,
escucha grato, cuidadoso atiende
cuanto informarte flaca voz emprende.
Figin, già di saver forse ti cale
più oltre alquanto, e brami pur ch’io scopra
in più distinto stil chi siasi e quale
il suggetto gentil di sì bell’opra.
Or la mente solleva in sé raccolta,
e tutto ciò ch’io ti diviso ascolta.
Il nucleo dell’idea mariniana risiede nella capacità dell’opera pitto-
38 Ritratto, p. 72. Rimas, p. 353.
[ 16 ]
salcedo coronel e marino 53
rica di rendere immortale non solo il nobile che ritrae, ma anche l’artista,
che così aderisce ad una sorta d’ideale oraziano (Exegi monumentum
aere perennius). Le nozioni di «gloriosa fama» e di «brama d’eternarti
» si rispecchiano nella «mayor gloria» e nella «eterna vida» evocate
dal poeta sivigliano. L’exclamatio dei due versi finali della sestina
VIII («O qual materia ingiuriosa a Morte / d’essercitar la man t’offre
la sorte!») si trova rispecchiata, con qualche amplificazione che sa di
formule proprie del makarismòs, nei tre endecasillabi finali della ottava
V («¡Oh cuán dichoso el hado te consiente / digna ocasión para lograr
gustoso / efectos de tu brío generoso!»).
Nella strofa IX del Ritratto troviamo un piccolo elenco dei grandi
artisti della Grecia classica, identificando le loro opere attraverso le
corrispondenti sineddochi di materia: Mirone-bronzi, Lisippo-marmi,
Apelle-legni e lini. Dei tre maestri ellenici soltanto due saranno menzionati
nell’ottava di Salcedo: «diestro animara en mármoles Lisipo; /
en lino, en tabla Apeles vigilante», un processo di selezione ed eliminazione
nel quale lo scrittore betico cancellerà anche tutta la serie di materiali
preziosi raccolti nella sestina («terso avorio», «gemme»,
«fin’or») cosí come i riferimenti antiquari considerati superflui («delle
indiche miniere»). Si rintracciano peraltro sottili sfumature e piccoli
cambiamenti, al di là della somiglianza di certi sintagmi («Sembiante
tal» / «real semblante»), che fanno affiorare una diversa intensità della
curiosità che nutre il pittore ansioso di conoscere il nome del nobil
personaggio: «già di saver forse ti cale […] e brami pur ch’io scopra
[…] chi sia» > «el alto nombre esperas anhelante».
La seconda sezione ha un carattere che potremmo definire ‘geografico’.
L’ampia topografia d’Italia che occupa le sestine XII-XIII si trasforma
in una sintetica descrizione di Spagna nell’ottava VII39:
Simulacro del ciel, piazza del mondo, Yace en Europa, extremo a su grandeza,
tra le braccia d’Europa Italia stassi, E spaña, cuyo término glorioso
Italia bella, al cui terren fecondo por la parte oriental sublime alteza
con schermo natural d’acque e di sassi, del francés le defiende belicoso.
perch’al barbaro ardir si possa opporre, Ciñe cuanto perdona la aspereza
il mare è fossa e l’Appennino è torre. del monte excelso el elemento undoso,
sirviendo contra el bárbaro deseo
Giace angolare il suo gran corpo, e quasi de foso el mar, de muro el Pirineo.
abbattuta piramide si stende,
le cui superbe e smisurate basi
son l’Alpi innaccessibili et orrende […].
39 Ritratto, pp. 72-73. Rimas, p. 354.
[ 17 ]
54 jesús ponce cárdenas
La strofa salcediana combina i materiali di partenza alterando liberamente
la disposizione originale e adattandoli alle particolarità iberiche:
«Giace angolare il suo gran corpo» > «Yace […] extremo a su
grandeza». Il ricorso all’amplificatio si riconosce chiaramente nel riferimento
ai fiumi e alle montagne che servono da confini naturali: «con
schermo natural d’acque e di sassi» > «Ciñe cuanto perdona la aspereza
/ del monte excelso el elemento undoso». La traduzione più fedele
nel frammento si localizza nella chiusa strofica: «perch’al barbaro
ardir si possa opporre, / il mare è fossa e l’Appennino è torre» > «sirviendo
contra el bárbaro deseo / de foso el mar, de muro el Pirineo»
(barbaro ardir > bárbaro deseo, il mare è fossa > [sirviendo] de foso el
mar, l’Appenino e torre > [sirviendo] de muro el Pirineo). Inoltre è da
segnalare che il lungo segmento descrittivo che Marino applica alla
penisola italica, le Alpi e il Po, nel testo castigliano viene sostituito
dalla descrizione elogiativa della capitale del regno, nominata more
classico ‘Mantua carpetana’.
Proseguendo nel confronto, meritano senz’altro una sottolineatura
le dichiarazioni d’ineffabilità proferite da entrambi i poeti. Secondo
gli usi della retorica della modestia, Marino confessava alla fine del
Ritratto che il suo intelletto era troppo debole per tessere le lodi delle
virtù illimitate del duca di Savoia (sestina CCXXXVI, vv. 1 e 3-4):
Ma dove sferzo il debile intelletto? […]
Non può la dignità del gran suggetto
la mente inferma alzar dov’io la spingo.
In quel contesto, proprio della diminutio sui («debile intelletto»,
«mente inferma»), il Nostro riusciva ad inserire l’allusione ad una delle
apparizioni miracolose più conosciute di Sant’Agostino40; questo
racconto leggendario – destinato a godere di molta fortuna nell’iconografia
del santo d’Ippona – s’ispira al testo di una lettera apocrifa a
Cirillo, in cui viene ricordata una rivelazione divina con queste parole:
«Augustine, Augustine, quid quaeris? Putasne brevi immitere vasculo mare
40 Le erudite note di Giuseppe Alonzo nella recente edizione del Ritratto non
rivelano il senso di questa allusione di materia agiografica, né i contatti diretti che
essa stabilisce con uno dei ritratti dei Padri Santi e Theologi della Galeria. Lo studioso
lombardo offre, invece, una parafrasi molto utile del brano: «la sublime dignità
del soggetto che vorrei ritrarre non può sollevare la mia limitata mente fin dove
cerco di spingerla, richiamando per certi versi il modello dantesco della fine del
Paradiso […]. Votar: ‘svuotare’. Vaso: non solo recipiente d’acqua, ma anche sede
d’ispirazione poetica, in senso dantesco» (Il Ritratto, cit., p. 158).
[ 18 ]
salcedo coronel e marino 55
totum?»41. Non è un caso che Marino richiami questa scena della vita
del santo nel madrigale 5a. della Galeria, dedicato all’ineffabilità delle
infinite virtù di questo Padre della Chiesa:
Chïunque pensa in breve fascio accòrre
le tue lodi, AGOSTINO,
sembra quel tuo bambino
che ’n angusto vasel tentava invano
chiuder l’ampio Oceano.
Ciò che ne scrive penna,
ciò che lingua n’accenna,
di gran fornace picciola favilla
e d’abissi infiniti è poca stilla42.
Le notevoli rispondenze verbali tra il madrigale CCXXVI 2 («E
quante cose in picciol fascio stringo?») e CCXXXVII 1-2 («Folle, che tento?
misero, che voglio? / Votar l’ampio Ocean con vaso angusto?») del
Ritratto invitano a collegare i due testi mariniani, palesando un indubbio
punto di partenza nella già citata sentenza agostiniana43. Orbene,
il concetto centrale e la sottile allusione agostiniana che abbiamo riconosciuto
nei versi precedenti compaiono, con importanti alterazioni
lessicali, nella ottava XIII del panegirico al conte-duca:
Si la grandeza referirte intento,
asunto noble de la empresa mía,
reducir quiero el líquido elemento
a estrecha cárcel con tenaz porfía.
No a voz mortal, no a humano pensamiento
se concede tan célebre osadía;
41 Jeanne Courcelle e Pierre Paul Courcelle, Iconographie de Saint Augustin.
Les cycles du XV siècle, Paris, Études Augustiniennes, 1969, p. 100. La piccola
narrazione – molto diffusa dal Quattrocento – raccontava che un giorno Sant’Agostino,
mentre faceva una passeggiata in riva al mare, incontrò un bambino che
cercava di prendere l’acqua dell’oceano e versarla in una buchetta nella sabbia.
Quando il vescovo d’Ippona domandò al bimbo cosa stesse facendo, questi rispose
che voleva mettere l’intero mare in quel piccolo fosso. Agostino allora gli fece notare
che ciò che stava cercando di fare era impossibile e fu allora che il bimbo rivelò
la sua vera natura angelica, replicando che così come non era possibile versare
tutte le acque dell’oceano in una buca nella sabbia era ugualmente impossibile che
tutti i misteri di Dio e della Santissima Trinità potessero entrare nella testa di un
comun mortale.
42 La Galeria, a cura di Marzio Pieri, Padova, Liviana Editrice, 1979, tomo I, p.
127.
43 Le due citazioni si trovano in Ritratto, pp. 113-114.
[ 19 ]
56 jesús ponce cárdenas
retórico el silencio solo alabe
cuanto admira el cuidado, cuanto sabe44.
Il breve frammento dell’ipotesto mariniano («[Che voglio?] Votar
l’ampio Ocean con vaso angusto?») cambia adesso intonazione, mediante
l’eliminazione del pathos proprio dell’interrogatio. Salcedo opta
per una versione più ampia rispetto a quella contenuta nel modello,
con cambiamenti non troppo sottili in questi due versi: «reducir quiero
el líquido elemento / a estrecha cárcel con tenaz porfía».
Analizzando la quinta sezione del Ritratto, è da rimarcare che la
prosopografia del duca Carlo Emanuele si articola in tre elementi del
volto (fronte, occhi, bocca) a cui vanno dedicate le sestine LXX-LXXII45.
Introducendo significative alterazioni nel modello, Salcedo Coronel
amplificherà leggermente gli elementi descrittivi della fisionomia del
conte-duca nelle stanze XX-XXII del suo panegirico46:
Fronte abbia piana e spaziosa, dove Comienza, pues, oh artífice dichoso
sien l’interne del cor voglie descritte, a distinguir en bien compuesta forma
dove abbian Marte e’l Sol, Mercurio e Giove la imagen del varón más generoso
linee impresse d’onor felici e dritte: que en nuestros siglos el valor informa.
stelle che favorevoli gli dienno Imita la serena frente airoso
signoria con splendor, valor con senno. – pues tu pincel con la verdad conforma –
en quien del corazón, cuando lo ignores
Volga in occhio cervier sguardi tranquilli, se descubren afectos interiores.
onde chiaro traluca alma vivace,
e’n vista umana e rigida scintilli La majestad severamente afable
quel non so che che sbigottisce e piace. en sus ojos se admire traducida,
Sostenga il ciglio infra cortese e grave manifestando en suspensión amable
maestà dolce, acerbità soave. imperio dulce, gravedad temida.
Ostenten la grandeza deleitable
La bocca, che i silenzi e le parole piadosamente a la prudencia unida,
comparte a tempo e di facondia è piena, logrando así – felicidad suprema –
e dolcemente e riccamente suole que el temor le ame y el amor le tema.
versar di latte e d’or prodiga vena,
quasi balen fra’ nuvoli del viso, Muestre la boca en tu fïel retrato
componga un lieto e placido sorriso. que si admirable suspendió elocuente,
gloriosa informa en el silencio grato
la virtud de aquel ánimo excelente.
No a mi deseo tu pincel ingrato
en la ignorancia deslucir intente
el noble objeto; cuidadoso alcanza
igualar tu fatiga a mi esperanza.
44 Rimas, p. 356.
45 Ritratto, pp. 83-84.
46 Rimas, pp. 359-360.
[ 20 ]
salcedo coronel e marino 57
La trasposizione dell’effictio del mecenate sembra assumere nei versi
salcediani un carattere più attenuato. Lo scrittore sivigliano prescinde
da elementi molto caratteristici della fonte, come il sintagma appositivo
«occhio cervier». Il trattamento del doppio ossimoro «maestà dolce,
acerbità soave» si diluisce alquanto nella versione castigliana («imperio
dulce, gravedad temida») attraverso un’alterazione del nucleo nominale
del secondo elemento della bimembrazione e la natura del qualificativo
che l’accompagna. Un terzo cambiamento importante interessa le
immagini che descrivono l’eloquenza fluente del duca di Savoia (che sa
«versar di latte e d’or prodiga vena») e il sembiante benevolo, nel quale
brillano sorrisi non privi di maestà («quasi balen fra’ nuvoli del viso /
componga un lieto e placido sorriso»). Alla luce di questi dati, saremmo
quasi tentati di affermare che l’impiego di questo tipo di immagini (di
stile metaforico) non coincidesse con il gusto cauto e misurato del poeta
spagnolo, che pertanto scelse di prescindere da numerosi elementi
dell’ipotesto, probabilmente con il fine di dotare il suo poema di un tipo
di decorum più rigoroso, proprio della corte madrilena.
Se passiamo dalla descrizione ‘fisica’ alla descrizione ‘spirituale’,
dobbiamo evidenziare che nella sezione del Ritratto del serenissimo Carlo
Emanuello consacrata all’etopea, Marino impiegava un celeberrimo
tópos classico, facilmente identificabile nella chiusa del noto epigramma
X 32, 5-6 di Marziale, in cui parlando del ritratto giovanile di un
suo amico e mecenate, il nobile Marco Antonio Primo, esclama: «Ars
utinam mores animumque effingere posset! / Pulchrior in terris nulla tabella
foret» (‘Magari l’Arte potesse riprodurre i costumi e il carattere! Non
esisterebbe un quadro più bello al mondo’)47. La pittura, quindi, può
copiare o imitare con innegabile virtuosismo i tratti fisici esteriori, ma
non è capace di rendere giustizia alla bellezza d’animo, rispecchiando
le virtù interiori dei personaggi ritratti. In effetti, «se diamo ascolto ai
poeti, fin dall’antichità il corpo definisce una soglia oltre la quale le
arti figurative non si possono spingere, una superficie meravigliosa e
sensibile dietro cui resta celato il segreto dell’animo»48. La poesia, però,
riesce ad andare oltre i limiti delle arti visive, perché è capace di rivelare
la bellezza interiore, le risplendenti virtù dei personaggi lodati.
Rammemorando il locus communis classico, il contenuto delle sesti-
47 Marco Valerio Marziale, Epigrammata, a cura di W. M. Lindsay, Oxford,
Oxford University Press, 2007, s.p.
48 Federica Pich, I poeti davanti al ritratto. Da Petrarca a Marino, Lucca, Maria
Pacini Fazzi Editore, 2010, p. 270. Sulla fortuna di questo topos nella poesia italiana
dopo Petrarca, rimando alla sezione 4.2 (Mores animumque).
[ 21 ]
58 jesús ponce cárdenas
ne LXXXVII-XC del Ritratto ispira la materia delle stanze XXIV-XXVI
di Salcedo Coronel49:
Figin, l’aria gentil del regio aspetto A tu ingenio feliz, a tus colores,
e l’eroica sembianza a te ben lice, oh Zeuxis nuevo, el cielo le concede
con tutto quel ch’è dela vista oggetto, justamente los célebres honores
rappresentare altrui, fabro felice. por quien eterna tu memoria quede.
Ma formar la miglior parte gentile Copiar las perfecciones exteriores
opra questa non è da muto stile. que el mundo admira, el arte tuya puede;
las del ánimo no, que igual fatiga
Può ben la tua miracolosa mano fio a la pluma quien tu mano obliga.
esprimer gemma in nobil tela o fiore,
et imitar col suo pennel sovrano Émula, pues, de tu pincel glorioso
il vivo dela luce e del colore. la humilde mía bosquejar presuma
Ma l’interna virtù di questa o quello grandezas de aquel héroe poderoso
manifestar non può mano o pennello. que es digno asunto de más alta pluma.
No cantara del griego victorioso,
Così la forma esterior del volto oh conde excelso, en generosa suma
apieno effigiar ti si concede; el noble cisne los prolijos daños
ma se’l valor ch’è sotto il vel raccolto si antecedieran a su edad tus años.
e quel lume immortal ch’occhio non vede
ritrarre sagace man tenta et accenna, T ú solo fueras, gran señor, quien diera
qui convien che’l pennel ceda ala penna. fama inmortal a su dichoso canto:
aliento dulce de su plectro fuera
Degno fia questo et onorato peso la empresa ilustre que me anima tanto.
del glorioso cigno di Savona, Más dignamente en tu alabanza oyera
che da destr’aura alzato e tutto inteso que en las de aquel que fue del Asia espanto
a far de l’altrui lodi a sé corona, la soberana voz de quien fue solo
altamente a cantar spiega le penne honor de Grecia, suspensión de Apolo.
come il forte Amedeo Rodo sostenne.
Sul piano formale, l’utilizzo del rimema -ede e del rimema -ore accomuna
entrambi i frammenti (fiore, colore / colores, exteriores; concede,
vede / concede, quede, puede). L’allocuzione diretta al pittore lombardo
(«Figin») diventerà nei versi di Salcedo un’elogiativa apostrofe,
che nasconde ancora il nome dell’indeterminato artista spagnolo sotto
un velo classicheggiante («Oh Zeuxis nuevo»). Dopo l’eliminazione
dell’intera sestina LXXXVIII, lo scrittore sivigliano ricolloca il contenuto
della strofa IXC del modello nei versi 189-192: «Così la forma
esterior del volto / apieno effigiar ti si concede» > «Copiar las perfecciones
exteriores / que el mundo admira, el arte tuya puede»; «ma se’l
valor ch’è sotto il vel raccolto / e quel lume immortal ch’occhio non
vede / ritrarre sagace man tenta et accenna, / qui convien che’l pennel
49 Ritratto, pp. 86-87. Rimas, pp. 361-362.
[ 22 ]
salcedo coronel e marino 59
ceda ala penna» > «[copiar las perfecciones] del ánimo no [puede],
que igual fatiga / fio a la pluma quien tu mano obliga».
Nella strofa XC Marino rendeva omaggio – in chiave locale – a Gabriello
Chiabrera, «glorioso cigno di Savona», perchè al colto poeta della
Casa Sabauda spettava di cantare più altamente le lodi del duca Carlo
Emanuele. L’anno prima della stesura del Ritratto, nel 1607, il Chiabrera
aveva già presentato al suo patrono la redazione iniziale dell’Amedeide,
poema eroico sulla difesa dell’isola di Rodi, comandata dall’antico
duca Amedeo V nel Trecento («come il forte Amedeo Rodo sostenne
»). Nell’adattamento del modello mariniano, Salcedo Coronel trasformerà
il moderno riferimento allo scrittore favorito della corte torinese
in un evocazione del modello greco di Omero (il «noble cisne» que
«cantara del griego victorioso» e «fue solo honor de Grecia, suspensión
de Apolo») ed il suo eroe Achille («aquel que fue del Asia espanto»).
Nell’elenco delle virtù regali che ornano Carlo Emanuele, la prima
posizione è occupata dalla prudenza (sestine XCIV e XCV, vv. 1-2),
propria di un puer senex che mostra una sapienza e una cautela superiori
alle caratteristiche della sua età. Come nel modello sabaudo, le
lodi del conte-duca si incentrano su questa stessa virtù politica (ottava
XXVIII) e per motivi che non conosciamo lo scrittore andaluso omette
ogni riferimento agli altri valori spirituali dell’aristocrazia (temperanza,
fortezza, giustizia, clemenza, equità, generosità, prodigalità, religiosità):
Dirò primier che da te sola impara E n floreciente edad cana prudencia
santa Prudenza ad attenersi al meglio, admiro en ti y en su atención advierto
regola dele cose illustre e chiara, que anticipó el discurso a la experiencia
viva luce del’alme e fido speglio, o te inspira deidad para el acierto.
d’ogni bella azion fonte e radice, No a la virtud negó tu providencia
del suo nobile ingegno imperadrice. grato decoro, que a su luz despierto
cuando la ofende lisonjero labio
Dentro l’eccelsa mente il saggio duce cuerdo la sigues, la veneras sabio.
ha di senno senil solco profondo […].
L’adattamento del topos latino del puer senex («il saggio duce ha di
senno senil solco profondo»), appena schizzato nella fonte mariniana,
si amplifica nell’annominatio del testo castigliano rendendo più chiaro
il riferimento: «En floreciente edad, cana prudencia». Salcedo Coronel
elogia anche due tratti del valido che non si trovavano nel modello:
l’accortezza, che gli permette di distinguere la verità dalla lusinga dei
cortigiani che cercano il suo favore, la lungimiranza del privado, che lo
rende capace di prevedere ciò che avverrá e di ponderarare con saggezza
il da farsi.
[ 23 ]
60 jesús ponce cárdenas
L’ultima questione da approfondire concerne il culto delle litterae
humaniores e la scrittura lirica, che nel testo di Marino sono diletti del
duca di Savoia, identificato così nei panni del sapiens. Il colto Carlo
Emanuele fu ben noto all’epoca per la composizione di versi in francese,
in italiano e anche in spagnolo, questi ultimi indirizzati a sua moglie,
l’infanta Caterina Micaela, figlia di Filippo II. Pur con cambiamenti
e riduzioni considerevoli, la fonte mariniana (sestine CLXCLXIII)
ispira le linee del ritratto appena abbozzato di don Gaspar de
Guzmán come allievo delle Muse (ottave XXXIV-XXXV)50:
O dove ombroso infra selvaggi orrori Vive, pues, dignamente venerado
presso l’alta città bosco verdeggia, luengas edades y tu nombre augusto
o dove Mirafior pompe di fiori nunca del torpe olvido profanado
nel bel grembo d’april mira e vagheggia, mortal consulte su rigor injusto.
ad ogni grave et importuna cura Vive, heroico señor, y del sagrado
pien di vaghi pensier spesso si fura. laurel adorna con intento justo
la generosa frente, que a ti solo
E quivi suol, volte le trombe e l’armi liberal concediera el suyo Apolo.
in cetre e’n plettri, in stil dolce e sublime
fabbricando di Marte alteri carmi Amor diga, si puede, justamente,
o tessendo d’Amor leggiadre rime, que dulces quejas en sonoro acento
tra l’ombre e l’aure e le spelonche e i rivi oyó gustoso, despreció inclemente
ingannar dolcemente i soli estivi. duro tirano del mayor contento.
Suspendió Manzanares la corriente,
Or i fogli di Lesbo et or di Roma agradecido al numeroso aliento
volge, or d’Iberia ei va note dettando; que le dio a su ribera en tierno lloro
or del Ronsardo in gallico idioma no menos fama que su arena de ro.
va col dotto Porcier l’orme tracciando;
or col mio buono Agliè spendendo stassi
dietro al Tosco maggior gli accenti e i passi.
Tal già lungo le chiare accque tranquille
ale corde accordar musica voce
la sua fiamma solea cantando Achille
e dal canto acquistar spirto feroce.
Tanto Virtute, essercitata e stanca,
dopo gli ozi s’avanza e si rinfranca.
Salcedo Coronel omette numerosi elementi dell’ipotesto: la topografia
dell’ameno palazzo e giardini di Mirafiori, i modelli letterari
frequentati dal duca di Savoia (Saffo, gli autori romani, Ronsard, Petrarca),
la nomina di consiglieri che guidavano le sue letture (Porcier,
Agliè), la doppia tipologia di scritti poetici che redigeva Carlo Emanuele
(versi epici, rime amorose), il dominio di tre lingue (italiano,
50 Ritratto, pp. 99-100. Rimas, pp. 364-365.
[ 24 ]
salcedo coronel e marino 61
francese, spagnolo)… Tutta questa serie di dettagli viene cancellata
nel poema castigliano, dove il risvolto poetico del conte-duca si accenna
appena mediante una generica allusione mitologica: Apollo ornò
«la generosa frente» con la corona di «sagrado laurel», Cupido ascoltò
compiaciuto le sue «dulces quejas en sonoro acento». La menzione del
fiume che faceva risuonare le sue acque al ritmo della cetra d’Achille
è la probabile fonte d’ispirazione dei versi riferiti al dio-fiume Manzanares,
che arrestò le correnti per ascoltare meglio il «numeroso aliento
» delle poesie intonate da don Gaspar de Guzmán.
Questo confronto di otto frammenti del Ritratto del Serenissimo Carlo
Emanuello e del Retrato del conde duque de Olivares offre un’idea piuttosto
chiara del modo in cui Salcedo Coronel fece propria la lezione
mariniana adattando le particolarità del modello ad un altro tipo di
decorum, in un esercizio di scrittura forse meno dettagliato, meno ricco
di elementi sontuosi, un tanto alleggerito di riferimenti eruditi. La
struttura generale del panegirico al duca di Savoia ispirò lo scrittore
sivigliano nella costruzione globale del suo encomio e, come abbiamo
avuto modo di osservare, attinse a piene mani dal luminoso tesoro di
immagini, topici, iuncturae… elaborate dal Marino. Non possiamo,
peró, identificare il Retrato come una semplice replica, una mera riproduzione
dell’ipotesto mariniano. La pratica dell’imitatio ci invita a
mettere in rilievo i cambiamenti, le differenze rispetto al modello, la
trasformazione, insomma, che fa diventare alter ab illo.
3. Un genere encomiastico tra Spagna e Italia: i diversi itinerari della lode
Lo studio d’insieme del panegirico in verso nel Seicento europeo
non è stato ancora intrapreso, sebbene questo genere d’encomio svolgesse
una funzione centrale nella vita di corte e nella produzione di
tanti poeti «avidi di celebrare gli eventi straordinari, militari, diplomatici
o dinastici che fossero, nella speranza magari di qualche pensione,
almeno di qualche dono». Nella Spagna del Secolo d’Oro e
nell’Italia barocca, «dispensare la lode, per i tempi venturi ma prima e
anzitutto per le lotte e i vantaggi del presente, costituisce a tutti i livelli
di cultura il bastione del potere delle Lettere, fortificato dalla capacità
di abbracciare le nuove dimensioni, le nuove configurazioni, i nuovi
oggetti che segnano la marcia del secolo»51.
51 Danielle Boillet, Introduzione, in Forme e occasioni dell’encomio tra Cinque e
[ 25 ]
62 jesús ponce cárdenas
La diffusione dei modelli istituiti dai Panegyrici di Claudiano dovette
sperimentare una crescita importante nelle due Esperie dopo il
successo riscosso dai tre poemi laudatori più ambiziosi del Marino in
Italia (Il Tebro festante, il Ritratto del Serenissimo Carlo Emanuello, il Tempio
di Maria di Medici) e l’ammirazione suscitata nella corte madrilena
dal Panegírico al duque de Lerma, composto da Luis de Góngora nel
161752. Dalla seconda decade del Seicento, la triade composta da Claudiano,
Marino e Góngora poté servire come fonte d’ispirazione per
innumerevoli scrittori nei due paesi. A nostro parere, nei prossimi anni
bisognerà sviluppare una linea di studi tesa ad approfondire gli
echi dei panegirici del Marino riscontrabili nei testi spagnoli. Il caso di
Salcedo Coronel è stato il primo ad emergere, ma è lecito pensare che
non sia l’unico.
Sul versante specifico di questi encomi di stile eroico, il rapporto
Italia-Spagna può essere analizzato sotto differenti prospettive. Una
linea attendibile di ricerca si potrebbe orientare verso l’analisi dei poemi
italiani indirizzati a nobili spagnoli, come l’Impresa di Valle Tellina.
Panegirico all’illustrissimo ed eccellentissimo Duca di Feria, governatore di
Milano (1620) del conte Giovanni Battista Mamiano o il Panegirico delle
Imprese fatte ultimamente in Italia dall’eccellentissimo marchese di Leganés
(1639) di Claudio Trivulzio53. Nella direzione opposta, si potrebbero
individuare anche interessanti spunti di riflessione nello studio dei
testi spagnoli dedicati a mecenati italiani, come il Panegírico a Taddeo
Barberini (1631) de Gabriel de Corral.
Jesús Ponce Cárdenas
Universidad Complutense de Madrid
Seicento. Formes et occasions de la louange entre XVIe et XVIIe siècle, a cura di Danielle
Boillet e Liliana Grassi, Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, 2011, pp. 7-18 (p.
7).
52 Jesús Ponce Cárdenas, El Panegírico al duque de Lerma. Trascendencia de un
modelo gongorino (1617-1705), in Tres momentos de cambio en la creación literaria del
Siglo de Oro. Trois tournants de la création littéraire du Siècle d’Or, a cura di Mercedes
Blanco, numero monografico dei Mélanges de la Casa de Velázquez, 42,1 (2012), pp.
71-93.
53 E siste un’edizione moderna del poema, curata da Giuseppe Alonzo: Claudio
Trivulzio, Poesie, Milano, I Libri di EMIL, 2014, pp. 519-611.
[ 26 ]
Anna Maria Pedullà
L’ombra di Maddalena
Il personaggio evangelico di Maddalena costituisce un mito che ha numerose
risonanze nella tradizione letteraria. Il mito della peccatrice, convertita dall’amore
per Gesù di Nazareth, fu creato dai Padri della Chiesa al fine di far rilevare
la profonda metamorfosi operata sulle coscienze dal Cristianesimo. La Maddalena
– novella Eva cristiana – ha un trionfo nella cultura del Seicento. Ne sono
artefici Caravaggio, Marino Pona, Brignole Sale, tra molti altri. La ribellione
e la sfida di Eva rivivono in questa figura femminile, protagonista di storie che,
parafrasando Hannah Arendt, valgono ben più di intere opere filosofiche.

The gospel figure of Mary Magdalene forms a myth with numerous resonances
in the literary tradition. The myth of the sinner, converted by the love of Jesus
of Nazareth, was invented by the Church Fathers in order to underline the profound
change wrought on consciences by Christianity. Mary Magdalene, a new
Christian Eve, was widely popular in Seventeenth-century culture thanks to
Caravaggio, Marino Pona, Brignole Sale and others. Eve’s rebellion and challenge
live on in this female figure, the hero of stories that, to paraphrase Hannah
Arendt, are worth far more than entire philosophical treatises.
L’ombra è un segno, una traccia, che rimane più o meno impressa
nella realtà o nella memoria. È il doppio di un personaggio o di una
narrazione che vive nel divenire storico e nello spazio di una o più
culture. È una figura, umbra, che possiede un profilo, una forma e una
dimensione cangianti.
L’ombra può svanire nell’oscurità della rimozione che alcune epoche
esercitano su certi segni o simboli, e riapparire nella luce dei misteriosi
fenomeni di recupero compiuti dalle culture. Auerbach in Mimesis
ha elaborato, com’è noto, la sua concezione figurale della letteratura
in un percorso storico che attraversa varie espressioni linguistiche
e letterarie.
Autore: Università degli Studi “L’Orientale”, Napoli; ricercatrice confermata;
apedulla@unior.it.
64 anna maria pedullà
L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in
cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro,
mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura
sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come
fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi…nella corrente che è la
vita storica1.
La dimensione dell’ombra può essere non soltanto misurata, ma va
anche valutata e interpretata nel contesto storico in cui appare o riappare.
Maria Maddalena e la sua ombra2 compaiono nella cultura occidentale
con il personaggio evangelico che porta il suo nome. Luca (8,
1-3) la presenta come una delle donne che accompagnavano Gesù e i
dodici discepoli durante la missione, già a partire dalla Galilea. Maddalena
in particolare era stata liberata da sette demoni, quindi probabilmente
era una peccatrice guarita da numerosi mali psichici o fisici3.
1 E. Auerbach, Figura, in Studi su Dante, Milano, 1963, p. 204.
2 Sulla figura di Maria Maddalena e il suo mito appaiono particolarmente interessanti
i lavori di: A. Valerio, Le ribelli di Dio: donne e bibbia tra mito e storia,
Milano, Feltrinelli, 2014; V. Mancuso, La vita segreta di Gesù: scelta di testi dai Vangeli
apocrifi, Milano, Garzanti, 2014; P. Gibellini, N. Di Nino, La bibbia nella letteratura:
l’età contemporanea, Venezia, Morcelliana, 2009; L. Sebastiani, Svolte. Le donne
negli snodi del cammino di Gesù, Assisi, Cittadella, 2008; Ead., Trasfigurazione: il personaggio
evangelico di Maria di Magdala nella tradizione occidentale, Brescia, Claudiana,
1992; C. Ricci, Maria di Magdala e le molte altre: donne sul cammino di Gesù, Napoli,
D’Auria, 1991.
3 Maddalena viene indicata al primo posto nell’elenco delle donne al seguito
di Gesù, forse perché era la personalità di maggior rilievo. Maddalena appare ancora
nel racconto della morte e della Risurrezione: secondo Marco (15, 40-41) e
Matteo (27, 55) era presente con molte altre alla Crocifissione e alla morte di Gesù.
Il giorno dopo il sabato va con altre compagne, per ungere il corpo del Maestro,
secondo Mc 16, 1-2, o, secondo Mt 28, 1, per vedere il sepolcro. Luca, che ricorda
genericamente la presenza delle donne alla morte di Cristo e dinanzi al suo sepolcro,
il giorno della Resurrezione riporta i loro nomi, e in primo luogo quello di
Maria Maddalena. Giovanni, che la menziona appena (19, 25) tra le donne presenti
sotto la Croce, le attribuisce poi un ruolo da protagonista nel racconto della Resurrezione
(cap. 20). Giunta da sola al mattino al sepolcro col suo vasetto di unguento,
trova per prima la tomba vuota; corre e annuncia a Pietro e al discepolo prediletto
da Gesù che il corpo del Signore è stato portato via (20,2). Dopo che i due discepoli
sono andati a costatare il fatto di persona, Maria rimane in lacrime presso il sepolcro.
Ai due angeli che le chiedono perché pianga, ripete la frase: «Hanno portato
via il mio Signore, e non so dove lo hanno messo» (20,13). La donna si volta e
vede Gesù in piedi, ma non lo riconosce: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi
dove l’hai messo e andrò io a prenderlo» (20,15). Solo quando il Signore la chiama
[ 2 ]
l’ombra di maddalena 65
La peccatrice, il cui corpo era stato preda di sette demoni (innumerevoli
peccati) diventerà dopo il processo di conversione Apostola apostolorum.
Nella possibilità della salvezza e del riscatto per tutti, anche per le
donne, consiste la rivoluzione compiuta dal Cristianesimo nella cultura
e nella società del tempo.
La tradizione cristiana, a partire da Gregorio Magno, confonderà la
Maddalena con la peccatrice di Luca (7, 36-50). La donna, giunta in
casa di Simone il Fariseo, bagna di lacrime i piedi di Gesù, li asciuga
con i capelli e poi li unge con profumo prezioso. La confusione forse
fu favorita o dal fatto che Luca menziona ancora Maddalena subito
dopo questo episodio (Lc 8, 2) o dall’associazione tra la possessione
demoniaca da cui Gesù l’avrebbe liberata e la condizione di peccatrice
penitente. È stata inoltre confusa con Maria di Betania, che a sua volta
viene descritta da Giovanni in un episodio simile a quello di Luca, in
cui la donna unge di un profumo prezioso il capo del Maestro, suscitando
il disappunto di Giuda.
La confusione generata dall’unificazione delle tre Marie nel solo
personaggio di Maria Maddalena peccatrice redenta durerà fino al
Concilio Vaticano II, quando Paolo VI nel nuovo Messale romano, toglierà
alla santa l’appellativo di penitente.
Nella letteratura apocrifa Maddalena è costantemente all’interno
del gruppo delle donne che assistono alla passione e morte del Signore,
accanto alla madre di Gesù4.
per nome: «Maria!», finalmente lo riconosce e gli risponde: «Maestro!» (20,16), Gesù
le affida il compito di andare a dare l’annuncio della Resurrezione ai discepoli.
4 Nel Vangelo di Nicodemo (testo greco B 11,5 Craveri), anche lei, dopo Maria
Vergine, lamenta l’empietà e l’ingratitudine dei giudei e decide di recarsi a Roma
per denunciare il delitto commesso da Pilato. E in una Lettera di Tiberio a Pilato,
appartenente al Ciclo di Pilato, l’imperatore narra di aver ricevuto un’apostola di
Gesù di nome Maddalena, che gli aveva raccontato i miracoli compiuti dal Maestro
soltanto con la parola. La figura di Maria di Magdala ha un ruolo rilevante e
autorevole in molti scritti gnostici del II e del III secolo. Nel Vangelo di Filippo (ed.
Craveri) è definita «consorte» di Gesù e si dice che egli la amava più di tutti i discepoli,
tanto da suscitare la gelosia di Pietro (n. 55). Nel Vangelo di Maria appare
come l’apostola che, in nome del Risorto esorta i discepoli, tristi e scoraggiati, a
predicare senza paura, assicurando la protezione del Signore. In seguito espone
una rivelazione da lei ricevuta in una visione. Mentre Andrea e Pietro non vogliono
crederle, Levi allora la difende invitando Pietro ad accettare la preferenza che
Gesù aveva avuto per lei. Analogamente, nella Pistis Sophia Maria e Giovanni appaiono
come i discepoli più autorevoli, perché più vicini a Gesù. Proprio la competizione
con Pietro determinerà una profonda alterazione della figura di Madda-
[ 3 ]
66 anna maria pedullà
Anche il mancato riconoscimento di Maria tra i testimoni del Cristo
risorto da parte di Paolo di Tarso indurrà i Padri della Chiesa all’identificazione
della seguace di Gesù con la peccatrice. L’ombra di
Maddalena sarà da allora, nella tradizione occidentale, la sua colpa, il
suo peccato di essere una donna bella e ricca, che ha ricercato il piacere.
Per la Chiesa di Roma preconciliare è stato necessario nascondere
la figura della donna apostola dietro le vesti della peccatrice penitente,
o della meretrice redenta, destinata a percorrere un cammino di
dolore e di lacrime.
Quest’ombra di Maddalena è quella di Eva, la progenitrice tentata
dal serpente, la cui colpa si ripercuote su tutto il genere umano, segnandone
l’esistenza nella precarietà e nel peccato. La donna nel mito
delle origini è sedotta da Satana, che le offre la possibilità di diventare
come Dio, libera di decidere tra il bene e il male, e immortale. Anche
la Maddalena, che sceglie di vivere liberamente la sessualità, è una
ribelle che deve essere emendata.
Dall’incontro con Cristo, e dall’amore per lui, inizia la sua metamorfosi
e quella dell’intera umanità, che Dio, nella sua infinita misericordia,
ama con amore di Padre. La falsa identificazione di Maddalena
con una meretrice redenta, e la conseguente svalutazione del corpo e
della sensualità femminile, ha favorito la permanenza fino alla contemporaneità
della cultura del disprezzo della donna. Nella tradizione
teologica, nella letteratura e nell’iconografia la bellezza del corpo di
Maria di Magdala è stata sinonimo di peccato. La sua sensualità doveva
essere mortificata attraverso la penitenza e lo struggimento in un
desiderio incolmabile del Dio amato fino all’annichilimento di se stessa,
e alla morte. Gli aspetti sadomasochistici della passione amorosa
sono presenti nelle narrazioni che vedono come protagonista la figura
di Maddalena. La peccatrice convertita5 vive per l’amore e per la morte,
desiderando solo di ricongiungersi definitivamente col suo Gesù.
lena, che da apostola diverrà solo una semplice annunciatrice della resurrezione.
Cfr. Vangeli gnostici, a cura di L. Moraldi, Milano, Adelphi, 2005.
5 L’ossimoro è costitutivo della peculiare essenza della santa. Si trova, ad
esempio, in G. Chiabrera, Se quel vago diletto, in Canzonette, rime varie, dialoghi, a
cura di L. Negri, Torino, UTET, 1952, e in G. Casoni, O santa peccatrice, in Le muse
sacre. Scelta di rime spirituali de’ più eccellenti autori d’Italia, del sig. Pietro Petracci,
Venezia, per Evangelista Deuchino e Giovan Battista Pulciano, 1606 (ma già in M.
Bandello Rime, a cura di M. Danzi, Modena, Panini, 1989, È questo il luogo, la
spelonca e ’l sasso). Per il Chiabrera, cfr. F. Vazzoler, La conversione di S. Maddalena,
in G. Chiabrera, Poemetti sacri 1627-1628, a cura di L. Beltrami e S. Morando,
Venezia, Marsilio, 2007, pp. 258-268.
[ 4 ]
l’ombra di maddalena 67
L’ombra di Maria si espande come il suo profumo. A partire dai
Vangeli canonici l’immagine della bella donna è inscindibile dal prezioso
unguento profumato contenuto in un vasetto di alabastro. Il suo
amore ardente e intenso, nella vita peccaminosa come in quella mistica
e penitenziale, è il suo profumo. E anche il profumo possiede un
duplice significato: denota il corpo, il suo fascino e i rituali erotici, ma
anche la morte e l’unzione sacra, che è un atto sacerdotale riservato
tradizionalmente a uomini, il sommo sacerdote e i profeti. Maddalena
consacra Gesù come Unto del Signore, re di Israele, profetizzandone
così anche la morte nella casa di Betania. Poi sarà lei dopo la Crocifissione
del Maestro, e con il suo profumo tra le mani, ad annunciare la
Resurrezione: è diventata l’apostola degli apostoli, che diffonde la parola
di Dio.
Se con l’Omelia 33,1 di Gregorio Magno, che identifica in Maddalena
la peccatrice di Luca, prende avvio il mito della meretrice redenta,
con il Sermone II di Oddone di Cluny, In veneratione sanctae Mariae
Magdalenae, composto per la venerazione della santa, questa viene
presentata come typos della Chiesa, esempio della colpevolezza del
genere umano e della compassione divina6.
Nella seconda metà del secolo XIII, Jacopo da Varazze nella Legenda
aurea crea un nucleo narrativo di cui è protagonista Maria di Magdala,
che costituisce una fonte agiografica di ampia diffusione e grande
rilevanza per tutte le successive manifestazioni letterarie e artistiche
dell’ombra di Maddalena7.
Petrarca è autore di una laude in lingua latina su Maria Maddale-
6 Nel secolo XI una Vita di Maddalena viene accolta nelle leggende latine e il
monastero di Vézelay in Borgogna, legato a quello di Cluny, diviene il principale
centro di culto della figura di Maddalena riconosciuto in Occidente. Nel secolo
XIII il mito di Maddalena si sposta da Vézelay ad Aix en Provence e la santa diviene
patrona dell’Ordine domenicano e della casa d’Angiò. Già dalla fine dell’XI
secolo si era però diffusa una Vita eremitica di Maddalena alla Sainte Baume, una
leggenda costruita sul modello della vita penitenziale di S. Maria Egiziaca. Per un
confronto tra le fonti scritte e il notevole apparato figurativo correlati alla storia
della santa dall’età antica fino alla fine del Trecento, cfr. V. Vannucci, Maria Maddalena:
Storia e iconografia nel Medioevo dal III al XIV secolo, Roma, Gangemi Editore,
2012.
7 Nel racconto medievale Maria: «[…]era dunque ricchissima, quanto ricca altrettanto
bella e non rifiutava al corpo alcun piacere, tanto che era da tutti chiamata
la peccatrice», cfr. I. da Varagine, Leggenda aurea, tr. it., Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1990, p. 393, e a lei: «[…] il Signore accordò ogni favore ed ogni segno
di benevolenza: scacciò dal suo corpo sette demoni, l’accolse nella sua amicizia, si
degnò di essere suo ospite ed in ogni occasione le fu difensore.» ivi, p. 394.
[ 5 ]
68 anna maria pedullà
na. Vissuto a lungo in Francia, e in particolare in Provenza, più volte
nella sua vita si era recato in pellegrinaggio alla Sainte-Baume, la grotta
dove, secondo la leggenda, la Maddalena avrebbe sopportato circa
trent’anni di penitenza 8. L’ombra di Maddalena appare, nei versi del
Petrarca, con le sembianze della peccatrice redenta dolcemente legata
al suo Signore (dulcis amica Dei), nell’atto di baciargli prima i piedi,
dopo averli bagnati di lagrime di pentimento, e poi di ungergli il capo
di prezioso profumo. Questa figura di donna che si dà tutta a Cristo
appare anche in una delle visioni di Caterina da Siena9.
8 Il poeta scrive un sonetto in onore della santa, i cui versi sono riportati ne La
conversione, confessione, et penitentia di Santa Maria Maddalena traduzione italiana,
datata 1561, del famoso trattato spagnolo di Pedro Malón De Chaide, una delle
opere principali della letteratura mistica spagnola: Dulcis amica Dei lachrymis inflectere
nostris,/ Atque humiles attende preces, nostraeque saluti / Consule, namquam potes;
nec tibi tangere frustra / Permissum, gemituque pedes perfundere sacros, / Et nitidis
siccare comis, ferre oscula plantis, /Inque caput domini pretiosos spargere odores. Cfr. D.
Rossetti (a cura di), Poesie minori del Petrarca, vol. III, Appendice II, Milano, Società
tipografica dei classici italiani, 1834, p. 22. Petrarca fa riferimento a questi versi
nell’Epistola I al cardinale Filippo di Cavaillon; quest’ultimo l’aveva pregato di
inviargli «alcuni versicciuoli» – come li definisce lo stesso poeta – composti «in
quella devotissima spelonca, ove è fama che l’avventurata peccatrice Maria Maddalena
vivesse per trenta e più anni in rigida penitenza ed in pianto»., ivi, p. 19. Il
poeta racconta la circostanza in cui compose questi versi: «Dimorando io in quel
sacro e tenebroso speco tre giorni ed altrettante notti, e spesso vagando per le vicine
foreste, siccome non piacemi gran fatto di quella compagnia ch’era meco, così
ebbi ricorso al consueto compenso che io formai a me medesimo per cacciare la
noja, di allontanarmi coll’animo dai presenti, e fingere a me dappresso lontani
amici, e tenere con esso loro ragionamento»., ivi, p. 21. Petrarca pensa per primo al
vescovo Filippo, immaginando che lo esorti a scrivere qualcosa sulla santa: «Fatto
ritorno dal divoto pellegrinaggio, io ti lessi non ammendati que’ pochi versi; i
quali non meno in tuo che in mio nome, poiché ne fosti immaginato consigliatore
e testimonio, furono dettati. Li gittai poscia per entro la confusa moltitudine delle
mie scritture, né più mai di loro mi risovvenne dopo quel tempo. Tu al presente me
ne richiedi; e sappi che mi fu malagevole il rinvenirli fra gli altri scritti; più malagevole
il tornarmeli nella memoria. Ove di tal guisa erano periti, che io né pur
rammentava avere altra volta trattato simigliante argomento.», ibidem.
9 Le appaiono Gesù, Maria e Maddalena. II Signore le chiede: «Che vuoi tu?
Vuoi tu Me, o te stessa?». Caterina risponde piangendo: «Signore, Tu sai quello,
ch’io voglio: Tu’l sai, perocché io non ho altra volontà, che la tua, né ho altro cuore,
che il tuo». Caterina fissa desiderosa la Maddalena, ricordandosi di come si fosse
data tutta a Cristo piangendo ai suoi piedi; così il Signore le dice: «Ecco, dolcissima
Figliuola, per maggior tuo conforto, io ti do Maria Maddalena per Madre, a cui tu
possa con ogni fiducia ricorrere, ed a Lei una special cura di te commetto». Cfr.
L’opere della serafica Santa Caterina da Siena nuovamente pubblicate da G. Gigli,
Tomo primo, Siena, Bonetti, 1707, pp. 195-96.
[ 6 ]
l’ombra di maddalena 69
Nella Crocifissione di Masaccio (1426, Museo di Capodimonte, Napoli),
esempio magnifico della pittura del Quattrocento italiano, è rappresentato
ancora il dolore di Maddalena ai piedi del Cristo (fig. 1). La
donna appare, nell’abbraccio della croce, come la sua stessa base, il
fondamento e il fine del sacrificio divino. Le sue braccia sono spalancate
verso l’Amato, così come quelle che il Crocefisso distende verso
l’umanità peccatrice. Il dolore di Maddalena è erotizzato nell’abbraccio;
il suo corpo accovacciato, la testa reclina, i biondi capelli sciolti, e
non coperti da manto, sono indizi di una natura istintiva e sregolata.
Anche Vittoria Colonna nelle Rime (Venezia, 1546) rievoca l’ombra
di Maddalena ai piedi della Croce. Maria, splendente dei suoi capelli
dorati, arde d’amore per il suo Signore. Sola e avvolta nel suo “bel
manto” aveva superato paura e angoscia (“non volse il piè fedel né
strinse il pianto”) per assistere alla Crocifissione. La donna è il tipo
ideale di apostolo che poi, con l’incontro personale con Gesù al sepolcro,
mette al centro della sua vita la fede nella Resurrezione. Le lacrime
di dolore e di pentimento approdano al “felice porto”, il Risorto,
che è speranza e conforto del genere umano10.
Il pianto di pentimento diviene tra la fine del Cinquecento e gli
inizi del Seicento un genere poetico. Tansillo è autore de Le Lagrime di
S. Pietro (1585), Erasmo da Valvasone de Le Lagrime di M. Maddalena
(1586), Tasso scrive le Stanze per le Lagrime di M. Vergine nel 1593, Grillo
i Pietosi affetti e lagrime del penitente nel 1601, e questi sono solo gli
esempi più famosi.
L’opera di Valvasone è un poemetto di settantasei stanze in cui si
descrive la vita licenziosa, la conversione e la penitenza della peccatrice.
Valvasone nelle prime strofe narra di una Maddalena proveniente
da nobile e ricca stirpe e che, rimasta orfana e cresciuta negli anni e
nella bellezza, è vittima degli “inganni di Venere” lasciandosi tiranneggiare
dai sensi:
10 “Ai santi piei colei che simil nome / Onora, vidi ardendo d’amor lieta/ Risplender
cinta dell’aurate chiome, / La mosse a pianger qui ben degna pieta /
Onde’l ciel vuol che con ugual misura / Per scema di dolor or gloria mieta. / Poi
che la rese la sua fè sicura / Non volse’l piè fedel, né strinse’l pianto / Ma con cuor
fermo e con pietosa cura / Sola rimase, e dentro al suo bel manto / Mille chiare
virtù davan conforto / All’altra noglia al grande animo santo. / Al sepolcro cercando
el Signor nostro / L’apparve vivo e diede alto e felice / Al gran mar delle
sue lagrime porto. / Beata lei che’l frutto e la radice / Sprezzò del mondo, e del suo
Signor ora /Altra dolcezza e sempiterna e lice.” Cfr. V. Colonna, Rime, Venezia,
1546, p. 4.
[ 7 ]
70 anna maria pedullà
Ahi lassa, sdrucciolò nei tesi inganni
Di Venere, ch’al mal gli animi invita.
I sensi fe’ del suo voler tiranni,
Lasciando a dietro la ragion smarrita.
Et del pudico suo candido petto
Profano albergo fece a l’empia Aletto.
Già t’ha tratto alle spalle ogni vergogna,
Ogn’usato rossor in lei vien meno:
Non più religion, non fama agogna
Ch’el suo desir solean tener a freno:
Nel vizio addormentata il falso sogna,
et ebra beve ogn’or mortal veleno:
Già da marito esce alla piazza, e vaga
Et mirar, e mirata esser s’appaga.11
La cultura del Barocco segna il trionfo della figura di Maria Maddalena.
L’ombra della peccatrice, penitente ed eremita si tinge di forti
accenti di sensualità ed erotismo. Nelle arti visive e nella letteratura12
11 E d. di riferimento: E. da Valvasone, Lagrime di S. Maria Maddalena, Venezia,
[Giovanni Battista della Porta], 1595, p. 167.
12 Per l’arte figurativa, cfr. il catalogo della mostra La Maddalena tra sacro e profano.
Da Giotto a De Chirico, Palazzo Pitti, 24 maggio – 7 settembre 1986, a cura di M.
Mosco, Milano, Mondadori, 1986; M. Marini, Visioni d’estasi. Capolavori dell’arte
tra Sei e Settecento, Milano, Skira 2002; La Maddalena in meditazione. Guido Cagnacci.
La pittura del Seicento tra Caravaggio e Reni, catalogo della mostra a cura di R. Rossi,
Forlì, 2008; V. Pacelli, L’iconografia della Maddalena a Napoli dall’era angioina al tempo
di Caravaggio, Napoli, 2006; Id., M. Maddalena: tante facce per una donna, in Atti del
Convegno Il sacro nell’arte. La conoscenza del divino attraverso i sensi tra XV e XVI secolo,
a cura di L. Stagno, Genova, 2009. Sulla Maddalena del Caravaggio, cfr. F.
Bologna, Il Caravaggio nella cultura del suo tempo, Roma, 1974; M. Gregori, Caravaggio,
in Enciclopedia Europea, vol. II, Roma, 1983. Per l’ambito letterario, con particolare
attenzione alla lirica d’età post-tridentina, dopo l’indagine fondamentale,
di G. Getto, La letteratura religiosa, in Questioni e correnti di storia letteraria, a cura di
U. Bosco et al., Milano, Marzorati, 1949, pp. 857-900, si segnalano essenzialmente
S. Ussia, Il tema letterario della Maddalena nell’età della Controriforma, «Rivista di
Storia e Letteratura religiosa», III, 1988, pp. 385-424 (poi in Il Sacro Parnaso. Il Lauro
e la Croce, Catanzaro, Pullano, 1993, pp. 107-139; Id., L’aspro sentiero. Poesia quaresimale
di Pietro Cresci e Giulio Cesare Croci, Vercelli, Mercurio, 2003; dello stesso, insieme
a E. Bellini, Muse sacre. Poesia religiosa dei secoli XVI e XVII, Borgomanero,
Fondazione Achille Marazza, 1999; F. Guardiani, Dieci pezzi sacri del Marino: per
un’edizione della ‘Lira II’, in Feconde venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, a
cura di T. Crivelli, Bellinzona, Casagrande, 1997, pp. 348-370: 348-354. Per la narrativa,
cfr. D. Conrieri, Il romanzo ligure dell’età barocca, «Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, s. III, vol. IV/3, 1974, pp.
925-1139: 1074-1087; E. De Troja, Forme della narrativa barocca nella Maddalena di A.
[ 8 ]
l’ombra di maddalena 71
la donna di Maddalo è rappresentata come la bella peccatrice, amante
e tentatrice, su cui si possono proiettare fantasie e timori sessuali. La
santa non è più, come nella mistica medievale, modello di tutte le peccatrici
e esempio di redenzione. La sua nudità perde innocenza e senso
metaforico, prevalendo la componente erotica.
La Maddalena in estasi (1606-10), famoso dipinto del Caravaggio, è
nota per la novità della sua iconografia: vi riappare l’invenzione figurale
del sottoinsù e il lume radente (fig. 2). Il quadro, che ha avuto
numerose copie, fu portato dallo stesso autore a Napoli presso Luigi
Carafa Colonna. La donna ritratta nelle vesti di Maddalena sembra
essere Lena, un’amica del Caravaggio, scomparsa a soli ventotto anni.
L’immagine è ricca di sensualità e bellezza: il capo della giovane è reclino,
gli occhi sono semichiusi e da essi scende una lacrima. In
quest’estasi appare un’evidente sensualità, forse caratteristica dell’unione
mistica, ma sicuramente del typos della bella peccatrice.
Nella letteratura barocca il dialogo col sacro si svolge a partire
dall’icona smagliante e di grande bellezza come quella di Maria Maddalena.
Molti sono i lirici italiani del Seicento che colloquiano col sa-
Brignole Sale, «Studi secenteschi», XVIII, 1977, pp. 105-126 (poi in ‘La maraviglia de
la santità’. Significati e strutture del romanzo religioso barocco, Padova, Liviana, 1980,
pp. 3-28); A. Testaferri, Maria Maddalena peccatrice convertita: un modello del femminile
barocco, «Rivista di studi italiani», I, 1994, pp. 1-13; D. Eusebio, Introduzione, in
Anton Giulio Brignole Sale, Maria Maddalena peccatrice e convertita, Parma, Fondazione
Pietro Bembo/ Ugo Guanda, 1994, pp. IX-LXXVII. Sul romanzo del Brignole
l’autrice di questo saggio ha pubblicato alcuni studi: si veda il capitolo Il romanzo
spirituale, in A. M. Pedullà., Il romanzo barocco ed altri scritti, II edizione, Liguori,
Napoli 2004, pp. 68-75; Ead. Semiosi naturale e storia di un’anima in M. Maddalena
peccatrice e convertita di A.G. Brignole Sale, in Il romanzo barocco, cit., pp. 157-174;
Ead. Amore e Psiche. Mito, filosofia, letteratura e Il mito di Maria Maddalena da Jacopo
da Varazze ad A.G. Brignole Sale, in Ead., a cura di, Labirinti di Psiche, Carocci, Roma
2009, pp. 21-27 e 59-63.; Q. Marini, Maria Maddalena peccatrice santa tra narrazione e
scena. Un percorso cinque-seicentesco, in Sacro e/o profano nel teatro fra Rinascimento ed
età dei lumi, Atti del Convegno di Studi, Bari, 7-10 febbraio 2007, a cura di S. Castellaneta
e F. S. Minervini, prefazione di G. Distaso, Bari, Cacucci, 2009, pp.
97-128; per l’ambito drammaturgico, cfr. R. Palmieri, Introduzione, in G. B. Andreini,
La Maddalena lasciva e penitente, a cura della stessa, prefazione di S. Carandini,
Bari, Palomar, 2006, pp. 21-44; P. De Capitani, Le Maddalene di Giovan Battista
Andreini (1617, 1652), in Le donne della Bibbia, la Bibbia delle donne. Teatro, letteratura
e vita, Atti del XV Convegno Internazionale di Studio, Verona, 16-17 ottobre 2009,
a cura di R. Gorris Camos, Fasano, Schena, 2012, pp. 335-350; per l’ambito musicologico,
ma con una ricca introduzione sulla fortuna del soggetto nel Seicento, cfr.
G. Bononcini, La Conversione di Maddalena. Oratorio a quattro, a cura di R. Mellace,
Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2010.
[ 9 ]
72 anna maria pedullà
cro attraverso di lei e la sua sostanza ambigua e metamorfica, che rappresenta
l’umanità tutta. Nei componimenti di Valvasone, Tansillo,
Campeggi, Basile, Manso, Achillini, Marino, Cusano, Chiabrera, Marinella,
il tema della Maddalena ha fini per lo più estetici e poetici; in
autori come Fiamma, Grillo, De Capiti, Spina prevalgono esigenze di
tipo apologetico13. Qui ci si soffermerà solo su un campione di lirici
tra cui Marino, Chiabrera e Lucrezia Marinella, e di questi autori si
citeranno alcuni componimenti sul tema della conversione della bella
peccatrice.
La metamorfosi, mito classico cui si ispirano le opere di Ovidio ed
Apuleio, rinasce nella cultura del barocco con la forza di un vero e
proprio tòpos.
Marino dialoga più volte con Maddalena nella Lira. Ai tre sonetti
di Lira I, 192, 193, 195 devono collegarsi i 12 madrigali esplicativi o
meglio meditativi del Vangelo di Luca (VII, 36) in Lira II, 158-64, il
sonetto Vicina al divin piè di Lira, III, 209, l’ode Quando formò di Dio
(Lira, III, 210-220) ed ancora gli undici madrigali, sempre sul passo di
Luca della sezione Divotioni di Lira III, 220-225. Questo reiterato dialogo
con Maddalena si configura come un discorso interno all’autore
stesso. Il suo continuo ritornare su quanto già scritto, il suo elaborare
nuove stesure di una stessa poesia, il suo glossare versi con altri versi,
il suo disporre in cicli le proprie composizioni – in cui ogni testo si
presenta in maniera dialettica rispetto a un altro – obbediscono alla
necessità di un’opera che si pone globalmente come costruzione del
più vasto ‘canto’ di Marino e della cultura barocca col sacro. L’‘esposizione’
al dialogo implica la disponibilità a un’ininterrotta revisione,
alla dissoluzione dell’opera in una costellazione di frammenti.
13 In tempi recenti due studiosi italiani si sono dedicati alla lirica sulla donna
di Maddalo, Salvatore Ussia e Luca Piantoni. L’uno è autore di un saggio cit. dal
titolo Il tema letterario della Maddalena (1993) e l’altro di “Lasciva e penitente”. Nuovi
sondaggi sul tema della Maddalena nella poesia religiosa del Seicento in “ Studi secenteschi”,
n. LIV (2013). In entrambi sono presenti attente ricognizioni sulle opere degli
autori su citati. È importante segnalare le ricerche promosse dalla Fondazione
Michele Pellegrino, di cui gli studi a cura di M. L. Doglio e C. Delcorno, Rime
sacre dal Petrarca al Tasso, Bologna, Il Mulino, 2003; Rime sacre tra Cinquecento e Seicento,
a cura degli stessi, Bologna, Il Mulino 2007, e La predicazione nel Seicento, Bologna,
Il Mulino, 2009. Si ricordano, inoltre, Sotto il cielo delle Scritture: Bibbia, retorica
e letteratura religiosa (secc. XII-XVI), Atti del Colloquio organizzato dal Dipartimento
di Italianistica dell’Università di Bologna, 16-17 novembre 2007, a cura di C.
Delcorno e G. Baffetti, Firenze, Olschki, 2009, e di E. Ardissino ed E. Selmi,
Poesia e retorica del Sacro tra Cinque e Seicento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2009.
[ 10 ]
l’ombra di maddalena 73
Per Marino Maddalena è la peccatrice del passo evangelico di Luca,
che poi, attraverso la profonda metamorfosi generata dallo sguardo
– parlante di Cristo diviene prima l’innamorata di Dio e poi l’apostola
apostolorum, Gli occhi, infatti, non solo vedono, ma ascoltano il
visibile e l’invisibile; e intravedono il mistero di un’anima che, solo
quando gli occhi si illuminano in uno sguardo, si manifesta nella sua
fuggitiva ragione d’essere.
Nel sonetto presente in Lira III, 209, Marino dialoga direttamente
con la Maddalena penitente ai piedi di Cristo:
Vicina al divin piè Donna spargesti
Quinci soavi, e quindi amari umori,
D’un vasel d’alabastro Indico fuori,
E da due di zaffiro urne celesti.
Indi fra quegli (o te beata) e quelli,
Spiranti al del di par graditi odori
Con gli error de la chioma i propri errori
Incatenando il tuo Signor, sciogliesti.
Altro licor che liquido diamante
Sparso in tepido rio dal cor profondo
Lavar già non devea sì degne piante.
Né drappo anco men fin che’l tuo crin biondo
Asciugar poi sì pure membra, e sante.
Tesori non avea più ricchi il mondo.
Nei versi, che riscrivono l’episodio evangelico della peccatrice in
casa del Fariseo ai piedi di Gesù, le lacrime della penitente, soavi e
amare allo stesso tempo, vengono sparse come un prezioso profumo.
Anche i capelli sono sparsi, sciolti, per dissolvere i suoi peccati. La
chioma lega e scioglie, unisce la donna a Dio in un nuovo presente,
cancellando gli errori commessi nel passato. La sequenza degli ossimori:
soavi/ amari, incatenando/ sciogliesti, liquido/ diamante sottolinea la
duplice natura di Maddalena che seduce profondamente il poeta.
Nell’ode Quando formò di Dio, Lira III, 210-220, Maddalena ai piedi
di Gesù dialoga con Lui in silenzio:
T aciturna oratrice
Con eloquenza muta,
Ma nel silenzio arguta
Chiede nel duro suo stato infelice
Mercè, grazia, perdono, e nulla dice.
Qui gli ossimori che accostano silenzio e parola sono numerosi,
[ 11 ]
74 anna maria pedullà
presentando una Maddalena che parla senza dire, che chiede tacendo.
La scena sembra molto intima e silenziosa. La comunicazione, pur
non prescindendo dal contatto umano e corporeo, sta avvenendo a livello
mentale, dove si è capaci di comprendere il silenzio e di supplicare
senza dire nulla.
Passar non osa avante,
Perche timor la tocca,
Ma con occhi, e con bocca
E bacia, e lava, ufficiosa amante,
Di Giustizia, e Pietate ambe le piante.
La peccatrice comincia ad asciugare i piedi con i suoi capelli, e così
«l’odorato licor mesce col pianto». Ora Maddalena parla del suo dono,
il profumo che la redime:
Odoriferi unguenti
Io porto a te Signore.
Porto meco l’odore
Per coprir con gli aromati soavi
L’immondo lezzo de’ miei falli gravi,
E ferita di strali aspri e pungenti,
Arreco il salutifero licore
Per le piaghe del core.
E come Cleopatra offrì al fido amante (Ottaviano) perle in vasel d’oro,
così la Maddalena «offre in lagrime perle, et oro in chiome»:
Con una treccia, sparsa, e l’altra accolta
La Barbara Reina
Corse ala Babilonica ruina.
Io con la chioma tutta a terra sciolta
Signor, corro in difesa
A la Città confusa, e quasi presa
De l’anima, ch’assale
II nemico infernale.
I confronti col mondo pagano antico proseguono e, dopo l’analogia
con la lussuriosa regina d’Egitto, Maddalena diviene una «bellissima
arciera», un’Amazzone, i cui capelli e i cui ardenti sguardi dovrebbero
inevitabilmente colpire il cuore dell’amato Cristo. La santa poi prende
la forma di Danae che con la sua bellezza fece innamorare Giove.
Comprò con aurea pioggia
Le bellezze di Danae il sommo Giove.
[ 12 ]
l’ombra di maddalena 75
O meraviglie nove,
Or’ in più strana, e disusata foggia
Sciogliendo il crin d’Amor pompa, e tesoro
In un diluvio d’oro,
Ecco che fa la bella Danae acquisto
Di Giove no, di Christo.
Marino nella sua Galeria del 161914 dedica alla Maddalena dipinta
dal Tiziano una serie di quattordici ottave che variano sul motivo delle
lacrime. Il componimento si sviluppa dall’immagine della bella penitente,
a sua volta ombra di colei che, dopo aver rifiutato la vita mondana,
si è incontrata con Cristo, «amata amante». Nella doppia figura
participiale del poliptoto viene indicata la singolare metamorfosi del
personaggio ad opera dell’amore divino.
I
Questa, che ’n atto supplice e pentita
se stessa affligge in solitaria cella,
e della prima età fresca e fiorita
piagne le colpe in un dolente e bella;
imago di colei che già gradita
fu del Signor seguace e cara ancella,
e quanto pria del folle mondo errante,
tanto poscia di Cristo amata amante.
Alla vana seduzione del «folle mondo errante», di cui è stata vittima
Maddalena, si contrappone la scelta dell’approdo al porto sicuro
della religione.
Il significato morale del testo è evidente negli ultimi quattro versi
della quarta strofe, dove la vita della donna, metaforicamente indicata
come il viaggio di un «fragil legno» in un mare pieno di insidie e di
angosce, riesce a trovare nell’amore di Dio «polo e porto». Nella strofe
si riprendono le figure della canzone tassesca Alla beatissima vergine di
Loreto (1654) delle Rime sacre15.
14 Id., La Galeria, a cura di M. Pieri, Padova 1974., pp. 71-74, 37b.
15 “Ecco fra le tempeste e i fieri venti/di questo grande e spazioso mare,/o
santa Stella, il tuo splendor m’ha scorto,/ che illustra e scalda pur l’umane menti./
Dove il tuo lume scintillando appare,/e porge al dubbio cor dolce conforto/in
terribil procella, ov’altri è morto;/e dimostra co’raggi/i securi viaggi,/e questo
lido e quello, e’l polo e’ l porto/de la vita mortal ch’appena varca,/anzi sovente
affonda,/in mezzo l’onda alma gravosa e carca”: Tasso, Rime, a cura di B. Basile,
Roma, 1994, p. 1882.
[ 13 ]
76 anna maria pedullà
IV
T u del senso sprezzando ingordo e vano
i fugaci diletti e i lunghi affanni,
campar del mondo adulatore insano dal’insidie sapesti, e
dagl’inganni.
E ’n questo della vita ampio oceano
in sul fior giovenil de’ più verdi anni
trovasti al fragil legno, e quasi assorto
dall’umane tempeste, il polo e il porto.
Finora è emersa la figura di una Maddalena che, disprezzata la
vanitas della vita mondana e il folle desiderio dei piaceri terreni, si
macera nella penitenza e nelle lagrime. Nel resto del componimento,
invece, Marino mette a fuoco un’altra immagine, quella della bellezza
corporea e spirituale della convertita, attraverso un ritratto molto dettagliato
degli elementi topici della descriptio puellae: gli occhi, i capelli,
la bocca, le mani. La sensualità della santa viene descritta per sette
stanze secondo la prassi del ‘canone lungo’. La settima strofe è dedicata
agli occhi, mentre l’ottava al «bel viso» e al «bel volto» della donna,
su cui scorrono le lacrime che hanno «rive di fiori» e i fluenti capelli
biondi.
VIII
Beato pianto, aventurose e belle
lagrime, a lei cagion d’eterno riso,
non così ’l mar di perle, il ciel di stelle
s’orna, come di voi s’orna il bel viso.
Perdon l’acque de l’Ermo, e perdon quelle,
appo voi, c’hanno il fonte in Paradiso,
che tra ’l bel volto sparse, e ’l crin celeste,
rive di fiori e letto d’oro aveste.
Nelle altre stanze lo sguardo di Marino si volge alle «chiome», alla
«bocca», alla «candida man» e alle «animate nevi», ossia la bianchissima
pelle cosparsa dei profumi contenuti nel topico vaso d’alabastro.
Nella strofe XI la bella e dolce bocca di Maddalena, ove appaiono denti
bianchi come perle e labbra vermiglie e profumate come rose con cui
aveva sedotto tanti amanti, dopo aver baciato i piedi del Signore, ha
imparato il senso di un amore casto e sublimato.
XI
Bocca, ove ’l cielo il nettar suo ripose
tra vive perle e bei rubini ardenti,
[ 14 ]
l’ombra di maddalena 77
e tra vermiglie et odorate rose
per ferir l’alme altrui, spine pungenti:
felice te, ch’alte dolcezze ascose
traesti da que’ piè puri innocenti,
che tra nodi d’Amor saldi e tenaci
avezzar le tue labbra ai casti baci
Anche Chiabrera si ispira alla scena del vangelo di Luca in cui si
narra della conversione della peccatrice. Nel poemetto dal titolo, La
conversione della Maddalena (1627-28)16, l’autore, dopo aver enunciato
in prima persona l’argomento da trattare, invoca la Musa perché ella
stessa narri la vicenda. Si tratta di due colloqui: uno con i lettori, e uno
con la poesia stessa, fonte di ispirazione, cui fa seguito l’ elemento
narrativo fondamentale, il dialogo tra Marta e Maria, punto di partenza
del processo di conversione. Marta, incoraggiando la sorella ad una
revisione della sua vita improntata alla vanitas e al piacere, la esorta “
la voce ad ascoltar del Gran Maestro”. E’ l’ammonimento all’ascolto di
una Parola speciale e salvifica che produrrà i suoi effetti nell’anima di
Maddalena senza nemmeno essere udita. Infatti dopo il travaglio e
l’inquietudine della notte, in cui le appare in sogno un angelo con le
sembianze materne che rimprovera aspramente la peccatrice, ella si
rivolge a Dio per ottenere il perdono e la redenzione: “… Padre del Ciel;
pur la tua destra eterna/A me sia larga di pietosa aita”.
La metamorfosi avviene nel colloquio con Dio: Maddalena assume
la nuova identità di pentita e convertita, che la condurrà scarmigliata
e piangente ai piedi di Cristo nella casa del Fariseo.
Nelle sue Rime (Venezia, 1603) anche la poetessa Lucrezia Marinella
entra più volte in muto colloquio con Maddalena. Lo sguardo
dell’autrice è il suo personale dialogo. In Sopra la conversione della Maddalena,
la Marinella vede “la bella Maddalena” mutar sostanza e forma:
la donna, che seduce attraverso i bellissimi capelli biondi, vaga di sé,
dopo che “Volse i bei lumi in lei l’eterno Amore”, cioè dopo il colloquio
con Dio fatto solo di sguardi, “Poi c’ha libero il petto/ Sospira, arde, agghiaccia/
Odia sé, Dio gradisce, amanti scaccia.” La successione dei cinque
predicati verbali crea un climax di grande suggestione, (composto
com’è anche dall’ossimoro arde/ agghiaccia e dall’antitesi Odia sé/ Dio
gradisce), che culmina col rifiuto dell’amore sensuale e narcisistico.
Anche nel sonetto Alla medesima la Marinella riafferma (stracciò il
16 L’opera citata è in Poemetti profani e sacri, Roma, MDCCXXIII. Presso il Salvioni
nella Sapienza, pp. 221-32. Su tale opera, cfr. F. Vazzoler, op. cit., pp. 258-68.
[ 15 ]
78 anna maria pedullà
crin, cangiò’l volto, batté il petto) la metamorfosi della Maddalena, ora
ripiena di celeste gioir, di santo amore.
Dal sacro colloquio nasce una nuova e diversa Maddalena, l’apostola
che genera ed amplifica in nuovi contenuti esistenziali la forza
creatrice del Lògos.
Ne La Galeria delle donne celebri (Verona, 1633) Pona ritrae Maria di
Magdala come una donna bella e seducente in una giovinezza «molle
ed incauta»:
Maria vantò bellezza sì prodigiosa che chi la mirava restava assorto nel
contemplare quel dolce misto di lineamenti e di colori. […] Era questa
le delizie dei padri, che, invaghiti soverchiamente de’ vezzi e delle grazie
di lei, la nutricavano con le morbidezze d’un re […] Ella[…] già
andava altera delle bellezze ancora acerbe17.
Dopo la morte dei genitori, alla cui sbagliata educazione l’autore
attribuisce la responsabilità della lascivia della figlia, Maddalena
«Sentitasi dunque libera, impaziente per natura di freno, cominciò errare
tra que’ piaceri che allettano una giovinezza molle ed incauta»18.
A Gerusalemme comincia a frequentare molti amanti nella sua lussuosa
casa: «[…] la ricca giovane s’era fatta Dio il Diletto e non
l’Utile»19.
Dopo l’incontro con Cristo e il Suo Amore, Maria si trasforma e ora
la sua ombra è quella della penitente devota. Proprio con un invito
alla penitenza Pona aveva fatto precedere la narrazione della vita della
santa, ammonendo i peccatori carnali:
Alla Penitenza finalmente, o lascivi. Già che su l’orme della Morte il
gran Giudigio s’approssima. Cancellino il dolore, e l’ammenda gli andati
errori. Ecco Principessa vezzosa e morbida, detto al Mondo et a’
sensi a Dio, ammaestrar con l’essempio le caterve de’ carnali. Miratela
ed ammiratela20.
La donna di Maddalo è anche protagonista di quello che è considerato
«il capolavoro del romanzo religioso italiano»21: Maria Maddalena
peccatrice e convertita di Anton Giulio Brignole Sale, uscito a Genova
17 F. Pona, La Galeria delle donne celebri, cit., pp. 152-153.
18 ivi, p. 154.
19 ivi, p. 155.
20 ivi, p. 149.
21 M. Capucci, Romanzieri del Seicento, UTET, Torino 1974, p. 28.
[ 16 ]
l’ombra di maddalena 79
nel 163622. II romanzo spirituale, con il proposito di commuovere il
lettore attraverso un forte pathos, fa della giovane e bella peccatrice la
protagonista della prima parte dell’opera. Qui la Maddalena appare
nelle sontuose vesti di una tentatrice, che dedica ogni sua cura alla
bellezza e alla seduttività del corpo. E impregnate di profumi («arabi
odori») sono la sua persona e la sua casa, che
[…] spalancatasi a Bacco e Venere, diventò una scuola di lussi impuri…
dove «mescolavasi per l’aria la deliziosa peste d’arabi odori col
lezzo che spiravano bocche sboccate. Fiorivano le fatiche d’aghi persiani
ne’fini arazzi, risplendeano i tormenti de’ martelli addotrinati
negli ori industri, apparendo ricca Maddalena in tutto, fuorché nell’anima.
(I, 180-83)
E con un vaso d’alabastro colmo di un costoso unguento Maddalena
entra in casa del Fariseo:
E accostatasi con riverente impazienza a’ sacrati piedi, con labra tutto
tremanti amorosamente baciolli e nello stesso tempo con gli eccessi
d’un amor non so s’io dica più violento o più naturale, spalancando le
più calde e più veraci vene delle sue lagrime, prese ad inondarli tutti
col proprio cuore. Grondavano quell’onde amare di penitenza l’una
l’altra incalzando con la dolce invidia ch’aveano le cadenti alle già cadute,
né giammai cessavano da lor torrenti se non quando avean pietà
de’ guardi che bramavano essi ancora di godere de’ piedi amati. (…) e
con nuovi baci, e con nuovi pianti sovr’essi ricaduta, sospirando, singhiozzando
in basse e interrotte voci cosi dicea: «(…) Mai mai più mi
distaccherò. Queste lacere chiome che vi rasciugano, a voi in perpetuo
parimenti mi legheranno». (…) Appresso gli unse col prezioso unguento
dell’alabastro ch’ella distendea non meno con le labbra che con
le mani e ch’era più prezioso per il pianto che per il nardo. (I, 302-19)
La santa sparge l’unguento sui piedi di Gesù più con le labbra che
con le mani. Il passo evangelico risulta del tutto mutato da un gesto di
così forte erotismo e dall’incedere delle figure retoriche. Le metafore
riguardanti le lacrime, «onde amare di penitenza», che coincidono con
le sparse chiome, amplificano, attraverso significati corporei e spirituali,
la narrazione di Luca. L’olio di nardo è ora un dono ancora più
prezioso, perché gli sono state aggiunte le lacrime, il distillato dell’anima
stessa della pentita.
Il profumo è un vero protagonista del romanzo del Brignole: è an-
22 L’edizione citata è quella a cura di D. Eusebio.
[ 17 ]
80 anna maria pedullà
cora il balsamo dell’unzione sacra che Maria porta con sé al sepolcro:
«Entrerò, rapirò meco l’amato corpo, ungerollo con gli odori più pregiati
dell’oriente che io recherò. Avviverò in alcuna guisa co’ miei baci
le belle membra». (II, 242)
È l’odore celestiale delle piaghe di Gesù che profumano l’empireo
(IlI, 283) e l’ambrosia che accompagna il Signore nell’Ascensione al
cielo:
Iva la celeste corte con penne intinte nell’ambrosia profumando ovunque,
apria il sentiero il monarca eterno e, con note pure d’ambrosia,
dava metro al bel viaggio per simil guisa. (II, 332)
E specialmente nell’estasi mistica Maddalena avverte il profumo
dell’Amato. Il profumo, un tempo dono di Maddalena, ora è un regalo
divino. Il simbolo sensibile del legame amoroso permane, ma, arricchendosi
di note spirituali, si trasforma in una traccia totalmente nuova
e salvifica.
Gentil aiuola, ove un’Arabia rara
Abbia ordinato aromi, è l’amorosa
Guancia onde maggio i dì solenni impara.
(III, IV, 58-61)
La Conversione della Maddalena di Cagnacci (1650-58) è una delle
rarissime ed esplicite iconografie sul mestiere di prostituta della seguace
di Gesù (fig. 3). Il suo corpo è un bellissimo nudo di donna dai
capelli biondissimi, sensualmente disteso e cinto da un lieve lino bianco.
Attorno a lei sono sparsi l’abito di cui si è spogliata e i suoi ricchi
gioielli. La sorella Marta la ammonisce a dare ascolto all’angelo custode,
che intanto lotta con un nerboruto e irsuto demonio.
Dal secolo dei lumi in poi l’ombra di Maddalena tende a svanire. Il
mito della peccatrice penitente subisce ulteriori mutazioni, rinunciando
agli elementi mistici e devozionali e affidando alla figura diversi
contorni e significati più storici e realistici, fino alla sua ripresa nelle
contemporanee mitologie neobarocche del discorso cinematografico23.
Anna Maria Pedullà
Università degli Studi “L’Orientale” – Napoli
23 Si ricordano qui The Da Vinci Code, 2006, film di Ron Howard tratto dal best
seller di Dan Brown (2006), preceduto dalla trasposizione cinematografica con cui
Martin Scorsese (The Last Temptation, 1988) adattò l’altrettanto omonimo romanzo
di Nikos Kazantzakis (1955).
[ 18 ]
l’ombra di maddalena 81
Fig. 1. Masaccio, Crocifissione (1426), olio su tela, Napoli, Museo di Capodimonte.
Fig. 2. Caravaggio, Maria Maddalena in estasi, (1606), olio su tela, coll. privata.
82 anna maria pedullà
Fig. 3. Cagnacci, La conversione della Maddalena (1650-1658), olio su tela, Pasadena,
Museum of arts.
RAFFAELE CAVALLUZZI
Ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos
Le caratteristiche della poesia di Pascoli si fanno, nel tempo, sempre più “visionarie”:
ne sono, tra l’altro, testimonianza efficace, nella loro tenuta limpidamente
classicheggiante, i Poemi conviviali. Tuttavia esse si continuano a intrecciare
a motivi propri del nichilismo del “romanzo” pascoliano (Garboli) come
emergevano già dai capolavori di Myricae e dei Canti di Castelvecchio. E in particolare
prendono sostanza dalla dialettica, di forte impronta decadente, di eros e
thanatos.

The characteristics of Pascoli’s poetry become ever more “visionary”: a fine example
may be found in the classically inspired Poemi conviviali. Yet these characteristics
remain tied to themes linked to the nihilism of Pascoli’s “novel”
(Garboli), as they already emerged from the masterpieces Myricae and Canti di
Castelvecchio. In particular, they take their form from the dialectic, typically
decadent, between eros and thanatos.
“Se si osserva l’arco descritto dalla poesia pascoliana
nel suo evolversi, si resta sorpresi dalla presenza
d’un tratto insolito, che non si riscontra di
frequente in altri poeti: quest’opera è portatrice
di un destino. O se si preferisce di un romanzo,
se per romanzo s’intende la storia di uno o più
destini il cui svolgimento potrebbe sembrare inesplicabile,
se qualcuno non si incaricasse di raccontarcelo
per filo e per segno”.
(Cesare Garboli, Al lettore, come premessa a G.
Pascoli, Poesie e prose scelte, p. 34)

“È mia persuasione che esista nell’opera del Pascoli
una tragedia rimossa, sconosciuta, un disegno
da ricomporre, un messaggio da decifrare,
Autore: Università di Bari; professore emerito; raffaele.cavalluzzi@uniba.it
84 raffaele cavalluzzi
un diorama dagli oscuri connotati romanzeschi
che l’Autore ha occultato ai suoi lettori e forse
anche a se stesso”.
(Cesare Garboli, Al lettore, cit, p. 7).
La tendenza in qualche modo rasserenata del visionarismo maturo
di Giovanni Pascoli è uno schema che, nella sua articolazione (seguita
in specie dall’acuto studio filologico di Cesare Garboli)1, non regge
sempre a motivare l’attenuarsi del dramma del “romanzo” pascoliano2.
Vi si insinuano, infatti, spesso fecondamente, ancora temi ed emozioni
che si nutrono di una sensibilità si direbbe nichilista, come – è
noto – già avveniva con Myricae, e poi con i Canti di Castelvecchio, nella
singolare, più alta stagione di quel percorso poetico3. Ciò accade, ad
esempio, nel poema di Solon, che, pur essendo il primo dei Conviviali4
1 C. Garboli, Al lettore. Premessa a G. Pascoli, Poesie e prose scelte da Cesare
Garboli. Milano, Meridiani Mondadori, 2002. Per i Poemi conviviali cfr. però anche
l’edizione a cura di G. Leonelli. Milano, Mondadori, 1980.
Per la critica pascoliana cfr. gli Atti del Convegno di San Mauro del 1982, Giovanni
Pascoli: Poesia e poetica. Santangelo di Romagna, Maggioli Editore, 1984, e i
fondamentali studi di G. Debenedetti, Saggi critici. 3° serie. Milano, Il Saggiatore,
1959, e Pascoli: La rivoluzione inconsapevole. Lezioni inedite. Milano, Garzanti, 1979;
G. Barberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia di Pascoli. Messina-Firenze,
D’Anna, 1966; G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Varianti e altra linguistica, Torino,
Einaudi, 1970; M. Tropea, Giovanni Pascoli in G. Savoca e M. Tropea, Pascoli,
Gozzano e i crepuscolari, Roma-Bari, Laterza 1976; G. Nava, “Casa mia” e il simbolismo
onirico del Pascoli, Bologna, Il Mulino, 1980; M. Santagata, Per l’“opposta balza”,
Milano, Mondadori, 2004.
2 Della vicenda letteraria e umana di Pascoli parla appunto come di una sorta
di “romanzo” C. Garboli, già cit. Ma per la biografia pascoliana cfr, a questo proposito,
anche il libro della sorella del poeta Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni
Pascoli, Milano, Mondadori, 1962.
3 Per Myricae cfr. il commento del curatore dell’edizione critica G. Nava (2 voll.
Firenze, Sansoni 1984), nonché l’edizione a cura di F. Melotti, con l’introduzione
di P. V. Mengaldo, Milano, BUR, 1981. Si vedano poi anche F. Felcini, Premessa a
una rilettura del Pascoli, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli, pubblicati
nel cinquantenario della morte. Bologna 1982, vol. III, pp. 249-273, e R. Cavalluzzi,
Nel “romanzo” pascoliano: le visioni, la morte, in Forme e contesti. Studi in onore
di V. Masiello, a cura di F. Tateo e R. Cavalluzzi, Roma-Bari, Laterza, 2005. Per i
Canti di Castelvecchio cfr. l’edizione a cura di G. Nava, Milano, BUR, 1989.
4 Per i Poemi conviviali di Pascoli cfr. l’edizione con commento di Poesie e prose
scelte da Cesare Garboli, già cit. (ma per Solon cfr. in particolare Premessa pp. 1043-
1062, e per il testo e il commento pp. 1063-1072; le relative citazioni saranno d’ora
in poi tratte da questo testo).
Sui Conviviali, per la bibliografia critica, cfr. D. Petrini, Dal barocco al decadenti-
[ 2 ]
ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos 85
(di forma riposata e volta a segnare di senso consolatorio la forte impronta
classicista dell’ispirazione pascoliana), nasce ancora, per suo
conto, ai margini delle Myricae, appunto, e dei Canti (1894-1895).
La composizione utilizza, da un lato, dati storici relativi alla figura
del grande legislatore ateniese Solone, vissuto tra il VII e il VI secolo
a.C., e, dall’altro, il mito di Saffo, poetessa suicida, nella leggenda, per
amore di Faone. La prima parte del poema, una lassa in endecasillabi
sciolti come le altre due successive, è raffinatamente descrittiva nell’individuare
i placidi giorni della vecchiaia del saggio protagonista, il
quale si intrattiene in ricchi conviti nel periodo delle feste Anthesterie
dedicate al dio Dioniso, mentre non può far altro – non più uso ad
amori e a giochi virili – che gustare il vino vecchio e godere del canto
novello. Il poeta, che dall’esterno evoca la scena, già la colloca, da subito,
nel contesto di rara suggestione e di bellezza struggente del canto
di una voce che, pascolianamente, ha la religiosa “eco dell’Ignoto”.
Infatti avverte: «Oh! nulla, io dico, è bello più che udire/ un buon
cantore, placidi, seduti/ l’un presso l’altro, avanti mense piene/ di
pani bianchi e di fumanti carni;/ mentre il fanciullo dal cratere attinge/
vino, e lo porta a mensa nelle coppe;/ e dire in tanto grazïosi
detti,/ mentre la cetra inalza il suo sacro inno,/ o dell’auleta querulo,
che piange,/ godere, poi che ti si muta in cuore/ il suo dolore in tua
felicità» (vv. 5-15).
I personaggi ritratti in questo limpido quadro di perfetta armonia
e dolcezza sono peraltro lo stesso Solone e il suo ospite ora consueto,
l’amico Phoco, che, quando gli ricorda gli anni ormai lontani, gli annuncia
anche l’arrivo di una donna di Eresso, dall’eolica Lesbo, che,
con la bonaccia e con gli uccelli compagni di primavera, gli porta in
dono due nuove canzoni: l’una d’amore, l’altra di morte. – Le si apra
allora la porta – fa Solone, e lei, sedutasi a “uno sgabello d’auree borchie
ornate”, e con una coppa di vino, raccolta e ispirata (“pensosa”),
accorda e fa vibrare i tesi fili di per sé già “fremebondi” della cetra.
Da questo punto segue la declamazione dei versi veri e propri dei
due canti, intanto che la terza lassa di endecasillabi che consente continuità
al racconto è inframezzata, dopo il decimo verso e dopo il tredicesimo,
da due odi saffiche di cinque strofe ciascuna. Nei due canti i
temi di amore e morte si intrecciano saldamente e si confondono tanto
che, in primo luogo, Solone che ascolta, all’evocazione dell’impetuosa
smo, Firenze, Le Monnier, 1957, e C. Goffis, Pascoli antico e nuovo, Brescia, Paideia,
1969.
[ 3 ]
86 raffaele cavalluzzi
passione di Saffo che la porta al suicidio dalla rupe Leucade mentre
segue sull’ultimo orizzonte il sole che tramonta (Faone), unita inscindibilmente
alla sua luce, che si dilegua, come estrema “chiarità” e vuol
essere in tal modo linea di confine crepuscolare con la vita, così esclama:
«La Morte è questa!». Il canto di Saffo nel frattempo, è tramato di
trepidi paesaggi, di metafore e di emozioni stupendamente myricee:
«Splende al plenilunio l’orto: il melo/ trema appena d’un tremolìo
d’argento…/ Nei lontani monti color di cielo/ = sibila il vento. //
Mugghia il vento, strepita tra le forre,/ su le querce gettasi… Il mio non
sembra/ che un tremore, ma è l’amore, e corre,/ = spezza le membra!
// M’è lontano dalle ricciute chiome,/ quanto il sole, sì, ma mi giunge
al cuore,/ come il sole: bello, ma bello come/ = sole che muore.// Dileguare:
e altro non voglio: voglio / farmi chiarità che da lui si effonde./
Scoglio estremo della gran luce, scoglio/ = su la grande onda, //
dolce è da te scender dove è pace:/ scende il sole nell’infinito mare;/
trema e scende la chiarità seguace/ = crepuscolare//» (vv. 41-60).
L’amore accompagna dunque la volontà di morte, ma, con la poesia,
anche la nega. È quanto, replicando a Solone, illustra appunto l’altra
canzone: «beltà d’atleta/ muore con lui»; «Muore la virtù dell’eroe
»; muore lo splendido corpo di un’amante; muore l’acuto sguardo
del timoniere: ma «il poeta finché non muore l’inno,/ = vive immortale,
// poi che l’inno [……] / è la nostra forza e beltà, la vita, = l’anima,
tutto //» (vv. 76-79). La chiusa finale è allora una parafrasi delle parole
del grande saggio citate da Stobeo, come le riportava Claudio Eliano:
«Questo era il canto della Morte, e il vecchio/ Solon qui disse:
Ch’io l’impari, e muoia»5. Lo storico infatti così narrava l’episodio:
«Solone l’ateniese figlio di Exechéstide, avendo udito suo nipote cantare
durante un banchetto un carme di Saffo, se ne dilettò e chiese al
giovane d’insegnarglielo. Avendogli questi domandato per quale motivo
lo desiderasse, rispose: Per morire dopo averlo imparato. ìna matòn
autò apotàno».
Del resto, Pascoli riprende il tema di amore e morte, che ha radici
profonde nella cultura classica: esplicitamente, ancora, nel poema di
Psyche (1904)6, ispirato ad Apuleio, l’Amore vi è intanto evocato come
5 Commento a Solon di C. Garboli sopra cit.
6 Dai Poemi conviviali, cit., pp. 1156-1168. Si ricordi che nel platonismo la “Psyche”
ci mette a parte della verità immutabile dell’essere contro l’effimero e l’apparente:
per questo, nonostante la sua flebile entità, è chiamata a governare la nostra
esistenza (per questo cfr. ora Anthony A. Long, Greek Models of Mind Self, Cambridge
Massachuttes, London England, Harward University Press, 2015).
[ 4 ]
ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos 87
“ignota belva”, “crudele mostro ignoto”, cui la “lieve” e “pallida”
Psyche, prigioniera nel soma, fu data in sposa senza che potesse guardarlo
in viso, e che l’abbandonò quando fu da costei riconosciuto, una
notte addormentatole accanto: l’Amore si rivelava così solo allorché
era svanito, lasciando la fanciulla a sospirare, ad amarlo e ad attenderne
invano il ritorno. L’oblio del fiore di papavero non la sottrae, peraltro,
al comando delle voci che l’assediano nel carcere del corpo (quelle
che ordinano i gravosi doveri); e un giorno, a Psyche, è imposto di
portare una “brocca di cristallo al fonte” custodito dal drago, che qualcuno,
non veduto, riempie però d’“oscura acqua di morte”, e in cui
appare “il vortice del nulla”. «E Pan allora – fa il poeta rivolta a lei –
[Pan, suprema divinità] un dolce/ canto soffiò nelle palustri canne, /
che tu piangesti a quel pensier di morte / come piangevi per desìo
d’amore:/ lo stesso pianto, così dolce, o Psyche!» (vv. 114-118). Però la
“voce” dell’illusione che mitiga l’assedio delle altre voci allora consola
la fanciulla: «Povera Psyche, io so dov’è l’Amore./ Oh! l’Amore t’aspetta
oltre la morte», e l’invita a passare l’Acheronte perché la morte
non può più fare del male ai trapassati. Ma, nel passaggio, Psyche
trema di paura, e cade “nel queto vortice del nulla”.
Tuttavia Pan, personificazione della Natura, «il gregge pasce là su
l’orlo/ del morto fiume […]. Egli ti porge un braccio/ ispido, e su ti
leva intirizzita,/ gelida, o Psyche, immemore, e ti corca/ nuda così,
lieve così, nel vello/ del suo gran petto, e in sé ti cela a tutti» (vv. 159-
[…]169-173): intanto «.. ti cullava sulla vecchia barca/ un canto lungo,
che da te più sempre/ s’allontanava sino a dileguare/ nella dimenticata
fanciullezza» (vv. 165-168). Psyche è tornata dunque nel grembo
naturale: forse nelle canne che «Pan, la notte/ fa dolcemente zufolare
», o «tra il gregge./ O nel vento che passa o nella selva/ che cresce.
O sei [Psyche] nel bozzolo d’un verme/ forse socchiusa, o forse ardi
nel sole» (vv. 186-189). L’anima ha inseguito l’Amore, mostruoso mistero,
e la morte le assicura di restare per sempre nella divinità del
tutto: tenera poesia, o cosa, o animale, o raggio di sole.
Per Pascoli, dunque, per via allegorica, l’esito del confronto catastrofico
di amore e morte si sublima, ancora senza limiti di tempo e di
spazio, alla fine nella poesia, oppure porta a sprofondare nel nulla,
che è divina natura del tutto: l’alternativa, così, in parte corrisponde
allo sperimentato nichilismo giovanile, o altrimenti, con maggiore determinatezza,
svaria nella lunga solitudine esistenziale, nella più intensa
malinconia, e in qualche vaga religiosità di fondo, che sono, a
ben vedere, i medesimi caratteri che accompagnano a lungo la parabola
del suo “romanzo” di vita.
[ 5 ]
88 raffaele cavalluzzi
Per questo, scendere dal cielo della pura tradizione letteraria e verificare
nella realtà vissuta i risultati di quel conflitto significa cogliere
anche più direttamente la negatività dei suoi impulsi e, insieme, la
loro efficacia poetica. Ciò accade, ad esempio, con straordinaria originalità
in uno dei più noti Poemetti, Digitale purpurea (1898)7. Amore e
morte qui vengono colti nel germoglio misterioso delle vicende adolescenziali
di due vergini: Maria, la sorella del poeta, e Rachele, una sua
compagna di educandato. Il fiore acceso della digitale purpurea è al
tempo stesso metafora del mistero della maturazione, e tramite concreto
del turbamento dei sensi, del desiderio segnato dalle figure biologiche
e psicologiche assunte da eros e thànatos.
L’evocazione poetica ha qui i lineamenti realistici di una scena che
viene dal tempo all’immaginazione dell’artista: le ragazze “siedono”
nel giardino del convento e ricordano se stesse nel passato; “vedono”
e sono convocate dall’io poetante a tornare a sentire le equivoche sensazioni
di un tempo; “piangono” (ora e allora), mentre il fiore della
morte, “in disparte”, effonde i suoi effluvi erotici e letali. Ma perché in
quell’orto chiuso del collegio gestito da suore cattoliche un “canto misterioso”?
Perché il poeta s’intromette per consegnare ai suoi due personaggi,
ad un tempo, il suo stesso turbamento, e la sofferenza per
l’irraggiungibile lontananza della giovinezza? Per chi è l’“addio” di
Rachele e il “vieni… vieni” che sembra ancora sussurrare nella ritornante
morbosità? Evidentemente così il realismo si dissolve e restano
vive le impalpabili suggestioni, le emozioni non cancellabili di amore
e di morte, che la vita, sì la vita, in passaggi cruciali, è destinata a incontrare.
Del resto, nei Canti di Castelvecchio8 come era già avvenuto in Myricae,
le cose, le piccole sensazioni del reale, le voci della natura, impressionano
a tal punto l’anima da incidere negativamente sul carattere
del poeta. Così, nella forte intensità simbolica di Nebbia (1899), collocate
fuori del tempo e dello spazio, dolcezza e, insieme, struggente mestizia
sono spinte a nascondere le cose lontane e al tempo stesso ad affettuosamente
avvicinarle, mentre, d’inverno, umili le ciaramelle, di un
altro componimento omonimo (1902), accompagnano il “breve mistero”
della vita, risuonando nel pathos del cuore che, significativamente,
“vuole il pianto”.
7 Per i Poemetti cfr. l’edizione a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1971. In
particolare, poi, per Digitale purpurea cfr. G. Barberi Squarotti, Simboli e strutture
della poesia di Pascoli, già cit.
8 Per le citazioni dai Canti si userà l’edizione a cura di G. Nava, cit.
[ 6 ]
ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos 89
Ma è nel programmatico “canto” de La poesia (1898) che si concentrano
esemplarmente le motivazioni emozionali e letterarie del Pascoli
di questa fase. L’autore le riferisce allora alla vocazione illuminante
e ardente della poesia come lampada “soave” che raccoglie nella luce
le voci e le narrazioni della vita, la semplice realtà quotidiana del
mondo rurale; che unisce intorno a sé la ferma solidarietà delle modeste
e miti famiglie anche di fronte a inevitabili divisioni e alla sofferenza
(la figlia che, «rapita nell’aurea mia fiamma/ non segue lo sguardo
tuo vano;/ già fugge, è già, povera mamma,/ lontano!» vv. 33-38); che
accompagna i tempi di felicità e di dolore dell’esistenza fino a illuminare
– in un funereo scenario – «tacita/ tombe profonde – con visi/
scarniti di vecchi; tenaci/ di vergini bionde sorrisi» (vv. 65-68), mentre
la madre «nell’ombra senz’ore,/ per te, dal suo triste riposo,/congiunge
le mani al suo cuore/ già ròso! –» (vv. 69-72). Alla fine, essa si
dichiara comunque «la lampada ch’arde/ soave// nell’ora più sola e
più tarda,/ nell’ombra più scura, più grave,/ più buona, o fratello!//
Ch’io penda sul capo a fanciulla/ che pensa,/ su madre che prega, su
culla/ che piange, su povera mensa,/ su tacito avello» (vv. 73-82). E la
morte, come l’amore, ci porta così, con versi struggenti, in un altro
luogo per poter sopravvivere: lontano lontano! Là dove però Il poeta
solitario (1901) rende dentro di sé contemporaneo il conflitto tra radicato
amore e morte incombente: lui, «un gramo rospo che sospira»,
ruba una nota all’usignolo per cantarli nel ricordo, e, ne L’ora di Barga
(1900), dinanzi all’incalzare del tempo, chiede: «Ma un poco ancora
lascia che guardi/ l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo,/ cose che han molti
secoli o un anno/ o un’ora, e quelle nubi che vanno» (vv. 9-12), abbandonandosi
alla fine ancora una volta al risarcimento della memoria:
«… Sì ritorniamo// dove son quelli ch’amano ed amo» (vv. 41-
42).
Naturalmente tra questi, quelli ch’amano ed amo, ci sono i morti, come
accade nella Tovaglia (1902-1903), dove è rappresentato l’amore dei
vivi di fronte alla morte, o meglio, dove, dentro una tensione fortemente
onirica, sono i vivi a cercare i morti e a chiamarli. Il manifestarsi
dei morti, nell’avvertimento della madre alla sua piccola, ha ancora
un’eccezionale carica affabulatoria: «Bada, che vengono i morti!/ i
tristi, i pallidi morti.// Entrano, ansimano muti./ Ognuno è tanto mai
stanco!/ E si fermano seduti/ la notte intorno a quel bianco./ Stanno
lì sino al domani,/ col capo tra le due mani,/ senza che nulla si senta/
sotto la lampada spenta» (vv. 8-16). Secondo il racconto e l’esortazione
popolare («Lascia che vengano i morti,/ i buoni, i poveri morti.// Oh!
la notte nera nera,/ di vento, d’acqua, di neve,/ lascia ch’entrino da
[ 7 ]
90 raffaele cavalluzzi
sera,/ col loro anelito lieve!/ che alla mensa torno torno/ riposino fino
a giorno,/cercando fatti lontani/ col capo tra le due mani», vv. 23-
32), essi così, nella visione pascoliana, si umanizzano col crescere
dell’esperienza di vita di quella bambina e di tutti: col passare degli
anni, infatti, l’amore sembra avere addolcito la crudezza della morte
attraverso il farsi sereno del ricordo.
Il visionarismo pascoliano si accende sempre più, comunque, nel
famoso, emblematico ciclo intitolato “Il ritorno a san Mauro”, con l’evocazione
del luogo, cioè, della lieta fanciullezza, e poi – nesso d’amore
e morte – dello schianto improvviso (l’assassinio del padre), dell’abbandono
precoce della madre e il distacco via via da altri cari ospiti di
quello che fu il suo “nido”. Si pensi a riguardo ai versi cruciali delle
Rane (1897), alle forti percezioni cromatiche e acustiche che li sostanziano,
all’allegoria della via della vita che diventa uno smarrimento
nel sogno intensamente simbolico: «Da siepi, lunghe ombre di croci/
si stendono su la via bianca […] E sento nel lume sereno/ lo strepere
nero del treno/ che non s’allontana, e che va/ cercando, cercando mai
sempre/ ciò che non è mai, ciò che sempre/ sarà…» (vv. 33-34 e 39-
44). E poi a quelli del fiammeggiante Il bolide (1903): il momento forse
più acuto della riflessione e suggestione sull’universo e sull’uomo
nell’universo, sul mistero, con le immagini da incubo che sono la dolceamara
suggestione giovanile di un presagio solo analogico del proprio
assassinio («A’ miei venti anni, mal vivo,/ pensai tramata anche
per me la morte nel sangue» vv. 7-9).
Il legame con la famiglia si concentra per via dell’endiade amoremorte
già nella metafora centrale del Nido di “farlotti” (1903), spauriti
uccellini insidiati dal predatore, e prima fra tutti la madre. E La voce
(1902) è quella appunto della madre che non c’è più, la quale, con l’amore
perenne e vivo, implora il poeta di lasciare il giovanile proposito
di autodistruzione: «C’è una voce nella mia vita,/ che avverto nel
punto che muore:/ voce stanca, voce smarrita,/ col tremito del batticuore://
voce d’una accorsa anelante,/ che al povero petto s’afferra/
per dir tante cose e poi tante,/ ma piena ha la bocca di terra» (vv. 1-8).
Ancora nel ciclo del “Ritorno” La messa (1903) evoca poi un rito lontano
– davvero –, a consolare nella memoria d’amore, mentre resta vicino,
nel cuore, il suono funesto e triste di una campana («Sonai per tua
mamma… ma grave,/ ma dolce, ma pia, come un Ave,/ sonai per la
madre che fu!// Sonai con rintocchi sì piani!/ pensando che aveva
lontani /voi, bimbi, che non vide più…» vv. 25-30). Casa mia (1903)
riporta, così, un paesaggio tristemente sognato negli accesi colori e
impalpabili silenzi delle strofe 2, 4, 6 del componimento, invertite in
[ 8 ]
ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos 91
16, 18, 20 del finale: «M’era la casa avanti,/ tacita al vespro puro,/
tutta fiorita al muro/ di rose rampicanti […] Una lieve ombra d’ale/
annunziò la notte/ lungo le bergamotte/ e i cedri del viale […] S’udivano
sussurri/ cupi di macroglosse/ su le peonie rosse/ e sui giaggioli
azzurri».
Ora, a nutrire il desolato sentimento, resta solo il fantasma di una
fanciulla amata («E piange, piange – Mio dolce amore,/ non t’hanno
detto? Non lo sai tu?/ Io non son viva che nel tuo cuore.// Morta! Sì,
morta! Se tesso, tesso/ per te soltanto; come, non so;/ in questa tela,
sotto il cipresso,/ accanto alfine ti dormirò. –», La tessitrice, 1903, vv.
19-25), sicché la classica relazione amore-morte sostituisce l’amore filiale
attraverso il profilo di un personaggio oltremodo infelice dalle
somiglianze leopardiane. Nel susseguirsi delle figure poetiche femminili,
nel componimento omonimo del 1899-1903, si apre quindi uno
spiraglio quasi freudiano, nascosto nell’immagine, questa viva, della
sorella Maria, ma per tornare subito, di seguito, ai versi dedicati dalla
mesta passione per la scomparsa della madre (Mia madre, Commiato,
Giovannino). I toni luttuosi rimbalzano, inoltre, dall’epica di morte, come
ritorno all’amore piagato del figlio, nella Cavalla storna (ancora una
volta del1903). Il ritorno a casa del padre ucciso è il risveglio di un ricordo
indelebile del poeta, è un’angoscia che continua, che soffoca il
presente «O cavallina, cavallina storna,/ che portavi colui che non ritorna!
», quasi un refrain dei vv. 23-24 con il tempo passato e presente
congiunti insieme, con al centro l’immagine incancellata e ferma di un
muliebre dolore:«Con lui c’eri tu sola e la sua morte» v. 26.
Ma è nel Gelsomino notturno (1901) che amore e morte si consolidano
in quelli che sono tra i più densi segni simbolici della poesia dei
Canti. In esso, l’ora topica dei ricordi e dei colloqui con i propri defunti,
la notte – nuziale – («E s’aprono i fiori notturni,/nell’ora che penso
a’ miei cari./ Sono apparse in mezzo ai viburni/ le farfalle crepuscolari
» vv. 1-4), chiude e vede espandersi dentro di sé l’odore e la vischiosità
dell’atto d’amore fecondativo: «È l’alba: si chiudono i petali/
un poco gualciti; si cova,/ dentro l’urna molle e segreta,/ non so che
felicità nuova» vv. 21-24). È così che la turbata liquidità erotica e la sua
spinta diventano forma di un intenso, straordinario rapporto tra la
morte e l’amore, congiunti, in modo appena coperto, dalla sessualità:
«Dai calici aperti si esala/ l’odore di fragole rosse./ Splende un lume
là nella sala./ Nasce l’erba sopra le fosse» (vv. 9-12).
Per tornare comunque ai Poemi conviviali da cui ci siamo originariamente
mossi, amore e morte spiccano come motivi dominanti a caratterizzare
la superfetazione letteraria pascoliana nel trittico de La cetra
[ 9 ]
92 raffaele cavalluzzi
d’Achille, Le Mnemonidi e Anticlo9. Nella Cetra, in particolare, si canta,
in endecasillabi sciolti raccolti in sette strofe, l’ultima notte, prima della
morte, del Pelide. Achille, nell’ora appunto del sonno di tutti (mentre,
con grande pena, «giungeva un vasto singhiozzar dal mare», quasi
un’eco presaga e lontana delle «figlie del verace Mare,/ nel nero
Ponto»), sveglio, canta con la sua cetra «arguta» la gloria degli eroi
caduti nella guerra troiana e le sue stesse gesta, e «sotto Ilio, alta e feroce/
la bronzea voce si frange». La fierezza del grande guerriero è
accentuata dal suo ferino abbigliamento: «Avea la spoglia, su le membra
ignude,/ d’un lion rosso già da lui raggiunto,/ irsuta, lunga sino
ai pie’ veloci», quando ad un tratto gli si fa d’avanti quasi un’ombra,
«uno, canuto,/ simile in vista a vecchio dio ramingo». All’eroe cui egli
bacia «le mani terribili», sembra all’aspetto, un re sconfitto (Priamo) o
una spia, ma il vecchio gli dice di essere soltanto un aedo che viene
dalla regione di Tebe, a chiedere che gli si renda, non il corpo del figlio
ucciso per mano del guerriero, ma la sua cetra. Il poeta, con le parole
del vecchio aedo, intanto evoca, con solennità omerica modulata da
un moderno ritmo impressionistico, il prossimo compimento del destino
dell’eroe: «ché tu sei già del tuo destino, e tutti/ lo sanno, il cielo,
l’infinito mare,/ la nera terra, e lo sai tu ch’hai dato/ ai cari amici le
tue prede e i doni/ splendidi». Achille, dal suo canto, prima dubbioso
e fra sé furente («E il cuor d’Achille, mareggiava, come/ il mare in
dubbio di spezzar la nave,/ piccola, curva»), gli restituisce comunque
il suo strumento, mentre, accompagnato dal suo fascinoso suono,
ascolta, col contrappunto dei segni d’inquietudine dei suoi leggendari
cavalli, le note del dolore che cresce con la consapevolezza della fine
imminente: «Allora udì su lui piangere il mare,/ piangere le figlie del
verace Mare,/ lui, così bello, lui così nel fiore;/ e molte con un improvviso
scroscio/ venir per trarlo via con sé; ma in vano./ E vide
nella sacra notte il fato/ suo, che aspettava alle Sinistre Porte,/ come
l’auriga asceso già sul carro,/ la sferza in pugno, che all’eroe si volge,/
sopragiungente nel fulgor dell’armi». Il vecchio però subito dopo si
allontana con la cetra perché il morituro non soggiaccia allo sgomento
per la morte incombente («Lascia che pianga e mare e terra e cielo;/ tu
no. Non devi inebbriar di canto/ tu, divo Achille, l’animo sereno/ che
sa, non devi a te celare il fato,/ non che ti volle ma che tu volesti./
Restaci grande, o Peleiade Achille!»). Il canto della morte è giusto sia
9 Cfr. a riguardo G. Pascoli, Poemi conviviali, Bologna, Zanichelli, 1910 (ristampa).
[ 10 ]
ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos 93
cantato infatti solo da coloro che restano («E noi diremo che una dea
non vista, a frenar la tua fosca ira veniva,/ e ti prendea per la criniera
rossa,/ rossa criniera che così sconvolta/ poi ti lisciava un’altra dea
non vista,/ nel tuo dolore; e che obbedivi a voci/ dell’infinito o cielo o
mare: avanti,/ spingendo con un grande urlo d’auriga/ verso la morte
l’immortal tuo Xantho»).
Alla fine, il poemetto si chiude, mentre Achille, nobilmente rassegnato
ancora dal lontano singhiozzar delle Nereidi o dalla più sommessa
voce della madre Teti e dal «chiaro tintinnio» della cetra, «di cui
tentava il pio cantor le corde», chiude il sogno di gloria con un atto
d’amore e di desolazione, e si appresta così all’ultima battaglia. È l’amore
infatti che suggella la sua estrema storia di morte allorché lo coglie
un vicino singhiozzo: l’amata Briseide «su la soglia/ stava, e piangeva,
la sua dolce schiava/ ed egli allora si corcò tenendo/ lei tra le
braccia, con su lor la pelle/ del lion rosso; ed aspettò l’aurora».
E l’Aurora divinizzata «che la terra/ nera toccava con le rosee dita»
è la protagonista, con la sofferenza restata acerba di madre, delle Mnemonidi,
un’altra storia di morte e di gloria: anch’essa ad Achille predice
la fine: «Uccidesti il figlio dell’Aurora:/ non rivedrai né la sua madre
ancora!». Mnemone, re degli Etiopi e figlio appunto della dea, era
stato un combattente dell’esercito greco posto a vigilare a fianco di
Achille per ricordargli costantemente l’oracolo secondo il quale egli
sarebbe morto nella guerra di Troia se avesse tolto la vita, inconsapevolmente,
a un discendente di Apollo. Mnemone perciò doveva tener
desta la sua attenzione affinché il Pelide non uccidesse il figlio del dio,
e fare in modo che il medesimo accertasse sempre l’identità di colui
con cui stava di volta in volta scontrandosi. Una volta, però, nell’isola
di Tenedo, Achille, non avendolo riconosciuto, uccise proprio Tenete,
figlio di Apollo, e per questo il suo destino era stato segnato per sempre.
Intanto, fu lo stesso Achille però che punì Mnemone con la sua
lancia per quella disattenzione. L’Aurora intanto aveva ottenuto da
Zeus che nella necropoli di Tebe di Egitto, Mnemone fosse trasformato
in una statua colossale, la quale secondo la tradizione, annunciava
ogni nuovo giorno con un suono simile al vibrare di una corda d’arpa
attraverso una fenditura della pietra di cui era fatta. Inoltre, dalle ceneri
del rogo di Mnemone trapassato dalla lancia di Achille l’Aurora
aveva ottenuto altresì che, a memoria della luttuosa vicenda, si formassero
due schiere d’uccelli («gralle»), le Mnemonidi, appunto, che
lì ogni anno tornavano ad azzuffarsi ferocemente e a morire in onore
dell’eroe. Ora è dunque la dea che, accompagnata da questi tristi miti,
mentre il sole sorge, ascolta «l’urlo di guerra» che porterà, Achille dal-
[ 11 ]
94 raffaele cavalluzzi
la «criniera fulva», alla morte, congiungendo così, nella sconfitta ultima
del semidio, amore (il lancinante amore materno) e fatalità della
fine.
La storia di Anticlo è infine al centro dell’omonimo terzo poemetto
omerico. Nascosto nel cavallo di Odisseo che porterà alla distruzione
di Troia, egli ascolta con gli altri suoi compagni, di notte, «una voce
ecco al cavallo/ girare attorno, che sonava al core/ come la voce dolce
più che niuna,/ come ad ognuno suona al cuor sol una»: cioè la voce,
ora qui misteriosamente giunta, della lontana donna amata. Ma quando
egli fa per risponderle, Ulisse d’un colpo gli tappa la bocca e gli
rivela in un sussurro: «Helena! Helena è la Morte, infante!». Si trattava
infatti d’un tentativo della figlia di Priamo (che era stata causa della
guerra) far venire allo scoperto – con l’imitazione di una voce femminile
che fungesse da esca – la presenza dei nemici nel cavallo dell’inganno.
Per il momento Anticlo è costretto dunque a tacere: «Ma quella
voce gli restò nel cuore». Il giorno successivo, quello delle stragi e del
fiero comportamento, tra gli altri, anche di Anticlo, l’eroe giunge a
sacrificare la sua vita nei cruenti scontri cui va incontro: «egli giaceva/
su nero sangue, presso l’alta casa di Deifobo» (il nuovo marito –
l’“amante ultimo” – di Elena), dove i greci «contendean ai Troiani Helena
Argiva!/ tutti per lei si percotean con l’aste/ i vestiti di bronzo e
i domatori/ di cavalli; e le loro aste, stridendo,/ rigavano di lunghe
ombre le fiamme». «Ma pensava alla sua donna morendo/ Anticlo»:
sicché chiedeva che Menelao («il vincitore Atride») permettesse «che
venga la divina Helena, e parli/ a me la voce della mia lontana:/ parli
la voce dolce più che gnuna,/ come ad ognuno suona al cuor sol
una». E così gli fu concesso. Nell’ultima, tragica scena del crollo di
Troia: «ella passava tacita e serena,/ come la luna, sopra il fuoco e il
sangue./ Le fiamme, un guizzo, al suo passar, più alto;/ spremeano
un rivo più sottil le vene./ E scrosciavano le ultime muraglie,/ e sonavano
gli ultimi singulti./Stette sul capo al moribondo Anticlo/ pensoso
della sua donna lontana./ Tacquero allora intorno a lei gli eroi/
rauchi di strage, e le discinte schiave./ E già la bocca apriva ella a
chiamarlo/ con la voce lontana, con la voce/ della sua donna, che per
sempre seco/ egli nell’infinito Hade portasse;/ la rosea bocca apriva
già; quand’egli/ – No – disse: – voglio ricordar te sola –». Il poema si
conclude, così, con un amore che ha confuso mirabilmente, nel punto
di morte, una voce che sembrava venuta da lontano con quella vera,
questa; e la donna orditrice di inganni, anche lui, Anticlo, sospirava
alla fine di voler amare nel suo estremo istante.
Proprio Anticlo può far valere allora, nella dialettica eros-thànatos,
[ 12 ]
ancora nel “romanzo” pascoliano: eros e thànatos 95
il fatto che, anche per il “romanzo” del “fanciullino” pascoliano, nella
vita psichica è attiva quella forza che chiamiamo libido, l’energia della
pulsione sessuale. Tuttavia «La libido – affermava Sigmund Freud –
include certamente tutto ciò che di solito chiamiamo in quel modo, ma
si spinge anche assai oltre. Diciamo che essa si esprime in tutto ciò per
cui impieghiamo la parola polisemica “amore”. La sua estensione
coincide all’incirca con il concetto di eros in Platone». E, giacché l’eros
è unito indissolubilmente alla pulsione di morte, questa sua latenza è
senz’altro il caso del nichilismo di Pascoli, così come si manifesta nel
cuore della sua poetica dai Canti di Castelvecchio ai Poemi conviviali. Per
lui vale del resto quanto ricorda Emil Cioran – scrittore a suo modo
sepolcrale – in un suo penetrante aforisma: «L’amore è un bisogno di
affogarsi, una tentazione di profondità. In questo assomiglia alla morte.
Così si spiega perché solo le nature erotiche possiedano il senso
dell’infinito. Nell’amare si scende fino alle radici della vita, fino alla
freddezza fatale della morte. Nell’abbraccio non ci sono raggi in grado
di trapassare, e le finestre si aprono fino allo spazio infinito, affinché
uno possa precipitarvi. C’è molto di felicità ed infelicità negli alti e
bassi dell’amore, e il cuore è troppo stretto per queste dimensioni». Ed
è qui forse, perciò, il nucleo primigenio rimosso del singolare “romanzo”
di Giovanni Pascoli.
Raffaele Cavalluzzi
Università degli Studi di Bari
[ 13 ]

Federico Italiano
Isole (proto)moderniste. La Non-Trovata di Guido
Gozzano tra Francis Jammes e Gottfried Benn
In prospettiva comparatistica, il saggio colloca la scrittura cartografica de La più
bella di Guido Gozzano in ambito modernista, interpretandola quale espressione
di un più vasto sentire transnazionale, che proietta sull’isola immaginata il
conflitto tra visioni planetarie, attitudini cosmopolite e la crisi del soggetto. Partendo
dalla Non-Trovata di Gozzano, il saggio esplora le isole post-simboliste e
inattuali di Francis Jammes e l’isola regressiva e post-coloniale di Gottfried
Benn.

From a comparative literary perspective, this essay locates Guido Gozzano’s
cartographic writing of La più bella in a Modernist context and interprets it as an
expression of broader transnational tendency that projects onto the imagined
island the clash among cosmopolitanism, planetary visions and the subject’s
crisis. Starting from Gozzano’s Unfound Isle, this essay explores Francis
Jammes’ un-actual, post-symbolist islands and Gottfried Benn’s regressive and
post-colonial island’s imagery.
Introducendo il suo commento a La più bella, Riccardo Donati sostiene
che «l’Isola Non-Trovata» di Gozzano non sia né una variazione
in versi del Viaggio verso la cuna del mondo, né una delle tante «isole che
non ci sono» à la J. M. Barrie, ma che abbia piuttosto molto in comune
con l’isola immaginata dallo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares,
nel suo romanzo fantascientifico La invención de Morel (1940)1. Come
l’isola di Morel, la Non-Trovata di Gozzano è infatti un luogo privo di
traccia umana, «anantropico», progettato per arginare l’azione annichilente
del Tempo e della Storia, incorrotto e incorruttibile, perché
Autore: Austrian Academy of Sciences (ÖAW); ricercatore senior; Institute of
Culture Studies and Theatre History (IKT); federico.italiano@oeaw.ac.at
1 Cfr. R. Donati, Diventare isola. La più bella! di Guido Gozzano, in Il commento.
Riflessioni e analisi sulla poesia del Novecento, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni,
2011, pp. 111-129, p. 115.
98 federico italiano
precluso ai viventi2. Questa insolita ma azzeccata associazione ha il
pregio non solo di evidenziare uno dei caratteri fondamentali dell’isola
gozzaniana, quello cioè di essere un prodotto della mente, una sorta
di Gedankenexperiment (esperimento mentale) sul rapporto tra realtà e
finzione, ma anche quello di ubicarla, per così dire, in territorio modernista.
Tramite quest’accostamento, senza tuttavia entrare esplicitamente
nel dibattito, Donati partecipa virtualmente alla ricollocazione
storiografica dell’opera di Gozzano, corroborando la traccia di lettura
in chiave modernista indicata notoriamente da Eugenio Montale 3 e
ripresa negli ultimi anni, tra gli altri, da Cristina Della Coletta, Romano
Luperini e Raffaele Donnarumma4.
Nelle pagine che seguono, cercherò di approfondire le ragioni per
cui reputo La più bella di Gozzano non tanto una poesia emblematica
del modernismo italiano quanto piuttosto un testo paradigmatico delle
tendenze transnazionali del modernismo. Evidenziarne la transnazionalità
non significa semplicemente riconoscere alle correnti moderniste
del primo Novecento una natura sovra-nazionale, transatlantica o
intercontinentale; significa soprattutto porre in risalto la dimensione
globale, «terrestre»5 e transculturale delle risposte di scrittori, poeti e
2 Ivi, p. 115.
3 Cfr. E. Montale, Gozzano, dopo trent’anni, «Lo Smeraldo», V (30 settembre
1951), 5, pp. 3-8, poi in Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976,
pp. 54-62, e ora in Il secondo mestiere. Prose (1920-1979), a cura di G. Zampa, Milano,
Mondadori, 1996, vol. I, pp. 1270-11280.
4 Cfr. C. Della Coletta, Transtextual Patterns. Guido Gozzano between Epic and
Elegy in Goa: La Dourada, in Italian Modernism. Italian Culture between Decadentism and
Avant-Garde, edited by L. Somigli and M. Moroni, Toronto, Buffalo, and London,
University of Toronto Press, 2004, pp. 191-218, R. Luperini, Modernismo e poesia italiana
del primo Novecento, «Allegoria», t.s., XXIII (gennaio-giugno 2011), n. 63, pp. 92-100
e R. Donnarumma, Tracciato del modernismo italiano, in Sul modernismo italiano, a cura
di R. Luperini e M. Tortora, Liguori, Napoli 2012, pp. 13-38. In linea con l’accezione
ampia, «anglo-americana» di modernismo, elaborata dal volume collettaneo in cui
venne pubblicato, il saggio di Cristina Della Coletta mi pare colga nel segno uno degli
aspetti cruciali del modernismo gozzaniano, tralasciato nella lettura storico-filosofica
di Luperini, cioè la ricerca della novità in una dimensione non auratica. Per Gozzano,
infatti, la scoperta del nuovo, di un «senso della cosa nuova», non avviene attraverso
la creazione di significati nuovi o percepiti come autentici, ma è frutto di consapevoli
pratiche di scrittura transtestuali, come la parodia, l’utilizzo performativo della citazione
erudita, la riscrittura. Cfr. C. Della Coletta, Transtextual Patterns, cit., p. 218.
Questa strategia poetica, come vedremo, sottende anche la scrittura cartografica,
ostentatamente erudita e finemente intertestuale, de La più bella.
5 L’aggettivo «terrestre» sta qui ad indicare la dimensione planetaria, terracquea
e marittima della globalizzazione, per distinguerla da quella «cosmica»
[ 2 ]
isole (proto)moderniste 99
artisti modernisti alle sfide estetiche e politiche del loro tempo. In questo
approccio, non mi appoggio solamente al concetto di «transnational
modernism», proposto in chiave etico-politica da Jessica Berman,
ma anche alla prospettiva post-coloniale e transculturale elaborata da
Jahan Ramazani nel suo A Transnational Poetics6.
La mia tesi è che Gozzano non fantastichi a caso d’isole, ma che la
sua scrittura cartografica, e in particolare l’immaginario insulare che
la informa, partecipi di un più vasto sentire a lui contemporaneo che
percepisce nell’isola – sia essa reale o immaginaria, presente o assente,
agognata o paventata – un paesaggio necessario, un modello spaziale
con cui confrontarsi, un ecosistema in cui località e globalità si fondono
paradigmaticamente7. Partendo dal testo gozzaniano, perlustrerò
altre isole della poesia (proto)modernista, di poco precedenti e successive
a La più bella di Gozzano. Per la precisione mi soffermerò su un
paio di testi della raccolta De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir
(1898) di Francis Jammes – nume tutelare di Gozzano, poeta simbolo
della crisi simbolista e grande ispiratore del Modernismo classico – e
sulla poesia Palau (1922) di Gottfried Benn – forse il poeta lirico più
originale e autorevole del modernismo tedesco.
La Non-Trovata: cartografia del desiderio
Il riferimento a luoghi remoti è un elemento tipico, seppur mutevodell’antichità
e da quella «elettronica» del presente, secondo la distinzione storicofilosofica
avanzata da Peter Sloterdijk. Cfr. P. Sloterdijk, Im Weltinnenraum des
Kapitals, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2005, pp. 20-29. In un volume più recente, il
filosofo tedesco ha definito la modernità («die Moderne») un’impresa per l’ottimizzazione
«terrestre» della vita: Id., Die schrecklichen Kinder der Neuzeit. Über das
anti-genealogische Experiment der Moderne, Berlin, Suhrkamp, 2014, p. 358.
6 Cfr. J. Berman, Modernist Commitments. Ethics, Politics, and Transnational Modernism,
New York, Columbia University Press, 2011, e J. Ramazani, A Transnational
Poetics, Chicago and London, University of Chicago Press, 2009.
7 Le isole letterarie hanno sempre affascinato gli studiosi. Tuttavia è da notare
come da una decina di anni a questa parte, nel contesto del più vasto spatial turn
nelle scienze umane, isole e insularità non siano più semplici “temi” di studio, ma
paradigmi geografico-culturali attorno ai quali ruotano innumerevoli sforzi teoretici,
progetti di ricerca e pubblicazioni, dall’«Island Studies Journal», fondato appunto
dieci anni orsono, al concetto di «Nissopoiesis» di D. Graziadei (cfr. Id., Nissopoiesi.
Wie Robinsone ihre Inseln erzählen, in Handbuch Literatur & Raum, herausgegeben von
J. Dünne und A. Mahler, Berlin und Boston, De Gruyter, 2015, pp. 421-430), passando
per un libro ormai classico negli studi sulle isole in letteratura, F. Lestringant, Le
Livre des îles. Atlas et récits insulaires de la Genèse à Jules Verne, Genève, Droz, 2002.
[ 3 ]
100 federico italiano
le, dell’opera di Gozzano sin dai primi testi de La via del rifugio. Nel
poemetto eponimo, che apre la raccolta, fa capolino ad esempio un «antico
/ brahmino del Pattarsy», che preannuncia le versioni d’India che
il poeta declinerà anni più tardi8. Nella poesia subito successiva, L’analfabeta,
il poeta ritorna invece con la mente alle storie di «guerre e d’altri
popoli», «del Mar Nero e Sebastopoli / dei Turchi, di Lamarmora, d’Odessa
», che gli raccontava l’ottuagenario custode della villa di Agliè,
Bartolomeo Tarella9. Quei nomi di terre lontane innescavano nel piccolo
Guido il sogno, la rêverie, mescolandosi alle sensazioni impressegli dalle
«vecchie stampe» incorniciate in nero, con «i panorami di Gerusalemme
/ il Gran Sultano carico di gemme…: artificiose, belle più del
vero»10. Le litografie d’altri tempi, le stampe e i dagherrotipi nelle poesie
di Gozzano non sono infatti semplici decorazioni d’interni, ma potenti
supporti mediatici della visualizzazione, in grado di svelare mondi
di senso oltre il quotidiano, fantasie più vere del vero. In un certo
senso, la vecchia stampa che cattura l’attenzione del bambino, facendolo
trasognare, è una sorta di Urszene, di scena primigenia, nel percorso
poetico del poeta torinese, una matrice gravida di immagini e visioni.
Affine a quello delle stampe è il fascino che su Gozzano esercitano
le carte geografiche, la mappe e gli atlanti. Come le stampe, «più belle
del vero», anche le tavole di un atlante accendono la fantasia del poeta,
come si legge in un celebre passo di Verso la cuna del mondo: «Oh!
Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili lezioni di
matematica, con l’atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando
attraverso l’istmo di Suez e il Mar Rosso, l’Oceano Indiano, ora
circumnavigando l’Africa su un veliero che toccava le Isole del Capo
Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar…»11. Per Gozzano, i
8 G. Gozzano, Le poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1990, p. 11.
Cfr. anche R. Carnero, Gozzano esotico, Anzio, De Rubeis, 1996, pp. 19-20 e Id., La
lettura come malattia cronica. La «tabe letteraria» di Guido Gozzano viaggiatore in India
(Introduzione), in G. Gozzano, Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India, a cura di
R. Carnero, Milano, Bompiani, 2008, pp. 19-23. Cfr. anche G. Benvenuti, Il viaggiatore
come autore. L’India nella letteratura italiana del Novecento, Bologna, il Mulino,
2008, pp. 67-108.
9 G. Gozzano, Le poesie, cit., p. 19.
10 Ivi, p. 20. La bibliografia sulle presenze intertestuali (o meno) d’isole e terre
remote nell’opera di Gozzano è vasta ma, comprensibilmente, ripetitiva. Per noi,
sia qui sufficiente ricordare il saggio di A. Casella, Le isole non trovate, «Studi Novecenteschi
», V (marzo-luglio 1976), n. 13-14, pp. 123-135; L. Surdich, Guido Gozzano.
L’avventura esotica, Modena, Mucchi, 1993; R. Carnero, Gozzano esotico, cit.,
pp. 17-40 e R. Donati, Diventare isola, cit., pp. 112-115.
11 G. Gozzano, Verso la cuna del mondo, cit., p. 79.
[ 4 ]
isole (proto)moderniste 101
luoghi visitati e vissuti, anche i più insoliti e spettacolari, come Goa o
la Costa del Malabar, sono solo «pallida fantasia» se confrontati alla
gioia reale, alla «realtà viva» del viaggio sull’atlante12. Come molti
scrittori tra Otto e Novecento, e primi su tutti Jules Verne e Joseph
Conrad, Gozzano è attratto dalle mappe, dal loro potere idolopoietico,
in grado d’inspirare viaggi, tracciati, mete. Dalle tavole di un atlante
– che ironicamente non sarebbero concepibili senza «le interminabili
lezioni di matematica» da cui lo scolaro Guido cerca evasione – sorgono
storie in forma di percorsi. Una mappa, infatti, non è solo un dispositivo
di riduzione e indicizzazione del mondo, ma anche un «registro
grafico»13 che contiene tutti i percorsi possibili.
Tuttavia, il culmine della scrittura cartografica di Gozzano non è
da cercarsi, come parrebbe più ovvio, nella prosa del Viaggio, ma nei
versi de La più bella. Scritta prima dell’estate 1913, la poesia apparve
nel luglio di quell’anno su «La lettura», rivista mensile del «Corriere
della Sera», preceduta, tra gli altri, da un articolo di Albano Sorbelli su
La casa di Giosuè Carducci e dal prologo a La Pisanella o la morte profumata
di D’Annunzio. Divisa in due stanze, costituite rispettivamente da
6 e 8 distici, la poesia è composta di alessandrini (o doppi settenari) in
rima alternata14.
I
Ma bella più di tutte l’Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma sugellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.
L’Infante fece vela pel regno favoloso, 5
vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell’isola cercando… Ma l’isola non c’era.
Invano le galee panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora: 10
12 Ivi, p. 80.
13 Cfr. D. Cosgrove, Introduction. Mapping Meaning, in Mappings, edited by D.
Cosgrove, London, Reaktion Books, 1999, pp. 1-23, e in particolare pp. 1-2.
14 Barberi Squarotti, nella sua edizione delle poesie di Gozzano, comprime i
distici in quartine. Cfr. G. Gozzano, Poesie, a cura di G. Barberi Squarotti, Milano,
BUR, 1977, pp. 380-381. Cfr. anche R. Donati, Diventare isola, cit., p. 116.
[ 5 ]
102 federico italiano
con pace del Pontefice l’isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.
II
L’isola esiste. Appare talora di lontano
tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:
«… l’Isola Non-Trovata!» Il buon Canarïano
dal Picco alto di Teyde l’addita al forestiero.
La segnano le carte antiche dei corsari. 5
… Hifola da-trovarfi?… Hifola pellegrina?
È l’isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina…
Radono con le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme, 10
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme…
S’annuncia col profumo, come una cortigiana,
l’Isola Non-Trovata… Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana, 15
si tinge dell’azzurro color di lontananza…15
Dal saggio ormai classico di Angela Casella (1976) alle riflessioni di
William Spaggiari (2012), gli studi critici sulla Non-Trovata e, in particolar
modo, il già citato commento di Riccardo Donati, si sono largamente
spesi nel rintracciare ogni possibile fonte e ipotesto de La più
bella16. Da questa prolifica anamnesi testuale è sorto un prezioso indice
d’opere e nomi, che vanno dalla Navigatio Sancti Brendani (anonimo
del X secolo) ai Lusíadas di Camões, dalla Gerusalemme Liberata di Tas-
15 G. Gozzano, Le poesie, a cura di E. Sanguineti, cit., pp. 354-355. Nel manoscritto
si legge anche la seguente strofa, poi espunta dalla versione per «La lettura
»: «Ah, non al Re di Spagna, a me spetta l’offerta! / E ti vorrò trovare, e senza
caravella / Isla Non-trubada, Insula non reperta / Insula Peregrina: di tutte la più
bella!» (ivi, p. 354). Cfr. R. Donati, Diventare isola, cit., p. 116.
16 Cfr. A. Casella, Le isole non trovate, cit.; W. Spaggiari, L’isola non trovata. Da
Camões a Guido Gozzano (e oltre), in Isole. Coordinate geografiche e immaginazione letteraria,
a cura di N. Brazzelli, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 109-119. Per una
bibliografia relativamente esaustiva, rimando al ricco commento di R. Donati,
Diventare isola, cit., soprattutto alle pp. 12-14. Sull’indole modernista dell’intertestualità
di Gozzano, cfr. C. Della Coletta, Transtextual Patterns, cit., pp. 191-218.
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isole (proto)moderniste 103
so a Les Trophées di José-Maria de Heredia, dal saggio Les îles fantastiques
de l’Océan Occidental au Moyen-âge dell’erudito geografo Marie-
Armand-Pascal d’Avezac de Castera-Macaya (1845), ai Voyages extraordinaires
di Jules Verne, fino ai resoconti di viaggio di Pierre Loti. In
particolare, sono stati evidenziati interessanti percorsi intertestuali tra
il testo di Gozzano e due opere di Arturo Graf: la poesia Isola arcana,
dalla raccolta Medusa (1890), e le pagine dedicate all’isola di San Brandano
contenute nel volume Miti, leggende e superstizioni del Medioevo
(1892). Soprattutto quest’ultimo testo sembra sia servito a Gozzano
come fonte precipua. E difatti, da quelle pagine d’elegante prosa saggistica
di fine Ottocento, traluce gran parte della materia storica e leggendaria
che il poeta ha rimodellato nei suoi versi17. In generale, il
lettore di La più bella può contare oggi con un’ottima introduzione critica
alle fonti e ai modelli del componimento gozzaniano. Quello che
a mio avviso manca è uno sguardo comparato sulle scritture insulari
contemporanee al testo del poeta torinese, utilissimo per comprenderne
la novità e il carattere modernista.
Prima di passare ad altre isole, soffermiamoci però ancora un poco
sulla Non-Trovata di Gozzano e la scrittura cartografica che la determina.
Quasi ogni verso di questa poesia può essere infatti letto e inteso
cartograficamente. Mi limiterò qui a discutere un paio dei passaggi
più notevoli. Il primo di questi è il nome che Gozzano dà all’isola
eponima, «l’Isola Non-Trovata», ricalcando il francese di d’Avezac,
«l’île Cachée, l’île Non-trouvée»18, traduzione, a sua volta, degli articoli
di pace del trattato di Évora (1519), in cui il Portogallo cedeva alla
Spagna il diritto di conquistare la famigerata ottava isola delle Canarie,
la cosiddetta «Isla Non Trubada, ó Encubierta»19. Di primo acchito,
questo toponimo sfuggente per definizione, «l’Isola Non-Trovata»,
17 Si vedano in particolare due pagine di A. Graf, consultabili ora nella nuova
edizione, Id., Miti, leggende e superstizioni del medio evo, a cura di C. Allasia e W.
Meliga, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 102-103. Cfr. A. Casella, Le isole non
trovate, cit., pp. 129-131.
18 M.-A.-P. d’Avezac, Les îles fantastiques de l’océan occidental au Moyen Age, fragment
inédit d’une histoire des îles de l’Afrique, Paris, Fain et Thunot, 1845, p. 11.
19 J. de Viera y Clavijo, Noticias de la historia general de las Islas de Canaria. Contienen
la descripción geográfica de todas,, Madrid, Imprenta de Blas Román, 1772, I, p.
72. Si veda a riguardo anche R. Donati, Diventare isola, cit., p. 117 e D. Corbella,
El mito de San Borondón. Entre la realdad y la fábula, in Libros de viaje, Actas de las
Jornadas sobre Los Libros de viaje en el mundo románico, Murcia, 27-30 noviembre
1995, editores F. Carmona Fernández y A. Martínez Pérez, Murcia, Universidad
de Murcia, Servicio de Publicaciones, 1996, p. 133.
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104 federico italiano
secondo emistichio di un perfetto alessandrino, potrebbe sembrare
una vaga espressione geografica di gusto estetizzante. Ma non è così,
anzi: l’Isola Non-Trovata è uno dei luoghi più noti al sapere geografico
occidentale e tra i più documentati – sebbene non esista. Nel nominarla
così apertamente, così precisamente, Gozzano opera uno scarto fondamentale
rispetto alle pratiche retorico-estetiche tanto del simbolismo
classico quanto dell’estetismo decadente. Il poeta gioca infatti col
paradosso cartografico dell’isola, proclamandone in una verso solo,
con un’ironia quasi inaudibile, la bellezza superlativa e l’irreperibilità.
Nel breve giro di un alessandrino, Gozzano allestisce per il suo lettore
una sorta di Gedankenexperiment sul rapporto tra realtà e finzione, facendo
leva sul punto in cui i dispositivi di rappresentazione della letteratura
e della cartografia paiono coincidere.
Identificando l’isola eponima con la Non-Trovata, Gozzano rievoca
infatti una vicenda squisitamente cartografica: l’ubicazione dell’Isola
di San Brandano sulle carte geografiche, l’isola nota presso Spagnoli
e Portoghesi con il nome Isla de San Borondón e nel mondo ibernico
e anglosassone come Hy-Brasil20. A partire dalla famosa Mappa di
Ebstorf (1235), la Non-Trovata emerge, scompare e ricompare innumerevoli
volte sulle più diverse rappresentazioni cartografiche dell’Atlantico
fino alla metà del XVIII secolo. Passando per il Globo di Martin
Behaim del 1492, la dettagliata rappresentazione di Torriani (1592), fa
le sue ultime apparizioni sulla Carte de la Barbarie, de la Nigritie et de la
Guinée (1707) di Guillaume Delisle e sulla Carte des lieux sujets aux
tremblements de terre sur les cotes occidentalles d’Afrique (1756) dell’anatomista
e incisore francese Jacques Gautier d’Agoty21.
A seconda dei poteri, delle agende e degli interessi coloniali che
determinarono la rappresentazione cartografica dell’Atlantico, la
Non-Trovata è migrata senza sosta, in quasi ogni direzione, tra il tratto
d’oceano a ovest dell’Irlanda e a nordest delle Antille, tra «il Mare di
Sargasso e il Mare Tenebroso», come scrive lo stesso Gozzano, ubicandosi
tuttavia con più frequenza presso l’arcipelago delle Canarie. Fin-
20 Sulla mitica isola di Brasil o Hy-Brasil, e la sua peculiarità irlandese, cfr. B.
Freitag, Hy Brasil. The Metamorphosis of an Island. From Cartographic Error to Celtic
Elysium, Amsterdam and New York, Rodopi, 2013.
21 Sull’immaginazione cartografica legata all’isola e alla leggenda di San Brandano
mi permetto di rinviare al mio Translating Geographies. The “Navigatio Sancti
Brandani” and its Venetian Translation, «Translation Studies», V (2012), n. 1, pp. 1-16,
ora ripreso in versione ampliata e aggiornata nel mio Translation and Geography,
London and New York, Routledge, 2016, pp. 15-30.
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isole (proto)moderniste 105
zione cartografica per eccellenza, la Non-Trovata è anche e soprattutto
un’isola letteraria, un’entità geografica emersa da stratificazioni testuali
millenarie, che segnano un ideale continuum tra la tradizione
greco-romana delle Isole Fortunate, la leggenda di San Brandano, l’epica
rinascimentale e i romanzi d’avventura dell’Ottocento. Da questo
punto di vista, la Non-Trovata di Gozzano è un esempio straordinario
di interferenza tra scrittura letteraria e dispositivo cartografico, un’interferenza,
dunque, non solo tra due diversi campi del sapere, ma anche
tra diverse tecniche di rappresentazione e supporti mediatici22.
Quanto abbiamo detto per il toponimo della Non-Trovata potremmo
ripeterlo, con le precisazioni del caso, per la maggior parte dei riferimenti
cartografici contenuti nel testo gozzaniano. Prendiamo, come
ulteriore esempio, il «Mare Tenebroso» al v. 7, un’espressione che
comprensibilmente potrebbe essere confusa con un retaggio romantico-
simbolista, con una soluzione, cioè, già un po’ antiquata per quegli
anni ed escogitata per dare senso dell’angoscia che incute il freddo
mare del Nord. E invece no: con «Mare Tenebroso» Gozzano, passando
presumibilmente per il dotto filtro di Arturo Graf, fa uso di un toponimo
storico, il «mare tenebrosum», utilizzato dai Romani per indicare
la parte settentrionale dell’Oceano atlantico, ad Ovest dell’Irlanda,
e affine al «mare […] quasi coagulatum» evocato nella Navigatio
Sancti Brendani, ovvero il mare rappreso per il freddo, il pack instabile
in cui le imbarcazioni rischiavano di rimanere bloccate23. Anche in
questo frangente, il preciso ricorso ad un registro storico-cartografico,
polisce il componimento di vaghezze estetizzanti e contribuisce piuttosto
a rendere ancora più forte il contrasto tutto modernista tra finzione
e realtà inscenato dal testo.
Come ipotizza anche Umberto Eco in uno dei suoi ultimi saggi, è
improbabile che Gozzano conoscesse le mappe e le carte storiche che
segnalavano l’Isola di San Brandano o alte isole perdute24. In realtà,
22 Per certi versi, la leggenda di San Brandano è uno dei più interessanti esempi
di «transmedia storytelling» precedenti l’avvento dei mass media. Dal testo di
un anonimo monaco irlandese del X secolo, la Navigatio Sancti Brendani, il viaggio
di Brendan è penetrato in quasi ogni tradizione letteraria occidentale, dalla versione
Anglo-Normanna a quella Veneziana, dalla poesia provenzale all’epica rinascimentale
ai romanzi di Verne e oltre, percorrendo non solo lingue ed epoche, ma
anche migrando contemporaneamente attraverso diversi supporti mediatici, come
alluminature, portolani, mappamondi e atlanti.
23 Cfr. F. Italiano, Translation and Geography, cit., pp. 22-24.
24 Cfr. U. Eco, Perché l’isola non viene mai trovata, in Id., Costruire il nemico e altri
scritti occasionali, Milano, Bompiani, 2011, pp. 295-326.
[ 9 ]
106 federico italiano
importa anche poco quali mappamondi o atlanti abbia realmente visionato
Gozzano, se avesse magari presente quelli di Mercatore (1569)
o quello di Ortelius (1570), o se sia andato a leggersi, oltre che ai testi
di Graf e d’Avezac, tutta la documentazione geografica a lui accessibile
sull’isola perduta, sull’Isola di Brasil, Hy-Brasil o San Borondón.
Ciò che importa, a mio avviso, è comprendere che parte della scrittura
de La più bella sia essenzialmente il prodotto di un’immaginazione cartografica,
l’espressione di un’interferenza tra mappe e testo letterario.
In altre parole, è importante capire come Gozzano, lettore appassionato,
fin da piccolo, di libri d’avventura e di atlanti, abbia assorbito stilemi,
strutture e linguaggi tipici della rappresentazione cartografica,
trasponendoli nei suoi versi – come nel caso dei toponimi «Mare Tenebroso
» e «Non-Trovata» o del distico seguente: «La segnano le carte
antiche dei corsari. / […] Hi∫ola da-trovar∫i?… Hi∫ola pellegrina?».
Quest’ultimo esempio credo sia molto significativo. La seconda parte
del distico, imitando grafie cinque-secentesche nel carattere antico
della «∫» e nell’«H» etimologica25, mostra infatti una tipologia d’interferenza
molto concreta tra testo e mappa, un’interferenza tipografica e
dunque di carattere squisitamente mediale. Nella prima parte del distico,
invece, nominando esplicitamente «le carte antiche dei corsari»,
Gozzano quasi sbandiera il paradigmatico rapporto tra mappa e letteratura
sancito al più tardi dall’Isola del Tesoro di R. L. Stevenson (1883)26.
L’Isola Non-Trovata di Gozzano non si esaurisce ovviamente negli
esempi di scrittura cartografica che abbiamo qui segnalato. L’immagine
di un’irraggiungibile «riva beata», di un altrove edenico che si annuncia,
ma non si fa trovare (vv. 21-28), soprattutto se consideriamo la
precaria salute di cui godeva il poeta, carica con forza il dato storicogeografico
di un valore anche e soprattutto esistenziale. L’isola diviene
così il simbolo di ciò che la limitatezza dell’esperienza umana inevitabilmente
preclude. Leggendo il testo in questa chiave, si capisce
meglio il senso tutt’altro che ironico della rima cortigiana/vana, tra il
v. 25 («S’annuncia col profumo, come una cortigiana») e il v. 27 («si
dilegua come parvenza vana»), con cui l’isola e il componimento si
congedano con toni di mesto erotismo. A sfuggire è anche e soprattutto
l’isola-donna dunque.
25 Barberi Squarotti sottolinea e spiega questo dettaglio come evocazione tipografica
di vecchi documenti diplomatici (G. Gozzano, Poesie, a cura di G. Barberi
Squarotti, cit., p. 381, nota 10). Citato anche in R. Donati, Diventare isola, cit., p. 122.
26 La prima traduzione italiana di Treasure Island, nota con tutta probabilità a
Gozzano, è quella uscita per i tipi di Treves, a Milano, nel 1886, a cura di P. Battaini.
[ 10 ]
isole (proto)moderniste 107
Come suggerisce un altro componimento di Gozzano, Le non godute,
anch’esso raccolto postumo nelle Poesie sparse, le isole non-trovate
sono le donne «desiderate e non godute», quelle «creature nomadi»
incontrate ovunque ma irraggiungibili27. L’altrove insulare, agognato
e irraggiungibile, si sovrappone, nel finale, al desiderio erotico, diviene
allegoria del desiderio, il cui oggetto è mobile come «l’isola fatata
che scivola sui mari» – e indietreggia o scarta di lato o si nasconde
ogni qual volta gli ci si avvicini. L’isola sfugge come sfugge l’oggetto
del desiderio, giacché la perpetua insoddisfazione è condizione immanente
al desiderio stesso: non c’è desiderio senza mancanza. Per
concludere, almeno provvisoriamente, possiamo affermare che l’interferenza
tra testo e mappa ne La più bella si risolva in una cartografia
modernista del desiderio.
Isole di carta: Francis Jammes e il Modernismo
Non lontana da questa sovrapposizione tra immaginazione cartografica
e senso di mancanza, espressa nei termini di un immaginario
insulare, mi pare di poter situare una poesia di Francis Jammes, Quand
verrai-je les îles…, compresa nella raccolta che lo ha consacrato, De
l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir (1898). Poeta particolarmente
amato da Gozzano28, del quale era più vecchio di una quindicina d’an-
27 Cfr. R. Donati, Diventare isola, cit., p. 126. Non si dimentichi inoltre la lunghissima
tradizione, nella letteratura occidentale, dell’isola associata ad una figura
femminile o meglio a diverse tipologie di femminilità: a partire dalle isole omeriche
nell’Odissea, con l’opposizione tra Ogigia – l’isola della ninfa Calipso – e la
stessa Itaca – dove dimora l’esatto opposto di Calipso, Penelope – per arrivare
all’isola dell’Amore nei Lusíadas di Camões e all’immagine femminile e sensuale
dell’isola-continente in John Donne e tanti altri. Per approfondire, cfr. S. Perosa,
L’isola-continente come donna, in Id., L’isola, la donna, il ritratto: quattro variazioni, Torino,
Bollati Boringhieri, 1996, pp. 45-61.
28 Sul rapporto tra Francis Jammes e Guido Gozzano è stato scritto giustamente
con profusione. Studiando Gozzano lettore di Francis Jammes, François Livi
aveva individuato con raffinata mira esegetica il cuore dell’immaginazione poetica
dell’autore francese nelle «vecchie cose» che rievocano un «passato idillico». Di
lì, il passo alle «vecchie stampe» e ai dagherrotipi di Gozzano è breve, se non brevissimo.
Notevole anche l’affinità in quanto a gusti letterari e interessi scientificoculturali.
Cfr. F. Livi, Gozzano e la cultura francese, in Guido Gozzano. I giorni e le
opere, Firenze, Olschki, 1985, pp. 11- 42. Appassionato lettore di De Musset, Jules
Verne, Pierre Loti, nonché di Paul et Virginie di Jacques-Henri Bernardin de Saint-
Pierre (1788), il romanzo cult dell’esotismo fin de siècle, Francis Jammes era anche
[ 11 ]
108 federico italiano
ni, Jammes è a ragione considerato uno dei precursori del modernismo
francofono e un innovatore della poesia francese di fine secolo29
per la freschezza del suo dettato e il tono pacato e naturalmente sensuale
dei suoi versi, che rompono, in parte, con gli ardui percorsi lessicali,
semantici e filosofici imposti dal simbolismo allora imperante.
La poesia che segue credo ne sia un chiaro esempio:
Quand verrai-je les îles où furent des parents ?
Le soir, devant la porte et devant l’océan
on fumait des cigares en habit bleu barbeau.
Une guitare de nègre ronflait, et l’eau
de pluie dormait dans les cuves de la cour. 5
L’océan était comme des bouquets en tulle
et le soir triste comme l’été et une flûte […]30
Come traspare da questi primi versi, le isole sono l’oggetto di un
desiderio, di una nostalgia, di una Sensucht non solo per un luogo preciso,
mappabile, ma anche per un tempo passato e irrevocabile, associato
a quello stesso luogo. A prescindere, ora, dall’esotismo che trasuda
da ogni verso, si noti come l’immaginario insulare di Jammes dissigilli
una storia privata, familiare: il poeta evoca le isole che furono dei suoi
antenati, letteralmente dei suoi padri. La materia autobiografica sviluppata
dall’io-lirico coincide infatti con la vicenda familiare dell’uomo
Jammes. Il nonno paterno, Jean-Baptiste Jammes, nato nel 1797 a Orthez,
nei Bassi Pirenei, dopo aver ottenuto il grado di dottore presso la
Facoltà di Montpellier cercò fortuna come medico a Guadeloupe, nelle
colonie francesi delle Petites Antilles31. Su quell’isola, a Pointe-à-Pitre,
nel 1831 nacque Louis-Victor Jammes, padre del poeta, che all’età di
sette anni venne rispedito in Francia a studiare presso le zie ugonotte32.
un amante di carte geografiche e nautiche, nonché fine intenditore di botanica ed
entomologia. «Ma pensée se rive parfois au jaunissement de vieilles cartes marines
[…]», scrive nel racconto autobiografico La petite négresse, in F. Jammes, Le roman du
lièvre [Clara d’Ellébeuse; Almaïde d’Étremont etc.] Paris, Mercure de France, 19094, p.
268. Sul Jammes poeta-botanico, cfr. C. Démolin, Francis Jammes. Une initiation à la
simplicité, Paris, Éditions du Cygne, 2008, p. 16 e p. 67.
29 M. Décaudin, La Crise des valeurs symbolistes. Vingt ans de poésie française
(1895-1914), Genève, Slatkine, 1981, pp. 380-5.
30 F. Jammes, De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir (1888-1897), Paris, Mercure
de France, 1898, p. 230.
31 Che abbia veramente svolto la professione di medico nelle Antille è confermato
dal registro dei medici nell’«Almanach de la Guadeloupe» del 1822.
32 Per queste e ulteriori informazioni biografiche concernenti Francis Jammes e
la sua famiglia, faccio riferimento al fornito e ben curato archivio Francis Jammes
[ 12 ]
isole (proto)moderniste 109
Ô Père de mon Père, tu étais là, devant
mon âme qui n’était pas née, et sous le vent
les avisos glissaient dans la nuit coloniale […]33
L’isola si salda nel ricordo immaginato alla figura del nonno paterno,
mai conosciuto in vita, ma probabilmente onnipresente nei racconti
di famiglia. Decisivo nella rêverie insulare del poeta, che permea
buona parte della raccolta De l’Angélus, il nonno è in effetti l’istanza
narrativa su cui ruota tutto l’esotismo lirico di Jammes. Evocato qui
con enfasi e rispettosa intimità, il poeta immagina il proprio antenato
in una «notte coloniale», antillana, accanto al mare, dove, sotto vento,
si vedono scivolare «les avisos». Queste erano imbarcazioni piccole ed
agili della marina militare francese, destinate, come suggerisce il loro
nome di origine spagnola (barca de avisos), al trasporto d’ordini e dispacci.
La scena crea una triangolazione molto eloquente. Da una parte
abbiamo gli avisos, che simboleggiano la rete di comunicazione marittima
dell’Impero coloniale francese. Dall’altra, si staglia la figura del
nonno, esaltata da una memoria performativa che inventa, costruisce,
colora. Nel mezzo, il poeta colloca se stesso, o meglio, proietta il proprio
fantasma prenatale, la propria anima non-nata. L’isola tropicale
diviene una coordinata spazio-temporale di una vita prima della vita,
di un’esistenza inventata, immaginata, fittizia, il punto sulla la mappa
in cui convergono e s’intersecano le rotte passate e future, reali e fittizie
dell’io-lirico. In altre parole, l’isola antillana è la matrice cartografica,
la coordinata immaginaria, che determina la storia genetica, spirituale
e politica (non dimentichiamo gli avisos) dell’io-lirico.
In un’altra poesia della stessa raccolta, nondimeno pervasa da un
immaginario esotico ed insulare, Francis Jammes proietta ancora più
esplicitamente l’io-lirico sulla cartografia coloniale delle Petites Antilles.
Il tema di una vita alternativa, «une autre existence», vissuta
anteriormente in un mondo insulare, distante nello spazio e nel tempo,
diviene qui centrale e portante34. Apoteosi di un idillio tropicale,
l’isola è il luogo dell’opposizione primaria tra la vita e la morte, declinata
in vivide contrapposizioni cromatiche che rasentano quasi
l’ossimoro.
Poète, visitabile online al sito <http://francis-jammes.pireneas.fr/> (ultima visita 4
ottobre 2016), a cura di Jacques Le Gall (Université de Pau et des Pays de l’Adour).
33 F. Jammes, De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir, cit., p. 230.
34 Cfr. G. Del Trebbio, L’Angélus di Francis Jammes. Un profilo critico, letterario,
spirituale, Milano, Lampi di Stampa, 2010, pp. 102-119.
[ 13 ]
110 federico italiano
Aujourd’hui, le long de la nuit transparente
des sentiers froids, sous la chaleur terrible,
j’ai bien senti qu’en une autre existence
j’ai vécu dans les Petites Antilles.
Une impression de grands calices blancs 5
aux pistils noirs, et de grande tristesse…
Un cimetière aux colibris volant
sur des tabacs frais dans la sécheresse.
La forêt à laquelle j’ai songé
avait les mêmes filtrations faibles 10
de lumière, le même sommeil des herbes,
et des cris bleus pareils à ceux des geais.
Que ne puis-je partir ? Vous m’attendez,
je le sais, rouges fleurs qui éclatent […]35
In questo testo di Jammes, il magistero di Baudelaire è particolarmente
evidente. Basti ricordare La vie antérieure, uno dei testi chiave de
Les fleurs du mal, in cui il poeta immagina di aver vissuto una versione
anteriore della sua esistenza nelle isole tropicali dell’Oceano indiano,
«au milieu de l’azur, des vagues, des splendeurs / et des esclaves nus,
tout imprégnés d’odeurs»36. Tuttavia, mentre Baudelaire aveva realmente
visitato le isole della sua rêverie37, facendole proprie in un ultimo
sussulto romantico, traducendo dunque la propria esperienza diretta
del luogo in versi, le Antille di Francis Jammes sono le isole trasfigurate
di un passato coloniale già remoto allora:38 sono isole inattuali,
prodotti esclusivi dell’immaginazione. Sono, per così dire, isole
di carta, vissute leggendo le corrispondenze transatlantiche del non-
35 F. Jammes, De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir, cit., pp. 129-130.
36 Ch. Baudelaire, OEuvres complètes, Texte établi et annoté par Y. G. Le Dantec,
Édition révisée, complétée et présentée par C. Pichois, Paris, Gallimard, 1961,
p. 17.
37 Sul soggiorno di Baudelaire sulle isole Mauritius e Réunion e la sua «retorica
esotista», osservata da una prospettiva post-coloniale, rinvio al bel saggio di F.
Lionnet, Reframing Baudelaire. Literary History, Biography, Postcolonial Theory, and
Vernacular Languages, «Diacritics», XXVIII (Fall 1998), n. 3, pp. 62-85.
38 La Guadeloupe immaginata da Jammes non è infatti la colonia francese alla
fine dell’800, inginocchiata da incendi, terremoti e dalla crisi dello zucchero del
1870. Non c’è traccia dei movimenti politici che hanno portato all’abolizione della
schiavitù nel 1848, né delle conseguenti ibridazioni culturali, dovute all’immigrazione
di manodopera proveniente dall’India, soprattutto da Pondicherry e dalla
costa del Tamil Nadu.
[ 14 ]
isole (proto)moderniste 111
no, esplorate fantasticando su carte nautiche e geografiche, rievocate
attraverso i repertori linguistici e narrativi di altre isole letterarie, da
Bernardin de Saint-Pierre, a Baudelaire, a Jules Verne. In un certo senso,
sono le isole a contenere l’io-lirico e non viceversa.
Quest’ultimo è un aspetto cruciale del procedimento creativo di
Francis Jammes, nonché una spia della crisi profonda del simbolismo.
Dice molto in questo senso un verso della Élégie dixième: «Je ne puis
plus penser: Je ne suis que des choses»39. Jammes ribalta qui uno dei
capisaldi del romanticismo, l’io che tutto contiene, l’io che sussume e
ingloba ogni cosa40, distanziandosi anche dall’alienazione rimbaudiana
del «Je est un autre». L’io-lirico di Jammes si autosospende: il soggetto
si perde tra gli oggetti, diviene parte di essi41. Analogamente,
l’io-lirico dei crepuscolari, non a caso ricettori sensibilissimi del poeta
pirenaico, si nasconde dietro le cose, quasi si vergognasse della sua
presenza42. Conseguenza di questo cambio paradigmatico è l’adattamento
del registro linguistico di Jammes al mondo polifonico delle
cose: qui origina la freschezza di tono, l’agilità e, paradossalmente, la
profonda umanità della lingua di Jammes. Con questa inversione di
gerarchie tra oggetto e soggetto, con questo scarto prima antropologico
poi linguistico verso il mondo delle cose, Jammes precorre il modernismo
classico e le sue isole di carta si profilano all’orizzonte quali
spie del nuovo sentire poetico.
Non è un caso, dunque, se il poeta dell’Angélus, cantore della natura
e della vita semplice, artefice di versi rotondi e orecchiabili, apparentemente
lontano dai nervosismi urbani e cosmopoliti del primo
Novecento, abbia attratto tanti esponenti del modernismo angloamericano,
in primis Ezra Pound. Questi, sulle pagine dell’allora appena
fondata rivista «Poetry» di Chicago, lo propose infatti quale modello
poetico da imitare – per il bene della futura poesia americana43. All’al-
39 F. Jammes, Le deuil des primevères (1898-1900), Paris, Mercure de France, 1901,
p. 59.
40 Cfr. P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati
Boringhieri, 2000, p. 16. Si veda anche T. Lisa, Le poetiche dell’oggetto da Luciano
Anceschi ai Novissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento, con
un’appendice di testimonianze inedite e testi rari, Firenze, Firenze University
Press, 2007, p. 136, nota 105.
41 A ragione, Mengaldo parla in questo frangente di «epoché dell’io» (P. V. Mengaldo,
La tradizione del Novecento, cit., p. 16).
42 La più bella di Gozzano, in effetti, va ancora più in là, esautorando completamente
l’io-lirico.
43 «I think if our American bards would study Remy de Gourmont for rhythm,
[ 15 ]
112 federico italiano
lora giovane imagista, già finissimo poeta e originale critico, l’opera di
Francis Jammes parve possedere i caratteri fondamentali della poesia
moderna: umanità, varietà di temi ed interessi e, soprattutto, capacità
di interpretare e raccontare il proprio tempo44. E per evitare eventuali
fraintendimenti, Pound confessa di ritenere Jammes «il più importante
poeta di Francia»45. Questo giudizio superlativo sull’opera di Jammes
Pound lo confermerà qualche anno più tardi in A Study in French
Poets46. Concepito originariamente come un’antologia, trasformatosi
poi in commento e interpretazione militante della poesia francese contemporanea,
questo intervento di Pound, letto oggi, vale come testimonianza
unica e preziosissima del gusto modernista in fieri.
La grande stima di Pound e di altri modernisti angloamericani (da
Amy Lowell a Wallace Stevens)47 per l’opera di Francis Jammes non
può sorprenderci, se consideriamo la vasta ed eterogenea schiera di
entusiasti lettori della quale godette il poeta di Orthez in Europa, da
Rainer Maria Rilke48 a Filippo Tommaso Marinetti49, per citare due autori
idealmente inconciliabili. In Italia, in particolare, l’opera di Jammes
conobbe notevole fortuna, a cominciare, come abbiamo già avuto
Laurent Tailhade for delineation, Henri de Régnier for simplicity of syntactical
construction, Francis Jammes for humanity, and the faculty of rendering one’s own
time […] there might be some hope for American poetry» (E. Pound, Paris, «Poetry
», III (October 1913) n. 3, p. 27).
44 Ivi, pp. 27-28.
45 «I am inclined to think that he [Jammes] is the most important poet in France
» (ivi, p. 28). Interessante notare che alla fine del pezzo, dopo aver citato Rimbaud,
Pound nomina alcuni poeti più giovani da tenere sott’occhio, chiudendo con
Apollinaire e il suo «clever» Alcools: «I have mentioned none that is not very much
worth reading. M. Rimbaud is also very important, if you do not know him already.
Among the younger men I should note Jules Romains […] Also Alcools, by
Guillaume Apollonaire (Mercure), is clever» (ivi, p. 29).
46 E. Pound, A Study in French Poets, «The Little Review», V (February 1918) n.
10, pp. 3-61.
47 Come ricorda, in un suo saggio il poeta e traduttore Kenneth Rexroth: «Amy
Lowell, Sandburg, H. D., Pound, Marianne Moore, William Carlos Williams, Wallace
Stevens — all of the major poets of the first quarter of the century owed far
more to Apollinaire or Francis Jammes than they did to the whole body of the
English tradition» (K. Rexroth, World Outside the Window. The Selected Essays of
Kenneth Rexroth, edited by B. Morrow, New York, New Directions, 1987, p. 51).
48 Cfr. I. Chopin, Rainer Maria Rilke und Francis Jammes. Eine Studie zu Symbolismus,
Thematik und Sprache ihrer Dichtung, Frankfurt am Main, Berlin, Bern, New
York, Paris und Wien, Peter Lang, 1996.
49 Cfr. S. W. Vinall, The Early Reception of Francis Jammes in Italy, «Modern
Language Review», CIV (July 2009), n. 3, pp. 712-29, in particolare pp. 721-9.
[ 16 ]
isole (proto)moderniste 113
modo di dire, dai principali esponenti del crepuscolarismo, Govoni,
Corazzini e il nostro Gozzano50. In un certo senso, Francis Jammes
rappresentò per Gozzano l’antidoto perfetto contro la deriva estetizzante
del simbolismo fin de siècle e il modello poetico cui orientarsi nel
difficile attraversamento di D’Annunzio – per parafrasare una nota
formula montaliana.
Una funzione simile, di rimedio e correzione nei confronti del tardo
Simbolismo, l’opera di Francis Jammes la svolse anche per l’Espressionismo
tedesco, in particolare per Rilke, che ne tesse notoriamente
le lodi nel Malte Laurids Brigge (1910) e in varie circostanze della
sua generosa produzione epistolare51. Per Mario Zanucchi, autore di
un saggio recente ed esaustivo sul simbolismo francese nella poesia
tedesca tra l’Otto e il Novecento, il carattere postsimbolista del medio
e tardo Rilke non sarebbe comprensibile senza considerare il grande
influsso esercitato da Jammes sul poeta boemo. A riprova ne sia il desiderio
di Rilke, confidato in una lettera del 1904 a Lou Andreas Salomé,
di tradurre i versi del poeta di Orthez52. Alla fine sarà invece il
poeta alsaziano Ernst Stadler a tradurlo, pubblicando un raffinato volume
a Lipsia nel 1913 dal titolo Die Gebete der Demut (Le preghiere
della devozione).
Nel grembo primevo: Gottfried Benn e l’isola post-coloniale
Se Gottfried Benn lesse o meno le versioni fortemente espressionistiche
di Ernst Stadler da Francis Jammes non ci è dato sapere. Forse
gliene parlò la comune amica Thea Sternheim, ma è una semplice speculazione53.
Improbabile è anche che Benn si sia avvicinato a Jammes
direttamente in francese. Del resto, Benn studiò molto poco i grandi
simbolisti francesi di prima mano. Aveva una conoscenza diretta del
Monsieur Teste di Valéry, mentre di Baudelaire non si è mai veramente
50 Ivi, pp. 712-3 e 722-3.
51 Cfr. M. Zanucchi, Transfer und Modifikation. Die französischen Symbolisten in
der deutschsprachigen Lyrik der Moderne (1890-1923), Berlin und London, De Gruyter,
2016, pp. 144, 397-8.
52 Si veda il carteggio R. M. Rilke, L. Andreas-Salomé, Briefwechsel, herausgegeben
von E. Pfeiffer, Frankfurt am Main, Insel, 1989, p. 166. Citato anche in M.
Zanucchi, Transfer und Modifikation, cit., p. 397.
53 Cfr. G. Benn, T. Sternheim, Briefwechsel und Aufzeichnungen. Mit Briefen und
Tagebuchauszügen Mopsa Sternheims, herausgegeben von T. Ehrsam, Göttingen,
Wallstein, 2004, p. 367.
[ 17 ]
114 federico italiano
occupato a fondo; a detta dello stesso, non lesse Rimbaud prima del
1954 – e mai Mallarmé54. Se da un lato questo può stupire, tenendo
conto di quanto in termini strutturali, tematici e stilistici l’opera in
versi di Benn sia debitrice del simbolismo francese, dall’altro ci insegna
come in letteratura influenze, affinità e coincidenze non possano
essere ponderate solo su cocenti prove intertestuali, ma vadano individuate
e interpretate prestando attenzione al generale contesto storico-
culturale, considerando attraversamenti meno ovvi (come le letture
di seconda o terza mano), e non sottovalutando l’evolversi transnazionale
(nonché trans-mediale: si pensi ai rapporti tra le arti) del gusto
e degli interessi.
Insomma, una lettura comparata che si preponga di comprendere
aspetti del modernismo transnazionale non può esaurirsi in una semplice
analisi di intertestualità interlinguistiche. Proprio per questo è
importante, a mio avviso, proseguire e chiudere questo saggio sulle
isole (proto)moderniste con uno sguardo sull’immaginazione insulare
di Gottfried Benn. Non poter stabilire rapporti d’intertestualità diretta
né con Francis Jammes (fatta eccezione, forse, per la ricezione di terza
mano attraverso Rilke), né con Gozzano, se da un lato ci priva della
rete di sicurezza filologica, dall’altro ci invita a rileggere i testi in chiave
globale e a riflettere sul modernismo non semplicemente spulciando
le letture più o meno reciproche dei loro esponenti di maggior rilievo
sparsi per il mondo, ma attraverso l’individuazione di continuità
discorsive e transculturali, nonché ovviamente di affinità estetiche,
strutturali, tematiche e – anche se meno frequentemente – stilistiche.
Sulla base dei testi poetici sin qui discussi, l’ipotesi di Gozzano
modernista, avanzata all’inizio del saggio, mi pare si sia ulteriormente
rafforzata attraverso la lettura del Jammes insulare e protomodernista,
che non fu solo medicina anti-dannunziana per il poeta di Torino
ma, come abbiamo visto, ispiratore della nuova poesia europea e transatlantica.
Con Benn, invece, affrontiamo un poeta chiaramente, classicamente
modernista – non ultimo per le ombre che inficiano parte
dell’opera. Esponente di spicco di uno dei primi -ismi d’avanguardia
del Novecento, l’espressionismo, innovatore della poesia e della prosa
saggistica tedesca tra le due Guerre, il Dr. Benn aderì brevemente ma
inconfutabilmente al Nazionalsocialismo55. In questo risvolto sventu-
54 Cfr. H. Berthold, Die Lilien und den Wein. Gottfried Benns Frankreich,
Würzburg, Königshausen & Neumann, 1999, p. 255.
55 Cfr. H. Lethen, Der Sound der Väter. Gottfried Benn und seine Zeit, Berlin,
Rowohlt, 2006, pp. 165-180.
[ 18 ]
isole (proto)moderniste 115
rato della sua opera e della sua esistenza, Benn è un triste analogo di
altri grandi modernisti suoi coetanei, come Ezra Pound e Louis-Ferdinand
Céline, per citare i più noti, il cui indiscutibile genio artistico non
è bastato a correggerne la miopia politico-sociale.
In questa breve lettura, mi limiterò ad alcuni aspetti della fase primitivista
e post-coloniale di Benn, quella degli anni Venti, gli anni appunto
in cui il poeta-dermatologo pubblicò Palau e altre poesie di ambientazione
post-coloniale e oceanica. Apparsa per la prima volta sulla
rivista «Der Neue Merkur» nel 192256, Palau è la prima di tre poesie
ambientate esplicitamente nei Mari del Sud: le altre due sono Meerund
Wandersagen (1925) e Osterinsel (1927)57. L’isola eponima della prima
poesia è in realtà l’arcipelago micronesiano di Palau (oggi lo stato
insulare indipendente: Repubblica di Palau), che si trova nel Pacifico
occidentale, a nord della Papua-Nuova Guinea. Nella seconda poesia,
dove per due volte torna la parola «Südseetraum» («sogno dei mari
del sud»), le coordinate geografiche le offrono i toponimi «Gazelle» e
«Blanchenbucht», spedendo il lettore un po’ più a sud, in Papua-Nuova
Guinea, nell’arcipelago di Bismark, nella Baia di Blanche, dove si
trova anche la penisola Gazelle58. L’isola eponima della terza poesia è
naturalmente Rapanui, l’Isola di Pasqua nel Pacifico orientale59. In
queste poesie, le isole evocate rinviano a realtà topografiche perfettamente
mappabili. I contorni climatici, botanici e faunistici con cui
Benn le dipinge sono coerenti, plausibili, non meno dei dettagli etnografici
con cui ne evoca l’elemento antropico. E tuttavia, nella loro dimensione
poetica, sono isole che trascendono la realtà geografica, sto-
56 Pubblicata sul «Der Neue Merkur» (April 1922) con il titolo Rot quale sezione
centrale del trittico Schutt, Palau è poi confluita, nello stesso anno, nella prima
edizione degli Scritti completi con il titolo definitivo, cfr. G. Benn, Die gesammelten
Schriften von Gottfried Benn, Berlin, Verlag Erich Reiss, 1922. Qui cito dall’edizione
Id., Trunkene Flut. Ausgewählte Gedichte, mit einem Vorwort von M. Lentz, Stuttgart,
Klett Cotta Verlag, 1989, pp. 11-12. Sul trittico Schutt in «Der Neue Merkur», cfr. M.
Travers, The Poetry of Gottfried Benn. Text and Selfhood, Frankfurt am Main, Berlin,
Bern, New York, Paris, and Wien, Peter Lang, 2007, pp. 121-130.
57 G. Benn, Trunkene Flut, cit., rispettivamente p. 16-17 e p. 44-45.
58 Sugli aspetti geografici di Meer- und Wandersagen, cfr. M. Bassler, “Ewigkeit
der Accent”. Benns und Einsteins Widmungsgedichte “Meer- und Wandersagen” und
“Die Uhr”, in Gottfried Benn. Wechselspiele zwischen Biographie und Werk, herausgegeben
von M. Martínez, Göttingen, 2007, pp. 71-84 e in particolare p. 82, nota 18.
59 Sulla poesia Osterinsel e l’Isola di Pasqua come «luogo visionario della memoria
», si veda il bel saggio di K. Grätz, Palau, Ostafrika und die Osterinsel. Visionäre
Erinnerungsorte in der Lyrik Gottfried Benns, «Der Deutschunterricht», LVIII
(2006), n. 2, pp. 39-48.
[ 19 ]
116 federico italiano
rica e antropologica. Sono isole della regressione. Palau, in particolare,
è la poesia che con maggior vigore rappresenta l’anelo di regressione,
imprimendo in quasi ogni verso il codice primitivo dell’isola, esprimendo
la nostalgia per il «primevo grembo» dell’umanità. Ecco il testo
nella sua interezza:
»Rot ist der Abend auf der Insel von Palau
und die Schatten sinken –«
singe, auch aus den Kelchen der Frau
läßt es sich trinken,
Totenvögel schrein 5
und die Totenuhren
pochen, bald wird es sein
Nacht und Lemuren.
Heiße Riffe. Aus Eukalypten geht
Tropik und Palmung, 10
was sich noch hält und steht,
will auch Zermalmung
bis in das Gliederlos,
bis in die Leere,
tief in den Schöpfungsschoß 15
dämmernder Meere.
Rot ist der Abend auf der Insel von Palau
und im Schattenschimmer
hebt sich steigend aus Dämmer und Tau:
»niemals und immer«, 20
alle Tode der Welt
sind Fähren und Furten,
und von Fremden umstellt
auch deine Geburten –
einmal mit Opferfett 25
auf dem Piniengerüste
trägt sich dein Flammenbett
wie Wein zur Küste,
Megalithen zuhauf
und die Gräber und Hallen, 30
Hammer des Thor im Lauf
zu den Asen zerfallen –
wie die Götter vergehn
und die großen Cäsaren,
von der Wange des Zeus 35
emporgefahren –
singe, wandert die Welt
[ 20 ]
isole (proto)moderniste 117
schon in fremdestem Schwunge,
schmeckt uns das Charonsgeld
längst unter der Zunge. 40
Paarung. Dein Meer belebt
Sepien, Korallen,
was sich noch hält und hebt,
will auch zerfallen,
rot ist der Abend 45
auf der Insel von Palau,
Eukalyptenschimmer
hebt in Runen aus Dämmer und Tau:
niemals und immer60.
Il desiderio di regressione, di ritorno ad uno stadio filogenetico e
ontogenetico precedente, è un filo rosso che idealmente sottende tutta
la produzione benniana degli anni ’20, da Palau fino al famoso saggio
del 1930, Der Aufbau der Persönlichkeit. Grundriß einer Geologie des Ich
(La costruzione della personalità. Lineamenti di una geologia dell’io)61. In
una poesia del 1927, Regressiv (Regressivo)62, Benn introduce esplicitamente
e programmaticamente il concetto di «thalasssale Regression»
60 G. Benn, Trunkene Flut. Ausgewählte Gedichte, cit., pp. 11-12. Ecco la traduzione
di A. Maria Carpi: «“Rossa è la sera sull’isola di Palau / e calano le ombre –”
/ canta, anche dai calici della donna / si può bere, / morte gridano le civette / e
morte è scandita / dai tarli, presto / sarà notte e lemuri. // Ardenti scogliere. Da
eucalipti vengono / tropico e palmità / anche quel che regge e si tiene / vuole
disfacimento / fin nel senza membra, / fin dentro il vuoto, / giù nel grembo primevo
/ di mari al crepuscolo. // Rossa è la sera sull’isola di Palau / e nel tremolio
d’ombre / da rugiada e crepuscolo ascende: / «mai e sempre», / tutte le morti del
mondo / sono traghetti e guadi / e da estraneità insidiate / anche le tue nascite –
// una volta con grasso di vittime / sulla catasta di pino / si reca il tuo letto di
fiamme / come vino alla costa, / mucchi di megaliti / e le tombe e gli atri, / martello
di Thor in volo / verso gli Asi e infranto – / come passano gli dèi / e i grandi
cesari, / ascesi / dalla guancia di Zeus – / canta, se il mondo migra / in un empito
strano, / da tempo sotto la lingua abbiamo / il sapore del soldo di Caronte. //
Copula. Il tuo mare anima / seppie, coralli, / ciò che ancora regge e si leva / andrà
poi infranto, / rossa è la sera sull’isola di Palau, / splendore di eucalipti / ascende
in rune di rugiada e crepuscolo: / mai e sempre» (G. Benn, Flutto ebbro, a cura di
A. M. Carpi, Milano, Guanda, 1989, pp. 31-33).
61 Letto prima in radio il 3 ottobre del 1930, Der Aufbau der Persönlichkeit fu poi
pubblicato lo stesso anno sul fascicolo di novembre della «Neue Rundschau». Qui
valga l’edizione G. Benn, Der Aufbau der Persönlichkeit. Grundriß einer Geologie des
Ich, in Id., Sämtliche Werke, in Verbindung mit Ilse Benn herausgegeben von G.
Schuster, Stuttgart, Klett-Cotta, 1987, Bd. III, Prosa 1, pp. 263-277.
62 G. Benn, Trunkene Flut. Ausgewählte Gedichte, cit., p. 113.
[ 21 ]
118 federico italiano
(regressione talassale), formulato ed investigato da una allora recente
pubblicazione di Sándor Ferenczi, Saggio su una teoria dei genitali (Versuch
einer Genitaltheorie, 1924)63. In questo scritto, che avrà una discreta
fortuna nella storia della psicanalisi, coniugando evoluzione e psicologia,
filogenesi e psicanalisi, Ferenczi associava il regressus ad uterum
insito nella pulsione sessuale (il desiderio di un ritorno al conforto del
liquido amniotico, in riposta al trauma originatosi nel distacco dal
grembo materno) al trauma originario, precedente il formarsi stesso
della razza umana – il trauma che colse i primi mammiferi quando
abbandonarono le acque del mare per stabilirsi sulla terra ferma. Così
facendo, Ferenczi coniugava il desiderio sessuale alla regressione talassale,
al desiderio di un ritorno al mare64.
L’idea di una regressione talassale è fortemente presente anche
nell’immaginario insulare di Palau. La seconda strofa è alquanto esplicita
al riguardo. Tutto vuole tornare nel grembo primordiale del mare.
Tutto ciò «che si regge e si tiene» – ogni organismo dunque – anela al
«disfacimento», desidera la propria dissoluzione, «fin nel senza membra
» («bis in das Gliederlos»), per entrare nel vuoto, per sprofondare
e perdersi «nel grembo primevo / di mari al crepuscolo» («tief in den
Schöpfungsschoß / dämmernder Meere»). Inoltre, sia nella prima che
nell’ultima strofa, il desiderio di un ritorno al mare, di un annichilimento
del soggetto, del disfacimento dell’io razionale moderno, si associa
ad immagini di forte carica erotica come «anche dai calici della
donna / si può bere» e all’accostamento, nello stesso verso, di mare e
copula: «Copula. Il tuo mare anima». Del resto, come nota anche Travers,
commentando questi versi, proprio nella procreazione domina la
morte65.
Da un punto di vista di storia delle idee, la ricezione del concetto
di «regressione talassale» da parte di Benn è senza dubbio degna di
nota. Se per la poesia del 1927, Regressiv, possiamo infatti dare credito
a ipotesi di lettura del testo di Ferenczi66, per Palau, scritta prima del
’22 non abbiamo diretti agganci intertestuali. Per quanto sia plausibile
63 S. Ferenczi, Versuch einer Genitaltheorie, Leipzig und Wien, Internationaler
Psychoanalytischer Verlag, 1924. La traduzione italiana, Id., Thalassa. Saggio su una
teoria della genitalità, Milano, Cortina, 1993, segue nel titolo la versione inglese Thalassa.
A Theory of Genitality, New York, Norton, 1968.
64 S. Ferenczi, Versuch einer Genitaltheorie, cit., pp. 70-9.
65 Cfr. M. Travers, The Poetry of Gottfried Benn, cit., p. 123.
66 Cfr. U. Kirchdörfer-Bossmann, “Eine Pranke in den Nacken der Erkenntnis”.
Zur Beziehung von Dichtung und Naturwissenschaft im Frühwerk Gottfried Benns, St.
Ingbert, Röhrig Universitätsverlag, 2003, p. 134, nota 393.
[ 22 ]
isole (proto)moderniste 119
supporre che Benn abbia ascoltato Ferenczi dal vivo a Berlino, negli
anni tra il 1918 e il 1922, la convergenza tematica e concettuale tra i
due rimane sorprendente. Benn conosceva bene il lavoro dello psicologo
francese Théodule Ribot – che formulò la legge di regressione (o
reversione) – e si trovava a suo agio tra i testi della psichiatria francese
del XIX secolo.67 Ne siano testimonianza, in primo luogo, i contributi
dello stesso Benn nel campo della storia della psichiatria e della medicina68.
In generale, il fatto che l’immaginazione insulare di Palau mostri
affinità così profonde con il concetto di «regressione talassale»,
anni prima della pubblicazione del Saggio su una teoria dei genitali di
Ferenczi, dice molto sul carattere migratorio, transdisciplinare e transculturale
delle poetiche moderniste. Ma la rete di rimandi e connessioni
tra arti e forme del sapere non si esaurisce qui. L’agognato ritorno
ad uno stadio più remoto della vita, addirittura all’elementarità
cellulare e marina dell’esistenza, che caratterizza Palau e buona parte
dell’opera di Benn negli anni ’20, si inquadra perfettamente nel più
generale contesto del primitivismo tedesco ed europeo69.
Situabile approssimativamente tra Schopenhauer e il Surrealismo
e permeato di elementi nietzschiani, il primitivismo più che un movimento
omogeneo è la storia di una fascinazione per tutto ciò che non
rechi la segnatura del gusto borghese, europeo e metropolitano – una
storia basata su una metafora molto semplice: la civilizzazione occidentale
non è che il sottile strato superficiale sotto cui giacciono profondità
originarie, primeve, elementari. Nello specifico, è la storia di
chi ha creduto che queste profondità fossero rintracciabili nell’arte e
nelle culture dell’Africa, della Micronesia e dei nativi delle Americhe.
Noti esponenti di questa disposizione estetica e intellettuale (squisitamente
europea del resto), furono artisti come Gauguin, Picasso e Braque.
A questi affini, sebbene non riducibili al primitivismo modernista
di stampo francese, sono anche due espressionisti tedeschi, Emil Nolde
e Max Pechstein, entrambi membri del gruppo artistico Brücke. Seguendo
l’esempio di Gaugin, che dismise i suoi abiti borghesi per mi-
67 Ivi, pp. 161-164.
68 Mi riferisco ai seguenti testi: Beitrag zur Geschichte der Psychiatrie (1910) Zur
Geschichte der Naturwissenschaften (1911) e Medizinische Psychologie (1911), pubblicati
originariamente sulla rivista «Grenzboten. Zeitschrift für Politik, Literatur und
Kunst» e ora raccolti nei già citati Sämtliche Werke.
69 R invio qui all’inquadramento generale offerto dalla monografia di N. Gess,
Primitives Denken. Wilde, Kinder und Wahnsinnige in der literarischen Moderne (Müller,
Musil, Benn, Benjamin), München, Wilhelm Fink, 2013 e in particolare al capitolo
dedicato a Benn, pp. 281-364.
[ 23 ]
120 federico italiano
grare a Tahiti, i due pittori, indipendentemente l’uno dall’altro, viaggiarono
nei mari del Sud. Come membro della spedizione medicodemografica
nella Nuova Guinea Tedesca, organizzata dall’Ufficio
coloniale dell’Impero, Emil Nolde visitò tra il 1913 e il 1914 le isole
melanesiane dell’Arcipelago di Bismark e in particolare l’isola di Manu.
Lo scoppio della Grande Guerra lo colse sulla via del ritorno. Max
Pechstein giunse invece con la moglie a Palau nel giugno del 1914.
Quello che avrebbe dovuto essere un rifugio-soggiorno di due anni
terminerà con l’occupazione giapponese dell’arcipelago nell’ottobre
dello stesso anno70.
Nel loro intersecarsi con avvenimenti di portata planetaria, la
Grande Guerra, le spedizioni scientifiche e il colonialismo, i viaggi e le
opere a sfondo melanesiano e micronesiano di Emil Nolde e Max Pechstein
ci invitano a considerare un ultimo aspetto dell’immaginazione
insulare espressa in Palau, di cui la critica non si è fino ad ora esplicitamente
occupata: la sua dimensione post-coloniale71. A partire
dall’occupazione giapponese nel 1914 e al più tardi con il trattato di
Versailles del 1919, che sanciva la perdita da parte della Germania di
tutti i suoi possedimenti coloniali, Palau non è più territorio tedesco.
Per Benn, dunque, che scrive Palau a Berlino nei primi anni della Repubblica
di Weimar, l’isola micronesiana sulla quale vede cadere le
ombre lunghe della sera non è più un’entità coloniale, una traslazione
di Germania nei Mari del Sud, ma un’entità post-coloniale, un’isola
dal doppio passato. Individuare questa matrice post-coloniale in Pa-
70 Sul soggiorno dei coniugi Pechstein a Palau, cfr. B. Fulda, A. Soika, Max
Pechstein. The Rise and Fall of Expressionism, Berlin and Boston, De Gruyter, 2013,
pp. 133-206.
71 In generale, gli interventi critici su Benn primitivista si concentrano soprattutto
sulle connessioni critico-estetiche tra Benn e gli esponenti del primitivismo
plastico. Cfr. N. Gess, Primitives Denken, cit., pp. 281-364 e H. Lethen, Der Sound
der Väter, cit., pp. 135-141. In un articolo assai recente, tuttavia, Joshua Dittrich
esplora proprio questa questione, il rapporto tra primitivismo e colonialismo
nell’opera di Benn. Concentrando la sua lettura su poesie come Karyatide (Cariatide),
Erst wenn (Solo quando) e Ostafrika (Africa orientale) e sui discorsi radiofonici
dei primi anni Trenta, egli afferma che la poesia di Benn degli anni Venti, analizzata
attraverso la lente del primitivismo, riveli un legame profondo tra modernismo,
fantasia coloniale e la nostalgia post-coloniale della Repubblica di Weimar. Cfr. J.
Dittrich, Recolonizing the Mind. Gottfried Benn’s Primitivism, «New German Critique
» XLII (2016), n. 1, pp. 37-58. Dittrich non considera l’immaginazione insulare
di Benn e nomina solo tra parentesi Palau e le poesie dei Mari del Sud, ma il suo
approccio è valido anche per la nostra lettura.
[ 24 ]
isole (proto)moderniste 121
lau è imprescindibile per comprendere il testo nel suo insieme e, in
particolare, per chiarire il lato oscuro della terza strofa.
wie die Götter vergehn
und die großen Cäsaren,
von der Wange des Zeus
emporgefahren –
singe, wandert die Welt 5
schon in fremdestem Schwunge,
schmeckt uns das Charonsgeld
längst unter der Zunge.
Questa strofa, tanto ermetica quanto affascinante, quasi estranea per
riferimenti e immagini al resto del componimento, è stata giustamente
interpretata dalla critica come espressione di una sincretica mitologia
della morte e associata al pessimismo spengleriano e alla lezione
nietzschiana72. I toni apocalittici, difatti, sono perfettamente percepibili
e il rifermento al «Charonsgeld […] unter der Zünge», al sapore del
soldo di Caronte sotto la lingua, chiude coerentemente il quadro escatologico.
Tuttavia, una lettura esclusivamente mitologica della strofa
non farebbe giustizia della molteplicità di livelli – o strati geologici –
con cui sappiamo Benn amava lavorare. Leggendo il testo da una prospettiva
post-coloniale e germano-centrica, infatti, la migrazione di «cesari
» e «dèi» evocata dalla terza strofa diventa un’allusione, neanche
troppo velata, alla breve ed effimera presenza coloniale tedesca in Nuova
Guinea e al tramonto dell’Impero e del suo ultimo Kaiser – dal latino
Caesar, poi keiser in altogermanico – l’imperatore Guglielmo II. Insieme
all’atmosfera crepuscolare e spengleriana dettata dal refrain, «Rossa è
la sera sull’isola di Palau» («Rot ist der Abend auf der Insel von Palau»),
alla regressione talassale e primitivistica che abbiamo più su discusso,
la translatio imperii post-coloniale messa in scena da Benn in Palau evidenzia
uno dei lati più scuri e allo stesso tempo più affascinanti del
modernismo: il cozzare di un’immaginazione geografica strutturalmente
ancora esotista da un lato e, dall’altro, il formarsi di una (più o
meno cattiva) coscienza post-coloniale.
Inarrivabili e inattuali
Precedente l’isola regressiva e post-coloniale di Gottfried Benn,
72 Cfr. M. Travers, The Poetry of Gottfried Benn, cit., p. 123.
[ 25 ]
122 federico italiano
successiva alle isole di carta, intimiste e post-simboliste di Francis
Jammes, la Non-Trovata di Guido Gozzano si profila quale allegoria
cartografica e modernista del desiderio. In conclusione, le immaginazioni
insulari qui discusse non confermano semplicemente la tesi, per
altro ampiamente dimostrata, delle dimensioni globali della circolazione,
migrazione e traduzione di idee tipica del modernismo, ma
esprimono anche da un punto di vista strutturale e tematico l’urgenza
di una visione planetaria, transnazionale e cosmopolita. Tuttavia, a
questa visione apparentemente salvifica si contrappone la realtà lacerata
di un «io» che non tiene, che è irrevocabilmente in ritardo o in
modalità apocalittica. In questo senso e in una prospettiva comparata,
le isole di Jammes, di Gozzano e di Benn – inarrivabili e inattuali – descrivono
l’emergere di un tratto fondamentale del modernismo transnazionale:
la crisi esistenziale del soggetto colta attraverso l’immaginario
geo-spaziale della tarda globalizzazione terrestre.
Federico Italiano
Austrian Academy of Sciences
[ 26 ]
Roberto Gigliucci
Ermetismo e petrarchismo
Il saggio ripercorre alcune delle fasi salienti della stagione ermetica italiana,
ponendo in relazione la lingua “pura” di quella lirica con il modello petrarchesco,
rilevando forme imitative ed escursioni, in un complesso di proposte poetiche
in realtà più ricche di interne diversificazioni e complicazioni stilistiche,
come d’altronde “pluralistico” era stato il petrarchismo dei secoli passati, rispetto
a cui il Novecento è, come si sa, un grandioso palinsesto.

This essay examines some of the major phases in Italian Hermeticism, comparing
its “pure” language with the Petrarchan model and highlighting imitative
forms and original traits, in a poetic landscape rich in internal diversifications
and stylistic complications. Indeed, Petrarchism was equally “pluralistic” in
previous centuries, regarding which the Twentieth century is, of course, a magnificent
palimpsest.
Cominciamo da Montale. La sua poesia metafisica è esplicitamente
anti-ermetica. L’acquisizione del “realismo metafisico” come categoria
storico-formale che in lui ha una culminazione mi pare riconosciuta
soddisfacente: già con Lonardi1, Blasucci2, Mengaldo3, poi con
nuovi contributi: cito almeno l’ottima De Rogatis con commenti e recenti
saggi4, l’articolo di Bausi su un numero monografico dell’«ElAutore:
Università Sapienza-Roma; prof. associato; roberto.gigliucci@uniroma1.
it.
1 G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli,
1980.
2 L. Blasucci, Gli oggetti di Montale, Bologna, il Mulino, 2002.
3 P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Prima Serie, Torino, Bollati Boringhieri,
1996; Id., Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003; mi permetto un rimando, per
una discussione bibliografica, al mio Realismo metafisico e Montale, Roma, Editori
Riuniti, 2007, pp. 10-11 e passim.
4 T. De Rogatis, Montale e il classicismo moderno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e
Poligrafici Internazionali, 2002; commento a Le occasioni, Milano, Mondadori, 2011 ecc.
124 roberto gigliucci
lisse»5, cui rimprovererei solo qualche omissione bibliografica, ecc. Il
realismo metafisico non precede nel suo movimento l’accidens, mentre
l’ermetismo, come forma estrema del petrarchismo, sì, quindi implicitamente
sottomette e coarta l’accidens sfasciandolo spesso in frane di
luce, o meglio ancora situandosi idealmente anteriormente ad esso
qualsivoglia. È assai intrigante il caso di Parronchi6. Nella finissima
introduzione di Ghidetti alla nuova edizione vengono dipinti il petrarchismo
e il classicismo dell’autore, nonché la sua estraneità a una
volontà strenua di trobar clus. Parronchi può risultare appunto paradigmatico
nella sequela della koinè petrarchista ermetica: «quanto di
vago lume / rapiti i cieli e l’acque / alla pensosa albeggiatrice piacque
» (p. 14), insomma siamo nell’universo delle parole-emblemi che
precedono, anzi creano i referenti; l’universo classicistico e petrarchistico,
sintetico ovvero, rappresentato, per intenderci, dalle limpide nubi
e dalle fronde foscoliane o dal mare e il monte leopardiani ecc. C’è da
dire però che Parronchi è molto più variegato nei suoi gesti poetici,
sempre del periodo iniziale, avvicinandosi disinvoltamente anche
all’espressivismo pascoliano: «La brina s’è crettata sulle labbra dei
campi» (p. 79); «Prima che urti lo scricciolo nei rovi / e di gelo si screpolino
i vetri» (p. 93), tutte cose che provengono da arcimodelli come
L’uccellino del freddo. E inutile ripetere quanto l’andamento analiticonomenclatorio
di Pascoli sia agli antipodi di quello sintetico-emblematico
della linea Petrarca-Leopardi.
In ogni caso imitare Petrarca nel Novecento è sempre un gesto carico
di senso, non innocente, diciamo, se lo scorso è stato considerato
soprattutto il secolo di Dante (Eliot, Pound ecc.); rimando senz’altro
(ed anche con un pizzico di personale orgoglio) al ricco volume Un’altra
storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Cortellessa7. In aggiunta
però c’è da dire che il petrarchismo novecentesco è poi in realtà
pervasivo in plaghe liriche molto estese: a parte il caso clamoroso di
Saba, lo stesso ermetismo storico, quello almeno che sopravvive alle
“fuoriuscite” e alle varie fughe in direzioni individuali idiosincratiche,
si definisce come petrarchismo. Anche se un petrarchismo, come
tutti i petrarchismi – incluso quello cinquecentesco – plurale, come ormai
si è dimostrato. Petrarchismo di Parronchi, dunque, ma appunto
5 F. Bausi, Verità biografica e verità poetica nei «Mottetti», «L’Ellisse», VII (2012),
pp. 63-101: 69 sg.
6 A. Parronchi, Le poesie, Firenze, Polistampa, 2000.
7 Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di A. Cortellessa, Roma,
Bulzoni, 2005.
[ 2 ]
ermetismo e petrarchismo 125
un petrarchismo che si incrosta di preziosità lucide, un petrarchismo
che ha attraversato i secoli, riportando su di sé concrezioni e formazioni,
complicazioni barocche, oscuramenti à la Mallarmé e, prima, in stile
Góngora. Quest’ultimo, nume dei poeti spagnoli della generazione
del ’27, in Italia influirà soprattutto sull’ermetico salentino Bodini (ma
non si dimentichi Scipione che «declamava i versi di Gongora dall’alto
del Campidoglio di notte…», scrive Amelia Rosselli)8, mentre di Mallarmé
Parronchi traduce il celeberrimo fauno, come fece anche Ungaretti.
Ma per un fiorentino come Parronchi parlare di barocco potrebbe
sembrare un’eresia, e qui il discorso ci porterebbe troppo lontano. Basti
comunque dire che il pur nitido e sempre compos sui Parronchi non
esita ad arricchire i suoi versi giovanili con sintagmi che puntano al
sublime imperioso, e penso ai «tenebrosi allori», al «limpido topazio»,
ai «lecci amari», «rose notturne», e ancora «mirti acuti» e così via. Qui
non si può non sentire la lezione di Montale, delle Occasioni, e si tratta
di una contemporaneità magari a volte parallela, a specchio, due classicismi
diversi ma entrambi perentori nel dichiarare la necessità dello
“stile alto”, quello del «vago orror dei cedri smossi», per intenderci,
che leggiamo nella lirica Nel sonno pubblicata da Montale su rivista
nell’agosto 1940, esempio massimo di un petrarchismo secentista in
cui Eugenio è involto totalmente, mentre Parronchi lo vive più sobriamente,
con un senso dell’equilibrio e dello sfumato più prossimo al
Petrarca stesso e all’ortodossia, per dir così, dell’ermetismo della sua
Firenze (ove l’ospite Montale è anti-ermetico e metafisico senz’altro).
E tuttavia questa Firenze così vocazionalmente atticista e armonico-
ideale è poi anche la Firenze di un Bigongiari, e ancora le cose si
complicano, sfogliando le prime raccolte di questo poeta troppo colto
e composito. In particolare nella Figlia di Babilonia9 la rarefazione ermetica
è spesso in via di solidificazione, con le concrezioni (solo in
parte mallarmeane) di un petrarchismo raggrumato in gemme: sarà lo
«smeriglio», la «giunchiglia», le «ametiste», i «cupi giacinti», gli
«spenti smeraldi», quindi le sequenze del tipo fiamma – cenere – croco,
quel «croco» che più ingenuamente di Montale il nostro Bigongiari fa
risuonare più volte, con predilezione anche per l’«oro» e la «fiamma»,
fino a soluzioni analogiche sintetiche certo ermetiche in linea di principio
ma molto molto cariche sul piano dell’accumulo prezioso: «Le
8 Scipione, Carte segrete, Torino, Einaudi, 1982, p. VII.
9 Firenze, Parenti, 1942.
[ 3 ]
126 roberto gigliucci
serre che diamantano i limoni», e altri esempi si potrebbero evocare,
che non sdegnano neppure l’evocazione in stile alto della tragedia tassesca:
«(dove muore Clorinda?)». D’altra parte Bigongiari è uno dei
protagonisti della rivalutazione del barocco pittorico fiorentino: nel
volume di saggi del 197410, operando un felice incatenamento analitico
di arte figurativa, nuova cosmologia galileiana e invenzione dello
stile recitativo nel nuovo melodramma, il nostro autore individuava
un «nuovo aspetto del barocco che si può definire implosivo o interiore
», un teatro sentimentale composto in un apparente equilibrio del
gesto ma in realtà indicativo di un ribollire «inconscio»; una dolce razionalità
che sottende – e indica peraltro – una zona profonda, una
“modernità” psichica. In ogni caso, considerando le recentissime mostre
sulla Firenze barocca e in particolare su Furini, dobbiamo situare
Bigongiari, pur nel suo pionierismo, come un profeta di futuri sviluppi
storico-artistici assai dinamici. E la sua poesia ne riceve una ulteriore
illuminazione, ovviamente.
Dunque rischiamo di allontanarci dalla perfezione dell’idealismo
trascendentale “petrarchesco” di una eventuale koinè ermetica, come
era nel Luzi originario, peraltro però a nostra modesta opinione fra i
meno vividi poeti del gruppo. Così nel primo Gatto11 rarefatto di erbe,
alba, acque («sull’alba dell’acque», p. 81), neve, cielo, aria ecc., lessemi
ermetici che designano assoluti, luoghi geografici eternati e insieme
smemorati, allargati e sconfinati, troviamo persino la citazione del
Michelangelo più petrarchista e meno petroso: «Forse mi lascerà del
tuo bel volto»12 < «Chi mi proteggerà dal tuo bel volto?», inquisizione
finale in un madrigale supremo del Buonarroti. E che dire di Libero
De Libero, forse il poeta più fedele al verbo ermetico durante tutta la
sua vicenda terrena di grande lirico? In una poesia dei primissimi anni
’30 (Annunciazione)13 cogliamo una sequenza come boschi, fiumi,
astri, sonno, pastore, gregge, sassi e in una già del ’50 alba, aria, vele, luce,
sogni ecc.14. La selettività lessicale di De Libero, che chiameremmo petrarchista,
ha dell’incredibile, perché nella sua dolce furia combinato-
10 Il caso e il caos. Il Seicento fiorentino. Tra Galileo e il «recitar cantando», Milano,
Rizzoli, 1974.
11 A. Gatto, Poesie 1929-1941, pref. di G. Ferrata, Milano, Mondadori, 1961.
12 Ivi, p. 250, e cfr. «Mortale al suo bel volto», p. 253.
13 L. de Libero, Poesie, a cura di A. Valentini, introd. di C. Bo, Milano, Mondadori,
1980, p. 37. Vd. ora De Libero, Poesie, a cura di V. Notarberardino e A.M.
Scarpati, Roma, Bulzoni, 2011.
14 Ivi, p. 157.
[ 4 ]
ermetismo e petrarchismo 127
ria non risulta e non risulterà mai monotona, come insegna l’arcimodello.
Contro e fuori di tutto questo c’è il realismo metafisico di Montale,
abbiamo detto, ma c’è anche la luce che «spolpa selci» e «macina scogli
» nel Sentimento del tempo, dove la poesia dell’assoluto calcinante è
irta di espressivismo extra-ermetico, grazie al cielo. E vorrei aggiungere
qui che anche il sopracitato pittore Scipione, in Estate del 1928 e in
Solstizio del 1930, configura un’estasi estiva assai violenta, «di carne e
di morte», come introduceva Amelia Rosselli nell’edizione einaudiana
delle Carte segrete15. Roma, dunque, Roma rossa, certo, quella della
scuola di via Cavour e del colore dei palazzi ottocenteschi, oggi quasi
ormai scomparso. E poi la Roma di Sinisgalli.
Anzi, il “caso” Sinisgalli. Quasi più niente da dire rimarrebbe sul
poeta lucano dopo l’immersione nei due fluviali, spettacolari volumi
curati da Sebastiano Martelli e Franco Vitelli col titolo Il guscio della
chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli16. Fin dall’inizio dentro e già fuori
dall’ermetismo, con la sua tensione alla figurazione piuttosto che
alla trasfigurazione? Alla descrizione (più o meno trascendentale)
piuttosto che alla concentrazione? I lavori sulle varianti genetiche delle
poesie di Vidi le Muse17 mostrano il procedere da un’istintiva concretezza
a un adeguamento alla koinè ermetica smaterializzante (cfr. gli
studi di Vitelli, della Martignoni ecc.). Poi quelle Muse appollaiate (e
non apollinee). Che Muse sono? Già compagne della musa decrepita
del “secondo” Sinisgalli, se non già quelle del “secondo” Montale? E
qui l’insistere sulla meraviglia è una parodia barocca, o addirittura
una parodia dell’ermetismo stesso visto in una chiave barocco-sfumata
e sfumante? Quindi i Nuovi Campi Elisi: ecco Roma, soprattutto l’Elegia
romana. Un ambiente rievocato, e studiato attentamente da Giuseppe
Lupo18, dove campeggia Scipione, ovviamente, e quel che comporta
Scipione. Apriamo una brevissima parentesi fuori cronologia, o
quasi: Scipione amato dalla Rosselli, e anche Calogero amato e prefato
dalla Rosselli, Lorenzo Calogero che probabilmente alla fine è il più
15 Scipione, Carte segrete, cit., p. VII.
16 Salerno, Edisud, 2012, 2 voll.
17 Di cui vd. l’ediz. moderna a cura di R. Aymone, Cava dei Tirreni, Avagliano,
1997.
18 G. Lupo, Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana, Milano, Vita e
Pensiero, 2002. L’autore ha anche curato di De Libero Racconti surreali, Torino,
Aragno, 2002.
[ 5 ]
128 roberto gigliucci
grande isolato poeta ermetico (anche se dobbiamo nuovamente citare
Sinisgalli fra i suoi supporters). Tra Scipione e Calogero dunque una
poetessa – la più grande del Novecento italiano – che nella sua cultura
internazionale coglie in Italia due opposte tensioni, una verso la carne
allucinata e l’altra verso l’allucinazione dell’assoluto, e vi si pone in
mezzo optime. Chiusa parentesi.
Un confronto fra la lirica Lazzaretto (Vidi le Muse)19 e i modelli montaliani
indica coerentemente una imitatio che però vira in direzione
tutt’altro che metafisica: il girasole e la muraglia sinisgalliani sono assolutamente
non protesi a un oltre alluso o perseguito, risultano elementi
di una descrizione poetica, accorata. Cos’è descrizione? Un acquetarsi
della parola sul descritto senza forte tensione che non sia al referente?
Certo nella lirica si può avere realismo senza metafisica; anche se il
dato è quasi ovvio, mi piace citare qui una poesia di Borgese nella
raccolta mondadoriana del ’22, la lunga Mottarone: durante una passeggiata
montana, alla compagna del poeta si rompe un tacco delle
sue inadatte scarpine, e l’accidente diventa una tragicomica catastrofe
per l’amante che sprofonda nell’imbarazzo, tra divertenti adozioni di
un linguaggio aulico e brutali raffigurazioni di un realismo deprimente.
Il rompersi di un tacco poteva anche trasfigurarsi in una occasione
enigmatica, ma non accade.
La forma sinisgalliana dell’elegia distanzia poi progressivamente
l’assetto poetico dall’ermetismo inteso quale sintesi serrata al massimo,
slargandosi invece con forza volitiva in una rammemorazione,
narrativa quanto può esserlo una lirica negli anni ’30. La direzione è
quella che porta poi al citato capolavoro dell’Elegia romana del secondo
libro di Sinisgalli, I nuovi Campi Elisi. Qui il barocco e ancor più il caos
romano come cumulo diastratico di testimonianze e bellezze ospita anche
l’io dell’autore che rievoca il suo rapporto con la capitale, pure
mettendo in evidenza squarci di realismo da quadro di genere secentesco
se non da poema eroicomico vernacolare, quelle figurazioni violente
e materiche che Gadda adibirà bene per il suo Pasticciaccio: «Mi ricordo
una sera / che vidi spaccare in via Baccina / un agnello sul
tagliere»20. Sul barocco poi Sinisgalli avrà un appunto davvero lampante
nell’Età della luna (e siamo leggermente oltre il 1956, che è l’anno
di uscita della precedente Vigna vecchia): qui Barocco è inteso come
«travaso dell’intelligenza nella materia», come «contrario preciso
19 Vd. anche L. Sinisgalli, L’ellisse. Poesie 1932-1972, a cura di G. Pontiggia,
Milano, Mondadori, 1974, p. 43.
20 Ivi, p. 58.
[ 6 ]
ermetismo e petrarchismo 129
dell’indefinito, dell’approssimativo», anzi «percezione acuta del reale»
ecc. (rimando da ultimo alle belle pagine di Battistini nel primo volume
de Il guscio della chiocciola, cit.). Insomma, Sinisgalli va oltre tutte le
viete banalità sulla categoria storico-astorica del barocco – follia, delirio,
decorazione pura ecc. – mentre ha chiara la natura precisa del peculiare
realismo barocco, citando Borromini per la sua esattezza e non
certo per la sua presunta stramberia, e tutta questa intelligenza si riversa
sul Sinisgalli delle precedenti raccolte, illuminandole appieno.
Certo se parliamo di “fuoriuscite dall’ermetismo” sembrerebbe
singolare non accennare al primo Sereni, ed ora lo possiamo fare con
ancor più dettagliata cognizione di causa mercé l’edizione di Frontiera
e Diario d’Algeria commentatissima da Giorgia Fioroni, volume della
«Fondazione Pietro Bembo» di recente uscito21. Un apparato, dicevamo,
quasi ipertrofico, come però del resto si richiede ormai a una collana
di classici scientifica. Indubbiamente talora qualche eccesso si rileva,
come quando ai vv. di Memoria d’America «Quattro zoccoli; / e
sento nitrire / di ritorno / la cavalla che ieri ho perduto» si evoca ridondantemente
il Virgilio di Quadrupedante putrem ecc. o il Pascoli della
Cavalla storna, ma poco male, melius abundare quam deficere, anche
se oggigiorno si discute se l’optimum siano proprio quei commenti
che impaginano due versi di testo e 50 di note… In ogni caso tra i loci
paralleli sfornati con dovizia straordinaria emergono importanti e
questa volta calzanti echi ad es. di Carducci, soprattutto del Carducci
“ferroviario”, per un poeta come Sereni che è ossessionato dai treni,
oltre che dai battelli, giustamente. Davvero prezioso il commento a
liriche cruciali come Nebbia, sempre in Frontiera, dove l’inizio e la fine
sul motivo del semaforo rosso e poi verde incorniciano una immaginalità
assolutamente non ermetica, nonostante il fiorire di metafore o
di allusività talora di sapore oscuro-montaliano come le «volpi gentili
» e i «feltri verdi» della strofa centrale, che la Fioroni ben si sforza di
chiarire con richiami esegeticamente autorizzati al vestiario dei passeggianti
per viali luminosi postpluviali.
La curatrice sa sottolineare con grande ampiezza di rimandi il motivo
mortuario, che cresce in climax ascendente nel corso di Frontiera
sino alla finale Proserpina, anche qui con consonanze montaliane ma
tutte virate in direzione leopardiana, cioè non metafisica ma materialista
e compatta, se pure con in più una vitalità che si embrica ossimo-
21 Parma, Guanda, 2013.
[ 7 ]
130 roberto gigliucci
ricamente con la vanitas della cenere, della polvere e persino dei «cinerei
prati» dell’Eliso (nella memorabile Strada di Zenna). L’uso dei futuri
in prima persona plurale («Ci desteremo… torneremo… non saremo
che un suono» ecc.) offre alla Fioroni occasioni per indicare intelligenti
intertesti, fra cui immancabile la Pozzi, così vicina a Sereni, e
pensiamo all’esito che questo modulo avrà sull’estremo Pavese
(«scenderemo nel gorgo muti»). Ancora nella mirabile interconnessione
di termini vaghi e realistici («torpediniera») in Terrazza la Fioroni
avvicina quel «murmure», che Sereni predilige, a Pascoli e quindi a
Montale, ma è parola anche assai ungarettiana, in un cortocircuito che
è emblema della poesia degli anni trenta italiani, dove aure e stilemi si
distinguono e si intrecciano in un continuo vortice, dentro e fuori l’ermetismo
inteso come brodo koinonale o meglio stella gassosa con pianeti
che ruotano attorno e vengono attratti e poi espulsi in continua
dinamica pulviscolare.
Sereni e gli oggetti: come sappiamo gli oggetti possono essere emblemi
petrarcheschi, quindi astratti e perciò squisitamente ermetici,
oppure oggetti accidentali e “reali”, e allora antiastrattivi e pascoliano-
montaliani. Prendiamo alcuni tricola, che la Fioroni commenta a
dovere: «dai balconi dagli orti dalle torri» (p. 85), e come non evocare
appunto Leopardi, ma in un discrimine tra materializzazione e smaterializzazione
araldica molto arduo da percorrere. D’altra parte se
scendiamo al Diario leggiamo di «qualche rediviva tenerezza / di laghi
di fronde» (p. 260, e subito dopo «polvere e sole»!): sì, sarà questo
paesaggio natio lacustre, come Fioroni chiosa seguendo Isella-Martignoni,
ma le due parole sono doverosi emblemi della linea pura petrarchesca-
petrarchista, cosa che non avvertivamo così lampante nel
tricolon di Frontiera precedentemente cit. Ancora un altro verso del
Diario, «strade fontane piazze», asindetico, che di nuovo «condensa i
luoghi cari del passato e della giovinezza presenti nella prima raccolta
» (p. 354), giustissimo, ma ci riporta inflessibilmente, anche se meno
fulminalmente, alla tendenza astrattiva. Intendiamo dire, e qui concludiamo
provvisoriamente un discorso che l’ottima edizione della
Fioroni potrà farci approfondire, che la più “ermetica” Frontiera risulta
più antiastrattiva del bellico doloroso Diario, ospitante liriche addirittura
ermetiche in un senso “storico”, ma è proprio la Storia col suo
orrore a giustificare questo paradosso, probabilmente, nella linea di
quella reclusione difensiva nell’io e quindi nell’evocatività aniconica e
fantasmatica che ne deriva. Intendiamo dire, in sostanza, che nella collocazione
genericamente ermetica di Frontiera, eccettuando alcune poesie
brevi e accese come Incontro o Maschere del ’36, la tendenza figura-
[ 8 ]
ermetismo e petrarchismo 131
tiva è costantemente anti-astrattiva, e insistiamo con presenze carducciane
precise (A M. L. sorvolando in rapido la sua città) e femminilità
morte di arida derivazione leopardiana, come, per fare un solo esempio,
Diana, in cui il rimprovero finale alla morte della donna ha una
durezza quasi classica, in questo senso materialistico-leopardiana,
mentre la strofa terza con i suoi tavolini da caffè pieni di gente che
beve definisce, con in più l’orchestrina dell’incipit strofico seguente,
una smagliante iconicità che non vuole peraltro alludere a varchi
montaliani di alcun genere. Così per nulla montaliani (cioè realisticometafisici)
sono i difficili «specchi già ciechi» di Piazza (v. 4) che non
credo siano specchi d’acqua del certo lacustre luinese, ma forse neanche
occhi (seguirebbe lo «sguardo d’addio» insopportabile della giovinezza
a conforto), anche se in tal caso sarebbero esaltante metafora
iperpetrarchistica. Potrebbero essere invece più oggettuali vetrine che
si oscurano nella sera, ma senza ovviamente le implicazioni inquietanti
della spera degli Orecchini. (Come gli «insonni girasoli» di Alla
giovinezza non sanno nulla di montaliani eliotropi). Mentre il pressoché
assente D’Annunzio è invece sottilmente e ansiosamente presente
secondo noi almeno nel secondo verso di Un’altra estate: «Lunga furente
estate / la solca ora un brivido sottile». Tralasciando la variantistica
genetica, che la Fioroni ben riporta, ci si lasci dire che il furore
estivo virgiliano-ungarettiano-cardarelliano e anche dannunziano si
assottiglia però in un dannunzianesimo più sensibile e malioso in quel
«brivido» che non può non ricordare il madrigale d’estate Come scorrea
la calda sabbia lieve, che sarà caro anche a Ungaretti, un intertesto vago
ma penetrante che avrei aggiunto ai tanti Cardarelli evocati.
Se frughiamo le poesie più apparentemente ungarettiane o “pure”
che dir si voglia, in Terrazza abbiamo una sospensione pensile davanti
al lago che però, di nuovo, definisce una situazione, non la sfuma più
di quanto sembri, e alla fine la montaliana «torpediniera» addirittura
prosasticamente «ci scruta poi gira e se ne va». Ma questi sono rilievi
di una banalità assoluta, per chi conosca la critica sereniana. Quello
che ci affascina, e sarà ovvietà anche questa forse, e ce ne scusiamo, è
che nel Diario la tensione smaterializzante e antiastrattiva sia così forte
e incoercibile, proprio laddove dovrebbe invece sorgere potente la severa
rinuncia al disimpegno stilisticamente fantasmatico. Forse riemerge
la memoria ungarettiana della prima guerra, ma non è spiegazione
sufficiente. Pensiamo al murmure di cui sopra, e rieccolo all’inizio
di Diario bolognese, «disperato», elevato retoricamente e poi soffiato
in una lirica che è tutta endecasillabi ermetizzanti. Alcune poesie
brevi sono perfette poesie ermetiche: penso solo a Villa Paradiso, in cui
[ 9 ]
132 roberto gigliucci
pure la «costa bombardata» sembra svaporare in quel «mattino / di
glicine». E se veniamo propriamente ai pezzi del Diario è quasi inutile
citare, tanto il discorso ci sembra omogeneo in quanto teso all’immateriale
spesso sublime. E per concludere provvisoriamente, quella che
ci sembra il vertice della poesia sereniana, Non sa più nulla, è alto sulle
ali, e che quale evocazione dello sbarco in Normandia è situata nelle
antologie scolastiche come poesia di guerra che quindi abbandona ormai
dietro di sé i giardini pensili aerati dell’ermetismo, a parte l’esordio
ancora ungarettiano, che tutti hanno notato (eliminerei il condizionale
dal commento della Fioroni che scrive «potrebbe rievocare
l’Ungaretti di Vanità», p. 314), è una lirica non certo priva di messa in
situazione («qualcuno stanotte / mi toccava la spalla… / Ho risposto
nel sonno» ecc.) ma si conclude con una musica anti-angelica che suona
tanto più anti-spirituale («tende che sbattono sui pali») quanto più
è forte, in sordina e in controluce notturna, la tensione di cui sopra
verso non certo un’angelicità ma sicuramente una leggerezza di fronde
e di erbe petrarchesche: ricerca di ombra, di un «cono d’ombra» e
di «lustrale acqua beata», di chiarezza, di evaporare estivo in una
morte più aerea. Sarà il Male d’Africa a brutalizzare magnificamente
tutto questo e a inaugurare il nuovo Sereni.
Fuoriuscite e rientrate, dunque. Ma se adesso citiamo il nome di
Quasimodo, allora parlare di ermetismo sembra un obbligo storicocritico.
Eppure la natività magno-greca di Quasimodo, pre-ermetica
quindi, è ormai un dato acquisito della critica: rimando solo all’intervento
di Giovanna Ioli negli atti del convegno di Princeton del 200122:
«Quasimodo non è un poeta ermetico, né un poeta civile, e non è neppure
un poeta moderno: è semplicemente un poeta siculo-greco» ecc.
(p. 65). E si vedano poi i saggi di Bart Van den Bossche e di Aurélie
Gendrat negli atti del convegno di Lovanio23 (oltre ai contributi classici
di un Natale Tedesco24, di un Marcello Gigante25). E dopo l’acquisizione
dei materiali quasimodiani al fondo pavese, si vedano i due am-
22 Salvatore Quasimodo nel vento del mediterraneo, a cura di P. Frassica, Novara,
Interlinea, 2002.
23 Quasimodo e gli altri, a cura di F. Musarra, B. Van den Bossche, S. Vanvolsem,
Firenze, Cesati, 2003. Meno recente ma imprescindibile: Salvatore Quasimodo.
La poesia nel mito e oltre, a cura di G. Finzi, Roma-Bari, Laterza, 1986.
24 L’isola impareggiabile. Significati e forme del mito in Quasimodo, Firenze, La
Nuova Italia, 1977.
25 L’ultimo Quasimodo e la poesia greca, Napoli, Guida, 1970.
[ 10 ]
ermetismo e petrarchismo 133
pi cataloghi delle carte del poeta e particolarmente Salvatore Quasimodo
e gli autori classici26, con l’introduzione puntualissima della curatrice
Ilaria Rizzini, che invita fra l’altro a «riflettere su come il repertorio di
lessico e di immagini della prima poesia quasimodiana – quella della
memoria dell’infanzia, della Sicilia, dei suoi paesaggi e dei suoi miti
– si prestasse all’incontro con la lirica antica e a una reciproca trasfusione
di parole e di motivi» (p. LXIX).
Si riformula quindi il problema del suo “ermetismo”27. Possiamo
parlare di anticipazione poetica delle sue traduzioni di lirici greci come
forma di una originarietà. Il primo Quasimodo (magari non il primissimo
delle sperimentazioni tardosimboliste adolescenziali, di recente
ristudiate) è greco prima di essere ermetico, o meglio traduce in
emigrazione verso il centro-nord, cioè in ermetismo storico sul piano
della sodalitas, una originarietà straordinariamente e accecantemente
mediterranea: «Tindari, mite ti so» deriva ritmicamente da «Τυνδαρίδαις
τε φιλοξείνοις ἁδεῖν», primo verso della terza olimpica di Pindaro, che
leggendo in metrica suona: Týndaridáis te philóxeinóis hadéin (devo il
suggerimento alla collega Claudia Chierichini, che ringrazio; può essere
curioso, inoltre, rammentare che il maestro di Quasimodo durante
il suo periodo di studio matto e disperatissimo di greco e latino, si
chiamava Mariano Rampolla del Tindaro, ed era fratello dell’insegnante
di italiano che Quasimodo aveva avuto all’Istituto Tecnico di
Messina.); la celeberrima Ed è subito sera ha dietro naturalmente la Saffo
del tramonto della luna e delle Pleiadi col verso «e io dormo sola»,
che il poeta tradurrà nei Lirici greci fondendo diversi frammenti ecc.
Insomma, sarà da approfondire ulteriormente non solo l’investimento
dell’usus poetico quasimodiano nelle sue traduzioni e poi l’influsso di
quelle stesse traduzioni sulla sua lirica posteriore, ma anche l’originaria
possibile influenza di quei versi antichi, già studiati negli anni ’20,
sulla prima poesia di Quasimodo.
Certo questo non è solo un problema di “meridionalità”, altrimenti
si tornerebbe serenamente alle vecchie geografie dell’ermetismo a
seconda dei luoghi (sud, Firenze, Milano ecc.) o a seconda delle gene-
26 U niv. di Pavia, 2002. Segnalo, tra le pubblicazioni recenti di opere di Quasimodo,
il prezioso volume Acque e terre, a cura di S. Giovannuzzi, Genova, San
Marco dei Giustiniani, 2016, che pubblica con ampia introduzione la princeps solariana
del 1930.
27 Vd. fra l’altro Quasimodo e l’ermetismo, Modica, Centro Nazionale di studi su
Salvatore Quasimodo, 1986.
[ 11 ]
134 roberto gigliucci
razioni, tutte classificazioni lecite ma ora non più qui in questione. Si
tratta di intendere questo Sud come ermetico ma anche talora nativamente
autonomo dall’ermetismo storico.
E quindi, a proposito di un altro uomo del sud, la fuga precoce
dall’ermetismo da parte di Vittorio Bodini non sarà solo un problema,
ancora di meridionalità, ma qualcosa di più complesso: «ermetismo
barocchizzato», sentenziava Macrì, ma poi ancora oltre, con la Luna dei
Borboni che è un piccolo grande libro di poesie dei nostri anni fra’40 e
’50. Abbiamo la ristampa delle Poesie nel 1980, l’edizione delle prose
Barocco del Sud a cura di Antonio Lucio Giannone, gli studi di Ennio
Bonea pubblicati nel 1998 ecc.28. Il barocco salentino di Bodini, legato
idealmente alla franosa e polposa pietra leccisa, e il problema del “barocco”
novecentesco italiano si nutrono ancora una volta di traduzioni,
dal seicento spagnolo, un raccordo forse impossibile con l’iberica
generazione del ’27, ma anche una grande esperienza di interrogazione
seria di un Quevedo29, di un Cervantes30, di un Calderón31, di un
Góngora32 ecc. In particolare i saggi gongorini del nostro rivelano un
punto di osservazione sul barocco radicale e pionieristico, per certi
versi, in contrasto con molte voci della mainstream esegetica del cordovese,
Dámaso Alonso fra gli altri. Occorrerà citare, per capirci meglio.
Nel saggio su Góngora e i miti classici, l’esordio non potrebbe essere più
lampante:
Il Rinascimento, approfittando della neutralità del paesaggio naturale
rispetto al tempo storico, lo rapisce in un tempo ideale, stilizzandone
in due momenti prima gli elementi naturali, poi gli abitanti. […] …la
donna amata, diventata ninfa, è spogliata d’ogni individuazione, d’ogni
senso di riconoscimento, d’ogni distintivo del tempo; è poco più
che una statua [p. 65].
Quando Bodini scrive ninfa non fa riferimento circoscritto al mondo
pastorale; allude alla donna come oggetto di poesia d’amore secolare
– l’altro che disdegna – disoggettivato, in effetti, nel senso di as-
28 R ispettivamente Galatina, Congedo, 1980; Nardò, BESA, s.d.; Comi, Bodini,
Pagano, Lecce, Piero Manni, 1998.
29 F. de Quevedo, Sonetti amorosi e morali, trad. di V. Bodini, Torino, Einaudi,
1965.
30 M. de Cervantes, Don Chisciotte, trad. di V. Bodini, Torino, Einaudi, 1957.
31 V. Bodini, Segni e simboli nella «Vida es sueño». Dialettica elementare del
dramma calderoniano, Bari, Adriatica, 1968.
32 Id., Studi sul Barocco di Góngora, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964, da cui citiamo.
[ 12 ]
ermetismo e petrarchismo 135
sunto in pura idealità. Il Seicento compie una «vera e propria ninfoclastia
» (p. 66), come segno di una reazione forte al paradigma petrarchista
nella sua staticità sovratemporale (mitica). Ci piace citare ancora:
Al sovvertimento dei vecchi temi si accompagna ora un’allegria, un
gusto salutare dello scandalo, che moltiplica all’infinito le sue trovate.
Se è possibile che vi sia alla base del suo rinnovamento il puro fine
della stramberia – ciò che non significa nulla, è ipotesi oziosa e basta
– questo non dovrebbe farci cessare dal riflettere alla quantità di realismo
immesso nella poesia dai barocchi [p. 66, c.vo mio].
Ecco la parola chiave, realismo, che tanto ancora a quei tempi si
aveva paura a evocare (almeno in positivo) a proposito della poesia
secentesca, e che Bodini spiattella con una euforia davvero barocca in
sede di analisi storico-formale. Senza queste acquisizioni non capiremmo,
credo, il discrimine tra una tensione novecentesca alla poesia
pura ed una alla poesia realistico-metafisica, o realistica tout court, o
persino comico-allegorica nel senso tecnico-stilistico. Il barocco, per Bodini,
reagisce all’irrealismo rimanendo ovviamente estraneo ad ogni
surrealismo avant-lettre (si veda la postilla Góngora e le immagini surreali,
pp. 115-123), «condensando violenze e contraddizioni della vita
quotidiana e dei suoi oggetti, di ciò soprattutto che sembrava non dovesse
aver accesso al Parnaso» (p. 66)33. La discontinuità secentesca è
proprio in questo reagire all’ideale per il reale, non fermandosi davanti
alle «imperfezioni fisiche o spirituali» (p. 67), anzi concentrandosi
su di esse, rivelatrici di una nuova inventio poetica attenta «all’individuazione
e al contrasto» (ibid.), e non alla smaterializzazione34. La
“materialità” della poesia di questo momento storico climaterico
(Early Modern) è accentuata da Bodini nello splendido capitoletto
sull’etimologia della parola Barocco: con filologica sapienza il nostro
risale, dietro l’immagine della perla irregolare scaramazza, alla ‘graniticità’
originaria del campo semantico di barroco, berrueco, verificando
«una trasmigrazione di senso, dalla roccia alla perla» (p. 126). È la
«ronchiosità» che identifica il barocco dalla superficie multipla, ove si
mesce la grossolanità naturale alla preziosità dell’artefatto. Una «radice
di roccia» (p. 127) che custodisce il segreto del Barocco. Il fatto stra-
33 E qui non manca l’eco del Parnaso in rivolta di C. Calcaterra, Milano, Mondadori,
1940.
34 Devo necessariamente rimandare al mio Realismo barocco (Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 2016) almeno per un quadro d’insieme che chiarifichi questo
sintetico discorso.
[ 13 ]
136 roberto gigliucci
ordinario, che mi pare stiamo evidenziando, è che nel panorama primonovecentesco
di ermetismo e anti-ermetismo apparente, le trasmigrazioni
di “diamantate” materialità in “aeree” svaporazioni e viceversa
sono più frequenti di quanto non sembri. La realtà e il mito, in
una crasi fra Baudelaire e Mallarmé35, finiscono per essere tutt’uno. In
una lirica del 1963, Bodini ci parla in accenti ultramoderni dell’avvento
del reale storico e sociale nella poesia, e insieme della vicenda atemporale
del mito del classicismo.
Presi nelle spire del boom ne gustiamo anche noi
gli alti palazzi e le piante nane
piume serpenti chiomati sotterfugi intimi.
L’astrattismo ci punse un dito come una rosa neoclassica36.
Non c’è un vero prima e dopo, in questa poesia, nonostante l’apparenza.
La scoperta della realtà, collocabile storicamente nel primo barocco,
ha segnato l’affogamento dell’ingenuità per i secoli a venire.
La realtà e il mito. Il discorso sul mito classico – e quindi sul classicismo
novecentesco – è stato finora appena accennato, ma è determinante
per comprendere la peculiarità di un altro lirico, Pavese, che se
in Lavorare stanca offriva un esempio lampante di lirica anti-ermetica,
con il suo verso lungo e il ritmo ossessivo anapestico-narrativo, venendo
alla sua seconda stagione riapre persino a D’Annunzio: sono
state indicate precisamente ad es. le analogie fra i versi pavesiani su
Piazza di Spagna e le rime del giovane pescarese37. L’ultimo Pavese
lirico svaria dunque coerentemente dal dannunzianesimo “romano”
all’ossame mortuario arido nivale di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Tra le nevi di Cervinia, nel marzo 1950, durante la vacanza con Constance
Dowling l’amata americana ed altri amici, Pavese scrive nel
diario: «(Cervinia) Stamattina alle 5 o 6. Poi la stella diana, larga e
stillante sulle montagne di neve. L’orgasmo, il batticuore, l’insonnia.
35 D’altronde Bodini reagiva negativamente alla suggestione di una linea Góngora-
Mallarmé segnata dalla tensione verso le parole assolutizzate e sottratte a
ogni referenzialità, non concordando con Z. Milner, Góngora et Mallarmé, «L’Esprit
nouveau», III (1920), pp. 285-296: cfr. Studi sul Barocco di Góngora, cit., pp. 18,
34.
36 Nelle spire del boom, in Poesie, cit., p. 110.
37 Mi scuso rimandando ancora a un mio intervento, Pavese (e D’Annunzio) a
Piazza di Spagna, «Sincronie», VII (2003), n. 13, pp. 151-157, poi, leggermente ampliato,
in Spazi, geografie, testi, a cura di S. Sgavicchia, Roma, Bulzoni, 2003, pp.
141-47.
[ 14 ]
ermetismo e petrarchismo 137
Connie è stata dolce e remissiva, ma insomma staccata e ferma. Il cuore
mi ha saltato tutto il giorno, e non smette ancora» (Il mestiere di vivere,
6 marzo 1950)38. L’ultima, la vera dea bianca, l’americana, è Connie,
nel cui nome è iscritto il centro magnifico e tenebroso della donna, il
cunnus, la vigna, l’estasi e la morte. Questo episodio biografico in Val
d’Aosta, questo décor innevato, freddo e luminoso, dove sgorga la luce
della stella del mattino, spiega probabilmente il verso, poi cassato, che
figurava nella suprema poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: «fredda
nel sole». Sempre nella raccolta di versi per Connie, la lirica Hai un
sangue, un respiro mostra nell’autografo una variante significativa: da
«cielo di marzo, neve» a «cielo di marzo, luce», come a dire l’identità
o quasi di luminosità e di gelo nivale39. E ritroviamo nella prima poesia
della serie: «frozen snows», «wind of March», insomma un marzo
nel bianco nel freddo nella luce. Il ricordo di quei giorni a Cervinia
costruiscono poeticamente un paesaggio dove situare l’epifania letale.
La dea della morte si eleva in una bianchezza gelata, con la forza di un
semplicissimo, attico ossimoro, fredda nel sole, secondo quello stile di
depurazione mortuaria proprio di una poesia posta al centro del nostro
Novecento con un’atrocità ombelicale che non va mai persa di
vista per misurare appieno il valore del miglior Pavese poeta. Che
possiamo studiare a contatto diretto con le sue carte anche online mercé
il magnifico sito HyperPavese dell’Università di Torino.
Ma soprattutto ribollono le nuove inquisizioni sul mito; a parte i
Dialoghi con Leucò, libro “senza eguali” carissimo all’autore, e di cui
manca ancora un’edizione critica commentata, pensiamo alle traduzioni
dal greco, di cui si occupò come analista ed editore Dughera40
anni addietro ma poi abbandonò il campo; ora ritorna agguerrita a
verificare la complessità delle ricche conoscenze pavesiane dietro al
suo lavoro privato di traduttore la studiosa Eleonora Cavallini, di cui
cito almeno il saggio sull’Inno a Dioniso nel volume miscellaneo significativamente
intitolato Cesare Pavese, un greco del nostro tempo41.
Il caso della versione di Odissea XI ad esempio risulta lampante,
38 Nell’edizione a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi, 1990,
p. 391.
39 R ingrazio l’amica M. Masoero per avermi sempre generosamente messi a
disposizione i materiali preziosissimi del fondo pavesiano dell’Università di Torino.
Naturalmente rimando all’edizione da Ead. curata, e prefata da M. Guglielminetti,
delle Poesie di Pavese, Torino, Einaudi, 1998.
40 A. Dughera, Tra le carte di Pavese, Bulzoni, Roma 1992.
41 A cura di A. Catalfamo, Santo Stefano Belbo, I Quaderni del CE.PA.M,
2012. La ricerca dei rapporti fra Pavese e gli antichi è in corso: segnalo almeno re-
[ 15 ]
138 roberto gigliucci
come ho potuto verificare di persona. Le varianti fra la traduzione incompleta
nel quaderno “calabrese” dei soli primi 203 vv. (AP.VI.1, cc.
68 sgg.) e la traduzione in fogli sciolti posteriore e integrale (AP.VI.5)
dimostrano che quest’ultima va datata dopo il 1948, anno in cui esce il
volume Omero, Odissea, libro XI, col commento di Mario Untersteiner,
Firenze, Sansoni, 1948, con dedica autografa a Pavese datata maggio o
luglio 1948, libro presente nella biblioteca dello scrittore conservata
all’Università di Torino42. Che la nèkyia o comunque l’evocazione dei
morti rappresenti un’ora topica per Pavese maturo è in via di chiarimento
luminoso.
Questi esempi sono una costellazione intorno-contro l’ermetismo
storico; la pratica della traduzione risulta sempre determinante, specie
quando è anch’essa una traduzione dentro-contro: oltre al caso di
Montale che traduce Guillén, di cui ci siamo occupati, segnalo solo
l’altro ben noto ma comunque incredibile della Phèdre di Racine tradotta
da Ungaretti, clamoroso esempio già esaminato da Ossola43 (cfr.
poi Baroncini,44 ma si veda peraltro Ungaretti e il Barocco a cura della
Zingone45). Anche qui, e concludiamo, un caso di traduzione “contro”:
la clarté – pure ombrata da une flamme si noire – dell’alessandrino viene
torturata dalla versione ungarettiana, anche solo con anastrofici sommovimenti:
«E, fiamma tanto nera, Alla luce sottrarre», dove basta
una virgola dopo «E» col cuneo dell’iperbato a dislocare in irrazionali
profondità un turbamento raciniano già così paradigmatico (su cui
Spitzer offrì pagine celebrate)46. E concludendo davvero, questa «luce
nera» che è presente nel Sentimento (Ti svelerà v. 5) si riflette anche nel
«sole / tenebroso» di Sinisgalli (Ventoso 3-4), come puntualmente la
Martignoni rammenta nel suo saggio che apre il secondo volume de Il
guscio della chiocciola, cit. Quasi un buco nero al centro della «troppa
luce» che si oppone alle aeree acque del petrarchismo ermetico. Ed era
centemente l’ottimo volume Le odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese,
a cura di G. Bárberi Squarotti, Firenze, Olschki, 2013.
42 Non è di questo parere però la Cavallini che ha magnificamente editato la
versione dell’XI dell’Odissea: La «Nekyia» omerica («Odissea» XI) nella traduzione di
Cesare Pavese, a cura di Ead., Alessandria, Dell’Orso, 2015, pp. 24-25.
43 C. Ossola, «Nell’abisso di sé»: Ungaretti e Racine, in Miscellanea di studi in
onore di Marco Pecoraro, II, a cura di B. M. Da Rif, C. Griggio, Firenze, Olschki, 1991,
pp. 343-371.
44 D. Baroncini, Ungaretti Barocco, pref. di A. Battistini, Roma, Carocci, 2008.
45 Ungaretti e il Barocco, Firenze, Passigli, 2003.
46 L. Spitzer, Critica stilistica e semantica storica, Bari, Laterza, 1965, pp. 67 sgg.
[ 16 ]
ermetismo e petrarchismo 139
proprio Ungaretti nella prefazione alla sua Phèdre a storicizzare i petrarchismi,
individuando un petrarchismo barocco e infine un estremo,
sofferto petrarchismo (e racinismo) novecentesco47. D’altra parte
la chiarezza raciniana o in genere del Siècle Louis XIV sarebbe altro
dalla distinzione, come ci illustrava il grande Bally citando Cartesio:
un’idea è chiara quando la si discerne da ciò che essa non è; è distinta quando
si distingue ciò che è in essa. Quindi «In opposizione alla chiarezza, la
precisione (Descartes direbbe la “distinzione”) è una tendenza a approfondire
le cose, a penetrarle e a stabilirsi in esse, con il rischio di
perdersi»48. Ungaretti non fa che inverare la precisione infinita (ossimoro)
devastando una clarté superficiale e optando per una profondità
terremotata, una carsicità psichica in cui risiedere, in cui ci si può perdere
(s’égarer, diceva Voltaire a proposito di chi non imita i perfetti
autori) anzi ci si deve perdere, in questo buco della luce a picco.
Roberto Gigliucci
Università Sapienza – Roma
47 G. Ungaretti, Fedra di Jean Racine, Milano, Mondadori, 1950, pp. 20 sg.
48 Linguistica generale e linguistica francese, Milano, Il Saggiatore, 1963, pp. 217-
218.
[ 17 ]

MARIELLA MUSCARIELLO
Immagini di memoria in Ritratto in piedi
di Gianna Manzini
La parola “ritratto” ricorre con significativa frequenza nella scrittura di Gianna
Manzini, soprattutto nel suo Ritratto in piedi. La vocazione intimistica della sua
scrittura predilige la ritrattistica, in quanto volto, corpo, posture, abbigliamenti
sono carichi di senso, sono un medium per penetrare nell’animo dei personaggi.
È in tale prospettiva che questo intervento intende analizzare, partendo dalla
difficoltà del linguaggio verbale a tradurre in parole l’incisività di un’immagine,
le strategie con le quali la Manzini riesce mirabilmente a “dire” ciò che “ha visto”,
a consegnare al lettore la figura poetica di un padre degno di essere ricordato.

The word “portrait” occurs frequently in Gianna Manzini’s writing, above all in
her Ritratto in piedi. An intimist vocation privileges portraiture, in as much as
face, body, postures and clothing abound with meaning, being a means for penetrating
the souls of characters. Thus, this essay, beginning with the difficulty
posed to verbal language by the translation into words of the incisiveness of an
image, aims at analysing the strategies by which Manzini achieved her goal of
“saying” what she “saw”, of consigning to the reader the poetic figure of a father
worthy of being commemorated.
Da tanto tempo mi riprometto di scrivere un ritratto di mio padre. Rimando
continuamente. Ce la farò? […] Mio padre morì al confino, esiliato
da Mussolini, del quale era stato amico, quando Mussolini era
socialista. Ma a intimorirmi non è questa mancanza di cognizioni. Farei
presto a documentarmi. È qualcosa di più profondo. Si riconnette
nel ricordo d’una volta, durante un viaggio[…]. Il treno passava allora
[…] in quella zona dell’Appennino, dove egli rimase a lungo confinato;
e dove morì, parecchi anni prima di quel mio viaggio. A un tratto,
contro quei castagni, quasi prossimo al vetro del finestrino, lo vedo.
[…] e sento che deve dirmi qualcosa. […] Che io devo far presto a capire.
Vedo tutto; perfino il tremito delle sue labbra. Mi si riverbera addosso
l’urgenza di quelle parole da consegnare a me, a me sola. Quasi
Autore: Università Federico II- Napoli; professore associato; marmusca@unina.
it
142 mariella muscariello
le vedo quelle parole. E non le afferro. Era il suo messaggio. La cosa mi
turba ora, quasi come allora. Chi sa che, dopo, non avrebbe potuto
cominciare, non potrebbe cominciare il vero lavoro, la vera salvezza1.
Con queste Parole povere affidate al suo Album di ritratti Gianna
Manzini ribadiva la contraddizione tra l’intima necessità e il tremore
paralizzante che, come una morsa difficile da allentare, fin dagli anni
Trenta, aveva accompagnato il progetto di scrivere di suo padre, l’anarchico
Giuseppe Manzini, senza «nascondersi dietro falsi personaggi,
falsi nomi»2: «Io ero la Giannina di un tempo, mio padre Giuseppe
Manzini e la mamma Nilda: tutti con il loro nome e cognome vero, e
quell’aura che un personaggio quando è autentico, porta con sé, la vuole
con sé perché è l’aria in cui vive»3. Slancio e ritrosia, proponimenti e
dilazioni la tormentavano: scrisse altro, molto altro, ricevendo premi e
riconoscimenti, illuminata dalle luci dei palcoscenici letterari, mentre
in lei, come afferma Grazia Livi, «persisteva l’ombra […] era l’ombra di
un tempo, non ancora affrontata»4. Ma da dove nasceva questo groviglio
di opposte pulsioni? Da un amore sconfinato ed un ineludibile rimorso.
Da bambina si nutre, infatti, dell’ethos paterno, fatto di riservatezza,
di umiltà, di rispetto umano, stringendo con lui una sorta di alleanza
contro il perbenismo borghese della famiglia materna, ma poi,
trasferitasi dalla natia Pistoia a Firenze per gli studi universitari, investita
dal «turbine smagliante» dell’architettura della città, della giovinezza,
dei primi amori, deve «abolire, cacciare nel profondo» i ricordi
dell’imago paterna per vivere appieno la propria ebbrezza5:
Ma la cosa tremenda è che bisognava che tu non ci fossi babbo, perché
io potessi finalmente calarmi tutta nella mia repentina, rapinosa giovinezza.
Ti allontanavo. Chiudevo gli occhi sul pensiero di te, mio orgoglio,
mio vero blasone, mio maestro assoluto, poesia fatta vita6.
Sarà solo dopo la sua morte e la visita di Gianna al sobrio cimitero
1 G. Manzini, Parole povere, in Ead., Album di ritratti, Milano, Mondadori,
1964, p. 228.
2 G. Livi, Le lettere del mio nome, Roma, Iacobelli editore, 2014, p. 103.
3 Ibidem.
4 Ivi, p. 101.
5 «Dire “evitare” è dir poco: abolire, cacciare nel profondo, sottrarre qualsiasi
lembo di me all’appiglio di un ricordo, d’un richiamo, e correr via rapida, senza
voltarmi: tu, confinato in quel paese sperduto; e la tua bambina in un turbine smagliante
» (G. Manzini, Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 1975, p. 202).
6 Ibidem.
[ 2 ]
immagini di memoria in ritratto in piedi di gianna manzini 143
di Cutigliano dove sono conservate le spoglie paterne che, per una di
quelle «apparizioni, soste nella memoria, trasalimenti»7 che sempre
l’accompagnano, attraverso «un velo d’aria»8, rivede il padre ed ha
con lui un ultimo, nuovamente complice, colloquio. Nell’attesa che
l’amata immagine si materializzi, scrive:
Il quadro è fermo, vuoto con la cornice additata proprio come dal segno
mal distinguibile dell’unghia che riga al margine la pagina, dove
potrebbe essere scritta una storia: la sua. Vi comparirà, appare; è apparsa
una figura. D’attimo in attimo si precisa, forse effetto di una seconda
immagine che la raddoppia; si addensa. Ancora un’altra se ne
aggiunge. Ma è così che esiste. Processioni d’immagini logorate si sostengono,
s’integrano: raggiungono quel significato che trova il suo
luogo in una fisionomia. In meno d’un attimo9.
Ecco il libro, quel libro, può avere inizio. Un ritratto che, per la nobiltà
del personaggio, non poteva che essere “un ritratto in piedi”. Un
quadro, nel quale impiegare al massimo delle potenzialità la sua tecnica
narrativa, che consiste, per Gadda, nella figurazione del «mondo
della materia e [di] quello dello spirito e [di] quello (che sta come a
mediare fra i due) della percettività nostra, il mondo tutto insomma,
“visto” ed esteriorizzato con una sollecitudine pittorica»10. In apertura
preleva dai sui folti Bestiari – nei quali gli animali sono carichi di «una
significazione a un tempo psicologica, emotiva, relazionale, esistenziale
»11 – l’immagine di un cavallo che sul ponte di Santa Trinita, preso
da improvviso terrore, non riesce a passare sull’altra riva, assumendolo
ad allegoria della sua impasse e promuovendolo, come è stato detto,
al ruolo di co-narratore12:
Ebbene, in certi momenti, mentre mi provo a scrivere la vita del babbo,
io sono quel cavallo, a metà dell’arcata del ponte. M’impenno. Non
vado avanti. Addirittura torno indietro. […] Batte, gratta, saggia, il mio
7 Sono questi alcuni tratti della prosa della Woolf che la Manzini impara leggendo
ammirata Gita al faro (G. Manzini, La lezione della Woolf, in Ead., Album di
ritratti, cit., p. 146).
8 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., p. 70.
9 Ivi, p. 71.
10 C.E. Gadda, L’ultimo libro di Gianna Manzini, in Id., Saggi giornali favole e altri
scritti I., Milano, Garzanti, 1991, p. 772.
11 C. Bello Minciacchi, I «Bestiari», in Gianna Manzini, a cura di F. Bernardini
Napoletano e G. Yehya, Milano, Fondazione Mondadori, 2005, p. 101.
12 M. Del Serra, Nota al testo, in G. Manzini, Bestiario. Tre racconti, Pistoia,
Edizioni Via del Vento, 1996, p. 28.
[ 3 ]
144 mariella muscariello
zoccolo di cavallo. Scruta il mio occhio. Fosse ricco come il suo con
quei suoi angoli avventurosi, sfuggentissimi, che prendono e portano
il raggio chi sa dove, e captano agevolmente di lato […]. Al paragone
la mia palpebra è timorosa, vigliacca: chiude e rifiuta. Chi me la dà,
dove la trovo quella soprannaturale possibilità di accogliere bagliori?13
A soccorrerla saranno l’inarrestabile pervicacia dei ricordi e la disposizione,
appresa dall’amatissima Virginia Woolf, a «raccoglier[si]
l’anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori»14. Una
lampada capace di squarciare veli, di aprire le sue palpebre renitenti e
di farle vedere nel viso, nel portamento, nell’abbigliamento di suo padre
il fulgore di un’anima bella.
La vista è, dunque, per dirla ancora con Gadda, «la gran signora»
della sua tecnica di scrittura15. Una tecnica che le consente di creare
«immagini evento»16 capaci di sostituire la temporalità degli accadimenti
con un ritmo nuovo, dato dalla «collisione […] di lastre trasparenti
di tempi, anni, lustri, decenni, connesse in un presente assoluto»17.
Ha scritto in proposito Giacomo Debenedetti:
Si sa che la Manzini avanza tutta per immagini. La meraviglia è che
riesca ad avanzare, visto che in generale le immagini, nel loro avido
egocentrismo, fabbricano stasi e non impulsi, tendono ciascuna a sequestrare,
immobilizzare tutta l’attenzione, a scapito del discorso narrativo.
[…] Quella della Manzini […] è tutta un’altra storia. Sarà, dunque,
che ciascuna immagine contiene tanto di illuminazione, o talvolta
di ingegnosità, da incuriosirci a cercare quanto di illuminazione o di
ingegnosità è contenuto nell’immagine seguente? Che sarebbe, quasi,
un romanzesco delle immagini, attraverso cui si declini il romanzo o
racconto vero e proprio18.
In quella sorta di metaromanzo che è Lettera all’editore, infatti, la
Manzini affermava:
Ora tutto è cambiato. A buon diritto divento impaziente. Il ritmo del
«c’era una volta», del «cammina che cammina» non mi riguarda più:
son giunta a fargli violenza coi battiti del cuore19.
13 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., pp. 24-5.
14 G. Manzini, La lezione della Woolf, cit., p. 136.
15 C. E. Gadda, L’ultimo libro di Gianna Manzini, cit., p. 772.
16 G. Debenedetti, La Manzini, l’anima, la danza, in Id., Intermezzo, Milano, Il
Saggiatore, p. 129
17 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., p. 25.
18 G. Debenedetti, La Manzini, l’anima, la danza, cit., pp. 128-129.
19 G. Manzini, Lettera all’editore, Milano, Mondadori, 1946, p. 43.
[ 4 ]
immagini di memoria in ritratto in piedi di gianna manzini 145
Nel suo recentissimo libro, Il volto raccontato, Patrizia Magli si propone
di scoprire «come un determinato uso del linguaggio verbale sia
capace di trasformare, con i suoi scarsi mezzi, il “dire” in un “vedere”»20.
Gianna Manzini era, come si sa, avvezza alla ritrattistica – basti
pensare al già citato Album di ritratti, all’Autoritratto involontario premesso
al volume sull’opera di El Greco –, evidentemente persuasa che
i tratti somatici costituiscono media necessari per un affondo nell’interiorità,
per convertire l’invisibile nel visibile. Ma perché ciò avvenga è
necessario trovare les mots justes, dar vita ad una prosa evocativa che
consenta al lettore di conoscere non solo chi è visto, ma anche chi vede.
Le parole le aveva trovate con facilità nel ritrarre Ungaretti, nel
sentire l’anima di Leopardi osservando la sua camera della Villa delle
Ginestre, ma per Giuseppe Manzini c’è bisogno di uno sforzo ulteriore
perché Gianna avverte che, in questo caso, «le parole [le] si
rifiutano»21. È ancora il padre che, nell’ultimo, immaginoso colloquio
le indica la strada giusta affinché le parole, docilmente, le si offrano:
Le cose, a volte, sono un velo: anche le parole, anche le persone. Di
certe trasparenze io e te siamo assai esperti, vero? […] Del resto, basta
saper guardare e la rivelazione affiora. Anche questo temperino: nel
racconto che te ne feci diventò una storia. La storia fu una sovrapposizione:
si trascinò dietro il seminario, la Spagna […]. Una lama piccina
così mi aprì il massiccio, grande portone del seminario. Anche un libro:
ci sono tanti modi per leggerlo; infine, però, per me e per te il più
importante resta uno solo: cercare in trasparenza, più o meno vicina,
più o meno esplicita, la traccia di quell’idea22.
È seguendo la lezione del suo mentore che la pagina bianca si affolla
di segni. Complice la memoria, intrecciando la prosopografia – l’aspetto
– e l’etopea – le qualità morali – la Manzini dà corpo all’idea e
il ritratto paterno racconta, senza retorica e facili sentimentalismi, la
storia del suo, personale “tempo innamorato”.
Come dotata di una «lente speciale», la Manzini riesce, pur nel
flusso caotico dei ricordi, a consegnare al lettore un’immagine che
brilla per coerenza e «limpidezza morale»23; che, «esclusa dal guazzabuglio
del consueto»24, si connota come un’amabile eccezione.
20 P. Magli, Il volto raccontato. Ritratto e autoritratto in letteratura, Milano, Raffaello
Cortina editore, 2016, p. 14.
21 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., p. 219.
22 Ivi, pp. 234-35.
23 Ivi, pp. 51-2.
24 C. E. Gadda, L’ultimo libro di Gianna Manzini, cit., p. 779.
[ 5 ]
146 mariella muscariello
«Tutto è un segno»25, scrive la Manzini. Le spalle larghe del padre
sono per lei un «particolare centro di vita – di iniziative, di slanci, di
follie, di eroismi – che si estende da spalla a spalla, spazio per quella
sua possente e irriducibile nobiltà»; la testa alta segnala un portamento
che «è un retaggio […] che lo condanna ad esporsi; a esporsi sempre;
a pagare di persona»; la fronte spaziosa dichiara «lealtà e
chiarezza»26. Acerrimo nemico del “capitale”, lascia trapelare la propria
castigatezza dagli abiti che indossa che, allo sguardo estatico di
Giannina, trasudano una genetica eleganza:
Il cappotto [che gli avevano] rubato era vecchio, ma non sformato. Mai
più gliene ho veduto un altro. Le sue giacche di velluto, però, anche se
un po’ lise, erano molto belle; e chi avrebbe saputo portarle con eguale
eleganza? […] Aveva il passo del camminatore. Non ricordo di avergli
visto mai scarpe nuove27.
Né derogano al principio dell’essenzialità la sua bottega di orologiaio
e la modesta camera in affitto dove ha scelto di abitare:
Le pareti erano chiare. Al posto giusto per la luce, una scrivania con
parecchie carte. A portata di mano, una mensola con tre, quattro file di
libri. Addossato alla parete un lettino di ferro. Sul marmo del piccolo
cassettone, fiori, probabilmente fatti con perline, sotto una campana di
vetro. Non gli piacevano, si capisce. Ma come si fa a toglierli di mezzo
senza offendere la padrona di casa? Disse poi, come fra sé, ma lontano
anche da se stesso: «Mai umiliare»28.
Ma in virtù della funzione di significante delle emozioni e delle
passioni che svolge, il viso, per dirla ancora con Patrizia Magli, è soggetto
a mutamenti che «traducono le trasformazioni della vita»29 e,
aggiungerei, i bioritmi dell’anima. Sono queste variazioni che, come le
onde di Virginia Woolf, cadenzano il ritmo di «frantumate lontananze
», ricompongono, tramite l’amore, «i pezzi di un mosaico» antico30.
Attenta ad osservare ogni minima alterazione del viso tanto amato,
Gianna «ogni volta lo vedev[a] diverso». Le basta un’ombra che gli
percorre la fronte perché vi legga «un presentimento di eterna ago-
25 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., p. 61.
26 Ivi, pp. 72-3.
27 Ivi, pp. 49-50.
28 Ivi, p. 77.
29 P. Magli, Il volto raccontato, cit., p. 49.
30 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., p. 89.
[ 6 ]
immagini di memoria in ritratto in piedi di gianna manzini 147
nia», di un «martirio in agguato»31; è con poche ma significative pennellate
che dà una sostanza materica all’impalpabilità della sensibilità
paterna: infatti, la delusione per un bacio involontariamente mancato
della moglie al loro ultimo incontro diviene visibile dal pallore improvviso:
All’improvviso magrissimo, come certo non era, sul naso si profilò il
sinistro segno di quando la morte ti liscia, passando; mentre sulle labbra
il bacio mancato, l’ultimo, si disfaceva in un piccolo tremito32.
Lo sdegno per chi umilia gli trasuda dagli zigomi, gli prosciuga il
volto, gli fa fremere le narici33. Ma c’è un elemento che in questo ritratto
rimane inalterato: la luce, una luce abbagliante che emana dalla
persona di Giovanni Manzini, la cui vita e la cui morte – «la morte del
giusto»34 – afferiscono per molti aspetti ad un codice cristologico. Infatti.
Di fronte al Crocefisso, la piccola Gianna così prega:
Mio padre è ateo, tu lo sai; ma a te vuol bene; e sul tuo conto mi ha
insegnato cose che tutte queste scimunite messe insieme non ne sapranno
mai nemmeno la metà35.
Ma lui, il padre, come vede la figlia? È felice quando osserva la sua
gracile bambina mangiare con ingordigia, la elegge, per affinità interiore,
a unica destinataria del suo vangelo di vita, ma è preoccupato
quando osserva su di lei alcuni segni per lui perturbanti. I bigodini tra
i capelli per l’acconciatura che dovrà esibire la sera al teatro, l’abito
tutto pizzi e merletti che le fanno indossare per fargli visita al confino
in campagna appaiono ai suoi occhi come altrettanti tentativi, da parte
materna, di volergliela trasformare36. Un timore profetico se, come
si è detto, il trasferimento a Firenze trasforma l’aspetto fisico di Gianna
e soprattutto il suo approccio alla vita, ora gioioso, esaltato, che,
per rimanere tale, deve accantonare i ricordi, mitici ma dolorosi, vissuti
“sotto il cielo di Pistoia”. Ma soprattutto, consequenzialmente, il
suo sguardo non riesce più a cogliere bagliori, appiattito com’è sulle
convenzioni borghesi:
31 Ivi, p. 39.
32 Ivi, p. 65.
33 Cfr. ivi, p. 78.
34 Ivi, p. 231.
35 Ivi, p. 81.
36 «“Me la cambiano, me la sciupano, me la trasformano, questa bambina”»
(ivi, p. 50).
[ 7 ]
148 mariella muscariello
Un giorno, lui giunse a Firenze (clandestinamente, s’intende). Venne a
prendermi a scuola. Ultima ora di lezione, quattro del pomeriggio.
Aprile. Prendo tempo. Non so da che parte cominciare. […] la vergogna
brucia. E che siano passati tanti anni non importa. Brucia. Mi staccai
dal gruppo delle mie amiche. Il suo abbraccio. Lo sento. […] Io
gliene proposi uno misurato, sfuggente. Forse il suo aspetto, dopo anni
di segregazioni fra i monti, mi aveva disorientata. Le scarpe vecchissime,
troppo lustre, fanno piangere. Il vestito, pulito, sì, ma ormai senza
forma; come un pigiama. Tirata fuori dalla sepoltura di un cassetto,
la cravatta. Sotto quella cravatta mi spiaccicai, brutto insetto. Sentivo
alle mie spalle gli occhi delle mie compagne. Che disagio, invece di un
legittimo scatto di fierezza37.
Alla fine della prima parte del romanzo, non a caso intitolata Atto di
contrizione, la Manzini sperava, riuscendo a scrivere, che «una frase, una
parola, un ricordo»38, a lungo rimossi, nascosti nei più oscuri anfratti del
suo subconscio, riaffiorassero alla coscienza. Ed è qui, in questa sgradevole,
mnestica sequenza, che la parola, la frase che spiegano il suo persecutorio
rimorso tornano a galla: vergogna, disagio, irritazione per l’improvviso
arrivo del padre in un contesto a lui improprio sostanziano il
suo “tradimento”, recidendo, ma momentaneamente, quel discorso
amoroso affidato agli sguardi carichi di parole che rendevano speciale il
loro rapporto. La scrittura ha dunque funzionato da terapia, da tramite
per giungere ad una sofferta ma necessaria epifania della sostanza della
sua afflizione. In un’altra intervista rilasciata a Grazia Livi affermò:
[…] è un libro che mi ha dissanguato. È il ritratto di mio padre, un
personaggio che ho ritrovato per virtù della penna, attraverso una disperata
confessione: proprio come se l’avessi fatta a uno psicanalista,
distesa su uno di quegli infami divani che ho visto solo al cinema. Non
sapevo, scrivendolo, che sarei incappata in tanto dolore39
Ma i fili recisi dall’aver escluso il padre dalla propria giovinezza
«con determinazione crudele» si riannodano, come si è anticipato, nel
cimitero di Cutigliano. È lui, come sempre, a rassicurarla, dicendole:
«Ne potrà esser passato di tempo; potrà passarne; sempre che ci ritroveremo
il discorso diventerà vivo»40.
37 Ivi, pp. 215-16.
38 Ivi, p. 61.
39 G. Livi, Cinquant’anni dopo: Gianna Manzini – «Quel rospo in gola», in «Corriere
della sera», 24-6-1971, p. 12.
40 G. Manzini, Ritratto in piedi, cit., p. 233.
[ 8 ]
immagini di memoria in ritratto in piedi di gianna manzini 149
Circa cinquant’anni prima, alle Ebridi, la dolce Lily Briscoe è impegnata,
non senza difficoltà, a dipingere un quadro dell’amata signora
Ramsay e della sua famiglia, nonostante che l’acido ed ottuso signor
Tansey le sussurri all’orecchio che «le donne non sanno dipingere, non
sanno scrivere…»41. Morta la signora Ramsay e tre dei suoi figli, trascorso
molto tempo, la gita al faro, progettata all’inizio della storia,
finalmente si fa. Si deve fare perché Virginia Woof deve mettere la
parola fine al suo Familienroman, ma anche Lily deve completare il suo
quadro che, di questo racconto, è il pittorico doppio:
Alla svelta, come se qualcosa di là la chiamasse, si voltò verso la tela.
Eccolo – il suo quadro. Sì, con i verdi e gli azzurri, le linee che correvano
in alto e di traverso, la volontà di qualcosa. L’avrebbero appeso in
soffitta, pensò; forse distrutto. Ma che importava? si chiese, prendendo
di nuovo in mano il pennello. […] Guardò la tela; era confusa. Con intensità
repentina, come se per un istante tutto le apparisse chiaro, tirò
una linea lì, nel centro. Era fatto; finito. Sì, pensò, mettendo giù il pennello
spossata, ho avuto la mia visione42.
Mariella Muscariello
Università «Federico II» – Napoli
41 V. Woolf Gita al faro, in Ead., Romanzi, a cura di N. Fusini, Milano, Mondadori,
1998, p. 450.
42 Ivi, p. 610.
[ 9 ]

Arnaldo Di Benedetto
Gli Scheiwiller e Pound, Pound e Dante
Prendendo spunto dalla comparsa della recente edizione italiana dei saggi di
Ezra Pound su Dante, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani (2015), l’articolo
ripercorre i rapporti del poeta statunitense con gli editori Giovanni e Vanni
Scheiwiller e la natura del suo interesse critico nei confronti di Dante e Cavalcanti.
A mo’ di conclusione si fa riferimento alla presenza della figura di Pound
in due poesie di Giovanni Giudici.

Taking its point of departure from the appearance of the recent Italian edition
of Ezra Pound’s essays on Dante, edited by Corrado Bologna and Lorenzo Fabiani
(2015), this article recalls the relationship of the American poet with the
publishers Giovanni and Vanni Scheiwiller and the nature of his critical interest
in Dante and Cavalcanti. The article concludes by making reference to the presence
of the figure of Pound in two poems by Giovanni Giudici.
1. Il volume di Ezra Pound pubblicato nel 2015 da Marsilio Editori,
per le cure di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani, Dante, dalle carte
Scheiwiller attuò, cinquant’anni dopo, un vecchio progetto di Vanni
Scheiwiller.1 In vista dell’ormai prossima data del 1965, anniversario
Autore: Università degli Studi di Torino; prof. emerito; dibear60@hotmail.
com
1 Ezra Pound, Dante, dalle carte Scheiwiller, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo
Fabiani, Venezia, Marsilio, 2015. Sull’argomento, si può vedere anche Carlo
Pulsoni, Roberta Capelli, «My thanks are due to Dr. W. P. Shepard». Note
sull’apprendistato filologico di Ezra Pound, in «Giornale italiano di filologia», LXVII
(2015), pp. 359-82. Della Capelli, vd. anche Carte provenzali. Ezra Pound e la cultura
trobadorica (1905-1915), Roma, Carocci, 2013. Su Dante e Pound, il volume così intitolato
curato da Maria Luisa Ardizzone, Ravenna, Longo, 1998. Vd. inoltre Cecilia
Gibellini, Un editore impolitico e la politica: Vanni Scheiwiller, in «Rivista di letteratura
italiana», XXIV (2006), pp. 137-50. A Mary de Rachewiltz si devono inoltre
interessanti ricordi personali: ad esempio, Ezra Pound e Vanni Scheiwiller, pubblicato
nel volume Venezia per Giovanni e Vanni Scheiwiller. Libro d’artista e poesia del No152
arnaldo di benedetto
della nascita di Dante ma anche ricorrenza dell’ottantesimo compleanno
di Ezra Pound, il giovane editore milanese aveva pensato di raccogliere,
col consenso dell’autore, in un unico volume tutti gli scritti
danteschi del poeta americano, estraendoli dalle precedenti raccolte
saggistiche. L’attuazione del suo progetto pervenne solo alle bozze,
conservate nel Fondo Scheiwiller dell’Università degli Studi di Milano.
Pertanto, l’edizione attuale del Dante riesce anche un omaggio a
Vanni, oltre che a Pound.
Già il padre Giovanni Scheiwiller era stato suo editore; e negli anni
nei quali il poeta risiedette nel comune di Tirolo, presso Merano, dopo
il definitivo rientro in Italia, l’anziano Giovanni lo raggiungeva, da
Milano, in bicicletta. Il figlio Vanni, negli anni Cinquanta, era stato tra
i promotori degli appelli, ai quali avevano aderito autorevoli poeti e
narratori internazionali, per la sua liberazione dal manicomio criminale
«St. Elizabeths Hospital» di Washington, dov’era rinchiuso da
tredici anni: una collocazione che ricorda quella parallela del grande
narratore norvegese Knut Hamsun – premio Nobel nel 1920 –, già persuaso
sostenitore degli occupanti nazisti. La detenzione di Hamsun
nell’ospedale psichiatrico fu peraltro molto più breve. Su quell’esperienza
è fondato il suo libro Per i sentieri dove cresce l’erba.
Quanto a Vanni Scheiwiller, a lui si dovette l’organizzazione di varie
e importanti mostre pittoriche ed eventi letterari a Merano negli
anni Cinquanta e Sessanta.2
Rientrato finalmente in Italia nel 1958, Pound aveva raggiunto la
figlia Mary, scrittrice di lingua italiana e di lingua inglese (ricordo qui
almeno il suo libro, dal titolo contrastivamente poundiano, Discretions),
e il genero egittologo Boris de Rachewiltz. E nella loro dimora,
Brunnenburg – dagli italiani ribattezzato Castel Fontana –, era vissuto
fino al 1962. Per festeggiare la sua liberazione, Vanni Scheiwiller aveva
già curato e pubblicato nello stesso 1958 un volumetto che era, insieme,
un omaggio alla pubblicazione, avvenuta cinquant’anni prima
a Venezia, della sua prima raccolta di poesie: A Lume Spento, stampata
in cento copie a spese dell’autore. Il libriccino «taschinabile» – come
avrebbe detto Vanni –, o «libro-farfalla» – per riprendere un’espressione
di Montale –, del 1958 non era peraltro una riedizione di quello del
1908; esso è definito infatti dallo stesso curatore una «piccola antolovecento,
a cura di Pietro Gibellini e Alessandro Scarsella, «Quaderni veneti», Ravenna,
giugno 2003.
2 U n mio cenno in proposito è in uno scritto pubblicato sul «Giornale storico
della letteratura italiana», CXC (2013), pp. 306-10, alla p. 309.
[ 2 ]
gli scheiwiller e pound, pound e dante 153
gia» dei quarantacinque testi che originariamente lo componevano.
Con aggiunti, per iniziativa di Vanni, altri documenti.
Oltre a quel volumetto, «per festeggiare il ritorno in Italia di Ezra
Pound», lo stesso Vanni aveva curato, nel medesimo anno, la ristampa
in fascicolo d’un articolo del pittore e scrittore Wyndham Lewis già
pubblicato nello stesso anno sulla rivista «Il Verri» nella traduzione di
Mary de Rachewiltz. Voleva essere, quel fascicoletto – precisò il curatore-
editore –, anche un invito a «leggere Wyndham Lewis, di cui in
italiano si conosce solo il romanzo Tarr (1918)».3
2. A Lume Spento. Titolo italiano e dantesco (Pg, III). E sorvolo sulle
altre allusioni dantesche presenti nel volumetto. Italiano e dantesco
(Pg, V) è anche il titolo d’una delle poesie costituenti il poemetto del
1920 – generalmente considerato uno dei vertici, o, secondo qualcuno
(per es., F. R. Leavis, R. Quadrelli), il vertice, dell’arte di Pound – Hugh
Selwyn Mauberley: «Siena mi fe’; disfecemi Maremma». E dantesco e italoinglese
è il titolo dell’opera che Pound cominciò a dare alle stampe nel
1917, e che dopo il 1920 fu il centro esclusivo della sua creatività poetica:
il suo «modern epic», The Cantos. I quali dovevano inizialmente
essere cento, come quelli della Commedia dantesca.
E una sorta di nuova Commedia – e di nuova Odissea – avrebbe dovuto
essere l’insieme dei Cantos (nell’ultima fase, il nome fu ispanizzato:
Cantares). Ma, a causa degli imprevisti storici e delle vicende personali
che seguirono, andarono ben oltre quel numero; e gli ultimi, che
vedono Olga Rudge (1895-1996) – importante violinista, collaboratrice
del conte Guido Chigi Saracini nell’organizzazione dell’Accademia
Chigiana di Siena, e studiosa e valorizzatrice di Antonio Vivaldi – promossa
a nuova Beatrice, sono frammenti inconclusi.4
3. Interrottasi per lui nel 1907 la prospettiva di una carriera universitaria
di docente di letterature romanze, Pound non abbandonò i suoi
studi medievististici. Al ramo materno della sua famiglia era appartenuto
il poeta Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882), da lui non
amato, ma che godette di grande celebrità nel XIX secolo e che fu il
primo statunitense traduttore della Commedia dantesca, nonché uno
3 Wyndham Lewis, Ezra Pound, un saggio e tre disegni, Milano, All’Insegna
del Pesce d’Oro, 1958.
4 U na biografia della Rudge si deve a Anne Conover, Olga Rudge & Ezra
Pound: What Thou Lovest Well…, New Haven & London, Yale University Press,
2001.
[ 3 ]
154 arnaldo di benedetto
dei fondatori del benemerito «Dante Club», poi diventato la «Dante
Alighieri Society» di Cambridge, Massachusetts. Sul giovane Pound
agì certo, e ancor più, l’influenza del Preraffaellismo britannico – sulla
quale unilateralmente insistette Gianfranco Contini, nel saggio Ezra
Pound e l’Italia –,5 pur se presto da lui sottoposto a critiche.
Nel 1910 uscì il suo Spirit of Romance, raccolta di saggi sui poeti provenzali,
antico-francesi, stilnovisti, e su Dante, Villon, i poeti latini del
Rinascimento ecc. Gli scritti Lingua toscana e Dante, raccolti nel volume
Dante, dalle carte Scheiwiller, provengono appunto dallo Spirito romanzo.
Quest’ultimo libro non intendeva presentarsi come «un’opera di filologia
». Ho «tentato», così proseguiva l’autore, «di esaminare alcune forze,
alcuni elementi, o qualità, che erano operanti nelle letterature medievali
delle lingue neolatine, e che sono ancora certamente operanti
nelle nostre». Erano inoltre enunciati alcuni principî caratteristici (interessante
anche l’allusione al famoso libro di Carlyle On Heroes):
La storia di un’arte è storia di capolavori, non di fallimenti né di mediocrità.
L’onnisciente storico dovrebbe mostrare i capolavori, le loro
cause e la loro interrelazione: lo studio della letteratura è «culto degli
eroi», è un raffinamento, o anche, se volete, una perversione di quella
religione primordiale.
Intenzione di Pound era «studiare la poesia e niente altro che la
poesia»; per questo in un articolo del 1921 elogiò la critica di Benedetto
Croce:
Molte scienze (si legge nello Spirito romanzo) sono connesse con lo studio
della letteratura, ma nella letteratura stessa c’è l’Arte, la quale non
è né sarà mai scienza.
[…] in letteratura […] il tempo reale è indipendente dal tempo apparente,
e […] molti dei morti sono contemporanei dei nostri bisnipoti,
mentre molti dei nostri contemporanei sono già stati raccolti nel seno
di Abramo se non in qualche più adatto ricettacolo.
Noi abbiamo bisogno di una critica letteraria che pesi sulla stessa bilancia
Teocrito e Yeats, che giudichi con uguale inesorabilità gli sciocchi
di oggi e quelli di ieri, che giustamente lodi la bellezza prima ancora
di guardare il calendario.
È stato inoltre sottolineato, da Mario Praz, come un passo dello
5 Nel volume Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1988, pp.
259-68. Una nota velenosa di Contini su Pound uscì su «Studi danteschi», XXX
(1958), p. 287.
[ 4 ]
gli scheiwiller e pound, pound e dante 155
Spirito romanzo abbia precorso la teoria dell’objective correlative esposta
da Eliot nel saggio Hamlet and His Problems (1920): «Poesia è una specie
di ispirata matematica, che ci fornisce equazioni […] per le emozioni
umane».
4. La critica di Pound fu sempre militante. Era rivolta anzitutto ai
poeti e ai critici, e suo obiettivo costante e principale fu rinnovare la
poesia contemporanea di lingua inglese, in particolare la contestata
«poesia georgiana». Cofondatore di due movimenti d’avanguardia
del primo Novecento, l’Imagismo e il Vorticismo, non predicò mai – a
differenza di altri avanguardisti – la rottura indiscriminata col passato,
salvo quello più recente.6 «Rien de plus original, rien de plus soi
que de se nourrir des autres. Mais il faut les digérer»: l’aforisma di
Paul Valéry funziona anche per lui.7 «Raramente i grandi poeti fan
nulla dal nulla», si legge similmente nello Spirit of Romance.8 Ciò non
escludeva il rifiuto d’un Milton o di quasi tutta la poesia italiana postdantesca.
Reintrodurre Dante o Guido Cavalcanti o gli antichi provenzali
nella poesia novecentesca avrebbe dovuto contribuire, anzitutto, a
rinnovarne lo stile. «La grande poesia», scrisse Pound successivamente
in Come bisogna leggere, «è semplicemente linguaggio carico di significato
al massimo grado possibile». E in una lettera del 1915 alla poetessa
Harriet Monroe aveva già sostenuto:
Gli «epiteti» sono usualmente astrazioni – intendo quelli che vengono
chiamati «epiteti» nei libri sulla poesia. L’unico aggettivo che vale la
pena di usare è quello che è essenziale al senso del brano, non il fronzolo
decorativo.
O anche, in una lettera a Curzio Malaparte pubblicata nel 1940 su
«Prospettive»: «la poesia odia le parole inutili. The Imagist Movement
aveva per programma il dovere di staccare le parole inutili».9
6 Ormai conformisticamente integrato nella società fascista, da socio dell’Accademia
d’Italia, Filippo Tommaso Marinetti predicò in alcune conferenze l’appartenza
al Futurismo anche di poeti del passato, quali Dante o Ariosto. Ma il suo era
un altro discorso.
7 Paul Valéry, Tel quel, in Oeuvres, II, Édition établie et annotée par Jean Hytier,
Paris, Gallimard, 1960, p. 478.
8 E. Pound, Dante, in Opere scelte, a cura di Mary de Rachewiltz, Introduzione
di Aldo Tagliaferri, Milano, Mondadori, 19733, pp. 745-46; e, nel volume Dante,
dalle carte Scheiwiller, cit., p. 74.
9 E. Pound, Opere scelte, cit., p. 856. Id., Ritorna Età dell’Oro. Ritmi della poesia
[ 5 ]
156 arnaldo di benedetto
La sua condanna di Milton, formulata sulla scia di Ruskin e in un
primo tempo condivisa dall’amico Eliot, e di quasi tutta la poesia italiana
postdantesca ha un fine: eliminare i fregi inutilmente e futilmente
decorativi, le genericità espressive e inefficaci dalla poesia del suo
tempo. «Non si adoperi alcuna parola superflua, alcun aggettivo che
non riveli qualcosa», si legge in Uno sguardo indietro.10 In Italia, la decadenza
è evidente già in Petrarca (da lui collocato, in Come bisogna
leggere, tra i diluitori, e definito con intento sprezzante, in una lettera a
Carlo Linati del 1925, «il primo cinquecentista»),11 e prosegue con la
poesia rinascimentale in volgare, con quella barocca, ecc. Nei secoli
XVI e XVII entra nella poesia italiana la nefasta retorica: un giudizio,
che sostanzialmente Enrico Thovez, Biagio Marin e Giuseppe Tomasi
di Lampedusa avrebbero condiviso. Ma non mancano le eccezioni:
Michelangelo e Giacomo Leopardi, del quale Pound tradusse Sopra il
ritratto di una bella donna, e che definì in una lettera del 1916 «splendido
» e «l’unico autore [italiano] dopo Dante» meritevole di lettura.12
Non lontano dal suo era anche il giudizio di Jorge Luis Borges, allorché
affermava con parole che il poeta americano avrebbe sottoscritto:
È noto a tutti che i poeti procedono per iperboli: per Petrarca, o per
Góngora, ogni chioma di donna è oro e ogni acqua è cristallo; questo
d’Italia scelti e volti in inglese da Ezra Pound, a cura di Luca Cesari, Rimini, Raffaelli,
1966, p. 110.
10 Saggi letterari, cit., p. 19.
11 E. Pound, Come bisogna leggere, in Saggi letterari, tr. it., Milano, Garzanti,
1957, pp. 44-45; Lettere 1907-1958, tr. it., a cura di Aldo Tagliaferri, Milano, Feltrinelli,
1980, pp. 49, 96. Vd. anche l’articolo del 1931 Tradizione. Lettera aperta (a
proposito di Petrarca), in Carte italiane 1930-1944, a cura di Luca Cesari, Milano,
Archinto, 2005, pp. 165-66.
12 E. Pound, Lettere, cit., p. 66. Parole non prive di simpatia Pound espresse
peraltro (vedi, vedi!…) su Carducci. E su alcune pagine del Notturno di D’Annunzio.
Grande fu il suo apprezzamento di Tre croci di Federigo Tozzi; e tradusse Moscardino
di Enrico Pea. Pound incontrò Benedetto Croce nel 1929 a Verona, a casa
di Vittorio Enzo Alfieri; di lui scrisse poi, in un articolo del 1943: «“il vecchio Croce”
è oggi meno “tardivo” del 90% degli autori alla moda, e meno di certe grandi
case editrici italiane». Un riconoscimento della grandezza di Croce è anche in una
lettera a Elio Vittorini del giugno dello stesso ’43. Un altro apprezzamento positivo
era stato espresso nel 1921. Sull’incontro di Verona, vd. Vittorio Enzo Alfieri,
L’unico incontro di Croce con Pound, in «Criterio», VIII (1990), pp. 71-78. Fu Manlio
Torquato Dazzi, bibliotecario prima alla «Malatestiana» di Cesena e poi alla «Querini-
Stampalia» di Venezia, che esortò Alfieri a invitare anche Pound, del quale era
amico. All’incontro veronese erano presenti anche Giovanni Mardersteig, Lorenzo
Montano, Luigi Rusca.
[ 6 ]
gli scheiwiller e pound, pound e dante 157
meccanico e grossolano alfabeto di simboli indebolisce il rigore delle
parole e sembra fondato sull’indifferenza dell’osservazione imperfetta.
Dante si vieta tale errore; nel suo libro non c’è parola che sia ingiustificata.
13
Anche la sua condivisione del tentativo di molti di introdurre, con
adeguamenti, nella tradizione occidentale la sintetica forma poetica
giapponese dello haiku andava nella stessa direzione.14 Il suo esperimento
più noto di haiku occidentalizzato (fu elegantemente tradotto
da Vittorio Sereni) è In a Station of the Metro:
The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.
Questa la traduzione di Sereni:
IN UNA STAZIONE DEL METRO
Questi volti apparsi tra la folla:
petali su un ramo umido e nero.
5. L’autore della Commedia fu sempre apprezzato in Italia: con alti e
bassi, s’intende; ma mai dimenticato. Nel XVI secolo gli fu preferito
Petrarca; ma Dante fu pur sempre parte della coppia dei massimi della
poesia italiana. Nel secolo XVII la sua esemplarità indubbiamente
decadde; ma in quello stesso secolo fu anche celebrato, ad esempio, da
Alessandro Guarini nel dialogo Il farnetico savio. E, se il XVIII secolo
conobbe il rifiuto muratoriano della Commedia e la peraltro brillante
stroncatura di Saverio Bettinelli nelle Lettere virgiliane, aveva conosciuto
anche, in precedenza, la sua valorizzazione da parte di Gian
Vincenzo Gravina, di Vico, di Biagio Schiavo, di Antonio Conti – e più
tardi si ebbe la difesa di Gasparo Gozzi in polemica con Bettinelli, e la
convinta esaltazione di Vittorio Alfieri, il quale si fece anche ritrarre
più volte dall’amico Fabre esibendo il famoso anello recante incisa
l’immagine del poeta fiorentino (l’anello è oggi conservato a Montpellier).
13 J. L. Borges, Prologo, in Nove saggi danteschi, tr. it., Milano, Adelphi, 2001, pp.
14-15.
14 U n’efficace sintesi sull’interesse di Pound per l’haiku è in Giorgio Sica, Il
vuoto e la bellezza. Da Van Gogh a Rilke: come l’Occidente incontrò il Giappone, Napoli,
Guida, 2012, pp. 109-37. Pound fu interessato anche al teatro No, e lo fece conoscere
a Yeats, il quale a sua volta ne trasse frutto.
[ 7 ]
158 arnaldo di benedetto
Dante non fu affatto ignoto a alcune delle altre letterature europee,
a partire dal XIV secolo, dove prima e dove dopo. E il Romanticismo
europeo lo promosse a uno dei massimi esponenti della poesia mondiale,
con Omero e Shakespeare. Lo stesso Preraffaellismo inglese, nato
intorno alla metà del XIX secolo, confermò l’apprezzamento.
Vero è che Pound e il suo amico T. S. Eliot lo rilanciarono potentemente
nel XX secolo nell’àmbito della letteratura di lingua inglese, e le
conseguenze si vedono tuttora nelle opere di un Derek Walcott e di un
Seamus Heaney.
E, se non è difficile rinvenire tracce dantesche, lessicali o preziosamente
allusive – indipendenti dal suo influsso –, nella poesia italiana
del Novecento,15 anche a Pound si deve l’innovativo “stilnovismo” di
alcune poesie d’Eugenio Montale – oltre che, forse, al rapporto intrattenuto
negli anni Trenta dal poeta genovese con la dantista Irma Brandeis.
Da parte sua, Mario Luzi non mancò di attribuire al positivo influsso
di Pound il passaggio della moderna poesia italiana (s’intenda,
anzitutto, della propria poesia) dall’ermetismo a una fase “dantesca”:
«Gli dobbiamo gratitudine per aver contribuito a far rifiorire Dante
come un maestro attivo, dopo troppo petrarchismo».16
Giustamente Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani ricordano come il
poeta americano fosse, in Italia, un maestro di riferimento per il «Gruppo
63». Già all’inizio degli anni Cinquanta Luciano Anceschi aveva rivolto
a lui la sua attenzione; e la rivista «Il Verri», fondata nel 1956
dallo stesso Anceschi – poi sostenitore del «Gruppo 63» –, lo aveva in
più occasioni riproposto. E posso aggiungere che proprio Anceschi,
durante una conversazione nei primi mesi del 1958, me ne raccomandò
la lettura. Inoltre non andrebbe dimenticato lo scrittore milanese
Rodolfo Quadrelli (1939-1984), traduttore dell’ABC of Reading e del
Mauberley. E il successivo ripensamento di Pasolini, dopo tanta sua
ostilità.17
15 U n bel saggio sul tema si deve a Maria Antonietta Grignani, Presenza
della «Divina commedia» nella poesia del Novecento, in Metodi Testo Realtà, Atti del
convegno di studi (Torino, 7-8 maggio 2013), a cura di Margherita Quaglino e
Raffaella Scarpa, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2014, pp. 69-100.
16 Marzio Breda, Pound, l’eroico furore rimasto incompreso, in «Corriere della
sera», 31.10.2002.
17 Oltre alla nota e importante intervista televisiva del 1968, un omaggio di
Pasolini a Pound è anche la benevola (ma ahimè, mediocre) parodia contenuta in
Trasumanar e organizzar (1971): Versi prima fatici e poi enfatici. Sulla nozione di parodia
“benevola” – e non meramente satirica – vd. il mio saggio Sulla parodia, in
«Paragone. Letteratura», XXXI (1980), fasc. 366, pp. 57-63; poi in Poesia e comportamento,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002, pp. 9-16).
[ 8 ]
gli scheiwiller e pound, pound e dante 159
Forse è alquanto esagerato considerare Pound «il più grande poeta [allora,
nel ’58] vivente»; o, come anche m’è capitato di leggere, il più
grande del Novecento. E Kavafis, Williams Carlos Williams, Eliot, Pasternàk,
Benn, Saba, Montale, Robert Lowell, Auden…? Inoltre: proprio
Pound scrisse, non ricordo più dove, che quando i critici cominciano a
dire di un poeta: «è il più grande» ecc., la critica è in decadenza.
6. «La véritable philologie résiderait-elle chez les poètes?», si chiese
una volta Leo Spitzer.18 Se lo è chiesto anche il filologo romanzo
Mario Mancini. Tra i meriti della premessa firmata da Bologna e Fabiani
vi è il documentato riconoscimento che la «spinta di un interesse
filologico – per quanto si tratti […] di filologia personalissima e fin
troppo estroversa per i parametri d’oggi – in Pound è sempre viva e va
adeguatamente considerata». Non poche erano anche le sue letture
storiche e erudite. Come ha scritto Mancini, il poeta ebbe «una formazione
universitaria eccellente» all’Hamilton College di Clinton (New
York) e all’University of Pennsylvania; e circa le sue interpretazioni
dei poeti medievali: «Il passare degli anni, dei decenni, invece di attenuare
la novità delle intuizioni poundiane, ce le fa apparire sempre
più come un’acquisizione straordinaria».19
Non mancano in effetti in lui veri e propri spunti critici meritevoli
di attenzione: per esempio – e restando su Dante –, l’interpretazione
dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso danteschi «come stati e non
come luoghi» (stati conviventi e conflittuali, si può aggiungere); il riconducimento
del poema alla lirica (come già aveva fatto Leopardi); o
l’accostamento della Commedia alle sacre rappresentazioni.20
18 Leo Spitzer, L’amour lointain de Jaufre Rudel et le sens de la poésie des troubadours,
in Romanische Literaturstudien. 1936-1956, Tübingen, Niemeyer, 1959, pp.
363-413, a p. 402.
19 Mario Mancini, Il giovane Pound e lo spirito della Provenza, in Lo spirito della
Provenza. Da Guglielmo IX a Pound, Roma, Carocci, 2004, pp. 179-89, alle pp. 179,
181 e 180. Per Pound anche «un dio è uno stato mentale» (Dal naufragio di Europa.
Scritti scelti 1909-1965, a cura di William Cookson, tr. it., Vicenza, Neri Pozza,
2016, p. 77).
20 Sono raccolti nel libro curato da Bologna e Fabiani anche il bel saggio Dante
tra Pound e Eliot del canadese Hugh Kenner – l’autore di The Poetry of Ezra Pound
(1951) e di The Pound Era (1971) – e la Nota di Anceschi, l’inclusione dei quali nel
volume era già prevista da Vanni Scheiwiller. Manca la programmata introduzione
di Maria Corti, che non fu mai scritta; ma la studiosa milanese trattò più tardi di
Pound nell’articolo Quattro poeti leggono Dante. Riflessioni, pubblicato nel 1984 sul
«Lettore di provincia».
[ 9 ]
160 arnaldo di benedetto
7. Appendice non dantesca: Pound nella poesia di Giudici
Chiudo con un veloce ricordo – per nulla dantesco. La seconda volta
in cui vidi Pound fu in un pomeriggio del gennaio del 1960. Il poeta
era ospite proprio degli Scheiwiller (Giovanni, Vanni e l’artista Silvano),
a Milano, in via Melzi d’Eril. Io, Giovanni Giudici e Luciano Gramigna
fummo invitati da Vanni nel loro appartamento. Alla fine della
conversazione con un Pound poco loquace, ma non ancora taciturno
come diventò pochi anni dopo a Venezia, Vanni gli fece firmare per
Giudici il fascicolo – con tre disegni inediti di Jean Cocteau, e pubblicato
«All’Insegna del Pesce d’Oro» nel settembre del 1959 – contenente
la traduzione del Mauberley dello stesso Giudici già uscita poco prima
sul «Verri». In quella stessa occasione, io ebbi una copia con dedica di
Catai (traduzione della Rachewiltz; All’Insegna del Pesce d’Oro, 1959).
Il poeta ligure compose più tardi una poesia raccolta in Da una soglia
infinita (Casette d’Ete [AP], Grafiche Fioroni, 2004); forse non è delle
sue più memorabili, ma merita d’essere ricordata in questa sede:
UNA COPIA DEL MAUBERLEY
Quest’anno – il mio
78° e primo che a quanto mi ricordo
Mai non mi fossi bagnato nel mare –
Ora ripenso di quanta meraviglia
Mi fece e sono più di quarant’anni
Udire che Ezra Pound allora meno vecchio
Di me stesso nuotava tornato a Rapallo
Che strano nell’apprenderlo da Vanni
Io pensavo l’averne ancora voglia:
Con la vita che aveva alle sue spalle
Dall’Idaho a Venezia e poi a Parigi
E a Roma e le sue prediche alla radio sull’usura
Per finire poi in braccio all’RSI
E dieci anni interi al Saint Elizabeth’s
Io lo conobbi appunto rétour d’Amérique
Non spiccava verbo – era un suo modo
Di protestare… «A G. il risponsabile»
Scrisse su quella copia che gli porsi
Della mia traduzione di H. S. Mauberley –
Poi donata a qualcuno
Che più non mi ricordo
La rievocazione di Giudici contiene un’esagerazione: «non spicca-
[ 10 ]
gli scheiwiller e pound, pound e dante 161
va verbo». Non ricordava più neanche la sarcastica battuta sull’Encyclopaedia
Britannica, con cui Pound rispose a una sua affermazione? Che
il totale silenzio diventasse poi «un suo modo / di protestare», lo spiegò
più tardi la figlia sul «Corriere della sera».
Quell’unico incontro è più sinteticamente rievocato da Giudici anche
in prosa: «Estrasse una biro, prese una copia del libretto e vi scrisse:
«A G. il risponsabile. Ezra Pound».21
Un cenno a Pound è anche negli ultimi versi d’una lirica di Fortezza:
Sì le guardavo lassù…; dove il ricordo delle tre gabbie appese sul
campanile della chiesa di S. Lamberto, a Münster, nelle quali furono
rinchiusi nel 1535 i cadaveri dei capi della rivolta anabattista provoca
il ricordo di un’altra gabbia, quella dove fu rinchiuso, presso Pisa,
Pound nel 1945:
Sì le guardavo lassù appese le gabbie
Giustizia delle chiese – guardavo me
Non già prono qui dentro
Ma al sole pioggia e neve
Grigio del puro gelo
Accecato dal ciclo scarnendomi come voi
Capi dell’espiata rivolta:
O quattro secoli dopo per più d’un mese
In altra gabbia a Pisa
Eretta sull’arso prato
Il Maestro dagli occhi di turchese
Ludibrio del soldato
Arnaldo Di Benedetto
Università degli Studi di Torino
21 Giovanni Giudici, Per passione e su commissione, in Addio, proibito piangere e
altri versi tradotti (1955-1980), Torino, Einaudi, 1982, p. VI.
[ 11 ]

VALERIA GIANNANTONIO
Contraddizioni e convergenze di poetica e poesia
a Napoli nella seconda metà del Seicento
La persistenza del classicismo a Napoli, già nella prima metà del Seicento con
l’Accademia degli Oziosi, si evince anche dall’analisi e dal confronto dei trattati
di poetica e dalle raccolte poetiche della seconda metà del Seicento, quando
la rivolta masanielliana impresse una svolta alla cultura barocca.

The lasting influence of classicism in Naples, as early as the first half of the
Seventeenth century through the Accademia degli Oziosi, becomes apparent by
means of an analysis and comparison of poetic treatises and collections of poetry
dating from the second half of the same century, when Masaniello’s revolt
ushered in a new era in baroque culture.
1. L’intento di sondare le contraddizioni e le convergenze di poetica
e poesia a Napoli nella seconda metà del Seicento nasce, come ebbe
a sottolineare lo Stigliani, da «un frazionamento degli ambienti culturali
italiani nei confini municipali»1 nel XVII secolo. Al momento attuale
degli studi, manca ancora un’indagine completa sui centri di
cultura del Barocco in molte aree geografiche e le varietà regionali della
cultura barocca sono state indagate in un convegno Le aree regionali
del Barocco2, in cui studiosi a confronto si sono interrogati sull’opportunità
di indagare un intero secolo, alla luce di una considerazione
geostorica della letteratura barocca. Certo si è che Napoli, non solo per
la nascita e la crescita del marinismo, ma anche perché centro di passaggio
di molti intellettuali del resto d’Italia, fu una città particolarmente
sensibile all’incrocio di tendenze di vario genere. A dispetto di
quanto sottolineò il Croce3, che cioè all’atto della fondazione dell’Ar-
Autore: Università degli Studi di Chieti; prof. associato; v.giannantonio@
unich.it
1 G. B. Marino, Epistolario, a cura di A. Borzelli e F. Nicolini, Bari, Laterza,
1912, p. 7
2 F. Croce, Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, p. 244.
3 Le aree regionali del Barocco. Atti della Giornata di studio, Chieti, 6 dicembre
2011, a cura di V. Giannantonio, Napoli, Loffredo, 2013.
Meridionalia
164 valeria giannantonio
cadia ci fosse stata una crescita alternativa al Barocco, in realtà, nella
seconda metà del Seicento a Napoli, il petrarchismo convisse, in molti
casi, e si alternò con il classicismo, e ciò lo si evince dal rapporto e dal
confronto tra trattati di poetica e opere di poesia che si pubblicarono,
appunto, in quel lasso di tempo.
L’intreccio e l’alternanza di classicismo e marinismo possono essere
sondati attraverso il confronto, dati alla mano, dei trattati e delle
raccolte poetiche che rivelano quanto intricato fosse l’itinerario della
rimeria partenopea di questo tempo, in un processo di revisione degli
statuti stessi e dei lineamenti dell’arte poetica. Lo svelamento della
crisi del marinismo e la constatazione della ricerca di nuove vie per la
poesia barocca nella seconda metà del Seicento a Napoli sono la spia
di un processo di revisione operato all’ombra del Vesuvio nella prima
metà del secolo. L’eredità lasciata dall’Accademia degli Oziosi fondata
in questa città nel 1611 dal Manso4, biografo del Tasso e del Marino,
fu evidente nella seconda metà del Seicento, quando al modello mariniano
si contrappose quello petrarchesco filtrato dal Casa e dal Tasso.
Al concetto arguto si venne sostituendo la ricerca di una sentenziosità
morale, entro una considerazione della locuzione, come strumento,
non come fine del discorso poetico. Si trattava, dunque, di una revisione
degli statuti stessi della poetica, chiamata ora ad assumere nuove
funzioni conoscitive e morali. In questo intreccio di poetica e poesia
l’eredità della riscoperta del Tasso e insieme l’eredità del petrarchismo
non comportano uno scarto rispetto alla tradizione marinistica, ma
un nuovo modo di intenderla entro un ufficio catartico della poesia. Il
rapporto con la tradizione si innestava a Napoli con la maturazione e
con le enunciazioni di poetica altrove esperite nel resto d’Italia, e investì
le premesse stesse di nuovi indirizzi, non alternativi, ma coesistenti
con l’antico, in una alternanza e in una sovrapposizione di temi e di
motivi, che implicava un vasto raggio di implicazioni e di tensioni
imitative, entro un dibattito assai vivace tra l’antico e il moderno.
Se si può argomentare con il Raimondi che il petrarchismo fu l’anticamera
del marinismo, si dovrà riconoscere che esso rappresentò
«l’elemento, non di diffrazione, ma di sollecitazione di un nuovo modo
di intendere e di giudicare la tradizione»5. II panorama, insomma,
della cultura letteraria a Napoli in questo periodo fu assai vario e ric-
4 Sul Manso cfr. il recente P. Giulio Riga, Giovan Battista Manso e la cultura
letteraria a Napoli nel primo Seicento. Tasso, Marino, gli Oziosi, Bologna, Emil, 2015.
5 V. Giannantono, Tra angeli e dei. La parabola dell’amore e del sacro nella poesia
barocca napoletana, Lecce-Brescia, Pensa Multimedia, 2012, p. 257.
[ 2 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 165
co, e non etichettabile in una semplice formula definitoria, perché il
nuovo si innestò sull’antico, e l’antico rivisse nelle forme nuove di una
poesia e di una poetica sincreticamente manifestatasi in sinergia con
quanto avveniva, nello stesso torno di tempo, nel resto dell’Italia. In
conclusione, la città partenopea, pur se centro propulsore del marinismo
e del petrarchismo, visse la sua stagione di accidentato percorso
ideologico in stretta relazione con quanto avveniva nel resto dell’Italia,
per porsi sulla scia delle nuove acquisizioni in materia di poesia e
di arte.
2. Se nel Seicento «la poesia mitologica e la poesia d’amore avevano
riguadagnato una consistenza che metteva in dubbio la loro subordinazione
alle verità della filosofia e della morale»6, nella seconda metà
del secolo la materia amorosa slitta in secondo piano, almeno viene
finalizzata alla sentenziosità morale, sicché il petrarchismo, alla luce
della mediazione tassiana, rivive nelle «forme di uno sconfinamento
della tradizione nella morale»7. Già nel primo Seicento a Napoli, la
resistenza del classicismo8 convisse con le tendenze all’innovazione
del marinismo; nonostante il ritorno del Marino nella sua città di origine,
nel 1623, nella seconda metà del secolo, si protrasse l’esercizio
della nuova poesia e della poetica entro la predilezione per temi encomiastici
e sacri, ed entro l’assunzione del genere del sonetto, non già
in termini ludici, ma psicologicamente educati alla nuova apologia
dell’etica. Le discussioni sulla poetica e sulla poesia, vertono intorno
alla liceità di una poetica, quella barocca, che anche nella sua prassi
più oltranzista di un Artale, con il suo Alloro fruttuoso (1672), cercò di
forgiare un nuovo modello di arguzia, assegnando ad essa non più il
compito di destare stupore, ma anche quello di esprimere verità edificanti.
Gli è che il filtro del Tasso, del Casa e del Tansillo aveva impresso
una svolta alla poesia napoletana, che solo nell’esercizio poetico tardo
del Lubrano, con le sue Scintille poetiche, approntò una maniera di poetare
estremistica. L’intreccio di poetica e poesia fu particolarmente
interessante, intorno agli anni ’70, quando l’Alloro fruttuoso precedette
di poco la Poetica del Battista (1676) e il Ritratto del sonetto e della canzo-
6 Ibidem.
7 P. Frare, Poetiche del Barocco, in I capricci di Proteo. Percorsi e indagini del Barocco,
Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 41-70: 65.
8 Cfr. La forza di un modello e le ragioni di una polemica: la poetica a Napoli tra Manierismo
e Barocco, in V. Giannantonio, L’ombra di Narciso, Lecce, Argo, 2006, pp.
23-64.
[ 3 ]
166 valeria giannantonio
ne (1677), due testi, che pur non sganciandosi, soprattutto il primo, dal
passato, pur vennero enunciando nuove acquisizioni di poetica. Altrove
il torinese Emanuele Tesauro acclamava il concettismo nel suo
Cannocchiale aristotelico (1670), e ciò rivela quanto impervio fosse il
cammino per le nuove enunciazioni di poetica e per l’avvio di una
nuova temperie culturale.
D’altronde il Meninni aveva iniziato a frequentare il Battista, insieme
all’Aprosio, a partire dal 1658, da quando cioè data la sua attività
di poeta e in anni centrali per la cultura investigante (l’Accademia
degli Investiganti fu interrotta nel 1656 per la peste che funestò Napoli
e fu ripresa solo nel 1662, per poi essere chiusa, per la seconda volta,
nel 1668, ed essere riaperta nel 1683, fino all’ultima apparizione nel
1735)9. Non è un caso che questo incrocio di date inizi a denotare
quanto le due correnti, del marinismo e del petrarchismo, convivessero
sullo scenario culturale degli anni ’70, in una città come Napoli, che
si preparava a vivere una nuova stagione culturale, ideologica e poetica.
Né privo di rilievo è il fatto che il Battista10 scrisse la Poetica negli
anni della frequentazione dell’Accademia degli Oziosi, e dunque del
Manso. Pertanto estranea come fu la Poetica del Battista all’estremismo
barocco dell’Artale, essa testimonia la mancanza di vivacità nel
rinnovamento poetico partenopeo, «che visse momenti di incertezza
(nelle Poesie liriche di Antonio Caraccio e nelle Poesie di Basilio Giannelli,
rispettivamente del 1689 e del 1690), di rifiuto satirico (in Giulio
Acciano e in Nicola Capasso), di diversa definizione teorica, in senso
classicistico (nella Censura del poetare moderno di Giovanni Cicinelli
(1672), e approdò infine a un tono complessivo di leggerezza nella
Raccolta di rime di poeti napoletani (1702) approntata dall’Avvocato Giovanni
Acampora»11. A noi, in questa sede non interessa tanto insistere
su acquisizioni critiche già accreditate dalla tradizione esegetica, ma
piuttosto acclarare entro un intreccio e un confronto di date, quanto il
percorso del marinismo e del petrarchismo fosse impervio in un lasso
di tempo che vide accomunate esperienze di poetica e di poesia tanto
diverse tra loro, eppure estremamente significative nella fitta trama di
relazioni e di rapporti.
3. La dimensione mentalistica e razionale, di cui furono interpreti,
9 P. Giannantonio, L’Arcadia napoletana, Napoli, Liguori, 1962, p. 32.
10 La Poetica del Battista uscì postuma presso Combi e La Noù a Venezia.
11 S.S. Nigro, Il regno di Napoli, in Letteratura italiana, Storia e geografia. L’età
moderna, II, Torino, Einaudi, 1988, pp. 1147-1192: 1173.
[ 4 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 167
nel quadro della cultura investigante il Buragna e lo Schettino12, già
appare filtrata dalla linea Petrarca-Bembo-Casa, e se si guarda all’anno
di edizione delle Poesie del Buragna, cioè il 1683, si noterà come
fosse di sette anni anteriore al prodotto dell’estremismo barocco, e
cioè le Scintille poetiche del Lubrano, quasi a confermare un intreccio di
tendenze e di acquisizioni poetiche coerente con il nuovo retaggio petrarchesco
e l’estremismo barocco, anche negli anni della seconda metà
del Seicento. E che le Poesie del Buragna uscissero postume, è indizio
che negli anni ’80 del secolo il pubblico dei lettori potesse essere
ancora affascinato dal petrarchismo dell’autore. Anzi, ancora di più,
in anni vicini si hanno l’edizione delle Scintille poetiche (1690) e l’edizione
delle Rime del Casa (1694), con soluzioni petrarchesche, non solo
nelle forme, ma anche nella dimensione intellettualistica, coerente
con la posizione scientifico-ideologica della cultura sperimentale. La
valenza moraleggiante del furore creativo dell’ultimo barocco era
un’acquisizione ormai certa di un’attestazione riformista, vuoi nella
direzione del recupero della linea Petrarca-Bembo-Casa-Tansillo, vuoi
nel senso del razionalismo prearcadico. Si tratta di una conferma del
quadro già tracciato a Napoli intorno agli anni Settanta, da cui si deve
trarre una conferma delle soluzioni dell’Artale e del Lubrano. Il virtuosismo
più risentito dell’Artale, unito a certi paesaggi allucinati del
Lubrano, che aveva trovato nell’Alloro fruttuoso dell’Artale, accanto a
un’esasperazione dei temi della rimeria barocca, un’intonazione anche
moralistica, assegnando all’arguzia il compito «non più solo di
destare piacevole stupore, ma anche quello di rappresentare ingegnosamente
verità edificanti»13 si riveste di un’enfasi oratoria, che anche
nei temi moraleggianti perviene a soluzioni artificiose di complicazioni
estetizzanti. Perciò, anche quanto vi era in comune con le Rime lugubri
e sacre della Lira del Marino, si piega a un’enfatura moralistica di
un moralismo di facile consumo, lontano anche dai toni più sinceramente
malinconici e tragici di certa produzione mariniana, come le
Dicerie sacre e gli Idilli della Sampogna.
Il quadro testé tracciato conferma, ancora una volta, la tangenza di
soluzioni razionalistiche di esasperato barocchismo, in anni cruciali
per le sorti della poesia e alla vigilia della fondazione dell’Accademia
dell’Arcadia, nel 1690. Marinismo e petrarchismo, razionalismo e arti-
12 Cfr. P. Schettino, Opere edite e inedite. Edizione critica a cura di V. Giannantonio,
Firenze, Olschki, 1989.
13 La lirica tardo-barocca dell’Artale, del Lubrano e del Dotti, in F. Croce, Tre
momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966, p. 256
[ 5 ]
168 valeria giannantonio
ficio, mentalismo e passionalità non si fronteggiano nell’esasperazione
delle tendenze, ma convivono tra di loro tanto nella poetica, quanto
nella prassi versificatoria, entro un realismo, che non è solo quello
dei tratti fisionomici e caratteriali della donna, ma anche dello svelamento
morale delle tarde acquisizioni poetiche secentesche napoletane.
L’idiosincrasia del Battista per la poesia d’amore, analogamente, si
colloca sulla scia delle relazioni e della conversione moraleggiante di
tanta poesia petrarchesca in questo periodo, e anche dell’enfasi retorica
e oratoria dell’Artale. I soggetti della lirica vengono gradualmente
mutando, incentrandosi più spesso sulla considerazione della vanità
della vita e dell’esaurimento di tutte le cose (Schettino) e sul senso
dell’instabilità del reale (Lubrano). Anzi questi, ai toni più marcati del
barocchismo, unì la produzione di Prediche in latino, «che sono anche
una sensibilissima testimonianza della sua vita»14, nemico della nobiltà,
ma anche del potere costituito, il Lubrano è interprete di un «moralismo
che ha recentissimamente una forte impronta edonistica», e che
anche sul piano stilistico sostituisce all’artificiosità sintattica dell’Artale
«una specie di cultismo linguistico»15.
Dunque il distacco dal Marino intorno agli anni ’70-’80 avvenne a
Napoli, ora nei termini di un’aspirazione ad un’enfasi moraleggiante,
ora nel quadro di una esasperazione degli stilemi barocchi, considerati
però come strumento, e non come fine di un epitetare fiorito e fruttuoso.
Il privilegio della elocutio si intride di una fascinazione retorica,
che, se non rifugge da ogni forma di eccesso, spesso la finalizza a concetti
edificanti mentre il petrarchismo assai spesso si riduce al contrario
a un puro esercizio retorico. Perciò quanto ha visto il Raimondi,
che il petrarchismo non è l’anticamera del marinismo, si spiega con il
privilegiamento di un gioco delle pure forma, chiamata a intrecciarsi
con un finalismo concettoso, che è il risultato estremo della prassi imitativa
e del gioco combinatorio delle fonti e dei modelli. D’altronde, in
questo scenario di decadenza e corruzione culturale, come ebbe a sottolineare
il Cicinelli, in cui pur di essere nuovi e alla moda i poeti
contemporanei raggiunsero punte di inefficienza poetica, non suscita
meraviglia il fatto che il Lubrano accompagni alla produzione in volgare
quella in latino, e che lo Schettino divida il suo canzoniere in rime
volgari e latine. L’imitazione degli antichi si combinava con il fenomeno
del petrarchismo, ovverosia dell’imitazione dei modelli. La pole-
14 Ivi, p. 270.
15 Ivi, pp. 291-292.
[ 6 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 169
mica contro gli storici epigoni del Petrarca nel ’500 o contro la mancanza
di sobrietà della poesia barocca fu finalizzata alla ricerca del
buon gusto, auspice, in primo luogo, il ritorno al Tasso, come maestro
di stile sublime applicato all’epica poesia e alla storia sacra. In tale
contesto non suscita meraviglia il «riuso che del Petrarca fecero i letterati
del secolo XVII, adattandolo alle tensioni poetiche coeve, ora come
idolatrato vessillo classicistico, ora all’opposto come modello incontrastato
di concetti e di arguzie»16. E d’altronde in età arcadica la
produzione in latino avrebbe affiancato quella in lingua italiana17. Nelle
linee di una tendenza filo-cruscante Buragna e l’Accademia degli
Investiganti fecero assurgere il classicismo a punta di diamante di un
revisionismo poetico, che ormai tendeva sempre più ad allontanarsi
dal malgusto secentesco e ad approdare al nuovo. Cosa dovesse intendersi
per questo nuovo lo si deduce dai trattati di poetica dell’ambiente
napoletano della seconda metà del Seicento, e cioè, come si è visto,
dalla Poetica del Battista (1676), ma soprattutto dalla Censura del poetare
moderno (1672) del Cicinelli (1672) e dal Ritratto del sonetto e della
canzone del Meninni, scritti a ridosso del Cannocchiale aristotelico del
Tesauro, che era la Bibbia del nuovo credo concettoso e arguto. Alla
ripresa tarda del petrarchismo, con l’edizione, nel 1694 delle Rime del
Casa con le Sposizioni di Sertorio Quattromani, Marco Aurelio Severino
e Gregorio Caloprese, del tutto coerente con la posizione scientifico-
ideologica della cultura sperimentale investigante, si accompagnò,
due decenni prima, la scrittura del Ritratto del Meninni e della Censura
del Cicinelli, che un duro colpo infersero al barocchismo. Il Meninni
scrisse il Ritratto dopo le sue Poesie (1660) (in cui non a caso due sonetti
sono dedicati al Battista), entro una revisione del marinismo.
La contemporaneità del Ritratto a certa rimeria contemporanea,
denota un rifacimento dal di dentro «delle contraddizioni e della crisi
del marinismo»18. Il Ritratto, dunque, si pone come una revisione del
marinismo, dopo che il Battista aveva formulato il binomio sublimitàconcettosità.
Sulla scia della posizione dantesca sulla canzone, considerata
«genere alto e sublime», anche il sonetto fu elevato agli allori
dell’esercizio poetico dal Meninni, entro una collocazione alta, che lo
rimandava direttamente all’auctoritas del Tasso. Per Clizia Carminati
«il fondamento del ritratto del Meninni sta nello stesso binomio che
16 Ivi, p. 298.
17 M. Leone, Geminae voces. Poesia in latino tra Barocco e Arcadia, Galatina, Congedo,
2007, p. 23.
18 D. Chiodo, Suaviter Partenope, canit, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, p. 176.
[ 7 ]
170 valeria giannantonio
aveva guidato la poesia del Battista, adesione piena alla scrittura concettosa,
da una parte (con l’idiosincrasia verso il petrarchismo che le è
propria), innalzamento della lirica a genere alto dall’altro»19. Il Ritratto
si pone, dunque, come una revisione del marinismo, dopo che il Battista
aveva formulato il binomio sublimità-concettosità. Sulla scia della
posizione dantesca sulla canzone, considerata «genere alto e sublime
», anche il sonetto fu elevato dal Meninni agli allori dell’esercizio
poetico, entro una collocazione alta che lo rimandava direttamente
all’auctoritas del Tasso. Se il Battista aveva insistito sull’artificio concettoso,
il Meninni liberò la poesia da ogni sperimentalismo estremizzante.
Discorrendo di imitazione e di furto, il Meninni si discostò dal
Marino. Insomma intorno alla lirica amorosa si formalizzò l’attenzione
tanto del Battista quanto del Meninni unitamente alla ricerca
dell’arguzia e dell’erudizione, per una poesia che si voleva elevata e
sublime. La proposta di innalzamento della poesia viene realizzata
dalla Carminati, prendendo come punto di riferimento tre opere di
poetica seicentesche, e cioè le Vindicationes societatis Jesu (Roma, 1649)
di Sforza Pallavicino, il Del cane di Diogene (Venezia, 1687) del Frugoni
e l’Istoria della volgar poesia (Roma, 1698) del Crescimbeni. Il confronto
con il testo del Crescimbeni evidenzia che il teorico si rese interprete
di un rinnovamento della poesia a venire contro il malgusto seicentesco.
Il Meninni non rifiuta il petrarchismo, ma ne mette in luce coloro
che o se ne distanziarono o lo imitarono in modo originale. Il Crescimbeni,
invece, non cessa di tessere elogi per i petrarchisti più ortodossi.
Entrambi riconobbero al Casa (la cui edizione delle Rime risale, come
si è visto al 1694), il merito di avere perfezionato il petrarchismo, ma il
meridionale Meninni attribuiva al Tansillo, e dunque al petrarchismo
meridionale, il merito di porsi come un antefatto della poesia marinistica.
E ciò non solo per ragioni campanilistiche, ma perché il tutto rientrava
in una concezione diacronica della poesia, aperta a soluzioni
localistiche di crescita e di progresso. Dunque alla scelta del Tansillo e
al ruolo del Casa andava ascritta, per il Meninni, la gravitas del Marino,
che per l’autore divenne un classico da imitare.
E se si tiene conto del libro di Victor Tapié, Baroque et classicisme20,
della metà del ’900, si noterà come i due elementi venissero considerati
complementari, non solo in epoca a noi più vicina, ma anche nella
teorizzazione meninniana. Né è privo di rilievo il fatto che il Crescim-
19 C. Carminati, Prefazione a F. Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone,
per cura di C. Carminati, vol. I, Lecce, Argo, 2002, p. XXIII.
20 Paris, Plon, 1961.
[ 8 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 171
beni, auspicando una ripresa del buon gusto, citasse proprio lo Schettino
e il Buragna, entro una rimeria neopetrarchista, che aveva avuto
l’indubbio merito di restaurare la vera poesia italiana. A noi poco interessa
la differenza di posizioni del Meninni e del Pallavicino, se non
nell’assunzione, da parte del Meninni, del Marino come di un classico
da imitare, entro una nuova idea della classicità come emulazione e
superamento del passato, che era poi l’enunciazione della poetica
stessa del Marino quale si ricava dalla lettera IV all’Achillini premessa
agli Idilli della Sampogna.
In quanto aveva attraversato la poesia di un Tansillo o di un Costanzo
il Marino si poneva come un classico, l’autore, dal quale, in realtà,
nessun teorico del Seicento seppe prescindere, anche per la varietà
e la diversità della sua produzione poetica. La concezione del Marino
come classico risiede nella stessa campionatura del sonetto, come
genere alto, affiancato alla canzone, elevata da Dante al massimo grado
della perfezione artistica. Entro questa complementarietà tra marinismo
e classicismo, moderno e antico, il classicismo del Marino veniva
rivendicando la sua interagenza con i modelli, in un recupero, che
significava, come si è visto, superamento dell’antico nelle forme e nei
modi della modernità. E per concludere questo sguardo al classicismo
marinistico del Meninni, andranno confrontate alcune date: 1672 anno
dell’Alloro fruttuoso dell’Artale; 1676 anno della Poetica del Battista;
1677 anno del Ritratto del sonetto e della canzone del Meninni.
Intorno agli anni ’70 del XVII secolo, insomma a Napoli, non si rifiuta
il modello mariniano, ma o lo si considera un punto di partenza
per intraprendere nuove vie, o lo si assume come un classico cui rifarsi
all’interno di un principio di imitazione fondato sulla modernità e
sulla contemporaneità. Insomma le distanze da sempre sottolineate
tra il Marino e il Chiabrera e il Testi andavano ridimensionate in quanto
poco pertinenti all’assunzione di una rimeria classica tout court.
Analogamente la stessa distanza adombrata tra il Marino e il Chiabrera
e il Testi veniva ridimensionata alla luce di una complementarietà
dell’antico e del moderno. Il Frare ha giustamente sottolineato che alla
fine del secolo, il nemico con cui confrontarsi non era più la poesia
lasciva e sofistica del Marino, ma la poesia-algebra, per così dire, del
razionalismo cartesiano: ma lo stesso studioso attribuisce al Cannocchiale
aristotelico del Tesauro un valore di sintesi tra posizioni tra loro
tanto diverse21. In realtà, proprio dal confronto tra le date del Cannoc-
21 P. Frare, Poetica, cit., p. 69.
[ 9 ]
172 valeria giannantonio
chiale e quelle della Poetica del Battista (1679) e del Ritratto del sonetto e
della canzone del Meninni, nonché della Censura del Cicinelli, ci si accorge
che il discorso sul marinismo non era ancora concluso all’altezza
della sintesi di posizioni diverse del Cannocchiale. Nuove acquisizioni
in materia di poetica enunciavano un riepilogo, che solo all’altezza
della fondazione dell’Arcadia poteva dirsi concluso, in linea con
i risultati della poetica barocca partenopea nella seconda metà del
Seicento. Sono questi i fondamenti di un esercizio teorico coerente con
un itinerario poetico, che a Napoli ebbe il suo centro di emulazione e
di formulazione.
4. Questi principi di poetica, fondati sull’estremismo concettoso e
su nuove acquisizioni di poetica, nonché su una ritrattazione del principio
di imitazione, confluiscono e sono attestati, altresì, dalla Censura
del poetare moderno del Cicinelli22, divisa dall’autore in tre discorsi, perché
la poesia si fonda sulla invenzione, sulla locuzione, sulla imitazione
La linea aristotelica oltranzista viene dal Cicinelli superata con l’Invenzione
nei traslati nei poeti moderni, a tutto svantaggio di quella
delle favole. Il confronto, ancora una volta riguardava gli antichi e i
moderni, dal momento che gli antichi avrebbero deriso la maniera
concettosa e florida dei poeti moderni. Quell’accostamento tra antichi
e moderni, e quella revisione del principio di autorità, che aveva contrassegnato
la poetica napoletana degli anni Settanta, si fondava, nella
Censura, nella contrapposizione degli antichi ai moderni, i primi autori
di favole, e dunque di verità, i secondi artefici di un epitetare sentenzioso
e concettoso. I poeti moderni, «quantunque sentono del Divino,
non possono dall’errore, proprietà dell’uomo, discostarsi»23. La
maniera di poetare, la più dolce e nobile, è quella degli antichi, non già
dei moderni. Il divario dei moderni dagli antichi si fa più consistente
nella sezione della Censura, riservata all’invenzione, perché i moderni
ardiscono a farsi cultori di nuove forme di dire, nuove voci, nuovi
epiteti e sono mossi dal desiderio di novità, e tale desiderio è figlio di
una ignorante ambizione.
Il confronto con gli antichi era soprattutto con Plutarco, il cui stile
soave e concettoso era ricco di facondia, moralità ed educava l’orecchio,
al contrario di quello che si applicava ai traslati fanciulleschi e
alla turgidezza dell’eloquio. La poesia ha bisogno di «condimenti e di
artifizi, ma tali che la facciano riuscire più dolce e saporosa e non più
22 Napoli, Giovanni Passero, 1652.
23 Ivi, pp. 5-6.
[ 10 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 173
aspra e meno intellegibile»24. Il tempo dedicato all’invenzione dei traslati,
alla stiracchiatura delle erudizioni, dovrebbe essere impiegato
nell’espressione della naturalezza della lingua, nella imitazione degli
antichi, senza per questo invidiare le glorie trascorse. I poeti moderni
macchiano la nobiltà della poesia con la varietà dozzinale dell’eloquio.
Quanto all’imitazione, sulle orme del Mazzoni, il Cicinelli distingue
una imitazione icastica che si fa per mezzo d’istrumento, ed è
questa la “Raccontativa” e l’altra che si fa senza strumento ed è quella
che dai Greci è detta “Drammatica”. Il poeta non deve andare a caccia
di allusioni o di equivoci, o ancora di metafore, ma di parole ed
espressioni, in modo da far apparire la figura di Belacqua tanto calzante
alla vista di chi scrive. Il paragone con Dante non suscita meraviglia,
se si considera che tra le auctoritates passate proprio il poeta
fiorentino rivestiva un ruolo assai importante nell’allineamento ai
grandi del passato.
La vera poesia italiana nasceva da Dante, ancor prima che dal Petrarca.
E tra le auctoritates questa volta del pensiero, troviamo Aristotele,
per il quale bisogna imitare in tre modi: o come le cose sono, o
come si dicono paiono, o come si pensa che debbano essere. La stessa
suddivisione dantesca degli stili, in alto, sublime, mediocre, si adattava
rispettivamente, per il Cicinelli alla materia grave, alle cose da
scherzo, alle satire. Lo stile moderno può incorrere nella taccia di bassezza
o di gonfio, valendosi dei caratteri di mezzano, tenue e sublime.
Il concetto di imitazione, che più aveva attanagliato il Marino, si riscopre,
nel Cicinelli, nell’emulazione dei poeti grandi, di coloro i quali,
come il Petrarca e il Tasso hanno utilizzato il carattere mezzano e umile,
tendendo sempre alla sublimazione, e non all’artificio. La poesia
moderna, al contrario, ha scambiato l’elevatezza dei modi della poesia,
la sublimità con l’artificio, e, dunque, ha inquinato con un oltranzismo
retorico, la sentenziosità morale degli antichi. In questo processo
di distacco dalla poesia degli antichi, i moderni si sono resi interpreti
di una congestione tutta retorica, tanto che le tre parti del discorso
retorico, cioè l’invenzione, l’imitazione, l’elocuzione, sono accomunate
dal Cicinelli da un uso improprio e artificioso dell’arte del dire,
ponendosi sulla scia di quello stile metaforuto tanto elogiato dal Tesauro
nel suo Cannocchiale aristotelico.
Battista, Meninni, Cicinelli sono le tre voci più autorevoli e solo in
parte convenzionali. Il quadro testé tracciato risulta solo parzialmente
24 Ivi, p. 15.
[ 11 ]
174 valeria giannantonio
indicativo dei generi di appartenenza di un esercizio poetico, che di lì
a poco, con la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia, e con il Muratori,
il Crescimbeni, avrebbe dato i suoi frutti migliori, alla ricerca di
un canone classico da imitare, in forme intellettualisticamente turgide
e rigide. In tal modo, sia nella riprovazione dello stile metaforuto, che
nell’accostamento dei classici ai moderni, la poesia napoletana mostrava
tutto il suo spessore di un genere alla ricerca di un classico da
imitare, vuoi nella coppia Anacreonte-Pindaro, vuoi nel più erudito
Marino. Insomma il quadro fin qui delineato appare solo parzialmente
debitore di quella poesia concettista, nelle sue forme più moderate
e più scopertamente manierate, perché il nuovo non si costruiva sulla
scorta del vecchio, ma appariva fruito entro una dimensione, che non
scartava l’antico, ma lo riproponeva nelle forme autenticate dell’innovazione
lirica. I due generi presi in esame dal Meninni, e cioè il sonetto
e la canzone, erano quelli basilari di una tradizione, che si era attestata
su un contenuto prevalentemente morale. Così la Carminati trova
fruttuoso, tornando ad esaminare i tratti della proposta di poetica
del Meninni, cercare nella Censura del poetare moderno insieme un’ulteriore
conferma delle caratteristiche della poesia del Battista e il punto
di partenza per la correzione di esse auspicata dal Meninni25. Non era
il caso di confondere l’ossequio alla moda con la vera poesia, ma se si
ricercavano delle auctoritates nel panorama poetico coevo, queste andavano
individuate oltre che nella tradizione anteriore, anche nel Marino
stesso.
Le linee teoriche della seconda metà del Seicento si affiancarono a
Napoli all’esercizio poetico, mediato da auctoritates indiscutibili e particolarmente
versato nel genere del sonetto e della canzone. Non è un
caso che anche il Meninni, sulla scorta di Aristotele divida la poesia in
epopea, tragedia, commedia e ditirambica, e che l’insistenza sull’epitetare
concettoso e sentenzioso muova proprio dalla considerazione
di una riforma della poesia, che pure non poteva prescindere dal classico
Marino. Entro una ripresa di una similitudine tassiana Cicinelli
consigliava ai lettori della poesia moderna […] di succhiare quel dolce
miele «che estimò nei carmi racchiudere», e proseguendo: «il Petrarca
e il Tasso hanno talvolta utilizzato il carattere mezzano, e hanno sempre
teso alla sublimità, non all’artificio»26. E d’altra parte «i poeti debbono
adoprar quei condimenti, che faccian riuscire più dolce e vapo-
25 C. Carminati, Introduzione, cit., p. XXX
26 G. Cicinelli, Censura, cit., p. 116.
[ 12 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 175
rosa la poesia, e ancor più aspra e meno intellegibile la poesia»27. La
nobilitazione della poesia era tutt’uno con il principio di imitazione
fondato sull’emulazione, sulla traduzione, sul furto. Era un principio
di emulazione dell’antica poesia, quello che governava la poetica tanto
del Meninni, quanto del Cicinelli, deviata sullo sfondo di una nuova
temperie culturale che accreditava l’uso dell’artificio poetico come
emulazione dell’auctoritas. Per il Nigro solo con le raccolte poetiche
del Battista, dell’Artale e del Lubrano si può riscontrare un «Marino
Napoletano»28. Si era così giunti a un esercizio poetico che nella pubblicazione
delle Rime del Casa a cura di Sertorio Quattromani, Aurelio
Severino e Gregorio Caloprese avrebbe sentenziato un modo nuovo di
intendere la poesia. Il rifiuto del Cicinelli del momento ludico ed edonistico
del testo letterario e la dimensione utilitaristica e pragmatica
che il Cicinelli dà alla poesia fanno sì che nel teorico la spinta classicistica
si articoli in un ambito razionalistico e che la sua prosa, a detta
del Quondam, tanto carica di forza espressiva trovi poi, nelle Sposizioni
delle Rime del Casa (1694), una foga espressiva troppo paludata e
arcigna.
5. Il mentalismo delle Sposizioni non solo appare coerente con l’accademismo
arcadico, ma apre nuove frontiere a un ripensamento stesso
del petrarchismo, che chiude mirabilmente il procedimento imitativo
dell’aretino nel XVI secolo. Il testo si pone come emblema sicuro
della prearcadia napoletana, e dibatte in termini novatori il ruolo della
fantasia e delle passioni e degli affetti nell’opera poetica. Il fine della
verosimiglianza è quello perseguito nell’analisi poetica per il tramite
della ragione e della fantasia. Il secolo, aperto dal recupero del ritorno
a Napoli, nel 1623 del Marino, si chiudeva con un atto di devozione
nei confronti dell’imitazione del Petrarca, chiamato ad assurgere una
funzione guida nel processo imitativo della lirica contemporanea. E il
secolo non poteva dirsi concluso senza la lezione del Messere Dell’origine
della poesia, risalente al 1699. Non ci sembra il caso, in questa sede,
di procedere a un elenco sterile delle opere di poesia e di poetica più
significative nell’ambiente napoletano, ma certo l’intreccio di relazioni
tra questi testi prova, senza ombra di dubbio, quanto il marinismo
e il petrarchismo del secolo debbano a un intersecarsi di indicazioni
poetiche, che nella loro reciproca alternanza delineano un quadro assai
variegato di cultura. Apertosi con l’imitazione mariniana, il secolo
27 Ivi, p. 178
28 S.S. Nigro, Il regno di Napoli, cit., p. 1161.
[ 13 ]
176 valeria giannantonio
si chiudeva a Napoli con l’esaltazione del Della Casa e con la dimensione
retorica e oratoria del Messere, che pure pone l’accento sull’esercizio
poetico come vera scienza e vera filosofia. L’idea di una poesia
che dilettando giovi, rientrava in un’estetica ormai pedagogica, che
aveva i suoi frutti nel mentalismo del Caloprese e nella contestazione
della poesia moderna, operata dal Cicinelli. L’idea del giovamento
della poesia valeva a porre la poesia moderna sulla scia di quella antica,
spiegando, sulla scorta di Platone, l’impeto poetico col divino furore.
Strumento di conoscenza e di progresso per l’uomo la poesia si
apprestava, ormai, a porsi sotto l’egida del Vico, che le avrebbe attribuito
un valore di educazione del popolo.
L’esercizio poetico, insomma, non andava disgiunto da un fine di
pedagogismo e di civilizzazione, alla fine del percorso di un secolo,
che ne aveva esaltato le capacità e le potenzialità fantastiche e retoriche.
Quattro anni dopo il prodotto estremo del Barocco meridionale,
le Scintille poetiche del Lubrano (1690), l’Ars poetica del Messere (1694)
concludeva un ciclo secondo tendenze ed affermazioni del tutto contrastanti
con l’esasperato barocchismo del Lubrano, ed apriva nuove
frontiere a quella che sarebbe stata la riflessione vichiana sulla poesia
e sull’arte.
Ancora una volta tendenze culturali contrastanti si accavallavano
tra di loro, decretando l’itinerario di un secolo costellato di voci spesso
contraddittorie, ma che convivevano nel riconoscimento, alla poesia,
di un dinamismo formale e sentenzioso che ne legittimava la stessa
autorità e ne riscattava la ben precisa fisionomia intellettuale. L’etica
del classicismo valeva a riagganciare la tarda poesia napoletana ai
fondamenti di un discorso morale, riannodando le fila di una farraginosa
geografia culturale in cui l’elemento nazionale assorbe quello
regionale, senza per questo annullare la peculiarità di un localismo e
di un regionalismo, che si apre a una visione multicentrica delle varietà
del Barocco letterario. La lirica napoletana della seconda metà del
Seicento presenta dunque una tensione assemblatrice, secondo peculiari
scelte tematiche, e rappresenta una valida testimonianza della
virata finale verso la riforma neoclassica dell’Arcadia. Il barocco moderato
del Meninni e del Cicinelli, se autorizzava incursioni nel clima
prearcadico, valse a rivestire di implicazioni etiche la lezione mariniana,
in un rapporto assai stretto, soprattutto nel Cicinelli, con la retorica
greco-latina. Né è da tacere che lo spartiacque tra la cultura napoletana
della prima metà del secolo e quella della seconda metà fosse proprio
la ribellione masanielliana, non solo per le implicazioni storicopolitiche,
ma anche per l’intreccio di posizioni tardo barocche e di
[ 14 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 177
tendenze classicheggianti. E non è un caso, come osserva il Leone29,
che all’analisi dei contesti regionali spesso corrisponda una dialettica
di spinte e controspinte, di impulsi innovativi e di istanze tradizionaliste.
La contaminazione tra antico e moderno fu al fondo della crisi
del marinismo, che si riversò tanto in poesia quanto nella trattatistica
e assunse più che un valore cronologico, un aspetto categoriale, nella
messa a punto di dinamiche opposte tra loro contrastanti, talaltra convergenti
e assimilabili a influssi diversificati di cultura.
6. In questo quadro assai variegato di cultura, in cui petrarchismo
e marinismo si intersecano nella seconda metà del Seicento a Napoli e
in cui le dinamiche culturali appaiono così poco etichettabili, si inseriscono
le due lezioni sull’Arte poetica, tenute da Gregorio Messere presso
l’Accademia di Medinacoeli e conservate manoscritte presso la Biblioteca
Nazionale di Napoli30. Stimata dai più, secondo il Messere,
una facoltà «pazza e furiosa, inutile e vile»31 la poesia viene accomunata
alla Filosofia, tanto che «umano sapere si ritrova in lei che non si
comprenda.»32 Essa, secondo un accostamento metaforico «Assisa nei
cieli coll’armonia delle Muse muove la danza delle stelle, muove, col
musico Tebano e col Trace i macigni, tira i delfini, placa i Lacedemoni,
desta all’armi Alessandro il grande e lo raccheta»33. Ancora una volta
il contenuto sentenzioso della poesia è accostato al «diletto della
favola»34.
«Ella […] insegna moral filosofia, dimostrando non potersi, senza
la virtù alla vera felicità pervenire»35. Certo, sulla scorta di Platone, ad
essa viene attribuito un «divino furore», «che secondo Pattone ai suoi
seguaci Apolline spira, onde cantò Ovidio»36. La poetica del giovar
dilettando univa il diletto all’utile, coniugava un’estetica pedagogica
e un’estetica edonistica, riallacciandosi a quelle posizioni, che già nella
seconda metà del Cinquecento si erano maturate col Tasso nei suoi
29 M. Leone, Fenomenologia barocco-letteraria, Saggi, Galatina, Congedo, 2012,
pp. 32-33.
30 Le due lezioni recano la segnatura coll. XII.G.58 e recano il titolo delle Lezioni
accademiche de’ diversi valenti uomini de’ nostri tempi, recitate avanti l’eccellente Signor
Duca di Medinacoeli.
31 Della poesia, lezione prima del Rev. Gregorio Messere, p. 1, in Delle lezioni
accademiche, cit.
32 Ivi, p. 2.
33 Ibidem.
34 Ibidem.
35 Ibidem.
36 Ivi, p. 6.
[ 15 ]
178 valeria giannantonio
Discorsi, e con il Guarini. Il saggio, dunque, è colui «al quale è toccato
in sorte di ragionare»37. Nella seconda lezione il Messere si pone il
problema di indagare l’origine della poesia. I primi autori furono i
Greci, che la attribuirono alle Muse, le quali vennero ad abitar la Beozia.
Il Messere ammette il principio di imitazione, che è naturale
all’uomo, perché con il verso diletta. L’imitazione diletta, perché,
«imitando noi poniamo cosa di nuovo, cioè la similitudine». Diletta il
verso «essendo il verso parte del canto perfetto»38. Che a quattro anni
dalle Scintille poetiche del Lubrano (1690), che esprimevano la fase
estrema del barocco artificioso e concettoso, si indicasse nel principio
di imitazione, e nell’utilità della poesia, che deve anche dilettare, il
principio di utilità della lirica, ciò denota quanto, al principio di invenzione,
e al carattere arguto e artificioso il Messere venisse contrapponendo
una poesia basata sul principio di imitazione, che tenda al
giovamento entro il diletto. E non è un caso che in una Lettura sopra le
cinque ottave della Gerusalemme liberata. Poema del signor Torquato Tasso
Fatto dal Rev.do Nicola Sersale nel 169939 l’argomento ancora una volta
prescelto fosse proprio la Gerusalemme liberata del Tasso, l’opera che
univa alla storia l’invenzione. Delle tre parti che compongono il poema
epico, e cioè la Proposizione, l’Invocazione e la Dedicazione, il Tasso
le aveva rispettate tutte, ponendosi sulla scia dei dettami della Poetica
aristotelica. Insomma alla fine del Seicento, si continuava a Napoli
ad argomentare sul Tasso, quando l’astro del Marino in anni vicini
alla Lettura del Sersale, veniva estremizzato dal Lubrano. Capacità
oratorie e contenuto, ora fondato sugli artifici della locutio, ora sul
principio di imitazione, indicavano quanto ibrido fosse il contesto della
teorizzazione e della poetica a Napoli, in anni cruciali, che videro,
nel 1690, contemporaneamente all’uscita delle Scintille poetiche, la fondazione
a Roma dell’Accademia dell’Arcadia, che al Barocco voleva
sostituire il buon gusto in poesia.
Ma nella città partenopea le resistenze del classicismo furono maggiori
che in altri centri d’Italia e si è visto come anche per il Marino si
parlasse della parola di classico40. Intanto le innovazioni che il Marino
37 Ivi, p. 8.
38 Della poesia. Lezione seconda del Rev. Gregorio Messere, p. 2, in Delle lezioni
accademiche, cit.
39 La Lettura «si legge nel ms. XII IB 71, conservato presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli».
40 Cfr. La forza di un modello e le ragioni di una polemica: la poetica a Napoli tra
Marinismo e Barocco, in V. Giannantonio, L’ombra di Narciso, cit., pp. 23-65.
[ 16 ]
contraddizioni e convergenze di poetica e poesia a napoli 179
aveva portato alla lirica coesistevano nei suoi imitatori, più oltranzisti,
con un epitetare sentenzioso e concettoso, assegnando, da parte di
molti teorici e oratori, alla poesia il fine del giovamento. Questo quadro
testé tracciato nell’ambiente culturale della seconda metà del Seicento
denota quanto intricato fosse il percorso della poesia e della poetica,
secondo spinte e controtendenze di varia natura, in un contesto
che esprimeva il retaggio della tradizione Petrarca-Bembo-Della Casa
e per converso l’esaltazione del principio di invenzione. Petrarchismo
e marinismo, mentalismo e concettismo, imitazione e invenzione, sono
i termini nei quali si dibatteva la teoresi e la prassi poetica di questo
periodo a Napoli, patria del Marino, ma anche città che ereditava i
principi di una poetica, che aveva visto nel Manso, nella prima metà
del secolo, la compilazione di una Vita di Torquato Tasso e una Vita di
Giambattista Marino, quasi che i due autori fossero i numi tutelari di un
classicismo imitativo ora volto all’utile ora incentrato sull’estremizzazione
del modello Marino. Si spiega così tanto l’oltranzismo barocco,
quanto la coesistenza di un estetismo pedagogico, nell’unico versante,
tanto del Marino, quanto del Tasso. Napoli, dunque, capitale del Viceregno
spagnolo, veniva indicando ed esprimendo tante soluzioni alternative
al Barocco, quanto l’estremismo marinistico, e non è un caso
che la seconda metà del Seicento pulluli di trattati di poetica e di lezioni
accademiche, perché il confronto con quanto avveniva nel resto
dell’Italia indica chiaramente una vicenda tutta a sé stante.
Valeria Giannantonio
Università G. D’Annunzio di Chieti
[ 17 ]

Nicola Contegreco
Isolitudine: la Sicilia di Gesualdo Bufalino
Le connessioni a livello tematico con la propria terra d’origine rappresentano
per un autore come Gesualdo Bufalino – il quale trascorse la quasi totalità della
propria esistenza nel paese natio di Comiso – il fulcro principale, interrelato
all’altro grande tema, quello della memoria, intorno al quale ruota la sua intera
opera letteraria. Il contributo intende delineare un percorso, attraverso le diverse
espressioni del linguaggio bufaliniano, dal quale prorompe un’idea composita
e complessa di Sicilia, quella che fa riferimento alla dimensione poetica di
isolitudine.

For an author like Gesualdo Bufalino, who lived almost solely in his native village
of Comiso, the thematic connections with the homeland represent the main
fulcrum, interrelated with the other great theme of memory, around which his
entire literary output revolves. This contribution aims to outline an interpretation,
through the various expressions of Bufalini’s language, from which a composite
and complex idea of Sicily gushes forth, one referring to the poetic dimension
of isolitudine.
Per Gesualdo Bufalino la Sicilia è grembo di terra, di luce e di lutto1,
entità naturale numinosa, nonché ricchezza inesauribile, «patrimonio
di memorie, vera mnemoteca e insieme materno cordone ombelicale
con l’esistenza»2; è inoltre tema e paesaggio che percorre come
un filo dipanato dall’origine alla fine, l’intera sua opera.
Autore: Dipartimento onnicomprensivo Lesina-Foggia; professore di materie
letterarie; nicolacontegreco@hotmail.com
1 L’ossimoro “luce-lutto” identifica tanto l’aspetto morale quanto, se vogliamo,
quello fisico della terra di Sicilia, del suo sostrato antropologico, dei suoi abitanti.
Bufalino, infatti, se ne serve spesso denotando simbolicamente (e in molteplici casi)
come sia gli uomini che la loro isola, attraverso la storia, la memoria e il presente
siano, ad un tempo, accecati dallo splendore della luce del paesaggio e ingoiati dal
buio più nero, quello della morte che vigila su tutto con la sua presenza.
2 P. Gaglianone e F. Tas (a cura di), Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo
Bufalino, Roma, Omicron, 1996, p. 48.
Contributi
182 nicola contegreco
Non è senza ragione infatti che, malgrado il “caso Bufalino” abbia
raggiunto il suo culmine nel 1981 con la pubblicazione della sua prima
opera Diceria dell’untore, il percorso editoriale vero e proprio ha inizio
qualche anno prima, nel 1976, quando appare un volume di scritti dedicati
a Comiso, suo paese natale nell’estremo lembo meridionale d’Italia.
Si trattava di una miscellanea di contributi locali dal titolo Comiso
viva in cui lo scrittore compariva non solo come coordinatore e prefatore,
ma anche come autore di ben tre sezioni del volume: una breve,
intitolata Una città teatro; una seconda, dal titolo Miseria e malavita a
Comiso, tanti anni fa, venne due anni dopo ampiamente riscritta e utilizzata
per l’introduzione di un altro volume monografico sulla città
iblea3; una terza parte, infine, intitolata Museo d’ombre e di dimensioni
più ampie, verrà a costituire «l’embrione dal quale, dopo il fortunato
romanzo, s’è potuta rapidamente sviluppare una nuova opera»4 che
porterà lo stesso titolo. Quest’ultima, inoltre, rappresenta il primo vero
capitolo di quelle che vengono denominate “sicilianerie”, opere a
metà strada tra la prosa di memoria, la narrazione fantastica e la scrittura
di tipo etnografico, per mezzo delle quali si può scoprire il legame
viscerale ed erotico simboleggiato proprio dal ‘cordone ombelicale’
(sintagma che acquista valenza significativa e corrispondenza nel
reale se pensiamo che Bufalino si “vantava” di non essere quasi mai
uscito fisicamente dalla sua provincia) – che l’autore aveva instaurato
e viveva con la sua terra. Gli altri libri di “sicilianerie” sono dunque
rappresentati da La luce e il lutto, la cui prima edizione venne pubblicata
da Sellerio nel 1988, Saline di Sicilia, sempre per Sellerio e sempre
nello stesso anno e Il fiele ibleo del 1995, una sorta di supplemento a La
luce e il lutto, edito dalla casa editrice Avagliano di Cava dei Tirreni.
L’intero iter autobiografico dello scrittore si snoda attraverso il riconoscimento
dei luoghi ai quali si appartiene e attraverso il ricono-
3 Il volume, corredato da vecchie fotografie, uscirà per Sellerio e fungerà da
esca involontaria per la stessa Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia i quali, intuendo
tra le righe la stoffa dello scrittore ancora inedito, chiederanno a Bufalino se conservi
nel cassetto il romanzo di una vita. Così Antonio Di Grado: «Quelle note a un
dimesso catalogo di vecchie foto paesane era come se racchiudessero, infatti, un
segreto; e una promessa: per me, il presentimento – come d’un dono immeritato,
insostituibile, non altrimenti dal privilegio della Grazia – della vertigine che di lì a
poco mi avrebbe colto, così come ghermì ciascuno di noi, quando rigirai tra le
mani, fresca di stampa, Diceria dell’untore». (F. Battiato, Auguri Don Gesualdo.
DVD con libro, Milano, Bompiani, 2010, pp. 16-17).
4 N. Zago, Gesualdo Bufalino. La figura e l’opera, Marina di Patti, Il Pungitopo,
1987, p. 17.
[ 2 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 183
scersi continuamente in essi dopo travagliati percorsi nei campi del
ricordo, del mito e della Natura, come schiacciato da un presente e
pirandelliano bisogno di identità che lo ha portato a costruire la sua
«tana, trappola e trono»5 nel pozzo della provincia ragusana.
Fin dai primi scritti appare alquanto chiaro il rapporto che si stabilisce
tra l’autore e la sua isola ma, ancor di più forse tra lui e proprio
quel paese natale, in una sorta di rapporto quasi carnale e indissolubile,
come di ostrica e scoglio. Nell’“Introduzione” al primo volume delle
Opere Bompiani Maria Corti così intuisce: «Come fa un innamorato
con la sua bella, Bufalino fotografa Comiso (Comiso ieri, 1978) ma la
sua amata è soprattutto una “città invisibile, fatta di persone morte
che vivono nella memoria” (intervista a Il Mattino del 28 giugno
1986)»6. Appare evidente il significato memoriale del legame, non un
rifiuto, beninteso, del presente e di tutte quelle che sono la problematiche
e le questioni che da decenni interessano e caratterizzano la Sicilia,
mutandola spesso in quel luogo comune di determinati e isolati
argomenti (mafia, disagio sociale, corruzione, meridionalità); bensì il
convivere fedelmente con la realtà della propria terra senza, tuttavia,
distaccarsi dall’infinito patrimonio storico, artistico, archeologico e
mitico: è la Sicilia che egli definisce mnemoteca.
Come già ricordato, infatti, egli denotava una certa estraneità, un
certo distacco (non, quindi, disinteresse o indifferenza) al sentore secolare
della mafia, topos che nell’immaginario comune sembra essersi
impossessato in maniera tentacolare di ogni angolo della grande isola,
preferendo al di là dell’interesse etnologico che più volte lo ha spinto
a scrivere per la sua terra, «un’idea mitopoietica della Sicilia, una sua
privata Sicilia mentale»7, distanziandosi in questo dall’amico-rivale
Sciascia, ma anche dall’altro grande contemporaneo, nonché amico,
Consolo.
Gesualdo Bufalino ha sempre cercato di discernere nel grande
magma della sua isola “plurale” due distinte idee di Sicilia: una, antica,
arcaica e mitica; l’altra, odierna, complessa e amara, votandosi
quasi completamente alla comprensione e alla rappresentazione della
prima, essendo – o meglio – sentendosi ostaggio colmo di sangue
astioso della seconda. Infatti, anche se l’aspetto più deteriore dell’isola,
quello che spesso fa dei siciliani una gente paralizzata, impo-
5 P. Gaglianone e F. Tas (a cura di), Essere o riessere, cit., p. 51.
6 M. Corti, Introduzione a G. Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di M. Corti e
F. Caputo, Milano, Bompiani, 1992, p. XXVII.
7 N. Zago, Gesualdo Bufalino, cit., p. 18.
[ 3 ]
184 nicola contegreco
tente e insoddisfatta, rimane comunque la mafia con le sue diverse
sfaccettature, Bufalino sembra restare in disparte ma esclusivamente
dal punto di vista dell’impegno strettamente politico che trova il suo
degno e maggior rappresentante probabilmente proprio nello scrittore
e intellettuale di Racalmuto. La tipologia di impegno del nostro
autore, invece, si estrinseca nel corso e nello sviluppo di ogni singolo
testo attraverso una sua ben precisa valenza morale. Egli reagisce coscienziosamente
rispolverando «le numerose e suggestive memorie
della storia, della leggenda e dell’arte, patrimonio irripetibile e affascinante
di quella Sicilia che, come lui dice, è ‘l’ombelico dell’universo’
»8.
«Però resto convinto che a guarire l’analfabetismo morale da cui
(non solo noi, non solo noi) siamo afflitti, possano un poco servire,
sebbene fatti d’aria, anche le nostalgie, e favole e i sogni. Operi dunque
ciascuno come meglio riesce; chi da coscienza critica e avvocato di
tutti; chi da testimonio privato e tragediatore di sé»9. Sono parole che
comparivano nel risvolto di copertina della prima edizione de La luce
e il lutto ed esplicitano la presa di posizione alternativa, ma allo stesso
tempo volontariamente e ugualmente engagé, dello scrittore: testimonio
privato e tragediatore di sé, piuttosto che ciarliero, brontolone e aspro
avvocato di tutti, secondo una naturale disposizione culturale e soprattutto
umana del Bufalino intimo, riservato, restio al salotto, insofferente
alla mediocritas della massa e tuttavia (attitudine probabilmente
derivatagli dalla sua principale professione di insegnante di lettere10)
incline comunque ad affrontare il problema sociale (l’analfabetismo
morale), pedagogicamente convinto che lo si possa fare pure senza
scendere in piazza, senza calarsi in prima persona nel dibattito pubblico.
Bufalino ama la Sicilia soprattutto come terra di uomini, ben
sapendo nel profondo che «quelle memorie pietrificate e amate come
la vita, in Sicilia, non sono piovute dal cielo, che è pure un atto di
8 S. Russo, I temi della Sicilia e della morte nell’opera di Gesualdo Bufalino, «Studi
Novecenteschi», anno XIX (1992), n. 43-44, p. 55.
9 G. Bufalino, La luce e il lutto, Palermo, Sellerio, 1988.
10 Alla domanda dell’intervistatore Piero Chiambretti (12 marzo 1995) «Lei
pensa che la mafia sia veramente incurabile?» Bufalino aveva, infatti, risposto:
«Senta, io credo che le forze dell’ordine, i giudici, i pentiti, eccetera, possano aiutare
a vincere molte battaglie ma non la guerra. Per vincere la guerra io ho da suggerire
una cura, a lunghissimo termine, cioè l’intervento dei maestri elementari. Io
credo che siano i maestri elementari la nostra arma segreta. Una volta, a proposito
di queste cose ho detto: la cura è una sola: libri, libri, libri!».
[ 4 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 185
sfrontata generosità della natura, ma sono nate nel tempo, di sciagura
in sciagura, sulla pelle e dall’ingegno anche dei siciliani»11.
Amore carnale per la propria terra, ma anche amore carnale per la
propria gente: la sua scrittura non dimenticherà mai cosa significa essere
o essere stati siciliani, appartenere «a quest’isola e ai suoi confini,
aperti controvoglia al mondo e a una continua migrazione di esistenze,
culture e sentimenti, che rende ciascuno di noi migrante di altre
vite»12.
Una spezzatura, una cicatrice isolata, una ferita profonda arriverà
in questo idillio feroce e delicato, allo stesso tempo, allorquando una
sorta di trapasso di collera lo spingerà a scrivere dei versi in memoria
dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vittime di due cruentissime
stragi mafiose che sconvolsero il Paese e ormai, simboli della
lotta alla criminalità connivente con la politica di Stato, eroi della patria
intera. Fu l’unica occasione in cui lo scrittore paleserà la sua posizione
da un punto di vista pubblico attaccando direttamente ed esplicitamente
la sua stessa terra ormai piegata (e piagata) all’autocommiserazione
e all’autorassegnazione. Questi versi unici verranno poi inseriti
nell’edizione venale del Guerrin Meschino, romanzo a tema cavalleresco
e fantastico in cui il puparo (che è colui che nel racconto narra
l’intera vicenda in quanto i personaggi sono, appunto, pupi) dopo aver
raccontato per un centinaio di pagine, avventure e scontri tremendi tra
paladini, saraceni e creature mostruose, improvvisamente sente il bisogno
di fermarsi: «CHIUSO PER LUTTO (23 maggio; 19 luglio 1992)»
c’è scritto, scalfito sulla pagina a titolo della poesia come fosse l’incisione
di una lapide. Le date tristemente famose ricordano quei giorni di
morte e dolore, ma soprattutto di rassegnata impotenza, atteggiamento
che Bufalino era sempre riuscito ad evitare o a mascherare:
Sicilia santa, Sicilia carogna…
Sicilia Giuda, Sicilia Cristo…
Battuta, sputata, inchiodata
palme e piedi a un muro dell’Ucciardone13
e già da questi quattro versi traspare il tono di angosciosa amarezza
11 S. Russo, I temi della Sicilia e della morte nell’opera di Gesualdo Bufalino, cit., p.
55.
12 V. Ceruso, I 100 delitti della Sicilia, Roma, Newton Compton, 2015, p. 37.
13 G. Bufalino, Il Guerrin Meschino, Milano, I Grandi Tascabili Bompiani, 1998,
p. 110.
[ 5 ]
186 nicola contegreco
nonché l’ira celata e il veleno per una regione che sembra aver perduto
anche l’ultimo spiraglio di speranza:
poveri paladini in borghese
poveri cadaveri eroi
di cui non oso pronunziare il nome14
Dopo poche pagine, altrettanto improvvisamente, il romanzo si interrompe:
«PER STANCHEZZA DELL’OPRANTE/L’OPRA FINISCE
QUI» si annuncia come il chiaro epilogo che conclude il racconto in
una sorta di inevitabile chiusura di sipario sulla crudezza e la violenza
della realtà insopportabile di quei tragici eventi. Bufalino si congeda
dal pubblico avvertendolo, inoltre, della propria morte essendo morto
ormai anche Guerrino il meschino, appeso a un chiodo come tutti gli
altri pupi, cristiani e saraceni insieme, senza né vinti né vincitori. E
quindi, di seguito, l’agnizione sempre in versi che conclude il volume:
«Che fa’, non l’avevate capito?/ Sono io, Guerrino il Meschino»15 smascherando
e riconoscendo così anche la sconfitta dell’ultimo paladino
(egli stesso forse, paladino della scrittura e attraverso la scrittura) e,
alla fine di quello che sarebbe poi risultato essere il suo terzultimo
romanzo, tutta la debolezza di un uomo ormai vecchio, provato non
solo dall’età, ma dalla vita stessa.
Altrove, in qualche modo, egli aveva voluto intravedere in «quella
variante perversa della liturgia scenica che è la mafia [anche un’] alleanza
simbolica e fraternità rituale nutrita di tenebra e nello stesso tempo
inetta a sopravvivere senza le luci del palcoscenico»16.
Ma la costituzione morale, tutto quell’apparato di elementi strutturali
che danno forza e peculiarità alla Sicilia, è da cercarsi a partire già
dalla sua stessa conformazione fisica, da una fondamentale morfologia
geografica ed etnografica, partendo cioè da quel concetto di nudità
che più di una volta è stato utilizzato da autori meridionali, soprattutto,
ma anche, in modo più generale, da coloro che hanno sempre posto
in primo piano l’importanza del paesaggio (il cui senso fisico serviva
ad indicarne uno morale), come due autorevoli voci poetiche – Sbarbaro
e Montale – in relazione ad un altrettanto espressivo ed emblematico
paesaggio come quello della costa ligure. Scrive Bufalino: «La
verità di un corpo è la sua nudità. Allo stesso modo la verità di un
14 Ivi, p. 111.
15 Ivi, p. 125.
16 G. Bufalino, La luce e il lutto in Opere, cit., p. 1142.
[ 6 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 187
luogo è la sua complessione fisica, lo scheletro, l’epidermide, la muscolatura;
tutto quello che appare, cioè, ‘naturale’ […] che non ha valore
di cosmesi o di protesi (strada, argine, porto, canale, casa, coltivazione…)
ma è roccia primitiva, gioco spontaneo di venti e acque lungo
una costa, azione di caldi e geli»17, dove è appunto chiaro che la verità
insita in quella nudità sia da cercarsi esclusivamente in ciò che rappresenta
la materia fisico-geologica del luogo. In questo caso parrebbe
allontanarsi dal discorso tutto quello che la mano dell’uomo ha prodotto
e dato alla luce nel corso dei millenni che pure nello scrittore
comisano ha un grandissimo valore. In questo caso (e lo scritto in questione
s’intitola appunto L’isola nuda) si sta discorrendo della Sicilia, se
così possiamo dire, anatomicamente, si sta attraversando il paesaggio in
maniera corporale, cercando ovunque in esso le radici di quella sacralità
ancestrale e mitica mai perduta. E abbiamo visto come egli cercasse
di vedere proprio attraverso il senso di questa sacralità anche
quell’alleanza simbolica e fraternità rituale che è la mafia, in qualche modo
connaturata con il paesaggio e radicata alla sua sostanza primitiva,
alla cultura antropologica dell’isola, soprattutto per la sua origine e il
suo arcaico significato.
Invece, per quanto riguarda i luoghi e la loro natura morfologica, è
sulla complessione fisica, lo scheletro, l’epidermide, che essi si innalzano
a creatura, entità, pulsazione, esitenza, diventando un unico, gigantesco
e sconfinato essere vivente. E in tutto ciò acquista predominanza
e corrispondenza simbolica l’enorme bocca di fuoco dell’isola,
l’Etna mitologico e spettacolare: «Nata da misteriose fucine, l’isola ne
serba tuttora le scorie, vomitandole di quando in quando, come per
sollievo del corpo, dalle fauci di Mongibello o da altre minori
fessure»18; e più avanti, quando al compito e alla funzione spurganterigenerante
dell’Etna si associa il dispositivo epilettico-assestante dei
terremoti:
È questo l’ossame dell’isola, ribollente ancora di combustioni segrete,
che non solo si spurgano attraverso il leggendario orifizio del vulcano
ma si sfogano in saltuarie epilessie di assestamento, con imparziali esiti
di rovina in ciascuno dei tre vertici della Trinacria, a Noto (1693), a
Messina (1908), nella vallata del Belice (1968)19.
Ecco quindi una Sicilia completamente spogliata, assorbita dentro
17 Id., Saldi d’autunno, Milano, Bompiani, 1990, p. 8.
18 Ivi, p. 13.
19 Ivi, p. 15.
[ 7 ]
188 nicola contegreco
quel suo essere primitivo di cui si diceva sopra, ridotta a quel sembiante
primario conferitole dagli stessi dei che forse vi abitavano, sospesa
sullo sterminato azzurro del Mediterraneo come un enorme
triangolo di roccia e di terra, di fuoco e di lava, su tre colonne precarie,
quelle stesse colonne che sono le sue radici fetali in un letto di magma
che solo il leggendario Cola Pesce riuscì probabilmente a vedere.
Si può sostenere, dunque, che in Bufalino la Sicilia è sempre e comunque
una terra viva nel senso, appunto, che essa stessa diventa
creatura vivente oltre che venerabile e misteriosa attraverso una molteplicità
di aspetti: i movimenti tellurici, il grande Etna, i magri fiumi
«dai nomi felici»20 che la solcano tutta all’interno e, infine, la tremenda
incandescenza del sole che la brucia e consuma dall’alto come succede
ad una pianta esposta a troppa luce, «di cui rimane il dubbio se sia per
noi un blasone o una piaga»21. La vita stessa nell’humus geologico
della Trinacria si annuncia sia con i grandi eventi, sia attraverso il più
piccolo e insignificante fiore che sboccia. È come se essa fosse al centro
di un fluire di energie e di elementi all’interno degli ingranaggi del
creato. Abbracciandola con una sola veduta apparirebbe come una
fantastica creatura variopinta «nel prisma intero dei suoi colori: il bruno
delle montagne, il grigio-ferro delle sciare, il ‘color del vino’ del
mare, il giallo delle sabbie, l’insolente azzurro del cielo, il verdecupo
dei castagni, il verdeargento degli ulivi, il biondo delle chiese e del
grano, il candore delle cave e delle saline, il bianco polvere delle trazzere
…»22.
Il lavoro dell’uomo, la sua storia e la sua memoria, però, saranno
fondamentali nel corso di millenni per quel che riguarda sia la componente
estetica che quella utilitaria dei luoghi in cui verranno fondate
le comunità. Interagendo così continuamente con il paesaggio, con la
terra, con la vegetazione, si viene a creare (e a perdurare) un’inscindibile
relazione che, se da un lato permette all’uomo di influenzare con
la sua presenza e il suo operato l’ambiente in cui vive, dall’altro lascia
che siano i luoghi stessi, il clima e lo scorrere delle stagioni a strutturare
e delineare il corpo e lo spirito di un siciliano:
[…] ma importerà aggiungervi l’identikit antropico del territorio, la
trama delle strade, degli spazi urbani; e la parabola dei costumi, il gesto
delle arti, la memoria collettiva e privata, la storia… In un tale con-
20 Ivi, p. 14.
21 Ivi, p. 13.
22 Ivi, p. 12.
[ 8 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 189
testo di interazione tra l’abitante e la terra, anche il minimo viottolo
diretto a una dimora colonica assume un decisivo valore: lo stesso di
un arteria irrisoria dell’iride, la quale se si rompe, travolge la vista nel
buio23.
La memoria non è soltanto insita nella terra, nella sabbia, nella roccia
o nel sale. Essa prorompe assiduamente nella realtà anche dal tufo
delle case, dal marmo delle chiese e delle statue e dalle ombre dei resti
degli imponenti templi, dall’afrore degli agrumeti, ma anche dalla
«foresta di antenne, ciminiere, tralicci, tutto un cilicio di spine confitto
nella carne dell’isola»24. E infine, anche dal sangue che troppo spesso
bagna la piazze di paesi dai nomi greci.
La moralità forte della gente che vive in quei posti è secondo Bufalino
già congenita nelle stesse radici del territorio dove essa ha trovato
dimora. Da questa supposizione lo scrittore parte per definire quel
felice concetto derivante dal neologismo isolitudine (coniato, in realtà,
dal poeta mazarese Lucio Zinna nel 198025). Il termine nasce dal gioco
di parole («sunt nomina numina», ci ricorda costantemente lo scrittore)
tra solitudine e isola: isolitudine pone l’attenzione su quel sentimento
profondamente emotivo di solitudine che è proprio di chi abita
sopra un’isola.
Può un paesaggio possedere una valenza morale? Che lo distingua da
qualunque altro, non per i semplici connotati del fisico, ma per un intrinseco,
ineffabile sentimento, che qui soffia e altrove no, che qui abita consustanziale
non meno alla polpa dei frutti che alla calce delle pareti26?
si chiede Bufalino proprio all’inizio del paragrafo intitolato “SOLITUDINE,
ISOLITUDINE”. Io credo che per spiegare questo sentimento
“consustanziale” al luogo si possa far riferimento ad un’altra cultura,
23 Ivi, p. 15.
24 Ivi, p. 13.
25 Cfr. Alla poesia do del vossia, intervista a Lucio Zinna, disponibile in rete
all’indirizzo niederngasse.it. In questa sede il poeta fa riferimento all’isolitudine
pensando alla «dimensione esistenziale, alla correlazione tra l’idea di vita nell’isola,
il sentimento di solitudine dell’isolano e il sentirsi radicalmente soli nel mondo.
Soli nell’isola. Chi ha radici in essa ne porta i contrassegni psicologici. C’è anche,
in sottofondo, la sensazione del viaggiatore di una nave, per il quale l’imbarcazione
diventa summa di ogni stabilità, al di fuori della quale si è naufraghi. L’isola è
nave, la nave è isola. All’isola si resta spesso legati, anche se lontani da essa, come
l’ostrica allo scoglio».
26 Ivi, p. 16.
[ 9 ]
190 nicola contegreco
per certi versi affine a quella siciliana, in cui succede qualcosa di analogo:
mi riferisco alla cultura portoghese e, specificamente, al sentimento
della saudade27. È l’aria stessa che abita i luoghi come una placenta,
una sostanza astratta ma allo stesso tempo materica che comincia
a scorrere nelle vene fin dal primo giorno e ci rimane fino all’ultimo.
Come per i portoghesi essere posti a vivere su una specie di enorme
terrazza di fronte alla sterminata vastità dell’Oceano nella quale
perdersi o rimpiangere le cose che il vento marino porta via con sé, a
suon di fado, si è trasformato ab origine in un sentimento man mano
sempre più forte e radicato fino a diventare differenziante; così per le
genti dell’antica Trinacria è stato il loro essere «prede ricorrenti d’ogni
razza di marinai, quindi obbligati a mescersi con cento sangui stranieri
[…] spinti a farsi isole dentro l’isola e a chiudere dall’interno la porta
della propria solitudine»28 a gonfiare le loro anime di questa strana
ombrosità malinconica. Isolitudine vuol quindi significare essere “isole
dentro l’isola”29 con un valore doppio e antitetico: «l’estroversa
ospitale socialità, talora quasi servile, per antidoto d’esser soli; e l’ombroso,
omertoso riserbo, il claustrofilo rifiuto d’ogni contatto e
colloquio»30. Questo stemma tatuato fin dentro le ossa di ogni siciliano
altro non sarebbe che il riflesso di un naturale sentimento di cui tutto
il paesaggio intorno è già imbevuto. Ecco come Bufalino da “sacerdote
delle parole” quale veniva considerato,31 descrive quest’ambivalenza:
27 Il sentimento della saudade portoghese (anche se il termine è stato divulgato
anche al di fuori del Portogallo, con un notevole successo soprattutto in certa
cultura popolare brasiliana) è intraducibile appieno nella sua densità semantica e
viene reso riduttivamente con il termine moderno ma parziale di nostalgia. In realtà
come è stato osservato (cfr Introduzione a ‘Poeti portoghesi’ in Poesia europea del
Novecento 1900-1945 a cura di P. Gelli, prefazione di G. Raboni, Milano, Skira,
1996) la si può forse meglio riconoscere nel “disio” dantesco, sentimento insieme
retrospettivo e prospettivo, punto di partenza e d’approdo, che carica la nostalgia
del passato di un ineffabile desiderio di futuro.
Agli inizi dello scorso secolo si ebbe anche un movimento estetico e filosofico
che trasformava questo sentimento in visione del mondo e chiave d’interpretazione
etnica, il Saudosismo, guidato dal letterato Teixeira de Pascoes. A tale movimento
partecipò e collaboro anche Fernando Pessoa; emblematico è il verso del suo
eteronimo Alvaro de Campos nell’Ode marittima: «Ah, ogni molo è una Saudade di
pietra!».
28 G. Bufalino, Saldi d’autunno, cit., p. 16.
29 Il concetto era già stato espresso da Pirandello e messo a punto da Leonardo
Sciascia. Cfr. G. Cusimano, Scritture di paesaggio, Bologna, Patron, 2003.
30 G. Bufalino, Saldi d’autunno, cit., p. 25.
31 Cfr. R. Minore, Addio Bufalino, sacerdote della scrittura, «Il Messaggero» del
15 giugno 1996.
[ 10 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 191
Retaggio o contagio che sia, ogni nostra finestra si apre su un aspetto
che è insieme esuberante e restio su un’opulenza che non cessa un
istante d’essere un’avarizia. Così vedi una vigna esaltarsi in grappoli
gonfi e saccheggiarla le vampe iperboliche del solstizio; ma accanto,
un greto secco dolorosamente si ulcera, e sulle sponde gli strisciano
bisce, ulivi Crist’in croce si torcono, sitibondi non fosse che d’una goccia
di fiele. Cosi ad un cuore ambiguo un luogo ambiguo risponde:
quali cuciono nei visi le labbra, tale si serra e s’acceca la sorgiva delle
montagne32.
L’ossimoro, «più che figura retorica e ornamento stilistico, vera e
propria forma mentis»33, fragranza strumentale di tutta la scrittura ed
il pensiero bufaliniano risulta fondamentale componente dell’essere
della terra e degli uomini siciliani:
Ogni siciliano è di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale:
cosi come tutta l’isola è una mischia di luce e di lutto […] Sempre in
bilico tra mito e sofisma, tra calcolo e demenza; sempre pronta a ribaltarsi
nel suo contrario, allo stesso modo di un’immagine che si rifletta
rovesciata nell’ironia di uno specchio34.
La contraddizione e il paradosso, anzi, sono presenti nella dimensione
esistenziale dell’uomo fin dalla nascita, come si scrive nelle prime
pagine dell’autobiografico Calende greche a proposito della «percezione
del parto che il nascituro può avere, nella voglia che istintivamente
prova di rompere il limite della placenta, dapprima nutrimento
poi ostacolo»35.
Così il siciliano possiede pure un «sentimento pungente della vita
e della morte, del sole e della tenebra che vi si annida»36 e in questo
32 G. Bufalino, Saldi d’autunno, cit., p. 25.
33 S. Lazzarin, Gesualdo Bufalino: questioni editoriali ed interpretative, «Italianistica
», anno XXIV (1995), n. 1, p. 196.
34 G. Bufalino, La luce e il lutto, in Id., Opere, cit., p. 1141. Interessante, a tal
proposito, anche la lettura di Ella Imbalzano nel suo volume monografico:«L’isola,
come l’esistenza, cela un’allusione all’osmosi vita-morte nella bivalenza di “cenere”
e “oro” […] E, non diversamente dall’esistenza, “foresta immortale”, l’isola
perpetua una spettacolare e prodigiosa epifania in un ciclo fra “cosmo” e “caos”,
poli esemplari della segreta dinamica dell’uomo (dinamica che già in Pirandello
slancia la regionalità verso universali significazioni) e in una scherma fra la luce in
vitalistico trionfo e il buio in agguato». (E. Imbalzano, Di cenere e d’oro Gesualdo
Bufalino, Milano, Bompiani, 2008, pp. 322-323).
35 E. Siciliano, L’isola. Scritti sulla letteratura siciliana, Lecce, Manni, 2003, p. 189.
36 G. Bufalino, La luce e il lutto, in Id., Opere, cit., p. 1146.
[ 11 ]
192 nicola contegreco
suo essere contraddittorio e ossimorico egli ha sviluppato, da sempre,
un altro forte sentimento che è quello che Bufalino chiama (in una lista
di quattordici punti che definiscono il “vero” siciliano e nella quale
compariva anche il precedente sentimento) “del teatro, spirito mistificatorio”.
Questa particolare attitudine alla mistificazione e alla teatralità si
affianca, quindi, all’altra predominante di “insularità”, meglio detta
“isolitudine”, cioè quella predisposizione all’autosegregazione che diventa
pudore, diffidenza e orgoglio di essere diversi. È Salvatore Russo
che nel suo studio sui temi della Sicilia e della morte nell’opera di
Gesualdo Bufalino si sofferma su questo particolare “sentimento del
teatro”:
Di quelle processioni di Pasqua, come a Comiso, in sfide tumultuose
tra le confraternite, i devoti, i sostenitori di due chiese contermini in
Sicilia, c’è una vastissima tradizione popolare; e non era solo a Pasqua
che si scatenava questa singolare, contagiosa teatralità. Negli anni
Trenta, prima che la guerra arrivasse a cancellare anche queste innocentissime
rappresentazioni, in Sicilia, d’estate, ogni domenica si festeggiava
un santo patrono, perché nei paesi di santi patroni ce n’erano
tanti, uno per ogni chiesa. All’ombra dei santi, cosi, proliferavano le
emulazioni e anche le rivalità, perché ogni contrada, naturalmente,
cercava di superare le altre, in sfarzosi e variopinti addobbi, in giochi,
in esibizioni di incerta origine religiosa, in quantità di botti nei fuochi
artificiali37.
Quindi anche in questo caso siamo in presenza di qualcosa che riguarda
una componente emotiva e sentimentale inspiegabilmente insita
nell’intimo, una sorta di religiosità (teatrale) congenita, che respira
ancora a fatica nella conservazione della tradizione. E, per quanto
riguarda proprio Comiso, questo luogo universale e imprescindibile
come un utero materno, inclusa ne La luce e il lutto, Bufalino le dedica
proprio una sezione specifica intitolata non a caso “Comiso città-teatro”
da cui si riporta il seguente pezzo:
Mentre a Comiso appartiene un destino di leggenda e di opra di pupi,
qui non c’è un marciapiedi dove non venga voglia di farsi prestare una
sedia e sedersi a guardare. Poiché Comiso è una città-teatro, un carro
di Tespi ambulante arenatosi, come una paranza di Donnalucata, sul
primo dosso asciutto che s’è trovato davanti. Questo spiega l’aria di
37 S. Russo, I temi della Sicilia e della morte nell’opera di Gesualdo Bufalino, cit., p.
61.
[ 12 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 193
volubile invenzione e improvvisazione scenica che si sente circolare
dovunque38.
Questa sarebbe Comiso, un teatro ambulante che s’è arenato sul
“primo dosso asciutto”. E l’identificazione pura tra la città e il palcoscenico
che essa contiene non poteva non fare in modo che gli stessi
abitanti, i tanto cari compaesani dello scrittore, fossero, in ogni momento,
sorpresi nei loro comportamenti come “personaggi”:
Qui infatti ogni persona tende senza sforzo a diventare personaggio;
ogni gesto si accalora e s’illumina d’enfatico fuoco. Recita il venditore
al1’aperto quando decanta la propria merce e provoca con improperi e
strambotti il cliente; recita il bevitore impegnato a un tavolo d’osteria
nell’antico gioco del “tocco”, dove beve solo chi vince, chi alterna meglio
la parata e l’affondo nella prevista scherma di motti, promesse,
ipotesi, scherni, declamazioni39.
Ora, questa teatralità e questa mistificazione dell’esistenza in gesti
atavici (non estranei a un vago sentore d’eternità) come il gioco del
“tocco” tra bevitori accaniti, le processioni di santi e madonne nere
cadenzate da festosi e tremendi fuochi d’artificio o l’urlo dell’ambulante
sono, in qualche modo, materia etnologica di tutto quanto il Meridione.
Prova ne è tanta letteratura meridionalista che, soprattutto da
Verga in poi, ha teso l’accento, a volte in maniera spropositata e mistificante,
sul fatto che il Sud e la sua gente, fossero indelebilmente legati
alla propria memoria, una memoria per certi versi stagnante e ridondante,
senza evitare che ciò comportasse anche un cosiddetto ritardo
nel procedimento civilizzante di progresso e sviluppo inerente
allo Stato nella sua interezza. Ma questa e un’altra questione da trattare
in tutt’altro contesto.
In Bufalino, invece, questo senso di teatralità sembra essere accuratamente
incardinato ad un grave e greve pirandellismo che sottende
non solo alla sua opera, come abbiamo visto, ma sembra germogliare
dal temperamento atrabiliare e saturnino della sua stessa persona. È
Salvatore Russo che ripercorre ancora, in senso temporale, attraverso
la narrativa dello scrittore di Comiso, il tracciato di questa tematica.
Egli si sofferma sul primo romanzo, Diceria dell’untore, in cui il teatro
viene escogitato e sperimentato addirittura all’interno della Rocca, il
sanatorio per morituri tisici, dai malati stessi. Poi passa al secondo,
38 G. Bufalino, La luce e il lutto, in Id., Opere, cit., pp. 1246-1247.
39 Ibidem.
[ 13 ]
194 nicola contegreco
Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, «ove si consideri che il libro ha
per protagonisti Gesualdo Bufalino e il suo ‘risvolto’, che si avvicendano
nella parte, ora di attore, ora di spettatore sull’ineffabile e irripetibile
palcoscenico della vita»40, lo sdoppiamento in due maschere, la
giovane e la vecchia, dell’io narrante.
Con acerbo umore nelle vene, un giovane Bufalino, abbigliato con la
divisa olivastra dell’esercito del Regno e ostaggio di una grave malattia
ai polmoni, si aggirava sperduto tra l’Emilia e il Friuli, negli anni ’44 e
’45. Sarà questa una delle poche volte in cui il claustrofilo Gesualdo si
troverà (coattamente) distante così tanto dalla sua amata Sicilia, e forse
proprio in quei mesi verranno scritti i versi di un sonetto dal titolo “Parole
da lontano”, poi inserito nella più importante raccolta di versi pubblicata
in vita, dal titolo quanto mai ossimorico, L’amaro miele41:
Il forte sonaglio, l’astuta chitarra
non fanno che strepitarmi dentro la testa:
isola mia, ridammi le tue feste
pompose e intrepide come una sciarra;
sbarrami in viso le streghe pupille
la luna in collera, la luna dolce;
al primo fermo colpo di selce
rompimi il cuore che già vacilla.
Io tornerò per sempre sulle tue strade,
ai pozzi tuoi murati dall’agave e dal cardo,
alle tue dissennate serenate.
Ritrovare mia madre seduta sulla porta,
si cingerà la fronte con la cupa coccarda,
griderà tutta la notte la mia morte42.
Non c’è pace nella testa: dentro la baraonda dissennata dei ricordi
tutto risuona da lontano e, come nei versi della prima strofa, la rimembranza
è affidata al potere evocativo della musica. Il nodo alla gola è
stretto quasi quanto uno scorsoio e il cordone ombelicale sembra essersi
rotto. La radice estrema di questo legame di sangue è comunque
la madre, colei che, nell’immobilità di un’icona bizantina, attende impassibile
il ritorno del figlio.
40 S. Russo, I temi della Sicilia e della morte nell’opera di Gesualdo Bufalino, cit., p. 63.
41 U na seconda raccolta, questa volta di poesie giovanili verrà edita da Il Girasole,
Catania, 1995, col titolo I languori e le furie.
42 G. Bufalino, L’amaro miele, in Id., Opere, cit., p. 737.
[ 14 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 195
Questo ritorno è un ritorno circolare, alla vita primigenia, pronta in
qualsiasi momento a rigenerarsi, non appena l’humus e la terra le ridaranno
la possibilità, quella terra così sacra a un siciliano che il non
essere seppelliti sotto di essa equivarrebbe a disonore, a “mala morte”
come essi sogliono pronunciare. Quella terra è «’roba’, possesso indivisibile
ed eterno del defunto»43. E così latu sensu non solo la terra, ma
anche l’aria, l’acqua, tutto i1 paesaggio insomma diventa spirito che si
lascia attraversare dal corpo del ricordo e che, nello stesso tempo, lo
attraversa.
Il ritorno diventa “luogo”, luogo assoluto dell’essere nuovamente,
del ritornare ad essere nella sostanza primitiva, unica e vera. E questo
si verificherà ancor di più dopo un lungo soggiorno in posti che nulla
hanno in comune con il proprio. Così in una pagina del suo capolavoro
Conversazione in Sicilia, Elio Vittorini descrive il contatto (che ha
quasi tutto di materiale e niente di spirituale) tra il personaggio che
dice io e un pezzo di pane e formaggio della sua terra: «Avevo comprato
a Villa San Giovanni qualcosa da mangiare, pane e formaggio, e
mangiavo sul ponte, pane, aria cruda, formaggio, con gusto e appetito
perché riconoscevo antichi sapori delle mie montagne, e persino odori,
mandrie di capre, fumo di assenzio, in quel formaggio»44. Tutto l’Essere
sembra manifestarsi improvvisamente in quel morso, come fosse un
morso alla vita ridestata dopo un lungo periodo d’ibernazione.
A quei luoghi è stato consegnato per sempre il tempo dell’infanzia,
come congelato o chiuso a chiave dentro uno scrigno e quindi intoccabile.
È forse questa la causa prima che li rende inevitabilmente mitici,
lontani, incanalati nel corso di un tempo che non è quello reale ma
quello della fantasia, del sogno e, quindi, del ricordo.
E non solo. Qui (nei luoghi del Sud) il tempo presente sembra distillarsi
in una durata prolungata, cristallizzarsi in ampi spazi vuoti in
cui l’esistere, lo svolgersi normale delle quotidiane azioni umane avviene
nel congegno temporale che fa succedere gli eventi altrove. Qui
il “ritardo storico” è come se non permettesse al tempo di scorrere con
la stessa velocità di quei posti dove l’industrializzazione e il sopravvento
della tecnologia sono arrivati a stravolgere anche il più comune
comportamento umano. Qui tutto succede in modo naturalmente rallentato,
quasi in accordo con una sacralità degli elementi del paesag-
43 Id., La luce e il lutto, in Id., Opere, cit., p. 1151.
44 E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, introduzione e note di G. Falaschi, disegni
di R. Guttuso, Milano, BUR, 1995, p. 139.
[ 15 ]
196 nicola contegreco
gio e dell’incedere solenne del rapporto con la terra, sotto quel sole
che somiglia molto all’esplosione perenne di un grande occhio divino.
E proprio sotto questa sorta d’incantesimo che la Storia compie il
corso “rallentato” nei luoghi del Sud, in quelle piazze piccole e spesso
silenziose, dove uomini assonnati dalla calura riposano all’ombra della
controra, in quei vicoli strettissimi attraversati da cani randagi che
sopravvivono come spettri reali e vecchie donne vestite di nero smascherano
un sorriso maliardo – eppure atavico – dietro la rezza del loro
uscio45. Tutto questo non rappresenta la descrizione di una scena di un
film neorealista. Sembra impossibile ma ancora oggi nel Sud ci s’imbatte
in questo e non solo nei piccoli paesi, ma anche nei quartieri
vecchi (spesso i più degradati, purtroppo) delle grandi città.
Lo sviluppo economico e sociale, seppure c’è stato, non ha cambiato
il meccanismo antico grazie al quale il tempo scorre laggiù (quaggiù).
E per questa idea di “tempo” mi riferisco ancora ai grandi autori
meridionali che ne hanno parlato nelle loro opere come Verga (pensiamo
al “tempo” dei Malavoglia), Pirandello (soprattutto in alcune Novelle
per un anno) o Vitaliano Brancati, anch’egli siciliano, sul quale, a
proposito di quanto stiamo argomentando, Giulio Ferroni scrive: «A
Natàca la vita si svolge in un tempo rallentato, nel succedersi di anni
che si perdono nel nulla: il romanzo dà una prima diretta ed estrema
misurazione del particolare tempo brancatiano, tutto scandito […] in
un quadrante circolare, rotatorio come sono tutti i quadranti degli orologi,
ma chiuso, privo di aperture sul mondo e sul divenire»46.
Ecco quindi, ritornando alla Sicilia di Bufalino, il tempo “mitico”
che spesso si ritrova nelle descrizioni dei luoghi delle sue sicilianerie:
un tempo perduto, se vogliamo, quasi scisso dal suo stesso corso, anomalo.
Esso esiste come ripetizione a carattere eterno, nella quale poi è
possibile l’instaurarsi della memoria, punto di partenza e di approdo
di tutto il discorso bufaliniano. La sua Sicilia è soprattutto, come si
accennava all’inizio, una mnemoteca, un luogo che conserva ricordi e
li custodisce come per farne uso, un luogo fuori dal tempo (nel senso
di tempo “storico” appunto) una terra di antiche pratiche magiche
nonché teatro di gesti eterni, un luogo della memoria insomma, da cui
egli non riuscirà mai a distaccarsi, quasi per una specie di sortilegio
atavico.
45 Cfr F. Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud
Italia, Milano, Mondadori, 2011.
46 G. Ferroni, Introduzione a V. Brancati, Gli anni perduti, Milano, Bompiani,
1993, p. X.
[ 16 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 197
Così affiora il suo museo d’ombre (nell’opera omonima): ombre di
mestieri, ombre di luoghi, ombre di facce e addirittura ombre di “antiche
locuzioni illustrate”, tutto un territorio di entità che ora può mostrarsi
soltanto attraverso il prisma del ricordo. Ecco allora ’U MUSICANTI,
il suonatore di serenate le cui «melodie turbarono nell’ombra
delle alcove la vergine come la sposa, così la savia come la folle»47, o
’U LAMPIUNARU, il lampionaio che «copiava palesemente i gesti di
un qualche barbuto Padreterno o stregone [quando] all’imbrunire, appoggiata
la scala a un fanale, si accingeva a sprigionarvi dentro, mediante
un semplice zolfanello, i solenni miracoli della luce»48; ecco la
sigaretta Tre Stelle «col suo olezzo di carnosa gardenia, aristocratico e
barbaro, insolente e voluttuoso»49 o la presenza di EMANUELA DELLE
MEZZENOTTI la cui «ombra nera, tutta spigoli, ingigantita dalla
luna avrebbe messo paura anche ai ladri qualora fosse apparsa
sull’uscio»50. E tra le “Facce lontane”, titolo di una sezione dell’opera,
non poteva mancare, ultima tra tutte le figure, quella di BIAGIO B.,
dove la B. sta per Bufalino, il padre dell’autore, egli stesso autore di
alcuni versi (che Gesualdo asserisce di aver ritrovato in seguito alla
morte del genitore) sul senso della vita e della morte lasciati al figlio e
che lì si riportano:
Guardandomi stamani allo specchio
mi son sentito dire che son vecchio:
rughe profonde solcano il viso;
le labbra pendole, senza sorriso;
bocca povera, capello bianco,
il passo tremolo e stanco.
Giovinezza per legge di natura
passa veloce e poco dura.
Non spero più nessuna cosa,
né color verde né quel di rosa.
In vita mia ho riso e pianto,
non ho rimorso non ho rimpianto.
Figlio caro, seguo la sorte
E aspetto con fiducia la mia morte.
Tra gli antichi modi di dire siciliani ecco, quindi, il più denso e
adiacente, forse, alla natura della gente di Sicilia e che recita: “CHI TI
47 G. Bufalino, Museo d’ombre, in Id., Opere, cit., p. 164.
48 Ivi, p. 160.
49 Ivi, p. 206.
50 Ivi, p. 218.
[ 17 ]
198 nicola contegreco
FA MALI?” “’A VITA MI FA MALI”, domanda e risposta facilmente
traducibili il cui senso è esplicato dall’autore nel testo che segue, tratto
ancora da Museo d’ombre:
Vi e l’inganno del cielo: una vigna che s’e sudato un anno a tirare su, e
ha i grappoli tondi e tosti come le mammelle di Donna Amalia, ecco
viene la gelata secca e se la mangia via. V’è il tradimento del sangue: i
figliuoli dirazzano, lui fra bettola e casino, lei alla finestra col muso
pittato. E non dicono più voscenza se uno li sgrida cominciano a canticchiare
zuzuzù zuzuzù. Vi sono le posteme della miseria: da non poter
comprare né gambali per le notti d’addiaccio, né la pipata di tabacco
dopo il pranzo di pane e cipolle; da non potere sperare mai una mezza
giornata di quiete, di pulizia, con gli amici al tavolo del caffè, mentre
suonano il Rigoletto. Vi è l’inimicizia del tempo: ogni mattina ha la sua
pena, i reumi, la prostata. E le vampate al viso, un dolore (sarà un reuma
anche questo) qui a sommo del petto, suppergiù dove c’è il cuore.
Allora quando bussa il dottore Cabibbo e domanda dietro la porta:
“Chi ti fa mali?”, “’A vita, mi fa mali”, si risponde51.
A conclusione di questo percorso non poteva che esserci Comiso, il
nucleo umido e vitale da cui tutto è partito, il paese in cui Bufalino era
nato il 15 novembre del 1920 e in cui ha trascorso quasi interamente la
sua vita e tutto ciò che è descritto in Museo d’ombre è appunto il suo
universo (interiore) che riempì gli anni della sua giovinezza. Scrive
ancora ne La luce e il lutto:
Non soltanto ci sono nato, ma dei ventitremila giorni e passa che ho
vissuto finora, ne avrò trascorso in questo luogo almeno ventunmila:
abbastanza per poter vantare nei suoi confronti gli stessi rapporti di
confidenza e complicità che si hanno con gli amici di gioventù, e per
saperne riconoscere da lontano gli umori e i malumori, le voci e gli
odori, non altrimenti che se si trattasse di una persona52.
Comiso finisce per essere veramente legata come da un rapporto
carnale: «il centro della nostra piazza è il cuore spalancato della rosa
dei venti, l’ombelico e il polo solitario dell’universo»53. Poi, quando
con un certo rimpianto, quasi avvertendo un senso d’estraneità nel
suo presente da settantenne e riconoscendo, al contrario, un senso di
familiarità solo all’ombra del ricordo, allora può scrivere: «[…] Tanto
ho creduto facile poter accordare, all’interno di me, la musica famosa
51 Ivi, p. 158.
52 G. Bufalino, La luce e il lutto, in Id., Opere, cit., p. 1251.
53 Ivi, p. 1256.
[ 18 ]
isolitudine: la sicilia di gesualdo bufalino 199
e un poco paurosa dell’universo con quella di uno zampillo di fontana,
dentro un carcere di mattoni, al centro di una piccola piazza
mediterranea»54.
Per Bufalino è forse l’universo stesso racchiuso nella piazzetta di
un piccolo paesino dell’estremo sud siciliano? Forse. Ma il sole che
brucia sul basolato di quello spazio circoscritto, quel sole al di sotto
del 38° parallelo «autentico occhio di dio, incastonato nell’azzurro con
l’energia di una pietra»55, che permette la morte ma che ridà anche la
vita, è un «sole che non si è mai accorto di niente, non di invasioni,
grandini, mafie, alleva solo imparzialmente vespe su questa cesta di
fichi e mosche su quell’ucciso, sotto un ulivo sciancato»56. E forse in
queste secche e poche righe può circoscriversi il senso esatto, la cifra
fisica ed emotiva della Sicilia di Bufalino, di quest’isola immersa nella
memoria del suo mito ma anche unta di sangue mafioso, isola ossimorica,
terra mentale e privata.
Nicola Contagreco
Dipartimento onnicomprensivo Lesina – Foggia
54 G. Bufalino, Museo d’ombre, in Id., Opere, cit., p. 151.
55 Id., Saldi d’autunno, cit., p. 23.
56 Id., Argo il cieco, in Id., Opere, cit., p. 379.
[ 19 ]

Roberto Salsano, Pirandello, Firenze,
Franco Cesati Editore, 2016, pp.
130.
Il classico volto enigmatico di Pirandello,
al quale una sorta di fumettizzazione
o declinazione pop dai
colori più caldi intristisce e quasi inasprisce
i tratti, campeggia sulla copertina
del testo di Roberto Salsano,
offrendo già al lettore le coordinate
attraverso cui il manuale intende
esplorare l’intero universo pirandelliano,
muovendosi entro i poli della
tradizione e della modernità.
Il libro indaga la vita e le opere di
Pirandello comprimendole in otto
agevoli e tascabili sezioni – quasi
“Pillole”, per restare fedeli al titolo
della collana a cui il testo appartiene
– pensate soprattutto per l’uso pratico
degli studenti. Si parte, come
d’obbligo, dalla biografia del siciliano,
nella quale si mettono in evidenza
anche quegli episodi che agli occhi
di lettori un po’ acerbi potrebbero
apparire non primari, ma che sono
stati fondamentali per il processo di
sviluppo creativo e poetico di Pirandello.
I passi successivi sono riservati alla
produzione poetica, ai romanzi,
alla novellistica e al teatro. I capitoli
sono strutturati in modo tale da mantenere
la separazione tematica e tessere,
al contempo, relazioni tra le varie
opere e i vari generi, con una sezione
cospicua dedicata al teatro, la
quale segue l’intera parabola della
creazione pirandelliana, dagli esordi
fino all’interesse dell’autore per il
mito.
Dopo un capitolo destinato alla
fondamentale analisi dell’umorismo,
la settima sezione raccoglie gli spunti
disseminati nel testo, proponendosi
di esaminare l’opera del siciliano
seguendo adesso le linee tematiche,
quegli agglomerati tipicamente pirandelliani
che possono essere considerati
veri e propri segni distintivi
dell’autore.
Ponendosi come punto di partenza
per chi voglia approcciarsi allo studio
del siciliano, l’ultima sezione del
testo fornisce gli strumenti adatti a
tutti coloro che intendano approfondire
gli studi, riportando i principali
lavori critici inerenti la vita e le opere
di Pirandello.
Il testo, come si diceva, convoglia
modernità e tradizione, da un lato
fornendo una base schietta e agile di
conoscenza, dall’altro proponendo
una giusta bibliografia che offre agli
studenti e a tutti coloro che si ap-
Recensioni
202 recensioni
procciano per la prima volta alla figura
del siciliano i mezzi necessari
per procedere oltre.
Fara Autiero
Ignazio Silone, Il seme sotto la neve,
edizione critica a cura di Alessandro
La Monica, Firenze, Le Monnier
Università, 2015, pp. XXVII-758.
La ricerca filologica ha assunto negli
ultimi decenni un ruolo primario
nell’ambito degli studi sull’opera di
Ignazio Silone. I continui interventi
dello scrittore di Pescina, che è tornato
sull’architettura dei romanzi come
sui loro personaggi, sui contenuti come
sugli elementi formali e stilistici,
hanno prodotto ristampe ricche di
varianti dei singoli testi, il cui confronto
e studio ha costituito e costituisce
tutt’ora un banco di prova per la
filologia d’autore. Tanta esigenza di
ritornare sui propri scritti, smussarne
le asprezze o acuminarne gli spigoli
polemici, è del resto motivata
dalle condizioni storiche entro le
quali gli stessi presero forma: rifugiatosi
in Svizzera in quanto antifascista
dichiarato, Silone poté pubblicare
solo all’estero i suoi romanzi
dedicati al mondo contadino e alla
critica del regime di Mussolini, messo
alla berlina nelle sue atrocità e miserie.
Di questa ricerca spasmodica
offre un quadro eloquente il ‘Meridiano’
curato da Bruno Falcetto dei
Romanzi e racconti (Mondadori, 1998),
che vengono pubblicati seguendo
l’ordine della prima stampa di pubblicazione,
ma mettendo a testo l’ultima
volontà dell’autore.
In questa rete intricata di riscritture
e modifiche, non stupisce che la
critica abbia riservato una particolare
attenzione a Il seme sotto la neve,
pubblicato per la prima volta in Italia
dopo la fine del regime, nel 1945, e
giunto al suo stadio testuale definitivo
solo nel 1961. Per anni il romanzo
ha cercato una forma definita. Emblematico
è, in tal senso, un dato
macro-variantistico quale il costante
aumento del numero di capitoli, che
dai nove della princeps svizzera
(Oprecht, 1942) finiscono col diventare
26 nell’edizione Mondadori del
1961. Ben oltre le ristampe, però, Il
seme solleva ulteriori problemi genetici
a causa dell’esistenza di carte
d’autore, oltre che di lettere della
censura militare svizzera dedicate al
‘caso Silone’. Le ricerche su questi
materiali erano state aperte nel 1990
da Vincenza Tudini, che per prima
aveva presentato una redazione allora
«sconosciuta» del romanzo e un
quadro complessivo delle strategie
dei censori. Da allora, altri filologi si
sono provati nella ricerca di avantesti
siloniani, e nel 2000 Raffaella Castagnola
Rossini e Maria Nicolai
Paynter poterono dare notizia di un
dattiloscritto del Seme sotto la neve
conservato presso la Zentralbibliothek
di Zurigo e databile tra il 1939 e
il 1941. Nuovi contributi sono venuti
poi in anni recenti da Alessandro La
Monica, che oltre ad aver analizzato
il dattiloscritto zurighese ha potuto
studiare anche una redazione manoscritta
del Seme databile tra 1937 e
1941.
L’edizione critica di Il seme sotto la
neve prodotta da La Monica mette a
testo la versione del romanzo trasmessa
dal dattiloscritto della Zentralbibliothek
di Zurigo, opportunamente
confrontato con il manoscritto
coevo in caso di lezioni poco chiare.
recensioni 203
L’evoluzione del testo è restituita
nelle due fasce d’apparato che compongono
l’edizione. La prima fascia
dà conto degli interventi interni al
dattiloscritto, talvolta così ampi da
occupare interi cartigli poi incollati a
margine; la seconda è riservata invece
alle modifiche successivamente
apportate al Seme. Rispettando un
condivisibile approccio conservativo,
il filologo evita di mettere a testo
gli adeguamenti grafici attestati nelle
edizioni successive. Usi linguistici
oggi considerati desueti o persino errati
sono infatti ricorrenti nel primo
Novecento, configurandosi come legittime
alternative della scrittura: il
«caso più eclatante» (p. 746) è il
«qual’è» con apostrofo, ritenuto ormai
un orrore ortografico, ma riscontrabile
anche nella prosa di Federigo
Tozzi o Elsa Morante.
Da un punto di vista della trama, il
‘nuovo’ Seme sotto la neve non presenta
grosse novità. La storia di Pietro
Spina, il ribelle già protagonista di
Vino e pane, e dei compagni di strada
come Simone la faina e Infante, è la
stessa che ha trovato accoglienza in
tutte le edizioni dell’opera. Tuttavia,
il dattiloscritto presenta diversi brani
di carattere politico, soppressi nelle
revisioni successive, che non sovvertono
il racconto delle vicende di Pietro
ma che consegnano alla comunità
dei lettori un romanzo più spregiudicato
rispetto alle sue versioni posteriori.
Le innovazioni si spiegano tenendo
conto della tormentata storia
editoriale del Seme, ripercorsa nei
suoi momenti salienti nella ricca Introduzione
al volume. Consultando
tanto le lettere di Silone ad amici e
colleghi quanto la corrispondenza
interna al circuito dei censori, La Monica
descrive il braccio di ferro tra la
Censura militare elvetica, intenzionata
a non pubblicare nulla che potesse
turbare le relazioni di ‘buon vicinato’
del Paese più neutrale d’Europa,
e lo scrittore, poco propenso a
trasformare le sue parole in «expressions
stérilisés» (p. XIX). Dei 55 luoghi
testuali segnalati dal capo della
Sezione Libri dell’Esercito Herbert
Lang nella lettera dell’11 aprile 1942,
quindici rimasero inalterati, mentre
altri vennero cassati o modificati in
modo da eludere le disposizioni censorie
e allo stesso tempo mostrare al
pubblico dei lettori l’azione delle forze
repressive. Va riconosciuto l’acume
critico dell’Ufficio di Lang, che
individua i germi di un pensiero sovversivo
anche nei passi in cui non si
fa riferimento diretto al fascismo.
Altri interventi considerevoli vengono
invece presi in autonomia
dall’autore. Obiettivo del Silone revisore
di se stesso è alleggerire la sua
scrittura, eliminando passaggi avvertiti
come estemporanei o inadatti
alla nuova situazione politica e sociale
del dopoguerra; in questo senso,
l’edizione La Monica fornisce materiali
preziosi per eventuali indagini
su processi di ripensamento e autocensura.
A titolo di esempio, si segnala
la scomparsa, a partire dall’edizione
1945, di un notevole passo
del primo capitolo in cui Bastiano
afferma che «malgrado tutti i cambiamenti
di governo, la politica del
nostro paese è stata sempre, e probabilmente
continuerà ad essere, l’appannaggio
degli oratori; e che cosa
possono fare gli oratori, siamo sinceri,
se non delle chiacchiere?» (p. 21).
Si farebbe un torto al curatore, però,
se non si spendesse qualche parola
sui meriti più schiettamente critici
offerti dalla presente edizione. La
204 recensioni
Monica propone una definizione
piuttosto convincente del Seme, definendolo
«un romanzo-saggio o, meglio,
un saggio sotto forma di dialogo
morale a più voci, in cui ciascun personaggio
veste i panni di portavoce
ideologico» (p. IX) e inserendolo in
una linea dialogica che parte addirittura
col Secretum di Francesco Petrarca.
Non meno importante è l’agile ma
utile Commento nel quale il critico
giustifica le forme grammaticali desuete,
individuandone la persistenza
nelle produzioni coeve o di poco antecedenti,
e propone chiarimenti sul
lessico siloniano, discutendo le possibili
origini di espressioni come ‘grippe’
(forse «un francesismo», p. 708) o
il significato di termini inusuali come
‘gabbadeo’. Sono poi numerose le informazioni
sui riferimenti intertestuali:
si scopre che nella filigrana del
Seme compaiono di continuo le Sacre
Scritture, ma anche la tradizione letteraria
con Virgilio, Metastasio o Leopardi,
e la cultura popolare con i tanti
proverbi disseminati nei nove capitoli
del dattiloscritto.
L’ottimo lavoro curato da La Monica
offre insomma tutti gli strumenti
utili per approcciarsi con rinnovato
interesse a Il seme sotto la neve, romanzo
che pur non mutando nei
suoi lineamenti essenziali può essere
ora apprezzato nella sua prima, combattiva
stesura, e osservato nel suo
processo evolutivo. Direi che il presente
volume confermi quanto la filologia
d’autore sappia presentare i
testi della nostra contemporaneità
nei loro concreti rapporti con la politica
e la società, fornendo non pochi
materiali di riflessione sul rapporto
tra censura e letterati.
Giuseppe Andrea Liberti
Ugo Piscopo, Giovinezza in coturno. Il
teatro i giovani lo Stato fra le due guerre,
con un’Appendice da «IX maggio»,
premessa di Rino Caputo, Avellino,
Edizioni Sinestesie, 2016, pp. 352.
Rare volte capita che il titolo di un
testo esprima a pieno tutto il concetto
che l’autore ha riversato nelle pagine
di esso, tuttavia Giovinezza in
coturno di Ugo Piscopo si pone come
una di quelle felici eccezioni che in
pochissime parole riescono a comunicare
compiutamente il nocciolo
della questione. Obiettivo dello studio
è quello di esaminare il teatro –
soprattutto da un punto di vista critico,
di circolazione delle idee – del
periodo fascista, un teatro fatto sì di
e da giovani, ma soprattutto un teatro
di valore, che fino ad oggi è stato
poco apprezzato in quanto né opportunamente
scandagliato, né tuttavia
completamente glissato dagli studiosi,
bensì affrontato tenendo sempre
attiva la spia che esso, in quanto forma
d’arte nata durante un periodo in
cui non era possibile una libera circolazione
di idee, fosse in realtà un teatro
se non propriamente sterile, almeno
non libero, un’equazione o
semplificazione sapientemente decostruita
dall’autore.
Il complesso rapporto tra drammaturgia
e fascismo si giocò su alcuni
punti fondamentali. Da un lato lo
svilupparsi della massificazione che
portò con sé l’inevitabile livellamento
del pubblico: la popolazione “colse
l’occasione” di diventare massa;
tutti, da un certo punto di vista, divennero
uguali. Dinanzi a questo
nuovo scenario, però, si aprì il problema
della creazione di un nuovo
teatro, innovativo sia da un punto di
vista contenutistico che architettonirecensioni
205
co. Altro punto nevralgico nella storia
del teatro fra le due guerre fu l’esaltazione
da parte del fascismo e
soprattutto da parte di Mussolini del
concetto di giovinezza e della forza
vitale ad esso collegata. Il nuovo teatro,
dunque, fu quello dei giovani. È
innegabile che durante gli anni Trenta
i rapporti tra Stato e cultura si fecero
più stretti. Il regime si configurò
come sponsor dell’arte drammatica,
offrì risorse, scovò giovani talenti.
Tuttavia il teatro nazionale non si
chiuse in sé stesso, ma si aprì alle
produzioni di altri paesi allo scopo
non solo di dimostrare d’essere
all’altezza di qualsiasi tipo di concorrenza,
ma anche per guadagnarne in
spessore.
Punto fondamentale del processo
di svecchiamento della nuova arte
drammatica fu il Convegno Volta tenutosi
a Roma nel 1943. Molte le voci
che espressero il loro parere in
quell’occasione; su tutte, naturalmente,
spiccava quella di Luigi Pirandello,
sostenitore convintissimo
dell’utilità – quasi sacralità – del teatro
e dell’esigenza di una sua difesa
da parte dello Stato. Ma ancora, Filippo
Tommaso Marinetti, persuaso
che il futurismo fosse l’unica via percorribile
per uno svecchiamento delle
scene e Massimo Bontempelli, certo
che il rilancio della drammaturgia
dovesse passare attraverso una fuoriuscita
dal suo corso tradizionale e
un’esplorazione di nuovi terreni.
La sensazione che si ha leggendo i
testi critici posti in appendice ai vari
capitoli è che di certo quello di quegli
anni non fu un teatro passivo, ma
animato da giovani che per loro natura
furono portati a nuove ricerche,
proposte, polemiche. Lo stesso Mussolini
aveva invitato gli artisti a fare
arte, slegati da qualunque vincolo
encomiastico, pensando solo al gusto
della novità e al senso di responsabilità
che l’arte porta con sé.
Il volume termina con un’interessante
antologia di brani tratti dalla
rivista «IX maggio», organo di opinione
del Guf napoletano e dell’Università
Federico II. I brani riportati –
tra i quali compare sovente la firma
di Giorgio Napolitano – riguardano
dibattiti sul nuovo teatro, aprono
una strada inedita all’analisi della
cultura napoletana del periodo fascista,
dimostrando ancora una volta
che lo studio sull’arte di questo periodo
è stato forse portato avanti con
più pregiudizi che fonti concrete,
senza andare oltre il grande ostacolo
rappresentato dalla formula ideologica.
Fara Autiero
Fabio Pierangeli, È finita l’età della
pietà. Pasolini, Calvino, S. Nievo e i
“mostri” del Circeo, Avellino, Sinestesie,
2015, pp. 176.
L’omologazione e la massa, la televisione
e il riconoscimento dello stereotipo,
l’annullamento delle differenze
linguistiche nella colpa della
scuola elementare obbligatoria e la
violenza dell’educazione, la più becera
violenza, quella ritratta con le
pennellate piene e cupe del genocidio
fino all’ingordigia di consumo,
all’impietramento che offusca di
spietatezza gli occhi senza più innocenza
dei giovani.
I giovani: il vero tarlo luterano oltre
il resoconto di sé, il corpo nudo
della contemporaneità con cui costringersi
a dialogare in un monolo206
recensioni
go vertiginoso, logorroico. Eppure,
mai privo di speranza.
Fabio Pierangeli in “È finita l’età
della pietà” restituisce organicamente
ogni aspetto della ferocia con cui Pier
Paolo Pasolini urla alle ragioni sotterranee
della morte della pietà che hanno
portato ai tragici fatti di sangue
del Circeo; e lo fa attraverso il resoconto
analitico del dialogo privato e
pubblico che ha coinvolto lo scrittore
corsaro unitamente a Calvino, Moravia
e all’amica Dacia Maraini cui affida
probabilmente l’ultima visionaria
dichiarazione: “La falsa permissività in
seno ad una falsa democrazia è ancora
peggiore della repressione banale”.
Pierangeli costruisce con passione
il volume evidenziando all’interno
dell’intero corpus pasoliniano il tema
della perdita del valore ontologico
della differenza, in rovina dinnanzi
al logoramento costante e iperattivo
del consumismo. Inoltre, con lo
stesso approccio tanto rigoroso
quanto minuzioso, procede dentro la
letteratura organica di Calvino e in
quella utopista di Stanislao Nievo
impegnandosi in una rilettura del romanzo
Aurora nel segno contrapposto
della realtà e del mito, della Circe
belluina e della Mater Matuta caritatevole,
nel segno indelebile della
morte, già puntino nero nella bianchissima
luce della nascita vittima
dell’edonè.
Mario Visone
Giampaolo Borghello, Come nasce
un best seller. Gli editori, il mercato, le
strategie, il successo di Piero Chiara,
Udine, Forum, 2016, pp. 184.
Come nasce un best seller? Quali
sono gli ingranaggi che stanno alla
base di un successo letterario? Perché
un libro incontra il favore del
pubblico? Queste le domande alle
quali Giampaolo Borghello ha cercato
di rispondere nel suo nuovo volume,
effettuando una ricerca a tutto
tondo nel campo della letteratura di
consumo, partendo dalle basi teoriche,
per giungere infine all’esame di
un vero e proprio “caso editoriale”.
Il testo è suddiviso in tre sezioni
fondamentali le quali guidano il lettore
nella ricerca dei fattori utili alla
comprensione della nascita di un
best seller.
Il primo capitolo è tutto concentrato
sull’aspetto terminologico che
ruota intorno al concetto di letteratura
di massa, letteratura di consumo,
Trivialliteratur e paraletteratura. Tutti
i termini vengono contestualizzati e
chiariti, filtrati attraverso la lente dei
grandi studiosi che si sono occupati
dell’argomento, come Giuseppe Petronio,
Vittorio Spinazzola, Ulrich
Schulz-Buschhaus. Il tratteggio della
bibliografia critica di un fenomeno
assai complesso come quello della
letteratura di consumo si configura
come passo indispensabile per la
preparazione all’interpretazione di
tale fenomeno.
Il secondo capitolo fa luce sulla situazione
italiana della seconda metà
del Novecento, riflettendo sulla polemica
sorta dalla pubblicazione, nel
1979, del saggio Il mercante delle lettere
di Gian Carlo Ferretti, una storia
dell’editoria italiana dagli anni Cinquanta
alla fine degli anni Settanta
che porta l’autore all’idea conclusiva
del mercato editoriale italiano visto
come un meccanismo totalizzante. In
risposta allo studio di Ferretti la rivista
«Il Ponte» invitò critici e scrittori
recensioni 207
ad affrontare un questionario sul
saggio; le risposte si concentrarono
sulla provocazione sostanziale dello
studio, ossia sull’industria editoriale
totalizzante, cercando di trovare soluzioni
al problema. In un successivo
saggio-pamphlet, Il best seller all’italiana,
Ferretti esaminò il romanzo italiano
tra la fine degli anni Settanta e
il 1985, sottolineando come il mutamento
dell’industria editoriale fosse
accompagnato da quello della tipologia
di scrittore e dalla qualità del
pubblico.
Nel terzo capitolo Borghello si dedica
ad un caso concreto, esaminando
la produzione e la fortuna di Piero
Chiara, visto come uno dei più
proficui autori italiani di best seller.
Interessante la registrazione della reazione
di Chiara alle idee di Ferretti
sulla letteratura di consumo, reazione
nella quale lo scrittore luinese si
pronuncia contro l’idea del libro e
dell’autore visti come strutture precostruite,
spiegando il suo successo
attraverso un sincero ancoraggio alla
realtà.
Fara Autiero
LIBRI RICEVUTI
Amicorum munera. Studi in onore di A. V. Nazzaro, a cura di G. Luongo,
Napoli, Satura editrice, 2016, pp. XXI-754.
Carteggio Verga-Giacosa. Introduzione e note di O. Palmiero, Catania,
Fondazione Verga – Leonforte (En), Euno Edizioni, 2016, pp. 258.
Chiariglione Marco, Lucifero “vispistrello”. Manifestazioni diaboliche
dell’Inferno dantesco, Napoli, Liguori, 2016, pp. 354.
Chiodo Domenico, Donna me prega: la Caporetto dell’Italianistica,
Manziana, Vecchiarelli, 2016, pp. 156.
Chiodo Domenico, Per non segnate vie, Manziana, Vecchiarelli, 2016,
pp. 152.
Contini Gianfranco, Lettere a un «continista», a cura di Carlo De
Matteis, L’Aquila, Portofranco editore, 2016, pp. XVI-44.
Di Marco Giampiero, In mezzo al guado. Pasquale De Luca (1865-1929),
Napoli, Paolo Loffredo – Iniziative editoriali, 2016 , pp. 214.
Dino Claudio , Incontri nella nebbia, Torino, Genesi, 2016, pp. 160.
«Forum Italicum», vol. 50, agosto 2016. Special issue: Lucania within
us. Carlo Levi e Rocco Scotellaro. Guest Editors: Giulia Dell’Aquila,
Sebastiano Martelli, Franco Vitelli, pp. 1054.
La Campania e Il Grand Tour. Immagini, luoghi e racconti di viaggio tra
Settecento e Ottocento, a cura di Rosanna Cioffi, Sebastiano Martelli,
Imma Cecere, Giulio Brevetti, Roma, «L’ERMA» di Bretschnneider,
2015, pp. 528.
Narrarsi per ritrovarsi. Pratiche autobiografiche nelle esperienze di migrazione,
esilio, deportazione. A cura di Peter Kuon e Enrica Rigamonti.
In collaborazione con Monica Bandella e Daniela Baehr, Firenze,
Franco Cesati, 2016, pp. 256.
Spera Lucinda, «Un gran debito di mente e di cuore». Il carteggio inedito
tra Alba de Céspedes e Libero de Libero (1944-1977), Milano FrancoAngeli,
2016 , pp. 164.