Anno XLIII (2015), Fasc. II, N. 167

Anno XLIII (2015), Fasc. II, N. 167

  1. Saggi
    • Luca Torre

      Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia: pratiche del petrarchismo in un centro “minore” del
      secondo Cinquecento
      – pp. 195-228

      Tra le Rime di diversi signori napoletani e d’altri, stampate a Venezia presso Gabriel
      Giolito de’ Ferrari nel 1556 con le cure di Ludovico Dolce, appare per la
      prima volta un compatto gruppo di non sprovveduti rimatori capuani, tra cui è
      possibile ricostruire un sistema di dialogo intellettuale nell’ambito del quale
      svolsero la loro formazione i più celebri concittadini Giovan Battista Attendolo
      e Camillo Pellegrino. Tra i poeti presenti nella giolitina del ’56, infatti, figura
      anche un giovane Pellegrino, colui che con la pubblicazione del dialogo Il Carrafa
      (1584) avrebbe più tardi innescato la nota polemica sul poema tassiano e
      sulla natura dell’epica poesia.

      In the Rime di diversi signori napoletani e d’altri (Venice, Presso Gabriel Giolito de’
      Ferrari, 1556, ed. Ludovico Dolce) there appears for the first time a compact
      group of Capuan rhymers amongst whom it is possible to reconstruct a system
      of intellectual dialogue within which the well-known fellow citizens Giovan
      Battista Attendolo and Camillo Pellegrino received their education. Indeed,
      among the poets to be found in the 1556 Giolito edition there features the young
      Pellegrino, who through the publication of his dialogue Il Carrafa (1584) was
      destined to trigger off a renowned controversy over Tasso’s poem and the nature
      of epic verse.

    • ADRIANO FRAULINI

      Da Leopardi a Montale: la tecnica in prospettiva – pp. 229-254

      S’intende verificare l’assunto per cui Leopardi per primo vede con chiarezza
      quanto l’essere umano sia addentro all’età della tecnica, rovesciando il rapporto
      consequenziale tra conoscenza e felicità. D’altra parte Montale, difensore
      strenuo dei valori del singolo individuo dalle errate convinzioni del Novecento
      rappresentate da tecnicismo e regimi totalitari, può intendersi come punto
      d’approdo della forma mentis inaugurata dal punto di vista leopardiano.

      This essay aims at verifying the assumption which considers Leopardi as the
      first to clearly see how human beings are deeply tangled in the age of techne,
      thus reversing the consequential relationship between knowledge and happiness.
      On the other hand Montale, a staunch advocate of single individuals’ values
      against the misconceptions of the twentieth century represented by technicality
      and totalitarian regimes, can be considered as a landing point of the forma
      mentis inaugurated by Leopardi.

    • Achille Castaldo

      Sguardo su un mondo in rovina: percorso nell’opera espressionista di Marcello Gallian – pp. 255-269

      Marcello Gallian è stato uno dei principali esponenti dell’avanguardia letteraria
      romana degli anni Trenta. La sua opera, da molti definita barocca ed espressionista,
      è oggi quasi del tutto dimenticata, per la scarsità di riedizioni e analisi
      critiche. Il presente saggio si propone di esaminare in modo esaustivo le caratteristiche
      strutturali della narrativa di questo autore e di fornire un’interpretazione
      accurata della sua figura.

      Marcello Gallian was one of the major exponents of the literary avant-garde in
      Thirties Rome. His writing, considered by many to be baroque and expressionist,
      has been almost entirely forgotten through the lack of new editions and
      critical readings. This essay aims to examine in detail the structural characteristics
      of Gallian’s fiction and to offer an accurate elucidation of the writer.

    • Natalia Manuela Marino

      Angiò uomo d’acqua. Deformazione espressionista in un romanzo di Lorenzo Viani – pp. 270-286

      Il contributo si propone di affrontare il tema della deformazione in Angiò uomo
      d’acqua (1928). Il romanzo, che segna il culmine dell’esperienza letteraria di Lorenzo
      Viani, si manifesta in termini tipicamente espressionisti: sul versante della
      sintassi, come commistione di diversi linguaggi, dilatazione semantica e dissoluzione
      degli enunciati; sul piano della narrazione, come rappresentazione di
      scenari devastati, di personaggi straziati nel corpo e degradati nella psiche.
      Analizzando alcune sezioni del testo, si osserverà giungere la deformazione a
      sovvertire in maniera clamorosa l’istanza impressionista di acquisizione schietta
      delle immagini apparenti, torcendola in chiave grottesca e onirica.

      The essay deals with the theme of deformation in Lorenzo Viani’s Angiò uomo
      d’acqua (1928). The novel, wich marks the culmination of Viani’s literary experience,
      manifests itself in typically expressionists therms: on the aspect of syntax,
      as several language medleys, semantics expansions and dissolution of sentences;
      on the aspect of the narration, as rappresentation of devasted sceneries,
      characters tormented in the body and degraded in the mind. By the analysis of
      some parts of the text, it will be possible to observe how the deformation subverts
      the impressionist instance: the apparent images twists themselves in grotesque
      and oneiric meanings.

    • Simone Giorgino

      «Io sono una raccontatrice».
      I racconti dispersi di Rina Durante
      – pp. 287-297

      Rina Durante, di cui si è recentemente celebrato il primo decennale dalla scomparsa,
      è stata una delle principali scrittrici pugliesi del Novecento. In questo
      articolo si esaminano i suoi racconti dispersi, apparsi su giornali e riviste fra il
      1963 e il 2002, in cui la scrittrice racconta lo spaesamento di un’intera comunità
      di fronte allo spartiacque fra due epoche e fra due civiltà, quella contadina e
      quella industriale.

      Rina Durante, who passed away a decade ago, was one of the major twentiethcentury
      writers from Puglia. This article examines her uncollected short stories,
      printed in newspapers and magazines between 1963 and 2002, in which the
      writer tells of the sense of disorientation of an entire community at the divide
      between two eras and two civilizations, that of country farming and that of industry

  2. Meridionalia
    • Cristiana Di Bonito

      Per la storia redazionale del dramma ’O voto di Salvatore Di Giacomo – pp. 298-311

      L’attività di drammaturgo di Salvatore Di Giacomo comincia, in collaborazione
      con Goffredo Cognetti, con il dramma ’O voto, tratto da una novella e pubblicato
      in lingua italiana nel 1889 con il titolo Mala Vita, rielaborato da Nicola
      Daspuro in un omonimo libretto per melodramma nel 1892 e infine pubblicato
      in dialetto napoletano nel 1910. In questo lavoro si punta a ricostruire la storia
      redazionale del dramma sulla base di altri testimoni e si propone una ipotesi
      sul ruolo svolto da Cognetti nella composizione del dramma.

      Salvatore Di Giacomo’s dramaturgic activity starts, in collaboration with Goffredo
      Cognetti, with the drama ’O voto, based on a short story and published in
      Italian language in 1889 with the title Mala Vita, revised by Nicola Daspuro in a
      homonymous libretto for opera in 1892 and, finally, published in Neapolitan
      language in 1910. In this essay, the author reconstructs the editorial story of the
      drama starting from the analysis of other sources and proposes a hypothesis
      about the role played by Cognetti in the composition of the drama.

  3. Contributi
    • Rosaria Bottari

      Tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani: l’Accademia Parteniana di Spilimbergo (Udine) e
      l’Accademia Ocricolana di Vicenza
      – pp. 312-321

      L’Accademia Parteniana di Spilimbergo (Udine) e l’Accademia Ocricolana di
      Vicenza sono due progetti didattici coordinati dal medesimo direttore, Bernardino
      Partenio. L’analisi comparativa degli Instituta (i regolamenti generali)
      delle due Accademie, pur testimoniando il medesimo modello pedagogico
      umanistico, mette in luce un diverso approccio allo studio delle lingue, dovuto
      al mutato contesto storico, religioso e culturale.

      The Accademia Parteniana in Spilimbergo (Udine) and the Accademia Ocricolana
      in Vicenza are two educative projects led by the same director, Bernardino
      Partenio. A comparative analysis of the Instituta (the general regulations) of the
      two academies, whilst demonstrating the existence of a common humanistic
      pedagogical model, also illustrates a different approach to language study, due
      to the changing historical, religious and cultural milieu.

    • Paola Marongiu

      Maddalena Salvetti Acciaioli poetessa al servizio del potere nella Firenze della Controriforma – pp.
      322-342

      Il saggio verte sulle Rime toscane di Maddalena Salvetti Acciaioli (1557-1610) che
      si distinguono nettamente, per lo spessore dei contenuti e la perfezione della
      forma, dagli innumerevoli componimenti encomiastici pubblicati nel 1589 per
      le nozze di Ferdinando I granduca di Toscana con Cristina di Lorena. La poetessa
      infatti supera la pura poesia d’occasione in nome di una solenne lirica oggettiva,
      praticata negli stessi anni anche da Tasso e Chiabrera, rendendo così
      omaggio al potere immagine Dio in terra.

      The paper is about the Rime toscane by Maddalena Salvetti Acciaioli (1557-1610)
      that definitely differ in the content’s depth and in the style’s perfection from the
      countless encomiastic poems published in 1589 for the wedding of Ferdinand I
      grand duke of Tuscany with Christine of Lorraine. The poetess actually exceeds
      the mere occasional poetry to opt for a solemn and objective one, practised in
      the same years from Tasso and Chiabrera too, so paying homage to the power
      God’s image on the Earth.

    • PIER ANGELO PEROTTI

      Sulla punizione di don Rodrigo – pp. 343-360

      Le pagine dei Promessi sposi che coprono il lasso di tempo intercorrente tra il
      ritorno di don Rodrigo a casa e l’irruzione dei monatti sono indubbiamente tra
      le più intense e drammatiche, forse le più angosciose, del romanzo, e perciò tra
      quelle più frequentemente sottoposte a indagine da parte dei commentatori.
      Eppure qualche elemento sembra essere sfuggito agli esegeti o non approfondito
      adeguatamente. Qualcuno di questi aspetti è esaminato in questo saggio,
      non certamente esaustivo, ma che può aggiungere qualche novità all’analisi
      dell’argomento.

      The pages of the Promessi Sposi covering the lapse of time that separates the return
      home of don Rodrigo and the irruption of the monatti are among the most
      intense and dramatic, perhaps the most painful, of the novel, and therefore
      among those most frequently submitted to a survey by the annotators. Yet it
      seems that some elements have escaped to the exegetes or have not been adequately
      analysed. Some of these aspects are examined in this essay: it is not
      certainly exhaustive but it can add some novelties to the analysis of the subject.

    • Nico Abene


      La rivoluzione a teatro: le «sintesi» futuriste
      – pp. 361-366

      Il lavoro si propone di analizzare l’esperienza del teatro futurista in Italia in
      relazione alle contemporanee vicende del Decadentismo italiano ed europeo. In
      breve, una sintetica proposta di interpretazione storico-sociale fondata sui testi
      teorici e creativi del movimento, che ne evidenzia limiti e incapacità dialettiche
      complessive.

      The study looks at Italian futurist theatre with relation to the contemporary
      events of the Italian and European decadent movement. In short, it provides a
      concise proposal for a historical-social interpretation based on theoretical and
      creative texts pertaining to the movement, highlighting certain limits and overall
      dialectical failings.

  4. Note e discussioni
    • Andrea Battistini

      La Sirenide, una riscrittura della Commedia in età post-tridentina – pp. 367-378

      La Sirenide è un poema sacro di Paolo Regio. In seguito alla pubblicazione nel
      1603, l’autore vi aggiunse un ampio commento nel 1606. L’importanza
      dell’opera si deve non tanto a considerazioni estetiche quanto a motivi culturali,
      dal momento che la Sirenide palesa come il modello originario dantesco interagisce
      con il recente capolavoro della Gerusalemme liberata. Ciò risulta evidente
      sia nella scelta dell’ottava rima anziché della terzina sia nell’adattamento
      della Commedia dantesca alle esigenze del Concilio di Trento. Per quanto riguarda
      il poema tassiano, Regio sopprime ogni riferimento alla tematica amorosa,
      privilegiando piuttosto la dimensione spirituale.

      Sirenide is a sacred poem by Paolo Regio. After its publication in 1603, the author
      added a long comment in 1606. The importance of Sirenide is due less to
      aesthetic reasons than to cultural ones, in as much as it shows how the initial
      Dantean model interacts with the recent masterpiece of Jerusalem Delivered. This
      can be seen not only in the choice of the “ottava rima” instead of the tercet, but
      also in the adaption of Dante’s Comedy to the demands of the Council of Trent.
      As regards Tasso’s poem, Regio omits any reference to love, whilst the spiritual
      dimension gains emphasis.

  5. Recensioni
    • Emiliano Cannone

      Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Giuseppe A. Camerino, Napoli 2012-2014 – pp. 379-381

    • Noemi Corcione

      Roberto Salsano, Tra scrittura e riscrittura. Saggi e note su Alfieri tragico, Caltanissetta-Roma 2014
      – pp. 382-385

    • Valeria Giannantonio

      Giuseppe Leone, D’in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio
      e voce, Lecco
      2015
      – pp. 386-388

    • Fara Autiero

      Valeria Giannantonio, Giulio Salvadori nel mondo delle idee, Firenze 2015 – pp. 386-388

    • Daniela De Liso

      Virginia Di Martino, Sull’Acqua. Viaggi diluvi palombari sirene e altro nella poesia italiana del primo
      Novecento, Napoli
      2012
      – pp. 388-389

    • Alessandra Ottieri

      Antonio Pietropaoli, Cartastraccia. Postfazione di Paolo Giovannetti, Salerno/Milano 2014 – pp.
      389-392

saggi

Luca Torre
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia:
pratiche del petrarchismo in un centro “minore”
del secondo Cinquecento
Tra le Rime di diversi signori napoletani e d’altri, stampate a Venezia presso Gabriel
Giolito de’ Ferrari nel 1556 con le cure di Ludovico Dolce, appare per la
prima volta un compatto gruppo di non sprovveduti rimatori capuani, tra cui è
possibile ricostruire un sistema di dialogo intellettuale nell’ambito del quale
svolsero la loro formazione i più celebri concittadini Giovan Battista Attendolo
e Camillo Pellegrino. Tra i poeti presenti nella giolitina del ’56, infatti, figura
anche un giovane Pellegrino, colui che con la pubblicazione del dialogo Il Carrafa
(1584) avrebbe più tardi innescato la nota polemica sul poema tassiano e
sulla natura dell’epica poesia.

In the Rime di diversi signori napoletani e d’altri (Venice, Presso Gabriel Giolito de’
Ferrari, 1556, ed. Ludovico Dolce) there appears for the first time a compact
group of Capuan rhymers amongst whom it is possible to reconstruct a system
of intellectual dialogue within which the well-known fellow citizens Giovan
Battista Attendolo and Camillo Pellegrino received their education. Indeed,
among the poets to be found in the 1556 Giolito edition there features the young
Pellegrino, who through the publication of his dialogue Il Carrafa (1584) was
destined to trigger off a renowned controversy over Tasso’s poem and the nature
of epic verse.
Tra le Rime di diversi signori napoletani e d’altri, stampate a Venezia
presso Gabriel Giolito de’ Ferrari nel 1556 con dedica di Ludovico
Dolce (= D)1, emerge per la prima volta un esiguo ma compatto grup-
1 R IME / DI DIVERSI SIGNORI / NAPOLETANI, E D’ALTRI. / NVOVAMENTE
RACCOLTE / ET IMPRESSE / LIBRO SETTIMO / [fregio tipografico] /
CON PRIVILEGIO / [marca tipografica] / IN VINEGIA APPRESSO GABRIEL /
GIOLITO DE’ FERRARI, E / FRATELLI. MDLVI. Sulla base dello stretto legame
(ribadito nella dedica di Ludovico Dolce) tra Antonio Terminio ed il «magnifico e
valoroso signor Mattheo Montenero», il netto primato di cui gode l’umanista di
Contursi nel Libro settimo (in virtù dei 73 componimenti presenti) può essere interpretato
come «omaggio del facoltoso discepolo al maestro, che probabilmente può
Saggi
196 Luca Torre
po di rimatori capuani, due dei quali erano già apparsi nell’antologia
presentata come Sesto libro e stampata a Venezia nel 1553 per i tipi de
“Al segno del pozzo”, con le cure di Girolamo Ruscelli (= R)2. L’esigenza
ormai invalsa di esplorare il mare magnum del petrarchismo con
essere stato il finanziatore dell’edizione» (T.R. Toscano, Antonio Terminio da Contursi
poeta umanista del XVI secolo, Contursi Terme, Il Fauno edizioni, 2009, p. 46).
L’ossequio dell’“allievo” Montenero nei confronti del contursano potrebbe aver
pesato nel conferire alla giolitina del ’56 la struttura in questione e l’indubbio ruolo
di preminenza al Terminio; considerando che D ospita ben 22 testi di Matteo
Montenero, «si potrebbe addirittura definire questa antologia come ‘raccolta Terminio-
Montenero’» (Ivi, p. 47), ragione per la quale il Libro settimo, con questa sua
peculiare configurazione ed il marcato orientamento sull’asse descritto, non fu in
seguito riprodotto. Per Giovanna Rabitti, che ha sottolineato il contributo di
Marc’Antonio Passero nell’allestimento di D, peraltro espressamente menzionato
da Dolce nella lettera prefatoria («Là onde havendomi l’Honoratiss. M. Marc’Antonio
Passero, disideroso che le cose degne di lode vengano in luce, fatto dono
delle presenti rime […] holle volute donare al mondo, non serbando né havendo
potuto serbare in esse ordine alcuno, per essermi state mandate in più volte in diversi
tempi, et essendone già parte stampate», p. [8]), la produzione dei capuani,
«sodali del Passero, doveva apparire meritevole di una sua vetrina, anche perché
andava ad accrescere il numero degli inediti: il che, stante la situazione di perenne
competitività delle antologie, non doveva essere un argomento da poco» (G. Rabitti,
Foto di gruppo. Uno sguardo sulle «Rime di diversi signori napoletani a d’altri
nuovamente raccolte et impresse. Libro settimo» (1556), in AA. VV., La lirica del Cinquecento.
Seminario di studi in memoria di Cesare Bozzetti, a cura di R. Cremante, Alessandria,
Edizioni dell’Orso, 2004, p.172). La raccolta, «secondo volume dedicato, o
quasi, ai napoletani mantiene le promesse» (A. Quondam, Dall’abstinendum verbis
alla “locuzione artificiosa”. Il petrarchismo come sistema linguistico della ripetizione, in
Id., Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, F.C.
Panini, 1991, p. 189): contiene tutte rime inedite, numerosi sono gli autori all’esordio
e quelli destinati a ritagliarsi un ruolo di prestigio tra i ranghi del petrarchismo
cinquecentesco. Il Libro settimo costituisce di fatto l’ultima silloge “napoletana” fra
quelle uscite dai torchi di Gabriel Giolito de’ Ferrari: vi compaiono 247 liriche di
autori meridionali (delle 375 complessive), di cui ben otto alla prima uscita; molti
anche i poeti inesorabilmente destinati all’oblio, tra i quali figurano i capuani che
costituiscono l’oggetto di queste pagine (con l’ovvia eccezione di Pellegrino).
2 IL SESTO LIBRO / DELLE RIME / DI DIVERSI ECCEL- / LENTI AVTORI,
/ NVOVAMENTE RACCOLTE, ET / MANDATE IN LVCE. / Con un discorso di
GIROLAMO RV SCELLI. / AL MOLTO REVERENDO, ET / HONORATISS.
MONSIGNOR / GIROLAMO ARTVSIO. / Con Gratia, et Privilegio. / [marca tipografica]
/ IN VINEGIA AL SEGNO DEL / POZZO. M.D.LIII. I due poeti cui si
fa riferimento sono Ottaviano Della Ratta (cc. 178v-179r) e Camillo Pellegrino (c.
227 r e v), entrambi presenti in R con tre sonetti. Con identico numero di testi è
inoltre da rilevare la partecipazione del concittadino Cola Benedetto (c. 260 r e v).
Nella stessa miscellanea, inoltre, compaiono personaggi per i quali sono rinvenibili,
a vario titolo, punti di tangenza con gli ambienti letterari e istituzionali capuani:
[ 2 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 197
un’intenzione critica utile a rideterminare posizione e operato di “minori”
e “minimi” si accorda con l’opportunità di operare una preventiva
incursione nell’ambiente letterario capuano di metà Cinquecento,
nel quale svolsero la loro formazione coloro che esercitarono una funzione
determinante nell’orientare il dibattito letterario degli ultimi
decenni del secolo (Giovan Battista Attendolo, Benedetto Dell’Uva,
Camillo Pellegrino) e contribuirono a tracciare i confini di una certa
“maniera” poetica3. Uno di questi – Pellegrino, per il quale l’esordio
tipografico coincise con la stampa di R (1553) – è presente nella raccolta
organizzata da Dolce, elemento che aggiunge ulteriore significato
ad un’indagine che abbia come scopo precipuo quello di andare alla
radice della “rinascenza” capuana. La disposizione ordinata degli
sparsi e sintomatici tasselli d’informazione permette di ri-comporre
non certo un amalgama coerente di profili stilisticamente cooperanti,
bensì un sistema di relazioni che tradisce attestazioni di dialogo e
scambievoli suggestioni. I testi presi in considerazione sembrano inoltre
indicatori di pratiche versificatorie non occasionali, esiti di una
“sperimentazione” su ritmi e schemi petrarcheschi – tra propensione
artificiosa e amplificatio retorica – nella quale si misura un’embrionica
ma intenzionale ricerca di cifre tecnico-espressive distintive tra le maglie
dell’alfabeto classicistico.
Quello che segue è l’elenco degli autori capuani presenti in D con
il relativo numero di testi4:
Ottaviano Della Ratta 22
Vincenzo D’Antignano 15
Giovan Battista d’Azzia (cc. 1r-2r), Girolamo Altavilla (c. 235r) e Giovan Luigi Riccio
(cc. 201v-202r).
3 Questo gruppo si presentò collettivamente con la silloge Parte delle rime di D.
Benedetto dell’Uva, Giovanbatista Attendolo, et Cammillo Pellegrino (in Firenze, nella
stamperia del Sermartelli, 1584), «che esplicitamente si propone come unitaria, anche
se non omogenea elaborazione di una proposta di esercizio poetico e di condizione
intellettuale» (A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo
a Napoli, Bari, Laterza, 1975, p. 128). La stampa fiorentina, infatti, recando
il dialogo pellegriniano Il Carrafa, o vero della epica poesia, veniva presentata come
coerente attuazione di una teoresi (incentrata su un’ipotesi d’attività versificatoria
nella quale si afferma il principio della “locuzione artificiosa”, programmaticamente
concretato nella posizione filotassiana assunta da Pellegrino) che finì per
rappresentare un imprescindibile punto di riferimento per le discussioni criticoteoriche
sullo statuto della poesia e di quella epica in particolare.
4 Tutti i testi sono disponibili sul sito «ALI RASTA Antologie della lirica italiana
– Raccolte a stampa» (rasta.unipv.it).
[ 3 ]
198 Luca Torre
Orazio Marchese 2
Camillo Pellegrino 3
Come si vede l’apporto dei capuani all’architettura di D è tutt’altro
che irrilevante: di Ottaviano Della Ratta e Vincenzo D’Antignano (il
secondo all’esordio tipografico) si contano rispettivamente ventidue
(pp. 249-61) e quindici (pp. 262-69) componimenti, mentre Orazio
Marchese è presente con due soli sonetti (pp. 270-71). I testi di Camillo
Pellegrino (pp. 274-75), a confronto con alcune tra le seriori esecuzioni
della lira pellegriniana, si rivelano come gli esiti di un eclettico e laborioso
apprendistato.
1. Ottaviano Della Ratta, esponente di una famiglia d’antico blasone5,
fu tra gli Eletti del governo cittadino e fece verosimilmente parte
della delegazione di notabili incaricati di ricevere l’imperatore Carlo
V al momento del suo ingresso in Capua nel 15366. In seguito alla visi-
5 «Nicola Maria [Della Ratta] con Dianora Barattuccio nobile di Tiano fe’ Ottaviano
e una donna moglie d’Angelo de’ Rossi e poi d’Alfonso Arturo. D’Ottaviano
fino al presente giorno vive e viverà sempre gloriosa la memoria per le sue rare
virtù, le quali nella sua Patria sono con assai onorevole ricordanza celebrate. Si
delettò molto dello studio della Poesia e delle humane lettere, nelle quali riuscì a
meraviglia detto; compose molte belle rime, che sono molto stimate e caramente
conservate da’ dotti. Hebbe due mogli: Eustochia, la prima della quale non se ne
sa il cognome, e […] di Rinaldo nobile Capuana la seconda; e da esso nacquero
Marc’Antonio, Carlo Abbate di S. Marcello, Pompeo, Fabio, e Scipione» (C. De
Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli del Signor Carlo De Lellis, Napoli,
nella Stamp. di Onofrio Savio, 1671, III, p. 31). A Pompeo Della Ratta, figlio di
Ottaviano, il capuano Francesco Anelli dedicò l’Orazione di Francesco Anelli di Capua
Nell’essequie dell’invittiss. e gloriosiss. Filippo II Re di Spagna (Napoli, nella Stamparia
dello Stigliola, 1599). L’oratore decanta la nobiltà di lignaggio del dedicatario
ed i molteplici meriti del padre di lui: «Vengo dunque con questa operetta a dedicarmi
perpetuo osservatore dei meriti e virtù di V. S., i quali congiunti con l’antico
splendor della sua nobilissima Famiglia il rendono chiaro ed illustre fra tutti gli
altri della nostra Patria, e ben mostra esser degno figlio di quella Fel. ed onorata
memoria di Ottaviano suo Padre; il quale quasi un Capuano Mecenate, non solo
favoriva tutti i virtuosi, ma con gli propri scritti ha lasciato eterno grido al suo
nome» (p. 4). Nella stessa pagina, inoltre, immediatamente dopo la dedica, si legge
un sonetto di Antonio Vasto di Capua indirizzato ancora al Della Ratta junior: i
versi contengono esplicito riferimento alle doti versificatorie di Ottaviano (ed alle
più recenti frequentazioni di Parnaso dello stesso Pompeo): «Queste fur quelle
Muse in grembo accolte / dal vostro Padre, a voi per ver retaggio / lasciate; or del
gran Rege a pianger volte» (vv. 9-11).
6 «Arrivato l’Imperatore alla Porta del Castello, si fece la selva; e ritrovò ivi
Monsignor Tommaso Antignano, Vescovo di Cariati, e Vicario Generale di Capua,
[ 4 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 199
ta dell’Imperatore, il Senato Capuano affidò a Della Ratta la supervisione
dei lavori per la messa in atto delle principali disposizioni governative:
Nello stesso tempo [1536] il Governator politico spiegò, che i 4000 ducati
lasciati da S. M., volea, che si applicassero alle fortificazioni della
Città; e già il Senato Capuano deputò il Signor Ottaviano della Ratta,
per soprintendere a tali fortificazioni, ed a spendere detto denaro7.
Ottaviano è menzionato in un’epistola di Giovan Battista Attendolo
indirizzata al Virtuosissimo Signore Pellegrino Primicerio di Capua, in
data 2 novembre 1561, nella quale il mittente trascrive ed argomenta
alcune osservazioni precedentemente espresse dal più maturo ed
esperto Pellegrino sul sonetto attendoliano Lascia il cenere sparso e l’ossa
vote8. Il passo è il seguente:
con tutto il clero, e religiosi della città in processione; e fatta la dovuta riverenza ad
un Crocefisso d’argento, che avanti detta Porta era sopra un panno d’oro, entrò
l’Imperadore nella Città; e si pose sotto il Palio che tenevano i Deputati, quali erano
D. Carlo d’Aragona, Capitano della Città, i Signori Giambattista d’Azzia, Gismondo
de Buzzetis, Ottaviano della Ratta, Tommaso del Balzo, Marco di Giugnano,
Alfonso di Caprio, Marco Pantoliano, Pirro di Giannotta, e Benedetto di Rosa,
portandosi il freno del Cavallo di S.M. da’ due Cavalieri della casa di Capua, Conte
di Noja, e di Altavilla» (F. Granata, Storia civile della fedelissima città di Capua,
Napoli, Stamperia Muziana, 1756, vol. III, p. 249).
7 Ivi, p. 251. Che a Ottaviano Della Ratta sia stata affidata (in data 8 Novembre
1536) l’incombenza di garantire la realizzazione delle suddette fortificazioni, di modo
che il lavoro risultasse «conforme alla volontà de la Maestà Cesarea», è confermato
da G.A. Manna nel proprio Repertorio per ordine di alfabeto di tutte scritture
della fideliss. città di Capua (Napoli, Stamperia Simoniana, 1588), a p. 108: «venne il
Capitan Berardino Cervellone come soprastante deputato per sua Etcelenzia [Pietro
di Toledo] sopra la fabrica predetta […] con provisione de ducati 15 il mese; avendo
Eccellenzia expedito ordine al Regio Thesauriero che havesse a dare alla Città per
detta fortificazione li 4 mila ducati deputati per la Cesarea maestà nella predetta
fortificazione: sopra la qual fabrica fu deputato lo Sig. Ottaviano de la Ratta per
Credenziero. 18 Dicembre 1536: per lo consiglio fu constituito procuratore lo Sig.
Ottaviano de la Ratta a ricevere dal Regio Thesauriero li predetti ducati 4 milia donati
per la Città alla Maestà Cesarea, e per quella girati a detta fortificazione».
8 Il sonetto fu stampato nella raccolta di Rime di diversi eccellentissimi autori in
morte della illustriss. sig. d. Hippolita Gonzaga (Napoli, G.M. Scotto, 1564, p. 42) e in
seguito, rimanipolato e rifunzionalizzato, in Parte delle rime… (cit., p. 72) e in Alcune
rime et versi di Gio. Battista Attendolo (Napoli, Presso G. Cacchi, 1588, p. 33). A tal
riguardo cfr. L. Torre, L’esordio poetico di Giovan Battista Attendolo nella raccolta di
Rime di diversi eccellentissimi autori in morte della Illustriss. Sig. D. Hippolita
Gonzaga (1564), «Critica letteraria», XXXVI (2008), n. 141, pp. 733-753.
[ 5 ]
200 Luca Torre
Potrà solo a giovarmi tal fatto ad avermi imparato a farmi star’avvertito
per l’avvenire, e sarà l’avvertimento di non entrar mai in ragionamento
di letteratura con Capuani; perché se in Capua o in altra parte
con V. S., Sig. mio Primicerio, mi ritroverò, e con quegli altri che nel
cerchio inchiusi, che sono, per cominciar da’ più antichi, il Sig. Ottaviano
Ratta, il Sig. Girolamo Aquino, il maestro mio, il Sig. Lucio Paganino,
il Sig. Lorenzo Ruberti ed ancor il Sig. Colantonio Simione […] con
tutti questi sette dico mi serà sempre convenevole, quando in lor presenza
mi trovi, di star cheto, e porgere orecchia, più che la lingua, confessando
veramente poterne sempre imparare e sempre ceder loro.
Anzi umilissimamente pregargli che degnino insegnarmi bene l’alfabeto,
poiché e di etate e d’ingegno e di studio e d’autorità m’avanzano
e mi avanzaranno sempre, onde mi vergogno di questo, che se bene il
mio poco giudizio non sa discernere chi di voi sette più sappia e la
differenzia che ci sia, può pur sapere che chi di questi dottissimi men
degl’altri per avventura sapesse potrà pur sempre insegnarmi9.
L’Attendolo, dunque, nel rendere omaggio ad alcuni illustri letterati
concittadini (al Pellegrino, destinatario della lettera, vengono accostati
Girolamo Aquino, Lucio Paganino, Lorenzo Ruberti e Cola Antonio
Simione, ma, in prima istanza, proprio «il Sig. Ottaviano Ratta»),
afferma che costoro lo superavano in etate, oltre che in ingegno e studio:
il Della Ratta, dunque, era a quella data uomo di lettere degno della
stima e dell’ossequio di un giovane di eccellente erudizione come il
futuro ideatore de Il Museo, e tra i due doveva esservi una differenza
d’età avvertita come consistente dal rampante ma deferente Giovan
Battista. Ottaviano, notabile di indiscusso prestigio fra gli uomini di
cultura capuani, nacque con ogni probabilità agli albori del secolo, nel
primo decennio del Cinquecento (datazione che, quindi, ritengo possa
consentire di inferire l’identificazione del poeta con il delegato cittadino).
Non è da escludere che il più esperto Ottaviano possa aver esercitato
una funzione di guida per gli acerbi estri lirici di nuova generazione:
al riguardo l’attribuzione a Ottaviano della simbolica qualifica
di «Capuano Mecenate»10 pare suggerire l’immagine di un Della Ratta
nelle vesti di “corifeo” per un gruppo di agguerriti e promettenti versificatori
alle prime armi.
Ma è tra i versi di Della Ratta che si ricavano le prove utili a dimo-
9 Ms. XIV. D. 2 della Biblioteca Nazionale di Napoli, c. 22r. La lettera è trascritta
integralmente in A. Borzelli, I Capitoli ed un Poemetto di Camillo Pellegrino, Napoli,
Scarpati, 1895, pp. XXI-XXIV e in G. Vincenti, Di Giovan Battista Attendolo
capuano nota storico-letteraria, Napoli, G. Coppini, 1896, pp. 6-7.
10 Cfr. nota 5.
[ 6 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 201
strare la validità delle considerazioni svolte finora: l’ipotesi che intorno
alla metà degli anni Cinquanta costui fosse in età avanzata è corroborata
da uno dei sonetti testimoniati da D (p. 260):
Se sempre teco, Amor, fui ne’ prim’anni
giovene e forte, hor stanco et attempato
pensava dal tuo regno esser campato,
mutati già i pensier, mutati i panni.
Ma veggio hor ben che da’ tuoi feri inganni 5
huom sicuro non vive in nessun stato;
ché, quando men temea, mi sei tornato
a rinovar nel cor gli antiqui affanni.
Io mi vivea da’ tuoi pensier lontano,
già satio e stanco, Amor, d’ogni tuo frutto, 10
sicuro di me stesso e di mia vita:
hora un fatal destin m’ha ricondutto
un’altra volta, Amor, ne la tua mano;
né so dove sperarmi alcuna aita11.
L’autore di questo testo (una segnalazione almeno merita lo zelo
nella stesura della superficie fonica, sulla quale risalta la profusione di
occlusive) è individuo che ha motivo di ritenersi «già sazio e stanco»
dei frutti elargiti d’Amore (nonché incautamente convinto di aver deposto
l’ormai “rugginoso” armamentario erotico del poeta lirico12), un
gentiluomo che pare aver da tempo superato il “mezzo del cammin”
nel proprio itinerario esistenziale: per condizione anagrafica e prestigio
sociale è da ritenersi plausibile l’identificazione dello «stanco ed
attempato» auctor-agens dei versi sopra trascritti (sventuratamente
11 Nel trascrivere i versi dei rimatori capuani ho adoperato criteri opportunamente
conservativi, intervenendo esclusivamente in termini di razionalizzazione
dell’interpunzione e ammodernamento di poche desuete consuetudini grafiche.
12 Concetto simile a quello sviluppato in alcuni testi dell’“enigmatico” Galeazzo
di Tarsia (cfr. Canzoniere xiii, xv, xxi, xxv, xxvii). La sirma del sonetto xiii («Ben
resister da prima al Signor mio / dovea, quand’ei fanciullo e men gagliardo / era,
ed io non, qual son, vecchio ed infermo. // Or non più no, ch’al suo poter vegg’io
/ lento il soccorso di ragione e tardo, / e saldo incontr’a lui non trovo schermo»),
in particolar modo, è paradigmatica della vicenda «di un uomo che, dopo una vita
trascorsa tra i maneggi della politica e i pericoli della guerra conseguendo un più
che elevato livello di gravitas sociale, proprio al momento di “raccoglier le sarte”
per imboccare il porto di tranquilla vecchiaia è stato ributtato in mare da rovinosa
tempesta d’amore» (T.R. Toscano, Galeazzo di Tarsia: indizi per la riapertura di una
pratica archiviata, in Id. L’enigma di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a
Napoli nel Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2004, p. 39).
[ 7 ]
202 Luca Torre
“bersaglio” degli strali d’Amore, «tornato / a rinovar nel cor gli antiqui
affanni») con il notabile capuano assurto all’onore di ricevere l’Imperatore
in visita presso la cittadina di Terra di Lavoro ben quattro
lustri addietro. Inoltre, accogliendo l’identificazione con Ottaviano
Della Ratta del destinatario di un capitolo in terza rima composto da
Camillo Pellegrino e pubblicato a fine Ottocento da Angelo Borzelli13,
il quale suggerisce per la data di composizione gli anni anteriori al
1562 (evidentemente sulla scorta di quel passo dell’epistola di Giovan
Battista Attendolo nel quale l’autore fa riferimento ad Ottaviano come
ancora vivente negli ultimi mesi del ’61), e considerando quindi a tale
data già ampiamente svolto lo stame della vita di Ottaviano, la consorte
di quest’ultimo, della quale il Pellegrino abbozza un ritratto in
chiave comico-grottesca, andrebbe riconosciuta nella donna con cui
Della Ratta convolò a seconde nozze.
Il nome di Ottaviano compare inoltre in un documento recentemente
scovato presso l’Archivio Arcivescovile di Capua14: si tratta di
uno fra gli atti dei processi capuani (svoltisi tra gli anni cinquanta ed i
primi anni sessanta) a carico di taluni esponenti dei gruppi eterodossi
all’epoca attivi nella regione di Terra di Lavoro. Tra i procedimenti del
1552, infatti, è certificato anche quello intentato per eresia nei confronti
di tali Vincenzo Iannelli e Jacobetto Gentile: fra Vincenzo indicò tra
coloro «che sono statj et sono luteranj et haveno creduto et credeno
13 A. Borzelli, I Capitoli ed un Poemetto di Camillo Pellegrino, cit., pp. 97-105.
L’avvio proemiale (con felice gioco paronomastico), nel quale il locutore chiama in
causa il destinatario del capitolo, rivela l’argomento sviluppato nei versi successivi:
«RATTA, se il ratto tuo partir fu quello / che ti fe’ riputar da le persone / per
matto, o per un uom senza cervello, // io, che porto contraria opinione, / e t’ho
per gentiluomo assai prudente, / lodo la tua partenza a gran ragione. // Questi,
che tanto fanno del saccente, / dovrian saper come ritrosa moglie / caccia di casa
il marito sovente // e che tutti i martir, tutte le doglie, / che si ritrovan sotto de la
luna, / e quanti mali ogni spedal raccoglie, // sono un zucchero a petto a l’importuna
/ moglie, che sempre con due lingue parla, / garrula da le fasce e da la cuna»
(vv. 1-15). Nelle terzine conclusive Camillo Pellegrino si rivolge nuovamente al
confidente con irriverente arguzia: «E conchiudendo a voi, Signor, concesso / fu di
lasciar la patria; e s’egli è poco / quel che dett’ho, questo v’aggiungo appresso: /
che ’n ogni sana mente, in ogni loco / del mondo, s’ha per fermo e cosa vera / che
’l diavolo, a cui l’inferno è gioco, // soffrir non poté un mese la mogliera» (vv. 79-
85). Borzelli, che rende conto dei tre sonetti presenti in R, del sonetto indirizzato a
Girolamo D’Aquino e di quello a Caterina Pellegrina in D, tace sulla presenza nel
Libro settimo dei restanti venti componimenti attribuiti a Ottaviano Della Ratta.
14 P. Scaramella, «Con la croce al core». Inquisizione ed eresia in Terra di Lavoro
(1551-1564), Napoli, Edizioni La città del Sole, 1995. L’«Appendice documentaria»
è collocata alle pp. 89-148.
[ 8 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 203
quello che have creduto ipso deposante»15 anche un non meglio identificato
«Ianni, habitante ala casa del signor Ottaviano de la Ratta»16.
Non vi sono elementi per ipotizzare qualsiasi tipo di coinvolgimento
del Della Ratta nelle attività dei gruppi di ispirazione ereticale, tuttavia
la menzione contenuta nel documento lascia supporre che il personaggio
in questione fosse ben noto tanto all’estensore quanto ai presunti
auditori del processo.
Quello che segue è l’elenco numerato dei testi di Ottaviano Della
Ratta raccolti in D, in ordine di collocazione tipografica (tutti sonetti
tranne gli ultimi due, che sono madrigali):
i Alti monti, bei colli, amena valle; ii Qual suol l’aurora in su l’aprir del
giorno; iii Apollo, s’udir vuoi divini amori; iv Un sì gentil desio, donna,
in me nascie; v Del valor che ’n costante alma dimora; vi Lasso me,
ch’io non provo ora tranquilla; vii Se voi, Giulia gentile, unqua vedeste;
viii Lasso, ch’io ben m’accorgo c’omai giunge; ix Fra duo poggi di
neve in chiusa valle; x L’alma mia donna, che la pianta bella; xi Vago
augellin, ch’affabilmente suoli; xii Oimè, la Donna mia! Oimè, il mio
core; xiii Anime belle, al sommo Sol sì grate; xiv Mentre fra gli alti e
onorati sassi; xv Quando, Signor, l’alto rumor s’intese; xvi Se l’udir,
Donna, il dolor vostro e il pianto; xvii Opra la tua virtù quanto conviensi;
xviii Cornelio, io credo che comun desio; xix Mentre Dafne a
fuggir tutta si volse; xx Se sempre teco, Amor, fui ne’ prim’anni; xxi O
tu che miri il gran mausoleo, e forse; xxii Spargete, donne, di purpurei
fiori.
Una lettura preliminare sembrerebbe suggerire per i versi di Ottaviano
una rubricazione di routine, come se attuassero un petrarchismo
mediamente “ortodosso”17, ma un pur rapido esame delle opzioni metriche
non avvalora tale impressione: se i due madrigali che compaiono
in D riproducono il metro petrarchesco di soli endecasillabi, il vaglio
dei moduli selezionati da Della Ratta per i proprî sonetti può indurre
a pensare che le scelte del capuano siano state ispirate dal desi-
15 Ivi, p. 113.
16 Ivi, p. 114.
17 L’aderenza al canone, in Della Ratta, risalta in maggior misura nei tre sonetti
stampati in R. Il primo (in realtà congegnato secondo uno schema rimico allotrio
rispetto a quelli dei Rerum vulgarium fragmenta) è un testo epitalamico con refrain
conativo in anafora di reminiscenza catulliana (Una corona di tranquilla oliva); il secondo
(Lasso, ch’io temo e spero, ardo e agghiaccio) è costruito su cola in antitesi; l’ultimo
(S’udì mai sempre in ogni umano impero) è un testo celebrativo nel quale l’epifania
delle virtù corporee femminili diviene sublimazione di una sorta di antecedente
innamoramento per fama.
[ 9 ]
204 Luca Torre
derio di ritagliarsi un certo margine di autonomia rispetto alla preponderanza
del canone. Ottaviano predilige schemi utilizzati con
parsimonia da Petrarca, quando non estranei all’organismo dei Fragmenta:
il primo sonetto è costruito sulle rime ABBA ABBA CDE DEC,
schema che ricorre un’unica volta nel Canzoniere (xcv), replicato in vi
e presente anche in apertura del breve liber di Vincenzo D’Antignano.
Ma le scelte in sede metrica del Della Ratta sembrano coerentemente
dettate da un approccio per così dire “eretico”: limitatamente alle terzine,
D raccoglie cinque sonetti con schema CDE CED18 (si tratta di iv,
v, xii, xiii, xiv), non utilizzato da Petrarca19, ed altre “eccentriche” costruzioni,
come il cavalcantiano CDE EDC (ii, xv e xvii, che ricorre una
sola volta20 in Petrarca) e CDE DEC (i e vi, anch’esso con una sola occorrenza
nei Fragmenta21).
Naturalmente numerose le citazioni petrarchesche, tra le quali meritano
una menzione l’ossimorico binomio «liquidi cristalli» (ii, v. 3)22,
che peraltro rimanda ai «liquidi ruscelli» del sonetto S’udì mai sempre
in ogni umano impero di R (c. 179r, v. 3)23, e la dittologia sinonimica
«turbato e tristo» (xv, v. 3), di fortunata tradizione petrarchesca (Rvf
clxxxvi, v. 5) ma di conio virgiliano (Aen viii, v. 29). Pare obbligato,
inoltre, un cenno al sonetto Oimè, la donna mia! Oimè, il mio core (xii),
che rinvia direttamente all’archetipo del genere costituito dal celeberrimo
Rvf cclxvii. Non mancano riferimenti al più recente modello
rappresentato dal canzoniere di Pietro Bembo24, la cui produzione in
rima pare ben presente nel bagaglio lirico del poeta capuano, come
denuncia la clausola del sonetto xviii, Cornelio, io credo che comun desio
(«io so che non conface / star neghittoso a sì gentile spirto», vv. 13-14),
18 R iguardo tale specifico schema rimico, dalla «storia particolarissima e burrascosa
», cfr. A. Afribo, Petrarca e petrarchismo. Capitoli di lingua, stile e metrica, Roma,
Carocci, 2009, pp. 171-72.
19 Schema presente anche fra le rime di Vincenzo d’Antignano (viii).
20 Cfr. Rvf xciii.
21 Cfr. Rvf xcv.
22 Tale iunctura (al v. 3 del sonetto Qual suol l’aurora in su l’aprir del giorno) costituisce
con ogni probabilità reminiscenza di Rvf ccxix, v. 3. Il medesimo testo del
capuano, inoltre, registra la citazione «tacito focile» (v. 13) di Rvf clxxxv, v. 6, con
allusione all’opera di Amore (il sostantivo è già in Inf. xiv, v. 39).
23 D a rilevare come il v. 7 («lumi, ma più del sol lucenti e belli») si conformi
all’incipit («Duo lumi oltra misura ardenti e belli») del quarto (in ordine tipografico)
tra i sonetti che compongono il “canzoniere” di Vincenzo D’Antignano.
24 Tra questi potrebbe essere incluso il trikolon «ardo, piango e languisco» (v. 12
del sonetto Un sì gentil desio, donna, in me nascie), che costituisce incremento della
coppia verbale «ardo e languisco» di Rime cviii, v. 4.
[ 10 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 205
eco dell’explicit di Rime civ, v. 1425. Di ispirazione bembiana il sonetto
xix, Mentre Dafne a fuggir tutta si volse, il quale, narrando eziologicamente
la genesi del motivo lauro / Laura, tradisce i propri debiti nei
confronti di Rime cxlii. Ma il caso più interessante di dialogo intertestuale
con l’autore delle Prose della volgar lingua è forse rappresentato
dal sonetto Se voi, Giulia gentile, unqua vedeste: al di là della possibile
ma non provata identificazione della dedicataria con Giulia Gonzaga
(non escluderei, in questo caso, che sotto il nome di battesimo si celi
più prosaicamente la donna amata e cantata dal poeta), il sonetto rivendica
apertamente i debiti dell’autore capuano con la produzione in
versi del grande Architetto del classicismo cinquecentesco. Se il verso
conclusivo («grazie ch’a pochi il ciel largo destina»), infatti, ridisegna
con esattezza la clausola di due sonetti consecutivi di Bembo (cfr. Rime
v e vi, sebbene l’archetipo sia senz’altro rappresentato da Rvf ccxiii, v.
1), è con il primo di questi che il testo di D rivela maggiori affinità,
estendendosi i richiami alla misura “ampia” dei ternari (non sfuggano,
oltre all’identità dei rimanti etade:onestade e destina, la significativa
conformità a partire dalla terza posizione metrica in corrispondenza
del v. 12 e l’innesto da parte del capuano di un lessema “canoro” a
conclusione della prima terzina). Questi di seguito i versi che costituiscono
la sirma del sonetto di Pietro Bembo:
cantar, che sembra d’armonia divina,
senno maturo a la più verde etade;
leggiadria non veduta unqua tra noi,
giunta a somma beltà somma onestade,
fur l’esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch’a poche il ciel largo destina.
Di seguito, invece, riporto le terzine di Ottaviano Della Ratta, a
sottolinearne la filiazione dal testo bembiano:
Taccian l’antique, ma più questa etade,
ch’a voler dir d’un così raro duono
bisogna voce angelica e divina:
ch’esser somma beltà con onestade
sì bene ineste, veramente sono
grazie ch’a pochi il ciel largo destina.
Ma Della Ratta è da stimarsi rimatore di provata esperienza: non
25 «Star neghittoso a te non è concesso».
[ 11 ]
206 Luca Torre
sono pochi i testi che meriterebbero puntuali notazioni di carattere
tecnico26. Il sonetto che segue (x, p. 254), ad esempio, si fa apprezzare
per sottile tessitura musicale e allusiva disposizione di tratti isotopici,
disegno di eleganti movenze immerse in aggraziata atmosfera polizianesca,
uso parsimonioso e ricercato delle inarcature:
L’alma mia donna, che la pianta bella
d’un gentil mirto coltivando infiora
con l’aria del bel viso, et innamora
di sue bellezze in ciel la terza stella,
sì dolcemente del suo onor favella, 5
e ’n sì leggiadri modi orna et onora,
ch’a l’apparir de la vermiglia Aurora
de l’invia del Ciel si rinovella.
Coi begli occhi la scalda, e poi col fiato
la move e piega (ché sì dolce spira), 10
e dàlle umor con sue dolci parole.
Così cresca il bel mirto: e chi sospira,
per farli onor, ritrovi un stil purgato
e pensier alti et rime ornate e sole27.
Nel sonetto Lasso, ch’io ben m’accorgo ch’omai giunge (viii) il riferimento
ad una sorta di “anniversario amoroso” («il decim’anno che ’n
dolci sospiri / fatt’ho sentire i miei alti desiri», vv. 2-3) potrebbe costituire
indizio del concepimento di una più organica struttura per queste
rime: è arduo, in assenza di esplicite testimonianze, formulare
qualsiasi ipotesi intorno all’intelaiatura di un presunto “canzoniere”
dellarattiano.
Tra le rime del Della Ratta vanno segnalati anche due sonetti di
corrispondenza. Il primo (xvi) è indirizzato «Alla S. Caterina
Pellegrina»28, composto in occasione della vedovanza di lei. L’iperbolica
celebrazione delle doti versificatorie di Caterina è costruita sul
raffronto, perseguito a mezzo della perifrasi di matrice bembiana, con
l’auctor trecentesco:
Ben puoi, Sebeto, omai prometter quanto
26 Si legga III, ad esempio, sonetto di cui è da apprezzare la felice selezione
delle parole in rima, in un intreccio tra assonanze e consonanze che crea corrispondenze
foniche e contribuisce ad impreziosire il tessuto complessivo del componimento.
27 Si tratta del secondo di un dittico di sonetti incentrati sul motivo del “mirto”,
la pianta cara a Venere, simbolo dell’unione tra il poeta e la donna cantata.
28 La risposta per le rime, Non attende da me più lieto canto, è a p. 257.
[ 12 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 207
n’ha dato l’Arno, or che la dotta e bella
sirena tua va pareggiando quella
tromba che diede a Laura onor cotanto (vv. 5-8).
Il secondo (xvii) è indirizzato a «M. Girolamo D’Aquino di Capua
»29, già indicato nell’epistola di Giovan Battista Attendolo tra i più
«antichi» e prestigiosi letterati capuani. A questo testo, concepito quale
consolatio per lenire il «grave mal» che «afflige e preme» il sodale,
segue la risposta dell’Aquino (p. 258), che sconfortato si rivolge a Ottaviano
affinché preghi Cloto «ché più stame o pensi / non traha a
l’atre» inconsolabili notti trascorse nelle pene d’amore.
2. Diversamente da Ottaviano Della Ratta, la figura di Vincenzo
D’Antignano, cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano, rimane avvolta
da una fitta nube di mistero, sebbene la sua fugace apparizione nel
panorama del petrarchismo sia contrassegnata da un cospicuo numero
di testi (tredici sonetti e due madrigali, un florilegio di tutto rispetto
se confrontato con quelli di altri poeti coinvolti nell’impresa giolitina).
Tanto il Toppi30 quanto il Crescimbeni si limitano a notazioni estremamente
essenziali, mentre nelle parole di Bernardino Tafuri31, successivamente
parafrasato da Camillo Minieri Riccio32, è contenuto il riferi-
29 Girolamo Aquino fu umanista d’alto rango nell’entourage capuano, in stretti
rapporti con eminenti figure del panorama letterario regnicolo («le più rinomate
accademie lo ebbero a socio e le sue composizioni si trovano in tutte le raccolte di
quel secolo», C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di
Napoli, Napoli, Tip. Dell’Aquila, 1844, p. 32). L’operosità dell’Aquino tanto nell’inventio
poetica quanto nello svolgimento delle proprie mansioni didattico-pedagogiche
(ampiamente gratificate dalle autorità cittadine), infatti, rappresentò efficace
incentivo per le nuove generazioni: tanto Camillo Pellegrino quanto Giovan Battista
Attendolo, solo per citare due tra i principali intelletti partoriti dalla rinomata
piazzaforte del vicereame spagnolo, non esitarono a riconoscere i debiti contratti
nei confronti dell’illustre precettore.
30 N. Toppi, Biblioteca napoletana, et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli,
e del Regno, in Napoli, appresso Antonio Bulifon, 1678, p. 304.
31 B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli, Severini, 1753,
t. III, parte II, p. 72 («Di Capua, Cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano, fu Poeta
volgare, e produsse vari componimenti, ma per lo poco conto, che faceva di quelli,
andarono quasi tutti a male»). Cfr. anche E. D’Afflitto, Memorie degli scrittori del
Regno di Napoli, Napoli, Stamperia Simoniana, 1782, t. I, p. 382.
32 C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, cit.,
p. 30 («Poeta volgare del XVI secolo, nacque a Capua e fu dell’insigne ordine Gerosolimitano
detto de’ cavalieri di Malta. Le sue molte poesie andarono disperse»).
[ 13 ]
208 Luca Torre
mento alla consistenza di un corpus di liriche più esteso di quello trasmesso
dal “libro” del ’56.
L’Antignano si rivela rimatore di lodevole perizia: la fedeltà al modello
non esclude la rielaborazione di nuclei tematico-stilistici paradigmatici
né il ricorso a materiali di eterogenea provenienza. Ciò che
più appare degno di nota, a ben vedere, è la riconoscibilità, nella successione
delle proprie liriche, di quella che potremmo definire
l’“ossatura” di un “canzoniere”; l’opportunità di seguire la traccia di
un itinerario spirituale e amoroso, la storia di un’anima i cui sparsa (ed
exigua) fragmenta si ricompongono a rappresentare una condizione individuale
scissa e a tratti autenticamente tormentata. Ecco l’elenco dei
testi33:
i Zefiro avea già di nov’erbe e fiori; ii Ne la somma beltà del vostro viso;
iii Giulia, che nel bel volto impresso avete; iv Duo lumi oltra misura
ardenti e belli; v Giulia, se ’n me pari al gran desio; vi Poi che ’l spietato
giogo e ’l forte laccio; vii Alto Signor, se ne l’età migliore; viii Padre
del Ciel, la cui pietà infinita; ix Carco d’orror, tremante e vergognoso; x
S’Amor non porge aita; xi Nuovo stral, nova fiamma e nuovo laccio; xii
Alma gentil, che se’ da noi partita; xiii Amor, fortuna e mia crudel ventura;
xiv S’io son morto o s’io vivo; xv Or che nel Ciel son fermi i patti
nostri.
A seguire il primo sonetto (Zefiro avea già di nov’erbe e fiori, p. 262),
in cui l’Antignano si misura con il tópos dell’apparizione in sogno (su
sfondo edenico) della donna amata e, sulla scorta di una consolidata
tradizione proemiale, pare voler istituire «il discorso d’amore su una
divaricazione temporale tra passato e presente»34, nei successivi otto
componimenti Fra Vincenzo percorre un “itinerario” penitenziale disseminato
di slanci devozionali, tragitto lungo il quale l’anima celebra
il proprio disimpegno dai vincoli mondani. Nella prima parte del
“canzoniere”, inoltre, quattro testi (ii, iii, iv, v) potrebbero evocare l’illustre
presenza di Giulia Gonzaga35 nel circuito comunicativo dei capuani,
come suggeriscono due sonetti pressoché contigui. Il primo
33 I componimenti numerati x e xiv sono madrigali, gli altri tredici sono sonetti.
34 M. Ariani, Petrarca, Roma, Salerno Editrice, 1999, p. 228.
35 Il nome Giulia, come detto, ricorre anche tra le rime (vii) di Ottaviano Della
Ratta, attribuito ad una donna della quale l’autore, con movenze che non escludono
un possibile ulteriore riferimento alla Gonzaga, elogia la «somma beltà» e
l’«onestade».
[ 14 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 209
(iii)36, nella sintassi latineggiante gemmata di attributi spirituali, associa
all’esaltazione delle virtù della donna l’auspicio di un autentico,
mistico ricongiungimento dell’anima col «suo Fattore»:
Giulia, che nel bel volto impresso avete
de la beltà del Ciel viva sembianza,
e de’ doni d’Iddio sì ricca sète
che ’l bel de la vostr’alma ogn’altro avanza,
deh, con quel santo ardor di che accendete 5
mille spirti gentil d’alta speranza
sì dolce fiamma nel mio cor movete
ch’arder l’alma per voi pigli baldanza.
E se la mente oltra passando poi
d’una in altra chiarezza, e, al suo Fattore 10
giunta, possa indi trar nove dolcezze,
il vostro Sol co’ chiari raggi suoi
fia scorta a l’alma ne l’eterno ardore:
che ’n lui si unisca, et voi sol’ami e prezze.
Nel secondo (v) l’Antignano si cimenta, rimaneggiandolo, con il
tema dell’inadeguatezza degli strumenti adoperati dall’amante-cantore
per rappresentare gli attributi corporei e spirituali della donna:
Giulia, se ’n me pari al gran desio
c’ho di ritrar vostre bellezze in carte
fosse il saver, lo stil, l’ingegno e l’arte
co ’l vostro al Ciel n’andrebbe il nome mio;
tal ch’al tempo, a la morte e al fato rio, 5
che ’l viver nostro turbano in gran parte,
co ’l chiar che vosco il ciel largo comparte
torremmo il fosco de l’eterno oblio.
Ma ’l pennello e ’l color del mio intelletto
non porian pur ombrar’il bel disegno 10
non ch’avvivar’un sì divin soggetto.
Insomma l’opra è da tropp’alto ingegno:
venga dunque a ritrar sì raro aspetto
Apelle e Zeusi o se v’è alcun più degno.
Questa prima “sezione” si conclude con tre sonetti penitenziali
(vii, viii e ix) nei quali il poeta, «carco d’orror, tremante e vergognoso»,
36 Peraltro, fra i sonetti dei capuani antologizzati, questo (p. 263) è l’unico costruito
secondo lo schema rimico ABAB ABAB, divenuto assai meno ricorrente a
seguito della diffusione dei criteri petrarcheschi di normalizzazione metrica.
[ 15 ]
210 Luca Torre
si accinge a presentarsi al cospetto del Creatore ed invocare perdono
per la pervicacia della propria passione (il «duro affetto», pregnante
rimando a Rvf xxiii, v. 26); la condanna morale di un passato apoditticamente
sacrificato alle ragioni dei sensi (lo «spietato giogo e ’l forte
laccio», ormai «rotto e sciolto», con cui l’anima del poeta fu oppressa
ed imprigionata da Amore) unitamente al conflitto tra anelito d’espiazione
ed impossibilità di tradurre tale desiderio in rigorosa “conversione”
(avvenuta purificazione che il processo della scrittura aspira a
registrare), declinano l’attesa del beneficio divino37 in versi di sincera,
vagheggiata elevazione spirituale:
Alto Signor, se ne l’età migliore
di questi brevi miei giorni mortali
ti offesi, onde gli spirti erranti e frali
oltra passaro, indegni del tuo amore,
or ch’i m’accorgo del mio lungo errore, 5
tua mercé, e sento i miei dannosi mali,
alto vorrei da terra spiegar l’ali
e a te render devoto e l’alma e ’l core.
Ma non sì tosto quinci ergo il pensiero,
ché mille strani error, mille sirene 10
traggon per forza il bel desire altrove.
Tu, che vedi ch’altronde ben non spero
fuor che da te, piacciati omai far piene
de la tua gratia le mie voglie nove.
È a partire dal decimo testo (il madrigale S’Amor non porge aita) che
si registra una vistosa inversione di tendenza, una sorta di mutatio animi
(di segno inverso rispetto a quella petrarchesca) con la quale la pur
succinta raccolta del capuano rivendica la propria appartenenza al
diffuso “ermafroditismo” tipico di molti canzonieri cinquecenteschi.
37 Con riferimento alla «man cortese e larga» invocata da un soggetto che, in
virtù di un pentimento conquistato non senza debito d’afflizione, acquisita la consapevolezza
di aver fino a quel momento percorso una strada disseminata di colpe
e illusioni, aspira a divenire finalmente «scarco da tanti rei terreni impacci». A tal
proposito risalta emblematicamente il nono testo della serie di D: «Carco d’orror,
tremante e vergognoso / de le mie colpe, avanti al tuo cospetto / mi rappresento,
e del mio duro affetto / soccorso invoco al mio stato doglioso. // Tu, Signor, con
quel guardo almo e pietoso, / col qual mirando il primo altrui difetto / mandasti
a terra il tuo Figliuol diletto / a mostrarne il camin che n’era ascoso, // difendi or
l’alma da la lunga guerra / d’empi nemici, e da gli eterni lacci / disciogli ’l cor, che
n’è ben tempo omai; // sì che, s’or giaccio grave e lasso in terra, / scarco da tanti
rei terreni impacci, /degni ch’io venga al fin dove tu stai» (p. 266).
[ 16 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 211
Il sonetto che segue (xi, p. 267), esplicitando la nuova condizione del
soggetto, vanifica al contempo la possibilità che il discorso lirico si
connoti come narratio moralizzata ed induce il lettore a riconsiderare i
criteri d’ispirazione sui quali si fondano i testi precedenti:
Nuovo stral, nova fiamma et nuovo laccio
mi punge, abbrugia e stringe ’l core, in modo
ch’altro dardo, altra face od altro nodo
non fia ch’agguagli il mio amoroso impaccio.
Così traffitto, acceso e avvinto giaccio 5
che ’n sangue, in foco e ’n servitù ad un modo
e ’l colpo e ’l caldo e l’auree chiome i’ lodo:
ond’io stesso m’impiago, ardo et allaccio.
U na man, duo begli occhi, un aureo crine,
con che egualmente amor fiede, ange e preme 10
mille cuori e mill’alme pellegrine,
con mille parti intorno a lei supreme,
ricche di gratie angeliche e divine,
m’hanno ferito, arso e legato insieme.
Risalta l’adozione di strategie tipiche della versificazione petrarchesca,
quali il ricorso all’iterazione aggettivale e la ricerca di pluralità
simmetriche con la disposizione del discorso in cola paralleli. Il profluvio
aggettivale disposto in formula ternaria, peraltro, richiama direttamente
l’idea della prigionia d’amore espressa precedentemente nella
terzina conclusiva38 del sonetto Duo lumi oltra misura ardenti e belli
(iv, p. 264)39. Tale tecnica è replicata in Amor, fortuna e mia crudel ventura
(xiii, p. 268), ove, a seguire l’incipit petrarchesco che esplicita le ragioni
dell’infelicità, con disposizione trimembre di quest’ultime (cfr.
Rvf cxxiv), l’Antignano dà prova ulteriore della cura particolare riversata
nella costruzione delle clausole:
Così mi struggo, e lamentar non lice,
ch’a mortal piaga il pianto duol non scema:
e desïando, amando io moro et taccio (vv. 12-14).
Si è detto come alcune testimonianze lascino intendere che, al culmi-
38 «Fur le catene, il foco e la dolc’esca / che m’hanno insieme preso, arso e legato,
/ ne la prigione onde non fia mai ch’esca».
39 Mi sembra degna di nota la corrispondenza tra questo verso, con il quale
prende le mosse il componimento in questione, ed il v. 7 («lumi, ma più del sol
lucenti e belli») del sonetto S’udì mai sempre in ogni umano impero di Ottaviano Della
Ratta tramandato da R (c. 179r).
[ 17 ]
212 Luca Torre
ne del proprio percorso di poeta lirico, l’Antignano abbia approntato un
canzoniere di ampie dimensioni, o almeno che abbia composto un numero
di testi ben più elevato rispetto a quello delle rime presenti in D.
Impossibile, con gli elementi al momento disponibili, accertare la fondatezza
di queste affermazioni; difficile, di conseguenza, ipotizzare le
cause della dispersione di tale presunto corpus poetico. È tuttavia fuor
di dubbio, volendo avanzare quantomeno un’ipotesi attendibile, che
una tanto ambigua commistione di sacro e profano, in cui il culto di
Petrarca si abbinava a quello divino anche per conquistare fette di mercato
ampie, era plausibile nella religiosità fratesca di allora, ma era anche
destinata a diventare, nell’ottica dei controriformatori, inaccettabile40.
Oltre ai consueti stilemi di matrice petrarchesca (a cominciare dalla
tanto fortunata quanto abusata iunctura «mortal carcer» del secondo
sonetto, Ne la somma beltà del vostro viso, recupero di Rvf cclxiv, vv. 8-9)
tutt’altro che latenti si rivelano le suggestioni di canzonieri coevi. Significativi,
in particolare, appaiono certi richiami alle rime di Luigi
Tansillo, come sembra emergere nei versi che seguono:
S’io son morto o s’io vivo,
donna, nol so; ma se saper vorrete
che di me fia, da voi stessa il saprete.
Perché dal dì ch’i rai
viddi del vostro chiaro almo splendore, 5
uscendo di me fuore
tutto subito in voi mi trasformai.
D unque se sono voi e ne son privo,
pensar potete s’io son morto o vivo.
In questo madrigale (xiv, p. 269) l’istanza lirico-celebrativa persegue
esiti paradossali affidandosi ad un’inconsueta proposizione iperbolica,
con “movenze” (anche per la disposizione del discorso in strutture
simmetriche) che richiamano alla memoria taluni schemi del poeta
di Venosa (si può far riferimento, ad esempio, alla chiusa di Rime
19841); in uno dei madrigali di quest’ultimo42, peraltro, è presente il già
40 S. Carrai, La lirica spirituale del Cinquecento, in Id., L’usignolo di Bembo. Un’idea
della lirica italiana del Rinascimento, Roma, Carocci, 2006, pp. 124-25.
41 L. Tansillo, Rime, Introduzione e testo a cura di T.R. Toscano, Commento
di E. Milburn e R. Pestarino, Roma, Bulzoni, 2011, t. II, pp. 629-30.
42 «S’è ver quel che si legge, / che l’amante in quel ch’ama si trasforma, / pre-
[ 18 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 213
petrarchesco tema della trasformazione dell’amante nell’amata (Rvf
li, vv. 5-6; xciv, vv. 12-14; Tc iii, vv. 161-62), argomento neoplatonico di
ampia frequentazione in relazione al quale i versi di Tansillo introducono
una levitas paradigmatica.
Non rari, d’altronde, gli echi di stilemi tansilliani tra i versi del capuano,
al punto da suggerire una frequentazione tutt’altro che rapsodica:
il quarto sonetto (Duo lumi oltra misura ardenti e belli), che sfoggia
la topica elencazione degli attribuiti femminili, registra al v. 2 («che
fan gir tinto il sol d’invidia e scorno») probabile reminiscenza di Rime
141, v. 1243. Il tema delle apparizioni in sogno, inoltre, trova anch’esso
numerose attestazioni tra i versi dell’autore de Il vendemmiatore, come
nei sonetti 175, 177, 178, 273 o nella canzone 256 (quantunque il nelle
sue declinazioni liriche possa vantare prestigiose attestazioni sannazarariane,
come in Sonetti e canzoni lxiv e lxvii). Peraltro i testi che
appartengono alla prima “sezione” del canzoniere dell’Antignano,
quelli di ispirazione “spirituale” per intenderci, non occultano la suggestione
di ulteriori celebri modelli, da Petrarca fino a Vittoria Colonna44.
In questa sorta di koiné “manieristica”, la sorgiva vocazione al sermo
di Antignano sembra funzionale alla definizione di una misurata,
“classica” disposizione del discorso, veicolo di un’ispirazione che non
travalica i confini di un’efficace regolarità retorico-stilistica. Il microcanzoniere
dell’Antignano, fatti salvi i criteri di omogeneità precedentemente
riconosciuti, si conclude con un sonetto (xv, p. 269) apparentemente
avulso dal corpus nel quale è inserito: si tratta di un testo composto
per le nozze di Don Garzia di Toledo, secondogenito del Viceré
Pedro e terzo Marchese di Villafranca, e Vittoria Colonna junior, figlia
di Ascanio Colonna e nipote omonima della più celebre Marchesa di
Pescara.
sa l’amata forma, / io non son più quel ch’era, ma son voi. / Se cosa, dunque, ho
detto che v’annoi, / non incolpate, donna, il parlar mio, / ché la diceste voi, non la
diss’io» (Ivi, p. 310).
43 «Io viddi il sol, tinto d’invidia e scorno» (Ivi, p. 534). Ma l’immagine personificata
è di esteso impiego: cfr. ad esempio D. Sandoval di Castro, Rime, 4, v. 2
«fanno ondeggiando al sole invidia e scorno»: edizione a cura di T.R. Toscano,
Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 67.
44 Tra i richiami più o meno espliciti alle rime della Colonna, val la pena di citare
il v. 9 di viii («E se de’ gravi error la turba infesta»), probabile suggestione di
Rime amorose, XLVII, v. 1 («Di gravosi pensier la turba infesta»). Per i testi, qui e in
seguito, si rinvia all’edizione delle Rime di Vittoria Colonna curata da A. Bullock
(Roma-Bari, Laterza, 1982).
[ 19 ]
214 Luca Torre
3. Per quanto concerne il misconosciuto ma non sprovveduto Orazio
Marchese (o Marchesi), occorre rilevare le pur stereotipe tessiture
di lodi tramandate da Bernardino Tafuri, che definì il capuano «celebre
Giureconsulto» e «famoso Poeta volgare»45. Marchese infatti, oltre
alle liriche tràdite dalla giolitina del ’56, fu autore delle Addizioni alla
Margaritarum fisci practica criminalis, in qua quomodo in criminali bus judiciis
criminal iter intentatis sit procedendum, et quae poena de jure civili,
canonico, et regni hujus veniat irroganda, novo ordine pertractatur di Nunzio
Tartaglia46 (Napoli, G. B. Cappello, 1590), di due componimenti
inclusi tra le Rime di diversi eccellentissimi autori in morte della illustriss.
sig. d. Hippolita Gonzaga47 e di altri due sonetti presenti nella raccolta di
Rime in lode della illustrissima et eccellentissima signora donna Giovanna
Castriota Carafa (Vico Equense, G. Cacchi, 1585)48. Pare lecito ipotizzare
che all’altezza dell’anno 1556, vale a dire in concomitanza con l’esor-
45 B. Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli, Severini, 1754,
t. III, parte III, p. 174. Per il suo impegno nella professione legale Orazio Marchese
viene ricordato anche da Lorenzo Giustiniani nelle sue Memorie istoriche degli scrittori
legali del Regno di Napoli (Napoli, Stamperia Simoniana, 1787, t. II, p. 219). Al
riguardo cfr. anche C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno
di Napoli, cit., p. 198.
46 Nunzio Tartaglia «di Piedimonte d’Alife fiorì nel XVI secolo, e pose a luce
una pratica criminale, di cui fecesene gran conto per que’ tempi da’ professori del
foro. Ella sortì delle moltissime edizioni, e molti altri Dottori vi fecero da tempo in
tempo delle loro addizioni; ma alle volte ne mutarono il titolo in guisa, che dal
frontespizio può giudicarsi di essere altra pratica diversa dalla prima» (L. Giustiniani,
Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli, Stamperia
Simoniana, 1788, t. III, p. 204).
47 R IME / DI DIVERSI ECCEL. / AVTORI IN MORTE / DELLA ILLVSTRISS.
SIG. / D. HIPPOLITA GONZAGA. / [marca tipografica] / In Nap. Appresso Io.
Maria Scotto. I componimenti di Orazio Marchese si leggono alle pp. 57-59. Altri
due capuani sono presenti nella raccolta di rime per la Gonzaga: si tratta di Camillo
Pellegrino e dell’esordiente Giovan Battista Attendolo, il quale offrì il proprio
contributo all’occorrenza commemorativa con il ragguardevole numero di quattro
sonetti, nei quali sono peraltro riconoscibili i prodromi di una peculiare formula
stilistica (che implica la disposizione della scrittura lirica in compagini di tipo emblematico-
ermetico) rifinita nel corso degli anni successivi (cfr. L. Torre, L’esordio
poetico di Giovan Battista Attendolo, cit., pp. 733-753).
48 L’esemplare consultato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (segnato
113. K. 76) presenta una numerazione delle pagine parzialmente guasta; ho quindi
emendato la suddetta progressione numerica a partire da p. 152 (cifra con la quale
è erroneamente contrassegnata anche la pagina successiva) adottando le seguenti
correzioni: 153] 154, 154]155, 155]156, 156] 157, 157]158, 158] 159, 159] 160, 159] 161,
160] 162, 161] 163 e così via; di seguito, 222] 224, 215] 225, 216] 226, 217] 227, 218]
228, 219] 229, 220] 230, 221] 231, 222] 232.
[ 20 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 215
dio a stampa, Orazio Marchese fosse alle prese con il proprio tirocinio
poetico, magari in scia (sfruttando una già consolidata collocazione
nei salotti intellettuali del tempo) dei più anziani “vati” cittadini.
La costruzione complessivamente convenzionale del primo sonetto
di D (Padre, che queste dolorose e amare, p. 270) ne rivela però l’avvolgente
tecnica compositiva (ottenuta tramite un uso accurato e proficuo
dell’enjambement) sulla base della quale si dipana una matassa testuale
integralmente svolta in chiave dialogica. Il v. 11 («così son le sue
sorti a ciascun fisse») è calco di Rvf clxxxvii, v. 8. Il secondo sonetto (p.
271), fu invece composto in occasione dell’exitus precoce di una misteriosa
sventurata fanciulla:
Questa, che così umile al mondo adorna
visse sol di pietoso e casto zelo,
pudica e monda or se ne vola al Cielo,
e già col suo Fattor lieta soggiorna.
E col parlar che ’l Paradiso adorna 5
gli dice: «Ecco, Signor, da l’uman velo
l’alma disciolta, che da caldo a gielo
libera (tua mercede) a te ritorna».
E lla, mentre in sua breve e trista etate
visse, spregiando ogni hor argento ed oro, 10
attese a l’opre sue tante e pregiate,
acciò che, lieta del suo bel lavoro,
gioisca poi con l’anime beate
questo d’ogni suo ben doppio thesoro.
Dopo aver posto l’accento sulla tutt’altro che rudimentale architettura
delle quartine (ove, come per la sirma, risalta la copiosità di attributi
encomiastici), nelle quali, peraltro, i versi interni recano i rimanti
in -elo che, nella medesima posizione, modulano il sonetto Mentre visse
tra noi l’alma gentile49 di Camillo Pellegrino in R, è lecito domandarsi
di quale donna vissuta in «breve e trista etate» il poeta pianga la precoce
dipartita. Un’ipotesi d’indagine può essere formulata richiamando
in causa Ottaviano Della Ratta e Vincenzo d’Antignano: nell’antologia
del ’56 entrambi consacrano un componimento alla memoria di
una defunta (ma non meglio identificata) conterranea, e in ambo i casi
la donna possiede il nome di Lucrezia. Il Della Ratta, epigraficamente,
la celebra nella misura “breve” degli otto versi di un madrigale:
49 Si tratta del secondo (c. 227v) fra i tre sonetti di Pellegrino pubblicati in R.
Come il testo di Orazio Marchese, è stato anch’esso concepito quale canto funebre
per la recente dipartita di una dama in età ancora florida.
[ 21 ]
216 Luca Torre
O tu che miri il gran mausoleo, e forse
non sai di chi sia l’onorata vesta
che ’n dolce sonno qui riposta giace:
questa è quella Lucretia a cui il Ciel porse
di compita bellezza eterna pace. 5
Ahi, troppo fu al tornar veloce e presta!
D unque piangi tua sorte iniqua e fella,
che ti privò veder donna sì bella.
L’Antignano, invece, dedica alla fanciulla uno dei propri sonetti,
l’undicesimo in ordine di collocazione:
Alma gentil, che se’ da noi partita,
volando al Ciel con gloriosi vanni
da Dio chiamata, e ne’ più eccelsi scanni
presso altri siedi, onde prima eri uscita;
o d’invitta Lucretia alma gradita, 5
che con pura chiarezza e senza inganni
vincesti ’l mondo, e ’l termin de’ brevi anni
cangiasti con perpetua gloria et vita;
mentre, nel vero sol mirando, scorgi
in che rio stato il tuo consorte or giace, 10
sì l’esser senza te gli è duro e forte,
tanta indi sofferenza al cor gli porgi
che ’l suo gran duol non turbi la tua pace,
anzi col tuo gioir si riconforte.
Questi ultimi versi, come quelli di Orazio Marchese, oltre a rimarcarne
la morigeratezza dei costumi, contengono l’essenziale riferimento
alla florida età della defunta (l’Antignano, in più, menziona
anche il «consorte» della giovane, suggerendone la condizione coniugale).
Di fatto, a partire da questo enigmatico antroponimo pare dipanarsi
una sorta di fil rouge che congiunge alcuni rimatori presenti in D
e avvince la consistente “presenza” capuana ad una pervasiva istanza
commemorativa. Angelo Di Costanzo, infatti, col sonetto Già fu Capua
gran tempo emula a Roma, celebra il “rinascimento” della città ispirato
dalle virtù di una non meglio identificata Lucrezia, «in cui si mira /
quant’in mill’anni mai gratia e beltate / vide l’occhio del Ciel che ’l
mondo gira» (e si tenga presente che per questo testo il Libro settimo è
testimone unico)50. Ma anche Antonio Terminio, nel sonetto Sperò
50 Per Claudia Russo il sonetto di Di Costanzo potrebbe essere dedicato a «Lucrezia
di Capua, figlia di Vincenzo duca di Termoli e di Maria di Capua, che sposò
[ 22 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 217
molt’anni già Volturno eguali (D, p. 38), decanta le lodi di una fanciulla
dall’identico nome, la quale «potrebbe essere una giovinetta della famiglia
Di Capua, venuta al mondo per arricchire di prestigio e di lodi
il fiume Volturno, che attraversa appunto la città di Capua»51.
Rispetto ai testi di D, le liriche con le quali Orazio Marchese contribuì
alla citata raccolta di Rime in morte di Ippolita Gonzaga appaiono
più elaborate: oltre ad attestare la significativa presenza del rimatore
capuano in un contesto celebrativo di indubbio prestigio, consentono
di rilevarne la perfezionata confidenza con gli strumenti dell’arte poetica
(a tal proposito il Marchese si segnala per essersi cimentato con
la forma “ardua” della sestina Questa già donna in terra, or dea nel
cielo)52. Analogamente la lettura del sonetto con il quale il rimatore
capuano aderì alle commemorazioni di Giovanna Castriota, pur
nell’esibizione del topico “armamentario” celebrativo, permette di osservare
l’evoluzione di una prassi tecnicamente consolidata, come lascia
intendere anche l’efficacia dell’icastica clausola con cadenza sentenziosa53.
Benedetto Dell’Uva, uno fra i prestigiosi esponenti della poesia religiosa
contemporanea, indirizzò al Marchese il sonetto Orazio, io scrissi
un tempo e scrissi in sorte54, nel quale l’autore, debilitato e ormai avannel
1557 il patrizio napoletano Francesco Loffredo»: Primi appunti sulla tradizione
delle rime di Angelo Di Costanzo (con un sonetto inedito), «Filologia italiana», 11 (2014),
p. 126.
51 T.R. Toscano, Antonio Terminio da Contursi poeta umanista del XVI secolo, cit.,
p. 79. A tal riguardo Girolamo Ruscelli, nella sua Lettura […] sopra un sonetto dell’illustriss.
Signor marchese della Terza alla divina signora Marchesa del Vasto (In Venetia,
per Giovan Griffo, 1552, c. 43v), fa anch’egli menzione di una Lucrezia Di Capua,
figlia di Maria Di Capua duchessa di Termoli.
52 Cfr. Rime di diversi eccellentissimi autori in morte della illustriss. sig. d. Hippolita
Gonzaga, cit., pp. 58-59.
53 «Donna, chi fia che ritrar possa in carte / l’eccellenze che ’n voi raccolte
avete, / s’onor tanto a la fronte ed a le liete / luci, tanta dolcezza il ciel comparte?
// Cresce il lavor sul cominciare e l’arte / manca, e vien che la penna a la man
viete; / ché de le grazie, onde sì ricca sete / quel che si vede è in voi la minor parte.
// Forse al bel collo agguagliar può la neve, / a le labbra le rose o l’oro al crine /
e a due begli occhi le più chiare stelle: // ma qual nobil sembianza esprimer deve
/ de l’alma saggia le doti divine? / A dietro van tutte le cose belle» (Rime in lode
della illustrissima et eccellentissima signora donna Giovanna Castriota Carafa, cit., p.
100).
54 «Oratio, io scrissi un tempo, e scrissi in sorte / con sollecito studio, ond’hebbi
speme, / avanzando lo stil con gli anni insieme, / che gran parte di me fuggisse
morte; // hor le prose e le rime in me son morte / e sol vive pensier che sempre
teme / il fin vicino, e tal m’afflige e preme / che mi fora il morir men duro e forte
[ 23 ]
218 Luca Torre
ti con gli anni, avvertendo tragicamente «il fin vicino», afferma il proprio
disimpegno dalla pratica poetica e dagli uffici mondani. Il Marchese
dedicò al monaco cassinese il sonetto Uva ch’accorto e sazio de
gl’inganni55, con il quale la spiritualità del destinatario viene celebrata
con parole che ne rimarcano l’esemplarità morale: «Felice te, ch’in
stretto albergo chiuso / libertà larga godi, e pensier vani / più non
t’ingombran la tranquilla mente. / Ben seguir ti vorrei per questi piani
/ monti, ma fera voglia e l’antico uso / del mondo, il vago piè storna
sovente» (vv. 9-14).
Le quarantasei terzine del nono tra i capitoli di Camillo Pellegrino
pubblicati da Borzelli, certamente composto negli ultimi anni di vita
del Primicerio capuano, sono indirizzate a un personaggio (l’intestazione,
«a Fabio Marchese, a Orazio Marchese o a un Salernitano», è
dello stesso Borzelli) che è poeta, oltre che cittadino degno della stima
tributatagli dall’ormai anziano autore de Il Carrafa56. Tale destinatario
è anche uomo di legge, in quanto il consiglio rivoltogli dal Pellegrino
è quello di concentrare le proprie energie intellettuali nella professione
giuridica, abbandonando le futili distrazioni della disciplina d’Orfeo:
«Ma io non vel consiglio, ognun vel vieti: / Dante e Petrarca son
pieni di fole / ed oro e onor dan Bartoli e decreti. / Chi di noi saggio
il nome fuggir vole / l’ingegno in vana poesia non opre, / che più che
lode biasmo recar sole» (vv. 16-21). Pare davvero ostica, tuttavia, l’identificazione
del beneficiario di tale avveduto suggerimento con il
“maturo” Orazio Marchese: difficile credere che Pellegrino possa aver
avvertito l’esigenza di indicare la corretta strada da percorrere ad un
attempato Marchese, circa tre decenni dopo l’esordio in poesia di
quest’ultimo57.
// Ciò mi scusi appo voi se non adempio / vostro desire, e s’io rifiuto impresa /
per cui di molta lode avrei speranza. // Né sia di me poco cortese essempio, / ché
l’alma, ognor de le sue colpe offesa, / piange e tace, né tempo altro l’avanza» (Parte
delle rime…, cit., p. 25).
55 Ivi, p. 49. A questi versi, Benedetto Dell’Uva rispose per le rime col sonetto
Movi Signor da’ tuoi beati scanni (ivi, p. 37).
56 A. Borzelli, I Capitoli ed un Poemetto di Camillo Pellegrino, cit., pp. 119-20. Le
terzine d’esordio infatti recitano: «Di Parnaso poggiar su l’alte cime / non è da
tutti, o mio gentil signore, / ma sol d’ingegno di valor sublime. Far ne posso fed’io,
che con sudore / dieci lustri anelai per l’erta via / e forse sempre andai da quella
fore». Il capitolo ha come terminus post quem gli ultimi mesi del 1592 (o i primi del
’93), dal momento che il v. 39 contiene inequivocabile cenno al defunto Giovan
Battista Attendolo («spento l’Attendol delle muse figlio»).
57 Per Angelo Borzelli, scartata l’ipotesi che il destinatario sia da identificarsi
con la persona di Fabio Marchese («si può ammettere che egli abbia indirizzato i
[ 24 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 219
4. Le prime sortite tipografiche di Camillo Pellegrino58, uno dei
principali attori sulla “ribalta” del manierismo letterario, furono affisuoi
versi ed i suoi consigli a D. Fabio Marchese che non fu mai poeta e che un
anno dopo incirca del ’92 passò di questa vita carico di anni, di gloria e di ricchezze?
», p. 121) la soluzione dell’enigma sembra consistere nell’implicazione di «un
Signor Salernitano, il quale in un sonetto di risposta al Pellegrino, che è nel Cod.
XIV. D. 2, dopo le lodi al maestro, loda e ricorda l’Attendolo già morto» (p. 124). In
effetti il capitolo in questione si chiude proprio con un commosso ricordo di Giovan
Battista Attendolo («Era la mia Minerva, era il mio Marte / e voi, Signor, cantaste
gli onor suoi / sì altamente, che le vostre carte // e di poeti son degne e d’eroi
»), a beneficio del quale, dunque, l’interlocutore del Pellegrino avrebbe prodotto
versi di postumo encomio. In ogni caso, la riverenza con quale a più riprese il
Primicerio capuano si rivolge al destinatario è prova del credito di cui quest’ultimo
godette nel milieu intellettuale cittadino.
58 Nato a Capua nel 1527 (dove morì nel 1603), ecclesiastico, fu poeta e trattatista;
partecipò alle attività di diverse accademie fra cui quella dei Rapiti (da lui
fondata a Capua intorno al 1560 insieme a Giovan Battista Attendolo) e quella dei
Sereni Ardenti. Oltre alle liriche stampate in F e ai componimenti editi postumi da
Borzelli, Pellegrino fu autore del già citato dialogo Il Carrafa (pubblicato in appendice
a F, pp. 126-174, in cui, oltre ad affermare la superiorità dell’epica tassiana,
teorizza le modalità di un discorso «artificioso» che deriva dalla subordinazione
della «sentenza» alla «locuzione»), dedicato a Marcantonio Carafa, e del trattato,
anch’esso in forma dialogica, Del concetto poetico (composto nel 1598 ca. ma pubblicato
in A. Borzelli, Il Cavalier Giovan Battista Marino, Napoli, Priore, 1898, pp.
327-59), nel quale l’autore è mosso dall’ambizione di confrontarsi con nuove problematiche
teoriche e sposta il focus dal piano della «locuzione» a quello del «concetto
». Nel solco delle polemiche intorno alla Gerusalemme liberata innescate dalla
pubblicazione de Il Carrafa, Pellegrino rispose alle rimostranze degli accademici
della Crusca con la celebre Replica di Camillo Pellegrino alla Risposta degli Accademici
della Crusca fatta contra il Dialogo dell’Epica Poesia in difesa, come e’ dicono, dell’Orlando
Furioso dell’Ariosto (In Vico Equense, appresso Gioseppe Cacchi, 1585). Sulla
produzione versibus et soluta oratione di Camillo Pellegrino, nonché sulla funzione
da questi esercitata nel dibattito di fine secolo cfr. in particolare A. Borzelli, I capitoli
ed un poemetto di Camillo Pellegrino, cit.; M. Sansone, Le polemiche antitassesche
della Crusca, in AA. VV., Torquato Tasso, Milano, Marzorati, 1957, pp. 527-574; G.
Cerboni Baiardi, Il dialogo «Del concetto poetico» di Camillo Pellegrino, «La rassegna
della letteratura italiana», Firenze, Sansoni, LXII (1958), n. 3, pp. 370-374; B.
Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, Chicago, The
University of Chicago Press, 1961, vol. II, pp. 991-1000 sgg; C. Pellegrino, I dialoghi
e le rime di Camillo Pellegrino, a cura di G. Valletta, Messina-Firenze, Casa
Editrice D’Anna, 1971; B. Weinberg, Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Bari,
Laterza, 1972, vol. III, pp. 307-44; G. Ferroni – A. Quondam, La «locuzione artificiosa
», Roma, Bulzoni, 1973, pp. 92-125 e 392-397; A. Quondam, La parola nel labirinto,
cit., pp. 32-43, 136-144; D. Chiodo, Suaviter Parthenope canit. Per ripensare la
“Geografia e Storia” della letteratura italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, pp.
149-151; F. Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni,
2001, pp. 237-289.
[ 25 ]
220 Luca Torre
date ai sei sonetti equamente distribuiti in R e D. Questo l’elenco dei
testi presenti nelle due raccolte, in ordine di collocazione tipografica:
R D
Occhi, che di splendor vincete il sole Era già per lasciar freddo nel letto
Mentre visse fra noi l’alma gentile Se l’irata Giunon fino a l’inferno
Vent’anni a punto in questa mortal vita Quando, donna gentil, l’alto splendore
I tre componimenti con i quali il capuano contrassegnò il proprio
ingresso nell’agone poetico, esiti di una versificazione rigorosa per
quanto non ancora impreziosita da quella urgenza di sperimentazione
tecnico-formale che caratterizza parte della sua produzione seriore,
paiono rinviare, per il dominio dell’argomento erotico e un sostanziale
ossequio nei confronti degli archetipi petrarcheschi59, alla concentrazione
stilistico-tematica dominante nel cospicuo florilegio di Parte
delle rime di D. Benedetto Dell’Uva, Giovanbatista Attendolo et Cammillo
Pellegrino (= F)60. Sul limitato repertorio di luoghi e descrizioni anatomiche,
per lo più usufruito secondo i tradizionali schemi di organizzazione
della materia lirica, si innesta una moderata selezione di riferimenti
mitologici ed il ricorso ad espedienti utili a impreziosire il “ricamo”
della composizione.
Il confronto con alcuni tra i versi prodotti dal Pellegrino maturo
(quelli in cui risalta l’opera di cesello sui vari aspetti dell’elocuzione,
con particolare riferimento alle liriche edite postume sul finire dell’Ottocento61)
può giovare alla comprensione di un iter compositivo al culmine
del quale si colloca il parallelo e proficuo impegno nella teoria
del fare poetico. Non vi è dubbio che, rispetto alla produzione in rima
giovanile, i testi pubblicati da Angelo Borzelli offrano una ben più
disinvolta disposizione all’ornatus e all’impiego di arguzie in clausola,
assestandosi, anche nella rappresentazione della bellezza muliebre, su
architetture talvolta complesse che denotano una consapevole ricerca
di “differenza” nel sistema classicistico. Ma le liriche tràdite dalle antologie
mediocinquecentesche non appaiono opera di uno sprovveduto:
una lettura diligente, sostenuta da un agile studio delle varianti
59 Cfr. A. Quondam, La parola nel labirinto, cit., pp. 136-140.
60 PARTE DELLE / RIME DI / D. BENEDETTO DELL’VVA, / GIOVANBATISTA
ATTENDOLO, / ET CAMMILLO PELLEGRINO. / Con vn brieve discorso
dell’Epica Poesia. / CON LICENZIA DE SUPERIORI. / [marca tipografica] / IN
FIRENZE. / Nella stamperia del Sermartelli. / MDLXXXIIII.
61 Cfr. A. Borzelli, Appendice a I Capitoli ed un Poemetto di Camillo Pellegrino,
cit., pp. LXXIII-LXXXVII.
[ 26 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 221
diacroniche, dà rilievo all’accurata elaborazione dell’endecasillabo
pellegriniano. Il capuano opera su repertori tradizionali, manifestando
una certa propensione a disporre il discorso in costruzioni simmetriche
e segmenti regolari, comunque procedendo nella direzione di
una non usuale ricercatezza del livello locutorio.
Rivendica senz’altro la propria appartenenza ad una prima “maniera”
versificatoria (per un poeta, tuttavia, già aduso a cimentarsi con
l’“alfabeto” lirico) il primo dei sonetti di R, Occhi, che di splendor vincete
il sole (c. 227r), nel quale, con riguardo ai dettami del petrarchismo,
la figura della donna viene rappresentata «per disiecta membra, a tratti
sineddochici di un tutto infigurabile, che si concede ad una contemplazione
per barlumi, riflessi, illuminazioni, emblemi»62. Si riporta di
seguito il testo nella sua versione primitiva, quella stampata nel Libro
sesto, mentre l’apparato evolutivo rende conto delle varianti di F63:
Occhi, che di splendor vincete il sole
dal cui lume gentil l’alma s’accende,
perle e rubini ov’Amor l’arco tende
e scocca al dolce suon de le parole;
crespe chiome e d’or fino ond’Amor suole 5
ordir la rete in cui m’annoda e prende;
candida man che dolcemente offende
e stringe il cor, che gioia altra non vuole;
riso, che ’n Ciel può far l’alme beate;
leggiadria rara ove le gratie danno 10
fresco la estate e caldo al freddo verno
giunt’a saggia beltà vaga honestate:
queste et altre virtù voi, Donna, fanno
sola nel mondo, e ’l mio bel foco eterno.
1. vincete] vincono 5. suole] sole 9-10. Cantar che fura l’alme e al ciel le ’nvia;
/ grazia ch’ancide altrui, celeste riso 11. fresco la estate e caldo al freddo] che
scopre primavera a mezo ’l 12-13. honestà che più ch’altri m’ha conquiso: /
son le doti che fan la Donna mia
Gli interventi registrati in apparato rivelano come la lezione vincono
abbia rimpiazzato un più confidenziale vincete (unica seconda persona
verbale dell’intero componimento nella versione primigenia), la
quasi integrale metamorfosi dei ternari abbia determinato l’alterazio-
62 M. Ariani, Petrarca, cit., p. 241.
63 La lezione di Parte delle rime (p. 86), peraltro, concorda sostanzialmente con
quella del ms. XIII. D. 18 della Biblioteca Nazionale di Napoli (c. 7v).
[ 27 ]
222 Luca Torre
ne dello schema rimico, modificato da CDE CDE in CDE DCE, e al
verso che apre la prima terzina, pur conservandone l’ispirazione iperbolica,
sia stata affidata un’immagine di più immediata pregnanza
visiva.
Il secondo sonetto (c. 227v) fra quelli stampati in R si configura
come lamentatio funebre per la dipartita di una non identificabile dama:
Mentre visse fra noi l’alma gentile
che mill’altre infiammò di puro zelo,
da Dio vestita del più nobil velo
che mai scaldasse il Sol da Battro a Tile,
imparò il mondo haver se stesso a vile, 5
scorto da lei a soffrir caldo e gelo
per quella strada onde si poggia al Cielo
e fassi a Dio quanto più può simile.
Ma poi che presta al dipartir si sciolse
del mortal nodo, e in Ciel lucente stella 10
splende, ch’a uopo suo Dio la ritolse,
pianse ’l mondo sua sorte iniqua e fella,
ritornando nel fango onde si tolse
sol per virtù d’un’anima sì bella.
Il sonetto tradisce indizi di dialogo con talune rime “capuane” –
anch’esse concepite come canti funebri per la morte di una giovane
donna – incluse nel Libro settimo: a mo’ d’esempio si può accennare
all’impiego della coppia aggettivale iniqua e fella riferita alla sorte (per
l’impiego della quale non escluderei l’ascendente di Vittoria Colonna64),
utilizzata nel v. 7 del madrigale O tu che miri il gran mausoleo, e
forse di Ottaviano Della Ratta (D, p. 260), e alle diverse sottili corrispondenze
con il sonetto Questa, che così umile al mondo adorna (D, p.
271) di Orazio Marchese, nel quale, peraltro, i versi interni delle quartine
recano i medesimi rimanti in –elo.
Il terzo fra i sonetti di Pellegrino presenti nel Sesto libro (c. 227v),
senza enfatizzare l’ostentazione di precoce itinerario penitenziale65,
fornisce nell’incipit significativa informazione circa la giovane età del
64 Cfr. Rime epistolari, 15, vv. 5-6 («Non piango già ’l tuo ben, ma l’empia e fella
/ sorte del mondo»).
65 Senz’altro opportuna la riserva con la quale Borzelli ha accolto l’ispirazione
dei versi sopra riportati, riconoscendo in essi, che «ricordano troppo il modello
famoso da tutti imitato» (Introduzione a I Capitoli ed un Poemetto di Camillo Pellegrino,
cit., p. XII), con riferimento al celeberrimo Padre del Ciel, dopo i perduti giorni (Rvf
[ 28 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 223
poeta; il quale, nato nel 1527, avrebbe pertanto composto il testo negli
anni precedenti la pubblicazione di R, a meno che non si voglia interpretare
tale riferimento cronologico come indicazione d’età approssimata
per un uomo recentemente entrato nella terza decade di vita:
V ent’anni a punto in questa mortal vita,
grave di colpe e da rio sonno oppresso,
mi lascio a dietro, e a morte ogn’hor m’appresso;
né a destarmi di me pietà m’invita.
Tu, pietoso Signor, bontà infinita, 5
ch’amasti l’opre tue più che te stesso,
degna svegliar quest’alma, e omai concesso
le fia ch’erga il pensier là donde è uscita.
A’ miei folli desiri il passo serra,
alto Signor, e ’l cor gelato in parte 10
raccendi e scalda del tuo santo zelo,
perché nel tempo che l’avara terra
dimanderà di me la minor parte,
con la maggior me ne sormonti al Cielo.
La facies rifinita del testo, con impiego misurato ma produttivo di
allitterazioni e inarcature, la disposizione quasi chiastica degli elementi
nelle terzine sostengono il dominante, ontologico anelito d’elevazione
intellettiva e spirituale («e omai concesso / le fia ch’erga il
pensier»), che pare peraltro rimandare ad alcuni tra i più suggestivi
stilemi del concittadino Vincenzo D’Antignano (si legga il sonetto penitenziale
Alto Signor, se ne l’età migliore: D, p. 265, ove al v. 9 si impone
peraltro il sintagma «ergo il pensiero»). A questo riguardo occorre rilevare
come non manchino ulteriori corrispondenze tra i versi dei due
rimatori: il sonetto di Camillo Pellegrino Era già per lasciar freddo nel
letto (D, p. 274) ostenta il cliché del sogno, sul quale è impostato anche
il primo (Zefiro avea già di nov’herbe e fiori, D, p. 258) tra i testi di Vincenzo
D’Antignano presenti nel Libro settimo; tra le liriche di quest’ultimo,
il sonetto Giulia, se ’n me pari al gran desio (D, p. 264) è costruito
sull’altrettanto topica elencazione degli attributi femminili, così come
il pellegriniano Occhi, che di splendor vincete il sole in R; in entrambi i
poeti risalta l’impiego dell’attributo vergognoso66 (che ricorre tre volte
lxii), l’esigenza di far proprio un canone affermato e aderire ad un diffuso cliché
della cultura contemporanea.
66 Attestato in D al v. 11 del primo componimento di Pellegrino (p. 274) e al v.
1 del sonetto Carco d’orror, tremante e vergognoso (p. 269) di Vincenzo D’Antignano
(qui diversamente impiegato ad innestare un canto di tipo penitenziale).
[ 29 ]
224 Luca Torre
nei Fragmenta e due nei Trionfi67, ma è respinto da Bembo e usato con
parsimonia dai petrarchisti del XVI secolo), adoperato da Pellegrino
anche in clausola (v. 14) del sonetto Col sol di due begli occhi, in cui distinse68
per denotare lo stato d’animo (riflesso di una passione non ancora
sublimata nella scelta della rinuncia) dell’amante al cospetto
dell’oggetto di desiderio.
Parzialmente differente la condizione dei sonetti pellegriniani di
D, nei quali il poeta esibisce un cauto incremento dei riferimenti eruditi
ed una certa tensione ad implementare le potenzialità artificiose
della propria Musa. Il primo sonetto, il già citato Era già per lasciar
freddo nel letto, è dunque incentrato sul tópos del sogno, qui declinato
fino al brusco risveglio del soggetto lirico nella terzina conclusiva, con
subitanea eclissi del «volto gentil» (v. 3) manifestatosi nella visione
onirica: «ma mentre il finto ben ver mi credea, / ruppesi il sonno, e io
le braccia apersi / per Madonna abbracciar: ma l’aria strinsi» (vv. 12-
14). La costruzione dell’incipit («Era già per lasciar freddo nel letto / il
suo vecchio Titon la bella Aurora»), inoltre, sembra mostrare una significativa
corrispondenza con l’esordio tansilliano di Rime 220
(«Quando di bel rossor rossa la faccia / lascia il caro vecchion la bella
Aurora»69, vv. 1-2), senza omettere la plausibile suggestione del modello
virgiliano (Aen. iv, vv. 584-85: «Et iam prima novo spargebat lumine
terras / Tithoni croceum linquens Aurora cubile»).
Il secondo fra i testi di Pellegrino inclusi nella giolitina del ’56, Se
l’irata Giunon fino a l’inferno70 (p. 275), è spia di una perizia compositiva
acquisita: l’encomiabile explicit con metafora di incisiva evidenza tra-
67 Cfr. Rvf xlvii, v. 9; cxix, v. 65; ccclx, v. 125; Tc ii, vv. 96 e 99.
68 In F, p. 91.
69 L. Tansillo, Rime, cit., p. 659.
70 Nella più nota versione del mito, Ino, figlia di Cadmo e Armonia, si accanì
contro Frisso ed Elle, i figli avuti dallo sposo Atamante quale frutto della precedente
unione con Nefele. Era inculcò in Atamante la pazzia costringendolo ad uccidere
Learco, uno dei figli avuti con Ino, scambiato per un leoncino dal padre. Pertanto
Ino, in preda a un attacco di indomabile insania, si gettò in mare con il secondo
figlio Melicerte. Al mito ricorre Ovidio nel quarto libro delle Metamorfosi, in cui si
narra l’intervento di Era-Giunone e il conseguente ingresso in scena delle Erinni
(«illa sorores / nocte vocat genitas, grave et implacabile numen: / carceris ante
fores clausas adamante sedebant / deque suis atros pectebant crinibus angues»,
vv. 451-54), cui segue la rappresentazione del suicidio nella sua evidenza tragica
(«Inminet aequoribus scopulus: pars ima cavatur / fluctibus et tectas defendit ab
imbribus undas, / summa riget frontemque in apertum porrigit aequor; / occupat
hunc (vires insania fecerat) Ino / seque super pontum nullo tardata timore / mittit
onusque suum; percussa recanduit unda», vv. 525-30).
[ 30 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 225
gica è predisposto dall’assimilazione tra la condizione del poetaamante
e la funesta vicenda mitologica di Ino, in una progressione
argomentativa scandita da rime etimologiche e corrispondenze / opposizioni
semantico-lessicali (come nel contrasto tra i rimanti inferno :
superno che incorniciano la prima quartina):
Se l’irata Giunon fino a l’inferno
per accender le furie horrende corse
contra Ino infelice, che non porse
gli incensi al nume suo sacro e superno,
questa Dea, di cui tolsi il nume a scherno, 5
per vendicarsi ad altrui non ricorse,
ma con l’ira sua propria il cor mi scorse
d’un gelo tal che tremerà in eterno.
E s’Ino poi col figlio in braccio a un lato
di Thebe in mar gittossi in furor tanto, 10
onde ad ambi seder fra dei fu dato,
io nel mio mal senz’altra gloria o vanto
con la speme già in braccio (ahi, crudel fato)
mi sommergo nel mar del proprio pianto.
Anche l’ultimo dei sonetti inseriti nel Libro settimo (Quando, donna
gentil, l’alto splendore, p. 275) è stato successivamente incluso tra le rime
pellegriniane della stampa fiorentina (p. 82), in cui si registrano
significative varianti testuali (come nel caso precedente, in apparato è
riportata la lezione di F71):
Quando, Donna gentil, l’alto splendore
de’ bei vostri occhi, la sua luce ardente
vibra ne miei, tanta dolcezza sente
ch’a pien goderla non sostiene il core.
Triema in quel punto onde ’l vital calore 5
corre in aita a lui subitamente,
e lasciando le membra e fredde e spente
pallido ne dimostro il volto fore.
La tema allhor che non si scopra altrui
l’alto affetto amoroso, in voi scolora 10
col medesmo pallor la neve e l’ostro.
E se qual pria tornate in poco d’hora
vermiglia, vuole Amor che, come vui
prendeste il mio, ch’io prenda il color vostro.
71 Il testo di F coincide con quello tràdito dal ms. BNN XIII. D. 18 (c. 3v).
[ 31 ]
226 Luca Torre
1. Tosto ch’a riveder m’adduce Amore 2. de’ bei vostro occhi, la sua luce] donna,
de’ be’ vostri occhi il lume 3. acuto dardo scocca indi repente 4. ch’a pien
goderla non sostiene il] che ne’ miei fere, e fa piaga nel 5. Triema in quel punto]
Ei triema al colpo 7. e fredde] quasi 10. l’alto affetto amoroso] l’atto amoroso
a un tempo 12. qual pria tornate in poco d’ora] di nuovo Amor v’orna e
colora 13. vermiglia, vuole Amor] di rose il volto, ei vuol
Come in precedenza mi limito ad alcune elementari notazioni. Nel
testo veicolato dalla stampa fiorentina la prima quartina appare più
finemente elaborata, con immagini di eterea levigatezza, quantunque
adagiate su una superficie fonica ove la predominanza di dentali contribuisce
all’esaltazione di un ritmo efficacemente cadenzato; l’eliminazione
della dittologia «fredde e spente» (tramite la sostituzione del
primo attributo con l’avverbio quasi) attenua i potenzialmente mortiferi
effetti d’amore, in accordo con la delicata tonalità del quadro lirico
dipinto; risalta il ruolo apparentemente più attivo conferito ad Amore,
manifestamente elevato dal ruolo di comparsa a quello di deuteragonista
sull’aggraziato scenario innalzato dal poeta. L’analisi delle varianti
diacroniche, dunque, consente di apprezzare come gli interventi
autoriali siano ispirati da criteri di economicità e pregnanza del
messaggio e, principalmente, da un ben più consapevole e fecondo
impiego degli strumenti tecnici da parte di Pellegrino. Il sonetto si
chiude con il motivo dell’alterazione cromatica, sintomo tradizionalmente
tipico dell’innamoramento, ampiamente frequentato dai petrarchisti
del XVI secolo. In più, come per Occhi, che di splendor vincete
il sole, la lezione di F sembra scaturire da una riflessione su certi esiti
della lirica corrente: si può rilevare, in particolare, la sostituzione del
sostantivo luce con il ben più connotato in senso aulico lume; l’adozione
del sintagma acuto dardo, che ancora una volta pare rinviare al canzoniere
di Vittoria Colonna (Rime amorose 45, v. 10; Rime amorose disperse
39, v. 5); l’introduzione del binomio orna e colora, attestato in Bernardo
Tasso (Rime iii 24, v. 4) e Galeazzo di Tarsia (Rime xii, v. 672).
Allo scopo di rendere più incisivo l’affondo critico in questo primo
“tempo” della produzione lirica pellegriniana è infine opportuno
spendere poche rapide considerazioni sul sonetto incluso tra le Rime
per Ippolita Gonzaga (p. 19, cfr. nota 47): sebbene vincolato alle consuetudini
di codice e pubblicato a circa una decade di distanza dall’uscita
delle antologie veneziane, il componimento può servire a misu-
72 Si rimanda all’edizione critica delle Rime a cura di C. Bozzetti, Milano,
Mondadori, 1980.
[ 32 ]
Una piccola pleiade di rimatori capuani in antologia 227
rare l’evoluzione di una pratica stilistica raffinata e comunque debitrice
di un diligente tirocinio umanistico. La circostanza ferale è evocata
con versi nei quali il motivo della pallida Mors di oraziana memoria si
stempera in immagini di ricercata delicatezza fino a sfociare in un epilogo
di mestizia elegiaca, con tratti che pertengono alla semantica della
levitas. La copiosità di dentali e la regolarità degli iperbati contribuiscono
comunque a cadenzare il ritmo e definire una sintassi classicamente
misurata:
Quel dì che dal bel volto i bei colori
giva Morte furando, infin che tinto
di gelato pallor l’hebbe, il ciel vinto
di pietà sparse lagrimosi humori:
pianser le Gratie e sospirar gli Amori, 5
né partir si sapean dal viso estinto;
che meraviglia era a vederlo accinto
ad arder ancor freddo in fiamma i cori!
N’arsero quanti la Sirena in grembo
coi figli insieme accoglie; ond’hor sospira 10
nobil turba, e sonar fa l’aria intorno:
e Febo, cui gli occhi di pianto un nembo
copre, accordando a sì bel suon la lira
n’udirà l’harmonia l’eterno giorno73.
8. anchor 12. et Febo, gli occhi cui 14. harmonia l’eterno] armonia l’estremo
è da ritenersi auspicabile l’impresa di un’indagine critico-filologica
sulla produzione in rima di Camillo Pellegrino, finalizzata ad approntare
un’edizione che renda fruibili i testi allo studioso contemporaneo.
Al momento credo di poter ribadire l’evidenza con la quale i
sonetti qui proposti si inscrivano in quella che potremmo definire la
“prima stagione lirica” dell’autore (ben distinta da quella più tarda, in
buona parte coincidente con la fase delle dispute accademiche e di
73 Il sonetto venne successivamente incluso nel più volte citato volume F (p.
92), di cui segnalo le poche varianti in apparato. Nella miscellanea fiorentina il testo
si distingue per l’introduzione al v. 12 di un’inversione sintattica che svela,
forse, il tentativo di innalzare il livello d’artificiosità dell’enunciato lirico uniformandosi
a certe manierate consuetudini della verseggiatura protosecentesca; la
lezione estremo al v. 14 (che potrebbe anche essere intesa come difficilior) concorre
con efficacia all’evocazione di un dolente canto febeo che, trascendendo gli ordinari
limiti crono-geografici dell’evento funesto, si potrae escatologicamente sino alla
fine dei tempi. Il ms. BNN XIII. D. 18 (c. 90r) concorda con F per quanto concerne
la lectio in clausola, mentre per lo svolgimento sintattico della seconda terzina non
si discosta dalla stampa del ’64.
[ 33 ]
228 Luca Torre
stesura dei dialoghi74), nella quale, lungi dal voler liquidare i “frutti
poetici” della Musa pellegriniana come prodotti di una mediocre frequentazione
dei moduli classicistici, è possibile riconoscere come «il
livello di fruizione del repertorio metaforico» non si spinga «oltre la
media della condizione petrarchistica»75, con una propensione ancora
in embrione all’elaborazione di contesti artificiosi.
Luca Torre
(Università Federico II – Napoli)
74 In alcuni fra i testi più complessi la rivisitazione dei tópoi petrarcheschi procede
da una rielaborazione concettuale in cui le istanze platonizzanti tendono a
stemperarsi nell’incalzare della realtà sensibile; la materia erotica, anche quando
confinata in strutture metriche canoniche, si dipana nella sintassi intricata e in un
dettato talvolta tortuoso. A tal proposito può essere indicativa la lettura dei versi
che seguono: «D’oro finto non già, ma tersa e pura / sopra l’or, sopra l’ sol, chioma
gentile; / occhio, cui presso ogni altra luce è vile, / e mentre l’alme accende il voler
fura; // volto, in cui rose e gigli ognor natura / nutre, né d’arte v’ebbe uopo mai
stile; / gola e candido petto, che monile / di perle o ricco ammanto aver non cura;
// ma cui guanto non copre, ignude piante, / cui bagna un rio che ’n selva o in
piano ondeggi, / per voi solo convien ch’arda e sospiri: // sia pur di man, di gemme
adorna, amante, / e con furtivo sguardo altri vagheggi / (vago quantunque)
un piè che ’n danza giri» (A. Borzelli, Introduzione a I Capitoli ed un Poemetto di
Camillo Pellegrino, cit., p. LXXXIV).
75 A. Quondam, La parola nel labirinto, cit., p. 137.
[ 34 ]
ADRIANO FRAULINI
Da Leopardi a Montale: la tecnica in prospettiva*
S’intende verificare l’assunto per cui Leopardi per primo vede con chiarezza
quanto l’essere umano sia addentro all’età della tecnica, rovesciando il rapporto
consequenziale tra conoscenza e felicità. D’altra parte Montale, difensore
strenuo dei valori del singolo individuo dalle errate convinzioni del Novecento
rappresentate da tecnicismo e regimi totalitari, può intendersi come punto
d’approdo della forma mentis inaugurata dal punto di vista leopardiano.

This essay aims at verifying the assumption which considers Leopardi as the
first to clearly see how human beings are deeply tangled in the age of techne,
thus reversing the consequential relationship between knowledge and happiness.
On the other hand Montale, a staunch advocate of single individuals’ values
against the misconceptions of the twentieth century represented by technicality
and totalitarian regimes, can be considered as a landing point of the forma
mentis inaugurated by Leopardi.
Certo, nonostante le rivalutazioni, si continua a ignorare che Leopardi
è uno dei più grandi pensatori dell’Occidente. Ma soprattutto si perde
* Impossibile rendere conto di tutta la recente critica su due autori cardine
come Leopardi e Montale. Mi limito dunque a segnalare alcuni contributi, i più
inerenti alle riflessioni intorno a scienza, tecnica e storia, temi riferibili al mio lavoro.
Per quanto riguarda i contributi in volume sul pensiero di Leopardi e le diverse
implicazioni scientifiche, filosofiche, ideologiche e religiose, rinvio a G. Benvenuti,
Il disinganno del cuore. Giacomo Leopardi tra malinconia e stoicismo, Roma, Bulzoni,
1998; A. C. Bova, Al di qua dell’infinito. La “teoria dell’uomo” di Giacomo Leopardi,
Roma, Carocci, 2009; A. Campana, Leopardi e le metafore scientifiche, Bologna, BUP,
2008; A. Carrera, La distanza del cielo. Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Milano,
Medusa, 2011; G. M. Poddighe, Sull’abisso del nulla. Il pensiero di Giacomo Leopardi e
la filosofia del Novecento, Roma, Bulzoni, 1998; L. Marcon, Qohélet e Leopardi. L’infinita
vanità, Napoli, Guida, 2007; G. Polizzi, Leopardi e “le ragioni della verità”. Scienze
e filosofia della natura negli scritti leopardiani, Roma, Carocci, 2003; La prospettiva
antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, a c. di C. Gaiardini, Firenze,
Olschki, Atti del XII convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati
23-26 Settembre 2008). Sul versante degli studi riguardanti l’ironia e il comico va
230 adriano fraulini
di vista che egli apre l’ultimo tratto del “sentiero della notte”, e vede
dove il sentiero conduce. Appunto per questo egli sta “alla fine dell’età
della tecnica”. L’ultimo tratto è l’età della tecnica. Leopardi non solo è
il primo pensatore dell’età della tecnica, e apre la strada poi percorsa
da tutta la filosofia contemporanea, ma vede il futuro essenziale
dell’Occidente: l’approssimarsi del paradiso della civiltà della tecnica
e l’inevitabile suo fallimento1.
Leopardi è il pensatore che apre l’età della tecnica. È il primo che,
aprendo gli occhi, inverte la direzione sul concetto di verità e funge da
apripista per i pensatori dell’età contemporanea, scoprendo il contisegnalato
G. Benvenuti, Un cervello fuori moda. Saggio sul comico nelle Operette morali,
Bologna, Pendragon, 2001; F. Secchieri, Con leggerezza apparente. Etica e ironia
nelle Operette morali, Modena, Mucchi, 1992. Tra gli articoli usciti in rivista su Leopardi
ricordo E. Sanguineti, Invito a Leopardi, «Poetiche» 2-3, 2009, pp. 223-230;
scienza, letteratura e filosofia sono al centro di svariati interventi nel corso di un
incontro organizzato dal Gabinetto Vieusseux e dalla Società Italiana per lo studio
dei rapporti tra Scienza e Letteratura tenutosi il 2 Dicembre 2009 e intitolato Scienza,
letteratura, filosofia nelle Operette morali di Giacomo Leopardi, «Antologia Vieusseux
» 46-47, 2010, pp. 149-151; più incentrato sull’aspetto religioso l’intervento di
A. Bonadeo, Leopardi e la religione della vita, «Italica» 4, 2010, pp. 554-581; della linea
cultural-scientifica Galileo-Leopardi-Calvino scrive G. Polizzi, La letteratura
italiana dinanzi al cosmo. Italo Calvino tra Galileo e Leopardi in «Lettere italiane» LXII,
1, 2010, pp. 63-107; interessante, giacché scandaglia il rapporto tra fede religiosa e
laicità profetica, chiamando in causa uno dei componimenti più tralasciati dal
grande pubblico, l’intervento di C. Veronese, Vecchio profeta tra nuovi credenti. Leopardi,
«Strumenti critichi» 3, 2011, pp. 455-477. Sul crinale di un ambito comune a
Leopardi come a Montale rintracciamo i due contributi più recenti, il primo a firma
R. Bruni, Il leopardismo filosofico di Giuseppe Rensi, «Giornale storico della Letteratura
Italiana» CXXIX, 626, 2012, pp. 191-210, con al centro una figura di studioso e
filosofo assai presente nella formazione del primo Montale; il secondo di F. Coppitelli,
«Il naufragar m’è dolce in questo mare», «in un lento tremolio di culla», «in una
pagina rombante», «Linguistica e Letteratura» XXXVIII, 1, 2, 2013, pp. 191-234, sul
semantema “mare” in Leopardi, Pascoli e Montale. Sul solo poeta ligure segnalo
l’articolo di M. Borio, “Satura”. La rappresentazione inclusiva, «Strumenti critici» 2,
2012, pp. 311-326. Sul versante dei volumi dedicati a entrambi segnalo V. Capelli,
Leopardi. Ungaretti. Montale. Letture, Milano, Jaca Book, 2011, lettura a sfondo intimistico
e religioso, e, decisamente pertinente, U. Carpi, Il poeta e la politica. Belli,
Leopardi, Montale, Napoli, Liguori, 1998; sul legame tra Arsenio e Leopardi scrive
V. Marchesi, Eugenio Montale critico letterario, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
2013. Dedicati a Montale sono E. Gioanola, Montale. L’arte è la forma di vita di
chi propriamente non vive, Milano, Jaca Book, 2011; R. Luperini, Montale e l’allegoria
moderna, Napoli, Liguori, 2012; N. Vacante, Palinsesti montaliani. Riletture in trasparenza,
Genova, Il Melangolo, 2006.
1 E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano,
Rizzoli, 2005, p. 5.
[ 2 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 231
nente del nichilismo che annuncia l’avvento del paradiso della civiltà
della tecnica. Non è – questa condizione di “umanità tecnologizzata”,
guidata dalla ragione – una condizione priva di scompensi. La ragione
porta invecchiamento, oltre a conoscenza. «Questo invecchiamento
è costituito dal dominio della ragione», spiega Luporini, che ricorda la
vicinanza tra l’idea stessa di ragione e quella di progresso, vissuta positivamente
dai più, non da Leopardi: «Il dominio della ragione diventa
un elemento negativo», chiosa2. E lo diventa in simbiosi con una
delle nozioni fondamentali in Leopardi, quella di “barbarie”. «Barbarie
è la corruzione della civiltà e quindi lo stadio più estremo, opposto
allo stato naturale. “Altro è primitivo, altro è barbaro. Il barbaro è già
guasto, il primitivo ancora non è maturo” (Zib. 118) […] Ciò che corrompe
la civiltà è l’eccesso della ragione; quindi l’eccesso della ragione
conduce alla barbarie»3.
L’assunto che propongo è che Leopardi è il primo a vedere ciò che
Montale chiude. Egli inaugura la contemporaneità con la presa di visione
del dominio dell’età della tecnica, mentre Montale ne conclama
la definitiva presa di possesso e la conseguente cancrena sull’umano.
Leopardi, per primo, pensa che la verità è appunto l’annientamento
della vita e delle cose, e che quindi non può essere il rimedio del dolore.
La verità è il dolore. È il tratto fondamentale della filosofia contemporanea.
“La verità, come rimedio, soggioga il divenire angosciante
del mondo. Questo giogo è ciò che la tradizione dell’Occidente chiama
“ragione”.
Il nulla – da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna – domina. Dopo il
fallimento di tutti i “rimedi”, la poesia rimane l’ultimo rimedio, “l’ultimo
quasi rifugio”. La grandezza del pensiero di Leopardi sta nel modo
determinato in cui esso intende l’intreccio del nulla e della poesia
alla fine dell’età della tecnica4.
Severino attribuisce la paternità d’iniziatore della modernità a Leopardi
proprio in funzione del suo rovesciamento del punto di vista:
Leopardi coglie il legame tra verità e libertà dal dolore non come consequenzialità,
bensì come inscindibile ostacolo. La verità non libera
dal dolore, «la verità è il dolore». Il paradigma del divenire non è superabile
e la verità non può non condurre se non all’angoscia: il nostro
giogo è la ragione stessa, quella che avrebbe dovuto rappresentare il
2 C. Luporini, Leopardi progressivo, Roma, Editori Riuniti, (1947) 1993, p. 8.
3 Ivi, p. 29.
4 E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 7.
[ 3 ]
232 adriano fraulini
rimedio. Peraltro, non corrisponde al vero quanto propugnato dai filosofi
del tempo e da personalità come la Staël, che ragione faccia rima
con progresso civile, al contrario «un popolo oltremodo illuminato
non diventa mica civilissimo […], ma barbaro; al che noi ci incamminiamo
a gran passi e quasi siamo arrivati»5. In questo rovesciamento
di prospettiva, nella sua accettazione, sta la versione prodromica elementare
dell’oltre uomo nietzschiano, un suo prototipo di resistenza
umana fondato su fasci di natura e potenza del legame tra il nulla che
ci circonda e la forza della poesia, tanto più dirompente alla fine
dell’età della tecnica. La poesia, proprio perché non più raffrontabile
con la poesia ingenua e corrispondente alla natura dei tempi antichi,
esercita un insperato argine al silenziamento della ragione; la poesia,
innervata sul senso delle cose, pensata e ragionata dalla giusta distanza
dell’ironia6, ricoperta da un senso di malinconia che racchiude e
ingloba la vicinanza del genere umano, viene vissuta come vera rivale
rispetto allo strapotere annichilente della tecnica.
L’ultimo tratto del cammino aperto dai Greci è l’età della tecnica. Leopardi
è il primo pensatore dell’età della tecnica e insieme è il pensatore
del compimento di questa età. Non solo pensa per la prima volta in
modo esplicito, all’inizio dell’età della tecnica, che la “verità” non può
essere il rimedio del “dolore”, ma pensa la condizione dell’uomo quale
dovrà apparire al compimento del tentativo di porre la scienza e la
tecnica come rimedio del “dolore”7.
Leopardi, dice Severino, è colui che, inaugurando l’età della tecnica,
dà un senso diverso a tutto il cammino della civiltà occidentale, dai
greci ai giorni nostri. La svolta epocale a cui ha indirizzato è la percezione
della verità come fonte stessa del dolore. Il passo susseguente a
questo è la predisposizione a riflettere sul rapporto tra l’uomo e l’apparato
tecnico-scientifico inteso come panacea per la risoluzione dei
problemi. Appare fin da subito l’enorme contraddizione in termini fra
queste due funzioni uguali e opposte. La conseguenza sarà che il ri-
5 C. Luporini, Leopardi progressivo, cit., p. 31.
6 Scrive Guglielmi, riferendosi alla Storia del genere umano, ma la riflessione
può essere allargata, che Leopardi «guarda anche al mondo antico dal punto di
vista della moderna scienza dell’uomo, che non può più mantenere il sogno di
un’alleanza dell’uomo e della natura. E questo doppio sguardo determina appunto
la forma ironica, per così dire strutturale, dell’operetta». G. Guglielmi, Una
scienza del possibile. Studi su Leopardi e la modernità, San Cesario di Lecce, Manni,
2011, p. 26.
7 E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 14.
[ 4 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 233
medio pensato dall’uomo risulterà inefficace: la tecnica e la scienza
potranno approssimarsi in eterno alla risoluzione dei problemi pratici
e quantitativi, non potranno porre fine – anzi, avvicineranno ulteriormente
– al peso dell’angoscia. Il modo in cui Leopardi affronta il tema
della tecnica legato ai concetti di verità e dolore è rivoluzionario, non
solo in termini di analisi, pure nei modi delle proposte: egli ha chiaro
il ruolo principale della natura anche rispetto al genere umano. Nel
suo materialismo c’è una rigorosa preminenza del divenire che non
prevede né conosce senso di pietà: il divenire del mondo è in funzione
della sua conservazione e richiede produzione e distruzione indefessi
(c’è, in questo movimento, forte il senso della perfezione degli ingranaggi
della natura in un tono esattamente tecnicistico).
Il divenire è così il processo d’andirivieni naturale delle cose, processo
che produce patimento nell’attrito. Leopardi rispetta il lato conoscitivo
delle cose e chiede agli uomini di corrispondere al proprio
essere più profondo, ergendosi dignitosamente (poiché lo prevede il
proprio statuto interno) alla sopportazione della realtà. È solo comprendendo
questo posizionarsi di Leopardi davanti ai fatti che si può
cogliere il valore della sua produzione poetica e teorica, soprattutto
nell’ultima fase della vita. L’avere fatto passare come cliché teoretico
l’immagine di un Leopardi pessimista crea confusione, conduce su
una strada opposta a quella che andrebbe imboccata se s’intuisse il
valore innovativo della sua “strage delle illusioni”.
Al centro della Palinodia, composta […] nel 1835 […], sta la contrapposizione
tra la volontà di potenza della civiltà del calcolo e della tecnica
– la nuova “età dell’oro” – e il “gioco” indecifrabile con cui la “natura”
distrugge a “capriccio” tutto ciò che essa produce […] dove la “natura”,
sappiamo, non è l’“ordine naturale” o il “sistema della natura”,
ma il puro divenire, la pura forza del divenire che crea ed annienta i
mondi. Sono presenti, nella Palinodia, i tratti fondamentali della civiltà
della tecnica: scienza, industria, tecnologia, organizzazione economica,
dominio del mondo […], organizzazione planetaria, mass media
[…] e “amore universale” […]8.
Non vi è dubbio che le opere più interessanti in questa prospettiva
siano la Palinodia al marchese Gino Capponi e La ginestra o il fiore del deserto.
È nei versi di queste poesie che vengono a galla le tensioni di
rapporto tra la tecnica e la natura. La «civiltà del calcolo e della tecnica
» nasce come risposta definitiva ai problemi dell’umanità, portatrice
8 Ivi, p. 187.
[ 5 ]
234 adriano fraulini
della «nuova età dell’oro». Eppure la natura – detta altrimenti, il divenire
– continua imperterrita la propria opera di distruzione, infischiandosene
delle trovate ordite dal genere umano. «Egli respinge l’equazione
espansione dei lumi = miglioramento del mondo (incremento di
felicità)9. Sono tracciati in questo modo due mondi in forte contrapposizione,
uno reale, quello della natura e del divenire; l’altro ideale, basato
sulle magnifiche sorti progressive dell’umanità, gigante di carta
che s’illude di costruire sfidando l’eterno. La civiltà del calcolo coincide
con la Storia, con l’uomo, con il linguaggio. La natura e il divenire
non abbisognano di civiltà, né di tempo. La tecnica è l’ultimo ritrovato
della civiltà capace di illudere nel senso di una potenza che gli permetta
di elevarsi al rango della natura; ma il calcolo è fallace, la tecnica
può solo avvicinare la natura e fare intravedere all’uomo l’angoscia
che abita la perfezione.
L’idea – ingenua – di una risposta positiva all’interrogativo della
vita sul dolore porta l’umanità a cercare risposte e, tra queste, la tecnica
si preannunzia come la più potente, guidata da una certa dose di
penetrazione attiva dei problemi. L’età dei lumi si connota per la spinta
verso la felicità possibile, per la forza dell’homo faber può prendere
decisioni che cambiano il mondo. La Palinodia risulta così essere un
riassunto dei campi del sapere applicati agli ambiti dell’esistenza. I
rimedi della scienza, le applicazioni della tecnica, assumono un carattere
metamorfico, rasentano il divino, modellano e creano la quotidianità
dell’uomo. L’esito dello scontro non sarà però quello sperato, l’esito
qui è lo scorno, la delusione bruciante per la fine nefasta di un’arma
– la tecnica – che aveva attirato su di sé fondate speranze girate a
vuoto. La tecnica non vince la natura, ottiene unicamente il risultato
di contribuire allo svelamento – attraverso un’incessante opera di
messa in mora delle favole – della realtà. La distanza tra la condizione
dell’uomo e la reale conoscenza dell’angoscia del nulla si assottiglia
pericolosamente. Dopo aver rotto le convenzioni dell’antropocentrismo,
tutto tende alla disintegrazione delle certezze. Il postmoderno,
entro questa dimensione, è soltanto l’ultimo atto d’un movimento che
prevede la disgregazione successiva dei vari centri portanti.
Il nichilismo allora non è più soltanto una malattia dell’essere, ma
la sua condizione, la sua casa originaria. Leopardi coglie per primo
questo passaggio, già nell’aria per via della perdita d’autorevolezza
del gendarme della cristianità sui massimi sistemi. L’entusiasmo della
9 G. Guglielmi, Una scienza del possibile, cit., p. 51.
[ 6 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 235
scienza nel secolo dei lumi corrisponde ai primi vagiti d’un laicismo
che inizia a camminare con le proprie gambe, si trova a non avere più
il punto finale designato in una figura prestabilita. Diventa allora normalità
l’interrogarsi sul nulla, sulla verità, il linguaggio, la Storia e la
tecnica. È proprio in queste condizioni di totale autonomia da divinità
esterne che sorge il grande interrogativo dello statuto dell’essere umano;
e dell’etica. Leopardi, aprendo l’età della tecnica, apre anche alla
constatazione del nichilismo perenne; e apre all’idea della fine dei
centri decisionali dati una volta per sempre, dando così il via a una
serie di parcellizzazioni ontologiche che arrivano fino alla moltiplicazione
non solo dell’io, ma anche delle virtualità tra cui variare la scelta.
La disgregazione del centro si riverbera nella moltiplicazione dei
punti di vista; ma questa realtà, lungi dall’essere definitiva, non salva
dall’oppressione dell’angoscia, anzi, se possibile, finisce con l’accentuarla.
La Palinodia e La ginestra indicano nel modo più esplicito il culmine della
parabola: il paradiso della ragione e della tecnica. E indicano anche
(nella Palinodia l’indicazione è più marcata) le forme degradate in cui si
riflette, nel tempo in cui vive Leopardi, la volontà di realizzare il paradiso
in terra sul fondamento della ragione. I lumi della ragione e della
tecnica – si dice nella Palinodia – promettono all’uomo la felicità (vv.
28-34, 38-42), la nuova “età dell’oro” (v. 99), la “beata sorte” (v. 38) che
va sorgendo conduce i “secoli futuri” (v. 212) al paradiso sulla terra – al
paradiso della scienza e della tecnica, che l’età dei lumi preannuncia.
Anche ne La ginestra, il paradiso della tecnica viene continuamente nominato,
sia nel modo in cui esso si preannuncia nell’età presente, sia
nella sua configurazione finale10.
Realizzare in terra il paradiso della ragione e della tecnica come
preparatorio al raggiungimento della felicità: questo è nell’animo del
secolo dei lumi, questo è lo scopo che Leopardi bacchetta, dall’alto
della sua ironia. L’intento titanico del genere umano che si è liberato
dalle dipendenze divine è ingenuamente onesto, nella sua avida ricerca
di sapere. Eppure, sognare il paradiso in terra, la felicità a portata
di conoscenza, non tiene conto della verità, se non come alleata della
felicità; ci sarà un tempo in cui troveremo l’ultimo passo verso la felicità,
dice l’ottimista; giacché è l’ottimismo il propellente per questa
opera di disboscamento compiuto in direzione della scienza. Un ottimismo
che si può dire della ragione, ma che non tiene conto del rap-
10 E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., pp. 194-195.
[ 7 ]
236 adriano fraulini
porto tra verità e dolore, non considera l’angoscia finale, tanta è la
convinzione nella risoluzione dei problemi, nella reale creazione di un
paradiso per gli uomini in terra. Ricorda Guglielmi che Leopardi «assume
la sua condizione […] di un moderno venuto dopo il grande lavoro
degli illuministi, che dell’illuminismo accoglie il radicalismo critico
e materialistico, e respinge l’ottimismo della ragione»11. Così facendo,
l’ingenuità del secolo dei lumi conduce a due risultati momentanei
ma epocali: da un lato apre definitivamente il mondo alla scienza,
dando aria allo stantio del chiuso in cui le limitazioni curiali avevano
trattenuto la conoscenza, con effetti immediati e repentini sulla
vita quotidiana e in ogni ambito: detto in termini generali, si può parlare
di una decisiva forma di “velocizzazione aggressiva” del mondo;
dall’altro lato, aprendo culturalmente alla ricezione delle idee, permette
l’ingresso del virus del nichilismo che s’inocula nelle prospettive
culturali dell’umanità.
Sessant’anni prima di Nietzsche, Leopardi vede con chiarezza totale il
“nichilismo” dell’uomo europeo, la morte di Dio e la riduzione della
fede cristiana a “maschera” che nasconde il vuoto (Dialogo di Timandro
e di Oleandro)12.
L’anticipo temporale con cui Leopardi preannunzia il nichilismo
rispetto a Nietzsche dà il senso del valore anticipatore dei versi e del
suo pensiero. Ridurre poi il nichilismo a mera corrente filosofica, quasi
fosse un incidente del pensiero e non una condizione di fatto del
pensiero stesso, è un tipico comportamento della logica di chi continua
a credere nella realizzazione del paradiso della tecnica e della
scienza in terra. Al contrario, la nostra libertà conquistata, la nostra
conoscenza aumentata, tutto conduce verso una ragionevole diminuzione
dell’importanza dell’uomo nell’universo. Leopardi è il primo a
dire di come sia finito il tempo delle favole e del mondo costruito a
misura d’uomo, certificando il nostro declassamento universale. Montale,
più di un secolo dopo, conferma la preminenza non di primo
piano dell’uomo, il ruolo di second’ordine rispetto alle aspettative iniziali.
E conferma la ragione come colei che, togliendo veli e nubi dagli
occhi, finisce con il lasciare alla nostra vista la dura crudezza dei fatti.
Se all’epoca di Leopardi il processo di dominio della tecnica era all’inizio,
Montale vive già una fase di risplendente possesso dei gangli
11 G. Guglielmi, Una scienza del possibile, cit., pp. 82-83.
12 E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 201.
[ 8 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 237
decisionali. Cosa può fare l’uomo, come deve comportarsi davanti a
questa realtà? La stessa ragione che depotenzia e nega la nostra preminenza
nell’universo instilla in noi la perseveranza di un istinto animale
mediato con istanze culturali; istanze che si esprimono attraverso
un linguaggio, una tecnica, una manifestazione emozionale e sentimentale;
e che divengono col tempo sempre più complesse e circostanziate.
Istanze che portano a distinguere tra un diritto di natura e
un’etica che, proprio perché slegata ormai da una provenienza divina,
deve quotidianamente ridiscutere i propri limiti e confini. Leopardi
indica questa via, Montale la difende scrupolosamente.
Il paradiso della tecnica è dunque l’estrema illusione della storia
dell’Occidente, “non essendo possibile che la causa del male, cioè la
corruzione, la ragione, i lumi eccessivi ecc. siano anche la causa del rimedio”
(P 359). […] Poiché il “male” è l’angoscia prodotta dalla conoscenza
del divenire, per Leopardi la ragione – il “rimedio” – è peggiore
del male – come poi dirà Nietzsche – perché è la stessa “causa del
male”13.
L’esito dell’incivilimento e del paradiso della tecnica non può che
essere la noia e la definitiva caduta nell’angoscia; là dove quasi tutto è
conosciuto, resta da conoscere solo ciò che unicamente si sarebbe voluto
annientare, il senso d’angoscia che da sempre guida di nascosto
la ricerca della felicità. Accorgersi che «il male è l’angoscia prodotta
dalla conoscenza del divenire» e che «la ragione – il rimedio – è peggiore
del male – perché è la stessa causa del male» è quanto resta da
fare al genere umano. La fiducia posta nella potenza della tecnica è
destinata a venire meno: essa non ha fallito, tutt’altro. Era però sbagliato
l’obbiettivo: non si poteva chiedere alla tecnica ciò che si è chiesto
per secoli, nulla può la tecnica rispetto ai fantasmi dell’angoscia: e
ai fantasmi dell’angoscia non esiste rimedio. Si possono solo arginare,
e i greci, ben consapevoli di questo, iniziarono il cammino del pensiero
occidentale proprio in questa direzione. Leopardi è il punto di fuga
della prospettiva occidentale di un rimedio effettivo ai mali dell’angoscia.
Il fallimento della prospettiva di una felicità in terra riporta gli
uomini a una cupa certezza, la certezza dell’inarginabilità del divenire.
Non vi è alcun posto sacro per l’islandese in cui ripararsi. L’uomo
contemporaneo vive con la sicurezza dell’assenza di un riparo. L’illusione
di una verità quale ancora di salvezza viene definitivamente
13 Ivi, p. 204.
[ 9 ]
238 adriano fraulini
meno. Tutto il lavorio prodotto dal dominio della tecnica in nome di
una verità salvifica non salva in realtà alcuno. Il rimedio, posto dai
greci, non vale più per Leopardi.
Prometeo che dona il fuoco agli uomini sembra essere una promessa
di felicità. La verità e la conoscenza sembrano preludere alla salvezza,
e la tecnica è lo strumento con cui il genere umano riesce a costruire
il futuro, a scalare la vetta della sofferenza. La risposta che la civiltà
occidentale, dai greci in poi, pensa per risolvere il problema è una risposta
quantitativa e tecnica. Crede fortemente nel progresso, crede di
sfruttare l’abbrivio del divenire. E quanto più riesce la scalata alla conoscenza,
quanto più diviene onnicomprensivo il predominio della
tecnica, quanto più si avvicina la perfezione dei suoi intenti; tanto più
resta sguarnito il lato che nasconde il vero pulsare della sofferenza: il
lato umano che pulsa di angoscia.
Ma ancor prima di Leopardi, alle origini della nostra civiltà, Eschilo
parla delle “cieche” speranze donate da Prometeo ai mortali. Le “cieche
speranze” – le illusioni – di vincere la morte rendono sopportabile
la vita, sono il “rimedio”, il pharmakon, contro la disperazione dell’annientamento.
Eschilo non sta dalla parte di questo Prometeo, cioè della
techne e di quella forma di techne che è l’illudersi: per Eschilo il tutto è
dominato dalla “necessità” della verità: “la techne è troppo più debole
della necessità” (Prometeo incatenato, v. 514). La “necessità della verità
salva dal niente l’essenza delle cose”.
Leopardi vede il fallimento inevitabile di questa salvezza, e in quel
Prometeo da cui Eschilo si allontana vede la stessa “natura” dell’uomo,
l’esistenza che per sopravvivere dà a se stessa cieche speranze, illusioni,
l’illusione della poesia, il profumo della ginestra. […]
Per la prima volta, Leopardi mostra l’impossibilità della salvezza dal
nulla: sia della salvezza a cui tende la tradizione dell’Occidente, sia
della salvezza quale è concepita e perseguita dalla scienza e dalla tecnica.
La civiltà della tecnica è il tentativo di differire il più possibile il
proprio annientamento. Agli inizi del secolo XIX, il pensiero di Leopardi
scorge che nemmeno il paradiso della civiltà della tecnica può evitare
il proprio annientamento14.
Si scopre così la necessità dell’Occidente, da Eschilo in poi: rendere
sopportabile la vita. Ecco il senso del farmaco, delle cieche speranze cui
l’umanità si sottopone. L’illusione è solamente dettata dalla necessità
di differire il più possibile l’incontro faccia a faccia col divenire, con
l’annientamento che presto o tardi si rende inevitabile. Il paradiso, vuoi
14 Ivi, p. 343.
[ 10 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 239
della tecnica o vuoi del divino, è lo sguardo fisso che permette di non
pensare all’abisso fin quando non vi finiamo direttamente sopra. Leopardi
coglie un passaggio epocale nella consapevolezza che la ragione
detta alla civiltà della tecnica, coglie l’ingresso nell’era del nichilismo,
in cui non sarà più proponibile ingannarsi sul buon esito della ricerca.
Certo, Montale vede bene dopo di lui il grado di disperazione cui
può condurre l’angoscia dovuta alle domande sul fondo del proprio
essere. Egli vede anche i giochi di potere che stanno intorno agli aspetti
umani, culturali e religiosi. Venuta meno la fiducia ottimistica nella
tecnica, gran parte dell’umanità continua ad appoggiarsi febbrilmente
a entità soprannaturali, a forze che non possono essere comprese dalla
ragione umana. L’agnosticismo colto di Montale non può che avere
rispetto per ognuna di queste forme di “morfina”, prodotte singolarmente
o ecumenicamente, capaci tuttavia di rendere meno opprimente
l’esistenza. Resta inteso che non è la sua risposta; egli continua a
tenere gli occhi bene aperti. La sua percezione del problema è assai
lucida, lo dimostra in uno dei suoi interventi, tra il 1947 e il 1949, alle
conferenze delle Rencontres a Ginevra: «La question qui se pose ici:
progrès technique et progrès moral, n’est pas seulement politique,
mais elle est profondément enracinée dans la vie de l’homme collectif
qui est la substance même de toute politique»15. Leopardi è il primo
pensatore che annusa le nuove coordinate in cui naviga il genere umano,
colui che ha aperto le porte alla velocità della contemporaneità;
contemporaneità di cui Montale annusa il pericolo: sa che può ben
poco: ma a quel poco non intende sottrarsi. Egli è dunque un continuatore,
un tassello ulteriore – se prendiamo a paradigma la tecnica
– rispetto a Leopardi. L’idea cardine è la forte corrispondenza tra il
pensiero di Leopardi sulla tecnica e il modo in cui la visione del mondo
di Montale si inserisce in questo aspetto. Vi è fra i due pensieri una
notevole affinità sullo statuto del paradigma della tecnica e sul suo
rapporto con l’universo umano. Quello che ovviamente li allontana è
la percezione temporale della potenza della tecnica e – ma in minima
parte – il modo in cui decidono di porsi rispetto a essa.
Intendo dare una scorsa alle letture che alcuni critici danno del
rapporto fra i due in merito al tema della tecnica. Lonardi offre il senso
della vicinanza e della lontananza allo stesso tempo fra i due poeti,
dicendo da par suo il rapporto che hanno col Nulla
15 E. Montale, Je suis un personnaliste convaincu, in Ventidue prose elvetiche, Milano,
Scheiwiller, 1994, p. 177.
[ 11 ]
240 adriano fraulini
Se, sul fronte ideologico, al severo, compatto materialismo raggiunto
da Leopardi si accosta piuttosto una filosofia, particolarmente visibile
nel primo Montale, che è sì reattiva a un fondo di severo pessimismo
leopardiano, ma si gioca poi sul nesso necessità-caso, in un relativismo
probabilistico e in un esistenzialismo dell’assurdo e del miracolo che
va da Boutroux-Cestov a Svevo a Proust, fino alla distruzione di quella
coerenza dell’io stesso, che invece risulta intenzionata ancora alla fermezza
e che anzi fiammeggia nel canto-filosofia di Leopardi, sul fronte
della “forma” imposta a tutto questo, si oppone in Montale, alla vaghezza
classica di linea petrarchesco-tassiana, quella che lui stesso già
nel ’28 ha detto l’esigenza della “sensualità espressiva”. È anzi qui,
che, direi, si attua la divaricazione massima di Montale da Leopardi. Il
nulla in Leopardi può cantarsi ancora entro la grande tradizione di
costrizione linguistica che si diceva. Il nulla in Montale, almeno per un
lungo tratto della sua poesia, si è potuto dire solo con la sontuosità e la
più screziata sensualità espressiva che dopo Baudelaire la poesia europea
ha assunto come, insieme, estremo rilievo e contravveleno alla
stessa sordidezza e frantumazione, allo stesso quotidiano inferno in
cui si specificava il più “nobile” e non così triturato Nulla leopardiano.
Montale ha capito abbastanza presto che la sua strada era quella di
braccare dappresso il nulla, il “vuoto che ci invade” […]16.
Le vicinanze, messe a paragone con le lontananze, dicono che il
tempo intercorso fra i due non è passato invano. Se il materialismo di
Leopardi appare compatto, ciò che ne resta in Montale è mediato da
altre esperienze, capaci di attenuazione. In effetti l’«esistenzialismo
dell’assurdo e del miracolo» appare fuori sincrono se messo a spartito
nella rigida crudezza della visione di natura leopardiana. Altrettanto
può dirsi – fa notare Lonardi – della «coerenza dell’io stesso»; ma, anche
qui, Montale è davvero di un altro secolo, vive già nelle molteplici
contraddizioni della modernità plurima (anche dal punto di vista del
numero dei centri d’irradiamento delle idee).
La diversità più grande nella «visione del Nulla» sta poi, per Lonardi,
sul fronte della forma: traccia la distanza tra la linea Petrarca-
Tasso-Leopardi rispetto alla “sontuosità espressiva” di tipo baudelairiano
di cui risente Montale; indubbiamente vero, eppure non è così
facile in questo caso scindere l’armamentario ideologico dalle spire
della forma. Montale, soprattutto nelle prime tre raccolte, è un crogiuolo
da cui si può pescare in ogni direzione (come dimenticare il ciclo
di Finisterre, come non definirlo eminentemente petrarchesco?). L’im-
16 G. Lonardi, Il vecchio e il giovane. E altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli,
1980, p. 99.
[ 12 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 241
pressione qui è che sia nella forma che nell’argomentazione ideologica
che sorregge l’impalcatura del Nulla risieda una differenza di consistenza
data proprio dalle esperienze intercorse fra i due. Baudelaire
allora c’entra proprio perché testimonia la perdita del ruolo di testimonianza
del poeta al cospetto di gruppi sociali omogenei. Se la visione
di Leopardi permette al poeta il ruolo di Cassandra positiva, ha la
convinzione di fondo di una lettura rivolta all’umanità intera, in Montale
questo non è più possibile. Non solo per le frantumazioni dell’io;
non è più possibile perché il blocco umano cui il poeta rivolge la propria
teoresi non è più l’umanità intera (che non significa che Leopardi
pensasse d’essere inteso da tutti, ma che era in grado di beneficiare
tutti, a cascata), bensì gli happy few cui lascia la propria «cipria nello
specchietto»; è una diversa gradazione di potenza cui non si può opporre
alcuna forza ulteriore. Certo, le differenze non possono cancellare
un certo grado di convergenza rispetto all’ordine del problema;
soprattutto nel Montale giovane, il tema del Nulla agisce17, leopardianamente,
proprio nel senso di un’incessante opera del divenire. Quello
che accomuna la teoria dei due poeti è proprio la convergenza di
questo aspetto: il divenire (il tempo, il nulla) consuma, la cenere è tutto
ciò che rimane, preso atto della nostra dovuta disillusione. Prosegue
nel solco di Lonardi – almeno per quanto concerne il rapporto fra
il materialismo leopardiano e ciò che ne resta in Montale – Carpi: fedele
alla sua linea di decostruttore del pensiero montaliano, ne riduce
continuamente la portata, a ragione dal suo punto di vista militante.
[…] mi pare si trascuri la profonda differenza esistente tra l’uomo della
Ginestra, frutto d’un pensiero strenuamente materialistico, e l’uomo
della poesia dell’ultimo Montale, frutto degli estremi svolgimenti di
un pensiero d’estrazione laica sì, ma in termini senz’altro spiritualistico-
idealistici18.
La convergenza argomentativa con Lonardi è scoperta, ma resta
troppo unitaria la linea del pensiero montaliano tra gl’inizi e l’ultima
produzione; non vedere il lavoro in profondità dell’inquietudine –
quella sì cifra comune a tutto Montale – come matrice entro cui si dispiega
l’esistenzialismo laico e quel poco di materialismo presente, è
17 «A Leopardi perviene insomma, […] l’alto patronato sulla fierezza cosmiconegativa
del primo Montale, dove un io giovane, ancora senza intermediarie luminose,
tragicamente, filosoficamente interroga il mondo;[…]» Ivi, p. 98.
18 U. Carpi, Montale dopo il fascismo. Dalla “Bufera” a “Satura”, Padova, Liviana
1971, pp. 62-63.
[ 13 ]
242 adriano fraulini
una mancanza che si può giustificare unicamente dal punto di vista di
una militanza interessata alla potenza politica dei versi. Carpi ha scelto
di leggere Montale dal lato che più gli aggrada, e ne ha ben donde;
non si dimostra interessato all’introspezione, né alle domande che
non possono non sorgere di fronte al senso dell’inquietudine che stilla
dai versi, né si ferma granché sulla novità dell’uso di uno strumento
retorico e tematico come l’ironia (anche qui suona un campanello di
tangenza forte con Leopardi, seppure con le dovute differenze). Anzi,
in merito all’ultima produzione montaliana, il suo giudizio è piuttosto
esplicito
Ma bisogna badar bene a non credere che la novità dell’ultimo Montale
consista nella conquista di diverse e più complesse dimensioni ideologico-
politiche, di una più larga capacità di analisi e di comprensione.
Per far un esempio, quella che Binni chiamò la nuova poetica leopardiana
era sostenuta dalla forza di un sostanziale avanzamento di prospettive
etico-politiche: da cui la potente energia, anche stilistica, dell’ultima
produzione poetica leopardiana, la sua testimonianza di mai rassegnata
vitalità. Non è questo il caso di Montale: legato a prospettive
ideologiche ricche di tradizione storico-culturale ma sempre meno
adatte a comprendere in modo razionalmente valido il mondo reale, gli
era negata la possibilità di un’effettiva evoluzione di pensiero19.
Non riconosce, Carpi, alcun valore ideologico e politico al Montale
più avanti negli anni, anzi, proprio a paragone col Leopardi progressivo
ne decreta il cedimento della vitalità e la susseguente incapacità di comprensione
dei tempi moderni. Messa in questi termini, Montale appare
un poeta antiquato, fuori centro dal punto di vista storico. Non serve
dire come i quarant’anni che sono trascorsi dal giudizio del critico si
siano incaricati d’invertire le posizioni. Del forte impatto del pessimismo
di Leopardi sul Montale di Ossi di seppia argomenta anche Solmi
Come il pessimismo leopardiano, nella sua peculiare accentuazione,
sia pure contraddittoriamente, romantica, sorge all’ombra d’una determinata
crisi storica, così la poesia “negativa” di Montale nasce
anch’essa da una situazione che in lui – e in altri –, nei modi trasposti
della poesia, cerca di darsi una voce20.
Non si imbastisce una filiazione diretta, piuttosto una similitudine
storica e temporale: secondo Solmi, Leopardi starebbe al proprio tem-
19 Ivi, p. 143.
20 S. Solmi, Scrittori negli anni, Milano, Garzanti, (1963) 1976, p. 282.
[ 14 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 243
po come Montale al suo. Detta in questi termini, appare troppo semplicistica
e mal posta la questione: quello che si vuole fare emergere è
l’identica condizione di mood spirituale in cui i due poeti si trovano ad
agire, all’incessante ricerca di una loro voce, di una via d’uscita poetica
per la loro visione delle cose. Emerge ripetutamente una particolare
convergenza di Montale con Leopardi proprio in virtù del suo pessimismo
(soprattutto all’altezza di Ossi di seppia) e delle riflessioni con
coloritura ironica sul ruolo del nulla e della tecnica (qui siamo più
dalle parti di Satura in poi).
Andando oltre le analisi poetiche, Luperini fornisce una chiave
d’interpretazione rispetto ad alcuni motivi di scetticismo montaliano
nei confronti del grande recanatese, addebitandoli al tipo di lettura
storica che se n’era compiuto nei primi anni del Novecento
Anche l’ateismo di Montale non è quello di Leopardi, essendo – come
ha scritto felicemente Calvino – “più problematico, percorso da tentazioni
continue di soprannaturale subito corrose dallo scetticismo di
fondo”. C’è poi una ragione storica nella diffidenza di Montale per
Leopardi: l’uso che di questo poeta veniva fatto negli anni Trenta tanto
da Cardarelli, quanto soprattutto da Ungaretti e dagli ermetici. […]
Ciò chiarito, e pur con evidenti limiti, Leopardi resta per Montale un
punto di riferimento ineliminabile come necessaria premessa della poesia
moderna italiana e dunque anche della propria21.
Al netto dell’ateismo di Montale – non così totalizzante, sempre
per via dell’inquietudine ambigua che attanaglia tutte le sue riflessioni
– emerge un modo di fruire Leopardi che lo mette al riparo nella
nicchia di un classicismo puro e stantio, col risultato di farlo apparire
poeta eccessivamente incasellabile nel suo periodo storico. Legato
all’idea dell’ateismo, ma in stretto connubio con la sfera politica (e
dunque meno oltranzista di Carpi), Luperini coglie parecchie affinità
soprattutto fra le ultime fasi di entrambi
Su questo piano la liason fra l’ultimo Montale e l’ultimo Leopardi appare
assai stretta. Essa riguarda sia la sfera filosofica, sia la polemica
politica immediata. Nella prima bisogna sì riconoscere una maggiore
apertura montaliana all’irrazionale; ma entrambi i poeti poi paiono
concordare sul fatto che, se un creatore per assurdo ci fosse stato, questi
non potrebbe essere che Arimane22.
21 R. Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialista, Roma-Bari,
Laterza, 1999, p. 128.
22 Ivi, pp. 131-132.
[ 15 ]
244 adriano fraulini
Vedere nella personificazione di una figura luciferina il massimo
dell’ordine creatore può apparire un cedimento dal punto di vista della
fiducia nella struttura razionale del pensiero; occorre però tenere
sempre a mente il grado di mascheramento ironico che abita nella produzione
montaliana, in particolare modo quella successiva alla Bufera.
Luperini applica poi a certa produzione montaliana una teoria che
mette al centro la figura dell’allegoria. Dopo averne trattato al cospetto
del simbolo (distinguendosi, al cospetto di quest’ultimo, per il “grado
di estraneità” che gli permette di rimarcare la giusta distanza – lo
stesso processo dell’ironia – rispetto al mondo), l’allegoria si mette a
disposizione del processo di conoscenza in virtù della sua riconoscibilità
non identitaria rispetto al meccanismo dell’altro. Se l’epica richiama
la funzione della memoria e dunque riguarda il momento successivo
alla conoscenza, il romanzo è il luogo in cui applicare i crismi
della ricerca, mentre l’allegoria è uno dei processi conoscitivi più risolutivi
proprio in quanto si manifesta nel distacco e nella pluralità temporale
dell’agnizione. E dei diversi livelli dell’allegoria si occupa Luperini
rispetto alla poesia montaliana: dato per assodato che il vertice
dell’allegorismo risiede nelle Occasioni e nella Bufera
Con Satura il grafico tende decisamente alla discesa, l’abbassamento è
costante, la direzione prosastica e desublimante prevalente. […] L’allegorismo
persiste, ma non è più propositivo, bensì apocalittico e giudicante:
non canta il valore, ma prende atto del disvalore dilagante e attesta
ormai solo un coraggio di vivere ridotto ad atto privato. […] Nei
libri successivi il passaggio dalla prosa al diario disegna una linea ormai
piatta e orizzontale, con lievi increspature, che vanno diminuendo
di altezza e di frequenza verso la fine. L’allegoria ritorce la propria furia
distruttiva su se stessa: si passa dall’allegorismo pieno delle Occasioni
e della Bufera e da quello giudicante di Satura alle macerie e ai relitti
delle allegorie vuote che costellano i Diari e Altri versi. E in effetti, in
quest’ultima raccolta, un testo dal titolo ormai inevitabile, L’allegoria,
dichiara: “Il senso del costrutto non è chiaro / neppure per coloro che
riguarda”. La poesia dell’assenza di significato è, per l’appunto, l’allegoria
vuota. Anche l’allegorismo apocalittico di Satura è ormai abbandonato
e superato […]23.
Con Satura «l’allegorismo persiste, ma non è più propositivo, bensì
apocalittico e giudicante», argomenta24. È l’inizio di una sfiducia co-
23 Ivi, pp. 117-118.
24 «L’allegorismo apocalittico di Botta e risposta I e dell’Alluvione ha sommerso il
pack dei mobili rivela ancora una volontà giudicante di bilancio storico. L’alluvione
[ 16 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 245
smica nella vita, di una regressione inarrestabile in atto. Di più: si passa
dall’allegorismo pieno del secondo e terzo libro – vissuti come vertice
mai più toccato – all’allegorismo giudicante e apocalittico di Satura
– ormai un allegorismo in retromarcia – fino a una vera e propria
allegoria vuota, quella che pullula nei Diari e in Altri versi25. L’exemplum
tratto dalla poesia omonima, testimonia ormai la presenza di un
simulacro di allegoria. Che Luperini utilizzi questa climax discendente
per analogia, attribuendo lo stesso valore discendente man mano che
si digrada dal vertice poetico e allegorico, fino al contenitore vuoto e
portatore di macerie di senso dei Diari, è una scelta critica apprezzabile
dal punto di vista dell’arguzia che regge la struttura del ragionamento,
ma naturalmente opinabile. Che Leopardi rappresenti per
Montale una pietra di paragone importante è innegabile anche secondo
Luperini, pur senza esagerarne la sfera d’influenza.
Fatta questa precisazione, occorre ribadire ciò che li fa apparire terribilmente
convergenti
Quando Montale dice nel 1951 che oggetto della propria poesia è il
sentimento di una “totale disarmonia con la realtà” avvertito “fin dalla
nascita”, non fa che collocare la propria produzione poetica nel solco
di una tradizione aperta da Leopardi e poi ripresa, all’inizio del Novecento,
proprio da Sbarbaro. Da questo punto di vista Montale è assai
più vicino ai poeti vociani che a quelli della “Ronda” o dell’ermetismo.
Il Leopardi di Montale non è quello classicistico – un po’ immobile e
decorativo – di Cardarelli, e neppure quello caro a Ungaretti e alla
scuola ermetica: è il poeta della “disarmonia” appunto, e, in quanto
tale, può esser letto come chiave d’accesso alla modernità26.
Leopardi «poeta della disarmonia» è quanto filtra nel Montale che
avverte il sentimento di una «totale disarmonia con la realtà» fin dalla
nascita; è l’inquietudine che non trova il modo per disambiguare il
del 1966 è allegoricamente quella della società industriale di massa che ha sommerso
in un lago di sterco e di nafta i valori della tradizione. Il mondo della deiezione
e della “fogna”, degli escrementi e della “nuova palta” è, sin dalle prime
battute,
l’orizzonte stesso del libro. I valori umanistici si sono rivelati un inganno:
non da essi, ma dal semplice coraggio di vivere rappresentato da Mosca il soggetto
dichiara di avere appreso l’arte della sopravvivenza». R. Luperini, Montale e l’allegoria
moderna, Napoli, Liguori, 2012, p. 46.
25 «Mentre nelle Occasioni e nella Bufera permaneva un allegorismo pieno, umanistico
e cristiano, oppure biologico e vitalistico; mentre nella prima parte di Satura
restava ancora un allegorismo apocalittico e giudicante; ora Montale sperimenta
l’allegorismo vuoto di chi non crede possibile più alcun significato». Ivi, p. 52.
26 Ivi, p. 64.
[ 17 ]
246 adriano fraulini
cordone ombelicale che li apparenta. In questo senso la loro vicinanza
è più teoretica che poetica, così come si può rinvenire un filo d’unione
solido dato dall’uso dell’ironia che entrambi utilizzano a piene mani,
soprattutto nella loro fase poetica estrema.
Laura Barile ha notato che la compresenza di satira e lirica passa
dall’ultimo Leopardi – quello della Palinodia, della Ginestra e dei Paralipomeni
– all’ultimo Montale. Da parte sua già Lonardi aveva ricollegato
un testo montaliano significativamente intitolato Aspasia al ciclo
omonimo di Leopardi, mostrandone tuttavia la degradazione in parodia
[…] e aveva notato come in Quaderno di quattro anni (per esempio
in L’opinione) la congiunzione fra pessimismo e sarcasmo produca un
avvicinamento a Leopardi che si traduce anche in esplicita citazione
[…]. E fatto è che l’ultimo Montale sottopone ai veleni corrosivi del suo
sarcastico scetticismo tutti i miti della civiltà occidentale: dallo storicismo
con la sua idea rettilinea del tempo alla fiducia positivistica nella
scienza. Gli stessi valori elaborati dalla civiltà – anche quelli etici sostenuti
dal poeta fra Ossi di seppia e La bufera e altro – sono ora da lui irrisi
come mistificazioni in cui cade chi si ostina a dare senso a una realtà
che invece va accettata nella sua insensatezza27.
Gli allacci enunciati da Luperini sono più che indizi: testimoniano
la fluidità pesante del rapporto fra i due. L’ironia che nutre la lirica
satirica dell’ultima fase leopardiana è parente di quella che muove il
sarcasmo montaliano da Satura in poi; l’atteggiamento disincantato
nei confronti del progresso, pur variando di secolo, resta identico, con
al vertice l’intento parodico e di derisione dell’ingenuità di chi crede
in una verità pesante e ottimistica. Storicismo, positivismo e valori
intrisi di scienza sono regolarmente messi davanti alle proprie aporie.
Anche l’attualità loro contemporanea subisce gli strali del sarcasmo
Ma è forse più rilevante e interessante la seconda sfera, quella politica,
che induce Leopardi e Montale a un ininterrotto sarcasmo contro le
gazzette, le comunicazioni di massa, i luoghi comuni, i miti e i riti della
società borghese. Qui la corrispondenza è soprattutto con la Palinodia
al marchese Gino Capponi, particolarmente là dove Leopardi fa un
elogio sarcastico del proprio tempo, mescolando parole classiche e moderne
e producendo, nell’attrito, un effetto comico di dissoluzione ironica
delle ideologie correnti: “Vidi l’eccelso / stato e il valor delle terrene
cose, / e tutto fiori il corso umano, e vidi / come nulla quaggiù
dispiace e dura. / Né men conobbi ancor gli studi e l’opre / stupende,
e il senno, e le virtudi, e l’alto / saver del secol mio. […] Aureo secolo
27 Ivi, p. 71.
[ 18 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 247
omai volgono, o Gino, / i fusi delle Parche. Ogni giornale, / gener vario
di lingue e di colonne, / da tutti i lidi lo promette al mondo / concordemente.
Universale amore, / ferrate vie, molteplici commerci, /
vapor, tipi e cholèra i più divisi / popoli e climi stringeranno insieme: /
né meraviglia fia se pino o quercia / suderà latte o mele, o s’anco al
suono / di un walzer danzerà” (vv. 21-47). Anche Montale finge ironicamente
la celebrazione della società odierna nella poesia appunto intitolata
Elogio del nostro tempo, […]28.
Nasce da questa presa di posizione di Montale quello che Luperini
considera lo svuotamento dell’allegoria; le stesse certezze «piene»
enunciate dall’apice lirico della Bufera vengono rimesse in discussione
e perdono di peso specifico. Sarebbe però troppo considerare la perdita
di peso specifico una perdita di valore tout court; è invece un ulteriore
cambio di prospettiva, una nuova visione del mondo in cui la verità
si adegua alla prospettiva di essere multanime e priva di un centro
sicuro. Prendere atto della situazione in cui il genere umano si trova
immerso è l’esito del pensiero sia in Montale che in Leopardi; è un
approdo forse dettato dalla fine della vitalità, oppure inevitabile da
raggiungere per chi voglia vivere “con gli occhi bene aperti”. Fatto è
che l’approdo è solo l’ultimo tassello di un percorso che fa iniziare
proprio Leopardi, con il suo vedere come la verità sia il dolore stesso
e non la cura, creando così una frattura insanabile fra natura delle cose
e civiltà dell’uomo. Questa frattura è ciò che investe in pieno Montale
fin dalla giovinezza, ciò cui tenterà continuamente di porre rimedio,
fino all’accettazione della dura realtà dei fatti.
Leopardi inaugura il moderno perché intuisce l’irrimediabile divorzio
di natura e civiltà e anzi costantemente oppone l’una all’altra: all’inizio,
nella fase del cosiddetto pessimismo storico, contrappone alla corruzione
della seconda le illusioni dispensate dalla prima; poi, nel periodo
del cosiddetto pessimismo cosmico, dal Dialogo di Plotino e Porfirio
alla Ginestra, vede come unico rimedio a una natura matrigna e alla
fragilità dell’uomo l’organizzazione sociale e civile. Anche Montale
accetta tale fondamentale contrapposizione. […] Anche per questo primissimo
Montale, come per il Leopardi dello Zibaldone, l’uomo che
pensa è, direbbe Rousseau, già corrotto […]. Ma il primo libro di Montale
racconta proprio il progressivo superamento di questa posizione29.
È lo stesso processo mentale, seppure in secoli diversi, ciò che ac-
28 Ivi, pp. 70-71.
29 Ibidem
[ 19 ]
248 adriano fraulini
comuna i due, è il rapporto che intercorre tra natura e civiltà. In entrambi
i casi vi è una inversione di segno, che però giunge a esiti opposti,
da positiva a negativa in Montale; da negativa a positiva in Leopardi.
Si potrebbe dire che, tanto in Montale quanto in Leopardi, la considerazione
della natura nel suo rapporto con la civiltà si va capovolgendo
di valore (da positiva a negativa nel primo, da negativa a positiva nel
secondo) passando dalla giovinezza alla maturità e alla vecchiaia (la
civiltà diventa il trionfo della spazzatura per Montale, l’unica difesa
contro le aggressioni della natura per Leopardi); ma nei due poeti resta
costante l’ambito culturale di riferimento a queste due nozioni, nonché
la coscienza di una loro irrimediabile scissione. Sul piano della scrittura
letteraria, il lascito di Leopardi è profondo e duraturo, e si unisce
saldamente a quello di Foscolo. Il Leopardi di Montale – già è stato
detto – non è quello “puro” di Ungaretti, ma un esempio di poesia filosofica
e argomentativa30.
Luperini sottolinea il punto di svolta di Piccolo testamento, da cui
scaturirà l’energia dell’ultima fase montaliana; ma proprio l’energia,
la vitalità, sarà ciò che verrà a mancare alla civiltà occidentale – nella
visione montaliana – rispetto alla conclusione della Ginestra. Il punto
d’arrivo dei due si differenzia per una diversità d’approccio, per un
diverso moto di reazione alla realtà dei fatti. È in questo senso che
Leopardi può essere letto come strenuo alleato di Montale nel combattere
contro una civiltà che continua incessantemente a indorare la pillola
dell’esistenza. Il paradigma della tecnica si dimostra fondamentale
nella visione di mondo di Montale, in particolare dopo la svolta
sancita dalle Conclusioni provvisorie, soprattutto in merito all’atteggiamento
del poeta rispetto alla comprensione della civiltà occidentale.
Se la prima parte della sua vita poetica è un inseguimento a prendere
atto del fenomeno disarmonico della realtà che continuamente lo inquieta,
la seconda testimonia il tentativo di fare chiarezza sulle impossibili
attese della civiltà della tecnica rispetto a uno stadio ideale di
verità e felicità. L’unica realtà che Montale può dare per assodata è il
bisogno di vivere il proprio tempo avendo occhi bene aperti, trasportando
nel futuro quanto di buono la civiltà occidentale ha saputo mettere
insieme. A partire da questa visuale è possibile comprendere appieno
il senso della posizione assunta da Montale, da troppi interpretata
come una fuga dai suoi doveri d’intellettuale, rispetto a tecnocra-
30 Ivi, p. 72.
[ 20 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 249
zia imperante e comunismo. Il suo tenere fermo il pallino sulla tradizione,
la sua capacità di essere totalmente snob ma da una visuale
apparentemente dilettantesca, tutto cospira verso una conservazione
colta e irrequieta del meglio della civiltà, a un livello più alto rispetto
alla diatriba politica imperante.
Montale è un «insolito tipo di conservatore» che si occupa appunto
di salvaguardare «alcune dimensioni dell’anima umana»31, di mantenerle
vive per le generazioni a venire, mentre gran parte della società
sembra armeggiare attorno a un concetto di civiltà rivolto unicamente
al dominio tecnico. In questo suo andare controcorrente, Montale persegue
le sue finalità fin nell’atteggiamento giusto da tenere: rinuncia
così a ogni forma di specializzazione riconosciuta, preferendo per sé il
ruolo di dilettante di livello, mantenendo così un distacco, anche funzionale,
dalle specializzazioni della modernità. Se si capisce che «il
suo snobismo è una forma di resistenza morale e culturale alla catastrofe
»32, non dovrebbe poi risultare difficile comprendere in questo
modus operandi l’atteggiamento di rinuncia che Luperini ha passato
sotto la categoria dell’allegoria vuota. Montale non ha nelle sue corde
il vitalismo della ragione; meglio: non l’ha più nelle sue corde, una
volta giunto alla verità (affine in questo a Leopardi) di una disarmonia
irredimibile. La sua risposta è il massimo di organizzabile nelle condizioni
date, nella disgregazione storica di tutte le certezze; la sua risposta
non può avere la tenace determinazione di Leopardi perché un
secolo e più non sono passati invano. Nel “mondo secondo Montale”
c’è tutta l’urgenza che attanaglia la nostra condizione di contemporanei.
La «consapevole impotenza» è il dato finale della ricerca cui l’inquietudine
giovanile aveva spinto il poeta; e il senso elegiaco e nostalgico,
spesso corretto da un «moto ironico o autoironico»33 è il solo
modo di fare poesia. Di più, il solo modo di vivere dopo tutte le tragedie
dovute al delirio di potere del genere umano, di cui Montale riequilibra
le folli prospettive, riportandolo al senso profondo del suo
essere, o tenta di farlo, combattendo a modo suo ciò che più esemplifica
la perfezione tecnica del mondo nelle cose (il tecnicismo) e negli
uomini (il comunismo)34. La sua risposta ai mali del mondo è dunque
31 R. Luperini, Montale o l’identità negata, Napoli, Liguori, 1984, p. 204.
32 Ivi, p. 207.
33 Ivi, p. 208.
34 «Gli antichi fantasmi dei colti simboli esistenziali, quali si erano ancora mostrati
nella “terza” poesia montaliana della “Bufera” […] scompaiono: sono ora
sopraffatti dall’incalzare di un mondo massificato, meglio sarebbe dire plastificato:
[ 21 ]
250 adriano fraulini
connotabile come difesa del nucleo privato e individuale di ogni uomo.
Decenza e dignità sono i pre-requisiti richiesti alla figura del poeta
nel suo tempo, insieme alla forza di tenere gli occhi bene aperti,
necessaria per analizzare i fatti senza farsi sviare. La consapevolezza
di Montale sul mondo trova il proprio risvolto, la seconda parte mancante,
all’altezza delle Conclusioni provvisorie. La chiave di lettura ch’egli
fornisce della contemporaneità non è vuota come le sue allegorie:
L’evoluzione successiva, da Satura ad Altri versi, che aveva portato
Montale
ad approdare a un ilare nichilismo e a un disincantato postmodernismo,
s’incontrava ancora con una temperie storica, quella degli
anni ottanta e novanta del secolo scorso, la rifletteva e contribuiva
a crearla. Ma oggi non sono più proponibili né la dimensione di tragedia
e di rarefatta grandezza degli anni trenta-cinquanta, né la prospettiva
di leggerezza un po’ cinica del postmodernismo. La possibilità di
elevatezza è stata spazzata via dal trionfo dell’informe e dell’indifferenziato,
mentre il signorile, sorridente o sarcastico, distacco che le è
seguito è postura oggi improbabile dinanzi alle guerre, agli scontri di
civiltà, al terrorismo internazionale, alle immigrazioni di popoli interi,
al dilagare della crisi economica in Occidente e al modo opaco, indiretto
e a-traumatico con cui questi avvenimenti sono vissuti nella “società
dello spettacolo”. A poco a poco Montale sta scivolando in un cono
d’ombra. Che posto può trovare in tempi come questi, tragici senza
tragedia e comici senza possibilità di riso distanziante e straniante35?
Luperini è convinto che Montale sia in prossimità d’un cono d’ombra
perché, contrariamente a quanto pensava un tempo, non lo trova
più attuale, incapace ormai di interpretare il senso comune del mondo36;
lo trova poco acclimatabile nella società contemporanea: eppure,
il «trionfo dell’informe» era proprio ciò di cui Montale paventava l’avvento;
le guerre non sono certo un’esclusiva degli anni post-montaliani
e gli scontri di civiltà – seppure diversi e forse ancora più cruenti –
neppure. La domanda finale che si pone Luperini illustra alla perfeda
oggetti che di simbolico neppure possiedono quella che potrebbe rappresentare
la loro unica possibile distinzione: la creazione di serie!» M. Vannucci, Incontri del
Novecento. Eugenio Montale, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1975, p. 40.
35 R. Luperini, Montale e l’allegoria moderna, cit; p. 5.
36 «Questo giudizio risale alla fine degli anni novanta. Già allora era chiaro che
la poesia di Montale era restata, come si scrive qui, “senza eredi” e stava entrando
in una “zona d’ombra” e di “parziale eclisse”. Era tuttavia ancora legittimo augurarsi
che potesse conservare una sua centralità anche nel nuovo secolo. Quanto è
avvenuto successivamente non ha pienamente confermato questa ipotesi» Ivi, postilla
del 2012, nota p. 61.
[ 22 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 251
zione lo stato delle cose attuali per come le aveva previste Montale.
Sono i nostri tempi postmoderni che non hanno più possibilità di riso
straniante perché a livello collettivo sembrano inglobare tutto in un
pot-pourri da palude, senza più peraltro possibili valvole di sfogo tragiche,
che apparirebbero al massimo tragicomiche dopo Auschwitz.
Ma proprio in queste condizioni date, l’unica forma di sopravvivenza
individuale è la forma ironica. Occorre distinguere il livello collettivo
– in cui non si registrano speranze di sorta all’orizzonte, si vive
alla giornata, fermi in un eterno presente, come se la post-histoire fosse
il nostro solo scivolo – dal livello del singolo individuo, quello più
difeso da Montale, l’unico che può portare con sé l’antidoto da regalare
agli altri, attendendo tempi migliori. Da questo punto di vista, siamo
ancorati al dopoguerra, il «privatismo» è la risposta di retrovia a
un collettivismo becero che persiste nel suo tecnicismo economicista;
è venuta meno la colonna portante politica del comunismo, è vero; ma
altri cambiamenti di sorta non hanno intaccato il dominio della tecnica37.
I fatti della contemporaneità si prenderanno la briga di allontanare
Montale ulteriormente; ma proprio in una chiave benjaminiana,
saranno le riletture ermeneutiche che divideranno gli accadimenti
evenemenziali dai paradigmi antropologici che danno il segno di
un’epoca: saranno quelli che decideranno quanto e se Montale resterà
un autore attuale. Per tutti questi motivi la virata di Luperini, anche
rispetto al suo stesso pensiero precedente38, lascia il tempo che trova.
Non è colpa di Montale se l’umanità più illuminata si trova a riflettere
con un congruo ritardo sulla stessa lunghezza d’onda sua; se l’incertezza
e la mancanza di prospettive chiare non sembrano diradate da
una forte idea di futuro. Anche Montale si trovò a vivere una inquie-
37 Anzi, prima o poi qualcuno si soffermerà sulla prospettiva di una saldatura
tragica tra comunismo e tecnicismo – di cui la Cina è un laboratorio a cielo aperto
– capace di mettere definitivamente la parola fine alle virtù liberaliste e liberali
attribuite alla funzione del commercio e così bene illustrate da Montesquieu.
38 «Se ormai non sembra più proponibile né lo schema unitario di Contini né
quello binario di Sanguineti e al nuovo millennio la poesia italiana si presenta con
una varietà di modelli e di proposte che rispecchia la sua indubbia ricchezza, la
figura di Montale non appare destinata a perdere, a causa di questo terremoto ermeneutico,
la propria centralità, ma ad acquistarne un’altra, forse più duratura.
Rompendo con i modelli chiusi, rilanciando la lezione allegorica di Dante e ponendo
con forza la questione del significato – del suo bisogno, della sua ricerca, infine
della sua mancanza –, Montale indica una strada nell’inferno meccanizzato nel
nuovo Medio Evo postmoderno in cui andiamo addentrandoci: più che alla fine di
un percorso, sembra al suo inizio». R. Luperini, Montale e l’allegoria moderna, cit.
pp. 60-61.
[ 23 ]
252 adriano fraulini
tudine simile in gioventù. A volte le risposte latitano, semplicemente.
Luperini vorrebbe trovare in Montale una formula che possa rischiarargli
il mondo; non trovandola, accusa i suoi versi d’essersi trasformati
in un cimitero allegorico privo di senso, in cui si riduce il ricorso
all’ironia a un semplice gioco di testimonianza, e così pure per l’allegoria;
li vede come simulacri, coordinate geografiche da turismo del
passato, prive ormai di una vitalità interna capace di corroborare chi
vi s’imbatte. Fatto è che non si può chiedere a Montale risposte puntuali
per un tempo che non è più il suo: in lui si possono trovare gli
strumenti mentali, i pre-requisiti necessari per affrontare ogni crisi
(ancora Piccolo testamento); e Luperini questo lo dice
Se per l’assenza di una dimensione futura e per l’ostinatezza di uno
sguardo che dal presente può allungarsi solo verso il passato, l’ultimo
Montale può legittimamente sembrare un poeta reazionario, bisogna
subito aggiungere che è comunque un reazionario assai singolare, sia
perché non ha un vero e proprio sistema tradizionale di valori da difendere
[…], e anzi in lui l’aspetto critico-distruttivo prevale su quello
costruttivo, sia perché la sua estrema ideologia è tutt’altro che anacronistica,
ma coeva e addirittura anticipatrice di quel nichilismo “debole”
e “postmoderno”, aperto alla “gaia scienza” nietzschiana, che dall’inizio
degli anni settanta alla fine del secolo ha avuto ampio e facile
corso39.
Il radar di Montale si è dunque rivelato in perfetto anticipo sui
tempi, così come il suo utilizzo dell’allegoria «vuota» – Luperini lo
argomenta con profondità – risulta frutto del suo tempo
L’uomo dell’epoca scientifica non può più concepirsi come centro della
creazione; per questo può rappresentarsi, montalianamente, solo come
un “comprimario”: e infatti i “fili del racconto sono in mano d’altri”. In
un mondo siffatto, ridotto a una gigantesca allegoria di cui ci sfugge il
senso perché l’abisso fra significanti e significato si fa sempre più profondo,
e quindi regno dell’estraneazione, il ricordo stesso non può che
perdere il valore luminoso che aveva nelle Occasioni e trasformarsi in
Das Andenken, in oggetto-ricordo, memoria oggettivata40.
L’allegoria «vuota» è la conseguenza del nostro tempo: la scienza
ha spodestato la centralità dell’uomo, la quantità di conoscenza individuale
non tiene il passo con la quantità di conoscenza oggettiva
39 Ivi, p. 174.
40 Ivi, pp. 176-177.
[ 24 ]
da leopardi a montale: la tecnica in prospettiva 253
(Simmel), ergo il mondo diventa «una gigantesca allegoria di cui ci
sfugge il senso». Anche l’esperienza, portato della memoria, non è più
giocabile come prima per via della velocità con cui la tecnica ci butta
dentro alle novità del cambiamento; l’esperienza non è più maestra di
vita, il ricordo perde parte della sua aurea, perde il valore di cambiamento
che portava naturalmente con sé (cambiamento limitato, la politica
dei piccoli passi), rimane ancorato unicamente al valore di testimonianza
del passato; diventa una natura morta rispetto al futuro,
simulacro vuoto, allegoria novecentesca.
Nella società della riproduzione seriale, poi, c’è persino il rischio
della perdita del ricordo stesso, il collezionista si deve rintanare in una
nicchia e cercare oggetti capaci di una personalità autonoma, magari
per un qualche errore di fabbricazione, oppure vivere nella modernità
come arroccato in un tempo andato. E siamo arrivati alla fine della
Storia, a un eterno presente dovuto all’impossibilità di sedimentare le
cose, gli oggetti, i ricordi. L’allegoria, dice Benjamin, è passata dal
mondo esteriore a quello interiore; Luperini considera Schiappino, una
poesia fra le ultime di Montale, esemplare in questa dimensione di
vuotezza. Svuotata di senso – argomenta Luperini – anche l’allegoria
novecentesca vira al nichilismo; fino alla negazione di tutto, compreso
se stessa. Montale chiude proprio su questo punto, con un balbettio, il
suo agone poetico
L’allegoria “vuota” viene dopo, quando, caduta ogni illusione di incarnazione
del valore nella storia […] quest’ultima tende a presentarsi
come datità aneddotica […] ora non è più possibile neppure l’allegorismo
tutto al negativo, ma ancora giudicante e capace di messaggio, dei
grandi testi di Satura. Anzi, questi rappresentano, a veder bene, una
fase intermedia fra quella positiva della Bufera e quella vuota degli ultimi
tre libri. In Botta e risposta I e in L’alluvione ha sommerso il pack dei
mobili prevale un allegorismo negativo e apocalittico (in parte già anticipato
da Piccolo testamento) […]. In questi due testi montaliani la storia,
per quanto al presente ridotta a una realtà escrementizia, è ancora
umana, o almeno lo è stata, in quanto in essa è stato pur possibile conservare
una identità […]; perciò è possibile conoscerla, distinguerla in
fasi e farne un bilancio. Viceversa, nell’ultimo Montale, il processo di
estraniazione e di disantropomorfizzazione conduce sino alla sua disumanizzazione:
“La storia è disumana / anche se qualche sciocco cerca
di darle un senso” (Postilla a “Una visita”). Ma riducendo la storia a
mera alterità viene posta in discussione, in realtà, qualsiasi socialità,
dunque qualsiasi convenzione. L’allegoria vuota tende, alla fine, a negare
anche se stessa: cioè, qualsiasi possibilità di discorso. Sulla soglia
del silenzio, non resta allora che l’estremo divertissement del Vecchio
[ 25 ]
254 adriano fraulini
scettico e melanconico che gioca con i frantumi delle parole e con le
interiezioni. L’ultima poesia dell’Opera in versi scritta nel 1976 ma con
la significativa indicazione a penna “forse il libro potrebbe finire con
questa poesia”, s’intitola Ah! E l’ultimo suo verso (ultimo quindi
dell’intero canzoniere montaliano) suona “Mah?”41.
Nella climax discendente del senso dell’allegorismo si legge in controluce
la condizione del genere umano posto di fronte allo strapotere
della tecnica che uccide tutto, arte e storia. Il modo in cui Montale
termina la propria vita poetica sembra certificare la morte della poesia
stessa, l’incapacità di andare oltre, dopo aver guardato con occhi bene
aperti il vuoto e il baratro cui ha condotto la speculazione umana. Luperini
crede dunque che Montale non possa dire più nulla
La radicalità dell’ultimo Montale è dovuta al fatto che egli porta alle
estreme conseguenze il potere decostruttivo dell’allegorismo. L’allegoria
di Schiappino è come quella di Ah!: il vuoto, ormai, si è spostato non
solo dal mondo esterno a quello interno ma da questo alla poesia stessa
e al suo linguaggio. […] Alla fine, la poesia allegorica ritorce il proprio
“furore distruttivo” su se medesima: l’ultima allegoria è quella
della morte stessa della poesia42.
Eppure, mentre Montale consegnava all’Opera in versi approntata
dal duo Contini e Bettarini il suo Mah? conclusivo, sapeva benissimo
che quello non sarebbe stato l’ultimo atto della sua poesia, sapeva che
con un vero colpo di teatro43 sarebbe riapparso a intervalli regolari,
vivo da morto tra i vivi o presunti tali, attraverso la pubblicazione del
Diario postumo. L’estremo divertissement dell’autore vale più di mille
manifesti teoretici. È il colpo di coda dell’individuo che dice come sia
sempre possibile per il singolo – anche a tempo abbondantemente scaduto
– rifiutare di seguire la corrente, ripiegando su un angolo di privata
libertà.
Adriano Fraulini
41 Ivi, pp. 178-179.
42 Ivi, p. 180.
43 Non entro nella polemica tra i sostenitori e i detrattori del Diario Postumo,
sottolineo soltanto il deciso virare di buona parte della critica tra le fila dei detrattori,
soprattutto dopo l’ultima fatica filologica del prof. Condello e dei suoi collaboratori.
[ 26 ]
Achille Castal do
Sguardo su un mondo in rovina: percorso nell’opera
espressionista di Marcello Gallian
Marcello Gallian è stato uno dei principali esponenti dell’avanguardia letteraria
romana degli anni Trenta. La sua opera, da molti definita barocca ed espressionista,
è oggi quasi del tutto dimenticata, per la scarsità di riedizioni e analisi
critiche. Il presente saggio si propone di esaminare in modo esaustivo le caratteristiche
strutturali della narrativa di questo autore e di fornire un’interpretazione
accurata della sua figura.

Marcello Gallian was one of the major exponents of the literary avant-garde in
Thirties Rome. His writing, considered by many to be baroque and expressionist,
has been almost entirely forgotten through the lack of new editions and
critical readings. This essay aims to examine in detail the structural characteristics
of Gallian’s fiction and to offer an accurate elucidation of the writer.
1. Forma esistenziale e strutture narrative
Nel 1919, Marcello Gallian ha 17 anni. È appena scappato dal convento
dove la madre aveva voluto che fosse educato, lontano da Roma
e dal progressivo declino di una famiglia un tempo parte dell’alta borghesia
della capitale. Ma proprio qui, nella capitale, al termine di una
fuga rocambolesca e squattrinata, si è fermato poco. Il suo scopo è un
altro: un sogno, coltivato negli anni precedenti, macerati dal desiderio
di partecipare a quella grande guerra che era arrivata troppo in anticipo
sulla sua età. Ora, finalmente, il sogno potrà realizzarsi. D’Annunzio
ha occupato Fiume; il giovane Gallian parte in treno. Dopo Venezia,
contempla dal finestrino il paesaggio devastato dalla guerra:
Il mondo era sconquassato, ribaltato, disfrenato e logorato addirittura:
il treno passeggiava con molte ruote in un paesaggio travolto, sopra
ponti indifesi e pericolanti, deboli e malaticci addirittura che sostavano
per l’ultima volta fra abissi aperti dal cannone, malodoranti, dagli
srapnell e obici giganteschi, tra frane enormi fra crepacci smisurati: le
montagne eran spaccate, alcune divelte perfino e rovesciate all’intor256
achille castaldo
no; rocce rocce rocce dure s’eran infrollite […]. Due tre villaggi stavan
vuoti ed ogni poco miravo, passando stralunato in volto, ora cadere un
sasso, ora frangersi un serbatoio d’acqua piovana, ora capitolare, dato
il rombo del treno, una camera intera, con tutte le tappezzerie provinciali;
gli sbrendoli ventilavano salutandomi. Un cane solo fiutava i monumenti
morti e un asino macchiato da piaghe antiche mangiava qualcosa
che non vedevo chiaramente. Dappertutto segni di passaggio di
carri; tracce di veicoli pesanti; orme di eserciti in marcia che la pioggia
e il sole poi avevano indurito a vista d’occhio. Pietraie inservibili, scantinati
all’aria, recessi nel buio della terra dolorante, campi sfoderati e
sovvertiti campavano all’aria, senza pose e decisione, nel riserbo di
ogni comprensione1.
Il tentativo di abbracciare in uno sguardo unitario la figura di Gallian2
e i suoi scritti, ha molto in comune con l’osservazione di un paesaggio
sconvolto dalla guerra. Nel confrontarsi con la narrativa di
questo autore dichiaratamente fascista, ossessionato dall’idea totalitaria,
ci si trova inizialmente immersi in un caos magmatico. Si avrebbe,
come il narratore che osserva la forma della guerra dal treno, il desiderio
di arrendersi al «riserbo di ogni comprensione», al cospetto di
un’opera e di un’esistenza percorse da una continua devastazione.
Eppure, si rimane quasi stupiti nel notare che forse pochi autori
hanno mantenuto nel corso degli anni una simile, paradossale coerenza
per quanto riguarda immagini, temi, strutture narrative e stilistiche.
Nel caso di Gallian, superato il disorientamento iniziale, si scopre
un vero e proprio sistema di ossessioni.
È opportuno mettere subito in luce quello che è – credo – il centro
di questo sistema. Si tratta, per dirla nel modo più brutale – che spero
di chiarire in seguito –, di una fissazione sull’immagine della nascita,
una nascita impossibile, mancata, che finisce invariabilmente per sfociare
nell’aborto. Solo poche righe prima del brano appena citato, il
narratore aveva affermato: «Mi sembrava di dormire ad occhi aperti,
in un sopore spettrale e tirannico, nel senso che mi accorgevo di aver
finalmente mutato spirito e tempo e di poter nascere da un momento
all’altro»3; e ancora: «m’ero purgato, mi sembrò, dalle colpe dei padri
e delle madri antiche: ero sul punto di nascere nuovamente e a mio
1 M. Gallian, Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940, pp. 52-53.
2 Per un resoconto complessivo della vita e dell’opera di Marcello Gallian si
veda P. Buchignani, Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico,
Roma, Bonacci Editore, 1984.
3 M. Gallian, Primo diario, cit., p. 45.
[ 2 ]
sguardo su un mondo in rovina 257
modo soltanto»4; e poi, più avanti: «Ci si metteva, noi giovani, nel caso
di essere morti e la vita ci violentava alle tempie, dimenticato per sempre
l’utero materno lontanissimo. Marciavamo anzi verso un orizzonte
proprio contrario ad ogni utero materno: ci allontanavamo con
esperienza dalle nascite, per trovare rifugio finale nel combattimento
armato e sanguinoso».5 Ma l’allontanamento dal grembo materno non
può, qui, non essere illusorio, il che è del resto reso chiaro dalla destinazione:
una battaglia mortale: «Pretendo di morire senza che nessuno
se ne accorga. Appena nato, muoio»6.
Sono solo alcuni esempi scelti tra i moltissimi presenti sia in questo
Primo Diario che in tutte le altre prose di Gallian, cui vanno ad associarsi
varie altre immagini in qualche modo legate al campo semantico
di quello che Otto Rank ha definito Il trauma della nascita7, ovvero la
narcolessia, il sonnambulismo, la tendenza a cercare rifugio in luoghi
chiusi dai quali si viene poi violentemente scacciati.
L’ossessione per la nascita, lungi dall’essere una semplice suggestione,
rivela, nell’opera di Gallian, una struttura narrativa che tende
a organizzarsi attorno a una triade di attanti, ovvero: il ragazzo selvaggio,
alter ego dell’autore, riottoso a ogni ordine, antiborghese, fascista
ante litteram o squadrista vero e proprio a seconda dell’ambientazione
temporale; la donna, figura sempre materna, buona e accogliente o
terribile e divorante; il nemico, figura paterna, violenta, autoritaria.
Il modo attraverso il quale tale struttura sembra funzionare, segue
del resto uno schema fisso: il ragazzo instaura con la donna un rapporto
amoroso e filiale, che nella quasi totalità dei casi assume però i
contorni dello stupro. La donna è una borghese spesso avanti negli anni,
desiderosa di vivere nelle comodità, di sfruttare gli agi del mondo
così com’è. Il ragazzo è invece sempre rivoluzionario, vuole distruggere
l’ordine vigente e riportare la donna a una piena vitalità (tali rapporti
hanno chiare valenze incestuose, come nei romanzi Una vecchia perduta8
e Bassofondo9, e scopo del giovane è un vero e proprio ringiovanimento
della donna). A questo punto si inserisce però la figura del nemico,
l’immagine paterna, che assomma in sé anche l’autorità della
società che il giovane vorrebbe rovesciare, e con cui è necessario condurre
una lotta senza quartiere.
4 Ivi, p. 51.
5 Ivi, p. 94.
6 Ivi, p. 100.
7 O. Rank, Il trauma della nascita, Milano, Sugarco, 1994.
8 M. Gallian, Una vecchia perduta, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1933.
9 Id., Bassofondo, Milano, Panorama, 1935.
[ 3 ]
258 achille castaldo
Si tratta di uno schema che lo stesso Gallian ha più volte applicato
in modo perfettamente consapevole, come un’allegoria di quella che
egli riteneva essere la rivoluzione fascista: il ragazzo rappresenta allora
l’energia della nuova gioventù che si presume rivoluzionaria, la donna
matura la vecchia Italia che è necessario riportare in vita, il padre i poteri
borghesi di cui fare piazza pulita. Il giovane desidera un figlio
dalla donna (si tratterebbe del compimento della rivoluzione), ma per
ottenerlo deve superare le resistenze di lei e il congiurare di un’intera
società vigliacca e opportunista che non vuole morire.
In realtà, la banalità di tale costruzione allegorica mirava a occultare
un coacervo di motivi che faticavano a farsi largo nella coscienza
dell’autore, primo fra tutti il dato di fatto, puro e semplice, che quella
che lui aveva sperato essere una rivoluzione antiborghese destinata a
spazzare via l’ingiustizia dal mondo, non era altro che un salto di qualità
della più spietata logica capitalistica, decisa a tutelare i propri interessi
con il pugno di ferro.
Ma l’allegoria, come ha affermato Benjamin, possiede in sé un’intrinseca
forza decostruttiva, in grado di mandare in rovina le costruzioni
ideologiche di cui è intessuta:
D’altra parte l’allegoria ha a che fare, proprio nel suo furore distruttivo,
con l’eliminazione dell’apparenza illusoria che emana da ogni «ordine
dato», sia esso quello dell’arte o quello della vita, in quanto sua
trasfigurazione della totalità e dell’organico, destinata a trasfigurarlo
al fine di farlo apparire sopportabile. È questa la tendenza progressiva
dell’allegoria10.
In questo caso, seguire la «tendenza progressiva dell’allegoria» per
decostruire l’operazione messa in atto dall’autore ai fini di rendere
«sopportabile» un’agnizione evidentemente terribile, risulta facilitato
da un’altra osservazione che si impone con grande chiarezza nell’analizzare
l’opera di Gallian, ovvero l’emergere di un immaginario palesemente
masochista. Anche in questo caso gli esempi possibili sono
innumerevoli:
I figli sono orribili, i figli degli uomini, e nascono dalla fame; gli uomini
mangiano e fanno figli; il tuo ventre è sereno e puro, Stella, – mi
senti? – e i tuoi seni hanno sempre l’alba, intorno.
– Vedo occhi rossi: Grosso, ho paura.
– Occhi rossi, santa e di chi?
10 W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 2000, p. 358.
[ 4 ]
sguardo su un mondo in rovina 259
– I tuoi, Grosso, i tuoi…
La fanciulla saltò dal letto, prese una frusta e cominciò a frustare il
Grosso che s’era gettato in terra; lo frustava a sangue e l’uomo mugolava
e supplicava.
– Così, Stella, più forte ancora ogni volta che vedrai i miei occhi rossi.
Il Grosso si agitava furiosamente nella sua parte di demonio; riusciva
a mandar fuori fiamme e cenere dagli occhi e dal naso e la piccola donna,
la fanciulla vestita di garza al modo delle canzonettiste ingenue di
prima scena, ridendo a denti stretti di paura, continuava a staffilare
l’uomo, senza misericordia11.
Ho scelto questo esempio tratto dal La donna fatale, il primo romanzo
di Gallian, risalente al 1929, perché, nel modo ancora fiabesco e vicino
al realismo magico delle sue opere giovanili, la struttura masochista
emerge con plastica evidenza, mentre nel corso degli anni tenderà
poi ad ammantarsi di immagini più caotiche e insensate, sintomo di
una situazione esistenziale in pieno disfacimento. Quello che mi preme
sottolineare, però, è come una simile struttura possa condurci alla
decostruzione degli ideologemi (nel senso di Fredric Jameson12) di cui
l’autore nutriva il proprio immaginario.
Secondo l’analisi che Gilles Deleuze ha condotto sull’opera di Sacher-
Masoch, il soggiacere alla fantasia masochista ha come scopo la
punizione – e dunque la neutralizzazione – della figura paterna, cui il
masochista va a sovrapporsi nel tentativo di annientarla e ritrovare
così un ricongiungimento con la madre che sia finalmente libero
dall’autorità impersonata dalla figura genitoriale dominante13.
Appare allora chiaro che la forma esistenziale di Marcello Gallian, il
suo percepirsi come ribelle e rivoluzionario, sia nella storia personale
che nella partecipazione agli eventi a lui contemporanei, è andata a
sovrapporsi a una imagerie di tipo masochista, in cui la rinascita, intesa
come emancipazione dall’autorità familiare e poi come rivoluzione
mirata a rovesciare i poteri che reggono la società – insomma la riconquista
di una condizione di originaria purezza sia sul piano personale
11 M. Gallian, La donna fatale, Milano, Corbaccio, 1929, pp. 35-36.
12 Cfr. F. Jameson, The Political Uncoscious, London New York, Routledge, 2002.
13 «Innanzitutto, chi viene picchiato? Dove si nasconde il padre? Non si nasconde
forse in colui che viene picchiato? Il masochista si sente colpevole, si fa
picchiare e espia; ma che cosa e perché? Non è forse proprio l’immagine del padre
che, in lui, viene sminuita, picchiata, ridicolizzata, umiliata? Ciò che egli espia non
è forse la sua somiglianza con il padre, la somiglianza del padre? La formula del
masochismo non è forse il padre umiliato?». G. Deleuze, Il freddo e il crudele, Milano,
SE, 1996, p. 68.
[ 5 ]
260 achille castaldo
che sociale – passa per un’unione di tipo incestuoso con la madre: il
che è però, com’è noto, l’impossibile per eccellenza. In altri termini,
nell’occultare nel fantasma masochista i propri nodi esistenziali più
decisivi, rifiutando ogni dialettica del reale, Gallian si andava condannando
fin dall’inizio al fallimento, al rinchiudersi in utopie tanto più
dolorose quanto più deliranti:
Ma mia madre rimane e rimarrà sempre il mio segreto, solo il mio segreto,
sino al giorno in cui, per magia o per miracolo, tornato bambino
e poi nano e quindi embrione, non entrerò nuovamente in lei, sino a
diventar germe e lei mi rimetterà al mondo, per bontà e poi morirò e
farò la stessa storia sempre, io da lei, lei il mio segreto, io il suo segreto14.
Il sogno della nascita partenogenetica non può che rovesciarsi
nell’incubo dell’aborto, che fin dai primi anni infesta tutte le opere di
Gallian, con un’insistenza inquietante: «aborti che sembravano grossi
ragni, tanto grossi che sembravano vivi, rimasti a metà con fili lunghi
per mani e per gambe, il corpo informe e flaccido, gli occhi viscidi
come quelli delle meduse»15; «Ricordai in un lampo una madre che
avevo sentito partorire e il lago di sangue e d’acqua e la rivestitura di
veli della dolce creatura che rassomigliava stranamente ad una medusa
capitata dentro un mattatoio»16; o ancora: «Gli aborti non sono che
invecchiati fanciulli, pieni d’esperienza, privi di nascita e di morte»17.
Non è un caso, dunque, che con il passare degli anni l’immagine
del feto abortito, della nascita mancata, compaia sempre più spesso in
prossimità dei tentativi dei ribelli di emanciparsi dalle forme d’autorità
che li opprimono. È il caso di Aristide, squadrista della prima ora
incapace di ritrovare un ruolo in quel regime che lo ha tradito degradandolo
a relitto umano:
Aveva mancato qualcosa: forse non aveva il tempo o il modo di afferrare
a volo un’occasione che gli fosse convenuta, la migliore per lui fra
tutte le occasioni. Per intenderci, se si fosse trattato di un bimbo soffocato
prima di nascere, quell’occasione mancata sarebbe stata la vita18.
La figura dell’aborto si carica inoltre di un significato che Deleuze
reputa essenziale nella struttura masochista, ovvero il ritorno, dopo il
14 M. Gallian, Primo diario, cit., p. 125.
15 Id., La donna fatale, cit., p. 47.
16 Id., Quasi a metà della vita, Firenze, Vallecchi, 1937, pp. 203-204.
17 Id., Tre generazioni, Milano, Panorama, 1936, 272.
18 M. Gallian, Quasi a metà della vita, cit., p. 283.
[ 6 ]
sguardo su un mondo in rovina 261
delirio partenogenetico, dell’imago paterna sotto le spoglie del figlio
mostruoso. L’aborto, in altri termini, con la sua lugubre spettralità, finisce
per dare corpo al presentimento del riemergere dell’autorità che
si voleva sconfiggere, in una forma ancora più terribile. Il ritorno fantasmatico
del padre è non a caso la conclusione di quasi tutte le strutture
narrative di Gallian. Ritorno che si invera nella trasformazione
del figlio stesso in un equivalente autoritario della figura paterna, o,
come in alcuni casi, nell’apparizione “disumana” del volto del Duce
sovrastante una folla in delirio19.
2. “Scrittura-in-frammenti”
Ho finora evitato di affrontare la questione dello stile di Gallian,
proprio per giungervi solo dopo aver messo in luce i motivi generatori
da cui si origina la sua opera. Le caratteristiche della scrittura di questo
autore sono del resto già state notate dalla critica20, che ha parlato, fin
dai tardi anni Venti, di barocco ed espressionismo21, di influssi surrealisti
e della vicinanza, mai davvero profonda, al realismo magico di Bontempelli,
con cui Gallian aveva collaborato ai tempi della rivista «900».
Fin dagli anni della militanza più avanguardista, in cui aveva scritto
su numerose riviste22, fondato fogli underground23 e collaborato con il
19 U na simile apparizione giunge a conclusione del romanzo Uomo solo (Roma,
Edizioni di “Circoli”, 1935) di Mario Massa, figura per molti versi accostabile a
Gallian. Nelle ultime pagine, il protagonista – un anarchico appena tornato in Italia
– finalmente prende coscienza della grandezza della “rivoluzione fascista”, e in
un’adunata a Piazza Venezia alza al cielo tra le braccia un bimbo desideroso di
vedere e acclamare il duce.
20 Si vedano a tal proposito le analisi presenti nei saggi: P. Luxardo Franchi,
Marcello Gallian, in «Studi novecenteschi» XVI (1989), n. 38, pp. 207-264; C. D’Alessio,
Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica letteraria» XXII (1994), n. 2,
pp. 337-390; S. Cirillo, L’espressionismo drammatico di Marcello Gallian, in Ead., Nei
dintorni del surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 2006, pp. 71-85.
21 U n accenno al barocco di Gallian si trova anche nel noto saggio di Contini L’espressionismo
letterario, in Id., Ultimi esercizi ed Elzeviri, Torino, Einaudi, 1988, pp. 96.
22 Oltre a quella con «900», significative furono le collaborazioni con «Roma
Fascista» (che durò in modo continuativo per tutta la seconda metà degli anni
Venti) e con i fogli del “novecentismo fascista” «L’interplanetario» (diretto da Libero
de Libero, ebbe un’effimera esistenza nel corso del 1928; vi collaborarono
anche personalità come Vinicio Paladini e Alberto Moravia) e «I Lupi» (anch’esso
nato e morto nel 1928, voleva essere un più radicale spin-off di «900»).
23 Gallian aveva diretto e fondato «Spirito nuovo» (1925-1926) e «2000» (1929),
[ 7 ]
262 achille castaldo
Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia componendo
opere teatrali di ascendenza espressionista24, Gallian aveva
dimostrato innanzitutto una propensione alla scrittura frammentaria,
in cui le trame narrative risultavano soppiantate dall’accostamento di
“quadri”, spesso non sorretti da una sequenzialità logica. Com’è noto, il
montaggio di frammenti, così caricati di una nuova potenza significante
e liberi dall’impoverimento dovuto alle strutture comunicative abituali,
è una delle principali tecniche dell’avanguardia storica, e di quella
espressionista in particolare. Nel caso di Gallian la frammentarietà macrostrutturale
invade anche le microstrutture stilistiche, spingendo la
scrittura verso una tendenza sempre più marcata alla paratassi, alle costruzioni
nominali, alle ripetizioni anaforiche, fino a un vero e proprio
smembramento sintattico consistente nell’accumulo caotico di elementi,
in cui l’aggettivazione svolge una funzione straniante e antirealistica.
Anche in questo caso, gli esempi potrebbero essere innumerevoli:
Rubare, rubare Stella; portarla in una terra sconosciuta, dove nessuno
sia, né occhi né mani né orecchie; torsi d’uomini mutilati. Salire salire
a prenderla, nella camera piena di ghirlande e portarla via. O anche…
darla in pasto alle belve, buttarla nel fuoco, farla a pezzi affinché ognuno
abbia il suo ricordo. A me un piccolo dito da succhiare; o la capigliatura,
datemi, ché voglio fare un gomitolo di tutti i fili neri o biondi o
verdi o rossi, o una frusta, o una parrucca… fare, fare, salire…25
Pile e pile di piatti, casse e casse di bicchieri; e casse ancora di cucchiai,
di forchette e di coltelli, di brocche di latta, di scodelle, di piattoni sublimi,
di zuppiere e insalatiere smisurate, grasse e sudicie di rifiuti
quali tocchi di saliva o denti caduti in distrazione; unti i piatti, sughi e
intingoli vari gocciavano sempre; odori nauseanti dappertutto di cose
stracotte e sfaldate, di capretti funebri, di abbacchi lasciati putrefare, di
funghi marci e di frutta troppo mature. Scie e scie orrende d’ogni cosa
dappertutto, orme di giganti imbestialiti, peste di bocche mostruose e
baffute, tracce finalmente di sangui e umori sbagliati26.
entrambi fogli dall’effimera diffusione, che si proponevano come luoghi di discussione
per l’avanguardia romana.
24 Tra le più significative: La casa di Lazzaro, rappresentata proprio agli Indipendenti
di Bragaglia il 28 febbraio del 1929, pubblicata su «900» IV (1929), nn. 2-4
(febbraio-aprile); La scoperta della terra, andata in scena nel giugno 1930 presso il
Teatro Manzoni di Roma, il cui primo atto fu pubblicato su «Oggi e domani»,
(1930), n. 11 (giugno), pp. 5-6; (la versione completa è stata pubblicata in «Eurostudium
», (2010), n. 17 (ottobre-dicembre), pp. 182-223.
25 M. Gallian, La donna fatale, cit., p. 80.
26 Id., Alba senza denaro, Roma, Azione Letteraria Italiana, 1943, pp. 44-45.
[ 8 ]
sguardo su un mondo in rovina 263
Leggendo in ordine cronologico gli scritti di Gallian, si ha l’impressione
che con il passare del tempo egli faccia sempre più fatica a contenere
la tendenza alla dispersione. Se nelle prime opere la frammentazione
e l’accumulo sembrano assecondare intenti espressivi coscienti,
come la satira dell’odiata società borghese, nella prosa più tarda
tale tendenza pare ormai quasi ovunque irrefrenabile, e non a caso
decreta una vera e propria esplosione di ogni pur minima unità narrativa.
Ma non può bastare limitarsi a registrare le caratteristiche stilistiche
dell’autore. Giunto a questo punto dell’analisi, non posso fare a meno
di notare che l’abbandonarsi allo smembramento sintattico – che sempre
più spesso coincide con la rappresentazione di un reale smembramento
che interessa corpi umani e animali – tende a esplodere con
maggiore frequenza in prossimità di sequenze che raggiungono un’alta
tensione emotiva, il che si verifica poi, immancabilmente, nel congiungimento
con la figura materna, quando si attiva, cioè, il fantasma
masochista della nascita partenogenetica.
È ormai possibile sciogliere questo nodo mediante il quale l’espressionismo
stilistico si salda ai nuclei generatori della narrativa di Gallian
nel suo complesso. Se approfondiamo il concetto di Trauma della
nascita, giungendo fino alla definizione che ne ha dato Jacques Lacan
nel suo saggio giovanile sui Complessi familiari, ci troviamo di fronte al
complesso di svezzamento. Quest’ultimo descrive le reazioni del bambino
al trauma della separazione dal seno, che vengono nuovamente
scatenate, nella vita adulta, allorché il fantasma di tale separazione
primaria venga in qualche modo evocato, ovvero al ripresentarsi di
fantasie incestuose. Ciò è ancora più appropriato alla fantasia masochista,
se si tiene presente il fatto che, il trauma della separazione dal
seno materno, lo “svezzamento”, è a sua volta, per Lacan, solo apparentemente
primario, poiché si tratterebbe, in realtà, della prima mentalizzazione
possibile di un trauma più profondo – e davvero primario
– ovvero la separazione dal grembo materno al momento della nascita27.
Ma è bene notare subito, qui, che il ripresentarsi della fantasia
incestuosa è chiaramente una ripetizione che pone da sé, ipostatizzan-
27 «Questo – lo svezzamento nel senso stretto – dà un’espressione psichica, la
prima ma anche la più adeguata, all’imago più oscura di uno svezzamento più
antico, più penoso e di più grande ampiezza vitale: quello che alla nascita separa
il bambino dalla matrice, separazione prematura da cui risulta un malessere che
nessuna cura materna riesce a compensare». J. Lacan, I complessi familiari [1938],
Torino, Einaudi, 2005, p. 17.
[ 9 ]
264 achille castaldo
dolo, l’evento originario che essa dovrebbe poi appunto ripetere.
Evento originario che nasce, dunque, solo come momento secondo
rispetto alla ripetizione stessa, che in questa paradossalità svela la
propria carica ideologica. La stessa carica che conferisce forza quasi
irresistibile a quella che è, secondo Lacan, la più importante manifestazione
di questo complesso, ovvero il malessere del “corpo-in-frammenti”,
costituito da un insieme di componenti irrelate e asistemiche,
che sarebbe poi la percezione dell’organismo propria del neonato nei
primi mesi di vita, ancora privo dell’unità del fisico e dell’Io, completamente
esposto all’ostilità dell’ambiente esterno. L’uomo è un’animale
dalla nascita prematura, ricorda Lacan, e la sua separazione dal
grembo materno segnerebbe dunque lo spezzarsi di un’unità paradisiaca
verso la quale finirebbero poi per tendere tutte le fantasie incestuose
di ricongiungimento con la madre. Fantasie che inevitabilmente
attraggono nella propria orbita le spinte autodistruttive del soggetto,
innescando quel tipico paradosso dell’istinto di morte, che replica nel
desiderio utopico di ritrovare l’unità con la madre, proprio quella dispersione
nella molteplicità che vi aveva posto fine. Forse perché, volendo
qui andare al di là del Lacan degli anni Trenta, il trauma “primario”
della nascita, propriamente, non è mai esistito, e la fantasia di
un’unione con la madre precedente alla disarticolazione del desiderio
(questa, sì, primaria: il desiderio nasce disarticolato), è a sua volta un
costrutto ideologico dell’artificialità (per altro lucidamente riconosciuta
da Lacan), della “famiglia” edipica.
A ulteriore conferma di quanto appena suggerito, è possibile notare
l’ossessiva presenza, nelle opere di Gallian, di un altro tipico rappresentate
dell’immaginario espressionista (in particolare cinematografico),
ovvero il fantoccio, l’automa animato da una sinistra vitalità.
Sempre secondo Lacan, si tratta di una delle figure tipiche che costellano
il complesso di svezzamento, testimoniando dei primi tentativi
di formazione proiettiva dell’Io come oggetto esterno a sé28: l’io esiste
prima come meccanismo, come ripetizione di movimenti allogeni, che
come unità organica diretta da un punto supposto trovarsi al “centro”.
28 «L’esame di questi fantasmi trovati nei sogni e in certi impulsi permette di
affermare che essi non si rapportano a nessun corpo reale, bensì a un manichino
eteroclito, a una bambola barocca, a un trofeo di membra in cui bisogna riconoscere
l’oggetto narcisistico di cui abbiamo poc’anzi evocato la genesi: condizionata
dalla precessione, nell’uomo, di forme immaginarie del corpo sulla padronanza
del corpo proprio, dal valore di difesa che il soggetto attribuisce a queste forme
contro l’angoscia della lacerazione vitale dovuta alla sua prematurità». Ivi, p. 41.
[ 10 ]
sguardo su un mondo in rovina 265
«L’unità perduta di se stesso» è in realtà una costruzione artificiale del
tutto simile al baraccone da fiera. Come questo – prendiamo qui ad
esempio Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni29 – essa è infatti l’involucro
destinato a tenere insieme i fantocci che si sono avvicendati
nella “rappresentazione” della storia dell’Io come unità del personaggio.
Ed ecco un esempio in cui troviamo riuniti la fantasia di smembramento
e la figura del fantoccio:
[…] sebbene difeso dal suo mestiere di fantoccio di carne, deforme a
furia di busse e di pizzichi, di strappi e di sberleffi sanguinosi, di ritagli
sulla carne viva e di intarsi dolorosi, provava una specie di amaro accoramento
che non sapeva spiegare. Guardava tutto; insieme, di qua e
di là, senza voltare il capo, e leggeva scritte e rilevava membra umane
gettate sulla tavola, e pezzi di ghiaccio e di fuoco, e loriche di acciaio e
piedistalli con targhette di vetro e negri con le teste lanose e gli occhi
spaventosamente bianchi30.
È evidente a questo punto che la più efficace figurazione del “corpo-
in-frammenti” sia, in Gallian, la “scrittura-in-frammenti”, il che ci
riporta al fulcro del suo espressionismo, al nucleo generativo, come si
diceva, della sua opera. Soprattutto, questa radice comune ci aiuta a
comprendere come una mente così complessa potesse poi trovare un
punto d’appoggio nella più atroce delle semplificazioni, ovvero la fede
nel fascismo e nel suo duce. Ma lo abbiamo visto: il ritorno del padre
è il fatale destino del fantasma masochista. Così come «l’utopia sociale
di una tutela totalitaria» può apparire come nostalgia irriducibile
dell’umanità, derivante, appunto, da un’incompleta liquidazione del
complesso di svezzamento, «nostalgie scaturite tutte dall’idea fissa di
un paradiso perduto prima della nascita e dalla più oscura aspirazione
alla morte»31. Sennonché, come abbiamo visto, il paradiso perduto,
“baraccone da fiera” per eccellenza, ospitante il coacervo ideologico
che aveva prodotto il set narrativo delle ossessioni di Gallian, è solo in
apparenza un impulso contrario alla spinta disgregatrice, di cui costituisce
invece il vettore primario, indispensabile a garantirne l’innocua
permanenza all’interno di un disegno autoritario, in grado di neutralizzarne
le reali possibilità liberatrici. In altre parole, la sovrapposizione
non dialettica tra caos esplosivo e semplificazione totalitaria, che
29 U scito nel 1924, si tratta molto probabilmente di una fonte di ispirazione
diretta per lo stesso Gallian.
30 M. Gallian, La donna fatale, cit., pp. 49-50.
31 J. Lacan, I complessi familiari, cit., p. 20.
[ 11 ]
266 achille castaldo
segna tutta l’opera di Gallian e potrebbe riassumersi nella formula
“rivoluzione-conservatrice”, è ciò che gli impedirà di superare l’impasse,
mai da lui compresa fino in fondo, di una rivolta sempre al
servizio della stessa autorità di cui si era fantasticata la rovina.
3. Donne perdute
Per concludere è necessario affrontare un altro aspetto importantissimo
dell’immaginario di Gallian, ovvero la forza dirompente che
nella sua pagina acquistano le figure femminili. La madre, la prostituta,
la donna fatale tendono inevitabilmente a sovrapporsi, dando vita
a personaggi come le “donne perdute” che si danno per amore di tutti
e non per denaro, o come le crudeli e divoranti “madri terribili”, che
si abbandonano a improvvisi slanci palingenetici. Tutto ciò rientra,
certo, ancora nell’immaginario di stampo masochista, dove è necessario
che la “buona madre” assorba in sé l’ombra della madre terribile
(sempre correlata all’estremo pericolo legato alle fantasie regressive),
onde poterla neutralizzare ai fini dell’utopia di rinascita. A tal proposito
citerò un episodio in particolare, anche perché apre uno scorcio su
un avvenimento decisivo per la vicenda esistenziale e artistica dello
scrittore.
Sul finire del romanzo Bassofondo, del 1935, emerge improvvisamente
un personaggio completamente avulso dai fatti che precedono
(si tratta del solito schema del ragazzo selvaggio che lotta per il possesso
della donna matura), ora improvvisamente accantonati. È Marga,
una prostituta appena giunta in una casa di tolleranza romana. Gli
ultimi tre capitoli ruotano intorno alla sua storia, peraltro decisamente
illogica e surreale: nulla sappiamo di lei, tranne che ha fatto la vita
all’estero, e ora è tornata per «buttarsi alla sbaraglio», per cercare una
dissolutoria rovina.
Il romanzo fu censurato32, come del resto molte altre opere dell’autore.
In questo caso, però, il lavoro del censore, che espunge i tre capitoli
finali, appare stranamente affine a quanto avrebbe fatto un qualsi-
32 Oltre a eliminare i tre capitoli finali, Gallian dovette anche modificare il titolo
in In fondo al quartiere: il termine bassofondo era evidentemente ritenuto diffamatorio
e dunque inaccettabile dalla censura di regime. L’edizione originale fu comunque
ritirata solo dopo la stampa, e alcune copie sono conservate presso le biblioteche
nazionali di Roma, Firenze e Milano. Nel 2012 l’editore Marsilio di Venezia
ne ha pubblicato una nuova edizione integrale.
[ 12 ]
sguardo su un mondo in rovina 267
asi editor, cioè eliminare un corpo estraneo che disorienta il lettore.
Ma chi è Marga? Quale messaggio reca? Forse la sua comparsa è correlata
al verificarsi di un «fatto enorme», un avvenimento capitato poco
dopo l’uscita di Bassofondo:
Io non ricordo esattamente per certo, ora, che cosa sia accaduto nel
mondo nel breve giro di tre ore, dalle otto della sera alle undici della
notte del sabato 29 gennaio 1936, anno XIV. Dopo quattordici anni
esatti. Una qualche fortuna è scoppiata nella lotteria di Merano. Un
russo è stato condannato a morte. Un cinese ha praticato un buco nella
Grande Muraglia e vi si è addormentato33.
È l’esplodere di un male contratto anni prima, durante il periodo
di sbandamento vissuto in seguito alla fine dello squadrismo, prima
del successo come scrittore underground alla metà degli anni Venti:
Fu allora anzi, fu in quei giorni proprio in cui le feste o le sere dopo il
lavoro, bazzicando ben ripulito e bene assestato come un vero operaio
certo rione malfamato al di qua del Tevere, presi la malattia che rimane
sopita, anzi estranea a me, tutto il tempo quanto bastò che io arrivassi
inappuntabilmente all’appuntamento della mezza vita34.
Nel corso delle sue prose diaristiche, l’autore racconta dell’esplodere
improvviso della malattia che lo ridusse in fin di vita, e la lunga
degenza che ne seguì. Nell’introduzione ai racconti di Quasi a metà
della vita, pubblicati nel 1937, Gallian ci dice tuttavia qualcosa di più:
«In quei giorni poi, conobbi la donna che rispuntò malamente nel mio
sangue dopo quattordici anni»35:
Era una donna «perduta», trivialmente posseduta da ogni uomo che
lasciava su quel corpo segni e sfregi, ghirigori e meandri, tanto che,
ogni qualvolta andai a trovarla, la vedevo con gli occhi mutati, con
mammelle diverse, con una gamba più lunga e una più corta, firmata
e controfirmata fin dove poteva risiedere un barlume di anima, dove
poteva esserci uno spiraglio di coscienza, dove, insomma, poteva trapelare
un sintomo di vita vera, reale e non fittizia, originale e non comune.
Dopo essere stata assieme con parecchi uomini avvinazzati o
meno, rosei o pallidi, vecchi o giovani, sposati o no; dopo aver trascorso
giornate intere sempre tacendo o dicendo auguri o parlando con i
«buonasera» e il «buon giorno»; dopo notti e notti passate con uomini
33 M. Gallian, Quasi a metà della vita, p. 27.
34 Ivi, p. 15.
35 Ivi, p. 13.
[ 13 ]
268 achille castaldo
che facevano lo straordinario avvalorandosi della situazione d’essere
amatori, lei, in certi mattini appena nati o in certe sere dove improvvisamente
la clientela veniva a mancare, arrivando io, le piaceva stare
con me36.
La prostituta, con cui l’autore intreccia un rapporto di profonda
empatia, dividendone le sere di miseria e le albe di spossatezza dopo
il lavoro, ha un nome: Marta. Un archetipo per la Marga di Bassofondo
forse, giunta solo pochi mesi prima del manifestarsi della malattia,
come per un oscuro presentimento. Ma non basta: nel corso della sua
carriera di pubblicista, fin dalla metà degli anni Venti, Gallian si era
servito di uno pseudonimo, derivante dall’accostamento delle sue iniziali:
Margal. E ancora altri nomi di protagoniste femminili, come
Magda e Margherita37, recano in altre opere la traccia di questa presenza
cui egli lega espressamente il consolidarsi delle sue idee antiborghesi,
della sua empatia per gli ultimi, della sua insofferenza ai compromessi.
L’ombra di questa figura (nei cui vari nomi è evidentemente incastonato
il suono che testimonia della presenza materna) si allunga allora
su tutta la produzione dello scrittore. Ma si tratta di molto più che
un presentimento dell’esplodere della malattia. L’approssimarsi dei
35 anni di età, intorno alla metà degli anni Trenta, viene di fatti anche
a coincidere con un importante punto di svolta per Gallian, che proprio
ora si rende definitivamente conto del fallimento delle illusioni
rivoluzionarie, dell’infondatezza delle speranze riposte nel regime fascista.
L’irrompere della malattia risulta allora essere un evento costellato
da una serie di accadimenti pregressi, situati in quel breve volgere
di anni (lo squadrismo e il successivo sbandamento) in cui erano state
prese le decisioni definitive, imprimendo una direzione univoca a tutta
l’esistenza. L’arrivo improvviso di Marga a spezzare la trama di
Bassofondo è dunque un doppio presagio, che annuncia la distruzione
delle illusioni politiche e il divampare di un male fisico (non a caso,
nel corso dei capitoli che la riguardano, Marga si sottopone anche a un
esame del sangue per verificare la presenza di malattie veneree).
L’autore non giungerà tuttavia mai alla piena consapevolezza, e la
sua fede nel Capo, in un Mussolini redentore, non vacillerà neppure
36 Ivi, p. 16.
37 La prima compare nel romanzo Vita di sconosciuto (Roma, Tiber, 1929), la seconda
è la bambina protagonista di uno dei romanzi più crudeli di Gallian, Tempo
di pace (Roma, Edizioni di “Circoli”, 1934).
[ 14 ]
sguardo su un mondo in rovina 269
adesso che la sua fama letteraria intraprenderà un incessante declino.
Romanzi sempre più “impossibili”, strutture illogiche, spiazzanti, illeggibili
finiranno per togliergli anche il favore dei critici che lo avevano
apprezzato. Se sappiamo ormai che a mantenerlo sotto il giogo
della fascinazione totalitaria era stata la confusione ideologica tra il
piano personale e quello politico, l’intreccio colpevole tra una fantasia
di palingenesi al di fuori dell’autorità paterna e l’illusione di una rivoluzione
tutta irretita nell’ombra del più dispotico dei padri, è però
doveroso aggiungere che il divampare della malattia contratta in gioventù
contribuisce certamente a quella perdita di lucidità, di capacità
di concentrazione, che risulta d’ora in poi palese nelle opere narrative
e nella sua condotta di vita: è impossibile non notare l’accrescersi di
un influsso estraneo che sarà sempre più determinante, secondo uno
schema accostabile a quello tracciato da Alberto Savinio per la figura
di Maupassant38.
Quello che Gallian non perderà mai, tuttavia, neppure con il disfarsi
sempre più sfacciato delle trame e della sintassi, sarà la vertigine
mimetica dell’empatia, la capacità di trascinarsi nell’intimo della vita
degli ultimi, dove va ad annidarsi la sofferenza umana:
Aveva visto donne ridotte a risiedere nelle tasche degli uomini, […]
donne immote lunghe ore sotto i calci e sotto gli sputi. Donne imbestialite
dalle percosse e dal vino, con le labbra sanguinanti, andare a tentoni
nella ricerca di una fonte; donne accecate e spinate, prese per i capelli,
ricattate anche in quello stato, avere un sospiro di sollievo sol perché
capitavano con l’ultimo pensiero quando non avrebbero avuto la forza
più nemmeno di alzare un braccio o forse un dito: e poi finire a scarpa
in un angolo, massacrate39.
Rapidi scorci in cui perfino la furia sintattica pare ricomporsi, e
l’anafora, tanto spesso al servizio della dispersione caotica, può condurci
verso la terribilità di una climax arrestatasi solo di fronte a
un’immagine che forse contiene tutte le altre.
Achille Castaldo
(Duke University-USA)
38 In Maupassant e l’altro (Milano, Il Saggiatore, 1960) Savinio parla dell’emergere
sempre più evidente dell’«altro» nella narrativa di Maupassant; di quell’
«inquilino nero», frutto della follia provocata dalla sifilide, che sarà infine in grado
di impadronirsi completamente della penna e della mente dell’autore.
39 M. Gallian, Bassofondo, p. 48.
[ 15 ]
Natalia Manuela Marino
Angiò uomo d’acqua. Deformazione espressionista
in un romanzo di Lorenzo Viani
Il contributo si propone di affrontare il tema della deformazione in Angiò uomo
d’acqua (1928). Il romanzo, che segna il culmine dell’esperienza letteraria di Lorenzo
Viani, si manifesta in termini tipicamente espressionisti: sul versante della
sintassi, come commistione di diversi linguaggi, dilatazione semantica e dissoluzione
degli enunciati; sul piano della narrazione, come rappresentazione di
scenari devastati, di personaggi straziati nel corpo e degradati nella psiche.
Analizzando alcune sezioni del testo, si osserverà giungere la deformazione a
sovvertire in maniera clamorosa l’istanza impressionista di acquisizione schietta
delle immagini apparenti, torcendola in chiave grottesca e onirica.

The essay deals with the theme of deformation in Lorenzo Viani’s Angiò uomo
d’acqua (1928). The novel, wich marks the culmination of Viani’s literary experience,
manifests itself in typically expressionists therms: on the aspect of syntax,
as several language medleys, semantics expansions and dissolution of sentences;
on the aspect of the narration, as rappresentation of devasted sceneries,
characters tormented in the body and degraded in the mind. By the analysis of
some parts of the text, it will be possible to observe how the deformation subverts
the impressionist instance: the apparent images twists themselves in grotesque
and oneiric meanings.
In una Lettera autobiografica del 1913, l’allora esclusivamente pittore
Lorenzo Viani presentava la sua arte alla luce di quella che egli stesso
definì una «prospettiva psicologica»: rifiutando la cronaca, l’artista si
riserva di affidare all’osservatore il compito di ricostruire il significato
animatore dell’opera. A questo scopo, Viani annuncia di fissare intenzionalmente
l’attenzione su alcuni particolari del corpo umano quali
«mani lunghe, piedi enormi, petti squassati e occhi naufraghi»1. Si
tratta di una precisa dichiarazione di poetica, che rende tutt’oggi pos-
1 L. Viani, Lettera autobiografica (1913) in M. Ciccuto (a cura di), Lorenzo Viani
scrittore. Mostra bio-bibliografica e iconografica, Palazzo Paolina, 20 marzo – 3 aprile
1982, Viareggio, La Darsena, 1982, p. 15.
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 271
sibile inserire Viani in una costellazione espressionista di artisti europei.
Egli stesso scriverà in proposito: «L’impressionismo è contro lo
stile. È la cronaca rispetto all’arte pura: chi si compiace di fare delle
“impressioni” dimostra di essere superficiale e irriflessivo. L’impressionista
è oggettivo, l’artista è profondamente soggettivo»2. Tale soggettività,
nell’opera di Lorenzo Viani, si esprimerà sempre attraverso
la percezione sensoriale e l’elemento corporale.
Quando, nel 1928, la casa editrice Alpes pubblicò Angiò uomo d’acqua,
Viani aveva affiancato già da qualche anno alla sua pittura un’intensa
attività letteraria. Il romanzo reca, a cominciare dal titolo, un’acquisizione
di natura corporea: ‘uomo d’acqua’. Il termine marinaresco
indica la profondità acquatica relativa all’altezza media di un uomo,
ma è anche e soprattutto un paradosso: Angiò è infatti un nano.
La sua vicenda si apre con l’immagine della nave Dedalo, su cui
egli è imbarcato come marinaio, travolta dalle onde. In seguito al giuramento
di non avventurarsi più in mare, proferito in balìa del terrore,
la tempesta si placa e la nave approda. Angiò decide così di tener fede
alla sua promessa. Il capitano del Dedalo, congedandolo, lo ammonisce
con una massima che segnerà la sua sorte: «Se è scritto, nel Gran
Libro, che tu devi morire annegato, magari in un bozzo di strada, ma
anneghi»3. Si tratta, in effetti, di un prologo, che funge anche da prolessi
dell’intera vicenda.
Ma ecco come Angiò viene presentato al lettore:
Angelo Bertuccelli era alto da terra cinque palmi e sette dita; questa
meschina statura fu cagione di un lungo martirio e della sua morte
medesima. La testa d’Angiò poteva, però, tanto era altera, attagliarsi
sul tronco di un gigante: il naso, sagomato a falcetto e di natura segaligna,
segno manifesto d’uomo aggressivo e pervicace, pareva un pennato
di rota, il mento arricciato, s’ammusava col naso, la bocca stretta
nella morsa sgusciava la parte carnosa. Il collo corto e taurino, di quelli
che segnano i colpi, foderato di pelle screpolata dalla salsedine, s’ergeva
dritto come un ramo di sorbo. La testa, dura come un macigno,
inarcandosi, sgallava il gargheròzzolo saldo come un nocciolo di pesca.
Tutto il viso del nano era fiorito di ciccioli rossi come i bargigli del
tacchino, gli occhi rotondi e lustri, sospettosi come quelli della faìna,
tenevano in sott’ordine gli orecchi dritti come quelli di un coniglio.
Ogni poco il nano ristava dal passo e girava su sé stesso contorcendosi
come il cane che vuol mordersi la coda, si stecchiva, folgorava le lumi-
2 L. Viani, Scritti sull’arte, in M. Ciccuto (a cura di), Lorenzo Viani scrittore, cit., p. 24.
3 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, in Id., Storie di Vàgeri, a cura di N. Mainardi,
Firenze, Vallecchi, 1988, p. 8.
[ 2 ]
272 natalia manuela marino
nelle, soffiava, si ergeva come una rupe e bramiva: – Can di risto. Il
cappello alla peona, tra botte, colpi, strizzoni, affuffignamenti, rincalcate,
s’era conformato agli sbalzi del carattere impetuoso d’Angiò, la
sàgoma era quella del Passatore, con una botta di sghimbescio sul
chiucco e una strinta alla vàgera; sul fiocco attorcinato a cavestro, Angiò
ci teneva piantato uno stuzzicadenti4.
L’attacco del brano, riservato alla misurazione del protagonista in
altezza, motiva già l’epilogo del romanzo. Poco dopo, però, la testa di
Angiò viene definita tanto altera da potersi confare al tronco di un
gigante, riducendo così il peso di quella tara che è detto essere «cagione
di un lungo martirio e della sua morte medesima».
Il ritratto ha una precisa qualità espressionista. Sul viso del nano, il
naso, lungo come il fusto della segale e curvato come l’attrezzo adibito
a falciarla, si protende verso un mento puntato all’insù. Comprime la
bocca in una smorfia per la quale le labbra sporgono all’infuori, mostrando
la loro parte carnosa. La grossa testa, poggiando stabilmente
sul collo, pesa sull’epiglottide, che diventa, per questo, oltremodo pronunciata.
I grandi occhi, infine, campeggiano sul viso pieno di pustole.
È una fisionomia deformata nei punti in cui il corpo si sviluppa al
di fuori di sé, mostrando il movimento plastico che congiunge le estremità
del naso e del mento e costringendo la bocca ad atteggiarsi in una
smorfia.
Il particolare rilievo conferito alle sporgenze e a tutto ciò che prolunga
il corpo, ma anche alle sue rientranze e ai suoi orifizi, in particolare
gli occhi e la bocca, è, come dimostrato da Bachtin, il tratto caratterizzante
dello stile grottesco:
La logica artistica dell’immagine grottesca ignora la superficie chiusa,
uniforme e cieca del corpo, e si fissa soltanto sulle sporgenze – escrescenze
e germogli – e sugli orifizi, cioè soltanto su quelle cose che escono
dai limiti del corpo e conducono al fondo del corpo stesso5.
A deformarsi saranno allora quei punti del corpo umano in cui la
sua forma si prolunga, assimilandosi al mondo non corporeo6 e assumendo
una significazione altra da sé. A questo intento sembra corrispondere
anche la quantità di similitudini zoomorfe che interessano la
4 Ivi, p. 10.
5 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1995, p.
347.
6 Ibidem.
[ 3 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 273
fisionomia – quasi metamorfica – di Angiò, il cui collo è taurino, le cui
pustole sono rosse come le appendici carnose del becco dei tacchini,
gli occhi sospettosi come quelli della faina, gli orecchi in allarme come
quelli del coniglio. In più, si contorce come un cane e soffia, presumibilmente,
come un gatto.
Questo goffo navigante dell’Oceano, preso atto dell’impossibilità
di un’accettazione sociale in paese, costruisce la sua abitazione su
quella frontiera tra terra e mare rappresentata dalla spiaggia. Angiò si
terrà a un «uomo d’acqua», vale a dire che non si spingerà oltre il punto
in cui un uomo possa, dal mare, toccare terra. Diventa uno di quei
picari vianeschi i cui numerosi schizzi erano stati affidati dall’autore
alle raccolte del 1922 e 1926 (rispettivamente Gli Ubriachi e I Vàgeri). In
più, Angiò assume, per Viani, la maschera di un «tragico mostro donchisciottesco
»7. L’allusione al Chisciotte si fa ancora più pregnante
quando si dice esplicitamente che il nano, come il favoloso hidalgo,
«aveva la testa inzeppata di novelle e di fole»8. Per essere del tutto simile
al suo modello, a lui manca una spalla. Perciò, l’aggiunta di un
elemento che faccia coppia con lui sembra squisitamente funzionale
alla natura del personaggio. Solo l’introduzione del buon senso del
forte e gigantesco Fello è in grado, infatti, di dare una schiarita alla
follia del nano.
La complementarità tra i due personaggi diventa, così, un aspetto
essenziale all’intelligenza dell’intero romanzo. Nel capitolo XIII, vediamo
il nano passeggiare nudo sulla spiaggia, maledicendo la sua
sorte. Angiò ha messo i suoi vestiti ad asciugare al sole, dopo essersi
tuffato in mare per sfuggire a un gruppo di ragazzini. Sentendo sopraggiungere
qualcuno, si nasconde tra i rovi:
Quando Fello fu all’altezza del Ferrone, si fermò sorpreso a contemplare
i panni: – Eppure questi sono i panni del pubblicano, la giubba dal
taglio è quella dell’eresiarca, il panciotto è di Spaccaporte di ferro e nei
calzoni ci vedo dentro le gambe del famoso mago Idroate, le scarpe son
quelle di Salardo, il cappello è sicuramente del dragomanno Angiò, e
Fello cominciò a gridare con quanta voce aveva nel petto:
– O mordace, o temerario, o leone!
A quei gridi d’amistà, dalla ceppaia uscì pian piano Angiò accapponito
dal freddo. Fello lo guardò stupìto. – O che sei diventato un uomo
salvatico?
– O fratello, disse commosso il nano – da tutti i dittaggi che hai fatto e
7 I. C. Signorini, Lorenzo Viani, Firenze, Centro Studi e Stampe, 1978, p. 35.
8 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 44.
[ 4 ]
274 natalia manuela marino
dai proverbi e dai nomi che hai rilevato sui miei vestimenti, mi sono
accorto che tu sei un uomo come ben dice il castigliano, di verace amistà:
mi hai appellato; mordace, temerario e pubblicano. Sì, o Fello, –
disse il nano infocandosi, – son mordace, e, dimenticando d’essere
nudo come un verme, prese a passeggiare con Fello e a parlare concitato
dei ragazzi, che son mattutini come la pazzia, e dei funari che
hanno capovolto i termini dell’usanza.
– O lupo – gli disse Fello – mettiti almeno la camicia sulle vergogne.
Potrebbe apparir gente9.
Angiò è privo degli abiti e la celebrazione delle sue virtù non viene
rivolta direttamente a lui, ma ai vestiti sparsi in terra e alle qualità che
essi rappresentano. In risposta all’approvazione commossa del nano
uscito infine allo scoperto, Fello, di fronte alla sua nudità, gli intima
drasticamente di rivestirsi e di coprire le sue “vergogne”. Il registro
dell’intero episodio diventa basso e comico.
C’è un passo dello studio sull’espressionismo di Ladislao Mittner
in cui l’autore, passando brevemente in rassegna i caratteri dell’avanguardia,
individua nelle importanti scoperte scientifiche del ventesimo
secolo le cause dell’acuirsi della crisi dell’arte europea. Le cose
esistono in sé ma non riguardano – e non sono più per – l’uomo10:
A tale paurosa ontologia delle cose cui l’uomo non sa più imporre il
metro umano, corrisponde l’uomo staccato dalle cose, privo di qualsiasi
determinazione concreta e perciò privo anzitutto di nome, cioè di
personalità; è l’«uomo nudo» (o cosmico o metafisico, in realtà metastorico
e quindi astorico) dell’espressionismo, in cui si riflette anche
l’aspetto sociale della crisi11.
Se ci si spingesse fino a una lettura che assimili l’Uomo nudo espressionista
con l’Angiò del brano appena analizzato, la portata comica
dell’episodio finirebbe per disperdersi. Prima del sopraggiungere di
Fello, Angiò è solo in preda alla disperazione. Posto già in una condizione
di emarginazione rispetto agli abitanti del paese, trovandosi nudo
e protetto soltanto dai cespugli, regredisce fino allo stato di natura.
Il gigante, vedendolo apparire, esclama: «O che sei diventato uomo
salvatico?». Angiò, che «di sulla terra»12 alza le mani supplichevoli al
9 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 46.
10 Ivi, p. 31.
11 Ivi, p. 32.
12 Ibidem.
[ 5 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 275
cielo ed esclama: «Ma un Dio per me non c’è su nei Cieli?13, sembra
intonare l’Ur-Schrei, il grido primordiale dell’uomo abbandonato in
una desolazione ancestrale.
È sicuro che l’Angiò sia il prodotto dell’angoscia di un’epoca a cavallo
tra i due conflitti mondiali, un’epoca che il Bahr letto da Debenedetti
definisce «sconvolta dalla disperazione»14 e nella quale «mai
l’uomo è stato più piccolo». Se l’arte moderna reagisce al predominio
della tecnica mettendo in atto una deformazione dell’esistente, un nano
sembra essere un’efficace deformazione d’uomo. Eppure, «la libertà
vigilata»15 cui sottostà il brutto di Angiò non è regolata dalla semplice
opposizione della sua figura con quella di Fello. È la sua stessa natura
di nano a contemplare in sé l’idea di un gigante: vale a dire una
disposizione che lo muove dall’interno, nella tensione continua a valicare
i limiti impostigli dal suo corpo.
Si sa che Lorenzo Viani riempì di animali dipinti e disegni e che
l’immagine del rospo fu per l’autore l’emblema di quella specie altresì
umana che attraversa l’intera opera del viareggino col medesimo marchio
di tragica predestinazione. La comparazione con la pittura animalista
di un altro pittore dell’espressionismo, Franz Marc, potrebbe
risultare piuttosto peregrina. Il peso però che la bestialità assume nelle
pagine di Viani sembra rifarsi a uno spirito che Debenedetti vide
essere comune tanto al tedesco Marc quanto all’italiano Giovanni Boine,
i quali individuarono l’uno nella riproduzione fotografica, l’altro
nel romanzo-idillio in terza persona, gli ostacoli a un’arte che si facesse
espressione della «molteplicità simultanea della vita interiore»16. Di
questa comprensione dei due artisti entro la medesima volontà disgregatrice
della mentalità impressionista, il critico si serve per immettere
i bestiari di uno scrittore come Tozzi in una congiuntura europea
nella quale parrebbe essere lecito inserire anche l’opera di Lorenzo
Viani. Egli non fu certamente estraneo a quella volontà di «rompere
dall’interno quell’atteggiamento impressionistico, quella visione del
mondo naturalistica, di constatazione oggettiva delle cose»17, soprattutto
nei capitoli in cui la furia dionisiaca del nano elegge gli animali
tutti compartecipi del fenomeno «vita»18.
13 Ibidem.
14 G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 2000, p. 457.
15 G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, Napoli, Il Tripode, 1995, p. 25.
16 G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., pp. 86-87.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
[ 6 ]
276 natalia manuela marino
Nel capitolo XIV, il nano sparisce per seminare il terrore nelle campagne
della Migliarina e ritorna solo a sera stringendo in pugno l’orecchio
di un asino. Appena un indizio di quanto si preparerà a fare nel
capitolo XXV, dove gli animali appaiano scuoiati, sventrati, storpiati:
Il demonio aveva straziato le bestie, tagliato gli orecchi ai ciuchi, reciso
le froge ai buoi, scalciate le code ai cavalli, risiegolate le zampe alle
pecore, incicciato i maiali, strozzate le galline, smusati i conigli, accorate
le scrofe19.
Questi atti di crudeltà sono insieme la vendetta nei confronti
dell’uomo – i contadini – e il mezzo per essere protettore di una particolare
banda del regno animale, quella dei corvi.
Il personaggio Angiò pare dunque, nel corso di questa sfrenata lotta
ingaggiata contro gli uomini e perpetrata sotto il segno di una scatenata
devastazione animale, riconquistare «in un attimo d’illuminazione
estatica la propria piena vitalità irrazionale» per poi spezzare se
medesimo «nell’atto stesso che spezza la rigida, inumana forma di
vita impostagli dal di fuori»20. Angiò, subìto lo spietato influsso del
mare per tutta la durata del romanzo, troverà la morte nel titanico e
fatale sforzo di affrontarlo. Per il nano quel contrasto tra le due istanze
della vita e della forma che, come scrive Debenedetti, «deforma la maschera
e deforma il contegno», si ricostituisce nel momento in cui il
«di dentro arriva a sfondare il di fuori e a ricostruirlo con la spinta
interiore»21. La scena che chiude il romanzo, dopo l’eroico naufragio
del piccolo ghiozzo del nano, è la seguente:
Così, marmò il nano con gli occhi supplichevoli al cielo, all’altezza del
cuore gli rompeva il mare a bavarella e lo mosse a fermo, poi anche
quello s’incantò e il nano si adagiò in eterno sulla grande coltre. Il Gigante,
coll’acqua al malleolo, lo sollevo chiamandolo: – O Drago, o
Leone, o Mordace!
La campana del Faro suonava a naufragio quando Fello, col gesto
d’Anchise fuggente dall’incendio di Troia, s’avviava alla stanza mortuaria22.
L’immagine del nano solennemente «marmato» (paralizzato, ‘freddato’)
in seguito al naufragio, si contamina col sospetto che la sua
19 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 112.
20 L. Mittner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, p. 33.
21 G. Debenedetti, Il Romanzo del Novecento, cit., p. 410.
22 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., pp. 131-132.
[ 7 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 277
morte stia per avvenire in acque poco profonde («in un bozzo di strada
» aveva detto il Capitano e «a un uomo d’acqua» il vecchio Fiscale23)
a causa di quel «romper a bavarella» del mare, che indica il frangersi
di un’onda di lieve entità già all’altezza del petto del nano. All’incantarsi
del cuore di Angiò, sopraggiunge Fello, il Gigante, «coll’acqua al
malleolo»: un’indicazione di questo tipo renderebbe la morte per annegamento
da parte del nano addirittura risibile, se non fosse che Angiò,
oramai rotto il «di fuori» e ricostituitolo col «di dentro», è diventato
egli stesso un gigante.
Difendendosi dagli attacchi dei puristi alle oscurità della sua prosa,
in un intervento sul Popolo toscano coevo alla pubblicazione del suo
Angiò, Viani fa ricorso alla sua esperienza nel campo delle arti sorelle
alla letteratura:
Io provengo alla prosa dalla xilografia che non ammette soverchie sfumature…
Il mio linguaggio è spinoso, aspro e intraducibile? Ma le figure
che lampano nella nostra anima si ricreano con un’intelaiatura di
parole proprie; e noi, per questo, le vediamo in rilievo e tanto più i
piani ne palesano il volume se noi possiamo ed osiamo rimanere
nell’orbita delle espressioni definitive anche se accidentate24.
L’autore certamente si inseriva in un dibattito sul romanzo che opponeva
gli scrittori della linea verghiana e quelli della scapigliatura
lombardo-piemontese (Faldella, Dossi, lo stesso Gadda), nei cui testi
la polemica antiborghese si presenta come un principio di «avversione
alla banalità», espresso attraverso il «ritorno a un linguaggio antico»25.
Nello stesso articolo, Viani scrive infatti:
Non a caso ho trasportato il fatto alla metà del secolo scorso, all’epoca
in cui la gente della mia terra non era ancora contaminata dall’intercalare
fiorentino né alcuno sui poggioni aspriti declamava il periodo poetico
su cui i versi rizzano la cosa a undici e a dodici nodi. Nell’«Angiò
uomo d’acqua» s’agita, vive, s’arrovella quella stirpe avventurosa di
gente di mare che navigava col Sesto Caio Baccelli a poppa e con la
Madonna dei dolori da basso, e, nel viaggio, si orientava a quelle stelle
che non tramontano mai, e parlava come sogliono parlare gli italiani la
cui favella sbuca dall’anima inurbana e spinosa avversa all’uso che,
spesso, signoreggia la lingua, ma, altrettanto spesso ne diviene il tiran-
23 Ivi, pp. 8-9.
24 I. C. Signorini, Lorenzo Viani, cit., p. 352.
25 C. Segre, Lingua, stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano,
Feltrinelli, 1991, p. 408.
[ 8 ]
278 natalia manuela marino
no. In Italia stava avvenendo quel che profetizzava il Tommaseo; il
predominio, cioè di, un comune linguaggio che disdegna il dialetto
che pure è autorevole documento di storia, monumento addirittura26.
Ma se è vero che con il suo Angiò lo scrittore viareggino esprime
una polemica antiborghese, lo fa tenendo fede ancora una volta a
quella volontà di soffermarsi sul particolare che affiora nell’animo
dell’artista chiamato a «palesarne il volume». È il caso allora di andare
a verificare sul testo il modo in cui ciò avviene.
Il «Dedalo» era la terza volta che assommava la prua di sotto l’onde
che, frangendosi sul taglia mare, sommergevano la coverta. Il barco,
sopraffatto dal gravame delle acque, rimaneva incantato sulla procella.
I tuoni stritolavano sulle murate, i lampi tramutavano in fuoco i velacci
e il sartiame, il piovasco tagliava la faccia ai naviganti e pareva gli forasse
i panni incerati. I marinari, colle mani polpe, si tenevano alle caviglie
confitte sulla murata per non essere travolti da vortici spaventosi.
Il nano Angiò, già in sùcoll’età, si sentiva marmare; tegghie le braccia,
tegghia e incordata la nerbatura, presentiva che, per pochi momenti
ancora, avrebbe retto in coverta […]
La spelonca della tramontana pareva si fosse aperta sotto la prua del
barco e che le furie d’Averno sollevassero a poppavia il bastimento
che, sbandato a chiglia fuori, filava a discrezione del vento, mentre il
crocitar roco delle gàime dava voce d’inferno alle saette. Gli uomini a
capo in giù, tacevano pensosi dell’Eterno27.
Si tratta del brano di apertura del romanzo. A caratterizzare quello
squilibrio iniziale che rompe la stasi e muove la trama28 è una tempesta.
La forza scatenata dal’evento atmosferico, il clima da diluvio – e
giudizio – universale, vengono resi da una serie di forme verbali connotate
all’idea dell’urlo e della lacerazione: le onde si frangono sul taglia
mare, i tuoni stritolano sui fianchi della nave, il piovasco taglia la
faccia ai naviganti e fora i panni incerati di costoro le cui caviglie sono
confitte sulla murata. La furia dominatrice degli elementi naturali è
individuabile ancora nella coppia oppositiva formata dai verbi assommare
e sommergere, che definisce il moto sussultorio della nave; nell’esser
travolti dei marinai e nel sollevarsi del bastimento che, sbandato, fila
a discrezione dei venti. Il furore infernale viene reso inoltre dal tramutarsi
in fuoco delle vele e del sartiame e dall’azione svolta dalle furie
26 I.C. Signorini, Lorenzo Viani, cit., pp. 350 e 352.
27 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 7.
28 G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 57.
[ 9 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 279
d’Averno sul bastimento, senza contare la spelonca della tramontana che
si apre sotto la prua dell’imbarcazione, dalla quale i venti scappano
come da un «otre stappato»29. A connotare la violenza d’urto dell’elemento
naturale che, intervenendo sul paesaggio, lo modifica, è sicuramente
il verbo. La registrazione dei movimenti e di ciò che essi comportano
in termini di mutazione, a partire dalla dissoluzione dell’istante
rappreso nella realtà extra-percettiva che l’immagine impressionista
rappresentava in maniera emblematica, è una costante dell’espressionismo:
il folle spasmo dinamico dal quale viene attraversata
l’intera realtà è il mezzo con cui l’Io fa sì che i propri movimenti interiori
si riflettano al di fuori di lui, la maniera attraverso la quale l’esistente
viene ad essere scombussolato ai fini di una penetrazione più
profonda nel senso delle cose. Tale «inclusione del tempo come dimensione
spaziale»30 può realizzarsi in termini grammaticali, scrive
Contini, solo attraverso la categoria del verbo31. Nel caso dell’Angiò si
è parlato di una «variopinta valanga verbale»32 che sostiene dinamicamente
il testo in favore di una pagina perfettamente plastica.
Il vocabolario dello scrittore viareggino si arricchisce con l’uso
sempre meglio ricercato del dialetto e del gergo locali: «un linguaggio
composito tra il lucchese e il versiliese, con toscanismi e vocaboli marinareschi,
mediati ora da vecchi lessici e vocabolari anche in disuso, o
dalla lingua parlata, che approda a volte a dilatazioni e preziosismi,
oscurità, invenzioni arbitrarie»33. Degli arcaismi si riconoscono nella
voce spelonca e nel crocitar delle gàime (viareggino per ‘procellarie’) che
da voce d’inferno alle saette. Dialettale quel marmare di Angiò intirizzito,
mentre tegghie, ‘gelide’, sono le braccia del nano e polpe, ‘melmose’,
le mani dei marinai.
Un altro passo, tratto dal capitolo XIII, dimostra come tali scelte
lessicali si rivelino efficaci anche nei punti in cui il testo raggiunge risultati
di notevole lirismo:
Il nano andando sui poggioni di levante tra le sterpaie degli sprocchi
velenosi e i ginepri, le prunaie e i rovi, aveva la illusione che anche il
mare fosse più sterminato. Il sole, che era sempre dietro i pentagoni del
monte Verrucano, risegolava d’oro l’orlo dei pini e dilatava il cielo in
29 Cfr. G. Pittèri, Lorenzo Viani, Milano, Mursia, 1978, p. 191.
30 G. Contini, Espressionismo letterario, in Id., Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino,
Einaudi, 1995, p. 62.
31 Ibidem.
32 G. Pittèri, Lorenzo Viani, cit., p. 193.
33 I. C. Signorini, Lorenzo Viani, cit., p. 353.
[ 10 ]
280 natalia manuela marino
un subisso d’archi luminosi, le folaghe marigiane e gli smerghi si tuffavano
per prendere dei pesci; riaggallando e spollinandosi scuotevano
dalle penne le gocce argentate. Sulla terra brinata cominciavano il
loro travaglio le marmotte, le formiche e gli scarabei. Sulla battima,
spinti dalla bavarella, straccavano ossi di bestia rosi dal salmastro,
straccavano sul pacciame, soffice letto di felci secche, borra e seccumi
di castagni: – Ci posaste da giovenchi sani e vegeti, qui sopra – disse
Angiò cogliendo l’ossame34.
Il tono del brano prepara l’atmosfera del capoverso successivo in
cui la soggettività del protagonista assume una posizione di primo
piano nel fantasticare che «la terra fosse cascata dalle grazie del sole e
tutti gli esseri si fossero gelati e che lui solo, per somma grazia, l’Eterno
Iddio l’avesse lasciato in compagnia di tanti insetti giovevoli»35. Gli
accenti d’ira devastatrice della scena riportata in precedenza lasciano
il posto al sentore di finitudine che si propaga dalle carcasse degli animali
e dallo smarrimento dell’uomo messo di fronte all’infinito, dato
dall’apparire sterminato del mare e dal dilatarsi del cielo in una numerosa
serie di archi luminosi.
Arcaici e dialettali gli usi di sprocco per ‘rametto’ e di risegolare per
l’azione della luce solare che orla d’oro le cime dei pini. Di rara attestazione
quel riaggallare degli uccelli marini che denota il gusto per la
formazione di nuove parole (e per la dilatazione semantica delle stesse)
di cui il termine straccatura, neologismo vianesco che indica tutto
quanto venga stancamente portato a riva dal mare, costituisce l’esempio
migliore: qui la straccatura di bavarella rappresenta lo sbuffare sulla
battigia di un’onda di lievi dimensioni.
Il gusto per la deformazione ha dunque una sua applicazione anche
sui singoli lessemi, oltre che sulla rappresentazione della realtà. Vi
è un caso particolare, quello della stranomazione, in cui le due istanze
coincidono. Il polifonismo demotico dei soprannomi viene indagato
da Viani con interesse documentaristico attraverso la rassegna che di
questi fa Angiò nel suo Portolano (cap. XVII):
Guazzino, Trivella, Sciapino, Cataclè, Trebesto, il Tallito, Nappino, Uccellino,
il Catone, Agonia, Digiuno, Masticabombe, il Patalani, Stoppa,
Calcafosse, Tacio, Mordino, Strappamanette, Mangiastoppa, il Gobbo
di Gramignotto, Re Giovanni, il Cenciaro, Dimmi dimmi, Fede, Faccenda,
Argano, Tananera […]36
34 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 44.
35 Ibidem.
36 Ivi, p. 65.
[ 11 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 281
Questi, invece, alcuni dei soprannomi coi quali viene apostrofato
Angiò nel corso della vicenda che lo riguarda: Naso a scuretto, Tappo di
botte, Guasta generazioni, Beo di fogna, Ciotta di bufalo, Fegatino, Gerusalemme
in coccoroni, Gonfietto, Pinocchio spada, Acchiappamosche, Aggomitolafumo,
Lebbra, Salacchino, Topo unto, Giulebbe, Sgomento, Zottino, Fegatino,
Beduino, Tappo di barila, Gramignolo, Caa basso, Scazzaburello, Tallito.
Improperi che rafforzano l’impressione che per Viani «plasmare i propri
personaggi è tutt’uno con l’ansia di stranomarli»37, alla luce anche
del commento all’elenco degli epiteti uditi attraversando l’Oceano,
riportato dal nano sul suo diario: «La stranomazione è d’usanza soltanto
sulla sponda del Mediterraneo dove la gente infingarda e mormoratora
d’un nome di battesimo ne fa argomento di riso e di trastullo
»38, un’osservazione che, oltre a tradire il rancore patito dal protagonista
nei confronti di quanti hanno formulato stranomazioni nei suoi
confronti, si rivela una definizione d’autore. Se la «la tematica delle
ingiurie e del riso quasi è esclusivamente grottesca e corporea»39, e se
il nome di battesimo viene storpiato (ed è il caso di Angiò) a partire
dalle caratteristiche fisiche, la deformazione interessa insieme il corpo
e il termine che lo designa. Pertanto:
Come la stranomazione riporta nell’individuo quello che il nome legittimo
non dice, così Viani immise, all’improvviso nella lingua, un vocabolario
nuovo, in modo da fargli dire fulmineamente, e con particolare
espressività, quel che doveva40.
Nel già ricordato studio di Contini sull’espressionismo letterario è
contenuta un’importante riflessione su Gadda, nella quale il critico
individua in Meditazione milanese (il cui manoscritto è ricordato risalire
al 1928, lo stesso anno, cioè, della pubblicazione di Angiò) un considerevole
contributo in merito all’acquisizione della voce deformazione
come termine tecnico della riflessione dello scrittore milanese, «atto a
indicare la modificazione che ogni sistema di relazioni subisce nel
flusso eracliteo dell’esistere»41, motivo per cui la deformazione linguistica
apparirebbe come una specificazione poetica di questa deforma-
37 A. Ortolani, La parola disarmonica. Lorenzo Viani tra realismo grottesco e deformazione
espressionista, Firenze, Società editrice fiorentina, 2004, p. 56.
38 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 66.
39 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 349.
40 G. Pittèri, Lorenzo Viani, cit., p. 179.
41 G. Contini, Espressionismo letterario, cit., p. 100.
[ 12 ]
282 natalia manuela marino
zione basilare42: per questo motivo, quando Gadda dichiara di tendere
a una brutale deformazione dei temi che il destino aveva creduto di
proporgli come «cose formate ed obbietti»43 sembra tener fede a un
principio attribuibile altresì alla linea stilistica di Viani: l’intento dichiarato
dell’apuano, di riscattare l’idioma dialettale delle anime
«inurbane e spinose», si realizza proprio attraverso l’avvelenamento
del comune linguaggio italico da parte del colore locale, del vernacolo
ancora vivo. Ecco come si espresse in proposito lo stesso Viani:
Le figure nascono in noi con una intelaiatura di parole e noi le vediamo
balzare in rilievo quanto più rimaniamo nell’atmosfera della loro
espressione. Anche i soprannomi sono come armature su cui si crea la
personalità, perché la «stranomazione», come dice la plebe, è la somma
di un’acuta analisi delle deformazioni dell’anima e del corpo44.
Nel capitolo XXIII del romanzo, un vecchietto dall’aria smorta
compare sulla spiaggia abitata da Angiò e, montatosi un cavalletto,
comincia a dipingere. Incuriosito, il nano gli si avvicina per domandargli
il soggetto della sua composizione ma la flemma del malcapitato
irrita Angiò al punto da intimargli di lasciare quel luogo che appartiene
soltanto, e per antico diritto, ai vecchi marinai dell’Oceano. Intimidito
da questa minaccia, il pittore prende a narrare la sua triste
storia, commovendo, infine, il nano. Comincia così un’amicizia fatta
di caritatevoli visite del pietoso Angiò allo studio costruito dal pittore
con i resti di una nave naufragata sulla spiaggia. Trovando il maestro
rifugio dai suoi tormenti soltanto nel mare, Angiò tenta di dissuaderlo
dal proposito di ricercare un alleato nell’imperscrutabile mostro raccontandogli
la storia del suo naufragio. Ispirato dal racconto del nano,
il pittore decide di dipingere l’accaduto. Ad Angiò è concesso di vedere
il dipinto solo dopo alcuni giorni:
Per più giorni il maestro dipinse di nascosto il naufragio; il barco capoelevato
a prugavia prendeva buona parte dello spazio. Il velame ingombrava
il cielo, Il Padovano era situato in uno sdriciogiallìo di saetta,
il nano sul vertice della murata, sollevato, pareva un uccello in croccia.
Un giorno il pittore concesse al nano di entrare in capanna per vedere
l’opera.
– Dov’è? Dov’è? – diceva emozionato Angiò.
– Eccola – mormorava in sordina il pittore.
42 Ibidem.
43 Ibidem.
44 I. C. Signorini, Lorenzo Viani, cit., p. 352.
[ 13 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 283
– Lo scuro mi abbaglia. Dov’è? Dov’è?
– Eccola qua parlante.
Il Nano contemplò ben bene l’accaduto e poi chiese un po’ temperato:
– Io dove sono?
– Voi siete questo – e il pittore accennò l’uccello in croccia.
Io lui lì? Alto là – urlò il nano furibondo – Sei passato dalla parte del
criminale. Questo è uno sbeffo! – e data una pedata al cavalletto frantumò
il dipinto. – Sei del paese, e somigli il bastardo di Concialana e di
Sirizio. Il nano, invasato, andò sull’uscio e tirò un fischio come uno
spiritato: – Sei cascato dalle mie grazie. Domani partirai al trotto e ti
confinerai al di là di Motrone.
Poi rimase impietrito col braccio proteso verso il fiume.
Il pittore, spaurito, raccolse gli attrezzi e fuggì per i poggi come sopra
una stampa del diluvio universale45.
La lettura di quest’episodio consente di inserirlo nel luogo letterario
consacrato all’ékphrasis, quella figura retorica che, com’è noto, consiste
nella descrizione verbale di un’opera d’arte: non essendo però il
quadro del pittore un prodotto esistente al di fuori della creazione
letteraria, si parlerà più propriamente di ékphrasis creativa, sintagma
con cui ci si riferisce in genere (essendo già stato provveduto a emancipare
l’ékphrasis dal campo specifico della trasposizione dei prodotti
artistici in termini grammaticali46) a ogni «descrizione di immagini
che non hanno alcuna esistenza oggettiva»47. Che tale codice retorico
sia stato applicato su un testo frutto della penna di un pittore che scrive,
è un fatto che invita all’interrogazione multipla del brano evidenziato.
Può risultare utile l’abbrivio di una citazione:
Difficile riassumere in poche righe le modalità complesse di queste
“appropriazioni” delle immagini da parte della scrittura: si va dalla
[…] descrizione del processo creativo dell’“arte sorella”, come nell’esempio
classico dello scudo di Achille, alla comprensione del proprio
processo creativo nello specchio dell’altra arte, come accade con l’architettura
in Notre Dame di Parigi di Hugo o ancor più nella Recherche
proustiana […] per non parlare del fenomeno tutto particolare della
Doppelbegabung, del doppio talento di autori come William Blake,
Adalbert Stifter, Günter Grass o Friedrich Dürrenmatt, che costantemente
ci costringe a un’interrogazione sulle modalità di un ékphrasis
45 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., pp. 102-103.
46 M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e
Novecento, Roma, Meltemi, 2004.
47 Ivi, p. 13.
[ 14 ]
284 natalia manuela marino
che è connaturata al processo creativo, anzi finisce per coincidere con
esso48.
Il caso di Viani è esattamente quello della Doppelbegabung, quel
doppio talento che favorì l’arricchimento della prima edizione dell’Angiò
di venticinque disegni illustrativi; per le modalità di un’ékphrasis
connaturata e quasi coincidente col processo creativo, basti invece
osservare come il passo riportato, oltre a fornire le coordinate in cui si
collocano le componenti dell’immagine descritta (il barco prende buona
parte dello spazio; il velame ingombra il cielo, il Padovano è situato in
uno sdricio giallìo di saetta; il nano è sul vertice della murata), sia la ripresa
di quel che, già narrato in precedenza, costituisce la messa in
moto dell’intera macchina narrativa di Angiò. L’abilità del Viani che
consapevolmente gioca con quelle doti artistiche che gli competono, si
rileva inoltre dall’immagine che chiude il brano, nella quale il nano
protende solennemente un braccio verso il fiume mentre il pittore fugge
per i poggi «come sopra una stampa del diluvio universale», dove
il procedimento ecfrastico viene addirittura posposto – con una similitudine
– al periodo che lo definisce come tale.
A questo punto non è più possibile ignorare quale sia invece l’azione
narrata nell’episodio cui ci si riferisce. Il nano, che aveva raccontato
per filo e per segno l’accaduto del naufragio e del giuramento e di seguito
l’apparizione del santo e la gloria del miracolo, meravigliando il
pittore e invogliandolo a farne argomento di quadro, non vede l’ora di
osservare quel dipinto per la realizzazione del quale aveva provveduto
egli stesso, rifornendo il maestro di straccatura durante tutto il periodo
di lavorazione.
Dopo aver «contemplato ben bene l’accaduto», rivolge («un po’
temperato») al pittore il seguente «– Io dove sono?», cui questi ribatte
con altrettanta essenzialità («Voi siete questo») e accompagnando la
risposta col gesto di indicare il punto della tela dove la sagoma del
nano ricorda vagamente un uccello in croccia (variante arcaica per
‘gruccia’, ‘trespolo’), un paragone che non piace ad Angiò, il quale da
fuoco alla propria collera: quell’Io, che si è visto essere contenuto nella
domanda rivolta dal nano all’artista chiamato a rappresentarlo, non
viene riconosciuto. Non ci sono specchi in Angiò e la superficie marina
non è atta riflettere la figura del nano: è questa l’unica volta in cui il
protagonista incontra la sua immagine esteriore, la affronta e la distrugge.
All’artista che ha fallito nel suo intento, al pittore che aveva
48 Ibidem.
[ 15 ]
deformazione espressionista in un romanzo di lorenzo viani 285
creduto fossero necessarie soltanto le «spiegazioni sull’attrezzatura
del barco, il nome delle sartie, delle vele, dei terzaroli e degli ingiari»49
non resta che darsi alla fuga.
Nella terminologia dello studio di Michele Cometa sull’ékphrasis,
particolare rilievo assume il lemma «opaco» in rapporto all’identificazione
di un valore aggiunto per la figura retorica in questione. Nel
testo grammatizzato dell’immagine presa in considerazione dal procedimento
ecfrastico, l’opaco consisterebbe proprio nel tessuto nonverbale
che lo attraversa, mentre per converso, nell’immagine «inestricabile
è la rete delle parole che l’avvolge e la condiziona»50. In questa
prospettiva l’ékphrasis diverrebbe non una forma della retorica ma
una sorta di propedeutica allo studio dell’altro da sé:
Un esercizio ancora più cruciale di spossessamento e contestuale riconoscimento
della debolezza ontologica del verbale e del visuale, e con
essi della soggettività51.
Pertanto non si tratterebbe più di un sistema di collaborazione tra
le arti, bensì di un reciproco soccorso tra le stesse in quanto marcatura
di un limite. Nel passo dell’Angiò che abbiamo visto adattarsi ai principi
del procedimento ecfrastico, ad emergere è la ribellione dell’Altro
di fronte al modo in cui viene ricacciato, emarginato da una realtà che
lo vede attraverso l’immagine in cui è intrappolato. I gesti del nano e
del pittore, rispettivamente quello di frantumare il dipinto e quello di
ritirarsi, sono appena un’anticipazione sull’ultimo stadio della vicenda
di Angiò, lì dove al nano è dato finalmente di rompere i limiti impostigli
dalla propria natura e all’artista di terminare il proprio lavoro
per poi sparire.
Proprio nel capitolo conclusivo del romanzo, si trova il secondo
caso di ékphrasis creativa.
Angiò non vedeva e non udiva. Il capo aveva piombato, la scotta gli
risegolava un polso e l’altro tremava sul timone. Il cielo opaco gli sembrò
una pietra mortuaria bagnata dalla pioggia. Una grande effigie di
Dio vi era graffita a solchi neri, il Santo Padovano, tra uccelli e saette,
implorava una grazia: nei lampi l’immagine si dilatava nel cielo,
nell’ombre si ricomponeva spietata52.
49 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 102.
50 M. Cometa, Parole che dipingono, cit., p. 19.
51 Ibidem.
52 L. Viani, Angiò uomo d’acqua, cit., p. 131.
[ 16 ]
286 natalia manuela marino
Qui il topos dell’inesprimibilità si totalizza addirittura nella grande
effigie di Dio, cui il santo protettore di Angiò implora una grazia su
di una superficie tanto diversa da quella della tela, qual è quella della
pietra: si perviene così al centro del meccanismo di cerchi concentrici
formati dal ricorrere della medesima scena, quella del giuramento che
ha inseguito la sorte del nano fin dall’inizio del romanzo e che si è infine
ricomposta su di un cielo paragonato a una lapide. Il richiamo
alla pietra mortuaria renderà più leggibile l’epitaffio che sottotitola il
testo: «Il gigante che, vivendo sul mare, è salito di meraviglia in meraviglia,
alla vera sapienza».
Natalia Manuela Marino
[ 17 ]
Simone Giorgino
«Io sono una raccontatrice».
I racconti dispersi di Rina Durante
Rina Durante, di cui si è recentemente celebrato il primo decennale dalla scomparsa,
è stata una delle principali scrittrici pugliesi del Novecento. In questo
articolo si esaminano i suoi racconti dispersi, apparsi su giornali e riviste fra il
1963 e il 2002, in cui la scrittrice racconta lo spaesamento di un’intera comunità
di fronte allo spartiacque fra due epoche e fra due civiltà, quella contadina e
quella industriale.

Rina Durante, who passed away a decade ago, was one of the major twentiethcentury
writers from Puglia. This article examines her uncollected short stories,
printed in newspapers and magazines between 1963 and 2002, in which the
writer tells of the sense of disorientation of an entire community at the divide
between two eras and two civilizations, that of country farming and that of industry.
La ricorrenza del primo decennale dalla scomparsa ha rinnovato
l’interesse nei confronti di Rina Durante (Melendugno, 1928-Lecce,
2004), scrittrice, giornalista e operatrice culturale fra le più importanti
e combattive del panorama letterario pugliese del secondo Novecento.
Antonio Lucio Giannone, Ordinario di Letteratura italiana contemporanea
presso l’Università del Salento, ha organizzato un interessante e
partecipato Convegno di studi – “Rina Durante: Il mestiere del narrare”,
Lecce-Melendugno 18-19 novembre 2014; è imminente la pubblicazione
dei relativi Atti presso l’editore Milella di Lecce – e ha curato
la ristampa della sua opera più nota, il romanzo La malapianta (Lecce,
Zane Editrice, 2014), la cui prima edizione, da tempo fuori commercio,
uscì da Rizzoli nel 1964. Subito dopo, la rivista «Lo Straniero» ha dedicato
alla scrittrice uno speciale, Il Sud di Rina Durante, con interventi di
Goffredo Fofi, Alessandro Leogrande e Massimo Melillo1.
1 Cfr. G. Fofi, “Il Tramontana” senza vocazione; A. Leogrande, La fine dell’utopia;
M. Melillo, Una lezione culturale e politica, «Lo Straniero», n. 168, giugno 2014.
288 simone giorgino
Rina Durante è stata un’intellettuale poliedrica: ha esordito giovanissima
con una raccolta di poesie di impianto neo-ermetico dal titolo
Il tempo non trascorre invano (Bergamo, Misura, 1951), si è formata nella
palestra del «Critone», autorevole rivista letteraria diretta dal poeta
leccese Vittorio Pagano, la cui amicizia fu determinante per la sua definitiva
maturazione artistica, e, dopo la pubblicazione della Malapianta,
ha collaborato con varie testate locali e nazionali, dimostrandosi
attenta osservatrice, oltre che della vita culturale e letteraria, anche
della tradizione popolare salentina: decisivo il suo contributo per la
valorizzazione della minoranza linguistica grika e per lo studio e la
raccolta, sulla scorta di Ernesto De Martino, dei materiali etno-folclorici
legati al fenomeno del tarantismo (fu lei a ispirare e promuovere il
pionieristico lavoro discografico del Canzoniere Grecanico Salentino,
I canti di Terra d’Otranto e della Grecìa salentina, Fonit Cetra, 1977). L’interesse
per la cultura eno-gastronomica locale l’ha poi portata a scrivere
libri come Cerere e Bacco a piene mani. Una civiltà da salvare, Fasano,
Schena, 2001 e il postumo L’oro del Salento. Per una storia sociale dell’olio
di oliva in Terra d’Otranto, Nardò, Besa, 2005. Nonostante questa sua
versatilità, che la portò a interessarsi anche di cinema, teatro e radiofonia,
la Durante diceva di sé:
Io non sono una ricercatrice. Io sono moderatamente antropologa, al
servizio di qualcosa che non ha niente a che vedere con l’antropologia.
Tutte queste ricerche mi servivano per arricchire il mio repertorio di
storie, di immagini, di fatti, di personaggi di cui mi sarei servita come
narratrice; io sono una scrittrice, una raccontatrice2.
In questo intervento mi soffermerò, in particolare, sui racconti di
Rina Durante apparsi su giornali e riviste fra il 1963 e il 2002, censiti e
ordinati da Maria Teresa Pano (Università del Salento) e da chi scrive3.
La maggior parte di questo materiale si colloca, però, in un periodo
ben più limitato, e cioè fra il 1963, all’altezza della stesura e della pubblicazione
della Malapianta e il 1970. Da allora in avanti si assiste, infatti,
a un progressivo allontanamento della scrittrice dalla narrativa,
cui ritornerà – se si eccettua la parentesi di Tutto il teatro a Malandrino
(Roma, Bulzoni, 1977), che peraltro recupera, rimaneggiandoli, gran
parte dei racconti pubblicati nella seconda metà degli anni Sessanta –
2 V. Santoro-R. Raheli, intervista a Rina Durante rilasciata nell’ottobre 2003,
in www.vincenzosantoro.it
3 Per una prima analisi dei testi rimando allo studio di F. Moliterni, I racconti
dispersi, presentato in occasione del Convegno.
[ 2 ]
«io sono una raccontatrice». i racconti dispersi di rina durante 289
solo molto più tardi, con la raccolta Gli amorosi sensi (Lecce, Manni,
1996).
Le ragioni di questa interruzione, più che nella scelta di perlustrare
nuovi mezzi espressivi o di dedicarsi con maggiore costanza all’attività
giornalistica, coltivando interessi eterogenei che spaziano dalla cultura
locale all’enogastronomia, dalla sanità all’istruzione, dai reportage alle
note di costume ecc., vanno individuate in una almeno temporanea sfiducia
nella letteratura che ha delle motivazioni di ordine essenzialmente
politico e sociale. Ciò che alla Durante appare ormai inattuale è il
ruolo stesso dello scrittore in una società che, archiviata la stagione rivoluzionaria
del Sessantotto, ritornava a un modello economico capitalista.
Le ragioni di un’intera generazione di intellettuali, maturati negli
anni delle grandi aspettative democratiche sorte all’indomani della Liberazione
e che si proponevano di cambiare il mondo attraverso la letteratura,
si stavano rivelando inefficaci di fronte all’aridità e al cinismo
della società dello spettacolo, che semmai derubrica le grandi tematiche
affrontate da quegli scrittori (riscoperta delle tradizioni popolari, recupero
in chiave gramsciana della cultura subalterna, ecc.) ad attrazione
turistica, ad effimero entertainment organizzato per lo svago dei nuovi
consumatori di cultura, e cioè per le curiosità intellettuali, ritenute
spesso grossolane e occasionali, della classe media in espansione.
Nasce da qui la consapevole inadempienza della scrittrice nei confronti
della letteratura: parallelamente all’abbandono della narrativa
escono con sempre maggiore frequenza articoli che si soffermano nostalgicamente
sui tempi d’oro delle lettere salentine (l’Accademia di
Lucugnano e «L’Albero» di Girolamo Comi, «L’esperienza poetica» di
Vittorio Bodini, «Il Critone» di Vittorio Pagano) che la scrittrice ripercorre
avvolgendoli in un’aurea mitica; né mancano aspre tirate contro
gli operatori culturali e i rappresentanti delle istituzioni locali ritenuti
corresponsabili della svendita di una tradizione folclorica che se un
tempo veniva studiata con precisi intenti politici, ormai era diventata
semplicemente, come recita il testo di una canzone composta dalla
Durante, La quistione meridionale, «un buon affare». Se le pionieristiche
ricerche sul folclore salentino condotte dalla scrittrice erano alimentate
dalla volontà di affrancare la cultura delle classi subalterne dagli
schemi imposti dalla cultura egemone, all’interno di un progetto che
ambiva all’emancipazione anche politica delle grandi masse popolari,
ora, invece, la restaurazione capitalistica aveva ‘normalizzato’, colonizzandola
in maniera anche piratesca, quella ricca e affascinante tradizione,
facendone una specie di riserva etnologica per turisti attratti
dalla ‘pizzica’.
[ 3 ]
290 simone giorgino
La narrativa della Durante è caratterizzata da una spiccata vocazione
antropologica che si risolve nella rielaborazione letteraria del
materiale attinto dal ricco serbatoio della cultura popolare. I protagonisti
di questi racconti sono personaggi abitualmente tenuti ai margini
della storia letteraria italiana; sono contadini del sud che si presentano
ai lettori col loro bagaglio di speranze e di umiliazioni, con una vitalità
‘animalesca’, istintiva e quasi inconsapevole, e soprattutto con una
connaturata e immedicabile solitudine, che non è attenuata nemmeno
dal senso di appartenenza a una comunità che li cementa, preservandoli
dalle contaminazioni con ciò che proviene dall’esterno (il progresso
scientifico e tecnologico, le mode, l’avvento dei mass-media; ma
anche gli spettri del fascismo, gli orrori della guerra…). La profilassi
completa, tuttavia, oltre che impossibile, non è quasi mai efficace: la
gente di Schifano, il paesino immaginario che fa da teatro alle avventure
di questi personaggi e a quelle autobiografiche dell’autrice adolescente,
non è immune dalle lusinghe che l’incipiente sviluppo economico
e industriale esercita su un numero sempre maggiore di persone.
Perciò la riscoperta della propria identità culturale e territoriale contrasta
con le forze centrifughe rappresentate dalla società capitalista,
creando una frizione arcaicità/progresso che è il vero nucleo tematico
della narrativa durantiana.
La scrittrice, insomma, ci descrive la condizione di spaesamento di
un’intera comunità di fronte allo spartiacque fra due epoche e fra due
civiltà, quella contadina e quella industriale, fra gli anni della ricostruzione
e delle tensioni della guerra fredda, e quelli dello sviluppo industriale
e dell’affermazione della nuova società globalizzata. La gente di
Schifano, già duramente fiaccata dalla fame e dal lavoro nei campi, si
misura, allora, anche con queste forze disgregatrici che minacciano la
coesione e la sopravvivenza della comunità cui appartiene. Emigrati nel
Settentrione o all’estero, assoldati per difendere un concetto nebuloso
di patria in Africa o dovunque li comandasse la millantatrice propaganda
del regime, o piuttosto assunti per rigovernare le ville della buona
borghesia del capoluogo o le dimore di un’aristocrazia in lenta e irreversibile
decadenza, questi personaggi conservano, sia pure nel fondo
della loro monadica solitudine, un irresistibile istinto di salvaguardia
della propria identità, un richiamo ctonio che si manifesta, a volte, come
nostalgia indefinita di un eden perduto per sempre e forse mai esistito.
Si vedano, per esempio, le leggende su Roca, l’antica località costiera
salentina descritta come una terra ricca e felice prima dell’assedio turco,
esperienza che sancisce, nella memoria collettiva dei suoi abitanti, il
passaggio traumatico dal tempo del mito al tempo della storia.
[ 4 ]
«io sono una raccontatrice». i racconti dispersi di rina durante 291
Ed è, appunto, sulla ‘resistenza’ del Blut und Boden (cioè i legami
del sangue e del suolo) che indugia la scrittrice, il cui orizzonte rigidamente
classista – «Da una parte c’erano i padroni (due o tre), dall’altra
i poveri. I primi comandavano, i secondi obbedivano»4 – generato da
una profonda insofferenza per le discriminazioni sociali, soggiace alla
rappresentazione della propria comunità, abitualmente ritratta con
affetto e partecipazione anche nei momenti in cui la contaminazione
con la modernità o con tutto ciò che è estraneo al suo ambiente o alla
sua cultura, sembra imbastardirla in maniera irreversibile.
La Durante racconta le quotidiane miserie di un sud tragico e remoto,
condividendo ora il dolore di una sub-umanità esclusa dalla
storia, ora la voglia di eluderlo affidandosi a una ritualità primitiva e
irrazionale, oppure ricercando una temporanea evasione attraverso il
gioco, il camuffamento o altre improbabili ed estemporanee imprese
organizzate da quei personaggi per sbarcare in qualche modo il lunario.
Se l’ambientazione storica e l’attenzione per le condizioni di vita
delle classi subalterne sembrano iscrivere pienamente questi racconti
nell’alveo della poetica neorealista, l’approfondimento di certi aspetti
della vita interiore dei personaggi li orienta decisamente su traiettorie
esistenzialiste. Come ha già chiarito Giannone nella sua “rilettura”
della Malapianta5, nella narrativa della Durante il neorealismo rimane
come sfondo, ma già si iniziano a intravedere nuove istanze sperimentali
che indirizzano la scrittura ben oltre il populismo democratico e la
letteratura di protesta o di denuncia, quindi nella direzione di un inevitabile
affrancamento dalle tematiche proprie della meridionalistica.
Rina Durante, soprattutto nei racconti di più ampio respiro, cioè
Tramontana, Serenata, e Una storia per Anna, riadatta il disagio esistenziale
caratteristico delle classi medie (incomunicabilità, alienazione,
solitudine) a un ceto, cioè il proletariato contadino del meridione, tradizionalmente
escluso da questo tipo di analisi introspettive. In Tramontana,
per esempio, è il dolore esistenziale del protagonista, più che
la sua oggettiva indigenza, a determinarne da una parte la ‘cattiveria’
che lo spinge a comportamenti provocatori e violenti, e dall’altra la
scelta di chiudersi al mondo, accettando di buon grado, quasi con sol-
4 R. Durante, Storie di ubriachi, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 16 ottobre
1966.
5 Cfr. A.L. Giannone, Tra realismo e sperimentalismo: per una rilettura del romanzo
La malapianta di Rina Durante, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a
cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, Pisa, edizioni ETS, 2014, pp. 595-
604.
[ 5 ]
292 simone giorgino
lievo, la decisione dei genitori di mandarlo in convento per rieducarlo.
«Io non avevo niente e nessuno. Ero un poveraccio abbandonato da
tutti e basta», dice di sé il Tramontana, e questa infelicità – acuita dalle
difficoltà economiche che minacciano la coesione della sua famiglia,
già segnata da continue liti e incomprensioni, fino alla drastica scelta
dei suoi di emigrare in Svizzera in cerca di lavoro senza nemmeno
avvertirlo – lo tormenta perfino nei sogni:
Una notte sognai d’essere in un posto di torri e castelli con grandi scalinate
che arrivavano al cielo e scendevano a precipizio in fondo al
mare: era la Svizzera. Io salivo quelle scale e incontravo mio padre e
mia madre vestiti da operai. Allora dicevo: “Ciao, come state?” ed essi,
senza guardarmi, si dicevano parole incomprensibili: era svizzero. Il
sogno finiva che loro proseguivano il cammino in direzione opposta
alla mia ed io continuavo a salire finché arrivato in cima, ridiscendevo
la scala dall’altra parte e me ne andavo diritto in fondo al mare, ma
così, quasi dolcemente, e senza gridare6.
Ma il Tramontana, sia pur nella sofferenza e nella solitudine, cova
«un desiderio paziente di felicità» che coincide col miraggio di un ritorno
alla terra, a una serena e lieta vita da contadino. All’incertezza
della fede religiosa, da cui nascono alcune delle pagine più inquiete
del racconto, si oppone la certezza di una felicità laica raggiungibile
solo attraverso il ritorno alle proprie radici. Nel momento di maggiore
crisi interiore, quando il Tramontana si rinchiude in una cella del convento
per mettere alla prova la propria vocazione, attraverso una grata
scorge una coppia di contadini che ritornano a casa dopo una giornata
di lavoro nei campi, una scena che gli infonde serenità e allo stesso
tempo una malinconica nostalgia di un avvenire che gli sembra irrimediabilmente
precluso:
Ed ecco all’improvviso davanti ai miei occhi un campo di grano mezzo
falciato, due contadini, un uomo e una donna, un cielo d’un azzurro
pallido con qualche piumetta bianca e grigia, sulla destra un fornello
colla cupola di terra rossa, un oliveto e, in fondo a tutto questo, una
striscia di smeriglio azzurro: era il mare. […] Restava solo la campagna,
immobile sotto la volta del cielo, piana, dolce, provocante7.
6 R. Durante, Tramontana, «Il Critone», agosto-settembre 1963-gennaio-febbraio
1964; ora in Prosatori e narratori pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi-F.
Accrocca, Bari, Adriatica Editrice, 1969, p. 545.
7 Ivi, p. 546.
[ 6 ]
«io sono una raccontatrice». i racconti dispersi di rina durante 293
Il mito di una felicità raggiungibile attraverso il ritorno alle radici
contadine ritorna anche in Una storia per Anna, racconto pubblicato nel
1983 ma che presenta evidenti analogie tematiche e stilistiche con i
racconti lunghi pubblicati più di un ventennio prima, tanto che si potrebbe
supporre che la Durante l’avesse pronto già da molto tempo.
Anna è una sorta di alter-ego femminile del Tramontana, come lui è
figlia di poveri contadini e si allontana da casa per fuggire dalla fame
e dalla miseria; per entrambi lo spauracchio dell’emigrazione incombe
sulle loro famiglie. Ma entrambi aspirano di poter tornare, un giorno,
a una tranquilla vita di lavoro nei campi:
Sognavo che avrei fatto la contadina, come mio padre, mia madre e i
nonni prima di loro. Avrei avuto un mio pezzo di terra […]. La mia
casa sarebbe stata ai margini del campo, con una piccola pergola per
fare ombra l’estate, e la cisterna per dare acqua alle piante. Così, assai
semplicemente, mi configuravo il mio futuro in cui non entravano carestie,
né grandini, né siccità8.
Questo progetto, nel caso di Anna, è connotato da una maggiore,
seppur velleitaria, consapevolezza ideologica, che la protagonista mutua
dalle teorie dell’anziano conte presso cui lavora dapprima come
cameriera ma che di lì a poco finirà per sposare: «è di un nuovo umanesimo
che abbiamo bisogno, Anna. Un umanesimo che parta dalla
terra e arrivi in cielo […]. Sì, sui campi fratelli, perché è sui campi che
si realizza il nostro umanesimo», proclami che il nobile decaduto rivolge
tanto a lei quanto ai popolani, i quali, convocati per ascoltare il
suo programma politico in vista delle imminenti elezioni, accolgono
quelle parole con irriverente scetticismo: «Chiusi la porta su un coro
di fischi e di risate» – ricorda un’affranta Anna – «Ma nessuno dei
piccoli uomini neri l’aveva voluto ascoltare». I contadini, quei «piccoli
uomini neri» che lo scherniscono, sono talmente provati dai continui
soprusi e dalle promesse mai mantenute di una classe dirigente che si
è rivelata da sempre incapace di ascoltare le loro richieste, da non accorgersi
del sentimento di autentica commozione che animava le parole
del vecchio conte, il quale non può fare a meno di prendere atto,
con profonda amarezza, delle grandi trasformazioni sociali che rischiavano
di annientare la «stirpe contadina»: «Sospirò profondamente
e disse: “Dove finiscono i piccoli uomini neri di Castro, di Otranto,
di Gagliano?…” “ In Germania, o in Francia, o in Svizzera” “Oh no!
8 Ead., Una storia per Anna, «Quotidiano di Lecce», 15-19 settembre 1983.
[ 7 ]
294 simone giorgino
Nè in Germania, né in Francia, né in Svizzera. Nel nulla finiscono i
piccoli uomini neri! Nel nulla finisce la stirpe contadina”».
Un cupo orizzonte nichilista ritorna anche in Serenata, racconto in
cui la Durante imposta un delicato parallelismo fra destino del popolo
e destino dell’intellettuale, insistendo sul senso di ineluttabile fine che
incombe tanto sulla civiltà contadina quanto sulla possibilità di rappresentare
quel mondo attraverso l’arte e la letteratura. C’è, infatti, un
rapporto di complice solidarietà fra il poeta Cappuggi, morto in povertà
e solitudine, e la povera e umile gente che gli organizza un fucifuci,
cioè delle esequie in bilico fra sacro e profano che una caritatevole
usanza popolare riservava a chi era talmente indigente da non potersi
permettere nemmeno un funerale. La voce di quel poeta dimenticato
che perseguiva, attraverso i suoi versi, una felicità che travalica
i limiti della contingenza, oltre, cioè, le asprezze e gli stenti del vivere
quotidiano, è simile al suono del violino strimpellato da Michelino,
l’improvvisato musicista («come calzolaio non calzolaio avrei voluto
essere ma violinista») che si accoda al corteo; ma quei suoni sembrano
modulare, per la Durante, l’estremo commiato da un’idea di società e
da un’idea di letteratura; rappresentano il canto del cigno di un paese
(e di una generazione di intellettuali) diventato improvvisamente
«vecchio», «vuoto» e «silenzioso»:
Mi dice canta, canta, che l’aria era già piena di rosmarini, e le scaglie
della cupola scintillavano al sole, e venivano folate di pane fresco dal
forno della Tomasina […].
– E la sera? Ti ricordi la sera a Cocumola?
Mi sento cadere il sangue.
– Dalle parti del canalone, con tutti quei papaveri?
– Sì che mi ricordo – balbetto scadaverito.
– Le pagliare, i portogalli, le nunne che al buio aspettano il laurieddhu?
– Non c’è più nessun laurieddhu a Cocumola
– Hai cercato bene? hai girato le campagne? Le masserie? I fondi della
specchia?
– Ho girato: non c’è più.
– …Il fondo del barone Rampino? – geme il monsignore con un ultimo
filo di speranza.
– Anche lì ho girato: non c’è più.
– è la Squizzera, – sentenzia la vecchia – tutto si sta perdendo9.
9 Ead., Serenata, «Il Critone», gennaio-febbraio 1965, p. 8; il racconto è stato
ripubblicato col titolo Romanza, «Carte segrete», Anno VII, aprile-giugno 1973, n.
22, pp. 115-33.
[ 8 ]
«io sono una raccontatrice». i racconti dispersi di rina durante 295
L’emigrazione («la Squizzera»), la guerra, la fame, insomma tutti
gli oltraggi subiti dai contadini del sud, non cancellano, tuttavia, la
consapevolezza di una ricchezza interiore direttamente proporzionale
allo squallore che li circonda. Il corteo funebre, avanzando per «certi
cunicoli pieni di tubi», «liquami di conserve», un’«insenatura di tufi»,
e uno «scolo di acque grigie che grondano», ma vegliato, dall’alto, da
una bodiniana «luna borbonica» – «dietro la palma del cimitero, la
luna assente, stralunata, borbonica, affonda la lama d’ardesia nella pasta
molle dei tufi» – riacquista gradualmente l’orgoglio di un’identità
da riscoprire:
– Il fatto è che non siamo vivi.
E io:
– Non siamo vivi, noi?
– No.
– E allora che siamo?
– Niente. Non siamo.
– Come, non siamo? Siamo, altroché.
Don Venieri mi guarda con tenerezza. Incoraggiato, soggiungo:
– Siamo anche più di loro.
– Di chi?
Lo sguardo sbandato.
– Ma si capisce! – dico trionfante – Loro, gli squizzeri10.
Se nei racconti lunghi le riflessioni di alcuni personaggi sul male di
vivere appaiono, a volte, così raffinate da sembrare un po’ artefatte e
quindi poco convincenti, è invece nella misura dei racconti brevi che
la scrittrice riesce a trovare un equilibrio più stabile fra matrice neorealista,
vocazione antropologica e descrizione in chiave comica della
vita quotidiana della propria comunità. È qui che appaiono più evidenti
i legami con la tradizione folclorica, ed è qui che il linguaggio
accoglie, attraverso sapidi travestimenti verbali, calchi dialettali e altre
forme mimetiche di simulazione del parlato popolare, tutta la vitalità
e la schiettezza della cultura orale, strategia che consente alla scrittrice
di smascherare le seriose ipocrisie della cultura borghese, espressione
di un potere socio-economico, oltre che politico, percepito tanto
lontano quanto oppressivo, cui la gente di Schifano non può che rapportarsi
se non facendone una caricatura, opponendo alla rigidità protocollare
della letteratura ufficiale, la genuina vivacità del teatro a cielo
aperto di una piazza paesana.
10 Ibidem
[ 9 ]
296 simone giorgino
Il capocomico di questa improvvisata ‘compagnia’ – ed è questo un
aspetto che garantisce freschezza ed efficacia alla narrazione – è la
stessa autrice in prima persona che, per estrazione e censo, e quindi
senza bisogno di particolari travestimenti o di posture affettate, è parte
integrante di quella gente, ne condivide interessi e aspettative, briga,
piange e ride con loro. Gli altri ‘attori’ non sono mai degli integrati
ma tipi eccentrici – suonatori girovaghi, ‘pupazzieri’, ubriachi, diseredati
– insomma una genia di vinti e di esclusi, abilmente ritratti
dalla Durante, che calcano un grottesco e chiassoso ‘palcoscenico’
provinciale. Le piccole rivalse, gli improbabili progetti, le lotte e le
cadute di quei personaggi sono filtrati dalla curiosità di un’adolescente
scapestrata, il cui sguardo stupito e amorevole riesce a conferire una
patina fiabesca alla rappresentazione di un’umanità sofferente ma vivacissima
da cui la scrittrice si sente attratta: «Mettetemi con li puareddhi
[i poveri] ché quelli [il tressette] lo sanno giocare», fa dire in
punto di morte allo zio Pino, il pescivendolo protagonista de I parenti11
che, a differenza degli altri suoi famigliari, non ha vergogna delle proprie
origini e non si dà quelle arie supponenti di chi passa la vita a
salvaguardare un’apparenza di rispettabilità e decoro.
La famiglia della protagonista era di «origini contadine, di quelle,
per la precisione, che ad un certo punto, con infiniti sforzi si staccarono
dalla matrice contadina per elevarsi all’altezza della piccola borghesia
impiegatizia»12, ed è proprio il loro precario status sociale in
bilico fra due mondi così diversi a innescare una corrosiva ironia che
prende di mira il goffo esibizionismo dei parvenu della nuova borghesia
e una comicità che si nutre dei maldestri tentativi dei popolani di
adeguarsi a una società in trasformazione: si veda, per esempio, come
anche a livello lessicale l’incontro-scontro con la modernità (in questo
caso col cinematografo appena arrivato in paese) riesca a creare gustosi
equivoci: «Fu quello il periodo aureo, anche se di continuo funestato
dalle apparizioni dell’uomo della Siae che chiedeva conto del borderò.
Questa parola ormai era entrata nel nostro orizzonte linguistico
col suo oscuro significato di rovina imminente»13.
Nelle storie dei poveri contadini di Schifano, abitanti di «un continente
sconosciuto», di un mondo «un po’ a ritroso della storia», la
Durante riesce a rintracciare, nel bene e nel male, i tratti distintivi di
una precisa identità culturale e antropologica:
11 Ead., I parenti, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 maggio 1966.
12 Ead., Il grammofono, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 17 dicembre 1966.
13 Ead., I pupazzieri, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22 agosto 1966.
[ 10 ]
«io sono una raccontatrice». i racconti dispersi di rina durante 297
Ma pare che questo sia il destino di noi salentini: scoprire la nostra
terra a poco a poco, come fosse un continente sconosciuto, e meravigliarci,
e restare a bocca aperta alle scoperte che facciamo, alle inaspettate
bellezze che incontriamo, agli aspetti inediti che ci si parano dinanzi
a bruciapelo, e quasi ci lasciano storditi14.
La cieca ostinazione che sono proprie del leccese e colorano la sua visione
amabilmente feudale della vita […]. Cittadino di un mondo un
po’ a ritroso della storia, il leccese conserva per sua fortuna alcuni difetti
che lo immunizzano dalla più arida fatica del vivere15.
Questa consapevolezza identitaria, però, sembra acquisita, paradossalmente,
proprio nel momento in cui il confronto con la Storia rischia
di annientarla. L’immobilità che da tempo immemore aveva
contraddistinto la società contadina del Sud, andava velocemente in
frantumi di fronte alla dinamicità della nuova civiltà industriale. Ma è
forse proprio questo pericolo incombente a nutrire la scrittura della
Durante, ad alimentarne la fedeltà e l’amore per un mondo che stava
inesorabilmente scomparendo.
Simone Giorgino
(Università del Salento)
14 Ead., Dolmen Placha, «La Zagaglia», n. 19, 1963.
15 Ead., I nostri “dritti”, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 settembre 1966.
[ 11 ]
Cristiana Di Bonito
Per la storia redazionale del dramma
’O voto di Salvatore Di Giacomo
L’attività di drammaturgo di Salvatore Di Giacomo comincia, in collaborazione
con Goffredo Cognetti, con il dramma ’O voto, tratto da una novella e pubblicato
in lingua italiana nel 1889 con il titolo Mala Vita, rielaborato da Nicola
Daspuro in un omonimo libretto per melodramma nel 1892 e infine pubblicato
in dialetto napoletano nel 1910. In questo lavoro si punta a ricostruire la storia
redazionale del dramma sulla base di altri testimoni e si propone una ipotesi
sul ruolo svolto da Cognetti nella composizione del dramma.

Salvatore Di Giacomo’s dramaturgic activity starts, in collaboration with Goffredo
Cognetti, with the drama ’O voto, based on a short story and published in
Italian language in 1889 with the title Mala Vita, revised by Nicola Daspuro in a
homonymous libretto for opera in 1892 and, finally, published in Neapolitan
language in 1910. In this essay, the author reconstructs the editorial story of the
drama starting from the analysis of other sources and proposes a hypothesis
about the role played by Cognetti in the composition of the drama.
Nella storia della letteratura teatrale napoletana si colloca come
momento di svolta la rielaborazione drammatica della novella Il voto
(1888) di Salvatore Di Giacomo: l’opera intitolata ’O voto e poi Mala
Vita, scritta in collaborazione con Goffredo Cognetti1, rappresenta il
primo esperimento teatrale dell’autore e pone le basi per un verismo
linguistico in ambito napoletano.
Il dramma, ambientato a Napoli nel quartiere Pendino, vede protagonista
Vito Amante, un giovane tintore malato di tisi. Egli, legato
segretamente (ma la cosa in realtà è nota) ad Amalia, moglie del cocchiere
Annetiello, fa voto al Cristo Crocifisso di sottrarre, sposandola,
una donna alla ‘malavita’ in cambio della sua salute. Tale donna è
1 Goffredo Cognetti (1855-1943) intraprese l’attività di giornalista e drammaturgo
dopo la carriera militare; compose in lingua italiana il dramma A basso porto,
tradotto in dialetto napoletano da Salvatore Di Giacomo con il titolo Abbascio puorto.
Meridionalia
’o voto di salvatore di giacomo 299
Cristina, giovane proveniente da Capua che vive in un postribolo di
fronte alla tintoria di Vito; la speranza di libertà per Cristina è ostacolata
e vinta dalla pressione della madre del tintore, donna Rosa, e dal
fascino di Amalia: le due donne inducono infatti Vito a sciogliere il
suo voto e a costringere per sempre la capuana alla ‘malavita’2.
Il testo del dramma compare attualmente nelle edizioni del Teatro
digiacomiano del 1946 (a cura di Francesco Flora e Mario Vinciguerra)3
e del 1990 (a cura di Ettore Massarese)4; la prima segue il testo in dialetto
napoletano dell’edizione definitiva del Teatro curata dallo stesso
Di Giacomo nel 19205, la seconda considera l’edizione digiacomiana
risalente al 19106.
L’obiettivo di questo studio è, prima ancora di illustrare gli aspetti
stilistici e linguistici del testo, tentare di ricostruire la storia di quest’opera
tenendo conto di altri testimoni e individuando le diverse fasi
della sua redazione, al fine di predisporre il materiale necessario a
fissare un particolare testo che, come si vedrà, nasce in napoletano,
viene in seguito adattato in italiano, rielaborato in libretto per melodramma
e infine ripubblicato in dialetto.
Partendo dunque dalla storia del testo e mettendo da parte ogni
osservazione stilistica o interpretativa, è infatti opportuno osservare
che i problemi connessi alla tradizione di quest’opera derivano principalmente
da due fattori: le informazioni manifestatesi agli occhi degli
studiosi del tempo e la collaborazione, indicata nel frontespizio di
ogni edizione, con Goffredo Cognetti7.
Dopo l’uscita della novella Il voto (1888) nella raccolta intitolata
2 La trama della novella è ripresa nell’opera teatrale, ma i dialoghi drammatici
rendono più espliciti alcuni contenuti cui non si accenna esplicitamente nella novella,
come la relazione tra donna Amalia e Vito. Cfr. N. De Blasi, Le letterature
dialettali. Salvatore Di Giacomo, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato,
Roma, Salerno, 1995-2004, vol. 8º (Tra l’Ottocento e il Novecento), pp. 803-909.
3 S. Di Giacomo, Il teatro e le cronache, a cura di F. Flora e M. Vinciguerra,
Milano, Mondadori, 1946 (il dramma ’O voto è alle pp. 5-145).
4 Id., I drammi. Tutto il teatro. Introduzione, note ai testi ed apparati di E. Massarese,
Napoli, Luca Torre, 1990 (’O voto è alle pp. 3-59).
5 Id., ’O voto, Assunta Spina, Lanciano, Carabba, 1920 (vol. I dell’ed. definitiva
del Teatro), pp. 3-160.
6 Id., Teatro, Lanciano, Carabba, 1910, pp. 1-160.
7 Oltre alle fonti dirette, si è considerato alla base di questa ricostruzione il
prezioso lavoro bibliografico di F. Schlitzer, Salvatore di Giacomo: ricerche e note
bibliografiche, ed. postuma a cura di G. Doria e C. Ricottini, Firenze, Sansoni,
1966.
[ 2 ]
300 cristiana di bonito
Rosa Bellavita8, infatti, compare a stampa presso Bideri nel 1889 Mala
Vita – Scene popolari napoletane in tre atti di Salvatore Di Giacomo e
Goffredo Cognetti9, dramma in lingua italiana desunto dalla novella
digiacomiana e introdotto da una nota sulle rappresentazioni avvenute
a partire dal dicembre 1888 sino al 30 agosto 188910. A seguito del
successo riscosso, nel 1892 il compositore Umberto Giordano sceglie,
come soggetto di un’opera verista commissionatagli da Edoardo Sonzogno
sulla scia della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, il testo
digiacomiano di Mala Vita, affidandone la rielaborazione librettistica a
Nicola Daspuro con il contributo dello stesso Di Giacomo, che di suo
pugno compone il testo di una canzone (la Canzone d’Annetiello) appositamente
per il melodramma11. A distanza di circa un ventennio, infine,
compare a stampa il dramma ’O voto nella prima edizione digiacomiana
del Teatro (1910)12, in dialetto napoletano, riproposto dieci anni
dopo con pochissime varianti nel primo volume dell’edizione definitiva
a cura dell’autore13.
Franco Schlitzer, che nel suo lavoro bibliografico su Salvatore Di
Giacomo cita o segnala per ogni opera le recensioni apparse nelle diverse
testate, a proposito di questo dramma dà notizia soltanto di alcuni
interventi pubblicati sul periodico «Fortunio». Seguendo l’indicazione
di Schlitzer, infatti, dallo spoglio delle annate 1888-1892 del «Fortunio
» si traggono informazioni anche riguardo alle rappresentazioni
del dramma e del melodramma; quest’indagine rappresenta un primo
sondaggio che potrebbe meglio chiarire il percorso compositivo dell’opera
anche in relazione al presunto passaggio dall’italiano al dialetto.
Il 4 novembre 1888 «Fortunio» scrive infatti di una commedia, tratta
dalla novella di Salvatore Di Giacomo, dal titolo ’O voto, «che Salvatore
Di Giacomo e Goffredo Cognetti hanno quasi pronta»; si accenna
nell’articolo ad una scena di una rara finezza, quella tra Donna Amalia
e Cristina, e se ne auspica, «perché ha degli audaci studi dal vero», il
«trionfo d’un gran canone d’arte»14. Il 23 dicembre nella rubrica “Fra
8 S. Di Giacomo, Rosa Bellavita, Napoli, Pierro, 1888.
9 S. Di Giacomo – G. Cognetti, Mala Vita. Scene popolari napoletane. Tre atti,
Napoli, Bideri, 1889.
10 La nota è citata anche da F. Schlitzer, Salvatore Di Giacomo, cit., pp. 178-179.
11 Si veda a tal proposito G. Ruberti, Il verismo musicale, Lucca, LIM, 2011, pp.
176-202.
12 S. Di Giacomo, Teatro, cit.
13 Id., ’O voto, Assunta Spina, cit.
14 «Fortunio», 4 novembre 1888, p. 3, rubrica “Schegge” (curata da G. M. Scalinger).
[ 3 ]
’o voto di salvatore di giacomo 301
quinte e ribalta” si dà notizia del successo a Torino di «’O voto di Salvatore
di Giacomo e Goffredo Cognetti, che tradotto in italiano ha preso
il titolo di Mala Vita»15; nell’attesa della prima napoletana, poi, il
numero successivo di «Fortunio» (30 dicembre) pubblica la prima scena
del secondo atto del dramma (in lingua italiana, con poche varianti
rispetto al testo pubblicato nel 1889)16.
L’approdo della Mala Vita a Napoli è annunciato ancora sul «Fortunio
» il 24 marzo 188917, e il 21 aprile il periodico dedica l’intera prima
pagina del giornale a Malavita; il titolo dell’articolo è Dopo il successo:
Scalinger, direttore della testata, tesse un elogio del Di Giacomo e a lui
attribuisce tutti i meriti del successo del dramma, in cui si ritrova, dice,
«il novellatore efficace, poderoso, colorito»:
[…] voi – caro Di Giacomo – che siete l’autore completo di Mala Vita,
perché vostro l’argomento, vostra l’ispirazione, vostra la creazione artistica
del dramma che avete dipinto nella novella e avete, in parte, ridipinto
nel lavoro teatrale. Voi concepiste Il voto e ne foste il continuatore
sulla scena, l’interezza della produzione artistica è vostra, indubbiamente18.
Segue un attento commento di tutta l’opera, nel quale Scalinger
esprime interessanti giudizi sul «metodo di drammaturgo» di Di Giacomo
attraverso la descrizione della figura di Cristina la capuana, «tanto
fragilmente interessante e fatalmente disgraziata», nata «da un ambiente
che dovrebb’essere assai ributtante e pure resta tanto artistico»;
Cristina la capuana è, secondo il suo parere, il personaggio più interessante
del dramma, colei che possiede il segreto della «sentimentalità»
di Di Giacomo, ma soprattutto rappresenta il personaggio attraverso
15 Ivi, 23 dicembre 1888, p. 4.
16 Ivi, 30 dicembre 1888, p. 3. La scena è così introdotta: «Questa scena della
Mala Vita di Salvatore di Giacomo e Goffredo Cognetti – la quale noi siamo lietissimi
di pubblicare, per cortesia degli autori – è del secondo atto, e perché i nostri
lettori ne possano meglio intendere tutta la squisitezza e tutta la sobrietà artistica,
riassumiamo brevemente il primo atto. Vito Amante, un tintore, è malato di tisi e la
prima scena ritrae il vario interesse della gente alla nuova che Vito abbia sputato
sangue: noi non ci indugeremo a ridire quanto senso di napoletanità vera e coscenziosa
vi sia, perché tutti sanno quanta ne sappia mettere il di Giacomo nelle sue
novelle […] Ecco intanto la prima scena del secondo e, a commedia recitata, riparleremo
del lavoro». L’articolo è segnalato (ma non citato) anche in F. Schlitzer,
Salvatore Di Giacomo, cit., p. 174.
17 «Fortunio», 24 marzo 1889, p. 4.
18 Ivi, 21 aprile 1889, pp. 1-2. L’articolo è segnalato in bibliografia anche da F.
Schlitzer, Salvatore Di Giacomo, cit., p. 180.
[ 4 ]
302 cristiana di bonito
il quale l’autore – e Scalinger si riferisce ancora al solo Di Giacomo –
sapientemente rispetta, e nello stesso tempo infrange, il metodo verista:
[…] Cristina resta indimenticabile con queste sole parole insistenti: Voglio
Vito Amante – sentimento, forza, orgoglio, avvenire di quella disperata
follia di rigenerazione!
Dunque, il vostro metodo di drammaturgo non è diverso da quello del
novellatore, perché il drammaturgo e il novellatore sono, per fortuna,
un artista solo. Per fortuna: perché voi portate nel dramma la stessa
vigoria, la stessa robustezza, la stessa intensità passionale della novella,
e l’azione si conserva concisa, rapida, condensata, vera. Ne nasce
una forma ammirevole, d’una sobrietà meravigliosa e d’un effetto potente,
quale solo potrà avere la commedia nuova, quella che dovrà sostituirsi
a tutte le altre forme convenzionali finora apparse sulla scena
e che periscono inesorabilmente. […]
Emerge, in seguito, che il direttore di «Fortunio» apprezza particolarmente
il secondo atto del dramma e molto meno il terzo, che, secondo
il suo giudizio, è concepito interamente per la «catastrofe morale»
di Cristina: «[…] tutto tradisce – secondo Scalinger – la preoccupazione
di non congedare il pubblico troppo presto», e Di Giacomo è invitato
a riscrivere l’atto servendosi degli stessi strumenti con i quali sono
stati concepiti i primi due:
[…] ma io vorrei che tutto il dramma avesse quella proporzione mirabile
del secondo atto, anzi desidererei che il terzo gli rassomigliasse
nella vigoria e nell’interesse, come dovrebbe, per la logica dell’effetto.
[…] Voi potreste, se io non m’inganno, rifare l’atto terzo alla stregua di
quei criteri che vi hanno guidato nel rendere tanto poderosi gli altri
due, mirabilmente proporzionati, mirabilmente coloriti, colmi d’azione,
di forza, di rilievo, di plastica. […]19
Il 28 aprile Salvatore Di Giacomo intitola perciò A proposito di “Mala
Vita” l’articolo di risposta al direttore di «Fortunio» per chiarire il
problema della collaborazione col Cognetti: «quelle scene popolari –
scrive Di Giacomo – le abbiamo, da principio in fine, scritte lui ed io,
19 L’unico esemplare ritrovato di questo numero di «Fortunio», conservato
presso la Biblioteca Universitaria di Napoli, manca della parte in basso a destra
della pagina, proprio in corrispondenza dell’ultima parte dell’articolo, subito dopo
questa citazione.
[ 5 ]
’o voto di salvatore di giacomo 303
con uguali intendimenti e con criteri i concordi intorno al movimento
scenico, al dialogo, ad ogni forma»20.
Franco Schlitzer cita poi nel suo lavoro un altro articolo di «Fortunio
» del 1° settembre 1889, in cui si informano i lettori che Di Giacomo
per la stampa rivide minuziosamente il copione teatrale, «il quale ne
risultò “migliorato nella forma e nell’andamento”, specialmente
nell’ultimo atto “divenuto più intensamente efficace”»21.
Il 5 maggio 1889, infine, sulla stessa rivista si legge l’ultimo resoconto
al termine delle repliche al Teatro Nuovo di «quelle scene napoletane,
nate dal dialetto e dall’osservazione schiettamente artistica
dell’ambiente napoletano», che «rientrarono nel loro clima naturale»
con un indiscutibile successo22.
Qualche anno più tardi, poi, il 25 febbraio 1892, «Fortunio» testimonia
anche il passaggio del testo da un genere all’altro: Giulio Cottrau
sottolinea infatti in un suo articolo il successo della rappresentazione
di Mala Vita, melodramma di Umberto Giordano e Nicola Daspuro,
al Teatro Argentina di Roma, contrastando le dure reazioni
della critica, non ancora pronta a vedere rappresentata sulle «classiche
scene liriche» dell’Argentina uno «spettacolo di donne corrotte, di
male case, sorvegliate dalla Questura», di «donne aizzate l’una contro
l’altra che s’accapigliano, e si gettano sul viso vituperi e parolacce»23.
La «moda del giorno», l’opera verista, riscosse invece nel pubblico
presente, già solo al primo ascolto, un’approvazione tale che ne segnò
il grande successo. Cottrau infatti scrive:
[…] Non nego che l’andamento musicale, cioè la quasi assenza di canti
largamente sviluppati, la continuità del dialogo non corrispondano
al desideratum di molti: però il pubblico ha deciso irrevocabilmente che
così debba procedere il dramma musicale e non bisogna mostrarsi recalcitrante
alla moda del giorno. […] Quattro pezzi bissati e quasi tutti
i pezzi applauditi; successo dunque incontrastabilmente pieno, assoluto24.
Già i primi articoli cui si è fatto cenno presentano alcuni problemi
20 «Fortunio», 28 aprile 1889, p. 2. La lettera è citata anche da F. Schlitzer,
Salvatore Di Giacomo, cit., pp. 180-181.
21 Ivi, p. 180.
22 «Fortunio», 5 maggio 1889, p. 4.
23 Si veda a tal proposito anche G. Ruberti, Il verismo musicale, cit., pp. 176-202.
24 «Fortunio», 25 febbraio 1892, p. 2. L’articolo è segnalato in bibliografia anche
da F. Schlitzer, Salvatore Di Giacomo, cit., p. 180.
[ 6 ]
304 cristiana di bonito
che non trovano perfetta corrispondenza nelle informazioni fornite in
precedenza, ma, prima di formulare una ipotesi sulla storia di quest’opera,
è opportuno volgere lo sguardo anche alla bibliografia critica sul
dramma, a cominciare dal parere di Luigi Russo, che nel 1921 scrive:
[…] Ma è noto che il dramma è stato scritto in collaborazione col Cognetti,
e che il Di Giacomo sovratutto ha curato le didascalie, più che
non la stessa tessitura scenica delle parti. La quale fu principalmente
opera del Cognetti, tecnico assai esperto della scena, e che con molta
abilità sviluppò i motivi della novella Il voto, ma che forse non con
un’uguale felicità ne distribuì il colore. […] Teatralmente l’opera più
adulta che vada sotto il nome del poeta napoletano; ma essa manca
effettivamente di ingenuità e di immediatezza, e soprattutto di sobrietà
nella diffusione del colore; poiché a me pare che la perizia tecnica
del Cognetti abbia subordinato agli effetti estrinseci della scena l’intimità
pittorica della rappresentazione: il costume vi si accampa, in un
lusso sgargiante di particolari25.
Sulla scia del Russo si sono formulate le considerazioni di altri studiosi;
per esempio di recente Toni Iermano ha scritto: «[…] E fu proprio
la compagnia del Pantalena […] a mettere in scena nel 1889 ’O
Voto, il dramma nato da un’idea di Di Giacomo e trasposto in scena
dal Cognetti»26, e più avanti:
Un contributo alle scene Di Giacomo lo diede con il dramma in tre atti
Malavita che poi titolò ’O voto. Il Cognetti ebbe un ruolo determinante
nella stesura del dramma, del quale il poeta curò le didascalie e non la
sceneggiatura. Cognetti era abile nella tecnica di scena ma il suo gusto
del particolare del caratteristico tende ad essere rappresentato come
fenomeno di costume e non secondo il gusto pittorico digiacomiano27.
Notevoli perplessità e incongruenze emergono tra le diverse fonti
informative prese in considerazione. Un problema particolare riguarda
in primo luogo la lingua in cui il dramma fu rappresentato. Non è
chiaro infatti se sia stato messo in scena in italiano o in dialetto: come
si è visto, è Mala Vita la prima edizione a stampa del dramma, del 1889
e in lingua italiana; la nota sulle rappresentazioni presente in questa
edizione porterebbe dunque a pensare all’italiano come unica lingua
25 L. Russo, Salvatore Di Giacomo, Napoli, Ricciardi, 1921, pp. 135-136.
26 T. Iermano, Il melanconico in dormiveglia. Salvatore Di Giacomo, Firenze, Olschki,
1995, p. 186.
27 Ivi, p. 189.
[ 7 ]
’o voto di salvatore di giacomo 305
rappresentata in scena, ma il primo articolo comparso sul «Fortunio»
nel novembre del 1888 rivela la presenza, già in quell’anno, di un dialettale
’O voto, rinviando al mese successivo l’annuncio della «traduzione
italiana» Mala Vita. Il dialetto napoletano, che sulla base delle
edizioni a stampa compare solo a partire dal 1910, potrebbe invece
essere precedente rispetto all’italiano: questo, dunque, è il primo elemento
che spinge a considerare un riesame della storia dell’opera.
Altro elemento degno di osservazione è senza dubbio il ruolo svolto
da Goffredo Cognetti nella stesura di Mala Vita e di ’O voto: concepito
sin dalla prima stampa ‘in collaborazione’, il dramma, seppure
nella sola versione in dialetto napoletano, rientra tuttavia venti anni
più tardi nell’edizione completa dei drammi digiacomiani e non nel
volume del Teatro di Cognetti; eppure, stando al parere autorevole di
Luigi Russo, l’opera «fu principalmente opera del Cognetti», e il Di
Giacomo ne avrebbe curate le sole didascalie. Su questo aspetto si possiede,
come si è anticipato nel quadro riassuntivo di articoli del «Fortunio
», la testimonianza diretta di Salvatore Di Giacomo, il quale,
nell’articolo di risposta al direttore Scalinger, chiarisce la costante
compartecipazione dei due autori nella stesura del dramma (senza
però rendere nota la distribuzione dei compiti e, soprattutto, senza
dichiarare che il proprio apporto sarebbe stato circoscritto alle sole
«didascalie»)28. La testimonianza può certamente considerarsi veritiera,
tanto più se si pone in relazione con il contenuto di una lettera del
10 dicembre 1888, in cui Giovanni Verga così valuta Mala Vita:
[…] C’è tanta intensità di passione e così sincera rappresentazione di
vita vera nelle vostre scene popolari che anche a leggerle mi hanno
dato quella schietta soddisfazione artistica che devono produrre alla
recita. Avete fatto benissimo quindi ad insistere minutamente sulla dimostrazione
plastica della didascalia, per dare insieme l’ottica della
rappresentazione a chi legge e cotesto gioverà anche per chi recita, perché
ho dovuto convincermi che non bisogna far soverchio assegnamento
sull’intuizione artistica degli uni e degli altri, e a mettere la pappa
in bocca col cucchiaino a tutti quanti non ci si perde. Il Cognetti,
meno qualche melodrammaticità di effetto che mi è parso [sic] un po’
convenzionale in quelle scene così belle di semplice e schietta verità,
s’è giovato bene del vostro bell’argomento. Mi congratulo con entram-
28 Anche in un saggio di stampo musicologico relativo al melodramma Mala
Vita è data per certa, come per gli altri studiosi, l’ipotesi di Luigi Russo relativa al
ruolo di Cognetti nella stesura del dramma. Cfr. M. Sansone, Giordano’s ‘Mala vita’:
a ‘verismo’ opera too true to be good, «Music and letters», LXXV/3 (1994), pp.
381-400.
[ 8 ]
306 cristiana di bonito
bi, specie con voi, caro amico, che avete messo [sic] il primo passo sul
palcoscenico da padrone. […]29
Ma se si tentasse ora una ricostruzione dei dati, deriverebbe una
storia dell’opera piuttosto confusa e frastagliata: la prima testimonianza
del dramma risale al 1889 ed è la pubblicazione in lingua italiana
di Mala Vita, eppure un anno prima il «Fortunio» scrive del dramma
napoletano ’O voto; la pubblicazione del dramma in napoletano
nel 1910 porterebbe a considerare una traduzione dall’italiano al dialetto,
tuttavia l’esistenza, sin dal 1888, del titolo ’O voto nelle pagine
del «Fortunio» nonché la presentazione nello stesso periodico di Mala
Vita come «traduzione italiana di ’O voto» sembrerebbero contraddire
anche questa ipotesi; Di Giacomo, infine, secondo Russo, avrebbe redatto
solo le didascalie di un dramma in italiano composto interamente
dal Cognetti, ma lo ha di fatto inserito tra le proprie opere.
Se, dunque, da giudizi apparentemente affidabili si passa ad una
concreta verifica dei dati, la situazione cambia notevolmente.
Al di là di ogni ipotesi sull’attribuzione delle responsabilità autoriali
a Di Giacomo e a Cognetti, infatti, è necessario fare un passo indietro
risalendo alle testimonianze manoscritte conservate presso la
Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli (di cui lo stesso Di Giacomo fu Direttore
per vari anni). Già nell’introduzione all’Apparato critico di ’O
voto della sua edizione del Teatro digiacomiano, Ettore Massarese dà
notizia di due manoscritti del dramma30 datati rispettivamente 1888 e
1889 e conservati presso la Lucchesi Palli:
[…] La prima edizione integrale appare, per i tipi Bideri di Napoli, nel
1889, nella versione in lingua, scritta in collaborazione con Goffredo
Cognetti con il titolo Mala vita. […] Fin dal novembre del 1888 Di Giacomo
porta a termine la conversione in dialetto del testo. Da questa
versione si sviluppa la redazione definitiva, edita, a cura dello stesso
autore, nella raccolta proposta per i tipi Carabba di Lanciano (1a ed.
1910, 2a 1920). La sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale di
Napoli conserva, della versione napoletana, due manoscritti autografi:
uno datato 5-19 novembre 1888 (tempo di trascrizione), l’altro Aprile
1889 con l’indicazione del luogo della prima rappresentazione a Napoli
(Teatro Nuovo). Il primo costituisce, con evidenza, lo scartafaccio
della prima stesura […], il secondo è il copione ‘in bella’ e reca, non a
caso, l’indicazione degli interpreti e la distribuzione dei ruoli; questo
29 Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli, mss. Di Giacomo, Ba III A (404). La lettera
è riportata anche in F. Schlitzer, Salvatore Di Giacomo, cit., p. 179.
30 Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli, mss. Di Giacomo, Ba I B (3) e B (5).
[ 9 ]
’o voto di salvatore di giacomo 307
copione accoglie tutte le correzioni apportate sul manoscritto dell’anno
precedente. […]31
Nella ricostruzione di Massarese, che offre un primo approccio critico
alla storia dell’opera (nell’edizione curata da Flora e Vinciguerra
mancano notizie sulle edizioni e sui manoscritti del dramma), i due
manoscritti sono dunque presentati come autografi32. Un confronto
delle grafie di questi con altri manoscritti di Salvatore Di Giacomo
dimostra però che il primo è effettivamente un autografo, mentre il
secondo appare come una ‘copia’ del primo, trascritta da una mano
diversa da quella del Di Giacomo33. Il manoscritto autografo dialettale
di ’O voto, risalente al 1888 e di un anno precedente la pubblicazione
in lingua italiana, rappresenta dunque la chiave di volta nella ricostruzione
della storia di quest’opera.
I nomi di Di Giacomo e Cognetti figurano entrambi sul frontespizio,
che recita: «’O Voto / Scene popolari napoletane – Tre atti / di / S.
di Giacomo e G. Cognetti»; più in basso rispetto al titolo è presente
una nota sui diritti d’autore, con la firma di entrambi gli autori: quella
di Di Giacomo è apposta con lo stesso inchiostro con cui è scritta la
nota, quella di Cognetti con altro inchiostro.
Il manoscritto presenta una situazione molto complessa da un
punto di vista elaborativo: dal primo al terzo atto si incontrano pagine
intensamente rielaborate, non tanto dal punto di vista dell’intreccio
(ma non mancano tagli di sezioni in seguito recuperate o sostituzioni
di intere scene) quanto dal punto di vista della lingua: il quadro generale,
infatti, presenta oscillazioni anche nella grafia del napoletano,
documentata dalle varianti d’autore e dalle correzioni continue. La
presenza sul manoscritto di inchiostri diversi con i quali vengono apportate
le varianti, inoltre, testimonia la continua mobilità del testo ed
evidenzia una sovrapposizione di fasi elaborative, inducendo ad ipotizzare
che si tratti a tutti gli effetti del manoscritto di prima stesura
del dramma34.
31 S. Di Giacomo, I drammi. Tutto il teatro, cit., p. 267.
32 Massarese propone, inoltre, un apparato critico (cfr. ivi, pp. 268-290) mettendo
a confronto alcune varianti del ms. datato 1888 con le soluzioni adottate da Di
Giacomo nella prima ed. del Teatro (1910).
33 Il secondo manoscritto, infatti, oltre a non presentare una grafia conforme al
primo e ad altri manoscritti digiacomiani, presenta una serie di segni grafici che
potrebbero far pensare ad un copione di scena, tanto più se si considera che di
fatto non accoglie tutte le correzioni apportate da Di Giacomo nella prima stesura.
34 Nella redazione del ms., oltre ai diversi inchiostri con i quali sono inserite le
[ 10 ]
308 cristiana di bonito
Anche nella ricostruzione offerta da Massarese, inoltre, nonostante
siano messe in evidenza le due testimonianze manoscritte del dramma,
si considera alla base della storia dell’opera la stesura in lingua
italiana Mala vita del 1889; lo studioso, accettando la prospettiva di
Franco Schlitzer, scrive che dal novembre 1888 Di Giacomo avrebbe
proceduto (da solo) alla conversione in dialetto35. Di fatto, sul frontespizio
del secondo e del terzo atto del manoscritto di prima stesura si
legge la dicitura «traduzione napoletana»; tale indicazione potrebbe
trarre in inganno se si ponesse in relazione con la presunta composizione
dell’intreccio drammatico condotta da Cognetti (come si legge
in Luigi Russo e in Toni Iermano); in realtà, considerati vari elementi
come la data riportata sul manoscritto, precedente rispetto alla versione
italiana, il fatto che esso sia il primo ed unico autografo del dramma
digiacomiano, e la coeva testimonianza del «Fortunio» che scrive
prima di un dramma ’O voto e solo in seguito della sua traduzione
italiana Mala vita, l’indicazione va riferita certamente a un’altra fase
dell’elaborazione e allude molto probabilmente a una traduzione condotta
dall’autore: non è da escludere, infatti, che il termine ‘traduzione’
sia stato usato da Di Giacomo in rapporto alla trasposizione (anche
con traduzione) dalla novella al dramma (la prima, in lingua italiana,
il secondo in dialetto). In ogni caso, questo manoscritto datato 1888
rappresenta la prima testimonianza del dramma ricavato dalla novella,
perciò alla base della storia di quest’opera si può considerare il testo
in dialetto ’O voto, trasposto poi in italiano con il titolo Mala vita.
Ciò spiegherebbe anche un’eventuale ipotesi sulla lingua della rappresentazione:
non è da escludere, considerando il primo articolo del
«Fortunio» sopra citato, che il dramma possa essere stato rappresentato
in dialetto prima ancora che in italiano (e un’ulteriore conferma in
varianti, si può individuare anche una grafia differente da quella di Salvatore Di
Giacomo, con la quale sono introdotti solo alcuni inserti. Questa grafia presenta
una lingua lontana dall’usus scribendi dell’autore, con forme non aferizzate e un
vocalismo che appare meno condizionato dall’influsso popolare. Pertanto i rapporti
tra le varianti sono piuttosto complessi, tanto più se si considera che Di Giacomo
accetta in qualche modo gli inserti di questa seconda mano, ritoccandoli di
suo pugno. Questo elemento conferma la necessità di un ritorno al testo originario
e di un’approfondita indagine filologica per una ricostruzione della storia di ’O
voto. Non è da escludere che questi inserti possano essere frutto della mano di
Cognetti, ma la grafia non sembra conforme a quella della firma dello stesso, apposta
sul frontespizio di ciascun atto.
35 Cfr. F. Schlitzer, Salvatore Di Giacomo, cit., p. 179.
[ 11 ]
’o voto di salvatore di giacomo 309
questa direzione si riscontrerebbe nella presenza del secondo manoscritto
dialettale come ‘copione di scena’).
Nel contesto napoletano di fine Ottocento, in effetti, la scelta di
scrivere un testo drammatico in dialetto si spiega bene per un «verista
sentimentale»36 quale era Salvatore Di Giacomo, che affrontava la questione
sociale e la conseguente trasformazione della città di Napoli
attraverso una attenta osservazione della realtà, sia pure con slanci
‘sentimentali’ e malinconici. La scelta di un teatro dialettale, inoltre,
va considerata anche in rapporto alla scelta a favore del dialetto già
realizzata in poesia. Come è noto, le esperienze teatrali di Di Giacomo
nascono già sulla base dell’esperienza acquisita con la produzione poetica,
con la quale l’autore porta il dialetto ad una fortuna nazionale37.
La scelta del dialetto anche per la produzione teatrale, dunque, è certamente
una conseguenza del risultato delle esperienze precedenti,
così come i temi dei suoi drammi sono ripresi e rielaborati dalle sue
poesie o dalle sue novelle: si pensi, per esempio, al poemetto A San
Francisco rielaborato prima in una scena lirica e poi in un dramma38,
ma anche ai temi affrontati in ’O Funneco verde e rielaborati per la scena,
così come alla ripresa, nei drammi, di nomi di protagonisti (nel
caso specifico di ’O voto, la donna Amalia del dramma era presente già
nella poesia Donn’Amalia ’a Speranzella, e allo stesso modo donna Rosa,
già anticipata nella novella Rosa Bellavita)39.
A proposito della storia del dramma, si può sottolineare che l’osservazione
diretta del manoscritto autografo rende inevitabile una verifica
delle conclusioni di Luigi Russo in merito alla collaborazione tra
Di Giacomo e Cognetti. Come si è già detto, il manoscritto presenta
diverse fasi elaborative, rappresentate da diversi inchiostri che si sovrappongono
in un continuo lavoro di revisione del testo con l’ag-
36 Così si definisce Di Giacomo in una lettera a G. Hérelle del 1° feb. 1894, in G.
Infusino, Lettere da Napoli, Napoli, Liguori, 1987, p. 95. Si veda anche a tal proposito
N. De Blasi, Le letterature dialettali. Salvatore Di Giacomo, cit., pp. 803-909.
37 Per la scelta a favore del dialetto condotta da Salvatore Di Giacomo si rinvia
anche a N. De Blasi, Un episodio della fortuna del dialetto tra letteratura e scuola: il
contributo di Salvatore Di Giacomo a un libro di Ciro Trabalza, «Critica letteraria»,
XXXIX (2011), n. 150, pp. 111-137.
38 Per la questione linguistica su quest’opera, tradotta in italiano da Roberto
Bracco, cfr. N. De Blasi, Le letterature dialettali. Salvatore Di Giacomo, cit., p. 855.
39 Per le Poesie in generale si rinvia a S. Di Giacomo, Poesie, a cura di D. Monda,
Milano, Bur (Rizzoli), 2009; in particolare, per la raccolta ’O funneco verde, cfr.
S. Di Giacomo, ’O funneco verde secondo il testo del 1886, ed. critica a cura di N. De
Blasi, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2009.
[ 12 ]
310 cristiana di bonito
giunta o l’espunzione di varianti e intere sezioni, appunti relativi
all’intreccio e versioni differenti per alcune scene; solo in pochissimi
casi sono presenti alcuni inserti di mano estranea40. Quest’opera in
movimento non può che essere il manoscritto di prima stesura, tanto
più se si considera che, con l’eccezione dei pochi inserti, tutte le fasi
elaborative del testo appartengono ad una sola mano: quella di Salvatore
Di Giacomo. Di fatto, inoltre, anche le didascalie, le sole attribuite
a Di Giacomo dal Russo, rientrano in questa operazione di continua
revisione e sono redatte con la stessa mano. Questi, insieme agli altri
aspetti affrontati, confermano l’ipotesi della paternità prevalentemente
(ma di certo non assolutamente) digiacomiana dell’opera.
La presenza del manoscritto autografo di ’O voto porta in conclusione
ad ipotizzare che l’opera sia stata concepita in dialetto napoletano,
trasposta e pubblicata in italiano41 con il titolo Mala Vita, dall’italiano
poi rielaborata in libretto per l’omonimo melodramma, e solo
vent’anni più tardi recuperata nella sua versione dialettale ’O voto per
l’edizione completa del Teatro digiacomiano.
Resta comunque da chiarire cosa intendesse Di Giacomo quando
sulle pagine di «Fortunio» affermava di avere scritto il dramma «da
principio in fine» con Goffredo Cognetti. Sulla base delle informazioni
raccolte, il manoscritto autografo di ’O voto, il cui frontespizio contiene
già il nome di Cognetti, rappresenta la prima stesura del dramma
con le revisioni successive. Dal momento che la mano di Di Giacomo
è costante in tutte le pagine del manoscritto, si potrebbe dedurre che
la stesura dell’intera opera appartenga a Di Giacomo e che l’apporto
di Cognetti sia limitato a una preliminare riflessione sulla trasposizione
dalla novella al dramma. Ma l’affermazione «da principio in fine»
potrebbe riferirsi anche a un lavoro condotto insieme a Cognetti, non
a due mani (poiché una è la mano che redige l’autografo), ma forse a
due voci, in un lavorìo dialogico che dalla novella avrebbe portato
alla sceneggiatura del dramma; anche in questo caso, però, non si può
40 Come già accennato, è improbabile che la grafia con la quale sono inseriti
tali inserti sia quella di Goffredo Cognetti.
41 La pubblicazione in italiano si spiega probabilmente con il grande successo
delle rappresentazioni dell’opera non solo in ambito napoletano ma nazionale,
come si può leggere anche nei citati articoli del «Fortunio», e potrebbe altresì essere
un riflesso della tendenza stilistica e linguistica in voga negli stessi anni e promossa
da Giovanni Verga, che si discostò, come è noto, dalla scelta di un teatro
dialettale ponendo le basi per un nuovo canone di verismo linguistico.
[ 13 ]
’o voto di salvatore di giacomo 311
sottovalutare il fatto che a riempire le carte fosse Di Giacomo: ciò farebbe
pensare, dunque, che il ruolo di Cognetti consistesse in una sorta
di costante consulenza sull’efficacia teatrale delle battute congegnate
e forse pensate in due, ma fissate nella scrittura da Di Giacomo e da
lui ritoccate in un secondo momento, per così dire, come cosa propria.
Cristiana Di Bonito
[ 14 ]
Rosaria Botta ri
Tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani:
l’Accademia Parteniana di Spilimbergo (Udine) e
l’Accademia Ocricolana di Vicenza
L’Accademia Parteniana di Spilimbergo (Udine) e l’Accademia Ocricolana di
Vicenza sono due progetti didattici coordinati dal medesimo direttore, Bernardino
Partenio. L’analisi comparativa degli Instituta (i regolamenti generali)
delle due Accademie, pur testimoniando il medesimo modello pedagogico
umanistico, mette in luce un diverso approccio allo studio delle lingue, dovuto
al mutato contesto storico, religioso e culturale.

The Accademia Parteniana in Spilimbergo (Udine) and the Accademia Ocricolana
in Vicenza are two educative projects led by the same director, Bernardino
Partenio. A comparative analysis of the Instituta (the general regulations) of the
two academies, whilst demonstrating the existence of a common humanistic
pedagogical model, also illustrates a different approach to language study, due
to the changing historical, religious and cultural milieu.
1. L’Accademia dei Signori di Spilimbergo presso Serra Valbruna
(1538-43), che dal prestigioso direttore Bernardino Partenio prende il
nome di Parteniana, rappresenta nella prima metà del Cinquecento il
classico esempio di scuola-convitto sul tipo della Casa Zoiosa vittoriniana.
Ma la personalità eccentrica e gli spiccati interessi religiosi verso
la Riforma del suo fondatore, il Conte Adriano di Spilimbergo, ne
impostano la didattica (ma anche il regolamento delle attività interne)
sui modelli innovativi che provengono dalle regioni riformate del
nord Europa e in particolare dal Collegium Trilingue di Erasmo da
Rotterdam, dove viene messo in pratica l’innovativo studio della lingua
greca, latina ed ebraica. Presso l’Accademia di Spilimbergo, inoltre,
insegnerà Giulio Camillo Delminio, che vi soggiornerà insieme al
suo discepolo Alessandro Citolini. Il soggiorno sarà occasione di conoscenza
e di confronto tra Partenio e i due ospiti.
Nel turbolento contesto veneto – dove l’Inquisizione svolge un severo
controllo sulla diffusione delle idee riformate presso strati della
popolazione più ampi e socialmente diversificati alla vigilia dell’aper-
Contributi
tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani 313
tura Concilio di Trento – l’Accademia ha vita breve e non facile. Il suo
direttore, Partenio, lascerà Spilimbergo e, arrivando a Vicenza alcuni
anni dopo, sarà a capo di un’altra accademia, l’Accademia di Cricoli o
Ocricolana (1555-60), sotto il patrocinio della famiglia Trissino. L’analisi
comparata degli Instituta (il regolamento generale) delle due Accademie
presiedute da Partenio, pur testimoniando il medesimo modello
pedagogico umanistico, mette in luce un diverso approccio didattico
allo studio delle lingue, dovuto al mutato contesto storico e culturale.
2. Il mio studio mira a descrivere due accademie rinascimentali di
centri minori che illuminano un aspetto, forse poco noto, dell’istituzione:
quello pedagogico. Come ha già illustrato Amedeo Quondam
nel suo noto excursus1, le accademie italiane hanno nella loro costituzione
un’articolazione tipologica multiforme. E se nei grandi centri
hanno svolto sostanzialmente il ruolo di network intellettuale, nei piccoli
centri acquistano anche i connotati di collegio privato per l’istruzione
superiore dei figli di famiglie nobili e borghesi benestanti.
A Spilimbergo la scuola in cui s’impartisce l’artem grammatice vanta
un’esistenza di quasi due secoli precedente alla costituzione dell’Accademia
Parteniana2. Dal 1341 i Consorti di Spilimbergo istituiscono,
grazie a Bartolomeo di Spilimbergo che mette a disposizione la sede
del suo palazzo, una scuola di grammatica per gli studenti del borgo
e delle località vicine aperta a tutti in ragione del censo. In questa
scuola si avvicendano vari maestri, dal 1477 al 1516 la cattedra di magistrum
è ricoperta da Pietro Leoni (Cinzio Cenetese), allievo di Pomponio
Leto e ricordato per la sua perizia in utroque genere carminis nel
De latinae linguae reparatione del Sabellico3, che imprime allo studio del
latino un’impronta umanistica di livello e ‘anticipa’ in un certo senso
l’esperienza dell’Accademia Parteniana.
Nel 1538, su impulso degli Spilimbergi primores, viene istituita a
Spilimbergo la prima scuola umanistica con sede nel Palazzo di Serra
Valbruna dei signori di Spengenberg. La direzione viene affidata a
1 A. Quondam, L’Accademia, in Letteratura italiana, Vol. I, Il letterato e le istituzioni,
a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1982, pp. 823-898.
2 L. Casarsa, La scuola di Grammatica di Spilimbergo tra Tre e Quattrocento, in
Bernardino Partenio e l’Accademia di Spilimbergo 1538-43, a cura di C. Furlan, Venezia,
Marsilio, 2001, pp. 15-29.
3 Marcantonio Sabellico, De latinae linguae reparatione, ed. a cura di G. Bottari,
Messina, Cisu, 1999, pp. 160-161.
[ 2 ]
314 rosaria bottari
Bernardino Partenio4, umanista spilimberghese in contatto con letterati
del calibro di Giovan Battista Egnazio e Giulio Camillo Delminio,
ma lontano ancora dalla pubblicazione della Pro lingua latina oratio
(1545) e soprattutto dal trattato Della imitatione poetica (1560) che gli
darà una grande notorietà5. Bernardino negli anni precedenti ha avuto
incarichi di maestro pubblico nella sua città, ma da quel momento in
qualità di direttore ha modo d’impostare una didattica diversa, dettando
personalmente il regolamento di questa nuova istituzione che,
sulla scorta del modello umanistico di Guarino e Vittorino da Feltre6,
si presenta come un collegio privato per studi superiori in cui gli allievi
vengono ospitati in regime di convitto e fruiscono della docenza di
vari professori che vivono a stretto contatto con loro nell’arco di tutta
la giornata. Una sorta di College esclusivo e, considerando l’esosa retta
annuale di 36 scudi, oneroso. Probabilmente è questo anche il motivo
per il quale viene concepita l’idea, verosimilmente di Partenio, di pubblicare
a stampa gli statuti dell’Accademia7, in tal modo l’eco dell’esistenza
del convitto si sarebbe estesa oltre i confini della provincia e del
Dominio veneto. Dall’esame di questi statuti si evincono alcune peculiarità
della vita scolastica e della didattica che fanno pensare che, dietro
le regole dettate dal direttore, il disegno complessivo della scuola
abbia un altro ispiratore da ricercarsi tra i primores sopra menzionati:
Il conte Adriano8, padre della pittrice Irene di Spilimbergo.
4 La vicenda biografica di Bernardino Partenio è ricostruita in U. Rozzo, Per
una bibliografia di Bernardino Partenio, in Bernardino Partenio e l’Accademia di Spilimbergo,
cit., pp. 31-51, a cui si rimanda anche per l’ampia bibliografia.
5 Il trattato Della imitatione poetica, scritto in forma dialogica, non ha ancora
una veste critica completa. Dei cinque libri che lo compongono se ne può consultare
il primo in Bernardino Partenio, Della imitazione poetica, libro primo, in Trattati
di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970-74,
pp. 519-558, 687-89. Mentre per l’edizione della pro lingua latina si veda bernardino
partenio, Pro lingua latina oratio, ed. a cura di R. Bottari, Messina, Cisu, 2011.
6 I particolare la Casa Zoiosa ha valore paradigmatico per i collegi pubblici e
privati che vengono a formarsi in italia tra Quattrocento e Cinquecento. Si consultino
le ampie ricognizioni di P. F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano,
Roma-Bari, Laterza, 1991; J. Bowen, Storia dell’educazione occidentale, II, La civiltà
dell’Europa dal VI al XVI secolo, Milano, Mondadori, 1979 e W. H. Woodward, La
pedagogia del Rinascimento 1400-1600, Firenze, Vallecchi, 1923.
7 Instituta Academiae spilimbergensis, Venetiis, Comin da Trino, 1540. La riproduzione
fotostatica di una copia conservata presso la Biblioteca Trivulziana di Milano
(coll. Triv. L. 2683/6) e la trascrizione in S. Cavazza, Il programma pedagogico di
Bernardino Partenio, in Bernardino Partenio e l’Accademia di Spilimbergo, cit., pp. 179-
207.
8 Per Adriano si veda F. C. Carreri, Spilimbergica. Illustrazione dei Domini della
[ 3 ]
tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani 315
3. Adriano, a differenza degli altri membri del suo casato poco propensi
alle lettere, ha formato la sua institutio umanistica tra Padova e
Venezia e la sua ricca biblioteca – che testimonia ampiezza d’interessi
che vanno dalle scienze alle lingue, alla filosofia, alla Kabbàla e alla
teologia, con una nutrita sezione dedicata a Erasmo da Rotterdam –
con ogni probabilità viene messa a servizio dell’accademia9. È certo,
comunque, che nel 1538 Adriano sia tornato a Spilimbergo e abbia
ottenuto d’inserire lo studio dell’ebraico nel programma pedagogico
parteniano, lingua non comune nei programmi delle altre scuole d’istruzione
secondaria10.
A tale proposito gli Institutae Academiae spilimbergensis sive Parthenianae
così si esprimono: «Horarum distictio: Proxima [hora] hebraeo
datur. Ab hebraeo horae unius otium est»11.
Nel dodicesimo capoverso è illustrata minuziosamente la lezione
di lingua ebraica:
Casa di Spilimbergo, Tav. V, Udine, Domenico del Bianco, 1900. Su Irene si rimanda
al bel saggio di M. Gatto, Creazione e trasformazione di un modello tardo-rinascimentale:
Irene da Spilimbergo tra fonti letterarie e documentarie, «The italianist», 19, (1999),
pp. 51-76.
9 Per le idee religiose e la formazione culturale del conte: U. Rozzo, La biblioteca
di Adriano di Spilimbergo e gli eterodossi in Friuli, in Id., Biblioteche italiane nel Cinquecento
tra Riforma e Controriforma, Udine, Arti grafiche friulane, 1994, pp. 59-121
e C. Scalon, La biblioteca di Adriano da Spilimbergo (1542), Comune di Spilimbergo,
Quaderni spilimberghesi, 1988, che contiene inoltre un dettagliato elenco dei volumi
della ricca biblioteca del conte.
10 E rasmo è un convinto assertore dello studio del latino, del greco e dell’ebraico
in funzione di una pedagogia tesa ad veram theologiam: «prima cura debetur
perdiscendis tribus linguis latinae, graecae, hebraicae, quod constet omnem scripturam
mysticam hisce proditam esse», Methodus verae theologiae, in Ausgewählte
Werke, a cura di H. Holborn, München, C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung,
1933, p. 151. La Methodus, ideata dall’autore in un primo momento come premessa
alla sua edizione bilingue (greco, latino) del nuovo testamento, è ampliata e pubblicata
in seguito come testo a sé stante col titolo di Ratio seu methodus compendio
perveniendi ad veram Theologiam (1519). Grazie ad Erasmo l’ideale dell’uomo trilingue,
e quindi lo studio dell’ebraico, si diffonde negli ambienti universitari non
solamente tedeschi, si veda D. Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento,
Torino, Einaudi, 1975, pp. 40-59; L. D’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano, Firenze,
L. S. Olschki, 1991. Sul modo in cui lo studio dell’ebraico abbia attecchito sul territorio
friulano, e a Spilimbergo in particolare, si consulti A. Cuna, L’ideale umanistico
rinascimentale del «Trilinguis Homo» e l’insegnamento dell’ebraico a Spilimbergo, in
Bernardino Partenio e l’Accademia di Spilimbergo, cit., pp. 129-57.
11 S. Cavazza, Il programma pedagogico di Bernardino Partenio, cit., p. 193.
[ 4 ]
316 rosaria bottari
XII: Sed iam quae sequitur hora ad hebraicas literas conferre se Academicos,
campana praemonente, hortatur: a Francisco enim Stancaro sacra
lingua traditur more institutoque maiorum. Grammaticam mira
quadam facilitate docet; odas David interpretatur; tropos atque figuras
dicendi non indiligenter persequitur; veritatem sensusque abstrusosque
et reconditos linguae proprietate mirifice elicit, integra hora durante.
Mox per id spatii a singulis omnia exposita ab eodem exiguntur12.
È singolare che sia inserito negli statuti, accanto al nome del direttore,
il nome del professore di lingua ebraica: Francesco Stancaro13.
Questi, prete mantovano, è una controversa figura di insegnante e teologo,
legata agli ambienti riformati veneti e all’azione repressiva
esercitata dall’attività dell’Inquisizione, anch’egli infatti subisce un
processo per eresia che lo porta in carcere a Venezia e in seguito a fuggire
dall’Italia. Negli anni precedenti alla collaborazione con l’Accademia
Parteniana Stancaro è professore di greco e di ebraico a Padova,
a lui si deve il famoso De modo legendi Hebraice istitutio brevissima (Strasburgo
1525; Venezia 1530), e probabilmente sul finire degli anni ’30 lì
conosce Adriano come allievo ed è verosimile che la sua convocazione
da parte di Bernardino giunga su richiesta del conte medesimo. Documenti
testimoniali ci dicono che lo Stancaro fuori dalle ore di attività
dell’accademia si prodighi nella diffusione delle idee luterane in pubblici
comizi14. Questi primi elementi ci danno conto di due aspetti ‘originali’
del convitto: l’importanza dello studio della lingua ebraica e
del suo istitutore. Il capoverso dodicesimo illustra inoltre come lo studio
della lingua ebraica sia funzionale alla lettura della Bibbia (odas
David interpretatur) e in particolare ad una approfondita analisi, tesa a
rendere chiare le figure retoriche per comprendere pienamente veritatem
sensusque abstrusosque et reconditos linguae. Queste disposizioni didattiche
si affiancano a quelle riguardanti gli obblighi religiosi domenicali,
cui gli studenti sono chiamati a partecipare attivamente leggen-
12 Ivi, p. 196.
13 Sullo Stancaro si veda F. Ruffini, Francesco Stancaro. Contributo alla storia
della Riforma in Italia, in Studi sui riformatori italiani, a cura di A. Bertola, L. Firpo,
E. Ruffini, Torino, Ramella, 1955, pp. 165-406; P. Paschini, Eresia e Riforma cattolica
al confine orientale d’Italia,, Romae, Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis
1951, p. 101.
14 A. Del Col, Discordanze e lotte tra conti e abitanti di Spilimbergo per la gestione
dei beni della chiesa e per le nuove idee religiose, in Spilimbèrc, a cura di N. Cantarutti
e G. Bergamini, Udine, Società filologica friulana, 1984, pp. 109-114.
[ 5 ]
tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani 317
do in prima in persona il testo greco del vangelo ed interpretandone
senso:
XVII: Demum, ut iis praeceptis, quae ad pietatem christianumque hominem
pertinent, imbuantur, omnium consensum statutum est ut consequenti
die, quem dominica vulnus appellamus, illud oneris Academicis
adiungatur (quod singulis etiam feria rum, festorumque diebus
observatur) ut ευαγγέλιον graece scriptum ipsimet interpretentur, verba
tantum ac puram illam nudamque simplicitatem consectantes, praefectis
Academiae audientibus15.
È difficile non sospettare, se non una vera e propria prassi luterana
di approccio ai testi sacri, uno spirito fortemente critico della liturgia
cattolica. Documenti riguardanti la vita di Adriano ce lo descrivono
come «vero fautor et predicator del santto evangellio»16 ed è forte la
suggestione a vedere dietro le direttive su menzionate ancora una volta
la sua ‘ispirazione’. Ispirazione che probabilmente è da estendersi
non solamente della fondazione della scuola, ma al disegno pedagogico
che essa sottende.
Come abbiamo già detto, nella biblioteca del conte si trovano anche
molte opere erasmiane – oltre alle opere di Zorzi e una copia
dell’Unio dissidentium – che testimoniano più di un semplice interesse
nei confronti della Riforma in atto in tutta l’Europa; per restare ad
Erasmo vale la pena di evidenziare la presenza nella biblioteca personale
di Adriano della Ratio seu methodus compendio perveniendi ad veram
theologiam (Venezia, 1522), dove l’intellettuale olandese espone il suo
ideale pedagogico del trilinguis homo che attuerà nell’istituzione del
Collegio trilingue di Lovanio. Un vero e proprio progetto formativo
che inquadra lo studio delle tre lingue (latino, greco ed ebraico) in una
prospettiva religiosa di approccio senza mediatori ad biblicam veritatem.
Nel più ampio contesto della ricezione dell’opera e della pedagogia
erasmiana tra Venezia, Modena e Padova nel primo trentennio del
Cinquecento17, non ci sembra azzardata l’ipotesi che alla base della
15 S. Cavazza, Il programma pedagogico di Bernardino Partenio, cit., p. 197.
16 D a una nota di Gian Paolo Da Ponte, suocero di Adriano, riportata in Scalon,
La biblioteca di Adriano da Spilimbergo, cit., p. 23. Atteggiamenti di forte critica
religiosa erano per altro già diffuse presso il casato di Adriano, si veda A. Del Col,
Fermenti di novità religiose in alcuni cicli pittorici del Pordenone e dell’Amalteo, in Società
e cultura del Cinquecento nel Friuli occidentale, a cura di A. Del Col, Pordenone,
Edizioni della Provincia, 1984, pp. 229-254.
17 S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia (1520-80), Torino, Bollati Boringhieri,
1987; J. C. Margolin, Erasme, précepteur de l’Europe, Paris, Editions Julliard, 1995.
[ 6 ]
318 rosaria bottari
fondazione dell’Accademia parteniana ci sia un intento di diffusione
delle idee eterodosse (o circolanti comunque all’interno del movimento
riformatore italiano), per altro abbondantemente diffuse in territorio
veneto e friulano sotto la pratica del nicodemismo18. Oltre alla presenza
dello Stancaro, secondo la testimonianza dell’archivio Storico
Arcipretale di Spilimbergo pubblicata da Lorenzo Tesolin, è registrata
la presenza di Giulio Camillo Delminio e dell’allora suo allievo Alessandro
Citolini, le cui vicende biografiche relative alla sua adesione
alle frange più oltranziste eterodosse sono ben note.
L’Accademia Parteniana esaurisce la propria attività nel corso di
pochi anni, venendo a mancare il suo protettore Adriano. Già dal gennaio
del 1543 lo stesso Partenio non v’insegna più, ma si troverà a ripetere
l’esperienza di direttore di un’accademia-convitto dopo alcuni
anni.
4. Nel 1554 Bernardino insegna a Vicenza e con una lettera datata
1555 l’amico ed editore Paolo Manuzio si congratula con lui per aver
ottenuto il lettorato presso l’Accademia di Vicenza: «Entrate pure, signor
compare mio, con franco animo in questa heroica impresa e comunicate
altrui i tesori della vera dottrina»19.
Nello stesso anno l’umanista Pierre Morin è «Vicentiam arcessitus
[…] qui Graecas literas & Cosmographiam Academicis explicarem»
insieme al vecchio Partenio, dotto e famoso per la perizia retorica e
poetica20. Dall’archivio Trissino apprendiamo che nel 28 marzo 1556 lo
spilimberghese prende in affitto la Villa Ocricolana dei Trissino per la
sua nuova Accademia; nello stesso torno di tempo sappiamo da altre
fonti che la più famosa Accademia Olimpica di Vicenza veniva rimessa
in piedi21. Ma che fossero due istituzioni separate lo stesso Bernardino
sembra rimarcarlo nella dedica del suo commentario oraziano
18 L. De Biasio, L’eresia protestante in Friuli nella seconda metà del secolo XVI,
«Memorie storiche forogiuliesi», 52, (1972), pp. 72-154.
19 P. Manuzio, Lettere volgari divise in quattro libri, Venetia, Paolo Manuzio,
1560, c. 27rv.
20 P. Morin, Opuscula et epistolae, ed. a cura di J. Quétif, Paris, L. Billaine, 1675,
p. 1.
21 M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, IV, Bologna-Trieste, L. Cappelli,
1926-1930, p. 109. L. Puppi, Scrittori vicentini d’architettura del secolo VXI, Vicenza,
Accademia Olimpica, 1973; La «vita» di Giangiorgio Trissino di Paolo Gualdo, a cura
di L. Puppi, in Vicenza illustrata, a cura di N. Pozza, Vicenza, Neri Pozza, 1976, pp.
171-173; G. Arnaldi, La fondazione dell’università di Vicenza (1204), in Vicenza illustrata,
cit., pp. 50-52.
[ 7 ]
tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani 319
del 1584 agli Accademici Olimpici, quando, ricordando gli anni di docenza
vicentini, specifica «cum apud vos vel publice docerem, vel cum
Ocriculanam Academiam illam quidem celebrem obtinerem»22. Due
istituzioni separate, dunque, ma non c’è motivo di credere non comunicanti,
dal momento che la villa di Cricoli restaurata negli anni ’20
dalla stesso Giangiorgio Trissino è anche punto di riferimento e di accoglienza
di letterati vicentini o forestieri. Anche per l’Accademia di
Cricoli «messer Bernardino Parthenio, capo e rettore» sceglie la pubblicazione
degli statuti introdotti da una lettera di Giulio Panavino a
Girolamo Minucio23.
5. Un esame comparato degli statuti delle due Accademie rette dallo
spilimberghese dà conto di numerosi cambiamenti, pur nella continuità
di regolamento di scuole-convitto. In entrambe le scuole lo studio
del greco e del latino è al centro dell’azione educativa: uno studio
capillare della grammatica e dello stile attraverso copiose letture dei
classici. Ma mentre negli statuti di Spilimbergo questo studio è finalizzato
a scrivere e parlare bene in latino, in quelli vicentini leggiamo:
[…] alli figliuoli si propongono li più nobili auttori e greci e latini nelli
quali si considerano tutte le bellezze et ornamenti […] havendo sempre
innanzi gli occhi la buona creanza et i buoni costumi: di che si ha
specialissima cura24.
Attraverso la prassi della memorizzazione (già in voga nella pedagogia
umanistica) e imitazione degli esempi classici, si sottolinea che
il convitto intende formare i propri allievi alla pratica del vivere civile.
Dello studio della lingua ebraica, che faceva dell’accademia spilimberghese
un esperimento d’avanguardia, non vi è più traccia, così come
delle approfondite pratiche di lettura dei testi sacri. Ampio spazio
invece è dato alla lettura anche di testi volgari e alle traduzioni:
Desinato che si ha, senza levarsi da tavola, si legge qualche auttore
gentile, dal quale s’impara modi del viver civile e ben creato, come gli
opuscoli di Plutarcho, il Corteggiano: qual officio si fa dagli Academici.
Oltre a ciò tutti per ordine, senza interrompimento, leggono le tradot-
22 B. Partenio, In Q. Horatii Flacci carmina, Venetiis, D. Nicolino, 1584, c. 3v.
23 Instituti dell’Academia di M. Bernardino Parthenio, (data in calce alla lettera di
Panavino al Minucio: 18 luglio 1557). Esemplare conservato alla Biblioteca marciana
di Venezia (es. marc. Segn. Misc. 2230.20). Si veda la trascrizione in S. Cavazza,
Il programma pedagogico di Bernardino Partenio, cit., pp. 203-207.
24 S. Cavazza, Il programma pedagogico di Bernardino Partenio, cit. p. 203.
[ 8 ]
320 rosaria bottari
tioni fatte volgari dalle lettioni latine, e quelle istesse alla sprovvista si
fanno far latine, con le parole e con i modi di dire di Cicerone25.
Il Venerdì dopo il pranzo gli studenti devono dedicarsi persino a
pubbliche letture e declamazioni «hor in latino et hora in volgare».
Questa particolare attenzione al volgare è rimarcata con lo studio delle
«osservazioni della grammatica [della lingua volgare], accompagnate
da una lettione del Petrarca. Così si mostrano le tre più necessarie
lingue».
A rafforzamento della preminente finalità didattica del convitto di
Cricoli, che è quella di introdurre gli studenti a pratiche sociali ‘corteggiane’,
gli Instituti prevedono anche dei giochi di ruolo:
Si aggiugne che per essercitar li figliuoli ad ogni sorte di buona creanza,
tra le altre cose si osserva che si elegge per ballotte tre, i quali chiamiamo
corteggiani, che per quattro dì, più gentilmente che si può, servono
a tutti gli altri26.
A distanza di quasi un ventennio molte cose sono cambiate e se
l’attenzione al dialogo e l’attività oratoria (tanto in latino quanto in
volgare) è il portato del fiorire delle nuove accademie nate attorno agli
anni ’40, secondo l’accezione di società della conversazione di ascendenza
umanistica27, l’imporsi della pratica e dello studio del volgare
assume diversi significati. La ‘nuova’ lingua infatti non è solo funzionale
alla formazione di nuovi quadri dirigenti, alle abitudini di lettura
dell’aristocrazia vicentina o al nuovo imporsi della letteratura volgare
– che dalle dispute linguistiche del Quattro e Cinquecento trova il vigore
di presentarsi e rappresentarsi in tutta una serie di grammatiche,
osservazioni e trattati di stilistica – ma, tenendo in considerazione il
delicato contesto storico e sociale vicentino attraversato anch’esso dal
vento della Riforma, idealmente il volgare, che sostituisce l’ebraico
nello studio trilingue (latino, greco, volgare) dell’Accademia Cricolina,
sembra assumerne anche la valenza eversiva di ‘lingua eretica’(
molte opere di Erasmo e di teologi del dissenso si diffondono infatti
grazie alle traduzioni volgari).
La parabola accademica di Bernardino Partenio si avvia e si conchiude,
dunque, con due esperimenti pedagogici che, a dispetto di
25 Ivi, p. 204.
26 Ivi, p. 207.
27 D. Marsh, The Quattrocento Dialogue: Classical Tradition and Humanist Innovation,
Cambridge, MA and London: Harvard University Press, 1980.
[ 9 ]
tra eterodossia religiosa e modelli didattici erasmiani 321
quanto si possa pensare dell’attività e della produzione culturale delle
accademie italiane cinquecentesche, sono elitari negl’intenti e nella
strutturazione, ma nella pratica didattica sono profondamente ancorati
al dibattito intellettuale e alle trasformazioni sociali del loro tempo.
Rosaria Bottari
(Università e Campus-Messina)
[ 10 ]
Paola Marongiu
Maddalena Salvetti Acciaioli poetessa al servizio
del potere nella Firenze della Controriforma
Il saggio verte sulle Rime toscane di Maddalena Salvetti Acciaioli (1557-1610) che
si distinguono nettamente, per lo spessore dei contenuti e la perfezione della
forma, dagli innumerevoli componimenti encomiastici pubblicati nel 1589 per
le nozze di Ferdinando I granduca di Toscana con Cristina di Lorena. La poetessa
infatti supera la pura poesia d’occasione in nome di una solenne lirica oggettiva,
praticata negli stessi anni anche da Tasso e Chiabrera, rendendo così
omaggio al potere immagine Dio in terra.

The paper is about the Rime toscane by Maddalena Salvetti Acciaioli (1557-1610)
that definitely differ in the content’s depth and in the style’s perfection from the
countless encomiastic poems published in 1589 for the wedding of Ferdinand I
grand duke of Tuscany with Christine of Lorraine. The poetess actually exceeds
the mere occasional poetry to opt for a solemn and objective one, practised in
the same years from Tasso and Chiabrera too, so paying homage to the power
God’s image on the Earth.
NOVELLA Musa, che dal ciel discesa
D’alto stupor empisti il nobil coro
Le tempie ornata del sacrato alloro
Onde non temi del rio tempo offesa.
Ahi, come tolta a noi, tosto sei resa
La’ve partisti, pria ch’abbia ristoro
Per te ’l profeta regio, ebreo canoro
Dalla perversa di Saul contesa
Hor gioia eterna in seno al gran Fattore
Ten godi SALVA, al primo Vero unita
MADDALENA MARIA, dal cui splendore,
Trae l’ACCIAIO tuo vivo l’ardore
Fatta celeste in tutto alma gradita,
Colma d’ogni virtù, cinta d’onore1
1 L’Aperto, Accademico intronato, Novella Musa, che dal ciel discesa, in Il
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 323
Con questo sonetto premesso all’edizione postuma, curata dal marito,
dei tre canti del David perseguitato, gli unici che la morte le permise
di portare a termine, Bellisario Bulgarini, membro dell’accademia
senese degli Intronati con il nome di Aperto, rendeva omaggio a Maddalena
Salvetti Acciaioli, la poetessa fiorentina tornata alla sua sede
naturale, il cielo, attraverso un gioco concettistico in cui i due cognomi
– Salvetti e Acciaioli – alludono allo splendore della gloria eterna, consacrazione
a un tempo delle sue virtù morali e intellettuali.
Ma chi era Maddalena Salvetti? Nata a Firenze il 25 marzo 1557, da
Salvetto Salvetti e da Lucrezia Niccolini, sposata nel 1572 a Zanobi
Acciaioli, cavaliere di Santo Stefano e funzionario del granducato,
morì il 4 marzo 1610. Non abbiamo notizie sulla sua formazione che,
trattandosi di una donna, dovette avvenire in casa con qualche precettore
privato. Da alcune testimonianze del tempo emerge che era molto
stimata come rimatrice e che destava stupore la sua passione per i libri,
rimasta inalterata anche dopo il matrimonio.2
L’urbinate Cornelio Lanci infatti le dedica nel 1591 la commedia La
Niccolosa, con la richiesta che «l’emendi, e riduca a tale, ch[egli] con il
suo nome in fronte, n’acquisti eterna gloria»3; ma già nel 1590 aveva
pubblicato sotto la sua egida gli Esempi della virtù delle donne, dove
Maddalena ha un posto di grande rilievo, comparendovi più volte inclusa,
secondo il gusto del tempo, in varie categorie: le vergini e maritate
belle, le donne eloquenti, le donne dotte, le donne prudenti e le
donne celebrate nella poesia. Sappiamo quindi che era di persona
grande e proporzionata, aveva capelli delicati, splendenti e lunghi,
occhi somiglianti al velluto, vivi e lucenti, ciglia dal giro sottilissimo,
naso aquilino e un portamento nobile, pieno di una modesta grandezza;
un ritratto che corrisponde a quello che compare nel frontespizio
del David perseguitato. Alla bellezza si unisce la prudenza che si manifesta
nel governo della casa e degli affari di famiglia e, ciò che a noi
interessa di più, l’eccellenza nell’arte del parlare e nella poesia, nonché
nella filosofia e nella teologia.4
David perseguitato o vero fuggitivo. Poema eroico della Maddalena Salvetti Acciaiuola
Gentildonna fiorentina, Firenze, Caneo, 1611, p.n.n.
2 Per il matrimonio che di solito per la donna poneva fine agli studi Cfr. F.
Taricone-S. Bucci, La condizione della donna nel XVII e XVIII sec., Roma, Carucci,
1983, pp. 158-159.
3 All’Illustre Signora mia Osservandissima La Signora Maddalena Salvetti neg’Acciaiuoli
in La Niccolosa commedia del sig. Cavalier Cornelio Lanci di Urbino, In Firenze,
Appresso Bartolommeo Sermartelli, 1591, pp. 3-4.
4 Cfr. Esempi della virtù delle donne, raccolti dal signor cavalier Cornelio Lanci ne’
[ 2 ]
324 paola marongiu
Giudizi simili vengono ripetuti dall’anconetano Cristoforo Bronzini,
quasi con le stesse espressioni.5 Ancora nel Seicento Iacopo Gaddi,
letterato in volgare e in latino e animatore dell’accademia degli Svogliati,
mentre lodava il David perseguitato, definiva Maddalena «poetessa
insigne».6 Con qualche piccola variante, rispetto al Lanci, esaltandola
per il buon gusto ne sottolineava il fervore degli studi l’arcade
Crescimbeni, quando diceva che «applicò ella tutto il tempo della sua
vita più al culto delle scienze, e delle lettere amene, che a’ muliebri
esercizi».7 A lui faceva eco in tempi recenti (1941) Maria Bandini Buti.8
Si tratta, come si vede, di lodi evidentemente esagerate, anche se
fondate sul riconoscimento di una solida cultura e di una abilità nel
comporre versi, rara in una donna e perciò tanto più apprezzabile. Al
giorno d’oggi l’attenzione alla poetessa fiorentina può giustificarsi solo
alla luce del recupero, di figure minori del panorama letterario italiano,
tra cui molte femminili, in atto ormai da anni. In particolare uno
quali si vede la bellezza, prudenza, castità e fortezza delle vergini, maritate e vedove, In
Firenze, Appresso Francesco Tosi, 1590. La dedica All’Ill. Signora mia osservandiss
La Signora Maddalena Salvetta, negli Acciaioli si trova alle pp. 2-4, la descrizione delle
sue virtù alle pp. 15-16, 192, 204-205, 227, 251-252.
5 Cfr. Della dignità & nobiltà delle donne. Dialogo di Cristofano Bronzini d’Ancona.
Diviso in Quattro Settimane: E ciascheduna di esse in Sei giornate. Alla Serenissima Arciduchessa
d’Austria Maria Maddalena gran Duchessa di Toscana, In Firenze, Nella
Stamperia di Zanobi Pignotti, 1625, Settimana Prima, Giornata Quarta, p. 119.
6 De scriptoribus non ecclesiasticis Graecis Latinis Italicis Primorum graduum in
quinque Theatris scilicet Philosophico, Poetico, Historico, Oratorio, Critico: Iacobi Gaddii
Academici Svogliati Critico Historicum Et bipartitum opus. In prima parte agitur de iis,
qui opera ediderunt ante annum Salut. MDL & amplius annorum millibus convolutis,
Florentiae, Typis Amatoris Massae, MDCXLVIII, p. 2. Il Gaddi promette anche di
parlare più a lungo di lei in un secondo volume che purtroppo però non è mai
stato pubblicato.
7 Comentari del canonico Gio. Mario Crescimbeni Custode d’Arcadia intorno alla sua
istoria della volgar poesia, vol. III Al Serenissimo Principe Alessandro di Pollonia e Lituania,
In Venezia, Presso Lorenzo Basegio, MDCCXXX, p. 153. Degno di nota il giudizio
di Giulio Negri (Istoria degli scrittori fiorentini opera postuma del P. Giulio Negri
ferrarese della compagnia di Gesù dedicata all’eminentissimo, e reverendissimo principe il
signor Cardinale Tommaso Ruffo vescovo di Ferrara, in Ferrara, Per Bernardino Pomatelli
Stampatore vescovile, MDCCXXII, Ristampa anastatica, Sala Bolognese, Arnaldo
Forni Editore, 1973, p. 391): «Fu di nobilissimo, ed antichissimo sangue; e
passata nella nobilissima famiglia Acciaioli, portò seco in dote un grande capitale
d’ingegno superiore all’ordinaria condizione del suo sesso; ed una particolare inclinazione
alla poesia, che la rese nel principio del secolo decimo settimo, l’ornamento
delle donne, la gloria dei poeti, e l’invidia di tutte le dame».
8 Enciclopedia biografica. Serie VI. Poetesse e scrittrici, a cura di M. Bandini Buti,
Roma, E.B.B.I. Istituto Editoriale Italiano, Bernardo Carlo Tosi, S. A., 1941, p. 14.
[ 3 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 325
studio su di lei può contribuire a una conoscenza più articolata della
cultura di Firenze in età granducale.
Nella sua produzione, che comprende anche le Rime in onore del
Cardinale Cinzio Aldobrandini, le Poesie liriche spirituali e i tre canti
del David, il poema eroico già ricordato, spiccano le Rime toscane, di cui
mi occuperò in questo articolo, in cui Salvetti si pone al servizio dei
Medici, esaltando i granduchi Ferdinando I e Cristina di Lorena in
occasione del loro matrimonio.9
Queste liriche vanno messe in relazione all’impegno di Ferdinando
I mirato a rafforzare l’idea della sua supremazia, di cui la cultura in
tutte le sue forme è una parte importante.10 Il fatto che le Rime toscane
siano state pubblicate nel 1590 impone inoltre che siano lette con l’occhio
alle fastose cerimonie, che salutarono l’ingresso della principessa
lorenese a Firenze il 30 aprile 1589 e si conclusero il 24 giugno con le
9 Rime Toscane della Maddalena Acciaioli gentildonna fiorentina in lode della sig.
Cristina di Loreno Gran Duchessa di Toscana. Rime Toscane della Maddalena Acciaioli
gentildonna fiorentina in lode del serenissimo don Ferdinando Medici terzo Gran Duca di
Toscana, Stampate in Firenze, Per Francesco Tosi, 1590. Rime, in Tempio all’Illustrissimo
e Reverendissimo Signor Cinzio Aldobrandini, Cardinale San Giorgio, nipote del
sommo pontefice Clemente VIII, Bologna, Presso gli Eredi di Gio. Rossi, 1600, pp.
249-260. Poesie liriche spirituali, in Il David perseguitato, cit., pp. 53-66. In fondo a
questo volume compare alle pp. 67-72 la Breve memoria della nobiltà della casa degli
Acciaioli, e delli personaggi più segnalati di essa, come redatto da Maddalena Salvetti.
Di fatto il Moreni, citando Gio. Battista Ubaldini, dice che la storia della famiglia
Acciaioli potrebbe essere di un membro della famiglia, il cav. Vincenzo Acciaioli
morto nel 1570. (Cfr. Bibliografia storico-ragionata della Toscana o sia catalogo degli
scrittori che hanno illustrata la storia della città, luoghi e persone della medesima raccolto
dal sacerdote Domenico Moreni canonico dell’insigne basilica di S. Lorenzo socio della reale
accademia delle belle arti di Firenze, Firenze, presso Domenico Ciardetti, MDCCCV,
Ristampa anastatica, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1984, t. II, p. 170).
D’altra parte Le Memorie delle famiglie Acciaioli Adimari Cavalcanti sec. XVII (ms.
Riccardiano 2071) contengono alle carte 1-30 una Istoria della famiglia Acciaiola e
d’uomini famosi in essa, anonima che ha parti comuni a quella attribuita a Salvetti,
ma anche un testo di Vincenzo Acciaioli datato 1560 e un prospetto degli Acciaioli
che sono stati senatori che arriva fino al 1631. Quindi per concludere, sembra che
più persone abbiano messo mano a questa storia e che a Salvetti sia stato attribuito
un testo, pubblicato postumo come suo, a cui ella ha portato qualche modifica, ma
sostanzialmente redatto da altri.
10 Per questi aspetti della politica di Ferdinando I vedi F. Fantappié, La celebrazione
memorabile: potere, arte e spettacolo nelle memorie di corte di Ferdinando I dei Medici,
«Arte musica spettacolo», II, 2001, p. 203 e M. Fantoni, La corte del Granduca.
Forma e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 25-
26.
[ 4 ]
326 paola marongiu
feste patronali di S. Giovanni Battista.11 Fondamentali per il significato
ideologico furono gli apparati effimeri, progettati e realizzati da Alessandro
Allori, Santi di Tito, Ludovico Cigoli, Giambologna, artisti attivi
all’epoca a Firenze, che dovevano accompagnare il percorso degli
sposi, in cui si narrava la storia della fondazione e della ricostruzione
della città di Firenze, le vicende della sua progressiva importanza fino
al raggiungimento della condizione di stato sovrano. L’altro momento
centrale furono gli Intermezzi per la commedia La Pellegrina di Girolamo
Bargagli rappresentata il 2 maggio nel teatro degli Uffizi dagli Intronati
di Siena, affidati per la scenografia a Bernardo Buontalenti, per
la musica a Cristoforo Malvezzi, Luca Marenzio, Emilio de’Cavalieri,
Giulio Caccini, Iacopo Peri. 12
Le nozze furono descritte in resoconti,13 e in incisioni che dovevano
11 La dedica alla granduchessa, che porta la data significativa del 10 maggio
1589, sembra voler presentare le Rime come parte integrante dei festeggiamenti:
vedi Serenissima Gran Duchessa, in Rime toscane, cit., p. 4.
12 Cfr. R. Strong, Arte e potere. Le feste del Rinascimento (1450-1650), (1973) Milano,
Il Saggiatore, 1987, p. 219. Sull’argomento vedi anche A. M. Testaverde, Il
ruolo della soprintendenza granducale nell’organizzazione delle feste fiorentine del 1589,
«Quaderni di teatro», V, 17, 1982, pp. 69-83; G. Lazzi, Abbigliamento e costume nella
Firenze dei primi granduchi: fonti e documenti, in La famiglia e la vita quotidiana in Europa
dal ’400 al ’600. Fonti e problemi. Atti del Convegno internazionale, Milano 1-4
dicembre 1983, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986, p. 301. Contributi
interessanti e una bibliografia sull’argomento si trovano in Ferdinando I de’Medici
1549-1609 Maiestate Tantum, a cura di M. Bietti e A. Giusti, Firenze, Sillabe,
2009, catalogo della mostra tenutasi a Firenze nel Museo delle Cappelle Medicee
dal 2 maggio al 1 novembre 2009.
13 E ccone alcuni: Raccolta di tutte le solennissime feste nel sposalizio della serenissima
gran duchessa di Toscana fatte in Fiorenza il mese di maggio 1589. Con brevità raccolte
da Simone Cavallino, da Viterbo, Roma, Appresso Paolo Blado, 1589; Descrizione del
regale apparato per le nozze Della Serenissima Madama Cristina di Lorena moglie del Serenissimo
Don Ferdinando Medici III Gran Duca di Toscana descritte da Raffael Gualterotti
Gentl’huomo fiorentino, in Firenze, Padovani, 1589; Il ricco et sontuoso apparecchio
fatto in Fiorenza per l’entrata della Serenissima Gran Duchessa di Toscana. Dovesi racconta
a pieno tutti li particolari di detta entrata & festa, con li nomi delli più nobili Personaggi
che si trovorno presenti, Roma, appresso Tito et Paolo Diani Fratelli, 1589; La vera
e piena relazione del rincontro fatto nella pomposissima entrata della Gran Duchessa di
Toscana in Fiorenza. La Coronatione, le cerimonie del sposalizio. L’iscrittioni delle città e
dei signori illustri. Con meraviglioso ordine, & apparato stupendo di archi trionfali, statue,
motti, e musiche, Roma, appresso Bartholomeo Bonfadino nel Pellegrino, 1589; Le
ultime feste et apparati superbissimi fatti in Fiorenza nelle nozze del Serenissimo Gran
Duca di Toscana, In Bologna, Per Alessandro Benacci, 1589; Diario descritto da Giuseppe
Pavoni. Delle feste celebrate nelle solennissime Nozze delli Serenissimi Sposi, il Sig.
Don Ferdinando Medici, & la Sig. Donna Christina di Loreno Gran Duchi di Toscana. Nel
[ 5 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 327
diffondere la notizia dei festeggiamenti in Italia e in Europa, nonché in
una serie di poesie, tutte molto convenzionali.14
Tra la vasta produzione su questo argomento le rime di Maddalena
Salvetti si distinguono per lo spessore dei contenuti e per la perfezione
della forma. Esse infatti vanno inserite in un preciso humus culturale
che è il classicismo di un tardo umanesimo in cui la personalità di
maggior rilievo è, fino alla sua morte avvenuta nel 1596, Pietro Angeli
da Barga, detto il Bargeo.15 Il dotto umanista, console dal 1588 dell’accademia
Fiorentina e rettore dello Studio pisano, noto agli intellettuali
europei, autorità indiscussa a Firenze sul finire del ’500, frequentò
sicuramente la gentildonna fiorentina e probabilmente esercitò su di
lei una sorta di magistero o comunque costituì un punto di riferimento.
È molto probabile che si debba al suo influsso quello che in lei va al
di là delle competenze richieste per essere una semplice rimatrice, cioè
una solida cultura in cui rientrano i classici, la filosofia e la teologia.
Ma il famoso letterato è stato probabilmente anche il tramite per arrivare
a una meditazione più approfondita del Tasso. Non dimentichiamo
che egli è tra i revisori della Gerusalemme Liberata e che mostra di
quale con brevità si esplica il Torneo, la Battaglia navale, la Comedia con gli Intermedii, et
altre feste occorse di giorno in giorno per tutto il dì 15 di Maggio 1589, Bologna, Giovanni
Rossi, 1589; Venuta della serenissima Cristina di Lorena in Italia Al seggio Ducale di
Fiorenza del suo serenissimo sposo Don Ferdinando Medici Gran Duca Terzo di Toscana.
Raccolta in ottava rima da M. Pietro Niccola de’Cardi Cittadino Fiorentino 1589, In Firenze,
Appresso Giorgio Marescotti, MDXC.
14 Tra i componimenti poetici si possono citare: Canzone di Diomede Borghesi
Gentiluomo del Serenissimo Gran Duca di Toscana, Accademico Intronato, e Lettore di
Tosca favella nello Studio pubblico di Siena. Nelle felicissime nozze del medesimo Gran
Duca e della sereniss. Madama Cristina di Loreno. Et altre Rime dell’autor medesimo per
la medesima Gran Duchessa. A medesimi serenissimi, e veramente ottimi, e gloriosi Regnatori
dedicate, e consacrate, In Fiorenza, Appresso Giorgio Marescotti, MDLXXXIX;
De le glorie d’Europa a la Serenissima Madama Cristina Gran Duchessa di Toscana. Parte
Terza, Scritte E dedicate nelle sue Reali nozze, col Serenissimo Gran Duca di Toscana, Don
Ferdinando Medici. Da Raffaello Gualterotti Gentil’huomo Fiorentino, In Fiorenza, Per
Francesco Tosi, 1608; Canzoni del M.R. P.D. Crisostomo Talenti Monaco Vallombrosano.
Per il Serenissimo D. Ferdinando Medici Gran Duca di Toscana. Con l’Esposizione Del M.
R. P. F. Aurelio Corbellini Agostiniano Osservante Teologo del Serenissimo di Savoia, In
Bergamo, Per Comin, MDCX.
15 Per una chiara ed esauriente sintesi sulla personalità del Bargeo (1517-1596)
e la sua carriera alla corte dei Medici vedi G. Cipriani, Pietro Angeli da Barga e la
politica culturale di Cosimo, Francesco e Ferdinando dei Medici, in Barga medicea e le
“enclaves” fiorentine della Versilia e della Lunigiana, a cura di C. Sodini, prefazione di
G. Spini, Firenze, Olschki, 1983, pp. 101-125.
[ 6 ]
328 paola marongiu
avere nella Syrias, pubblicata due anni prima della Conquistata, evidenti
rapporti con essa.16
Al Bargeo si deve il giudizio di lode sulle Rime «piene di spiritosi
concetti, intessute di sceltezza di parole e ornate di vaghe e numerose
elocuzioni»17 che vanno quindi al di là di uno stanco epigonismo della
tradizione petrarchesca.18 Il Tasso delle Rime toscane non è quello della
Liberata, che sarà imitato con perizia e disinvoltura nei tre canti del
David, è quello che, nella poesia encomiastica, praticata soprattutto
dopo la segregazione a S. Anna, ha imboccato la solennità della lirica
pindarica:19 una lirica oggettiva, teorizzata da Caro, Castelvetro, ma
anche dai fiorentini Alamanni e Varchi.20
In questo solco sicuro, per quanto riguarda la poetica, Maddalena
si muove con risultati che, superando la pura poesia d’occasione so-
16 Petri Angelii Bargaei Syrias hoc est expeditio illa celeberrima christianorum principum
qua Hierosolyma ductu Goffredi Bulionis Lotharingiae ducis a Turcarum tyrannide
liberata est. Eiusdem votivum carmen in divam Catharinam, Florentiae, apud Philippum
Iunctam, 1591. I primi due canti, dedicati a Enrico III di Valois, erano stati
pubblicati nel 1582 (Petri Angelii Bargaei historici et poetae regii Syriados liber primus
et secundus, Lutetiae Parisiorum, Apud Mamertum Patissonium typographum regium
in officina Roberti Stephani, 1582); il terzo e il quarto, dedicati a Caterina dei
Medici, erano usciti nel 1584 (Petri Angelii Bargaei historici et poetae regii Syriados liber
tertius et quartus, Lutetiae Parisiorum, Apud Mamertum Patissonium typographum
regium in officina Roberti Stephani, 1584). La discussione sui rapporti
tra il Bargeo e il Tasso è ancora aperta.
17 Così si sarebbe espresso il Bargeo in una lettera inviata a Maddalena (Cfr. C.
Lanci, Esempi della virtù delle donne, cit., p. 252). Il giudizio, riportato dal Lanci,
viene ripetuto nella Biblioteca italiana di monsignor Giusto Fontanini arcivescovo di
Ancira con le annotazioni del signor Apostolo Zeno, istorico e poeta cesareo cittadino veneziano,
Venezia, presso Giambattista Pasquali, MDCCLIII, vol. II, nota di Apostolo
Zeno, p. 342.
18 Non è un caso che, all’inizio dell’Ottocento Gaetano Poggiali, facendo riferimento
proprio al Bargeo, proponesse le opere di Salvetti nel quadro di un arricchimento
del vocabolario della Crusca, in un contesto in cui la purezza della lingua
non escludeva incursioni stilistiche più audaci. (Cfr. [a cura di D. Poggiali] Serie di
testi di lingua stampati, che si citano nel vocabolario degli Accademici della Crusca, posseduta
da Gaetano Poggiali con una copiosa Giunta di opere di Scrittori di purgata favella, le
quali si propongono per essere spogliate ad accrescimento dello stesso vocabolario, Tomo II,
Livorno, Per Tommaso Masi e Comp., 1813, p. 87).
19 Tasso ha scritto 1113 poesie d’occasione e d’encomio contro 499 liriche d’amore
e 65 componimenti a carattere sacro.
20 Cfr. T. Tasso, Le rime, a cura di B. Basile, Roma, Salerno Editrice, 1994, t. I,
Introduzione, pp. XXIX-XXX.
[ 7 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 329
pra citata per i sovrani toscani, sono accostabili a quelli conseguiti da
Tasso e da Chiabrera.21
Possiamo dire che ella intende esaltare, in linea con lo spirito della
Controriforma, l’aspetto religioso del potere, attraverso il tema più o
meno dichiarato del valore salvifico della coppia granducale che sarà
centrale anche nel David perseguitato, in cui gli ultimi versi del canto II
e il canto III costituiscono una vera e propria ecfrasi dinastica.22 Da qui
una continua tensione verso l’alto (favorita dalla frequentazione di
Dante) e l’inesausta ripetizione della lode dei sovrani (100 liriche per
Cristina e 45 per Ferdinando), che fa pensare al panegirico barocco, in
cui l’artificio intimamente costitutivo è proprio l’amplificatio.23 Questo
proposito viene realizzato attraverso un’imitazione, sia pure non pedissequa,
della tradizione che va da Petrarca a Tasso, ma che include,
21 Tasso scrisse una canzone Onde sonar d’Italia intorno i monti e un sonetto
Prendi Imeneo, la face onde risplenda per le nozze di Ferdinando con Cristina di Lorena,
tre sonetti per Ferdinando Signor, la cui fortuna alzò cotanto, Alto signor di gente
illustre antica, Al tosco impero, in cui s’alzò Ferrante, due sonetti sopra la statua di
Ercole in Palazzo Pitti Io, che vinsi le fere, ancisi i mostri, Arno, come Acheloo d’Ercole
invitto, una canzone Al cader d’un bel ramo che si svelse e due sonetti Oggi che nasce il
figlio al tosco duce, Quando a sentir qua giù la state e il verno per la nascita dell’erede
Cosimo (Cfr. T. Tasso, Le rime, cit., t. II, pp. 1577-1583, 1583-1584, 1584-1585, 1650-
1651, 1651, 1652-1653, 1653-1654, 1654-1660, 1660-1661, 1661-1662); Chiabrera due
componimenti Per Ferdinando I Gran Duca di Toscana e Al Serenissimo Ferdinando
Medici Gran Duca di Toscana, edificatore di Livorno (Rime di Gabriello Chiabrera volume
primo contenente le canzoni eroiche, le lugubri, le sacre e le morali, Milano, Dalla Società
Tipografica de’ Classici Italiani, contrada di S. Margherita, n. 1118, anno 1807, pp.
75-77, 215-218).
22 Questa parte del poema è infatti occupata dalla profezia della Sibilla che, a
proposito di Italo, un guerriero che parte dall’occidente in aiuto degli Ebrei impegnati
nella guerra contro i Filistei, annuncia che le sue nozze con un’Amazzone
daranno origine alla dinastia dei Medici, così chiamati perché destinati a guarire
Firenze. Ecco i versi dedicati a Ferdinando e Cristina: «Segue il gran Ferdinando, il
sole eguale/Non scorge, e’l pregio suo fra tutti e opimo/La grava il mar de’ suoi
guerrieri arditi, /E qua la terra ingombra, e copre i liti.//Onusti i suoi gran legni
ecco, che rende/A’ lidi toschi il gran rettor de’ venti;/Mille barbare insegne, ecco
che appende/Nel tempio umile, al re degli elementi;/Ecco fra quanto il fier Nettuno
estende/ Le attorte braccia, tra l’ondosi argenti, /Che’n terra, e’n mar l’armi
tremende dome/ Fia del gran Ferdinando eterno il nome.// Trarrà l’origin sua per
mille lustri/Quella gran donna, anzi terrestre diva,/Ch’a par con lui sen’ va da
regi illustri, /Là della Senna in su la verde riva;/Christiana è il nome, che da’ suoi
trilustri/Lassa del suo bel sol la Gallia priva; / E del Rodano altier le patrie sponde,
/E l’Italia arricchisce, e d’Arno l’onde»(Il David perseguitato, cit., III, 35-37).
23 Cfr. C. Sensi, La retorica dell’apoteosi: arte e artificio nei panegirici del Lubrano,
«Studi secenteschi», XXIV, 1983, pp. 69.
[ 8 ]
330 paola marongiu
come abbiamo detto, anche l’autore della Commedia, con alcune varianti
dovute al sesso e al ruolo diverso rivestito dai due illustri personaggi.
Cominciamo con le Rime per Cristina in cui possiamo individuare
un gruppo che tratta il motivo della presenza dell’io lirico, che è tanto
più necessario affermare, in quanto chi scrive è una donna. Il sonetto
iniziale Come potrà cantar lingua mortale24 può dare un’idea della situazione.
Poiché la sua «debil piuma» non è in grado di cantare un essere
così eccezionale, Maddalena chiede l’intervento diretto di Dio: «Tu
dunque Amor, che il mondo informi e reggi,/E movi i cieli, e i lumi
erranti, e fissi/Invoco all’alta impresa, al gran soggetto». Come si vede,
a parte l’«alta impresa», chiara reminiscenza tassiana, è evidente il
riferimento al Dante del Paradiso per la richiesta dell’aiuto divino e per
il concetto aristotelico-tomistico di Dio-amore motore del mondo;
inoltre la granduchessa, l’oggetto eccezionale della poesia, diventa subito
per le sue qualità sovrumane, indirizzate alla lotta contro il male,
una sorta di Beatrice.
In un altro sonetto Alma felice, e gloriosa Donna25 Salvetti, dopo avere
nelle quartine esaltato le sue virtù, rivendica con forza, al di là della
condizione di donna, la propria natura di poeta, come voluta dal cielo,
grazie alla quale ella, cantando questa creatura eccezionale, potrà vivere
eterna:
Seme, che in grembo de la bella Flora
Nacqui, e nudrita fui data dal cielo
A schivar de le donne i vili uffici,
Sotto l’ombra real del vostro velo
Accogliete benigna, i cieli amici
Forse avrò sì, che vivrò eterna ancora.
Qui è chiaro che gli elementi della tradizione – la richiesta tassiana
di protezione sotto l’ombra26 peraltro del velo, un termine questo di
ascendenza petrarchesca – appaiono ovvi strumenti espressivi a cui la
dotta e raffinata scrittrice attinge come a una koinè disponibile per dar
voce a una nuova poesia encomiastica, in cui il personaggio illustre è
una donna, da cui un’altra donna si aspetta, non tanto un aiuto pratico,
quanto piuttosto la fama poetica.
24 M. Salvetti acciaioli, Rime toscane, cit., p. 5.
25 Ivi, pp. 28-29.
26 Cfr. O del grande Appennino (Torquato Tasso, Le rime, cit., t. I, n. 573, pp.
541-545).
[ 9 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 331
Nella lirica conclusiva Né per cantar di voi mie voglie adempio27 invece
della soddisfazione per l’opera compiuta, prevale la modestia, non
dovuta al suo sesso, ma a un’umiltà cristiana di stampo controriformistico,
che rende impari, data la malvagità che domina il mondo, il suo
tentativo di divulgare i pregi morali di Cristina. Così il rimettersi alla
forza della loro diffusione («Ma tante son le grazie, che ’n voi piove/
Lo Ciel, che per voi stessa il vostro grido/Si spargerà in contrade
ignote, e nove») suona come la lode più grande.
Al di là di questo tema, sotteso a tutto il corpus delle poesie, Maddalena
fa leva. sull’armamentario canonico (esaltazione delle qualità
fisiche e morali), anche se la sua non è poesia d’amore e lei è una donna
che canta di un’altra donna. Questo lo possiamo vedere molto bene
in un sonetto come Chi sulla neve mai candida, e bella,28 in cui, dopo aver
descritto l’avvenenza della principessa, continua:
Non è il vostro, non è poter mortale,
Ben lo conobbi il dì ch’in voi mirando
Punger mi sentì’il cor d’acuto strale.
Ben vidi alor che di me stessa in bando
Poteo da questa spoglia oscura, e frale
Girne al più chiaro ciel la mente alzando.
Infatti l’acuto strale, che punge il cuore, non ha un effetto erotico,
ma spinge verso l’alto, per cui l’encomio del grande personaggio, superando
la generica dimensione cortigiana, diventa, sulla scorta di
Dante, un tramite verso Dio.
Tra le qualità esaltate ci sono la voce e la luce che emana dalla donna.
Per quanto riguarda il primo motivo, un esempio significativo è
Fra le più vaghe perle, e bei rubini,29 che esprime l’incanto che producono
le dolci parole. Vediamo come a questa idea corrisponda una stesura
del testo molto tersa ed equilibrata. Infatti a una prima quartina, che
descrive la bocca, attraverso la metafora del preziosismomanieristico
delle «vaghe perle» (i denti) e dei «bei rubini» (le labbra), segue la seconda,
che mostra i «saggi e divini accenti» che salgono fino al cielo; a
questo punto, in uno scenario che comprende tutta la natura, compaiono
gli uccelli immobili in una campagna deserta e il sole che si ferma
stupito e ancora, in un crescendo, sempre manieristicamente, la natura
e l’arte che si dolgono perché vinte dalla donna.
27 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., p. 112.
28 Ivi, p. 105.
29 Ivi, pp. 49-50.
[ 10 ]
332 paola marongiu
Tra i componimenti che hanno al centro la luce, connotato tradizionale
di un essere superiore, vorrei citare Poiché quel chiaro lume al mondo
solo,30 che mostra un’oltranza nello sviluppo della situazione tipicamente
salvettiana. Infatti, poiché le stelle sottraggono la principessa
alla sua vista, ella la cerca tra le idee platoniche, e mentre l’ammira, le
deboli facoltà visive si oscurano e lei cade a terra. Qui la poetessa annulla
tutti i paragoni con gli astri, va dritta verso l’idea stessa di splendorea
cui si è ispirato Dio per dare forma alla donna, una esperienza
che supera le sue facoltà di creatura mortale.
Alla luce si collega il motivo contiguo del fuoco, che brucia, purifica
e rinnova. Così nel madrigale Come da pietra dura31 Cristina che incendia
d’amorosa fiamma il mondo, senza che lei si accenda, è paragonata,
con una sorta di efficace ossimoro naturalistico, alla pietra focaia
che, pur producendolo, resta indenne dal fuoco. Eccola ancora
diventare un’aquila32 che fissa lo sguardo non nel sole, secondo la
tradizione, ma in Dio stesso; in questo modo comunica a tutti gli esseri
creati l’amore divino, un fuoco rigeneratore, suscitando addirittura
le lodi delle anime dell’inferno, destinate alle fiamme per l’eternità.
Una funzione ambigua del fuoco quindi, che è amore e salvezza, ma
anche punizione e dannazione, in quanto incarnazione della giustizia
divina.
Tra gli strumenti a disposizione della poesia non poteva mancare il
mito che ispira vari componimenti. Il sonetto Mentre d’Ettor la madre
sventurata33 prospetta una visione profetica della storia che deriva da
Virgilio, attraverso la mediazione del Tasso: la discendente dei Lorena,
della stirpe del troiano Antenore, risarcirà il dolore di Ecuba per la
figlia morta, divenendo regina dei Toscani. Il madrigale Amor la face
accese34 presenta Cupido che vorrebbe ferire Apollo, perché ha oltraggiato
Venere innamorandosi di Cristina, ma colpisce Ferdinando. Come
si vede la granduchessa diventa un essere superiore alla dea
dell’amore, il granduca un altro sole; ma niente resta della situazione
trasgressiva degli amori pagani, perché i due sovrani, circonfusi, nella
loro regalità di una luce sfolgorante, sono uniti cristianamente nel santo
matrimonio.
Troviamo ancora il dio del sole nel madrigale Che miri o biondo
30 Ivi, pp. 67-68.
31 Ivi, p. 33.
32 Ivi, p. 65: Questa aquila real de l’aurea piuma.
33 Ivi, pp. 26-27.
34 Ivi, p. 25.
[ 11 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 333
Apollo,35 che tenta invano di sedurre non Dafne ma Castità, personificata
in Cristina, che «di semplice bellezza rivestita/La vera strada addita,
a l’opre sante». Qui è evidente che il motivo della ritrosia sessuale
che si esprime in Petrarca con il mito della ninfa che si sottrae agli
amplessi del dio trasformandosi in alloro, privato del pregnante riferimento
al nome della donna amata (lauro-Laura), acquista significato
solo alla luce della rigida morale controriformistica.
Come abbiamo visto la poesia della gentildonna fiorentina si caratterizza
per un’attenta assimilazione della tradizione italiana, che spesso
si sostanzia di contenuti concettuali di ascendenza dantesca, come
ho già avuto modo di sottolineare; un aspetto che culmina in tre componimenti,
che vorrei ora prendere in considerazione. Mirando il sol
de’begli occhi lucenti36 segue lo schema di Oltre la spera che più larga gira
senza il potente afflato sentimentale e religioso che porta il sommo
poeta in una dimensione superumana.37 Infatti Salvetti guardando gli
occhi della donna s’innalza fino all’armonia delle sfere e alla sede delle
anime elette per constatare che solo qui ci sono situazioni paragonabili
a lei, anzi che solo lei, pur essendo ancora una creatura terrena è
un esempio del «gran sole» cioè di Dio. Da notare la struttura circolare
del testo, tutto giocato sul sole, all’inizio immagine degli occhi della
granduchessa, alla fine immagine di Dio; da osservare inoltre nel verso
conclusivo («Scorgo un esempio lei sol del gran sole») il gioco di
parole tra il sostantivo ‘sole’ e l’avverbio ‘sol’ che ribadisce l’eccezionalità
della donna.
Sol la prima materia eterna pose38 poi con riferimento alla creazione
del mondo, sviluppa in modo consequenziale un discorso filosoficoteologico.
Alla prima quartina, che espone la posizione pagana di Platone
e di Aristotele, che hanno ipotizzato una materia eterna e un
principio che la informasse, segue, nella seconda, il trionfo della dottrina
cristiana, secondo la quale la creazione avviene dal nulla. Le due
terzine ci presentano la principessa, come il sole simile alla luce di
Dio, che con le sue dotte parole scaccia le tenebre della falsità e fa fiorire
i gigli e le viole nella sua Gallia. All’inizio filosofico si contrappo-
35 Ivi, p. 21
36 Ivi, pp. 99-100.
37 Dante Alighieri, Vita nuova, XLI: «Oltre la spera che più larga gira/passa ’l
sospiro ch’esce del mio core:/intelligenza nova, che l’Amore/piangendo mette in
lui, pur su la tira».
38 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., p. 102.
[ 12 ]
334 paola marongiu
ne in chiusura il gesto femminile di suscitare i fiori che appare, in un
alone religioso, come un miracolo.
Una donna simile acquista un valore salvifico in un mondo dominato
dal male. Per questa tematica, sottesa a tutta la raccolta, possiamo
citare in particolare il sonetto Donna, che sola al mondo, e senza
esempio,39 che mostra la «bella guerriera» d’origine petrarchesca che,
uscita dalla dimensione erotica, combatte vittoriosa contro il vizio.
Ancora più significativa in questo senso la canzone Poi che l’alto motor
degli elementi,40 dove un Dio, concepito come creatore del mondo, che
interviene nelle cose di questa terra come un Giove pagano, visto che
l’umanità è in preda al peccato, decide di mandare chi la riporterà
sulla retta via. Ecco i versi che descrivono la donna eccezionale:
Questa di nome, e d’alma intatta, e monda
De l’alta mia bellezza esempio vero
Prima di sé farà quel lido altero,
Che ’l Rodan parte, e l’ocean circonda
La ’ve l’alma, e gioconda
Spoglia trarrà da l’alta eterna luce
Del terzo Carlo di Lorena duce.
E la Gallia feconda
Mentre sarà più oppressa
Tornerà tal’a lei grazia ho concessa.
Questa da un’altra mia devota e fida
Alma un bel tempio di virtù ripieno
Sarà nudrita alto splendor sereno
A l’ombra ria de l’empia schiera infida.
Poscia le sarò guida
Ove ’l gran rege tosco a lei sia sposo
Lume di questo ciel sì glorioso.
Onde benigno arrida
Al felice natal c’ho in mente fisso
Ogni cielo, ogni lume errante, e fisso
Tutti gli elementi di lode sono qui concentrati e acquistano più valore
per il fatto che è Dio stesso a parlare: la bellezza di Cristina, la
nobilissima origine da Carlo III di Lorena, la sua benefica influenza
39 Ivi, p. 96.
40 Ivi, pp. 7-11. È evidente l’esempio del Tasso del c. I, 6-19 della Gerusalemme
liberata, quando Dio, visto che l’azione militare ristagna, decide, come Giove che si
serve come messaggero di Mercurio, di inviare nel campo crociato l’arcangelo Gabriele
perché induca Goffredo di Buglione a prendere in mano la situazione.
[ 13 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 335
nelle guerre di religione in Francia, l’educazione presso la nonna materna
Caterina dei Medici, «devota e fida» in quanto sostenitrice dei
cattolici nella lotta contro i protestanti («a l’ombra ria de l’empia schiera
infida»), le nozze volute da Dio con il granduca di Toscana che daranno
vita al «felice natal»dell’erede.
La funzione soteriologica presuppone la dimensione encomiastica,
che tende a deformare la realtà, ma in questo caso le cose stanno diversamente.
L’essere vissuta in mezzo alle guerre di religione faceva veramente
di lei fin da giovanissima una principessa della controriforma
e Salvetti quindi non sbagliava ad assegnarle anche per il futuro questo
ruolo. D’altra parte le fonti storiche concordano nel presentarla
come un modello di virtù e di pietà religiosa, qualità che integravano
le sue competenze politiche dovute all’educazione impartitale da Caterina
dei Medici;41 può dunque, all’epoca del matrimonio, esaltare il
suo benefico influsso nella vita dello stato. È questo l’argomento del
sonetto L’aquila eccelsa che dal regio seno,42 in cui l’aquila (Cristina), che
per volere divino è volata in Toscana, si unisce al leone, il marzocco
emblema di Firenze (Ferdinando), operando per il bene anche di tutta
la penisola («Per l’Italia sottrar da tanti affanni»).
Questo tema trova la sua piena realizzazione nelle Rime per Ferdinando,
la cui provvidenziale azione politica si può sviluppare anche
grazie al matrimonio con una fanciulla di alto lignaggio, una tappa
importante nella difficile scalata della dinastia, per acquistare un posto
di prestigio tra le potenze europee. Teniamo presente la scena conclusiva
degli apparati per le nozze; dopo i quadrì che avevano narrato le
glorie dei Medici e dei Lorena, davanti a Palazzo Vecchio, allora ancora
sede della reggia, compare la Toscana seduta col manto granducale,
incoronata prima dal pagano Porsenna, re degli Etruschi, e poi dal cristiano
Cosimo, successivamente la vediamo insieme a Siena, di recente
conquistata, rendere omaggio a Firenze. Il momento centrale dei festeggiamenti
furono gli Intermezzi che veicolarono, in termini simbolici,
lo stesso contenuto ideologico, cioè l’unione dei due principi che
41 Cfr. F. Martelli, Cristina di Lorena, una lorenese al governo della Toscana medicea,
in Il granducato di Toscana e i Lorena nel secolo XVIII. Incontro internazionale di
studio, Firenze 22-24 settembre 1994, a cura di A. Contini e M. G. Parri, Firenze,
Olschki, MCMXCIX, pp. 71-81. Egli cita per le virtù morali a p. 75 R. Galluzzi,
Historia del granducato di Toscana, t. III, Firenze, Cambiagi, 1781, che dice: «Cristina
di Lorena era il modello della pietà, e il suo virtuoso contegno contribuì ad allontanare
dalla corte e dalla capitale i vizi e le depravazioni purtroppo introdottevi».
42 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., pp. 97-98.
[ 14 ]
336 paola marongiu
dava origine a una nuova età dell’oro, mentre il primo Intermezzo, rappresentando
l’armonia delle sfere secondo la cosmologia platonica, voleva
diffondere un messaggio di concordia e di pace.43 In questo modo
si prefigurava un preciso processo politico: sviluppo della Toscana,
ruolo dei Medici in Italia e in Europa, in particolare nella lotta contro i
Turchi, in una nuova era, grazie al saggio governo della coppia granducale.
In posizione un po’ defilata si trova un sonetto che avrebbe potuto
ben aprire la raccolta, tutto giocato su paragoni:
S’al glorioso Acchille il ciel prefisse
La chiara tuba del divino Omero,
E al giusto fondator del grande impero
Del mantovan, ch’a miglior tempi visse;
Non men all’alto FERDINANDO fisse
Fur le sorti fatali al merto altero:
Poi che il gran BARGA delle Muse vero
Padre al ciel piacque a questa età venisse.
Che solo lice a lui cigno gentile,
L’opre del signor nostro illustri e conte
Far chiare risonar da Battro a Thile.
Onde con vergognosa e mesta fronte
Vagh’il latio più chiaro e ’l greco stile
Per la trista riviera d’Acheronte.44
Infatti se Achille ha avuto come cantore Omero ed Enea Virgilio,
Ferdinando, assimilabile ai più grandi eroi dell’antichità, non può
avere altro che il Bargeo, posto sullo stesso piano dei più illustri poeti
classici; e a lei Maddalena, così lontana da questi vertici, non resta che
aggirarsi, con reminiscenza dantesca, tra le anime dannate, escluse dal
paradiso dei sommi poeti.
La poetessa esordisce invece, in modo meno solenne, con un sonetto
proemiale di circostanza45 in cui tra molte cose impossibili inserisce
il suo proposito di cantare «con sì bassi accenti» il granduca, l’«alto
eroe»; ad esso fa riscontro, sempre nello stesso tono, un madrigale di
commiato46 in cui al «solo onor degli anni nostri» offre, come un’anima
devota offre a Dio le sue offerte, i suoi «umili inchiostri».
43 Cfr. R. Strong, Arte e potere. Le feste del Rinascimento (1450-1650), cit., pp. 219-
229.
44 M. Salvetti acciaioli, Rime toscane, cit., p. 142.
45 Non puo’l bel lume più del ciel sereno, Ivi, p. 115.
46 Se l’offerte ch’a Dio pure, ed umili, Ivi, p. 155.
[ 15 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 337
Ma subito nel secondo sonetto Poiché col suo mortal giacque il gran
duce47 ella affronta il tema della successione avvenuta dopo l’improvvisa
morte del fratello Francesco. Ferdinando è rappresentato come
un vivo sole, a cui i cieli amici guardano con stupore, mentre l’Arno si
fa sereno, preludio al terzo che rievoca il giorno dell’incoronazione:
«Quel sempre eterno, e glorioso giorno/Che gravò l’aureo crin di regal
pondo,/L’alto splendor della Romana Chiesa».48 Qui in una natura
rasserenata e luminosa Ferdinando, circonfuso di luce, appare in tutta
la sua gloria di cardinale e di granduca; la conferma che non si tratta
di una incoronazione qualsiasi viene poco dopo: mentre la terra stupisce
lieta, il cielo annuncia che è tornata l’età dell’oro.
Il ritorno dell’età dell’oro è il nodo centrale delle Rime per il granduca,
che Salvetti condivide del resto con la cultura fiorentina del tempo.
In primo luogo è opportuno rievocare l’orazione funebre per la
morte di Francesco I, in cui abilmente il Bargeo presenta l’avvento al
trono di Ferdinando come voluta dal cielo.49 Pochi anni dopo, nel
1599, Giovan Battista Guarini, il celebre autore del Pastor fido, ma anche
esponente di spicco della trattatistica politica di parte medicea,
stabiliva una linea diretta tra la morte violenta di Alessandro, l’avvento
di Cosimo I e poi, sorvolando su Francesco, di Ferdinando, frutto di
un disegno provvidenziale grazie al quale, dopo molte lotte intestine,
la Toscana aveva trovato la pace, con un regime in cui la libertà si sposava
con la signoria di un buon principe.50
47 Ivi, p. 115.
48 Spento era in cielo ogni maligno lume, Ivi, pp. 116-117.
49 Cfr. Oratio Petri Angelii Bargaei habita in funere Francisci Medicis mag. Ducis
Hetruriae XVIII Kal. Ianuarii. Cum Privillegio, Florentiae apud Philippum Giuntam,
& fratres, MDLXXXXVII, p. 23, in cui si dice che bisogna dolersi per la morte
di Francesco, ma anche essere lieti perché non contro la sua volontà ha obbedito
alla necessità della natura [«haud invitus naturae necessitati paruit»] e che non
solo per diritto ereditario, ma anche per somma e immortale benevolenza di Dio
gli è succeduto il fratello Ferdinando [«non solum iure hereditario sed etiam summo
atque immortali Dei Optimi Maximi beneficio Ferdinandus frater illi in imperio
successit»].
50 Vedi Trattato della politica libertà del cavalier Battista Guarini, in Trattati politici
di vari autori, Venezia, Co’ Tipi del Gondoliere, MDCCCXXXIX, in particolare
quanto l’autore scrive sul nuovo granduca: «[Firenze ha scelto] il gran Ferdinando
per degno successore di tanto padre, veramente dono di Dio per governare i popoli
di Toscana con quella natia prudenza ch’egli redò dal padre, e con quella santa
ch’egli apparò nel santissimo Vaticano» (p. 149) […]«nel governar prudente,
nell’ascoltar umano, nel far giustizia incorrotto, nel perdonar clemente, nel castigar
guardingo […] temperato e modesto riguardo alle ricchezze» (p. 152).
[ 16 ]
338 paola marongiu
Naturalmente non bisogna dimenticare che il mito dell’età dell’oro,
promosso nella letteratura occidentale da Virgilio e da Ovidio,51 è
un motivo ritornante nella poesia di encomio, come hanno autorevolmente
dimostrato Gustavo Costa per l’Italia52 e Frances Yates per l’Inghilterra.
53
Tra i molti componimenti che trattano il tema possiamo citare questo
madrigale:
Ecco Giove il gran telo
Cede a l’invitta mano:
Ecco il tema e ’l gelo
Fugge veloce d’ogni petto umano
Ecco sovra i Giganti e i Licaoni,
Tona, e con alta possa
Cader fa’Olimpo e Ossa:
Ecco pe’ giusti e buoni
Ritorna il secol d’Or più bello ognora
O fortunata Flora.54
Qui evidentemente Salvetti ha tenuto presente il celebre Ecco mormorar
l’onde di Tasso,55 ma è interessante vedere come l’ha trasformato.
L’anafora ‘ecco’ che là serviva a indicare gli elementi naturali che annunciano
l’aurora e l’apparizione della donna amata, qui sottolinea il
succedersi prodigioso dei fenomeni che riportano l’età dell’oro nella
fortunata Firenze: Giove che cede il governo a Ferdinando, Ferdinan-
51 Virgilio, Egloghe, IV, 6: «Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna»[«Ormai
ritornano anche la vergine e i regni di Saturno»]; Ovidio, Metamorfosi, I, 149-150:
«Victa iacet pietas et virgo caede madentis/ Ultima caelestium terras Astraea reliquit
» [«La pietà è vinta e lascia queste terre macchiate di sangue ultima degli immortali
anche la vergine Astrea»]
52 G. Costa, La leggenda dei secoli d’oro, Bari, Laterza, 1972. Vedi in particolare il
cap. III Dal Rinascimento al Barocco, dove l’autore tratta ampiamente di Tasso, di cui
cita tra l’altro i versi scritti nel 1570 per le nozze di Francesco Maria della Rovere
con Lucrezia d’Este (p. 99), quelli composti nel 1579 per il matrimonio di Alfonso
II con Margherita Gonzaga (p. 104) e la canzone Onde sonar d’Italia intorno i monti
del 1589 per Ferdinando dei Medici e Cristina di Lorena (p. 106). Nel cap. IV Saturno
e la Controriforma parla di Chiabrera di cui cita un sonetto di ringraziamento
indirizzato a Ferdinando I e a Cristina di Lorena prima del 1600 (p. 144).
53 F. A. Yates, Astrea. L’idea dell’impero nel Cinquecento (1975), Torino, Einaudi,
1978 (cfr. soprattutto il cap. Elisabetta Astrea, pp. 39-104 in cui la studiosa fa riferimento
a molte opere letterarie e pittoriche che hanno al centro questo mito).
54 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., p. 118.
55 T. Tasso, Ecco mormorar l’onde, in Id., Rime, cit., t. I, pp. 154-155.
[ 17 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 339
do che mette in fuga la paura e vince le forze del male (Giganti e Licaoni)
per stabilire un regno sicuro per i giusti.
L’avvento di questa straordinaria condizione significa in primo
luogo il trionfo della pace: a questo fanno riferimento tre sonetti contigui
dedicati a Marte, dio della guerra; nel primo Questo orribil cinghial,
ch’estinto giace,56 il dio, sotto le spoglie di un cinghiale che assale
Ferdinando (notoriamente appassionato cacciatore), geloso, perché
teme di essere superato da lui nel favore di Venere e nella gloria, sconfitto,
è costretto a fuggire. Nel secondo Poi che dell’arme il gran tremendo
duce57 Marte è mandato in esilio da Giove, che assiste al confronto,
sdegnato vista la sua inferiorità. Nel terzo Mentre di Marte la maligna
stella il padre degli dèi, dopo la sconfitta del dio della guerra, fa tornare
nel mondo la giustizia («Lieto il gran Padre la Vergine bella/Astrea
d’ogni opra ria sdegnosa, e schiva/Scender fa su l’Etrusca altera riva/
La’ve’l buon rege tosco ognor l’appella») e a lei timorosa di una condizione
avversa, si rivolge con parole rassicuranti («Ma Giove, non
temer, che messi in bando,/Le dice, sono i vizi, e gli empi inganni/
Dalla chiara virtù di FERDINANDO»).58 Il granduca, il cui nome, evidenziato
tipograficamente con l’uso delle maiuscole, sigilla con grande
efficacia il componimento, appare dunque come il trionfatore sul
male del mondo.
A breve distanza nella canzone Dal Gange, ond’esce il sole59 ninfe e
pastori sono invitati a cantare le lodi del nostro eroe e ad annunziare
tutti i benefici cambiamenti che la felice congiuntura comporta: la terra
che produce i frutti spontaneamente, i serpenti velenosi che spariscono,
l’eterna primavera che arriva, ma soprattutto la fratellanza universale
e la comunione dei beni, che si affermano nella società. Da qui
l’esclamazione convinta che riecheggia Virgilio60:
O fortunate genti
Ch’Appennin parte, e ’l bel Tirreno inonda,
56 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., p. 134.
57 Ivi, pp. 135-136.
58 Ivi, p. 136.
59 Ivi, pp. 137-141.
60 Virgilio, Georgiche, II, 458-459: «O fortunatos nimium, sua si bona norint /
agricolas! Quibus ipsa procul discordibus armis/ fundit humo facilem victum iustissima
tellus» [«O agricoltori troppo fortunati se conoscessero i loro beni! Ai quali
lontano dalle armi che portano discordia produce dal suolo un facile vitto la
terra veramente giusta»]. La vita dei contadini, lontano dalle guerre e paga dei
semplici prodotti della terra, può ricordare la situazione dell’età dell’oro.
[ 18 ]
340 paola marongiu
Bene avemo del ciel gl’alti, e lucenti
Aspetti grati, e Fortuna seconda.F
tLa luce, simbolo di eccellenza e di regalità è alla base di molti componimenti,
come già lo era stato nelle poesie per Cristina. Dio stesso
ha forgiato il corpo e l’anima di Ferdinando, «mirando nelle più belle
idee della sua mente»61 facendoli così lucenti da suscitare l’ammirazione
dei cieli e degli angeli che inneggiano al suo nome. Ma anche il
mito classico può offrire in questo senso molti spunti interessanti. Egli
solo è una Fenice62 con le piume di porpora e d’oro che, bruciando,
continuamente si rinnova nell’esercizio della virtù, un fulgore che supera
il sole. Questa iperbole ritornante è espressa al massimo grado
nel sonetto Mentre sovra le stelle il sommo Giove63 in cui a Febo, che si
lamenta perché è superato da Ferdinando, Giove consiglia di rassegnarsi,
perché anche il padre degli dèi è vinto da lui.
Nell’ambito di questa mitizzazione pagana non poteva mancare il
riferimento ad Ercole, uccisore di mostri e sostenitore insieme ad Atlante
della volta del cielo, un motivo topico che Yates cita anche, ad
esempio, per Enrico IV di Borbone, l’Ercole gallico.64 Per quanto riguarda
Salvetti non bisogna dimenticare che Ferdinando aveva scelto
per il verso della sua prima medaglia la raffigurazione del gruppo
Ercole e il Centauro di Antonio Susini65 e che nel 1599 avrebbe commissionato
al Giambologna la statua dell’eroe in lotta con Nesso per la
loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria. Ma in particolare è necessario
far riferimento all’altra statua per la vasca di Boboli risistemata
dall’Ammannati, che intendeva rappresentare il granduca stesso.
Nel sonetto Mentre d’undici stelle ardenti e belle66 ella dunque esorta
il granduca, che ha diffuso la sua luce sulla Toscana, a non aver paura
a emulare Ercole, che deve essere il suo modello, non andando però al
di là di affermazioni banali e scontate. Sullo stesso tema peraltro molto
più pregnante appare Tasso che, nel primo dei due sonetti composti
Sovra il simulacro d’Ercole sopra il fonte de’ Pitti in Firenze,67 durante il
61 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., Ne le più belle idee de la sua mente, p.
129.
62 Questa immortale, e unica Fenice, Ivi, p. 132.
63 Ivi, p. 130.
64 Cfr. F. A. Yates, Astrea. L’idea dell’impero nel Cinquecento, cit., p. 244.
65 Cfr. M. L. Strocchi, Ferdinando I e le arti figurative: regesto cronologico (1587-
1609), in Ferdinando Ide’Medici 1549-1609 Maiestate tantum, cit., p. 28.
66 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., pp. 149-150.
67 T. Tasso, Io, che vinsi le fiere, ancisi i mostri e Arno, come Acheloo d’Ercole invitto, citt.
[ 19 ]
maddalena salvetti acciaioli poetessa al servizio del potere 341
suo soggiorno nella capitale toscana nell’aprile 1590 presso i monaci
di Monte Oliveto, fa parlare il semidio greco che allude alla sua morte
e chiede canti per sé e per Ferdinando, il nuovo eroe in cui si identifica.
Il confronto con l’eroe mitico torna, come attributo connotativo di
Ferdinando, anche nellatcanzone Traggi l’umida fronte,68 sia pure unito
ad altri elementi. Infatti ai beati che si lamentano perché l’anima del
granduca dovrà restare sulla terra, privandoli della sua luce, Dio risponde
che questo è necessario perché, come Ercole, ucciderà mostri,
inoltre combatterà la fame e farà in modo che il mondo deviato torni a
lui. Qui c’è da notare in primo luogo l’uso in chiave encomiastica ancora
del modello dantesco, in cui gli angeli si rammaricano perché
Beatrice non può salire al cielo, dovendo ancora svolgere la sua funzione
in questo mondo.69 Da considerare poi un altro elemento interessante,
il fatto che le lodi siano pronunciate da una ninfa etrusca che
abita le acque dell’Arno, alter ego di Maddalena, che si dichiara vinta
in questa impresa. Alla fine non le resta che nascondersi nelle acque
del fiume insieme alla canzone, non degna di recarsi al cospetto del
sovrano. Anche qui un’allusione alla tradizione – questa volta Petrarca
–70 ancora con la trasposizione del topos della dichiarazione di modestia
del poeta dalla situazione amorosa a quella encomiastica.
Vediamo invece ora due componimenti, fra i molti che hanno al
centro Firenze e la Toscana, il campo dell’azione concreta di Ferdinando.
Nel madrigale Ecco la bella madre71 la sua intenzione di riprendere
vigorosamente in mano la politica del padre Cosimo, dopo l’intermezzo
di incertezza che aveva contrassegnato il regno del fratello Francesco,
si esprime in un tono chiaramente elegiaco. Firenze è una donna
ferita oggetto di cure da parte di Ferdinando, il figlio sollecito. La metafora
non è certo nuova (basta pensare alla Canzone all’Italia di Petrar-
68 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., pp. 120-127.
69 D. Alighieri, Vita nuova, XIX: «Angelo clama in divino intelletto/e dice “
Sire, nel mondo si vede/maraviglia ne l’atto che procede/d’un’anima che ’nfin
qua su risplende”./Lo cielo, che non have altro difetto/che d’aver lei, al suo segnor
la chiede,/e ciascun santo ne grida merzede./Sola Pietà nostra parte difende,
che parla Dio, che di madonna intende;/ “Diletti miei, or sofferite in pace/che
vostra spene sia quanto me piace/là ‘v’è alcun che perder lei s’attende,/ e che dirà
ne lo inferno: O mal nati, / io vidi la speranza de’ beati”».
70 F. Petrarca, Canzoniere, CXXVI: «Se tu avessi ornamenti quant’ai voglia, /
poresti arditamente/uscir del boscho, et gir in fra la gente».
71 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., p. 144.
[ 20 ]
342 paola marongiu
ca72), ma inedita è la situazione specifica, imperniata sul rapporto
madre-figlio; qui spicca l’insistenza sul seno piagato, il «petto pio» che
un tempo ha nutrito il figlio, a cui si aggiungono il «bell’alvo», in cui
egli è stato nascosto durante la gravidanza e la «bianca mano» che l’ha
guidato nella vita. In questa insistenza sui connotati materni si coglie
un tocco femminile, che Salvetti utilizza per sottolineare la relazione
quasi carnale che lega il granduca alla sua città.
Nel sonetto Or che di così ricche altere some73 domina invece il tono
epico. Nelle quartine infatti compare un’Etruria ricca e forte che non
solo domerà il «fero Scita» (i Turchi), ma addirittura la morte, suscitando
invano l’invidia, perché Ferdinando il gran sole, illuminerà il
suo popolo. La chiusa quindi suona perentoria, tutta giocata com’è
sulla doppia antitesi luce (Ferdinando)-buio (l’Invidia) e toschi(veleni)-
Toschi (Toscani), rafforzata quest’ultima dalla rima equivoca:
Onde l’Invidia ai velenosi toschi
Posto i lividi labbri, alte ruine
Per abbatterti ognor tramerà seco.
Ma mentre il tuo gran sol dar luce a Toschi
Non sdegnerà, non ne temer, ch’al fine,
Se stessa abbatterà nel cavo speco.
Dieci anni dopo Maddalena partecipava al Tempio per Cinzio Aldobrandini,
nipote del papa Clemente VIII, la raccolta aperta da una canzone
del Tasso, con un corpus di ben 12 sonetti. Era la consacrazione
ufficiale di una poetessa specializzata, per così dire, nella poesia encomiastica.
Qui l’immagine del sole per esaltare un grande personaggio
trovava un elemento più personale nel nome stesso del cardinale,
‘Cinzio’, epiteto di Apollo nato nel monte Cinto. La tensione verso
l’alto, che percorre le liriche, simbolo dell’armonia che lega il cielo e la
terra, si riflette anche nell’espediente formale che lega tra loro tutti i
sonetti: l’ultimo verso di ognuno infatti è anche il primo del successivo,
mentre il primo verso del primo chiude anche l’ultimo.
Ancora dunque il sole, la luce, come abbiamo visto per Cristina e
Ferdinando, appare come la metafora più idonea, nell’età della Controriforma,
per rappresentare il potere, immagine di Dio su questa terra.
Paola Marongiu
72 F. Petrarca, Canzoniere, CXXVIII:«Italia mia, benché il parlar sia indarno,/A
le piaghe mortali/Che nel bel corpo tuo sì spesse veggio».
73 M. Salvetti Acciaioli, Rime toscane, cit., pp. 145-146.
[ 21 ]
PIER ANGELO PEROTTI
Sulla punizione di don Rodrigo
Le pagine dei Promessi sposi che coprono il lasso di tempo intercorrente tra il
ritorno di don Rodrigo a casa e l’irruzione dei monatti sono indubbiamente tra
le più intense e drammatiche, forse le più angosciose, del romanzo, e perciò tra
quelle più frequentemente sottoposte a indagine da parte dei commentatori.
Eppure qualche elemento sembra essere sfuggito agli esegeti o non approfondito
adeguatamente. Qualcuno di questi aspetti è esaminato in questo saggio,
non certamente esaustivo, ma che può aggiungere qualche novità all’analisi
dell’argomento.

The pages of the Promessi Sposi covering the lapse of time that separates the return
home of don Rodrigo and the irruption of the monatti are among the most
intense and dramatic, perhaps the most painful, of the novel, and therefore
among those most frequently submitted to a survey by the annotators. Yet it
seems that some elements have escaped to the exegetes or have not been adequately
analysed. Some of these aspects are examined in this essay: it is not
certainly exhaustive but it can add some novelties to the analysis of the subject.
1. Nelle ultime ore trascorse da don Rodrigo nel palazzo di Milano,
il suo modo di comportarsi nei confronti del Griso segue una sorta di
climax, un crescendo di cortesie, che muovendo dalla consueta arroganza
si spinge sino alla preghiera, cui si contrappone l’appendice
della violenta reazione al tradimento1.
Giunto il signorotto a casa accompagnato dal capo-bravo, il suo
primo gesto consiste nell’«ordinare al Griso che gli facesse lume per
andare in camera» (XXXIII, 625), con l’imperiosità che costituisce il
1 I passi dell’opera sono indicati col numero romano del capitolo e con quello
arabo della pagina dell’editio princeps dei Promessi sposi, Milano, Guglielmini e Redaelli,
1840-1842 (numero arabo riportato in margine nell’edizione commentata da
A. Momigliano, Firenze, Sansoni, 1964); quando è segnalato solo il riferimento
alla pagina, s’intende il capitolo indicato in precedenza. I corsivi presenti nelle citazioni
sono miei.
344 pier angelo perotti
suo atteggiamento abituale; ma subito dopo si può riscontrare un primo
inusitato cambiamento di stile, nel tentativo di minimizzare il suo
malessere in risposta all’implicito sospetto dello sgherro:
«“Sto bene, ve’,” disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero
che gli passava per la mente. “Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto
forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!… Ma, con una buona
dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno”» (626);
la richiesta stessa «“Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca…
mi dà una noia…!”» (ibid.) non ha il solito carattere d’imperio. All’approssimativa
diagnosi del Griso «“Scherzi della vernaccia”», seguita
dal suggerimento – che probabilmente il bravo non si sarebbe permesso
in un’altra occasione – «“Ma vada a letto subito, ché il dormire le
farà bene”» (ibid.), don Rodrigo risponde, incredibile dictu, con un’inconsueta
urbanità, che lo spinge fino ad approvare il giudizio del bravo
e a rassicurare lui – ma soprattutto se stesso – circa le proprie condizioni
di salute: «“Hai ragione: se posso dormire… Del resto, sto bene”
» (ibid.).
Anche nel prosieguo del brano, per quanto sia pur sempre impartito
un ordine, è riconoscibile un’intonazione di invito più che di comando:
«“Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso,
stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta attento, ve’, se mai
senti sonare”» (ibid.), rivelata in particolare dall’inciso «a buon conto»
e ancor più dall’interiezione «ve’» – rafforzativa del precedente «sta
attento» –, che vale all’incirca “bada”, ma con valore non perentorio,
bensì di sommessa esortazione2 a quello che pure è un suo servo, ma
che in questa circostanza don Rodrigo non tratta proprio come tale.
Anche il comando «“Porta via presto quel maledetto lume”», pur essendo
tale a tutti gli effetti, è temperato da un commento che per così
dire ne attenua la portata, quasi a giustificazione dell’ordine stesso:
«“Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio!”» (ibid.).
L’episodio si interrompe a questo punto per dare spazio alla microsequenza
dell’incubo e del drammatico risveglio, di cui parleremo nei
paragrafi che seguono.
2 In tutte le 9 occorrenze nel romanzo (II, 44; VI, 117; XIV, 287; XV, 292; XXIV,
461; XXIX, 559; XXXIII, 626 [bis]; XXXVIII, 739) questa interiezione ha valore rafforzativo
o esortativo o di ammonimento: cfr. il mio articolo Studio statistico-semantico
sulle interiezioni nei “Promessi sposi”, «Otto/Novecento», 35, 3/2011, pp. 177-186, §
11a.
[ 2 ]
sulla punizione di don rodrigo 345
2. Ancora più evidente il cambio di atteggiamento di don Rodrigo
al risveglio. Destatosi in preda a un panico incontrollabile:
«L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso
per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser
portato, buttato al lazzeretto» (629),
chiama col campanello il Griso. Costui, «il quale stava all’erta», accorre,
e gli sono subito chiare le condizioni del padrone. Ma non viene
riportata la formula – che ci si aspetterebbe da un domestico convocato
dal suo padrone – “Cosa comanda?”, “Ha chiamato?”, “Desidera?”,
“Eccomi” o sim.: si potrebbe sospettare una svista del Manzoni, ma
ritengo più probabile che questa omissione sia intenzionale, e che grazie
a essa l’autore intenda dare inizio al crescendo del tradimento (e in
qualche modo della rivalsa) dello sgherro.
Riprende la climax con cui il signorotto decade via via dalla sua
posizione di padrone a quella di supplice. Questo declino è evidente
sin dal suo nuovo modo di rivolgersi al bravo: mentre in VII, 129 egli
aveva esordito – a parte lo stesso vocativo iniziale «“Griso!”» – con
una specie di sfida e una velata minaccia di licenziamento in caso di
insuccesso della missione:
«“Griso!” disse don Rodrigo: “in questa congiuntura, si vedrà quel che
tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo”
»,
invece qui – seguendo in qualche modo lo schema della preghiera alla
divinità (cfr. qui sotto) – gli ricorda la sua fedeltà («“Griso! […] tu sei
sempre stato il mio fido”», XXXIII, 629) e le proprie benemerenze nei
suoi confronti («“T’ho sempre fatto del bene”», ibid.); passa poi alla
preghiera vera e propria – introdotta dall’indicazione del suo stato fisico,
per cui richiede l’aiuto del bravo: «“Sto male, Griso”» –, che si apre
con un altro accenno al bene fattogli e con la promessa di altri favori in
futuro: «“Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho
fatto per il passato”», e continua con una nuova dichiarazione di fiducia:
«“Non voglio fidarmi d’altri che di te”», per raggiungere l’acme
con la frase «“fammi un piacere, Griso”» [corsivo mio], con cui don Rodrigo
in pratica riconosce l’annullamento del rapporto padrone-servitore,
perché ai servi non si chiedono “piaceri”, ma si impartiscono ordini,
come il signorotto aveva sempre fatto col suo subordinato. Notiamo
anche una sorta di Ringkomposition, nel senso che questa parte delle
parole del signorotto si apre e si conclude con il vocativo «Griso».
[ 3 ]
346 pier angelo perotti
Dopo le istruzioni al bravo circa la chiamata del «Chiodo chirurgo
», il colloquio tra i due si conclude con l’ultimo gradino di tale climax:
alla richiesta del padrone di un bicchier d’acqua, il Griso, temendo
di accostarsi all’appestato, oppone un netto rifiuto, motivandolo
surrettiziamente con il bene del malato stesso:
«“Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento un’arsione, che
non ne posso più”.
“No, signore,” rispose il Griso: “niente senza il parere del medico. Son
mali bisbetici: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui
col Chiodo”» (ibid.).
Da notare, anche qui, il lessico usato dal signorotto (a quello utilizzato
dal Griso fanno riferimento quasi tutti gli esegeti nei loro commenti):
l’ultimo comando ha più il sapore di una preghiera, sia perché
don Rodrigo è costretto ad addurre una motivazione della richiesta
(«“Mi sento un’arsione, che non ne posso più”»), certamente insolita
– potremmo definirla un unicum –, anzi contraria al suo consueto stile
nell’impartire comandi, sia per l’esordio della richiesta («“Senti, Griso”
»), per non parlare del dettaglio «un po’ d’acqua», espressione che
userebbe il mendicante assetato nei confronti di un “buon samaritano”.
Il passo in esame ha una struttura simile a quella della preghiera
cristiana (ma anche classica), composta delle quattro parti tradizionali:
(a) apostrofe onomastica alla divinità cui è indirizzata la supplica;
(b) elenco delle prerogative, qualità, meriti del dio invocato;
(c) ricordo dei doni a lui offerti in precedenza dall’orante;
(d) richiesta, in forma esortativa, del favore desiderato.
Inoltre, la seconda può essere sostituita o completata dalla rievocazione
dei benefìci ricevuti in passato dallo stesso orante o da altri fedeli,
e la terza dalla promessa di futuri doni o sacrifici3.
Anche nel dialogo manzoniano sono presenti, più o meno palesi,
queste quattro parti: (a) «“Griso!”»; (b) «“tu sei sempre stato il mio fido”
»; (c) «“T’ho sempre fatto del bene”»; (d) «“fammi un piacere, Griso”,
etc.».
Che il Manzoni abbia adottato il modello della preghiera a Dio per
le parole imploranti di don Rodrigo al Griso non meraviglia, se si tie-
3 Cfr. il mio articolo Note sull’eucologia classica e cristiana, «Vichiana», 4° s., 4,
2002, pp. 239-260, specialmente § 2.
[ 4 ]
sulla punizione di don rodrigo 347
ne presente la sua profonda cultura religiosa, di cui dà prova in vari
momenti del romanzo; ma questa struttura potrebbe anche essere casuale,
vale a dire che l’autore avrebbe seguìto il normale schema di
una richiesta impegnativa a una persona, da cui può dipendere la sua
stessa vita, senza collegarla con la religione. Se fosse vera la prima
ipotesi, sarebbe quanto meno curioso che la mutuazione dello schema
della supplica cristiana sia stata attribuita proprio a un personaggio
presentato, se non come ateo, almeno come spregiatore di tutto ciò che
attiene alla religione – compresi i suoi ministri, nella fattispecie fra
Cristoforo –, che riduce a una forma di sciocca superstizione e paura
della punizione divina (si pensi al terrore che gli incute la funesta predizione
del frate, che pervade il suo subconscio fino a ripresentarsi in
sogno a distanza di quasi due anni)4. Qualora invece si trattasse di una
somiglianza puramente fortuita con lo schema tradizionale della preghiera,
se ne dovrebbe inferire che la struttura dell’invocazione cristiana
o classica è perfettamente azzeccata, se anche i miscredenti ne
fanno uso, sia pure per rivolgersi a un uomo anziché a Dio.
3. Ancora a proposito del Griso, notiamo che il suo comportamento
spregevole nei confronti del padrone è conseguenza di un calcolo di
vantaggi e svantaggi5, in altre parole di una scommessa circa il futuro
di don Rodrigo e il proprio. Infatti il Griso, di fronte alla malattia del
padrone, nella scelta tra la lealtà sino alla sua morte, probabilmente
assai prossima – dopo la quale, oltre a perdere il posto di lavoro e la
conseguente remunerazione, non riceverà certo un lascito che gli consenta
di sopravvivere almeno sino a quando avrà trovato una nuova
occupazione –, e il tradimento, che gli fornirà un guadagno immediato,
opta per la seconda possibilità. La posta della “scommessa” è il
bottino della rapina, e l’alea riguarda la morte o la guarigione di don
Rodrigo. Il rischio è ben calcolato, come si vedrà alla fine del romanzo,
4 Cfr. A. Marchese, I Promessi sposi, a cura di A. Marchese, Milano, Mondadori,
19874, cap. XXXIII – Guida alla lettura, p. 671: «Il raccapriccio superstizioso per
le parole e i gesti del cavaliere di Dio fermenterà a lungo negli angoli riposti del
suo animo […]».
5 Cfr. G. Viti, I Promessi sposi, a cura di N. Sapegno e G. Viti, Firenze, Le Monnier,
20038, p. 217, n. 276 [XI, 226]: «quel suo fedele: già lo sappiamo che il Griso era
“il fidatissimo del padrone” e lo era “per gratitudine e per interesse” (Cap. VII);
tuttavia nel prossimo colloquio scorgeremo un certo “tentennamento”, subito però
rientrato “per interesse”. Ma un giorno, quando l’interesse sarà tutt’altro, non esisterà
più la gratitudine, e il “suo fedele” si cambierà in “traditore infame” (Cap.
XXXIII)».
[ 5 ]
348 pier angelo perotti
dove sapremo che il signorotto è morto di peste (XXXVIII, 731-732),
ma, il bravo, mentre in precedenza aveva preso le opportune precauzioni6,
solo quando si renderà conto di essere stato contagiato ricorderà
di non aver praticato altrettanta cautela durante la rapina7. Per rendere
più immediato e drammatico il castigo conseguente al delitto, il
Manzoni forza perfino i normali tempi di incubazione del morbo, facendo
morire il Griso nel giro di 24 ore (cfr. n. 7), di un’improbabile
peste fulminante.
La “scommessa” che in certo senso il Griso fa sul proprio futuro
legato a quello del padrone può ricordare, per associazione d’idee,
quella di quest’ultimo col cugino Attilio relativa al possedere per primo
Lucia; ma naturalmente le due situazioni sono assai differenti, dato
che la prima concerne un ignobile capriccio, mentre questa volta è
in gioco la vita di don Rodrigo e l’avvenire del suo “fido” sgherro.
Tuttavia è innegabile che in entrambe è coinvolto – attivamente o in
modo passivo – il signorotto, e che la seconda è in qualche misura la
conseguenza – umana o divina – della prima: si potrebbe applicare a
questo accostamento il proverbio “chi di spada ferisce, di spada perisce”.
Probabilmente il Manzoni non ha immaginato un simile nesso,
ma al lettore più avveduto può forse non sfuggire questa correlazione,
verosimilmente fortuita, ma che induce a ritenere che tutte le azioni
umane sono collegate tra loro da fili spesso invisibili ma non perciò
inesistenti.
Anche se l’autore non lo indica esplicitamente, nella condotta del
bravo è riconoscibile, oltre alla “scommessa” e all’avidità ad essa col-
6 V edi XXXIII, 626: «[…], il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso,
con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze,
ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico»;
«“Scherzi della vernaccia,” disse il Griso, tenendosi sempre alla larga»; «[…] il
Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva»; 629: «Si fermò a una
certa distanza dal letto»; «“Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua”, etc. [cfr.
supra, § 2]. – “No, signore,” rispose il Griso: “niente senza il parere del medico”».
7 V edi XXXIII, 632: «Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse
far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non
toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del
frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi,
senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno
dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto
de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato
da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso
di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto,
dov’era stato portato il suo padrone».
[ 6 ]
sulla punizione di don rodrigo 349
legata, la brama di vendetta che gli deriva non solo dal carattere ingrato
e infame di individuo che morde la mano di chi, bene o male, l’ha
fino allora sfamato, ma anche, o soprattutto, dal senso di mortificazione
che cova in lui da chissà quanto tempo, in conseguenza delle umiliazioni
forse spesso subìte da parte del suo padrone, anche immotivatamente:
ricordiamo, al rientro dalla spedizione per rapire Lucia la
«notte degl’imbrogli», il trattamento riservatogli da don Rodrigo ancor
prima di conoscere lo svolgimento dei fatti:
«Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il
suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva
la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render
quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo
apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso,
“ebbene,” gli disse, o gli gridò: “signore spaccone, signor capitano, signor
lascifareame?”
“L’è dura,” rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino,
“l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e
cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.”
[…]
“Tu non hai torto, e ti sei portato bene,” disse don Rodrigo: “hai fatto
quello che si poteva” […]»(XI, 217);
o come il signorotto, subito dopo averlo lodato – secondo il principio
“del bastone e della carota” –, lo aveva irriso quando il bravo aveva
avanzato obiezioni all’incarico di andare a Monza a cercare notizie
circa il ricovero di Lucia:
«Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro
scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e
gli diede l’ordine che aveva premeditato.
“Signore…” disse, tentennando, il Griso.
“Che? non ho io parlato chiaro?”
“Se potesse mandar qualchedun altro…”
“Come?”
“Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone:
è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo
la vita de’ suoi sudditi”.
“Ebbene?”
“Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso:
e… Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor
podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io… è cosa
che fa poco onore, ma per viver quieto… li tratto da amici. In Milano la
livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza… ci sono conosciuto
[ 7 ]
350 pier angelo perotti
io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare
alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento
scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi”.
“Che diavolo!” disse don Rodrigo: “tu mi riesci ora un can da pagliaio
che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta,
guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente
d’allontanarsi!”» (226).
Aggiungiamo una curiosità di carattere lessicale. Il Manzoni definisce
il Griso una volta «il fidatissimo del padrone» – precisando subito
dopo che era «l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse» (VII,
129) –, due volte «fedele» (XI, 226: «Fece dunque chiamar subito quel
suo fedele»; XXXIII, 625: «tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano,
accompagnato dal fedel Griso»); una volta è lo stesso don Rodrigo a
definirlo, con un sinonimo, «fido» («“tu sei sempre stato il mio fido”»:
629).
Delle occorrenze di questi attributi affini, quella di XXXIII, 625 ha
evidentemente intento ironico – come hanno riconosciuto tutti i commentatori
del romanzo –, denunciato, poche pagine dopo, dall’appellativo
opposto «traditore infame»8 (630). Nelle altre occasioni l’uso di
questi aggettivi ha forse lo scopo di segnalare, tra gli altri difetti – ben
più gravi – di don Rodrigo, anche l’incapacità di valutare gli uomini a
lui vicini9.
4. Possiamo aggiungere altri rilievi. Considerato che don Rodrigo
non può essere colpito dalla giustizia umana – perché protetto dalla
casta cui appartiene, e temuto e riverito dalle altre classi –, lo punisce
quella divina, che paradossalmente si vale come strumento di un giustiziere
– una sorta di sicario – addirittura peggiore del reo, per poi far
perire anche lui a causa del suo stesso tradimento. Alla mente viene
evocata l’immagine dell’ape, che dopo aver colpito la vittima col pungiglione,
muore – nel giro di due o tre giorni – proprio in conseguenza
8 Cfr. supra, n. 5.
9 Cfr. E. Caccia, I Promessi sposi, a cura di E. Caccia, Brescia, Ed. La Scuola,
19857, p. 953, n. 2 [XXXIII, 625]: «dal fedel Griso: è il giudizio di don Rodrigo, che se
lo ha [sic!, correttamente: è] tenuto sempre accanto, e che riposa tranquillo su questa
fedeltà, riflesso della sua potenza. Quanto sia nel vero, e come quel “fedel”
suoni ironico, vedremo presto. È anche questa una sferzata a don Rodrigo, che non
conosce gli uomini con cui ha a che fare. Non è aggettivo posto a caso, ma rientra
in quelle polemiche sottolineature che segnano per contrappasso l’intervento della
giustizia punitrice di Dio».
[ 8 ]
sulla punizione di don rodrigo 351
di tale attacco; o di due duellanti (cfr. per es. l’episodio mitologico di
Eteocle e Polinice) che si uccidono a vicenda. In certo senso don Rodrigo
viene “ucciso” dal Griso, ma prima di morire lo trascina con sé
nella morte, contagiandolo, ancorché involontariamente. Don Rodrigo,
in quanto padrone, è il mandante delle azioni del Griso e degli altri
bravi a lui sottoposti, e il capo-sgherro è l’esecutore degli ordini, o, se
vogliamo, il sicario: ora, l’esecutore tradisce il mandante, e questi lo
ucciderebbe («caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola;
l’afferra, la tira fuori»: XXXIII, 630), ma non può («“Lasciatemi
ammazzar quell’infame,” diceva quindi ai monatti, “e poi fate di me
quel che volete”»: 631); eppure, indirettamente lo fa morire e poi muore
anche lui. Così don Rodrigo e il Griso si uccidono, per così dire, l’un
l’altro; ma il traditore muore per primo, meno di 24 ore dopo avere
perpetrato il suo gesto infame (cfr. supra, § 3 e n. 7), mentre è necessario
che il signorotto sopravviva alcuni giorni, per consentire il drammatico
incontro “del perdono” con Renzo nel lazzeretto. In realtà, padrone
e servo altro non sono se non gli strumenti di una entità terza,
che per il Manzoni è Dio o la Provvidenza o la giustizia divina, e che
laicamente si potrebbe definire nemesi o sorte beffarda.
Ci si potrebbe porre un quesito: qual è, moralmente, il peggiore dei
due personaggi? don Rodrigo, ideatore e mandante di vari incarichi
criminosi, o il Griso, che li realizza? Fino all’episodio del cap. XXXIII,
indubbiamente il più scellerato è il primo, la mente dei reati, secondo
recitano i più illuminati codici giuridici. L’altro – il braccio – ha almeno
l’attenuante di aver sempre dovuto obbedire per mantenersi. Ma
con la sequenza di XXXIII, 629-632 la nefandezza del Griso raggiunge
l’acme, e supera di gran lunga quella del padrone.
Secondo la concezione di Dante, il Griso sarebbe meritevole del
luogo più profondo dell’inferno, la Giudecca, dove sono puniti i traditori
dei benefattori. Fra costoro, più che a Bruto e Cassio che assassinarono
Cesare, il bravo può essere equiparato a Giuda, che non uccise
direttamente il benefattore: come il discepolo tradì Gesù, il benefattore
per antonomasia, così il Griso – si parva licet componere magnis, anzi,
nel nostro confronto, maximis – inganna il suo padrone, che comunque
gli forniva il necessario per vivere, per quanto si trattasse di pane guadagnato
con la ribalderia; e, come Giuda, è indotto al tradimento
dall’avidità (i “trenta argentei” corrispondono al bottino razziato dal
bravo), e, vile come lui, ha solo il coraggio di affidare ad altri il compimento
del misfatto, e anzi si nasconde durante la sua esecuzione
(«[don Rodrigo] vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un
battente socchiuso, riman lì a spiare», 630): in entrambe le situazioni,
[ 9 ]
352 pier angelo perotti
dunque, al tradimento si aggiungono l’avidità e la vigliaccheria. Il
confronto fra i due traditi, se fa risaltare la ciclopica figura del Cristo,
contribuisce a svalutare ulteriormente, per contrasto, quella già meschina
del signorotto.
5. All’interno di codesta macrosequenza, è straordinariamente significativo
il sogno, o meglio incubo, di don Rodrigo la notte che precede
la scoperta di avere contratto la peste. Il signorotto, tornato a casa,
a Milano, «da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme»
(XXXIII, 625), sente un malessere che si sforza di attribuire «solamente
al vino, alla veglia, alla stagione» (ibid.).
Tra la descrizione della serata trascorsa da don Rodrigo a gozzovigliare
e il sonno, col relativo sogno, vi è quella sorta di intermezzo
occupato dal colloquio col Griso, che è una specie di anticipazione del
dialogo al risveglio del signorotto, entrambi momenti di cui abbiamo
parlato nelle pagine precedenti.
Veniamo dunque allo “psicodramma” del sogno. Questo il brano:
«Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare
i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve
di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi,
ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto
il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i
circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati,
con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano
a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. “Largo canaglia!”
gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana,
e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi,
anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo
toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati
dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan
più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con
le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove
sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per
veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi
al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto
gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di
quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci
trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era
tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti
que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito,
e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e
luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi,
un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto
[ 10 ]
sulla punizione di don rodrigo 353
fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro
su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui,
alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in
quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano
in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio
teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella
gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che
aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi;
ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella
della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si
raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate,
tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra.
Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa,
negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una
gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò
qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente
la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone
d’un livido paonazzo»(627-8).
Non è precisato quali siano «i più brutti e arruffati sogni del mondo
», né quale sia l’associazione d’idee – o piuttosto di processi psichici
inconsci – che lo conduce, «d’uno in un altro» sogno, a trovarsi in
una chiesa, proprio il luogo che nella realtà evidentemente frequentava
poco o nulla (cfr. «ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene
fosse venuto il pensiero»: vd. anche infra, n. 22), o tutt’al più vi si
recava, ancorché sporadicamente, per evitare la nomea di miscredente
presso gli abitanti del paese, nonché agli occhi delle autorità ecclesiastiche
e civili, spesso mescolate in entità difficilmente distinguibili, di
cui gradiva il favore. Non si può escludere che il Manzoni riprenda,
con questa ambientazione del sogno10, la frase irridente del nobile durante
il contrasto con il frate:
«“Sa lei,” disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza
qualche raccapriccio, “sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire
una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri?
Ma in casa mia! Oh!” e continuò, con un sorriso forzato di scherno: “lei
mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno
che i principi!”» (VI, 103)11.
10 Per la chiesa dell’incubo nel Fermo e Lucia, cfr. infra, n. 14.
11 Cfr. A. Marchese, comm. cit. alla n. 4, p. 651, n. 13: «[…] il sogno rielabora nel
proprio linguaggio il contrasto rimosso ma non cancellato con padre Cristoforo, al
quale il libertino aveva detto […]. E in una “gran chiesa” si trova ora al cospetto
del frate, circondato da una folla ripugnante, […]».
[ 11 ]
354 pier angelo perotti
Ma soprattutto, dato che nel subconscio di don Rodrigo è ben radicato
l’anatema «“Verrà un giorno…”» (104) lanciato dal padre Cristoforo
– che ha lasciato «la sua indelebile marchiatura nella psiche»12 del
signorotto –, una chiesa è il luogo dove più logicamente si può incontrare
un frate – in particolare quel frate –, e dove è anche naturale,
nella metafora del sogno, che si trovi una folla di popolani in cui sono
annullate le gerarchie, tra i quali egli si trova a essere uno qualunque,
non più distinto dalla sua condizione di aristocratico: questi sono i
due elementi fondamentali dell’incubo.
Questa «gran chiesa» è come un “gran” tribunale in cui viene giudicato
il reo don Rodrigo13, e nel quale il frate è l’accusatore e il giudice
– in rappresentanza di Dio – che lo condanna senza proferire verbo,
col solo sguardo, e col gesto («alzando la mano») che aveva usato per
l’infausta profezia di quasi due anni prima. L’invettiva di allora ricordava
l’apostrofe ciceroniana «quousque tandem» (Cic. Cat. 1, 1, 1), mentre
qui il gesto è talmente eloquente che non necessita neppure di parole
come in quell’occasione.
Inoltre, poiché il signorotto, durante la serata, «aveva fatto rider
tanto la compagnia, con una specie di elogio funebre del conte Attilio,
portato via dalla peste, due giorni prima» (XXXIII, 625), quasi con funzione
apotropaica – il che sembra dimostrare che l’ossessione del contagio
aveva invaso l’animo e il subconscio del nobile oltre la normalità
di quei giorni, – egli immagina, nella «gran chiesa»14 del sogno (gran-
12 Ivi, cap. XXXIII – Guida alla lettura, p. 672.
13 Cfr. ibidem: «Il giudizio, nella trasposizione onirica, avviene in una chiesa, la
casa di Dio che soppianta la falsa potenza del palazzotto».
14 Nel Fermo e Lucia [opera per cui ho seguìto il testo e la numerazione dei paragrafi
dell’edizione curata da L. Caretti, I Promessi Sposi, vol. I, Fermo e Lucia, etc.,
Torino, Einaudi, 1971], tomo IV, cap. V, § 9, la chiesa non è «grande» né indefinita,
ma si tratta di «quella chiesa dei capuccini di Pescarenico, dinanzi alla quale, se vi
ricordate, egli sogghignò in passando, nella sua gita al Conte del Sagrato»: la modifica
della “quarantana”, se per un verso toglie un elemento presente nel subconscio
di don Rodrigo e accentua il senso di nemesi insito nel sogno, per l’altro elimina
una ridondante sottolineatura del suo cinismo blasfemo, così come vi è stata
cancellata la descrizione, qui rievocata, del gesto di dileggio durante il viaggio
verso il castello: F. e L., t. II, cap. VIII, §§ 3-4: «Giunto dinanzi al convento che si
trovava su la sua strada, Don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto
a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido:
ma non v’era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati cantare
l’uficio in coro. In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del
Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo
da quei frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando
[ 12 ]
sulla punizione di don rodrigo 355
de perché nelle visioni oniriche tutto è sovradimensionato, immerso
in un’atmosfera indistinta15), non normali fedeli, ma una calca di appestati,
«tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti
si vedevano macchie e bubboni» (627), figure spettrali proprie dell’incubo.
La sua reazione all’assedio degli appestati si esprime con la consueta
tracotanza, manifestata con la parola («“Largo canaglia!” gli pareva
di gridare», e, poco dopo, «voleva gridar più forte») e col gesto
(«volle metter mano alla spada», ibid.), l’ultimo vestigio della sua connaturata
albagia, così come più tardi, nel lazzeretto, la «cappa signorile
indosso, a guisa di coperta» (XXXV, 687) sarà il residuo estremo del
suo status di nobile. Ma nel “nightmare” la prepotenza non serve a nulla,
ed egli – come appunto accade in genere nei sogni inquietanti – è
impotente di fronte all’accerchiamento di questi esseri ributtanti, che
non si curano delle sue urla minacciose16, ed è incapace di muoversi,
appunto come nei sogni; anche le due iterazioni enfatiche «in su, in
su»17 e «[la porta] lontana lontana» valgono a confermare l’impotenza
della vittima dell’incubo.
Accade infatti a tutti, in certi sogni inquietanti, di tentare di correre
o fuggire, e di avere la sensazione di non riuscire a muoversi, o di
provare a urlare e non avere voce, o di tendere a una meta irraggiungibile:
proprio in questo consistono gli aspetti angoscianti del sogno.
Inoltre, nel comune sogno le circostanze esterne si adattano alla situazione
immaginaria18: a molti sarà accaduto, per es., che lo squillo del
telefono o del campanello di casa mentre dormiamo si trasformi, nella
dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un “ah! ah!” il
cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso». Insomma, la variante
è certamente opportuna, anche perché la nuova versione aggiunge un accenno
di vago mistero all’atmosfera complessivamente angosciante del sogno.
15 Secondo il Marchese, loc. cit. alla n. 12, questo spazio ampio ha un certo
sapore autobiografico, collegato al fatto che «Manzoni conosce la disperazione
dell’agorafobia».
16 Cfr. A. Marchese, comm. cit. alla n. 4, cap. XXXIII – Guida alla lettura, p. 671:
«L’assedio degli appestati, che sembrano eseguire un’implacabile danza macabra
attorno al reo, e l’assillo del dolore pungente “tra il cuore e l’ascella”, tolgono letteralmente
il respiro al superbo signorotto, rendono inani i suoi sforzi, inerme la
mano che cerca la spada e tocca la “marchiatura” della condanna».
17 Cfr. ivi, p. 651, n. 14: «in su, in su: lo spazio onirico si slarga indefinitamente
(vedi anche la porta “lontana lontana”) o si restringe attorno a don Rodrigo, con
una duplice sensazione di angoscia: di vertigine o di soffocamento».
18 Cfr. A. Momigliano, comm. cit. alla n. 1, p. 697, n. 2: «E sopra tutto… una
trafitta più forte: il sogno ricapitola fantasticamente il corso della veglia, il passag-
[ 13 ]
356 pier angelo perotti
distorsione onirica, in un altro suono collegato al sogno che si sta facendo.
Entrambe queste condizioni ricorrono nell’incubo del signorotto:
non vi è dunque dubbio che il Manzoni abbia colto perfettamente
la dimensione psicologica relativa al collegamento del subconscio
con la coscienza, ossia il rapporto tra sonno e veglia. Infatti il trasferimento
della realtà nel sogno immerso nell’inconscio vale per la «puntura
dolorosa, e come pesante», che nella rappresentazione onirica
diventa la pressione di qualcuno della folla che «con le gomita o con
altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella», e poi il pomo della
spada «che lo premesse in quel luogo» che, toccato, gli provoca «una
trafitta più forte», in una climax – «gomita… / pomo della spada» –
che è una novità della “quarantana”19: anche questo accorgimento psichico
corrisponde perfettamente al rapporto tra il sogno e la corporeità
di ogni dormiente. Ma che sia proprio la fitta causata dal pomo
della spada – simbolo della violenza e prepotenza del signorotto – a
costituire la trasposizione onirica si potrebbe addirittura intendere come
un’applicazione anche concreta dell’adagio “chi di spada ferisce,
di spada perisce”, che già abbiamo riferito al Griso (§ 3), ed è comunque
un altro chiaro riferimento al castigo divino che sta per colpire
don Rodrigo.
6. Dopo la parte che abbiamo sin qui esaminato, che può essere
considerata una fase propedeutica, si ha il punto culminante del sogno.
A questo momento topico dell’incubo, all’aprosdòketon, si arriva
con gradualità, con un crescendo di indizi, con descrizioni per così
dire concentriche atte a creare nel lettore una sorta di suspense. Si inizia
con una frase introdotta, come si dice nella sintassi latina, dal “cum
inverso”: «quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una
parte»20; spinto dalla curiosità, o allarmato, «guardò anche lui»: dunque
«vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so
che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una
testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate
gio dal pericolo al morbo (dalla vigilanza contro i contatti allo spuntar del bubbone),
e ne disasconde la portata morale».
19 Infatti nel Fermo e Lucia, t. IV, cap. V, § 10, il particolare del pomo della spada
è assente: «e sopra tutto gli pareva che o con le gomita, o come che fosse lo premessero
al lato sinistro al di sopra del cuore, dove sentiva una puntura spiacevole,
dolorosa».
20 Cfr. A. Momigliano, comm. cit. alla n. 1, p. 697, n. 3: «Quando: il trapasso è
indeterminato, come nei sogni; e drammatico».
[ 14 ]
sulla punizione di don rodrigo 357
ritto, fuor del parapetto fino alla cintola21»; ed ecco l’esplosione finale,
rappresentata dal nome della persona che appare, imponente, dal pulpito:
«fra Cristoforo»22, che è come il drammatico preannuncio della
punizione23. E non per caso, credo, l’autore conclude il periodo con un
punto fermo.
Una digressione: non so se sia una mia deformazione mentale, ma
mi sembra di riconoscere, nell’espressione «un frate ritto, fuor del parapetto
fino alla cintola» una reminiscenza dantesca dell’episodio di
Farinata (Inf. X, 32-3): «Vedi là Farinata che s’è ritto24: / da la cintola in
sù tutto ’l vedrai»; e se la mia non è una mera fantasticheria, ossia se il
Manzoni ha davvero mutuato l’immagine da Dante, se ne dovrebbe
inferire che il romanziere si è ispirato a quella di uno dei personaggi
più maestosi e carismatici della Divina Commedia per la potente figura
di fra Cristoforo, che già era stata messa in evidenza nel finale del
burrascoso colloquio con il signorotto (VI, 104).
Quanto segue:
«Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a
don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano,
nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo
palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come
per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce
21 Quest’ultimo particolare è una felice aggiunta della versione definitiva del
romanzo, mentre nel F. e L., t. IV, cap. V, § 12, si leggeva: «[…] guatò anch’egli, e
vide spuntare in su dal parapetto, un non so che di liscio e lucido; poi alzarsi e
comparir più distinto un cocuzzolo calvo, poi due occhi, una faccia, una barba
lunga e bianca, un frate ritto ed alto: era Fra Cristoforo».
22 Cfr. Momigliano, comm. cit. alla n. 1, p. 697-8, n. 4: «È l’immagine più determinata
del sogno, ed è la sola che si mova. Don Rodrigo non s’è mosso per andare
nella chiesa – ci si trova –; don Rodrigo non può muoversi per scampar di mezzo
alla folla; la folla non si move alla sua intimazione – si direbbe che qualcuno voglia
che essa rimanga immobile –. Nel quadro di immobilità fatale c’è un solo movimento
spiccato e deciso: l’apparizione via via più precisa, che chiude definitivamente
lo scampo, e che scoppia nella rivelazione finale di questo periodo: “… fra
Cristoforo”, la conclusione tremenda e nettissima dell’ansia vaga che dominava
prima, pesante e paurosa, su tutto il sogno».
23 Cfr. A. Marchese, comm. cit. alla n. 12: «don Rodrigo assiste all’epifania
grandiosa e terribile […] del corpo potente del padre che, senza dire verbo, fulmina
e annichila con il solo suo sguardo, con il suo gesto di giustiziere».
24 La forma manzoniana corrisponde esattamente al «ritto» dantesco: cfr. per
es. C. Steiner, La Divina Commedia, Torino, Paravia, 1940, I, Inferno, ad loc.; invece
la maggior parte delle altre edizioni riportano la lezione «dritto».
[ 15 ]
358 pier angelo perotti
che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un
grand’urlo; e si destò» (XXXIII, 627)
ricalca, naturalmente in chiave onirica, l’esito dello scontro tra i due
nel palazzotto:
«[…] alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli
in faccia due occhi infiammati: “la vostra protezione! È meglio
che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete
colmata la misura; e non vi temo più. […]; e in quanto a voi, sentite
bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…” […]. Afferrò rapidamente
per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar
quella dell’infausto profeta, gridò: “escimi di tra’ piedi, villano temerario,
poltrone incappucciato”» (VI, 104-5).
Ma anziché una frase di minaccia rabbiosa come quest’ultima, nel
sogno soltanto «una voce che gli andava brontolando sordamente nella
gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò»: è l’urlo che non di rado
il dormiente in preda a un incubo lancia all’apice del terrore, e che
precede il risveglio, quando normalmente si rende conto che si era
trattato solo di un brutto sogno. Rievocando esperienze personali, si
ha la conferma che anche questo esito del “nightmare” è affatto realistico;
così lo è anche per il signorotto («riconobbe il suo letto, la sua camera;
si raccapezzò che tutto era stato un sogno»), con la differenza
che nel suo caso la realtà corrisponde all’incubo, o piuttosto è peggiore
di esso: infatti «la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto
fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra».
7. Il sogno di don Rodrigo nella parte finale del romanzo è in qualche
modo corrispondente a quello di don Abbondio all’inizio del secondo
capitolo:
«Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, poté finalmente
chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo,
viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate» (II, 32).
Ma quelle del curato sono visioni frammentarie, tra loro collegate
soltanto dal Leitmotiv della paura che gli incute il signorotto, prive di
una trama sistematica, e sfrangiate come può accadere per sogni disorganici:
anche in questo caso il contesto psicologico è perfettamente
azzeccato, congruente col personaggio, che fonde varie paure – di persone,
di cose, di luoghi – perfino nel sonno, senza riuscire a focalizzare
su un obiettivo ben definito neppure i timori.
[ 16 ]
sulla punizione di don rodrigo 359
Altrettanto indovinata psicologicamente è la sua reazione al risveglio:
Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento
molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della
vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si
affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone
istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento […]
(ibid.).
È un fenomeno accaduto, credo, a tutti noi, anche se dotati di un
carattere diversissimo da don Abbondio; salta comunque all’occhio la
differenza abissale tra questo risveglio – per quanto sgradevole, specialmente
se rapportato all’indole pavida del curato – e quello di don
Rodrigo. In un’altra occasione, costui aveva goduto dei benefìci del
sonno per cancellare, o piuttosto accantonare – peraltro per un tempo
piuttosto lungo – il timore scaramantico provocato in lui dall’infausta
predizione del frate:
«La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione
che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del
tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata
anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera» (VII, 129)25.
Era andato a letto con un sentimento di «apprensione» (si noti la
puntuale scelta lessicale da parte dell’autore), non di paura o almeno
di preoccupazione come don Abbondio, perché, a differenza del prete,
egli ha non tanto timore degli uomini, quanto quello superstizioso del
Dio che punisce. Don Abbondio – pur non essendo sempre ligio ai
precetti fondamentali della Chiesa – teme più gli uomini che Dio, perché
i primi rappresentano un pericolo contingente, mentre il Padre
eterno costituisce un rischio più remoto; senza contare che Dio è misericordioso,
mentre gli uomini perlopiù non perdonano i torti subìti,
ancorché presunti.
Subito dopo il duello verbale col frate, don Rodrigo aveva avuto
25 Appena più ampio il passo nel F. e L., t. I, cap. VIII, § 23:
«Ma quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le passioni
che si erano combattute nel suo animo non vi rimaneva altra che il desiderio di
soddisfarsi.
Quel poco di compugnimento, che il colloquio del padre Cristoforo aveva messo
addosso, era svanito insieme coi sogni della notte, e la memoria stessa di averlo
sentito non serviva che a raddoppiargli la stizza».
[ 17 ]
360 pier angelo perotti
normali sogni, non un incubo come quello della notte che precede la
scoperta della peste, originato – oltre che dalla memoria traumatica
dell’anatema di fra Cristoforo – da problemi di salute, come effettivamente
può accadere (anche quando sono assai meno gravi di quello di
cui è vittima il signorotto), e come evidentemente il Manzoni ben sapeva:
perfino difficoltà di digestione o altre lievi indisposizioni – oltre,
naturalmente, ad inquietudini dell’animo – possono turbare i sogni
del dormiente, e dunque anche quell’incubo è forse ispirato all’autore
da esperienze personali, di carattere fisico o psicologico, relative a sogni
angosciosi.
Pier Angelo Perotti
(Vercelli)
[ 18 ]
Nico Abene
La rivoluzione a teatro: le «sintesi» futuriste
Il lavoro si propone di analizzare l’esperienza del teatro futurista in Italia in
relazione alle contemporanee vicende del Decadentismo italiano ed europeo. In
breve, una sintetica proposta di interpretazione storico-sociale fondata sui testi
teorici e creativi del movimento, che ne evidenzia limiti e incapacità dialettiche
complessive.

The study looks at Italian futurist theatre with relation to the contemporary
events of the Italian and European decadent movement. In short, it provides a
concise proposal for a historical-social interpretation based on theoretical and
creative texts pertaining to the movement, highlighting certain limits and overall
dialectical failings.
Se la «modernità» del dramma, la sua affermazione, impone l’emanciparsi
dalla sua struttura postrinascimentale, e dunque dalle pastoie
dell’«accadere presente e intersoggettivo», e della sua assolutezza
e autosufficienza, secondo la «teoria» di Peter Szondi, in una storia
tuttavia del genere letterario senza storia reale1, le sintesi futuriste
rappresentano appunto una proposta radicale di modernità. La rivoluzione
a teatro, insomma, surrogato di una storia sociale istituzionalmente
priva di rivoluzioni reali, e incline piuttosto alla conciliazione
delle sue contraddizioni e a depotenziare le sue spinte eversive.
Movimento piccolo-borghese per antonomasia, antiborghese per
la rinascita eroica della borghesia e non per il superamento dialettico
dell’egemonia sociale di un ceto nell’egemonia di un nuovo soggetto
storico, ad onta delle chiassose dichiarazioni di «disprezzo» per il
«pubblico delle prime rappresentazioni» e di «orrore» per il «successo
1 Cfr. P. Szondi, Theorie des modernen Dramas, Frankfurt am Main, Suhrkamp
Verlag, 1956; Teoria del dramma moderno (1962), traduzione italiana, introduzione di
C. Cases, Torino, Einaudi, 1982.
362 Nico Abene
immediato»2, anche a teatro il Futurismo italiano aborre la «mimesi
del quotidiano»3, la «riproduzione fotografica» della realtà4, come
consacrazione dello squallido orizzonte ideale della borghesia, del godimento
della materialità del denaro e di una sessualità ipocrita e perbenista
nelle sue proiezioni romantiche, per la sublimazione artificiosa
della modernità, del dinamismo della vita contemporanea, l’ambiziosa
rimozione dell’umano in un teatro di azioni ed emozioni ridotte
ai soli ritmi meccanici e sintetici della modernità («Bisogna introdurre
nel teatro la sensazione del dominio della Macchina, i grandi brividi
che agitano le folle, le nuove correnti d’idee e le grandi scoperte della
scienza, che hanno completamente trasformato la nostra sensibilità e
la nostra mentalità d’uomini del ventesimo secolo»)5. Perché dei sogni
e dei bisogni del ceto medio il Futurismo volle essere l’interprete più
facile e immediato, e cioè appunto senza mediazioni teoriche e culturali
volle sovvertire le umilianti necessità del quotidiano e la sua grigia
mediocrità («Poiché l’arte drammatica non può avere, come tutte
le arti, altro scopo che quello di strappare l’anima del pubblico alla
bassa realtà quotidiana e di esaltarla in una atmosfera abbagliante
d’ebbrezza intellettuale […]»)6.
Relegate dunque la conflittualità economica per l’acquisto di beni
materiali e la conflittualità erotica per il possesso della donna a pratiche
borghesi passatiste7, l’azione «sintetica» si produce come sottrazione
e deperimento delle tradizionali matrici storiche dell’agire teatrale,
se del resto il rapporto intersoggettivo e la sua proiezione linguistica
nel dialogo, che di quell’agire ne erano il fondamento, sono sovvertiti
dal velleitario egotismo e dal monologo autistico dell’eroe, in
2 Cfr. F.T. Marinetti, Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911), in G. Davico
Bonino (a cura di), Teatro futurista sintetico. Seguito da Manifesti teatrali del Futurismo,
introduzione di G. Davico Bonino, Genova, il nuovo melangolo, 2009, p. 122.
3 Cfr. P. Puppa, Il teatro dei testi. La drammaturgia italiana nel Novecento, Torino,
Utet, 2003, pp. 3-17.
4 Cfr. F.T. Marinetti, Il Teatro di Varietà (1913), in G. Davico Bonino (a cura
di), Teatro futurista sintetico. Seguito da Manifesti teatrali del Futurismo, cit., p. 125.
5 Cfr. F.T. Marinetti, Manifesto dei drammaturghi futuristi, cit., p. 123.
6 Ivi, pp. 122-123.
7 «I leit-motivs dell’amore e il triangolo dell’adulterio, essendo già stati troppo
usati in letteratura, devono essere ridotti sulla scena al valore secondario di episodi
o di accessori, cioè allo stesso valore a cui l’amore è ormai ridotto nella vita, per
effetto del grande sforzo futurista»; «Bisogna distruggere l’ossessione della ricchezza,
fra i letterati, poiché l’avidità del guadagno ha spinto al teatro scrittori
esclusivamente dotati delle qualità del romanziere o del giornalista». Ivi, pp. 122,
123.
[ 2 ]
La rivoluzione a teatro: le «sintesi» futuriste 363
breve dalla sua sintesi e aridità psicologica, sprezzante dell’analitico
presente per un futuro naturalmente sintetico. Un teatro minacciato
inesorabilmente dal silenzio, dalla modernità estrema dell’atto «negativo
», dal sipario che si apre e richiude immediatamente senza che
accada nulla8. E che dal coinvolgimento «epico» e moderno del pubblico
nello spettacolo come interlocutore attivo dell’azione teatrale,
alle «trovate» scagliate come pietre dal palcoscenico sulla platea9, e
alle monete, agli ortaggi e appendiabiti perfino dalla platea sul palcoscenico,
consumava anche la rottura metaforica e non dell’assolutezza
e autosufficienza del dramma della tradizione, e relativizzandole, la
sua «epicizzazione».
Metafora e compendio della rinnovata sensibilità futurista è però
la rinnovata idea dell’amore, che si definisce inevitabilmente anche a
teatro nella riduzione delle dinamiche di eccesso, eccedenza, esorbitanza,
dell’amore della tradizione letteraria, dell’amore tout court, alla
sobria materialità del presente, della modernità («Esso meccanizza
bizzarramente il sentimento, deprezza e calpesta igienicamente l’ossessione
del possesso carnale, abbassa la lussuria alla funzione naturale
del coito, la priva di ogni mistero, di ogni angoscia deprimente e
di ogni idealismo anti‑igienico»)10. L’amore dunque come affermazione
essenziale e funzionale di soggettività e identità, e non dell’inessenziale
e infunzionale alterità della coscienza11. Una sessualità infine
narcisistica, senza correlati psichici e affettivi, non funzionale cioè
all’amore, al riconoscimento emotivo dell’altro da sé, ma all’affermazione
di sé e della propria illimitata potenza. Strappando alla donna
«tutti i veli, tutte le frasi, tutti i sospiri, tutti i singhiozzi romantici che
la deformano e la mascherano», e facendone risaltare, al contrario,
«tutte le mirabili qualità animali», «le sue forze di presa, di seduzione,
di perfidia e di resistenza»12, solo bramosa di essere dominata e conquistata13,
e di darsi facile e leggera al «primo venuto» e al «nuovo
8 Cfr. B. Corra ed E. Settimelli, Atto negativo, in G. Davico Bonino (a cura
di), Teatro futurista sintetico. Seguito da Manifesti teatrali del Futurismo, cit., p. 95.
9 Cfr. F.T. Marinetti e F. Cangiullo, Il Teatro della sorpresa. Manifesto (1921),
ivi, p. 148.
10 Cfr. F.T. Marinetti, Il Teatro di Varietà, cit., p. 128.
11 Cfr. S. Petrilli, Fenomenologia dell’erotico (2005), in Con Roland Barthes. Alle
sorgenti del senso, a cura di A. Ponzio, P. Calefato e S. Petrilli, Roma, Meltemi,
2006, pp. 459-475. Per una prospettiva più ampia, cfr. anche A. Ponzio, Fuori luogo.
L’esorbitante nella riproduzione dell’identico, Roma, Meltemi, 2007.
12 Cfr. F.T. Marinetti, Il Teatro di Varietà, cit., p. 127.
13 Cfr. B. Pratella, Notturno e A. Corradini e B. Corra, Alternazione di carat-
[ 3 ]
364 Nico Abene
presentato»14, se già l’«uomo finito» la definiva, «per sua essenza e
necessità, una parassita, una sfruttatrice, una ladra», prima di auspicarne
il massacro futurista15. Spogliato dei suoi orpelli retorici, emerge
la nuda ripetitività dell’amore, inaridito a ossessione compulsiva sociale16,
a seduzione meccanica descritta e condensata in brevi battute,
anche nell’arco di un’intera esistenza17. Ma il progetto «sintetico» di
liberazione dalla donna, dalla femminilità minacciosa (come piacevole
intrattenimento e debilitante e oziosa perdita di tempo) per l’ansia
e volontà di possesso e di potenza dell’eroe, si oppone a quello «analitico
» e noioso del superuomo dannunziano18.
Dalla socialità mondana del teatro della tradizione borghese alla
socialità eversiva del teatro futurista19, perché la modernità del teatro,
la sua attualità egemonica nei confronti del pubblico («Infatti il 90%
degl’italiani va a teatro, mentre soltanto il 10% legge libri e riviste»),
serve a «influenzare guerrescamente l’anima italiana»20, Marinetti e
compagni attuavano la compenetrazione simbiotica di valori estetici e
ideologici, per consentire la diffusione universale e di massa della volgarità
parziale dei propri contenuti. Attuavano cioè il passaggio dalla
guerra contenuto, oggetto di propaganda interventista, alla guerra
soggetto di estetica e di creatività, da valore etico e ideologico, educazione
alla modernità e prassi eroica di una borghesia finalmente dominante,
a valore estetico, «futurismo intensificato», igienica liberazione
del mondo dalla superfluità parassita di azioni e sentimenti invecchiati,
con la sua «velocità feroce, travolgente e sintetizzante», a
cui ambisce ora lo stesso teatro nella sua «brevità essenziale e sintere,
in G. Davico Bonino (a cura di), Teatro futurista sintetico. Seguito da Manifesti
teatrali del Futurismo, cit., pp. 47-48 e 103.
14 Cfr. U. Boccioni, Le prugne verdi e F.T. Marinetti, Il teatrino dell’amore, ivi,
pp. 31-33 e 106-108.
15 Cfr. G. Papini, Un uomo finito (1913), con un’appendice di inediti, documenti
e annotazioni a cura di A. Casini Paszkowski, introduzione di G. Luti, Firenze,
Ponte alle Grazie, 1994, p. 102.
16 Cfr. F. Cangiullo, Di tutti i colori, in G. Davico Bonino (a cura di), Teatro
futurista sintetico. Seguito da Manifesti teatrali del Futurismo, cit., pp. 85-87.
17 Cfr. F. Cangiullo, Il donnaiuolo e le 4 stagioni, ivi, p. 84.
18 Cfr. B. Corra ed E. Settimelli, Verso la conquista, ivi, pp. 42-43.
19 Sul teatro futurista come spettacolo ed evento scenico, cfr. G. Antonucci,
Storia del teatro futurista (1974), Roma, Studium, 2005.
20 Cfr. F.T. Marinetti, E. Settimelli e B. Corra, Il teatro futurista sintetico
(1915), in G. Davico Bonino (a cura di), Teatro futurista sintetico. Seguito da Manifesti
teatrali del Futurismo, cit., p. 133.
[ 4 ]
La rivoluzione a teatro: le «sintesi» futuriste 365
tetica»21. E dunque l’identificazione della guerra come rivoluzione
estetica e ideologica, dove la prima sottende e fonda la seconda, socialmente
surrogatoria dei ritardi e dell’arretratezza della nostra storia
sociale, nel primato della cultura e dell’intellettuale.
Era una modernità funzionale in breve all’arretratezza complessiva
di un ceto borghese che proprio del trionfo dell’irrazionale aveva
bisogno per affermarsi storicamente, come pure della mistificazione
illusoria della realtà per il consenso di massa piccolo-borghese, delle
sue strutture sociali e intellettuali intermedie, vittime per eccellenza,
virulente o passive, di quell’arretratezza, poco importa se poeti e letterati
puri o poeti e letterati impuri, crociani o futuristi di turno. Ad
onta delle reciproche diffidenze e incomprensioni, degli uni nei confronti
del passatismo filosofico, decretandone altresì la morte e celebrandone
il funerale22, della compassata intuizione lirica, della conoscenza
aurorale che fonda e rende possibili le altre conoscenze, e degli
altri nei confronti di chi confonde la teoria con la prassi, dimenticando
ormai l’interessata correità che proprio quella confusione filosofica
aveva inizialmente garantito e consentito23. E sì che è un critico crociano
(«noioso a letto») a tacciare di pazzia l’ansia e il bisogno di rinnovamento
della giovane cultura, nella parodia teatrale futurista24. Giacché
se una distinzione si rende necessaria è ipotizzabile solo in una
dimensione prospettica, tra chi spoliticizzava il ceto medio, negandogli
la fisionomia di ceto economico, ed elaborando una forma egemonica
di cultura che condizionava e depauperava nei suoi effetti di lunga
durata le sue stesse ambizioni democratiche, e chi invece esauriva
i suoi sussulti antidemocratici nell’«assassinio generale collettivo»
della Grande Guerra25, prima di fossilizzarsi nella patetica mascherata
del fascismo.
21 Ivi, pp. 133-134.
22 Cfr. G. Davico Bonino, Introduzione a G. Davico Bonino (a cura di), Teatro
futurista sintetico. Seguito da Manifesti teatrali del Futurismo, cit., pp. 9-10.
23 Cfr. B. Croce, Aesthetica in nuce (1928), in Breviario di estetica – Aesthetica in
nuce, Milano, Adelphi, 20077, pp. 226-229.
24 «Quello è un pazzo! O un reclamista!…Vuol rinnovare?… Ma la creazione è
una cosa serena. L’opera d’arte si fa naturalmente, nel silenzio e nel raccoglimento,
come l’usignuolo canta… Lo spirito in quanto spirito, dice Hegel…»; «Sono secoli,
che la critica dice all’artista come si fa un’opera d’arte… Poiché l’etica e l’estetica
sono funzioni dello spirito…». Cfr. U. Boccioni, Genio e cultura, in G. Davico Bonino,
Teatro futurista sintetico. Seguito da Manifesti teatrali del Futurismo, cit., pp.
36-37.
25 Cfr. N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, in AA.VV., Storia della Lettera-
[ 5 ]
366 Nico Abene
E del resto sarebbe solo esercizio retorico pensare a un rapporto di
Pirandello e delle avanguardie storiche europee col Futurismo italiano
che non fosse di sostanziale estraneità e indifferenza, a un rapporto
in definitiva funzionale e tributario tra le rispettive ambizioni del loro
irrazionalismo26. Perché, se questo equivoco è reso possibile dalla sovrastrutturale
definizione unitaria della cultura dell’irrazionalismo
primonovecentesco, non è chi non veda che il primo demoliva la sistemazione
rassicurante e oggettiva dell’universo borghese operata dal
positivismo e dal naturalismo, e il secondo fondava al contrario il suo
dominio di classe e le sue spinte autoritarie e aggressive.
Nico Abene
(Università di Bari)
tura Italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, nuova edizione diretta da N. Sapegno,
vol. IX, Il Novecento, t. I, Milano, Garzanti, 1988, pp. 86-97.
26 Cfr. A. Leone de Castris, Il Decadentismo italiano. Svevo, Pirandello, D’Annunzio,
Bari, De Donato, 1974.
[ 6 ]
Andrea Battistini
La Sirenide, una riscrittura della Commedia
in età post-tridentina
La Sirenide è un poema sacro di Paolo Regio. In seguito alla pubblicazione nel
1603, l’autore vi aggiunse un ampio commento nel 1606. L’importanza
dell’opera si deve non tanto a considerazioni estetiche quanto a motivi culturali,
dal momento che la Sirenide palesa come il modello originario dantesco interagisce
con il recente capolavoro della Gerusalemme liberata. Ciò risulta evidente
sia nella scelta dell’ottava rima anziché della terzina sia nell’adattamento
della Commedia dantesca alle esigenze del Concilio di Trento. Per quanto riguarda
il poema tassiano, Regio sopprime ogni riferimento alla tematica amorosa,
privilegiando piuttosto la dimensione spirituale.

Sirenide is a sacred poem by Paolo Regio. After its publication in 1603, the author
added a long comment in 1606. The importance of Sirenide is due less to
aesthetic reasons than to cultural ones, in as much as it shows how the initial
Dantean model interacts with the recent masterpiece of Jerusalem Delivered. This
can be seen not only in the choice of the “ottava rima” instead of the tercet, but
also in the adaption of Dante’s Comedy to the demands of the Council of Trent.
As regards Tasso’s poem, Regio omits any reference to love, whilst the spiritual
dimension gains emphasis.
La Sirenide1 è un poema di carattere religioso reso oggi disponibile
agli studiosi grazie alle lunghe e perseveranti fatiche di Anna Cerbo,
alla quale si deve il merito di avere non solo ripubblicato un testo poetico
edito nel 1603 e mai più ristampato, ma anche di averlo fatto insieme
con il commento del 1606 dello stesso autore rimasto fino a oggi
manoscritto. Il valore di quest’opera risiede, ancora più che nei suoi
pregi estetici, nel ruolo culturale sotteso a una profonda trasformazione
che le generazioni succedute a Tasso hanno fatto subire al genere
del poema sacro proprio sotto l’influenza della Gerusalemme liberata e,
1 P. Regio, Sirenide, a cura di A. Cerbo, Napoli, Photocity.it University Press,
2014. D’ora in poi, per la frequenza delle citazioni, si darà direttamente nel testo il
numero delle pagine, preceduto dalla sigla S.
Note
368 andrea battistini
in parte, della Conquistata. Ciò è avvenuto in particolare in area meridionale,
e soprattutto napoletana. Il titolo assegnato da Regio al suo
ultimo lavoro allude proprio a questa localizzazione. Se infatti il suo
protagonista si chiama Sireno, non è certo per voler richiamare il ruolo
tentatore delle mitiche figure che seducevano i marinai con il canto,
perché si tratta di un Penitente che ricerca la virtù. Nondimeno si chiama
Sireno per essere figlio di Partenope, la fondatrice della città di
Napoli, senza dire che secondo la leggenda le Sirene trovarono ricetto
a Vico Equense, la sede di cui Regio fu vescovo. Rispetto alle figure del
mito, la creatura di Regio ne assume il nome quasi per antifrasi, nel
senso che implicitamente contrappone un modello di vita cristiana alla
dissoluta e infida condotta di esseri partoriti dalla fantasia del mondo
pagano.
Ciò non significa che Sireno sia equiparabile all’Odisseo omerico,
che comunque resiste alle tentazioni, perché anzi Ulisse è nel poema
di Regio un carattere affatto negativo, se è vero che nell’invocazione
dei primi versi del libro IV, rivolgendosi al «sommo Dio», lo si prega
di farlo essere un anti-Ulisse:
Tu guida la mia man, che non gli errori
d’Ulisse scrive, e volgi il canto mio
a spiegar sol l’immensa tua virtute,
che mi condusse al porto di salute (IV, 5, 5-8).
Se qualcuno credesse che gli «errori» fossero soltanto un sinonimo
referenziale di “peripezie”, sarebbe smentito dallo stesso Regio, il
quale nell’esegesi in prosa ne segnala il valore polisemico, precisando
che «errori» sono per un verso «i suoi lunghi, et calamitosi viaggi», ma
per un altro verso anche «l’opre sue maligne, perloché da Virgilio
vien’ancor appellato malefico, et maligno; et da Homero è chiamato
distruggitor di città» (S, 536). Si potrebbe dire che nel modo in cui è
rappresentato Ulisse si può vedere, nel particolare esempio di questo
personaggio, l’intera struttura che domina la Sirenide, debitrice, sul
piano dell’intertestualità, tanto della Commedia dantesca, quanto della
Liberata di Tasso. L’Ulisse fraudolento, che ordì «l’agguato del caval»
(Inf., XXVI, 59), che esercitò l’arte “maligna” di indurre i suoi compagni
alla perdizione istigandoli al «folle volo» (v. 125), è lo stesso che, di
là dalle superfetazioni umanistiche e moderne, per Dante costituisce il
simbolo di una hybris proterva e presuntuosa che affonda miseramente
dopo il passaggio vietato delle colonne d’Ercole, all’opposto del
viaggio del pellegrino cristiano che invece approda «a glorïoso porto»
[ 2 ]
la sirenide, una riscrittura della commedia in età post-tridentina 369
(Inf., XV, 56). Quanto poi a Tasso, sua è la doppia accezione del termine
«errante», portatore nella Liberata di un motivo strutturale, e per
questo situato in apertura del suo poema, dove dell’eroe Goffredo si
afferma che «sotto a i santi / segni ridusse i suoi compagni erranti»
(Ger. Lib., I, 1, 7-8), per indicare non solo i cavalieri che vagavano in
cerca di avventure in cui potere dimostrare il proprio valore, ma anche
il loro essersi dispersi e sviati dal compito che competeva.
La presenza di Tasso nella Sirenide è decisiva, a cominciare dal suo
effetto più vistoso: la sostituzione della terzina dantesca con l’ottava,
prescelta per un tacito riferimento all’insigne esempio tassiano, dopo
avere visto «a’ nostri tempi alcuni felici ingegni haver chiarito il suo
candore all’ottava rima, che ne’ tempi a dietro non si scorgeva» (S, 10).
Anche se non sempre è coerente su questo punto, non c’è dubbio che
in questa pronuncia a favore dell’opzione metrica contemporanea si
possa cogliere la preferenza per i “moderni”, certificata anche dalle
lodi del medium linguistico dell’italiano, in tutto degno del greco e
del latino. Il ruolo culturale di Regio è significativo proprio per anticipare
i gusti e le poetiche barocche. Ma ancora più rilevante è la rifondazione
da lui operata del poema sacro, convertito, sul modello riformato
e adattato della Liberata, in un genere epico-drammatico depurato
naturalmente dal romanzesco e dalle storie d’amore. Tra la fine del
Cinquecento e i primi decenni del Seicento molti uomini di chiesa
compiono in proprio il ripensamento condotto da Tasso nel passare
dall’ancora profana Gerusalemme liberata alla dimensione teologica
della Conquistata. La loro opposizione alla poesia erotica non avvenne
«censurando meccanicamente», come aveva fatto con Tasso Silvio Antoniano,
«ma convertendo in senso spirituale e disciplinando ai fini di
un’inventio devota gli artifici appresi dai paradigmi di poesia amorosa
[…], oppure enfatizzando e radicalizzando la vocazione spirituale implicita
da quei modelli»2. Questa strategia poetica sembra essere una
prerogativa dei poeti dell’ordine benedettino cassinese, ma ciò che più
conta in rapporto a Regio è la sede in cui essi operarono, ancora una
volta di àmbito meridionale. Uno di loro, Benedetto dell’Uva, autore
di un ciclo agiografico di impianto epico in ottave, Le vergini prudenti,
apparso nel 1582, e di un poema di genere visionario, Il glorioso trionfo
dei martiri, edito postumo nel 1608, era capuano e il suo raggio d’azione
restò sempre tra Cassino, Napoli e Sorrento, oltre che nella sua città
2 F. Ferretti, La Muse del Calvario. Angelo Grillo e la poesia dei benedettini cassinesi,
Bologna, Il Mulino, 2012, p. 11.
[ 3 ]
370 andrea battistini
d’origine. E napoletano era un altro monaco cassinese, noto forse anche
a Regio, Felice Passero, autore di un’agiografica Vita di san Placido
(1589), delle Lagrimose rime nella passione e morte del signore Gesù Cristo
(1597), di un Essamerone (1608) e di un poema spirituale in ottave, Urania,
la costante donna (1616), personaggio di fantasia che incarna un
modello di virtù cristiana.
La Sirenide pare dunque particolarmente rappresentativa di un clima
culturale, quello post-tridentino, e di un milieu, quello napoletano,
confermato sia da taluni riferimenti di Anna Cerbo, come la menzione
del poema di Giovanni Domenico Montefuscoli, Le grandezze del verbo
(1593), cui si potrebbe aggiungere l’altro suo La Madalena (1608), sia
dalla frequentazione da parte di Regio di due forme letterarie di tradizione
tipicamente partenopea, come l’egloga piscatoria, nobilitata da
Sannazzaro, e i componimenti delle «Lagrime» codificati da Tansillo,
le quali, più che essere un genere vero e proprio, costituiscono un’intonazione
patetica che accomuna generi tra loro eterogenei, diventando
pervasivi per declinarsi nella lirica, nel poemetto didascalico o
agiografico o nel poema. Regio appartiene a pieno titolo a questa circoscrizione
regionalistica, che si riscontra anche nelle altre sue opere,
come Le vite dei sette santi protettori di Napoli (1573), in cui le vicende
agiografiche, con il connesso culto delle reliquie, si prestano a diventare
anche una guida ai luoghi sacri della città.
Fin qui si sono viste le connessioni riguardanti la poetica e la retorica,
ma la produzione di Regio ha in comune anche un altro tratto
peculiare della cultura meridionale del suo tempo e di quelli successivi,
vale a dire il carattere robustamente filosofico della poesia, esemplarmente
rappresentato da Campanella e da Bruno e perseguìto a
lungo, se se ne coglie l’eredità in Vico, non solo nella canzone venata
di motivi epicurei intitolata Affetti di un disperato, ma anche in quella
singolare e trascurata versione poetica della Scienza nuova che è la Giunone
in danza, un epitalamio in cui si seguono il formarsi e l’evolversi
della civiltà umana attraverso la sequenza dei dodici «dèi maggiori».
E a lui contemporaneo è Gravina, il quale, in sintonia con Dante, teorizza
una poesia allegorica che sia «figliuola e rampollo della scienza»3,
in cui cioè il momento estetico sia connesso a una funzione conoscitiva,
in modo da assumersi il compito educativo e intellettualistico di
mediare tra la verità, posseduta dai sapienti, e il volgo. Era ciò che, sul
3 [G.] V. Gravina, Della ragion poetica libri due e Della tragedia libro uno, Venezia,
presso Angiolo Geremia, 1731, p. 82. Sulla poetica di Gravina si veda A. Placella,
Gravina e l’universo dantesco, Napoli, A. Guida, 2003.
[ 4 ]
la sirenide, una riscrittura della commedia in età post-tridentina 371
piano ermeneutico, aveva fatto, sempre nel Meridione, la critica letteraria
che, con il cosentino Sertorio Quattromani (1541-1603), il tarsitano
Marco Aurelio Severino (1580-1656) e l’altro calabrese Gregorio
Caloprese (1650-1715), si era cimentata con le Rime di Giovanni della
Casa affiancando al consueto approccio grammaticale e retorico un’interpretazione
filosofica e psicologica4.
Lo stesso connubio si nota in Regio, che si mostra pienamente competente
in fatto di retorica, presente a livello di dispositio nella successione
della «Dechiarazione», «Proposizione», con il fine canonico di
rendere «attenti, et docili i lettori» (S, 13), «Invocazione», «Narrazione
», ma altrettanto in fatto di metafisica e di filosofia morale. Regio
non potrebbe essere più esplicito, essendo per lui «la Poesia perfetta,
et vera […] com’una istessa con la natural Filosofia» (S, 5), dovendo
trovare «il modo di spiegar bene i concetti spirituali» (S, 7). È proprio
questa simbiosi a favorire i prosimetri, con cui la concentrazione sintetica
della poesia, poco compatibile con le procedure analitiche del
discorso filosofico, viene a integrarsi con un autocommento in prosa
più disteso, con funzioni esegetiche rese necessarie dalla materia speculativa.
Come antecedenti si possono citare il De consolatione philosophiae
di Boezio, la Vita nova di Dante, l’epistola a Cangrande a lui attribuita,
ma per un autore del tardo Cinquecento e per giunta campano,
più che alla lontana consuetudine medievale dell’accessus ad auctores,
sembra pertinente pensare, come tipo di commento appartenente a
una temperie culturale simile a quella di Regio, alla Scelta d’alcune poesie
filosofiche (1622) di Campanella, il cui «parlare stretto talvolta e
filosofico»5 suggerisce di necessità la stesura di chiose utili a chiarire i
nuclei dottrinari compendiati nelle poesie. D’altro canto a Campanella
si è condotti anche dal recupero diffuso della fonte biblica e specificamente
dei Salmi di Davide, un modello che una volta di più precorre
i tempi, perché sarà ripreso dai poeti della cerchia barberiniana, per
adempiere il programma culturale di chi sarebbe poi diventato papa
Urbano VIII, il quale, per contrastare la fortuna della poesia erotica
diffusasi con Marino, capofila di questa poetica, favorì la lirica sacra di
Virginio Cesarini e Giovanni Ciampoli, autore di poesie in cui il paradigna
greco-latino è affiancato dal modello biblico e in particolar mo-
4 I tre commenti furono raccolti in G. Della Casa, Opere, t. II, contenente le
Sposizioni di Sertorio Quattromani […] e quelle di M. Aurelio Severino e di Gregorio
Caloprese (1694), in Venezia, appresso Angiolo Pasinello, 1728.
5 T. Campanella, La Città del Sole e Scelta d’alcune poesie filosofiche, a cura di A.
Seroni, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 53.
[ 5 ]
372 andrea battistini
do davidico dei Salmi, non solo per la devota spiritualità che vi spira
ma anche per il loro dettato più lineare che, se al solitario Campanella
ispirava una poesia esemplata sul loro incedere e promossa a strumento
di conoscenza più efficace della prosa, a Ciampoli induceva
una loro parafrasi.
In Regio c’è però anche un aspetto che, accanto a Campanella, chiama
in causa Giordano Bruno. Naturalmente in questo caso non c’è
assolutamente nulla da condividere con lui sul piano della metafisica
e della filosofia, priva degli esiti panteistici e di “eroici furori”. In comune
c’è però l’interpretazione teologica e allegorica dei miti, che popolano
la Sirenide più di figure immaginarie che di personaggi storici,
di cui «si tace il nome per degni rispetti; sì come in molti luoghi di
questo spiritual poema s’osserva» (S, 92). Basti dire che a fungere da
guida a Sireno non c’è più Virgilio, ma Minerva, «significata per la
sapienza humana […], detta ancora Pallade, così appellata da gli antichi
dea della virtù, della sapienza, et della castità» (S, 8). Le divinità
greco-romane sono dunque privilegiate perché meglio si prestano a
rappresentare virtù e vizi, spesso a volte secondo interpretazioni del
tutto personali di Regio, fuori dalla tradizione ed estese perfino ai luoghi
infernali, con il Flegetonte che corrisponde al Tempo (S, 159-161),
l’Acheronte alle età della vita umana (S, 81), lo Stige alla tristezza (S,
129). E se è quasi scontato che le Arpie simboleggino la rapacità, lo è
meno che Proserpina sia madre dell’avarizia. Sireno la vede «star sopra
un drago fiero, / di sette capi, e diece corna altiero» (I, 162, 7-8),
riconosciuto in Mammone, che però è un demonio della Bibbia, personificazione
della ricchezza e del guadagno. Ma nel sincretismo Proserpina
diventa «regina de tutti i mali» (S, 172). Analogamente Issione,
condannato per avere tentato di stuprare Giunone a essere legato a
una ruota di fuoco, rappresenterebbe l’ambizione una volta che la
ruota sia identificata con quella della Fortuna (S, 159). Tuttavia, a conferma
della natura enciclopedica della «Dechiarazione», ossia, etimologicamente,
della “chiarificazione” della poesia, per ogni simbolo si
passa in rassegna una dossografia che inclusivamente comprende anche
i significati più canonici dei miti.
Questo metodo di interpretare allegoricamente i miti classici è un
procedimento seguito anche da Bruno, che riscrive molte delle metamorfosi
di Ovidio per esporre la propria filosofia. Ma Regio, che si
affida pure a Virgilio, come per la storia di cui fu protagonista Sisifo
(S, 133-134), condivide anche un’altra caratteristica, molto più significativa,
con talune interpretazioni degli Eroici furori, dove, a differenza
dei miti antichi che narrano quasi sempre storie di hybris, ovvero di
[ 6 ]
la sirenide, una riscrittura della commedia in età post-tridentina 373
protervia, arroganza e presunzione degli umani (Marsia che pretende
di vincere Apollo nel canto, Niobe che si vanta di avere più figli di
Latona, Aracne che presume di superare Atena nell’arte della tessitura,
ecc.), li si interpretano come casi positivi che rivelano l’intraprendenza,
il coraggio, il desiderio di sapere e di progresso da parte degli
uomini. In Bruno si potrebbe considerare l’interpretazione di Prometeo,
punito da Zeus nell’antichità ma «audace e curioso» secondo il
giudizio dello Spaccio della bestia trionfante, per avere donato agli uomini
il fuoco sottratto agli dèi6, ma più confacente per un paragone
con Regio è il mito di Atteone, il cacciatore condannato a essere sbranato
dai suoi cani come punizione per avere osato spiare Diana nella
sua nudità. Negli Eroici furori, invece, la sua vicenda corrisponde allegoricamente
alla valorosa ricerca dell’intelletto umano «alla caccia
della divina sapienza, all’apprension della beltà divina»7. Si tratta di
un obiettivo quanto mai ambizioso, che sospinge l’uomo fino «alla
reggion de cose incomprensibili», gettandosi in un’avventura speculativa
al termine della quale «da quel ch’era un uom volgare e commune,
dovien raro ed eroico, ha costumi e concetti rari, e fa straordinaria
vita». Questa sorta di apoteosi, con la quale Atteone «vive vita de dèi,
pascesi d’ambrosia et inebriasi di nettare»8, contrasta con la storia del
cacciatore punito e fatto uccidere da Diana, ma la morte che ne consegue,
nell’interpretazione di Bruno, si riferisce solo alla sua parte sensuale,
che lo scioglie «dalli nodi de perturbati sensi», rendendolo «libero
dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per
forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a
terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte». In questo modo il
cacciatore diventa preda, nella quale si annulla «facendolo morto al
volgo, alla moltitudine»9.
Questa lettura del mito di Atteone è sorprendentemente collimante
con quella di Regio. Anche nella Sirenide egli è «colui il qual si dà con
ogni diligenza a considerare i misteriosi ordini de’ cieli, et il variar
della luna, figurata per Diana […], tratto dalla curiosità di tali scienze»
(S, 255). La figura negativa non è più lui, ma sono i cani, che nel mito
antico erano i rimorsi che laceravano il peccatore che aveva violato un
tabù, e che in Regio sono i servi invidiosi che uccidono «nella fama» il
6 G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (1584), in Id., Opere italiane, a cura di
N. Ordine, Torino, Utet, 2002, II, p. 393.
7 G. Bruno, De gli eroici furori (1585), in Id., Opere italiane, cit., II, p. 576.
8 Ivi, p. 579.
9 Ivi, pp. 695-696.
[ 7 ]
374 andrea battistini
loro padrone che ha scelto la vita solitaria e contemplativa, talché nelle
ottave è introdotta un’allocuzione in cui un’antitesi capovolge il
senso usuale del mito, visto che nel luogo di dannazione non c’è Atteone,
ma il primo dei servi che lo azzannò, il quale si riconosce «perfido,
e protervo, / et ei [il suo padrone], ver huom» (II, 71, 5-6).
Nella Sirenide la presenza contestuale di versi allusivi e spesso criptici
come quelli appena citati insieme con le loro spiegazioni che ne
appianano le oscurità fanno sorgere un interrogativo: a quale pubblico
è destinata l’opera? Questa stessa compresenza di procedure opposte
sembra riflettersi nelle dichiarazioni dello stesso Regio. Da una parte
egli si pronuncia a favore di una letteratura iniziatica, per intendenti,
giacché «non si denno i secreti palesare a genti plebee, et ignoranti, ma
sol a persone dotte, dalle quali apprender si può alcun ottimo consiglio,
o avertimento intorno al composto poema» (S, 8). Dall’altra però
ascrive le cause per cui «hoggi appresso alcuni il nome della Poesia» è
posto «quasi in dispregio, come che seco non apporta il guadagno che
lo studio dell’altr’arti liberali conseguisce», al «mancamento di quei
poeti, che dopo seguiro, quali tal scienza velata d’occulti misteri
lasciaro a i posteri; acciò non facile fosse a gli indegni, et ignoranti
l’ingresso di quella», con il risultato che «coloro, che non facilmente
comprendono quel che leggono, con la loro ignoranza gli ottimi documenti,
et i libri de’ poeti dotti, come inutili, et mendaci spregiando,
condennano» (S, 6-7). In realtà l’aporia è solo apparente, in primo luogo
perché le «persone dotte» sono invocate solo per avere un parere
qualificato, in secondo luogo perché l’opacità della poesia, più che essere
dovuta all’opera dei sapienti, è da imputare all’ignoranza di chi
non arriva a comprenderla.
Esiste tuttavia per Regio un doppio binario ermeneutico che assomiglia
di lontano al concetto di «double coding» oggi espresso in più
occasioni da Umberto Eco10, l’uno popolare, sensibile più alla piacevolezza
edonistica del messaggio, l’altro più profondo e attento all’edificazione
morale del testo:
due sono li modi di studiar le opre de’ poeti buoni. L’uno è il dilettarsi
delle finzioni; il che è sol un toccar la scorza della moral Filosofia et
delle maestrevoli intenzioni, che quelle apparenti favole nascondono.
10 U . Eco, Livelli di lettura, in Spazi e confini del romanzo. Narrative tra Novecento
e Duemila, Atti del convegno internazionale di Forlì, 3-6 marzo 1999, a cura di A.
Casadei, Bologna, Pendragon, 2002, pp. 27-41.
[ 8 ]
la sirenide, una riscrittura della commedia in età post-tridentina 375
L’altra è il considerare non tanto le parole, ma ingegnarsi ancora d’intendere
ciò che in esse parabolicamente si occulta (S, 8).
La distinzione affonda le radici in un’antica tradizione esegetica,
ma più che risalire a Dante e all’epistola a Cangrande a lui attribuita,
tanto più ricca di distinzioni, sembra più conveniente rimanere nel
clima della predicazione controriformistica, dove qualche anno dopo
la Sirenide il più acuto dei critici barocchi, Emanuele Tesauro, distinse
due diversi generi di componimenti, l’uno che «si proporziona agl’intelletti
di acuta vista, l’altro a quei del popolo, che mirano debolmente
e come di lontano», detti rispettivamente stile «esquisito» e stile
«concertativo»11. Va da sé che personalmente Regio – e lo stesso Tesauro
– preferissero ogni «forma del dire» raffinata e culta, con cui «ogni
concetto spiega più che non dice o dice più che non suona»12, ma ciò
non li esentò dal prevedere un messaggio che potesse essere accessibile
a una platea più vasta, in linea con l’ecumenismo del cristianesimo.
Se i poeti sono i portavoce della verità divina e «correttori de’ costumi
», e se la poesia ha l’ufficio di «spiegar catholici concetti», non stupisce
che Amedeo Quondam abbia potuto parlare della poetica di Regio
come di una «strategia della persuasione» che propone un modello
di vita cristiana13.
Non per nulla la Sirenide è detta «spiritual poema» (S, 14 e passim)
o «sacro poema» (S, 19), con trasparente emulazione della Commedia
di Dante. Qualcosa però si è nel frattempo frapposto tra l’archetipo e
la sua rivisitazione protosecentesca. Anna Cerbo ha scoperto – ed è
scoperta rilevante e indispensabile per intendere il senso dell’operazione
di Regio – che il modello più cogente, di là dal tòpos della catabasi
ispirato in primo luogo a Virgilio ancora più che a Omero, è il
Quadriregio di Federico Frizzi, un testo risalente agli ultimi anni del
Trecento o dei primi del Quattrocento, mai nominato e forse proprio
per questo ancora più influente. Paradossalmente la sua incidenza vale
meno per i passi riportati di peso nella Sirenide che per la trasformazione
che Regio fa subire alla struttura portante della Commedia. Il
viaggio dantesco nell’aldilà è descritto come reale, gli incontri che un
Dante in carne e ossa fa con le anime possiedono la stessa drammati-
11 E. Tesauro, Il giudicio. Discorso accademico (1625), in Trattatisti e narratori del
Seicento, a cura di E. Raimondi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. 11.
12 Ivi, p. 12.
13 A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli,
Bari, Laterza, 1975, pp. 107-111.
[ 9 ]
376 andrea battistini
cità prodotta dagli incontri con le persone viventi. Il viaggio di Sireno,
spesso chiamato il «solitario contemplativo», è invece una visione, e
come tale è statico e astratto, tutto mentale. Se in Dante la dottrina teologica
è occasionata dai dialoghi con i personaggi, in Regio è il dato
primario e gode di vita autonoma, dal momento che spesso ad apparire
sono personificazioni di virtù o di vizi, che restano categorie più
che individui. Sull’azione viene a prevalere la rassegna e non per caso
la Sirenide, quanto a struttura, ricorda più i Trionfi petrarcheschi che la
Commedia14. Nondimeno la descrizione delle pene inflitte ai dannati è
molto vivida e cruenta, e crea nel lettore una sorta di schizofrenia tra
la rarefazione morale e teologica dell’enumerazione delle virtù cardinali,
nel libro III, e di quelle teologali, nel IV, e la grossolanità dei supplizi
dei primi due libri, con gli iracondi che si uccidono a vicenda, gli
avari che sono mangiati dal loro vizio personificato, gli invidiosi avvelenati
dal veleno della maldicenza, i calunniatori e i bugiardi straziati
«con continuo revolgimento per la terra» (S, 53), per essere trascinati
dai demoni, e i lussuriosi che, pur essendo, come quelli danteschi, sollevati
dal vento, quando questo cessa all’improvviso, crollano pesantemente
a terra: «ond’il vento c’inalza, il dì, e la notte, / e poi diamo a
l’ingiù le fiere botte» (II, 32, 7-8).
La corposa e ingenua rozzezza delle pene, la diffusa presenza degli
aspetti teratologici, il prevalere delle astrazioni allegoriche, la tassonomia
delle pene labile e corriva, quanto mai lontana dalla rigorosa catalogazione,
aristotelica e scolastica, di Dante, fanno sovvenire, più
che la Commedia, testi molto più dimessi, come a esempio il De Babilonia
civitate infernali di Giacomino da Verona, o meglio ancora, per un
rinvio filologico più preciso e documentato oggi da Anna Cerbo, il
Quadriregio di Frezzi. Questo evidente décalage non si deve soltanto
all’incommensurabile grandezza di Dante, che fa sfigurare ogni altro
epigono, ma anche a una volontà pedagogica indotta dalla politica
culturale post-tridentina. In quegli anni la letteratura devota e spirituale
fa propri i dettami parenetici che il cardinale Gabriele Paleotti
compendiò nel Discorso intorno alle imagini sacre e profane, dove la pittura
è definita un «libro popolare». E come nelle arti visive si accrebbero,
per impressionare di più, la corposità e la scala delle grandezze,
l’ampiezza dei gesti, il pathos intenso delle fisionomie, la resa drammatica
dei volumi architettonici, percossi da violenti sbattimenti di
14 Su un piano più stilistico si veda G. Scognamiglio, Echi petrarcheschi nella
Sirenide di Paolo Regio, «Riscontri», 2012, n. 1-2, pp. 127-132.
[ 10 ]
la sirenide, una riscrittura della commedia in età post-tridentina 377
luci e di ombre, così i letterati si sforzarono di educare con la concretezza
delle descrizioni icastiche e di spiegare la dottrina cristiana in
forme accessibili, secondo gli intenti del catechismo tridentino. Anche
sotto questo punto di vista l’opera di Regio, con la sua tempestività, è
sintomatica di quella che sarà la ricezione di Dante nel Seicento, insieme
con le sue trasformazioni e i suoi adattamenti, quelli per cui, rispetto
alla Commedia, la Sirenide dà più rilievo al peccato degli eretici,
che sembrano sommare in sé tutti i vizi capitali, per opporsi alla verità
e per ostinarsi a vivere «fuor d’ogni ragione» (S, 453), o alle colpe nefande
della «carnal concupiscenza», in cui nel poema ci si imbatte a
ogni passo, con un’insistenza sconosciuta a Dante.
La decisione di Regio di fare compiere al suo eroe, detto «il Contemplativo
», un viaggio solo mentale e in terza persona15, aggirando
la soluzione narrativa di Dante che andò nei tre regni ultramondani
da vivo e ne diede un racconto autobiografico, pericolosa sul piano
teologico perché mescolava il temporale con l’eterno e il corporeo con
lo spirituale, trova una sua rispondenza nel poema, anch’esso in ottave,
a riprova dell’influsso di Tasso, di Tolomeo Nozzolini, il Sogno in
sogno, edito nel 1628 e cosparso di impalpabili figure allegoriche che
sono volta a volta le personificazioni dell’Appetito Sensuale, dell’Avidità,
dell’Obbedienza, della Castità, della Povertà, del Tempo, della
Verità, e di tanti altri concetti astratti. E come Sireno è un penitente
ravveduto, così Nozzolini illustra in forma onirico-allegorica la propria
conversione, simile al baco da seta che si redime liberandosi dal
bozzolo dei peccati e diventando «angelica farfalla» sotto la guida di
un santo, a sua volta redento dopo una giovinezza dissipata nel seguire
la filosofia eretica di Epicuro e Lucrezio, rivitalizzata nel Seicento
dal pensiero libertino e atomista16. Analoga opzione narrativa è adottata
da Toldo Costantini nel Giudicio estremo […] composto ad imitazione
di Dante Alighieri, un altro poema in ottave del 1642, scritto con propositi
didattici e dottrinali. Al pari della Sirenide, il pellegrino è accompagnato
non già da un uomo come Virgilio, ma dal suo angelo custode,
ovvero da un essere divino come lo è la Minerva di Regio, o da un
15 Scrive Regio nel «Proemio» che il viaggio di Sireno «si fa con la mente, et
senza muoversi l’homo pio dalla sua stanza; et senza impedimento di povertà, o di
vecchiezza, o d’infermità corporali, ponendo solamente ivi il pensiero» (S, 9).
16 U na scelta moderna di scritti di Nozzolini si trova in Marco Arnaudo, Tolomeo
Nozzolini poeta sacro del Seicento, Ravenna, Longo, 2011. Lo stesso Arnaudo vi
è poi ritornato in Dante barocco. L’influenza della Divina Commedia su letteratura e
cultura del Seicento italiano, Ravenna, Longo, 2013, cap. V (pp. 151-189).
[ 11 ]
378 andrea battistini
santo come in Nozzolini, che lo guida non già fisicamente nell’oltretomba,
ma in un sogno visionario17.
Guardando alle date di pubblicazione di questi poemi secenteschi
non si può non notare come Regio li abbia anticipati tutti. Non importa
che sia poi stato imitato direttamente – e tutto fa credere che non lo
sia stato –: importa piuttosto che si presenti come antesignano di un
fenomeno letterario, quello dell’esperienza nell’Aldilà, che, sull’abbrivo
imprescindibile di Dante, è anche intervenuto a trasformarlo e
adattarlo ai tempi attuali facendolo interagire con altri vettori. Ciò
comporta oggi una lezione di metodo, ossia che, in un periodo in cui
la critica comincia a smentire l’idea di un Seicento da intendersi quale
«secolo senza Dante»18, la sua presenza non va riferita semplicemente
alla Commedia così come fu da lui scritta, ma studiata attraverso tutte
le interposizioni frapposte nel tempo. È infatti da supporre che ciò che
si constata nella Sirenide, di cui non si potrebbe intendere a pieno il
senso se si prescindesse dall’interazione di una riscrittura della Commedia
come il Quadriregno di Frezzi, possa valere anche, più in generale,
per la fortuna di Dante nel Seicento, un capitolo intertestuale che va
scritto ipotizzando anche delle mediazioni intermedie anziché risalire
direttamente all’archetipo.
Andrea Battistini
(Università di Bologna)
17 Anche su Nozzolini, cfr. ancora Arnaudo, Dante barocco, cit., cap. VII, (pp.
239-261).
18 Con questa definizione si espresse Luigi Firpo alla fine degli anni Sessanta
(Dante e Tommaso Campanella, «L’Alighieri», X (1969), pp. 41-46, a p. 31), ripresa, per
negarla, da Arnaudo nell’esergo che apre il suo Dante barocco, cit. p. 7.
[ 12 ]
Dante Alighieri, La Divina Commedia,
a cura di Giuseppe A. Camerino,
Napoli, Liguori, 2012-2014, 3 voll.: I,
pp. IX + 525; II, pp. IX + 531; III, pp.
IX + 615.
A opera di Giuseppe A. Camerino
già si devono numerosi contributi
danteschi che hanno messo in luce,
soprattutto all’interno della Commedia,
sia notevoli relazioni con altri
testi dell’Alighieri sia sorprendenti
corrispondenze
e parallelismi, anche
in canti di alto spessore dottrinale.
A lui si deve ora pure un denso,
recentissimo commento integrale
al poema, suddiviso in tre tomi,
con caratteristiche del tutto innovative,
rispetto ai tanti commenti in
adozione nelle scuole. Anzitutto
ognuno dei tre tomi presenta, nell’ordine,
un’esposizione generale e
uno schema grafico del regno d’oltretomba
a cui si riferisce. Ogni singolo
canto, a sua volta, è preceduto
da un cappello che ne illustra il contenuto
ed è seguito da qualche pagina
di puntuali Indicazioni per l’analisi
testuale. Queste Indicazioni, ovviamente,
si integrano con le note poste
in margine ai versi del poema, che
sono prevalentemente di ordine linguistico,
storico-erudito o stilisticoretorico,
che a loro volta s’integrano
con una inedita parafrasi integrale
del testo del poema. Molto utile anche
il Glossarietto dei termini tecnici
e/o retorici richiamati dal curatore
in innumerevoli punti esegetici del
commento.
La parafrasi integrale del poema –
di cui s’è appena detto – ambisce a
superare tutte le approssimazioni
quasi sempre inevitabili in questo tipo
di operazioni: una parafrasi studiosamente
condotta verso dopo
verso e parola dopo parola. Un’impresa
che ha richiesto lunghi anni di
lavoro, anche in senso filologico, per
mantenere sostanzialmente l’ordine
originario dei periodi e per restituire
soluzioni di senso equivalenti agli
innumerevoli vocaboli (ma anche ad
alcuni costrutti) che in età moderna
hanno di molto trasformato o del tutto
perduto i significati originarî impressi
da Dante. Ma va subito detto e
sottolineato che non si tratta di una
parafrasi che possa essere letta come
testo a sé perché non è stata elaborata
col fine di sostituirsi al testo dantesco!
Al contrario, è una parafrasi “di
servizio” che mira a offrire suggerimenti
di interpretazione testuale
(che infatti, in genere, vengono posti
tra parentesi). In questo senso si po-
Recensioni
380 recensioni
ne al servizio dello studente, o del
lettore in genere, aiutandolo a penetrare
meglio e più possibile nel sistema
di significati del testo della Commedia:
come dire che punto di avvio e
punto di partenza resta sempre e comunque
il testo di Dante, che non
viene mai e in nessun caso manipolato
o tanto meno prevaricato.
Una parafrasi così intesa ha dovuto,
per di più, risolvere due fondamentali
caratteristiche: 1) la resa in
senso moderno delle numerosissime
parole a fine verso che sono state prescelte
dal poeta per ragioni di rima e
che assai spesso hanno un significato
traslato; 2) la resa di costrutti ellittici
che costringono il lettore a recuperare
a mente alcune parole necessarie
al compimento del senso della
espressione dantesca. Per apportare
qualche significativo esempio tra i
tantissimi possibili, si veda Inf.
XXIV, v. 130, dove la parola in rima
s’infinse assume nel caso specifico il
senso particolare di “non sottrarsi a
una richiesta”; o si veda Par. XIX, al
v. 18, dove la parola in rima, storia nel
caso specifico va parafrasato nel senso
di “esempio”; o si veda pure al v.
48, dove la parola in rima, acerbo ha
un valore specifico e va parafrasato
con “imperfetto”.
Non meno accurati sono gli interventi
del commentatore-parafrasante
sulle forme ellittiche del linguaggio,
allorché gli riesce di inserire i
sintagmi omessi nel testo della Commedia
per dare senso e significato a
intere proposizioni. In tal modo gli è
stato possibile anche ridurre la mole
delle stesse note di commento ricondotte
a indispensabili indicazioni
erudite, linguistiche o storiche, rendendo
estremamente più agevole
l’apprendimento delle tematiche e
delle questioni, anche ardue, connesse
ai singoli canti: vale a dire le informazioni
sui personaggi maggiori e
minori, sulle questioni di erudizione
o su eventuali irrisolti nodi esegetici
o filologici del testo. Ed è in questo
ordine di idee che si muovono sia
l’Introduzione generale sia l’utilissimo
Glossarietto di retorica e di termini
tecnici sia le cosiddette Indicazioni
per l’analisi testuale di ogni singolo
canto, che, non senza alcuni esempi
concreti, dimostrano che anche un
commento per le scuole deve saper
coniugare informazione di natura didattica
e proposta esegetica, ancorché
esposta in maniera pur sempre
didattica.
Nella già menzionata Introduzione
generale, in cui si espongono con
chiarezza questioni anche complesse,
viene in particolare evidenziato
che nella Commedia si compendiano,
tutto il sapere e le conoscenze scientifiche,
giuridiche, politiche, filosofiche,
morali e letterarie, che erano alla
base dell’enciclopedica cultura medievale:
dall’aristotelismo degli scolastici,
a cominciare da Alberto Magno
e da San Tommaso fino al pensiero
dei mistici, come san Bernardo,
a cui il poeta deve la visione di Dio al
culmine del suo viaggio, Bonaventura
di Bagnoregio, Riccardo e Ugo da
San Vittore o Dionigi l’Aeropagita. E
non si manca pure di richiamare i
modelli del viaggio oltremondano:
dalla virgiliana Eneide ad alcuni testi
notevoli della letteratura morale e
religiosa dell’Italia settentrionale:
basti pensare ai poemetti di Giacomino
da Verona (De Ierusalem celeste,
De babilonia civitate infernale) e di
Bonvesin da La Riva (Libro delle tre
scritture). Inoltre, come scrive lo stesso
Camerino – «è stata di recente varecensioni
381
lutata l’influenza che su Dante può
aver esercitato un’altra opera, Il libro
della Scala, che illustra il viaggio di
Maometto prima in paradiso e poi
nell’inferno, con relativa descrizione
di dialoghi con dannati e beati (p.
14).
Non meno importante è l’attenzione
in questo commento rivolta sia
alla struttura metrica (come le terzine
a rima incatenata e la varietà qualitativa
– tra cui, per esempio, le rime
cosiddette ‘ricche’, oppure quelle
‘tronche’ o ‘sdrucciole’) sia di altri
aspetti strutturali e più generali delle
tre cantiche del poema: si pensi,
per fare un esempio, alla concezione
cosmologica disegnata nel secondo
secolo a. C. dall’astronomo egiziano
Claudio Tolomeo e che viene assunta
da Dante nel suo poema. Si pensi,
inoltre, ai criteri che disegnano la
struttura e l’architettura particolareggiata
dei regni d’oltretomba: i
primi due, com’è noto ispirati dall’Etica
di Aristotele, ripresa, tra gli altri
teologi, da san Tommaso, mentre nel
Paradiso, a differenza di quanto si riscontra
nell’Inferno e nel Purgatorio,
la ripartizione delle anime nei singoli
cieli in cui Dante le incontra non
viene formulata in un canto specifico
(si veda a questo proposito a p. 23
del vol. I). Nella terza cantica, tuttavia,
com’è noto, sono di volta in volta
determinanti le peculiari caratteristiche
di uno specifico cielo, fino al
nono: cioè fino agli spiriti contemplativi
del cielo di Saturno. E poi ancora
fino all’Empireo, in cui il poeta
pellegrino si congederà da Beatrice
(che torna a riprendere il suo posto
nella candida rosa), mentre san Bernardo
supplica la Vergine Maria di
intercedere presso Dio affinché in
via eccezionale il poeta pellegrino,
«possa con li occhi levarsi / più alto
verso l’ultima salute» (Par. XXXIII,
vv. 1-39).
Nelle già menzionate Indicazioni
per l’analisi del testo vengono con
frequenza sottolineati i processi stilistici
e le parole-chiave attraverso cui
il poeta fiorentino punta a costruire,
volta per volta, la poetica propria del
canto in oggetto. E vengono pure
con frequenza sottolineate le corrispondenze
e i parallelismi sorprendenti,
anche di senso contrapposto –
e non solo tra canti contigui – che il
curatore, spesso per la prima volta, è
riuscito a portare alla luce. Né mancano
del resto in queste Indicazioni
innovative osservazioni sull’uso delle
figure retoriche. Tali figure da
Dante non sono mai adottate come
mero espediente tecnico, bensì, sapientemente
ed efficacemente finalizzate
a specifici messaggi umani e
poetici: basti pensare alla lunghissima
perifrasi dei vv. 16 e ss. di Purg.
XIV, in cui il poeta descrive la valle
dell’Arno senza mai nominare l’oggetto.
Anche in questa ottica le suddette
Indicazioni costituiscono un
prezioso complemento a un commento
che per certi versi va oltre la
sua funzione didattica e si apre non
di rado a questioni esegetiche più
generali, nella convinzione che – in
ogni caso – ogni conquista didattica
può mantenersi a un livello di comunicazione
informativa, ma mai ignorare
del tutto, almeno per sommi capi,
i nodi fondamentali della poesia
di Dante che ancora oggi alimentano
gli sforzi dei lettori più appassionati
e più avvertiti dei significati più profondi
che guidano la sua ricerca poetica.
Emiliano Cannone
382 recensioni
Roberto Salsano, Tra scrittura e riscrittura.
Saggi e note su Alfieri tragico,
Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia
Editore, 2014, pp. 194.
Roberto Salsano, studioso attento
alle articolazioni storiche del teatro
settecentesco, dopo gli studi sulla
Merope e il Polinice, ritorna sulle opere
dell’Alfieri offrendo una raccolta
di saggi sulla lingua e la scrittura
dell’autore astigiano. Partendo dal
concetto di fenomenologia tragica e
dai suoi motivi, analizzati sulla scia
di un autore come Paul Ernest, Salsano
inserisce la visione drammaturgica
dell’Alfieri in una sorta di «essenza
universale» (p. 7), elaborando elementi
e problematiche in relazione a
momenti realistici e privilegiati, che
svelano la natura dell’uomo attraverso
i conflitti e le identificazioni
cui viene sottoposto l’io. La «decisionalità
suprema» (Ibidem), propria del
pensiero tragico alfieriano, conduce
con forza il pensiero dell’autore verso
l’ineluttabilità di una presa di coscienza
che, in una con la riflessione
politica, porti alla dissoluzione dell’inganno
e della metafisica del potere,
ottenendo una visione chiarificatrice
dell’esistenza e delle sue ragioni.
Nel caso dell’autore settecentesco,
inoltre, la forma dramatis conduce ad
un’alternativa tra vita e morte mediante
una scrittura che rimane concentrata
ed essenziale nel suo svolgimento,
carica nelle descrizioni ed attenta
nel rendere un realismo rappresentativo
ed assoluto.
Attraverso l’analisi di alcune tragedie
dell’Astigiano e con l’ausilio
delle dichiarazioni rinvenibili in passi
tratti dall’epistolario, dalla Vita e
dal Parere sulle tragedie, Salsano ripercorre
le fasi inerenti la stesura delle
opere e, soprattutto, la loro ‘riscrittura’.
Pur non avendo Alfieri lasciato
scritti teorici sul teatro, esaminando
le pagine delle sue opere è possibile
analizzarne il modus operandi e gli
elementi di continuità e discontinuità
con la produzione teatrale italiana
e francese. Se nel Parere sulle tragedie,
infatti, il drammaturgo afferma di
avvertire «in se stesso un intimo senso
che gli dice, che si potrebbe pur
fare assai meglio», risulta allora ipotizzabile
uno «spiraglio sull’incidenza,
entro una zona psicologicamente
prossima al sublimale, della dialettica
da cui sorge una complicazione
concettuale e sentimentale della
scrittura come dinamica di superamento,
come convergere inesorabile
[…] in riscrittura» (p. 12). La cura per
la res dramatica dimostrata dall’Alfieri
connota dunque un principio di
formalizzazione che, sotto la spinta
etica, dà vita ad uno stile articolato
che tiene conto delle istanze del soggetto
drammatico e di quelle artistiche,
entrambe sottoposte ad una lunga
stratificazione scrittoria. L’intelligenza
compositiva dell’autore e la
sua tensione a dinamizzare l’impianto
organico classicistico porterebbero
dunque inevitabilmente ad accogliere
modifiche e ripensamenti, fino ad
una riscrittura cosciente. Tale pratica,
del resto, appare voluta e cercata
dall’Astigiano quale orizzonte problematico
su cui situare la tensione
del dramma, in una sorta di intertestualità
programmatica: alla prassi
scrittoria si sovrapporrebbe il desiderio
di un’espressione più libera ed
indipendente rispetto ai modelli prescelti.
Nel Parere sulle tragedie l’Alfieri
scrive: «Quanto poi ai presenti caratteri,
chi si vorrà chiarire se questi siano
o non siano diversi dagli altri,
recensioni 383
ponga accanto ad uno qualunque di
questi personaggi i più noti, e i più
spesso trattati, un altro simile d’altro
autore; per esempio quest’Oreste,
quest’Egisto in Merope, questo Marco
Bruto accanto all’Oreste, Egisto, e
Bruto di Voltaire, di Crebillon, del
Maffei, o di altro pregiato scrittore;
ed io credo impossibile che la total
differenza, per quanto ve ne possa
essere in un personaggio stesso nel
fatto stesso, non venga chiaramente
a manifestarsi».
La tendenza a considerare la scrittura
come riscrittura, sottolinea Salsano,
è in Alfieri ancora più evidente
laddove essa si confronti con i modelli
classici ed il loro svolgimento,
venendo a comprendere in sé istanze
metodologiche e storiche: «Per vari
aspetti la composizione della Merope
alfieriana è il caso più eclatante,
nell’evoluzione della carriera drammaturgica
dell’autore, di riscrittura
concepibile come tendenza a un vero
e proprio rifacimento, con tanto più
interessante convergenza tra la dimensione
originaria di una scrittura
e quella mediata di una riscrittura
quanto più il momento storico personale
nel quale la Merope alfieriana
viene concepita e realizzata […] stimola
impellentemente al concentrarsi
di autoriflessione critica e matura
progettualità da un lato, adesione
agli impulsi intimi e imprevedibili
della scrittura creativa, dall’altro lato
» (pp. 18-19).
La stretta connessione tra la pratica
poietica, l’elaborazione inventiva
e linguistica e il tentativo di evitare
influenze da parte di una letteratura
scelta come privilegiata interlocutrice
porta inoltre ad una «correlazione
reciproca tra impulso di scrittura poetica
ed autocoscienza vigilmente
critica» (p. 22); se, dunque, forti sono
in Alfieri vitalità ed originalità dell’ispirazione,
anche il confronto con il
modello di riferimento evita una lettura
sminuente della scrittura dell’Astigiano.
Le affermazioni dello scrittore
che rimandano all’amor sui e al
desiderio di «alto operare» devono
perciò essere recepite come la volontà
di evitare le prosaicità di una scrittura
troppo conforme all’originale e
pertanto poco creativa, o non sufficientemente
tramata da istanze personali
ed intellettuali. Tale necessità,
del resto, può essere accostata a motivi
autobiografici, risalenti alle prime
prove tragiche dell’Alfieri: la riscrittura
come scrittura di un modello
è quindi «accostabile ad un momento
personale cronologicamente
assai significativo come quello degli
‘inizi’» (p. 25), come si evince da una
lettera inviata dal drammaturgo al
Pacciaudi nel gennaio 1775 a proposito
di una delle sue prime prove tragiche:
«il miglior modo […] di correggere
Cleopatra si è di farne una
migliore».
Lo stretto nesso tra «critica, teoria
e scrittura» (p. 29) si configura allora
come atto poetico e pragmatico ad
un tempo di ciò che Alfieri intenda
per ‘riscrivere’, ossia ‘rifare’ lavori
letterari, migliorandone la drammaticità
e la tensione scenica, e dando
vita ad una variazione sublime del
fenomeno letterario. La riscrittura,
tuttavia, proprio per le sue caratteristiche
di costante modificabilità, si
pone con autonomia ed originalità
nei confronti del soggetto scelto per
la messa in opera. Lo sguardo critico
dell’Alfieri sulle opere cui egli si dedicava,
infatti, vale anche, come sottolinea
Salsano, per i suoi stessi testi,
sottoposti, a distanza di anni, ad una
384 recensioni
vigile lettura che ne verificasse e garantisse
la portata artistica ed anticonformistica,
sorta di uscita da sé
per confrontare la propria capacità
espressiva; in questo modo lo scrittore
poteva reificare l’esperienza vissuta
e osservarla da testimone e giudice:
«Dotto non sono, né voglio parerlo:
onde, nessun ragionamento farò
sul teatro degli antichi; nessun raffronto
di passi, nessuna citazione, né,
tampoco, leggi o sentenze su l’arte,
inserirò in questo scritto. Egli non
dee contenere altro che il semplice
effetto e impressione che ho ricevuto
da questi poemi, quando io, non me
li ricordando quasi più, gli ho successivamente
letti ed esaminati, come
se fossero stati d’un altro».
«Quando», scrive Salsano, «oltrepassando
l’ambito dei generi allargassimo
lo sguardo a una sfera più ampia,
ecco che l’attività poetica del drammaturgo
potrebbe confrontarsi […]
con quel pensiero sulla distinzione
delle arti che con il Lessing aveva
avuto un significativo ruolo di teorizzazione
a proposito del Laocoonte
» (p. 35).
Se nella prima parte del volume
Salsano analizza il tema della scrittura
alfieriana come atto, attraverso
una visione classicistica e razionalistica,
nella seconda parte lo studioso
affronta l’analisi di alcuni esempi di
riscritture alfieriane, emblematiche
di quanto già analizzato teoricamente,
quali il Filippo, di cui vengono indagati
l’iter scrittorio e le connessioni
con il Dom Carlos di Saint Réal, il Polinice
e la Merope. I primi due drammi
«rappresentano, nella carriera drammaturgica
dell’Alfieri, un caso particolare
della sua sperimentazione artistica
nella misura in cui vi si riflettono
[…] gli esordi e gli iniziali sviluppi
di una vocazione letteraria legati
ad uno stato, a quella situazione,
parzialmente desumibile da talune
dichiarazioni dell’autore, che oscilla
tra la stasi indotta da difficoltà paralizzanti
e un volenteroso rilancio della
determinazione a scrivere» (p. 73).
Il Polinice, in particolare, permette di
accostare la stesura della tragedia ad
un piano propriamente esemplare e
pedagogico: per la sua elaborazione,
Alfieri si servì delle letture dei Fratelli
Nemici del Racine e dei Sette a Tebe
di Eschilo, anche qui tendenzialmente
riscrivendo i testi, giacché, come
egli annota nella Vita, era bene «di
non più mai leggere tragedie d’altri
prima d’aver fatto le mie, allorché
trattava soggetti trattati, per non incorrere
così nella taccia di ladro, ed
errare o far bene, del mio. Chi molto
legge prima di comporre, ruba senza
avvedersene, e perde l’originalità, se
l’avea». L’esempio dei modelli, dunque,
agisce su Alfieri con un duplice
movimento, di attrazione e di dissuazione,
in stretta connessione con
l’esperienza autobiografica e storica.
Le sfumature con cui l’autore si accosta
alle opere dei suoi predecessori
appaiono emblematiche se si guardi
anche al caso della Merope; il modello
immediatamente antecedente era costituito
dall’omonima tragedia del
Maffei, poco amata dall’Astigiano,
che, invece di scagliarsi contro il suo
autore, dimostra, pur nel netto giudizio,
una capacità di interpretazione
pragmatica ed attenta. Qui l’intervento
di riscrittura si arricchisce di
un fitto lavorio di analisi dell’opera
per mezzo di postille e didascalie
rinvenibili sul testo in possesso
dell’Alfieri che, grazie ai minuti rilievi
testuali, propone una forte dialettica
tra lettura ed interpretazione prirecensioni
385
ma e testo individuale e alternativo
poi. Scrive Salsano: «In queste postille
sicura e ragionata è la critica, lucido
l’intento di una gradazione valutativa
che rivela non atteggiamenti
di superficiale disposizione di adesione
o rifiuto, quanto […] atteggiamenti
di sensibilizzata ricezione di
motivi artistico-drammatici» (p.
152). Attraverso un’analisi dei vari
passi tratti dalle opere del Maffei e
dell’Alfieri, Salsano considera dunque
le diverse rese delle scene drammatiche
e la loro differente valenza
etica e politica, riuscendo ad offrire
un’ampia disamina della vocazione
drammaturgica dell’autore e della
sua scrittura quale tematizzazione
delle istanze stilistiche e dei motivi
propri del teatro italiano settecentesco.
Noemi Corcione
Giuseppe Leone, D’in su la vetta della
torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo
Bene sospesi fra silenzio e voce, Lecco,
Il Menabò, 2015, pp. 140.
La proposta di accomunare Carmelo
Bene e Giacomo Leopardi, nasce
dalla comune attenzione alla vita
umana. In particolare il primo nodo
critico da sciogliere è quello del rapporto
tra silenzio e voce nei Canti.
Per Leopardi, riguardo all’idea dell’infinito,
l’importanza del suono e
del canto era pari agli effetti della
luce e degli oggetti visivi. Nondimeno
Carmelo Bene, leggendo Dante
dall’alto della torre degli Asinelli,
compie il miracolo di sparire dalla
vista della folla, per riapparire solo
come voce. Questa della torre degli
Asinelli sarà la sua più alta prova
orale e scritta, come la proposta di
portare la civiltà della croce al suo
antico splendore. È nelle Operette morali
che Leopardi sperimenta la parola
come suono, come significante e
non come significato. L’opera di Leopardi
che meglio coglie il passaggio
dalla oralità presocratica alla scrittura
è i Paralipomeni della Batrocomiomachia.
Carmelo Bene e Giacomo Leopardi
sono “due geni che fra Otto e
Novecento, si sono affacciati dall’alto
della torre per farci sentire la loro
voce lirico-drammatica, per ridare
armonia al circostante deserto italiano”
(p. 51). Due geni a confronto, Leopardi
e Carmelo Bene, accompagnati
ora dal reciproco tentativo di trasferire
la poesia e il teatro sull’udito,
dalla consapevolezza che essi ebbero
della loro opera. L’infanzia di Leopardi
e Bene, nota lo studioso, è decisamente
vissuta nel segno dell’educazione
cristiana. Anche quando il
materialismo prenderà il sopravvento
in Leopardi non è raro scorgere riverberi
fideistici in conciliazione con
il pensiero scientifico. In realtà Leopardi
osteggiò la politica e l’economia,
la stilistica e la storia avendo
interesse per quella idea di fanciullo,
dove il poeta sulle orme di Vico, fissò
i paletti della poesia. Fu solo nel periodo
tra le due guerre, che si cominciò
ad astrarre il pensiero e l’opera
leopardiana studiandoli alla luce di
considerazioni testuali e artistiche.
La concezione aulica della poesia, da
parte di Bene e di Leopardi, li pone
in un rapporto critico con l’arte di
stato e i suoi premi. Furono Carmelo
Bene e Giacomo Leopardi due geni
mal considerati dai rispettivi genitori.
Carmelo Bene ha operato con l’imperativo
categorico di distruggere il
teatro occidentale, per salvarlo dalla
386 recensioni
decadenza. E lo ha fatto con Hamlet,
Macbeth. Sarà facile ascoltare Leopardi
e Bene sopra questi coturni altissimi,
e cioè la torre campanaria di
Recanati e la torre degli Asinelli di
Bologna, dalla quale i due pur avevano
diffuso l’armonia della loro arte
poetica. Giuseppe Leone, insomma,
con una prosa finissima ed elegante,
affronta una comparazione nel suo
volume tra scrittura e oralità, silenzio/
voce, significante-significato, che
non sono stati meno determinanti
nello sviluppo dell’opera leopardiana;
è una lettura attenta, condotta
sull’esame dei testi e le testimonianze
autobiografiche, che rivelano indubbie
similarità tra i due geni. Si
tratta di un volume coraggioso, che
affronta con prepotenza un argomento
nuovo, e mi sia consentito,
spregiudicato di un confronto tra i
due geni. La scrittura è lineare e cristallina
come nello stile di Giuseppe
Leone, che tratteggia con finezza di
pensiero e di stile un profilo davvero
originale di due personalità della
cultura italiana.
Valeria Giannantonio
Valeria Giannantonio, Giulio Salvadori
nel mondo delle idee, Firenze,
Franco Cesati Editore, 2015, pp. 162.
Chi, ricordando le parole di Benedetto
Croce su Giulio Salvadori, si
approccerà al nuovo lavoro di Valeria
Giannantonio, sarà destinato a
veder lentamente e piacevolmente
sgretolare il proprio castello di preconcetti,
gli parrà di scorgere una
persona diversa, un omonimo che
con il personaggio crociano nulla ha
in comune, se non un certo slancio
verso la fede cattolica; vedrà – come
poche volte accade – morire l’idea di
un uomo per farne spazio ad una
nuova.
Perseguitato dall’ombra del giudizio
negativo di Croce, Giannantonio
rivaluta il pensiero, la produzione e
la persona stessa di Giulio Salvadori,
andando oltre l’apparente e semplicistico
Te Deum e l’involucro creato
dall’ideologia crociana, permettendo
al lettore di scandagliare e comprendere
la vita, le opere e il pensiero innovativo
dell’uomo e dell’intellettuale.
Dalle prime collaborazioni a
«Cronaca bizantina» agli studi su
Dante, dall’ammirazione per Carducci
alla stretta connessione con
Manzoni e Fogazzaro, tenendo come
punto cruciale di questo movimento
centrifugo la fede, non una fede chiesastica,
come la descrisse Croce, non
le semplici parole di un prete o –
quasi – di un santo, ma una fede che
non fu mai rifugio, un’attività pronta
al sacrificio che avrebbe dovuto avvicinare
la vita dell’uomo a quella di
Cristo.
Nella Roma da poco divenuta capitale,
Salvadori collaborò a stretto
contatto con gli intellettuali di «Cronaca
bizantina». Visse gli anni della
Roma mondana e goliardica, ma anche
prima della conversione non si
lasciò mai assorbire dal turbinio della
Capitale. Non per questo è da considerarsi
intellettuale spento ed alieno
alla vita. Punto fermo di tutta la
sua esistenza furono la cultura e
un’idea indissolubile di bellezza ed
arte che fecero di lui non un amante
del chiuso delle biblioteche, ma un
individuo dedito alla vita, capace di
trovare – ed indagare – un’esistenza
semplice in quella Roma dai mille
volti e i tanti inganni.
recensioni 387
In questi anni di collaborazione
con «Cronaca Bizantina» iniziarono
ad innestarsi nel terreno salvadoriano
le radici del pensiero di Giosue
Carducci. Apparentemente posti su
due strade diverse, Salvadori coltivò
per tutta la vita il senso d’ammirazione
per il maestro toscano. Da Carducci
riprese il senso della storia, livellando
quella visione pagana degli
eventi politici in una visione certamente
più cristiana; ammirò la metrica
barbara, considerata come quel
giusto collegamento con le radici e
con il passato, in grado di proiettare
la poesia verso il futuro e dare alla
luce qualcosa di rinvigorito ed innovativo.
Salvadori, però, non mancò
di interpretare in maniera del tutto
personale la figura carducciana, dando
voce ai suoi tormenti ideali e spirituali,
rivalutandone non tanto il
pensiero, quanto la persona, che in
L’ora di Dio sembra pronta a recuperare
la cristianità dinanzi al baratro
della morte. Non solo, però, Salvadori
ammiratore carducciano. Nonostante
sia indubbia una certa lontananza
tra i due poeti, sorprendente è
il numero di opere di Salvadori che
passarono certamente tra le mani e
sotto lo sguardo infaticabile del Carducci,
segno di ammirazione nei suoi
confronti o anche di quella che è stata
interpretata come una possibile
curiosità verso la conversione.
La trasformazione spirituale poggiò
su un triplice fondamento basilare:
da un lato Dante, certo non sempre
il Dante intellettuale, ma più
spesso il Dante personaggio visto nel
suo itinerario completo che parte
dalla Vita nuova per giungere al Paradiso,
con la figura di Beatrice sempre
presente e padroneggiante; segue
Manzoni, al quale lo accomunava
l’allontanamento dal luogo di origine
come premessa per il mutamento
spirituale; ma anche Fogazzaro, col
quale condusse uno scambio epistolare
sempre elegante e garbato, non
estraneo all’espressione dei più
grandi tormenti cha la propria anima
gli poneva nel petto.
Fortemente ambiguo fu il suo atteggiamento
durante la prima Guerra
mondiale. Si schierò a favore del
conflitto, visto come un modo per
preparare il mondo alla giustizia e
alla pace, per ridare all’Italia quello
splendore che Dio aveva donato a
tutta la sua storia, giustificazione alquanto
insensata del sostegno agli
eventi bellici.
Certo la fede non portò solamente
a slanci nazionalistici, ma anche a risultati
sorprendenti; si pensi all’equiparazione
della struttura della
Divina Commedia all’architettura sacra
medievale, che portò Salvadori a
concepire il Poema come una triplice
basilica rappresentante i tre momenti
della vita in relazione con Dio: liberazione
dal male, purificazione e visione
mistica, allo stesso modo in cui
erano articolate le più grandi strutture
religiose medievali.
Solamente con la caduta dei preconcetti
iniziali che accompagnavano
il lettore si può comprendere come
la figura di Salvadori, per quanto
apparentemente possa sembrare agli
antipodi, sia molto vicina a quella di
D’Annunzio. Entrambi gli intellettuali
erano consci di vivere in un momento
di transizione; entrambi si distaccarono
dalla produzione precedente,
consapevoli di dover proporre
– a loro stessi, prima che al pubblico
– qualcosa di nuovo. La novità, il
cambiamento, se D’Annunzio lo trovò
nell’estetismo e nel parnassianesi388
recensioni
mo, per Salvadori fu rintracciato nella
conversione – anche se mai egli
utilizzò questo termine –, nell’ideale
cattolico, nel sacrificio necessario, visto
non come un obbligo, ma come
un modo per votare la propria vita e
la propria persona al bene. Certo, al
di là del credo religioso, un anticonformista
per quei tempi e anche per i
nostri.
Fara Autiero
Virginia Di Martino, Sull’Acqua.
Viaggi diluvi palombari sirene e altro
nella poesia italiana del primo Novecento,
Napoli, Liguori, 2012, pp. 264.
Il volume di Virginia di Martino
indaga uno dei simboli archetipici
più affascinanti e densi della letteratura
di tutti i tempi. Dall’acqua lustrale
con il suo valore catartico a
quella che separa e allontana, dall’acqua
del burrascoso naufragio a quella
del dolce naufragar, la poesia italiana
del primo Novecento attinge a
piene mani dalla dimensione acquorea.
La di Martino, operando una scelta
indispensabile, che la costringe a circoscrivere
l’altrimenti sterminato
campo d’indagine, dedica il suo libro
ad una pur nutrita schiera di autori
dell’alba del vecchio secolo: Corazzini,
Moretti, Gozzano, Govoni, Palazzeschi,
Sbarbaro, Rebora, Campana,
Ungaretti, Saba, Montale, ai quali si
aggiunge il Marinetti di Fondazione e
Manifesto del Futurismo e di Uccidiamo
il chiaro di luna.
Come chiarisce sin dall’introduzione,
l’autrice esamina l’intera produzione
di autori come Gozzano,
Campana e Corazzini, per le loro
esperienze poetiche circoscritte nel
tempo, ma limita il campo d’indagine
alle opere degli altri autori, in cui
sia più evidente il ricorso alla metafora
acquorea.
Il primo capitolo, L’immersione, costruisce
l’immagine del poeta-palombaro,
esaminata ne Il porto sepolto
di Ungaretti, nei Frammenti lirici di
Clemente Rebora, nelle Rarefazioni di
Corrado Govoni e nel Manifesto marinettiano.
Una seconda parte del capitolo
è dedicata ad una diversa epifania
poetica dell’immersione: ne Il
responso, una delle liriche de La via del
rifugio di Gozzano, attraverso una
desublimazione del mito, l’autrice
giunge a mostrare la desacralizzazione
dell’immersione, che non rivela
più nulla, non consente più alcun recupero,
come accade anche in alcune
poesie de L’incendiario, il libro futurista
di Palazzeschi o in alcune liriche
degli Ossi di seppia montaliani e del
Canzoniere di Saba.
L’acqua come spazio sacro è oggetto
dell’analisi del secondo capitolo,
L’Eden restaurato, in cui sono esaminate
liriche, di Rebora, Ungaretti,
Corazzini, Campana, Saba e Montale.
«L’acqua, in quanto simbolo dello
spazio sacro, è figura di ciò che è altro
dall’uomo, di ciò da cui l’uomo si
sente attratto proprio nella misura in
cui se ne riconosce estraneo» (p. 69)
– scrive la di Martino, per aggiungere
che, proprio la riconosciuta alterità
rispetto all’elemento acquoreo,
ispira al poeta-uomo il desiderio di
umanizzazione di quell’acqua, di
fronte alla quale si porrà come novello
Narciso. L’acqua come specchio,
oggetto del terzo capitolo, è individuata
nelle liriche del Palazzeschi
dei Poemi e di Dino Campana, poeti
allo specchio, che diventa specchio
recensioni 389
dell’anima in alcune liriche di Corazzini,
Saba e Montale.
L’acqua dispensatrice di vita, che
rigenera Moretti, Sbarbaro e Saba, è
anche signora del tempo e della morte
nel capitolo successivo. L’acqua
stagnante dei Canti Orfici, ad esempio,
indica la sospensione del tempo,
le acque «buie» di Sbarbaro e Ungaretti
sono, invece, chiaramente acque
letali.
Un altro capitolo, assai suggestivo
del libro, è dedicato alla sfera simbolica
acqua-donna-notte. Sono esaminati
autori come Govoni, Campana e
Ungaretti, in cui la connessione tra
l’acqua e la conquista ed il possesso
della donna sono posti in stretta correlazione,
in opposizione ad alcune
situazioni liriche evidenziate in
Montale, Sbarbaro e Palazzeschi, per
i quali l’impossibilità di rapporto con
il femminile coincide con l’esclusione
dall’elemento acquoreo.
Altro tema analizzato è quello del
viaggio per acqua, che ha popolato la
letteratura di ogni tempo, affollando
il mondo classico di immagini di
hybris, che, in qualche caso tornano
nella letteratura italiana protonovecentesca,
affiancandosi ad immagini
del viaggio per acqua come percorso
di iniziazione o di formazione, cui
spesso l’immagine del naufragio è
speculare.
Il volume, che attinge ad un’ampia
e ragionata bibliografia, è poi chiuso
da un’Appendice dedicata agli animali
acquatici, elementi del paesaggio
in Gozzano o emblemi di una
certa visione della vita, del mondo e
della poesia, come i mesti cigni di
Moretti o la «rondine di mare» di Corazzini.
Daniela De Liso
Antonio Pietropaoli, Cartastraccia.
Postfazione di Paolo Giovannetti,
Salerno/Milano, Oèdipus, 2014, pp.
Cartastraccia, il volume pubblicato
da Oèdipus nel 2014, riunisce quattro
raccolte di poesie (l’ultima è inedita)
prodotte nell’arco di circa un
trentennio da Antonio Pietropaoli
che, in questo lungo arco temporale,
ha affiancato alla professione di docente
universitario, studioso e critico
letterario (esperto di forme metriche
novecentesche) il difficile mestiere di
poeta: due professioni svolte in parallelo
con uguale impegno e meticolosità
e con inevitabili interferenze e
prestiti dall’una all’altra. Questo volume,
ricordiamolo, è nato non per
volontà dell’autore (anche se, prima
o poi, certamente l’idea gli sarebbe
balenata), ma per iniziativa di Sebastiano
Martelli, Direttore del Dipartimento
di Studi Umanistici dell’Università
di Salerno, che ha voluto in
questo modo rendere omaggio ad un
collega e caro amico che, ahimè,
troppo presto decideva di lasciare
l’insegnamento universitario per
una serie di motivi di carattere personale
e culturale.
La prima delle quattro raccolte
comprese in Cartastraccia è Catantistrofette
(pubblicata nel 1983 da Cuzzola),
nella quale il giovane poeta

precario” (“sospeso appeso al serico
seno dell’Università /aspirante
stradivario che poi qualcuno sistema
all’incontrario…”, p. 30) rivela (sulla
scia del maestro Sanguineti) una speciale
attitudine per la manipolazione
verbale, per il gioco sillabico, per il
calembour e il nonsense, toccando gli
estremi di “un’oltranza inventiva”
(come ha scritto Giovannetti nell’ottima
Postfazione, p. 354) mai più con390
recensioni
seguita, ma probabilmente neppure
ricercata nelle successive raccolte,
dove permangono il gusto per il gioco
verbale e la ricerca di effetti fonico-
ritmici, ma pure emergono altre
decisive istanze.
In Catantistrofette le parole sono
“capriole” (p. 40), le virgole sono le
“fate del testo” (p. 27 e p. 88), la carta
è “fabriana” (p. 46), il poeta è “appollaiato
sulle rime, che scoppiettano di
là, / s’intrufolano di qua” (p. 70), al
lettore non resta altro da fare che entrare
in questo mondo incantato fatto
di parole inconsuete, suoni allitteranti,
variazioni paronomastiche e
accettare il gioco così com’è, senza
forzarlo. La poesia di Catantistrofette
è dunque gioco, ma non gioco innocente,
i versi di cui è composta sono
“oscuri intrugli, fumi facezie droghe
ritagli e artefatti” (p. 43): si tratta di
poesia “artefatta”, perché fatta di artifizi
metrico-retorici e di “ritagli”,
ovvero di citazioni colte e auto-citazioni,
ma anche di proverbi, luoghi
comuni e slogan che, una volta riutilizzati,
e dunque piegati ad altri significati
lontani dal senso comunemente
accettato, acquistano nuovo
vigore semantico.
I versi di questa prima raccolta sono
versi difficili, che quasi creano degli
inciampi al lettore, quest’ultimo,
come già detto, deve lasciarsi risucchiare
dal vortice sonoro generato
dalle parole-suono, deve assaporarle
con leggerezza, senza interrogarsi
sui singoli significati. Ma attenzione:
Pietropaoli non è poeta nonsensico
alla maniera di Scialoja, Maraini o
Niccolai, le sue poesie un senso ce
l’hanno sempre, anche se è un senso
generato dal suono, che si annida
dietro le sillabe.
In Catantistrofette, inoltre, già sono
presenti i due temi centrali della poesia
di Pietropaoli: innanzitutto l’amore
per la moglie/musa Mariella,
declinato in tutte le sue possibili accezioni
(tenerezza, contrasto, intimità,
eros), e poi l’autobiografismo, una
tendenza forte alla confessione di sé
che diventerà ancora più marcata
nella successiva raccolta, La ragnatela
di Pirro, uscita nel 1991 presso Edisud.
Quest’ultima segna il ritorno
alla poesia dopo una pausa di circa
sette anni. Anni durante i quali Pietropaoli
ha smesso i panni del poeta
giovane precario, ma ha conservata
intatta la sua vis poetica: “rimbombano
di nuovo in testa i ritornelli”, tornano
le “vaganti rime“ (p. 87); sono
gli “enzimi del risveglio” (ibidem) da
un lungo silenzio che ora tornano in
circolo e riprendono vigore. Ancora
una volta “basta una virgola”, “sottile
grimaldello dei lemmi” (p. 88), per
far esplodere una fantasia, per rimettere
in moto le parole e le rime, per
far ripartire il gioco di una poesia
“che oramai si fa / in totale assenza
di gravità” (p. 105).
Ricompaiono in questa raccolta le
“sottili schermaglie” con Mariella,
ma anche gli “amari schermi” (p.
128), le finzioni e le maschere di un
poeta “in balìa di se stesso” che ora
vorrebbe “depietropaolizzarsi un
po’”. Tra “espianti impianti e trapianti”
(e probabilmente anche rimpianti),
la vita lo ha costretto a costruirsi
addirittura un “avatar”, appunto
un altro io più resistente rispetto
a quello che nel corso degli
anni è diventato leggero, trasparente,
fragile, un io di “cristallo soffiato”
(pp. 128-129). Come in un gioco di
specchi, il poeta e il suo avatar si inseguono
e si confondono e confondono
anche il lettore attraverso una
recensioni 391
serie di dichiarazioni contraddittorie:
“son vero” e “sono un altro” (p.
131), “parlo poco e molto”, il poeta è
allo stesso tempo “anguilla e aquila
reale” (p. 132). Persino l’ombra è “fasulla”,
“manomessa”, “artificiale”.
Ma se non è possibile una dimensione
autentica del vivere, allora, forse,
è meglio “incartapecorirsi” (p. 134),
ovvero fermarsi e lasciare che il tempo
faccia il suo corso…anche questo,
d’altro canto, è un progetto di vita.
Ma il poeta, dopo una pausa durata
un ventennio, riacquista vigore e
riprende il suo cammino poetico interrotto.
Nel 2011 esce, con Oèdipus,
Dissezioni, la raccolta della maturità,
se così si può dire, nella quale il gusto
irriverente per il gioco linguistico,
il gusto per la citazione e per il
riuso spiazzante di proverbi e luoghi
comuni ci sono sempre, come pure,
sul piano tematico, ritornano l’autobiografismo
e l’eros, ma in aggiunta
a tutto ciò si fanno più urgenti le
istanze etiche e civili. In questa raccolta
Pietropaoli si rivela homo politicus,
immerso fino al collo nel proprio
tempo, nella storia, nella società, alle
quali guarda con distacco ironico,
con sorriso beffardo, ma senza ombra
di cinismo. L’imperativo contenuto
nella poesia eponima che apre
la raccolta è chiaro: evitare di porsi
“al centro della scena” e scegliere
piuttosto di stare “ai margini, in angolo”
(p. 147) da dove è possibile
scrutare con occhio limpido la realtà,
“dissezionarla” a freddo, “autopticamente”,
attraverso l’uso di una scrittura
corrosiva, che affonda nelle cose
come la lama di un bisturi. L’uso insistito
di proverbi, citazioni e luoghi
comuni è una costante del linguaggio
poetico di Pietropaoli, ma qui si
carica di un’ulteriore valenza: probabilmente
è l’unico modo che resta al
poeta per entrare in contatto con una
società soggiogata dai new-media, dominata
dalla blogosfera e dai social
network, responsabili di aver impoverito
e omologato la nostra lingua
oltre ogni misura. Quella che Luca
Serianni ha definito la “lingua di plastica”
(fatta di slogan e detti popolari)
è forse lo strumento più idoneo
per parlare alla “tribù”, agli italiani
“coriacei e ruspanti” (p. 176) e per
denunciare storture e malcostume
del “paese di cuccagna / dove si batte
per un pugno di paglia / chi sa
bene che sotto ogni magagna / c’è
bello pronto un asino che raglia” (p.
175).
Non dobbiamo insomma lasciarci
ingannare dall’apparente leggerezza
e facilità di questi versi, le parole “logore”
della tradizione letteraria o
quelle un po’ insulse delle canzonette
e dei detti popolari, una volta manipolate
e ricollocate nei versi, si trasformano
in colpi sparati da una “pistola
fumante”. È il caso della poesia
dedicata a Napoli, un ritratto crudo e
duro della città, reso ancora più incisivo
dal gioco della citazione colta
(nei due versi iniziali) e dall’estrema
concisione degli enunciati: “così Partenope
continua a tessere / la sua tela
come un canestro di ginestre / una
distesa di case bocca a bocca / un
nido di vipere / un mare di boschi
crepitanti / che il cuore dell’infame
distoglie e rinfresca. Non la cattedrale
nel deserto è cosa grave / ma che
deserto e cattedrale son una cosa” (p.
192).
Il sentimento angoscioso del tempo
che passa è un altro tema della
raccolta. La vecchiaia, odiosa e indecente,
è per il poeta “un aratro” che
travolge ogni cosa, che mortifica il
392 recensioni
corpo (“a fatica mi allaccio le scarpe
/ […] / invecchio riflesso in uno
specchio / mi cruccio per i miei intoppi”,
p. 244) e induce a “fissare
punti fermi /assodare qualcosa” (p.
246), ovvero a fare penosi bilanci. La
frana del tempo mette in crisi persino
la cellula-famiglia (“la cellula non resiste
per niente / petalo a petalo si
sfoglia”, p. 247) e incrina il significato
delle parole (“le parole si scheggiano
/ mi avvito nel vuoto”, ibidem). Il
sentimento della fine che si appressa
spaventa il poeta, rischia di paralizzarlo
nei ricordi, di ridurlo all’afasia.
Ma il poeta non tace e nel 2014 esce
Schegge, l’ultima raccolta, pubblicata
per la prima volta in Cartastraccia.
Qui Pietropaoli si dichiara “poeta
fannullino” (p. 261), in realtà né fannullone,
né fanciullino, o forse entrambe
le cose. È un poeta che ci ricorda
in continuazione che è “a corto
di vita” (p. 342), che vive oramai sull’“
orlo del tempo”, che ne subisce “lo
stillicidio”. In tempo è il titolo di una
sezione della raccolta e il tempo
avanza inesorabile, ha le fattezze di
un “mostro che ti devasta” (p. 271),
che ti costringe a costruire versi sempre
più contratti che a volte diventano
addirittura non versicoli ma “vermicoli”,
perché non è più tempo di
“lirismo crepitante”, ma di “algida
algebra” (pp. 273-274).
Come reagire allo stillicidio del
tempo? Magari accoccolandosi tra i
ricordi, scansando le “buche dei minuti”
e giocando a “nascondino con i
secondini del futuro” (p. 272). Da un
lato, quindi, sarebbe opportuno dribblare
lo scorrere del tempo, cercando
di non sprecarlo in cose inutili, ma
pure – ammette il poeta – “mi piace /
il mio tempo dissipato / cincischiato
disoccupato /centellinato a piacere”
(p. 277). Lo stessa oscillazione, tra
conservazione e dissipazione, tra arroccamento
e sospensione, riguarda
il modo di fare poesia. Cosa fare?
Guardare al passato, contare i fallimenti,
le occasioni mancate o ricercare
con ostinazione, “aggrappato al
computer”, il “verso della vita” (p.
282)? Ricercare “parole-pietra”,
“stentoree”, che pretendono di scalare
verità ma che poi “affondano
nell’errore”, o inseguire “parolearia”,
leggere e svolazzanti, ma che
posseggono una loro “contro-verità”?
(p. 293). Magari si può chiamare
in causa il lettore (come fa il poeta
nelle pagine finali della raccolta) e
chiedergli soccorso, chiedere a lui
“parole adatte”, “scorrevoli” e “soccorrevoli”
alla “voce rauca fioca”
com’è diventata quella del poeta…
ma il lettore è frettoloso, è “già distratto
/intento a passare alla pagina
appresso” (p. 343).
Allora bisogna fare da soli, continuare
a fare a pezzi le parole, continuare
a martoriare la “cara carta
straccia”, insomma continuare a fare
poesia, perché se è vero che la poesia
non attinge a verità assolute, è pur
vero che scrivendo e scavando in se
stesso, negli anni, almeno una certezza
il poeta l’ha conquistata: “ora lo
so, ne sono certo: nun so’ nisciuno”
(p. 346).
Con questo verso – che chiude la
poesia Post-scriptum, l’ultima di
Schegge – si conclude anche il volume
Cartastraccia: conclusione auto-ironica
e intelligente di un percorso poetico
che immaginiamo ancora assolutamente
aperto.
Alessandra Ottieri
LIBRI RICEVUTI
Antologia teatrale, a cura di Antonia Lezza, Annunziata Acanfora,
Carmela Lucia, Napoli, Liguori, 2015, pp. 294.
Doglio Maria Luisa, «Più aperto intendi ancora». Tre letture dantesche.
Inf. VII, Purg. XVII, Par. XXXI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,
2015, pp. 64.
Filippelli Renato, Tutte le poesie, a cura di Fiammetta Filippelli.
Prefazione di Emerico Giachery, postfazione di Francesco D’Episcopo,
con Cd allegato, Roma, Gangemi editore, 2015, pp. 528.
Foscolo e la cultura europea, a cura di Enzo Neppi, Chiara Paola Caselli,
Claudio Chiancone, Christian Del Vento, «Cahiers d’études
italiennes», 20/2015 (Grenoble, GERCI), pp. 318.
L’esperienza poetica di Cosimo Greco. Ragioni critiche, a cura di Luigi
Marseglia, Manduria-Roma, Piero Lacaita, 2015, pp. 182.
La vita di S. Alessio descritta e arricchita con divoti episodi dal Marchese
Antongiulio Brignole Sale, a cura di Anna Maria Pedullà, Alessandria,
dell’Orso, 2014, pp. LII+98.
Svevo Italo, Una burla riuscita. Edizione critica sulla base di un nuovo
testimone, a cura di Beatrice Stasi, Lecce, Pensa, 2014, pp. 224.