Anno XLIII (2015), Fasc. I, N. 166

Anno XLIII (2015), Fasc. I, N. 166

  1. Saggi
    • Cecilia Gibellini

      Petrarca e le maschere degli antichi – pp. 3-28

      Il contributo ricostruisce l’autoritratto di Francesco Petrarca attraverso una serie
      di frammenti testuali disseminati nelle opere volgari e latine, e soprattutto nelle
      Familiares. Si tratta di un autoritratto dinamico, che cambia nel tempo, e che si
      serve largamente dei procedimenti di travestimento e assimilazione ad alcuni
      grandi modelli dell’antichità. Petrarca passa infatti dall’autoritratto giovanile ‘in
      figura di’ Bellerofonte, di Alessi e di Virgilio, a quello della vecchiaia in cui assume
      la maschera del filosofo morale, e quindi quelle di Democrito e di Omero.

      The paper examines Petrarch’s self-portrait as it can be reconstructed from excerpts
      from his Latin and vernacular works (mostly from the Familiares). It is a
      dynamic self-portrait: Petrarch disguises himself as an ancient character, different
      time after time. When he paints his portrait as a young man, he disguises
      himself as Bellerophon, Alexis and Virgil; when he depicts himself in his later
      years, he wears the mask of the Philosopher and disguises himself as Democritus
      and Homer.

    • Daniela De Liso

      Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta – pp. 29-45

      A cinquecento anni dalla nascita di Salvator Rosa (1615-1673) il saggio propone
      un excursus sulla produzione letteraria del noto pittore napoletano. Al fiorire, a
      partire dall’Ottocento, di studi storico-artistici intorno alla sua produzione pittorica,
      non corrisponde, infatti, un’analoga attenzione critico-letteraria alla produzione
      in prosa ed in versi del Rosa. Le pagine che seguono intendono fare il
      punto sullo stato degli studi rosiani, riproponendo questioni filologico-critiche
      non ancora risolte, in particolare intorno alle satire ed alla restante ed “extravagante”
      produzione in versi dell’autore. Si pongono, insomma, come il luogo da
      cui ripartire per costruire, dopo il lungo silenzio della critica letteraria, l’esatta
      fisionomia dello scrittore e del poeta Salvator Rosa.

      Five hundred years after the birth of Salvator Rosa (1615-1673) this essay offers
      an excursus on the literary production of the famous Neapolitan painter.
      The flourishing of artistic studies revolving around his paintings since the nineteenth
      century has not in fact been accompanied by a similar concern for the
      literary study of Salvator Rosa’s production in prose and verse.
      The following pages are meant to take stock of the situation concerning studies
      on Rosa, proposing unresolved philological-critical matters, in particular relating
      to the “satire” and to the remaining and “extravagant” production in verse.
      The essay, in short, sets out to construct, following the long silence of literary
      critics, a precise portrait of the writer and poet Salvator Rosa.

    • Fabrizio Miliucci


      «Il giogo della rima»: Baretti contro il verso sciolto
      – pp. 63-86

      L’articolo propone una rassegna di luoghi in cui Giuseppe Baretti prende parte
      contro il verso sciolto, la forma metrica che nella seconda metà del XVIII secolo
      comincia ad affermare la sua presenza nella tradizione letteraria italiana. Il saggio
      prende in esame l’intero corpus delle opere barettiane, dalle prime traduzioni
      dal francese fino agli ultimi libri scritti in Inghilterra, ivi compreso il suo
      capolavoro La frusta letteraria. A dispetto della sua cattiva opinione dello sciolto,
      è possibile rintracciare alcune eccezioni sostanziali che problematizzano la
      questione.

      This essay looks at passages in which Giuseppe Baretti sides against blank
      verse, that metrical form that in the second half of the eighteenth century became
      increasingly popular in the Italian literary tradition. The study examines
      the whole of Baretti’s literary output from the first translations from French all
      the way to the last books written in England, including his masterpiece La frusta
      letteraria. Despite Baretti’s low opinion of blank verse, it is possible to encounter
      some important exceptions which complicate the issue, as the essay
      will attempt to demonstrate.

    • Luca Beltrami

      Carlo Levi e l’edizione americana dell’Orologio.
      Ricognizione su alcune carte d’archivio
      – pp. 87-109

      Pubblicata nel 1951 dagli editori newyorkesi Farrar, Straus & Young, l’edizione
      americana dell’Orologio ha avuto una gestazione complicata da numerosi problemi
      di traduzione. Alcune lettere inedite spedite dall’editore John Farrar
      all’autore tra il 15 marzo e il 14 maggio 1951 e conservate presso Fondo Carlo
      Levi di Alassio permettono di aggiungere qualche nuovo elemento sulla storia
      redazionale del libro e sui rapporti di Levi con il mondo editoriale e culturale
      statunitense.

      Published in New York by Farrar, Straus & Young in 1951, The Watch met with
      numerous difficulties during its English translation. Unpublished letters sent
      by John Farrar to the author between March 15 and May 14 1951 and kept in the
      Carlo Levi Archive at Alassio add new details concerning the editorial history
      of the book and Levi’s relations with US publishing and culture.

  2. Linguistica
    • Michela Pero

      L’italiano contemporaneo nella revisione della Bibbia 2008 – pp. 110-139

      Il presente lavoro dimostra, attraverso un’approfondita analisi linguistica, che
      la revisione biblica del 2008 adotta con decisione l’italiano contemporaneo e che
      proprio l’adesione a un tono medio fa sì che nel testo siano evitati tratti spiccatamente
      informali e colloquiali che avrebbero sminuito la portata del messaggio
      veicolato dalle Scritture. Il nuovo orientamento della Chiesa non nasce solo
      da una motivazione di carattere linguistico, ma si fonda in primo luogo su una
      istanza comunicativa e sulla volontà di avvicinare in modo autentico alla vita
      della Chiesa e al messaggio evangelico il maggior numero possibile di fedeli. La
      divulgazione è possibile solo attraverso un lavoro di miglioramento, semplificazione
      e attualizzazione con traduzioni chiare e adeguate che potessero attraversare
      trasversalmente la società.

      This paper demonstrates, through an in-depth linguistic analysis, that the revision
      of the 2008 Bible adopts contemporary Italian peremptorily and that precisely
      this adhesion to a medium tone makes it possible to avoid within the text
      passages distinctly informal and colloquial that would have reduced the scope
      of the message conveyed by the Holy Scripture. The new orientation of the
      Church does not derive from linguistic reasons alone but is based primarily on a
      communicative need and on the desire to bring, in a sincere way, as many believers
      as possible closer to Church life and to the evangelical message. Popularization
      is only possible through a work of improvement, simplification and updating
      with clear and appropriate translations suitable for society across the board.

  3. Meridionalia
    • Fara Autiero

      Tra comico e arguto. Per un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in Ferdinando Galiani – pp. 140-156

      La produzione di Ferdinando Galiani indagata attraverso le tecniche del motto
      catalogate da Sigmund Freud; una prima analisi atta a spiegare non solamente
      gli svariati motti di spirito disseminati nelle opere galianee e nella memoria dei
      suoi contemporanei, ma soprattutto le motivazioni che spinsero uno degli
      uomini più arguti del XVIII secolo ad affilare le lame dell’ingegno per costruire
      – già dai primi anni della sua attività- una macchina umoristica che non smise
      di funzionare fino alla fine dei suoi giorni.

      Ferdinando Galiani’s work examined by means of the witticism techniques catalogued
      by Sigmund Freud. This essay aims to explain not only the various witticisms
      scattered throughout Galiani’s literary output and in the minds of his contemporaries,
      but also the reasons that led one of the wittiest men of the 18th
      century to sharpen his wits in order to bring into being – from the earliest years
      of his activity – a comic mechanism that carried on working for the rest of his life.

  4. Contributi
    • Paolo Rigo

      Appunti per un’analisi metaforica del primo Luzi – pp. 157-174

      Il saggio si propone di analizzare alcuni topoi ricorrenti nei due primi volumi
      della sterminata produzione di Mario Luzi: La Barca e Avvento Notturno. Il contributo
      analizzando le poesie ivi contenute, le importanti recensioni e i lavori
      autocritici dello stesso Luzi ha individuato tre importanti topoi: la navigationave,
      il tempo-tessuto e lo specchio-psicomachia.

      The essay analyzes some topoi in two important books by Mario Luzi: La Barca
      and Avvento Notturno. The paper examines poems, many important reviews
      and other self-exegetical works (such as Luzi’s papers, interviews, etc.) and
      characterizes three fundamental topoi: the “ship”, the “time-weaver” and the
      “mirror-psychomachia”.

  5. Note e discussioni
    • Pierantonio Frare

      Mnazoniana – pp. 175-181

      A proposito di: Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Francesco
      de Cristofaro e Giancarlo Alfano, Matteo Palumbo, Marco Viscardi. Saggio linguistico
      di Nicola De Blasi, Milano, Bur-Adi, 2014; Promessi sposi d’autore. Un cantiere
      letterario per Luchino Visconti, a cura di Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti,
      Palermo, Sellerio, 2014. [Questo testo è stato letto il 13 aprile 2015 al Piccolo Teatro
      Grassi di Milano. In quell’occasione alcune pagine manzoniane furono lette da
      Toni Servillo. NdR]

  6. Recensioni
    • Daniela De Liso

      Andrea Battistini, Il Barocco, Roma 2012 – pp. 182-184

    • Marta Paris

      Bruno Cicognani, Le novelle 1915-1929, a cura di Alessandra Mirra; Le novelle 1930-1955, a cura di
      Valerio Camarotto,
      Firenze 2012
      – pp. 185-187

      Cicognani Bruno

    • Lavinia Spalanca

      Roberto Salsano, Michelsteadter tra D’Annunzio, Pirandello e il mondo della vita, Roma 2012 – pp.
      187-188

    • Valeria Giannantonio

      Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Intellettuali, scrittori, amici, intr. a cura di Alberto Granese,
      2013
      – pp. 189-191

 

saggi

Cecilia Gibellini
Petrarca e le maschere degli antichi
Il contributo ricostruisce l’autoritratto di Francesco Petrarca attraverso una serie
di frammenti testuali disseminati nelle opere volgari e latine, e soprattutto nelle
Familiares. Si tratta di un autoritratto dinamico, che cambia nel tempo, e che si
serve largamente dei procedimenti di travestimento e assimilazione ad alcuni
grandi modelli dell’antichità. Petrarca passa infatti dall’autoritratto giovanile ‘in
figura di’ Bellerofonte, di Alessi e di Virgilio, a quello della vecchiaia in cui assume
la maschera del filosofo morale, e quindi quelle di Democrito e di Omero.

The paper examines Petrarch’s self-portrait as it can be reconstructed from excerpts
from his Latin and vernacular works (mostly from the Familiares). It is a
dynamic self-portrait: Petrarch disguises himself as an ancient character, different
time after time. When he paints his portrait as a young man, he disguises
himself as Bellerophon, Alexis and Virgil; when he depicts himself in his later
years, he wears the mask of the Philosopher and disguises himself as Democritus
and Homer.
1. Lo specchio, il tempo
Nel Medioevo, l’idea che un autore consegni ai suoi scritti il proprio
autoritratto fisico è segnata da una forte censura. La condanna
del parlare di sé, in termini sia fisici sia morali, era del resto presente
già nella tradizione classica: «nihil necesse est mihi de me ipso dicere
», afferma Cicerone nel De senectute (IX). Anche Dante, nel paragrafo
19 della Vita nova, dichiara perentoriamente di non voler raccontare di
sé per evitare che le sue parole suonino come una lode inopportuna:
[…] non è convenevole a me tractare di ciò, per quello che tractando
converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la qual cosa è al
postutto biasimevole a chi lo fa, e però lascio cotale tractato ad altro
chiosatore.1
1 Dante Alighieri, Vita nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996, p. 168.
Saggi
4 cecilia gibellini
E nel Convivio precisa che «parlare alcuno di se medesimo pare non
licito»: e ciò vale nel caso che le parole siano di biasimo («dispregiar se
medesimo è per sé biasimevole, però che […] l’uomo […] ne la camera
de’ suoi pensieri se medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti,
e non palese»), e ancor più nel caso che servano a lodare l’autore («lodare
sé è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non
si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio»).2
In questo contesto, si spiega come i primi autori che abbiano osato
rompere il tabù e cimentarsi in un autoritratto letterario, lo abbiano
fatto adottando forme e schemi rappresentativi ben meditati. Come ha
puntualizzato Francesco Tateo, la rappresentazione di sé tende a differenziarsi
dalla rappresentazione altrui, e «il travestimento, piuttosto
che la ricerca di una foggia “conveniente”, l’apologia e l’autoironia, la
commiserazione piuttosto che l’elogio, rappresentano […] le forme
più significative di tale differenziazione».3
Parole che valgono per l’immagine di sé consegnataci da Francesco
Petrarca, e ravvisabile come il primo autoritratto compiuto di un autore
della letteratura italiana: sebbene in apparenza subordinati agli
elementi morali, i dati fisici concorrono – anzi, sono decisivi – a costruire
quella sistematica rappresentazione di sé che costituisce l’ambizioso
progetto del poeta.4 Non si tratta certo di un autoritratto orga-
2 Dante ammette la possibilità di parlare di sé in due soli casi, per cui rimanda
agli esempi del De consolatione Philosophiae di Boezio e delle Confessiones di Agostino,
cioè quando possa servire a difendersi da accuse ingiuste o a proporre un modello
di perfezionamento morale: «Veramente, […] per necessarie cagioni lo parlare
di sé è conceduto: e in tra l’altre necessarie cagioni due sono più manifeste.
L’una è quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare
[…]. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto
pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio […]. L’altra
è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina;
e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé». Dante
Alighieri, Convivio, in Id., Tutte le opere, a cura di F. Chiappelli, Milano, Mursia,
1969: tutte le citazioni sono dal Trattato I, II, pp. 491-493.
3 F. Tateo, Sul ritratto autobiografico, in Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato
nella cultura umanistica, Atti del Convegno (Firenze, 26-27 marzo 1998), a cura di G.
Lazzi, P. Viti, Firenze, Polistampa, 2000, pp. 123-134, cit. a p. 123.
4 Mi distacco dunque dalla lettura di Antonio Corsaro, secondo cui «la scrittura
autoreferenziale di Petrarca è in realtà, malgrado gli scarti evidenti rispetto alle
coordinate dantesche, il modello più eloquente di riduzione e declassamento, se
non di aperta opposizione, del dato corporeo a fronte di un autoritratto concentrato
su sostanze etiche»; A. Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e
Michelangelo, in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del Convegno (Firenze,
[ 2 ]
petrarca e le maschere degli antichi 5
nico: esso va ricostruito raccogliendo i frammenti disseminati nelle
sue opere volgari e latine, e soprattutto nelle lettere.
L’autoritratto in Petrarca è sempre costruito nel tempo, è il risultato
di un’operazione mnemonica: si costruisce retrospettivamente ed è
tutto giocato sulla contrapposizione tra la giovinezza e la senilità, tra
la bellezza fisica passata e la fragilità presente, tra la vista acuta di cui
il poeta godeva negli anni giovanili e l’indebolimento degli occhi sopraggiunto
in età matura, tra la raffinatezza dei costumi di un tempo
e la sobrietà della vecchiaia.5
In più di un luogo il poeta si descrive nell’atto di scrutare la propria
immagine riflessa nello specchio: è utile ricordare che proprio nel
XIV secolo si assiste al perfezionamento tecnico e alla diffusione di
questi preziosi manufatti, di fabbricazione soprattutto veneziana. A
lungo visti con diffidenza, o per lo meno con un atteggiamento ambivalente
(di volta in volta simboli di verità, prudenza e sapienza, o viceversa
di vanità, superbia e lussuria), gli specchi iniziavano proprio
in questi decenni a diffondersi,6 in primo luogo negli studi dei pittori:
anzi, la loro diffusione giocò un ruolo determinante per la nascita e lo
sviluppo degli autoritratti figurativi, per realizzare i quali erano uno
strumento essenziale.7
7-8 novembre 2002), a cura di A. Galli, M. Rossi, C. Piccinini, Firenze, Olschki,
2007, p. 118.
5 Il tema del passare del tempo, vera e propria ossessione petrarchesca, è stato
ampiamente studiato, così come il motivo a esso connesso della bipolarità giovinezza/
vecchiaia: mi limito qui a ricordare i saggi di A. Noferi, L’esperienza poetica
del Petrarca, Firenze, Le Monnier, 1962; G. Folena, L’orologio del Petrarca, in Textus
textis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 266-
290; B. Van den Bossche, «L’animo stanco, et la cangiata scorza»: le età dell’uomo nel
«Canzoniere», in Giorni, stagioni, secoli. Le età dell’uomo nella lingua e nella letteratura
italiana, a cura di S. Verhulst, N. Vanwelkenhuyzen, Roma, Carocci, 2005, pp.
91-101; e quelli raccolti nel volume L’esperienza poetica del tempo e il tempo della storia.
Studi sull’opera di Francesco Petrarca, a cura di C. Chiummo, A.P. Fuksas, Cassino,
Università di Cassino, Dipartimento di linguistica e letterature comparate, 2005.
6 Cfr. J. Baltrusaitis, Lo specchio. Rivelazioni, inganni e science-fiction, Milano,
Adelphi, 1981; B. Goldberg, Lo specchio e l’uomo, Venezia, Marsilio, 1989; S. Melchior-
Bonnet, Storia dello specchio, prefazione di J. Delumeau, Bari, Dedalo, 2002;
A. Tagliapietra, La metafora dello specchio: lineamenti per una storia simbolica, Torino,
Bollati Boringhieri, 2008; il capitolo Specchio di J. Sisco nel volume Oggetti della
letteratura italiana, a cura di G.M. Anselmi, G. Ruozzi, Roma, Carocci, 2008, pp.
176-189.
7 Alcune miniature dei manoscritti di inizio Quattrocento del De mulieribus
claris di Boccaccio presentano la scena di Marzia, vergine romana dedita alla pittura
e alla scultura, che dipinge il proprio volto aiutandosi con un piccolo specchio
[ 3 ]
6 cecilia gibellini
Come il pittore intento nella rappresentazione della propria effigie,
e come il filosofo impegnato nella conoscenza di se stesso,8 anche Petrarca
osserva il proprio volto riflesso nello specchio, e lo fa soprattutto
alla ricerca ossessiva dei segni del tempo che trascorre: il motivo è
presente nel Canzoniere, affidato a uno dei componimenti finali,
Dicemi spesso il mio fidato speglio,
l’animo stanco, et la cangiata scorza,
et la scemata mia destrezza et forza:
«Non ti nasconder più: tu se’ pur vèglio».9
E ricorre nelle epistole: ad esempio, nella lettera a Francesco dei
Santi Apostoli (Fam. XXI, 13, 7) dove il poeta racconta l’esperienza
straniante per cui, guardando allo specchio i suoi occhi stanchi e cerrotondo,
spesso convesso: incunaboli dei molti dipinti rinascimentali in cui l’autoritratto
del pittore appare in uno specchio, a volte collocato in un luogo marginale,
quasi celato, come una criptica firma visiva (si pensi ai Coniugi Arnolfini di Jan Van
Eyck), altre volte in una posizione di assoluto rilievo, come nel celebre Autoritratto
entro uno specchio convesso di Parmigianino. Anche nella trattatistica d’arte l’uso
dello specchio è costantemente raccomandato: Leon Battista Alberti nel De pictura
(1435-36) consiglia ai pittori di verificare la qualità dei loro dipinti osservandoli
riflessi in uno specchio (libro II, par. 46); Leonardo nel Trattato della pittura indica
Come lo specchio è maestro de’ pittori; e la ‘scoperta’ del sistema della prospettiva lineare,
nel 1425, viene compiuta da Filippo Brunelleschi utilizzando uno specchio
piano.
8 Secondo Diogene Laerzio, Socrate raccomandava ai giovani di guardare il
proprio volto nello specchio affinché, se erano brutti, potessero correggersi con la
virtù e, se erano belli, conservare la loro perfezione guardandosi dal vizio. Allo
stesso modo, Seneca (Naturales Quaestiones, I, 17) scrive che gli specchi servono
all’uomo a conoscere se stesso e attraverso tale conoscenza giungere alla saggezza:
«se è bello, egli eviterà ciò che potrebbe degradarlo; se è brutto, saprà che bisogna
compensare i difetti del corpo con le qualità morali»; «se è giovane, il fiorire dell’età
lo avvertirà che è giunto per lui il momento di concepire e osare azioni valorose;
se è vecchio, rinuncerà a ciò che disonora i suoi capelli bianchi e volgerà talvolta il
suo pensiero alla morte»; «Ecco perché la natura ci ha dato le possibilità di vedere
noi stessi».
9 Rerum Vulgarium Fragmenta, 361, vv. 1-4. Si veda anche il sonetto 168, vv. 9-10:
«In questa passa ’l tempo, e ne lo specchio / mi veggio andar ver’ la stagione contraria
». Cfr. P. Cherchi, Lo specchio di Petrarca (rvf . son. 361), «Annali On-line di
Lettere – Ferrara», I-II (2011), pp. 170-181. Mette a confronto il sonetto 361 di Petrarca
con il sonetto di Shakespeare My glass shall not persuade me I am old Paola Colaiacono
nel saggio Due sonetti allo specchio: Shakespeare e Petrarca, in Gioco di specchi.
Saggi sull’uso letterario dell’immagine dello specchio, a cura di A. Lombardo, Roma,
Bulzoni, 1999, pp. 31-48.
[ 4 ]
petrarca e le maschere degli antichi 7
chiati dalle veglie notturne, stenta, come un Narciso invecchiato, a riconoscersi
come quello di un tempo:
Talvolta lo spirito si ribella, talvolta si ribellano gli occhi; la gelosia si
impossessa dello spirito, la stanchezza degli occhi, e ora spesso fuori di
me, nelle veglie notturne, vedendoli estenuati e illividiti [attritos liventesque]
in ciò che un tempo mi piacque, mi meraviglio e in silenzio mi
chiedo se io sia quello [cui piacquero quelle cose].10
Mentre nell’epistola De senectute propria et eius bonis (Seniles VIII, 2,
ai suoi amici), è quasi con compiacimento che il poeta osserva la propria
immagine riflessa, che è quella di un bel vecchio dalla pelle rugosa
e dai capelli candidi, con un’espressione dolcemente malinconica:
Ecco, sono vecchio; i miei anni io li leggo nello specchio, e gli altri me
li leggono in viso. Mutato è l’aspetto giovanile del volto [mutatus est
primus ille oris habitus]; la luce lieta dei miei occhi, offuscata da una
nube che agli altri sembra triste, a me lieta, le chiome diradate, la pelle
rugosa, la canizie [nix, ‘neve’] che biancheggia su tutta la testa annunciano
che è giunta l’età dell’inverno.11
Il tempo, dunque, è il regista delle mutazioni di questo autoritratto:
e si noti l’elemento degli occhi un tempo vivaci e poi offuscati, su
cui tornerò. A rendere memorabile il senso del trascorrere del tempo
in questo rapido autoritratto senile contribuiscono l’eco virgiliana del
II libro dell’Eneide, in cui a Enea appare in sogno Ettore dall’aspetto
del tutto mutato («quantum mutatus ab illo», II 274); e il tòpos dell’in-
10 Familiares, XXI, 13, De superioris epystole reliquiis et cetero vite cultu, [dicembre
1359], 7: «Rebellat tamen animus interdum rebellantque oculi; animum subit emulatio,
oculos lassitudo, eosque in quibus aliquando michi placuit demens, nunc in
speculo sepe nocturnis vigiliis attritos liventesque conspiciens miror et an ille ego
sim, tacitus mecum quero». Trad. mia.
11 «Ex professo senex sum, ipse annos meos in speculo, alii in fronte legunt
mea, mutatus est primus ille oris habitus, et laetum lumen oculorum moesta ut
aiunt, at ego sentio, laeta nube reconditum, comae labentes, et cutis asperior, totoque
vertice nix albescens, adesse aetatis hyemen nunciant». Ho preferito una traduzione
letterale a quella ottocentesca di Giuseppe Fracassetti: «Io mi proclamo
già vecchio. A me gli anni miei rivela lo specchio, e gli altri me li leggono in viso.
Mutato al tutto è l’aspetto, scomparve la floridezza primiera: si distese sugli occhi
brillanti un giorno e vivaci una malinconica nube, che agli altri ingrata, a me si
pare dolcissima. La pelle rugosa, le chiome diradate, la canizie onde tutta biancheggia
la testa annunzian giunta l’età all’inverno»; Francesco Petrarca, Lettere senili,
volgarizzate e dichiarate con note da Giuseppe Fracassetti, Firenze, Le Monnier,
1869, p. 447.
[ 5 ]
8 cecilia gibellini
verno per indicare la vecchiaia, che avrà notevole fortuna, in particolare
nella lirica del Cinquecento (per esempio nei sonetti CLXIV di
Pietro Bembo, vv. 5-6: «or che mi ha il verno in fredda e bianca falda /
di neve il mento e queste chiome involte» e LXIII di Giovanni Della
Casa, O dolce selva solitaria, in cui l’uomo-bosco si copre di ghiaccio).
2. L’autoritratto giovanile: Bellerofonte, Alessi, Virgilio
L’autoritratto di Petrarca è tutto improntato a modelli: autori e personaggi
della tradizione classica sui cui tratti il poeta del Canzoniere
ricalca le proprie fattezze; e sono modelli che cambiano nel tempo.
Cominciamo con un’identificazione forte: quella con Bellerofonte,12
il mitico eroe malato d’amore e bisognoso di solitudine. Le imprese di
Bellerofonte sono narrate dal suo discendente Glauco nel VI libro
dell’Iliade, dove, ai vv. 200-202, si legge: «Ma quando anch’egli fu in
odio a tutti i numi, / allora errava, solo, per la pianura Alea, / consumandosi
il cuore, fuggendo orma d’uomini».13 Petrarca conosceva
questi versi perché citati (ma senza il cenno iniziale all’ira divina) da
Cicerone nelle Tusculanae disputationes.14 L’identificazione di Petrarca
con l’eroe solitario è stata evidenziata in testi come il sonetto 35 del
Canzoniere, Solo et pensoso, in cui il poeta si descrive mentre erra in
cerca di luoghi deserti, in fuga dagli altri uomini (hominum vestigia vitans,
secondo la traduzione ciceroniana del passo omerico), o il passo
del III libro del Secretum in cui Agostino, rimproverando Francesco,
traccia anche il suo ritratto come quello di un moderno Bellerofonte,
che reca sul volto e sul corpo tutti i segni fisici della malattia d’amore:
12 M.P. Stocchi, Divagazione su due solitari: Bellerofonte e Petrarca, in Da Dante al
Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a Giovanni Getto nel suo ventesimo anno di
insegnamento universitario, Milano, Mursia, 1970, pp. 63-83; N. Tonelli, Solitudini e
malinconie familiari, in Motivi e forme delle «Familiari» di Francesco Petrarca, Atti del
Convegno (Gargnano del Garda, 2-5 ottobre 2002), a cura di C. Berra, Milano,
Cisalpino, 2003, pp. 639-653.
13 T rad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1968.
14 I versi 201-202 di Omero sono citati da Cicerone nelle Tusculanae disputationes
(III, 26): «Ex hoc evenit, ut in animi doloribus alii solitudines captent, ut ait
Homerus de Bellerophonte: “Qui miser in campis maerens errabat alienis / Ipse
suum cor edens, hominum vestigia vitans”». Petrarca segue la traduzione di Cicerone,
come conferma il passo del Secretum riportato poco più avanti, in cui manca
il riferimento all’ira divina del v. 201 e al v. 202 si legge «alienis» in luogo di «Aleis»,
come nel testo delle Tusculanae.
[ 6 ]
petrarca e le maschere degli antichi 9
Ricorda con quanta rapidità, dal momento che quella peste si impadronì
del tuo spirito, tu hai cominciato a scioglierti in pianto, e come sei
arrivato a un tal punto di infelicità da nutrirti con lugubre piacere di
lacrime e sospiri: quando le tue notti erano insonni e il nome dell’amata
restava tutto il tempo sulle tue labbra; quando ogni cosa ti disgustava
e odiavi la vita e desideravi la morte. E il triste amore per la solitudine,
e la fuga dagli uomini… Sì che di te si poteva dire altrettanto appropriatamente
ciò che Omero diceva di Bellerofonte, «il quale errava
triste e piangente in terre straniere, rodendosi il cuore ed evitando le
vestigia umane». Di qui il pallore e la magrezza, e il fiore dell’età languido
anzi tempo. Allora, gli occhi tristi e sempre bagnati; allora, la
mente confusa e la quiete del sonno compromessa, e i flebili lamenti nel
dormiveglia e la voce spezzata e rauca dal pianto e la pronunzia balbettante,
e quanto si può immaginare di più angoscioso e miserando.15
Già prediletto dagli elegiaci latini (in particolare Properzio aveva
fatto propria la sua immagine),16 Bellerofonte è, soprattutto, l’eroe malinconico
per eccellenza. Infatti, insieme a Ercole furens e ad Aiace, è
indicato come esempio archetipico dell’eroe malinconico nel Problema
pseudoaristotelico XXX 1, il testo che fonda la fortunata tradizione
secondo cui esiste un intimo legame tra umore nero e genio:
Come mai tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia
o nella politica o nella poesia o nelle arti sono chiaramente melanconici
e qualcuno di essi a un grado tale da soffrire di disturbi provocati
dalla bile nera? Un esempio nella mitologia degli eroi è Eracle. […] Ci
15 «Cogita nunc ex quo mentem tuam pestis illa corripuit, quam repente, totus
in gemitum versus, eo miseriarum pervenisti ut funesta cum voluptate lacrimis ac
suspiriis pascereris; cum tibi noctes insomnes et pernox in ore dilecte nomen; cum
rerum omnium contemptus viteque odium et desiderium mortis; tristis et amor solitudinis
atque hominum fuga; ut de te non minus proprie quam de Bellerophonte
illud homericum dici posset: qui miser in campis merens errabat alienis / ipse suum cor
edens, hominum vestigia vitans. Hinc pallor et macies et languescens ante tempus flos
etatis; tum graves eternumque madentes oculi, tum confusa mens et turbata quies
in somnis; et dormientis flebiles querele, ac vox fragilis luctu rauca, fractusque et
interruptus verborum sonus, et quicquid tumultuosius aut miserius fingi potest». F.
Petrarca, Secretum, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1992, pp. 224-227.
16 Si legga, nello specifico, l’incipit della XVIII elegia del libro I, «Ecco luoghi
deserti e silenziosi adatti al mio dolore; / il soffio di Zefiro regna nel bosco deserto:
/ qui posso rivelare impunemente il celato travaglio, / purché le rocce solitarie
sappiano mantenere il segreto» («Haec certe deserta loca et taciturna querenti, / et
vacuum Zephyri possidet aura nemus. / Hic licet occultus proferre impune dolores,
/ si modo sola queant saxa tenere fidem»); cfr. S. Properzio, Elegie, trad. di L.
Canali, introd. di P. Fedeli, commento di R. Scarcia, Milano, Rizzoli, 1995, pp.
112-115.
[ 7 ]
10 cecilia gibellini
sono anche le storie di Aiace e Bellerofonte: l’uno uscì completamente
di senno, l’altro cercò luoghi deserti per abitare.17
Attraverso l’identificazione con Bellerofonte, Petrarca ci consegna
il proprio autoritratto come malinconico, anzi, per usare la definizione
di Amedeo Quondam, come «uno dei profeti della malinconia moderna
».18 Quondam sottolinea però come Petrarca non utilizzi mai il
termine ‘malinconia’ per definire il proprio temperamento o il proprio
stato d’animo,19 preferendo usare i termini tristitia, acedia e aegritudo.
Va detto che tra malinconia e accidia esistono alcune differenze, e
non di poco conto: come ha chiarito Natascia Tonelli, la malinconia è
legata alla malattia d’amore, ed è contrassegno dell’eccezionalità d’ingegno
(condizione degli eroi, dei poeti e dei filosofi); il malinconico
cerca la solitudine, condizione ideale per l’ispirazione poetica; l’accidia
invece è una conseguenza (negativa) della solitudine e non ha alcun
legame con il fare artistico, anzi, porta all’inattività e al torpore (il
«demone meridiano» che tenta il monaco).20
Secondo Quondam, il fatto che Petrarca non si definisca come ‘malinconico’
dipende dalla sua volontà di allontanarsi dalla concezione
medica e fisiologica di ‘malinconia’ come patologia dell’umore nero,
presente nella tradizione classica e medievale e nella letteratura italia-
17 Il testo del Problema viene riportato integralmente alle pp. 22-27 del volume
di R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melancolia. Studi di storia della filosofia
naturale, religione e arte, Torino, Einaudi, 1983, alle pp. 22-27 (cit. alle pp. 22 e
23). Si veda anche la traduzione in Aristotele, La ‘melancolia’ dell’uomo di genio, a
cura di C. Angelino, E. Salvaneschi, Genova, Il melangolo, 1981. Il Problema viene
citato come opera di Aristotele da Cicerone («omnes ingeniosos melancholicos
esse», Tusculanae disputationes, I, 33, 80); al passo delle Tusculanae Petrarca fa esplicito
riferimento in Fam. XX, 14. Natascia Tonelli ipotizza che il Problema pseudoaristotelico
fosse noto a Petrarca, oltre che attraverso la citazione ciceroniana, tramite
la traduzione approntata per Federico II dal medico e filosofo Davide di Dinant:
in questa versione, infatti, manca l’accenno all’ira degli dèi in cui sarebbe incorso
Bellerofonte, causa diretta del suo macerarsi in solitudine, presente invece nella
vulgata di Bartolomeo da Messina circolante con il commento di Pietro d’Abano. In
questo modo, sottolinea la Tonelli, viene a cadere l’ostacolo che l’idea di una persecuzione
divina potrebbe creare «alla fruizione “positiva” da parte di Petrarca
dell’eroe omerico e di quel tipo di solitudine»; N. Tonelli, Solitudini e malinconie
familiari, cit., pp. 639-641, cit. a p. 641.
18 A. Quondam, Il gentiluomo malinconico, in Arcipelago malinconia. Scenari e parole
dell’interiorità, a cura di B. Frabotta, Roma, Donzelli, pp. 93-123 (cit. a p. 97).
19 In tutto il corpus di Petrarca la parola appare solo due volte (nel De remediis
utriusque fortune e nelle Familiares), e sempre in riferimento a un discorso altrui.
20 Cfr. N. Tonelli, Solitudini e malinconie familiari, cit., p. 649.
[ 8 ]
petrarca e le maschere degli antichi 11
na delle origini. Si tratterebbe del desiderio di distanziarsi da un mondo
culturale che Petrarca non sente più come suo.21 A me sembra invece
che a prevalere siano piuttosto ragioni stilistiche: il termine ‘malinconia’
ricorre nella produzione comico-realistica, come dimostrano gli
stessi testi addotti da Quondam, ovvero i sonetti di Cecco Angiolieri
(Rime 7, La mia malinconia è tanta e tale), Cino da Pistoia (Poesie 109,
Tutto ciò ch’altrui agrada a me disgrada), ma anche di Cavalcanti (Rime
51, Guata, Manetto, quella scrignutuzza) e Dante (Rime 25, Un dì si venne
a me Malinconia).22
Dunque, pur non nominandosi ‘malinconico’, Petrarca, identificandosi
con Bellerofonte, costruisce il proprio autoritratto come malinconico.
Di questo procedimento, peraltro, si era già accorto Torquato Tasso:
in un passo del Messaggiero dedicato alla malinconia, egli, nel fare
la consueta rassegna degli ingeniosi melancholici del passato, in cui ripete
piuttosto pedissequamente, limitandosi a qualche aggiornamento,
la sequenza del testo pseudoaristotelico,23 quando arriva a Bellerofonte
gli mette in bocca proprio i versi del sonetto 35 del Canzoniere:
Si possono anche tra’ maninconici annoverare Aiace e Belloferonte; l’uno
de’ quali divenne pazzo a fatto; l’altro era solito d’andare pe’ luoghi
disabitati, laonde poteva dire:
21 A. Quondam, Il gentiluomo malinconico, cit., pp. 94-99: Petrarca e i petrarchisti,
«per quanto tutti gravemente malati cronici d’amore non nominano più la malinconia
[…]. Il moderno nasce, dunque, anche attraverso il rifiuto della malinconia,
o meglio di quella malinconia ormai troppo banalizzata nei suoi aspetti fisiologici
e clinici»; per Petrarca, la parola ‘malinconia’ è «una parola vecchia, oltre che
legata a paradigmi culturali che non sono più i suoi».
22 Soprattutto nella letteratura dei primi secoli, ma con un’ampia tradizione
fino al Seicento, l’universo malinconico si trova spesso saldato a quello comico: e
l’atto proprio del malinconico non è tanto quello del pianto, quanto piuttosto quello
del riso. Lo dimostra la fortuna rinascimentale della figura di Democrito, il sapiente
melanconico che ride. Alcuni testi illuminanti a questo proposito si possono
leggere nella bella e ricca antologia curata da Roberto Gigliucci La melanconia: dal
monaco medievale al poeta crepuscolare, Milano, Rizzoli, 2009.
23 «E i maninconici, come afferma Aristotele, sono stati di chiaro ingegno ne gli
studi de la filosofia e nel governo de la republica e nel compor versi; ed Empedocle
e Socrate e Platone furono maninconici; e Marato poeta ciciliano allora era più eccelente
ch’egli era fuor di sé, anzi quasi lontano da se stesso; e molti anni dapoi
Lucrezio s’uccise per maninconia; e Democrito caccia di Parnaso i poeti che sian
savi. Né solo i filosofi e i poeti, ma gli eroi, come dice l’istesso Aristotele, sono infestati
dal medesimo vizio: e fra gli altri Ercole, dal quale il mal caduco fu detto
erculeo». T. Tasso, Il Messaggiero, in Id., Dialoghi, a cura di G. Baffetti, introd. di E.
Raimondi, Milano, Rizzoli, 1998, vol. I, p. 326.
[ 9 ]
12 cecilia gibellini
Solo e pensoso i più deserti campi
Vo misurando a passi tardi e lenti,
E porto gli occhi per fuggire intenti
Ove vestigio uman l’arena stampi.24
L’autoritratto di Petrarca come Bellerofonte ha, dunque, il significato
di individuare un preciso modello psicologico, che si traduce anche,
per usare le parole di Manlio Pastore Stocchi, in «termini per così
dire figurali, di postura e di gesto»:25 è, innanzitutto, un autoritratto
all’aperto, in cui il poeta è collocato in un paesaggio disabitato, di
campi e selve, che assomiglia al locus amoenus della tradizione ma è
reso pittoresco da un più accentuato senso di solitudine. Quanto alla
sua postura, è quella dell’innamorato sofferente e malinconico, già descritta
dalla vasta letteratura sulle manifestazioni della ‘malattia d’amore’,
26 e destinata, da Petrarca in poi, a fissarsi ulteriormente come
stereotipo: gli occhi umidi di pianto sono abbassati a terra, il volto è
pallido e chino, l’incedere lento; gli stati d’animo hanno come manifestazioni
fisiche più evidenti i repentini cambiamenti del colorito del
volto, provocati dal violento alternarsi di senso di ardore e di agghiacciamento,
il pianto, i sospiri. Tutti gli elementi di questo autoritratto
avranno un’enorme fortuna, soprattutto nella tradizione lirica, dove si
trovano continuamente ripetuti e variati, diventando convenzionali.
Questo per quanto riguarda la postura e il gesto. Ma l’aspetto fisico
vero e proprio? Qui altri modelli concorrono a costruire l’autoritratto
giovanile di Petrarca. La lettera più significativa a questo proposito è
quella, scritta nel 1360 circa a Filippo di Cabassole sul tema De inextimabile
fuga temporis (Fam. XXIV, 1), in cui Petrarca ricorda e descrive il
sé stesso di trent’anni prima (quello che aveva scritto la lettera a Raimondo
Subirani, di analogo argomento, intitolata De flore etatis
instabili).27 Per descrivere il proprio aspetto all’età di ventisei anni, Petrarca
dapprima chiama in causa niente meno che il memorabile ri-
24 Ibidem.
25 M.P. Stocchi, Divagazione su due solitari: Bellerofonte e Petrarca, cit., p. 68.
26 Cfr. M. Ciavolella, La ‘malattia d’amore’ dall’antichità al medioevo, Roma, Bulzoni,
1976; in particolare, fu imitatissima la rappresentazione di Fedra delirante
nei boschi nella tragedia di Seneca (Phaedra, vv. 362-382); si veda anche la descrizione
del deperimento fisico dell’innamorato che fa parte della reprobatio amoris nel
De amore di Andrea Cappellano.
27 La lettera a Subirani (Fam. I, 3) è collocata, almeno come data fittizia, nel
1330.
[ 10 ]
petrarca e le maschere degli antichi 13
tratto di Enea nel momento in cui appare la prima volta a Didone, nel
I libro dell’Eneide, con le sembianze rese simili a quelle di un dio grazie
all’intervento della madre Venere, splendido come una statua d’avorio
o di marmo pario intarsiata d’oro:
S’arrestò Enea e rifulse nella luce splendente, nel volto e nelle spalle
simile a un dio; infatti la stessa madre aveva infuso sul figlio bella capigliatura
e la luce purpurea della giovinezza e lieta bellezza negli occhi:
quale grazia le mani aggiungono all’avorio, o come l’argento o il
marmo Pario è incastonato col biondo oro.28
Dopo essersi assimilato al semidivino Enea, Petrarca richiama un
altro bellissimo giovane, ugualmente caratterizzato da una chioma
fluente e dallo splendore dell’incarnato, il Ligurino cantato da Orazio
(Carmina, IV, 10, vv. 2-6):
Avevo negli occhi un’età floridissima e, come dice Virgilio, «il bagliore
purpureo della giovinezza»; ma pure leggevo in Orazio: «quando alla
tua superbia crescerà l’inattesa lanugine, e saranno cadute le chiome
che adesso ti svolazzano sulle spalle e il colore che oggi è più bello di
una rosa purpurea muterà e renderà ispido il volto di Ligurino: “Ahimé”
dirai, ogni volta che ti vedrai così cambiato allo specchio».29
Infine, si identifica nell’Alessi formosus e candidus della II egloga
virgiliana:
E sia che fossi veramente bello nella persona, sia che ciò fosse un’illusione
di quell’età (tutti i giovani, infatti, si credono bellissimi anche se
deformi), ebbene, io pensavo che non ad altri più che a me fosse rivolto
quell’ammonimento del pastore, ogni volta che lo leggevo o l’udivo:
«O bellissimo ragazzo, non ti fidar troppo della fresca bellezza del tuo
volto» [O formose puer, nimium ne crede colori].30
28 Virgilio, Eneide, I, vv. 588-590: «Restitit Aeneas claraque in luce refulsit, / os
umerosque deo similis; namque ipsa decoram / caesariem nato genetrix lumenque
iuventae / purpureum et laetos oculis adflarat honores: / quale manus addunt
ebori decus, aut ubi flavo / argentum Pariusve lapis circumdatur auro».
29 Familiares, XXIV, 1, Ad Philuppum Cavallicensem epyscopum, de inextimabili fuga
temporis, [1360 circa] 4: «Erat in oculis michi etas florentissima “lumenque iuvente
purpureum”, ut ait Maro; sed legebam apud Flaccum: “Insperata tue cum veniet
pluma superbie / Et, que nunc humeris involitant, deciderint come, / Nunc et qui
color est punicee flore prior rose / Mutatus Ligurinum in faciem verterit hispidam;
/ Dices: ‘heu’ quotiens te in speculo videris alterum”». Cfr. F. Petrarca, Epistole, a
cura di U. Dotti, Torino, Utet, 1979, pp. 520-539: questo passo alle pp. 522-523.
30 Ivi (Familiares, XXIV, 1), 11: «Et seu ille oris verus decor seu error esset etatis
[ 11 ]
14 cecilia gibellini
Dall’identificazione con i personaggi virgiliani, propria dell’adolescentia,
si passa a quella, che sembra subentrare negli anni immediatamente
successivi, con il poeta stesso: Petrarca infatti si dice simile a
Virgilio in un significativo dettaglio fisico, quello dei fili bianchi precocemente
apparsi tra i suoi capelli. Nel libro III del Secretum, Francesco
racconta ad Agostino di aver reagito con saggio distacco all’apparizione
dei capelli bianchi, che qui sono ancora pochi («pauculi cani»),
consolandosi con gli esempi dell’imperatore Domiziano, di Numa
Pompilio e di Virgilio:
A. Rispondimi di buon grado, ti prego. Recentemente, ti sei visto allo
specchio?
F. Scusa, che significa questa domanda? Come al solito.
A. Non più spesso, spero, né con più curiosità di quanto occorra! Ma ti
chiedo: non ti sei accorto che il volto cambia di giorno in giorno, e che
sulle tempie comincia a farsi vedere qualche capello bianco?
F. Credevo che tu volessi dire chissà che. Queste sono cose comuni a
tutti quelli che nascono: crescere, invecchiare, morire. Ho visto in me
quello che ho visto in quasi tutti i miei coetanei: e non so come mai,
ma oggi gli uomini invecchiano più in fretta di quel che facevano una
volta.
A. Né l’altrui vecchiaia ti darà la giovinezza, né l’altrui morte l’immortalità.
Ma lasciamo gli altri, e torniamo a te. Allora: aver visto il corpo
che cambiava non ti ha cambiato in parte anche l’animo?
F. L’ha scosso, ma non l’ha cambiato.
A. Ma come hai reagito dentro di te, o cosa hai detto?
F. Che altro pensi abbia detto, se non il motto dell’imperatore Domiziano:
«Porto impavidamente una chioma che è già bianca mentre ancora
sono giovane». Con un simile esempio mi sono consolato dei miei pochi
capelli bianchi [pauculos canos], e all’imperiale ne ho pure aggiunto
uno regio: infatti, si crede che Numa Pompilio, il secondo ad essere
incoronato re dei romani, fosse bianco di capelli fin dall’adolescenza. E
non manca neppure un esempio tra i poeti, dal momento che il nostro
Virgilio, nelle Bucoliche, che sappiamo scritte a ventisei anni, parlando
di sé sotto le vesti di un pastore dice: «dopo che la barba cadeva già un
po’ bianca, quando mi radevo».31
– ferme enim omnes adolescentes sibi formosissimi videntur etsi deformes sint –
michi non alteri dictum rebar, quotiens pastorium illud vel legerem vel audirem:
“O formose puer, nimium ne crede colori”»; il verso virgiliano è quello di Bucoliche,
II, 17. F. Petrarca, Epistole, a cura di U. Dotti, cit., pp. 526-527.
31 F. Petrarca, Secretum, a cura di E. Fenzi, cit., pp. 244-247: «A. Dic, precor,
bona cum venia. Vidisti ne te nuper in speculo? F. Quid hoc, queso, sibi vult? Ut
soleo quidem. A. Utinam neque crebrius neque curiosius quam sat est! Quero autem
ex te: nonne vultum tuum variari in dies singulos et intermicantes temporibus
[ 12 ]
petrarca e le maschere degli antichi 15
Virgilio, dunque, aveva la barba imbiancata già a ventisei anni; ed
ecco che in una delle Familiares (VI, 3, 32), Petrarca ricorda di aver
avuto molti capelli bianchi (non più «pauculi», ma «aliquot») alla stessa
età, e lo fa con un certo compiacimento, contrapponendo la propria
reazione a quella risibile avuta da suo padre quando, in età ben più
matura, aveva trovato il primo segno di canizie:
Numa Pompilio […] ebbe i capelli bianchi fin dalla giovane età, e così
anche il poeta Virgilio; tutta la nostra età è piena di lamentele di questo
genere. Io stesso sono solito non tanto lamentarmi quanto stupirmi del
fatto che avevo già molti capelli bianchi [canos aliquot] prima dei 25
anni; anche perché non mi sfuggì che una volta mio padre, per il resto
non più sano né più forte di me poiché a più di cinquant’anni di età,
guardatosi nello specchio, aveva scorto sulla sommità del suo capo un
solo capello che mostrava un’ambigua canizie, pieno di stupore e lamentandosene,
coinvolse non solo tutti quelli di casa, ma anche il vicinato.
32
La canizie precoce, pur contrastando con il bell’aspetto giovanile
canos animadvertisti? F. Putabam te singulare aliquid velle dicere. Ista vero comunia
sunt omnibus qui nascuntur: adolescere, senescere, interire. Animadverti in
me quod in coetaneis meis fere omnibus. Nescio enim quomodo senescunt homines
hodie citius quam solebant. A. Neque aliorum senectus iuventutem tibi, neque
aliorum mors immortalitatem tribuet. Ceteris igitur omissis ad te redeo. Quid ergo?
Mutavit ne animum ulla ex parte corporis conspecta mutatio? F. Concussit
utique, sed non mutavit. A. Quid autem tibi tunc animi fuit aut quid dixisti? F.
Quid aliud, putas, quam illud Domitiani principis: “Forti animi fero comam in
adolescentia senescentem”? Tanto igitur exemplo pauculos canos meos ipse solatus
sum; caesareoque regium adiunxi: Numa quidem Pompilius, qui secundus
inter romanos reges dyadema sortitus est, ab adolescentia canus creditur fuisse.
Nec poeticum defuit exemplum; siquidem Virgilius noster in Bucolicis que XXVI
etatis anno scripsisse eum constat, sub persona pastoris de se ipso loquens ait:
candidior postquam tondenti barba cadebat». La fonte per la frase di Domiziano è Svetonio,
Domit., 18, 3; per Numa Pompilio, la fonte è Servio, ad Aen. VI 808; la citazione
da Virgilio è in Bucol., I, 28.
32 Familiares, VI, 3, a Giovanni Colonna, Consolatoria super quibusdam vite difficultatibus
[gennaio 1342], 32: «et Numa Pompilius […] prima etate canus fuit, et
Virgilius poeta; totas etas nostra his lamentis abundat. Ego ipse non tam queri soleo
quam mirari, quod canos aliquot ante vigesimus quintum annum habui; cum
illud non exciderit; quod genitor quondam meus, in reliquis neque me sanior neque
validior, quia post quinquagesimum etatis sue annum, consulto speculo, supra
verticem sibi unum forte capillum ambigua canitie albescentem viderat, plenus
stuporis et querelarum, totam non modo familiam sed viciniam excitavit».
Trad. mia.
[ 13 ]
16 cecilia gibellini
del poeta, non lo guasta, anzi gli conferisce gravitas, donandogli un’aria
di dignità e compostezza:
Infatti credevo che lo stesso mio volto, sul quale la natura suole scrivere
colle dita il numero degli anni, grazie a una certa vivacità e a una
condotta di vita immune dalle turpitudini della giovinezza, avrebbe
potuto confutare l’opinione di chi mi vedeva più di quanto avrebbe
osato fare l’impudenza del mentitore, per quanto a questa speranza si
opponesse una precoce canizie che, sebbene ancora sparsa qua e là,
non so per quale ragione, a cominciare dalla più tenera età aveva invaso
la mia testa di adolescente; canizie che, venendo insieme con la prima
lanugine, mentre la testa prendeva a biancheggiare, aveva un non
so che di rispettabile [verendum nescio quid], come alcuni hanno sostenuto,
e nobilitava i lineamenti del volto fino ad allora giovanile; tuttavia,
essa mi riusciva sgradevole nella misura in cui, almeno a quell’età,
contrastava con l’aspetto giovanile di cui mi rallegravo.33
Come Scipione nell’Africa, il giovane Petrarca è un puer senilis,34 il
cui bell’aspetto è contrassegnato da un’insolita gravitas: e proprio nel
IX libro del suo poema epico, Petrarca si descrive, per bocca di Omero,
come «curis gravidum sub flore iuvente».35 Petrarca sembra dunque
dare un impulso decisivo al motivo della saggezza canuta in giovane
età che avrà grande fortuna fino a tutto il Rinascimento, diventando
anche una qualifica encomiastica attribuita ai dedicatari delle opere.
Petrarca completa questo autoritratto in figura di Virgilio con due
attributi fondamentali, continuamente richiamati nella sua opera: la
corona d’alloro portata sul capo, emblema della gloria poetica e dell’amore
per una donna chiamata Laura, e la preziosa veste ricevuta in
33 Seniles, VIII, 1, Ad Iohannem Boccaccium de Certaldo, de etatis parte dubia, ut
aiunt, 20 luglio 1366, 3: «Fisus enim sum vultum ipsum, cui annorum numerus
nature digitis inscribi solet, vivacitate quadam et vite modo iuvenilibus probris
explicite, plus opinioni aliquid spectantium detracturum quam ausura esset impudentia
mentientis, quamvis huic spei obstaret properata canities que, nescio unde,
iam inde ab annis tenerioribus caput adolescentis invaserat, rara licet; que, cum
prima veniens lanugine, albicanti vertice, verendum nescio quid haberet, ut quidam
dixere, et teneri adhuc oris habitum honestaret; michi tamen eatenus iniocunda
quod, ea saltem in parte, iuvenili quo gaudebam adversaretur aspectui». Trad.
di Stano Morrone, cfr. S. Morrone, La senile VIII 1 di Francesco Petrarca a Giovanni
Boccaccio, «Per leggere», VI (2006), 11, pp. 5-43.
34 Su Scipione come puer senilis in Petrarca, cfr. G. Cipriani, Scipione “Enfant
Prodige”, in Preveggenze umanistiche di Petrarca, Atti delle giornate petrarchesche
(Roma-Cortona, 1-2 giugno 1992), a cura di G. Brugnoli, Pisa, ets, pp. 141-170.
35 F. Petrarca, Africa, IX, v. 274.
[ 14 ]
petrarca e le maschere degli antichi 17
dono da Roberto d’Angiò e indossata durante l’incoronazione in
Campidoglio l’8 aprile 1341. Sono questi, del resto, i due attributi iconografici
che contrassegneranno l’immagine di Petrarca nei suoi ritratti
figurativi. Ecco come il poeta si descrive nel momento della laurea,
nell’epistola metrica a Giovanni Barrili: con l’alloro di Apollo sul
capo, cinto della veste di re Roberto, con il volto tinto di rossore per un
senso misto di vergogna e di orgoglio:
[Orso dell’Anguillara] mi pone infine sul capo l’alloro delfico, mentre
intorno il popolo di Roma applaude. […] Il rossore era diffuso sul mio
volto, la vergogna dominava il mio animo; tali onori pesavano sul mio
cuore che non ne era degno, e insieme lo lusingavano, poiché tutto al
re di Sicilia, non a me, spettava.
Io, chi sono mai? Tuttavia ne ero stato reso degno dal suo alto giudizio.
Indossavo allora, in quel giorno trionfale, la sua regia veste, che ricordava
il sovrano, e testimoniava tanta sua predilezione; egli, il sommo
tra i re, l’aveva tolta al suo fianco e data da indossare a me, ch’ero suo.
[…] Da essa attinsi slancio, eccezionale speranza, grande fiducia, come
se egli fosse presente e mi desse ausilio. Insieme discendiamo, conclusa
la cerimonia, e dal Campidoglio ci dirigiamo al tempio di Pietro; e
la mia corona d’alloro pende davanti agli altari, poiché delle primizie
Dio gioisce.36
L’autoritratto giovanile di Petrarca si delinea così come quello di
un uomo bello, dagli occhi vivaci, abbigliato elegantemente e con la
corona d’alloro sul capo. Questa figura viene a coincidere con un’immagine
ben nota, il ritratto di Virgilio dipinto da Simone Martini per
il frontespizio del codice ambrosiano appartenuto a Petrarca. Virgilio
vi è raffigurato semidisteso e appoggiato a un albero, con il calamo in
mano e un libro sulle ginocchia; è un bell’uomo giovane, abbigliato
con una veste all’antica, con i capelli e la barba leggermente imbiancati
e la corona d’alloro in testa. Dunque, gli elementi iconografici che
36 F. Petrarca, Epystole metrice, II, 1, Ad Iohannem Barrilem, vv. 52-53, 56-64 e
69-73: «Tandem michi delphica serta / Imposuit, populo circumplaudente Quiritum.
/ […] Rubor ora michi mentemque premebat; / Indignum tales onerabant
pectus honores, / Mulcebantque simul: Siculo nempe omnia regi, / Nil michi: nam
quis ego? Veruntamen illius alto / Iudicio dignatus eram. Tum regia festo / Vestis
honesta die me circumfusa tegebat / Et dominum referens, et tanti testis amoris, /
Quam, lateri exemptam proprio, regum ille supremus / Rex dederat gestare suo.
[…] / Impetus hinc, spesque alta nimis, fiduciaque ingens, / Ceu presens is ferret
opem. Descendimus una / Omnibus explicitis, atque hinc ad limina Petri / Pergimus,
et sacras mea laurea pendet ad aras, / Primitiis gaudente Deo». In F. Petrarca,
Opere, a cura di G. Ponte, Milano, Mursia, 1968, pp. 380-383.
[ 15 ]
18 cecilia gibellini
Petrarca presumibilmente suggerisce all’amico Simone per l’effige di
Virgilio, sono gli stessi che egli sceglie per la propria rappresentazione.
Anche lo scenario in cui i due ritratti sono collocati è lo stesso: si
leggano, ad esempio, i versi dell’Africa in cui Petrarca tratteggia un
autoritratto en plein air (IX, 274-277):
Vedo [un uomo] gravato dalle preoccupazioni nel fiore degli anni, che
tiene stretto il calamo ed è circondato, su un prato verde, da diverse
piante, vicino a corsi d’acqua limpidissimi e tra fonti gelide e rupi altissime.
37
3. L’autoritratto senile
L’atteggiamento del Petrarca maturo e vecchio nei confronti di
questa immagine giovanile di sé è ambivalente: da una parte, perdura
il compiacimento per la passata bellezza; dall’altra, la saggezza conquistata
con gli anni se ne distanzia, condannando la vanità e le intemperanze
che ad essa erano legate. Emblematica è la lettera che Petrarca
scrive al fratello Gherardo nel settembre 1348, in cui ricorda le
cure maniacali che i due da giovani dedicavano al proprio aspetto,
condannandole (ma ammettendo di non essersene ancora del tutto liberato).
Tratteggia così, a posteriori, il proprio autoritratto giovanile
come quello di un damerino ossessionato dal proprio aspetto, innamorato
dei vestiti eleganti, pronto a sacrificare la salute pur di indossare
calzature alla moda, capace di sopportare qualsiasi fastidio pur di
conservare l’elaborata acconciatura dei capelli:
Tu ricordi, o fratello, quale era un tempo la condizione delle cose nostre
e quanto faticosa dolcezza condita d’amaritudine tormentasse gli
animi nostri […]. Ti ricordi quanto grande e quanto vano fosse in noi il
desiderio di splendide vesti, che ancor mi tiene, lo confesso, sebbene
ogni giorno sempre meno; quale e quanto l’affaccendarsi a vestirci e
spogliarci mattina e sera, quale il timore che un capello uscisse dal suo
posto e un lieve vento scomponesse il laborioso acconciamento della
chioma; quanta la cura nel guardarci dalle bestie che venivano di fronte
o di spalle, perché la nostra veste odorosa e nitida non fosse macchiata
da qualche schizzo di fango o per l’urto non perdesse le pieghe?
O veramente vane le cure degli uomini, e specialmente de’ giovani!
37 F. Petrarca, Africa, IX, vv. 274-277: «Conspicio curis gravidum sub flore
iuvente / Et calamo herentem viridique in gramine septum / Arboribus variis nitidissima
flumina iuxta / Ac gelidos inter fontes rupesque prealtas». Trad. mia.
[ 16 ]
petrarca e le maschere degli antichi 19
[…] Che dire dei nostri calzari? i piedi che essi dovevan proteggere, da
qual grave e continuo tormento eran premuti! i miei, voglio dirlo, sarebbero
divenuti inutili se, messo sull’avviso da ineluttabile necessità,
non avessi preferito far cattiva figura agli occhi altrui piuttosto che
porre alla tortura i miei nervi e le mie ossa. E i calamistri e le acconciature
dei capelli? quante volte il dolore c’interruppe il sonno che quella
cura aveva ritardato! quale crudele pirata ci avrebbe dato tortura più
grave di quella che noi ci davamo con le nostre mani? Quante volte la
mattina guardandoci nello specchio non vedemmo i solchi che la notte
aveva impresso sulle nostre fronti arrossate, sicché, mentre volevamo
far mostra dei capelli, eravamo costretti a coprire la faccia! Sono cose,
queste, piacevoli a chi le soffre, orribili a rammentare a chi le ha sofferte,
incredibili a chi non le ha mai praticate.38
È evidente che a un autoritratto di questo genere Petrarca ne debba
contrapporre un altro che capovolga, almeno in parte, certi tratti giovanili.
Con la vecchiaia, non è la bellezza a svanire: gli anni esercitano
sul corpo e sul volto del poeta un’opera non di deformazione, ma di
idealizzazione. La gravitas che già contraddistingueva il Petrarca puer
senilis permane e si accentua nell’età avanzata: i capelli candidi, la pelle
rugosa e l’espressione malinconica fanno di lui un formosus senex. A
cambiare il suo aspetto è soprattutto la sobrietà che caratterizza i suoi
costumi e il suo abbigliamento: ai vecchi modelli se ne sostituiscono di
38 Familiares, X, 3, al fratello Gherardo, De felicitate status illius et miseriis seculi
cum exhortatione ad propositi perseverantiam, [25 settembre 1348]; cfr. Familiarum rerum
libri, a cura di E. Bianchi, in Prose, a cura di G. Martellotti, P.G. Ricci, E.
Carrara, E. Bianchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, pp. 920-925. «Meministi,
frater, qualis olim rerum nostrarum status erat et animos nostros quam laboriosa
dulcedo et quantis amaritudinibus aspersa torquebat […]. Meministi, inquam,
quis ille et quam supervacuus exquisitissime vestis nitor, qui me hactenus, fateor,
sed in dies solito minus, attonitum habet; quod illud induendi exuendique fastidium
et mane ac vesperi repetitus labor: quis ille metus ne dato ordine capillus
efflueret, ne complacitos comarum globos levis aura confunderet; que illa contra
retroque venientium fuga quadrupedum, nequid adventitie sordis redolens ac fulgida
toga susciperet neu impressas rugas collisa remitteret. O vere inanes hominum
sed precipue adolescentium curas! […] Quid de calceis loquar? pedes quos
protegere videbantur, quam gravi et quam continuo premebant bello! meos, fateor,
inutiles reddidissent, nisi extremis necessitatibus admonitus offendere paululum
aliorum lumina quam nervos et articulos meos conterere maluissem. Quid de calamistris
et come studio dixerim? quotiens somnum quem labor ille distulerat,
dolor abrupit! quis pyraticus tortor crudelius nos arctasset quam propriis ipsi manibus
arctabamur? quos mane nocturnos sulcos in speculo vidimus rubenti fronte
transversos, ut qui capillum ostentare volebamus, faciem tegere cogeremur! Dulcia
sunt hec patientibus, passis vel memoratu horrida, incredibilia inexpertis».
[ 17 ]
20 cecilia gibellini
nuovi, altrettanto illustri; alle maschere di Bellerofonte, Alessi e Virgilio
indossate dal poeta laureato, ne subentrano altre, quelle dei patriarchi
biblici, dei Padri della Chiesa e degli antichi sapienti, scelte
dal filosofo morale. Si veda come prosegue la lettera a Gherardo:
Quanto, a ricordar tali passate follie, dà soddisfazione il presente! il
largo calzare non è tormento del piede, ma difesa; la chioma tagliata e
raccolta in alto non dà più noia alle orecchie e agli occhi; la tunica,
semplice e facile ad acquistarsi e a conservarsi, a indossare e a togliere,
difende così l’animo dalla stoltezza come il corpo dal freddo.39
Nel descrivere la propria dieta parca e il proprio abbigliamento
modesto, Petrarca recupera l’ideale della mediocritas oraziana e le condanne
del lusso dei satirici latini,40 ma anche gli esempi di vita ascetica
e morigerata dei personaggi biblici e dei Padri della Chiesa. E non è
senza una punta di snobismo che il poeta sottolinea il carattere aristocratico
della sua scelta. Si veda l’epistola A Francesco dei Santi Apostoli,
sulla sua vita agreste e solitaria (Fam. XIII, 8):
Quanto alla gola e al ventre, ho fatto in modo che spesso mi basti il
pane del mio bifolco, spesso anche che mi piaccia, e che quello bianco
se lo mangino i servi che me lo portano d’altro luogo; l’abitudine mi si
è trasformata in diletto. E così il mio contadino, amico devoto, e anche
39 Ibidem: «Quantum vero te nunc illa preterita memorantem, presentia ista
delectant! calceus laxus pedis non vinculum sed munimen; coma alte resecta et
capillorum sepes non iam auribus importuna nec oculis; toga simplicior et quesitu
et custodia facilis nec egressu laboriosior quam ingressu, tamque animum ab insania
defendens quam corpus a frigore».
40 Petrarca ribadisce la propria indifferenza per i banchetti raffinati anche nella
Posteritati: «Non ebbi la possibilità di lauti banchetti, e perciò non ebbi da fissarci
il pensiero: ma io mangiando poco e semplicemente passai la vita più contento che
con le loro raffinatissime tavole tutti i successori di Apicio. I banchetti – li chiamano
così, ma sono gozzoviglie, nemiche della moderazione e del vivere costumato
– non mi sono mai piaciuti, ed ho giudicato una fatica inutile invitarvi gli altri e
dagli altri esservi invitato. Ma pranzare con gli amici mi è sempre piaciuto, tanto
che nulla mi è stato più gradito che averli come commensali, e mai di mia volontà
ho mangiato senza compagnia». Il testo latino recita: «Non , ut ista cura
esset, lautarum facultas epularum: ego autem tenui victu et cibis vulgaribus vitam
egi letius, quam cum exquisitissimis dapibus omnes Apicii successores. Convivia
que dicuntur – cum sint commessationes modestie et bonis moribus inimice – semper
michi displicuerunt. Laboriosum et inutile ratus sum ad hunc finem vocare
alios, nec minus ab aliis vocari; convivere autem cum amicis adeo iocundum, ut
eorum superventu nil gratius habuerim, nec unquam volens sine sotio cibum sumpserim
» (Posteritati, a cura di P.G. Ricci, in F. Petrarca, Prose, cit., pp. 2-5).
[ 18 ]
petrarca e le maschere degli antichi 21
lui uomo di ferro, di null’altro contrasta con me se non perché il mio
vitto è troppo grossolano perch’io possa, com’egli dice, sopportarlo a
lungo. Io invece sento che un tal vitto posso più a lungo tollerare di
uno delicato, il quale, come dice Giovenale, finisce col dar nausea e
non si può continuare per cinque giorni. Uva, fichi, noci, mandorle son
le mie delizie [Uva ficus nuces amygdale delitie mee sunt]; mi piacciono i
pesciolini, dei quali il fiume abbonda, e mi diverto soprattutto a pigliarli
maneggiando ami e reti. Che dire dei miei abiti, dei miei calzari?
tutto è cambiato; non uso più quel mio modo di vestire, e dico mio
perché raramente altri l’usano, per il quale, salva l’onestà e il decoro,
mi piaceva distinguermi dai miei pari. Diresti ch’io sono un contadino
o un pastore, sebbene possegga vesti più nobili [vestis exquisitior non
desit] e di questo cambiamento sola cagione sia che quanto un giorno
mi piacque oggi mi dispiace.41
Il poeta, dunque, apprezza il pane scuro, sebbene il suo contadino
gli faccia notare che è un cibo troppo grossolano per lui; e si nutre di
frutti spontanei («Uva ficus nuces amygdale delitie mee sunt»), come
un eremita, o, ancora, come il protagonista di una rinnovata età dell’oro,
quella procurata dalla condizione di felice isolamento di cui gode
a Valchiusa. I suoi vestiti non sono estrosi come in passato (quando il
poeta si abbigliava in modo eccentrico allo scopo di farsi notare:
«propter eximiam raritatem, qua, salva ni fallor honestate et decore
servato, inter pares olim conspici dolce fuit»), ma sono pur sempre
belli e decorosi, di una semplice ricercatezza («vestis exquisitior non
desit»): quasi una scelta di sprezzatura ante litteram.
L’abbigliamento semplice che sostituisce quello lussuoso degli an-
41 Familiares, XIII, 8, a Francesco dei Santi Apostoli, Sue agrestis et solitarie vite
modus, [1352], in Familiarum rerum libri, a cura di E. Bianchi, cit., pp. 970-971: «Iam
vero gulam ventremque sic institui ut sepe bubulci mei panis et michi sufficiat,
sepe etiam delectet, et niveum aliunde michi allatum famuli qui tulere manducent;
iam consuetudo michi pro voluptate est. Itaque villicus meus indulgentissimus
familiaris et ipse quoque vir saxeus de nulla re mecum litigat, nisi quod durior
michi sit victus quam qui, ut dicit, diutius ferri queat. Ego contra sentio diutius
talem victum tolerari posse quam mollem, quem magni tedii esse et quinque diebus
continuari non posse, Satyricus ait. Uva ficus nuces amygdale delitie mee
sunt; quibus hic fluvius abundat, pisciculis delector, nunquam magis quam dum
capiuntur, quod studiose etiam inspicio, iuvatque iam hamos ac retia tractare.
Quid de vestibus, quid de calceis loquar? mutata sunt omnia; non ille meus habitus,
meus inquam propter eximiam raritatem, qua, salva ni fallor honestate et decore
servato, inter pares olim conspici dolce fuit. Agricolam me seu pastorem dixeris,
cum tamen adhuc et vestis exquisitior non desit, et mutati habitus nulla sit
causa nisi quia quod primum placuit primum sordet».
[ 19 ]
22 cecilia gibellini
ni giovanili (in particolare la veste ricevuta da re Roberto) non è, dunque,
una veste “rusticana”, ma è la divisa del filosofo, che Petrarca
indossa non senza fatica, come ammette in una delle Familiares (XXI,
13, 12): «e ciò mi costa di più poiché a stento inizio a rivolgermi a un
abbigliamento comune e modesto, per non dire filosofico».42
Si delinea così l’autoritratto senile di Petrarca, da accostare a quello
giovanile come in un dittico. Leggiamo dunque il brano di autoritratto
più famoso, quello che Petrarca dà di sé nella Posteritati, facendo prima
una necessaria premessa. Nel tracciare il proprio ritratto, infatti,
Petrarca si deve confrontare, almeno a partire dagli anni 1344-50, con
quello che di lui aveva fatto Boccaccio nella sua Vita di Petrarca. In
quella
biografia, scritta sotto la forte impressione suscitata dall’incoronazione
poetica in Campidoglio dell’aprile 1341, Boccaccio aveva usato
i toni della lode, celebrando parimenti le qualità intellettuali e quelle
fisiche dell’amico. Aveva infatti delineato il ritratto di un uomo indiscutibilmente
bello, alto, con il viso arrotondato e dai tratti nobili,
dallo sguardo pieno di gravitas, aggraziato e composto nei movimenti
e dall’eloquio addirittura seducente:
Alto di statura, leggiadro nell’aspetto, e bello per il viso tondeggiante,
sebbene di colore egli non sia candido, e tuttavia non scuro [colore etsi
non candidus, on tamen fuit obscurus], ma ombreggiato da una certa fuscositas
che ben si addice a un uomo. Grave il movimento degli occhi; lieto
e sottile lo sguardo per la vista acuta; mite nell’aspetto, quanto mai
misurato nei gesti: senz’altro disponibile al riso, ma non fu mai visto
agitarsi per una risata stupida e scomposta; moderato nel camminare,
sereno e gioioso nell’esporre, parla tuttavia di rado, a meno che non sia
interrogato, e allora porge parole così chiare a chi lo interroga, soppesate
con tale gravità, da attirare ad ascoltarlo anche i più semplici; e questi
li tiene, per così dire, avvinti, parlando a lungo, senza arrecar noia, ma
anzi con molteplice diletto: tanto che alcuni nel sentirlo danno per vero
che le navi dei compagni del duca narizio [Ulisse] siano state sommerse
dal canto delle sirene – finché non si accorgono di essere stati catturati
anche loro, in un certo modo, dalla dolcezza della sua parola.43
42 Familiares, XXI, 13, 12: «et in eo plus michi negotii est quod ad comunem et
modestum, ne dicam philosophicum, vestis modum vixdum inclinare animo incipio
».
43 Per il testo latino, cfr. G. Boccaccio, Vita di Petrarca, a cura di G. Villani,
Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 82-85: «Statura quidem procerus, forma venustus,
facie rotunda atque decorus, quamvis colore etsi non candidus, non tamen
fuit obscurus, sed quadam decenti viro fuscositate permixtus. Oculorum motus
[ 20 ]
petrarca e le maschere degli antichi 23
È un ritratto calibrato, tutto giocato sul bilanciamento di termini
opposti. Anche nel colore della carnagione, vi è un perfetto equilibrio
tra chiaro e scuro, luce e ombra: probabilmente anche qui giocano gli
echi delle Bucoliche virgiliane, dal momento che Petrarca è una sorta di
via di mezzo tra il candidus Alessi e il niger Menalcas (Bucoliche, II, vv.
15-16: «nonne Menalcam, / quamvis ille niger, quamvis tu candidus
esses?»), e la sua fuscositas, per nulla sgradevole, ricorda quella di un
altro pastore virgiliano, Aminta (Bucoliche, X, vv. 38-39: «quid tum, si
fuscus Amynthas? / et nigrae violae sunt et vaccinia nigra»).44
Un simile ritratto non poteva certo essere replicato sic et simpliciter
dal diretto interessato, se non a costo di suonare come un segno di
insopportabile presunzione. Petrarca non rifiuta gli elogi fisici di Boccaccio,
ma li attenua, li circoscrive, e li allontana nel tempo, ancorandoli
agli anni di una giovinezza presentata come irrimediabilmente
trascorsa. Nella Posteritati, il poeta vecchio traccia il proprio autoritratto
da giovane, e descrive il suo corpo agile e sano, il bel colorito, gli
occhi vivaci:
Da giovane m’era toccato un corpo non molto forte, ma assai agile.
Non mi vanto d’aver avuto una gran bellezza, ma in gioventù potevo
piacere: di colore vivo tra bianco e bruno [inter candidum et subnigrum],
occhi vivaci e per lungo tempo di una grandissima acutezza, che contro
ogni aspettativa mi tradì passati i sessanta, in modo da costringermi
a ricorrere con riluttanza all’aiuto delle lenti. La vecchiaia prese
gravis, intuitus letus et acuta perspicacitate subtilis; aspectu mitis, gestibus verecundus
quamplurimum; risu letissimus, sed nunquam cachino inepto concuti visus;
incessu moderatus, prolatione placidus et iocosus, sed rara locutione utitur
nisi interrogatus, et tunc verba debita gravitate pensata sic interrogantibus profert
in patulo, ut ad audiendum attrahat eciam ydiotas, et eosdem, per longissima spatia
durante sermone, sine tedio, ymo cum delectatione multiplici, ut ita loquar, teneat
irretitos, in tantum ut sint qui hunc audiendo concedant verum a cantibus
syrenarum sotiorum ducis Naritii naves fuisse summersas, dum se a dulcedine
prolationis istius quodammodo comperiant fore captos». Ho preferito dare una
traduzione letterale del testo latino.
44 Diversa la lettura data al ritratto da Gianni Villani, secondo il quale il tratto
di fuscositas qui attribuito alla carnagione di Petrarca risponderebbe all’«intento di
comporre un’affascinante descriptio viri»: l’elemento esotico doveva sembrare particolarmente
gradevole alla mente di Boccaccio, «già popolata di fantasie mediterranee
e orientali». Viceversa, Petrarca nella Posteritati (per cui si veda poco più
sotto) avrebbe smorzato il tratto della fuscositas perché egli «alle popolazioni esotiche
guardava con animo diverso da quello di Boccaccio» (G. Villani, Introduzione
a G. Boccaccio, Vita di Petrarca, cit., p. 32).
[ 21 ]
24 cecilia gibellini
possesso d’un corpo che era stato sempre sanissimo e lo circondò con
la solita schiera di acciacchi.45
Petrarca circoscrive il suo autoritratto concentrandosi su pochi
aspetti: la dexteritas del corpo (che, come precisato più avanti, corrisponde
a quella dell’intelletto: «Fuit enim michi ut corpus sic ingenium:
magis pollens dexteritate quam viribus»), il bel colore della pelle
e, soprattutto, la vista un tempo acutissima e venuta meno con il
passare degli anni. È proprio questo il motivo centrale dell’autoritratto
senile di Petrarca, e anche qui intervengono modelli antichi. Come
ha indicato Barbara Beleggia, per questo passo il referente letterario è
il ritratto svetoniano di Augusto:46
Fu bellissimo e di aspetto particolarmente avvenente in tutte le età,
benché non fosse per niente ricercato […]. Aveva un viso tanto tranquillo
e sereno, sia quando parlava sia quando stava zitto […]. Aveva
gli occhi chiari e lucenti […]. Però, durante la vecchiaia, ci vide meno
con il sinistro. […] Il suo colorito stava fra il bruno e il bianco [inter
aquilum candidumque].47
Del resto, Augusto è la prima figura a cui Petrarca fa riferimento
aprendo la Posteritati: «di antica famiglia, come dice di se stesso Cesare
Augusto».48
Altrove, Petrarca si identifica con i patriarchi biblici Isacco e Giacobbe
(Fam. VI, 3, 9-10):
Invecchiò Abramo, invecchiò Isacco, invecchiò Giacobbe, a proposito
45 «Corpus iuveni non magnarum virium sed multe dexteritatis obtigerat. Forma
non glorior excellenti, sed que placere viridioribus annis posset: colore vivido
inter candidum et subnigrum, vivacibus oculis et visu per longum tempus accerrimo,
qui preter spem supra sexagesimum etatis annum me destituit, ut indignanti
michi ad ocularium confugiendum esset auxilium. Tota etate sanissimum corpus
senectus invasit, et solita morborum acie circumvenit». Posteritati, a cura di P.G.
Ricci, in Prose, cit., pp. 2-3.
46 B. Beleggia, Autoritratto d’autore nelle «Familiari» di Petrarca, in Motivi e forme
delle «Familiari» di Francesco Petrarca, cit., pp. 700-702.
47 «Forma fuit eximia et per omnes aetatis gradus venustissima; quamquam et
omnis lenocinii neglegens […] Vultu erat vel in sermone vel tacitus adeo tranquillo
serenoque […]. Oculos habuit claros ac nitidos […]; sed in senecta sinistro minus
vidit; […] colorem inter aquilum candidumque»; Svetonio, Vite dei Cesari, introd.
di S. Lanciotti, trad. di F. Dessì, pp. 267-269 (Aug. 79).
48 «familia – ut ait de se Augustus Caesar – antiqua»: F. Petrarca, Posteritati,
a cura di P.G. Ricci, cit., p. 2. Numerosi sono del resto i riferimenti alla Vita di Augusto
di Svetonio che Petrarca fa nel corpus delle lettere, dalle Familiares alle Seniles.
[ 22 ]
petrarca e le maschere degli antichi 25
dei quali […] fu scritto, del secondo: «Invecchiò tuttavia Isacco e si
annebbiarono i suoi occhi, e non poteva più vederci», e di nuovo: «Morì
di vecchiaia, e ricongiunto al popolo, anziano e giunto a pienezza di
giorni»; a proposito del terzo: «Gli occhi di Israele erano annebbiati per
l’eccessiva vecchiaia e non potevano più vederci chiaramente». Ecco,
lo senti: non si tratta solo della vecchiaia, ma anche dell’annebbiamento
e del deficit della vista.49
La privazione fisica degli occhi corrisponde però a un acquisto spirituale:
la conquista di una vista interiore in grado di condurre alla
verità e alla santità. La condanna della concupiscentia oculorum e l’affermazione
della superiorità della vista interiore sono l’argomento di
tutta una sezione (da 34, 51 a 35, 55) del decimo libro delle Confessioni
di Agostino, proprio quello in cui Petrarca si imbatte aprendo a caso il
volume sulla cima del Monte Ventoso.50 Anche Agostino aveva parlato
della cecità dei grandi vecchi biblici, usando gli stessi esempi, Isacco e
Giacobbe:
O luce […] che vedeva Isacco con i lumi del corpo già gravati e velati
dalla vecchiaia, quando gli fu dato di benedire i figli senza riconoscerli,
e in quella benedizione tuttavia di riconoscerli. Luce che vedeva
Giacobbe, quando la gran vecchiaia lo colpì negli occhi e diresse il raggio
del suo cuore illuminato sulle generazioni del futuro popolo, prefigurate
nei figli: e sui nipoti, figli di Giuseppe, impose le mani misteriosamente
incrociate, non come il loro padre dall’esterno tentava di guidarlo,
ma con il suo discernimento intimo. Sempre la stessa luce: è una
soltanto, come una cosa sola sono tutti quelli che la vedono e l’amano.
Ma la rischiosa dolcezza di questa luce materiale di cui stavo parlando
copre di un velo di lusinghe la vita ai ciechi amanti del secolo. Quando
avranno imparato a render lode a te anche di questa luce, Dio creatore
del tutto, l’accoglieranno nel tuo inno invece di farsi cogliere da lei nel
49 Familiares, VI, 3, a Giovanni Colonna, Consolatoria super quibusdam vite difficultatibus,
9-10: «Senuit Abraham, senuit Isaac, senuit Iacob, de quorum […] scriptum
est […] de secondo: “Senuit autem Isaac, et caligaverunt oculi eius, et videre
non poterat”, et rursum: “Consumptusque etate mortuus est, et appositus populo,
senex et plenus dierum”; de tertio: “Oculi Israel caligabant pre nimia senectute, et
clare videre non poterant”. Audis, ecce, nec senectutem modo, sed oculorum quoque
caliginem ac defectum». Trad. mia.
50 Familiares, IV, 1, a Dionigi di Borgo San Sepolcro, De curis propriis, 27. Il passo
che Francesco legge è Confessioni, X, 9, 15: «E gli uomini vanno ad ammirare le
vette dei monti e gli enormi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi e il giro
dell’Oceano e le rotazioni degli astri, e non si curano di se stessi»; «Et eunt homines
admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum
et oceani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos».
[ 23 ]
26 cecilia gibellini
loro sonno: e così voglio fare anch’io. Resisto alle seduzioni degli occhi,
per non restare impigliato coi piedi, con cui procedo lungo la tua via: e
levo a te occhi invisibili, perché tu sciolga dal laccio i miei piedi.51
Come Agostino, sul modello degli antichi patriarchi Petrarca rinuncia
ai «carnea lumina» in favore degli «invisibiles oculi»; e se l’annebbiamento
procurato dagli anni non è sufficiente, il poeta è disposto
a chiuderli volontariamente:
Di molti mali ricordo che [le parti del corpo] mi furon cagione, e soprattutto
gli occhi, che mi spinsero sempre verso la rovina. Io li ho
chiusi in modo che non vedano altro che cielo, montagne e fonti, e non
oro e gemme o avorio o porpora.52
Ecco dunque che Petrarca indossa una nuova maschera, quella di
Democrito, il filosofo antico che per poter vedere meglio la verità si
era cavato gli occhi, come ricordato nei Trionfi («Vidi […] Democrito
andar tutto pensoso, / per suo voler di lume e d’oro casso»53) e nel De
vita solitaria: «Interroga Democrito: ti confesserà di essersi strappati gli
occhi per vedere la verità e non vedere la folla, nemica della verità».54
Anche gli scrittori del Rinascimento ameranno identificarsi in Democrito,
ma privilegiandone un’immagine diversa, quella del filosofo
malinconico che ride dell’insensatezza degli uomini. Aspetto cui Pe-
51 Agostino, Confessioni, X, 34, 52 (trad. di Roberta de Monticelli): «O lux […]
quam videbat Isaac praegravatis et opertis senectute carneis luminibus, cum filios
non agnoscendo benedicere, sed benedicendo agnoscere meruit; aut quam videbat
Iacob, cum et ipse prae grandi aetate captus oculis in filiis praesignata futuri populi
genera luminoso corde radiavit et nepotibus suis ex Ioseph divexas mystice manus,
non sicut pater eorum foris corrigebat, sed sicut ipse intus discernebat, imposuit.
Ipsa est lux, una est et unum omnes, qui vident et amant eam. At ista corporalis,
de qua loquebar, inlecebrosa ac periculosa dulcedine condit vitam saeculi
caecis amatoribus. Cum autem et de ipsa laudare te norunt, Deus creator omnium,
adsumunt eam in hymno tuo, non absumuntur ab ea in somno suo: sic esse cupio.
Resisto seductionibus oculorum, ne implicentur pedes mei, quibus ingredior viam
tuam, et erigo ad te invisibiles oculos, ut tu evellas de laqueo pedes meos».
52 «Multa quidem hinc michi mala provenisse memini, presertim ab oculis, qui
ad omne precipitium mei fuerunt duces. Hos ita conclusi ut preter celum preter
montes ac fontes fere nichil videant, non aurum non gemmas non ebur non purpuram
»; Familiares, XIII, 8, a Francesco dei Santi Apostoli, Sue agrestis et solitarie vite
modus, in Familiarum rerum libri, a cura di E. Bianchi, cit., pp. 968-969.
53 F. Petrarca, Triumphus Famae, III, vv. 76-78.
54 F. Petrarca, De vita solitaria, a cura di G. Martellotti, in F. Petrarca,
Prose, cit., pp. 526-527: «Quere a Democrito: fatebitur se sibi oculis eruisse, ut et
videret verum et veri hostem populum non videret».
[ 24 ]
petrarca e le maschere degli antichi 27
trarca è indifferente (si ricordino le parole con cui Boccaccio lo descrive:
«senz’altro disponibile al riso, ma non fu mai visto agitarsi per una
risata stupida e scomposta»), concentrandosi invece sull’elemento
della cecità. Democrito diventa così un alter Homerus: già Cicerone
aveva accostato i due sapienti ciechi (nelle Tusculanae, V, 38, 111-114) e
lo stesso fa Petrarca, ad esempio nel De remediis utriusque fortune (II,
96):
Rifletti su Omero e Democrito, dei quali l’uno, come si dice, mentre
pronunciava quelle straordinarie parole divine, non ci vedeva con gli
occhi, ma aveva la vista di una lince con l’animo; l’altro si privò degli
occhi, per non vedere molte cose che, come egli stesso riteneva, gli
avrebbero ostacolato la chiara visione della verità.55
Ed è senz’altro il volto di Omero quello più importante per l’autoritratto
del Petrarca come vecchio cieco e sapiente. È Omero stesso a
parlare della propria “seconda vista” nel IX libro dell’Africa, quando
appare in tutta la sua terribilità a Ennio:56 il poeta latino resta incredulo
vedendo le orbite cave dei suoi occhi («Sedibus exierant oculi. Cava
frontis imago / horrorem inculta cum maiestate ferebat», vv. 169-170),
ed egli risponde che quel dio che lo ha privato degli occhi del corpo
gliene ha dato altri «quibus hec arcana viderem» (v. 202).
Sono gli arcana cui Omero introduce lo stesso Petrarca, in una sorta
di rito di iniziazione poetica descritto nella decima egloga del Bucolicum
Carmen (X, vv. 62-66), quando Petrarca/Silvano incontra il cieco
veggente che lo prende per mano:
[…] incontro un vecchio cieco, ma che vede molte cose. Egli, quando
riconobbe che venivo dal mondo, dall’Italia, tacque e mi diede la mano
destra, e accolse me che ero stanco nella profonda ombra dei boschi e
in un luogo oscuro, e portò per mano me che ero attonito nelle ombre
più profonde [penetralibus umbris].57
55 F. Petrarca, De remediis utriusque fortune, II, 96: «Homerum et Democritum
contemplare, quorum alter, ut fama est, dum mira illa ac divina dictaret, oculis non
videbat, animo linceus; alter sibi oculis eruit, ne videret multa, que, ut ipse arbitrabatur
veri visus aciem impedirent».
56 Sul ritratto di Omero nell’Africa, cfr. G. Crevatin, Il poeta dell’«Africa». Omero
in Petrarca, in Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato nella cultura umanistica,
cit., pp. 135-148, e in particolare le pp. 144-148.
57 F. Petrarca, Bucolicum Carmen, X, vv. 62-66: «cecumque senem, sed multa
videntem / convenio. Isque, italo missum ut cognovit ab orbe, / prosiluit dextramque
dedit, nemorumque profundo / accubitu et fusca fessum statione recepit,
/ attonitumque manu penetralibus intulit umbris». Trad. mia.
[ 25 ]
28 cecilia gibellini
La perdita della vista, portata a Petrarca dalla vecchiaia, lo pone
nelle condizioni di diventare un alter Homerus.
Si compie così l’autoritratto di Petrarca. Lo specchio in cui egli cerca
il proprio volto gli rimanda riflesse le immagini e le figure attraverso
cui costruire la propria mobile identità: il Petrarca-Bellerofonte che
vaga malinconico in un paesaggio deserto, il Petrarca-Alessi innamorato
del proprio aspetto, il Petrarca-Virgilio vestito all’antica e coronato
d’alloro che ascende al Campidoglio, il Petrarca-Democrito che
chiude gli occhi per vedere la verità, il Petrarca-Omero cieco e veggente
che discende nei profondi abissi della conoscenza.
Cecilia Gibellini
(Università di Verona)
[ 26 ]
Daniela De Liso
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta
A cinquecento anni dalla nascita di Salvator Rosa (1615-1673) il saggio propone
un excursus sulla produzione letteraria del noto pittore napoletano. Al fiorire, a
partire dall’Ottocento, di studi storico-artistici intorno alla sua produzione pittorica,
non corrisponde, infatti, un’analoga attenzione critico-letteraria alla produzione
in prosa ed in versi del Rosa. Le pagine che seguono intendono fare il
punto sullo stato degli studi rosiani, riproponendo questioni filologico-critiche
non ancora risolte, in particolare intorno alle satire ed alla restante ed “extravagante”
produzione in versi dell’autore. Si pongono, insomma, come il luogo da
cui ripartire per costruire, dopo il lungo silenzio della critica letteraria, l’esatta
fisionomia dello scrittore e del poeta Salvator Rosa.

Five hundred years after the birth of Salvator Rosa (1615-1673) this essay offers
an excursus on the literary production of the famous Neapolitan painter.
The flourishing of artistic studies revolving around his paintings since the nineteenth
century has not in fact been accompanied by a similar concern for the
literary study of Salvator Rosa’s production in prose and verse.
The following pages are meant to take stock of the situation concerning studies
on Rosa, proposing unresolved philological-critical matters, in particular relating
to the “satire” and to the remaining and “extravagant” production in verse.
The essay, in short, sets out to construct, following the long silence of literary
critics, a precise portrait of the writer and poet Salvator Rosa.
Cinquecento anni fa nasceva a Napoli Salvator Rosa, pittore e poeta.
Se il pittore ha suscitato alterni periodi di grande interesse, suggerendo
lavori critici importanti, come quelli datati, ma fondamentali di
Luigi Salerno e Leandro Ozzola1, e quelli recentissimi e documentatissimi
di Caterina Volpi e Floriana Conte2, al poeta, all’intellettuale, è
toccata una sorte assai diversa.
1 L. Salerno, L’opera completa di Salvator Rosa, Milano, Rizzoli, 1975; L. Ozzola,
Vita e opere di Salvator Rosa. Pittore, poeta, incisore con poesie e documenti inediti,
Strasburgo, Heitz & Mundel, 1908.
2 C. Volpi, Salvator Rosa “pittore famoso” (1615-1673), Roma, Ugo Bozzi, 2014; F.
30 Daniela De Liso
Gli studi di Giovanni Alfredo Cesareo e di Uberto Limentani3 hanno
contribuito a diradare le fitte nubi intorno al valore intrinseco della
produzione letteraria del Rosa, ma hanno anche aperto questioni filologico-
critiche irrisolte4. È ovvio che su questo “languore” critico ha
influito assai negativamente l’importanza del nome di Salvatoriello
nel panorama della pittura italiana ed europea del Seicento5. È altret-
Conte, Tra Napoli e Milano. Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento. II. Salvator Rosa,
Firenze, Edifir, 2014. Segnalo anche, tra gli studi non propriamente dedicati alla
produzione letteraria rosiana, l’interessante ‘giallo storico’ di B. La Mantia-G.
Cucca, La voce di Pasquino. Un’indagine di Salvator Rosa nella Roma di papa Chigi,
Viterbo, Nuovi Equilibri, 2008.
3 G. A. Cesareo, Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, Napoli, Tipografia
della Regia Università, 1892, voll. I-II; U. Limentani, Poesie e lettere inedite di
Salvator Rosa, Firenze, Olschki, 1950; Id., Salvator Rosa. Nuovi studi e ricerche, «Italian
Studies», vol. VIII, 1953, pp. 29-58 e vol. IX, 1954, pp. 46-55.
4 Le Satire sono note al pubblico contemporaneo grazie all’edizione curata dal
Romei, che riproduce quella del Cesareo, criticata, per le sue lacune filologico-critiche,
anche dal Croce: S. Rosa, Satire, a cura di D. Romei, commento di J. Manna,
Milano, Mursia, 1995.
5 Negli ultimi decenni i critici d’arte, tra Londra e l’Italia per lo più, hanno finalmente
fornito una sistemazione critica importante e complessiva all’opera del
Rosa pittore. Senza aver pretese di completezza, in un ambito critico che non mi
compete, mi preme comunque indicare alcuni degli studi più importanti e, devo
dire, anche indubbiamente più utili, al lavoro di un critico letterario: E. Bragaglia
– T. Grossi, Salvator Rosa: l’uomo, l’artista, l’antesignano, Cornuda, Antiga, 2006; A.
Campoli, Le «stregonerie» di Salvator Rosa, in L’incantesimo di Circe. Temi di magia
nella pittura da Dosso Dossi a Salvator Rosa, a cura di S. Macioce, Roma, Logart-
Press, 2004, pp. 158-184; S. Cassiani (a cura di), Salvator Rosa tra mito e magia, Catalogo
della Mostra, Napoli, Electa, 2008; D. Catalano, Oltre Salvator Rosa. Magia
e demonio in alcuni dipinti romani del Seicento, in La città dei segreti. Magia, astrologia e
cultura esoterica a Roma (XV-XVIII), a cura di F. Troncarelli, Milano, Franco Angeli,
1985, pp. 96-100; R. Causa, La pittura del Seicento a Napoli dal naturalismo al
barocco, in Storia di Napoli, Napoli, Società Editrice della Storia di Napoli, 1972, vol.
II, pp. 914-994; S. Causa, Meglio tacere. Salvator Rosa e i disagi della critica, Napoli,
arte’m, 2009; M. Chiarini (a cura di), Salvator Rosa (Art Dossier), Firenze, Giunti,
2008; E. Fumagalli, Napoli a Firenze nel Seicento, in ‘Filosofico umore’ e ‘maravigliosa
speditezza’. Pittura napoletana del Seicento dalle Collezioni Medicee (Catalogo della
Mostra), a cura di E. Fumagalli, Firenze, Giunti, 2007, pp. 24-135; H. Langdon,
Salvator Rosa in Florence 1640-1649, «Apollo», C, 1974, 151, pp. 190-197; Ead., A
Theatre of Marvels: the Poetic of SalvatorRosa, «Konsthistorisk TidsKrift», vol. 73.3,
2004, pp. 179-192; E. Mai, Satiren, Burlesken und Capricci. Salvator Rosa und die Bamboccianti
in Rom, in Intellektuelle in der frühen Neuzeit, a cura di J. Held, München,
Erscheinungsjahr, 2002, pp. 149-169; A. Paita, Salvator Rosa, la leggenda del pittore,
Firenze, Giunti, 2007; S. Schütze, Il nuovo Parnaso napoletano: arti figurative e ambiente
letterario nel primo Seicento, in Napoli viceregno spagnolo: una capitale della cultura
alle origini dell’Europa moderna (sec. XVI e XVII), a cura di M. Bosse e A. Stoll,
[ 2 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 31
tanto ovvio che la condanna della poesia delle satire da parte di Vittorio
Cian, nell’ancora fondamentale volume su La satira6, coadiuvato
dal pacato entusiasmo crociano7 e poi dalla non certo benevola prospettiva
dionisiottiana8, siano alla base del lungo disinteresse per il
poeta Rosa9. La difficoltà di lavorare sui manoscritti autografi, in alcu-
Napoli, Vivarium, 2001, pp. 407-434; J. Scott, Salvator Rosa: his life and times, New
Haven-London, Yale University Press, 1995.
6 «Infatti, è vero che, passando in rassegna i vari giudizi che si sono pronunziati
sul poeta-pittore in questi ultimi decenni, ci accorgiamo che un serio consenso
si viene, non senza fatica, formando nel riconoscere la sua importanza, ma anche
la sua mediocrità poetica; nel rilevare l’abbondanza della sua vena satirica, ma
anche la sovrabbondanza straripante torbidamente in una prolissità, a volte fastidiosa,
per non dire insopportabile. […] Troppe, le volgarità, troppo, il generico,
fatto spesso d’un allegorismo vieto, di maniera, troppa, la loquacità, che dominano
a scapito di quella efficacia che sola può venire dalla salda e sobria concretezza
della rappresentazione» (V. Cian, La satira (dall’Ariosto al Chiabrera), Milano, Vallardi,
1939, pp. 188-189).
7 «[…] si aggiunga che i bei luoghi [nelle satire n.d.a.] non sono pochi, e che le
satire del Rosa, paragonate con quelle dei contemporanei, hanno doti pregevolissime
di vivacità e di freschezza; e, se non poesia grande e schietta, sono certamente,
prodotto di un ingegno e di un’indole fuori dall’ordinario» (B. Croce, Salvator
Rosa, in Id., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1924, p. 357).
8 Cfr.: «Nel tardo ’500 nell’età che a Milano è del pittore poeta Lomazzo, Leonardo
scrittore riemerge. Fra lui e Giordano Bruno è un abisso, ma di entrambi si
può dire che sono come attratti dall’abisso che li divide. Nell’età di Bruno, poi di
Galileo e di Campanella, pare a noi che una riesumazione degli scritti di Leonardo
dovesse o potesse avvenire. Di fatto avvenne più tardi, nel 1651, quando finalmente
apparve a stampa un Trattato della pittura ricavato dagli scritti di lui. La data
coincide col totale esaurimento della tradizione letteraria italiana del rinascimento,
quando in Italia non si ode altro suono che quello delle Satire di Salvator Rosa
e quello prosastico dei retori in tonaca, Bartoli, Pallavicino, Segneri» (C. Dionisotti,
Centenario di Leonardo (1952), in Appunti su Arti e Lettere, Milano, Jaka book,
1995, p. 19).
9 Di diversa intonazione, con una maggiore indulgenza verso il Rosa poeta,
sono le posizioni di Giancarlo Mazzacurati: «Con tutte le sue folte progeniture […]
il genere satirico ebbe nel Seicento una proliferazione rilevante […] Rappresentante
emblematico di questa produzione fu il pittore napoletano Salvator Rosa, con la
sua esperienza estroversa, molteplice, esuberante, infarcito di luoghi comuni e di
improvvisi lampi di aggressività autentica, tipico genio della dismisura e dello
straripare declamatorio, eppure non tanto moralisticamente risentito quanto irritato
dall’ovvietà stagnante e dalla assuefazione agli «idola» contemporanei. […] Il
florilegio marinista prescelto dal Rosa è già un prototipo di quelli che circoleranno
più tardi, e si può dire fino a noi, come campionatura essenziale del mal gusto
dell’epoca: una costellazione di metafore estremistiche, strappate ai contesti e rilegate
nella solita pergamena neofoba, divertente e insieme irritante, se si pensa che
poi su operazioni come questa si fondò sostanzialmente il giudizio storico e l’ana-
[ 3 ]
32 Daniela De Liso
ni casi finiti in collezioni private, in altri dispersi o da rintracciare in
chissà quali fondi bibliotecari ha complicato ulteriormente l’ecdotica
dei testi. Per questo credo sia opportuno partire dall’inizio, fare il punto
sul poeta – scrittore Salvator Rosa, per ricominciare, poi, a lavorare
sulla sua produzione, per stabilire se la letteratura fu il divertissement
del pittore o se, come sembra suggerire anche la sua vicenda biografica,
pittura e poesia costituiscono due inalienabili forme d’espressione
di un uomo esuberante ed egocentrico, convinto di essere destinato al
primato nel suo tempo e nelle città che gli furono patria.
Di patria Salvator Rosa non ne ebbe una sola. Napoletano di nascita,
i suoi rapporti con Napoli furono forse meno importanti di quelli
con Roma e Firenze, le altre due città della geografia rosiana. L’impossibilità
di rintracciare un atto di nascita o di attingere ad un libro battesimale
ha reso difficile, fino a qualche anno fa, anche soltanto stabilirne
la data di nascita. Floriana Conte ha di recente sgombrato il campo
da dubbi residui, stabilendo che Salvatore nacque il 21 luglio 1615
da Vito Antonio e Giulia Greco, nel quartiere Arenella10. Una certa
lisi critica di quasi cento anni di poesia; e verrebbe voglia di affermare, con altrettanta
oltranza, che qualcuno di questi «mostri» è bello, o almeno coraggioso, diverso,
corrosivo, rispetto alle istituzioni retorico-poetiche da cui proviene» (S.
Battaglia-G. Mazzacurati, La Letteratura italiana. Rinascimento e Barocco, Firenze,
Sansoni, 1974, t. II, pp. 490-491).
10 T utte le fonti concordano nello stabilire che l’anno di nascita fu il 1615. Per
Filippo Baldinucci (Notizie de’ professori del Disegno da Cimabue in qua, ed. a cura di
F. Ranalli, V, 1847, p. 437), Salvator Rosa nacque il 20 luglio, che è la data riportata
anche da Leone Pascoli (Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni, Roma, Antonio
De Rossi, 1730, p. 63). Per Giambattista Passeri (Vite de’ pittori, scultori e Architetti
che hanno lavorato in Roma, Roma, Presso Natale Barbiellini, 1772, p. 416) la
data di nascita è il 21 luglio; il mese di luglio – la data non è leggibile – è confermato
anche da un manoscritto con notizie biografiche sul Rosa, conservato presso la
Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (ms. Fondo Vitt. Emanuele, pubblicato da
L. Festa, Aspetti della vita e dell’arte di Salvator Rosa, «Archivio Storico delle Provincie
Napoletane», III, s. XXI (1982), pp. 1-2, nn. 1-2); per Bernardo De Dominici (Vite
de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli, Ricciardi, 1742, vol. III, p. 214), la
data di nascita è il 20 giugno. Floriana Conte, nel suo studio sugli scritti encomiastici
degli Accademici Percossi, dimostra, servendosi di un componimento, La cena
della rosa, componimento per musica, fatto recitare al Signor Salvator Rosa doppo una
lauta cena data a gli amici nel giorno suo natalitio 21 luglio 1655 in Roma, recitato dopo
la cena che Rosa aveva offerto agli amici in occasione del suo quarantesimo compleanno,
che Rosa nacque il 21 luglio (F. Conte, Salvator Rosa negli scritti encomiastici
degli Accademici Percossi, in Firenze milleseicentoquaranta: arti-lingua-musicascienza,
Atti del Convegno internazionale di Studi (Firenze 11-12 dicembre 2008), a
cura di E. Fumagalli, A. Nova, M. Rossi, Venezia, Marsilio, 2010, p. 183).
[ 4 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 33
oscurità ancora avvolge la formazione del pittore, che avvenne, senza
dubbio, a Napoli alla bottega del nonno materno: forse si confrontò
con Francesco Fracanzano, col Ribera e lo Spagnoletto11, di qualcuno
di essi fu probabilmente allievo. L’idea che si desume dalla lettura
delle biografie contemporanee12 e degli studi recenti è che Rosa avvertisse
da subito, chiaramente, la necessità di lasciare Napoli, per l’impossibilità
di emergere e di distinguersi come pittore, in un ambiente
assai elitario e difficilmente disposto a riconoscere nuove primazie13.
11 Il nonno sembra, insieme allo zio materno, essere stato, allo stato attuale
delle ricerche, l’unico documentato maestro del Rosa. Esistono cioè documenti
(Cfr. L. Salazar, Salvator Rosa ed i Fracanzani (nuovi documenti), «Napoli nobilissima
», XII, 8, 1903, pp. 119-123) che comprovano la presenza nel 1632 di Salvatore
nella bottega di Domenico Antonio Greco, zio materno. Dell’apprendistato presso
Fracanzano, Ribera e Aniello Falcone parlano le principali fonti biografiche, il Passeri
ed il Baldinucci, ma non esistono documenti che possano comprovarlo. Sulla
formazione napoletana di Rosa tenta di far chiarezza, nel suo bel libro, Floriana
Conte: «Al contrario di quanto si continua a ripetere, non si ha certezza che la
formazione figurativa napoletana di Salvatore risenta direttamente degli insegnamenti
di Francesco Fracanzano, di Ribera e di Aniello Falcone. Non esiste alcun
documento coevo che attesti un praticantato del Rosa presso Ribera e Aniello Falcone
(e in quale forma poi? È oscura l’organizzazione delle loro botteghe); neppure
l’esame diretto delle opere riferibili con certezza agli anni giovanili di Rosa porta
senza intoppi in questa direzione» (F. Conte, Tra Napoli e Milano. Viaggi di artisti
nell’Italia del Seicento. II. Salvator Rosa, cit., p. 18).
12 Le biografie contemporanee e settecentesche sono le nostre fonti più autorevoli,
anche se la loro scientificità è abbastanza discutibile. Alcune di esse fanno,
persino, del Rosa una sorta di eroe giustiziere, coinvolto in una Compagnia della
morte che avrebbe operato a Napoli durante la rivolta di Masaniello in senso antispagnolo.
La molteplicità delle voci e delle fonti da esse evocate rende utilissima
comunque la loro consultazione: F. Baldinucci, Dal barocco a Salvator Rosa, a cura
di G. Battelli, nuova presentazione di F. Croce, Firenze, Sansoni, 1961; Id., Notizie
dei professori del disegno da Cimabue in qua, a cura di P. Barocchi, Firenze, Sansoni,
1974-1975, vol. V, p. 451; B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani,
Napoli, Ricciardi, 1742, vol. III; L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori ed architetti
moderni, Roma, Antonio De Rossi, 1730; G. B. Passeri, Vite de’ Pittori, scultori,
ed architetti che hanno lavorato in Roma, Roma, presso Natale Barbiellini Mercante di
Libri a Pasquino, Con Licenza de’ Superiori, 1772, pp. 416-439. Un ruolo diverso,
per il suo fascino narrativo, ha l’ottocentesca biografia di Lady Morgan: Lady S.
Morgan, The life and times of Salvator Rosa, London, Henry Colburne, 1824, voll. II.
13 A proposito dell’ambiente napoletano mi sembrano eloquenti le osservazioni
di Carducci, nella Vita di Salvator Rosa premessa all’edizione delle sue Satire:
«[…] a Napoli […] tiranneggiavano allora tre scuole o meglio tre fazioni artistiche;
del Ribeira (lo Spagnoletto), del napoletano Caracciolo, del greco Belisario Corenzio;
le quali, accanite fra loro in ogni altra cosa, in questa si trovavano d’accordo,
allontanare i forestieri, calcare gl’ingegni crescenti. E veramente quei triumviri
[ 5 ]
34 Daniela De Liso
La prima fuga a Roma nel 1635 durò pochi mesi, ma consolidò nel
giovane Salvatoriello il proposito di lasciare Napoli e di fare di Roma la
sua nuova città; vi farà, infatti, ritorno nel 1639, per diventare finalmente
noto, pur senza raggiungere mai il successo di grandi committenze,
forse anche per il rifiuto di lasciare l’Italia a vantaggio di corti straniere.
La permanenza romana di Salvator Rosa, che ama e odia la città,
sua croce e delizia, sarà interrotta da un lungo soggiorno toscano. Dal
1640 al 1650 vivrà in Toscana, alle dipendenze del mecenate Giovan
Carlo de’ Medici, tra Firenze, Pisa e le ville degli amici Ricciardi e Maffei.
Sono proprio gli anni toscani i più proficui dal punto di vista letterario.
In questi anni l’idea delle satire prende forma e buona parte dei
componimenti oggi attribuiti al Rosa vede la luce. La frequentazione di
un ambiente, in cui s’incontrano tutte le arti sorelle, in un connubio
felice che richiama in auge concetti antichi come quello della greca
παιδεῖα, è sicuramente congeniale all’elaborazione di una poetica non
improvvisata, non frettolosa e funzionalmente legata all’ispirazione
pittorica14. Due libri molto importanti, da angolazioni diverse, hanno
fatto luce sulla complessità di questo tempo toscano del Rosa pittore.
La monografia di Caterina Volpi, lavoro culminante di un ventennio di
studi dedicato al nostro pittore, attribuisce un valore marginale alla
produzione poetica ed, in generale, letteraria del Rosa15. La monografia
di Floriana Conte, invece, normalista che ha dedicato al Rosa numerosi
studi “trasversali”, muove dalla considerazione, per me assai convincente,
che la sua produzione letteraria sia da leggere, considerare e valutare
in maniera del tutto autonoma da quella pittorica e figurativa16.
Il lettore di Salvator Rosa dispone oggi di un patrimonio letterario
che, in versi, consta di sette satire (La Musica, La Poesia, La Pittura, La
Guerra, L’Invidia, La Babilonia, Il Tireno), precedute da un Sonetto contro
quelli che non lo credevano autore delle Satire; sette odi (Vedendo solo al
trono; Hor son pur solo; La Strega; Lamento; La Corte di Roma; Delle ricavevano
con minaccie e con fatti cacciato di Napoli Annibale Caracci, il Lanfranco,
il Domenichino e Guido Reni. […] Col Rosa, principiante e povero, adoperarono
l’arme che più diritto ferisce e fa peggior piaga, il disprezzo» (S. Rosa, Satire, odi e
lettere, illustrate da G. Carducci, Firenze, Barbera, 1860, pp. XIII-XIV).
14 Della Firenze del Seicento restituisce un intenso quadro complessivo il libro
Firenze milleseicentoquaranta: arti, lingua, letteratura, musica, scienza, Atti del Convegno
internazionale di Studi, a cura di E. Fumagalli, A. Nova, M. Rosci, Venezia,
Marsilio, 2010.
15 C. Volpi, Salvator Rosa, pittore famoso (1615-1673), cit., pp. 100-234.
16 F. Conte, Tra Napoli e Milano. Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento. II. Salvator
Rosa, cit., pp. 95-356.
[ 6 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 35
chezze; Sensi, voi, ciò che godete)17; tre canzoni (Lungi il cieco volgo; Che
non deve fidarsi l’uomo della prospera fortuna; Lungo il lito famoso); quattro
sonetti (Apri i lumi, o S… Amor ti attende; Vattene mio cor superbamente
altero; No, no, Camillo, non, no che non puote; Tu, che dal cranio del gran
Dio versato); ventidue frammenti in versi.
In prosa abbiamo un volumetto, edito da Giorgio Baroni, dal titolo
Il teatro della Politica. Sentenziosi afforismi della Prudenza18, che raccoglie
pensieri e riflessioni della maturità, di difficile sistemazione critica19. Il
curatore dell’edizione fa notare che si tratta di materiale assai eterogeneo,
nel quale è spesso difficile distinguere ciò che è originale e ciò che
Rosa attinge dai repertori classici e contemporanei di sentenze ed aforismi.
Una lettura del volumetto, i cui testi probabilmente non sono
tutti cronologicamente contigui e forse neanche diacronicamente organizzati,
rivela subito i temi tipicamente rosiani, dal sentimento antispagnolo
al culto per la sincerità, al biasimo per l’adulazione, all’amicizia,
sempre al vertice dei sentimenti umani. L’eterogeneità dei testi,
l’evidente mancanza di un labor limae finale rendono complessa la valutazione
del volumetto, che, però, riveste un importante valore documentario,
anche soltanto per ricostruire con una certa precisione la
biblioteca rosiana, vista la cospicuità di riferimenti a testi classici e
repertori. Ad esso si aggiungono, oltre ad una pasquinata, attribuita al
Rosa da Leandro Ozzola20, le lettere raccolte in volume da Lucio Fe-
17 Il Cesareo pubblica altre due Odi, che attribuisce al Rosa sulla scorta dell’antecedente
carducciano: Amplificazione del Testo di Giobbe, dove la Moglie tentandolo
dice: Et adhuc manes in Simplicitate tua e Risposta di Giobbe alla Moglie, per le parole: Et
adhuc vives in Simplicitate tua (G. A. Cesareo, Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator
Rosa, cit., pp. 146-153). Carducci le aveva pubblicate ed attribuite a Rosa sulla scorta
del solo codice Magliabechiano IV, 18 (S. Rosa, Satire, odi e lettere, illustrate da G.
Carducci, cit., pp. 374-384).
18 S. Rosa, Il teatro della politica. Sentenziosi afforismi della prudenza, edizione critica
a cura di G. Baroni, Bologna, Commissione per i testi di Lingua, 1991.
19 Scrive Giorgio Baroni: «Salvator Rosa definisce le brevi composizioni riunite
nel Teatro della politica «sentenze» o «massime» e, nel sottotitolo, Sentenziosi afforismi
della Prudenza, usando sostanzialmente tre sinonimi: tuttavia qualche dubbio
in merito al genere letterario è lecito per questi scritti che non sempre compendiano
il risultato di un’antica sapienza, come ci si attende dall’aforisma tradizionale;
e si sarebbe tentati di preferire la definizione di «appunti» o «pensieri», in alcuni
casi, e in altri, se la stesura in prosa non lo sconsigliasse, quella di «epigrammi»,
almeno tutte le volte in cui predomina l’ironia o, addirittura, la satira, anche violenta,
sino all’invettiva» (Ivi, p. XI).
20 L. Ozzola, Vita e opere di Salvator Rosa. Pittore, poeta, incisore con poesie e documenti
inediti, cit., pp. 248-249.
[ 7 ]
36 Daniela De Liso
sta21 e poche altre, più o meno brevi, pubblicate negli anni dai soliti
Ozzola e Limentani, a diversi destinatari. Di recente Caterina Volpi e
Franco Paliaga22 hanno pubblicato un manipolo di lettere del Ricciardi
e di altri committenti o amici del Rosa, di cui il nostro pittore-poeta è
argomento principe. Probabilmente la ricerca d’archivio riserverà
nuove sorprese, riuscendo a far luce anche su altri rapporti e questioni
importanti.
Grazie all’acribia di Lucio Festa e alla determinazione di Gian Giotto
Borrelli, il materiale epistolare rosiano costituisce oggi un patrimonio
imprescindibile ed anche, per certi versi, gustoso, cui attingere per
far chiarezza documentaria sull’uomo, sul poeta e sul pittore Rosa.
Il corpus, a nostra disposizione dal 2003, consta di 392 lettere, indirizzate
a Giulio Maffei23 e Giovan Battista Ricciardi24, nel corso di trent’an-
21 S. Rosa, Lettere, raccolte da L. Festa, a cura di G. G. Borrelli, Bologna, Il
Mulino, 2003.
22 C. Volpi-F. Paliaga, «Io vel’avviso perché so che n’haverete gusto». Salvator Rosa
e Giovanni Battista Ricciardi attraverso documenti inediti, Roma, De Luca, 2012.
23 Le notizie biografiche intorno a Giulio Maffei sono unicamente desumibili
dall’Archivio Maffei (II, vol. 2), conservato nella Biblioteca Civica Guarnacci di
Volterra. Giulio Maffei (1609-1654) nacque dal matrimonio, avvenuto nel 1602, tra
Paolo Maffei e Caterina Gotti. Il primogenito maschio era Giovanni, arcidiacono
della Cattedrale di Volterra, citato nelle lettere del Rosa. Giulio, di famiglia evidentemente
molto nobile, divenne amico di Rosa durante il suo soggiorno fiorentino;
dei Maffei Rosa e la signora Lucrezia furono più volte ospiti nella villa di Monterufoli.
I rapporti tra il nostro e Giulio erano connessi all’attività di mercante d’arte
del Maffei, che del Rosa fu amico sincero.
24 Giovan Battista Ricciardi (1623-1686) nacque a Pisa il 22 novembre 1623, figlio
illegittimo di Maria Luisa di Mario da Spurano. Dal 1673 fu lettore di filosofia
nello Studio Pisano. Col Rosa fece parte dell’Accademia dei Percossi, fondata dal
pittore napoletano nella sua casa fiorentina. Collezionista di opere d’arte, fu autore
di Rime burlesche e di sette commedie di cui quattro d’intreccio e tre opere regie
rappresentate in vari teatri italiani e pubblicate dopo la rappresentazione: Il Trespolo
Tutore (1669); La forza del sospetto overo il Trespolo Hoste (1674); Amore è cieco overo
la Barberia (1684); Per la Gloria non per l’Amore contendono i Rivali (1687); La Ruota
della fortuna (s.d.); Chi non sa Fingere non sa Vivere ovvero Le Cautele Politiche (s.d.); Lo
Sposalizio tra’ Sepolcri (1695). Fu anche autore di una quarantina di liriche. Dell’amicizia
col Rosa scrive Ettore Toci nella prefazione alle Rime burlesche del Ricciardi:
«[col Rosa] visse come fratello, e ne ottenne in certe sue strettezze di quelli aiuti
che a volte i fratelli negano. Dissi male ottenne; ché, per quanto sappiamo, il timido
Giovan Battista, o non chiedeva affatto, o solo indirettamente chiedeva col fare
all’amico buono e generoso la storia delle sue miserie; questi bensì gli correva incontro
con cuore veramente d’artista e con parole che non si possono leggere senza
tenerezza» (G. B. Ricciardi, Rime burlesche edite e inedite, con prefazione e note di
E. Toci, Livorno, Francesco Vigo, 1881, pp. V-VI). Il carteggio con il Rosa conta
[ 8 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 37
ni, con alcuni periodi di interruzione, dal 24 gennaio 1640 al 12 febbraio
1673. Tutte le lettere pubblicate nel 2003 erano già state edite dal De Rinaldis25,
dal Cesareo e dal Limentani26. Nel corpus è possibile isolare tre
nuclei principali: le lettere indirizzate a Ricciardi27, conservate presso la
Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli; quelle indirizzate
al Maffei, conservate presso la Biblioteca Apostolica vaticana di
Roma; un terzo nucleo, ancora indirizzato al Ricciardi, conservato presso
la Biblioteca del Fitzwilliam Museum di Cambridge. Un ultimo esiguo
nucleo di lettere fa parte di una raccolta privata fiorentina.
Dal punto di vista contenutistico le lettere di Rosa costituiscono un
importante archivio documentario, fondamentale per far luce, in primis,
sulla dimensione privata, ma anche sul ‘mestiere’ di artista nel
Seicento. I destinatari sono amici del Rosa e questo sgombra il campo
immediatamente da dubbi circa la destinazione eminentemente privata
delle lettere, che Rosa non pensò mai dovessero far parte di un epistolario
destinato al pubblico. Lo stile è certamente privato. Le locuzioni
utilizzate, le formule epistolari, l’intimità dei contenuti, il tono esclamativo
e roboante, accanto ad espressioni intimistiche e dimesse rivelano
la sincerità dell’intonazione generale, quanto dei contenuti. Le
lettere a Giulio Maffei occupano un periodo che va dal 24 gennaio 1641
al 20 maggio 165328. Al Maffei Rosa è legato da una profonda amicizia.
È stato spesso ospite nella sua tenuta di Monterufoli, per lunghissimi
trecentoquarantasette lettere. Sul Ricciardi: N. Di Muro, Il teatro di Giovanni Battista
Ricciardi (1623-1686). Il linguaggio comico del Trespolo, «Biblioteca Teatrale», 49-
51, 1999, pp. 145-193; I. Miarelli Mariani, Lettere di Augusto Rosa a Giovanni Battista
Ricciardi (1673-1686), Firenze, Olschki, 2002; F. Paliaga, Giovanni Battista Ricciardi,
in C. Volpi-F. Paliaga, «Io vel’aviso perché so che n’haverete gusto». Salvator
Rosa e Giovanni Battista Ricciardi attraverso documenti inediti, cit., pp. 23-49.
25 A. De Rinaldis, Lettere inedite di Salvator Rosa, Roma, Palombi, 1939.
26 G. A. Cesareo, Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, cit., vol. II; U.
Limentani, Poesie e lettere inedite di Salvator Rosa, Firenze, Olschki, 1950, pp. 55-159;
Id., Salvator Rosa. Nuovi studi e ricerche, «Italian Studies», vol. VIII, 1953, pp. 37-58;
Id., Salvator Rosa. Nuovi contributi all’epistolario, «Studi secenteschi», XIII (1972), pp.
255-273; Id., Salvator Rosa. Ultimi contributi all’epistolario, «Studi secenteschi», XXV
(1984), pp. 231-242.
27 Le lettere al Ricciardi erano già note a Giovanni Bottari che ne pubblicò diciannove.
Cfr. G. Bottari-S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura
scritte da più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, Milano, Giovanni
Silvestri, 1825.
28 Nel corpus, pubblicato per la cura di Gian Giotto Borrelli (S. Rosa, Lettere,
raccolte da L. Festa, a cura di G. G. Borrelli, cit.), questa è l’ultima lettera datata,
seguita da un’altra, difficilmente collocabile dal punto di vista cronologico, che il
curatore ha scelto di pubblicare in successione.
[ 9 ]
38 Daniela De Liso
periodi, vi ha dipinto tele e goduto del buon vino e delle prelibatezze
gastronomiche della campagna toscana. I temi delle lettere ruotano
spesso intorno a questi argomenti. I due amici si scambiano continui
inviti. Rosa prega Ciullo di trascorrere con lui l’inverno a Roma, Maffei
non è sempre propenso a lasciare la Toscana. Questo suscita le vivacissime
e qualche volta volgari proteste del Rosa, che lamenta di non ricevere
dall’amico suo che risposte laconiche a lunghissime lettere, gli
confida la difficoltà continua di ottenere committenze che gli consentano
di assicurare un tenore di vita dignitoso all’amata Lucrezia e a Rosalvo;
confessa, con un certo fastidio, di aver abbandonato alla «Santissima
buca degl’Innocenti» più di un figlio avuto da Lucrezia; chiede
colori, formaggi e galline; parla male di Roma e dei Romani. I toni sono
dunque intimi e dalle lettere si desume che il modo d’amare di Rosa è
impegnativo. Appare incapace di sentimenti blandi; ama o odia solo al
massimo grado; è capace di espressioni dolcissime, di giuramenti serissimi,
di turpiloqui violenti, di plateali minacce di abbandoni. Le lettere
sono piene di giuramenti di fedeltà; l’amicizia è per Rosa un patto
inviolabile, un amore in cui si può solo dare interamente se stessi e
sempre completamente avulso da qualsiasi sospetto di utilitarismo. Le
lettere al Maffei si interrompono pochi mesi prima della morte dell’amico
e da quel momento Giambattista Ricciardi resta il solo «amico
vero». Come si è detto, questa corrispondenza è lunghissima, copre un
trentennio29. Si tratta, ancora in questo caso, di una lettura interessante
per il suo valore documentario, ma anche per la scrittura rosiana in sé.
Ricciardi è la persona con cui Rosa parla di arte, di letteratura, ma anche
di dolore, d’amore, di politica, il fratello cui presta denaro, che
anela di rivedere negli anni del distacco romano. Da queste lettere più
che dalle altre si desume l’importanza che nella vita di Salvatore riveste
l’amicizia. A Ricciardi chiede consigli, libri, colori ed oggetti vari;
gli affida delicate faccende familiari, come la preparazione della dote
di una sorella di Lucrezia; gli confida tutto il dolore per le accuse mosse
alle sue Satire, l’impossibilità per la sua indole di accettare padroni
in un mestiere, quello dell’artista, che non può raggiungere alte vette
senza la protezione di un buon mecenate. Nelle lettere ci sono la ribalderia
di gesti plateali nelle esposizioni romane, l’amore per la Toscana,
vagheggiata come una sorta di paradiso di beatitudini geografiche e
culturali, il dolore per Napoli, malgovernata dagli spagnoli, divisa da
29 Anche se le lettere in nostro possesso vanno dal 1650 al 1673, è plausibile che
tra i due amici, che si conoscevano dal 1640, fossero intercorse molte altre lettere,
purtroppo perdute allo stato attuale delle ricerche.
[ 10 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 39
una rivoluzione, stremata da una peste che ucciderà anche l’amato Rosalvo.
Ma è, senza dubbio, Roma la città che signoreggia nel carteggio.
E non è la città monumentale, la capitale della cristianità, la culla di
artisti e poeti, ma un luogo dal clima insopportabile, popolato da arrivisti,
legulei, adulatori, uomini e donne irrimediabilmente corrotti. Eppure
da questa città Rosa è sinistramente attratto, più di tutte la sente
sua, ma se ne sente anche respinto, non compreso, qualche volta tradito.
È, insomma, la città della seconda satira di Ariosto e prima ancora
delle Satire di Giovenale. Così le lettere costituiscono un documento
unico, capace di far luce sull’anima di un uomo che, nei molti autoritratti,
dimentica sempre la luce e il sorriso, che in questo policromo
epistolario coabitano con tutta la gamma dei sentimenti umani.
L’espressione più organica della concezione dell’arte e della vita di
Salvator Rosa non è, però, in queste lettere, che spesso sfuggono al
controllo della ragione e fluiscono dalla penna solo animate dalla passione,
ma nelle Satire, che, per quanto non ebbero in vita dell’autore,
una edizione complessiva, erano il progetto cui Salvatore voleva affidare
la propria fama di poeta. Sono ancora una volta le lettere a suggerirlo,
per la foga e la determinazione e poi la rabbia e il dispiacere
con cui in moltissime pagine racconta all’amico Ricciardi la pena di
non esser creduto autore dell’opera sua. Le Satire sono sette, come
quelle di Ariosto, e come quelle di Ariosto sono in terzine, ma le consonanze
tra le due opere, nonostante la tentazione di alcuni critici, si
fermano qui. Circolarono manoscritte, probabilmente in molte varianti
autografe e non, visto il desiderio di Rosa di renderle note ai suoi
sodali, tra Napoli, Roma e la Toscana. Questa circolazione, forse anche
non controllata dall’autore, dovette dare origine ad un certo numero
di manoscritti, non tutti attendibili e non tutti ritrovati. La prima edizione
postuma è del 1694, priva di commento30, seguita nel 1781 da
un’edizione commentata, preceduta da una vita dell’autore, con le note
di Anton Maria Salvini, reperibile e diffusa fino alla metà dell’Ottocento31;
del 1790 è un’Edizione terza, corretta ed accresciuta32. Nel corso
dell’Ottocento, oltre ad essere spesso incluse, singolarmente, in opere
miscellanee, le satire furono oggetto dell’attenzione di Carducci33 e di
30 Satire di Salvator Rosa dedicate a Settano, in Amsterdam [ma Roma], presso
Severo Prothomastix, 1694.
31 Satire di Salvator Rosa con le note di Anton Maria Salvini e di altri, Londra [ma
Livorno, Masi], 1781.
32 Satire di Salvator Rosa. Edizione terza corretta, ed accresciuta, Amsterdam, 1790.
33 S. Rosa, Satire, odi e lettere, illustrate da G. Carducci, Firenze, Barbera, 1860.
[ 11 ]
40 Daniela De Liso
molti altri critici, a dimostrazione di un grande ed ininterrotto successo.
Tra i poeti satirici del Seicento Rosa è il solo che sia stato ininterrottamente
letto e citato fino all’800, senza incorrere in quella damnatio
memoriae, che toccò a molti scrittori del secolo del barocco.
È alla fine del secolo romantico che Giovanni Alfredo Cesareo34
pubblica l’edizione completa delle Satire, odi e lettere di Salvator Rosa,
costruendo il testo di riferimento per tutte le successive edizioni. Nella
prima metà del Novecento la fortuna critica di Salvator Rosa e delle
sue Satire è stata oggetto di alterne vicende. Tra gli studiosi che hanno
contribuito ad una sistemazione critica dell’autore e della sua opera
c’è sicuramente Uberto Limentani, professore a Cambridge e perciò
scopritore della fortuna rosiana in Inghilterra, che al Rosa ha dedicato
ricerche e contributi importanti ed ancora oggi fondamentali35. L’edizione
critica ancora oggi non esiste e, difficilmente, vedrà la luce presto.
Già il Croce, nella sua recensione “filologica” al libro del Cesareo,
evidenziava, insieme al pressapochismo del curatore e alle sue inesattezze
filologiche36, la difficoltà di procedere ad un’esaustiva recensio
dei manoscritti, molti e non tutti autografi, reperibili alla fine dell’Ottocento.
Ovviamente la situazione attuale è ancora più complessa,
perché non tutti i manoscritti noti al Cesareo ed al Croce sono reperibili37.
Tuttavia occorrerebbe, anzitutto, procedere ad un’accurata recensio,
che consenta di distinguere gli autografi dagli apocrifi, per valutare
correttamente varianti e aggiunte. In assenza di questa agognata
edizione critica, il testo di riferimento resta quello del Cesareo, riprodotto,
infatti, dal Romei38.
34 S. Rosa, Poesie e lettere edite e inedite pubblicate criticamente e precedute dalla
Vita dell’autore rifatta su nuovi documenti, a cura di G. A. Cesareo, cit.
35 Oltre ai lavori già citati, occorre far riferimento a U. Limentani, Bibliografia
della vita e delle opere di Salvator Rosa, Firenze, Sansoni antiquariato, 1955; Id., Salvator
Rosa, supplemento alla Bibliografia, «Forum Italicum», II, 1973, pp. 268-279.
36 Cfr. «Ma è facile vedere ch’egli non ha, con esso, mantenuta veramente la
promessa d’un’edizione critica delle Satire. Non c’è alcuna garanzia che gli autografi
e i manoscritti, assunti a fondamento dell’edizione, serbino la lezione definitivamente
voluta dall’autore; e, forse, con troppa sicurezza il Cesareo parla delle
varianti e delle aggiunte, che si leggono nelle stampe come derivanti, tutt’al più,
da una redazione anteriore a quella da lui riprodotta» (B. Croce, Salvator Rosa, in
Id., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, cit., p. 328).
37 Ad esempio uno dei due testimoni della settima Satira, Tireno, noto a Cesareo
e al Croce e conservato presso l’Archivio municipale di Napoli, è ora irreperibile.
38 Il Romei chiarisce bene i limiti dell’edizione del testo stabilito dal Cesareo,
che, tuttavia, è quello che ci ripropone la sua edizione moderna: «[…] il Cesareo
[ 12 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 41
L’ordinamento delle Satire non segue, perciò, un criterio cronologico,
ma è introdotto dal Cesareo. La prima di esse è La Musica, seguita
dalle due arti sorelle: La Poesia e La Pittura. La prima notizia
della composizione di satire si legge in una lettera, indirizzata a Giulio
Maffei, nel 1641, in cui Rosa annuncia di aver letto a «mezza Siena
» una Satira, ottenendo un successo importante, poiché, continua,
dopo l’avvenuta lettura cammina «per la città come fusse il colonnello
Amatagro»39. È possibile affermare con buona esattezza che la Musica
e la Poesia precedano la Pittura, se nei versi di quest’ultima Rosa
scrive:
Sotto la destra tua provò la sferza
Musica e Poesia: vada del pari
Con l’altre due sorelle anco la terza40.
Le prime tre satire sono dedicate alle arti sorelle. Appare quanto
meno singolare che la composizione della satira dedicata alla Pittura
arrivi solo dopo il successo delle prime due, dedicate ad arti, che, nonostante
frequentate, la seconda più della prima, dal Rosa, non sono
certamente il suo primo ambito di interesse ed applicazione. È evidente
che Rosa abbia a lungo meditato la satira che, intuiva, gli avrebbe
procurato maggiori inimicizie e fastidi. Se, infatti, nelle prime due si
legge una critica serrata, ma tutto sommato già molto diffusa, quasi
topica, del degrado delle due arti nella corrotta società italiana del
Seicento, nella terza satira Rosa assume posizioni definite dal punto di
vista pittorico. Dichiara apertamente la propria antipatia per certi generi,
come le bambocciate, e l’intolleranza per tutto il borioso ambiente
artistico romano.
A queste prime tre Satire, scritturante il periodo fiorentino di Ro-
[…] ha tutt’altro che completato la recensione dei testimoni, accontentandosi di
fornire vaghe indicazioni sulle sue ricerche e sui suoi reperimenti, non azzarda la
ben che minima classificazione dei testimoni stessi; non dà indizio alcuno circa la
presunzione di autografia; è affatto reticente o assai parco e approssimativo sulla
forma e sulla stratificazione dei manoscritti e sulle conseguenze che se ne possono
dedurre (per esempio di datazione); è incostante e arbitrario nell’attestazione delle
varianti, richiamate «talvolta», quando «è parso utile», in apparato; dichiara di
aver effettuato una trascrizione «quasi diplomatica» degli autografi, senza minimamente
specificare che cosa intenda con questo […]» (D. Romei, Nota al testo, in
S. Rosa, Satire, cit., p. 35).
39 S. Rosa, Lettere, cit., p. 5.
40 Id., Satire, cit., p. 99, vv. 91-93.
[ 13 ]
42 Daniela De Liso
sa41, seguirebbero, secondo l’ordinamento del Cesareo, La Guerra (Timone),
L’Invidia, La Babilonia, Tirreno.
La lettura dell’epistolario rosiano consente di stabilire con una certa
sicurezza che la Guerra sia o anteriore o almeno contemporanea alla
Pittura42.
La Guerra è la satira di cui è possibile con certezza stabilire, infatti,
il terminus post quem, poiché contiene inequivocabili riferimenti alla
rivolta di Masaniello e, perciò, deve essere posteriore al 1647. La prima
parte del testo ricostruisce il clima di tensione e di imminente pericolo
che fa da contorno, in Italia, agli episodi conclusivi della Guerra
dei Trent’anni. Concepita in forma dialogica, tra l’Autore e Timone
l’Ateniese, è interamente percorsa dall’odio per la guerra in ogni sua
declinazione, unito ad un evidente sentimento patriottico, anti-straniero.
Il tema, caro ai satirici del Seicento, nella generale e definitiva
condanna della guerra come male assoluto, è omologo a quello di una
satira di Antonio Abati, probabilmente contemporanea o di poco successiva43.
La quinta satira, intitolata L’Invidia, deve essere stata scritta tra il
1652 e il 1654, in forma dialogica44. Gli interlocutori sono l’Autore e
l’Invidia. Limentani l’ha definita, a ragione, «la più avvincente e la più
meditata»45 delle satire rosiane. Dall’anno del giubileo, 1650, Rosa si è
trasferito definitivamente a Roma, quindi la composizione di questa
satira avviene in un tempo di disillusioni progressive. Tornato a Ro-
41 In realtà, i tempi di composizione della Pittura sono stati, probabilmente,
molto lunghi. Se le prime due satire sono state composte tra il 1641 ed il 1642, come
riferimenti interni ed il riscontro incrociato delle Lettere consentono di affermare,
la Pittura è ancora in fieri nel 1650, come suggerisce una lettera al Ricciardi del 5
gennaio, in cui Rosa chiede all’amico di studiare per lui «intorno alla futura satira
della Pittura» (S. Rosa, Lettere, cit., p. 46). Del resto, in un’altra lettera non datata,
ma collocabile intorno al gennaio 1650, quindi pressoché contemporanea alla precedente,
Rosa chiede al Ricciardi un preambolo per il Timone (La Guerra), lasciando
intendere che questa satira sia già pronta a differenza di quella sulla Pittura, per la
quale ancora occorre studiare (Ivi, p. 47).
42 Per la cronologia e l’ordinamento conseguente delle Satire rimando alle osservazioni
contenute nelle pagine di Floriana Conte, dalle cui puntualizzazioni
occorre partire per proporre un nuovo ordinamento dell’opera: F. Conte, Tra Napoli
e Milano. Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento. II. Salvator Rosa, cit., pp. 118-122.
43 Per la questione cfr. U. Limentani, La Satira nel Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi,
1961, pp. 189-193.
44 Per la cronologia della satira cfr. Id., Salvator Rosa. Nuovi contributi all’epistolario,
cit., p. 163.
45 Id., La Satira nel Seicento, cit., p. 193.
[ 14 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 43
ma, Rosa ha, infatti, ormai compreso di non essere destinato a grandi
committenze. In un’atmosfera notturna, una visione lo guida davanti
alla porta del tempio dell’immortalità, il cui accesso è però precluso
dall’Invidia. Nelle parole dell’Invidia c’è lo specchio di una Roma corrotta
e non interessata a valorizzare il genio, ma incline all’adulazione
vacua e mendace.
La sesta satira, secondo l’ordinamento proposto dal Cesareo, è la
Babilonia, ma cronologicamente dovrebbe essere preceduta dal Tireno.
Rosa deve aver composto la Babilonia intorno al 1665, poiché ai versi
364-366 scrive di una permanenza a Roma che dura da sei lustri. È
vero, però, che un’identificazione tra Roma e Babilonia è possibile già
ad un’altezza cronologica più lontana. In una lettera al Ricciardi dell’8
novembre 1659, infatti, scrive: «Giuro che non veggo l’hora, ogni mese
mi sembra un secolo, e sono così stufo di questa Babilonia, che partirei
domani»46. Interlocutori, in questa satira ancora dialogica, sono Ergasto
e Tirreno, due pescatori di «sorte», dai caratteri molto diversi, quasi
giustapposti. Tirreno è collerico come il Rosa ed Ergasto, come suggerisce
l’etimologia del suo nome legato al lavoro, si distingue per una
maggiore pacatezza e meticolosità. Il Cesareo ha visto in Ergasto, Niccolò
Simonelli, l’amico che contribuì a legare Rosa al Cardinale Brancaccio47.
Tirreno-Salvatore vuol gettar via i suoi strumenti per la pesca
in un empito d’ira, ma l’incontro con Ergasto lo induce a ripercorrere
la sua vita, da Napoli alla Toscana, a Roma-Babilonia. Il lungo dialogo
tra i due si conclude con il saggio consiglio di Ergasto che invita l’amico
a non tentare di pescare nel fiume immondo di Babilonia, perché
agli uomini onesti questa città non riserva premi, né onori.
La settima satira, scritta nel 1658 e forse ripresa negli anni della
«prematura vecchiaia»48 rosiana perché fosse epilogo del libro di satire,
non ultima quindi dal punto di vista compositivo49, fu pubblicata
46 S. Rosa, Lettere, cit., p. 251.
47 G. A. Cesareo, Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, cit., vol. I, p. 94.
48 U berto Limentani ritiene che la Satira sia l’ultima composta da Rosa, negli
anni di una «prematura vecchiaia» (U. Limentani, La Satira nel Seicento, cit., p.
237), facendo riferimento soprattutto alle indicazioni del Cesareo, che, descrivendo
il manoscritto autografo, aveva parlato di una «grafia quasi senile» (G. A. Cesareo,
Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, cit., vol. I, p. 363).
49 Il 12 maggio 1658 Rosa scrive al Ricciardi: «Sto meditando come potria (caso
che ci fusse impedito il trovarci assieme) farvi capitare nelle mani questa mia ultima
satira, la quale con quattro delle vostre pennellate maestre l’assicuraria dall’oblivione.
Il numero de’ versi passa 600; e so che molte cose hanno bisogno d’emen-
[ 15 ]
44 Daniela De Liso
per la prima volta dal Cesareo50, che scelse anche di modificare il titolo
da Tireno in Tirreno, omologando, così il protagonista a quello della
satira che considerava cronologicamente antecedente. Il testo è preceduto,
in uno dei due manoscritti, che lo tramandano51, da un argomento,
che consente l’identificazione del protagonista con l’Autore,
stanco e deluso dai “frutti” del proprio lavoro di poeta satirico. Tireno
concluderà che:
È troppo grave e troppo inutil pondo
Far da censore, e pazzo e da catena
Chi vuol co i versi riformare il mondo:
seco il Vizio vagì che, nato appena,
si fe’ subito adulto, e dilatato
in un punto acquistò vigore e lena52.
Fu evidentemente soprattutto l’intonazione del testo, insieme al
suo argomento ad indurre i commentatori ad attribuire all’ultima parte
della vita del Rosa questa satira. Anche la dichiarazione conclusiva,
in base alla quale il poeta dice addio alla scrittura satirica, farebbe
pensare ad una sorta di disilluso testamento poetico. Ma Rosa – e le
lettere lo dimostrano assai eloquentemente – comincia a sentirsi molto
presto “vecchio”; periodicamente dichiara minaccioso di voler abbandonare
la penna, di essere stanco, disilluso, arrabbiato, avvilito; con la
medesima naturalezza, poi, è capace di nuove arringhe, di nuova linfa,
di nuovo vigore. Scrivere di non voler più scrivere è, perciò, nella
sua produzione, quasi una dichiarazione apotropaica, il nuovo limen
da cui partire ancora per nuove avventure letterarie. Del resto non c’è
bisogno di post-datare il Tireno per accettare la sua collocazione in ultima
sede, nel libro rosiano. Salvatore comincia a scrivere forse già la
prima satira con l’idea programmatica di un libro, cui consegnare la
propria Weltanschauung. Per questo torna spesso sulle sue satire. Le dà
da; dall’altra parte molte cose non vi dispiaceranno; e quest’è quanto» (S. Rosa,
Lettere, cit., p. 239). L’unica satira rosiana di 633 versi è il Tireno.
50 L’editore (G. A. Cesareo, Poesie e Lettere edite e inedite di Salvator Rosa, cit.,
vol. I, p. 97) chiarisce che, in realtà, il testo era stato già inserito in una raccolta rosiana
curata a Napoli dal pittore Filippo Palizzi (S. Rosa, Abbozzi di poesie, Napoli,
cav. G. De Angelis e Figlio, 1876).
51 Cesareo avverte che il testo è tramandato da due autografi, il primo dei quali,
posseduto dagli eredi Rosa, che egli considera espressione della «lezione ultimamente
voluta dall’autore»; il secondo, conservato alla Biblioteca Nazionale di
Napoli (Ms. XV.C. 47), preceduto da un argomento, contemporaneo al primo.
52 S. Rosa, Satire, cit., p. 211, vv. 541-546.
[ 16 ]
Il punto su Salvator Rosa scrittore e poeta 45
in lettura all’amico vero, le recita in diversi consessi, si interroga sulla
necessità di varianti anche significative. È perciò assai probabile che,
ad un certo punto, quando deve essergli parso evidente che la sua invettiva
contro il mondo era compiuta, abbia riletto le satire e scelto
quella che avrebbe potuto meglio chiudere il discorso poetico di Salvator
Rosa e, insieme, descrivere l’epilogo triste del mondo barocco.
Se le satire dovevano diventare il “libro” del poeta Rosa, gli altri
componimenti53, riportati alla luce nel corso degli anni, ritrovati in biblioteche
pubbliche e collezioni private, hanno evidentemente il carattere
della varietas. Ad un libro di satire, insomma, non doveva corrispondere,
nelle intenzioni dell’autore, un libro di Rime, né, meno che
mai, un Canzoniere. I componimenti rosiani sono legati all’occasione,
quando non addirittura ad una sorta di estemporaneità. Cantano tutti
i temi tipicamente rosiani: la volubilità della fortuna, il buio spaventoso
della stregoneria, la solitudine dell’amicizia tradita, la natura effimera
delle ricchezze materiali, la corruzione delle corti e della realtà a
lui contemporanea. Possono nascere per le riunioni degli Accademici
Percossi o essere recitate al cospetto degli Umoristi; possono suscitare
l’entusiasmo di cardinali e l’approvazione degli amici e, in qualche
caso, nascono per rispondere all’esigenza di “spiegarsi” la realtà prima
di catturarla dentro i confini di una tela.
Nonostante l’“extravaganza” di questi componimenti è, insomma,
sempre possibile riconoscere la sfraghìs del nostro Salvatore, quel sigillo
che sta incastonato in un verso o nell’intonazione della strofe e che
si sforza di offrire il proprio sguardo sul mondo non nel tentativo di
comprenderlo, ma nell’ossimorica costatazione dell’impossibilità di
amarlo senza maledirne l’attrazione verso i luoghi chiaroscurali del
baratro barocco.
Daniela De Liso
(Università Federico II-Napoli)
53 Delle Rime varie elencate in queste pagine offrirò un’edizione critica ed un
commento, nell’ambito della monografia rosiana in preparazione.
[ 17 ]
Fabrizio Miliucci
«Il giogo della rima»: Baretti contro il verso sciolto
L’articolo propone una rassegna di luoghi in cui Giuseppe Baretti prende parte
contro il verso sciolto, la forma metrica che nella seconda metà del XVIII secolo
comincia ad affermare la sua presenza nella tradizione letteraria italiana. Il saggio
prende in esame l’intero corpus delle opere barettiane, dalle prime traduzioni
dal francese fino agli ultimi libri scritti in Inghilterra, ivi compreso il suo
capolavoro La frusta letteraria. A dispetto della sua cattiva opinione dello sciolto,
è possibile rintracciare alcune eccezioni sostanziali che problematizzano la
questione.

This essay looks at passages in which Giuseppe Baretti sides against blank
verse, that metrical form that in the second half of the eighteenth century became
increasingly popular in the Italian literary tradition. The study examines
the whole of Baretti’s literary output from the first translations from French all
the way to the last books written in England, including his masterpiece La frusta
letteraria. Despite Baretti’s low opinion of blank verse, it is possible to encounter
some important exceptions which complicate the issue, as the essay
will attempt to demonstrate.
In un profilo storico della metrica italiana il nome di Giuseppe Baretti
è associato a una polemica sul verso sciolto condotta con tale virulenza
da essere considerata proverbiale già sul finire del secolo
XVIII. L’autore della Frusta attacca in molti luoghi e con reiterata violenza
la categoria di autori per cui conia il termine «versiscioltaj», e la
variante «versibianchisti» con un calco dall’inglese blank verse1. La netta
posizione barettiana si conferma spesso nella sua lunga carriera di
letterato, fino a diventare uno sclerotizzato idolo polemico, talora corredato
da idee metriche conservative, che descrivono un tempera-
1 Secondo un aneddoto dello stesso Baretti il termine «versiscioltajo» sarebbe
stato coniato in occasione dell’Ossian di Cesarotti, mentre il termine «versibianchista
» è attestato nella lettera del 30 agosto 1760 al fratello Amedeo, per entrambi
vedi infra.
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 47
mento critico già tratteggiato dalla sintesi otto-novecentesca nei suoi
limiti più evidenti2.
La prosa aggressiva e l’indiscutibile impianto moralistico del personaggio
faranno il resto, rendendolo, nel parere dei suoi contemporanei,
il nemico per eccellenza di quella che si andava affermando nella
seconda parte del secolo come una tendenza decisiva, vista la dedica
“alla Moda” che Parini premette all’edizione milanese del 1763 de
Il mattino: «A te, vezzosissima dea, che con sì dolci redine oggi temperi
e moderni la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo libretto
si dedica e si consagra. […] Per esserti più caro egli ha scosso il
giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che
tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci»3. La moda, che Parini
sposa con ironica dissimulazione, è rigidamente rifiutata da Baretti,
che si sente in dovere di smentire quanti inquadrano la nascita della
rima in un periodo di barbarie intellettuale. Rinviando alle pagine di
Mario Martelli per una storia più esauriente4, ci basti indicare due tappe
di quel processo per cui «nel corso del Settecento, lo sciolto era
andato avanzando da ogni parte e rivendicando alla sua giurisdizione
regioni sempre più vaste»5, e cioè i dettami graviniani della Ragion
poetica, per una legittimazione teorica valida lungo tutto il secolo, e il
volume Versi sciolti di tre eccellentissimi autori pubblicato nel 1758, a
dimostrazione di una viva presenza sul versante editoriale. Né la discussione
è chiusa dai confini nazionali, inserendosi organicamente
nel dibattito instauratosi tra Francia e Gran Bretagna:
L’abate Du Bos (Réflexions critiques sur la Poesïe et la peinture, 1719) in
nome di un’estetica classicistica e razionalista e, accanto a lui, il Gravina
del Discorso sopra l’Endimione (1692), nella sua protesta antigrammaticale
ed antiretorica, i Bettinelli, i Maffei e i Conti si erano espressi a
favore degli sciolti. Da parte sua, come noto, Samuel Johnson trovava
nel blank verse a lui contemporaneo […] una grave deficienza fonica e
concettuale. Posizioni nettamente favorevoli alla rima espressero, tra
l’altro, il Pope, il Voltaire […], il Crescimbeni e il Muratori6.
2 Per una breve storia della ricezione di Baretti vedi F. Fido, Don chisciotte giornalista:
la “Frusta” del Baretti e la vita culturale veneziana a metà del Settecento, in Id., Il
paradiso dei buoni compagni, Padova, Antenore, 1988, pp. 110-114.
3 G. Parini, Il Giorno. Le Odi, introduzione e note di A. Calzolari, Milano,
Garzanti, 20028, p. 288.
4 M. Martelli, Le forme poetiche dal Cinquecento ai giorni nostri, in Letteratura
italiana, diretta da A. Asor Rosa, III. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino, Einaudi,
1984, pp. 519-620.
5 Ivi, p. 570.
6 I. Crotti, Il viaggio e la forma, Modena, Mucchi, 1992, p. 29 n.
[ 2 ]
48 fabrizio miliucci
Altra importante questione che si lega a quella dello sciolto, e che
per certi versi ne costituisce il doppio, è quella della traduzione. Autorizzato
dall’ottima riuscita dell’Eneide del Caro, lo sciolto si afferma
presto come il verso ideale per rendere l’endecasillabo classico. E per
ragioni di comodità e di velocità compositiva si attesterà anche per le
traduzioni dei moderni, sacrificando la rima quando presente nell’originale.
Entrambe le situazioni sono sperimentate da Baretti, che si
trova alle prese con Ovidio e Corneille durante il suo primo apprendistato.
Considerare i luoghi di una intolleranza dal respiro quarantennale,
significa fare esperienza di una testardaggine fuori dell’ordinario.
Mentre la contemporaneità letteraria getta con fatica le basi di una
coscienza metrica moderna, Baretti non retrocede dal suo aspro rifiuto,
fermo a un’idea tradizionale di gusto. Nel dibattito sullo sciolto
l’autore della Frusta occupa una posizione scomoda, che tuttavia ne
esalta la verve polemica. La lenta marcia che condurrà al Giorno, alle
tragedie di Alfieri e ai Sepolcri, è configurata e contrario nello sforzo di
argomentare il fallimento della poesia contemporanea non rimata, ponendo
implicitamente la necessità di una maturazione che viene riconosciuta
e fugacemente ammessa solo nel caso di Parini. Anche se
nell’ostinata negazione, è dunque lecito affermare che Baretti «coglie
un aspetto reale della storia del verso sciolto, ‘inventato dall’arte’, cioè
il fatto che la legittimazione del verso sciolto passa attraverso un assiduo
lavoro di ricerca stilistica […] con il ricorso sistematico all’enjambement
per mantenere una tensione ritmica che la mancanza della rima
rende altrimenti problematica; tutto ciò, insomma, che ne fa una
forma ‘difficile’»7.
1. Dalle Tragedie di Pier Cornelio tradotte alle Lettere familiari a’ suoi
tre fratelli (1747 – 1762)
La prima testimonianza della sua opinione dello sciolto, Baretti la
offre in occasione di un lavoro condotto a Venezia nel biennio 1747 –
1748, la traduzione del teatro tragico di Pierre Corneille8, introdotta da
tre epistole indirizzate ad altrettanti notabili destinatari9. In esse il di-
7 P. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 1991, p. 111.
8 P. Corneille, Tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani con l’originale a
fronte divise in quattro tomi, Venezia, Giuseppe Bertella, 1747 – 1748.
9 La prima al signor Don Remigio Fuentes, la seconda al conte Demetrio Mo-
[ 3 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 49
ciottenne traduttore vuole dipanare i nodi residui di un’operazione
condotta in fretta e per motivi economici. Particolarmente urgente il
tema del verso utilizzato. L’autorità chiamata in causa è il Gravina del
Discorso sopra l’Endimione del Guidi, responsabile col suo surplus di greco
e di latino di aver messo in circolazione l’idea che il teatro debba
imitare il parlato naturale attraverso «il verso sciolto […] nelle tragedie,
e lo sciolto o lo sdrucciolo sciolto nelle commedie»10. Baretti, in
disaccordo, avanza la sua proposta alternativa:
Qual numero vorrestù dunque ch’egli adoperasse? Vorre’ tu ch’e’ le
facesse in prosa? – Signor no. – In versi alessandrini o sia martelliani?
– Libera nos, Domine. – In qual metro dunque? In terza, in ottava rima?
– Oh adesso sì, l’avete indovinata. In terza rima o in ottava per l’appunto;
e mel lascino dire Gravina e chiunque, o prima s’ei vi fu o dopo
di lui, ha protetto e esaltato il verso non rimato; e si lascino in pace i
greci, i quali non usarono rima perché non n’avevano11.
Le motivazioni addotte dipendono da un non meglio indagato
“genio” della lingua italiana, differente da quello della lingua greca,
che di qui in avanti diventerà una costante. L’ottica con cui Baretti
giudica le questioni di poetica si basa su dati di fatto talvolta pregiudiziali;
anche sulla prima opera italiana di respiro epico composta in
sciolti, il traduttore di Corneille si trova a considerare deleteria l’erudizione
in greco dell’autore:
Che se [Trissino] meno n’avesse saputo il suo poema ne avrebbe lasciato
forse in verso rimato, e così non se ne giacerebbe su per gli scaffali
delle librerie, appena letto dagli uomini più flemmatici. Il Gravina e
tutti i gravinisti (siami permesso dar questo nome a’ partigiani del verso
sciolto, per maggior brevità) avrebbono bel predicare ma non farebbon
mai leggere ad un gondoliere qui di Venezia un canto intero di
quella Italia liberata, malgrado la soavità ed altezza de’ sui bei versi12.
L’insulsaggine dello sciolto viene decretata in base a un dato commerciale,
confermando come le priorità di Baretti siano di carattere
pratico, e mettendo in rilievo un certo fastidio per chi esibisce una socenigo
primo, e la terza al conte Gioseffo Anton Maria Del Villars Carroccio. Le
lettere si possono leggere in G. Baretti, Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni,
Bari, Laterza, 1911, pp. 33-65.
10 Ivi, p. 34.
11 Ivi, p. 35.
12 Ibidem.
[ 4 ]
50 fabrizio miliucci
lida cultura classica. Nel campo epico le cose sono semplificate dalla
grandezza dei poemi cinquecenteschi in ottava, ma in quello teatrale
sembrano complicarsi poiché «se la buona sorte d’Italia ha fatto scrivere
in rima i nostri poeti epici, la disgrazia sua ha voluto che non abbiamo
neppure una buona tragedia in rima, e che una sola buona commedia
in ottava rima abbiamo»13. Si tratta della Tancia di Buonarroti il
Giovane, commedia in ottave che Baretti considera, a confronto di
quelle dell’Ariosto, del Cecchi e di ogni altro autore antico e moderno
«la più bella commedia che sia stata scritta in toscano»14. La conclusione
è espressa in forma di domanda retorica: «Perché dunque dietro un
esempio tale non si fanno le commedie in versi rimati?»15. L’assenza
della rima è delineata come il motivo della corruzione del secolo, cui
attribuire il successo che vanno riscuotendo nei teatri le «sciocchezze
d’Arlicchino»16. Di contro, la lingua dei poemi cavallereschi è indicata
come il modello che le commedie e le tragedie dovrebbero adottare
per avere successo fra dotti e incolti. Alla terza rima viene in definitiva
preferita l’ottava, perché «più periodica e più armoniosa»17. Rimanendo
da giustificare l’adozione dello sciolto nella sua stessa impresa, Baretti
si produce in un’argomentazione disarmante: «E perché, signor
protettore delle rime, non hai tu tradotte queste tragedie in rima? –
Hollo io a dir tosto questo perché? Perché non sono stato da tanto; che
se da tanto fossi, ne avrei anzi scritte d’invenzione addirittura»18, e
continua con una osservazione che stempera il netto rifiuto:
E qui notino bene i gravinisti che dicendo io le cose teatrali doversi
scrivere in rima, non per questo intendo io dire che chi in rima vorrà
quindinnanzi scrivere debbe lasciare di leggere e di studiare sopra
quelle che in rima non sono. Signori no, io nolla ’ntendo così, ma sì
intendo che le commedie greche, latine, toscane […] si debbono sempre
studiare a più non posso […] e dico solo che per non essere rimate
non possono troppo piacere sur un pubblico teatro, ed ottenere il fine
principale, anzi unico, che debbe con esse il buon poeta cercar d’ottenere,
cioè di correggere il mal costume degli uomini e rendergli virtuosi
al possibile19.
13 Ivi, p. 36.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 37.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
19 Ivi, p. 40.
[ 5 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 51
Baretti sembra guardare alla poesia patria immedesimandosi nei
panni di un osservatore straniero e, nonostante una forte convinzione
della superiorità di quest’ultimo, arriva ad affermare che se le tragedie
e commedie italiane adottassero finalmente la rima, potrebbero
uguagliare e addirittura superare quelle di Corneille, Racine e
Moliere. Rimane da smentire l’autorità del Voltaire nell’Essai sur la
poésie épique de toutes les natoins (1726), che Baretti provocherà a più
riprese, fino al Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire del
1777. Ci sarà ancora spazio in quell’occasione per una requisitoria
sullo sciolto:
Non c’è cosa più molesta, più stucchevole de’ versi sciolti. Per quanto
siano limati, non si potrebbe leggerne cento di seguito senza sbadigliare
o senza maledire l’autore quando deboli […]. Gli è vero che noi abbiamo
quattro opere in versi sciolti, che nessuno ardisce di trovare
cattive; e sono: La Coltivazione dell’Alamanni, Le sette Giornate del Tasso,
Le Api del Rucellai e l’Eneide tradotta dal Caro. Bisogna confessare
che si trovano in queste quattro opere di bellissimi versi, considerati
però isolatamente: ma i veri buongustai di poesia le leggono forse una
volta in vita loro da capo a fondo e niente di più20.
A una disanima del teatro italiano Baretti accosta alcune brevi considerazioni
sulle unità aristoteliche, e a distanza di anni approfondirà
l’argomento nel citato Discours. Si tratta del lato “preromantico”
dell’autore già registrato dalla critica e talora ridotto a suggestione. In
fatto di tragedia viene citato il Metastasio «quantunque rigorosamente
parlando non si possa chiamar poeta di tragedie»21 è il solo italiano
che sia possibile paragonare a Corneille, anche per il solito motivo
«de’ ducati guadagnati»:
E’ non ha soverchio badato a’ precetti del padre Aristotile e ha molte
inverosimiglianze negli accidenti delle sue favole. Ma a che giova mai
tutto ciò, se Metastasio piace e se ha fatto guadagnar tanti ducati agli
20 G. Baretti, Discorso sopra Shakespeare ed il sig. di Voltaire, versione dal francese
di Girolamo Pozzoli, in Id., Opere, tomo VII, Milano, Giovanni Pirotta, 1820, pp.
109-110. Relativamente a questo passo il traduttore aggiunge in nota: «Lo Spolverini,
il Parini, il Cesarotti, l’Alfieri, il Pindemonte, il Monti, il Foscolo ed altri ottimi
scrittori di versi sciolti smentiscono questa acerba sentenza del Baretti. E se la eccessiva
bile che talvolta animavalo, non gli avesse velato l’ingegno si allorché parlava
di questa sorte di versi, egli avrebbe renduto la dovuta giustizia all’Alamanni,
al Rucellai, al Tasso, al Caro, al Martinetti, che nobilissimi maestri furono di questa
maniera di verso ai sopra citati valenti autori» (Ivi, p. 110).
21 G. Baretti, Prefazioni e polemiche, cit., p. 51.
[ 6 ]
52 fabrizio miliucci
stampatori che lo hanno stampato tante volte? Metastasio letto piace,
piace cantato e piace recitato; ma quella de’ ducati guadagnati dagli
stampatori è la prova più grande, per mio avviso, del gran merito d’un
autore, che aver si possa22.
Rispondendo al suo terzo interlocutore che gli faceva notare il caso
dell’inglese John Dryden che scrive le sue opere in rima ma ammette
di assoggettarsi al cattivo gusto del suo tempo, Baretti si lancia in una
divisione dell’idea di “natura”, ovvero del principio di imitazione che
dovrebbe guidare la composizione teatrali nella mimesi del parlato,
dimostrando un procedimento ricorrente del suo argomentare, quello
di rifiutare i postulati della parte avversa, e poi servirsene per ribaltare
le conclusioni. Precondizione necessaria alla riuscita del suo ragionamento
è il fatto che il teatro vuole poesia e non prosa:
La natura delle parole è vero che consista nell’esser quelle senza rima;
ma la natura poi della poesia […] consiste nelle parole rimate, cioè in
versi rimati; e poiché detto abbiamo che il teatro non vuole prosa ma
poesia, ne viene in conseguenza che la rima ne’ componimenti teatrali
non toglie la natura […] come inavvedutamente i gravinisti affermano23.
Natura di parole e natura di poesia, e con ciò siamo nuovamente
bloccati dallo scoglio dei “gravinisti”, che Baretti cerca di superare risolvendosi
in un assunto dai contorni tautologici. Il suo orientamento
per la comprensione e la critica del presente è sempre volto al passato,
ed ogni tipo di mutamento dei tempi rimane estraneo al personaggio,
nella convinzione che la moda sia un vizio dell’anima da condannare,
e non piuttosto un complesso segno dei tempi. Va inoltre notato ciò
che Franco Fido chiama non senza ironia «proprietà transitiva della
grandezza»24 ovvero la necessità di adeguare il tono della risposta
all’istanza dell’interlocutore. Un altro breve argomento portato in favore
della rima e della sua naturalezza chiama in campo gli improvvisatori,
che si renderebbero ridicoli inventando versi sciolti, a fronte di
tutti gli antichi poeti che hanno scritto in rima: «non so se io lo potrei
giurare, ma credo di sì, che quei versi sciolti, tanto cari a’ gravinisti,
non sono stati trovati prima del Cinquecento, che vale a dire d’uno o
22 Ibidem.
23 Ivi, p. 59-60.
24 F. Fido, Don chisciotte giornalista: la “Frusta” del Baretti e la vita culturale veneziana
a metà del Settecento, cit., p. 101.
[ 7 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 53
due secoli dopo il nascimento della lingua nostra»25. Quando Baretti
pensa agli sciolti non ha dunque in mente una tradizione, seppure
minoritaria e problematica, ma solo il per lui odioso vezzo di eruditi
antiquari che fanno sfoggio di cultura. Tuttavia, fornendo un’indicazione
di legittimità nel teatro in rima dei Rozzi di Siena, insieme alla
già citata Tancia, si sottintende un rinvio a una linea rusticale che si
riallaccia a Lorenzo de’ Medici, a Luigi Pulci e a quel Berni da lui imitato
nelle Piacevoli poesie26.
Nel frattempo vanno a delinearsi le concessioni più grandi fatte
allo sciolto in due frasi buttate via tra una tirata di improperi e l’altra.
La prima riguarda la possibilità di una riuscita in sciolti a patto che
venga usato solo in componimenti brevi, la seconda si rivolge alla tragedia.
Già i commentatori ottocenteschi notano come questo passo
sembra aprire la strada al conterraneo Alfieri: «Supponendo dunque
che la tragedia, quando si sappia fare con giudizio, possa soffrire qualche
coserella non tanto in natura, io dico che i versi sciolti forse potranno
un dì mostrarsi anche con buon viso in sul teatro tragico, quando
verrà poeta tragico in Italia che sia veramente un gran poeta»27.
Baretti avrebbe sperimentato di nuovo gli sciolti tra il 1752 e il 1754,
nella traduzione in italiano dei Remedia amoris e degli Amores ovidiani
per la Raccolta di tutti gli antichi poeti latini colla loro versione nell’italiana
favella28. Basti notare come Baretti sia costretto a confrontarsi con le
potenzialità di uno strumento ideale per la resa dei testi antichi, in cui,
a differenza del teatro di Corneille, le rime non sono presenti nell’originale.
Va a tracciarsi in questo modo un labile punto di contatto con
uno dei suoi futuri bersagli prediletti. In quello stesso 1752 infatti, anche
Francesco Algarotti, per il resto su posizioni opposte, ragiona diffusamente,
nel Saggio sopra la rima, su come «le traduzioni chiamare si
potrebbono il cimento decisivo, l’experimentum crucis della rima»29.
Nella sua prima produzione inglese, Baretti opera una riduzione della
letteratura italiana, con divagazioni greco-romane, ad uso divulgativo
e commerciale. Discutendo dell’oratoria isocratea, spiega come Cicerone
attribuisca a questo antico autore il merito di essere stato il primo
a parlare di una «measured prose», che lo renderebbe universalmente
comprensibile, continua poi:
25 G. Baretti, Prefazioni e polemiche, cit., p. 63.
26 Cfr. Teatro del seicento, a cura di L. Fassò, Napoli, Ricciardi, 1956, p. XXX.
27 G. Baretti, Prefazioni e polemiche, cit., p. 64-5.
28 Le versioni barettiane si trovano rispettivamente nei tomi XXIX e XXX.
29 F. Algarotti, Saggi, a cura di G. Pozzo, Bari, Laterza, 1963, p. 247.
[ 8 ]
54 fabrizio miliucci
We observe that people, under the influence of violent passions, naturally
speak in blank verse, at least it is in this kind of measured prose.
An Orator could not but be often under the same influence: a part of
his oration, therefore, would be necessarily in measure, and it must be
a deficiency not to render it equal in all its parts30.
Ritrovare il blank verse in bocca ai discorsi concitati delle persone
che naturally parlano in questo modo, e vedere lodata l’arte di Isocrate
che riesce a isolare questa passione naturale ingabbiandola artificiosamente
nella sua “prosa misurata”, apre una prospettiva inedita sui
segreti di un così valido creatore di invettive, e sul suo modo di scrivere
tanto brillante e vivo. In più, alcune parole spese per l’Elettra di
Gasparo Gozzi confermano e chiariscono questa posizione su un autore
italiano: «This writer engaged me to read him, though he writes
in blank verse, by the beauty of his language, and the artful disposition
and variety of his numbers»31.
Arrivando a una rassegna della letteratura nazionale, Baretti comincia
quel processo di sclerotizzazione che porterà a coniare il termine
«versiscioltaj» per intendere in genere i poeti che compongono piegandosi
ai dettami della convenienza. Sanzionato da modelli shakespeariani
più che miltoniani allega sul finale una concessione in virtù
al “genio” della lingua inglese:
Gravina was also the keenest supporter of Trissino’s opinion, that
blank Italian verse is sitter for epick or dramatical poetry than rhyme;
and here also I differ from him totally. For an edition of Trissino’s epick
poem we have a hundred editions of Ariosio’s and Tasso’s. Few people
read the Italia Liberata; nations sing the Orlando Furioso and the Gerusalemme.
How can we then give the preference to the poem that is read
by few people, to that read and committed to memory by every body?
[…]. But let not an English reader mistake me; what I say of the Italians can-
30 G. Baretti, Observations on the Greeck and Roman Classics in a series of letters to
a young nobleman, London, Dan. Browne, 1753, p. 20. La più completa edizione
delle opere di Baretti è quella curata da Luigi Piccioni citata anche in questa sede.
La tendenza dei successivi antologizzatori è di restringere il campo, escludendo in
prima istanza le opere minori in lingua inglese che Piccioni aveva in parte incluso.
Ne consegue una ripresa e traduzione in edizioni aggiornate che si è compiuta in
tempi recenti, vedi ad es. Invettive contro una Signora inglese, a cura di B. Anglani,
Roma, Salerno Editrice 2001, e The introduction to «Carmen Seculare» of Horace, con
introduzione e note di R.C. Lumetti, Roma, CISU, 1994.
31 Id., Remarks on the Italian language and writers, appendice alle Observations on
the Greeck and Roman Classics in a series of letters to a young nobleman, cit., p. 11 (corsivo
mio).
[ 9 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 55
not be said of the English, because every language has its genius and peculiarities32.
In due lettere al fratello Amedeo datate 29 e 30 agosto 1760,33 Baretti
ha modo di tornare sui temi in questione. Le sue opinioni sono ormai
cementate intorno alle argomentazioni che si preparano a deflagrare
di lì a breve nell’esperienza della Frusta. A Gravina e agli arcadi
si sono aggiunti Crescimbeni e Maffei, che Baretti pone nel partito
opposto, sottoscrivendo per sé «l’opinione di chi camminò sempre per
le pierie colline colle seste, collo squadro, e col piombino in mano,
misurando i versi, e tagliandoli uguali»34. E nella familiarità dello sfogo
c’è posto anche per una considerazione non conformista del Paradise
Lost «molto più ammirato che non letto nel lor paese perché da un
canto ti sbalordisce e t’affatica colla quasi perpetuamente uniforme
altezza de’ suoi smisurati pensieri, e dall’altro ti stucca e t’assassina
con la sua molta barbarie e forestieria di linguaggio, colle sue trasposizioni
troppo frequenti e troppo violente, e più con la nojosa medesimezza
del verso sciolto, che infastidisce naturalmente, e ributta i più
affamati divoratori di poesia»35. Lontano dalla Gran Bretagna, Baretti
sembra aver perso la fiducia nel genio della lingua inglese, che ora gli
risulta «tanto aspra per la sua gran quantità di consonanti, e pe’ troppi
sibilanti suoi suoni, che ci vuol altro che rima a renderla melliflua»36.
Ma dietro le ragioni di poetica non si fatica a scorgere l’invidia e la
frustrazione per un mercato favorevole ai rivali, nel vistoso scatto
d’orgoglio del poeta deluso:
[…] io compatirò sempre que’ poveri stampatori, che stamperanno de’
grossi volumi di versi sciolti a proprie spese; e lascerò abbajare i Moderni
eccellenti autori di versi sciolti, cioè i moderni solenni guastamestieri,
che, a imitazione delle comete nel sistema solare, apportano nel poetico
sistema qualche po’ di luce passeggera, lo scompigliano alquanto,
cagionano un po’ di bisbiglio e di stupore, e poi se ne vanno per sempre,
o almeno per non tornare così tosto. […] Statti sano, Amedeo, e
guardati da’ versi sciolti come dal brodo lungo37.
È questo il periodo di preparazione all’esperienza della Frusta, e
32 Id., The italian Librery, London, A. Millar, 1747, p. 308 (corsivo mio).
33 Id., Opere scelte, a cura di B. Maier, I, Torino, UTET, 1972, pp. 150-61.
34 Ivi, p. 156.
35 Ivi, p. 157.
36 Ivi, p. 159.
37 Ivi, pp. 160-161.
[ 10 ]
56 fabrizio miliucci
forse l’idea di un gazzettino su imitazione di quelli del Johnson già
carezza la fantasia di Baretti, fatto sta che l’idea polemica si è acuita
tanto da ricondurre anche alcune osservazioni di viaggio a conferma
della propria opinione. Descrivendo la danza di due schiavi della Guinea
vista in Portogallo, si torna a battere sullo stesso punto:
Della canzone a ballo, che mi cantarono in lingua africana, non compresi
altro, se non che era in rima né più né meno di quella di Lorenzo
de’ Medici e del Poliziano. Certi moderni nemici della rima hanno detto
e dicono tuttavia, che quella sguaiata fu inventata da’ frati ne’ secoli
barbari, e citano i versi leonini in sostegno della loro opinione; ma io
ho trovato che gli Americani del Messico, e d’altre parti del mondo
nuovo usavano le rime prima che Cristoforo Colombo nascesse, ed è
chiaro che le usavano perché erano naturali alla loro poesia, o buona o
trista poesia che si fosse. E per la ragione stessa i mori di Ghinea, e
probabilmente di tutta l’Africa usano la rima in tutto le poesie loro,
senza aver avuti per maestri gl’inventori del verso leonino38.
2. Dalla Frusta letteraria alle Strictures on signora Piozzi’s (1763 – 1788)
È stato notato uno scarto non trascurabile tra le posizioni di Giuseppe
Baretti e quelle di Aristarco Scannabue39, l’ex soldato con tanto di
gamba di legno “protagonista” della Frusta letteraria, e anche in materia
di metrica bisognerà ammettere che la marzialità di Aristarco guadagna
qualcosa in ferocia. Tuttavia il lettore può giovarsi di ciò, non tanto
per l’aumentata sottigliezza del pensiero critico, ma piuttosto per il ritmo
coinvolgente che la prosa porta finalmente a maturazione nelle
venticinque uscite bisettimanali della rivista40. Un esempio significativo
viene offerto dall’incremento della lingua, spinta al massimo della
produttività ed esercitata in neologismi, alcuni dei quali passati alla
storia. Il termine «versiscioltai»41, attivo intorno al 1760 nelle Lettere familiari,
dà origine in questa sede al sostantivo «versiscilterie», per indi-
38 G. Baretti, Lettere familiari a’ suoi tre fratelli Filippo, Giovanni e Amedeo, introduzione
di L. Piccioni, Torino, Società Subalpina Editrice, 1941, pp. 127-8.
39 Cfr. Introduzione in Baretti, Opere scelte, cit., pp. 9-47.
40 «La migliore prosa, con quella tanto diversa, tanto più distaccata e composta
di Gasparo Gozzi, scritta in Italia fra Vico e Alfieri» secondo F. Fido, Il paradiso dei
buoni compagni, cit., p. 106.
41 Accompagnato dal sinonimo «versibianchisti», è riscontrato anche nella
grafia «versiscioltaj», al presente «versiscioltajo», quasi sempre con significato generico
per indicare la natura di una intera categoria.
[ 11 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 57
care le cose da poco conto composte in questo metro, e all’aggettivo
«versisciltata», usato per descrivere la traduzione dell’Eneide del Caro.
Il primo cenno alla questione che si trova nella Frusta è un bonario
rimbrotto al Parini del Mattino, invitato a ridurre i suoi componimenti
in versi rimati per essere finalmente paragonato al Pope del Rape of the
Lock. Questo slancio di entusiasmo è confermato in una lettera di qualche
anno dopo42 in cui Baretti, cercando di dissuadere l’amico Francesco
Carcano dal mandargli componimenti poetici in lettura, usa queste
parole: «non potrò volere un corrispondente in Italia se mi darà il
fastidio di leggere de’ versi, quando non sieno di quella forza de’ versi
del Parini, che col suo Mezzogiorno m’ha fatto vincere l’avversione
che ho agli sciolti e all’oscurità»43. Per la prima ed unica volta, complice
l’occasione familiare, Baretti abbandona il suo posto di battaglia per
rendere onore alla prima inequivocabile riuscita del metro odiato. Lo
stesso Parini aveva sdrammatizzato l’asprezza dell’amico, premettendo
un inizio scherzoso al serissimo Auto da fé, condanna dei roghi ereticali
propugnati dall’inquisizione spagnola, il componimento recitato
nel 1761 in un’adunanza dei Trasformati sul tema Il fuoco:
Pingimi, o Musa, or che prescritto è il fuoco
per subietto al tuo canto, in versi sciolti
atti a svegliar nel sen del mio Baretti
leggiadra bile contro a quel che il primo
osò scuotere il giogo della rima44
Ma la tregua che accenna Baretti non è possibile finché vive Aristarco,
e anche il primo frutto maturo della stagione dello sciolto a un certo
punto sarà potato dall’implacabile Frusta, mettendo in rilievo un disinteresse
nell’evoluzione critica ad unico vantaggio della boutade; precedentemente
si era preferito tacere circa il metro dei Sermoni del Gozzi,
discutendo dei suoi pregi molto celermente e in maniera generale:
E qualche moderno poeta, come sarebbe a dire il conte Gaspare Gozzi
e l’abate Parini, ringrazino se stessi che sono stati giudiziosamente brevi
ne’ loro Sermoni e ne’ loro Mattini. Senza la loro brevità né i Mattini
loro né i loro Sermoni sarebbono da noi letti con piacere, anche a dispetto
di quelle belle e buone cose di cui sono stivati anzi che riempiuti45.
42 10 febbraio 1766.
43 G. Baretti, Epistolario, a cura di L. Piccioni, I, Bari, Laterza, 1936, p. 309.
44 G. Parini, Opere, a cura di G. M. Zuradelli, II. Poesie minori e prose, Torino,
UTET, 1961, p. 101, vv. 1-5.
45 G. Baretti, Frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, I, Bari, Laterza, 1932, p.
349.
[ 12 ]
58 fabrizio miliucci
Un commento al Saggio sopra la letteratura italiana di Carlo Denina
è il pretesto per ribadire alcuni taglienti giudizi, per esempio sui critici
francesi che «hanno messo alla moda il disprezzar Omero»46, o sul
secolo «tanto da noi sopra tutti gli altri celebrato per letteratura, e
chiamato con romoroso vocabolo il Cinquecento»47, e via di questo
passo fino a raggiungere la questione dello sciolto. Baretti corregge
l’“Ercole fanciullo” nell’affermazione che se Trissino avesse rimato i
suoi componimenti sarebbe stato all’altezza del Tasso:
Maturandosi quel suo ingegno, egli capirà come il Trissino e il Tasso
non avrebbero superato l’Ariosto, se il Trissino avesse anco scritto in
versi rimati, e fosse stato men servile imitatore d’Omero, e se il Tasso si
fosse anche impedito di cadere nel figurato. Non è mica per questi difetti
che il Trissino e il Tasso sono inferiori all’Ariosto: gli è perché l’anime
d’entrambi erano men poetiche dell’anima dell’Ariosto48.
Questo richiamo all’anima più o meno poetica degli autori e dei
critici, che verrà usato anche per Gravina e Muratori, fa il paio con la
questione del genio della lingua. L’uso di un’argomentazione storica
(opposizione natura-artificio) indica quanto Baretti sia stato figlio del
suo tempo, sacrificando al moralismo del prosatore quanto di buono
fa il critico. Un saggio di cosa si intende per “moralismo” quando si fa
riferimento alla Frusta, è offerto nel numero X, allorché, recensendo
l’Introduzione alla volgar poesia del padre Giambattista Bissi49, Aristarco
si lascia andare a una tirata in cui sottolinea la necessità di dissuadere
i giovani, piuttosto che incoraggiarli, a intraprendere la via letteraria,
a fronte delle illusioni create dalla prassi di svendere la poesia per riuscire
«versiscioltajo o rimatore» anziché poeta. Si prefigura così una
divisione fra gli adulatori in versi, e il poeta con la maiuscola, esemplare
raro quanto imitato. Bisogna notare anche che i cattivi versificatori
in sciolti o in rima sono equiparati, ma questo servirà più che altro
a registrare un peggioramento del luogo comune cui indulge Baretti-
Aristarco, più che un’implicita accettazione dell’attualità letteraria.
Carlo Innocenzo Frugoni era stato, insieme a Bettinelli e Algarotti,
uno dei tre “eccellentissimi autori” dell’antologia del 1758 già bersagliata
da Baretti. Rezzonico della Torre, l’ordinatore postumo delle
46 Ivi, p. 242.
47 Ibidem.
48 Ivi, p. 242-3.
49 Ivi, p. 255.
[ 13 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 59
opere frugoniane50, data al 1764 un componimento di reazione ai frequenti
arrembaggi di Aristarco: «Il Frugoni alcuni sonetti lanciò contro
di lui, che da strali più pungenti era ferito, ed oppresso in varie
prose; ma più nobilmente ne prese vendetta in un mirabil poemetto,
che intitolò Il Genio de’ Versi Sciolti»51, in questa composizione il dio
dello sciolto si palesa all’autore, in panni pastorali, per investirlo degli
onori poetici. Solo l’attacco doveva risultare come una provocazione
agli orecchi di Baretti:
Arcade io sono, e tra le sacre selve
Buon Condottier di non ignobil greggia
Fo dolce risonar, se un Dio m’ispira,
L’esercitata ne’ diversi modi
Silvestre avena52
La cetra di questo dio della poesia è descritta come «di libere corde
armata» e temprata dove «de’ non suggetti numeri maestra, / fra bei
doni Febei tiensi Eloquenza / per man la saggia Libertà del canto»53.
Quando il dio comincia la sua investitura, è interrotto dalla voce del
poeta:
[…] Io qui gli accenti suoi
Interromper volea, dicendo: Ah sai,
Almo Genio, però quai di te scrisse
Menzogne ed onte venal penna, ignara
De’ sommi onori tuoi! Sai sul mio nome
E su l’Arcadia mia quali osò in fogli
Derisori diffuse ingiurie audaci
Vendere al vulgo; e sai…54.
Le critiche del Baretti non dovevano essere passate inascoltate, se
tre anni dopo la divertita frecciata di Parini, Frugoni lo descrive come
l’anticristo degli sciolti, e probabilmente di questa fama l’autore della
50 R accolse i componimenti del Frugoni ordinandoli in nove volumi pubblicati
a Parma nel 1779, includendo nel primo volume un Ragionamento sulla volgar
poesia (pp. i-cvxxiv, numerazione centrata) e un Memorie storiche e letterarie della
vita e delle opere (pp. i-lxx, numerazione a bandiera) in cui si ripercorre anche la
storia dell’aspra contesa con Baretti.
51 C.I. Frugoni, Opere poetiche del signor abate Carlo Innocenzio Frugoni fra gli
Arcadi Comante Eginetico, I, Parma, Stamperia reale, 1779, p. liv.
52 Ivi, VII, p. 175, vv. 1-5.
53 Ivi, p. 177, vv. 60-62.
54 Ivi, p. 178, vv. 81-88.
[ 14 ]
60 fabrizio miliucci
Frusta andava fiero, puntando ad alimentarla e a mantenerla come un
segno distintivo al valor letterario. Il genio dei versi sciolti si produce
in una lunga serie di maledizioni, che coincidono con la revoca del
permesso di stampa della Frusta, arrivato di lì a qualche anno in conseguenza
dell’ennesima polemica. Frugoni e Baretti rappresentano i
due poli opposti del discorso che sul finire del secolo interessa tutti i
letterati, ma tra i due è innegabile uno scontro personale che altera
l’esemplarità della contesa:
Ma come diavolo si cantano i versi sciolti? Al suono di quale strumento?
Del plettro forse? Di quell’eburneo plettro che quella benedetta Euterpe
del signor Frugoni ha sempre al collo, e massimamente quando
reca alle spose ghirlande di fiori spiranti eterno chiabreresco odore?
Ah miseri versiscioltai, sappiate una volta che i versi sciolti non sono
cantabili, e che è assurdo il dire: io canto cosa che non è cantabile55.
Una motivazione pressoché identica verrà ripresa nella introduzione
al «Carmen Seculare» of Horace, rappresentazione drammatica
messa in scena nel 1779 a Londra. Baretti, tornato in Inghilterra per
rimanerci, spiega al lettore britannico come gli antichi poeti componessero
pensando a una musica con cui accompagnare le parole, e per
avvalorare questa tesi, cita il modo di lavorare di Metastasio che «ha
spesso praticato un tale metodo e composto la più gran parte delle sue
scene cantandole e suonandole sulla sua spinetta»56. Dopo aver affermato
ciò non resiste dal tornare sull’antica polemica, per fornire in
terra straniera il suo giudizio sulla nazione che l’ha esiliato: «Io stesso
capisco che la ragione per la quale il verso sciolto non abbia mai potuto
affermarsi in Italia, dove esso fu per primo inventato da un poeta
non ispirato, proceda dall’impossibilità di farlo fluire nella musica,
dove poteva riuscire sempre così dolce e risonante»57. Dalle antiche
affermazioni sugli improvvisatori, dimostrazione vivente dell’assurdità
dello sciolto, e dagli attacchi frugoniani, il tono è cambiato, ma la
posizione è la stessa del 1747, quando il giovane traduttore dal francese
cercava di motivare la scelta metrica del suo lavoro.
All’altezza del secondo periodo inglese la battaglia è ormai un ricordo
da esibire nei salotti d’oltremanica, ma all’occorrenza può essere
rispolverato nelle ultime “frustate” dello spirito inquieto. È così che
en passant troviamo i versi bianchi nelle velenose Strictures, le invettive
55 G. Baretti, Frusta letteraria, cit., II, p. 350.
56 Id., The introduction to «Carmen Seculare» of Horace, cit., p. 87.
57 Ibidem.
[ 15 ]
«il giogo della rima»: baretti contro il verso sciolto 61
pubblicate poco prima della morte contro l’ex amica e datrice di lavoro
Miss Thrale-Piozzi, rea di infangare la memoria di Samuel Johnson.
Il quadretto viene usato per descrivere come Baretti e la signora fossero
sempre in disaccordo anche su le cose più futili, mentre l’accenno
finale al grande critico inglese è originato da un moto d’orgoglio:
Un giorno che discorrevamo di Milton, e io e lei ci trovavamo in disaccordo
sulla versificazione, […] io fui così pronto a cedere su questo
punto che Johnson osservò sarcasticamente che ero caduto foemina manu:
al che io replicai semplicemente che non c’era da disputare in materia
di gusto, e lo invitai a sollevarla lui la questione, se voleva, e a
tentare di discuterla con miglior risultato, poiché sapevo che lui in merito
la pensava esattamente come me58.
Qualche anno prima il Baretti aveva raccontato alla figlia della signora,
di cui era precettore, una singolare storia confluita nella Easy
phraseology, opera composta da cinquantasei fantasiosi dialoghi in inglese
e italiano riuniti a scopo didattico. La storia riguarda la traduzione
italiana dell’Ossian da parte di Cesarotti, il tono della provocazione
finale si sposa bene con quello ironico dell’intera raccolta, e non ci
sono motivi di dubitare della sua veridicità anche se negli scritti barettiani
non sembrano esserci conferme dell’aneddoto:
Alcuni anni sono era in Venezia un Abate Cesarotti, il quale, sentendo
molto lodare Ossiano […] si pose in testa di tradurlo in Italiano, colla
lusinga di farne de’ quattrini […]. Compiuta l’opra, il Cesarotti la ridusse
in versi sciolti, e la stampò. […] E fu appunto per dar la quadra
allo stesso Cesarotti, alla sua traduzione, che inventai allora il vocabolo
«versiscioltàjo»; nome che solevo dargli, volendo dire un fabbricatore
di versi sciolti: ed ho fiducia che i nostri Accademici della Crusca
non mancheranno di porre quella mia parola nella prossima ristampa
del loro Vocabolario, avendola io già vista adoperata da alcuni degli
autori nostri. Se gli Accademici trascurassero di così fare, l’avidissima
aspettativa mia ne verrebbe ad essere molto sconciamente delusa!59.
Il termine “versiscioltajo” è divenuto un vanto della vecchiaia per
Baretti, che considera la sua ostinazione come una lunga militanza
contro il cattivo gusto, attribuendo all’uso di scrivere componimenti
non rimati alcuni guasti della civiltà letteraria contro i quali sente il
dovere di ribellarsi. Prima di tutto il recupero erudito, che gli pare un
58 Id., Invettive contro una Signora inglese, cit., p. 129.
59 Id., Easy phraseology, London, Robinson and Cadell, 1775, pp. 263-5.
[ 16 ]
62 fabrizio miliucci
innaturale e forzato pretesto per esibire conoscenze stantie che si contrappongono
alla schietta evoluzione della poesia. In secondo luogo il
fatto che i versi sciolti incoraggiano i fabbricatori di poesia, ovvero i
compositori d’occasione, con cui non perde occasione di polemizzare,
deprecando soprattutto il costume delle raccolte, che prostituisce, a
suo parere, la scrittura poetica davanti alla società. E infine, per trovare
una controparte inoppugnabile al suo punto di vista chiama in causa
quello che gli sembra un dato risolutivo, e cioè i “ducati guadagnati”
dalla poesia non rimata. Non solo i versi sciolti permettono a tutti
di affollare e saccheggiare le cime di Parnaso, ma non costituiscono
nemmeno un buon affare per gli stampatori, specie se il raffronto è
fatto con le popolarissime ottave dei poemi epico-cavallereschi.
Di fronte questa spiccata indole morale, la questione metrica di per
sé passa in secondo piano, sommersa dalle urgenze contingenti, e non
è quindi avventato affermare che, gusto personale a parte, Baretti
osteggia lo sciolto nella misura in cui lo crede un sintomo del male dei
tempi. Gli attacchi sferrati alla contemporaneità poetica su questioni
di carattere formale mettono in luce un atteggiamento volto a un tradizionalismo
alternativo che si inquadra appieno, almeno nella prima
fase, con lo spirito del modo burlesco. Tuttavia, anche nel suo lungo
esilio londinese, il vecchio letterato italiano non perderà il desiderio di
conoscere gli sviluppi di quella che deve considerare la miglior poesia
patria, nonostante la solita e un po’ sostenuta esternazione di dispiacere:
«Se voleste mandarmi libro alcuno, mandatemi La Sera del Parini,
caso ch’e’ l’abbia finalmente pubblicata. Quantunque la disgrazia
voglia che sia in verso sciolto, pure vorrei averla, come ho Il Mattino e
Il Mezzodì, perché ogni verso del Parini è buono, e alla lingua egli ha
saputo dare de’ nuovi colori molto vaghi, e il suo pensare ha sempre
del brioso e del fiero»60.
Fabrizio Miliucci
(Università Roma Tre)
60 Id., Epistolario, cit., II, p. 273.
[ 17 ]
Francesco Guardiani
Francesco Mastriani: due capitoli di storia
e di letteratura di Napoli e d’Italia
Si presentano qui due romanzi storici di Francesco Mastriani (1819-1891) che
illustrano bene il punto di vista di molti intellettuali napoletani dopo l’unità
d’Italia. In particolare: La figlia del croato (1867), descrive la risposta entusiastica
per l’annessione del Veneto e di Venezia al nuovo Regno d’Italia a seguito della
terza guerra d’indipendenza (1866); l’altro romanzo, Luigia Sanfelice / Due feste
al mercato (1870 e 1876), chiarisce innanzi tutto il senso di delusione e fastidio
causato dal ‘romanzo napoletano’ di Alexandre Dumas padre e quindi ne rettifica
la prospettiva storica sugli eventi della Rivoluzione Partenopea del 1799.

Two historical novels by Francesco Mastriani (1819-1891) are presented here.
They illustrate well the point of view of many Neapolitan intellectuals after the
unification of Italy. The first novel, La figlia del croato (1867), describes the enthusiastic
response to the annexation of Veneto and Venezia to the newly formed
Regno d’Italia as a result of the third war of independence. The other novel,
Luigia Sanfelice / Due feste al mercato (1870 e 1876), clarifies the sense of delusion
and discomfort caused by the “Neapolitan novel” written by Alexandre Dumas
father, and it rectifies the French writer’s historical perspective on the Neapolitan
Revolution of 1799.
Presento qui uno stralcio di un mio lavoro in corso su Francesco
Mastriani (1819-1891). Si tratta, in particolare, di due romanzi, ovvero
due episodi della ricchissima biografia intellettuale dello scrittore napoletano:
La figlia del croato (1867) e Luigia Sanfelice / Due feste al mercato
(1870 e 1876)1. Per la genesi de La figlia del croato si deve di necessità
ricorrere a opere dello stesso Mastriani: a I vermi. Studi storici su le classi
pericolose in Napoli (1863-64) ed a I lazzari. Romanzo storico (1865). La
genesi di Luigia Sanfelice sta invece ne La San Felice (si noti la diversa
grafia), romanzo fiume – di ben 1742 pagine nell’edizione consultata
1 Questo secondo romanzo, per le ragioni che si vedranno più sotto, si presenta
con una doppia identità. Esce a stampa nel 1870 con il titolo Luigia Sanfelice e poi, con
una brevissima nuova premessa e con il nuovo titolo, Due feste al mercato, nel 1876.
64 francesco guardiani
– di Alexandre Dumas padre, di cui Mastriani intende correggere la
visione dei fatti di storia napoletana e italiana lì raccontati2.
La figlia del croato (1867)
La conclusione de I vermi, studi storici, riecheggia nella conclusione
de I lazzari, romanzo storico, e consiste nella prima auspicata e poi descritta
e pienamente realizzata emancipazione del popolano napoletano,
non più lazzaro, luciano o candido-spontaneo senza identità individuale
da mobilitare per fini reazionari3. Già in questo puntare l’attenzione
sull’uomo del popolo, sulla sua tradizione e sulla sua identità,
per comprendere e spiegare i grandi eventi storici del passato prossimo,
si delinea con chiarezza l’orientamento socio-politico di Francesco
Mastriani. In apertura de I lazzari, ovvero nelle pagine di dedica
del romanzo al fratello Giuseppe, si dà per scontata, ovvero per già
avvenuta, l’emancipazione del popolano. Che ora però deve essere
istruito perché la partecipazione alla vita politica del paese richiede
un continuo processo di informazione e di formazione. Con questo in
mente, ben si intende come niente sia più utile alla formazione dei
nuovi cittadini quanto la conoscenza storica. Il romanzo storico ha
dunque per Mastriani, innanzitutto, una funzione educativa.
Visto l’immediato successo de I lazzari, questa funzione didatticoformativa
del romanzo dev’essere sembrata ben avviata al suo autore.
Centrato dunque l’obiettivo con il successo popolare, si apriva allo
2 Su date di pubblicazione e vicende editoriali del romanzo di Dumas basti
quanto si legge in apertura dell’edizione italiana Adelphi (A. Dumas, La Sanfelice,
2 voll., traduzione di F. Ascari, G. Cillario e P. Ferrero, Milano, Adelphi, 1999,
pp. 1750) in cui, va osservato, il titolo originale, La San Felice, infelice invenzione di
Dumas, è mutato nella grafia: «La Sanfelice apparve a puntate sul quotidiano parigino
La Presse fra il 15 dicembre 1863 e il 3 marzo 1865 e, con uno scarto di qualche
mese (10 maggio 1864 – 28 ottobre 1865), sull’Indipendente, il giornale che proprio a
Napoli Dumas aveva fondato e diretto. Pressoché contemporanea l’edizione in
nove volumi di Michel Lévy, Parigi 1864-1865» (Vol. 1, p. 3).
3 Luciani sono i lazzari di Santa Lucia, fedelissimi alla corona borbonica. I candido-
spontanei sono i lazzari che si opposero agli insorti del 15 maggio 1848; di loro
dice Mastriani: «Vedemmo nel 1848 i Lazzari non più concordi nel sostenere le
parti del dispotismo, ma bensì scindersi in due fazioni, di cui la più numerosa, la
più compatta, la più intelligente tenere per i liberali ed avversare i candido-spontanei
sguinzagliati dalla Camarilla di corte contro la costituzione» (F. Mastriani, I
Lazzari, Romanzo storico, Napoli, Attività Bibliografica Editoriale, 1976 (Prima edizione:
Napoli, Gargiulo, 1865), p. 397).
[ 2 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 65
scrittore con più chiarezza la via maestra del romanzo storico. E tale
sarà allora La figlia del croato di due anni dopo, ovvero del travagliatissimo
anno de «La Domenica», settimanale scritto tutto di suo pugno,
in cui il romanzo compare in appendice in prima edizione4. Intanto,
val la pena di notare che Mastriani aveva scritto e pubblicato I figli del
lusso (1866)5, che sta a I vermi (1863-64)6 come La figlia del croato (1867)
sta a I lazzari (1865): due séguiti di due romanzi di successo7. Va aggiunto
che il numero di lettori e la loro simpatia non corrispondevano
certo alla serenità economica dello scrittore che, dopo essere stato licenziato
dal Ministero dell’Interno il 17 aprile 18658 e dopo aver esaurito
il denaro della liquidazione, si trovò in ristrettezze economiche
disperate9. Le cose non migliorarono l’anno dopo in cui, anzi, si ammalò
di colera addirittura e si vide costretto a chiedere un sussidio
pubblico all’allora sindaco di Napoli, barone Rodrigo Nolli10.
Dal novembre, sempre del ’66, Mastriani reagì alla miseria diven-
4 «Nello stesso anno 1866, verso il mese di Novembre, [Francesco Mastriani]
cominciò a pubblicare un giornale settimanale, col titolo La Domenica, di cui egli
era l’unico scrittore. Egli scriveva l’articolo di fondo, il romanzo in appendice, la
cronaca, le notizia teatrali, le biografie, i fatti varii e perfino le sciarade» (Filippo
Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, in F. Mastriani, Le
ombre, a cura di L. Torre, vol. 2, p. 794. I Cenni sono stati recentemente ristampati
in C.A. Addesso, E. Mastriani e R. Mastriani, Che somma sventura è nascere a
Napoli! Bio-bibliografia di Francesco Mastriani, Roma, Aracne, 2012, pp. 127-279).
5 F. Mastriani, I figli del lusso. Séguito dell’opera I vermi, 4 voll., Napoli, Gargiulo,
1866.
6 Id., I vermi. Studi storici su le classi pericolose in Napoli, 5 voll., Napoli, Gabriele
Regina, 1877-78. (Prima edizione: 10 voll., Napoli, Gargiulo, 1863-64).
7 Per la verità, mentre I figli del lusso sono il dichiarato (dallo scrittore) séguito
de I vermi, La figlia del croato segueI lazzari come romanzo storico.
8 Filippo Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, cit., p.
791.
9 «Quale tristissima, orrenda giornata fu per lo sventurato mio padre (e per noi
tutti) quella di sabato 16 settembre 1865! Le irrimediabili angustie e privazioni del
presente, un profondo scoraggiamento sull’avvenire della sua povera famiglia, accasciarono
talmente lo sventurato, da farlo piangere sulla sterilità dell’ingegno e
sull’egoismo degli uomini. La sua povera mente si aggirò tutto il giorno sui futuri
consigli della disperazione. Queste parole non sono esagerate […] ho letto, coi
miei occhi, col cuore che mi sanguina dal dolore, in un libricino in cui egli segnava
tutte le date memorabili della sua vita, queste terribili parole, colla data del 16
settembre 1865. Privazioni, debiti, miseria, fame! Povero padre mio!» (Ivi, p. 793).
10 Il finora ignoto episodio è certificato da un foglio autografo che ho reperito
in antiquariato e di cui do conto in un saggio di prossima pubblicazione. Per la
stessa ondata di colera, può essere utile ricordare, Luisa Sipari lasciò Napoli per
Pescasseroli, dove partorì Benedetto Croce (1866-1952).
[ 3 ]
66 francesco guardiani
tando scrittore unico ed editore de «La Domenica» in cui pubblicò a
puntate prima La brutta (dal 18 novembre 1866 al 6 gennaio 1867) e poi
La figlia del croato (dal 6 gennaio al 1 settembre 1867). La genesi di questo
secondo romanzo storico non dev’essere stata delle più tranquille viste
le travagliate circostanze di vita dello scrittore. Ma chiarissimi erano a
questo punto per lui sia l’orientamento socio-politico su cui imbastire la
trama del romanzo, e sia lo stile didattico-informativo con cui raggiungere
il più ampio numero di lettori. C’era comunque una differenza
notevole rispetto a I lazzari e a tutte le altre opere precedenti che consisteva
nella scelta dell’ambientazione italiana e non napoletana: un cambiamento
di notevole importanza per lo scrittore nella percezione del
proprio lavoro. Più che una mutazione di poetica, ovvero di cambio di
prospettiva su natura, forma e ambito sociale della sua scrittura, si trattò
di un esperimento. La figlia del croato costituisce infatti un episodio
isolato rispetto agli altri lavori, precedenti e successivi. È facile tuttavia
immaginare come nell’atto della scrittura Mastriani cominciasse a vedere
la sua missione magistrale estesa a tutta l’Italia, ovvero alla nuova
Italia che ormai includeva anche il Veneto e Venezia. Il cambiamento /
esperimento non si riferisce allora soltanto al contenuto narrativo e
all’ambientazione del romanzo, ma anche e soprattutto al pubblico
stesso, ovvero ai lettori ideali immaginati e sperati per quest’opera: lettori
di tutta l’Italia per un’opera sì storica, ma anche politica e attuale,
informativa e giornalistica addirittura, vista la quasi contemporaneità
dei tempi di scrittura e dei tempi degli eventi narrati11.
Argomento del romanzo, come si è sopra accennato, è la terza
guerra di indipendenza – ma prima guerra del Regno d’Italia, cui fruttò
il Veneto e Venezia – vista da una doppia prospettiva personale e
patriottica: quella del narratore che, deus ex machina, interviene spesso
con commenti, giudizi e suggerimenti al lettore, e quella dei due personaggi
principali. Sono questi Gigia e Camillo, patrioti innamorati e
contrastati, sudditi di sua maestà imperiale Francesco Giuseppe, anzi
Kaiser Franz-Joseph come, sfoggiando anche in questo la sua conoscenza
del tedesco, precisa lo scrittore-narratore. Sognano, lottano e
infine vincono. Il loro è un trionfo amoroso e patriottico che apre loro
una nuova vita nella nuova Italia.
Si è detto dei tempi di pubblicazione vicinissimi ai tempi dei fatti
narrati. Questi ultimi hanno inizio all’«alba del 10 giugno del meravi-
11 Mastriani comincia a scrivere il romanzo nel gennaio del ’67. Il 3 ottobre ’66
con il Trattato di Vienna, l’Austria aveva ceduto Venezia alla Francia che la passò
all’Italia dopo il plebiscito del 21-22 ottobre.
[ 4 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 67
glioso 1866», appena dieci giorni prima della dichiarazione di guerra
all’Austria di Vittorio Emanuele II. Il messaggio alla nazione, in cui
egli si dichiara «primo soldato della indipendenza italiana» è appunto
«dato in Firenze il 20 giugno 1866» ed è riportato per intero nel romanzo12.
I dieci giorni intercorsi fra le due date sono appena sufficienti a
condensare il viaggio di rientro a Venezia della “figlia del croato”, Gigia
Ransom, e l’innamoramento con il patriota padovano Paolo Camilli.
La terza guerra d’indipendenza si attesta nel romanzo con l’arruolamento
del Camilli fra i garibaldini, riuniti e addestrati a Bari e
Barletta, mentre Garibaldi lascia Caprera per incontrarli e condurli
alla vittoria ai piedi delle Alpi.
Si perdono a questo punto le tracce della Gigia che prepara comunque
un clamoroso rientro in scena. Di Lizza e Custoza si parla fuori
dalla narrazione nel corso di una delle lunghissime digressioni del
romanzo. Nella conclusione troviamo «le trattative di pace che seguirono
alla breve e disastrosa guerra, e la cessione di Venezia alla sua
legittima madre, l’Italia […] La storia di questi fatti è notissima ai nostri
lettori»13.
In questo romanzo Mastriani sembra essere fortemente suggestionato
dal Tasso della Gerusalemme Liberata, più volte ricordato nel corso
della narrazione, e in particolare dalla figura di Clorinda. Sono della
figlia di San Giorgio, infatti, le parole che vengono spontanee al “volontario
Padovano”, ovvero all’innamorato Paolo Camilli, nell’accomiatarsi
dai compagni cospiratori di Venezia per unirsi ai garibaldini
che si vanno raccogliendo in Puglia:
Ma s’egli avverrà pur che mia ventura
Nel mio ritorno mi richiuda il passo,
Della vecchia mia madre a te la cura,
E del fratello a me si caro io lasso.
Fallo, per Dio, Signor, che di pietate
Ben è degno quel sesso e quella etate.
Paolo che amantissimo era del Tasso, la cui lettura aveva temperato il
suo spirito a nobili e grandi cose, si trovò su le labbra i versi mentovati,
a cui avea fatto pochi leggieri mutamenti14.
12 Cfr. F. Mastriani, La figlia del croato. Romanzo storico, Napoli, Giosuè Rondinella,
1877, pp. 112-115. Prima edizione: In appendice de «La Domenica», II.9 (6
gen. 1867) – II.43 (1 sett. 1867), pp. 112-115.
13 Ivi, p. 148.
14 E cco l’ottava originale, tutt’intera, del Tasso: «Ma s’egli avverrà pur che mia
[ 5 ]
68 francesco guardiani
Un’altra curiosità forse ascrivibile a un ricordo della Gerusalemme
Liberata riguarda la particolare identità somatica di Gigia Ransom. Che
è donna bruna pur avendo entrambi i genitori biondi di pura razza
“imperiale”, austriaca la madre e croato il padre. “Croato” è quanto
dire forte e severo soldato dell’esercito austriaco15. Ora bisogna fermarsi
un attimo a riflettere di fronte a questa anomalia. È possibile,
all’altezza del 1867, che Mastriani non avesse mai sentito parlare di
Gregor Johann Mendel, e infatti qui fa un errato riferimento a una delle
più elementari e ovvie leggi che regolano l’ereditarietà dei caratteri.
Da coniugi biondi, infatti, non può che nascere prole dai capelli biondi.
Il caso, cioè l’errore sul fronte della plausibilità, non sarebbe di per
sè eccezionale se Mastriani, che ha un grande interesse per la scienza
in generale, non avesse già dimostrato, nella Angiolina per esempio16,
un’attenzione particolarissima per l’eredità dei caratteri, non solo somatici,
ma anche e soprattutto psicologici. Il carattere aristocratico di
Angiolina, che tanto condiziona la trama di quel romanzo, riapparirà
regale addirittura (come tipico di una immensa e ignara famiglia napoletana
segretamente unita dallo stesso sangue) sia nella inflessibile
Medea di Porta Medina17 che nel misterioso Figlio del diavolo18.
Non è del tutto casuale, quindi, l’anomalia della Gigia dai capelli
neri, veneziana italianissima, figlia di genitori biondi. L’anomalia è
ostentata, anzi, e bisognerà pure spiegarla in qualche modo. Propongo
di vedere in Gigia una rappresentazione simbolica proprio della Clorinda
della Gerusalemme Liberata. La quale, si ricorderà, nacque bionda
da genitori neri. Torquato Tasso, il cui verisimile faceva miracoli, l’aveva
fatta figlia di San Giorgio di cui la madre di Clorinda era molto
devota e di cui conservava un’icona prodigiosa nella sua stanzetta.
Gigia Ransom, bruna figlia di genitori biondi, come Clorinda bionda
ventura/ nel mio ritorno mi richiuda il passo,/ d’uom che’n amor m’è padre, a te
la cura,/ e de le mie donzelle io lasso./ Tu nel’Egitto rimandar procura/ le donne
sconsolate e’l vecchio lasso./ Fallo, per Dio, Signor; che di pietate/ ben è degno
quel sesso e quella etate» (GL XII.6).
15 Questo significato non è certamente peculiare in Mastriani. “Croati” simili si
incontrano anche nell’Ebreo di Verona del Bresciani, oltre che nel Sant’Ambrogio del
Giusti.
16 F. Mastriani, Angiolina. Napoli: 3 voll. Napoli: Tipografia dell’Industria:
voll. 1-2, 1858; vol. 3, 1859.
17 F. Mastriani, La Medea di Porta Medina, Firenze, Salani, 1931. Prima edizione
in appendice del «Roma», 12 ottobre – 29 dicembre 1881.
18 Id., Il figlio del diavolo, Napoli, Francesco Casella fu Gennaro, s.a., 4 voll. Prima
edizione: Napoli, Achille Di Pierno, 1869, 3 voll.
[ 6 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 69
figlia di genitori neri, sembra un’equazione interpretativa azzardata.
Ma è ampiamente supportata dalla scena madre del romanzo, che ha
luogo su un non specificato terreno di battaglia della terza guerra
d’indipendenza. In un plotone di volontari garibaldini comandato dal
sottotenente Paolo Camilli “volontario Padovano”, si trovano Marietta
Giuliani di Chiavenna, arruolata sotto il nome di Antonio Delfiore19
e Lorenzo Venturi, un giovane veneziano di straordinari meriti militari
che era divenuto il suo protettore:
Potea contare un diciassette anni: avea fatto le più disastrose e lunghe
tappe senza mai dare segno alcuno di stanchezza; aveva chiesto al suo
furiere una doppia razione di cartucce; si batté come un leone, e tirava
come un vecchio granatiere. […] avea due occhi scintillanti di ardor
bellicoso: due gentili baffetti gli ornavano le labbra20.
Questo giovane volontario veneziano, Lorenzo Venturi, prode, coraggioso,
virile, protettore di donne… nè più nè meno valoroso della
Clorinda tassiana ‘protettrice’ di Sofronia, è proprio lei Gigia Ransom.
Come Clorinda si rivela a Tancredi togliendo l’elmo e sciogliendo la
chioma bionda, Gigia si rivela al padre ferito a morte e a Paolo Camilli,
staccandosi i baffetti finti e togliendosi il berretto sotto cui si nascondeva
una lunga treccia nera. Il croato benedice l’unione dei due
innamorati prima di esalare l’ultimo respiro. «La breve e disastrosa
guerra» ha fine. Venezia e il Veneto diventano parte del Regno d’Italia.
Paolo Camilli ritorna a Padova «colla sua virtuosa e leggiadra sposa»,
raggiunge un’agiata posizione come agente di commercio, «e sarebbe
felicissimo se l’ardente voto che egli forma ogni giorno, che tutti gl’Italiani
sieno affratellati, indipendenti, liberi e temuti, avesse il desiderato
compimento»21.
Caso unico nell’opera omnia di Mastriani questo romanzo è fondato
su un atteggiamento politico tutto italiano e non napoletano, come del
resto s’è visto anche a proposito di ambientazione e personaggi prin-
19 La presenza di una donna nelle fila dei combattenti garibaldini è finzione
narrativa che trova riscontro in noti episodi di patriottismo risorgimentale femminile,
come quello di Antonia Masanello in Marinello che combatté con i Mille a
fianco al marito Bortolo e quello di Colomba Antonetti Porzi che fu con Garibaldi
sul Gianicolo nel ’49 e perse la vita in battaglia. Sul fronte letterario la bella combattente
in abiti maschili cronologicamente più vicina alla “figlia del croato” è il
personaggio di Polissena nell’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani (Torino, Tipografia
Eredi Botta, 1850).
20 F. Mastriani, La figlia del croato. Romanzo storico, cit., pp. 130-131.
21 Ivi, p. 148.
[ 7 ]
70 francesco guardiani
cipali. C’è solo un personaggio, minore, napoletano nel romanzo ed è
tratteggiato in modo ironico e grottesco. Si tratta di un «arciprete borbonico
[…] faccia della sferica rotondità di certe parti del corpo, pancia
della forma di un gran disco e tutto il resto in corrispondenza di queste
membra sferoidali»22. L’arciprete, «schiuma del borbonismo»23,
«sognava ad occhio aperto la così detta riciccillazione»24, ovvero il ritorno
di Ciccillo / Franceschiello / Francesco II di Borbone.
C’è anche di napoletano nel romanzo una originale, patriottica interpretazione
delle disastrose sconfitte di Lissa e Custoza. Si tratta di
una lunga citazione che – è detto in una nota al testo – Mastriani trasse
da uno scritto di Giuseppe Piro del 1867: «Or bene domandiamo noi a
nostra volta: fummo vinti in queste due giornate? A primo tratto pare
che la risposta non possa essere dubbia, ma ponderandovi su, Custoza
e Lissa, lo ripetiamo, furono due vittorie morali»25.
Molto resterebbe da dire per quel che riguarda la dimensione didattica
del romanzo. Che si concentra soprattutto nelle lunghissime
digressioni e nella menzione delle gloriose figure storiche italiane del
Veneto e di Venezia. Le più vistosa digressione riguarda un intero capitolo,
il settimo, sulla storia di Venezia dalla sua fondazione al tempo
dell’occupazione austriaca, «senza tacere de’ più grandi uomini che la
resero illustre»26 da Marco Polo ai Fratelli Bandiera.
Notevole è anche, sempre sul fronte didattico-formativo, la serie di
riflessioni socio-politiche della Gigia che con ingenuità e ispirata saggezza
vede il mondo intero nel mezzo di una epocale trasformazione:
non solo nella situazione veneziana e italiana, ma anche in quella generale
del continente europeo e anzi dell’Europa e dell’America, la
Gigia scorge segni di convergenza delle ragioni storiche e geografiche
che portano alla libertà dei popoli oppressi. È la nozione stessa di impero
– e di quello austro-ungarico in particolare – che per Gigia reca
con sé un profondo senso di ingiustizia.
In fine, contribuiscono senz’altro ad alleggerire il tono di queste riflessioni
e a cercare un’intesa con il lettore meno colto alcune ingenue
espressioni di ironia anti-austriaca del narratore, che dice per esempio:
«O aquila austriaca, tu hai due teste, ma sono teste di rapa»27;
22 Ivi, p. 68.
23 Ivi, p. 67.
24 Ivi, p. 69.
25 Ivi, p. 117.
26 Ivi, p. 89.
27 Ivi, p. 14.
[ 8 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 71
oppure afferma che la lingua tedesca a Venezia è un’assurdità, un
«idioma che Carlo V dicea doversi parlare da’ cavalli»28, per cui Gigia,
che pur dovette parlare tedesco nell’infanzia, parla sempre in italiano
perché si sente veneziana e italiana.
* * *
Se la forza d’urto de I vermi, romanzo veramente nuovo, si spendeva
in varie direzioni, ovvero in vari aspetti della poetica dello
scrittore – nella struttura, nella scelta dei temi, nel linguaggio, nell’organizzazione
del materiale narrativo – è ovvio che essa si manifestasse
anche nella trattazione dei temi storici. Che presero subito un
orientamento sociologico e, nell’ineluttabile cammino “ascendentale”
della umanità, si manifestarono soprattutto con l’emancipazione
sociale del popolano, ovvero del ceto meno abbiente che a Napoli
s’incarnava allora nella figura del lazzaro. A Napoli, si badi, non nel
Regno della Due Sicilie, né tanto meno nel Regno d’Italia. Sicché
quando personaggi e azione si trasferirono “in alta Italia”, e cioè
quando da I lazzari si passò a La figlia del croato, al nuovo romanzo
storico venne a mancare il materiale umano originario, realistico,
credibile e coinvolgente (anche per il lettore non napoletano) che assicurava
la coerente linea di pensiero dell’autore, decisamente evolutiva
se non proprio rivoluzionaria e patriottica. La figlia del croato è un
romanzo più simbolico che realistico e, come abbiamo visto, i suoi
personaggi sono obbedienti soldatini di piombo senza spessore psicologico.
Con tutto ciò – siamo nel 1867, con un’Italia sempre più
grande e più unita, con il re e il parlamento a Firenze, ma con Roma
già capitale morale – il romanzo ebbe buona fortuna editoriale, come
attestano le ristampe29.
Se consideriamo le difficili condizioni economiche, i disagi domestici,
le condizione di salute e le incertezze del mercato editoriale non
possiamo non riconoscere qualcosa di prodigioso nella produttività di
Mastriani in questo periodo. Come s’e` detto sopra La figlia del croato
(1867) “romanzo storico” è il séguito naturale de I lazzari (1865) così
come I figli del lusso (1866) sono, in maniera ancora più palese, anzi
dichiarata, il séguito de I vermi (1864) “studi storico-sociali”. Se l’entu-
28 Ivi, p. 27.
29 Si contano sei edizioni (o ristampe) dalla prima del 1867, in appendice de
«La Domenica», all’ultima (Firenze, Salani) del 1935. Cfr. C.A. Addesso et al., Che
somma sventura è nascere a Napoli! Bio-bibliografia di Francesco Mastriani, cit., p. 297.
[ 9 ]
72 francesco guardiani
siasmo didattico-patriottico per temi storici sembra attenuarsi dopo
La figlia del croato, prendono sempre più rilievo, per l’autore, i temi legati
all’uguaglianza sociale e alla condizione della donna, anche se
non mancano riferimenti e commenti di carattere prettamente storico
nelle opere immediatamente successive. Dobbiamo comunque aspettare
fino al 1870, anno della Breccia di Porta Pia, per un altro romanzo
storico, o almeno così detto nel frontespizio.
L’anno stesso in cui completa I misteri di Napoli (1869-1870)30, Mastriani
dà alla luce Luigia Sanfelice31, un romanzo storico di complessa
identità (se così si può dire) per il fatto che lo scrittore gli mutò il titolo
qualche anno dopo, chiamandolo Due feste al mercato (1876). La storia
di Luigia Sanfelice diventa la doppia storia di Luigia Sanfelice e di
Eleonora Pimentel Fonseca, anzi prima questa che quella se vogliamo
dare la giusta cronologia alle due “feste”, ovvero alle esecuzioni capitali
delle due donne nella Piazza del Mercato nell’ambito della reazione
borbonica alla rivoluzione del 1799.
La storia è onnipresente nell’opera di Mastriani. Non a caso il novel,
ovvero la forma narrativa del romanzo vero e proprio, che è poi
prevalente fra le forme impiegate dallo scrittore, richiede ambientazione
storica e caratterizzazione sociale della vicenda e dei personaggi.
Si ritrovano elementi storici anche negli spunti riflessivi del narratore,
sempre onnisciente32, come nei commenti messi in bocca ai personaggi
e nelle descrizioni di luoghi, ambienti e costumi.
Non sarà inutile, a questo punto, presentare una breve rassegna di
30 F. Mastriani, I misteri di Napoli. Studi storico-sociali, 2 voll., Napoli, Stabilimento
Tipografico del Commend. G. Nobile, 1869-1870.
31 Id., Luigia Sanfelice. Romanzo storico, Napoli, Stabilimento Tipografico della
Sirena, 1870.
32 La narrazione, in prima o in terza persona, in Mastriani è sempre al passato
e appare frutto di una soluzione mnemonica variamente motivata e commentata.
I ricordi sono, insomma, sempre filtrati dal narratore. Il quale poi, quando corrisponde
allo scrittore Francesco Mastriani personaggio, diventa lui stesso una prova
di veridicità della fabula, anche della più fantasiosa. Così è, per esempio, sia con
Angiolina (1868), Memorie di una monaca (1879) e Karì-Tismé – Memorie di una schiava
(1882-83), in cui allo scrittore personaggio sono affidati dei memoriali che egli si
impegna a pubblicare a stampa, e sia con Eufenia ovvero il segreto di due amanti
(1868) e con Cenere o la sepolta viva (1877) in cui ‘la storia’ gli viene raccontata a
voce. F. Mastriani, Memorie di una monaca. Napoli: Gabriele Regina, 1879; Id.,
Karí-Tismè. Memorie di una schiava. Appendice del “Roma”, 15 dicembre 1882 – 24
febbraio 1883; Id., Eufemia, ovvero il segreto di due amanti. Napoli: Gargiulo, 1868. Id.,
Cenere. Napoli: Edizioni Ginka, 1975. (Prima edizione: Appendice del “Roma”, 28
maggio – 14 agosto, 1877).
[ 10 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 73
note storiche colte nei romanzi che cronologicamente si pongono fra
La figlia del croato (1867) e Luigia Sanfelice (1870). Già neLa brutta (1867)33
per la verità, dello stesso anno de La figlia del croato, ma apparsa prima
ne «La Domenica», incontriamo un «infame sgherro della polizia
borbonica»34, Giuseppe Campagna, uno dei tanti “birri” irredimibili
(con eccezione forse dell’ultimo, Luigi Ajossa, cui è dedicata Acaja)35
che popolano da personaggi storici le pagine del romanziere. Sempre
ne La brutta troviamo anche «l’arresto del dottor Fulvi, imputato come
mandatario di Mazzini per abbattere la monarchia napoletana e promuovere
la repubblica, solita formula d’accusa con la quale si facevano i più
arbitrarii arresti e le più illegali processure»36.
Più che a quella del romanzo storico, Le ombre (1867-68)37 è un’opera
che si può ascrivere alla forma dello “studio storico-sociale”, ideata con
I vermi e consolidata con I figli del lusso. Questo vuol dire che troviamo
ne Le ombre ben più presenti gli elementi tematici e retorici dell’anatomy
che è forma diversissima dal romanzo vero e proprio38. Oltre allo “storico”
problema dell’inuguaglianza della donna troviamo in questo romanzo
elementi dell’ambientazione che appartengono alla storia nazionale,
come questo, per esempio: «Il tempo era bellissimo; l’aere fresco
e temperato. La brigata sen venne in su la strada di Porto or cantando
l’inno di Garibaldi, or l’Addio, mia bella, addio, l’armata se ne va»39.
In Una martire (1868), romanzo ambientato nel 1852, i riferimenti
storici appaiono sulle pagine dei giornali: «Il commendatore [Ignazio
Pasicci] era ancora a letto, e leggeva con molto diletto nel ‘Giornale
officiale’ i particolari della caduta della repubblica in Francia»40.
33 F. Mastriani, La brutta, 3 voll., Napoli, Gabriele Regina, 1879. Prima edizione
in appendice de «La Domenica» I.2 (18 nov. 1866) – II.48 (6 ott. 1867).
34 Ivi, vol. 3, p. 32.
35 F. Mastriani, Acaja. Napoli: Gargiulo, 1860.
36 Ivi, vol. 3, p. 39.
37 F. Mastriani, Le ombre. Lavoro e miseria, 2 voll., a cura di L. Torre, Napoli,
Torre Editrice, 1992. Contiene i Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani,
di Filippo Mastriani (vol. 2, pp. 725-884). Prima edizione: Napoli, Gargiulo, 1868.
38 R icordiamo nelle pagine introduttive de I vermi: «io non scrivo un romanzo
»; e in quelle de I figli del lusso: «chi vuole il fatto narrativo legga qualcos’altro»
(I figli del lusso).
39 Ivi, p. 453. Realisticamente questo alternarsi dei due canti risorgimentali non
sembra troppo credibile o plausibile. E naturalmente quando si esce dal realismo
si entra in un ambito più simbolicamente rappresentativo. Le due canzoni sono
qui, allora, proprio per evidenziare l’identità risorgimentale della “brigata”.
40 F. Mastriani, Una martire, Napoli, Salvati, s.a., p. 28. Prima edizione: 5 voll.,
Napoli, Gargiulo, 1868. Antonio Di Filippo (Lo scacco e la ragione. Gruppi intellet-
[ 11 ]
74 francesco guardiani
Ne La contessa di Montès (1869) per rendere chiara l’ambientazione
temporale si ricordano i fatti storici noti a tutti: «Era il tempo della
guerra in Crimea […] la visita fatta da Gladstone alle prigioni politiche
napoletane e le sue rivelazioni al parlamento inglese»41.
Il figlio del diavolo (1869), in cui il diavolo mai nominato ma indicato
da mille allusioni sarebbe re Ferdinando I, primo fornitore di ‘orfani’
alla Nunziata, è un romanzo di non facile classificazione. La componente
storica è qui predominante su quella dell’invenzione narrativa;
ma ai riferimenti storici accertati – dal trasferimento della corte borbonica
a Palermo nel 1806 (ivi, vol. I, p. 36) all’arrivo di Gioacchino Murat
a Napoli nel 1808 (ivi, vol. I, p. 31), dai briganti presi nella Storia del
Reame di Napoli del Colletta42 alla corrispondenza epistolare fra la regina
Carolina e il brigante Mammone – si aggiungono aneddoti di personaggi
di corte, di briganti, di sanfedisti, di congiure e società segrete
che sembrano più immaginari che reali.
Luigia Sanfelice (1870) ovvero Due feste al mercato (1876)
La genesi (come l’identità retorica) del romanzo appare condizionata
dall’apparire a rimorchio de La San Felice di Alexandre Dumas
padre43. È certo che la lettura del romanzo francese, apparso a Napoli
sull’«Indipendente» dal 10 maggio 1864 al 28 ottobre 1865, proprio a
ridosso de I lazzari (Napoli, Gargiulo, 1865, in cinque volumi), deve
aver suscitato una forte reazione negativa cui Dumas, ormai di nuovo
a Parigi e fuori in ogni senso dall’esperienza napoletana, non si è curato
di rispondere. Ma è indubbio che Mastriani, interpretando anche
il desiderio di molti, se non tutti, i suoi lettori, abbia sentito il bisogno
di reagire e di emendare in qualche modo la prospettiva storica e i
giudizi di merito del francese. Il tono, comunque, non vuole essere
polemico. Si apre, infatti, Luigia Sanfelice. Romanzo storico del Mastriani
tuali, giornali e romanzi nella Napoli dell’800: Mastriani, Lecce, Milella, 1987) indica
una prima edizione su una irreperibile terza annata de «La Domenica» del 1868, 17
appendici, dal 9 agosto al 13 dicembre.
41 F. Mastriani, La contessa di Montès, Milano, Barion, 1925, p. 100. Prima edizione:
3 voll., Napoli, Gargiulo 1873. Antonio Di Filippo indica l’anno 1869 per la
prima edizione, senza indicazione di luogo o stampatore.
42 P. Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, Firenze, Le Monnier,
1856, pp. 42-43.
43 A. Dumas, (père), La San Felice, Paris, Ed. Claude Schopp, Gallimard, 1996.
[ 12 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 75
che già presenta nel titolo una correzione al romanzo francese (La San
Felice), con questa programmatica dichiarazione:
Invitato a presentare, sotto la forma del romanzo storico, i fatti del nostro
paese sotto il nome di una delle più illustri vittime della borbonica
restaurazione in Napoli dopo le rivolture del 99, Luigia Sanfelice, stimai
attenermi più alla dipintura degli attori principali di quel lugubre
dramma; perocché già la Sanfelice era rinata sotto la fervida e immaginosa
penna d’uno dei più popolari romanzieri francesi, Alessandro
Dumas padre. Nel trattare lo stesso subbietto, non mi allontanai dalla
storia che in quel che poteva aggiugnere maggior colorito al tristo quadro
di quella crudele reazione, di cui forse svolgerò, Dio permettendo,
in altro lavoro, qualche altro importante episodio. Agosto, 1870. F.M.
La dichiarazione si può leggere come conferma delle reazioni negative
suscitate dal libro di Dumas, e quindi come notizia di un avvenuto
appello al Mastriani stesso per la scrittura di una rettifica, ovvero
di un «romanzo storico» veritiero. L’autore è infatti «invitato a presentare
[…] i fatti del nostro paese sotto il nome di […] Luigia Sanfelice». E cioè
gli è stato chiesto esplicitamente di dire il vero, di “presentare i fatti”,
di presentarli da napoletano («i fatti del nostro paese») e di presentarli
facendo rifacimento al romanzo scritto da Dumas («sotto il nome»
della Sanfelice) «con fervida e immaginosa penna» e non certo con
quella dello storico obiettivo e veritiero.
Mastriani si sente insomma gentilmente obbligato a scrivere sotto il
nome della Sanfelice, ma è chiaro a lui come agli altri che il titolo del
romanzo di Dumas (prima che del suo, ritoccato) non rispecchia affatto
il contenuto dell’opera. Questo (presunto) ragionamento del Mastriani
è certamente in linea con la decisione di ristampare anni dopo
il romanzo con un altro titolo, Due feste al mercato (1876), senza il fastidio
per il lettore di un obbligato confronto con Dumas44.
Sempre nella dichiarazione proemiale, Mastriani promette, dopo
aver onorato l’obbligo derivato dall’accettazione dell’invito a scrivere
i fatti del nostro paese sotto il nome di Sanfelice, di descrivere «qualche
altro episodio» della reazione borbonica alla rivoluzione del 1799, cosa
che aveva fatto già ne I vermi (1863-64) e nei freschi di stampa Misteri
di Napoli (1869-70), e che farà anche nel Campanello dei Luizzi
44 F. Mastriani, Due feste al mercato, Napoli, Gabriele Regina, 1876. Il nuovo
titolo, ricordo, si riferisce alle esecuzioni in Piazza del Mercato di due protagoniste
della rivoluzione e della Repubblica Partenopea del ’99, Eleonora Pimental Fonseca
e Luigia Sanfelice.
[ 13 ]
76 francesco guardiani
(1885) e nel Padrone della vetraia all’Arenaccia (1890)45. Quasi a giustificarsi
del non cercato ma necessario scontro più storico-sociologico che
letterario con il celebratissimo Dumas, Mastriani scriverà nell’“Avvertenza”
preposta a Due feste al mercato (1876):
Questo mio storico lavoro fu pubblicato in Napoli per la prima volta
cinque anni or sono, con altro titolo che poco rispondeva al concetto
dell’opera. Ebbi allora appena il tempo di correggere le prime pruove
di stampa. Poca pubblicità si ebbe il mio libro, avvegnaché importante
ne fosse il subbietto. Oggi con titolo più adatto ripubblico il mio lavoro.
Insomma il confronto con Dumas c’è stato, ma non ha generato
grande interesse e il romanzo si può ripresentare tale e quale sei anni
dopo con altro titolo e quindi come opera indipendente da qualsiasi
condizionamento esterno. Fatto sta che l’esistenza stessa del romanzo
di Mastriani non si spiega senza quella della San Felice di Dumas. Proviamo
allora a mettere a fuoco alcuni elementi di quest’opera che sicuramente
fecero inarcare le ciglia non soltanto a Mastriani, ma a tutti i
lettori napoletani dell’«Indipendente» su cui essa apparve.
*
Dice Ena Marchi che «Dumas amava Napoli […] l’amava di un
amore appassionato, fervido – e non ricambiato: i napoletani non capirono
“L’Indipendente” e diffidarono sempre del suo fondatore»46.
Vediamo ora qualche segno di questo grande amore e magari cerchiamo
anche di capire come mai i napoletani non si sentirono tanto amati.
Per cominciare, nella premessa al volume della San Felice – premessa
‘riassuntiva’ nel senso che venne scritta dopo pubblicazione del romanzo
a puntate – Dumas scrive:
La vicenda si svolge nel periodo del Direttorio compreso tra il 1798 e il
1800. I due eventi principali sono la conquista del regno di Napoli da
parte di Championnet e la restaurazione di Ferdinando IV ad opera del
cardinale Ruffo47.
Della Sanfelice nemmeno l’ombra. Ma non soffermiamoci su que-
45 Id., Il campanello dei Luizzi. Cronaca napoletana del 1799, Appendice del «Roma
», 10 aprile – 6 agosto, 1885; Il padrone della vetraia all’Arenaccia, Appendice del
«Roma», 19 giugno – 11 luglio, 1890.
46 E. Marchi, “A Napoli, nel nome del padre e della Rivoluzione”, in A. Dumas, La
Sanfelice, cit.
47 A. Dumas, La San Felice, cit., p. 15.
[ 14 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 77
sto, per ora. Si sa che un conto era l’intenzione iniziale dichiarata dal
titolo e altro è quello che venne fuori alla fine, quasi un anno e mezzo
dopo48. Fatto sta che “i due eventi principali” sono presentati come
straordinari, anzi inverosimili: innanzitutto che Jean Étienne Championnet,
abilissimo generale con meno di un sesto delle truppe borboniche
(10.000 vs 65.000), riuscisse a impadronirsi di Napoli, città di
cinquecentomila abitanti con tre giorni d’assedio; e poi che il cardinale
Fabrizio Ruffo, partito da Messina con cinque uomini arrivasse a
Napoli con quarantamila sanfedisti a rimettere sul trono re Ferdinando.
Ed ecco il commento dello scrittore innamorato: «Solamente Napoli,
con il suo popolo ignorante, volubile e superstizioso, poteva trasformare
in eventi storici dei fatti così inverosimili»49.
A proposito dell’evento numero uno, ossia della «conquista […] di
Championnet», bisogna aggiungere che la rivoluzione napoletana del
’99 è da Dumas chiamata «la rivoluzione di Championnet», che è perfino
paragonata a quella di Masaniello rispetto alla quale mostra
«un’immensa differenza e soprattutto un immenso progresso»50.
Championnet è presentato come un semidio, eccelso campione di alta
cultura (più colto di un professore di archeologia romana), di saggia e
benevole umanità per non parlare di cortesia che è chiaramente il suo
forte. Poi ci sono le doti militari: Championnet è avveduto, previdente,
prudente, deciso e audace. Su tutte primeggiano comunque le doti
tipicamente francesi. Championnet è leale e sprezzante. Insomma la
perfezione personificata. Gli sta alla pari soltanto l’ammiraglio Nelson,
fra i mille personaggi del romanzo, alla cui memoria serba una
profonda devozione:
Gli uomini come lui sono un prodotto della civiltà universale, che i
posteri, senza far distinzione di nascita e di paese, considerano parte
della grandezza del genere umano, il quale deve circondarli di riverente
amore e ammirarli con immenso orgoglio51.
Ecco, riesce proprio difficile immaginarselo l’orgoglio dei napoletani
lettori dell’«Indipendente» per il guerriero figlio di Albione che
48 La prima “appendice” del romanzo vede la luce su «La Presse» di Parigi il
15 dicembre 1863 e l’ultima vi appare il 3 marzo 1865. Sull’«Indipendente» il romanzo
comincia a uscire nel maggio del 1864.
49 Ibidem.
50 Ivi, p. 983.
51 Ivi, p. 38.
[ 15 ]
78 francesco guardiani
gli ha impiccato Francesco Caracciolo52. A Dumas piacciono gli uomini
grandi e a Napoli, ahimé, non ne trova. Napoli «prima tappa dell’Oriente
» è per lui un posto esotico e primitivo, un serraglio di orrori
ancora non del tutto pronto a ricevere la civiltà che viene dalla Francia.
Re Ferdinando per lui è un mostro di natura. Lo descrive (senza
guardarsi allo specchio che immaginiamo veritiero almeno quanto
l’obiettivo di Nadar) come uno scimmione di «abietta lussuria e bassi
istinti», perfettamente a suo agio fra i più scomposti e volgari lazzaroni.
Se la litania di insulti fosse limitata a re Ferdinando la cosa si potrebbe
pure accettare vista la parte che gli spetta nella giusta glorificazione
della rivoluzione partenopea (rivoluzione di Championnet per
Dumas), ma lo scrittore va ben oltre nel dimostrare il suo amore per
Napoli e la cosa non poteva passare inosservata per i lettori dell’
«Indipendente»:
Ogni popolo ha avuto il suo re che ha impersonato lo spirito della nazione:
gli scozzesi Robert Bruce, gli inglesi Enrico VIII, i tedeschi Massimiliano,
i russi Ivan il Terribile, i polacchi Giovanni Sobieski, gli spagnoli
Carlo V, i francesi Enrico IV. I napoletani hanno avuto Nasone53.
Poco più avanti Dumas rincara la dose. E questa volta non c’entra
proprio re Ferdinando, si parla solo del popolo napoletano: “Un popolo
instabile, superstizioso, ignorante, feroce” (197). E ancora, ma questa
è calunnia vera e propria, mille volte ribaltata nelle pagine di Mastriani:
“Una delle caratteristiche della popolazione napoletana è la
sua ripugnanza istintiva a recare aiuto a un suo simile, anche se in
pericolo di morte”. (236)
Si potrebbe continuare con altri grotteschi esempi di retorica dumasiana.
C’è perfino un’accusa di facili costumi e bassa moralità a Napoli
a differenza delle “nostre capitali del Nord” (172). Evidentemente
Dumas non aveva letto I vermi con le sue statistiche e percentuali sulla
prostituzione nelle capitali europee. “Roba da pazzi”, avranno pensato
i napoletani gratificati da tanto amore “appassionato e fervido”. E
questo è il Dumas messaggero di civiltà, favorito da un Garibaldi aspirante
scrittore che gli apre l’archivio segreto dei Borboni, lo nomina
52 Sarà stato, come dice Croce (B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Napoli,
Bibliopolis, 1998), un atto di obbedienza militare all’ordine del governo inglese.
Ma lo stesso non può, o meglio non poteva, esserci ammirazione e orgoglio per
Nelson da parte dei napoletani. C’è anche da ricordare che su suo ordine era stata
distrutta buona parte della flotta napoletana affinché non cadesse in mano francese.
53 A. Dumas, La San Felice, cit., p. 192.
[ 16 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 79
direttore del museo di Napoli e degli scavi di Pompei e lo alloggia con
la giovane amante al casino reale di Chiatamone da dove il vate emana
i suoi oracoli di verità, saggezza e libertà. Chissà perché i napoletani,
e Mastriani fra loro, non lo capirono.
Claude Schopp, curatore della più recente edizione de La San Felice
(Parigi Gallimard, 1996) dice che il romanzo di Dumas “è un canto
alla gloria dei repubblicani francesi scritto sotto il Secondo Impero”
(Ena Marchi 1753). Certo, il romanzo può anche essere questo, ma visto
da Napoli vi si scorge una mal celata stizza e fors’anche un’infantile
vendetta di vecchio rancoroso, di parolaio ambizioso e insoddisfatto.
Sì perché i suoi insulti alla cultura di Napoli vengono quando
ha già deciso di lasciare la città che non lo vuole e quando è già rientrato
Parigi.
I tre anni passati a Napoli da Dumas portano dunque, nelle parole
del suo critico, a “un canto alla gloria dei repubblicani francesi” (1753).
E c’era bisogno di passare tre anni a Napoli per cantare questa canzone?
Portano invece, ci pare con obiettività, al riconoscimento di un
fallimento, a un’esperienza da dimenticare se ci sono voluti 192 interminabili
capitoli per una causa così scontata, anacronistica e irrilevante
negli anni Sessanta. Neanche ai napoletani piaceva il Secondo Impero,
bien entendu, e Mastriani, in particolare, aveva per esso un sentimento
misto di rabbia e disprezzo. Ma nessuna simpatia suscitava
Dumas con l’esaltazione della Prima Repubblica (se pur è giusta l’interpretazione
di Schopp) parallela a quella Partenopea.
Pare ovvio, a questo punto, che bisognava in qualche modo rispondere
alla storia napoletana del francese, se non altro per una questione
di orgoglio. E Mastriani sentì il bisogno – senz’altro per sollecitazioni
esterne, come lui stesso dichiara – di rispondere per le rime, ovvero a
romanzo storico con romanzo storico, stesso titolo e stesso tema. Il titolo
non rispecchia l’amplissimo tema di Dumas né per ovvia, ragionata
scelta, lo rispecchia in Mastriani. Il quale, cambiandolo nella seconda
edizione dimostra appunto che la prima era una risposta a Dumas.
Mastriani non voleva comunque polemizzare apertamente, aprire
una disputa letteraria, o storica addirittura con chi aveva avuto le
chiavi dell’archivio segreto borbonico e se ne era vantato. Sarebbe stata
cosa aliena alla sua personalità (peraltro sempre generosa nel giudizio
di altri scrittori), e comunque assolutamente impensabile per la
disparità delle forze, anche mediatiche (“‘L’Indipendente’ restò attivo
per vari anni dopo la partenza del suo fondatore”), e per gli appoggi
influenti. Per Mastriani si trattava piuttosto di emendare pacatamente
i giudizi negativi del francese sul popolo napoletano, Ferdinando e
[ 17 ]
80 francesco guardiani
lazzaroni compresi. Se c’è un punto nella San Felice di Dumas che deve
aver irritato Mastriani al massimo grado e sul quale egli sentì il dovere
di rettificare è una specie di maledizione che il francese lancia contro
i ‘borboniani’ di tutti i tempi: “Sappiamo che furono dei ben miserabili
alleati coloro che, in ogni epoca, difesero la causa dei Borboni”
(1154). Per Mastriani, apprezzato scrittore nella Napoli borbonica, che
per le nozze di Francesco II aveva glorificato la memoria di Carlo III
esaltando il valore autoctono della cultura napoletana, delle leggi fatte
a Napoli per i napoletani, questo era veramente troppo, era addirittura
un’offesa personale.
*
Luigia Sanfelice è forse il più storico fra i “romanzi storici”, così descritti
nel frontespizio, di Francesco Mastriani. Non solo perché la vicenda
della “madre della patria”, come fu chiamata la protagonista, è
intessuta ai fatti della Repubblica Partenopea, che “gittò il primo germe
dell’unità italiana” (Croce 12), ma anche perché in questo romanzo
Mastriani conferma, consolida e definisce il suo ruolo di scrittore come
figura pubblica con una chiara funzione sociale, una funzione eminentemente
educativa. È in questa luce che va vista la sua scrittura di
un romanzo-rettifica, con lo stesso titolo (filologicamente migliorato)
del monumentale romanzo del famosissimo Alexandre Dumas. Lo
scrittore francese, amico di Garibaldi ma mal sopportato dai napoletani,
aveva lasciato la città e il bell’alloggio al casino reale di Chiatamone
senza un briciolo della gloria che da loro s’aspettava, e anzi con un
grosso carico di rancori che affiorano senza troppo garbo ne La San
Felice. Mastriani scrivendo Luigia Sanfelice non cerca la sfida, ché sarebbe
stata cosa ingenua e velleitaria, ma una rettifica, appunto, ovvero
un chiarimento del punto di vista napoletano nei fatti della rivoluzione
del Novantanove, soprattutto in rapporto al carattere dei suoi
protagonisti, da re Ferdinando all’ultimo dei lazzari di Santa Lucia.
Luigia Sanfelice è il più storico dei romanzi di Mastriani, infine, perché
con esso si precisa uno stile, un metodo retorico di raccontare i fatti e
di rifletterci sopra. La form of fiction predominante è l’anatomia, cui si
associa quella del novel, del romanzo vero e proprio, il che vuol dire
che, stilisticamente parlando, Luigia Sanfelice corrisponde perfettamente
ai contemponei Misteri di Napoli54.
54 Per anatomia, novel e altre forms of fiction rimando al mio “Le forme del romanzo
di Francesco Mastriani” («Critica letteraria», XXV (2007), n. 134, pp. 95-113.
[ 18 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 81
Come indicato in più occasioni, ovvero in più commenti a diversi
romanzi, Mastriani preferisce la descrizione alla narrazione. Non che i
due orientamenti di scrittura non possano esistere in maniera bilanciata,
ma è un fatto che la preferenza accordata alla descrizione comporta
un particolare rilievo assegnato allo spazio (agli spazi urbani
descritti dettagliatamente, per esempio) e un certo qual disdegno per il
racconto lineare, cronologicamente organizzato, cioè per la narrazione
pura e semplice. Ho già detto altrove delle implicazione di questi due
diversi orientamenti di scrittura in ambito propriamente retorico, e
quindi delle forms of fiction di volta in volta adottate e adattate da Mastriani55.
In Luigia Sanfelice ci troviamo subito di fronte a un paio di peculiarietà
nella distribuzione del materiale narrativo. La descrizione iniziale
dei personaggi e delle situazioni nella prima parte (delle tre, a numerazione
indipendente, di cui è composto il romanzo), è circoscritta
nei vari capitoli che si presentano come entità quasi del tutto indipendenti56,
e che fanno riferimento a episodi che si incontreranno soltanto
molto più avanti nelle pagine del romanzo. Questo ci ricorda che siamo
di fronte a una dispositio’a mosaico’, comune nell’anatomy, piuttosto
che di fronte a una narrazione lineare, cronologica dei fatti. E poi
dobbiamo rilevare la quasi totale assenza della “protagonista”, ovvero
del personaggio di Luisa Sanfelice, nella prima parte, che è poi la più
lunga delle tre. Dei fatti che hanno reso famosa la nobildonna napoletana
si parla, succintamente, soltanto nella seconda parte e nella conclusione
dellaterza. Il titolo del romanzo, dunque, sembra quanto meno
inadatto; Mastriani ovviamente l’ha mantenuto come preciso richiamo
all’opera di Dumas. Il resto del romanzo, ovvero la parte
55 Faccio riferimento ancora una volta al mio “Le forme del romanzo etc.”.
56 E semplare è il caso del capitolo IX della prima parte. È la storia di Tommaso
il guardiano, che entra nel racconto soltanto perché «venuto in Napoli da pochi
anni colla moglie e una figliuola bellissima, fu raccomandato […] dal cardinale
Fabrizio Ruffo, suo compaesano» (I.90) e ammesso come guardiaboschi a San Leucio.
Ferdinando seduce la figlia di Tommaso e questi gli spara una schioppettata,
ma manca il bersaglio: «Fischia la palla agli orecchi del re e gitta in frantumi uno
specchio ch’era sull’opposta parete. […] Da che dipendono i destini de’ popoli! Se
la palla avesse toccato la tempia del re, Napoli non avrebbe forse veduto le stragi
del 99 e gli innumerevoli afforcamenti che seguirono» (I.100). Ferdinando reagisce
aizzandogli contro Mercurio, «un cane di quella razza terribile di Terranova che fa
spavento anche ai leoni» (I.99) e «poco appresso, alla breve distanza distanza d’un
tiro di schioppo, furono udite grida strazianti» (I.100). Fine del capitolo: di Luigia
Sanfelice nemmeno l’ombra.
[ 19 ]
82 francesco guardiani
quantitativamente maggiore di esso, è tutto “contesto”, al punto che
un titolo diverso, più comprensivo, del tipo “La Rivoluzione Partenopea
del 1799” sarebbe stato certamente più accurato.
Le scelte retoriche di Mastriani si spiegano sì con la sua propensione
per la descrizione (e, va aggiunto, per le digressioni che comunque
sono più che contenute rispetto a quelle chilometriche dello scrittore
francese), ma si spiegano anche con il fatto che la storia della Sanfelice
secondo la narrazione di Dumas era di dominio pubblico, il che costituiva
un punto fermo, un dato acquisito per i lettori, che occorreva
tener presente. Dice infatti Mastriani stesso nell’avviso in testa al volume:
“[…] Stimai attenermi alla dipintura degli attori principali di
quel lugubre dramma; perocché già la Sanfelice era rinata sotto la fervida
e immaginosa penna d’uno de’ più popolari romanzieri francesi,
Alessandro Dumas padre.”
La “immaginosa penna” è rispettata da Mastriani che sicuramente
conosce la vera storia della Sanfelice, nata Molina, madre di tre figli e
con un matrimonio traballante: una figura sicuramente meno eroica di
quella leggendaria descritta da Dumas57. Se al centro dell’attenzione
del narratore nel romanzo francese non c’è il personaggio della Sanfelice
(e La San Felice risulta un titolo che non corrisponde al testo) è
perché il romanzo stesso crebbe in tipografia, nel senso che non era
certamente compiuto, neanche nella mente dello scrittore, quando con
quel titolo se ne cominciò a Parigi nel 1863 la pubblicazione a puntate
su “La Presse”. La scelta del titolo di Mastriani, che cercava il confronto,
era invece obbligata. Esaurita la sua funzione di richiamo polemico,
il titolo si poteva anche cambiare e infatti nel 1876 il romanzo riappare
come Due feste al mercato. Anche in Mastriani non è centrale la figura
della Sanfelice e vistoso rilievo assumono, nel racconto, altri
personaggi; primo, fra questi, quello di Eleonora Pimentel Fonseca, di
cui Mastriani descrive con ammirazione le doti intellettuali, morali, e
il patriottismo appassionato58. E, naturalmente, si scende nei dettagli
della descrizione, non solo fisica, della coppia reale, Ferdinando e Carolina,
dei loro amori e delle loro turpitudini.
Con tono un po’ risentito lo scrittore osserva in apertura che il libro
57 Maggiori dettagli biografici della Sanfelice si trovano in Croce, “Luigia Sanfelice
e la congiura dei Baccher”, capitolo del citato La rivoluzione napoletana del
1799.
58 Le Due feste al mercato del secondo titolo del romanzo alludono alle esecuzioni
capitali, in Piazza del Mercato, della Pimentel Fonseca e della Sanfelice. Il testo
del romanzo del ’76 è identico a quello del ’70.
[ 20 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 83
non ebbe molto successo “avvegnaché importante ne fusse il subbietto”.
Il successo sperato, possiamo ipotizzare, poteva essere lo scuotere
la coscienza dei napoletani sulla propria identità storica. E ora che non
c’è più il confronto con il romanzo francese, l’opera si può associare ad
altre in cui lo stesso argomento storico è stato “a lungo” narrato, ai
Lazzari e ai Misteri di Napoli.
Delle tre parti del romanzo di Mastriani, la prima parte è occupata,
per un buon tratto, dalla figura sinistra del Cardinal Fabrizio Ruffo.
Mastriani ne tratteggia una biografia, che è poi un elenco di nefandezze,
conclusa con la ‘crociata’ del Sanfedismo. Prima e dopo di questa
fase cruciale della biografia del porporato, Mastriani presenta il Ruffo
dialogante con Eleonora Pimentel Fonseca. Le chiede amore, prima in
cambio del salvataggio politico, e poi in cambio della vita. In entrambi
i casi la donna dà la misura dell’eroismo che la porterà di lì a poco al
patibolo. La seconda parte è dedicata alla breve vita della Repubblica
Partenopea e alla fallita congiura dei “Backer”59 che diede alla Sanfelice,
per averla rivelata, prima il titolo di “madre della patria” e poi la
morte in Piazza del Mercato. La terza parte contiene il resoconto del
calvario della Sanfelice per evitare il patibolo (la falsa gravidanza sostenuta
da medici napoletani di orientamento liberale) e la macabra
fine della nobildonna.
Una miriade di personaggi spunta dalle numerose trame del racconto.
Al comparire della Pimentel Fonseca, per esempio, dopo il profilo
biografico che già offre occasione per ulteriori digressioni, Mastriani
non può fare a meno di dare una rassegna delle presenze più
illustri del suo cenacolo. E così incontriamo il grande medico Domenico
Cirillo, Gaetano Filangieri (morto prima della rivoluzione), Mario
Pagano e, naturamente, fra loro la Sanfelice. La quale è a Napoli da
tutti ammirata, in particolare da due aitanti giovani: dall’uomo cui ha
giurato eterna fedeltà, Leonida Ferri (rientrato a Napoli per far la sua
parte nella rivoluzione), e dal reazionario borbonico Gerardo Backer
impazzito addirittura d’amore per lei. Il Backer innamorato le rivelerà,
per salvarle la vita, che una congiura porterà pochi giorni dopo
alla fine della Repubblica. A questa prova d’amore del Backer per Luigia
corrisponde quella di lei per Leonida Ferri. La Sanfelice offre a lui,
all’uomo che ama, il salvacondotto datole dal Backer. Leonida Ferri
svela la congiura ai compagni repubblicani. La congiura viene bloccata
e il Backer ucciso. Poco dopo anche Leonida Ferri viene ucciso.
59 “Baccher” in Croce. “Backer” è la forma usata da Mastriani.
[ 21 ]
84 francesco guardiani
La solitudine della Sanfelice nel corso della reazione borbonica ne
acuisce il dramma. Sarà lei l’ultima rappresentante della Repubblica
ad essere giustiziata. Sarà uccisa da un boia improvvisato, “mal pratico”,
che fece scempio del suo corpo prima di decapitarlo con un coltellaccio
da beccaio: dopo averle staccato per sbaglio una spalla con la
mannaia, al grido di orrore del popolo, il macellaio chiamato a sostituire
il boia mastro occupato altrove, ricorse allo strumento a lui più familiare
per finire il lavoro. Non mancano nel romanzo altre immagini
macabre come questa. Ricordiamo che cronologicamente siamo molto
vicini ai Misteri e quindi ritroviamo nella Sanfelice molti aspetti delle
tematiche lì ampiamente rappresentate. Retoricamente parlando, è comunque
Luigia Sanfelice romanzo propriamente storico e quindi i temi
gotici, frenologici, fisiognomici e perfino morali (pensando alle non
infrequenti tirate moraleggianti in calce a descrizioni di fatti e persone)
passano in secondo piano.
Emergono invece brillanti i ritratti di Ferdinando e Maria Carolina,
di Monsú Attone (Sir John Acton), di William Hamilton e della giovane
moglie Emma, amante di Horatio Nelson e della regina. Su tutti
spicca per tratti di nobiltà la figura dell’ammiraglio Francesco Caracciolo,
fatto ignominiosamente impiccare da Nelson, il quale sarà anche
un eroe per gli inglesi e per Dumas, ma certamente non per i napoletani,
come s’e` detto sopra.
C’è poi un lungo catalogo di eroi noti e poco noti della Repubblica
Partenopea, dal generale Gabriele Manthoné a Luigi Serlio (un cieco
che volle partecipare alla battaglia per la difesa della città dall’orda
della Santa Fede). Un’intera rassegna viene poi fuori dalle figure delinquenziali
associate ai Borboni: lazzari, briganti, Fra Diavolo, Mammone,
il famoso boia Masto Donato… fino al crudelissimo menino di
Ferdinando, Gennaro Rivelli. Tutto questo comunque non deve indurci
a credere che ci siano soltanto personaggi a tutto tondo, soltanto
positivi o soltanto negativi nel romanzo. Anzi, il pensiero di Mastriani
raggiunge punte di ispirata penetrazione psicologica quando di un
personaggio del tutto perverso, com’è il Ruffo per esempio, nota notevoli
doti d’umanità e di senso di giustizia. Lo stesso re Ferdinando,
uomo volgare, pusillanime, di squallidi costumi e di vertiginosa ignoranza,
mostra a tratti lampi di intelligenza e di arguzia, e addirittura
di simpatia, soprattutto in rapporto alla irredimibile abiezione della
scelleratasua consorte Carolina d’Austria. Il caso di ambiguità più notevole
è forse quello che riguarda i lazzari che saranno pur ignoranti e
violenti, ma allo stesso tempo sono ottimi rappresentanti del generoso
e indomabile popolo partenopeo. Se è vero che si battono contro
[ 22 ]
due capitoli di storia e di letteratura di napoli e d’italia 85
Championnet, e quindi contro gli ideali patriottici e liberali, è pur vero
che si battono da eroi per la difesa della patria. Torna qui il senso della
“indipendenza nazionale” che aveva fatto grande Carlo III nell’Omaggio
sebezio60. Il brano che segue va letto in risposta alle fiorite pagine
del Dumas sulla ‘conquista’ di Napoli da parte di Championnet.
Championnet moveva intanto da Roma per Napoli con venticinquemila
uomini, con artiglierie, viveri e macchine guerresche. Quattro divisioni
componevano il suo esercito. Non lieve resistenza ebbe a superare
il generale francese non tanto dalle poche forze di terra e di mare
che accanitamente difesero i regi diritti, quanto dagli informi eserciti di
Fra Diavolo, Pronio, Salomone, Rodio e Mammone, pe’ quali grande
sgomento entrò nell’esercito francese. Ma dove si compirono fatti straordinari
ed incredibili si fu alle porte stesse della città di Napoli per
l’audace resistenza che i francesi ebbero a sperimentare da’ nostri lazzari.
È questa sì certo una delle pagine più gloriose della storia di Napoli.
Noi non guardiamo nella eroica difesa de’ lazzari napolitani che
il sentimento della indipendenza nazionale e l’odio allo straniero. Che
se in questo nobile sentimento andava pur confusa la causa della tirannide,
non è per ciò da estimarsi men glorioso il fatto e meno eroica la
difesa. Qualunque sia la causa che se ne giovi, la difesa delle patrie
zolle contro l’invasione straniera è santa, è legittima. Essa sola giustifica
e assolve quella mostruosa infamia che è la guerra. Così il popolo
non avesse trovato spesso nella corruzione delle classi elevate una viva
opposizione allo sviluppo del sentimento della indipendenza nazionale!
Napoli non avrebbe avuto a gemere per lo spazio di oltre sette secoli
sotto barbare straniere signorie. (2.5-6)
Il genio militare dello Championnet che tanto risplendeva in Dumas
contro l’incapace generale Mack a Velletri e a Civita Castellana
non sembra tanto ovvio negli scontri con i briganti in Terra di Lavoro
e, soprattutto, con in lazzari alle porte di Napoli. Quel che è evidente,
invece, è l’orgoglio napoletano del narratore che rettifica la prospettiva
degli eventi storici. I fatti sono gli stessi raccontati da Dumas, ma
‘la storia’ è molto diversa.
60 Omaggio sebezioè il titolo della pubblicazione celebrativa per le nozze del
principe ereditario del Regno delle Due Sicilie Francesco d’Assisi Maria Leopoldo
di Borbone e la principessa Maria Sofia Amalia di Baviera cui parteciparono 40
“penniferi” – cosi` chiamava gli scrittori re Ferdinado II, padre dello sposo – fra cui
Francesco Mastriani nel cui contributo era esaltata la magnanimità di Carlo III,
fondatore della dinastia. (F. Mastriani, “Ricordi storici sulla fondazione della Dinastia
Borbonica nel Reame delle Due Sicilie”, Omaggio sebezio. Napoli, s.a., ma
1859).
[ 23 ]
86 francesco guardiani
Luigia Sanfelice, infine, è certamente sia romanzo che storia ed illustra
bene lo stile, ovvero la forma ibridata di novel e anatomy in cui
eccelle Mastriani. Per quel che riguarda la veridicità dei fatti narrati
(un elemento da valutare rispetto alla vocazione didattica del romanziere)
bisogna dire che le licenze poetiche riguardano soprattutto le
vicende della Sanfelice e arrivano a Mastriani da Dumas. Non corrispondono
certamente al vero. Luigia Sanfelice, nata Molina, all’epoca
dei fatti narrati era tutt’altra cosa dalla “protagonista” del romanzo.
Era una donna di mondo, con diversi amanti, un marito, tre figli e
molti debiti. Mastriani non tradisce la verità, accetta la leggenda. Non
è su questo, come abbiamo visto, che sceglie di confrontarsi con Dumas.
In apertura d’opera, aveva del resto dichiarato di non aver intenzione
di modificare quella che ormai era divenuta la vulgata, ovvero
la leggenda della Sanfelice.
Francesco Guardiani
(Università di Toronto-Canada)
[ 24 ]
Luca Beltrami
Carlo Levi e l’edizione americana dell’Orologio.
Ricognizione su alcune carte d’archivio
Pubblicata nel 1951 dagli editori newyorkesi Farrar, Straus & Young, l’edizione
americana dell’Orologio ha avuto una gestazione complicata da numerosi problemi
di traduzione. Alcune lettere inedite spedite dall’editore John Farrar
all’autore tra il 15 marzo e il 14 maggio 1951 e conservate presso Fondo Carlo
Levi di Alassio permettono di aggiungere qualche nuovo elemento sulla storia
redazionale del libro e sui rapporti di Levi con il mondo editoriale e culturale
statunitense.

Published in New York by Farrar, Straus & Young in 1951, The Watch met with
numerous difficulties during its English translation. Unpublished letters sent
by John Farrar to the author between March 15 and May 14 1951 and kept in the
Carlo Levi Archive at Alassio add new details concerning the editorial history
of the book and Levi’s relations with US publishing and culture.
La morte sta anniscosta in ne l’orloggi;
E ggnisuno pò ddì: ddomani ancora
Sentirò bbatte er mezzogiorno d’oggi.
G.G. Belli, La golaccia, in Sonetti, 315, vv. 9-11.
Sono ormai passati più di dieci anni da quando Antonio Ricci donò
alla Biblioteca Civica “Renzo Deaglio” di Alassio un baule di carte di
Carlo Levi acquisito all’asta romana di Christie’s il 17 giugno 2004,
restaurando l’antico legame tra Levi e uno dei luoghi più significativi
della sua esperienza biografica insieme a Torino, Roma e la Lucania.
In seguito a quella data, nel 2006 si è organizzata una prima mostra
del materiale, allora temporanea e oggi permanente, intitolata Carlo
Levi ad Alassio: i libri, le carte, e si è avviato un lavoro di catalogazione
che si è concluso nel 2009 con la pubblicazione dell’inventario, mentre
alcune giornate di studio svolte nel corso degli anni hanno evidenziato
la rilevanza del fondo ligure nella geografia archivistica italiana,
che annovera, tra le altre sedi pubbliche di conservazione del materia88
luca beltrami
le leviano, il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia e l’Archivio
Centrale dello Stato di Roma1.
Rispecchiando l’eclettico impegno artistico, letterario e politico di
Carlo Levi, le carte di Alassio comprendono documenti di varia natura.
L’intreccio degli interessi dell’autore emerge con evidenza da un
gruppo di trentadue agende di anni compresi tra il 1933 e il 1974, che
costituiscono una sorta di cronaca per frammenti dell’itinerario biografico
leviano, mentre le altre sezioni documentano i viaggi del 1955
in Unione Sovietica e del 1959 in Cina, l’interesse per le regioni italiane
del Sud, l’attività giornalistica, il consistente esercizio pittorico testimoniato
da numerosi cataloghi di opere e l’impegno nelle campagne
elettorali degli anni Cinquanta e Sessanta, riservando spazio anche
a una piccola emeroteca e a lacerti di una più ampia biblioteca2.
Oltre ai documenti di corrispondenza, che più dei contatti di Carlo
Levi evidenziano la rete di rapporti intessuta da Linuccia Saba, l’archivio
ospita anche testimonianze dell’attività poetica e diverse bozze
delle opere letterarie, tra cui quelle della prima edizione einaudiana
dell’Orologio, una traduzione francese della stessa opera e la sua versione
americana, pubblicata nel 1951 dagli editori newyorkesi Farrar,
Straus e Young sull’onda del successo della traduzione di Cristo si è
fermato a Eboli, anch’essa conservata in archivio in una delle bozze3.
1 Il presente contributo rielabora la relazione orale presentata alla giornata di
studi Lions of Rome. Carlo Levi’s L’Orologio, Survival, and Copresence of Times, Institute
for Cultural Inquiry, Berlin, 12 October 2013.
Sul rapporto tra l’archivio ligure e i Fondi di Roma e Pavia si è discusso nella
giornata di studi Tra le carte di Carlo Levi, Alassio, 30 maggio 2009, ma per informazioni
più approfondite sulla geografia degli archivi leviani si rimanda a F. Contorbia
– M. Picciau, Levi, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. LXIV, pp. 752-759. Riguardo alla mostra si
rimanda invece al catalogo Carlo Levi ad Alassio: i libri, le carte, a cura di F. Contorbia
– C. Peragallo, Albenga, Bacchetta, 2006, mentre sulla Pinacoteca Carlo Levi,
sede dell’allestimento, si veda Alassio. Pinacoteca Carlo Levi. Catalogo, testi di S. Levi
Della Torre – G. Sacerdoti, schede di P. Vivarelli, Albenga, Bacchetta, 2006. I
documenti d’archivio sono invece catalogati in Carlo Levi ad Alassio: inventario delle
carte, a cura di L. Beltrami, Albenga, Bacchetta, 2009.
2 Sulla biblioteca di Levi si vedano i cataloghi Da Saba a Levi. “Frammenti di
vita”, a cura di R. Acetoso, Perugia, Quattroemme, 2012 e Dalla biblioteca di Levi e
Saba, a cura di R. Acetoso, F. Allegrucci, L.A. De Biase, Perugia, Quattroemme,
2005.
3 I riferimenti bibliografici rimandano a C. Levi, L’Orologio, Torino, Einaudi,
1950, princeps dell’opera e, per l’edizione americana, a Id., The Watch. Translated
from the Italian, New York, Farrar, Straus & Young, 1951. L’indicazione «traduit de
l’italien par Michel Brunet» sulla bozza dell’edizione francese non trova conferma
[ 2 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 89
Tra le carte “americane” dell’Orologio si trova anche un gruppo di dieci
lettere in lingua inglese inviate dall’editore John Farrar a Carlo Levi
nei mesi che precedono la stampa del libro sui problemi di traduzione4.
Composto in totale da quaranta carte di data compresa tra il 15
marzo e il 14 maggio 1951, il materiale propone le sole lettere di Farrar,
mentre sono assenti le risposte di Carlo Levi. Le carte sono dattiloscritte,
ma alcune di esse presentano aggiunte manoscritte, sottolineature
e segni di grafie diverse.
Oltre a costituire un interessante documento delle difficoltà incontrate
da Levi e dai suoi collaboratori nella realizzazione del libro, queste
lettere permettono di aggiungere ulteriori dettagli, sebbene ancora
parziali, nell’indagine sulla storia redazionale dell’Orologio e, più in
generale, sui rapporti di Levi con il mondo editoriale americano. Le
carte alassine si inseriscono infatti in un discorso più ampio, che coinvolge
anche i referenti della casa editrice Einaudi negli Stati Uniti e i
contatti interpellati in prima persona da Levi, innestandosi in un’ampia
rete archivistica che comprende, insieme all’archivio Einaudi di
Torino – nel quale è conservato materiale sulla questione spinosa dei
diritti d’autore del Cristo newyorkese e, più in generale, delle traduzioni
americane5 –, diversi documenti conservati nel fondo Farrar,
Straus & Giroux della Public Library di New York e le carte di Max
Ascoli conservate alla Boston University presso l’Howard Gotlieb Archival
Research Center6.
sui repertori, che segnalano invece l’edizione C. Levi, La Montre. Roman. Traduit de
l’italien par Jean-Claude Ibert, Paris, Gallimard, 1952. Per il Cristo “americano” si
veda Id., Christ stopped at Eboli. The story of a year. Translated from the Italian by Frances
Frenaye, New York, Farrar, Straus and Company, 1947. Gli esemplari delle bozze
conservati ad Alassio sono descritti in Carlo Levi ad Alassio: inventario delle carte,
cit., pp. 40-42.
4 I documenti di corrispondenza sono descritti in Ivi, pp. 209-212.
5 Sulla questione dei diritti del Cristo si rimanda a L. Mangoni, Pensare i libri.
La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri,
1999, pp. 459-460, a Ead., Da Cristo si è fermato a Eboli a L’Orologio: note su
Carlo Levi e la casa editrice Einaudi, in Carlo Levi. Gli anni fiorentini 1941-1945, catalogo
della mostra, Firenze, Sala Esposizioni dell’Accademia delle Arti del Disegno, 4
luglio-29 agosto 2003, a cura di P. Vivarelli, Roma, Donzelli, 2003, pp. 195-209 e
alle lettere di Cesare Pavese a Giulio Einaudi del 27 marzo e del 9 aprile 1946, in C.
Pavese, Officina Einaudi. Lettere editoriali 1940-1950, a cura di S. Savioli, introduzione
di F. Contorbia, Torino, Einaudi, 2008, pp. 222-228. Sui rapporti tra Levi e l’editore
si veda anche F. Benfante, Carlo Levi e l’editoria italiana negli anni Quaranta,
«Studi italiani», XXII (2010), 1, pp. 63-85.
6 T he New York Public Library, Manuscripts and Archives Division, Farrar,
[ 3 ]
90 luca beltrami
Prima però di affrontare il discorso sulla traduzione dell’Orologio
può forse risultare utile qualche breve appunto sull’opera e la sua cronistoria7.
Come noto, l’Orologio è ambientato nella Roma del 1945, in
un paesaggio che, ancora segnato dalla guerra, assume un aspetto ferino
e selvaggio fin dal notturno con cui si apre il romanzo8. Il protagonista
giunge nella capitale per assumere la direzione di un giornale
che nella realtà è «L’Italia libera», l’organo di informazione del Partito
d’Azione, guidato da Carlo Levi dall’agosto 1945, in sostituzione di
Alberto Cianca, fino alla notte tra il 9 e il 10 febbraio 1946 quando, al
termine del congresso nazionale, il Partito d’Azione prende atto delle
scissioni interne e tenta di riorganizzarsi dopo la caduta del governo
Parri9. Proprio il discorso del dimissionario Presidente azionista, pro-
Straus & Giroux, Inc. Records 1899-2003, boxes 203 and 632; Boston University, Howard
Gotlieb Archival Research Center, The Twentieth Century Archives, Special
Collections, Max Ascoli Papers, Second Series, Correspondence.
7 T ra gli studi che si occupano dell’opera nei suoi aspetti generali si segnalano:
L’Orologio di Carlo Levi e la crisi della Repubblica, Atti del Convegno di Roma, 9-10
giugno 1993, a cura di G. De Donato, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore,
1996; L. Sacco, L’Orologio della Repubblica. Carlo Levi e il caso Italia con 37 disegni
politici di Carlo Levi, Lecce, Argo, 1996; G. Bárberi Squarotti, L’orologio d’Italia, in
Carlo Levi: le parole sono pietre, Atti del Convegno internazionale di San Salvatore
Monferrato, 28-30 aprile 1995, a cura di G. Ioli, San Salvatore Monferrato, Edizioni
della Biennale «Piemonte e Letteratura», 1997, pp. 107-130; M. Flores, «L’Orologio
», in Il germoglio sotto la scorza. Carlo Levi vent’anni dopo, a cura di F. Vitelli,
Cava dei Tirreni, Avagliano, 1998, pp. 67-74; L. Villari, Dal meridionalismo di «Cristo
si è fermato a Eboli» all’idea di nazione e stato ne «L’Orologio», in Carlo Levi. Il tempo
e la durata in Cristo si è fermato a Eboli, a cura di G. De Donato, Roma, Edizioni
Fahrenheit 451, 1999, pp. 73-77; G. Russo, L’Orologio di Carlo Levi, prefazione a C.
Levi, L’Orologio. Strega 1951, Torino, Utet, 2007, pp. IX-XIX; G. Faleschini Lerner,
A revolution in words and images: Carlo Levi’s L’Orologio, in Creative interventions: the
role of the intellectual in contemporary Italy, edited by E. Bolongaro, M. Epstein, R.
Gagliano, Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, 2009, pp. 63-91; Ead.,
Carlo Levi’s visual poetics. The Painter as the Writer, New York, Palgrave Mac Millan,
2012, pp. 53-83.
8 Sul paesaggio romano descritto da Carlo Levi si vedano G. De Luna, L’Orologio
di Carlo Levi e l’Italia del dopoguerra, in L’Orologio di Carlo Levi e la crisi della
Repubblica, cit., pp. 33-45; Roma fuggitiva. Una città e i suoi dintorni, introduzione di
G. Ferroni, a cura di G. De Donato, Roma, Donzelli, 2002; N. Longo, Quando le
pietre diventano parole. Roma raccontata da Carlo Levi, «Studi romani», L (2002), 3-4,
pp. 334-363; P. Mauri, Carlo Levi e Roma, in The Voices of Carlo Levi, edited by J. Farrell,
Bern, Peter Lang, 2007, pp. 43-48. Per la pittura a soggetto romano si rimanda
a Carlo Levi e Roma. Il respiro della città, a cura di D. Fonti, mostra di Roma, Musei
di Villa Torlonia – Casino dei Principi, 27 febbraio-15 giugno 2008, Roma, Palombi
Editore, 2008.
9 Sull’esperienza giornalistica di Carlo Levi negli anni 1944-1946 si rimanda a
[ 4 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 91
nunciato al Viminale la sera del 24 novembre 1945, è uno dei passaggi
salienti dell’Orologio, che appunto racconta il tramonto degli ideali
della Resistenza e l’innesco di quel processo di riassestamento politico
che avrebbe portato la Democrazia cristiana al governo negli anni della
prima Repubblica. La parabola discendente del Partito d’Azione,
riassunta nell’analisi politica che Levi fa pronunciare ad Andrea Valenti/
Leo Valiani all’imbocco del Traforo («Eravamo partiti che volevamo
la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione
in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo,
e poi di non esserne cacciati»10), si conclude nell’ottobre 1947 con la
confluenza di parte degli azionisti nel Partito socialista, quando ormai,
rafforzata la leadership democristiana con le elezioni dell’aprile
1948, sembra chiaro che in Italia prevalga la volontà di «impedire che
qualcosa di nuovo avvenga» e si affermi l’ideologia dei funzionari ministeriali
raccontata nel libro da Ferrari, secondo i quali «con i preti, si
starà meglio»11.
Il periodo di composizione dell’Orologio si colloca pochi anni dopo
La strana idea di battersi per la libertà. Dai giornali della Liberazione (1944-1946), a cura
di F. Benfante, Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, 2005, pp. 185-275
per gli articoli sull’«L’Italia libera» (ma è interessante anche l’articolo Firenze libera,
pubblicato l’11 agosto 1945 sulla «Nazione del Popolo» per il nucleo narrativo iniziale
in seguito rielaborato nell’Orologio, pp. 151-157); Il dovere dei tempi. Prose politiche
e civili, a cura di L. Montevecchi, introduzione di N. Tranfaglia, con un
ritratto biografico di Carlo Levi a cura di G. De Donato, Roma, Donzelli, 2004, pp.
91-114; C. Geddes da Filicaia, Carlo Levi giornalista nella trasposizione romanzesca
dell’«Orologio», in Scrittori e giornalismo. Sondaggi sul Novecento letterario italiano, a
cura di M. Dondero, Macerata, Eum, 2007, pp. 97-109. Il congresso del Partito
d’Azione si tenne a Roma tra il 4 e l’8 febbraio 1946, successivamente Levi si congedò
dall’«Italia libera» e nelle elezioni per l’Assemblea Costituente di quella primavera
si presentò nelle liste di Alleanza Repubblicana insieme a Guido Dorso e
Tommaso Fiore raccogliendo appena 252 voti nella circoscrizione di Potenza-Matera
(L. Sacco, L’Orologio della Repubblica, cit., pp. 107-119; G. Amendola, I duecento
voti del candidato Carlo Levi, «l’Unità», 4 marzo 1979, p. 3).
10 C. Levi, L’Orologio, Torino, Einaudi, 1989, p. 159. Tutte le citazioni dal libro
sono tratte da questa edizione.
11 Ivi, p. 95. La maschera di Ferrari nasconde forse l’identità di Augusto Frassineti,
collaboratore del ministro Lussu nel governo Parri e autore dei Contributi allo
studio della ministerialità, pubblicati sull’«Italia Socialista» dopo il 18 aprile 1948 e
più tardi nel volume Misteri dei Ministeri, Parma, Guanda, 1952. Sull’identificazione
dei personaggi del libro si vedano M. Rossi Doria, La crisi del governo Parri nel
racconto di Carlo Levi, in L’Orologio di Carlo Levi e la crisi della Repubblica, cit., pp.
181-191; L. Sacco, L’Orologio della Repubblica, cit., passim; G. Russo, L’Orologio di
Carlo Levi, cit., p. XII; Id., Carlo Levi segreto, Milano, B.C. Dalai Editore, 2011, pp.
81-90.
[ 5 ]
92 luca beltrami
i fatti narrati, tra il 1947 e il 1949. In quell’arco cronologico l’impegno
politico e artistico di Levi si realizza anche attraverso i disegni pubblicati
sull’«Italia Socialista» di Aldo Garosci, che ironizzano sul paternalismo
dei partiti democratici, sul trasformismo, sul connubio tra destra
e Democrazia cristiana per il governo del comune di Roma,
sull’indecisione dei dirigenti socialisti e sulla discutibile strategia del
Fronte democratico popolare nelle elezioni del 1948, mentre in altri
casi il soggetto coincide con quello dell’Orologio, come nella vignetta I
due veri partiti in lotta: Contadini e Luigini, che raffigura la classe parassitaria
dei luigini sulle spalle di contadini e operai, i soli costretti a lavorare
per l’intera società12.
Lo stesso tono tagliente e satirico si trova nella corrispondenza privata.
La lettera inviata a Max Ascoli il primo giugno 1948 e ritrovata
da Sandro Gerbi tra le carte di Boston, è un esempio di lucida analisi
di una realtà post-elettorale in cui «tutti zoppicano tranne i preti»: essi
hanno infatti capito che «l’Italia è un paese fatto a strati, dove coesistono
i tempi più diversi», dove perciò il linguaggio antico della religione
può sposarsi con quello moderno della politica e dove i discorsi sui
«miracoli della Madonna» possono sovrapporsi a quelli sulle «elezioni
del 18 aprile»13; ma è anche evidente come il codice comunicativo
della corrispondenza privata permetta a Levi libertà che non può concedersi
nella prosa misurata dell’Orologio o negli articoli come quello
pubblicato sulla rivista «Commentary» nel marzo 1949 e dedicato alla
convivenza tra «peasant» e «city man», cioè – ancora una volta – tra il
contadino e il luigino14.
Nel frattempo, da quanto risulta nel carteggio con Linuccia Saba
pubblicato in Carissimo Puck, la stesura dell’Orologio procede rapidamente:
già nel giugno 1948 Linuccia esprime un apprezzamento sul
nuovo libro, mentre in ottobre Carlo comunica di avere ripreso a scrivere
dopo un periodo di pausa, ma di avere molti dubbi sull’esito di
un lavoro che teme «sia noiosissimo»15. La composizione avanza rapi-
12 Sui disegni di satira politica si veda Contadini e luigini, testi e disegni di Carlo
Levi, a cura di L. Sacco, Matera, Basilicata Editrice, 1975, pp. 91-92 per il disegno I
due veri partiti in lotta: Contadini e Luigini. Per la biografia di Levi in questi anni si
rimanda a G. De Donato – S. D’Amaro, Un torinese del sud: Carlo Levi. Una biografia,
Milano, Baldini & Castoldi, 2001, pp. 170-207; G. Sirovich, L’azione politica di
Carlo Levi, prefazione di C. Vallauri, Roma, Il Ventaglio, 1988, pp. 83-97.
13 S. Gerbi, Lettere dal dopoguerra, «Corriere della Sera», 19 maggio 1993, p. 29.
14 C. Levi, The rebirth of the Italian people, «Commentary», marzo 1949, pp. 232-
238.
15 C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck. Lettere d’amore e di vita (1945-1969), a cura
[ 6 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 93
da nei mesi successivi (lettera di Linuccia del 20 marzo 1949: «Hai
scritto ancora il tuo bell’Orologio? Io più ci penso e più mi piace»16),
tanto che nel settembre 1949 Levi è già in fase di rilettura e correzione17.
L’incontro con Giulio Einaudi del 27 ottobre 1949 può quindi avviare
la trattativa per il contratto18, anche se le incertezze sulla versione
definitiva sono ancora molte. Infatti, durante un viaggio a Napoli
in quello stesso ottobre, Levi tiene ancora aperta la questione del finale,
pur mostrando la già chiara intenzione di non fare dell’Orologio un
semplice racconto (neo)realistico, ma un romanzo a più livelli, in cui
– come ha notato Bárberi Squarotti – «tutti sono invitati a entrare per
“fantasticare”»19:
Napoli è sempre una città straordinaria: ho ripercorso la strada che
dovrò descrivere nella parte finale dell’Orologio: Porta Capuana, con le
due torri aragonesi che si chiamano Onore e Virtù, e la Via dei Tribunali,
che è come l’intestino della balena20. Ho pensato che potrei fare che
l’Orologio mi era stato regalato non dal Padre, ma da uno zio o nonno
o amico di famiglia considerato come un padre: che questo vecchio mi
chiama a Napoli perché malato, che quando arrivo di notte, telefono, e
pare stia bene, e vado in giro l’indomani mattina vedendo la donna
segreta di Porta Capuana, “volete fantasticare”? ecc. – ma che quando
arrivo alla casa del vecchio, lo trovo morto – e l’Orologio finisce e mi ha
lasciato per ricordo un altro orologio. Che te ne pare? Quale delle due
varianti preferisci? Questa è più classica, l’altra più vaga, finisce al
“Volete fantasticare?”21
Una volta perfezionata anche la parte conclusiva, Levi invia il dattiloscritto
a Giulio Einaudi, che subito considera l’Orologio il necessario
«anti-veleno per i lettori della Pelle» di Curzio Malaparte22, mentre
pochi giorni dopo firma il saggio Il contadino e l’orologio su temi affini
di S. D’Amaro, Roma, Mancosu, 1994, lettera 33, pp. 69-71, ma anche lettera 39, p.
78 e lettera 41, pp. 80-81.
16 Ivi, lettera 52, pp. 92-93.
17 Ivi, lettera 57, p. 99; lettera 63, pp. 106-107; lettera 70, pp. 113-114.
18 Ivi, lettera 86, pp. 129-130.
19 G. Bárberi Squarotti, L’orologio d’Italia, cit., p. 129. Aveva già osservato il
policentrismo dell’opera leviana, in cui «ogni capitolo è una scatola che ne contiene
cento altre», la recensione di F. Fortini, La morte sta anniscosta in ne l’orloggi,
«Comunità», IV (maggio-giugno 1950), 8, pp. 64-65.
20 Sulla Napoli «stomaco di un grande pesce» si veda G. Tesio, L’Orologio di
Carlo Levi tra Giona e Narciso, in The Voices of Carlo Levi, cit., pp. 57-66.
21 C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 90, p. 134.
22 Dalla lettera del 9 marzo 1950 citata in L. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 699.
[ 7 ]
94 luca beltrami
al volume23. Il 15 maggio 1950 il libro esce dalla tipografia e – come
ricorda ancora Einaudi – si allestiscono per il lancio pubblicitario numerose
«vetrine di librai colme di orologi, grandi, piccoli, sveglie, orologi
a pendolo ecc.», tanto che a Torino «il libraio Paravia ha messo un
grosso gufo in vetrina»24. Il soggetto richiama il gufo della sopracoperta,
protagonista anche della poesia già stampata sul «Ponte» del marzo
1949 e nuovamente nel 1950 su «Botteghe Oscure», nella raccolta
che rielabora in versi il complesso intreccio politico, sociale, biografico
e psicoanalitico su cui si reggono le «vicende giustapposte e senza
storia» del libro25.
Apprezzato da Umberto Saba, che però lamenta il rischio di non
essere riconosciuto nel «poeta illustre» in visita al giornale26, l’Orologio
23 C. Levi, Il contadino e l’orologio, «Quaderni Aci», II (1950), pp. 53-71, poi in
Prima e dopo le parole. Scritti e discorsi sulla letteratura, a cura di G. De Donato – R.
Galvagno, Roma, Donzelli, 2001, pp. 17-35. Lo scritto reca la data del 31 marzo
1950. È invece di circa un anno posteriore la conferenza intitolata L’arte luigina e
l’arte contadina, poi raccolta in Coraggio dei miti. Scritti contemporanei, 1922-1974, a
cura di G. De Donato, Bari, De Donato, 1975, pp. 61-70, e in Prima e dopo le parole,
cit., pp. 37-50.
24 Si vedano S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Roma-Napoli, Theoria,
1991, p. 93 per la prima citazione, C. Levi -L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 115,
p. 160 per la seconda. Nell’archivio di Alassio si conserva un esemplare della princeps
con dedica autografa a Linuccia Saba, datata 25 maggio 1950.
25 La poesia Il gufo esce singolarmente sul «Ponte», V, 3, marzo 1949, p. 237 e
poi, con le altre Poesie dell’Orologio, «Botteghe Oscure», V (1950), pp. 9-14. I componimenti
sono raccolti anche in C. Levi, Poesie, a cura di S. Ghiazza, prefazione di
G. Sacerdoti, Roma, Donzelli, 2008, pp. 280-285 e in C. Levi, Versi, a cura di S.
Ghiazza, Bari, Wip Edizioni, 2009, pp. 126-137. La poesia Il gufo è proposta anche
in Le ragioni dei topi. Storie di animali, a cura di G. De Donato, introduzione di F.
Cassano, postfazione e bestiario leviano di G. Sacerdoti, Roma, Donzelli, 2004,
p. 3. Risulta particolarmente significativa la poesia d’esordio della raccolta, vero e
proprio «indice» delle vicende raccontate nel volume: «Ruggito dei leoni nella notte
/ del profondo del tempo alla memoria, / gufi, Madonne, simboli, interrotte /
vicende giustapposte e senza storia, // selve di case, uccelli, rami, grotte, / corti
dei topi e di disfatta gloria, / ed occhi, e voci, e gesti, ed oro, e scoria, / verde ritorno
delle età corrotte, / briganti al bosco, serpi alla mammella, / re veri e finti, ministri
e pezzenti, / contadini alla vanga e vermi in sella, / compianto antico e funerario
elogio, / coraggio, e fame, e uomini pazienti, / e Roma, e Italia: questo è
l’Orologio». Per l’interpretazione di queste poesie si rimanda a N. Longo, Le poesie
dell’Orologio, in Intertestualità leviane, Atti del Convegno Internazionale, Bari, Matera,
Aliano, 5-7 novembre 2009, Bari, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, 2011,
pp. 44-72.
26 C. Levi, L’Orologio, cit., p. 192. Il giudizio di Saba è riportato in C. Levi – L.
Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 106, p. 151: «Papà ha purtroppo rapidamente finito
l’Orologio e ne è entusiasta e ne dice tutto il bene possibile (soprattutto la parte
[ 8 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 95
viene accolto con parecchie riserve dalla critica. Non è questa l’occasione
per tornare sui giudizi militanti di Alicata e Muscetta27, che reagiscono
all’individuazione da parte di Levi della responsabilità politica
del Partito Comunista nella restaurazione dei vecchi poteri e all’accusa
di astrazione ideologica mossa ai marxisti, assimilati nel libro a
«preti di una religione misteriosa»28, rifiutando, nel caso di Alicata,
come «qualunquisticheggiante e anarcoide» l’interpretazione leviana
della Resistenza come «rivoluzione fallita» e formulando, nel caso di
Muscetta, un sottile giudizio non privo di acute osservazioni letterarie,
pur viziato dalla differente posizione ideologica.
Nonostante il pregiudizio politico che lo stesso Muscetta negli anni
Novanta non esiterà a riconoscere con l’ammissione del «donchisciottismo
» del suo alter-ego Moneta29, il critico si sofferma anche sugli
aspetti estetici del «decadentismo» e del «populismo» leviani. Oltre
alla reticenza sul sogno che avvia il racconto e a un sostanziale rifiuto
di certi temi “metafisici” della prosa leviana, nella recensione all’Orologio
viene infatti biasimata la «poetica decadentistica» e priva di fiducia
per il futuro, mentre non si salva dall’accusa di barocchismo la
galleria di ritratti del popolino di Roma, «paradiso picaresco» contenente
«la leggenda della Resistenza che muore nel qualunquismo». È
insomma un giudizio che conferma quello sulla prosa «splendidamente
anacronistica» del Cristo e che nella definizione dell’Orologio
come «autobiografia leggendaria» recupera come provocazione il motivo
del narcisismo di «Carlo Eboli», che tanto aveva divertito Pavese
e che nasconde anche un indirizzo di poetica, aprendo alla sovrappo-
Roma, strano, no?) ha anche scritto una bella piccola critica a Einaudi ringraziandolo
dell’invio del libro. […] È un po’ desolato perché non hai mai messo il suo
nome – ha paura di non essere riconosciuto – e per i capelli rossi (“Perché non ha
detto calvo?”). Più di ogni cosa gli piace l’episodio Anna Maria, il brigante e la
Gina e il Pino, e come sai scrivere e la tua bontà».
27 C. Muscetta, Nella leggenda dell’«Orologio» è descritta la parabola di Levi, «l’Unità
», 16 giugno 1950, p. 3, poi in Id., Letteratura militante, Firenze, Parenti, 1953,
pp. 102-108 e in Id., Realismo neorealismo controrealismo, Roma, Lucarini, 1990, pp.
67-73 (le citazioni sono tratte da quest’ultima edizione); M. Alicata, «L’orologio» di
Carlo Levi, in Id., Scritti letterari, introduzione di N. Sapegno, Milano, Il Saggiatore,
1968, pp. 260-265, in cui si ristampa l’articolo già apparso su «Rinascita», VII, 6,
giugno 1950, pp. 333-334.
28 C. Levi, L’Orologio, cit., p. 163.
29 C. Muscetta, La splendida prosa anacronistica di Carlo Levi, in L’Orologio di
Carlo Levi e la crisi della Repubblica, cit., pp. 119-121. Sul giudizio di Muscetta riguardo
alle opere leviane si veda R. Galvagno, Carlo Muscetta “leggenda e verità di Carlo
Levi”, «Sinestesie», II (2004), 2, pp. 74-82.
[ 9 ]
96 luca beltrami
sizione di Levi a un «eroe di Stendhal»30. Del resto, rileggendo ciò che
più tardi Levi scrive di Stendhal nella Prefazione al Viaggio in Italia, non
solo il paragone con il Cristo, ma anche quello con le storie «interrotte»
e «giustapposte» dell’Orologio non pare troppo azzardato, ma anzi autorizzato
dallo stesso Levi, il quale, suggerendo quasi una sovrapposizione
tra sé e Stendhal, sostiene che l’autore francese «ha capito, forse
per primo, il valore poetico del casuale, del particolare, dell’interrotto
e parziale e istantaneo, nella contemporanea totalità di una immagine
»31.
La ridda di recensioni (tra le altre quelle di Petroni, Pancrazi, Russo,
Bassani, Cecchi32) decreta una sostanziale bocciatura del nuovo libro,
ma chi per primo fa infuriare Levi è Antonicelli, che pubblica il
suo pezzo sulla «Stampa» anticipando di alcuni giorni l’uscita del volume33.
Il critico, che riconosce l’efficacia delle descrizioni del popolo
e del paesaggio romano, ma inevitabilmente registra un gap rispetto al
precedente del Cristo, compila una recensione che Levi giudica «negativa
e stupida»: «egli ha avuto una terribile fretta, per essere il primo a
parlarne; e non ha capito niente»34. Le riserve dei critici letterari, ma
30 Per la recensione al Cristo si veda C. Muscetta, Carlo Levi in Lucania, «Fiera
Letteraria», 14 novembre 1946, pp. 1-2, poi in Id., Letteratura militante, cit., pp. 94-
102 e in Id., Realismo neorealismo controrealismo, cit., pp. 58-67; per il giudizio di
Pavese si rimanda a C. Pavese, Officina Einaudi, cit., lettera del 18 novembre 1946,
p. 249: «Non posso far che non ti scriva due righe sul tuo Carlo Eboli della “Fiera
Letteraria”. Sei grande. Abbiamo ancora mal di pancia. Se ne fece qui pubblica
lettura, come delle orazioni di chi ha ben meritato dalla patria».
31 C. Levi, Prefazione, in Stendhal, Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da
Milano a Reggio Calabria, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. V.
32 Si vedano, tra gli altri, G. Petroni, Tempo e non tempo nell’Orologio di Levi, «La
Fiera Letteraria», 18 giugno 1950, pp. 1-2; P. Pancrazi, I due orologi, «Il Nuovo Corriere
della Sera», 18 luglio 1950, p. 3; L. Russo, «Belfagor», V, 4, luglio 1950, pp.
491-492; G. Bassani, Levi e la crisi, «Paragone letteraura», 8, agosto 1950, pp. 32-40;
E. Cecchi, «L’Orologio» di Carlo Levi, «L’Europeo», 11 giugno 1950, poi in Id., Di
giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Milano, Garzanti,
1954, pp. 184-188 e in Storia della letteratura italiana, direttori E. Cecchi – N.
Sapegno, vol. IX, Il Novecento, Milano, Garzanti, 1976, pp. 626-627; ma per una rassegna
più ampia si rimanda a G. De Donato, Saggio su Carlo Levi, Bari, De Donato,
1974, pp. 215-237; L. Sacco, L’Orologio della Repubblica, cit., pp. 7-21; G. De Donato
– S. D’Amaro, Un torinese del sud, cit., pp. 199-207. Per un giudizio di Levi sulle recensioni
ricevute si veda C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 115, p. 160.
33 F. Antonicelli, «L’Orologio» di Carlo Levi, «La nuova Stampa», 6 maggio
1950, p. 3.
34 C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 104, p. 148, ma si vedano anche
le lettere 105, p. 149 e 107, p. 151.
[ 10 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 97
soprattutto l’aperta ostilità dei «luigini comunisti»35, impediscono
inoltre a Levi di vincere il Viareggio, che viene diviso tra Francesco
Jovine e Carlo Bernari:
Ho sentito ora alla radio il Premio Viareggio. Per fortuna non me ne
hanno dato un pezzo, e mi hanno evitato la noia di un rifiuto. Vedo sul
giornale della sera che la Giuria avrebbe preliminarmente stabilito che
quest’anno “Nessun libro meritava l’intero premio”: questo mi pare
veramente un po’ forte36.
Nella stessa lettera del 15 agosto 1950 Levi fa cenno al progetto di
traduzione americana del libro e confida di avere ricevuto «lettere d’amore
di Farrar e Straus che, letta la traduzione, trovano il libro meraviglioso,
e hanno urgenza di stampare»37. L’autore stava da tempo
valutando alcune proposte di editori americani e si era rivolto a diversi
amici per la traduzione in inglese. Il principale interlocutore è Max
Ascoli, ferrarese di origine ebraica, in esilio negli Stati Uniti dal 1931
grazie a una borsa della Fondazione Rockfeller e dal 1949 direttore del
quindicinale politico «The Reporter»38. Giunto a New York dopo anni
di impegno antifascista nei quali aveva aderito a «Giustizia e Libertà»
e condotta un’intensa attività pubblicistica, e avendo pregiudicato
una promettente carriera universitaria come docente di Filosofia del
diritto a causa del suo rifiuto di iscriversi all’Associazione Nazionale
dei Professori Universitari Fascisti, Ascoli aveva continuato a diffondere
le sue idee libertarie e democratiche, condannando sia il fascismo,
sia il comunismo. Ben inserito negli ambienti governativi statunitensi,
dal 1947 aveva sostenuto iniziative filantropiche a favore
dell’artigianato italiano e non aveva smesso di interessarsi alle vicen-
35 Ivi, lettera 123, p. 167.
36 Ivi, lettera 127, p. 171.
37 Ibidem.
38 Sulla biografia dell’intellettuale si vedano Max Ascoli. Antifascista intellettuale,
giornalista, a cura di R. Camurri, Milano, Franco Angeli, 2012; A. Taiuti, Contro
il dominio. Lavoro e libertà nel pensiero politico di Max Ascoli, Firenze, Centro editoriale
toscano, 2011; Ead., Un antifascista dimenticato: Max Ascoli fra socialismo e liberalismo.
Con lettere inedite, Firenze, Polistampa, 2007; Ead., La “rimessa a foco” dell’Italia.
Il carteggio tra Max Ascoli e Carlo Ludovico Ragghianti (1945-1957), «Nuova Antologia
», 2237 (2006), 1, pp. 5-45 e 2238 (2006), 2, pp. 5-42. Per i rapporti tra Ascoli e
Levi: S. Gerbi, Max Ascoli e Carlo Levi. Il burbero e l’olimpico, «Belfagor», LI (1996), 1,
pp. 43-53, mentre su «The Reporter» si rimanda a E. Van Cassel, «The Reporter»
(1949-1968): il lascito americano di Max Ascoli, in Max Ascoli. Antifascista intellettuale,
giornalista, cit., pp. 228-248.
[ 11 ]
98 luca beltrami
de italiane. Convinto assertore del ruolo di guida che gli Stati Uniti
avrebbero potuto assumere nei confronti delle indebolite democrazie
europee, attraverso le pagine del «Reporter» Ascoli aveva contribuito
a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla politica italiana, riguardo alla
quale era informato dai carteggi con diversi intellettuali che, come
Carlo Ludovico Ragghianti e appunto Levi, erano stati testimoni della
dissoluzione delle speranze azioniste e dell’affermazione della politica
conservatrice democristiana39.
Riguardo ai contatti con Levi in merito all’Orologio, tra le carte
dell’Università di Boston si conservano alcuni documenti di corrispondenza
di data compresa tra il 1945 e il 1960. In varie lettere del
1950 Levi chiede consigli sulla traduzione, invia un dattiloscritto
dell’opera e riflette sulla possibile ricezione del libro da parte del pubblico
americano. Sollecitato dall’amico, Ascoli esprime alcune riserve
sulla competenza dei lettori riguardo alla situazione politica italiana,
cosicché Levi ipotizza di scrivere una pagina introduttiva che possa
orientare la platea straniera, ma più tardi abbandona l’idea40. In altre
lettere Levi formula giudizi sulla politica italiana del tempo e sulle
amicizie comuni, mentre Ascoli avanza richieste di collaborazione al
«Reporter», da poco fondato. Il 9 marzo 1950 Levi promette di inviare
qualche scritto e suggerisce alcuni nomi di possibili corrispondenti,
tra i quali Silone, Moravia, Brancati, Saba, Cancogni e Rossi-Doria41.
39 A questo proposito si leggano i lucidi ragguagli sulla situazione politica italiana
negli anni 1946-1948 di Ragghianti ad Ascoli pubblicati in A. Taiuti, La “rimessa
a foco” dell’Italia, cit., passim, in cui l’interlocutore di Ascoli traccia il quadro
di una situazione in cui «la ripresa fascista, all’ombra delle forze conservatrici, è
un fatto» dovuto alle ingerenze della «politica conservatrice anglosassone» e all’
«interferenza della politica interna degli Stati Uniti che ha favorito il cattolicesimo
e la politica clericale romana», a cui si aggiunge – secondariamente – la responsabilità
dei partiti italiani, compreso quello azionista, incapace di sostenere con
forza l’iniziativa democratica. Anche altri temi affrontati da Ragghianti, quali la
mancata epurazione della classe dirigente conseguente all’occupazione alleata che
«ha impedito che si compiesse il processo di rinnovamento» o l’insofferenza verso
il «nuovo sforzo di dominazione» che il Vaticano sta compiendo «dietro la D.C.»,
sono del resto condivisi da Levi nelle lettere ad Ascoli descritte in S. Gerbi, Lettere
dal dopoguerra, cit., p. 3 e traspaiono anche dai suoi articoli giornalistici di quegli
anni.
40 Per un riassunto dei contenuti delle carte si rimanda a Ibidem e Id., Max
Ascoli e Carlo Levi. Il burbero e l’olimpico, cit., pp. 43-53.
41 U no stralcio della lettera è pubblicato in Ivi, pp. 46-47. Tra i nomi citati, quello
di Silone compare come autore dell’articolo Italy: Silone on “Lice” and Patriots,
«The Reporter», 17 aprile 1951, pp. 23-24.
[ 12 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 99
Nel quadro della crescente influenza americana nelle questioni internazionali,
l’attenzione degli intellettuali d’oltreoceano verso la politica
e la società italiane, come già avevano dimostrato le copertine
del «Time» dedicate prima a Togliatti e poi a De Gasperi, non sorprende42.
Annoverando tra i propri collaboratori esponenti di spicco
dell’intellighenzia politica e culturale americana, la rivista diretta da
Ascoli presta particolare ascolto alle voci provenienti dall’Italia e, più
in generale, si dimostra capace di influenzare la politica governativa e
l’opinione pubblica statunitense in un periodo che avvia la lunga stagione
della Guerra fredda. Non stupisce quindi che in due momenti
diversi, ma entrambi compresi tra la pubblicazione italiana e americana
dell’Orologio, il «Reporter» fornisca due anticipazioni in lingua inglese
dell’opera. La prima, pubblicata il 15 agosto 1950 con il titolo An
afternoon in a Roman slum, propone l’episodio della Garbatella, mentre
la seconda, dal titolo Contadini and Luigini, viene stampata il 26 giugno
1951 in occasione dell’uscita dell’Orologio americano, e riporta con
qualche espunzione il discorso del Traforo, in cui Levi espone la sua
teoria sui Contadini e sui Luigini43. Non è invece trascritto il discorso
di Andrea Valenti che esprime la delusione per la mancata svolta democratica
del dopoguerra e il ritorno al potere dei conservatori, certificato
dalla rinascita dei «vecchi partiti» e da quello che colui che Levi
cela dietro la maschera di Valenti, Leo Valiani, definisce come «l’avvento
di De Gasperi»44. Questa situazione costituisce il fondamento da
cui si sviluppa la politica italiana degli anni successivi e sembra essere
anche l’implicito punto di partenza da cui muove l’analisi di Leo J.
Wollemborg, che firma un articolo sulla società italiana nelle pagine
seguenti lo stralcio dell’Orologio. Quello di Wollemborg è un dettagliato
ragguaglio sulla complessa situazione interna che la Democrazia
cristiana – il partito che si era collocato alla guida della nuova stagione
politica – doveva affrontare nei primi anni Cinquanta. Avvertendo il
«logoramento» di un movimento diviso tra il centro degasperiano, l’a-
42 Si vedano le copertine su Togliatti del 5 maggio 1947 e su De Gasperi del 19
aprile 1948.
43 C. Levi, An afternoon in a Roman slum, «The Reporter», 15 agosto 1950, pp.
18-21; Id., Contadini and Luigini, «The Reporter», 26 giugno 1951, pp. 11-13. Un
terzo articolo di Levi, 4000 Majors of New York, viene proposto in inglese sul «Reporter
», 13 novembre 1951, pp. 31-36, ed è stampato nella versione italiana, intitolata
Gente delle Madonie, «L’Illustrazione italiana», LXXVIII, 11 (4007), novembre
1951, pp. 38-46, 78 e 94 e in Id., Le parole sono pietre, Torino, Einaudi, 1955, pp. 35-65.
44 L. Valiani, L’avvento di De Gasperi. Tre anni di politica italiana, Torino, Francesco
De Silva, 1949.
[ 13 ]
100 luca beltrami
la clericale di Gonnella e quella di sinistra di Gronchi e Fanfani, come
già scriveva Ragghianti ad Ascoli nel novembre 194845, Wollemborg
avanza dubbi sulla tenuta di quello che ora appare come un «rainbow
party», un partito “arcobaleno” caratterizzato da «an uneasy coalition
within a coalition» che rischia di indebolire, se non paralizzare, la manovra
di governo46.
Nel periodo compreso tra le due anticipazioni fornite dal «Reporter
», Levi deve però risolvere i numerosi intoppi della traduzione nel
frattempo affidata a Frances Frenaye per le edizioni dei newyorkesi
Farrar, Straus & Young. Nel 1946 la traduttrice proposta da Farrar era
già stata preferita ai candidati di Max Ascoli e degli agenti Einaudi a
New York per la traduzione di Cristo si è fermato a Eboli, e anche grazie
al suo contributo il libro si era rivelato uno dei best seller dell’anno
194747. Lo stesso Levi aveva apprezzato il lavoro di Frances, giudicando
la traduzione «accurata, e corrispondente al testo italiano sia nel
senso che nel ritmo della frase»48, sebbene fosse stato necessario qualche
intervento correttivo, di cui recano traccia anche le bozze del Cristo
americano conservate ad Alassio. Le carte, di data compresa tra il
30 novembre e il 7 dicembre 1946, propongono infatti correzioni di
diversa mano, che però non vengono tenute in considerazione nella
stesura finale dell’opera. La mancata revisione delle bozze non pregiudica
tuttavia il successo del Cristo, elogiato dai più importanti reviewers
di giornali americani, tra cui Paolo Milano sulle colonne del
«New York Times Book Review»49. Così, durante il viaggio negli Stati
45 A. Taiuti, La “rimessa a foco” dell’Italia, cit., p. 34.
46 L.J. Wollemborg, Italy: the Christian Democrats, «The Reporter», 26 giugno
1951, pp. 14-16.
47 Per ulteriori dettagli sulla traduzione americana del Cristo si rimanda a P.
Guida, La traduzione americana del Cristo si è fermato a Eboli, in Cristo si è fermato
a Eboli di Carlo Levi, Atti del Seminario annuale MOD, Lecce, 14-15 febbraio 2013,
in corso di stampa; C. Ó Cuilleanáin, Christ stopped at Eboli: fortunes of an American
translation, in The Voices of Carlo Levi, cit., pp. 175-208, che riporta uno stralcio
della lettera di John Farrar a Max Ascoli del 17 aprile 1946: «We have seen the first
part of the translation and it is going to be excellent». Su Frances Frenaye si veda
L. Venuti, Gli scandali della traduzione. Per un’etica della differenza, traduzione di A.
Crea, R. Fabbri, S. Sanviti, Rimini, Guaraldi, 2005, pp. 182-183.
48 U na parte della lettera è pubblicata in C. Ó Cuilleanáin, Christ stopped at
Eboli, cit., p. 199.
49 P. Milano, Primitives, by-passed by history. A vivid canvas of Italy’s “Deep
South” and the earth-wise folk who dwell there, «The New York Times Book Review»,
20 aprile 1947; ma si vedano anche, tra le altre, L. Grant White, Beyond Civiliza-
[ 14 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 101
Uniti della primavera 1947, Levi può compiacersi dell’attenzione della
stampa nei confronti del suo libro, che «pare abbia un grandissimo
successo: non so ancora come vendite (è uscito da poco più di 10 giorni)
ma come critica»50. A rassicurare Levi sulle vendite ci pensa più
tardi Farrar, che nel luglio 1947 manda una lettera sostenendo che il
«libro va sempre bene»51.
La speranza di replicare con l’Orologio il successo del Cristo naufraga
però piuttosto in fretta. Questa volta il lavoro della traduttrice non
è all’altezza delle aspettative e Levi se ne lamenta con Max Ascoli in
una lettera che, come la prima anticipazione sul «Reporter», data ancora
15 agosto 1950. Il testo, scovato da Sandro Gerbi tra le carte di
Boston, rivela tutta l’insoddisfazione dell’autore:
La mia prima impressione devo confessarti che era disastrosa. Dando
una prima occhiata ho trovato alcuni errori di interpretazione, ma questi
non sono gravi perché mi pare che non sono molti e sarebbero facilmente
correggibili; quello che invece mi aveva spaventato era il tono
generale della traduzione, che mi è sembrata una trasposizione del
mio libro per un pubblico di ragazzi della terza elementare. Parola per
parola, frase per frase è bensì conservato il senso generale ma sono sistematicamente
trascurate tutte le sfumature, tutte le particolari forme
di espressione, tutte le finezze che non sono semplici ornamenti stilistici
ma che rappresentano la differenza fra un libro vero e un articolo di
giornale52.
La sfiducia di Carlo Levi verso l’entourage dell’editore newyorkese
è esibita apertamente, tanto da avanzare il timore che «Frances sia
stata sollecitata dagli editori a fare le cose troppo in fretta». Ne consegue
che «la sostanza stessa del libro» risulta «travisata e abbassata
tion, «The Saturday Review», 19 aprile 1947, p. 12; G. Mayberry, Journey in time,
«The New Republic», 21 aprile 1947, p. 32; C.G. Paulding, Christ Stopped at Eboli,
by Carlo Levi, «Commonweal», 2 maggio 1947, p. 72; H. Gardiner, Christ stopped at
Eboli, «America», 3 maggio 1947, p. 132; Books: To the World of the Dead, «Time», 5
maggio 1947; D.T. Bazelon, Outside of history, «The Nation», 24 maggio 1947, p.
635; Briefer comment, «The Forum», agosto 1947, pp. 117-121: 120, oltre alle recensioni
di Fanny Butcher sul «Chicago Tribune», Alfred Kazin e Lewis Gannett sul
«New York Herald Tribune», segnalate da C. Ó Cuilleanáin, Christ stopped at Eboli,
cit., pp. 182-183 e da G. De Donato – S. D’Amaro, Un torinese del sud, cit., pp.
181-186.
50 C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 13, p. 44.
51 Ivi, lettera 16, p. 49.
52 S. Gerbi, Un Orologio americano per troppi polsi, «Il Sole 24 Ore», 28 ottobre
2007, p. 39.
[ 15 ]
102 luca beltrami
enormemente di tono e di valore». Si rende quindi necessario un «lavoro
preciso e completo di revisione da chiedersi o alla stessa Frances
o a qualche altro che possa collaborare con lei per rendere il tutto più
aderente al valore poetico e espressivo dell’originale». Di qui, come si
accennava in precedenza, l’invio a Max Ascoli di una bozza dell’opera,
ma oltre al suo aiuto, Levi cerca anche il soccorso di Misha Kamenetzky,
altrimenti noto come Ugo Stille, corrispondente dagli Stati
Uniti del «Corriere della Sera» e già negli anni Quaranta collaboratore
di Einaudi per il mercato americano insieme agli agenti della casa editrice
Sanford Greenburger e Philip Hodge53. Nella lettera a Linuccia
del 15 agosto 1950, Levi scrive che Misha «verrà in Italia in questi
giorni: bisognerà che lo veda per la traduzione»54. Nei giorni successivi
però la situazione non si sblocca (scrive Linuccia: «E Misha quando
arriva? Max ti ha risposto?», mentre Carlo: «Aspetto una telefonata da
Misha; e forse dovrò tornare a Roma»55) e il primo settembre Levi è
costretto ad ammettere: «Ora non so bene che cosa farò, con Misha che
cambia idea e progetti a ogni minuto, e Giulio Einaudi, che è arrivato
da Torino»56.
È a questo punto che entrano in scena le dieci lettere di John Farrar
conservate ad Alassio. Nei mesi successivi Levi non trova soluzioni al
problema e il 10 gennaio 1951 scrive a Linuccia: «Sono nei pasticci per
la traduzione dell’“Orologio”: l’ho fatta vedere alla signora Silone e
ad altri, e tutti la trovano pessima, dicono che in inglese “non fa senso”.
Che pasticcio!»57. L’unica possibilità è ormai quella di affidare la
traduzione allo stesso Farrar e ai suoi collaboratori.
Originariamente collocata nella scatola che conserva una delle
bozze di The Watch, la corrispondenza con John Farrar è testimoniata
a partire dal 15 marzo 1951, ma dal contenuto si evince che i contatti
con Levi si erano già intensificati da qualche tempo. Nella prima lettera
Farrar ringrazia infatti l’autore per avergli risposto con un incoraggiamento
nonostante la segnalazione di diverse imprecisioni. Invitando
Levi a scovare ogni errore, l’editore assicura il suo impegno nella
correzione, riservandosi però il diritto di difendere alcune delle scelte
rifiutate58. Il resto della lettera rivela invece alcuni dettagli sui tradut-
53 L. Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 459-461.
54 C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettera 127, p. 171.
55 Ivi, lettere 131, p. 175; 136, p. 180.
56 Ivi, lettera 143, pp. 186-187.
57 Ivi, lettera 155, p. 198.
58 Fondo Carlo Levi di Alassio (d’ora in poi FCL), LETT, 3, 2, 15 marzo 1951, c.
[ 16 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 103
tori effettivamente coinvolti. Con Farrar collaborano un aiutante di
nome Mike e l’italiana Marianna, ovvero la futura traduttrice della
Luna e i falò Marianna Ceconi59, conosciuta anche con il cognome del
marito Arnold Gifford. Così, mentre Marianna migliora ogni giorno il
suo inglese, Farrar cerca di imparare rapidamente l’italiano supportato
dalla moglie Margaret nel ruolo di segretaria e collaboratrice. Per il
momento l’unica certezza consiste nella volontà di trascurare il lavoro
svolto da Frances Frenaye:
I’m glad you think the translation improves as it goes along. This may
be because Marianna becomes a better English scholar and I am rapidly
learning Italian, or perhaps because I’m now abandoning working
on Frances’ pages and writing every thing in long-hand before
Margaret Farrar makes a rough copy. Anyhow, it is pleasant to hear60.
Levi, da parte sua, invia a Farrar risposte dettagliate sui passi più
ostici e propone una traduzione alternativa grazie all’aiuto di collaboratori
operanti in Italia61. Come ha scritto alcuni anni fa Sandro Gerbi,
quello americano sembra davvero essere un Orologio «per troppi polsi
» che, oltre al coinvolgimento di Max Ascoli e dei collaboratori di
Levi e di Farrar, registra anche quello dell’insegnate di italiano e scrittrice
di origine ebraica Carla Coen Pekelis, discendente della famiglia
Ascoli per via materna, ricordata da Farrar in una lettera privata tra
coloro che hanno preso parte alla traduzione62.
Il ruolo di maggiore responsabilità spetta però a John Farrar, che si
impegna a coordinare il lavoro confrontando i risultati con le carte
tradotte dall’entourage di Levi. In generale Farrar segnala l’esigenza di
una traduzione più libera («I suspect that something can be done with
freer constructions and punctuation»63) e procede elencando i passi
problematici. Le difficoltà più frequenti riguardano la resa del lessico:
alcuni termini sono troppo specialistici, mentre altri hanno un significato
spiccatamente localistico e impossibile da tradurre in inglese. Se
1, r: «We’ll not apologize for slips and we want you to find them all. Moreover,
keep on noticing repetitions or anything else. I’ll simply reserve the right to argue
if I don’t agree».
59 C. Pavese, The moon and the bonfires, translated from the Italian by M. Ceconi,
with a foreword by P. Milano, New York, Farrar, Straus and Young, 1953.
60 FCL, LETT, 3, 2, 15 marzo 1951, c. 1, r.
61 Ibidem: «I’ll look forward to your friend’s first chapter». Alcuni riferimenti ai
collaboratori di Levi si trovano anche nelle lettere seguenti.
62 S. Gerbi, Un Orologio americano per troppi polsi, cit., p. 39.
63 FCL, LETT, 3, 2, 15 marzo 1951, c. 1, r.
[ 17 ]
104 luca beltrami
la scelta tra «President» o «Premier» Parri si orienta verso il secondo
vocabolo, perché anche De Gasperi sui giornali viene definito così
(«De Gasperi, for example, is always called Premier here»64), risulta
invece più complicato individuare il corrispettivo di classificazioni
politiche come «trasformista» o «qualunquisti», per i quali la traduzione
«Nobody’s Man Party» risulterebbe alquanto improbabile65. In
altri casi occorrono integrazioni per informare il lettore su fatti o personalità
non comunemente noti, ma le difficoltà maggiori si incontrano
nella resa del ritmo, del suono e del côté classico-letterario a cui la
prosa leviana allude:
Sorry, here I deprive you of a fine stylistic repetition. By the way, we
struggled to keep others of your truly resounding repetitions and even
worked hard to reproduce some of your sounds. This is not so difficult
if one sticks to Latin derivatives and avoids the too great use of Anglo-
Saxon substitutes. Another thing you should always warn your translators
about. I think no one without some background of Latin and
Greek can possibly reproduce you. However, Virgil, Horace, the Greek
dramatists etc. they all ring in Levi and one must catch them – at least
subconsciously66.
Un altro punto critico riguarda la diversa sensibilità dei lettori inglesi
da quelli italiani di fronte alla ripetizione di un termine. Mentre
Levi raccomanda di evitarla, Farrar stigmatizza l’eccessiva preoccupazione
nei confronti di questo aspetto, segno – secondo lui – di uno
stile troppo amatoriale:
A repetition, at the risk of repeating myself, is always good if it reads as
if intended and is not ugly to the ear. An avoidance of such repetitions
is, in English, the mark of the amateur or the sports reporter, or worse.
Understand, Carlo Mio, I am not giving you a lecture on Italian style. I
happen to consider you one of the great stylists of our century. Otherwise
why should I be getting headaches and writer’s cramp over
you67.
64 Ivi, c. 6, r.
65 Ivi, 2 aprile 1951, c. 3, r.: «I think we should keep qualunquisti here as well
as earlier – it’s really impossible to get a translation (Nobody’s Man Party) that
sounds like anything unless we go back in history and use our own “Mugwump”
which I think would be a mistake and not accurate, really, anyhow». Per la resa di
«trasformista», ma anche di «uscieri» e di «mago» si veda Ivi, 15 marzo 1951, c. 3,
r.; 7, r.; 8, r.
66 Ivi, c. 12, r.
67 Ivi, c. 11, r.
[ 18 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 105
Ulteriori dubbi riguardano la sottolineatura del sostrato filosofico
della prosa leviana68, che Frances Frenaye sembra avere totalmente
ignorato. Al contrario Farrar si impegna a tradurre anche gli elementi
connotativi più remoti del linguaggio di Carlo Levi, assunti a cifra
stilistica dell’autore:
I try to be tactful in these letters toward Frances but this element she
seems often completely to leave out. Moreover it is an element that is
present, as you know Don Carlo, in the sound and rhythm of your sentences,
in their echoes of the classical and arcane. We are trying very
hard to dig this out and preserve it69.
L’inefficacia della traduzione della Frenaye è inoltre dovuta alla
scarsa fluidità del dettato e alla scelta di termini inadatti al ritmo della
prosa originale. Il suo lavoro non rende la vivacità dei passaggi descrittivi,
non coglie l’ironia di alcuni discorsi e non restituisce ai dialoghi
la giusta caratterizzazione, mentre la scelta di un vocabolario piuttosto
quotidiano appiattisce lo spicco stilistico del libro70. Errori simili,
questo è il vero problema, sono stati replicati anche dai traduttori che
assistono Levi in Italia e, nonostante l’introduzione di varianti correttive,
Farrar teme che la traduzione non riesca a soddisfare le aspettative71.
È il 13 aprile: il manoscritto dovrebbe andare in stampa per la
prima bozza il lunedì seguente e l’editore si augura che le ultime correzioni
possano migliorare l’esito del lavoro.
Già da alcune settimane le lettere si sono fatte più scarne nella parte
introduttiva per lasciare spazio a elenchi sempre più dettagliati di
specimina di traduzione. I dubbi riguardano soprattutto il paragrafo
d’esordio dell’opera e la prima delle Poesie dell’Orologio, che Farrar traduce
in una sorta di prosa d’arte («rhythmical free vers – prose,
68 Ivi, c. 7, r., specialmente riguardo alla riflessione sul concetto di tempo:
«Whenever the time in other philosophical themes appear we have tried to underline
them subtly just you have done».
69 Ibidem.
70 Ivi, 13 aprile 1951, c. 1, r.: «She failed in other ways but she gave neither beauty
to most of the descriptive passages, nor sharpness to the irony, nor characterization
in the dialogue. Her choice of English words is somehow always – or rather
frequently – harsh, which does not give a feeling of you or your style».
71 Ibidem, riguardo ai traduttori: «However, the boys don’t honestly have a
flow of style and often use ugly words and rhythms»; sul successo della traduzione:
«Now, I feel sure everyone will not like our translation. Any piece of work that
has character (which I believe this has) is bound to find enemies».
[ 19 ]
106 luca beltrami
perhaps»72) per non trasformare i versi in una cantilena, in un «jingle»
troppo superficiale73. Al tono ironico e disteso delle prime missive si
sostituisce ora l’apprensione dovuta ai tempi stretti di realizzazione
del volume. Il 20 aprile il manoscritto è ormai completato, ma in fase
di bozze è previsto un ulteriore margine di correzione, purché il lavoro
sia svolto con rapidità74. Non resta che accordarsi sugli elementi
paratestuali (copertina, frontespizio, eventuale dedica), ma la questione
più spinosa riguarda la firma della traduzione: Frances Frenaye ha
comunicato a Farrar la sua rinuncia, così l’editore propone la forma
neutra «translated from the Italian»75.
Alcuni giorni dopo, di ritorno da un viaggio a Minneapolis, Farrar
scrive ancora a Levi: dopo aver constatato una discreta attesa per il
libro negli ambienti intellettuali americani, si occupa della diffusione
dell’opera e asserisce di avere appena spedito le bozze al co-fondatore
del «Time» e magnate dell’editoria statunitense Henry Luce76. Il 14
maggio c’è ancora tempo per un rapido controllo sulla seconda delle
Poesie dell’Orologio, dopodiché il carteggio si interrompe. Tornando alle
lettere tra Levi e Linuccia Saba, sembra che i problemi si siano trascinati
fino ai giorni immediatamente precedenti l’uscita dell’opera.
In giugno Linuccia scrive infatti di avere ricevuto una lettera in cui gli
editori ammettevano di non aver «ancora capito il loro errore» e a metà
del mese Levi conferma i problemi, rassicurando però la sua corrispondente:
«Farrar ha capito solo ora l’errore, mi dice che spera non
abbia conseguenze: speriamo»77.
Nonostante le difficoltà, The Watch esce dalla tipografia il 22 giugno
1951, il frontespizio presenta l’indicazione di «translated from the
Italian» suggerita da Farrar. Da quel momento la traduzione un po’
improvvisata dell’editore e della sua équipe viene riproposta in ogni
ristampa o nuova edizione, ma soltanto la stampa londinese di Cassel
(1952) proporrà il nome di Farrar sul frontespizio in qualità di traduttore78.
Pochi giorni dopo l’efficacia della versione inglese è posta al
72 Ivi, 17 marzo 1951, c. 1, r.
73 Si vedano Ibidem, cc. 1-2 r. e 12 aprile 1951, cc. 1-2 r.
74 Ivi, 20 aprile 1951, c. 1, r.: «If you find anything radically wrong send off
immediate air-mail letters – but try not to find too much wrong as we do have
speed now as essential».
75 Ibidem.
76 Ivi, 2 maggio 1951, c. 1, r.
77 C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck, cit., lettere 169, 171, pp. 208-212.
78 In Catalog of copyrights entries. Books. January-June 1951, Third series, vol. 5,
[ 20 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 107
vaglio dei critici. Tra questi spicca il recensore del «Saturday Review»,
che, pur rilevando alcune imperfezioni, promuove «the anonymous
translator», capace – a suo dire – di cogliere la cifra stilistica di Carlo
Levi79. Ma al di là delle questioni di traduzione, la risonanza dell’Orologio
nell’ambito della critica letteraria americana non è inferiore a
quella del Cristo. «The New York Times Book Review», «The New Yorker
», «The Nation» e il «Time» sono solo alcune tra le testate giornalistiche
che dedicano spazio all’opera nelle loro pagine80. Tra coloro che
tendono a leggere l’Orologio in chiave politica c’è Anthony West, recensore
del «New Yorker». Seguendo un percorso differente dai critici
italiani, West individua la necessità di indirizzare verso un percorso di
stabilità amministrativa l’incerta fase politica del dopoguerra, stigmatizzando
la delusione leviana per il mancato rinnovamento della classe
dirigente e dei partiti e sostenendo che il passo fondamentale per
garantire il successo di una rivoluzione risieda nell’istituzione di
un’amministrazione efficiente e, se necessario, pronta a scendere a
compromessi per non vanificare gli sforzi di rinnovazione della Resistenza81.
part 1A, number 1, Washington, Copyrights office, The Library of Congress, 1951,
p. 524 nella didascalia della prima edizione americana si segnalano però tra parentesi
i traduttori «John Farrar and Mrs. Arnold Gifford (Marianne Ceconi)». Le edizioni
pubblicate nel corso degli anni, anche quella per il mercato inglese (London,
Cassell & Company, 1952) ripropongono la traduzione di Farrar, come si legge in
R. Healey, Twentieth-Century Italian literature in English. An annotated bibliography
1929-1997, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press Incorporated,
1998, pp. 55, 60-61. Alle edizioni citate nello studio di Healey si aggiunge The
Watch, South Royalton, Vt., Steerforth Press, 1999, sempre tratta dall’originale Farrar,
Straus & Young del 1951.
79 L. Grant White, Time and the Man, «The Saturday Review», 30 giugno 1951,
pp. 8-9: 9: «The anonymous translator has succesfully caught the author’s mood».
80 T ra le recensioni si registrano quelle di P. Milano, A endless struggle, «The
New York Times Book Review», 24 giugno 1951, pp. 4, 21; Books: One Hit, Two Misses,
«Time», 25 giugno 1951, p. 96; F. Keene, One moment in history, «The Nation»,
21 luglio 1951, p. 54; A. West, Old wine in new bottles, «The New Yorker», 21 luglio
1951, pp. 64-66; R. Match, The captive instant, «The New Republic», 30 luglio 1951,
p. 21; Potpourri, «The Atlantic Monthly», luglio 1951, pp. 87-88; M. Miller, Under
a loose definition it may qualify as a novel, «Toledo Blade», 5 agosto 1951, p. 5; M.D.
Reagan, The Watch, «America», 11 agosto 1951, p. 463; C. Poore, New books, «The
Harpers Monthly», agosto 1951, pp. 98-101.
81 A. West, Old wine in new bottles, cit., p. 66: «the vital phase in securing the
succes of a revolution is that in which an efficient administration is set up, and in
which the extremists who have made it arrive at the compromises that will enable
them to work together without the unifying pressure of an external opposition».
[ 21 ]
108 luca beltrami
Dopo aver già citato il libro nella sua edizione italiana in un articolo
del 21 gennaio 195182, Paolo Milano dedica invece all’Orologio le pp.
4 e 21 del «New York Times Book Review» del 24 giugno e si schiera
tra quei pochi che non considerano l’opera inferiore al Cristo, rintracciando
anzi nel nuovo libro una maggiore profondità rispetto al passato.
Il critico privilegia gli aspetti letterari su quelli politici e, dopo
aver definito «contadini» e «luigini» termini chiave della mitologia
politica che ispira l’Orologio83, dedica la necessaria attenzione al background
romano che, secondo la sua interpretazione, rimanda alle pitture
evocative del ciclorama, in cui i cambi di luce e i movimenti rallentati
producevano effetti spettacolari84.
Roma e il suo popolo sono davvero i protagonisti del romanzo e a
essi Levi dedica uno spazio autonomo sul numero del Natale 1951
dell’«Illustrazione italiana»85. La continuità con l’Orologio, evidente
nella riproposta del sonetto Ruggito dei leoni nella notte, si esprime anche
nelle medesime peregrinazioni nelle osterie dove l’autore ascolta
«gli stessi discorsi del cameriere Giacinto». I padroni dell’osteria presso
la Fontana delle Tartarughe narrano quindi le avventure di un funzionario
del ministero che trascorre le ore d’ufficio a raccogliere verdure,
mentre all’Antica Pesa, a Trastevere, si raduna il circolo degli
«Smaniosi» per recitare stornelli che Levi appunta in un taccuino tuttora
conservato tra le carte alassine86. Roma pare insomma riappropriarsi
dei segni ferini che caratterizzano l’esordio dell’Orologio, tornando
a essere la foresta abitata da un «popolino» che «fu sempre un
necessario complemento della Potenza, sia essa stata Senato romano,
o Impero, o Chiesa, o Governo monarchico o repubblicano»87.
82 P. Milano, A Literary Letter About Italy, «The New York Times Book Review
», 21 gennaio 1951. Il libro è citato in edizione italiana anche da J. Flanner,
Letter from Rome, «The New Yorker», 7 ottobre 1950, p. 116.
83 P. Milano, A endless struggle, cit., p. 4: «These are key-terms of the political
mythology which inspires “The Watch”».
84 Ibidem: «It reminds one of those paintings called cycloramas, in which, by
changes of light and by slow motion, spectacular effects are produced».
85 C. Levi, Il popolo di Roma, «L’Illustrazione italiana», numero dedicato a Roma
per il Natale 1951, pp. 30-44, poi in Roma fuggitiva. Una città e i suoi dintorni, cit.,
p. 3-17. Gli articoli di Levi per «L’Illustrazione italiana» si trovano raccolti nella
tesi di laurea di M. Rovere, Carlo Levi e «L’Illustrazione italiana», Facoltà di Lettere
e Filosofia dell’Università di Genova, relatore prof. Franco Contorbia, correlatore
prof. Vittorio Coletti, a.a. 2009-2010.
86 Fondo Carlo Levi di Alassio, taccuino di appunti, FCL, T 4, cc. 26 r.-31 r., sui
cui si veda Carlo Levi ad Alassio: inventario delle carte, cit., pp. 31 e 39.
87 C. Levi, Il popolo di Roma, cit., p. 4.
[ 22 ]
carlo levi e l’edizione americana dell’orologio 109
Tra i vari nodi non sciolti ne rimarrebbe ancora uno in particolare,
quello del titolo. Accusato di oscurità da diversi critici italiani e americani88,
l’Orologio è invece un titolo efficace, come molti altri leviani, e
racchiude in sé il tema dell’«invenzione della durata» e della «compresenza
dei tempi» insita tanto nell’individuo quanto nella «conchiglia
barocca di Roma», insieme eterna e «fuggitiva». Ma a sciogliere la
chiave ci pensa Levi stesso, alcuni anni più tardi, nella prefazione al
Tristram Shandy di Sterne:
«Se mi potesse essere perdonata, malgrado avessi promesso di astenermene,
una sola, e brevissima parentesi privata, direi che mi ero, a suo
tempo, ingenuamente stupito che, fra le molte e spesso strane cose che
si erano dette dei miei libri, e in particolare dell’Orologio, non fosse
venuto in mente a nessuno, se non altro per ragioni del tutto estrinseche,
di citare lo Sterne. Non comincia forse, il Tristram Shandy, con
quella frase immortale: “Scusa caro, non hai dimenticato di caricare
l’orologio?”»89.
Luca Beltrami
(Università di Genova)
88 Si vedano, per esempio, la recensione di L. Russo, «Belfagor», V, 4, luglio
1950, p. 492 («L’Orologio perché s’intitola L’Orologio? È superfluo decifrare il simbolo
[…]. Intellettualistico, perché simbolico, è il titolo L’Orologio») e anche l’accusa
di «obscure title» in L. Grant White, Beyond Civilization, cit., p. 12. Sui significati
filosofico-psicanalitici dell’opera si veda A. Comparini, Tra “Erlebnis” e “Selbst”.
«L’Orologio» di Carlo Levi, «Esperienze letterarie», XXXIX (2014), 1, pp. 75-94.
89 C. Levi, Prefazione, in L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo,
traduzione di A. Meo, Torino, Einaudi, 1958, p. VIII.
[ 23 ]
Michela Pero
L’italiano contemporaneo nella revisione
della Bibbia 2008
Il presente lavoro dimostra, attraverso un’approfondita analisi linguistica, che
la revisione biblica del 2008 adotta con decisione l’italiano contemporaneo e che
proprio l’adesione a un tono medio fa sì che nel testo siano evitati tratti spiccatamente
informali e colloquiali che avrebbero sminuito la portata del messaggio
veicolato dalle Scritture. Il nuovo orientamento della Chiesa non nasce solo
da una motivazione di carattere linguistico, ma si fonda in primo luogo su una
istanza comunicativa e sulla volontà di avvicinare in modo autentico alla vita
della Chiesa e al messaggio evangelico il maggior numero possibile di fedeli. La
divulgazione è possibile solo attraverso un lavoro di miglioramento, semplificazione
e attualizzazione con traduzioni chiare e adeguate che potessero attraversare
trasversalmente la società.

This paper demonstrates, through an in-depth linguistic analysis, that the revision
of the 2008 Bible adopts contemporary Italian peremptorily and that precisely
this adhesion to a medium tone makes it possible to avoid within the text
passages distinctly informal and colloquial that would have reduced the scope
of the message conveyed by the Holy Scripture. The new orientation of the
Church does not derive from linguistic reasons alone but is based primarily on a
communicative need and on the desire to bring, in a sincere way, as many believers
as possible closer to Church life and to the evangelical message. Popularization
is only possible through a work of improvement, simplification and updating
with clear and appropriate translations suitable for society across the board.
1. Concilio Vaticano II: finalità linguistico-interpretative della revisione
Dopo il Concilio Vaticano II si avviò un’opera di revisione della
traduzione italiana della Bibbia1, che fu pubblicata nel 1971. Questa
revisione, sebbene avesse depurato il testo da arcaismi ed espressioni
desuete, fu realizzata in così breve tempo che, all’indomani della pubblicazione,
emersero difetti di stile ai quali si decise di rimediare con
1 La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni Pastorali Italiane, 1971.
Linguistica
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 111
una nuova revisione. Nel 1974 venne stampata una editio minor ma,
nonostante i controlli atti a semplificare sintassi e lessico obsoleto, anche
lo stile di questa traduzione, con arcaismi, toscanismi e aulicismi,
risultò superato, tanto che la Conferenza Episcopale Italiana avviò un
nuovo progetto per porre rimedio agli errori trascurati nella stampa
precedente, per correggere le traduzioni delle precedenti edizioni, per
eliminare le lievi discrepanze e rendere lo stile più chiaro e semplice.
Questo lavoro ha condotto all’edizione del 2008. La necessità di comunicare
con la società contemporanea rendeva inevitabile la scelta di un
registro medio che risultasse comprensibile, senza tuttavia compromettere
la sacralità caratteristica della Bibbia:
Nel 1988 la Presidenza della CEI ha costituito un gruppo di lavoro che,
con la collaborazione di esperti nei diversi libri biblici, si è dedicato alla
revisione della traduzione italiana sulla base dei più accreditati testi
critici nelle lingue bibliche originali e secondo i più recenti risultati
dell’esegesi contemporanea, correggendo anche inesattezze, incoerenze
ed errori della traduzione del 1971-1974, si è cercato nel contempo di
recuperare una maggiore consonanza con lo stile delle lingue originali,
senza tuttavia compromettere l’intelligibilità del testo fin dal momento
della lettura o dell’ascolto […]. Ci si è preoccupati di ricercare modalità
espressive di immediata comprensione e comunicative in rapporto al
contesto culturale odierno, evitando per quanto possibile forme arcaiche
del lessico e delle sintassi. Si è infine curato il ritmo della frase, per
rendere il testo rispondente alle esigenze della proclamazione liturgica
e, dove occorra, adatto a essere musicato per il canto2.
L’aspetto linguistico dell’ultima traduzione biblica è stato preso in
esame di recente da Rosarita Digregorio3. Nel lavoro che qui si presenta
si intende proporre un’analisi del testo del 2008 estesa a ogni livello
linguistico. Alla luce di tale obiettivo, il presente lavoro documenta le
varianti linguistiche della traduzione biblica attraverso l’esame di tutti
i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, confrontati passo per
passo4 con i libri corrispondenti della precedente edizione del 1974.
2 G. Betori, Presentazione, in La Sacra Bibbia, a cura della Conferenza Episcopale
Italiana, Roma, Unione Editori e Librai Cattolici Italiani, 2008, p. 7.
3 R. Digregorio, Le scelte linguistiche dell’ultima traduzione della Bibbia CEI, in
Lingue e testi delle riforme cattoliche in Europa e nelle Americhe (secc. XVI-XXI). Atti del
Convegno internazionale (Università di Napoli “L’Orientale”, 4-6 novembre 2010),
a cura di R. Librandi, Firenze, Franco Cesati Editore, 2012, pp. 323-342.
4 Il raffronto è stato reso agevole dal confronto interlineare offerto dalla casa
editrice Editing&Printing, www.raffronti.eu.
[ 2 ]
112 michela pero
Nella traduzione del 2008, in conformità con la lingua corrente, le
forme colte e letterarie sono state sostituite con altre di uso comune; la
semplificazione delle forme linguistiche è stata necessaria per adeguarsi
ad una lingua largamente impiegata nelle comunicazioni scritte
e parlate di diversa formalità le cui caratteristiche non sono innovazioni
degli ultimi anni e non risultano connotate geograficamente5. I
revisori si sono mostrati molto attenti alla coerenza del vocabolario,
appianando le difficoltà lessicali e sintattiche, e hanno badato alla cura
estetica del testo, eliminando cacofonie e parole desuete.
Tuttavia resta una specifica terminologia religiosa:
[…] lo Spirito promesso da Gesù (14,16; 15,26; 16,7) viene ora chiamato
alla greca “Paràclito” (non più con il riduttivo “Consolatore”) […] il
termine può significare anche “avvocato, difensore, protettore, intercessore”
[…] il “Consolatore” che diventa “Paràclito” risulta meno immediatamente
comprensibile, ma invita ad interrogarsi sul mistero dello
Spirito e sulla ricchezza della sua azione nella storia e nella vita della
Chiesa6.
Si nota che il più semplice coperchio diventa propiziatorio per rendere
meglio la funzione che tale oggetto aveva a quei tempi:
[…] il kapporet dell’arca era prima tradotto con “coperchio”, ma in Es
25,17 si aggiungeva “o propiziatorio”, che ne specificava la funzionalità
liturgica. Poiché nei testi se ne parla proprio per questo suo scopo, si è
passati direttamente a “propiziatorio”: la funzione diventa perciò immediatamente
chiara nell’aspersione del sangue di cui parla Lv 16,2.
13-15 e così pure si capisce meglio perché Gesù Cristo sia detto “strumento
di espiazione” in Rm 3,257.
5 Cfr. F. Sabatini, Una lingua ritrovata: l’italiano parlato, «Studi latini e italiani»,
IV (1990), p. 226; ora in Id., L’italiano nel mondo moderno. Saggi scelti dal 1968 al 2009
a cura di V. Coletti, R. Coluccia, P. D’Achille, N. De Blasi, D. Proietti, Napoli,
Liguori, 2011, vol. II, pp. 89-108. Una considerazione in diacronia di alcune caratteristiche
dell’italiano contemporaneo è stata proposta da F. Sabatini nel suo
fondamentale saggio sull’italiano dell’uso medio (Id., L’’’italiano dell’uso medio’’:
una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Günter Holtus, Edgar Radtke, Gesprochenes
Italienisch in geschichte und Gegenwart, Tübingen, Gunter Narr Verlag,
1985, pp. 157-185); ora in ID., L’italiano nel mondo moderno. Saggi scelti dal 1968 al
2009, cit., pp. 3-36.
6 La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana in nuova edizione (2008). Finalità
e caratteristiche di una revisione, a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale della
Conferenza Episcopale Italiana, 2010, pp. 33-44.
7 Ivi, pp. 30-31.
[ 3 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 113
Altro esempio significativo del tentativo di rendere più preciso il
lessico è la sostituzione di costato con fianco:
Il “costato” di Gesù, colpito da un soldato con una lancia e poi mostrato
ai discepoli e a Tommaso, è più correttamente il “fianco” (Gv 19,34;
20,20. 25. 27; quello di Pietro, toccato dall’angelo che lo vuole liberare
dal carcere, era appunto “fianco” già prima: At 12,7)8.
Talvolta, però, la scelta lessicale cade sulla forma meno comune.
Faccia, ad esempio, viene sostituito con viso, più aulico, o volto, ancora
più nobile ed elevato9. Ne risulta quindi la ricerca di un tono elevato e
più formale:
Gn 48,11: «la tua faccia» > «il tuo volto»; Es 3,6: «si velò il viso» > «si
coprì il volto».
Altre volte si predilige la forma più letteraria. Un esempio è il latinismo
angustia che subentra ad angoscia (Gn 32,8: «si sentì angosciato» >
«si sentì angustiato»; Sal 106,44: «egli guardò alla loro angoscia» > «egli
vide la loro angustia»), ma nella maggioranza dei casi i tecnicismi e i
vocaboli avvertiti come antichi o appartenenti alla tradizione letteraria
sono stati sostituiti dalla variante più comune, in coerenza con i criteri
di chiarezza e intelligibilità richiesti dal Concilio Vaticano II.
In altri casi ancora, la scelta propende per la voce ritenuta più adatta:
Per gli strumenti musicali […] si parla ora più correttamente di “tamburelli”
invece di “timpani” (cfr., fra gli altri, Gen 31,27; Es 15,20; Gdc
11,34; Sal 150,4) e di “cimbali” invece dell’improbabile e anacronistico
“cembali” (cfr. 2 Sam 6,5; Sal 150,5). Per il caratteristico sofar ebraico si è
preferito, possibilmente, il più esatto “corno” anziché “tromba”, uniformando
la precedente traduzione (per esempio in Gdc 7,16. 22; Is
27,13). Per i termini che indicano pesi e misure, poiché in molti casi le
equivalenze con le nostre unità non sono sempre esatte e condivise da
tutti, si è preferito trascrivere in corsivo l’originale e rimandare in nota
a una spiegazione che, per quanto si presenti puntuale, va sempre accolta
con una certa riserva (si veda un esempio sintetico per efa, bat,
homer, kor, hin, ghera in Ez 45). Solo quando le corrispondenze possono
essere sicure si è tradotto con l’equivalente: in Lc 24,13 le 7 miglia che
separano Gerusalemme da Emmaus sono diventate 11 chilometri10.
8 Ivi, p. 39.
9 Cfr. Vocabolario della Lingua Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
1997, ad vocem. [D’ora in poi citato con la sigla VLI].
10 La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana in nuova edizione (2008). Finalità
e caratteristiche di una revisione, cit., p. 15.
[ 4 ]
114 michela pero
Molti interventi linguistici sono stati necessari ai fini teologici:
[…] nelle parole di Dio che decide di creare la donna, quest’ultima non
è più definita in sintesi come “un aiuto che gli sia simile” ma come “un
aiuto che gli corrisponda” (Gen 2,18): dovrebbe esprimersi così, più
specificamente, la funzione nello stesso tempo speculare e complementare
della femminilità […] nella preghiera del “Padre nostro” il
“non indurci in tentazione” (Mt 6,13; Lc 11,4) è divenuto “non abbandonarci
alla tentazione”. La connotazione dell’italiano “indurre” esprime
una volontà positiva mentre il greco eisférein racchiude piuttosto una
sfumatura concessiva (“non lasciar entrare”) […] A questo modo si
evita di intendere che la tentazione sia opera di Dio e si rimane in sintonia
con quanto si dice in Gc 1,1311.
Altre modifiche si spiegano con l’intenzione di smorzare i toni violenti
e le scene crudeli: in 1Sam 15,33 «Samuele lo tagliò a pezzi» è diventato
«Samuele trafisse Agag»12.
Vanno inoltre sottolineate alcune puntualizzazioni antropologiche
reperibili ad esempio nel Nuovo Testamento:
Nel vangelo di Luca una grande risonanza, soprattutto popolare, è destinata
a suscitare la variazione delle parole con cui l’angelo si rivolge a
Maria (1,28): non più il tradizionale “ti saluto” (che si riflette nell’ancor
più noto “ave” della preghiera mariana), ma “rallégrati”, per esprimere
la forte connotazione gioiosa del chaírein greco e il richiamo a Sof 3,14
[…] In Mt 5,32 e 19,9 il caso eccezionale che permette di ripudiare la
moglie è ora l’“unione illegittima”, quella cioè comunque proibita dalla
legge, non il limitativo “concubinato” o convivenza. E analogamente,
una maggiore attenzione ai verbi fa sì che ora si dica (Mt 1,19): “Giuseppe
suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente,
pensò di ripudiarla in segreto” (prima: “Giuseppe, suo sposo,
che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto”)13.
Per la Bibbia era necessaria un’operazione di revisione per ottemperare
all’esigenza di maggiore accessibilità e i cambiamenti linguistici
eseguiti rispondono perfettamente alla politica linguistica adottata
dalla Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, e caratterizzata dall’obiettivo
di favorire un incontro tra tradizione e modernità.
11 Ivi, pp. 25-27.
12 Per approfondimenti si veda R. Digregorio, Le scelte linguistiche dell’ultima
traduzione della Bibbia CEI, cit., pp. 336-337.
13 La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana in nuova edizione (2008). Finalità
e caratteristiche di una revisione, cit., pp. 31-34.
[ 5 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 115
2. Analisi linguistica14
Già dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento l’attenzione dei
linguisti si è diretta all’identificazione di nuove forme dell’italiano
contemporaneo, interpretate come segnali del costituirsi di una nuova
varietà di italiano, definita «italiano dell’uso medio» da Francesco Sabatini
e «neo-standard» da Gaetano Berruto15. Nella traduzione del
2008 si incontrano proprio le novità linguistiche descritte dai due studiosi.
L’analisi linguistica condotta ha tenuto conto di due fonti d’informazione:
la tradizione scritta (in particolare le banche dati di quotidiani)
e le consuetudini linguistiche correnti (grammatiche, vocabolari16 e
riferimenti multimediali). La ricerca rileva le consuetudini linguistiche
riscontrate nell’ultima versione e mira a mettere in luce le finalità
a cui tendono i cambiamenti messi in atto. Inoltre saranno analizzati
anche i casi in cui la scelta è caduta sulla forma più tradizionale per
dimostrare la difesa dello stile formale tipico della Bibbia.
– Elisione e troncamento
L’elisione e il troncamento sono sempre più rari nel testo sacro,
proprio come più rari sono nell’italiano contemporaneo, che salvaguarda
la pienezza delle parole17. Avvertita come poetica e arcaizzante18,
la soppressione di vocali o sillabe è, nella versione del 2008, emendata
a favore di una maggiore integrità e completezza delle parole:
Zc 1,9: «t’indicherò» > «ti indicherò»; Ap 21,8: «gl’increduli» > «gli increduli
».
Tuttavia ci sono casi in cui è preferita la forma elisa:
14 Nell’illustrazione dei casi considerati le traduzioni sono disposte in ordine
cronologico, da quella del 1974 a quella del 2008.
15 F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche italiane,
cit.; G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci,
1987.
16 V LI; T. De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, Utet, 1999 [d’ora
in poi citato con la sigla Gradit]; F. Sabatini, V. Coletti, Il Sabatini-Coletti: dizionario
della lingua italiana, Milano, Rizzoli Larousse, 2003 [d’ora in poi citato con la
sigla DISC]; N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli,
2002 [d’ora in poi citato con la sigla Zing].
17 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 157.
18 Cfr. R. Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della
Chiesa cattolica italiana postconciliare, «Studi linguistici italiani», XXIX (2003), n. 1, p.
83.
[ 6 ]
116 michela pero
Gdc 12,6: «quella occasione» > «quell’occasione»; 2Sam 11,2: «di aspetto» >
«d’aspetto».
Anche per l’apocope, a parte i casi in cui è dovuta, è mantenuta la
forma intera19:
Ne 2,3: «non esser» > «non essere»; 2Pt 2,21: «voltar le spalle» > «voltare le
spalle».
– Accenti grafici
In italiano, com’è noto, è evitata l’indicazione grafica dell’accento20,
che si trova solo nelle parole tronche e in alcuni monosillabi21.
Nella traduzione del 2008 invece l’accento grafico è impiegato, per
evitare possibili ambiguità, anche nelle forme verbali come elemento
di distinzione tra omografi:
Si è tentato di rispettare un uso italiano che privilegia l’accentazione
della penultima (che non viene indicata), in particolare nel caso dei
bisillabi, anche se il calco ebraico indurrebbe ad accentare l’ultima
(quindi Natan invece di Natàn, Àmos invece di Amòs); solo in qualche
caso si è fatta eccezione, soprattutto quando l’ultima sillaba termina in
vocale (Bicrì invece di Bicri/Bìcri) oppure nei polisillabi che in qualche
modo rispecchiano anche in italiano la struttura morfologica ebraica
(Anatòt, il duale Diblatàim) oppure sono composti con il nome divino
“El” (Azazèl, Adièl, ma per Betel si è preferito l’uso tradizionale). Nel
tentativo di suggerire una lettura preferenziale, si è indicato l’accento
anche quando la parola, se letta all’italiana, inviterebbe già di per sé ad
accentare la penultima (Achimèlec, Abièzer) […] Anche parole rare o
vagamente “esotiche” sono state accentate: ònice e gàlbano (Es 30,34),
àloe (Nm 24,6)22.
Troviamo perciò forme verbali in cui l’accento rende immediatamente
riconoscibile la forma verbale:
19 «salvo alcuni casi obbligatori (qual, buon, bel, un, San), molti sono i contesti
in cui risulta facoltativa e condizionata dagli usi regionali (ad esempio è più rara
nel Mezzogiorno rispetto alla Toscana e all’Italia settentrionale) […] la tendenza è
comunque verso il mantenimento della forma intera, spesso preferita anche per
non incorrere nel dubbio grafico dell’introduzione o meno dell’apostrofo»: Elisione
e troncamento nell’italiano contemporaneo: www.accademiadellacrusca.it.
20 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 156.
21 Cfr. S. Demartini, Accento grafico in Enciclopedia dell’italiano, vol. I, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2010, ad vocem.
22 La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana in nuova edizione (2008). Finalità
e caratteristiche di una revisione, cit., pp. 17-18.
[ 7 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 117
Tb 8,4: «alzati» > «àlzati»; Ab 2,19: «Svegliati» > «Svégliati».
L’accento è indispensabile anche con i nomi comuni e propri, soprattutto
per i tipi meno frequenti nell’uso:
Bar 2,30: «cervice» > «cervìce»; Am 7,14: «sicomoro» > «sicomòro»; Tt 1,5:
«presbiteri» > «presbìteri».
Gn 4,18: «Mecuiael» > «Mecuiaèl»; Ef 1,1: «Efeso» > «Èfeso».
Nell’italiano corrente, inoltre, non è segnalato il diverso grado di
apertura delle vocali intermedie, mentre nella traduzione del 2008 è
indicata anche l’apertura e la chiusura (rispettivamente con accento
grave e con accento acuto):
L’accento è stato aggiunto anche nelle parole omografe, distinguendo
inoltre (per la e e la o) se il fonema interessato è chiuso o aperto:
rallégrati (ad esempio Sof 3,14), laméntati (Gl 1,8), férmati (Gs 10,12),
gèttati (2Sam 1,9), farètra (Gen 27,3), dèmoni (Dt 32,17), adultèri (Ger
3,8), órdinale (Nm 16,24), móstrati (Sir 7,34), órnati (Gb 40,10), infórmati
(1Sam 17,18), ricòrdati (Es 13,3), còricati (Gen 39,7.12) guàrdati (Dt 8,11;
23,10), sepàrati (Gen 13,9), procùrati (Es 30,34)23.
-d eufonica
Come nell’uso corrente, è eliminata la -d eufonica24 che viene conservata
solo nei casi di incontro tra vocali uguali:
Tb 1,6: «ad una legge» > «a una legge»; Gc 2,18: «ed io ho le opere» > «e io
ho le opere».
La -d è presente quando la congiunzione è seguita da una parola
che inizia con la stessa vocale25 (in Lv 20,5 e Ger 35,11).
La -d viene conservata nelle sequenze ed ecco, ed egli/esso/essi/ella/
essa, ma anche in ad essa/esso/essi. In alcuni casi accade che essa venga
eliminata (Gs 8,2; Is 52,15) o addirittura aggiunta (Gdc 20,28; Sap 15,17).
– Dittongo mobile
Rispetto alle oscillazioni dipendenti dal dittongo mobile (p. es. suono/
sonate), nell’italiano contemporaneo si sono generalizzati paradigmi
stabili, anche se con soluzioni non uniformi: alcuni verbi presenta-
23 Ivi, p. 18.
24 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 157.
25 Ad eccezione di Gn 44, 8: «od oro» > «o oro» che è fuori dall’uso comune.
[ 8 ]
118 michela pero
no sempre il dittongo, mentre altri hanno solo forme monottongate26.
Nella traduzione del 2008 il dittongo scompare, secondo l’uso effettivo,
per esempio nelle forme del verbo possedere:
Dt 4,22: «possiederete quella fertile terra» > «possederete quella buona terra
»; Ez 35,10: «noi li possiederemo» > «noi li possederemo».
– Tra/Fra
Oggi in italiano le due forme sono del tutto intercambiabili, perciò
la scelta dell’una o dell’altra dipende in sostanza dalle preferenze e
dalle abitudini dei parlanti. Nella traduzione del 2008 l’uso è modificato
in rapporto a scelte eufoniche solo per evitare incontri tra consonanti
ritenuti cacofonici:
Tra>Fra
Sal 45,10: «tra le tue predilette» > «fra le tue predilette»; Sir 45,16: «tra tutti
i viventi» > «fra tutti i viventi».
Fra>Tra
Ct 2,3: «fra gli alberi» > «tra gli alberi»; At 20,31: «fra le lacrime» > «tra le
lacrime».
Di seguito una lista di microvarianti che giovano ad una resa contemporanea
del lessico:
– Danaro > Denaro
Sebbene le forme siano entrambe accettabili e ricorrenti nell’uso,
risulta più diffusa la voce denaro che è, del resto, più fedele all’origine
latina denarius e si trova già nella precedente Bibbia del 1974:
Gn 31,15: «il nostro danaro» > «il nostro denaro»; Tb 1,7: «convertivo in
danaro» > «convertivo in denaro».
– Dramme > Dracme/Monete
La variante fonetica dracma è più frequente e tra l’altro permette di
identificare meglio il referente, perciò è stata preferita a dramme:
2Mac 4,19: «trecento dramme» > «trecento dracme.
– Permittimi > Permettimi
Permittimi potrebbe risentire del latino permittĕre da cui derivano
gli aggettivi permissìbile e permissivo, e il sostantivo femminile permis-
26 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 157.
[ 9 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 119
sione. Tuttavia la rarità di questa forma permette di ipotizzare che si
tratti di un banale refuso giustamente eliminato27:
Dt 2,28: «permittimi solo il transito» > «permettimi solo il transito».
– Pronunziare > Pronunciare
La prima forma era molto più frequente in passato, soprattutto in
Toscana, mentre oggi prevale la forma pronunciare28:
1Re 3,28: «seppero della sentenza pronunziata dal re» > «seppero della sentenza
pronunciata dal re»; 1Cor 14,9: «se non pronunziate parole chiare» > «se
non pronunciate parole chiare».
– Sementa > Semente
La forma semente era già presente nella Bibbia del 1974, mentre sementa
si incontrava una sola volta. Nel 2008 il tipo semente è generalizzato:
Dt 14,22: «il frutto della tua sementa» > «il frutto della tua semente».
Entrambe le forme sono presenti nel Dizionario della Lingua Italiana
di Niccolò Tommaseo come sinonimo di seme. Nel Vocabolario della lingua
italiana di Nicola Zingarelli, invece, troviamo una distinzione: sementa
è «atto di seminare, spec. il grano», mentre la semente (o sementa)
indica il «complesso dei semi destinati alla semina». Nell’italiano
contemporaneo sementa è variante di semente29.
Sul versante della morfologia e della sintassi si incontrano talune
forme connotate come più ricercate, meno usuali e forse connesse alla
volontà di raggiungere uno stile più sacro e formale.
– Particella pronominale “ci”
La particella pronominale ci, tratto tipico del parlato contemporaneo
con valore di avverbio di luogo30, è spesso sostituita con vi:
1Cr 17,20: «non c’è Dio fuori di te» > «non vi è altro Dio fuori di te»; 2Pt 3,16:
«In esse ci sono» > «In esse vi sono».
Come per altri aspetti, però, non mancano eccezioni:
Es 10,23: «vi era luce» > «c’era luce»; Gv 8,44: «non vi è verità in lui» > «in
lui non c’è verità».
27 L’ipotesi mi è stata suggerita da Franco Pierno.
28 Cfr. VLI ad vocem.
29 Cfr. VLI ad vocem.
30 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 160. Sulla funzione attualizzante della particella ci ha insistito anche
P. D’Achille in L’italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 113.
[ 10 ]
120 michela pero
Sono stati eliminati i pronomi esso/essi, essa/esse che rivelano un sapore
libresco (molto usati in passato), mentre sono conservate le forme
egli ed ella, nonostante quest’ultima sia «in procinto di diventare
un arcaismo»31. Tale fenomeno esprime una tendenza opposta a quella
dell’italiano contemporaneo in cui egli ed ella sono ormai del tutto sostituiti
da lui e lei anche nello scritto di media formalità32:
nel caso obliquo essi > loro33
Sof 3,8: «riversare su di essi» > «ognuno di loro»; Lc 9,46: «chi di essi» >
«chi di loro».
Essa soggetto è sostituita sia da lei che da ella34:
essa/lei-ella
Os 2,4: «essa non è più mia moglie» > «lei non è più mia moglie»;
Ap 2,21: «ma essa non si vuol ravvedere» > «ma lei non vuole convertirsi
».
Prv 9,4: «essa dice» > «ella dice»; At 12,15: «Ma essa insisteva» >
«Ma ella insisteva».
I pronomi rimangono inalterati quando si riferiscono a soggetti
inanimati, contrariamente a quanto avviene nel parlato spontaneo e
corrente35:
Gn 2,11: «Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre» > «Il primo fiume si
chiama Pison: esso scorre»; Ne 9,6: «la terra e quanto sta su di essa» > «la terra
e quanto sta su di essa».
– Uso dell’articolo con possessivo e nomi di parentela
L’italiano contemporaneo esclude il ricorso agli articoli dinanzi ai
nomi di parentela, ad eccezione della terza persona plurale36, dei nomi
di parentela al plurale e nei casi in cui il nome di parentela è accompagnato
da un aggettivo qualificativo o se è usato come diminutivo o
31 L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Bari-Roma, Laterza, 2009, p. 84.
32 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 159. L. Renzi approfondisce il tema in Come cambia la lingua. L’italiano
in movimento, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 28.
33 Cfr. R. Digregorio, Le scelte linguistiche dell’ultima traduzione della Bibbia CEI,
cit., p. 340.
34 Ivi, p. 341.
35 Cfr. L. Renzi, in Come cambia la lingua. L’italiano in movimento, cit., pp. 60-61.
36 Cfr. S. Battaglia, V. Pernicone, La grammatica italiana, Torino, Loescher,
1968, p. 198.
[ 11 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 121
vezzeggiativo37. Nell’ultima versione sono state eliminate le costruzioni
in cui i nomi di parentela sono anticipati da articolo e aggettivi
possessivi, abituali nella precedente traduzione:
Dt 22,2: «il tuo fratello non ne faccia ricerca» > «tuo fratello non ne
faccia ricerca»; Gio 19,27: «Ecco la tua madre» > «Ecco tua madre».
Ma, come anticipato, ci sono casi in cui talvolta costruzioni di questo
tipo sono state conservate:
Sal 50,20: «parli contro il tuo fratello»; Ger 34,15: «la libertà del suo fratello».
– Il partitivo
L’articolo partitivo non venne usato nella versione del 1974, probabilmente
perché censurato dalle grammatiche38, mentre nel 2008 è stata
adottata una linea più aperta all’uso contemporaneo39; perciò è frequente
il ricorso al partitivo, diffuso nell’italiano corrente40:
Gn 43,24: «diede loro acqua» > «diede loro dell’acqua»; Mt 8,9: «ho soldati
sotto di me» > «ho dei soldati sotto di me».
– Pronomi e aggettivi pronominali
Nella traduzione del 2008 quegli, avvertito come arcaico, è stato
sostituito dal più comune quello41:
Gn 32,27: «Quegli disse» > «Quello disse»; At 16,29: «Quegli allora chiese
un lume» > «Quello allora chiese un lume»
– Forma pronominale gli
Nella lingua contemporanea si registra un uso esteso di gli come
pronome dativale per i due generi, sia al singolare che al plurale.
Sebbene la forma sia respinta dalle grammatiche normative, risulta
tollerata dalle grammatiche descrittive42 e estesa anche alla scrittu-
37 Uso dell’articolo e dell’aggettivo possessivo coi nomi di parentela: www.accademiadellacrusca.
it.
38 Cfr. R. Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della
Chiesa cattolica italiana postconciliare, cit., pp. 84-85. Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano
dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, cit., p. 159.
39 Il di partitivo era in uso già nel Trecento: B. Migliorini, Storia della lingua
italiana, Firenze, Bompiani, 1987, p. 210.
40 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 159.
41 Cfr. M. Berretta, Morfologia, in A. Sobrero, Introduzione all’italiano contemporaneo.
Le strutture, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 222.
42 Cfr. A. Cardinaletti, L’italiano contemporaneo: cambiamento in atto e compe-
[ 12 ]
122 michela pero
ra43. In passato, infatti, è stata usata anche nella letteratura44, soprattutto
in sostituzione di a loro. Non si segnalano qui innumerevoli casi in
cui gli ha sostituito a lui o a loro45, anzi in qualche caso accade il contrario,
cioè gli è sostituito da a lui, mentre a lei e a loro rimangono inalterati;
la spiegazione di tale atteggiamento va ricercata nella già citata
intenzione di aderire talvolta a un tono maggiormente formale. Di
seguito i casi in cui a lui è inserito al posto di gli:
Gdc 1,13: «questi gli diede in moglie sua figlia» > «a lui diede in moglie sua
figlia»; Gv 4,10: «tu stessa gliene avresti chiesto» > «tu avresti chiesto a lui».
A quanto pare gli non sostituisce mai a lei per cui si ricorre a le:
Es 21,11: «egli non fornisce a lei queste cose» > «egli non le fornisce queste
tre cose»; Gdt 8,28: «Allora rispose a lei Ozia» > «Allora Ozia le rispose».
Per quanto riguarda i clitici con valenza dativale, occorre tener presente
il contesto della frase; essi ricorrono laddove è più richiesta forza
contrastiva:
Mi > A me
Gv 14,11: «Credetemi» > «Credete a me»; Gal 4,15: «per darmeli» > «Per
darli a me».
Ti > A te
Gb 7,20: «Che cosa ti ho fatto» > «Che cosa ho fatto a te»; Lc 5,24: «io ti dico
» > «dico a te».
Per rendere completa la descrizione sono riportati anche due casi
in cui avviene il contrario:
Sal 68,30: «a te i re porteranno doni» > «i re ti porteranno doni»; Ez 29,21: «a
te farò aprire la bocca» > «ti farò aprire la bocca».
tenza dei parlanti in Intorno all’italiano contemporaneo. Tra linguistica e didattica, a cura
di A. Cardinaletti, F. Frasnedi, Milano, FrancoAngeli, 2004, p. 49.
43 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 158.
44 «Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno;
perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di fare qualche bell’impresa, correvan
là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura» (Promessi Sposi, XII);
«I Lombardi e’ Toscani […] combattendo co’ Fiamminghi, sì gli resistettero» (G.
Villani); «L’esser amati gli è sommamente caro» (Della Casa).
45 Gdt 12,14: «Giuditta rispose a lui» > «Giuditta gli rispose»; Gb 20,29: «la parte
a lui decretata da Dio» > «l’eredità che Dio gli ha decretato»; 1Gv 3, 22: «Facciamo
quel che è gradito a lui» > «facciamo quello che gli è gradito».
[ 13 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 123
Analogamente alla situazione sintattica appena esaminata, nel caso
seguente non c’è un’unica soluzione, ma si registrano entrambe le
possibilità come si evince dai casi considerati qui di seguito.
Ci > A noi
Gb 22,17: «Che cosa ci può fare» > «Che cosa può fare a noi»; Mc 13,4: «Dicci
» > «Dì a noi».
Ma anche:
Gs 7,25: «hai portato sventura a noi» > «ci hai arrecato disgrazia»; 1Mac
11,50: «Stendi a noi la destra» > «Dacci la mano destra».
Vi > A voi
Nm 18,26: «le decime che io vi do» > «la decima che io ho dato a
voi»; 2Re 1,7: «l’uomo che vi è venuto incontro» > «dell’uomo che è
salito incontro a voi».
Dal Nuovo Testamento in poi la sostituzione diventa quasi norma:
Mt 23,34: «io vi mando profeti» > «io mando a voi profeti»; At 13,38: «vi
viene annunziata» > «viene annunciato a voi».
– Clitici
Gli esempi che seguono documentano il passaggio da forme proclitiche
(frequenti negli imperativi) a forme enclitiche:
Tb 6,15: «che li possa seppellire» > «che possa seppellirli»; Qo 2,1: «ti voglio
mettere» > «voglio metterti»; 1Gv 3,13: «Non vi meravigliate» > «Non meravigliatevi
».
– Le congiunzioni
Nell’ultima revisione la congiunzione perché, frequente nell’italiano
medio e anche nella versione del 1974, viene sostituita spesso da
poiché nelle causali (talvolta permane perché), da affinché (rarissimo
nell’italiano medio) nelle finali, mentre nelle interrogative si incontra
il meno categorico come mai, esattamente come accade nell’italiano
corrente.
Perché > Poiché
Gn 34,13: «perché quegli aveva disonorato la loro sorella Dina» > «poiché
quegli aveva disonorato la loro sorella Dina»; 1Mac 6,54: «perché li aveva sorpresi
la fame» > «poiché li aveva sorpresi la fame».
Ma accade anche che si trovino causali in cui si predilige l’uso di
perché al posto del poiché:
[ 14 ]
124 michela pero
1Cor 11,7: «poiché egli è immagine e gloria di Dio» > «perché è immagine e
gloria di Dio»; Ap 21,25: «poiché non vi sarà più notte» > «perché non vi sarà
più notte».
Mentre in altre proposizioni ancora entrambe le congiunzioni sono
sostituite da infatti:
Nm 14,43: «Perché di fronte a voi stanno» > «Infatti di fronte a voi stanno»;
1Tm 5,4: «poiché è gradito a Dio» > «questa infatti è cosa gradita a Dio».
Perché > Affinché
Gn 27,4: «perché io ti benedica prima di morire» > «affinché possa benedirti
prima di morire»; Lc 2,35: «perché siano svelati i pensieri» > «affinché siano
svelati i pensieri».
Perché? > Come mai?
Es 2,18: «Perché oggi avete fatto ritorno così in fretta?» > «Come mai oggi
avete fatto ritorno così in fretta?».
La congiunzione e viene sostituita dall’avversativa ma e in qualche
caso dalla disgiuntiva o:
1Sam 24,14: «e la mia mano non sarà contro di te» > «ma la mia mano non
sarà contro di te»; 1Ts 4,6: «nessuno offenda e inganni» > «nessuno in questo
campo offenda o inganni».
La congiunzione copulativa è invece preferita in questi casi:
Gdt 8,14: «conoscere i suoi pensieri o comprendere» > «conoscere i suoi
pensieri e comprendere»; Dn 11,9: «ma se ne ritornerà» > «e tornerà».
Altra questione riguarda il pronome che. In questo caso c’è un ritorno
alla forma che cosa che risulta più elegante soprattutto nelle interrogative,
mentre perde terreno il che più frequente nel parlato italiano
contemporaneo, «di provenienza meridionale, e ovviamente predominante
da Roma in giù»46:
1Sam 20,32: «che ha fatto?» > «che cosa ha fatto?»; Eb 13,6: «che mi potrà
fare l’uomo?» > «che cosa può farmi l’uomo?».
– Forme verbali
Nell’italiano parlato è prassi ricorrere all’indicativo anche in luogo
del più fragile congiuntivo dato che il primo modo risulta più facile da
46 F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche italiane,
cit., p. 165.
[ 15 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 125
gestire rispetto al secondo, che è spesso sostituito da per + infinito47.
Nella Bibbia 2008, le forme verbali non subiscono rilevanti alterazioni
ma si assiste al ricorso al modo congiuntivo in particolare nelle proposizioni
ipotetiche:
2Mac 3,9: «domandava poi se le cose stavano realmente così» > «domandava
poi se le cose stessero realmente così»; At 25,20: «chiesi se voleva andare» >
«chiesi se volesse andare».
Al congiuntivo si ricorre anche in presenza delle congiunzioni che
e perché:
Gv 13,28: «capì perché gli aveva detto questo» > «capì perché gli avesse
detto questo»; At 16,10: «ritenendo che Dio ci aveva chiamati» > «ritenendo
che Dio ci avesse chiamati».
– La preposizione
Tra le preposizioni improprie secondo è sostituito talvolta da conforme:
Es 30,13: «secondo il siclo del santuario» > «conforme al siclo del santuario
»; Tt 2,1: «secondo la sana dottrina» > «conforme alla sana dottrina».
Anche se irrilevante ai fini dell’analisi linguistica riferisco due casi
del Nuovo Testamento in cui conforme viene sostituito da secondo:
Ef 1,11: «conforme alla sua volontà» > «secondo la sua volontà»; Eb 9,9:
«conforme ad essa» > «secondo essa».
Mentre tra le locuzioni preposizionali va annoverata per virtù, sostituita
da diverse espressioni:
Mt 12,28: «per virtù dello Spirito di Dio» > «per mezzo dello Spirito di
Dio»; Rm 8,37: «per virtù di colui» > «grazie a colui»; Gal 5,5: «per virtù dello
Spirito» > «per lo Spirito».
Interessante è la sostituzione che riguarda le proposizioni semplici
e articolate impiegate nei complementi di luogo, dove in diventa a:
2Sam 2,32: «che è in Betlemme» > «che è a Betlemme»; Gdt 11,13: «stanno in
Gerusalemme» > «stanno a Gerusalemme».
– Costruzioni enfatiche
Alcune costruzioni, che rendono più enfatica l’esposizione, «sono
47 «La tendenza citata è panitaliana, ma è più forte nelle varietà centro-meridionali
e nelle varietà diastratiche basse»: M. Berretta, Morfologia, cit., p. 216.
[ 16 ]
126 michela pero
ben presenti nella lingua italiana parlata e in quella scritta che riflette
più direttamente la prima»48.
– La posposizione del soggetto al predicato
Tale fenomeno conferisce maggiore formalità alle espressioni in cui
ricorre:
Gv 6,2: «una grande folla lo seguiva» > «lo seguiva una grande folla»; Gal
5,19: «le opere della carne sono ben note» > «sono ben note le opere della carne».
Ma, come frequentemente avviene in questa versione in cui si riscontrano
anche prassi contrarie, in alcuni casi la posposizione del
soggetto frequente nell’italiano medio e per lungo tempo biasimata
dalle grammatiche tradizionali lascia il posto alla costruzione soggetto
+ predicato verbale:
Prv 1,5: «Ascolti il saggio» > «Il saggio ascolti»; 1Pt 3,7: «non saranno impedite
le vostre preghiere» > «le vostre preghiere non troveranno ostacolo».
– La frase scissa
La frase scissa, suddividendo l’informazione in due unità frasali
distinte, permette di riconoscere facilmente l’informazione nuova.
Questo costrutto è sempre più diffuso non solo nella comunicazione
orale ma anche nella scrittura formale contemporanea e rappresenta
uno dei tratti caratterizzanti dell’italiano medio49. Esso è frequente
nella revisione biblica:
Mt 3,14: «Io ho bisogno di essere battezzato» > «Sono io che ho bisogno di
essere battezzato»; Gv 6,70: «Non ho forse scelto io voi» > «Non sono forse io
che ho scelto voi».
Mentre è stata eliminata in alcuni casi:
Es 6,5: «Sono ancora io che ho udito il lamento» > «Io stesso ho udito il lamento
»; Gc 3,10: «È dalla stessa bocca che esce» > «Dalla stessa bocca escono».
– Che polivalente
Nell’italiano parlato colloquiale o di uso medio, è diffusa la ten-
48 F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche italiane,
cit., p. 161.
49 Cfr. V. Buttini, Le frasi scisse e pseudoscisse nelle grammatiche di italiano L2, in
La variazione nell’italiano e nella sua storia, varietà e varianti linguistiche testuali. Atti
dell’XI Congresso SILFI-Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana
(Napoli, 5-7 ottobre 2010), a cura di P. Bianchi, N. De Blasi, C. De Caprio, F.
Montuori, Vol. II, 2010, pp. 630-631.
[ 17 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 127
denza a conferire alla congiunzione che una funzione generica; pertanto
il che polivalente viene comunemente considerato un tratto ascrivibile
alla lingua contemporanea50. Nel testo sacro non si registrano casi
di che con funzione polivalente, anzi quando la congiunzione ha valore
temporale e locativo viene sostituita dal più formale in cui:
Nm 33,55: «vi faranno tribolare nel paese che abiterete» > «vi tratteranno
da nemici nella terra in cui abiterete»; Ez 4,9: «i giorni che tu rimarrai disteso
sul fianco» > «i giorni in cui tu rimarrai disteso sul fianco».
– Accordo di genere e numero tra participio passato e l’oggetto
L’accordo di genere e numero tra participio passato e l’oggetto anteposto
in frasi relative è eliminato soprattutto in associazione con
l’ausiliare avere51, come accade nell’italiano contemporaneo:
Gs 4,4: «i dodici uomini, che aveva designati» > «i dodici uomini che aveva
designato»; Sal 8,4: «la luna e le stelle che tu hai fissate» > «la luna e le
stelle che tu hai fissato».
– Accordo di numero tra soggetto e predicato
Nella Bibbia del 1974 non c’era l’accordo di numero tra soggetto e
predicato; nella traduzione del 2008 si opta per il verbo plurale, con
una scelta meno marcata:
Gv 19,32: «al primo e poi all’altro che era stato crocifisso» > «all’uno e
all’altro che erano stati crocifissi»; Gc 3,10: «esce benedizione e maledizione» >
«escono benedizione e maledizione».
– Doppia negazione
In passato questa costruzione è stata considerata agrammaticale e
illogica, come accade in latino, perché equivalente a un’affermazione
di verità52:
Gn 39,11: «non c’era nessuno» > «non c’era alcuno»; Gv 18,38: «non trovo in
lui nessuna colpa» > «non trovo in lui colpa alcuna».
Alcune semplificazioni intervengono con l’eliminazione di verbi di
supporto:
Nm 3,42: «Fece il censimento» > «censì»; 2Mac 13,4: «diede ordine» > «ordinò
»; Ef 4,28: «Chi è avvezzo a rubare» > «Chi rubava».
50 Cfr. F. Sabatini, L’’’italiano dell’uso medio’’: una realtà tra le varietà linguistiche
italiane, cit., p. 164.
51 Cfr. Ivi, p. 167.
52 Cfr. M. G. Lo Duca, Lingua italiana ed educazione linguistica. Tra storia, ricerca
e didattica, Roma, Carocci, 2009, p. 44.
[ 18 ]
128 michela pero
Lessico
Alcuni interventi da prendere in considerazione si riferiscono al
lessico, al quale i revisori hanno riservato particolare attenzione:
La revisione dell’italiano ha eliminato una terminologia desueta o antiquata
e ha cercato di ottenere una migliore coerenza nell’insieme, che
va dall’uniformazione lessicale (fin dove è possibile) all’attenzione per
lo stile e il ritmo della frase […] Spesso si tratta di terminologia più
appropriata. Caino è “custode” di suo fratello (non “guardiano”, che si
usa per gli animali; Gen 4,9). L’“ònagro” è l’“asino selvatico” (Gen
16,12; Gb 11,12; 24,5; 39,5; Sal 104,11; Sir 13,19; Ger 14,6; Dn 5,21); Potifàr
(Gen 39,1) è “eunuco” del faraone (non semplicemente o eufemisticamente
“consigliere”; si è uniformato il significato del termine ebraico
con altri passi); la donna che tenta Giuseppe, moglie del suo padrone,
cerca di adescarlo dicendogli “còricati con me” (non blandamente
“unisciti a me”; Gen 39,7 e cfr. vv. 12 e 14). In Es 1,11 e 6,6 i “gravami”
sono riformulati ora rispettivamente come “angherie” e “lavori forzati”;
in Es 12,45 l’“avventizio” è l’“ospite”. L’“ossìfrago” è ora
l’“avvoltoio” (Lv 11,13) […] Nel Nuovo Testamento il famoso “mammona”,
che anche il greco trascrive dall’aramaico e ha assunto forse
nell’immaginario collettivo significati esorbitanti ma vaghi, è reso ora
con “la ricchezza”, che ne esprime il senso fondamentale53.
Nella traduzione del 2008 sono eliminate voci in disuso, ma talvolta
è stata adottata una terminologia più specialistica che, sebbene meno
chiara nell’immediato, garantisce una maggiore precisione lessicale
e semantica:
– Meretrice >Prostituta
La sostituzione è dovuta alla necessità di rimandare allo stesso
concetto54 usando tra i due sinonimi quello più attuale, oltre che di
alta disponibilità55:
Gc 2,25: «la meretrice» > «la prostituta»; Ap 19,2: «la grande meretrice» >
«la grande prostituta».
53 La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana in nuova edizione (2008). Finalità
e caratteristiche di una revisione, cit., pp. 37-38.
54 Cfr. N. Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Unione
Tipografica Editrice, 1865-1879 [d’ora in poi citato con la sigla TB] ad vocem; Cfr. S.
Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, Utet, 1961-2002 [d’ora in
poi citato con la sigla GDLI] ad vocem; Cfr. Zing ad vocem.
55 Cfr. Gradit ad vocem.
[ 19 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 129
– Mosconi > Tafani
La sostituzione predilige l’uso corrente. Il motivo di tale preferenza
è da ricercare nella diversa rappresentazione che danno le due specie
di insetti: il tafano, essendo un insetto più aggressivo e fastidioso,
rispetto al moscone suggerisce immagini e scene più violente e, dal
punto di vista stilistico, più letterarie:
Es 8,17: «mosconi» > «sciami di tafani»; 8,27: «allontanò i mosconi dal faraone
» > «allontanò i tafani dal faraone».
– Servi > Ministri
Il termine servo indica chi lavora alle dipendenze di altri56. Nella
percezione corrente, invece, il termine ministro indica un dovere alto e
nobile, una missione assunta per vocazione, con particolare riferimento
al sacerdozio57. Tuttavia va segnalato che l’etimologia di ministro
risale in realtà a minus. Questa parola pertanto nel contesto dei passi
evangelici indica comunque colui che si mette al servizio degli altri, in
particolare della comunità dei fedeli. In questa prospettiva quindi ministro
e servo avrebbero in realtà accezioni simili, ma la percezione di
tale sostanziale equivalenza non è più immediata nell’italiano corrente.
In un certo senso, quindi, la sostituzione di servi con ministri nella
prospettiva degli odierni lettori apparirebbe rispondente alla volontà
di sostituire una forma più letteraria e elevata (ministro) a quella connessa
a un significato più umiliante. Non è escluso insomma che un
comune lettore, cioè chiunque non sia abituato a cogliere talune implicazioni
teologiche, possa fraintendere questi passi in cui la forma servi
è sostituita con ministri:
Es 7,10: «ai suoi servi» > «ai suoi ministri»; 11,8: «tutti questi tuoi servi» >
«tutti questi tuoi ministri».
Nell’italiano corrente infatti la parola ministro è ormai ricondotta
al suo diffuso impiego nell’ambito politico-istituzionale, in cui il collegamento
diretto a una funzione di rango elevato e di potere ha ormai
cancellato quasi del tutto l’iniziale accezione riferita a persona che si
pone al servizio della collettività. Un ulteriore elemento di disorientamento
per il lettore proviene poi dal fatto che in altri casi la forma
ministri è sostituita da servi o servitori:
56 Cfr. Zing ad vocem.
57 «Chi, in virtù dell’ordinazione sacerdotale, amministra i sacramenti»: Zing
ad vocem.
[ 20 ]
130 michela pero
1Cor 3,5: «Ministri» > «Servitori»; 1Pt 1,12: «ministri di quelle cose» > «servi
di quelle cose».
– Rame > Bronzo
In epoca romana non si distingueva tra rame e bronzo, ma i revisori
potrebbero aver preferito bronzo per adeguamento alla realtà, in
quanto la lega in bronzo era probabilmente la più frequente all’epoca
del racconto biblico:
Gn 4,22: «lavorano il rame e il ferro» > «lavorano il bronzo e il ferro»; Es
25,3: «oro, argento e rame» > «oro, argento e bronzo».
– Cambiavalute > Cambiamonete
Secondo la lessicografia italiana corrente i due termini sono sinonimi58.
I revisori probabilmente hanno tenuto conto della maggiore
comprensibilità di cambiamonete (in cui la forma moneta rinvia all’esperienza
comune dei parlanti) quando hanno sostituito cambiavalute
nei passi seguenti:
Mt 21,12: «i tavoli dei cambiavalute» > «i tavoli dei cambiamonete»; Mc
11,5: «i tavoli dei cambiavalute» > «i tavoli dei cambiamonete».
Si deve tuttavia notare che per cambiamonete può essere percepito
dal parlante un significato diverso rispetto a cambiavalute, poiché
quest’ultima forza è collegata al cambio che viene operato nel trasferire
una certa somma da un sistema monetario a un altro (oggi, per
esempio, dalla sterlina all’euro, o dal dollaro canadese al dollaro statunitense
ecc.), laddove il cambio della moneta viene inteso anche (o
soprattutto) come l’operazione che permette di scambiare tra loro monete
o banconote di pari valore ma di tagli diversi (per esempio cambiando
una banconota da dieci euro con due da cinque euro). Il cambio
che veniva effettuato nel Tempio si collegava al pagamento di una
tassa: quando tale tassa era pagata con la valuta di Tiro (lo shekel di
Tiro) non si aggiungeva alcuna sovrattassa; quando invece la tassa era
pagata con altre valute, per esempio con lo shekel di Gerusalemme,
veniva aggiunta una sovrattassa corrispondente all’8%; perciò per coloro
che andavano al Tempio conveniva pagare questa tassa usando lo
shekel di Tiro. Ne consegue che nel cortile del Tempio si trovavano
proprio dei cambiavalute59. Il ricorso alla forma cambiamonete può perciò
suggerire al lettore una interpretazione riduttiva, occultando un
58 Cfr. GDLI e Zing ad vocem.
59 R ingrazio Carlo de Cesare, diacono, che ha letto questo mio lavoro ed è sta-
[ 21 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 131
punto che invece richiederebbe un chiarimento (per esempio da parte
di chi commenta i passi durante un’omelia).
– Conca> Bacino
I vocabolari segnalano una netta distinzione tra i due termini; conca
è «un capace recipiente, di terracotta o di metallo, con spesse pareti,
usato generalmente per il bucato»60, «capace vaso di terracotta,
dall’imboccatura larga, usato, spec. un tempo, per fare il bucato. Anfora
di rame a due manici con una strozzatura verso la bocca, usata
nell’Italia centro-meridionale per attingere acqua alla fontana»61. Il bacino
invece è una «cavità destinata a raccogliere l’acqua condottavi
per mezzo di canali»62, «regione strutturalmente concava della superficie
terrestre»63. Alla luce delle definizioni è chiaro che il secondo termine
è un tecnicismo, eppure è preferito al primo considerato forse
più popolare.
Es 30,18: «conca di rame» > «bacino di bronzo»; Lv 8,11: «la conca e la sua
base» > «il bacino con il suo piedistallo».
– Immondo > Impuro
Il cambiamento che privilegia la forma più corrente non è generalizzato,
visto che in molti passi il letterario immondo viene conservato:
Lv 5,2: «immondo» > «impuro»; Ap 18,2: «spirito immondo» > «spirito impuro
».
– Iniquità > Colpa
Il termine iniquità, diffusosi nel sec. XIII64, indica un atto scellerato,
la violazione di un principio etico e, in particolare nel linguaggio biblico
e teologico, peccato che offende gravemente Dio65. La voce colpa,
del sec XI, denota una condotta sconsiderata che genera una conseguenza
negativa66. Il termine comune iniquità, nella maggior parte dei
casi, viene sostituito da colpa proprio del lessico fondamentale; in altri
casi, però, viene di volta in volta rimpiazzato da un termine diverso:
to prodigo di suggerimenti e di indicazioni, in particolare in merito all’accezione
di ministro e alla sostituzione di cambiavalute con cambiamonete.
60 GDLI ad vocem.
61 Zing ad vocem.
62 GDLI ad vocem.
63 Zing ad vocem.
64 Cfr. DISC ad vocem.
65 Cfr. VLI ad vocem.
66 Cfr. DISC ad vocem.
[ 22 ]
132 michela pero
Ne 3,37: «non coprire la loro iniquità» > «non coprire la loro colpa»; 1Mac
9,61: «i promotori di tale iniquità» > «i promotori di tale scelleratezza»; Sal 7,4:
«se c’è iniquità» > «se c’è ingiustizia»; Lc 11,39: «di iniquità» > «di cattiveria».
In tanti casi però iniquità rimane inalterato o sostituisce addirittura
un altro termine:
Tb 13,5: «Vi castiga per le vostre ingiustizie» > «Vi castiga per le vostre
iniquità»; Gdt 5,21: «non c’è alcuna trasgressione» > «non c’è alcuna iniquità»;
1Mac 3,20: «di empietà» > «d’iniquità»; Sal 51,5: «Riconosco la mia colpa» > «Sì,
le mie iniquità io le riconosco».
– Lungi > Lontano
Il letterario lungi lascia il posto all’usuale lontano:
Dt 29,17: «lungi dal Signore» > «lontano dal Signore»; Prv 4,24: «tieni lungi
da te» > «tieni lontano da te».
In altri casi a lungi subentra la locuzione non sia mai:
1Sam 20,9: «lungi da te!» > «Non sia mai!»; 2Sam 20,20: «lungi, lungi» > «non
sia mai, non sia mai».
– Tagliapietre > Scalpellini
Tagliapietre è presente solo in due versetti della Bibbia 1974, dove la
parola scalpellini era già usata più spesso dell’altra. Nella traduzione
del 2008 si opta per una soluzione uniforme e sono eliminate le due
occorrenze di tagliapietre, che tra l’altro è oggi meno attuale67:
2Re 12,13: «ai tagliapietre» > «scalpellini»; Esd 3,7: «ai tagliapietre» > «agli
scalpellini».
In questo caso un termine di basso uso ha lasciato il posto ad uno
di uso tecnico-specialistico.
– Vignaioli > Contadini
La parola vignaioli, presente sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento,
viene sostituita da contadini solo nel Nuovo Testamento, restando
invariata nell’Antico dove, in alcuni casi, è affiancata proprio
da contadini. Le due voci non sono sinonimi, considerate le differenti
mansioni che sono chiamate a svolgere le due figure: il vignaiolo coltiva
la vigna, il contadino lavora la terra per conto proprio o di un
padrone68. Senza dubbio la scelta dipende dalla volontà di recuperare
67 Il termine tagliapietre non è presente in DISC.
68 Cfr. TB ad vocem.
[ 23 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 133
maggiore accordo con le lingue originali e in effetti il greco γεωργοῖς
dei testi delle origini significa contadini:
Mt 21,33: «l’affidò a dei vignaioli» > «La diede in affitto a dei contadini»;
Mc 12,2: «da quei vignaioli» > «dai contadini».
– Legaccio > Laccio
Anche questa sostituzione è dovuta alla maggiore diffusione di laccio,
voce di alta disponibilità, tuttavia legaccio, di uso comune, sarebbe
in questo caso più pertinente69:
Mc 1,7: «i legacci dei suoi sandali» > «i lacci dei suoi sandali».
– Ventilabro > Pala
Il ventilabro è una «larga pala di legno usata sull’aia per separare
dal grano la pula spargendola al vento»70. La traduzione del 2008 sostituisce
l’espressione tecnico-specialistica con una definizione di alta
disponibilità e quindi più usuale71:
Lc 3,17: «Egli ha in mano il ventilabro» > «Tiene in mano la pala».
– Lampadario > Candelabro
La parola candelabro era già ampiamente usata nell’edizione del
1974. L’unico caso in cui era presente lampadario è stato sostituito per
evitare fraintendimenti. Infatti gli oggetti in questione non possono
essere considerati sinonimi: il lampadario è un «apparecchio per l’illuminazione
artificiale che si appende al soffitto e sostiene una o più
lampadine, assumendo anche una funzione decorativa e d’arredamento
»72, mentre il candelabro era «anticamente, sostegno di forme
diverse atto a reggere una candela, una fiaccola, un lume a olio e
sim.»73. Sebbene lampadario sia più comprensibile e risulti più attuale,
in relazione al contesto biblico, apparirebbe anacronistico (vista la sua
diffusione anche in riferimento a un oggetto moderno):
Lc 8,16: «la pone invece su un lampadario» > «ma la pone su un candelabro
».
69 Il legaccio è una «striscia di stoffa, pelle e sim. per legare o stringere», mentre
il laccio è una «corda con cappio o nodo scorsoio che si stringe tirando»: Zing
ad vocem.
70 Zing ad vocem.
71 La pala è uno «strumento formato da un manico, generalmente di legno,
recante a un’estremità una parte piatta o leggermente concava per lo più di ferro,
atto allo spostamento o al carico di materiali incoerenti»: GDLI ad vocem.
72 DISC ad vocem.
73 Zing ad vocem.
[ 24 ]
134 michela pero
Di seguito sono elencate espressioni letterarie ed ecclesiastiche sostituite
forse perché poco usuali per un lettore medio:
– A guisa > A modo
1Cor 11,15: «le è stata data a guisa di velo» > «le è stata data a modo di velo
».
– D’aggravio > Di peso
2Cor 11,9: «non sono stato d’aggravio a nessuno» > «non sono stato di peso
ad alcuno».
– Impropèri > Disprezzo
2Pt 2,2: «la via della verità sarà coperta di impropèri» > «la via della verità
sarà coperta di disprezzo».
– Vegliardi74 > Anziani
In questo caso è stato preferita una forma che appare come eufemismo:
Ap 4,4: «ventiquattro vegliardi» > «ventiquattro anziani».
– Veraci75 > Vere
Ap 15,3: «giuste e veraci le tue vie» > «giuste e vere le tue vie».
Infine il semitismo «nel seno di Abramo» è diventato, nel 2008, «accanto
ad Abramo» in Lc 16,22, mentre il toscanismo «né di costì si può
attraversare fino a noi» è diventato «né di lì possono giungere fino a
noi» in Lc 16,26. Altri termini non hanno un corrispondente lessicale
specifico ma si prestano ad una semplificazione perché ritenuti tecnicismi
(è il caso di apostasia, cicuta e podàgra) o letterari (assiso, infimo,
mercede e progenie), resa attraverso parole più popolari o perifrasi:
– apostasia (Dt 13,6: «ha proposto l’apostasia dal Signore» > «ha proposto di
abbandonare il Signore»; Gs 23,12: «se fate l’apostasia» > «se vi volgete indietro
»);
– assiso (Sal 9,8: «Ma il Signore sta assiso in eterno» > «Ma il signore siede
in eterno»);
– cicuta (Os 10,4: «la giustizia fiorisce come cicuta nei solchi dei campi» >
«il diritto fiorisce come pianta velenosa nei solchi dei campi»);
– infimo (1Cor 15,9: «Io infatti sono l’infimo degli apostoli» > «Io infatti sono
il più piccolo tra gli apostoli»; Ef 3,8: «A me, che sono l’infimo fra tutti i santi»
> «A me, che sono l’ultimo fra tutti i santi»);
74 Vegliardo è mantenuto nei versetti Dan 7, 9-13-22 e Gbe 12,20.
75 Verace potrebbe essere stato sostituito perché ritenuto un regionalismo: cfr.
GRADIT ad vocem.
[ 25 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 135
– mercede (1Cor 3,8: «riceverà la sua mercede» > «riceverà la propria ricompensa
»);
– podàgra (1Re 15,23: «Egli nella sua vecchiaia ebbe la podàgra» > «Tuttavia
nella sua vecchiaia fu ammalato ai piedi»);
– progenie (Is 6,13: «progenie santa sarà il suo ceppo» > «seme santo sarà il
suo ceppo»; Ger 31,36: «la progenie di Israele» > «la discendenza d’Israele»).
La Conferenza Episcopale Italiana ha tenuto a spiegare che alcuni
testi non sono stati alterati, perché un’altra soluzione avrebbe potuto
svilire la specificità di alcuni significati:
Il “vincastro” di Sal 23,4 è rimasto accanto a “bastone”, ma non come
suo esatto sinonimo: è un termine appropriato, poiché rispetto a
quest’ultimo indica l’asta uncinata con cui i pastori guidano il gregge,
ma è forse desueto e comunque poco comune. Il recipiente in cui Dio
raccoglie le lacrime del supplicante perseguitato è ancora l’“otre” in
Sal 56,9, sebbene non evochi più per noi l’ambiente beduino in cui viene
usato abitualmente; la sostituzione ad esempio con “vaso” avrebbe
impoverito l’immagine. Altri testi sono invece rimasti inalterati perché
[…] sono troppo legati a vincoli ermeneutici che si sono imposti con la
tradizione e i tentativi di ritorno all’ebraico hanno dovuto cedere al
greco della LXX, che è il testo citato nel Nuovo Testamento76.
È stata prestata molta attenzione anche all’onomastica, come si
evince dalla seguente precisazione:
La stragrande maggioranza dei nomi resta poco nota nell’uso comune
e nelle traduzioni correnti assume grafie diverse e talvolta complicate,
poco adatte alla fonetica e alla morfologia italiana. Una versione che
non richieda di lasciare i nomi propri invariati […] deve cercare una
resa dell’onomastica che sia semplificata e quanto più possibile adattata.
È quello che ha tentato di realizzare la presente revisione, nella più
piena consapevolezza che non esistono criteri uniformi che possano
guidare la trasposizione a livello sistematico. Sono rimaste quindi diverse
incoerenze, da un punto di vista strettamente fonetico più che
morfologico, soprattutto nei casi in cui una grafia coerente con il procedimento
generale avrebbe creato dissonanze o cacofonie in italiano.
Si è cercato comunque di stabilire una corrispondenza fonetica che fosse
il più possibile italiana, e quindi ad esempio semplificando le sibilanti
(Siklag invece di Ziklag, Sippor invece di Zippor per la sibilante
enfatica ebraica) e riducendo o adattando le gutturali (Adad per Hadad,
Ittita per Hittita, rispettivamente per la gutturale debole e forte
76 La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana in nuova edizione (2008). Finalità
e caratteristiche di una revisione, cit., p. 40.
[ 26 ]
136 michela pero
ebraica). Similmente, si è ridotta la sequenza vocalica quando era possibile
e non si creavano confusioni (Besalel invece di Bezaleel)77.
La traduzione del testo sacro non ha comportato solo una revisione
di natura lessicale e morfosintattica ma anche semantica, perché è fondamentale
cogliere i significati dei concetti espressi soprattutto in relazione
al contesto culturale che in cui ci si trova a vivere:
È ovvio che uno stesso termine non può essere tradotto sempre con un
unico corrispondente, ma rispetto alla lingua di arrivo e ai connotati
semantici del suo vocabolario, che si sono venuti cristallizzando nel
tempo e nell’uso, si può procedere attenendosi a parole e significati
diversi. Così ad esempio per la parola ebraica ‘eres si è cercato di distinguere
tra “terra”, quando designa la terra di Canaan (con tutti i suoi
risvolti tipicamente biblici di richiamo e di nostalgia), “territorio”,
quando si tratta di indicazione puramente geografica e neutrale, e “paese”,
quando (raramente) ci si riferisce a una realtà antropica organizzata.
Evidentemente, nell’ambito dei testi biblici, risulterà prevalente
la prima accezione. Similmente, si è cercato di rispettare il valore biblico
di ‘am come “popolo” (quasi esclusivamente per Israele) e di goy
come “nazione”, una parola quest’ultima che, al di là del suo significato
politico corrente, in contesto biblico indica i popoli stranieri (soprattutto
nel plurale “nazioni”, sostituito talvolta con “genti”)78.
Gli studiosi chiamati a revisionare il testo sacro hanno prestato
molta attenzione alle espressioni lontane dall’uso corrente, badando a
non correre il rischio di alterare il significato della parola rispetto al
contesto originario79:
I “tetti” su cui si dovrebbe predicare sono ora le “terrazze” (ossia le tipiche
coperture piatte delle case orientali; Mt 10,27); l’uomo che incontra
Gesù in giorno di sabato ha la mano “paralizzata” (non “inaridita”;
Mt 12,10); Gesù è figlio del “falegname”, non del “carpentiere” (si vuole
escludere dal significato la componente edilizia o il lavoro di montaggio,
o anche una connotazione imprenditoriale, racchiusi in questo
secondo termine italiano; Mt 13,55; Mc 6,3). Il giaciglio su cui il paralitico
è adagiato, e che egli poi porta via con le sole sue forze, non è un
“lettuccio” ma una “barella” (Mc 2,4.12). Per Maria e Giuseppe non
c’era posto “nell’alloggio”, non “nell’albergo” (per sottolineare il carat77
Ivi, p. 16.
78 Ivi, p. 14.
79 Cfr. ivi, p. 18.
[ 27 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 137
tere
sia pubblico che privato di un ricovero che fosse adatto per una
partoriente; Lc 2,7)80.
Inoltre le parole che hanno subito una specializzazione semantica
o che hanno nel linguaggio contemporaneo un significato specifico
sono state sostituite sia per evitare anacronismi sia per arginare equivoci.
È il caso di convivenza81.
In alcuni casi la sostituzione è suggerita dalla volontà di adottare
una forma più adatta al contesto storico.
– Palestra > Ginnasio
Le due parole erano in passato strettamente collegate, in quanto
anticamente il ginnasio era un complesso architettonico di cui la palestra
faceva parte82.
In epoca moderna, com’è noto, i due termini assumono significati
diversi, rispettivamente in riferimento a un tipo di scuola e un locale
destinato allo svolgimento di esercizi atletici o ginnici. Pur sembrando
meno adatto, perche l’uso contemporaneo conduce ad un significato
scolastico, la parola ginnasio è più consona al contesto culturale del
tempo, in cui palestra avrebbe assunto un significato in contrasto con
quel periodo storico:
1Mac 1,14: «Essi costruirono una palestra in Gerusalemme» > «Costruirono
un ginnasio a Gerusalemme».
– Ammaestrare > Istruire/Insegnare
Il cambiamento è avvenuto nei casi in cui la prima voce verbale era
in relazione agli uomini dato che «il termine ammaestrare83 è normalmente
e correttamente utilizzato a proposito di animali irragionevoli
e, perciò, va sostituito con istruire»84:
80 Ivi, p. 38.
81 «Possiamo scorgere la necessità di eliminare, per ragioni di riguardo, un
termine, sia pure proprio in tale contesto, oggi specializzatosi nel designare la coabitazione
di una coppia non sposata»: R. Digregorio, Contributi alla ricostruzione
della politica linguistica della Chiesa cattolica italiana postconciliare, cit., p. 108. «Ritornato
a casa, riposerò vicino a lei, perché la sua compagnia non dà amarezza, né
dolore la sua convivenza, ma contentezza e gioia» > «Ritornato a casa, riposerò vicino
a lei, perché la sua compagnia non dà amarezza, né dolore il vivere con lei, ma
contentezza e gioia»: Sap 8,16.
82 Cfr. TB, GDLI e Zing ad vocem.
83 Ammaestrare, riferito agli uomini, rischia di assumere un senso ironico: cfr.
VLI ad vocem.
84 R. Digregorio, Contributi alla ricostruzione della politica linguistica della Chiesa
cattolica italiana postconciliare, cit., p. 109.
[ 28 ]
138 michela pero
Sap 9,18: «gli uomini furono ammaestrati» > «gli uomini furono istruiti»;
Lc 4,31: «il sabato ammaestrava la gente» > «in giorno di sabato insegnava alla
gente».
3. L’italiano contemporaneo nella Bibbia
Come nell’italiano contemporaneo, in conclusione, anche nella traduzione
del 2008, risalta la presenza di forme che per lungo tempo
hanno fatto parte di un registro linguistico basso o informale. L’ultima
revisione della Bibbia sembra dunque in linea con una tendenza attualizzante
che ha avvicinato il testo a caratteristiche linguistiche adottate
correntemente nell’italiano contemporaneo e riconosciute come tipiche
del cosiddetto italiano dell’uso medio.
D’altro canto, sebbene sia indiscutibile l’attuazione di un uso linguistico
flessibile che interpreta le esigenze comunicative della fascia
media dei parlanti italiani, in linea con le intenzioni e le finalità proposte
dal documento conciliare Dei Verbum, la Chiesa ha inteso anche
preservare, quando necessario, un linguaggio più formale per evitare
lo scadimento verso toni diafasicamente marcati e troppo orientati
verso connotazioni colloquiali e informali. Questo stile insomma corrisponde
perfettamente alla politica linguistica dichiarata dalla Chiesa;
da un lato la lingua, diventando più semplice e comprensibile, favorisce
un maggiore coinvolgimento dei fedeli cattolici; dall’altro non
viene meno una comprensibile esigenza di sacralità:
La stabilità raggiunta nella conoscenza dei fedeli o nella lingua comune
da altre formule analoghe o da altri termini specifici ha indotto
i revisori dei testi liturgici a conservarli nonostante eventuali improprietà
o lontananze dall’uso. La sostituzione, infatti, potrebbe comprometterne
la riconoscibilità. La traduzione, per es., di un passo ancora
molto discusso del vangelo di Luca (2,14) appare, nella versione
biblica del 2008, come “sulla terra pace agli uomini, che egli ama”;
nell’inno di gloria, recitato all’inizio della messa, al contrario, si è lasciata
la vecchia versione, “pace in terra agli uomini di buona volontà”.
La distanza tra una variante e l’altra implica importanti questioni
interpretative, ma l’espressione è a tal punto sedimentata nella lingua
da evocare un universo culturale altrimenti irriconoscibile85.
Il fascino linguistico della traduzione del 2008 consiste in fondo
85 R. Librandi, Chiesa e lingua, in Enciclopedia dell’italiano, cit., ad vocem.
[ 29 ]
l’italiano contemporaneo nella revisione della bibbia 2008 139
proprio nel nesso dialettico e nel raggiunto equilibrio tra una spinta
innovatrice e attualizzante ed una logica conservatrice e tradizionalista:
il superamento delle soluzioni rigide della norma grammaticale
tradizionale si è pertanto combinato con la parziale conservazione di
soluzioni letterarie e tradizionali. Ciò probabilmente ha anche impedito
il rischio di uno stravolgimento o di potenziali fraintendimenti
del senso dei testi biblici.
Michela Pero
[ 30 ]
Fara Autiero
Tra comico e arguto. Per un’analisi tecnica
dello ‘spirito’ in Ferdinando Galiani
La produzione di Ferdinando Galiani indagata attraverso le tecniche del motto
catalogate da Sigmund Freud; una prima analisi atta a spiegare non solamente
gli svariati motti di spirito disseminati nelle opere galianee e nella memoria dei
suoi contemporanei, ma soprattutto le motivazioni che spinsero uno degli
uomini più arguti del XVIII secolo ad affilare le lame dell’ingegno per costruire
– già dai primi anni della sua attività- una macchina umoristica che non smise
di funzionare fino alla fine dei suoi giorni.

Ferdinando Galiani’s work examined by means of the witticism techniques catalogued
by Sigmund Freud. This essay aims to explain not only the various witticisms
scattered throughout Galiani’s literary output and in the minds of his contemporaries,
but also the reasons that led one of the wittiest men of the 18th
century to sharpen his wits in order to bring into being – from the earliest years
of his activity – a comic mechanism that carried on working for the rest of his life.
La critica ha sempre messo in risalto le spiccate qualità stilistiche di
Ferdinando Galiani, studiando approfonditamente il suo pensiero
economico, filosofico e giuridico, ma tralasciando – poiché appartenente
ad una produzione di non facile sistemazione – o dando minor
rilevanza ad una parte della sua personalità e delle sue opere che, scostandosi
dai tradizionali canoni illuministici, tendono ad avvicinarsi
maggiormente all’aspetto ludico della letteratura e della parola. Si è
sempre parlato di “spirito” del Galiani e, in effetti, molte sono state le
raccolte delle sue pagine più irriverenti1, degli aneddoti arguti2 e delle
battute di spirito3, ma la questione pare non essere mai stata affrontata
1 Cfr. F. Flora, Le più belle pagine di Ferdinando Galiani, Milano, F.lli Treves,
1927.
2 Cfr. R. Palmarocchi, Ferdinando Galiani e il suo secolo, Roma, Formiggini,
1930.
3 Cfr. F. Galiani, Galeota in Parnaso: venticinque motti ed una satira in terza rima,
Meridionalia
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 141
con la necessaria dose di attenzione e – paradossalmente – di serietà.
Gli studi precedenti si sono soffermati esclusivamente sull’aspetto catalogatorio,
ponendo sovente l’accento sulla raccolta e mai sull’analisi.
Per tale motivo, attraverso queste pagine proponiamo un primo
approccio ad un nuovo tipo di studi volti ad analizzare tecnicamente
la produzione “di spirito” del Galiani mediante un percorso che muove
dal particolare al generale, dal singolo motto di spirito ad una visione
quasi integrale4 della produzione galianea; un percorso utile a
comprendere non solo le motivazioni che spinsero l’Abate a fare largo
uso dell’arguzia nei suoi testi, ma anche i motivi del successo di
quell’arguzia che per secoli è stata – ed è ancora – ricordata come tratto
essenziale della sua personalità.
Poniamo come testo di riferimento per questa indagine la raccolta di
Altamura, poiché essa beneficia di una maggiore completezza inglobando
motti presenti in Amalfi, Flora e Palmarocchi. È lo stesso Altamura
ad informarci che nel 1747 il Dr. Galario Bodrane (Berardo Galiani) raccolse
all’interno dell’Amusemens des filles et des jeunes gens5 «[…] i racconti
e le piacevolezze che scaturivano dai discorsi del fratello […]»6, ovvero
la gran parte dei motti di spirito che si riconoscono al Galiani, creando
una sorta d’alone d’autorevolezza intorno a queste spiritose narrazioni.
Sia ben inteso, benché il Galiani entrò a far parte dell’Accademia
dell’Arcadia, non ci troviamo dinanzi a reflussi di bernesco arcadico, ma
a succosi frutti giocoso-satirici che sovente si muovono su una via non
perfettamente inquadrabile, oscillando tra genere burlesco, satira personale
e di costume, motto di spirito e taglio novellistico trecentesco.
Naturalmente, per la vastità della materia, sarebbe impossibile
estendere l’analisi a tutti i motti di spirito attribuiti al Galiani. Si è
cercato, quindi, di optare non per quelli più spiritosi, ma per quelli più
tecnicamente accostabili ad un certo canone di perfezione e capaci di
assurgere ad esempi-categorie in grado di contenere tutti gli altri.
Subito, quindi, un esempio pratico:
I sovrani di Napoli si facevano chiamare anche re di Gerusalemme per
un’antica tradizione risalente all’età angioina, ma era un titolo puraa
cura di G. Amalfi, Napoli, Tipografia Pesole, 1885; A. Altamura, Frizzi e sorrisi
dell’abate Galiani, Napoli, Società editrice napoletana, 1977.
4 Per i motivi che impediscono di prendere in considerazione l’intera produzione
si veda oltre.
5 Il manoscritto dell’opera è conservato nella Biblioteca della Società Napoletana
di Storia Patria, Fondo Galiani, segnatura XXXI, C, 23.
6 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., p. 12.
[ 2 ]
142 fara autiero
mente onorifico. Un giorno che Ferdinando IV chiese scherzoso al Galiani
(che di abate non aveva altro che il nome) dove si trovasse la sua
abazia, il Galiani rispose:
– Ma come, non lo sapete? È nel vostro Regno di Gerusalemme7.
La storia ci offre un caso palese di quello che Freud – all’interno de
Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio8, testo basilare per
quest’analisi – chiama “motto di unificazione”9. Questa tecnica consiste
nel creare «[…] nuove e inattese unità, rapporti reciproci di rappresentazioni,
e definizioni ottenute l’una dall’altra o dal rapporto con un
terzo elemento comune»10. In questo modo, i due titoli – Re di Gerusalemme
e Abate – e i due luoghi ove esercitare il titolo – Regno di Gerusalemme
e abazia – sono collegati da una relazione di reciproco
smascheramento (come Galiani è un abate solo di nome, allo stesso
modo solo di nome Ferdinando è Re di Gerusalemme). Secondo Freud
è proprio l’unificazione che sta alla base delle risposte pronte, poiché
permette di passare con facilità dalla difesa all’attacco, ritorcendo contro
l’assalitore l’argomento da egli proposto, stabilendo una connessione
tra la ragione dell’attacco e quella del contrattacco ed è proprio
questa caratteristica che fa dell’unificazione una delle tecniche più
utilizzate dal Galiani. Vediamo come essa viene adoperata sempre in
un episodio che vede come protagonista-carnefice (almeno nelle prime
battute) il re Ferdinando:
A Ferdinando IV (marito dell’assai poco fedele Maria Carolina) piaceva
moltissimo stuzzicare il Galiani, provocandone battute graffianti, e
spesso a suo proprio danno. Un giorno che lo vide salir lo scalone della
reggia, gli fece cader dall’alto un cornetto di corallo sul cappello.
Subito il Galiani si fermò.
Dalla terrazza il re gridò:
– Abate, e perché non continuate a salire?
– Maestà, aspetto che abbiate finito di pettinarvi11.
In questo caso l’unificazione avviene non tra due frasi, ma tra il
7 Ivi, p. 16.
8 S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, 1905. Per questo lavoro
è stato utilizzato S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, con
un saggio introduttivo di F. Orlando, Torino, Universale scientifica Boringhieri,
1983.
9 Ivi, pp. 90-93.
10 Ibidem.
11 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., p. 18.
[ 3 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 143
gesto del Re e la frase dell’Abate e a questa tecnica di base ne è accostata
un’altra, l’“allusione mediante omissione”12. Innanzitutto, il gesto
del Re rientra nella categoria del comico, utilizzato – almeno in
volontà di potenza – come impalcatura per un ipotetico motto che egli
avrebbe dovuto pronunciare sulla cattiva sorte degli ecclesiastici. La
reazione del Galiani ci mostra come la potenza del motto sia qualitativamente
superiore rispetto a quella del comico, riaffermando il valore
di quell’antica locuzione che assicura in maledicto plus iniuriae quam in
manu13. Il Re, stupito dall’inaspettato atteggiamento di colui che vorrebbe
beffare e che gli ostacola l’esecuzione del motto in potenza, si
trova costretto a domandargli il perché del suo bizzarro comportamento.
L’Abate riesce a creare un collegamento tra il gesto comico e il
contenuto del suo motto, come detto, non solo attraverso l’unificazione,
ma anche attraverso la tecnica dell’allusione mediante omissione.
La particolarità di questa tecnica la pone tra quelle di non facile distinzione
poiché, naturalmente, in ogni allusione vengono omessi dei passaggi
mentali; questo tipo di motto si basa, quindi, sulla qualità e sulla
quantità del materiale omesso. Siamo più chiari: la prima reazione del
Re è di stupore, poiché la risposta del Galiani non si confà al tipo di
domanda posta; egli, infatti, omette una parte qualitativamente importante
del discorso. L’omissione viene eliminata se ci accingiamo a
colmare la lacuna con le seguenti parole: “Maestà, ho smesso di salire
le scale perché dalla vostra persona è caduto un corno e poiché è rinomata
l’infedeltà di vostra moglie, deduco che il corno vi sia caduto
dalla testa e che quindi vi stiate pettinando. Poiché vostra moglie vi ha
più volte tradito e le corna che potrebbero cadere sono molte, per evitare
di essere nuovamente colpito, aspetto che abbiate finito di pettinarvi”.
Come si può notare, anche da un punto di vista quantitativo il
materiale omesso assume una particolare rilevanza.
Ancora un altro esempio:
Si è già detto che Ferdinando IV di Borbone era felicissimo quando
poteva giocare qualche tiro mancino al Galiani. Un giorno, a Portici,
mentre entrambi passeggiavano nel bosco assieme ad altri cortigiani,
venne giù una pioggia torrenziale. Tutti corsero verso un casolare, ma
il re chiuse la porta in faccia all’abate che era arrivato per ultimo con le
sue gambe corte e sbilenche. Dopo un po’ il re aprì la porta e all’abate,
inzuppato come un pulcino, chiese con falso interessamento:
– Cosa fate qui fuori? Perché non siete entrato? Vi siete forse bagnato?
12 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cit., pp. 101-103.
13 Quintiliano, Istitutiones, 6, 2, XXIII.
[ 4 ]
144 fara autiero
– Sono bagnato, sì, ma dentro non potevo entrare. Ricorderete che anche
nell’arca di Noè entrarono solo bestie14.
Nuovamente unificazione (il gesto del carnefice viene utilizzato
dalla vittima come arma per produrre il motto), ma adesso ravvicinata
ad un’altra tecnica, la “similitudine”15, il paragone spiritoso che accosta
il Re e i cortigiani agli animali presenti sull’arca, attuando un abbassamento
ferino tipico del mondo dell’arguzia e del motto spiritoso.
Anche qui, come si nota, vi troviamo un’omissione, ma essa si presenta
come scarsamente rilevante poiché risulta alquanto semplice sciogliere
la similitudine che la fa da padrona all’interno del motto.
I tre esempi fin’ora riportati obbligano la nostra indagine a compiere
una leggera, ma significativa traslazione all’interno di ciò che
Freud definisce tendenz16, ovvero gli intenti del motto.
In linea generale, un motto può presentarsi come fine a sé stesso
(innocente) o avere uno scopo (tendenzioso). I tre motti presentati sono
chiaramente motti tendenziosi e, in particolar modo, rientrano nella
categoria freudiana di “motti ostili”17. Così Freud:
Il motto ci permette di sfruttare il lato ridicolo del nemico, che prima
non potevamo apertamente e consciamente rivelare per via degli impedimenti
che si frapponevano, e quindi, ancora una volta, aggirerà le
limitazioni e schiuderà fonti di piacere divenute inaccessibili18.
In tutti e tre gli esempi che abbiamo analizzato troviamo un soggetto
che riceve un’offesa alla quale non può rispondere a causa di un
impedimento di natura sociale, impedimento che viene aggirato mediante
un motto atto a mettere in luce il lato ridicolo del nemico:
offesa impedimento azione risultato
I Caso
Galiani è
un abate
di nome e
non di fatto
Colui che ha
prodotto
l’offesa si trova
troppo in alto
nella scala
sociale
Motto
d’unificazione
Lato ridicolo:
anche Ferdinando
è Re di
Gerusalemme
solo di nome e
non di fatto
14 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., pp. 26-27.
15 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cit., pp. 105-113.
16 Ivi, pp. 114-140.
17 Ivi, pp. 126-133.
18 Ivi, pp. 127-128.
[ 5 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 145
Ii Caso
Galiani è di
cattivo
auspicio
Colui che ha
prodotto
l’offesa si trova
troppo in alto
nella scala
sociale
Motto d’unificazione
e di
allusione
tramite
omissione
Lato ridicolo:
si mette in
evidenza la
scarsa fedeltà
della Regina
III Caso
Galiani viene
lasciato sotto
la pioggia
Colui che ha
prodotto
l’offesa si trova
troppo in alto
nella scala
sociale
Motto di
unificazione e
similitudine
Lato ridicolo:
si mette in
evidenza la
stupidità del
Re
È tramite il motto che Galiani può restituire il colpo senza temere,
manipolando l’offesa per ritorcerla contro il Re, con ottimi risultati;
infatti, in questi tre esempi l’impressione d’arguzia è determinata a tal
punto dall’intento che posti davanti alla replica arguta del Galiani,
siamo portati a dimenticare completamente la spiritosa e allusiva
azione provocatrice del Re, più vicina, come detto, al mondo del comico
e quindi potenzialmente inferiore.
Fin’ora abbiamo analizzato il comportamento del Galiani dinanzi
alla più alta carica del Regno (è bene precisare che anche se possono
nascere dubbi sulla veridicità di questi episodi, ciò che a noi interessa è
la loro similitudine tecnica e di atteggiamento che ci porta a presupporre
un modello comportamentale già consolidato sia da parte del Re >
carnefice, che da parte del Galiani > vittima + carnefice). Ci sposteremo
ora in un ambito diverso che prevede un nuovo e particolare schema:
1. Attacco comico del Galiani;
2. Contrattacco della vittima;
3. Rincaro del Galiani con motto.
I punti 1 e 2 erano presenti anche negli apologhetti con il Re, ma a
questi era escluso il punto 3 per un’evidente inferiorità intellettiva;
poiché per entrare nel gioco del motto è necessaria la presenza di un
intendente, il primo attacco, in questi nuovi casi, proviene dal Galiani
stesso.
Proponiamo un esempio:
In un ballo mascherato a corte, il Galiani, mentre danzava con una
bella sconosciuta, le dette un approfondito pizzicotto. La dama, per
mettere in imbarazzo l’abate, si tolse la mascherina. Era la regina Maria
Carolina. Ma ci voleva ben altro per imbarazzare il Galiani, che, con
aria falsamente compunta e contrita, pregò con voce querula:
[ 6 ]
146 fara autiero
– Madame la Reine, si votre coeur est dur comme votre cul, je suis perdu!
Alla regina non rimase che sorridere, femminilmente compiaciuta
dell’implicito complimento ricevuto. E Maria Carolina non era insensibile…
19
Analizzando la storia20 possiamo notare come la prima azione provocatrice
del Galiani sia molto vicina al comico e che, in vista di un contrattacco,
porrebbe l’Abate in una posizione di svantaggio. Il contrattacco
della Regina, però, non è affidato alle parole, ma ad uno smascheramento,
un’agnizione che la pone ad un livello superiore per il solo fatto di
essere ella ciò che è. Posto dinanzi ad una persona socialmente sovrastante
e trovandosi in una posizione di inferiorità a causa della gaffe, il
Galiani ricorre nuovamente al motto per riequilibrare il dislivello, proponendoci
un “doppio senso vero e proprio o gioco di parole”21.
Nuovo schema:
1. Attacco comico del Galiani;
2. Contrattacco comico della vittima;
3. Attacco del Galiani con motto;
4. Rincaro della vittima con motto.
Un giorno, a Parigi, nell’aiutare una dama che gli piaceva troppo a
montare in carrozza, il Galiani ne profittò per prendersi delle libertà,
ricevendone in cambio un calcio negli stinchi. La sera dopo entrò nel
salotto della signora con un’esagerata camminatura da azzoppato.
– Cosa vi è successo, abate? – gli chiese, divertita, la bella signora.
– Ieri mi sono avvicinato impudentemente dietro ad una mula, buscandomi
un calcio…
– E voi, abate, non sapete ancora che le mule vanno avvicinate davanti
e non di dietro?22
Vediamo, ancora una volta, come questi tipi di motti tendenziosi
servano a ristabilire un equilibrio modificato.
19 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., pp. 15-16.
20 E ssa ci viene riportata in altro modo da Flora: «A Parigi, trovandosi il Galiani
ad un ballo in maschera, e ballando con una persona mascherata, le dette un
pizzicotto ad un certo luogo… La offesa, si cava la maschera, e ne esce… indovinate
chi? Il viso proprio, della Regina. Un altro si sarebbe smarrito; ma egli subito: “Si
votre coeur est dur comme votre c… je suis perdu”. La regina sorrise e l’abate fu salvo»
in F. Flora, Le più belle pagine di Ferdinando Galiani, cit., p. 226.
21 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cit., pp. 61-62.
22 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., pp. 62-63.
[ 7 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 147
Ad una presupposta situazione di parità che esisteva prima dell’episodio,
si impone una forza esercitata dal Galiani, forza grezza, poiché
derivante dal comico e non dal motto, ma che pone ugualmente
l’Abate in superiorità. La dama, personaggio importantissimo che potremmo
a buon diritto classificare come speculare e quasi alter ego del
Galiani, non tende a collocarsi ad un livello superiore, ma soltanto a
ristabilire un nuovo tipo di equilibrio, rispondendo, quindi, al comico
con il comico. Ma l’equilibrio viene nuovamente alterato dal Galiani.
Abbiamo affermato che la dama si presenta come immagine speculare
dell’Abate; osserviamo il perché. Attraverso un altro elemento comico,
l’andamento zoppicante, il Galiani prepara il terreno per il motto;
la dama, da parte sua, asseconda quell’atteggiamento con l’intenzione
di preparare, a spese del rivale, l’impalcatura per il proprio motto.
Ritorniamo per un istante nel mondo della tecnica. Ci troviamo dinanzi
ad un “doppio senso con allusione”23, dove la parola ‘mula’, svuotata
del suo significato originario, va ad alludere ambiguamente alla
dama focosa e scalciante. L’inclusione della donna nel mondo animale
crea un nuovo dislivello, ma essendo speculare del Galiani anch’ella
procede la sua azione con un motto e ne riprende financo la tecnica
usata, annullando tutte le forze in gioco e ristabilendo la situazione
iniziale.
Proviamo adesso, poiché abbiamo definito questi due motti tendenziosi,
a stabilirne gli intenti. In entrambi i casi ci troviamo dinanzi
a dei “motti osceni”24, ma in essi persistono delle differenze significative.
Cerchiamo però, innanzitutto, di rendere l’intento materiale del
motto osceno. Freud lo collega alla scurrilità che definisce come «[…]
il rilievo intenzionale […] dato a fatti e rapporti sessuali»25. Essa è rivolta
alla persona dalla quale si è attratti, persona che, ascoltando la
scurrilità, dovrebbe prendere coscienza dell’attrazione di chi la pronuncia
ed esserne a sua volta attratta; va equiparata, quindi, ad un
tentativo di seduzione. In entrambe le nostre storie assistiamo ad un
iniziale (seppur grossolano) atto di corteggiamento da parte del Galiani,
che si esplica mediante un gesto fisico non adatto al rango (nel
primo caso) e all’intelligenza (nel secondo) delle corteggiate. Nella
prima storia l’agnizione di Maria Carolina mette in luce l’inadeguatezza
dell’azione verso una persona di tale importanza. Infatti, più si
sale nella scala sociale e più la scurrilità, per essere ammissibile, neces-
23 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cit., pp. 64-65.
24 Ivi, pp. 121-126.
25 Ivi, p. 121.
[ 8 ]
148 fara autiero
sita di un allontanamento dalla volgarità. Come notiamo, il gesto è
ampiamente volgare, quindi, per provocare il riso senza rinunciare al
corteggiamento, il Galiani si prodiga a pronunciare un motto osceno
che si allontana dalla volgarità, un complimento e una scusa allo stesso
tempo reso con una sorta di omofonia tra le parole cardine ‘coer’ e
‘cul’ che provoca il riso della Regina (abbiamo notato l’esistenza di
due differenti versioni; esse non cambiano il significato del motto perché
in entrambe il soggetto della lusinga è la dama che sta più in alto
nella sfera sociale, la regina, sia essa di Napoli o di Francia).
Anche negli intenti la seconda storia presenta diversi termini di
complessità. Innanzitutto abbiamo la scurrilità volgare e fisica del Galiani,
inadatta all’elevatezza intellettuale (che possiamo solo – ma a
ragione – supporre) della dama. Similarmente a prima, infatti, più si
sale nella scala intellettuale, più la scurrilità, per essere ammissibile,
necessita di un allontanamento dalla volgarità. La reazione fisica della
donna blocca il corteggiamento, provocando nel corteggiatore una
sorta d’accumulo che necessita di una liberazione. Questa, appurato il
livello intellettuale della dama, il Galiani la esplica attraverso il motto.
Egli prosegue il corteggiamento, ma è la reazione della donna, è il suo
motto che fa sorridere di più poiché esso, essendo inaspettato, produce
nell’ascoltatore un grado più elevato di sorpresa. Da vittima a carnefice,
da corteggiata a corteggiatrice; il suo motto è molto più osceno
di quello del Galiani, è addirittura un ammaestramento sul futuro
comportamento da tenere. Eccoli, quindi, speculari uno dell’altro,
nuovamente sullo stesso livello.
Ancora un altro e particolare tipo di motto:
I filosofi a Parigi – soleva dire malignamente il Galiani – vengono su
all’aria aperta; a Stoccolma e a Pietroburgo non crescono che in serre
calde; a Napoli si allevano sotto il concime, e ciò perché il clima non è
favorevole26.
Da un punto di vista puramente tecnico ci troviamo dinanzi ad
una similitudine, tecnica che Freud fa rientrare nella sfera della “figurazione
indiretta”27 la quale necessita di una certa quantità di materiale
allusivo. Infatti, i filosofi vengono apertamente paragonati a dei
fiori e, allusivamente, il clima viene rapportato al tipo di governo. La
26 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., p. 20.
27 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cit., pp. 98-105.
[ 9 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 149
libertà e apertura mentale parigina permette ai fiori/filosofi di crescere
liberamente, senza costrizioni di genere. A Stoccolma e a Pietroburgo,
ovvero nel Regno di Svezia e nell’Impero Russo, giocando con il
concetto di freddo e di semilibertà concessa in quei territori, l’Abate
prospetta la nascita di fiori/filosofi solo attraverso il caldo protezionismo
dei regnanti. Ed eccoci a Napoli: qui, a causa della politica sfavorevole,
ovvero della già più volte denigrata personalità di Ferdinando
IV, i fiori/filosofi sono ricoperti da lordure e tra esse costretti a farsi
strada per venire alla luce. Anche in questo caso ci troviamo di fronte
ad un motto tendenzioso, ma alquanto particolare. Leggiamo Freud:
Un’occasione particolarmente favorevole al motto tendenzioso si verifica
quando l’intenzionale critica ribelle è diretta contro la propria persona
o, per dirla più cautamente, contro una persona della quale fa
parte anche la propria persona, una persona collettiva, per esempio il
proprio popolo28.
Dal punto di vista dell’intento esso rientra nei “motti cinici”29, ma
è particolarmente degno di nota scoprire l’intenzione che mosse il Galiani
a creare il motto. Vi è qui un dislivello da regolare? Apparentemente
no, non vi è nessuna offesa alla quale rispondere. Ma proviamo
per un istante a calarci nei panni di colui che ha pronunciato il motto.
Il Galiani, chietino, aveva compiuto i primi studi a Napoli, ma la maturazione
intellettuale era avvenuta in Francia.
Si presentano a questo punto due eventualità:
– Il motto è stato scritto quand’era ancora a Parigi;
– Il motto è stato scritto dopo il ritorno a Napoli.
Nel primo caso il nostro interesse si affievolisce notevolmente; il
motto diviene una costatazione di superiorità della Francia rispetto al
Regno di Napoli oramai lontano dalla mente dell’Abate. Tutt’altre
considerazioni
ci suggerisce il secondo caso. Tenendo a mente la seguente
proporzione:
Parigi : Libertà = Napoli : Prigionia,
il Galiani, maturando come libero pensatore a Parigi, si pone adesso
come l’eccezione presente nel Regno partenopeo, situandosi non solo
ad un livello superiore rispetto agli intellettuali napoletani, ma soprattutto
appianando un dislivello tra sé ed un intero popolo, quello pari-
28 Ivi, p. 136.
29 Ivi, pp. 130-139.
[ 10 ]
150 fara autiero
gino, poiché ciascun intellettuale di quel Regno – almeno in volontà di
potenza – avrebbe potuto far pesare la propria superiorità rispetto alla
sua persona.
A questo punto non pare azzardato ipotizzare che lo spirito del
Galiani possa essere ridotto essenzialmente ad un sentimento di superiorità
che deve essere continuamente espresso per colmare un dislivello.
A riprova di ciò possiamo tornare agli albori della sua produzione
e prendere in considerazione il primo testo pubblicato. Siamo nel
1749, il giovane Ferdinando e Pasquale Carcani pubblicano i Componimentii
varj per la morte di Domenico Jannaccone30 con lo scopo di prendersi
gioco di Giannantonio Sergio – segretario dell’Accademia del
marchese Castagnola – il quale l’aveva umiliato pubblicamente e impedito
l’accesso all’Accademia. Così il Tanucci spiega l’accaduto al
marchese Fogliani in una lettera del marzo di quell’anno:
Disse finalmente ch’egli [il Galiani] da Sergio aveva pubblicamente
nell’accademia del marchese Castagnola ricevuta una grave ingiuria,
per essergli stata due volte disapprovata un’orazione a lui commessa e
da lui due volte composta, e che il censore Sergio aveva preso a far
l’orazione in due giorni, e l’aveva fatta e recitata alla presenza di tutti
gli accademici, e di altri molti i quali sapevano che la commissione
dell’orazione era stata fatta a lui Galliani, onde venne il mondo a credere
che una frettolosissima orazione di Sergio avesse meritato più
l’udienza che le orazioni col tempo preparate dallo stesso Galliani, al
quale si accrebbe poi il disonore col non essere ammesso tra gli accademici
in quel giorno, in cui altri furono ammessi, i quali com’esso, avevan
precedentemente pregato per l’ammissione31.
La raccolta si presenta come uno scherzo atto a parodiare sia gli
accademici dai quali era stato escluso, sia il Sergio che lo aveva umiliato;
un doppio dislivello che trovò soddisfazione nella pubblicazione
di un’opera che mosse più scalpore di quanto l’ancora ingenuo
Galiani si sarebbe aspettato. A chi voglia comprendere su che tono si
struttura l’intero testo, basterà leggere la prima parola che apre il libro:
«Cconciosiamassimamentecosacchè […]»32, uno spiritoso guazza-
30 F. Galiani e P. Carcani, Componimentii varj per la morte di Domenico Iannaccone,
Carnefice della Gran Corte della Vicaria, Raccolti e dati in luce da Giannantonio
Sergio, Avvocato napoletano, Napoli, 1749.
31 B. Tanucci, Epistolario 1746-1752, a cura di R. P. Coppini e R. Nieri, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1980, p. 461.
32 F. Galiani e P. Carcani, Componimentii varj per la morte di Domenico Iannaccone,
Carnefice della Gran Corte della Vicaria, cit., p. 5.
[ 11 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 151
buglio lessicale che palesa sin dalle prime battute gli intenti dell’autore
e che dimostra l’utilizzo dello spirito come equilibratore anche all’inizio
della sua attività.
Abbiamo in precedenza accennato all’impossibilità di approcciarci
all’intera produzione arguta del Galiani. Siamo, infatti, costretti a tralasciare
da questa analisi il gran numero di scritti creati dall’Abate in
seguito alla pubblicazione del Dialetto napoletano33, testo che diede vita
ad una brillante e agguerrita polemica con Luigi Serio34. I motivi
dell’esclusione di questi elaborati possono essere ricondotti essenzialmente
a due problemi di fondo: in primo luogo molti di questi testi
recano la firma di Onofrio Galeota35, nome de plume utilizzato spesso
dall’Abate, ma a causa di una non ancor sicura sistemazione attributiva
dei testi galeotiani, non è per ora possibile stabilire con certezza la
paternità dei suddetti. In secondo luogo, ancora più importante, molti
di questi testi sono privi di data di pubblicazione, quindi non facilmente
utilizzabili per questo tipo di indagine che assume come modus
operandi l’esistenza di un sistema a base diacronica fondato sul procedere
del nesso ‘equilibrio-dislivello-equilibrio’.
Un testo che possiamo includere nella nostra analisi è la Spaventosissima
descrizione dello spaventoso spavento, che ci spaventò tutti, coll’eruzione
del Vesuvio, la sera dell’otto agosto del corrente anno, ma (per grazia di
Dio) durò poco36, recante il nome di Galeota, ma sicuramente opera del
Galiani. Come i giovanili Componimenti, la Descrizione è anch’essa uno
scherzo rivolto a degli accademici, questa volta quelli della Reale Accademia
di Scienze e Belle Lettere e in particolare al suo segretario
Michele Sarcone37 che (senza entrare nei meriti delle motivazioni che
imporrebbero un’addentrarsi nella polemica sul Dialetto) l’aveva
33 F. Galiani, Del Dialetto napoletano, Deus nobis haec otia fecit, Napoli, per Vincenzo
Vocola, 1779.
34 Cfr. M. Bruno, Luigi Serio, letterato e patriotta napoletano del Settecento in E.
Percopo, Studi di letteratura italiana, Vol. VII, Napoli, Cav. Nicola Jovene e Co. Editori,
1908; R. Giglio, Un letterato per la rivoluzione. Luigi Serio (1744-1799), Napoli,
Loffredo, 1999.
35 Cfr. B. Croce, Don Onofrio Galeota poeta e filosofo napoletano, Trani, V. Vecchi,
1890.
36 F. Galiani, Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento, che ci spaventò
tutti, coll’eruzione del Vesuvio, la sera dell’otto agosto del corrente anno, ma (per grazia
di Dio) durò poco, Napoli, presso Gio. Battista Seguin, 1825.
37 Cfr. N. Giangregorio, Michele Sarcone:. L’uomo, il medico, lo scienziato, il meridionalista
del Settecento, Bari, Laterza, 1986; B. Raucci, Michele Sarcone, il ricercatore
di calamità, in Scienziati in Puglia. Secoli V a.C.-XXI d.C., a cura di F. P. De Ceglia,
Bari, Adda, 2007.
[ 12 ]
152 fara autiero
escluso dall’Accademia (I dislivello). In più, la Descrizione nasce come
risposta alle «varie ciampanelle38» sul Vesuvio create dai membri
dell’Accademia in seguito all’eruzione dell’8 agosto 1779, testi spesso
inconcludenti e infondati che dovettero offendere la ben nota preparazione
del Galiani in merito alla materia (II dislivello). Così l’Abate si
diverte ad apostrofare uno degli accademici ed una sua nuova teoria:
Adesso poi è uscita una nuova setta di Filosofi, che s’hanno inventata
una certa cosa, che la chiamano elettricità, e non ci lasciano vivere con
questa santa elettricità, perché tutto ha da essere elettricità, che io pur
ci vado in pazzia. Basta dire, che se uno quando apre una tabacchiera
starnuta, non vogliono che sia starnuto, ma dicono che è il fluido elettrico
starnutatorio, il quale trovando tra ’l naso e la tabacchiera l’interruzione,
salta non so bene se dal naso alla tabacchiera, o dalla tabacchiera
al naso. Basta: lo starnuto è divenuto salto elettrico, e non si
deve più dire: salute a ussignoria, ma si ha da dire: salto a ussignoria.
Sono cose, che ci vuole una pazienza proprio di romito39.
A questo punto, possiamo affermare con certezza che lo spirito del
Galiani sia frutto esclusivamente del desiderio di appianare un dislivello?
Sì, o meglio, nei suoi prodotti più riusciti e conosciuti, includendo
in questo sistema l’arguzia e non il semplice comico. Ciò, tuttavia,
non indica che esso non assunse una particolare rilevanza all’interno
della forza generatrice dell’Abate. A questo proposito, Altamura ci
propone – sempre riprendendole dal testo di Berardo – una serie di
storielle che il Galiani si divertiva a raccontare con il solo intento di
allettare l’uditorio. La particolarità di queste novellette si situa nella
tecnica e nel contenuto: ad un clima ampiamente decameroniano si
accosta, infatti, una brevitas disarmante tale da indurci a pensare che
se Boccaccio avesse scritto con l’essenzialità dell’anonimo autore del
Novellino, avrebbe di certo potuto creare testi del genere.
Proponiamo qualche esempio:
Un pittore veneziano, gelosissimo ma assai ingenuo e credulone, dovendosi
trattenere per lavoro un certo tempo lontano da casa, pensò
bene di dipingere una cerva sulla carne nuda della moglie, e in parti
delicate, sì che la pittura si sarebbe cancellata se la moglie si fosse abbandonata
ad illeciti abbracciamenti. Beninteso, era appena partito che
38 F. Galiani, Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento, che ci spaventò
tutti, coll’eruzione del Vesuvio, la sera dell’otto agosto del corrente anno, ma (per grazia
di Dio) durò poco, cit., p. 10.
39 Ivi, pp. 11-12.
[ 13 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 153
già la bella signora faceva vedere la cerva a un giovane pittore che da
tempo la corteggiava.
– Non preoccuparti – questi la rincorò, – perché prima che ritorni tuo
marito io ti dipingerò la cerva con colori squillanti.
E si diedero bel tempo per alcuni mesi, al termine dei quali la cerva era
addirittura scomparsa. Quando il marito fu per ritornare, il giovane
pittore s’accinse al lavoro di restauro; ma il primitivo disegno era così
svanito che non capiva più se la cerva dipinta dal marito avesse o non
avesse le corna, né i due amanti lo ricordavano più…
– Ora ce le metto – disse il giovane pittore, – perché quasi certamente
tuo marito doveva avercele disegnate.
Quando l’assente ritornò, subito la moglie gli mostrò la cerva, e per
giustificare i colori ancora fiammanti della composizione, gli disse,
vezzosissima:
– Vedi, marito mio, come te l’ho conservata! Quanta attenzione ho dovuto
porre a che neppure il sudore la guastasse, e perciò è così fresca!
Sennonché il marito subito s’accorse delle corna:
– Ma quella ch’io dipinsi non aveva le corna. Cosa è successo?
E la furba signora, ricordando che il marito, dopo tutto, era uno sciocco
credulone, prontamente rispose ammiccando:
– Non le aveva perché era giovane, ma le sono cresciute in questi mesi
che tu sei stato crudelmente lontano da me.
E si diede ad abbracciarlo e vezzeggiarlo, facendogli molto presto dimenticare
l’imbarazzante questione di quelle corna cresciute40.
La storia pare avvicinarsi molto al decameroniano ciclo di novelle
su Calandrino, lo sciocco pittore fiorentino deriso dai suoi colleghi e
pseudo-amici Bruno e Buffalmacco che inizialmente gli fanno credere
di essere invisibile (VIII, 341), lo derubano e lo ricattano persuadendolo
– attraverso un incantesimo – di essere egli stesso il ladro (VIII, 642), lo
convincono di essere in dolce attesa (IX, 343) e, infine, gli fanno credere
che una bellissima donna sia innamorata di lui (IX, 544). Presente in
tutte e quattro le novelle è la possente immagine della moglie di Calandrino,
Tessa, la moglie furba del pittore “ingenuo e credulone”, vicinissima
a quella galianea.
Una giovane maritata intrecciò un rapporto amoroso con un suo antico
40 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., pp. 30-31.
41 G. Boccaccio, Decameron¸ a cura di G. Alfano, M. Fiorilla e A. Quondam,
Milano, BUR Rizzoli, 2013, pp. 1222-1235.
42 Ivi, pp. 1250-1259.
43 Ivi, pp. 1400-1406.
44 Ivi, pp. 1414-1426.
[ 14 ]
154 fara autiero
spasimante, ma temeva sempre che il marito, rientrando all’improvviso,
la potesse cogliere sul fatto. Escogitò allora un sistema scomodo ma
sicuro: ella si affacciava a un finestrino che dava sulla via, e il giovane,
di dietro, armeggiava a suo agio, cercando di dar gioia a lei e a sé stesso.
Un giorno però che erano in quella istabile positura e faticosamente
il giovane si agitava per cercare una più conveniente sistemazione, una
dirimpettaia della giovane le si rivolse angosciata:
– Donna Marì, avete visto il mio gallo?
– Donna Vincenzina mia, che gallo e gallo! In questo momento mi passa
un gallo per la testa45.
Possiamo qui notare una certa vicinanza con la famosa Novella di
Peronella (VII, 246), anche se, per un certo verso, le due storie risultano
lontanissime a causa del linguaggio adoperato. Boccaccio, infatti, utilizza
la metafora delle cavalle ripresa dal mondo classico per permettere
alle ragazze della brigata di poter ridere della situazione e della
posizione oscena. Il linguaggio utilizzato del Galiani, invece, ci dà
chiari indizi del cambiamento dei tempi e di come nel Settecento si
potesse ridere di una circostanza scabrosa come quella descritta nella
novella.
E ancora un frate: questa volta domenicano. Aveva camminato a lungo
per recarsi ad altro convento; ma, fattasi sera, aveva chiesta ospitalità in
un casolare in campagna. Stanco morto, non volle neppure mangiare e
andò subito a stendersi sul giaciglio che gli fu offerto da un vecchio
contadino. Era ancora buio allorché, ormai rinfrancato dal lungo sonno,
si risvegliò; ma si accorse che accanto gli giaceva addormentata un’altra
persona. Cautamente volle sincerarsi se fosse maschio o femmina:
allungata una mano, s’incontrò con una lunga treccia di donna. Senza
pensarci troppo, il rinvigorito fratacchione pensò di non farsi sfuggire
la buona occasione, e ne profittò senza trovare alcuna resistenza dall’altra
parte. Soltanto alla fine, una voce blesa gli soffiò all’orecchio:
– Grazie, padre, l’ultimo mio ricordo era di trentacinque anni fa!47
Galiani riprende da Boccaccio un particolare tipo di polemica anticlericale
che si attua mediante l’umiliazione sessuale degli appartenenti
al mondo ecclesiastico. In particolare, questa storia possiede
svariati elementi in comune con la novella numero 4, della giornata
VIII48. Nel Decameron ci viene presentato un vecchio prete innamorato
45 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., pp. 35-36.
46 G. Boccaccio, Decameron, cit., pp. 1081-1089.
47 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., p. 47.
48 G. Boccaccio, Decameron, cit., pp. 1236-1243.
[ 15 ]
un’analisi tecnica dello ‘spirito’ in ferdinando galiani 155
della giovane Piccarda la quale, stanca dei continui interessamenti e
asfissianti corteggiamenti del prete, finge di accondiscendere a patto
che l’incontro avvenga al buio e in silenzio e al suo posto fa porre una
serva orrenda e vecchia chiamata Ciutazza. Anche Galiani sfrutta il
buio e il silenzio per far incontrare un frate – domenicano, tiene a precisare
l’Abate – e una vecchia; ma i motivi del buio e del silenzio sono
estremamente importanti in Boccaccio, come dimostrano le novelle di
Ricciardo Minutolo (III, 649) e di Alatiel (II, 750) in cui l’eliminazione
della vista e della parola permettono al corpo di poter esprimere quella
libertà che solitamente gli è negata e solo quando ha terminato di
esprimersi, attraverso la parola che si recupera, si riacquista coscienza
dell’accaduto, come nel caso del domenicano galianeo.
La vicinanza al Decameron appare quanto mai profonda soprattutto
per l’unica tra le storie della raccolta che non induce al riso:
Il nobile genovese Luchino Vivaldi, acceso da ardente amore, fece di
tutto per godere i favori di una bellissima gentildonna; ma fu vano
ogni suo tentativo, perché la donna era gelosissima del proprio onore
e fedelissima a suo marito. Avvenne però che questi un bel giorno fu
catturato dai corsari con tutte le sue mercanzie, e la sua casa precipitò
nella più nera miseria; onde la donna, vinta dalla necessità, fece chiamare
Luchino e piangendo gli si gettò ai piedi con queste parole: “Perché
la mia miseria e la necessità dei miei figlioletti non comporta più
ch’io persista nel mio intento di conservar casti l’anima e il corpo, eccomi,
Luchino: fa’ delle mie carni ciò che più ti piace!” Ma in Luchino
la misericordi fu più forte della libidine: ammirato, egli provvide la
donna di quanto aveva bisogno per lei e per la famiglia, e la lasciò intatta51.
Il lettore è immediatamente catapultato nel mondo di quella cavalleria
e nobiltà d’animo che ricordano molto da vicino la storia di Federigo
degli Alberighi (V, 952). Sebbene le situazioni siano inverse – nel
Decameron era ricca la donna che aveva perduto il marito, Giovanna,
mentre nella storia del Galiani è l’uomo ad essere ricco –, abbiamo non
solo la ripresa dell’elemento corsaresco tipico di molte novelle decameroniane,
ma soprattutto quell’elevatezza d’animo di Luchino che
riflette il sacrificio estremo di Federigo. Il fiorentino viene in un certo
senso ripagato attraverso il matrimonio con la donna amata, mentre il
49 Ivi, pp. 577-588.
50 Ivi, pp. 397-430.
51 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., pp. 56-57.
52 G. Boccaccio, Decameron, cit., pp. 919-929.
[ 16 ]
156 fara autiero
Galiani pone il genovese ad un livello ancora più alto, facendogli rispettare
il desiderio di fedeltà e di purezza della donna che ama e che
gli si concede, ma alla quale prontamente rinuncia. Possediamo un’altra
versione della storia53, ma in essa Luchino si introduce con l’astuzia
nella casa della donna per indurla a concedersi in cambio di denaro,
mentre Galiani elimina ogni traccia di opportunismo e di meschinità
dall’animo e dalle azioni del suo protagonista, proprio come aveva
fatto Boccaccio con Federigo.
«La libertà genera l’arguzia e l’arguzia genera la libertà»54, scriveva
Freud ricordando Richter e il Galiani ne fu esempio pratico: economista
e libertino, profondo e beffardo, libero e arguto, incapace di sottostare
alla minima offesa che non provenisse da sé stesso; due spiriti,
due facce di una particolare medaglia, come egli amava dire: «[…] due
uomini diversi impastati insieme e che tuttavia non occupano il posto
di uno solo»55.
Forse nessuno come Nietzsche riuscì meglio a definire la poliedrica
figura di questo particolare e inesauribile personaggio:
Ci sono persino casi nei quali alla nausea si mescola l’incanto: lì, cioè,
dove per un capriccio della natura, il genio è unito a un tale sfrontato
caprone e a una scimmia, come nel caso dell’Abbé Galiani, l’uomo più
profondo, il più acuto e forse anche il più sporco del suo secolo56.
Fara Autiero
53 «[…] un amico di Luchino, il quale aveva accesso in casa di Camilla, con
perfido ed infame consiglio lo indusse a profittare delle strette a cui ell’era ridotta,
accertandolo che posta al cimento di perdere o l’onore o per fame la vita, ella facilmente
sarebbesi indotta a fare il sacrificio del primo, se non per sé stessa, almeno
per amore de’ suoi figliolini ch’erano vicini a perir di miseria. Luchino, vinto dalla
passione, accettò l’indegna proposta, ed il malvagio amico furtivamente in casa di
Camilla lo mise. Arrossì ed abbrividì l’immacolata donna a tal vista, ché ben conobbe
qual disegno ivi conducesse Luchino. Ma, invitta nella sua costanza, ella
tosto deliberò di tutto soffrire anzi che dovere alcuna cosa rimproverare a sé stessa
» in La virtù al Cimento, «Il Ricoglitore, ossia Archivj di geografia, di viaggi, di
filosofia, di economia politica, di istoria, di eloquenza, di poesia, di critica, di archeologia,
di novelle, di belle arti, di teatri e feste, di bibliografia e di miscellanee»,
Milano, dalla Società Tipografica de’ Classici italiani, Vol. XXIV (1824), pp. 204-205.
54 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, cit., p. 35.
55 A. Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani, cit., p. 13.
56 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, a cura di G. Colli e F. Masini, Milano,
Adelphi, 1977, p. 19.
[ 17 ]
Paolo Rigo
Appunti per un’analisi metaforica del primo Luzi
Il saggio si propone di analizzare alcuni topoi ricorrenti nei due primi volumi
della sterminata produzione di Mario Luzi: La Barca e Avvento Notturno. Il contributo
analizzando le poesie ivi contenute, le importanti recensioni e i lavori
autocritici dello stesso Luzi ha individuato tre importanti topoi: la navigationave,
il tempo-tessuto e lo specchio-psicomachia.

The essay analyzes some topoi in two important books by Mario Luzi: La Barca
and Avvento Notturno. The paper examines poems, many important reviews
and other self-exegetical works (such as Luzi’s papers, interviews, etc.) and
characterizes three fundamental topoi: the “ship”, the “time-weaver” and the
“mirror-psychomachia”.
Circa trent’anni fa Giovanni Pozzi, in un famoso saggio1 comparso
nella Letteratura Italiana diretta da Alberto Asor Rosa, lamentava la
mancanza di studi adeguati in Italia sul tema della topica (e aggiungerei
della metaforica); ancora oggi la situazione appare quasi del tutto
immutata. Questa sorta di debacle della critica nostrana è facilmente
riconducibile alla nostra particolare storia ideologica e letteraria influenzata
dall’egemonia stilistica che solamente negli ultimi decenni
si è cercato di superare. Non è un caso che, rispetto al resto d’Europa,
contributi immortali come quello di Ernst Robert Curtius o analisi perentorie
e approfondite su un aspetto particolare di una o più metafore
– si pensi agli studi dediti alla ricerca di forme di metafore assolute
di Blumenberg2 – vennero tradotti in Italia solo sul finire del secolo
1 G. Pozzi, Temi, tòpoi e stereotipi, in Letteratura italiana. Le forme del testo, I, Torino,
Einaudi, 1984, pp. 391-439.
2 E.R. Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, a cura di R. Antonelli,
Firenze, La Nuova Italia, 1992; H. Blumberg, Per una leggibilità del mondo. Il libro
come metafora della natura, Bologna, Il Mulino, 1981; Id., Naufragio con spettatore.
Paradigmi per una metafora dell’esistenza, Bologna, Il Mulino, 1985; Id., Paradigmi per
Contributi
158 paolo rigo
scorso. E sebbene negli ultimi anni siano stati pubblicati articoli o volumi
più che degni di nota3, studi sulla metafora in autori a noi recenti
non hanno lasciato una traccia rilevante nel panorama critico italiano:
nonostante in alcuni il tropo possa essere riconosciuto come la
marca distintiva, centrale e innovativa, del linguaggio poetico di un
autore specifico (si ricordino a tal proposito le parole di Gianfranco
Contini sulla potenza delle metafore di Clemente Rebora4). In definitiva,
studi che si interessassero alla componente del linguaggio poetico
in questione (unico elemento davvero invariabile, laddove metrica,
temi e forme hanno subito variazioni derivate da gusti e tendenze) in
sé per sé sono sempre mancanti.
In questo contributo si vuole cercare d’evidenziare l’importanza
strutturale di cui godono alcune immagini presenti in due opere di
Mario Luzi, La barca e Avvento Notturno, composte entrambe prima del
secondo conflitto bellico. In queste due raccolte gli elementi narrativi
di un singolo testo si riflettono nella costruzione dell’opera e ogni immagine
assume una dimensione topica, diviene, in pratica, una parte
imprescindibile di un’analisi completa. Infatti, laddove un elemento è
ricorrente tra testi diversi (e tra opere diverse) il grado di figurazione
e il significato che lo stesso incarna aumenteranno in maniera esponenziale
rispetto al singolo testo, creando una rete fitta di figurazioni
poetiche. La scelta delle due raccolte non è casuale ma dettata dalla
particolare età storica: anni talmente tesi da un punto di vista politico
e sociale, che dovettero per forza di inerzia generare nei poeti una tensione
della parola del tutto unica; storicamente non vi era la possibilità
di un’espressione chiara e decisa che si ponesse in direzione opposta
ai vari regimi, e non è un caso che in questo periodo le migliori prove
poetiche (come quelle degli autori identificati poi come ermetici, oppure
i testi dotati di potenza visionaria, sul tipo di Campana, o le racuna
metaforologia, Bologna, Il Mulino, 1960; P. Ricoeur, La metafora viva, Milano,
Jaca Book, 1971.
3 Si può rimandare al saggio La metafora in Dante, a cura di M. Ariani, Firenze,
Olschki, 2009 e a U. Eco, La metafora nel medioevo latino, «Quaderno di Doctor Virtualis
», 3 (2004), pp. 35-75; entrambi i testi lamentano le stesse mancanze qui ribadite.
Importanti lavori come quello di E. Raimondi, Metafora e storia. Studi su Dante
e Petrarca, Torino, Einaudi, 1977 o come quello di G. Velli, Petrarca e Boccaccio:
tradizione, memoria, scrittura, Padova, Antenore, 19952 sembrano, rispetto alla storia
critica italiana, splendidi casi isolati.
4 U na violenza linguistica tesa «alla rappresentazione dell’azione piuttosto
che alla descrizione» (G. Contini, Clemente Rebora, «Letteratura», 7, 1937, pp. 114-
153).
[ 2 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 159
colte dense di forte valenza mistica di Clemente Rebora) facciano sempre
riferimento a un ‘altro’, a una dimensione lontana, diversa. Il genere
lirico, per via della sua capacità traspositiva unica, rappresenta per
ogni tipo di esperienza vissuta negli anni di guerra il luogo perfetto su
cui aprire, con risultati per nulla scontati, le finestre dello «strato
semiotico»5 dell’esperienza, della memoria, della coscienza di tutti i
componenti della generazione italiana (ed europea), impegnata a sacrificarsi,
e perdersi, al fronte. Per quanto concerne Luzi si potrebbero
riconoscere degli elementi fissi riflessi in forme variabili che nel lunghissimo
percorso lavorativo dell’Autore6 si conformano più precisamente
come veri e propri ‘motivi’7. Un esempio calzante del concetto è
rappresentato dalla sfera equorea8: frame primegenio presente nell’opera
d’esordio, dove accenni all’ampia imagery marina sono presenti
in ben quattro titoli su un totale di ventiquattro componimenti9; il bacino
figurativo dell’immaginario diventa dapprima tema calzante nel-
5 L’espressione di J. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità,
trad. it. di C. Valentino, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 38, viene usata dal filosofo
proprio per indicare l’esperienza bellica come un momento particolarmente
proficuo per la creazione poetica.
6 Si ricordi che la prima opera poetica è del 1935, l’ultima raccolta, esclusi i
testi postumi, è del 2004.
7 Per la definizione di motivo in Luzi cfr. E. Giachery, Il motivo della luce, in
Luzi cantore della luce, a cura di S. Verdino, Assisi, Cittadella, 2003, pp. 92-123.
8 Sull’evoluzione del tema cfr. D. M. Pegorari, Dall’“acqua di polvere” alla “grigia
rosa”. L’itinerario del dicibile di Mario Luzi, Fasano di Brindisi, Schena, 1994.
9 V olendo esplorare le occorrenze per singoli lemmi afferenti alla sfera equorea,
si può far riferimento al volume di A. Neiger, Il poeta e la parola: concordanze de
La barca di Mario Luzi, Perugia, Università italiana per stranieri, 1983. Riducendo il
raggio della lente di focalizzazione sul solo lessico significante il mezzo della navigazione
presente nella raccolta d’esordio si manterrà viva la preminenza accordata
all’ampiezza di significazione: due navi («le navi inclinano il fianco», L’immensità
dell’attimo, v. 14, p. 31; «le navi guerriere», Il mare, v. 2, p. 33), un’occorrenza per
velieri («e velieri folli da’ cupidi viaggi», La sera, v. 18, p. 33), una per vascelli («Dal
fondo dei mari i vascelli si faranno un’erba», Alla primavera, v. 1, p. 21), due per
vela/e («una vela umida di destino / chiede a noi un porto profondo», Serenata di
piazza d’Azeglio, v. 23, p. 14; e quelle importantissime, per via della presenza di una
navigazione mentale che suppone anche uno smarrimento, di Primavera degli orfani,
v. 4, p. 24: «l’errore / del mare ove pencolan l’onde / e le vele senza colore»);
sono presenti poi diverse barche («Le barche scendon lungo i fiumi rosa», Fragilità,
v. 13; «oscillanti / barche al silenzio dei porti» La sera, v. 4, p. 32), e naturalmente la
famosa barca «dalla quale si vede il mondo», v. 13 di Alla vita, p. 29. Tutte le poesie
di Luzi, a meno di diversa indicazione sono citate seguite dal numero di pagine da
M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di S. Verdino, Milano,
Mondadori, I Meridiani, 1998.
[ 3 ]
160 paolo rigo
le raccolte di Frasi della luce nascente (si possono ricordare poesie dove
il motivo è praticamente esposto, come nel caso di Nel mare del non
dormito sonno o Mare, Mare sempre presente e Fiume da fiume10) o elemento
dominante attraverso concretizzazioni naturali come il grande «pesce
sovrano»11 nelle stesse raccolte e, infine, atto figurativo utile a rappresentare
e significare addirittura la vita o la poesia stessa12. Visto che
questi elementi sono sottoposti a delle vere e proprie mutazioni negli
anni e assumono di volta in volta funzioni diverse sarebbe piuttosto
riduttivo considerarli esclusivamente alla pari di ripetizioni o fatti
meccanici. La loro caratteristica evolutiva, la loro potenza espressiva
– quest’ultimo attributo principale della lirica luziana13 – smentiscono
una categorizzazione diminutiva dei tropi; in altre parole, appare chiaro
che per una poetica complessa l’azione retorica di alcuni particolari
temi non può essere riconosciuta valida esclusivamente all’interno di
una dimensione descrittivo-figurativa, l’operatività dell’actio retorica
smaschera mentre crea il carattere distintivo d’una fenomenologia
narrativa e ontologica; quest’ultima è perfettamente in grado, quindi,
di proiettare la sfera poetica in un altro luogo distante dalla realtà più
immanente e fisica a cui i secondi elementi della metafora, i vehicle, rimanderebbero
all’infuori della creazione poetica per singole caratteristiche
o tessere di significato. Il sostrato semantico su cui Luzi opera
gode di una species quasi unica nel panorama italiano del Novecento:
l’attenzione a una dispositio14 retorica precocemente attenta al richiamo
10 La sezione è formata da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi
di un canto salutare (1990) e Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994).
11 Nel mare del non dormito sonno, v. 42, in Frasi e incisi di un canto salutare, p. 758.
Sulla figura del «pesce sovrano» si è aperta una delicata questione esegetica ben
riassunta (e risolta) da S. Verdino, Apparato critico, in M. Luzi, L’opera poetica, cit.,
p. 1695.
12 Nel volume M. Luzi, Spazio stelle voce: il colore della poesia, a cura di D. Fasoli,
Milano, Leonardo, 1992, p. 68, dopo aver affermato che «la sua acqua è quella dei
fiumi», Luzi ne ribadiva l’importanza strutturale in rapporto con la parola: essa
era infatti mutevole come l’acqua e «quasi a confermare la molteplicità e la mutevolezza
che vedo in ogni aspetto del vivente anche la mia immagine mi si trasforma
e mi sembra riflessa più da un’acqua scorrevole che da uno specchio costante.
Il mutamento, la metamorfosi». Sull’elemento equoreo, e in particolare i fiumi, in
Luzi cfr. M. Marchi, Fiumi di Luzi, «Rivista di letteratura italiana», a. XXXII (2014),
3, pp. 174-184.
13 Sulla metafora in Luzi cfr. M.A. Grignani, “Seme”: Eclissi della Metafora,
«Nuova Corrente», 54, 2007, pp. 283-296.
14 La figura è stata riconosciuta dai critici di settore come il carattere principale
e distintivo tra le opere compilative e le forme e strutture complesse, cfr. N. Scaf-
[ 4 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 161
interno (giungerà fino al recupero di forme liriche perdute, vere e proprie
rappresentazioni ascetico-misteriose15), attuata attraverso immagini
specifiche; mentre modula la conduzione di un senso complessivo,
restituisce la marca di ogni cognizione se non allegorica perlomeno
allegoretica16.
2. La barca e il mare
La raccolta poetica La barca, stampata per Guanda nel 1935, raccoglie
una ventina di componimenti. Il titolo della raccolta è desunto da
alcuni versi della famosa poesia Alla vita, la cui fortuna è emblematica:
infatti la poesia viene citata in qualsiasi manuale di letteratura italiana,
o in qualsiasi antologia poetica del Novecento17, e segna, ormai,
per via di una convenzione dal carattere più vulgativo che fatturale,
l’adesione – o, per l’alcuni, la fondazione da parte18 – di Mario Luzi
all’Ermetismo, corrente individuata e denominata da Carlo Bo in un
ancor più famoso saggio del 193819. Questo, naturalmente, è un dato
noto. Il tempo – come si può notare – che passa tra la Barca e il saggio
fai, Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento, Milano,
Mondadori, 2005; assai importante il contributo di S. Verdino, Luzi e il libro di poesia,
«Lettere italiane», 1, 2005, pp. 21-35.
15 Basti l’esempio del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) al quale
si potrebbe accostare senza troppe difficoltà la versificazione su commissione papale
(altro tratto desueto) della Via Crucis, poi pubblicata: M. Luzi, La Passione. Via
crucis al Colosseo, Milano, Garzanti, 1999.
16 Per riscontri allegorici in Luzi è ancora valido il lavoro di G. Piangiani,
Simbolo e allegoria in Luzi, «Allegoria», n.s., III (1991), 7, pp. 144-161; a differenza di
questo pur validissimo intervento intendiamo concentrarci sulla “traccia” strutturale
dell’allegoria.
17 La poesia di Luzi viene definita «in un’assenza e distanza totali dalla realtà
contigente» (Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori,
201126, p. 649).
18 Questione complessa quella delle vicende dell’Ermetismo; ci limitiamo a citare
alcuni tra i contributi più importanti sulla questione: F. Flora, La poesia ermetica,
Bari, Laterza, 19472; M. Apollonio, Letteratura dei contemporanei, Brescia, La
Scuola, 1956, per il quale Luzi è il primo rappresentate di «un’“ars nova” delicatamente
consapevole di sé nei suoi stessi ricordi» (p. 138); S. Ramat, L’Ermetismo,
Firenze, La Nuova Italia, 1969; D. Valli, Storia degli ermetici, Brescia, La Scuola,
1978; S. Agosti, Luzi e la lingua della “verità”: dal «Canto salutare» ad «Avvento notturno
»; Luzi e il Femminile, in Id., Poesia italiana contemporanea, Milano, Bompiani, 1995,
pp. 11-42.
19 C. Bo, Letteratura come vita, «Frontespizio», n. 9, Settembre 1938, ora in Id.,
[ 5 ]
162 paolo rigo
di Bo, fino alla successiva opera di Luzi, Avvento notturno, che comprende
ventotto poesie scritte tra il 1935 e il 1939, è piuttosto stretto.
Come ricorda lo stesso Bo, l’esordio letterario di Luzi avvenne
[…] dopo la grande stagione della lirica italiana, incominciata in qualche
modo col D’Annunzio dell’Alcyone, ma che poi si è radicata e centrata
sulle grandi figure di Ungaretti e di Montale, e quindi la poesia di
Luzi appariva già in tutta la sua originalità20.
L’originalità luziana a cui fa riferimento Bo – il perno del valore
della poesia luziana (valorizzata in modo sintetico ma esaustivo anche
da Giorgio Caproni21) – dovrebbe essere riconosciuto, o almeno
così sembra dalle ipotesi dell’imminente studioso, in quella atmosfera
di ricerca, di superamento dell’angoscia, della precarietà e della pericolosità
dei tempi contemporanei che la poesia del Fiorentino – sempre
secondo il pensiero di Bo – attualizza in una sorta di rovesciamento
temporale e spaziale. Luzi, rivolgendosi al luogo tranquillo della
campagna, si distanzia dalla società presto invischiata dai deliri della
seconda guerra mondiale. Il programma letterario, dalla marca spiccatamente
sociale, sebbene elusiva, si ravvisa tra i versi della poesia
Alla Vita e trova una concretizzazione tematica e materiale nella figura
della barca (il testo è qui proposto nella sua interezza):
Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare,
volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremmo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.
Amici dalla barca si vede il mondo
Letteratura come vita a cura di S. Pautasso, prefazione di J. Starobinski, con una
testimonianza di G. Vigorelli, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 3-16.
20 C. Bo, La barca, in Id., Scritti su Mario Luzi, a cura di S. Verdino, Genova, San
Marco dei Giustiniani, 1998, p. 15.
21 Come risaputo, il primo recensore di Luzi fu l’altro amico-poeta Caproni;
cfr. G. Caproni, Poesia di un uomo di fede, «Popolo di Sicilia», 29 novembre 1935.
[ 6 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 163
e in lui una verità che procede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparanti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.
Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e per tutto par nato da quella22.
La maggioranza degli interventi critici sul testo23 si sono concentrati
sul valore di ‘distacco’, di distanza dalla realtà, presente nella metafora
della barca; quest’ultima è stata riconosciuta, quindi, esclusivamente
alla pari di un mezzo di allontanamento dal mondo e dalla
terra in senso fisico. Relativamente alla seconda delle strofe che compongo
la poesia, Mengaldo scrive:
La poesia si dà come conoscenza per cifre e barlumi, per speculum in
aenigmate, dell’essenza trascendete del mondo, ma a patto di farsi essa
stessa trascendenza e ritualità, in un’assenza e distanza totali dalla realtà
contingente e dalla storia che divengono quasi scomparsa del soggetto
medesimo (“Amici dalla barca si vede il mondo”)24.
La dimensione della scomparsa dell’io molto spesso è stata oggetto
di discussione: per esempio, viene riconosciuta alla pari del segnale di
una fluitante metamorfosi nell’itinerario dell’io per Stefano Agosti25.
Nonostante sia stato possibile scorgere una componente teologica
22 La Barca, p. 29.
23 L’attenzione critica è sempre vivissima; molti contributi verranno citati nelle
pagine che seguono. Ricordiamo anche il pregevole (e originale) saggio di J. Baetens,
«Toccata» de Mario Luzi. Quelques propositions pur une lecture formaliste, «Esperienze
letterarie», XVII, 1992, 4, pp. 19-28.
24 P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit., p. 649.
25 «La tendenziale soppressione dell’Io attuata attraverso l’eliminazione del
pronome di prima persona [cui] corrisponde, sì, il subentro della terza, maschile o
femminile, però, generalmente, con sospensione, per lo meno iniziale, della referenza
» (S. Agosti, Luzi e la lingua ‘della verità’: dal ‘Canto salutare’ ad ‘Avvento notturno’,
in Id., Poesia italiana contemporanea, Milano, Bompiani, 1995, pp. 11-42).
[ 7 ]
164 paolo rigo
(una componente massimamente indirizzata su un vettore dalla natura
più accentuatamente mistica) nel dettato poetico di Alla vita spesso
si è concessa assoluta importanza ed enfasi alla seconda strofa e al
senso di distacco dal mondo innegabilmente presente nei relativi versi.
È fuor di dubbio che il soggetto, l’io poetico, scompaia completamente
già nel primissimo tempo del verso d’esordio (Luzi, infatti, si fa
parte di una moltitudine che sembra essere in attesa) ma il movimento
del mezzo ‘barca’ si indirizza più che nella scia di una sorta di spostamento-
allontanamento dalla realtà verso un innalzamento il cui fine
ultimo è il divino: già Antonio Iacopetta, a proposito del tema centrale
della poesia, parlava di «una voce che trova per un attimo […] il bagliore
dell’Assoluto»26. A riprova della necessità di un’analisi più complessivamente
attenta ai caratteri teologici del passo è il nesso lessicale
luce-cielo-mare che si dipana nei versi di Alla vita e che, per sua
natura, è legato a temi dalla portata transutiva-cristica. Lo stesso volo
delle «creature pazze ad amare» (in cui vi è un sottile richiamo al topos
dell’amore-follia) altro non può sembrare che un tentativo dantesco di
giungere fino alla visio del volto di Dio: secondo una prospettiva di
correlazione tematica – il cui punto di forza lessicale potrebbe essere
Par. XX, 95: «da caldo amore e da viva speranza» (ma il termine “caldo”
consta di una quindicina di occorrenze nella cantica per eccellenza
della visio) – attraverso il viaggio omni-visivo, messo in parallelo
con Par. XXVII, 79-84, si origina una visione complessiva, sebbene fugace
– e costretta alla necessità del volo per i passeggeri della barca di
Luzi – del creato e del divino.
L’io di Luzi sembra essere impegnato attraverso il mondo esteriore
in una sorta di introspezione, un’esperienza del sublime che si risolve
su uno sguardo che è sì fuori dal tempo tangibile e umano ma proiettato
verso il divino. Solo in questa destinazione finale si può scorgere
una completezza totale del proprio essere, proprio come accade, del
resto, nel Paradiso di Dante. Tirando le fila, dietro il mezzo della barca
si nasconde non una metaforica dell’allontanamento dalla terra ma
un’allegoria sincretica che opera la propria sintesi su due luoghi danteschi:
sul modello della navicella dell’intelletto di Purg. I27 e sulla sug-
26 A. Iacopetta, Luzi: una partita a dadi, in Id., Costanti e varianti nella poesia
italiana del Novecento, Roma, Bonacci, 1988, p. 143.
27 Per una valida e completa summa della questione cfr. S. Finazzi, La «navicella
» dell’ingegno: genesi di un’immagine dantesca, «Rivista di studi danteschi», a. X
(2010), n. 1, pp. 106-126. Per l’immaginario equoreo nella tradizione italiana cfr. A.
[ 8 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 165
gestiva immagine dell’angelo nocchiero (del «vasello snelletto e
leggero»28) di Purg. II. Questo secondo luogo forse, tenendo presente
che la lettura giovanile della Commedia era avvenuta sui fascicoli numerati
della Nerbini29, deve aver mosso un certo grado di ispirazione
anche per via dell’immagine della navigatio angelica delle anime30,
“quadro centrale” del canto nell’edizione fiorentina. Il desiderio-intelletto
del poeta Dante è teso verso la conoscenza del divino, allo stesso
modo il distacco dal mondo di Luzi prende corpo da una situazione
simile: necessità, desiderio e bisogno di appagamento operano insieme.
In tempi recenti è stato notato che «la poesia ermetica conosce il
disgusto della banalità del reale ed anela ad un corpo celeste, puro,
innocente, come nelle visioni dei grandi mistici»31; a questa dimensione
mistica comune nel Novecento serviva naturalmente un predecessore
che non poteva non essere Dante32.
Boccia, La metafora nautica nella poesia duecentesca e nel primo Dante, «Bolletino di
Italianistica», V (2008), 2, pp. 7–23, al quale si rimanda per l’ampia bibliografia,
mentre per la diffusione della metafora nautica nel Novecento si veda P. Rigo, La
metafora nautica e la ‘traditio’ nel Novecento, «Scaffale Aperto», 3, 2012, pp. 79-97.
28 Purg. II, 43.
29 R icorda Luzi che la ricezione della figura di Dante, intesa ancora all’altezza
de La barca (1935) come «personaggio endemico» a «Firenze», era «presente nella
memoria collettiva, anche attraverso delle dispense, un po’ come gli attuali fumetti,
fra cui ricordo le Nerbini che riassumevano il viaggio dantesco, questa avventura
» (M. Luzi, Dante mio contemporaneo, in M.S. Titone, Cantiche del Novecento. Dante
nell’opera di Luzi e Pasolini. Firenze: Olschki, 2001, p. 201). Le “Nerbini” di Luzi
furono una fortuna pubblicazione periodica dell’omonima casa editrice, coordinate
tra il 1909 e il 1940, dell’opera di Dante illustrata: La Divina Commedia. Con nuovi
quadri illustrativi a colori di Tancredi Scarpelli e con la volgarizzazione in prosa del prof.
M. Manfredini. Una trentina di fascicoli settimanali e con un centinaio di illustrazioni
intercalate nel testo.
30 Così forse si può spiegare in maniera più agile lo sguardo sul mondo della
seconda strofa: «Amici dalla barca si vede il mondo», v. 13, La barca, p. 29. Per l’immagine
della Nerbini si è visionato il volume (raccolta dei singoli fascicoli) D. Alighieri,
Divina Commedia. Quadri illustrativi a colori di Tancredi Scarpelli, volgarizzazione
in prosa del prof. M. Manfredini, Firenze, Nerbini, 1961. A quanto ci risulta è la
prima ristampa strutturata dei fascicoli degli anni della prima metà del Novecento.
Il quadro di Purg. II è a p. 155 e rappresenta una grande nave che sembra venire
dal sole, affollata di anime e guidata dall’angelo nocchiero. Anche altre sono le
immagini equoree: il quadro centrale di Inf. III e alcune occasioni in cui a fine di
canto vi è un’illustrazione (difficilmente riconducibile al testo) di una navigazione
in acque tempestose (Inf. X, p. 50; Inf. XIX, p. 86; Purg. XVII, p. 218).
31 D. Iannaco, La “poesia sacra” di Mario Luzi da “La Barca” a “Sotto specie umana”,
«Forum Italicum», 1, 2006, p. 133.
32 Insieme, forse, con talune forme dello Stilnovo, infatti, mi sembra che il lega-
[ 9 ]
166 paolo rigo
Il rapporto tra Dante e Luzi viene notato prontamente da Giorgio
Caproni, che in una sua recensione del 1964 scriveva:
Luzi è riuscito per primo a donarci in queste pagine impegnate fino
all’osso un anticipo di quella che potrebbe essere una “commedia”
d’oggi, affrescando quasi una sua discesa nell’erebo del nostro essere
qui e ora e così (ma sempre in rapporto con l’essere in assoluto e con la
storia)33.
Ma ciò che è sfuggito a Caproni (lo si perdonerà più che a sufficienza)
è il ruolo della metafora nel tessuto luziano: essa non è semplicemente
la trasposizione di un’immagine che vorrebbe esprimere il processo
delicato di un’iniziazione riservata a pochi intimi – concetto che
pur vive attraverso la nutritissima e selettiva aggettivazione – atta a
innalzare chi con Luzi si trovava nella Barca per visionare il mondo,
ma la metafora di Luzi è in grado di donare anche un accesso a qualcosa
di inconoscibile (come avveniva per Dante34). Luzi concretizza
una necessità metaforica, dove l’evento è descritto in termini impropri
perché in parte esso stesso è improprio, vive nella sua natura paradossale
e tradizionale di adynaton.
Una studiosa esperta della materia e molto attenta al rapporto tra
Luzi e Dante, Lorenza Gattamorta, sembra essere convinta di riconoscere
nei versi proemiali di Alla vita il topos della navigatio inteso «stilnovisticamente,
come esperienza poetica e di amicizia», naturalmente,
per la studiosa, se si deve riconoscere un possibile rimando dantesco,
esso sarà da scorgere nell’immortale sonetto Guido, i’ vorrei che tu
e Lapo (o Lippo) e io. Sebbene il giudizio di Gattamorta sia ampliamente
condivisibile, soprattutto per una consistenza formale del dettato lessicale,
la funzionalità della barca luziana è in parte diversa da quella
attuata dal «vascel» dantesco: entrambi sono elementi magico/irreali
ma mentre l’imbarcazione di Dante svolge una funzione esclusivame
erba-acqua spesso presente in Luzi possa essere fatto derivare dalla lettura di
Guido Cavalcanti: il grande amico di Dante era molto attento al nesso naturale. Luzi,
come risaputo, apprezzò particolarmente la poesia – definita addirittura “pura” dallo
stesso autore del Novecento – del lirico innamorato della morte, cfr. M. Luzi, Sulla
poesia di Guido Cavalcanti, in Id., L’inferno e il limbo, Firenze, Marzocco, 1947, pp. 45-52.
33 G. Caproni, “Nel magma” di Mario Luzi, «La Nazione», 10 marzo 1964, ora in
Id., La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, p. 173.
34 Ormai è vigente il «rapporto intenzionale» tra i due: cfr. L. Gattamorta,
Stilnovismo e dantismo di Luzi: da La Barca a Quaderno gotico, «L’Alighieri», 19, 2002,
pp. 25-51, poi in Ead., La memoria delle parole. Luzi tra Eliot e Dante, Bologna, Il Mulino,
2002, p. 96.
[ 10 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 167
mente iniziatica, il cui scopo è l’esaltazione di una poetica dall’obiettivo
(e dal motivo) principale legato a filo doppio all’amore terreno,
nella navigazione celeste di Luzi è assente, anzi, praticamente negato
ogni elemento terreno (l’amore è, infatti, solo di derivazione divina). Il
volo della barca di Luzi non è esclusivamente indirizzato, quindi, verso
«un mondo irreale o comunque lontano dai tormenti terreni»35 ma
teso verso una conoscenza del divino, dell’origine, della sorgente, di
una sorgente muta perché in parte inascoltata36. È lo stesso Luzi a parlare
di «un senso […] la cui aspirazione diffusa e perenne a ritrovare la
fonte della vita»37. Su quest’aspirazione deve aver giocato fortemente
la concezione teologica afatica della natura divina sempre più importante
negli anni per Luzi38, attentissimo alle questioni filosofiche.
Sul frame marino, oltre la traditio letteraria, a giocare un ruolo fondamentale
è anche il significato culturale e sociale delle acque: parlando
di archetipi junghiani, il mare39 ha un valore dicotomico di vitamorte,
nell’acqua cristiana avviene la ‘depurazione’ dell’individuo e
nel cambiamento vi è un superamento, una pars destruens che Luzi
concretizza in verbis solo negli anni Ottanta. Tutti i paradossali valori
dell’atto sono attraversati da Luzi, impegnato a restituire nel suo viaggio
alla fonte un uomo potenziato dall’innocenza primitiva. Questa
trasformazione e questo confronto avvengono tramite un nuovo elemento,
il simbolo del fiume:
Lungo i fiumi dei boschi tremolanti
esce l’autunno con gli ultimi canti dei legnaioli;
cercherà nel tempo una nuova giovinezza
per nutrire i fiori d’odore e la luna di pallore tra poco40;
oppure
35 Ivi, p. 107.
36 Non si può che rimandare allo splendido saggio di N. Corcione, Voce e silenzio
nel primo Luzi, «Critica letteraria», a. XXXV (2007), n. 135, fasc. II, pp. 345-366.
37 M. Luzi – S. Verdino, La porta del cielo, conversazioni sul cristianesimo, Milano,
Fabbri Editori, 1997, p. 114.
38 Si pensi all’apertura di Frasi e incisi di un canto salutare (1990), posta sotto la
dogmatica filosofia dello Pseudo-Dionigi Areopagita dei Nomi divini: «Poiché da
un solo amore ne abbiamo dedotti molti», come si legge nell’epigrafe al volume.
39 Enciclopedia dei simboli, a cura di H. Biedermann, Milano, Garzanti, 1991, p.
5. Si ricordi che addirittura nell’Apocalisse di Giovanni è scritto che tra le promesse
riguardanti il futuro mondo messianico non vi sarà più il mare.
40 Lo sguardo, vv. 1-5 in La Barca, p. 23.
[ 11 ]
168 paolo rigo
Come acque di un fiume sepolto rampollano nella notte
le immagini addormentate
di voi, dei vostri occhi assenti41.
Come nota Noemi Corcione, il fiume diviene mezzo a cui Luzi «si
affida […] per ritrovare un’ancora, un punto di partenza»42: un movimento
circolatorio dell’animo umano alla disperata ricerca di un fine,
ricerca impegnata nell’indagine ab origine del tutto afatica. Nell’elemento
equoreo caratterizzato da una compresenza terrena (messa in
moto tramite la presenza semi costante dell’erba) si innescano meccanismi
riflessivi, sembra quasi che Luzi voglia proporre un ritorno terreno
e imporre la parola fine all’ansia della ricerca. In realtà, la fuga
sacrale di Luzi, almeno all’altezza de La Barca, non trova né pace né
conclusione, confermandosi, invece, viva anche in altre poesie dove
rimane intatto l’indirizzo dantesco, attivo ancora una volta nell’ampio
frame equoreo: per esempio, in Serenata di Piazza d’Azeglio; più precisamente,
nel tredicesimo verso della poesia, la «vela umida di destino»43
(la vela è sineddoche della barca), viene ribadito il calore della situazione
paradisiaca di Alla vita proprio attraverso l’aggettivo «umida».
Visti i rimandi interni non sembra quindi solo una suggestione la puntualizzazione
dello studioso americano John Butcher, che ricordava
come il titolo originale dell’esordio poetico di Luzi poneva dichiaratamente,
nelle intenzioni dell’autore, il volume in un ambito più organico
e strutturale di quello esclusivamente lirico: «La barca: Canti. That
subtitle “Canti” is of course hihly significant»44.
3. Il testo – tessuto e lo sguardo sul mito
La raffigurazione del testo come tessuto è uno dei topoi poetici più
antichi e diffusi nelle letterature di tutto il mondo. La metafora che è
alla base dell’imagery nasce dalla definizione della poesia come poiesis45:
si restituisce alla lirica, attraverso la figurazione, una coloritura
41 Canto notturno per le ragazze fiorentine, vv. 13-15 in La Barca, p. 19.
42 N. Corcione, Voce e silenzio nel primo Luzi, cit., p. 359.
43 La Barca, p. 13.
44 J. Butcher, The Poet and the Swallow: Mario Luzi, «Forum Italicum», 2, 2005,
p. 301. Per lo studioso americano è vivido nel sottotitolo un richiamo a «Campana,
the Campana of Canti orfici».
45 M. Luzi – S. Verdino, La porta del cielo, conversazioni sul cristianesimo, cit., p.
154.
[ 12 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 169
pratica. Naturalmente, l’uso del frame non è esclusivamente adoperato
in tale direzione e spesso la metafora è stata utilizzata per raffigurare
rapporti e legami tra testo e autore, autore e lettore, testo e volume,
ecc. Anche Luzi sembra volersi destreggiare con l’amplissimo bacino
d’utilizzo; l’attuale poesia d’apertura de La barca dal titolo Parca – villaggio46,
infatti, è costruita attorno alla metafora testo – tessuto:
A lungo si parò di te attorno ai fuochi
dopo le devozioni della sera
in queste case grige ove impassibile
il tempo porta e scaccia volti d’uomini.
Dopo il discorso cadde su altri ed i suoi averi,
furono matrimoni, morti, nascite,
il mesto rituale della vita.
Qualcuno, forestiero, passò di qui e scomparve.
Io vecchia donna in questa vecchia casa,
cucio il passato col presente, intesso
la tua infanzia con quella di tuo figlio
che traversa la piazza con le rondini47.
Il motivo centrale su cui ruota il componimento è legato alla memoria
e alla trascrizione sulla carta, evento dalle implicazioni profonde
e metaletterarie, d’essa stessa. All’altezza della Barca, la poetica luziana
sembra essere in bilico tra la descrizione di esperienze nascoste
– quindi che potrebbero essere definite ‘riflesse’ – dell’io poetico e un
gioco di rimandi allegorici, individuabile nello spazio – libro, che delle
stesse esperienze è il mezzo espressivo. Naturalmente, il tema del
recupero memoriale è emblematico del modo d’agire di Luzi e strettamente
legato all’imagery della Parca – villaggio: l’operazione di recupero
e figurazione della memoria (operazione che invade e maschera l’io
lirico) viene rappresenta tramite l’analogia della tessitrice, un’immagine
che ha goduto di una traditio48 del tutto particolare, unica come
unica appare del resto la sintesi luziana in bilico tra tradizione lettera-
46 La poesia venne in un primo momento esclusa dalla raccolta La barca; la
causa è da ricercare nella necessità di non avere una spesa troppo elevata per il
proprio libretto, stampato con un contributo economico da parte dell’autore. Il testo
verrà inserito nella raccolta solo alla terza edizione nel 1951. A noi preme sottolineare
l’intenzionalità e l’importanza proemiale di questa poesia.
47 Parca – villaggio, in La barca, p. 9.
48 Cfr. G. Gorni, La metafora di testo, in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna,
Mulino, 1993, pp. 137-154.
[ 13 ]
170 paolo rigo
ria, mito classico e contemporaneità (vivida almeno nella stessa attuazione
del poeta fiorentino). Rispetto all’uso più diffuso nel Novecento
del mito49, la componente retorica in Luzi, lungi dall’essere una sorta
di elemento demodé lontano dallo spazio e dal tempo, non è solo funzionale
in direzione di una raffigurazione ornativa ma tramite la stessa
Parca si attua una figuralità in azione, in atto: il mito diviene agens
della poesia. Da un momento evocativo, il titolo della poesia, si passa
nell’ultima strofa alla rottura con l’io poetico inquieto e indefinito.
Due piani distinti, da una parte la dimensione dichiarativa che non fa
emergere nulla di più che il mero ricordo della traditio antica dall’altra
l’espressività della funzione divisoria descritta e attuata solo nella
conclusione del componimento.
Nei vv. 10-11 («cucio il passato col presente, intesso / la tua infanzia
con quella di tuo figlio») della poesia di Luzi la parola «intesso»
stabilizza una serie di intrecci dalle ampie sfaccettature: mentre è riconoscibile
il dato reale contenuto nella figuratività fisica della metafora
stessa che allude alla creazione di una filettatura perenne il cui obiettivo
è quello di testimoniare e conservare, emerge il dato allegorico
condito di un’espressività forte, forse dantesca, il cui compito è – accade
significantemente nelle pagine del Convivio IV, VI, 1-4 (in cui il lemma
autore viene fatto discendere da «uno verbo molto lasciato da l’uso
in gramatica, che significa tanto quanto “legare parole”, cioè auieo»),
sebbene non si voglia in alcun modo ipotizzare una lettura o un’influenza
– riconsegnare tramite l’actio dell’anziana protagonista alle
Lettere e alla poesia il senso pratico del fare. Facendo un tuffo nella
traditio letteraria, forse, più che Dante, un vero e proprio animatore
della figura fu Petrarca, si ricordi per esempio, restando sul campo lirico,
Rvf 173, 6-7: «Quant’al mondo si tesse, opra d’aragna / vede».
Ma è «intesso» a destare più sorpresa: in posizione d’apertura viene
utilizzato, non che si voglia suggerire un rapporto diretto, da Torquato
Tasso nella Gerusalemme liberata I ii 7. Il termine riflette, insomma,
un uso classico. Luzi attua e innova del tutto la figura del testo – tessuto:
essa assume un valore distintivo e funzionale anche rispetto alla
configurazione visiva del componimento. Una disposizione che a differenza
dei testi classici della letteratura, non è costruita su intrecci di
carattere metrico bensì su intrecci tematico – immaginativi, come ha
notato anche Stefano Verdino50: per esempio, sempre secondo lo stu-
49 Cfr. Il mito nella letteratura italiana. Il Novecento, vol. IV, a cura di M. Cantelmo
e dir. da P. Gibellini, Brescia, Morcelliana, 2007.
50 «Una poesia fortemente inventiva nelle immagini, tra loro molto intreccia-
[ 14 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 171
dioso genovese, in Annunciazione di Avvento notturno,51 il primo verso
(«la mano al suo tepore abbandonata») si lega con l’ottavo («mani con
una luce rancia»). Non si è davanti a una ripetizione ma a un cambiamento:
Luzi è passato dal singolare al plurale mentre l’idea di un calore
riflesso si è conservata intrinsecamente; si passa dal «tepore» proprio
della mano alla «luce rancia» ricevuta dalle mani.
4. L’io e la psicomachia
In tutte le opere poetiche e, probabilmente, se accettiamo alcune
più che valide teorie di formazione del romanzo52, praticamente in
ogni opera letteraria, avviene un confronto interiore, incentrato su un
dualismo conflittuale ingaggiato tra le parti di uno stesso io. Ora, sebbene
sia effettivamente vero questo assunto, e che ogni opera complessa
non esaurisce il proprio valore nella descrizione o nel momento
narrativo, senz’altro spetta alla poesia il ruolo di strumento excelsus
per un’eventuale esegesi dell’anima. Se da un lato la poesia di Luzi,
come si è visto per ciò che concerne il topos della barca, è tipologicamente
definibile come poesia a base teologica, o almeno filosofica, nel
cui percorso si può individuare una sempre costante trasformazione,
con un picco finale nel viaggio di Simone Martini del 199453 (mentre
l’occasione per dettare le regole d’approccio della filosofia luziana si
avrà solo nel 2004 con Dottrina dell’estremo principiante) dove, nel complesso
teatrale e narrativo si realizzerà quasi in factis la teologia psicomatica
di Luzi, elementi afferenti al modulo della lis dell’anima non
mancano.
Si è già osservato che il fiume sia spesso associato alla descrizione
del movimento dell’animo teso versa la ricerca del divino; ebbene se il
flusso dell’acqua del fiume raffigura in maniera perfetta il movimento
dell’animo, esso non è assolutamente tranquillo: vive di scosse, di correnti
più o meno forti e di momenti di carico di piena. Il fiume, insomte
» (M. Luzi – S. Verdino, La porta del cielo, conversazioni sul cristianesimo, cit., p.
116). Alcuni accenni interessanti in P.M. Bertinetto, Esecuzione di un irreale spartito
(Se musica è la donna amata), «Settentrione», 4, 1992, pp. 11-19.
51 Avvento notturno, p. 71.
52 P. de Meijer, A. Tartaro, A. Asor Rosa, La narrativa italiana dalle origini ai
giorni nostri, Torino, Einaudi, 2007.
53 Cfr. G. Mariani, Il lungo viaggio verso la luce: itinerario poetico di Mario Luzi,
Padova, Liviana, 1982.
[ 15 ]
172 paolo rigo
ma, non è sempre uguale e, come già aveva notato Noemi Corcione, le
contraddizioni dell’animo si riflettono nelle inquiete attività dei fiumi;
è, infatti,
[…] in questo non-luogo che Luzi coglie, con un’inquietudine pari alla
meraviglia, “voci che scendono / fuggendo”, imprendibili proprio nel
momento in cui sono avvertite; la “nota voce d’un rivo / ne’ paesi
dell’infanzia”, […] dove l’ascolto è posto come condizione naturale di
desiderio54.
Le voci, l’ascolto come condizione del desiderio sono tutti momenti
di confronto, insanabili attimi di un conflitto interiore55, che troverà
una possibile conclusione solo quando uno degli spiriti più attivi del
mondo luziano, la madre56, compirà una catabasi verso l’io lirico orchestrata
sotto la dittatura dantesca57: non è un caso che la stessa perenne
lis trovi il proprio termine di confronto in figure femminili matrigne
(la stessa Parca – villaggio, ma più avanti negli anni di Frasi e
incisi di un canto salutare nel mito strutturante della raccolta di Proserpina
– Primavera e nel rapporto di quest’ultima con la madre). Un
confronto che si materializza sullo spazio labile della voce come accade
nei versi di Alla poesia58, scritta negli anni antecedenti alla seconda
guerra mondiale e poi confluita in Poesie ritrovate; a proposito della
poesia, sempre Noemi Corcione ne individua i nessi focalizzanti e ne
determina il tema centrale in un confronto interiore che si «configura
nel tempo come linguaggio dell’anima»59. Una sorta di ‘malinconia
dell’essere’ che riflette il «mito di Narciso allo specchio, che ama la sua
forma sensibile, ma, nello slancio, coglie una realtà trascendentale che
54 N. Corcione, Voce e silenzio nel primo Luzi, cit., p. 359.
55 Interessanti accenni in F. Ricci, Sulle tracce di “tu”. Percorsi intertestuali nella
poesia di Luzi e Montale, «Studi e Problemi di Critica Testuale», 2, Anno 2001, pp.
145-169.
56 Cfr. A. Luzi, Icone del femminile nella poesia di Mario Luzi, «Esperienze letterarie
», 4, 2004, pp. 51-63.
57 Per la realizzazione del rapporto Dante – Luzi (oltre ai saggi già citati) cfr. L.
Gattamorta, Le vie del ritorno a Dante. Colloquio con Mario Luzi, «Resine», 80, 1999,
pp. 121-35; Ead., Luzi e Dante: figure e trame di una intertestualità, «Strumenti Critici
», 2, 2000, pp. 193-217; M. Mancuso, «Non posso stare senza Dante». Mariarosa
Mancuso interroga Mario Luzi, «Sette», 38, 1999, p. 89-94; M.S. Titone, Dante nell’Opera
di Luzi e Pasolini, Firenze, Olschski, 2001; S. Verdino, Luzi da Leopardi a Dante,
«Cuadernos de Filología Italiana», 18, 2011, pp. 195-202.
58 Alla poesia, vv. 7-12, in M. Luzi, Poesie ritrovate, a cura di S. Verdino, Milano,
Garzanti, 2003, p. 60.
59 N. Corcione, Voce e silenzio nel primo Luzi, cit., p. 353.
[ 16 ]
appunti per un’analisi metaforica del primo luzi 173
cancella il disegno della sua figura e lo introduce ad un disegno
altro»60: slancio conflittuale perno del dialogo interiore. Probabilmente
la migliore orchestrazione dello stato di equilibrio tra stasi, slancio
e conflitto è resa nella poesia Miraglio:
Voi librate sugli indachi perversi
dei muschiosi angiporti, oasi d’amore,
voi città, draghi insorti dal profondo
della mia vita ancipite e indolore!
Voi nelle rosse epifanie d’infanzia
sul sollievo dei ponti e le accalmie
nere dell’onda io vidi sul mio corpo
esitanti in un sogno di bandiere.
Capigliature blu acclini alla notte
le maschere velavano e le grida,
uno sguardo, le lacrime interrotte,
dalle forre cercava il suo turchino.
Io così vorrei essere dolce
nell’oscuro me stesso, un viso attinto
all’ambiguo sorriso onde si celano
le fanciulle finitime dell’ombra61.
Il termine «miraglio» è un provenzalismo62 il cui significato originale
è molto vicino al nostro “mirare”, cioè guardare con precisione, il
lessema gode di un importante predecessore: ancora una volta Dante,
Purg. XXVII, 105. Sebbene, come ha giustamente affermato Lorenza
Gattamorta, il termine a una prima lettura sembra avere poco più che
nulla «da spartire con il “miraglio” in cui si specchia la Rachele dantesca
»63, entrambi i casi indicano un’azione che è condotta all’infuori
del significato letterale: mentre vi è una totalizzazione dell’evento in
Dante, in Luzi opera una complessa introspezione della realtà. Il motivo
dello specchio – riflesso come paradigma della condizione di psicomachia
interiore compare, sempre legato alla sfera della femminilità,
anche in altre poesie di Avvento notturno64. Un confronto perenne
60 D. Iannaco, La “poesia sacra” di Mario Luzi da “La Barca” a “Sotto specie umana”,
cit., pp. 134-135.
61 Miraglio, in Avvento notturno, p. 72.
62 L. Gattamorta, Stilnovismo e dantismo in Luzi, cit., p. 35.
63 Di parere opposto è S. Verdino, Apparato critico, cit., p. 1362: «Per il titolo
(che significa specchio) il riferimento è a Dante».
64 Si vedano le poesie Giovinette e Terra, in Avvento notturno, pp, 62-63.
[ 17 ]
174 paolo rigo
tra anima («distinta dall’io, e come interno magma da cui schizzano
fiammate di irresistibile dolore ma anche di fede di mania poetica,
d’amore»65) e io lirico. La concretizzazione di questa assidua psicomachia
avviene, in conclusione, quasi esclusivamente tramite figure femminili
(l’ombra, aveva detto il poeta, è «in genere è questa presenza
continua dell’alterità femminile, o viva o defunta»66), fantasmi in cui
«germoglia il dubbio se si tratti» di un «principio o di fine»67.
Paolo Rigo
(Università di Roma Tre)
65 E. Capodaglio, Commento estivo e mistico a una poesia di Mario Luzi, «Nuova
corrente», 57, 2007, pp. 213-228, p. 226.
66 S. Verdino, Apparato critico, cit., p. 1246.
67 G. Quiriconi, Luoghi dell’immaginario contemporaneo. L’io, l’altro, le cose, Roma,
Bulzoni, 1998, p. 142.
[ 18 ]
Pierantonio Frare
Manzoniana*
Tra il 1840 e il 1842 stavano uscendo a Milano le dispense quindicinali
della Quarantana, come è noto; la pubblicazione a puntate era uno
degli strumenti (assieme alle illustrazioni) escogitati da Manzoni per
evitare la piaga delle riproduzioni non autorizzate del suo romanzo,
che tanti danni anche economici gli avevano procurato dopo il 1827.
Ma già nel gennaio 1841, a distribuzione appena iniziata, Manzoni
venne a sapere che il libraio/editore napoletano Gaetano Nobile aveva
«pubblicato il manifesto d’un’edizione de’ Promessi Sposi, contraffatta,
cioè da contraffarsi su quella ch’io ho cominciato a pubblicare qui; col
medesimo numero di dispense, e ai medesimi intervalli; tutto come se
avesse in mano il manoscritto (che anche manoscritto si può chiamare
a cagione dei molti cambiamenti), e i disegni. I quali egli farà copiare
in litografia, sa il cielo come, e questi e il rimanente; ma il prezzo è
della metà. Che danno sia per recarmi questa soverchieria, se non è
buttata a monte, tu lo vedi. I miei stampatori, che trattano per conto
mio dello smercio dell’edizione, stavano per stringere un contratto di
2000 copie (per ora) con un corrispondente di Napoli; e questo all’annunzio
della contraffazione, ha avvisato che non potrà, per ora, accettarne
più di 100» (a Giacomo Beccaria, gennaio 1841, in Alessandro
Manzoni, Tutte le lettere, a cura di Cesare Arieti, Milano, Adelphi, 1986,
II, p. 171). Gli interventi di Manzoni, diretti e per interposta persona e
quelli degli editori milanesi della Quarantana, Guglielmini e Redaelli,
fecero sì che il Nobile infine desistesse dall’impresa (marzo 1841). Non
desistettero molti altri editori, non solo napoletani; ma quest’episodio
Note
* A proposito di: Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di Francesco
de Cristofaro e Giancarlo Alfano, Matteo Palumbo, Marco Viscardi. Saggio linguistico
di Nicola De Blasi, Milano, Bur-Adi, 2014; Promessi sposi d’autore. Un cantiere
letterario per Luchino Visconti, a cura di Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti,
Palermo, Sellerio, 2014. [Questo testo è stato letto il 13 aprile 2015 al Piccolo Teatro
Grassi di Milano. In quell’occasione alcune pagine manzoniane furono lette da
Toni Servillo. NdR]
176 pierantonio frare
mi è venuto in mente perché il curatore principale dei Promessi sposi di
cui qui siamo chiamati a parlare, Francesco de Cristofaro, li definisce,
con formula efficace, il «Manzoni napoletano» (p. 45). Da un’impresa
fortunatamente abortita ad un’impresa fortunatamente riuscita. De
Cristofaro sottolinea anche la natura d’équipe del lavoro, nato nel Dipartimento
di Studi umanistici della Federico II e allestito in particolare,
oltre che da lui, da Giancarlo Alfano, da Nicola De Blasi, da Matteo
Palumbo, da Marco Viscardi. Anche questo spirito di collaborazione ci
riporta a Manzoni, poiché quella del lavoro in comune è per lui una
costante aspirazione: la Quarantana può e deve essere definita un’impresa
collettiva, tra scrittore, disegnatore, incisori, stampatore. Ma già
nella Ventisettana Manzoni si era avvalso di lettori che sarebbe meglio
definire collaboratori, visto il ruolo che ebbero nel passaggio dal Fermo
alla prima stampa: Claude Fauriel, Ermes Visconti, Luigi Tosi. E tutto
il lavoro manzoniano sulla lingua sarebbe impensabile – e sarebbe stato
impossibile – se Manzoni non avesse chiesto e ottenuto l’aiuto degli
amici milanesi e fiorentini. C’è una affermazione che ricorre ben tre
volte nell’assai più tardo dialogo Dell’Invenzione (1851) che ben sintetizza
questa esigenza e questo atteggiamento di Manzoni: «studiare
insieme». Invito, a ben vedere, di grande attualità, che i curatori del
Manzoni napoletano hanno saputo cogliere ed accogliere.
Certo, di questa operazione collettiva che si rivela essere la Quarantana,
Manzoni è stato il principale artefice e il regista; e quando si
dice “regista” il termini va inteso nel suo significato attuale, di regista
cinematografico o almeno teatrale: perché, come Alfano mette bene in
luce, sulla scorta dei lavori di Baldini, di Barelli, di Nigro, di Badini
Confalonieri, Manzoni dispone un vero e proprio «impianto audiovisivo
» (p. 1268). Ne consegue che anche il commento deve disporsi su
due registri, su due fasce, per dir così, che si intersecano e collaborano:
de Cristofaro e Viscardi commentano il testo, Alfano le illustrazioni,
con un risultato polifonico di grande efficacia. Potrei fare numerosi
esempi, ma mi limiterò ad indicarne uno solo: la dialettica tra «geografia
interiore» ed «esteriore» a proposito del viaggio di don Abbondio
al castello dell’Innominato (cap. XXIII, pp. 706-707).
Ne esce un Manzoni contemporaneo, come lo sono tutti i classici; e
anche l’introduzione di de Cristofaro disegna da un lato un Manzoni
che dialoga con i romanzieri a lui coevi (con suggestivi richiami a un
Balzac, a un Dickens (p. 39), a un Flaubert, come aveva già indicato de
Lollis), dall’altro un Manzoni proiettato verso la nostra, di contemporaneità.
Si veda, ad esempio, la nota a quel brano del cap. XI nel quale
l’autore si paragona ad un bambino (sarebbe poi il figlio Enrico) che
[ 2 ]
manzoniana 177
cerca di recuperare i suoi porcellini d’India dispersi: «il quadretto digressivo
[…] non va considerato un divertimento minimalista: è, al
contrario, la condensazione di una poetica e l’emblematizzazione di
un dialogo intertestuale di gittata europea. In quella figurazione […]
si ritrovano e si ricompongono frammenti di un Parnaso anticanonico:
c’è Sterne, con zio Tobia che si diletta con soldatini e fortini; e c’è Balzac,
coi suoi “ossi” disposti a schiera sul banco del paleontologo; ci
sono Ariosto e Scott, con la loro costante ostensione speculare della
finzione. E c’è già, in prospettiva, la sagoma di Lev Tolstoj: che molti
anni più tardi farà trastullare altri bambini con dei treni in miniatura,
nelle prime pagine di Anna Karenina; prima di fare perire i suoi eroi,
naturalmente, sotto il treno» (pp. 396-397). E c’è anche, s’intende, un
notevolissimo anticipo sia della pirandelliana autonomia del personaggio,
sia dello straniamento brechtiano, perché vale anche per il romanzo
quello che Lonardi ha dimostrato per le tragedie. Ecco uno dei
motivi grazie al quale, come ribadisce de Cristofaro, «l’opera del Gran
Lombardo è sempre in grado – a dispetto di letture ideologiche e retrive
che ancora proliferano – di parlare alla nostra sensibilità, illuminando
i conflitti del presente. Perché I promessi sposi sono forse il romanzo
più radicato nella propria epoca, e insieme più capace di oltrepassarla,
che sia mai stato scritto in Italia» (p. 23). Non a caso, concludendo
la sua Scheda dell’opera, Marco Viscardi può ammiccare ai Sommersi
e salvati di Primo Levi: «Il racconto dei salvati [Renzo e Lucia] ha
senso anche perché è testimonianza della scomparsa dei sommersi
[Piazza, Mora, gli altri protagonisti della Colonna infame], di quanti
non sono sopravvissuti alle catastrofi incontrate, senza colpa, sul loro
cammino» (p. 61).
È il momento di introdurre l’altro libro di cui parliamo qui, i Promessi
sposi d’autore. Un cantiere letterario per Luchino Visconti. Infatti, il
libro curato da Silvano Nigro e da Silvia Moretti, oltre a raccontare un
interessantissimo progetto, purtroppo fallito, di portare sugli schermi
I promessi sposi, costituisce, forse anche al di là delle intenzioni, un capitolo
di un libro ancora in grandissima parte da scrivere, e che però
si sta scrivendo, poco alla volta, pezzo per pezzo: il libro della fortuna
di Manzoni nel Novecento, cioè in un secolo che, a partire dai tardi
anni sessanta, pare aver decretato, almeno da parte della cultura egemone,
un ostracismo nei confronti dei Promessi sposi. Ovviamente, sideve
andare al di là dei nomi noti di Bacchelli, di Gadda, di Sciascia,
di Pomilio, di Anna Banti; e si faranno scoperte sorprendenti. Andrea
Rondini, in un bel saggio, ha mostrato quanto pervasiva e profonda
sia la lezione manzoniana in Primo Levi («Testo», 2010); e Ermanno
[ 3 ]
178 pierantonio frare
Paccagnini ha inventariato le numerose presenze di Manzoni nell’opera
di Camilleri (in Il caso Camilleri. Letteratura e storia, Sellerio, 2004).
Studi del genere andrebbero fatti su molti altri autori, a partire, per
dirne uno solo, da Umberto Eco, almeno quello dell’Isola del giorno
prima; bisognerebbe studiare anche Manlio Cancogni, autore nel 2005
di un singolare romanzo autobiografico, Sposi a Manhattan, modellato
per più versi sull’opera manzoniana; ma Bassani trovava un’aura
manzoniana anche nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (e aggiungo
che è anche autore di un breve articolo, in «Paragone» 1956 in
cui trova dei parallelismi tra Manzoni e Hemingway).
Restiamo in Italia, per quanto uno dei protagonisti del libro di Nigro
e Moretti sia lo scozzese Archibald Colquhon, autore nel 1951 di
una fortunata traduzione inglese dei Promessi sposi. Il libro, condotto
tutto su materiali d’archivio di prima mano, offre numerosi stimoli ad
una ricerca sulla fortuna novecentesca del romanzo. Non si può non
rimanere sorpresi, ad esempio, leggendo che nel 1943 Leone Ginzburg,
nella propria cella di Regina Coeli aveva organizzato un corso in cui si
commentavano I promessi sposi; e si dice Leone Ginzburg, non don
Sturzo o De Gasperi. Tra gli allievi, c’era Carlo Muscetta.
Manzoni per Ginzburg nel 1943, insomma, come Dante per Primo
Levi ad Auschwitz nel 1944; e come Proust per lo scrittore e pittore
polacco Joseph Czapsk e i suoi compagni di prigionia nel gulag russo
di Griazowietz, sempre in quegli stessi terribili anni1. Su episodi di
questo genere, di una letteratura che dà vita alla vita, assai più numerosi
di quanto non si creda, dovrebbero riflettere coloro che vogliono
emarginare, se non liquidare come un ferrovecchio, la cultura umanistica;
e dovremmo riflettere anche noi, se vogliamo capire per quali
motivi e su quali basi essa vada conservata e rivissuta e tramandata.
Naturalmente, come abbiamo imparato in particolare dagli studi
di Nigro, quando si dice Promessi sposi si deve intendere Promessi sposi
e Storia della colonna infame, insieme. E anche per quest’ultima, sia pure
considerata a sé, soccorrono memorie letterarie e cinematografiche
che periodicamente ne verificano e documentano l’attualità: la riscoperta
di Vigorelli nel 1943, quella quasi contemporanea del regista Nelo
Risi nel 1973 e di Renzo Negri (che coniò l’efficace e fortunata for-
1 Joseph Czapski, La morte indifferente. Proust nel gulag, s. l. [ma Napoli], l’ancora
s.r.l., 2005 (I ed. francese: Proust contre la déchéance. Conférences au camp de
Griazowietz, 1987. Così si chiude l’Introduzione: «[…] questo scritto è solo un umile
tributo di riconoscenza verso l’arte francese che durante quegli anni in Unione
Sovietica ci ha aiutati a vivere».
[ 4 ]
manzoniana 179
mula del romanzo-inchiesta) nel 1974, probabilmente all’origine del
rinnovato interesse di Sciascia, sfociato nella sua edizione del 1981. Si
badi alle date e al contesto storico: terribile il primo, ma tempestoso
anche il secondo, tra strategia della tensione, opposti estremismi, ruolo
della magistratura. Giustamente, allora, questa edizione comprende
anche la Storia della colonna infame, corredata da un ricco e stimolante
commento di Matteo Palumbo, autore anche di un prezioso saggio
che stringe ulteriormente i legami tra il romanzo e la storia, tra le due
parti di un dittico saldamente incernierato intorno ad una casa e ad
una famiglia: una, quella di Renzo e di Lucia, appena edificata e allietata
dalla nascita di una bambina – è questo che vediamo nella pagina
di sinistra, alla fine del romanzo –; e una casa distrutta, che ci viene
incontro nella pagina di destra, all’inizio della Colonna infame: è la casa
dove abitavano il Mora, sua moglie e le sue figlie, condannate, dopo
l’esecuzione di lui, al vagabondaggio e alla miseria.
«Gente di nessuno», dice don Rodrigo di Renzo e di Lucia; «gente
di nessuno», pensano i magistrati (ben capaci di ragionare e distinguere
il falso dal vero quando invece si tratta di incriminare il nobile
don Gaetano Padilla) di Piazza, di Mora, degli sventurati torturati e
condannati su loro ordine e da loro. E Guglielmo Alberti, con ben viva
la memoria della dittatura e della guerra, così scrive nel 1955: «Poiché
“gente di nessuno” ci siamo sentiti un po’ tutti a un certo momento e
da un momento all’altro sappiamo che potremo sentirci di nuovo, tanto
precaria conosciamo ormai per essere la condizione umana, tanto
facile la perdita del più elementare diritto in cui non ci vuol nulla perché
il sopruso si faccia, più o meno apertamente, legge, con la certezza
di poter contare sulla tacita complicità dei più» (p. 45). Chi avrà il coraggio
di dire che queste parole non valgono per l’oggi?
Ma I promessi sposi dicono anche altro: se l’oppressore può contare
sulla tacita complicità dei più, l’oppresso (e chiunque sia oppresso diventa
subito gente di nessuno, a qualunque condizione appartenesse
precedentemente) può contare su una presenza: il cielo che sta sopra
la gente di nessuno non è vuoto: «Ma il Signore lo sa che ci sono», dice
Lucia di fronte all’Innominato, nel suo castello, riproducendo l’umilissima
e fondamentale preghiera della fede semplice. Non a caso a
due analfabeti Manzoni affida il sugo della storia (che subentra, come
nota acutamente de Cristofaro nella sua introduzione, al filo della storia,
cui pure Manzoni dedica tanta attenzione: pp. 20-22), facendone
due filosofi che dibattono, cercano, concludono. Proprio alla fine del
romanzo, nel momento topico, in cui si aspetta l’intervento dell’autore,
l’aristocratico Manzoni, il raffinato intellettuale, il grande scrittore
[ 5 ]
180 pierantonio frare
si fa da parte. Il sugo della storia – della loro storia e della Storia universale,
quell’Historia che è la prima parola del romanzo – è tirato da
due contadini ignoranti, da povera gente, che proprio per questo può
capire le più grandi verità, così come la donnicciola supera in sapienza
i dotti dell’Areopago. La povera gente, dice Manzoni: cioè, i «poveri
di spirito» della beatitudine, del discorso della montagna: a loro
spetta una «vita migliore», che è, sì, il regno dei cieli ma anche il centuplo
su questa terra, secondo la promessa del Vangelo (Mt 19,29; Mc
10,30).
Da questa profonda convinzione manzoniana si può partire anche
per rendersi meglio conto della profonda democraticità della lingua di
Manzoni e anche della sua sostanziale oralità, sulla quale insiste, nel
suo bel saggio, Nicola De Blasi, che anche smonta l’accusa di imperialismo
linguistico che, almeno a partire da un celebre e frainteso articolo
di Graziadio Isaia Ascoli viene periodicamente mossa alle proposte
linguistiche dello scrittore lombardo. Il fondamento orale della lingua
dei Promessi sposi non è altro, del resto, che il risvolto linguistico della
finzione narrativa, il suo necessario pendant: poiché il primo narratore
della storia dei promessi sposi è appunto Renzo, che la racconta spesso,
e a molti, e «lunghettamente»; tanto che l’anonimo, ci dice l’autore,
l’ha sentita proprio da lui «ché lui medesimo, il quale soleva raccontar
la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto
conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più
d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte,
non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare
»: cap. XXXVII).
Renzo, dunque, come primo narratore della propria storia (e, si
deve immaginare, di quella di Lucia, dopo che la fidanzata gliel’avrà
raccontata). Ma Renzo avrebbe potuto leggerla, la sua storia, scritta
dall’anonimo e riscritta da Manzoni? Certamente no, perché egli, come
sappiamo, sa leggere, e a fatica, solo lo stampato. Non sarà, allora,
che l’inserimento delle vignette (sono quasi una per pagina) assume
anche questa funzione, cioè quella di consentire pure a persone scarsamente
alfabetizzate di seguire la narrazione, aiutandosi con le illustrazioni
laddove il testo risulti troppo difficile? di consentire la visualizzazione
immediata di situazioni e stati d’animo non immediatamente
decifrabili a chi ha poca dimestichezza con la lettura? Renzo
non è solo il primo narratore della propria storia; ne diventa, in un
certo senso, anche il primo lettore, perché, in quanto testimone e protagonista,
è colui che viene chiamato a verificarne l’autenticità, la rispondenza
al vero.
[ 6 ]
manzoniana 181
Insistere sulla tensione verso l’oralità (il che non significa dire che
essa domini per tutto il testo) della lingua cercata da Manzoni nel romanzo
significa anche ricordare che I promessi sposi, come del resto la
gran parte e la miglior parte della nostra letteratura, sono fatti per essere
letti ad alta voce. Chi vi parla ha organizzato, assieme ai colleghi
Paola Fandella e Giuseppe Langella, una lettura pressoché integrale
dei Promessi sposi, che si tenne in Università Cattolica dal 10 febbraio
all’8 maggio 2005, in 20 serate poi confluita in un volume con dvd:
«Questo matrimonio non s’ha da fare…». Lettura de «I promessi sposi», Vita
e Pensiero, 2005). Fu un’esperienza indimenticabile: le parole dei Promessi
sposi, lette – non recitate, si badi: lette – dagli attori che parteciparono
all’iniziativa dimostrarono tutta la loro capacità di presa su un
uditorio folto ed estremamente vario. Del resto, già pochi anni dopo
l’uscita del romanzo, Raffello Lambruschini lo leggeva, alla sera, ai
suoi contadini. I promessi sposi vanno letti ad alta voce.
Potete dunque immaginare quanto apprezzi qui la presenza di Toni
Servillo e quanto sia ansioso di ascoltarlo. Tutto si tiene, in questo
pomeriggio manzoniano; e di questo sono, siamo grati agli studiosi
che hanno dato vita a questa nuova, importante, edizione dei Promessi
sposi e a coloro che ne hanno indagato un importante episodio della
fortuna novecentesca. È un grande servizio reso a Manzoni e a tutti
noi.
Pierantonio Frare
(Università Cattolica – Milano)
[ 7 ]
Andrea Battistini, Il Barocco, Roma,
Salerno editrice, 2012, pp. 330.
«Benché incantato dalle seduzioni
derivate dai sensi, nel Seicento l’uomo
non è più, come aveva preteso
Protagora, misura di tutte le cose,
perché l’universo si è tanto dilatato
che i suoi tesori non si possono neppure
immaginare, incommensurabili
nella loro estensione» (p. 7).
L’incipit della Premessa del corposo
volume dedicato da Andrea Battistini
al Barocco contiene in nuce le ragioni
dell’importanza di questo libro e
del fascino per nulla tramontato di
un’epoca d’inesauribili tesori, che
tanto somiglia alla nostra post-modernità,
non a caso definita da qualcuno
neo-barocca. Lo scrive lo stesso
Battistini, alacre studioso del Seicento,
che evoca la «perdita di ordine e
di armonia» come conseguenze di
«una comune frantumazione del sapere
causata dall’eccesso smoderato
di nozioni, in cui non si riconosce più
alcuna gerarchia, tutte sullo stesso
piano per lo smarrimento dei valori
che fanno la differenza» (ibid.), nel
Seicento come oggi.
A coloro che studiano questo secolo
così poco fortunato, capita di leggere,
dopo aver interrogato i pochi
“testi sacri” di una critica ormai datata,
molti lavori su cose secentesche,
pregevoli, intelligenti, faticosi, ma
quasi sempre parziali. L’impressione
più frequente che ne deriva è che
questo secolo non appartenga veramente
a nessuno, che nessuno sia capace
di dominarlo, come accade, invece,
fortunatamente per la maggior
parte dei secoli della nostra letteratura.
Il libro di Battistini sul Barocco
allontana questa sensazione, perché,
nel fieri delle pagine, tradisce il suo
titolo, e si fa storia letteraria di un’intera
età, indagine accurata su un
mondo così poco esplorato e così
tanto eloquente. Eppure la visione
complessiva, mai affrettata che il volume
dona, lungi dal sopire la curiositas,
sa accenderla e farsi guida propositiva
e intelligente verso nuove
strategie di lettura di un ancora non
del tutto esplorato mare magnum.
In un’opera di tale respiro è indispensabile
partire dalle definizioni
preliminari, scindere chiaramente,
ad esempio, il Manierismo dal Barocco,
evidenziare il carattere «introverso
e prezioso» del Manierismo in rapporto
speculare con «il delirio megalomane
del Barocco». In questo spazio
definitorio si colloca una complessiva
valutazione dei rapporti tra
Recensioni
recensioni 183
classicismo e barocco, continuo e fecondo
incontro che si biparte tra la
tentazione della sregolatezza e la necessità
di misura.
Il terzo capitolo è dedicato ad uno
degli aspetti più eloquenti del Seicento,
la spiritualità. La prospettiva
di Battistini intende affrancare la
Chiesa della riforma dal rigore di
giudizi inappellabili e complessivi. Il
critico vuole guardare al di là di quella
«tonalità severa e grave, orientata
alla visione trascendente del mondo»
che identifica l’intera spiritualità del
secolo con un’«opera coercitiva di
controllo e chiusura»: «Non per nulla
la maggior parte degli storici preferisce
ormai sostituire al termine “Controriforma”,
quello più costruttivo di
“Riforma cattolica”, implicante un
ruolo attivo di rielaborazione culturale
» (pp. 36-37). E infatti il quadro
che si delinea nelle pagine successive
evidenzia una Chiesa che «non manca
di differenziare le proprie tattiche,
adeguandole all’accresciuta complessità
di un mondo in cui, persi i
sicuri punti di riferimento, univoci e
universali, si deve privilegiare l’osservazione
concreta e specifica» (pp.
37-38). Nella disamina della spiritualità
della Chiesa della riforma, un
luogo privilegiato è occupato dai
modi e dalle diverse declinazioni
della predicazione gesuitica.
Ad argomenti quasi diametralmente
opposti è dedicato il IV capitolo, a
dimostrare ancora una volta la ricchezza
di temi ed articolazioni del
Barocco, l’estrema difficoltà di coniugare,
riconciliandole, le molteplici
spinte centrifughe di questo secolo
alla ricerca di nuova identità. Gli ideali
e le ossessioni del Barocco sono
introdotte da un’importante osservazione:
«La curiosità, condannata nel
mondo antico in quanto ὒβρις, nel
Seicento diventa una virtù, comune a
scienziati, a letterati e a collezionisti
in cerca di eccentricità e stravaganze
che evadessero dalla prevedibilità,
non per una volontà eversiva, ma al
contrario per il proposito di neutralizzarne
gli effetti perturbanti. E ciò
ammonisce che l’attrazione barocca
per il trasgressivo, il capriccioso, il diverso,
lo strano, l’alternativo, il prodigioso
avviene pur sempre in seno a
una società conservatrice e autoritaria
organizzata rigidamente in vista
del mantenimento dell’ordine costituito
» (p. 52). Marino, Frugoni, Testi,
Chiabrera e Galilei sono le voci del
Seicento che preparano la scena ad
una disamina della topica immagine
del Teatro del mondo: «Se il mondo è
un teatro, il teatro è la forma artistica
più frequentata, la più idonea a sottolineare
gli artifici di una civiltà che,
dei cinque sensi, privilegia la vista,
non solo tra chi pratica la scienza, ove
si richiede un occhio linceo, ma anche
nella costruzione di emblemi e di imprese,
nell’attenzione alla fisiognomica
(si pensi solo a Della Porta) e all’arte
dei cenni, tutte risorse appartenenti
all’actio
scenica. […] Per giunta la
realtà è vista attraverso il diaframma
dell’allegoria o della metafora» (p.
84). Al motivo del mondo come teatro,
che ovviamente contagia vari generi
letterari fuori dalla scena, come
la fiaba o il cunto basiliano, si lega un
altro motivo del barocco, la follia, che
serpeggia in un mondo continuamente
in limine tra realtà e sogno ed è
indagata attraverso la lettura de La
girandola degli humoristi di Giulio Cesare
Croce e la riflessione sulla follia
salvatrice di Campanella.
Interrogandosi sui temi e motivi
del barocco, il capitolo quinto si sno184
recensioni
da poi in un percorso affascinante
attraverso l’immagine dello scienziato
a caccia dei segreti dell’universo,
che, muovendo da Bacone, giunge al
Bruno del De lampade venatoria, al
Galilei del Saggiatore, allo spagnolo
Rodrigo Fernandez de Ribera, nella
cui opera del 1631, El Méson del mundo,
la metafora venatoria dello scienziato-
cacciatore si amplia in quella
dell’osteria-mondo, in cui l’uomo,
come in un romanzo picaresco, sperimenta,
proprio come il nuovo scienziato
del Seicento: «La metafora del
mondo come osteria vuole piuttosto
indicare la necessità che lo scienziato
si immerga in un contesto infervorato,
pieno di energia, da vivere con la
massima intensità, con una gioia intellettuale
e un entusiasmo che compensano
i tanti disagi da sopportare,
come di chi frequenta i luoghi affollati
delle bettole, in cui gli schiamazzi,
la congestione dell’assembramento,
lo scompiglio, se possono a volte
creare fastidio, sono comunque i segni
positivi di un’esuberanza e di un
vigore che conquistano chi ama la
pienezza dell’esistere, oltre tutto vissuto
in un luogo di incontri conviviali,
intonato alle nuove esigenze della
scienza, che ormai può essere fatta
solo in comune, entro una dimensione
collettiva» (p. 95).
Accanto alla vitalità ed esuberanza
barocche trova posto Il Trionfo della
morte, presente nella letteratura del
Seicento come desengaño, opposizione
raccontata da Fulvio Testi, nella
forma epigrammatica delle sue Poesie
liriche, dal Bellarmino, nel suo De arte
bene moriendi, dal buon gesuita Bartoli,
nel suo L’uomo al punto, e dal mondano
Marino. Battistini disegna le
luci e le ombre, insomma, di questo
secolo che si divide tra gli entusiasmi
della nuova scienza e la consapevolezza
della fugacità del tutto, un secolo
che ammira il prodigio del cannocchiale
e intuisce mondi, solo per
perdersi davanti all’infinito, non-luogo
di ebbrezza, ma anche di terrore.
Il sesto capitolo del libro affronta
una delle questioni più importanti
del Barocco e dell’intero Seicento,
esaminando le «pronunzie della retorica
», dall’ingegno e l’acutezza alla
codificazione dei trattati, che all’acutezza
barocca non sa resistere, se produce
opere come il Delle acutezze, che
altrimenti spiriti, vivezze e concetti volgarmente
si appellano (1639) di Matteo
Peregrini e il Trattato dello stile e del
dialogo (1646-7) del gesuita Sforza
Pallavicino.
Nessuno studio complessivo sul
Barocco e sul Seicento può prescindere
dalla discussione intorno alle
«arti sorelle», argomento del settimo
capitolo di questo bel libro. Muovendo
dalla celebre osservazione del
Marino, per il quale «la poesia è detta
pittura parlante, la pittura poesia
taciturna» (G. B. Marino, Diceria prima
sopra la Sacra Sindone, in Id., Dicerie
sacre e La Strage degl’Innocenti, a
cura di G. Pozzi, Torino, Einaudi,
1960, p. 151), Battistini non intende
esimersi dal riconoscere, preliminarmente,
la primazia delle arti figurative
sulla letteratura nel secolo del Barocco,
animato comprensibilmente
dalla necessità di scardinare definitivamente
l’antica condanna del Barocco
da parte di una certa critica,
guidata da Croce.
Le soluzioni architettoniche e scultoree
del Bernini realizzano l’ambizione
di metamorfosi e movimento
che sta dietro al recupero letterario di
miti come quello di Apollo e Dafne;
la devozione cristiana suggerisce la
recensioni 185
nuova vita degli uomini e dei Santi
di Caravaggio e fa di Roma la capitale
delle arti figurative ed in particolare
della pittura. I nomi dei Caracci
stanno accanto a quello del Marino
de La Galeria, quello di Guido Reni
accanto a quello di Giovan Battista
Manzini. La ricerca della bellezza,
ma anche della realtà colorata di luci
ed ombre animano le arti figurative e
la letteratura, nel comune obiettivo
di raccontare la vita poliedrica di un
mondo che, pur restando ancorato ai
suoi confini, intuisce l’ebbrezza dell’infinito.
Dalle tele di Caravaggio,
Ribera, Rubens, dello Spagnoletto
Battistini
si allontana per raccontare
di un’altra arte sorella, la musica,
«anima della poesia», nelle sue diverse
forme, dai madrigali alle favole
pastorali, ai drammi per musica di
Rinuccini e Monteverdi.
L’ottavo capitolo, La planimetria dei
centri culturali, si apre con un’importante
osservazione preliminare:
«Non è un paradosso se con la maggiore
circolazione delle idee e il cosmopolitismo
si acquisisca al tempo
stesso un’accresciuta coscienza della
specificità regionale o cittadina con
la creazione dei primi statuti di una
letteratura dialettale, in una stagione
di particolarismo che ha richiamato
il feudalesimo, proprio mentre la cultura
barocca pervade di sé tutta l’Europa
» (p. 210).
L’asserzione iniziale consente di
conciliare la territorialità del Barocco,
nelle sue declinazioni regionali e talvolta
cittadine, con le aspirazioni europeiste.
In una prospettiva tale non
si può non dedicare, in un libro sul
Barocco, uno spazio adeguato alla
declinazione spagnola di questo stile,
ma anche alle resistenze francesi e
al rifiuto della scientifica Inghilterra.
Un libro, inoltre, che intenda indagare
il barocco europeo e comprenderlo,
non può circoscriverne gli esiti
entro lo spazio di un solo secolo; per
questo Battistini costruisce, nell’ultimo
capitolo, un lungo ponte Verso il
Settecento, capace di condurci dalle
ampollosità barocche alle miniature
del Rococò: «A chi provenga dalle
poderose e abbaglianti costruzioni
barocche, tutto ciò può fare l’impressione
di varcare la soglia di un boudoir
ormai settecentesco dal quale
l’arte e la letteratura si affacciano tutte
incipriate» (p. 291). Ma questa,
poi, è un’altra storia, da scrivere.
Daniela De Liso
Bruno Cicognani, Le novelle 1915-
1929, a cura di Alessandra Mirra,
Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012,
pp. 416 («Bruno Cicognani. Le opere
», 1).
Bruno Cicognani, Le novelle 1930-
1955, a cura di Valerio Camarotto,
Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012,
pp. 376 («Bruno Cicognani. Le opere
», 2).
Dagli anni Sessanta a oggi l’interesse
critico nei confronti dell’opera
di Bruno Cicognani ha subito una
graduale recessione, al punto che attualmente
i testi dell’autore fiorentino
risultano, ingiustamente, di difficoltoso
reperimento. Questa la motivazione
precipua per cui, evidenzia
Marco Dondero, direttore dell’edizione,
è stata concepita una nuova
edizione criticamente accertata delle
sue «Opere».
I primi due volumi contengono la
produzione novellistica dell’autore,
186 recensioni
suddivisa in due tomi: Le novelle
1915-1929 e Le novelle 1930-1955. Entrambi
i volumi sono provvisti di una
ricca introduzione, di un paragrafo
intitolato Nota al testo in cui viene minuziosamente
ricostruita la cronistoria
editoriale e testuale delle novelle,
e di una premessa di Marco Dondero;
ogni novella è inoltre dotata di
puntuali note a piè di pagina dove
sono catalogate le varianti principali
rintracciate in fase di collazione.
Nell’attenta e dettagliata introduzione
a Le novelle 1915-1929, la curatrice
Alessandra Mirra si sofferma
inizialmente sull’interesse che la critica
dedicò all’autore fiorentino:
un’accoglienza in bilico tra le riserve
di Emilio Cecchi, «che tacciava Cicognani
di non aver saputo ritrarre Firenze
nella sua totalità» (p. 7), e l’entusiasmo
di Geno Pampaloni, al quale
invece premeva sottolineare proprio
la visione innovativa che di Firenze
aveva offerto Cicognani: non
più quella di una città ancorata a un
immaginario di granitica monumentalità,
bensì quella di un borgo in
movimento, caratterizzato da una
vivace dimensione umana. «Quel
che è certo», sostiene la studiosa, «è
che la Firenze delle pagine di Cicognani
è una Firenze ben diversa» (p.
7) e che fu proprio l’attenzione alla
vita dimessa e quotidiana a permettere
allo scrittore di ottenere un apprezzamento
dapprima negatogli.
D’altro canto, se i tòpoi delle novelle
dell’autore fiorentino (in seguito
all’infelice parentesi “dannunziana”
della Crittogama) si innestano
negli scenari tipici di certa letteratura
provinciale, con quadretti di vita
locale, personaggi popolari e uso del
vernacolo, «ciò che “salva” Cicognani
dal semplice bozzettismo è la capacità
di scavare nella psiche dei personaggi,
rendendoli ben altro che
semplici “ritratti”» (p. 8). Tale propensione
alla disamina psicologica
consente perciò di collocare l’opera
di Cicognani in quel filone di «temi,
situazioni, nonché parole-chiave che
ci riportano non solo a Pirandello,
ma a un’intera poetica primo-novecentesca
che aveva fatto della dialettica
tra estraneità alla vita e alienazione
da una parte, e tensione verso
un’impossibile immersione nella vita
dall’altra un vero ritratto identificativo
» (p. 12).
Relativamente alla cifra stilistica
dello scrittore, Mirra si concentra su
alcuni momenti allocutori del narratore
al lettore, sulla presenza dominante
del dialetto fiorentino e, soprattutto,
sull’abilità di Cicognani
nell’avvicendare diversi registri narrativi
all’interno di «un tratto stilistico
ben riconoscibile» (p. 17).
Nella ricca e articolata prefazione a
Le novelle 1930-1955, Valerio Camarotto,
dopo aver fornito un quadro complessivo
della biografia dell’autore
fiorentino e della sua fortuna critica,
tiene a sottolineare che nell’opera di
Cicognani si avverte la coesistenza di
un realismo moraleggiante – «che se
da un lato mostrava di riallacciarsi
[…] alla grande lezione del verismo
verghiano e del naturalismo francese,
dall’altro traeva linfa […] dalla controversa
tradizione del “bozzetto”
tardo-ottocentesco» (pp. 5-6) – e di
talune incidenze letterarie di stampo
marcatamente novecentesco.
Lo studioso precisa che nella fase
matura del percorso letterario dello
scrittore non sono rintracciabili divergenze
significative rispetto al periodo
antecedente, e – proponendo
varie e sintomatiche citazioni esemrecensioni
187
plificative – pone l’accento su quelli
che rappresentano i nuclei tematici
della produzione di Cicognani: un’umanità
infelice e sofferente destinata
al fallimento, le tensioni nei rapporti
famigliari, una bipolarità semantica
particolarmente spiccata nelle figure
femminili, l’intolleranza nei confronti
dei canoni borghesi, la contrapposizione
tra i contesti ariosi della campagna
e i plumbei e fatiscenti scenari
urbani, una certa ricorrenza di simmetrie
tra stati emozionali dei personaggi
e il paesaggio che li circonda. È
proprio nelle descrizioni paesaggistiche
– evidenzia Camarotto – che la
scrittura di Cicognani «si stempra in
un soffuso e talvolta malinconico lirismo
» (p. 17) e permette a uno dei
tratti che la contraddistinguono, il
carattere evocativo, di emergere con
forza e naturalezza.
L’orizzonte formale di Cicognani
– «che trova […] la sua più intima ragion
d’essere, negli intenti dell’autore,
non certo nell’esibizione della
“bella pagina” ma nella volontà di
rappresentare il “mistero umano nel
suo vibrare all’unisono col tutto”»
(p. 18) – è d’altronde contrassegnato
da una sapiente gestione dello spazio
narrativo e da una brillante alternanza
di registri contrapposti, con
l’uso di toscanismi e fiorentinismi
insieme a locuzioni dotte e ricercate
– caratteristica che ne attesta la natura
vivace ed eclettica.
Marta Paris
Roberto Salsano, Michelstaedter tra
D’Annunzio, Pirandello e il mondo della
vita, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 102.
All’insegna di un’adorniana dialettica
del negativo, non priva tuttavia
di una riaffiorante tensione eroica,
è il profilo intellettuale di Carlo
Michelstaedter quale emerge da questa
recente indagine critica di Roberto
Salsano, da tempo rivolto ad
esplorare i nuclei vitali dell’immaginario
primonovecentesco – si pensi,
in particolare, ai suoi studi su Pirandello
e Rosso di San Secondo – oltre
che impegnato a investigare, specie
in Scrittori e critici del 2009, il felice
connubio di riflessione teorica e invenzione
narrativa che contraddistingue
i principali interpreti della
modernità letteraria. E proprio la
convergenza di questi due motivi – la
disamina dell’intellettuale novecentesco
e l’attenzione ai procedimenti
di scrittura ‘impura’ – si concreta
nell’analisi dello studioso, esemplare
non soltanto per la proposta interpretativa,
ma altresì per il solido impianto
metodologico, che privilegia
l’analisi intertestuale senza ridurla
all’individuazione di presunte univocità
fontistiche. Un vero e proprio
gioco dei destini incrociati, più nel
segno della difformità che dell’analogia,
s’instaura infatti fra il pensatore
goriziano, qui indagato sul triplice
fronte della riflessione filosofica, poetica,
epistolare, e i coevi D’Annunzio
e Pirandello, accomunati a Michelstaedter
da parallele istanze poetico-
filosofiche, ma confinati, rispettivamente,
in un vacuo estetismo o in
un disperato relativismo da cui l’autore
della Persuasione, puntualmente,
si discosta. Ciò che emerge, in fondo,
è l’assoluta originalità della sua opera,
leopardianamente nutrita di un
pessimismo cosmico – quale del resto
l’opera pirandelliana – e insieme tramata
da un’arditezza eroica destinata
a oltrepassare, come ben evidenzia
188 recensioni
il critico, lo stesso archetipo leopardiano
e la coeva «Weltanschauung di
Pirandello» (p. 57). Un’arditezza tuttavia
non esitante, come nel contemporaneo
D’Annunzio, in un superomismo
narcisisticamente ripiegato su
sé stesso. Sensibile al vitalismo del
poeta-vate, ma lungi da qualsivoglia
irrazionalismo decadente è infatti la
produzione critica di Michelstaedter
– si pensi alle sue riserve al dramma
dannunziano Più che l’amore, opportunamente
riportate da Salsano (Michelstaedter,
D’Annunzio e le istanze
della vita) – che marcano la sua distanza
culturale da un coté estetico
irrimediabilmente lontano anche se
simbolicamente affine, specie per ciò
che concerne l’immagine metaforica
del mare. Forse in virtù, e ci soccorrono
le intuizioni di Campailla sul simbolismo
marino dei mosaici di Aquileia,
di un’ascendenza cristologica
fortemente operante in Michelstaedter,
e dunque distante dal paganesimo
dannunziano. Altrettanto differente,
pur nell’analoga critica della
«degenerazione contemporanea», è
la personalità del goriziano a confronto
con quella pirandelliana (Michelstaedter
e Pirandello tra vitalismo e
criticismo). Affine a quest’ultimo per
l’impietosa coscienza della frantumazione
dell’io che s’invera nel motivo
del corpo diviso – già degli artisti
scapigliati – Michelstaedter non si
annulla però nel relativismo dell’autore
siciliano, concependovi un’alternativa
coraggiosa nell’ideale della
vita persuasa. Non è un caso, del resto,
che accanto a metafore di caduta
emblematiche di una catabasi spirituale
presenti tanto in Michelstaedter
quanto in Pirandello con sorprendente
ricorsività – come si evince dai
puntuali riscontri intertestuali forniti
dallo studioso – affiorino nel pensatore
goriziano immagini di anabasi e
ascesa, quasi a ribadire quel procedimento
contrappuntistico tipico della
sua scrittura. E ci sovviene, nella meditazione
in versi di Michelstaedter, e
precisamente nell’apologo
La bora, il
motivo allegorico della salita al monte,
prima tappa di un percorso evolutivo
che si concluderà, ovviamente,
nel segno del mare. È questa la condizione
aporetica della persuasione,
tesa in ultimo a riscattare la sofferenza
dell’io dissociato. Particolarmente
suggestivo, a ribadire la modernità
del Nostro, è il penultimo capitolo
del volume (Vita e non vita, pendere e
dipendere nell’avvio metaforico di La
persuasione e la rettorica), imperniato
sull’osmosi di pensiero e scrittura,
«filosofia e stilizzazione figurativa»
(p. 81) che dà la stura, al critico, per
un’approfondita analisi stilistica del
periodare michelstetteriano, dall’andamento
oscillante e dalla densità
metaforica, non esente altresì da
punte ironiche e satiriche, in linea
con certo umorismo novecentesco.
Lo conferma l’ultimo capitolo (Vis comica,
tensione intellettuale e attualità
del “moderno” nell’«io» in dialogo col
piede), straordinario documento della
modernità dell’autore, che nel segno
di un’allegorica (verrebbe da dire
montaliana) distonia sigla, e con lui
l’autore di questo pregevole studio,
la sua disincantata meditazione:
«Con strano e sempre più discorde
gridìo – come d’un orchestra che provasse
gli strumenti per discordarli –
le parti del corpo e le passioni si dispersero:
in mezzo si sentì morire un
fievole “oimé”, “oilui”. Poi tutto fu
silenzio» (p. 93).
Lavinia Spalanca
recensioni 189
Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini.
Intellettuali, scrittori, amici, in «Sinestesie
». Introduzione e cura di Alberto
Granese, a. XI, 2013, pp. 416.
Sullo sfondo di un’Italia della Restaurazione,
quella degli anni Cinquanta
e Sessanta, caratterizzata da
un’ansia di innovazione e di riedificazione,
e dunque sullo sfondo degli
ultimi prodromi del Neorealismo,
due amici, e cioè Alberto Moravia e
Pier Paolo Pasolini, sperimentavano
piste comuni, che vanno dal romanzo,
al cinema e alla poesia. L’amicizia
tra i due, testimoniata, tra l’altro, da i
numerosi articoli sui giornali, tocca
le corde di un’affinità di intenti e di
psicologie, entro tratti eversivi di
condanna del presente ed entro sensibilità
assai simili tra loro. Per questo
Carlo Santoli ha deciso di dedicare
un intero volume di «Sinestesie» ai
rapporti instauratisi tra Moravia e
Pasolini, interrottisi solo alla morte
di questi, come nota la nipote di Alberto
Moravia, Gianna Cimino. Colpita,
nonostante la differenza dei
modi, dall’amicizia indivisibile dei
due, la Cimino rievoca il giorno del
tragico assassinio di Pasolini, rilevandone
l’impegno civile e sociale,
apprezzandone le poesie e l’attività
di romanziere, sempre legata al mito
del sottoproletariato urbano. Altra
testimonianza autobiografica è quella
di Luigi Fontanella, che ricorda gli
interventi di Moravia presso la Yale
University, la Columbia University e
la Harward University. Testimone,
con Calvino, Pasolini e Sciascia del
boom economico degli anni Sessanta,
e del crollo delle utopie rivoluzionarie
del ’68, Moravia mise in luce
l’estrema coerenza di Pasolini, che
continuava a credere nelle utopie del
sottoproletariato inurbatosi dalla
campagna. Quanto alle preferenze
letterarie, su tutte spiccava quella di
Svevo e di Tozzi, oltre al filone del
surrealismo magico.
Completa la sezione delle “Testimonianze”
quella del giudice Gennaro
Iannarone, mandato ad Avellino
per prendere visione dei due films di
Pasolini, Decameron e Teorema. Compagni
di vita, ma anche di numerosi
viaggi, Pasolini e Moravia, non vi è
dubbio, con la loro idiosincrasia per
la civiltà e la cultura borghesi furono
assai vicini tra di loro, come si può
evincere dal viaggio in India, che indusse
Pasolini a scrivere L’odore
dell’India e Moravia Un’idea dell’India.
Epifanio Ajello analizza, a tal proposito,
e confronta non i due libri di Pasolini
e di Moravia sul viaggio in India
compiuto dai due scrittori insieme
ad Elsa Morante, nel 1961, ma il
libro di Moravia con quello di Manganelli,
Esperimento con l’India, che è
il resoconto, in forme tutte letterarie,
del viaggio compiuto da solo da
Manganelli in India, nel 1975, che
porterà alla pubblicazione postuma
del libro nel 1992. Diverse sono le categorie
impiegate per intendere la
narrativa moraviana, e cioè quella di
neorealista, di antiborghese, specie in
rapporto all’evoluzione della sua
prosa narrativa, da quella realistica
de Gli indifferenti, La ciociara, Il conformista,
a quella freudiana di Io e lui, La
noia, La vita interiore.
In realtà, secondo Giorgio Barberi
Squarotti, per Moravia si deve parlare
di assoluto artificio narrativo, di
un io sostenitore del moralismo borghese,
non per principio, ma per condivisione
di uno stimolo quasi freudiano
alla complessità dei rapporti
umani, spesso familiari, ma quasi
190 recensioni
sempre sullo sfondo della seconda
guerra mondiale e del secondo dopoguerra.
Entro un parallelismo poco
scontato tra La Ciociara di Moravia
e Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini
Marta Di Nuccio traccia il profilo di
un uomo, Pasolini, che pare identificare
la storia della Resistenza, con
quella della Passione di Cristo, e che
dunque vive in modo tutto rivoluzionario,
la propria presunta religiosità.
Moravia ha presentato alla letteratura
la sua esperienza della Resistenza,
mentre Pasolini offre un’immagine
più riconoscibile e verosimile
del Cristo, partendo dal testo più
sacro della religione, trasferito sullo
schermo cinematografico.
Un altro aspetto non meno interessante
della formazione ideologica di
Pasolini è quanto considera Mark Epstein,
all’interno del rapporto che Pasolini
instaura tra filologia e critica
stilistica, e i loro rapporti con la critica
storica e la semiotica. Il segno linguistico
pasoliniano più convincente
è quello dell’eloquio cinematografico,
attento alle sfumature etico-morali
nel passaggio da esseri naturali ad
esseri anche socialmente acculturati.
La linea esegetica seguita da Pasolini
va da Contini a Spitzer e a Auerbach,
entro un rapporto dialettico tra razionale
ed irrazionale, come nel cinema,
che è una forma d’arte più irrazionale
della letteratura. Il passaggio dalla
Resistenza al boom economico degli
anni Cinquanta e Sessanta, ineludibilmente
collegato all’affermazione
di un sfrenato conformismo politico,
sociale e neocapitalistico è il tema
dell’intervento di Angelo Fàvaro, che
opera un confronto tra Il conformista
di Moravia e Petrolio di Pasolini. Nel
ricordare il ventennio di amicizia intercorsa
tra i due letterati, Fàvaro rievoca
l’orazione funebre per la morte
di Pasolini, tenuta a Roma il 5 novembre
1975, in cui Pasolini venne
ricordato soprattutto per Ragazzi di
vita e Una vita violenta. Il primo scandalo
narrativo era stato proprio quello
dei due romanzi, e poco dopo
dell’opera Petrolio, romanzo al quale
Pasolini lavorava al momento della
sua morte. Mentre Pasolini concepiva
Petrolio, con tutte le sue teorie
sull’innovazione del linguaggio letterario,
Moravia veniva elaborando La
vita interiore, che cede allo stile giornalistico
e diaristico. Se La vita interiore
è un romanzo della dissociazione,
Petrolio è concepito dall’autore
come
un poema sulla frantumazione dell’identità.
Entro questa sintesi tra neocapitalismo,
borghesia e crisi di identità
si evolve il romanzo moraviano,
analogamente al carattere eversivo di
Ragazzi di vita e di Una vita violenta,
dittico di capolavori romani sulla vita
delle borgate. Il passaggio dal realismo
alla futura avanguardia è segnato
dalla conduzione della rivista
«Officina» (1955-1959) su cui prende
piede il dibattito sullo sperimentalismo
linguistico e letterario. Intanto
Moravia, nel 1952, con la ristampa de
I racconti vinse il premio Strega, proprio
negli anni del dibattito sulla letteratura,
affidato, tra l’altro, all’Inchiesta
sul Neorealismo di Carlo Bo,
che segue una parabola discendente,
negli anni Cinquanta, appunto, del
Neorealismo tout court, insieme al
crollo della fiducia nel marxismo. In
questo clima così arroventato, si pone
la fondazione della rivista «Nuovi
Argomenti», che rivela il nuovo ruolo
della borghesia sullo sfondo della
crisi del comunismo, e la incontestabile
funzione divulgatrice del nuovo
modo di trasmissione letteraria e inrecensioni
191
tellettuale, cioè il cinema. Nel 1959
Pasolini partecipa al Premio Strega
con Una vita violenta, ma vince Il gattopardo
di Tomasi di Lampedusa. Segnali
di un processo di massificazione
neocapitalista, sono, a giudizio di
Stefano Giovannuzzi, le neoavanguardie,
coerenti con l’industrializzazione
della cultura, che veniva cancellando
le tracce residue di umanesimo.
Sia per Moravia che per Pasolini
il neocapitalismo si coniuga con un
neosperimentalismo e con la restaurazione
borghese. In quest’epoca, e
precisamente nel 1964, apparve un
film documentario di Pasolini, Comizi
d’amore, che restituisce un personaggio
del Nord industrializzato, che si
sposta al Sud più arcaico e contadino,
per riferire le opinioni degli Italiani
sul sesso e sulla omosessualità. Ne
emerge uno spaccato di vita tra il
Nord più avanguardista, e il Sud più
propriamente conformista, in cui esistono
ancora il concetto di amore e
un’avversione marcata al divorzio,
come sottolinea Clizia Guerreri.
Ancora riguardo al tema dell’eros,
Pasolini in Teorema e Moravia ne La
noia si addentrano nei meandri
dell’alienazione psicologica, che rimanda,
secondo Enza Lamberti, a un
intimismo ambiguo e a un esistenzialismo
vissuto in termini di repulsione
verso un’ideologia tutta borghese.
Per questo anche i romanzi di
Svevo, Una vita e Senilità, rispecchiano
una condizione di vita che non
poco avrebbe inciso sugli intrighi
narrativi tanto di Pasolini che di Moravia.
Con la differenza, però, che in
Pasolini emerge una visione sacrale
del sesso, quasi antropopaica, mentre
Moravia guarda con fiducia al futuro,
senza rinnegare il passato.
Gli anni Cinquanta sono caratterizzati,
oltre che da un incontro culturale
decisivo, quello con gli scritti
di Gramsci, che Einaudi venne pubblicando
dal 1947 al 1950, anche dal
sodalizio culturale, peraltro assai fragile,
con Carocci. È così che Maura
Locantore pubblica 43 missive, che
riguardano la corrispondenza di Alberto
Carocci e di Pier Paolo Pasolini.
Le carte prese in esame, con firma
autografa su carta intestata della rivista
«Nuovi argomenti», sono custodite
in copia nell’archivio del
Centro Studi Pasolini di Casarsa e
risultano per gran parte inedite, e sono
state acquistate nel 2001 dalla
Provincia di Pordenone.
In tema di differenza tra l’opera di
Pasolini e quella di Moravia Anna
Pozzi riporta l’intervista a Rino Caputo
dell’Università Tor Vergata, il quale
sottolinea come all’opera di intervento
e di intellettuale impegnato di Pasolini
corrisponda il ruolo di giornalista,
reporter di viaggi e di saggista di
Moravia. Se questi guarda al passato
della tradizione letteraria italiana, Pasolini
è tutto proiettato nel futuro, anche
se poi la posizione della neoavanguardia,
contestata a chiare lettere,
non esimerà Pasolini dal portare sulla
scena opere del passato come il Decameron
e l’Edipo re. Se una scelta deve
essere operata, Caputo individua ne
Gli indifferenti l’origine del Neorealismo,
seguiti come sono da Fontamara
di Silone, mentre di Pasolini accentua
l’importanza di un libro, come Le ceneri
di Gramsci. Sul racconto di Moravia,
Le provinciali, si sofferma l’attenzione
di Annibale Rainone, che analizza
il ruolo di Coceanu nella novella,
che si caratterizza nella sua duplicità
di accoglienza e rifiuto.
Valeria Giannantonio
LIBRI RICEVUTI
«Sinestesie», Anno XI, 2013. Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Intellettuali,
scrittori, amici. Introduzione e cura di Alberto Granese, pp. 414.
Beltrami Luca, Tra Tasso e Marino: Giovan Vincenzo Imperiali. Percorsi
nella letteratura di primo Seicento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015,
222.
Castellaneta Stella, Letteratura e potere nell’età di Clemente VIII e Ranuccio
Farnese, Bari, Cacucci, 2014, pp. 830.
De Liso Daniela, Letteratura di vino. Un viaggio enoico tra le pagine
della letteratura d’Italia, Firenze, Franco Cesati, 2014, pp. 220.
Dell’Aquila Giulia, Le forme del visibile. Studi su Giorgio Bassani, New
York, Forum Italicum, 2014, pp. 150.
Fissore Giorgia, La follia della ragione, Avellino, Edizioni Sinestesie,
2014, pp. 136.
Gareffi Andrea, Montale antinomico e metafisico, Firenze, Le Lettere,
2014, pp. 216.
Giannantonio Valeria, Giulio Salvadori nel mondo delle idee, Firenze,
Franco Cesati, 2015, pp. 160.
Lo stato delle cose. Pensiero critico / scritture, «Oèdipus», quarta serie 3
(21), 2014, pp. 96.
Occasioni e percorsi di letture. Studi offerti a Luigi Reina, a cura di Raffaele
Giglio e Irene Chirico, Napoli, Guida editori, 2015, pp. 830.
Ognibene Fabio, 23° 27’. Romanzo, Meda (MB), 2014, pp. 128.
Parini Giuseppe, La colombiade. Le poesie in dialetto. Gli scherzi, a cura di
Stefania Baragetti, Maria Cristina Albonico, Giovanni Biancardi.
Introduzioni di Stefania Baragetti, Davide De Camilli, Giovanni Biancardi.
Presentazione di Giorgio Baroni, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore,
2015, pp. 186.
Per civile conversazione. Con Amedeo Quondam, a cura di B. Alfonzetti,
G. Baldassarri, E. Bellini, S. Costa, M. Santagata, 2 voll., Roma, Bulzoni
editore, 2014, pp. 1364.
Pietropaoli Antonio, Cartastraccia, postfazione di Paolo Giovannetti,
Salerno-Milano Oèdipus, 2014, pp. 362.
Scorrano Luigi, Ludovico Ariosto, Roma, Ediesse, 2015, pp. 260.