Anno XLIV (2016), Fasc. II, N. 171

Anno XLIV (2016), Fasc. II, N. 171

  1. Saggi
    • Daniela De Liso

      Per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel Seicento – pp. 211-224

      Le interconnessioni tra letteratura e pittura nel Seicento sono state, sin dall’800,
      indagate per lo più da storici dell’arte, raramente da critici letterari. Questa prospettiva,
      fortemente sbilanciata, ha finito per costruire l’immagine di una letteratura
      ancella della pittura nel Seicento. Il contributo intende delineare un quadro
      dei rapporti tra letteratura e pittura nell’Italia del Seicento, in cui da Milano a
      Bologna, a Firenze, Roma e Napoli s’incontrano pittori-poeti, poeti ispirati da
      tele famose e trattatisti che, a partire dall’assunto oraziano dell’ut pictura poësis,
      costruiscono la nuova retorica dell’arte nell’Italia della Controriforma.

      Since the Nineteenth century, the ties between literature and painting in the
      Seventeenth century have been studied mainly by art historians, rarely by literary
      critics. This strongly imbalanced reading has led to the idea of literature
      being a maidservant to painting in the Seventeenth century. This study aims to
      offer an overview of the relationship between literature and painting in Seventeenth-
      century Italy, where Milan, Bologna, Florence, Rome and Naples furnished
      painter-poets, poets inspired by famous canvases and writers of treatises
      who, taking their lead from Horace’s ut pictura poësis, constructed a new
      rhetoric of art in Counter-Reformation Italy.

    • Paola Marongiu

      L’Ascanio errante di Barbera Tigliamochi degli Albizi: un’Eneide rivisitata in versione toscana e
      femminista
      – pp. 225-252

      L’Ascanio errante è un poema epico in ottave della fiorentina Barbera Tigliamochi
      degli Albizi (1610-1696) che narra, insieme alle vicende di Enea esule da
      Troia, le gesta del figlio Ascanio e l’amore di questi per la guerriera Corintia
      regina di Fiesole da cui avrà origine la dinastia dei Medici. Il saggio analizza
      l’opera in relazione all’Eneide, alla Gerusalemme liberata e a situazioni tipiche del
      romanzo nelle quali le donne assumono un ruolo di primaria importanza.

      The Ascanio errante is an epic poem in octaves by the Florentine Barbera Tigliamochi
      degli Albizi (1610-1696), recounting, together with the story of Aeneas’
      exile from Troy, the deeds of his son Ascanius and the love of the latter for the
      warrior Corintia, a queen of Fiesole in whom the Medici dynasty will have its
      origins. The paper analyses the work in relation to the Aeneid, the Jerusalem
      Delivered and the novel’s typical situations in which women play a major role.

    • Arnaldo Di Benedetto

      Alfieri neoclassico – pp. 253-262

      Accostare la poesia di Vittorio Alfieri al gusto neoclassico (convivente col neogotico,
      e non sempre separabile da esso) non è operazione frequente. Eppure
      non mancano alcune, rare, sue dichiarazioni che inducono a collocarlo entro
      quella categoria. Alcuni cenni nelle sue liriche offrono caratteristiche immagini
      neoclassiche; altrettanto si può dire di alcuni paesaggi della Vita e delle Rime.
      Una sua sostanziale affinità col gusto neoclassico può inoltre essere indicata
      nella ricerca d’uno stile brachilogico, e nella semplificazione a cui egli sottopose
      le convenzioni del teatro tragico. «Dorica», «linearista», definirono la sua arte
      grandi letterati come Théophile Gautier e Egon Friedell.

      It is somewhat unusual to draw a parallel between Vittorio Alfieri’s poetry and
      neoclassicism (closely related to neo-Gothic and not always separable from it).
      Nonetheless, the occasional comment by Alfieri leads us to consider him a
      member of this category. Elements in his lyric poems conjure up typical neoclassical
      images; the same may be said of certain landscapes in the Vita and the
      Rime. A major affinity with neoclassical tastes may be identified in the search
      for concision and in the simplification applied to the conventions of tragic theatre.
      Important writers such as Théophile Gautier and Egon Friedell defined
      Alfieri’s art as “Doric” and “uncomplicated”.

    • Sara Pasquet

      La tirannide riesce sempre la stessa. Alfieri e La Boétie – pp. 263-278

      Il saggio prende in esame l’influenza che il Discorso sulla servitù volontaria di La
      Boétie ha avuto sul pensiero politico di Alfieri. La prima parte dello studio affronta
      l’argomento da un punto di vista storico: si riassumono le vicende che
      riguardano la stampa e la diffusione del Discorso in Francia fino alla fine del
      XVIII secolo e si ricostruisce la cronologia dei rapporti che Alfieri ha avuto con
      l’opera dello scrittore francese. La seconda sezione, più corposa, presenta un
      approccio letterario alla questione, con il confronto tra i singoli passi delle due
      “tragedie di libertà” e del trattato Della tirannide e diverse parti del Discorso.

      This essay looks at the influence of the Discours de la servitude volontaire by La
      Boétie on Alfieri’s political thinking. The first part tackles the issue from a historical
      standpoint, summarizing the events regarding the printing and circulation
      of the Discours in France up until the end of the Eighteenth century and
      reconstructing the chronology of the ties linking Alfieri to the French writer’s
      work. The second and longer section presents a literary approach to the question,
      comparing individual passages of the two “freedom tragedies” and the
      treatise Della tirannide with various parts of the Discours.

    • PIER ANGELO PEROTTI

      Don Abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio – pp. 279-294

      Viene analizzato sotto tutti gli aspetti, compresi quelli psicologici e linguistici,
      l’incontro di don Abbondio con i bravi con cui si aprono i Promessi sposi, con
      particolare riferimento ai vari momenti del dialogo tra il curato e i messaggeri
      di don Rodrigo. L’attenzione è rivolta segnatamente alle formule utilizzate nel
      corso del colloquio, ed è frequentemente proposto il parallelo fra il testo
      dell’edizione definitiva del romanzo e quello del Fermo e Lucia.

      This study analyses globally, including psychological and linguistic aspects, the
      meeting between don Abbondio and the “bravi” at the beginning of The Betrothed,
      focusing especially on the various phases of the dialogue between the
      curate and don Rodrigo’s messengers. Particular attention is devoted to the
      wording employed during the conversation, drawing frequent parallels between
      the text of the definitive edition of the novel and that of Fermo e Lucia.

    • Renate Lunzer

      Cavaliere rosso senza macchia e senza paura Osservazioni su Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu
      – pp. 295-314

      Partendo dalla breve e sorprendente premessa di Lussu all’edizione del 1937
      del suo memoriale Un anno sull’Altipiano ci chiediamo quali siano il messaggio,
      la poetica e il posto di questo capolavoro nell’ambito della produzione italiana
      sulla Grande Guerra. Inoltre focalizziamo il rapporto tra l’io narrato, cioè il
      Lussu volontario del 1916/17, e l’io narrante, il Lussu antifascista esiliato del
      1936/37. Infine ci interessa il fascino estetico eccezionale di quest’opera: la sua
      sovrana e amara ironia.

      Beginning with Lussu’s short and surprising preface to the 1937 edition of his
      memoirs entitled Sardinian Brigade, we wonder what might be the message, the
      poetics and the position of this masterpiece within Italian literature concerning
      the Great War. Furthermore, we focus on the relationship between the first person
      narrated, i.e. Lussu as a volunteer in 1916/1917, and the first-person narrator,
      i.e. the antifascist Lussu in exile, 1936/1937. Finally, we look at the exceptional
      aesthetic appeal of this work, its supreme and bitter irony.

  2. Contributi
    • Graziella Bassi

      Ser Ciappelletto – Manfredi di Svevia: due anime allo specchio – pp. 315-342

      L’intuizione dell’esistenza di rapporti intertestuali tra Decameron I, 1 e Purgatorio
      III trova conferma nella lettura comparata dei due testi, che offre riscontri di
      tipo lessicale, retorico e tematico; in particolare, la disposizione a chiasmo degli
      echi danteschi in Boccaccio permette di formulare una proposta interpretativa
      della figura di ser Ciappelletto e del suo destino ultraterreno, in stretta
      correlazione con quella di Manfredi di Svevia.

      The intuition of intertextual ties linking Decameron I, 1 to Purgatorio III finds
      confirmation through a comparative reading of the two texts, setting out lexical,
      rhetorical and thematic similarities. In particular, the chiasmus structure of
      the Dantean echoes in Boccaccio allows the formulation of an interpretation of
      the character of ser Ciappelletto and his afterlife, closely tied to that of Manfred
      of Swabia.

    • ANDREA AMOROSO

      Diario in tre lingue. Lo spazio vuoto di Amelia Rosselli e le serie verbali di Gilles Deleuze
      pp. 343-358

      La particolare sperimentazione linguistica di Amelia Rosselli dà vita a un vuoto
      di senso che fa della sua poesia un unicum all’interno del panorama novecentesco
      non soltanto italiano. Attraverso la messa in relazione di tale casella bianca
      rosselliana con il fondamentale concetto deleuziano delle “serie verbali”, si
      vuole sottolineare l’importanza filosofica ed ermeneutica della variatio all’interno
      della poesia di Rosselli.

      Amelia Rosselli’s particular linguistic experimentalism creates an absence of
      sense that makes her poetry unique within Twentieth-century literature. Relating
      Rosselli’s empty space to Deleuze’s fundamental concept of “verbal series”,
      this essay aims at highlighting the philosophical and hermeneutic importance
      of variatio for Rosselli’s poetry.

  3. Note e discussioni
    • Carlangelo Mauro

      Ugo Piscopo e la persistenza preesistente – pp. 359-370

    • LUIGI MONTELLA

      Tra storiografia e critica letteraria. Un omaggio a Luigi Reina – pp. 371-382

  4. Recensioni
    • Raffaele Ruggiero

      Emilio Pasquini, Il viaggio di Dante. Storia illustrata della Commedia, Roma 2015 – pp. 383-385

    • John Butcher

      Angelo Poliziano. Dichter und Gelehrter, a cura di Thomas Baier, Tobias Dänzer e Ferdinand Stürner,
      Tubinga,
      Narr Francke Attempto 2015
      – pp. 385-388

    • Francesca Chionna

      Raffaele Ruggiero, Machiavelli e la crisi dell’analogia, Bologna 2015 – pp. 388-390

    • Valeria Giannantonio

      Pietro Giulio Riga, Giovan Battista Manso e la cultura letteraria a Napoli nel primo Seicento. Tasso,
      Marino, gli Oziosi,
      Bologna 2015
      – pp. 390.393

    • Domenico Calcaterra

      Giuseppe Rando, Nei pressi dell’Infinito e altri saggi leopardiani. In appendice, l’edizione critica
      del discorso Agl’Italiani
      di Giacomo Leopardi, Roma 2015
      – pp. 393-394

    • Vincenzo Caputo

      Maria Valeria Sanfilippo, La fortuna scenica di Luigi Capuana, Caltanissetta-Roma 2015 – pp.
      394-397

      Capuana Luigi

    • Fara Autiero

      Poesia e preghiera, a cura di Erminia Ardissino e Francesca Parmeggiani, «TESTO. Studi di teoria e
      storia della
      letteratura e della critica», XXXVI (2015), n. 70 numero monografico
      – pp. 397-400

    • Daniela De Liso

      Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura. Atti del Convegno
      Nazionale di Studi (Cavallino di Lecce, 30 novembre-1 dicembre 2012), a cura di A. L. Giannone e Fabio
      D’Astore, Galatina 2014
      – pp. 400-403

    • Fara Autiero

      Rina Durante. Il mestiere del narrare. Atti del Convegno Nazionale di Studi Melendugno-Lecce, 18-19
      Novembre
      2013, a cura di Antonio Lucio Giannone, Lecce 2015
      – pp. 403-406

Saggi

Daniela De Liso
Per uno studio dei rapporti tra letteratura
e pittura nel Seicento
Le interconnessioni tra letteratura e pittura nel Seicento sono state, sin dall’800,
indagate per lo più da storici dell’arte, raramente da critici letterari. Questa prospettiva,
fortemente sbilanciata, ha finito per costruire l’immagine di una letteratura
ancella della pittura nel Seicento. Il contributo intende delineare un quadro
dei rapporti tra letteratura e pittura nell’Italia del Seicento, in cui da Milano a
Bologna, a Firenze, Roma e Napoli s’incontrano pittori-poeti, poeti ispirati da
tele famose e trattatisti che, a partire dall’assunto oraziano dell’ut pictura poësis,
costruiscono la nuova retorica dell’arte nell’Italia della Controriforma.

Since the Nineteenth century, the ties between literature and painting in the
Seventeenth century have been studied mainly by art historians, rarely by literary
critics. This strongly imbalanced reading has led to the idea of literature
being a maidservant to painting in the Seventeenth century. This study aims to
offer an overview of the relationship between literature and painting in Seventeenth-
century Italy, where Milan, Bologna, Florence, Rome and Naples furnished
painter-poets, poets inspired by famous canvases and writers of treatises
who, taking their lead from Horace’s ut pictura poësis, constructed a new
rhetoric of art in Counter-Reformation Italy.
Tutto comincia con questi versi, ormai più citati che letti:
Ut pictura poësis; erit quae, si proprius stes,
te capiat magis, et quaedam, si longius abstes.
Haec amat obscurum; volet haec sub luce videri,
iudicis argutum quae non formidat acumen;
haec placuit semel, haec deciens repetita placebit1.
Hor., Ars poetica, vv. 361-364
1 «La poesia è come la pittura, che talvolta apprezzi da vicino ed altre volte da
lontano. Un quadro ama la penombra; un altro, non temendo l’occhio sottile del
critico, ama essere guardato in piena luce; l’uno piace una volta sola, l’altro piacerà
tutte le volte». Sull’argomento, cfr.: A. Manieri, Pittura e poesia in Hor. Ars poetica
361-365, «Quaderni urbinati di Cultura classica», Nuova serie 47, n. 2 (1994), vol.
Saggi
212 daniela de liso per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel seicento 213
verso gli occhi»5. Sono convinta che l’ansia di recupero di testi e autori
dimenticati non debba mai affrancarsi da questo assunto, lasciandosi
andare alle eccessive esaltazioni di certa ermeneutica appassionata.
Giambattista Marino, sostenendo che «la poesia è detta pittura
parlante, la pittura poesia taciturna […] onde scambiandosi alle volte
reciprocamente la proprietà delle voci, la poesia dicesi dipignere, e la
pittura descrivere»6, fece dell’Adone un’opera pittorica e delle tele che
raccontò nella sua Galeria delle opere di poesia. Penso, tra molte suggestioni,
ad esempio, al sonetto dedicato, nelle Historie, all’interno delle
Pitture, alla “Maddalena piangente” di Raffaello, che mollemente
«langue», afflitta dall’Amore e non dal dolore, e, se non parla «e non è
viva», non è colpa dell’Arte, ma «colpa è d’Amor, /che per dar l’alma
altrui, d’alma l’ha priva»7. Marino dà voce alla tela o la tela dà voce al
Cavalier Marino? In entrambi i casi la “Maddalena piangente”, i suoi
sentimenti, il suo dolore dolce e il suo amore triste vivono ossimoricamente
per sempre8.
Alla fine dell’Ottocento, Heinrich Wölfflin, nel suo Rinascimento e
Barocco (1888), scrisse, forse in preda ad una certa ansia definitoria, ma
non allontanandosi troppo dal vero, che se il Rinascimento esprime
«serenità», «calma», «sobrietà divina», al contrario «il Barocco si propone
di dare altre impressioni. Esso vuole commuovere e colpire immediatamente,
con la possanza della passione. Quello che esso esprime
non è tranquilla animazione, ma eccitazione, estasi, ebbrezza»9. E continua
definendo quello barocco come «lo stile pittoresco», che «ha lo
scopo di dare l’impressione del movimento. Il primo effetto di questa
tendenza è la composizione in masse di luci e ombre; il secondo effetto
è quello che io chiamerei la dissoluzione della regolarità (stile libero,
disordine pittoresco). Ogni norma infatti è inanimata, senza moto, non
pittoresca»10. Di che cosa parla Wölfflin? Di pittura o di poesia? Il discorso
può essere assunto, in realtà, come la definizione affascinante
dei caratteri secenteschi di entrambe le arti. Fa pensare, allo stesso tempo,
alla “Morte della Vergine” di Caravaggio (1601-1605/6), tela rifiuta-
5 A. Battistini, Barocco, Roma, Salerno Editrice, 2012, p. 151.
6 G. B. Marino, Diceria prima sopra la Sacra Sindone, in Id., Dicerie sacre e La
strage degli Innocenti, a cura di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1960, p. 151.
7 G. B. Marino, Galeria, Venetia, Brigonci, 1675, p. 76.
8 Sul Marino e sul suo rapporto con le arti figurative è importante la monografia
recente di E. Russo, Marino, Roma, Salerno editrice, 2008.
9 H. Wölfflin, Rinascimento e Barocco, trad. it. di L. Filippi, Firenze, Vallecchi,
1928, p. 51.
10 Ivi, p. 42.
Dall’augusteo Orazio pittura e poesia sono, perciò, tra le arti, saldamente
imparentate. È evidente che la parentela sia sancita tra il vedere
ed il sentire2. La pittura che guardi muove i sensi, come la poesia
che leggi. Puoi passare davanti ad un quadro in una pinacoteca, fermarti
a guardarlo e ricordarne per sempre le pennellate, i chiaroscuri,
un volto, un incarnato oppure puoi dimenticarlo dopo esserci passato
davanti. Accade, in fondo, anche con la poesia. Alcune sono amore a
prima vista, altre hai bisogno di fissarle, di rileggerne i versi, di sentirne
il ritmo, e, magari, poi, restano lì, nel libro, non ne hai bisogno più.
Nel corso dei secoli, come è noto a tutti, l’emistichio oraziano è stato
variamente e cospicuamente richiamato alla memoria per parlare dei
rapporti tra le arti sorelle. Basti pensare alla rielaborazione di Leonardo
che sosteneva che «La pittura è una poesia che si vede e non si
sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede»3. Ma il nostro
discorso può fare a meno di già noti excursus e muovere dal Seicento,
secolo pittorico, di luci ed ombre e, perciò, luogo ideale per indagare
le suggestioni reciproche tra poesia e pittura4.
Nel suo lavoro monografico sul Barocco, Andrea Battistini dedica
un denso capitolo alle arti sorelle, evidenziando anzitutto che nel Seicento
arte e letteratura non sempre raggiungono gli stessi risultati e
che la bilancia spesso pende in favore della prima, forse perché un secolo
tanto incline «all’esibizione e allo spettacolo», tende naturalmente
a privilegiare «la vista sopra tutti gli altri sensi», «la percezione attra-
76, pp. 105-114; C. Bologna, Orazio e l’Ars poetica dei primi trovatori, «Critica del
testo», n. 3, a. X (2007), pp. 173-199.
2 Sul rapporto tra letteratura e pittura, cfr.: V. Luise e S. Luise, Poesia e Pittura,
Napoli, Valtrend, 2002; J. B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, a
cura di M. Mazzocut-Mis e P. Vincenzi, Palermo, Aesthetica, 2005; A. Caputo,
L’arte, nonostante tutto: ricerche sulla musica, la pittura e la poesia: tra estetica ed ermeneutica,
Roma, CVS, 2012; R. Giglio, Ut pictura poësis. Scritti su poeti e pittori. Salvatore
Di Giacomo ed altri, Casalnuovo di Napoli, Phoebus edizioni, 2013; R. Regina,
Orizzonti in divenire: La pittura è poesia silenziosa, e la poesia è pittura che parla, Roma,
Lepisma, 2013.
3 L. da Vinci, Libro di Pittura. Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica
Vaticana, a cura di C. Pedretti, Trascrizione critica di C. Vecce, Firenze, Giunti,
1995, vol. I, p. 144. Leonardo continua: «Adonque queste due poesie, o voi dire due
pitture, hanno scambiati li sensi, per li quali esse dovrebbono penetrare allo intelletto.
Perché se l’una e l’altra <è pittura>, dee passare al senso comune per il senso
più nobile, cioè l’occhio; e se l’una e l’altra è poesia, esse hanno a passare per il
senso meno nobile, cioè l’audito» (ibidem).
4 Suggestivo discorso sui rapporti tra letteratura e pittura propone il volumetto
di E. Raimondi, Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, Il Mulino,
1995.
[ 2 ] [ 3 ]
214 daniela de liso per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel seicento 215
pinge in un «disordine pittoresco» il giardino di Frontone, console sotto
l’impero di Traiano e mecenate di letterati. Quel giardino è satiricamente
in rovina; i platani sono «divelti e scossi»; la loro distruzione, causata
dall’echeggiare di troppi carmi vuoti e versi brutti, è solo la prima immagine
di una feroce climax ascendente, capace di evidenziare quella
tensione ebbra che è l’anima del barocco (ci sono i seguaci d’Apollo,
inebriati dall’acqua, come baccanti!), che vuole raccontare di chi non sta
più bene in terra e non vuole stare in cielo, ma dalla percezione dell’infinito
è precipitato, d’improvviso, in un baratro di non-sense.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e giungere a disegnare la geografia
esatta dell’ininterrotto dialogo tra poesia e pittura nel Seicento,
del bisogno, quasi una inderogabile ἀνὰγχη, che un’arte ha della sua
consorella. La lingua dell’ininterrotto dialogo secentesco tra letteratura
e pittura è capace, del resto, di poliedriche declinazioni14. Trattatistica,
poesia e pittura dialogano tra loro lungo una strada che va da Napoli
a Roma, a Firenze, a Bologna, Milano, Genova e Venezia15. Il dialogo
attraversa insomma l’Italia, insieme alle tele di Caravaggio, dei
Carracci, di Guido Reni, di Salvator Rosa e Lorenzo Lippi, e si specchia
nelle opere di Daniello Bartoli, Virgilio Malvezzi e Girolamo Gigli,
per citare solo i più vicini alle mie attuali indagini. Occorre, perciò,
leggere la trattatistica16, l’epistolografia, le summae enciclopediche, le
epitomi, i repertori mitologici, i testi biblici17 e occorre chiarire il pano-
14 Sulle declinazioni possibili delle arti sorelle si vedano, ad esempio: S. Milesi,
Un’idea su Torquato Tasso. Tra Poesia e Pittura, Bergamo, Corponove, 2003; V. Lotoro,
La fortuna della Gerusalemme liberata nella pittura napoletana tra Seicento e Settecento,
Roma, Aracne, 2008.
15 La storia e la critica dell’arte sono impegnate, negli ultimi decenni con nuova
alacrità, proprio sul versante della costruzione di una mappa di interconnessioni
tra le arti sorelle nel Seicento. Ne sono prova alcuni recenti lavori, tra i quali segnalo
i libri di F. Conte, Tra Napoli e Milano. Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento. I. Da
Tanzio da Varallo a Massimo Stanzione, Firenze, Edifir, 2012; Ead., Tra Napoli e Milano.
Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento. II. Salvator Rosa, Firenze, Edifir, 2014. La critica
letteraria ha scritto molto sui centri italiani del Barocco, ma non ha avviato ancora
uno studio sistematico dei rapporti tra essi. Rinvio per la bibliografia sull’argomento
all’ottima rassegna bibliografica di A. Battistini, Il Barocco, cit., pp. 301-303.
16 Sulla trattatistica: M. Praz, Studi sul concettismo, Firenze, Sansoni, 1946; E.
Raimondi (a cura di), Trattatisti e narratori del Seicento, Milano- Napoli, Ricciardi,
1960; G. Conte, La metafora barocca, Milano, Mursia, 1972; R. Barilli, Poetica e retorica,
Milano, Mursia, 19842; A. Battistini- E. Raimondi, Le figure della retorica, Torino,
Einaudi, 1990.
17 Sull’enciclopedismo secentesco: C. Vasoli, L’enciclopedismo del Seicento, Napoli,
Bibliopolis, 1978; W. Tega (a cura di), L’unità del sapere e l’ideale enciclopedico nel
pensiero moderno, Bologna, Il Mulino, 1983; M. Casciato et alii (a cura di), Enciclota
dai Carmelitani scalzi che l’avevano commissionata, perché giudicata
indecorosa, oggi al Louvre, e all’incipit della satira sulla Poesia di Salvator
Rosa. La Vergine che muore, la cui modella sembra essere stata
una prostituta annegata nel Tevere, giace, scomposta, nel centro del
dipinto, col ventre rigonfio ed una veste rossa, i piedi nudi. A vegliarla
ci sono gli Apostoli e la Maddalena, tutti in abiti umili. La Madonna
che, nell’elezione al Cielo, dovrebbe rivelare la sua natura divina, è raffigurata
da Caravaggio come una popolana. La tela propone insomma
una rappresentazione non rassicurante, né regolare di un episodio religioso
che dovrebbe celebrare la divinità e non l’umanità. Chi ha visto la
tela non può non continuare a pensare allo stravolgimento delle regole,
al disordine pittoresco: le figure sembrano ammucchiate intorno all’immagine
centrale, la luce, che cade diagonalmente nel dipinto, illumina
lo scarlatto dominante e definisce i chiaroscuri. Luce che non illumina,
in realtà, ma colpisce, per evidenziare il dramma. Chiaroscuri che conferiscono
un senso di irrisolto alle tensioni dell’animo rappresentate11.
Ma le osservazioni di Wölfflin sembrano anche parlare di questo
incipit rosiano:
Le colonne spezzate e rotti i marmi
là fra i platani suoi divelti e scossi
Fronton rimira a l’eccheggiar de’carmi,
ché da furore ascreo spinti e commossi
s’odono ognor tanti poeti e tanti,
che manco gente in Maratona armossi.
Suonan per tutto le ribeche e i canti
E si vedon, sol d’acqua inebriati,
i seguaci d’Apollo andar baccanti:
quei narra d’Eolo i prigionieri alati,
di Vulcano e di Marte antri e foreste,
e del giudice inferno i rei dannati;
[…]
Magior poeta è chi più dà nel matto,
tutti cantano omai le cose istesse,
tutti di novità son privi affatto.12
Riproponendo poeticamente il testo satirico di Giovenale13, Rosa di-
11 Cfr. R. Longhi, Caravaggio, Roma, Editori riuniti, 1982; M. Gregori (a cura
di), Michelangelo Merisi da Caravaggio: come nascono i capolavori, Milano, Electa,
1991; T. Wilson-Smith, Caravaggio, London, Phaidon, 1998.
12 S. Rosa, Poesia, in Id., Satire, a cura di D. Romei, Commento di J. Manna,
Milano, Mursia, 1995, p. 71, vv. 1-21.
13 Cfr. Giovenale, Satire, I, 1-14.
[ 4 ] [ 5 ]
216 daniela de liso per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel seicento 217
non cambia per altri suoi contemporanei, come l’amico Lorenzo Lippi
(Firenze, 1606- ivi, 1664), assai poco indagato criticamente come poeta,
ma autore del Malmantile racquistato, disponibile, in un’unica versione
moderna del 201022. È ovvio che le ragioni di questo silenzio siano
quelle che lo studioso di letteratura si trova ad affrontare ogni
volta che si accinge a lavorare su autori, avvezzi ad esercitarsi in più
di un’arte o di una disciplina. Opera, direi, una sorta di non dichiarata
«angoscia dell’influenza»23; ci portiamo tutti dentro inconsapevolmente
la lezione senecana, contenuta in quella letterina a Lucilio, in
cui il magister ammoniva il discipulus ad esercitarsi in un’unica disciplina,
piuttosto che dar meschina prova di sé in molte. Ma dal dialogo
tra poesia e pittura nel Seicento non si può prescindere, se si vuole
provare ad affrancare definitivamente il secolo da una condizione di
subalternità scientifica. A giudicare dall’andamento generale degli
studi odierni di critica letteraria, tesi ad inseguire in maniera quasi
esclusiva Ottocento e Novecento, sembra che la strada sia ancora piuttosto
ardua in questa direzione. Ai retori e ai trattatisti del Seicento,
invece, apparve subito evidente la necessità di comprendere, definire
e regolamentare i modi e le diverse declinazioni del dialogo tra pittura
e letteratura. Appariva chiaro, per esempio, ad uno dei protagonisti
più in vista del Concilio di Trento, il cardinal Paleotti, che entrambe le
arti parlassero e contribuissero, in tal modo, ad influenzare le coscienze
degli uomini, nell’ottica controriformistica, dei fedeli. Nel suo Di-
Rosa, Satire, a cura di D. Romei, Commento di J. Manna, Milano, Mursia, 1995. Le
Lettere, dopo la pubblicazione frammentaria di testi da parte del Cesareo e del Limentani
(G. A. Cesareo, Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, Napoli, Tipografia
della Regia Università, 1892, voll. I-II; U. Limentani, Poesie e lettere inedite di
Salvator Rosa, Firenze, Olschki, 1950; Id., Salvator Rosa. Nuovi studi e ricerche, «Italian
Studies», vol. VIII, 1953, pp. 29-58 e vol. IX, 1954, pp. 46-55), sono state finalmente
raccolte in un unico volume: S. Rosa, Lettere, raccolte da L. Festa, a cura di
G. G. Borrelli, Bologna, Il Mulino, 2003. Le liriche sono state pubblicate in modo
discorde e frammentario, ma mancano di edizione critica, da: G. A. Cesareo, Poesie
e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, cit.; U. Limentani, Poesie e lettere inedite di
Salvator Rosa, cit.; S. Rosa, Satire, odi e lettere, illustrate da G. Carducci, cit.
22 L’edizione del 2010, numerata, è la seguente: L. Lippi, Il Malmantile racquistato,
illustrazioni di O. Monti, commento e note di L. Doglioni, Santa Giustina,
Dolomiti Stampa, 2010. Nel 2005 il Rotary Club di Firenze ne aveva pubblicato una
ristampa anastatica che riproduce l’edizione di Firenze, Stamperia della Condotta,
1688: L. Lippi, Il Malmantile racquistato, Empoli, Rotary Club, 2005. Sul Lippi ed il
poema eroicomico cfr. M.C. Cabani, La pianella di Scarpinello. Tassoni e la nascita
dell’eroicomico, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 1999.
23 Cfr. H. Bloom, L’angoscia dell’influenza (1973), Milano, Feltrinelli, 1983.
rama complesso e variegato delle Accademie secentesche18. È necessario
immergersi nella polvere delle carte d’archivio che possono aiutare
a ricostruire, ad esempio, l’intricato sistema delle committenze, da cui
senza dubbio dipende la fortuna minore o maggiore di un tema letterario,
di una forma metrica. Si tratta di un lavoro enorme, che può
essere condotto, con qualche speranza di esaustività, individuando i
nodi fondamentali della ricerca e favorendo lo studio monografico dei
pittori-poeti, dei trattatisti, dei poeti che scrivono di pittura e dei pittori
che apertamente si ispirano, nella composizione delle tele, alla
letteratura.
Quando, un anno fa, ho cominciato a lavorare su Salvator Rosa
(Napoli, 1615- Roma, 1673)19, la natura fitta di questo dialogo tra le
arti mi è sembrata, grazie a studi datati, ma fondamentali, come quelli
sulla Satira di Cian e di Limentani o quello di Dionisotti, Appunti su
Arti e Lettere, subito complessa20. Ed evidente mi è apparso un certo
sbilanciamento degli studi: gli storici dell’arte hanno scritto molto dei
pittori-poeti, ovviamente in una prospettiva volta a rendere la poesia
ancella della pittura; i critici letterari se ne occupano molto meno. Nel
caso di Salvator Rosa, ad esempio, non esistono monografie scientifiche
moderne, né un’edizione critica di satire e liriche21. La situazione
pedismo in Roma barocca, Venezia, Marsilio, 1986; A. Battistini, Un’enciclopedia secentesca,
in Id., Galileo e i Gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e
Pensiero, 2000, pp. 317-348.
18 C om’è noto le Accademie hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo e
nella diffusione della cultura nel Seicento. Proprio per questo l’esistenza dell’unico
repertorio datato del Maylender (M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna,
Cappelli, 1926-1930) costituisce una grave lacuna negli studi di critica letteraria
secentesca, colmata solo in parte dal lavoro complessivo e fondamentale di
Amedeo Quondam (L’Accademia, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa,
vol. I (Il letterato e le istituzioni), pp. 823- 898). È in corso un buon tentativo di far
chiarezza sulle Accademie d’Italia, concretizzatosi nella Banca Dati Italian Academies,
progetto della Royal Holloway, University of London (http://www.rhul.
ac.uk/modern-languages/research/italian-academies/). Per una descrizione del
progetto di ricerca Italian Academies, cfr. L. Gianfrancesco, Italian Academies 1530-
1700. A Themed Collection Database (http://www.estericult.it/duepuntozero/
2009/05/25/italian-academies-1530-1700/).
19 Per il “punto” sugli studi rosiani di critica letteraria mi sia consentito rimandare
a D. De Liso, Il punto su Salvator Rosa scrittore poeta, «Critica Letteraria», XLIII
(2015), fasc. 1, n. 166, pp. 29-45.
20 V. Cian, La satira (dall’Ariosto al Chiabrera), Milano, Vallardi, 1939; U. Limentani,
La satira nel Seicento, Milano- Napoli, Ricciardi, 1961; C. Dionisotti, Appunti
su Arti e Lettere, Milano, Jaka book, 1995.
21 L’unica edizione moderna del libro delle Satire non è un’edizione critica: S.
[ 6 ] [ 7 ]
218 daniela de liso per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel seicento 219
Nell’apparenza, nel suo potere attrattivo, che opera attraverso i
sensi, spesso a danno dell’intelletto, risiede il primo luogo di connessione.
Chi legge una poesia e chi guarda un dipinto è, prima di tutto,
colpito dai colori della tela e dal ritmo dei versi; solo se chi guarda e
legge è dotato di intelligenza e, diremmo noi, di cultura, si soffermerà
ancora un momento sul verso e sul dipinto e scorgerà la potenza di
parole ed immagini, subirà il loro potere di fascinazione, risponderà
alla loro suggestione evocativa. Pensava, senza dubbio, alle opere
dell’amico Guido Reni, pittore capace di diversi gradi di fascino e perfezione26,
il Malvezzi di queste pagine. Pensava forse all’“Atalanta e
Ippomene” dell’amico, in cui «l’eccitazione, l’estasi e l’ebbrezza» di
un intero secolo, insieme alla compostezza classica degli incarnati e
dei volti, abitano, conciliandosi solo all’occhio del fruitore intelligente,
le figure, stagliandole proprio in un «pittoresco disordine», dato dal
fluire dei panneggi come fuori da una tela che cerca, invece, di fermare
la corsa dell’invitta Atalanta. L’assunto finale di Malvezzi stabilisce
che la contiguità tra pittura, poesia e retorica si gioca sul piano della
fruizione dell’opera, quanto sul furor ordinato che ne aveva ispirato il
demiurgo. Cioè, pittura e poesia raccontano le medesime emozioni,
che nascono nell’artista che si pone di fronte alla realtà e la interroga,
dopo averne subito la malia, per trovare la propria Weltanschauung e
metterla al riparo dalle continue minacce dell’effimero.
Analogamente, dunque, pittura e poesia devono confrontarsi con
l’intenzione tassonomica e prescrittiva della Controriforma27, di cui il
cardinal Paleotti ci aveva offerto un piccolo saggio. È ovvio che la proposta
del Paleotti di creare un Indice delle pitture proibite, da affiancare
a quello dei libri28, suggerisca una analoga situazione di disagio intellettuale
nei poeti e nei pittori del secolo. Tante pagine sono state
scritte su questo disagio intellettuale, come sulla volgare difficoltà di
“sbarcare il lunario”, in un tempo popolato da pochi grandi mecenati
26 Sul Reni ed i suoi rapporti con la cultura e la letteratura bolognese cfr. E.
Raimondi, La metafora ingegnosa. Letteratura a Bologna nell’età di Guido Reni, in Id.,
Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 21-54.
27 Sui rapporti tra Barocco e Controriforma: A. Asor Rosa, La nuova scienza, il
Barocco e la crisi della Controriforma, in Letteratura italiana Laterza, vol. V/I. Il Seicento,
Roma- Bari, Laterza, 1974; A. Biondi, Aspetti della cultura cattolica post-tridentina.
Religione e controllo sociale, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, a cura di C.
Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 253-302; A. Prosperi, Tribunali della coscienza.
Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 19983.
28 G. Paleotti, Discorso intorno alle imagini sacre e profane (1582), cit., p. 408.
scorso intorno alle immagini sacre e profane, il cardinale, dopo aver dichiarato
che «le immagini tra cristiani devono avere principale riguardo
al giovare», sostiene anche che occorra riservare un’attenzione
censoria maggiore alla pittura, piuttosto che alla poesia, perché «i libri
sono letti solo dagl’intelligenti, che sono pochi, ma le pitture abbracciano
universalmente tutte le sorti di persone»; dunque la pittura è un
«libro popolare, capace d’ogni materia, sia di cielo o di terra, di animali
o di piante, o d’azzioni umane di qualunque sorte»24.
Anche più eloquente sui rapporti tra poesia e pittura appare una
pagina della Vita d’Alcibiade di Virgilio Malvezzi, che, perciò, ritengo
utile riproporre. Il Malvezzi, amico di Guido Reni e sempre in limine
tra pittura e poesia, aveva riflettuto a lungo sulle connessioni tra le due
arti, sulla complementarità di occhio ed orecchio, di senso e suono:
La rettorica, la poetica, la musica e altre arti constano d’un non so che
posto nell’esteriore, il giudicio del quale pare appartenga ai sensi,
energia, numero, dolcezza di voce e vaghezza di colorito. Ancora constano
d’altro più interiore, che per comprendere è necessaria gran notizia
di quelle arti, e per giudicare, eminente intelletto. L’uomo ignorante
subito corre al senso e sentenzia con gli occhi e con l’orecchio,
dando conforme alla di lui vista e udito, e molte volte a quello che non
merita lode, quasi mai apponendosi a dar biasimo a quello che lo merita.
L’inganna l’apparenza perché si ferma negli accidenti e gli loda, e
non arrivando al conoscimento della sostanza, non la biasima perché
l’ignora. […] L’istesso si vede nelle pitture, ce ne sono alcune per così
fatto modo colorite, che di primo colpo violentano il giudicio degli
ignoranti, e anche degl’intelligenti, con una differenza però, che quelli
persistono sempre nella loro opinione e questi la mutano subito che
l’hanno essaminata. Così fatte qualità che tanto violentemente attraono
nella politica, retorica, poetica, pittura e altre arti procedono, come
ho detto, da un furore che si vede nel volto dell’uomo attivo e nel volto
e nel gesto dell’oratore. […] Il medesimo furore, se non si vede e non si
ode nell’artefice che dipinge, si vede impresso nelle opere. […] Maggiore
applauso trovarà dal volgo colui che colorisce meglio che quello
che disegna meglio, ancorché colorisca bene. Così anche nella musica,
nella poetica, nella retorica interviene, essendo sempre in esse comunemente
applaudito quello che prevale nella parte che più appartiene
al senso. Questa subito si rappresenta all’uomo e questi velocemente la
porta all’intelletto e senza dargli tempo a discorrerla l’obliga a giudicarla
in favore dell’apparenza.25
24 G. Paleotti, Discorso intorno alle imagini sacre e profane (1582), in Trattati d’arte
del Cinquecento, a cura di P. Baiocchi, Bari, Laterza, 1961, vol. II, p. 120.
25 V. Malvezzi, Delle vite d’Alcibiade e di Coriolano, Genova, Chouet, 1656, pp.
246-250.
[ 8 ] [ 9 ]
220 daniela de liso per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel seicento 221
Con mio grave stupor contemplo e medito
che quasi sempre ogni pittor peggiora
quando comincia ad acquistare il credito,
perché, vedendo che più d’un l’onora
e ch’hanno facilmente esito e spaccio
le cose che dipinge e che lavora,
del faticar più non ci prende impaccio
e, presa la pigrizia in enfiteusi,
dolcemente diventa un asinaccio.32
Come dalle pagine del Malvezzi, dai versi del Rosa si può ricostruire
il male comune a pittori e poeti, un male, che, a ben vedere, attanaglia
tutta l’intellighentia del secolo: gloria, potere e denaro non sono
ricompensa per i migliori, ma appannaggio degli adulatori. Ma fino a
questo punto il rapporto tra poesia e pittura nel Seicento sembra
esclusivamente scritto in senso negativo, cioè il secolo appare come il
teatro di pittori e poeti ugualmente in cerca di promozione, ma poco
preoccupati della ricerca del sensus delle proprie opere. Malvezzi e
Rosa sostengono con chiarezza che l’approvazione di una tela dipenda
esclusivamente dall’impressione immediata, si nutra di apparenza.
Ma esprimono il punto di vista del moralista e del censore. Malvezzi
parte dall’osservazione del reale per modificarlo. Rosa si scaglia contro
un potere che non lo ha accolto nel suo seno. È evidente, però, che
la storia delle connessioni tra pittura e poesia non possa essere scritta
esclusivamente su questo terreno. Esiste, evidentemente, al di là della
ricerca di affermazione e successo, talvolta resa ossessiva da esigenze
meramente materiali, quali la sopravvivenza, una forte preoccupazione
“creativa”, tanto in pittura, quanto in letteratura. Il pittore ed il
poeta del Seicento ritengono, insomma, di avere una propria Weltanschauung,
in grado di modificare il gusto del proprio pubblico, che
sentono l’esigenza di guidare nella bagarre del reale. Per lambire brevemente
questa nuova sponda del discorso, vorrei partire proprio da
un quadro del Rosa, “La Poesia”. La tela, attribuita al periodo fiorentino
del pittore-poeta, poiché la modella è evidentemente la sua Lucrezia,
incontrata intorno al 1640, è più o meno contemporanea alla
composizione della satira sulla Poesia, riconducibile al 1642. Sorprendentemente
da quella satira la tela è lontanissima. I toni irriverenti e,
talvolta, ineleganti della satira non trovano alcuna corrispondenza
con l’eleganza austera della tela. La “Poesia” della tela è, evidente-
32 S. Rosa, Pittura, in Id., Satire, p. 105, vv. 307-315.
e affollato da una pletora di pittori e poeti e scrittori29. Il mecenatismo
ed il collezionismo sono importanti aree di ricerca, che andrebbero approfondite
per disegnare la fisionomia policroma dei rapporti tra letteratura
e pittura30. È, infatti, evidente, quanto sia difficile per il pittore e
per il poeta distinguersi, solo con la forza “commerciale” della propria
arte, per usare una categoria moderna, dalla schiera dei clientes, tra i
quali un tempo aveva tentato di farsi spazio il vecchio Giovenale.
Nella Vita premessa alla sua edizione delle Satire, Odi e Lettere di
Salvator Rosa, Giosue Carducci offriva, circoscrivendolo a Napoli,
-ma il concetto può essere esteso alle altre città della nostra mappa
virtuale-, uno spaccato vivido di questo tipo di realtà:
[…] a Napoli […] tiranneggiavano allora tre scuole o meglio tre fazioni
artistiche; del Ribeira (lo Spagnoletto), del napoletano Caracciolo, del
greco Belisario Corenzio; le quali, accanite fra loro in ogni altra cosa, in
questa si trovavano d’accordo, allontanare i forestieri, calcare gl’ingegni
crescenti. E veramente quei triumviri avevano con minaccie e con
fatti cacciato di Napoli Annibale Caracci, il Lanfranco, il Domenichino
e Guido Reni. […] Col Rosa, principiante e povero, adoperarono l’arme
che più diritto ferisce e fa peggior piaga, il disprezzo.31
Questa folla e questo disagio abitano violentemente, infatti, le satire
del Rosa, che non riuscì, pur alimentando in sé ed intorno a sé l’alto
senso della propria arte pittorica e poetica, a varcare il fiume dei tanti.
In questa direzione va letta l’invettiva, una delle tante, contro i poeti
del suo tempo, che occupa i 934 versi della satira omonima: i poeti
contemporanei sono «cento bestiacce e cento» (v. 469), «dottissima canaglia
» (v. 472), «bufali ignoranti» (v. 527); «asini e muli» (v. 570). O si
guardi all’invettiva contro i colleghi pittori, ammalati ugualmente del
desiderio di gloria, denaro e potere, nei versi della Pittura:
29 L’argomento è ben affrontato in più capitoli del volume di A. Battistini, Il
Barocco, cit.
30 Sul collezionismo: A. Lugli, Naturalia e mirabilia. Il collezionismo enciclopedico
nelle Wunderkammen d’Europa, Milano, Mazzotta, 1983; K. Pomian, Collezionisti,
amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI-XVIII secolo, trad. it. Milano, Il Saggiatore,
1989; G. Olmi, L’inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere
nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1992; P. Barocchi, Storiografia e collezionismo
dal Vasari al Lanzi, in Storia dell’arte italiana, 1/2. L’artista e il pubblico, a cura
di G. Previtali, Torino, Einaudi, 19933, pp. 5-81; M. Cavazza, Possedere la natura,
inventariare il mondo. Studi recenti sul collezionismo e sui musei naturalistici nella prima
età moderna, «Physis», a. XXXIV (1997), pp. 321-329.
31 S. Rosa, Satire, odi e lettere, illustrate da G. Carducci, Firenze, Barbera, 1860,
pp. XIII-XIV.
[ 10 ] [ 11 ]
222 daniela de liso per uno studio dei rapporti tra letteratura e pittura nel seicento 223
delle epidemie, della caccia alle streghe e dell’Inquisizione spagnola –,
fa dipingere a Caravaggio la Vergine morta col volto di una prostituta.
Gli eroi e i santi possono essere zingari e mendicanti e una tela, come
una poesia, possono celebrare direttamente, senza il ricorso al mito o
alla materia devozionale, un’umanità ai margini, aggiungendo una
nuova tessera al mosaico dei motivi letterari ed artistici secenteschi.
Ritroviamo così un ritratto come “Lo storpio” (1642) di Ribera, che
fa pensare alla Bellissima mendica di Claudio Achillini.
Nell’ambito della pittura dei «pitocchi», che raffigura sbandati e
mendicanti, Ribera dipinge un piccolo scugnizzo napoletano. Il piede
equino del piccolo, che racconta una realtà resa mostruosa da pestilenze,
epidemie e guerre, è forse l’ultimo particolare che il fruitore dell’opera
nota nella tela. La piccola figura emerge da uno sfondo reso luminoso
dall’azzurro del cielo e dal bianco delle nubi. Questa luce investe
un volto allegro, quasi trionfante, che con una mano regge il foglietto
che lo rivela muto ed impugna la sua stampella, come un guerriero la
sua arma. Non c’è denuncia, ma necessità di raccontare, fame di realismo,
perché lo storpio ride, come tutti gli scugnizzi e i lazzari della
Napoli che di Ribera fu, forse, la vera patria35. Anche nella quasi contemporanea
Bellissima mendica di Achillini36, la povertà logora e lacera
rivela una bellezza luminosa:
Sciolta il crin, rotta i panni e nuda il piede,
donna, cui fé lo ciel povera e bella,
con fioca voce e languida favella
mendicava per Dio poca mercede.
Fa di mill’alme, intanto, avare prede
al fulminar de l’una e l’altra stella;
e di quel biondo crin l’aurea procella
a la sua povertà togliea la fede.
“A che fa” le diss’io “sì vil richiesta
la bocca tua d’oriental lavoro,
ov’Amor sul rubin la perla inesta?
35 Cfr. N. Spinosa, L’opera completa del Ribera, Milano, Rizzoli, 1981; Jusepe de
Ribera lo Spagnoletto, ed. by G. Felton and W. Jordan, Forth Worth, Kimbell Art
Museum, 1982; Jusepe de Ribera 1591-1652, Napoli, Electa, 1992.
36 Sull’Achillini cfr: A. Colombo, I riposi di Pindo: studi su Claudio Achillini
(1574-1640), Firenze, Olschki, 1988; M. Pieri (a cura di), Il Barocco. Marino e la poesia
del Seicento, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995; C. Achillini, Il
sangue dell’ucciso: prose e poesie di Claudio Achillini, a cura di M. Pieri e L. Salvarani,
Trento, La Finestra, 2008.
mente, per il pittore il modello ideale di un’arte così svilita dalla volgarità
dei contemporanei. La tela riproduce il profilo di una donna
coronata d’alloro. L’atteggiarsi è malinconico. Gli occhi non guardano
le carte che dalla mano si perdono e confondono nella luce bianca dello
sfondo; sono persi dentro chissà quale verso. I capelli raccolti lasciano
scoperta una spalla a forza tenuta, nel vano tentativo di proteggerne
l’intimità, da un legaccio grigio. Sembra attendere il suo poeta questa
giovane e malinconica “Poesia”; non guarda il fruitore, si offre
parzialmente alla sua vista, consapevole che l’occhio da solo non svela33.
Questo distacco e la dimensione altra da cui sembra emergere
questa donna-poesia evidenziano un nuovo punto di incontro tra poesia
e pittura: entrambe ambiscono ad elevarsi dalla volgarità del
mondo, per raccontarne una bellezza, classica o deforme, povera e
logora, che solo il «furore» malvezziano del pittore e del poeta riescono
a cogliere e fermare in un’icona, in un verso. Insomma alla poesia
ed alla pittura del Seicento non interessano solo le forme, come pedissequamente
si è troppo a lungo ripetuto. Sebbene l’artista non possa
scrivere ciò che pensa e non possa dipingere ciò che vede e sente, mette
a punto il suo modo di affrancare la propria arte dalla rigida volontà
tassonomica di Accademie, Chiesa e mecenati, pur senza risolvere
l’esigenza di rappresentare il reale in aperto dissenso34.
Se pure l’attenzione prescrittiva della Controriforma, l’egemonia
delle Accademie e le ambizioni assolutistiche dei principi mecenati
finiscono per suggerire temi e motivi analoghi alla poesia ed alla pittura,
i paladini di Ariosto e gli eroi di Tasso, i personaggi del mito e la
moltitudine di santi e martiri della Bibbia, in pittura e poesia, contendono
la scena ad un’umanità vibrante, che si affranca dalla statica decadenza
delle languide nature morte o dalla luminosa ed austera ridondanza
dei ritratti ufficiali. Tanto in pittura, quanto in poesia, accanto
alle figure eroiche e sacre, l’artifex apre la sua tela e la sua pagina
ad un caleidoscopio di personaggi comuni. La suggestione operata
dal vero, dalla terribilità del vero – siamo nel secolo delle pestilenze,
33 “La Poesia” si trova, insieme a “La Musica”, a Roma, nella Galleria Nazionale
d’Arte Antica di Palazzo Barberini. Cfr. Salvator Rosa tra mito e magia. Catalogo
della Mostra di Napoli, Museo di Capodimonte 18 aprile-29 giugno 2008, Napoli,
Electa, 2008, pp. 115-116.
34 U n discorso diverso va fatto per Caravaggio, che dal suo primo arrivo a
Roma, tra il 1591 ed il 1592, si pone in aperto dissenso con i committenti ecclesiastici
che gli chiedono il rispetto dell’iconografia classica (Cfr. A. Battistini, Barocco,
cit., pp. 190-198).
[ 12 ] [ 13 ]
224 daniela de liso
Ché se vaga sei tu d’altro tesoro,
china la ricca e preziosa testa,
che pioveran le chiome i nembi d’oro”.37
Come in una pittura che parla, il poeta disegna nei versi, attraverso
i capelli e gli occhi, il ritratto di una mendicante dalle vesti lacere e
l’aspetto dimesso, da cui sembra però irradiarsi la medesima luce che
contraddistingueva lo storpio del Ribera. Non siamo di fronte ad una
prevedibile equazione tra povertà e deformità, il poeta ora ed il pittore
prima hanno non solo guardato la realtà, ma l’hanno rappresentata,
raccontata con tutta la sua anima. Non si tratta di uno sguardo pietoso;
non c’è, in Achillini, come in Ribera, alcuna intenzione di pietismo;
piuttosto c’è la scoperta dell’animus che serve all’opera d’arte e di letteratura
per parlare al suo pubblico, scevra da tentazioni adulatorie.
Vorrei concludere, solo provvisoriamente, il discorso con due quadri
di Salvator Rosa, che figurano uno accanto all’altro nel Catalogo
della mostra napoletana del 2008 dedicata al pittore-poeta e mi sembra
possano chiosare bene le riflessioni di queste pagine. Il primo è il
celeberrimo “Autoritratto come filosofo” della National Gallery di
Londra. Rosa appare con un copricapo nero e un mantello marrone; lo
sguardo, di sfida, è anche distaccato, le labbra serrate, la fronte corrugata.
Nella mano destra ha una tavoletta, dove si legge il motto pitagorico:
«Aut Tace/Aut Loquere Meliora/ Silentio». Il silenzio è dote
indispensabile per il ragionamento filosofico, ma anche un attributo
dell’arte della pittura, considerata poesia muta. Non ci sono pennelli,
né tavolozza.
L’altro quadro è il “Ritratto di Lucrezia come poesia” di Hartford.
La Paolini appare con la penna, il libro e la corona di foglie d’alloro.
Anche la sua è un’espressione di sfida. L’abbigliamento è scomposto e
stracciato, i capelli raggruppati in ciocche ribelli, intrecciate con le foglie
di lauro, il fazzoletto annodato conferiscono al ritratto un aspetto
“pittoresco”. Gli abiti dai colori chiari e brillanti sembrano parlare, in
contrasto con quelli scuri e silenziosi dell’“Autoritratto” del pittore. Silenzio
del pittore, loquacità del poeta: poesia muta, pittura parlante38.
Daniela De Liso
(Università Federico II- Napoli)
37 C. Achillini, Poesie, a cura di A. Colombo, Parma, Centro Studi «Archivio
barocco» – Editrice Zara, 1991, LXXX, p. 156.
38 Cfr. Salvator Rosa tra mito e magia, cit., pp. 100-101.
[ 14 ]
Paola Marongiu
L’Ascanio errante di Barbera Tigliamochi
degli Albizi: un’Eneide rivisitata in versione toscana
e femminista
L’Ascanio errante è un poema epico in ottave della fiorentina Barbera Tigliamochi
degli Albizi (1610-1696) che narra, insieme alle vicende di Enea esule da
Troia, le gesta del figlio Ascanio e l’amore di questi per la guerriera Corintia
regina di Fiesole da cui avrà origine la dinastia dei Medici. Il saggio analizza
l’opera in relazione all’Eneide, alla Gerusalemme liberata e a situazioni tipiche del
romanzo nelle quali le donne assumono un ruolo di primaria importanza.

The Ascanio errante is an epic poem in octaves by the Florentine Barbera Tigliamochi
degli Albizi (1610-1696), recounting, together with the story of Aeneas’
exile from Troy, the deeds of his son Ascanius and the love of the latter for the
warrior Corintia, a queen of Fiesole in whom the Medici dynasty will have its
origins. The paper analyses the work in relation to the Aeneid, the Jerusalem
Delivered and the novel’s typical situations in which women play a major role.
1. Introduzione
Dell’Ascanio errante poema secentesco della fiorentina Barbera Tigliamochi1
degli Albizi, menzionato con poche parole d’elogio nei repertori
del passato,2 nessuno si è mai occupato, neppure la critica gen-
1 ‘Barbera Tigliamochi’ è la denominazione con cui la scrittrice è indicata nel
frontespizio dell’Ascanio errante, unica opera a stampa che ci rimane, nonché da
Gaddi, da Cinelli Calvoli, da Biscioni e in tempi recenti dall’Enciclopedia biografica
di Piantanida, Diotallevi, Livraghi, tutti gli altri preferiscono la forma ‘Barbara
Tagliamochi’.
2 Ecco la lista dei repertori e delle storie letterarie che fanno menzione della
scrittrice: G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara, Pomatelli, 1648-1720, p.
77; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, IV, Bologna, Pisarri,
MDCCXXXIX, p. 477; G. M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia, Brescia, Bossini,
1753-1763, p. 339; G. Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate
in letteratura dal secolo decimo quarto fino a’ nostri giorni, Venezia, Alvisopoli,
MDCCCXXIV, p. 143; F. Inghirami, Storia della Toscana, XII, Fiesole, Poligrafia Fie226
paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 227
nelle edizioni a stampa, pubblicò nel 1640 un poema dal titolo Ascanio
errante.5
Alcuni documenti conservati nell’Archivio di Stato di Firenze permettono
però di integrare questi pochi dati. Sappiamo quindi che, nata
nel 1610 da nobile famiglia, aveva sposato nel 1636 Tommaso degli
Albizi, funzionario nell’amministrazione del granducato mediceo dal
quale ebbe almeno quattro figli e che morì in tarda età a 86 anni nel
1696.6 L’unico testo secentesco di qualche rilievo che parli di lei è un’ode
alcaica in latino di Iacopo Gaddi.7 Nella raccolta in cui è inserita
Tigliamochi è l’unica poetessa presente in compagnia di Marino,
Chiabrera, Giambattista Strozzi, Luigi XIII, Enrico IV, papa Barberini,
Vittoria della Rovere, alcuni gentiluomini e gentildonne. Dal fatto che
è indicata con il solo cognome di famiglia e con gli epiteti di ‘vergine’,
‘poetessa’ e ‘cantatrice’ si deduce che all’epoca della composizione
dell’ode non era ancora sposata e si dedicava anche al canto, ma soprattutto
che era già nota come autrice di poesie, se Gaddi, nuovo
Orazio, concludeva il suo omaggio innalzandola alla gloria poetica
con questi versi infiammati: «Ipse super famularis alas/Famae volantem
te prior eveham, /Facunda virgo, fax nova florida/Telluris, aeternos
honores,/cui parta Aonidum caterva».8
Nulla sappiamo della sua formazione che sarà avvenuta, come di
solito accadeva per una donna, in qualche monastero o tra le pareti
domestiche sotto la guida di un membro maschile della famiglia o di
un precettore privato. Certo, data l’appartenenza a un ceto sociale elevato,
non saranno mancate in seguito le occasioni di approfondirla a
5 Ascanio errante Poema della Barbera Tigliamochi degli Albizi Gentildonna
fiorentina. Alla Serenissima Vittoria della Rovere Principessa di Urbino e Granduchessa di
Toscana, Fiorenza, nella Stamperia de’ Landini, MDCXXXX.
6 Archivio di Stato di Firenze, Raccolta Sebregondi, Albizi 55, tav. 23 (cita il
1636 come data del matrimonio); Albizi 55 c (riporta i vari incarichi ricoperti da
Tommaso Albizi e l’anno 1663 come data della sua morte); Albizi 55 d, Tigliamochi
5198 (informano che Barbera Tigliamochi, figlia di Giobatta, vedova di Tommaso
degli Albizi, è morta a 86 anni il 31 maggio 1696); Notarile Moderno, Protocollo
1814, anno 1681, notaio Cenni Pietro (registra il testamento in cui sono citati quattro
figli, Giovanbattista, due sacerdoti Rinaldo e Lucantonio e una femmina Maria
Francesca).
7 Ode de Barbara Tiliamocha virgine poetria & cantrice, Si de supremis Calliope rotis,
in Poetica Jacobi Gaddii Corona e selectis poematiis, notyis, allegoriis contexta, Bononiae,
Typis Jacobii Montii, MDCXXXVII, pp. 138-139.
8 «Quanto a me te che voli sopra le ali della fama servile per primo innalzerò,
vergine eloquente, nuova face viva della terra, agli eterni onori, a cui prepara la
schiera delle Aonidi».
dered di area anglosassone pur così benemerita per aver negli ultimi
trent’anni riportato alla luce testi redatti da donne che, espunti dal canone
della letteratura italiana, giacevano del tutto dimenticati. Virginia
Cox infatti nel 2010 l’ha escluso dall’epica femminile perché poema
«ibrido epico-romanzo» e quindi troppo «impuro»;3 e qui si può concordare.
Successivamente si è limitata a definirlo «curioso poema classicheggiante
semicomico»,4 formula che secondo me non rende la natura
del testo che è certo ‘classicheggiante’, ma solo in quanto tratta un
materiale classico, mentre sul ‘semicomico’ avrei ancora più riserve,
perché nell’Ascanio manca qualunque proposito di parodia e quello
che può suscitare il nostro sorriso non è ironia, di cui l’autrice non sembra
essere capace, ma rientra, come vedremo, nella tendenza del poema
secentesco a far proprie le situazioni del romanzo e dei libretti d’opera
o in certa sua goffaggine nel maneggiare i modelli. Se darne una
definizione è difficile, può rivelarsi invece interessante una sua attenta
lettura da cui verrà fuori che l’Ascanio è una rivisitazione barocca
dell’Eneide, che si propone al contempo di esaltare la Toscana e la dinastia
dei Medici e di rivendicare per la donna un ruolo nella società.
Sarà bene cominciare con alcune notizie biografiche sulla scrittrice
che sono molto scarse, come sempre accade quando si tratta di
personalità femminili minori. I repertori e le storie letterarie che la
citano dicono solo che era bella, dotta, che aveva una voce dolcissima
e che, dopo aver scritto delle liriche, di cui peraltro non c’è traccia
solana, 1841, p. 70; P. L. Ferri, Biblioteca femminile italiana, Padova, Crescini, 1842,
p. 8; C. Villani, Stelle femminili. Dizionario bio-bibliografico, Napoli-Roma-Milano,
Albrighi Segati, 1915, pp. 15-16; Delle donne illustri italiane dal XIII al XIX secolo,
Roma, Pallotta, s.a., p. 200; I. de Blasi, Le scrittrici italiane dalle origini al 1800, Firenze,
Nemi, 1930, p. 187; Enciclopedia biografica. VI. Poetesse e scrittrici, II, Roma, Istituto
Editoriale Italiano, 1942 p. 27; S. Piantanida, L. Diotallevi, G. Livraghi, Autori
italiani del Seicento, III, Milano, Libreria Vinciana, 1950, p. 119. Fonti manoscritte
conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: G. Cinelli Calvoli,
Toscana letterata, Magl. IX, 66, pp. 14-15; A. M. Biscioni, Giunte alla Toscana letterata
di Giovanni Cinelli Calvoli, Magl. IX, 11, p. 305; a questo elenco va aggiunto B. Croce,
Donne letterate nel Seicento, in Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento
(1931), a cura di Angelo Fabrizi, Napoli, Bibliopolis, 2003, p. 174, che si limita a
citarla insieme ad altre poetesse accomunate dall’assenza di poesia e quasi sempre
anche di «reale umanità».
3 V. Cox, Prefazione a L. Lazzeri, Poesie epica e scrittura femminile nel Seicento:
l’Enrico di Lucrezia Marinelli, Leonforte (En), Insula, 2010, pp. 7-14:8.
4 V. Cox, Declino e caduta della scrittura femminile nell’Italia del Seicento, in Verso
una storia di genere della letteratura italiana. Percorsi critici e gender studies, a cura di
Ead. e C. Ferrari, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 157-184:163.
[ 2 ] [ 3 ]
228 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 229
2. Situazione della donna scrittrice ai tempi di Tigliamochi
Tigliamochi scrive dopo i fatidici anni ’30 del Seicento, epoca di
arretramento della produzione femminile, che aveva registrato un
momento di particolare favore negli anni ’40 e ’50 del Cinquecento.13
La causa va ricercata, più che nella Controriforma,14 nel declino delle
corti di Ferrara, Mantova, Urbino dove principesse promotrici di cultura
avevano favorito anche le donne. Un segno tangibile di questa
situazione è che Margherita Costa e Lucrezia Marinella, le sole che
avessero raggiunto una notorietà a livello nazionale, poi negli anni ’40
giunte al culmine della loro carriera, constatano amaramente che non
c’è più posto per le donne nella repubblica delle lettere.15 Del resto
l’autorevole Traiano Boccalini trent’anni prima in uno dei Ragguagli di
Parnaso aveva già auspicato per motivi morali l’esclusione delle donne
dall’accademia senese degli Intronati, che pure nel 1560 aveva am-
13 C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, in Geografia
e storia della letteratura italiana (1967), Torino, Einaudi, 2008, pp. 227-254:238-239.
14 Cfr, V. Cox, Declino e caduta della scrittura femminile nell’Italia del Seicento, cit.,
pp. 157-184, che seguirò nel tracciare la situazione delle donne autrici nel XVII secolo;
ma vedi anche A. Arslan, Prefazione a Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici
venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di ead, A. Chemello, G. Pizzamiglio,
Venezia, Eidos, 1991, pp. XI-XV:XIII; N. Costa-Zalessow, Scrittrici italiane dal XIII
al XX secolo. Testi e critica, Ravenna, Longo, 1982, p. 15. Di diverso avviso altri insistono
sugli effetti negativi della Controriforma per esempio Giulia Calvi (G. Calvi,
Introduzione a Barocco al femminile, a cura di Ead, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp.
VII-XXIX:XXI); A. Asor Rosa, Barocco e Controriforma: la figura femminile fra l’esaltazione
sessuale e il convento, in Verso una storia di genere della letteratura italiana, cit.,
pp. 149-156.
15 Cfr. Elisa infelice, in La selva di cipressi. Opera lugubre di Margherita Costa
romana, Firenze, Nella Stamperia di Massi e Landi, 1640, pp. 219-256: 253-254, 73, vv.
1-6: «Già credei, come donna, o mia follia, /Ch’ogni alto core del mio plettro frale/
Gioir dovesse, e che dell’opra mia/Godimento traesse al merto uguale,/Ma scorgo,
ch’ogni mente invida, e ria/Colpi in me scocca di nemico strale»; 74, vv. 1-2; 7-8:
«Spezzo dunque la lira, e a terra sparte/ Le corde calco, e dell’inchiostro il vaso/…
ed in Parnaso/De la gloria immortal sdegno il tesoro,/ E sprezzo i pregi dell’eterno
alloro»; L. Marinella, Essortationi alle donne e agli altri se a loro saranno a grado, per
Francesco Valsense, Venezia, 1645, pp. 11-12: «Credono alcuni che cagione siano di
questa retiratezza [delle donne] gli uomini per tenerle senza esperienza delle cose
del mondo rinchiuse; acciocché inesperte, di poco ardire, e poco valore riescano.
Questo ancora io dissi nelo mio libro intitolato la Nobiltà et eccellenza delle donne
[1600]. Ma ora più maturando, considerando mi sono avveduta non essere invenzione,
né azione di animo appassionato; ma volere della natura e di Dio, e possiamo
conoscere questa verità facilmente. Se questa fosse stata violenza non si sarebbe conservata
per tanti secoli, e migliaia di anni. Le cose violente lungamente non durano».
contatto con l’ambiente colto della Firenze del tempo. È molto probabile
che sia vissuta nella cerchia della corte personale di Vittoria della
Rovere, consorte di Ferdinando II, che può avere conosciuto e frequentato
molto per tempo, perché ella, portata a Firenze all’età di meno
di un anno dalla madre Claudia dei Medici, rimasta vedova di
Ubaldo della Rovere, poteva dirsi a tutti gli effetti fiorentina. Non disponiamo
di nessun documento in proposito, né risulta che la nostra
poetessa abbia fatto parte delle Assicurate, un’accademia riservata alle
donne, istituita a Siena nel 1654 sotto gli auspici della granduchessa.9
È comunque amica di gentildonne, che si cimentano in privato e in
pubblico con performance orali nella poesia giocosa, come lei stessa
aveva fatto con La nuova Circe.10 Lo sappiamo sicuramente per Margherita
Bargellini a cui consiglia di scrivere una poesia per rimproverare
il marito Lorenzo Capponi, anche lui verseggiatore, che la tradisce.
11 Di altre come Lucrezia della Rena Punta, autrice di un capitolo in
occasione della peste del 1630, o Marietta Altoviti Strozzi, moglie del
madrigalista Giovan Battista Strozzi il Giovane anch’essa rimatrice di
qualche pregio, non abbiamo nessuna testimonianza.12
9 Cfr. M. Maylander, Storia delle Accademie d’Italia, I, Bologna, Cappelli, 1926, p.
366. Neanche Giuseppe Bianchini nel XVIII secolo (Dei Granduchi di Toscana della reale
casa de’Medici protettori delle Lettere e delle Belle Arti Ragionamenti storici del dottore
Giuseppe Bianchini di Prato, Venezia, Appresso Gio. Battista Recurti, MDCCXLI,
p. 105) aveva citato Tigliamochi a proposito delle Assicurate, mentre si era dilungato
abbastanza a parlare della protezione accordata da Vittoria Della Rovere alla pisana
Maria Selvaggia Borghini (1656-1731), poetessa, traduttrice dal latino e studiosa di
matematica, che fece parte dell’Accademia degli Stravaganti, vissuta peraltro in
un’epoca molto più favorevole alle donne e assai ammirata ai suoi tempi.
10 È l’unico testo manoscritto presente nelle biblioteche fiorentine (Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze, Fondo Nazionale, II 381). Si tratta di un poemetto
di due canti in ottave, uno scherzo piuttosto inconcludente a sfondo morale in cui
la maga diffonde il male in tutta la regione. Indirizzato a una certa Margherita
(probabilmente Margherita Bargellini Capponi) appare composto nel quadro di
una produzione poetica di intrattenimento per una cerchia di nobili amici che condividono
gli stessi rituali sociali.
11 Cfr. Poesie italiane inedite di dugento autori dall’origine della lingua infino al secolo
decimo settimo raccolte e illustrate da F. Trucchi IV, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847,
pp. 237-238, che scrive: «Margherita fu sposata ancora giovinetta al marchese Lorenzo
Capponi, poeta, elegante, motteggiatore, sfrenato, leggiero, volubile capriccioso.
L. se ne andava in villa a caccia e in cerca di avventure con contadinelle suscitando
la gelosia di Margherita. Consultata l’amica Barbera degli Albizi, anch’essa
poetessa, decide di mandargli questo sonetto: Al Sig, Marchese Lorenzo Capponi
suo consorte, mentre era a caccia in villa Dietro a chi vola e fugge, il passo tendi».
12 Ivi, pp. 229-231.
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230 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 231
vere un poema eroico aveva coscienza del fatto che andava a interagire
con un genere storicamente maschile e […] non poteva fare a meno
di maturare strategie (consce ed inconsce) di approccio».21
È certo comunque che le donne, consapevoli di fare un percorso
parallelo rispetto agli uomini, tendono a imitare le compagne che le
hanno precedute. Barbera aveva prima di lei Il Meschino detto il Guerrino
(1560) di Tullia d’Aragona, il Floridoro (1581) di Moderata Fonte,
la Scanderbeide (1623) di Margherita Sarrocchi, l’Enrico (1637) di Lucrezia
Marinella e in area toscana più prossima a lei l’ormai lontano Il
felicissimo accordo della magnifica città di Siena (1555) di Laura Pieri e il
Davide perseguitato (1611) di cui l’autrice Maddalena Salvetti Acciaioli,
colta dalla morte, aveva lasciato solo i primi tre canti.
3. L’Ascanio e l’Eneide
Di fronte alle due possibilità che si presentavano, il poema storico
e il poema eroicomico,22 Tigliamochi proponendosi di riscrivere l’Eneide,
sceglie un argomento classico, un genere praticamente assente a
Firenze. L’opera di Virgilio, assurto a modello assoluto della poesia
italiana soprattutto nella seconda metà del Cinquecento, in un clima
di stretta osservanza del principio di imitazione e delle regole aristoteliche,
è stata oggetto in primo luogo di continue traduzioni in volgare,
culminate poi in quella canonica in endecasillabi sciolti di Annibal
Caro (1581), alcune delle quali come I sei primi libri dell’Eneide di Virgilio
tradotti a più illustri e honorate Donne (1540) ad opera di sei gentiluomini,
venivano incontro alla richiesta di volgarizzamenti dalle lingue
classiche da parte di un pubblico femminile che in genere ignorava il
latino.
Alle numerose versioni dell’Eneide del XVII secolo per le quali rimando
a Luciana Borsetto che cita una serie di titoli23 si può avvicina-
21 S. Pezzini, Il ramo cadetto. Epica secentesca e scrittura femminile. La Scanderbeide
di Margherita Sarrocchi, Tesi di dottorato, Pisa, Università degli studi di Pisa,
2002, p. 4.
22 Per un quadro generale della situazione nel granducato di Toscana vedi D.
Conrieri, La cultura letteraria e teatrale, in Storia della civiltà toscana, III, Il principato
mediceo, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 355-390. Un consuntivo del poema eroico
offre anche A. M. Pedullà, Epica del ’600, in Il romanzo barocco e altri scritti, Napoli,
Liguori, 2004, pp. 111-126, che allarga l’indagine a tutta la penisola.
23 T ra le molte versioni che Borsetto elenca si possono ricordare: L. Guidiccioni,
I primi sei libri di Virgilio […], Roma, Manolfi, 1637; Idem, L’Eneide Toscana […]
messo Laura Battiferri, usando un linguaggio non solo misogino ma
anche, per il volgare riferimento sessuale, particolarmente offensivo.16
Nonostante questo Tigliamochi beneficia del clima favorevole che
caratterizza la corte medicea, inaugurato sotto la reggenza di Cristina
di Lorena e Maddalena d’Austria (rispettivamente madre e moglie di
Cosimo II) e proseguito con Vittoria della Rovere la sua protettrice a
cui dedica il poema, come fanno del resto altre scrittrici con le loro
opere.17 Decide pertanto, dopo alcune prove di poesia meno impegnativa,
di cimentarsi nel poema eroico un genere che, se sembrava indispensabile
al decoro del letterato di sesso maschile,18 per una donna
era una vera e propria sfida. Certo le difficoltà non mancano: scrivere
poemi comporta qualità come padronanza nel verseggiare, conoscenze
dei classici, della storia, della mitologia, della geografia e della trattatistica
in primo luogo dei duelli,19 che non sono richieste per redigere
un sonetto; a cui se ne aggiungono anche altre di ordine pratico:
Ann Rosalind Jones per esempio ritiene che le donne potessero essere
scoraggiate dallo scrivere poemi perché, non essendo salvo rari casi
delle professioniste, non avevano incentivi economici a comporre testi
lunghi.20 Comunque «una donna che nel Seicento si accingeva a scri-
16 T. Boccalini, Ragguaglio XXII, in Ragguagli di Parnaso e Pietra di paragone
politico, a cura di G. Rua, I, Bari, Laterza, 1910, p. 66: «[Apollo] comandò all’Archintronato
che in tutti i modi dismettesse quella pratica [di ammettere le donne
nell’accademia] perocché la vera poetica delle donne era l’aco e il fuso, e gli esercizi
letterari delle donne co’ virtuosi simigliavano gli scherzi e i giuochi che tra loro
fanno i cani, i quali dopo brieve tempo tutti forniscono alla fine in montarsi addosso
l’un l’altro».
17 Cfr. V. Cox, Declino e caduta della scrittura femminile nell’Italia del Seicento, cit.,
p 179.
18 B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia (1929), Bari, Laterza, 1946, p. 277. Di
recente anche Michele Rak è tornato su questo concetto, citando le parole di Federico
Nomi (1633-1705) a proposito della sua Buda liberata: «Avendo consumato
questi anni della mia solitudine in componimenti comici, tragici, lirici e melici ed
in certo eroicomico, finalmente mi saltò in pensiero di tentare la difficile impresa
di un poema eroico». (M. Rak, Fine di un genere letterario. La Buda liberata di Federico
Nomi, in Federico Nomi. La sua terra e il suo tempo nel terzo centenario della morte
(1705-2005), a cura di W. Bernardi, G. Bianchini, Milano, Franco Angeli, 2008,
pp. 107-116:108.
19 Cfr. S. Pezzini, La scoperta dell’identica ideologia dell’accoglienza ne La Scanderbeide
(1623) poema eroico di Margherita Sarrocchi, in Dentro /Fuori: Sopra/Sotto. Critica
femminista e canone letterario negli studi di italianistica, a cura di A. Ronchetti e M.
S. Sapegno, Ravenna, Longo Editore, 2007, pp. 101-111:101.
20 A. R. Jones, La poesia gendered del Cinquecento: recupero, dialogo, performance,
in Verso una storia di genere della letteratura italiana, cit., pp. 121-136: 132.
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232 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 233
in questa atmosfera, più che sui rifacimenti dell’Eneide, serve fermare
l’attenzione sull’uso di essa nei libretti d’opera nei secoli XVII,28 nei
quali venire incontro ai gusti del pubblico, che voleva commuoversi e
al tempo stesso divertirsi, imponeva al testo di partenza trasformazioni
di ogni tipo anche in direzione del comico. Proprio all’epoca della
pubblicazione dell’Ascanio vengono rappresentati vari melodrammi
che possono costituire un utile punto di riferimento.29 Questo è l’humus
culturale in cui matura il poema di Tigliamochi.
Vediamo ora il testo più da vicino. L’Ascanio errante entro lo schema
generale dell’opera virgiliana dalla partenza da Troia all’arrivo in
Italia, dalla guerra con i Latini all’uccisione di Turno da parte di Enea,
presenta sensibili cambiamenti in episodi fondamentali, una breve
continuazione con le duplici nozze di Enea e Ascanio, ma soprattutto
l’aggiunta di innumerevoli avventure e personaggi del tutto inediti
che stravolgono completamente il disegno iniziale.
Non essendo possibile fare un riassunto del contenuto, mi limiterò
a dire che il punto cruciale è che, dal momento in cui i profughi troiani
arrivano alla foce del Tevere, si può parlare di due azioni, una che ha
al centro Enea e segue più o meno la traccia dell’Eneide, l’altra che ha
come protagonista il figlio dell’eroe, non un fanciullo ma un giovane
capace di decisioni autonome, che è determinante dopo molte avventure
e ritardi per l’esito della guerra. Egli infatti a Populonia si smarrisce
in un bosco, combatte con Corintia regina di Fiesole, i due si innamorano,
raccolgono truppe per l’esercito troiano, si perdono e si ritrovano,
sono coinvolti nelle vicende di altri personaggi, prestando loro
aiuto, ma soprattutto, grazie alle arti del mago Colicone, sono tenuti
lontani dal teatro delle operazioni militari. Alla fine il giovane, le cui
armi (e non quelle del padre) sono state temprate da Vulcano, arriva
con Corintia a Laurento e la vittoria è decisa da uno scontro finale dei
campioni dell’uno e dell’altro schieramento. Seguono le nozze e gli
accordi per la gestione del potere, affidato ad Enea. Ma il vero protagonista
è Ascanio e questo giustifica il titolo.
28 Questo è stato notato anche da Rinaldina Russell: «[Ascanio errante] seems to
be influenced by the theatrical treatment that such mythological themes received
in early opera». (M. Sarrocchi, Scanderbeide. The Heroic Dedds of George Scanderbeg,
King of Epirus Edited and Translated by R. Russell, Chicago & London,
The University of Chicago Press, 2006, p. 21).
29 E. degli Obizzi, Il pio Enea, (Ferrara, 1641); [Autore anonimo], Le nozze di
Enea con Lavinia, (Venezia, 1641); F. Busenello, Didone, (Venezia, 1641); F. Busenello,
Il Viaggio di Enea all’Inferno, (Venezia, poco dopo il 1641).
re l’Eneide travestita (1635) di Giovan Battista Lalli che dà del poema
una versione «in dilettevol stile giocoso»,24 che egli accosta allo Scherno
degli Dei di Bracciolini e alla Secchia rapita del Tassoni, opere moderne,
che intendono destare diletto e meraviglia.
Non è facile definire la tipologia dell’Ascanio, che non è né una
traduzione in ottave né un travestimento dell’Eneide alla maniera del
Lalli; ma alla luce del concetto di ‘ipertestualità’, con cui Genette25 indica
ogni relazione che unisca un testo B (=ipertesto) a un testo anteriore
A (=ipotesto) sul quale esso si innesta, si potrebbe parlare di
‘continuazione laterale’ per cui il critico francese cita le Aventures de
Télémaque di Fénélon, un’opera in prosa pubblicata nel 1699, che costituisce
una sorta di integrazione dell’Odissea. Del resto, se il racconto di
Fénélon è più lineare rispetto all’Ascanio e ha finalità soprattutto didattiche,
non rifugge dal romanzesco, dal momento che nelle intenzioni
dell’autore è «una narrazione favolosa in forma di poema
eroico».26
Ci troviamo quindi di fronte a un ampliamento del poema di Virgilio,
che tuttavia non ha niente a che vedere colla timida operazione
di Matteo Vegio, un umanista lodigiano che nel XV secolo ne aveva
composto in latino un XIII libro, con poche aggiunte dopo lo scontro
finale di Enea con Turno fino alla sua apoteosi e alla sua divinizzazione.
27 Tigliamochi infatti utilizza l’Eneide in funzione romanzesca grazie
al consueto armamentario barocco di avventure, magie, agnizioni,
violenze di ogni tipo che devono suscitare stupore e meraviglia, un
mondo in cui assume un ruolo determinante Corintia la donna guerriera,
all’origine del mito fondativo della dinastia medicea. Per entrare
dedicata al cardinale Antonio Barberino, Roma, Mascardi, 1642; L’Eneide di Virgilio
volgarizzata da Teodoro Angelucci di Belforte, Napoli, Cicconio, 1649; L’Eneide di
Virgilio tradotta in ottava rima da Pier Antonio Carrara con gli argomenti del medesimo,
Venezia, Valvasense, 1681; L’Eneide di Virgilio tradotta in ottava rima da Bartolomeo
Beverini, chierico regolare dell’ordine della Madre di Dio, Lucca, Paci, 1681;
L’Eneide libro II tradotto in sonetti da Paolo Galleni al Serenissimo Principe Leopoldo
di Toscana, in Firenze, Per il Massi, MDCLI; (L. Borsetto, Tradurre Orazio, tradurre
Virgilio. Eneide e Arte poetica nel Cinque e Seicento, Padova, CLUEP, 1996, pp. 13-204).
24 C fr. L’autore al Lettore in L’Eneide travestita del signor Gio: Battista Lalli
Al Molto Illustre Sig. il Sig. Domenico Redolfi, in Venezia, Presso Giacomo Sarzina,
MDCXXXV, pp. 5v.-7r.:5v.
25 G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, (1982), Torino, Einaudi,
1997, pp. 7-8.
26 Ivi, pp. 14, 31, 212.
27 Il XIII libro dell’Eneide di Matteo Vegio illustrato da Augusto Liverani, Livorno,
Stab. Tip. S. Belforte E C, 1897.
[ 8 ] [ 9 ]
234 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 235
sulle ginocchia. La dea accetta poi, ridendo della trovata, la proposta
di Giunone, che spera così di trattenere Enea a Cartagine, che i due si
uniscano in una grotta, dove si rifugiano a causa di un temporale. Indotto
successivamente da Mercurio a proseguire il viaggio verso l’Italia,
Enea parte dopo aver affrontato Didone, che lo accusa duramente
e si suicida maledicendo lui e la sua discendenza.32 La nostra autrice
innanzitutto infarcisce di particolari inediti la vicenda, privandola
quindi del ritmo incalzante che ha in Virgilio, alternandola con altri
episodi e descrivendo, oltre a un banchetto, una giostra di tipo moderno
in cui si cimenta anche Ascanio. La novità principale però è che la
passione amorosa non è effetto dell’intervento divino, ma nasce spontanea
in Didone che per prima dichiara i suoi sentimenti all’eroe che
accetta poi più che altro per cortesia e quasi preso alla sprovvista (VI,
63-64, p. 59). Quindi tutta la vicenda ha il sapore di una storia borghese,
che si svolge soprattutto durante la gara fra Troiani e Cartaginesi,
in cui i due innamorati si abbandonano alla gioia, dimentichi della
morte dei rispettivi coniugi e delle molte sventure patite. Se non che
Anchise in sogno (espediente molto più razionale dell’intervento di
Mercurio) ricorda i suoi doveri al figlio che, approfittando di una caccia,
taglia subito la corda; questo impedisce a Didone di affrontare
direttamente l’uomo amato che così può fare a meno di rispondere
alla donna in preda all’ira. Il tutto, detto in varie riprese e rimandato
nel tempo, perde di mordente. Infatti, avuta notizia da un pastore della
partenza dell’amante, Didone si decide per il suicidio, ma prima si
abbandona alle maledizioni, alle recriminazioni, alla riaffermazione
del suo amore, al pentimento per aver tradito Sicheo, senza dimenticare
di richiedere a Enea di rendere nota la sua storia, perché serva da
monito ad altre donne.
Ma quello che è interessante è che ella affida tutto questo a una
lunghissima lettera, un espediente molto presente nella narrativa e nel
dramma musicale,33 (ma è evidente qua anche la suggestione delle Heroides
di Ovidio) che occupa molte ottave (VI, 60-91), che ella interrompe
e riprende e che il servo fedele Cammillo, finito nell’incanto di
Medea e liberato poi da Corintia, può consegnare al destinatario solo
nel canto XXVII, al momento dello scontro finale con i Latini. Da essa
emerge inoltre, ciò che ancora non si sapeva, cioè che c’era stato un
32 Eneide, IV, 90-129; 279-407; 607-629.
33 Vedi per es. nel Viaggio di Enea all’Inferno di Busenello (Atto I, Scena X, vv.
451-467) la lettera di Coralbo a Lavinia in cui depreca che il fato l’abbia destinata a
Enea.
Stabilito questo quadro generale, sarà opportuno passare all’analisi
di alcuni aspetti che mi sembrano essenziali per definire i tratti specifici
del poema, scegliendo tre episodi chiave: la morte di Creusa,
l’infelice amore di Didone e la discesa agli Inferi. Per quanto riguarda
il primo, Virgilio30 inserisce l’abbandono della moglie, necessario ma
imbarazzante per il pius Enea, nel progetto provvidenziale del fato. Al
santuario di Cerere dove i fuggiaschi, dopo molti prodigi che li incoraggiavano
a lasciare Troia, dovevano ritrovarsi, manca all’appello
solo lei. Invano Enea torna indietro a cercarla, gli compare solo il fantasma
che gli ricorda il suo destino in Italia che prevede una nuova
consorte.
Tigliamochi pone l’episodio subito nel I canto. La donna rifiuta di
seguire gli esuli per ostinazione e viltà, muore nell’incendio e finisce
nell’Erebo con un castigo meritato, per cui ella conclude in modo perentorio:
Fuggi forca la piglia, e là da quelle
Animuzze la porta di vil core,
Che sublimarsi in ciel fin’ alle stelle
Non volser, né curar gloria ed onore:
Ma servir solo in ornarsi la pelle,
Ed il senso obedir per lor signore,
Così questa incostante è riserrata
Fra i vil, con l’opre sue sol misurata.31
È evidente che, rispetto all’Eneide, siamo di fronte a una situazione
completamente diversa, dove l’esaltazione dell’onore e la condanna
dei sensi di stampo secentesco si mescolano all’antifemminismo più
corrivo e alla suggestione dantesca del canto degli ignavi, richiamato
espressamente nell’incipit dell’ottava successiva («Più non parlo di lei,
convien ch’io taccia»). Ma oltre a questo emerge il diverso clima di
questa riscrittura del poema classico, il superamento del tono epico
per una dimensione romanzesca che descrive la vita di tutti i giorni
non degli eroi, ma degli uomini comuni. Questa Creusa capricciosa e
ostinata, protagonista proprio all’inizio di un battibecco con il marito,
è un segnale della rotta che intende seguire la poetessa.
Quanto all’amore di Didone per Enea, in Virgilio è suscitato da
Venere, che ha fatto assumere da Cupido le fattezze di Ascanio, che la
regina, durante il banchetto offerto ai Troiani, tiene imprudentemente
30 Eneide, II, 771-794.
31 Ascanio, I, 18, p. 3.
[ 10 ] [ 11 ]
236 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 237
progenie di Rosmondo eroe romano al seguito di Cesare distruttore di
Fiesole e fondatore di Firenze (IV, 66). Nella Croce racquistata (1605-
1614) di Francesco Bracciolini Herinta guerriera pagana, ma in realtà
figlia dell’imperatore d’Oriente Eraclio, prima in sogno vede derivare
da sé la pianta dei Medici (XX, 36-72), all’origine dei quali ci sono le
sue nozze con Batrano, come mostrano alcune immagini scolpite nel
marmo sulla tomba dell’avo Eraclione che in seguito gli indica l’eremita
Niceto (XXVIII, 28-46). Nel David perseguitato (1611) i Medici
avranno origine dal matrimonio di un’amazzone con Italo, un guerriero
che dall’occidente va in aiuto degli Ebrei in guerra con i Filistei
(II, 96-100; III, 4-17, 28-88). In precedenza anche Fonte nel Floridoro
(1581), dedicato a Francesco dei Medici e Bianca Capello, aveva fatto
derivare la dinastia dei Medici della sua eroina Risamante (III, 50-68).
Del resto nel modificare la discendenza di Enea in funzione delle
esigenze politiche del presente Tigliamochi era in buona compagnia.
Per esempio nel Viaggio di Enea all’Inferno Anchise annuncia al figlio
che la sua stirpe continuerà, dopo la caduta dell’impero romano, con i
Veneti e la gloriosa Repubblica di Venezia. (Atto II, Scena XII, vv. 1191-
1200); mentre fuori d’Italia, in Inghilterra, si pensava che un pronipote
dell’eroe troiano di nome Brut fosse all’origine dei Britanni37 e nel 1678
Nahum Tate pubblicava il Brutus of Alba or the Enchanted Lovers, ispirato
al IV dell’Eneide, in cui l’eroe discendente di Enea è diretto ad Albione
per fondare un nuovo regno.38
Tornando all’Ascanio Tigliamochi riprende anche il motivo augusteo
del ritorno sulla terra dell’età dell’oro,39 annunciata dalla Sibilla
cumana già nell’incipit del canto IX in concomitanza all’avvento dei
Medici, la cui esaltazione si estende dalla ottava 47 alla 71, cominciando
da Cosimo I per arrivare, senza tacere cadetti e principesse e i duchi
di Urbino, ai granduchi in carica Ferdinando II e Vittoria della
Rovere:
Hor la nipote sua d’età trelustre
Vittoria al gran Fernando degna sposa,
Renderà allor quel secol ricco e illustre
37 G. Melchiori, Introduzione ai drammi classici, in Teatro completo di William
Shakespeare, vol. V, Milano, Mondadori, 1978. pp. XXXVII-XLIII: XL.
38 P. Bono, M.V. Tessitore, Il mito di Didone. Avventure di una regina tra secoli e
culture, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 245-294.
39 Per il ritorno dell’età dell’oro, motivo consueto nell’esaltazione dei vari sovrani
europei vedi G. Costa, La leggenda dei secoli d’oro, Bari, Laterza, 1972 e F. A.
Yates, L’idea dell’impero nel Cinquecento (1975), Torino, Einaudi, 1978.
regolare matrimonio, necessario per la morale controriformistica, celebrato
addirittura in chiesa («Di nuovo a scriver torna ad una ad
una/Le rimembrate offerte e le parole,/Ch’egli al tempio le usò»).34 E
anche la morte, provocata dalla spada, ha un risvolto di gusto barocco
e cristiano in cui la considerazione sulla inconsistenza delle cose terrene
allude al corpo divenuto cenere («Arsa polve divien la bella fronte
»), peraltro sistemato «entr’ un bel vaso» e alla necessità per l’uomo
pio di rifiutarle («Che libero sarà d’ogni sciaura, /Se si conforma co’l
cielo e disprezza/ Ogni caduca cosa, ogni bellezza»).35
Un altro episodio significativo è quello della discesa nel mondo dei
morti, così importante per capire la concezione religiosa e l’idea provvidenziale
della storia che sono alla base dell’Eneide. Quanto al primo
aspetto, a cui è legata la profonda sensibilità per il mistero che circonda
il tragico destino umano, non c’è alcun accenno a Miseno, Palinuro,
Deifobo, ai bambini morti prematuramente e, nei Campi del Pianto,
alle dolenti parole di Enea, che confessa alla sdegnata Didone di averla
abbandonata contro la sua volontà. Tigliamochi infatti si limita, alla
fine del canto, ad alcune generiche considerazioni morali sulla condizione
delle anime dannate.
Circa l’altro aspetto che caratterizza il libro VI, cioè la visione provvidenziale
della storia, Barbera punta esclusivamente sulla parte encomiastica,
che però appare essenzialmente mutata nel suo contenuto.
Al centro infatti non c’è Roma e la gens Iulia che culmina in Augusto,
di cui Anchise il capostipite prevede la gloria futura, ma Firenze e i
Medici esaltati anche da molti altri scrittori, incoraggiati del resto dai
granduchi che, date le loro origini mercantili, avevano bisogno, ancor
più di altre casate di nobilitanti ecfrasi dinastiche.36 Per esempio Chiabrera
nel Firenze (1605) presenta Cosmo di epoca carolingia esiliato nel
Mugello in seguito alle lotte con i Fiesolani, a cui compare S. Zanobi,
protettore della città, che profetizza lo straordinario futuro dei Medici
suoi discendenti fino a Ferdinando I (IV, 9-39). Nella Fiesole distrutta
(1621) di Giandomenico Peri i Medici, destinati a dominare il mondo
sono annunciati dalla Sibilla a Brimarte, andato alla sua ricerca, come
34 Ascanio, VIII, 75, 1-3, p. 85.
35 Ivi, 104, 1, p. 87, 105, 2 e 6-8, p. 88.
36 Per l’encomio della casa regnante attraverso l’ecfrasi dinastica, divenuta
motivo usuale nel poema eroico a partire dal Boiardo che l’aveva introdotta per gli
Estensi, vedi R. Bruscagli, L’ecfrasi dinastica nel poema eroico del Rinascimento in
Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi e M.
Farnetti, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 269-292.
[ 12 ] [ 13 ]
238 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 239
Così Tigliamochi sposta la scena di continuo, districandosi non
senza difficoltà tra gli innumerevoli episodi, imbastiti con gli ingredienti
di facile fruibilità che era quanto pretendeva in primo luogo il
lettore del tempo, le avventure, la magia, la violenza, l’amore che alla
fine deve trionfare, ma soprattutto la novità rispetto alla tradizione;
d’altronde si sa che la poetica barocca non rinnega il passato, ma molto
modernamente, lo utilizza come materiale per costruire qualcosa di
inedito.44 Vediamo così il susseguirsi continuo di personaggi che appaiono
e raccontano vicende più o meno veritiere, dove un posto fondamentale
ha la magia, il vero motore che fa procedere l’azione e ne
rimanda sempre all’infinito l’epilogo. Carattere che compare fin dall’inizio,
quando Enea approda in Africa non spinto da una tempesta,
come avviene nell’Eneide, ma per opera del mago Marzingone sostituitosi
ai piloti; qui inoltre egli incontra Minerva che gli dà un anello che
rende invisibili, grazie al quale può visitare indisturbato Cartagine e
rivelarsi a Didone al momento opportuno.
Al centro della narrazione poi si pongono gli inganni del mago
Colicone, il principale alleato del fronte nemico, che tenta di tener lontani
Ascanio e Corintia da Enea. È lui che prima porta via il giovane su
di una nave, poi fa credere alla fanciulla che la guerra si sia conclusa e
che Ascanio l’abbia tradita sposando Cammilla. Ella a sua volta è
come nel Tasso a un disegno organico che nettamente distingua (anche a livello
ideologico) fra periferico e centrale, come mostra lo stesso costituirsi a sbalzi, per
accumulazione, del nodo della favola. Con una organizzazione complessiva di
questo genere, la Croce viene ad aprirsi a soluzioni narrative» (G. Baldassarri,
Introduzione a F. Bracciolini, Lettere sulla poesia, a cura di Id., Roma, Bulzoni,
1979, pp. 11-21:19); o quanto sull’Adone osserva Sergio Zatti: «[Siamo di fronte a]
un procedimento narrativo di tipo seriale e paradigmatico che è estraneo a una
logica epica, per eccellenza lineare e finalistica» (S. Zatti, L’ombra del Tasso. Epica e
romanzo nel Cinquecento, Milano, Bruno Mondadori, 1996, p. 221). Ma addirittura si
può adattare all’Ascanio quello che Martino Capucci ha affermato di un vero romanzo
secentesco, la Istoria del Cavalier perduto di Pace Pasini (1634): «Il racconto si
fraziona in tante storie particolari, che fan perno su un singolo personaggio e vengono
svolte in brevi segmenti che non sempre si toccano. Il romanzo appare così
come una grande scacchiera: a turno, ogni personaggio compie alcune mosse, dopo
di che viene bruscamente abbandonato, finché altri protagonisti non abbiano
svolto, ciascuno per sé, la loro parte in questo gioco dei movimenti paralleli». (Romanzieri
del Seicento, a cura di M. Capucci, Torino, U.T.E.T., 1975, p. 19).
44 Cfr. A. Battistini, E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura
italiana, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1984, vol. III, t. I, pp. 5-339: 98: «È
la caduta della tensione etica e dell’impegno teorico, surrogati da un pratico sperimentalismo
che non rinnega la tradizione, ma la intende con presupposti radicalmente
diversi, alla maniera di un erbario o di una Wunderkammer».
D’ogni virtute ed opra graziosa;
D’una tal coppia ogni lor opra illustre,
Alta ed eccelsa, magna e gloriosa,
Splenderà il mondo, che saran di gloria
Coronate e del nome di Vittoria.40
Come è evidente la granduchessa, dedicataria del poema, acquista un
ruolo essenziale, anche per motivi retorici in quanto il nome ‘Vittoria’
ripetuto all’inizio e alla fine dell’ottava, sembra chiudere i granduchi
in un cerchio di gloria e di splendore.
4. L’Ascanio e il modo romanzesco
Nel carattere composito dell’Ascanio rientra anche la presenza
dell’Orlando furioso, che non solo già da un secolo «viene percepito e
interiorizzato come categoria naturale di ogni fatto narrativo»,41 ma
che è il modello che Barbera come le altre donne sembra preferire,
proprio perché consente una maggiore libertà di movimento. Non a
caso la loggia del bellissimo palazzo dove Ascanio trova Fluenzio è
dipinta «Di donne, cavalier, d’armi, d’amori»42, citazione che, riassumendo
il contenuto del poema dell’Ariosto, è un chiaro segnale di
questa imitazione. L’opera infatti si offre innanzi tutto come esempio
di storie avvincenti, secondo la tecnica dell’entrelacement, tipica del
Furioso, applicata però in modo meccanico, divenuta corrente nel poema
secentesco che, superata la rigida distinzione cinquecentesca dei
generi letterari, si sviluppa ulteriormente in direzione del romanzesco.
43
40 Ascanio, IX, 70, p. 95.
41 G. Sacchi, Fra Ariosto e Tasso: vicende del poema narrativo, Pisa, Edizioni della
Normale, 2006, p. 142. Vedi anche per quanto riguarda le scrittrici V. Finucci, Moderata
Fonte e il romanzo cavalleresco al femminile, in M. Fonte, Tredici canti del Floridoro,
a cura di Ead., Modena, Mucchi Editore, 1995, pp. IX-XXXIX: XVI (già comparso
in forma diversa in «Annali di Italianistica», 12, 1994, pp. 201-231).
42 Ascanio, XXVI, 3, 8, p. 256.
43 Su questo aspetto del poema secentesco, al di là dell’imitazione canonica del
Tasso, la critica ha molto riflettuto. Vedi a questo proposito il sempre utile saggio
di C. Varese, Teatro, prosa, poesia, in Storia della letteratura italiana. Il Seicento, Milano,
Garzanti, 1988, pp. 549-994 che afferma (p. 860): «La tensione verso il patetico
e il romanzesco indicano una sostanziale e diffusa indifferenza verso i contenuti
epici» e quanto a proposito della Croce riconquistata di Francesco Bracciolini dice
Guido Baldassarri: «Nella Croce il principio teorico dell’unità-varietà non approda
[ 14 ] [ 15 ]
240 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 241
sufficienti alcuni esempi. L’arciera Silveria, combattente nella Scanderbeide
nell’esercito di Amurat, muore dopo essersi fatta cristiana;
nell’Enrico delle tre vergini guerriere la sola Emilia arciera greca sopravvive,
ma dopo la sconfitta si ritira nei boschi, mantenendosi casta
e divenendo una divinità silvestre (XXVII, 88); le altre due che si battono
su fronti opposti, Claudia per i latini e Meandra per i Greci, si scontrano
in un duello, uccidendosi a vicenda (XXIV, 35-49). Diversa la situazione
del Tancredi (1632) di Ascanio Grandi in cui due vere Amazzoni
Tigrina e Nilea e la guerriera cristiana Roberta si innamorano di
Hidro, figlio di Tancredi e muoiono a causa del loro amore: Nilea suicida,
pensando che l’uomo amato sia morto, Roberta e Tigrina, che per
gelosia l’aveva sfidata a duello, uccidendosi a vicenda. (XX, 44-57).
Così Cammilla, seguendo il destino infausto delle vergini irriducibili,
pur sapendo quale sorte l’attende, combatte dalla parte di Turno
e muore per mano di Arunte.48 La sua vicenda si compie nel canto
XXVI in una situazione che richiama in tutto e per tutto il canto XII
della Gerusalemme liberata, talvolta addirittura con gli stessi stilemi,
quasi che l’autrice volesse sottolineare che solo il testo del Tasso, divenuto
una sorta di koiné, può nobilitare l’eroina classica.
Cammilla indossa infatti una sopravveste nera, incendia la torre
dei Troiani custodita da Illione, che ne è segretamente innamorato e la
insegue senza riconoscerla. Dopo uno scontro durissimo in cui i due
contendenti sono paragonati a Marte e a Bellona, l’uomo, feritala una
prima volta non gravemente, le chiede invano di rivelare la sua identità.
Al suo rifiuto la colpisce di nuovo e questa volta mortalmente.
Tigliamochi, fedele a Tasso, riproduce nei momenti cruciali anche le
espressioni a tutti note («Rispose la superba», «giunta è l’ora empia e
fatale», «in questi accenti languidi»); e naturalmente non poteva mancare
la scena madre con Illione che, tolto l’elmo, scopre di aver ucciso
la donna amata. Segue quindi l’inevitabile battesimo, di fronte al quale
l’autrice non arretra, indotta dal modello che le fa dimenticare l’inopportunità
cronologico-culturale di quest’atto e al tempo stesso
dalla stessa maldestra preoccupazione controriformistica che le aveva
fatto sposare in chiesa Didone ed Enea:
Come conobbe alla primiera vista
La faccia di colei che tanto amava,
Non morì, né mancò sua vita trista,
Ch’ogni virtute in soccorso n’andava
48 Eneide, XI, 498-596; 648-867.
spinta dalle arti del mago Acrino a Cefalonia da Medea che, per l’abbandono
di Giasone, vuole vendicarsi di tutte le donne innamorate.
Destinata in pasto a un drago e salvata dall’uomo amato, riesce a legare
la maga tessala a un albero che in seguito sarà uccisa da Illione.
Ancora Colicone, servendosi dello spirito Afrino, porta a Corintia
la falsa notizia della morte di Ascanio. I due si incontrano a Cefalonia
senza riconoscersi. Quando finalmente giunge con lei al campo troiano,
ha ancora a che fare con la magia, perché Fluenzio, l’amante di
Toscanella che deve liberare, è tenuto prigioniero a Chiusi dalla maga
Arabina. È l’ultimo atto del mago malvagio che, di fronte alla sconfitta
che si profila all’orizzonte, si impicca.
Un altro aspetto che risale all’Ariosto – basta pensare a Bradamante
e a Marfisa – e diviene tipico del poema barocco, è il protagonismo
della donna che non solo mostra notevole autonomia e coraggio, ma
che è spesso l’elemento attivo della coppia, segno evidente che ella ha
acquisito un ruolo più incisivo nella società.45
5. La donna al centro dell’azione epica
Tra gli esempi di donne di questo genere presenti nell’Ascanio in
tutto paragonabili agli uomini, vorrei proporre Cammilla e Corintia.
Per Cammilla Barbera dispone del racconto di Virgilio, dal quale sappiamo
che, figlia di Metabo il crudele re dei Volsci, era stata educata
nella caccia e nelle armi e consacrata dal padre a Diana «dea presociale
e antisociale, la cui verginità intransigente mira a garantire l’indipendenza
femminile»,46 a cui si manterrà fedele fino alla morte. Del
resto ella è il prototipo della vergine guerriera, archetipo femminile
che risale alle Amazzoni.47
Questo vale per molte simili eroine che troviamo in altri poemi del
Seicento escluse tutte dalla società in quanto hanno infranto le regole
stabilite per la donna, e destinate per lo più a una fine tragica. Saranno
45 Sulle donne guerriere in letteratura vedi M. Tomalin, The Fortunes of the
Warrior Heroine in Italian Literature. An index of emancipation, Ravenna, Longo, 1982.
46 L. Benedetti, La sconfitta di Diana. Un percorso per la “Gerusalemme liberata”,
Ravenna, Longo Editore, 1996, p. 7.
47 Per il mito delle Amazzoni e la sua vitalità nella letteratura vedi P. Baldan,
Marfisa: nascita e carriera di una regina amazzone, «Giornale Storico della Letteratura
» CLVIII, (1981), pp. 518-529; S. Andres, Le Amazzoni nell’immaginario occidentale.
Il mito e la storia attraverso la letteratura, Pisa, ETS, 2001.
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242 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 243
sentito nascere fin dal primo sguardo (XII, 50, 7-8, 51, 52, p. 123). Corintia
non è la vergine amazzone di mitica memoria, come poteva essere
Cammilla anche per il peso della tradizione virgiliana, ma cede
all’amore, anche se non nel modo come si era arresa l’Armida di Tasso
a Rinaldo o la Tigrina di Grandi a Hidro, donne che l’amore spinge a
rinunciare al loro ruolo nel mondo per sottomettersi a un uomo. Ma
prende l’iniziativa, come avrebbe potuto fare Ascanio e l’amore sembra
non ostacolare la sua vocazione per le armi, ma arricchir la sua
vita.
Paragonabile in questo a una donna moderna, sa che in un mondo
ostile all’emancipazione femminile è necessario sapersi difendere e
imporre. Così nel duro scontro con Teripero Corintia, simile alla Claudia
dell’Enrico che affronta Oronte,54 non replica alle sue parole di derisione
che la richiamano alle tradizionali attività della donna, cioè
stare a casa a filare:
In usitato modo il tristo mago
A rider cominciò con un tal riso
Di rabbia misto, e disse s’io non pago
Il desir mio da ognuno deriso,
Essere per sempre voglio, a tener l’ago
T’insegnerò, e questo per avviso
Ti serva infame donna e via la spada
Getta, va fila ed alla rocca bada.55
Ma si getta contro l’avversario con la furia di un serpente velenoso o
una Erinni e alla fine riesce ad atterrarlo. Lo stesso disprezzo ella si
trova a fronteggiare alla fine del poema quando è colpita da Folgorante
la cui rabbia maschilista coinvolge anche Ascanio, venuto in suo
aiuto che, secondo lui invece di combattere, dovrebbe occuparsi con
lei dei consueti lavori domestici:
Volto il superbo d’ogni tema voto
Vols’egli ancora a quel risposta dare,
Dicendo or’ a te vengo; a te devoto
Di quella e drudo e ti voglio provare
54 C osì Oronte apostrofa Claudia: «Me’ t’era star tra femminile ingegno/ che
cercar tra i guerrier pregio e vittoria./Né il mio come il tuo ferro è ottuso e langue/
Ma ferendo sa far ferite e sangue». e alla reazione violenta di Claudia è fuori di sé:
«E fu per impazzar, ché sa che leso/Non da guerrier, ma da guerriera è offeso».
(Enrico, XXV, 28, 5-8; 32, 5-8).
55 Ascanio, XXII, 29, p. 216.
In guardia al core; alla doglia sinistra
Dato un po’ loco, dell’acqua pigliava
Ch’ivi fresca correa per buona sorte,
Per procurar la vita a chi dié morte.49
Da notare che la pesante imitazione del Tasso, che è un vero e proprio
plagio, non ha nulla secondo me della parodia, travestimento burlesco
di un testo famoso, ma è segno solo dell’autorità cogente di un grande
scrittore che porta a questi risultati estremi in una scrittrice a corto di
risorse originali.
Corintia è invece un personaggio nuovo che possiede gli attributi
che i lettori desideravano trovare: non la vergine ritrosa, ma l’eroina
abile sia nelle armi che nell’amore. La regina di Fiesole, che porta il
suo esercito in aiuto di Enea, è una guerriera coraggiosa, dotata di
qualità maschili; Barbera tuttavia nel rapporto con Ascanio, benché
dosi gli episodi di valore, fa pendere l’ago della bilancia dalla parte
dell’uomo, che conserva il tradizionale ruolo protettivo nei confronti
della donna. Così quando i due si incontrano, è lui che riesce a domare
il cavallo;50 è lui che viene in suo soccorso quando, prigioniera di
Medea, sta per essere data in pasto a un drago;51 è però Corintia che
uccide Teripero il crudele tiranno di Cefalonia;52 ancora nello scontro
finale contro l’esercito di Turno i due si difendono a vicenda contro
Folgorante, ucciso però da Ascanio, che in precedenza aveva fatto morire
ignominosamente Massenzio (il Mezenzio dell’Eneide crudele tiranno
etrusco), che, intenzionato a colpirne il cavallo, rischiava di
mettere in pericolo la donna amata.
È interessante però notare nel rapporto più propriamente sentimentale
il ruolo di Corintia, che non solo suscita la passione per le
virtù militari oltre che per la bellezza («Onde come ben scorto Ascanio
avea/Per prova in lei virtù fuor dell’usato/Femmineo sesso, più di lei
n’ardea»),53 ma, su richiesta del giovane, è ben contenta di rivelare la
sua identità, cosicché orgogliosamente afferma di essere la regina di
Fiesole che sempre si è dedicata alle armi e ha rifiutato tutti i pretendenti.
Questa assoluta libertà, che le permette di decidere del suo futuro,
le consente anche di essere lei a dichiarare quell’amore che ha
49 Ascanio, XXVI, 67, p. 262.
50 Ivi, XII, 30-33, p. 121.
51 Ivi, XVII, 71-94, pp. 174-176; XVIII, 75-83, p. 185.
52 Ivi, XXII, 36-39. p. 217.
53 Ivi, 44, 1-3, p. 122.
[ 18 ] [ 19 ]
244 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 245
cavallo incantato, con Ascanio il quale poi si occupa di lei che giace a
terra. Qui appare evidente che Tigliamochi utilizza sempre i materiali
tassiani relativi alla coppia Tancredi-Clorinda, quando è in presenza
di donne guerriere coinvolte in situazioni amorose.
Così quando Ascanio per soccorrere Corintia le toglie l’elmo, abbiamo
il topos della sorpresa dei lunghi capelli biondi, scena che si ripete
quando ella, impegnata con Illione, che la crede un uomo, nell’impresa
contro Medea, si riposa con lui presso un fiume.60
I versi successivi poi richiamano la morte di Clorinda.61 Ma non si
capisce perché, visto che l’avversario è al massimo un po’ stordito, la
mano nel togliere l’elmo debba tremare («Tremò la mano al franco
giovinetto»). Sta di fatto che di fronte all’autorità del Tasso, Barbera
deve fare uso dell’acqua, come già per Cammilla, («Con acqua fresca
bagna fronte e petto») e alludere al colore viola del viso abbattuto:
Qual amorosa e palida viola
Have la bella il suo languido viso:
Ascanio immoto, quella al mondo sola
Stupido ammira e ne riman conquiso:
Se quasi morta questa il cor gl’invola,
Che farà al lampeggiar di dolce riso?
Apre ella gl’occhi languidi e cadenti,
E tienli fisi in quei d’Ascanio intenti.62
Interessante qui l’utilizzo di un altro motivo, il lampeggiare del dolce
riso della donna amata, con la differenza che mentre in Tasso si riferisce
a un’evenienza che vive solo nel desiderio di Tancredi, che sarà
frustrato da un crudele destino,63 in Tigliamochi riguarda la situazione
reale dei due giovani che si innamorano proprio ora.
Ma tornando alla Gerusalemme liberata c’è un altro caso in cui possiamo
vedere l’uso del topos tassiano, ampiamente ricorrente nel Seicento,
del guerriero che si confronta in duello con la donna amata, già
sfruttato per la morte di Cammilla. Ascanio e Corintia, separati e tenu-
60 Ascanio, XIX, 59, p. 192: «Fecegli contro al suo voler palese/La lunga e bionda
treccia di qual sesso/Fusse Corintia, ad Illion che scese/ Con l’elmo l’aurea
chioma e lasciò oppresso/Il cavalier tal meraviglia il prese, /Che più non si rimembra
di se stesso, /Per la rara beltà che scorge in lei, /Che la crede discesa dagli
Iddei».
61 Gerusalemme liberata, XII, 66-69.
62 Ascanio, XII, 40, p. 122.
63 Gerusalemme liberata, III, 22, vv. 1-2: «Lampeggiar gli occhi e folgorar gli
sguardi, /dolci nell’ire, or che sarian nel riso»?
Ch’il capo in tutto tien di senno voto,
Che non dovevi in campo essa menare,
Ma starvi in casa dovevi ambidue
Ess’a filar: le fila tesser tue.56
Qui i due innamorati collaborano ad armi pari e riescono ad aver
ragione dell’avversario, anche se il colpo risolutivo viene inferto da
Ascanio. D’altra parte è tipicamente femminile il fatto che Corintia,
nella lotta contro Turno, sia spinta soprattutto dall’amore («Perché restando
i Troian vincitori,/Dubbio non ha non posseder suo bene,/
Con li dovuti e meritati onori/Ascanio avere sposo certo tiene»).57
Una donna simile non è, come abbiamo visto, una novità nei poemi
del Seicento non solo in quelli scritti da donne, ma anche in quelli
composti da uomini, se mai nelle autrici c’è una rivendicazione più
consapevole dell’uguaglianza dei sessi. Così Marinella può dire
nell’Enrico dell’intrepida Claudia: «Mostra che l’uso e non natura ha
messo/Timor ne l’un, valor ne l’altro sesso».58 E Fonte aveva potuto
orgogliosamente affermare.
Le donne in ogni età fur di natura
Di gran giudizio e d’animo dotate,
Né men atte a mostra con studio e cura
Senno e valor degli uomini son nate;
…………………………………….
Sempre s’è visto e vede (pur ch’alcuna
Donna v’abbia voluto il pensier porre)
Nella milizia riuscir più d’una
E ’l pregio e ’l grido a molti uomini torre;
E così nelle lettere e in ciascuna
Impresa che l’uom pratica e discorre
Le donne sì buon frutto han fatto e fanno,
Che gli uomini a invidiar punto non hanno.59
Come per Camilla anche per la regina di Fiesole si possono citare singoli
episodi di assoluta consonanza con la Gerusalemme liberata, a cominciare
dal primo incontro con Ascanio nel bosco di Populonia. La
donna, che all’aspetto sembra essere un uomo, combatte come abbiamo
visto senza successo, per avere la priorità nel domare Saurino il
56 Ivi, XXVIII, 27, p. 275.
57 Ivi, 59, 1-4, p. 272.
58 Enrico, II, 29, pp. 7-8.
59 Floridoro, IV, 1-2.
[ 20 ] [ 21 ]
246 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 247
ambi l’intento/Ivon scoprendo e lor vago desire» e stanno quasi venendo
meno, quando sono interrotti sul più bello dall’arrivo di Illione
con in mano la testa di Medea («Vedon’un ratto verso lor venire, /Con
una testa avanti dell’arcione,/Per la cui fece di Medea un troncone»66).
Visione macabra di gusto secentesco dettata da motivi strutturali, ma
forse anche etici.
6. La Gerusalemme liberata: concezione del mondo e ideologia
Imitazione del Tasso vuol dire anche espressione di una dimensione
morale e religiosa, nonché di una ideologia politica legata all’attualità,
67 mutuata peraltro dall’Eneide. Infatti un racconto, che pur si
propone in primo luogo di intrattenere, è opportuno che non dimentichi
il fine didattico e morale.68
Riguardo al primo punto c’è da dire che del saldo impianto religioso
provvidenziale dell’Eneide, per cui il viaggio di Enea è voluto dal
fato per la fondazione dell’impero romano ed è assecondato da una
serie di dei, Giove, Apollo, Venere, a cui invano si oppongono divinità
ostili capeggiate da Giunone, c’è solo una labile traccia. Piuttosto, come
nella Liberata, anche senza la netta contrapposizione ideologica là
presente, le forze ostili all’impresa si identificano con i demoni, che
fanno ricorso ampiamente alla magia, mentre quelle favorevoli coincidono
con la divinità intesa spesso in senso cristiano, dal momento che
agli dei pagani è riservato solo un omaggio esteriore. Del resto Apollo
sa che gli idoli crolleranno come conseguenza del viaggio di Enea.69 E
quando appare nel sonno ad Ascanio, per aiutarlo nella lotta contro i
66 Ivi, XXIV, 3, 3-4 e 6-8, p. 232.
67 Si tratta di un tema ritornante nella critica affrontato tra l’altro da D. Foltran,
L’eccelsa musa dell’eroico Tasso. La poesia epica del Seicento e la ricezione del modello
tassiano, Dottorato di ricerca in italianistica, Università degli studi Padova,
1998, pp. 7-8.
68 Cfr. T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma,
Bari, Laterza, 1964, p. 13: «In questa idea […] che ora andiamo cercando, del perfettissimo
poema, fa mestieri che la materia sia in se stessa nel primo grado di nobiltà
e di eccellenza. In questo grado è la venuta di Enea in Italia, ch’oltra che l’argomento
è per se stesso grande e illustre, grandissimo e illustrissimo è poi avendo
riguardo all’imperio dei Romani che da quella venuta ebbe origine». A questo modello
ha sempre fatto riferimento la critica. Sarà sufficiente citare il sempre utile F.
Chiappelli, Studi sul linguaggio del Tasso epico, Firenze, Le Monnier, 1957.
69 Ascanio, II, 46, p. 14.
ti lontani da Enea dalle arti di Colicone, andati alla ricerca l’uno dell’altro,
entrambi vestiti di nero in segno di lutto, si scontrano senza riconoscersi
a Cefalonia, senza esclusione di colpi. La tensione, peraltro
assolutamente artificiale perché il lettore può facilmente immaginare
come le cose andranno a finire, non impedisce, come al solito, di interrompere
la narrazione per passare a parlare di Cammilla. Si torna poi
ai due contendenti che continuano a colpirsi. Sennonché una forza misteriosa,
impedisce loro di farsi del male. Da questo momento la situazione
scivola nel melodramma, non solo per la centralità che assumono
le reciproche dichiarazioni d’amore, ma anche per la riflessione su
situazioni ipotetiche, come quando l’autrice invita i lettori a immaginare
che cosa sarebbe successo se uno dei due avesse ucciso l’altro:
Io lascio a voi pensar s’alcun di loro
Restato fusse offeso, a cui cadea?
La pena ed in che grave e stran martoro
Restava quel, che quell’altro vincea:
Vincea perdendo il suo ricco tesoro,
Ed orbo al mondo in tutto rimanea,
Che se’l vinto era morto; o ver ferito,
Il vincitor patia peggior partito.64
Ottava tipicamente barocca per la ripetizione continua dell’antitesi
vincitore-vinto che si conclude con la dichiarazione scontata che il primo,
perché causa della morte della persona amata, avrebbe sofferto
più del secondo. Le cose vanno per le lunghe prima che i due rivelino
la propria identità, finché la scena diventa quasi comica quando Corintia
dice:
Onde te compatendo, anco me stesso
Compatisco, che vedo ambi macchiati
Siam d’una pece, che pur io depresso
Son dell’istesso, e saremo beati,
Se quel che manca a te, fuss’io lo stesso,
E che tu il mio ben fussi, e che trovati
Ci fussim’hora insieme, il mio godere
Superiore a ogni mortal piacere.65
Poco dopo però i due amanti, finalmente riconosciutisi, possono abbandonarsi
su un prato alle meritate effusioni («In vaghissimo prato,
64 Ascanio, XXIII. 66, p. 229.
65 Ivi, 75, p. 230.
[ 22 ] [ 23 ]
248 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 249
prende coscienza della sua vera natura, in cui la ragione e la volontà
devono tenere a freno gli istinti e guidare l’esistenza al suo fine soprannaturale.
Quanto alla dimensione politica, come il Tasso aveva fatto di Rinaldo,
senza il quale Gerusalemme non poteva essere conquistata il progenitore
degli Estensi, così Ascanio, senza il quale i troiani non potranno
fare dell’Italia la nuova patria, sposando la regina di Fiesole è
all’origine della dinastia medicea destinata a governare la Toscana, di
cui il poema si propone di essere una esaltazione. In questo modo veniva
ribadita l’origine romana di Firenze sostenuta da Vincenzo Borghini,
consulente storico di Cosimo I,74 senza escludere l’apporto
dell’elemento etrusco rappresentato da Fiesole, la secolare nemica di
Firenze, in linea anche con la tesi alla base del Firenze di Chiabrera e
della Fiesole distrutta di Peri. In questo progetto rientra la centralità che
assume la Toscana, in funzione della quale viene ideata tutta la storia.
Tigliamochi va molto al di là dello spunto che poteva trovare
nell’Eneide di un generico contributo dei popoli dell’Italia, tra cui gli
Etruschi, nella creazione dell’impero romano. Corintia, coprotagonista
che deve sposare Ascanio, è infatti regina di Fiesole; Torinda, che
Ascanio trova in un bosco, dove si è smarrito con alcuni compagni, è
la figlia del re di Populonia; molti Toscani partecipano alla guerra contro
Turno, oltre Corintia Ferrando lo sposo di Torinda, il pisano Alfeo
con 4000 uomini e, dalla parte di Turno, Cammilla con 5000 guerrieri;
le imprese narrate spesso hanno come teatro la Toscana, come la vicenda
del castello di Bibbona. Per concludere Toscanella si chiama la
fanciulla che per consiglio del mago Scalabruno, che vuole tenere lontano
Ascanio dalla guerra contro Turno, gli chiede aiuto perché salvi
l’amante che si chiama non a caso Fluenzio figlio di Arnio (nomi che
riportano a Fluenzia l’antico nome di Firenze e al fiume Arno), che è
tenuto prigioniero in un labirinto nei pressi di Chiusi.
Da qui anche l’elemento più direttamente encomiastico. Si comincia
subito, secondo i canoni nell’incipit, dopo la protasi e l’invocazione
74 Vedi R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia dell’Europa moderna,
Nuova edizione, Bologna, Il Mulino, 2009, in particolare il Cap. III Genealogie incredibili,
genealogie credibili, pp. 183-258:248-253 dove dice che Vincenzo Borghini
(Dell’origine della città di Firenze, 1584) contro la tesi fantasiosa di Annio da Viterbo
(Antiquitatum Variarum volumina XVII, 1498) secondo la quale la città era stata fondata
da Ercole Libio discendente degli Ebrei e la Tuscia aveva il primato nella civilizzazione
del mondo, ne aveva dimostrato sulla base di prove attendibili l’origine
romana.
giganti dell’isola del fuoco, in realtà è Dio stesso («bench’ Ascanio senza/
Lume ver fusse, per sincero core/Ch’egli havea in Dio l’immensa
sua clemenza/Li diede il frutto in questo mondo e’l fiore»),70 secondo
la concezione, radicata fin dagli inizi del cristianesimo, che il mondo
pagano è la prefigurazione della vera religione. Così pure Latino contesta
la proposta di suicidio a due della moglie Amata con una lunga
spiegazione in cui afferma che la vita è in mano agli dei e che ella deve
pensare all’anima immortale.71
Questi sparsi indizi trovano il punto di approdo nel canto XXXI,
quando l’esaltazione delle famiglie fiorentine che conclude il poema
inizia con l’omaggio a Gostanza Magalotti, «madre di sacri eccelsi
Barberini, /Cardini della Chiesa alti e divini», cui segue la glorificazione
del fiorentino Urbano VIII, pastore per volere di Dio della chiesa
cattolica, depositaria della salvezza dell’umanità:
O felice cognata al gran pastore
Urbano ottavo dall’emperia riva
Quaggiù mandato dal sovran Motore,
Ond’il mondo per lui felice viva;
Al supremo comando, al suo valore
Termine alcun non è che si prescriva,
Felice lui che può beare altrui,
Aprire il ciel, serrare i regni bui.72
La concezione gerarchica di tipo tomistico che investe la Chiesa, la
società e la politica si riflette anche nella natura dell’uomo. Illuminante
è a questo proposito l’episodio di Circe che ha trasformato in animali
i compagni di Ulisse che, di fronte all’offerta della maga in massa
si rifiutano di riprendere la forma umana, timorosi degli affanni della
vita, preferendo vivere nell’inconsapevolezza senza paura del futuro.
L’episodio iniziato nel canto IV prosegue nell’VIII quando Alifemo,
trasformato in elefante, si fa convincere da Ulisse a tornare uomo. Non
a caso egli era un filosofo e può affermare che il ferino stato serve solo
a vivere e a generare, ma che il bene supremo è l’intelletto, mentre
deplora la perdita del tempo, il massimo tesoro dell’uomo che speso
in ben operare può rendere immortali.73 La magia di Circe assume
quindi il connotato di una prova morale, superata la quale l’uomo
70 Ivi, XXI, 56, 3-6, p. 211.
71 Ivi, XXV, 43, p. 251.
72 Ivi, XXXI, 6, p. 298.
73 Ivi, VIII, 31 e 32, p. 80.
[ 24 ] [ 25 ]
250 paola marongiu l’ascanio errante di barbera tigliamochi degli albizi 251
modesti delle possibilità umane in linea con lo spirito del secolo XVII,
che pur tra i trionfi della Chiesa e del Potere vive con la costante prospettiva
della morte e della fine di tutto. Degno suggello di questa rivisitazione
moderna dell’Eneide che, attraverso un percorso talvolta
periglioso, Barbera è comunque riuscita a portare a compimento.
Paola Marongiu
(Firenze)
alla Musa, con la dedica alla granduchessa Vittoria, che appare in
un’atmosfera cosmica, circonfusa di luce («Vié più che il sol al mondo
luminosa/L’acqua, l’aria, la terra a voi s’inchina»), da cui l’autrice si
ripromette di avere la fama («Così spera di voi, dal raggio illustre, /
Chiarirsi l’opra mia, che languid’era, /Mentre raccolga in sé vostro
splendore, / Haurà vita, vigor, gloria ed onore»). Al centro di questo
progetto di esaltazione c’è, come abbiamo visto, la profezia della Sibilla
cumana, che annuncia all’inizio del canto IX la fondazione di Firenze
e il ritorno dell’età dell’oro quando i Medici domineranno in Etruria.
Questo omaggio alla propria città si conclude nel canto XXXI,
quando ringraziando Dio per avere ispirato il suo lungo poema, Barbera
identifica la fine delle sue fatiche con il ritorno a Firenze, dove
l’attende un nobile drappello delle principali famiglie fiorentine, tra
cui molti membri degli Albizi, a cui si uniscono i poeti Bartolomei,
Gaddi, Lenzoni.
Nelle ultime battute, secondo la prospettiva dell’epopea virgiliana,
il quadro si allarga dal granducato di Toscana all’Italia tutta. Corintia,
nonostante le premesse femministe, in nome del lealismo politico promette
totale sottomissione ad Enea, mentre il regno di Fiesole passa ad
Ascanio. Alle duplici nozze non partecipano quindi i nobili fiorentini,
ma le dame e i cavalieri dell’intera penisola, certo non personaggi classici,
appartenenti come sono a una tradizione di tipo cavalleresco. Così
con questo escamotage la famiglia dei Medici, risulta ancora di più
esaltata attraverso la duplice discendenza dagli Etruschi e dai Romani.
7. Conclusione
Dovendo fare un consuntivo finale dell’Ascanio errante possiamo
dire di trovarci di fronte a un’operazione in cui l’imitazione dei modelli
canonici e il gusto romanzesco, tipici del poema epico secentesco,
si incontrano all’insegna della dimensione encomiastica e di un protagonismo
femminile di sicuro interesse, vero segno dei tempi. Il tutto
entro coordinate culturali e sociali ben precise. Ne è una riprova il tono
dimesso degli ultimi versi («Così sperando ed operando bene/
Doppo delle fatiche il gaudio viene»),75 che allude alle tre dimensioni
dell’opera – le gesta dei Troiani, la politica dei Medici, le fatiche della
scrittura –, improntato a una saggezza che si mantiene entro i limiti
75 Ivi, XXXXI, 72, 7-8, p. 304.
[ 26 ] [ 27 ]

Arnaldo Di Benedetto
Alfieri neoclassico
Accostare la poesia di Vittorio Alfieri al gusto neoclassico (convivente col neogotico,
e non sempre separabile da esso) non è operazione frequente. Eppure
non mancano alcune, rare, sue dichiarazioni che inducono a collocarlo entro
quella categoria. Alcuni cenni nelle sue liriche offrono caratteristiche immagini
neoclassiche; altrettanto si può dire di alcuni paesaggi della Vita e delle Rime.
Una sua sostanziale affinità col gusto neoclassico può inoltre essere indicata
nella ricerca d’uno stile brachilogico, e nella semplificazione a cui egli sottopose
le convenzioni del teatro tragico. «Dorica», «linearista», definirono la sua arte
grandi letterati come Théophile Gautier e Egon Friedell.

It is somewhat unusual to draw a parallel between Vittorio Alfieri’s poetry and
neoclassicism (closely related to neo-Gothic and not always separable from it).
Nonetheless, the occasional comment by Alfieri leads us to consider him a
member of this category. Elements in his lyric poems conjure up typical neoclassical
images; the same may be said of certain landscapes in the Vita and the
Rime. A major affinity with neoclassical tastes may be identified in the search
for concision and in the simplification applied to the conventions of tragic theatre.
Important writers such as Théophile Gautier and Egon Friedell defined
Alfieri’s art as “Doric” and “uncomplicated”.
Com’è noto, il Neoclassicismo non è certo l’ultimo e forse un po’
fiacco capitolo del classicismo rinascimentale. In esso sono elementi di
rottura tali da renderlo semmai proiettato verso ciò che accadde dopo,
più che legato ai classicismi precedenti (è meglio usare il plurale). E
occorre ripetere che suoi contemporanei, e ad esso intrecciati, furono
gli inizi del Neogotico? E Neogotico e Neoclassicismo convivono ancora,
nella prima metà del XIX secolo, nell’architetto e pittore prussiano
Karl Friedrich Schinkel, e non solo in lui.
Venendo a Vittorio Alfieri, difficilmente valutabile è l’eventuale incidenza
di Luisa Stolberg sulla sua cultura e sul suo gusto figurativi.
La contessa d’Albany fu una disegnatrice e una pittrice non trascurabile.
In tale veste raffinatamente la ritrasse François-Xavier Fabre; e in
Alfieriana
254 arnaldo di benedetto alfieri neoclassico 255
neoclassica, nel cui àmbito operava lo stesso Fabre. Parte dell’ultima
collezione d’arte della contessa, che arrivò ad annoverare, fra l’altro,
belle vedute di Hackert, pittore di corte a Napoli e amico di Goethe,
che fu anche suo allievo a Caserta, e di Martin Verstappen (del quale
Massimo d’Azeglio fu allievo a Roma), è oggi visibile nel Musée Fabre.
L’Albany non condivise che in parte l’ammirazione di Fabre nei
confronti del maestro David; i suoi rapporti con quest’ultimo anzi si
guastarono, e nel 1809 l’artista francese rifiutò di accoglierla nel suo
atelier parigino. Giudicava «dura e secca», «di gusto giottesco» e negativamente
primitiveggiante l’arte francese degli anni della Rivoluzione
(«Les peintres françaises […] sont retournés au commencement de
l’art»).
Difficilmente valutabile è anche l’eventuale incidenza del colto Fabre,
sostenitore estremo dell’assoluta superiorità della vecchia tradizione
classica italiana e francese – stando alla Conversation chez la
Comtesse d’Albany, à Naples, le 2 mars 1812 di Paul-Louis Courier. Anche
se l’ammirazione per il passato non gl’impedì di apprezzare alcuni
moderni: con David, Gros, Tischbein.
★ ★ ★
Vero è che tentar di identificare un gusto figurativo di Alfieri non
porta molto lontano. Nel 1776 Giambattista Bodoni scriveva a Paolo
Maria Paciaudi al riguardo: Alfieri «nelle Arti non ha alcuna cognizione
». Prediligeva l’arte eroica e imponente di Michelangelo (a cui fu
iniziato da Benedetto Alfieri), artista allora venerato ma anche contestato;
le forme classicheggianti; e la pittura solenne di soggetti storici.
E in ciò né l’Albany né il pittore amico potevano contraddirlo. Dei ritratti
non apprezzava che la rassomiglianza ai soggetti. Riservò un’alta
stima al celebre stampatore Bodoni, riformatore in senso neoclassico
della grafica del libro.
Nel secondo Settecento ebbe inizio, qua e là in Europa, l’interesse
per i pittori cosiddetti “primitivi”, dal Duecento alla fine del Quattrocento;
e già il Vicar of Wakefield di Oliver Goldsmith (cap. XX) registrava
ironicamente come tra le doti richieste per acquisire fama di cognoscento
(equivalente pseudo-italiano del francese connoisseur) fosse l’ostentazione
dell’apprezzamento dell’arte di Pietro Perugino. Lo stesso
Fabre, collezionista e mediatore e mercante d’arte, non fu cieco al nuovo
orientamento. Ma Alfieri non condivise quell’interesse allora nascente,
e l’unico documento addotto al riguardo – una lettera indirizzata
a Tommaso Puccini da Firenze il 14 marzo 1791, firmata «Alfieri»,
effetti fu qualcosa di più che un’artista della domenica. Suoi accurati
disegni si trovano presso il Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria
degli Uffizi e nel Musée Fabre di Montpellier. Eseguì un ritratto di
Teresa Regoli Mocenni, tuttora conservato a Siena in Casa Mocenni, e
uno di Alfieri, che ornò a lungo la palazzina Gianfigliazzi a Firenze
finché, nel 1817, lei stessa non lo donò a Lodovico di Breme. Sua è una
Santa Teresa destinata alla cappella di Casa Mocenni, che, a giudizio di
Carlo Sisi, costituì la sua prova più ambiziosa. Un particolare rilievo
ha l’incantevole ritratto femminile visibile nel castello di Masino,
presso Torino; già attribuito a Fabre, ma nel quale ora Sisi vede un’opera
della stessa Stolberg, che da ritratta passa dunque al ruolo di
esecutrice. Pertanto la scritta, in basso a sinistra: «Louise Stolberg /
Comtesse d’Albany / à Florence / 1797», non indicherebbe il soggetto
del quadro, ma sarebbe la firma dell’autrice. Il ritratto raffigura una
giovane donna – forse una nipote dell’abate Tommaso Valperga di Caluso,
grande amico e maestro di Alfieri, Carolina – dal taglio a mezza
figura e girata di tre quarti, dai capelli castani arricciolati sui quali è
calzato un cappello di paglia circondato da un grande nastro blu che
scende ad annodarsi sopra la gola. Il nero del vestito è interrotto dal
rosso di una fascia che cinge la donna sotto il seno. La figura femminile
è colta nell’atto di porre sulle labbra l’indice della mano sinistra.
Non sappiamo a cosa alluda l’espressione del viso che, con un sorriso
appena accennato, intima il silenzio. Il signum harpocraticum, o signum
silentii, del dito sulla bocca, qui lontano dagli antichi significati religiosi
(invito iniziatico, secondo Plutarco; e, in àmbito cristiano, esortazione
all’oboedientia conventuale), come da quello morale dell’umanesimo,
si colloca qui entro un universo esclusivo e complice di relazioni
familiari e amichevoli.
La Stolberg studiò pittura e disegno, e, a partire dal 1793, fu allieva
di Fabre, il quale anche interveniva a correggere i suoi piccoli errori
«d’ortographie», come lei stessa scrisse alla Regoli Mocenni nel 1798.
In funzione della sua attività artistica, Luisa raccoglieva dipinti e soprattutto
stampe. Perdute definitivamente quelle lasciate a Parigi, ne
mise assieme una nuova collezione a Firenze; se ne fa menzione nel
testamento redatto dopo il 1817. In relazione a essa vanno letti gli accenni
a «un rame dell’Ester», ovvero a un «Rame del Poussino», contenuti
in due lettere d’Alfieri del 1800; il pittore francese era uno dei
modelli più esaltati da Fabre, nella sua maturità («alunno elegantissimo
del Poussino», lo definì Foscolo in una lettera del 1813 indirizzata
alla Stolberg), ed era – dopo il temporaneo ma relativo declino nell’epoca
rococò – uno degli ideali di classicità a cui guardava la cultura
[ 2 ] [ 3 ]
256 arnaldo di benedetto alfieri neoclassico 257
gusto neoclassico e canoviano è possibile rinvenire (come suggerì Vittore
Branca) in alcuni suoi sonetti; ecco una danzatrice:
Agil piè che non segni in terra traccia,
sì lieve lieve, in mille guise elette,
armonïose scaltre carolette
intrecci…;
o questo quadretto mitologico che occupa la seconda quartina del sonetto
dedicato alla tomba di Ludovico Ariosto (son. «Le donne, i cavalier,
l’arme, gli amori»):
Sovr’esso [l’avello] io veggo in varj eletti cori
e le Grazie e le Muse sbigottite;
e par che a prova l’una l’altra invite
a spander nembo di purpurei fiori.
Alla tradizione pittorica del paesaggio classico, ampio e sereno, appena
animato da qualche nota contrastante, ma analiticamente rinnovato
dal vedutismo settecentesco, sembra riconducibile la descrizione
contenuta in una lettera del 1785, nella quale è raffigurato il prediletto
paesaggio renano:
Da Levante, e da Ponente, una catena di monti poco più alti di quelli
dei Bagni a Pisa; ma quelli di Ponente massime, alle falde de’ quali io
sto, son tutti còlti: vigne fino a mezzo colle, poi selve fino alla cima,
parte di castagni, parte d’abeti. Il piano da questi monti agli altri col
Reno in mezzo, dove più, dove men largo, è sempre almeno di dieci
miglia, sicché i monti di Levante che mi stanno in faccia, e son più alti,
e tengon dell’alpe, bastano per riposar l’occhio da quell’immenso piano,
ma sono presso abbastanza per rattristarlo col loro orrore.
Più sostenuta è, nella Vita, la sinteticissima e straordinaria rievocazione
della navigazione del Reno (celebrato anche, in termini ben più
astratti, nei primi versi del sonetto Qui il chiaro fiume) compiuta in gioventù,
affidata a un insolito abbinamento d’un epiteto come epico a un
sostantivo singolarmente alterato, fiumone, e al contrasto fra il “sublime”
del corso del fiume (più che un mezzo, quasi un compagno di
viaggio, che innalza l’animo del navigante) e la “grazia” riposante
delle sponde:
[…] avviatomi verso Magonza, mi v’imbarcai sopra il Reno, e disceso
con quell’epico fiumone sino a Colonia, un qualche diletto lo ebbi navigando
fra quelle amenissime sponde.
e conservata nel «Fondo Puccini» della Biblioteca Forteguerriana di
Prato – non è suo, come io stesso in passato ho indicato: Roberto Viale
e Angelo Fabrizi hanno poi precisato trattarsi del diplomatico Carlo
Emanuele Alfieri di Sostegno.
Non si ha traccia d’incontri di Vittorio Alfieri con Antonio Canova.
Carlo Sisi ha richiamato però l’attenzione su una lettera di Giuseppe
Ciaccheri del 1777, nella quale l’abate bibliotecario, oltre a descriverlo
in alcuni suoi atteggiamenti da dandy – ovviamente ante litteram – nei
quali si esibiva a Siena:
[…] è un Apollo del Belvedere, guida ogni giorno un cocchio a quattro
cavalli inglesi, con un uomo solamente a cavallo. Il Signor Conte ha
viaggiato per tutta l’Europa, e per ben due volte è stato in Londra,
ne rilevava l’amicizia con Mengs; dal quale, aggiungeva, Alfieri aveva
avuto «un trattato sul Bello relativo alle Belle Arti». Era quella una
delle bibbie del Neoclassicismo.
In un appunto (non credo si tratti d’un frammento di lettera) non
databile, ma scritto presumibilmente a Firenze, nel corso del definitivo
soggiorno in quella città, e destinato forse a Fabre, relativo a una statua
di autore moderno, per noi ignoto, e raffigurante il Silenzio, Alfieri
scherzosamente deplorava che l’artista, per imitare gli antichi, avesse
modellato i piedi con l’alluce troppo divaricato. Ma gli antichi, spiegava
lo scrittore, usavano dei sandali con «strisce ben grosse di cuojo,
che intromesse […] fra il pollice e l’altre dita doveano cagionare colla
continua pigiatura questo allargamento»; sbagliarono pertanto, quegli
antichi artisti, nelle loro statue, perché «imitarono come vero della natura
quello che non era che un vero di costume»; cosa accadrebbe se i
moderni volessero «ritrarre dal vero i nostri piedi signorili con le lor
dita schifosamente ammonticchiate dalle ridicole scarpe»? Ma l’artista,
sosteneva Alfieri – e Canova avrebbe sottoscritto l’asserto –, non
deve né imitare passivamente gli stessi antichi, né riprodurre gli «accidenti
passeggieri occasionati dalle vestiture»; suo compito preminente
è «servire alla schietta natura». Il richiamo alle forme ideali di una
natura anteriore al «costume», e pertanto più “vera”, collega il Nostro
a un principio essenziale del Classicismo e del Neoclassicismo, le cui
fonti originarie sono in alcuni passi dei Mirabilia (III, x, 2) di Senofonte,
del De inventione (II, i, 3) e dell’Orator (7-10) di Cicerone, e della Naturalis
historia (XXXV, 36) di Plinio il Vecchio. Al nuovo pindarismo neoclassico,
diverso da quello secentesco e arcadico, è collegabile la sua
ellenizzante e macchinosa Teleutodìa. E rare immagini riconducibili al
[ 4 ] [ 5 ]
258 arnaldo di benedetto alfieri neoclassico 259
perfetto verso martelliano incapsulato nella prosa inventiva dell’autobiografia:
le epiche selve immense della Svezia scoscesa.
Né manca, fra le Rime, qualche scorcio alpino, in sintonia con l’apprezzamento
di quel paesaggio iniziato col poemetto Die Alpen dello scienziato
e poeta bernese Albrecht von Haller, e poi col Rousseau della
lettera XXIII della prima parte della Nouvelle Héloïse, e confermato dalla
rinnovata poetica del sublime:
[…] questi orridi massi, e queste nere
selve, e i lor cupi abissi, e le sonanti
acque or mi fan con più sapor dolere.
(son. Là dove muta).
O un angolo selvoso dei Vosgi:
Fra queste antiche oscure selve mute,
che fan del monte il dorso irsuto e negro,
là donde il pian traspar culto ed allegro,
alte dolcezze io spesso ho in me godute
(son. Fra queste antiche).
Neoclassico è l’uso “civile” che Alfieri fece dell’antichità. Anche le
dediche delle sue opere segnano uno stacco netto da usi barocchi sopravviventi,
sia pure in forme meno ridondanti, nel Settecento; e ben se
ne avvide il giovane Manzoni, come risulta da una sua lettera del 1806.
Dediche, quelle d’Alfieri, rivolte non ai potenti per ottenerne la protezione,
ma a persone care (Francesco Gori Gandellini, «amico del cuore»
e «cittadino sanese»; Luisa Stolberg; Monica Maillard di Tournon,
esempio di affetto e dolore materni; l’abate di Caluso), a eroi della libertà
quali Pasquale Paoli e Washington, o, con intento profetico, a entità
astratte quali il «popolo italiano futuro» e la Libertà, o, per maliziosa
ironia, ai «principi, che non proteggono le lettere», o per contro ai «pochi
letterati, che non si lasciano proteggere» e alle «ombre degli antichi
liberi scrittori», o persino all’ombra di Carlo I d’Inghilterra (al quale già
non aveva negato la sua pietà Voltaire), vittima illustre d’un ambizioso
e spietato tiranno quale fu Cromwell secondo il Nostro.
Una sua sostanziale affinità col gusto neoclassico può essere indicata
nella ricerca d’uno stile brachilogico, e nella semplificazione a cui
egli sottopose le convenzioni del teatro tragico: quella semplificazione
Ai “sublimi” paesaggi ossianici («Neogotico» complementare al «Neoclassico
») esplicitamente rinvia l’evocazione di quello svedese:
Verso la fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo
del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto
ch’ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un
ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi, a
segno che non potendo più proseguire colle ruote, fui costretto di
smontare il legno e adattarlo come ivi s’usa sopra due slitte; e così arrivai
a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa
natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano;
e benché non avessi mai letto l’Ossian, molte di quelle sue imagini
mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte
allorché più anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi
del celebre Cesarotti.
Paesaggio estremo e a suo modo vitalissimo, il quale sembra coinvolgere
lo spettatore in quella che Bernard Berenson avrebbe chiamato
appunto un’«esperienza d’intensificazione vitale»:
Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone,
e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di aprile; ed allora in soli
quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d’ogni
qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l’orizzonte, e
l’efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse
in dieci strati l’una su l’altra, compariva la fresca verdura; spettacolo
veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo
far versi.
E andrebbe riletto il racconto della navigazione in barca nell’«orrido
mare» fra i tavoloni galleggianti di ghiaccio, dove il pericolo, lungi dal
tradursi in terrore paralizzante, esalta anch’esso la vitalità, singolare
variante del delightful horror su cui tanto si scrisse nel secondo Settecento.
E la chiusa è una delle più belle e personali formulazioni del
Settecento italiano d’esperienza del «sublime»; qui abbiamo ben più
che un’astratta categoria:
Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi
siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche,
ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna
in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.
E poco oltre, narrando del suo viaggio dalla Russia alla Prussia orientale,
Alfieri torna ancora, con l’immaginazione, a quel paesaggio in un
[ 6 ] [ 7 ]
260 arnaldo di benedetto alfieri neoclassico 261
furono però formulate critiche negative ben più radicali di quella di
Stendhal. A quest’ultimo Prosper Mérimée rimproverò proprio la predilezione
per Canova, artista che «a travaillé pour les gens de lettres»
– e un errore dell’amico, secondo Mérimée, era appunto quello di valutare
le arti visive «au point de vue littéraire» (H.B. [1850], titolo trasparentemente
allusivo al vero nome di Stendhal). Giudizi sprezzanti
su Canova espresse Jean-Auguste-Dominique Ingres. Erano gli inizi
di quella svalutazione protrattasi fin oltre la metà del Novecento, e
che, ad esempio, aveva già fatto dire all’intelligente contessa polacca
Anna Potocka (1779-1867), prendendo spunto proprio dal monumento
funebre d’Alfieri, che lo scultore di Possagno «manquait de génie et
n’avait que du talent», e condusse negli anni Quaranta del XX secolo
alle spietate liquidazioni di Cesare Brandi («la scultura del Canova
traduce il marmo in cemento») e di Roberto Longhi («lo scultore nato
morto»). Lo storico Marino Ciravegna, da parte sua, negli anni Trenta
aveva scritto del sepolcro d’Alfieri che esso era «l’opera del Canova
meno equilibrata e meno armoniosa». Da parte sua, Canova scrisse il
17 dicembre 1807 al critico Antoine Chrysostome Quatremère de
Quincy di volersi attenere, elaborando il monumento, a «uno stile grave
e maestoso», corrispondente «alla fierezza della penna di questo
sommo poeta».
★ ★ ★
Infine: non lontana da quella d’Alfieri è, nella stessa chiesa, la tomba
monumentale di Giovan Battista Niccolini (1782-1861), il drammaturgo
toscano poco tenero con lui, e un tempo ritenuto il suo erede o a
lui contrapposto. Alcuni elementi di quest’ultima chiaramente riprendono
dettagli dell’opera di Canova1. Mi chiedo se chi la ideò, cioè Pio
1 Questa la bibliografia utile: A. Potocka, Voyage d’Italie (1826-1827), publié
par C. Stryienski, Paris, Plon, 1899; L.G. Pélissier, Canova, la comtesse d’Albany et
le tombeau d’Alfieri, «Nuovo archivio veneto», n.s., III (1902), pp. 147-188; 394-427, e
IV (1902), pp. 214-245; Id., Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne
(1797-1820), tomo I (Lettres à Teresa Regoli Mocenni et au chanoine Luti [1797-1802]),
Paris, Fontemoing, 1904; Dalla casa del poeta, Asti, Centro Nazionale di Studi Alfieriani,
1939; La storia dell’arte raccontata da E.H. Gombrich, Torino, Einaudi, 1966; V.
Alfieri, Saul e Filippo, introduzione e note di V. Branca, Milano, Rizzoli, 1980; H.
Honour, Neoclassicismo, Torino, Einaudi, 1980; R. Longhi, Viatico per cinque secoli
di pittura veneziana, Firenze, Sansoni, 1985; V. Alfieri, Epistolario, a cura di L. Caretti,
vol. III, Asti, Casa d’Alfieri, 1989; C.M.S. Johns, Antonio Canova and the Politics
of Patronage in Revolutionary and Napoleonic Europe, Berkeley, Los Angeles, Lone
austerità, quella «semplicità […] nuda» (per usare parole del suo
Parere su le presenti tragedie), che hanno fatto parlare della sua come di
un’arte «dorica» (Théophile Gautier), e di lui come d’un «reiner Konturist
», “un puro linearista” (Egon Friedell): quasi un Flaxman o un
Ingres letterario (Ingres, ou le dessin contre la couleur è il titolo d’un saggio
di Alain, il grande filosofo francese). I suoi stessi personaggi hanno,
nei momenti migliori, qualcosa di primitivo e elementare nella
loro unilaterale e indomita passionalità. Pur nella sua evidente originalità,
Alfieri si colloca sulla linea dei non meno originali Parini e Foscolo.
★ ★ ★
Circa il monumento funebre eretto in Santa Croce – secondo le parole
d’una lettera di Leopoldo Cicognara a Canova – dal «Lisippo di
questo secolo» (lo stesso Canova) al «Soffocle italiano» (Alfieri), dove
«lo scalpello d’uno scultore immortalò il nome d’un altrettanto illustre
poeta» (così scrisse a sua volta l’attore e drammaturgo polacco Wojciech
Boguslawski [1757-1829], traduttore – dal francese – e interprete
del Saul), esso fu meta, soprattutto nella prima metà del XIX secolo, di
viaggiatori italiani e stranieri ammiratori d’Alfieri e/o di Canova, e
desiderosi di conoscere il “pantheon” fiorentino quale era diventata la
chiesa che lo ospita («Una Westminster Abbey italiana» Byron definì
Santa Croce in una lettera del 1817). Non intendo fornire qui un elenco
dei più illustri di quei viaggiatori (fra i non illustri vi fu l’infelice figlio
di Goethe, August). Valga per tutti il nome di Stendhal, il quale vide la
tomba nel 1811, e nel Journal criticò la figura dell’Italia piangente, trovando
però, nonostante tutto, complessivamente bella la tomba e addirittura
sublime la base. Più severo fu Byron nella citata lettera del
1817: il monumento gli parve pesante; manca ogni riferimento alla
tomba di Alfieri nel IV canto del suo Childe Harold’s Pilgrimage, dove
pure si menzionano Santa Croce e i quattro grandi lì sepolti (Machiavelli,
Michelangelo, Galilei, Alfieri), e si enuncia un sintetico elogio di
Canova. Merita ricordare che tre sonetti Sulla tomba di Vittorio Alfieri in
S. Croce a Firenze, un’Ode sulla tomba di Vittorio Alfieri e un epigramma
sullo stesso soggetto composero rispettivamente Tommaso Valperga
di Caluso, Alessandro Poerio e August von Platen-Hallermünde. E
con la solenne descrizione della «magnifica» tomba scolpita da Canova
la scrittrice tedesca Amely Bölte chiuse il romanzo storico Vittorio
Alfieri und seine vierte Liebe, oder Turin und Florenz (1862).
Col declino dell’apprezzamento dell’arte neoclassica e di Canova,
[ 8 ] [ 9 ]
262 arnaldo di benedetto
Fedi (1883), non volesse però creare una deliberata contrapposizione
tra le due personificazioni femminili, quasi perpetuando l’antagonismo
di Niccolini. Con l’Italia affranta e piangente di Canova, che spiaceva
a Stendhal (ma che fu ricalcata da Hayez in una figura del Pietro
Rossi, salutato nel 1820 come il manifesto della pittura romantica in
Italia), sembra infatti formare contrasto la figura della Civiltà trionfante
che ostenta, alzando il braccio destro, la catena spezzata. La figura
ha qualche somiglianza con la celeberrima statua della baia di New
York. Ma l’osservanza di schemi ripetitivi è caratteristica frequente
degli scultori di monumenti pubblici.
Arnaldo Di Benedetto
(Università di Torino)
don, University of California Press, 1998; Alfieri in Toscana, a cura di G. Tellini e R.
Turchi, vol. II, Firenze, Olschki, 2002; J.A.D. Ingres, Pensieri sull’arte, a cura di E.
Pontiggia, Milano, Abscondita, 2003; A. Pinelli, Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento,
Roma, Carocci, 2005; Id., Primitivismi nell’arte dell’Ottocento, Roma, Carocci,
2005; Il carteggio Canova-Quatremère de Quincy 1782-1822 nell’edizione di Francesco
Paolo Luisio, a cura di G. Pavanello, Ponzano, Vianello, 2005; H. Honour, Il romanticismo,
Torino, Einaudi, 2007; Paesaggi europei del Neoclassicisno, a cura di G.
Cantarutti, S. Ferrari, Bologna, Il Mulino, 2007; L. Pellicer, M. Hilaire,
François-Xavier Fabre (1766-1937) da Firenze a Montpellier, Parigi, Somogy éditions
d’art, 2008; A. Di Benedetto, Con e intorno a Vittorio Alfieri, Firenze, Società Editrice
Fiorentina, 2013; A. Fabrizi, Rileggere Alfieri, Roma, Aracne, 2014; S. Insero,
«Signore grande, ma testa singolare»: Alfieri nel carteggio Paciaudi-Bodoni, «La parola
del testo», XIX (2015), pp. 83-101; di L. Pellicer si può vedere anche il documentatissimo
romanzo Le silence d’Ephestion. Mémoires de François-Xavier Fabre,
Montpellier, Éditions Chabot du Lez, 2014.
[ 10 ]
Sara Pasquet
La tirannide riesce sempre la stessa.
Alfieri e La Boétie
Il saggio prende in esame l’influenza che il Discorso sulla servitù volontaria di La
Boétie ha avuto sul pensiero politico di Alfieri. La prima parte dello studio affronta
l’argomento da un punto di vista storico: si riassumono le vicende che
riguardano la stampa e la diffusione del Discorso in Francia fino alla fine del
XVIII secolo e si ricostruisce la cronologia dei rapporti che Alfieri ha avuto con
l’opera dello scrittore francese. La seconda sezione, più corposa, presenta un
approccio letterario alla questione, con il confronto tra i singoli passi delle due
“tragedie di libertà” e del trattato Della tirannide e diverse parti del Discorso.

This essay looks at the influence of the Discours de la servitude volontaire by La
Boétie on Alfieri’s political thinking. The first part tackles the issue from a historical
standpoint, summarizing the events regarding the printing and circulation
of the Discours in France up until the end of the Eighteenth century and
reconstructing the chronology of the ties linking Alfieri to the French writer’s
work. The second and longer section presents a literary approach to the question,
comparing individual passages of the two “freedom tragedies” and the
treatise Della tirannide with various parts of the Discours.
Già nel 1919 Luigi Negri, parlando dei rapporti tra Machiavelli e
Étienne de La Boétie, incidentalmente scriveva: «mentre la Tirannide è
già stata raffrontata cogli scritti politici del Savonarola […], non ci risulta
che sia mai stata paragonata colla Servitù volontaria»1. Il suggerimento
non è stato raccolto dalla critica alfieriana, anche se Angelo
Fabrizi, nel 1993, si è mostrato convinto di un rapporto non episodico
tra i due testi: «speciale interesse dovettero offrire all’Alfieri le pagine
388-464 del tomo nono dell’edizione degli Essais da lui posseduta. Vi
poteva leggere infatti il celebre Discours d’Estienne De La Boetie, De La
1 Cfr M. L. Negri, Un preteso Anti-machiavello francese della Rinascita. Stefano La
Boétie e Nicolò Machiavelli, «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino»,
LIV (1919), pp. 779-780.
264 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 265
care alcune traduzioni e poesie di La Boétie insieme agli scritti che
l’amico gli aveva affidato poco prima della morte precoce. Il fatto è
curioso, perché Montaigne aveva dichiarato di voler lasciare al Discorso
un posto d’onore nell’edizione dei suoi Essais5.
Nel frattempo, però, il testo è diffuso in forma anonima e utilizzato
da alcuni ugonotti come supporto alla loro polemica contro la monarchia
francese6 e nel 1579 l’opera viene bruciata, insieme ad altri libri
ritenuti sovversivi. A dispetto di ciò, l’operetta continua ad essere
pubblicata, in forma anonima e clandestina7, fino alla Rivoluzione
francese, momento in cui il Discorso sopra la servitù volontaria conosce
mentanée est à peine, pour La Boétie, occasion, prétexte: rien chez lui du pamphlétaire,
du publiciste, du militant».
5 Per approfondire questi motivi, cfr L. Geninazzi, Introduzione, a É. De La
Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Milano, Jaca Book, 1979, pp. 1-16; N. Panichi,
Plutarchus redivivus? La Boétie e i suoi interpreti, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
2008; P. Zanardi, Liberi pensatori e inganni politici: da La Boétie a Toland, «I
castelli di Yale-online», I (2013), n. 1, pp. 47-58.
6 Gli ugonotti avevano inserito alcune parti del Discorso nel trattato Le Reveillematin
des François et des leurs voisins, pubblicato dal medico ugonotto Nicolas Barnaud
con lo pseudonimo di Eusèbe Philadelphe Cosmopolite, nel 1574. Dopo due
anni il testo completo è pubblicato con il titolo di Contr’un nei Mesmoires des Estats
de France sous Charles le Neuviesme, una raccolta di scritti antimonarchici curati dal
calvinista ginevrino Simon Goulart (1543-1628).
Il testo si inserisce perfettamente nel quadro della letteratura militante che caratterizza
la resistenza protestante dei cosiddetti “monarcomachi”: tra gli altri,
François Hotman con il suo Franco-Gallia (1573), Teodoro di Beza, con De haereticis
a civili magistratu puniendis (1554) e Junius Brutus, autore del Vindiciae contra Tyrannos
(1579).
7 Nel 1655 a Parigi viene pubblicata anonima la Conjuration du comte Jean-Louis
de Fiesque, redatta nel 1633 da Jean François Paul de Gondi, cardinale di Retz, che
contiene frammenti della Servitude volontaire, testo a quel tempo ancora clandestino,
raro e ricercato dai bibliofili. In tal proposito, curioso è l’aneddoto riportato da
Gédéon Tallement de Réaux nelle Historiettes, nel quale si racconta che Richelieu
per averne una copia deve pagare «cinq pistolles». Cfr G. Tallemant de Réaux,
Historiettes, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 1960, I, pp. 270-271: «Quelqu’un luy
ayant parlé de la Servitude volontaire d’Éstienne de La Boétie, c’est un des Traittés
de ces Mémoires […]; il eut envie de voir cette piece: il envoye un de ses gentilshommes
pour toute la rue de Saint-Jacques demander la Servitude volontaire.
Les libraires disoient tous: “Nous ne sçavons ce que c’est”. Ils se ne ressouvenoient
point que cela estoit dans le Memoires de Charles IXe. Enfin le filz de Blaise, un libraire
assez celebre, s’en ressouvint et le dit à son père; et quand le Gentilhomme
repassa: “Monsieur”, luy dit-il, “il y a un curieux qui a ce que vous cherchez, mais
sans estre relié, et il en veut avoir cinq pistolles.
– N’importe!” dit le Gentilhomme. Le galant sort par la porte de derriere et
revient avec les cahiers qu’il avoit descousus, et eut les cinq pistolles».
Servitude Volontaire ou Le Contr’Un, letteraria ma vivida e brillante professione
di antitirannismo. Un rapporto non generico si può stabilire
tra questa operetta del grande amico di Montaigne e il primo trattato
politico alfieriano, Della tirannide»2.
Il giovane La Boétie3 scrisse il suo capolavoro, Discorso sulla servitù
volontaria, in seguito alla rivolta della Guyenne nel 15474; l’opera rimase
inedita, anche quando Michel de Montaigne, nel 1571, fece pubbli-
2 A. Fabrizi, Montaigne, in Le scintille del vulcano. (Ricerche sull’Alfieri), Modena,
Mucchi, 1993, p. 189.
3 La Boétie nacque il 1 novembre del 1530 a Sarlat e, sin dalla giovane età, si
dedicò alla traduzione e alla stesura di opere di ispirazione classica, nonché alla
composizione di versi in latino e in francese ispirati a Ronsard (cfr R. Morçay-A.
Müller, Histoire de la littérature française. La Reinassance, Parigi, del Duca, 1960, pp.
278-279). Il suo primo saggio, infatti, ebbe come oggetto un frammento di Aristotele,
ma l’opera rimase incompiuta. Invece, ispirato a Plutarco è il trattato Règles de
mariage, che presenta, in forma di raccomandazione ad una giovane coppia di sposi,
i doveri nati dal matrimonio e i consigli per mantenere viva l’unione coniugale.
Intraprese, inoltre, la carriera politica, entrando a far parte, nel 1552, del parlamento
di Bordeaux, e nel 1557 della Cour des Aides del Perigueux: qui il giovane di
Sarlat fu collega di Montaigne e tra i due nacque l’amicizia a cui è dedicato il capitolo
XXVIII (intitolato, appunto, De l’amitié) del primo libro degli Essais. La Boétie
scrisse anche di politica, non solo nel Discorso sulla servitù volontaria, ma anche nei
Mémoires, in cui tratta con stile energico dell’editto che il 3 gennaio 1562 aveva
concesso ai calvinisti libertà di culto. Morì giovane, con l’amico Montaigne vicino
al capezzale, il 18 agosto 1563 a Germignat près Bordeaux. Montaigne racconta la
morte dell’amico nella lettera che invia al padre: «Ma dopo un’ora o così, nominandomi
una o due volte, e tirando con tutta forza il fiato a sé, spirò circa alle tre
di mattina, mercoledì 18 di agosto del 1563, dopo aver vissuto 32 anni, 9 mesi e 17
giorni» (M. de Montaigne, Lettera a suo padre, in S. de La Boëtie, Il Contr’Uno,
traduzione di P. Fanfani, Firenze, Le Monnier, 1945, p. 157); cfr Lettre V, in É. de La
Boétie, De la servitude volontaire ou Le contr’un, préface par A. Vermorel, Parigi,
presso Bureaux de la publication, 1866, pp. 138-139.
Per la biografia di La Boétie cfr almeno P. Flores d’Arcais, Perché oggi, in É. de
La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Milano, Chiarelettere, 2011, pp. VIII-X;
É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, traduzione di G. Pintorno, Milano,
La Vita Felice, 2012, pp. 5-6; P. Flores d’Arcais, Dalla servitù volontaria all’illuminismo
di massa, «MicroMega», giugno 2011, pp. 215-216; F. Hincker, La letteratura
politica nel XVI secolo, diretta da P. Abraham-R. Desné, Garzanti, 1985., pp. 395-
397; J. Coppin, La Boétie, in Dictionnaire des lettres françaises. Le seizième siècle, a cura
di G. Grente, Parigi, Fayard, 1951, pp. 408-409; Boétie (Étienne de La), in P. Larousse,
Grand Dictionnaire Universel du XIX siècle, Paris, presso Administration du
Grand Dictionnaire Universel, 1866-1877, vol. II, pp. 858-859.
4 Anche se, secondo l’opinione di qualcuno, l’opera di La Boétie troverebbe
nella storia contemporanea soltanto il pretesto per la composizione dell’opera. Cfr
in proposito P. Clastres, Liberté, malencontre, innomable, in É. de La Boétie, Le Discours
de la servitude volontaire, Paris, Payot, 1978, p. 229: «L’histoire locale et mo-
[ 2 ] [ 3 ]
266 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 267
lettera del 22 maggio 1798 indirizzata dalla contessa d’Albany a Teresa
Regoli Mocenni ed all’arciprete Luti, è contenuto un accenno a La
Boétie13, a ulteriore dimostrazione che l’opera dello scrittore di Sarlat
era presente e nota negli ambienti vicini ad Alfieri.
Non ci sono prove dirette della lettura da parte di Alfieri dell’opera
di La Boétie: ma non solo le affinità concettuali, che potrebbero essere
casuali o essere spiegate attraverso il ricorso ad altre fonti, bensì anche
le riprese puntuali, quasi letterali, tra il Discorso da una parte e il trattato
Della tirannide e le altre opere coeve dall’altra14, sono imponenti.
Così, nella dedica Alla Libertà, Alfieri cerca di muovere il lettore allo
sdegno, all’azione15, scrivendo: «io, che per nessun’altra cagione scriveva,
se non perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare» (Della Tirannide
I, Alla Libertà); e ancora, altrove nel trattato: «Oh quanto più volentieri,
nato io in altri tempi e governi, m’ingegnerei di dar (non coi
detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero!» (Della Tirannide II,
3, 2). E lo stesso La Boétie, di contro a un’unità originaria perduta,
configura una unità politica, sociale e morale da conquistare in futuro.
Questo progetto è affidato in un primo momento agli intellettuali16
(militanti, descritti come in un campo di battaglia, che si battono per
la libertà contro la tirannide), che sono gli unici in grado di mantenere
«devant leurs yeux le bonheur de leur vie passee» e, al contempo,
«l’attente de pareil ayse à l’advenir»17.
Anche La Boétie spinge il lettore all’azione, incitandolo a non collaborare
più con il tiranno; l’autore di Sarlat esorta ad una specie di
non-azione per ottenere lo sgretolamento del potere tirannico: «Soyez
resolus de ne servir plus, et vous voilà libres. Je ne veux pas que vous
le poulsiez ny le bransliez mais seulement ne le soustenez plus»18. Co-
13 Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne (1797-1820), a cura
di L. G. Pélisser, Parigi, presso Albert Fontemoing, 1904, I, p. 83.
14 Sullo stretto legame e sulle affinità che uniscono gli scritti degli anni 1777-79,
si veda V. Boggione, Il tempo della Tirannide, Milano, FrancoAngeli, 2012.
15 Cfr E. Donadoni, Scritti e discorsi letterari, Firenze, Sansoni, 1921, pp. 162-
163: «Ma nell’Alfieri il lievito rivoluzionario non supera la forma primitiva del
sentimento. Nella sua corsa vertiginosa egli poco osserva e poco studia: molto
soffre, moltissimo sente […]. Sente, e non ragiona […]. Non solo le opere poetiche,
ma anche i trattati, come quello Della Tirannide, sono da lui concepiti e abbozzati in
pochi momenti di furore […]. Scrive con la febbre tra le convulsioni».
16 Cfr N. Panichi, Plutarchus redivivus?, cit., p. 102.
17 É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, in Oeuvres complètes d’Estienne
de La Boëtie, a cura di L. Feugère, Paris, presso Jules Delalain, 1846, pp. 16-
17.
18 Ivi, p. 24.
un significativo successo8: Marat stesso, quando nel 1792 pubblica
l’edizione francese del suo trattato The chains of Slavery, vi introduce
diversi passi tratti da La Boétie9.
Ciò che per noi è più interessante, però, è che nel 1727, a La Haye,
presso Gosse & Néaulme, Pierre Coste pubblica per la prima volta con
il nome dell’autore la Servitude volontaire in appendice al quinto tomo
degli Essais, ponendo in questo modo fine alla clandestinità dell’opera
e riunendo idealmente i due amici-filosofi. L’edizione Coste viene ristampata
più volte, contribuendo così alla diffusione europea del Discorso
(nel 1735 questo viene tradotto in Inghilterra col titolo di A Discourse
of Volontary Servitude: un esemplare di quella edizione è oggi
conservato al British Museum). Tuttavia, in queste stampe, il testo
viene considerato alla stregua di una parure dei Saggi di Montaigne.
Nel 1768, passando a Ginevra, Vittorio Alfieri acquista «un pieno
baule di libri» (Vita, III, 7, 1)10, tra i quali vi sono anche i Saggi di Montaigne
«divisi in dieci tometti». I tomi di cui Alfieri scrive altro non
sono che l’edizione di Pierre Coste stampata a Parigi con la falsa data
di Londra11. Così, probabilmente in modo casuale, Alfieri, odiatore
della tirannide per «predisposizione psicologica»12, entra in contatto
con la Servitù volontaria. Inoltre, è interessante segnalare che in una
8 L’opera viene pubblicata in appendice ad un testo anonimo del 1789, il Discours
de Marius, plébéien et consul, traduit en prose et en vers françois du latin de Salluste.
Suivi du Discours d’Etienne de La Boétie, ami de Montaigne et Conseiller au Parlement
de Bordeaux, sur la Servitude volontaire, traduit du françois de son temps en françois
d’aujourd’hui, par l’Ingénu, laddove “Ingénu” indica l’avvocato Laffitte. Nel 1791
diversi passaggi del Discours vengono inseriti ne L’ami de la Révolution ou Philippiques
dediées aux représentants de la Nation, aux gardes nationales et à tous les Français,
con il titolo di Supplément à la VIIIe Philippique.
9 In Italia, invece, il Discorso viene tradotto per la prima volta da Cesare Paribelli
nel 1799, dunque dopo l’avvenuta pubblicazione del trattato Della Tirannide.
10 La Vita è citata dall’edizione a cura di A. Di Benedetto, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1977 (il primo numero indica l’epoca, il secondo il capitolo, il terzo il
paragrafo); il Della Tirannide è citato dagli Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani,
Asti, Casa d’Alfieri, 1951 (il primo numero indica il libro, il secondo il capitolo
e il terzo il paragrafo); la Congiura de’ Pazzi è citata dall’edizione a cura di L. Rossi,
Asti, Casa D’Alfieri, 1968 e la Virginia da quella a cura di C. Jannaco, Asti, Casa
d’Alfieri, 1955. Per entrambe, il primo numero indica l’atto, il secondo la scena e il
terzo il verso a cui si fa riferimento.
11 Cfr M. L. Negri, Un preteso Anti-machiavello francese della Rinascita. Stefano La
Boétie e Nicolò Machiavelli, cit., pp. 779-780; V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile,
Firenze, Le Monnier, 1948, p. 43; P. Pancrazi, Introduzione a S. de La Boëtie, Il
Contr’Uno, Firenze, Le Monnier, 1945, pp. 9-42.
12 E. Bertana, Vittorio Alfieri, Torino, Loescher, 1902, p. 282.
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268 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 269
ranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi egli stesso
questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo
non chiederà ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi»
(Della Tirannide I, 7, 10). E nella Congiura: «Al giogo / Han fatto il callo:
il natural lor diritto / Posto in oblio, non san d’esser fra ceppi» (III, 1,
97-99). In modo simile, in La Boétie si può leggere: «Ainsi la premiere
raison de la servitude volontaire, c’est la coustume»; «Mais certes la
coustume, qui a en toutes choses grand pouvoir sur nous, n’a en aucun
endroict si grande vertu qu’en cecy, de nous enseigner à servir»22. E
quella «volontà» che ha grande potere sull’uomo, quel «veramente
volendolo» alfieriano, non possono non rimandare al «soyez resolus»
di La Boétie, così come nell’espressione «han fatto il callo» riecheggia
la «coustume», l’abitudine a servire, di cui scrive l’autore cinquecentesco.
Ecco che il mistero della servitù volontaria è ora parzialmente
svelato: il potere non esiste in sé, non ha un’essenza sua propria. In
questo senso, la categoria della complicità può essere considerata una
delle possibili chiavi della servitù volontaria23.
La tirannide, per Alfieri, oltre alla limitazione della libertà, ha altri
effetti negativi sull’uomo, che in condizioni normali vuole il bene delle
persone care: in un clima tirannico si genera il pervertimento del
sentimento naturale, l’uomo pensa soltanto a se stesso, vede che la sua
vita è continuamente messa in pericolo e diventa egoista, finisce per
«amare smoderatamente se stesso» (Della Tirannide I, 15, 1). Questa
situazione degenera in una condizione di «amor della vita animale»,
l’uomo diventa una bestia asservita che ricerca unicamente la propria
sopravvivenza a qualsiasi costo. La Boétie, prima di lui, fa riferimento
a «ceste ruse des tyrans, d’abestir leur subjects»24 e assegna all’uomo il
compito di riconoscere quali sono i propri diritti con lo scopo di «de
beste revenir à homme»25. Un’altra immagine utilizzata da La Boétie, e
ripresa da Alfieri, per descrivere la tirannide è quella della «piaga insanabile
»: «Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno,
che di ministro, altro non è ad un popolo infelicemente servo, che come
il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga insanabile,
che ne rinnova il fetore e gli spasimi» (Della Tirannide I, 6, 7). In La
Boétie troviamo: «Mais certes les medecins conseillent bien de ne met-
22 Ivi, pp. 42, 34.
Il termine coustume ricorre spesso nel Discorso, anche nelle sue forme derivate
(cfr ad esempio ivi, pp. 56, 61).
23 Cfr N. Panichi, Plutarchus redivivus?, cit., p. 103.
24 É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p. 50.
25 Ivi, p. 19.
sì nel trattato di Alfieri possiamo leggere: «Ma il popolo ha pur sempre,
non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi
egli stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente
volendolo non chiederà ad altrui ciò che sta soltanto in sua mano
di prendersi» (Della Tirannide I, 7, 10). La Boétie afferma che è responsabilità
degli uomini stessi l’abbandonarsi nelle mani di tiranni, e
in questo caso nel trattato di Alfieri il rimando all’autore di Sarlat è
quasi letterale. Si confrontino i due passi in questione: «Pour ce coup,
je ne voudrois sinon entendre, s’il est possible et comme il se peut faire
que tant d’hommes, tant de bourgs, tant de villes, tant de nations endurent
quelquesfois un tyran seul, qui n’a puissance que celle qu’on lui
donne» 19, e: «La volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene sola la
tirannide; la volontà e l’opinione di tutti o dei più può sola veramente
distruggerla» (Della Tirannide II, 7, 1). In più, nella Congiura de’ Pazzi si
legge: «Ti sei tu fatto / Schiavo or così, che del mediceo giogo / Non
senti il peso, e i gravi oltraggi, e il danno?» (I, 1, 2-4). Il problema del
popolo è di non sentire la tirannide20, eppure, nonostante questo, Alfieri
ritiene che «i popoli nostri si debbano assai più compiangere che
non odiare o sprezzare; essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza,
complici senza saperlo del delitto di servire, di cui ben ampia già e
terribile ne van sopportando la pena» (Della Tirannide II, 6, 3). Anche
questa affermazione richiama il Discorso di La Boétie, che due secoli
prima – introducendo lo stesso binomio mespris et desdaing – scrive:
«Mais si cent, si mille endurent d’un seul, ne dira lon pas qu’ils ne
veulent point, qu’ils n’osent pas se prendre à luy, et que c’est non
coüardise, mais plus tost mespris et desdaing?»21. Lo scrittore astigiano
aggiunge che la tirannide esiste perché il popolo ha delegato quel potere
al tiranno, rinunciando ad esercitarlo: chi può eliminare la tirannide
è soltanto il popolo, i più. Inizialmente Alfieri aveva insistito sul
ruolo del singolo individuo (di necessità nobile), l’eroe di libertà; ma
nel settimo capitolo del secondo libro afferma che l’atto eroico tirannicida
è inutile: il vero nodo centrale è che il popolo è abituato a subire
passivamente la tirannide, e soltanto il popolo può rovesciarla: «La
volontà o la opinione dei tutti e dei più, mantiene sola la tirannide: la
volontà e l’opinione dei tutti o dei più, può sola veramente distruggerla
» (Della Tirannide II, 7, 1); «Ma il popolo ha pur sempre, non la spe-
19 Ivi, pp. 9-10. Questo e i seguenti corsivi sono miei.
20 Cfr V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., p. 96: «Quel popolo che non sente
la propria servitù».
21 É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p. 15.
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270 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 271
masquoient»29, si mascheravano per apparire in pubblico. Lo scrittore
di Sarlat continua dicendo che, invece, i re dell’Assiria e della Media
apparivano in pubblico il più raramente possibile per far credere al
popolo che ci fosse qualcosa di sovrumano in loro: «Les rois d’Assyrie,
et encores apres eux ceux de Mede, ne se presentoient en public que le
plus tard qu’ils pouvoient, pour mettre en doubte ces populas, s’ils estoient
en quelque chose plus qu’hommes»30; allo stesso modo Alfieri si
ritroverà a scrivere: «Mostransi di rado al pubblico gli orientali tiranni, e
inaccessibili sono in privato […]. Difficilissimo è l’accostarsi ai tiranni
d’oriente» (Della Tirannide I, 12, 6-7).
Uno degli ultimi argomenti affrontati in entrambe le opere è relativo
alla vita in uno stato tirannico. Alfieri dedica i primi tre capitoli
(escludendo l’introduzione) del secondo libro al tema, e lo fa spiegando
In qual modo si possa vegetare nella tirannide, Come si possa vivere nella
tirannide e Come si debba morire nella tirannide. Quanto ai primi due titoli,
entrambi sono introdotti da vere e proprie proposizioni modali,
mentre il terzo è un “come” dichiarativo e sta ad indicare che si deve, è
necessario, morire nella tirannide. La Boétie presenta un discorso molto
simile, che ricorda anche la battuta rivolta a Guglielmo da Raimondo
nella Congiura («Ogni tuo giorno / tu vivi a caso; e tu non opri a caso?
/ Che sei? Che siamo?» (III, 2, 193-195)), anche se meno articolato rispetto
a quello alfieriano (anzi, quello di Alfieri sembrerebbe proprio lo
sviluppo del pensiero, più sintetico e condensato, dell’autore francese):
Cela est ce vivre heureusement? Cela s’appelle il vivre? Est il au monde
rien si insupportable que cela, je ne dis pas à un homme bien nay, mais
seulement à un qui ait le sens commun, ou, sans plus, la face d’un
homme? Quelle condition est plus miserable que de vivre ainsi qu’on n’ait
rien à soy, tenant d’autruy son ayse, sa liberté, son corps et sa vie?31
Vivere significa mantenere la condizione di uomini, e l’unica soluzione
possibile per questi uomini, che La Boétie definisce «mieux nais
que les autres, qui sentent le poids du joug et ne peuvent tenir de le crouler;
qui ne s’apprivoisent jamais de la subjection»32, secondo Alfieri
consiste nell’allontanamento dalle cariche pubbliche e nell’isolamento.
È interessante l’immagine del poids du joug, perché ricorre nello
stesso contesto anche in Alfieri, quando prescrive ai «pochissimi […]
29 Ivi, p. 56.
30 Ibidem.
31 Ivi, p. 67.
32 Ivi, p. 43. Cfr ivi, p. 11: «ayans le col sous le joug».
tre pas la main aux playes incurables; et je ne fay pas sagement de vouloir
en cecy conseiller le peuple, qui a perdu, longtemps y a, toute cognoissance,
et du quel, puis qu’il ne sent plus son mal, cela seul monstre
assez que sa maladie est mortelle»26.
Anche l’argomento dell’amore tra tiranno e sudditi, che Alfieri affronta
in due capitoli del primo libro (il 16, Se si possa amare il tiranno,
e da chi e il 17, Se il tiranno possa amare i suoi sudditi, e come), rimanda al
Discorso. Secondo Alfieri, il tiranno non ama nessuno e non può essere
amato da nessuno; egli ha la possibilità di favorire alcune persone, ma
l’unico effetto che si crea è quello di un «misto mostruosissimo affetto
» (Della Tirannide I, 16, 7), una mescolanza di sentimenti tra loro contrastanti.
Da un lato, infatti, gli uomini sanno che il loro benessere dipende
dal tiranno, dall’altro, invece, non possono che essere ingrati
nei confronti del tiranno stesso e desiderarne la sventura, perché sono
consapevoli di come la volontà del tiranno possa cambiare da un momento
all’altro, facendoli cadere in disgrazia. Dunque, il tiranno non
può amare i propri sudditi, perché non c’è parità: «lo amare si è uno
degli umani affetti, che più di tutti richiede, se non perfettissima uguaglianza,
rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui
» (Della Tirannide I, 17, 1). E nel Discorso La Boétie sostiene che
non esista per il tiranno un amore sicuro «par ce qu’estant au dessus
de tous, et n’ayant point de compaignon, il est desjà au delà des bornes
de l’amitié, qui a son gibbier en l’equité, qui ne veut jamais clocher,
ains est tousjours esgale»27.
Quanto al confronto che entrambi gli autori fanno tra le tirannidi
antiche e le moderne, Alfieri sostiene che le antiche fossero più crudeli,
ma proprio per questo meno pericolose: la natura evidente del potere
tirannico faceva sì che il potere stesso fosse meno solido. Ugualmente,
nel testo di La Boétie ritroviamo: «Au contraire, aujourd’huy
ne font pas beaucoup mieux ceux qui ne font mal aucun, mesmes de
consequence, qu’ils ne facent passer devant, quelque joly propos du
bien commun et soulagement public»28: i tiranni dei tempi moderni,
prima di commettere i più efferati delitti, li fanno precedere da bei
discorsi sul bene pubblico e il soccorso agli sventurati. Nelle tirannidi
moderne, i tiranni assumono «una tutt’altra maschera» (Della Tirannide
I, 10, 1). La Boétie aggiunge che i re d’Egitto non si mostravano mai
senza portare sul capo a volte un ramo, a volte del fuoco: «se
26 Ivi, p. 24.
27 Ivi, p. 73.
28 Ivi, p. 55.
[ 8 ] [ 9 ]
272 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 273
Svariate sono anche le idee di carattere più generale che Alfieri potrebbe
aver desunto dalla lettura del Discorso, anche se in questo caso
è difficile dimostrare una relazione certa: tra le altre, ricordo la distinzione
fra le diverse tipologie di tirannidi37; l’argomento della “viltà”,
che è la caratteristica di tutti coloro che vivono sotto un tiranno, compreso
l’eroe di libertà38; la solitudine del tiranno39; l’indicazione delle
vuoto / Cade il colpo tuo primo, è tal Lorenzo, / Da non lasciar, che tu il secondo
vibri» (Congiura de’ Pazzi IV, 6, 324-326).
37 Cfr V. Alfieri: «Ma, tornando io alla tirannide di un solo, dico; che di questa
ve n’ha più di più sorti. Ereditaria può essere, ed anche elettiva» (Della Tirannide I, 2,
4); É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p. 30: «Il y a trois sortes
du tyrans (je parle des meschans princes): les uns ont le royaume par l’election du
peuple, les autres par la force des armes, les autres par la succession de leur race».
La categorizzazione operata da La Boétie ricorda molto quella di Machiavelli,
nel primo capitolo de Il Principe: «E’ principati sono o ereditarii, de’ quali il sangue
del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o sono
nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo
stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna.
Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad
essere liberi; et acquistonsi, o conla armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù»
(I, 1), N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi, 1995, p. 7.
È probabile, dunque, che La Boétie conoscesse Il Principe e che Alfieri in questo
caso abbia tratto spunto da entrambe le opere del XVI secolo. In tal proposito cfr N.
Bianchi Bensimon, Il Principe di Machiavelli nella Francia del XVI secolo, in Il Principe
di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, a cura di A. Campi, Roma, Treccani,
2013, pp. 177-183. In particolare, a pp. 177-178 si legge: «Ad eccezione delle Istorie
fiorentine, la cui prima versione francese sarà pubblicata a Parigi solo nel 1577, tutte
le opere maggiori di Niccolò Machiavelli furono tradotte in Francia tra il 1544 e il
1553. […] Tra il 1546 e il 1571, cioè un anno prima del massacro della Notte di s. Bartolomeo,
nello spazio di solo venticinque anni, si succedettero ben quattro versioni
francesi del Principe». L’autrice prosegue: «Tutti i destinatari delle traduzioni francesi
del Principe nel XVI secolo sono personaggi altolocati gravitanti nelle alte sfere del
potere. Il più noto è senz’altro il connestabile Anne de Montmorency, a cui Jacques
de Vintimille dedicò la prima traduzione francese del Principe conservata in un unico
manoscritto mai dato alle stampe fino a pochi anni fa». E il connestabile Anne de
Montmorency altri non è che l’incaricato mandato dal re per sedare la rivolta della
Guyenne, in seguito alla quale La Boétie scrive il Discorso sulla servitù volontaria.
38 L’unica differenza tra quest’ultimo e i «più» è che «nella tirannide, ancorché
avviliti sian tutti, non per ciò son vili» (Della Tirannide I, 4, 2).
La Boétie in modo simile si interroga: «Appellons nous cela lascheté? Dirons
nous que ceux là qui servent soient coüards et recreus? […] Si l’on voit non pas
cent, non pas mille hommes, mais cent païs, mille villes, un million d’hommes,
n’assalir pas un seul, duquel le mieux traicté de tous en receoit mal d’estre serf et
esclave, comment pourrons nous nommer cela? Est ce lascheté?», É. de La Boétie,
Discours de la Servitude volontaire, cit., pp. 14-15; cfr inoltre ivi, p. 50.
39 Cfr V. Alfieri: «il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti» (Della Tirannide
degni di nascere in libero governo fra uomini» il comportamento da
tenere in una tirannide «allorché l’uomo nella tirannide, mediante il
proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la
mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace
di scuoterlo» (Della Tirannide II, 3, 1): coloro che sono in grado
di sentire il peso del giogo in una tirannide sono anche gli unici degni
di essere chiamati uomini, gli unici che non vivono in condizione di
bestie. Ritroviamo l’immagine del giogo anche in diversi passi delle
“tragedie di libertà”: «Molt’arte vuolsi a impor perfetto il giogo» (Virginia
II, 1, 11); «Il peggior d’ogni morte orribil giogo / Imposto a voi da
voi» (Virginia, II, 3, 252-253); «Per onta nostra, / Tu sol rimani, o padre;
ove dovresti / Più d’ogni altro sentir s’ei pesa il giogo» (Congiura de’
Pazzi III, 2, 174-176); «Ma che? Non odia ei pur l’orribil giogo?» (Congiura
de’ Pazzi III, 1, 32); «al giogo, al pari / D’ogni uom del volgo, ora
la cervice inchini?» (Congiura de’ Pazzi I, 1, 23-24).
Riguardo ai più celebri tirannicidi della storia, agli eroi di libertà,
La Boétie porta come esempi Bruto e Cassio, i quali riuscirono ad abbattere
la servitù morendo nel tentativo di instaurare la libertà, ma al
contempo provocando un grande danno, una sventura perpetua, ovvero
la rovina della repubblica33, che fu sotterrata con loro:
Lon a voulu dire que Brute et Casse, lors qu’ils feirent l’entreprinse de
la delivrance de Rome, ou plus tost de tout le monde, ne voulurent
point que Ciceron, ce grand zelateur du bien public, s’il en fut jamais,
fust de la patrie, et estimerent son coeur trop foible pour un fait si
hault. Ils se fioient bien de sa volonté, mais ils ne s’asseuroient point de
son courage34.
Leggendo di come Bruto e Cassio abbiano escluso Cicerone dalla
congiura perché troppo debole di cuore (benché si fidassero della sua
volontà), viene subito in mente il Salviati della Congiura de’ Pazzi35, che
per debolezza commette un errore nel colpire Lorenzo e non lo uccide.
Questo errore, in realtà, trova un precedente nella tradizione classica,
e il riferimento è proprio all’omicidio di Cesare: nella vita di Cesare di
Plutarco si narra che uno dei congiurati cade per l’agitazione e colpisce
il tiranno soltanto di striscio36.
33 Cfr ivi, pp. 45-46.
34 Ivi, p. 45.
35 C fr anche la figura di Guglielmo, che chiede di partecipare alla congiura,
anche se la «molta etade / Potria tremulo il braccio, il non tremante / Suo cor
smentire» (Congiura de’ Pazzi IV, 6, 278-280).
36 C fr l’ammonimento di Guglielmo a Salviati: «E tu, bada, o Salviati, che se a
[ 10 ] [ 11 ]
274 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 275
Ci sono, poi, coincidenze ancora più generiche che certamente risulta
eccessivo attribuire in esclusiva all’influenza di La Boétie, in
quanto relative a temi o immagini molto diffusi anche in altri autori
letti da Alfieri: il motivo della “religione laica”43 della Libertà; l’idea
che la libertà è uno dei diritti naturali e fondamentali dell’uomo che,
insieme al diritto alla proprietà e a quello alla famiglia, non può essere
messo in discussione44; la ragione naturale45.
monarchia, fondata sull’onore, e la tirannide, fondata sulla paura), ma di evidente
ascendenza classicistica, e risale al proverbiale Oderint dum metuant pronunciato
da Atreo nell’omonima tragedia di Accio, citato da Cicerone e da Seneca, e attribuito
da Svetonio come motto a Caligola (cfr V. Boggione, Il tempo della Tirannide, cit.,
p. 8). Anche il giovane La Boétie, che ha grande familiarità con i classici, non ignora
questo tema e lo inserisce nel Discorso: «En ce traicté il conte la peine en quoy
sont les tyrans qui sont contrains, faisans mal à tous, se craindre de tous» (É. de La
Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., pp. 48-49).
43 C fr V. Alfieri: «Non sono, o divina Libertà, spente affatto in tutti i moderni
cuori le tue cocenti faville» (Della Tirannide I, Alla Libertà). La Boétie non presenta
una opinione così radicale e rivoluzionaria (non dimentichiamo che si tratta pur
sempre di un uomo di fede vissuto nel XVI secolo), però, nel momento in cui descrive
i tentativi di abbattere gli imperatori e le congiure ordite da qualche ambizioso
di corte, si rallegra del fatto che questi congiurati (il cui scopo è soltanto
quello di abbattere il tiranno di turno, e non la tirannide in sé) abbiano dimostrato
con il loro esempio che non si deve invocare il «sainct nom de la liberté pour faire
mauvaise entreprinse» (É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p.
46).
44 Cfr V. Alfieri: «Nati nella servitù, di servi padri, nati anch’essi di servi,
donde oramai, donde potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di libertà primitiva?
Naturale ed innata nell’uomo ella è» (Della Tirannide II, 6, 1); «Al giogo / Han
fatto il callo: il natural lor diritto / Posto in oblio, non san d’esser fra ceppi» (Congiura
de’ Pazzi III, 1, 97-99). Si ritrova questa stessa concezione della libertà come diritto
naturale in La Boétie, il quale vi fa riferimento più volte nel corso del trattato.
Cfr É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., pp. 24-25: «Cerchons
donc par conjecture, si nous en pouvons trouver, comment s’est ainsi si avant enracinee
ceste opiniastre volonté de servir, qu’il saimble maintenant que l’amour mesme
de la liberté ne soit pas si naturelle»; ivi, pp. 27-28: «Mais à la verité, c’est bien
pour neant de debatre si la liberté est naturelle, puis qu’on ne peut tenir aucun en
servitude sans luy faire tort, et qu’il n’y a rien au monde si contraire à la nature
(estant toute raisonnable) que l’injure. Reste doncques de dire que la liberté est naturelle,
et par mesme moyen (à mon advis) que nous ne sommes pas seulement
nais en possession de nostre franchise, mais aussi avecques affection de la defendre
».
45 Per La Boétie la ragione è innata: «de la raison, si elle naist avecques nous,
ou non, qui est une question debatue au fond par le academiques, et touchee par
toute l’escole des philosophes. Pour ceste heure, je ne penserois pont faillir, en
croyant qu’il y a eu nostre ame quelque naturelle semence de raison»; e aggiunge:
«cela est, comme je croy, hors de nostre doubte, que si nous vivions avecques les
classi sociali su base numerica, che Alfieri esprime con «molti» per i
nobili e con «più» per il popolo40; l’applicazione della massima giovenaliana
panem et circenses41; il tema della paura42.
I, 5, 5); É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p. 11: «ils ne doibvent
ny craindre la puissance, puis qu’il est seul, ny aymer les qualitez».
A fianco del tiranno, l’unico ad avere una certa evidenza è il primo ministro
che, anzi, inevitabilmente diventerà odioso al popolo più del tiranno stesso; Alfieri
aggiunge: «I tiranni d’Europa cedono a codesti loro primi ministri l’usufrutto di
tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione
e in più supremo grado, che il giosto aborrimento di tutti» (Della Tirannide I,
6, 2). Nell’opera di La Boétie, a p. 76, possiamo leggere qualcosa di leggermente
diverso: «Volontiers le peuple, du mal qu’il souffre, n’en accuse pas le tyran, mais
ceux qui le gouvernent». L’autore francese non fa riferimento nello specifico al primo
ministro, ma a coloro che manovrano il tiranno; il passaggio logico che si può fare
implicitamente è che, sì, spesso coloro che di fatto governano una nazione sono i
primi ministri, però se La Boétie è rimasto sul vago significa che, forse, ha inteso
includere in quei «cinq ou six» anche altre figure tipicamente presenti nelle corti,
come i consiglieri. In questo caso, di nuovo il pensiero di La Boétie sarebbe più
vicino a quello di Machiavelli: cfr Il Principe, capp. 22-23 (De’ secretarii ch’e’ principi
hanno appresso di loro e In che modo si abbino a fuggire li adulatori).
40 Cfr V. Alfieri: «[il primo ministro finirà per] essere odiato dai molti e dai
più» (Della Tirannide I, 6, 12); É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit.,
pp. 62-63: «cinq ou six ont eu l’oreille du tyran, et s’y sont approchés d’eux mesmes
[…]. Ces six adressent leur chef, qu’il faut pour la société, qu’il soit meschant, non
pas seulement de ces meschancetez, mais ancore de leurs. Ces six ont six cens, qui
proufitent sous eux, et font de leurs six cens ce que les six font au tyran. Ces six
cens tiennent sous eux six mille, qu’ils ont eslevez en estat».
41 Cfr V. Alfieri, Scritti politici e morali, cit., p. 52, il riferimento agli spettacoli
«crudeli» a cui erano abituati i sudditi di Roma; É. de La Boétie, Discours de la
Servitude volontaire, cit., p. 52: «les theatres, les jeux, les farces, les spectacles, les
gladiateurs, les bestes estranges, les medailles, les tableaux et autres telles drogueries
estoient aux peuples anciens les appasts de la servitude, le pris de leur liberté,
les outils de la tyrannie». Si tenga, comunque, presente che si ritrova lo stesso
concetto anche in N. Machiavelli, Il Principe, cit., p. 153: «Debbe, oltre a questo,
ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con feste e spettaculi»
(21, 7).
42 A questo argomento Alfieri dedica inoltre un capitolo intero, distinguendo
nelle due varianti della «paura dell’oppresso, e la paura dell’oppressore» (Della Tirannide
I, 3, 3): temono i sudditi, teme l’oppresso («In questi tempi iniqui, ove pur
anco / Trema chi adula» (Virginia I, 1, 41-42)), e da questo «smisurato e incalzante
timore ne dovrebbe pur nascere (se l’uom ragionasse) una disperata risoluzione a
non voler più soffrire» (Della Tirannide, I, 3, 4). Teme l’oppressore, un timore che
deriva «dalla coscienza della propria debolezza effettiva», e si rende conto di «quale
smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore
di tutti» (Della Tirannide, I, 3, 5). Il tema della paura su cui si fonda la tirannide è un
motivo moderno (e richiama inevitabilmente Montesquieu e la differenza tra la
[ 12 ] [ 13 ]
276 sara pasquet la tirannide riesce sempre la stessa. alfieri e la boétie 277
sità dell’approdo intellettuale dei due pensatori, che pure muovono
tutto sommato da premesse molto simili: dall’analisi e dallo studio dei
meccanismi della tirannide, La Boétie approda ad una soluzione moderata,
mentre Alfieri ad una radicale e rivoluzionaria. Del resto, la
realtà politica di metà Cinquecento, in cui l’assolutismo si è ormai imposto
in maniera incondizionata, nella prassi come nella teoria, non
lascia spazio ad autentici modelli alternativi e richiede soprattutto un
risveglio delle coscienze: sicché La Boétie presenta una soluzione prima
di tutto interiore («Soyez resolus de ne servir plus, et vous voilà
libres»48) e al contempo la speranza che Dio riservi ai tiranni una punizione
particolare e severa. Alfieri, che nei testi del periodo – sull’onda
anche delle delusioni di Voltaire e Diderot – mostra piena consapevolezza
della crisi del mito dell’assolutismo moderato, non può che
insegnare Come si debba morire nella tirannide, perché non c’è altra soluzione
per i pochissimi ancora degni di essere chiamati uomini. Mentre
il discorso di Alfieri porta tragicamente, necessariamente e inevitabilmente
alla sconfitta dell’eroe di libertà, La Boétie fornisce al lettore –
che è anche schiavo – gli strumenti per riconoscere la propria condizione
di servitù e, in questo modo, cessare di alimentare il potere del
tiranno.
Sara Pasquet
(Università degli Studi di Torino)
48 Ivi, p. 24.
Non mancano casi in cui è possibile che vi sia una convergenza di
più fonti, in particolare Machiavelli e La Boétie, ad esempio a proposito
della triade vita, averi, onori46. Nello specifico, la frase «vous vivez
de sorte que vous pouvez dire que rien n’est à vous»47 non può non far
pensare al discorso pronunciato da Raimondo nel cuore della Congiura:
«Ma, d’ogni dolce affetto il cor mi sgombra / Tosto il pensar, che
disconviensi a schiavo / L’amar cose non sue. Non mia la sposa, / Non mia
la prole, infin che io lascio / Spirar di vita a qual ch’ei sia tiranno» (III,
2, 214-218). La coincidenza anche testuale tra il Discorso e la Congiura
induce a ritenere con pressoché totale certezza che anche l’idea – che
ritroviamo nella Tirannide – che in uno stato tirannico non si è davvero
proprietari di nulla è di origine laboétiana.
Alla luce della frequenza delle riprese testuali, anche le coincidenze
generiche assumono un altro significato: sicché è lecito presumere
che la lezione di La Boétie stia all’incirca sullo stesso piano di quella di
Machiavelli e dei pensatori dell’illuminismo, e che il pensiero alfieriano
sia la risultante di tante influenze diverse che reciprocamente si
completano e si illuminano. Tuttavia non si può disconoscere la diverdroicts
que nature nous a donnez, et les enseignemens qu’elle nous apprend, nous
serions naturellement obeïssans au parens, subjects à la raison et serfs de personne»
(É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p. 25).
Cfr V. Alfieri: «lume di ragione» (Della Tirannide I, Alla Libertà, 2). Quest’ultima,
nell’ottica alfieriana, non è un patrimonio insito dell’uomo, ma una conquista
(e, pertanto, risulta faticoso raggiungere una piena consapevolezza razionale). Eppure,
in un passo successivo Alfieri fa un’affermazione che si oppone a quanto
espresso all’inizio dell’opera: «La totale mancanza di questa naturale idea [l’idea
della libertà] non proviene già dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze,
che son giunte a segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion
naturale» (Della Tirannide II, 6, 1).
46 Sono tirannidi tutte le forme di governo che tolgono ai loro sudditi, sia apertamente,
sia «sotto un qualche velo di apparente giustizia», «le vite, gli averi, e l’onore
» (Della Tirannide I, 1, 4); cfr ancora: «di quante tirannidi sono state distrutte, o
di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale necessarissimo
a ciò, non vi fu mai altra più incalzante ragione che le ingiurie fatte dal
tiranno nell’onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell’avere» (Della Tirannide
II, 5, 3); «Tempo già fu, nol niego, ov’io pien d’ira, / D’insofferenza, e d’alti spirti,
avrei / Posto in non cal riccheze, onori, e vita» (Congiura de’ Pazzi I, 1, 25-27); «Non
che gli averi, a chi vi spiace tolta / Sia la vita e l’onor» (Congiura de’ Pazzi II, 2, 156-
157); N. Machiavelli, Il Principe, cit., p. 111; É. de La Boétie, Discours de la Servitude
volontaire, cit., p. 13: «Ou quel vice, ou plus tost quel malheureux vice, veoir
un nombre infiny, non pas obeïr, mais servir, non pas estre gouvernez, mais tyrannisez,
n’ayans ny biens, ny parens, ny enfans, ny leur vie mesme qui soit à eux?».
47 É. de La Boétie, Discours de la Servitude volontaire, cit., p. 22.
[ 14 ] [ 15 ]

PIER ANGELO PEROTTI
Don Abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio
Viene analizzato sotto tutti gli aspetti, compresi quelli psicologici e linguistici,
l’incontro di don Abbondio con i bravi con cui si aprono i Promessi sposi, con
particolare riferimento ai vari momenti del dialogo tra il curato e i messaggeri
di don Rodrigo. L’attenzione è rivolta segnatamente alle formule utilizzate nel
corso del colloquio, ed è frequentemente proposto il parallelo fra il testo
dell’edizione definitiva del romanzo e quello del Fermo e Lucia.

This study analyses globally, including psychological and linguistic aspects, the
meeting between don Abbondio and the “bravi” at the beginning of The Betrothed,
focusing especially on the various phases of the dialogue between the
curate and don Rodrigo’s messengers. Particular attention is devoted to the
wording employed during the conversation, drawing frequent parallels between
the text of the definitive edition of the novel and that of Fermo e Lucia.
1. La sequenza dell’incontro di don Abbondio con i bravi di don
Rodrigo è una delle più famose e significative, se non la più importante,
dei Promessi sposi1, dato che da tale incontro dipende l’intero sviluppo
della vicenda. Per questo la scena ha particolarmente attirato
l’attenzione dei lettori in genere e segnatamente dei critici2; tuttavia
ritengo che si possa aggiungere qualche approfondimento.
Dopo la descrizione del luogo dell’incontro, viene sottolineato l’abituale
comportamento del curato3, e infine è presentato il ritratto dei
1 I passi dell’opera sono indicati col numero romano del capitolo e con quello
arabo della pagina dell’editio princeps dei Promessi sposi, Milano, Guglielmini e Redaelli,
1840-1842 (il numero arabo è riportato in margine nell’edizione commentata
da A. Momigliano, Firenze, Sansoni, 1964); quando è segnalato solo il riferimento
alla pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza.
2 C fr il mio art. Don Abbondio: una vittima?, «Critica letteraria», XL (2012), n.
154, pp. 67-92, spec. §§ 1 e 3 (pp. 67-70 e 71-72).
3 In particolare I, 12: «giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar
sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel gior280
pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 281
precedeva (tomo I, cap. I, § 29): «Chi mi comanda?». Questa domanda
può equivalere all’incirca a «Chi siete?», ma con il medesimo criterio
di servile soggezione dell’analoga frase nella redazione definitiva.
A proposito della prima stesura del romanzo, notiamo che in essa
l’estensione dell’episodio era circa 2/3 di quella della redazione definitiva
– mentre l’ampiezza dell’intero Fermo e Lucia è leggermente superiore
a quella dei Promessi sposi –, a dimostrazione del lavoro di ampliamento,
oltre che di affinamento, della sequenza in esame.
2. La condizione di subordinazione di don Abbondio nei confronti
dei bravi, sentita da lui ma soprattutto da loro, in questa scena «che
potremmo definire di intimidazione mafiosa»5, emerge dal commento
dell’autore alla prima frase pronunciata dall’altro ‘messaggero’, il più
civile, ovvero il meno rozzo, dei due6 (18):
“Lei ha intenzione”, proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo
di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, ”lei ha
intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!”
L’autore pone l’accento sulla condizione di inferiorità7 del prete rispetto
al bravo, e sul rovesciamento di posizioni dei due: il primo – la
vittima – diventa il responsabile di una «ribalderia», e l’altro – l’oppressore
– sembra assumere il ruolo di riprensore. Si noti altresì l’uso
accorto e provocatorio della locuzione «ha intenzione» per indicare il
matrimonio che il curato vorrebbe o dovrebbe celebrare il giorno seguente,
e soprattutto che l’intero periodo non è interrogativo ma asseverativo,
come di un dato di fatto assolutamente scontato: l’affermazione
è assai più perentoria di come sarebbe stata la corrispondente
domanda, vale a dire che il semplice cambiamento di segno d’interpunzione,
da esclamativo a interrogativo, modificherebbe notevolmente
il senso delle parole del bravo8.
5 A. Marchese, I Promessi sposi (a cura di), Milano, Mondadori, 19874, Cap. I –
Guida alla lettura, p. 30.
6 Cfr ivi, p. 20, n. 47: «I due bravi, con mezzi diversi di persuasione – non privo
di una sua abilità diplomatica il primo, l’“oratore”, più sbrigativo e violento il taciturno
“compagnone” – […]»; vedi anche il mio art. Alcuni alterati nei Promessi
sposi: studio lessicale statistico, «Rivista di Letteratura italiana», 32/1 (2014), pp.
55-70, § 1. 1 (p. 56).
7 C fr A. Marchese, I Promessi sposi (a cura di), cit., p. 20: «[…] don Abbondio è
subito un “inferiore” colto in fallo persino nelle intenzioni; ed è psicologicamente
già pronto a subire il sopruso: cerca solo di trarsi d’impiccio in qualche modo».
8 Nel F. e L., § 29, mancava non solo il punto esclamativo, ma pure l’osservadue
bravi (I, 12). Segue un ampio stralcio di riferimenti storici alla
«specie» dei bravi (13-16), dopo il quale riprende la narrazione.
Uno dei bravi – il più zotico e sgarbato dei due, come risulterà dalle
poche parole pronunciate poco dopo (cfr. § 5) –, forse istruito dal suo
padrone, non manifesta il rispetto minimo dovuto a un ministro di Dio.
Non gli rivolge neppure un cenno di saluto, ma si limita a un secco
vocativo che ha sapore di premessa a un comando dato a un inferiore:
«“Signor curato”» (17), cui don Abbondio risponde con una capitolazione
preventiva, vale a dire con una laconica formula di cortesia che
sottintende una dichiarazione di assoluta sottomissione: «“Cosa comanda?”
» (18). Non basta: l’autore precisa che la risposta è data «subito
», il che accentua l’impressione di resa incondizionata (nel codice linguistico
militare si definirebbe “obbedienza pronta, cieca, assoluta”).
Viceversa, quando qualcuno viene chiamato da un altro, di solito
risponde o con un semplice “Sì”, o con espressioni come “Prego”,
“Che vuole?”, “Che desidera?”, “Chi è?” o simili. Non va tuttavia
ignorato che l’espressione usata dal curato ricalca in modo sospetto –
o ne è una variante – l’intercalare “Comandi!” con cui soprattutto i
veneti rispondono a chiunque li interpelli per qualsiasi ragione (un
po’ il corrispondente della forma “Dica!” che ricorre in tutta Italia, e
specialmente nel gergo popolare romanesco). Non si può escludere
che il Manzoni si sia ispirato alla stereotipata replica veneta, che da
normale forma di cortesia, in questo caso ben si attaglia alla condizione
psicologica di sudditanza di don Abbondio. È una formula affine al
termine “Comandi” usato dai carabinieri di fronte a un incarico ricevuto
– con forma ellittica corrispondente a “[sono ai suoi] comandi”, e
non forma esortativa del verbo “comandare” –, per indicare da una
parte di aver compreso l’ordine e dall’altra di accingersi a obbedire,
nonché una sorta di saluto al superiore che ha impartito l’ordine stesso.
Simile anche la formula un tempo usata dai baristi o dai camerieri
“Cosa comanda?” – tanto che l’ordinazione dei piatti si chiama ancora,
con un brutto termine, “la comanda” –: cfr. l’oste della «luna piena
» in XIV, 276: «Cosa comandan questi signori?».
Lo stesso verbo ricorreva nel Fermo e Lucia4, ma diverso era ciò che
no»; l’abitudinarietà del personaggio risulta anche per es. da VIII, 140: «Bisogna
sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno»; etc.
4 Per la prima redazione del romanzo ho seguìto il testo e la paragrafatura
dell’edizione curata da L. Caretti, I Promessi Sposi, vol. I, Fermo e Lucia, etc., Torino,
Einaudi, 1971; in questo caso, con la segnalazione del solo paragrafo si indica
il I capitolo del I tomo.
[ 2 ] [ 3 ]
282 pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 283
tare il cardinal Federigo – al quale non è difficile intuire quali ragioni
pratiche abbiano spinto quest’uomo (e chissà quanti altri come lui)
ad abbracciare la vita religiosa – in quel colloquio dal quale il curato
esce umiliato, e tuttavia non del tutto convinto delle ragioni del presule13.
Non è superfluo rilevare come, dopo questo «“Cioè…”», gli incipit
degli altri due interventi del parroco siano entrambi «“Ma”», al secondo
dei quali il bravo più volgare ribatte, quasi facendogli il verso, con
lo stesso «“Ma”» (cfr. §§ 4-5)14.
La replica del bravo si apre con «“Or bene”» (Ibidem), che non sembra
avere la consueta funzione conclusiva o esortativa, ma piuttosto
– all’incirca come il «dunque» pronunciato da Renzo durante il colloquio
con don Abbondio15 – costituisce un semplice intercalare col senso
di “insomma”, “comunque” o sim., come sembra risultare anche
dalla prima redazione, dove si leggeva «“Bene bene”», che ha pressappoco
lo stesso valore.
3. Preceduta dall’osservazione dell’autore «gli disse il bravo, all’orecchio,
ma in tono solenne di comando»16 (per cui osserviamo che le
minacce più spaventose non sono quelle urlate, ma quelle proferite a
bassa voce), si ha la frase centrale del colloquio, «“questo matrimonio
non s’ha da fare, né domani, né mai”» (Ibidem)17, che presenta, a mio
parere, un’aporia che ho già illustrato in un saggio di alcuni anni fa18.
13 C fr XXV, 488 – XXVI, 499.
14 T ale particolarità è in qualche modo rilevata dal E. Caccia, I Promessi sposi
(a cura di), cit., p. 68, n. 234: «“Ma” interruppe: si noti il rimpallo di parola. “Ma lor
signori”, dice don Abbondio, “Ma” gli replica il bravo: che è già la tendenza a volgere
nella propria direzione le parole di don Abbondio come avverrà poi in modo
più vistoso alla conclusione del dialogo. Il violento e l’ingiusto non possono discutere,
troncano il discorso, perché esiste soltanto quello che essi vogliono imporre
agli altri».
15 II, 39: [Renzo] «“Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere”.
“Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?”
“Dunque parli”» [corsivo mio].
16 L’inciso era ridotto al minimo ed era affatto generico nel F. e L., § 31: «interruppe
il bravo», indice, anche questo, del perfezionamento, dovuto a una profonda
revisione, dell’ultima redazione rispetto alla prima.
17 Nel passo corrispondente del F. e L., Ibidem «“questo matrimonio non si deve
fare, ma né domani né mai”», rileviamo l’assoluta superfluità, anzi inopportunità,
della congiunzione avversativa.
18 «“Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”» (I promessi sposi, cap.
I), «Rivista di Letteratura italiana», 28/1 (2010), pp. 51-61, spec. 54-55.
Non per caso don Abbondio inizia la risposta con un «cioè» (o
due9), che segnala imbarazzo mescolato con paura; o, per meglio dire,
è la congiunzione che serve a prendere tempo nell’attesa di trovare
una risposta sostenibile (ne sanno qualcosa, ancora oggi, certi studenti
durante gli esami), che infatti è una vile giustificazione da scaricabarile,
che riversa su altri la responsabilità delle proprie azioni. Questa è
la risposta (Ibidem):
“Cioè…” rispose, con voce tremolante, don Abbondio: “cioè. Lor signori
son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste
faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e
poi… e poi, vengon da noi, come s’andrebbe a un banco a riscotere: e
noi… noi siamo i servitori del comune”.
Degna di nota la definizione «pasticci» che egli dà di un sacramento
come il matrimonio10, che da lui, ministro del culto, dovrebbe essere
tutelato come uno dei fondamenti della morale cattolica. Ma in presenza
di un pericolo11 – reale o immaginario – don Abbondio dimentica
di essere sacerdote, comunque lo sia diventato12, come gli fa nozione
intercalata: «“Ella ha intenzione”, proseguì l’altro, “di sposare domani Fermo
Spolino, e Lucia Zarella”».
9 Secondo E. Caccia, I Promessi sposi (a cura di), Brescia, Ed. La Scuola, 19857,
p. 67, n. 219, i «cioè» sono due: «Cioè… cioè: il primo cioè è correttivo, il secondo è
conclusivo, definitorio» (ossia equivale all’incirca a “un momento, precisiamo,
mettiamo i puntini sulle i” o sim.); cfr invece P. Nardi, I Promessi sposi (a cura di),
Milano, Ed. Scol. Mondadori, 195917, p. 35, n. 254: «Cioè…: stupenda, psicologicamente,
la restrizione, ch’è già un negare la verità».
10 Meno volgare, ma più ricercato, è il termine usato nel F. e L., § 30, «aggiustamenti
». Cfr Marchese, Ibidem: «La strategia del disimpegno, il penoso tentativo di
giustificarsi con quegli “uomini di mondo”, svilendo le nozze di Renzo e Lucia a
volgari “pasticci”, attestano un animo gretto e vile». Dissento in parte dal Caccia,
che scrive (Ibidem): «[…] segue subito l’astuzia meschina con la volgare accusa a
Renzo e Lucia di aver fatto dei pasticci che poi tocca al parroco accomodare»: in
realtà i due giovani hanno scelto di sposarsi – questi sarebbero i «pasticci» –, e si
sono rivolti al loro parroco per la celebrazione del matrimonio.
11 Per il cinismo – conseguenza della viltà e dell’egoismo – di don Abbondio,
di cui peraltro si pente quasi subito, si veda il soliloquio di I, 25, e in particolare il
finale: «Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere
e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua».
12 C fr I, 23: «Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai
nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche
agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che
sufficienti per una tale scelta», e XXV, 491 [il cardinale a don Abbondio]: «“in codesto
ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio”» [corsivo mio].
[ 4 ] [ 5 ]
284 pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 285
mo di toscanismo, è uno degli effetti della “sciacquatura dei panni in
Arno”24. Una sola volta «codesto» è usato direttamente dall’autore
(XXII, 423); per il resto, lo utilizzano sia nobili o potenti (il cardinale
[13 volte], il notaio criminale [2], l’innominato [3], il marchese erede di
don Rodrigo [2], il fratello del nobile ucciso da Lodovico/fra Cristoforo,
don Rodrigo, il conte Attilio, il vicario delle monache, il conte zio,
il padre provinciale, Ferrer [tutti questi una volta ciascuno]), sia popolani
(Perpetua [5], Renzo [4], Lucia [1], il Nibbio [1]), oltre a don Abbondio
e a fra Cristoforo [5 volte ciascuno]. Se è ammissibile che esso
sia messo in bocca a personaggi che, ancorché lombardi di nascita o di
adozione – e dunque poco inclini a usare un vocabolo prettamente
toscano (cfr. n. 24) –, sono abbastanza acculturati per conoscerne l’esatto
valore, è quantomeno singolare che lo utilizzino i popolani che
abbiamo segnalato, analfabeti o semianalfabeti25. È infatti difficile immaginare
Renzo – lombardo e per di più illetterato – che usa, in ben
quattro occasioni, il dimostrativo «codesto», ma anche per es. don Abbondio,
per quanto fornito di un minimo di cultura. Ma queste considerazioni
vanno inquadrate nella più ampia questione della lingua, e
della contaminatio tra fiorentino e lombardo nel Manzoni26.
Tra tutte queste occorrenze, mette il conto di ricordare l’uso del
“voi che dite di codesto signore? A voi tocca a dirci se egli era un persecutore, e se
aveva gli artigli sozzi”»; t. IV, cap. IV, § 40: «L’arcivescovo elettore di Magonza
chiese per lettera al cardinale Federigo Borromeo che fossero tutti codesti portenti
che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano sogni e delirj». Il
corrispondente avverbio «costì» è assente nel F. e L., e hapax nei P. S., XXIII, 446:
«[l’innominato] fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli
la staffa, e gli dice: “tu sta costì, e non venga nessuno”» [corsivi miei].
24 Infatti tale dimostrativo è comunemente usato in Toscana, anche dagli illetterati,
mentre nelle altre zone dell’Italia è perlopiù sostituito, anche impropriamente,
da “questo” o da “quello”, perché il suo utilizzo, riservato quasi esclusivamente
alle persone di una certa cultura, e comunque soprattutto negli scritti, ha un
che di letterario o di prezioso: è impiegato, per esempio, nelle formule burocratiche,
come «Il sottoscritto si rivolge a codesta Direzione…», etc. Cfr L. Satta, La
prima scienza. Grammatica italiana, cit., p. 218.
25 Ne abbiamo conferma per Renzo in III, 53, durante il suo colloquio con l’Azzecca-
garbugli: «“Sapete leggere, figliuolo?” – “Un pochino, signor dottore”» (cfr
XXVII, 513: «il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso
della parola, etc.»), e per Agnese in XXVII, 514: «Agnese trottò a Maggianico, se la
fece leggere e spiegare [la lettera di Renzo] da quell’Alessio suo cugino: concertò
con lui una risposta, che questo mise in carta».
26 Della vasta bibliografia sull’argomento mi limito a menzionare M. Vitale,
La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 19762; C. Marazzini, Da Dante alla
lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano, Roma, Carocci, 1999.
La scommessa tra il conte Attilio e don Rodrigo19 ha come oggetto
l’essere costui il primo a possedere carnalmente Lucia – certamente
virgo intacta, data l’epoca e soprattutto la profonda moralità cristiana
della giovane –, ossia prima del matrimonio con il suo promesso sposo.
È evidente che l’interesse del signorotto cesserebbe dopo la consumazione
di tale rapporto (una specie di anacronistico ius primae noctis),
e dunque a prima vista pare priva di senso la seconda parte del
divieto, «né mai»: che Lucia, dopo averla stuprata, si sposasse, non
poteva importare a don Rodrigo, che non aveva certo intenzione di
farne la propria amante20. Nel saggio citato alla n. 18 proposi alcune
spiegazioni, tra loro alternative, di tale incongruenza, almeno apparente.
Qui intendo invece analizzare l’uso dell’aggettivo dimostrativo
«questo» che compare nella frase. Secondo le norme più rigorose della
grammatica italiana, il dimostrativo “questo” si usa per indicare persona
o cosa vicina a chi parla, o a chi parla e a chi ascolta, come pure
una cosa o persona che si sta per nominare; invece “codesto” «indica
soltanto un oggetto vicino a chi ascolta»21, o comunque relativo all’interlocutore,
anche in senso figurato, nonché cosa o persona già nominata22:
ora, il matrimonio cui si riferisce il dimostrativo non riguarda,
se non assai indirettamente, il bravo che parla, ma semmai il curato
che ascolta, in quanto dovrebbe essere lui a celebrarlo. Sarebbe dunque
stato grammaticalmente più opportuno l’uso di “codesto”.
Nel Fermo e Lucia il dimostrativo «codesto» ricorreva due sole volte23,
mentre nei Promessi sposi ben 49: evidentemente, in quanto sinto-
19 C fr il mio art. Manzoni e una scommessa, anzi due, «Studi sul Settecento e l’Ottocento
», 8 (2013), pp. 159-171.
20 C ome invece era toccato a Bettina nel F. e L., t. II, cap. VI, §§ 35-41, dove Lucia
narra alla Signora la vicenda di costei [sul nome, cfr il mio art. I nomi dei personaggi
nei Promessi sposi, «Critica letteraria», XXV (1997), n. 97, pp. 637-650, § 3 e n.
9], sua amica e collega di lavoro, irretita da don Rodrigo e diventata sua amante,
naturalmente prima della persecuzione del signorotto nei confronti della promessa
sposa di Renzo.
21 L. Satta, La prima scienza. Grammatica italiana, Messina-Firenze, D’Anna,
1971 (rist. 1974), p. 218.
22 Ecco perché è anomalo il suo uso – presumibilmente dovuto a esigenze metriche
– per es. nella poesia di Eugenio Montale Non chiederci la parola, vv. 11-12:
«Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»
[corsivo mio]. Per curiosità statistica, ricordo che nella Divina Commedia il dimostrativo
«cotesto» è usato solo nove volte, e tre volte il corrispondente avverbio
«costì», ma mai nelle altre opere di Dante.
23 T . II, cap. I, § 59: «“Ma voi”, disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia,
[ 6 ] [ 7 ]
286 pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 287
da parte sua perché non vi è guadagno: sembra, insomma, ignorare il
concetto di dovere sacerdotale.
Non è irrilevante segnalare che nel F. e L. (§ 31) mancava proprio la
frase incriminata: evidentemente il Manzoni ha inteso insistere sull’esclusiva
attenzione del curato per l’utile. Si noti altresì l’uso del pronome
di terza plurale – forma grammaticalmente corretta (plurale di
“lei”), in quanto i bravi sono due, ma piuttosto ricercata – da parte di
don Abbondio nel rivolgersi ai bravi, forma di affettazione27 nonché
segno di servilismo e viltà, che ben si adatta allo stato d’animo del
curato, in quel momento non solo «disposto all’ubbidienza» (cfr. § 6),
ma pronto, pur di scongiurare il temuto pericolo, alla piaggeria più
umiliante, confermata da quel «“si degnino”» – già presente nel F. e L.
(Ibidem) –, che porta fino al limite estremo la sua degradazione, sottolineata
dal commento dell’autore: «con la voce mansueta e gentile…».
5. Il bravo ‘portavoce’ non gli lascia finire la frase, forse temendo
che la dialettica del parroco – che doveva avere studiato filosofia o
retorica o altre discipline utili a sostenere con successo un contraddittorio
– possa in qualche modo metterlo in difficoltà, come è facile intuire
dall’obiezione seguente (19):
“Orsù,” interruppe il bravo, “se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci
metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più.
Uomo avvertito… lei c’intende”.
L’interiezione «orsù» ha la funzione di interrompere l’autodifesa
del curato, di cui lo sgherro minimizza le ragioni – quelle già da lui
esposte e altre che potrebbero essere presentate –, definendole «ciarle
», così come svilisce la prevalenza sull’avversario in una disputa di
carattere morale con la locuzione popolare “mettere in (o nel) sacco”.
Il suo breve intervento si conclude, attraverso una sorta di climax –
dall’obiezione alla dichiarazione di estraneità, alla minaccia, tutt’altro
che velata –, con parole che don Abbondio finge di non capire, come
invece aveva suggerito il bravo («“lei c’intende”»), e dunque risponde
con la frase generica, e tuttavia adulatoria, «“Ma lor signori son troppo
giusti, troppo ragionevoli…”». La frase dello scherano «“Noi non
ne sappiamo, né vogliam saperne di più”» pare in qualche modo ricalcata
sulla precedente del curato, nel senso che entrambi dichiarano la
27 C fr il mio art. L’uso dei pronomi personali allocutivi nei Promessi sposi, «Critica
letteraria», XXXVIII (2010), n. 146, pp. 134-149, § 3 (p. 136).
dimostrativo in questione da parte di don Abbondio in XXXVIII, 731,
dove, parlando con le tre donne – Agnese, Lucia e la mercantessa di
Milano –, definisce Renzo e Lucia «“codesti giovani”», con una specie
di compromesso tra “questi”, in quanto Lucia è davanti a lui, e “quei”,
dato che Renzo è al momento assente; ma anche con una sorta di distacco
da quelli che pure erano suoi parrocchiani: ben diverso è infatti,
rispetto al suo, l’atteggiamento di fra Cristoforo nei confronti dei promessi
sposi, ma quest’ultimo è un vero ‘eroe’ della carità, non un egoista
come don Abbondio.
Dopo questo inciso riprendiamo l’analisi del nostro brano, provando
a spiegare l’impiego di «questo» anziché «codesto». Tale uso anomalo
si può giustificare innanzitutto con la bassa levatura culturale
del bravo, nella cui bocca parrebbe fuori luogo una simile raffinatezza
grammaticale. Ma si potrebbe obiettare che lo stesso dimostrativo «codesto
» è usato da altri personaggi illetterati (cfr. qui sopra), compreso
il Nibbio, capo dei bravi dell’innominato. In alternativa, si potrebbe
supporre che il Manzoni sottintendesse l’antefatto, in cui don Rodrigo,
chiamati i due bravi, aveva ordinato loro all’incirca: *“Fermate il
curato, e ingiungetegli di non celebrare questo matrimonio”, frase nella
quale il dimostrativo “questo” è perfettamente appropriato sotto
l’aspetto psicologico, dato l’interesse personale del signorotto alla sua
mancata celebrazione, e che il messaggero abbia riportato pari pari lo
stesso aggettivo. Così si spiegherebbe l’uso, alquanto anomalo, del dimostrativo
in questione.
4. La reazione di don Abbondio al divieto perentorio di celebrare il
matrimonio è quanto di più meschino e servile si possa immaginare,
specialmente da parte di un sacerdote, e l’autore la evidenzia nella
chiosa alle sue parole (18-19):
“Ma, signori miei,” replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile
di chi vuol persuadere un impaziente, “ma, signori miei, si degnino
di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon
bene che a me non me ne vien nulla in tasca…”.
La frase finale («“vedon bene […]”») è illuminante circa il carattere
del curato e i princìpi cui uniforma la sua vita: per lui non conta il
giusto ma l’utile, e dato che dal matrimonio in questione gli sarebbe
derivato un guadagno materiale irrisorio (la piccola offerta data dagli
sposi al celebrante), egli ritiene di presentare il fatto come una valida
giustificazione. Nella sua morale deformata, non vi è responsabilità
[ 8 ] [ 9 ]
288 pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 289
interventi, decisi e sottilmente intimidatori ma tutto sommato civili
del primo bravo, il secondo manifesta una brutalità rilevata perfino
dal suo compagno, che lo zittisce per completare la sua missione (Ibidem):
“Zitto, zitto,” riprese il primo oratore, “il signor curato è un uomo che
sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli
del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor
don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente”.
La prima parte dell’intervento del «primo oratore» è surrettiziamente
rivolta al compagno, ma in realtà è anch’essa indirizzata al curato,
come il saluto conclusivo: insomma, parla all’uno perché l’altro
intenda32. In tal modo può fare affermazioni alle quali don Abbondio
non può ribattere, dato che non sono indirizzate a lui. Qualifica «galantuomini
»33 sé e il compagno, e accenna alle loro intenzioni pacifiche,
a condizione che il parroco «abbia giudizio», ossia ceda all’ingiunzione
di don Rodrigo. L’espressione «uomo che sa il viver del
mondo» usata dal bravo è anfibologica, ed è una felice trovata dell’autore
durante il rifacimento dell’opera: il bravo la intende nel senso di
“complice”, o almeno “connivente, fiancheggiatore, favoreggiatore”
dei nobili – come era necessariamente la maggior parte delle classi
inferiori, compreso il clero ‘minore’, ma anche i prelati34 –, mentre don
Abbondio la interpreta dal suo punto di vista di ‘povero cristo’ che
vorrebbe stare in pace, in quanto debole e vile per natura, e dunque
quell’altro che non aveva parlato fino allora, “ma il matrimonio non si farà e” (qui
una buona bestemmia) “chi lo farà non se ne pentirà perché non ne avrà tempo
e…”»: evidentemente, nel rifacimento del romanzo l’autore volle ribadire l’empia
volgarità del soggetto. Rileviamo inoltre l’inopportunità della prima congiunzione
«e» – inadatta a proporre un’alternativa –, che infatti fu sostituita, giustamente,
con l’«o» della redazione definitiva.
32 C orrisponde al modo di dire popolare “parlare a nuora perché suocera intenda”.
Cfr G. Giacosa – L. Illica, La bohème (libretto), Quadro secondo [Schaunard
a Colline, a proposito di Musetta]: «“Essa all’un parla perché l’altro intenda”
».
33 Per l’uso di questo termine nel romanzo, cfr il mio saggio I ‘galantuomini’ nei
Promessi sposi, ossia Variazioni semantiche del vocabolo ‘galantuomo’ nei Promessi sposi,
Vercelli, De Marchi, 1987. Nel F. e L. (§ 34) la valutazione del bravo riguarda non
solo sé e il compagno, ma anche don Abbondio: «“il signor Curato sa che noi siamo
galantuomini, e non vogliamo fargli del male, se egli opererà da galantuomo”»;
ma la frase è senz’altro più fiacca che nella redazione definitiva.
34 Si pensi al padre provinciale dei cappuccini e al suo colloquio col conte zio
(XIX, 362 ss.).
propria indifferenza al nocciolo della questione: ma il bravo a buona
ragione, dato che egli e il compagno altro non sono che messaggeri
che non possono eccedere i limiti dell’incarico ricevuto dal padrone,
mentre don Abbondio tiene una condotta contraria ai doveri del suo
ministero, e pertanto la sua indifferenza al problema del matrimonio è
colpevole, e si chiama con un altro nome: ignavia.
A questo punto, come in una scena teatrale (e non per caso: infatti
il Manzoni fu anche pregevole drammaturgo28), interviene l’altro bravo29,
che sino allora aveva svolto – salvo l’iniziale vocativo «“Signor
curato”»: cfr. § 1 – il ruolo di comparsa muta (o, come dicevano i Greci,
kōphòn prosōpeîon) per lasciare spazio al compagno ‘diplomatico’: e
lo scherano zotico passa dalla moderazione dell’altro, per quanto di
convenienza e di facciata, alla violenza, quantunque solo minacciata,
accompagnata da aggressività verbale, sottolineata da imprecazioni
irriverenti, tanto più offensive in quanto pronunciate in presenza di
un ecclesiastico (Ibidem):
“Ma,” interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato
fin allora, “ma il matrimonio non si farà, o…” e qui una buona
bestemmia, “o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo,
e…” un’altra bestemmia.
In tal modo costui rischia di danneggiare, se non rovinare del tutto,
l’opera accorta del primo sgherro, che infatti l’autore definisce «oratore
»30, con fine ironia non disgiunta da un giudizio sarcasticamente
positivo che deriva dal confronto con l’altro, un individuo ancor più
volgare e incapace non solo di ragionare ma persino di esprimersi senza
far uso del turpiloquio blasfemo31. In confronto con i tre o quattro
28 C fr il mio art. Il capitolo VIII dei Promessi sposi: una “commedia” nel romanzo,
«Otto/Novecento» 39/3 (2015), pp. 99-110.
29 Mi pare inesatta l’interpretazione del Caccia, I Promessi sposi (a cura di), cit.,
p. 68, n. 231, che scrive: «[il bravo] offre pertanto la continuazione del discorso al
proprio compagno»: infatti, se si fosse trattato di «continuazione», probabilmente
il Manzoni avrebbe scritto «intervenne» o sim. anziché «interruppe», verbo già
presente nel F. e L., § 33.
30 C fr E. Caccia, I Promessi sposi (a cura di), cit., p. 69, n. 238: «Oratore ha nella
tradizione anche il significato di “ambasciatore, messo”: qui il M. usa la parola con
ironia sottile ed amara, come sempre. In realtà, si tratta di un sicario, per quanto ad
una rozza ed elementare diplomazia si ispiri anche lui. Per il Barbi si tratta invece
del significato comune di “parlatore”, sia pur usato ironicamente. Meno bene, ci
pare».
31 Nel F. e L. (§ 33) la bestemmia era una sola: «“Ma”, interruppe questa volta
[ 10 ] [ 11 ]
290 pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 291
quel momento, di trovarsi tra l’incudine e il martello, don Rodrigo e
Renzo37: prova dunque a coinvolgere i due bravi (in realtà uno solo, il
diplomatico) nel suo problema, chiedendo un improbabile parere.
Il bravo non solo non gli fornisce il consiglio richiesto, ma, senza
neppure fingere il minimo rispetto per la sua cultura – condensata,
secondo la concezione dell’epoca, nella parola «latino»38 –, lo irride
(Ibidem):
“Oh! suggerire a lei che sa di latino!” interruppe ancora il bravo, con
un riso tra lo sguaiato e il feroce. “A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci
uscir parola su questo avviso, che le abbiam dato per suo bene; altrimenti…
ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che
vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?”,
come ben si capisce dalla mimica più che espressiva. Non pago, dopo
aver ricordato a don Abbondio che il carico del problema è esclusivamente
di lui in quanto curato, aggiunge la minaccia estrema, imponendogli
ad abundantiam, com’è ovvio, di tacere circa l’imposizione,
che chiama ipocritamente «avviso». L’interiezione «ehm…» intercalata
alle frasi è forse una delle parole più intimidatorie di tutto il discorso
del primo bravo, per quanto le minacce aleggino larvatamente, ma
mai in forma esplicita, nel corso dell’intera sequenza. Ecco perché,
nella notte insonne tra l’incontro con i bravi e la visita di Renzo, quel
suono gli riecheggerà terribile nella mente39.
A stretto rigor di termini, il primo bravo non minaccia mai apertamente
di morte il curato, e anche nell’intimidazione del secondo non
troviamo riferimenti espressi all’uso della violenza, e non per caso:
l’ipocrisia del padrone si è trasmessa ai suoi sgherri. Del resto, il Man-
37 C fr I, 25: «“Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà
delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è
una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli… ih!”».
38 C fr E. Caccia, I Promessi sposi (a cura di), cit., p. 69, n. 246: «sa di latino: anche
per i bravi la cultura è un mezzo per preparar trappole al prossimo»: sul latino
considerato imbroglio dei potenti, si veda il mio art. «“Siés baraòs trapolorum”» (I
Promessi Sposi, cap. XIV), «Giornale Storico della Letteratura italiana», 118 (2001),
vol. 178, pp. 258-269.
39 II, 31: «Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo… Dio
liberi! “Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm!” aveva detto un di que’
bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che
pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua
»: cfr il mio Studio statistico-semantico sulle interiezioni nei “Promessi sposi”, «Otto/
Novecento» 35/3 (2011), pp. 139-148, § 5 (p. 142).
succubo degli altri, e che ha dovuto adattarsi alle prepotenze del suo
tempo, ossia al «viver del mondo», peraltro un mondo che non piace
a lui come pure ai non violenti, coraggiosi o ignavi che siano.
Questo intervento del bravo meno grossolano si conclude con il
saluto beffardo a nome di don Rodrigo, caricato di termini tesi a sottolineare
il suo potere enormemente superiore a quello del curato: forse
è casuale, ma mi sembra significativo l’accostamento tra «signor curato
» e «l’illustrissimo signor […]»: il primo è soltanto «signor», il nobile
è «illustrissimo». Anche il verbo e l’avverbio nella formula «riverisce
caramente» hanno un sapore ironicamente derisorio che ovviamente
don Abbondio non è nelle condizioni di cogliere35.
6. Segue una deliziosa descrizione degli effetti provocati nel curato
dal nome del signorotto locale, come se non avesse potuto o dovuto
figurarsi chi fosse il mandante del messaggio minatorio (20):
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un
temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in
confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un
grand’inchino, e disse: “se mi sapessero suggerire…”.
Il passo, con la felicissima similitudine, era assente nel F. e L. La
naturale reazione del prete non avrebbe potuto essere se non quella
qui rappresentata, e ha come conseguenza immediata l’ossequio istintivo,
ancorché a distanza, al prepotente signorotto che gli ha trasmesso
quell’imposizione36. Tuttavia egli non dichiara ancora di aderire
all’intimazione del nobile (come invece farà poco dopo), ma tenta disperatamente
di trovare una scappatoia, avendo ben chiaro, fin da
35 Nel F. e L. (§ 34) era stata utilizzata una formula più generica e non ironica:
«“l’illustrissimo Signor Don Rodrigo nostro padrone le fa i suoi complimenti”»,
dove il sostantivo «complimenti» ha il senso, soprattutto francese – ma anche
dell’italiano meno recente –, di “omaggi, ossequi”: cfr P. S., I, 20: «non sapeva nemmen
lui se faceva una promessa, o un complimento» (vedi infra, § 6); XVIII, 355:
«Fatti i suoi complimenti al conte zio»; XXVI, 500: «venne donna Prassede, […] a
complimentare il cardinale»; etc.
36 C fr E. Caccia, I Promessi sposi (a cura di), cit., p. 69, n. 244: «don Abbondio,
vinto nella schermaglia delle parole, da quel nome riceve quasi un terrore fisico,
che esprime istintivamente con il suo inchino comico e drammatico insieme. Così
il colloquio muore con don Abbondio che vorrebbe avere indicazioni e suggerimenti
più precisi dai due sicari, e i due sicari che gli strappano, senza curarsi troppo
di lui, la dichiarazione di condiscendenza desiderata: la riporteranno al padrone
come una nuova prova della loro abilità nel servirlo».
[ 12 ] [ 13 ]
292 pier angelo perotti don abbondio e i bravi: anatomia di un colloquio 293
queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un
complimento» (Ibidem), mette bene in luce lo stato confusionale in cui
l’incontro con i bravi ha messo un uomo che (bellissima e famosissima
litote) «non era nato con un cuor di leone» (20): in realtà entrambe le
cose – la «promessa» e il «complimento» (cfr. n. 35) – sono la conseguenza
della sua paura e della sottomissione nei confronti di don Rodrigo,
e dunque, dal punto di vista di don Abbondio, l’alternativa non
dovrebbe avere ragion d’essere.
Naturalmente, invece, «i bravi le presero, o mostraron di prenderle
nel significato più serio» (Ibidem), ossia quello più favorevole a loro e
al padrone, al quale certamente avrebbero riferito che la missione aveva
avuto successo.
L’ultimo tentativo del curato di trovare una scappatoia è nel richiamo
che rivolge ai bravi: «“Signori…” cominciò», ma essi lo ignorano,
e anzi – estremo oltraggio, questa volta di entrambi – si allontanano
«cantando una canzonaccia». La mancata risposta dei due dimostra
che per loro l’incontro è già concluso.
7. La paura – o meglio il terrore –, che è una sorta di Leitmotiv biografico
di don Abbondio, viene qui palesata, per la prima volta nel
romanzo, anche con manifestazioni fisiche: «mettendo innanzi a stento
una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate» (Ibidem). La
conseguenza è che, di qui in poi, tutte le risorse del curato saranno
rivolte a difendersi non dal vero nemico, don Rodrigo, ma da chi, in
quanto vittima come lui, dovrebbe essere suo alleato, Renzo42; tant’è
vero che, durante la «notte degl’imbrogli», quando don Abbondio potrebbe
maritare i due giovani, limitandosi a non buttare «sgarbatamente
il tappeto sulla testa e sul viso» di Lucia «per impedirle di pronunziare
intera la formola» (VIII, 144), si oppone con tutte le forze alla
celebrazione delle nozze ‘di sorpresa’. Per giustificarsi con il signorotto,
si sarebbe potuto appellare alla ‘forza maggiore’ del raggiro attuato
42 Si pensi ai capponi che Renzo porta all’Azzecca-garbugli, i quali, anziché
ribellarsi al vero nemico – nella fattispecie Renzo –, «s’ingegnavano a beccarsi l’una
con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura» (III, 51). Mi
ricorre anche alla mente – mutatis mutandis – uno dei motivi di fondo della leopardiana
Ginestra, in particolare vv. 135 ss.: «Ed alle offese / dell’uomo armar la destra,
e laccio porre / al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora in campo
/ cinto d’oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl’inimici obbliando,
acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando
/ infra i propri guerrieri»: il vero obiettivo della lotta dovrebbe essere qui la Natura,
don Rodrigo nel Manzoni.
zoni è ben consapevole – forse anche per esperienza personale dell’infanzia
o dell’adolescenza – che le minacce più temibili sono quelle indefinite40,
come appunto l’«ehm…» del primo bravo, e infatti le parole
dei due provocano in lui un terrore senza limiti.
L’ultima frase del bravo41 inizia con un «“Via”», che vale per un
verso quanto un invito a non ribattere ulteriormente alle proprie parole,
per l’altro equivale a un’interiezione o avverbio come “insomma”
o sim., che serve a imporre al parroco la conclusione del colloquio. È
facilmente immaginabile un abbassamento di tono nella voce del bravo,
che sente di aver raggiunto il proprio scopo, e dunque non ha motivo
di continuare a intimorire la sua vittima anche con l’intonazione
vocale.
L’episodio volge al termine. Manca soltanto la risposta del curato,
che è perfettamente in linea col personaggio, incerta, ambigua, sfuggente,
e comunque vagamente servile (Ibidem): «“ Il mio rispetto…”».
Ma la capitolazione di don Abbondio – che sarebbe stata abbastanza
evidente a chiunque, anche se non proprio esplicita – non basta al
bravo, che pretende una risposta più chiara: «“Si spieghi meglio!”». Il
curato si piega all’ulteriore richiesta del bravo, e finalmente la nuova
dichiarazione, caratterizzata dall’incertezza segnalata dai puntini di
sospensione, benché non del tutto perspicua, «“… Disposto… disposto
sempre all’ubbidienza”», soddisfa appieno l’interlocutore, che si
dichiara appagato («“Benissimo”») e si congeda con un saluto generico:
«“e buona notte, messere”». Segue la precisazione «disse l’un d’essi,
in atto di partir col compagno», che lascia quantomeno perplessi:
pare evidente che l’autore avrebbe dovuto invece indicare che si trattava
del bravo che aveva tenuto gran parte del dialogo. In ogni caso,
la puntualizzazione indica che il secondo bravo, quello ‘primitivo’,
non sente neppure il dovere di civiltà di rivolgere un cenno di saluto
alla vittima della loro prevaricazione.
Il commento che segue l’ultima frase del curato, «E, proferendo
40 C fr IX, 186, a proposito di Gertrude e di suo padre: «Le parole non furon
molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella
camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era
che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere
per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso» [corsivo mio].
41 Questa frase, come pure il resto del colloquio, era assente nel F. e L., dove il
dialogo si concludeva con «“Ella troverà un mezzo, Signor curato, e sopratutto
non si lasci uscire una parola di questo avviso che le abbiamo dato per suo bene,
perché altrimenti sarebbe per lei come se avesse fatto quel tal matrimonio. Buona
notte Signor Curato”» (§ 35).
[ 14 ] [ 15 ]
294 pier angelo perotti
dai promessi sposi, senza perciò dover subire la minacciata ritorsione.
Neppure un prepotente come don Rodrigo avrebbe potuto accusare di
non aver ottemperato alla sua imposizione il parroco, che dunque non
avrebbe rischiato la vita.
Naturalmente questo è un sofisma presentato per amore di discussione,
perché è chiaro che, se paradossalmente il Manzoni avesse seguito
tale soluzione narrativa, la vicenda si sarebbe conclusa immediatamente,
che è come dire che il romanzo non avrebbe neppure avuto
motivo di essere scritto.
8. Quella sin qui esaminata è la prima sequenza dei Promessi sposi,
giustamente dedicata al personaggio che è la concausa, con don Rodrigo,
delle disavventure dei due giovani fidanzati: è, per così dire,
l’antefatto degli eventi, privati e pubblici, che seguiranno, per giungere,
attraverso una serie di peripezie, all’happy end. Già questo capitolo
iniziale è un condensato di fatti storici e d’invenzione, e perciò, per
quanto attiene ai primi, il Manzoni riporta uno stralcio di gride relative
ai bravi (I, 13-16), quasi come sottintesa dichiarazione programmatica
che si tratta di un romanzo storico.
Che il brano dell’incontro tra don Abbondio e i bravi sia un episodio
in sé compiuto – una sorta di premessa agli eventi successivi –
sembra dimostrato, anche formalmente, dalla struttura del passo. Infatti
nella missione dei bravi si può riconoscere una forma di Ringkomposition:
il cerchio si apre con le parole del bravo più incivile, che esordisce,
da par suo, con il brusco vocativo che dà inizio al colloquio
(«“Signor curato”»: cfr. § 1) e si chiude con il saluto probabilmente
dell’altro («“buona notte, messere”»: cfr. § 6). La seppur minima forma
di cortesia costituita da questo congedo in fondo non irrispettoso
è dovuta al fatto che il bravo ha ormai ottenuto ciò che gli premeva, e
dunque può anche essere genericamente garbato. Un’analoga ‘struttura
ad anello’ è ravvisabile se notiamo che le parole di don Abbondio
iniziano con la domanda circa l’ordine («“Cosa comanda?”») e terminano
con l’ottemperanza all’intimazione del signorotto («“Disposto…
disposto sempre all’ubbidienza”»), ossia comanda ~ ubbidienza, una
parola conseguenza dell’altra43.
Pier Angelo Perotti
(Vercelli)
43 C fr il mio art. Don Abbondio: una vittima?, cit., § 3, p. 72.
[ 16 ]
Renate Lunzer
Cavaliere rosso senza macchia e senza paura
Osservazioni su Un anno sull’Altipiano
di Emilio Lussu
Partendo dalla breve e sorprendente premessa di Lussu all’edizione del 1937
del suo memoriale Un anno sull’Altipiano ci chiediamo quali siano il messaggio,
la poetica e il posto di questo capolavoro nell’ambito della produzione italiana
sulla Grande Guerra. Inoltre focalizziamo il rapporto tra l’io narrato, cioè il
Lussu volontario del 1916/17, e l’io narrante, il Lussu antifascista esiliato del
1936/37. Infine ci interessa il fascino estetico eccezionale di quest’opera: la sua
sovrana e amara ironia.

Beginning with Lussu’s short and surprising preface to the 1937 edition of his
memoirs entitled Sardinian Brigade, we wonder what might be the message, the
poetics and the position of this masterpiece within Italian literature concerning
the Great War. Furthermore, we focus on the relationship between the first person
narrated, i.e. Lussu as a volunteer in 1916/1917, and the first-person narrator,
i.e. the antifascist Lussu in exile, 1936/1937. Finally, we look at the exceptional
aesthetic appeal of this work, its supreme and bitter irony.
Lussu demolisce l’idea della guerra divulgata
dal fascismo: il risultato è la “spoetizzazione
della guerra-festa sola igiene
del mondo”1.
1. Un combattente per giustizia e libertà
Nel 1938 uscì a Parigi, pubblicato dalle Edizioni Italiane di Cultura
di Giorgio Amendola, il libro di un fuoruscito sulla Grande Guerra
che forse non sarebbe nato senza le annose, affettuose insistenze di
Gaetano Salvemini. L’autore, un uomo d’azione, che si trovava in condizioni
fisiche, economiche e ideologiche travagliate, lo scrisse senza
1 M. Isnenghi, Emilio Lussu, «Belfagor», XXI (1966), 3, p. 320.
296 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 297
affidati (i «Diavoli rossi» per gli austriaci), descrive con tutta l’amarezza
della sua sovrana ironia le vicende militari sull’Altipiano di Asiago
fra il giugno 1916 e il luglio 1917 ovvero tra la Strafexpedition austriaca
e la cruenta battaglia dell’Ortigara. Scrive una polemica radicale contro
la conduzione italiana della guerra, contro il disprezzo e l’umiliazione
dell’umanità proletaria con cui egli divideva, dall’inizio della
guerra alla fine, la quotidiana fatica della trincea e degli assalti, contro
l’incompetenza dello Stato Maggiore e degli alti gradi, che nei soldati
semplici non vedono altro che «carne da cannone», ma non sono nemmeno
capaci di utilizzarla in modo strategicamente opportuno.
Quest’arrogante gerarchia di guerra non è che lo specchio della classe
dominante di quell’Italia che per Lussu aveva solo la parvenza di uno
Stato liberale. La guerra, in cui il giovane sardo era entrato come interventista
democratico, «ammesso che questa terminologia possa reggere
davanti alla gravità delle responsabilità che comunque anche questo
gruppo si era assunto»8, diventava la cartina di tornasole con cui
misurare i limiti del sistema politico italiano, incarnato, appunto, in
una delle sue più importanti istituzioni, l’esercito.
È difficile riferire su Lussu, «una delle personalità più avvincenti e
convincenti»9 della storia novecentesca italiana, è difficile riferire su
un ufficiale coraggioso e fraterno che in quattro anni di guerra esce
illeso dalle azioni più rischiose; è difficile riferire su un eroe pluridecorato
che scrive un libro dissacrante la stessa guerra smontando il mito
che il fascismo ci aveva costruito intorno e provocando l’ululato dei
militaristi10; difficile parlare su un patrizio, discendente dei balentes11
forza della ragione le situazioni più drammatiche e difficili, che conoscono il valore
di ogni esistenza e che vivono la storia. Tra i veri “Capitani” Emilio Lussu è
stato il più grande», scrive Rigoni Stern, in Introduzione a Un anno sull’Altipiano,
Torino, Einaudi, 2000, pp. 1-2.
8 F. Todero, Un anno sull’altipiano tra letteratura e storia, in E. Orrù, N. Rudas
(a cura di), L’uomo dell’altipiano. Riflessioni, testimonianze, memorie su Emilio Lussu,
Cagliari, Tema, 2003, p. 458.
9 G. Fofi, Lussu, la tenacia di un sardo doc, «Il Sole 24 Ore», 16. 5.2010.
10 Per dare un solo esempio della costante reazione negativa delle riviste militari,
cito il recensore de «Il nuovo Pensiero militare» (30. 5. 1965) che definisce Un
anno sull’Altipiano «il più disfattista fra tutti i libri comparsi in Italia sulle due ultime
grandi guerre», riassumendo il giudizio del generale Motzo su questo libro
«sacrilego e blasfemo». Cfr. G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu in
Letteratura italiana. Le Opere, dir. A. Asor Rosa, vol. 4, II, Torino, Einaudi, 1996, pp.
196-197.
11 I balentes erano in secoli passati l’aristocrazia guerriera sarda; presidiavano i
valichi e difendevano i villaggi dalle angherie dei vicini.
troppo entusiasmo ed a tappe tra il 1935 e il 1937 in un sanatorio svizzero
dove subì due operazioni assai serie2 di toracoplastica per curare
la tubercolosi contratta nel carcere fascista. Tutto preso com’era da
questioni di attualità – non dimentichiamo che in quel periodo Mussolini
fondò l’Impero ed ebbe inizio la guerra civile spagnola –, ma
impedito fisicamente di dedicarsi alla politica attiva, l’autore interruppe
per un certo tempo la stesura del libro sulla Grande Guerra, ritenuto
meno urgente, per finire almeno un contributo teorico alla rivoluzione
antifascista armata3, cioè lo studio sulla Teoria dell’insurrezione4,
considerato importantissimo nel momento di crisi della Concentrazione
antifascista5. Nonostante la gestazione un po’ gravosa del
progetto sulla Grande Guerra, temporaneamente accantonato, ne risultò
un’opera di grande letteratura – si tratta naturalmente di Un anno
sull’Altipiano di Emilio Lussu –, una testimonianza di portata europea
sulla vera natura della guerra, assolutamente all’altezza di Le Feu
di Barbusse o di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque e,
direi, con Mario Rigoni Stern, «il migliore [libro] che io abbia letto
sulla guerra del Quindici»6.
Lussu (1890-1975), interventista sardo, leggendario capitano della
Brigata Sassari7, in piena solidarietà con i contadini e i pastori a lui
2 «Un’operazione bestiale, per buoi e cavalli, non per un cavaliere di razza fenicia
quale io sono» scrive Lussu a Carlo Rosselli il 27 aprile 1936, in Lettere a Carlo
Rosselli e altri scritti di «Giustizia e Libertà», a cura di M. Brigaglia, Sassari, Ed. Libreria
Dessì, 1979, p. 128.
3 Lussu pensò a un partito in Italia e all’estero che doveva riunire tutte le forze
socialiste e mirare alla rivoluzione antifascista dotandosi in Italia di un braccio
armato sul tipo dello Schutzbund (Lega di Difesa Repubblicana) della socialdemocrazia
austriaca. Nel 1932 Lussu compì un viaggio a Vienna per prendere contatti
con il fondatore dello Schutzbund, Julius Deutsch.
4 Parigi 1936, poi ristampato dalla Jaca Book, Milano 1969. Il saggio esamina
come preparare, condurre e concludere un’insurrezione armata che avvii una rivoluzione
politica e sociale con l’esplicita finalità di spazzare via i vari fascismi ed
instaurare dei regimi democratici; particolare attenzione e diretti riferimenti sono
dedicati al fascismo italiano.
5 La Concentrazione antifascista si costituì a Parigi, il 28 marzo 1927, tra il PRI,
il PSI, il PSULI (nome assunto dai socialisti riformisti di Turati), la Lega italiana dei
diritti dell’uomo e l’ufficio estero della CGIL di Bruno Buozzi. Ne rimasero fuori il
Partito Comunista d’Italia e gli aderenti ai partiti non ricostituitisi in esilio (liberali,
popolari e altri).
6 M. Rigoni Stern, La testimonianza di un soldato su una guerra indimenticabile,
«L’Unione sarda», 20. 3.1965.
7 «Ho conosciuto qualche “grande capitano”; sono uomini molto rari, di grande
ascendente, rigorosi in primo luogo con se stessi, che sanno affrontare con la
[ 2 ] [ 3 ]
298 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 299
co in Italia senza farsi contagiare dall’eterna malattia del trasformismo.
Propugnatore del principio dell’autonomia regionale, e su scala
più ampia, del federalismo europeo, difese la reale indipendenza nazionale
dell’Italia, cioè l’equidistanza dai blocchi opposti, e propose la
riorganizzazione democratica delle forze armate13. Arrivato, nonostante
la salute precaria, a ottantacinque anni d’età, morì a Roma in
condizioni economiche modeste.
Diciamocelo pure: questo eroe di guerra, antifascista intrepido, politico
dalla fortissima fibra morale, teorico dell’insurrezione, scrittore
e senatore della Repubblica italiana vissuto realmente sembra piuttosto
il protagonista di un romanzo cavalleresco; una Divinità benigna
deve averlo protetto nei frangenti più critici del suo cammino come gli
dei di Omero i loro pupilli: è vissuto e ha agito al limite e non di rado
oltre il limite di quello di cui crediamo capaci i rappresentanti più
nobili e virtuosi della nostra specie.
2. Un libro italiano sulla guerra
Passiamo ora dal personaggio al suo capolavoro letterario e tentiamo
di renderci conto del suo messaggio, della sua poetica e del suo
rango nell’ambito della ricca produzione italiana sulla Grande Guerra.
Lasciamoci guidare dall’autore stesso. Nella concisa introduzione
del 1937 a Un anno sull’Altipiano ci dice quasi tutto l’essenziale sulle
sue intenzioni narratologiche. L’opera non è né un romanzo, né un
saggio storiografico e men che meno una «monografia da Stato
Maggiore»14 come avrebbero forse voluto due storici, Pozzato e Nicolli,
con la loro caccia alle sviste di Lussu nella ricostruzione delle vicende
al fronte15. Sono ricordi personali di alto valore documentario, anche
se, sempre secondo l’autore, «riordinati alla meglio»16, però «non
13 Per gli orientamenti politici di Lussu, particolarmente dopo il 1945, cfr. G.
Caboni, La forza della ragione, in Orrù, Rudas (a cura di), L’uomo dell’altipiano, cit.,
pp. 58-67. Cfr. anche B. Anatra, Un autentico leader nazionale, ivi, pp. 21-22.
14 Il 18 agosto 1935 Lussu scrive a Salvemini: «Per il libro sulla guerra, evidentemente,
io non mi sono spiegato. Non intendo affatto scrivere un libro di storia.
Esso sarà, press’a poco come La Marcia su Roma, un libro di ricordi personali e di
guerra vissuta. Un documento umano, non già una monografia da Stato Maggiore
». Cit. in G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, cit., p. 173.
15 P. Pozzato, G. Nicolli, 1916-1917. Mito e antimito. Un anno sull’altipiano con
Emilio Lussu e la Brigata Sassari, Bassano del Grappa, Ghedina & Tassotti, 1991.
16 Questa e le citazioni senza richiami che seguono sono desunte dalla menziosardi,
che fonda nel dopoguerra un partito classista di proletariato di
campagna e piccola borghesia intellettuale, l’autonomista Partito Sardo
d’Azione (PSd’Az); è difficile credere che Lussu ormai deputato e
aventiniano, siamo nel 1926, nel corso di un assalto programmato alla
sua casa di Cagliari, tenesse testa da solo – con inaudita ‘sprezzatura’
– a una folla di fascisti inferociti e che si salvasse, uccidendo, con un
colpo di pistola, uno degli assalitori e mettendo in fuga gli altri; si fa
fatica a credere che tre anni dopo il confinato, gravemente malato, febbricitante,
potesse evadere, insieme a Carlo Rosselli e Fausto Nitti, in
una rocambolesca fuga da Lipari a Parigi, dove partecipò alla costituzione
di «Giustizia e Libertà» e ne divenne capo dell’ala socialista; è
più facile parlare sul quasi cinquantenne scapolo – non per vocazione,
ma per responsabilità: era povero, ammalato e bersaglio di attentati –
che si arrende – per la verità, esitante – ad una bella, gagliarda e fermamente
decisa avventuriera di buona famiglia antifascista. Questa
contessa Gioconda Salvadori, alias Joyce, ventidue anni più giovane
dell’agognato capitano, si rivelò comunque negli anni futuri della
clandestinità in esilio e poi della Resistenza romana la compagna ideale
di tutte le sue spericolate imprese contro il regime e del suo percorso
politico e umano tout court. Dei molteplici piani di Lussu condotti a
buon fine, come l’organizzazione dell’imbarco clandestino degli antifascisti
più minacciati dopo l’occupazione della Francia nel 1940, fallì
tuttavia il più ambizioso: Prima da Lisbona e poi, trasferitosi, all’inizio
del 1942, a Londra, espose – invano – al governo britannico il suo progetto
per uno sbarco di antifascisti in Sardegna volto a suscitare un
movimento insurrezionale che diventasse la scintilla della liberazione
nazionale. Certo, una proposta «impolitica», dettata dall’impazienza
del rivoluzionario.
Divenuto, dopo la liberazione dell’Italia, da rivoluzionario e partigiano
uno dei padri della patria12, Lussu serviva la res publica ancora
per un trentennio, prima in seno al Partito d’Azione (PdA) come capofila
della corrente socialista, poi al PSI, di cui contrastò «l’anticomunismo
epilettico» dell’ala destra nonché la politica di centrosinistra,
«schietto e intransigente» (Pertini), scomodo, ostinato, sempre coerente
con se stesso, diede il lucido esempio di come si possa essere politi-
12 Lussu fu ministro dell’Assistenza postbellica nel governo Parri e ministro
senza portafoglio incaricato dei rapporti con la Consulta nel successivo governo
De Gasperi. Eletto all’Assemblea costituente, nel quadro della Commissione dei
settantacinque, incaricata di redigere la bozza della costituzione repubblicana, si
occupò in particolare delle autonomie regionali.
[ 4 ] [ 5 ]
300 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 301
esecuzioni e decimazioni, quelli subalterni insieme ai soldati le sabotano20.
Altri studiosi hanno reso il contenuto di questo memoriale particolare
con cinque o meno parole: «Generali pazzi e soldati morti»21, oppure
la «stupidità» e la «ferocia dei generali»22. Nicola Tranfaglia lo
dice più forbitamente commentando il processo interiore tramite il
quale Lussu, come molti altri intellettuali della sua generazione, sarebbe
passato dall’interventismo a un dichiarato antimilitarismo. L’esperienza
della guerra in trincea avrebbe provocato un conflitto lacerante
tra i miti assorbiti nelle scuole e nell’università – cioè patria, risorgimento,
ultima guerra di liberazione – e una realtà tragica e dolorosa,
«la divisione in classi della società esemplificata fin troppo chiaramente
[…] dal costo umano della guerra, pagato in primo luogo dai
poveri contadini analfabeti, a ragione estranei ai miti interventisti»23.
Sentiamo infine Lussu stesso: «Tutto il libro è la critica spietata alla
guerra-carneficina mostruosa»24. Ricapitoliamo dunque: Quello che
mancava a Lussu e che gli faceva dichiarare addirittura inesistenti i
parecchi libri sull’argomento esistenti da tempo in Italia, era un’autentica
denuncia di questa realtà tragica e inaccettabile del grande
conflitto, già fatta però, mutatis mutandis, da altri scrittori testimoni in
altri paesi. Da una lettera di Lussu a Salvemini del 25 agosto 1937 possiamo
inoltre desumere che la prima stesura della premessa contenesse
un’esplicita frecciata contro la conduzione italiana della guerra,
ovviamente parsa – con riguardo alla diffusione dell’opera in Europa
e oltreoceano – «diffamatoria» a Salvemini e poi cancellata. Paragonando
l’atteggiamento di Lussu nel primo dopoguerra con le «esitazioni
» oppure «l’umiliato silenzio» degli altri due più noti scrittori
interventisti democratici che erano pure sinceri antifascisti, Giani Stuparich
e Piero Jahier, non si trova nell’autore sardo nessun tentativo di
«riparare individualmente se stesso in un qualsiasi mito gratificante
20 M. Isnenghi, Emilio Lussu, cit., p. 320.
21 P. Padovani, Generali pazzi e soldati morti, «Paese Sera», 22. 1.1965.
22 M. Brigaglia, Emilio Lussu e «Giustizia e Libertà», Sassari, Edizioni della Torre,
1976, p. 202.
23 C it. in P. De Gioannis, Etica della pace in Emilio Lussu e nella memorialistica
sarda della «grande guerra», in E. Orrù, N. Rudas (a cura di), L’uomo dell’altipiano,
cit., p. 126.
24 Lettera a Salvemini, 1. 12. 1937, cit. in G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano di
Emilio Lussu, cit., p. 185.
alla fantasia ho fatto appello», ci avvisa, «ma alla mia memoria». Non
è nemmeno un’esposizione ideologica del giellista Lussu sulla grande
tragedia svoltasi vent’anni prima: «Non si tratta […] di un lavoro a
tesi: esso vuole essere solo una testimonianza italiana della grande
guerra», e, a questo punto sussultiamo continuando la lettura: «Non
esistono, in Italia, come in Francia, in Germania o in Inghilterra, libri
sulla guerra». Ma come? Allora erano già stati pubblicati in Italia tanti
libri di questo genere, tra cui alcuni notevoli come Con me e con gli alpini
di Piero Jahier (1919), Viva Caporetto! (poi riproposto col titolo La
rivolta dei santi maledetti) di Malaparte (1921), Le scarpe al sole di Paolo
Monelli (1921), Trincee di Carlo Salsa (1924) oppure Guerra del ’15 di
Giani Stuparich (1931)17. Qualche studioso, ingannato dall’elissi nella
comparazione, ha anche interpretato quest’affermazione sbalorditiva,
come se Lussu ritenesse, poco generosamente, che nessuna delle grandi
nazioni europee avesse un libro di guerra degno di menzione18.
Dunque, cosa intendeva Lussu davvero con questa frase perentoria?
La risposta sta forse in un’altra affermazione contenuta nella premessa,
del resto confermata saldamente da alcuni documenti extra-letterari:
«Io non ho raccontato che quello che […] mi ha maggiormente
colpito». Possiamo ragionevolmente supporre che quello «che ha
maggiormente colpito» il memorialista, costituisca anche il messaggio
centrale da trasmettere al lettore, perché questi abbia finalmente in
mano «un libro sulla guerra», che mancava fino ad allora in Italia (e
che altre nazioni invece possedevano). Quali sono allora i ricordi più
brucianti19, i casi esemplari rastrellati «alla meglio» e distribuiti sapientemente
nel libro? Ce lo riassume, con il solito laconismo, Mario
Isnenghi:
Nessun libro di guerra è così aspro e incalzante: l’artiglieria tira sulla
fanteria; i capi uccidono, fuggono, si ubriacano, impazziscono, vengono
uccisi; i reggimenti si ammutinano, gli ufficiali superiori ordinano
nata introduzione del 1937, contenuta anche nell’edizione dalla quale cito: Einaudi
19814 (Nuovi Coralli 84), p. 9.
17 Il Giornale di guerra e di prigionia che raccoglie tutti i diari che il sottotenente
degli alpini Carlo Emilio Gadda tenne tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919,
è uscito solo nel 1955.
18 C fr. Il saggio – peraltro eccellente – di F. Todero, Un anno sull’altipiano tra
letteratura e storia, in E. Orrù, N. Rudas (a cura di), L’uomo dell’altipiano, cit., p. 458.
19 S. Salvestroni ha rilevato che tali ricordi «hanno sempre un tratto comune,
sono legati cioè ad una realtà opprimente in cui l’uomo viene sacrificato stupidamente
o sono annientate le sue caratteristiche migliori, i valori più alti della sua
umanità» (Emilio Lussu scrittore, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 65).
[ 6 ] [ 7 ]
302 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 303
co della memoria, avremmo due io-narranti, uno del 1916/17 e uno
del 1936/37 che sono la stessa persona (su diversi stadi dell’evoluzione
interna ed esterna, si capisce). Quello del 1916/17 che combatte
valorosamente sull’altipiano di Asiago raccontandoci con sarcasmo
duro i quotidiani orrori, ha già la chiara coscienza dell’incompetenza
tecnica e dell’insufficienza morale dei superiori, per cui si devono
scontrare in lui il senso del dovere nei confronti della patria e un senso
iroso di responsabilità per i suoi soldati, nonché per il resto dell’umanità
vessata, dolente e sacrificata, che lo attornia. Tuttavia non si sofferma,
o assai raramente28, sulle sue delusioni, amarezze e rovelli esistenziali.
Vuole fare una «testimonianza italiana della grande guerra»,
non ripiegarsi sul proprio stato psichico-mentale di ufficiale ventenne.
Cova dentro di sé tutta la sua rabbia e la sua frustrazione per gli inutili
massacri ai quali i poveri fanti venivano inviati in nome di una
patria che li aveva da sempre soltanto sfruttati. È scisso tra l’etica del
dovere militare e l’etica della responsabilità per la vita dei suoi uomini,
tra i valori in nome dei quali era partito volontario per il fronte e la
consapevolezza dell’assurdità di questa guerra. Camillo Bellieni, reduce
della Brigata Sassari e uno dei fondatori del PSd’Az, ci presenta
bene le scissioni dell’amico e compagno: «Fu un vero comandante, fu
l’uomo dal pugno di ferro»29, ma a questo coraggioso soldato, ligio
alle dure regole della logica di guerra, dopo l’offensiva fallita sul Monte
Zebio,
[…] spuntarono le lacrime. Poi mi disse piano, perché nessuno sentisse:
“Sono stanco […] di fare il macellaio. Fino adesso avevo fatto l’uffi-
28 Fa eccezione la scena della morte dell’amico e compagno di studi, tenente
Mastini, che, in un momento di riposo prima dell’imminente assalto, viene centrato
da un colpo isolato nel bel mezzo di una conversazione su Omero: «Io ho dimenticato
molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Guardavo
il mio amico […] egli piegò la testa, la sigaretta fra le labbra e, da una macchia
rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente, egli piegò su se
stesso, e cadde sui miei piedi. Io lo raccolsi morto» (Cap. XI, p. 79). Ma qui parla
ormai, se vogliamo insistere sulla distinzione, l’io narrante di tanti anni dopo. Fa
eccezione anche un episodio chiave nel cap. XIX, quando il «capocaccia» Lussu, da
una posizione molto avvantaggiata, riflette se tirare o no contro un giovanissimo,
biondo ufficiale austriaco, inconscio del pericolo che gli sovrasta. Allentando la
pressione sul grilletto Lussu ripete per ben tre volte: è un uomo. E non si può tirare
su un uomo così come si spara su un cinghiale! Sembra l’unico – lungo – passo
del libro in cui brandelli di un monologo interiore si combinano con riflessioni
etico-morali (vd. cap. XIX, pp. 135-138).
29 Emilio Lussu, Cagliari, Il Nuraghe, 1924, p. 47.
[…] dal senso crudo della tragedia collettiva»25. Per non parlare poi
degli scrittori reduci dalla Grande Guerra compromessi col fascismo o
comunque da esso tollerati.
3. Lussu «giustificazionista» o rivoluzionario?
Torniamo al presunto «antimilitarismo» (Tranfaglia) dello scrittore
sardo: andrei cauta coll’uso di questo termine in accezione assoluta,
sia nel caso di Lussu «grande capitano» che possedeva tutta la balentia
del capocaccia – con un colpo di pistola spaccava una moneta da un
soldo lanciata in aria –, sia nel caso di Lussu teorico e pratico dell’insurrezione
che voleva fermare con le armi Mussolini e Hitler. In merito
al libro sulla Grande Guerra la questione è vedere fin dove sia giunto
il processo di erosione subita dall’interventismo di partenza. Fino al
rinnegamento degli antichi ideali26, fino alla condanna della «guerracarneficina
» tout court – sarebbe antimilitarismo, cioè opposizione
all’uso organizzato delle armi – o solo fino alla condanna della «guerra-
carneficina mostruosa» dello Stato Maggiore italiano? Chiediamo
aiuto all’autore. Il Lussu esiliato, che stende la già menzionata brevissima
introduzione all’edizione del 1937, spiega lo «statuto»27 della memoria
autobiografica come segue: «Io mi sono spogliato anche della
mia esperienza successiva e ho rievocato la guerra così come noi l’abbiamo
realmente vissuta, con le idee e i sentimenti d’allora» (p. 9).
Avremmo dunque un narratore intradiegetico, anzi autodiegetico, che
in una specie di unione personale coll’autore reale racconta gli eventi
dell’Altipiano di cui è stato protagonista o testimone. Tra io-narrante
e io-narrato corre, in linea di massima, la «distanza epica». Ma, l’abbiamo
sentito, l’autore vuole spogliarsi di questa distanza (che chiama
«esperienza successiva», p. 9). Ammesso che sia possibile un tale gio-
25 M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 208 e
251, nota 193.
26 Nella lettera a Salvemini del 1. 12. 1937 Lussu, riferendosi al capitolo XXV di
Un anno sull’Altipiano, chiarisce nei confronti dell’amico «il movente ideale» del
suo interventismo proprio con i concetti di «Giustizia e Libertà», proseguendo:
«[…] ed è per questo che io l’ho fatta [cioè la guerra] fino all’ultimo, per quanto
l’osceno modo con cui […] veniva condotta, mi spingesse a scappare» (per le citazioni
dal carteggio Lussu-Salvemini cfr. G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano di Emilio
Lussu, cit., pp. 184-185).
27 C fr. E. Bandini, Memoria della trincea: appunti sullo stile di Un anno sull’altipiano,
«Acme» 67, 2 (2014), p. 168.
[ 8 ] [ 9 ]
304 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 305
nominare da qualcun altro. L’utilizzo di un «nom substitué» al posto
del «nom absent»35 di chi «è stato il protagonista di queste pagine,
congiunto ad una scena dialogata in cui la voce narrante si eclissa dietro
la mera riproduzione delle battute», non credo metta addirittura
«in discussione il patto autobiografico stabilito nell’apparato
paratestuale»36 – il lettore capisce ben presto di chi si tratta –, ma genera
certamente un forte effetto di distanziamento dell’io-narrante
dall’io-narrato, volontario del 1916/17, che viene trattato alla pari di
qualunque altro dialogante ufficiale. Così l’io narrante Lussu del
1936/37 può allontanare da sé le proprie convinzioni interventiste di
allora che – i dati forniti dal libro, tutti sommati, ci permettono, anzi,
ci raccomandano questa ipotesi37 – non gli appartengono più. Dall’altra
parte Lussu, come pattuito col lettore, non accenna neanche alle
posizioni ideologiche maturate nel ventennio intercorso tra le esperienze
belliche e la loro elaborazione. Durante la conversazione il Comandante
della 10a compagnia non rinnega il movente politico, democratico-
risorgimentale del suo interventismo38 e difende la guerra italiana
come dura necessità, altrimenti vincerebbe l’autocrazia tedesca,
«l’ingiusta violenza» (p. 181) degli imperi centrali. Ottolenghi invece,
sulle cui parole ardenti si concentra tutta l’attenzione del lettore, non
solo giustifica l’ammutinamento ed esprime la sua solidarietà con i
soldati, ma arriva ad auspicare un ammutinamento generale in cui i
reparti facciano dietro front e poi vadano sempre avanti, fino a Roma,
«perché lì è il gran quartier generale nemico» (p. 179). E ci toglie il
fiato il suo fosco paragone che mette davvero in dubbio il concetto
della patria, ‘così com’è’: le nuove scarpe distribuite al battaglione con
sulle suole scritto in bei caratteri tricolori «Viva l’Italia» si rivelarono,
dopo un giorno di fango, fatte di cartone verniciato color cuoio. Le
scarpe sono un’inezia, ma, incalza Ottolenghi, «hanno verniciato la
stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci
conducono al massacro come delle pecore» (182).
35 I termini tecnici sono desunti da Ph. Lejeune, Moi aussi, Paris, Seuil, 1986,
pp. 70-72.
36 E. Bandini, Memoria della trincea, cit., p. 167.
37 C fr. S. Salvestroni, Emilio Lussu scrittore, cit., p. 79.
38 «Le ragioni ideali che ci hanno spinto alla guerra son venute forse a mancare
perché la guerra è una strage? […] Se così fosse, un pugno di briganti non ci
avrebbe perennemente in suo arbitrio, impunemente, solo perché noi abbiamo
paura della strage?» (p. 181) ribatte il Comandante della 10a alle insistenze di Ottolenghi
sulla guerra strage inutile. Il «pugno di briganti» sono ovviamente i tedeschi
e gli austriaci guerrafondai che minacciano la «civiltà del mondo».
ciale. Ora invece bisogna portare gli uomini al massacro senza scopo.
Ed alla fine il cuore si spezza”30.
Sdoppiamento della coscienza, certo, ma dove approda l’io-narratore
del ’16/17? Si spinge fino a posizioni antitetiche a quelle interventiste?
E quanti messaggi ha allora il libro? Senza dubbi uno esplicito,
appunto l’accusa spietata, spesso tragicomica della guerra di Cadorna,
così com’è stata condotta, e contemporaneamente la demolizione
del mito della Grande Guerra monopolizzato dal fascismo; un’altro
implicito forse, cioè l’abbandono lento e silenzioso degli ideali interventisti
dell’io-narrante per via della ressa delle nuove, sconvolgenti
esperienze belliche, che confluisce magari in un terzo, ancora più oltranzista,
espresso senza riserve dal tenente Ottolenghi, il simpaticissimo
«sovversivo» tra gli ufficiali di complemento, nel famoso capitolo
«ideologico» XXV ?
Questo capitolo, strutturato in forma di un dialogo tra ufficiali di
complemento dopo l’ammutinamento di alcuni dei loro reparti, è stato
dal primo inizio al centro di un animato dibattito interpretativo.
Salvemini lo voleva espungere, perché troppo radicale31, gli sembrava
che prevalessero le tesi «sovversive» del tenente Ottolenghi sulla
guerra come «inutile strage». Il giovane Franco Venturi lo voleva cancellare
per motivi estetici, perché spezzerebbe la continuità del racconto.
«Poco fuso nel contesto»32, «il più esteriore e didascalico del
libro»33 l’ha giudicato anche Isnenghi. Sembra invece del tutto logico
che dopo un ammutinamento, sia pure senza ricorso alle armi, gli ufficiali
ne discutano. Il fatto che stupisce tuttavia è la scelta quasi ex
abrupto (con poche righe introduttive) dell’impostazione da copione
teatrale. Un espediente formale per rendere «il più possibile mimetica
ed oggettiva» la discussione «in cui ognuno degli ufficiali-attori pronuncia,
a turno, la propria battuta»34? O semplicemente un trucco narratologico
per evitare l’impiego di un lungo e pesante discorso indiretto?
Stupisce, comunque, ancora di più che tra gli ufficiali, presentati
in parte col proprio nome, in parte col rango militare, compaia non
come «io», ma come «Comandante della 10a compagnia» quell’io che
finora ha condotto la narrazione senza mai dire il suo nome o farsi
30 Ivi, pp. 39-40.
31 Si può desumere dalla sopra citata lettera di Lussu del 1. 12. 1937.
32 M. Isnenghi, Emilio Lussu, cit., p. 321.
33 Id., Il mito della grande guerra, cit., p. 207.
34 E. Bandini, Memoria della trincea, cit., p. 167
[ 10 ] [ 11 ]
306 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 307
lazioni punitive che rischiano di abbattersi sulle compagnie ammutinate,
una soluzione inequivocabile: «Io sono per la fucilazione del comandante
la divisione» (p. 183).
4. «[…] cristallino, tagliente come un coltello»
Chi avesse visto soltanto il film di Francesco Rosi “Uomini contro”
del 1970, ispirato al libro di Lussu, potrebbe credere che Un anno
sull’Altipiano sia il truce lavoro di un mestierante, grondante di sangue.
Rosi e i suoi collaboratori (Tonino Guerra, Raffaele La Capria)
non rendono affatto giustizia (per difficoltà intrinseche a due diverse
forme dell’immaginario umano, cioè la parola e l’immagine?) all’originalità
della struttura, all’incanto estetico dello stile asciutto, alla bellezza
tagliente della scrittura, alla raffinata e ragionata ironia che, a
parte gli altri pregi, assicurano al libro un posto di primissimo rango
nella memorialistica internazionale della guerra. Riordinare, in stato
di convalescenza, in un sanatorio svizzero, probabilmente senza appunti
presi durante la guerra o subito dopo, affidandosi solo al lavorìo
della memoria, i ricordi di un lungo servizio militare non deve essere
facile. Crediamo dunque a Lussu, quando ci dice in apertura al volume,
con un sospiro prestato da Baudelaire: «J’ai plus de souvenirs que
si j’avais mille ans». Sappiamo comunque dal carteggio con Salvemini
che il Nostro fece già in un primo momento con grande intelligenza le
sue scelte narratologiche:
Io penserei non già di scrivere un libro, come sinora è stato fatto, dall’A
alla Z, cioè dalla mobilitazione generale all’armistizio, o quasi; ma un
libro che sia limitato ad una zona di operazione o a un gruppo d’azioni;
per es., l’Altipiano d’Asiago 1916-1917. […] Il fatto poi che io, che
ho fatto tutta la guerra, non parlo né del Carso, né della Bainsizza, né
del Piave ecc., ma mi limito solo a un settore dove son stato pochi mesi,
mi pare possa dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno durata
immensa della guerra, che è stato l’incubo più tragico per tutti i combattenti46.
Tornando all’argomento poco dopo egli spiega ulteriormente all’amico:
«In quel periodo […] ristretto […] io ho visto tante cose, che esse
sono più che sufficienti a dare un quadro completo della guerra
46 Lettera a Salvemini, 8. 8. 1935, cit. in G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano, cit.,
p. 171.
Che dire a questo punto? Siamo davvero «in uno spazio ideologicamente
‘di nessuno’»39, tra un ufficiale, nonostante tutto, «giustificazionista
» e un ufficiale «rivoluzionario»? Vale la tesi, suggerita da
Isnenghi, sull’emancipazione imperfetta di Lussu dalle proprie antiche
posizioni interventiste? Oppure l’Ottolenghi del ’16/17 è il Lussu
del ’36/37? Il Lussu agitatore sardista e fuoruscito leader dell’ala sinistra
di Giustizia e Libertà, che ha appena pubblicato la Teoria dell’insurrezione
e si reca, ancora convalescente, in Spagna per arruolarsi al
battaglione «Garibaldi». Mentre per Isnenghi l’«intensa ricognizione
della condizione proletaria in guerra» compiuta da Lussu in Un anno
sull’Altipiano rimane proiettata in un no man’s land ideologico, «ben al
di là del socialismo umanitario, ma al di qua di una rigorosa antitesi
rivoluzionaria»40, altri hanno interpretato la tensione prodotta dal
contrasto tra l’impegno democratico-interventista del Lussu ufficiale
e «le convinzioni marxiste dell’autore quarantacinquenne»41 in senso
opposto. Tra questi ultimi si trovano i già citati Falaschi, la Salvestroni,
Paolo Sanna42 oppure un esperto di Lussu politico e teorico come
Manlio Brigaglia che sostiene:
Il Lussu del 1936-37 riguarda il Lussu del 1916-17 come un esemplare
umano affatto distinto da sé, legato […] alle proprie (limitate) esperienze
politiche prebelliche: in questo “estraniamento”, in questo rifiuto
di salvarsi e scusarsi, è il fascino del libro43.
Arnaldo Di Benedetto in un ampio panorama recente sul capolavoro
di Lussu, nel quadro di altre testimonianze italiane e internazionali
sulla Prima guerra mondiale, mette in rilievo l’impostazione polifonica
del capitolo XXV che non avrebbe «una vera tesi vincente o logica
conclusione»44. Nondimeno, concludendo le sue considerazioni
equilibrate, Di Benedetto dà l’ultima parola a Ottolenghi, sognatore di
«una vera rivoluzione popolare» 45, che propone, per scansare le fuci-
39 M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit., p. 207.
40 Ibidem.
41 K. Du Pont, La memorialistica della Grande Guerra. Uno sguardo dal basso sulla
letteratura italiana, «Romaneske», 24. 1. 1999, p. 57.
42 Cfr. Emilio Lussu scrittore, Padova, Liviana, 1965, pp. 75-76: «[…] partito da
posizioni interventistiche, di origine post-risorgimentale, egli approda a posizioni
antitetiche».
43 Cfr. Emilio Lussu e «Giustizia e Libertà», cit., p. 202.
44 A. Di Benedetto, «Un anno sull’Altipiano» di Emilio Lussu. La guerra smitizzata,
«Giornale storico della letteratura italiana», CXCII (2015), fasc. 637, p. 71.
45 Ibidem.
[ 12 ] [ 13 ]
308 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 309
ginale riguardo a un personaggio così compatto come Lussu, pur tenendo
conto della strategia editoriale e pubblicitaria (traduzione inglese
nel 1939) per la quale si adoperavano gli amici e compagni fuorusciti
dell’autore, desiderosi di poter annoverare il libro di un antifascista
italiano tra i pochi «classici» sulla guerra53. Il dibattito sullo stile
e specialmente sulle sue «fonti» è aperto da decenni, precisamente dal
1951, quando Claudio Varese sul numero speciale de «Il Ponte» sulla
Sardegna54 riferiva lo stile della scrittura lussiana alla più schietta tradizione
letteraria italiana. Al contrario un’altra corrente critica tentava,
a partire dagli anni ’70, di farlo provenire dall’origine sarda del
nostro scrittore. È stata una studiosa non sarda, la già citata Simonetta
Salvestroni, a dare il via alla ricerca dell’originalità, ma anche della
pungente ironia di Lussu55 scrittore nel racconto popolare sardo, tramandato
oralmente, laddove il suo moralismo e la sua etica anticlassista
deriverebbero dall’impostazione sociale patriarcale e priva di classi
sarda. Non c’è da meravigliarsi che sia presto convogliata in questa
linea interpretativa una certa critica isolana mettendo in moto un processo
di «“rientramento” ideologico in senso nazional-regionalistico
della personalità di questo autore»56. Ora, basta leggere qualche pagina
di Un anno sull’Altipiano oppure della Marcia su Roma e dintorni per
capire che quello che può apparire «spontaneità» e «immediatezza»
dell’espressione, insomma patina di oralità popolare, è costruito in verità
dalla sottile intelligenza, o meglio, dal genio condensatore di una
mente colta e lucidissima. La «regionalizzazione» dell’uomo e del suo
stile sembra non solo angusto e parziale, ma, per prendere in prestito
una felice formula di Leonardo Muoni, «paradossalmente ingeneroso
» nei confronti sia dello scrittore che del politico e internazionalista
Lussu che si è ispirato consapevolmente alla grande cultura e letteratura
europea e italiana. Semmai la fonte dello stile di Lussu andrebbe
53 «Libri di guerra che si possono leggere ancora con qualche profitto […] –
dell’enorme massa che, in oltre vent’anni, è stata offerta in pasto al pubblico europeo
– sono in tutto cinque o sei: Le Feu, Les croix de bois, Im Westen nichts Neues,
Journey’s End, L’Equipage», scrisse S. Trentin nella sua recensione a Un anno
sull’Altipiano, «Giustizia e Libertà», V, maggio 1938.
54 Nn. 9-10 (1951).
55 C i si poteva richiamare a Lussu stesso che affermò «L’ironia che mi viene
attribuita come caratteristica dei miei scritti non è mia, ma sarda. È sarda atavicamente
[…]», cit. in Fiori, Il cavaliere dei Rossomori, cit., p. 258. Ma anche Fiori, il
biografo, aggiunge, sulla stessa pagina: «un’affermazione riduttiva, senz’altro».
56 L. Muoni, Spunti critici per una definizione dello stile di Emilio Lussu, in E.
Orrù, N. Rudas (a cura di), L’uomo dell’altipiano, cit., p. 256.
italiana»47. Il trattamento delle dimensioni tempo, spazio e «storia»
nel discorso narrativo di Lussu si distingue dunque per il mezzo della
limitazione e, vorrei dire, dell’episodicità paradigmatica: singolo anno,
spazio ristretto, singole azioni, vicende dei «protagonisti» (l’ionarrante,
tenente Ottolenghi, tenente Avellini, generale Leone, generale
Piccolomini, maggiore Melchiorri, i diversi ufficiali vittime del
cognac come il colonnello Abbati, “zio Francesco” ecc.) sapientemente
alternate alle vicende collettive, quando l’io si immerge nel noi della
trincea o degli attacchi e contrattacchi. Qui l’autore usa un vecchio e
provato strumento per «epicizzare» la guerra scegliendo un segmento,
appunto l’anno sull’altipiano di Asiago, adatto – per la ricchezza di
elementi sintomatici e rappresentativi – a suggerire la totalità. Così,
per dirla con lui, può dare al lettore, costretto a prolungare avanti e
indietro nel tempo il racconto, «l’impressione esatta del fenomeno durata
immensa della guerra»48. Di «una moderna Iliade»49 parla Fabio
Todero nel suo saggio pieno di empatia per Lussu e ci ricorda a proposito
anche un drammatico brano del libro, la scena della morte improvvisa
del tenente Mastini50, che riporta proprio un dialogo sull’opera
di Omero.
Prima di soffermarmi sul tratto distintivo dell’opera, cioè l’ironia,
toccherò brevemente questioni stilistiche in senso più stretto. Nessuno
metterà in dubbio che la prosa lussiana presenti una struttura essenzialmente
paratattica, fortemente ritmata (anche da una punteggiatura
abbondante e puntigliosa), volta alla chiarezza e l’efficacia comunicativa
che si addice a un’opera di testimonianza. Non c’è traccia di
patetismo o di retorica. Il linguaggio è sobrio, scevro da dialettismi e
popolarismi, tutto assunto dal patrimonio lessicale nazionale, né
sciatto, né lezioso, la lingua della borghesia colta. In questo senso Paolo
Sanna ha parlato della tendenza della lingua di Lussu «all’italiano
assoluto»51. Far risalire la concisione e condensazione di questa scrittura
alla consapevolezza dei destinatari del libro52, cioè allo scopo della
sua traducibilità in lingue straniere, mi sembra un argomento mar-
47 Lettera a Salvemini, 18. 8. 1935, cit. Ibidem.
48 Lettera a Salvemini, 8. 8. 1935, cit. Ibidem.
49 Un anno sull’altipiano tra letteratura e storia, cit., p. 468.
50 C fr. nota 28 del presente lavoro.
51 Cfr. Emilio Lussu scrittore, cit., p. 112.
52 Argomento adottato da G. Falaschi, Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu,
in Letteratura italiana. Le Opere 1921-1938, dir. A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2007,
pp. 611 e 643.
[ 14 ] [ 15 ]
310 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 311
bersaglio59. Il lettore vede sfilare davanti ai suoi occhi i fatti ricordati e
presentati come in un film. Con questo procedere ironico-iconico Lussu
centra i noti bersagli: la retorica bellicista e patriottarda (il duca
d’Aosta che ha «una bella voce», ma poche «capacità militari»; la gaffe
del sindaco che recita «bello è morire per la patria» davanti a una brigata
che si spera un po’ di riposo e la pronta reazione del gagliardo
tenente Grisoni che brinda al «re di coppe» invece che al re Savoia –
cap. 1); gli alti ufficiali impreparati e inadeguati al loro ruolo che impartiscono
ordini illogici, ingiusti, perfino folli (la tragedia del tenente
Santini costretto a eseguire un ordine impossibile tra i reticolati nemici,
cap. XII, oppure la sanguinosa pagliacciata delle corazze «Farina»
ordinata dal generale Leone, cap. XIV); lo spreco criminale delle vite
dei soldati (l’assalto «suicida» comandato dall’ambizioso capitano
Bravini, cap. XV), e dopo i massacri la declamazione e la strumentalizzazione
dei combattenti-martiri (esempi distribuiti per i diversi capitoli,
incarnazione per eccellenza di questa gerarchia militare ottusa e
degenerata è il sinistro e terribile generale Leone, basato, come altri
protagonisti del libro, su un personaggio autentico, il torinese generale
Giacinto Ferrero). Comunque, l’inettitudine e il cinismo di questi
comandanti, l’abbiamo detto inizialmente, per Lussu non è che lo
specchio della classe dirigente italiana tout court, arrogantemente inadeguata
ai suoi compiti e doveri, preoccupata esclusivamente dei propri
interessi di ceto egemone, e non dei più elementari bisogni del
popolo, cioè dei contadini, pastori, operai e artigiani che facevano la
guerra. Torna quasi in ogni capitolo il tema dell’abbrutimento, dell’annientamento
«della dignità e del valore della persona umana, avvilita
– come riassume la Salvestroni – da forze esterne e interne all’individuo,
dall’arbitrio dei generali come dalla propria debolezza e
passività»60. Si pensi alla schiera di tenenti, capitani, colonnelli con la
borraccia di cognac in mano che si muovono tra le truppe rifornite di
alcool più regolarmente che di vestiario (il sottotenente Montanelli
nudo sotto l’impermeabile abbottonato, cap. XVI) in una guerra che
non ha niente di grandioso e eroico, ma sembra combattuta da cantina
contro cantina (l’alcool come «benzina» dei combattenti, fine cap. IV;
l’attacco degli austriaci a Monte Fior, inizio cap. VI)).
In questo mondo paradossale succedono innumerevoli cose che
smontano radicalmente il mito costruito, con magniloquenza dannun-
59 L. Sole, La scrittura evento di Un anno sull’altipiano, in G. Falaschi, Un anno
sull’Altipiano…, cit., p. 431.
60 Emilio Lussu scrittore, cit., p. 79.
ricercata nella migliore prosa moderna d’inizio secolo, sostiene Muoni,
nella linea vociana oppure nella prosa anticonformistica dei
Gramsci, dei Gobetti, dei Rosselli. Todero, seguendo Salinari, colloca
lo scrittore sardo non solo tra gli «Omeridi», ma anche tra i neorealisti57.
Ma veniamo finalmente alla caratteristica più spiccata della narrazione,
anzi, direi la sua quintessenza: l’ironia. L’ironia corrosiva e
amara è il filo rosso, come si è detto, che tiene insieme gli episodi liberamente
allineati, è lo schermo con cui un uomo di forte fibra morale
si pone di fronte all’universo crudele e assurdo del «cadornismo» in
cui è immerso da volontario, è il commento implicito smascherante il
mito della guerra che costringe a sua volta il lettore, divertito o sorpreso
che sia, di commentare il racconto dentro di sé. L’ironia dà al racconto
splendore e al lettore – non esito a dirlo – piacere. Sarà forse quel
piacere catartico che intendeva Aristotele parlando della tragedia.
Questo strano piacere che sentiamo leggendo il racconto lussiano di
una e mille tragedie italiane e che ci induce a dire: «Che bel libro!»
Molto intelligentemente cerca di analizzare questo piacere Leandro
Muoni adducendo l’esempio della Marcia su Roma e dintorni. Ma, esattamente
lo stesso si potrebbe dire di Un anno sull’Altipiano:
[…] dove maggiormente si coglie il piacere e si assapora il gusto del
proseggiare ironico ([…] si ha l’impressione, leggendo certe pagine
magistrali di Lussu, che lo scrittore si diverta a costruire tutt’altro che
elementari e speditivi dialoghi e discorsi, nei quali la componente ironico-
sarcastica gioca un ruolo anche estetico determinante). […] In
questo libro l’ironia si combina per così dire esteticamente, e quasi edonisticamente,
con il motivo di fondo, che`è, come è noto, il severo atteggiamento
antifascista e resistenziale […]58.
Qui s’intende, l’abbiamo detto ripetutamente, l’ironia tagliente e
dissacrante, che smaschera la discordia tra realtà e retorica, il sarcasmo,
il paradosso, non l’umorismo o, semmai, l’umorismo nero. «Le
style», si sa, «c’est l’homme même» e la Weltanschauung di Lussu è
eroico-etica, non umoristica. L’ironia scaturisce sempre dall’abisso tra
l’ideale e la realtà. Tuttavia, essa è un’arma ambivalente: arma di autodifesa
e arma di attacco. La frase di Lussu, nella sua dinamica iconicità,
funziona rispetto all’evento narrato come un fucile puntato sul
57 Un anno sull’altipiano tra letteratura e storia, cit., p. 459.
58 L. Muoni, Spunti critici per una definizione dello stile di Emilio Lussu, cit., p.
260. Corsivo di chi scrive.
[ 16 ] [ 17 ]
312 renate lunzer cavaliere rosso senza macchia e senza paura 313
quell’unica volta, il tiratore scelto austriaco dormiva (cap. XVIII). In
questo mondo alla rovescia la caduta dello stesso comandante nel
burrone sarebbe una fortuna desiderata da tutti, ma invano. Il suo
malcauto salvatore viene quasi linciato dai compagni: «Imbecille, oggi
tu hai disonorato la sezione!» (cap. IX). Il comandante può dunque
ancora preparare e lanciare tranquillamente disastrosi assalti come
quello notturno al suono di trombe, ributtato prontamente dagli austriaci
avvisati così bene (cap. X), un «trionfo dell’irrazionale […] e
un’immagine veramente apocalittica»64. Dopo Leone arriva il generale
Piccolomini, «uno spirito pedagogico», che, pur annunciando subito
una conferenza sull’«Accordo delle intelligenze», scambia il giureconsulto
Paolo con il santo omonimo e una latrina da campo con una postazione
di mitragliatrice (cap. XX).
La guerra e gli altri gravi difetti del mondo non sono sopportabili
senza l’aiuto dell’estraniazione, ve ne esistono comunque vari modi.
Uno lo spiega e lo pratica il sopra citato colonnello esperta de L’arte di
prepararsi i liquori da se stessi:
Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo.
È da oltre un anno che io faccio la guerra […] e finora non ho visto
in faccia un solo austriaco. Eppure di uccidiamo a vicenda, tutti i giorni.
Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per
questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra.65
Lussu non usa l’alcool, è astemio, ma anche lui ha bisogno di estraniarsi
dall’inferno che lo circonda, bisogno di difendersi contro la «distruzione
della ragione». Lussu legge e usa l’ironia, autosalvifica o
demistificante, che sia. Lui e il suo attendente hanno «la sola biblioteca
ambulante dell’armata»66. Il tenente, poi capitano Lussu legge l’Orlando
furioso e Les fleurs du mal confrontandosi con le antinomie dello spirito
occidentale, l’attendente legge Bertoldo e Bertoldino e un (eternamente
anonimo, mancano le prime pagine) libro sugli uccelli. I libri
suscitano ilarità e ribrezzo dei compagni. Ilarità canzonatoria dell’elegantissimo
tenente di cavalleria del reggimento «Piemonte Reale»:
non avendo mai letto Ariosto scambia l’Orlando furioso con Orlando
ministro di Grazia e Giustizia nel governo Boselli (cap. XVI). Ribrezzo
del sottotenente Montanelli, ormai completamente abbrutito, senza
biancheria, ricovero delle cimici bruciato:
64 F. Todero, Un anno sull’altipiano tra letteratura e storia, cit., p. 467.
65 Lussu, Un anno sull’Altipiano, cit., p. 37.
66 Ivi, p. 114.
ziana, intorno alla Grande Guerra redentrice. Smontata per esempio
una delle «più insistite immagini sociali negative additate dalle autorità
all’esecrazione delle truppe, il disertore»61: dopo uno scambio di
fucilate, in cui i presunti bosniaci si rivelano degli altri italiani appartenenti
allo stesso battaglione, il soldato Marrasi Giuseppe si consegna
ai propri commilitoni creduti austriaci. I «ritrovati» commilitoni
(Lussu incluso) si dimostrano però tranquillamente estranei all’esecrazione
o denuncia di questo «delitto» e ci ridono su (cap. III). Oppure
«l’arte militare in corso»62: ordini e contrordini confusi e insensati
tra Monte Fior (il cui possesso è completamente inutile) e Monte Spill
fanno correre i soldati su e giù come macchiette chaplinesche, future
vittime di un orrendo macello finale. Commento «eccitatissimo» del
capitano Canevacci: «Quelli che comandano l’esercito italiano sono
austriaci!» (cap. VII). Durante l’infuriare del combattimento a Monte
Fior un colonnello a Monte Spill disserta con Lussu dell’alcool come
primum movens del combattente: «Ufficiale sbagliato» (autodefinizione),
con in corpo otto generazioni di ufficiali piemontesi in linea retta
che lo hanno «rovinato» – la sua vera carriera era quella dello studioso
di letteratura – si difende bevendo e studiando il suo libro preferito,
L’arte di prepararsi i liquori da se stessi:
Così, io posso prepararne quanto ne voglio. Lo so, c`è una bella differenza
fra l’alcool distillato e quello in polvere. Ma meglio così che niente.
– Arte rara, dissi io.
– Rara, – ripeté il tenente colonnello. Mi creda, vale l’arte della guerra
(fine cap. IV).
In questo mondo della disperazione e del grottesco imperversa un
sadico pazzo come il tenente generale Leone, incarnazione della violenza
sociale63, che fa rischiare ai propri soldati la vita in azioni dimostrative
insensate (paradigmatica è l’agghiacciante scena dell’ingenuo
caporale che si sacrifica obbedendo al demente ordine di Leone di
esporsi senza copertura al tiro nemico, cap. VII). Ogni lettore partecipa
alla frustrazione degli ufficiali festeggianti, bicchiere in mano, dal
capitano in giù, quando l’odiato comandante la divisione creduto
morto riappare vivo e vegeto (cap. XVII), oppure al furore che prende
l’ingegnoso tenente Ottolenghi per il fallito tentativo dell’«esecuzione»
premeditata del generale alla famigerata feritoia 14, fallito perché,
61 M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit., p. 248, nota 179.
62 Lussu, Un anno sull’Altipiano, cit., p. 55.
63 C fr. M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit., p. 207.
[ 18 ] [ 19 ]
314 renate lunzer
E tu leggi? Mi fai pena. La vita dello spirito? È comico, lo spirito. […]
L’uomo del bisonte aveva una vita dello spirito? Noi vogliamo vivere,
vivere, vivere.
– Non è detto che, per vivere, sia obbligatorio sopprimere la camicia.
– Bere e vivere. Cognac. Dormire e vivere e cognac. Stare all’ombra e
vivere. E ancora del cognac. E non pensare a niente. Perché, se dovessimo
pensare a qualcosa, dovremmo ucciderci l’un l’altro e finirla una
volta per sempre. E tu leggi?67
Lussu combatterà per tutta la sua vita contro ogni «stordimento»,
ogni tentativo di svalorizzare o opprimere la nostra umanità, contro
ogni oscuramento della ragione. «Cristallino e tagliente come un coltello
» disse Tabucchi del suo stile. In effetti, questo coltello voleva scoprire
e resecare la cancrena, prima che avvelenasse tutto. Si è anche
detto che la vita di Lussu si legge come una favola epica. Ogni epica
ha un eroe, ma il sardo è un eroe moderno, senza pathos, e la sua concezione
«eroica» della vita – della vita «in quanto compito austero che
si deve compiere in piedi, con coraggio, senza mistificazioni né ostentazioni
smargiasse»68 – trova il suo riscontro nella verifica ironica. Egli
è un genio antitetico: dietro il suo sarcasmo si cela un turbamento profondo,
dietro il paradosso la nuda e spesso cruda verità. Per un uomo
come lui, che viveva nel segno della virtus, o se vogliamo «sardizzarlo
», della balentia, l’ironia non è che la compensazione dell’insufficienza
del mondo. Insufficienza sempre controbilanciata dalla speranza in
un progresso sociale e politico, come si addice a un cavaliere rosso
senza macchia e senza paura.
Renate Lunzer
(Universität Wien)
67 Ivi, pp. 112-113.
68 L. Muoni, Spunti critici per una definizione dello stile di Emilio Lussu, cit., p.
259.
[ 20 ]
GRAZIELLA BASSI
Ser Ciappelletto – Manfredi di Svevia:
due anime allo specchio
L’intuizione dell’esistenza di rapporti intertestuali tra Decameron I, 1 e Purgatorio
III trova conferma nella lettura comparata dei due testi, che offre riscontri di
tipo lessicale, retorico e tematico; in particolare, la disposizione a chiasmo degli
echi danteschi in Boccaccio permette di formulare una proposta interpretativa
della figura di ser Ciappelletto e del suo destino ultraterreno, in stretta
correlazione con quella di Manfredi di Svevia.

The intuition of intertextual ties linking Decameron I, 1 to Purgatorio III finds
confirmation through a comparative reading of the two texts, setting out lexical,
rhetorical and thematic similarities. In particular, the chiasmus structure of
the Dantean echoes in Boccaccio allows the formulation of an interpretation of
the character of ser Ciappelletto and his afterlife, closely tied to that of Manfred
of Swabia.
Un segno è qualcosa conoscendo
il quale conosciamo qualcosa di più
(Ch.S. Peirce)
Questi segni mi hanno sedotto, sono
portatori del movimento che si è
realizzato in me
(J. Starobinski)
1. Il presente lavoro è nato dall’intuizione dell’esistenza di uno
stretto legame strutturale e tematico tra la prima novella del Decameron,
quella che le antologie scolastiche solitamente intitolano Ser Ciappelletto,
e il terzo canto del Purgatorio di Dante. Tale rapporto è suggerito
da elementi di tipo lessicale e retorico: «E, se egli si pur confessa, i
peccati suoi son tanti e sì orribili, che il somigliante n’averrà, per ciò
che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere» (Decameron,
I, 1, § 25). La lettura di questo passaggio richiama alla mente il verso
dantesco: «Orribil furon li peccati miei» (Dante Alighieri, Pg., iii, v.
Contributi
316 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 317
l’uso antifrastico del modello dantesco, che è una delle linee di forza e
di originalità del più maturo accostarsi boccacciano al suo primo “maestro
di studi e di stile”»5, mentre nel ricordo del «libro Galeotto»
un’ombra di malizioso sorriso.
L’influenza del poema dantesco è riscontrabile anche nel parallelismo
tra l’«orrido cominciamento della peste» e la condizione negativa
in cui si trova Dante nel primo canto6; la «montagna aspra e erta» e la
selva «aspra» e «selvaggia»; il disfacimento fisico provocato dalla pestilenza
e il disfacimento morale che ha in Firenze il suo centro di riferimento
costante: il legame che unisce l’apertura di due opere pur diverse
«riaffiora così più chiaramente seguendo la traccia lasciata dalle
assidue memorie dantesche nella scrittura di Boccaccio»7. Lo stesso
Bettinzoli rileva una netta preponderanza di citazioni dall’Inferno dantesco
nella prima parte dell’Introduzione, scelte per contiguità tematica
o stilistica8. Bettinzoli e Hollander, indipendentemente l’uno dall’alsivo
al verso di Inferno V in cui Francesca spiega a Dante – personaggio che l’amore
tra lei e Paolo è nato durante la lettura di un romanzo cavalleresco, Le Chevalier
de la Charrete, in cui Galehault funge da intermediario d’amore tra Lancillotto e
Ginevra, proprio come il romanzo, a sua volta, favorisce il suo adulterio. Si potrebbe
quindi supporre che l’autore intendesse mettere in guardia il lettore dal
leggere il Decameron per non rischiare di finire all’Inferno, ma questo pare improbabile;
sembra invece più plausibile che col doppio riferimento – a Dante e a
Chrétien de Troyes – egli puntasse a «nobilitare in senso cortese il mondo culturale
fiorentino» (G. Boccaccio, Decameron, Introduzione, note e repertorio di cose (e
parole) del mondo di A. Quondam, Testo critico e Nota al testo a cura di M. Fiorilla,
Schede introduttive e notizia biografica di G. Alfano, Milano, BUR, 2013,
pp. 67-68). Secondo Battaglia Ricci e Bragantini, Boccaccio intende chiarire che il
fine del libro è quello di «consolare gli afflitti», perché egli ha verificato su di sé il
potere salvifico e rasserenante della parola, e difendere la letteratura cortese e
cavalleresca dalle accuse di immoralità che le giungevano da Dante e dagli ordini
religiosi. Boccaccio ripropone proprio quegli incriminati modelli di vita per la rigenerazione
del mondo umano dalla rovina causata dalla peste ed esalta la funzione
edonistica del libro, sottolineando più volte l’onestà della lieta brigata, mai
scalfita dalla tentazione di sovrapporre letteratura e vita in cui erano fatalmente
caduti Paolo e Francesca. Cfr. L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino, Roma,
Salerno Editrice, 2000, pp. 184-187; R. Bragantini, Il governo del comico. Nuovi
studi sulla narrativa italiana dal Tre al Cinquecento, Manziana (Roma), Vecchiarelli,
2014, pp. 22-23.
5 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, I, cit.,
p. 270.
6 G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 73.
7 R. Hollander, The sun rises in Dante, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping
Force of Satire, cit., p. 242.
8 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, I, cit.,
121). La riflessione è scaturita dalla disposizione a chiasmo dell’espressione
di Boccaccio rispetto al verso di Dante, sui cui possibili significati
si è condotta un’indagine attraverso la lettura comparata dei
due testi, indagine che ha permesso di riscontrare altre reminiscenze
testuali e calchi verbali.
Se è nota la grande ammirazione che, nel corso di tutta la sua vita,
Boccaccio nutre nei confronti di Dante, è altrettanto accertato che la
Commedia rappresenti per lui un modello. Come già arguiva Bettinzoli
nel 1982,
[…] non può sorprendere che tanta devota ammirazione si traduca […]
in un sistema fittissimo e articolato di riprese linguistiche, stilistiche, di
pensiero, che si snoda dalle prime e ancora incerte sperimentazioni
letterarie lungo l’intero arco dell’opera boccacciana, trovando nel Decameron
il luogo di più complessa e polivalente definizione, l’asse intorno
a cui ruota e si raccoglie una lunga sequela di prove variamente
riuscite1.
Secondo Delcorno, il dantismo in Boccaccio segue un’evoluzione che
va dalla citazione scoperta all’allusione segreta e sottile, tramite una
particolare tecnica di sfumature e di variazioni che raggiungerà la perfezione
proprio in alcune pagine del Decameron2. Anche Hollander osserva
che il novelliere boccacciano è zeppo di dantismi, ma sembra
stupirsi che la loro presenza sia risultata impercettibile a tanti studiosi
e trova una risposta a una così scarsa attenzione nel tono dell’opera,
che definisce «sbagliato»3. Sia Bettinzoli sia Hollander evidenziano come
la prima citazione dantesca si trovi già in quello che viene impropriamente
indicato come «sottotitolo dell’opera», Prencipe Galeotto; il
secondo, poi, sostiene che tramite il sottotitolo Boccaccio intenda chiarire
che nessun altro testo letterario sia così importante per lui come la
Commedia di Dante4. Bettinzoli, inoltre, coglie nell’intitolazione «quel1
A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, I. I
registri ‘ideologici’, lirici, drammatici, in Studi sul Boccaccio, vol. XIII, Firenze, Sansoni,
1981-1982, p. 267.
2 C. Delcorno, I dantismi nella Fiammetta, in Studi sul Boccaccio, vol. XI, Firenze,
Sansoni, 1979, p. 273.
3 R. Hollander, Boccaccio’s Dante and the Shaping Force of Satire, Ann Arbor,
The University of Michigan Press, 1997, p. 3.
4 Id., The proem of the Decameron, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of
Satire, cit., p. 100. La nuova edizione Bur 2013 del Decameron, nella Scheda dell’opera
curata da G. Alfano, evidenzia come Boccaccio abbia voluto rendere il lettore
consapevole del proprio ruolo, associando al titolo un sottotitolo altamente allu-
[ 2 ] [ 3 ]
318 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 319
Ricci15), anche alla luce degli studi più recenti16, dai quali sono emerse
la ricchezza e l’articolazione della biblioteca di Boccaccio, sorprendenti
per la quantità e la qualità delle opere filosofiche a lui note e le sue
delibazioni di testi classici, indici dello spessore culturale e della densità
concettuale del progetto implicito nella sua intera produzione.
A riprova della contiguità tra la Commedia e il Decameron, come sottolinea
Hollander, Vittore Branca ci ha ricordato che entrambe le opere
cominciano facendo riferimento a eventi o date che segnano il trentacinquesimo
anno di vita dei rispettivi autori. La percezione di un autore
protagonista recentemente sfuggito a una situazione potenzialmente
letale pervade entrambi i testi. Nella loro precedente difficoltà
ognuno è stato aiutato dal consiglio di un amico: in Dante questi era
Virgilio, inviato da Beatrice; in Boccaccio il consigliere mediato è Ovidio
con i suoi Remedia amoris, ripresi nel Proemio; ma è anche lo stesso
Dante, come dimostra il sottotitolo allusivo a Inferno v17. L’influenza
della Commedia, molto ricca dal punto di vista quantitativo, assume le
più varie sfaccettature, che vanno dalle coloriture più accese dell’Inferno
all’elegia del Purgatorio alle note polemiche dei canti di Cacciaguida
nel Paradiso o ai toni indignati contro la mondanizzazione del
clero. L’estrema audacia con cui Boccaccio si muove, fondendo e contaminando
materiali che trasferisce da un contesto all’altro, lo conduce
alla definizione di uno stile mutevole, che rispecchia la volubilità
delle forme di vita e la molteplicità del reale. Egli sovrappone, interseca
e intreccia i materiali più diversi adattandosi ai differenti codici
linguistici e rendendo più efficace la comunicazione. Le citazioni non
sono quasi mai scoperte ed immediate, ma, nella loro allusività, rivelano
una rielaborazione profonda. La frequenza policroma delle presenze
dantesche ha dunque un peso notevole sullo stile di Boccaccio,
che si è imposto come modello della tradizione narrativa18.
15 L. Battaglia Ricci, Scrivere un libro di novelle. Giovanni Boccaccio, autore, lettore,
editore, Ravenna, Longo, 2013, p. 36 e passim; cfr. anche R. Bragantini, Il governo
del comico, cit., pp. 22-23.
16 T ra gli studi più recenti si segnalano: I. Candido, Boccaccio umanista. Studi su
Boccaccio e Apuleio, Ravenna, Longo, 2014, p. 14 e pp. 141-158; i due saggi: G. Zak,
Boccaccio and Petrarch, pp. 139-154, e T.F. Gittes, Boccaccio and Humanism, pp. 155-
170, entrambi in G. Armstrong, R. Daniels et al. (eds.), The Cambridge Companion
to Boccaccio, Cambridge, Cambridge University Press, 2015.
17 R. Hollander, The proem of the Decameron, in Boccaccio’s Dante and the the
Shaping Force of Satire, cit., pp. 100-101.
18 C fr. A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron,
II., cit., passim.
tro, sono giunti a conclusioni molto vicine, ovvero alla chiarificazione
del concetto che Dante non è mai stato lontano dalla mente o dalle
mani di Boccaccio mentre egli componeva il Decameron9. Bettinzoli, in
particolare, ha indagato la fitta rete di rapporti che intercorrono non
solo tra il Decameron e la Commedia, ma anche con le altre opere poetiche
di Dante (Vita Nuova, Rime, canzoni del Convivio), classificando le
presenze dantesche secondo i registri ideologici, lirici e drammatici e le
categorie dell’ironizzazione e dell’espressivismo antifrastico e deformatorio.
È stato infatti dimostrato che nella fase più matura della sua
vita e della sua produzione letteraria, Boccaccio si avvicina al suo più
grande maestro con un atteggiamento diverso, in cui, alla stima e
all’apprezzamento, si intrecciano la parodia e l’uso in chiave antifrastica
di molti versi danteschi, specialmente della Commedia, ma anche
della Vita Nuova e delle Rime. La vena parodistica e antiletteraria del
Decameron era già stata individuata da Vittore Branca, nel 1976, come
una sorta di controcanto all’interno del complesso canto corale narrativo,
che Boccaccio ha saputo molto abilmente orchestrare proponendo
un risvolto surreale o ultrareale nella sua visione della realtà10. Bettinzoli
evidenzia come i dantismi ascrivibili al registro ironico parodistico
presentino diverse gradazioni di toni, a seconda dei contesti di cui
entrano a far parte11. Tra gli studiosi vi è chi ritiene che al ridimensionamento
della presenza di Dante e al mutato atteggiamento di Boccaccio
nei suoi confronti avrebbero contribuito l’amicizia e la frequentazione
di Petrarca. Non ci si addentra in questa sede nella complessa
questione dei rapporti tra Boccaccio e Petrarca, i cui termini si possono
definire, in estrema sintesi, nella contrapposizione tra la tendenza a
presentare un Boccaccio profondamente influenzato da Petrarca (Rico12,
Quondam13) e i sostenitori della necessità di riconsiderarne la figura
intellettuale e l’autonomia di pensiero (Bragantini14, Battaglia
p. 271.
9 R. Hollander, Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of Satire, cit., p. 14.
10 V. Branca, Introduzione al Decameron, Milano, Mondadori, 1976, p. XXV.
11 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II.
Ironizzazione e espressivismo antifrastico-deformatorio, in Studi sul Boccaccio, vol. XIV,
Firenze, Sansoni, 1983-1984, p. 210.
12 F. Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Roma-Padova, Antenore,
2012, passim.
13 A. Quondam, Introduzione a G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 58.
14 R. Bragantini, Petrarch, Boccaccio, and the Space of Vernacular Literature, in
c.s. in Petrarch and Boccaccio. The Unity of Knowledge in the Pre-modern World, Edited
by I. Candido, Berlin, De Gruyter, 2016.
[ 4 ] [ 5 ]
320 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 321
tà e la varietà di rinvii, accostamenti, intersezioni testimoniano inoltre
la straordinaria capacità del macrotesto e del suo autore di porsi in un
atteggiamento costantemente dialogico e dialogante rispetto ad altri
testi e ad altri autori, dal confronto con i quali non sempre scaturiscono
conclusioni incontrovertibili, ma più spesso si aprono nuovi interrogativi,
si prospettano nuovi problemi da cui emerge la complessità e
la contraddittorietà del reale, che Boccaccio aveva saputo cogliere ancor
prima di comporre il Decameron. Ma è proprio nel suo capolavoro
che egli, attraverso il moltiplicarsi all’infinito degli angoli visuali e delle
linee di sviluppo narrativo, tende ad abbattere la prospettiva unica
di certe visioni del mondo e a stimolare la consapevolezza dei lettori23.
2. Prima di procedere alla lettura parallela dei due testi, si riporta,
nelle sue linee essenziali, l’interpretazione fornita da Hollander della
figura di ser Ciappelletto (Cepparello)24 in relazione a quella di Brunetto
Latini (If xv). L’accostamento tra i due personaggi nasce da
un’intuizione immediata – afferma Hollander – e non è suffragato,
come egli stesso riconosce, da prove e ipotesi che lo giustifichino o da
rimandi testuali, ma, proprio in quanto frutto di un’intuizione, è secondo
lui da considerarsi una plausibile interpretazione. I caratteri
che accomunano i due personaggi, oltre alla professione di notaio, sono
l’omosessualità, attribuita a Cepparello da Boccaccio (mentre le
23 L. Battaglia Ricci, Scrivere un libro di novelle, Giovanni Boccaccio autore, lettore,
editore, cit., p. 216.
24 Il nome Cepparello deriverebbe verosimilmente da ceppo, inteso come «stirpe
estinta», «arido», «sterile», «senza prole», o, meno probabilmente, potrebbe essere
diminutivo di Ciapo, esso stesso deformazione di Jacopo. Il passaggio, in terra di
Francia, a Ciappelletto (da chapelet, «cappello», «ghirlanda», «piccola ghirlanda»,
nell’accezione di «alloro poetico») sarebbe dovuto a un grossolano errore dei Borgognoni,
che comporterebbe la trasformazione del personaggio in qualche cosa di
etimologicamente superiore a ciò che egli è veramente. La questione è trattata da
R. Hollander, Imitative distance, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force of
Satire, cit., pp. 29-30. Lo stesso problema è affrontato anche da Kurt Flasch, che
evidenzia la perfetta assonanza tra il titolo notarile di Ser, attribuito da Boccaccio
ad un personaggio storicamente esistito come mercante, e quello di San, oltre alla
lunghezza dei due nomi Cepparello e Ciappelletto, quadrisillabi entrambi: è un Saulo
che è diventato un Paolo? – ci si potrebbe domandare. Se la poesia è l’arte di
generare somiglianze tra i suoni, la fine del «titolo» rimanderebbe al suo inizio
(«Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo
stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato San
Ciappelletto»), quindi non si sarebbe verificato nessun mutamento. Cfr. K. Flasch,
Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 78.
Veniamo ora al protagonista della novella in questione. Ser Ciappelletto
ha suggerito a diversi studiosi associazioni con altri personaggi,
danteschi e non, come il Brunetto Latini (If, xv) di Hollander, il San
Francesco (non dantesco) di Valesio, che ha, fra l’altro, individuato
echi dell’Ulisse dantesco in un dettaglio stilistico contenuto nella domanda
che i fratelli fiorentini rivolgono a se stessi riguardo al loro
ospite19. Lo studioso ha inoltre ipotizzato la possibile identificazione di
ser Ciappelletto con il pubblicano (o gabelliere o appaltatore) Zaccheo,
nell’episodio evangelico di Gesù a Gerico (Lc 19, 2-10), anche per la
somiglianza fisica: entrambi sono minuti e piccoli di statura. Lo ha
infine considerato come «mezzano» della grazia divina, termine tecnico
come «procuratore», entrambi appartenenti al campo semantico dei
rapporti legali e diplomatici ed utilizzati con repetitio, il secondo nel
proemietto di Panfilo20. Ciappelletto «santificato» è visto come «mezzano
» verso Dio anche da Barbiellini Amidei che considera altresì la
novella come parodia del ruolo che lo stesso Decameron riveste presso
le donne, quello cioè di «prencipe Galeotto», e il protagonista come
intermediario, «procuratore» dell’opera di Boccaccio, che può rappresentare
un mezzo di conoscenza per i suoi lettori21. Una tale ricchezza
di suggestioni dimostra la complessità del testo in questione e, più in
generale, del novelliere boccacciano, un macrotesto governato dalla
varietas secondo il modello di un organismo reticolare, «con richiami e
compensazioni che possono verificarsi anche a distanza»22. La quanti-
19 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. Bragantini e
P.M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 402. Così Valesio: «Che uomo è
costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vicino,
né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta
di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli
così non voglia morire come egli è vivuto?» (Decameron, I 1, § 79); l’anafora del né
(ripetuto cinque volte) echeggia la triplice anafora del né del discorso dell’Ulisse
dantesco: «né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore»
(If, xxvi, vv. 94 e segg.) e pone un problema che va oltre il dettaglio stilistico: Ciappelletto
diventa un ulisside, così che la burla appare un gesto eroico – umanistico,
oppure Ciappelletto diviene il veicolo di un ridimensionamento parodistico del discorso
di Ulisse?
20 Ivi, p. 411.
21 B. Barbiellini Amidei, Boccaccio, Ciappelletto e la funzione del mezzano, in
«ACME», Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di
Milano, vol. LX, fascicolo I, Gennaio-Aprile 2007, pp. 273-274.
22 R. Bragantini, Appunti sull’ordine dei racconti e l’organizzazione testuale del
“Decameron”, in Boccaccio in America, a cura di E. Filosa e M. Papio, Ravenna, Longo,
2010, p. 187.
[ 6 ] [ 7 ]
322 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 323
zialmente salvo, sulla formulazione propria di Dante di che cosa
«donna Berta e ser Martino» (Pd, xiii, vv. 139-142) esplicitamente non
possono conoscere, tendono a chiamare in causa l’atteggiamento poetico
di Dante come vate, mentre al tempo stesso fanno del suo Brunetto
una figura di poeta degna di emulazione. Il Cepparello di Boccaccio
servirebbe quindi a ricordare al lettore attento che il modo nel quale
l’uomo ha reso se stesso immortale è stato degradato in un’età di
piombo29. Hollander fonda la sua argomentazione unicamente sulle
sue suggestioni personali di lettore esperto di Dante e sulla convinzione
che Boccaccio, senza mai citare il testo in questione, faccia affidamento
sulla disponibilità, per così dire, del suo lettore ad essere sollecitato
a cogliere somiglianze e paralleli, per apprezzare, prima di tutto,
quanto il Brunetto di Dante sia calzante rispetto al suo Cepparello.
La considerazione di Cepparello come «un falso Brunetto» si basa
quindi su prove che Hollander stesso definisce «non tanto decisive
quanto suggestive». Egli ammira una così delicata «arte della citazione
», che consiste nel far appello alla presenza di un testo antecedente
alludendovi senza mai citarlo direttamente30. Non è da escludere che
il genio combinatorio di Boccaccio, mentre scriveva Ser Ciappelletto,
abbia avuto presenti contemporaneamente Inferno xv e Purgatorio iii,
insieme a chissà quanti e quali altri testi.
Fra la novella I 1 e il terzo canto del Purgatorio sono invece numerose
le reminiscenze testuali e i calchi verbali che ora si analizzeranno,
distinguendo, con Segre, tra intertestualità e interdiscorsività31. Per il
testo del Decameron si seguirà la nuova edizione Bur 2013; per quello
della Divina Commedia, l’edizione curata dal Sapegno32 e quella commentata
da Bosco e Reggio33. Quali elementi possono accomunare due
testi apparentemente così diversi come Decameron I 1 e Purgatorio iii?
Innanzitutto il carattere «agiografico» di entrambi: la novella è stata
definita una sorta di exemplum, arricchito però da una prospettiva sto-
29 R. Hollander, Imitative distance, cit., pp. 36-37.
30 Ivi, p. 38.
31 Si intendono per intertestualità i rapporti fra testo e testo, scritto, e in particolare
letterario, e per interdiscorsività i rapporti che ogni testo, orale o scritto, intrattiene
con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella corrispondente cultura e
ordinati ideologicamente (Cfr. C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione
letteraria, Torino, Einaudi, 1984, pp. 110-111).
32 C fr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di N. Sapegno,
Scandicci (FI), La Nuova Italia, 2004.
33 C fr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e
G. Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988.
note di Branca ci informano che «non era notaio, era ammogliato e
aveva figli»25) e l’aver lasciato entrambi la Toscana per andare a vivere
in Francia. Brunetto è un onesto notaio, l’esatto opposto di Cepparello.
Secondo Hollander, il contesto essenziale della prima novella è così
riccamente suggestivo di Brunetto e della sua missione di insegnare
a Dante «come l’uom s’etterna» (If xv, v. 85) che sembra probabile che
egli abbia costruito la sua versione fittizia di Cepparello Dietaiuti su
un’inversa rappresentazione delle virtù di Brunetto Latini. Verso la
fine del commento a Inferno xv, nelle Esposizioni sopra la Commedia di
Dante26, Boccaccio prorompe nell’approvazione della vera immortalità
guadagnata nella fama dai poeti e dagli scrittori in genere. Quando
Brunetto afferma di vivere ancora nel suo Tesoro, offre a Boccaccio l’occasione
finale con cui celebrare le lodi della poesia. E ciò avrebbe altresì
richiamato alla mente del suo autore il suo Cepparello, perverso
conquistatore di un altro tipo di immortalità. Il commento di Boccaccio,
secondo Hollander, può essere visto come pertinente sia al poema
di Dante che al suo Decameron27. Anche il Decameron è infatti da intendersi
come opera di poesia, secondo l’Introduzione alla iv Giornata:
«Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon
consiglio» (Decameron, iv, Intr., § 35). Se Cepparello ha conquistato
l’immortalità, quale essa sia, lo ha fatto grazie alla sua perizia nell’uso
della parola e alle sue impareggiabili doti istrioniche, motivi per i quali
la novella è stata da molti critici (Getto, Bàrberi-Squarotti, Baldissone)
interpretata come «il trionfo della parola», il cui protagonismo
«regola anche le varie associazioni d’idee che fanno scaturire l’una
dall’altra le dieci novelle»28. Quanto alla sorte ultraterrena di Cepparello,
Hollander ritiene significativo che Panfilo, a dispetto della propria
opinione che il falso santo sia stato molto più probabilmente dannato,
insista nel presentare la questione come aperta. Sicuramente, nel
senso che dà Boccaccio all’opera di Brunetto in Esposizioni 15 c’è il
terreno migliore per pensare a lui come salvato piuttosto che dannato.
Un Brunetto dannato, sull’autorità di Dante, e un Cepparello poten-
25 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, p. 49,
n. 1.
26 Per le Esposizioni sopra la Commedia di Dante Hollander fa riferimento all’edizione
del 1965, curata da G. Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di
V. Branca, vol. VI, Milano, Mondadori, 1965.
27 R. Hollander, Imitative distance, in Boccaccio’s Dante and the the Shaping Force
of Satire, cit., pp. 34 e segg.
28 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, in Prospettive sul Decameron, a
cura di G. Bàrberi Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1989, p. 11.
[ 8 ] [ 9 ]
324 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 325
Dal punto di vista narratologico e tematico, Boccaccio dissemina e
trasmette segnali metadiegetici a vari livelli della narrazione. Nelle
parti riflessive, introduttiva e conclusiva di Panfilo vengono ripresi i
grandi temi di natura teologico-dottrinale, presenti nella prima parte
del terzo canto del Purgatorio, nei primi 45 versi, in relazione alla speranza
in Dio, alla sua bontà e all’imperscrutabilità dei suoi disegni,
contrapposta alla limitatezza della conoscenza umana: è da pazzi, o
da sciocchi, credere che la ragione umana possa percorrere l’infinita
via seguita da Dio; l’uomo deve accontentarsi di sapere che le cose
esistano, senza pretendere di conoscerne l’essenza e il fine ultimo:
«State contenti, umana gente, al quia» (Pg iii, v. 37). Tale monito all’umiltà
è pronunciato da Virgilio, la ragione stessa, che si ritiene insufficiente
a penetrare i grandi misteri e afferma la necessità per l’uomo di
rimettersi alla rivelazione. L’inadeguatezza della ragione che confidi
solo in se stessa per conseguire la salvezza è rispecchiata dall’incertezza
di Virgilio sulla strada. Anche i grandi spiriti del passato, Aristotele,
Platone e lo stesso Virgilio, dotati di mezzi umani eccezionali, ma
tuttavia insufficienti, sono destinati a desiderare invano, in eterno, di
raggiungere la verità suprema, che è Dio. Tale dichiarazione dei limiti
della ragione umana, posta all’inizio del canto, non è slegata dall’episodio
di Manfredi che chiude il canto stesso: tutti, ma soprattutto le
più alte gerarchie ecclesiastiche, ritengono il re dannato, in quanto
morto scomunicato, mentre egli è salvo grazie all’infinita bontà di Dio
che nessun uomo può pretendere di pregiudicare. La polemica si
estende anche alla comunità degli uomini, convinti di poter conoscere
la sorte ultraterrena di altri uomini, importantissimo motivo che sarà
ripreso in Pd, xiii, vv. 139-142. Sono soprattutto tali nodi a legare la
prima novella del Decameron e il terzo canto del Purgatorio. Il rapporto
che li unisce è indicato da elementi di carattere lessicale e retorico.
In relazione alla speranza in Dio, trattandosi di intersezione a livello
tematico, si può parlare di interdiscorsività:
[…] dovendo io, al vostro novellare, sì come primo, dare cominciamento,
intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò
che, quella udita, la nostra speranza in Lui, sì come in cosa impermutabile,
si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato (§ 2)
«e tu ferma la spene, dolce figlio» (Pg iii, v. 66)
grazia, vista come totalmente gratuita e costantemente disponibile, in forza della
quale non si può escludere che Ciappelletto possa salvarsi.
rica che funge da impalcatura narrativa, senza la quale non si reggerebbe
neppure la confessione che ne costituisce il fulcro34. Tra i modelli
narrativi di forma breve l’exemplum è infatti costantemente presente
nel Decameron. Dagli studi di Delcorno, ai quali è scontato il rinvio, è
emerso che dall’exemplum, nelle sue forme più semplici, la narrativa si
evolve verso la struttura complessa della novella, attraverso lo scioglimento
dei legami che uniscono il racconto al contesto e ai suoi fini
didattici. Tra novella ed exemplum si instaura un rapporto di interscambio35.
Mentre nell’agiografia la prospettiva storica è indeterminata,
imprecisa, falsificata, in questa agiografia sui generis essa è precisa
e circostanziata: Carlo di Valois e Bonifacio VIII, la politica e il commercio
in Francia e in Italia agli inizi del Trecento, insieme ad altre
notazioni di storia del costume e della mentalità come quella relativa
alla pratica dell’usura. «È la stessa scena che campeggia in molti episodi
danteschi»36.
Anche la vicenda conclusiva del terzo canto del Purgatorio, che ha
come protagonista Manfredi di Svevia, va intesa nella sua funzione
pregnante di exemplum e valutata nella complessità dei suoi significati,
tutti riconducibili e riassumibili in una profonda lezione di umiltà.
Manfredi è stato ingiustamente e duramente perseguitato in vita da
Clemente IV, che ha chiamato in Italia Carlo d’Angiò, combattendo
contro il quale il sovrano svevo è morto, e anche dopo la sua morte,
con la profanazione della tomba e la dispersione dei resti ordinate dallo
stesso pontefice. Altro elemento importante comune ai due testi è il
tema del pentimento: sincero, avvenuto in solitudine, in punto di
morte, quello di Manfredi immaginato da Dante; più ambiguo e problematico
quello di ser Ciappelletto, risultato di quanto è stato considerato
per molti decenni e dalla quasi totalità degli studiosi una falsa
confessione, in anni più recenti riesaminato e rivalutato con esiti completamente
diversi da Valesio37.
34 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., pp. 17-18.
35 C. Delcorno, Exemplum e Letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna,
Il Mulino, 1989, pp. 175-180.
36 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., pp. 17-18.
37 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 396-412. La falsa
confessione di Ciappelletto sarebbe un atto di amore verso il prossimo, la cui sottigliezza
morale non sarebbe stata compresa dai due fratelli usurai. Per loro la
confessione è un mero atto di legittimazione sociale, utile a sancire la loro rispettabilità.
Non vi è posto per la grazia, che è imprevedibile, non c’è posto quindi per il
pentimento. Chi legge la strategia di Ciappelletto in funzione parenetica è Panfilo,
che dà la lettura più appropriata della novella, in quanto riprende il concetto della
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326 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 327
zato all’onore degli altari a furor di popolo. Manfredi, secondo Dante,
si è sinceramente pentito dei propri peccati in punto di morte ed è
salvo in Purgatorio, nonostante la scomunica papale, ma ha ricevuto
una sepoltura vile, in quanto morto contumace; del suo corpo è stato
fatto scempio, e i vivi potrebbero crederlo tra i dannati all’inferno. Riguardo
all’intonazione del passo del Decameron, si può notare la sua
vicinanza sintattica e lessicale alla letteratura religiosa. Fra Due e
Quattrocento gli exempla divennero infatti un genere autonomo e furono
raccolti nelle Summae exemplorum, considerate da Boccaccio modelli
non trascurabili di realismo e di organizzazione della tradizione
narrativa, ma contestate ed erose nelle loro motivazioni ideologiche e
nella pretesa di imporre rigidi modelli di comportamento etico e religioso.
Esse rappresentano per lui una messe di motivi popolari e tipi
narrativi che nel contempo riflettono e modellano la mentalità dell’Occidente.
Questi materiali, depositi della memoria collettiva, vengono
modificati lievemente nel senso e nel messaggio, sia pur mantenendo
lo schema noto al lettore e riconoscibile nella novella41. Boccaccio «non
si limita a utilizzare in chiave parodistica alcune fonti particolari» –
osserva Delcorno – «ma ironizza contro intere classi di exempla, subordinate
ai grandi temi della religione popolare, modellata e guidata
dalla predicazione dei mendicanti»42.
L’attraversamento di temi comuni (interdiscorsività) prosegue con
la bontà e la misericordia divine e il potere salvifico delle preghiere dei
vivi sulle anime espianti:
La quale [Grazia di Dio] a noi e in noi non è da credere che per alcun
nostro merito discenda, ma dalla propria benignità mossa e da’ prieghi
di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furono mortali, e bene i
suoi piaceri mentre furono in vita seguendo ora con Lui eterni son divenuti
e beati (§ 4);
41 C. Delcorno, Exemplum e Letteratura. cit., p. 184.
42 Ivi, p. 269. Va ricordato il ruolo del francescanesimo, che libera le emozioni,
le istanze, le attese delle classi illetterate e pertanto subalterne all’egemonia della
cultura scritta, prima latina e poi romanza, e fornisce all’elemento orale – popolare
un progetto di riscatto, rafforzando i legami interni ai gruppi laicali, e contemporaneamente
supera le residue conflittualità tra il momento «laico» e quello «ecclesiale
» dell’elaborazione della cultura, accogliendo e variamente assimilando il
modello giullaresco. Cfr. C. Bologna, Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune
metamorfosi nelle categorie letterarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medievali,
in Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, a cura di S. Boesch
Gajano e L. Sebastiani, L’Aquila-Roma, L.U. Japadre Editore, 1984, pp. 319-320.
Da notare la disposizione chiastica tra i due brani: «la nostra speranza
in Lui […] si fermi», «e tu ferma la spene». La figura del chiasmo caratterizza
tutti i legami intertestuali intercorrenti tra i due testi in questione.
Panfilo, narratore della prima novella della prima Giornata,
per rinsaldare la speranza dei suoi giovani compagni nella Grazia e
nella bontà divine, intende dare inizio alla narrazione nel nome di
Dio: «Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la
quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di
tutte fu facitore, le dea principio» (§ 2). Come ha rilevato Bragantini, il
narratore richiama le parole di San Paolo «Omne quodcumque facitis
in verbo aut in opere, omnia in nomine Domini Iesu, gratias agentes
Deo et Patri per ipsum» (Ad Col., III, 17)38. Il primo dei narratori intende
inoltre incominciare raccontando una delle «maravigliose cose»
(gli arcana) operate da Dio stesso39. L’autore usa gli stessi vocaboli che
Virgilio rivolge a Dante per rassicurarlo e incoraggiarlo a proseguire il
cammino, benché impervio, dal momento che vedono avanzare lentamente,
verso di loro, una schiera di anime40. Se si considera la disposizione
a chiasmo, che si ritroverà in quasi tutti gli altri richiami di Boccaccio
al terzo canto del Purgatorio nella stessa novella, si può cogliere
in essa una spia che potrebbe anticipare il rovesciamento di situazione
dei protagonisti, anche se qui non compare ancora la figura del notaio
malvagio e vizioso.
Ser Ciappelletto ha commesso nel corso della sua vita tutte le peggiori
nefandezze, ma, dopo una falsa confessione che è un iperbolico
e parodistico rovesciamento del ritratto iniziale delineato dall’autore,
sarà assolto dal venerando frate, sepolto con solenni funerali e innal-
38 R. Bragantini, Il governo del comico, cit., p. 27. Secondo lo studioso, le parole
di Panfilo si ricollegano alla sentenza paolina, che svolge non solo la funzione di
richiesta del sostegno divino, ma anche di augurio per il successo dell’impresa.
39 Il sintagma «maravigliosa cosa», che ricorre 12 volte (4 al plurale), riguarda
un repertorio di eventi e oggetti eccezionali, ma sempre riferiti alle «cose del mondo
» tranne in I 1 § 2, nell’introduzione alla novella di Ser Ciappelletto, dove si riferisce
agli arcana di Dio (A. Quondam, Le cose (e le parole) del mondo, in Decameron,
cit., pp. 1776-1777). Sul concetto di “meraviglioso” nel Medioevo si veda anche J.
Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Bari, Laterza, 1983.
40 Più precisamente, Dante usa la forma accusativale spene, Boccaccio il più
moderno speranza. L’antico italiano speme ‘speranza’ è da considerarsi un latinismo
di cui la forma spene che si incontra accanto ad essa ne è una trasformazione, sotto
l’influsso della sillaba paragogica -ne (Cfr. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua
italiana e dei suoi dialetti, Fonetica, Torino, Einaudi, 1966, § 305), ma il verbo fermare,
nel significato di “rinsaldare”, “rafforzare”, “confermare”, è identico. Dante
usa il vocabolo speranza al v. 135, in riferimento alla grazia eterna di Dio.
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328 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 329
accoglie nelle sue braccia chi si affidi a lei, salva cioè chiunque le si
rivolga con sincerità, malgrado la gravità dei peccati, malgrado la condanna
della Chiesa, anche in punto di morte. Sono le gerarchie ecclesiastiche
a osteggiare la trascendenza della «bontà infinita» che limita
il loro potere e il loro controllo sugli uomini. È il vescovo di Cosenza,
mandato da papa Clemente IV a perseguitare Manfredi, che non riesce
a comprendere questo aspetto della benevolenza divina, la sua
inesauribile inclinazione al perdono, e gli dà la caccia, ordina cioè che
le sue spoglie mortali, fatte tumulare da Carlo d’Angiò in capo al ponte
sul Calore, presso Benevento, siano dissotterrate e disperse44. Il
principe svevo, nonostante le travagliate vicende del suo corpo, di cui
peraltro non esistono documenti45, è salvo, la sua anima si trova nell’Antipurgatorio,
nella prima schiera dei negligenti, gli scomunicati,
in attesa di ascendere al Paradiso. Il sorriso con cui egli si presenta a
Dante, oltre che di un atteggiamento gentile e quasi confidenziale, è
anche indice di distacco e lontananza dalla propria vicenda terrena e
dalle meschine contese intorno alle sue spoglie mortali.
Un altro importante tema dottrinario, quello dell’inconoscibilità,
dell’imperscrutabilità dei disegni divini, che provengono da una mente
onnisciente, interseca con relazione interdiscorsiva il terzo canto del
Purgatorio:
E ancora più in Lui, verso noi di pietosa liberalità pieno, discerniamo,
che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina
mente trapassare in alcun modo, avviene forse tal volta che, da oppinione
ingannati, tale dinanzi alla sua maestà facciamo procuratore che
da quella con etterno essilio è iscacciato (§ 5);
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrere la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
(Pg iii, vv. 34-36).
Per comprendere come si arrivi alla necessità di riconoscere l’umana
ignoranza delle cose dell’aldilà, secondo Flasch occorre tenere presente
il contesto di crisi epistemologica e linguistica del XIV secolo, da cui
44 C fr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di N. Sapegno,
cit., p. 33, n. 124.
45 Il fatto è tuttavia narrato dal Villani (da cui Dante quasi sicuramente ricava
la notizia, come prova l’espressione «mora di sassi») e da Ricordano Malispini.
Sull’etimologia del vocabolo mora, inteso come «mucchio di pietre», si veda ancora
il commento al Purgatorio di Bosco-Reggio.
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei
(Pg iii, vv. 122-123);
[…] se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa
(Pg iii, vv. 140-141).
Il tema della misericordia divina, che secondo Dante agirebbe al di
sopra dei precetti dottrinari terreni, viene ripreso da Boccaccio insieme
all’altro grande nodo dottrinario del potere di intercessione che le
preghiere dei vivi possono esercitare a favore dei defunti. Dante potrebbe
aver inventato la conversione per mostrare la grandezza della
misericordia divina, ma era solito basarsi su fatti storici o ritenuti tali,
o svelati da lui contro altre opinioni, comunque è rimasta qualche
traccia che negli ultimi decenni del Duecento circolassero leggende
intorno alla salvezza di Manfredi. In Decameron I 1, i due fratelli fiorentini,
origliata la confessione di Ciappelletto, commentano fra sé:
«Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di
morte, alla quale si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio
del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua
malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia
morire come egli è vivuto?» (§ 79). Le loro parole richiamano il brano
evangelico del «buon ladrone» (Lc 23, 39-43), in cui il protagonista,
rivolgendosi al malfattore che insulta il Cristo crocifisso, lo rimprovera
così: «Non hai proprio nessun timore di Dio, tu che stai subendo la
stessa condanna?». Poi aggiunge: «Gesù, ricordati di me, quando verrai
nel tuo regno». Gesù gli risponde: «In verità ti dico, oggi sarai con
me in Paradiso». Tale episodio mette ancora una volta in risalto l’infinita
benevolenza divina: basta un atto di fede e di pentimento, ed ecco
la promessa del paradiso. Data la plausibilità del legame con la vicenda
dantesca di Manfredi, si potrebbe ipotizzare una valenza di sottofondo
scritturale dell’episodio narrato da Luca. Dante giudica la scomunica
di Manfredi sostanzialmente un atto politico, quindi, appoggiandosi
all’autorità di San Tommaso, che considerava la scomunica
data per odio o per ira ingiusta e priva di effetto, presenta la vicenda
di Manfredi come polemica nei confronti di un metodo di lotta che
egli disapprova recisamente43. Secondo Dante, la bontà infinita di Dio
43 C fr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e
G. Reggio, cit., p. 43.
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330 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 331
Dio esaudisce anche le preghiere rivolte a intermediari indegni, che
magari sono persino dannati all’inferno. Il narratore – osserva Alfano
nella scheda introduttiva alla novella del Boccaccio – sottolinea la differenza
tra il piano divino, che è perfetto e perfettamente regolato per
«sua propria benignità», e il piano umano, imperfetto e dominato dalla
«oppinione»49. Procedendo nell’analisi, due sono i casi di intertestualità:
il più evidente, il primo che balza agli occhi e che ha dato il via
alla presente indagine, come anticipato nella premessa, è il seguente:
E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili, che il somigliante
n’averrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né
possa assolvere (§ 25);
Orribil furon li peccati miei (Pg iii, v. 121)
Boccaccio, per tratteggiare indirettamente la figura del protagonista,
fa pronunciare a uno dei due fratelli usurai fiorentini che lo ospitano
in casa le stesse parole con le quali Dante fa riconoscere i propri peccati
a Manfredi di Svevia nel terzo canto del Purgatorio. L’unica differenza
è l’aggiunta dell’aggettivo indefinito «tanti», a sottolineare anche
l’aspetto quantitativo: notaio falsario, falso testimone, seminatore
di discordie, complice di omicidi e altri reati, bestemmiatore di Dio e
dei santi, sodomita, giocatore e baro, non frequentava la chiesa e derideva
i sacramenti. «Orribili peccati e bontà infinita» di Dio sono le due
parole – tema del terzo canto, la cui unità lirica è stata individuata e
descritta da Binni nella sua lettura del canto50. Ser Ciappelletto non
confessa mai le proprie colpe, ma, di fronte alla preoccupazione dei
suoi ospiti, chiede loro di precettare un frate confessore che lo assolva
delle «tante ingiurie fatte a Domenedio», consapevole di fargliene ora
un’altra proprio in punto di morte, ma convinto che Dio non ne terrà
conto, mentre Manfredi definisce egli stesso, profondamente contrito,
«orribili» le proprie colpe. L’aspetto di ambivalenza del gesto di ser
Ciappelletto consiste nel fatto che la confessione, in quanto falsa, appartiene
all’area semantica della negatività, ma come atto che salva
dai guai i suoi due ospiti rappresenta anche l’unica buona azione com-
49 G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 144.
50 A. Jacomuzzi, L’imago al cerchio e altri studi sulla Divina Commedia, Milano,
Franco Angeli, 1995, p. 200. La lettura di Binni è quella tenuta a Ravenna nella
Casa di Dante nel 1953, pubblicata anche in La Rassegna della Letteratura italiana, 3-4
(1955) e raccolta poi nelle Letture dantesche a cura di G. Getto, vol. II, Firenze 1964,
pp. 725-745.
consegue il ridimensionamento delle entusiastiche prospettive della
conoscenza. La prima novella del Decameron avrebbe proprio la funzione
di esplorare e valutare l’apparente, premessa una dichiarazione
di umiltà, senza abbandonare l’equiparazione dantesca di poesia, filosofia,
specialmente morale, e teologia. È possibile che Boccaccio, alla
corte di Roberto d’Angiò, sia entrato in contatto con la filosofia di Guglielmo
da Ockham, da lui annoverato tra le maggiori autorità del
sapere nell’epistola del 1339 in cui ne fa menzione a proposito della
dialettica, probabilmente allusiva alla Summa logicae nella quale si ridefinisce
il rapporto tra segni linguistici e cose. Ciò autorizzerebbe a
supporre la sua ricezione della sfiducia nel contenuto di realtà dei
concetti generali e della critica al parallelismo tra pensiero e mondo.
Panfilo in I 1 fa fallire un saggio e buon frate, esperto in teologia; problematizza
il nome di Dio e l’etimologia; mette in rilievo l’effetto pragmatico
della lingua sul piano etico – sociale; accentua l’onnipotenza
divina, ma rendendo il discorso impermeabile alla metafisica; rifonda
la razionalità del parlare e dell’argomentare; sottrae alla sfera dell’occulto
l’ambito dell’apparente, elementi, questi, che rimandano a Guglielmo
da Ockham46. Bettinzoli ha evidenziato come, nell’introduzione
alla prima novella, la densità degli stilemi di intonazione religiosa
non possa non destare qualche sospetto nel lettore, per il netto contrasto
con la materia cui prelude. Egli ha inoltre sottolineato come la figura
di ser Ciappelletto introduca «una particolare tecnica antifrastica,
per altri versi ampiamente sperimentata nella relativa novella»47:
Io non la vidi tante volte ancora
ch’io non trovassi in lei nova bellezza
(Rime, xci, vv. 71-72);
io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi
volessi confessare generalmente (§ 34).
Ironia e parodia «sono modalità dell’interdiscorsività e dell’intertestualità
che comportano tutte un arricchimento di senso»48. L’ironia è un
tropo retorico, ma il significato moderno del termine è quello di sottoinsieme
espressivo che comprende tutti i fenomeni di connotazione
allusiva e di doppio strato del testo, a cominciare dalla parodia. Ma
46 K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, cit., passim.
47 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II.
cit., p. 230.
48 C. Delcorno, Ironia/parodia, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 162-163.
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332 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 333
nei repertori di exempla si trovano spesso racconti che descrivono le
tremende punizioni inflitte ai figli ingrati e ribelli e questo deve aver
suggestionato non poco Boccaccio. La scelta di un peccato d’ira come
peccato nascosto non è casuale; infatti, quando il frate, nella sua predica,
traccerà il profilo del nuovo santo, non dimenticherà quello che
ser Ciappelletto, piangendo, gli aveva confessato come la sua più grave
colpa, in perfetta isomorfia con la natura riottosa dei borgognoni,
ricordata all’inizio della novella, che ora costituiscono il suo pubblico
di ascoltatori, contro i quali il predicatore inveisce maledicendoli,
mosso da una santa ira53. Il carattere spiccatamente teatrale di I 1 è
dimostrato anche dalla presenza di quattro dialoghi, il più importante
dei quali è certamente la confessione al «santo frate», che rappresenta
la metà del testo; la novella come genere avrebbe dunque un’origine
teatrale, gestuale, orale, mimica54. Il sacramento della confessione era
il più popolare nel Basso Medioevo, molto presente nelle predicazioni,
specialmente in Quaresima, e in molti racconti inseriti nelle raccolte di
exempla e rubricati sotto la voce confessio55. In Decameron I 1 il fine del
protagonista è la drammatizzazione della sua confessione, che viene
trasformata in un gesto di enorme portata sociale. Ciappelletto affina
la sua tecnica variando la forma base del genere letterario della confessione
da un punto di vista teologico e letterario-psicologico56. Egli
rassicura i due fratelli preoccupati dicendo loro: «e lasciate fare a me,
ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che starà
bene e che dovrete esser contenti», intendendo per acconciare «adornare,
disporre con abilità, con arte (le parole di un discorso); comporre,
atteggiare il viso, i gesti»57. Da buon penitente, egli non si limita a
elencare i peccati commessi dopo l’ultima confessione, ma sceglie la
pratica della «confessione generale», che consiste nell’enumerare tutti
i peccati dal giorno della nascita fino a quel momento, e afferma di
usare abitualmente tale forma ogni qualvolta si confessa.
L’invocazione finale di Manfredi, a differenza della confessione di
Ciappelletto fatta di molte, studiatissime parole, e udita, oltre che dal
frate confessore, dai due fratelli fiorentini e dal più vasto pubblico dei
lettori, non viene ascoltata da nessuno fuorché da Dio, certo il più
53 C. Delcorno, Exemplum e letteratura, cit., pp. 273-276.
54 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., passim.
55 C. Delcorno, Exemplum e Letteratura. cit., pp. 269-270.
56 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, cit., p. 396.
57 S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. I, Torino, Utet, 1961,
p. 98.
piuta nella sua vita, quasi il sacrificio estremo dell’ultimo barlume di
salvezza che gli resta in punto di morte. La disposizione chiastica, unitamente
all’uso della terza persona in Boccaccio e della prima in Dante,
non fa che confermare e rimarcare il capovolgimento di situazione
che intercorre tra i due protagonisti, precedentemente illustrato.
L’altro momento intertestuale, con disposizione speculare, di indubbia
rilevanza, è il seguente:
E sì perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato» (§ 72);
[…] io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona
(Pg iii, vv. 119-120).
Il buon frate, confessore di ser Ciappelletto, rassicura il protagonista
di fronte al timore di non essere perdonato del peccato di aver offeso,
da «piccolino», la propria mamma. È il momento culminante, il colpo
di scena cui approda la lunga serie di menzogne, accompagnato da un
profluvio di lacrime. La bestemmia contro la madre lascerebbe emergere
un elemento caricaturale: la figura del santo – mammone, quasi
un’ulteriore provocazione rivolta all’ingenuità del frate, che risponde
lasciando trapelare una certa insofferenza per tanta irreprensibilità. In
questo passo è ben evidente la teatralità di Ciappelletto, ma, più in
generale, si può asserire che tale carattere accomuna tutti i personaggi
della Giornata I, compresi i narratori della cornice, che «parlano come
attori e oratori consumati, anche quando il discorso è lungo e
complesso»51; tale aspetto sarebbe riconducibile all’origine orale della
novella, che si rivolge ancora ad un pubblico di spettatori, più che di
lettori, che fissano i tempi della narrazione con i limiti della loro capacità
di attenzione nell’ascolto. Anche gli elementi fondamentali di
questa scena trovano riscontro in più di una raccolta esemplare, in
quel tipo di exemplum rubricato come confessio. Boccaccio si dimostra
buon conoscitore dei repertori di exempla anche quando fa rivelare al
protagonista della novella il suo peccato nascosto, contrariamente ai
modelli esemplari a cui si ispira, nei quali rimane segreto pur trattandosi
di una colpa molto grave (omicidio, infanticidio, incesto). Il nome
della mamma, accostato al verbo bestemmiare, «ha un suono un po’
stridulo […], produce uno strano effetto, quasi di una profanazione»52;
51 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., p. 13.
52 G. Getto, Vita di forme e forme di vita nel Decameron, Torino, Petrini, 1966, p.
65.
[ 18 ] [ 19 ]
334 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 335
so; specularmente, Ser Ciappelletto, innalzato dagli uomini allo status
di santo, dovrebbe essere da Dio destinato all’Inferno. Ma il parallelismo
semantico cui conduce il chiasmo di tipo sintattico farebbe presupporre
la condizione purgatoriale anche per il protagonista della
novella. Nel punto d’intersezione si colloca Panfilo/Boccaccio, che
narra il tutto seguendo il giudizio degli uomini, non quello divino, e
lasciando giudicare al lettore. Che Ciappelletto si sia pentito non è
dimostrabile, ma il solo fatto che abbia deciso di confessarsi per salvare
i suoi due ospiti dalla rovina depone a suo favore, in quanto gesto
di generosità verso il prossimo. Si è già detto dell’ambivalenza della
sua confessione, falsa nella sostanza, ma ineccepibile nella forma. Se ci
interroghiamo sul suo destino ultraterreno, questione lasciata aperta
da Panfilo nel suo intervento conclusivo, potremmo ipotizzare per lui
che non si trovi piuttosto «nelle mani del diavolo in perdizione che in
Paradiso» e neppure che sia «beato nella presenza di Dio» (§ 89) – per
lo meno, non ancora – ma dovremmo immaginarlo in Purgatorio come
Manfredi, in quanto, come lui, potrebbe «in su lo stremo aver sì
fatta contrizione» (§ 89) da indurre Dio a perdonarlo e a collocarlo tra
le anime espianti, in attesa della beatitudine eterna. Che un intervento
così esteso ed esplicito del narratore in chiusura della novella sia l’ueminente
di tutti gli uditori, ma anche il più discreto e riservato, che
non andrà a divulgare il pentimento in punto di morte del principe
svevo, con la conseguente diffusione, tra i vivi, dell’opinione che lui si
trovi tra i dannati all’Inferno. Quella di Manfredi è un’invocazione di
perdono pronunciata a fior di labbra, tra le lacrime, da un uomo ferito
mortalmente, solo di fronte a Dio, l’unico in grado di giudicare la sincerità
del suo pentimento e di decretarne il destino ultraterreno. C’è
anche, in lui, la preoccupazione di far conoscere la sua condizione alla
figlia Costanza, non solo per ottenere le preghiere che abbrevieranno
la sua permanenza in Purgatorio, ma anche per un naturale desiderio
di estirpare le false credenze sul proprio conto.
Il caso di intertestualità sopra riportato è particolarmente interessante
per la presenza del tema del perdono: il verbo perdona, che ha
come soggetto Dio in entrambi i passi, è collocato in posizione forte,
all’inizio della frase e a fine verso ed è, in entrambi i casi, accompagnato
dall’avverbio volentieri. Dio perdona volentieri, a condizione che ci
si penta sinceramente dei propri peccati. In questo, come negli altri
passi riportati, la figura del chiasmo, secondo la classificazione di
Mortara Garavelli, corrisponde a quella del chiasmo grande (con incrocio
di intere frasi) e complicato (o antimetabole o antimetatesi), inteso
come permutazione nell’ordine delle parole, tale da produrre un
capovolgimento del senso, con incrocio di tipo sintattico ovvero specularità
delle funzioni sintattiche e parallelismo delle corrispondenze
di significato58. Nell’ultimo caso la disposizione è la seguente: verbo
– soggetto – avverbio – complemento di termine / soggetto – verbo –
complemento di termine – avverbio – verbo, dove il complemento di
termine del verso di Dante diventa soggetto della proposizione di
Boccaccio. Boccaccio potrebbe aver usato il chiasmo per rimarcare la
profonda discrepanza tra giudizio umano e giudizio divino, e avergli
altresì attribuito una funzione ermeneutica. In tal caso, si potrebbe formulare
un’ipotesi interpretativa rappresentabile graficamente nel modo
seguente.
Lo schema, evidenziando il chiasmo come chiave interpretativa,
illustra la discrepanza tra giudizio umano e giudizio divino, tema portante
di entrambi i testi: il giudizio umano, «oppinione», trascina
Manfredi verso il basso, reputandolo dannato all’Inferno, mentre il
giudizio divino lo colloca in Purgatorio, per poi innalzarlo al Paradi-
58 B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1999, pp.
246-247.
[ 20 ] [ 21 ]
Purgatorio Ser Ciappelletto
Paradiso
Panfilo Boccaccio
Purgatorio
Giudizio Divino
Inferno Manfredi
336 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 337
zione, di consolazione e di divertimento; con le parole si può fare poesia
e mostrare che essa è verità. Dissoltasi ormai la sua spontaneità
originaria, la lingua rivela dunque la sua ambiguità, in quanto può
essere manipolata dall’autorità politica e religiosa e da chiunque abbia
la capacità di farlo63. Si ribadisce dunque il significato metalinguistico
di questa novella: il discorso è importante non solo come mezzo di
conoscenza e di comunicazione della realtà, ma in quanto strumento
costitutivo e creatore della realtà stessa; il discorso novellistico, in particolare,
è metabolizzazione della realtà, che si trasforma in idee, gesti,
consuetudini64.
Un aspetto interessante della confessione di ser Ciappelletto è il
meccanismo da lui innescato: negando di aver commesso i peccati o
ammettendone di lievi, egli riesce a mettere in soggezione il santo frate,
che nelle sue risposte rivela le proprie riflessioni di contrasto riguardo
a se stesso, finché la burla diventa quasi per lui insostenibile.
Lo scrittore ammicca al lettore facendo confessare il confessore in questo
modo: il peccatore ser Ciappelletto, nella sua sacrilega confessione,
spinge il «santo frate» a dichiarare a se stesso e al confessando
peccati e vergogne non solo suoi ma dell’intera istituzione ecclesiastica65.
Il confessore è convinto di avere di fronte a sé un santo, mentre ha
davanti a sé «il piggiore uomo forse che mai nascesse» (§ 15). L’errore
decisivo del frate sarebbe stato quello di aver creduto di assistere ad
un pentimento, condizione non visibile in quanto la vita interiore degli
altri è entrata in una sfera occulta secondo il pensiero di Ockham,
pensatore che avrebbe influenzato in modo significativo Boccaccio66.
Un ulteriore elemento di confronto tra i due protagonisti può essere
rappresentato dall’aspetto fisico: «piccolo di persona era e molto
assettatuzzo»67 (§ 9), un piccolo demonio ben agghindato insomma, a
63 K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, cit., pp. 81-82.
64 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., p. 22. Che si tratti di una
Giornata tutta metalinguistica è provato anche dalla presenza, a conclusione, di
una ballata il cui significato è riferito a tutta la Giornata: «Io son sì vaga della mia
bellezza, / che d’altro amor già mai / non curerò né credo aver vaghezza» (Ivi, p.
15).
65 Ivi, pp. 20-21.
66 K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio, cit., p. 93.
67 L’aggettivo «assettatuzzo», che significa «agghindato, di un’eleganza un po’
affettata», deriva da Dante Alighieri, Rime dubbie, LXXIII, (Dubbie, VI, v. 4); Contini
fa notare come Boccaccio s’impadronisca magistralmente di questo suffisso
istituzionale nella poesia burlesca (Cfr. G. Boccaccio, Decameron, a cura di V.
Branca, vol. I, Torino, Einaudi, 1980, p. 52, n. 6).
nico in tutto il Decameron, e il fatto che ciò avvenga nel racconto inaugurale
può avere una funzione di orientamento e disorientamento insieme
nei confronti del lettore, lasciato arbitro di un giudizio impossibile
da formulare, per chi abbia in mente il sostrato poematico-teologico
della Commedia.
L’interpretazione qui proposta parrebbe rispondente alla definizione
di «intentio operis» di Eco, da lui esemplificata mediante il passo
del De doctrina christiana in cui Agostino afferma che «un’interpretazione,
se a un certo punto di un testo pare plausibile, può essere accettata
solo se essa verrà riconfermata – o almeno non verrà messa in
questione – da un altro punto del testo»59, visto che i punti del testo
dai quali si può ricavare sono almeno due. Quanto al problema dei
molti miracoli che Dio avrebbe mostrato per intercessione di san Ciappelletto,
come ci ricorda Padoan, «per il Medioevo […] i miracoli derivano
tutti da Dio, e non dal santo venerato, ed è l’intenzione del credente
quel che conta: è pertanto indifferente rivolgersi a un falso santo,
perché i santi sono solo un mezzo affinché si esplichi la venerazione
di Dio»60, che può ricompensare con miracoli la vera fede del credente.
La falsa confessione si ispira, rovesciandoli, ai testi penitenziali
diffusi tra Duecento e Trecento, le Summae confessorum, in cui si consigliava
di interrogare il penitente seguendo il canone dei sette vizi capitali,
con «le loro varie e numerose ramificazioni61. Tali testi seguivano
regole precise e fornivano lo «specchio dei peccati», che, nel caso di
ser Ciappelletto, viene capovolto e sostituito alla realtà, dando luogo
ad un ritratto agiografico basato sull’iperbole e sull’invenzione. In
questo caso, «il discorso è più forte della realtà»62.
Riguardo alla centralità della parola, in questa novella Boccaccio
parrebbe voler dimostrare come sia insorto un certo attrito nel rapporto,
finora armonioso, tra nomi e cose; non ci si può più fidare delle
parole, divenute ormai strumenti del potere, in primo luogo ecclesiastico,
e dell’inganno, su cui si basa anche la ricchezza di Firenze, città
di mercanti. Le parole possono essere al tempo stesso mezzo di libera-
59 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, pp. 32-33.
60 G. Padoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di
Giovanni Boccaccio, in Studi sul Boccaccio, vol. II, Firenze, Sansoni, 1964, p. 57.
61 C. Delcorno, Exemplum e letteratura, cit., pp. 269-270. Sulla nascita e la diffusione
dei libri poenitentiales si veda A. Gurevic, Contadini e santi. Problemi della
cultura popolare nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1986, pp 3-61.
62 G. Barberi Squarotti, Il potere della parola, Federico & Ardia, Napoli, 1983,
p. 107.
[ 22 ] [ 23 ]
338 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 339
che rompono l’armonia: «l’un de’ cigli un colpo avea diviso» (v. 108) e
«mostrommi una piaga a sommo ’l petto» (v. 111). Se la ferita sul volto
rimanda a Orlando, la «piaga» nella parte alta del petto è il segno di
riconoscimento, il gesto rivelatore accompagnato dalle parole «or vedi
» che rimandano al Cristo risorto e apparso ai suoi discepoli increduli
(Lc 24, 39), come evidenziato già dal Binni. Altri echi danteschi
sono i seguenti:
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
In co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor del regno quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento
(Pg iii, vv. 127-132);
Con i libri in mano e con le croci innanzi cantando andarono per questo
corpo e con grandissima festa e solennità il recaron alla lor chiesa,
seguendo quasi tutto il popol della città, uomini e donne (§ 84);
Poi, la vegnente notte, in un’arca di marmo sepellito fu onorevolmente
in una cappella: e, a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le
genti a andare a accendere lumi e a adorarlo (§ 87).
Manfredi viene disseppellito dal luogo in cui era stato sepolto, all’estremità
del ponte sul fiume Calore, presso Benevento, e, «a lume
spento», com’era consuetudine per gli scomunicati e gli eretici, le sue
ossa vengono disperse lungo il fiume Verde 73 come racconta Villani
(Cron. vii, 9), e «or le bagna la pioggia e move il vento» (v. 130); ser
Ciappelletto ha rischiato di essere «gittato a’ fossi a guisa d’un cane»
(§ 24), ma ha mentito al suo confessore e ha ricevuto solenni funerali,
onorevole sepoltura in un’arca di marmo, e quella venerazione che i
fedeli possono tributare solo ai santi, quando si recano «a accender
lumi e ad adorarlo». La disparità di trattamento del corpo del defunto
ser Ciappelletto rispetto a quello di Manfredi sta ad indicare l’erroneità
e l’infondatezza del giudizio umano. Boccaccio sembrerebbe voler
insistere sul relativismo dei valori mondani. Nella prima parte della
novella la sorte del protagonista sembra identificarsi con quella «pie-
73 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e
G. Reggio, cit., p. 57, nn. 131-132. Per quanto riguarda l’indicazione geografica,
probabilmente si tratta del Liri o Garigliano, denominato «Viride»; in documenti
medievali, confine settentrionale del Regno di Napoli. Secondo altri si tratterebbe
invece del Castellano, affluente del Tronto.
fronte di un Manfredi che «biondo era e bello e di gentile aspetto» (Pg,
iii, v. 107), un principe con i tratti convenzionali della tradizione medievale
e con gli attributi estetici del cavaliere, la bellezza, su cui concordano
tutti i cronisti, guelfi e ghibellini68. Con tale descrizione collimano
anche quelle tramandate da Saba Malaspina («Homo flavus,
amoena facie, aspectu placibilis») e dal Villani, cui si sovrappongono
la reminiscenza biblica del Davide del Libro dei Re «Erat autem rufus
et pulcher aspectu decoraque facie» (xvi, 12) e quella romanza «Bels
fut e forz e de grand vasselage» (v. 2278 della Chanson de Roland)69.
Alla bellezza si accompagna la giovinezza, storicamente provata
(Manfredi diviene re a 18 anni e muore a 34), e desunta fantasticamente
anche dal colore dei capelli o della barba, tanto simili al David giovane
nel Libro dei Re. La regalità e l’impronta della nobiltà della stirpe
e dei costumi («gentile aspetto») si sposano perfettamente con la giovane
bellezza virile70. Le insegne della regalità sono trasferite sulla linea
incontaminata dell’ascendenza e discendenza femminile: «nepote
di Costanza imperatrice» (v. 113); e padre dell’altra Costanza, «genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona» (v. 116), con l’esclusione di ogni
riferimento al padre e ai nipoti, portatori dei segni della pubblica lotta,
dell’eresia, della perversione e della corruzione71. L’analogia con ser
Ciappelletto potrebbe risultare un po’ forzata, ma chi scrive non può
non pensare al riferimento del notaio morente alla propria madre, il
cui nome confessa di aver oltraggiato con una bestemmia da piccolo
(§ 71). Tornando all’aspetto fisico, se si considera che piccolo di persona
era anche San Francesco, si pone la questione se ser Ciappelletto
debba essere considerato un piccolo demonio o un santo. San Francesco
spesso si chiamava e faceva chiamare «Francesco piccolo» o addirittura
«Francesco piccolino», come osserva Valesio, che evidenzia altresì
l’ironica corrispondenza di tipo figurativo tra il parvo Ciappelletto
e la sua confessione minimalistica, fatta di peccati piccoli piccoli72.
Ma nella descrizione fisica di Manfredi troviamo elementi inquietanti,
68 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e
G. Reggio, cit., p 46.
69 A. Jacomuzzi, L’imago al cerchio, cit. p. 205.
70 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di U. Bosco e
G. Reggio, cit., p. 46.
71 A. Jacomuzzi, L’imago al cerchio, cit. p. 205.
72 P. Valesio, Sacro, in Lessico critico decameroniano, cit. pp. 399-400. Francesco si
fa piccino e umile secondo la concezione evangelica (Mt, XVIII, 3). «Parvulus et
minimus servus»; «servus parvulus et despectus»; si definisce il santo nei suoi
scritti e designa i suoi frati con l’espressione evangelica «pusillus grex».
[ 24 ] [ 25 ]
340 graziella bassi ser ciappelletto – manfredi di svevia: due anime allo specchio 341
tato non sia abbreviato dalle preghiere dei vivi. «Occulto» contrapposto
a «revelando»: possiamo solo immaginare il destino oltremondano
di Ciappelletto, mentre conosciamo con certezza e precisione quello di
Manfredi, desideroso di dare notizie a chi sta ancora sulla Terra circa
il suo stato. I due momenti meditativi, nel prologo e nell’epilogo, sottolineano
il divario tra il livello divino e quello umano, che dà luogo
al relativismo: l’uomo, fondandosi sulla ragione, può formulare ipotesi,
ma non può conoscere il modo con cui si manifesta la volontà divina,
poiché esso gli rimarrà «occulto». L’agiografia del martire laico,
del peccatore – santo Manfredi, si conclude nel segno della speranza,
durante la vita, nonostante gli orribili peccati e le feroci persecuzioni,
ma anche oltre la vita, nella preghiera delle anime buone della terra,
che abbreviano il tempo dell’espiazione alle anime del Purgatorio, avvicinando
il cielo alla terra, nell’unione mistica tra umano e divino.
L’agiografia del peccatore proclamato santo, Cepparello, si conclude
invece nel segno dell’ambiguità: l’autore lascia nell’area semantica
della negatività tutto ciò che concerne il «come» egli sia divenuto santo,
ma non nega gli effetti miracolosi che il culto di quel santo potrà
produrre; «l’ambivalenza è dunque la vera forza semantica che muove
tutta la novella»75. Se tuttavia assumiamo come chiave di lettura la
figura del chiasmo tra i due testi, Manfredi si serve di intermediari
terreni per raggiungere la beatitudine eterna, mentre ser Ciappelletto,
di cui non è dato sapere agli uomini se abbia raggiunto la condizione
purgatoriale, diviene egli stesso intermediario tra i fedeli e Dio, che
bada alla purezza della fede e non «al nostro errore», facendo suo intercessore
«un suo nemico, amico credendolo» (§ 90).
Graziella Bassi
(Liceo scientifico “L. B. Alberti” di Valenza – AL)
75 G. Baldissone, Il piacere di narrare a piacere, cit., p. 19.
tosa di Manfredi», come ha sottolineato Bettinzoli: «niuna chiesa vorrà
il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane»74.
Riguardo alla sepoltura possiamo riscontrare anche una situazione di
netta contrapposizione rispetto a S. Francesco, che «al suo corpo non
volle altra bara» (Pd xi, v. 117) che la nuda terra, grembo della Povertà,
la donna a lui più cara, mentre ser Ciappelletto «Poi, la vegnente notte,
in una arca di marmo sepellito fu in una cappella» (§ 87). Una sepoltura
importante, come quelle riservate agli alti prelati o ai santi,
per ser Cepparello da Prato, «reputato per santo», e la nuda terra per
San Francesco d’Assisi, che santo è davvero e nella maniera più intransigente
e radicale. Di Manfredi conosciamo le vicissitudini narrate
da lui stesso nella sua realtà ultraterrena, che è una condizione temporale,
non eterna, è la condizione di chi attende la beatitudine e confida
nelle preghiere dei vivi per abbreviare la sua permanenza ai margini
del Purgatorio. Di ser Ciappelletto conosciamo la vicenda terrena, al
termine della quale, come dimostrato sopra, possiamo immaginarlo
probabilmente in Purgatorio:
ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che può apparire
ragiono, e dico costui piuttosto dovere essere nelle mani del diavolo in
perdizione che in Paradiso (§ 89);
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto
(Pg iii, vv. 142-144).
Nella conclusione di Panfilo si riconduce l’attenzione sui due
aspetti più importanti della questione: la fede non va separata dalla
razionalità dei comportamenti e dei giudizi e i disegni della Provvidenza
sono assolutamente impenetrabili.
L’ultima intersezione tematica riguarda la conoscenza che ci è data
del destino ultraterreno dei due personaggi: quello di ser Ciappelletto
ci è «occulto», possiamo solo trarre delle conclusioni, ragionando «secondo
quello che ne può apparire» (§ 89). Manfredi si rivolge a Dante
con la richiesta finale di farlo «lieto», «revelando» alla sua «buona Costanza
» la sua attuale condizione e anche il divieto di accedere al Purgatorio
prima che sia trascorso un periodo di trenta volte il tempo in
cui è rimasto nella sua ostinata ribellione, a meno che il tempo decre-
74 A. Bettinzoli, Per una definizione delle presenze dantesche nel Decameron, II,
cit., p. 230.
[ 26 ] [ 27 ]

ANDREA AMOROSO
Diario in tre lingue. Lo spazio vuoto
di Amelia Rosselli e le serie verbali
di Gilles Deleuze
La particolare sperimentazione linguistica di Amelia Rosselli dà vita a un vuoto
di senso che fa della sua poesia un unicum all’interno del panorama novecentesco
non soltanto italiano. Attraverso la messa in relazione di tale casella bianca
rosselliana con il fondamentale concetto deleuziano delle “serie verbali”, si
vuole sottolineare l’importanza filosofica ed ermeneutica della variatio all’interno
della poesia di Rosselli.

Amelia Rosselli’s particular linguistic experimentalism creates an absence of
sense that makes her poetry unique within Twentieth-century literature. Relating
Rosselli’s empty space to Deleuze’s fundamental concept of “verbal series”,
this essay aims at highlighting the philosophical and hermeneutic importance
of variatio for Rosselli’s poetry.
Si può mancare qualcosa (“mancare una palla”), si può mancare
nel senso di non esserci (“mancare all’appello”), si può mancare nel
senso di perdere la coscienza o addirittura in quello estremo di morire
(“è mancato”). In tutte queste espressioni la mancanza rinvia a qualcosa
che poteva esserci (oppure era già presente), ma non c’è stata
(oppure è venuta meno). In un caso la coordinazione, in un altro la
presenza fisica di qualcosa (qualcuno), in un altro ancora il movimento
(quello del cuore che pompa il sangue). Ma a cosa ci si riferisce
quando si riporta questo concetto in un ambito che è già di per sé ontologicamente
problematico com’è quello della poesia? A cosa si fa riferimento
quando si dice che un componimento poetico ruota attorno
a qualcosa che manca? Vuol dire che quel qualcosa, non essendoci e,
di conseguenza, non potendo essere direttamente percepito, viene fatto
intuire al lettore oppure c’è qualcos’altro che ci sfugge?
Cerchiamo di andare un po’ più a fondo per quanto concerne questo
problema. È una questione estremamente delicata e difficile da
maneggiare, poiché si tratta di ricondurre una pratica di composizione
poetica a una sfera di senso; un senso che – come vedremo più
344 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 345
Diario. È la stessa autrice ad affermare in una intervista: «faccio […]
una fusione grammaticale, uso cioè forme grammaticali inglesi nell’italiano,
anche consciamente […]. L’autore manipola la lingua, se vale
qualcosa»2. Un approccio che Florinda Fusco, nella sua monografia
rosselliana, ha definito come «un tentativo di riunire più lingue in un
idioma totale contro l’unicità o la supremazia di una lingua madre»3.
Non c’è alcun dubbio che il vaglio di tale aspetto sia di fondamentale
importanza per la comprensione dei meccanismi interni del fare poetico,
e quindi del laboratorio, della Rosselli; d’altro canto, esistono studi
eccellenti intorno alle capacità di ibridazione nonché di vera e propria
creazione di neologismi (veri e propri ircocervi prodotti dalla fusione
delle sottostrutture di più lingue diverse) della Rosselli4. In merito a
ciò, non ci dilungheremo su un’analisi linguistica al microscopio ma
cercheremo, piuttosto, di entrare nei meccanismi di deformazione del
senso che la poetessa mette in atto per cercare poi una risposta alla
domanda fondamentale che procede sottotraccia in questo nostro intervento,
ovvero: come viene ricostruito tale senso disperso?
Cosa succede, non solo nei pochi versi citati appena sopra, ma
spessissimo – come avremo modo di vedere – in tutto il Diario in tre
lingue? È qualcosa di molto vicino a ciò che Gilles Deleuze chiama serie
verbali all’interno di Differenza e ripetizione. Se da un lato, però,
possiamo dire che i versi appena citati di Amelia Rosselli costituiscono
una serie verbale, dall’altra dovremmo dire il contrario; vediamo
in che senso. Deleuze ci parla delle serie verbali in riferimento a un
continuum del senso o in riferimento a un continuum del significante.
Nel caso in esame abbiamo certamente una catena del significante: si
va dal lemma rimacchiata dell’inizio ad ambiti semantici del tutto distanti
come quelli evocati da topo macchiato / ritoccata / re toccato. È da
mettere in luce, però, quanto agisca, fuori dalla serie, come un punto
di fuga continuamente spostato, il mélange linguistico utilizzato dalla
Rosselli. Il mélange è fuori dalla serie poiché è appunto ciò che suggerisce
qualcosa che, in effetti, non c’è; è il mezzo per confondere i registri,
avvicinare le serie di termini senza però confonderle, instillare nel
lettore una specie di illusione ottica che tuttavia non ha la dignità limi-
2 M. Cambon, Incontro con Amelia Rosselli, «DonnaWomanFemme», 1996, n. 29,
p. 67.
3 F. Fusco, Amelia Rosselli, Palermo, Palumbo 2007, p. 12.
4 Cfr. S. Agosti, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Milano, Rizzoli, 1972 e
– più nello specifico della poesia della Rosselli – La competenza associativa di Amelia
Rosselli, in Id., Poesia italiana contemporanea, Milano, Bompiani, 1995, pp. 133 e segg.
avanti – è parte di un orizzonte i cui confini sono estremamente labili
e in divenire. Evidentemente, occorre spiegare meglio e cercheremo di
farlo attraverso degli esempi che ci sembrano pertinenti.
In Diario in tre lingue, un’opera giovanile di Amelia Rosselli (datata
1955-56), troviamo:
«retachée
(rat taché)
retouchée
re toqué
le
roix toqué
roix tocca
to
pousser les herbes dans leur vicines
vitrines
toucher ecc.
(…)
(erba nera tu tocchi
(…)
la follia)»1.
Si tratta di un brano che ci fornisce un esempio paradigmatico di quel
tipo di versificazione frantumata che ritroviamo spesso nell’opera della
nostra autrice. Il dettato poetico è scomposto in versicoli che, presi
nella loro singolarità e autonomia, avrebbero ben poco da significare.
In realtà, la significazione è affidata – più che al significato singolo di
uno o più versi – al significato altro che può essere colto solo a partire
da una considerazione dei versi come frammenti di una sequenza più
ampia. Con ciò la Rosselli dimostra, fin dalle primissime prove poetiche,
di possedere – oltre a uno spiccato senso del ritmo – una capacità
quasi “naturale” di organizzazione di tale ritmo in una struttura che,
se di primo acchito può sembrare che risponda alle esigenze di un
mero esercizio in pieno stile versoliberista, in verità ha esiti del tutto
differenti. Tale scomposizione del dettato poetico avviene, infatti, non
soltanto da un punto di vista puramente metrico-strutturale ma passa
anche e soprattutto attraverso un procedimento di scomposizione e
ricomposizione nella mescolanza delle stesse strutture morfologiche delle
tre lingue (italiano, francese e inglese) che la Rosselli utilizza nel suo
1 A. Rosselli, Diario in tre lingue, in Ead., Primi scritti (1952-1963), Milano,
Guanda, 1980; ora in Le Poesie, a cura di E. Tandello, prefazione di G. Giudici,
Milano, Garzanti, 1997, p. 82.
[ 2 ] [ 3 ]
346 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 347
Fare un buon incontro vuol dire, quindi, star bene, ossia aumentare il
nostro potenziale e per questo essere in grado di agire. Fare un buon
incontro è, in ultima analisi, essere capaci di interagire con più forza
con il mondo, ossia di innescare il meccanismo del cambiamento.
Tanto più si è vivi, allora, quanto più si è capaci di generare movimento
e di esserne presi, “affetti” diremmo con Deleuze e Spinoza.
Ciò che genera il movimento dell’altro, genera anche il proprio movimento;
generare il movimento è anche generare il proprio buon incontro
con il movimento. Fatto, questo, che contribuisce ancora a aumentare
il proprio potenziale. Sembrerebbe trattarsi di un’ascesa infinita,
ma ovviamente non lo è; avverrà prima o poi il cattivo incontro che indurrà
una variazione discendente del potenziale. Non varrà, in questo
caso, l’obiezione che – essendo anche questo un tipo di movimento –
esso sarà comunque un incontro positivo; al contrario, esso sarà il negativo,
il segno meno che limita la potenza di azione e di movimento.
Così come frenare non è andare all’indietro, ma arrestare la corsa, l’incontro
negativo è un arresto nel continuum energetico dell’esistenza. Si
noti, fra le altre cose, il cambiamento di prospettiva che interviene
nell’ultimo Deleuze (quello dell’Abécédaire) rispetto al testo spinoziano.
Se Spinoza propone l’esempio di un incontro fra persone, per il
tardo Deleuze7 – abbiamo detto – solo gli incontri con le cose hanno
un’importanza capitale. Ciò è in stretta connessione con un problema
di reificazione che, pur essendo un argomento ampiamente trattato in
ambito psicanalitico, in questo caso tocca sicuramente molto da vicino
anche la letteratura. L’incontro fra persone implica da subito un confronto
diretto e ravvicinato con lo sguardo dell’altro, ossia con una
sfera di senso che si impone nella sua immediatezza e che mette fra
parentesi ogni disturbo contestuale8. La letteratura, al contrario, fa indo
Paolo, che mi è simpatico, mi è data l’idea di Paolo. Ciascuna delle due ha un
gradiente di realtà o di perfezione. Ma, in relazione alla mia forza di esistere, l’idea
di Paolo ha un gradiente di perfezione intrinseca maggiore di quella di Pietro: l’idea
di Paolo mi rallegra, mentre quella di Pietro mi fa soffrire. Quando l’idea di
Paolo sostituisce quella di Pietro la mia forza di esistere e la mia potenza di agire
aumentano, si accrescono. Al contrario se, dopo aver incontrato qualcuno che ci
rende felici, vediamo qualcuno che ci intristisce, la potenza di agire è inibita e diminuisce
» (G. Deleuze, Cosa può un corpo, Verona, Ombre Corte, 2007, p. 45).
7 Sebbene la traduzione italiana del testo su Spinoza risalga soltanto al 2007, le
lezioni in esso contenute coprono un arco temporale che va dal 1978 al 1981, mentre
l’Abécédaire è datato 1988-89.
8 Sulla risposta di senso che il volto (visage) dell’Altro è capace di fornire si
veda E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 2000.
tata e quel valore circoscritto dell’illusone per l’illusione, ma rimanda
a qualcosa di più profondo.
“Ritoccata”, “rimacchiata” sono termini che rimandano a una sorta
di rimpasto, di rimescolamento, di contaminazione. Se macchiarsi è
sporcarsi, essere rimacchiata è essere ripresa nel processo, il processo
della macchia, del divenire dell’impurità. Diremmo, al limite, che è
proprio il diventare parte di tale processo, diventare la parte in causa
di questo mescolarsi di umori diversi. Quindi non solo qualcosa che si
rimacchia per una volta e basta, ma qualcosa che è sempre lì pronto a
sfruttare il potenziale intrinseco di questo divenire, un potenziale che
è ad ampio raggio sia per quanto riguarda lo spazio, sia per quanto
riguarda il tempo. Un rimacchiamento continuo, rinnovato e rinnovabile
all’infinito. Per dirlo con i termini del filosofo francese, potremmo
affermare che si tratta, in questo caso, di essere presi dentro il processo
di un divenire-macchia che – in quanto tale – altro non farebbe che mettere
da parte ogni tentazione mimetica e quindi eludere i possibili significati
metaforici e/o allegorici di tale processo. «Il divenire non
produce altro che se stesso. È una falsa alternativa che ci fa dire: o si
imita o si è»5; il divenire-macchia sarà quindi mai iniziato e mai terminato
ma sempre a metà, sempre come una sorta di intervallo senza
rapporto di causalità con ciò che segue o precede. E allora la macchia
è qualcosa di mobile, di vivo, qualcosa che, anzi, genera il proprio movimento.
Lo genera e si autorigenera. Ma da cosa deriva questo potenziale?
Quali sono le sue energie?
Deleuze, ancora lui, – nell’intervista-fiume concessa a Claire Parnet,
l’Abécédaire – parla dell’incontro come qualcosa che avviene non
con le persone, ma con le cose. Le cose sono ciò che è dotato di un potenziale
che entra in contatto con il “nostro” potenziale; sono le cose
che, lanciando i loro segnali / segni verso di noi ci permettono di relazionarci
in maniera autentica con la diversità di un altro sistema. Riflettendo
sull’idea della potentia agendi spinoziana, Deleuze, in un testo
che raccoglie una serie di lezioni tutte dedicate al filosofo olandese,
parla di una «variazione continua» della potenza di agire, che aumenta
in occasione di un buon incontro e diminuisce se l’incontro è cattivo6.
5 G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 1987, I, p. 345.
6 «Spinoza vede una variazione continua […] della forza di esistere e della
potenza di agire. Come si riallaccia tutto questo con l’esempio banale (ma lo ha
fatto Spinoza stesso) dell’incontro con Pietro e Paolo? Quando vedo Pietro, che mi
è antipatico, mi viene suscitata un’idea, precisamente l’idea di Pietro. Quando ve-
[ 4 ] [ 5 ]
348 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 349
Se da questo punto di vista i versi sembrano tendere verso l’universale
attraverso una serie che procede verticalmente, da un’altra
ottica la prospettiva cambia radicalmente. Spingendo alle estreme
conseguenze lo status dell’io nei confronti della serie verbale presa in
esame, ci troviamo di fronte a una posizione che potremmo dire di
radicale soggettivismo. La macchia, l’animale che si nutre di scarti, il
re urtato, spinto, sballottato, colui che è scosso, ma che, allo stesso
tempo, “tocca” qualcosa di indefinito, tutto questo non è altro che una
diretta emanazione dell’Io parlante, del soggetto. È come se tutta la
serie possa essere considerata come una serie di “attributi” del soggetto,
come una lista di proprietà che appartengono alla voce poetante.
Siamo, quindi, passati nell’ambito dell’orizzontalità, ove tutto è riconducibile
ad un comune denominatore. Eppure, il comune denominatore,
in questo caso la voce poetante, altro non fa se non assumere (evidentemente
in maniera del tutto momentanea, senza arrestare il flusso
di attributi che continuamente si scambiano di posto) il ruolo della
macchia, del topo, del re per giungere a quell’elemento fuori dalla serie
che è il tocco stesso. La Rosselli fa con la scrittura quello che Deleuze
ravvisa nella pittura di Cézanne (e poi di Bacon): le linee che la
percorrono sono astratte non in tanto che essa (poesia) si occupa e
mette in campo omofonie linguistiche, isotopie di senso, scarti linguistici,
calembour, ma in quanto essa riesce a far convergere e divergere
linee di senso senza, tuttavia, che questo stesso si stabilisca in alcun
punto. Continuamente spostato, esso acquista una velocità tale da
renderlo inafferrabile (il che non è lo stesso che parlare di “insensato”);
esso è tale da marcare «una linea a direzione variabile, che non
traccia nessun contorno e non delimita nessuna forma»10. Riportiamo
adesso anche i versi successivi a quelli finora analizzati e cerchiamo di
allargare la nostra analisi:
«retachée
(rat taché)
retouchée
re toqué
le
roix toque
roix tocca
to
poussere les herbes dans leur vicines
10 G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 1987, vol. II, p. 729.
contri soltanto con le cose; non, banalmente, per il fatto di essere imprigionata
in un oggetto (il libro) o perché essa si avvale della rappresentazione
che – in quanto tale – è già oggetto, ma perché solo un
rapporto con la cosa garantisce il superamento della cosa stessa. Per
dirla con Lacan, «con la presenza del sipario ciò che è al di là come
mancanza tende a realizzarsi come immagine»9. È la riduzione a cosa
che permette di immaginare un aldilà rispetto all’oggetto, in modo
tale che possa instaurarsi quella che lo psicanalista francese chiama
«relazione simbolica». Eppure, il posto della cosa, nel complesso intreccio
di relazioni della poesia rosselliana, è riscontrabile come luogo
(locus) e, tuttavia, incollocabile. La cosa, vedremo, resta al di fuori della
serie come ciò che permette alla serie di essere dinamica.
La poesia di Amelia Rosselli spesso procede per blocchi, come dei
cubi di senso, che sembrano calati da un altrove indefinito e con i quali
la poetessa si trova a dover fare i conti, quasi giocoforza. E verso un
altrove indefinito sembra anche puntare il gioco linguistico della Rosselli,
in particolar modo le serie verbali che essa costruisce per contaminazione
di lingue e di termini; l’italiano, l’inglese e il francese si
sovrappongono e generano un effetto di senso complessivo, al di là
delle loro specificità di lingue autonome. Prendendo in considerazione
più da vicino alcuni termini del passo precedentemente citato, potremo
osservare come la poesia della Rosselli contenga simultaneamente
elementi di continuità che coesistono, tuttavia, con importanti
procedimenti di scarto e discontinuità. «Rimacchiata»: un femminile
che è nella sfera del sé, un femminile che potremmo riferire all’io parlante;
«topo macchiato»: l’eterna corrosione del mondo, il mondo che
si corrode – e si notino qui le non poche vicinanze con un testo come
The Waste Land di Eliot; «re urtato», «re tocca / to»: l’autorità contaminata,
che non si erge sulla realtà, ma è costretta a immergervisi. Quel
«toqué» (urtato), è vicinissimo a toque (tocco), tanto più se facciamo
caso al verso seguente («re tocca»). Cosa tocca il re, cosa c’è da toccare,
con che cosa è inevitabile venire in contatto? Se la macchia è qualcosa
di virale, che contamina il mondo entrando dalla porta più sordida e
nascosta, da un sotterraneo fangoso (il topo), tale malattia diventa endemica;
se persino l’autorità più alta, «le roix», ne è raggiunta, se finanche
l’altezza intoccabile ne è contagiata, allora è il mondo intero a
essere in pericolo, a dover fare i conti con una minaccia che, a questo
punto, potremmo azzardarci a definire cosmica.
9 J. Lacan, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale, Milano, Einaudi, 2007,
p. 153.
[ 6 ] [ 7 ]
350 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 351
ne infinita della tache e la serie maggiore del divenire-poeta. La macchia
infatti non fa che sospingere (pousser) l’erba nera nella sua vetrina,
non fa che arrestarne la crescita e così renderla visibile agli occhi
dello spettatore; è così che essa può raggiungere (toccare) la follia. Follia
di guardare ciò che diviene sotto vetro, in laboratorio, follia di toccare
ciò che non distingue l’essere dall’imitare, ciò che non appartenendosi
non può appartenere a chi guarda (e forse anche quella dello
sguardo è solo un’illusione ottica senza referente possibile). Pousser:
crescere, intransitivo, proprio del soggetto a cui si riferisce e sospingere,
far volare, azione del soggetto verso un oggetto passivo che si fa trasportare.
Intransitivo eppure attivo, auto-posto eppure continuamente
mobile, casella bianca12 che rende possibile la serie, non è questo
forse il posto della poesia? Ecco che accanto alle serie minori di cui
abbiamo parlato si fa strada la serie maggiore, una serie che si chiude
in un solo termine: l’erba. Essa però adesso è diventata preludio e conseguenza
di quel tocco che non tocca più nulla, che è diventato il toccare
stesso: il tocco poetico; l’erba nera è la poesia stessa e la sua impossibilità
ad essere afferrata. Se Deleuze e Guattari possono affermare
in Millepiani che «il lupo è un lupolio» e «il pidocchio un pidocchiamento
» è proprio in forza di quell’azione animale che rende indiscernibili
il soggetto e l’attributo che lo rende attivo in un dato ambiente,
sulla loro scorta possiamo dire che la poesia (si potrebbe dire la poesia
in genere, ma in questo caso ci limitiamo a considerare la poesia così
com’è inscritta all’interno dei versi rosselliani) non corrisponde alla
propria funzione. Piuttosto diremmo che “la poesia erbeggia”, anziché
poetare; essa diviene poesia solo in quanto si libera del proprio
stesso attributo.
Poesia che sarà, allora, capace di produrre il senso, sempre sulla
scorta di Deleuze, «non come apparenza, bensì come effetto di superficie
e di posizione, prodotto della circolazione della casella vuota nel-
12 «Riassumiamo il carattere di quest’elemento paradossale, perpetuum mobile,
etc.: esso ha la funzione di percorrere le seriee eterogenee e da un lato di coordinarle,
farle risuonare o convergere, dall’altro di ramificarle, introdurre in ognuna di
esse disgiunzioni multiple. È nello stesso tempo parola = x e cosa = x. Ha due facce,
poiché appartiene simultaneamente alle due serie, ma che non si equilibrano,
non si uniscono e non si accoppiano perché esso è sempre in squilibrio rispetto a
se stesso. […] Esso è nello stesso tempo eccesso e difetto, casella vuota e oggetto
sovrannumerario, posto senza occupante e occupante senza posto, “significante
fluttuante” e significato fluttuato, parola essoterica, parola bianca e oggetto nero»
(g. deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 65).
vitrines
toucher ecc.
latrines
Le pontéficat nous demande en nous regardant en face où
c’est que nous avons l’intention d’arriver? La bouteille est
conforme à nos désirs. Le fleuve vert petitpois se tord,
devenu maintenant noir encre. Les arbres les ombres miroitées
ont trouvé une autre
vitrines
glacées
(erba nera tu tocchi
glass-house
vin glassé
la follia)
par les intempéries de la saison du clime
as-tu pensé à te sauf-garder
des interpéries
(interpretations)
de l’hiver?».
Proviamo a distendere questi versi nel discorso piano della prosa e in
una sola lingua, fatte salve tutte le approssimazioni che tale esperimento
comporta. «Rimacchiata, topo toccato, ritoccata, il tocco-toccato,
il re è il tocco [ma anche ciò che è] toccato. Crescere/ far crescere/
sospingere/ far volare le erbe nelle loro vicine vetrine. Toccare… etc.,
latrine. Il ponteficato ci domanda guardandoci in faccia dove abbiamo
intenzione d’arrivare? La bottiglia è conforme ai nostri desideri. Il fiume
verde pisello si torce, divenuto adesso nero inchiostro. Gli alberi,
le ombre specchiate-luccicate hanno trovato un’altra vetrina ghiacciata.
Erba nera tu tocchi… (case di vetro, vino al bicchiere-ghiacciato…)
la follia attraverso le intemperie della stagione climatica, hai pensato
a riguardarti dalle interperie (interpretazioni) dell’inverno?»11. Dove si
trova l’io poetante di cui abbiamo già detto? Che posizione assume?
Rimacchiata e ritoccata, la poetessa è dentro quello stesso processo
che cerca di restituire in versi. Riprendiamo la frase Deleuze già citata
in precedenza: «Il divenire non produce altro che se stesso. È una falsa
alternativa che ci fa dire: o si imita o si è». Il poeta è re e servo, padrone
del senso e oggetto inerme macchiato dal nero inchiostro, in esso si
congiungono la serie minore del divenire-macchia, della ri-produzio-
11 Abbiamo usato il corsivo per quei termini dei quali la Rosselli deforma l’ortografia.
[ 8 ] [ 9 ]
352 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 353
Se prima abbiamo detto che la serie esauriva dentro di sé piani molteplici
d’interpretazione, se prima si trattava di intrattenere rapporti con
qualcosa che raggiungeva dimensioni sempre più grandi fino ad abbracciare
l’universo intero, adesso possiamo dire che la materia poetica
si sfalda fino a raggiungere dimensioni infinitesimali, fino a diventare
un’emanazione dell’io che scrive. La folgore scoppia tra intensità
differenti, ma è preceduta da un precursore buio, invisibile, sensibile,
che ne determina in anticipo il cammino capovolto, come incavato.
Parimenti, ogni sistema contiene il suo precursore buio che assicura la
comunicazione delle serie da collegare15. Il precursore buio, di cui ci
parla Deleuze, è ciò che inaugura la differenza, ciò che differenziandosi
da sé e dall’altro da sé, prefigura ogni somiglianza e ogni differenza.
È qualcosa che si stacca dal flusso del tempo, ciò che non dura eppure
permette al tempo di durare, di farsi durata. Non appare, se non come
l’induttore del fenomeno; è l’elemento segreto, quello che non essendo
visto contiene ogni visibilità, ciò che non avvenendo mai contiene
ogni potenza in divenire. È l’informe che precede la forma, non qualcosa
che è in attesa di essere plasmato, ma ciò che è estraneo a ogni
delimitazione. Punto d’incontro tra le serie non può – per definizione
– appartenere a nessuna delle due, ma nemmeno può svolgere la sua
azione prescindendo da esse. «Non diventerà visibile se non capovolto,
[…] non avrà altro posto se non quello in cui “manca”»16 e, mancando,
sarà reale nel suo funzionamento ma ipotetico nella sua possibilità
di essere percepito. È percepibile come probabilità, come il posto
vuoto senza il quale le serie collasserebbero l’una sull’altra.
Tornando ad Amelia Rosselli e ai versi di Diario in tre lingue, questo
precursore buio di cui ci parla Deleuze, non è forse incarnato dall’io in
quanto essere in divenire e non in quanto stato? Non è proprio l’io
inconoscibile perché privo di temporalità, la materia incandescente
che muta al mutare delle sue condizioni di possibilità, il pulviscolo
che brilla nel sole e sfugge alla presa? Non ci stiamo riferendo semplicemente
alla rappresentazione di un io lacerato attraverso la spezzatura
e ripetizione del singolo termine in forme leggermente diverse (e.
g. «retachée» / «rat taché»), – procedimento, questo, che pure è in atto
e non dev’essere sottovalutato – ma ad un processo per designare il
quale anche il termine rappresentazione appare poco congeniale. Poco
adatto a cogliere la potenza in atto di quel processo che ci parla della
15 Su questo punto si legga G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello
Cortina, 1997, pp. 155 e passim.
16 Ivi, p. 156.
la serie della struttura (posto del morto, posto del re, macchia cieca,
significante fluttuante, valore zero, cantonata o causa assente, etc.)»13.
In Cosa può un corpo, il testo già citato che raccoglie le lezioni di
Deleuze su Spinoza, il filosofo francese riprende le nozioni di affectus
e affectio. Senza addentrarci nei sentieri della speculazione filosofica,
possiamo dire che per Deleuze l’affectus spinoziano è un modo di pensiero
che non rappresenta nulla. Che significa? Consideriamo, ad
esempio, emozioni come la speranza, l’angoscia, l’amore, qualsiasi
cosa sia comunemente denominata affetto o sentimento: non rappresentano
nulla. Certo, esiste un’idea della cosa amata, di ciò che è sperato,
ma la speranza in quanto tale o l’amore in quanto tale, a rigore,
non rappresentano niente. Ogni modo di pensare non rappresentativo
sarà chiamato affetto. Una volizione, la volontà, implica il volere qualche
cosa. L’oggetto del volere è dato in un’idea, è oggetto di rappresentazione,
ma il fatto di volere non è un’idea, è un affetto, perché non
è una rappresentazione14.
Il gioco di parole, la deformazione, il calembour di Amelia Rosselli
sono strumenti per modificare il nostro sguardo sulle cose, per deformarle
e ricomporle ma sono anche – e non secondariamente – uno
strumento per superare la rappresentazione della cosa stessa. In altre
parole possiamo affermare che il soggetto poetante si pone come punto
di congiunzione, ma allo stesso tempo di separazione, di due orizzonti
di senso. Il poetare è compreso nel calembour, è lo stesso calembour,
anzi, a farsi poesia; tuttavia, è proprio il calembour a nasconderci
la poesia stessa, a prendere la scena come il rappresentante del senso
(un senso dissociato, questo sì, ma pur sempre un senso)….
E diciamo due orizzonti di senso volendo intendere anche la mancanza
di rappresentazione come una sfera in cui il senso non è abbandonato,
sebbene senza il suo emissario più noto (la rappresentazione,
appunto) esso tocchi l’apice della solitudine – e quindi del nascondimento.
Le serie verbali che costellano il Diario in tre lingue funzionano come
una premonizione di ciò che – più in là nel testo – verrà affermato
in versi che prendono quasi la forma del precetto poetico, che – in
qualche modo – parlano dell’atto creativo e della genesi del verso. E
non è un caso se la serie di cui ci siamo occupati è praticamente l’ultima
dell’intero testo, che da quel punto in poi (sempre mantenendo la
sua frammentarietà) diventerà più ricco di enunciati che non di serie.
13 Ivi, p. 69.
14 Cfr. G. Deleuze, Cosa può un corpo, cit., p. 42.
[ 10 ] [ 11 ]
354 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 355
questa voragine scura, il verso si auto-sospende, si arresta ad una distanza
infinitesimale da tutto il resto. Tutto il reale diventa il resto di
qualcosa, tutto il dicibile nient’altro che il resto di questo spazio bianco.
È il penultimo passo, la penultima fermata, il crinale sopra il quale
la parola si arresta in attesa di un ricominciamento. È una sorta di situazione
di surplace in cui la letteratura si trova in uno stato di sospensione
attiva; è l’attimo prima dell’irruzione del resto, quello in cui
si sperimenta l’estrema mancanza che abita in ogni gesto poetico. L’attimo
dopo si è già nell’eterno ri-cominciamento della poesia, in quell’
«infinito intrattenimento»18 che è sempre inaugurale e sempre di là da
venire.
«Erba nera tu tocchi / […] / la follia»: quella «follia», una parola
che sembra essere conclusiva in realtà è l’ultimo ed estremo simulacro
di un pensiero che – pur non potendo smettere di pensarsi – deve consegnarsi
a un orizzonte di senso finito. E, allora, il verso conclusivo –
non dimenticando, però, che la poesia della Rosselli è costellata di
numerosi versi conclusivi nel senso pieno del termine, ossia di versi
nei quali la stessa poesia è messa in mora e quasi abbandonata al proprio
destino –, sarà un verso-feticcio, ossia ciò che delimita il desiderio
per permettere alla sua eco di risuonare all’infinito19.
Il pensiero non pensa se non costretto e forzato, davanti a ciò che “dà
da pensare”, a ciò che va pensato, e ciò che va pensato è anche l’impensabile
o il non-pensato, cioè il fatto perpetuo che “noi non pensiamo
ancora” […]. Dall’intensivo al pensiero, è sempre attraverso una intensità
che il pensiero ci giunge20.
Questa intensità, questa inclinazione a pensare «l’impensabile» è in
azione proprio in quei puntini sospensivi prima del verso-feticcio. È
in quel verso / non verso, in quello spazio bianco, in quella non-parola
trasparente che si condensa una differenza di potenziale tra ciò che
è stato e ciò che sarà. Il salto di energia consiste nel passaggio da una
serie che, per quanto vasta, è qualcosa di limitato, a una sorta di campo
in cui in confini devono essere per forza aboliti. In altri termini, la parola
poetica della Rosselli si arresta e oltrepassa la serie che essa stessa
aveva posto; così come l’io – l’abbiamo già detto poco sopra – ha sfon-
18 Cfr. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«Insensato gioco di scrivere
», Torino, Einaudi, 1981, pp. 18 e segg.
19 C fr. su questo punto J. Lacan, Il seminario. Libro IV. La relazione oggettuale,
Torino, Einaudi, 2007, pp. 149 e segg.
20 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 188-189.
realtà come Altro e – con le stesse parole – si presenta come lo Stesso
della realtà. Quella sfilza di parole unite nell’orizzonte semantico che
abbiamo cercato di delineare qualche pagina addietro è la stessa sfilza
che ci dice che ogni parola risuona del suo proprio senso (un senso che
dice se stesso e il suo risvolto oscuro, il non-senso, proprio come una
istantanea in cui sia visibile contemporaneamente il positivo e il negativo
della foto stessa). Ogni termine risuona come il passo sulla scala,
unico eppure preceduto e seguito dagli altri passi della serie. Il divenire
dell’Io, ecco allora quello che possiamo chiamare il precursore buio
della serie, un divenire che è avanzata verso il Cosmo e ritirata verso
l’infinitamente piccolo, più piccolo della parola, della sillaba e del fonema
continuamente triturato.
Un precursore linguistico, una parola esoterica, non ha di per sé un’identità,
sia pure nominale, così come i suoi significati non hanno una
somiglianza, magari infinitamente diluita. […] Essa non ha valore se
non nella misura in cui pretende, non di dire qualcosa, ma di dire il
senso di ciò che dice17.
Il senso della serie rosselliana sarà quindi incarnato da un fluire del sé
che è simultaneo al fluire del senso stesso. Una doppia imprendibilità
che – in quanto tale, in quanto senza luogo e senza tempo – non può
non lasciare spazio (espressione estremamente inadatta, ma ogni lingua
ha i suoi limiti) alla letteralità dell’enunciazione. Infatti, già al termine
della serie la Rosselli scrive «erba nera tu tocchi / la follia»; i due
versi sono separati da alcuni puntini tra parentesi – (…) –, un verso
che in realtà è l’ultima sospensione prima di dire qualcosa che non
può essere pronunciato, qualcosa di non classificabile in via definitiva.
Questo indicibile è il nero profondo del superamento del limite, il limite
della sfera della ragione, ma anche il limite della sfera dell’analogia
e della rappresentazione. Oltre questi limiti, sembra avvertire la
poetessa, restano soltanto il buco nero prodotto dalla lingua quando
questa supera se stessa e la nuda esposizione della letteralità.
Macchiarsi, essere macchiato, divenire-topo e divenire-macchia,
vedere il re solo in questo procedimento di contaminazione, vedere il
re sotto un cattivo presagio, un presagio che da sempre macchia la
possibilità di vedere il re. C’è la possibilità di vedere il re oppure il re
va toccato? Toucher, toccare: impossibilità di vedere, premonizione di
un silenzio mai raggiunto completamente. Sfiorando il silenzio di
17 Ivi, p. 159.
[ 12 ] [ 13 ]
356 andrea amoroso lo spazio vuoto di a. rosselli e le serie verbali di gilles deleuze 357
sario?») non prenda il sopravvento, non snaturi lo sforzo interno del
linguaggio, la sua carica vitale e non-rappresentativa.
La Rosselli fa della lingua qualcosa di estremamente concreto e – di
conseguenza – qualcosa che diffida continuamente della rappresentazione.
Quest’ultima è il modo più scontato di fare entrare la realtà nel
verso, mentre la Rosselli è attenta a far entrare non le cose nella loro
sciocca immobilità, ma i processi, quel divenire-lingua e quel diveniremondo
che possono essere sfiorati attraverso la ricerca di un passaggio,
un brevissimo istante di movimento comune. A questo proposito ci
sembrano far luce due versi essenziali:
«il punto di sintesi tra il mondo estrov.
e il mondo introv. sono io, il fluire»21.
Il fluire è anche il fluire della sua lingua, quello strumento misterioso
destinato a un confronto impossibile con un mondo che è fatto di percezioni
irriducibili alla sfera della lingua; e però, nello stesso momento
in cui diventa poesia, la parola assume la complessità di un orizzonte
a sé, divenendo quasi un’alternativa ad un mondo che – a questo
punto – «non è abbastanza dettagliato». È la lingua ad essere bigger
than life, solo essa è capace di metterci in contatto con noi stessi, solo
essa si supera e ci supera; sta tutta in questo attrito irrisolto la portata
conoscitiva (esplorativa, diremmo) della poesia di Amelia Rosselli.
Prima di essere una pratica, uno lavoro, un’attività – la lingua della
poetessa è il primo stadio del sensorio, il primo “sole” sospeso tra
terra e cielo per passare al setaccio la necessità di un “fuori” altrimenti
imperscrutabile.
Andrea Amoroso
(Università della Calabria)
21 A. Rosselli, Diario in tre lingue, cit., p. 115.
dato i suoi limiti divenendo inconoscibile e pulviscolare, anche la parola
sfonda il limite del poetico e chiama a gran voce l’esperienza, il
caso, il tutto, in una prospettiva che potremmo definire olistica. Non
potendo chiamarla in altro modo, non sapendo come chiamare ciò che
non ha identità e che mette in mostra tutta l’incompiutezza della serie,
la Rosselli usa il termine «follia». Che è sì la perdita della ragione, ma
qui è soprattutto ciò che non ha nome, ciò che non appartiene a nessuna
serie e che può essere detto solo per convenzione e per approssimazione.
È ciò verso cui tendono quei misteriosi fili di «erba nera», di cui
non sappiamo niente se non la loro propensione verso qualcosa d’altro.
La «follia» è qui dichiarata più che espressa, è il nome che non
garantisce più la cosa, la cosa è inarrivabile e il nome agisce come un
catalizzatore di energia, non più come un segno ma piuttosto come un
segnale; non è più qualcosa di interno ad una dinamica dell’interpretare,
ma appartiene piuttosto alla dinamica dei flussi, è uno snodo capitale
in cui si intersecano i molteplici sensi delle serie.
Da questo punto in poi, nel Diario in tre lingue si fanno più frequenti
versi che sono come delle vere e proprie dichiarazioni, se non di
poetica, quanto meno di approccio verso la scrittura e verso l’esistenza.
«L’inconscio è un principio di Morte» (p. 91), «mettere di nuovo il
sole in (cielo) / (terra)» (p. 91), «non esiste “divago” / esiste cercare
materiale fuori, materiale dentro. / fuori necessario?» (p. 95), «forse il
tuo male è di prefiggerti degli scopi. / o no?» (p. 101), «la poesia è
fatta di liberazione, non di riflessione» (p. 102), «dreams / sincerità vs.
bocca chiusa / sfondare o segreto / rapporto creativo con Dio / il
voler “spiccare il volo” / – il “salto”» (p. 103), «il mondo non è abbastanza
dettagliato per te» (p. 107).
La lingua è il vero problema della Rosselli; l’accento posto sul suo
trilinguismo, l’esposizione di questo trilinguismo che spesso forza le
restrizioni del linguaggio dando vita a una lingua ibrida, attraverso
quelli che Pasolini ha chiamato i “lapsus” del verso rosselliano, non è
altro che il mezzo attraverso il quale Amelia Rosselli ingaggia una
strenua lotta con la lingua. Essa è il moloch che fa da contrappeso al
mondo intero, senza cui il mondo resterebbe tale è quale, qualcosa
sotto il cui peso tutto sarebbe schiacciato (per prima la stessa Amelia).
La lingua è la sola via d’uscita al peso del mondo, ma non si tratta di
una via d’uscita facile. Ce lo testimonia la continua tensione (irrisolta)
che insiste su questo binomio: la lingua è nel mondo, ma nello stesso
tempo è la sentinella che deve far entrare nel verso solo ciò che le serve.
Deve fare la guardia affinché il contenuto (l’esterno, il «fuori neces-
[ 14 ] [ 15 ]

Carlangelo Mauro
Ugo Piscopo e la persistenza preesistente
Molteplici le attività culturali e di scrittura di Ugo Piscopo, poeta,
narratore, autore teatrale e studioso (basti qui ricordare i suoi lavori
sul futurismo1, su Savinio2, su Èluard e il surrealismo3, su Vittorio
Pica,4 su Massimo Bontempelli5). Tante e possibili sarebbero le riletture
delle sue varie opere nei diversi generi affrontati. In questo breve
intervento mi soffermerò come lettore, liberamente, in modo decostruzionistico,
per così dire, su una raccolta di poesie: Presenze preesistenti.
Pietre di Serra di Pratola Serra6, e su uno scritto teatrale: Le Campe
al Castello,7 assunto, nella primavera del 2012, come essenziale riferimento
bibliografico per un focus sull’Italia contemporanea tenuto alla
1 Il Dizionario del Futurismo, Firenze, Vallecchi, 2 voll., 2001 contiene settantasei
voci curate da U. Piscopo; tra le numerose pubblicazioni dello studioso sul futurismo
si segnalano: Lucini e il futurismo, «Misure Critiche», II (1972), n. 5, pp. 35-57;
Les futuristes et Rimbaud, «Europe», LI (1973), n. 529-530, pp. 133-146; Mario Morasso
e il futurismo: anticipazioni e divergenze, in «Italianistica», III (1974), n. 1, pp. 97-
117; Questioni e aspetti del futurismo. Con un’appendice di testi del futurismo a Napoli,
Napoli, Ferraro, 1976; Futurismo a Napoli. «Corriere di Napoli» e futurismo, 1915-1928,
Napoli, Tullio Pironti Editore, 1981; Futuristi a Napoli. Una mappa da riconoscere,
Napoli, Ermanno Cassitto Editore, 1983; Cangiullo prosatore, in Il futurismo a Napoli,
a cura di M. D’Ambrosio, Napoli, Morra, 1996, pp. 67-82; Marinetti e il fascino profondo
del Sud, «Napoli Nobilissima», XXXVII (1998), fascicoli I-VI, pp. 179-184; Futurismo
e Meridione, in Calabria futurista 1909-1943, a cura di V. Cappelli, Soveria
Mannelli (CS), Rubbettino, 2009, pp. 15-38.
2 U. Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973.
3 La poesia di Èluard e la cultura italiana, Roma, Quaderni del Veltro, 1965; Novecento
e Tradizione [1965], Palermo, Palumbo, 1975.
4 Vittorio Pica e la protoavanguardia in Italia, Napoli, Cassitto, 1982.
5 Massimo Bontempelli. Per una modernità dalle pareti lisce, Napoli, ESI, 2001.
6 U. Piscopo, Presenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra, pref. di M.
Carlino, Napoli, Guida, 2007.
7 Id., Le Campe al Castello, pref. di V. Monaco Westerstahl, Salerno, Plectica,
2011.
Note
360 carlangelo mauro ugo piscopo e la persistenza preesistente 361
mentali della Costituzione, l’abbandono della buona politica, portano
fino all’esproprio, surrealistico e grottesco, delle stesse sedi istituzionali,
rappresentate dal Castello in un nero, oscuro, medioevo; il Castello
viene occupato da parassiti, da esseri che hanno le caratteristiche di
bruchi (significato di Campe, voce tardo-latina), che ognuno può immaginarsi
come vuole, a patto di conservare la loro caratteristica di fondo
che, come dice l’autore nella Nota introduttiva, è quella di sostituire,
nell’esercizio delle funzioni istituzionali, negli stessi luoghi del potere
«un popolo alienato di sé stesso e dei principi fondanti la societas» (appunto
la Carta costituzionale); «un popolo senza, che si lascia cacciare
via dalle Campe», dai parassiti che si nutrono dell’altrui.
L’esempio, minimo in rapporto all’ampia, geometrica ‘narrazione’
teatrale in quattro quadri − in cui non si salvano né il PdMc alias la
destra, né la coalizione degli Schiattamuorti, cioè la sinistra – può permettere
di sottolineare la presenza, pur nella varietà e libertà della
sperimentazione, di fili palesi o nascosti che legano varie opere tra di
loro, a chi, come me, voglia prendersi la licenza di leggere più liberamente
e meno filologicamente, secondo le forme e i generi, i testi
dell’amico Piscopo. Egli è un intellettuale oltremodo consapevole e
militante, dotato di un orizzonte critico nei confronti del reale, tale da
assicurare nella sua produzione, appunto, una ‘presenza preesistente’,
una forma di interpretazione dei fenomeni politici, sociali e culturali,
come delle opere letterarie canoniche e non, un’interpretazione in cui
resiste un nucleo personale fondamentale, dotato di spessore e di durezza,
non disponibile al compromesso o al baratto. Un nucleo che
rappresenta sempre l’alternativa della libera creatività del soggetto,
perfino linguisticamente dadaistica, rispetto ad un ordine repressivo
mascherato da libertà politica e di appiattimento comunicativo nel
linguaggio Unico del presente. Parole ironiche, leggere, ludiche, ma
nel contempo pesanti come pietre, illuminano il percorso dell’autore e
del lettore, indicano una possibile segnaletica nel labirinto della produzione
e della biblioteca dell’intellettuale. Ecco che la fedeltà alle
proprie radici, «a les ancêtres / oscurecidos y desordenados» di Pratola
Serra, luogo di nascita dell’autore − apparentemente quanto di più
scontato si possa pensare in un autore d’avanguardia – diventa in Presenze
preesistenti un’efficace trasgressione rispetto all’ordine vigente.
Gli antenati si ergono «inferi e superi / e totem trasversi / gravidi di
tuberi e radiche» (altrove, «La pietra è radice / perduta trovata»12), nel
12 Id., Presenze preesistenti Pietre di Serra di Pratola Serra, cit., p. 38.
Villette a cura dell’Università della Sorbona di Parigi; qualche accenno
riserverò alle Familiari8.
La libertà creativa di espressione, di tematiche è caratteristica della
produzione poetica di Piscopo nel suo complesso, tesa da decenni ad
una incessante ricerca che permette di leggere ogni opera come un capitolo
a sé, ma all’interno di un comune ambito espressivo, appunto
quello della sperimentazione plurilinguistica derivabile dalle avanguardie,
in modo però originale e senza estremismi. Piscopo poeta è
autore anche di due volumi di haiku, a riprova della sua versatilità9.
L’autore nella sua multiforme attività non si perita di mescolare registri
diversi, come nell’opera teatrale Le Campe, in cui «i linguaggi della
politica e dei media si intrecciano», come dice nella prefazione Vanda
Monaco, ma finanche lingue diverse. Si nota in poesia, come in Michele
Sovente ma con tutt’altri esiti, la presenza del latino (e anche talvolta
del greco) nelle due raccolte di poesia citate, o dello spagnolo e del
francese, del pastiche di citazioni dal tedesco, dall’inglese e altre lingue,
ad esempio in Hin und Zurück nelle Familiari10. Il gusto della citazione,
che si inserisce nel tessuto che è il testo, è un’altra caratteristica di Familiari,
basti qui richiamare il dialogo con la Costituzione, come recita
il sottotitolo di La solidarietà11. L’invocazione al «Salsicciaio» di Aristofane
viene attualizzato nella contemporaneità dal genitivo che segue
«dei Cavalieri nostrani», con riferimento al noto Cavaliere che ha dominato
la scena nella politica italiana fino a qualche anno fa; le citazioni
goethiane si inseriscono in un contesto di straniamento dove la perdita
dei valori della Carta costituzionale, i «randelli pelosi» delle braccia
che si levano contro di essa, contro il principio sociale della «solidarietà
concreta / intra domesticos parietes et extra» rappresentano, in
altra forma e genere, il discorso delle Campe, in cui si ritrova il pacchetto
delle fragili proposizioni della critica alla politica di destra, ma anche
di sinistra, nell’era berlusconiana. Il tradimento dei principi fonda-
8 Id., Familiari, postfazione di C. Vitiello, Salerno, Oedipus, 2011.
9 Id., Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura, pref. di G. Manacorda, Napoli,
Guida, 2003; Oscilla mille. Haiku, pref. di M. Carlino, Roma, Empiria, 2013. Sono
usciti di recente su «Poeti e Poesia», diretta da Elio Pecora, n. 35, 2015, cinquanta
haiku inediti dedicati al sole, e altri cinquanta, egualmente inediti, sono usciti sul n.
36 della medesima rivista. Vari altri haiku sono su riviste e giornali.
10 Id., Familiari, cit., p. 47. L’autore ha grande dimestichezza con le lingue straniere,
come provano le traduzioni dal francese, dall’inglese, dallo spagnolo di volumi
per la Longanesi di Milano, la Sei di Torino, la Curcio di Roma, la Palumbo di
Palermo, la Guida di Napoli, la Oedipus di Salerno.
11 Id., Familiari, cit., p. 25.
[ 2 ] [ 3 ]
362 carlangelo mauro ugo piscopo e la persistenza preesistente 363
Buccus). Maccus il ghiottone perennemente innamorato, redivivo capo
di un Partito dell’Amore19 ha bisogno, per fondare il proprio potere,
di un nemico su cui far convergere la carica di avversione politica
del proprio partito, il «Pdmc (Partito della Mangioria et Cricconia)». Il
nemico, di sinistra o comunista, è costituito dal partito degli Schiattamuorti,
che non sa opporsi a Maccus, anzi nella dialettica sofistica dei
propri rappresentanti si involve in grovigli inestricabili (si vedano le
tirate sociologiche e filosofiche di Echinocantus, l’intellettuale che non
si trova d’accordo con nessuno tranne se stesso), in punti di vista sempre
diversi che non trovano però una sintesi unitaria, un progetto comune
e possono continuare in discussioni infinite, come dice Heliantum
Maximum detto Baffino (non è difficile l’identificazione), ex capo
degli Schiattamuorti: «Che idea si farebbe un osservatore esterno a
vederci così animatamente e dottamente impegnati a discutere, a discutere,
a discutere […]»20. Questo nemico finisce con l’essere il catalizzatore
della forza avversa, così che Maccus può esaltarne la funzione
strumentale al potere: «Il nemico è una manna da spalmare sul
pane, una pomata sulle ferite. E, perciò, è provvidenziale che ci sia. Se
non ci fosse, ce lo dovremmo inventare noi per il nostro bene e per il
bene del popolo»21. Maccus, il capo populista che ostenta sempre ottimismo,
che sa promettere quello che non può mantenere («Occorre
promettere, promettere, promettere. Far toccare al popolo sovrano il
cielo con un dito»,22), si pone all’opposto delle ideologie di sinistra,
critiche o della crisi, degli Schiattamuorti che appaiono funeree agli
occhi del popolo rispetto alle sue, vincenti e sempre positive. Gli
Schiattamuorti, quindi, che si radunano nella «Sala della funebrità»
favoriscono indirettamente il grande incantatore che la massa trasforma
in Dio o idolo, totem da adorare. Gli antenati di Pratola Serra,
«totem trasversi» legati come sono alla materia lapidea e alla terra,
parlano un linguaggio totalmente alternativo a quello di Maccus e dei
suoi servitori, nel proprio silenzio pesante e ancorato al reale, destinato
a rimanere dovunque e oltre il tempo, nei segni delle costruzioni (i
«muri bianchi del Trafoco»,23), finanche dei forni realizzati con quelle
stesse pietre, segni di una civiltà contadina, quella dei «Padri della
terra» di Scotellaro, che cuoceva da sé i propri «Pani panetti panelle /
19 Ivi, pp. 20-21
20 Ivi, p. 61
21 Ivi, p. 24
22 Ivi, p. 44
23 U. Piscopo, Presenze preesistenti, cit. p. 15
loro silenzioso linguaggio di sguardi si levano come una «rete di occhi
» dai «coppi di malta» degli edifici, come rappresentanti della storia
che retrocede fino a primordi di «covi di uovi»13, evidentemente
cosmogonici e forieri di senso per i nuovi nati, le nuove generazioni;
storia all’origine pur dolorosa e non idealistica o idealizzata, essendo
gli «antichi padri»14, «scatozzati dal maglio» di chi li sfrutta, ai fini di
potere, facendo nascere in loro superstizioni e credenze religiose: il
«mago folle / che dedicava i frammenti al nadir». Ma questa persistenza
degli antenati «in stato e grazia di pietra»15, sottratta alle piaghe
inflittegli dal Potere, rimane presenza spirituale come richiamato dalla
citazione di Meterlink in epigrafe, secondo cui la «montagna di basalto
» reca in sé «altrettanta vita» della città che essa sovrasta, così che
le pietre possono vivere «più spiritualmente di noi». La consistenza, la
persistenza, la pesantezza della materia spirituale sembra una chiara
contrapposizione alla contemporaneità, alla sineddoche dello stato di
fluidità e leggerezza, falsa e mascherata, incarnata, è scritto nelle Campe,
nel «grande seduttore», capace di calamitare con la forza immensa
della bugia l’attenzione delle masse che la ritengono verità, «adeguandosi
alla Sua parola, anche se essa sia in contraddizione con sé stessa,
cioè con quanto ha affermato un giorno prima, un attimo prima»16. In
una società in cui fa presa la parola che ha la consistenza dell’attimo,
le masse non possono che affidare al seduttore gaudente, Maccus, abile
comunicatore, «tutti i poteri, compreso quello di essere e di operare
al di sopra di tutti gli altri poteri riconosciuti per legge»17, in dispregio
quindi della Costituzione di cui parla La solidarietà in le Familiari. La
‘religione’ diffusasi nell’era del pieno berlusconismo, del feroce neoliberismo
− ovviamente bisogna contestualizzare Le Campe in quella
fase, che pur risalente a pochi anni fa sembra ormai un’altra epoca in
quanto alle forme, ma la sostanza potrebbe non essere cambiata a livello
di tessuto sociale e culturale profondo, strutturale: in soldoni «i
più ricchi diventano più ricchi ancora, i più poveri diventano sempre
più poveri»18 − è quella di cui si fa portavoce il messianico portatore
della ‘verità’, Maccus. Egli è l’attualizzazione del tipo fisso della fabula
Atellana con contorno delle altre maschere, suoi servitori (Pappus,
13 Ivi, p. 13.
14 Ivi, p. 18.
15 Ivi, p. 20.
16 U. Piscopo, Le Campe al Castello, cit., p. 70
17 Ibidem.
18 Ivi, p. 101
[ 4 ] [ 5 ]
364 carlangelo mauro ugo piscopo e la persistenza preesistente 365
potere: «Con questo pretenderesti di avere tu l’ultima parola? Te la
lascio dire, questa volta, perché hai parlato come Dio comanda. Cioè
come avrei parlato io»27.
Da Le Campe al Castello a Presenze preesistenti sembra dialetticamente
emanare un senso di sfiducia verso la storia contemporanea e verso
l’operato dell’uomo come animale politico; ad una catena di errori
sembra contrapporsi l’«esattezza» della pietra, come detto, quella
«saggezza / che è sapore di cava / di fiume e di boschi»28. La natura
sembra prendere il sopravvento con il suo silenzioso linguaggio; per
un attimo, ungarettianamente, il soggetto poetico, la «creatura», come
nell’Allegria, può sentirsi in armonia nella contemplazione del cosmo,
di geometrie di pietre, ponendosi fuori della storia, in una luce e in un
tempo cosmogonico, prima di Adamo, in una sorta di regressione /
tentazione che nasce nell’intellettuale quando si sente in un mondo
non suo, spaesato nel presente29:
oh dono di quest’uovo
di calma dove tutto mio sto
e sono tutto di me
di questo tempo di pietra
di questa luce d’Appennino
accesa prima della vista d’Adamo
che perentoria mi assegna
alla mia parte di creatura
legata a granelli di attimi
alle geometrie
di queste pietre
ancora umide dei belati
della capra della mia infanzia
a una stirpe
di malati di cuore
Ma l’evocazione della capra, un omaggio al grande poeta triestino,
permette il movimento della strofa: dalla immobilità di un’armonia
aurorale, percepita in «granelli di attimi», al «querelarsi» del male (Saba),
inscindibile dalla storia umana, dalla storia di chi ha preceduto
il-personaggio-che-dice-io («mia infanzia»; stirpe da cui l’io discende30).
Ma la stirpe può ritrovare, nell’endiadi uno «stato» di «grazia»
27 Ivi, p. 136
28 U. Piscopo, Presenze preesistenti, cit., p. 16
29 Ibidem.
30 Ivi, p. 17.
pagnotte torzotte tracagnotte»24. Il linguaggio muto delle pietre che
per chi sa ascoltarlo, e tradurlo pudicamente in poesia, è nella sua
semplicità primitiva, primordiale, in quanto esattezza e saggezza preadamitica
della pietra, destinato a rimanere, a persistere, a tradursi
presenza armonica di storia e natura, l’esatto contrario di una retorica
politica falsa, destinata a passare nell’attimo25. Anzi, il fascino della
bugia e della contraddizione è proprio ciò che ha attirato le masse al
grande seduttore dell’ultima storia italiana. Ma la storia nostra e quella
mondiale, sia detto per inciso, è piena di esempi ben più tristi e
potenti, poiché lo sfruttamento della forza della menzogna, quanto
più colossale tanto più capace di cancellare per un certo tempo la verità,
o meglio le differenti verità e punti di vista per giungere al linguaggio
Unico delle parole d’ordine del Capo di cui parla l’ideologo
del PdMc26, è tale che in altri contesti storici, con tutt’altra intensità e
potenza, ha prodotto ben altre lacrime e ben altre distruzioni. Per evitare
i corsi e ricorsi storici − il sonno della ragione può sempre generare
mostri − il finale della Campe mette in guardia il lettore dal pericolo
di ogni forma di abdicazione e di delega della sovranità popolare
all’Uomo solo al comando (l’uomo della provvidenza, Dio o messia in
terra) e/o ad una classe politica rapace e incapace. L’abbandono della
propria funzione politica, a partire dal semplice cittadino del «Villaggio
», che lavora sottoterra per mantenere chi è al potere − un po’ come
in Underground, il film di Kusturica − fino a chi lo rappresenta nelle
istituzioni, può lasciare campo libero ad una nuova stirpe di bruchi e
parassiti, che possono prendere con facilità possesso del Castello, instaurando
un potere assoluto (il re, la regina nello schema del ritorno
al Medioevo della fabula), cacciando chi non è stato all’altezza di una
politica giusta e sana e ha abbandonato il governo del paese a se stesso.
L’ultima battuta nell’«azione teatrale», che investe il campo poetico
della pluriconnotazione attraverso il velo dell’ironia, riafferma la
pericolosità, passata, presente e futura, di ognuno che, stando al potere,
si senta chiamato ad una missione, si senta, nel suo narcisismo, incarnazione
della Provvidenza, di un potere di tipo teocratico, fino alla
completa identificazione del proprio io con un Assoluto. Esclama infatti
la regina rivolgendosi al suo consorte, il re che ha ben saputo redarguire
e ridicolizzare le delegazioni dei partiti e sindacati del Castello
che hanno chiesto udienza per rientrare nel luogo, tradito, del
24 Ibidem.
25 U. Piscopo, Le Campe al Castello, cit., p. 70
26 Ivi, pp. 34 e 37.
[ 6 ] [ 7 ]
366 carlangelo mauro ugo piscopo e la persistenza preesistente 367
hanno la consistenza dell’attimo e che veicolano il valore di scambio
della bellezza che non ha consistenza. La «carnalità di pietra», che il
soggetto può contemplare, è il rovescio della carnalità delle «Ficedulae
tam multae et zizzellae», adolescenti che si prostituiscono al Capo
appellato affettuosamente, e incestuosamente, «Papi»34. Su di un piano
più strettamente retorico in Pietre del Castello è da cogliere la bella
allegoria delle «vernici dell’ora», che «leccano» e «laccano» le rocce e
le pietre del castello originarie, cancellando la memoria come una
«carta patinata» sovrapposta ad un antico manoscritto o come le «brache
» destinata a coprire lo scandalo dell’opera prima, chiara allusione
alle brache che la Controriforma fece apporre ai nudi del Giudizio
Universale della Sistina.
Alla fine l’utopia è quella del trionfo del vero «pudore» che cancelli
lo scandalo delle brache, porti fuori il palinsesto raschiando la «carta
patinata» dell’inautenticità del nuovo Potere35:
sotto intonaci malte stucchi
e rosa rosata
or al Castello
dormono semi di passato
con germi in dono di futuro
in attesa se mai
il caso il pudore
apriranno squarci
entro l’epidermide dorata
del benessere di burro […].
È a questo punto che l’orizzonte critico delle Campe e delle Presenze
preesistenti trova il suo zenit e il suo nadir. È il soggetto − l’io che posto
di fronte alle pietre sembrava scomparso, pietrificatosi anch’esso, felice
di regredire a materia lapidea fuori della storia − che rientra nel
tempo storico per esercitare la sua funzione critica sotto forma di allegoria.
L’intellettuale, che si affida al linguaggio muto delle pietre, è
divenuto esso stesso pietra perché obiettivamente non ha nulla da dire
in un tempo senza speranza, nella pasoliniana era dell’edoné, affida a
quel «se mai» la risorgente speranza che ciò che è occultato venga
fuori, che la consistenza riemerga in potenti squarci contro la crosta
assoluta, dorata e falsa del «benessere di burro», benessere grasso e
volgare, senza consistenza, che si taglia e si squaglia facilmente, adat-
34 U. Piscopo, Le Campe al Castello, cit., p. 104.
35 U. Piscopo, Presenze preesistenti, cit., p. 22.
nella forma della pietra del III componimento, Pietre che mangiano i
miei morti, una sutura delle ferite e delle sofferenze della storia, quasi
un premio allo spasimo delle immani fatiche tipiche delle passate generazioni
contadine, unite alla vita animale, loro compagna di fatica e
di dura vita domestica; introiettamento di forma e sostanza di pietra
che tradotto filosoficamente vale trasformarsi «nell’essere che in sé ha
gioia». È verso questa direzione di persistenza e di consistenza cui l’io
poetico invita i suoi morti, i suoi umili antenati31:
le mie nonne
senza nome e senza numero
spasimate di fatiche
e di seti arse
oh sì anche
gli asini i muli
col mantello che ancora vibra a onde
alle ferze a sangue
portano tutti un conto aperto
e appetiscono
a mettere una goccia di resina
a sutura d’una crepa alla volta
delle infinite fratture
subite in cambio d’offerta da vivi
ora ad acquistar per gradi
stato e grazia di pietra.
La contrapposizione si pone, attraverso il confronto con le pietre –
“obiecti gettati di fronte al soggetto” che le contempla e su cui medita
− tra il presente e un tempo che più che passato sembra soprattutto
ancora da venire, in quanto utopia che racchiude l’armonia di natura
e storia, di cui è allegoria vivente il Castello delle Serre (ben diverso da
quello occupato dalla Campe) costruito «a cuci e scuci di rocce vive»,
che rappresenta la «perfezione di vanto e di durata» (Pietre del Castello32).
Inserito in un contesto urbanistico segnato, leopardianamente,
dall’infinito, dall’«immensità di spazi» tra cielo e terra, «bellore» nella
sua primitività e «rozzezza», esso è l’opposto di quanto domina e caratterizza
l’hic et nunc del tempo presente, «quando l’essere è il sembrare
/ secondo le vernici dell’ora»33; è l’opposto anche del Castello
dell’opera teatrale come delle parole d’ordine del Capo del Pdmc, che
31 Ivi, p. 19.
32 Ivi, p. 21.
33 Ivi, p. 22.
[ 8 ] [ 9 ]
368 carlangelo mauro ugo piscopo e la persistenza preesistente 369
mette al «nomade», al «girovago» dell’Allegria, trasferito nella distruzione
del presente, una speranza vitalistica e spiritualistica. Ma un
sole più basso, d’altra parte, pochi versi dopo, un «sole in piume di
cardello» (cardellino), che parla attraverso «sussulti» e bollicine frizzanti
di «gazzosa», si rivolge all’io poetico riportando il discorso, ironicamente,
ad un ambito più consono al tono dadaista e giocoso tipico
di Piscopo, salvo poi risalire, in una ascesi, a quella che sembra una
fede − ma quanto ironica adesso e ambigua nella sintesi di opposti
atteggiamenti? – nelle possibilità dell’esistenza dell’«attimo segreto /
che stringe / il granello indiviso dell’essere / alla corsa folle di musiche
in orbita di margarita»42. Il che potrebbe significare una condanna
della «corsa folle» di ogni antropocentrismo, di chi si illude di stagliarsi
in orbita dimenticando di essere nulla, come di ogni produttore di
poesia lirica che nei «propri gorgheggi di turchese e di topazio», abboccando
«all’amo del canto» si rivela comunque inconsistente nel
ripetere pedissequamente quella che è stata etichettata come l’unica
vera Tradizione, in dispregio dello sperimentalismo e dell’avanguardismo.
Tra le righe si potrebbe, al contrario, leggere una fiducia in
genere nella poesia, nelle tradizioni plurali della poesia, come in quella
canonica per eccellenza: se non erro «margarita» è citazione dantesca
che può valere, come è noto sia come corpo celeste e luminoso, sia
come spirito beato43. La consistenza del canone verrebbe riaffermata
nelle citazioni, seppur rifunzionalizzate, come altra declinazione della
pietra e della consistenza, della durata e della robustezza, come ad
esempio in Hin und Zuruch delle Familiari: basta leggere l’elenco degli
autori, in calce al testo, da cui sono tratte le citazioni44: Omero, Lucrezio,
Virgilio, La Bibbia, Cavalcanti, Dante, Eliot, insomma gran parte
del canone occidentale. Ha detto bene Ciro Vitiello nella postfazione
alle Familiari: «La corporeità della scrittura è intessuta, il più delle volte
mimeticamente, a tratti evidenti, di lacerti di classici e moderni,
quali particole di un patrimonio esperienziale, che procurano alla poesia
robustezza, ricchezza e complessità»45. Ma è soprattutto il dantismo
ad essere rifunzionalizzato come prova della vittoria contro il
tempo dell’opera di un esule sconfitto nel proprio tempo di oscurantismo
e di cieco potere politico, del poeta che per eccellenza ha praticato
42 Ivi, p. 29.
43 C fr. Dante, Pd II, 34; VI, 127.
44 U. Piscopo, Familiari, cit., p. 54.
45 C. Vitiello, Ugo Piscopo: la scrittura memoriale e la dissoluzione costruttiva
dell’esperienza, postfazione a U. Piscopo, Familiari, cit., p. 57 (corsivo mio).
to alla maschera «dalle grandi mascelle» (alludo ad una delle etimologie
di Maccus). Il poema si rivela compatta allegoria della vita, tra
autenticità e inautenticità, o meglio «genuinità»36, vita che può essere,
come le pietre del Castello delle Serre, dotata di consistenza e persistenza
«dure accigliate affilate / a pioggia a venti a soli», come è stata
la vita degli antenati e della stessa poesia / cultura in forma di Rocca
o Castello, che espugnata e tradita, «leccata» e «laccata» troverà forse
poi altre condizioni per venir fuori attraverso gli «squarci» futuri. Non
è una speranza semplice, né che si applica sui tempi brevi, tempi sempre
più minacciati dall’uomo che vive solo nell’hic et nunc37: lo stesso
paesaggio su cui si incastonano le pietre, le presenze, quasi non si riconosce
più se non come materia soggiogata alla voracità dell’uomo,
da «brame di materia» distruttive che «macerano e gorgogliano / litanie
slabbrate e marcite / nel letto funebre del fu torrente / entro una
valle che si decompone / sotto materassi di fieno fradici / superfetanti
su altri materassi»38. Nelle Familiari, in Rivedersi a Teano, in cui si
traccia la parabola del Risorgimento tradito e distrutto, di un ritorno
«più funebre» al Medioevo rappresentato dalla «terra dei Mazzoni»,
terra di antica camorra ora dei Casalesi, più chiaramente si ritrovano
pagine apocalittiche sullo «spazio che è sfondo e madre / di commerci
di vita e monnezza spaziomonnezza esso stesso / che affoga sé in sé
nel proprio grembo e con sé la vita e la memoria»39. Ma in questo deliquio
paesaggistico e antropologico, in Presenze preesistenti «le pietre
resistono» pur «sconnesse distorte»40, appunto come rappresentanti
della memoria nel loro «muto argomentare come in una “epopea” testamentaria
», afferma Marcello Carlino nella prefazione al volume, Di
sinfoniette, di “cuci e scuci”, di allegorie. La pietra, in Presenze, […] è luogo,
[…] è marca culturale identitaria, eppure rifiuta confini e non concede
diritti di appartenenza: è paese (al quale, già in attestazione, si
tributa l’omaggio testimoniale di un poema) ed è un non-luogo», dice
ancora Carlino. Attraverso la pietra sembra resistere l’io poetico-antropologico,
cui si rivolge un «sole limone»: «“tu piccolo nulla / nomade
d’acqua e pietra41.
Se, come in Leopardi, l’uomo è nulla, la citazione ungarettiana per-
36 Ivi, p. 23.
37 Ivi, p. 25.
38 Ibidem.
39 U. Piscopo, Familiari, cit., p. 29.
40 Id., Presenze preesistenti, cit., p. 26.
41 Ivi, p. 28.
[ 10 ] [ 11 ]
370 carlangelo mauro
lo sperimentalismo delle ‘petrose’ e la lirica stilnovistica, congiungendo
norma e trasgressione. Un piccolo catalogo di dantismi nelle Familiari
è riportato da Ciro Vitiello nella postfazione:
Soprattutto fa capolino Dante, con sintagmi e spezzoni frastici, per cui
la scrittura si irrobustisce e freme, onde nella presentificazione vibra
un surplus di spirituale vigoria: “femine di conio”, “le detta”, “li uman
privadi”, “le fa di trapassar sì pronte”, “di postilla in postilla”, “io non
avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”, “e il grande ardore
/ d’intrar per lo cammino altro e silvestro”46.
L’omaggio a Dante può leggersi anche nella struttura triadica del
macrotesto e delle singole tessere microtestuali di Presenze preesistenti,
libro organizzato come poema in dodici pezzi, più un colophon che
diventa il tredicesimo, disposti ognuno in 3 strofe; anche questo è lo
«scandalo della pietra / […] / se la Commedia in un sassolino / spiralicamente
s’avvolge impressa»47.
La pietra e il sassolino, che è il poemetto, divengono quindi allegoria
della poesia come della vita: «Oh portento del presagio / oh tangibilità
e artifizio / dell’invisibile dell’anima / oh allegoria / che altro
non è la vita»48. La robustezza, persistenza, vigoria dell’«epopea» della
pietra si contrappongono nel Colophon / del quaderno di pietra come
«prove» all’«inesattezza» che Adorno aveva ritrovato nel presente:
«quanta inesattezza / quale scintillio di frivolezza / l’umana evenemenzialità
»49.
Carlangelo Mauro
(Liceo Scientifico Medi – Cicciano – Napoli)
46 Ibidem.
47 U. Piscopo, Presenze preesistenti, cit., p. 46.
48 Ivi, p. 45.
49 Ivi, p. 48.
[ 12 ]
LUIGI MONTELLA
Tra storiografia e critica letteraria
Un omaggio a Luigi Reina
L’inveterata quanto felice consuetudine universitaria (per fortuna
non dismessa nella difficile stagione che stiamo attraversando) di festeggiare
con la dedica di un volume di scritti critici l’uscita dai ruoli
accademici di un collega, cui si è legati da interessi di studi prima che
da rapporti d’amicizia e di stima, assume significato particolare per la
poliedrica personalità del festeggiato, Luigi Reina, da sempre impegnato,
oltre che sul fronte della didattica e della ricerca scientifica, su
quello militante della critica letteraria integrato da una personale disposizione
alla pratica creativa. L’«omaggio», come non di frequente
accade, assume particolare rilevanza in quanto i contributi offerti spaziano
su più campi, spesso confrontandosi su argomenti trattati dal
«festeggiato», ora muovendosi su territori di puntuale contiguità esegetica,
e ora offrendo lumi germinati da coltivazioni extra accademiche
(da parte di autori che si applicano o operano nella pubblicistica e
nella cinematografia, come nella poesia o nella canzone, oltre che nella
narrativa e nella saggistica varia). La ricchezza dell’offerta rende
particolarmente stimolante la degustazione del prodotto e testimonia
a favore delle aperture culturali che caratterizzano il nostro tempo
mentre rende esplicita conferma della stima e dell’affetto che il festeggiato
ha saputo conquistarsi nei vari campi in cui si è cimentato.
Al volume, che contiene questo caloroso omaggio a Luigi Reina,
dal titolo Occasioni e percorsi di letture1, sono affidati suggestivi e stimolanti
contributi, tali da diventare una importante occasione, come recita
il titolo, per l’arricchimento dell’italianistica in generale, rivisitata
anche nei suoi rapporti interdisciplinari. Sono rappresentati quasi tutti
i secoli della storia letteraria italiana, a testimonianza del fatto che
1 Occasioni e percorsi di letture. Studi offerti a Luigi Reina, a cura di Raffaele
Giglio e Irene Chirico, Università degli Studi di Salerno, Dipartimento di Studi
Umanistici – Napoli, Guida, 2015, pp. 830.
372 luigi montella tra storiografia e critica letteraria. un omaggio a luigi reina 373
L’impianto complessivo del saggio di Aversano sollecita, pur
nell’evidente tensione della forma monografica, almeno nel richiamo
alla musica, un uso comparatistico dei testi che trova, in qualche modo,
adeguata applicazione nel saggio dedicato da Giovanna Scarsi al
Rapporto tra le arti nella scapigliatura, e nella lettura, in chiave di definizione
autobiografica, ma con forte attenzione alla musicalità della
scrittura, nei Colloqui con mio fratello di Giani Stuparich. Sul presupposto
rovaniano della rilevanza assoluta, nella scrittura creativa, dell’uso
delle tecniche espressive e delle interferenze, la Scarsi costruisce il
suo discorso critico sulle poetiche scapigliate con puntuali rinvii allo
specifico dei linguaggi delle “arti sorelle”. Mettendo insieme spunti di
definizioni teoriche e puntuali annotazioni di poetica dello scrittore,
Santoli costruisce il profilo di un intellettuale che mette sullo stesso
piano arte e vita morale, incontrandosi con una tradizione esemplificata
dal vocianesimo e approdata alla prosa d’arte, attraverso lo scandaglio
autobiografico che consente libera colloquialità.
Sul problema delle traduzioni s’interrogano Epifanio Ajello, Gabriella
Carrano, Angelo Cardillo e Luigi Montella. Precipue, quanto
raffinate notazioni sui modi di trascrivere un testo antico in italiano
contemporaneo accompagnano la dissertazione di Ajello sui criteri
traduttivi in uso. Ben evidenziate sono le ragioni sottese alle proprie
opzioni e il privilegio accordato, nella scelta del campione proposto, a
un testo meridionale del ’400, di incerta definizione filologica (il Novellino
di Masuccio Salernitano, cui il Reina ha dedicato una eccellente
monografia), ma di sicura esemplarità epocale, accordando la propria
preferenza all’edizione del suo scopritore ottocentesco, Luigi Settembrini.
Le due novelle proposte (XII e XLIII) appaiono di grande efficacia
argomentativa e di sicura connotazione narrativa.
Gabriella Carrano si sofferma sul significato etimologico dei termini
traduzione e interpretazione e sottopone a minuziosa ricostruzione la
querelle sui volgarizzamenti dei testi antichi e le problematiche legate
alla variatio che alimentarono il dibattito anche filologico tra i letterati
fino al Cinquecento, anche sulla scorta del primo trattato moderno
sulla traduzione: il De interpretazione recta di Leonardo Bruni. Puntuale
quanto ampia la bibliografia a coronamento di una ricca documentazione
analitica.
Angelo Cardillo pubblica, con ampio commento in nota e adottando
criteri conservativi, il Discorso del tradurre di Orazio Toscanella, edito
a Venezia nel 1575. In esso viene definito quanto necessita a un
buon traduttore: coscienza e competenza, esperienza e professionalità,
ottima conoscenza della lingua in cui si traduce, padronanza della
gli allievi, i colleghi e gli amici hanno reso omaggio alla lunga attività
di studio e di ricerca di Reina, nella condivisione della sua passione
per la letteratura; disciplina che l’omaggiato ha approfondito sia da
un punto di vista teorico sia nell’applicazione di letture critiche fondamentali
per la ricostruzione del panorama storico-letterario italiano,
prodigandosi anche in contributi creativi.
Rende merito a Reina, infine, l’affettuosa e puntuale premessa di
Raffaele Giglio, curatore, insieme a Irene Chirico, del volume. Si dà
conto, pur con graduazione di interessi personali, degli scritti contenuti,
tutti meritevoli di attenzione.
Il commento al XXVIII canto dell’Inferno di Pasquale Stoppelli apre
la miscellanea. Vi si analizzano gli espedienti retorici della preterizione,
ripresi da Dante dagli antichi poeti e rinnovati nel «riconoscimento
ossimorico della possibilità di un sublime verso il basso». Stoppelli
si sofferma sugli espedienti stilistici adottati da Dante e illustra le scelte
grammaticali e ritmiche che dominano alcune parti del canto.
Segue la lettura del XXVII canto del Paradiso ad opera di Emma
Grimaldi. La studiosa si sofferma sul punto più controverso del canto,
la terzina che comprende il verso 137°: «nel primo aspetto della bella
figlia» (che funge anche da titolo del saggio), fornendo, con un esaustivo
resoconto delle varie interpretazioni, una personale valutazione,
con convincenti e dotte argomentazioni, collocando i versi in un contesto
che, come la studiosa stessa chiarisce, «li rende naturale esito di un
preciso segmento discorsivo». Attente riflessioni sugli aspetti lessicali
costituiscono l’asse critico-deduttivo della seconda parte dell’esegesi.
Ancora Dante è protagonista del contributo di Gennaro Mercogliano
che si produce in una caratterizzazione di Catone l’Uticense quale
“pagano monumento alla virtù” che la cultura del tempo assunse come
laicamente appartenente a una mentalità diversa dalla propria ma
degna di rispetto, tanto da autorizzarne una sua assunzione quale
personaggio capace di suggerire considerazioni che ne giustificano
l’assunzione da parte di un poeta “cristiano”.
Alla collocazione di Catone nel circuito culturale del Medioevo
operato da Dante, fa da penchant, nel volume, l’assunzione di Dante
nella cultura risorgimentale che viene proposta da Mario Aversano in
un articolato saggio dal titolo Fratelli d’Italia, Dante, Mameli e la postcultura.
Vi si discutono teorie e metodologie, a parere del critico, non
sempre applicate con sufficiente attenzione, onde illuminare anche
quelle parti che consentono un’assunzione del poeta nella modernità
di cui l’autore fornisce convinte indicazioni attraverso puntuali testimonianze.
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374 luigi montella tra storiografia e critica letteraria. un omaggio a luigi reina 375
che tra i popoli meridionali e quelli settentrionali sussisteva la stessa
differenza rinvenibile tra gli antichi, possessori del bello e dell’immaginazione,
e i moderni, inclini al vero e alla ragione; per affermare, dal
1824 in poi, che le caratteristiche di sensibilità e di immaginazione,
proprie dei popoli antichi meridionali, erano ormai da attribuire ai
soli tedeschi. La studiosa, a seguire, analizza finemente i percorsi teorici
di alcune fondamentali tesi leopardiane, con incursioni e riferimenti
in quelli che furono le opere ispiratrici delle elaborazioni leopardiane,
ma anche individuando le influenze che l’alta liricità dei
testi del poeta avranno nello sviluppo delle moderne filosofie.
Sulla tragedia in prosa, Lunga notte di Medea, di Corrado Alvaro, si
articola l’appassionata analisi di Carlo Alberto Augieri. Lo studioso
offre al lettore una comparazione tra la protagonista di Madre di paese,
ritenuta da Reina «una delle cose migliori di Alvaro», e la figura di
Medea, personaggio della tragedia classica, rivisitato da Alvaro. Nella
prima parte Augieri fa interagire, in maniera affettuosa, le tesi esposte
da Luigi Reina nel libro Cultura e storia di Alvaro (1973), con le sue letture.
Ed è proprio l’immagine della madre di paese – posta da Reina al
centro del suo discorso critico – che affetta il pane accostandolo al seno,
come se tagliasse una parte di sé, che accompagna l’intera dissertazione
critica di Augieri. Lo studioso evidenzia poi come la Medea di
Alvaro si distanzi dalla madre accecata dall’odio senechiano, e si presenti
diversa dalla Medea di Euripide, mantenendo i caratteri della
madre di paese che vive con angoscia i momenti che precedono i tragici
eventi che vedranno coinvolti i suoi figli. Un’analisi ricca di suggestioni,
costruita su un’appassionata interpretazione.
A studi del Reina (e alle aperture garantite dalle esemplari indicazioni
del Dionisotti) si devono riportare anche i saggi, di ambito dichiaratamente
di geografia letteraria, di Vincenzo Napolillo e di Mario
Santoro rispettivamente dedicati alla diffusa pratica di poesia in Calabria
e in Basilicata. Il primo dichiaratamente impegnato sul fronte della
militanza critica propone una integrazione (ma senza per questo
indicare modifiche prospettiche) al complessivo profilo storiografico,
su referenti anagrafici di tipo regionale, consegnato dal Reina, a un
volume del 1991, Poesia e regione. Un secolo di poesia in Calabria, suggerendo
nominativi di operatori attivi in regione negli anni del trapasso
millenario. Il secondo, muovendosi su analoga linea di sociologia letteraria,
si sofferma, provvedendo ad integrare un già ricco repertorio,
di impianto storiografico criticamente controllato, a definire percorsi
che riguardano un gruppo di operatori non entrati nella monumentale
opera da lui dedicata alla poesia in Basilicata.
materia e rispetto della a stessa disposizione testuale dell’originale,
del modulo espressivo, e persino della stessa tecnica linguistica. Il
trattato risulta essere una importante testimonianza nell’approfondimento
di un dibattito cinquecentesco sulle tecniche traduttive, che
annovera non pochi campioni: da Leonardo Castelvetro ad Alessandro
Piccolomini, e allo stesso Fausto di Longiano (Dialogo del modo de
lo tradurre, 1556). Quasi per inciso, e con la modestia del caso, mi corre
l’obbligo di rimandare, al saggio con cui ho offerto il mio contributo al
volume. Vi si sviluppa una tematica che rientra in altra querelle viva
nella trattatistica umanistica, tra Petrarca e Bembo, ad opera di Antonio
Forteguerri di cui si discute il Liber amatorius.
Irene Chirico propone una lettura comparata tra il trattato politico
di Agostino Nifo, il De regnandi peritia, pubblicato a Napoli nel 1523, Il
Principe di Machiavelli e la tradizione degli studi sull’opera di Nifo,
offrendo un considerevole apporto alle disamine sui trattati politici di
area meridionale tra Umanesimo e Rinascimento. La studiosa entra
nel merito delle questioni affrontate da Nifo nella dichiarata riscrittura
del Principe, in particolare nel tentativo del filosofo di Sessa Aurunca
di conciliare la riflessione politica con la morale religiosa, riequilibrando
e, in parte, anestetizzando la parte più innovativa dell’opera
di Machiavelli, subordinando la ricerca dell’utile alle ferree leggi della
morale. Di sicuro pregio, quindi, la lettura del De Regnandi che Irene
Chirico opportunamente contestualizza agli eventi storico-politici e
alla temperie culturale che funse da contorno alla nascita dell’opera.
Rosa Troiano offre, invece, una pregevole e dettagliata ricerca storico-
linguistica sul lessico utilizzato nei mestieri femminili di ambito
tessile; un settore in buona parte trascurato dagli studi sulla lingua e
che solo di recente sta trovando un suo sviluppo. La lettura critica
della Farza della maestra, scritta da Vincenzo Braca sul finire del Cinquecento,
è l’occasione per la studiosa di porre l’accento su una serie
di segmenti linguistici che nella tradizione delle farse cavaiole vengono
utilizzati anche con uno scopo parodico, con allusioni di sfondo
sessuale, per suscitare il divertimento del pubblico che assisteva alle
rappresentazioni, molto spesso allestite anche nelle piazze. Lo studio
dà, inoltre rilievo a quella produzione che, con i suoi elementi realistici,
influì molto sulla commedia popolare napoletana del ’600, lasciandoci
uno spaccato di vita di notevole interesse.
Rosa Giulio, attraverso lo scandaglio di alcune questioni affrontate
da Leopardi nello Zibaldone, ricostruisce l’articolata riflessione che il
poeta recanatese maturò nei confronti dei popoli meridionali e di
quelli settentrionali. Inizialmente di entusiasmo, tanto da affermare
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376 luigi montella tra storiografia e critica letteraria. un omaggio a luigi reina 377
intorno agli elementi censori che cercarono di sfrondare l’opera di
quegli aspetti che la nuova drammaturgia tentava di porre al centro
delle sue rappresentazioni. Il binomio amore e morte che domina il
tardo neorealismo della commedia sottopone al vaglio della nuova
sensibilità che sta nascendo, in maniera esplicita, la problematica
omosessuale. Lo scontro con i pregiudizi e il conservatorismo della
società italiana di quegli anni è riproposto attraverso una critica sottile
e puntuale.
Sulla letteratura di viaggio scrivono, in modo pluriprospettico:
Rossana Esposito, Sebastiano Martelli, Fabio Pierangeli e Pasquale
Sabbatino. Gli appunti di viaggio, se possiamo così definire le corrispondenze
per il «Il corriere della sera» che Emilio Cecchi inviava
dall’America, dall’Europa, dall’Africa o dai suoi lunghi viaggi personali,
sono oggetto di analisi di Rossana Esposito. L’aspetto di Cecchi
viaggiatore, studiato solo marginalmente dalla critica, viene rivisitato
dalla studiosa all’interno di una dimensione unitaria dell’opera cecchiana,
superando la consueta distinzione tra il Cecchi critico, saggista,
giornalista e scrittore di viaggio, restituendo autonomia ai suoi
reportage, fuori dai confini angusti della letteratura di viaggio. La riflessione
su Cecchi porta, infine, Esposito a individuare nei resoconti
dello scrittore un fondo basato sul rapporto dialettico ricordo-rimorso,
che mette in primo piano l’esigenza di verità e moralità dell’autore.
Sebastiano Martelli interviene sulla letteratura odeporica ponendo
al centro dell’esegesi la figura di Maria Brandon Albini, scrittrice
brianzola, trasferitasi in Francia all’età 22 anni. Il critico individua l’aspetto
più interessante della sua produzione letteraria nella capacità
di cogliere le novità di una terra che, lasciandosi ormai alle spalle la
civiltà contadina, dal dopoguerra in poi comincia ad aprirsi alle nuove
istanze che accompagneranno lo sviluppo socio-economico e di costume
dell’Italia tra gli anni Cinquanta-Sessanta. Martelli ricompone le
stratificazioni che sono alla base della sua scrittura, identificando il
milieu culturale sul quale si formano gli scritti dell’Albini nelle opere
di Tommaso Fiore, Rocco Scotellaro, Carlo Levi, i quali, insieme ad
altri intellettuali, segnarono il dibattito culturale nel secondo dopoguerra.
Attraverso una lettura finemente accurata, Martelli riesce a
portare a galla le sedimentazioni letterarie accumulate nei reportage.
Attualizzando, infine, l’opera della scrittrice suggerisce in filigrana
che la Calabria e il Mezzogiorno, più in generale, dovrebbero sviluppare
la capacità di ridefinire il rapporto con gli abitanti, con i luoghi
della loro storia, della loro civiltà, per evitare che il nuovo tempo possa
aumentare lo smarrimento dell’uomo, così come già avvenuto in
Di altra natura sono i percorsi di intertestualità su cui si articolano
il saggio di interpretazione (L’ultimo Rea, tra invenzione e contaminazione)
firmato da Raffaele Messina e la complessa quanto estesa indagine
di perlustrazione tematica e definizione di genere dedicata da Renato
Ricco a Didone nella tradizione umanistica, ma estesa (come recita il sottotitolo)
a donne incatenate, maghe e incantatrici.
Antonio Pietropaoli si addentra in un procedimento esegetico che
pone la questione formale al centro del suo discorso ermeneutico. Lo
studioso affronta un percorso esplorativo sulla metrica e sulla poesia
della raccolta Lavorare stanca, che Cesare Pavese pubblicò nel 1936.
Partendo dalla poesia Pensieri di Deola, spiega, prendendo le distanze
da Mengaldo, nella ripresa di alcune considerazioni di Massimo Mila,
che l’incedere di questo testo, costruito sul decasillabo manzoniano, di
tipico accento di 3a 6a e 9a, esprime un chiaro carattere anapestico, in
linea anche con le continue iterazioni largamente adottate nei versi
pavesiani. Il saggio si conclude poi con un significativo excursus su
quella che è stata la genesi storico-letteraria del particolare incedere
ritmico pavesiano, individuando di volta in volta le linee di poetica
che di fatto orientavano il poeta verso determinate scelte versificatorie.
Partendo dall’AffaireMoro, Carmelo Spalanca propone un’interessante
lettura del racconto inchiesta Il teatro della memoria, pubblicato
nel 1981 da Leonardo Sciascia, in cui l’autore sembra prendere coscienza
che la verità è spesso soppiantata dalla menzogna. In effetti,
spiega il critico, Sciascia rende omaggio a Giulio Camillo, autore, nei
primi decenni del Cinquecento, dell’utopistico progetto del Teatro della
Memoria. L’idea innovativa di Sciascia, secondo Spalanca, risiede
nella capacità di porre le basi per lo scrittore-demiurgo, che dovrà essere
in grado di riprodurre la complessità del mondo. Sciascia, in definitiva,
osservando la condizione dell’uomo, scopre i numerosi misteri
che avvolgono l’esistenza umana e affida allo scrittore il compito di
diradare le tenebre e di illuminare le menti al di là delle apparenze.
L’Arialda, commedia in due tempi, inserita ne I segreti di Milano,
una raccolta di testi teatrali e di romanzi di Giovanni Testori, è al centro
di una ricostruzione analitica, a tratti anche documentaria, condotta
da Annamaria Sapienza. Scritta a quattro mani con Luchino Visconti
a cavaliere tra il 1959 e il 1960, l’opera rappresentò uno dei tanti casi
di censura che segnarono la cultura italiana negli anni Sessanta. La
studiosa dopo aver fornito una serie ininterrotta di notizie sulla genesi
dell’opera, soffermandosi sugli aspetti più specificamente letterari
del testo, passa a contestualizzare il dibattito culturale che si sviluppò
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della civiltà contadina e artigiana propria dell’ambiente natìo dello
scrittore. Di particolare interesse, infine, risulta l’identificazione della
lezione di Adriano Olivetti nella capacità di apertura di Sinisgalli nello
sforzo di modificare le tradizioni del territorio.
Francesco D’Episcopo pone il motivo religioso presente nell’opera
di Francesco Jovine al centro della sua esegesi, lamentando la mancanza
di studi su questo specifico aspetto. Il romanzo scelto come elemento
conduttore del suo discorso critico è Signora Ava, in cui s’individua
nell’antagonismo tra Dio e il Diavolo il principio che domina l’intera
narrazione. L’articolata analisi chiarisce, infine, che l’intento di Jovine
si basa principalmente sull’elemento pedagogico, in linea con la sua
attività di maestro di scuola prima e di direttore didattico poi. Né il
critico trascura gli aspetti poetici che caratterizzano la scrittura dell’autore,
riscontrabili nella scansione ritmica dei costrutti espressivi.
La descrizione paesaggistica è alla base dell’analisi condotta da Nicola
D’Antuono sul Gattopardo di Tommaso di Lampedusa. Lo studioso
sottopone al vaglio minuzioso del suo commento la funzione strutturale
ricoperta dagli spazi esterni nel romanzo, con una particolare
attenzione riservata al giardino. Opportunamente si richiamano le
sensazioni sensoriali visive e olfattive che dominano, ad esempio, le
descrizioni del giardino della villa a Palermo di Don Fabrizio Corbera,
Principe di Salina. Alle sensazioni olfattive il critico dedica un’ampia
nota, suggerendo, con una serie di articolate riflessioni, di indagare
più approfonditamente sulla questione. D’Antuono pone, inoltre, l’attenzione
sulla correlazione tra il protagonista e il mito classico, anteponendo
l’immutabilità della natura al disfacimento di ogni cosa ad
opera della storia. Nel giardino, definito, tra l’altro, «immagine parentale
della morte», il critico, identifica anche i valori di una classe sociale,
quella aristocratica, nel senso di possesso.
Carmine Chiodo rivolge la lente d’ingrandimento sul Carducci critico
di Parini, analizzando gli scritti che consentono al Carducci di
sottrarre Parini dall’Arcadia stucchevole, per esaltarne i valori morali
e umani, a partire dal difficile metro dell’ode Caduta, fino ad arrivare
al Giorno. Chiodo sottolinea, infine, l’importanza delle letture critiche
carducciane, in particolare per le analisi linguistiche, stilistiche e metriche
che rappresentarono una grande novità per la critica di fine Ottocento.
Alla tragedia dannunziana Più che l’amore, andata in scena per la
prima volta al teatro Costanzi di Roma, nel 1905, Valeria Giannantonio
dedica pagine appassionate, ricavando dall’attenta lettura dell’opera
dannunziana i dettami poetici e ideologici che l’opera contiene in
passato, a causa proprio della cancellazione dei luoghi e della loro
storia.
Una garbata polemica, con quanti ritengono Il Barone di Nicastro di
Ippolito Nievo, un breve romanzo invece di una novella, apre l’interessante
saggio di Fabio Pierangeli. Il tema del viaggio, evidenziato
nel gusto che aveva lo scrittore di raccontare i luoghi e le tradizioni,
con uno stile brioso, vivace, insieme al carattere umoristico, sono al
centro della rilettura dell’opera, confrontata in maniera puntuale con
numerosi altri scritti di autori più o meno coevi.
Al centro dell’analisi di Pasquale Sabbatino troviamo un altro
aspetto della letteratura odeporica, con uno specifico taglio rivolto alla
presenza della città di Pompei nella letteratura italiana, senza tralasciare
alcune significative puntate nella storia dell’arte. Sabbatino attraversa
un arco temporale che racchiude un intero secolo, dal 1861
fino alla seconda metà del Novecento. L’itinerario saggistico dello studioso
parte dal racconto epistolare Pompei notturna di Vittorio Imbriani,
attraversa gli scritti di Renato Fucini, di Luigi Conforti e di Salvatore
Di Giacomo, autori di una Guida dei luoghi più suggestivi della
Campania, tra cui Pompei, edita nel 1892, di Matilde Serao del 1890,
fino ad arrivare alla drammaturgia di Eduardo de Filippo (da Non ti
pago, Sabato, domenica e lunedì al Il sindaco di rione Sanità). Da ogni opera
il critico estrapola gli aspetti più vivamente legati alla città di Pompei,
analizzandoli con acume critico e vivacità intellettuale.
Al poeta e scrittore Leonardo Sinisgalli sono dedicati i saggi di Renato
Aymone e Franco Vitelli. Renato Aymone affronta la problematica
che lega il poeta lucano al matematico Pitagora di Samo, a cominciare
dalla repulsione dichiarata da Sinisgalli per l’odore delle fave (si
attribuiva, infatti, a Pitagora la teoria secondo la quale le anime tormentate
dei defunti, non avendo requie nell’aldilà, prendevano dimora
nelle fave). Al di là, però, di certi aspetti leggendari del pitagorismo,
Aymone dedica pagine interessanti ai punti di contatto sostanziali
esistenti tra Sinisgalli e il filosofo greco, rintracciati principalmente
nel legame armonico tra l’uomo e quanto gli sta intorno, dominato
da regole geometriche, espressione, la geometria, della volontà
dell’uomo di non morire.
Franco Vitelli, attraverso l’analisi di alcuni testi emblematici, descrive
criticamente il legame che unisce Leonardo Sinisgalli alla Lucania,
sua terra d’origine. Preziosa risulta l’interazione tra le sue opere
in versi, le prose di memoria e d’invenzione con l’orizzonte lucano,
dal quale Vitelli fa emergere anche la doppia valenza dell’uomo aperto
alla nuova civiltà delle macchine, senza rinnegare però le origini
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380 luigi montella tra storiografia e critica letteraria. un omaggio a luigi reina 381
emblematico scelto dal critico, a sostegno della sua convincente tesi, è
la poesia Ll’acciso di Salvatore Di Giacomo, confrontata con l’opera
L’ammazzato, del pittore Vincenzo Capparelli, figura poliedrica, anche
musicista e letterato, di Manfredonia, ma formatosi a Napoli, presso
l’Istituto di Belle arti, sotto la guida del M° Domenico Morelli. L’articolato
confronto testimonia in maniera puntuale la diretta dipendenza
del componimento di Di Giacomo dall’opera di Capparelli. Il raffinato
procedimento esegetico pone, infine, la locuzione latina ut pictura
poësis (già titolo di una felice ricerca del Giglio) come fulcro intorno al
quale lo studioso ricostruisce l’intero panorama del rapporto tra la
poesia e la letteratura a Napoli nel corso dell’Ottocento, argomento
poco studiato nello specifico, valorizzando, in tal modo, il contesto
napoletano all’interno di un più vasto dibattito nazionale ed europeo.
C’è un particolare significativo da segnalare in merito all’allestimento
di quest’opera e riguarda l’apertura che si realizza tra cultura
accademica (spesso volta alla coltivazione di specialismi raffinati che,
naturalmente, rendono onore agli addetti e qualificano la personalità
di studioso cui sono dedicati), e vita intellettuale in senso lato, ove la
prima offre risultati di qualificata originalità e la seconda testimonia a
favore degli interessi sollecitati dalla loro ricaduta in spazi anche socialmente
rilevanti. I saggi prima ricordati sono per lo più frutto d’accademia
e rendono omaggio al collega per i suoi tanti lustri di impegno
scientifico, e per i rapporti dialogici spesso intrattenuti su problematiche
di comune interesse: teorie della letteratura, filologia e interpretazione,
storiografia e critica, canoni e generi… Degli altri (critici
militanti, antologisti, giornalisti, dirigenti scolasti, professori in altri
ordini di scuola, poeti e narratori, editori) non si può certo dire meno.
Anzi, in buona parte, mentre testimoniano con il proprio contributo,
l’attenzione riservata agli studi di Reina, entrano in dialogo con lui
sviluppando tesi e approfondendo indagini in settori qualificanti per
i quali, oltre a passione e intelligenza, sono richieste disponibilità ed
aperture non facilmente declinabili dentro il sistema abbastanza conservativo
dell’istituzione accademica cui Reina ha dato anche un personale
contributo di gestione. È così che alcuni degli studiosi qui convenuti
hanno stabilito un collegamento a distanza con indicazioni ed
approfondimenti ricavabili dagli scritti dell’amico omaggiato, seguendolo
su suoi percorsi specifici testimoniati dalla grande messe di
pubblicazioni accortamente schedate, a chiusura del volume, da Irene
Chirico, da cui emergono, accanto ad interessi di studioso, tensioni
creative e sollecitazioni militanti.
Si tratta di contributi specifici su materia ancora viva, che scorrono
sé. Il contrasto tra la morte e la vita, la proiezione verso la guerra, accompagnata
da un senso di morte e di solitudine del protagonista
Corrado Brando, delinea l’immagine del personaggio sospeso tra l’apollineo
e il dionisiaco, sovrastato dal destino che annulla ogni speranza
di vita.
Sulla stretta correlazione tra letteratura e immagine si sviluppano,
seppure in diversi ambiti e riferimenti, i saggi di Alberto Granese, Leonardo
Acone e Raffaele Giglio. Alberto Granese propone un interessante
viaggio intellettuale attraverso un procedimento comparato tra
il Disprezzo di Alberto Moravia e la versione liberamente ispirata da
Godard al romanzo dell’autore romano, al quale il regista francese
aveva riservato un giudizio negativo. Con raffinate e dotte citazioni
l’esegesi granesiana si sviluppa a tutto tondo, non tralasciando le mutilazioni
prodotte nella versione cinematografica italiana di Carlo
Ponti, considerate uno dei casi più celebri di violenza al lavoro di un
regista. Il rapporto del regista francese con il romanzo viene, poi, argutamente
seguito nelle alterazioni e nell’avvicinamento alla storia
moraviana. Granese, infine, offre una lettura esemplare del mito di
Medea, lasciando interagire le storie di Euripide, di Seneca, con la produzione
di Godard, fino all’utilizzo del mito nelle opere di Alvaro e
nella cinematografia di Pasolini.
Nel 1911, in chiusura di Poesie, la sua prima importante raccolta di
liriche, Saba pubblica A mia moglie. È a questa poesia che Leonardo
Acone dedica il suo commento, sottolineando la forza rivoluzionaria
che il testo contiene in sé, in particolare nella capacità di ribaltare gli
stereotipi femminili che avevano accompagnato fino ad allora la figura
della donna. La suggestione più ricca dello studioso, dopo qualche
riferimento alla Margherita del Faust di Goethe, si realizza nell’arguto
accostamento tra l’immagine della donna di Saba e la Morte della Vergine
del Caravaggio. Ancora una volta si concretizza il legame tra letteratura
e pittura, con la Vergine che offre la sua vita agli uomini come
atto d’amore, comparata alla donna che offre l’amore per un atto di
sopravvivenza, per la propria vita. Due momenti opposti che Acone fa
coincidere nell’accostamento della madre di tutti gli uomini con la più
umile tra le donne.
L’originale scritto di Raffaele Giglio propone invece un’articolata e
fondata riflessione sulla concezione artistica “realista sentimentale” di
Salvatore Di Giacomo. Ribaltando la concezione largamente diffusa
che è l’arte ad attingere alla letteratura come fonte d’ispirazione, Giglio
restituisce alla pittura partenopea dell’Ottocento il ruolo fondamentale
che svolse nell’ispirazione poetica digiacomiana. L’esempio
[ 10 ] [ 11 ]
382 luigi montella
da sintetiche ricostruzioni monografiche dedicate ad autori contemporanei,
I “mille frutti ancora selvatichi”. anche stranieri (Dante Maffia
per Abraham B. Yehoshua; Costantino Marco per Antonio de Giuliani),
non ancora ben definiti, ma già emergenti (Ferruccio Monterosso
per Alberto Frattini; Ugo Piscopo per Sergio Campailla, Caterina Verbaro
per Giuseppe Occhiato), persino con qualche punta polemica o
sconfinamento di campo (Umberto Piersanti per Cantautori poeti d’oggi
– Un grande bluf; Plinio Perilli, I menestrelli del verso. Poesie da cantare;
Tonia Caterina Riviello, per il film The horsrman on the Rooff. Direttamente
in inglese). Né possono essere ignorati gli appassionati contributi
di Nunzia D’Antuono, e Rossella Rossetti rispettivamente consegnati
alla delicata indagine tematica su Orti e giardini nel «Platone in
Italia» (vale a dire, come recita il titolo, I “mille frutti ancora selvatichi) di
Vincenzo Cuoco, e la disamina puntuale degli spunti tematici e delle
variazioni di pensiero che agitano il percorso esistenziale e l’attività
creativa di Cesare Pavese (Creazione artistica e reminiscenze filosofiche nel
“Mestiere di vivere”).
Da segnalare l’approfondito esame, quasi epilogo dell’intero volume,
che Ciro Vitiello dedica ad un’opera felice quanto fortunata di
Luigi Reina (Invito al ’900. Istituzioni letterarie e vita culturale, 1986, poi
Scenario Novecento. Guida all’interpretazione dei modelli culturali – con
postille didattiche e dizionarietto, voll. 2, 1993, più volte ristampato),
particolarmente meritevole d’attenzione per l’equilibrio che ne regola
struttura e scelte, non cedendo al richiamo di sirene tentatrici ma costruendo
un percorso storiografico rigoroso nell’impianto, attento ai
valori riconosciuti e disponibile alle scommesse che s’accompagnano
alla definizione di un’opera in sé ambiziosa. Il critico ne fa una lettura
che valorizza gli approdi in virtù del metodo verificato sui risultati
relazionando l’opera a due interagenti campioni del genere firmati rispettivamente
da Romano Luperini e da Giulio Ferroni.
Luigi Montella
(Università del Molise)
[ 12 ]
Emilio Pasquini, Il viaggio di Dante.
Storia illustrata della Commedia, Roma,
Carocci, 2015, pp. 312.
Nel viaggio al quale Pasquini –
studioso autorevole dell’opera di
Dante e soprattutto commentatore
puntuale (con Antonio Quaglio) della
Commedia – invita il lettore si intende
rifuggire dalla tentazione,
sempre facile quando ci si occupi del
nostro poeta fondatore, di riempire i
numerosi vuoti della sua vicenda esistenziale
e della sua esperienza letteraria
con salti romanzeschi che magari
riarticolino il contenuto delle
opere in tasselli autobiografici. Due
sono invece gli assi fondamentali che
guidano il percorso di ricerca e rilettura
proposto dall’autore: il carattere
innovativo della lingua di Dante – il
«fascino della sintassi dantesca» e il
«miracoloso congegno della terzina
incatenata» – e il carattere «illustrabile
» della Commedia, ossia il suo essere,
come osservò Contini «libro autorizzato
dall’autore all’illustrazione»
e pertanto opera di un letterato consapevolmente
«popolare».
Il racconto della Commedia da parte
di Pasquini, e dunque il viaggio ultraterreno
di Dante-personaggio, è
punteggiato da numerose miniature,
riprodotte dal manoscritto oxoniense
Holkham 514, misc. 48 (Bodleian Library,
Oxford). Non potendo in questa
sede seguire l’intera illustrazione
figurativa e discorsiva, ci soffermeremo
solo su alcuni passaggi, che corrispondono
non solo a momenti artisticamente
rilevanti, ma costituiscono
anche problemi aperti per la critica
dantesca. Spicca per conservazione
e qualità la miniatura raffigurante
l’incontro tra Dante e Virgilio (rispettivamente
rivestiti da una toga blu e
da una rossa) con Farinata degli
Uberti che nudo si leva fino al busto
emergendo da una tomba infuocata e
scoperchiata (p. 41). In quell’incontro,
cui la poesia di Dante conferisce
il pregio dell’immediatezza, emerge
il carattere altero del personaggio
che fu alla guida dei ghibellini in Toscana
tra gli anni trenta e quaranta
del Duecento e poi, allontanato da
Firenze negli anni cinquanta, quando
il potere fu ripreso dalla parte
guelfa, ebbe un ruolo rilevante nella
battaglia di Montaperti. Dante, interrogato
sui propri avi dal defunto, risponderà
rivendicando origini nella
piccola nobiltà guelfa fiorentina.
Ora, la ‘nobilitazione’ delle origini di
Dante, che sarà coronata dall’incontro
con il miles crociato Cacciaguida
Recensioni
384 recensioni recensioni 385
quale Dante, condotto da san Bernardo,
si inginocchia, sono le miniature
che concludono il viaggio e il racconto.
Un racconto che non solo ha il
merito di riprodurre fedelmente la
stringata efficacia della poesia dantesca,
brillante e plastica anche nei passaggi
teologicamente più rarefatti,
ma che – privo com’è di ogni cedimento
alle tentazioni di una plurisecolare
esegesi erudita – riesce a rendere
la Commedia apprezzabile anche
dal pubblico meno addestrato. Ed è
qui l’ulteriore merito in questo esperimento
condotto da un critico provetto
come Emilio Pasquini, la possibilità
di impiegare il suo viaggio-racconto
come strumento didascalico
per accostare all’arte di Dante un
pubblico sempre appassionato, ma
spesso ostacolato dalle tecnicalità
della critica. Una consapevolezza
che era ben presente nelle movenze
iniziali del progetto dello studioso,
quando egli preliminarmente giustificava
le difficoltà dell’antico miniatore:
«Resta la consapevolezza che il
miniatore difficilmente poteva trasmettere
la duplice realtà del testo
dantesco, là dove col senso letterale
coesiste anche un secondo senso, allegorico
o simbolico che sia […].
S’aggiunga un dato di fatto irremovibile:
la serie delle illustrazioni non
può neppure lontanamente suggerire
il geniale intrecciarsi della voce
del personaggio-Dante con quella
dell’autore-Alighieri» (p. 10).
Ut pictura poësis, ma questa – sia sa
– è una lunga storia.
Raffaele Ruggiero
Angelo Poliziano. Dichter und Gelehrter,
a cura di Thomas Baier, Tobias
Dänzer e Ferdinand Stürner, Tubinga,
Narr Francke Attempto, 2015,
pp. X + 278.
Angelo Poliziano. Dichter und Gelehrter
mette a disposizione della comunità
degli studiosi gli atti del simposio
omonimo tenutosi presso la
Residenza di Würzburg nel luglio
2014. Esce come ventiquattresima
pubblicazione dell’autorevole collana
“NeoLatina”, diretta da Thomas
Baier, Wolfgang Kofler, Eckard Lefèvre
e Stefan Tilg, insieme con
Achim Aurnhammer. In precedenza
la stessa collana ha accolto volumi
riguardanti Pontano e Catullo (4), il
mondo antico e il cristianesimo nell’Africa
petrarchesca (7), Petrarca e la
letteratura romana (9), Sannazaro e
la poesia augustea (10) e Michele
Marullo (15); comparirà a breve scadenza
Cristoforo Landinos Xandra und
die Transformationen römischer Liebesdichtung
im Florenz des Quattrocento,
a cura di Wolfgang Kofler e Anna
Novokhatko.
La prima parte di Angelo Poliziano.
Dichter und Gelehrter raggruppa sette
contributi relativi alla poetica. Rita
Degl’Innocenti Pierini presenta un’analisi
intertestuale dell’elegia giovanile
in morte di Albiera degli Albizi,
documentando l’intrecciarsi di
aspetti topici dell’epicedio a elementi
associati al genere epitalamico, per
cui modelli incisivi appaiono essere
il carme catulliano intorno alle nozze
di Peleo e Tetide e la Silva 1, 2 staziana;
bene rileva la studiosa la “mostruosità”
della cultura acquisita dal
poeta ancora adulescens (cfr. la «ungeheure
Produktivität» evocata da
Baier a p. 247 e, ancora, un commento
di Dänzer a p. 259). Hélène Casanova-
Robin, mediante una considenel
XVII canto del Paradiso, non solo
pone problemi di verosimiglianza
storica con quanto sappiamo da fonti
coeve su famiglia e carriera politica
di Dante (tutte nell’ambito di un ceto
agiato, ma né particolarmente abbiente
né aristocratico), ma pone anche
problemi di coerenza interna con
una cantica che, benché riconoscibilmente
più fiorentinocentrica delle
successive, risulta già intimamente
‘imperiale’. E Pasquini rende efficacemente
nel suo ‘viaggio raccontato’
la concisione e il serrato intreccio tematico
che contraddistingue il canto
X dell’Inferno: il colloquio con Farinata
è interrotto infatti dall’intervento
di Cavalcante Cavalcanti, uno
scambio di battute nel quale non solo
trova efficace posizionamento la
nuova distanza ideologica instauratasi
sul piano culturale fra Dante e il
suo ‘primo amico’ Guido, ma anche
la differente opzione letteraria assunta
da colui che adotta Virgilio
quale guida per un viaggio ultraterreno
verso orizzonti che «Guido vostro
ebbe a disdegno». Con la disperazione
paterna di Cavalcante, riprende
e si conclude l’incontro con
Farinata, nel segno appunto della
storia, con l’oscura evocazione dell’imminente
esilio per un verso, ma
anche nel nome imperiale di Federico
II, accomunato nella pena dei materialisti,
e nel richiamo al parlamento
di Empoli, tra i vincitori della battaglia
di Montaperti, distolti dal proposito
di distruggere Firenze proprio
dall’intervento di Farinata.
Dal ms. Egerton 943 della British
Library sono tratte invece le miniature
che accompagnano il racconto dei
canti XXVI-XXX del Purgatorio con
l’ingresso di Dante nel Paradiso terrestre,
l’incontro con Matelda, la processione
con il carro della chiesa trainato
dal grifone, e infine il primo
apparire di Beatrice.
Per il canto XII del Paradiso con Bonaventura
da Bagnoregio, che pronuncia
l’elogio di san Domenico e
denuncia la corruzione in cui è caduto
l’ordine francescano, Pasquini ha
invece adottato le miniature del ms.
M 676 della Pierpont Morgan Library
di New York. Una seconda ghirlanda
di beati si unisce alla prima, nella
quale aveva preso la parola lo spirito
di san Tommaso, accrescendo l’armonia
di movimento, luce e corrispondenza
musicale. Da questa seconda
corona si leva la voce di Bonaventura:
anche in questo caso la prosa narrativa
del critico-commentatore restituisce
con efficacia la concisione delle
due parti entro cui si sviluppa l’intervento
del mistico francescano e biografo
maior di Francesco. Alla vicenda
umana e religiosa di Domenico,
«santo atleta», tiene dietro la deplorazione
per la decadenza dei francescani,
e il discorso di Bonaventura si
chiude con la presentazione degli
spiriti componenti la seconda ghirlanda:
una composizione eterogenea,
in cui scuole filosofiche diverse sembrano
aspirare alla conciliazione, dai
primi discepoli di Francesco (Illuminato
e Agostino), a Ugo di San Vittore,
a Pietro Mangiadore, fino a Pietro
Ispano (poi papa Giovanni XXI), al
profeta ebraico Natan, a Giovanni
Crisostomo, ad Anselmo d’Aosta, a
Elio Donato e Rabano Mauro, fino alla
scandalosa presenza (rilevantissima
perché conclusiva del canto) di
Gioacchino da Fiore, «calavrese […]
di spirito profetico dotato».
La Vergine Maria al centro della
candida rosa e un’originale raffigurazione
della Trinità, dinanzi alla
386 recensioni recensioni 387
sie greche realizzata da Jacques
Toussain, suo maestro a Troyes) ma
non a formulare un vero e proprio
omaggio in versi, ligio in tal modo al
sentimento antitaliano allora vigente
presso gli intellettuali d’oltralpe –
eloquente a proposito il titolo di un
epigramma: Virgilium per i, non Vergilium
per e dicendum, contra quam Politianus
in Miscel[laneis] praecipit. Laura
Refe informa sugli allievi del numen,
provenienti soprattutto dalla
Toscana ma anche da regioni meno
soleggiate, come illustra il caso di
William Grocyn e di Thomas Linacre:
le numerose testimonianze addotte
danno la misura dei vivaci
scambi letterari di fine Quattrocento.
Thomas Baier rivolge la propria attenzione
alle traduzioni latine, prendendo
in esame il frammento d’inizio
del Carmide di Platone, il dialogo
socratico intorno alla virtù della temperanza,
con relativa prefazione indirizzata
a Lorenzo de’ Medici. Infine
Tobias Dänzer documenta le riverberazioni
dell’insegnamento di
Andronico Callisto sulla versione in
esametri di Iliade II-V: tanto Callisto
quanto Omero si adergono a maestri
dell’enciclopedismo polizianeo.
Dalla raccolta di saggi curata da
Baier, Dänzer e Stürner deriva un ritratto
vivo e condivisibile del poeta e
grammaticus Angelo Poliziano. Si
esplora la labirintica costruzione in
versi e in prosa del φωταγωγός dell’Umanesimo
tardoquattrocentesco mediante
indagini che tendono ad avvalorare
le tesi elaborate dalla critica
più recente e accreditata. Poliziano si
conferma ipercolto, creatura laurenziana,
impeccabilmente trilingue,
padre della filologia moderna, estimatore
del preziosismo lessicale, artigiano
esperto della ferruminatio letteraria,
promotore di un sapere spregiudicato,
antigerarchico e pluridisciplinare.
Difficilmente si può dubitare
dell’efficacia del contributo alla
reviviscenza dell’antichità letteraria,
specie nei confronti di Omero, Aristotele,
l’Antologia Planudea, Quintiliano,
Stazio e Svetonio. Quanto all’opera
poetica originale di lingua
latina, essa si dimostra in grado di
rivisitare l’intera gamma del repertorio
espressivo, sia inabissandosi nell’osceno,
come nei trimetri In anum,
sia alzandosi in volo verso una grazia
suprema, di cui appare paradigmatica
la chiusa dell’Ambra: «Multa
lacu se mersat anas, subitaque volantes
/ Nube diem fuscant Veneris tutela
columbae».
Angelo Poliziano. Dichter und Gelehrter,
nell’arricchire di nuovi dettagli
il quadro dell’attività frenetica del
poeta, filologo, traduttore, epistolografo,
polemista e professore, non fa
che accrescere lo sbigottimento davanti
ai frutti monumentali di un’esistenza
stroncata anzitempo, un mero
quarantennio di vita (sarà forse lecito
credere all’opinione di Albiera,
«Vita brevis longi temporis instar habet
»?). Poliziano, malgrado alcuni
ridimensionamenti di giudizio riguardo
a determinati settori dell’operato,
rimane un monstrum la cui
decifrazione consente non soltanto
di intendere la cerchia medicea e la
società fiorentina del secondo Quattrocento
ma anche di cogliere il senso
dell’Umanesimo nel suo pieno sviluppo
storico. L’autore dei Miscellanea,
guida di un movimento culturalspirituale
che ebbe inizio da Petrarca
e che avrebbe seguitato a condizionare
il modelli di comportamento
dell’uomo europeo sino al Novecento
inoltrato, torna oggi attuale per
razione del reimpiego dei paradigmi
mitologici di Nemesi, Ercole e Orfeo,
dimostra come la riflessione polizianea
intorno a emozioni quali invidia,
collera e dolore si innesta sul pensiero
di Cicerone e di Seneca. Virginie
Leroux incornicia la fenomenologia
del sonno nella cultura antica e umanistica,
mentre Émilie Séris assume a
tema la derisione del corpo in una
delle invettive contro Mabilio, nei
giambi In anum e nella Sylva in scabiem,
asserendo che Poliziano abbia
collaborato alla teorizzazione rinascimentale
del riso mediante una sintesi
dei testi fondativi del comico da
Platone a Quintiliano. Claudia Wiener
entra nel dibattito intorno all’interpretazione
allegorica di uno tra i
testi più inafferrabili e discussi del
secondo Quattrocento, la Sylva in scabiem:
il poeta-protagonista, anziché
presentarsi come intellettuale stoico
in grado di curare il proprio malessere,
vi si palesa incapace di autarchia;
in ultima analisi è la necessità
dell’encomio a governare la composizione
della selva. Ancora: M. Elisabeth
Schwab ferma l’attenzione su
tre evocazioni di opere d’arte raffiguranti
bellezze femminili: In picturam
puellae, quae in deliciis Laurentio Medici
est, Κύπρις ἀναδυομένη e Stanze I,
99-103. Sugli epigrammi latini e greci
ritorna Thomas Gärtner attraverso
una serie di osservazioni pertinenti
– non tutte valide in una prospettiva
storica, cfr. l’erronea identificazione
Mabilio-Marullo a p. 123.
La seconda parte del volume si
apre specificamente a questioni di
natura filologica. L’intervento di
Gianna D’Alessio focalizza il capitolo
49, Taras, della Seconda centuria,
avente per oggetto Silv. I, 1, 102-04:
emerge la volontà di Poliziano di
gettare discredito sul vecchio rivale
Domizio Calderini. In seguito Daniela
Marrone affronta l’argomento della
riflessione sulla poetica all’interno
del Panepistemon, prolusione tassonomica
pronunciata presso lo Studio
fiorentino quale introduzione a un
corso sull’Etica Nicomachea – da evidenziare
le corrispondenze rilevate
con la Poetica aristotelica, la cui vera
fortuna rinascimentale avrebbe avuto
inizio soltanto a un cinquantennio
di distanza. Francesco Caruso a sua
volta si interroga sull’atteggiamento
polizianeo verso la filosofia intesa
come ricerca della verità, riesumando
la questione controversa del rapporto
con Platone e i platonici e mostrando
come per l’autore della Lamia
– nemico degli assunti dogmatici
– la filosofia va circoscritta entro determinati
limiti che tenderebbero a
escludere la sfera dell’astrazione teoretica.
Valerio Sanzotta elenca alcuni
codici che sarebbero passati tra le
mani sia di Ficino che di Poliziano,
ponendo in luce un’integrazione di
quest’ultimo in margine alla c. 77r
del Cod. graec. 461 della Bayerische
Staatsbibliothek (riproduzione fotografica
a p. 190).
Le ultime due parti di Angelo Poliziano.
Dichter und Gelehrter raccolgono
saggi sulla fortuna del poeta-professore
e sulla sua attività in veste di
traduttore. Se Catherine Langlois-
Pézeret fa conoscere il poeta lionese
Gilbert Ducher, autore di un epigramma
latino Ad Mauricium Scaevam,
μίμησις Politiani in cui si emula
lo Ζαμπέτρῳ Ἀρριβαβένῳ, δωριστί, Sylvie
Laigneau-Fontaine dà ragguagli
su Nicolas Bourbon, pronto a farsi
imitatore dell’umanista nella propria
opera poetica (attingendo a seconda
del caso alla latinizzazione delle poe388
recensioni recensioni 389
esaminano i modelli antichi fra tiranni
e nomoteti; la novità di Machiavelli
consiste nel suo approccio al passato:
se da un lato gli storici antichi
spiegavano elementi lontani nel tempo
e nello spazio ricorrendo a modelli
appartenenti alla propria esperienza,
dall’altro il segretario fiorentino
cerca nel passato un analogo del presente
con lo scopo di decifrare la realtà.
Appare necessario allo statista,
secondo Luciano Canfora, «cogliere
quando un evento, nel concreto suo
divenire, risulti portatore di elementi
talmente nuovi e irriducibili a precedenti
noti, da diventare esso stesso
presupposto e modello» (p. 41). Tuttavia,
come nota Cutinelli-Rèndina,
Roma e il mondo antico diventano
un modello di virtù ormai relegato
ad un passato lontano e l’esemplarità
di Roma perde il suo carattere di modello
opportuno per le azioni future.
Il presente e il futuro non possono
essere mai distinti del tutto: il presente
non sarà intellegibile senza la
ragione storica e lo studio del passato
risulterà un mero esercizio intellettualistico
se non interrogato dalle
«urgenze della prassi».
Venendo all’«espereinza delle cose
moderne», la riflessione machiavelliana
si sofferma sulla politica francese
di Luigi XII e sui parlamenti in
particolare. Machiavelli aveva osservato
direttamente la realtà francese
in occasione della sua esperienza di
legato e aveva concluso che la Francia
appariva come un regno ben ordinato,
dove le istituzioni fondamentali
erano efficienti: ciò garantiva
l’indipendenza dello stato e la stabilità
del regime monarchico. Tra le
istituzioni francesi spicca il parlamento
che consolida il potere del re e
ridimensiona «l’ambizione de’ potenti
e l’insolenzia loro». Il parlamento
– nota Ruggiero – non è un
organo popolare: al contrario, esso
«nasce in primo luogo come organo
giurisdizionale innanzi al quale sono
chiamati a rispondere i vassalli del
re, dunque organo dei ‘grandi’ e della
loro dialettica interna con quel primus
inter pares che è il sovrano» (p.
87). In seguito si passano in rassegna
le istituzioni spagnole, delle quali
Machiavelli elogia l’unità nazionale
raggiunta sotto una monarchia capace
di imporre un ordinamento durevole
allo stato. Della Germania poi
Machiavelli ammira la capacità di
tenere addestrate le milizie proprie e
la previdenza con cui le città sono rifornite
di viveri, costantemente preparate
ad affrontare un assedio anche
per la durata di un anno.
Nell’ambito della politica estera infine,
proprio l’esperienza machiavelliana
getta luce sulla tendenza dei
nuovi signori a avvalersi di ambasciatori
ufficiali tradizionalmente individuati
tra le persone che godevano
di prestigio.
Questa è la figura di Machiavelli
delineata da Ruggiero: un intellettuale
dal potente slancio teoretico,
che con giudizio critico è capace di
guardare alla politica fiorentina e tenere
al contempo presente la realtà
europea. Il segretario è un uomo posto
dinnanzi alla crisi e in balia della
fortuna che cerca di scorgere nella
storia insegnamenti per il futuro e
comprenderne i meccanismi. Quando
frenare la decadenza è oramai impossibile
«il problema delle ‘leggi’
della politica e della storia emerge
per Machiavelli nella sua immediata
e urgente concretezza. Sullo sfondo,
un nuovo modello costituzionale comincia
a imporsi consegnando gli
aver saputo vivere il passato quasi
fosse il presente, saldando, anzi, i
due cronotopi in una ricomposizione
senza tempo: «At manet aeternum et
seros excurrit in annos / Vatis opus»
(Manto).
John Butcher
Raffaele Ruggiero, Machiavelli e la
crisi dell’analogia, Bologna, Il Mulino,
2015, pp. 188.
Quando la decadenza dell’ordinamento
statuale è ormai in atto, quando
il sovrano ha perso credibilità
presso il popolo e non ha saputo usare
al momento opportuno la ‘bestia’,
dal momento che «degli uomini si
può dire questo generalmente, che
sieno ingrati, volubili, simulatori e
dissimulatori, fuggitori de’ pericoli,
cupidi di guadagno», e per giunta
«sdimenticano più presto la morte
del padre che la perdita del patrimonio
», l’uso da parte del principe della
violenza e dell’inganno «non costituisce
più una extrema ratio ma entra a
pieno titolo nella logica e nell’esercizio
del potere, perché l’uomo è generalmente,
cioè secondo una caratterizzazione
per ‘genere e per specie’, incline
al male». Il principe dovrà fare i
conti con questa realtà in vista di un
bene supremo sovraordinato: la conservazione
della sovranità e dunque
la stabilità dello stato. In un siffatto
panorama giova rifarsi per analogia
a modelli antichi tanto cari a Machiavelli;
tuttavia il segretario fiorentino
è ormai consapevole del fatto che tali
modelli non sono più bastevoli. Esistono,
secondo Machiavelli, ‘la lunga
esperienza delle cose moderne’ e ‘la
continua lezione delle antiche’. Attraverso
i capitoli del Principe il segretario
fiorentino accosta elementi
antichi a moderni, alternando sapientemente
diadi in cui l’esempio
moderno e quello antico confermano
un medesimo agire politico e diadi
oppositive, laddove l’esempio antico
e quello moderno sono tra loro contrastanti.
L’antichità, tuttavia, non è
una riserva infinita di esempi buoni
per ogni occasione: il principe deve
saper guardare al passato e trovare il
modo per far fronte ai cambiamenti.
Raffaele Ruggiero, curatore di
un’edizione commentata del Principe
e redattore dell’Enciclopedia machiavelliana,
offre uno sguardo smagato
sulla realtà contemporanea a Machiavelli.
Lucidamente lo studioso si
avvede che al termine dell’‘opuscolo’,
quasi in contrasto con quanto
scritto in precedenza, nell’universo
machiavelliano irrompe un elemento
di imprevedibilità, uno scarto irrazionale
che «sconvolge il sistema e
sembra vanificare il tentativo di esercitare
con successo l’interpretazione
dell’agire politico per via analogica».
È la fortuna che, come un fiume in
piena, sfugge allo sforzo di governare
razionalmente l’agire politico e
nutre la riflessione sulla decadenza
della società di primo Cinquecento.
Il Principe è considerato, sulla scia
degli studi di Gennaro Sasso, non solo
una teoria del principato ma anche
una teoria della virtù nel suo rapporto
con la storia. E l’impegno del principe
è tutto volto a superare questo
margine di irrazionalità indomabile,
congetturare secondo le circostanze,
fondarsi sul passato per interpretare
gli indizi di un futuro nebuloso e incerto.
Nel primo capitolo dello studio
Machiavelli e la crisi dell’analogia si
390 recensioni recensioni 391
Manso nel tessuto culturale napoletano,
culminato nel 1635 con la pubblicazione
a Venezia delle Poesie nomiche,
frutto del coté ozioso. Mediatore
di tale amicizia fu Angelo Grillo,
di stanza a Napoli tra il 1626 e il 1628.
L’esperienza del Tasso sul terreno
della filosofia amorosa si evince dai
Paradossi e dall’Erocallia, silloge di
dodici dialoghi sull’amore e sulla
bellezza. Nella notte fra il 24 e il 25
dicembre 1645 Manso moriva lasciando
opere inedite o da ripubblicare.
Ma il sodalizio più importante
fu quello con il Marino tornato a Napoli
nel 1624, dove poi morirà, assistito
proprio dal Manso, il 26 marzo
1625, lasciando in casa una parte dei
beni reinventariati il giorno stesso
del decesso. All’indomani della morte
del Marino rimaneva aperto il contenzioso
sulle sue opere inedite e sulla
pubblicazione postuma dei sette
canti della Distrutta (1624) e della
Strage degli innocenti (1692). Quanto
alle pubblicazioni risulta incontrovertibile
il radicamento della tradizione
a stampa delle Egloghe e delle
Rime boscherecce, entro un sostrato di
marca partenopea, che nelle composizioni
di ambientazione pastorale e
marittime riconosceva un proprio
valore identificativo. Napoli ricoprì
un ruolo molto importante anche
nella vicenda delle rampogne mosse
al Marino degli Occhiali fino all’Occhiale
appannato di Scipione Errico
che salvava l’opera del Marino dalla
contestazione, ascrivendo l’Adone al
registro idillico-amoroso e accostandolo
alle Metamorfosi di Ovidio.
Durante i mesi caldi della polemica
il Manso bruciò più di 300 esemplari
del Mondo nuovo, l’opera controversa
dello Stigliani. Ciò che veniva
contestato al Marino era l’assenza
di spessore etico e di dottrina. Purtroppo
è andata smarrita la copia
della Vita del Marino del Manso, che
avrebbe fatto luce sul giudizio dell’opera
mariniana. Per il Riga il termine
post quem per la fine della biografia
del Manso sarebbe il 1633. Se la Vita
del Marino ad opera del Manso è avvolta
nel mistero, quella del Tasso
dello stesso autore non è rimasta
ignorata nel tempo. Essa si articola in
due sezioni, per le quali il Manso si
avvalse soprattutto del carteggio tassiano,
una per raccontare la vita del
Tasso, l’altra per focalizzare la complessa
statura morale del personaggio.
Tra le fonti, oltre l’edizione delle
Lettere del 1588, curata da G. B. Licino,
tengono banco le informazioni
circostanziate ricevute per via epistolare
da Angelo Grillo, la Comparatione
di Omero, Virgilio e Tasso di Paolo
Beni e il dialogo Tasso e il Farnetico
Savio di Alessandro Guarini. Manso
alterna la narrazione delle vicende
comunemente note al ragguaglio
personale, col quale incornicia i soggiorni
napoletani e l’ultima stagione
letteraria nello scenario del fondo di
Bisaccia, dove Tasso avrebbe terminato
la stesura della Conquistata e dato
inizio al Mondo creato.
A distanza di circa quarant’anni dal
dialogo Il Carrafa ovvero dell’epica poesia,
che aveva avviato a Napoli la polemica
tra ariostisti e tassisti, apparve
dunque la Vita del Tasso del Manso, a
cavallo della stampa parigina dell’Adone,
nel 1623, e della salita al soglio
pontificio di Maffeo Barberini.
Al lirismo mariniano subentra l’epicità
tassiana, pregna di impegno
morale e filosofico. Il poeta della Gerusalemme
è ritenuto il vertice della
cultura umanistico-letteraria, cui
guardano gli Oziosi, capitanati dal
ideali repubblicani all’orizzonte dell’utopia
» (p. 160).
Francesca Chionna
Pietro Giulio Riga, Giovan Battista
Manso e la cultura letteraria a Napoli
nel primo Seicento. Tasso, Marino, gli
Oziosi, Bologna, Emil, 2015, pp. 256.
Questo volume di Pietro Giulio Riga
si propone di fare luce su alcune
questioni della biografia e dell’attività
del Manso in ambito marinista e
sui caratteri della lirica napoletana
del tardo Cinquecento e della prima
metà del Seicento, entro un approfondimento
della scarsa incidenza
del marinismo nella prima metà del
Seicento.
Il primo indizio da chiarire è la data
di nascita del Manso, che, stando
ad alcune ricerche compiute nell’Archivio
storico del Monte Manso di
Napoli, è da assegnare all’agosto
1567, mentre la data di morte va slittata
al 1645. Il ruolo ricoperto dal
Manso nella seconda metà del Cinquecento
a Napoli fu quello di un
intellettuale aperto alla cultura bembesca
e marinistica. Quando nel 1586
venne fondata l’Accademia degli
Svegliati, il Manso fu il primo ad
aderirvi e, quando nel 1588 il Tasso
fu a Napoli, il Manso fu tra i primi a
conoscerlo; e non è un caso, dunque,
che dopo il ritorno a Roma nel 1592 il
Tasso componeva il dialogo Il Manso
ovvero dell’amicizia, che rimane l’attestazione
più veritiera del debito di
riconoscenza contratto nei confronti
del Manso. Tra i carteggi del Manso e
del Tasso meritano di essere ricordati
quello di diciotto missive tassiane
pubblicate da Cesare Guasti e risalenti
al periodo tra 1548 e il 1594, e un
gruppo di tredici lettere del Manso
comprese tra il 1613 e il 1614. Il Riga
sostiene che sono almeno un paio gli
episodi che legano il Manso alla turbolenta
biografia del cavaliere. Uno
coincideva con l’obiettivo di attrarre
una nuova protezione, l’altro riguarda
un sontuoso soggiorno del Manso
a Parigi, nel 1622. Né alla cultura del
Manso fece difetto quella scientifica,
se è documentato uno scambio epistolare
con Galileo e se Paolo Beni
rendeva note al Manso le novità
astronomiche che Galilei era in procinto
di pubblicare nel Sidereus Nuncius
del 1610. Ma, al di là di tali predilezioni,
l’attività del Manso va associata
alla fondazione dell’Accademia
degli Oziosi di Napoli, nel 1611. Una
delle prime attestazioni del consesso
ozioso sono le Declamazioni in difesa
della poesia, pronunciate da Giulio
Cesare Capaccio, all’interno di una
contesa sul primato tra poesia e oratoria.
Nel 1613 usciva il poemetto encomiastico
Academiae Ociosorum libri
tres del letterato salentino G. P. D’Alessandro,
opera celebrativa della
fondazione oziosa. Le relazioni intellettuali
tra il Manso e il Maia Materdona,
tra il Manso e l’Umorista di
Roma Vincenzo Gramigna, tra il De
Petri e il Manso si affiancano a quelle
di Angelo Grillo e a quella del Presidente
degli Incogniti, Giovan Francesco
Loredano. Nonché interesse particolare
rivestono le ventitre missive
indirizzate al Manso da Giuseppe
Battista, in cui si fronteggiano, da un
lato la formazione bembesca e petrarchesca
del Manso, e dall’altro l’originale
concettismo del Battista. Gli
anni Trenta e Quaranta documentano
il consolidamento della figura del
392 recensioni recensioni 393
Donato Faciuti, apparsi a Napoli nel
1625. Il terreno era ormai fertile perché
nel 1635 apparissero le Poesie nomiche
del Manso, che riflettono il
prototipo della Lira mariniana, in
funzione di una imitazione delle formule
cinquecentesche.
La struttura del Canzoniere, rigorosamente
tripartita, anteponeva le
liriche sacre a quelle morali, dopo
quelle amorose, individuando così,
nelle rime morali, il vero baricentro
ideologico della raccolta, ispirata a
una elocutio petrarchisticamente stereotipata.
Una menzione particolare
meritano le lettere inviate da Giuseppe
Battista al Manso, in cui questi
campeggiava come nume tutelare
del petrarchismo cinquecentesco, di
impronta bembiana, mentre il Battista
figurava come uno dei primi interpreti
del marinismo, tanto che
«spiccava anche fuori del Regno con
l’orgoglio e la sicurezza del caposcuola
» (p. 166). Conclude il libro del
Riga un’appendice contenente lettere,
per lo più, dei corrispondenti del
Manso, ad avvalorare il culto del poeta
come principale interprete di una
stagione tipo della nostra letteratura,
aperta a interloquire con i poeti del
suo tempo. Questo ricco e proficuo
lavoro di Pietro Giulio Riga, che si
inserisce nell’ambito della fioritura
di recenti studi sul marinismo e
sull’antimarinismo, riceve la sua
consacrazione artistica dal carattere
di militanza intellettuale dei poeti
che ruotavano intorno all’Accademia
degli Oziosi, e che ne definirono i caratteri
e le movenze, gettando i germi
della canonizzazione e delle procedure
imitative bembeshe, petrarchesche
e dellacasiane.
Valeria Giannantonio
Giuseppe Rando, Nei pressi dell’Infinito
e altri saggi leopardiani. In appendice,
l’edizione critica del discorso
Agl’Italiani di Giacomo Leopardi, Roma,
Aracne, 2015, pp. 332.
È nuova, originale l’ottica con cui
l’autore legge i testi leopardiani e originali,
nuovi, innovativi sono i risultati
critici che ne derivano. Si avvertono
nel libro, in maniera molto nitida,
i modi del dialogo intenso (ma
amorevole) che Giuseppe Rando intesse
con i testi, rispettandone, programmaticamente,
la personalità e
curando di non prevaricare su di essi:
donde, la ricchezza delle citazioni
e la tecnica descrittiva (di ascendenza
pasoliniana) cui il critico stesso
ricorre, per esaltarne la valenza documentaria.
I testi giovanili – dai puerili alla
Cantica del 1816 – rivelano, dunque,
chiaramente, in questo saggio, la forza
dirompente ma anche i limiti (storici,
culturali) della formazione classicistica
del «primo Leopardi», che
fu antilluminista e cattolico-papalino
in filosofia, nonché austriacante
antiliberale sul versante politico, e
classicista antiromantico in letteratura.
In tale ambito trovano la loro giusta
collocazione le due canzoni civili
(più che politiche) del 1818, All’Italia
e Sopra il monumento di Dante, che, rilette
da Rando, non al sollevamento
dell’Italia contro l’Austria mirano,
come vollero credere i patrioti romantici
e come ancora si crede da
molti, bensì al risveglio degli italiani
dal «sopore» (cui sarebbero stati costretti
dall’«incivilimento»), laddove
i francesi e non gli austriaci sono,
nelle varie fasi redazionali, i nemici
da battere: effettivi monumenti, ad
Manso. Altra prova di fedeltà ai canoni
tassiani del genere epico è la
Poetica di Giuseppe Battista, uscita
postuma, nel 1676. Ma l’esordio letterario
del Manso si ebbe con i Paradossi,
una silloge di cinque dialoghi
amorosi, che rivelano una predilezione
per il genere dialogico, a dispetto
della cavillosa struttura enciclopedica
dei dialoghi dell’Erocallia.
Il terzo capitolo del libro del Riga
prende in esame l’esperienza poetica
a Napoli nel primo Seicento, dedicando
particolare attenzione alle Poesie
nomiche del Manso. Più in generale
il Riga constata che il principio di
imitazione sovrastò quello di invenzione,
e che la moda poetica del tempo
elevava a sommi modelli il Bembo
e il Della Casa, in uno con l’imitazione
petrarchesca. In particolare il
primo poeta ad essere considerato è
Giovan Battista Basile, che curò tra il
1616 e il 1617 l’edizione delle Rime
del Bembo e del Della Casa, oltre alla
prima edizione delle Rime di Galeazzo
di Tarsia. Affidata ad un’operazione
di radicalizzazione del canone rinascimentale
presso l’Accademia
degli Oziosi, la tipologia di lettura e
schedatura offerta dal Basile con le
sue Osservazioni intorno alle Rime del
Bembo e del Della Casa mirava ad allineare
le occorrenze nelle Poesie del
Bembo e del Della Casa, con viva attenzione
per il modello petrarchesco.
Che a Napoli la partita dei modelli
classici si giocasse tra due cavalieri
della tradizione è testimoniato dal
Parallelo fra Francesco Petrarca e Giovanni
Della Casa dell’ozioso Orazio
Marta. Non diversamente le Spositioni
del Quattromani alle Rime del Della
Casa attestano una imitazione della
poesia dellacasiana della Napoli
primoseicentesca, individuando nell’antitesi,
non uno strumento di trasgressione
retorica, ma il cuore pulsante
dell’ars poetica del Petrarca.
Sicché anche gli stilemi e gli artifici
retorici della poesia petrarchesca furono
sottoposti a commento, individuando
nel modello petrarchesco un
esempio di dulcedo e in quello del
Della Casa di gravitas. Sempre in ambito
ozioso e umorista il Riga pone
attenzione alle Lezioni sopra alcuni sonetti
di Monsignor Della Casa, pronunciate
da Pompeo Garigliano nel 1616.
Le imprese filologiche di Basile e
Quattromani, Marta e Garigliano attestano
la solidità di un petrarchismo
resistente alle nuove mode seicentesche.
In tale cornice va ricordata anche
l’esperienza di Orazio Comite,
che nel 1615 e nel 1627 diede alle
stampe due raccolte poetiche che
avevano come referente assoluto il
magistero dellacasiano. Al classicismo
il Comite unì il consenso per la
politica del papa Urbano VIII, nel
suo poema intitolato Barberino overo
Parnaso liberato, edito nel 1626.
Sull’esempio dellacasiano si modellano
pure le Rime di Salvatore Pasqualoni,
edite nel 1620. Fedeli alla
griglia del petrarchismo furono pure
le Rime di Anello Sarriano, edite nel
1622. Anche il brindisino infuriato
Giovanni Palma pubblicava una raccolta
di Rime nel 1632, entro un classicismo
severo che si opponeva alle
sfrenatezze dei moderni. A Onofrio
D’Andrea risale un libro di Poesie,
edite nel 1634, nel rifiuto degli eccessi
concettisti e retorici del marinismo.
Sul fronte opposto della ricezione
del marinismo si colloca la Selva di
Parnaso dell’ozioso Antonio Bruni,
che ricalca la Lira del Marino. Un
vincolo di contiguità con il modello
mariniano sono i Musici concenti di
394 recensioni recensioni 395
setta-Roma, Salvatore Sciascia Editore,
2015, pp. 206.
Ad aprire questo volume di Maria
Valeria Sanfilippo è un’introduzione
di Sarah Zappulla Muscarà (Il «giardiniere
» Luigi Capuana, pp. 7-13), nella
quale la documentata tessera critica,
ricostruita da Sanfilippo su Capuana,
è inserita all’interno del più
generale “aureo” mosaico della produzione
artistica siciliana dell’Otto e
del Novecento. Si segnalano non solo
i nomi di Capuana, Verga, De Roberto,
Pirandello, Rosso di San Secondo,
ma anche figure fondamentali
come Nino Martoglio, giornalista
poeta drammaturgo capocomico,
Giovanni Grasso e Angelo Musco,
attori siciliani di respiro internazionale.
In questo ricco clima, che collega
– sul piano letterario – la Sicilia
all’Europa, va inserita la frequentazione
scenica in lingua e in dialetto
da parte di Capuana, le cui «pagine
anticipano concetti che avranno ben
più ampio e complesso sviluppo in
Luigi Pirandello» (p. 12).
Maria Valeria Sanfilippo indaga,
quindi, su uno specifico settore della
produzione dello scrittore siciliano e
lo fa grazie allo spoglio di quotidiani
e riviste del tempo, di documenti
d’archivio e di carteggi, al fine di verificare
l’“indice di gradimento” del
“Capuana drammaturgo”. Nella prima
sezione, intitolata Opere (pp. 19-
175), si analizzano, infatti, le singole
messe in scena attraverso il metro
delle riflessioni, che su di esse hanno
esercitato i contemporanei. Si ricostruisce
così un capitolo fondamentale
dell’attività dello scrittore, il
quale comprende testi in lingua italiana
e in siciliano, scritture ricavate
da precedenti lavori romanzeschi e
novellistici (cfr. Giacinta, pp. 19-47; Il
piccolo archivio, pp. 47-54; Malìa in
lingua e melodramma, pp. 55-76; Serena,
pp. 77-82; Gastigo/Un Superuomo,
pp. 83-90; Lu cavaleri Pidagna, pp.
107-112; Bona genti, pp. 113-118; Ribelli,
pp. 119-128; Un brindisi, pp. 129-
132; Cumparaticu, pp. 133-138; La triste
lusinga, pp. 139-144; Lu Paraninfu,
pp. 145-158; Don Ramunnu, pp. 159-
170; Quacquarà, pp. 171-175).
Si consideri il caso di una delle
opere più rappresentative del “Capuana
narratore”. Ci riferiamo allo
scandaloso romanzo Giacinta (apparso
per la prima volta a Milano nel
1879 per la casa editrice Brigola), il
quale si trasformò in un’opera teatrale
al centro anch’essa di discussioni e
polemiche. È un caso sul quale puntiamo,
in particolar modo, la nostra
attenzione, perché ci appare emblematico
del metodo critico dell’Autrice.
Il dramma, in cinque atti, fu edito
nel 1890 (Catania, Giannotta), ma la
sua stesura era già iniziata nel 1886.
Sanfilippo ripercorre la storia di questo
testo a partire da una singolare
stroncatura, che ci piace definire ante
eventum, di Eugenio Cecchi, apparsa
sul «Fanfulla della Domenica» il 22
gennaio del 1888. Cecchi, senza aver
né letto né visto l’opera, la quale sarebbe
dovuta andare in scena con
protagonista la Duse, si augura che
essa possa fallire. Al centro della
questione è, come per il romanzo, il
problema della sua moralità. In nome
di tale moralità ci si scaglia contro
ciò che non si conosce, determinando
la reazione di Capuana («Fanfulla
della Domenica», 29 gennaio
1888) e accendendo una vera e propria
“disputa” intorno all’opera (si
veda, in tal senso, la difesa dello
scritto e delle ragioni dell’arte da
ogni modo, le due canzoni, del classicismo
antiromantico proto ottocentesco.
Epperò risalta, quanto non mai, la
radicalità dello svolta «filosofica» del
Diciannove, attentamente ricostruita
da Rando sui documenti (opere, lettere
ecc.), che traghetta immediatamente
il genio recanatese nel campo
dei vituperati romantici: Leopardi
diventa, in altri termini, altro da sé,
cioè proprio quel poeta romantico
contro cui si era levato, qualche mese
prima, nel Discorso di un italiano intorno
alla poesia romantica. Una capillare
– spietata, per certi versi – documentazione
della lacerante, creaturale
«conversione» è offerta da Rando
nella rilettura delle due «canzoni
censurate» e soprattutto di quella In
morte di una donna.
Ma l’acquisizione critica di più alta
valenza è costituita, in questo contesto,
dalla nuova interpretazione dell’Infinito,
uno dei vertici – non si dimentichi
– della poesia leopardiana e
forse della poesia tout court. Rando
ricostruisce perfettamente la genesi
del famoso idillio, da rinvenire, a suo
comprovato giudizio, nell’esperienza,
che il Contino fece in quell’anno
fatale, dello scavalcamento (nella
canzone In morte di una donna) della
frontiera letteraria innalzata tra classicismo
e romanticismo, e del superamento
altresì dell’angusta, moralistica
visione cattolico-papalina dell’amore
(evidente nella suddetta
«canzone
censurata» e nell’abbozzo
di Telesilla): da qui, il piacere di perdersi
nel mare dell’infinito, come indefinito
(giusta la chiosa di Leopardi
stesso nello Zibaldone), non limitato,
cioè, da schemi astratti, sia sul piano
letterario sia sul piano etico; da qui,
l’ossimoro «naufragar m’è dolce»
dell’Infinito e l’ossimoro «peccar quasi
innocente» di Telesilla.
Nella seconda parte del libro (la
prima è una vera e propria monografia
sulla formazione del «primo Leopardi
»: dalle certezze cattoliche, antilluministiche,
antiromantiche e antiliberali
alla radicale «conversione
filosofica» del 1819), il critico indaga
su aspetti fondamentali – e talora misconosciuti
– della cultura e della poetica
leopardiana. Ne emerge, in primis,
una disamina completa della
posizione di Leopardi sulla teoria dei
generi letterari, prima e dopo la
«conversione» del Diciannove. Seguono:
una capillare indagine – la
prima in assoluto – sulle ascendenze
alfieriane del pensiero politico leopardiano
e un ampio, articolato saggio
su Leopardi e la Pedagogia, dagli
anni giovanili a quelli della maturità
filosofica e poetica, che ci trasporta
nel cuore della contraddizione leopardiana.
Illuminante risulta, infine, la rigorosa,
esaustiva sotto tutti i punti di
vista, edizione critica dell’orazione
Agl’Italiani, con cui si chiude questo
proficuo lavoro di Giuseppe Rando.
Apprendiamo, tra l’altro, che dei due
manoscritti pervenutici, il recanatese
(R) e non il napoletano (N) rappresenta,
senza dubbio, la redazione definitiva
del testo, e che l’edizione conosciuta
della stessa, riscontrata sull’
«autografo napoletano» (da Mestica,
seguito poi da Flora e infine da Binni-
Ghidetti) è peraltro mutila di un segmento
importante del discorso.
Domenico Calcaterra
Maria Valeria Sanfilippo, La fortuna
scenica di Luigi Capuana, Caltanis396
recensioni recensioni 397
impegnativa. Il dramma di Giacometti
era stato interpretato da attori
di primo piano come Tommaso Salvini
e Giovanni Emanuel, divenendo
un “classico” delle scene ottocentesche.
Il risultato di questa trasposizione
dall’italiano al dialetto (l’A. esibisce,
sulla genesi di tale operazione,
una lettera del Capuana ad Achille
Torelli del 22 settembre 1904, conservata
presso la sezione Lucchesi Palli
della Biblioteca Nazionale di Napoli
“Vittorio Emanuele III”) fu apprezzato
sia a Catania sia a Roma, dove però
si auspicava maggior “colore” siciliano
nello scambio dialogico. Proprio a
Napoli, inoltre, era già stato messo in
scena I Rantzau nel 1899, al cui adattamento
lavorò – all’altezza del 1912 –
Capuana. In quell’anno I fratelli Ficicchia
furono rappresentati al Teatro
Fiorentini dalla Compagnia Marazzi-
Diligenti con successo di pubblico (e
con diverse riproposizioni in Sicilia e
in Italia con, tra gli altri, un ritorno a
Napoli il 17 marzo del 1917 a opera
della Compagnia Musco presso il Teatro
Principe). La riduzione, infine, di
Casa di bambole di Ibsen rappresenta,
senza ombra di dubbio, uno dei meriti
maggiori di Capuana, dal momento
che consente a un largo pubblico di
conoscere un autore al centro del dibattito
letterario europeo alla fine del
XIX secolo. La prima rappresentazione
del 9 febbraio 1891 è a Milano al
Teatro Filodrammatici (l’opera fu edita
in volume nel 1894: Milano, Kantorowicz).
A questa rappresentazione si
affiancano, negli anni successivi, riproposizioni
in Italia e poi ancora a
Napoli, dove ad assistere al dramma
ci fu – tra gli altri – il giornalista-commediografo
Bracco. Colui che sarà
definito l’“Ibsen italiano” elogiò con
fermezza Casa di bambole sulle colonne
del «Corriere di Napoli» (l’opera
era andata in scena al Teatro Sannazaro
l’11 dicembre del 1899).
L’analisi delle riduzioni e delle
opere teatrali di Capuana, da Giacinta
a Casa di bambole, consente quindi
di verificare come il volume di Maria
Valeria Sanfilippo percorra strade
critiche poco battute, le quali si rivelano
fondamentali per consentire alla
produzione scenica del siciliano di
affiancare l’altra, di gran lunga più
frequentata, produzione narrativa.
«Ripercorrere – dichiara Sanfilippo
nella Premessa – la fortuna scenica
del drammaturgo, alla confluenza di
un’epoca di trapasso in cui convergono
elementi vecchi e germi nuovi,
significa non solo attraversare le diverse
fasi del pensiero storico e sociale
del tempo, ma anche seguire le
alterne vicende teatrali che portano il
mineolo a imbastire una sintassi di
conferme, modifiche, tagli, interventi
a-posteriori nel tentativo di sovvertire
la tiepida ricezione di pubblico e
critica» (p. 16).
Vincenzo Caputo
Poesia e preghiera, a cura di Erminia
Ardissino e Francesca Parmeggiani,
«TESTO. Studi di teoria e storia
della letteratura e della critica»,
XXXVI (2015), n. 70 (numero monografico),
pp. 164.
Poesia e preghiera sono legate da
un nesso che attraversa la storia della
letteratura italiana sin dalle sue origini
(si pensi al Cantico di Francesco
d’Assisi), ma che la critica non ha mai
indagato nel suo evolversi, dimostrando
un reale interesse solamente
per singoli autori o particolari opere.
parte di Gaetano Miranda sulla
«Gazzetta letteraria» del 4 febbraio
1888). Nell’ambiente artistico napoletano
le vicende legate al testo di
Capuana furono seguite con particolare
interesse. Matilde Serao, ad
esempio, si soffermò sul rifiuto della
Duse a interpretare il personaggio di
Giacinta, nonostante l’impegno già
preso con il Capuana, e ricostruì con
dovizia di particolari l’intera vicenda
(«Corriere della sera», 20-21 febbraio
1888). Il lavoro, alla fine, fu messo in
scena dalla Compagnia di Torino Cesare
Rossi proprio a Napoli, al Teatro
Sannazaro, il 16 maggio 1888 (con
Graziosa Glech nei panni della prima
attrice). A questa rappresentazione
un giovane Roberto Bracco, con lo
pseudonimo di “Baby”, dedicò grande
attenzione sulle colonne del «Corriere
di Napoli» (17-18 maggio 1888),
evidenziando tra il pubblico la presenza,
in particolar modo, di Achille
Torelli e del duca Proto. Fu senza
ombra di dubbio un successo, che
non sempre si replicò così roboante
in altre città della Penisola. Sanfilippo
ricostruisce, quindi, con rigore la
genesi turbolenta e le reazioni, preventive
e successive, alla messa in
scena della Giacinta, mostrando come
essa ebbe un ruolo fondamentale
all’interno della “bibliografia teatrale”
di Capuana. Un’attenzione specifica
l’A. dedica anche alla registrazione
dei “viaggi scenici”, che l’opera
visse in quel 1888. Si va dalla rappresentazione
a Firenze (21 giugno
1888 al Teatro Arena Nazionale;
Compagnia di Cesare Rossi), dove
l’opera ottiene un discreto successo
anche se si continua a sottolinearne
l’immoralità, alla rappresentazione a
Messina (28 luglio 1888 all’Arena Peloro;
Compagnia di Giuseppe Pietroboni),
dove agli apprezzamenti si affiancano
critiche sulla debolezza del
dialogo tra i personaggi; dalla messa
in scena a Catania (25 agosto 1888 al
Teatro Nazionale; Compagnia di
Francesco Pasta), dove essa ottiene
un grande successo nonostante la
diffidenza preventiva, alla messa in
scena a Torino (13 ottobre al Teatro
Gerbino; Compagnia di Cesare Rossi),
dove forti sono gli attacchi per il
suo argomento “ripugnante”, fino ad
arrivare alla rappresentazione romana
(23 novembre 1888 al Teatro Valle;
Compagnia Rossi-Glech), dove della
commedia – ritenuta “audace” – si
sottolineano pregi e difetti.
Alla sezione Opere, la più consistente
del volume, segue, oltre a
un’utile tavola delle prime storiche
(p. 176, ma in tal senso si veda anche
l’altrettanto utile Bibliografia conclusiva
alle pp. 193-196), una parte dedicata
a Le riduzioni (pp. 177-192) e, in
particolare, a tre specifici testi: Morti
civili di Paolo Giacometti (pp. 177-
182), I fratelli Ficicchia (pp. 182-188) di
Émile Erckmann e Alexadre Chatrian
(titolo orginale: Les Rantzau) e Casa di
bambole di Henrik Ibsen (pp. 188-191).
Ci troviamo sicuramente di fronte a
un capitolo poco indagato della produzione
di Capuana. L’autore siciliano,
infatti, non solo elaborò propri
testi teatrali, ma si occupò anche della
traduzione e della riduzione scenica
di opere altrui. Oltre a quelle citate,
egli puntò l’attenzione anche su scritti
del citato Bracco (si veda, ad es.,
Una donna), di Carlo Bertolazzi (L’amico
di tutti), di Marco Praga (Alleluya),
di Adelaide Bernardini (Ammatula!,
Sangu bonu non menti, La so’ murali,
Di cosa nasci cosa). Per quanto riguarda
il primo caso, ci troviamo di
fronte a una prova particolarmente
398 recensioni recensioni 399
senso di meraviglia nella prima
quartina, che scompare nella costatazione
del bacio velenoso. Non solo
Nuovo, ma anche Antico Testamento
all’interno delle Rime sacre. In A Lucifero
si avverte la stessa drammaticità
del sonetto precedente, ma è presente
anche una risemantizzazione cristiana
della Gigantomachia e della
Titanomachia. Proprio nell’utilizzo
dei testi sacri Grassi rileva una tecnica
per creare drammaticità che distingue
Marino dal panorama poetico
sacro del suo tempo.
Chiara Coppin si sofferma sul tema
dell’invocazione a Dio che tra il
Settecento e l’Ottocento si sviluppa
nelle opere liriche a partire da Apostolo
Zeno, passando per Pietro Metastasio,
fino a giungere a Giuseppe
Verdi. Nelle opere di Zeno l’invocazione
è utilizzata per chiedere a Dio
di intervenire in questioni individuali
(David invoca Dio affinché plachi
la gelosia di Saul che lo perseguita),
ma anche in questioni che interessano
interi popoli (nel Gionata, Achinoam
esorta le donne ebree a pregare
affinché Dio li aiuti contro i Filistei),
entrando nella storia e facendosi Dominus
exercituum. Metastasio segue
l’esempio offerto da Zeno, ma supera
i confini biblici per dare spazio a
personaggi chiave solitamente in
ombra nelle Scritture, spesso donne,
come testimonia la centralità data a
Sara nell’Isacco, opera in cui la donna
diventa simbolo mariano attraverso
una rete di rimandi lessicali collegati
al momento dell’Annunciazione.
Punto centrale dell’evoluzione dell’invocazione
divina è il Mosè in Egitto
di Rossini su libretto di Andrea
Leone Tottola. Nel testo ricorrono
espressioni sia dai componimenti zeniani
che da quelli metastasiani, ma
vengono superati i confini del passato
e l’invocazione di Mosè si pone
come simbolo – poi risorgimentale –
del popolo oppresso che riesce ad
alzare la testa china. Risente di questo
clima Giuseppe Verdi nel Nabucco.
Nell’invocazione delle Vergini
che supplicano Dio si nota lo stesso
tono guerresco che animava le donne
ebree del Gionata di Zeno, arricchito
dal desiderio di lotta degli oppressi.
Filippo Fonio propone un percorso
tripartito nell’uso della preghiera da
parte di Gabriele D’Annunzio. Inizialmente
il poeta dimostra un uso
quiescente delle fonti, come nella creazione
del Martyre de saint Sébastien,
per il quale si rifà ad autori che fino a
quel momento non aveva mai utilizzato,
come Teresa d’Avila e Jacopone
da Todi. In un secondo momento, l’uso
quasi passivo delle fonti si trasforma
in interiorizzazione e adattamento
alla propria visione poetica. D’Annunzio
sviluppa una passione per
Francesco d’Assisi, probabilmente
sorta durante un viaggio nella città
del Santo intrapreso con la Duse e
Angelo Conti nel 1897. La sacralità si
trasforma in misticismo, il francescanesimo
non è puro, ma decadente.
Ne troviamo rimandi in Fuoco, in
particolare nella visita di Stelio e della
Foscarina al convento di San Francesco
del Deserto, visita intessuta di
rimandi francescani («Laudata sii pel
tuo viso di perla»). Chiude questa
parabola la declinazione patriottica
della preghiera che si esprime nella
Nave, richiesta di soccorso a Dio per
la restituzione dell’Adriatico.
Francesca Parmeggiani esamina il
rapporto con la preghiera nel teatro
di Giovanni Testori, in particolare in
Erodiade (1969) e nella “seconda trilogia”
composta da Conversazione con
Nel maggio del 2014 si è tenuto a
Zurigo il convegno annuale dell’American
Association for Italian Studies,
incentrato sul rapporto tra poesia e
preghiera e i cui saggi presentati per
gli atti sono stati raccolti in un numero
monografico della rivista «Testo».
Parte dalle origini Matteo Leonardi,
incentrando il suo interesse sul
rapporto intercorrente tra le prime
forme poetiche in volgare con il linguaggio
liturgico e l’innologia mediolatina,
un rapporto che si concretizza
attraverso volgarizzamenti, parafrasi
paraliturgiche e risemantizzazione.
In particolare, Leonardi dimostra come
i laudensi attinsero forme lessicali
dalla liturgia, ma anche immagini dal
repertorio formale delle rime cortesi
d’amor profano. L’utilizzo di forme
tipiche dell’innologia fu prassi anche
per gli scrittori di poesia didattica che
si affermarono nell’Italia settentrionale.
Questione essenziale nel ragionamento
di Leonardi è comprendere
perché questi scrittori, anche quelli
che diedero vita ad una poesia più
sentitamente intimistica, preferirono
parlare non solo con parole proprie.
La soluzione viene trovata in un desiderio
di trasfigurazione della parola
poetica in parola religiosa, quindi in
parola divina, che rendeva possibile
la fusione dell’io lirico con Dio.
Erminia Ardissino presenta il Pater
noster, unica preghiera insegnata da
Gesù, nella triplice declinazione offerta
da Federigo Fregoso, Gaspare
Ancarano e Tommaso Campanella.
La parafrasi di Fregoso (anche se di
vera e propria parafrasi non si può
parlare in quanto Fregoso rispetta la
struttura dell’ipotesto, ma adatta il
contenuto alla propria vita interiore)
è un capitolo in terza rima di 82 versi
in cui la poesia si fonde con la preghiera
che diviene resa totale alla divinità,
desiderio di farsi tutt’uno con
Dio. Diverso l’atteggiamento di Ancarano
che inizialmente, in due sonetti
del 1587, affida a Dio appellativi
militareschi o ne sottolinea la sua
umanità di “padre”. L’anno successivo,
tuttavia, scrisse un’opera dedicata
al Rosario e corredata da quindici
Pater noster. In essi Ardissino nota
l’importanza delle scelte lessicali
operate dallo scrittore; un esempio su
tutti può essere offerto dal panem nostrum
cotidianum e al relativo dubbio
che esso solleva di accezione materiale
o spirituale del pane. Ancarano risolve
il dubbio utilizzando termini
sinonimici che in base agli aggettivi
accostati guidano talvolta in direzione
materiale e altre in quella spirituale.
Nella Scelta di rime si collocano i
componimenti di Campanella, esattamente
una riscrittura e tre sonetti
detti “trigemini”. Se nella riscrittura
viene specificato che il pane è sia materiale
che spirituale, nei sonetti
Campanella utilizza la potenza delle
parole pronunciate da Cristo nella
sua preghiera per istaurare un nuovo
rapporto col Padre ed eliminare i vizi
e la corruzione dalla Chiesa.
Andrea Grassi esamina il riuso delle
tessere bibliche nella produzione
poetica dei primi anni dell’attività di
Giambattista Marino riconducibile
alle Rime sacre. Nel sonetto dedicato
all’incontro tra Cristo e Giuda, Grassi
dimostra un debito palese di Marino
nei confronti dei Vangeli di Luca e di
Matteo, ma il poeta si inserisce nel
secolare dibattito nato da quel «Amice,
ad quid venisti?» (Matteo 26, 50)
che pone dubbi sulla conoscenza del
tradimento da parte di Gesù. Marino
risolve in modo particolare questo
nodo problematico esprimendo un
400 recensioni recensioni 401
in particolare verso la sua ricca e feconda
stagione risorgimentale, non
ha ancora restituito un’immagine
completa della geografia policroma
della produzione culturale di questo
secolo. Esistono molte figure di intellettuali
ancora relegate, ingiustamente,
in un interesse localistico e regionalistico.
La versatilità della produzione
di molti di essi, che hanno sperimentato
la memorialistica, la storiografia,
l’oratoria, la poesia, la saggistica
spesso con uguale intensità,
ha probabilmente reso più complessa
e, direi, meno alacre, l’attenzione critica
degli specialisti. La mancanza, in
moltissimi casi, di edizioni critiche
dei testi, la rarità e la difficile reperibilità
dei manoscritti, in altri casi,
hanno fatto il resto. Non sorprende,
perciò, che una figura come quella
del «duca bianco», Sigismondo Castromediano
(Cavallino di Lecce, 20
gennaio 1811-26 agosto 1895), patriota,
scrittore e promotore di cultura, sia
rimasta pressoché nell’ombra fino
alla ristampa, per i tipi di Congedo,
delle sue Memorie e delle Carceri e galere
politiche, nel 2011 e, soprattutto,
fino al Convegno, svoltosi a Cavallino
di Lecce il 30 novembre-1 dicembre
2012, organizzato dall’Amministrazione
del comune salentino e dal
Centro studi «Sigismondo Castromediano
e Gino Rizzo».
Gli Atti del Convegno, pubblicati,
sempre per i tipi di Congedo, con la
curatela di Lucio Antonio Giannone
e di Fabio D’Astore, restituiscono oggi
un’immagine completa di Castromediano
e sollecitano finalmente
una maggiore attenzione critica nei
riguardi dell’uomo politico, quanto
dell’intellettuale. La densità di questo
volume è, infatti, il frutto di una
volontà onnivora d’indagine. Nessuna
delle peculiarità dell’intellettuale
Sigismondo di Castromediano risulta
trascurata; lo dimostra con evidenza
la scelta dei curatori di pubblicare
le relazioni non secondo l’ordine di
presentazione nelle sezioni, ma in
base ad un criterio cronologico, che
possa agevolare una corretta ricostruzione
diacronica delle vicende.
Ad aprire il volume, dopo i saluti
delle Autorità e l’introduzione ai lavori
dell’onorevole Gorgoni, è il contributo
di Ermanno Paccagnini, La
memorialistica risorgimentale: aspetti e
problemi. L’impegno letterario di Castromediano
si dispiega soprattutto
nel genere della memorialistica, che,
sin dal Settecento, aveva vissuto una
stagione particolarmente feconda.
L’intervento di Paccagnini ricostruisce
i luoghi, i tempi, i modi di diffusione
del genere ed i temi della memorialistica,
affiancando il nome del
Duca a quello degli altri memorialisti
risorgimentali, da Pellico a Confalonieri,
da Pallavicino a Cattaneo e
Nievo, Pisacane, Guerrazzi, Giusti,
Capponi, Tommaseo, Visconti, solo
per citarne alcuni.
Antonio Lucio Giannone dedica il
suo intervento all’Epopea risorgimentale
nel Sud: Castromediano e altri memorialisti.
Anche in questo caso la figura
di Castromediano emerge da
una pletora di nomi più o meno celebri
di patrioti e memorialisti meridionali,
il cui operato ed i cui scritti
giacciono ancora, in molti casi, negli
archivi e nelle biblioteche locali e private,
allontanando la critica da documenti
eloquenti per una più completa
ricostruzione del reale apporto dei
patrioti e degli intellettuali meridionali
alla causa risorgimentale.
Il contributo di Fabio D’Astore,
Passi inediti di un manoscritto delle Mela
morte, Interrogatorio a Maria e Factum
est. Possente è la violenza verbale
affidata ad Erodiade: la parola diviene
tutt’uno con la carne e la donna
grida contro un Dio che ha privato
Giovanni Battista del suo amore in
nome della fede. La forza del linguaggio
è centrale anche nella “seconda
trilogia”, dalla presa di coscienza
di determinate parole, come
la parola “morte” in Conversazioni
con la morte, fino alla transustanziazione
lessicale, della parola che diventa
carne in Interrogatorio a Maria,
in cui la Vergine, nell’accettazione
del proprio destino che è sintomo di
amore infinito e di infinita violenza,
assume una valenza sinonimica con
la protagonista del testo del 1969.
Silvia Chessa si dedica al rapporto
tra poesia e preghiera in due opere di
Maria Luisa Spaziani: La stella del libero
arbitrio e Giovanna d’Arco. Nella
raccolta di liriche è chiaro sin dal titolo
il rapporto ossimorico che si svelerà
nelle poesie, tra la stella, simbolo
di fede e il libero arbitrio. Ma la poesia
della Spaziani è una poesia imbevuta
di preghiera e di silenzio, esplicata
nei primi due versi della lirica
incipitaria: «Se uso la parola è per
pregarti/ di ascoltare il mio fondo
silenzio», in cui l’enjambement innesta
una particolare concatenazione
tra parola-preghiera-ascolto-silenzio.
Nella Giovanna d’Arco importante è
ancora una volta il linguaggio, in
particolare quello ibrido dell’arcangelo
Michele, simbolo della lotta
contro il male per antonomasia, che
informa la ragazza del suo destino. Il
poema si chiude con un’immagine di
fuoco che non è il fuoco del rogo
dell’ignoranza, bensì quello di un
angelo; è un fuoco purificatore che
permette alla Spaziani di stabilire un
parallelo con un altro celebre fuoco
purificatore, quello nel quale scompare
Arnaut Daniel alla fine del XXVI
canto del Purgatorio dantesco.
È interessante notare come il limite
di questo lavoro, già chiaramente affermato
nella parte introduttiva del
testo, continui a risuonare nella testa
del lettore ogni qualvolta egli si prepari
a leggere una nuova pagina.
Sorpreso si chiede dove sia Dante,
dove Petrarca – se non in brevi rimandi;
taciuto Manzoni, proprio nel
parlare di preghiera. In realtà queste
assenze non sono tali e il limite affermato
nelle prime pagine da Ardissino
non è, ad un’attenta riflessione,
un vero e proprio limite. Tenendo
sempre presente lo scopo del testo, è
innegabile che i trinomi Dante-Poesia-
Preghiera o Manzoni-Poesia-Preghiera
avrebbero comportato uno
slittamento dalle linee fondamentali
di questo lavoro che non pone l’accento
su accezioni strettamente monografiche,
bensì su direzioni intertestuali
volte a creare un input per
nuove trattazioni, nuove riflessioni
trasversali che riescano a superare
l’ostacolo dell’unidirezionalità autoriale,
intento nel quale il testo nel suo
insieme riesce alla perfezione.
Fara Autiero
Sigismondo Castromediano: il patriota,
lo scrittore, il promotore di cultura. Atti
del Convegno Nazionale di Studi
(Cavallino di Lecce, 30 novembre-1
dicembre 2012), a cura di A. L. Giannone
e Fabio D’Astore, Galatina,
Congedo, 2014, pp. 374.
L’interesse mai sopito da parte della
critica verso l’Ottocento italiano, e
402 recensioni recensioni 403
carte d’archivio, completano la ricostruzione
della figura di Sigismondo
Castromediano, chiarendone ulteriormente
la rete di rapporti, le passioni,
la formazione culturale. Rosellina
D’Ape, nel suo Un contributo alla
storia di Terra d’Otranto: i Castromediano
di Lymburg e la loro memoria storica,
propone un viaggio nell’Archivio
della famiglia Castromediano di Lymburg,
che contiene, tra l’altro, il fondo
del duca Sigismondo.
Alessandro Laporta, in Sigismondo
Castromediano e la sua biblioteca, servendosi
degli autori e delle opere citate
negli scritti di Castromediano,
ne ricostruisce la biblioteca virtuale,
chiarendone ulteriormente la facies
culturale.
Nell’ultimo intervento del volume,
Notizia intorno al recupero di un manoscritto
delle Memorie di Sigismondo
Castromediano, Luigi Montonato dà
conto
del ritrovamento del manoscritto
autografo, testo base per l’edizione
del 1895, delle Memorie del duca,
che, in possesso della dott.ssa
Luciana Scardia, è finalmente tonato
in Salento. Con questo ritorno “a casa”
si chiude il volume, che assume,
perciò, l’aspetto di un affascinante
viaggio tra le memorie di un uomo
del Sud, che si intersecano inevitabilmente
con quelle dell’Italia.
Daniela De Liso
Rina Durante. Il mestiere del narrare.
Atti del Convegno Nazionale di Studi
Melendugno-Lecce, 18-19 Novembre
2013, a cura di Antonio Lucio Giannone,
Lecce, Milella, 2015, pp. 264.
L’attività letteraria di Caterina Durante
si è mossa dichiaratamente su
alcune direttrici (la miseria, il processo
di cambiamento, il contatto con il
passato) perfettamente inquadrate
dagli studiosi nel corso del Convegno
Nazionale di Studi Melendugno-
Lecce tenutosi a distanza di nove
anni dalla sua scomparsa e trasformatosi
poi in un volume che a
partire dal titolo, Il mestiere del narrare,
chiarisce la strada da battere nella
comprensione del concetto di letteratura
elaborato dalla scrittrice. La raccolta
di saggi si pone nell’insieme
come un valido strumento di approccio
per analizzare l’attività della
scrittrice meridionale.
Apre il volume Goffredo Fofi sottolineando
uno degli aspetti più importanti
della narrativa della Durante,
la sua inclinazione verso una letteratura
non di denuncia, ma di constatazione
di uno stato di miseria
che pervadeva il Salento postbellico,
senza turisti, quello del “prima” della
Notte della Taranta. È il riscatto
dalla fame uno dei temi principali
del racconto Tramontana, in cui il sacerdozio
si configura come unica via
di scampo dalla miseria. Impossibile
non istituire un parallelo con la trasposizione
cinematografica di Adriano
Barbano che, seppur scostandosi
dal racconto per alcuni particolari,
riesce a rendere magistralmente la
forza del paesaggio descritto dalla
Durante. Il paesaggio è ancora centrale
nel racconto La liana arborea esaminato
da Alessandro Leogrande,
non più il paesaggio fisso di Tramontana,
ma soggetto ad una persistente
trasformazione. Il mutamento anima
le pagine di Vittorio, racconto che la
Durante dedicò all’amico Vittorio
Pagano, nel quale si esprime con forza
il mondo intellettuale della periferia
in un’Italia che, amaramente,
morie di Sigismondo Castromediano, entra
nel vivo dell’opera, apparsa nel
1895, in cui il Duca ricostruisce gli
eventi che vanno dal 1848 al 1859, il
periodo, cioè, di reclusione nelle
peggiori galere borboniche. D’Astore
esamina alcuni passi inediti delle
Memorie e si interroga sul ruolo di esse
nel panorama della memorialistica
ottocentesca, sottolineando la distanza
cronologica tra la data di apparizione
del testo e la sua ideazione.
Al periodo torinese, successivo alla
prigionia, del Castromediano, dal
1859 al 1865, è dedicato il contributo
di Alessandra Morcellan, Sigismondo
Castromediano e il salotto della famiglia
Savio.La figura di Castromediano appare
qui inserita nel vivace ambiente
sabaudo del tempo e, in particolare,
nel milieu del salotto della famiglia
Savio, frequentato da poeti, scrittori,
diplomatici e politici.
Nel 1861 Sigismondo Castromediano
viene eletto deputato, nel Collegio
di Campi salentina, del primo
Parlamento del Regno d’Italia. Il contributo
di Salvatore Coppola, L’attività
politico-parlamentare di Sigismondo
Castromediano dopo l’Unità d’Italia
(1861-1865), ricostruisce i momenti
di questa attività parlamentare, che
vide il Duca impegnato soprattutto
nell’approvazione di alcuni disegni
di legge relativi all’economia della
Terra d’Otranto.
Durante il periodo parlamentare
ha luogo anche la disputa con il compositore
e drammaturgo salentino
Beniamino Rossi, i cui termini sono
esaminati dal contributo di Emilio
Filieri, Barone Rossi vs Duca Castromediano.
Una polemica, due patrioti e sei
lettere inedite. Nel suo contributo Filieri
ricostruisce il progressivo mutamento
dei rapporti tra i due patrioti,
attraverso la proposta di analisi di
sei lettere del Rossi a Castromediano,
degli anni 1861-1863.
A conclusione del mandato parlamentare
Castromediano torna nel
Salento, dove resterà fino alla morte,
nel 1895. La delusione per un’attività
politica che non aveva soddisfatto le
aspettative del patriota trova la sua
cura nell’alacrità di un impegno instancabile
di promozione culturale,
indagato da molti contributi, come
quello di Paolo Agostino Vetrugno, Il
bene pubblico come bene comune in Sigismondo
Castromediano, in cui l’autore
ricostruisce, servendosi di documenti
d’archivio, alcuni momenti dell’impegno
del Duca per la sua terra, culminati
nell’istituzione della Commissione
conservatrice dei patri monumenti
e nella fondazione del Museo
Provinciale di Terra d’Otranto.
Altro aspetto importante del ruolo
di Castromediano come animatore
culturale della sua terra è, senza
dubbio, l’impegno da lui profuso nel
riordino ed ammodernamento delle
istituzioni scolastiche della provincia
di Lecce, di cui si occupa l’intervento
di Andrea Scardicchio, «Scuoter le
masse dall’ignoranza e nutrirle col pane
del sapere». La battaglia pedagogica di
Sigismondo Castromediano (con lettere
inedite di Luisa Amalia Paladini).
Ad una singolare operazione culturale
compiuta dal nostro Duca nel
1875 è, poi, dedicato il contributo di
Marco Leone, Castromediano volgarizzatore
del Boccaccio. Marco Leone esamina
la traduzione in dialetto leccese
di una novella di Boccaccio (I, 9), evidenziando
la curiosità di Castromediano
per la letteratura, in particolar
modo dagli accenti popolari.
L’ultima sezione del volume ospita
tre contributi, che, indagando nelle
404 recensioni recensioni 405
significato il cambiamento del nome
da Melendugno, città della dolcezza,
delle api e del miele, a Malandrino,
rifugio per i furfanti.
Alla memoria dell’Albania e di Saseno
si dedica Giovanna Scianatico.
L’isola, quasi luogo magico nella quale
la Durante trascorse la sua infanzia,
non è solo paesaggio idilliaco
fissato nei ricordi, ma occasione per
parlare delle difficoltà politiche, dell’Italia
e dell’Albania.
Maria Teresa Pano si occupa dell’attività
giornalistica della pugliese
che, nonostante la tenne occupata
per circa quarant’anni, non divenne
mai mestiere in quanto centrale è
sempre il desiderio di narrare, desiderio
che fece della Durante una
scrittrice-giornalista.
A partire dalla composizione della
ballata La quistione meridionale, Franco
Martina indaga il “nuovo” meridionalismo
della Durante, riflettendo
sul particolare significato che ella
diede al mestiere di scrittore, chiaramente
esplicato in un episodio de Il
sacco di Otranto in cui lo scrittore viene
definito come «colui che guarda le
cose con attenzione».
Alla politica e all’interesse antropologico
sono dedicati i tre interventi finali.
In particolare, Gino Santoro esamina
l’idea della letteratura come impegno
civile, ravvisabile nell’interesse
per il paesaggio in trasformazione e
per il folk. Massimo Melillo descrive
l’iter politico della scrittrice, il passaggio
dal PSI al Partito Comunista, il bisogno
di raccontare il Sud, le lotte operaie,
gli scioperi. Carlo Alberto Augieri
si sofferma sul “come” narrativo
della Durante, un “come” che trasforma
lo scrittore in uno scrutatore dallo
sguardo attento e incuriosito, che sa
dare giusta attenzione ai dettagli marginali,
proprio quei dettagli che fanno
grande la grande letteratura.
Fara Autiero
da “affamata” si è tramutata in “famelica”.
Ad Antonio Lucio Giannone, curatore
del testo, spetta l’analisi di Malapianta.
Partendo dalle impressioni
che Vittorini ebbe sul romanzo, di un
tipo di scrittura e di temi ormai datati,
Giannone propone una rilettura
del testo in chiave estremamente moderna,
allontanandosi dai limiti della
“questione meridionale” e dimostrando
come i personaggi del romanzo
siano afflitti da un’incomunicabilità
e un conflitto con la realtà e
come anche il paesaggio, correlativo
oggettivo della generale mancanza
di sentimenti, sia soggetto ad un possente
e quanto mai moderno sprofondare:
di cose, persone, affetti.
Nell’analisi del radiodramma Il
sacco di Otranto Beatrice Stasi presenta
un confronto tra il testo della Durante,
L’ora di tutti di Maria Corti e le
versioni popolari della Tragedia di
Roca. Da tale confronto è possibile
cogliere, nella versione della Durante,
il ruolo fondamentale della traslitterazione
dialettale per rafforzare lo
spessore caratteriale dei personaggi
e un generale inaridimento della vena
religiosa. Ancora centrale nella
relazione di Eugenio Imbriani è la
rappresentazione della Tragedia di
Roca, stavolta in Tutto il teatro a Malandrino.
In un episodio in cui la Durante
ricorda la realizzazione di un
documentario televisivo che il regista
Corrado Sofia attuò con la sua
collaborazione, ciò che risalta maggiormente
è il significato della trasformazione,
non più paesaggistica,
ma sociale, di cui il televisore è il
simbolo rivelatore, passaggio obbligato
dell’ascesa sociale.
Simone Giorgino si dedica alla ricostruzione
del periodo che intercorre
dall’esordio poetico de Il tempo
non trascorre invano (1951), fino alla
fine degli anni ’60, quando la scrittrice
concluse la sua collaborazione con
la rivista «Il Critone», sottolineando
come l’esperienza poetica fu propedeutica
a quella narrativa, segnando
il passaggio dall’intimismo lirico
all’apertura verso gli altri, con l’assunzione
della letteratura come strumento
di lotta politica. Fabio Moliterni
analizza l’attività letteraria apparsa
sui quotidiani o i periodici nel
decennio 1963-1973. Filo conduttore
di questi racconti è l’attenzione per i
perdenti, gli smarriti, gli emarginati,
raccontati non con commiserazione,
ma con tono grottesco. L’interesse
antropologico della scrittrice risalta
anche nel resoconto di Raffaella
Aprile, incentrato sull’interesse della
Durante per la Grecìa Salentina che
si concretizza nella creazione del
Canzoniere Grecanico Salentino, un
gruppo di musica folklorica. Il ricordo
del passato che rivive solo tramite
il folklore, la forza devastante della
modernità e la solitudine sono alcune
delle direttrici tematiche fondamentali
nella produzione della Durante
e che Patrizia Guida esalta nell’analisi
dei racconti de Gli amorosi
sensi, fino a scoprire le paure della
scrittrice, paura per una letteratura
che si è trasformata in inganno, che
non parla perché non ha orecchie che
possano ascoltare.
Emilio Filieri si dedica a Tutto il teatro
a Malandrino, collegando quel
paese che “deve” andare in scena e
interpretare la Tragedia di Roca con il
desiderio di narrare che la Durante
dimostra d’avere sin da bambina sull’isola
di Saseno. Dietro Malandrino,
naturalmente, si nasconde la città
della Durante, Melendugno. Pieno di
LIBRI RICEVUTI
Barberi Squarotti Giorgio, Le voci e il silenzio, Catanzaro, la Rondine,
2016, pp. 430.
Campailla Sergio, Wanted. Benjamín Mendoza y Amor. Il pittore che
attentò alla vita di Papa Paolo VI, Venezia, Marsilio, 2016, pp. 360.
Comoy Fusaro Edwige, Poliorama. Le immagini di Carlo Dossi, Paris,
Editions Chemins de Tr@verse, 2015, pp. 394.
Cum fide amicitia. Per Rosanna Alhaique Pettinelli, a cura di S. Benedetti,
F. Lucioli, P. Petteruti Pellegrino, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 634.
di Martino Virginia, Tra cielo e inferno. Arrigo Boito e il mito di Faust,
Pisa, edizioni ETS, 2016, pp. 140.
Granese Alberto, «Per guisa d’orizzonte che rischiari». Florilegio degli
scritti, a cura di A. Fàvaro e C. Santoli, con un saggio di Rosa Giulio,
“Un percorso intellettuale”, Avellino, Biblioteca di Sinestesie, 2015, pp.
382.
Il teatro fra scrittura e pratica della scena. Per Franco Carmelo Greco, a
cura di P. Sabbatino e G. Scognamiglio, Napoli, Esi, 2015, pp. 284.
Letteratura italiana dalmata. Atti del Convegno Internazionale Trieste,
27-28 febbraio 2015, a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi, Pisa-
Roma, F. Serra editore, 2016, pp. 498.
Moscariello Carmen, Destini sincronici. Amelia Rosselli e Rocco Scotellaro
con lettere di Rocco Scotellaro a Michele Prisco. Prefazione di Annella
Prisco, introduzione di Aniello Montano, Napoli, Guida editori, 2015, pp.
140.
Non di tesori eredità. Studi di Letteratura italiana offerti ad Alberto Granese.
Introduzione e cura di Rosa Giulio, Napoli, Guida editori, 2015, 2
tomi, pp. 1192.
Orioles Filippo, Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù, ed. critica a
cura di S. Bancheri con la collaborazione di Johnny L. Bertolio, Toronto,
Legas, 2015, pp. 170.
Piccolomini Alessandro, I cento sonetti, a cura di Franco Tomasi,
Genève, Librairie Droz, 2015, pp. 378.
Quasimodo Salvatore, Il falso e il vero verde. «Le ore» 1960-1964. Introduzione
e cura di Carlangelo Mauro, pref. di G. Rando; interventi di E.
Candela, A. Quasimodo, S. Mastroeni, Avellino, Sinestesie, 2015, pp.
XCIV+438.
Rando Giuseppe, Nei pressi dell’Infinito e altri saggi leopardiani. In appendice
l’edizione critica dell’Orazione Agl’Italiani di Giacomo Leopardi,
Ariccia (Roma), Aracne, 2015, pp. 332.
Sabbatino Pasquale, Scritture e atlanti di viaggio. Dal Medioevo al Novecento,
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Sanfilippo Maria Valeria, La fortuna scenica di Luigi Capuana, Caltanissetta-
Roma, Sciascia, 2015, pp. 208.
Staffa Francesco Maria, Delle traduzioni dal greco in latino fatte da
Gregorio e da Lilio Tifernati, a cura di John Butcher, Sansepolcro (Pg), Biblioteca
del Centro Studi “Mario Pancrazi”, 2016, pp. 60.
Tuscano Pasquale, Assisi nella civiltà delle lettere. Indagini e letture di
storia letteraria e civile da Properzio ai giorni nostri, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2016, pp. 448.
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caporali (« »); le citazioni lunghe (quelle che superano le due righe)
saranno trascritte con rigo più corto (rientro a destra), giustificato a
destra, senza virgolettatura iniziale e finale, nello stesso corpo e carattere.
Es.:
Eppure non aveva ancora «letto la lettera rosa, che aveva trovato sulla
poltrona» quando decise di uscire alla ricerca della donna.
Es.: Un concetto che è ribadito ancora a 12, 23:
Perciò quanti vissero ingiustamente nella stoltezza della vita, e in
ogni altro vituperio umano, contrario ad ogni fede religiosa, subirono
processi che durarono talora anche venti anni.
d. Le citazioni di versi: se pochi, vanno tra virgolette basse, con la barretta
di separazione / tra ogni verso; se molti, vanno incolonnati, senza
virgolettatura, allineati a sinistra e messi a centro della pagina.
Es.:
C on questo atto hanno superato il centro «’l punto/ al qual si traggon
d’ogne parte i pesi».
Es.: La risposta contiene la presentazione dello spirito:
R ispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
(If I, vv. 67-69).
e. U na citazione all’interno di un’altra citazione va posta tra virgolette
alte: «Ancora si ritiene che “il frutto ultimo” della critica dantesca…».
L’omissione anche di una parola, all’inizio o all’interno della citazione,
va indicata con l’inserimento di tre punti tra parentesi quadre: […].
g. Il punto chiude qualsiasi periodo, sia nel testo che nelle note. Quindi a
fine periodo il punto segue eventuale numerazione delle note.
★ ★ ★
Nella stesura delle note l’autore è tenuto, altresì, al rispetto delle seguenti
norme:
• Il cognome dell’autore, preceduto dall’iniziale del nome, va in maiuscoletto:
P. Giannantonio, Endiadi, Firenze, Sansoni, 1983.
Anche in citazioni successive il cognome deve essere sempre preceduto
dall’iniziale del nome ed in maiuscoletto.
• Il curatore o i curatori di un volume vengono indicati con l’iniziale del
nome ed il cognome in maiuscoletto.
• I titoli delle opere vanno in corsivo, sia se sono citati nel testo, che
nelle note.
• L’indicazione delle notizie tipografiche di ogni volume va in questo
ordine con inserimento della virgola: luogo, editore, anno (Napoli,
Loffredo, 2002). L’editore va sempre indicato; in sua essenza si fa riferimento
alla tipografia stampatrice.
• In note successive: quando l’autore di un testo è lo stesso della nota
precedente, invece di ripetere il cognome dell’autore in maiuscoletto,
si usa Id. [per autore maschile], Ead. [per autrice]. Le abbreviazioni
vanno sempre in maiuscoletto.
• I titoli di articoli o di capitoli di volumi vanno in corsivo.
Non utilizzare mai l’espressione AA. VV. per indicare Autori vari.
Quando si cita un volume scritto da tre o più autori si indicano solo i
curatori [perché un volume del genere deve avere necessariamente almeno
un curatore!].
Es: C’era una volta la Terza pagina. Atti del Convegno Napoli, 13-15
maggio 2013, a cura di D. De Liso e R. Giglio, Firenze, Franco Cesati,
2015.
Pertanto la citazione di un intervento apparso in un volume miscellaneo
[scritto da più autori e coordinato da curatore/i] va fatta in questo
modo:
Es: R. Melis, Il «Corriere del Mattino» verso la Terza pagina, in C’era una
volta la Terza pagina. Atti del Convegno Napoli, 13-15 maggio 2013, a
cura di D. De Liso e R. Giglio, Firenze, Franco Cesati, 2015, pp. 65-
107.
• Quando occorre citare un articolo apparso in un volume miscellaneo
scritto dallo stesso autore si procede così:
Es: R. Giglio, Il canto del perdono, in Id., La poesia del ricordo e del perdono.
Altri interventi su Dante e sui suoi lettori, Napoli, Loffredo,
2007, pp. 35-65.
• Di un volume va in corsivo solo il titolo. Eventuale sottotitolo va riportato
[come nell’esempio precedente] in tondo.
• Nei riferimenti, dare solo la pagina o le pagine a cui si rinvia.
• L’indicazione delle pagine prevede sempre l’indicazione delle decina:
es: pp. 15-18; 25-26; o anche della centinaia: es: 128-129; 157-159.
• Quando si cita da un’opera in più volumi o tomi, l’indicazione del
volume va posta prima del rinvio alle pagine:
Es: R. Giglio, Una probabile fonte biblica per il “contrapasso” dantesco,
in Munera parva. Studi in onore di Boris Ulianich, a cura di G.
Luongo, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 1999, I, pp.
4-19.
• Le testate di riviste o di quotidiani vanno tra virgolette basse « »; la
testata non è preceduta da in; es: G. Barberi Squarotti, Il paesaggio di
Soffici, «Critica letteraria», XXIX (2001), n. 111, pp. 303-315.
La citazione dei saggi su riviste richiede l’indicazione dell’annata della
rivista, seguita in parentesi tonde dell’anno solare; poi il numero di catena
della stessa e le pagine. Si veda l’esempio precedente. Nelle riviste
che indicano il numero di catena ed il fascicolo è superfluo indicare anche
il fascicolo [vedi esempio precedente]. Quando, invece, la rivista non indica
il numero di catena, occorre indicare il numero del fascicolo: es: D.
Falardo, Giuseppe Maria Galanti, «Misure critiche», n. s. XIII (2014), n. 2,
pp. 5-47.
Nell’esempio precedente compare la sigla n.s. per indicare, come avverte
la rivista, che essa è la “nuova serie” della testata precedente.
• La numerazione delle note deve essere progressiva nell’ambito di ogni
capitolo ed essa precede il segno della punteggiatura. Pertanto ogni
capitolo ha la propria numerazione delle note: la prima inizia con 1.
• Il numero dell’edizione di un volume va in esponente e precede il segno
di punteggiatura: 20024.
Nelle note non si indica l’anno della prima edizione di un’opera quando
di essa si cita la terza o quarta edizione; né si indicano i traduttori
di opere straniere.
Altre norme da rispettare nella creazione delle note:
• La citazione di un volume, già citato in precedenza, richiede l’indicazione
dell’autore: iniziale nome e cognome (in maiuscoletto), titolo
del volume e cit.; es:
A. Vallone, La condizione impiegatizia nel romanzo italiano contemporaneo,
cit., p. 15 [o pp. 15-18].
• La citazione del medesimo volume in note successive:
– se la citazione è contenuta nello stesso volume citato nella nota precedente,
ma in una pagina diversa, si usa Ivi seguito dall’indicazione
della pagina o delle pagine: es: Ivi, p. 18 [o Ivi, pp. 16-19].
– se la citazione è contenuta nello stesso volume e nella/e
medesima/e pagina/e indicata/e nella nota precedente, si usa Ibidem
senza altra indicazione.
– per un’opera (in genere un testo di un autore), che viene citata
spesso, si adopera una sigla indicante l’opera; la sigla viene indicata
tra parentesi quadra dopo la prima citazione dell’opera nelle
note; es: [d’ora in poi citata ROS].
• Utilizzare le seguenti abbreviazioni:
capitolo/i= cap. /capp.
carta/e= c./cc.
edizione= ed.
introduzione= introd.
manoscritto/i= ms./mss.
numero/i= n./nn.
pagina/e= p./pp.
prefazione= pref.
seguente/i= seg./segg.
tomo/i= t./tt.
traduzione= trad.
verso/i= v./vv.
volume/i= vol./voll.
• Utilizzare le seguenti sigle [si ricorda che le sigle non hanno il punto
finale]:
confronta= cfr / Confronta= Cfr
Inferno= If
Purgatorio= Pg
Paradiso= Pd
Altre ESEMPLIFICAZIONI:
Citazione di un volume moderno:
G. Petrocchi, La selva del protonotario. Nuovi studi danteschi, Napoli,
Morano, 1988.
Citazione di una seconda, terza edizione, etc. di volume moderno:
A. Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli
fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 19873.
Citazione di un volume antico privo dell’editore:
La tiorba a taccone de Felippo Sgruttendio De Scafato, Napoli, Presso
Giuseppe Maria Porcelli, 1788.
Citazione di un volume, con curatela:
Contessa Lara, Tutte le novelle, a cura di C. Moreni, Roma, Bulzoni,
2002.
Citazione di una prefazione da un volume:
R. Giglio, Prefazione a G. Fallani, La letteratura religiosa in Italia. Postilla
novecentesca e note di C. Riccio, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 7-12.
Citazione di un saggio compreso in un volume di più autori:
R. Giglio, Una probabile fonte biblica per il “contrapasso” dantesco, in Munera
parva. Studi in onore di Boris Ulianich, a cura di G. Luongo, Napoli,
Fridericiana Editrice Universitaria, 1999, I, pp. 4-19.
Citazione di un saggio compreso in un volume dello stesso autore del
saggio:
P. Giannantonio, Il prologo (Inferno, I), in Id., Endiadi. Dottrina e poesia
nella “Divina Commedia”, Firenze, Sansoni, 1983, pp. 79-87.
Citazione di un saggio da una rivista:
G. Barberi Squarotti, Il paesaggio di Soffici, «Critica letteraria», XXIX
(2001), n. 111, pp. 303-315.
Citazione di un articolo apparso su un quotidiano:
F. Piemontese, Striano inedito, «Il Mattino» (Napoli), 17 aprile 2000.
CODICE ETICO
DI
«CRITICA LETTERARIA»
1. Doveri del direttore responsabile e del comitato direttivoscientifico
La rivista «Critica letteraria» si avvale di un Comitato direttivo-scientifico
italiano ed internazionale. Il coordinamento del lavoro è affidato al
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di Napoli, dove la rivista è registrata con autorizzazione n. 2398 del
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il responsabile e nomina i redattori che ritiene idonei al funzionamento
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criticaletteraria.net.
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ed alla Comunità scientifica internazionale la responsabilità di ogni
articolo pubblicato.
I membri del Comitato direttivo-scientifico sono vincolati al rispetto
delle disposizioni vigenti in materia di diffamazione, plagio e copyright.
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del credo religioso, né dell’orientamento sessuale, né del ruolo accademico,
né del credo politico dell’Autore.
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notizie sui saggi pervenuti per la pubblicazione e a non esprimere qualsivoglia
giudizio sul contenuto se non allo stesso Autore attraverso il Direttore
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Ogni altra forma di comunicazione con l’Autore è affidata al Direttore
responsabile.
I membri del Comitato direttivo-scientifico ed i Revisori anonimi non
possono utilizzare neppure nelle citazioni bibliografiche il contenuto dei
saggi se non dopo l’avvenuta pubblicazione.
Il Direttore responsabile s’impegna alla distruzione di ogni file che non
abbia avuto giudizio positivo dai due Revisori; altresì è obbligato alla distruzione
dei file degli articoli pubblicati.
2. Revisori e loro doveri
Secondo la tradizione storica di «Critica letteraria» i Revisori sono anonimi;
essi scelgono uno pseudonimo con il quale firmano il giudizio, che è
reso noto ai membri del comitato direttivo-scientifico quando viene richiesto
ed in forma succinta all’Autore del saggio. Queste comunicazioni
sono affidate al Direttore responsabile della rivista.
I Revisori, pur ricevendo i files dei saggi privi del nome dell’Autore,
s’impegnano, qualora per altri motivi scientifici riescano a risalire alla figura
dell’estensore del saggio, a non entrare in contatto con lui né a comunicargli
l’esito della valutazione.
L’elenco delle corrispondenze degli pseudonimi con i cognomi dei Revisori
è in possesso del Direttore responsabile, che può renderlo noto solo
alle figure istituzionali incaricate della valutazione della rivista.
Nell’ultimo fascicolo di ogni annata il Direttore responsabile pubblica
sia sulla rivista cartacea sia sul sito telematico della rivista il referaggio
dell’anno concluso.
I Revisori anonimi, una volta accettato l’incarico, s’impegnano a espletare
il loro compito con obiettività, rispettando la metodologia dell’Autore
del saggio, e a consegnare al Direttore responsabile il loro giudizio entro
tre mesi dalla ricezione del file da valutare.
I Revisori s’impegnano altresì a non trasmettere ad altri i files ricevuti in
lettura e a distruggerli dopo aver esaurito il loro compito.
Il giudizio dei Revisori deve essere sempre accompagnato da una circostanziata
relazione con riferimenti al contenuto; sarà cura del Direttore
responsabile trasmettere poi all’Autore in forma succinta il giudizio solo
qualora esso fosse negativo.
I Revisori s’impegnano a non utilizzare i giudizi espressi sugli Autori dei
saggi per fini personali.
3. I collaboratori
Gli Autori dei saggi (definiti anche Collaboratori) s’impegnano a fornire
alla rivista «Critica letteraria» per la valutazione un prodotto originale,
di cui posseggono i pieni diritti editoriali, confermando che esso è inedito
e che non è stato inviato in lettura ad altre riviste contemporaneamente.
Ogni Autore si assume la piena responsabilità del contenuto impegnandosi
a rispettare tutte le norme vigenti in materia di diffamazione, plagio e
copyright.
Ogni Autore s’impegna ad applicare al proprio saggio tutte le norme
redazionali della rivista, pubblicate sul sito on-line: www.criticaletteraria.
net e ad accettare i tempi di pubblicazione stabiliti dalla redazione, che
possono essere procrastinati rispetto alle indicazioni iniziali, in base ad esigenze
editoriali.
I collaboratori s’impegnano a non pubblicare in volume il saggio apparso
su «Critica letteraria» prima di sei mesi dalla data dell’avvenuta pubblicazione
sul fascicolo della rivista. L’Autore deve fare esplicita richiesta al
Direttore responsabile che ne darà il consenso in sintonia con l’Editore.
Non è consentita la ripubblicazione del saggio, anche in forma ridotta o
ampliata, utilizzando il PDF dell’estratto, in siti informatici, seppure collegati
a struttura universitaria o scientifica, sia essa italiana o straniera.
L’Autore non ha diritto ad alcun compenso economico per la pubblicazione
del saggio, conferendo all’Editore della rivista ogni sfruttamento
economico per la sola stampa del fascicolo in cui esso appare o in ogni ristampa
futura del fascicolo, con tutte le modalità e le tecnologie attualmente
esistenti e future.
Ogni autore, in piena coscienza, nel rispetto del lavoro scientifico di altri,
s’impegna ad un comportamento etico, citando le fonti bibliografiche,
anche parziali, ed orali, dalle quali ha ricavato vantaggio culturale e scientifico
per la redazione del proprio saggio. Pertanto l’Autore s’impegna a
citare anche le fonti on-line utilizzate riportando l’esatto indirizzo telematico.
Nel pieno rispetto della circolazione internazionale del lavoro scientifico
l’Autore s’impegna ad affidare al proprio saggio tutti i risultati della relativa
ricerca, obbligandosi alla citazione di fonti anche manoscritte, senza
alcuna preclusione alla diffusione del proprio risultato.
L’Autore nell’affidare il proprio lavoro alla rivista deve preventivamente
dichiarare se esso è stato presentato ad un Convegno; in caso affermativo
l’Autore s’impegna a concederlo per una eventuale pubblicazione degli
atti congressuali solo dopo tre mesi dalla pubblicazione in rivista.
Napoli, 20 dicembre 2014
Il Direttore Responsabile L’Editore
Prof. Raffaele Giglio Paolo Loffredo