Anno XLIV (2016), Fasc. IV, N. 173

Anno XLIV (2016), Fasc. IV, N. 173

  1. Saggi
    • Eugenia Fosalba

      Tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del De Poeta di Minturno. A proposito della sua
      possibile influenza su Garcilaso de la Vega
      – pp. 627-650

      Sulla reciproca conoscenza tra Garcilaso de la Vega e Antonio Minturno non
      sussistono dubbi. Il presente contributo muove dall’obiettivo di verificare se
      tale conoscenza possa estendersi, oltre all’attività poetica dell’umanista di Traetto,
      anche alla teoria poetica esposta nel De poeta. Vengono così riesaminate
      tutte le testimonianze che concorrono a determinare la composizione del trattato
      minturniano, che, pur pubblicato nel 1559, si rivela già elaborato nel periodo
      1525-1533 e perciò possa essere considerato tra le letture possibili di Garcilaso
      durante la sua permanenza a Napoli (1532-36).

      There can be no doubt that Garcilaso de la Vega and Antonio Minturno knew
      each other. This contribution aims to find out whether this mutual knowledge
      can be extended, beyond the poetry of the humanist from Traetto, to include the
      poetic theory expounded in De poeta. It evaluates all the evidence concerning
      the composition of Minturno’s treatise that, although published in 1559, proves
      to have been written in the period 1525-1533 and therefore may be considered
      amongst Garcilaso’s possible reading material during his time in Naples (1532-
      36).
      In un saggio pubblicato poco più di un lustro fa, avevo già indagato
      alcune chiavi teoriche delle egloghe del toledano1. Vari decenni prima,
      E. L. Rivers aveva acutamente individuato il filo di una riflessione
      metapoetica oltre i veli che coprivano la voce del poeta nel ricamo di
      Nise, che gli sembravano un’anticipazione della sintesi teorica di Sca-
      Universitat de Girona; eugeniafosalba@gmail.com
      1 Cfr E. Fosalba, Implicaciones teóricas del alegrorismo autobiográfico en la Egloga
      III de

    • Pasquale Tuscano

      Allegoria e satira nelle metafore del Parnaso e del Mecenate del poeta perugino Cesare Caporali
      (1531-1601)
      – pp. 651-668

      Cesare Caporali (1531-1601) occupa un posto di rilievo tra i poeti mecenati del
      nostro secondo ‘500. Inaugura originalmente quella che sarebbe stata la poesia
      bernesca, volgendola verso la dissoluzione dell’eroico, con la conseguente caricatura
      dell’orgoglio umanistico. Con il Viaggio di Parnaso(1582) e la Vita di Mecenate
      (1591), rimane l’inventore di una ‘formula’ di satira, alla quale, tra gli altri,
      s’ispirarono, nelle loro relative opere, Traiano Boccalini e Miguel de Cervantes.

      Cesare Caporali (1531-1601) occupies a prominent position among the poetpatrons
      to have emerged from late Sixteenth-century Italy. He inaugurates
      originally that which would become Bernesque poetry, adapting it towards the
      dissolution of the heroic element with the consequent caricature of humanist
      pride. With the Viaggio di Parnaso (1582) and the Vita di Mecenate (1591) he invents
      a satirical “formula” that inspired, amongst others, Traiano Boccalini and
      Miguel de Cervantes.

    • Ambra Carta

      L’Umanesimo civile e cristiano di Giuseppe Antonio Borgese – pp. 669-684

      Il saggio offre una riflessione sulla prospettiva simbolico-religiosa che anima
      l’intera attività letteraria e diplomatico-politica di Borgese, dagli anni prebellici
      fino alla morte. Gli scritti di natura saggistica, le riflessioni critiche in rivista,
      infine, il primo suo romanzo, Rubè (1921), mostrano quanto radicata fosse nello
      scrittore l’esigenza di un rinnovamento morale attraverso l’edificazione di una
      nuova cultura, di un mondo nuovo. L’impegno politico-culturale profuso negli
      anni del secondo dopoguerra costituisce l’epilogo di una ininterrotta ricerca di
      utopia nel segno di un umanesimo civile e cristiano.

      This essay looks at at the symbolic-religious perspective that animates the entire
      literary and diplomatic-political activity of Borgese, from the pre-war years
      until his death. His essays, his critical reflections in journals and his first novel,
      Rubè (1921), show the degree of importance the author attached to a moral renewal
      by means of the construction of a new culture, of a new world. His political
      engagement after the Second World War forms the epilogue to a long
      search for utopia marked by a civil and Christian humanism.

    • MIMMO CANGIANO

      Gozzano (o del Modernismo apparente) – pp. 685-706

      L’articolo si propone di mostrare come la poetica di Gozzano possa aiutarci a
      chiarificare i termini della penetrazione in Italia delle grandi tematiche moderniste
      che, negli stessi anni, stanno diventando egemoniche nel resto d’Europa.
      Si spiega però poi come tali tematiche appaiano in Gozzano a significare una
      prospettiva radicalmente differente rispetto a quella degli autori modernisti
      tout court.

      The article points out how Guido Gozzano’s poetic clarifies the presence in Italy
      of the major modernist topics that, in the same years, were becoming hegemonic
      in the rest of Europe. Yet, the article then specifies how these very topics
      indicate in Gozzano’s work a perspective radically different respect to modernist
      writers tout court.

    • Francesco Giusti

      Tra il «bruco defunto» e la «farfalla apparitura».Gozzano e la crisalide del Modernismo – pp.
      707-732

      La poesia di Gozzano non è pienamente ascrivibile al Modernismo né completamente
      al di qua di esso. Resta intenzionalmente in quello stato intermedio che
      più tardi il poeta ritroverà nello stadio della crisalide descritto nelle Farfalle. Da
      questa posizione Gozzano sviluppa una consapevolezza critica dell’ironia racchiusa
      nella storia che impedisce ogni fiducia nell’autenticità umana e conduce
      l’io lirico a considerarsi un personaggio creato dalle circostanze socio-culturali
      in cui si opera.

      Gozzano’s poetry is neither fully ascribable to Modernism nor completely behind
      it. It intentionally lingers in an intermediate state that will later be reflected
      by the chrysalis stage described in Le Farfalle. From this position, Gozzano
      develops a critical awareness of the irony embedded in history that impedes
      any candid trust in human authenticity, and leads the speaker to consider himself
      as a character created by the socio-cultural circumstances in which he has
      to exist.

    • Stefano Lazzarin

      Tracce del fantastico nel Padrone (1965) di Goffredo Parise – pp. 733-762

      Il saggio indaga sulle presenze del fantastico nell’opera di Goffredo Parise, con
      particolare riferimento a un romanzo che si inscrive nell’orizzonte della letteratura
      industriale: Il padrone (1965). Atmosfere kafkiane, spettralizzazione del reale,
      animalizzazione e metamorfosi, procedure del grottesco, temi del deforme
      e del mostruoso, problematica dell’animazione dell’inanimato e della vita e
      dell’intelligenza artificiale: i segnali della ‘fantasticizzazione’ del testo di Parise
      sono molteplici, e altrettanto numerose le piste che conducono al perturbante di
      matrice fantascientifica.

      This essay investigates the presence of the fantastic in Goffredo Parise’s writing,
      especially in a novel that relates to industrial literature: Il padrone (1965).
      Kafkaesque atmospheres, spectralisation of reality, animalisation and metamorphosis,
      grotesque procedures, themes of the deform and monstrous, problems
      of the animation of the inanimate and of artificial life and intelligence: the
      signs of the “fantasticisation” in Parise’s text are manifold; equally numerous
      are the roads that lead to that perturbing quality deriving from the fantastic.

  2. Meridionalia
    • LUCA TORRE

      Un “rattoppo” tipografico alla princeps dei Sonetti et canzoni di Sannazaro – pp. 763-770

      Una ricognizione sugli esemplari superstiti della princeps dei Sonetti et canzoni
      di Sannazaro (1530) ha consentito di mettere in luce un piccolo incidente tipografico,
      una svista compositiva rilevata in un luogo “forte” del testo (il titolo
      che precede i componimenti della «prima parte» nella silloge). A partire dal rilevamento
      di tale errore, corretto ingegnosamente in tipografia con un semplice
      ed efficace espediente, è possibile svolgere qualche ulteriore considerazione
      circa i primi anni di attività nel Viceregno dello stampatore alsaziano e aggiungere
      una breve riflessione all’ampiamente dibattuta quaestio dell’assetto della
      raccolta sannazariana.

      An examination of the remaining copies of the first edition of the Sonetti et canzoni
      by Sannazaro (1530) reveals a small printing accident, a typesetting error
      found in an important position in the text (the title that precedes the poems in
      the “prima parte” of the collection). Following the observation of this error, ingeniously
      amended in the print house by means of a simple but effective expedient,
      it is possible to offer several further thoughts concerning the early years
      of activity in the Viceroyalty of the Alsatian printer and add a short reflection
      on the widely discussed topic of the structure of Sannazaro’s collection.

  3. Contributi
    • Paolo Senna

      Alvaro, Moravia, Montale: tre interviste sulla repubblica (maggio 1946) – pp. 771-786

      Nel maggio 1946, nel pieno del dibattito politico sulle elezioni del 2 giugno, il
      quotidiano «l’Unità» pubblicò tre brevi interviste ad altrettanti celebri scrittori:
      Corrado Alvaro (5 maggio), Alberto Moravia (15 maggio) e Eugenio Montale
      (29 maggio). I testi, che non risultano essere stati successivamente ripresi nelle
      edizioni delle opere degli autori e che vengono ripubblicati in questa nota, rappresentano
      l’interessante contributo di questi intellettuali alla discussione intorno
      alla forma istituzionale dello stato che sarebbe stata scelta con il referendum
      e ne documentano il pensiero politico nell’imminenza di quell’importante
      appuntamento storico.

      In May 1946, in the thick of the political debate regarding the election of 2 June,
      the daily “L’Unità” published three short interviews with just as many wellknown
      writers: Corrado Alvaro (5 May), Alberto Moravia (15 May) and Eugenio
      Montale (29 May). The texts, that do not seem to have been later included in
      the editions of the authors’ writings and that are here republished, represent an
      interesting contribution of these intellectuals to the discussion surrounding the
      institutional form of the state due to be selected by the referendum, documenting
      their political thinking immediately before that important historical date.

    • IRENE CHIRICO

      Figure finite e infinite storie: i tarocchi tra immagine e racconto in Calvino – pp. 787-808

      Dai tarocchi di Marsiglia ai tarocchi del mazzo visconteo Calvino sviluppò il
      rapporto tra figura e scrittura, tra immagine e testo. Si trattò di una complicata
      esperienza letteraria alla scoperta di quella “macchina narrativa combinatoria”
      che non gli riuscì mai di definire organicamente, nonostante il provvisorio approdo
      ai due scritti Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati.
      Su questo complesso rapporto tra l’arte dello scrivere e quella dell’esprimersi
      per immagini si avvia qui una riflessione, anche con riferimento all’uso rinascimentale
      delle figure dei tarocchi come gioco di abilità verbale e di identità sociale.

      From the Marseilles tarots to the Visconti deck of tarots Calvino developed the
      relationship between figure and writing, between image and text. His was a
      complicated literary experience intent on discovering that “combinatorial narrative
      machine” that he never managed to define organically, despite the provisional
      milestones offered by Il castello dei destini incrociati and La taverna dei destini
      incrociati. This essay investigates the complex relationship between the art
      of writing and that of expressing oneself through images, referring furthermore
      to the Renaissance usage of tarot figures as a game of skill and social identity.

  4. Recensioni
    • Guido Laurenti

      Domenicani e la letteratura, a cura di P. Baioni, Introduzione di C. Delcorno, Biblioteca della
      «Rivista di letteratura
      italiana», 24, Pisa-Roma 2016
      – pp. 80-814

    • Fara Autiero

      Andrea Battistini, La retorica della salvezza. Studi danteschi, Bologna 2016 – pp. 814-816

    • John Butcher

      Matteo Soranzo, Poetry and identity in Quattrocento Naples, Farnham / Burlington 2014 – pp.
      816-820

    • Giuseppe Andrea Liberti

      Daniela De Liso, Da Masaniello a Eleonora Pimentel. Napoli tra storia e letteratura, Napoli 2016
      – pp. 820-822

    • Guido Baldi

      Matteo Sarni, L’enigma dell’altro. La «Bibbia» nei «Promessi Sposi», Alessandria 2016 – pp.
      822-826

    • Carmine Chiodo

      Giuseppe Antonio Camerino, Primo Novecento. Con analisi specifiche su Pascoli, d’Annunzio, Saba e
      Montale, Avellino
      2015
      – pp. 826-829

    • Fabio Pierangeli

      Alberto Comparini, Iride. L’Alcesti di Montale, nuova edizione aggiornata, Borgomanero (Novara)
      2014
      – pp. 829-832

    • Raffaella Marchese

      Rosanna Pozzi, Nove poeti per Mario Luzi, prefazione di Stefano Verdino, Roma 2015 – pp. 832-833

    • Fara Autiero

      Le carte e i discepoli. Studi in onore di Claudio Griggio, a cura di F. di Brazzà, I. Caliaro, R.
      Norbedo, R. Rabboni,
      M. Venier, Udine 2016
      – pp. 833-836

saggi

Eugenia Fosalba
Tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533)
del De Poeta di Minturno. A proposito della
sua possibile influenza su Garcilaso de la Vega
Per Tobia Toscano, amico napoletano di Garcilaso
Sulla reciproca conoscenza tra Garcilaso de la Vega e Antonio Minturno non
sussistono dubbi. Il presente contributo muove dall’obiettivo di verificare se
tale conoscenza possa estendersi, oltre all’attività poetica dell’umanista di Traetto,
anche alla teoria poetica esposta nel De poeta. Vengono così riesaminate
tutte le testimonianze che concorrono a determinare la composizione del trattato
minturniano, che, pur pubblicato nel 1559, si rivela già elaborato nel periodo
1525-1533 e perciò possa essere considerato tra le letture possibili di Garcilaso
durante la sua permanenza a Napoli (1532-36).

There can be no doubt that Garcilaso de la Vega and Antonio Minturno knew
each other. This contribution aims to find out whether this mutual knowledge
can be extended, beyond the poetry of the humanist from Traetto, to include the
poetic theory expounded in De poeta. It evaluates all the evidence concerning
the composition of Minturno’s treatise that, although published in 1559, proves
to have been written in the period 1525-1533 and therefore may be considered
amongst Garcilaso’s possible reading material during his time in Naples (1532-
36).
In un saggio pubblicato poco più di un lustro fa, avevo già indagato
alcune chiavi teoriche delle egloghe del toledano1. Vari decenni prima,
E. L. Rivers aveva acutamente individuato il filo di una riflessione
metapoetica oltre i veli che coprivano la voce del poeta nel ricamo di
Nise, che gli sembravano un’anticipazione della sintesi teorica di Sca-
Universitat de Girona; eugeniafosalba@gmail.com
1 Cfr E. Fosalba, Implicaciones teóricas del alegrorismo autobiográfico en la Egloga
III de Garcilaso. Estancia en Nápoles, «Studia Aurea», III (2009), pp. 39-104. Il presente
articolo si inscrive nel Proyecto de Investigación FFI2015-65093-P («Garcilaso de
la Vega en Italia. Estancia en Nápoles») finanziato dal Ministerio de Economía y
Competitividad de España.
Saggi
628 eugenia fosalba
ligero, del tutto ignota a Garcilaso, per ovvi motivi cronologici2. Al
contrario, con Minturno, autore del De poeta, che sarebbe stato tuttavia
pubblicato dopo la metà del secolo e solo due anni prima dell’apparizione
dei Poetices libri septem (1561), Garcilaso ebbe documentabili
rapporti. Le tracce della più che possibile impronta teorica del futuro
vescovo di Crotone divennero evidenti in vari punti non poco rilevanti:
nulla poté impedire che quell’influsso avesse luogo, quanto meno
attraverso un dialogo orale, o la lettura di una versione manoscritta
dell’opera, forse un abbozzo, peraltro inscrivibile in una cornice narrativa
molto prossima, di poco precedente al soggiorno di Garcilaso a
Napoli. Il sonetto 24 (Illustre honor del nombre de Cardona), in lode di
Maria di Cardona, offre la prova documentale della relazione di amicizia
tra Minturno e Garcilaso. Quando poté avere inizio la conoscenza
tra i due giovani poeti? Il problema era che dalle lettere di Minturno
si deduceva chiaramente che nel periodo in cui Garcilaso visse a
Napoli, l’umanista di Traetto risiedette stabilmente in Sicilia, tra Messina
e Palermo, sotto la protezione e al servizio dell’allora viceré dell’isola
Ettore Pignatelli.
Il sonetto 24 evidenzia non solo che il Nostro conosceva le composizioni
poetiche di Minturno dedicate alla marchesana, ma anche quelle
del Tansillo e del colto Tasso, i quali venivano citati, insieme al primo,
come se rappresentassero un gruppo di laudatores intorno a donna
Maria. Poté mai aver luogo un incontro di detti poeti, tutti insieme?
Da Palermo, nell’estate del 1534, Minturno aveva scritto alcune lunghe
epistole alla marchesa, dove lamentava, con afflato quasi amoroso,
la mancata risposta a una sua missiva con la quale le annunciava
l’invio di un sonetto che aveva composto in suo onore in agosto, a
Monreale, quando lei, a quanto pare, lasciò la città. Le fece arrivare il
sonetto tramite un amico, Giacomo Guarino, che viveva a Napoli, come
egli stesso spiegava in un’altra lettera angosciata per la mancanza
di risposte. Qui trapelava una certa gelosia nei confronti di un altro
poeta, il cui nome Minturno non voleva menzionare, molto esplicita
nella lettera scritta il 26 dicembre del 15343. Minturno temeva che tale
2 Cfr E. L. Rivers, La paradoja pastoril del arte natural, in La poesía de Garcilaso:
ensayos críticos, a cura di E.L. Rivers, Barcelona, Ariel, 1981, pp. 287-308.
3 Minturno scrive alla dama che ha già raccolto una piccola antologia di poesie,
tra le quali appaiono anche i sonetti a lei dedicati: «Hor pur al fine, scritto il
libro, il mando a vostra S., nel quale sono tutti i sonetti, che dati e che mandati
haverle mi rimembri. Così ragunati, fanno quasi un giusto liberetto. Tra’ quali anchora
leggerà quelli ch’i’ feci l’Agosto passato in Monreale alludendo al proprio
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tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 629
poeta l’avesse in qualche modo scalzato, offrendo alla dama, insieme
al suo, un sonetto scritto di suo pugno, ugualmente diretto a lei, e
consegnato senza permesso; e poteva esser stata questa – congetturava
Minturno – la causa della mancata risposta da parte della marchesa
(«Benché con salvo poeta senza saperne io nulla, il sonetto di Monreale
con uno suo del medesimo soggetto le habbia di qui mandato»).
Ed è proprio il Tansillo che, effettivamente, scrisse un sonetto dedicato
alla dama, con il quale la invitava a lasciare la Sicilia, forse geloso di
ciò che la tratteneva lì.4 Questo scambio di poesie, implicitamente, ci
dà notizia del soggiorno della marchesa in Sicilia, che terminò nell’agosto
del 1534.
In una miscellanea della Biblioteca Nazionale di Napoli (B. Branc.
057E 2(2), insieme a un esemplare dell’edizione dei Varia poemata et
satyrae di Giano Anisio (Napoli, Sultzbach, 1531), seguíti dal De vate
maximo di Scipione Capece (Napoli, Sultzbach, 1533) sono rilegati due
opuscoli: il primo, intitolato Ludovici Pariseti regensis de Victoria apud
coronas peloponnesi urbem navali expeditione contra Turcas habita anno a
Christo nato 15335, allude alla spedizione contro il Turco nel Peloponnome
di lei et al nome de l’honorata e illustre sua gente; e sperando d’havergliele
a mandar tosto con questo libretto, in fin’a qui gli ho meco tenuti, benché con salvo
poeta, senza saperne io nulla, il sonetto di Monreale con uno suo del medesimo
soggetto le habbia di qui mandato […]» (Lettere di Meser Antonio Minturno, Vinegia,
Girolamo Scoto, 1549, c. 175v). I testi delle lettere sono riprodotti con indispensabili
interventi sulla interpunzione, eliminando gli accenti superflui e operando la
distinzione u/v.
4 Il sonetto 233 di Tansillo, che aveva scritto molte poesie in lode della dama,
forse avendo trascorso con lei alcune ore quell’estate stessa, o consapevole del
fatto che gli altri tre poeti potevano godere della sua compagnia, registra l’ansiosa
attesa del ritorno di lei a Napoli; è pertanto possibile che all’origine di quella rivalità
ci possa essere proprio Tansillo con la sua impazienza: «Mentr’in sul mar che
lieto ondeggia intorno / tu fai, spargendo a l’aura i bei crin d’oro, / splender Pachino,
Lilibeo e Peloro, / sí che ne fanno ai monti d’India scorno; // i dolci colli
ove solean far giorno / i tuoi begli occhi un tempo, il gran tesoro / piangono
oscuri, e l’alte cime loro / chinan pregando l’alto tuo soggiorno: // – Vien, Cardona
gentil, vien, nov’ aurora / (gridan): vedrai, se piú da noi ti celi, / Etna tutta
fiorir, arder noi tutti. // Lascia quei campi ov’il terren divora / le belle, e vien nei
nostri, dove i cieli / serban di sí bei fior celesti frutti. –» (Rime, introduzione e testo
a cura di T. R. Toscano, commento di E. Milburn e R. Pestarino, t. II, Roma,
Bulzoni Editore, 2011, p. 678). Sul rapporto con Maria Cardona cfr A. Greco, Maria
Cardona, marchesa de la Padula e Antonio Minturno, «Critica Letteraria» 23 (1995), pp.
49-61.
5 A questa spedizione contro il Turco partecipò il marchese Alfonso d’Avalos,
e fu con non poca allegria che il Minturno accolse la notizia che sarebbe passato da
[ 3 ]
630 eugenia fosalba
neso, che fallì definitivamente nel luglio 1534, quando varie navi imperiali
fecero ritorno in Sicilia e altre a Napoli: fu forse questo il momento
in cui i tre poeti-soldato (Garcilaso, Tasso e forse più fugacemente
Tansillo6), prima di tornare a Napoli sbarcarono sull’isola e approfittarono
di quella tappa per discorrere con Minturno e cantare le
lodi di Maria Cardona? Curiosamente, nella stessa miscellanea, dopo
i versi dedicati alla spedizione greca, ma con gli stessi carattere e formato,
con qualche probabilità, pertanto, riconducibile allo stesso autore
(Ludovico Parisetti, 1503-1570), figura una lunga poesia encomiastica
dedicata a Maria di Cardona: Ad D. Mariam Cardoniam Padulanorum
in Lucania Marchionem De eius ex Sicilia in Italiam adventu, che, come
indica il titolo, fu composta per solennizzare il ritorno della dama
a Napoli. In quest’ultimo componimento si scopre inoltre che in compagnia
di Maria di Cardona viaggiava la principessa di Salerno Isabella
Villamarino, sua zia, che aveva solo tre anni più di lei. Non c’è da
stupirsi, le due erano molto unite. All’epoca, inoltre, Bernardo Tasso
era al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino.
Sembra che nell’estate del 1534 buona parte dei personaggi implicati
nel sonetto 24 – forse, in un dato momento, anche tutti insieme – si
trovassero in Sicilia, e difatti pare che fu quella una delle occasioni in
cui i poeti ne cantarono la lode, o durante il soggiorno stesso, oppure
dopo, accarezzandone il ricordo da Napoli.
Illustre honor del nombre de Cardona,
décima moradora de Parnaso,
a Tansillo, a Minturno, al culto Tasso
sujeto noble de inmortal corona,
si en medio del camino no abandona
la fuerza y el espírtu a vuestro Laso,
por vos me llevará mi fatigado paso
a la cumbre difícil d’Elicona.
Podré llevar entonces sin trabajo,
con dulce son qu’el curso al agua enfrena,
por un camino hasta agora enjuto,
Messina, come esprimeva nella sua missiva a Mario Viscanto (Messina, 21 novembre
1533): «Maraviglioso piacer m’apportò poi quella novella che ’l signor Marchese
del Guasto con le Galee del Prencipe d’Oria venir dovesse in Messina per passare
in Grecia, a seguire la cominciata impresa» (Lettere di Meser Antonio Minturno,
cit., c. 66v).
6 Tobia R. Toscano, che ringrazio sentitamente per la revisione di questo articolo
e i suoi puntuali suggerimenti, annota qui che non è possibile determinare
con certezza se Tansillo facesse parte della corte del viceré già nel 1534.
[ 4 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 631
el patrio, celebrado y rico Tajo,
que del valor de su luciente arena
a vuestro nombre pague el gran tributo7.
Naturalmente Garcilaso e Minturno poterono incontrarsi anche
più tardi, quando il vittorioso corteggio imperiale sostò, di ritorno da
Tunisi, a Monteleone, nel palazzo dei Pignatelli, dove continuava a
risiedere Minturno, pur essendo ormai morto il viceré Ettore. Ma si
tratterebbe di un soggiorno alquanto fugace e senza dubbio poco intimo
per giustificare l’influsso teorico che, a quanto pare, l’umanista di
Traetto esercitò su Garcilaso. Analizziamo adesso quali altri dati possiamo
esibire per corroborare la vecchia intuizione di una influenza
della poetica di Minturno su Garcilaso.
Tanto per cominciare, e non è questione di poca rilevanza, il De
poeta è dedicato a Ettore Pignatelli: il nome del dedicatario appare nel
titolo stesso dell’opera. E non solo: l’invocazione al dedicatario è la
formula con cui si apre ognuno dei sei capitoli, moltiplicandosi poi le
menzioni nello sviluppo delle varie argomentazioni. Pur se Ettore Pignatelli
morì nel 1535, nell’opera non si trova alcun riferimento a tale
luttuoso avvenimento. Solo la dedica a Ruscelli è attualizzata e risponde,
come spiega Minturno stesso, al desiderio dell’amico che finalmente
l’opera venga offerta al pubblico. Soffermiamoci un momento
su questa lettera introduttiva, scritta a Napoli il 1° settembre
1558, alla vigilia della pubblicazione dell’opera.
Minturno menziona Vincenzo Riccio, uomo di grande autorevolezza,
alto magistrato, membro dei decemviri del senato di Venezia, la
cui famiglia, da quanto abbiamo potuto verificare, era nobile, originaria
di Piacenza: uomo colto, di eccellente educazione e grandi inquietudini,
fu mecenate di varie edizioni di opere letterarie contemporanee;
aveva grande familiarità con la retorica ciceroniana e possedeva
un antichissimo manoscritto con il commento delle epistole familiari
di cui si servì il suo amico Paolo Manuzio per l’edizione veneziana del
1556. Un uomo di stato, di grande levatura morale, sensibile alle belle
lettere. È lui che, dice Minturno, cerca la sua opera e lo prega di fargliela
leggere. Non lui soltanto, anche Gabriele Vinea e Girolamo Ruscelli
lo esortano con decisione a pubblicarla. E chi meglio di Ruscelli
può giudicare un’opera come il De Poeta? Una persona così versata nei
precetti poetici e che sa condurli alla pratica così bene; per darne un
7 G. de la Vega, Obra poética y textos en prosa, edición, prologo y notas de B.
Morros, Barcelona, Crítica, 1995, p. 45.
[ 5 ]
632 eugenia fosalba
esempio, Minturno cita un passaggio di quattro versi dell’opera latina
di Ruscelli. Data la sua estrema competenza in materia, Minturno confessa
di essersi infine deciso a esaudire il desiderio di Ruscelli: gli invierà
i sei libri del De Poeta affinché li sottometta al suo severo giudizio
e sia lui a decidere se meritano di essere pubblicati o gettati alle fiamme.
Prima di inviarglieli, tuttavia, desidera informarlo circa i suoi
obiettivi e il metodo adottato.
Il suo interesse per la poetica risale, secondo quanto ci spiega, alla
sua infanzia. Il De Poeta non è altro che il risultato del suo costante
sforzo, fin dalla gioventù inesperta, di acquisire conoscenze in questa
disciplina e trasmetterle a sua volta ai propri amici; fu un impegno che
si ripromise di portare a termine con tenacia: si accorse presto che le
belle regole di Orazio erano esigue e oscure. Si rese conto, quando lui
stesso ancora ignorava tale disciplina, che l’arte e il metodo erano imprescindibili
per comporre una poesia in modo sapiente e corretto. Le
spiegazioni che aveva dato Orazio erano poco chiare, oppure, di fatto,
risultavano intrinsecamente difficili, o apparivano frammentarie e
pertanto inadeguate per fornire al poeta gli strumenti necessari per
apprendere l’arte della scrittura. Omero e Virgilio impiegarono questa
disciplina nella composizione delle loro opere. Per questo gli insegnamenti
dovevano essere cercati nello stesso Orazio, in Aristotele, e nel
resto degli scrittori greci e latini che potessero aver fatto riferimento al
tema, fosse anche solo di passaggio. Considerò che tutto ciò doveva
combinarsi in un’unica opera, che aiutasse sia lui sia i suoi amici ad
acquisire conoscenze di poetica. Non solo lo approvarono gli uomini
più colti e sapienti, ma questi ultimi a loro volta lo aiutarono a completare
il suo lavoro intrattenendo un dialogo sulla natura del poeta8.
8 «Cum autem et mea causa, et quorum utilitati prospicere studes, munus hoc
libenter, ut puto, sustineas, par est, ut plane tibi instituti mei consilium, cur de
poeta scripserim, exponam. Quanquam enim de poesi Horatius doctissimus poeta
tradidit praecepta, perpulchra illa quidem, sed pauca admodum, et obscura, his
tamen adeo instructum eorum, qui poemata faciebant (nam multi eo in genere
scribendi uersabantur) non dum quenquam perspexeram, qui minus ab ea poetica
ratione, quae in summis authoribus obseruata, animaduersaque est, abhorreret,
siue haec erant obscure ab ipso authore tradita, siue per se haud facilia cognitu,
siue non id omne complectuntur, quod ad bene scribendum, ut poetam decet, requiritur.
Ego uero et in me ipso, et in plerisque aequalibus meis maximam ad haec
studia propensionem, quibus iam puer incumbere coeperam, cernebant. Cum autem
ad carmen docte, recteque fundendum, arte, industriaque opus esse intelligerem;
quam etsi cognitam nondum plane habebam, neque Homero tamen, neque
Virgilio abfuisse animaduertebam, quaerendam omnino mihi eam esse constitui.
Itaque ab hoc ipso Horatio, ab Aristotele, a caeteris nobilissimis utriusque lingue
[ 6 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 633
Minturno rivela inoltre che la scrittura del libro lo impegnò tra i
nove e i dieci anni (la confidenza saprebbe di minuzioso topos oraziano,
se non fosse che Minturno prende i precetti del venosino più sul
serio di chiunque altro). E commenta inoltre che non ha ancora del
tutto chiaro se sia il caso o meno pubblicare la sua opera nei tempi
attuali. Intanto, nei tempi miserandi in cui si scrive adesso, la poesia
latina è quasi del tutto scomparsa. Da qui derivano la maggior parte
dei suoi dubbi. Minturno avverte che nei tempi presenti la scena è
tutta occupata da coloro che non hanno sfiorato le lingue classiche
neppure con la punta della lingua. Scrivono appena qualche poesia in
italiano e presumono che non ci sia nulla che essi non possano giudicare.
Per questo aveva tenuto nascosto per tanto tempo gran parte del
progetto prima di lasciarlo uscire dal suo nascondiglio9.
Fin qui sembra chiaro che il De Poeta sia un’opera della giovinezza,
che fu utile al suo autore agli albori della sua traiettoria letteraria per
consolidare le sue conoscenze di poetica, molto tempo prima di decidersi
a consegnare il testo alle stampe. A quell’epoca, come ha già
spiegato Minturno, Sannazaro (Actius Syncerus) dibatteva sulla poetica
con gli uomini più sapienti. Syncerus era, inoltre, il migliore dei
poeti che stavano allora fiorendo in Italia e il più eccellente emulo di
scriptoribus, qui ea de re aliquid attigissent, colligendum putaui, atque in unum
aliquod opus conferendum, quod mihi ipsi, amicisque ad hanc doctrinam adipiscendam
proficeret. Quod ego mihi ad tractandum proposui, non modo humanissimi,
atque doctissimi quidam homines; quibuscum id ipsum communicaram,
probauerunt, sed etiam quo facilius id facerem, eadem de re sermones exposuerunt,
cum eruditissimis disertissimisque uiris habitos ab Actio Syncero, ut poetarum,
qui tum in Italia florebant, facile principe, sic Virgilii omnium, quicunque
fuerunt, simillimo. Quamobrem cum ad explicandam, illustrandamque uim
omnem poeticae facultatis hi plurimum ualere uiderentur; operae precium me facturum
existimaui, si literis eos mandarem. Quorum quidem pars aliqua in disceptatione,
atque contentione cum esset, maior autem in praeceptione»: Antonii Sebastiani
Minturni De Poeta, ad Hectorem Pignatellum, vibonensium Ducem, libri sex,
Venetiis, apud Franciscum Rampazetum, 1559, c. *3r-v.
9 «Illud porro sine ulla dubitatio ne profitear, in hoc opere elaborando non
decem, aut nouem, sed multo plures ad hanc diem me annos consumpsisse. […]
Atque haud scio an nihili faciendus sit diuturnus labor hic meus, cum temporum
nostrorum culpa, quibus Latina poesis nullo fere loco numeratur, tum meo fortasse
uitio, qui nescierim omnia, ut quisque postulat, pertractare. Id equidem ueritus,
cum minime ignorarem, quam difficile sit, multis placere, hac praesertim aetate,
qua, uel qui ne primoribus quidem labris utramque linguam attigerunt plurimum
sibi arrogant, quod hetruscis numeris canticum aliquod scribant, nihilque esse, de
quo nequire se iudicium facere arbitrentur: multum aberam ab ea cogitatione, ut
sinerem e latebris eum emergere.», ibidem.
[ 7 ]
634 eugenia fosalba
Virgilio. Così che il De Poeta, specifica il suo autore, andò costruendosi
grazie alla discussione e al dibattito che ebbe luogo in quegli anni a
Napoli, mentre il resto del trattato fu in gran parte completato grazie
agli insegnamenti già consolidati in precedenza10.
Veniamo adesso ad osservare quali sono i riferimenti all’epoca della
sua composizione che affiorano nel corso dell’opera, nei sei libri
dedicati alle conoscenze che il buon poeta deve acquisire.
In effetti l’opera, oltre a includere nel titolo il nome del destinatario
delle riflessioni che contiene, è preceduta anche da una dedica «Antonii
Minturni ad illustrissimum vibonensium ducem Hectorem Pignatellum,
De Poeta», e la sua prima frase, come se si trattasse di una
conversazione carpita in medias res, include, già iniziata, l’interpolazione
del vocativo, «Princeps ornatissime», fissando così il punto di
riferimento su cui si strutturano i sei libri: quella seconda persona è
quella che li trasforma in una lettera di lungo respiro. Poco più avanti
l’autore si rivolge di nuovo esplicitamente al suo signore: a quanto
pare, una volta che stavano conversando, capitò loro di alludere a
queste tematiche e il viceré approfittò per chiedergli quale metodo
avrebbero dovuto seguire i poeti nella composizione delle loro storie,
a meno che i poemi non fossero diversi rispetto alle altre arti. Nascono
grazie alla pratica del poeta o derivano piuttosto da una loro dote innata?
Il testo continua a riferirsi a Ettore Pignatelli al presente, come se
effettivamente stesse ascoltando l’esposizione dell’autore, che per
parte sua non celerà nulla al suo destinatario, che lo aveva spronato a
scrivere su tali questioni: il Duca di Monteleone è l’unica auctoritas che
Minturno è disposto a riconoscere. Difatti è a lui che si devono tutti i
suoi studi, lavori e in fin dei conti tutti i suoi sforzi11. Più avanti affio-
10 Cfr nota precedente. Minturno acquisì negli anni precedenti un’alta formazione:
ebbe un maestro eccezionale in Agostino Nifo, che lo portò con sé prima a
Padova, poi a Pisa, dove lo troviamo nel 1520 come sostituto di Mariano Tucci
all’Università, e dove rimase dal 1519 al 1521, il che spiega la sua profonda conoscenza
del greco, e i suoi studi su Esiodo, nell’edizione di Melanchthon (1532). Sul
suo carteggio con Nifo cfr M. Rizzi, Antonio Sebastiani Minturno e Giovanni Andrea
Gesualdo, Marina di Minturno, Caramanica Editore, 1998, pp. 37-42; F. Marletta,
Il Minturno in Sicilia, «Messana», III (1954), pp. 195-218.
11 «Ea de re cum haud semel in sermonem incidissemus, quaerebas tu quidem,
esset ne ratio, qua in fabulis fingendis Poetae uti debuissent; an a quacunque arte
poemata essent segreganda, et in quodam ingenii, atque exercitationis genere ponenda?
Cum diceres, te uidisse non paucos, qui ab omni elegantia doctrinae cum
essent alieni, ac propemodum rudes, doctissimum tamen, et elegantissimum carmen
funderent. Ego uero quod tibi responderem nihil aliud profecto habebam,
nisi que mihi recordatio nec ueteris admodum memoriae, nec plane satis explicata
[ 8 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 635
rano ulteriori dati che mostrano come il processo di scrittura sia inestricabilmente
vincolato alla figura del destinatario delle varie disquisizioni:
Minturno afferma che in quest’opera inserirà tutto quello che
ha ricevuto dalla memoria di Cicerone, il nostro più eloquente antenato,
così come da tutti gli uomini dell’antichità e di quella zona – meridionale
– dell’Italia; si tratta di temi a lungo dibattuti. E rivolgendosi
nuovamente al suo “eccellentissimo Principe”, elogiato per il suo ingegno
divino, ribadisce di aver portato a compimento l’opera grazie a
lui e si è preoccupato che essa gli venga inviata in forma compiuta12.
Successivamente, Minturno allude a Lucius Camillus Scortianus
(Lucio Camillo Scorziano)13, che definisce «aeternum decus» della nobiltà
napoletana, una personalità che pare essersi sempre distinta per
la probità del carattere e per la grande cultura. Si scopre qui che questo
personaggio, protonotario apostolico (stando a ciò che rivelano le
Lettere), è legato a Minturno da una stretta amicizia, come conferma il
loro significativo scambio epistolare, sul quale torneremo più avanti:
la menzione di questo giovane amico (che sembra un compagno di
generazione) serve qui a svelare una delle chiavi della composizione
del dialogo, poiché l’autore confessa di aver saputo proprio da Scorziano
che quello che sta per scrivere sul tema della poesia è stato già
discusso dagli ingegni più brillanti. Sembra che all’inizio furono vari
amici, tra i quali si distingueva Scorziano, così come Traiano Calcia14,
illa quidem repetenda uidebatur. Sed, ut putabam, apta sane ad id, quod requirebas,
ut perspiceres, que uiri aetatis suae disertissimi, doctissimique de omni Poetica
sensissent. Quam ob rem non modo hortanti tibi, sed ut haec ipsa scriberem
roganti, statui non deesse. Nam neque authoritate quisquam est, neque uoluntate,
quid apud me plus te possit, aut debeat ualere. Quippe qui mea tibi omnia studia,
omnes labores, omnem denique industriam nullo non meritorum genere deuinxeris,
et inter omnes adolescentes, qui summo nati loco, clarissimisque titulis ornati,
gloriaque auitae splendore illustres, clientelis, amicitiis, potentia, opibus, praestant,
praeclara indole uirtutis summaque spe, et animi, et ingenii longè excellas.»,
De poeta, cit., p. 2.
12 «Tua enim causa hoc opus suscepi, absolutum autem tibi mittendum curaui
», ivi, p. 6.
13 Deve trattarsi del nome latinizzato di “Camillo Scortiati protonotaro” che
ricorre frequentemente nel volume a stampa delle Lettere del Minturno. Per evitare
ambiguità, il cognome di questo umanista amico di Minturno sarà citato sempre
nella forma Scorziano.
14 Venuto alla scuola del Summonte dalla natìa Treviso, e perciò indicato nel
trattato come Traianus Tarvisinus. Su di lui cfr G. Parenti, Calcia, Traiano, in Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 16, 1973, pp.
518-519. http://www.treccani.it/enciclopedia/traiano-calcia_(Dizionario-Biografico).
[ 9 ]
636 eugenia fosalba
a parlargli di tali questioni di poetica, poiché erano numerosi quelli
che erano presenti mentre questi argomenti venivano discussi15.
Questo commento mette in rilievo come negli anni in cui si animarono
i dialoghi sulla poetica a Mergellina, Minturno non era presente
e che se ne conosce i contenuti è grazie all’amicizia con terze persone
come Scorziano, che non trovò sconveniente metterlo al corrente sulle
tematiche che si dibattevano durante quegli incontri. Questa rivelazione
smentirebbe uno dei luoghi comuni più frequenti nella bibliografia
su Minturno, del quale si dà per scontato che appartenesse all’accademia
pontaniana16. Pare che non fosse così. Quando tali dibattiti
ebbero luogo (1525-1527), nonostante che Minturno, terminati gli
studi, si trovasse a Napoli, egli era ancora un giovane di origini umili
(non un «patrizio», come si dice dei giovani che frequentano Mergellina),
appena arrivato da Traetto e Sessa, la cui principale occupazione
era quella di sopravvivere nel mare delle varie corti patrizie della capitale.
Non sembra avesse ancora avuto un’ascesa sociale tale che gli
consentisse di accedere a queste esclusive riunioni di altolocati gentiluomini
e umanisti, benché, come noto, partecipasse a qualche cenacolo
di secondo ordine, con i più giovani dei circoli post-pontaniani,
coi quali si riuniva per commentare questioni di poetica relazionate
con la nuova lingua e Petrarca17. Da Scorziano, dunque, viene a sapere
15 «Cum ille iampridem mihi sit magna familiaritate coniunctus, ex eo planè
cognoui, quae de Poetica sum dicturus a uiris clarissimis disputata.», De poeta, cit.,
p. 6.
16 Queste parole di Minturno all’inizio del De Poeta fecero dubitare anche Belloni
circa il fatto che avesse preso parte agli incontri dell’accademia sannazariana:
«[…] in un contesto che pure lascia spazio a ricordi biografici, gli accenni a quegli
incontri sono riportati di seconda mano, quasi per sentito dire, attraverso lo Scortiano
»: G. Belloni, Di un ‘parto d’elephante’ per Petrarca. Il commento di Gesualdo al
“Canzoniere”, «Rinascimento», XX (1980), p. 368.
17 È fuor di dubbio che non era la stessa accademia, come non esclude del tutto
Belloni: «Può corrispondere l’accademia Minturno-Gesualdo con quella di Pontano?
È possibile, ma permangono seri dubbi»: Ivi, p. 369. La lettura del libro V del
De Poeta lo chiarisce completamente: si veda più avanti, nota 29, il frammento in
cui si allude a queste lezioni di Minturno sul Petrarca e la poetica in volgare che
avevano luogo fuori da Villa Mergellina. Cfr anche la lettera indirizzata a Giovanni
Guidiccioni (l’amicizia con il quale nacque dalla comune frequentazione delle
Università di Padova e Pisa), sulla quale torneremo, in cui Minturno riassume con
dovizia di particolari la sua traiettoria esistenziale: «E per che sappiate cio che da
indi in qua è avvenuto di me, io poi che parue fatto havermi qualche profitto in lo
studio delle Greche lettere, scacciandomi di Roma e di Genazano la fiera peste
[1523-1524], venni in Traetto, et indi andai a Sessa per dare opera alle mathematiche
discipline, come colui il quale non fui mai lasso d’andare là ove fusse alcuno
[ 10 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 637
che erano Pietro Summonte e lui stesso che selezionavano qualche
giovane nobile con cui riunirsi quando finiva il loro lavoro giornaliero.
Essi lo accompagnavano se lui accettava l’invito. Da questa scuola
fiorita intorno a Summonte a Napoli, aggiunge Minturno, sortirono
«innumeros doctrinae principes», come fossero usciti dal cavallo di
Troia. Sono, in effetti, vari giovani appartenenti alla nobiltà napoletana
ad essere menzionati a mo’ di testimoni di questi incontri fra sapienti
veterani, come Pietro Gravina (1452-1529 ca.), Girolamo Carbone
(1460-70?-1528), Pietro Summonte (1453-1526), Pomponio Gaurico
(1482-1530 ca.), lo stesso Sannazaro (1456-1530), invitato d’eccellenza
del cenacolo, e Lucio Vopisco, il meno conosciuto dei – per la maggior
parte – sapienti anziani, di cui Minturno dice che si trova ancora tra
coloro che vivono e il quale, nel 1533, da Giovanni Filocalo nel Carmen
nuptiale per le nozze di Fabrizio Maramaldo veniva citato tra altri
esponenti illustri dell’umanesimo meridionale18. Nel 1535 pubblicava
alcuni versi nel De sanctitate et profanitate di Agostino Nifo e nel 1546
sarebbe stato salutato da Berardino Rota nell’orazione agli accademici
Sereni come «utriusque sermonis peritum senem»19.
L’altro gruppo di partecipanti agli incontri di Villa Mergellina è
costituito dai giovani gentiluomini che ebbero la fortuna di assistere a
quelle riunioni sulla poetica latina, e persino di prendere parola, compagni
di generazione dello stesso Minturno, preziosi testimoni di cui
dal quale imparar potessi. Parendomi poi haver girato per lo cerchio de le buone
arti, esser tempo stimai di mostrare q(uan)to era stato il mio studio (che a dire il
vero, non negherò essere stato lungo) e s’el mio ingegno fosse di qualche valore, il
qual hora conosco quanto sia debole e da non micha pregiarsi. Onde venni in Napoli,
ove facendo pruova de le mie lunghe fatiche e trovandovi non pochi studiosi
de la nuova lingua, la quale per tutta Italia celebrata è venuta di giorno in giorno
sì avanzando de gli ornamenti e de la dottrina che nulla o pocho homai le bisogna
alla somma de l’‹e›loquentia, comminciai a ragionare con loro delle cose del Petrarca:
e non so come piacendo quei ragionamenti, che tra gentilissimi spiriti ragunati
quasi in academia se ne faceano, fu alcuno di sì preste mano che in gran parte
gli notò con la penna»: Lettere, cit., c. 16v (Messina 10 maggio 1529).
18 «Et, Borgi, propera, melosque rarum / ad notos, precor, afferas Penates, /
Quo soles canere ore Livianum. / Marsorumque, Epicure, honor tuorum, / Vopisce,
et Parisete, Querne, Falco, / Rutilique, et uterque Martirane, / Omnes gloria
carminis latini / et qui versiculos foro relicto / Mavis, Scipio, dulcibusque Musis
/ Nuper ocia grata consecrasti.»: A. della Rocca, L’umanesimo napoletano del primo
Cinquecento e il poeta Giovanni Filocalo, Napoli, Liguori Editore, 1988, pp. 115-116.
19 Cfr T. R. Toscano, Un’orazione latina inedita di Berardino Rota «principe»
dell’Accademia dei Sereni di Napoli, in Id., Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli
nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 299-325 (p. 317).
Lucio Vopisco fu tra i sottoscrittori dell’atto fondativo dell’accademia dei Sereni.
[ 11 ]
638 eugenia fosalba
si serve per riempire il vuoto della sua esperienza: sono, anzitutto, il
già menzionato Lucio Camillo Scorziano, Andrea Cossa (con entrambi
Minturno ha uno scambio epistolare da Ischia), oltre a Francesco Teto
(giurista e letterato che dedica i suoi sforzi all’interpretazione della
legge antica, come si specifica in un passaggio del De Poeta20). Minturno
considera di non aver tradito la memoria degli umanisti lì riuniti,
dal momento che essa è immortale ed è viva in altri testi; dovrebbe
essergli concesso di trascrivere queste idee, dal momento che ci sono
dei testimoni ancora vivi di quelle conversazioni, come Vopisco (tra i
sapienti anziani), o come Scorziano (del gruppo dei giovani gentiluomini),
che lo ha messo al corrente dei temi che si dibattevano. Minturno
pertanto riconosce che sta realizzando una ricostruzione narrativa
di quelle riunioni, ma realizzata in una forma così verosimile e rispettosa
che chi ne abbia ricordo non avrà nulla da recriminargli.
Anzi, al contrario, sembra che coloro che sono ancora vivi l’abbiano
aiutato a recuperare quel passato glorioso che rischiava di perdersi
nell’oblio. Un passato non troppo lontano, che appare però dolorosamente
perduto. E con un solo, tragico, colpo: quello della peste che nel
novembre 1526, come annota nel suo diario Seripando, iniziò a devastare
Napoli21. Minturno colloca la scena nell’anno precedente alla disastrosa
piaga che affliggendo a lungo l’Italia, invase Napoli: fu allora
che vari giovani seguirono Scorziano a Mergellina. La primavera era
20 «Quoniam id quidem deberi a me tantis hominum ingeniis semper existimaui,
ut quos dum uiuerent coluissem, eorum memoria per me non staret, quin
immortalis redderetur. Nec mihi uerendum est, credi posse me illorum doctrina
scripsisse aliquid, in quo mihi id fingere liceret; quod nullius unquam refelli recordatione
potuisset. Quandoquidem recens, ac uiua eorum memoria tenetur, multique
supersunt, qui eos ipsos, de quibus loquor, saepe audierunt. Nec non superstes
etiam nunc uiget, ac uigebit, ut opto, diutius in poetica cum illa cuniungens
philosophiam Lucius Vopiscus, homo sane omni eruditione ornatus, cui sermonis
magnam partem utique tribuerunt. Testes deinde mihi sunt cum certe plures, qui
dum hic sermo haberetur, interfuerunt, tum Neapolitanae iuuentutis tria clarissima
ornamenta, Scortianus, Cossus et Thetius a quibus haec eadem cognoui. Quam
ob rem, Princeps amplissime, cum tibi explicauerim, quae pridie summi illi homines,
contentione quadam disserendi, ac potius more Academico, quam ut quae
ipsi animo sensissent, declararent, de Poetae facultate dixerunt. Nunc plane exponam,
quae postridiae praecepta diuinitus tradiderunt», De Poeta, cit., p. 86.
21 Cfr Vita del cardinale Girolamo Seripando uno dei legati del Concilio di Trento,
scritta a modo di giornale da lui medesimo, in G. Calenzio, Documenti inediti e nuovi
lavori sul Concilio di Trento, Roma, Sinimberghi, 1874, p. 157: «Novemb. 1526: Neap.
Pestis invasit» (il diario di Seripando è conservato nel ms. IX.C.42 della Biblioteca
Nazionale di Napoli).
[ 12 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 639
nel suo pieno fiorire. Tutto sulla terra, nel mare e in cielo sorrideva.
Actius Syncerus era arrivato da pochi giorni22. Molto più avanti, nell’ultimo
libro, si ricorderà di nuovo di questi conversari, quando Minturno
si appresta a trascrivere quello che ipoteticamente fu discusso in
una delle ultime sessioni (la terza nella narrazione ricreata); nel lasso
di due anni da allora (cioè, entro la fine del 1528), la morte si portò via
la maggior parte di questi uomini meritevoli dell’immortalità: di
quanti furono, solo uno sopravvive (come già ci era stato anticipato
all’inizio dell’opera): Vopisco. Summonte morì di idropisia appena sei
mesi dopo che tali questioni furono dibattute. Quando la peste contagiò
Napoli, Gravina seguì Francesco Di Capua, IV conte di Palena23, in
cerca di un clima salubre, sulle montagne campane, ma quelle zone
gradevoli non furono benefiche per la salute: Minturno ricorda con
dolore che Gravina aveva già raggiunto la settantina, momento in cui
la vita può durare ancora degli anni. Quando l’invasione francese di
Lautrec era ormai quasi finita e fu tolto l’assedio, morì Girolamo Carbone;
poco dopo (nel 1530) morì Sannazaro. Pomponio Gaurico, nonostante
avesse sofferto la prigionia dei francesi, fu esiliato e, allontanato
dal focolare domestico, morì di tristezza24.
22 «Itaque anno antequam pestilentia illa funesta et exitiosa, quae diu per
omnem Italiam summa cum pernicie debaccata est, Neapolim inuasisset, cum iam
uer plenum esset, et iam omnia terra, marique ac caelo arriderent, omniaque ad
uoluptatem inuitarent, euenisse, ut illum secuti petierint Mergillinam», De Poeta,
cit., pp. 6-7. Era opinione consolidata, continua a raccontare Minturno, che Sannazaro
occupasse il luogo più alto tra i poeti della sua età. Summonte e lui erano intimi
amici. La loro amicizia, iniziata nella frequentazione dell’accademia pontaniana,
era fiorita nella condivisione degli impegni quotidiani e degli studi comuni.
Ogni giorno si rafforzava di più, e così rimase per sempre solida. Anche Girolamo
Carbone e Pietro Gravina si erano recati a Mergellina e, insieme a loro, Pomponio
Gaurico, che all’epoca istruiva il giovane principe di Salerno, e Lucio Vopisco.
Mergellina si trova vicina a Napoli (racconta ancora Minturno), ai piedi di Posillipo,
dove il mare lava un promontorio non lontano dalla spiaggia e dalla strada che
porta a Pozzuoli. Qui il Sannazaro aveva costruito una bella villa per sé ed un
santuario per Maria, madre di Dio. Non appena tutti sedettero nel sottoportico da
cui si vede con incredibile godimento dell’anima tutto il golfo in lungo e in largo,
si scambiarono gli abituali saluti. Scese il silenzio. Allora Summonte parlò, dando
così inizio alla sessione (cfr De Poeta, cit., pp. 6-7).
23 «Grauina autem, cum pestilens annus Neapolim inuasisset, ut aeris quareret
salubritatem, Palenium Regulum secutus, qui, qua erat in homines eruditos liberalitate,
domi eum fouebat, ad saltus Campanus diuertit, in quibus Palenius amoena
quaedam oppida tenebat» (ivi, p. 434).
24 «At res docuit, nec loco fati necessitatem mutari, nec fortunae cursum impediri,
quin, ubi uelit, fugientem assequatur. Nihil enim Grauinae profuit illius amo-
[ 13 ]
640 eugenia fosalba
Pare che quest’ultimo libro sia stato scritto posteriormente rispetto
agli altri, per lo iato che qui introduce il tono nostalgico e l’imprecazione
alle disgrazie dell’Italia; come confessa l’autore, quest’ultima
fase della scrittura, la più lunga, gli costò di più di tutte le altre, per i
dolorosi ricordi che essa irrimediabilmente comportava. Non stupisce
che possa aver tardato di più a scrivere quest’ultimo libro, dato che,
come ha confessato all’inizio del De Poeta, impiegò nove o dieci anni a
finirlo. L’allusione alla morte di Sannazaro come qualcosa di già avvenuto,
collocherebbe la stesura di quest’ultimo libro in un periodo
compreso tra il 1530 e il 1535, data della morte del viceré Ettore Pignatelli.
Forse nel 1534, quando secondo i nostri calcoli almeno due dei tre
poeti-soldato (Garcilaso, Bernardo Tasso e forse Tansillo) poterono visitare
Minturno di ritorno dalla spedizione nel Peloponneso? Probabilmente
un poco prima.
Nel 1533 (Venezia, G. A. Niccolini da Sabbio e fratelli) Giovanni
Andrea Gesualdo pubblica una Spositione di Petrarca, nel cui preambolo,
diretto a Maria di Cardona, confessa i vincoli di sangue che lo
legano a Minturno, mettendo al corrente la marchesa sulla grande influenza
che gli insegnamenti di lui ebbero sulla sua opera. Vale la pena
soffermarsi un poco su questo punto e riprodurre per esteso le sue
parole, per le notizie che ci fornisce. Racconta Gesualdo che tempo
prima sbocciò in lui un grande interesse per il Canzoniere di Petrarca,
motivo per il quale si trovava sempre costretto a consultare altri studiosi.
Allora Minturno
[…] d’ingegno e di dottrina sì pieno, como le prose e i suoi versi nell’antico
e nel moderno idioma d’Italia ci dimostrano, tornato di Thoscana e di
enitas regionis, nihil diuersorium salubre, nihil commoratio periucunda, quo minus
in uim eam fatalem inciderit. Erat ille comis, et hilaris, uegetusque senex, non
tristis, non asper, non imbecillis, et uero tam corpore, quam animo ita belle affectus,
ut nihil haberet, quod senectutem accusaret, omnes autem uiuendi numeros
expleturus, et quousque uita hominis progredi potest, eo peruenturus esse uideretur,
qui iam esset annorum septuaginta spatium praetergressus. Cum autem pestilentia
saeuiret, ortum est saeuissimum illud bellum, quo excisionem, inflammationem,
euersionem, depopulationem, uastitatem omnibus fere oppidis Regnis huius,
atque agris illatam; maxima multitudine a Gallis Neapolim obsessam, ac uehementer
oppugnatam, Regulos tot proscriptos, tot exilio mulctatos, tot capite damnatos
conspeximus. Hoc bello profligato, ac soluta obsidione, Carbo, pauloque post Syncerus
uita excesserunt. Initio huius belli Gauricus ab hoste captus, insimulatus autem,
quod defecisset ab imperio nomineque Hispano, et ad Gallos transfugisset,
atque in exilium profectus, cum patria, domoque eiectum se esse iniquo animo
ferret, prae nimio moerore animam dicitur amisisse» (ivi, pp. 434-435).
[ 14 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 641
Roma a la patria, e indi giunto a Napoli poi, che di mia intentione s’avvide
per sua humanitate, e per quei legame di sangue, che con lui mi
stringono, non solamente al volonteroso mio corso sproni m’aggiunse,
ma sua mercè, dirò il vero, né mi pentirò darne laude a colui, che per
cui mi riconosco profitto s’egli è profitto alcuno haver fatto gran soccorso
& a far l’opra migliore, & a fornirla mi diede. Conciosia che a’
preghi d’alcuni gentili e valorosi spirti, a i quali piace quell’ocio, oue la
mente non può star ociosa, oltra quel, che de gli antichi scrittori ne l’una
e ne l’altra lingua solea dimostrare, sovente il laudare il Poe. & in ragione
de leggiadri suoi detti veniva, i quali ragionamenti non che molti luoghi
del Poeta di celati & oscuri ci fecero chiari & aperti, ma sospinsero lui
stesso a scriuerne quel Dialogo, che egli chiama Academia, nel quale non pur
commenda il parlar Thoscano, e sovra ogni cosa le rime del Poeta, ma dimostra
quanto e quale fosse lo ’ngegno e l’arte di lui e di quanta dottrina in ogni
scientia, di quanti ornamenti pieno il dire.
E, nel caso qualcuno dovesse considerare l’esposizione troppo lunga,
lo prega di considerare
[…] che l’officio del buono espositore è tale massimamente in quella
lingua che ha pochi scrittori, per non dir niuno: che benché di grammatica
si sia scritto alcuna cosa, chi v’ha insegnato anchora gli affetti
che muove e gli ornamenti che usa il Poeta e tanti e sì grandi sentimenti
di Philosophia che in lui si stanno riposti, perciò che la Academia del
Minturno, che di tutti queste cose appieno ragiona, non è nelle vostre
mani anchora venuta.
Si allude qui a vari motivi chiave: 1) il ritorno di Minturno a Napoli,
fatto databile dagli anni 1523-24, fino probabilmente al 1527, quando
lo troviamo a Traetto, prima di tornare a Napoli per partire per
Ischia, in fuga dalla peste: date in cui 2) aiuta Gesualdo col suo commento
al Petrarca, lezioni a cui assistono altri curiosi, 3) che, molto
interessati, lo spingono a metterlo per iscritto in forma di dialogo, che
si intitolerà Academia. 4) A quanto pare, all’altezza del 1533, quando
Gesualdo scrive la dedica alla marchesa, Minturno ha all’attivo degli
scritti pieni di dottrina, tanto in prosa quanto in versi, in lingua latina
e italiana: il De Poeta non è l’unico dialogo in latino di suo pugno di cui
si abbia notizia in quegli anni25, ma non bisogna escludere che qui si
stia alludendo alla sua esistenza, oltre a quella del testo su Petrarca e
sulla poesia in volgare.
25 Belloni, Di un ‘parto d’elephante’ per Petrarca, cit., ricordando le note di Gesualdo,
cita il suo dialogo intitolato Flammatio sulla morte (312b), p. 368.
[ 15 ]
642 eugenia fosalba
C’è un’altra lettera rivelatrice, diretta a Miguel Mai, cancelliere di
Carlo V, il 5 gennaio del 1541, nella quale Minturno menziona il libro
del De Poeta come opera già scritta e in certo modo conosciuta, che
avrebbe potuto circolare in forma manoscritta tra alcuni amici dell’autore,
fra cui il destinatario Mai: in effetti, quando dice che la poesia
non è estranea alle leggi, allude al fatto che «la prima sapientia, secondo
che n’ensegna Horatio, et io l’affermo nel mio Poeta, fu la Poesia…»26.
Questa affermazione fatta di passaggio, come se il destinatario fosse
già a conoscenza del testo a cui si stava riferendo, ci conferma che il
trattato di poetica latina esisteva già per lo meno 18 anni prima della
sua pubblicazione.
Ma cosa fu del testo dell’Accademia? Andò perduto quando era ancora
un abbozzo. Lo confessa il poeta nella stessa lettera, quando si
stupisce del fatto che ancora gli si richieda il testo:
L’Ardoino non so come prometterle potuto habbia l’Academia: la quale
perduta fu prima che compiuta: perciò che quella opera da me
adombrata, quando havea ad esser dipinta de suoi colori, nella peste
di questa città, che fo da’ xxvii a’ xxix, si perdè.
Minturno spiega allora che anni addietro nel suo animo si era acceso
il desiderio ardente di mettere in risalto il valore di Petrarca in
quanto a dottrina ed eloquenza, così come anche di Boccaccio, e che
nella lingua italiana si trovavano figure e modi di espressioni altrettanto
belli che in quella greca e latina:
26 Lettere, cit., c. 45v, e prosegue: «et ella radunò in città gli huomini, che prima
sparsi per li campi e per li monti n’andavano». Ringrazio Carmine Boccia che,
leggendo una prima versione di queste pagine, mi ha rimandato al citato articolo
di Belloni dove si analizzava la lettera a Mai; Belloni aveva già ipotizzato la
possibile esistenza del De Poeta al momento della stesura della lettera (1541), quando
suppone che Minturno fosse disilluso rispetto all’andamento della letteratura
in volgare. Cfr Ivi, pp. 365-366. Nell’articolo che seguirà a questo, e che verrà pubblicato
sul Bulletin Hispanique (2017), si cercherà di dimostrare qual è il contesto
non solo storico (che si spiega qui), ma anche letterario, che anticipa anche da
questo punto di vista il De Poeta a date piuttosto anteriori al 1541 e più prossime
alle Prose della volgar lingua del Bembo. D’altro canto, il progetto di una poetica
sulla poesia in volgare non sarebbe stato accantonato per una disillusione a favore
della poesia latina, dato che più tardi, nel 1564, Minturno avrebbe pubblicato L’arte
poetica. Anche G. Ferroni sostiene che questa Accademia andò perduta durante
il periodo della peste, sulla base della lettera del 1541, cfr G. Ferroni – A. Quondam,
La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo,
Roma, Bulzoni, 1973, p. 48.
[ 16 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 643
Ma con l’essersi perduto il dissegno, prima che si dipingesse, quel disio
mi si spense. Né mai più mi s’è potuto raccendere, sì perché la fatica
era sì lunga che, perduta una volta, mi parea troppo duro e grave il
ripigliarla, sì perché questa lingua è venuta e va di giorno in giorno
perdendo, là dove si credea che sarebbe ita avanzando.
Più avanti aggiunge ancora:
Ho voluto darle di ciò ragione: acciò che sappia che è avvenuto di
quella opera, ch’è tante volte nella spositione del Petrarca [di Gesualdo]
allegata. (c. 46r)
Minturno qui non dimostra soltanto di essere da tempo al corrente
di come procedeva il lavoro di Gesualdo: nella già citata lettera a Giovanni
Guidiccioni spiega che non appena arrivò a Napoli, si ritrovò
con non pochi studiosi della “nuova lingua” e allora iniziò «a ragionare
con loro delle cose del Petrarca: e non so come piacendo quei ragionamenti,
che tra gentilissimi spiriti ragunati quasi in academia se ne
faceano»: una quasi accademia dedicata alla poesia in lingua volgare
nella quale lui impartì le sue lezioni su Petrarca, che qualcuno trascrisse
in gran parte e che servirono a Gesualdo per procurarsi dei materiali
per la sua esposizione sul poeta toscano:
[…] fu alcuno di sì preste mano che in gran parte gli notò con la penna.
Et i medessimi poi mossero il mio Gesualdo di virtute e d’ingegno ornato
à fare un’acconcia spositione e tale che, s’amore non me n’engana
(perché senza dubbio l’amo assai), allegiarà la fatica di molti che non
per le spositioni, benché non biasimevoli, de li altri anchora se ne sono
potuti acquetare27.
Si tratta, dunque, di una quasi accademia, di tono minore, dedicata
alla poesia in volgare, tutta basata sulla oralità, della quale si conservava
solo uno sbozzo che fu quello che andò perduto, forse quei frammenti
dei dibattiti, che qualcuno trascrisse, e di cui rimangono tracce
nella Spositione di Gesualdo28. Di questi due ultimi circoli di intellet-
27 Lettere, cit., c. 16v (Messina 10 maggio 1529).
28 Scipione d’Arezzo chiede a Minturno nel settembre del 1533 che gli faccia
arrivare il dialogo che scrisse «nella Villa Carafiana» – cioè appartenente a un
esponente della nobile famiglia Carafa –, da identificare con il palazzo Carafa di
Santa Severina, fatto costruire nel 1512 da Andrea Carafa della Spina, Conte di
Santa Severina, sulla collina di Pizzofalcone: «Io mi studierò di sodisfare al vostro
disio in uno di questi duo modi. S’io trovarò tra quei pochi fasci delle scritture mie,
che meco di casa in Napoli e quindi in Sicilia portai, il vecchio e primo essempio,
[ 17 ]
644 eugenia fosalba
tuali (uno riflesso nel De poeta, che tenta di far rivivere attraverso la
scrittura i cenacoli dei sapienti che frequentarono il Sannazaro, l’altro
del quale gran parte mi rimembra che voi mi trascriveste, il vi manderò come egli
si troverà. Se quello rimase tra libbri, ch’io lasciai in Gaeta (perché niuno ne portai
se non alquanti Greci e Latini di picciolo uolume) darò opera che vi si trascriva. Il
che sara malagevolissimo. Con ciò sia cosa che qui habbiamo troppo inopia di
scrittori» (Messina, 29 settembre 1533). L’anno dopo torna sul tema rispondendo
così: «Del non potere sodisfare al vostro disio ch’io di qui il Carafiano vi mandi,
duolmi più forte assai che voi per aventura non credete. Perciò che il primo essempio
rimase in Gaeta con gli altri libbri; e qui a farlo trascrivere, scrittori mi mancano.
Se mai havrò l’animo piu tranquillo, vi farò degli altri componimenti non pocha
parte. State sano. Di Messina a xii d’aprile 1534», Lettere, cit., cc. 67v-68r-v.
Donde si potrebbe dedurre che il titolo originario fosse Carafiano, essendo ambientato
nella villa di Andrea Carafa. Questo Scipione d’Arezzo aveva un ricordo molto
preciso dell’opera e del titolo poiché, lo ricorda Minturno nella lettera prima
citata, ne aveva trascritto «gran parte». Andrea Carafa, che fu luogotenente del
viceré di Napoli dal 1523 al giugno del 1526, è una delle personalità a cui allude
Minturno nel libro I, p. 18, del De Poeta. Gli viene inoltre dedicato un poema encomiastico,
Megaris, che fa riferimento al luogo dove nacque la città della Magna
Grecia Parthenope, che includeva l’isola Megaris e la collina di Pizzofalcone, dove
Carafa costruì la sua villa, in Antonii Sebastiani Minturni Poemata, ad Illustriss.
Principem M. Antonium Columnam, Venetiis, Apud. Io. Andream Valuassiorem,
1564. Questo manoscritto potrebbe essere l’Accademia perduta? Da quello che dice
Minturno a Scipione d’Arezzo, si deduce che, in Sicilia, egli aveva con sé un’altra
copia del Carafiano, che non poteva far trascrivere per mancanza di amanuensi.
Questo escluderebbe la possibilità che si trattasse dell’Accademia perduta. E il Carafiano
potrebbe essere il primo abbozzo del De Poeta? Potrebbe essere che Minturno
avesse scritto un primo abbozzo del De Poeta verso il 1525, sotto la protezione
di Andrea Carafa, nella villa di Pizzofalcone, e che, logicamente, avesse dedicato
quel testo a lui, che al momento era viceré di Napoli. La morte prematura di Carafa
nel 1526 lo avrebbe obbligato a riscriverlo con dedica a Ettore Pignatelli, almeno
per quanto riguarda i primi cinque libri, a Ischia e di ritorno a Napoli nel 1528, per
preparare il suo trasferimento in Sicilia, come era solito fare (e difatti abbiamo le
prove che, per preparare il suo viaggio a Ischia sotto la protezione di Vittoria Colonna,
inviò alla poetessa due epigrammi in commento al suo dedicato al Marchese
del Vasto, cfr n. 30). Questo spiegherebbe perché siano rimaste delle tracce
dell’elogio a Andrea Carafa nel primo libro quando, dopo aver menzionato Ettore
Pignatelli come esempio di buon governante che varrebbe la pena consultare sulla
materia, Minturno allude a Carafa come se fosse vivo e come esempio, a sua volta,
di buon governante (cfr n. 31). In questo caso, potrebbe essere che Minturno avesse
iniziato la stesura del De Poeta verso il 1520, quando impartì le sue lezioni di
poetica a Pisa, e che l’avesse conclusa una volta superata la peste di Napoli, nel
1528, per poi aggiungere solo qualche ritocco finale alcuni anni dopo la morte di
Sannazaro, verso il 1533. Tutto questo non esclude che il luogo di riunione di gentiluomini
come Scorziano e Cossa intorno a Minturno poté essere la villa di Andrea
Carafa, luogo ideale dove questi potrebbe aver impartito le sue lezioni su
Petrarca e la poesia volgare.
[ 18 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 645
orale, e formato da un gruppo di giovani amici che si recavano a Mergellina
e ai quali Minturno impartiva lezioni di poetica toscana fuori
dalla casa di Sannazaro) è rimasta una traccia anche nell’intervento di
Scorziano verso la fine del libro V, quando propone un collegamento
tra ciò che sta dicendo Carbone sulla poesia melica e quello che Minturno
era solito spiegare loro delle cantiche toscane che si recitavano
nel presente. Dopodiché, seguendo il filo del ricordo di quegli incontri,
troviamo una lunga disquisizione sulla poesia in volgare29.
Vediamo adesso quando poté iniziare la stesura di quella primitiva
poetica latina, seguendo i movimenti del suo autore attraverso le sue
lettere. Da Napoli, il 19 febbraio 1528, Minturno scrisse una missiva a
Vittoria Colonna in cui le annunciava l’invio di due epigrammi in
commento al suo dedicato al Marchese del Vasto30: poco dopo quella
data, in cui lo vediamo preparare il suo viaggio con quelle calibrate
poesie di encomio, l’umanista di Traetto si sposterà sull’isola, come
dimostra il fatto che da lì il 15 aprile scrisse al Conte di Borrello, suo
signore, e anche a Scorziano (senza data). In quel luogo privilegiato,
dove si erano recati numerosi nobili napoletani in fuga dall’epidemia,
29 «Hoc loco Scortianus, cum finem dicendi Carbo facturus esse uideretur, attendenti
mihi, et cogitatione complectenti, illum intuens inquit, quae de melica
scribendi ratione disserebas, in mentem id uenit, quod de canticis, quibus haec
etas utitur, Hetruscis dicere solet Minturnus noster, ut pote qui multa eiusmodi
conscripsit, nullum propemodum apud ueteres lyricos genus extitisse, quod in
suauissimis Petrarchae cantibus deprehendi non possit.», De Poeta, cit., p. 399. Origine,
senza dubbio, dell’opera che avrebbe sviluppato in seguito sulla poetica toscana:
L’Arte poetica, Venetia, Gio. Andrea Valuassori, 1564 (ristampa anastatica
Wilhem Fink Verlag, München, 1971). Per una traduzione inglese del De Poeta cfr
J.W. Biehl, Antonio Sebastiano Minturno’s “De Poeta”: a Translation, Ann Arbor, Michigan,
Southern Illinois University, 1974.
30 Belloni interpreta erroneamente l’affermazione con cui Minturno inizia
un’altra lettera a Vittoria Colonna, scritta da Palermo il 25 aprile del 1531, tre anni
dopo il suo soggiorno a Ischia: «Già è passato, Illustrissima Signora, più del terzo
anno che in Ischia, ov’io seguendo i miei signori, come in refugio di coloro i quali
fuggivano la guerra, che al’hora intorno a Napoli fieramente ardea, mi ritrovava»,
Lettere, cit., cc. 129r-v. Minturno intende dire che sono già passati più di tre anni da
quando è stato ad Ischia, non che visse là tre anni come afferma lo studioso
(«Quanto rimase il Minturno a Napoli? Sino al ’25, perché da allora egli fissa la sua
dimora a Ischia, “come in un rifugio”, presso i nobili amici Pignatelli: ciò appare
da una lettera del febraio del ’28 scritta a Vittoria Colonna»: Belloni, Di un ‘parto
d’elephante’ per Petrarca, cit., 367). Questo errore ha delle conseguenze, perché gli fa
dare per scontato che Minturno rimase a Napoli fino al 1525, quando, in verità,
nulla gli impedì di trovarsi lì più o meno finché, il 27 ottobre 1527, da Traetto, scrive
una lettera al conte di Borello.
[ 19 ]
646 eugenia fosalba
si trattenne (senza dubbio in compagnia della contessa di Borrello, sua
signora) fino all’autunno dello stesso anno, quando la peste raggiunse
l’isola, che fu dunque abbandonata: per questo, in seguito, lo incontriamo
momentaneamente a Napoli il 28 ottobre 1528, dopo la disfatta
dei francesi. In tale data indirizza una lettera a Giovan Giacomo Valenzano
per raccontargli che sta per lasciare l’Italia per andare in Sicilia,
per «non vedere sua manifesta roina»: è il momento in cui entra al
servizio del viceré don Ettore Pignatelli, padre di Camillo conte di
Borrello, al cui servizio era stato fino a quel momento come precettore
dei figli31. Il soggiorno a Ischia dovette essere determinante nella decisione
di concludere il De Poeta. Sull’isola Minturno si trovò in compagnia
di Giovio, che in quello stesso periodo ricevette l’incarico da parte
della marchesa di Pescara, allora ancora in pieno lutto per la morte
del marito, di elaborare il suo Dialogus de uiris et foeminis aetate nostra
florentibus32. Non dimentichiamo che fu Vittoria Colonna chi mise in
circolazione il manoscritto del Cortegiano, senza il permesso di Castiglione
e non mantenendo la promessa di tenerlo lontano dagli sguardi
dei curiosi. E fu proprio il sommo interesse della poetessa nei confronti
del trattato del nunzio apostolico, e la sua indiscrezione, a spingere
definitivamente il Castiglione a inviare dalla Spagna l’ultima versione
alla stamperia di Aldo Manuzio. Correva l’anno 1528. Non ci sarebbe
da stupirsi se Vittoria Colonna avesse offerto come primizia (ancora
nel 1527, quando Giovio arrivò a Ischia) l’esempio del trattato di Castiglione
affinché ne traesse ispirazione per il suo33. I due dialoghi
31 Lettere, cit., cc. 10v-11r. All’inizio del De Poeta, Minturno spiega al suo dedicatario,
il viceré di Sicilia, che si è deciso «a inviargli» il De Poeta («Tua enim causa
hoc opus suscepi, absolutum tibi mittendum curaui», p. 6). Dunque, ancora non si
trova sull’isola: gli inviò nel 1528 i primi libri del trattato, come preparazione del
viaggio e della sua accoglienza in Sicilia? Questo vuol dire che già a Ischia mise a
punto le sue annotazioni di poetica in latino in forma di dialogo socratico, che
avrebbe terminato, per i primi cinque libri, alla fine del 1528 a Napoli. In questo
primo libro si menziona anche Andrea Carafa, morto nel giugno del 1526, come
personalità di spicco nell’amministrazione dello stato, che bisognerebbe consultare,
così come Ettore Pignatelli, sull’arte di tale disciplina; ossia, lo menziona come
se ancora fosse vivo. Questa potrebbe essere una traccia degli inizi della scrittura
del De Poeta, verso il 1525 o prima (De poeta, p. 18). Si veda n. 28.
32 «Cohortante Victoria dialogum conscripsi de viris et foeminis aetate nostra
florentibus», P. Giovio, Dialogo sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo, ed. e
trad. di Franco Minonzio, vol. I, Torino, Nino Aragno Editore, 2011, pp. 8-9.
33 Toscano, in una pubblicazione recente, fa rilevare che il dialogo di Giovio fu
la risposta vitalistica napoletana al trattato di Castiglione, ambientato nella malinconica
corte urbinate: cfr T. R. Toscano, Tra corti e campi di battaglia. Alfonso d’Ava-
[ 20 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 647
hanno in comune di rifarsi entrambi, in ultima istanza, al modello del
De Sermone di Pontano, dove l’autore, inorridito dai mali della guerra
che avevano afflitto la sua patria, propone il modello della conversazione
civile come unico possibile palliativo alla barbarie. La sconfitta
inferta dai francesi nel biennio 1494-95 segnava la «cesura drammatica
nella storia di quella che di lì a poco si configurerà senz’altro come
la “ruina d’Italia”»34. Qui sta l’impulso storico: l’umiliazione sofferta
per mano dei francesi, che sprona l’autore a proporre, come contropartita,
un dialogo socratico in cui si offre l’alternativa umanistica
dell’ironia, della relativizzazione contrappuntistica, della dissimulazione,
dell’urbanitas, e persino del festoso e del comico, che comprendono
il faceto. La guerra da cui prende le distanze il De Sermone diventa
così la spinta per l’apparizione del genere dei manuali di buone
maniere che trovano il loro primo esponente nel Cortegiano di Castiglione.
Anche Giovio si ripropone di analizzare i mali dell’Italia che
hanno da poco devastato Roma con il Sacco: l’arguzia dell’autore è
stata quella di mettere i lamenti per tutti quegli orrori nella bocca di
uno dei massimi responsabili: il capitano generale dell’esercito imperiale
Alfonso d’Avalos, cognato-cugino della marchesana, e oriundo
dell’isola, dove giunge per trovare la quiete necessaria per dedicarsi
alle Muse, o per questioni meno poetiche, come riprendersi dagli attacchi
di gotta. Il tema scottante adesso è l’assalto delle truppe imperiali
alla Città Santa, di cui d’Avalos si scusa con argomenti molto simili
a quelli dispiegati da Alfonso de Valdés. Quello che ci interessa è
che, come nel De Sermone, anche la scrittura del dialogo di Giovio è la
risposta pacifica, intelligente e persino ironica alle terribili delusioni
della storia e alla selvaggia crudeltà della guerra, che ha aperto un
baratro, in quei momenti giudicato irreparabile, nei dorati sogni
dell’umanesimo. C’è qui la coscienza di una frattura nella storia d’Italia
con la maiuscola: il dialogo, dall’isola, si erge, sia fisicamente sia
metaforicamente, a baluardo dei vecchi sogni infranti. Come risultato
di questo contatto ischitano, anche nel dialogo di Minturno c’è una
lunga e dolorosa imprecazione ai mali dell’Italia nell’ultimo libro.
Non si tratta del topos del dibattito tra le armi e le lettere: le ferite provocate
dalla guerra in questi dialoghi sono ancora aperte. Sono recenlos,
Luigi Tansillo e l’affinità elettive tra petrarchisti napoletani e spagnoli, «e-Spania»,
XIII (2012), p. 10.
34 A. Mantovani, Introduzione a G. Pontano, De sermone, Roma, Carocci Editore,
2002, p. 8.
[ 21 ]
648 eugenia fosalba
ti35. La filologia, la poesia dotta, il dono della parola, sono valori a rischio
di perdersi che si dispiegano in essi come uniche armi valide. Il
lungo lamento di Minturno per la rovina dell’Italia e la scomparsa di
una brillantissima generazione di umanisti, giudicata del tutto insostituibile,
pertanto, non può in nessun modo collocarsi oltre la metà
del XVI secolo. Anche nel poema Italia, che compose a Ischia, mentre
l’assedio durava ancora, e pubblicato solo quarant’anni dopo, c’è
un’imprecazione sulle sofferenze dell’Italia36.
Il dialogo, allo stesso modo dei suoi modelli, nasce come balsamo
per placare il dolore, prima della consacrazione di un nuovo invasore,
lo spagnolo. Né Giovio né Minturno ebbero fretta a pubblicare i propri
trattati. Il mutamento di prospettiva politica determinato da don Pedro
de Toledo a partire dal 1532 dovette spingerli in tale direzione;
insieme a ciò, inoltre, la necessità di adattarsi al nuovo corso e l’inconvenienza
dei lamenti all’indirizzo degli invasori, mentre nutrivano la
speranza non solo di barcamenarsi, ma anche di migliorare, sotto il
nuovo governo, le proprie condizioni di vita. Minturno si decide a
pubblicare il De Poeta quando l’imperatore è ormai morto; quando lui
stesso, umile filologo originario di Traetto, dopo numerose lettere di
raccomandazione e non minor numero di poemi panegirici è nominato
vescovo di Ugento37. Il consolidarsi del suo status sociale lo sprona
a far conoscere le sue giovanili prove poetiche. Non bisogna dimenti-
35 U n altro testo appartenente alla stessa tradizione del lamento per i mali
dell’Italia è De litteratorum infelicitate di Piero Valeriano, sul tema del Sacco di
Roma, anch’esso redatto in un tempo molto prossimo agli avvenimenti, verso il
1529. Cfr J. H. Gaisser, Piero Valeriano on the Ill Fortune of Learned Man. A Renaissance
Humanist and his world, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1999.
36 Antonii Sebastiani Minturni Poemata, ad Illustriss. Principem M. Antonium
Columnam, Venetiis, Apud Io. Andream Valuassorem, 1564. Il poema Italia (cc. 21v-
27r) è dedicato a Ettore Pignatelli e vi si legge, tra l’altro: «Hinc iacet Insubrum
columen, mea magna potestas / tot bellis, tot victa malis: tacet inclyta Roma, /
Roma caput summum: capitis collapsa ruina / membra labant reliqua. Una mihi
iam sola relicta / pars erat illustris Campaniae gloria terrae / Parthenope. Illa vides,
quanta obsidione prematur: / quam foeda interius turbentur moenia clade»
(c. 25v). Si veda ancora la lettera al Guidiccioni, da Messina, del 10 maggio 1529:
«Giace, o lasso, che né senza sospiri, né senza lacrime dir lo posso, la popolosa già
et hora vota d’abitatori Milano. Giace la Reina de le città per adietro alma et hor sì
misera. Giace la bella un tempo Napoli et hor sì brutta e sì deforme. Che sia de la
vostra Toscana sassel proprio essa, benché sia la men guasta regione del bel paese
che appenini parte e ’l mar circonda e l’alpe» (Lettere, c. 16r).
37 Sulla poesia panegirica di Minturno, cfr R. Béhar, Le De adventu Caroli imperatoris
in Italiam (ca. 1536) de Minturno: le célébration heróïque et mythique de Charles
Quint, in La lyre et la pourpre. Poésie latine et politique de l’Antiquité tardive à la Re-
[ 22 ]
tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del de poeta 649
care che le sue opere in generale, non solo il De Poeta, giungono alle
stampe con molto ritardo rispetto alla data di composizione.38 Pensiamo
ai poemi encomiastici diretti all’imperatore in occasione della sua
incoronazione (1530), o della vittoria di Tunisi (1535): nessuno viene
pubblicato prima del 1564.
Quale può essere dunque stato il timing delle ultime fasi di composizione
del De Poeta? Ricapitoliamo: durante il soggiorno a Ischia, nella
primavera e nell’estate del 1528, Minturno entra in contatto con Giovio,
e come lui, spaventato dal corso funesto degli avvenimenti, si decide a
far rivivere nei suoi scritti un mondo che è scomparso per sempre; indotto
anche da Vittoria Colonna, decide di dare forma di dialogo socratico
ai suoi appunti sulla poetica latina di cui gli umanisti morti erano la
viva rappresentazione, sulla base delle annotazioni che era andato raccogliendo
fin dai primi anni a Napoli, in margine alla letture dei classici,
Orazio e Virgilio fondamentalmente, e di altre opere teoriche come l’Actius
di Pontano o la retorica di Cicerone. Questo lavoro lo accompagnerà
per vari anni, anche quando si trasferirà in Sicilia, poco dopo il soggiorno
ischitano. Per ricostruire il contenuto di alcuni dibattiti ai quali
non aveva potuto assistere per motivi sociali, si serve di alcuni amici,
con i quali aveva condiviso a Napoli un cenacolo sulla poetica contemporanea.
Si conservano lettere inviate da Ischia a Scorziano39 e ad Annaissance,
a cura di M. Jean-Louis Perrin et N. Catellani-Dufrêne, Rennes,
Presses Universitaires de Rennes, 2012, pp. 117-132.
38 L’opera di Minturno viene pubblicata molto tardi, in concomitanza con la
sua ascesa sociale, nel 1558, avvenuta in seguito alla nomina a vescovo di Ugento,
prima, e poi di Crotone. Ciò suppone, non solo per il De Poeta, ma per buona parte
delle sue opere poetiche, una pubblicazione molto distante rispetto al momento
della stesura. Le poesie dedicate a Carlo V, scritte in momenti emblematici come la
sua incoronazione e che risalgono ad anni lontani come il 1530, vengono stampate
nei suoi Poemata ad Gonsalvum Pyretium nel 1564 (Venetiis, apud Io. Andream Valuassorem).
Solo l’edizione delle Lettere (In Vineggia, appresso Girolamo Scoto,
1549) precede la sua nomina a vescovo. Il resto della produzione volgare e latina
sarà stampato a partire dal 1559. Per limitarsi ai titoli più importanti: Rime e Prose
(In Venetia, appresso Francesco Rampazetto, 1559); Amore innamorato (Ibidem,
1559); L’arte poetica (In Venetia, per Gio. Andrea Valuassori, 1564); i Poemata ad
Antonium Columnam (Ibidem, 1564); i Poemata tridentina (Ibidem, 1564); gli Epigrammata
et elegiae (Ibidem, 1564).
39 Scrive da Ischia (lettera senza data) a Scorziano, esprimendo la sua nostalgia
per gli amici napoletani. Poi da Messina, in occasione della morte del Conte di
Borrello, che era il suo patrono. Il conte muore poco dopo l’assedio di Lautrec,
prima di suo padre Ettore, in seguito alle ferite ricevute in una battaglia contro i
francesi in Puglia, nel 1529; l’erede divenne a quel punto il nipote del viceré Ettore.
[ 23 ]
650 eugenia fosalba
drea Cossa40, ai quali esprime la sua nostalgia; con il secondo terrà un
epistolario in greco. Trasferitosi in Sicilia, rimane in contatto con Giovio,
che ringrazia per averlo menzionato nel suo dialogo, elemento
che ha permesso alla critica di datarne la prima redazione (1529)41. Nel
1533 si intensifica la corrispondenza con Scorziano, a cui offre una
soluzione efficace per scriversi più spesso, che consiste nel portare le
lettere a casa del viceré di Napoli, da cui il transito delle lettere verso
la Sicilia è veloce. È probabilmente in questo ultimo anno, se non prima,
che porta a termine una prima redazione integrale del De Poeta,
che poté essere molto vicina a quella definitiva.
Sembra altamente probabile che Garcilaso e Minturno potessero
conversare tra loro di precettistica, e non sarebbe affatto strano che
Minturno avesse affidato alle mani di un poeta della sua stessa generazione
e della grandezza del toledano un testo manoscritto come il
De Poeta, scritto per aiutare altri giovani con inclinazione per le Muse
come lui stesso. Sono numerose le testimonianze dell’epoca che riportano
l’ammirazione, il rispetto intellettuale e la simpatia che il poeta
toledano suscitava in coloro con cui conversava in Italia.
A completare l’indagine e chiudere il cerchio dell’ipotesi adombrata
in queste pagine di una ‘conversazione’ in materia di ars poetica tra
Minturno e Garcilaso sarà un prossimo contributo in cui si proverà a
isolare le tracce della teoria letteraria minturniana che affiorano nell’opera
del poeta spagnolo42.
40 «Da poi che, lungi da la patria e da li amici, mi ritruovo in Ischia, più tosto
chiusa prigione d’afflitti che piacevole ricetto, non hebbi mai hora tranquilla, né
diletteuole, né speraua poterne havere alcuna, se le gratiosissime lettere vostre non
m’havessero il grave esilio mitigato e fatto sperare di dovere spesse volte per loro
qualche dolce conforto sentire»: Lettere, cit., c. 6r-v. Che Cossa fosse intimo amico
di Minturno lo testimonia il prologo di Federico Pizzimenti alle sue Lettere, dove si
spiega che durante la sedizione del 1547 fu saccheggiata la «copiosissima et ornatissima
libraria del Minturno», che Andrea Cossa custodiva e che trasferì nel monastero
di S. Maria La Nova (cfr ivi, c. 1r-v).
41 Ivi, c. 15.
42 Lavoro che completeremo nel «Bulletin Hispanique», 2017.
[ 24 ]
Pasquale Tuscano
Allegoria e satira nelle metafore del Parnaso e del
Mecenate del poeta perugino Cesare Caporali
(1531-1601)
Cesare Caporali (1531-1601) occupa un posto di rilievo tra i poeti mecenati del
nostro secondo ‘500. Inaugura originalmente quella che sarebbe stata la poesia
bernesca, volgendola verso la dissoluzione dell’eroico, con la conseguente caricatura
dell’orgoglio umanistico. Con il Viaggio di Parnaso(1582) e la Vita di Mecenate
(1591), rimane l’inventore di una ‘formula’ di satira, alla quale, tra gli altri,
s’ispirarono, nelle loro relative opere, Traiano Boccalini e Miguel de Cervantes.

Cesare Caporali (1531-1601) occupies a prominent position among the poetpatrons
to have emerged from late Sixteenth-century Italy. He inaugurates
originally that which would become Bernesque poetry, adapting it towards the
dissolution of the heroic element with the consequent caricature of humanist
pride. With the Viaggio di Parnaso (1582) and the Vita di Mecenate (1591) he invents
a satirical “formula” that inspired, amongst others, Traiano Boccalini and
Miguel de Cervantes.
Tra i poeti che vissero, come testimoni e come attori, la temperie
culturale del nostro secondo ’500, connotata precipuamente dalle direttive
scaturite dalla Riforma Tridentina, e lo spazio per le risentite
tensioni umane e spirituali di cui era duramente condizionato, occupa
un posto di rilievo il poeta perugino Cesare Caporali, cortigiano, in
tempi diversi, di due cardinali, Fulvio della Corgna e Ottavio Acquaviva,
e del granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici.
Egli apre, decisamente e originalmente, il versante della contemporanea
poesia bernesca verso la dissoluzione dell’eroico e la conseguente
caricatura dell’orgoglio umanistico. Col Viaggio di Parnaso
(1582) e Avvisi di Parnaso (1583), cui seguirono la Vita, Le esequie e gli
Orti di Mecenate (1599), tra il modulo allegorico e satirico, avvia il genere
del poema eroicomico, che tanta fortuna avrebbe avuto nel ’600.
Certo, come scrive Claudio Mutini, egli «è il padre del Conte di Cula-
Università di Perugia; p.tuscano33@gmail.com
652 pasquale tuscano
gna e di Meo Patacca», ma anche «dell’Arcadia comica e del dilettantismo
di ogni epoca».1
Le notizie più degne di fede sulla sua odissea terrena le fornisce
Vincenzo Cavallucci nella Vita di Cesare Caporali, compresa nelle pp.
1-35 delle Rime, curate da Cesare Orlandi nel 1770.
Cavallucci precisa le origini del cognome Caporali. Apprendiamo
che il capostipite era vicentino. La famiglia discendeva da un Bartolomeo
Bensari. «Sbandito» da Vicenza, Bartolomeo venne a Perugia dove,
scrive Cavallucci, «ci prese soldo: e in qualità di Caporale […] si
segnalò nella guerra che i nostri combatterono con gli Agobbini […].
Lasciato l’antico Cognome, la sua stirpe fu sempre detta de’ Caporali,
dalla carica del suddetto Bartolomeo esercitata».2
Cesare nacque, a Panicale, il 20 giugno 1531, figlio illegittimo di
Camillo, canonico del Duomo, di origine vicentina. Dedito allo studio
delle lettere e della poesia, rimasto presto orfano del padre (Camillo
morì il 14 gennaio del 1541: Cesare aveva dieci anni), esaurita in breve
tempo l’eredità paterna, si trovò costretto, a sospendere gli studi e, per
vivere, a chiedere benefici ecclesiastici. In sostanza, ad entrare al servizio
di qualche mecenate benestante. Nel frattempo, godette della
generosità di Ottavio Acquaviva d’Aragona (Napoli, 1560 – ivi, 1612),
il quale, studente a Perugia, gli aveva offerto, perché continuasse gli
studi, «l’ottava parte delle sue entrate».3 Quando, nel 1591, venne eletto
cardinale, entrò al suo servizio.
Nel 1557, non trovandosi più nella possibilità di proseguire gli stu-
1 C. Mutini, Caporali, Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 1975, vol. XVIII, pp. 677-680. La cit. è a p. 680. Fondamentale,
anche per la bibliografia.
2 Abate V. Cavallucci, Vita di Cesare Caporali, in Rime di Cesare Caporali perugino
diligentemente corrette, colle osservazioni di Carlo Caporali. In questa nuova
edizione si aggiungono molte altre Rime inedite dello stesso Poeta, e la sua vita, In
Perugia, Nella StamperiaAugusta di Mario Riginaldi, 1770, pp. 538. La cit. del Cavallucci
è a p. 1.
Il volume contiene un’ampia Prefazione (pp. IX-XXXIX) e una Premessa dedicatoria
di Cesare Orlandi, Agli Illustrissimi Signori Decemviri di Perugia, pubblici rappresentanti
la dotta Augusta Città (pp. V-VIII). Nella dedica definisce il Caporali
‘poeta, quanto lepido, leggiadro ed onesto, altrettanto giudizioso, dotto ed erudito’ (pp. VVI).
Ricordando che erano in circolazione soltanto edizioni ‘misere, mancanti, e scorrettissime’,
si era proposto, con la presente, di procurarne una al più possibile corrispondente
al merito dell’Autore, e al sempre maggior decoro, e buon gusto, di
questa Augusta Città’ (p. VI). Segue il Catalogo delle edizioni delle Rime di Cesare Caporali
che sono pervenute a nostra notizia’ (pp. XL-XLIV).
3 Avvisi di Parnaso, in Rime, cit., p. 381.
[ 2 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 653
di in giurisprudenza, riavutosi da una malattia, decise di trasferirsi a
Roma. Qui riuscì a farsi assumere al servizio del cardinale Fulvio della
Corgna, nipote di papa Giulio III, trattenendosi presso di lui per sei
anni, dal 1559 al 1565.
Chiarì le ragioni del suo trasferimento a Roma nel Capitolo Primo
de La Corte, composto, in due Parti o Capitoli, nel 1578, quando aveva
già lasciato il cardinale Fulvio della Corgna:
Quasi per voto a Roma me ne andai,
Roma miracolosa, Roma bella,
felice stanza a chi ha danari assai;
per buscarmi un padron: ma la mia stella
mi spinse da un Signor di quella razza,
che gir Pontifical suole a Cappella;
a cui va innanzi un uom con certa mazza,
poi vien sua Signoria, ch’ha sotto lei
l’istessa mula or rossa, or paonazza.4
I sei anni trascorsi a Roma presso la famiglia del cardinale, gli offrirono
– se dobbiamo credergli sino in fondo – la possibilità sia di conoscere
meglio umanamente il cardinale, sia per esprimere una prima
amara considerazione sulla vita di corte.
Criticò duramente il cardinale Fulvio, ritenendo di non essere stato
trattato secondo i propri meriti, e sfogò il suo disgusto nella Seconda
Parte de La Corte, con un acre riferimento all’asprezza del tratto fisico
del cardinale, al suo temperamento collerico, alla severità del suo
sguardo:
Misero me, che per disgrazia mia
non ebbi mai dal mio Signor tal ciera,
che non mi minacciasse la morìa!
Fuor che quando mandommi alla Peschiera
a guisa di somar con le coppelle;
ma basto io non avea, né sonagliera,
perché l’acqua portassi a queste e a quelle
piante, che in trenta corsi (se non vario)
appena avea inaffiato le mortelle.5
4 La Corte, I, in Rime, cit., p. 298-299. Fulvio della Corgna era stato prima vescovo
a Perugia; quindi, color paonazzo. La zucchetta rossa è dei cardinali.
5 La Corte, II, in Rime, cit., pp. 320-321.
[ 3 ]
654 pasquale tuscano
A tale proposito, riferendo il pensiero di Carlo Caporali, nipote del
poeta, il Cavallucci scrive:
Il fatto seguì alla Pieve del Vescovado di Perugia nel distretto di Corciano,
dove soleva il Cardinal ritirarsi a state, allora che per li gran
caldi non si può dimorare in Roma: e quivi talora, insieme coi suoi
Cortigiani, si dilettava di innaffiar le piante, e di ripulire i viali: il che
diede occasione al rammarico del Poeta a cui, essendo tenuto in quella
Corte per gentiluomo d’onore, pareva quell’esercizio disdirsi.6
E sulla Corte compose, anche come testimonianza storica, uno dei
‘ritratti’ più felici che ci siano pervenuti, soprattutto della Corte di
Roma, con tutte le sue specificità, nel bene e nel male.

Forse non è inutile ricordare che la figura del letterato cortigiano, a
partire dal primo Rinascimento fino al ’700 inoltrato, non va colta con
la nostra sensibilità, ritenendoli puri e semplici addetti all’obbedienza
del signore. Venivano assunti come funzionari, come diplomatici colti,
come ambasciatori di casate nobiliari che dovevano accrescerne la fama
nel campo della politica e, soprattutto, in quella più generale, e più
ambita, di tutori delle humanae litterae. Dovevano, ovviamente, tenere
ben presente la normativa stabilita per il «perfetto cortegiano», nel
1516, dal robusto dialogo Il Cortegiano del Castiglione, che nel settore
aveva ampia esperienza. Tutti ricordiamo i più universalmente noti,
da Boiardo a Pulci, da Ariosto a Tasso, da Poliziano a Sannazzaro.
Certo, la potenza della ricchezza, superiore da sempre a quella della
cultura, ricchezza fatalmente destinata a una temporanea e rozza precarietà,
poteva anche portare a momenti di umiliazione. Pensiamo,
per fare un solo esempio, a quando, perduta la pazienza, il sereno
Ariosto scrisse, nella Satira VI indirizzata al Bembo, a proposito del
cardinale Alfonso d’Este, che «di poeta cavallar lo feo».
Perché il termine cortigiano assuma il significato spregiativo che
gli diamo oggi noi, bisogna aspettare l’Ottocento del Rigoletto verdiano,
dove, com’è noto, vengono definiti «vil razza dannata».

6 V. Cavallucci, Vita di Cesare Caporali, cit., in Rime, cit., p. 9.
[ 4 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 655
Ecco il ‘ritratto’ della Corte cardinalizia romana offerto da Cesare
Caporale, quand’era al servizio del cardinale Fulvio della Corgna.
Viene, comunque, da sospettare, dal momento che il poeta era già entrato
al servizio di Ferdinando de’ Medici – il futuro granduca di Toscana
Ferdinando I, a cui, nel 1582, avrebbe dedicato il Viaggio di Parnaso
–, che le tinte fosche, con le quali ha dipinto il cardinale Della
Corgna e l’ambiente della sua corte, dovevano servire, ora sì, a cattivarsi
la benevolenza del secondo mecenate, signore di un ambiente,
quello fiorentino, culturalmente e umanamente diverso da quello romano.
La Corte romana era un fiorente giardino di apparenze, di ipocrisie,
di falsità, d’insincerità:
La Corte si dipinge una Matrona
con viso asciutto, e chioma profumata,
dura di schiena, e molle di persona,
la qual s’en va d’un drappo verde ornata,
benché a traverso a guisa d’Ercol, tiene
una gran pelle d’Asino ammantata.
Le pendono poi dal collo aspre catene,
per propria dapocaggine bestiale,
che scior se le potrebbe, e uscir di pene.
Ha di specchi e scopette una Reale
Corona, e tien, sedendo sulla paglia,
un pié in bordello, e l’altro allo spedale.
Sostiene con la man destra una Medaglia,
ove sculta nel mezzo è la Speranza,
che fa stentar la misera Canaglia.
Seco il tempo perduto alberga, e stanza,
che vede incanutir la promissione
di fargli un dì del ben, se le n’avanza.
Poi, nel rovescio, v’è l’Adulazione,
che fa col vento delle sberrettate
gli ambiziosi gonfiar come un pallone.
Vi sono anche le Muse affaticate,
per sollevar la misera e mendica
Virtute, oppressa dalla povertate;
Ma si gittan al vento ogni fatica,
che ha su ’l corpo una macina da Guato,7
e già le crepa il ventre e la vescica.
7 Guato: erba per tingere i panni.
[ 5 ]
656 pasquale tuscano
Tien poi ne l’altra man l’amo indorato,
con esca preziosa cruda e cotta,
che per lo più diventa pan muffato.
Corre la turba ingorda alla pagnotta,
e poi convien, che molla nel sudore
e condita coi cancheri l’inghiotta.
Così (bench’io non so chi fu l’Autore)
vidi questa figura già dipinta
in casa d’un illustre mio Signore. […]
Due cose in Corte non mi fer mai danno,
l’Odio e l’Invidia, perché non trovaro
cosa mai da tagliar sopra ’l mio panno.8
Abbandonata anche la Corte di Ferdinando I, nel 1570 si ritirò a
Perugia. Lo stesso anno sposò Giulia, dalla quale ebbe quattro figli. La
sua presenza nella città umbra è certa fino al 1586. Gli era stato confermato
l’affitto di un podere presso Fratticciola, che aveva avuto nel
1558.
Nel 1590 lo troviamo a Napoli come familiare del cardinale Acquaviva.
Già suo generoso amico ed estimatore, lo ritenne, più che cortigiano,
suo segretario, affidandogli anche il governo di Atri e di Giulianova,
in Abruzzo. In quegli anni sereni, compose la Vita di Mecenate
(1591), pubblicata postuma, a Venezia, nel 1604, che, con le Esequie di
Mecenate e gli Orti di Mecenate(1599), rimane tra i più esemplari poemi
eroicomici della nostra attività letteraria. La famosa Secchia rapita di
Alessandro Tassoni avrebbe visto la luce nel 1622, 30 anni dopo.
Nell’ultimo periodo della sua vita tornò a Perugia a frequentare la
famiglia Della Corgna. Scrive il Cavallucci:
All’ultimo fu dal Marchese Ascanio, pronipote di esso Cardinal della
Cornia [sic], con amorevole provvisione chiamato, in casa del quale
poté fino alla morte godere d’una vita riposata, tranquilla, se non
quanto era dalla sua indisposizione della pietra tormentato: a che egli
volle alludere laddove, descrivendo le porte di bronzo in palazzo negli
Orti di Mecenate, dice che v’era scolpito il vecchio Sileno, per cui intende
a se medesimo, che stava all’ombra d’un Corniolo, inteso per lo suddetto
Marchese:9
8 La Corte, Parte II, in Rime, cit., pp. 317-319 e 333.
9 V. Cavallucci, Vita di Cesare Caporali, in Rime, cit., pp, 11-12.
[ 6 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 657
Dall’atra parte sculto era Sileno,
vecchio, stanco, e digiun, sotto un cortese
arbor di Cornia a meraviglia pieno:
al cui bel tronco avea il vecchio appese
l’incerate sue canne, con che spesso
(giudice Pan) già con Ogon contese.10
Disgustato dalla vita di Corte presso il cardinale Della Corgna, lo
tornò ad invitare il pronipote del cardinale, il marchese Ascanio, con
una lettera lusingatrice, scritta dal suo segretario Scipione Tolomeo, e
riportata dal Cavallucci:
Ella ha da venire in villa per gusto proprio, e per consolazione di questo
Signore, che l’ama, e gode della sua gentil conversazione. Non sarà
servente, ma servita; non cortigiano, ma corteggiante; avrà tutte le comodità
desiderabili, mentre ci starà[…]. Per venire avrà chinèa11, carrozza, lettica,
sedia, e se volesse anche un lettuccio portato da quattro di questi asini
a due piedi: s’ella stessa dura, sarei necessitato di venire io medesimo,
per pregarla: ma il Sig. Marchese confida tanto in lei, che non ha giudicato
esser bisogno pur di scriverle da se stesso; ed io ne ho da lui il
carico, non pretendendo egli ch’ella debba avere altro riguardo, che
quello della sua propria cortesia. Questa sa che teniamo per sicura e
presta la sua venuta, per la quale Sua Eccellenza ha preparate attente
orecchie alla dolce lingua di voi; ed io continuo servigio al suo molto
merito. Goderò di poter con l’uno soddisfare all’altro: e le bacio le mani’.
12
La classe egemone ha avuto sempre bisogno di una efficace pubblicità,
ieri come oggi. I mecenati di turno non ‘assumevano’ i letterati
per esclusiva stima e simpatia. A volte, potevano entrarci anche quelle.
A loro interessava precipuamente procacciarsi i letterati più in vista,
trattandoli bene, sia per far ‘cantare’ i loro, spesso, «compri onori
», per dirla col Parini, sia per neutralizzare le voci che avrebbero
potuto arrecare irreparabile pregiudizio, tramandando, nel tempo avvenire,
l’eventuale loro fama negativa.
A Perugia fu ammesso all’Accademia degli Insensati, dove prese il
nome di Stemperato, ed alzò per Impresa una penna d’oca «non tem-
10 Orti di Mecenate, in Rime, cit., p. 292.
11 Chinèa: termine antico: mulo da sella; cavalcatura.
12 V. Cavallucci, Vita di Cesare Caporali, cit., in Rime, cit., pp. 12-13. Il corsivo è
mio.
[ 7 ]
658 pasquale tuscano
perata tra altre ancora in uso da scrivere […], ed il motto: recisa
emulabar».13
Travagliato dal ‘mal della pietra’, «soleva far molt’uso del finocchio
lodatogli assai per la sua qualità aperitiva da’ Medici, ma però
senza alcun profitto: ond’egli così se ne rammarica negli Orti di Mecenate
»:
Il finocchio è con essa a paro a paro,
con che gli Autori Arabi e Latini
le mie vane speranze infinocchiaro:
che me l’han dato cotto in brodo, e in vini,
per levarmi il dolor della vescica.
e romper gli ostinati trivertini.
Ma l’util che m’han fatto Iddio tel dica:
basta, le cose van di male in peggio,
oltre che ci ho l’età fiera nemica.14
Morì di calcolosi biliare, a Castiglione del Lago, il 18 dicembre
1601, all’età di 70 anni. Sempre il Cavallucci c’informa che l’autopsia
rivelò «un calcolo dalle dimensioni di un uovo».15 Il marchese Ascanio
II lo fece tumulare nell’Oratorio degli Agostiniani. In seguito, il duca
Fulvio II Alessandro fece trasferire la salma nella Cappella del Salvatore,
presso la chiesa di S. Domenico, dove riposa accanto a lui.

Avendo servito due cardinali, Cesare Caporali era certamente un
esperto dei «vizi umani e del valore» della vita cortigiana. Ma, anche
per indole, il servire non faceva parte della sua cognizione esistenziale.
Ne discorre in tutte le sue opere, a cominciare dai due capitoli del
1578 dedicati appunto a La Corte, con un accento sapidamente satirico
più che umoristico, rispetto ai poeti cortigiani suoi contemporanei che
si sprecavano negli elogi stucchevoli, o nel risvolto eroicomico, che
non sempre coglieva nel segno voluto. Egli non sopportava vedersi
anteporre, in Corte, adulatori, buffoni, cattivi soggetti. E qualche no-
13 Rime, cit., p. 19.
14 Orti di Mecenate, in Rime, cit., pp. 287-288.
15 V. Cavallucci, Vita di Cesare Caporali, cit., in Rime, cit., pp. 5-7e Orti, cit., p.
289 nota.
[ 8 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 659
me non lo risparmiava! Biasimava l’avarizia dei principi, la vanità dei
titoli, l’arroganza dei pedanti, ai quali dedicò un omonimo poemetto:
Oggimai n’è chiara ogni persona,
che i Pedanti son’Asini, che sciolti
saltan talvolta adosso alla Padrona.16
Nel Capitolo17 Proemiale alle Rime, tra il serio e il faceto, indica le
ragioni, e il senso, della sua parola poetica:
Ma mentre mi trattengo a cicalare,
Lettore, di grazia aprite le finestre,
che m’è venuta voglia di volare. […]
E già fuor dell’Augusta mia pendice
men volo altier, portando il mio Libretto
per l’Italico ciel nibbio felice.
Nibbio a la voce, all’unghie, al rostro, al petto,
cigno non già, che dir tanto non oso,
né la piuma m’ha tolto l’intelletto.
Con tutto ciò per l’aria ecco un rabbioso
stuol d’uccellacci, e par che strida e gracchia,
forse del mio bel volo invidioso.18
Era ben persuaso che, per fare i conti con «un rabbioso stuolo d’uccellacci
», per non soccombere e non farsi complice, occorreva mutarsi
in uccello rapace imprevedibile e impietoso come il nibbio, tale, in
ogni suo gesto, dalle unghie falcate al becco adunco, dalla voce salda
alla parola conseguente.
La durezza della sua radicale avversione nei riguardi delle Corti è
esplicita nell’incipit della Parte Prima de La Corte. Chiamando a testimonio
– ovviamente in chiave grottescamente giocosa –, un cortigiano
provetto come l’illustre suo amico assisano Trifone Benci, ch’era stato
Segretario delle Cifre e dei Brevi ai Principi di quattro papi (Leone X;
Clemente VII; Giulio III e Pio IV), dal 1513 al 1565, quindi per ben 52
anni, dà una definizione della Corte che è il miglior commento al passo
del «nibbio» e degli «uccellacci»:
16 Il Pedante, in Rime, cit., p. 404.
17 Anche Berni chiamò Capitoli i suoi poemetti giocosi. In realtà, si tratta di
componimenti in terzine di versi endecasillabi a rima incatenata. Caporali compose
anche sonetti, canzoni, sestine, ottave.
18 Rime, cit., p. 40.
[ 9 ]
660 pasquale tuscano
Mentre vissi, Trifon, cinque anni in Corte
(se viver si può dir dove la vita
è registrata al libro della Morte),
Voi sol vid’io fra quasi un’infinita
turba, cogli anni andar presso al centesimo
che seguitate la Corte fallita.
Voi vi trovaste tenerla a battesimo,
secondo il Bernia,19 e voi siete anche un giorno
per farle l’Epitaffio col millesimo.
Da Voi […] desio d’aver una minuta lista,
del modo, dello stil, delle creanze,
e in somma, d’ogni cosa buona, e trista.
Con che già v’acquistate e piatto e stanze,
nella Corte di Roma, o per dir meglio
nel pubblico Spedal delle speranze:
acciò se alcun da me vien per consiglio,
ch’ir voglia in Corte (benché ciò mi spiaccia,
ch’io non domo polledri e non gl’imbriglio)
gl’insegni seguir Voi per dritta traccia,
che siete un Cortigian il più forbito,
ch’oggi in Roma si pettina, o s’allaccia.20
Ma Cesare Caporali non divenne famoso per la pur notevole produzione
di versi sparsi e di capitoli satirici che, del resto, erano diventati
tanto di moda che quasi non si prendevano più sul serio. La sua
parola poetica raramente riesce a conferire«quel massimo di vibrazioni
allusive nella memoria verbale del genere umano»,21 che è dono dei
poeti autentici. Rimane l’originale inventore di una ‘formula’ di satira
che avrebbe avuto varia ed enorme fortuna: quella del Viaggio di Parnaso.
Si tratta di una satira letteraria sul filo della narrazione di un
19 È chiaro il riferimento al noto sonetto caudato del Berni Sonetto di ser Cecco
(Francesco Benci e la Corte): Ser Cecco non può star senza la corte.
20 La Corte, I, in Rime, cit., pp. 295-296. Su Trifone Benzi tornerà nella Parte Seconda
della Vita di Mecenate, cit., p. 70. Cfr il mio contributo:Due intellettuali assisani
del ’500 alla corte papale: Francesco e Trifone Benci, in Assisi nelle civiltà delle lettere.
Indagini e letture di storia letteraria e civile da Properzio ai giorni nostri, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2016, pp. 145-153.
21 F. Flora, Prefazione a G. Leopardi, Memorie, Milano, Universale economica,
1950, p. 11.
[ 10 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 661
viaggio immaginario nel regno suggestivo, sorprendente e difficile,
della Poesia, appunto il monte Parnaso nella Focide. Il poemetto, in
due Parti, in terzine di versi endecasillabi a rima incatenata, vide la
luce nel 1582. A lui s’ispirarono, in seguito, Traiano Boccalini, coi Ragguagli
di Parnaso (1612); Miguel de Cervantes, col Viaje del Parnaso
(1614);22Giulio Cesare Cortese, con il Viaggio in Parnaso (1621); Scipione
Errico, con le commedie Rivolte in Parnaso (1625) e Guerre di Parnaso
(1642), per citare i più noti.
Sul filo dei temi consueti della poesia giocosa, così fiorente in quegli
anni, Caporali vuol rendersi conto delle ragioni del declinare
dell’arte poetica. Accompagnato da una mula, simbolo della testardaggine
della propria ispirazione, vuol compiere un viaggio sul Parnaso.
Pratico di tante Corti, vuol conoscere anche quella di Apollo, dio
della Poesia. Tra le Muse e i poeti è guerra aperta. La cortigianeria, le
adulazioni, le beghe letterarie, hanno ammalato la Virtù e avvelenato
l’Onore. Alle pendici del monte, il Disprezzo fa giustizia di tanta carta
stampata.
Il viaggio per raggiungere la Grecia è stato lungo e faticoso (Roma,
Gaeta, Napoli, la Sicilia, Corfù, Zante), ma la vista del Parnaso lo estasia:
Parea tutto quel monte un celest’orto,
sol della magra e vecchia Poesia
per piacer coltivato, e per diporto.
E dal desio pur di Parnaso spinto,
rimontai su la Mula, ancorché buona
parte a pié gissi in quel laberinto. […]
Giunsi a pié d’un’altissima montagna,
sotto le cui gran balze affaticarsi
vidi una turba veramente magna,
che avendo invan stentato d’aggrapparsi
su per quegl’erti e spaventosi scogli,
tirata dal desio d’immortalarsi,
mille suoi scritti alfin, mille suoi fogli,
22 Caporali aveva conosciuto, a Roma, il Cervantes, quando questi si occupava
della segreteria del cardinale Acquaviva. Sui loro ipotetici rapporti, Anton Carlo
Ponti ha scritto un suggestivo testo teatrale, La battaglia navale ovvero Miguel de
Cervantes e Cesare Caporali, rappresentato, con successo, a Corciano, per il 52° (2016)
Agosto Corcianese.
[ 11 ]
662 pasquale tuscano
cuciva insieme e, a guisa poi di funi,
li attorcia a la ruota de gl’imbrogli.23
Caporali offre un quadro perfetto, ma inquietante, dello stato di
salute della Poesia autentica, per raggiungere la quale la via non è facile,
né agevole (laberinto). Ora, è «magra e vecchia»; coltiva l’ispirazione
«per piacere e per diporto»; il numero è cresciuto incredibilmente:
è «una turba veramente magna» che «si affatica» per quelle «gran
balze»per immortalarsi, aggrappandosi inutilmente a quegli «erti e
smisurati scogli».
Il sostantivo turba dice chiaramente il disprezzo del poeta per la
folla di versicultori che si autoproclamano ‘poeti’, privi di ogni decoro,
boriosi e opportunisti, che si vogliono esibire a ogni costo («avendo
stentato d’aggrapparsi»). Si tratta di una «turba veramente magna»,
dove il latinismo magna, cioè ‘enorme’, ‘numerosa’, acquista, nella satira
giocosa, un senso che va ben al di là del valore semantico: si tratta
di una turba che si affatica a scalare le ripide balze della notorietà per
procurarsi diletti e beni materiali, per magnà, per dirla alla romanesca.
In sostanza per una vita comoda e senza preoccupazioni di sorta.
Nella Seconda, e conclusiva, Parte del Viaggio, Caporali fa una lunga
rassegna di poeti, indugiando particolarmente su quelli giocosi.
Giunto in una «politissima taverna», incontra il loro caposcuola, Francesco
Berni. Di alcuni di loro ricorda i componimenti più noti per l’originalità
del loro contenuto, se non per il loro valore poetico:
In questa politissima taverna,
residenza dei guatteri, e dei cuochi,
era di tutti gran maestro il Berna,
e dispensava le faccende e i luochi;
là si cuocean pasticci in piccol forno,
e qua le torte a i temperati fuochi.
Non avea il muro altri corami intorno,
se non che di bianchissima incrostata
di più ricotte il Varchi l’avea adorno.24
In realtà, Benedetto Varchi aveva composto un ‘capitolo’ sopra la
ricotta e uno sopra le zampette di maiale (peducci); il Lasca, in lode della
salciccia; il Molza, in lode dei fichi; Della Casa, in lode del forno; lo
23 Viaggio di Parnaso, in Rime, cit., p. 349 e 341.
24 Viaggio di Parnaso, II, in Rime, cit., pp. 363-364.
[ 12 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 663
stesso Caporali, in lode dei confetti (Il coriandolo). Berni, naturalmente,
fu il più generoso, e compose capitoli in lode dei cardi; delle pesche,
della gelatina; dei gliozzi (pesci particolarmente prelibati), delle anguille,
ma anche in lode del debito, dell’ago, della peste, del «caldo del letto
», del clistere, dell’orinale, di una mala notte in casa di un prete, ecc.
Da nuovo e, quindi, inesperto, visitatore, Caporale si stupisce nel
non riuscire a vedere, nel numeroso stuolo di poeti toscani, nemmeno
uno dallo sguardo serio, dal fiero cipiglio, orgogliosi dall’essere ritenuti
‘maestri’, quanto meno della lingua della poesia, secondo i precetti
stabiliti dal Bembo:
Io mi stupia fra quelle genti fosche,
di non veder alcuna faccia grave
di quei gran Padri delle Muse tosche.25

Caporali riprese l’argomento del Viaggio l’anno successivo, nel
1583, componendo il poemetto risentito e, quindi, freddo e monotono,
Avvisi di Parnaso, contro i gazzettieri, contro coloro che trasmettono
«ragguagli» e che «ogni mese li pagano in contanti».26 Occasione propizia
per fustigare, evocandoli giocosamente, i vizi comuni ai cortigiani,
dai rancori alle simulazioni, dall’invidia all’ambizione. Né i Principi
hanno interesse a farsi cortigiani i «Poeti dabbene»:
Talché s’oggi per caso alcun depone,
che con Principe si trovi ch’abbia cura
d’un Poeta dabben, d’un che compone;
perché egli dice contro lor natura,
dategli con l’Abbate in sulla faccia,
e la rivocazion sarà sicura. […]
Si scrive per certissima la morte
di quel gran gentil’Uom chiamato Onore:
il che pensi ciascun quanto ch’importe. […]
Morto insomma l’Onore, il Mondo brutto
s’ha tirato su gli occhi la berretta,
e ruba, ed egualmente entra per tutto.27
25 Ivi, p. 366.
26 Ivi, p. 380.
27 Ivi, pp. 395, 398 e 399.
[ 13 ]
664 pasquale tuscano
Ritengo che meritino ancora, da parte nostra, un’attenta rivisitazione
le riflessioni che Caporali fa sul mecenatismo nella sua ultima
opera poetica, la trilogia, composta tra il 1591 e il 1599, a due anni
dalla morte: la Vita di Mecenate, in dieci canti; le Esequie di Mecenate, in
due canti, e gli Orti di Mecenate.
Si tratta di scritti che, a mio parere, richiedono, data la comune atmosfera,
una lettura unitaria. Sono, sostanzialmente, tre parti di un
unico poema eroicomico, la prima delle quali Caporale la recitò presso
la perugina Accademia degli Insensati.
Motivo di fondo è mettere in evidenza l’esercizio di protettore dei
poeti del famoso consigliere di Augusto, Mecenate, e i moderni protettori,
in una grottesca trama rievocativa degli avvenimenti politici e
sociali che sconvolsero la storia di Roma dalla morte di Cesare al passaggio
del potere nelle mani, appunto, di Ottaviano Augusto.
Uno dei momenti centrali è il racconto parodistico dell’incendio di
Perugia dell’anno 2041 ab urbe condita, provocato da Publio Cestio. Per
volontà di Augusto, trent’anni prima della nascita di Cristo, Perugia
rinacque ancora più forte, con un nuovo, imponente recinto di mura
che la circondano per cinque miglia.
Plasticamente efficace è la descrizione fisica e psicologica dei vincitori,
i quali, di fronte alla ferma resistenza dei perugini, si trovarono
umiliati e scherniti:
I vincitor, che di rubar quei tetti
avean speranza, poiché volta in gelo
vider la speme, e i lor pensier negletti,
tiravan giù con le bestemmie il Cielo,
si mordevan le man, batteano i denti,
si pelavan la barba a pelo a pelo.
Perché, dove sperar ricchi e contenti
tornar con cappe e sai alla divisa,
a riveder le mogli e i lor parenti,
si vedean scalzi e nudi essere in guisa
che sulle carni aveano il giubbon solo,
cucitosi il collar della camisa.
Ma questa era una baia appo il gran duolo
de i Perugin, che avean, temendo il peggio,
lasciato in preda al fuoco il patrio suolo28
28 Vita di Mecenate, VIII, in Rime, cit., p 169-170.
[ 14 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 665
Riprendendo, nel canto conclusivo, il discorso sul mecenatismo,
constata, giustamente, che ci sono mecenati che non sanno distinguere
letterato da letterato, poeta da poeta, Come fece appunto Mecenate
per i cantori dell’amore di Antonio e di Cleopatra: «Mecenate di sé
fece gran pruova\bravando [sfidando] l’acqua, il ferro, l’unto, e
l’uova».29
Immagina, poi, Caporali che la morte di Mecenate venga raccontata
dall’amico del Petrarca, Sennuccio del Bene. Ed ecco che, morto il
benefattore, giunge l’ingratitudine, fattasi dimenticanza. E in due terzine,
incide una verità inequivocabile:
Dopo non so che dì festivi, e lieti,
si radunò nel Tempio delle Muse
un grandissimo branco di Poeti;
dove, tra molte ceneri confuse,
quelle di Mecenate, in una Palla
separate si stavan, e rinchiuse.30
Accettato l’invito ricordato fattogli da Ascanio della Corgna, e ritiratosi
nella villa marchionale di Castiglione del Lago, compose il poemetto
Orti di Mecenate, per celebrare le incantevoli bellezze di quel
giardino, che tanto possono dire ancora oggi, tra gli altri, ai cultori di
botanica, di giardinaggio e di frutticultura.
Com’è noto, le ville gentilizie venivano incastonate entro giardini
esteticamente elaborati e realizzati, e dovevano, come le Arti, «stupire
e meravigliare» il visitatore, già un secolo prima che lo suggerisse
Giambattista Marino come fine del poeta. Basti pensare a qualcuna
delle tante presenti nel nostro paese, dalle ville venete palladiane, a
Villa d’Este, a villa Pamphilj, alla Regia di Caserta, a villa Torlonia,
alle ville vaticane, a Castel Gandolfo, ecc.
Il giardino della villa di Castiglione del Lago di Ascanio della Corgna
doveva gareggiare con gli orti romani che Mecenate aveva sull’Esquilino.
A ciò dovevano richiamare fiori e rami disposti a comporre
quadri che evocassero mirabili edifici ed avvenimenti storici. Caporali,
quasi disincantato dal nobile sognare, si ritrova nella sua realtà di
poeta allegorico-giocoso. E, entrato nel giardino edenico, innalza per
primo, giocosamente, un inno alla carota, intesa ordinariamente dai
poeti come metafora della bugia, dell’impostura:
29 Vita di Mecenate, X, in Rime, cit., p. 190.
30 Esequie di Mecenate, I, in Rime, cit., p. 237.
[ 15 ]
666 pasquale tuscano
Or vedendo io non essermi prescritto
l’entrar per tutto a contemplar le piante,
e l’erbe, e i fior, quasi in un verde Egitto,
mi mossi, e quel che pria mi vidi innante,
fu l’erba, a noi sì familiare e nota,
dalla radice morbida e calzante.
Salve, venerabilissima Carota,
salve, diss’io, piantabile radice,
e dei vaghi poeti erba divota.31
Tra le numerose varietà di alberi da frutto, giustamente assegna un
posto speciale al pero bergamotto [da non confondere, ovviamente,
col noto prezioso agrume. Qui il termine deriva dal turco, e significa
‘pera da principe’]:
Mi era grato
qui il rezzo di un leggiadro arbor da frutto,
il qual con l’altre piante a fil tirato
rendea questo mirabile verziero
quasi un terrestre paradiso ornato. […]
Ma perché il puro scrivere in Bernesco
oscurità non vuol, né confusione,
acciò i lettor nol guardino in cagnesco,
faccian tra l’erbe e gli arbor divisione,
dando la precedenza a chi è maggiore
per stirpe, o per qualch’altra pretensione.
Al Bergamotto dunque inferiore
vidi il Carmelitan per Garavello,
non ben contento del second’onore.32
E fa un elenco di alberi da frutto, del luogo o importati per la prima
volta, rinomati per il sapore e per il profumo: l’azzeruolo; l’albicocco;
il pesco; il pruno; il mandorlo; il gelso nero, colorato dal sangue dei
trafitti amanti Piramo e Tisbe (Met. IV); il melograno, «ricco d’innumerabili
rubini»; i cotogni, «avventurosi\che nascon di lanugine vestiti
»; «indi il fico s’en vien, che il nome onesto\s’infemmina, si muta,
31 Orti di Mecenate, in Rime, cit., p. 276.
32 Orti di Mecenate, in Rime, cit., p. 278. Il carmelitano e il garavello sono due
specie di pero.
[ 16 ]
allegoria e satira nelle metafore del parnaso e del mecenate 667
gli si toglie,\non fa fior, non odore, e invecchia presto»; «seguia poi il
frutto, che dopo la rotta\di Mitridate, fu portato e mostro\ a Roma,
allor non così avara, e ghiotta.\\. Parlo della ciriegia al tempo nostro,\
quella pregiata più, che più somiglia,\ Signor, la Cornia, ond’è il
cognome vostro». Descrive, ancora, rivelando non comuni competenze
architettoniche da provetto giardiniere, il cortile della villa:
Davanti poscia a questo Regio tetto,
tirato a fil con giuste proporzioni,
stava un Cortil di grazioso aspetto,
ove i cedri, gli aranci, ove i limoni
spiegavan l’odorata lor spalliera
fin ai prescritti termini e cantoni.33
A guardia degli Orti stavano meravigliose e imponenti statue di
Apollo e di Orfeo, come uscite dall’opera del ‘divin scalpel di Fidia’,
ma già malinconiche espressioni della decadenza delle Arti, prime tra
tutte della Poesia e della Musica:
Su un’altra base pur di marmo fino
rappresentava il trasformato Apollo,
per non morir di fame, in ciabattino.
Avea la lira guasta ad armacollo,
con dentro spago ed altre bagattelle,
e sotto il braccio il suol già stato a mollo. […]
Pur vedeasi, ch’in questo esprimer volse
la nostra età nemica dei Poeti. […]
Qui di basso rilievo Orfeo si vede
che d’Anfione in man presa la cetra,
piegar una piramide si crede.34
Riflessioni amare di chi si sentiva prossimo a concludere l’odissea
terrena, constatando che la Poesia naufragava nel dilettantismo, nell’Arcadia
comica e vana.
33 Ivi, in Rime, cit., p. 290.
34 Ivi, in Rime, cit., pp. 291-292.
[ 17 ]

Ambra Carta
L’Umanesimo civile e cristiano
di Giuseppe Antonio Borgese
Il saggio offre una riflessione sulla prospettiva simbolico-religiosa che anima
l’intera attività letteraria e diplomatico-politica di Borgese, dagli anni prebellici
fino alla morte. Gli scritti di natura saggistica, le riflessioni critiche in rivista,
infine, il primo suo romanzo, Rubè (1921), mostrano quanto radicata fosse nello
scrittore l’esigenza di un rinnovamento morale attraverso l’edificazione di una
nuova cultura, di un mondo nuovo. L’impegno politico-culturale profuso negli
anni del secondo dopoguerra costituisce l’epilogo di una ininterrotta ricerca di
utopia nel segno di un umanesimo civile e cristiano.

This essay looks at at the symbolic-religious perspective that animates the entire
literary and diplomatic-political activity of Borgese, from the pre-war years
until his death. His essays, his critical reflections in journals and his first novel,
Rubè (1921), show the degree of importance the author attached to a moral renewal
by means of the construction of a new culture, of a new world. His political
engagement after the Second World War forms the epilogue to a long
search for utopia marked by a civil and Christian humanism.
Tra le riflessioni più ricorrenti nelle pagine critiche di Giuseppe Antonio
Borgese vanno annoverate certamente quelle su umanesimo e
cristianesimo. Scorrendo le numerose opere borgesiane colpisce ritrovare
quasi con cadenza regolare negli anni l’impiego di un campionario
lessicale omogeneo afferente all’area simbolico-religiosa – resurrezione,
riscatto, palingenesi, rinnovamento – impiegato ora per commentare la
pubblicistica del tempo ora per rilanciare un programma letterario radicato
in una prospettiva di natura etica e civile. Se rileggiamo i passi
dedicati al cristianesimo manzoniano, all’afflato evangelico tolstojano,
alla lacerante analisi di coscienza dei personaggi di Dostoevskj, ritroviamo
le radici di una ininterrotta fede in modelli che erano al contempo
letterari e morali, estetici e etici. Dai primi scritti in rivista («Leonardo
») al Golia. Marcia del Fascismo (1937) Borgese tesse coerentemente la
Università di Palermo: ambra.carta@unipa.it
670 ambra carta
trama di un disegno letterario che nelle intenzioni del critico avrebbe
dovuto inaugurare la nuova stagione della cultura italiana. Dopo la
scadente cosiddetta ‘letteratura d’armistizio’, giunti al 1920 i tempi erano
ormai maturi per una svolta. Tornare alla architettura chiusa del romanzo
ottocentesco e riempirla di contenuti organici era il programma
letterario di Borgese all’altezza della pubblicazione della sua prima
prova romanzesca. Da lì in poi, ovvero fino al secondo dopoguerra, agli
anni di maggiore impegno politico e civile, lo scrittore tornò, variamente
declinandoli, sugli stessi nuclei radicali del suo edificio letterario: la
rinascita culturale e civile, l’ansia di assoluto, l’utopia umanistica e cristiana.
A tale prospettiva simbolico-religiosa va dunque ricondotta una
parte considerevole dell’opera di Borgese tra cui, certamente, un posto
di rilievo va assegnato a Rubè non fosse altro che per la funzione nodale
che esso svolge nel sistema del romanzo italiano.1
Critico, poeta e narratore tra i più prolifici della prima metà del
Novecento, tra i più acuti nel cogliere i germi della crisi morale del
secolo che stava tramontando, ma anche i segnali del risveglio Borgese
non fu però tra i più amati e riconosciuti intellettuali non solo dai
propri contemporanei ma anche dalle generazioni successive.2
Un primo segnale di svolta «di sintesi, architettura, libro: queste le
parole con cui approssimativamente si può contrassegnare il nuovo
gusto»3 è dal critico rintracciato nel 1921, anno emblematico sia perché
1 Gli studi critici su Rubè dall’anno della sua pubblicazione a oggi, sono assai
numerosi. Di seguito quindi si riportano soltanto quelli che si sono soffermati sulla
sua lettura in chiave simbolico-religiosa: A. Momigliano, Rubè, in «Il Giornale
d’Italia», 23.4.1921, poi in Id., Giuseppe Antonio Borgese, in Impressioni di un lettore
contemporaneo, Milano, Mondadori, 1928, pp. 261-95; L. De Maria, Introduzione a
G.A. Borgese, Rubè, Milano, Mondadori, 1980, pp. V-XX; G. Langella, Borgese e
Manzoni, in «Aevum», sett.-dic., LX, 1986, pp. 397-414; L. Parisi, Borgese e Manzoni,
in «Modern Language Notes», gennaio, 112/1, 1997, pp. 38-56.
2 Celebre è la definizione di poesia crepuscolare in riferimento ai versi di Marino
Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves su «La Stampa» del 10 settembre
1910 (poi nel II volume de La Vita e il Libro, 3 voll., Torino, Bocca, 1910-1913, pp.
149-160) e altrettanto note sono le recensioni agli Indifferenti di Moravia o alle opere
d’esordio di Soldati e Piovene, presaghe del ruolo che avrebbero svolto nello
svolgimento della nostra storia letteraria. (Le recensioni, insieme ad altre pagine
critiche di Borgese, sono raccolte in G.A. Borgese, La città assoluta e altri scritti, a
cura di M. Robertazzi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1961, pp. 214-231). Sul silenzio
calato sulla sua figura e la sua opera, si rimanda a L. Sciascia, G.A. Borgese: ciò
che insegna la sua fede letteraria e politica, Appendice in G.A. Borgese, Rubè, con uno
scritto di L. Sciascia, Milano, Mondadori, 1994, pp. 397-403.
3 G.A. Borgese, Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923, p. 255.
[ 2 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 671
segna il battesimo del suo primo romanzo sia perché inaugura, proprio
attraverso di esso, la nuova pagina letteraria italiana. Venti e ventuno
è l’articolo in cui l’autore di Rubè lamenta il decadimento artistico
del biennio appena trascorso, privo di opere che esprimano la vita
intima e profonda del popolo italiano. Dopo Carducci, Pascoli, D’Annunzio
e Fogazzaro, la generazione artistica che è seguita non ha prodotto
quella letteratura nuova che il maestro De Sanctis aveva profetizzato
nel finale della sua Storia della letteratura italiana. I segni del
nuovo tempo e del nuovo gusto, però, scrive Borgese, stanno per apparire
e i critici dovranno tornare a edificare, come recita il titolo della
raccolta di scritti del 1923 con cui lo scrittore di Polizzi mette in parentesi
l’attività di critico militante e inaugura una nuova fase del proprio
itinerario di scrittore.4 L’alba della «nuova giornata letteraria d’Italia»5
già s’intravede, il 1921 è un anno di ricostruzione, di rinascita di una
cultura da un nuovo gusto e una nuova arte. Tempo di edificare si chiude
con un robusto invito a fare; un invito ai critici, agli editori, agli
scrittori che, per la verità, hanno già voltato pagina, recuperando ciò
che gli artisti decadenti avevano spregiato, la tensione alla grandezza,
al compiuto, al concludente e conclusivo.
Alba, crepuscolo, rinascita, resurrezione, primavera, rinnovamento,
come dicevamo all’inizio, costruiscono una trama metaforica di un
sistema in cui l’estetica rimanda strettamente all’etica, il piano dell’arte
a quello dei valori, secondo un’impostazione critico-ideologica di
stampo romantico-risorgimentale che innervò il pensiero critico e l’agire
politico-civile di Borgese nei diversi momenti della sua parabola
esistenziale e artistica.
Secondo tale prospettiva critica, Rubè assume nelle intenzioni del
suo autore la funzione ricostruttiva che egli assegnava all’arte e all’intellettuale.
Nel romanzo si denuncia il vuoto di ideali della stagione
decadente e ci si congeda definitivamente dai suoi modelli estetici. Il
romanzo racconta il paradossale protagonismo di un antieroe, Filippo
Rubè, l’avvocatuccio di provincia calato a Roma in cerca di successo,
travolto dalla guerra e dal caso, ucciso da una carica di cavalleria du-
4 Ivi, Avvertenza, p. V: «Questo volume conclude in qualche modo la mia attività
di critico professionale o militante, e insieme coi tre di La Vita e il Libro, usciti
fra il 1910 e il ’13, e con alcuni scritti raccolti in Risurrezioni e negli Studi di letterature
moderne vuol dare un’immagine certo imperfetta e incompleta […] della letteratura
italiana fra il meriggio della giornata pascoli-dannunziana e il primo sorgere
d’un nuovo tempo»
5 Ivi, p. VII.
[ 3 ]
672 ambra carta
rante una manifestazione di rossi e neri nell’immediato dopoguerra;
ma racconta anche il fallimento di un’intera stagione morale e culturale
dell’Italia alla vigilia del primo conflitto bellico. Con la morte di Filippo
Rubè tramonta la cultura di cui egli è figlio, tramontano i falsi
ideali, il materialismo nichilista e la tracotanza della ragione che si
sono resi responsabili del tracollo morale civile e artistico di un’intera
stagione culturale. Borgese indica la strada per ricominciare a costruire
sulle macerie del crollo appena avvenuto: gli Antichi Maestri, Manzoni
e De Sanctis.
Nel capitolo intitolato Risurrezione e Seconda Morte in Golia. Marcia
del fascismo6 – libro che richiameremo più volte nel corso di queste riflessioni
– il riesame della coscienza morale degli italiani è condotto
da Borgese con spietata lucidità e i suoi errori, politici e economici,
ricondotti a cause di ordine spirituale: «l’Italia dubitava della propria
anima»7. Assimilato all’organismo della nazione, diviso in corpo e spirito,
anche di Filippo Rubè si dice che «il corpo era sano, l’anima
malata»8, suggerendo romanticamente una scissione in atto e i suoi
effetti sull’equilibrio morale del personaggio. Sul piano nazionale l’analisi
dell’esule si sposta a considerare l’altezza del magistero di un
vero padre della patria, l’amatissimo Francesco De Sanctis, in nome
del quale lo spirito e la coscienza degli italiani devono risorgere. Il
fervore patriottico, l’autorità morale, la severità del giudizio critico di
De Sanctis avevano suggerito a Borgese la profezia dell’avvento di
una nuova letteratura, una sorta di Nuovo Testamento del popolo italiano,
seguito e antitesi del Vecchio9. Ma il sogno profetico del patriota
risorgimentale si infranse davanti al risorgere di correnti sotterranee
della tradizione italiana che egli aveva creduto sepolte per sempre nel
passato. Appariva D’Annunzio e con lui si risvegliava una mentalità
italiana compiaciuta nel velleitarismo e nell’ambizione. Dietro ai suoi
«eroi immaginari, […], meschini negli atti»10 Borgese intravede i segni
di una cultura che trovava nel vate abruzzese la propria forza direttrice,
il proprio portavoce più autentico. Nel romanzo, Filippo Rubè rappresenta
tale modello esistenziale: un uomo senza qualità, dall’anima
«simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un
6 G.A. Borgese, Golia. Marcia del fascismo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1946,
pp. 89-154 [ed. or. Goliath, the march of fascism, New York, Viching Press, 1937].
7 Ivi, p. 98.
8 G.A. Borgese, Rubè, cit., p. 24.
9 G.A. Borgese, Golia. Marcia del fascismo, cit., p. 105.
10 Ivi, p. 111.
[ 4 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 673
infinito sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance»11, un uomo
disposto a farsi trascinare dagli eventi, dallo spirito devastato e vuoto,
figlio della smania di annichilimento che vede nella guerra-farmaco
una divina necessità. Rubè rappresenta il crollo degli ideali risorgimentali,
lo svuotamento spirituale di tutta una generazione di intellettuali
dominati dalla personalità dannunziana a cui Borgese nel romanzo
dà il definitivo addio:
Lasciando da parte ogni giudizio sul suo valore poetico o etico, D’Annunzio
è l’unico scrittore, dopo Dante e Machiavelli, i cui insegnamenti
ebbero un’influenza decisiva su tutta la mentalità italiana […] apprezzato
o disprezzato egli fu dietro ad ogni movimento spirituale
dalla fine dell’800 fino a verso il 192012
Al cospetto di De Sanctis, primo costruttore della nazione, D’Annunzio
si erge a suo mostruoso opposto, creatore di falsi miti, proprio
come Filippo Rubè:
[…] un piccolo borghese intellettuale, privo di qualsiasi base razionale
ed economica, che si fa faticosamente strada tra il fango e la confusione
del dopoguerra finché una carica di cavalleria in una rivolta a Bologna
lo schiaccia, spettatore vagabondo, e lo uccide; dopo di che tutte e due
le fazioni, bolscevichi e fascisti, se lo contendono come martire13
Così suona l’autocommento al romanzo nel Golia, severa analisi
dell’Italia e degli italiani da Dante al secondo dopoguerra, e suona
come una profezia dell’intera nazione, vittima del pervertimento degli
ideali politici e morali del Risorgimento. L’autobiografia di Rubè
diventa racconto nazionale tra il 1935 e il 1937, quando Borgese è impegnato
nel progetto di una società mondiale. Lontano dall’Europa in
fiamme e sull’orlo della catastrofe, fascistizzata dalla malattia italiana,
il critico si volge all’utopia:
Una nuova terra e una nuova società stanno sorgendo dalla fantasia e
dalla volontà dell’uomo. Questa società riunirà tutte le vecchie religioni
in una fede comune, illuminata dalla libertà filosofica e scientifica.
Questa società capirà finalmente che la terra, fecondata da una scienza
che l’uomo, che l’ha inventata, non sa più dominare, è matura per
un’età dell’oro, generosa a miliardi. […] Tutte le patrie sbiadite forme-
11 G.A. Borgese, Rubè, cit., p. 6.
12 G.A. Borgese, Golia, Marcia del fascismo, cit., pp. 104, 109 e sgg.
13 Ivi, p. 324.
[ 5 ]
674 ambra carta
ranno un’unica Terra di Fratelli, dove gli uomini lotteranno uniti, come
nel canto testamentario di Leopardi, contro il comune nemico, l’indomata
natura e la morte14
Con una compartecipazione tra l’uomo e il critico simile a quella
che aveva animato l’epilogo della Storia desanctisiana nel 1871, Borgese
scrive le ultime pagine del suo Golia suggerendo ai fratelli d’Italia la
lettura di Manzoni per la saggezza e la pietà dello spirito di sottomissione,
di Leopardi per la speranza della disperazione, e del profeta
Mazzini per lo spirito di fratellanza. Per ultimo, anche di Machiavelli
per la lucidità con cui aveva capito che tutte le schiavitù sono volontarie:
«Non dagli altri gli Italiani riceveranno la libertà, ma da loro stessi;
non dalla Morte essi avranno la vita, ma dalla VITA»15. All’altezza del
1937, quando ancora incerte sono le sorti dell’Italia fascistizzata, ma
certa l’oscurità che sarebbe calata sulle generazioni future se il fascismo
avesse vinto una guerra mondiale, Borgese addita la strada della
rinascita ovvero la terra dell’uomo, il luogo predestinato all’utopia,
rilanciando un’alternativa concreta e operosa al nichilismo rinunciatario
proprio delle ansie apocalittiche di fine secolo16. Erede morale e
spirituale dei padri del Risorgimento, Borgese salda nel romanzo del
1921 il processo di de-formazione di una stagione storica, colta negli
ultimi soffocanti e tormentati attimi di vita, all’apertura a un mondo
nuovo, il mondo dei mansueti di spirito, e alla sua rinnovata stagione
spirituale.
Alla costruzione di un’umanità rinata nei valori e nella cultura
Borgese dedicò le energie di tutta una vita. Lo provano le amicizie –
Thomas Mann, Otto von Taube, Hermann Broch, Gaetano Salvemini
– l’attività diplomatica svolta prima e dopo il conflitto mondiale e i
progetti per la pace mondiale a cui lavorò a partire dal 194017. Con
14 Ivi, p. 497.
15 Ivi, p. 511.
16 Ivi, p. 497.
17 G.A. Borgese, The City of Man, a declaration of world democracy, New York,
The Viking Press, 1940, Id., Common Cause (New York, 1943), Id., Preliminary Draft
of a World Constitution (Chicago, 1948) e la postuma Foundations of a World Republic
(1953) che Borgese annuncia all’amico Otto von Taube nella lettera del 5 luglio
1952. Sull’impegno politico e civile di Borgese si rimanda a Per una cultura europea.
Le lettere di Giuseppe Antonio Borgese a Otto von Taube (1907-1952), a cura di M. Olivieri,
Napoli, ESI, 2002, A. Carta, L’utopia del tempo nuovo, in Id., Il cantiere Italia:
il romanzo. Capuana e Borgese costruttori, Palermo, : duepunti edizioni, 2011, E. Saletta,
The City of Man. Il contributo politico-ideologico di Giuseppe Antonio Borgese e di
[ 6 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 675
Thomas Mann nel 1940 Borgese scrisse The City of Man, a declaration of
world democracy cui seguirono altri scritti tra il 1943 e il 1948, che proseguono
idealmente l’impegno ideologico profuso dal critico fin dagli
anni del primo dopoguerra a favore della attuazione del principio
dell’autodeterminazione dei popoli e contro le ingerenze imperialistiche
delle allora grandi potenze sovranazionali.
L’intreccio tra vita culturale e vita nazionale era così radicato in
Borgese che egli attribuisce la responsabilità della ascesa del Fascismo
alla povertà morale di quella intellighenzia italiana incapace di resistere
alle lusinghe di un Golia, il Duce, espressione dei più bassi istinti
umani e di una intellighenzia europea, e internazionale, miope e indebolita
dalla avidità di potere, che non fece niente per neutralizzarne le
più irrazionali ambizioni. Il Fascismo si impose e la malattia dilagò
dall’Italia all’Europa.
Nel romanzo del 1921 spia del nesso strettissimo istituito da Borgese
tra cultura e ideologia è l’episodio del rogo di libri narrato nel capitolo
XXIII, il penultimo di Rubè, dove Filippo invoca la distruzione dei
libri che avevano alimentato il vizio della ragione, Stendhal, le storie
di Napoleone, Nietzsche, D’Annunzio. Nel rogo finisce lo spirito di
una cultura materialistica che aveva idolatrato il culto della violenza:
«l’avvenire era affidato agli uomini capaci di credere in cose giuste
senza aspettarsi dalla loro fede palingenesi spettacolose e universali»18.
Il tempo nuovo è dunque dei miti, ribatte Federico Monti all’amico
agonizzante Rubè prossimo alla morte. Il futuro è nella redenzione,
nella pace, come gli suggerisce padre Mariani nel capitolo della confessione,
il XX, centrale nel romanzo per la sua posizione di snodo tra
una prima ideale metà (Parti I e II) e una seconda (Parti III e IV), legate
a doppio filo anche dal tracciato simbolico-religioso disegnato ad arte
dallo scrittore. Oltre al simbolismo dell’acqua e del fuoco, che suggerisce
prospettive di purificazione e rinascita spirituali, una presenza costante
nel romanzo è rappresentata dagli Inni Sacri manzoniani, in
particolare dalla Pentecoste19, e dalle allusioni al calendario mariano
che si infittiscono soprattutto nella terza e quarta parte dell’opera via
via che si profila la caduta morale e la morte spirituale (e materiale) del
Gaetano Salvemini all’utopia democratica di Hermann Broch, Roma, Aracne, 2012, pp.
103-9.
18 G.A. Borgese, Rubè, cit., p. 341.
19 L. De Maria, Introduzione a G.A. Borgese, Rubè, Milano, Arnoldo Mondadori,
1980, pp. V-XX, in partic. pp. IX-XIV. Per i versi della Pentecoste si veda Rubè,
Milano, Oscar Mondadori, 1994, cap. XX, p. 312-13.
[ 7 ]
676 ambra carta
protagonista. La parabola esistenziale di Filippo, che si era aperta
all’ombra delle acque paludose e immobili, si chiude con l’immagine
angelica della moglie, Eugenia, che lo accompagna negli ultimi istanti
di vita sollevandolo dalle pene del tormento interiore. Dalla prima alla
quarta e ultima parte del romanzo è un crescendo di ricerca di purificazione,
rinnovamento spirituale, palingenesi interiore. Dall’orgia materialistica
di una cultura della violenza alla remissione in una palingenesi
dello spirito affidata a una nuova stirpe di uomini, questo è il
progetto utopico a cui Borgese destina l’umanità alle soglie del 1921.
Dopo il confronto amaro e per nulla conciliante con l’amico Federico
Monti, il quale gli espone la sua visione del mondo dopo l’esplosione
di violenza bellica e confessa le proprie illusioni di scienziato
ingenuamente convinto della forza progressista della scienza nel secolo
passato e ora approdato al relativismo gnostico – «La mia certezza
è che non c’è certezza e che bisogna vivere come se ci fossero tutte le
certezze»20 –, il ritorno a Calinni segna il momento più alto dell’ascensione
spirituale del protagonista. È un lungo capitolo ricco di allusioni
simboliche e di rimandi intertestuali giocati sul filo del simbolismo
religioso e della introspezione psicologica. Rubè arriva e riparte da
Campagnammare, località a pochi chilometri dalla nativa Calinni, in
treno, nella locomotiva lucida, ansante, splendida nella sua solita fascinazione
alle prime luci dell’alba. Appena sceso dal treno i colori
violenti della sua terra abbagliano il suo sguardo e infrangono l’immagine
del paesaggio che si era figurato in mente, un paesaggio lattiginoso,
immerso nel biancore immacolato delle prime luci del giorno.
Dormire nella stanza intonacata di bianco, vuota e nuda, nel vecchio
lino di sua madre, questo era il desiderio di Filippo all’arrivo in paese.
Ma l’incontro con la vecchia serva di casa, Sara, e improvvise associazioni
di pensiero lo distolgono dalla decisione di raggiungere la madre,
che lo attende da tre anni, e lo dirottano nuovamente in treno
questa volta deciso a tornare dalla moglie Eugenia e con lei a fare finalmente
ritorno al paese natale. Tutto il capitolo è immerso in una
fitta serie di richiami religiosi e segnali psicologici che non lasciano
dubbi sulla natura altamente simbolica di questo passo del romanzo.
Qui si narra, infatti, del ritorno a casa di Filippo, del suo anelito a reincistarsi
nel ventre della madre e della terra natale, nel «mare lattiginoso
dentro fiordi di vulcani spenti, come sulla faccia della luna»21.
20 G.A. Borgese, Rubè, cit., p. 341.
21 Ivi, p. 346.
[ 8 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 677
Qui Filippo insegue il ritorno alle proprie radici, chiede del padre e
scopre l’origine della propria sete di assoluto, la causa della propria
rovina. Attraverso l’incontro con Sara, che pronuncia il suo nome alla
maniera dei siciliani, con due erre e due bi, Filippo scopre la propria
inconsistenza, lo scioglimento del proprio Io:
Di nuovo lo stupiva quel suono inatteso del suo nome, pronunciato
alla maniera paesana, con doppio erre e doppio bi. Se n’era scordato, e
gli pareva di chiamarsi soltanto Rubè o Burè o Morello. “Quattro nomi”
diceva fra sé. “E perché no dieci, cento, infatti, che sarebbe come
non averne nessuno? Che cos’è questa cifra stampata a fuoco sulla mia
carne? Questo marchio? Non avere nome! Sparire! O chiamarmi soltanto
Rubbè, come mi chiamavano quand’ero bambino!”22
In questo passaggio è interessante notare che la fuga nella dissoluzione
dell’identità, il desiderio di annullamento, va oltre l’analogia
con la funzione pirandelliana assegnata all’identico esito. La sparizione
dell’identità di Filippo Rubè va oltre il suo annullamento. Essa si
completa in un sogno di rigenerazione e di rinascita tutta spirituale,
da intendersi in chiave religiosa se vogliamo che i riferimenti al calendario
cristiano e all’Angelo custode che intrecciano questo capitolo, e
a tutti gli altri disseminati nel resto dell’opera, assumano un significato
peculiare legato al destino del protagonista. Le campane che suonano
a festa, lo snocciolare di tutte le festività cattoliche che fa Sara, l’Ascensione,
la Pentecoste, Sant’Antonio, la Trinità, il Corpus Domini, e
ancora San Giovanni e poi San Pietro e Paolo, ricamano la trama di un
simbolismo cristiano che informa di sé la vita e il destino del personaggio.
Seduto sopra un masso, Filippo osserva l’immensa vastità del
paesaggio natale: il mare da un lato, le montagne dall’altro disegnano
i tratti di una Natura possente, vasta e assoluta, ed è proprio tale paesaggio
iperbolico ad avere generato un figlio iperbolico ed enfatico
come Filippo: «Chi nasce in questa luce, o si mortifica, o si esalta fino
alla manía, e a una certa età si ritrova con gli occhi vuoti d’un animale
domestico o con gli occhi pazzi come me»23. Immaginando di rivolgersi
a Federico Monti e a padre Mariani, aggiunge:
Di una cosa deve convenire, reverendo padre Mariani, che sbaglia di
grosso se pensa ch’io non sono cattolico. Cattolico, e come! Flagellante.
Con la coscienza fradicia di rimorso e di lutto, figlio di mia madre che
22 Ivi, p. 350.
23 Ivi, p. 354.
[ 9 ]
678 ambra carta
porta cinque anni il lutto stretto a don Demetrio. Cattolico inquisitore
come un fanatico spagnolo. Don Felipe”24
Gli ultimi due capitoli del romanzo ritraggono Filippo quasi sempre
in treno in una condizione di sonnambulismo psicologico, in un
dormiveglia metafisico che lo fa oscillare tra ricordi del passato e allucinazioni
del presente. L’incontro con il viaggiatore sconosciuto in treno
acquista una funzione assai significativa in queste ultime battute
della storia. Un Padre eterno, un dio ignoto, un angelo venuto a preannunciargli
la fine imminente? O la sua stessa coscienza? Con quegli
occhi d’idolo, freddi e inquisitori, la sua figura tormenta le ore di sonno
e di veglia di Filippo che vaga lungo la dorsale di Italia fino all’ultima
stazione, Bologna, dove la carica di cavalleria porrà fine al tormento.
Immerso nel paesaggio assoluto della montagna che gli appare
irraggiungibile e sacra, Filippo sprofonda nel ricordo lontano del
padre che lo aveva educato alla regola del tutto o nulla. Poi, d’un tratto,
l’associazione dell’Angelo della buona morte con il profilo devoto
della moglie lo convince a congedarsi da quella Terra promessa e a
compiere l’ultimo tratto di viaggio verso la morte. Ancora una volta a
intrecciare la sua ultima agonia intervengono i versi finali della Pentecoste
di Manzoni «Brilla nel guardo errante / di chi sperando muor»25,
che invocano la discesa dello Spirito Santo sui superbi, gli infelici, gli
astuti, gli umili. Filippo è tra costoro e si prepara a dismettere le pose
arroganti che tanto padre Mariani e l’amico Federico gli avevano rimproverato,
perché ne sconta la pericolosa fallacia. Così ai piedi del letto
di morte, Federico consola la desolata Eugenia sollevandola dal
senso di colpa per non essere riuscita a strapparlo alla morte. Filippo
era un uomo perduto, le dice, non poteva trovare pace se non nella
morte. Con la coscienza buia e vuota che sta per spegnersi, Rubè sente
ormai accendersi un fioco lumicino che pian piano cresce fino a sollevarlo
dalla fatica del vivere. Il finale del romanzo è tutto affidato alla
prospettiva cristiana della rinascita a una vita migliore, alla terra promessa
degli «uomini falliti, come me»26.
La prospettiva cristiana, che qui Borgese lascia trapelare attraverso
la fitta intelaiatura di rimandi manzoniani, si salda con quella umanistica
che, come dicevamo all’inizio, vede nei buoni maestri della tradizione
letteraria un modello estetico e etico a cui tornare per edificare
24 Ivi, pp. 354-5.
25 Ivi, p. 375.
26 Ivi, p. 368.
[ 10 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 679
una umanità nuova. Nel Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica
(1819) il critico riscopre il cristianesimo della «magnanima tolleranza,
dignitosa umiltà», vissuto come educazione a una fede non
sospetta d’idolatria, problematica ma non servile e aliena dal fanatismo
dogmatico, per la quale Borgese si era impegnato collaborando a
una rivista come «Il Rinnovamento», fondata nel gennaio 1907 e in
vita solo fino al dicembre 1909. «Il Rinnovamento» fu uno tra i più
seri tentativi di sottoporre alla critica della ragione il sentimento della
fede; un esperimento di apertura della Chiesa al modernismo filosofico
e scientifico nella speranza di un dialogo; essa volle contribuire a
risollevare e riedificare una Chiesa meno sorda alla modernità dei
tempi, un tentativo illuminato di creare una umanità più completa e
fondata su valori condivisi, e invece la Chiesa reagì violentemente autorizzando
negli italiani un sentimento fiacco e superficiale della religiosità,
impedendo loro un confronto serio e problematico con i radicali
quesiti dell’uomo al cospetto del divino e legittimando le polemiche
meno intelligenti sulle opere di argomento religioso. Manzoni,
insomma, veniva liquidato in nome di un rinascente irrazionalismo e
di un dilagante pressapochismo degli intellettuali italiani. Al suo pensiero
invece Borgese torna proprio negli anni tra il 1920 e il 1923; il
tema della resurrezione dello spirito e della conversione fu, infatti, tra
quelli che più lo attrassero negli anni della stesura del romanzo, gli
stessi anche di una recensione ai Promessi Sposi (1923), dove il tema
della conversione è centrale. Manzoni diviene un modello formale di
edificazione nel quale spirituale e poetico si saldano:
Se a cavallo dei secoli XIX e XX avessimo avuto in Italia un Manzoni o
un Tolstoi, avremmo anche avuto una dottrina dell’opera d’arte intesa
come circolo chiuso, come architettura, come rappresentazione costruttiva
d’umanità27
È un Manzoni riletto alla luce della coscienza inquieta del Novecento.
Spia del sentimento religioso di Borgese e delle affinità con il
moralismo manzoniano è la sesta delle Mie letture di Tempo di edificare,
laddove inteso a fare chiarezza e a distinguere tra rito, ortodossia e
sentimento religioso, a un certo punto dichiara:
E non si facciano confusioni. Il cristianesimo, il cattolicesimo sono universali,
ma nessuno può credere e pregare sinceramente se non nella
lingua sua. Italiani restiamo anche (specialmente) se torniamo cattolici.
27 G.A. Borgese, Tempo di edificare, cit., p. 81.
[ 11 ]
680 ambra carta
[…] Il cattolicesimo italiano non è antiumanesimo, è umanesimo superiore28
Mi pare consista in questo la sensibilità spirituale borgesiana, la
sua incontestabile fede anche negli anni in cui le mode spingevano gli
scrittori ad atteggiamenti anticlericali perché si credeva, denuncia il
critico, che la Chiesa postunitaria fosse antinazionalista. Consiste in
un senso più largo, più esteso di amore per l’uomo, di interesse per lo
sviluppo e l’accrescimento del suo spirito come anima universale.
Quello borgesiano è un umanesimo civile, etico e anche patriottico,
sempre ancorato al percorso dell’uomo sulla Terra e dell’intellettuale
come colui che ha sposato una missione civile e politica più alta. Umanesimo
quindi come aspirazione a una compiutezza che in sede di
elaborazione poetica approdava al recupero delle forme classiche e
alla costruzione dell’edificio organico.
Il cristianesimo è anche giustizia, aggiunge infine, la stessa evocata
nei versi della canzone All’Italia affinché sia tutta Città dell’Uomo, tutta
Terrasanta, la terra:
Rileggiamo Manzoni. Il cristianesimo in Italia è virilità contrapposta
ad insolente adolescenza, ragione superiore contrapposta a falsa ragione,
non è balbuzie carina messa più su della logica e della coscienza29
Qui si fa evidente la persistenza del nesso risorgimentale tra vita
nazionale e vita spirituale dell’uomo in tutta una generazione di intellettuali
nati intorno al 1880 – Gramsci, Jahier, Rebora, Ungaretti, Saba
– che: «conserva un bagaglio etico-politico, si confronta con i maestri
(Mazzini, De Sanctis) legati alla tradizione risorgimentale, difende valori
ancora patriottici e comunque nazionali»30. In uno scritto intitolato
Il critico come Jago, apparso sul «Corriere della Sera», 8 gennaio 1929,
ispirandosi all’insegnamento di De Sanctis, Borgese ribadisce la fiducia
nella funzione morale della «critica: cioè quella che alla letteratura
di un’epoca dà coscienza di sé e del suo cammino. Critica: intelligenza
con amore di verità, […] ispirata ragione del bello», pratica di civiltà,
socialità, cordialità letteraria.
Ancora nella Prefazione a Storia della critica romantica in Italia sempre
in linea con il modello desanctisiano, scrive:
28 Ivi, p. 161.
29 Ivi, p. 163.
30 R. Luperini, Letteratura e identità nazionale, Lecce, Manni, 2004, p. 10.
[ 12 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 681
Moralismo e storicismo, soprattutto nelle loro applicazioni storiche,
sono i cardini della cosiddetta critica romantica. L’opera letteraria è
considerata come specchio della vita nazionale e sociale, ed è valutata
in funzione di questa […] anche la storia dell’arte, ben lungi dall’essere
un catalogo di frammenti, è la narrazione di uno sforzo solidale del
genere umano. […] L’arte è la rappresentazione per simboli dell’assoluto.
Da qui la tendenza a considerare l’opera d’arte sotto la specie
dell’organicità,
dell’unità, dell’obbiettività, dei rapporti ritmici e architettonici31
Queste idee sono riconfermate nel 1952 quando, di ritorno dall’esilio,
partecipa ad un ciclo di conferenze a Padova con un saggio intitolato
La mia prospettiva estetica dove, alla fine di un’intensa attività di
critico, scrittore, ideologo della cultura e attivista dei diritti universali
dell’uomo, egli riannoda il corso delle sue idee al magistero di De Sanctis.
Che la parola critica per Borgese valesse per giudizio estetico è lui
stesso a ricordarcelo fin da quel suo articolo del 1903, Metodo storico e
critica estetica, pubblicato nel n. 6 di «Leonardo», dove sostiene: «un
metodo di giudizio è fratello carnale di un metodo di creazione e un
codice di critica porta nel suo grembo un trattato d’arte poetica»32 per
quanto, come è stato giustamente notato da Olivieri, a quella altezza
Borgese pagasse ancora il tributo al suo primo maestro mettendo momentaneamente
in parentesi De Sanctis. A quest’ultimo sarebbe tornato
però già a partire dal 1909, quando – come osservano Olivieri e Palermo
– matura il distacco dai suoi primi compagni di strada e dalle
riviste alle quali aveva collaborato e la conseguente scelta a favore del
giornalismo d’intervento che meglio poteva tradurre il suo radicale
moralismo, la convinzione della funzione civile della letteratura e di
quella morale del critico33. Negli stessi anni si fa strada in lui la fede
nel lavoro manuale e nella sua dignità, – come si legge nell’articolo Per
chiarezza – la ricerca della moralità che deve animare il rapporto tra
l’intellettuale e la vita attiva e che porterà il suo Filippo Rubè alla crisi
di coscienza di sé come ‘in-tel-let-tua-le’34. L’adesione al programma
d’intervento politico-civile del «Regno» e poi la collaborazione al
31 G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia [1905], ed. aumentata con
una nuova prefazione, Milano, Treves, 1920, pp. XI-XXIX.
32 G.A. Borgese, Metodo storico e metodo estetico, in «Leonardo», 1 (1903), fasc.
6, pp. 3-6 (poi in Poetica dell’Unità. Cinque saggi, Milano, Treves, 1934, pp. 249-271).
33 Lettere a Giovanni Papini e Clotilde Marghieri (1903-1952), cit.
34 G.A. Borgese, Per chiarezza, in «Il Regno», 2 gennaio 1906, anno III, citato in
Lettere a Giovanni Gentile e Clotilde Marghieri, cit, p. 35.
[ 13 ]
682 ambra carta
«Mattino di Napoli» sono, giusta l’osservazione di Olivieri, il segno
della svolta di Borgese nella direzione della ricerca di una dimensione
civile e politica dell’intellettuale che getta le basi per un nuovo mondo.
Nel Golia, nella parte dedicata al Risorgimento i due maestri a lungo
cercati, Manzoni e De Sanctis, tornano come campioni di antifascismo,
il primo come oppositore di ogni espressione di forza in politica perché
avverso all’imperialismo, in letteratura perché cercò sempre l’unità
e nella religione perché fu cristiano non dogmatico, il secondo per il
realismo profetico del pensiero e l’ardore della passione35. Entrambi
respinsero, infatti, le velleità imperialistiche che, annidate da sempre
nel carattere degli italiani, avrebbero portato al fascismo come espressione
estrema dell’antico spirito romano teso alla conquista, al dominio,
all’eccellenza della virtù militare. Il ritorno a questi campioni del
Risorgimento, pertanto, avviene nel segno della battaglia antifascista,
del rinnovamento morale e civile degli italiani e della rinascita di uno
spirito umano di tolleranza. Nel nome di De Sanctis e di Manzoni
poteva compiersi il ritorno a un nuovo umanesimo come riscoperta del
valore universale dell’uomo e secondo quell’utopia di governo mondiale
a cui Borgese lavorò più intensamente negli anni dell’esilio.36
Scritte in gran parte a Chicago, le prose del volume postumo Da
Dante a Thomas Mann sono una testimonianza di questo impegno:
Se il Medioevo aveva costruito una sintassi di teoria politica senza adeguata
morfologia, il Rinascimento vi sostituì la Realpolitik, una morfologia
senza sintassi. […] Le parole del futuro sono Federazione mondiale,
che sola può condurre a realtà il miraggio dell’impero mondiale;
giustizia e pace, con libertà al servizio della giustizia e della pace; convergenza,
anzi unità di etica sapienza e attivo governo politico, nello
spirito di una fede religiosa del tutto razionale e universale37
Ne sono prova, infine, le sue amicizie – come si diceva – fra le qua-
35 G.A. Borgese, Golia. Marcia del fascismo, cit., pp. 69 e segg.
36 Così suonano le ultime battute di Golia, cit., p. 509: «Se [gli italiani] vogliono
ispirarsi al passato, questo, una volta ripulito dalle erbacce, sarà una fonte ricchissima.
Là essi troveranno le risorse, […] Risalendo alle loro esperienze del Medio
Evo, troveranno nei loro comuni un ben riuscito esempio di pluralità creatrice;
poiché l’iniziativa individuale insieme con l’universalità degli intenti è uno dei
tratti caratteristici della nuova società mondiale che sorgerà. Ma in tutte le età essi
potranno trovare un incentivo al servizio instancabile del Bello».
37 G.A. Borgese, Da Dante a Thomas Mann, a cura di G. Vallese, Milano, Mondadori,
1958, p. 214.
[ 14 ]
l’umanesimo civile e cristiano di giuseppe antonio borgese 683
li spicca quella con Otto von Taube38 cui lo legarono le affinità spirituali
e culturali e le preoccupazioni per il destino di un’Europa devastata
dagli odii nazionalisti in quel secondo dopoguerra in cui Borgese scriveva
dall’esilio. Le lettere da lì inviate a von Taube recano traccia del
progetto a cui lavorò instancabilmente, fino alla morte, quello di un
Governo mondiale, i cui principi avevano ispirato anche la rivista
«Common Cause», costretta a chiudere per il clima di ostilità che circondava
ogni progetto di idee ‘non distruttive’. Dalle lettere degli ultimi
tre anni di vita emerge la convergenza degli interessi di Borgese
verso il cristianesimo, la politica, la morale, l’umanità. Lo scrittore si
chiede se esista ancora la speranza di un futuro per l’Europa e si impegna,
nonostante tutto, nell’ultimo incompiuto progetto, la trilogia,
(Lettera a von Taube, 19 novembre 1951) intitolata Sintassi, di cui però
vide la luce solo il primo libro, Foundations of the world republic e il cui
secondo, dedicato al cristianesimo e all’umanità, avrebbe dovuto intitolarsi
Hagia Sophia.
Lascio la conclusione di questo saggio a Borgese stesso e alle parole
con le quali nel 1952 affidava all’utopia la costruzione di una umanità
nuova:
Che c’è di male se uno, o alcuni, si provano all’ultima’ora a scrivere,
sigillando poi lo scritto in una bottiglia da affidare all’onde e al caso,
una forma esatta – testamentaria, direi – del sogno sognato dalla civiltà
fra il tempo dell’umanesimo e il tempo delle catastrofi?
38 Per una cultura europea. Le lettere di Giuseppe Antonio Borgese a Otto von Taube
(1907-1952), cit.
[ 15 ]

MIMMO CANGIANO
Gozzano (o del Modernismo apparente)
L’articolo si propone di mostrare come la poetica di Gozzano possa aiutarci a
chiarificare i termini della penetrazione in Italia delle grandi tematiche moderniste
che, negli stessi anni, stanno diventando egemoniche nel resto d’Europa.
Si spiega però poi come tali tematiche appaiano in Gozzano a significare una
prospettiva radicalmente differente rispetto a quella degli autori modernisti
tout court.

The article points out how Guido Gozzano’s poetic clarifies the presence in Italy
of the major modernist topics that, in the same years, were becoming hegemonic
in the rest of Europe. Yet, the article then specifies how these very topics
indicate in Gozzano’s work a perspective radically different respect to modernist
writers tout court.
I. È ben nota la critica di un certo nietzschianesimo che Gozzano
mette in atto nella novella del 1905 I benefizi di Zarathustra. La riformulazione
di alcuni luoghi topici del Nietzsche maggiore1 – a cominciare
dalla riduzione dell’etica a principio meramente utilitaristico2 – si risolve
nell’uso utilitaristico (da parte dell’esteta) del nietzschianesimo
medesimo, o meglio di un nietzschianesimo riportato nell’orbita della
sua interpretazione dannunziana. Non notato è invece il fatto che, immediatamente
prima di tale formulazione, l’interlocutore si sia rivolto
all’esteta con una domanda, anch’essa di matrice nietzschiana, la cui
fonte non viene assolutamente rilevata dal secondo: «ridurre il mondo
Hebrew University of Jerusalem; cangiano.mimmo@gmail.com
1 Sempre utile il volume D. M. Fazio, Il caso Nietzsche. La cultura italiana di
fronte a Nietzsche (1872-1940), Settimo Milanese, Marzorati, 1988.
2 Cfr G. Gozzano, I benefizi di Zarathustra, «Il Piemonte», 19 febbraio 1905, ora
in Id., I sandali della diva. Tutte le novelle, introd. di M. Guglielmetti, ed. e commento
di G. Nuvoli, Milano, Serra e Riva, 1983, p. 15: «Quante morali? Infinite, quindi
nessuna».
686 mimmo cangiano
a una ribalta e te stesso a un espertissimo commediante?»3. Il principio
qui utilizzato, proveniente da La gaia scienza4, fa riferimento alla trasformazione
del mondo in teatro e dell’essere umano in commediante,
in personaggio, vale a dire, al tempo stesso in grado di non avvertire
più come angoscia il peso della differenza fra identità e maschera e
quello fra mondo reale e mondo apparente. L’interlocutore dell’esteta
gioca qui Nietzsche contro Nietzsche, si lega, voglio dire, a un’interpretazione
nietzschiana che, nel 1905, finalmente registrando l’avvenuta
spaccatura fra Nietzsche e Wagner (e di “nietzschismo male inteso”
parla Gozzano nella recensione a Il sogno di un genio di Ugo
Valcarenghi)5, oltrepassa l’interpretazione decadente e comincia ad
assumere quei contorni in cui Nietzsche, smarcandosi dagli elementi
più marcatamente fin-de-siècle della sua speculazione (l’antidemocraticismo,
il dominio sul gregge)6, comincia a porsi finalmente come il cantore
del crollo della struttura stabile dell’Essere, crollo che rappresenta
il centro dell’avventura letteraria modernista7. Tale posizionamento (e
la sua tendenzialmente egemonica diffusione) sarà del resto corrobo-
3 Ivi, p. 14.
4 Cfr F. Nietzsche, La gaia scienza. Idilli di Messina, nuova ed. riveduta, nota
introduttiva di G. Colli, versione di F. Masini, Milano, Adelphi, 2005, pp. 289-
290: «Il problema del commediante mi ha travagliato assai a lungo: ero nell’incertezza
(e lo sono ancora di tanto in tanto), se non sia che soltanto prendendo le
mosse da esso ci si possa accostare al pericoloso concetto di “artista” […]. La falsità
con buona coscienza, il piacere della contraffazione nel suo prorompere come
potenza che spinge da parte il cosiddetto “carattere”, inondandolo, talvolta soffocandolo;
l’intimo desiderio di calare in una parte, in una maschera, in una parvenza
». Non dovrebbe più essere necessario segnalarlo, ma ricordiamo che le traduzioni
italiane di Nietzsche – contrariamente a quanto a lungo creduto – erano cominciate
addirittura nel 1898 con Al di là del bene e del male, pubblicato proprio a
Torino per l’editore Bocca (lo Zarathustra uscirà per lo stesso editore nel 1905, così
come La gaia scienza). Ciò certo permise alla generazione modernista di iniziare
quell’opera interpretativa di contrasto rispetto al Nietzsche presentato agli italiani
da D’Annunzio fra la fine del 1892 (Il caso Wagner) e il 1893.
5 Cfr G. Gozzano, Il sogno di un genio, in F. Contorbia, Il sofista subalpino. Tra
le carte di Gozzano, Cuneo, L’arciere, 1980, p. 30: «Ora questo nietzschismo, male inteso,
che trasporta gli artisti al di là del bene del male, ha fatto il suo tempo e non
impedisce di trovare volgare la figura del protagonista».
6 Cfr M. Guglielminetti, La «scuola dell’ironia». Gozzano e i viciniori, Firenze,
Olschki, 1984, p. 10: «la sua presa di distacco dal dannunzianesimo e dal nietzschianesimo
».
7 Vale anche la pena ricordare che, da una prospettiva difficilmente riconducibile
all’orizzonte modernista, già Paolo Raffaele Trojano con gli scritti Il tramonto di
un astro («Il Campo», 1905) – sempre a Torino – andava fustigando mode e degenerazioni
‘nietzschiane’.
[ 2 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 687
rato in Italia nel 1903 dalla traduzione di quell’interpretazione di
Nietzsche che è l’Analisi delle sensazioni di Ernst Mach8 (a Torino, per
Bocca), volume di cui Gozzano segnalerà di ricordarsi sia nell’analfabeta
(«Tutto è fittizio in noi: […] / giova molto foggiarci a modo
nostro»)9, sia anni dopo quando definirà la Natura «unica verità non
convenuta»10, cioè unica verità che in grado di non porsi come tale per
mera convenzione.
Contrariamente a quanto si è a lungo sostenuto la penisola è infatti
tutt’altro che estranea a tale esaltazione dei tratti di una vita esperita
esclusivamente sotto il segno del relativo e del contingente: non lo è
Papini che ha già stillato un berkelyano programma per il “Dizionario
della distruzione critica di ogni Assoluto”, non lo è Vailati che con
Mach si scrive spesso; non lo sono, soprattutto, Giuseppe Prezzolini
(che ha seguito i corsi di Bergson a Parigi e ha pubblicato Vita intima e
Il linguaggio come causa d’errore, e a breve si occuperà del tema della
“maschera”), e Giovanni Marchesini, che nello stesso 1905 pubblica
quell’ipertesto dell’Umorismo pirandelliano che è Le finzioni dell’anima,
la «dottrina terribile», come la definirà Giovanni Gentile, o, come la
ebbe a caratterizzarla Max Horkheimer, il pensiero incapace a concepire
l’oggettività se non come illusione11.
Ora, ho ben presente (e condivido pienamente) l’invito di Guglielminetti
e Contorbia a non cercare “montagne incantate” nell’opera di
Gozzano12: la ricognizione dei pur numerosi luoghi gozzaniani concernenti
alcuni dei principali topoi nietzschiano-modernisti quali la
8 Il volume di Ernst Mach si caratterizza – a livello europeo – come momento
decisivo della riduzione della duro lectio nietzschiano nell’orizzonte della finzionalità
e del convenzionalismo, prospettiva che sarà a breve corroborata dalla pubblicazione
de Le finzioni dell’anima dura di Giovanni Marchesini e de La filosofia del come
se (1911) di Hans Vaihinger. Sempre importante ricordare che Mach risulterà decisivo
per ciò che concerne la produzione letteraria di due campioni del Modernismo
europeo: Hugo von Hofmannsthal e Robert Musil.
9 G. Gozzano, Tutte le poesie, a cura di G. Spagnoletti, Roma, Newton Company,
1993, p. 27.
10 Id., Pioggia d’agosto, ivi, p. 168.
11 Cfr M. Horkheimer, L’eclissi della ragione, a cura di E. Spagnol, Milano, Sugar,
1972, pp. 15-16: «a un certo punto il pensiero è diventato incapace di concepire
l’oggettività o ha cominciato a negarla affermando che si tratta di un’illusione. Il
progresso si è allargato gradualmente fino ad investire il contenuto oggettivo di
tutti i concetti razionali […]; tutti i concetti fondamentali, svuotati del loro contenuto,
hanno finito per essere solo involucri formali».
12 Cfr M. Guglielminetti, La «scuola dell’ironia», cit., pp. 136-137: «di qui a fare
di Gozzano, o di Vallini (…) gli esponenti di una rivoluzione culturale, ispirata a
[ 3 ]
688 mimmo cangiano
“morte di Dio”13 e del “Soggetto”14 (il crollo delle certezze ontologiche)
– così come l’idea di una reale interamente da esperire sotto il
segno del Divenire (e non della stabilità)15 – non bastano a porre Gozzano
nel quadro modernista (e tantomeno postmodernista)16 di una
saviniana «fine dei modelli». Allo stesso modo la ricognizione delle
pubblicazioni pirandelliane in ambito torinese17 non consente il 2+2
mirato a ritrarre un Gozzano impegnato nel grande dissidio modernista
della “vita” e della “forma”18, vedremo anzi a breve come Gozzano
sviluppi una teoria della forma radicalmente diversa da quella impostata
da modernisti tout court quali lo stesso Pirandello19. Ciò che è
invece fondamentale comprendere è proprio perché in Gozzano appaiano,
ma molto indeboliti e sfocati, alcuni dei principali temi modernisti.
Ciò che bisogna rilevare è come Gozzano utilizzi alcuni portati
quel maestro, ne passa». Cfr anche F. Contorbia, Il sofista subalpino, cit., p. 190: «né
montagne incantate né disagi della civiltà».
13 Cfr G. Gozzano, Nell’Abazia di San Giuliano, in Tutte le poesie, cit., p. 273: «O
preti, ma è assurdo che domini sul Tutto inumano ed amorfo quell’Essere antropomorfo
che hanno inventato gli uomini».
14 Cfr Id., Ah! Difettivi sillogismi, in Tutte le poesie, cit., p. 320: «L’io / che c’è sì
caro, muore ad ogni istante / senza rimpianto».
15 Cfr Id., Verso la cuna del mondo, a cura di V. Gueglio, Milano, Greco & Greco,
2007, p. 236: «Nulla è, tutto diviene. L’io ed il non io sono il frutto di una mera illusione
terrestre».
16 Mi riferisco al volume di G. Zaccaria, «Reduce dall’amore e dalla morte». Un
Gozzano alle soglie del postmoderno, Novara, Interlinea, 2009.
17 Pirandello pubblicò sulla «Gazzetta letteraria» In corpore vili (1894) e Il no di
Anna (1895), sul «Campo» (rivista per cui Gozzano scriveva recensioni) tra il 1904
e il 1905 I tre pensieri della sbiobbina e Amicissimi. L’editore Streglio, inoltre, pubblicherà
le raccolte Quand’ero matto (1902) e Bianche e nere (1904). L’articolo L’umorismo
di Cervantes – che confluirà nel saggio maggiore – esce sul quotidiano «Il Momento
», anche esso frequentato da Gozzano.
18 Cfr G. Scarsi, Gozzano e gli scapigliati, in Guido Gozzano. I giorni e le opere,
Firenze, Olschki, 1985, pp. 213-220, p. 222: «Dalla crisi alla coscienza della crisi:
Gozzano accanto a Pirandello ed a Svevo, nello svolgimento della cultura italiana
nel contesto europeo». Si veda anche A. Valentini, Pirandello e Gozzano, in Luigi
Pirandello. Poetica e presenza, a cura di W. Geerts, F. Musarra e S. Vanvolsem,
Roma, Bulzoni, 1987. L’ipertesto della interpretazione pirandelliana di Gozzano è
rappresentato dal saggio (del 1926) di Umberto Bosco a lui dedicato.
19 La bibliografia pirandelliana sul tema è ormai sterminata. Si vedano almeno
R. S. Dombroski, La totalità dell’artificio. Ideologia e forma nel romanzo di Pirandello,
Padova, Liviana, 1978; E. Gioanola, Pirandello e la follia, Genova, il melangolo,
1983; G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, il Mulino, 1987. Più
recentemente è tornato con decisione sul tema R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista,
Roma, Bulzoni, 2015.
[ 4 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 689
modernisti in un’ottica sostanzialmente diversa da quella dei maggiori
scrittori appartenenti a tale temperie culturale. Vedremo allora come
forse non sia un caso il fatto che mentre Robert Musil definirà i
nuovi scrittori come coloro costretti a vivere sotto il dominio del congiuntivo20,
Slataper etichetterà invece Gozzano come il poeta del condizionale,
e, aggiunge, del condizionale passato: «il condizionale passato
è il suo tempo. Una condizione che non può esser più»21.
II. Non dico niente di nuovo affermando come luoghi topici della
poetica gozzaniana la “memoria”22 e il “collezionismo”23. I due concetti
sono indissolubili nel quadro dell’anticapitalismo romantico: il loro
nemico comune ha nome “denaro” quale forma astratta, socializzata e
ambigua (perché fluttuante, perché negoziabile così come negoziale è
diventata la Verità) della merce. Per Gozzano il denaro non è solo rappresentazione
della praticità anglo-americana di contro ai latini «ozi
contemplativi»24, ma è tanto la forma assunta dal tempo stesso («È
giusto che l’orologio divida i nostri mesi laboriosi»)25, quanto la rappresentazione
realistica della realtà (le centomila lire che il fotografo Thomas
Leave riceve per le sue brutte – perché vere – fotografie della
Giudea26, «così vere come da noi in Europa non si usa neanche per le
20 Cfr R. Musil, L’uomo senza qualità, a cura di A. Frisé, introd. di B. Cetti
Marinoni, Torino, Einaudi, 1997, p. 12: «Cosicché il senso della possibilità si potrebbe
anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente
essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che
non è […]. Questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tessitura più sottile,
una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie, congiuntivi».
21 S. Slataper, Perplessità crepuscolare (A proposito di G. Gozzano), «La Voce», III
(16 novembre 1911), n. 46, p. 689, ora in Id., Scritti letterari e critici, a cura di G. Stuparich,
Milano, Mondadori, 1956, p. 248.
22 Cfr F. Pappalardo, Le parole e il tempo. Sulla poesia di Gozzano, «Lavoro critico
», VI (aprile-giugno 1976), n. 2, pp. 47-104, p. 79: «per Gozzano […] l’estrema
risorsa conoscitiva della letteratura può dispiegarsi in rapporto al ricordo, forma
presente del possesso, lo spazio della creazione artistica è limitato alla dimensione
della memoria, alla consolatoria evocazione del passato».
23 Cfr E. Sanguineti, Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino, Einaudi, 1973, p.
127, nota 1: «filosofia del collezionismo che ne era stata lungamente la base storica
più o meno consapevole».
24 Cfr G. Gozzano, Ozi contemplativi, «Il Momento», 20 luglio 1911, ora in Id.,
Poesie e prose, cit., p. 1093: «“Il tempo è denaro”… consiglia la praticità anglo-americana,
forsennata nella gara quotidiana del lucro. Ebbene, se il tempo è denaro a
me piace prodigarlo signorilmente, da buon latino artista e contemplativo».
25 Ivi, p. 1094.
26 Cfr G. Gozzano, Il fotografo dei tre magi, «Il Resto del Carlino», 7 gennaio
[ 5 ]
690 mimmo cangiano
locandine del cinematografo»)27. La stessa arte asservita al processo
industriale, così come si esprime tanto nel cinema («industria potente
e prepotente come il denaro»)28 quanto nell’odiato Liberty29, è denaro,
ma qui a risultare infranto nella commistione dei due mondi (arte e
industria)30 risulta appunto l’elemento che dal valore di scambio (come
un benjaminiano pezzo da collezione)31 deve essere preservato, la
memoria del passato che l’arte stessa esprime: «la profanazione della
bella villa antica. Era stata ridotta al più sconcio padiglione americano.
[…] a grovigli di lombrici liberty»32.
Emblematicamente il Liberty, per Gozzano, diversamente che per
Benjamin33, non è l’ultima resistenza dell’arte assediata, ma è il design
industriale, la commistione che non può essere tollerata: è la profanazione
che segnala l’avvenuta ambiguità di ciò che ambiguo non era e
non dovrebbe essere. È, vale a dire, l’ingresso del denaro (cioè della
mutazione continua – del divenire continuo – che il valore di scambio
presuppone) in un patrimonio ideologico-culturale in precedenza
presupposto come immutabile. Il salvataggio collezionistico troverà così
espressione in numerosissimi luoghi dell’opera gozzaniana, e si caratterizzerà
come collezionismo permanentemente associato proprio
con gli elementi del “passato”34, cioè della memoria: si tratti dei poeti
1914, ora in F. Contorbia, Il sofista subalpino, cit., pp. 126-127: «Nulla nuoce alla
poesia come la cosa certa, […] la verità è – naturalmente – brutta. […] Questa che
ho dinnanzi è la Giudea desolata, vera, brutta».
27 Ivi, p. 130.
28 G. Gozzano, Il nastro di celluloide e i serpenti di Laocoonte, «La Donna», 5 maggio
1916, in Id., Poesie e prose, a cura di A. De Marchi, Milano, Garzanti, 1961, p.
1175.
29 Cfr Id., Verso la cuna del mondo, cit., p. 112: «lercio stile liberty che appesta le
metropoli europee».
30 Cfr G. Gozzano, Un vergiliato sotto la neve, «La Lettura», aprile 1911, in Id.,
Poesie e prose, cit., p. 1008: «il palazzo della moda! […] arte applicata all’industria».
Cfr Id., Il tipo ideale della bellezza femminile è mutato? Può mutare?, «La Donna»,
20 dicembre 1913, in F. Contorbia, Il sofista subalpino, cit., p. 88: «Escludo la moda
quale coefficiente di bellezza».
31 Cfr W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di S. Solmi, con
un saggio di F. Desideri, Torino, Einaudi, 1995, pp. 147-148: «Il collezionista […] si
assume il compito di trasfigurare le cose. È un lavoro di Sisifo, che consiste nel
togliere alle cose, mediante il suo possesso di esse, il loro carattere di merce. Ma
egli dà loro solo un valore d’amatore invece del valore d’uso».
32 G. Gozzano, Un addio, in I sandali della diva, cit., p. 294.
33 Cfr W. Benjamin, Angelus Novus, cit., pp. 148: «è l’ultimo tentativo di sortita
dell’arte assediata dalla tecnica».
34 Cfr G. Gozzano, L’altare del passato, «La Lettura», gennaio 1911, in Id., I san-
[ 6 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 691
romantici o dell’infanzia dei Sandali della diva35 e di Cocotte («tu riportassi
me stesso d’allora»)36, dell’immagine di Dio37 o addirittura della
forma del sonetto che è «dolce al vivere fittizio […] come i vecchi gioielli
ereditari»38 (e la critica ai poeti, futuristi, che non conoscono «il
coscienzioso labor limae che solo ci dà l’opera bella e duratura»39 segue
a ruota). L’oggetto elevato a pezzo da collezione si caratterizza come
rispecchiamento ideologico-letterario di un ordine immobile del reale
che proietta ora la visione di un mondo ormai scomparso o sul punto
di scomparire, e lo trattiene sulla pagina come perduto possesso di
quello, e dunque come perduta, ma nella memoria riattivata, sovrapposizione
fra letteratura e vita.
Ciò che la ‘forma’ (la Gestalt) va dunque a significare in Gozzano,
non è il tentativo tragico che vuole segnare un limite etico alla frammentazione
gnoseologica che nella morte di Dio e del Soggetto ha il
suo epicentro (la figura di Brand in Ibsen – per fare diretto riferimento
ai coevi “vociani” – così come la traccia proprio Slataper)40, ma è la
preservazione di un nucleo ideologico (che l’arte esprime e che l’arte
aveva contribuito a formare da una posizione di prestigio) che si dichiara
ormai separato (ed ecco dunque l’inevitabile controcanto ironidali
della diva, cit., pp. 54-55: «Il conte si confinava là dentro nelle ore di rimpianto,
accendeva tutti i candelabri, bruciava incenso, perché l’aria fosse sacra come quella
d’un tempio. […] la veste nuziale e le zagare appassite della sposa morta, le
smaniglie e il velo della Persiana […], il rosario e il soggolo di una carmelitana, il
manicotto enorme d’una dama dell’imperatrice Eugenia, le babbucce gemmate
d’una cortigiana famosa […]. – Un collezionista maniaco!».
35 Id., I sandali della diva, «L’Illustrazione italiana», 28 maggio 1915, ivi, pp. 150-
153: «Io parlo sovente, forse troppo sovente della mia infanzia. Ma devo risalire a
quell’origine prima se voglio ritrovare qualche immagine fresca, qualche cosa viva
e vera da raccontare […]. La Baronessa aveva adunato nella villa d’improvviso,
alla rinfusa, tutti i ricordi del suo passato: […] giochi meccanici che mi mozzavano
il respiro per la meraviglia: il Trocadero con le cascate multiple […], la torre Eiffel
in oro».
36 Cocotte è un testo fondamentale nel quadro della strategia gozzaniana perché
registra, quasi didascalicamente, la trasposizione dall’oggetto nella forma di
merce (la donna che si prostituisce) all’oggetto medesimo che apre invece lo spazio
delle fiabe e dell’infanzia.
37 Cfr G. Gozzano, Albo dell’officina, a cura di N. Fabio e P. Menichi, Firenze,
Le Lettere, 1991, p. 142: «Buon Dio nel quale non credo Buon Dio che non esisti
[…]. E forse che credo nel sogno?».
38 Id., Tutte le poesie, cit. p. 262.
39 G. Gozzano, lettera ad A. Guglielminetti del 13 luglio 1909, in Lettere d’amore,
a cura di S. Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951, p. 147.
40 Cfr S. Slataper, Ibsen, Torino, Bocca, 1916.
[ 7 ]
692 mimmo cangiano
co) dalla moderna organizzazione sociale, la quale, invece, costringe
l’arte stessa all’ingresso nel fluttuante universo dello ‘scambio’. È tale
separazione a trasformare appunto il nucleo ideologico in un pezzo
da collezione dichiarandolo inevitabilmente altro da quella commistione
fra arte e industria (design, Liberty, cinema, ecc.) che ne è anzi il
completo opposto.
Lo stesso gioco di citazioni e reiterate autocitazioni, in tal senso,
non è una strategia postmodernista atta a togliere valore autoritario
ed essenzialistico ai testi originari, ma è il salvataggio collezionistico
della funzione ideologica tramontata che quelle voci esprimevano:
«La citazione, dunque, come metafora dell’oggetto poetico spostato,
rimosso. […] in un’ottica da collezionista che studia i pezzi della sua
raccolta»41. La capacità di Gozzano di attingere a piene mani da materiali
differenti (fino al plagio) non si caratterizza come modalità tesa
all’annullamento del soggetto autoriale in senso ontologico, ma si
esprime come tentativo di riattivazione di un ordine ideologico in dissolvenza,
un ordine dove l’arte – ancora riflesso ‘stabile’ della realtà
– non era assoggettata alla forma della merce che ora riformula continuamente
(rinegozia) i valori sociali. La caduta, questa sì modernista,
delle stabili certezze e dei principi ideologici, non è in Gozzano il riflesso
della crisi epistemologica tracciata da Nietzsche, ma è l’impossibilità
dell’ideologia letteraria (e dunque del ruolo dell’intellettuale)
così come fino ad allora si era espressa, a sviluppare una sovrastruttura
artistica in grado di rivestire completamente la struttura corrente,
sovrastruttura che invece il Modernismo ha già approntato proprio
sposando l’ideale di ambiguità e contingenza che il reale (sottoposto
alle leggi dello ‘scambio’) ora esprime. E si potranno in tal senso citare,
per evitare i soliti nomi, il finale ‘aperto’ di :riflessi (1908)di Palazzeschi
(dove il crollo della struttura identitaria del protagonista apre
alla proliferazione delle maschere identitarie e all’impossibile differenziazione
fra queste ultime e l’Io reale), oppure il lavoro di Soffici
(lui sì compiutamente nella linea – cinica – del Nietzsche interpretato
da Mach) teso ad esaltare il carattere immanentemente contraddittorio
(dunque ironico) della realtà medesima:
41 G. Baldissone, Introduzione a G. Gozzano, Opere, a cura di G. Baldissone,
Torino, UTET, 1983, p. 12. Cfr F. Livi, L’amore delle belle immagini. Gozzano e la cultura
francese, in Guido Gozzano. I giorni, le opere, Atti del Convegno Nazionale di Studi,
Torino, 26-28 ottobre 1983, Firenze, Olschki, 1985, pp. 11-42, p. 14: «I plagi sono
conferme di questa costante “memoria” letteraria».
[ 8 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 693
ironia […] finissimo riso dell’uomo che si sveglia […] sopra la menzogna
e miseria delle norme, delle categorie […], dall’ironia, che è appunto
al di sopra delle dottrine, prenderà il suo slancio […]; accettazione
aristocratica del mondo per quel che vale […]; gaia scienza dell’uomo
guarito dal «male delle trascendenze»42.
La crisi dei Fondamenti che il trionfo del denaro quale valore di
scambio ora manifesta, trova Gozzano in grossa difficoltà riguardo alla
ristrutturazione del proprio ruolo, e lo fa volgere, appunto, verso la
“memoria” quale luogo, come ha scritto un altro autore tradotto in
quegli anni per Bocca, Otto Weininger, «che trattiene il soggetto dalla
dispersione nell’ambiguo»43, e quindi verso il collezionismo, inteso
quale sottrazione alle cose, tramite la memoria/riattivazione del passato44,
del loro attuale carattere di merce. Da ciò consegue lo sviluppo
di quegli elementi anti-cronologici (il sacro, la morte) che poeticizzano
l’oggetto fuori dall’accidentalità di una condizione-vita caratterizzata
dal carattere ambiguo, cioè fluttuante, della merce medesima: «Non
un mistero di vita, ma un mistero di morte e di passato era custodito
là dentro»45. Il collezionismo in Gozzano, inoltre, non si esaurisce nei
puri oggetti-simbolo secondo l’intuizione di Luciano Anceschi(un libro,
una fotografia, ecc.)46, ma si estende, come detto, allo stesso trattamento
riservato alle citazioni, alle scelte lessicali, ai metri e ai generi letterari
quali appunto il sonetto, e a ciò che Franco Contorbia ha definito
«il sistematico “ritorno” di alcuni moduli espressivi»47, perché appunto
tutti questi elementi sono custodi di un nucleo ideologico collettivo
in dissolvenza che il poeta può recuperare collezionisticamente48. Non
basta: ci sono i collezionisti di echi, come in una sua novella, la cui ricerca
non a caso risulta dall’autore direttamente apparentata – in una
42 A. Soffici, Primi principi di un’estetica futurista (1914-1916), in Opere, pref. di
G. Prezzolini, Firenze, Vallecchi, 1959, I, pp. 679-741, pp. 710-711.
43 O. Weininger, Sesso e carattere, introduzione di F. Rella, ristampa anastatica
dell’ed. Feltrinelli-Bocca 1978, Milano-Udine, Mimesis, 2012, p. 234.
44 G. Gozzano, Prologo, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 333: «Dice il Sofista amaro…
il Passato è passato; / è come un’ombra, è come se non fosse mai stato. […] /
Il buon Sofista mente: basta un accordo lieve e il Passato è presente».
45 Id., L’altare del passato, in Id., I sandali della diva, cit., p. 50.
46 Cfr L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Milano, Marzorati, 1962,
p. 51: «tenta di darci oggetti-simboli equivalenti alla situazione della miseria
dell’uomo decaduto, del nulla in cui viviamo».
47 F. Contorbia, Il sofista subalpino, cit., p. 110.
48 Cfr L. Baldacci, Le idee correnti e altre idee sul Novecento, Firenze, Vallecchi,
1968, p. 143: «L’oggetto è il segno archeologico di una vita sociale».
[ 9 ]
694 mimmo cangiano
chiara valenza anti-sociale, a quella dei poeti:«la cosa è troppo poetica,
per aver posto nel campo pratico»49.
La crisi della sovrapposizione fra vita e rappresentazione, insomma,
non apre solo lo spazio dell’ironia che scaturisce ora dal loro problematico
incontro, ma inevitabilmente anche lo spazio del “rifugio”
(e si capisce perché Gianfranco Contini affermò che «l’ironia inerente
al controcanto […] non esclude affatto la partecipazione al canto»)50 e
poi dell’esilio, vale a dire del distacco dalla corrente realtà storico-sociale.
La scelta auto-estraneatoria di Totò Merumeni si configura appunto
come alienazione di se stessi (cioè della propria stessa funzione)
dall’universo gazzettiere del valore di scambio; ritirata, vale a dire,
dinnanzi alla commistione (cioè all’ambiguità) che il nuovo livello
sociale prospetta trascinando l’arte stessa nelle proprie modalità di
funzionamento: «Non ricco giunta l’ora di “vender parolette” / (il suo
Petrarca!…) e farsi baratto o gazettiere, / Totò scelse l’esilio»51. Ed
«esilio» è infatti anche la parola usata da Gozzano per sottolineare
l’inevitabile estraneità di un’arte antica (cioè del nucleo ideologico,
della memoria ideologica, a questa collegato) rispetto al mondo corrente:
«So quale malinconia d’esilio, quale stridore borghese acquistano
sotto il nostro cielo, nelle nostre dimore modeste, tra uno scrittorio
Luigi XV e uno stipo dell’Impero»52.
Dove Serafino Gubbio denuncia la completa reificazione del soggetto,
Merumeni ne sceglie una per difetto: prova a ridurre anche se
stesso ad oggetto da collezione al fine di superare la propria stessa mercificazione.
Tale esilio è proprio il luogo della memoria che Gozzano
gioca al fine di sottolineare (e non a caso Benjamin Cremieux parlò di
Proust)53 il recupero di una struttura identitaria – con le maschere certo
in dialogo, proprio come il passato è in costante dialogo col kitsch
del presente – che è tutt’uno col recupero di una funzione ideologica
che nell’oggetto collezionato (quale che sia) ricompare intatta, perché
l’oggetto vuole esprimere l’identificazione con un nucleo ideologico
(perduto) che garantiva la sovrapposizione fra realtà e ideologia.
49 G. Gozzano, Eco e i suoi devoti, «Il Momento», 15 dicembre 1911, ora in Id.,
Poesie e prose, cit., p. 1125.
50 G. Contini, Letteratura dell’Italia unita (1861-1968), Firenze, Sansoni, 1968,
pp. 743-744.
51 G. Gozzano, Totò Merumeni, in Tutte le poesie, cit., p. 149.
52 Id., Verso la cuna del mondo, cit., p. 239.
53 Cfr B. Crémiuex, Panorama de la littérature italienne contemporaine, Paris, Kra,
1928, p. 226.
[ 10 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 695
La dissoluzione dei valori non esclude insomma il contro-polo ideologico
di un modo di essere borghese che Gozzano avverte ormai
tramontato, ma questo né si dà più nella difesa dell’arte-per-l’arte, né
approda ancora al valore di scambio come realtà del mondo (l’equivalenza
di tutti i valori propria della prospettiva impressionistica), ma
vive nella piena coscienza che nel momento in cui il valore estetico ha
perso il proprio referente ideologico-sociale, la sua trasformazione in
ciarpame è inevitabile. Nessuna ricreazione del mondo attraverso l’arte
dunque, ma trasformazione dell’arte stessa in residuo ideologico.
Gozzano non resta infatti ancorato al mito di una resurrezione etica
della borghesia (come farà un Hofmannsthal o un Slataper da noi), né
muove con sicurezza verso i tentativi ridefinitori in senso politico del
ruolo dell’intellettuale come stanno facendo i fiorentini, né, tantomeno,
può accettare il dannunzianesimo che intuisce come livello sovrastrutturale
(e bovaristicamente consumistico nella sua illusione di vita
che trascende la standardizzazione) della nuova borghesia54.
Lo stesso spiritualismo di ritorno55 (si pensi alla parodia su Fogazzaro
di Non radice, sed vertice)56 viene inquadrato, in un articolo del
1905, nei termini di «oppio», e posto in parallelo (stante anche la lettura
del Graf di Preraffaelliti, Simbolisti ed Esteti)57 con le «nuove decorazioni
degli appartamenti moderni»58 (ancora il Liberty dunque, il quale,
essendo, come detto, commistione dell’arte con la nuova struttura
sociale, del collezionismo è esattamente l’opposto).
Ciò che nell’arte torna a sopravvivere del passato è tanto il «morto
possesso» di questo che denuncia l’auto-estraneazione (cioè ancora
l’esilio) dell’intellettuale dai suoi stessi strumenti, quanto il consolatorio
simulacro del valore d’uso che la rinuncia al valore di scambio fa-
54 Cfr S. Zatti, Desiderio e rifiuto borghese. Due letture gozzaniane, «Lavoro critico
», III (aprile-giugno 1977), n. 10, pp. 103-139, p. 136: «Gozzano intuisce, ancora
confusamente ma in modo inequivocabile, la presenza dei tempi nuovi della tecnologia
industriale, di cui D’Annunzio e il dannunzianesimo costituiscono ai suoi
occhi il riflesso sovrastrutturale».
55 Assai probabile, per la critica dello spiritualismo allora in voga, che per Gozzano
abbia giocato un ruolo importante il volume Il misticismo moderno di Erminio
Troilo (pubblicato per Bocca nel 1899).
56 Cfr G. Gozzano, Non radice sed vertice, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 132: «Positivista
irredento / un’ora fraterna e un the raro / a casa vo’ darle e il commento
/ dell’opere di Fogazzaro».
57 Il saggio, pubblicato nel 1887 sulla «Nuova Antologia» è ora leggibile in Foscolo,
Manzoni, Leopardi, Torino, Loescher, 1914.
58 G. Gozzano, Il misticismo moderno e la rievocazione del serafico, «La Gazzetta
del Popolo della Domenica», 20 agosto 1905, in Id., Poesie e prose, cit., p. 991.
[ 11 ]
696 mimmo cangiano
rebbe presupporre, facendo ad esempio sorgere, e su basi piuttosto
pascoliane, il mondo di Paolo e Virginia. Il «tornavi morta a chi ti amava
tanto», calco del naufragio del corpo d’Ulisse sull’isola di Calypso
nell’Ultimo viaggio di Pascoli59, raddoppia il tema “collezionistico”
della Morte ponendo quest’ultima nelle diade classica con Amore, e
immortala entrambi nella memoria del passato, cioè in quello che per
Gozzano è il mondo del presupposto universo del valore d’uso60. Di
conseguenza avremo: comunità organica basata sui ritmi naturali61 ed
estranea a qualsiasi sviluppo tecnico, residuo ideologico di matrice letteraria
rappresentato dal romanzo Paul et Virginie (1787) di Bernardin
de Saint-Pierre («rivivo tempi già vissuti»)62 (e nel romanzo di Saint-
Pierre è proprio il denaro che introduce la degradazione dell’isola),
completa sovrapposizione fra vita e ideologia letteraria («belli e felici
come in una stampa»), e infine, per l’appunto, la completa identità fra
Amore, Morte, e Arte, nel quadro del Passato, cioè della memoria del
passato: «E chiamo invano Amore fuggitivo / invano piange questa
Musa a lutto / che porta il lutto a tutto ciò che fu»63.
Se col tema delle Risorte Gozzano, da un lato, chiarifica l’impossibilità
di Amore (cioè dell’Arte sull’Amore, della sovrastruttura sull’amore)
alla soglie della società di massa e dunque nel momento in cui
la vita è subordinata alle leggi dello scambio e all’organizzazione del
mercato (Ecatombi floreali con la trasformazione dei fiori in denaro64;
59 E penso sia abbastanza evidente cosa Gozzano abbia potuto trovare nei Conviviali.
60 La ripetizione continua e insistita delle date serve naturalmente tale meccanismo
di riattivazione del passato. Cfr G. Gozzano, L’ipotesi, in Tutte le poesie, cit.,
p. 275: «Adoro le date. Le date: incanto che non so dire / ma pur che da molto
passate o molto di là da venire».
61 Cfr Id., Paolo e Virginia, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 113: «beni della rete e
della freccia».
62 Ivi, 110.
63 Ivi, p. 117.
Ovviamente tale meccanismo non esclude il controcanto ironico e a base di
«intossicazione letteraria». Paul et Virginie era del resto una delle letture preferite
di Emma Bovary.
64 Cfr Id., Ecatombi floreali, «Il Momento», 8 febbraio 1911, ora in Id., Poesie e
prose, cit., pp. 1033-1035: «Sono queste colline che coi loro campi sterminati di fiori
viventi ancora sostengono la lotta contro i volgarissimi estratti chimici della città,
i quali stanno all’essenza naturale precisamente come il paesaggio incantevole che
io ho dinnanzi può stare ad uno scenario di caffè-concerto. […]. Oggi ho visitato
per la prima volta una distilleria di profumi […]. Sono entrato nell’edificio con
animo gaio e ne sono uscito triste, col cuore stretto da quel senso di pena che danno
i macelli».
[ 12 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 697
Miss Ketty, «la figlia della cifra»65, che non comprende e deride il recupero
collezionistico della diade Amore e Morte nella citazione da Leopardi,
deride cioè il nucleo ideologico alla citazione collegato), qui
invece Amore risorge come apparente valore d’uso, vale a dire che
Amore diventa omologia dell’universo non-ambiguo della morte, e
dunque dell’arte stessa e dell’ideologia anti-mercificatoria che, secondo
Gozzano, questa un tempo aveva prodotto: «Risorge chiara dal
passato fosco / la patria perduta / che non conobbi mai, che
riconosco»66, oppure in prosa: «Quando i principi cercavano moglie in
terre lontane, ricorrevano per l’effigie della bella ai loro fedeli pittori»67.
Ed è un procedimento, certo strada verso l’epifania, che vedremo ricorrente:
sia l’apparizione improvvisa del «natio borgo selvaggio» o
l’arrivo di un’amica che fa sovvenire «Petrarca che raggiunto fu per
via da Laura»68. E si ricordi che, per le Farfalle, Gozzano ci terrà a ricordare
che
Gli antichi erano così sbigottiti dalle metamorfosi della farfalla, dalla
sua rinascita dopo la morte apparente – che l’avevano considerata come
l’emblema dell’amore. La parola greca Psyché significava amore e
farfalle69.
III. Ma qui si apre l’altro polo: se il collezionismo significa tentativo
di preservazione dell’oggetto dall’universo del valore di scambio,
esso non significa riappropriazione del valore d’uso, cioè abbattimento
del valore di scambio. Rispetto a un mondo in cui, come scrive il
sodale Carlo Chiaves, è impossibile determinare la differenza fra cifre
65 G. Gozzano, Miss Ketty, in Tutte le poesie, cit., p. 313. Cfr Ferdinando Pappalardo,
Lo “Spetro ideale”. Saggi su Gozzano, Saba, Montale, Bari, Palomar, 2006, p. 47:
«La sua religione è il denaro, il suo idolo la forma di merce». Brillante l’intuizione
di Raffaele Morabito sul fatto che Miss Ketty, che colleziona ciocche di cappelli di
persone famose, chieda a Gozzano riguardo alla possibilità di averne una di D’Annunzio.
Cfr Gozzano e il mercato delle lettere, in Id., Parole e scrittura, Roma, Bulzoni,
1984, pp. 195-196: «investe colui che aveva prontamente assecondato e sfruttato le
tendenze alla mercificazione della letteratura. Qui se ne mercifica la stessa persona
fisica, che appare anch’essa ridicolmente sottoposta alle leggi della domanda e
dell’offerta».
66 Id., Paolo e Virginia, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 111.
67 Id., Il candore dei primitivi, «Il Momento», 28 aprile 1911, ora in Id., Poesie e
prose, cit., p. 1077.
68 Id., Un’altra risorta, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 157.
69 Id., Materiali preparatori per le Epistole entomologiche, in F. Biagi, Sotto l’arco
di Tito. Le Farfalle di Gozzano, Trento, La Finestra Editrici, 1999, p. 100.
[ 13 ]
698 mimmo cangiano
e versi, Gozzano pare a tratti prendere decisamente posizione a favore
del mito della comunità organica (sul valore d’uso fondata) pochi anni
prima esaltata da autori quali Morris e Ruskin, e in parte propagandata
in Italia proprio dall’opera di Arturo Graf:
Sentite che la macchina immane che abbiam costruita ci stritola; […] la
quale civiltà difetta appunto di quelle condizioni che più si richiedono
a una vera civiltà: compostezza, omogeneità, euritmia, coerenza70.
I luoghi della sua opera in tal senso sono numerosissimi e non esulano
dal consueto meccanismo collezionistico teso alla preservazione
(nello straniamento temporale, o in quello spaziale: l’India)71 della
funzione ideologica defunta, cioè della identità possibile fra vita e letteratura,
cioè dell’arte come concrezione del passato universo ideologico-
sociale. Si va dall’interesse per i canti popolari piemontesi72 (ordine
sociale di tipo simbolico-morale in cui continuerebbe a vivere il
precedente nucleo ideologico, vale a dire la sovrapposizione fra reale
e sovrastruttura) alla comunità di San Francesco e Santa Chiara, dalla
sovrapposizione fra l’operaio (leggasi ovviamente artigiano) e l’artista
nel Quattrocento:
Come un buon operaio coscienzioso, l’artista d’allora aveva per primo
scopo quello di fare opera perfetta e solidamente finita. Si preoccupava
della bontà delle tele e dei colori […]. Nessun bisogno di distinguersi:
il pittore primitivo non firmava nemmeno l’opera sua; era come un
buon falegname73.
Non manca l’esaltazione della catena di lavoro pre-tayloristica osservata
nei sobborghi indiani74, la celebrazione di un anti-produttivi-
70 A. Graf, Ecce Homo, Milano, Treves, 1908, p. 31.
71 Cfr E. Sanguineti, Guido Gozzano, cit., p. 163: «lo straniamento nello spazio
è una funzione dello straniamento nel tempo». Estremamente interessante che, in
Verso la cuna del mondo, l’Europa sia direttamente identificata con la presenza della
merce. Cfr G. Gozzano, Verso la cuna del mondo, cit., p. 209: «indugiamo dopo il
caffè per avere intorno l’illusione di un po’ d’Europa che viaggia con noi, l’illusione
che emana dalle vernici, dagli specchi delle stoviglie, dai cibi stessi, dalle salse
chiuse in barattoli inglesi».
72 Carlo Calcaterra, nel volume delle Opere gozzaniane del 1956, ha ricordato il
suo amore per le compilazioni di Canti piemontesi curate da Costantino Nigra.
73 G. Gozzano, Il candore dei primitivi, in Id., Poesie e prose, cit., p. 1073.
74 Cfr Id., Verso la cuna del mondo, cit., p. 253: «Il sobborgo dei tintori è una delle
cose più singolari di Giaipur. I tintori esercitano il loro mestiere all’aperto, con
mezzi primitivi e raffinatezze secolari, sconosciute tra noi».
[ 14 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 699
stico ozio75, o il canonico binomio città-natura che assume un ruolo
decisivo – come noto – con la farfalla cavolaia. Un binomio città-natura
(o città-campagna) che è radicalmente differente da quello dei coevi
vociani, perché, come sempre, per Gozzano non è in gioco un problema
di natura gnoseologica – dissoluzione dei valori cittadini vs certezze
naturali della vita agreste (si pensi a Boine) – bensì un problema di
natura storica. Per il torinese la crisi dei Fondamenti è cioè la conseguenza
del crollo di quell’ordine ideologico che – sedimentato collettivamente
– garantiva la sovrapposizione di reale e sovrastrutturale. E
anche il mondo ‘distante’ delle fiabe gozzaniane è parte dello stesso
meccanismo:
La distanza è, in tutta la poetica gozzaniana, una lente deformante attraverso
cui si guarda ogni oggetto, ogni situazione […]. Era quasi inevitabile
che Guido Gozzano finisse per scrivere fiabe, approdando a un
genere le cui regole nascono proprio nella dimensione della distanza76.
Ma da qui a dire che l’esilio memoristico permetta a Gozzano di
sviluppare un antagonismo radicale rispetto alla realtà storico-sociale,
e ci corre. Gozzano, come esprime il livello ideologico di una borghesia
in crisi, è disposto a una critica alla forma attuale della merce, non
certo alla sua eliminazione. Come la fiaba stessa è la distanza dal moderno
mondo borghese, essa è anche una merce estremamente vendibile
nel nuovo universo gazzettiere a cui il torinese dimostra di saper
partecipare con assoluta sagacia77. È il suo stesso posizionamento
ideologico
a creare le infinite contraddizioni (e dunque l’inevitabile
75 Cfr ivi, p. 196: «La vita quotidiana è fatta di necessità. Ora questa gente non
fa nulla di necessario».
76 G. Baldissone, Guido Gozzano consolatore di se stesso, in Guido Gozzano. I giorni,
le opere, cit., p. 379.
Cfr M. Mari, Le farfalle di Gozzano e la tradizione didascalica cinque-settecentesca,
in Guido Gozzano. I giorni, le opere, cit., p. 165: «Se c’è in lui una costante […], questa
è la neutralizzazione della realtà attraverso un processo ora di imbalsamazione in
una stampa ora di allontanamento nel tempo o nello spazio di trasfigurazione fiabesca
».
77 Cfr F. Pappalardo, Lo “Spetro ideale”, cit. p. 8: «della profonda conoscenza
che egli aveva maturato dei meccanismi che regolano l’industria editoriale e il
mercato librario, ma anche delle logiche che presiedono all’organizzazione della
moderna società delle lettere e all’esercizio del professionismo della scrittura».
Cfr G. De Rienzo, Guido Gozzano, Milano, Rizzoli, 1983, p. 71: «Non esita ad
accettare la collaborazione […] a giornali di limitata e provinciale destinazione, ma
sta molto attento, al contrario, nel firmare su periodici di preciso indirizzo ideologico
o di maggiore diffusione. Sconsiglia ad Amalia l’apparizione su «Pagine libe-
[ 15 ]
700 mimmo cangiano
ironia, ironia storica nell’urto, come le chiamava Pancrazi, «delle cose
vive e delle cose fittizie»)78 da cui la sua poetica è invasa, e di cui Gozzano
stesso abilmente si serve. Così come lamenta il deturpamento
industriale dell’India del passato79, l’utilizzo turistico del paese stesso
e sogna la da noi perduta sovrapposizione di Arte e Fede (cioè dell’arte
e della sovrastruttura ideologica a questa collegata) che produrrebbe
l’Erlebnis80, così afferma con certo orgoglio (e subito prima di giustificare
il massacro di Cawnepore) che «basta lo sguardo di una donna
inglese per far abbassare quello di cento nativi»81.
Gozzano non è disposto all’abbattimento dell’universo merceologico
che pure detesta. Se insomma il denaro è il male, come affermato
nella Giostra dell’oro (1911), esso non lo è in sé, ma nel momento in cui
non viene più «utilizzato come mezzo che concede l’ozio contemplativo
»82, cioè come mezzo atto alla riattivazione dello stesso passato,
vale a dire dell’attività letteraria che permette tale riattivazione. Il sogno
dell’interiorità protetta dalla forza, come ebbe a caratterizzarlo
Thomas Mann, porta Gozzano a farsi continuamente organico alle direttive
del sistema sociale che ironizza, tanto nella sua opera attenta di
manager di se stesso fra pubblicazioni, “danza coi critici” («amabile e
dura legge, come scrive, del do ut des»)83, e stesso operato (con rapporti
di lavoro “a nero”) nel settore cinematografico84, quanto nelle più
scoperte adesioni agli orientamenti ideologici in atto, verso il razzire
», una rivista troppo compromessa con il sindacalismo rivoluzionario di Arturo
Labriola».
78 P. Pancrazi, Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, Milano-
Napoli, Ricciardi, 1967, p. 190.
79 Cfr G. Gozzano, Verso la cuna del mondo, cit., p. 119: «il giardino ridente domina
tutta Bombay, ma è deturpato dalla Società del Gaz».
80 Cfr ivi, pp. 181-2: «Il pubblico, un pubblico di forse mille spettatori, ha seguito
ogni sillaba, ogni moto della Devadasis con un’attenzione sconosciuta nei nostri
teatri europei. Ma non è attenzione soltanto: è passione, è religione, è trasporto di
tutte queste anime verso il tesoro della loro poesia […]. Arte e fede espresse dalla
stessa armonia».
81 Ivi, p. 265.
82 G. Gozzano, La giostra dell’oro, «Il Momento», 23 aprile 1911, in Id., Poesie e
prose, cit., p. 1067.
83 Id., lettera ad A. Guglielminetti del 29 maggio 1909, in Lettere d’amore, cit.,
p. 137.
84 Cfr G. Gozzano, Poesia e cinematografo. Conversando col poeta Guido Gozzano,
«Vita cinematografica», 20 dicembre 1910, in F. Contorbia, Il sofista subalpino, cit.,
p. 79: «Io che ho resistito alle lusinghe… pecuniarie dei massimi fogli quotidiani,
perché sentivo che avrei sperperato nel giornalismo ogni mia energia letteraria;
[…] ho accettato con piacere di rivelare le mie fantasie in una pellicola vertigino-
[ 16 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 701
smo (e avremo Jim Crow) e verso l’edificante, anti-scettico e naturalizzante
(«conflitto di razze necessario e fatale») moralismo populista di
guerra85.
Significativamente, del resto, l’arresto del sogghigno ironico, spesso
citato per significare la fase ultima della poetica gozzaniana («Natura
[…] / dinnanzi a lei s’arresta il mio sogghigno»),86 era in realtà già
comparso, e proprio in riferimento al tema della memoria e dell’infanzia,
nel 1911, in rapporto alla galleria dell’Elettricità ammirata all’Esposizione:
«la meraviglia, l’ossequio per le grandi opere umane: lo
sforzo dell’umanità concorde arresta ogni mio sogghigno. […]un senso
di mistero simili a quello che provavo da bambino»87. Vale a dire
durante quella stessa esposizione che da un lato mostrava le sue merci
e le sue glorie, e dall’altro offriva – è l’anno della Libia – il padiglione
della Marina e della Guerra, ed emblematicamente proprio nel cinquantennale
dell’Unità, vale a dire di un Risorgimento che Gozzano
ha già utilizzato nella medesima strategia memoristica di riattivazione
della sovrastruttura ideologica al passato collegata:
Mi piace quest’abolizione momentanea di ogni traccia di moderno
progresso. […] La neve copre la città di un’immensa pagina bianca
sulla quale è facile disegnare le più strane fantasie, resuscitare la cosa
impossibile – anche impossibile a Dio! –: resuscitare il passato. […] E si
può vedere ciò che si vuole. Carlo Alberto affacciato alla Loggia del
palazzo reale in atto di bandire la guerra per l’Indipendenza; […] là il
Berchet, laggiù il Gioberti88.
Come è ben noto Gozzano proveniva da una famiglia che nel Risorgimento
aveva avuto un ruolo abbastanza significativo, e non per
sa». Cfr G. Rondolino, «La musa paziente osservatrice». Gozzano e il cinema, in Guido
Gozzano. I giorni, le opere, cit., pp. 267-280.
85 Si veda, ad esempio, una novella come La scelta migliore («La Stampa», 14
giugno 1915) dove, allo scoppio della guerra, la donna – inizialmente bovaristicamente
invaghita del fatuo cugino – decide di restare col marito, di professione industriale.
Sulla stessa linea il racconto Un addio nel quale un giovane, prima convinto
internazionalista, trova realizzazione nel più acceso nazionalismo. Significativamente,
con questo tipo di novelle, si aprono per Gozzano le pagine dei maggiori
quotidiani. Già nel 1914 il torinese aveva comunque proposto la sua collaborazione
a «Il Resto del Carlino». Cfr F. Contorbia, Gozzano, la guerra, la morte,
«Studi piemontesi», XI (marzo 1980), n. 1, pp. 15-30.
86 G. Gozzano, Pioggia d’agosto, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 168.
87 Id., Un vergiliato sotto la neve, in Id., Poesie e prose, cit., p. 1006.
88 Ivi, pp. 1000-1001. Si ricordi la presenza delle tele di Massimo D’Azeglio fra
le «buone cose di pessimo gusto».
[ 17 ]
702 mimmo cangiano
caso in un «sonetto del ritorno» (e proprio in un sonetto) la morte del
nonno, il senatore Massimo Mautino, è direttamente collegata alla
“morte di Dio”: «Ma tu sei morto e non c’è più Gesù»89. Il tracollo della
divinità non viene cioè posto (come per i modernisti) ad emblema
delle fine delle certezze di matrice metafisico-ontologica, ma a crollo
di una precisa costellazione ideologica, di una sovrastruttura storica,
di una fase storica90.
Si comprende dunque come Slataper abbia potuto scrivere che
«borghesismo e romanticismo sono una sola cosa in lui»91: la riattivazione
del passato (es. Villa Amarena dove il poeta è per tutti l’Avvocato)
è il significante perduto dell’antico ruolo ideologico dell’Arte, cioè
della funzione ideologica (dalla letteratura allora espressa in posizione
di prestigio) che diceva il ruolo di una borghesia diverso da quello
che ora avanza.
IV. Ricapitolo brevemente e concludo riprendendo il tema della
mascherada cui eravamo partiti. Il rapporto di Gozzano col Modernismo
italiano è al tempo stesso reale e apparente: la destrutturazione,
epistemologica e identitaria (Dio, la realtà e il Soggetto), che il fenomeno
modernista pone a fondamento della propria ricerca artistica, trova
in Gozzano quelli che all’apparenza paiono precisi (sebbene un po’
sfocati) riscontri, ma che in realtà sono sfocati perché provengono da
un quadro del tutto diverso di interpretazione. L’apparizione della
contemporanea morte di Dio e del Soggetto, l’accento sulla possibilità
di sviluppo di maschere identitarie che denuncerebbe la natura simulacrale
del reale stesso, l’abbassamento ironico-prosastico, l’irruzione
della psicologia a disgregare la monumentalità dell’arte, e anche una
visione della vita come Divenire perpetuo che a tratti compare tanto
nelle primissime pagine quanto in quelle tarde, non sottendono il tracollo
gnoseologico che il Modernismo esprime (ciò che John Burrows
ha definito come The Crisis of Reason e Marshall Berman come il liquefarsi
di ciò che è solido)92, ma sono indissolubilmente legate al tracollo
89 Id., Sonetti del ritorno IV, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 52.
90 Cfr G. Savoca, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Roma-Bari, Laterza, 1976, p.
91: «In fondo i crepuscolari documentano ambiguamente, esauritosi il ciclo dell’“
imperialismo” crispino, e prima dell’avventura libica, la caduta di ogni fiducia
nei destini di quella “nuova Italia” […], da parte delle classi egemoni mancò una
nuova proposta di miti in grado di surrogare la fine delle idealità romantico-risorgimentali
».
91 S. Slataper, Perplessità crepuscolare, in Id., Scritti letterari e critici, cit., p. 250.
92 Cfr J. Burrows, The Crisis of Reason. European Thought (1848-1914), New Ha-
[ 18 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 703
di una precisa identità storico-letteraria che garantiva, insieme al prestigio
del ruolo, la presa gnoseologica sul reale (cioè la sua efficacia
conoscitiva) perché di quello era egemonica sovrastruttura, vale a dire
ideologia – veicolata dalla letteratura quale suo medium privilegiato –
che rifletteva la realtà mediante la completa identificazione con essa,
vale a dire mediante l’appropriamento artistico del reale. Nulla in
Gozzano non dico di Pirandello, ma della “teoria del pensiero ultraprospettivistico”
del giovane Prezzolini o di Papini (che lo maltratterà)
93, nulla del bachtianesimo di un Palazzeschi (e Gozzano lo scambia
infatti per un poeta decadente)94, e non del bachtinanesimo come
apparizione del basso-corporale che scompagina le pretese del sublime,
ma proprio come emersione di un reale da esperire sotto il segno
di una contraddizione inemendabile. Se quelli del «nichilismo da
franjaie», come li aveva definiti Emilio Cecchi in una lettera a Giovanni
Boine, non lo intendono, lontanissimo risulta altresì dal polo etico
del vocianesimo95, finalizzato, sono parole di Carlo Stuparich, «allo
sforzo angoscioso che tende a neutralizzare le forze della disgregazione
»96 (e «perplesso senza dramma e senza fede» lo definisce Slataper),
e Rebora prega Prezzolini di non confonderlo coi Gozzano di
questo mondo.
Neppure è un caso che il non mai abbastanza ricordato Giuseppe
Toffanin, il critico letterario che in quegli anni parlava di «comune
sentimento riguardante la perdita dell’assoluto in un mondo senza
centro»97, scavalchi all’indietro le opzioni moderniste e lo ponga in
rapporto con la critica sociale – una critica tutta interna alla borgheven,
Yale University Press, 2000. Cfr M. Berman, All that is Solid Melts into Air. The
Experience of Modernity, New York, Simon & Schuster, 1982.
93 Cfr G. Papini, Le speranze di un disperato, in Id., Maschilità (1915), Firenze,
Vallecchi, 1932.
94 Non certo un caso che Gozzano prediliga il primissimo Palazzeschi, e che
fondamentalmente scambi il saltimbanco per un poeta decadente. Cfr A. Palazzeschi,
lettera a F.T. Marinetti dell’aprile 1911, in F.T. Marinetti, A. Palazzeschi,
Carteggio, con un’appendice di altre lettere a Palazzeschi, introduzione, testo e note
a cura di P. Prestigiacomo, presentazione di L. De Maria, Milano, Mondadori,
1978, p. 46: «quel Don Giovanni andato a male di Guido Gozzano nel suo psicologico
sputtanamento».
95 Le riserve di Cecchi (Guido Gozzano, «La Voce», 12 Agosto 1909) sono infatti
di ordine essenzialmente etico, se non addirittura religioso.
96 C. Stuparich, Cose e ombre di uno (1919), Caltanissetta-Roma, S. Sciascia,
1968, p. 67.
97 G. Toffanin, La fine dell’umanesimo, Torino, Bocca, 1920, p. XIV.
[ 19 ]
704 mimmo cangiano
sia98 – di Emilio Praga. Chi lo comprende è naturalmente Renato Serra
(«il nostro rivelatore e la nostra espressione», come lo definisce
Gozzano)99 che ne inquadra il fondo classicista (o, forse, direttamente
neo-classicista)100 e, al tempo colla coscienza critica del tracollo di un
ruolo e di una società, la conservazione dell’immagine di una civiltà
scomparsa e dell’ideologia a questa sottesa.
Ma è forse corretto dire che Gozzano è in realtà un passo indietro e
un passo avanti rispetto ai suoi coetanei: perché è proprio la mancata
comprensione della portata della crisi gnoseologica in atto, a permettergli
di non perdere il legame con la realtà storica (con cui la sua
memoria del passato continuamente cozza facendo scintille) che quella
crisi ha prodotto. A non perdere di vista il fatto (come accadrà a
molti modernisti nostrani e non) che non è lo sviluppo della teoria
gnoseologica ad aver modificato il reale, ma che è la modificazione
avvenuta storicamente nel reale ad aver approntato la nascita della
grande filosofia e letteratura della crisi.
Temi all’apparenza simili significano insomma cose differenti. Il
ruolo del teatro e della maschera, così come trattato, ad esempio, in un
testo come L’esperimento, non va ad attaccare lo statuto ontologico del
reale e dell’identità tout court, ma denuncia la scomparsa della sovrastruttura
ideologica che poteva esprimere, perché lo rivestiva egemonicamente,
un certo reale e una certa identità intellettuale. Allo stesso
modo l’ironia non è l’attacco alla pretese immobilizzanti della ‘forma’
contro la vita, ma la constatazione della distanza creatasi fra la realtà
98 Id., Guido Gozzano. I colloqui, «Le Cronache Letterarie», aprile 1911, p. 2.
99 Cfr G. Gozzano, lettera a Renato Serra del 19 marzo 1915, in Id., Poesie e
prose, cit., pp. 1368-1369: «Lei è veramente la nostra espressione, […] è il nostro rivelatore
ed è fatalmente il critico del tempo nostro». Cfr E. Montale, Gozzano
trent’anni dopo, V (30 settembre 1951), 5, pp. 3-8, poi in Sulla poesia, a cura di G.
Zampa, Milano, Mondadori, 1976, pp. 54-62, p. 55, e ora in Il secondo mestiere. Prose
(1920-1979), a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, I, pp. 1270-1280: «lasciando
a pochi sottili iniziati (Serra meglio d’ogni altro) la cura di distinguere fra
la sua arte effettiva e la teatrale abilità della sua fictio». Cfr F. Contorbia, La mediazione
differita. Renato Serra tra Gozzano e «La Voce», in Guido Gozzano. I giorni e le
opere, cit. Vale anche la pena ricordare che Serra aveva proposto a Prezzolini di far
scrivere a Saba il pezzo (poi scritto da Slataper) per «La Voce» sui crepuscolari.
Serra aveva anche proposto a Prezzolini, l’8 aprile 1911 un articolo su Gozzano
(poi non scritto).
100 G. Gozzano, Alcina, «L’Illustrazione Italiana», 23 dicembre 1915, ora in Id.,
I sandali della diva, cit., p. 239: «“– Non rimpiango d’essere nato troppo tardi. […] Il
cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi troppo vivi; non so pensare
le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli, azzurri e verdi”».
[ 20 ]
gozzano (o del modernismo apparente) 705
e una certa ideologia, una certa forma, una certa sovrastruttura. Ecco
perché gli elementi della crisi modernista in Gozzano appaiono, ma
appaiono sfocati. L’ambiguità fra sogno e ironia non è insomma elemento
caratterizzante l’impossibilità della sovrapposizione fra il reale
e l’interpretazione di questo, ma è l’ambiguità strutturale connessa ad
un’ideologia in dissolvenza, e a un ruolo di cui Gozzano comprende
ora perfettamente i risvolti per l’intellettuale brutali: «tu credi ch’io
commerci / (poiché poeto un poco) / in chi sa quali merci / buone
alla gola o al gioco! / Di qui potrai vedere / la mia tristezza immensa:
/ piccola amica, pensa / che questo è il mio mestiere!»101.
101 Id., Dolci rime, in Id., Tutte le poesie, cit., p. 350.
[ 21 ]

Francesco Giusti
Tra il «bruco defunto» e la «farfalla apparitura».
Gozzano e la crisalide del Modernismo
La poesia di Gozzano non è pienamente ascrivibile al Modernismo né completamente
al di qua di esso. Resta intenzionalmente in quello stato intermedio che
più tardi il poeta ritroverà nello stadio della crisalide descritto nelle Farfalle. Da
questa posizione Gozzano sviluppa una consapevolezza critica dell’ironia racchiusa
nella storia che impedisce ogni fiducia nell’autenticità umana e conduce
l’io lirico a considerarsi un personaggio creato dalle circostanze socio-culturali
in cui si opera.

Gozzano’s poetry is neither fully ascribable to Modernism nor completely behind
it. It intentionally lingers in an intermediate state that will later be reflected
by the chrysalis stage described in Le Farfalle. From this position, Gozzano
develops a critical awareness of the irony embedded in history that impedes
any candid trust in human authenticity, and leads the speaker to consider himself
as a character created by the socio-cultural circumstances in which he has
to exist.
Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non essere più,
del non essere ancora.
Epistole entomologiche, VI, vv. 210-212
1. L’ossessione dell’antiquario
L’ossessione e il vezzo dell’antiquario collezionista di tracce materiali
del passato non abbandona mai Guido Gozzano, tuttavia il suo
moderno feticismo è tutt’altro che la mistica adorazione di matrice
romantico-decadente1. Bisogna distinguere tra il salotto buono dell’Ot-
ICI Berlin Institute for Cultural Inquiry; francesco.giusti@ici-berlin.org
1 Per l’uso della categoria di modernismo per la poesia italiana dei primi decen708
Francesco Giusti
tocento, il salotto di Nonna Speranza, e la stanza della memoria che
Gozzano abilmente costruisce nella sua poesia. Sono due diverse forme
di quella chambre à souvenirs di cui scrive in L’altare del passato, il
racconto del 1911 pubblicato in «La Lettura» che darà il titolo al suo
volume postumo2. Nel salotto del 1850 che si incontra nella prima sezione
dell’Amica di nonna Speranza, gli oggetti presenti incarnano lo
stile di un’epoca; nella poesia che li ricorda, invece, sono già vestigia
sparse di un’epoca defunta: le «buone cose» di allora, riviste nella fotografia,
hanno già il marchio del «pessimo gusto» (v. 2) agli occhi del
presente3. Nel salotto di Garibaldina, un racconto pubblicato su «La
Donna» nel 1915 e poi raccolto in L’altare del passato, i «soprammobili
di mezzo secolo di cattivo gusto» sono, con giudizio ancora più reciso,
gli «arredi indispensabili dei salotti atroci» che neppure il mobilio e le
tele di pregio che pure li accompagnano riescono a riscattare. Questi
bizzarri oggetti privi di qualsiasi valore d’uso e investiti, semmai, di
un qualche valore di sostituzione simbolica (che più tardi, forse, evolveranno
nel camp) profanano e deturpano il «magnifico mobilio dell’Impero
», sembrano cioè guadagnarsi una presenza sulla pagina proprio
in virtù della loro funzione primaria: violare il ben altro stile di età
ormai lontane4. Il nostalgico osservatore rileva la loro spiacevole presenza
sul fondale disegnato dal passato e, viceversa, quel passato ritrova
parzialmente le sue qualità soltanto grazie all’offesa perpetrata
nei suoi confronti.
L’arte, l’unica arte oggi ancora possibile che mantenga un legame
con il passato, chiede di essere violata per poter essere preservata, sia
pure con un certo affettuoso rispetto e non con la radicale sprezzatura
praticata dalle avanguardie5. Si tratta di un vero e proprio principio
ni del Novecento; cfr R. Luperini, Modernismo e poesia italiana del primo Novecento,
«Allegoria», t.s., XXIII (gennaio-giugno 2011), n. 63, pp. 92-100.
2 Per le prose si fa riferimento a G. Gozzano, Opere, a cura di G. Baldissone,
Torino, UTET, 1983, pp. 583-593, riferimento a p. 592.
3 Edizione di riferimento per le poesie G. Gozzano, Tutte le poesie, testo critico
e note a cura di A. Rocca, introd. di M. Guglielminetti, Milano, Mondadori,
19832, p. 92.
4 G. Gozzano, Opere, cit., pp. 594-603, riferimento a p. 596. Cfr E. Sanguineti,
Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino, Einaudi, 1966, pp. 121-134.
5 In Under Ben Bulben, la celebre poesia raccolta in Last Poems (1939), W. B. Yeats
sembra offrire una prospettiva simile (IV, 37-67): «Poet and sculptor do the
work / Nor let the modish painter shirk / What his great forefathers did, / Bring
the soul of man to God, / Make him fill the cradles right. // Measurement began
our might: / Forms a stark Egyptian thought, / Forms that gentler Phidias
wrought. // Michael Angelo left a proof / On the Sistine Chapel roof, / Where but
[ 2 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 709
estetico. Non è più possibile trasferire il ricercato cimelio di tempi perduti
nel gretto e arido presente con una fede sincera, o presunta tale,
nella conservazione o nel rinnovamento del suo valore; non è possibile
riproporlo sulla pagina con la certezza, o almeno la devota speranza,
che le sue qualità intrinseche saranno colte dal lettore. L’oggetto ha
valore come testimonianza di stili passati – significativa è infatti, per
la gozzaniana archeologia degli stili, la sua figura esterna – e per farlo
emergere poeticamente occorre accostarlo proprio allo sterile scenario
dei tempi moderni in cui tenta senza successo di ricollocarsi6.
Se lo strenuo sforzo dannunziano è teso a ricondurre oggetti ricerhalf-
awakened Adam / Can disturb globe-trotting Madam / Till her bowels are in
heat, / Proof that there’s a purpose set / Before the secret working mind: / Profane
perfection of mankind» («Poeta e scultore, fate il vostro lavoro, / e il pittore alla
moda non si sottragga / a ciò che fecero i suoi grandi avi, / guidate l’anima
dell’uomo a Dio, / fate sì che riempia bene le culle. // Le misure fondarono il
nostro potere: / le forme pensate da un severo egiziano, / modellate dal più gentile
Fidia. // Michelangelo ne lasciò una prova / nella volta della Sistina, / dove
un Adamo semidesto può turbare / una signora giramondo al punto / di metterle
le viscere in calore, / prova che c’è un proposito / nella mente segreta che lavora:
/ la profana perfezione dell’umano» (W. B. Yeats, L’opera poetica, trad. di A. Marianni,
commento di A. L. Johnson, introd. e cronologia di P. Boitani, Milano,
Mondadori, 2005, pp. 889-891). Se il nudo Adamo michelangiolesco magistralmente
affrescato nelle sue forme sulle volte della Cappella Sistina può portare una
donna moderna e avvezza a girare il mondo fino all’eccitazione sensuale è perché
l’arte ha perduto la sua aura di sacralità distanziante. Questo effetto sull’osservatrice
proverebbe, secondo Yeats, che nella mente dell’artista intento all’opera c’è
un proposito più profondo: una perfezione dell’umanità che sia profana. Se l’opera
nel suo valore simbolico rimanda a un contenuto sacro, quel che eccita anche il più
smaliziato fruitore moderno è la sua forma. L’estetica sottesa, allora, sembra indirizzarsi
verso una rimessa in discussione delle forme dell’arte e la poetica verso
una modalità che tenti di veicolare l’infrazione nelle forme stesse del testo (cfr S.
Deane, Bardic Style in the Poetry of Gerard Manley Hopkins, W.B. Yeats, and Dylan
Thomas, Ann Arbor-London, UMI Research Press, 1989, p. 147).
6 Gozzano non è incline al primitivismo e non si rivolge a miti antichi come
faranno molti modernisti. Testimonianze di antichi miti, semmai, contribuiscono a
costituire lo scenario anacronistico, ma reale, all’interno del quale il poeta costruisce
un proprio immaginario personale composto di storie e oggetti del passato
recente proprio o mediato. Questo immaginario, pur rendendo visibili i segni del
decadimento, non si pone come radicalmente alternativo al presente né come un
suo praticabile sostituto, piuttosto se ne riconosce il contributo alla formazione del
soggetto. Più che alla conoscenza di oggetti esistenti, Gozzano è interessato a come
questi vengono investiti di valore da parte di una determinata cultura o gruppo
sociale e alle condizioni della loro sopravvivenza al trascorrere del tempo. In termini
quasi psicoanalitici, Gozzano racconta e indaga il proprio immaginario come
parte e prodotto dell’immaginario di una cultura.
[ 3 ]
710 Francesco Giusti
cati e preziosi alla immediata evidenza del loro autonomo valore estetico,
per il Gozzano maturo – più storicizzante di quanto in passato la
critica sia stata disposta a riconoscere7 – questi oggetti sono già morti,
hanno lasciato la loro autonomia nelle epoche da cui furono creati, e
possono tornare soltanto se disposti su uno sfondo – la modernità borghese
– che, nell’irriducibile contrasto, aiuti a rivelarne l’incongruenza.
Affinché sia significativa, tuttavia, l’incongruenza non deve essere
assoluta: la ricollocazione non può risolversi nella giustapposizione di
elementi completamente irrelati. Si rende necessario un filo sottile che
ne sostenga l’associazione: certi parziali, pallidi recuperi di tratti stilistici
del passato nel presente (come alcune linee architettoniche di Filippo
Juvarra riprese nel Palazzo dell’Esposizione internazionale del
1911)8, un salto proustiano della memoria personale tra due momenti
della propria esistenza, oppure un qualche contatto fornito dall’ironico
movimento della storia (l’aristocratico giardino di Villa Amarena
rifunzionalizzato a orto dalla famiglia borghese di incerte sostanze).
Lo stile del passato indugia – più revenant che sopravvissuto – nelle
forme imbarbarite del presente.
Una sorta di consapevole revenant è la poesia di Gozzano: torna già
morta da un passato mai del tutto scomparso dalla scena e ci dice di
un futuro non ancora compiuto ma che ci attende tutti. L’aggettivo
crepuscolare conserva allora entrambi i suoi sensi9: quello rivolto al
passato, il tramonto di un’epoca giunta al termine del suo declinare, e
quello rivolto al futuro, l’annuncio di un’alba prevedibile ma non ancora
immaginabile che, comunque, non riguarderà il poeta al lavoro
in quel crepuscolo. Da quel passato è incancellabile anche il magistero
dannunziano in cui lo stesso giovanissimo poeta si è formato e che
sarà più tardi trasformato nel fondale da cui far emergere il dissidio
del moderno con tutta l’ironia del realismo contrastivo del Gozzano
maturo. Di che tipo di ironia si stratta? Non è la facile pratica parodica
del portare la serietà misticheggiante di D’Annunzio ai suoi limiti
estremi e neppure del capovolgerla nella mera beffa di se stessa, bensì
l’operazione più raffinata del mostrare il distacco tra elementi diversi
7 Cfr G. Savoca, I crepuscolari e Guido Gozzano, in G. Savoca, M. Tropea, Pascoli,
Gozzano e i crepuscolari, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 87-126, in particolare su
Gozzano, pp. 110-122.
8 Cfr L. Surdich, La meraviglia e la malinconia. Gozzano e l’Esposizione internazionale
di Torino, in Guido Gozzano, i giorni, le opere, Atti del Convegno Internazionale
di Studi, Torino, 26-28 ottobre 1983, Firenze, Olschki, 1985, pp. 281-310.
9 G. Savoca, I crepuscolari e Guido Gozzano, cit., pp. 89-90.
[ 4 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 711
che, seppur collocati nello stesso testo, mantengono un grado notevole
di separazione10. Mostrare, cioè, l’impossibilità di coniugare armonicamente
certi stili al presente, di connetterli senza scarti a fenomeni
che la realtà pone davanti agli occhi. È l’incontro-scontro tra l’aulico e
il prosastico che Montale riconosce nella poesia dell’importante predecessore
e che, a tempo debito, saprà anche far proprio in una versione
storicamente aggiornata11.
In questa distanza irriducibile si instaura una tragedia moderna
che, prima di essere del personaggio nel suo impatto con la realtà, risiede
nelle forme stesse della poesia come pratica di una sublimazione
impossibile12. Tra l’Arte del passato, e di quei contemporanei che an-
10 Cfr R. Martinoni, Guido Gozzano tra sogno e ironia, «Versant: Revue suisse
des littératures romanes», n.s., XVII (1990), n. 1, pp. 32-49.
11 E. Montale, Gozzano trent’anni dopo, V (30 settembre 1951), 5, pp. 3-8, poi in
Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, pp. 54-62, e ora in Il secondo
mestiere. Prose (1920-1979), a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996,
vol. I, pp. 1270-1280. Più interessante dell’anti-dannunzianesimo e della poetica
dell’oggetto che ascrivono il primo Montale a una certa eredità gozzaniana (si pensi,
ovviamente, alla programmatica I limoni, in Ossi di seppia, 1925), mi sembra la
posizione ironico-critica che Montale, nella sua seconda grande stagione poetica
che inizia con Satura (1971), acquisisce nei confronti della nuova realtà sociale. È la
posizione di chi è sopravvissuto alla propria epoca e si trova, per ragioni anagrafiche,
a vivere in un’altra, costretto ad assistere allo scontro costante tra le tracce
memoriali e materiali del passato e il nuovo ambiente, con un gusto per il banale e
il quotidiano e un misto di incomprensione, critica acuta e rifiuto di adottare completamente
i nuovi modelli. Sulla questione linguistica e tonale cfr P.V. Mengaldo,
Caratteristiche psicologiche e formali in Gozzano, in Id., Poeti italiani del Novecento, Milano,
Mondadori, 1978, p. 94; G.L. Beccaria, Italiano antico e nuovo, Milano, Garzanti,
1988, p. 38. Per la poetica dell’oggetto cfr L. Anceschi, Le poetiche del Novecento
in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, a cura di L. Vetri, Venezia,
Marsilio, 1990, pp. 145-151, e T. Lisa, Le Poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi
ai Novissimi. Linee evolutive di un’istituzione della poesia del Novecento, con un’appendice
di testimonianze inedite e testi rari, Firenze, Firenze University Press, 2007. Il
modello dannunziano, in Gozzano, si può ignorare, negare o dissimulare, ma non
propriamente superare; costituisce una sorta di trauma nella sua formazione che
contribuisce a definire la sua personalità poetica e torna come tale nella sua poesia.
Cfr E. Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1977, p. 74; J.
Muñoz Rivas, La conciencia del lenguaje poético como reducto de libertad espiritual en la
gestación de La via del rifugio de Guido Gozzano, «Anuari de Filologia. Literatures
Contemporànies», V (2015), pp. 19-47.
12 Per una riflessione più generale sulla sublimazione impossibile, di cui pure la
poesia incarna il tentativo, cfr F. Giusti, L’oggetto del desiderio nella poesia lirica. Alcune
considerazioni sulla sublimazione, «Between», III (2013), n. 5, online http://ojs.
unica.it/index.php/between/article/view/930, ultima visita 21/11/2016. Di diverso
avviso G. Sangirardi (in Vergogna e desiderio. Lettura della Signorina Felicita
[ 5 ]
712 Francesco Giusti
cora ci credono, e la realtà presente esiste uno scarto incolmabile. Come
elementi eterogenei di una concomitanza storica, si possono accostare
nei versi, ma non si combinano in alcun modo in una rasserenante
conciliazione. La poesia non nobilita la realtà e quest’ultima non
offre elementi nuovi che possano essere ascritti alle altezze della prima.
L’Arte resta come un sistema di memorie che inevitabilmente informa
la percezione che Gozzano ha della realtà – in questo senso la
vita imita l’arte, fino al punto di risultarne intossicata13 – ma non sussume
il presente nell’armonia delle sue forme atemporali. Si pensi soltanto
al trattamento a cui Gozzano, nella sua critica consapevolezza
culturale, sottopone l’esotismo romantico in Paolo e Virginia riprendendo
proprio una delle radici settecentesche dell’esotismo borghese,
il romanzo Paul et Virginie (1787) di Bernardin de Saint-Pierre14. Durante
il naufragio del San Germano, la nave che la sta riportando a
casa dal suo amato, un marinaio nudo tenta di salvare Virginia svestendola
per poterla portare con sé a nuoto verso la costa. Virginia
«pudibonda», però, si rifiuta e «si fa scudo / delle due mani» (vv. 129-
131), preferendo così annegare piuttosto che mostrarsi nuda. Non è
tanto interessante il quadretto melodrammatico quanto il commento
che il poeta inserisce tra parentesi nel racconto di questa scena: «retorica
del tempo!» (v. 130)15. La medesima consapevolezza della storia
culturale in cui s’inserisce che salva qui Gozzano dal facile esotismo,
lo condanna anche all’ironia distanziante che gli impedisce di amare
con l’abbandono con cui si ama nei romanzi romantici. Non riesce a
liberarsi del modello acquisito dalla letteratura per abbracciare davvero
l’amore semplice per Felicita, ma non riesce a credere fino in fondo,
di Gozzano, «Between», III (2013), n. 5, online http://ojs.unica.it/index.php/
between/article/view/956, ultima visita 21/11/2016), il quale vede nell’«armonia
della forma, segreta per lo più e talvolta manifesta», del poemetto la messa in scena
di una «sospensione del tempo e dei conflitti che lacerano l’io opponendo vergogna
e desiderio», pertanto «La Forma può ancora essere in Gozzano, malgrado
l’ironia che la assedia, un valore al quale tenacemente si rivolge un soggetto smarrito
nel vuoto della modernità» (p. 13). Sul desiderio gozzaniano cfr anche S. Zatti,
Desiderio e rifiuto borghese. Due letture gozzaniane, «Lavoro critico», III (aprilegiugno
1977), n. 10, pp. 103-139; E. Gioanola, Gozzano e ‘il lento male indomo’. Malattia
e letteratura, in Id., Psicanalisi, ermeneutica e letteratura, Milano, Mursia, 1991, pp.
148-170.
13 E. Sanguineti, Guido Gozzano, cit., pp. 27-38.
14 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 162-167.
15 Cfr A. Piromalli, Ideologia e arte in Guido Gozzano, Firenze, La Nuova Italia,
1972, pp. 112-114; G. De Donato, Lo spazio poetico di Guido Gozzano, Roma, Editori
Riuniti, 1991, pp. 77-93.
[ 6 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 713
neppure con falsa ingenuità, a quel modello per tentare davvero di
amare senza riserve le grandi dive «rifatte sui romanzi» (La signorina
Felicita, v. 258)16. L’ironia della storia è attiva e produttiva nella poesia
ancor prima dell’ironia del poeta17. È il riconoscimento di un’impossibilità
storica ad allontanare Gozzano da un certo crepuscolarismo che
punta tutto sull’incapacità individuale e ad avvicinarlo, invece, a certe
esperienze di una modernità più matura.
2. Essere o non essere guidogozzano
Il personaggio, nella poesia di Gozzano, non è un’entità di mediazione
tra il poeta reale e l’io testuale, né una sorta di maschera che si
possa indossare o svestire a piacimento18. Dietro la maschera non sembra
esserci alcun nucleo di soggettività autentica e originale che la poesia
sia chiamata a nascondere o a rivelare. Il personaggio è una determinazione
socio-culturale che coincide con la soggettività, con l’unico
io possibile in quelle specifiche circostanze storiche. Essere guidogozzano,
il poeta-avvocato o Totò Merùmeni è l’unico modo possibile di
essere19. Per questa ragione le affermazioni e le interrogazioni crepuscolari
con cui si lamenta la fine di uno statuto della poesia: «Perché tu
16 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 176. Cfr C. Calcaterra, Della lingua di
Guido Gozzano, Bologna, La Minerva, 1948, p. 20; E. Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo,
cit., p. 44.
17 Cfr G. De Donato, Lo spazio poetico di Guido Gozzano, cit., pp. 15-30.
18 Sul carattere finzionale e romanzesco dei personaggi gozzaniani insiste L.
Lenzini, Gozzano, Palermo, Palumbo, 1992, pp. 43-45. Di «multiforme punto di
vista […] normale nel mondo del racconto» che «riunisce le funzioni del narratore
e del protagonista del racconto in un solo soggetto, tra i cui attributi c’è anche
quello di essere autore del libro I colloqui, ossia della sua autobiografia sentimentale,
intellettuale e poetica» parla P. Menichi, Guida a Gozzano, Firenze, Sansoni,
1984, p. 88. Ma di «favola mimica, recitata, sceneggiata» con cui il poeta si pone in
«una cornice romanzesca tardo ottocentesca» scriveva anche A. Piromalli, Ideologia
e arte in Guido Gozzano, cit., p. 103. Più che immediatamente al racconto o al
romanzo, forse, l’impresa potrebbe essere ricondotta al grande modello della Vita
Nova dantesca.
19 U n maggiore spazio di sperimentazione sulle possibilità del personaggio, in
cui una qualche conciliazione si fa possibile, sembra trovarsi invece nelle fiabe secondo
E. Tonello, Guido Gozzano dalla poesia alla fiaba, dalla fiaba alla poesia, «Giornale
storico della letteratura italiana», CLXXXIX (gennaio-marzo 2012), 625, pp.
110-128. Sugli antroponimi si veda B. Porcelli, Nomi nella lirica di Gozzano e dintorni
(con Ermione, Arsenio, Dafne, Arletta), «Il Nome nel Testo», III (gennaio 2001), nn.
2-3, pp. 145-161, poi, con il titolo Nomi nella lirica di Gozzano, in Id., In principio o in
[ 7 ]
714 Francesco Giusti
mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo
fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
/ Perché tu mi dici: poeta?» di Sergio Corazzini (Desolazione del
povero poeta sentimentale, vv. 1-5, in Piccolo libro inutile, 1906)20 o il più
ludico «Son forse un poeta? / No, certo. / Non scrive che una parola,
ben strana, / la penna dell’anima mia: / “follia”» di Aldo Palazzeschi
(Chi sono?, vv. 1-5, in Poemi, 1909)21, che si conclude con una sia pur
modesta rivelazione identitaria portata dalla presupposta autenticità
del comico, «Son dunque… che cosa? / Io metto una lente / davanti
al mio cuore / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco
dell’anima mia» (vv. 16-21), non sono più sufficienti per Gozzano.
Quando, nella Signorina Felicita, l’avvocato dichiara «Io mi vergogno,
/ sì, mi vergogno d’essere un poeta!» (vv. 306-307)22, egli sta affermando
qualcosa di diverso rispetto ai suoi predecessori. Non può davvero
rinunciare a quel che è, al personaggio che lo costituisce, e non vuole
nemmeno illudersi di poterlo fare. Può soltanto vergognarsene proprio
mentre lo sta incarnando. Il poeta guidogozzano è consapevolmente
frutto tanto del superomismo dannunziano quanto del sentimentalismo
romantico o, altrove, della infantile semplicità con cui tenta di
ribellarsi a esso. È importante, a tal proposito, il giocoso riconoscimento
di una creazione esterna della propria soggettività in L’altro: si
perdona quel Dio che non gli ha concesso la tranquillità di essere «poeta
/ di fede» (vv. 2-3) perché fortunatamente lo ha fatto «gozzano» (v.
9) – semplice e infantilmente curioso – quando avrebbe potuto benissimo
farlo, nefasta opzione, «gabrieldannunziano» (v. 11)23.
Rispetto all’ideale erotico decadente dell’«intellettuale gemebonda
» (v. 313), la signorina che confeziona camicie per suo padre costituisce
un contro-ideale piccolo-borghese, ma alla pari del primo è vagheggiabile
dal poeta soltanto come incarnazione di una possibilità
umana24. Quando in apertura di strofa l’avvocato esclama: «Ed io non
voglio più essere io! / Non più l’esteta gelido, il sofista» (vv. 320-321),
è chiaro che il desiderio di essere altro, a cui non può far seguito alcun
fine il nome. Studi onomastici su Verga, Pirandello e altro Novecento, Pisa, Giardini
Editori e Stampatori, 2005, 151-160.
20 S. Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Torino, Einaudi,
1968, p. 117.
21 A. Palazzeschi, Tutte le poesie, a cura di A. Dei, Milano, Mondadori, 2002, p.
367.
22 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 178.
23 Ivi, pp. 309-310.
24 Ivi, p. 178.
[ 8 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 715
reale cambiamento, nasce proprio dalla consapevolezza della necessità
di essere quell’io descritto nel secondo verso. La non plausibilità del
cambiamento come innocente adozione di un modello alternativo è
tutta racchiusa in una rima: per poter godere di una vita borghese nel
«tuo borgo natio» (v. 322) dovrebbe vivere «in oblio / come tuo padre»
(vv. 324-325). L’opzione non è realmente praticabile, il personaggio
non è integralmente e volontariamente sostituibile: per poter davvero
vivere quel mondo e amare la signorina che lo abita dovrebbe dimenticare
d’essere se stesso. Come non può svestire i suoi panni per farsi
«buon mercante inteso alla moneta» (v. 304), non può neppure essere
un poeta diverso da quello che è: quel poeta che i tempi e la consapevolezza
di quei tempi lo hanno portato a essere. Quando, a conclusione
del breve e dissonante idillio amoroso della Signorina Felicita, l’avvocato
dichiara «ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono / sentimentale
giovine romantico… // Quello che fingo d’essere e non sono!»
(vv. 432-434), egli sta attestando proprio questo: in determinate circostanze
può abilmente fingere – da autocosciente poeta moderno quale
non può non essere – la semplicità sentimentale e l’autenticità della
parola di un «uomo d’altri tempi» (v. 432), del vecchio e ideale poeta
romantico che non avrebbe sfigurato di fronte alla sua amata in lacrime
in un «cantico / del Prati» (vv. 429-430), ma non possiede realmente
tali qualità25. Il suo personaggio non può davvero rinunciare alla
«fede letteraria / che fa la vita simile alla morte» (vv. 300-301) perché
proprio il sognare di poterlo fare è un tratto essenziale del personaggio
che incarna26.
Può fingere di essere momentaneamente altro da sé proprio perché
il suo personaggio è perfettamente cosciente dell’esistenza, nel ventaglio
delle possibilità culturali offerte dal suo tempo, di tipi umani profondamente
diversi e perfino di altri modelli di poeta. L’ironia come
25 Ivi, p. 182.
26 Ivi, p. 178. Riprendendo il concetto di Ungleichzeitigkeit sviluppato da Ernst
Bloch (cfr R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis,
1979) si può dire che, sia pure nel medesimo contesto di Villa Amarena, l’avvocatopoeta
e la signorina Felicita vivono in due presenti diversi, a causa non soltanto
della diversa estrazione sociale del primo, ma anche della più ampia prospettiva
storico-culturale che dà forma alle sue percezioni. Questa non-contemporaneità è
un fattore rilevante anche per la violazione delle forme che il poemetto tematizza
e porta esso stesso avanti: l’avvocato-poeta può rilevare la sua diversa collocazione
temporale rispetto agli oggetti che Felicita ha quotidianamente intorno a sé
nella villa così come il poemetto mostra consapevolezza della stratificazione non
pacificata degli stili che lo costituiscono.
[ 9 ]
716 Francesco Giusti
distacco generato dalla coscienza – appartenente alla tipologia di poeta
che personifica – gli impedisce di uscire davvero fuori dal proprio
personaggio. Anche imitare per un istante il «sentimentale giovine
romantico» non permette all’avvocato-poeta di toccare quella autenticità
del sentimento innocente e spontaneo che il romantico provava
dentro di sé o, per lo meno, riconosceva a se stesso, perché sa che entrambi
i modelli non sono altro che costruzioni offerte dal passato letterario.
Più che proporre semplicemente una poesia alternativa alle
retoriche celebrazioni del vate (nelle sue varianti in circolazione di
poesia onesta, sentimentale o ludica), Gozzano sembra già sperimentare
fino in fondo l’impasse poetica ed esistenziale in cui cade la novecentesca
paralisi dell’azione (che poi potrà riflettersi anche in una paralisi
della coscienza) generata dalla ineliminabile consapevolezza dei
meccanismi propri della vita psichica dell’individuo e dei più ampi
movimenti storico-culturali che trattiene dal sentire autenticamente o
perfino dal credere di sentire. Nell’impossibilità di pervenire a un nucleo
autentico di verità, di cui nulla più garantisce l’esistenza, si ripiega
sull’indagine dei meccanismi dell’inautentico.
Nella forma chiusa tentata nei Colloqui (1911) si dispiega il romanzo
(auto)biografico di un personaggio che si delinea sulla superficie
dello specchio come un riflesso. Osservandosi a una certa distanza,
l’io vuole far emergere qualcosa di se stesso attraverso la giovinezza
«bella come un bel romanzo» (I colloqui I, v. 22) vissuta dal suo «fratello
muto» mentre lui era troppo impegnato a ridirla a parole, ma lo
specchio restituisce un ritratto scomposto (I colloqui, II)27:
Ma un bel romanzo che non fu vissuto
da me, ch’io vidi vivere da quello
che mi seguì, dal mio fratello muto.
Io piansi e risi per quel mio fratello
che pianse e rise, e fu come lo spetro 5
ideale di me, giovine e bello.
A ciascun passo mi rivolsi indietro,
curioso di lui, con occhi fissi
spiando il suo pensiero, or gaio or tetro.
Egli pensò le cose ch’io ridissi, 10
confortò la mia pena in sé romita,
e visse quella vita che non vissi.
27 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 138.
[ 10 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 717
Egli ama e vive la sua dolce vita;
non io che, solo nei miei sogni d’arte,
narrai la bella favola compita. 15
Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte,
sorrido e guardo vivere me stesso.
In questi versi incipitari non si ritrova semplicemente il tema prettamente
lirico della vita non vissuta, della distanza del poeta dalla
pienezza dell’esistenza al mondo. La scissione qui è tra l’io che parla
(perché vede) e l’io che vive (perché non parla) come due istanze che
tentano di ricomporsi con gran fatica nel personaggio. Gozzano teatralizza
il problema lirico della scissione tra il soggetto dell’enunciazione
e il soggetto dell’enunciato: dall’(auto)biografia emerge un protagonista
che in fondo ha vissuto le sue esperienze, ma che è come lo
spettro ideale dell’io presente soggetto della parola. Il gelido sorriso
dell’ironia, come coscienza della non coincidenza tra io narrante e io
narrato, impone una separazione dalla vita che è la distanza dell’osservatore,
qui anche dell’osservatore osservato o, addirittura, dell’osservatore
osservato osservare. Colui che parla non può realizzare i
suoi sogni, non può godere della vita perché sempre in errore rispetto
ad essa, posizionato sempre in una ineludibile distanza dagli eventi.
Qui risiede il suo essere postumo; questa è la morte che la letteratura
impone. Il canzoniere restituisce un’immagine dell’io e nei versi
di chiusura si afferma (I colloqui, III)28:
L’immagine di me voglio che sia
sempre ventenne, come in un ritratto;
amici miei, non mi vedrete in via,
curvo dagli anni, tremulo, e disfatto!
Col mio silenzio resterò l’amico 5
che vi fu caro, un poco mentecatto;
il fanciullo sarò tenero e antico
che sospirava al raggio delle stelle,
che meditava Arturo e Federico,
ma lasciava la pagina ribelle 10
per seppellir le rondini insepolte,
28 Ivi, p. 218.
[ 11 ]
718 Francesco Giusti
per dare un’erba alle zampine delle
disperate cetonie capovolte…
L’immagine dell’io – il protagonista del romanzo – deve restare
quella dei vent’anni, il giovane «un poco mentecatto» che meditava
sulle pagine di Nietzsche e Schopenhauer ma poi preferiva abbandonarle
per soccorrere le amate creature della natura. Nel canzoniere si
modella un’immagine del sé passato che non vuole essere abbandonata
(come il «giovenile errore» petrarchesco che dà il titolo alla prima
delle tre sezioni del libro), bensì deve conservarsi per sovrapporsi fino
a sostituire l’io anche nel futuro. Il personaggio deve rimpiazzare l’io:
come l’amore per il passato ha foggiato il personaggio così quest’ultimo
dovrebbe foggiare il sé. La chiusura dell’opera non è data tanto
dalla solida autonomia del testo rispetto al suo esterno, quanto dalla
ripetibilità delle forme e delle immagini, di parole, rime e refrain. Per
sottrarsi al progresso lineare del tempo, si invoca la ripetizione: il personaggio
dovrebbe sostituirsi all’io sottomesso al tempo, ma Gozzano
sa bene che anche il personaggio, mai davvero distinto dall’io, è un
prodotto dei tempi. Come tutto il resto, nell’ordine della storia il personaggio
ritornerebbe in un altro contesto, sarebbe marcato dall’inappartenenza
a quel nuovo ambiente e mostrerebbe comunque i segni
del suo invecchiamento. In fondo, la stessa invocazione esplicita di un
permanere nelle forme della giovinezza nel sostituto artistico sottintende
– rilevante proprio perché espressa nei versi stessi – l’impossibilità
di credere nell’atemporalità delle forme dell’arte. Non c’è niente
che faccia presumere che il ritratto dell’io possa avere esiti differenti
rispetto alla fotografia di Nonna Speranza, alle stampe antiche o al
canterano dell’Impero.
3. Totò Merùmeni e J. Alfred Prufrock
Se è vero che nel crepuscolo di Gozzano è insito uno sguardo rivolto
dal passato verso un ipotetico futuro (di entrambi il presente mostra
le tracce), vale allora la pena di spingere l’osservazione verso
quell’a venire che non è distante tanto nel tempo quanto, sembrerebbe,
nelle forme poetiche. Nello stesso giro di anni vengono alla luce uno
dei personaggi gozzaniani, il Totò Merùmeni dell’omonima poesia,
iniziata forse nell’estate del 1908 e ultimata nell’ottobre del 1910, e
quello che è probabilmente il più grande personaggio lirico del mo-
[ 12 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 719
dernismo europeo, il J. Alfred Prufrock il cui canto d’amore viene pubblicato
per la prima volta nella rivista americana «Poetry» nel giugno
del 191529. Cosa potrebbero avere in comune Totò e J. Alfred? Ci sono
elementi ammissibili di comparazione tra la patetica descrizione in
terza persona del suo personaggio (riflesso dell’io) che Gozzano mette
a punto e la complessa meditazione che Eliot fa pronunciare da Prufrock
stesso?
Innanzitutto ci si trova di fronte a due personaggi modellati dal
poeta e non immediatamente al poeta stesso o, per meglio dire, a quel
poeta che il lettore è più o meno legittimato a individuare dietro la
mediazione di un io testuale. Non è certo difficile ricondurre queste
maschere al loro autore e al suo atteggiamento, ma l’operazione stessa
vuole essere significativa. Un primo rilievo è necessario: essendo descritto
in terza persona, in Gozzano il personaggio è anche nel testo,
Totò Merùmeni è appellato due volte con nome e cognome (vv. 15 e 53)
e due volte con il solo nome (vv. 45 e 59); in Eliot, invece, il personaggio,
parlando in prima persona, è soltanto nel paratesto, solo il titolo
della poesia ci comunica il nome a cui attribuire le parole seguenti.
Diverso è anche l’ambiente. Totò conduce la sua vita ritirata in una
di quelle ville, ormai segnate da evidenti sintomi di decadenza che,
con il loro giardino, costituiscono il luogo per eccellenza della poesia
di Gozzano. Infatti, essa «sembra tolta da certi versi miei» (v. 3); un
luogo topico, sufficientemente generale ma non astrattamente ideale,
«sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…» (v. 4)30. L’edificio ricorda
– ed è importante, in Gozzano, il riconoscimento di un’attività memoriale
agli oggetti stessi – tempi migliori, quando aristocratici frequentavano
lieti le sue stanze ormai svuotate dagli antiquari (vv. 5-8). Oggi
in quella villa non festeggiano più le grandi casate di un tempo ma,
presa anch’essa da quella modernità segnalata con discrezione dall’automobile
che si arresta «fremendo e sobbalzando» (v. 11), vi abita Totò
Merùmeni con la tragicomica compagnia di «una madre inferma, /
una prozia canuta ed uno zio demente» (vv. 15-16). Alle «gaie brigate»
(v. 6) di un tempo si è sostituita una ridicola accolita di esseri umani in
29 T.S. Eliot, Poesie, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 20064, pp. 161-169.
Un accostamento minimo tra le due poesie è già in P. Hainsworth, Gozzano’s Voice.
A Reading of Totò Merùmeni, «The Modern Language Review», LXXXVI (October
1991), n. 4, pp. 852-866. Lorenzo Mondo, inoltre, aveva già parlato di waste land
in riferimento alle Farfalle in Dalle «stampe» alle «farfalle», in Id., Natura e storia in
Guido Gozzano, Roma, Silva, 1969, pp. 103-116, p. 113.
30 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 197-199.
[ 13 ]
720 Francesco Giusti
declino. Non soltanto le cose mostrano un palese deterioramento, anche
gli esseri umani sembrano soffrire di un male storico, quasi un’involuzione
genetica. In Eliot l’ambiente è già interamente urbano, ma
ugualmente degradato, fatto di «half-deserted streets» (v. 4, «strade
semideserte»), «one-night cheap hotels» (v. 6, «alberghi di passo a poco
prezzo»), «sawdust restaurants with oyster-shells» (v. 7, «ristoranti
pieni di segatura e gusci d’ostriche»). Questa città, però, non è la metropoli
già del tutto mutata dal tempo, conserva piuttosto segni di un
passaggio irrisolto da una civiltà pre-moderna alla piena modernità
borghese. Certo, non c’è in Prufrock traccia evidente di eleganti passati
aristocratici, tuttavia il declino sembra aver colpito anche questo
ambiente. Nella stanza in cui l’io e il tu entrano per fare visita a qualcuno,
«the women come and go / Talking of Michelangelo» (vv. 13-14,
«le donne vanno e vengono / Parlando di Michelangelo»): si ritrova il
grande tema, presente anche in Gozzano, della riduzione dell’arte da
potente strumento di elevazione personale a futile argomento di conversazione
mondana. La coppia di versi si ripete poco dopo come un
elemento di contrappunto alle meditazioni dell’io: seppur accompagnato
dal tu a cui si rivolge, l’io si mantiene a distanza dalla società31.
La violazione ricercata (non inventata) come principio estetico è
31 Michelangelo, come grande artista dissacrato, era presente anche in Under
Ben Bulben (cfr nota 5). Lì l’infrazione indagata nel testo era tutta concentrata in
una rima. La ripresa di «Adam», il primo uomo, incarnazione della perfezione
originaria, nel ben più mondano «Madam» rappresenta uno scarto all’integrità
della poesia, mostra come l’arte debba essere profanata per essere ancora efficace.
Per di più Adamo non vi è inserito come simbolo generico, ma in una sua raffigurazione
pittorica che costituisce la perfezione dell’arte nelle sue possibilità precedenti:
l’Adamo degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. A questo
punto non è difficile pensare a una nota e forse più radicale rima gozzaniana di
trent’anni precedente, quella bizzarra ripresa di «camicie» in «Nietzsche» che troviamo
nella Signorina Felicita (vv. 19-22). A prima vista in Gozzano la funzione
sembra essere più apertamente ironica, anche perché calata nella contemporaneità
culturale, ma le due infrazioni sono in fondo paragonabili nella valutazione che
implicano delle possibilità di sopravvivenza del poetico e, più in generale, dell’estetico.
Si sottolinea questo dettaglio in rima, che stabilisce un contatto minimo tra
Gozzano e Yeats, perché la poesia di quest’ultimo permette di sollevare tre ipotesi
generali sulla poetica modernista: 1. la perfezione incarnata dall’arte precedente
non è violata tanto nel contenuto simbolico, probabilmente già smarrito, quanto
nella forma; 2. la profanazione che Yeats sembra invocare implica un effetto dell’opera
sull’osservatore o sul lettore: il semidesto Adamo di Michelangelo può provocare
turbamento in «una signora giramondo» fino a portarla all’eccitazione fisica;
3. il poeta riflette su, e gioca con, le possibilità della voce poetica in prima persona
più che aderire immediatamente all’io testuale.
[ 14 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 721
quella delle donne che passeggiano parlando del grande artista italiano?
Non esattamente, la violazione più rilevante non è la degradazione
che si incontra nel mondo, ma piuttosto quella che entra nella forma
stessa del testo. Non che la seconda non abbia a che fare con la
prima, tuttavia è come riconosciuta e trasformata in principio poetico.
È tale principio che consente al poeta di giustapporre le domande esistenziali
che costituiscono il punto (ormai) cieco del testo, l’ontologica
«What is it?» (v. 11, «Cosa?») e l’etica «Do I dare?» (v. 38, «Posso osare?
»), ai segni del tempo inscritti sul soggetto attraverso le basse notazioni
del quotidiano (vv. 37-48)32:
And indeed there will be time
To wonder, “Do I dare?” and, “Do I dare?”
Time to turn back and descend the stair,
With a bald spot in the middle of my hair –
(They will say: “How his hair is growing thin!”) 5
My morning coat, my collar mounting firmly to the chin,
My necktie rich and modest, but asserted by a simple pin –
(They will say: “But how his arms and legs are thin!”)
Do I dare
Disturb the universe? 10
In a minute there is time
For decisions and revisions which a minute will reverse33.
La meditazione sul tempo e sulle possibilità operative dell’intenzione
e del desiderio individuali è contrassegnata dai segni fisici
dell’incipiente vecchiaia sulla persona: la calvizie e il dimagrimento.
Tuttavia, l’io non risponde più agli altri in un antagonismo romantico,
la loro voce è già entrata in quella dell’io: l’immaginario commento del
gruppo sociale riportato nei versi viene solo dopo l’osservazione già
fatta su se stesso. L’impedimento dell’azione che il declino della vecchiaia
sembra comportare, e soprattutto a suo modo giustificare, è già
tutto in quella rima tra dare, “osare”, e hair, “capelli”. Il discorso sociale
sembra già essere entrato a turbare le potenzialità epistemologiche
32 T.S. Eliot, Poesie, cit., p. 163.
33 «E di sicuro ci sarà tempo / Di chiedere, “Posso osare?” e, “Posso osare?” /
Tempo di volgere il capo e scendere la scala, / Con una zona calva in mezzo ai miei
capelli – / (Diranno: “Come diventano radi i suoi capelli!”) / Con il mio abito per
la mattina, con il colletto solido che arriva fino al mento, / Con la cravatta ricca e
modesta, ma asserita da un semplice spillo – / (Diranno: “Come gli son diventate
sottili le gambe e le braccia!”) / Oserò / Turbare l’universo? / In un attimo solo c’è
tempo / Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà» (ivi, pp. 163-164).
[ 15 ]
722 Francesco Giusti
ed etiche della poesia. La società impedisce a Prufrock di realizzarsi,
come personaggio poetico, secondo modelli precedenti. Nella sua posizione
postuma, sottolineata dall’epigrafe dantesca, e come sospesa
sul bordo dell’evento, Prufrock non può vivere davvero perché ha già
vissuto. Come si può (ancora) osare se si è già a conoscenza, per esperienza,
dell’esito dell’azione da intraprendere? È la nota paralisi
dell’azione indotta dall’autocoscienza che dilania una certa modernità34.
L’alter ego gozzaniano presenta tratti simili: «Totò ha venticinque
anni, tempra sdegnosa, / molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
/ scarso cervello, scarsa morale, spaventosa / chiaroveggenza: è il vero
figlio del tempo nostro» (vv. 17-20). Quando giunge il momento di
diventare adulto ed entrare nel mercato delle lettere (petrarchescamente
reso con «vender parolette», v. 21), Totò preferisce l’esilio per
meditare liberamente sul suo passato «che sarà bello tacere» (v. 24)35.
È una versione poetica e tragicomica dell’inetto intellettuale modernista:
«Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti», buono di quella bontà,
schernita da Nietzsche, di chi non è abbastanza forte per imporsi sul
34 Nella sua introduzione, incentrata sulla scoperta gozzaniana della poesia
come metalinguaggio, Giusi Baldissone osserva che, per l’agnosticismo di Gozzano
dovuto a una «saturazione culturale», «la vita non si può conoscere perché non
parla ma è parlata, è stata parlata da tutti i linguaggi della civiltà che a suo tempo
abbiamo appreso e non possiamo più ignorare», in altre parole «non possiamo più
conoscere ciò che già conosciamo» (G. Gozzano, Opere, cit., pp. 9-59, p. 17).
35 Evidentemente, per quanto aspiranti al romanzo (auto)biografico, I Colloqui
non costituiscono affatto un esempio compiuto di romanzo di formazione, un genere
a cui, in fondo, una certa tradizione del macrotesto lirico sembrerebbe preludere
o alludere. Luca Lenzini si concentra sulla costruzione romanzesca a posteriori
del macrotesto dei Colloqui e sul «modello narrativo basato sulla coppia archetipa
deviazione/ritorno» (Gozzano, cit., pp. 40-41). Gozzano riprende un modello antico
– risalente al Dante della Vita Nova ancora prima che a Petrarca e Leopardi:
l’operazione memoriale, la risignificazione retrospettiva e orientata, la scissione/
compresenza del personaggio e dell’autore, l’abbandono delle rime giovanili, la
scelta finale del silenzio, il desiderio di elevarsi all’Ideale e di tornare con una nuova
voce poetica, il voler scrivere sulle farfalle un volume di cose mai dette prima
(in Una risorta) e l’annuncio del poema sulla verità della Natura (Pioggia d’agosto)
– ma sembra condurre a una sorta di parossismo ironico e critico la tendenza alla
ripetizione “ossessiva” insita nella lirica. Il contatto con la Vita Nova è importante
in G. Zaccaria, «Reduce dall’amore e dalla morte». Un Gozzano alle soglie del Postmoderno,
Novara, interlinea, 2009, pp. 141-144. Se Lenzini sottolinea giustamente l’apertura
della lirica gozzaniana alla narrativa, sarebbe interessante indagare come
il ritorno lirico problematizzi proprio la teleologica costruzione narrativa con il
suo finale indulgere «a mezzo del cammino» (I colloqui I, v. 10).
[ 16 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 723
mondo (vv. 25-36)36. Il rifiuto che questo uomo caritatevole ma disimpegnato
oppone al superuomo nietzschiano non è teoreticamente fondato,
si tratta piuttosto di un’impossibilità esistenzialmente provata.
Ancora una volta, davanti alla proposta di quel mito, la realtà rivela le
proprie condizioni. Allora l’intellettuale, allontanato dalla dimensione
sociale, si dedica allo studio e cerca riposo circondandosi non di
uomini ma di animali. Questa condizione di esistenza, però, non è
trasferita nell’astratta dimensione di un’ontologia dell’artista, bensì
conservata nella sua dimensione immanente di esperienza storica su
cui si può esercitare la propria realistica (auto)ironia (vv. 37-44)37:
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse,
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa dorme, la giovinetta scalza, 5
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…
Il dissidio, che forse impedisce l’Amore, tra l’attrazione per le
grandi donne e il sesso consumato passivamente in casa con la giovane
cuoca, è un “problema” storico-culturale (e perciò psicologico per
l’individuo) che emerge nei versi in opposizione all’estetica che voleva
rendere atemporale l’aspirazione del poeta all’amore per la versione
moderna e borghese della donna celeste. La contrapposizione propria
della vita di Totò – il giovanile amore per le dive e gli attuali rapporti
sessuali con la cuoca – è anche una contrapposizione storica di
ideologie estetiche. Gozzano, ovviamente, non risolve il contrasto,
anzi è interessato al suo mantenimento privo di conciliazione, perché
è questo conflitto a delineare il suo personaggio e i suoi versi (vv. 45-
5)38:
Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.
Ma come le ruine che già seppero il fuoco 5
36 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 198.
37 Ibidem.
38 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 198-199.
[ 17 ]
724 Francesco Giusti
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…
La storicità a cui si fa riferimento qui, caratteristica di una certa
coscienza moderna, è il riconoscimento della formazione dell’individuo
vissuta, condizionata e parzialmente elaborata all’interno del ristretto
ambiente familiare e del più vasto contesto socio-culturale39. Il
«male indomo» del poeta trova qui un suo spazio di sviluppo e specificazione.
Con una similitudine che ricorda la resistenza biologica della
ginestra leopardiana, ci viene detto che questo male non impedisce
la poesia nell’«anima riarsa», ma ne determina la qualità: sono «esili
versi consolatori». All’interno del quadro descritto, anche la poesia
acquisisce una sua precisa dimensione storica, pertanto non si incardina
nell’eccezionale unicità del soggetto, bensì nella rappresentatività e
nella condivisibilità della sua singolarità (vv. 53-60)40:
Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.
Perché la voce è poca, e l’arte prediletta 5
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.
La parola dell’io non è sospesa nell’atemporalità, la ripetizione della
lirica non si colloca fuori dalla storia. Il tempo del mondo in cui
opera Totò, scandito dalla nascita e dalla morte degli individui ma
non da queste interrotto o mutato, scorre anche mentre l’io parla. Totò,
come l’io, sembra trovare una qualche residuale felicità nella propria
pratica intellettuale e poetica proprio grazie alla acquisita consapevolezza
della caducità dell’opera d’arte. Le date riportate nei testi non
sono soltanto una passione per Gozzano o un dettaglio stilistico della
sua scrittura, ma segnano umanamente lo scorrere di un tempo che
nella sua circolarità sembra annullare (come la poesia) la presupposta
linearità delle singole esistenze ma, allo stesso tempo, ne rende meno
assurda l’evenienza.
39 Cfr L. Lugnani, Guido Gozzano, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 57-58.
40 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 199.
[ 18 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 725
4. La posizione della crisalide
Se l’opera di Guido Gozzano sia una crisalide che ha lasciato la
veste del bruco romantico-decadente senza essere ancora pronta a dispiegare
le ali del Modernismo novecentesco oppure se questa crisalide
sospesa tra il non più e il non ancora sia una posizione poetica già
tutta modernista non è una questione davvero importante. Più interessante
è indagare quei limiti che Gozzano sembra non poter o non
voler superare per mantenersi crisalide nel contenuto come nella forma
della propria poesia41. Anche le Epistole entomologiche, o almeno
quelle parti che di quest’opera incompiuta – e probabilmente impossibile
da realizzarsi – possiamo leggere, subiscono la fascinazione di
tale posizione più che dirigersi con sicurezza verso il compimento
della trasformazione. Non si abbandonano del tutto una postura e una
forma poetica attraverso il superamento di quell’egotismo della parola
lirica che la fine dell’Ottocento aveva talvolta perseguito fino all’esasperazione.
Non si rifiutano del tutto il costante autoesame interiore
e l’estatica contemplazione di sé per abbracciare una modalità dell’osservazione
e della descrizione impersonale e quasi scientifica del
mondo esterno.
Nella sesta epistola Gozzano, con la sua consueta abilità del descrivere
al contempo il fenomeno esterno osservato, la parola che ne parla
e colui che pronuncia quella parola, fornisce un’efficace immagine
della trasformazione del bruco in crisalide in cui si riflette la propria
posizione poetica (vv. 108-123)42:
Per tutto un giorno in torpida quiete
uno spasimo ignoto li tormenta:
41 Per Lenzini «Le Farfalle nascono all’interno dei Colloqui» e rileva in esse «un
margine consistente di oscillazione tra punto di vista soggettivo e oggettivazione
narrativa; e le parti più convincenti sono quelle digressive, in cui le farfalle vengono
seguite come da uno sguardo esterno, fuori campo ma partecipe» (Gozzano, cit.,
p. 54). Anche Lucio Lugnani, che pure ribadisce la «serietà del tentativo», stabilisce
una relazione tra il «disagio delle Farfalle» e l’importanza della narrazione per la
poesia di Gozzano (Guido Gozzano, cit., pp. 126-128). Il poema a cui si aspirava alla
fine dei Colloqui, unanimemente riconosciuto come irrisolto e non solo incompiuto,
mostra le sue fragilità non soltanto, sembra, per «la perdita del dialogismo,
dello stile narrativo e dell’ironia» (ibidem), ma anche per un ritorno del lirico nel
tentativo “didascalico” (cfr nota 35). Non sarebbe del tutto insensato, probabilmente,
un paragone con i tentativi poematici non narrativi di un certo modernismo.
42 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 455-461, p. 458.
[ 19 ]
726 Francesco Giusti
essere un altro, uscire di se stessi!
Uscire di se stessi! E li vedete
Or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi, 5
or delle membra tremule far arco,
fin che sul terzo nodo ecco si fende
l’antica spoglia e sul velluto stinto
vivida splende la divisa nuova.
Ed uno appare in due e due in uno, 10
ma già l’infermo tutto si distorce,
come da un casco liberando il capo
dal capo antico, dalle antiche zampe
le nuove zampe liberando, lento
movendo già, lasciandosi alle spalle 15
quegli che fu, come guaina floscia.
Le Epistole, per quel che ci è dato vedere, restano sospese allo stato
di crisalide; pur indicando con forza la meta a cui tendono nel loro
movimento, costituiscono una metamorfosi interrotta. Mantengono
accenti e temi centrali del Gozzano lirico pur mostrando l’impulso a
uscire dalla rete di un certo lirismo estenuato. Anche l’intensificazione
radicale dell’attitudine a prendere in prestito parole d’altri, a parlare
con frasi d’altri scrittori, sembra sottintendere dietro il “plagio” un
tentativo di rinuncia alla propria parola – l’originalità tanto inseguita
dal poeta romantico e già portata a un eccesso che si capovolge nel suo
contrario da D’Annunzio – per portare in primo piano, da protagonista,
l’oggetto della poesia43. L’impulso, quasi un’urgenza naturale di
trasformazione, spinge il poeta Gozzano ad abbandonare la sua «guaina
floscia» per indossare la «divisa nuova», a svestire l’immagine di sé
già restituita nei Colloqui per distendere nelle Epistole le ali di un poeta
diverso, ma il processo si blocca nella tensione della fase intermedia.
Dopotutto, seppur espresso in termini meno scientifici e più legati
a una certa letterarietà decadente, a questo «essere un altro, uscire di
se stessi» il personaggio-poeta ambiva anche in precedenza nella sua
«torpida quiete». La «guaina floscia», in fondo, poche righe prima era
43 Per le Epistole Bruno Porcelli parla addirittura di «saccheggio», in Id., Gozzano.
Originalità e plagi, Bologna, Pàtron, 1974, p. 29. Sulle fonti cfr anche A. Rocca,
Per Gozzano entomologo e antiquario. Scheda sulle fonti degli sciolti ad Alba Nigra, «Otto/
Novecento», IV (gennaio-febbraio 1980), n. 1, pp. 273-280; e, dello stesso autore,
le ricche note sulle fonti delle epistole nell’edizione da lui curata G. Gozzano,
Tutte le poesie, cit. Per uno studio complessivo recente sulle strategie compositive
gozzaniane cfr il recente S. Calì, Il vasto singhiozzar del mare. Guido Gozzano. Intertestualità
e sottolineature, Roma, Aracne, 2011.
[ 20 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 727
quell’«antica spoglia» e quel «velluto stinto» che tradiscono la ben nota
fascinazione gozzaniana per un passato sempre sul punto di essere
abbandonato, per il ritorno nel presente di un linguaggio e di una forma
arcaici (in questo caso, la settecentesca epistola didattica in versi)44.
Se da un lato contribuiscono ad avviarla, dall’altro questi ritorni di
forme, linguaggi e temi ostacolano il compimento della metamorfosi
desiderata: l’ossessivo ritorno di quel che si vorrebbe, almeno nelle
dichiarazioni, abbandonare mostra con forza il desiderio di lasciarsi
un determinato bagaglio alle spalle, che a sua volta non indica altro
che il desiderio di quello stesso bagaglio. In quel ritorno si colloca, liricamente,
la voce del poeta. Il racconto della metamorfosi, in cui l’osservazione
scientifica tradisce consapevolmente l’attrazione per un
rito soffuso di mistero e il processo naturale di sviluppo rivela in trasparenza
l’affanno del suo osservatore, è dedicato all’«Amica sonnacchiosa
», alla quale si chiede perdono per la «Musa pazïente / osservatrice
» che «Ben s’addice al lento / trasmutare dei bruchi prigionieri; /
più tardi al tempo del risveglio alato, / anch’essa certo spiegherà nei
cieli / l’ali del sogno per seguirli a volo» (vv. 95-102)45. La Musa osservatrice,
che si espone al rischio di annoiare la lettrice abituata a tutt’altro
stile, dovrebbe apprestare una nuova poesia. Nel lavoro preparatorio
della nuova, nel suo voler fare, tornano spesso le tracce della vecchia
poesia ed è lì che si sente di più la voce del poeta Gozzano.
Quando la forma del bruco è scomparsa, «la crisalide splende, il
novo mostro / inquietante, ambiguo diverso / da ciò che fu da ciò che
dovrà essere!» (vv. 159-61)46. La crisalide sta lì «Pendula, immota, sen-
44 Nella famosa lettera inviata ad Amalia Guglielminetti il 17 settembre 1908
da Ronco, a proposito del progetto delle epistole Gozzano scrive: «E non sorridete
del compagno fanatico: voglio iniziarvi a queste cose; e questo farò nel libro che
v’ho detto: un volume epistolare: lettere a voi un po’ arcaiche come quelle che
scrivevano gli abati alle dame settecentesche per iniziare ai misteri della Fisica,
dell’Astronomia, della Meccanica; ma modernissime nel contenuto, fatte di osservazioni
filosofiche nuove e di fantasie curiose e fanciullesche. Vedrete. Questa,
come le mete mie più care, molto di là da venire. Ma scriverò questo libro, ve lo
giuro» (G. Gozzano, A. Guglielminetti, Lettere d’amore, a cura di S. Asciamprener,
Milano, Garzanti, 1951, p. 22). Non interessa qui tanto l’effettiva ripresa del
modello, quanto il fatto che anche nell’annuncio dell’opera futura il poeta si mantiene
nelle vesti già note del personaggio lirico: ripresa di linguaggi e stili precedenti
guidata da una sorta di nostalgia, speranza di rivestire con una forma antica
contenuti filosofici nuovi accanto a fantasie infantili, dichiarazioni su progetti ancora
tutti da realizzare.
45 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 457-458.
46 Ivi, p. 459.
[ 21 ]
728 Francesco Giusti
za membra, fusa / nel bronzo verde maculato d’oro, cosa rimorta la
direste, cosa / d’arte, monile antico dissepolto; / un minuscolo drago
vi ricorda / il dorso formidabile di punte, / la maschera d’un satiro vi
appare nel profilo gibboso e bicornuto» (vv. 162-169)47. E allora, «Dove
il bruco defunto? La farfalla apparitura? La Natura, scaltra / nasconditrice,
deviò lo sguardo / dell’uomo del ramarro della passera» (vv.
170-173)48. L’ironia di Gozzano è esattamente questo, la versione artistica
di un mimetismo animale, per mantenere la debita distanza (e
quindi la possibilità) da tutte le opportunità con cui non si vuole arrivare
a coincidere. Eppure, se si presta la dovuta attenzione, in questa
crisalide si può già intravedere la farfalla «in rilievo leggero» in una
particolare declinazione della mimesi: «La crisalide / ritrae la farfalla
mascherata / come il coperchio egizio ritraeva / le membra della vergine
defunta» (vv. 179-182)49. La poesia-crisalide non costituisce semplicemente
una rappresentazione più o meno accurata dell’oggetto
esterno, bensì fornisce in superficie un’immagine in rilievo che indica
il suo soggetto interno ormai invisibile nel suo corpo fisico. Non si
può non pensare al rapporto del poeta Gozzano con le sue precedenti
persone poetiche. Un’impostazione di questo tipo potrebbe ben precludere
anche l’illusione della possibilità di produrre una descrizione
oggettiva della realtà fenomenica.
Infatti, nei versi successivi, si ritrova: «Ma già – mentre ch’io parlo
– i bruchi tutti / sono vôlti in crisalidi» (vv. 183-184)50. L’intervento
dell’io crea un ritardo nella descrizione che non esiste nel fluire del
processo naturale. L’oggetto della realtà si allontana dal discorso per
lasciare al suo posto il desiderio per quell’oggetto. Troppo spazio si
concede alla definizione, per quanto implicita, della posizione di colui
che parla a discapito della pura presentazione di ciò di cui si parla. Le
crisalidi appese in giro nella stanza, in attesa, manifestano «irriverenza
» verso i celebri libri, le cornici delle stampe, e perfino verso Dante.
L’io, di fronte a questa scena, ancora una volta, guarda e sorride. Immediatamente
dopo un velo di tristezza scende su di lui ripensando ai
bruchi che fino ad allora aveva curato e osservato, ritraendoli con i
versi e con il pennello, e che adesso non sono più. Resta nella stanza
una diffusa sensazione di morte (vv. 200-220)51:
47 Ibidem.
48 Ibidem.
49 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 460.
50 Ibidem.
51 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 461.
[ 22 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 729
Oggi tutto è silenzio di clausura,
digiuno, attesa immobile, sgomento
di necropoli tetra. Alle pareti
ogni defunto è un pendulo monile,
ogni monile un’anima che attende 5
l’ora certa del volo. Ed io mi sono
quel negromante che nel suo palagio
senza fine, in clessidre senza fine,
custodisce gli spiriti captivi
dei trapassati, degli apparituri. 10
Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non essere più,
del non essere ancora. E qui la vita
sorride alla sorella inconciliabile
e i loro volti fanno un volto solo. 15
Un volto solo. Mai la Morte s’ebbe
più delicato simbolo di Psiche:
psiche ad un tempo anima e farfalla
scolpita sulle stele funerarie
da gli antichi pensosi del prodigio. 20
Un volto solo…
Il poeta costruisce il bozzolo senza fine che custodisce quella forma
intermedia tra la vita e la morte, tra il passato e il futuro che è la crisalide.
Nella poesia la vita sorride alla morte e i due volti si confondono
fino a farsi uno soltanto. Difficile non leggere dietro la descrizione delle
crisalidi un’ennesima riflessione di Gozzano sulla propria poesia
che rinnova nel tentativo di epistola in versi la postura già vista nella
lirica52. Nel ritorno di questa postura anche nello sforzo di assumere
una nuova forma si confermano i confini lirici della poesia di Gozzano
e i limiti che impediscono ad essa di farsi altro, di uscire da se stessa53.
Non ci si concentra più sull’uomo e le sue creazioni, ma sulle farfalle
che pure erano presenti nelle scene tanto amate dal poeta: l’Acherontia,
infatti, era spesso presente nelle campane di vetro che, nelle
antiche ville, racchiudevano piccole meraviglie della natura per farne
oggetti decorativi (VII, vv. 65-76). Con lo slittamento dell’oggetto
52 Più in generale nelle epistole tornano i grandi temi gozzaniani, come il ricordo
d’infanzia (VII, Acherontia atropos), la fascinazione per i paesi lontani (VI, Ornitoptera
pronomus), la morte che alberga nella vita (IV, Pieris brassicae, e VII, Acherontia
atropos). L’interesse entomologico, oltretutto, appartiene da sempre a Gozzano.
53 Cfr L. Lugnani, Guido Gozzano, cit., p. 135; P. Menichi, Guida a Gozzano, cit.,
pp. 142-144.
[ 23 ]
730 Francesco Giusti
d’osservazione, alla storia della cultura umana si sostituisce, nelle epistole,
l’evoluzione naturale. La Natura assume il ruolo dell’«esteta insuperabile
» (VIII, v. 47) e l’imitazione diventa l’adattamento dell’insetto
all’ambiente in cui abita. Alla contemplazione delle farfalle infisse
della collezione si preferisce adesso l’osservazione diretta nel loro
regno che, nel caso del Parnassus Apollo, conduce quasi allo stupore
che deve aver provato l’uomo primitivo di fronte agli spettacoli di
natura (VIII, vv. 98-105)54. L’azione della Natura, tuttavia, non è in opposizione
radicale a quella umana; nell’epistola dedicata alla cavolaia
(IV, Pieris brassicae) Gozzano ne riconosce piuttosto la somiglianza (vv.
45-59)55:
Come in questa vicenda, e in altre molte,
la Natura che i retori vantarono
perfetta ed infallibile, si svela
stretta parente col pensiero umano!
Non divina e perfetta, ma potenza 5
maldestra, spesso incerta, esita, inventa
tenta ritenta elimina corregge.
Popola il campo semplice del Tutto
d’opposte leggi e d’infiniti errori.
Madre cieca e veggente, avara e prodiga 10
grande e meschina, tenera e crudele,
per non perder pietà si fa spietata.
E quando vede rotta l’armonia
riconosce l’errore, vi rimedia
con nascite novelle ed ecatombi. 15
Questa forza ossimorica, insuperabile esteta, non è una forza divinamente
creata e tesa a un progresso linearmente orientato al suo fine.
Procede per tentativi, contraddizioni, errori e aggiustamenti che implicano
tanto la nascita quanto la morte delle sue creature56. L’uomo,
lo scienziato e l’artista procedono alla stessa maniera del «genio della
Terra» (VIII, Macroglossa stellatarum, vv. 101-120)57:
Per chi cerca il volume a foglio a foglio
il genio della Terra – il genio certo
54 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 569-575.
55 Ivi, pp. 513-514.
56 Per una lettura della funzione della Natura nell’itinerario poetico gozzaniano
in relazione al rapporto tra vita e letteratura cfr G. Bárberi Squarotti, Gozzano.
Letteratura e vita, in Guido Gozzano, i giorni, le opere, cit., pp. 61-78.
57 G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp. 572-573.
[ 24 ]
gozzano e la crisalide del modernismo 731
dell’Universo intero – si comporta
non come un Dio ma come un Uomo, attinge
le stesse mete con gli stessi metodi: 5
tenta s’inganna elimina corregge
sosta dispera spera come noi;
scopre ed inventa lento come il fisico,
calcola incerto come il matematico,
orna la terra come il buono artista. 10
Come noi lotta con la massa oscura
pesante enorme della sua materia;
non sa meglio di noi dov’esso vada,
agogna verso un ideale solo:
elaborare tutto ciò che vive 15
in sostanza più duttile e sottile,
trarre dalla materia il puro spirito;
dispone d’alleanze innumerevoli,
ma le sue forze intellettive sono
pari alle nostre, nella nostra sfera. 20
Tutto ciò «che vive sulla Terra» unito da un’intelligenza universale
diffusa e immanente – comunque la si chiami: «Spirito, / Pensiero,
Intelligenza, Anima, fluido» – è accumunato dall’anelito «d’elaborare
la materia sorda / in un’essenza non mortale» (vv. 161-165)58. Non c’è
(ormai definitivamente) un dio inaccessibile che non commette errori,
davanti al quale l’uomo potrebbe solo tremare impaurito; la ribellione
alla materia parifica e unisce tutti gli esseri viventi a fronte di «fraterne
volontà velate» (v. 144)59. Il destino dell’uomo si riflette in quello
che la macroglossa porta inscritto sul proprio corpo. Tutto ciò che appartiene
al vivente, dalla «ricchezza del sangue» all’«istinto della vita
», è «dato in sacrificio» a questo anelito.
Davvero interessante non è tanto la generale proposta filosofica
gozzaniana, che trova fonti e connessioni nel suo tempo, quanto la
pratica poetica che se ne ricava. Il poeta desidera rintracciare nelle
farfalle l’anelito al superamento della materia bruta; tale desiderio
muove la sua osservazione entomologica, non differente da quella
dello scienziato intento a indagare i fenomeni naturali. Dopo l’esplorazione
del mondo umano di cui il soggetto poetico dei Colloqui è una
sorta di riflesso, punto d’osservazione e prodotto di quel mondo di
cui, pur nel parziale distacco della coscienza, si riconosce l’immanen-
58 Ivi, p. 574.
59 Ibidem.
[ 25 ]
732 Francesco Giusti
za all’osservato, Gozzano rivolge la sua attenzione alle farfalle per rintracciare
nella loro esistenza gli stessi meccanismi sottesi all’umano:
un incerto procedere per prove ed errori che ha abbandonato l’illusione
di un principio trascendente che ne guidi dall’esterno i processi60.
L’interesse per la storia umana e per le sue concretizzazioni oggettuali
si è spostato verso l’evoluzione naturale senza però abbandonare la
prima, ma, sembra, per ricomprenderla in un quadro più vasto. Anche
la morte, nel nuovo quadro, si mostra più chiaramente non come una
posizione individuale di esclusione, di rinuncia o di fuga, bensì come
inerente ai processi universali. Estendere lo sguardo all’aspetto fisico,
ai comportamenti, al ciclo vitale di altri esseri viventi e parlare di classi,
di specie, di stadi e non di individui permette di allargare il campo
ben oltre la moltiplicazione dei nomi che la soggettività poetica consentiva.
Non più soltanto l’io è un prodotto storico, ma anche la sua
specie e il suo mondo. Tutto il vivente sembra esser sottoposto a una
medesima legge nella forma di una generale aspirazione.
60 Cfr G. De Donato, Lo spazio poetico di Guido Gozzano, cit., pp. 44-45.
[ 26 ]
Stefano Lazzarin
Tracce del fantastico nel Padrone (1965)
di Goffredo Parise
Il saggio indaga sulle presenze del fantastico nell’opera di Goffredo Parise, con
particolare riferimento a un romanzo che si inscrive nell’orizzonte della letteratura
industriale: Il padrone (1965). Atmosfere kafkiane, spettralizzazione del reale,
animalizzazione e metamorfosi, procedure del grottesco, temi del deforme
e del mostruoso, problematica dell’animazione dell’inanimato e della vita e
dell’intelligenza artificiale: i segnali della ‘fantasticizzazione’ del testo di Parise
sono molteplici, e altrettanto numerose le piste che conducono al perturbante di
matrice fantascientifica.

This essay investigates the presence of the fantastic in Goffredo Parise’s writing,
especially in a novel that relates to industrial literature: Il padrone (1965).
Kafkaesque atmospheres, spectralisation of reality, animalisation and metamorphosis,
grotesque procedures, themes of the deform and monstrous, problems
of the animation of the inanimate and of artificial life and intelligence: the
signs of the “fantasticisation” in Parise’s text are manifold; equally numerous
are the roads that lead to that perturbing quality deriving from the fantastic.
1. Spettri industriali, aziendali e burocratici
Fra i cronotopi moderni del perturbante, vi è lo spazio-tempo medesimo
del lavoro nelle odierne società capitalistiche: in un certo numero
di testi novecenteschi le grandi fabbriche e gli opifici industriali,
ma anche gli spazi burocratici, amministrativi, direzionali in cui si
muovono gli impiegati di concetto e gli stessi dirigenti d’azienda, sostituiscono
i cronotopi classici, come i castelli gotici e le case infestate.
Per essere esatti, va detto che già in qualche esempio ottocentesco la
fabbrica si metamorfosava in luogo infernale, limbo di apparizioni
terrificanti: basterà pensare agli altoforni londinesi descritti da Charles
Dickens in The Old Curiosity Shop (1840-1841). Ma è soprattutto nel
Novecento che i luoghi della letteratura industriale e aziendale posso-
Université Jean Monnet, Saint-Étienne – Fr; stefanolazzarin1@virgilio.it
734 stefano lazzarin
no, con paradosso soltanto apparente, coincidere con i luoghi dell’inquietante
stranezza. Ed è, fra l’altro, il Novecento che scopre il legame
fra perturbante e burocratico: prescindendo da un testo eccezionalmente
precursore come Bartleby the Scrivener (1853) di Herman Melville, l’esempio
principe mi sembra infatti quello di Franz Kafka, con le numerose
e memorabili presenze fantomatiche – al limite con il fantasmatico
in senso proprio – del Processo (Der Prozess, 1925) e del Castello (Das
Schloß, 1926).
Lo scrittore su cui mi soffermerò nelle pagine seguenti, Goffredo
Parise, è forse il più significativo rappresentante italiano di questo
perturbante degli spazi industriali, aziendali e burocratici1. Prima di
cominciare, sono tuttavia necessarie due precisazioni. La prima: non
parlerò di tutta l’opera di Parise, ma soltanto di una sua specifica sezione,
concentrata, dal punto di vista cronologico, negli anni Sessanta
e Settanta. Nello scrittore vicentino sono identificabili, in effetti, alcune
fasi creative che possono essere delimitate con relativa precisione;
pensiamo soltanto alla sua produzione romanzesca: Il ragazzo morto e
le comete (1951) e La grande vacanza (1953), romanzi di registro magicorealistico
e di matrice ‘chagalliana’, secondo l’intuizione di Montale
sottoscritta dallo stesso Parise2, vengono seguiti dai romanzi della trilogia
della provincia veneta, Il prete bello (1954), Il fidanzamento (1956)
e Amore e fervore (1959; dal 1973 con il titolo Atti impuri), per arrivare
infine al Padrone (1965), che si colloca al centro di una tetralogia comprendente
la pièce teatrale L’assoluto naturale (1967), i racconti del Crematorio
di Vienna (1969) e gli articoli del reportage giornalistico New
1 Preciso preliminarmente che le citazioni parisiane verranno dall’edizione «I
Meridiani» in due volumi, cui mi riferirò, per brevità, con le sigle I e II: cfr G. Parise,
Opere, 2 voll., terza ed. aggiornata, a cura di B. Callegher e M. Portello,
introd. di A. Zanzotto, Milano, Mondadori, 2005.
2 Si vedano, rispettivamente, la recensione di Montale all’edizione Feltrinelli
del Ragazzo morto e le comete, sul «Corriere della Sera» del 28 novembre 1965 (cfr E.
Montale, Un Parise del 1949, in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G.
Zampa, Milano, Mondadori, 1996, II, p. 2759: «La prima impressione è che si tratti
di una fiaba, di un quadro di Chagall con orsi e streghe volanti»), e l’osservazione
di Parise a proposito dei suoi esordi da pittore (in una nota autobiografica lo scrittore
rileva, non senza ironia, che la sua pittura «assomiglia un po’ a quella di Chagall
e termina quando, nel ’48, vede appunto per la prima volta Chagall alla Biennale
di Venezia»: cfr G. Parise, Notizie biografiche, in C. Altarocca, Goffredo Parise,
Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 176). Questo testo di Parise, non datato nel volume
di Altarocca, risale al 1965 o dopo: vi si allude infatti – cfr ivi, p. 178 – alla
pubblicazione del Padrone.
[ 2 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 735
York (apparsi nel 1976 sul «Corriere della Sera», in volume nel 1977)3.
E poi – se diamo un’occhiata agli altri generi di scrittura praticati da
Parise – c’è il dittico dei Sillabari (Sillabario n. 1, 1972; Sillabario n. 2,
1982), nonché un’altra quadrilogia, composta dai resoconti di viaggio
(Cara Cina, 1966; Guerre politiche, 1976; il già citato New York, 1977; L’eleganza
è frigida, 1982). Fra tutte le fasi di Parise, dunque, sceglierò
quella rappresentata dal Padrone, dall’Assoluto naturale, dal Crematorio
di Vienna e da New York, che si estende su un arco cronologico di un
decennio circa, ed è la più ricca di materiali per la mia indagine; per
comodità, concentrerò l’analisi sul romanzo del 1965, senza rinunciare
alle incursioni nelle altre opere del gruppo, o in opere di epoca o genere
diversi.
La seconda premessa cui accennavo è la seguente: Il padrone non è
un testo fantastico, bensì ‘fantasticizzato’ (lo stesso si può dire dei racconti
del Crematorio di Vienna). È stato Remo Ceserani a parlare per
primo della «fantasticizzazione» del sistema letterario europeo, paragonandola
alla «romanzizzazione» dei generi studiata da Michail
Bachtin4. Nell’Ottocento, sostiene il critico, il fantastico si trova, rispetto
agli altri generi e modi letterari, in una posizione egemonica, simile
al «dominio del romanzo su tutte le altre forme letterarie nel mondo
moderno, a partire dal Settecento»5; il successo prodigioso che arride
al récit fantastique suscita un fenomeno di ibridazione nei generi nonfantastici,
per cui opere appartenenti, ad esempio, al modo mimeticorealistico
assumono elementi – temi, forme, strutture – che sono tipici
della letteratura fantastica:
L’introduzione in un sistema letterario di un nuovo modo, in un momento
storico particolare, ha di solito la conseguenza di modificare
l’intero sistema dei modi e dei generi di quella letteratura. È quanto è
3 Di una «triade imperniata sulla dialettica servo-padrone», e formata dal Padrone,
dall’Assoluto naturale e dal Crematorio di Vienna, parlano Giacinto Spagnoletti
e Sergio Blazina: cfr rispettivamente G. Spagnoletti, Goffredo Parise, in Letteratura
Italiana. I Contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, VI, pp. 1873-1895, e S. Blazina,
Parise e dintorni: un’ipotesi di linea veneta, in Les illuminations d’un écrivain. Influences
et recréations dans l’oeuvre de Goffredo Parise, Atti del Convegno, Caen, 14-15
maggio 1999, a cura di P. Grossi, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2000, pp.
51-67 (la citazione si legge ivi, p. 63).
4 Cfr rispettivamente R. Ceserani, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996, p.
101, e M. Bachtin, Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo (1938),
in Id., Estetica e romanzo (1975), a cura di C. Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1979,
pp. 445-482.
5 R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 101.
[ 3 ]
736 stefano lazzarin
successo anche con il fantastico. La sua nuova presenza fu avvertita
nettamente da gran parte dei generi lirici, narrativi e drammatici allora
esistenti e praticati6.
È vero che, rispetto alla supremazia del romanzo, quella del fantastico
interessa un «ambito più ristretto» e «zone letterarie più
limitate»7; in compenso, esattamente come il romanzo, il fantastico
non ha mai smesso di esercitare il proprio fascino sugli altri generi
letterari, come dimostrerebbe agevolmente uno sguardo, anche frettoloso,
alla produzione novecentesca e contemporanea. Per tornare a
Parise, se fra i racconti del Crematorio di Vienna c’è almeno un testo che
può essere definito ‘fantastico’ senza indugi – quello che ha dato il titolo
alla raccolta, e che, uscito originariamente nel 1963, figura ora,
senza titolo al pari degli altri, in nona posizione nell’indice della raccolta
medesima8 – va ripetuto con decisione, contro il lassismo terminologico
oggi così frequente, che né Il padrone né Il crematorio di Vienna
possono essere ascritti alla letteratura fantastica. Il rapporto che intrattengono
con il fantastico non è di appartenenza, bensì di parentela: sono
testi che introducono, nel contesto generico della narrativa aziendale
o industriale, alcuni tratti ricorrenti nella tradizione gotico-fantastica.
2. Il Kafka italiano
Numerosi elementi dell’opera di Parise ricevono luce da questa
parentela generica con la letteratura del soprannaturale. Nel presente
saggio esaminerò alcune di queste diramazioni significative che riconducono
allo stesso centro – alla nozione di perturbante fantastico.
La prima di tali piste ermeneutiche è la filiazione kafkiana del Padrone
e del Crematorio di Vienna. Nell’estate del 1965, Il padrone vince il
premio letterario Viareggio; nella motivazione con cui la giuria giustifica
la propria scelta, motivazione redatta da Giacomo Debenedetti e
pubblicata sull’«Espresso» dell’11 gennaio 1967, si legge quanto segue:
Parise è tra noi l’unico legittimo discepolo di Kafka. Non ne ha ripetuto
la fiaba e, secondo alcuni (cito una conversazione con Pasolini), ne
ha addirittura capovolto i procedimenti, nel senso che Kafka rende reale
una materia psichica e di sogno, mentre Parise fa il contrario. Ma ha
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 Cfr II, pp. 48-60.
[ 4 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 737
assimilata e sviluppata la cosmogonia di cui i racconti e i romanzi di
Kafka rendono concrete alcune figurazioni, pur dichiarandone l’ineffabilità
[…]9.
È verosimile che Debenedetti, presentando Parise come «l’unico
legittimo discepolo di Kafka», pensasse a un altro scrittore veneto, il
bellunese Dino Buzzati, cui quel titolo era stato unanimemente riconosciuto
dalla critica, ma secondo Debenedetti a torto: «tutti parlarono
del grande modello Kafka, che Buzzati avrebbe adattato su misure
italiane e casalinghe, travasato in un’aria più respirabile, per non dire
più amena. Nessuno, lì per lì, si diede pensiero degli equivoci che potevano
scaturire dall’insanabile contraddizione tra Kafka e l’ameno»10.
Il giudizio su Buzzati era troppo severo; ma per quanto riguarda Parise,
Debenedetti coglieva nel segno: la filiazione kafkiana di molte opere,
o parti di opere, mi sembra indubitabile. Eppure l’intuizione del
grande critico è rimasta disattesa: non esiste, che io sappia, uno studio
delle presenze kafkiane nello scrittore vicentino, sebbene i materiali
non manchino.
Si va dai materiali di ascendenza kafkiana reperibili nel Padrone ai
racconti à la manière de. Fra questi ultimi, possiamo menzionare Soggiorno
romano11 – in cui la permanenza di un inquilino in una pensione
romana si trasforma progressivamente in un incubo dal quale risulta
impossibile uscire – o Diario milanese12 – due coniugi si rivolgono a un
privato per aggiustare le tapparelle, e quest’ultimo finisce assurdamente
con il dormire e vivere sulla terrazza, senza d’altronde aver riparato
un granché – o il già citato racconto ‘capostipite’ del Crematorio
di Vienna, con il suo finale agghiacciante che può ricordare la conclusione
del Processo13. Sia nel romanzo kafkiano sia nel nono testo del
Crematorio, in effetti, il protagonista viene accompagnato da due individui
che si rivelano gli impassibili esecutori materiali della sua uccisione;
compie un ultimo e disperato sforzo, cercando di sottrarsi
all’immobilità che lo pietrifica – K. può soltanto «gir[are] […] il collo
9 Citato in M. Portello, Notizie sui testi. «Il padrone», I, p. 1609.
10 G. Debenedetti, Buzzati e gli sguardi del «Di qua» (1958), in Id., Saggi, a cura
di F. Contorbia, Milano, Mondadori, 1982, p. 337.
11 Sul «Resto del Carlino» del 14 aprile 1957, e ora in I, pp. 1496-1500.
12 Sul «Resto del Carlino» del 2 dicembre 1958, e ora in I, pp. 1336-1341.
13 Cfr rispettivamente G. Parise, Il crematorio di Vienna, II, pp. 59-60, e F. Kafka,
Il processo, in Id., Romanzi, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1991, pp.
530-532.
[ 5 ]
738 stefano lazzarin
ancora libero»14, «le membra» dell’anonimo personaggio parisiano sono
«del tutto inerti»15 perché gli è stato iniettato un liquido paralizzante
– e tentando di sfuggire, soprattutto, al destino incomprensibile che
lo minaccia; e muore, infine, «[c]ome un cane»16, e con il pensiero di
che cosa gli sopravviverà (K.: la «vergogna»)17 o chi (il protagonista
parisiano: «Allora rivolse un pensiero alla moglie, alla sua giovane e
delicata sprovvedutezza»)18.
Per quanto riguarda Il padrone, sono parecchi i brani del romanzo
su cui si proietta quella che Emilio Cecchi, nuovamente a proposito di
Buzzati, definiva l’«ombra di Franz Kafka»19; in tutti questi casi, Parise
ricorre agli episodi del Castello in cui viene alla luce con maggior evidenza
la trama oppressiva, fra il burocratico e l’assurdo, che imprigiona
l’agrimensore K. Lo scrittore vicentino sembra voler riscrivere proprio
il Kafka che più spesso è stato incluso, forse impropriamente, nel
corpus del fantastico novecentesco. Il passo più ‘kafkiano’ del Padrone
mi pare si legga alla fine del cap. III20: qui viene esposto il modo sottilmente
sadico in cui il dottor Max punisce i dipendenti che si sono
macchiati di qualche colpa – per lo più futile, e anzi nella maggioranza
dei casi completamente immaginaria – nei confronti della ditta. Ai reprobi
viene sottratta una parte consistente dello stipendio, e viene negata
ogni spiegazione da un’amministrazione complice e davvero
‘kafkiana’; i tentativi del povero impiegato che sollecita un incontro
con il dottor Max assomigliano notevolmente a quelli di K. vanamente
proteso verso l’enigmatico Klamm:
[…] il dipendente punito […] si avvede che lo stipendio non è quello
che gli spetta ma decurtato di una parte. Pensa a una trattenuta e scorre
con gli occhi la lista delle trattenute. No, quella trattenuta non c’è. […]
Allora sale in amministrazione a chiedere schiarimenti. Il cassiere e gli
impiegati dell’amministrazione non sanno nulla, non sono al corrente
di nulla. Allora il dipendente chiede del direttore, o del vicedirettore
amministrativo. Non ci sono. Ritorna. Non riesce ad avere spiegazioni,
14 Ivi, p. 531.
15 G. Parise, Il crematorio di Vienna, II, p. 60.
16 F. Kafka, Il processo, cit., p. 532.
17 Ibidem.
18 G. Parise, Il crematorio di Vienna, II, p. 60.
19 Cfr E. Cecchi, Evoluzione di Dino Buzzati (1949), in Id., Letteratura Italiana del
Novecento, a cura di P. Citati, Milano, Mondadori, 1972, II, p. 1000: «non si riesce a
discacciare, dai colloqui, dalle recensioni, e dalla pagina del libro, l’ombra di Franz
Kafka».
20 Cfr I, pp. 918-921.
[ 6 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 739
non viene ricevuto. A questo punto, o tenta di avere una comunicazione
telefonica col direttore amministrativo o scrive un biglietto […] a cui
non ottiene risposta. Passano i giorni. […] Finalmente riesce ad ottenere
un incontro (che può essere un colloquio concesso oppure un incontro
improvviso e insperato col direttore amministrativo nei corridoi o addirittura
per la strada) e il direttore amministrativo, allargando le braccia,
fa risalire l’ordine al dottor Max. Siamo da capo. Alla ricerca del dottor
Max che naturalmente non può essere alla portata di tutti e, in generale,
si vede e non si vede. Tuttavia il dipendente lo cerca qua e là con gli
occhi. Un giorno (ma non è sicuro), i due si scontrano per puro caso in
un corridoio, nell’ascensore, in un luogo qualsiasi. Il dottor Max si lascia
sfuggire dalle labbra […] una imprecazione, un grido, un verso:
«Uffah, quell’imbecille del tale! Ma è ancora qui? È ancora tra i piedi?
Quando decide di andarsene?»
E da quel momento non si farà più vedere, scomparirà del tutto21.
Che il dottor Max sia, fra le altre cose, una controfigura di Klamm,
viene confermato dalla muta indifferenza con cui quest’ultimo si nega a
chiunque tenti di avvicinarlo: «Klamm, sicuramente, non parlerà mai a
qualcuno con cui non vuol parlare, a dispetto degli sforzi di questo
qualcuno e della sua importuna insistenza; […] e non gli permetterà mai
di apparire al suo cospetto»22. Nel mondo burocratizzato del Castello,
Klamm, inafferrabile e imperscrutabile, finisce con l’assomigliare, come
osserva per prima l’ostessa e riconosce poi anche K., «a un’aquila»23:
[…] egli [K.] pensava alla sua lontananza, alla sua dimora inaccessibile,
al suo mutismo costante, non interrotto forse che da grida come K.
non ne aveva mai udite, al suo sguardo penetrante che cadeva dall’alto
e non si poteva mai né dimostrare né confutare, e ai cerchi indistruttibili,
troppo alti perché K. dal suo abisso li potesse turbare, che descriveva
secondo incomprensibili leggi, e che solo per qualche attimo si
potevano intravedere: tutto questo era comune a Klamm e all’aquila24.
Una spia tematica annuncia la riscrittura parisiana, confermando,
mi pare, la bontà dell’ipotesi intertestuale: poche pagine sopra il brano
del cap. III da me trascritto, veniamo a conoscenza del fatto che fra
il dottor Max e il narratore avvengono frequenti colloqui telefonici nel
21 I, pp. 918-919. Si può pensare, come termine di paragone, all’episodio della
fine del cap. VIII in cui K. si apposta nel cortile dell’Albergo dei Signori, cercando
invano di sorprendere Klamm che dovrebbe, da un momento all’altro, salire in
carrozza (cfr F. Kafka, Il castello, in Id., Romanzi, cit., pp. 672-678).
22 Ivi, p. 681.
23 Ivi, p. 688.
24 Ibidem.
[ 7 ]
740 stefano lazzarin
cuore della notte («Spesso mi chiama al telefono, anche a notte alta»)25.
Ora, ogni lettore del Castello sa che gli eventi decisivi vi accadono nelle
ore notturne, e durante la notte si svolgono conversazioni che hanno
il peso di eventi: basterà pensare al colloquio di K. con Bürgel nel
cap. XVIII26. Il passo del Padrone sembra del resto rimandare a un luogo
preciso del romanzo kafkiano, in cui viene formulata l’ipotesi che
al postulante possa presentarsi, per l’appunto «in piena notte»27, l’occasione
della vita: «Può accadere, in certe ore rare e fortunate, che,
chiamando l’impiegatuccio, Sordini in persona venga all’apparecchio
[telefonico]. Allora però è meglio lasciar cadere il ricevitore e fuggir
via prima d’aver udito la prima parola»28. E lo stesso Bürgel, alludendo
all’improbabile ipotesi che un postulante riesca a mettersi in contatto
con uno dei segretari del Castello, precisa che una simile evenienza
potrebbe verificarsi soltanto nel profondo della notte:
[…] esiste […], a dispetto di tutte le misure di precauzione, una possibilità
di sfruttare la debolezza notturna dei segretari […]. Certo è una
possibilità molto rara, o per dir meglio, una possibilità che non si presenta
quasi mai. Ed è che la parte [cioè il postulante] venga qui nel bel
mezzo della notte senza esser preannunziata29.
3. Il padrone tra favola e documento
Un altro aspetto che merita di essere sottolineato è l’assenza, nel
romanzo di Parise, di qualsiasi riferimento preciso e concreto alla realtà
storico-sociale dell’epoca. Non c’è, nel Padrone, nessuna sociologia
del lavoro: per un romanzo che si inscrive di diritto nella letteratura
industriale, si tratta di una circostanza singolare. Se ne stupì infatti
quel François Wahl, direttore editoriale delle Éditions du Seuil, che
scrisse a Parise per argomentare la propria decisione di non pubblicare
Il padrone in traduzione francese, e fra le ragioni del rifiuto addusse
lo sfondo eccessivamente astratto della vicenda narrata:
Il y a, par exemple, quelque chose qui laisse tout à fait surpris, c’est
l’absence totale des syndicats dans votre livre; après tout, que l’on sa-
25 I, p. 913.
26 Cfr F. Kafka, Il castello, cit., pp. 840-856.
27 Ivi, p. 642.
28 Ibidem.
29 Ivi, p. 849.
[ 8 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 741
che, ils ne sont pas inexistants en Italie et l’activité d’un personnage
comme le docteur Max (ou Madame Uraza) doit, pour une grande
part, consister à déjouer l’action syndicale30.
Vi sono in realtà nel Padrone due brevissime allusioni ai sindacati,
entrambe nel cap. III: nella prima occasione il dottor Max si lamenta
perché deve «diventare matto e obbedire alle richieste dei dipendenti,
alle richieste dei sindacati, ai maneggi politici e via dicendo»31; poco
dopo, accenna alla possibilità di «andare incontro», in caso di liquidazione
della ditta, «a bisticci sindacali che non finiscono più»32. Ma due
fuggitive allusioni, in un romanzo di 238 pagine in cui il dottor Max
prende volentieri la parola per spiegare la propria filosofia dell’azienda
e del ruolo del padrone e dei dipendenti, non bastano evidentemente
a invalidare l’osservazione di Wahl. Nonostante l’onnipresenza
del discorso teorico sul denaro, sull’industria e sul lavoro, nel Padrone
non si parla mai di una concreta realtà sociale, che possa rimandare
alla dialettica fra dirigenti e lavoratori – e alle condizioni di questi ultimi
– nell’Italia degli anni Sessanta: l’azienda rappresentata da Parise
assume piuttosto una dimensione allegorica, metafisica, o come si diceva
precedentemente, kafkiana.
Anche l’ambientazione del romanzo ha un che di emblematico, o
addirittura di favolistico: la parabola del giovane provinciale che giunge
nella metropoli in cerca di lavoro non può essere ancorata troppo saldamente
a una qualsivoglia realtà storico-geografica. Certo, come hanno
notato unanimemente i critici, la «grande città» dove il protagonista dice
di aver «trovato lavoro»33 è Milano: la «Milano “mutante”» dei primi
anni Sessanta, dove si va diffondendo «l’efficientismo della […] nuova
civiltà industriale»34. Ma per alcuni versi, e come sembra indicare il passo
situato alla fine del cap. I35 che descrive la prima lunga passeggiata
del protagonista nella metropoli a lui sconosciuta, Parise sembra aver
pensato anche a New York, la città in cui aveva fatto un viaggio decisivo
nel 1961: in un’intervista raccolta da Andrea Barbato, sull’«Espresso»
dell’11 aprile 1965, lo scrittore ne parla come di un «trauma conoscitivo»36.
30 Citato in M. Portello, Notizie sui testi. «Il padrone», I, p. 1609.
31 I, p. 910.
32 I, p. 911.
33 I, p. 835.
34 Così Andrea Zanzotto, nell’Introduzione (1987) all’edizione «I Meridiani»: cfr
A. Zanzotto, Introduzione, in G. Parise, Opere, I, cit., p. XIX.
35 Cfr I, pp. 882-883.
36 Citato in M. Portello, Notizie sui testi. «Il padrone», I, p. 1608.
[ 9 ]
742 stefano lazzarin
Così, l’«enorme cattedrale»37 in cui si imbatte il narratore del Padrone
sarà sì il Duomo di Milano, ma potrebbe anche essere, al tempo stesso,
la St.-Patrick’s Cathedral; la «grande piazza circondata di edifici tappezzati
di scritte luminose»38, più che a un preciso luogo milanese,
sembra rimandare a Times Square; l’«alto palazzo […] che sorgeva da
uno specchio d’acqua su cui galleggiavano larghe foglie e ninfee,
anch’esso interamente di acciaio e cristallo»39, potrebbe essere memore
del Time Warner Center, e di Central Park proprio lì accanto, con uno
dei quattro o cinque specchi d’acqua che ne abbelliscono la superficie
(il più famoso Jacqueline Onassis Reservoir, o magari il laghetto The
Pond, che sorge all’angolo sud-est del parco, non lontano dal Time
Warner Center); la «strada piena di traffico», con una «curva […] dove
le gomme delle automobili stridevano incessantemente
»40, sarà forse
Broadway, che taglia obliquamente la scacchiera perfettamente regolare
delle vie a sud di Central Park, dalla 59th Street in giù. E il palazzo
della ditta, quale viene descritto alla fine del cap. II del romanzo di
Parise, più che a un eventuale grattacielo milanese (il Pirellone?), assomiglia
al Chrysler Building, splendido esempio di Art Déco e uno dei
più famosi edifici della Grande Mela: «a vederlo così, isolato e solitario
sulle casette, con la sua cuspide aguzza a scaglie di pesce astrale di
alluminio scintillante, il palazzo si ergeva su di me in tutta la sua limpida
e profonda bellezza»41.
Sarebbe tuttavia decisamente fuorviante vedere nel romanzo parisiano
soltanto una favola metafisica, staccata dal contesto che vide la
genesi dell’opera. Una testimonianza di Nico Naldini – mediatore fra
Parise e l’editore Garzanti nelle trattative per la pubblicazione del libro,
che non andarono a buon fine – ci aiuta a valutare correttamente
le circostanze in cui Il padrone fu scritto e iniziò la sua vita come prodotto
editoriale:
[Parise] [m]i incaricò di portare il dattiloscritto in lettura a Garzanti. La
voce che il “padrone” fosse lui con l’ambiente della casa editrice si era
37 I, p. 882.
38 Ibidem.
39 I, pp. 882-883.
40 I, p. 883.
41 I, p. 902. Anche se bisogna riconoscere che il Chrysler non si erge su un panorama
di «casette», ma svetta su una selva di grattacieli; ed è vero, inoltre, che la
guglia del grattacielo newyorchese – alta ben 38 metri – è tutta in acciaio inossidabile,
e non in «alluminio»: ma in compenso può essere definita «aguzza» e «scintillante
», come quella di cui parla Parise.
[ 10 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 743
già diffusa […]. Garzanti si mostrò irritato. Quando andai pochi giorni
dopo a ritirare il dattiloscritto, disse che non lo aveva letto. […] Il dattiloscritto
era lì sul tavolo e Garzanti cominciò a sfogliarlo e dopo aver
scorso le prime righe lo richiuse dicendo che non era vero che [il romanzo]
fosse una favola perché già in quelle righe la via descritta era
proprio via Spiga dove c’era uno degli ingressi della sua casa editrice42.
Se dunque Parise non parla di sindacati, né nomina i luoghi che
descrive, ci fu lo stesso chi si adombrò per le allusioni, a suo dire eccessivamente
chiare e offensive, presenti nel romanzo; e se Milano potrebbe
anche essere New York, e il profilo elegante del Pirellone confondersi
con quello ancora più elegante del Chrysler, in compenso vi fu chi
riconobbe senza esitazioni nel palazzo della grande ditta impersonale
del Padrone la sede della casa editrice Garzanti. Detto altrimenti: nulla
«consente», come sottolinea Mauro Portello, di «accreditare una possibile
lettura del romanzo in chiave [ingenuamente] realistica
»43, e sarebbe
improprio etichettare Il padrone come un romanzo a chiave, in cui il
dottor Max ammicca a Livio Garzanti, e il narratore nasconde l’identità
dello stesso Parise; nonostante ciò, siamo indubbiamente «autorizzati
a pensare che la frizione tra Parise e Garzanti abbia costituito un oggettivo
prodromo nel concepimento dell’opera»44. Analogamente, nulla
permette di ritenere che qualche preciso conflitto sociale degli anni
Sessanta, o una variante storicamente circoscritta delle classi sociali
che hanno dominato la storia delle società industriali nel Novecento, la
borghese e l’operaia, vengano messi in scena da Parise nel suo romanzo;
e al tempo stesso, ha senz’altro ragione Andrea Zanzotto, il quale,
nell’Introduzione (1987) redatta per l’edizione «I Meridiani», presenta Il
padrone come l’espressione del «momento in cui si sviluppa l’etica del
neocapitalismo, del consumismo, della fabbrica che arriva al punto di
avere una sua teologia capace di sostituire le vecchie teologie»45.
4. Una ‘mutazione’ pasoliniana
Del resto, proprio l’evacuazione di ogni realtà storico-sociale circostanziata
dal romanzo parisiano potrebbe costituire un segno dei tem-
42 N. Naldini, Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise, Milano, Archinto, 1989,
p. 49, citato in M. Portello, Notizie sui testi. «Il padrone», I, p. 1605.
43 M. Portello, Notizie sui testi. «Il padrone», I, p. 1608.
44 Ibidem.
45 A. Zanzotto, Introduzione, I, p. XIX.
[ 11 ]
744 stefano lazzarin
pi in cui l’opera fu scritta: la particolare modalità rappresentativa scelta
da Parise fornirebbe allora un indizio prezioso, capace, in modo
solo apparentemente paradossale, di aprire la ‘serie’46 letteraria verso
quella storica o sociologica.
In una lettera del 7 febbraio 1970 a Giuseppe Prezzolini, Parise si
sofferma sul significato del Crematorio di Vienna, il libro gemello del
Padrone, pubblicato nel 1969 ma concepito e scritto in perfetta contemporaneità,
cronologica47 e ideologica, con il romanzo del 1965. Il Crematorio
rappresenterebbe l’incubo tecnologico-burocratico del mondo comunista,
che tende ad assomigliare sempre più al mondo occidentale:
Il crematorio di Vienna non vuole essere una analisi o una rappresentazione
del mondo occidentale contemporaneo, né aziendale: ma una
ossessione (futura) del mondo burocratico e tecnologizzato, appunto
comunista, se vuoi, oppure di quel socialismo appunto burocratico e
tecnologico verso cui stiamo andando. […] Mi riferisco […] al futuro
dell’uomo in entrambi i campi sociali, e politici. Sia al mondo comunista
che ho girato (tutto) per quattro anni apposta, per vederlo, e al
mondo così detto democratico e occidentale […]. I due campi, per
forza di cose, per infiltrazioni reciproche, per la legge dei vasi comunicanti,
finiranno per influenzarsi a vicenda. Da ovest passeranno
all’est beni di consumo, dall’est passeranno all’ovest le ideologie, o la
mania delle ideologie. L’uomo sarà stretto tra queste due morse e gli
uomini del «crematorio» fanno parte un po’ dell’uno, un po’ dell’altro
campo48.
Questo brano ci fornisce due utili indicazioni: in primo luogo, la
previsione del Crematorio non riguarda l’uno o l’altro blocco di un
mondo all’epoca decisamente bipolare, ma li coinvolge entrambi; in
secondo luogo, quel futuro è imminente, anzi si sta già affacciando
all’interno del presente, come mostra il tempo dell’ultima forma verbale
(fanno parte: qui e ora, nel mondo di oggi). Della metamorfosi di
uomini e cose Parise ritorna a parlare negli articoli confluiti nel reportage
giornalistico New York, dove indica come denominatore comune
della «nuova cultura», responsabile di un’epocale «“grande rivoluzio-
46 Il concetto, si sa, è di origine formalista, ed è stato ripreso dallo strutturalismo
francese degli anni Sessanta. Si veda l’antologia Théorie de la littérature. Textes
des Formalistes russes (1965), a cura di T. Todorov, pref. di R. Jakobson, Paris, Éditions
du Seuil, 1989.
47 I trentatré pezzi che formano Il crematorio di Vienna escono fra il 1963 e il
1967, per lo più sul «Corriere della Sera».
48 Lettera citata in M. Portello, Notizie sui testi. «Il crematorio di Vienna», II, p. 1631.
[ 12 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 745
ne”», la «tecnologia»49. Rispetto alla lettera a Prezzolini, mi pare ci siano,
in New York, due elementi di novità: l’accento viene posto sui
fattori economico-sociali – il benessere, il consumismo, la mercificazione,
lo spreco – e la diagnosi si sposta all’indietro nel tempo. La
transizione verso il mondo rappresentato nel Padrone e nel Crematorio
non è più imminente o in corso, ma è già avvenuta; una mutazione si è
prodotta, che Parise descrive riprendendo significativamente il famoso
termine pasoliniano50: fra le ragioni del suo «lungo soggiorno a
New York»51, lo scrittore indica infatti
[…] la mutazione accelerata del mercato italiano (e non soltanto del
mercato) avvenuta in questi ultimi anni: era, anche questa, una mutazione
che veniva dall’America, anzi, per essere più precisi, dall’American
way of life in tutta la sua ampiezza esistenziale e filosofica. Sono
mutati i rapporti tra gli italiani e la loro terra, il loro paese, la loro cultura
nazional-popolare, la religione e le richieste nei confronti dei partiti
politici. Sono mutati i rapporti all’interno della famiglia. E la mutazione
continua, l’erosione continua, alcuni caratteri di base del popolo
italiano si fondono con quelli degli abitanti dell’America in una strana
e a volte comica mescla di culture che non di rado produce mostri52.
Un processo darwiniano di selezione naturale – La selezione naturale
è il titolo del quinto degli otto articoli newyorchesi53 – sta portando
alla scomparsa delle specie umane più antiche, di quegli uomini di
prima, cui lo scrittore confessa di appartenere54, simili a pesci preistorici
costretti da immani cataclismi a faticose mutazioni biologiche, che
hanno permesso loro, ma soltanto a prezzo di gravissime perdite, di
sopravvivere55. Questa trasformazione epocale sarebbe cominciata – di
nuovo, la diagnosi di Parise raggiunge quella di Pasolini – a cavallo fra
gli anni Cinquanta e Sessanta, quando il modo di vita europeo e più
particolarmente italiano viene progressivamente soppiantato dall’A-
49 II, p. 1000.
50 Come fanno, negli anni Sessanta e Settanta, anche altri scrittori, per esempio
Elsa Morante e Paolo Volponi. Alcune indicazioni sulla mutazione come tema fantascientifico
in Volponi si troveranno in S. Lazzarin, Atomiche all’italiana. Il tema
della catastrofe nucleare nella fantascienza italiana d’autore (1950-1978), «Testo», XXXI
(2010), n. 59, pp. 97-115, soprattutto alle pp. 112-113.
51 II, p. 1004.
52 II, p. 1005.
53 La selezione naturale, II, pp. 1028-1034.
54 Cfr II, p. 1001.
55 L’immagine dei pesci preistorici ritorna per tre volte in New York: cfr II, pp.
1000, 1001 e 1029.
[ 13 ]
746 stefano lazzarin
merican way of life: «L’“invasione” consumistica […] coincise con il miracolo
economico italiano. Allora cominciò l’americanizzazione
dell’Europa, specialmente dell’Italia»56. In un quarto di secolo, i risultati
sono ormai sotto gli occhi di tutti, o per lo meno di chi abbia fatto,
come Parise, un viaggio abbastanza lungo negli Stati Uniti: perché
«nella “grande rivoluzione”, l’America è all’avanguardia»57, e New
York è a sua volta «la mente radiante, la vera capitale del Nuovo Impero
e il cervello e il volto degli Stati Uniti»58. Per Parise, «l’uomo d’oggi
si trova immerso in uno sterminato mercato con enormi quantità di
merci»59, ed «è costretto a comprare dalla necessità del mercato che
non ha alcuna scelta se non il profitto»60; l’unica legge vigente è quella
del consumo, che all’interno della nuova cultura non comporta più la
minima necessità, ma è diventato, per l’appunto, un tratto culturale:
La maggior legge del consumo essendo appunto questa: comprare
senza usare. Il risultato è che la città di New York […] appare in certi
giorni fissati e in certe ore della notte un immenso mondezzaio battuto
dal vento, dove rifiuti e uomini si confondono, prefigurando l’immagine
di tutte le città del futuro61.
5. Spettralizzazione della realtà
Dai saggi e resoconti di viaggio, ritorniamo al Padrone. Come l’America
vista attraverso gli occhi di Parise, così il romanzo del 1965
rappresenta il futuro prossimo della mutazione, o magari il nostro
presente, di cui ancora non abbiamo preso sufficientemente coscienza62.
È il tempo in cui il denaro, la merce, i rifiuti si saranno (o si sono)
impadroniti completamente della vita umana, producendo sugli uomini
e sulle cose un effetto derealizzante.
56 II, p. 999.
57 II, p. 1001.
58 II, p. 1005.
59 II, p. 1035.
60 II, p. 1036.
61 II, p. 1041.
62 Nel testo introduttivo – senza titolo – che Parise premette a New York, al
momento della pubblicazione degli articoli in volume, leggiamo: «Di questo avvenimento
fondamentale per il nostro paese (ma non soltanto per il nostro paese)»
che fu la mutazione culturale degli anni Cinquanta e Sessanta «furono in pochissimi
ad accorgersi, pochissimi conobbero e toccarono con mano, con la mente e il
cuore, cioè con la propria stessa vita, la “grande rivoluzione”» (II, p. 1000).
[ 14 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 747
Nel Padrone non scompaiono soltanto, come ho detto sopra, gli
aspetti più concreti della realtà storico-sociale, ma è la realtà stessa a
diventare, tutt’intera, spettrale. Le sagome degli oggetti si fanno irreali,
l’identità delle persone evapora, l’universo intero si smaterializza,
diviene fantasmatico: la sensazione di realtà svanisce. Questo fenomeno,
che chiamerò ‘spettralizzazione della realtà’, si verifica più volte, e
altrettanto numerosi sono i casi in cui il narratore si rende conto d’un
tratto, per una ragione o per l’altra, di trovarsi temporaneamente al di
fuori dell’alone fantomatico che avvolge ogni cosa. L’esempio più notevole
è fornito dall’incontro del protagonista con il dottor Saturno,
padre del dottor Max e fondatore dell’azienda. Sebbene sia «l’uomo
che aveva creato la ditta commerciale e accumulato enormi ricchezze»63,
Saturno è anche colui che, senza neppure presentarsi, rivela fulmineamente
al narratore la verità e tutta la verità: «“Sai cosa ti dico? […]
Che i soldi sono cacca. Hai capito? Ricordalo. Te lo dico io che lo so”»64.
Alla pagina successiva, rimasto solo nella sala da pranzo abbandonata
dal dottor Max, dalla madre Uraza e dallo stesso Saturno, il protagonista
ci consegna le sue riflessioni:
Per la prima volta da quando ero arrivato nella grande città e avevo
incominciato a lavorare nella ditta provavo una sensazione che avevo
dimenticato da molti mesi: questa sensazione era una sensazione di
realtà. Cioè, mentre in tutte le altre persone che avevo conosciuto e
nella città stessa la caratteristica più evidente era l’irrealtà, qualcosa di
fantomatico, di inesistente e insieme di ripugnante come vivere in stato
di sonnambulismo, nel dottor Saturno […] questa caratteristica era
scomparsa, sostituita dalla realtà. Per la prima volta mi pareva di trovarmi
realmente davanti a un uomo e non davanti a un fantasma: così
gli oggetti della stanza, piatti, posate, quadri, arazzi, divani, finestre, la
strada sottostante e le automobili che la percorrevano, erano tutte cose
reali, che avrei potuto toccare con le mani e definire senza paura di
sbagliare. Il cameriere che ci aveva servito a tavola era un cameriere, la
dottoressa Uraza una povera vecchia e il dottor Max un bambino come,
con molta realtà, l’aveva trattato suo padre. Ma anche questa sensazione
è durata soltanto finché è durata la sua presenza: uscito dal
salotto il dottor Saturno, oggetti, persone e cose a poco a poco hanno
cominciato a riprendere il loro abituale volto di fantasmi e quando la
dottoressa Uraza è entrata anche l’ultimo barlume di realtà è scomparso
del tutto65.
63 I, p. 939.
64 I, pp. 937-938.
65 I, pp. 939-940.
[ 15 ]
748 stefano lazzarin
È sufficiente la presenza dei detentori del potere e del denaro –
Uraza, ma anche e soprattutto il dottor Max, la cui «figura» medesima,
nota a un certo punto il narratore, «si è rarefatta, non è più una
figura reale»66 – per stendere un velo caliginoso su persone e oggetti;
inversamente, basta l’ipotesi che il dottor Max muoia per dissolvere
l’incubo e far riemergere la realtà:
C’è però una luce, un lieve barlume in tutta questa confusione: quando
penso che egli non esiste affatto, che la ditta non esiste, che questa città
non esiste e che tutto questo tempo non è stato altro che un buio sonno
popolato di sogni e di fantasmi che nulla hanno a che vedere con la
realtà. […] A questo punto, preso dalla disperazione e dal vuoto in cui
mi sento inabissare, immagino che il dottor Max possa scomparire
[…]. Che muoia […]. Allora, misteriosamente, la realtà vera e semplice,
quella dove un uomo è un uomo e le cose sono cose, affiora lentamente
dentro di me e porta con sé volti e luoghi che avevano perduto con
la presenza del dottor Max tutto il loro significato67.
E alla fine del cap. IX, quando il protagonista fantastica di uccidere
il dottor Max e di contemplarne il cadavere, lo definisce, con significativa
scelta lessicale: «Spettro del denaro, senza più denaro»68. Ora, a
me sembra che esista una significativa coincidenza tra la foschia spettrale
del Padrone e quella spettralità delle cose di cui parlerà, quasi
trent’anni più tardi, Jacques Derrida nel più famoso dei suoi libri su
Marx69, e sulla quale sono ritornati successivamente vari studiosi contemporanei
che si occupano, in particolar modo, del destino degli oggetti
in età postmoderna70. Nella prospettiva marxiana rivisitata da
Derrida, il capitalismo è una gigantesca fucina di apparenze spettrali:
«qu’il s’agisse de monnaie, ou d’idéologèmes, c’est une production de
fantômes, d’illusions, de simulacres, d’apparences ou d’apparitions»71.
La merce, e il denaro che la muove, generano per l’appunto un «effet
66 I, p. 1006.
67 I, pp. 984-985.
68 I, p. 1013.
69 Cfr J. Derrida, Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle
Internationale, Paris, Galilée, 1993.
70 A questa problematica è dedicato il convegno itinerante Al di là dello spettro:
teoria e storia della fantasmaticità contemporanea, ideato da Ezio Puglia, e che si sta
svolgendo a cavallo fra il 2016 e il 2017 in quattro diverse sedi universitarie (18
marzo 2016: Université du Luxembourg; 17 giugno 2016: Università dell’Aquila;
23 settembre 2016: Università di Bologna; 17 marzo 2017: Université Jean Monnet,
Saint-Étienne).
71 Ivi, p. 81.
[ 16 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 749
spectral»: «ces fantômes que sont les marchandises transforment les
producteurs humains en fantômes»72. Come scrive Guy Petitdemange,
in un lucido articolo sulle interpretazioni del pensiero marxiano
proposte da Jean-Yves Calvez e appunto da Derrida, per quest’ultimo
[l]a marchandise est transmutation à l’infini de la chose: «La marchandise
hante la chose, son spectre travaille sa valeur d’usage» […]. La
table est bien plus que cette table-ci, elle devient «Vie, Chose, Bête,
Objet, Marchandise, Automate – Spectre en un mot» […], «inquiétante
étrangeté». Et cette fantomisation n’affecte pas que la chose, elle contamine
au plus profond ceux qui la produisent. L’aliénation, c’est cette
émigration de leur volonté, de leur temps, de leur corps propre partis
nourrir une chose qui n’en est plus tout à fait une, mais un fantôme
dont la dernière signature, la dernière identification sera l’argent, le
prix, variable, comme la chose même73.
Questa verità – che il capitale e la merce derealizzano gli oggetti e
le persone, spettralizzando la realtà tutta – Parise la intuisce a modo
suo, con gli strumenti che ha a disposizione: quelli di uno scrittore, e
di un intellettuale molto pragmatico nelle proprie analisi, e relativamente
poco interessato ai ‘massimi sistemi’74. Ma non soltanto il fiuto
dello scrittore di razza aiutò Parise a formulare in termini tanto suggestivi
la propria intuizione, bensì anche qualche modello, non tanto filosofico
o teorico, quanto piuttosto letterario. In effetti, questa particolare
modalità di rappresentazione, questo effetto di realtà che sfuma
in un alone spettrale, era noto alla tradizione letteraria del fantastico
otto-novecentesco: e a tale tradizione avrà forse pensato – benché non
esclusivamente – l’autore del Padrone.
Fra i vari esempi che potrei ricordare, menzionerò un racconto di
Villiers de l’Isle-Adam, À s’y méprendre! (originariamente sullo «Spectateur
» del 16 dicembre 1875, poi nei Contes cruels del 1883)75. Qui il
72 Ivi, p. 241.
73 G. Petitdemange, Jean-Yves Calvez, Marx et Derrida, «Revue Projet», 316
(2010), n. 3, pp. 11-17, consultabile sul sito www.cairn.info/revue-projet-2010-3-page-
11.htm, p. 15 (data ultimo accesso: 27/07/2016). Le citazioni di Petitdemange
vengono da J. Derrida, Spectres de Marx, cit., rispettivamente pp. 240 e 242.
74 Penso in particolar modo a un’affermazione che si legge nell’intervista concessa
da Parise a Claudio Altarocca: «Non ho capito mai il significato della parola ideologia,
che pure ormai anche gli asini sembrano capire. Ma, quando la sento pronunciare,
una piccola voragine di nulla si forma nel discorso di chi la pronuncia e rende
vano il resto» (G. Parise, [intervista], in C. Altarocca, Goffredo Parise, cit., p. 11).
75 Cfr A. de Villiers de l’Isle-Adam, À s’y méprendre!, in Id., Contes cruels.
Nouveaux contes cruels, édition de P.-G. Castex, Paris, Garnier, 1980, pp. 128-131.
[ 17 ]
750 stefano lazzarin
narratore, in una «grise matinée de novembre»76, dopo essere entrato
per errore nella sala della morgue parigina in cui vengono esposti i
cadaveri dei suicidi, si fa portare in carrozza fino a un certo caffè del
Passage de l’Opéra, dove lo aspettano «[les] gens d’affaires»77 con i
quali ha preso appuntamento il giorno prima. Ma una volta giunto a
destinazione – «C’était là que m’attendaient, pensai-je, la coupe en
main, l’oeil brillant et narguant le Destin, mes hommes d’affaires!»78 –
il protagonista spalanca la porta del locale, e si trova di fronte esattamente
la stessa scena perturbante – di quello che Freud definirà
l’Unheimliche del «perpetuo ritorno dell’uguale»79 – che aveva contemplato
in precedenza. L’identità è assoluta, perfino stilistica; di fronte ai
corpi morti dei suicidi, il narratore meditava:
Certes, pour échapper aux soucis de l’existence tracassière, la plupart
de ceux qui occupaient la salle avaient assassiné leurs corps, espérant,
ainsi, un peu plus de bien-être80.
Successivamente, sulla soglia del caffè e di fronte ai corpi vivi degli
avventori, eccolo commentare:
Certes, pour échapper aux obsessions de l’insupportable conscience, la
plupart de ceux qui occupaient la salle avaient, depuis longtemps, assassiné
leurs «âmes», espérant, ainsi, un peu plus de bien-être81.
Villiers, del resto, proprio come farà Parise, non manca di sottolineare
esplicitamente l’origine di questa perturbante identità sotterranea:
è il denaro che ha ucciso l’anima della gente d’affari, spettralizzando
il loro ritrovo al punto da farne una riunione d’oltretomba.
Perciò il narratore se ne va, «bien décidé» – scrive Villiers, con una
punta di umorismo nero – «quoi qu’il pût m’advenir, […] à ne jamais
faire d’affaires»82.
76 Ivi, p. 128.
77 Ivi, p. 130.
78 Ivi, pp. 130-131.
79 L’espressione, che riecheggia Nietzsche, compare in S. Freud, Il perturbante
(Das Unheimliche, 1919), in Id., Opere IX. 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, a cura di
C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, p. 95, e in S. Freud, Al di là del principio
di piacere (Jenseits des Lustprinzips, 1920), in Id., La teoria psicoanalitica. Raccolta
di scritti 1891-1938, a cura di C.L. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 230.
80 A. de Villiers de l’Isle-Adam, À s’y méprendre!, cit., p. 130.
81 Ivi, p. 131.
82 Ibidem; corsivo dell’autore.
[ 18 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 751
6. Grottesco, animalizzazione, disumanizzazione
La disumanizzazione in cui incorrono i personaggi del Padrone può
ricevere, da una lettura sensibile agli accenti del fantastico che risuonano
nel romanzo, un nuovo significato. Il grottesco, che è onnipresente,
dai ritratti caricaturali alle procedure di animalizzazione per
arrivare fino al linguaggio fumettistico, è anche quello della grande
tradizione classica del fantastico83: ancora una volta, dunque, cambiano
i generatori dell’energia perturbante, dai castelli sinistri e dalle case
infestate si passa agli uffici, ai corridoi, alle sale di riunione, ma c’è
tutto un repertorio di temi, forme, strutture, che può adattarsi senza
fatica al nuovo contesto.
Il ritratto caricaturale è una delle procedure del grottesco più frequemente
adottate da Parise, in tutta la sua opera narrativa. Tanto per
fare un esempio, basta sfogliare i primi due capitoli della Grande vacanza
(1953) per assistere a una sfilata di sciancati, malati e pazzi, che
possono richiamare il modo in cui Arturo Loria – altro grande irregolare
del Novecento italiano che si è esercitato a più riprese nel fantastico
e nei generi affini – definiva i personaggi dei propri racconti: «un
popolo intero di deformi dall’anima nera»84. Nel rifugio fra ridicolo e
patetico di Beata Tranquilla si aggirano autentici freaks, come il parroco
mezzo cieco e dall’«unico dente lunghissimo, giallo, [che] sporg[e]
dal labbro inferiore»85, la signorina Cleofe, gobbetta maligna e ninfomane,
Giacomo Pertile, colto da una singolare forma di paralisi che lo
fa camminare «accucciato fino a terra […] rasentando le erbe con il
sedere»86, la cosiddetta Signora, che ha una mano di vetro e d’argento,
rovesciata all’esterno, e «muov[e] il palmo della mano come se fosse il
dorso»87, Bortolo, completamente cieco, «gli occhi lattei come due
83 Va ricordato a tal proposito uno studio di Maria Carla Papini, che si interessa
alla solidarietà tra fantastico e grottesco in Parise e altri scrittori: cfr M.C. Papini,
Le forme del grottesco nella satira del secondo Novecento: Palazzeschi, Volponi, Parise,
in «Italia magica». Letteratura fantastica e surreale dell’Ottocento e del Novecento, Atti
dell’VIII Congresso della MOD-Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria,
Santa Margherita di Pula (Cagliari), 7-10 giugno 2006, a cura di G. Caltagirone
e S. Maxia, Cagliari, AM&D Edizioni, 2008, pp. 501-518.
84 A. Loria, Racconto d’inverno, in Id., Fannias Ventosca (1929), pref. di L. Baldacci,
Firenze, Giunti, 1997, p. 53.
85 I, p. 152.
86 I, p. 167.
87 Ibidem.
[ 19 ]
752 stefano lazzarin
grossi opali macchiati e bucherellati in più punti»88, un contadino sifilitico89
e suo figlio demente e «idropico»90. Le cose non vanno diversamente
nel Padrone, fin dalle prime pagine: alla loro prima apparizione
i personaggi vengono ritratti da Parise in modo francamente caricaturale,
e di nuovo, l’oltranza espressiva è tale, da assumere sfumature
vagamente inquietanti. Ecco per esempio come si presenta l’usciere,
agli occhi del narratore appena giunto nella sede della ditta:
[…] ho fissato lo sguardo sulle sue scarpe rigonfie, tagliuzzate dall’eccesso
di lucido: così gonfie, storte e bitorzolute rivelavano la sagoma di
due piedi malformi e inadatti a camminare. L’uomo procedeva a passi
rapidi come per abbreviare in quel modo il tempo in cui il piede sarebbe
rimasto poggiato a terra a sostegno del corpo. Ho visto che soffriva,
ma celava questa sua sofferenza caracollando da tutti i lati come un
birillo dalla base di piombo, facendo sventolare la giacca91.
Lo stesso giorno, un po’ più tardi, il protagonista fa la conoscenza
del dottor Bombolo:
Dietro una scrivania di metallo c’era un uomo grassissimo […]. L’uomo
ha riso, con una risatina che sembrava uno strido e al tempo stesso un
nitrito. Rideva di gusto, sobbalzando come una palla sulla poltroncina
girevole, e le lacrime hanno cominciato a scorrergli sulle guance in tale
abbondanza che ha dovuto cavare di tasca il fazzoletto e asciugarle92.
Parise sviluppa la sua vena grottesca soprattutto in una serie impressionante
di paragoni animali. E anche l’«animalizzazione»93 è una
costante della sua scrittura: basterà pensare alle metafore animalesche
che compaiono in Amore e fervore (Atti impuri) – dove lo zio Mariano
viene descritto come un «longevo uccello tropicale»94, e le zie Ester e
Miriam, «chiamate “le gazze bianche”», sono le protagoniste di «una
trasmigrazione inversa di anime, dal regno della fauna a quello
dell’uomo»95 – e soprattutto nel Prete bello. Non c’è quasi pagina del
88 I, p. 170.
89 Cfr I, p. 177.
90 I, p. 179.
91 I, p. 840.
92 I, pp. 874-875.
93 Desumo questa nozione dal classico G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento
(1971), Milano, Garzanti, 1996, p. 85, che la applica ai testi di Federigo Tozzi, e in
particolar modo alla raccolta Bestie (1917).
94 I, p. 705.
95 I, p. 706.
[ 20 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 753
romanzo del 1954 senza ‘animetafora’96, al punto che, fra gli interpreti,
taluni hanno potuto considerare questa altissima frequenza di metafore
animalesche tendenti al grottesco come un fattore di disgregazione
dell’impianto neorealistico e ‘oggettivo’ del romanzo97, e altri, interrogandosi
sull’«impasto di patetico e caricaturale» come procedimento
fondante della scrittura di Parise, hanno scelto proprio le immagini
animali e proprio Il prete bello come terreno d’indagine98. Ma per restare
al Padrone, anche il romanzo del 1965 contiene un repertorio completo
di immagini di questo tipo; eccone alcuni esempi: Lotar ha «una
natura scimmiesca»99 e la sua figura malinconica rammenta «certi vecchi,
enormi oranghi dello zoo»100; il dottor Diabete colpisce l’attenzione
per gli occhi che «sporg[ono] e rientr[ano] nelle orbite come quelli
di una rana»101; il dottor Max è «simile a […] un grosso insetto ferito»,
il «timbro della [sua] voce» fa pensare «allo strido, flebile ma al tempo
stesso sibilante e aggressivo di un insetto ferito»102, e la sua mano è
«debole, secca e avvizzita nel palmo come certe zampe»103; la «risata»
dell’usciere della ditta risulta «simile a uno squittio»104; Orazio il pittore
scocca al protagonista uno «sguardo aggressivo e porcino»105; la segretaria
di Bombolo, all’arrivo del dottor Max, si dilegua «come una
farfalla»106; Bombolo stesso, come si è visto in precedenza, prorompe
in una «risatina che sembrava uno strido e al tempo stesso un
nitrito»107, e «[s]guscia come un topo dentro l’ascensore»108; Uraza
sfoggia un «sorriso [che] ha qualche cosa […] di tenebroso e di ghiacciato
come potrebbe essere il sorriso di una zanzara»109; e via di segui-
96 Per questa categoria – e per la complessa teorizzazione che la sorregge – si
veda P. Trama, Animali e fantasmi della scrittura. Saggi sulla zoopoetica di Tommaso
Landolfi, introd. di I. Landolfi, Roma, Salerno Editrice, 2007.
97 Cfr P. Petroni, Invito alla lettura di Parise, Milano, Mursia, 1975, passim.
98 Alludo all’importante saggio di E. Sanguineti, In margine al «Prete bello», in
Id., Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1977, pp. 164-176 (la citazione si
legge ivi, p. 175).
99 I, p. 837.
100 I, p. 838.
101 I, p. 843.
102 I, p. 856.
103 I, p. 857.
104 I, p. 864.
105 I, p. 866.
106 I, p. 874.
107 Ibidem.
108 I, p. 916.
109 I, p. 934.
[ 21 ]
754 stefano lazzarin
to. L’animalizzazione interessa a volte intere sezioni del romanzo, come
nell’occasione in cui il dottor Max, smascherando una menzogna
di Bombolo, va su tutte le furie; la sua è quasi una metamorfosi, cui
manca davvero poco per diventare letterale, immergendo il lettore in
qualche perturbante universo fantastico:
Il dottor Max lo ha guardato in quel modo che avevo già notato, di insetto
pungente: si è fatto giallo, gli occhi sono spariti tra le due fessure
delle palpebre, la secrezione biancastra è apparsa agli angoli della bocca
e tutto il corpo si è rimpicciolito e incurvato sulla sedia, in una successione
di piccoli fremiti che partivano dalla nuca e finivano alla
schiena110.
7. Il fumetto come linguaggio dell’alienazione
Grottescamente disumanizzati e animalizzati, i personaggi del Padrone
vengono inoltre ridotti a silhouettes da fumetto. Dicendo questo,
non intendo ovviamente negare che questa forma espressiva sappia
rappresentare adeguatamente la complessità del reale; ma il modo in
cui Parise usa il linguaggio del fumetto, nel Padrone, equivale a uno
schiacciamento della figura umana: il personaggio a tutto tondo diventa
una sagoma di carta, e da tridimensionale che era si fa bidimensionale.
Vale la pena di ricordare, preliminarmente, che gli anni dell’infanzia
e della giovinezza di Parise – nato nel 1929 – sono anche quelli del
boom dei fumetti. Gli anni Trenta e Quaranta sono stati definiti
l’«epoca d’oro» dei comics, «vissuta anche in Italia grazie all’opera di
due editori: Nerbini di Firenze e Mondadori di Milano»111. Le prime
storie di Walt Disney compaiono nel 1930, Tarzan nasce nel 1929,
Mandrake nel 1934, l’Uomo mascherato nel 1937; sempre nel 1937 inizia
la pubblicazione di Salgari a fumetti; il 24 ottobre 1934 esce a Firenze,
da Nerbini, il primo numero del settimanale L’Avventuroso112. Lo
stesso Parise ha confessato una vera e propria infatuazione per Mandrake
e l’Uomo Mascherato113. La passione dello scrittore vicentino
per il mondo dei fumetti, che emerge già a più riprese nel romanzo
d’esordio, Il ragazzo morto e le comete (1951), trova conferma, a distanza
110 I, p. 876.
111 B.P. Boschesi, Manuale dei fumetti, Milano, Mondadori, 1976, p. 21.
112 Cfr ivi, pp. 21-24, e passim.
113 Su questo punto, cfr P. Petroni, Invito alla lettura di Parise, cit., p. 20.
[ 22 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 755
d’anni, nell’onomastica del Padrone. Come ha notato più volte la critica,
nel testo che ci interessa si trovano numerosi nomi disneyani, come
quelli degli impiegati Pluto e Pippo, del pittore Orazio e di Minnie, la
fidanzata del dottor Max. Il padre di quest’ultimo, messo al corrente
del fidanzamento del figlio, lo aggredisce in modo poco elegante ma,
per chi si interessi alla costante fumettistica nel romanzo, eloquente:
Senti, scemo, è vero che la tua ragazza si chiama Minnie? Ma Minnie
non è la moglie di Topolino? […] allora tu diventi Topolino se sposi
Minnie. Anzi no, diventi Paperino perché Paperon de’ Paperoni sono
io, hai capito? Ma va’ là, Topolino, cosa vuoi arrabbiarti tanto…114.
Del resto, abbiamo già visto che il padre del dottor Max si chiama
Saturno: nome che rimanda indubbiamente alla mitologia, ma anche
– e direi soprattutto – alla fantascienza a fumetti degli anni Trenta e
Quaranta. Presso i Romani, come è noto, Saturno è il padre di Giove,
divinità somma del pantheon latino (nel pantheon greco, il primo corrisponde
a Khrónos o Crono, il secondo a Zéus o Zeus). Nel romanzo di
Parise, il nome Saturno collima con le funzioni di fondatore della ditta
e capostipite della schiatta dei padroni, proprio come il nome del dottor
Max combacia con l’aspirazione del figlio a «sostituirsi nell’esercizio
del potere al padre Saturno che questo potere ha costruito»115; in
merito, Zanzotto ha proposto una spiegazione ingegnosa, che mi pare
si possa accogliere: Max=massimo=Giove116, per l’appunto figlio di
Saturno. Insomma anche questo Saturno divora i propri figli, i quali
cercano, naturalmente, di fargliela pagare.
Ma accanto a questa pista onomastica, per così dire alla portata di
tutti, ve n’è una che potremmo definire ‘per intenditori’. Saturno sembra
rinviare alla serie a fumetti Saturno contro la Terra, scritta da Cesare
Zavattini, Federico Pedrocchi, Giovanni Scolari e altri, e pubblicata in
Italia tra il 1936-1943 e il 1945-1947117. La serie narra
[…] la lotta del nostro pianeta contro i politici e gli scienziati di Saturno
che tentano in tutti i modi di conquistare la Terra. I saturniani, che indossano
un elmo a cresta di gallo ed hanno gli occhi stranamente sporgenti,
si nutrono esclusivamente esponendosi a dei misteriosi raggi
energetici e si valgono di armi sconosciute e terribili118.
114 I, p. 939.
115 I, p. 932.
116 Cfr A. Zanzotto, Introduzione, I, p. XIX.
117 Cfr B.P. Boschesi, Manuale dei fumetti, cit., pp. 173-174.
118 Ivi, p. 174.
[ 23 ]
756 stefano lazzarin
Che Saturno rimandi agli invasori spaziali piuttosto che agli dèi
greci e latini sembra confermato dal nome del direttore generale della
ditta: Rebo – personaggio di cui riparlerò – è infatti uno dei quattro
terribili capi dei saturniani (Nutor, Darfo, Berco sono gli altri tre)119. Ai
fumetti di fantascienza appartiene anche il nome di Uraza, moglie di
Saturno e madre del dottor Max: si tratta infatti della regina degli uomini
magici nei fumetti di Flash Gordon, e nemica acerrima dell’eroe.
Sempre nella serie di Flash Gordon, va segnalato, fra l’altro, il nome
del ministro della giustizia del regno sottomarino di Coralia: un ‘Plutone’
che può aver contribuito a indirizzare la scelta di Parise verso il
nome Saturno (proprio come Saturno, Plutone designa, oltreché una
divinità antica, uno dei pianeti del sistema solare)120.
Le piste onomastiche che rimandano alla cultura fumettistica di
Parise non finiscono qui. Lotar, il portiere-scimmia e fedelissimo del
dottor Max, «servo nato» e «individuo […] [e]terodiretto per obbedienza
e autodiretto per fede»121, è omonimo del servitore di Mandrake:
«un colossale negro di origine nubiana, forte come dieci uomini
messi insieme e vestito soltanto di una pelle di leopardo»122. Come il
Lotar dei fumetti, quello di Parise è a tal punto affezionato ed efficiente
da poter essere definito – così nel romanzo – «una macchina che
funziona perfettamente e un cuore che ama appassionatamente»123.
Ancora un esempio, e di questo la critica non si è mai accorta, almeno
a mia conoscenza124: il dottor Bombolo, l’impiegato dall’ilarità costante
e senza freni, porta il nome di un Settimanale umoristico per ragazzi
dai 6 ai 90 anni (è il sottotitolo della pubblicazione), periodico a fumetti
degli anni Trenta, edito dalla SAEV, Società Anonima Editrice Vecchi
(direttore responsabile: Gastone Marzorati). Bombolo pubblicava, fra
l’altro, la trasposizione a fumetti di gags di popolari attori del cinema
comico muto, fra cui Stan Laurel e Oliver Hardy; ne uscirono 40 numeri
fra il 21 giugno 1934 e il marzo 1935. A partire dal marzo 1935, il
titolo cambiò e divenne Cine comico (62 numeri fino al maggio 1936)125.
119 Cfr ibidem.
120 Su Flash Gordon e gli altri personaggi di questo fumetto, cfr ivi, pp. 171-172.
121 I, p. 964.
122 B.P. Boschesi, Manuale dei fumetti, cit., p. 83.
123 I, p. 967.
124 Non vi accenna neppure uno specialista di cultura e letteratura popolare
come Giuseppe Lippi, che al Padrone ha dedicato un breve saggio, ricco di osservazioni
sul ruolo del fumetto all’interno del romanzo: cfr G. Lippi, La voce del padrone
ovvero: Non voltarti, non osare, «Robot», IX (2011), n. 23, pp. 67-72.
125 Notizie attinte dal sito http://www.lfb.it/fff/fumetto/test/b/bombolo_
[ 24 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 757
A uno sguardo più attento, e come segnala Zanzotto nella più volte
citata Introduzione alla mia edizione di riferimento, sono individuabili,
nel Padrone, due principali serie onomastiche provenienti dai fumetti:
gli impiegati – e più in generale gli inferiori – portano nomi provenienti
dai fumetti di Topolino; per i padroni, Parise attinge invece alla
fantascienza: «i nomi dei padroni, nelle gerarchie situazionali con risonanze
metafisiche e kafkiane, vengono tratti […] dalla fantascienza
più dozzinale»126. Questo concorrerebbe a spiegare perché Saturno,
nell’intento di ferire il dottor Max e sminuirne l’autorità, lo chiami
«Topolino» e «Paperino»127: i nomi Disney sono prerogativa dei dipendenti
e certificherebbero, qualora fosse riconosciuta la loro attendibilità,
l’avvenuta decadenza del dottor Max dalla stirpe dei padroni e la
sua virtuale assegnazione a quella dei servi.
Non soltanto l’onomastica del Padrone appare fortemente indebitata
con il corpus della letteratura fumettistica degli anni Trenta e Quaranta,
ma Parise dedica varie pagine del suo romanzo alla mimesi del
linguaggio dei comics. In tal senso, il personaggio chiave è Minnie, cui
viene affidata la direzione della rinata «biblioteca circolante della
ditta»128: Minnie provvederà subito a «elimina[re] romanzi e saggi polverosi
ed inutili»129 e a rimpiazzarli con altrettanti albi a fumetti (Parise
cita gli stessi cui ha attinto per forgiare i nomi dei suoi personaggi:
Mandrake, l’Uomo Mascherato, Flash Gordon, Superman, Paperino130,
e più tardi ricorda di nuovo «Superman, Nembo Kid o Topolino
»)131. I fumetti «sono la […] grande passione»132 di Minnie, anzi
la dominante e l’unica, al punto che la fidanzata del dottor Max sembra
uscita da una striscia, e non delle più elaborate; il linguaggio di
Minnie è composto essenzialmente da monosillabi e onomatopee da
fumetto, e più in generale il modo in cui gesticola, si esprime e si comporta
rimanda alle più elementari e stereotipate esclamazioni dei comics:
giorn.htm (data ultimo accesso: 27/07/2016); la serie è oggi rarissima, e le informazioni
relative poche e non facili a reperirsi.
126 A. Zanzotto, Introduzione, I, p. XXI.
127 I, p. 939.
128 I, p. 989.
129 Ibidem.
130 Cfr ibidem.
131 I, p. 998. In realtà, Nembo Kid è il primo nome italiano di Superman (cfr B.P.
Boschesi, Manuale dei fumetti, cit., p. 23).
132 I, p. 989.
[ 25 ]
758 stefano lazzarin
Le sue espressioni non si limitano ad atteggiamenti del volto e del corpo,
molto buffi, ma sono sottolineate da esclamazioni come: “Szip” se
fa una leggera carezza al dottor Max, oppure “Smak!” se gli dà uno
schiaffetto sulla guancia o sulle mani, oppure “Sbang!” se è un pugno
(gli dà anche pugni, ma sempre per scherzo), o “S-ciak” se gli dà un
bacetto, o “Ron-ron” se ha sonno o “Gron-gron-gron” se ha fame e così
via. Questi suoni sono accompagnati da gesti buffissimi: per esempio,
si incammina verso il dottor Max con aria di colpo minacciosa, a lunghi
passi ondulanti, i piedi divaricati e i pugni chiusi e protesi e
“Sbang!” gli dà un pugno. Poi sbatte le palpebre e le lunghe ciglia, incrocia
le dita in attitudine supplichevole e “S-ciak!” gli dà un bacione,
“Ruf-ruf” gli arruffa i capelli, “Splak!” si lascia cadere su una poltrona,
le braccia e le gambe divaricate e un palmo di lingua fuori.
Per il resto è del tutto normale133.
Al pari delle lingue straniere utilizzate a più riprese da Bombolo134,
questa parlata fumettistica di Minnie va considerata un sintomo della
disumanizzazione in atto nel mondo angoscioso e straniato del Padrone.
8. Meccanizzazione, robotizzazione, ‘rebotizzazione’
Se Minnie còmpita il linguaggio dell’alienazione, Rebo parla quello
della meccanizzazione: non è un caso che in un luogo del cap. VIII
questi due idiomi disumanizzanti, «i fumetti di Minnie e le lezioni di
Rebo», vengano esplicitamente accostati135. Nominato dal dottor Max
«direttore generale della ditta»136, Rebo viene battezzato dal narratore
«l’uomo simmetrico»137:
[…] quello che colpisce più di tutto in Rebo […] è la sua simmetria: la
parte sinistra del suo corpo, l’occhio sinistro, le braccia, le gambe e insomma
tutta la parte sinistra della sua figura è perfettamente uguale
alla parte destra dando così una stranissima sensazione di simmetria
come se Rebo non fosse un uomo con tutte le imperfezioni, asimmetrie
e infelicità […], ma un qualche cosa di artificiale e di meccanico che
mette in soggezione138.
133 I, p. 929. Altri esempi in I, pp. 930, 931, 990.
134 Cfr per esempio I, pp. 915 e 916.
135 I, p. 991.
136 I, p. 988.
137 I, p. 986.
138 Ibidem.
[ 26 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 759
Oltreché simmetrico, insomma, Rebo sembra sintetico; le singole
parti del suo corpo rivelano una fissità e una perfezione inquietanti:
I suoi capelli sono sottili, neri e lucenti e assomigliano a certe parrucche
di nailon dei manichini. Gli occhi sembrano di vetro, i denti di resina
plastica; senonché i capelli, gli occhi e i denti sono proprio suoi,
verissimi, non sono né di nailon, né di vetro, né di resina plastica. La
sua voce è una voce anonimamente virile, ma soave, con qualche cosa
di aspirato o sospirato come se uscisse da un piccolissimo apparecchio
interno ad alta fedeltà139.
Parise sembra ispirarsi, qui, ad analoghe descrizioni che compaiono
fin dagli albori della letteratura fantastica: possiamo pensare all’automa
femminile che Hoffmann mette in scena nel suo famoso racconto
Der Sandmann (Nachtstücke, 1817), quell’Olimpia che, nell’analisi del
primo teorico del perturbante, Ernst Jentsch, diventa l’esempio per
eccellenza dell’inquiétante étrangeté prodotta dall’incertezza circa la
possibile animazione di un oggetto inanimato140. Bambola meccanica
alla maniera ottocentesca, Rebo è anche un androide, o addirittura un
cyborg, in ossequio alla predilezione che il Novecento accorda a
quest’altra categoria di esseri artificiali: dai territori del fantastico ci
spostiamo allora verso quelli, contigui ma non coincidenti, della fantascienza.
Alla science-fiction rimanda forse un altro particolare della
descrizione parisiana; Rebo ha, secondo quanto recita il titolo di un
romanzo di Philip Kindred Dick, ‘i denti tutti uguali’: «Detto questo
ha chiuso la bocca, mostrando i denti candidi e scintillanti»141. Vale la
pena di riflettere su questo dettaglio sottilmente perturbante: quando
Rebo chiude la bocca, gli si vedono ancora tutti i denti; la chiude, insomma,
come farebbe un meccanismo: la bocca di Rebo è una sorta di
cerniera dentata, un ingranaggio che abbia preso l’apparenza di una
dentatura umana. E infatti, perfino la risata di Rebo è una «risata […]
simmetrica», nel senso che «dur[a] […] esattamente quanto […] [deve]
durare, non un istante di più, non uno di meno»142.
Né manca a Rebo la caratteristica più minacciosa degli automi e
139 I, p. 987.
140 Cfr E. Jentsch, Sulla psicologia dell’«Unheimliche» (Zur Psychologie des
Unheimlichen, 1906), in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi,
1983, pp. 397-410. Più particolarmente su Hoffmann, cfr ivi, pp. 406-407.
141 I, p. 988. Cfr P.K. Dick, L’uomo dai denti tutti uguali (The Man Whose Teeth
Were All Exactly Alike, 1984, postumo), introd. e cura di C. Pagetti, postfaz. di D.
Voltolini, Roma, Fanucci, 2006.
142 I, p. 1019.
[ 27 ]
760 stefano lazzarin
robot della tradizione fantastico-fantascientifica: l’intelligenza artificiale.
Il suo linguaggio è quello di un calcolatore elettronico: egli insiste
con forza sulla necessità di una «programmazione»143, imprescindibile
se si vuole ristrutturare e rilanciare l’azienda. I suoi pensieri
medesimi non sono umani, ma simmetrici:
Non c’è asimmetria nel suo volto, nelle sue mani, in tutto il suo corpo
e nemmeno nel suo modo di camminare e di parlare. Evidentemente
anche i suoi pensieri sono simmetrici, cioè possiedono la simmetria
delle parabole che si intravedono, misteriose e limpide, nei libri di alta
matematica144.
E proprio come accade in tante opere letterarie e cinematografiche
sull’intelligenza artificiale, anche i ragionamenti di Rebo, all’apparenza
inattaccabili, si rivelano, proprio per l’eccessiva proporzione matematica
che li contraddistingue, fallaci e pericolosi: a più riprese, nel
corso del colloquio del cap. IX con il narratore, il direttore generale
entra in crisi, spiazzato dalle risposte ‘troppo umane’ del suo interlocutore145.
Il nome stesso di Rebo, in un universo narrativo in cui l’onomastica
è costantemente allusiva, sembra contenere un ammicco agli
esseri artificiali. Volendo allontanare il sospetto che Rebo sia un automa,
il narratore osserva a un certo punto: «si potrebbe pensare a una
specie di robot che invece Rebo non è affatto»146. L’affermazione assomiglia
a una denegazione freudiana, anche per l’intensità di quel rafforzativo
finale, affatto, che rivela le difese psichiche erette dall’io. Rebo
un robot? L’ipotesi è suggestiva; RoBOt/ReBO: se consideriamo
che la ‘t’ del nome comune è muta, tre suoni su quattro coincidono;
inoltre, va sottolineato come entrambe le parole siano piane, per lo
meno se pronunciamo robot all’inglese (/’rəʊbɒt/), il che produce
un’ulteriore assonanza. Già sappiamo che la vera provenienza del nome
inventato da Parise è un’altra: ne sono responsabili i fumetti della
serie Saturno contro la Terra; ma non è impossibile che lo scrittore sia
stato tentato anche da questa pista onomastica supplementare.
Rebo è il caso più manifesto, ma nel Padrone sono frequenti – lo ha
notato ancora Zanzotto – gli «esseri in cui l’insetto e il robot si sovrappongono,
si identificano»147. La tematica dell’androide percorre tutto
143 I, p. 988.
144 I, pp. 986-987.
145 Cfr I, pp. 1019-1025.
146 I, p. 987.
147 A. Zanzotto, Introduzione, I, p. XXI.
[ 28 ]
tracce del fantastico nel padrone (1965) di goffredo parise 761
il romanzo di Parise148: a Rebo, programmatore umano o uomo artificiale,
viene a prestare man forte Lotar, che quando svolge le proprie
funzioni di sinistro infermiere appare «preciso come un robot»149. Nel
caso specifico, il lettore curioso di precedenti e accostamenti penserà
– per la straordinaria forza fisica del servo del dottor Max, abbinata
all’insensibilità nel realizzare gli ordini impartitigli – ai replicanti di
Blade Runner150, o meglio ancora ai terminators della serie omonima151;
sebbene non vada dimenticato che il nome ‘Lotar’ (di derivazione fumettistica,
come si è detto) figura anche nel racconto hoffmanniano
già menzionato, Der Sandmann, dove l’amico di Nathanael si chiama
per l’appunto Lothar. Perfino Minnie ha qualcosa di meccanico nel
suo modo di gestire e comportarsi. Ecco la sua prima apparizione sulla
scena del romanzo, quando si muove a scatti e in modo tra il goffo
e l’artificioso, prima di pronunciare due sole parole con tono così infantile
e articolazione tanto accentuata da rammentare le voci artefatte
e innaturali degli elaboratori elettronici:
La giovane donna si è avvicinata a noi camminando stranamente con
le gambe lunghe e tese, sorridendo e con un gesto simile a quello di
leccarsi i baffi: cioè sporgendo la lingua appuntita fuori dalle labbra, e
passandola da un angolo all’altro con un corrispondente movimento
degli occhi.
«Mollllto piacellle» ha detto e ha allungato di colpo la mano aperta152.
9. Per uno studio del Parise ‘fantasticizzato’
Atmosfere kafkiane, spettralizzazione del reale, animalizzazione e
metamorfosi, procedure del grottesco, temi del deforme e del mostruoso,
problematica dell’animazione dell’inanimato e della vita e
dell’intelligenza artificiale: i segnali della ‘fantasticizzazione’ del romanzo
di Parise sono molteplici, e altrettanto numerose le piste che,
come dicevo sopra, conducono al perturbante di matrice fantastica o
fantascientifica. Del resto, questa rassegna non è neppure completa;
148 Cfr ivi, p. XXII.
149 I, p. 956.
150 R idley Scott, 1982.
151 Che conta attualmente cinque episodi: Terminator (James Cameron, 1984);
Terminator 2: Judgement Day (James Cameron, 1991); Terminator 3: Rise of the Machines
(Jonathan Mostow, 2003); Terminator Salvation (McG, 2009); Terminator Genisys
(Alan Taylor, 2015).
152 I, pp. 928-929.
[ 29 ]
762 stefano lazzarin
un’indagine tematica rivelerebbe altri materiali significativi. È stato
possibile, ad esempio, individuare nel Padrone uno dei temi più frequentemente
ripresi dalla letteratura fantastica, il doppio: ed è vero
che il rapporto che si stabilisce fra il narratore e il dottor Max, emblematico
di quella dialettica servo-padrone che caratterizza tanti romanzi
e racconti della letteratura industriale, può essere letto anche
come un caso di antagonismo ai confini con lo sdoppiamento153. Altri
hanno osservato la ricorrenza, in tutta l’opera di Parise e pure nel romanzo
che ci interessa, di un «thème de l’enfermement» che si esprime,
fra l’altro, «par le biais de la métaphore ou de la comparaison
animale ou à travers le choix plus surprenant de l’hybridisme ou de la
métamorphose»154.
A fronte di tali sondaggi, però, la bibliografia sulle presenze del
fantastico in Parise si riassume, a mia conoscenza, in due soli titoli: un
articolo di Ilaria Crotti che risale a quasi quarant’anni fa, e in cui, peraltro,
il termine ‘fantastico’ che compare nel titolo viene subito rimpiazzato,
all’interno del contributo, da ‘surrealismo’155; e un saggio di
Paola Pepe, negli atti di un convegno promosso dall’Istituto per le
Lettere, il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini156:
ma anche Pepe pare poco interessata al fantastico, e preferisce indagare
sullo sperimentalismo narrativo parisiano inteso come ininterrotta
«decrittazione dell’assurdità del mondo»157. C’è insomma ancora molto
lavoro da fare su questo aspetto dell’opera parisiana – l’affinità con
le immagini e i procedimenti prediletti dalla letteratura fantastica –
che ha avuto il singolare destino di essere stato còlto dai primi lettori
di Parise, i quali seppero riconoscere i risvolti onirici del Ragazzo morto
e le comete, e di essere stato, in seguito, quasi sempre trascurato.
153 Sul tema del doppio nel Padrone si veda l’articolo di A. Sarrabayrouse,
«Arsenic» ou le renversement, in Les illuminations d’un écrivain, cit., pp. 149-163, e più
specificamente la sezione Doubles, ivi, pp. 153-156.
154 V. D’Orlando, Les palimpsestes d’un candide. Ombres et lumières dans l’oeuvre
de Goffredo Parise, sempre in Les illuminations d’un écrivain, cit., p. 29.
155 Cfr I. Crotti, Per una fenomenologia del fantastico nel primo Parise, «Sigma»,
XI (1978), n. 1, pp. 67-77.
156 Cfr P. Pepe, Novecento ‘fantastico’. Posizioni e funzioni della narrativa di Goffredo
Parise, in Goffredo Parise, Atti del Convegno, Venezia, 24-25 maggio 1995, a cura
di I. Crotti, Firenze, Leo S. Olschki, 1997, pp. 59-75.
157 Ivi, p. 73.
[ 30 ]
LUCA TORRE
Un “rattoppo” tipografico alla princeps dei Sonetti
et canzoni di Sannazaro
Una ricognizione sugli esemplari superstiti della princeps dei Sonetti et canzoni
di Sannazaro (1530) ha consentito di mettere in luce un piccolo incidente tipografico,
una svista compositiva rilevata in un luogo “forte” del testo (il titolo
che precede i componimenti della «prima parte» nella silloge). A partire dal rilevamento
di tale errore, corretto ingegnosamente in tipografia con un semplice
ed efficace espediente, è possibile svolgere qualche ulteriore considerazione
circa i primi anni di attività nel Viceregno dello stampatore alsaziano e aggiungere
una breve riflessione all’ampiamente dibattuta quaestio dell’assetto della
raccolta sannazariana.

An examination of the remaining copies of the first edition of the Sonetti et canzoni
by Sannazaro (1530) reveals a small printing accident, a typesetting error
found in an important position in the text (the title that precedes the poems in
the “prima parte” of the collection). Following the observation of this error, ingeniously
amended in the print house by means of a simple but effective expedient,
it is possible to offer several further thoughts concerning the early years
of activity in the Viceroyalty of the Alsatian printer and add a short reflection
on the widely discussed topic of the structure of Sannazaro’s collection.
La princeps delle rime di Sannazaro1 fu stampata a Napoli nel novembre
del 1530 dallo stampatore tedesco Johannes Sultzbach, verosimilmente
giunto nella città partenopea dall’Alsazia nel 1527 e attivo
dall’autunno del 15292. È noto come la raccolta, preceduta dalla dedi-
Università Federico II Napoli; torreluca0@gmail.com
1 SONETTI ET CANZONI / DI M. IACOBO SANNAZARO / GENTILHOMO
NAPOLITANO.
2 Cfr. P. Manzi, Annali di Giovanni Sultzbach (Napoli, 1529-1544 -Capua, 1547),
Firenze, Olschki, 1970, pp. 1-19; T. R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia
a Napoli nella prima metà del Cinquecento (1503-1553), Napoli, E.DI.SU., 1992, pp. 44-
55.
Meridionalia
764 luca torre
ca a Cassandra Marchese, sia costituita da una prima successione di 32
rime (cc. 1r-20r), da un secondo blocco di 66 componimenti (cc. 21r-
68r), peraltro annunciato da uno specifico e sobrio frontespizio (c. 20v,
sul quale spicca l’indicazione Parte seconda3), e da tre capitoli in terza
rima4 (cc. 69r-80r) manifestamente separati dalle liriche precedenti per
mezzo del verso bianco di carta 68 (e intervallati tra loro con identico
sistema alle cc. 70v e 75v)5. Il fascicolo iniziale, che contiene frontespizio
principale e lettera dedicatoria, non è dotato di segnatura né di
cartulazione.
Quello che segue è l’elenco delle biblioteche statali italiane che
conservano la princeps sannazariana6: Biblioteca Apostolica Vaticana,
segnatura Capponi IV.930; Biblioteca Nazionale di Firenze, Palat.
17.1.7.22; Biblioteca Governativa di Lucca, E.V.C.23; Biblioteca Nazionale
di Napoli, XXV.K.87 e XXVI.C.44; Biblioteca Marciana, 87.C.162.
Ai sopraelencati esemplari va aggiunto quello posseduto dalla British
Library, segnato 11426.h.20. Considerando la rarità del libro e la problematicità
del suo impianto strutturale, è opportuno fornire un’accurata
descrizione dell’edizione con dettagliata tavola dei contenuti:
SONETTI ET CANZONI / DI M. IACOBO SANNAZARO / GENTILHOMO
NAPOLITANO. /
Col., X6v: [fregio tipografico con motivo floreale raffigurante un trifoglio]
/ IMPRESSA / In Napoli per Maistro / Ioanne Sultzbach Alemano / Nel Anno
.M. D. XXX. del mese / di Nouembro, Con priuilegio del / Reuerendissimo
Illustris. Segnore Cardinale / Colonna che per .X. Anni in questo / Regno tal
opera non si possa / stampare, né stampata portarsi / da altre parti sotto la
pena / che in esso si contiene. / [fregio tipografico con motivo floreale raffigurante
un trifoglio] /
4° (195 x 140). [π] –V4, X6. cc. [4], 1-80, [6]
[π1r- π2v]: Bianche
[π3r]: frontespizio
[π3v]: bianca
3 PARTE / SECONDA / DE SONETTI / ET CANZONI DI M. / IACOBO
SANNAZARO / GENTILHO / MO NAPO / LITANO.
4 Lamentazione sopra al corpo del redentor del mondo ad mortali (cc. 69r-70r), Visione
in morte del Ill. Don Alfonso Davalo Marchese di Pescara (cc. 71r-75r), In morte di Pierleone
(cc. 76r-80r)
5 La struttura descritta è stata poi recepita dall’edizione critica curata da A.
Mauro (Opere volgari, Bari, Laterza, 1961).
6 Cfr. R. Fanara, Sulla struttura del Canzoniere di J. Sannazaro: posizione e funzione
della dedica a Cassandra Marchese, «Critica letteraria», xxxv (2007), p. 270n.
[ 2 ]
un “rattoppo” tipografico alla princeps dei sonetti et canzoni 765
[π4]: ALLA HONESTISSIMA / ET NOBILISSIMA / DONNA / CASSANDRA
MARCHESA / IACOBO SANNAZARO /
A1r-V4r: testi dei Sonetti et canzoni preceduti dal titolo SONETTI ET CAN
/ ZONI DEL / SANNAZARO. /
E4v: PARTE / SECONDA / DE SONETTI / ET CANZONI DI .M. / IACOBO
SANNAZARO / GENTILHO / MO NAPO / LITANO. /
F1r-R4r: testi della «Parte seconda» dei Sonetti et canzoni
R4v: bianca
S1r-S2r: testo di un capitolo ternario preceduto dall’intestazione LAMENTATIONE
SOPRA / AL CORPO DEL / REDENTOR DEL MONDO / AD
MORTALI. /
S2v: bianca
S3r-T3r: testo di un capitolo ternario preceduto dall’intestazione VISIONE
IN LA MORTE DEL / .ILL. DON / ALFONSO DAVALO MARCHESE / DI
PESCARA /
T3v: bianca
T4r-V4r: testo di un capitolo ternario preceduto dall’intestazione IN LA
MORTE DI / PIERLEONE /
V4r: FINE. /
V4v: bianca
X1r-X4r: [indice alfabetico dei componimenti]
X4v: bianca
X5r: ALLI LETTORI. /
X5v-X6r: [errata corrige]
X6v: colophon
Esemplare utilizzato: Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele
III”, XXVI.C.44
Ad eccezione della stampa custodita a Londra in cui la dedica appare
in fine al volume per effetto di un’inconsueta operazione di rimontaggio
del duerno introduttivo, negli altri esemplari la lettera a
Cassandra risulta regolarmente collocata dopo il minimale frontespizio,
in fronte alla prima parte delle rime7. Tuttavia la presenza delle
quattro carte iniziali avulse dall’ordo istituito dalla segnatura dei fasci-
7 Si fa riferimento alla meticolosa ricognizione presente in R. Fanara, Sulla
struttura del Canzoniere di J. Sannazaro: posizione e funzione della dedica a Cassandra
Marchese, cit., pp. 267-76. C. Dionisotti (Appunti sulle rime del Sannazaro, «Giornale
storico della letteratura italiana», cxl (1963), 161-211) evidenziò l’assenza di una
coerente successione cronologica nella progressione dei componimenti configurata
dalla stampa di Sultzbach, sottolineando tuttavia l’omogeneità del secondo
“blocco” formato dai componimenti 33-98. A rafforzare la tesi esposta in questo
celebre saggio contribuì l’anomala collocazione della dedica nell’esemplare londinese
visionato da Dionisotti (ivi, p. 178), sebbene il riposizionamento della lettera
[ 3 ]
766 luca torre
coli8 (A[1], infatti, compare sulla carta 1r del secondo duerno) rappresenta
una vistosa infrazione alle consuetudini tipografiche dell’epoca,
in base alle quali il frontespizio risulta solitamente annoverato nel
computo delle carte o comunque inserito nel corpo del primo fascicolo
(segnato): tale anomalia genera il sospetto che il duerno non numerato
sia stato composto a parte, magari in corso d’opera, a stampa
avviata o ultimata. Una soluzione adottata in presenza di sopravvenute
disposizioni editoriali, in altre parole.
Dei due esemplari della princeps conservati alla Biblioteca Nazionale
di Napoli, il primo, con segnatura XXVI.C.44, dotato di rilegatura
non coeva e incoerente con la fascicolazione, privo di due carte del
primo duerno, non tradisce anomalie tipografiche e appare complessivamente
in un buono stato di conservazione. L’altro, segnato
XXV.K.87, visibilmente danneggiato e mutilo del fascicolo iniziale
(non veicola quindi il primo frontespizio e la dedica a Cassandra Marchese),
mostra evidenti spie di restauro posticcio, diffuse macchie da
inchiostro ferrogallico e sparse tracce di bruciature. Reca inoltre un
guasto nella cartulazione all’altezza del duerno T, dal momento che
dopo c. 73r (T[1]) la carta successiva (T2) è erroneamente numerata 77
mentre l’ultima (T[4]) è contrassegnata in alto a destra con il numero
809. Il successivo fascicolo segnato V, sebbene l’esemplare presenti
margini maldestramente rifilati e le cifre risultino talvolta illeggibili,
pare rivelare l’avvenuto ripristino della corretta sequenza numerica,
poiché nell’angolo superiore destro del recto della prima carta si scorge
nuovamente il numero progressivo 7710.
a Cassandra Marchese non sembra costituire elemento sufficiente ad avvalorare
una lettura sequenziale e unitaria delle rime 1-99.
8 Come si desume dalla precedente descrizione analitica, negli esemplari integri
della princeps il duerno non numerato consta di due carte bianche, di una terza
carta occupata dal frontespizio sul recto e bianca sul verso, di una quarta recante la
dedica a Cassandra Marchese. Eccetto il ternione X (che contiene una tavola dei
componimenti in ordine alfabetico, un’avvertenza «Alli lettori», errata corrige e colophon),
con il quale si chiude il volume, tutti i fascicoli precedenti sono duerni (cfr.
R. Fanara, Sulla struttura del Canzoniere di J. Sannazaro, cit., p. 271).
9 Identico difetto è stato riscontrato nell’esemplare posseduto dalla Biblioteca
Marciana. Gli errori nella numerazione insistono sulla forma interna del fascicolo
segnato T: da un confronto delle forme di stampa interessate dall’intervento risulta
quindi che la correzione nella cartulazione realizza una variante di stato di livello
basico, dal momento che l’impianto della forma, per il resto, sembra non aver
subito modifiche.
10 La corretta numerazione delle carte che costituiscono il fascicolo è ovviamente
73r-76v, come nell’esemplare napoletano siglato XXVI.C.44.
[ 4 ]
un “rattoppo” tipografico alla princeps dei sonetti et canzoni 767
A c. 1r di questo secondo esemplare, nel titolo che introduce la prima
sequenza di rime (Sonetti et cansoni del Sannazaro, quasi una sorta
di primitivo e rudimentale frontespizio), la scriptio trasmette una palese
e inattesa svista tipografica, giacché il carattere S campeggia nella
posizione in cui il grafema Z avrebbe correttamente trascritto l’affricata
dentale sonora (cansoni), refuso che peraltro potrebbe essere il prodotto
di una grafia ipercorretta derivante da retroscrizione di un compositore
napoletano (o meridionale)11. In realtà è possibile distinguere
il vestigium di un minuscolo ritaglio di stampa che è stato applicato
sulla S ad emendare l’evidente errore commesso nella realizzazione
della forma tipografica (fig. 2): si può presumere che su questo carticino12
si leggesse convenientemente la lettera Z, in quanto in XXVI.C.44
la grafia corretta (canzoni) risulta ripristinata proprio mediante tale
artificio. Un’attenta osservazione della linea di stampa, infatti, consente
di apprezzare il risultato di un intervento di “restauro” consistente
nella sovrapposizione della Z alla S in corrispondenza della
danneggiata iscrizione (fig. 1).
La ricognizione effettuata sugli esemplari residui della princeps ha
evidenziato come, mentre il solo Palat. 17.1.7.22 presenta nel titolo
l’erronea scrizione cansoni (fig. 3), su quello conservato a Lucca (fig. 4),
quello posseduto dalla Vaticana (fig. 5) e quello della Marciana13 sia
11 L’attività editoriale di Sultzbach nel primo biennio 1529-1530 fu significativamente
limitata (in tutto quattro opere stampate, due per anno, tra cui la princeps
delle rime di Sannazaro; cfr. T.R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a
Napoli nella prima metà del Cinquecento, cit., pp. 132 e 142): può darsi che a quel
tempo la stamperia disponesse di un numero minimo di dipendenti, tra i quali uno
o due addetti alla composizione dei caratteri mobili, magari sprovvisti di una consolidata
esperienza nell’arte tipografica.
12 Sulla scorta degli studi di J. Vercruysse (Le carton: typologie et apports à la
textologie, in La bibliographie matérielle, présentée par R. Laufer [Table rotonde organisée
pour le CNRS par J. Petit], Paris, Editions du Centre national de la recherche
scientifique, 1983, pp. 103-13), G. Zappella sostiene che la “natura” del carticino
«può consistere in una semplice aggiunta, di estensione variabile, alla parte già
composta per proporre nuovo materiale testuale o illustrativo, oppure in una correzione
e sostituzione di uno stato precedente (testuale o illustrativo) con un altro.
Queste sostituzioni possono essere tipografiche (se riguardano la «mise en page»,
il numero delle righe, gli allineamenti, i titoli correnti ecc.) o testuali (se intervengono
sul testo: parole, punteggiatura, ortografia ecc.)» (Il libro a stampa: struttura,
tecniche, tipologie, evoluzione, Milano, Editrice Bibliografica, v. 1, 2001, p. 413). Ringrazio
la Prof.ssa Susanna Villari dell’Università di Messina per la preziosa consulenza
su alcuni aspetti della configurazione strutturale della princeps e sul piccolo
infortunio tipografico materia del presente studio.
13 U n rigraziamento particolare alla Sig.ra Maria Grazia Negri, Referente per
[ 5 ]
768 luca torre
stato attuato il medesimo intervento d’emenda riscontrato sull’esemplare
napoletano segnato XXV.K.8714. Si può dunque ragionevolmente
supporre che l’inserzione del carticino sia avvenuta nell’officina di
Sultzbach: terminato il lavoro di stampa e scomposta la matrice, deve
essere parso antieconomico e quindi inopportuno ricomporre la forma
tipografica per correggere un solo carattere e impiegare ulteriori
risorse di carta per produrre un nuovo fascicolo. I dati acquisiti, quindi,
concernono un campione statisticamente significativo e sembrano
confermare l’ipotesi di un intervento manuale su tutti gli esemplari in
circolazione, la traccia di un escamotage che potrebbe ulteriormente legittimare
le precedenti considerazioni circa le modalità d’acquisizione
del duerno iniziale all’organismo della princeps, considerando che il
titulus veicolato dal frontespizio primario (Sonetti et canzoni di M. Iacobo
Sannazaro gentilhomo napolitano) non presenta irregolarità né indizi
di rimaneggiamento.
Se l’inserimento del fascicolo iniziale è operazione credibilmente
seriore rispetto all’avvio delle procedure di stampa, non per forza la
collocazione della dedica a inizio volume convalida una sua coerente
funzione prefatoria all’intera struttura di Sonetti et canzoni15. La quaestio
dell’organicità della princeps è stata ampiamente dibattuta; è qui
sufficiente ribadire come un’esegesi rigorosa dei singoli frammenti lirici
renda assai problematica un’interpretazione finalizzata a ricondurre
il complessivo, impervio iter testuale ad un continuum poeticoesistenziale
di stampo petrarchesco16. Pertanto, rivelandosi quanto-
Incunaboli e Cinquecentine del Dipartimento Catalogazione e Sviluppo delle Collezioni
della Biblioteca Marciana, per la cortesia e la disponibilità.
14 I due esemplari napoletani, quello di Lucca e quello di Venezia sono stati
oggetto di esame diretto; per l’esemplare vaticano e quello londinese si è fatto riferimento
alle riproduzioni digitali a corredo di questa breve nota. Se la foto di c. 1r
della copia conservata alla Biblioteca Apostolica pare testimoniare l’avvenuta correzione
mediante carticino, qualche dubbio rimane per l’esemplare della British
Library (fig. 6), sul quale manca al momento una verifica immediata.
15 Per Dionisotti (Appunti sulle rime del Sannazaro, cit., p. 178) la perifrasi metaforica
con cui Sannazaro introduce il proprio lascito poetico («vane, et giovenili
fatiche […] finalmente in picciolo fascio raccolte») va riferita alla sola seconda sezione
(cioè alle rime 33-98). Sulla base delle indicazioni fornite nella dedica, Cassandra,
destinataria delle rime, avrebbe poi dovuto (con la sua «giusta bilancia
examinando») selezionare tra queste le migliori, in modo che «da tal principio le
studiose Donne assecurate, non si sdegnino leggere quelle che accettate saranno
da la ingeniosa et gran Cassandra».
16 Al riguardo si legga il recente lavoro di T. R. Toscano, Ancora sulle strutture
macrostestuali della princeps delle rime di Sannazaro: note in margine al commento del
[ 6 ]
[ 7 ] un “rattoppo” tipografico alla princeps dei sonetti et canzoni 769
Fig. 1. Biblioteca Nazionale “Vittorio
Emanuele III” di Napoli, esemplare
segnato SQ.XXVI.C.44, c. 1r (part.)
Fig. 2. Biblioteca Nazionale “Vittorio
Emanuele III” di Napoli, esemplare
XXV.K.87, c. 1r (part.)
Fig. 3. Biblioteca Nazionale Centrale
di Firenze, esemplare Palat. 17.1.7.22,
c. 1r (part.)
Fig. 4. Biblioteca Governativa di Lucca,
esemplare E.V.C.23, c. 1r (part.)
Fig. 5. Biblioteca Apostolica Vaticana,
esemplare Capponi IV.930, c. 1r
(part.)
Fig. 6. British Library di Londra,
esemplare 11426.h.20, c. 1r (part.)
770 luca torre
meno affannoso il tentativo di individuare nella stampa del 1530 una
raccolta predisposta da Sannazaro, rimane il dubbio che un ignoto
curatore, cedendo alle richieste degli amici del poeta recentemente defunto
o alle sollecitazioni del tipografo, possa aver operato in ossequio
a un disegno editoriale estraneo al testamento poetico configurato nella
dedicatoria. Non si può escludere che l’autore, oltre alle rime 33-99
lungo le quali si tende l’esile filo narrativo di un amore giovanile frustrato
e inesorabilmente rivolto al fallimento, abbia affidato a Cassandra
anche un corpus di testi di vario argomento, privo di organizzazione
diegetica e successivamente strutturato in modo da formare il primo
blocco (la serie 1-32) di Sonetti et canzoni, distinto dalla «Parte seconda
» tramite il nuovo frontespizio di c. 20v.
Il piccolo incidente tipografico qui segnalato, peraltro, convalida
ulteriormente quanto dichiarato nell’avviso «Alli lettori» che si legge
a c. 85r della princeps: l’anonimo autore della breve avvertenza denuncia
come fino a quella data le «opere» di Sannazaro non abbiano potuto
godere di edizioni tipograficamente affidabili e quindi adeguate
alla fama del loro autore, «essendo stampate a tempo che non di stampe
né di charta bona non si ha possuto havere commodità, né di maestri,
che habbiano cognitione di la lingua toscana».
sonetto 85 (in Classicismo e sperimentalismo nella letteratuta italiana tra Quattro e Cinquecento.
Sei lezioni [Atti del Convegno, Pavia, Collegio Ghislieri, 20-21 novembre
2014], a cura di Rossano Pestarino – Andrea Menozzi – Elena Niccolai, Pavia, Pavia
University Press, 2016, pp. 19-51) in cui, a compimento di un percorso di lettura
scandito da nuove ipotesi interpretative, vengono tirate le fila di un dibattito lungo
ormai un cinquantennio. Sull’argomento si rammentano i seguenti fondamentali
contributi: P. V. Mengaldo, Contributo ai problemi testuali del Sannazaro volgare,
«Giornale storico della letteratura italiana», cxxxix (1962), pp. 219-245; C. Dionisotti,
Appunti sulle rime del Sannazaro, cit.; C. Bozzetti, Note per un’edizione critica
del ‘Canzoniere’ di Iacopo Sannazaro, «Studi di filologia italiana», vol. LV (1997), pp.
111-126. Un tentativo di ravvisare una struttura unitaria nella princeps sannazariana
è stato effettuato da R. Fanara (Strutture macrotestuali nei “Sonetti et canzoni” di
Iacobo Sannazaro, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, 2000),
per la quale «un alto tasso di nessi sintagmatici» è riscontrabile anche nella prima
parte, mentre «fra le rime della prima e della seconda parte emergono legami e
rispondenze che autorizzano, almeno, ad ipotizzare che le due presunte raccolte
siano in realta membra di un macrotesto inteso e perseguito come tale» (ivi, p. 8).
[ 8]
Paolo Senna
Alvaro, Moravia, Montale:
tre interviste sulla repubblica (maggio 1946)
Nel maggio 1946, nel pieno del dibattito politico sulle elezioni del 2 giugno, il
quotidiano «l’Unità» pubblicò tre brevi interviste ad altrettanti celebri scrittori:
Corrado Alvaro (5 maggio), Alberto Moravia (15 maggio) e Eugenio Montale
(29 maggio). I testi, che non risultano essere stati successivamente ripresi nelle
edizioni delle opere degli autori e che vengono ripubblicati in questa nota, rappresentano
l’interessante contributo di questi intellettuali alla discussione intorno
alla forma istituzionale dello stato che sarebbe stata scelta con il referendum
e ne documentano il pensiero politico nell’imminenza di quell’importante
appuntamento storico.

In May 1946, in the thick of the political debate regarding the election of 2 June,
the daily “L’Unità” published three short interviews with just as many wellknown
writers: Corrado Alvaro (5 May), Alberto Moravia (15 May) and Eugenio
Montale (29 May). The texts, that do not seem to have been later included in
the editions of the authors’ writings and that are here republished, represent an
interesting contribution of these intellectuals to the discussion surrounding the
institutional form of the state due to be selected by the referendum, documenting
their political thinking immediately before that important historical date.
Il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale si concretizzò l’aspirazione
più alta del popolo italiano a decidere della propria sorte,
dopo gli anni oscuri e tragici della dittatura, della guerra e della guerra
civile. La scelta fra monarchia e repubblica, trasversale fra le forze
politiche e gli strati sociali,1 si caricava anche di un enorme valore sim-
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; paolo.senna@unicatt.it
1 Alcuni partiti avevano scelto di appoggiare la forma repubblicana già all’indomani
della decisione per l’indizione del referendum e delle votazioni per l’Assemblea
Costituente, entrambe previste per il 2 giugno: è il caso del Partito comunista,
del Partito socialista, del Partito repubblicano, del Partito d’azione e del
Partito democratico repubblicano. La Democrazia cristiana invece non prese subito
una posizione e anzi sembrò sulle prime optare per una scelta conservativa
Contributi
772 paolo senna
bolico: l’atto stesso di decidere la forma istituzionale del proprio stato
veniva infatti a coincidere con la concreta possibilità per gli italiani –
usciti da un tormentato ventennio di «vacanza morale» – di recuperare
la smarrita dignità del singolo e del vivere civile, come ben aveva
saputo illustrare Francesco Flora:
Così non soltanto la dignità morale d’Italia fu insozzata da quel fascismo
che rispettava l’orario ferroviario, non però gli impegni della coscienza;
[…] La vacanza morale dell’Italia ha avuto il suo tragico castigo.
Ogni italiano, secondo le sue forze deve ora riacquistare la sua responsabilità,
la sua dignità di uomo, nei gradi vari della convivenza
sociale. Questo e non altro deve significare per noi l’abusata parola
«democrazia».2
Gli schieramenti avevano dato vita a una battaglia di propaganda
che non risparmiava colpi e respiri, in particolare dopo le elezioni amministrative
del marzo 1946 la cui correttezza aveva sì dimostrato la
«maturità» del popolo italiano ad autoregolamentarsi,3 ma al contempo
dell’istituto monarchico, probabilmente nel timore, non infondato, che la repubblica
che sarebbe uscita dal referendum potesse non essere di marca democristiana
ma piuttosto socialcomunista. Anche molti esponenti del clero erano orientati verso
il mantenimento della monarchia. Solo con il congresso della Democrazia cristiana
del 24-28 aprile il partito si pronunciò a maggioranza per la repubblica; ma
non mancarono voci di dissenso e anche De Gasperi nella sua relazione al congresso
non prese una posizione. L’ultimo partito a pronunciarsi fu il Partito liberale – al
quale apparteneva anche il decano degli intellettuali Benedetto Croce – che si
espresse il 29 aprile in favore della monarchia (Cfr F. Etnasi, 2 giugno 1946: repubblica
o monarchia?, prefazione di U. Terracini, Roma, Dies, 1966, pp. 161-190). Per
un bilancio a caldo dei rapporti fra gli strati sociali e il sentimento repubblicano si
veda C. Alvaro, Repubblica italiana, «Mercurio», III, n. 19-20, marzo-aprile 1946,
pp. 9-14. Sulle riflessioni degli intellettuali sul referendum, oltre alle pagine dedicate
dal volume di Etnasi, si vedano P. L. Ballini, Il referendum del 2 giugno 1946, in
Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie
repubblicane, a cura di M. Ridolfi, Milano, B. Mondadori, 2003, pp. 222-229
e Dalla monarchia alla Repubblica: 1943-1946: la nascita della costituzione italiana, a
cura di E. Santarelli, Roma, Editori Riuniti, 2006.
2 F. Flora, Quel che ha rovinato l’Italia, «Mercurio», III, n. 17, gennaio 1946, pp.
5-9, a p. 9.
3 Cfr l’articolo redazionale Le elezioni apparso in «Rinascita», III, n. 3, marzo
1946, pp. 33-34, che sottolineava il «clima di libertà e democrazia» e «il grado di
maturità politica dimostrato dal nostro popolo» e chiudeva con queste parole:
«Con questo spirito il popolo italiano si prepara alle elezioni per l’Assemblea Costituente
e alla vittoria repubblicana del 2 giugno». Anche Arturo Jacchia pubblicò
un editoriale intitolato Maturità politica in relazione alle elezioni amministrative
(«Il Giornale del Mattino» (Roma), 10 aprile 1946, p. 1) e sull’«Unità» il 12 marzo
[ 2 ]
alvaro, moravia, montale 773
aveva offerto il destro ai sostenitori della monarchia per affermare che
soltanto essa potesse essere l’unica vera garante della regolarità e della
continuità degli apparati istituzionali. Il dibattito ferveva da più parti e
trovava sfogo nelle possibilità offerte dagli strumenti di comunicazione:
radio, stampa d’occasione (manifesti e volantini) e soprattutto stampa
quotidiana. I fautori della monarchia facevano presa sul timore della
popolazione, risvegliando malsopite paure, e indicavano nell’istituto
monarchico l’unico in grado di garantire continuità istituzionale e stabilità
politica al paese. Per costoro l’opzione repubblicana sarebbe stata
un vero e proprio «salto nel buio»,4 una adesione a una strada nuova,
ignota e impervia, dal futuro incerto. I fautori della repubblica invece di
guardare esclusivamente alle, invero drammatiche, certezze del passato,
spingevano gli elettori a volgersi al futuro: incerto, è vero, ma la cui
inedita positività era assicurata dalla reale esperienza di libertà e dalla
possibilità di autodeterminazione del popolo italiano, che avrebbe scelto
democraticamente i propri rappresentanti e, in sostanza, avrebbe
scommesso su se stesso, mettendo a capitale il proprio destino.
Anche i letterati assunsero posizioni ferme.5 Una delle occasioni
più significative fu però senza dubbio la stesura del ‘manifesto’ compilato
dall’Unione Intellettuali Italiani6 che alla fine del mese di maggio
si fece promotrice di un invito al popolo italiano per sollecitarlo a
apparve un articolo di apertura intitolato Le elezioni si sono svolte nell’ordine e nella
calma che riferiva: «un altro significativo risultato della maturità popolare è stato
quello della enorme percentuale dei votanti».
4 «Guardatevi dai salti nel buio!» era uno slogan apparso di frequente sui volantini
filomonarchici, come in quello del Casti (Comitato Americano Sostenitore
Tradizioni Italiane, con sede a New York) riprodotto nelle pagine di tavole (non
numerate) da F. Etnasi, 2 giugno 1946, cit.; ma era utilizzato anche da molti oratori
politici e da diversi esponenti del clero (ivi, p. 219).
5 Cfr per un puntuale sguardo d’insieme A. Nozzoli, La nascita della Repubblica:
immagini, ricordi, racconti, in La letteratura e la storia, Atti del XI Congresso Nazionale
dell’ADI, Bologna-Rimini 21-24 settembre 2005, a cura di E. Menetti e C.
Varotti, prefazione G.M. Anselmi, Bologna, Gedit, 2007, pp. 183-205. La studiosa
sottolinea l’effettiva «latitanza» della nascita della repubblica nei romanzi degli
scrittori italiani ma rileva quanto di quell’importante dibattito i letterati svolsero
invece sui periodici, in particolare «Mercurio», «Il Mondo» di Firenze e, in parte, il
«Politecnico» di Vittorini.
6 L’Unione Intellettuali Italiani nacque ufficialmente nel marzo 1946 per volontà
di un nucleo di intellettuali romani composto da Corrado Alvaro, Gilberto
Bernardini, Mario Camerini, Luigi Kambo, Concetto Marchesi, Alberto Moravia,
Goffredo Petrassi, Luigi Ronga, Natalino Sapegno, Gino Severini, Bruno Scanferla.
Ebbe sede in via Quattro Fontane n. 20 a Roma (cfr A. Giolitti, L’Unione Intellettuali
Italiani, «l’Unità» (Roma), 24 marzo 1946, p. 2).
[ 3 ]
774 paolo senna
votare a favore della Repubblica. Lo scritto uscì sull’«Unità» il giorno
28 del corrente mese, in prossimità quindi del voto.7 Il testo che comparve
anonimo venne in realtà redatto almeno nella sua parte più consistente
da Corrado Alvaro, uno degli scrittori più decisamente schierati
a favore della repubblica e tra i più attivi nella pubblicistica coeva.
Come si legge in queste righe, Alvaro e gli scrittori a lui solidali miravano
a ridurre la distanza tra intellettuali e le masse ed anzi sottolineavano
la necessità di «fare tutt’uno col popolo, ricongiungersi ad esso,
in esso riconoscersi, dargli una voce, sostenerlo nella lotta per la repubblica
»: gli intellettuali non intendevano dunque proporsi per guidare
dall’alto l’azione politica, ma desideravano favorire l’ascesa delle
classi fino ad allora considerate subalterne, giacché giudicate invece
«mature» a guidare la nazione attraverso i loro rappresentanti liberamente
eletti. Alvaro tornò a parlare del «manifesto degl’intellettuali
italiani per la Repubblica» in un articolo successivo apparso sul «Tempo
», in cui riferiva che esso era stato stilato da un gruppo di intellettuali
romani e venne fatto circolare «non senza esitazione» fra gli intellettuali
per saggiare il loro parere e per cercare adesioni.8 Alvaro ne
rifaceva la cronistoria e rivelava inoltre che
[…] il manifesto era stato messo intanto in circolazione nelle principali
città italiane. Ma un giornale romano, in possesso di quel foglio, credette
di darne indiscretamente notizia. Accadde così che alcuni si fecero
vivi per protestare di non essere stati invitati a firmare, considerando
ciò una mancanza di stima o di fiducia. Ci si dovette scusare dicendo
che quella pubblicazione era stata un’indiscrezione, e che la raccolta
delle firme non era ultimata.
È possibile che il «giornale romano» cui alludeva Alvaro fosse pro-
7 La monarchia denunciata come nemica della Patria dagli uomini più insigni della
cultura italiana, «l’Unità» (Roma), 28 maggio 1946, p. 1. Il testo – dall’evocativo e
quanto mai realistico attacco «L’esperienza del dolore è la prova dei popoli» – è
stato ripreso da F. Etnasi, 2 giugno 1946, cit., pp. 228-230, e, recentemente, in Dalla
monarchia alla Repubblica 1943-1946, cit., pp. 90-92.
8 C. Alvaro, Manifesto per la Repubblica, «Tempo» (Milano), n. 20, 1-8 giugno
1946, p. 22 (ripreso in F. Etnasi, 2 giugno 1946, cit., pp. 230-232). L’articolo apparve
corredato di due pagine (pp. 22-23) di fotografie di scrittori: Cardarelli, Piovene,
Ungaretti, Zavattini, Alvaro, Barilli, Savinio, Montale, Moravia, Saba, Broggini,
Alba De Céspedes, Maria Bellonci. La didascalia della foto di Alvaro recita: «Alvaro
è stato il promotore del manifesto che richiama nobilmente tutti, i professionisti
non meno degli scrittori e degli scienziati, alle responsabilità della loro alta funzione
». Il numero della rivista presenta anche un editoriale di Arturo Tofanelli dal titolo
Perché la repubblica (ivi, p. 10).
[ 4 ]
alvaro, moravia, montale 775
prio «L’Unità» che, s’è detto, pubblicò il manifesto il 28 maggio. In
quel giorno vennero infatti resi noti i nomi dei firmatari dell’appello
suddivisi in gruppi: scrittori e giornalisti, magistrati e giuristi, pittori
e musicisti, ufficiali, tecnici e professionisti, attori e registi, professori
universitari e insegnanti. Per limitarci alla sola casella degli scrittori e
giornalisti, in quel giorno comparvero tra gli altri nomi di assoluto rilievo
nelle patrie lettere: Corrado Alvaro, Carlo Bernari, Libero Bigiaretti,
Piero Bigongiari, Romano Bilenchi, Vincenzo Cardarelli, Carlo
Cassola, Libero De Libero, Enrico Falqui, Piero Jahier, Francesco Jovine,
Tommaso Landolfi, Carlo Levi, Eugenio Montale, Marino Moretti,
Guido Piovene, Umberto Saba, Alberto Savinio, Camillo Sbarbaro,
Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini.9 Dopo la pubblicazione giunsero
nuove adesioni tanto che il quotidiano dovette stampare altri due
elenchi, il 2 e il 4 giugno, a referendum ormai chiuso, probabilmente
con l’intento di ultimare quella «raccolta di firme» che si voleva il più
possibile inclusiva.10
9 Ecco l’elenco completo degli scrittori e giornalisti apparso il 28 maggio: Corrado
Alvaro, Michele Abbate, Mario Alicata, Barbara Allason, Michelangelo Antonioni,
Rosario Assunto, Sibilla Aleramo, Felice Balbo, Anna Banti, Umberto Barbaro,
Arnaldo Beccaria, Carlo Bernari, Luigi Berti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Libero
Bigiaretti, Piero Bigongiari, Romano Bilenchi, Aldo Bizzarri, Arnaldo Bocelli, Vittorio
Bodini, Alessandro Bonsanti, Giuliano Briganti, Edoardo Cacciatore, Nicola
Ciarletta, Ada Cagli della Pergola, Franco Cagnetta, Diego Calcagno, Guido Calogero,
Manlio Cancogni, Giorgio Candeloro, Vincenzo Cardarelli, Carlo Cassola, Enrico
Damiani, Giacomo Debenedetti, Libero De Libero, Ernesto De Martino, Eurialo De
Michelis, Giuseppe De Robertis, Guido De Ruggiero, Carlo Dionisotti, Antonio
D’Ippolito, Gino Doria, Massimo Dursi, Enrico Falqui, Tommaso Fiore, Vittorio Fiore,
Enzo Forcella, Arnaldo Frateili, Enrico Galluppi, Eugenio Garin, Ludovico
Geymonat, Natalia Ginzburg, Antonio Giolitti, Giorgio Granata, Pietro Grifone,
Giulio Guazzugli, Piero Jahier, Francesco Jovine, Stefano Landi, Tommaso Landolfi,
Giovanni Leone, Arrigo Levasti, Carlo Levi, Ettore Lo Gatto, Franco Lombardi, Michele
Lomaglio, Arturo Loria, Sabina Maggio, Gastone Manacorda, Gianna Manzini,
Ercole Maselli, Michelangiolo Masciotta, Massimo Mila, Eugenio Montale, Augusto
Monti, Carlo Morandi, Alberto Moravia, Marino Moretti, Umberto Morra,
Carlo Muscetta, Renato Nicolai, Fabrizio Onofri, Raniero Panzieri, Gabriele Pepe,
Giacomo Perticone, Giorgio Petrocchi, Guglielmo Petroni, Antonio Piccone Stella,
Guido Piovene, Mario Praz, Mario Puccini, Carlo L. Ragghianti, Antonio Russi, Umberto
Saba, Nino Sansone, Antonio Santangeli, Alberto Savinio, Camillo Sbarbaro,
Bruno Schacherl, Emilio Sereni, Adriano Seroni, Giacinto Spagnoletti, Ezio Taddei,
Arturo Tofanelli, Leone Traverso, Antonello Trombadori, Corrado Tumiati, Amedeo
Ugolini, Giuseppe Ungaretti, Brunello Vandano, Elio Vittorini, Cesare Zavattini.
10 Questo l’elenco degli scrittori e giornalisti del 2 giugno: Gino Amadesi, Gaspare
Cataldo, Luigi Compagnone, Sergio Ortolani, Michele Pellicani, Francesco
Pistolesi, Lelio Porzio, Giulio Peticcione, Anna Rossi Filangieri, Ettore Settanni,
[ 5 ]
776 paolo senna
Il quotidiano del Partito comunista – e il dato è forse meno noto –
realizzò in quello stesso mese di maggio anche tre interviste dal titolo
redazionale Perché voterò per la Repubblica ad altrettanti scrittori di fama.
11 Si tratta, nell’ordine di uscita, di Corrado Alvaro (5 maggio), Alberto
Moravia (15 maggio) e Eugenio Montale (29 maggio). I testi di
questi brevi colloqui non risultano essere stati ripresi nelle edizioni delle
opere dei tre scrittori e oggi, a settant’anni di distanza da quell’evento
storico, restituiscono quasi in presa diretta il pensiero che questi letterati
avevano maturato a proposito di quell’importante riforma istituzionale
e riflettono i loro auspici per il futuro prossimo della nazione.
Dei tre Corrado Alvaro fu senza dubbio il più impegnato politicamente:
lo testimoniano, oltre alla stesura del manifesto sopra citato,
anche la frequente presa di parola nel dibattito sulla forma istituzionale
e, più in generale, sulla vita civile, politica e sociale del nostro paese.
Nell’intervista apparsa sull’«Unità» Alvaro tornava sui legami pericolosi
della monarchia con «i rottami del fascismo», una forza oscura
ancora serpeggiante nella politica e nella società italiana, e con «i profittatori
e gli avventurieri» che avevano a cuore non il futuro dell’Italia
ma solo i loro interessi privati, insistenti in particolare nel Sud. A seguito
di questa intervista Alvaro venne preso di mira da Guglielmo
Giannini, fondatore del movimento dell’Uomo Qualunque, che dalle
pagine del «Buonsenso» accusava lo scrittore calabrese di aver avuto
benefici dal fascismo.12
Vitaliano Brancati, Carlo Bo, Alfonso Gatto, Bruno Barilli, Sabino Alloggio, Guido
Dorso, Cesare Pavese, Maria Luisa Astaldi, Ennio Flaiano, Tomaso Smith. Cui seguì
quello del 4 giugno: Gaetano Arcangeli, Ottorino Balestri, Luciano Bergonzini,
Antonio Bernieri, Enzo Biagi, Guglielmo Bonuzzi, Ezio D’Errico, Francesco Flora,
Adriano Grande, Francesco Liuni, Franco Matacotta, Walter Minardi, Salvatore
Quasimodo, Alfonso Silipo, Arnaldo Vaccheiri, Lionello Venturi, Emilio Villa, Paolo
Alatri, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi, Francesco Carchedi, Fortunato D’Errico,
Giansiro Ferrata, Ruggero Jacobbi, Emilio Lavanzino, Anna Maria Mazzucchelli,
Leonardo Sinisgalli, Sergio Steve.
11 Oltre a quelli oggetto di questa nota, «l’Unità» ospitò anche il parere dei
campioni d’Italia di calcio del Torino (Perché voteremo per la Repubblica. Rispondono
i campioni del Torino, «l’Unità» (Roma), 29 maggio 1946, p. 1; riferimento anche in F.
Etnasi, 2 giugno 1946, cit., p. 232) e presentò in parallelo due interviste, intitolate
Perché voterò per il Partito comunista, a Luchino Visconti (ivi, 12 maggio 1946, p. 3) e
ad Alberto Breglia (ivi, 19 maggio 1946, p. 1).
12 «Caro Direttore, | poiché ero fuori Roma nei giorni scorsi, leggo soltanto ora
quanto ha scritto sul mio conto il giornale “Buonsenso” in seguito alla mia intervista
con l’“Unità”. | È noto a tutti quanti mi conoscono in qualche modo, come io
non abbia mai fatto parte del partito fascista, e non per altro: ero stato redattore del
[ 6 ]
alvaro, moravia, montale 777
Lo scrittore avrebbe toccato poi gli stessi temi, ma stavolta commentando
gli esiti del quesito referendario, su «Mercurio», la rivista di
Alba De Céspedes, nel numero di marzo-aprile (ma in realtà uscito
poco dopo la votazione).13 In questo articolo, significativamente intito-
“Mondo”, fui bastonato, oggetto di persecuzione da giornali come ne fa il Giannini
ancora, sorvegliato e inibito per sei anni al mio lavoro. Contrariamente a quanto
afferma il “Buonsenso” non ebbi mai il premio Mussolini. Il mio libro L’uomo è
forte non fu scritto per rendere un servigio al fascismo. Ne fu dapprima interdetta
la pubblicazione dalla censura fascista, poi concesso mutilato alla stampa, e a riprova,
proibito nella traduzione tedesca. | Certo benefici del regime ne avrei potuti
ottenere, se avessi voluto, cento volte di più di quanto Guglielmo Giannini non
ne abbia ottenuti con le sue suppliche al duce, documentate dall’inchiesta compiuta
sul suo passato giornalistico. Evidentemente Guglielmo Giannini rifrigge le accuse
di benefici rivolte contro di me per radio da Alessandro Pavolini nei mesi
della resistenza, e cioè da quel Pavolini che sapeva bene di avere di suo pugno
dato ordini all’Ovra perché mi sorvegliasse come pericoloso e che non seppe mai
citare uno solo di quei benefici e di quelle prebende, egli che ne aveva i bilanci, per
la buona ragione che il mio nome non figurava nei suoi registri. | Poiché Guglielmo
Giannini si preoccupa di stabilire in quali giornali debba comparire la mia firma,
gli rammento due fatti. | Nell’imminenza del giornale qualunquista, il Giannini
mi sollecitò, per mezzo del suo confidente il disegnatore Girus, di fare causa
comune con lui “al di sopra dei rapporti che erano stati fra me e lui”. I quali rapporti
erano stati sempre cattivi perché più volte io ebbi a scrivere pubblicamente
del Giannini con la più sincera disistima. | Una seconda volta fui sollecitato da un
generale, di mettermi col Giannini e di creare rapporti fra i qualunquisti e l’on.
Nitti che stava per rientrare in Italia ignaro di queste manovre. Io confermai a quel
generale, il quale era fornito di grandi mezzi, la mia inalterabile disistima per
Giannini, gli dissi che il partito giannizzero era vuoto di idee, di forza politica e di
consistenza morale, gli dissi che uno dei segni migliori della vita italiana era che
quel partito non trovasse uomini di punta responsabili, rappresentativi, che gli
donassero un credito qualunque. Avvertivo inoltre che, non conoscendo l’on. Nitti
alcuni assurdi della situazione italiana, era pericoloso creare intorno a lui il sospetto
di connivenze col Giannini, ciò che avrebbe compromesso quanto di utile il
vergine uomo politico avrebbe potuto fare. Ciò purtroppo avvenne e, sono sicuro,
all’infuori della volontà dell’onorevole Nitti, per l’equivoco che i qualunquisti crearono
intorno a lui. | Certo è umiliante dovere dare spiegazioni a tipi come Guglielmo
Giannini, che la dittatura trattava da accattoni, di cui la monarchia si fa da
capipartito. Ma non per questo noi rimprovereremo la libertà. La libertà acquista
splendore a mano a mano che avanza il suo giorno, e dilegueranno i fantasmi della
dittatura, e anche quel fantasma da palcoscenico che è Guglielmo Giannini dileguerà.
| Grazie, caro Direttore, e coi più cordiali saluti. | Corrado Alvaro» (Alvaro
ci scrive, «l’Unità» (Roma), 10 maggio 1946, p. 1). Riferisce questo fatto anche Alessio
Giannanti ricostruendo la posizione politica di Alvaro nell’immediato dopoguerra
(cfr C. Alvaro, Scritti su Pirandello, introduzione e testo critico a cura di A.
Giannanti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, pp. 31-34).
13 C. Alvaro, Repubblica italiana, cit.
[ 7 ]
778 paolo senna
lato Repubblica italiana, Alvaro sottolineava l’estrema semplicità che
aveva contrassegnato la nascita della repubblica; al contempo, esprimeva
un giudizio sulla stampa, con particolare riguardo ai quotidiani
d’opinione e non di partito, che si era mostrata «nel suo complesso,
reazionaria, ambigua»;14 infine evidenziava la mentalità della borghesia
italiana (un tema questo su cui lo scrittore reiterò i suoi interventi)
che, al contrario di quella degli altri stati, aveva appoggiato indiscriminatamente
la monarchia:
La borghesia italiana s’è comportata come una classe parassitaria, e
non come è la borghesia classica, dotata di forze sue, e d’una capacità
14 A ragione Alvaro in Repubblica italiana, cit., sottolineava che i giornali di opinione
– a differenza dei quotidiani politici – avevano sviluppato poco o punto il
dibattito sull’imminente referendum istituzionale. A titolo di esempio, una testata
come «Il Messaggero» lasciò nel mese di maggio ampio spazio a questioni di carattere
internazionale, diede informazioni pratiche su come votare nella pagina dedicata
alla cronaca di Roma il 30 maggio e pubblicò alcuni articoli sulla necessaria
collaborazione delle forze politiche per la generale correttezza della campagna
elettorale il 30 maggio e il 1 giugno. Pubblicò poi l’esito del referendum il 6 giugno,
nell’articolo a tutta pagina Sabato sarà proclamata la repubblica. Qualche interesse in
più è rivelato dal «Tempo», in particolare in articoli di fondo di approfondimento
e riflessione sulla situazione attuale italiana (ad es.: Attico, Di fronte a noi stessi, 31
maggio 1946, p. 1 e [s.n.], Oggi l’Italia democratica decide il proprio destino, 2 giugno
1946, p. 1). Il giornale della dc «Il Popolo» dedicò più spazio alle elezioni per la
Costituente che non al dibattito sul referendum. Trattò tuttavia la questione Igino
Giordani nell’articolo di fondo Due vasi di cristallo, uscito il 22 maggio (nel quale
però attribuiva esplicitamente più valore alle votazioni per la Costituente che non
a quelle per il quesito referendario). Anche nell’imminenza del voto, il 1° giugno
l’articolo di apertura del «Popolo» (Rifletti elettore!) mirava a dare consigli all’elettore,
e teneva ben distinte le due schede e il significato delle due votazioni: «I deputati
che tu manderai col tuo voto alla Costituente non potranno mutare la forma
(monarchica o repubblicana) decisa col “referendum” dal popolo sovrano. Perciò
la tua preferenza per la “forma istituzionale” (monarchia o repubblica) non deve
determinare la tua scelta fra i vari partiti politici. […] Non dare ascolto ai partiti o
movimenti pregiudizialmente “repubblicani o monarchici”; essi ti ingannano perché
ti inducono a idolatrare la “forma” e a trascurare la “sostanza” della costituzione.
[…] Alcuni dicono che la repubblica sarà un salto nel buio; altri rispondono che
la monarchia ci ha già precipitati, coi disastri presenti, nel buio più pesto. Attento:
il salto nel buio non sarà determinato dalla forma istituzionale ma dalla qualità
della maggioranza dei deputati che il popolo manderà alla Costituente. La monarchia
costituzionale non sarà in grado di salvarci dalla sventura di una costituzione
totalitaria ed anticristiana se il popolo manderà alla Costituente una maggioranza
socialcomunista. La repubblica non sarà un pericolo se il popolo manderà alla Costituente
un insieme di forze cattoliche tanto vaste che possano imporsi per fondare
una Costituzione democratica e cristiana».
[ 8 ]
alvaro, moravia, montale 779
di rinnovarsi e di rinnovare lo Stato. Una borghesia intraprendente si
sarebbe buttata a questo mutamento di regime e lo avrebbe fatto anche
suo. È dunque la prima volta in Italia che un regime è rovesciato da
una volontà autenticamente popolare.15
L’intento di Alvaro era dunque quello di mettere insieme «popolo»
e «intellettuali» come fautori entrambi della repubblica e del progresso,
contro la «borghesia» che avrebbe favorito comunque un’opzione
monarchica e conservativa. Una posizione che risente innegabilmente
di sfumature ideologiche, ma che tuttavia incarna la consapevolezza
che a quell’altezza temporale Alvaro e in più generale gli intellettuali
avevano di collaborare attivamente alla nascita del nuovo stato e alla
riforma istituzionale e civile della nazione. In questo senso, dunque,
va letta l’imponente opera di sensibilizzazione della scelta repubblicana
e riformatrice condotta in primis da Alvaro sia presso gli intellettuali
(e prova ne è la stesura del manifesto sopra citato) sia presso l’opinione
pubblica, con la continuata presa di parola sulle pagine di riviste
militanti e soprattutto di quotidiani confessionali e di partito.
Anche l’intervista a Moravia esprime la ferma opposizione dello
scrittore per la monarchia dei Savoia, rei di difendere esclusivamente
i loro interessi privati nell’ottica di una concezione anacronisticamente
assolutistica del regnare, fatto che secondo lo scrittore aveva prodotto
la profonda mancanza di popolarità e di affezione verso la famiglia
regnante da parte del popolo italiano. Per Moravia la monarchia
aveva avuto la fondamentale colpa di non essere consapevolmente
presente ai bisogni del tempo e di aver governato in modo tanto egoistico
quanto sentimentalistico, con una cieca «indifferenza morale»
capace solo di salvaguardare se stessa. Infine lo scrittore avvertiva del
pericolo di ripetibilità degli errori della storia: la monarchia italiana
infatti sarebbe disposta, secondo Moravia, ad appoggiare ancora un
partito dalle caratteristiche simili a quello fascista pur di garantire la
continuità del proprio potere e dei propri interessi.
L’intervista a Montale è la più breve delle tre e, insieme, la più sug-
15 Ivi, p. 13. Metteva però in guardia da rigidi schematismi Eugenio Montale
nella recensione al libello di C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, Milano, Bompiani, 1945
(“Tra due guerre”, 1), apparsa anch’essa con il titolo L’Italia rinunzia?, dapprima in
«Il Mondo», n. 4, 19 maggio 1945, p. 6, e successivamente in Auto da fé (Milano, il
Saggiatore, 1966), e ora in E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a
cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996 (“I meridiani”), pp. 38-42. Dell’opuscolo
di Alvaro esiste anche una recente ristampa con introduzione di M. Isnenghi,
Roma, Donzelli, 2011.
[ 9 ]
780 paolo senna
gestiva poiché se Alvaro e Moravia pur nella loro indipendenza di
giudizio rappresentavano un punto di vista pressoché omologo agli
indirizzi del partito di cui l’«Unità» era l’organo d’informazione, lo
scrittore ligure testimoniava invece la posizione di un intellettuale autonomo
e svincolato dalle logiche di partito.16 Montale sottolineava
dapprima che era lo stesso istituto monarchico a offrire «possibilità
d’intrigo e corruzione» che, come tali, erano da considerarsi ormai improponibili
in un paese libero e rinnovato quale ambiva ed essere l’Italia.
Il poeta, poi, ammoniva sulla necessità che i partiti diventassero
«sempre meno teologici» e che anzi fossero in grado di «unire gli italiani
in vista di un lavoro comune da compiersi». Infine Montale additava
all’importanza della cultura, che fosse disinteressata rispetto al
potere, e che venisse posta come carattere fondativo non solo dell’erigenda
Italia ma dell’intera Europa. «Il nostro continente deve rinnovarsi
senza fare tabula rasa del suo passato»: un augurio, e insieme un
avvertimento, che ha mantenuto intatto il suo valore anche ai nostri
giorni, nei quali la riflessione sui caratteri e le sorti dell’Europa e diremmo
dello stesso vivere civile appaiono di stringente attualità.
APPENDICE
Nota ai testi
Si pubblicano i testi secondo la versione apparsa a stampa sull’«Unità» nel
maggio del 1946. I limitatissimi interventi riguardano l’inserimento della punteggiatura
ove strettamente necessaria e la normalizzazione delle maiuscole.
Nelle note ai singoli testi si omettono i riferimenti alla cronologia degli eventi
storici, del resto perspicui, relativi alla situazione italiana tra 1943 e 1945.
I.
Perché voterò per la repubblica. Risponde Corrado Alvaro, «L’Unità»
(Roma), 5 maggio 1946, p. 1.
Un nostro redattore ha intervistato, sulla questione istituzionale, Corrado Alvaro,
uno dei nostri maggiori narratori, famoso autore di Gente in Aspromonte.
16 Sulle posizioni politiche di Montale si vedano i saggi, non più recentissimi,
di U. Carpi, Il poeta e la politica. Belli, Leopardi, Montale, Napoli, Liguori, 1978 e di R.
Luperini, Montale o l’identità negata, Napoli, Liguori, 1984; si leggano inoltre P.
Buchignani, Il caso «Montale Vieusseux» e Marcello Gallian, «Nuova Storia Contemporanea
», n. 2, pp. 133-150 e, da ultimo, A. Nozzoli, La nascita della Repubblica, cit.,
in particolare le pp. 188-194.
[ 10 ]
alvaro, moravia, montale 781
– Vuoi dirci se voterai per la repubblica o per la monarchia?
– Un giornale settimanale romano,17 facendo alcune previsioni sull’atteggiamento
degli scrittori di fronte al referendum istituzionale, ha definito me
«incerto». Veramente, anche per iscritto, e in un mio opuscolo sulla situazione
italiana attuale,18 non ho mai lasciato dubbi su questo. Io voterò per la Repubblica.
In un manifesto che ho redatto rispecchiando le idee di gran numero di
intellettuali e mie,19 ho detto per quali ragioni oggi un cittadino italiano ha il
dovere di lottare per la Repubblica.
– Sarebbe interessante se tu le riepilogassi qui per i nostri lettori.
– Non elencherò qui quelle ragioni. Mi basta di segnalare, oggi, a quali
elementi la monarchia è alleata naturalmente, da chi è sostenuta, quali giornali
la appoggiano manifestamente o larvatamente, quale sia la campagna di
depressione e di perturbamento condotta da questi giornali, ai quali del resto
il Paese oppone un atteggiamento sicuro, l’atteggiamento di chi sa che si farà
da sé il suo destino.
– Non è difficile individuare questi elementi.
– Sono i rottami del fascismo i quali trovano nella monarchia la sola forza
che li possa recuperare. Essi ricordano bene che, dopo il 25 luglio, la monarchia
concepiva un neo fascismo successore del fascismo mussoliniano, e impedì
ai giornali liberi dei quarantacinque giorni, istituendo la censura, di procedere
alla liquidazione del fascismo.20
Bisognerebbe ritrovare gli ordini ai giornali, del Ministero della Cultura
Popolare sotto il governo Badoglio, per rileggere in essi quella manovra della
monarchia per il salvataggio del fascismo erede della congiura di palazzo che
ebbe il suo epilogo in Gran Consiglio, e che in palazzo doveva avere la sua
soluzione. Conosco bene questi fatti perché in quei giorni io dirigevo un giornale
a Roma,21 e per quanto parteggiassi per una epurazione rapida, che col-
17 È possibile che Alvaro si riferisca a «l’Uomo Qualunque»; tuttavia nel maggio
1946 non ho reperito un diretto riferimento allo scrittore calabrese sul settimanale
romano.
18 C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, cit. Nel paragrafo VI, Alvaro accusa decisamente
la monarchia di aver «abbandonato il paese nel pericolo»: «Rimanevano soli l’esercito
e il popolo. […] Il problema non era di salvare il paese, ma di salvare fisicamente
la monarchia» (ivi, p. 39). Nelle righe finali del pamphlet lo scrittore analizza
lucidamente la situazione attuale della nazione in prospettiva europea: «Aspettavamo
l’avvenire come una grande stagione della vita, dopo avere speso la giovinezza
nell’attesa. E invece abbiamo trovato la triste vecchiaia che, nella sua poltrona, lontana
dai bisogni e dalla lotta, appena sfiorata dalla tragedia, in una vecchia e ancor
comoda capitale anch’essa immune, vaneggia nei suoi ritorni giovanili, inutilmente
esperta, mentre l’Europa parla ben altro linguaggio» (p. 59). Su questo opuscolo di
Alvaro si legga anche la recensione di E. Montale, L’Italia rinunzia?, cit.
19 Si tratta naturalmente del manifesto dell’Unione Intellettuali Italiani, uscito
sull’«Unità» il 28 maggio 1946.
20 Cfr C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, cit., pp. 41-42.
21 Alvaro diresse «Il Popolo di Roma» nel 1943 dalla caduta della dittatura alla
[ 11 ]
782 paolo senna
pisse bene in alto e pacificasse in breve il paese per le dure prove da affrontare,
mi trovai in conflitto col governo. Era proprio l’epurazione in alto che la monarchia
non voleva, sapendo che sarebbe rimasta nell’ingranaggio. Ricordo
pure la lotta che si dovette sostenere per la liberazione dei carcerati politici, e
cioè della nuova classe dirigente italiana che la monarchia non intendeva mettere
in circolazione.
– Questo è indubbio. E chi ancora può avere interesse a sostenere la monarchia?
– Oltre ai rottami del fascismo, ai quali si può dire che il fascismo è ben
morto, se essi, come i borbonizzanti spodestati, possono compiere le loro cerimonie
per le strade e nelle chiese fra l’indifferenza dei cittadini, i sostenitori
della monarchia, e ben più agguerriti, sono i profittatori e gli avventurieri che
si vedono sfuggire il dominio della vita italiana, i loro monopoli, i loro privilegi,
la loro potenza di asservimento su alcune regioni italiane più arretrate
come l’Italia meridionale, dove la manovra monarchica si svolge in grande
stile.
– Non ti sembrano illusorie le speranze dei monarchici di trovare un puntello
nelle popolazioni meridionali?
– Meridionale, mi stupirebbe che i miei compaesani non capissero che lo
stato feudale in cui si trovano e la loro miseria sono il frutto di settanta anni di
monarchia sabauda, con le sue alleanze contro ogni forma di sollevamento
economico e morale del sud considerato una colonia per uso dei gruppi finanziari
e industriali.
– E quali mezzi credi potranno mettere in opera?
– Per commuovere l’animo italiano, specie meridionale, gentile e generoso
coi deboli, la monarchia tenterà certo, nell’imminenza del referendum, di presentarci
il bambino e sua madre. Il consiglio di reggenza sarebbe un asilo ottimo
per gli screditati fuggiaschi di Pescara e per la cricca che ha interesse al
mantenimento della monarchia.
Ci ammoniscono i monarchici contro i salti nel buio. Veramente, sotto la
loro guida, abbiamo fatto un salto nel più buio baratro della nostra storia. Non
abbiamo altro da perdere se non loro, e sarà il solo beneficio della catastrofe.
II.
Perché voterò per la repubblica. Risponde Alberto Moravia,
«L’Unità» (Roma), 15 maggio 1946, p. 1
Un nostro redattore ha intervistato il celebre romanziere Alberto Moravia, chiedendogli
di far conoscere la sua opinione sul problema oggi più sentito dal popolo italiano:
monarchia o repubblica?
– Abbiamo visto che hai firmato il manifesto degli intellettuali per la repubblica
– gli abbiamo chiesto. – Perché?
– Ho firmato il manifesto repubblicano come l’avrei firmato venti anni or
firma dell’armistizio.
[ 12 ]
alvaro, moravia, montale 783
sono, e, se non fossi troppo giovane, anche più indietro. Non sono un oppositore
in assoluto di qualsiasi monarchia, sebbene l’istituto monarchico non abbia
più alcuna ragione storicamente fondata di esistere e possa soltanto sopravvivere
là dove, come in Inghilterra esso sia sorretto da un giustificato attaccamento
popolare e da una mai smentita fedeltà alla costituzione; ma sono
un oppositore deciso della monarchia dei Savoia che oggi come vent’anni or
sono non seppe e non volle mai difendere altri interessi che quelli, strettamente
privati, della famiglia regnante. Uno storico certo non sospetto di eccessivo
repubblicanesimo, il Croce, a proposito dei tumulti popolari del 1897 a Milano
repressi con stupida ferocia dal generale Bava Beccaris, dopo aver citato il telegramma
spedito insieme con un’alta onorificenza dal re Umberto al generale
per encomiarlo del «grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà» (in
realtà aveva fatto sparare sopra una folla inerme e affamata di operai, di donne
e di ragazzi), osserva che in quell’occasione la monarchia mise in «non cale
l’antica massima severa di non concedere onori ai vincitori nelle contese
civili».22 Ebbene, io penso che la monarchia sia sempre rimasta quella di allora;
sempre pronta a congratularsi coi più o meno insanguinati «vincitori nelle
contese civili»; sempre disposta, ogni volta che i suoi interessi immediati e
privati lo richiedano, a «mettere in non cale» statuto e garanzie costituzionali.
Questo si è visto non soltanto nel ’97 ma anche nel ’22 e nel ’43 e pochi giorni
or sono con la caparbia e solitaria abdicazione di Vittorio Emanuele. A questa
assolutistica concezione del regnare, accompagnata da una crassa incoltura e
da uno scetticismo morale piatto e sufficiente, si deve la mancanza di popolarità
dei Savoia in Italia, la distanza che fu sempre tra loro e il popolo, il malinteso,
il malessere, la retorica, il cattivo gusto che contrassegnarono in ogni
tempo i loro rapporti con la nazione italiana.
– E più specificamente, che cosa, secondo te, rende i Savoia tanto impopolari ed
invisi a tutta Italia? Errori o colpe?
– Al tempo stesso errori e colpe, ma, come ho detto, soprattutto una maniera
di essere che fu ed è insieme errata e colpevole. Probabilmente i Savoia
e i loro spiacevoli sostenitori non si rendono conto di quel che sono o rappresentino
in realtà e quale enorme differenza passi tra una maniera di regnare
veramente sollecita e ansiosa degli interessi nazionali e la loro. Nessun mostro
si riconoscerà mai nello specchio. La funesta fortuna che dal Risorgimento in
poi ha presieduto all’unificazione d’Italia ha sempre accecato i Savoia sulla
reale condizione del paese e sulle sue più profonde esigenze. I nodi di settant’anni
di leggerezza, di incoltura, di egoismo, di sentimentalismo e di indifferenza
morale sono venuti tutti al pettine nel 1943 con la massima catastrofe
politica e militare che abbia mai colpito l’Italia dal tempo delle invasioni
barbariche a oggi.
22 B. Croce, Conati di governo autoritario e restaurazione liberale (1896-1900), capitolo
VIII della Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 6a ed. riveduta, Bari, Laterza, 1939
(“Scritti di storia letteraria e politica”, 22), pp. 207-224 alle pp. 216-217.
[ 13 ]
784 paolo senna
– Non ti sembra che i responsabili di questa catastrofe, monarchia e fascismo, siano
ancora oggi strettamente legati?
– Gli uomini che circondano e sostengono la Monarchia, i giornali che la
difendono, salvo rare eccezioni, fanno di tutto per lasciarlo pensare. Comunque
sono convinto che la monarchia non rifiuterebbe di esser difesa e salvata
da un partito che si mettesse al di fuori o al di sopra dei partiti storici e ideologicamente
in regola. Un partito che sotto veste patriottica difendesse in realtà
interessi e clientele private. Un partito che operasse il vecchio e demagogico
connubio tra la feccia manesca e il denaro meno onesto. Questo partito si chiamò
durante il ventennio partito fascista; ma potrà avere altro nome e altre
caratteristiche. Lo riconosceremo dal sentimentalismo e dalla mancanza di
idee che sono i tratti tradizionali di ogni dittatura reazionaria in Italia.
– Che tipo di repubblica vorresti veder instaurato in Italia?
– Sono per una repubblica democratica, parlamentare e che avvii al socialismo,
con un presidente eletto dalle Camere, e leggi che garantiscano i diritti
dell’individuo e del popolo, della cultura e del lavoro.
III.
Perché voterò per la repubblica. Risponde Eugenio Montale,
«L’Unità» (Roma), 29 maggio 1946, p. 2
Eugenio Montale è uno dei maggiori poeti dell’Italia moderna, autore di alcuni libri di
poesia notissimi in tutto il mondo. Ha così risposto alle domande da noi postegli sulla
questione istituzionale e sui problemi culturali:
– Quale pensi che sarà il risultato del referendum istituzionale?
– Ritengo che la grande maggioranza degli elettori voteranno per la repubblica.
Chi ha visto qualche adunata dei sedicenti monarchici d’oggi non
può avere dubbi in proposito. E chi ha letto certi manifestini nei quali si afferma
che solo la monarchia può risparmiarci salti… nel buio e solo il re può essere
al di sopra dei partiti e delle fazioni (infatti s’è visto alla prova!) si convince
facilmente che oggi voteranno «monarchia» soltanto i fascisti di ieri, che
non erano, in quanto a numero, una maggioranza. Non è possibile, come pensano
alcuni, salvare l’istituto monarchico mutando una o più persone. È l’Istituto
stesso, per le possibilità d’intrigo e di corruzione ch’esso offre, che non è
più accettabile da noi. Una monarchia veramente costituzionale, estranea al
governo, quasi simbolica, come quella inglese, non servirebbe a nulla se il
nostro popolo è da giudicarsi politicamente immaturo: ma se gli italiani non
sono immaturi cade ogni motivo di sostenere una finzione monarchica che in
Italia non sarebbe più una finzione.
– Quali forze politiche pensi che debbano costituire l’ossatura della nuova Repubblica?
– Tutte le forze dei lavoratori e in specie quelle che sono rappresentate dai
grandi partiti. Ma non alludo solo ai lavoratori del braccio. L’Italia non è fatta
solo di operai e di contadini e gli italiani sono profondamente sensibili, anche
in politica, a moventi d’ordine irrazionale. I grandi partiti (o almeno quelli che
[ 14 ]
alvaro, moravia, montale 785
possono farlo perché non si reggono esclusivamente su vincoli confessionali)
devono diventare sempre meno teologici. Devono unire gli italiani in vista di
un lavoro comune da compiersi, non già dividerli imponendo loro un credo o
un’astratta mitologia che non tutti possono sentire. Bisogna che i partiti non
invecchino su posizioni superate se vogliono assicurarsi l’adesione delle forze
migliori.
– Credi tu che le sorti della civiltà italiana, le sorti della nostra cultura siano legate
alla vittoria del 2 giugno?
– Certamente. Se prevalessero da noi le forze antidemocratiche il fenomeno
dell’anticultura fascista continuerebbe a prosperare e non avremmo ottenuto
che un semplice mutamento di etichetta. Ma non si tratta di una rinascita
breve né facile. In genere si dovrà mantenere alla cultura e particolarmente a
quella superiore, un carattere disinteressato, che non vuol dire poi inutile. In
questo il nostro paese ha una tradizione che non dovrebbe andar perduta.
– Credi tu all’accusa che si rivolge ai comunisti di essere nemici della cultura?
– Non ho motivi per crederlo; penso, al contrario, ch’essi addirittura sopravalutino
l’adesione di certi pretesi «intellettuali»: segno che della cultura si
preoccupano molto. Mi figuro che in Russia nella lotta contro l’analfabetismo
e nell’istruzione tecnica si siano fatti enormi progressi. Ma questo naturalmente
non basta. In una Europa nella quale prevalessero nuove forme di democrazia
diretta e popolare, in una Europa che colmasse l’abisso che si vuole
scavare tra Oriente e Occidente tutta una nuova cultura potrebbe e dovrebbe
fiorire in modo per noi imprevedibile. Certo il destino dell’Europa è strettamente
unito a quello della sua cultura. Il nostro continente deve rinnovarsi
senza fare tabula rasa del suo passato.
[ 15 ]

IRENE CHIRICO
Figure finite e infinite storie: i tarocchi tra immagine
e racconto in Calvino
Dai tarocchi di Marsiglia ai tarocchi del mazzo visconteo Calvino sviluppò il
rapporto tra figura e scrittura, tra immagine e testo. Si trattò di una complicata
esperienza letteraria alla scoperta di quella “macchina narrativa combinatoria”
che non gli riuscì mai di definire organicamente, nonostante il provvisorio approdo
ai due scritti Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati.
Su questo complesso rapporto tra l’arte dello scrivere e quella dell’esprimersi
per immagini si avvia qui una riflessione, anche con riferimento all’uso rinascimentale
delle figure dei tarocchi come gioco di abilità verbale e di identità sociale.

From the Marseilles tarots to the Visconti deck of tarots Calvino developed the
relationship between figure and writing, between image and text. His was a
complicated literary experience intent on discovering that “combinatorial narrative
machine” that he never managed to define organically, despite the provisional
milestones offered by Il castello dei destini incrociati and La taverna dei destini
incrociati. This essay investigates the complex relationship between the art
of writing and that of expressing oneself through images, referring furthermore
to the Renaissance usage of tarot figures as a game of skill and social identity.
Con Il castello dei destini incrociati, muovendosi tra le raffinate immagini
dei rinascimentali tarocchi, miniati da Bonifacio Bembo per i
duchi di Milano verso la metà del secolo XV, e le rozze incisioni dei
tarocchi di Marsiglia della casa B.P. Grimaud, riproduzione di un
mazzo stampato nel 1761 da Nicolas Conver, maître cartier a Marsiglia1,
Calvino sperimenta un nuovo percorso narrativo, destinato a
restare apparentemente incompiuto e a terminare apparentemente in
un fallimento, per lo meno in riferimento al progetto complessivo della
trilogia che si era proposto (Il castello dei destini incrociati, La taverna
Università di Salerno; ichirico@unisa.it
1 Cfr I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973, p.
123.
788 irene chirico
dei destini incrociati, Il motel dei destini incrociati). Anche la sua stessa
interpretazione in chiave esclusivamente strutturalista e semiotica ne
ha, in effetti, determinato l’emarginazione all’interno dell’opera di
Calvino2, impedendone una fruizione scevra da pregiudizi classificatori
limitativi della valutazione critica del Castello.
Immagini, parole, numeri sono gli elementi che entrano in gioco
nella definizione di un modo di narrare diverso rispetto al precedente.
Nella sua ricerca incessante di strategie narrative Calvino aveva già
sperimentato, agli esordi del proprio percorso di scrittore, il racconto
neorealista, passando – come è noto – a quello fantastico della trilogia
dei Nostri antenati e approdando, a metà degli anni sessanta, al racconto
«fantascientifico alla rovescia», secondo Montale, perché narrante
«un fantapassato», come Franco Antonicelli chiosava sul «RadiocorriereTv
», nello stesso giorno e anno – 5 dicembre 1965 – della recensione
montaliana delle Cosmicomiche, all’indomani della loro pubblicazione3.
Sul finire degli anni sessanta la costante ricerca di una nuova
2 In chiave strutturalista e semiotica fu già l’interpretazione di M. Corti, Il
gioco dei tarocchi come creazioni di intrecci [1971], in Ead., Il viaggio testuale. Le ideologie
e le strutture semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, pp. 169-184 e di G. Genot, Le destin
des récits entrecroisés, «Critique», XXVIII (agosto-settembre 1972), nn. 303-304,
pp. 788-809, mentre G. C. Ferretti, Tarocchi e scacchi, in Id., Le capre di Bikini. Calvino
giornalista e saggista, 1945-1985, Roma, Editori Riuniti, 1989, pp. 106-112 ravvisava
nel Castello l’idea di una letteratura senza vincoli progettuali e responsabilità
decisionali («letteratura che non sceglie, non progetta, non giudica», p. 108), secondo,
in verità, un’idea ritornante nella valutazione complessiva dell’opera di Calvino,
divisa tra una prima fase realista e una seconda di «frigida allegoricità» (cfr L.
Montella, Italo Calvino tra innovazione e tradizione, Avellino, Sinestesie, 2016, p.
35). Sulla stessa scia, relativamente ad un depotenziamento letterario della seconda
stagione calviniana, è anche C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura
impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, le cui osservazioni sulla seconda
stagione di Calvino D. Calcaterra, Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo, Milano-
Udine, Mimesis, 2014 giudica «clamoroso abbaglio», p. 16, non senza, però,
evidenziare che la «nevrosi per il metodo» è tale, nel Castello, da ridurre «la carica
gnoseologica della scrittura di Calvino», p. 106. In effetti, condivisibile mi sembra
l’idea di un’assenza di «frattura netta nell’opera complessiva di Calvino. La mutata
impostazione narrativa – a partire dagli anni ’60 – risponde difatti ad una naturale
evoluzione artistica che si collega a rinnovate sensibilità determinate da una
modificata situazione storico-ambientale», L. Montella, Italo Calvino. Il percorso
dei linguaggi, Salerno, Edisud-Salerno, 1996, pp. 26-27, un’idea che sostiene anche
il volume di D. Savio, La carta del mondo. Italo Calvino nel «Castello dei destini incrociati
», Pisa, Edizioni ETS, 2015, passim.
3 Ad entrambe le recensioni Calvino si oppose ribadendo la distinzione tra
scienza e fantascienza, cfr I. Calvino, Premessa a La memoria del mondo e altre storie
cosmicomiche [1968], in Id., Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a
[ 2 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 789
misura narrativa si finalizza nel Castello alla rappresentazione di vite
umane specchio di sentimenti e comportamenti che, sia pur generandosi
dalla potenza immaginativa del narratore, si disciplinano in un
sistema di regole da rispettare, proponendosi in eterna attualità.
È il novembre del 1969 quando Calvino pubblica Il castello dei destini
incrociati, su commissione del raffinato editore Franco Maria Ricci
di Parma, nell’elegantissimo volume d’arte Tarocchi. Il mazzo visconteo
di Bergamo e New York, a tiratura limitata (circa 1000 esemplari), con
legatura in seta, illustrazione applicata, astuccio editoriale, 166 pagine
di carta azzurra, 63 tavole a colori applicate fuori testo, con analisi
iconografica e storica di Sergio Samek Ludovici e una lettera autobiografica
di Calvino a Franco Maria Ricci dello stesso anno, pubblicata
in facsimile col titolo Notizie su Italo Calvino alle pagine 161-1624: un
volume la cui fortuna editoriale fece più volte ristampare, al punto da
suscitare il risentimento di Calvino per avere firmato un contratto
biennale a forfait, dal quale evidentemente non derivava proventi economici
pari al successo del libro5, donde la decisione di riscriverlo,
come effettivamente fece, per la collana dei «Supercoralli» dell’Einaudi
per l’edizione dell’ottobre del 19736. In questa ultima edizione è la
Nota aggiunta dall’autore, nella quale egli individua la motivazione
dell’utilizzo dei tarocchi come «macchina narrativa combinatoria»
nelle suggestioni derivategli dall’ascolto di una relazione di Paolo
Fabbri su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi al «Secura
di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, II, p. 1300. Ma già
nella lettera a François Wahl del 16 novembre 1964, con riferimento alle prime cosmicomiche,
precisava: «racconti che non hanno niente a che fare con la fantascienza
ma sono un genere interamente nuovo», I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di
L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 837.
4 Poi in I. Calvino, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori,
1994, pp. 180-182, ancora in I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi,
Milano, Mondadori, 20074, II, pp. 2771-2773 (in entrambi i testi è possibile leggere
anche la versione della lettera per l’edizione francese del Castello dal titolo Tarots,
Parma, F. M. Ricci, 1974) e infine in I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 1059-
1060.
5 «Comincio ad aver paura d’essermi fatto fregare», scriveva a Pietro Citati il 9
febbraio 1970 e «il mio contratto andrebbe rivisto» a Furio Jesi il 2 aprile 1970, I.
Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1071, p. 1072 n. 1.
6 Alle due edizioni italiane del Castello si aggiungerà nel 1974 quella francese
(I. Calvino, Tarots, cit.) condotta da Jean Thibaudeaue a tal punto corretta da Calvino
da suscitare l’opposizione del traduttore ad apporre la propria firma sul testo
revisionato. Sulla questione cfr S. Garbarino, Traduzioni letterarie: creazioni poetiche?
Italo Calvino in Francia, «Lettere italiane», LVIII, n. 3, 2006, pp. 500-505.
[ 3 ]
790 irene chirico
minario internazionale sulle strutture del racconto» di Urbino del luglio
del 1968. Qui egli precisava la propria distanza dall’ «apporto
metodologico» degli studi relativi all’analisi delle funzioni narrative
dei tarocchi che, in chiave strutturalista e semiotica, aveva indagato la
scuola sovietica, studi tradotti nel 1969 nel volume I sistemi di segni e lo
strutturalismo sovietico, edito Bompiani, a cura di Remo Faccani e Umberto
Eco7. La ‘distanza’, tuttavia, non era dovuta sembrargli incolmabile
se, due anni prima della stesura della Nota, il 20 aprile 1971, da
Parigi scrivendo all’amico Paolo Fabbri e informandolo dei suoi ormai
inesistenti contatti «con il mondo semico» rifletteva sul Castello avvertendo:
Bisogna tenere presente che alle carte corrispondono le funzioni del
racconto, le quali sono in maggioranza (controllare su Propp) nefaste
(l’ostacolo, la mancanza, la trasgressione ecc.) solo che l’astuzia retorica
del racconto popolare […] è che le carte faste sono disposte alla fine,
come in una divinazione truccata (propiziatoria)8,
salvo poi a precisare che di quegli studi aveva «ritenuto soprattutto
l’idea che il significato d’ogni singola carta dipende dal posto che essa
ha nella successione di carte che la precedono e la seguono»9, una precisazione
che, come è stato notato, «lega […] fortemente l’asse paradigmatico
a quello sintagmatico»10. Già nel 1969, tuttavia, la commissione
del Ricci lo trova – come egli spiega nella Nota11 – alle prese con
il tentativo di servirsi dei tarocchi per sperimentare una nuova modalità
narrativa, e però i tarocchi di Marsiglia dalle illustrazioni meno
preziose, ma di più immediata evidenza rappresentativa. Le carte,
invece, del mazzo visconteo12, che il Ricci gli propone, sono finemente
decorate con fondo in oro e disegni a tempera e argento, quelle figurate,
e fondo naturale, color crema, quelle numerate. Esse, risalenti alla
metà del Quattrocento,
7 I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., p. 124.
8 Tre lettere di Calvino a Fabbri, a cura di P. Zublena, «il verri», 54, febbraio 2014,
p. 98.
9 I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., p. 124.
10 Tre lettere di Calvino a Fabbri, cit., p. 94.
11 I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 124-125.
12 Allo stato il mazzo visconteo, anche chiamato Colleoni-Baglioni, è «smembrato
tra la Pierpont Morgan Library di New York, l’Accademia Carrara e una
collezione privata di Bergamo», I tarocchi dei Bembo. Dal cuore del Ducato di Milano
alle corti della valle del Po, a cura di S. Bandera e M. Tanzi, Milano, Skira, 2013, p.
11.
[ 4 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 791
[…] costituiscono uno spaccato straordinario della vita della corte milanese
alla metà del secolo. Rimandando all’otium e agli svaghi dei signori,
offrono un vivace riflesso del cerimoniale, della moda delle vesti,
delle acconciature, degli arredi, delle dimore, dei serragli, dei parchi,
del contesto cavalleresco e cortese, insomma, ritagliato sul modello
dei romanzi medievali di Artù, di Lancillotto o di Tristano13.
Ed è questo mondo che Calvino narrerà nel Castello prima, nella
Taverna poi, concedendo sempre più spazio, nel passaggio dal Castello
alla Taverna, alla immaginazione generatrice di storie fantastiche, nelle
quali la cifra narrativa resta l’indeterminato, l’indefinito, l’incompleto,
l’incompiuto.
Senza dubbio la relazione del Fabbri fornì solo l’impulso definitivo
ad un progetto che l’autore andava maturando da tempo e che ebbe
nell’opera, da lui tradotta e criticamente studiata, di Raymond Queneau
la sua prima ispirazione. Del 1967, infatti, è la traduzione calviniana
del romanzo I fiori blu di Queneau, che l’autore francese aveva pubblicato
a Parigi per Gallimard solo due anni prima. Ed è proprio la
conoscenza del poliedrico e versatile intellettuale francese14 ad introdurlo,
l’8 novembre 1972, tra i membri dell’«Ouvroir de littérature
potentielle»15, associazione della quale Queneau era stato fondatore e
della quale Calvino divenne, il 14 febbraio 1973, membro straniero.
Sono proprio gli anni che vedono la prima e la seconda pubblicazione
del Castello dei destini incrociati – 1969 e 1973 – entrambe immediatamente
seguenti la traduzione dell’autore francese e l’entrata di Calvino
nell’Oulipo. Non ritengo sia, pertanto, attribuibile solo a richieste e
problemi commissori la circostanza che nell’edizione del Castello del
1969 le immagini dei tarocchi occupano un posto di primo piano nell’impaginato,
mantenendo l’importante e sontuosa veste figurativa,
mentre la parola16, il racconto, svolgono quasi un ruolo didascalico. In
13 I tarocchi dei Bembo, cit., pp. 11-12.
14 Sull’interesse di Calvino per Queneau cfr Segni, cifre e lettere e altri saggi, Torino,
Einaudi, 1981, una raccolta di saggi su Queneau, corredato da un’ampia Introduzione
sulla vita e gli interessi dell’intellettuale francese, pp. V-XIII (adesso in I.
Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 20074, I, pp.
1408-1435). Sul rapporto tra Calvino e Queneau cfr S. Cappello, Les années parisiennes
d’Italo Calvino (1964-1980). Sous le signe de Raymond Queneau, Parigi, Presses
de l’Université Paris-Sorbonne, 2007.
15 Su questa stagione di Calvino cfr anche A. Botta, Calvino and the Oulipo. An
Italian Ghost in the Combinatory Machine, «Modern Language. Notes», vol. 112
(1997), n. 1, pp. 81-89.
16 Sul rapporto tra letteratura e arti visive, tra immagine e parola nell’opera di
[ 5 ]
792 irene chirico
effetti dal 1969 al 1973 matura nell’autore anche la consapevolezza di
avere finalmente formalizzato una diversa e nuova strategia narrativa
che, come di solito accade in Calvino, conduce ad un più complessivo
e compiuto progetto: Il Castello, La Taverna, Il motel. Nell’edizione del
1969, infatti, la narrazione occupa solo la colonna destra dello specchio
del verso della pagina, mentre sulla sinistra, in carattere minore,
sono fornite, nell’introduzione, le notizie relative alla composizione e
al numero dei tarocchi, così come ricostruito dagli studiosi (78 carte,
delle quali 4 sono dette d’onore – Fante, Cavallo, Regina o Dama, Re
– che moltiplicate per i quattro semi fanno 16, le carte numerali dall’uno
al dieci nei quattro colori – cioè 40 –, e le 21 carte dei Trionfi), e le
notizie relative alle carte effettivamente rimaste all’Accademia Carrara
(26 carte) e a quelle in possesso della Morgan Library (35 carte), in
numero, quindi, di 61. Procedendo con i racconti, invece, e sempre a
margine del testo narrato, è posta l’analisi storica e iconografica di
Sergio Samek Ludovici alle carte che occupano il centro dello specchio
del recto di ogni pagina. Il disegno, poi, delle carte con le quali si costruisce
ogni singola storia è posto poco dopo l’incipit di ogni storia,
quasi che l’illustrazione del narrato precedesse la sua stessa scrittura,
laddove nell’edizione del 1973 lo stesso disegno che ricostruisce attraverso
le carte ogni singola storia è posto alla fine di ogni racconto. Le
carte, invece, poste specularmente al testo scritto, si succedono spesso
senza ‘seguire’ il narrato, evidenziandosi in tutta la loro ricca e lussuosa
veste figurativa. Nell’edizione del 1973, invece, le carte, solamente
disegnate in bianco e nero, si succedono lungo il margine sinistro della
pagina, seguendo lo sviluppo narrativo di ogni singola storia, per
poi disporsi alla fine in una ricostruzione illustrativa della storia stessa.
Evidenti, dunque, sono le varianti strutturali e narrative nel passaggio
dall’edizione del 1969 a quella del 1973. In quest’ultima «l’introduzione
della suddivisione in capitoli ha come conseguenza una
ridistribuzione della materia narrativa, che diviene più compatta»17:
ad esempio, e solo per segnalare qualche variante di maggiore eviden-
Calvino cfr M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006 e F. Ricci, Painting
with Words, Writings with Pictures. Word and Image in the Work of Italo Calvino,
Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2001. Per questo rapporto in
particolare analizzato nel romanzo Le città invisibili cfr E. Paulicelli, Parola e immagine.
Sentieri della scrittura in Leonardo, Marino, Foscolo, Calvino, Fiesole, Cadmo,
1996.
17 V. Brigatti, Calvino: l’incrocio dei destini e la ricerca dell’identità, in Il racconto e
il romanzo filosofico nella modernità, a cura di A. Dolfi, Firenze, Firenze university
press, 2013, p. 378 n. 30.
[ 6 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 793
za18, i titoletti in corsivo, posti a margine del testo nell’edizione del
1969 al solo scopo di separare brani distinti per cambio di soggetto,
nell’edizione del ’73 sono diventati titoli di racconti distinti da stacco
tipografico e di pagina. Il racconto dal titolo Tre storie tenebrose del
1969, nell’edizione del 1973 è suddiviso nei tre racconti Storia dell’alchimista
che vendette l’anima, Storia della sposa dannata, Storia di un ladro
di sepolcri. Non solo, rispetto all’edizione del 1969, quella del ’73 si arricchisce
della Taverna: stessa strategia narrativa, non uguale linearità
diegetica, ma soprattutto tarocchi diversi, quelli marsigliesi che
[…] si prestano a una riproduzione grafica anche rimpicciolita senza
perdere troppo della loro suggestione, tranne che per i colori. […] qui
ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e
misterioso, che la rende particolarmente adatta alla mia operazione di
raccontare attraverso figure variamente interpretabili19.
Si tratta di «stampe popolari» ben diverse dagli eleganti tarocchi
quattrocenteschi, prodotto e figura di «una società diversa, con un’altra
sensibilità e un altro linguaggio»20. Una società e un linguaggio
che, nel passaggio dal Castello alla Taverna, mutano ben poco, come si
vedrà, rimanendo sostanzialmente ancorati al mondo ariostesco al
quale i tarocchi viscontei sembravano rimandare, per lo meno nella
immaginazione di Calvino. Quello che non muta è certamente la struttura
e la modalità narrativa, il racconto attraverso le carte, ovvero i
racconti contenuti in una cornice narrativa, castello o taverna che sia,
di evidente derivazione boccacciana, riecheggiante altrettanto evidenti
suggestioni dantesche21. Il bosco fitto nel mezzo del quale si erge il
castello che ospita cavalieri, dame, cortei reali e semplici viandanti in
cammino, e il buio dal quale sembra emergere la taverna che accoglie
chi al buio è scampato e ha perduto la parola, «forse pure la memoria»22,
con l’impossibilità a raccontare, sono echi della Dite di Dante, della
sua selva oscura, del suo timore di non riuscire a ricordare, che genera
l’ineffabilità della visione. Qui, nel Castello, come nella Taverna, sia pure
in un’ottica tutta terrena, il timore di non ‘avere le parole’ per espri-
18 U na prima ricognizione sulle varianti tra le due edizioni è contenuta in Note
e notizie sui testi, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto e C. Milanini, in I. Calvino,
Romanzi e racconti, cit., II, pp. 1366-1380.
19 I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 123-124.
20 Ivi, p. 125.
21 Cfr D. Savio, La carta del mondo, cit., pp. 21-22.
22 I. Calvino, La taverna, in Id., Il castello dei destini incrociati, cit., p. 52.
[ 7 ]
794 irene chirico
mersi si trasforma in realtà, concretandosi in un mutismo23 che costringe
i personaggi, tra i quali l’autore stesso (autore e protagonista
del suo racconto come Dante), ad adoperare l’immagine, quella dei
tarocchi appunto, per poter parlare. La parola ha, dunque, perso non
solo la capacità di rappresentare la realtà, ma anche il potere di trasformare
le avversità in vantaggio, di modificare, quindi, la realtà
stessa. Il narratore novecentesco, tuttavia, trova impaccio a realizzare
il disegno che alle origini dello specifico genere letterario aveva realizzato
in Europa il Boccaccio che, con sovrana perizia e ironica sapienza,
della straordinaria potenza affabulatrice della parola aveva celebrato
il trionfo, riconducendo con essa la societas, l’allegra brigata, da una
condizione di perdita delle regole, garanzia di civitas, ad un recupero
di humanitas, di condotta civile, sostituendo ordine al disordine provocato
dalla peste. Nel castello, invece, resta un «senso di casualità e
disordine, se non addirittura di licenza come se non d’una magione
signorile si trattasse, ma d’una locanda di passo»24 e, per converso,
«ognuno sente allentarsi le regole a cui s’attiene nel proprio ambiente,
e […] così indulge a costumanze più libere e diverse»25. L’ambientazione
rende il castello simile alla taverna, come, d’altra parte, avverte
il narratore/autore stesso: «come […] una locanda di passo». In entrambi
la parola non è in grado di ordinare il disordine ristabilendo le
regole a cui ognuno «s’attiene nel proprio ambiente», anzi la parola
non c’è affatto e il racconto sembra avere perso la possibilità di «dar
senso alle vite umane disponendo i fatti in un dato ordine», come Calvino
scriveva a Pier Paolo Pasolini già il 9 maggio del 1955, riferendosi
alle sue Fiabe italiane e alla «problematica[…] sulle origini del raccontare
storie» 26. Era chiaro ormai che si viveva in un mondo che «rifiutava
la forma», come chiosava in La giornata di uno scrutatore, qualche
anno dopo (1963)27, dichiarando e confermando lo stato di perenne
metamorfosi della realtà che, proprio perché in continua trasformazione,
si sottrae ad essere significabile. ‘Dare senso’ sarà possibile,
dunque, solo sottostando alla regola di ritenere vere le fiabe («le fiabe
23 Ed è un mutismo segno anche della ‘sfida’ che Calvino aveva già lanciato al
lettore rendendo inesistente il suo cavaliere e esiliando Cosimo sugli alberi, uno
«strappo comportamentale, etico» che induce il personaggio a tenersi fuori dal
caos del mondo, nel tentativo di rintracciarne una logica, G. Bertone, Italo Calvino:
il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, p. 124.
24 I. Calvino, Il castello, in Id., Il castello dei destini incrociati, cit., p. 4.
25 Ibidem.
26 I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 432.
27 I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, in Id., Romanzi e racconti, cit, II, p. 74.
[ 8 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 795
sono vere» dirà nell’introduzione a Fiabe italiane del 195628) come veri
il corpo a metà del visconte, piuttosto che l’uomo che vive tra le chiome
degli alberi o l’armatura animata di un cavaliere che non esiste.
Insomma solo «stabilita l’immagine di partenza […] la trama si srotola
in modo quasi autonomo e inevitabile, secondo un principio di sviluppo
interno al racconto che risulta attivato dalla stessa logica di
quell’immagine»29. È Calvino stesso a indicarci la genesi del suo raccontare
la realtà partendo dall’immagine. In un’intervista del 1967,
infatti, costretto a confrontarsi ancora una volta con Voltaire, così rispondeva
alla giornalista francese Solange Granier:
Voltaire partait toujours d’une idée et la développait en récit. Moi, je
pars d’une image ou d’un enchaînement d’images et je les développe,
tout en restant témoin de cette opération qui se fait en quelque sorte
d’elle-même30.
Questa immagine, tuttavia, è pur sempre costruita e, per così dire,
‘immaginata’, pensata, sulla scorta di esperienze, suggestioni, pulsioni
che derivano dalla realtà, una realtà che la guerra, rendendo comuni
le esperienze esistenziali, aveva reso comunicabile, preservando
alla parola la sua efficacia espressiva e comunicativa. Nel 1962 sul n. 5
del «Menabò» aveva scritto:
[…] l’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non
aveva risparmiato nessuno stabiliva un’immediatezza di comunicazione
tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari
carichi di storie da raccontare, ognuno aveva vissuto vite irregolari,
drammatiche avventure, ci si strappava la parola di bocca31.
Allontanandosi quell’esperienza, la realtà non gli fornirà più immagini,
se già alla fine degli anni cinquanta lamentava: «La realtà intorno
a me non mi ha più dato immagini così piene di quell’energia
che mi piace d’esprimere»32. E l’idea di una realtà dicibile perché visi-
28 I. Calvino, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento
anni e trascritte in lingua dai vari dialetti, pref. M. Lavagetto, Milano, Mondadori,
1993, p. 13.
29 F. Serra, Calvino, Roma, Salerno editrice, 20162, p. 158.
30 S. Granier, Italo Calvino entre le réalisme et l’imaginaire, «Le Monde», 7 maggio
1967.
31 I. Calvino, La sfida al labirinto [1962], in Id., Saggi 1945-1985, cit., I, pp. 105-123.
32 I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi [1959], in Id., Saggi 1945-
1985, cit., I, p. 73.
[ 9 ]
796 irene chirico
bile rimarrà centrale nella riflessione calviniana sul racconto33, se ancora
nel 1980, a proposito di alcuni caratteri inattuali del romanzo ottocentesco
sottolineava che
C’è una storia della visività romanzesca – del romanzo come arte di far
vedere persone e cose –, che coincide con alcuni momenti della storia
del romanzo, ma non con tutti. […] La visività romanzesca comincia
con Stendhal e Balzac, e tocca con Flaubert il rapporto perfetto fra parola
e immagine […]. La crisi della visività romanzesca comincerà
mezzo secolo dopo, contemporaneamente all’avvento del cinema34.
A questa crisi Calvino sembra rispondere attraverso il tentativo di
ristabilire il rapporto tra parola e immagine, partendo però dall’immagine,
attento «che la narrazione sviluppi una logica interna dell’immagine
stessa», come scriverà a Wahl nel dicembre del 196035. E tuttavia
ancora nel 1965 affermava di essere «capace di trovare immagini
solo nell’astronomia e nella genetica»36, immagini, dunque, fornitegli
dalla realtà stessa, sia pure non quella che gli aveva procurato la materia
narrativa degli esordi neorealistici. Sarà questa ricerca di immagini
che lo condurrà, verosimilmente, all’utilizzo delle immagini dei
tarocchi per raccontare una realtà che non riusciva più ad esprimere
secondo il canone della oggettività narrativa. Essa probabilmente era
già avvertita come ‘plurima’ e ‘sfaccettata’, come quel mondo che la
letteratura avrebbe dovuto sapere raccontare in trame narrative capa-
33 Anche l’idea di visibilità del reale in ragione di una sua dicibilità non riduce,
tuttavia, come è stato osservato, la problematicità e complessità del rapporto calviniano
tra scrittura e immagine della realtà in essa riflessa: «l’attraversamento calviniano
della visibilità si è dato in realtà non come un’utopica apertura ai nuovi orizzonti
del visibile […] ma come un’inquieta […] indagine sulla contraddittorietà
dello stesso vedere […] sul suo non attingere mai ad una “visione” rivelatrice, epifania,
rassicurante e totale», G. Ferroni, Lo sguardo di Calvino, in Il fantastico e il visibile.
L’itinerario di Italo Calvino dal nerorealismo alle Lezioni americane, a cura di C. De
Caprio e U. M. Olivieri, Napoli, Edizioni Libreria Dante & Descartes, 2000, p. 23.
34 I. Calvino, Gustave Flaubert, «Trois contes» [1980], in Id., Saggi 1945-1985, cit.
I, pp. 850-851. In effetti, è stato a ragione sottolineato che «il romanzo novecentesco
non ha smarrito la «visività» (l’opera di Calvino basta a dimostrarlo), ma si è
emancipato da un certo tipo di visività […]. I modelli visivi che il lettore colto
della nostra epoca porta condensati nel proprio inconscio estetico fanno riferimento
a una visività diversa, di tipo fotografico e cinematografico, più allusiva e più
spezzata», G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 256-257.
35 I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 669.
36 Lettera a Hans M. Enzensberger, 28 ottobre 1965, in I. Calvino, Lettere 1940-
1985, cit., p. 895.
[ 10 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 797
ci di renderne la pluralità e la complessità: «la grande sfida per la letteratura
è saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una
visione plurima, sfaccettata del mondo»37. Era pronto perché la sua
letteratura divenisse da letteratura dell’oggettività letteratura della
coscienza38, recuperando la possibilità di potere esprimere una «simbologia
universale dell’esistenza terrestre»39, anche attraverso il ricorso
alle lezione di Propp. Quanto poi ai diversi saperi e codici, senza
dubbio, quelli derivatigli dalla scienza ebbero un ruolo e una funzione
importante nella sua ricerca di nuovi percorsi narrativi: «Il suo problema
era come utilizzare i metodi e i linguaggi della scienza, come tradurli
in letteratura»40. Le frequentazioni con gli ambienti scientifici,
d’altra parte, non furono solo quelle che si procurò, ad esempio con il
famoso fisico Giorgio de Santillana, il 29 marzo 1963 presso il teatro
Carignano di Torino41, o piuttosto con i membri dell’Oulipo a Parigi,
ma primariamente, direi quasi geneticamente, anche quelle che il destino
gli aveva procurato facendolo nascere in una famiglia di tutti
scienziati, padre, madre, fratello, zii, che lo aveva educato «al rigore
del linguaggio universale della scienza […] al suo metodo sperimentale
e alla sua logica stringente»42, al punto da sentirsi «la pecora nera,
l’unico letterato della famiglia»43. Un letterato che della scienza voleva
servirsi «per uscire da abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il
quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza», dichiarazione
contenuta nella Premessa a La memoria del mondo44, che precede
di un anno la pubblicazione del 1969 del Castello, la quale chiarisce la
finalità della sua idea di «una letteratura che tenda all’astrazione geo-
37 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio [1985], in
Id., Saggi 1945-1985, cit., I, p. 723.
38 Cfr I. Calvino, Il mare dell’oggettività [1959], in Id., Saggi 1945-1985, cit., I, p.
59.
39 M. Corti, Il gioco dei tarocchi come creazione di intrecci, cit., p. 178.
40 G. Roscioni, Calvino editore, in Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale,
a cura di G. Falaschi, Milano, Garzanti, 1988, p. 36 e della stessa opinione M.
Bucciantini, Italo Calvino e la scienza, Roma, Donzelli editore, 2007: «Per Calvino
la scienza non è mai un termine di un rapporto […] per lui esiste sempre e soltanto
la letteratura», pp. 4-5.
41 Dell’importanza della conoscenza di de Santillana, una cui conferenza Calvino
aveva già ascoltato a Boston durante il suo viaggio negli Stati Uniti nel 1959-
’60, discute M. Bucciantini, Fiaba, mito, cosmologia: Calvino e de Santillana, in Id.,
Italo Calvino e la scienza, cit., pp. 65-86.
42 Ivi, p. 11.
43 I. Calvino, Ritratto su misura, in Id., Saggi 1945-1985, cit., II, p. 2714.
44 I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., II, p. 1300.
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798 irene chirico
metrica, alla composizione di meccanismi che si muovano da soli, il
più anonimi possibili»45, come scriveva a Franco Scaglia (10 luglio
1965) solo qualche mese dopo essersi dichiarato «contento»46 per essere
riuscito a fare delle ‘parole-immagini’ del racconto La spirale (una
delle Cosmicomiche) immagini geometriche. Nella dichiarazione della
Premessa, tuttavia, è ravvisabile, insieme con la tensione della ricerca
di nuovi percorsi creativi, in termini ovviamente narrativi, l’attenzione
alla quotidianità, interpretabile come adesione alla realtà, della
quale, servendosi del metodo scientifico, scoprire e narrare i meccanismi.
Questi, proprio come le funzioni proppiane, in quanto sintetizzabili
in una sorta di ‘serie unica’, una struttura universale, rimandano
all’esistenza di una junghiana struttura archetipa, presente nell’inconscio
collettivo dell’umanità, o – a mio parere – nella coscienza degli
uomini che la letteratura si assume il compito di esplorare, scoprire e
narrare. Una narrazione che, però, aveva adesso bisogno di una immagine
– e di una immagine che possedesse concretezza visiva – là
dove la parola non riusciva più ad essere espressiva, e dunque delle
carte dei tarocchi. Essi andavano osservati con l’occhio ingenuo di chi
«non sa cosa siano», in modo da «trarne suggestioni e associazioni»,
per poi «interpretarli secondo un’iconologia immaginaria»47. Così
Calvino dichiarava nella Nota finale all’edizione del ’73, quando cioè
il progetto narrativo acquista autonomia rispetto all’esigenza di ‘mettere
in mostra’, accompagnandoli con le parole, i tarocchi viscontei.
Tuttavia, perché l’immaginazione non corresse libera rischiando di
ricadere in già percorsi itinerari immaginativi, affinché la letteratura
riuscisse a cambiare «il valore dei libri noti», tendendo «verso il nuovo
testo apocrifo da ritrovare o da inventare»48, occorreva l’ausilio della
scienza matematica, quella, in particolare, che, già tra i membri dell’Oulipo,
aveva dialogato con la letteratura originando l’idea di una
narrativa come processo combinatorio. Il saggio Cibernetica e fantasmi
del 1967, nell’affrontare il rapporto tra linguaggio matematico e linguaggio
umano, rileva come «il mondo nei suoi vari aspetti viene visto
sempre più come discreto e non come continuo», intendendo per
45 I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, con una
nota di C. Fruttero, Torino, Einaudi, 1991, pp. 522-523.
46 Lettera a François Wahl, 17 maggio 1965, in I. Calvino, Lettere 1940-1985,
cit., p. 870.
47 I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., p. 124.
48 I. Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio (Per l’«Anatomia della
critica» di Nothrop Frye) [1969], in Id., Saggi 1945-1985, cit., I, p. 251.
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i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 799
«discreto» il significato che il termine «ha in matematica: quantità “discreta”
cioè che si compone di parti separate»49. Sono queste ‘parti’ a
dovere essere individuate per poi essere ricombinate in modo da rendere
rappresentabile la molteplicità del mondo, o della realtà50. È vero
che l’ipotesi calviniana di una «macchina capace solo di produzione
letteraria»51 può sembrare paradossale, o semplicemente provocatoria,
coinvolgendo anche il problema del ruolo e della funzione dell’autore,
che non avrebbe più ragione d’esistere52, e rimandando alla lettura,
cioè al lettore, il «momento decisivo della vita letteraria»53. Ma è
altrettanto vero che la costatazione dell’indeterminismo del mondo,
della sua innumerabilità e infinitezza, rende categorica la necessità di
una letteratura che riesca ad esprimere ogni possibilità rappresentativa
di questa realtà, che è soprattutto coscienza individuale e collettiva:
[…] non mi sono mai più sorpreso a pensare a un universo finito e numerabile
(idea, più che errata, infernale), e l’analisi del processo combinatorio
mi è apparsa solo come metodo tanto più necessario in quanto
mai esaustivo per addentrarci nello sterminato intrico del possibile54.
La matematica, dunque, lungi dal limitare con le sue leggi e le sue
regole la immaginazione, esalterebbe le infinite possibilità rappresentative
di ogni possibile aspetto della realtà55. L’immagine rappresentata
sui tarocchi, tuttavia, nel Castello, dovrà fornire all’autore spunto o
ispirazione per la storia da narrare, ravvisando innanzitutto le somiglianze
con la carta scelta da ciascun personaggio e le caratteristiche e
la storia del personaggio stesso. Calvino, in effetti, ‘costruisce’ l’incrocio
centrale dei racconti del suo «quadrato magico», intorno al quale
49 I. Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)
[1967], in Id., Saggi 1945-1985, cit., I, p. 209.
50 R elativamente alla costruzione narrativa di Calvino A. Battistini, Lo scoiattolo
della penna. L’arte combinatoria di Italo Calvino, in Sondaggi del Novecento, a cura
di L. Gattamorta, Cesena, Il ponte vecchio, 2003, discute di «sistema binario di
relazione», pp. 251-252.
51 I. Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)
[1967], in Id., Saggi 1945-1985, cit., I, p. 213.
52 Ivi, p. 215.
53 Ibidem.
54 I. Calvino, La macchina spasmodica (1969), in Id., Saggi 1945-1985, cit., I, p.
253.
55 Sul rapporto tra letteratura e matematica in Calvino cfr G. Lolli, Discorso
sulla matematica. Una rilettura delle Lezioni americane di Italo Calvino, Torino, Bollati
Boringhieri, 2011.
[ 13 ]
800 irene chirico
prendono forma altre storie, tra loro incrociate, la cui lettura è possibile
nei sensi contrapposti, da sinistra a destra e viceversa, dall’alto al
basso e al contrario, disponendo i tarocchi come «scene successive di
un racconto pittografico»56.
A questo punto è opportuno seguire il racconto, evidenziando che
la prima carta posta davanti a sé da uno dei commensali è quella che
lo rappresenta, ovvero il racconto si genera, in effetti, da un atto di
volontà consapevole da parte del personaggio il quale, attraverso la
scelta di quella peculiare carta, decide di narrare la propria storia57,
così che a fronte del senso di «casualità e di disordine» che regna nel
castello – trasferendosi dal bosco al castello – la scelta volontaria della
materia narrativa rappresenta la prima ‘mossa’ tendente a ristabilire
un ordine. La figura del Cavaliere di Coppe, nella Storia dell’ingrato punito
(la prima del Castello), dettagliatamente descritta e rappresentante il
commensale, rimanda, nelle vesti sontuose e negli atteggiamenti, alla
sua condizione sociale, oltre che al suo spirito avventuroso, ostentato
a far mostra di sé piuttosto che per disposizione cavalleresca. Così
indica in tutta evidenza la voce narrante, sottolineando, con un «giudicai
io»58, che la storia, in effetti, si sviluppa attraverso osservazioni
fondate su sensazioni e suggestioni personali del narratore, il quale
dalle carte che di volta in volta il personaggio cala sul tavolo desume
il prosieguo della sua storia. Così il Re di denari, il Dieci di denari, il
Nove di bastoni fanno riferimento rispettivamente alla morte del padre,
all’eredità ricevuta, alla decisone di viaggiare. Qui la narrazione si ferma
per riassumere e per meglio organizzare lo svolgimento narrativo,
quasi avvertendo il lettore che la fictio non è necessariamente quella
narrata, perché altri percorsi immaginativi potrebbero derivare dalle
figure delle carte: «Dunque, l’inizio della storia poteva essere questo»59,
dove il «poteva» non può che alludere ad una delle possibilità di sviluppo
della storia, una tra le molteplici, quante potevano derivare dalla
‘lettura’ delle immagini, senza volere dare qui all’operazione condotta
alcun significato esoterico60. L’arcano, poi, della Forza fornisce
56 I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 124-125.
57 Anche per M. Corti, Il gioco dei tarocchi come creazione di intrecci, cit. «i commensali
[…], nell’atto in cui si identificano ciascuno con una carta-figura, ne rappresentano
una delle possibili interpretazioni simboliche, quella privilegiata dalla
fantasia creatrice dello scrittore», p. 171.
58 I. Calvino, Storia dell’ingrato punito, in Id., Il castello dei destini incrociati, cit.,
p. 7.
59 Ivi, p. 8.
60 Calvino stesso avverte: «Quanto alla vastissima bibliografia cartomantica e
[ 14 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 801
un nuovo impulso alla storia, ravvisando il narratore in esso l’agguato
di un feroce brigante ai danni del giovane, ipotesi confermata dalla
calata della carta del Penduto, senza dubbio il giovane derubato e lasciato
appeso ad un ramo a testa in giù. La Temperanza, l’Asso di Coppe,
il Due di Coppe, invece, narrano del salvataggio del giovane da parte di
una fanciulla e del loro amore, mentre il Sette di bastoni, simbolo dei
rami di una fitta foresta61 nella quale sembra intravedersi un’ombra,
racconta dell’abbandono della fanciulla da parte del giovane cavaliere,
in una non nobile manifestazione di ingratitudine. La storia, però,
ha ben altra conclusione, perché il protagonista decide di iniziare una
nuova fila di tarocchi, affiancata alla sinistra di quella già disposta.
Anche questa volta le carte calate sono decise da lui: L’Imperatrice e
l’Otto di Coppe segnalano l’incontro con una dama di elevato lignaggio,
molto ricca, con la quale il cavaliere si sposa, mentre il Cavaliere di
Spade indica la sua partenza per un’apparizione imprevista, quella di
un bambino, figurato dall’arcano maggiore del Sole, che trasporta una
testa raggiante, nella quale si coglie l’allusione ai ricami solari del
mantello indossato e smarrito dal cavaliere, quando si era perso nella
foresta. La voce narrante, anche questa volta, propone al lettore alcune
possibilità di sviluppo della storia derivate dalla lettura dell’immagine,
ipotizzando alcune ‘varianti’ relative alle motivazioni che inducono
il cavaliere ad inseguire il bambino. L’arcano maggiore La Giustizia,
che nella raffigurazione dei tarocchi viscontei riproduce non solo una
donna con la spada e la bilancia, ma anche sullo sfondo un guerriero
o un’amazzone a cavallo (anche in questo caso si offrono al lettore più
ipotesi), narra poi la conclusione della storia. Il cavaliere è sconfitto in
duello dall’amazzone che gli rivela anche che il bambino è suo figlio,
mentre a lui, ormai esangue a terra, La Papessa svela che la fanciulla
sua salvatrice era Cibele, venerata in quel bosco e che, per l’offesa arrecatale,
egli sarebbe stato straziato dalle Menadi, come, d’altra parte,
annunciato dall’ultima carta del racconto: l’Otto di Spade.
Con la stessa tecnica narrativa procedono anche le altre storie, dodici,
delle quali sei formano capitoli singoli titolati, altre sei, invece,
sono contenute in un ultimo capitolo dal titolo Tutte le altre storie. È da
d’interpretazione simbolica dei tarocchi […] non credo abbia avuto molta influenza
sul mio lavoro», I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., p. 124.
61 Condivisa e confermata anche dalle altre storie del Castello è l’osservazione
che «i Bastoni evocano quasi sempre il ‘bosco’ o la ‘foresta’», U. Musarra- Schroeder,
Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell’opera di Italo Calvino, Roma,
Bulzoni, 1996, p. 108.
[ 15 ]
802 irene chirico
osservare che i tarocchi utilizzati per la prima storia sono di volta in
volta scelti dal personaggio e poi interpretati dal narratore/autore,
mentre la seconda e la terza storia impattano già nel percorso di costruzione
narrativo quattro tarocchi comuni con le precedenti storie,
con un procedimento di condivisione destinata ad aumentare fino alla
dodicesima storia, nella quale l’unica carta non già utilizzata è quella
relativa al protagonista che narra la propria storia, la carta della Regina
di Bastoni. Essa rappresenta un donnone che serve da bere. Ma sotto i
panni di un’ostessa o castellana che sia si nasconde un’eroina sfuggita
ad un sicario pagato dai crudeli suoceri che mal sopportavano le sue
smisurate fattezze. È lei che, mentre attende lo sposo nel castello, gestisce
sorniona i giochi, controllando, ‘spiando’, ogni gettata di carte,
lo sviluppo di ogni singola storia, attenta e pronta, una volta completato
il reticolato narrativo, a confondere le carte, rimescolandole per
un nuovo inizio62. Vi è come misura non ostentata della infinitudine
del reale la consapevolezza che altre possibili storie possono raccontarsi
dalle combinazioni dei tarocchi. In quel mondo che Orlando, nella
Storia dell’Orlando pazzo per amore, una volta recuperata la ragione,
con occhio limpido afferma leggersi «all’incontrario»63, in quel mondo
di storie possibili disegnate attraverso le immagini dei tarocchi, l’autore
finisce per costatare che la propria storia non si distingue, perché
«La foresta, il castello, i tarocchi m’hanno portato a questo traguardo:
a perdere la mia storia, a confonderla nel pulviscolo delle storie, a
liberarmene»64. Ma che sia proprio la parola, la parola scritta, lo strumento
di decodifica del caos, che sia essa a consentire di percorrere le
strade del ‘labirinto’, sfidandone la complessità e la problematicità,
tentando di comprenderne il ‘senso’, per poi restituirlo al lettore65,
sembra confermato in una variante contenuta nell’edizione del Castello
del 1973.
In chiusa dell’edizione del 1969, descrivendo le azioni della succitata
ostessa o castellana, Calvino scrive:
Ecco ora ella apparecchiava una tavola per due (Due di Coppe) attendendo
il ritorno dello sposo, e spiava ogni muovere di fronda in questo
62 Cfr I. Calvino, Tutte le altre storie, in Id., Il castello dei destini incrociati, cit., p.
48.
63 I. Calvino, Storia dell’Orlando pazzo d’amore, in Id., Il castello dei destini incrociati,
cit., p. 34.
64 I. Calvino, Tutte le altre storie, in Id., Il castello dei destini incrociati, cit., p. 46.
65 Cfr lettera a Pier Paolo Pasolini, 9 maggio 1955, in I. Calvino, Lettere 1940-
1985, cit., p. 432.
[ 16 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 803
(Sette di Bastoni) bosco, ogni tirar di carte in questo mazzo di tarocchi,
ogni volger di pagina in questo incastro di racconti tutti diversi e tutti
uguali.
Nel finale dell’edizione del Castello del 1973 conclude:
Ecco ora apparecchiare una tavola per due, attendere il ritorno dello
sposo, e spiare ogni muovere di fronda in questo bosco, ogni tirar di
carte in questo mazzo di tarocchi, ogni colpo di scena in questo incastro
di racconti, finché non si arriva alla fine del gioco. Allora le sue
mani sparpagliano le carte, mescolano il mazzo, ricominciano da capo.
La seconda redazione del testo non solo elimina l’espressione «racconti
tutti diversi e tutti uguali», che avrebbe significato la vanificazione
stessa del procedimento e delle finalità dell’atto narrativo, ma aggiunge
la necessità di continuare nella narrazione («le sue mani […]
ricominciano da capo»), quasi segno di conquistata o riconquistata
consapevolezza delle infinite possibilità euristiche della parola esercitata
e vissuta come gioco. D’altra parte, già Franco Maria Ricci, nella
nota de’ L’editore al lettore, che apriva l’edizione del 1969, aveva evidenziato:
Calvino, mescolando il mazzo, ridà ora alla carriera dei Tarocchi la
direzione più giusta, quella del gioco: un gioco d’oggi che conosce le
scoperte strutturaliste e le possibilità combinatorie, ma che a queste
unisce fantasia e invenzione poetica.
Sono questi gli elementi che inducono l’autore a ricominciare il gioco
e così continua a sperimentare, scrivendo la Taverna. Ma anche qui
la narrazione, senza dubbio meno cogente per linearità diegetica e proprio
per questo forse più rappresentativa dell’indeterminatezza del
reale, è stimolata, ma non dettata, dalle immagini dei tarocchi66, che
adesso sembrano sempre meno sottostare a uno schema regolato67: es-
66 Già F. Ricci, Painting with Words, Writing with Pictures. Word and Image in the
Work of Italo Calvino, cit. aveva osservato: «The cards […] provided Calvino with a
sphere of imaginative freedom heretofore only experienced as the painful chore of
writting. A spirit of continuing inspiration seems to emanate from the cards», p.
111, e ancora: «The images play a supporting role, a foil, like the tarot cards in Il
castello dei destini incrociati, for the authors pitched imagination», p. 228.
67 Così lamentava ancora nel dicembre del 1973 scrivendo a Mario Lavagetto:
«Sì la Taverna non segue le ferree regole che avrei voluto darle, nel quadrato dello
schema generale […] non c’è legge per passare da una carta all’altra», I. Calvino,
Lettere 1940-1985, cit., p. 1224.
[ 17 ]
804 irene chirico
se sono sparpagliate sul tavolo, confuse ancora di più dalle mani degli
avventori che narrano disponendo le carte senza un ordine, di modo
che al termine di tutte le storie il perfetto quadrato magico costruito nel
Castello, qui nella Taverna sembra non reggere più su un sistema di norme.
Anzi le carte, eccezion fatta per quelle che identificano i protagonisti
(l’indeciso, piuttosto che il becchino), poste lungo i margini di un
rettangolo costituito dai 78 tarocchi di Marsiglia, restano ‘mischiate’, in
modo che il lettore, che volesse seguire la storia attraverso le immagini,
deve di volta in volta individuarle all’interno del complesso di immagini
che si succedono. Insomma la parola narrativa appare prendere il
sopravvento sull’immagine stessa68, generando proprio in ragione di
questo interrotto e sempre ricercato legame tra figura e parola una narrazione
che sembra talvolta collassare su se stessa, o confondersi
nell’intreccio di storie diverse eppure figurativamente uguali, perché
narrate servendosi delle stesse carte. Immagini e parole sembrano vivere
due vite diverse dal momento che «quanto più le storie diventano
confuse e sgangherate tanto più le carte sparpagliate vanno trovando
il loro posto in un mosaico ordinato», come è detto nell’incipit del racconto
Due storie in cui si cerca e ci si perde. Qui tanto l’alchimista quanto
il cavaliere sono impegnati «a cercare nella successione delle carte la
via d’un cambiamento dentro se stesso che si trasmetta fuori»69, una
ricerca che delude il dottor Faust, altro protagonista della storia, stanco
del cincischiare tra le combinazioni dei tarocchi e consapevole che
[…] c’è un numero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano
a miliardi di miliardi, e di queste solo poche trovano una forma e un
senso e s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza
forma; come le settantotto carte del mazzo dei tarocchi nei cui accostamenti
appaiono sequenze di storie che subito si disfano70.
Storie che ‘si disfano’, se non fosse la parola a fermarle, dopo averle
narrate servendosi delle immagini. E non solo di quelle dei tarocchi,
ma anche di quelle dei quadri, utilizzate da Calvino nella storia che
narra se stesso, Anch’io cerco di dire la mia, conseguendo nella Taverna
l’obiettivo che non gli era stato possibile nel Castello: rintracciare tra le
tante la propria storia. I quadri di San Giorgio, San Girolamo, Sant’A-
68 Nota E. Ajello, Arcipelaghi. Calvino e altri. Personaggi, oggetti, libri, immagini,
Napoli, Liguori, 2013: «il racconto […] “trasuda” dalle immagini», p. 178.
69 I. Calvino, Due storie in cui si cerca e ci si perde, in Id., Il castello dei destini incrociati,
cit., p. 90.
70 Ivi, p. 97.
[ 18 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 805
gostino per effetto della loro carica immaginifica gli consentiranno di
riflettere sul potere della parola, della parola scritta che «tiene sempre
presente la cancellatura della persona che ha scritto o di quella che
leggerà», perché il discorso umano è incorporato nella stessa natura:
«La natura inarticolata ingloba nel suo discorso il discorso umano»71. E
tuttavia, la ricerca permanente di rendere visibile attraverso le parole il
reale indeterminato, o viceversa, si manifesta tutta nella Taverna, ancor
più che nel Castello. È nella prima, infatti, che il disordine del mondo
esplode in tutta la sua irriducibilità, forse rendendo caotica la stessa
narrazione, tuttavia idonea a rappresentare un vissuto individuale e
collettivo riconoscibile, e perciò comunicabile, proprio negli «stampi di
scene che si ripetono uguali»72: la loro numerabilità, i limiti dello specchio
della carta che le contiene e la loro finitezza non ne riducono la
possibilità di produrre infinite storie. Da qui la necessità di non chiudere
e concludere il racconto, di lasciare aperto il progetto, perché altre
infinite storie potesse raccontare – o raccontarsi – il lettore delle immagini
dei tarocchi, altre infinite rappresentazioni dell’indeterminismo
del reale. Il suo presunto fallimento era, in effetti, non solo connaturato
al progetto, ma ne costituisce, a mio parere, paradossalmente la cifra
del successo. Giunto alla «fine del gioco», con l’ultima carta del Castello,
serviva, dunque, «ricominciare da capo»73, perché l’infinita narrazione
non avesse termine. Le immagini, il loro accostamento era servito,
senza dubbio, a rappresentare storie, a leggerne di infinite, ma non
tanto – a mio parere – per il loro disporsi entro un rigido sistema strutturato,
quanto per la capacità intrinseca di quelle immagini di stimolare
l’immaginazione, proprio come si usava fare diversi secoli prima di
qualsiasi teoria ‘combinatoria’ con le carte dei Tarocchi.
Senza presumere fondati collegamenti filologici, osservo che con
identica funzione, con la stessa finalità illustrativa che aveva mosso
Calvino nella costruzione del testo del 1969, in chiave ludica, ma non
troppo – come avviene spesso nel gioco della letteratura –, le figure
dei tarocchi erano state utilizzate circa cinque secoli prima dal Boiardo,
che pure aveva prestato penna e fantasia per accompagnare le illustrazioni
di un mazzo di tarocchi di ottanta carte da gioco74. I tarocchi,
71 Ivi, p. 106.
72 Ivi, p. 104.
73 Ivi, p. 48.
74 Cfr Matteo Maria Boiardo, Tarocchi, a cura di S. Foà, Roma, Salerno Editrice,
1993.
[ 19 ]
806 irene chirico
infatti, erano usati anche come gioco ‘verbale’75 da dame e cavalieri
della corte estense «per immedesimarsi in ruoli diversi e, in base a
questi ruoli, costruire discorsi o discussioni, prevalentemente di argomento
amoroso». Nel mazzo dei tarocchi illustrati da Boiardo la prima
e l’ultima carta contenevano un sonetto di illustrazione e conclusione
del gioco, mentre le altre settantotto carte una terzina, che doveva iniziare
nelle quattro serie dei semi con la parola corrispondente (qui i
semi erano rappresentati dalle quattro passioni umane dell’Amore/
bastoni, Speranza/coppe, Gelosia/denari, Timore/spade) e, per le
prime dieci carte, con l’indicazione del numero («Amor, un che […]»,
«Amor, dubio […]»76), mentre le ultime quattro carte presentavano le
caratteristiche di quattro personaggi «che, nella vita o nella leggenda,
avevano vissuto la passione corrispondente: erano tre uomini ed una
donna che rappresentavano il fante, il cavallo, la regina e il re del normale
mazzo di tarocchi»77. La presenza di elementi compositivi obbligati
non permetteva, come è stato osservato, «un discorso particolarmente
curato ed elaborato»78, mentre l’illustrazione dei trionfi, con la
scelta di personaggi storici, mitologici, biblici e letterari, identificativi
di una delle ventuno qualità, lasciando più libertà al poeta consente di
rintracciare qui «quella tendenza figurativa e alla “miniatura” che è
propria anche degli Amores»79. Ora, è vero che a Boiardo manca «la
“coscienza narratologica” grazie alla quale accostare le carte da gioco
poteva dare origine ad un racconto: nella combinazione dei tarocchi
boiardeschi non vi è infatti la possibilità di sviluppo narrativo, ma
solo la possibilità di giustapposizione di elementi simili tra loro (qualità
umane ed immagini)»80, ma è anche vero che nel momento in cui i
versi de I tarocchi di Boiardo divennero “testo” a stampa, cioè testo
letterario, – inclusi come furono, per una operazione editoriale, in una
silloge di testi d’argomento simile, una sorta di “manuale d’amore” –
nel XVI secolo, le immagini dei tarocchi già si prestavano ad una lettura
allegorizzabile del mondo, figurazione dei vizi e delle virtù umane81.
Una lettura possibile questa che mi pare fornisca il presupposto
o uno dei presupposti utile alla interpretazione delle immagini dei
75 Ivi, p. 7.
76 Ivi, p. 13.
77 Ibidem.
78 Ivi, p. 14.
79 Ibidem.
80 Ivi, p. 15.
81 Ivi, pp. 18-19.
[ 20 ]
i tarocchi tra immagine e racconto in calvino 807
tarocchi del Castello, anche qui, d’altra parte, per rimettere in moto,
quasi come in un gioco, il meccanismo delle infinite storie occorre arrivare,
come avverte l’ostessa o castellana, «alla fine del gioco», ma
spetterà ad ogni lettore, però, come avvertiva il poeta di Scandiano,
«trovar del gioco l’arte»82, cioè generare le infinite storie.
82 Come Boiardo chiosava nell’ultimo verso del sonetto di apertura: «Resta mo
a te trovar del gioco l’arte», ivi, p. 30.
[ 21 ]

I Domenicani e la letteratura, a cura di
P. Baioni, Introduzione di C. Delcorno,
Biblioteca della «Rivista di
letteratura italiana», 24, Pisa-Roma,
Fabrizio Serra Editore, 2016, pp. 186.
In occasione dell’ottavo centenario
dell’approvazione della forma di vita
di Domenico e dei suoi compagni, la
pubblicazione di questa raccolta di
saggi curata da Paola Baioni e introdotta
da Carlo Delcorno si caratterizza
non soltanto quale miscellanea celebrativa
per il giubileo dell’Ordo fratrum
praedicatorum, ma come volume
che, attraverso ricerche di prima mano
e spesso inedite per l’originalità
dei temi o delle angolature adottate
(ricerche, queste, talvolta ancora allo
stadio iniziale, ma saldamente sorrette
da una lucida prospettiva critica,
già ben definita sotto il profilo metodologico
e delle finalità scientifiche
attese), contribuisce a scandagliare il
nesso Domenicani-letteratura.
Alla base della raccolta si ravvisa
infatti la volontà di mettere a fuoco
l’apporto dell’ordine dei frati predicatori
alla storia della letteratura italiana,
mostrando come la contaminatio
si riveli essere non soltanto il criterio
ermeneutico attraverso il quale
cogliere le frequenti osmosi tra i territori
del sacro e quelli del profano, o
la fitta intertestualità tematica e stilistica
che si dispiega ora in direzione
diacronica ora invece in prospettiva
sincronica, ma piuttosto la componente
fondamentale dell’effettiva
strutturazione di un corpus letterario
che rifiuta, pertanto, distinzioni arbitrarie
ed ideologicamente preordinate
(perché, appunto, storicamente e
scientificamente infondate) tese a
espellere o a marginalizzare autori,
testi o generi letterari dalla res publica
litterarum in quanto percepiti come
corpi estranei. La distribuzione dei
saggi all’interno del volume segue
un duplice criterio, che riporta la dimensione
cronologica nella scansione
dell’organizzazione tematica, e
origina in tal modo quattro sezioni,
volte a investigare la varietà e la ricchezza
dei contributi culturali offerti
dall’ordine dei frati predicatori ai
territori della letteratura: Dante, Petrarca
e i Domenicani; la predicazione;
la lauda, la trattatistica, i volgarizzamenti;
devozione e scrittura
femminile.
Ad aprire la prima sezione, incentrata
appunto sui legami di Dante e
Petrarca con l’immaginario culturale
dei Domenicani, e specificamente
letterario e teologico, è l’indagine di
Recensioni
810 recensioni
Sabrina Stroppa sui panegirici dedicati
a Francesco e a Domenico, rispettivamente
collocati in Par. XI e
XII, che «non sono perfettamente riflessi
uno dall’altro, come i due arcobaleni
paralleli, ma si dispongono
secondo arcate temporali opposte e
complementari: nel primo caso mancano
del tutto cenni alle circostanze
della nascita e all’infanzia; nel secondo
caso mancano le circostanze della
morte» (p. 29). In Dante, i due campioni
degli ordini mendicanti del
Duecento sono dunque presentati
secondo la retorica della simmetria e
del chiasmo che sottolinea per un
verso il comune legame nel provvedere
alla missione evangelizzatrice
della Chiesa, per l’altro invece i tratti
antitetici, seppure riassorbiti dai
«meccanismi di analogia», connessi
agli specifici carismi. Ma oltre al rilievo
dei meccanismi costruttivi che
agiscono all’interno dei singoli panegirici,
e a livello macrostrutturante
su questi due canti nel loro complesso
e su tutti quelli del cielo del Sole,
la studiosa sottolinea come entrambi
gli elogi dei due santi fondatori siano
percorsi dal motivo teologico e letterario
della luce che, soprattutto in
Domenico, è manifestazione della
sapienza divina e, per virtù della
Grazia, anche umana.
Sempre in questa sezione si incontra
il saggio molto denso di Edoardo
Fumagalli che, riprendendo ricerche
già inaugurate da Albinia de la Mare,
approfondisce mediante un meticoloso
studio codicologico le modalità
con cui Petrarca accosta il commento
di Tommaso d’Aquino alla Physica di
Aristotele. In questo modo si documenta
«nel modo più concreto una
forma di interesse per quella Scolastica
che, nell’opera di Petrarca, viene
di norma sottoposta a una critica
impietosa» (p. 37). E dopo aver dimostrato
il legame tra la composizione
del De sui ipsius et multorum ignorantia
e la lettura del commento tomista
alla Physica, avvenuta anch’essa
con molta probabilità negli anni
Sessanta del XIV secolo, lo studioso
mostra come l’incontro tra Petrarca e
l’Aquinate avvenga all’insegna di
una eloquente «reticenza». Petrarca
infatti sembra non instaurare con il
pensiero di Tommaso un dialogo
aperto, critico, emotivamente coinvolto:
dall’analisi delle postille si ricava
l’impressione che Petrarca legga
questo manoscritto (il Palatino lat.
1036, ora alla Biblioteca Apostolica
Vaticana) «con attenzione, ma rimanendo
freddo: come se dovesse assolvere
un compito poco gradito,
raccogliere informazioni su un tema
non congeniale» (p. 41).
La sezione dedicata alle forme della
predicazione domenicana è inaugurata
dal contributo di Ginetta
Auzzas, che indaga gli aspetti letterari
dello Specchio di vera penitenzia di
Iacopo Passavanti, rilevando la dominante
biblica saldamente presente
sia nella prassi oratoria sia nell’
«idea» retorica dei Domenicani. In
linea con la riflessione agostiniana,
rintracciabile nel quarto libro del De
doctrina christiana, anche il Passavanti
ritiene che la cultura pagana possa
entrare nella predica solo se si pone
al servizio della verità cristiana. Ma
la studiosa rileva ancora come lo
Specchio di vera penitenzia sia anche
un’emblematica testimonianza di
quella trasformazione di genere letterario,
già in atto nel Duecento e documentata
dai cicli predicatori di
Tommaso d’Aquino, che conduce il
sermone ad assumere i caratteri linrecensioni
811
guistici, la dispositio contenutistica e
l’architettura retorica propri del trattato.
Certamente si tratta ancora di
una forma letteraria in fieri, di una
metamorfosi non ancora del tutto
conclusa (e che trova pieno compimento
solo nel XVI secolo), come dimostra
Auzzas, con sicura perizia filologica,
rinvenendo nel testo un uso
insistito delle figure retoriche connesse
alla dimensione dell’oralità e
della performance omiletica. Così –
conclude – «lo Specchio di vera penitenzia
è una creazione complessa,
non facilmente riducibile a un comun
denominatore […] tuttavia, appare
lecito designarlo, globalmente,
una composizione didascalico-pedagogica
» (p. 54).
Specificamente sui trattati di Domenico
Cavalca si sofferma Simone
Tarud Bettini, in particolare sul Pungilingua,
testo che si appunta sul peccatum
oris e rivela in filigrana la centralità
assunta da un nuovo gruppo
di laici e consacrati estremamente
abili nell’uso della parola. Di estremo
interesse risulta anche la tassonomia
dei peccatori e dei peccati, connessi
all’uso improprio della «lingua
», che testimonia da parte del
Cavalca un’attenzione minuziosa e
accuratissima per l’effettiva stratificazione
ed articolazione della società
coeva. Se il ceto borghese è il pubblico
a cui il trattato si indirizza, va ancora
notato – secondo lo studioso –
che la prosa del Cavalca «tende a una
costante concretizzazione dell’astratto
» (p. 62) modellandosi appunto su
un criterio di pragmatica considerazione
dei destinatari, delle finalità e
dei mezzi intrinseci al linguaggio e al
sistema della comunicazione letteraria.
Sulla retorica sacra del primo Seicento,
e precisamente su uno dei pochi
trattati di rhetorica docens, Il condottiero
del predicatore di Maurizio Di
Gregorio, si soffermano le pagine di
Erminia Ardissino. Il Di Gregorio –
nota – «sfrutta abbondantemente la
moda concettista e le più recenti teorie
della comunicazione che passavano
attraverso la riflessione sul segno
iconico e verbale» (p. 74). Oltre alla
varietà di forme che combinano immagine
e parola, la trattazione del Di
Gregorio indugia poi sul «concetto»,
vera cifra della predicazione barocca,
e sull’actio retorica, sentita come
aspetto imprescindibile di ogni predicazione.
Sottolinea pertanto Ardissino:
«Quella che egli propone è una
novità in campo omiletico, che diventerà
un uso ben consolidato, di
portare sul pulpito tanta erudizione
diversa, al punto che Paolo Segneri,
nella seconda metà del secolo, determinerà
una svolta con il ritorno alla
predica evangelica» (pp. 79-80).
Conclude la sezione sulla predicazione
domenicana l’intervento di
Andrea Canova, che si sofferma sulla
figura e sull’attività letteraria di Matteo
Bandello. Di lui – osserva – va
colto lo sforzo di inserire all’interno
«di quel sostrato milanese tardoquattrocentesco
per il quale Carlo
Dionisotti trovò in Girolamo Claricio
un degno eroe eponimo» una personale
ricerca di una strada verso il
volgare, facendo i conti «oltre che
con i propri confratelli e colleghi letterati,
anche con il suo pubblico naturale,
cioè la società aristocratica
lombarda, appassionata magari di
lirica amorosa, ma anche di ciò che
noi oggi definiamo cronaca, meglio
se nera» (p. 84). In una simile cornice,
tra latino e volgare, da un lato, e influenze
culturali dell’ordine domeni812
recensioni
cano, della raffinata aristocrazia e
degli amici letterati, dall’altro, sembra
nascere il progetto delle Novelle
«che con le loro tinte fosche e tratte
dalla vita quotidiana» (ibidem) incrociano
l’apprezzamento delle élite milanesi
e della corte mantovana, conservando
tracce di quel carattere probatorio
e di paradigma morale specifico
degli exempla delle prediche.
Ma oltre alla predicazione, i Domenicani
frequentano una molteplicità
di generi letterari, tra cui la lauda,
la trattatistica e i volgarizzamenti,
che sono oggetto della terza sezione
del volume. Sulle laude di ispirazione
domenicana, rivolte ai laici
delle confraternite, si ferma persuasivamente
Matteo Leonardi. A rappresentare
la dorsale delle laude domenicane
sono la visibile ispirazione
liturgica e una retorica segnatamente
drammatica, che fa di questi testi
l’humus da cui origina il teatro medievale
in Italia. Se le laude francescane
sono spesso incentrate sul tema
della Passione, quelle domenicane
si appuntano invece su temi morali,
sul ciclo santorale, su versetti
desunti dalla Scrittura e sulla spiritualità
mariana. Lo studioso nota poi
che «I frati predicatori colgono dunque
subito la novità e le potenzialità
istruttive, predicatorie del nascente
genere della poesia sacra vernacolare
» (p. 101) e riescono a intravedere
la possibilità di tradurre in essa il
proprio carisma contemplativo:
«contemplare significa infatti cogliere
a parte hominis il mistero divino,
“comprendendone” dunque in sé
una traduzione nella grammatica del
pensiero e dell’intuizione umani»
(ibidem). Si tratta insomma di attuare
«il trapasso dal parlare “con Dio” al
parlare “di Dio” secondo la nota sententia
di Tommaso: “contemplari et
contemplata aliis tradere”» (ibidem).
È invece Silvia Serventi a investigare
la presenza del tema agostiniano
dell’amore nella predicazione e
nella trattatistica domenicana tra
XIV e XVI secolo. Particolarmente attratti
dalla teologia del vescovo d’Ippona,
come emerge anche dalla scelta
di adottarne la regola, i Domenicani
sviluppano, già a partire dal Trecento,
un’approfondita riflessione
sull’ordo amoris, l’amore di carità che
è al centro della speculazione agostiniana.
Attraverso l’esame della letteratura
di Giordano da Pisa, Giovanni
Dominici e Girolamo Savonarola,
viene tracciata la storia del tema
dell’amore di Dio, che rappresenta
un aspetto di novità della teologia e
della pastorale successive all’anno
Mille. Un aspetto, questo dell’amore
divino di ascendenza agostiniana,
che conosce una vera apoteosi tra la
fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento,
e conosce una singolare traduzione,
verso la metà del Cinquecento,
per le domenicane del monastero
di S. Giorgio di Lucca, richiamate
a meditare sull’«amore infinito
che Dio ha mostrato agli uomini a
partire dal capitolo quinto della seconda
lettera ai Corinzi» (p. 117).
Non tanto la comunicazione ad extra,
quanto piuttosto quella ad intra
rispetto all’ecumene cristiana, è argomento
dell’importante studio di
Stefano Cremonini che affronta le
modalità attraverso cui il messaggio
evangelico viene tradotto in volgare
per raggiungere un pubblico ampio e
socialmente articolato, incapace di
comprendere il latino. L’intento di
trasporre la ricchezza dei testi latini
nel volgare adatto agli uomini semplici
e senza lettere assurge a tratto
recensioni 813
missionario specifico dell’ordine domenicano.
Ed allora non solo nella
predicazione ma in una pluralità di
generi letterari si rintraccia l’impegno
domenicano a volgarizzare passi
della Bibbia e testi della letteratura
mediolatina. Nel richiamare l’attività
di Bartolomeo da San Concordio e di
Domenico Cavalca, lo studioso dimostra
poi come la loro “teoria traduttologica”
punti a restituire la
«sententia» dei testi e non invece un
dettato «verbum a verbo». Anche
nell’attività di volgarizzazione – conclude
acutamente – «la delectatio appare
una preoccupazione secondaria
(sebbene, in realtà, non venga trascurata)
», mentre il docere, strettamente
legato al movere, «è invece un obiettivo
costante di tutti i volgarizzatori,
nella consapevolezza che “molto saviamente
fa chi la sapienza degli antichi
sollecitamente cerca”» (p. 130).
Il volgarizzamento della Vita Mariae
Oigniacensis attribuito a Giovanni
Dominici, argomento delle pagine
di Rossana Vanelli Coralli, è spia
dell’interesse dei Domenicani per la
religiosità femminile. Al di là dell’esemplarità
connessa a questa proposta
agiografica, che trova il suo centro
tematico nella sottolineatura della
«castità», somma virtù additata
alla spiritualità femminile, è da notare
la fitta intertestualità con il Cantico
dei cantici. Questo elemento – suggerisce
Carlo Delcorno nell’Introduzione
al volume – è tratto stilistico e contenutistico
proprio della scrittura del
Dominici, che non a caso è ravvisabile
anche «nelle sue prediche e nelle
lettere alle domenicane del Corpus
Domini» (p. 16). Rappresenta pertanto
un ulteriore indizio di carattere
probatorio per attribuire il volgarizzamento
della Vita al Dominici.
Infine, si dispone la quarta sezione,
occupata da ricerche appuntate
su devozione e scrittura al femminile.
Influenzato per un verso dalla poetica
dell’Arcadia e, per l’altro, dalla
pietà domenicana, il Rosario di Maria
Vergine di Francesco De Lemene, oggetto
del lucidissimo studio di Gianni
Festa, assurge a poema mariano di
fondamentale importanza all’interno
della storia di un genere devozionale.
L’andamento fortemente centripeto,
costantemente impegnato a far
convergere la vastità della materia
teologica sulla figura di Maria, rappresenta
la cifra più singolare del Rosario,
che si caratterizza dunque come
«uno straordinario esercizio a tema
fisso con variazioni» (p. 154). Ma
nel Rosario affiorano anche «i distintivi
lasciti della “poetica dell’hoggidì”,
quali il gusto per l’impianto e il
parlato teatrale, la predilezione per
l’ambientazione notturna, un formidabile
uso della metafora e dell’arguzia
» (p. 152); tratti, tutti questi, che
appaiono legati a forme melodiche
«purificate dai temi della lascivia e
della leziosità barocche» (p. 153). Seguendo
con intelligenza un fortunato
filone di ricerca aperto da Giovanni
Pozzi, il Festa esamina diffusamente
l’immagine della «rosa», fiore
tradizionalmente associato a Maria,
notando che «la tecnica del contrappunto
unita a un melismo accentuato
gli permettono di dominare il repertorio
immenso dei motivi sulla rosa
accumulatisi nei due filoni della letteratura
mariana e della poesia secolare
» (p. 154).
Su alcune delle più significative
metafore spirituali presenti nelle lettere
di Caterina da Siena, torna Rita
Librandi. Nel prestare particolare attenzione
alle spie stilistiche e agli sti814
recensioni
lemi, la studiosa nota che «le metafore
della specificazione ritornano con
tale frequenza da essere riconosciute
come tratto identificativo del suo stile
» (p. 163). A illustrare il significato
di una tale scelta è sempre la Librandi:
«La forza modellizzante delle metafore
cateriniane, d’altro canto, al di
là delle costruzioni in cui i due componenti
della metafora divengono
l’uno il determinante dell’altro, è da
ricondurre al potere evocativo, a volte
straniante, di cui sono dotate le
immagini selezionate dalla santa» (p.
164). E questo uso insistito di metafore
della specificazione, ora legate ai
cinque sensi spirituali ora invece alla
realtà sensibile che circonda l’uomo,
rappresenta per Caterina lo strumento
per attuare il proprio progetto di
comunicazione che si protende
nell’interrotta (e spesso faticosa) dinamica
del «conoscere», «agire» e
«comprendere».
Chiude questa sezione, e con essa
l’intero volume, il saggio di Paola
Baioni che si occupa delle lettere di
santa Caterina de’ Ricci. Attraverso
l’analisi della grafia cateriniana, i cui
tratti rimandano a una corsiva umanistica,
la studiosa rileva come al corpus
epistolare della mistica domenicana
siano ascritte anche lettere non
autografe. E in parallelo, annuncia
uno sviluppo di questa ricerca: «Se il
problema che ha suscitato il maggior
interesse è quello delle “mani” che
hanno redatto le lettere, certamente
non meno importante è l’aspetto linguistico.
Si vorrebbero individuare
tutti gli autografi della monaca domenicana
per studiarli anche da questo
punto di vista» (p. 186). Infine, è
proprio grazie all’indagine paleografica
che si ricava un’importante conferma
circa la formazione della mistica
in un ambiente umanistico ormai
assimilato dalla tradizione domenicana.
Precede questa raccolta di saggi
l’Introduzione di Carlo Delcorno che,
oltre a illustrare criticamente le ricerche
e a mettere in luce gli apporti
scientifici più originali dei vari interventi,
offre ai lettori una straordinaria
sintesi dei caratteri retorico-letterari,
delle specificità linguistiche e
dell’evoluzione storica della cultura
domenicana. E nel rintracciare un
denominatore comune per la varietà
dei generi letterari affrontati dai Domenicani
e, di conseguenza, per la
eterogeneità dei saggi – diversi anche
per apporti ed esiti – che compongono
il volume, così scrive: «La
forza e l’originalità di gran parte della
letteratura domenicana risiedono
proprio nella sua radice scritturale, a
cominciare dalla predicazione al
pubblico cittadino, che audacemente
adattava alla lingua volgare la struttura
del sermo modernus, fondato su
un versetto biblico (il thema) e intessuto
di auctoritates bibliche concordate.
In modi diversi i saggi raccolti in
questo volume dimostrano che le
molteplici forme letterarie sperimentate
dai Domenicani trovano il punto
di orientamento più sicuro nella predicazione
e per essa nella Bibbia» (p.
12).
Guido Laurenti
Andrea Battistini, La retorica della
salvezza. Studi danteschi, Bologna, Società
editrice il Mulino, 2016, pp. 326.
Dopo una gestazione di trent’anni,
con alcuni capitoli già pubblicati in
precedenza, Andrea Battistini racrecensioni
815
chiude in un solo volume scritti passati
e studi recenti intorno al significato
della retorica in alcuni canti della
Divina Commedia, dimostrando,
nel susseguirsi dei capitoli, come
l’utilizzo delle figure retoriche da
parte di Dante possa essere utilizzato
come ipotesi interpretativa per il
viaggio verso la salvezza.
Il testo, nel primo capitolo, muove
dall’assunto che la Commedia, oltre
ad essere un’opera poetica, sia anche
e soprattutto un’opera profetica. In
questa struttura Dante è affidato a tre
guide, ma allo stesso tempo fa ricadere
su di sé tale ruolo, divenendo
egli stesso guida per l’umanità tutta.
Nel condurre gli uomini verso la redenzione,
il “nuovo Mosè” utilizza
una retorica che non può più essere
quella classica, quella delle «parole
ornate» di un Virgilio inizialmente –
non a caso – «fioco». Questa, tuttavia,
dovrà essere adoperata come
base per il raggiungimento delle «vere
parole», quelle di Beatrice, dei Beati
e di Maria.
Il secondo capitolo è dedicato al III
e al V canto dell’Inferno, canti in cui il
lettore si ritrova “a faccia a faccia con
la viltà e la lussuria”. L’autore esamina
qui due atteggiamenti sostenuti
dal Dante personaggio nel momento
in cui deve misurarsi con la paura e
con l’amore. Se il primo sentimento,
che caratterizza il poeta per i primi
tre canti, viene eliminato dall’incontro
con i pusillanimi, così non può
dirsi per il secondo, il quale porta
con sé declinazioni molto più articolate.
L’amore corporale cantato da
Dante in alcune liriche viene sì rinnegato
nel V canto, ma il soggiorno di
Francesca all’Inferno fa nascere complessi
sensi di colpa nel poeta (sottolineati
dal ripetersi di alcune parolerima)
per aver cantato anch’egli
quell’amore che prende il sopravvento
e al quale non è possibile opporsi.
Il terzo capitolo si concentra sulla
figura infernale di Gerione. Battistini
evidenzia come tra le più di dieci similitudini
presenti nel canto, ben otto
siano dedicate al mostro e che
gran parte di esse siano animalesche,
finemente forgiate dal poeta al fine
di creare nella mente del lettore una
sorta di collegamento con la realtà in
grado di concretizzare quella verità
mostruosa che ha «faccia di menzogna
».
Nel quarto capitolo si analizza il
XXI canto dell’Inferno, canto in cui i
barattieri sprofondano nella «tenace
pece». Il senso di bassezza e di sprofondamento
viene restituito non solo
attraverso l’abbondanza delle labiali
che rievocano il ribollio della pece,
ma anche dalle scelte lessicali per i
Malebranche, ai quali sono affidati
termini triviali e popolari e la cui tonalità
comica è ottenuta attraverso
l’utilizzo di rime aspre.
Incentrato sulla metamorfosi è il
canto XXIX dell’Inferno. Nel quinto
capitolo Battistini mostra come Dante,
volendo trattare il tema della vendetta,
lo presenti dapprima in tono
tragico col mutismo di Geri del Bello
e, successivamente, col passaggio
nella bolgia dei falsari, in tono comico
con le raffiche verbali di Griffolino
e l’ironia di Capocchio, istaurando
un parallelismo tra la metamorfosi
dei metalli e quella stilistica.
Al Purgatorio sono dedicati i capitoli
sei, sette e otto che esaminano rispettivamente
i canti XII, XXI-XXII e
XXXIII. Nel sesto capitolo, riflettendo
sulle incisioni della superbia punita
e giocando sul senso di leggerez816
recensioni
za dovuto alla liberazione dei peccati
del viator, l’autore nota come Dante
sia sempre proteso alla «speranza de
l’altezza», ossia come le scelte lessicali
denotino una tendenza alla verticalità.
I canti XXI e XXII, i “canti di
Stazio”, offrono al lettore un parallelo
con il IV canto dell’Inferno. Uno
Stazio ormai beato e un Virgilio
pronto a tornare nel suo esilio eterno
dimostrano come Dante abbia subordinato
la poesia alla fede, la sola che
possa portare l’uomo alla salvezza.
Nell’ottavo capitolo è analizzato il
rapporto tra memoria e amnesia. La
presenza dei due fiumi del Paradiso
terrestre offre a Dante l’occasione per
differenziare due tipologie di memoria,
una dovuta alle acque del Lete e
dell’Eunoè, quindi una memoria voluta
da Dio, l’altra completamente
assoggettata alle facoltà specifiche di
ogni uomo.
Nel nono capitolo è esaminato il
XIX canto del Paradiso, il quale si pone
come sintesi di dottrina e poesia.
Dovendo trovare risposta ad uno degli
interrogativi più complessi della
religione cristiana (il battesimo è necessario
per l’ingresso in Paradiso?),
il poeta riprende vari passi delle Sacre
Scritture, dimostrando che solo in
esse debbano sciogliersi tutti i dubbi
umani. Nel capitolo successivo continua
il ragionamento sulla fede: nel
VI Cielo, insieme con gli spiriti giusti,
sono presentati due pagani, Traiano
e Rifeo, portati in Paradiso dalla
“grazia divina”. L’attenzione è tutta
concentrata su Rifeo, personaggio
virgiliano grazie al quale Dante può
effondere nel canto echi dell’Eneide e
delle Georgiche.
L’undicesimo capitolo si accinge a
dimostrare come il XXIV canto del
Paradiso non sia solo un canto dottrinale,
ma un canto in cui dottrina (fede)
e poesia (bellezza) si fondono armoniosamente
per presentarsi l’una
al servizio dell’altra, provando che le
tecniche retoriche sono impalcature
indispensabili per la spiegazione
dottrinale.
L’ultimo capitolo si sofferma sull’immagine
conclusiva della Commedia,
quella che avvicina Dio a un libro.
Nel cercare una spiegazione per
la scelta dantesca, che è innanzitutto
scelta poetica, Battistini invita i lettori
a riflettere sul significato intimo
del libro, unico oggetto ad essere
continuamente in divenire e che ha
sempre necessariamente bisogno di
qualcuno che lo legga e lo interpreti.
Anche se Dante non può che dirne
che «un semplice lume», l’immagine
del volume, del libro della natura che
si squaderna e trova in Dio la realizzazione
in un sol punto è l’apice della
dottrina dantesca, la vetta più alta
e significativa del suo viaggio e della
sua retorica della salvezza.
Fara Autiero
Matteo Soranzo, Poetry and identity
in Quattrocento Naples, Farnham /
Burlington, VT, Ashgate, 2014, pp.
VIII + 169.
Per Matteo Soranzo, professore di
italianistica alla McGill University di
Montréal, l’identità di un individuo
non è tanto una conseguenza dell’appartenenza
sessuale, del ceto sociale,
dell’etnia o della religione quanto il
risultato di specifici atti comunicativi
in un determinato contesto. Essa non
si dà come costruzione stabile e permanente,
configurandosi piuttosto
quale insieme di caratteristiche in
recensioni 817
sviluppo costante, fondata su scelte
operate tra alternative in concorrenza
tra di loro. In particolare, la formazione
di un’identità letteraria passa
attraverso la selezione di una lingua,
di un modello e di particolari
generi e temi. A fondamento della
visione sociologica elaborata da Soranzo
si colloca il pensiero di Pierre
Bourdieu, studioso che ha insistito
sui concetti di campo e di habitus in
ambito intellettuale.
La monografia di Soranzo prende
a oggetto la letteratura colta prodotta
a Napoli tra Quattro e Cinquecento,
soprattutto la poesia e prosa di Giovanni
Pontano e di Iacopo Sannazaro.
La preferenza accordata alla capitale
meridionale fornisce l’occasione
di misurarsi con una cosmopoli plurilinguistica
e multiculturale nella
quale la questione della formazione
identitaria rivestiva un carattere di
complessità. Poetry and identity in
Quattrocento Naples si suddivide in
sei capitoli. Nel primo si rileva l’aspetto
poliglotta della società che faceva
capo ad Alfonso il Magnanimo,
cosicché i letterati calcavano un palcoscenico
in cui si mescolavano idiomi
spagnoli, il napoletano, il toscano
e il latino umanistico. Nel caso della
prima versione del Parthenopeus di
Pontano, il libellus giovanile di versi
erotici innestato su Catullo e sugli
elegiaci augustei, l’adozione del
mezzo latino e l’accostamento ai generi
dell’elegia e dell’epigramma miravano
a segnare l’adesione alla cerchia
di scrittori raccolta intorno al
caposcuola dell’umanesimo napoletano,
Antonio Beccadelli detto il Panormita,
nonché a distinguersi dai
poeti castigliani e catalani attivi alla
corte aragonese (per cui cfr il Cancionero
de Estúñiga). Il secondo capitolo
si concentra ancora sul Parthenopeus,
considerandone l’evoluzione dalla
prima versione di 24 componimenti
alla quarta di 48 ripartiti in due libri:
la seconda redazione palesa una strategia
di autenticazione ossia una ricostituzione
ideologica perseguita
mediante l’espansione dell’elegia I,
19 in un ciclo programmatico: per lo
straniero Pontano si eleva a tema
centrale la nozione di patria, articolata
tra l’umbrietà delle origini e la napoletanità
dell’età più matura.
Il re Ferrante, come evidenzia il
terzo capitolo, vedeva di buon occhio
legami coniugali tra i quadri
della burocrazia reale e la nobiltà di
seggio, una politica di cui sarebbe
esemplare l’unione celebrata nel 1461
tra Pontano e Adriana Sassone, nobildonna
del seggio di Portanova. La
rappresentazione del matrimonio
nel De amore coniugali, peana delle
gioie di coppia e familiari, si intreccia
quindi con la propaganda e con le
aspirazioni sociopolitiche del sovrano,
allontanandosi sul piano identitario
dalla poetica beccadelliana incarnata
dall’Hermaphroditus e, in generale,
dal pensiero del maestro secondo
la testimonianza fornita dal
trattato pontaniano De obedientia. Simultaneamente
la raccolta di elegie
latine reagisce alla diffusione della
lirica toscana e petrarchesca tra la residenza
reale di Castel Nuovo e la
corte principesca di Castel Capuano,
orientamento toscaneggiante favorito
dall’invio della Raccolta aragonese e
che si sarebbe concretato nei versi di
Benedetto Gareth detto il Cariteo e di
Sannazaro.
Il capitolo quarto indaga le due fasi
redazionali del capolavoro volgare
di quest’ultimo. La prima stesura del
prosimetro con prologo e dieci capi818
recensioni
toli, il Libro pastorale intitolato Archadio,
aveva come pubblico ideale gli
intellettuali stretti intorno alla corte
della duchessa di Calabria Ippolita
Maria Sforza e in particolare il mentore
Giuniano Maio. La seconda versione,
in dodici capitoli più un congedo,
deve la propria genesi alla riverenza
nei confronti di Pontano e
della sua Accademia: questo dunque
il pubblico al quale si rivolge, illustrando
uno spostamento di affiliazione
nel campo culturale: non a caso
sarà Meliseo-Pontano a concludere
l’ultima egloga con un pianto per
la scomparsa Filli-Adriana.
Soffermandosi sull’Urania, poema
astrologico in dialogo tanto con Manilio
quanto con il contemporaneo
Lorenzo Bonincontri (non senese,
pp. 43 e 100, ma di San Miniato), il
capitolo successivo giustappone due
visioni dell’origine dell’ispirazione
poetica: da un lato l’influsso astrale,
dottrina sostenuta da Pontano, dall’altro
la ποίησις come dono concesso
dalla divinità, idea promossa da Ficino
e dai suoi seguaci. Anche il dialogo
sull’arte poetica e storiografica
Actius, sede di identificazione di Sannazaro
in quanto erede ufficiale, sarebbe
da interpretarsi in funzione
della spiegazione pontaniana dell’ispirazione
poetica, contro il successo
del pensiero ficiniano presso la corte
aragonese. Un raffronto con i trattati
De fortuna e De rebus coelestibus getta
luce sul dissidio con Gerolamo Savonarola
e con il suo discepolo Giovanni
Pico della Mirandola, filosofo a cui
si deve un altro caposaldo del dibattito
astrologico del secondo Quattrocento,
le Disputationes adversus astrologiam
divinatricem.
Il sesto e ultimo capitolo esamina il
ruolo svolto nel campo intellettuale
napoletano da Egidio da Viterbo, teologo
agostiniano di impostazione
platonica, tra il 1499 e il 1501 residente
nel monastero di San Giovanni a
Carbonara. Una piena armonia di
opinioni tra Pontano, aristotelico, naturalista
e uomo d’azione, e l’eremita
neoplatonizzante si prospettava difficile:
in tal senso il De fortuna costituisce
un atto di autodifesa. Allorché
il frate vaticinava «hanc sibi provinciam
Parthenopeus Pausylipus arripuit
[…]. Scio ex sepissima cum Cimino
et Vesuvio disputatione multa
feta mente concepisse. Que cum pariet,
turrim serenabit nebulosam»,
alludeva sia a Pontano, la cui dimora
in via dei Tribunali incorporava una
«turrim […] quadrangulam eam quidem
atque in sullime editam»
(dall’Aegidius, ultimo dialogo pontaniano,
dedicato allo stesso Egidio),
sia al diadoco Sannazaro, il cui De
partu Virginis avrebbe imboccato una
strada alternativa rispetto alla poetica
del maestro umbro, plasmando
un’identità di poeta cristiano in linea
con la conversione auspicata dall’eremita.
L’elaborazione e lettura pubblica
del poema sulla nascita, vita e
crocifissione di Gesù Cristo viene
così a simboleggiare la disgregazione
del retaggio pontaniano.
Felice appare la decisione di Soranzo
di percorrere le carriere di
Pontano e di Sannazaro, uomini legati
non soltanto da un affetto reciproco
ma anche da numerosi cenni
all’interno delle rispettive opere letterarie:
basti rammentare per il primo
i dialoghi Antonius, Asinus e Actius,
l’egloga Coryle, gli endecasillabi
Ad Actium Sincerum e il De sermone;
per il secondo le elegie Ioviani Pontani
de studiis suis et libris e In festo die
divi Nazarii martyris, qui poetae natalis
recensioni 819
est, gli epigrammi De emendatione Catulli
ad Iovianum, De Peto Compatre e
In Nolam urbem, la seconda e quarta
Piscatoriae e, naturalmente, l’Arcadia.
Dall’analisi individuale e comparativa
di due autori tanto affini per frequentazioni
e per scelte culturali (assai
meno per temperamento, l’uno
essendo solare ed epicureo, l’altro
prono alla malinconia), da una prospettiva
di interpretazione omogenea,
dal riaffiorare di una serie di argomenti
e tematiche, emerge una
monografia compatta ed elegantemente
strutturata.
Oggi la critica più autorevole intorno
a Pontano – vero protagonista
di Poetry and Identity in Quattrocento
Naples – si mostra incline a privilegiare
le sfere della trasmissione testuale
e del riutilizzo di modelli antichi.
Perciò l’approccio sociologico di
Soranzo, informato alla teorizzazione
di Bourdieu, si spinge in un territorio
meno inesplorato, abbracciando
con l’ottica identitaria adottata
una chiave di lettura potenzialmente
ricca di spunti nuovi. Valida è la sottolineatura
della duplice identità geografica
di Pontano, al pari del predecessore
Paolo da Perugia un letterato
umbro trapiantatosi presso la
corte reale napoletana, egli stesso artefice
di un «et Campano de vellere
textus et Umbro / Supparus» (Acon
37-38). Purtroppo si tralascia di ragguagliare
sul dato significativo della
cittadinanza perugina: si veda a proposito
una supplica dei priori e camerlenghi
di Perugia a Paolo II Barbo,
del 4 febbraio 1466, riguardante il
«preclaro poeta messer Giovan Pontano
de scientia et virtù famosissimo
et citadino nostro nutrito et adlevato
in questa cità» (cfr Adamo Rossi, I
Pontani e la loro casa in Perugia, «Giornale
di erudizione artistica», ottobre
1875, p. 308).
In generale, alcune delle tesi di
fondo esposte da Soranzo appaiono
prive del necessario senso di misura
oppure costruite su fondamenti insufficientemente
saldi. Così è ipotesi
semplicistica spiegare la decisione di
comporre elegie e epigrammi latini,
all’altezza della prima versione del
Parthenopeus, con l’esigenza di differenziarsi
dai poeti iberici locali e di
aderire all’estetica beccadelliana. In
realtà, il corpus del Parthenopeus scaturisce
da un lungo percorso formativo
segnato da una devozione alla
letteratura antica latina e in particolare
a Catullo e Ovidio, amore verosimilmente
coltivato sin dall’adolescenza
trascorsa in Umbria («O si
post cineres et me quoque iactet
alumnum / Umbria carminibus non
inhonora meis», Parth. I, 18, 23-24),
sotto il magistero di Guido di Antonio
Vannucci da Isola Maggiore, docente
di grammatica nello Studio
perugino, e dello zio paterno Tommaso
Pontano, allievo di Guarino,
umanista e cancelliere di Perugia
(per cui si veda ora la voce di Bruno
Figliuolo nel Dizionario biografico degli
Italiani, 84, 2015).
Si ricava poi l’impressione che l’esegesi
di Soranzo voglia archiviare le
più intime emozioni e pulsioni della
biografia privata le quali, al di là
dell’impatto modellante dei contorni
sociali, assumono nella scrittura
pontaniana un rilievo come in nessun
altro poeta neolatino del Quattrocento,
fatta eccezione per il discepolo
Michele Marullo. L’autentica
motivazione per l’elogio del matrimonio
e dello spazio domestico nel
De amore coniugali è infatti da rinvenirsi,
più che nella politica monarchi820
recensioni
ca di unioni tra burocrati e nobiltà di
seggio, nell’affetto provato dal marito
nei confronti della propria sposa
– giovane quanto bella (lo attesta Tristano
Caracciolo) – e dei propri figli,
soprattutto il vagheggiato erede maschile
Lucio Francesco: si trattava di
un nido pascoliano che fungeva da
rifugio in un’esistenza contraddistinta
da alte cariche politiche e da estenuanti
campagne di guerra. Il De
amore coniugali non va inteso nel senso
di una costruzione programmatica
a finalità propagandistiche quanto
piuttosto come una silloge profondamente
umana di versi dettati da sentimenti
personali occasionati da determinate
circostanze coniugali e di
famiglia.
John Butcher
Daniela De Liso, Da Masaniello a
Eleonora Pimentel. Napoli tra storia e
letteratura, Napoli, Paolo Loffredo –
Iniziative editoriali, 2016, pp. 288.
Il titolo del presente volume traccia
con chiarezza le coordinate cronologiche,
geografiche e culturali su
cui si è concentrato in questi anni il
lavoro di Daniela De Liso, studiosa
di lungo corso del Barocco e degli illuministi
partenopei, che sviluppa
ora un discorso diacronico su una
città «crogiuolo di anime diverse, eppure
fedele ad un’unica identità» (p.
10) quale la Napoli sei-settecentesca.
Il libro prende le mosse dal XVI secolo,
e più precisamente dal 1503, anno
in cui Napoli perde definitivamente
lo statuto di capitale di un Regno che
era, di fatto, già finito tre anni prima.
La Napoli aragonese era stata uno
dei nuclei più vivaci dell’Umanesimo
italiano, con la sua corte animata
da plurime matrici culturali e da intellettuali
di prestigio. La fine di
quella stagione portò nel nuovo Viceregno
una pesante stretta sulla libertà
di pensiero, simbolicamente
rappresentata dalla chiusura dell’Accademia
Pontaniana nel 1543.
La situazione di stallo culturale
sembrò sbloccarsi all’inizio del Seicento
grazie al conte-mecenate di Lemos,
che trasformò però l’Accademia
in uno strumento dell’egemonia
monarchica, adatta a chi era disposto
ad allinearsi ai propositi d’ordine dei
governanti. De Liso illustra bene il
legame tra lo svuotamento del ruolo
politico del ceto intellettuale e l’anarchia
delle forme e tendenze letterarie:
il classicismo resta centrale per
tutta la prima metà del XVII secolo,
ma nello stesso arco di tempo giunge
a maturazione la ricerca stilistica di
Giovan Battista Marino, futuro alfiere
del Barocco; la tradizione petrarchista
e gli studi sui testi del Cinquecento
promuovono la codificazione
della poesia in lingua, ma ai primi
decenni del Seicento datano le maggiori
opere della letteratura napoletana
in dialetto, che è un divertissement
di corte ma allo stesso tempo,
come nella Tiorba a taccone di Filippo
Sgruttendio de Scafato, uno «spazio
di libertà, quasi eversivo, luogo in
cui i moduli della letteratura ufficiale
possono essere adattati a nuove urgenze
narrative» (p. 99).
Nel 1647, la confusione generalizzata
del Regno portò alla rivolta popolare
capeggiata dal pescivendolo
Masaniello, che è stata oggetto di numerose
ricostruzioni sin dagli anni
immediatamente successivi alla sua
repressione. Merito dell’autrice è di
aver dato spazio tanto alla produziorecensioni
821
ne in prosa quanto a quella in versi,
tanto ai numerosi punti di vista filonobiliari
quanto alle voci filopopolari,
come quella, davvero significativa
e linguisticamente interessante per il
suo pastiche «in cui lo spagnolo si
fonde col dialetto napoletano» (p.
123), di Antonio Tobia Granatezza,
che nel Masanello trionfante descrive
l’altra faccia di una rivolta turbolenta
ma scatenata da serie motivazioni
sociali.
Il Settecento napoletano nacque
sui ricordi dolorosi di un’insurrezione
conclusa nel sangue, di una gravissima
epidemia di peste e del disastroso
terremoto del 1688. La salita al
trono di Carlo di Borbone nel 1734
determinò però la promozione del
Viceregno a Regno a tutti gli effetti, e
la città risollevata poté guadagnare il
ruolo, poi condiviso con Milano, di
capitale dell’Illuminismo italiano.
Sarebbe stato facile soffermarsi sui
grandi testi politici e scientifici di
questo secolo. De Liso sceglie invece
una strada più impervia ma che meglio
illustra il fervore culturale della
Napoli settecentesca, concentrando
l’attenzione sulle produzioni di autori
napoletani ritenute “secondarie”
dalla critica, ma che manifestano in
realtà percorsi paralleli e applicazioni
diverse delle idee esposte nelle
più celebri opere politiche e civili.
Così, se la Scienza Nuova non cessa di
essere oggetto di studio, l’opera in
versi di Gianbattista Vico ha ricevuto
assai minore attenzione. Scrittore di
componimenti occasionali suo malgrado,
Vico riconosce nella riduzione
della poesia a “servile encomio” un
motivo di decadenza dell’umanità, e
reagisce introducendo nelle rime più
tarde idee e spunti affini alla sua riflessione
speculativa. Notevole anche
il profilo del Francesco Mario
Pagano drammaturgo che, riconoscendo
nella poesia la «ministra della
civile sapienza, e […] base e fondamento
delle società» (p. 215), teorizza
una tragedia che deve supplire
all’assenza di azioni vere con la rappresentazione
delle passioni. È però
con Eleonora Pimentel de Fonseca
che si scopre quanto ruolo abbia avuto
la poesia nella vita culturale del
Regno. Se i tanti sonetti d’occasione
tracciano una storia in versi della nobiltà
locale, le opere che maggiormente
attirano l’attenzione del lettore
moderno sono quelle in cui la poetessa
lascia spazio a se stessa. Su tutte
spicca l’Ode elegiaca del 1779, poesia
civile d’ispirazione neoclassica
composta a seguito di un aborto. Il
singolare componimento unisce in
maniera originale l’elogio del progresso
scientifico a un tema autobiografico
di grande intimità: nonostante
il tema scabroso, la forma scelta è
quella dell’ode, a celebrare il trionfo
della scienza e della medicina.
Le ultime pagine del libro sono dedicate
al 1799, l’anno della Rivoluzione
napoletana, scoppiata a seguito
delle politiche sempre più repressive
e illiberali dei Borbone. De Liso
si sofferma in particolare sui problemi
di comunicazione tra i rivoluzionari
e il popolo, che non capì cosa
dicessero quei nuovi padroni che si
ostinavano a scrivere in una lingua
ignota a chi si esprimeva in dialetto.
Ai tentativi di stendere dei catechismi
rivoluzionari comprensibili ai
ceti meno elevati si accompagnò la
necessità, già allora avvertita come
impellente, di combattere l’analfabetismo,
visto che «chi non sa leggere e
scrivere, chi non può conoscere il
pensiero dei grandi non capirà mai il
822 recensioni
senso e la forza della libertà» (p. 268).
Purtroppo, tra il 13 e il 22 giugno il
sogno repubblicano fu costretto a capitolare
sulle sue contraddizioni. Resta
in ogni caso un momento eccezionale
della non fortunata storia dell’Italia
rivoluzionaria, dal quale sarebbe
opportuno ripartire per affrontare
la sempre viva e urgente questione
meridionale.
Giuseppe Andrea Liberti
Matteo Sarni, L’enigma dell’altro. La
«Bibbia» nei «Promessi Sposi», Alessandria,
dell’Orso, 2016, pp. XVI-167.
Il lettore non deve aspettarsi da
questo volume una semplice serie di
rimandi eruditi fra passi del romanzo
manzoniano e passi biblici. Le
ambizioni dell’autore sono più alte:
pur utilizzando una messe ricchissima
di comparazioni fra i due testi,
come è doveroso, Matteo Sarni punta
soprattutto al cuore delle concezioni
che ispirano la scrittura di Manzoni e
traggono alimento dalle riflessioni
teologiche, filosofiche e morali suggerite
dalla lettura del grande libro.
Il principio che sorregge la ricerca
è enunciato chiaramente nell’Introduzione:
l’ingannevole «facilità» e la
«trasparenza» dei Promessi sposi celano
in realtà «un’operazione infinitamente
complessa», come già indicava
giustamente Graziadio Isaia
Ascoli. Quindi per interpretare rettamente
Manzoni occorre «scandagliare
le interrelazioni che si instaurano
fra il romanzo e i suoi numerosi intertesti
». A tal fine «un filo di Arianna
imprescindibile è la Bibbia, continuamente
declinata, citata, trasformata
nelle pagine del romanzo»; una
Bibbia «da leggere in chiave gnoseologica,
come approfondita indagine
sul reale, sprone a un incessante esercizio
di autoanalisi».
Il volume si articola in due ampie
sezioni, entrambe focalizzate su questioni
di centrale rilevanza per un’interpretazione
del romanzo: la prima
è dedicata al problema dell’uno e del
molteplice, la seconda a quello della
Provvidenza. La prima sezione prende
le mosse dal versetto 12 del salmo
61, «Semel locutus est Deus, duo
haec audivi», che mette in evidenza
il salto ontologico tra divino e umano,
poiché Dio conosce in toto la verità
dell’universo, mentre l’uomo capta
solo frammenti di verità, che non è
in grado di ricomporre in armonica
unità, restando limitato a una pluralità
di veri non dominabile. Però il
messaggio biblico è che la conseguenza
dell’impossibilità di possedere
la verità integrale non deve indurre
alla chiusura in un solipsismo
egoistico: al contrario, solo se si sforza
di interconnettere la molteplicità
nella propria soggettività l’uomo
può avvicinarsi asintoticamente
all’uno divino. Lasciare che il prossimo
arricchisca la sua visione gli consente
di avanzare sulla strada della
verità. Ma si è fecondati dal rapporto
con l’altro solo se ci si mantiene come
io.
In sintonia con tale visione biblica
è la sesta strofa della Pentecoste: l’unità
del vero divino si frange nella polifonia
delle voci degli apostoli, ma è
solo attraverso quella molteplicità di
voci che ci si può avvicinare all’integralità
del vero. Sulla stessa linea
della Pentecoste si colloca la descrizione
che apre il capitolo I dei Promessi
sposi, a cui Sarni dedica una
delle analisi più acute e originali di
recensioni 823
questa prima sezione. A torto, secondo
l’autore, certi critici hanno considerato
lo sguardo che conduce la panoramica
come «punto di vista di
Dio». La descrizione manzoniana
non coglie il paesaggio da una prospettiva
sincronica e totalizzante, ma
attraverso una successione di prospettive
parziali. Un simile sguardo
assurge a metafora della condizione
umana rispetto alla verità: nessun
punto di vista permette di cogliere la
totalità, ma poiché nessuna visuale
può soddisfare la sete di conoscenza
umana, occorre non isterilirsi nella
fissità di un solo angolo visivo, nella
consapevolezza che ogni prospettiva
deve essere interrelata alle altre, in
un perpetuo arricchimento etico e
gnoseologico.
La multiprospetticità ha le sue radici
nelle Scritture: la Bibbia evidenzia
l’importanza di una vita votata
all’accoglienza dell’altro, a vestire i
panni del prossimo, ad ascoltarlo.
L’uomo deve comprendere le prospettive
dell’altro e farsi fecondare
dalle sue idee: l’altro non deve essere
un oggetto, ma un soggetto con cui
interagire per crescere insieme, attraverso
il dialogo. Con l’ascolto dell’altro
l’io esce dalla prigione egoistica.
Il «sugo» della storia, infatti, emerge
dal dialogo tra Renzo e Lucia, che
approda a un’illuminazione reciproca.
Per contro, nel romanzo si allinea
una schiera di personaggi votati a un
monologo continuo: tra essi spicca
don Abbondio, indifferente alla vita
altrui e chiuso gelosamente nel suo
io, senza mutamenti sostanziali
dall’inizio alla fine. Lo stesso vale
per il padre di Gertrude, prigioniero
della propria volontà di potenza, che
non contempla la possibilità del dialogo,
per cui il prossimo non è una
soggettività capace di arricchirlo, ma
un semplice dispositivo da manovrare.
Nella Bibbia la monoprospetticità
si manifesta anche nella colpevole
staticità di chi non si fa mai fecondare
dal dubbio. Gesù esorta alla quête:
«quaerite et invenietis». Credere significa
non adagiarsi in certezze ma
aprirsi al nuovo, sapendo che l’altro
potrà sempre arricchirci. Campioni
di questa monoprospetticità sono gli
amici di Giobbe, e nei Vangeli gli
scribi e i farisei: ai loro occhi il mondo
è incasellato in norme precise e
indiscutibili, e le loro certezze non
sono mai incrinate dal dubbio. Ebbene,
gli amici di Giobbe subiscono un
severo rimprovero da Dio, e scribi e
farisei sono bersaglio di un’aspra reprimenda
di Gesù. Anche nei Promessi
sposi chi si chiude in un angusto
dogmatismo rivela riprovevole
egoismo, di cui sono esempi donna
Prassede e don Ferrante. Persino Lucia,
nel capitolo XXXVI, appare «un
po’ fissa nelle sue idee», incapace di
comprendere le sofferenze del promesso
sposo (col che si dimostra che
l’idealizzazione di Lucia come creatura
perfetta, proposta da numerosi
critici, è inconsistente). Tuttavia il
dubbio per Manzoni non ha sempre
significato costruttivo: per dare frutti
deve legarsi alla fede nell’esistenza
della verità divina, altrimenti approda
al nichilismo e alla privazione di
ogni significato del mondo.
Don Abbondio è il personaggio
esemplare di una chiusura nel pensiero
monoprospettico, incapace di
metánoia. L’inquietudine che spesso
lo assale è solo turbamento superficiale:
ben altra è l’inquietudine costruttiva
caldeggiata da Manzoni, ed
esemplarmente rappresentata dal
824 recensioni
cardinal Federigo, che si perfeziona
costantemente attraverso lo studio e
l’inquisizione instancabile su se stesso.
Solo attraverso di essa si può pervenire
a una serenità autentica, anche
se la pace interiore reca sempre
in sé l’inquietudine ontologica.
Per Manzoni dunque, sulla scorta
della lezione biblica, la vita va concepita
come un viaggio da intraprendere
insieme al prossimo, una ricerca
infaticabile di verità. Votandosi a tale
ricerca ciascuno è in grado di uscire
dall’isolamento egoistico. Chi si
chiude nelle stasi dell’egoismo nega
la vocazione all’arricchimento inscritta
in qualunque uomo (sotto forma
della spinta agapico-conoscitiva
verso l’altro).
La seconda parte del libro affronta
un problema assolutamente centrale
nel romanzo manzoniano, quello
della Provvidenza, che ha generato
montagne di pagine da parte della
critica e che Sarni affronta in modo
particolarmente originale, rovesciando
prospettive acquisite e spesso
stancamente ripetute. L’autore parte
riconoscendo nei testi biblici la concezione
di una Provvidenza (o teodicea)
retributiva ed eudemonistica,
che agisce nel mondo ricompensando
i meritevoli con la felicità e punendo
i malvagi già nel corso dell’esistenza
terrena. È una concezione
che compare anche nell’ode Marzo
1821, in cui Dio è schierato a fianco
dei giusti, i patrioti italiani, e quindi
la Provvidenza entra nella storia e la
guida verso la giustizia.
In seguito alle meditazioni che
portano al concepimento dei Promessi
sposi, Manzoni muta radicalmente
la propria visione (anche attraverso
la riflessione su alcuni passi biblici
che denegano l’esistenza della teodicea
retributiva). Sin dal primo capitolo
il romanzo smentisce la definizione
di «epopea della Provvidenza» in
cui Momigliano lo ha racchiuso: i
bravi che sconvolgono la tranquilla
esistenza di don Abbondio sono la
confutazione in rebus della convinzione
del curato che «a un galantuomo,
il quale badi a sé e stia ne’ suoi
panni non accadono mai brutti incontri
», vero e proprio manifesto di
un eudemonismo aproblematico. La
realtà è diversa dalla visione idillica
di don Abbondio, l’irruzione del male
stravolge la sua esistenza, ma soprattutto
quella di due giovani onesti
e pii. Emblematica è la chiusa del
capitolo III: l’intervento del narratore
sull’esclamazione di Renzo, «“A
questo mondo c’è giustizia, finalmente!”
Tant’è vero che un uomo sopraffatto
dal dolore non sa più quel
che si dica», dichiara l’impossibilità
ontologica della piena affermazione
della giustizia sulla scena mondana:
solo nella dimensione escatologica
virtù e felicità potranno pareggiarsi.
Oltre alla teodicea retributiva primaria
esiste una teodicea retributiva
secondaria, che invia patimenti anche
ai giusti, ma per condurli al meglio,
non sempre nelle concrete condizioni
di vita, ma come accrescimento
di felicità interiore. Anche questo
tipo di concezione trova riscontro in
passi biblici: ad esempio nell’Ecclesiastico
si proclama a chiare lettere che
tale teodicea è onnipervasiva, che
l’uomo è fango inerte plasmato interamente
da Dio. Mentre la teodicea
retributiva primaria comporta l’annullamento
del libero arbitrio umano
solo in occasione della retribuzione
divina, quella secondaria implica la
completa negazione del libero arbitrio:
nessuno è libero di deviare dalla
recensioni 825
strada che Dio gli fa percorrere. Tale
idea della Provvidenza si delinea come
applicazione alla sfera mondana
della teoria della predestinazione di
Agostino; ed è ancora diversa dalla
teodicea retributiva della prova, che
retribuisce l’uomo in base alle scelte
che liberamente egli compie, quindi
non nega – se non parzialmente – il
libero arbitrio. Manzoni invece nel
capitolo III della Morale cattolica sostiene
che la Grazia non inficia il libero
arbitrio né implica predestinazione
necessitante: è una Grazia susseguente,
che discende sugli atti virtuosi
di qualsiasi individuo, senza intaccare
il libero arbitrio, e si aggiunge
alla Grazia preveniente, che Cristo ha
irraggiato su ogni uomo. Se si credesse
nella teodicea retributiva secondaria
non resterebbe che votarsi a un
fatalismo rassegnato: il romanzo propone
invece un’etica dell’impegno
fattivo, rappresentata in particolare
dal cardinal Federigo.
Oltre a questa fondamentale messa
in chiaro della concezione non eudemonistica
che informa i Promessi sposi,
il discorso di Sarni, proseguendo
su tale via, conduce a puntualizzazioni
altrettanto determinanti sul
senso della vicenda che si colloca al
centro dell’opera: «Renzo e Lucia vivono
nel romanzo una profonda maturazione
spirituale, che li conduce
dal polo della credenza nella Provvidenza
eudemonistica a quello della
“cognizione del dolore”». Sin dall’inizio
Lucia manifesta una fede incrollabile
nella teodicea retributiva
(si pensi solo alla conclusione dell’
«Addio monti», in cui si afferma
che Dio «non turba mai la gioia de’
suoi figli, se non per prepararne loro
una più certa e più grande»). Numerosi
critici hanno confuso il credo eudemonistico
di Lucia con la concezione
dell’autore implicito, trasformando
il romanzo in un’acritica celebrazione
della Provvidenza retributiva.
In realtà, puntualizza Sarni, nei
Promessi sposi la storia «non è il copione
di una sceneggiatura occulta,
ma il risultato dell’intrecciarsi delle
azioni e delle vite umane, dell’interrelazione
fra gli individui e la realtà
circostante», come dimostra il paragone
con il «turbine» al capitolo
XXVII, proposto a indicare il flusso
evenemenziale innescato dalla follia
umana, che genera il caos nello Stato
di Milano con la discesa dei lanzichenecchi
foriera della peste. Solo così si
può salvare il principio della responsabilità
umana e del libero arbitrio.
Renzo condivide con Lucia la stessa
fede nella teodicea retributiva, riecheggiando
spesso le dichiarazioni
della promessa sposa, sino all’affermazione
risoluta «La c’è la Provvidenza!
», pronunciata una volta attraversato
l’Adda. Per Renzo la storia
«non è che una sacra rappresentazione
sceneggiata dalla mano divina», il
che è indizio di un uomo ancora incapace
di vivere un’esistenza guidata
da una coscienza matura. Egli arriva
a considerare la peste «una occasione
così bella», al pari di don Abbondio
che la definisce «una scopa», eliminando
dal campo visivo i tanti innocenti
morti tra atroci sofferenze, come
la piccola Cecilia e la madre. Se si
accettasse una simile visione, si sosterrebbe
che Dio considera don Abbondio,
scampato alla peste, più meritevole
di Cecilia: si può constatare a
quale cumulo di assurdità conduce la
fede in una Provvidenza retributiva.
Nell’episodio della conversione
dell’innominato è ribadita la fallacia
del credo nella regia divina degli
826 recensioni
eventi. Il personaggio non si converte
perché manovrato da Dio ma perché,
in seguito a un tormentato percorso
interiore, decide di ascoltare gli
impulsi più nobili del proprio animo.
E Manzoni prende esplicitamente le
distanze da chi, nel racconto, definisce
«miracolo» tale conversione, perché
significa ascrivere a Dio la regia
dell’esistenza dell’uomo, cancellando
ogni responsabilità etica dell’individuo,
ogni margine d’azione della
libera volontà.
Su questa strada Sarni arriva a
conclusioni che rovesciano luoghi
comuni su cui la critica ha tradizionalmente
insistito: smentisce che
personaggi come Lucia, fra Cristoforo,
il cardinale siano i portavoce autorizzati
della visione religiosa che
informa il romanzo. Ad esempio per
la critica fra Cristoforo è il personaggio
in cui il pensiero di Manzoni si
presenta allo stato puro. Se fosse così,
il «sugo» del romanzo dovrebbe
essere concorde col testamento del
frate affidato ai due promessi al capitolo
XXXVI, invece se ne discosta
nettamente. Cristoforo riconduce
tutta la vicenda all’operato celeste, in
base alla concezione di una Provvidenza
eudemonistica, mentre Renzo
e Lucia, nel finale, non affermano che
sia Dio a dispensare i «guai»: i guai
«vengono», con colpa o senza colpa.
Quindi riconoscono l’autonomia
dell’uomo, attribuendo al suo libero
arbitrio la possibilità di pervenire a
un’esistenza più ricca e solidale, sulla
base di una consapevolezza della
presenza del male della storia (una
“cognizione del dolore”, appunto).
La sentenza del frate al contrario deresponsabilizza
l’umanità, tramutandola
in creta plasmata dal Creatore a
suo piacimento. I promessi sposi sono
invece il Bildungsroman di una coppia,
alla fine del quale i due protagonisti,
ormai maturati, abbandonano
la credenza nella teodicea retributiva
che li ha caratterizzati per la maggior
parte dell’opera. Renzo e Lucia realizzano
una rivoluzione copernicana
nel proprio animo, arrivando ad attribuire
agli uomini ciò che prima
attribuivano alla Provvidenza. Già
altri avevano messo in luce questo
superamento della visione di una
Provvidenza eudemonistica nei due
protagonisti, ma l’originalità di Sarni
sta nell’aver puntualizzato con fermezza
questa conquista da parte loro
di una visione incentrata sull’autonomia
umana.
Abbiamo cercato di dare un’idea
delle tesi centrali e della linea generale
del discorso di questo importante
libro, ma purtroppo nello spazio
di una recensione è impossibile render
conto compiutamente della ricchezza
e del rigore delle argomentazioni,
dell’acutezza di tante singole
osservazioni, della penetrazione
analitica di tanti riferimenti al testo
del romanzo, della pertinenza dei rimandi
ad altre opere, manzoniane e
non, chiamate a supporto, che, accanto
all’originalità dei risultati, costituiscono
i pregi del volume. A ciò
si aggiunge un fitto dialogo con la
critica, che fa sì che spesso le note siano
dei veri e propri saggi paralleli al
testo e con esso concomitanti. Non ci
resta che augurare al libro di trovare
vasta eco tra gli studiosi e di suscitare
feconde discussioni.
Guido Baldi
Giuseppe Antonio Camerino, Primo
Novecento. Con analisi specifiche su
recensioni 827
Pascoli, d’Annunzio, Saba e Montale,
Avellino, Sinestesie, 2015 («Biblioteca
di Sinestesie», 29), pp. XIV + 188.
In apertura a questa raccolta di
studi trovasi – a guisa di epigrafe –
un passo epistolare del grande Baudelaire,
nel quale si legge, tra l’altro,
che «[…] les rhétoriques et les prosodies
ne sont pas des tyrannies inventées
arbitrairement, mais une collection
de règles réclamées par l’organisation
même de l’être spirituel»:
citazione, questa, che rimanda, in
modo chiarissimo, a un metodo di
ricerca sui testi poetici che è propria
di Giuseppe A. Camerino, il quale,
non è nuovo agli studi sulla poesia
del primo Novecento (si pensi al suo
Poesia senza frontiere, Milano, Mursia,
1989). Questo suo nuovo volume
consegna al lettore appassionato ricerche
specifiche di analisi metrica e
testuale su poeti massimi come Pascoli,
d’Annunzio, Saba e Montale
nonché su fasi cruciali dello sviluppo
di poetiche e autori, a cominciare dal
suggestivo profilo sulla Poesia italiana
dei primi trent’anni del Novecento,
che costituisce uno dei più ampi capitoli
della raccolta, mentre vi sono
stati aggiunti in appendice uno di
carattere metodologico (che è anche
un ricordo importante di un finissimo
studioso di letteratura moderna
come Gaetano Mariani), e l’altro di
carattere storico-letterario, dedicato
ai rapporti letterari tra Italia e Germania
nel XX° secolo
Inserendosi degnamente in una
tradizione di studi sul linguaggio pascoliano
avviato dal saggio continiano
del 1955, nel primo dei quattro
capitoli dedicati al poeta romagnolo,
Camerino esamina metrica e varianti
degli otto madrigali della sezione di
Myricae intitolata L’ultima passeggiata.
In particolare lo studioso dimostra
assai bene come si attua in questi
testi un’impostazione metrica non
più basata sugli indicatori del ritmo,
bensì su una totale riformulazione
delle potenziali risorse della prosodia
e della pronunzia in sede di lettura
dei testi suddetti: una strategia in
cui acquista fondamentale ruolo semantico
e fonico e prosodico l’uso
delle parole sdrucciole e delle cosiddette
rime interne.
Lo studioso spinge le sue indagini
fin sulle testimonianze manoscritte
più che sulla versione definitiva dei
componimenti in esame, dimostrando
come già nelle prime elaborazioni
testuali il poeta abbia voluto e saputo
preparare una vera e propria strategia
di rallentamento della lettura
poetica, per cui – per esempio – nella
lirica Arano fa notare un uso della
punteggiatura pascoliana tutt’altro
che casuale, ma finalizzato sempre al
privilegio assegnato alla prosodia rispetto
ai ritmi tradizionali. E in effetti
nel verso, in presenza di sinalefe,
«[…] brilla, e dalle fratte»; «arano: a
lente grida […]»; «[…] spinge; altri
semina […]» – la pronuncia prosodica
accentua una scansione molto
fratturata. E, come Camerino dimostra,
il poeta l’accentua rimodulando
persino gli accenti canonici tradizionali
dell’endecasillabo.
Quanto a un poemetto myriceo
quale Il giorno dei morti, studiato nel
capitolo successivo, evitando ogni
condizionamento diretto, anche minimo,
in chiave autobiografica (che
purtroppo grava sulla lettura di questo
testo), gli si attribuisce – finalmente
in modo corretto –il valore di
un vero e proprio manifesto di poetica,
anche e soprattutto in virtù di tro828
recensioni
pi e immagini e stilemi e costrutti che
Camerino documenta come strettamente
legati al sistema inventivo
dell’intera prima silloge pascoliana.
Un metodo di analisi dallo studioso
attuato anche nel terzo capitolo, dedicato
al Pascoli dei Poemi Conviviali,
dove, in particolare, viene svolta una
convincente analisi sul lemma ombra.
E pure a Pascoli, nel suo raffronto
con Leopardi, viene pure dedicato il
capitolo quarto: raffronto non nuovo,
ma sul quale Camerino – con
ineccepibili argomentazioni – si mostra
assai scettico, almeno per quanto
concerne l’impostazione – fondata su
aspetti superficiali e non sostanziali
– con cui tale tema viene svolto dalla
studiosa tedesca Andrea Fahrner in
un suo saggio apparso nel 1995.
Nei tre successivi capitoli, la ricerca
del linguaggio poetico in d’Annunzio
viene esemplificata – senza
contraddizione alcuna – attraverso
testi prosastici, che, non a caso, si
configurano come genesi e radice del
genere lirico. Per esempio, viene da
Camerino dimostrato in modo sorprendente
come immagini-chiave
della lirica dannunziana si generano
e si sviluppano in modo strettamente
connesso alla sua scrittura in prosa.
Si pensi – per addurre un solo esempio,
tra altri possibili – nel capitolo
sulla poetica dannunziana del silenzio
nel Fuoco, a un verso di Alcyone:
come «tace l’acqua tra l’una e l’altra
voce». Un topos che costituisce una
lieve variante, nel suddetto romanzo,
delle parole di Daniele Glauro, il
quale individua infatti l’essenza della
musica «nel silenzio che precede i
suoni e nel silenzio che li segue». O si
pensi, nel successivo capitolo dannunziano,
alla Licenza alla Leda, il cui
lessico misticheggiante sarà dal poeta
pescarese ripreso poi nelle Canzoni
delle Gesta d’oltremare e, in forma lievemente
più attenuata, nelle sillogi
poetiche di Maia ed Elettra. O si pensi
ancora alla molto innovativa analisi
sui Taccuini del viaggio in Grecia del
1895, le cui pagine, dominate da annotazioni
estetiche, furono dal poeta
intese come provvisorie e da lui, infatti,
riutilizzate durante la composizione
della tragedia La città morta e
della raccolta in versi Laus Vitae.
«Di riflessione e di chiarificazione»
(p. 107) viene da Camerino classificato
il già menzionato capitolo del volume
dedicato alla illustrazione e risoluzione
di snodi cruciali per intendere
in profondità le poetiche e le
novità tematiche e linguistiche che
contraddistinguono la poesia italiana
dell’inizio del secolo scorso, in cui
si assiste alla rielaborazione di grandi
modelli (come quello dannunziano),
alla influenza di esperienze derivanti
dalle avanguardie operanti a
Parigi o a Berlino (l’espressionismo),
per ricordare quelle maggiori. È un
percorso osservato in tutte le sue fasi,
a cominciare dagli scambi insospettabili
e mai del tutto cessati tra
poeti crepuscolari e poeti futuristi o,
anni dopo, da quelli tra il primo Ungaretti
e l’area di poeti che – nel precoce
transito verso il cosiddetto gusto
ermetico – si raccoglierà in Liguria
sotto le insegne della rivista “Circoli”,
primo Quasimodo compreso.
Il nono e il decimo capitolo sono
dedicati rispettivamente allo studio
del tempo e dei luoghi del ritorno
nella poesia di Saba, in cui – fa osservare
Camerino – raramente vengono
utilizzate immagini di natura o di
oggetti esterni per designare lo scorrere
dei giorni e delle stagioni, e più
in generale lo scorrere dell’esistenza;
recensioni 829
e questo perché in Saba la concezione
del tempo, fortemente interiorizzata,
viene rappresentata via via in forme
simboliche diverse. Alla memoria,
nelle sue raccolte giovanili, intesa a
suo modo alla maniera leopardiana,
come rimpianto della giovinezza
perduta, il poeta triestino fa subentrare
nelle sue successive raccolte
mature (in particolare Preludio e fughe
e Cuor morituro) una raffigurazione
«‘rotonda’ o circolare, una geometria
del ritorno e della ripetizione», in cui
passato e presente si sovrappongono.
Sono felici e non pochi i riscontri
testuali inediti che Camerino apporta
in questo capitolo; e ancor di più
in quello successivo, già menzionato,
intitolato, appunto, Saba e i luoghi del
ritorno, che investe il rapporto mirabile
del poeta con la sua città: si pensi,
nella breve lirica Distacco, a un
passo come questo: «[…]. La tua
scontrosa / grazia saluterò, già vecchi
amici / e pietre bacerò – cuore
fedele –; […]». Sull’evidentissimo
calco foscoliano (da In morte del fratello
Giovanni) – «e pietre bacerò» / «baciò
la sua petrosa Itaca Ulisse» – finemente
Camerino annota (p. 126):
«quell’Ulisse che in Distacco è comunque
evocato in quella malìa attribuita
a Trieste, come Omero, il quale
infatti nelle parole di Circe (Odissea,
XII, 44) usa il verbo ϑέλγω, che significa
precisamente ammaliare»: un topos
che, soprattutto nella raccolta
Piccolo Berto, accentua in Saba i riferimenti
simbolici su Trieste, mito della
sua biografia e città immaginata anche
come originario grembo materno
a cui tendere, in alternativa all’eterno
errare (motivo ebraico: si ricordi la
lirica La greggia).
Molto innovativo anche il capitolo
XI, quello montaliano. Prendendo le
mosse dal saggio d’impostazione semiologica
di D’Arco Silvio Avalle su
Gli orecchini di Montale, Camerino
affronta l’analisi di Marezzo, rivelandone
un processo, in Montale esclusivo,
«di acquisizioni e aggregazioni
analogiche e semantiche[…]» (p.
121): un processo che lo studioso individua
qui per la prima volta, come
dimostrano inequivocabilmente, per
far un sesempio tra altri possibili, i
vv. 15-16 di Marezzo (vv. 15-16) in cui
il poeta ligure riscrive il v. 70 di Par.
XXIV: «Guarda il mondo del fondo
che si profila / come sformato da
una lente».
Considerando i variamente articolati
caratteri della poesia italiana del
primo Novecento, lo studioso tenta
infine nell’ultimo breve capitolo del
volume alcune utilissime indicazioni,
anche metodologiche, per almeno
avviare un bilancio degli eventuali
debiti della poesia italiana di metà
Novecento rispetto alla lezione derivante
da testi e autori appartenenti ai
decenni precedenti. A questo scopo
egli ha pensato a un campione esemplare
di tre lirici della generazione
successiva a quella di un Saba, di un
Ungaretti e di un Montale: e cioè Sinisgalli,
Penna e Zanzotto, uno meridionale,
uno dell’Italia centrale e il
terzo del Nord. Un saggio di bilancio,
come si vede, che chiude bene,
anche per i sia pur rapidi profili dei
tre autori ivi contenuti, un quadro di
ricerche di grande impegno e molto
fecondo per i risultati raggiunti sul
piano dell’esegesi.
Carmine Chiodo
Alberto Comparini, Iride. L’Alcesti
di Montale, nuova edizione aggiorna830
recensioni
ta, Borgomanero (Novara), Giuliano
Ladolfi editore, 2014, pp. 152.
Una metodologia chiaramente
esplicitata, a cui corrisponde una ermeneutica
decisamente improntata a
produrre proposte interpretative
nuove, energiche, posta a colloquio
con la storia della critica, anche nei
suoi risultati più recenti, senza alcun
timore reverenziale, caratterizza lo
studio monografico di Alberto Comparini
(classe 1988, dottore di Ricerca
alla Stanford University) Iride. L’Alcesti
di Montale, nella sua edizione riveduta
del 2014, per Giuliano Ladolfi
editore, basato sull’analisi testuale
di una sola lirica, la cui innegabile
importanza contenutista e stilistica
dilata spunti e interessi a raggiera, in
ambito storico, letterario, filosofico.
Come negli studi precedenti di
Comparini, la chiave interpretativa
ricorre alle figure del mito accesso
più consono e completo alla interpretazione
di testi della modernità letteraria,
tra Caproni, Sanguineti e, soprattutto,
Pavese; lo scrittore langarolo
in uno studio recente viene messo
a confronto fruttuosamente proprio
con Montale.
All’inizio e alla fine del percorso,
lo studioso sente il bisogno di ribadire
gli strumenti che lo conducono nei
labirinti di un testo difficile, a ritroso,
per scavarne le origini, andando oltre
per coglierne le diramazioni poetiche
lungo l’intero tracciato della
ispirazione montaliana, ricca, come è
noto, di ammicchi e rimandi autoironici
a se stessa.
Utile trascrivere direttamenteta li
indicazioni, presentate ad apertura
di volume: «La metodologia ermeneutica
che ho scelto di adottare per
l’analisi di questo testo, e del quesito
teologico-teogonale che lo adorna,
ha seguito due vettori, uno intertestuale,
l’altro interdisciplinare».
Il primo permette di riflettere, già
ben precisa scelta di campo nella infinita
e copiosa bibliografia della critica
montaliana, sull’approdo alla
metamorfosi cristiana della Bufera e
altro (provenendo dalle istanze laicali
degli Ossi di seppia e dalla mitografia
pagana delle Occasioni), il secondo,
di notevole interesse, capace di
comprendere l’ultima fase prosastica
di Montale, sintesi autoironica delle
precedenti, ma non priva di “imprevisti”,
magari dall’alto di un sicomoro
(topos della critica ben messo in
luce da Comparini) «volto sia alla
definizione del sostrato classico-culturale
che si cela dietro all’obscurisme
del testo poetico preso in esame, sia
alla applicazione delle categorie filosofiche
di Heidegger per l’interpretazione
della natura e dell’agire del visiting
angel che Montale ha sapientemente
costruito».
Su questo versante, che considera
dunque Iride un testo di arrivo e di
partenza, prismatico, non di sosta o
conclusione, Comparini mostra la
centralità della voce originalissima
della filosofia morale di Giuseppe
Rensi per la maturazione della poetica
montaliana.
In questa linea di ricerca di un quid
che possa aiutare l’uomo a vincere
l’invadenza dell’assurdo (immagine
che condivido pienamente), intravista
nell’altra orbita di Arsenio, nella
splendida Casa sul mare (gli amuleti e
l’offerta devota del dono della avara
speranza), incorporata negli occhi di
ghiaccio di Clizia, proteiforme senhal
della bellezza invocata nel mondo in
preda a luciferini messaggi, «la fenomenologia
del religioso assume i
recensioni 831
tratti dell’epifania umano-divina
nell’ultima fase di Rensi», Le lettere
spirituali che per lo studioso corrispondono
proprio alla figura di Iride,
l’ebrea cristofora, secondo la stessa
definizione del poeta.
La solidità della figura, in quei
tempi tragici, deriva dalla considerazione
della inscindibilità del corpo
dall’afflato mistico, uno dei punti
cardine del testo montaliano, nella
definizione, a fronte di altre negative,
di sentirsi un nestoriano smarrito,
bisognoso dunque di una presenza
umana che incarni i valori sacri e
minacciati dell’Occidente cristiano in
una figurazione attesa e credibile.
Iride, perciò, alterità dell’esistenza,
donna amata, emblema di vita e di
morte e in ultimo modello di sincretismo
religioso pagano (appunto Alcesti)
e cristiano, rimane, scrive Comparini
«figlia, poeticamente parlando,
del pensiero religioso-liberale di
Montale, rappresentando l’eredità
della Fede cristiana distrutta, trasformata
e trasfigurata da religione a religiosità
»: una pennellata, sintetica
della idea di tutto il libro, poi ancora
declinata attraverso i miti, capace di
offrire, condivisibile o meno, un acuto
sguardo sulla secolarizzazione otto-
novecentesca, con le connesse parabole
religiose, autentiche o ipocritamente
tese a ottenere e/o conservare
il potere politico. La firma
sull’intuizione di quanto la poesia
montaliana sia stata in grado di leggere
il suo tempo è ancora quella del
troppo spesso frainteso o sminuito
Giuseppe Rensi: «Usando le parole
del Rensi de La trascendenza. Studio
sul problema morale, ella (Iride) rappresenta
la “manifestazione della divinità”
–, è l’incarnazione, l’umanarsi
del Dio in pochi, “l’invasamento, il
divino furore di cui sono posseduti
coloro in cui l’Iddio si è incarnato”».
Notevole, nella analisi del testo,
sempre condotta con serietà (con esegesi
convincenti, anche quando mi
trovano meno consono alla soluzione
proposta) la scelta di espressioni
poetiche, atte a sintetizzare icasticamente
l’interpretazione: rendono bene
in questo volume in giusto equilibrio
tra la passione militante, di idee
(ma forse è meglio dire umana verso
il testo, considerato, a sua volta persona,
o un volto, sia pur limitato nel
tempo, di persona) che si pongono al
servizio, senza scavalcarlo, dei meccanismi
testuali anche strutturali e
del significante, come nel momento
in cui Comparini illustrato il passaggio
e la dislocazione di Iride da Finisterre
a Silvae, motivandolo in senso
estetico e contenutistico insieme e in
cui ci offre, ormai entrato nella logica
del mito, un parallelismo con quello
che viene dopo Clizia-Iride, la Volpe-
Diotima, alla luce della visione dell’Iperione
di Hölderlin, in un tratto del
libro suggestivo e convincente, a
confermare la predilezione dell’autore
a spiegare i nodi centrali della modernità
attraverso il ricorso al linguaggio
sintetico e plurisemico del
mito (in questo caso non esita a puntare
in alto, centrando il rapporto tra
l’uomo e Dio alla ricerca dei mediatori
e delle presenze salvifiche). Del
resto, lo stesso Montale nell’ultima
straordinaria stagione, tra cinismo,
derisione, autoironia, profezia lucidissima
dei tempi areligiosi e clamanti,
indugia tra i piccoli segni, resiste
a tentazioni apocalittiche e non
aderisce ai richiami di altisonanti
conferenzieri o predicatori televisivi
(la cui voce ritiene fastidiosa e falsa).
Piuttosto, del tutto condivisibile la
832 recensioni
lettura, in questo senso di Come Zaccheo,
a cui Comparini dà l’importanza
che merita, il poeta decreta di non
aver mai visto passare il Signore,
senza enfasi o condanne, con realismo.
Fabio Pierangeli
Rosanna Pozzi, Nove poeti per Mario
Luzi, prefazione di Stefano Verdino,
Roma, Aracne, 2015, pp. 112.
Tra le iniziative nate in occasione
del centenario della nascita di Mario
Luzi merita attenzione la raccolta
d’interviste rivolte da Rosanna Pozzi
a nove poeti contemporanei a proposito
del loro rapporto personale e poetico
con il poeta fiorentino; si tratta
di Roberto Carifi, Giuseppe Conte,
Maurizio Cucchi, Milo De Angelis,
Roberto Mussapi, Daniele Piccini,
Davide Rondoni e Cesare Viviani.
Eugenio De Signoribus, invece, ha
preferito partecipare con un contributo
poetico dedicato a Luzi, scritto
nel giorno del centenario della nascita,
20 ottobre 2014. Le interviste fanno
emergere un duplice percorso tematico:
quello dei ricordi personali,
dai quali si ricava l’umanità cordiale
del poeta fiorentino, e quello dell’influenza
o delle intersezioni tra la lunga
stagione poetica di Luzi e alcune
raccolte o temi dei poeti chiamati in
causa. Interessante è scoprire che Luzi
ha esercitato un “involontario magistero
poetico” su personalità e percorsi
lirici così diversi tra loro: per De
Angelis l’opera cardine fu Nel magma,
«il libro con cui nasce il dialogo nella
poesia italiana» (p. 31); per Cucchi,
invece, la sintonia maggiore si registra
con i toni purgatoriali de Il giusto
della vita, «a dispetto della loro grandiosa
opacità» (p. 30); per Conte è
l’ultimo Luzi, quello della lode e del
canto, da Simone Martini in avanti, a
determinare un modello poetico e
una fonte di rinnovata ispirazione;
per Piccini Luzi «ha costituito un
punto di riferimento essenziale, non
necessariamente nel senso della convergenza,
ma del dialogo, della presenza
». Le domande mettono in luce
il dettaglio di varie affinità stilistiche
o tematiche: le presenze femminili di
comune matrice stilnovistica per Carifi,
la musicalità dell’endecasillabo
sdrucciolo per Conte, la ricorrenza
del paesaggio come luogo leopardianamente
carico di memoria per Piccini,
la percezione del reale come dato
creaturale per Mussapi, il senso vivo
dell’avvenimento del mondo e la discesa
nelle sue profondità per Rondoni
e Viviani. In alcuni casi, al contrario,
emerge la percezione di una
enorme distanza dal modello: Viviani
sottolinea che «per Luzi c’è l’irrevocabilità
della vita, per me l’irrevocabilità
della morte» (p. 56); Rondoni
dichiara di sentirsi spurio rispetto
alla poesia di Luzi, che è un canto,
inteso come «voce non scontata, non
retorica e non consunta dell’esistenza,
in bilico tra dolore e lode» (pp.
51-52); De Signoribus ritiene che non
ci siano dichiarazioni adeguate da
esprimere, se non parole in versi dedicate
al maestro; Piccini afferma di
aver «ammirato molto il Luzi maturo
e ultimo, sentendone insieme all’incanto
anche la distanza dalla mia
possibilità di espressione» (p. 45);
Carifi, infine, dovendolo intervistare
per la rivista Poesia si sentì «l’ultimo
dei poeti di fronte a tanta grandezza
» (p. 19). La prefazione scritta da
uno dei maggiori esperti luziani, Sterecensioni
833
fano Verdino, sottolinea l’ampia portata
della lunga parabola poetica di
Luzi, mentre i contributi di Rosanna
Pozzi posti in appendice sono rispettivamente
un saggio sintetico relativo
a Luzi critico letterario, censito
nella sua articolata produzione saggistica
di critico letterario di portata
europea ed extraeuropea, e la presentazione
in seconda sede di pubblicazione
del testo delle recensioni
scritte da Luzi sulle pagine del «Corriere
della Sera» alle raccolte poetiche
di alcuni poeti italiani molto distanti
tra loro per stile e temi: Elio
Fiore, Sauro Albisani, Sebastiano
Grasso e Franca Bacchiega.
Raffaella Marchese
Le carte e i discepoli. Studi in onore di
Claudio Griggio, a cura di F. di
Brazzà, I. Caliaro, R. Norbedo, R.
Rabboni, M. Venier, Udine, Forum,
2016, pp. 550.
Per ringraziare Claudio Griggio
degli anni di carriera, di studi e di ricerche,
i colleghi e i “discepoli”
dell’Università degli Studi di Udine
hanno dato vita ad un testo ricco di
contributi che si muovono sia sulle
svariate linee di ricerca letteraria seguite
dall’illustre studioso nel corso
della sua attività, che sui suoi interessi
interdisciplinari.
Seguendo la divisione interna del
volume, la prima sottosezione della
parte letteraria, quella dedicata alla
classicità, è aperta da Renato Oniga,
il quale esamina il concetto di humanitas
all’interno della produzione teatrale
comica latina, soffermandosi
particolarmente sulle opere di Plauto
e Terenzio.
Il secondo blocco è inaugurato da
Arnaldo Marcone, che segue l’evoluzione
della fortuna storiografica della
figura di Catilina, diffusasi nella
Toscana del XII e XIII secolo in modo
alternativo all’immagine classica, vedendo
nella figura del cospiratore il
nemico di Roma e di Firenze. Manlio
Pastore Stocchi tenta una ricostruzione
delle fonti astronomiche utilizzate
da Dante per fare chiarezza sul famoso
passo di Inf I, 37-40 (Temp’era
del principio del mattino…), per provare
l’esattezza della data indicata come
quella di inizio del viaggio oltremondano.
Mario D’Angelo esamina
l’inventario dei beni posseduti da un
commerciante di Zara del XIV secolo,
tra i cui libri spicca un codice integrale
della Commedia che, considerato
il terminus ante quem, ossia la morte
del commerciante avvenuta nel
1385, si configura come uno dei testimoni
più antichi del poema. Paolo
Viti, attraverso un’analisi di alcune
lettere contenute nel Liber sine nomine,
mette in risalto il sistema ideologico
del Petrarca, soffermandosi sulle
sue considerazioni sulle pessime
condizioni morali del papato avignonese
e sulla lotta all’abbattimento dei
vizi e all’esaltazione delle virtù. Bruno
Figliuolo fa luce sulla vita e l’attività
economica del pisano Francesco
della Barba, professore di diritto
presso lo Studio partenopeo negli
anni della permanenza di Boccaccio
a Napoli. Andrea Gardi si sofferma
sulla figura del Conte di Panago, colui
che allevò i figli di Griselda e
Gualtieri nell’ultima novella del Decameron,
vedendo in lui Ettore da Panico,
membro di una nobile stirpe
feudale bolognese. Gianpiero Rosati
mette in risalto alcuni tratti che legano
le Historiae adversus paganos di
834 recensioni
Orosio e le Genealogie deorum gentilium
di Boccaccio, soffermandosi sul
comune espediente della committenza
dall’alto e dell’impianto universalistico
delle due opere. Chiude la sezione
Andrea Bocchi, sottolineando
la presenza di Lucano in un poemetto
di fine ’300 di Cristiano da Camerino
incentrato sul convitto infernale,
evidenziando un vero e proprio rapporto
intertestuale tra il De partibus e
la Pharsalia.
Il terzo gruppo è dedicato all’umanesimo
e al rinascimento e prende le
mosse dall’esame di Ernesto Berti
del codice Lond. Harl. 3551 della British
Library – e dei suoi discendenti
– contenente il Fedone di Platone nella
versione di Leonardo Bruni. Chiara
Kravina indaga il problema della
pedagogia nell’umanesimo a partire
dal De re uxoria di Francesco Barbaro
e dei rapporti che esso intreccia con
gli altri due testi di quella che Griggio
ha definito “triade pedagogica”:
il De ingenius moribus di Pier Paolo
Vergerio il Vecchio e il De liberis educandis
dello psuedo-Plutarco. Fabio
Vendruscolo analizza le note di Ernesto
Barbaro al codice Vat. Barb. gr.
214, soffermandosi sui due carmina
finali che avevano lasciato il Barbaro
insoddisfatto per il mancato rispetto,
da parte del copista, della giusta lunghezza
dei versi. Marco Fucecchi utilizza
le note di Domenico Calderini
sui Punica di Silio Italico come fossero
un vero e proprio commento al
testo, commento “ritrovato” in quanto
non vi fu mai una pubblicazione,
ma solo delle osservazioni utili al
Calderini per le sue lezioni. Maiko
Favaro analizza il topos del “tempio
letterario” all’interno della produzione
profana cinquecentesca, mostrando
come la metafora del tempio
si presenti ricca di connotati allegorici
connessi alla preziosità degli ornamenti.
Chiude il gruppo Mino Gabriele,
fermandosi sull’interesse del
marchese romano Massimiliano Savelli
Palombara per il mito del Vello
d’oro, giungendo alla conclusione
che il Palombara si collegasse ad
un’antica tradizione che vedeva nel
Vello il libro contenente i segreti per
tramutare i metalli in oro, testimoniando,
quindi, un certo interesse alchemico
del marchese.
L’ultima parte dedicata alla letteratura
si sofferma sull’arco temporale
che va dal Settecento al Novecento ed
è inaugurata da Renzo Rabboni che,
attraverso ciò che resta dell’epistolario
tra Antonio Conti e Lady Walpole,
tenta di stabilire l’iter compositivo
del ciclo di tragedie che il Conti aveva
dedicato alla storia della Repubblica
romana. Matteo Venier analizza
il modus operandi di Gian Giuseppe
Liruti, mostrando come non solo si
occupasse della catalogazione dei libri,
ma anche della datazione degli
stessi a partire dal tipo di scrittura,
pratica non scontata nel ’700. Maria
Luisa Delvigo mostra la presenza di
autori classici all’interno dell’ode Al
Signor di Montgolfier di Monti, da Catullo
a Lucrezio, passando per Orazio,
Virgilio e Ovidio. Fabiana Savorgnan
Cergneu di Brazzà esamina le
lettere inviate da Francesca Roberti
(in Arcadia Egle Euganea) al friulano
Alfonso Belgrado, ipotizzando un
rapporto molto più che amicale che
solo le lettere del Belgrado potrebbero
confermare o smentire. Antonio
Ferracin si sofferma sulla figura di
Angelo Dalmistro e in particolare
sulla sua produzione poetica d’occasione,
mostrando come il poeta apprezzasse
e fosse apprezzato dalla
recensioni 835
raffinata nobiltà veneziana. Augusto
Guida dà notizia (e ne riporta il testo)
della tanto cercata lettera nella quale
Angelo Mai si congratulava con Leopardi
per le Canzoni dedicate al Monti.
Ivano Caliaro evidenzia il ruolo
formativo svolto da Foscolo e dalle
sue opere, in particolare dall’Ortis,
sulla figura e la produzione di Giuseppe
Mazzini. Maddalena Del Bianco
Cotrozzi analizza un’ode scritta da
Samuel David Luttazzo in occasione
delle nozze del suo allievo e amico
David Graziadio Viterbi, proponendo,
dopo l’analisi, il testo in appendice.
Veronica Toso offre un primo campione
dell’epistolario del bibliotecario
e studioso Attilio Hortis, mostrando,
attraverso la corrispondenza con
Salomone Morpurgo e Attilio Zenatti,
come il clima degli studi filologicoletterari
di fine ’800 fosse improntato
sul rispetto e la collaborazione. Fulvio
Salimbeni indaga i motivi che
portarono la RAI nel 1961 ad attuare
un atto censorio su Il ritorno del fante,
prodotto audiovisivo documentaristico
in cui Pier Antonio Quarantotti
Gambini guardava alla Grande Guerra
con un piglio assai lontano dai canoni
retorici voluti dalla DC. La sezione
è chiusa da Roberto Calabretto
che si sofferma sulla riflessione musicale
portata avanti da Pasolini nella
sua produzione scritta e cinematografica,
ponendo particolare attenzione
al suo interesse per Bach, all’amore
per il canto popolare e alla volontà
di riformare la frivola canzone
d’autore sua contemporanea.
La seconda parte del volume è dedicata
agli “altri ambiti” extraletterari
che hanno interessato il Griggio
durante la sua carriera. In apertura,
Monica Ballerini esamina il problema
della formula onomastica di Tito
Latino, vedendo nel termine Latinus
un etnico utilizzato per distinguere
persone con lo stesso prenomen. Cesare
Scalon, attraverso un’analisi del
Necrologium Rosacense, propone delle
chiarificazioni sulle origini dell’abbazia
di Rosazzo. Federico Vicario
presenta un’indagine su un robusto
corpus di voci lessicali tratte da antiche
fonti tricesimane in volgare friulano.
Carla Marcato analizza la Raccolta
compilata da Francesco Zorzi
Muazzo nel ’700, soffermandosi su
quelle parole in dialetto veneziano
indicanti cibi, bevande e particolari
usi alimentari. Pier Cesare Ioly Zorattini
si concentra sulle vicende della
famiglia ebraica Capriles e sulle
sue alterne fortune nel ’700 a partire
da un sonetto d’occasione scritto per
un matrimonio di una delle giovani
della famiglia. Fabio Sartor esamina
il valore dello starnuto, del naso e
dell’elemento olfattivo a partire da
Alberich dell’Anello del Nibelungo di
Wagner e trovando riferimenti nella
letteratura sacra e profana. Andrea
Guaran ripropone la riflessione di
Giuseppe Ricchieri sull’importanza
della didattica della geografia, rivelando,
dopo quasi un secolo, una certa
immobilità organizzativa e metodologica
nei confronti della disciplina.
Attilio Mauro Caproni, in un primo
intervento, espone una riflessione
che intreccia in un gioco di idee
scrittura (e scrittore), libro, biblioteca
e lettore, mentre in un secondo si sofferma
sui problemi metodologici alla
base del I volume della Bibliografia
delle edizioni di Niccolò Macchiavelli
1506-1914. Angelo Gaudio fa luce
sulla riflessione di Prezzolini sull’attività
educativa, riflessione che abbraccia
l’intero sistema scolastico,
dalle scuole elementari all’universi836
recensioni
tà. Angelo Orcalli esamina il sentimento
di razionalità che guida la visione
pluralista dell’universo musicale
di Giacomo Manzoni, soffermandosi
sul suo Doctor Faustus e
sulle considerazioni del Manzoni
sull’uso dei mezzi elettronici nella
musica. Raffaella Bombi propone
un’analisi su tre voci della lingua informatica,
shibbolet, cookie e breadcrumb,
mostrando come il lessico
informatico attui rimotivazioni di
parole colte o utilizzi parole del linguaggio
comune o specializzato. Vincenzo
Orioles presenta un riflessione
sul termine mediano atta a mettere in
luce la sua evoluzione come tecnicismo
nel gioco del calcio. Franca Battigelli
espone il processo di riqualificazione
di un tratto della High Line,
un’ex-ferrovia sopraelevata trasformata
in parco urbano nel cielo di
New York. Andrea Zannini riporta le
riflessioni di un gruppo di abilitati
PAS sul ruolo svolto dal manuale di
storia all’interno della didattica scolastica
e la sua futura evoluzione per
adattarsi ai cambiamenti delle nuove
generazioni di studenti. La sezione e
il volume sono chiusi da Roberto Albarea,
il quale offre una proposta di
lettura de I fiumi profondi dell’ispanoamericano
Josè Maria Arguedas,
Herzog dell’ebreo statunitense Saul
Bellow e la Canzone dei Felici Pochi e
degli Infelici Molti tratto da Il mondo
salvato dai ragazzini di Elsa Morante,
mettendone in luce tensioni e conflitti,
ma anche gioie e speranze.
Se la prima parte del volume è costruita
seguendo un perfetto raggruppamento
tematico e cronologico,
l’eterogeneità della seconda parte
costringe il lettore a saltare dalla linguistica
alla musicologia, dall’urbanistica
alle pedagogia. Non va dimenticato,
per poter apprezzare a
pieno questa eterogeneità a tratti
quasi esasperante, che il volume conglomera
i più disparati interessi del
Griggio, mostrandoci la sua attività
come un ampio ventaglio interdisciplinare
la cui solida base letteraria
continuerà, attraverso “le carte”, ma
anche tramite “i discepoli”, a far circolare
aria briosa e sempre nuova.
Fara Autiero