11 Feb Anno XLI (2013), Fasc. I, N. 158
-
Saggi
-
Andrea Manzi
Dante e le fonti manoscritte della lirica delle Origini.
Ricognizioni bibliografiche e bilanci
– pp. 3-29Are we able to identify the manuscript source from which Dante
quoted, in his De vulgari eloquentia, the most renowned lyrics of the
Sicilian poets? And is this source nearer to the Vaticano 3793 or to
the ex-Palatino 418? If from the analysis of the variants emerge contradictory
data, an answer can come only by comparing the cultural
project that sustains the manuscript Vaticano with the pages in
which Dante expresses his own judgments on his Italian precursors -
Alida Spadavecchia
La novella del diavolo che prende moglie.
Variazioni e convergenze in Machiavelli,
Brevio e Le Fèvre
– pp. 30-47Machiavelli’s short story Favola di Belfagor Arcidiavolo seems to contain
significant similarities with Brevio’s one, Belfagor Arcidiavolo.
Besides the issue of the conjectural plagiarist, a French author, Jehan
Le Fèvre, wrote in the 14th century about the same theme, into an
exemplum contained into his own book Les Lamentations de Matheolus.
The three stories look similar, but, in some cases Machiavelli
coincides with Le Fèvre against Brevio, for instance into the denouement -
CHIARA CEDRATI
Esperienze frugoniane nella lirica di Vittorio Alfieri
– pp. 72-97The article aims to inquire into the influence of Carlo Innocenzo
Frugoni and Frugonian poetry on Vittorio Alfieri’s Rime, investigating
the extent of the debt Alfieri acquired to Comante during his
entire literary career in spite of the strict judgments he expressed on
Frugoni’s poems and his effort to minimize any contribution of contemporary
poetry to his own. -
Margherita di Fazio
Ombrelli e ombrellini nell’immaginario artistico
fra Ottocento e Novecento. Un primo percorso
di lettura
– pp. 98-123In the framework of a research on the relationships between literary
texts and clothing accessories, the present work investigates the
presence of the umbrella in the European, and particularly Italian,
novels and tales of the 19th and 20th centuries. In some cases, representations
from contemporary paintings is considered as well, to
underline parallel situations and new points of view.
-
-
Meridionalia
-
Amedeo Benedetti
L’attività napoletana di Francesco D’Ovidio
– pp. 124-148This paper reconstructs the biography and works of the philologist
and literary critic Francesco d’Ovidio (1849 – 1925), who was for almost
fifty years professor of comparative literature at Naples University.
He wrote important essays on Alessandro Manzoni, Dante
Alighieri, and Torquato Tasso. He was a member of Accademia della
Crusca, president of the Accademia dei Lincei, and served as senator
in the Italian Senate. The study was carried out above all through an
examination of his unpublished correspondance with scholars and
literary’s historians as G.I. Ascoli, M. Barbi, A. D’Ancona, D. Gnoli,
E. Monaci, F. Novati, R. Renier, O.Tommasini, and others.
-
-
Contributi
-
Mauro Marrocco
Schede sulla Gelosia del Sole (1519) di
Girolamo Britonio: temi e tradizione del testo – pp. 149-175The essay proposes a general analysis of Petrarchist canzoniere
Gelosia del Sole by Girolamo Britonio, whose first edition was printed
in Naples in 1519. The first part of the essay proposes a thematic
and structural analysis of the canzoniere, with an interpretation of
the peculiar plot of the book; the second part is devoted to the analysis
of some textual variants in the editio princeps of the work, according
to the principles of textual bibliography; the last part is finally
devoted to the analysis of some aspects in the tradition of
Britonio’s poems in sixteenth century anthologies. -
Fabio Prevignano
Cesare Pavese: la collina e l’infinito – pp. 176-191
For Pavese the hill, mythical entity par excellence, is a metaphor of
being: it is “what is”, in opposition to history, which is “what happens”.
If history is the realm of the contingent and transient, the hill
refers to an “other”, to the Eternal. It is a passage to infinity, and
Pavese projects on it his aspiration to eternity. This paper intends to
focus specifically on the dimension of “sense” represented by the
hill in Pavese, with particular regard to the author’s obsessive
thought: death. -
FERNANDA PALMA
Leonardo futurista, tra De Robertis e Marinetti
– pp. 192-206The present work, starting with an article by Marinetti (published
in «La Gazzetta del popolo» on 25th January 1939), focuses on the
paradoxal fortune (and misfortune) of Leonardo da Vinci and his
works among the Futurists, in a perspective that has not yet been
taken into account by Leonardo’s scholars. -
MARCO ARNAUDO
Gli emblemi a teatro: Giovan Battista Andreini,
Emanuele Tesauro e Federico Della Valle
– pp. 48-71This essay investigates the influence of the Renaissance and Baroque
book of emblems on relevant Italian plays of the 17th century.
Such influence is analyzed in regard to specific theatrical instructions,
like in the cases in which costumes and machinery reproduce
images from emblem books on stage. At the same time, the presence
of emblematic images in 17th-century theater is also discussed in
connection to texts that stimulate readers and viewers to mentally
construct emblematic images in their own mind.
-
-
Recensioni
-
Giancarlo Pionna
Giambattista Pagani, un amico lonatese
di Alessandro Manzoni, Milano 2011 (Chiara Cedrati) – pp. 216-218 -
Lina Iannuzzi
Sul Primo Verga, Pescara 2012 (Mirko Menna)
– pp. 218-220 -
Malcolm Angelucci
Words against words. On the Rhetoric
of Carlo Michelstaedter, Leicester 2011 (Yvonne Hütter) – pp. 220-223 -
Giorgio Orelli
La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi,
Bellinzona 2012 (Fabrizio Scrivano) – pp. 223-226 - Il poeta e il suo pubblico. Lettura e commento dei testi lirici nel
Cinquecento. Convegno internazionale di studi (Ginevra,
15-17 maggio 2008), a cura di Massimo Danzi e Roberto
Leporatti, Genève 2012 (Franco Pignatti) – pp. 208-216 - Poeti del Dolce stil novo, a cura di Donato Pirovano, Roma
2012 (Roberto Gigliucci) – pp. 207-208
-
saggi
ANDREA MANZI
Dante e le fonti manoscritte della lirica delle Origini.
Ricognizioni bibliografiche e bilanci
Are we able to identify the manuscript source from which Dante
quoted, in his De vulgari eloquentia, the most renowned lyrics of the
Sicilian poets? And is this source nearer to the Vaticano 3793 or to
the ex-Palatino 418? If from the analysis of the variants emerge contradictory
data, an answer can come only by comparing the cultural
project that sustains the manuscript Vaticano with the pages in
which Dante expresses his own judgments on his Italian precursors.
Discutendo, nell’introduzione alla sua edizione critica del De vulgari
eloquentia1, dei criteri ortografici da adottare nel caso delle citazioni
di testi volgari italiani nel trattato dantesco, Pio Rajna scrive2 che
se il codice Vaticano3 è da tener molto a calcolo e se può consentirsi di
buon grado al Salvadori4 una grande probabilità che sia stato tra le
mani di Dante, esso non fu davvero unica fonte delle cognizioni dantesche
nemmeno per il periodo siculo5, poiché, su cinque poesie, Dante
1 Dante Alighieri, Il trattato “De Vulgari Eloquentia”, a cura di P. Rajna, Firenze,
Le Monnier, 1896, pp. CXC-CXCI.
2 Giusta la considerazione che «quasi tutte le poesie di cui nel De Vulgari Eloquentia
si allega qualche verso, noi le possediamo per disteso altrove, spesso in
moltissimi manoscritti», e che dunque «anche di questo materiale è giusto valersi
»: per le rime italiane, come per quelle provenzali (alle quali in questo contributo
non si accennerà neppure).
3 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vaticano latino 3793
(V).
4 Con richiamo in nota a La Poesia giovanile e la Canzone d’Amore di Guido Cavalcanti,
studi di G. Salvadori, col testo dei sonetti vaticani e della canzone e due
facsimili, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1895, pp. 83-85.
5 Cfr. Dante Alighieri, Il trattato “De Vulgari Eloquentia”, a cura di P. Rajna,
cit., p. CXCI, nota n. 3: «Limitando a questa maniera l’ipotesi, faccio grazia al Salvadori
di ciò che direbbe l’essere dall’Alighieri, I, xi, 3, assegnata a un Castra una
Saggi
4 ANDREA MANZI
ne allega una che non v’è contenuta6, e taluna che ora conosciam solo
da esso cita con lezione diversa7, come con lezione diversa che trova
corrispondenza fuori di lì ne cita qualcuna che non gli è peculiare.
Si apre, così, la questione del ‘manoscritto’ di Dante, ovvero la questione
relativa alla possibilità di individuare la fonte manoscritta da
cui l’Alighieri leggeva, e dunque citava nel De vulgari, le liriche dei
poeti siciliani e dei suoi predecessori italiani; una questione in seguito
mai affrontata con un approccio analitico, ma sempre per rapidi accenni,
come fa Rajna nella pagina appena ricordata: in una maniera, ci
pare, non soddisfacente, poiché non in grado di affrontare tutti gli
aspetti del problema, né di mostrare tutte le implicazioni da esso derivanti.
Le pagine che seguono nascono dalla persuasione che tale questione
meriti invece tutti gli approfondimenti del caso: da un lato, essa
risulta preliminarmente decisiva se si vuole affrontare il cruciale tema
della lettura che, nelle diverse fasi del suo itinerario intellettuale, Dante
fornisce della lirica italiana a lui precedente e contemporanea;
dall’altro, essa apre più generali spunti di riflessione di carattere ermeneutico
e metodologico. Le domande che ci porremo sono le seguenti:
siamo in grado di individuare la fonte materiale da cui Dante
attingeva le sue conoscenze sulla lirica d’amore italiana del Duecento?
Se sì, quali conseguenze potremmo trarre a proposito della questione
‘Dante critico militante’8? E, allargando il discorso: è possibile ricavare
conoscenze di ordine generale, di carattere tanto ‘metodologico’, tanto
‘storiografico’, affrontando questioni di filologia materiale, indipendentemente
da conclusioni certe o meno cui si riesca a pervenire?
Prima di iniziare, illustreremo brevemente i criteri con cui procederemo.
Innanzitutto verrà presentata una sistematica rassegna degli
studi, successivi all’edizione Rajna del trattato dantesco, in cui affiora
il problema del manoscritto di Dante: si tratta di contributi di Gianfranco
Contini, Roberto Antonelli e Claudio Giunta (se i primi due
composizione, che, comunque poi la si spieghi, nel codice Vaticano porta in fronte
un nome affatto diverso».
6 Ivi, nota n. 4: «Quella che comincia Ancor che l’aigua per lo foco lassi, I, xii, 2
[…], come il Salvadori stesso non ignora né dissimula».
7 Ivi, nota n. 5: «tragemi nel Contrasto di Cielo, I, xii, 5 […]: un tragemi che contribuisce
a motivare la frase “non sine quodam tempore profertur”».
8 Per riprendere il celebre titolo di un capitolo di M. Marti, Con Dante fra i
poeti del suo tempo, Lecce, Edizioni Milella, 1970, ovvero il quarto (pp. 69-121), dal
titolo Gli umori del critico militante.
[ 2 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 5
faranno sostanzialmente propria la posizione di Rajna, sarà Giunta a
sostenere con fondatezza, per la prima volta, che la fonte di Dante sia
vicina in egual misura tanto al Vaticano latino 3793 quanto all’ex Palatino
4189); quindi ci chiederemo che cosa ci può suggerire la constatazione
che alcuni dei componimenti citati nel De vulgari sono tràditi
esclusivamente da V o da P; ed infine analizzeremo le varianti degli
incipit delle liriche menzionate da Dante e tràdite sia da V che da P, nel
tentativo di verificare se dai dati a nostra disposizione sia possibile
ricavare qualcosa di certo.
Anticipiamo fin da ora le nostre conclusioni: riteniamo certamente
da condividere la cautela manifestata da Rajna, poiché, in un’analisi
siffatta, ci si muove inevitabilmente sul terreno assai scivoloso delle
congetture10; e sosterremo l’ipotesi secondo la quale è necessario, ma
soltanto sul piano euristico – dal momento che, sulla base dei dati a
disposizione, sul piano ecdotico non siamo autorizzati a trarre alcuna
conclusione definitiva –, ritenere Dante vicino al canzoniere Vaticano,
ovvero al «progetto culturale»11 che sostiene il canzoniere Vaticano12.
La questione del ‘manoscritto’ di Dante viene ripresa da Contini,
sulla base degli spunti offerti dalla pagina di Rajna citata in apertura,
nella relazione tenuta nel corso del Convegno palermitano di Studi
Federiciani del dicembre 195013. Proponendosi di «saggiare la consi-
9 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Banco Rari 217, già Palatino 418
(P).
10 E il più importante ordine di considerazioni, legato com’è alle varianti degli
incipit delle canzoni dei Siciliani tràdite da V e da P, sarà fondato sull’analisi di
varianti formali (come da obiezione di Giunta).
11 Secondo il concetto introdotto negli studi di filologia italiana da d’Arco Silvio
Avalle: cfr. Cfr. D’a. S. Avalle, I canzonieri: definizione di genere e problemi di edizione,
in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, Atti del Convegno
di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 363-382.
12 Le nostre conclusioni parranno forse ricalcare le opinioni di Antonelli: ma,
come si vedrà, ciò non sarà vero se non in parte; e, in ogni caso, quanto ci troveremo
a sostenere poggerà su basi dimostrative ed argomentative affatto diverse.
13 Cfr. G. Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, in VII
Centenario della morte di Federico II, Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani,
Palermo 10-18 dicembre 1950, Palermo, Renna, 1952, pp. 367-395 (si vedano
in particolare le pp. 386-387; ora anche in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti
di ecdotica e linguistica 1932-1989, voll. 2, a cura di G. Breschi, Tavarnuzze, Sismel-
Edizioni del Galluzzo, 2007, I, pp. 205-234); a p. 386, nota n. 32, Contini afferma di
riprendere uno spunto che sull’argomento gli offriva Rajna («La vicinanza a V
della fonte di Dante è già stata asserita dal Rajna»; il riferimento implicito, come è
[ 3 ]
6 ANDREA MANZI
stenza dell’esiguo patrimonio»14 delle liriche ascrivibili a Federico II
– il quale constava all’epoca di soli quattro componimenti, gli unici
esplicitamente attribuiti da almeno un testimone manoscritto allo svevo15
–, lo studioso individua quattro criteri utili a dirimere i dubbi legati
ad attribuzioni divergenti, oppure presenti in alcuni testimoni,
ma assenti in altri. Soffermandoci brevemente solo sui casi controversi
di Oi lasso, non pensai (II) e Poi che ti piace, Amore (IV), osserviamo come
Contini16 rilevi che «da ogni parte muove dunque l’invito a esaminare,
per cavarne un criterio, l’insieme dei rapporti fra i vari canzonieri […].
È il problema posto fino dagl’incunaboli della filologia italiana, nientemeno
che dal Caix17 […]». Non è il caso di analizzare nel dettaglio il
caso di II18; nel caso di IV entrano in gioco i rapporti tra V e la «famifacilmente
deducibile, è a Dante Alighieri, Il trattato “De Vulgari Eloquentia”, a
cura di P. Rajna, cit., p. XCXI).
14 G. Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit., p. 373.
15 I testimoni in questione sono i mss. – di cui tra parentesi si dà la segnatura,
ma che d’ora in avanti saranno citati esclusivamente con la sigla che segue – V, L
(Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Redi 9), P, Ch (Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chigiano L. VIII. 305), V² (Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vaticano latino 3214), Bo (Bologna, Biblioteca
Nazionale Universitaria, ms. 1289) e Ma (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale,
ms. Magliabechiano VII. 1208). Di seguito riportiamo, da p. 369, numerazione, incipit
ed epigrafi di ciascuna delle quattro liriche in questione: I: Dolze meo drudo, e
vaténe (V48 «Re Federigo»); II: Oi lasso, non pensai (L117 «Rex federigo», V49 «Rugierone
dipalermo»); III: De la mia dis(s)ïanza (V51 «jperadore federigo»); IV: Poi che
ti piace, Amore (P50 «Rex fredericus», Ch228 «Lomperadore federigho», Ma «Federjgo
inperadore», V²8 «Federigo Imperadore», Bo «Federico Imperatore», V177
attualmente anepigrafo, pur essendo ancora leggibili un «Ser guilg… di Firenze»
cancellato e un successivo «Messer Rinaldo daquino» in seguito abraso). Ad oggi
Oi lasso! non pensai è attribuita a Ruggerone da Palermo, mentre gli altri tre componimenti
fanno parte – insieme a Per la fera membranza e Misura, providenza e meritanza
– del corpus federiciano; si vedano le ultime edizioni critiche delle liriche menzionate,
in Federico II, a cura di S. Rapisarda, e Ruggerone da Palermo, a cura di C.
Calenda, in I poeti della scuola siciliana, voll. 3, I: Giacomo da Lentini, edizione critica
con commento a cura di R. Antonelli; II: Poeti della corte di Federico II, edizione
critica con commento diretta da C. Di Girolamo; III: Poeti siculo-toscani, edizione
critica con commento diretta da R. Coluccia, Milano, Mondadori, 2008 (Scuola
Siciliana), II, rispettivamente pp. 437-494 e pp. 495-512.
16 Cfr. G. Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit., pp.
377-378.
17 Cfr. N. Caix, Le origini della lingua poetica italiana. Principii di grammatica storica
italiana ricavati dallo studio dei manoscritti, con una introduzione sulla formazione
degli antichi canzonieri italiani, Firenze, Le Monnier, 1880.
18 Il quale chiama in causa i rapporti tra L (o, diremmo oggi, Lb) e V, lo studio
[ 4 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 7
glia di P» (formata da P, Ch e V²), la quale è secondo il filologo riducibile
al solo P, ovvero alla «prima e più antica parte di P (le prime sessantadue
carte), quella contenente le canzoni»19, dal momento che Ch
ha un solo componimento di ambito siciliano in comune con V e assente
da P (il numero 239, Come lo giorno, assegnata a Semprebene,
mentre V085 reca la rubrica «Messer Prezivalle Dore»), V² nessuno.
Dunque, si tratta di ricostruire, per quanto possibile, i rapporti tra le
fonti di P e quelle di V, servendosi dell’analisi, prima ancora che della
varia lectio, «dei soli indizi esterni»; i quali portano Contini ad affermare,
se è vero che «l’assenza d’un componimento di P dalla larghissima
raccolta di V depone, nella maggioranza se non nella totalità dei casi,
per un’assenza dalla o dalle fonti di V», che
si può ritenere che P derivasse da fonti relativamente più estese di V, e
cioè nella più restrittiva delle ipotesi […] P tenne sott’occhio due fonti
distinte. Sempre a norma dell’ipotesi restrittiva, i siciliani appartenevano
alla prima e non alla seconda fonte […]: l’unica eccezione, P10420,
è troppo poco per ritenere valore d’infrazione.
Entra così nell’argomentazione continiana la canzone di Guido
delle Colonne, citata per ben due volte da Dante nel De vulgari (I xii 2,
senza indicazione dell’autore; II vi 6, attribuita allo «Iudex de Messana
»); essa, nel Palatino, «ha l’aria di procedere da un esemplare comune
a La, cioè di sede pisano-lucchese, mentre il fiorentino Dante, che in
genere sembra muovere da una raccolta affine a V, la celebra ben due
volte». Ecco finalmente la menzione della fonte di Dante; e con la nota
dei quali autorizza Contini ad escludere la paternità federiciana per questa canzone.
19 Contini fa qui ancora riferimento a N. Caix, Le origini della lingua poetica italiana,
cit., così come poco più avanti, quando di quest’ultimo riprenderà la tesi di
una origine lucchese del codice. Per un quadro esaustivo degli studi attuali sul
Palatino, che negano l’esistenza di uno iato temporale e materiale nella composizione
del manoscritto (con da una parte le canzoni, a rappresentare il nucleo più
antico, e dunque originario, della raccolta; dall’altra le ballate e i sonetti, che sarebbero
dunque aggiunte successive), ed oscillano tra una sua origine fiorentina o
pistoiese, si vedano, in I Canzonieri della lirica italiana delle origini. IV Studi critici, a
cura di L. Leonardi, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2001: G. Savino, Il
Canzoniere Palatino: una raccolta disordinata? (pp. 301-315); T. De Robertis, Descrizione
e storia del canzoniere Palatino (pp. 317-350, e in particolare pp. 320-322); V.
Pollidori, Appunti sulla lingua del canzoniere Palatino (pp. 351-391).
20 Ovvero l’unica lirica appartenente ad un poeta siciliano attestata da P ma
non da V, Ancor che·ll’aigua per lo foco lasse.
[ 5 ]
8 ANDREA MANZI
seguente21 lo studioso motiva la sua affermazione relativa alla «raccolta
affine a V»:
A rigor di lettera, le canzoni siciliane citate da Dante nel De vulgari […]
si trovano tutte insieme solo in P […]; senonché va tenuto presente che
solo V (54, 89) ha tramandato e il contrasto Rosa fresca e la canzone che
Dante attribuisce al Castra (I, xii 6 e xi 4). Allontanano da V (cioè portano
più in su), a parte l’assenza in V di P104, la menzione del Castra e
il testo più corretto del verso del cosiddetto Cielo (della lezione del
Castra è più difficile giudicare): ma portano vicino a V e lontano da P
le varianti «lungiamente» e «m’hai» (P102 «lungamente» e «m’à»), «dire
» ipermetro (P37 «dir»), «vo» (P48 «vao»). Nell’ultimo luogo è incerto
se il «letamente» del solo Dante traduca a memoria l’«allegramente»
dell’originale (e di P) o corregga […] l’«alta mente» di V; nel quale ultimo
caso si avrebbe per l’unica volta, e sembrerebbe perciò importantissimo,
concordanza in errore comune.
Limitiamoci per il momento a prendere atto che Contini identifica
il ‘manoscritto’ di Dante, considerando esclusivamente le canzoni dei
Siciliani citate nel De vulgari, con un affine di V; che questa ipotesi poggia
sull’analisi delle varianti degli incipit delle canzoni citate nel trattato;
e che bisognerebbe propriamente risalire ad una fonte di V se si
considerano la lezione del verso 3 del contrasto di Cielo e l’attribuzione
al fiorentino Castra della canzone Una fermana iscoppai da Cascioli.
Nel 1992 la questione viene riproposta da Antonelli, il quale, nel
capitolo dedicato al Canzoniere Vaticano latino 3793 della Letteratura italiana
diretta da Alberto Asor Rosa, riprendendo implicitamente la tesi
continiana, scrive:
Se rinunciamo a considerare il Vaticano soltanto come un testimone
utilizzabile per ricostruire il testo «originale», «autentico», dei singoli
autori in esso contenuti (a norma lachmanniana), ma pensiamo all’insieme
culturale che esso rappresenta quale veicolo materiale oltre che
formale della tradizione22, potremo intanto notare che Dante nel De
vulgari eloquentia fa notoriamente ricorso proprio ad un affine, se non ad
un gemello, del nostro manoscritto23 [corsivo nostro].
21 È la già citata n. 32 di p. 386 di G. Contini, Questioni attributive nell’ambito
della lirica siciliana, cit.
22 Siamo nel pieno del contesto teorico in cui Avalle aveva riconosciuto la
«doppia verità delle singole antologie» manoscritte (cfr. D’a. S. Avalle, I canzonieri:
definizione di genere e problemi di edizione, cit., p. 375).
23 Cfr. R. Antonelli, Canzoniere Vaticano latino 3793, in Letteratura italiana di-
[ 6 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 9
Motivando quindi in nota24:
Oltre a ricordare l’incipit di una canzone di Rinaldo d’Aquino nella lezione
più vicina al Vaticano, il De vulgari eloquentia (I xii 6) è l’unico
altro testo, prima di Angelo Colocci, che citi e riporti il contrasto di
Cielo d’Alcamo (per il v. 3), laddove peraltro elogia anche una canzone
di Guido delle Colonne ignota ad A [ovvero a V].
Se dunque l’impostazione di Antonelli si limita a riproporre la soluzione
avanzata da Contini, la questione diviene più problematica in
seguito ad un importante lavoro del 1998 di Giunta25. Innanzitutto
perché egli sottolinea (nel capitolo primo, La letteratura del Duecento
secondo Dante, paragrafo secondo, I conti con la tradizione manoscritta)
come quello dei «canali attraverso i quali la tradizione lirica giunse
alla generazione stilnovista», cioè «delle dimensioni e delle modalità
di formazione della cultura volgare di Dante», sia «il problema capitale
» da affrontare nell’analisi della ‘storiografia letteraria’ dantesca; ed
in secondo luogo perché egli, coerentemente, sottolinea poco più
avanti come il problema del manoscritto di Dante risulti «ozioso per la
sostanza, ma metodologicamente rilevante».
Esso finisce infatti per toccare una questione di carattere non solamente
filologico, ma prettamente ermeneutico; uno dei nodi cruciali
per un’interpretazione efficace non solo del tema ‘Dante storico della
letteratura delle origini’, ma anche per una corretta esegesi della più
peculiare forma che costantemente assume la riflessione dantesca,
quella tecnica e, appunto, metaletteraria: la questione della dipendenza
o indipendenza del giudizio del poeta lirico della Vita nuova, del trattatista
e teorico della lingua e della versificazione del De vulgari eloquentia
e dello scriba Dei della Commedia dalla sua fonte manoscritta.
Giunta inizia col correggere la posizione di Contini: «È dimostrata
la dipendenza del poeta, nel De vulgari, dalla tradizione cui fanno capo
P e V: non veramente la presenza, a monte di quelle citazioni, di un
manoscritto gemello di V». Queste le argomentazioni di Giunta:
Se effettivamente le due canzoni vernacolari, del Castra (I xi 4) e di
Cielo (I xii 6), sono unica di V (ma sulla prima Dante si dimostra più
retta da A. Asor Rosa, Le opere, I. Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992,
p. 28.
24 Ivi, nota n. 4.
25 Ovvero C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-
Guinizzelli, il Mulino, Bologna, 1998; cfr. in particolare le pp. 32-40, da cui sono
tratte le citazioni che seguono.
[ 7 ]
10 ANDREA MANZI
informato della sua eventuale fonte […]), è P, non V, a serbare tutte
quante le canzoni siciliane menzionate nel De vulgari (mancando al secondo
Ancor che l’aigua di Guido delle Colonne26); a P avvicina, d’altro
canto, la lezione di Rinaldo d’Aquino in I, xii 8 e II, v 4, Per fino amore
vo sì letamente (P48, Per fino amore vao sì allegramente, contro V030, Per
fino amore vo sì altamente), e di questo avviso era già il Rajna27. Né infine
sono cogenti disparità di lezione quali quelle, meramente formali, su
cui faceva leva Contini per dimostrare la prossimità a V: «lungiamente
» e «m’ài» (V305 = DVE II v 4) contro «lungamente» e «m’à» di P102
(ma ovviamente m’à’), «dire» ipermetro (V001 = DVE I, xii 7) contro il
corretto «dir» di P037, «vo» (V030 = DVE I xii 7) contro «vao» di P048:
luoghi tutti sui quali può avere agito, naturalmente, tanto la memoria
‘normalizzatrice’ di chi cita senza avere sott’occhio la fonte quanto
l’abitudine linguistica di chi copia: a monte, gli incipit in questione; o
a valle, nella trafila delle copie, il trattato dantesco.
Muovendo la sua analisi sullo stesso terreno di quella condotta da
Contini, ovvero sul confronto tra le lezioni degli incipit delle canzoni
dei Siciliani – ma contestando la validità delle conclusioni continiane,
fondate come sono su varianti non sostanziali, ma «meramente formali
» –, Giunta afferma che la fonte di Dante è prossima tanto a V
quanto a P, e stemmaticamente più alta rispetto ad entrambi i manoscritti.
Da ciò Giunta deduce che, poiché Dante non sfrutta esclusivamente
un gemello di V, egli, nei suoi giudizi, talvolta «diverge clamorosamente
dalla gerarchia implicita elaborata da V sia nei numeri sia
nell’accorta dislocazione dei testi». Non solo: è ancora la lontananza
da V a spiegare l’assenza totale, «mai riscattata neanche per via di allusione
», dei tre nomi ai quali tende, e con i quali culmina, il progetto
storiografico su cui fu originariamente allestito il Vaticano: Monte An-
26 Nella nota n. 29 di p. 37 Giunta aggiunge: «Tràdita invece da P104. Da meditare,
su questa lacuna, la congettura di Contini 1952 [ovvero G. Contini, Questioni
attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit.], p. 387: la posizione di Ancor che l’aigua
in P (ultima nella serie delle canzoni), e di Amor che lungiamente, l’altra canzone
di Guido citata da Dante, in V (ultima anch’essa della mano principale A), lascerebbe
supporre “che nell’eventuale tradizione comune entrambe le canzoni di
Guido stessero in coda, fuori dell’ordine competente, in altre parole che V abbia
perduto P104 perché era alla fine dell’antigrafo”: si risale ad ogni modo a piani più
alti rispetto a quello rispecchiato nel codice vaticano».
27 In nota Giunta rimanda a D. Alighieri, Il trattato “De Vulgari Eloquentia”, a
cura di P. Rajna, cit., p. CXCI e nota n. 4 di p. 69, e ricorda il parere opposto di G.
Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit., nota n. 32 di p.
386.
[ 8 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 11
drea, Chiaro Davanzati, Rustico Filippi. I giudizi espressi da Dante sui
poeti lirici duecenteschi, i suoi «umori» di «critico militante», non saranno
dunque meditati e consapevolmente elaborati «segnali di un’accorta
strategia agonistica», ma piuttosto giudizi miopi, inesatti, il frutto
della limitatezza delle fonti, la conseguenza della deformazione
operata sul Dante lettore dallo «specchio» dei canzonieri.
Secondo questa prospettiva, Dante non sarebbe insomma un poeta
che riflette in piena autonomia sull’opera dei suoi illustri colleghi e
che elabora quindi giudizi suoi propri, ma si limiterebbe ad accogliere
e a riprodurre, verrebbe da dire meccanicamente, i valori culturali
espressi dalle sillogi liriche con cui entra in contatto; sono esattamente
queste le implicazioni di carattere più generale di cui si diceva in apertura,
ed è a causa di esse che Giunta aveva affermato la centralità della
questione oggetto della nostra analisi.
All’impostazione di Giunta reagisce Antonelli nel 200128, precisando
che
per «affine» [di V] occorre intendere, con ogni probabilità, un manoscritto
non gemello del Vaticano ma antecedente quello stesso, o un
collaterale […], fornito di quei materiali, almeno di Guido [delle Colonne],
presenti nel Palatino 418 e assenti nel Vaticano (si tenga presente
l’osservazione di Contini nell’edizione 1952 di Guido29, giustamente
ricordata da Giunta, sulla probabile posizione finale, «fuori dell’ordine
competente», delle canzoni di Guido nella tradizione comune ai due
manoscritti, con conseguente ipotizzabile perdita nel Vaticano di parte
della tradizione specifica).
E prosegue:
La lezione di Rinaldo d’Aquino Per fino amore vo sì letamente tràdita nel
De vulgari eloquentia è confermata nel significato dal Palatino («allegra-
28 Cfr. R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano,
in I Canzonieri della lirica italiana delle origini. IV Studi critici, cit., pp. 3-23 (si
vedano in particolare le pp. 6-7, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono).
29 Ci permettiamo di segnalare come tale indicazione bibliografica sia erronea:
l’edizione di Guido delle Colonne non fu pubblicata da Contini nel 1952, bensì nel
1954 – si tratta di G. Contini, Le rime di Guido delle Colonne, «Bollettino del Centro
di Studi Filologici e Linguistici Siciliani», II (1954), pp. 178-200 (ora anche in Id.,
Frammenti di filologia romanza, cit., I, pp. 265-280) –; né contiene l’osservazione ricordata
da Giunta (ed anche da noi in precedenza), la quale è invece in G. Contini,
Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit., contributo, questo sì, risalente
come detto al 1952.
[ 9 ]
12 ANDREA MANZI
mente», con cui il Chigiano L. VIII. 305) e nel significante, quasi un
anagramma, dal Vaticano («altamente»), con possibile scambio nella
memorizzazione di copia […]: è qui, forse, l’origine dell’oscillazione di
Contini (nell’edizione di Guido, 195230, contro Rajna, per la congiunzione
Dve-Vaticano; nei Poeti del Duecento, 1960, per Dve-Palatino, +
Chigiano) ma anche la necessità, oggi, di meditare la proposta Santangelo-
Panvini che ritenevano di individuare proprio nella lezione dantesca
quella dell’archetipo.
La presenza, tra le liriche ricordate da Dante nel De vulgari31, di testi
giunti a noi per il tramite di un unico testimone, rappresenta certamente
l’elemento meno problematico della discussione; tuttavia, anche
questo aspetto non andrà analizzato in maniera troppo semplicistica.
I due testi presenti nel solo V sono la canzone Una fermana scopai da
Cascioli32 (della quale il trattato tramanda anche il secondo verso, «cita
cita se ’n gìa ’n grande aina»33; DVE I xi 4), e Rosa fresca aulentissima, di
cui Dante menziona il verso 3, «tragemi d’este focora se t’este a bolontate
» (DVE I xii 6, V054 – con la lezione ipometra «trami»). Nel Vaticano
il primo componimento è attribuito ad un «Messer Osmano», ovvero
ad un anonimo poeta marchigiano, di Osimo, mentre Dante lo
attribuisce ad un fiorentino: «Nec pretereundum est quod in improperium
istarum trium gentium34 cantiones quamplures invente sunt: inter
quas unam vidimus recte atque perfecte ligatam, quam quidam
Florentinus nomine Castra posuerat» (DVE I xi 4). Dante testimonia
dunque di aver letto una canzone vernacolare scritta da un Castra fiorentino,
la quale parodiava tre fra i peggiori volgari che risuonavano
nella penisola; essa non sarebbe autenticamente marchigiana, né appartenente
all’area mediana, come invece testimonia la rubrica di V.
Senza volerci qui addentrare nella questione della veridicità di questa
pagina del trattato35, ricordiamo solo che secondo Giunta in questo
30 In realtà G. Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit.
(cfr. nota precedente).
31 Tutti brani che seguono sono citati da Dante Alighieri, De vulgari eloquentia,
edizione critica a cura di P.V. Mengaldo, Padova, Antenore, 1968 (DVE).
32 V Indice lxxxviiij (c. IIIv): «Vna fermano scoppai· dagagioli· gitto citto sigia
jngra(n)»; V089 (c. 26r): «mess(er) osmano, Vna formana iscoppai dacascioli».
33 V089: «cietto cietto sagia jngrandaina».
34 Ovvero «Romani, incolas Anconitane Marchie e Spoletanos» (DVE I xi 2-3).
35 Questione che vede opporsi, sulla base di criteri storico-linguistici, due posizioni:
l’una, che vorrebbe il testo di origine genuinamente marchigiana, e dunque
falsa la testimonianza dantesca, per l’eccessiva competenza di questa (cfr. G. Crocioni,
Una canzone marchigiana ricordata da Dante, «Giornale storico della letteratu-
[ 10 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 13
passo «Dante si dimostra più informato della sua eventuale fonte»;
mentre Contini riconosceva implicitamente maggior valore all’attribuzione
che leggiamo nel De vulgari: e se sulla lezione il filologo non
si pronunciava, non manifestava invece alcun dubbio prima di annoverare
la menzione di questi due versi tra gli indizi che portano a ritenere
che la fonte dantesca sia stemmaticamente più alta rispetto a V (e
dunque maggiormente qualificata e credibile).
Dando per assodato che nel caso della canzone Dante ha tra le mani
una fonte più alta ed avvertita rispetto a V, per quanto riguarda il
contrasto Rosa fresca aulentissima, come noto, tanto V quanto il De vulgari
non ne forniscono alcuna attribuzione36. Poiché esso è l’unico
componimento adespoto ad aprire un fascicolo di V, il quarto, dedicato
a poesie di ambito stilisticamente ‘mediano’, delle quali è evidentemente
presentato come il testo più rappresentativo, dobbiamo ritenere
che per il Vaticano tale componimento, collocato in una posizione
di massimo spicco, fosse effettivamente di autore ignoto37.
Un’affermazione simile non è altrettanto pacifica a proposito del
trattato dantesco: qui, infatti, il verso menzionato, campione della mediocrità
tipica del volgare siciliano parlato38, è privo di paternità esattamente
come due versi che fungono da exempla, stavolta, del siciliano
illustre, ovvero di quella lingua degna d’onore e di lode utilizzata graviter
dai grandi maestri di quella tradizione lirica, Ancor che l’aigua per
lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato39. Tuttavia l’autore di
ra italiana», Suppl. 19-21 (1922), pp. 265-362); l’altra a favore dell’ipotesi della parodia,
e che quindi ritiene autentica la testimonianza dantesca. Quest’ultima tesi è
sostenuta da G. Breschi in L’italiano delle regioni, a cura di F. Bruni, Torino, Einaudi,
1992, p. 468: «qualora si ritenesse attendibile la testimonianza dell’Alighieri,
viene di rincalzo pur sempre la rubrica del Vat. lat. 3793, che nell’antroponimo attributivo,
il messer Osmano (Osmano è ‘Osimani’, cioè l’“oriundo di Osimo”), fregia
l’epigrafe di un manifesto blasone e suggerisce l’interpretazione parodica».
36 Per approfondire tutte le questioni relative al componimento e all’attribuzione
a Cielo d’Alcamo da parte di Angelo Colocci, cfr. la più recente edizione
critica con commento, a cura di M. Spampinato Beretta, in Scuola Siciliana, II,
pp. 513-556 (in cui, ed è francamente motivo di sorpresa, del De vulgari non si parla
se non di passaggio).
37 Cfr. R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano,
cit., p. 11.
38 «Et dicimus quod, si vulgare sicilianum accipere volumus secundum quod
prodit a terrigenis mediocribus, ex ore quorum iudicium eliciendum videtur, prelationis
honore minime dignum est, quia non sine quodam tempore profertur; ut
puta ibi: “Tragemi d’este focora se t’este a bolontate”» (DVE I xii 6).
39 DVE I xii 2.
[ 11 ]
14 ANDREA MANZI
queste due grandi canzoni era un poeta celebre e ben noto, nonché a
questa altezza cronologica assai apprezzato da Dante, ovvero Guido
delle Colonne40: se non leggiamo qui il nome di Guido, ciò avviene
probabilmente perché esso appariva pleonastico all’autore del trattato;
a rigore, e in parallelo, non si può escludere che anche il nome di
Cielo fosse noto a Dante.
Di più: dopo la citazione del verso del contrasto, Dante riporta,
anch’essi anonimi, un endecasillabo in volgare apulo41, che mostra
tutta la rozzezza di questo idioma, e gli incipit, di cui loda invece i vocabula
curialora da cui sono composte, di altre due canzoni di autori
celeberrimi, Madonna dir vi voglio di Giacomo da Lentini42 e Per fino
amor vo sì letamente di Rinaldo d’Aquino43.
In sostanza, considerata la particolare strategia espositiva adottata
dall’autore nel paragrafo in questione, non pare possibile affermare
con assoluta certezza che il contrasto fosse anonimo anche nella fonte
di Dante; il quale potrebbe aver deliberatamente scelto di non menzionarne
l’autore. Ad una conclusione simile giunge, in una nota del suo
commento al De vulgari relativa proprio alla citazione del contrasto,
Giorgio Inglese44: Dante «non deduce la sicilianità del documento dai
suoi caratteri linguistici, ma viceversa: e perché, dunque, assegna il
contrasto all’isola?»; evidentemente «doveva leggerne un testo completo
di rubrica, con nome e patria dell’autore (rubrica che manca a
V)45».
Non sarebbe dunque da escludere a priori la possibilità che la situazione
sia la medesima che riteniamo la più probabile per Una fermana
scopai da Cascioli, l’altro unicum di V: avremmo cioè un autore noto in
una fonte stemmaticamente alta, ora perduta, e coincidente o prossi-
40 Come risulta da due passi del libro II, in cui Dante nominerà esplicitamente
Guido come compositore proprio di queste due poesie (DVE II v 4: Amor che lungiamente,
«Iudex de Columpnis de Messana»; II vi 6: Ancor che l’aigua, «Iudex de
Messana»), ma anche da questo stesso brano, e in particolare dal sintagma «in
cantionibus illis».
41 DVE I xii 7: «Bòlzera che chiangesse lo quatraro».
42 Peraltro non più menzionato, e mai chiamato per nome nel trattato.
43 Per fino amor verrà menzionata nuovamente in II v 4 (insieme ad Amor che
lungiamente di Guido) ed attribuita a «Renaldus de Aquino».
44 Cfr. Dante Alighieri, L’eloquenza in volgare, introduzione, traduzione e note
di G. Inglese, Milano, Rizzoli, 1998.
45 Con l’avvertenza, tuttavia, che potrebbe aver «ricavato l’ambientazione
dell’avventura dai vv. 61 sgg.» (Ivi, nota a p. 96); ma con ciò Inglese si spinge forse
troppo in avanti.
[ 12 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 15
ma alla silloge cui attinge Dante; e non più noto, a causa degli accidenti
legati alle trafile di copia, al compilatore del Vaticano. Con la differenza,
tuttavia, che il nome dell’autore del contrasto potrebbe essere
omesso volontariamente da Dante per esigenze legate all’esposizione,
ed affini a quelle per cui aveva taciuto i nomi di Guido delle Colonne,
Rinaldo d’Aquino e Giacomo da Lentini. L’obiezione da avanzare subito,
tuttavia, è che Dante cita il terzo verso del contrasto, non l’incipit,
come accade invece per le quattro grandi, e al tempo celeberrime, canzoni
ricordate nel medesimo passo.
I dubbi, insomma, restano forti; e, qualora la si accetti, una simile
ipotesi potrebbe rivelarsi utile a confermare la validità della tesi continiana,
secondo la quale è il «testo più corretto del verso del cosiddetto
Cielo» a portare, come abbiamo appena suggerito, «più in su» rispetto
a V. Quanto si è detto fin qui, ad ogni modo, rende la situazione meno
pacifica di quanto potrebbe apparire ad un primo sguardo.
Il solo unicum del Palatino è Ancor che l’aigua per lo foco lassi di Guido
delle Colonne (P104)46; a proposito della sua assenza dal Vaticano
abbiamo già riportato l’opinione di Contini, condivisa sia da Giunta
sia da Antonelli: sulla base della posizione delle due canzoni di Guido
delle Colonne in P (Ancor che l’aigua è l’ultima della sezione delle canzoni)
e in V (Amor, che lungiamente, è anch’essa l’ultima canzone della
mano principale), l’ipotesi più probabile è che «nella eventuale tradizione
comune [ai due canzonieri] entrambe le canzoni di Guido stessero
in coda, fuori dell’ordine competente, in altre parole che V abbia
perduto P104 perché era alla fine dell’antigrafo». Tale congettura pare
assai convincente all’ultimo editore critico della canzone, Corrado Calenda47,
nonché a chi, come Giunta, respinge gli altri argomenti di ordine
ecdotico addotti da Contini.
Le cose potrebbero complicarsi ulteriormente: non pare inverosimile
ipotizzare che i due unica del Vaticano siano tali perché, pur essendo
entrambi presenti in una eventuale fonte comune anche al Palatino,
esclusi dal compilatore di P per una scelta, ovvero per un giudizio
di valore, in quanto non ritenuti omogenei al progetto culturale
che informa il canzoniere. Ma forse un’ipotesi simile sarebbe un azzardo
troppo oneroso; limitiamoci allora a concludere provvisoriamente
che il ‘manoscritto’ di Dante va ricercato a livelli stemmaticamente
46 DVE I xii 2 e II vi 6; l’ultima edizione critica è a cura di C. Calenda, Ancor
che·ll’aigua per lo foco lasse, in Scuola Siciliana, II, pp. 97-108.
47 Cfr. Scuola Siciliana, II, p. 98.
[ 13 ]
16 ANDREA MANZI
alti, e che non siamo in grado di stabilire se esso sia prossimo in misura
maggiore a V o a P.
Analizzando le varianti degli incipit delle canzoni dei poeti siciliani
menzionate nel De vulgari, comparate alle corrispondenti lezioni dei
manoscritti Vaticano e Palatino, Contini ritiene la fonte di Dante più
prossima a V che non a P; e proprio questa impostazione è rifiutata, in
maniera netta, da Giunta, il quale dubita anzi della stessa validità metodologica
di un siffatto ordine di argomenti. Quelle che per Contini
sono varianti sostanziali sarebbero in realtà solo «disparità di lezione
[…] meramente formali»; e, di conseguenza, parimenti imputabili alla
fallacia della memoria di Dante, qualora ipotizzassimo che nel citare
egli non avesse «sott’occhio la fonte», e alla «abitudine linguistica di
chi copia» 48 (o gli incipit in questione nelle sillogi manoscritte, o il trattato
dantesco).
L’obiezione tocca un punto molto delicato per quanto riguarda
l’oggetto della nostra indagine, poiché essa coinvolge uno dei problemi
chiave della filologia romanza: quello della natura delle innovazioni
e della distinzione tra varianti formali e varianti sostanziali.
Una simile obiezione potrebbe far apparire vane le pagine che seguono,
in cui procederemo ad una autopsia delle varianti e al confronto
tra tutte le lezioni in questione, al fine di sondare sul campo, per così
dire, tutti i problemi relativi alle canzoni presenti sia in V che in P; ma
si è scelto di operare in tale direzione per formulare solo alla fine della
nostra analisi un giudizio complessivo su questo aspetto cruciale49.
a) I xii 2 e II v 4: Guido delle Colonne, Amor, che lungiamente m’hai
menato50. Questo l’incipit anche di V («Amore» è scriptio prosastica nor-
48 Come vedremo, in R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del
Canzoniere Vaticano, cit., questo tipo di argomenti sarà affrontato solo a proposito
della canzone di Rinaldo d’Aquino.
49 Le pagine seguenti hanno come punto di riferimento la più recente edizione
critica con commento del corpus dei Siciliani, ovvero Scuola Siciliana. Le canzoni
compaiono nell’ordine di G. Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica
siciliana, cit., nota n. 32 di p. 386. Di ciascuna canzone si menziona, nel corpo del
testo, il luogo (o i luoghi) in cui viene citata nel DVE, l’autore e l’incipit fissato,
nella già citata edizione critica del trattato, da Mengaldo; e, in nota, collocazione e
rubrica dei manoscritti V e P, quindi incipit, editore critico, volume e pagine di
Scuola Siciliana.
50 V305 (c. 98r, «messer guido dele colonne di mesina»), P102 (c. 60v, «Messer
[ 14 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 17
male per il menante principale della silloge); P diverge per le due lezioni
«lungam(en)te» e «ma». L’opposizione tra «lungiamente» e
«lungamente» è effettivamente di carattere non sostanziale, ma meramente
formale, come vuole Giunta; Calenda, tuttavia, preferisce la
prima lezione, quella di V, in quanto calco dell’occitano lonjamen, richiamando
anche, in sede di commento, una canzone di Giacomo da
Lentini, Amando lungiamente51. Nel caso del locus parallelus del Notaro
la situazione testuale è la seguente: V Ch «lungiamente», P «lungam(en)
te» (si badi: V e P con lezioni uguali a quelle della canzone di Guido),
V² Bo Ba (cioè Ba1 + Ba3; Firenze, Accademia della Crusca, ms. 53 –
Raccolta Bartolini) «lungamente»; V tramanda soltanto, e per di più
nell’indice, i versi 1-3, ragion per cui esso è posto al di fuori dello
stemma costruito da Antonelli, mentre gli altri testimoni, latori tutti
del testo integrale, costituiscono un gruppo compatto, con rapporti
individuati con sufficiente chiarezza (P V2 Ba1 Bo // Ba3 Ch); il testo è
costituito su P. Per quanto riguarda l’incipit, a rigore di stemma l’editore
avrebbe dovuto optare per la lezione «lungamente»; ma preferisce
«lungiamente», e questo per due ragioni: in quanto la variante
«lungiamente» è ritenuta gallicismo colto (col senso di ‘da lungo tempo’),
ed in quanto essa è un elemento linguistico condiviso (insieme
ad altri, anche di carattere formale52) con la canzone di Guido. Per
Calenda ed Antonelli, dunque, in entrambi i testi è preferibile optare
per la forma «lungiamente», in virtù del fatto che essa rappresenta
uno dei tanti «occitanismi culturali» di «importazione cruda» (accanto
a meno numerosi francesismi e latinismi), presenti in buona parte del
corpus siciliano in virtù del suo «carattere iperletterario»53.
Passando alla seconda variante, dobbiamo innanzitutto evidenziare
come essa fosse ritenuta tale da Contini, probabilmente, soltanto
per una svista: egli scioglie infatti il «ma» di P102 in m’à, terza persona
singolare, e ciò sia in Questioni attributive, sia nell’edizione delle can-
Guido dale colonne» – solo i vv. 1-20, fino a «però»); Amor, che lungiamente m’ài
menato, C. Calenda, II, pp. 86-96.
51 Cfr. Scuola Siciliana, II, p. 90. Calenda rimanda anche ad un altro luogo di
Guido, La mia gran pena e lo gravoso afanno, v. 2 (cfr. Scuola Siciliana, II, pp. 55-63),
nonché a Guittone d’Arezzo, Già lungiamente sono stato punto, che potrebbe essere
il tramite per l’incipit del sonetto dantesco Sì lungiamente m’ha tenuto Amore (Vita
nuova XXVII 3). Per Giacomo da Lentini, Amando lungiamente, cfr. Scuola Siciliana,
I, pp. 257-280.
52 Primo fra tutti lo schema metrico dei piedi delle stanze.
53 Secondo le parole di C. Di Girolamo, Introduzione a Scuola Siciliana, II,
p. LX.
[ 15 ]
18 ANDREA MANZI
zoni di Guido del 195454 (mentre nulla dice poi nei Poeti del Duecento,
in cui del primo verso discute solo di «lungiamente»/«lungamente»;
tacendo forse di un ripensamento?); ma questa è una lettura errata,
come sostiene a ragione Giunta, il quale interpreta la lezione nell’unico
modo possibile, ovvero come m’a’, seconda persona singolare, con
apocope. D’altra parte già nelle CLPIO55 era stampato m’à’; e il più
recente editore critico, Calenda, riporta la lezione del Palatino in apparato,
in forma diplomatica, senza poi discuterne nella nota di commento,
ciò che sarebbe accaduto nel caso rimarchevole di una interpretazione
di quel «ma» come terza persona singolare: evidentemente
legge anch’egli m’a’, ovvero m’à’.
Va dunque individuato, nella sostanza delle varianti, un accordo
tra Palatino e Vaticano, il quale ha la forma di seconda persona singolare
non apocopata; ed effettivamente in questo caso si tratta di una
variante meramente formale, e sussistente semplicemente per le diverse
abitudini scrittorie dei compilatori dei due codici. E tuttavia, in
un discorso come il nostro, può assumere un certo peso (peso in sede
ecdotica assai relativo) il fatto che nell’intera tradizione del De vulgari
si trovino entrambe le varianti di V; le quali, allora, divengono lato
sensu significative se il nostro scopo è quello di indagare una vicinanza
maggiore a P o a V della fonte di Dante. La quale, in definitiva, nel
caso della citazione dell’incipit di questa canzone, dal momento che il
trattato presenta contemporaneamente entrambe le varianti formali di
V – «lungiamente» occitanismo colto, e «m’ài» non apocopato –, sarà
dunque da ritenere, pur con tutte le cautele metodologiche necessarie,
più vicina proprio al Vaticano.
b) I xii 8: Giacomo da Lentini, Madonna, dir vi voglio56. Con altrettanta
cautela si dovrà procedere nell’analisi della variante «dire» del
Vaticano e di tutti i codici da cui è tràdito il De vulgari, di contro al
«dir» di P, La57, testo del Trissino58, Giuntina del 152759 e Memoriali
54 Cfr. G. Contini, Le rime di Guido delle Colonne, cit., p. 193.
55 Cfr. Concordanze della lingua poetica delle origini, I, a cura di D’a. S. Avalle e con
il concorso dell’Accademia della Crusca, Milano-Napoli, Ricciardi, 1992, p. 274.
56 V1 (c. 1r, «Notaro Giacomo»), P37 (c. 21v, «Notaro jacomo»); Madonna, dir vo
voglio, R. Antonelli, I, pp. 5-38.
57 Testimone importantissimo (testo base, infatti, per l’edizione di Antonelli,
Scuola Siciliana).
58 Che riporta solo i primi quattro versi (seguendo, peraltro, la lezione di P).
59 Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani in dieci libri raccolte, Firenze,
eredi di Filippo di Giunta, 1527 (Giuntina).
[ 16 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 19
bolognesi60. Innanzitutto va detto che ci troviamo di fronte ad un caso
analogo al precedente, poiché quelle di V e di P non sono altro che due
varianti certamente formali, come vuole Giunta, ma la presenza di
una delle quali in tutti i codici del trattato dantesco fa pendere il nostro
giudizio a favore del Vaticano.
Quella di V, intanto, non è ipermetria: si tratta di una forma piena
in cui la seconda sillaba non ha alcun peso prosodico, come è tipico
del copista principale del codice. Può forse sorprendere che anche l’intera
tradizione del De vulgari tramandi la lezione «dire»: il verso, così
come si presenta nei manoscritti, sarebbe un settenario ipermetro61, ed
è francamente assurdo pensare che Dante, citando anche a memoria,
non se ne sia reso conto; più probabilmente anch’egli avrà trascritto (e
allora in questo caso si può forse ipotizzare che egli non abbia citato a
memoria), con consapevolezza, una forma piena, comportandosi in
sostanza come il copista principale di V. Dunque, il «dire» dantesco62
non va ritenuto una erronea lezione ipermetra, ma anch’esso una
scriptio prosastica63, peraltro l’unica scriptio prosastica tra tutte le citazioni
di testi siciliani nel trattato.
Tutto ciò ci autorizza a concludere, con Contini, ma con argomenti
che anche in questo caso riconosciamo non possano dirsi definitivi,
che qui la fonte dantesca è verosimilmente prossima a V64.
60 Bologna, Archivio di Stato, Memoriali bolognesi, Memoriale 74, c. 238r.
61 E, non a caso, in DVE Mengaldo corregge in «dir».
62 Da ritenere originale alla luce proprio dell’accordo di tutti i testimoni (non
ci sarebbe alcuna ragione, né tantomeno utilità, nel giudicare tale lezione come un
errore d’archetipo); l’intervento editoriale, con l’eliminazione della sillaba soprannumeraria,
resta comunque doveroso, in quanto rende omogeneo l’incipit come
menzionato nel trattato a quello stabilito da tutti gli editori della canzone del Notaro.
63 La cui eziologia è probabilmente legata all’incompiutezza dell’opera e allo
stato del suo ipotizzato originale; ma ciò non toglie che, sulla base del materiale
testimoniale in nostro possesso, siamo costretti a ritenere che Dante avesse effettivamente
scritto «dire».
64 Aggiungiamo, ma soltanto per completezza, che una forma non apocopata
come il «dire» di V, se non fosse scriptio prosastica, e ragionando in assoluto, risulterebbe
in realtà più vicina alla lingua originaria di un autore siciliano del secolo
XIII di quanto non lo sia la forma tronca dir. In maniera acutamente provocatoria,
ed in tutta legittimità, Costanzo Di Girolamo – riflettendo sui mutamenti linguistici
cui furono sottoposti i componimenti dei poeti della scuola siciliana nella loro
transalatio in Toscana – menziona proprio l’incipit della canzone del Notaro e la
forma «dire» del Vaticano (ma, per un mero lapsus, scrive che essa è anche nel
Laurenziano, il quale in realtà legge «dir» – cfr. La55, c. 75ra), per chiedersi «se il
poeta abbia veramente mai scritto dir, facendo violenza alla propria lingua»: poi-
[ 17 ]
20 ANDREA MANZI
c) I xii 8 e II v 4: Rinaldo d’Aquino, Per fino amore vo sì letamente65.
Se dunque i dati relativi al «dire» della canzone di Giacomo da Lentini
non ci autorizzano a formulare giudizi cogenti, vedremo come solo in
apparenza ciò si verifichi anche per quanto concerne i dati offerti
dall’incipit della canzone di Rinaldo d’Aquino.
Ecco come si presenta il primo verso del componimento nel Vaticano,
nel Palatino e nel De vulgari (in corsivo le varianti su cui ci soffermeremo):
V: Per fino amore vo sì altamente
P: Per fino amore vao sì allegramente66
DVE: Per fino amore vo sì letamente67
Per quanto riguarda l’alternativa «vao»/«vo», non possiamo che
concordare con Giunta nel ritenere le due varianti a tutti gli effetti solo
formali. A questa stessa conclusione arriva d’altronde anche Contini,
il quale in un primo tempo68 annoverava questa variante tra quelle che
avvicinano il manoscritto di Dante a V, ma in seguito, nell’apparato
dell’edizione della canzone nei Poeti del Duecento69, affermava che
«vao» è «forma di tipo napoletano e in genere meridionale»: forma
ben caratterizzata, dunque, in senso diatopico, e di conseguenza da
accettare senza esitazioni in sede editoriale; e, per quanto riguarda la
trasmissione, da ritenere con relativa sicurezza poligeneticamente ridotta
al toscano «vo» da parte dei copisti, entrambi toscani, di V e
Ch70, così come dalla fonte di Dante o da Dante stesso (da cui poi tutta
la tradizione del trattato). Si tenga anche presente che l’ultima editrice
del testo, Annalisa Comes, ritiene si debba accettare la lezione di P in
quanto «più fedele a una veste linguistica arcaica»: in quanto forma,
cioè, di maggior valore sul piano diacronico.
La variante, in sostanza, non può in alcun modo essere considerata
ché infatti all’epoca erano «diversissime» le «abitudini e possibilità di troncamento
delle parole in siciliano e in toscano» (cfr. C. Di Girolamo, Introduzione a Scuola
Siciliana, II, pp. L-LXVIII – in particolare pp. LIX-LX).
65 V30 (c. 7v, «Messer rinaldo daquino»), P48 (c. 27v, «Messer Rainaldo daquino
»); Per fin amore vao sì allegramente, A. Comes, II, pp. 172-181.
66 «Allegramente» anche in Ch.
67 La cui intera tradizione in questo passo è concorde (unica variante – che
però qui non interessa – è «amor» nel codice di Berlino).
68 Ovvero in Questioni attributive nell’ambito della lirica siciliana, cit.
69 Cfr. Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, voll. 2, Milano-Napoli, Ricciardi,
1960 (PD), I, nota al v. 1, p. 112 (la canzone è alle pp. 112-114).
70 Concorde, come il testo del Trissino, col Vaticano.
[ 18 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 21
all’interno del nostro discorso. Con essa abbiamo concluso la ricognizione
sulle varianti per mezzo delle quali Contini dimostrava la prossimità
al Vaticano della fonte manoscritta dantesca.
Resta infine da sondare la situazione testuale relativa al rimante
dell’incipit
della canzone di Rinaldo: il Vaticano legge «altamente» (o
«alta mente», secondo Contini in Questioni attributive – non più nei
Poeti del Duecento71 – e Panvini72), il Palatino «allegramente», il De vulgari
«letamente». Già nel saggio del 1952 Contini manifestava incertezza:
il «letamente» del trattato potrebbe o tradurre a memoria l’«allegramente
» che, lezione di P, rappresenta anche quella più accettabile
(secondo Contini lezione «dell’originale»), oppure correggere l’«alta
mente» di V, in quest’ultimo caso con una assai significativa «concordanza
in errore comune». E proprio la possibilità di tale concordanza
parrebbe far propendere lo studioso per una vicinanza della lezione
del De vulgari a V (o almeno così intenderà Antonelli). La seconda
possibilità è tuttavia accantonata con l’edizione della canzone nei Poeti
del Duecento73: «la doppia citazione dantesca ha letamente, che par
confermare l’allegramente di P Ch, contro altamente (forse anticipato da
874, in rima anche 4675) di V».
In definitiva, per Contini in questo caso la fonte di Dante è più vicina
al Palatino; ed è quanto sosterrà anche Giunta76. Comes aggiunge
il «conforto» di un locus parallelus di Giacomo da Lentini, l’incipit di Lo
viso mi fa andare alegramente, ed esclude la lezione di V anche per evitare
rima identica con 4677.
Lascia dunque perplessi, e non poco, quanto finisce per affermare
Antonelli: preso atto dell’incertezza di Contini, dovuta al fatto che la
lezione «letamente» è confermata «nel significato» da P (e Ch), e «nel
significante (quasi un anagramma)» da V (per cui prospetta un «pos-
71 Dove legge «altamente» (cfr. PD, I, nota al v. 1, p. 112).
72 Cfr. B. Panvini, Le rime della Scuola siciliana, voll. 2, Firenze, Olschki, 1962, I.
Introduzione – testo critico – note, p. 100.
73 Evidentemente, cioè, in sede di edizione del testo Contini rivede le affermazioni
solo ‘teoriche’ formulate qualche anno prima a proposito di entrambi i luoghi
problematici dell’incipit.
74 «com’altamente Amor m’ha meritato».
75 «ed eo mi laudo che più altamente».
76 Con richiamo a Rajna, ma non al Contini dei Poeti del Duecento.
77 Ma poi, sorprendentemente, afferma (forse per inerzia, avendo appena menzionato
il ragionamento di G. Contini, Questioni attributive nell’ambito della lirica
siciliana, cit., p. 387) che «le citazioni di testi e autori siciliani da parte di Dante
portano generalmente verso V» (cfr. Scuola Siciliana, II, p. 173 e pp. 176-177).
[ 19 ]
22 ANDREA MANZI
sibile scambio nella memorizzazione di copia» della lezione dantesca),
egli sostiene come sia necessario «meditare la proposta di Santangelo
e Panvini, che ritenevano di individuare proprio nella lezione
dantesca quella dell’archetipo». Ricordiamo che in base a tale proposta,
nella sua edizione del 1962, Panvini stampava Per fino amore vao sì
letamente, affermando che la lezione del trattato dantesco «dà ragione
della glossa di C D [ovvero P Ch] e dell’errore ottico di A [cioè V]».
Ma la proposta di Santangelo e Panvini appare oggi quantomeno
antieconomica: si può ipotizzare con sicurezza che una singola lezione
di un’opera dalla tradizione così numericamente esigua e qualitativamente
problematica, com’è quella del De vulgari eloquentia, rappresenti
la lezione d’archetipo di una canzone siciliana, di un singolo componimento,
cioè, appartenente ad un corpus e ad una tradizione manoscritta
sulla trasmissione e sugli antecedenti dei quali poco o nulla
sappiamo, ed è quasi impossibile giungere a conclusioni certe? Che
poi la lezione di un codice che risale presumibilmente alla fine del
Duecento, o al più tardi ai primi anni del Trecento, e che trasmette un
discreto numero di testi affini alla canzone di Rinaldo, risulti la «glossa
» della lezione di un verso menzionato in un trattato latino in prosa
di un autore fiorentino, forse del 1304-’05, e il cui testimone più antico
– sui soli quattro che ne rappresentano la tradizione diretta –, si presume
esemplato a Bologna, risale alla metà circa del XIV secolo; un trattato,
per di più, il cui autografo si suppone fosse «provvisorio, non
privo di ripensamenti e di altri segni di elaborazione»78, e nel considerare
il quale va sempre tenuta presente la possibilità che l’autore citasse
a memoria, con tutte le implicazioni che ciò comporta; che insomma
la lezione del Palatino risulti «glossa» di quella, ritenuta d’archetipo,
del De vulgari eloquentia, ci pare francamente una forzatura eccessivamente
dispendiosa.
Mentre circa la lezione certamente erronea di V (l’errore «ottico» di
Panvini, ovvero quella sorta di «anagramma» di cui parla Antonelli),
appare già di per sé soddisfacente la spiegazione fornita da Contini
nei Poeti del Duecento: errore d’anticipo dal verso ottavo. Alla proposta
di Santangelo e Panvini, insomma, non si avverte affatto la necessità
di tornare.
Per riassumere quanto detto circa Per fin amore: l’opposizione
«vo»/«vao» è tra varianti meramente formali, toscana l’una e meri-
78 Cfr. C. Ciociola, Dante, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato,
10. La tradizione dei testi, coordinato da C. Ciociola, Roma, Salerno Editrice,
2001, p. 162.
[ 20 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 23
dionale l’altra, o se vogliamo recentior l’una e più arcaica l’altra, dunque
per il nostro discorso non utile; mentre il rimante dell’incipit avvicina
il ‘manoscritto’ di Dante, a livelli stemmaticamente alti, al Palatino
piuttosto che al Vaticano (nel quale abbiamo una semplice innovazione
dovuta ad un banale anticipo di un rimante).
Se dunque Giunta contesta un difetto concettuale, di metodo,
all’argomentazione dello studio di Contini del 1952, che vuole la fonte
dantesca vicina a V sulla base della comparazione delle varianti delle
canzoni siciliane menzionate nel De vulgari, si può concludere che solo
nel caso di «vao»/«vo» in Rinaldo d’Aquino l’argomentazione continiana
effettivamente non regge (ma d’altra parte lo stesso Contini rivedrà
la sua posizione in proposito con l’edizione inclusa nei Poeti del
Duecento). Mentre se è vero che nell’analisi dei dati offerti dalle lezioni
delle canzoni di Guido delle Colonne e di Giacomo da Lentini deve
prevalere la cautela, si è anche visto come partendo da essi sia comunque
possibile formulare delle congetture.
Tuttavia un difetto concettuale ad un siffatto ordine di considerazioni
– e questa vuole essere innanzitutto un’autocritica – si può in
effetti rilevare: l’analisi, per così dire al microscopio, di singole lezioni
come quelle fin qui considerate, appartenenti ad una tradizione testuale
fortemente attiva, com’è quella della letteratura delle origini,
anzi, di più, ad un corpus trasmessoci pressoché per intero in una veste
linguistica altra da quella originaria, otterrebbe forse risultati più sistematici
e coerenti se condotta nell’ambito delle edizioni dei testi cui
esse appartengono79; e per l’appunto dalle edizioni critiche delle canzoni
citate nel trattato dantesco, nonché dalle argomentazioni sulle
scelte testuali effettuate dai singoli editori, non si è potuto fin qui prescindere.
Nonostante ciò, a qualche conclusione circa la questione della fonte
di Dante è possibile comunque giungere. L’insieme dei dati raccolti
sui componimenti politestimoniati, ed al contempo la comparazione
delle lezioni del De vulgari e dei codici Vaticano e Palatino, non permettono
di formulare alcuna ipotesi definitiva (così come abbiamo
concluso anche a proposito dei testi monotestimoniati): le due varianti
della canzone di Guido e il «dire» di quella del Notaro fanno propendere
per una prossimità a V; mentre il rimante «letamente» dell’in-
79 Come insegna d’altro canto l’esperienza di Contini, nel passaggio dalla teoria
filologica alla pratica ecdotica, nel caso della canzone di Rinaldo.
[ 21 ]
24 ANDREA MANZI [ 22 ]
cipit della canzone di Rinaldo è ben spiegabile solo se messo in relazione
alla lezione «allegramente» di P.
In definitiva, pare proprio si debbano accogliere sia alcune delle
ipotesi di Contini, sia alcuni degli argomenti addotti da Giunta; insomma,
l’ipotesi che il ‘manoscritto’ di Dante sia una fonte comune al
Vaticano e al Palatino, stemmaticamente più alta rispetto ad entrambi,
ne esce fondamentalmente confermata: con tutta la sua ambiguità.
Più in là di una simile congettura gli strumenti della filologia non
possono spingersi. Un ulteriore tentativo potrebbe consistere nel verificare
l’effettiva esistenza di un antecedente comune ai due canzonieri,
ricercando fra le singole tradizioni delle canzoni siciliane menzionate
nel De vulgari; ma si tratta un tentativo vano, ed è presto detto il
perché
Tanto per Amor, che lungiamente quanto per Per fino amore l’unica
fonte comune ipotizzabile, sulla base dei rapporti esistenti fra i diversi
testimoni, è il rispettivo archetipo80; solo per Madonna, dir vo voglio
(tràdita non a caso da un maggior numero di testimoni: La, V, P, GIUNTINA
e Memoriali bolognesi), il cui stemma – tracciato da Antonelli
– si configura così81:
x
La y
z w
P Gt V Mem
si può effettivamente pensare ad un interpositus (il subarchetipo y)
80 La canzone di Guido (cfr. Scuola Siciliana, II, p. 87) è testimoniata da V, P
e Giuntina (siglata Gt; il testo del Trissino – Tr – tramanda solo i versi 1 e 27-34);
V e P+Gt rappresentano due rami distinti. L’archetipo è postulato da Contini (cfr.
G. Contini, Le rime di Guido delle Colonne, cit., p. 178) sulla base della consecuzione,
identica nel Vaticano e nel Palatino, di Gioiosamente canto (numero II nell’ed. Contini;
4.2 ed. Calenda – che rispetta l’ordinamento di Contini), La mia vita è sì fort’e
dura e fera (III; 4.3) e la nostra Amor, che lungiamente (IV; 4.4). Per la canzone di Rinaldo
(cfr. Scuola Siciliana, II, p. 173), tràdita, come già detto, da V, P e Ch (frammenti
in Tr), si individua una stretta vicinanza tra P e Ch contro V. L’esistenza
dell’archetipo è provata, secondo Comes, dall’ipermetria del verso 22.
81 Cfr. Scuola Siciliana, I, p. 8.
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 25
identificabile con la fonte comune da cui avrebbe attinto Dante: ma è
francamente troppo poco.
Né può giovare ricercare punti di contatto tra le due sillogi manoscritte
nell’ambito della tradizione testuale di altri componimenti citati
nel trattato, di autore non contemporaneo a Dante, e tràditi in entrambi
i canzonieri: ovvero le canzoni di Guido Guinizzelli citate nel
De vulgari, Al cor gentile repara sempre amore (secondo la lezione – ipermetra
– di tutti i testimoni del trattato; menzionata in DVE II v 4) e
Madonna, ’l fino amore ch’io vi porto (DVE I xv 682). Non si parlerà ora di
questi componimenti, non lo si è fatto nelle pagine precedenti, né – a
ragione – lo fanno Contini, Antonelli e Giunta: Dante, infatti, con ogni
probabilità lesse i componimenti dei poeti bolognesi, dunque anche di
Guinizzelli, in loco83; sicché i soli dati per noi utilizzabili, in quanto gli
unici utilmente comparabili tra loro, sono quelli offerti da quei testi,
ovvero le canzoni dei siciliani, che per noi come già per Dante potevano
essere noti soltanto attraverso «canzonieri attingenti tutti, con incerto
numero di intermediari, a un’antologia federiciana già linguisticamente
ambientata»84.
Dunque è di altra natura l’argomento che potrebbe ‘decidere’ la
questione; ed è precisamente quello esposto da Antonelli nella parte
conclusiva del suo contributo del 2001:
Se è vero che al livello cronologico del De vulgari […] sono riflessi alcuni
aspetti della tradizione materiale del Palatino 418 (soprattutto la
tripartizione dei generi, peraltro anche indipendente […])85, proprio la
fisionomia storico-culturale del Palatino e del suo immediato antecedente
(il primato guittoniano e l’ordine alfabetico vs quello storico-culturale)
è lontanissima dalle idee dantesche. Naturalmente si potrebbe immaginare
anche una reazione dantesca proprio all’egemonia culturale guitto-
82 In realtà, poiché il subarchetipo γ ha qui una lacuna, unico testimone di questo
passo è il codice di Berlino, la cui lezione è tuttavia aberrante: «fino lamor ano/
ui percito»; Mengaldo corregge facendo ricorso alla lezione stabilita in PD.
83 Attraverso il ramo settentrionale della tradizione delle canzoni guinizzelliane
(tradizione distinta da quella dei sonetti). V, P ed L appartengono invece al ramo
meridionale; e si noti, ma solo per inciso, che nel caso di questi testi il Vaticano
ed il Palatino sono effettivamente molto vicini, al punto che essi fanno «costantemente
gruppo» contro il Laurenziano (cfr. D’a. S. Avalle, La tradizione manoscritta
di Guido Guinizzelli, «Studi di filologia italiana», XI (1953), pp. 140-141 e p. 152).
84 Cfr. C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante, cit., p. 32.
85 È questo l’unico argomento per cui Antonelli accetta una vicinanza della
fonte dantesca a P (mentre ritiene che i dati testuali, come abbiamo visto, portino
tutti verso V).
[ 23 ]
26 ANDREA MANZI
niana visibilmente depositata nel Palatino (oltre che nel Laurenziano)
ma saremmo in ogni caso fuori da quella «impostazione» critica determinata
dalla tradizione materiale e dalla disponibilità dei testi86. Non
sussistendo altri argomenti e tenuto conto invece di quanto è attestato dal
solo Vaticano e dalla sua linea storiografica, non sembra opportuno spostare la
trafila Vaticano (ovvero sua tradizione) – Dante. […] è proprio dalla tradizione
del Vaticano in senso stretto che sembrano attingere altri rimatori
del giro fiorentino: Chiaro Davanzati, Monte Andrea, Lambertuccio
Frescobaldi, Dante da Maiano e altri (ma è indagine ancora da
completare)87 [corsivo nostro].
La vicinanza al Palatino è senza dubbio da ammettere, non solo
sulla base della tripartizione metrica, come concede qui Antonelli, ma
soprattutto degli elementi raccolti nelle pagine precedenti; è pur vero,
tuttavia, che bisogna riconoscere che il progetto culturale del Palatino
pare veramente incompatibile, più che con le «idee» dantesche, con il
grado di consapevolezza circa il fatto letterario e con la profondità
critica e di analisi che nelle sue opere Dante dimostra.
In realtà è proprio questa la posta in gioco: la questione del ‘manoscritto’
di Dante, che in fondo potrebbe sembrare nient’altro che una
sterile querelle filologica, chiama in causa, come già anticipato in precedenza
– giuste le conclusioni che Giunta trae dagli argomenti addotti
per dimostrare la dipendenza del De vulgari dalla tradizione cui fanno
capo tanto V quanto P –, la natura delle affermazioni e delle argomentazioni
di Dante (nel trattato, e poi anche nella Commedia) circa i
poeti lirici volgari delle generazioni precedenti:
Vale perciò la pena di domandarsi se anche in sede di ‘verifica dei valori’
le semplificazioni [in cui incorre Dante], lette in genere come segnali
di un’accorta strategia agonistica, non risentano piuttosto di altre
più oggettive semplificazioni: quelle che al lettore e al poeta erano imposte
da una tradizione già da sé, per i fatali accidenti di copia e di
circolazione dei testi, tendenziosa88.
Ora, nessuno può né vuole dubitare della tendenziosità delle tradizioni
manoscritte; e che Dante non potesse leggere tutte le liriche di
tutti i poeti volgari del Duecento, magari in raccolte individuali e non
86 Con rimando, in nota, a C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante, cit., p.
40.
87 Cfr. R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano,
cit., pp. 6-7.
88 Cfr. C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante, cit., p. 40.
[ 24 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 27
miscellanee, ordinate secondo l’ultima volontà degli autori e nella loro
facies linguistica originaria, è un assioma, e francamente anche dei
più banali. Ma la consapevolezza di tutto ciò, ovvero degli invalicabili
limiti materiali cui va inesorabilmente incontro qualunque tentativo
di restauro, storiografico tanto quanto testuale, della letteratura delle
Origini, e di interpretazione della lettura che ne diede Dante89, non
può tradursi, per usare le parole di Antonelli90, in uno «schiacciamento
sulla tradizione materiale» della «poesia» e del «pensiero critico
dantesco». Bisognerebbe semmai, e in questo non possiamo che concordare
con Antonelli, operare in senso opposto, e cioè realizzare
«un’analisi comparativa ed eventualmente contrastiva, comprensiva
anche dei silenzi su autori, come Chiaro Davanzati e Monte Andrea,
che l’Alighieri certamente conosceva (magari per altre vie diverse dal
Vaticano […])»91.
89 Una lettura che è fuor di dubbio indirizzata dalla tradizione manoscritta, e
dalle letture dei testi che si tramandano da silloge a silloge: chiaro esempio ne sia
la tenzone fra Bonagiunta Orbicciani e Guido Guinizzelli (la celeberrima, ma spesso
male interpretata, tenzone Voi ch’avete mutata – Omo ch’è saggio), come dimostra
ampiamente, e in maniera esemplare, proprio il lavoro di Giunta di cui qui si discute.
Lo studioso mostra a tal proposito, con dovizia di particolari ed argomenti
cogenti, come tale tenzone – di fondamentale importanza per la letteratura delle
Origini – rientri nella casistica classica del gap e del contro-gap di chiara e limpida
derivazione trobadorica; e come sia la storia della ricezione della tenzone (che impropriamente
vede in essa la difesa della vecchia maniera di poetare da parte
dell’attempato guittoniano, di contro all’innovatore e protostilnovista poeta bolognese)
a fornire a Dante il terreno fertile su cui costruire le sue figure del Guinizzelli
«saggio» (nella Vita nuova), rimatore in grado di elevarsi al di sopra di un
gretto municipalismo linguistico (nel De vulgari) e «padre» di tutti coloro i quali
«rime d’amore usar dolci e leggiadre» (nel Canto XXVI del Purgatorio). Convinzione
di chi scrive, per tirare le somme e concludere il ragionamento, è che Dante sia
senza dubbio alcuno condizionato dalle dinamiche con cui i testi circolavano e gli
giungevano tra le mani; ma altresì che egli metta costantemente in atto una sempre
diversa e consapevole ‘politica storiografica’ nei confronti della letteratura a lui
precedente: la quale appare sempre piegata, in tutte le opere in cui si articola la sua
complessa e cangiante biografia intellettuale, alle sue particolari esigenze teoretiche,
ancor prima che letterarie.
90 Cfr. R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano,
cit., p. 7.
91 Già sfiorata in precedenza nel citare il lavoro di Giunta, la questione del silenzio
di Dante su Chiaro e Monte, ovvero sui suoi più illustri ed immediati predecessori
fiorentini, è come noto aperta, ed estremamente problematica; se non
addirittura irrisolvibile in maniera economica (né è invero sostenuta da adeguate
risultanze bibliografiche, ma soltanto da rapsodici, quanto vaghi ed insoddisfacenti,
riferimenti rintracciabili di volta in volta nel mare magnum degli studi dante-
[ 25 ]
28 ANDREA MANZI
Perché il Vaticano è il grande codice del mondo della civiltà mercantile
fiorentina che tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento
afferma la propria egemonia, e che vuole con questa antologia «dotarsi
di una propria tradizione, rivisitando e riacquisendo i percorsi della
nuova cultura poetica volgare»92. E non può sussistere alcun dubbio
circa il fatto che è sul progetto culturale, sulla verità di cui è portatrice
questa silloge, redatta ad opera, ovvero per conto, di un «colto mercante,
gran conoscitore di poesia»93, in ogni caso da un menante principale
fiorentino che forse neppure conosceva il latino, in una grafia
proto mercantesca94, e non in littera textualis come il Palatino (antologia
ispirata ancora «da modelli cortesi-feudali internazionali»95, così
lontana dalla rigorosa sistemazione storiografica che vediamo realizschi).
Questione, ci sia consentito affermare, non di scarso rilievo, e che probabilmente
meriterebbe indagini sistematiche ed approfondite, partendo da questi dati
oggettivi: un «Monteandreas de Florentia» fu a Bologna tra il 1267 ed il 1274, e
Chiaro morì probabilmente fra l’agosto del 1303 e l’aprile del 1304; le liriche di
entrambi sono tràdite quasi esclusivamente dal Vaticano, ma con poche ed assai
significative eccezioni, poiché due tenzoni di Chiaro con Dante da Maiano sono
attestate, rispettivamente, nel codice Mezzabarba (Venezia, Biblioteca Nazionale
Marciana, ms. It. IX 191) e nella Giuntina, una canzone di Monte è in Ch, un sonetto
in V2, quattro canzoni ed una tenzone con Meo Abbracciavacca (l’unico pezzo
assente da V) in L; nell’economia dell’organizzazione materiale e della costruzione
storiografica di V, essi rappresentano il culmine della poesia volgare fiorentina,
dunque italiana, ante-Stilnovo (e la rubrica tachigrafica «Mō» rivela forse familiarità
con il committente/compilatore della silloge). Dante poteva leggerli solo
in V? Non pare assurdo credere il contrario, se una pur minima circolazione al di
fuori di V è attestata. È economico ritenere che, presenti in misura così massiccia e
significativa nel Vaticano, nessuno dei loro testi sia potuto giungere (a Firenze, ma
nel caso di Monte eventualmente anche a Bologna) tra le mani di Dante? Forse
essi furono così importanti solo per l’ordinatore del Vaticano, ed in realtà non lasciarono
che labili tracce nella cultura fiorentina di fine Duecento e inizio Trecento?
In tal caso cadrebbero tutte le opinioni correnti su V. Si può pensare che, pur avendo
letto Chiaro e Monte, Dante non ne abbia mai voluto far menzione? Eppure i
contenuti e l’ideologia delle liriche di entrambi paiono significativi, se raffrontati
con l’opera di Dante. Insomma: le domande sono tante, e la bibliografia esistente
non fornisce risposte soddisfacenti.
92 Cfr. R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano,
cit., p. 23.
93 Ibidem.
94 A proposito del copista principale del Vaticano si vedano, in I Canzonieri
della lirica italiana delle origini, IV, cit., A. Petrucci, Le mani e le scritture del canzoniere
Vaticano, pp. 25-41 (in particolare pp. 28-30), e P. Larson, Appunti sulla lingua del
canzoniere Vaticano, pp. 57-103 (in particolare pp. 57-58 e p. 91).
95 Cfr. G. Savino, Il Canzoniere Palatino cit., p. 313.
[ 26 ]
DANTE E LE FONTI MANOSCRITTE DELLA LIRICA DELLE ORIGINI 29
zarsi nel Vaticano, nonché dalla riflessione dantesca, ed espressione
sostanzialmente liminare della cultura fiorentina del tempo96); non v’è
dubbio che è sul codice al quale Dante è più vicino sul piano sociale ed
intellettuale97 che va euristicamente misurato il grado di indipendenza,
ed allo stesso tempo la natura genuinamente ideologica, dei giudizi
che nel corso della sua intera attività letteraria egli costantemente
formula.
Andrea Manzi
(Università Federico II – Napoli)
96 Una eventuale confezione pistoiese del codice non contraddice affatto questa
affermazione.
97 Chiaramente, una perfetta coincidenza tra l’ambiente culturale in cui si formò
Dante e l’ambiente in cui venne progettato ed allestito il Vaticano non è sostenibile;
ma pare ancor meno probabile ipotizzare, riguardo a Dante, una vicinanza
maggiore al milieu culturale di cui è espressione il Palatino.
[ 27 ]
ALIDA SPADAVECCHIA
La novella del diavolo che prende moglie.
Variazioni e convergenze in Machiavelli,
Brevio e Le Fèvre
Machiavelli’s short story Favola di Belfagor Arcidiavolo seems to contain
significant similarities with Brevio’s one, Belfagor Arcidiavolo.
Besides the issue of the conjectural plagiarist, a French author, Jehan
Le Fèvre, wrote in the 14th century about the same theme, into an
exemplum contained into his own book Les Lamentations de Matheolus.
The three stories look similar, but, in some cases Machiavelli
coincides with Le Fèvre against Brevio, for instance into the denouement.
La Favola di Belfagor Aricidiavolo di Machiavelli è conservata nel codice
autografo Banco Rari 2401, insieme alla seconda redazione del
volgarizzamento dell’Andria di Terenzio e al poemetto Serenata. Su
questo testo è riconoscibile anche una mano secentesca, probabilmente
di Simone Berti il quale avrebbe apportato piccole modifiche, ad
esempio la cancellazione di circa cinque righe all’inizio della novella2.
Niccolò Machiavelli scrisse la Favola probabilmente attorno al 1518-
’20 secondo Gerber3, datazione condivisa da Ridolfi4, o nel periodo
più ristretto tra 1519-’20 secondo Ghiglieri5. L’apparente leggerezza
1 Firenze, Biblioteca nazionale, Banco rari, 240, cc. 1r-12r. L’edizione di riferimento
della Favola di Belfagor Arcidiavolo di Machiavelli, in questo saggio, è quella
contenuta in F. Grazzini, Machiavelli narratore, morfologia e ideologia della novella di
Belfagor con il testo della «Favola», Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 147-153.
2 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, saggio di filologia attributiva,
Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 19, da cui si riprende anche la divisione in paragrafi
delle novelle.
3 Ivi, p. 20. Cfr. A. Gerber, Niccolò Machiavelli. Die Handschriften, Ausgaben und
Übersetzungen seiner Werke in 16. und 17 Jahrhundert […], Gotha, Perthes, 1912, pp.
44-47.
4 Ibidem. Cfr. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1978, p.
539.
5 Ibidem. Cfr. P. Ghiglieri, La grafia del Machiavelli studiata negli autografi, Firenze,
Olschki, 1969, p. 358.
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 31
tematica, costituita dall’accostamento della donna al diavolo, ha indotto
alcuni critici a ritenere che fosse stata composta precedentemente
alla piena maturità letteraria dell’autore. È necessario ricordare che
l’autore si dedicò all’ozio letterario, soltanto dopo la sua esclusione
dalla vita attiva. Ha quindi iniziato la frequentazione degli Orti Oricellari
a partire dal 1515-16 e il successo de La Mandragola è già attestato
durante il carnevale del 1518.
Oreste Tommasini, analizzando l’esordio della novella «Leggesi
nelle antiche memorie delle fiorentine cose», riteneva di poter collocare
l’opera durante la stesura delle Istorie, quindi un poco prima del 15246.
Luigi Russo ritenne che questo incipit non fosse il consueto periodo
machiavelliano e fosse simile allo stile degli agiografi del Trecento7.
Le ultime analisi filologico-linguistiche di Pasquale Stoppelli, assistite
dall’impiego dell’elaboratore elettronico, permettono una datazione
dell’opera più tardiva, ovvero attorno al 1521-1526, tesi attestata
dalle indagini sugli usi fonetico-grafici delle forme sintattiche abbandonate
nei primi anni ’20 del XVI secolo ma rientrate in voga dopo il
15258.
Stampata ventidue anni dopo la morte dello statista, ad opera del
figlio Guido, insieme con l’editore Bernardo Giunti, la novella è stata
subito al centro di numerosi dibattiti riguardo la sua originalità. Era
apparsa, infatti, una prima volta, sotto il nome di Giovanni Brevio nel
1545, all’interno della raccolta Rime et prose volgari di messer Giovanni
Brevio, data alle stampe presso Antonio Blado, «l’editore romano che
per primo intraprese, nel 1530, la pubblicazione degli scritti politici
machiavelliani9».
Anton Francesco Doni, nel 1547, scrivendo a Francesco Revesla,
mostrava l’intenzione di denunciare il plagio di Brevio pubblicando
l’originale o almeno quello che egli riteneva tale, insinuando che l’intera
opera di Brevio sarebbe stata un plagio.
La difesa di Brevio fu sostenuta unicamente da Giovanni Papanti,
nel XIX secolo, ma egli non spiegò come una novella così fiorentina
fosse stata scritta da un veneziano.
6 O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col
machiavellismo, Roma, Loescher, 1941, p. 371.
7 L. Russo, Commedie Fiorentine del ’500. Mandragola, Clizia, Calandra, Firenze,
Sansoni, 1939, p. 130.
8 R. Ruggiero, Ecdotica machiavelliana 2001-2008, «Ecdotica» (2008), n. 5, p. 299.
9 Ibidem. L’edizione di riferimento della novella di Belfagor Arcidiavolo di Brevio
è contenuta in P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., pp. 29-47.
[ 2 ]
32 ALIDA SPADAVECCHIA
Più recentemente, Stoppelli ha scagionato entrambi gli scrittori
dall’accusa di plagio. La sua analisi ha come punto di partenza la letteratura
francese del XII, XIII e XIV secolo, la quale vanta alcuni exempla
e opere piuttosto misogini, inerenti le vicende del diavolo che
prende moglie, per poi scapparne e tornare all’Inferno, in particolar
modo gli exempla di Jacques de Vitry10 e Pierre de Limoges, nei secoli
XII e XIII e naturalmente il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e
Jean de Meung, che ha scatenato una vera e propria polemica intorno
alla misoginia.
Nell’exemplum di Jacques de Vitry un uomo ha una moglie terribile
e adultera. Per liberarsene decide di andare in pellegrinaggio a San
Giacomo di Compostela, affidando la donna al diavolo, l’unico che
possa fronteggiarla. Quando fa ritorno, il diavolo si affretta a restituirgliela,
poiché avrebbe preferito custodire «una torma di cavalle selvatiche11
». Nell’exemplum successivo a questo, il diavolo stringe un patto
con un ladro, promettendogli, in cambio, di liberarlo ogni qualvolta
sia catturato; improvvisamente, il diavolo abbandona l’uomo al suo
destino, facendogli concludere i suoi giorni sulla forca12.
Questi due exempla sono stati rielaborati in un unico racconto da
Pierre de Limoges13 (attivo nella seconda metà del secolo XIII): un diavolo
si sposa ma, non appena scoperta la malizia della moglie, decide
di allontanarsi. Successivamente, incontra un tale che ha avuto tre mogli,
una peggiore dell’altra, con cui decide di far società: il diavolo si
impossesserà delle persone e il suo compagno, fingendosi medico, andrà
a liberarle, riscuotendo il compenso. Quando, però, ad essere posseduto
è un principe, il diavolo rifiuta di liberarlo, mettendo a repentaglio
la vita del complice. L’uomo decide, tramite un’astuta trovata,
di dar luogo a una finta cerimonia, facendo credere al diavolo che la
moglie sia venuta a trovarlo. Come reazione, il diavolo, spaventato,
abbandona immediatamente il corpo del principe14.
Questo racconto ha conosciuto una fama maggiore, attorno agli anni
Ottanta del XIV secolo, da una redazione in francese eseguita da Je-
10 Jacques de Vitry, nato verso il 1170 a Vitry, fu religioso dell’ordine dei Canonici
regolari di sant’Agostino. Trasferitosi presso la curia papale, fu nominato cardinale
da Gregorio IX nel 1229.
11 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 11.
12 G. Frenken, Die exempla des Jacob von Vitry: ein Betrag zur Geschichte der Erzählungsliteratur
des Mittelalters, München, Beck, 1914, pp. 128-129.
13 Pierre de Limoges, fu maestro delle Arti a Parigi, intorno al 1272-73 raccolse
più di duecento testi di natura varia (exempla, sermoni, etc.).
14 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 12.
[ 3 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 33
han Le Fèvre, «procureur au parlement parigino15», del poema in versi
latini di ispirazione antifemminile e antimatrimoniale Lamentationes
Matheoli16 (opera composta tra il 1295 e il 1301 dal chierico Matteolo17).
Nella traduzione di Le Fèvre è contenuto un exemplum di circa 200
versi (vv. 3853-404318) in cui è narrato l’incontro di un diavolo con un
medico a cui farà seguito un patto. L’exemplum inizia con una sentenza:
non esiste tormento più grande del matrimonio, ne danno prova
numerosi esempi scritti e quello che l’autore si accinge a raccontare è
uno di essi.
Il medico, «mire», (dal latino mirare che significa guardare attentamente,
in riferimento a un medico come uomo di studi piuttosto che a
un medico chirurgo) incontra casualmente un diavolo con cui stringe
immediatamente un patto: il diavolo prende possesso di alcune persone
e il medico, fingendosi esorcista le guarirà, in modo da dividere il
compenso. Il medico chiede poi al diavolo quale ritiene che sia il tormento
più atroce, e quest’ultimo, turbato per via della sua precedente
esperienza, gli confida che è senz’altro il vincolo matrimoniale: in inferno
non esiste una prigionia peggiore del matrimonio. Egli stesso
preferirebbe patire le più atroci torture infernali piuttosto che ritornare
con la moglie.
Subito dopo i due adempiono al loro accordo e diventano sempre
più ricchi, fin quando il diavolo non decide di troncare bruscamente il
patto, entrando nel corpo di una regina, per non abbandonarla più.
15 R. Ruggiero, Ecdotica machiavelliana 2001-2008, cit., p. 298.
16 L’originale latino è conservato presso la Biblioteca dell’Università di Utrecht,
Scriptores latini 65.
17 Matteolo, conosciuto anche come Mathieu de Boulogne, era un chierico
francese, vissuto fra il 1260, e il 1320. Egli espose la sua lamentela contro le donne
avendone sposata una, che si scoprì essere già stata sposata e poi vedova, portandolo
ad una condizione di bigamia e costringendolo ad abbandonare l’ecclesia.
Decise, quindi, di scrivere un libro per denunciare i tormenti del matrimonio ed
evitare che altri uomini compissero il suo stesso errore.
Come scrive Veronica Orazi, nel saggio Strategie tematiche e strutturali nello
Spill, Università di Torino, 2007 (http://publicacions.iec.cat/repository/
pdf/00000037%5C00000060.pdf), il Matheolus francese è una delle fonti di ispirazione
dell’opera dello spagnolo Jaume Roig. Nato a Valencia nel 1401, è autore di
un’opera di grande interesse nel panorama letterario dell’epoca, di tema misogino,
lo Spill o Llibre de les dones, datato 1460. Cfr. A. Carré, El manuscrit únic de l’“Espill”
de Jaume Roig, «Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», XLIV
(1995), pp. 231-273.
18 A.G. Van Hamel, Les lamentations de Matheolus et le livre de Leesce de Jehan Le
Fèvre de Resson, Paris, É. Bouillon, 1982.
[ 4 ]
34 ALIDA SPADAVECCHIA
Nonostante le insistenze del medico, il diavolo non accenna ad andarsene,
perciò, spinto dal timore dell’eventuale impiccagione, il medico
architetta una farsa ai danni del traditore. Inscena una cerimonia con
tanto di trombe, cornamuse, tamburelli e fa credere al diavolo che la
moglie stia ritornando. Quest’ultimo, terrorizzato, fugge, liberando la
regina, poiché, ribadendo ciò che aveva affermato all’inizio della vicenda,
preferisce tornare all’inferno piuttosto che rivedere il suo carnefice;
il medico è così salvo.
Stoppelli ritiene che, sul volgere del Quattrocento, proprio questo
exemplum sia stato adattato all’ambiente fiorentino da un autore di cui
non si avrebbero notizie precise, che si sarebbe avvalso di una conoscenza
precisa dei suoi luoghi e abitanti, da cui avrebbero attinto sia
Machiavelli che Brevio. A dar credito a questa ipotesi subentra la constatazione
che tutti gli elementi stilisticamente attribuibili a Machiavelli
non sono presenti in Brevio19.
Ma è facile cadere in errore, affidandosi a giudizi di valore secondo
cui il presunto plagiario è sempre l’autore meno noto, ovvero Brevio;
senza considerare la difficoltà che avrebbe avuto nell’epurare dalla
sua rielaborazione ogni elemento tipicamente machiavelliano20.
Due sono i filoni principali della novella: quello misogino e quello
del contadino furbo, personaggio tipico della farsa della tradizione
classica.
La vicenda della novella machiavelliana non ha nulla di originale:
il De daemone uxorem recusante di Lorenzo Bevilacqua21 può essere indicato
come una possibile fonte d’ispirazione22. Martelli ha rilevato alcuni
clichés in comune con le Amatoriae narrationes23 di Plutarco, ad esempio
la figura del contadino e un mucchio di grano (che diventa mucchio
di letame nella Favola) e non ha escluso che Machiavelli conoscesse
quest’opera, avendo precedentemente incaricato Biagio Buonaccorsi
di procurargli una copia delle Vite Parallele dello stesso autore24.
19 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 68.
20 L. D’Onghia, Recensione a P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor,
cit. in «Lingua e stile», XLIII, n. 2 (dicembre 2008), pp. 303-310.
21 Laurentius Abstemius, nato a Macerata tra il 1435 e il 1440, è autore di due
centurie di favole e raccontini di vario genere a sfondo morale.
22 M. Martelli, Introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor, L’asino, a
cura di M. Tarantino, Roma, Salerno Editore, 1990, pp. 26-27.
23 Le Amatoriae narrationes presentano il sottotitolo «Contro gli amanti» poiché
si tratta di brevi storie di amori infelici.
24 M. Martelli, La figlia di Foco e Belfagor Arcidiavolo, «Interpres» (2004), n. 23,
pp. 294-296.
[ 5 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 35
Nell’autografo è contenuto il termine Favola; potrebbe derivare
dalla distinzione effettuata da Quintiliano nella Institutio Oratoria in
«storie» quando si espongono imprese realmente avvenute, «argomenti
» quando si presentato eventi falsi, ma verosimili e «favole»
quando i fatti narrati non sono veri né verosimili25.
L’originalità attribuibile all’ingegno machiavelliano trapela attraverso
l’orazione di Plutone davanti ad una assemblea, prima di procedere
con l’invio dell’arcidiavolo in terra, assente in Brevio26.
Egli dipinge il regno degli Inferi come una Repubblica, con tanto di
assemblea, in cui le decisioni vengono prese ordinatamente. Plutone è
un principe liberale, chiama a concilio i demoni del suo regno e si
comporta in modo imparziale e razionale, prima di formulare un giudizio
e confermare un’opinione azzardata sugli uomini. Il suo obiettivo
è di bilanciare in maniera precisa la sua sentenza, senza mostrasi
troppo credulo, o al contrario, troppo superficiale27.
Anche i demoni Minosse e Radamanto sono burocrati attenti e precisi:
analizzano attentamente il caso, i dati di fatto, ovvero che i dannati
sono uomini sposati finiti all’inferno non per furti, rapine, stupri
o assassinii, ma per colpa delle loro mogli, e le ipotetiche cause, elaborando
tesi ed antitesi. Si comportano da veri e propri avvocati moderni.
Perciò il Re degli Inferi decide di ascoltare direttamente l’opinione
dei diavoli28.
Non manca un’abbondante serie di precedenti, per esempio le parodie
sacre, alla cui origine si trova, a volte, un’iniziativa di Satana,
che chiama a convegno gli abitatori delle ombre eterne.
Il concilio infernale è un’invenzione presente nei misteri, nei contrasti,
nei poemi, nelle rappresentazioni teatrali durante tutto il Medioevo.
Satana (o Lucifero, o Minosse) pronuncia un discorso, dalla
lunghezza variabile, in cui espone ai demoni il problema che lo concerne;
a conclusione di questo discorso e del concilio, i demoni proce-
25 Idem, Introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor, cit., pp. 26-27.
26 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 71, dà peso all’ipotesi
russiana.
27 F. Grazzini, Machiavelli narratore, cit., pp. 16-17.
28 Secondo Stoppelli, Machiavelli si serve dell’espediente dell’orazione fittizia,
utilizzata nelle Istorie Fiorentine, in cui è difficile riconoscere l’opinione dell’oratore
da quella dell’autore, ma rivitalizza l’espediente retorico per vivacizzare il racconto.
La formula che introduce le orazioni nelle Istorie è identica a quella utilizzata da
Machiavelli nella Favola: «parlò Plutone in questa sentenza». Cfr. P. Stoppelli, Machiavelli
e la novella di Belfagor, cit., pp. 80-81.
[ 6 ]
36 ALIDA SPADAVECCHIA
dono con l’invio in terra di un loro rappresentante, affinché assolva il
compito che gli hanno affidato.
Un celebre esempio è l’antico dramma inglese Fall of Lucifer, il cui
serpente che tenta Eva viene inviato nel paradiso terrestre in seguito
alle decisioni legate al solenne concilio infernale29.
È un’invenzione più medievale che classica. Il precedente più immediato
di Machiavelli potrebbe essere stato il Filocolo30 di Giovanni
Boccaccio, uno dei testi più noti tra la fine del Quattrocento e gli inizi
del Cinquecento specialmente a Firenze31, in cui sono presenti il concilio
dei demoni e il discorso di Satana32.
Belfagor, invece, costituisce un caso a parte: è un arcidiavolo, ma,
prima ancora, era stato un arcangelo che aveva osato ribellarsi a Dio e
da allora vive in una condizione di subalterno e di perdente, condannato
a un «destino di vilipeso», sia nell’oltretomba che tra i mortali, da
cui non può scappare33.
Machiavelli lo introduce prima di spiegare a quali regole deve essere
sottoposto, servendosi del passato remoto per indicare che gli obblighi
e i divieti a cui si deve attenere Belfagor sono stati già fissati nel
concilio infernale, prim’ancora che egli fosse sorteggiato.
Non viene tralasciato l’aspetto finanziario della questione: per aggiungere
una ulteriore traccia di veridicità al racconto, nel momento
in cui Plutone decide di inviare un «controllore» sulla Terra, gli viene
fornito un budget, affinché l’arcidiavolo possa svolgere al meglio il
suo ruolo e si inserisca pienamente nel circolo vizioso delle passioni
umane.
Si potrebbero cogliere, in questa novella, i segni di un autoritratto
del Segretario fiorentino, ma sarebbe fuorviante giudicare l’opera alla
luce della sua biografia e delle sue esperienze di diplomatico e ambasciatore,
in missione nelle corti europee.
In ogni caso, ciò che colpisce maggiormente dell’orazione è il fatto
che, come scrive Paolo Chirumbolo, i basilari valori umani siano invertiti
e quindi, nel regno degli Inferi, simbolo del dolore, vengono
29 J.B. Russel, Lucifer, the devil in the middle ages, Ithaca, Cornell University
Press, 1986, pp. 264-269.
30 G. Boccaccio, Tutte le opere, a cura di V. Branca, t. I, Milano, Mondadori,
1967, pp. 75-76.
31 M. Martelli, Introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor, cit., pp. 31-
33.
32 Più tardivamente, nel 1581, anche Torquato Tasso inserisce nel canto IV del
suo Gerusalemme Liberata, un’orazione di Plutone con concilio.
33 F. Grazzini, Machiavelli narratore, cit., pp. 18-19.
[ 7 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 37
rispettati l’ordine e il rigore; sulla terra e tra gli uomini, dove dovrebbe
trionfare l’amore, regnano la confusione e l’inganno34.
È necessario analizzare in maniera più approfondita la questione
Machiavelli-Brevio, confrontandola poi con l’estratto dal libro di Le
Fèvre.
C’è una convergenza onomastica e di ambientazione tra Machiavelli
e Brevio: in entrambi il diavolo si chiama Belfagor, assume le fattezze
di un uomo di trent’anni, dice di essere spagnolo e si fa chiamare
Roderigo di Castiglia, dichiara di aver mercanteggiato e guadagnato
ad Aleppo in Soria, va ad abitare a Firenze nel borgo di Ognissanti,
prende in moglie una figlia di Amerigo Donati, scappa via da Firenze
per la porta al Prato, raggiunge Peretola, incontra Gianmatteo del Brica,
si impossessa prima di una figlia di Ambruogio Amidei sposata a
Tebalducci (Tebaldini in Brevio), poi della figlia di Carlo re di Napoli,
quindi di quella di Luigi re di Francia.
Ma c’è una divergenza, sostanziale: la donna che Roderigo sposa si
chiama Ermellina in Brevio e Onesta in Machiavelli. Il nome di Brevio
è realistico, in quello di Machiavelli compare la figura proverbiale di
monna Onesta da Campi35.
Nessuno dei due si preoccupa di saldare le incongruenze storiche,
rilevate da Grazzini, ma precedentemente da Tommasini, Benedetto,
Raimondi e Guglielminetti, che pongono sullo stesso piano cronologico
Carlo re di Napoli e Luigi re di Francia. Grazzini in particolar modo,
indaga sull’impossibilità di un riferimento a Carlo VIII36 come al re
di Napoli, in quanto, affinché un titolo del genere risultasse adeguato,
gli occorrerebbe il tempo necessario a «tener corte e a far abitare la figlia
indemoniata nella città conquistata37».
34 P. Chirumbolo, Belfagor e il mondo rovesciato di Machiavelli, «Studi Rinascimentali
» (2003), n. 1, pp. 27-33.
35 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 26.
Cfr. D. Merlini, Satira contro il villano, Torino, Loescher Editore, 1894. Cfr. P.
Luri Di Vassano, Modi di dire proverbiali e motti popolari italiani spiegati e commentati,
Roma, Tipografia di Sinimberghi E., 1875, p. 480, n. 1013. È ricordato questo
motto proverbiale anche in O. Pescetti, Raccolta di Proverbi, Venetia, Lucio Spineda,
1603, p. 241, e in T. Costo, Il Piacevolissimo Faggilozio, Venetia, 1655, t. III, p. 67.
«Furfanteria», in Vocabolario della Lingua Italiana, già compilato dagli Accademici della
Crusca, corretto e accresciuto da Giuseppe Manuzzi, Firenze, Passigli, 1836.
36 Carlo VIII (1470-1498) fu re di Francia della dinastia dei Valois, dal 1483 al
1498; la sua fallimentare discesa in Italia nel 1494 inaugurò le cosiddette guerre
d’Italia.
37 F. Grazzini, Machiavelli narratore, cit., p. 124.
[ 8 ]
38 ALIDA SPADAVECCHIA
La figura più simile è, quindi, Carlo d’Angiò38 che fu signore
dell’intero Mezzogiorno dal 1266. Anche la collocazione cronologica
di «Lodovico septimo re di Francia» pone non pochi problemi: Luigi
VII visse dal 1120 al 1180, regnando dal 1137, un secolo prima rispetto
a Carlo d’Angiò.
I critici ritengono che possa trattarsi di un errore di Machiavelli39,
tesi avvalorata da Grazzini, secondo cui la supposizione che «septimo
» stia per «nono» è l’unica chiave per saldare l’incongruenza storica
poiché Luigi IX e Carlo d’Angiò erano fratelli40. In realtà, anche
quest’ultima ipotesi porrebbe non pochi problemi poiché Luigi IX è
stato canonizzato ed è conosciuto come «il Santo».
L’incipit delle novelle di Machiavelli e Le Fèvre appare tipicamente
favolistico e introduce immediatamente la questione del tormento
provocato dalle mogli ai mariti: in Machiavelli si tratta di «antiche
memorie delle fiorentine cose», in Le Fèvre l’esempio riportato è dimostrabile,
lo si può provare ed è addirittura rimasto «en escrit», come
garanzia di un’assoluta verità, tale da non poter essere confutato.
Brevio utilizza la prefazione come esortazione per i più giovani,
offre consigli circa la scelta della futura moglie e mette in guardia circa
l’opinione comune per cui la donna è allo stesso tempo «la maggior
passione e la più malagevole a tollerare».
La prima parte della novella di Machiavelli e Brevio diverge da
quella di Le Fèvre: in quest’ultimo, come già accennato, vi è un medico
che incontra casualmente un diavolo e si trova a discutere con lui.
La figura del medico, in letteratura, è tipicamente medievale. Essa
è molto importante, poiché nel Rinascimento invece scompare.
Per capire a fondo l’importanza del medico è necessario un riferimento
alla concezione della malattia nel Medioevo. Già nelle Scritture,
nell’Antico Testamento e nel Nuovo Testamento, la malattia viene
spesso identificata come una punizione divina per le colpe commesse.
Il Nuovo Testamento mostra infatti delle guarigioni miracolose operate
da Gesù Cristo o dai suoi discepoli. I racconti di guarigioni miraco-
38 Carlo I d’Angiò, (1226-1285) conte d’Angiò e del Maine, conte di Provenza,
re di Sicilia, re di Napoli, principe di Taranto, re d’Albania, principe d’Acaia e re
titolare di Gerusalemme. Figlio del re di Francia, Luigi VIII (detto il Leone) e di
Bianca di Castiglia, era fratello del re di Francia, Luigi IX. Cfr. nota n. 63, p. 15.
39 Tommasini, Benedetto, Raimondi e Guglielminetti convengono che si tratti
di un errore anacronistico di Machiavelli che intendeva, probabilmente, Luigi IX.
Cfr. F. Grazzini, Machiavelli narratore, cit., p. 125, n. 110.
40 Ivi, p. 125.
[ 9 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 39
lose infatti associano la diminuzione delle sofferenze e la guarigione
alla remissione dei peccati effettuata da Cristo. Così, stigmatizzato dalla
malattia, segno del peccato, il malato è una persona colpita da Dio.
Allo stesso tempo, la malattia si percepisce come uno strumento di
salute individuale e collettiva. Appare come il segno dell’elezione del
malato fatta da Dio: è, quindi, una prova inviata all’uomo per ricordargli
l’umiltà della condizione di creatura. In seguito, per le sofferenze,
che essa provoca, diventa il canale attraverso cui Dio dona la salvezza
alla collettività, dopo la catarsi41.
Il medico viene quindi visto come un discepolo di Dio o un saggio
in grado di curare, grazie alle sue conoscenze, i malati.
Nell’exemplum di Le Fèvre, nel giro di poche battute, emerge la sete
di denaro e la bramosia che spinge i due ad unirsi in un’alleanza volta
al guadagno facile.
Le Fèvre si sofferma, dopo appena quindici versi dall’incontro, su
una breve descrizione dei sintomi e delle modalità di possessione
dell’essere umano da parte del diavolo, seguendo la moda dei manuali
di medicina e di stregoneria in voga nel Medioevo. Con estrema rapidità,
giunge al punto cruciale della vicenda da cui poi scaturirà l’inganno
del diavolo, ovvero il patto.
In Machiavelli la situazione è diversa, dopo la rievocazione del caso
da parte di un religioso «abstracto nelle sue orationi», il celebre discorso
di Plutone e la scelta ricaduta su Belfagor, l’entrata dell’agente
infernale è «tanto pubblica e quasi spettacolare […], quanto nascosta e
vergognosa sarà poi l’uscita del debitore dalla Porta al Prato42». Il diavolo
sceglie Firenze, città che gli pare la più adatta «alla pratica
dell’usura» e la credibilità della vicenda è sottolineata dalla prossimità
della casa di Roderigo, nel borgo di Ognissanti, con la Porta al Prato.
Le origini spagnole di Roderigo, in fuga dalla Spagna, possono essere
collegate alla cacciata degli ebrei dalla Spagna del 1492: Roderigo
potrebbe essere un profugo in cerca di ricchezza come tanti altri correligionari;
l’impopolarità degli israeliti nel mondo medievale si rifletterebbe
nel carattere del diavolo attribuito ad un ebreo.
L’accoglienza amichevole, nei confronti di Roderigo, è dettata da
ragioni economiche e di calcolo; sono, infatti, ben evidenziate, sia in
Brevio che in Machiavelli, le ristrettezze economiche dei padri delle
41 G. Xhayet, Médecine et arts divinatoires dans le monde bénédictin médiéval à travers
les réceptaires de Saint-Jacques de Liège, Paris, Éditions classiques Garnier, 2010,
pp. 20-22.
42 F. Grazzini, Machiavelli narratore, cit., pp. 35-36.
[ 10 ]
40 ALIDA SPADAVECCHIA
giovani in attesa di sposarsi. L’opportunismo è evidente: Amerigo
concede sua figlia allo straniero per puntare al suo patrimonio, più
che per l’amore della figlia verso quest’ultimo; «poverissimo» in Machiavelli,
«povero et di figliuole et di figli troppo carico» in Brevio.
Una volta conclusosi il matrimonio, la famiglia continua ad esercitare
il proprio controllo all’interno della coppia, costringendo Roderigo
a sottostarne ciecamente, in un vincolo sempre più claustrofobico.
Quanto più egli cerca di avvicinarsi all’ideale di «quiete della casa
sua», tanto più se ne allontana43. Si innesca, quindi, un processo di
peggioramento continuo che raggiunge l’apice nel momento in cui la
crisi finanziaria diventa insostenibile, solo allora Roderigo inizia a
rendersi conto dell’effettiva gravità della situazione.
I parenti non si curano delle ristrettezze in cui si trova e il cinismo
dei creditori rende l’arcidiavolo sempre più insofferente. Lo straniero
acquista consapevolezza della sua situazione, perde ogni speranza di
uscirne illeso e cerca di ribellarsi con la fuga: non è più il diavolo carnefice
dei dannati, ma la vittima degli esseri umani. Subisce un’ulteriore
umiliazione nel momento in cui è costretto a nascondersi in un
«monte di letame», insudiciandosi e finendo sotto «cannuccie e altre
mondigle», l’unico modo per trarsi in salvo offertogli dal «contadino
furbo», a cui farà seguito un patto d’alleanza.
Tale patto era stato liquidato da Le Fèvre in poche righe, senza che
il diavolo subisse, oltre al tormento del matrimonio, le persecuzioni di
parenti e creditori. La narrazione dell’angoscia e delle pene che egli ha
subito per colpa della moglie non è riportata, anzi, rispetto a Roderigo,
l’esperienza con la moglie sembra essere stata meno turbolenta,
ma pur sempre terrificante.
Dall’uscita di Belfagor dal mucchio di letame, prende inizio una
novella completamente nuova, con un nuovo protagonista, Gianmatteo,
una nuova ambientazione geografica e sociale, nuove regole soprannaturali,
persino un differente stile di scrittura, «più disteso e
beffardo44» oltre che differenti tradizioni di riferimento ovvero l’exemplum
medievale e la favola orientale anziché la novella boccacciana45.
43 C. Bremond, La logica dei possibili narrativi, pp. 97-122 in L’analisi del racconto,
Milano, Bompiani, 1980.
44 M. Arnaudo, Belfagor come casistica: una lettura della favola machiavelliana,
«Italianistica, Rivista di letteratura italiana», XXXIV(maggio agosto 2005), n. 2, pp.
13-36.
45 L. Blasucci, Machiavelli novelliere e verseggiatore, «Cultura e scuola», IX,
1070, p. 177.
[ 11 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 41
Una volta instaurato il patto, in entrambe le novelle di Brevio e
Machiavelli, il diavolo si mette subito all’opera e vi è una descrizione
accurata delle possessioni, più dettagliata quella fiorentina, più sintetica
quella napoletana.
Machiavelli e Brevio, a differenza del traduttore francese, tralasciano
gli aspetti fantasiosi come «et par tout les faisoit fumer, frendir,
tressaillir, escumer», lasciando apprezzare la concretezza della verve
ironica: il diavolo diffonde, sotto le spoglie della fanciulla, tutti i peccati
del popolo fiorentino, con allusioni ad azioni scandalose compiute
dagli stessi ecclesiastici.
Servendosi del diavolo, entrambi prendono di mira i rimedi ridicoli
usati per curare eventuali mali: tra i tanti, la testa di san Zanobi (Zenobbi
in Brevio46) e il mantello di san Giovanni Gualberto (san Giovanni
Alberto in Brevio47), utilizzati dai popolani per cacciare il demonio48.
La situazione non è rappresentata nella sua tragicità, ma nella sua
grossolanità ridicola. Poi è la volta di credenze, usi e comportamenti,
soprattutto quelli licenziosi e scandalosi dei frati, simbolo ipocrita
dell’ideale puritano di virtù e di castità.
A tal proposito, l’intervento di Luigi Russo è di fondamentale importanza
per comprendere la vera essenza della novella machiavelliana:
A me vuol parere che la novella di Belfagor non voglia tanto perseguire
il motivo antiuxorio, quanto i miti della credulità del volgo. Demoni,
santi, romiti49, indemoniati, il demonio che è più buono e meno
furbo degli uomini di questo mondo, queste sono le cose che veramente
interessano la fantasia dello scrittore. La novella, io, la definirei una
nuova battaglia contro le superstizioni della moltitudine, quella moltitudine
che è sempre volgo: l’ironia nelle pieghe del racconto è minima
contro madonna Onesta, ed è assidua e assillante contro tuta quella
mitologia di diavoli e indemoniati, che trastullano la pietà dei miseri.
[…] Ridurre una novella così complessa al solo motivo antiuxorio significa
proprio rimpicciolirla e schematizzarla50.
46 Variante puramente grafica (modo alternativo di scrivere la stessa parola,
esso non implica alcuna variazione di significato o di riferimento).
47 Ibidem.
48 La tradizione attribuisce a san Zanobi capacità esorcistiche. La vicenda di
san Giovanni Gualberto si lega alla vicenda civile di Firenze, poiché egli denunciò
il vizio simoniaco del clero locale, contribuendo al sorgere di una prima coscienza
dell’autonomia cittadina; inoltre sostenne una sfida diabolica, scacciando il demonio
che era apparso a un moribondo.
49 Eremiti.
50 L. Russo, Machiavelli, Bari, Laterza, 1966, pp. 158-164.
[ 12 ]
42 ALIDA SPADAVECCHIA
Brevio fa pronunciare a Gianmatteo una battuta più spiritosa, che
in Machiavelli manca, sulla via d’ingresso del diavolo nel corpo delle
donne (che differisce dall’entrata attraverso vene e intestini nella novella
di Le Fèvre), ma fortemente misogina: «“Oh” – disse Gianmatteo
– “non sono elle tutte spiritate? Et in quale entrerai tu, e per qual
buco?51”»
Dopo l’esorcismo fiorentino, in Brevio, il preavviso dell’avvenuto
adempimento del proprio dovere da parte del diavolo avviene sinteticamente
con l’espressione «non mi dar più noia»; Machiavelli diversamente:
«né poi mi darai più briga», ma rende plausibile lo scioglimento
finale, attraverso parole di avvertimento ben esplicite, dopo il lieto
fine della vicenda di Napoli:
Tu vedi, Gianmatteo, io ti ho observato le promesse di averti arrichito.
Et, però, sendo disobligo, io non sono più tenuto di cosa alcuna. Pertanto
sarai contento non mi capitare più innanzi, perché, dove io ti ho
facto bene, ti farei per lo advenire male. [49 = 9r]
In Brevio non è spiegato perché il diavolo intenda interrompere
questo sodalizio; invece, nella novella di Machiavelli, Gianmatteo ha
una piena cognizione di cosa potrebbe accadergli se osasse ripresentarsi
davanti a Belfagor.
Al di là del confronto sinottico tra le novelle di Brevio e Machiavelli,
affrontato metodicamente e precisamente da Sabrina Trovò52, è necessario
soffermarsi su alcuni dettagli rivelatori di somiglianze comuni
a tutti e tre o soltanto a Machiavelli e Le Fèvre contro Brevio.
Le tre storie ruotano attorno a un sopruso del diavolo, che in Le
Fèvre si compie attraverso la possessione di una regina, in Machiavelli
e in Brevio attraverso la possessione della figlia del re di Francia,
Luigi VII53.
Tuttavia, nel racconto di Le Fèvre manca l’idea di uno scambio di
favori per cui il diavolo si senta obbligato a ripagare un aiuto offertogli;
al contrario, egli decide di non assecondare più il medico spinto da
un desiderio di cattiveria gratuita, giustificata come appartenente naturalmente
alla sua indole diabolica. Il diavolo di Machiavelli ha or-
51 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 71.
52 G. Brevio, Le novelle di Giovanni Brevio, a cura di S. Trovò, con pres. di D.
Perocco, Padova, Il Poligrafo, 2003.
53 Rilevante a questo proposito l’anacronismo storico con cui vengono associati
Carlo d’Angiò di Francia e Luigi VII (secondo Grazzini, un errore di Machiavelli
che voleva invece riferirsi a Luigi IX).
[ 13 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 43
mai esaurito il suo compito e ha rispettato la promessa, concedendo
un preavviso a Gianmatteo, non esonerato dal compiere un ultimo
torto, attraverso la possessione di un’altra donna, a insaputa di Gianmatteo.
In tutti e tre i racconti è identica la reazione del re alla riconosciuta
impossibilità dell’esorcista di liberare la donna posseduta:
MACHIAVELLI
Al quale il re turbato dixe che se non lo guariva, che lo appenderebbe.
Sentì per questo Gianmatteo dolor grande.
[53 = 10r]
BREVIO
Ma il re, adiratosi, giurò per le san Diu che, non liberando la figliuola,
lo appenderebbe. Onde veggiendosi Gianmattheo a mal partito […]
[53]
LE FÈVRE:
Le roy dist qu’il en feroit pendre,
S’il en failloit a jour prefix, […]
vv. 3934-35
Quant le mire l’a entendu,
Si l’en pesa moult durement.
vv. 3960-396154
Nella scena successiva, Machiavelli e Le Fèvre coincidono circa la
cattiveria intrinseca dell’essere diabolico, più sottile nella novella del
narratore fiorentino, più concisa e diretta nel secondo e circa la minaccia
di impiccagione.
MACHIAVELLI
Al quale Roderigo dixe: “Do! Villan traditore, sì che tu hai ardire di
venirmi innanzi? Credi tu di poterti vantare d’esserti arricchito per le
mia mani? Io voglio mostrare a te et a ciascuno come io so dare et
torre ogni cosa a mia posta. Et innanzi che tu ti parta di qui, io ti farò
impiccare in ogni modo”. [54 = 10r/10v]
BREVIO:
Al quale Roderigo, con un mal viso voltosi, disse: “Adunque vilano
traditore, tu hai ardire di venirmi avanti? Hor non ti basta quello che io
t’ho fatto guadagnare, che di lavoratore della terra sei gentile uomo
54 La lezione è quella stabilita in A.G. Van Hamel, Les lamentations de Matheolus
et le livre de Leesce de Jehan Le Fèvre de Resson, Paris, É. Bouillon, 1982.
[ 14 ]
44 ALIDA SPADAVECCHIA
divenuto? Et non te ne contenti? Hor levamiti dinanzi, se non che io ti
farò un mal giuoco” [54]
LE FÈVRE:
Le mauvais dist: “Saches de voir,
Je ving cy pour toy decevoir;
C’est mon office de mal faire,
Car je suy a tout bien contraire;
Se je puis, tu seras pendu”.
vv. 3955-3959
In Machiavelli il diavolo è un vero e proprio giudice supremo o tiranno,
che dispone dei suoi mezzi per «dare et torre» a proprio piacimento,
secondo uno schema preciso legato al suo essere diabolico, attraverso
calcoli ben precisi.
Si comporta come un uomo accecato dalla gelosia dei guadagni del
suo collega, realizzati sfruttando i suoi poteri e non accetta che altri si
arricchiscano con i suoi sforzi. In lui ci sono i germi dell’etica capitalista,
oserei dire.
Il diavolo di Le Fèvre rispecchia l’immaginario collettivo di un diavolo
che agisce spinto a priori dal male, in quanto essere diabolico e
quindi portato naturalmente a creare danni, un diavolo decisamente
più dozzinale55.
55 La parola δαίμων ha assunto un significato diverso tra l’Antico e il Nuovo
Testamento. Come scrive W. Foerster, nel mondo greco – ellenistico alla base del
concetto di δαίμων vi è l’animismo. È inteso come divinità o semidivinità, come
potenza divina operante nella natura e nella vita. Esso assumeva anche la connotazione
di qualcosa di soprannaturale, sconosciuto all’uomo e ciò a cui l’uomo non
può sottrarsi, come la morte o il fato, ciò a cui è soggetto, sia esso un evento lieto o
infausto. Pertanto tale parola era intesa con la valenza di demone come divinità
tutelare, cui fosse subordinata la vita, o alcuni aspetti della vita dei singoli, ma
addirittura anche il divino nell’uomo. L’evoluzione della demonologia del N.T.
mostra che l’elemento costante è la raffigurazione di demoni sotto forma di spiriti
maligni e l’esclusione di ogni rapporto tra essi e le anime dei defunti. Nel linguaggio
del N.T. si trova la parola δαίμονιον, invece di δαίμων, che viene evitato, perché
evoca l’idea di un essere intermedio fra Dio e l’uomo. Angeli e demoni sono
opposti e questa opposizione è, nel N.T., radicale.
Nella maggior parte dei racconti di guarigioni di ossessi si tratta di un demonio
che si impossessa di un uomo e distrugge e stravolge l’immagine e la somiglianza
di Dio. In queste condizioni il nucleo della personalità, quell’io che coscientemente
vuole ed agisce, rimane paralizzato da forze estranee che mirano
alla rovina dell’uomo e in qualche caso lo spingono fino all’autodistruzione. Nella
paralisi dell’io, gli spiriti si inseriscono come soggetto che parla. Gesù ha coscienza
di essere venuto a spezzare il potere del demonio e dei suoi angeli, poiché
[ 15 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 45
In Brevio, Roderigo è più meschino e attribuisce il tradimento al
contadino, ma in realtà il traditore è egli stesso.
La somiglianza più evidente tra Machiavelli e Le Fèvre contro Brevio
riguarda la scena degli strumenti nel momento in cui viene messa
in atto la cerimonia fittizia:
MACHIAVELLI:
Voglo, oltr’a di questo, che da l’uno canto de la piaza sieno insieme
venti persone almeno che habbino trombe, corni, tamburi, cornamuse,
cembanelle, cemboli56 et d’ogni altra qualità romori. [59 = 11r]57
LE FÈVRE
Et fist tant qu’il ot mainte paire
D’instrumens pour grant noise faire:
Muses, tabours, bacins, paelles,
Nacayres, trompes et viëlles;
De jongleurs se voult garnir
Pour son compaignon escharnir.
vv. 3977-3980
BREVIO
Voglio, oltre di ciò, che dall’uno de’ canti della piazza insieme raunati
siano li suonatori tutti di ogni sorte stormento con gli stormenti loro.
[59]
L’ipotesi del Di Francia, a questo proposito, è che Machiavelli
avrebbe rielaborato un testo in circolazione, i cui erano già state fuse
in lui è presente il regno di Dio nell’umanità. La guarigione di ossessi è quindi un
aspetto essenziale della vicenda dei vangeli e degli Atti, non per nulla i demoni
vengono cacciati con la potenza di Dio e non con uno scongiuro rivolto ad uno
spirito.
Il N. T. nega ai demoni quella divinizzazione, che invece è loro decretata dai
Greci; W. Foerster, Daimon, daimonion, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, fondato
da G. Kittel, continuato da G. Friedrich, a cura di F. Montagnin, G. Scarpat,
O. Soffritti, vol. II, Brescia, Paideia, 1966, pp. 741-790.
56 A tal proposito ricordiamo che nel Medioevo gli strumenti che iniziano con
il prefisso “cemb-” indicano strumenti a percussione, invece le “nacayres” non
corrispondono alle attuali “nacchere” come il nome potrebbe indurci a pensare,
ma rappresentano l’antenato dei “timpani”, cfr. M. Baroni, E. Fubini, P. Petazzi,
P. Santi, G. Vinay, Storia della musica, Torino, Einaudi, 1999.
57 Nelle cerimonie sacre venivano spesso utilizzati strumenti musicali. Scrive
Grazzini che, per quanto i membri del clero autorizzati dalla gerarchia non potessero
usarla, almeno tra il Cinque e il Seicento, i guaritori facevano spesso ricorso
alla musica; essi cercavano di portare i pazienti a uno stato di trance, considerato di
aiuto per ottenere la guarigione.
[ 16 ]
46 ALIDA SPADAVECCHIA
le due differenti correnti di satira contro le donne e contro i villani,
grazie alla trasmissione orale della storiella, «di bocca in bocca»58.
Nel momento in cui il diavolo, attonito, interroga Gianmatteo, Brevio
scioglie il finale con una trovata curiosa: il contadino finge di informarsi
presso le persone circostanti e di esserne alquanto stupito.
Sembiante facendo di non sapere nulla e di dimandarne alcuno de’
circostanti, tutto sbigottito disse: “Oimé, fratelmo! Quella che ne viene
in qua, accompagnata da que’ suoni, è moglieta”. [65]
Questa trovata teatrale è meno accentuata in Machiavelli, poiché il
diavolo crede, senza indugio, alla risposta del contadino, senza che
quest’ultimo compia ulteriori messinscene. In Le Fèvre è il medico
stesso che annuncia l’arrivo della donna, condotta appositamente per
costringere il diavolo ad abbandonare il corpo di cui si è impossessato
e per provocargli pene e dolore. Il lieto fine, per l’indemoniata, è assicurato
in tutte e tre le storie; al contrario il diavolo è costretto a tornare
all’Inferno pur di scappare dalla moglie.
La novella di Belfagor è conosciuta in ogni cultura e in ogni genere
di scrittura, vanta numerose interpretazioni nel corso dei secoli e dei
paesi, esistono tracce nella letteratura inglese, tedesca, serba, polacca,
boema, egiziana, indiana59.
È un tema molto comune anche nella tradizione orientale, «nel
Panchatantra, nel Çukasaptati, nelle Mille e Una notte e in altre raccolte60
», con un’eco di questa storia anche in Asia Minore, con una versione
pressoché identica a quella a noi nota61.
58 L. Di Francia, Novellistica, Milano, F. Vallardi, 1924, p. 693.
59 W.E.A. Axon, The Story Of Belfagor In Literature And Folklore, London, Kessinger
Publishing Company, 1902, pp. 19-20.
60 P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, cit., p. 11.
61 Nel libro di C. Swynnerton, Indian Nights’ Entertainment: Or, Folk-Tales from
the Upper Indus (http://folkpunjab.com/bibliography/folk-tales-from-the-upper-indus/),
London, E. Stock, 1982, pp. 298-301, è inclusa la novella «Fuzzle Noor and the
Demon». È la storia di due amici, Mahomed Bux e Amir Khan, sposati con due
donne, una delle quali, la moglie di Mahomed, è la terribile, ma bellissima, Fuzzle
Noor. Egli decide di ucciderla, gettandola in un pozzo con l’aiuto dell’amico, ma
ella riesce a salvarsi poiché cade sulla schiena del diavolo, che vive all’interno del
pozzo.
Il diavolo le chiede di diventare sua moglie ed ella acconsente a patto che egli
si faccia colpire un centinaio di volte con le ciabatte in testa, ogni mattina. Il diavolo
è sorpreso ma acconsente, data la bellezza della donna. Dopo un po’, stanco di
questo trattamento decide di scappare, assumendo fattezze umane e rifugiandosi
in una moschea, in cui si scopre che Mahomed lavora come derviscio.
[ 17 ]
LA NOVELLA DEL DIAVOLO CHE PRENDE MOGLIE 47
Lungi dal voler stabilire in questa sede se Brevio possa aver copiato
o meno Machiavelli, è importante invece cercare di capire se l’autore
fiorentino possa aver letto o ascoltato qualcosa riguardo l’exemplum
di Le Fèvre, autore all’epoca piuttosto conosciuto. Si potrebbe supporre
che, avendo compiuto alcune missioni in ambiente francese, già nel
1500 alla corte di Luigi XII di Francia62, egli avesse udito alcuni racconti
del celebre diavolo che prende moglie, e, una volta allontanatosi
dalla vita politica, molti anni dopo, abbia riutilizzato i vaghi ricordi di
quella nota vicenda, fondendoli con alcuni personaggi dell’ambiente
fiorentino e dell’ambiente francese. Colpisce infatti che siano proprio
Firenze, Napoli e la Francia i luoghi da lui introdotti, simboli degli
eventi della fine del XV secolo e dell’inizio del XVI.
È forse la Favola una summa della sua epoca, se volessimo vedere
in Carlo di Napoli la figura di Carlo VIII e in Luigi VII, re di Francia,
Luigi XII presso cui aveva effettuato alcune missioni. Forse Machiavelli
si può esser confuso nella scrittura di VII e XII63?
Per quanto riguarda la scena degli strumenti, anche in questo caso
Machiavelli può aver assemblato i ricordi che gli restavano della narrazione,
utilizzando quindi strumenti tipici dell’epoca; pertanto non
c’è da sorprendersi se essi risultino quasi identici.
Alida Spadavecchia
(Università di Bari)
Quest’ultimo scopre che egli è il diavolo e scopre anche che entrambi sono
vittime di Fuzzle Noor. Così il diavolo gli promette di farlo sposare con la bellissima
figlia del re, a patto che Mahomed nasconda il segreto, si impossesserà della
principessa e Mahomed le assicurerà che la libererà se ella acconsentirà a sposarlo.
Il diavolo però, giunto il momento, esita ad uscire. Allora, Mahomed lo spaventa,
facendogli credere che stia arrivando la moglie. Riesce a farlo scappare ma, di nuovo,
il diavolo si impossessa di un’altra fanciulla, la figlia del visir. Mahomed ricorre
allo stesso stratagemma e lo fa scappare una volta per tutte. http://archive.org/
stream/storybelfagorin00brevgoog#page/n26/mode/2up
62 E. Cutinelli-Rendina, Introduzione a Machiavelli, Roma-Bari, Editori Laterza,
2003, pp. 13-14.
63 Tesi avvalorata da Grazzini in F. Grazzini, Machiavelli narratore, cit., p. 126.
Cfr. note 36-38, p. 7.
[ 18 ]
MARCO ARNAUDO
Gli emblemi a teatro: Giovan Battista Andreini,
Emanuele Tesauro e Federico Della Valle
This essay investigates the influence of the Renaissance and Baroque
book of emblems on relevant Italian plays of the 17th century.
Such influence is analyzed in regard to specific theatrical instructions,
like in the cases in which costumes and machinery reproduce
images from emblem books on stage. At the same time, the presence
of emblematic images in 17th-century theater is also discussed in
connection to texts that stimulate readers and viewers to mentally
construct emblematic images in their own mind.
Questo saggio nasce da un seminario di dottorato sul teatro da me
tenuto a Indiana University, Bloomington, e intende descrivere l’influenza
del linguaggio dell’emblema rinascimentale e barocco su diverse
esperienze teatrali del Seicento italiano, dimostrando come il
riconoscimento di tale fonte implicita consenta di meglio definire il
significato e le intenzioni di importanti opere dell’epoca.
In occasione di quel seminario, durante il riesame dell’Amor nello
specchio di Giovan Battista Andreini in vista della discussione con gli
studenti (ai quali questo intervento è dedicato), mi è occorso di notare
un’insistenza troppo pervicace per essere casuale su di una serie di
“pitture immaginarie” a cui i personaggi del testo fanno continuo riferimento.
Ecco gli esempi:
1) Sufronio, anziano, assicurando di non essere innamorato di Lidia:
«Amor si dipinge così giovine seguitato da pargoletti, per insegnar
che non vuol compagnia di vecchi».1
1 G. B. Andreini, Amor nello specchio, Roma, Bulzoni, 1997, I, 4, p. 65. Su Andreini
cfr. (anche per la bibliografia) V. Tranquilli, La regola e la trasgressione: Dalla
Commedia dell’Arte al Don Giovanni attraverso Giovan Battista Andreini, Torino,
Aracne, 2011; F. Fiaschini, L’«incessabil agitazione»: Giovan Battista Andreini tra professione
teatrale, cultura letteraria e religione, Pisa, Giardini, 2007; N. Buommino, Lo
Specchio nel teatro di Giovan Battista Andreini, Roma, Atti della Accademia NazionaGLI
EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 49
2) Lelio, vittima dell’amore: «Amor […] è Nume troppo valoroso e
possente, tutti abbatte, e però gli antichi il dipingevano col Dio Pan a’
suoi piedi; e perché Pan vuol dire il tutto, però in quell’atto mostravano
che ’l tutto soggiogava».2
3) Il giudice: «La Giustitia mi sovvien d’averla veduta dipinta col
piede in terra e ’l capo in cielo, per dinotare che la giustizia è celeste, e
che il ministrator di Lei debbe sentenziando aver il capo nel cielo, per
non esser corrotto da cose terrene».3
4) Florinda, nell’alterco con Lidia in materia d’amore: «Signora lasciate
Amore, e sovvengavi che gli è dipinto fra ceppi, fra catene, fra
coltelli, perché spoglia di libertà e ci dà morte».4
5) Lidia, in risposta a Florinda: «E pur dipingono Amore tra le Grazie,
di stelle ornato, perché d’ogni grazia n’è favorevole, e dei celesti
beni n’è largo compartitore».5
Comprendere quale sia la tradizione visiva a cui queste indicazioni
fanno riferimento mi pare necessario non tanto (o non solo) per una
questione di schedatura delle fonti, quanto piuttosto per formarci
un’idea più precisa di quale sia l’effettiva opera-spettacolo che il testo
di Andreini implica e suggerisce.6 Come a partire da un certo dialogo
le dei Lincei, 1999; M. Rebaudengo, Giovan Battista Andreini tra poetica e drammaturgia,
Torino, Rosenberg & Sellier, 1994. Nella ormai corpulenta bibliografia sulla
Commedia dell’Arte, si vedano almeno S. Ferrone, Attori mercanti corsari: La commedia
dell’arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1993; Id., Arlecchino:
Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Roma-Bari, Laterza, 2006; A. Testaverde,
I canovacci della Commedia dell’Arte, Torino, Einaudi, 2007; S. Carandini, Teatro
e spettacolo nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2007; R. Alonge – G. Davico Bonino
(a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. I: La nascita del teatro moderno:
Cinquecento-Seicento, Torino, Einaudi, 2000; R. Ciancarelli, Sistemi teatrali nel
Seicento: Strategie di comici e dilettanti nel teatro italiano del XVII secolo, Roma, Bulzoni,
2008; L. Zorzi, L’attore, la Commedia, il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990; R.
Tessari, La Commedia dell’Arte: La maschera e l’ombra, Milano, Mursia, 1981.
2 G. B. Andreini, Amor nello specchio, cit., I, 6, pp. 69-70.
3 Ivi, I, 8, p. 73. Cfr. anche G. B. Andreini, La Centaura, Genova, Il melangolo,
2004, III, 9, pp. 150-151: «O Giustizia […] dipinta se’ col piede nel Mondo, e col
capo nel Cielo».
4 G.B. Andreini, Amor nello specchio, cit., III, 1, p. 94.
5 Ibidem.
6 Lo dice chiaramente il nostro autore nell’avviso dello Schiavetto «per li rappresentanti,
o vaghi di rappresentazioni»: il testo teatrale è uno schiavo, un prigioniero
della pagina in attesa di chi gli dia vita esprimendone le potenzialità specifiche
attraverso la messa in scena: «se, per aventura, a questo Schiavetto si concedesse
tanta libertà che dal ceppo si sciogliesse al teatro» (G.B. Andreini, Lo schiavetto,
in L. Favolti (a cura di), Commedie dei comici dell’arte, Torino, Utet, 1982, p. 65).
[ 2 ]
50 MARCO ARNAUDO
o da un certo ritmo di entrate e uscite il lettore avveduto cerca di ricostruire
virtualmente quale potesse essere la performance a cui lo spettatore
era invitato ad assistere in sala (con tutte le cautele del caso, si
capisce), altrettanto è possibile comprendere quali siano le immagini
pittoriche che il testo evoca, e che lo spettatore era chiamato a visualizzare
nella propria mente, in maniera non dissimile da quanto accadeva
per azioni fuori scena raccontate (e quindi create) dal solo testo
che si recita sul palco.
Analizzando in quest’ottica di ricostruzione iconica le “pitture”
evocate nell’Amor nello specchio, si nota subito che esse condividono
una fisionomia comune e chiaramente definita. Ognuna di queste immagini
rappresenta una figura allegorica principale (in quattro casi
Amore, in uno la Giustizia), colta con tratto svelto ma vivido in una
situazione o in un atteggiamento ben specifico – come Amore con Pan
ai piedi o tra i ceppi. L’assenza di ogni dettaglio ambientale ci fa situare
queste scene in un paesaggio neutro e privo di interesse proprio,
che non distrae dalla considerazione della figura centrale. Questo accorgimento
consente di concentrare un alto valore semantico intorno
al soggetto rappresentato, il cui senso allegorico viene opportunamente
svelato dai personaggi. Il soggetto dell’immagine «insegna», «dinota
», o è comunque strutturato in una certa maniera «perché» deve indicare
un determinato contenuto. Mi pare insomma che le “pitture”
che il testo di Andreini intende porgere all’immaginazione del pubblico
non siano tanto dei dipinti veri e propri quanto piuttosto degli emblemi,
e dell’emblema di tipo rinascimentale e barocco le battute
dell’Amor nello specchio riproducono infatti la pictura (qui descritta nelle
sue componenti essenziali) e la subscriptio esplicativa, riassunta in
una breve frase.7
Il genere degli emblemi, che pure ha origine ed enorme sviluppo
7 Cfr. L. Bolzoni – B. Allegranti, Con parola brieve e con figura: Libri antichi di
imprese ed emblemi, Lucca, M. Pacini Fazzi, 2004; J. Manning, The Emblem, London,
Reaktion, 2002; G. Cherchi, Tra le immagini: Ricerche di ermeneutica e iconologia,
Fiesole (Firenze), Cadmo – Siena, Centro Mario Rossi per gli studi filosofici, 2002;
I. Chisesi, Dizionario iconografico: Immaginario di simboli, icone, miti, eroi, araldica,
segni, forme, allegorie, emblemi, colori, Milano, Rizzoli, 2000; P. M. Daly – J. Manning
(a cura di), Aspects of Renaissance and Baroque Symbol Theory, 1500-1700, New York,
Ams Press, 1999; L. Innocenti, Vis eloquentiae: Emblematica e persuasione, Palermo,
Sellerio, 1983; G. Innocenti, L’immagine significante: Studio sull’emblematica cinquecentesca,
Padova, Liviana, 1981; G. Savarese – A. Gareffi, La letteratura delle immagini
nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1980. Su emblemi e teatro, C. Corti, Shakespeare
e gli emblemi, Roma, Bulzoni, 2002; P. M. Daly, Emblematic Drama, in Literature in
[ 3 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 51
nel Cinquecento, mantiene anche nel Seicento un notevole successo
editoriale, uno statuto intellettuale di tutto rispetto e una circolazione
di respiro internazionale, garantita quest’ultima anche dall’introduzione
del libro di emblemi gesuitico e dal fatto che diverse raccolte
emblematiche contenessero testi in più lingue.8 All’altezza dell’Amor
nello specchio (1622) non mancava un retroterra di raccolte emblematiche
che potessero fornire ad Andreini ispirazione per le proprie creazioni
allegoriche, e che garantissero, almeno per la parte più colta del
pubblico, una conoscenza del codice abbastanza diffusa da permettere
la corretta decodifica di quelle soluzioni testuali.
Quanto alle varie rappresentazioni di Amore menzionate prima,9
per esempio, Andreini poteva avere in mente delle raccolte di emblemi
amorosi quali gli Emblemata amatoria di Daniël Heinsius (con numerose
edizioni tra il 1601 e il 1619),10 gli Amorum emblemata di Otto
van Veen, pubblicati nel 1608 in varie lingue (tra cui l’italiano),11 o il
Thronus Cupidinis, di autore non identificato, che ebbe edizioni nel
1617, 1618 e 162012 – tutti libri affollati di Cupidi che inscenano una
serie infinita di situazioni. Per scendere più nello specifico, il secondo
degli emblemi di Andreini, con Amore ritratto «col Dio Pan a’ suoi
piedi», si riferisce a una nota tradizione simbolico-visiva che identificava
Pan con la totalità della natura. Così negli Hieroglyphica di Valeriano
(1555 e 1556) la commistione di umano e animale in Pan rapprethe
Light of the Emblem, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 1998,
pp. 153-186.
8 Cfr., anche per la bibliografia, G. R. Dimler, Studies in the Jesuit Emblem, New
York, Ams Press, 2007; Id., The Jesuit Emblem: Bibliography of Secondary Literature
with Select Commentary and Descriptions, New York, Ams Press, 2005; L. Salviucci
Insolera, L’Imago primi saeculi (1640) e il significato dell’immagine allegorica nella
Compagnia di Gesù: Genesi e fortuna del libro, Roma, Editrice Pontificia Università
Gregoriana, 2004.
9 Cfr. nella Centaura: «Amor fu dipinto fra Mercurio e Marte, per dir che ’n
Amore ci vogliono parole, e ardimento» (G. B. Andreini, La Centaura, cit., II, 4, p.
101).
10 D. Heinsius, Emblemata amatoria, Amsterdam, D. Pietersz, 1608. Cfr. J. Landwehr,
Emblem and Fable Books Printed in the Low Countries 1542-1813: A Bibliography,
Utrecht, HES Publishers, 1988.
11 O. Vaenius, Amorum emblemata, Antverpiæ, Venalia apud auctorem, 1608.
Per un’edizione moderna: Aldershot, UK, Scolar Press – Brookfield, Vt., Ashgate,
2003. Cfr. I. Baldriga – S. Danesi Squarzina, “Fiamenghi che vanno e vengono non li
si puol dar regola”: Paesi Bassi e Italia fra Cinquecento e Seicento: Pittura, storia e cultura
degli emblemi, Sant’Oreste (Roma), Apeiron, 1995.
12 P. T. L., Thronus cupidinis, Amsterodami, apud Wilhelmum Iansonium, 1620;
ristampa: Amsterdam, Universiteits-bibliotheek, 1968.
[ 4 ]
52 MARCO ARNAUDO
sentava la «universi mundi machina»;13 nel De vita (1606) Fortunio
Liceti rappresenta lo sforzo di comprendere la natura in una impresa
recante Mercurio che insegue Pan;14 nelle Imagini con la spositione dei
Dei degli antichi (1556) di Vincenzo Cartari si trova la connessione tra
Pan-mondo e Amore: «Adunque, perché tanto pò Amore, fu detto vincere
tutto, come che nullo altro a lui sia pare di forza, e finsero perciò
le favole ch’ei vincesse già pur anche il Dio Pan, che l’aveva provocato
prima».15 L’idea era apparsa anzi come emblema perfettamente formato
già nelle Symbolicarum quaestionum (1555) del professore bolognese
Achille Bocchi, dove si esprimeva esattamente l’idea del passaggio
di Andreini impiegando le medesime immagini.16
Va detto d’altra parte che per il nostro discorso non occorre rintracciare
una genalogia esatta degli emblemi attivati dal testo di Andreini
e metterli in rapporto uno a uno con immagini specifiche da libri che
precedono L’amor nello specchio. Qui interessa piuttosto attestare che
questo tipo di influenza figurativa poteva essere in atto, e che Andreini
doveva conoscere il linguaggio degli emblemi abbastanza bene da
sapersene avvantaggiare artisticamente nel corpo delle proprie creazioni.
Ciò stabilito, appare chiaro che un autore dalla vivacità inventiva
di Andreini sarebbe stato perfettamente in grado di impiegare quel
linguaggio in maniera originale, creando i propri emblemi verbali-
“virtuali”. Se insomma in molti casi le filiazioni dirette non si possono
delineare, non per questo va dimenticato che diversi momenti dello
spettacolo di Andreini nascono dalla sintassi allegorica dell’emblema,
e che entro tali coordinate essi vanno intesi.
All’apparenza si può magari temere che l’inserto testuale emblematico
risulti in una rappresentazione più fredda e cerebrale, dove
all’energia della recitazione si sovrappongono delle vignette descrittive
vagamente surreali (come sono quasi sempre le pitture degli em-
13 G. P. Valeriano Bolzani, Hieroglyphica, Lyon 1602, New York – London,
Garland, 1976, p. 93.
14 L’impresa è pubblicata e commentata in L. Bolzoni – B. Allegranti, Con
parola brieve e con figura: Libri antichi di imprese ed emblemi, cit., p. 123.
15 V. Cartari, Le imagini con la spositione dei Dei degli antichi, Venezia, Francesco
Marcolini, 1556, p. CVIIr. Cfr. C. Volpi, Le immagini degli dèi di Vincenzo Cartari,
Roma, De Luca, 1996, p. 565.
16 A. Bocchi, Symbolicarum quaestionum de universo genere: Bologna, 1574, New
York, Garland, 1979, pp. 160-161. Cfr. E. See Watson, Achille Bocchi and the Emblem
Book as Symbolic Form, Cambridge (UK), New York, Cambridge University Press,
2004; A. Angelini, Simboli e questioni: L’eterodossia culturale di Achille Bocchi e dell’Hermathena,
Bologna, Pendragon, 2003.
[ 5 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 53
blemi), e raggelate nella fissità di un messaggio di significato generale,
fuori dal tempo dell’azione. A ben vedere però l’inserto emblematico
non doveva poi turbare troppo la sensibilità del pubblico secentesco,
il quale nello spettacolo dell’Arte cercava non il nudo realismo ma la
resa e la permutazione sorprendente di gags fisse e probabilmente già
note, la rivitalizzazione inedita di maschere e ruoli ben codificati, il
virtuosismo dei centoni all’improvviso a partire da repertori di topoi
petrarcheschi (per gli Innamorati), di truismi latineggianti (per il Dottore)
e via dicendo. Uno spettacolo dunque che già nella sua configurazione
generale non nasce dal nulla ma si presenta come congerie di
reminiscenze culturali proposte in forma originale; di geniali reinvenzioni,
se si vuole, più che di invenzioni. All’interno di questo schema, l’emblema
costruito verbalmente non va che ad arricchire il patrimonio di
idee su cui l’attore si diverte a modulare variazioni inaspettate e a loro
modo colte.
Nella Centaura dello stesso Andreini, pubblicata nel medesimo anno
dell’Amor nello specchio, la tradizione emblematica si presenta in
forma anche più esplicita e diretta che negli esempi visti sopra. Qui
gli emblemi non sono solamente evocati dal testo ma appaiono addirittura
sulla scena per il tramite di attori e macchine teatrali, offrendosi
direttamente alla vista dello spettatore. È il caso della rappresentazione
allegorica della Giustizia Divina, che appare in scena nel terzo
atto, e che Andreini vuole sia rappresentata da un’attrice «di singolar
bellezza vestita d’oro, con una Corona d’oro in testa sopra la qual vi
sia una Colomba circondata di splendore [;] haverà i capelli sparsi
sopra le spalle, nella destra la spada ingnuda, nella sinistra le
bilancie»,17 in una descrizione che è tratta di puro peso dall’Iconologia
di Cesare Ripa:
Donna, di singolar bellezza, vestita d’oro, con una Corona d’oro in testa,
sopra alla quale vi sia una Colomba circondata di splendore; avrà
i capelli sparsi sopra le spalle, e gli occhi rivolti al Cielo, tenendo nella
mano destra la Spada ignuda, e nella sinistra le Bilancie.18
Nella trasposizione di Andreini manca solo lo sguardo rivolto al
cielo, ma per il resto la somiglianza è completa, e l’effetto, per chi assiste
alla messa in scena, è che l’emblema si sia liberato dalla pagina a
stampa e si sia fatto apparizione teatrale.
17 G. B. Andreini, La Centaura, cit., ordine delle robe per III, 6, p. 182.
18 C. Ripa, Iconologia, Roma, Eredi di Gio. Gigliotti, 1593, p. 107.
[ 6 ]
54 MARCO ARNAUDO
Un altro emblema si presenta nella Centaura all’inizio dell’atto secondo,
e in maniera persino più ardita. Siamo alla scena in cui il centauro
Plageone, discendente di una stirpe nobilissima che risale fino a
Nesso e al Centauro celeste, rinfaccia alla moglie Rosibea i di lei natali
oscuri e presumibilmente modesti. Il mago Astianante invoca l’aiuto
del cielo per risolvere la questione, ed ecco che prontamente discende
sulla scena una nube da cui fuoriesce un braccio che porge a Rosibea
una corona d’oro, simbolo della sua discendenza regale.19 La realizzazione
di un apparato del genere, la cui effettiva presenza scenica è
confermata dalle indicazioni per recitare l’opera,20 non era certo fuori
dalla portata dell’attrezzeria teatrale secentesca. Nella Pratica di fabricar
scene e machine ne’ teatri di Nicolò Sabbatini (1638) si trovano istruzioni
su come costruire nuvole che volino in ogni direzione, mutino
colore, si moltiplichino o ingrandiscano a vista d’occhio, o anche, più
semplicemente, che trasportino delle persone.21 Sul piano tecnico Andreini
poteva dunque avere pensato a una nuvola di legno sorretta da
funi, con dentro nascosto un aiutante che al momento giusto avrebbe
allungato all’infuori un braccio per porgere la corona a Rosibea.
Sul piano dell’ispirazione, però, sembra improbabile che l’immagine
sia derivata ad Andreini dalla letteratura o dalla pittura, quando
19 G.B. Andreini, La Centaura, cit., II, 1, p. 92. Un altro emblema con braccio,
nella Centaura, è descritto da Fermino: «se la spada questo gran Punitore celeste
tiene ad ogn’hora sfodrata nella mano, sappiasi parimente, che ’n su l’acuta punta
un bellissimo e vivace Occhio mantiene aperto; dir volendo, ch’alla superna Maestà
si disdice alla cieca ferire» (ivi, III, 6, p. 142). L’immagine ricorda un simbolo che
ritorna varie volte nelle Le imagini con la spositione dei Dei degli antichi di V. Cartari:
per indicare Apollo gli egizi «facevano uno scettro regale e vi mettevano un occhio
in cima; e lo chiamarono anchora alle volte occhio di Giove, come ch’ei vedesse
l’universo e lo governasse con somma giustitia, perché lo scettro mostra il governo
» (ivi, p. XVIIv); «Et che nelle Statoe dei Dei mostrassero gli antichi qual’era
l’ufficio del Signore, Plutarco lo fa manifesto, scrivendo che in Egitto tra le sacre
loro dipinture quando volevano rappresentare il Re facevano uno scettro con un
occhio in cima» (ivi, p. XXXIIr). Ulteriori emblemi della regalità nella Centaura: «gli
Egiti alhor che dipingevano lo scettro Reale, nella parte superiore gli ponevano
una testa di Cicogna, simbolo della pietà, e nell’inferiore una testa di Cavallo Marino,
simbolo di severità; con questo Geroglifico mostrar volendo che nell’amministrar
la Giustizia, debbe il Principe accompagnar la severità con la pietà» (G.B.
Andreini, La Centaura, cit., III, 9, p. 151); «dovrà parimente assomigliarsi il Grande
a quella figura celeste, che vista fu con due faccie una d’huomo l’altra di Leone la
faccia d’uomo accenna l’umanità, quella di Leone la severità» (ibidem).
20 Ivi, ordine delle robe per II, 1, p. 179.
21 N. Sabbatini, Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri, Roma, Carlo Bestetti,
1955; II, 43-45, pp. 107-116.
[ 7 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 55
nell’ambito dell’emblematica il motivo del braccio che fuoriesce dalle
nuvole è oltremodo comune, e rappresenta di norma o Dio, o comunque
il divino, o l’origine divina del simbolo che viene sorretto dal
braccio stesso. Pochi anni prima della Centaura di Andreini la Minerva
Britanna (1612) di Henry Peacham si apriva proprio con la mano divina
che scende dal cielo reggendo la corona di Giacomo I,22 e la medesima
immagine si trovava nella raccolta di divise di Claude Paradin23
a simboleggiare le gravi responsabilità dei regnanti.
A proposito dell’opera di Paradin va notata anche la somiglianza
tra l’emblema “Tu decus omne tuis”, dove una mano celeste regge una
lingua di leone,24 e una delle battute della Centaura in cui si tessono le
lodi dell’eloquenza:
Se gli Egizi per simboleggiar che ’l discorrer felice era dono celeste,
dipingevano una mano, che spuntava dal Cielo, fra le dita una lingua
tenendo; ben in questo, altro alla lontana accennar non volevano, che
la nascita di così grand’ huomo celestemente eloquente.25
Il significato in Paradin è abbastanza diverso, ché l’immagine lì si
riferisce alla fama di valoroso ottenuta da Lisimaco strappando la lingua
a un leone, ma la riproposta della connessione emblema-linguamano-
cielo-gloria in Andreini rimane troppo precisa per non essere
almeno notata.26
Negli anni di cui ci stiamo occupando, un ulteriore fattore che poteva
incoraggiare gli scambi tra teatralità ed emblematica era la stretta
correlazione che questi ambiti intrattenevano nella tecnica di visualizzazione
mentale diffusa dai gesuiti attraverso gli Esercizi spirituali di
Ignazio di Loyola. Nella pratica di tali esercizi l’orante è chiamato a
immaginare soggetti sacri che possiedano la determinazione spaziale
e la perspicuità della scena teatrale, in connessione, al contempo, con
22 H. Peacham, Minerva Britanna, London, printed by Wa: Dwight, 1612, p. 1.
23 C. Paradin, “Ecquis emat tanti sese demittere”, in Devises heroïques, Lyon, Jean
de Tournes and Guillaume Gazeau, 1557, p. 82. Il libro aveva conosciuto numerose
edizioni tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento, e veniva ristampato
una volta di più proprio nel 1622 a Parigi, dove Andreini andava stendendo
La Centaura.
24 C. Paradin, “Tu decus omne tuis”, in Devises heroïques, cit., p. 149.
25 G. B. Andreini, La Centaura, cit., I, 1, p. 56.
26 Il riferimento di Andreini agli «egizi» fa pensare agli Hieroglyphica di Valeriano,
dove in effetti si trova una connessione simbolica tra mano ed eloquenza (G.
P. Valeriano Bolzani, Hieroglyphica, cit., p. 365), connessione comunque mantenuta
su un piano piuttosto generico.
[ 8 ]
56 MARCO ARNAUDO
la pregnanza semantica dell’emblema. Anzi tanto risultava evidente
l’intreccio dell’ambito teatrale con quello emblematico negli Esercizi
che, sulla scorta di essi, i gesuiti sentivano di poter impiegare il palco
teatrale fisico quale corrispettivo di quello mentale. Come ha notato
Marc Fumaroli, «il primo capolavoro della tragedia gesuita», il Christus
Judex (1573) di Stefano Tucci, «è una drammatizzazione scenica
degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio»,27 mentre nella Tragoedia Flavia
(1600) del padre Bernardino Stefonio «l’antitesi fra Apollonio di Tiana,
circondato dalla sua schiera di neri demoni, e l’apostolo Giovanni, circondato
da cori di giovani cristiani, è una versione scenica della Meditazione
dei due stendardi»28 come descritta negli Esercizi.29 Né quest’ultimo
è un caso unico, se nel 1666 il gesuita Francesco Zuccarone riprende
la stessa idea per ben due volte nella tragedia Il Leone Armeno: una
nel prologo, dove appaiono «due cori di Fabbri, uno candido e l’altro
bruno», che «prenderanno da una parte corone e scettri e da un’altra
spade, fulmini e tridenti»,30 e un’altra volta quando due schiere di spiriti
mettono in scena una battaglia tra le forze del bene e quelle del
male: «ognun guidi sua schiera e ciò che deve / in questi due gran
duci oggi accadere, / anticipatamente in questo luogo / scherzando
a
noi mostrate».31
Nella stessa ottica di derivazione e dipendenza dagli Esercizi va
inteso lo sviluppo del libro d’emblemi gesuitico a partire sempre nel
medesimo periodo dal Veridicus Christianus (1601) di Jan David, opera
che origina un tipo di letteratura morale apparentata agli Esercizi dalla
caratteristica di generare immagini edificanti nella mente del lettore
(qui con l’ausilio di illustrazioni), e che condivide con il teatro la possibilità
di interazione e rinforzo reciproco tra immagine e parola, con
un effetto di maggiore impatto emotivo e di più facile ritenzione mnemonica.
27 M. Fumaroli, “Il «Crispus» e la «Flavia» di Bernardino Stefonio”, in Eroi e oratori,
Bologna, Il mulino, 1990, pp. 197-232; pp. 199-200.
28 Ivi, p. 209.
29 I. di Loyola, Esercizi spirituali, Milano, Mondadori, 1994, p. 39: «Il quarto
giorno, meditazione sulle due bandiere, una di Cristo supremo capitano e signor
nostro; l’altra di Lucifero, nemico mortale della nostra umana natura. […] Composizione
visiva del luogo; qui sarà il vedere un grande campo militare in tutta quella
regione di Gerusalemme, dove il supremo capitano generale dei buoni è Cristo
nostro Signore; altro campo nella regione di Babilonia, dove il condottiero dei nemici
è Lucifero».
30 F. Zuccarone, Il Leone Armeno, Salerno, Edisud, 2007, p. 47.
31 Ivi, p. 89.
[ 9 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 57
Un buon esempio di simili scambi tra pagina emblematica e palco
può provenire dalla tragedia Edipo (1661) di Emanuele Tesauro, un
intellettuale sul quale le influenze della cultura gesuitica sono innegabili.
Prendiamo in esame un momento di particolare impatto visivo
nel testo, il rituale in cui Manto e Tiresia cercano di scoprire l’identità
dell’assassino di Laio. La fonte dichiarata è l’Edipo di Seneca, e il passaggio
in questione era stato trasposto pochi anni prima della tragedia
di Tesauro anche nell’Aristodemo (1657) di Carlo de’ Dottori. Per comprendere
meglio il carattere dell’operazione tesauriana conviene anzi
paragonare brevemente i testi.
Nell’Aristodemo è Amfia, la madre della protagonista, a rievocare
una serie di auspici nefasti a cui ha assistito, e sebbene il contesto narrativo
sia completamente diverso de’ Dottori nell’insieme si mantiene
però piuttosto vicino al dettato senecano:32
Ma. Non una facies mobilis flammae fuit:
imbrifera qualis implicat uarios sibi
Iris colores, parte quae magna poli
curuata picto nuntiat nimbos sinu
(quis desit illi quiue sit dubites color),
caerulea fuluis mixta oberrauit notis,
sanguinea rursus; ultima in tenebras abit.
Sed ecce pugnax ignis in partes duas
discedit et se scindit unius sacri
discors fauilla – genitor, horresco intuens:
libata Bacchi dona permutat cruor
ambitque densus regium fumus caput
ipsosque circa spissior uultus sedet
et nube densa sordidam lucem abdidit.
quid sit, parens, effare.
Am. Né serena la fiamma al ciel drizzossi
32 Seneca, Edipo, Milano, Garzanti, 1993, vv. 314-30, pp. 64 e 66; C. de’ Dottori,
Aristodemo, Torino, Einaudi, 1976, II, 36-47, p. 33. Il parallelo prosegue con la
descrizione del sacrificio del toro (Seneca, vv. 334-44, 353-60, p. 66), abbreviato in
Carlo de’ Dottori ma mantenendone intatti i punti essenziali: «non cadde il toro
al primo colpo esangue, / ma ferito, muggendo / fuggì dal sacerdote, e dopo un
breve / furïoso rotar, stanco, a gran pena / col sangue vomitò l’alma ritrosa. /
Nella vittima aperta / più crudeli minacce apparver poi. / S’ascose il cor nel sangue,
/ né sorgea capo alcun: scotea le fibre / alto tremor. Sparse di fele tutte / son
le viscere infauste, / né v’è segno infelice / che non s’osservi in lor» (C. de’ Dottori,
Aristodemo, cit., vv. 48-60, pp. 33-34).
[ 10 ]
58 MARCO ARNAUDO
né con fulgida cima,
ma incerta, ottusa e fiacca,
gì serpendo all’intorno, e d’atro fumo
sparse torbidi flutti. Un color solo
non ritenne, o un aspetto,
ma qual iride curva apre confuso
il sen dipinto, e non distingue alcuno
terminato confin tra l’ostro e ’l croco,
così la fiamma ora cerulea e mista
di bionde note, ed or sanguigna, alfine
in tenebre fuggì.
De’ Dottori si premura anche di mantenere il senecano senso di
mistero assoluto, di completa imperscrutabilità degli dei, davanti alla
quale i testimoni possono avvertire l’incombere di una terribile disgrazia
ma non formulare interpretazioni precise.33
Così è adattata invece la scena da Tesauro:
Ma. Un sol color [la fiamma] non ha: ma quanti al crine
Iri si attorce, allor che nunzia infausta,
tuoni al monte minaccia, e nembi al campo.
La suprema corona è lucid’oro:
nera pece la base, è sangue il mezzo.
Ti. Illustre è il malfattor: ma sconosciuto
dentro del cieco obblio vedo il natale.
Dimmi se sorge acuminato il fuoco
quasi d’africo obelisco; o in guisa d’arco
la sua chioma lucente all’aura sparge.
O se tergiversando in densi giri
di fumosi viluppi, al suol ricade.
Ma. Si ricurva la fiamma, e lambe il suolo
Ond’ella nacque.
Ti. Manifesto segno
ch’egli è tebano, e non istrano il reo.
Ma. O dei! Prima cadea curva la fiamma,
quasi cerchio confuso; or bipartita
seco duella: e le faville istesse
s’accozzano fra loro, e fansi guerra.
Ti. Né infecondo né celibe è costui;
[…] avrà ministra
d’odio la donna, e di duello i figli. […]
33 Tiresia: «Quid fari queam / inter tumultus mentis attonitae uagus? / quidnam
loquar?»; Amfia: «Or che fia ciò? Non è placato il Cielo: / cagione ho di temer.
[…] Pur attonito stava il sacerdote, / e lo temeva» (Ivi, vv. 65-66, 68-69, p. 34).
[ 11 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 59
Ma. Un chiaro globo è uscito
dal sacro vaso: e dentro al vaso istesso
dopo un vago splendor tutto s’immerge,
e di sangue corrotto il color prende. […]
Ti. Adesso intendo
ciò che dir non osava il Dio di Delfo.
«L’osceno ritornò là d’onde è nato».
Cose enormi ci disse in voci oneste.
Or troppo l’intend’io. Quel parricida,
della sua genitrice è figlio e sposo.34
Se permangono in generale delle tessere intertestuali derivanti da
Seneca, l’esperienza piromantica narrata si trasforma però in Tesauro
in una serie di immagini che il sacerdote riesce a interpretare senza
problemi, e il manifestarsi portentoso degli dei appare frazionato in
una serie di componenti visive dotate ognuna di un senso ben definito:
la triplice fiamma sta per la posizione illustre del reo, la fiamma
doppia per la discordia familiare, il globo di sangue per l’incesto, e via
dicendo.35 Anche il fatto che le fiamme delineino la forma di una corona
intensifica il valore semantico dell’apparizione e la rende efficace
allegoria visiva della regalità corrotta. La bolla di sangue marcio, aggiunta
alla scena dall’immaginazione di Tesauro, consente di spiegare
anche i dettagli più sconvolgenti della profezia, riducendo il più possibile
l’ambito dell’asemantico e dell’inspiegato.
Qui esiste insomma tra la divinità e le creature un rapporto di comunicazione
simbolica quale non troviamo in Seneca o in de’ Dottori,
ma che corrisponde agli “ostenti” del Cannocchiale aristotelico, ovvero
a parte di quelle “argutezze angeliche” tramite cui il Cielo comunica
per cifra con gli esseri umani.36 Per il Tesauro del Cannocchiale e del34
E. Tesauro, Edipo, Venezia, Marsilio, 1987, II, 502-521; 523-524; 535-538; 543-
548; pp. 106-107.
35 Se alla fine del rito manca ancora il nome del colpevole ciò avviene perché
gli dei non lo hanno rivelato («è cancellato / dagli annali del ciel»), e non perché
Tiresia abbia fallito nell’interpretazione di un messaggio. Cfr. ivi, vv. 551-554, 556,
560-561, pp. 107-108: «TI. Ma osserva figlia, se tra le fiamme / che non son del
Nume mio lingue più fide, / appare alcun carattere distinto, / che di questo ribaldo
il nome esprima. / […] MA. Padre, non ne comprendo alcun vestigio. / […] TI.
Dunque per questa via fatico indarno / d’investigar l’abominando nome». Su cui
P. Frare, La tragedia dell’hybris interpretativa, in Retorica e verità: Le tragedie di Emanuele
Tesauro, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1998, pp. 124-137, soprattutto
pp. 129-130.
36 E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, Torino, Bartolomeo Zavatta, 1670 (ed.
facsimile, Savigliano, Artistica piemontese, 2000), pp. 70-71: gli «ostenti […] an[
12 ]
60 MARCO ARNAUDO
l’Edipo intercorre dunque tra il divino e l’umano il medesimo rapporto
che sta tra un ideatore di emblemi o imprese e l’interprete-destinatario
di quei prodotti.
Da un punto di vista strettamente teatrale, poi, all’altezza dell’Edipo
di Tesauro era ormai già disponibile la lampada magica di Kircher,
e non era dunque impensabile l’idea di proiettare in scena le figure
descritte da Manto. Tra l’altro, coincidenza suggestiva, in un’illustrazione
dell’Ars magna lucis et umbrae che mostra la macchina ottica in
azione, si vede proiettata sul muro proprio una figura avvolta tra le
fiamme.
Se le tecniche meditative propagate dai gesuiti potevano avere evidenziato
la potenziale intercambiabilità tra la scena teatrale e la vignetta
emblematica, vale senza dubbio la pena indagare se non si
muova lungo linee simili anche la drammaturgia controriformistica di
Della Valle, già per altri versi collegabile a quella gesuitica,37 e, come
concordano tutti gli studiosi, fatta per la lettura e per la visualizzazione
mentale anziché per il palco.38 Proprio questo aspetto costantemente
sottolineato dalla critica ci invita di nuovo a interrogarci sul tipo di
immagine mentale che il testo intende far visualizzare al lettore, e a
chiederci se tra quelle immagini non ve ne possano risiedere alcune di
carattere emblematico. Per le ragioni che si vedranno più avanti mi
sembra che l’opera ideale su cui testare questa ipotesi sia la Reina di
Scozia, le cui varie redazioni, approntate negli anni ’90 del Cinquecench’essi
altro non sono che argutezze geniali, rappresentate non alla imaginazion
fallace, ma agli occhi fedeli e vigilanti, in pegno delle cose future […]. Nella Tracia,
sacrificando Sabino al Libero padre, dal vino sparto in su l’altare avampò tanta
fiamma, ch’empiendo il tempio, e transcendendo il colmo, volò fino alle stelle; il
che veduto, i sacerdoti gli dissero: «Tanto splendore, o Sabino, ci denonzia esserti
nato il signor del mondo», e questi apunto fu Vespasiano, allora natogli».
37 M. Durante, Per una biografia culturale, in F. Della Valle, Opere, Messina,
Sicania, 2000, I, pp. 7-43; pp. 14-15: Della Valle «auspicava la circolazione [della
Reina] in ambito gesuitico, come lascia credere la piena appropriazione dell’esasperato
controriformismo teatrale della Compagnia di Gesù, adottato addomesticando
la Poetica aristotelica ai criteri di una nuova funzione catartica».
38 Su Della Valle, cfr. L. Sanguineti White, Dal detto alla figura: Le tragedie di
Federico Della Valle, Firenze, Olschki, 1992; M. Durante, Restauri dellavalliani, Catania,
Facoltà di lettere e filosofia, Università di Catania, 1984; S. Raffaelli, Aspetti
della lingua e dello stile di Federico Della Valle, Roma, Bulzoni, 1974; Id., Semantica
tragica di Federico Della Valle, Padova, Liviana, 1973; F. Croce, Federico Della Valle,
Firenze, La nuova Italia, 1965; G. Getto, Il teatro di Federico Della Valle, in Il Barocco
letterario in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 165-199.
[ 13 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 61
to e nei ’20 del Seicento, coincidono cronologicamente con lo sviluppo
della tragediografia e dell’emblematica dei gesuiti.
A un livello molto generico e anzi persino banale, la drammaturgia
per la lettura della Reina di Scozia genera immagini proprio in quanto
scena virtuale, scatola cubica che il lettore costruisce mentalmente in
base alle informazioni contenute nel testo, proprio come si farebbe,
nel caso degli Esercizi, trasformando dei contenuti verbali in una serie
di vedute mentali dalle caratteristiche spiccatamente teatrali. L’operazione
riesce particolarmente immediata nella Reina, dove si afferma
che «son le parole imagin de le cose»,39 e dove un particolare effetto di
perspicuità visiva deriva dalla concentrazione spaziale assoluta e dall’esilità
e prevedibilità della trama, che consente di focalizzarsi non su
cosa accade ma su come la scena ideale si mostra.40
Tale scena, tenacemente fissa, è costituita dal cortile disadorno in
cui Maria è autorizzata a trascorrere all’aperto qualche ora della sua
prigionia. Gradualmente lungo il corso della tragedia il racconto di
vari personaggi evoca poi degli spazi laterali a loro volta estremamente
essenziali; “vediamo” allora da una parte i disadorni appartamenti
di Maria, in cui l’unico oggetto di rilievo sembra esser un crocefisso
appeso al muro, e dall’altra parte la stanza dell’esecuzione, in cui domina
un catafalco coperto di drappi neri, illuminato da due fiaccole e
sormontato da una ghigliottina (vi si aggiunga il bianco del collo di
Maria
e il rosso del sangue versato, e siamo alla tavolozza caravag39
F. Della Valle, La reina di Scozia, in Opere, cit., pp. 121-187; vv. 2037-2043, p.
174: il coro al maggiordomo che ha assistito all’esecuzione: «Dolor sent’io quanto
sentir può un core. / Ma se stimi che cresca / veduto mal, dipingimi parlando /
l’orribil
accidente: / son le parole imagin de le cose, / e ne l’imagin forse / sentirò
quel che tu nel ver sentisti». F. Croce (Federico Della Valle, cit., p. 25), a proposito
della Reina: «Al Della Valle fantasticamente appassionato alla politica e alla vita di
corte importa farci vedere concreti paesaggi che con il loro realismo pittoresco
esaltino la carica romanzesca delle vicende rappresentate».
40 S. Raffaelli, Semantica tragica di Federico Della Valle, cit., pp. 238-239, 241: la
«parsimonia di aperture verso l’ambiente esterno non consente di potenziare per
contrasto quel senso di chiuso che aleggia sulla tragedia […]. Il poeta insiste invece
sulle allusioni alla ristrezza dell’ambiente in cui i personaggi sono costretti a
muoversi […]. Potremmo dire in conclusione che la spazio-temporalità della Reina
non ha né la mobilità prospettica della Judit, né l’astrattezza integrale della Ester».
Raffaelli trova che questo spazio assoluto e generico, a cui manca un contrasto con
l’esterno, non sia in grado di suggerire efficacemente i limiti del carcere e la claustrofobia
della situazione (Ivi, p. 239). Va aggiunto però che proprio questa qualità
indeterminata del fondale indebolisce il realismo delle figure che vi si stagliano
contro, e al contrario ne aumenta le potenzialità allegoriche.
[ 14 ]
62 MARCO ARNAUDO
gesca).41 Sono insomma spazi rarefatti che tanto individualmente che
come trio organico risultano estremamente semplici da visualizzare, e
sui cui neutri fondali le sagome dei personaggi e i pochi arredi di scena
spiccano con grande limpidezza, appunto da figura di emblema.
In tale ambiente ogni elemento assume una grandezza statica e distante,
che invita di continuo alla lettura allegorica. La contrapposizione
delle due stanze laterali si lascia interpretare facilmente come
raffigurazione di un contrasto insanabile tra il mondo intimo, privato,
semplice e rassicurante della fede (la camera col crocefisso) e quello
pubblico, artificiale e violento della ragion di stato (nella stanza
dell’esecuzione). Allo stesso modo la postura di Maria poco prima di
morire, col corpo pesante che incespica e col volto perennemente rivolto
verso l’alto42, traduce in termini visivi inequivocabili la differenza
di qualità tra il corpo materiale, destinato a cadere, e il trionfo
dell’anima, che già quasi sta per spiccare il balzo verso il cielo.
E poi: perché a fine tragedia riportare in scena, in piena vista (mentale)
del lettore, il corpo orrendamente mutilato di Maria?43 È un evento
inessenziale da un punto di vista narrativo (la storia è comunque
finita) e forse anche poetico, in quanto i lamenti delle damigelle e della
cameriera potevano aver luogo anche con il cadavere fuori scena,
secondo la più convalidata tradizione. L’apparizione del cadavere
mutilato ha però un fortissimo impatto visivo, e crea un’immagine
41 G. Getto, a proposito della Judit, parla di «effetti luministici […] di un gusto
ricco e sottile, che fanno pensare a certa pittura prebarocca o barocca, da un Tintoretto
a un Caravaggio» (G. Getto, Il teatro di Federico Della Valle, cit., p. 170).
42 F. Della Valle, Reina di Scozia, cit., vv. 1831-1833, 1838-1842, p. 169: Coro:
«Mira la mia reina, / mirala in mezzo a duo ministri crudi, / con gli occhi fissi al
cielo. / […] Mira, misera, come / move languida il passo! / Ahi ch’a pena la regge
/ il debil piè cadente! Ma la fronte / nulla scopre di doglia o di paura». Inoltre:
Maggiordomo: «ella ha fatto / forza sopra il mio braccio per salire / il primo grado
de l’orribil scena, / dove a pena ha potuto alzar il piede. / Così l’han presa duo più
a me vicini; / et appoggiata a lor, senz’altro dire, / è giunta al sommo con piè grave
e infermo, / ma con fronte alta e lieta» (vv. 2253-2260, pp. 179-180).
43 Ivi, vv. 2493-2495, 2500-2507, pp. 185-186: Messo: «Deponete, ministri, il
freddo corpo, / e lasciaten la cura / a chi d’averne cura»; Coro: «Tolgasi il panno
oscuro, / e sorga a gli occhi lagrimosi e tristi / vista molto più oscura. / Ohimei,
ohimei,
ohimei!»; Cameriera: «Così dunque ti veggio, e così torni / a me, o mia
reina? / Maledetta la man che mi ti rende / in sì misera forma!». L’ostensione del
corpo tragico ritorna anche nella Iudit, col cadavere ugualmente decapitato di Oloferne.
Le due scene sono tanto strettamente connesse da inglobare formule praticamente
identiche: nella Reina: Coro: «Ahi miserabil tronco, / miserabil avanzo /
di misera padrona» (vv. 2544-2546, p. 187); nella Iudit: Arimaspe: «Miserabile tronco,
/ miserabile avanzo / di misero signore» (ivi, vv. 2943-2945, p. 265).
[ 15 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 63
memorabile a cui si possono appuntare svariate moralizzazioni, da un
ulteriore monito contro la ragion di stato a un’accusa verso la politica
dei protestanti. Era già stato d’altronde Walter Benjamin a vedere
nell’esibizione del cadavere martirizzato una componente emblematica
del dramma barocco tedesco, in cui la morte produce un oggetto
inanimato e lo smembramento isola quelle specifiche parti anatomiche
(mani, torsi, piedi) che il linguaggio emblematico spesso predilige
rispetto alla figura intera. Il martirio, insomma, prepara la strada
all’emblema.44
Quanto poi alla scena in cui Maria, la cameriera e le damigelle affrontano
gli emissari di Elisabetta venuti a recare la condanna,45 a
questo punto viene da chiedersi se il testo non ci stia invitando a visualizzare
una sistemazione simile a quella nella Meditazione dei due
stendardi.
L’immagine della Reina di Scozia che più si staglia dal flusso del
testo come pienamente emblematica è in ogni caso quella della protagonista
che prega in ginocchio nella sua stanza, e che il servo vede
per solo una frazione di secondo attraverso l’aprirsi e chiudersi della
porta:
Indi con una chiave,
ch’al lato le pendeva, [la cameriera] ha un uscio aperto,
et, entrata, il riserra; ma sì tosto
non l’ha potuto far, che colà entro
non mi si sia scoperta la reina
che ginocchion premea lastrico nudo
senza coscin, senza tapeto, e gli occhi
fissi alti in una croce al muro appesa.46
La regina viene qui descritta secondo una mentalità che è già fotografica,
e lo dico assolutamente fuor di metafora. Fotografica è la tecnica
con cui Della Valle seleziona un brevissimo segmento del continuum
temporale adoperando la porta come diaframma, e fotografica è
l’immagine che appare all’occhio e alla mente del servo – una perfetta
riproduzione del vero che però raggela il proprio soggetto in una posa
fisica, un atteggiamento mentale e una situazione ambientale del tutto
immutabili. Più oltre nel testo la regina esce dalla stanza a colloquiare
44 Walter Benjamin, The Origin of the German Tragic Drama, London-New
York, 1998, p. 217. Cfr. anche P. M. Daly, Emblematic Drama, cit., p. 166.
45 F. Della Valle, Reina di Scozia, cit., vv. 1366 e segg., p. 157.
46 Ivi, vv. 668-675, p. 140.
[ 16 ]
64 MARCO ARNAUDO
col servo, ma questa pare proprio un’altra Maria; è una Maria viva che
si muove, che parla, e che è nel tempo. La distanza con l’immagine precedente
ne viene casomai rimarcata. Quella regina inginocchiata e sottomessa
all’autorità del crocefisso, incorniciata dal vano della porta,
resterà per sempre una figura a parte, un emblema compiuto che ci
insegna come gli esseri umani anche più grandi possono trionfare soltanto
umiliandosi davanti alle ragioni della fede.
Il tema dell’umiltà vincitrice (connesso a quello complementare
dell’arroganza punita) è particolarmente caro a Della Valle, e certo
non avveniva per caso che in una società fortemente gerarchica, conservatrice
e traumatizzata dalla secessione protestante, come era l’Italia
della Controriforma, gli artisti tendessero a evidenziare una virtù
essenzialmente passiva e fatalistica come l’umiltà, stigmatizzando duramente
l’arroganza dell’ambizione. Della Valle mostra interesse per
l’argomento innanzitutto dedicando le sue due tragedie bibliche a
Maria Vergine, la donna che sottomettendosi a Dio ha raggiunto la
massima gloria. Lo stesso tema è sviluppato nella Iudit tramite l’abbandono
totale della protagonista alla volontà di Dio, e viene esplorato
ampiamente nella Ester, con la vittoria riportata dalla protagonista
tramite suppliche a Dio e al marito, e con la punizione del consigliere
tracotante. Ester e la madre di Gesù sono anzi rappresentanti talmente
topici di questa idea che le loro storie vengono combinate in un emblema
gesuitico del Veridicus Christianus di Jan David (coevo alle tragedie
dellavalliane) dal titolo eloquente di “Humillimus, Deo acceptissimus”,
47 dove si vede in alto Maria accolta in cielo, col motto «qui se
humiliat, exaltabitur», mentre in basso sta il motto «qui se exaltat, humiliabitur
», collocato a metà tra il volto di Lucifero, la cui superbia è
punita con l’esilio all’Inferno, e l’arrogante Aman, costretto a onorare
il suo nemico Mardocheo.
A proposito di questo emblema va notato che grazie allo stato delle
tecniche teatrali dell’epoca sarebbe stato perfettamente possibile
realizzare in scena le tre sezioni dell’immagine in questione (Inferno,
strada, cielo). La parte centrale poteva ottenersi semplicemente con un
gruppo di attori davanti a un fondale dipinto, la parte bassa con botole
nel palco da cui fuoriescono vampate di fuoco e attori vestiti da
demoni, e la parte in alto con nuvole meccaniche e seggiolini sospesi
con dei cavi. Di tecniche per costruire marchingegni del genere ne
47 J. David, Veridicus Christianus, Antverpiae, ex officina Plantiniana, 1601, p.
230a.
[ 17 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 65
vengono esemplificate diverse nel trattato di Sabbatini,48 e a simili artifici
pensava senza dubbio Andreini per la rappresentazione del suo
Adamo, come dimostrano le illustrazioni nell’edizione del 1613. Emanuele
Tesauro, per il suo dramma Il libero arbitrio, pianificava di presentare
la glorificazione del personaggio buono e la punizione di quello
cattivo entro una medesima scena, mostrando quasi in contemporanea
il volo in cielo di Aquilio sostenuto dagli angeli e la discesa di
Lucillo rapito all’Inferno dai demoni.49 Quello che lo spettatore avrebbe
visto in scena, in tal caso, non si sarebbe discostato di molto dall’immagine
emblematica di Jan David.
Non c’è insomma da stupirsi se Della Valle e David, in una stessa
epoca, hanno risposto in maniera simile alle preoccupazioni e agli intenti
culturali della Controriforma, selezionando dal patrimonio culturale
del passato determinati elementi privilegiati e trasponendoli in
una chiave visiva e allegorica comune. La figura di Maria Stuarda in
ginocchio in Della Valle e quella della Vergine in cielo nel Christianus
si rispondono a vicenda, differendo certo nel grado di visibilità (oculare
in un caso, mentale nell’altro) e nell’intento esclusivamente pedagogico
di David e pedagogico-artistico di Della Valle, ma non nel tipo
di interazione e di risposta emotiva e cognitiva che intendono stimolare
nel lettore. Ancora una volta ci interessa non tanto scoprire se uno
dei due autori ha influenzato direttamente l’altro, quanto piuttosto
constatare la libera circolazione di temi e tecniche comuni nei campi
del teatro e dell’emblematica.
Come nel caso di Andreini, poi, il gusto emblematico può manifestarsi
nel testo di Della Valle anche attraverso le battute dei personaggi,
come mi sembra accada nel passaggio in cui Maria descrive la condizione
emotiva di chi, come lei, pur avendo l’animo rassegnato alla
morte si trova però ancora a risiedere nel corpo fisico:
Già lungo spazio, veggio
pender sul capo mio l’acuta punta
di così ingiusto ferro.
48 N. Sabbatini, oltre ai sistemi per costruire nuvole a cui si è accennato in
precedenza, dedica due capitoli a «come si possa mostrare un inferno» (Pratica di
fabricar scene e machine ne’ teatri, cit., II, 22-23, pp. 84-85), uno a «come si possa far
calare dal cielo una persona senza nuvola», il che sarebbe adatto a rappresentare
gli angeli (II, 50, pp. 123-124), e uno a «come si possa rappresentare un paradiso»
(II, 54, pp. 127-128).
49 E. Tesauro, Il libero arbitrio, in Scritti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004,
pp. 5-77; V, 10, pp. 72-76.
[ 18 ]
66 MARCO ARNAUDO
E quasi peregrin, ch’al far de l’alba
si consigli lasciar notturno albergo,
fra le tenebre ancor s’adatta, e veste
il duro piede, et a l’incurve spalle
impone il piccol fascio ove ravvolte
porta le sue fortune; indi, ripresa
la sua compagna verga, solo attende
che s’apra l’orïente, tale anch’io
ne la notte acerbissima et indegna
de le sventure mie, solo aspettando
al mio estremo camin l’ora prescritta,
di sofferenza l’anima vestita,
e posto il fascio de i miei gravi errori
sovra gli omeri amici di Chi volse
sopra sé tòrlo, con la verga forte
de la speranza nata in mezzo al mare
d’infinita pietade, apparecchiato
ho ’l piede al duro passo che m’ascrivi.50
Qui a colpire non è tanto la similitudine tra l’anima e il pellegrino
quanto piuttosto l’eccezionale lunghezza dell’immagine, la sua complessa
articolazione e la cura minuta del dettaglio (le spalle curve, il
piccolo fagotto, il piede indurito dal cammino), tutti fattori che fanno
come distaccare il passaggio dal flusso della narrazione, rendendolo
una vignetta autonoma a cui la chiara allegorizzazione conferisce immediato
valore emblematico. Il lettore vede mentalmente, e per questo
memorizza con facilità, la figura del pellegrino che sta per l’anima
pronta al distacco. Notevole è anche la puntigliosità didascalica51 con
cui l’allegoria generale (pellegrino = anima) viene suddivisa in vari
elementi a loro volta glossati e messi in rapporto a precisi significati
morali, secondo una tecnica che è tipica ancora del libro di emblemi in
generale e delle illustrazioni gesuitiche in particolare. Si pensi di nuovo
all’immagine del Christianus sull’umiltà, che prevede la spiegazione
dettagliata delle varie componenti visive tramite lettere inserite che
rimandano ai luoghi esplicativi del testo: una lettera A tra le zampe
del cavallo corrisponde a una A in margine al testo nel punto dove si
dice: «Mardochaeus post suam humiliationem evectus, et sublimatus
50 F. Della Valle, Reina di Scozia, cit., vv. 1529-1546, pp. 161-162.
51 Riguardo a questo passaggio F. Croce parlava di «qualcosa di indubbiamente
troppo artificiosamente spiegato» (F. Croce, Federico Della Valle, cit., p. 52),
e artificiose e “spiegate” sono appunto le figure degli emblemi.
[ 19 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 67
est ad regium decus»;52 una B accanto a una figura a piedi indica il
passaggio testuale che spiega trattarsi di «superbus ac fastuosus Aman
turpiter depressus».53 Alla stessa maniera funziona l’emblema del pellegrino
in Della Valle, dove la prima parte del passaggio disegna idealmente
la figura emblematica e la seconda ne decifra i vari dettagli: la
notte che corrisponde alle sventure, il fagotto agli errori, il bordone
alla speranza, e via dicendo.
Essendo la Reina di Scozia teatro per la lettura, però, l’opera si presta
anche a ospitare una forma emblematica ulteriore e preclusa ai testi
per lo spettacolo scenico (come in Andreini). Mi riferisco al technopaegnion,
ovvero a quei casi in cui l’organizzazione grafica di certe
sezioni del testo letteralmente disegna figure incastonate nel corpo
dell’opera visualizzando il contenuto del discorso.
Un caso elementare ma suggestivo si riscontra all’inizio dell’opera,
tra la prima e la seconda frase pronunciata da Maria, quando la regina
invita chi voglia conoscere i rivolgimenti della fortuna umana a contemplare
la sua amara vicenda. «Rimiri me. / Me rimiri»,54 dice Maria,
evidenziando con la forma della struttura chiastica e col raddoppiamento
di un quasi palindromo come «rimiri» la funzione di rispecchiamento
che il teatro ha nei confronti della realtà. Peraltro nella redazione
manoscritta del 1595 il passaggio corrispondente leggeva: «e
’n me si specchi. / Specchisi in me».55 Nella versione finale Della Valle
ha scelto di eliminare il riferimento esplicito al soggetto in esame, e si
è limitato a delinearne una schematizzazione visivo-sonora per lasciare
al lettore di scoprire da solo la figura nascosta dello specchio.
Nella stessa ottica vanno forse inquadrate, almeno in parte, anche
la cosciente ridondanza lessicale e la predilezione per i chiasmi e le
assonanze, che spesso si presentano in concomitanza con l’idea (dominante
nell’opera) del ribaltamento di fortuna. Tali artifici infittiscono
la tramatura anche visiva del testo fornendo all’occhio del lettore
delle corrispondenze inattese, quasi sempre verticali od oblique,56 che
52 J. David, Veridicus Christianus, cit., p. 231.
53 Ibidem. Alla stessa pagina si trova la spiegazione delle figure C e D: «Maximae
humilitatis singulare exemplar Diva virgo, humilitatis magistri Domini nostri
mater castissima, summe ita exaltata est; et superbissimus Lucifer in ima detrusus
».
54 F. Della Valle, Reina di Scozia, cit., vv. 85-86, p. 125.
55 Ivi, vv. 7-8, p. 443.
56 Laura Sanguineti White, a proposito del monologo di apertura della regina,
ha scritto che «l’alternarsi dei versi, endecasillabo / settenario / due endecasillabi
/ settenario / due endecasillabi, legati da ripetuti enjambement e dalla strut-
[ 20 ]
68 MARCO ARNAUDO
distraggono in un certo qual modo dal corso lineare della lettura ma
che hanno il vantaggio di saper mimare graficamente i tracciati convoluti
e misteriosi dell’operare divino e i bruschi moti ascendenti e discendenti
della ruota della fortuna.
Gli esempi sono numerosi, e vanno da brevi passaggi quali:
alternandosi il giro
ne lo stato mortale,
1 2 3
il male al ben succede,
2 3 1
e ’l ben succede al male57
oppure:
ogni mortal cosa […] giunta al colmo
1 1 2
si ferma e scema e cade,
2 1
e cadendo e scemando
giunge a la fine al nulla58
fino a intrecci decisamente più complessi:
1 2
Lassa me! Dunque nacqui,
2 3 4 3
nacqui figlia di re, fui poscia erede
5 3
d’antichissimo regno,
5 3 4
d’eccelso re fui moglie, e son madre anco
3 1 3
di re che da me prende
manto e scettro e corona.59
tura sintattica ipotetica («se pur è… senta me») con apodosi alla fine del periodo,
rallentano e accelerano il ritmo evocando un avanzare a volute rapide e inattese,
ma con inarrestabile procedimento a spirale» (L. Sanguineti White, Dal detto alla
figura: Le tragedie di Federico Della Valle, cit., p. 23).
57 F. Della Valle, Reina di Scozia, cit., vv. 813-816, p. 143.
58 Ivi, vv. 304-307, p. 130.
59 Ivi, vv. 137-146, p. 126.
[ 21 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 69
Altro esempio:
carte amiche
1
ci pervengon talor, onde consigli
1
e conforti ricevi e lume ancora
2
al tuo deliberar; e quinci avuta
3 4
hai la lettera cara
2
che ci tornò la vita,
3 5 5
la lettera del figlio, dolce figlio
4 6
e caro re, che ti promette l’arme
2 6
e la vita in tuo pro.60
E la tecnica si può anche distendere lungo uno scambio di battute:
1 2
Comb: Vada la pena onde la colpa venne.
1 2
Reina: Da me la colpa venne,
1 3
colpa di creder troppo
4
a chi meno devea.
3 4 5 5
Ma pur creder deveva donna a donna,
6 6
e reina a reina.61
L’emblema-technopaegnion più notevole nella Reina è però quello
celato nel discorso del maggiordomo sulla giustizia di Dio. Il passaggio
in questione è introdotto dalla considerazione che Dio «volv[e] le
cose umane, e premi e pene / libr[a] con lance a le nostr’opre eguale»,62
ovvero che Dio causa il mutamento delle vicende umane e mantiene
un equilibrio tra premi e punizioni adoperando dei piatti di bilancia
60 Ivi, vv. 291-299, p. 130.
61 Ivi, vv. 1495-1500, p. 161.
62 Ivi, vv. 1678-1679, p. 165.
[ 22 ]
70 MARCO ARNAUDO
conformi alle nostre azioni. Subito dopo l’attribuzione a Dio della bilancia
di giustizia il maggiordomo commenta che però, in apparenza,
i casi del mondo sembrano andare in maniera diversa:
E pur vidi sovente
oppresso l’innocente
cader, e la sua sorte
sì bassa e vil, che, co ’l terren congiunta,
pur quasi fango si calpesta e preme;
e d’altra parte sorge,
e con le nubi mesce
l’altera testa, e vuole e chiama e impetra
e dice e impera, e volge il dritto e ’l torto
con man superba e forte,
l’ingiusto e l’empio, e come di sua voglia
fa de la vita e de la voglia altrui.63
La struttura sintattica di questo lungo periodo traccia letteralmente
sulla pagina lo schema della bilancia del mondo terreno, “squilibrata”
a tutto vantaggio dei potenti. Il passaggio è suddiviso pressapoco
a metà in due sezioni di analoga lunghezza (5 e 7 versi), in cui è possibile
ravvisare i “piatti” che stanno dall’una e «d’altra parte» del fulcro,
e, su di essi, i tipi umani dell’innocente e dell’ingiusto in contrapposizione
perfettamente speculare, uno al secondo e l’altro al penultimo
verso della frase.
A rendere più inquietante tale immagine contribuisce una sua sorta
di dinamismo interno e contrario alle leggi di giustizia. Il “piatto”
dell’ingiusto, appesantito di azioni spietate e collocato nella parte inferiore
del passaggio, misteriosamente «sorge»; l’altro “piatto”, che
non sostiene nulla se non l’anima candida dell’innocente, e che per
questo dovrebbe restarsene leggero nella parte superiore del testo,
contro ogni ragione «cade» riducendosi quasi a fango. L’idea del mondo
terreno come sede dell’ingiustizia e della prevaricazione risulta
insomma amplificata dalla resa formale del testo, il quale digredisce
dallo sviluppo narrativo della trama per accogliere una sezione dall’alto
valore visivo e allegorico, dotata quasi di necessità delle modalità
dell’emblema cristiano.
Tale specificità appare ancora più evidente quando il passaggio
venga confrontato con un altro emblema del Christianus, “Praestantis-
63 Ivi, vv. 1680-1691, p. 165. Sottolineature mie.
[ 23 ]
GLI EMBLEMI A TEATRO: G.B. ANDREINI, E. TESAURO E F. DELLA VALLE 71
simum hominis pignus anima”,64 dove compare precisamente l’immagine
della bilancia con le pesanti ricchezze e gli onori del secolo che
salgono verso l’alto, e l’immateriale anima devota che discende verso
terra. Il significato è diverso da quello attivato da Della Valle, in quanto
qui la disposizione paradossale dei piatti si spiega col fatto che la
bilancia della giustizia celeste, sorretta dalla mano di Dio, registra in
forma di maggior peso il valore superiore dell’anima umana in confronto
ai volatili beni terreni.65 Emblema complementare è “Mundus
delirans non sapit quae Dei sunt”, dove la bilancia dei vizi e delle virtù
viene resa inattendibile da una donna mascherata (la Vanità Terrena)
che spinge verso il basso il braccio dei vizi.66 Anche in questa immagine,
diversamente che in Della Valle, basso-pesante viene identificato
come valore e alto-leggero come disprezzabile, ma a parte ciò
l’idea di fondo risulta essere la medesima: Dio possiede una bilancia
giusta mentre il mondo ne usa una tarata, e non resta altro da fare che
sopportare le ingiustizie della bilancia terrestre attendendo che i torti
vengano raddrizzati nel mondo ultraterreno. Rimane comunque altamente
significativa la corrispondenza dei soggetti tra il libro di David
e la tragedia di Della Valle, e soprattutto l’analogia di tecniche e obiettivi,
un’analogia indicativa di una realtà dove teatro ed emblema costituiscono
due tecniche affini e privilegiate con cui comprendere, fissare
e organizzare un mondo, quello barocco, la cui debordante ricchezza
di esperienze sembra ormai essere sfuggita di quinterno.
Marco Arnaudo
(Indiana University, Bloomington)
64 Cfr. Jan David, Veridicus Christianus, cit., p. 290a.
65 Ivi, p. 290.
66 Ivi, p. 144a. Ecco il testo: «Ideoque instar stultae mulieris depingi potest
mundi vanitas; quae bilancem habeat, cuius partem unam (in qua, quae virtutum
et piorum operum sunt, continentur) admota manu elevat ut nullius momenti,
partem vero oppositam, ubi vanitates, voluptates, et illecebrae mundi repositae,
tanquam gravia, magnique ponderis deorsum premit; ut haec prioribus illis maioris
esse praemii stultis persuadeat» (Ivi, p. 145).
[ 24 ]
CHIARA CEDRATI
Esperienze frugoniane nella lirica di Vittorio Alfieri
The article aims to inquire into the influence of Carlo Innocenzo
Frugoni and Frugonian poetry on Vittorio Alfieri’s Rime, investigating
the extent of the debt Alfieri acquired to Comante during his
entire literary career in spite of the strict judgments he expressed on
Frugoni’s poems and his effort to minimize any contribution of contemporary
poetry to his own.
Il 3 aprile 1783, giorno in cui dava lettura del Saul nel corso
dell’Adunanza Generale, Vittorio Alfieri veniva ammesso seduta stante
quale membro numerario e con il nome di Filaerio Eratrostrico
all’Accademia d’Arcadia. La prestigiosa affiliazione giungeva al termine
di un biennio di «vita veramente bella» trascorsa a partire dal
maggio 1781 a Roma, dove il poeta si era stabilito per stare accanto
alla Contessa d’Albany in fuga dal marito. Anche in merito all’ingresso
in Arcadia l’autobiografia, molto reticente sugli avvenimenti riconducibili
al periodo romano, non fa tuttavia eccezione: analogamente a
quanto accadde per la vivace vita sociale alla quale, come fanno fede
gli intensi scambi epistolari risalenti a questi mesi, il poeta partecipò
con passione, Alfieri fece calare un plumbeo silenzio sull’evento, che,
nel contesto dell’impegno dispiegato per far conoscere presso i circoli
intellettuali della Roma di Pio VI Braschi le tragedie stampate di fresco
a Siena, dovette invece rappresentare un indubbio successo.
A monte della frenetica attività di promozione di sé e della propria
opera in cui il poeta “si ingolfò” tra il 1782 e il 1783 e che proseguì nei
mesi successivi all’allontanamento dalla città si deve con ogni probabilità
leggere il desiderio di trovare alleati di eccellenza per controbattere
alle critiche ricevute in Toscana a seguito dell’uscita del primo
tomo dall’edizione Pazzini delle Tragedie. Non sembra dunque un caso
che nell’elenco autografo degli esemplari dell’edizione donati dall’autore
ai suoi contatti romani figurino tra gli altri nomi di accademici di
primo piano quali quello del custode d’Arcadia Gioacchino Pizzi,
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 73
dell’abate Luigi Godard suo sotto-custode e poi successore, del gesuita
Francesco Jacquier e di Lorenzo Ruspoli1. Da quest’ultimo nel dicembre
dell’anno precedente il poeta aveva ricevuto la notizia dell’ammissione
nell’Accademia romana dei Quirini, della quale il Ruspoli stesso
era «capo e Dittatore perpetuo»2, mentre secondo la preziosa testimonianza
dei due decreti di ammissione sarebbero stati proprio il Godard
(Cimante Micenio) e lo Jacquier (Dejofanto Amicleo) a proporre l’affiliazione
di Alfieri alla seconda Arcadia romana3. Dal punto di vista
dell’Accademia, l’affiliazione del poeta si inscriveva nel quadro della
discreta azione innovatrice condotta prima dal Pizzi (Nivildo Amarinzio)
e in seguito dal Godard attraverso la celebrazione di autori quali
lo stesso Alfieri, ma anche Monti, Cesarotti, Parini e Goethe4. È peraltro
risaputo come, sin dal decennio precedente all’arrivo del poeta a
Roma, nella nuova Arcadia si auspicasse un ritorno alla tragedia nelle
forme di uno spettacolo di impianto classicistico e di ambientazione
greca e romana; ad accentuare il senso di una trasformazione necessaria
e imminente era inoltre giunta nell’aprile 1782 anche la morte di
Metastasio e la conseguente implicita ricerca di un successore. L’erede
fu presto individuato, in particolare dopo la memorabile recita dell’Antigone
nel novembre seguente, in Alfieri, subito celebrato – così lo salutò
l’abate Antonio Taruffi nel suo Elogio del Metastasio5 – quale novello
«Sofocle italiano». Roma e i suoi circuiti intellettuali furono dunque
per Alfieri «il luogo del volto pubblico, nel suo offrirsi come un palcoscenico
da cui parlare alla repubblica delle lettere e ricercare, grazie a
rapporti prestigiosi e influenti, il massimo della visibilità e della notorietà,
anche al di fuori della città pontificia»6.
1 V. Alfieri, Appunti di lingua e letterari. Con un’appendice di aggiunte ai volumi
pubblicati, a cura di G. L. Beccaria e M. Sterpos, Asti, Casa d’Alfieri, 1983, pp.
251-252.
2 Cfr. lettera 164, Roma, 8 dicembre 1782, in V. Alfieri, Epistolario. Vol. I, a cura
di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1963, pp. 138-139; cfr. anche L. Caretti, Note
alfieriane, in Id., Studi sulle lettere alfieriane, a cura di A. Fabrizi e C. Mazzotta,
Modena, Mucchi, 1999, pp. 2-5.
3 Per i due decreti, cfr. Appunti di lingua e letterari, cit., pp. 258-259.
4 Per un profilo dell’Arcadia del tardo Settecento rimandiamo ad A. Nacinovich,
“Il sogno incantatore della filosofia”. L’Arcadia di Gioacchino Pizzi 1772-1790, Firenze,
Olschki, 2003.
5 G.A. Taruffi, Elogio accademico del chiarissimo poeta cesareo Pietro Metastasio
[…]. In Roma, nella stamperia di Paolo Giunchi, 1782, pp. 53-54.
6 B. Alfonzetti e N. Bellucci, Alfieri a Roma, tra autobiografia e poetica, in Alfieri
a Roma. Atti del convegno nazionale (Roma 27-29 novembre 2003), a cura di B.
Alfonzetti e N. Bellucci, Roma, Bulzoni, 2006, p. 248.
[ 2 ]
74 CHIARA CEDRATI
Se per Alfieri l’ingresso nelle cerchie di intellettuali che vertevano
intorno all’Arcadia romana e poi l’affiliazione all’Accademia fu in primo
luogo strumentale al riconoscimento del suo status di autore, il
poeta non sarebbe stato in ogni caso immune alle discussioni sulla tragedia
che si svolgevano da tempo sotto il custodiato del Pizzi, seppure
nella Vita manchi qualsiasi ammissione in proposito. È noto infatti come
l’autobiografia riconduca tout court l’incontenibile bollore della
«facoltà inventrice» da cui ebbero origine la seconda versificazione di
Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia e Timoleone e la realizzazione
ex novo di Merope e Saul alla serenità garantita al poeta dalla possibilità
di frequentare di nuovo e più liberamente la Stolberg. Malgrado
la pretesa autonomia della propria ispirazione, dal punto di vista
della poetica teatrale l’Alfieri del periodo romano fu in verità un sensibile
barometro del clima dominante. L’attenzione prestata ai dibattiti
arcadici si manifesta nell’evidente svolta verso una tragedia di ambientazione
greca o romana e, al contempo, nel sostanziale rigetto delle
tragedie di argomento moderno in quanto prive della grandiosità
dell’antico che si coglie nella lettera inviata da Londra nel febbraio
1784 a Luigia Alfieri di Sostegno7. Mentre la stessa scelta del soggetto
di Merope implica l’instaurarsi di un confronto/scontro con il celebrato
modello maffeiano decisamente meno casuale di quanto la narrazione
dell’autobiografia parrebbe suggerire8, la genesi del Saul, altrettanto
“occasionale” e ricondotta generalmente dalla critica all’influsso
dell’Accademia Sampaolina e all’interesse alfieriano per i salmi biblici,
sarebbe in buona misura da legare, come ha intuito Annalisa Nacinovich9,
proprio al soggiorno nella Roma papalina. La scelta dei soggetti
delle due tragedie e in particolare del Saul, con ogni probabilità influenzato
dalla riflessione di Saverio Mattei sul teatro metastasiano e
dalle sue Traduzioni dei Salmi, nelle quali «confluiscono i dibattiti settecenteschi
sul teatro e sulle antichità greche ed ebraiche»10, equivarrebbero
in questo senso a una dichiarazione di poetica, giustificando l’ingresso
di Alfieri in Arcadia e spiegando alla luce di motivazioni meno
esterne rispetto alla volontà di trovare difensori per il suo stile tragico
le modalità con cui il poeta volle introdursi nei dibattiti romani coevi.
7 Cfr. Epistolario. Vol. I, cit., p. 180.
8 Cfr. V. Alfieri, Vita scritta da esso. Vol. I, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, IV, 9, p.
227.
9 A. Nacinovich, Alfieri e i dibattiti arcadici: la recita del “Saul”, in Alfieri a Roma,
cit., pp. 387-404.
10 Ivi, p. 392.
[ 3 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 75
Senza dubbio più problematica e forse per questo sinora poco
esplorata appare invece la ricezione della lirica d’Arcadia, con la quale
Alfieri dovette inevitabilmente fare i conti a partire dal momento in
cui scelse di abbracciare la carriera di poeta. A questo proposito è noto
come l’idealizzazione a cui Alfieri sottopose la sua esistenza nel resoconto
offerto nella Vita si estenda agli anni dell’iniziazione artistica e
coinvolga nella mitizzazione delle vicende biografiche le letture che il
poeta condusse a partire dalla «conversione letteraria» (1775) con lo
scopo, parallelo rispetto alla conquista di uno stile tragico, di costruirsi
un personale linguaggio lirico. I modelli risultano a questo proposito
accuratamente selezionati a comporre un canone che, prescindendo
– almeno secondo gli intenti – dalla mediazione della poesia contemporanea,
stabilisse implicitamente un rapporto di diretta figliolanza
stilistica rispetto a coloro che in un celebre sonetto Alfieri chiamò i
«quattro gran vati»11, ovvero Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Soltanto
in un secondo tempo e con molta parsimonia alla corona di «poeti
primari» si sarebbe aggiunto «qualcuno dei nuovi, come il Poliziano e
il Casa»12.
Il riscontro con le testimonianze esterne all’autobiografia, con i libri
appartenuti al poeta e naturalmente con quanto si riversa in concreto
nelle rime mostra come le letture propedeutiche furono effettivamente
sottoposte dal poeta a un’attenta cernita che sembra avere avuto
come obiettivo precipuo, oltre a quello di far discendere la propria
lirica direttamente da una tetrade poetica di somma eccellenza della
quale con ogni probabilità Alfieri non fu inventore ma che certamente
contribuì a diffondere13, quello di far risaltare le innovazioni di forma,
linguaggio e stile introdotte nella propria opera, riducendo il più possibile
le proporzioni del debito contratto con i lirici contemporanei.
Debito che fu in ogni caso, a paragone con l’effettiva portata dell’influenza
del modello petrarchesco e, in seconda battuta, di quello dantesco,
circoscritto: lo stesso petrarchismo alfieriano, che costituisce la
cifra stilistica più evidente delle rime e si fonda su una profonda consonanza
spirituale e biografica con il modello14, punta infatti esplicitamente
ad attingere al Canzoniere senza la mediazione delle esperienze
11 Quattro gran vati, ed i maggior son questi, sonetto 161 in V. Alfieri, Rime, a
cura di F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954.
12 Vita. Vol. I, cit., IV, 2, p. 190.
13 Cfr. A. Di Benedetto, Vittorio Alfieri e i “Quattro Poeti”, «Cuadernos de Filología
Italiana», XII (2005), pp. 189-194.
14 Per la particolare connotazione del petrarchismo alfieriano ci limitiamo a
[ 4 ]
76 CHIARA CEDRATI
che nel corso del secolo e segnatamente in ambito arcadico avevano
continuato – talvolta in modo stanco e superficiale – a riferirsi ad esso.
Nel sonetto So che in numero spessi, e in stil non rari (Rime 82), composto
durante il viaggio verso Valchiusa «Tra Brignolles e Torves. 26 8bre.
[1783]»15, si percepisce anzi da parte dell’autore una nota di risentimento
per certo petrarchismo corrivo a lui contemporaneo. Nel testo,
all’inizio scelto quale sonetto incipitario di un canzoniere programmaticamente
concepito sulla sequela diretta del Petrarca, il poeta
esprime il suo scetticismo nei confronti della pioggia di «lunghi e freddi
sospir d’amor volgari» che vede tuttora scaturire dalle «italiane
penne» in gran copia («in numero spessi») e senza alcuna arte («in stil
non rari»); la sua speranza è che, nel «nembo densissimo perenne» di
carmi che avvolge il suo secolo, le sue rime possano spiccare, se non
per “chiarezza”, per il profondo sentimento che lo ha animato nella
scrittura e che lo separa da coloro che, in un sonetto del 1790 (Poeta, è
nome che diverso suona, Rime 255), chiama i «vuoti / Armonìosi incettator
d’oblìo, / Di baje pregni, e al vero Apollo ignoti» (vv. 9-11).
Il desiderio alfieriano di distinguersi dai lirici coevi in quanto autori
di prolisse e insincere freddure non implica tuttavia la completa
impermeabilità alle influenze della poesia del suo secolo, seppure
queste ultime non vengano generalmente dichiarate in modo esplicito
e, fatta qualche eccezione, le riprese siano perlopiù riconducibili quali
sperimentazioni isolate a fasi ben precise della parabola cronologica
abbracciata dalle rime edite e manoscritte16. Per rivelare la presenza di
echi e influssi è necessario addentrarci concretamente nel laboratorio
lirico alfieriano, crogiolo in cui troviamo riversate, assieme alle istanze
biografiche, sentimentali e ideali che costituiscono l’essenza e il motocitare
M. Fubini, Petrarchismo alfieriano [1931], in Id., Ritratto dell’Alfieri e altri studi
alfieriani, Firenze, La Nuova Italia, 19632, pp. 59-93.
15 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana (d’ora in poi BML), ms. Alfieri 13,
c. 97r: «potrebbe servir di proemiale».
16 Con rime si intendono i testi compresi dall’autore nelle due raccolte che recano
questo titolo (Rime di Vittorio Alfieri da Asti. Dalla tipografia di Kehl, co’ caratteri
di Baskerville, 1789 e il ms. BML Alfieri 21 delle Rime di Vittorio Alfieri da Asti.
Parte seconda. Londra, 1798), ma anche quelli non inclusi in altre raccolte e lasciati
allo stato manoscritto che si conservano per la massima parte nei mss. BML Alfieri
13 e 3. In attesa di una nuova edizione critica, si fa riferimento al già citato volume
di Rime a cura di F. Maggini; le liriche sono indicate attraverso la numerazione
progressiva univoca apposta dall’editore. Dato lo stato problematico dei testi, i
componimenti sono stati ricollazionati sui manoscritti e sulle edizioni a stampa e
si intendono citati secondo l’ultima volontà dell’autore.
[ 5 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 77
re delle rime, le impressioni delle molteplici letture condotte sin dagli
anni della formazione letteraria. In questa sede ci dedicheremo perciò
a delineare alcune possibili linee di influenza sulle rime delle esperienze
poetiche frugoniane, che, a dispetto dell’apparente distanza
con la scrittura lirica alfieriana, vi lasciarono un’impronta significativa
anche se prevalentemente limitata a un numero di testi circoscritto nel
tempo. La nostra indagine avrà così il duplice obiettivo di esplorare
per episodi rilevanti un’influenza sinora non pienamente riconosciuta
e, al contempo, di determinare il senso e le modalità di un’imitazione
forse insospettabile in Alfieri, ma certo ineludibile per qualsiasi autore
coevo impegnato nella ricerca di un personale linguaggio lirico.
La data della nota di possesso autografa ci consente di far risalire
al 1776 e al periodo della formazione svolta in primo luogo sui «quattro
vati» l’acquisto dei Versi sciolti dell’abate Carlo Innocenzio Frugoni,
del Conte Francesco Algherotti, e del padre Xaverio Bettinelli nell’edizione
veneziana Pasquali del 1766, nella quale, rispetto all’edizione Fenzo
del 1758, alle dirompenti Lettere virgiliane si erano aggiunte le Lettere
inglesi17. Il volume, come sembra confermare la registrazione relativa a
«Frugoni, Versi sciolti, un vol.» nell’inventario dei libri confiscati dalla
dimora parigina di Rue de Provence dopo la fuga verso la penisola
nell’agosto 179318, fu abbandonato dal poeta assieme alla gran parte
della sua biblioteca e si conserva oggi alla Bibliothèque de l’Institut de
France di Parigi sotto la segnatura 4°Q 211. Secondo quanto risulta
sempre dall’elenco steso in occasione del sequestro, nella medesima
circostanza Alfieri si sarebbe lasciato alle spalle anche «Frugoni, Opere,
les tomes 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8 et 9»19, ovvero la tuttora fondamentale
edizione postuma curata da Carlo Castone della Torre di Rezzonico
delle Opere poetiche del signor abate Carlo Innocenzo Frugoni edita a Par-
17 Versi sciolti dell’abate Carlo Innocenzo Frugoni, del conte Francesco Algherotti,
e del padre Xaverio Bettinelli, con le lettere di Vergilio dagli Elisi. Seconda
edizione, cui si aggiungono Dodeci lettere inglesi sopra varj argomenti […]. In Venezia,
presso Giambatista Pasquali, 1766. Per i Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori
con alcune lettere non più stampate. In Venezia, impressi nella Stamperia di Modesto
Fenzo, 1758, cfr. ora la ristampa anastatica a cura di A. Di Ricco, Trento, Università
degli Studi di Trento, 1997; si cita sempre da questa edizione.
18 Per l’inventario cfr. C. Del Vento, “Io dunque ridomando alla plebe francese i
miei libri, carte ed effetti qualunque”. Alfieri émigré a Firenze, in Alfieri in Toscana. Atti
del Convegno internazionale di Studi, Firenze, 19-20-21 ottobre 2000, a cura di G.
Tellini e R. Turchi, 2002, II, pp. 491-578.
19 Ivi, p. 578.
[ 6 ]
78 CHIARA CEDRATI
ma nel 177920. L’identificazione dell’edizione è consentita dal fatto che
presso la Médiathèque Centrale d’Agglomération “Emile Zola” di
Montpellier, alla quale per legato del pittore François-Xavier Fabre è
pervenuta la biblioteca ricostruita dal poeta durante l’ultimo decennio
fiorentino, si conserva con collocazione 33486 ed ex-libris «Vittorio Alfieri
Firenze 1779» proprio il settimo volume di versi sciolti, martelliani
e cantate che manca nel regesto. Una volta stabilitosi in Toscana,
Alfieri si procurò nuovamente tutti e nove i volumi da lui già acquisiti
nel medesimo anno di stampa dell’edizione: la serie, segnata «Vittorio
Alfieri Firenze 1794» e sempre mancante del decimo tomo, è oggi a
Montpellier (33484(1) e seguenti), dove troviamo anche un’altra copia
dell’edizione Pasquali dei Versi sciolti comprata a Firenze nel 1794 (segnatura
34462) e i volumi delle opere del Frugoni inclusi nel Parnaso
italiano dell’abate Andrea Rubbi21.
L’interesse di Alfieri per Comante e soprattutto, come sembrano
indicare le vicende legate ai volumi da lui sicuramente posseduti, per
il suo endecasillabo sciolto si inquadra in primo luogo nell’ambito
delle letture condotte alla ricerca di un «verso sciolto di dialogo» per
la tragedia: ricerca che com’è noto si concluse con la scelta, quali modelli
privilegiati, di Virgilio e del Cesarotti traduttore dell’Ossian. Seppure
in definitiva accantonato, il magistero del Frugoni in questo campo
era d’altra parte assodato e ineludibile. Malgrado i principali
aspetti di novità del volume risiedessero nelle missive bettinelliane
dagli Elisi, la stessa pubblicazione dei Versi sciolti aveva assurto il Frugoni
a maestro e precursore del «difficile stil»22 dell’endecasillabo non
rimato di cui i due più giovani letterati, secondo il progetto culturale
abilmente congegnato dal Bettinelli, sarebbero stati gli eredi. La silloge
posseduta anche da Alfieri raccoglie venti tra i numerosissimi sciolti
composti da Comante rifacendosi soprattutto alla canzone pindarica
e ai sermoni di stampo oraziano del Chiabrera; solo scorrendo le
rubriche dei testi si nota tuttavia come il Frugoni si fosse in realtà mosso
in direzione di un ampliamento della sfera di pertinenza dello
sciolto dall’ambito didascalico da cui era partito a temi in precedenza
affidati alla canzone, al capitolo o all’ode. Sperimentatore a tutto cam-
20 Opere poetiche del signor abate Carlo Innocenzio Frugoni fra gli Arcadi Comante
Eginetico. Parma, dalla Stamperia Reale, 1779, 10 voll.
21 Parnaso italiano ovvero Raccolta de’ poeti Classici italiani […]. Venezia, presso
Antonio Zatta e Figli, 1784-1791 (segn. 61719 Res). I tomi di nostro interesse sono il
XLIX, il LI e il LII. L’acquisto della raccolta data al 1794.
22 Versi sciolti…, cit., p. XVI, v. 104.
[ 7 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 79
po, Comante aveva infatti scelto di affidare al metro prediletto il canto
encomiastico così come l’epitalamio, l’elegia funebre come il sermone
o il componimento d’occasione, scrivendo, secondo la felice definizione
datane anni dopo dal Bettinelli, «poemi […] splendidissimi»23 accomunati,
piuttosto che dai soggetti, dallo stile magniloquente, opulento,
ridondante di continue allegorie.
Lo studio pressoché obbligato dello sciolto frugoniano nel medesimo
1776 – anno degli estratti da Dante e Petrarca – in cui Alfieri si sarebbe
procurato la raccolta dei Versi sciolti è confermato da un appunto
che abbiamo rintracciato nel ms. BML Alfieri 13, dove nella porzione
superiore di c. 59r si legge la seguente nota:
Estratti diversi. Nel 1776.
Frugoni.
Prudenza, che guarda d’un’ [sic] occhio le cose andate, e d’un altro |
l’avvenire; e frenando i desir, che ne’ lor primi impeti ciechi mai | non
disser vero, adatta fatti, e consigli alle stagioni; pigra ad arte, | e spesso
derisa dalle menti incaute, finchè il buon successo | Folgoreggiando di
luce improvvisa, le venga a fianco, e recando | lode a lei, assolva le sue
dimore mal intese. Versi 10.
Si tratta di una trascrizione – nella quale vengono tuttavia risolti i
forti iperbati – dei vv. 101-110 degli sciolti frugoniani ad Artaserse Bajardi,
Da la sempre frondosa arbor vivace24. Come suggerisce l’intestazione,
Alfieri aveva inizialmente destinato il fascicolo che nell’attuale ms.
BML Alfieri 13 si apre a c. 59r alla compilazione di estratti da vari autori,
ma interruppe quasi immediatamente il lavoro dopo aver copiato
soltanto i versi sopra riferiti; il sesterno fu più tardi scelto per accogliere,
dal verso della c. 59 in poi, le liriche composte tra il 1784 e il 1789.
Quando tuttavia nell’estate 1798 il poeta si ritrovò interamente pieno
il fascicolo che va dalla c. 39 alla c. 58, progettando di chiudere allo
scoccare dei cinquant’anni d’età la «fonte delle rime» scelse di occupare
la porzione restante di c. 59r con gli ultimi sonetti ed epigrammi
redatti prima dell’abbandono forzato della poesia lirica all’inizio del
1799: la disposizione affastellata e disordinata dei testi nella pagina si
spiega verosimilmente con la volontà di risparmiare più spazio possibile
per eventuali aggiunte in extremis. Coerentemente con la scelta di
23 Opere dell’abate Saverio Bettinelli. In Venezia, dalle Stampe Zatta, 1782, t.
VII, p. 6.
24 Versi sciolti…, cit., p. VII.
[ 8 ]
80 CHIARA CEDRATI
disconoscere ogni componimento redatto dopo la Teleutodia25, i rari sonetti
ed epigrammi successivi a questa data non furono più trascritti
in BML Alfieri 13 e si conservano in foglietti volanti, oppure appuntati
tra le pagine dei volumi appartenuti allo scrittore.
Che Alfieri avesse letto precocemente Frugoni ai fini della tragica
ma ne fosse rimasto nel complesso deluso si può dedurre da un celebre
passo della Vita, nel quale, definendolo «pomposo galleggiante
scioltista caposcuola», il poeta ne stigmatizza la traduzione del Radamisto
e Zenobia del Crébillon come infinitamente inferiore rispetto
all’originale, ma anche rispetto «a sé medesimo»26. Secondo quanto
notava già il Calcaterra27, il giudizio, ritenuto in genere fortemente
censorio per il peso dato alla fortunata definizione d’apertura, presuppone
d’altra parte, nel confronto tra gli sciolti della traduzione e il resto
dell’opera di Comante, un implicito riconoscimento del valore del
magistero frugoniano, seppure evidentemente non ai fini della costruzione
di un «verso di dialogo» per la tragedia.
Per meglio circostanziare e comprendere l’opinione alfieriana sullo
sciolto del Frugoni possiamo rivolgerci al parere espresso in una lettera
inviata all’abate di Caluso nell’ottobre 1799 e perciò esemplificativo
di quanto Alfieri fosse giunto in proposito a pensare quando ormai
aveva lasciato da tempo il coturno e posto un termine alla vena lirica.
All’amico, che gli aveva inviato in lettura degli sciolti lirici, il poeta
suggeriva di astenersi tout court dai versi in quanto «eretismo di mente
mero e schietto» ormai poco adatto all’età di entrambi e si soffermava
in questi termini sul componimento inviatogli:
Circa poi allo stile e andamento di questi Sciolti, io già non m’intendo
di questo genere, e poco mi piace il Verso sciolto che non sia o Dialogo,
o Epico. Ma pure, se dal Frugoni, come dal prototipo di quest’arte, si
ha da regolare il giudizio, mi pajono questi vostri, come a voi pure secondo
che mi dite, alquanto privi di quel brio e pompa con cui egli suol
verseggiare. […] La prova che avete fatto di voltarli in ottava rima, mi
piace; e il totale di questi versi si addatterebbe mi pare meglio alla rima;
e ne diverrebbero più chiari, stante il doverne abbreviare i periodi.
Che questa lunghezza dei periodi, la quale fa alle volte bellezza nello
25 Cfr. Vita. Vol. I, cit., IV, 27, p. 321.
26 Cfr. ivi, IV, 1, pp. 187-188. Una copia della traduzione (Radamisto e Zenobia,
tragedia del signor di Crébillon, portata dal verso franzese nell’italiano […] da D. Carlo
Innocenzio Frugoni […]. In Bologna, per Lelio della Volpe [1724]) con ex-libris «Vittorio
Alfieri Firenze 1799» è oggi a Montpellier (segn. 34589).
27 Cfr. C. Calcaterra, Storia della poesia frugoniana, Genova, Libreria Editrice
Moderna, 1920, pp. 440-441.
[ 9 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 81
stile oratorio, mi pare il contrario affatto dell’indole d’ogni verso; poichè
se il Verso è un Canto, il Cantore dee pur pigliar fiato; dunque deve
incidere più spesso il suo dire, per non farsi egli stesso scoppiare una
vena del petto, e non rompere un qualche tendine degli orecchi degli
ascoltanti, che se respirano perdono il filo del discorso. Onde il genere
mi pare falso; e una di quelle ricchezze nate dalla povertà. Ed in fatti il
Frugoni, poverissimo d’idee, credè supplire alla sua scarsità con questa
ricercata stortura; e l’effetto de’ suoi versi è sempre assai più fatica
che diletto28.
Posta la sua scarsa propensione per lo sciolto lirico contrapposto,
secondo la tripartizione settecentesca, a quello tragico e a quello epico29,
Alfieri individuava con sicurezza il paradigma per l’ode in sciolti
nel Frugoni, riconoscendo quali suoi tratti dominanti la vivace «pompa
», già prerogativa secondo la Vita del «galleggiante scioltista», e
un’eccessiva lunghezza del periodare che poco si attaglierebbe al respiro
del verso e che avrebbe avuto lo scopo di colmare la povertà dei
contenuti cantati. La necessità di sciogliere le anastrofi dei dieci versi
estratti nel 1776 dagli sciolti al Bajardi – un unico periodo! – ben si
accorda con l’impressione di fatica con cui il poeta concludeva nella
lettera le sue considerazioni intorno a Comante.
Il netto giudizio espresso negli anni della maturità non impedì comunque
al giovane Alfieri in formazione di scegliere il Frugoni quale
modello, seppure non ai fini del verso tragico ma per la lirica, che negli
anni 1775-77 appare effettivamente influenzata, da un lato, da un
interesse attivo nutrito nei confronti dell’ode-canzone in sciolti e, dall’altro,
dalla «voluttà figurativa»30 dei sonetti “pittorici” di matrice frugoniana.
Anche per quanto riguarda questi ultimi, lo studio precoce
sugli esempi dello stesso Comante è almeno in parte documentato sugli
autografi alfieriani. Nell’Estratto di Dante, rinvenuto da Sergio Zoppi
sulla base di alcuni appunti di Pierre-Louis Ginguené e conservato
alla Bibliothèque de l’Institut de France (ms. 1783), è infatti compresa
un’interessante scelta di poesie di vari autori presumibilmente coeva
agli estratti danteschi compilati nel 1776 e, non a caso, al breve appunto
dagli sciolti al Bajardi. Tra questi, alle cc. 142-143 si leggono cinque
sonetti dati al Frugoni: si tratta di Foco eran l’ali folgoranti ed era, Quan-
28 Lettera 368 al Caluso, Firenze, 28 ottobre 1799, in V. Alfieri, Epistolario. Vol.
III, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1989, pp. 31-32.
29 Cfr. V. Placella, Alfieri tragico, Napoli, Liguori, 1970, p. 55.
30 V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, con cinque nuovi studi, Bologna, Zanichelli,
1981, p. 7.
[ 10 ]
82 CHIARA CEDRATI
do il gran Scipio dall’ingrata terra, Ferocemente la visiera bruna, l’audace
Chi mai questo agitò spergiuro letto e Quando imprimer di sdegno orme profonde31.
Il fatto che quest’ultimo non sia di Comante ma dell’abate modenese
Girolamo Tagliazucchi (1674-1751)32 e che Chi mai questo agitò
spergiuro letto, diffuso contro la volontà dell’autore, sarebbe stato dato
alle stampe soltanto nel 1796 nell’Epistolario dell’abate Rubbi33, ci spinge
a supporre che i testi giunsero ad Alfieri in forma manoscritta o
attraverso dettatura, forse per tramite di uno degli «amici censori» che
lo assistettero nel corso dell’apprendistato letterario34. Peraltro, almeno
Chi mai questo agitò spergiuro letto dovette piacere particolarmente
all’Astigiano, che lo trascrisse in coda ai Sonetti amorosi e con la rubrica
«Alla sua donna sorpresala quasi in flagranti fatto quasi extempore» a
p. 63 del terzo volume della già ricordata edizione delle Opere frugoniane
acquistata a Firenze nel 1794, dopo la perdita sia dell’Estratto di
Dante, sia di otto dei nove tomi della raccolta già posseduti. A p. 268
del primo tomo si legge invece, sempre manoscritto, il celebre sonetto
alla Dominante Restar potessi ove tu guidi e reggi («Alla serenissima Repubblica
di Venezia»)35.
Gli esperimenti poetici di Alfieri con lo sciolto frugoniano sono
contemporanei agli estratti sin qui descritti e datano non a caso ai mesi
immediatamente successivi alla «conversione poetica», durante i
quali e almeno per un biennio – essenzialmente fino all’innamoramento
per la Stolberg, che coincide con l’opzione decisa per il sonetto
e per una poetica di impostazione marcatamente petrarchesca nella
quale la tematica amorosa ha un ruolo dominante – la ricerca condotta
nell’ambito della lirica risulta impostata, concordemente con la Vita36,
all’insegna di un’estrema varietà tematica e metrica, sotto la spinta di
31 Ne dà sintetica notizia S. Zoppi, Ginguené e Alfieri, «Giornale storico della
letteratura italiana», CXLVI (1969), pp. 553-570; per i sonetti compresi nell’Estratto,
cfr. p. 569.
32 È il sonetto IV dell’Aggiunta di alcune altre poesie del medesimo nelle Prose, e
poesie dell’abate Girolamo Tagliazucchi. In Torino, presso Gianfrancesco Mairesse
all’Insegna di S. Teresa di Gesù, 1735, p. 9.
33 Cfr. L’Epistolario ossia scelta di lettere inedite famigliari curiose erudite […]. Anno
secondo. In Venezia, nella Stamperia Graziosi, 1796, pp. 128-129.
34 Si ricordi che Frugoni fu in stretta famigliarità con il padre Paolo Maria Paciaudi,
come testimoniano ad es. le sue Lettere al padre Paolo Maria Paciaudi, a cura
di C. Calcaterra, «Cultura moderna», 1909.
35 Mentre Chi mai questo agitò spergiuro letto non compare nelle Opere, Restar
potessi ove tu guidi e reggi è invece stampato nel t. II, p. 332.
36 Cfr. Vita. Vol. I, cit., IV, 1, p. 180.
[ 11 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 83
un’esigenza di sperimentazione che, muovendosi in più direzioni, appare
avere come scopo la conquista di uno stile adeguato allo sviluppo
di immagini e affetti che trovano la loro origine nel contatto quotidiano
con la realtà. Come è logico aspettarsi, l’elaborazione della lingua
poetica è condotta prevalentemente attraverso l’imitazione progressiva
e sempre più evidente dei quattro luminari di cui Alfieri
proseguiva con caparbietà lo studio. Non mancano però tendenze
“extravaganti” proprio a partire dalle riprese: accanto ad esempio a
componimenti fortemente debitori della lettura del Marino37 si riscontra
infatti la presenza di testi nei quali il poeta sembra volersi appunto
cimentare con forme e modi di ascendenza arcadica e segnatamente
frugoniana. Sebbene la volontà di manipolare metri e forme allo scopo
di apprendere i rudimenti poetici possa sembrare prevalente, riferirsi
alle «Cose Liriche di rifiuto» – tutte conservate alle cc. 124-173 di BML
Alfieri 3 e collocabili tra il gennaio 1775 e l’agosto 1777 – come a semplici
esercitazioni sarebbe indubbiamente riduttivo: alle spalle della
gran parte di esse si scorge infatti un nucleo ispirativo forte, il bisogno
impellente di dar veste poetica a un sentimento o una riflessione che è
poi la scintilla che dà l’avvio al componimento. È tuttavia altrettanto
vero che una singola idea spesso non è sufficiente a reggere un intero
sonetto, men che meno un capitolo o degli sciolti: ecco quindi che molto
di frequente l’ispirazione originaria si esaurisce nel giro di pochi
versi e il poeta si trova incapace di proseguire se non con grande sforzo38.
Il confronto tra le caratteristiche di questa parte della produzione
lirica, orientata alla sperimentazione delle forme metriche lunghe, e le
rime della maturità, dove prevalgono sonetti ed epigrammi, sembrerebbe
indicare che la scelta delle forme brevi o brevissime, certamente
influenzata dal modello petrarchesco per il privilegio accordato al sonetto,
sia stata suggerita almeno in parte dalla maggior facilità che il
poeta incontrò già a partire dalle prime «rimerie» nel sostenere le misure
più brevi.
Nel ms. BML Alfieri 3 compaiono nel complesso quattro testi in
endecasillabi non rimati: nessuno di essi fu compreso nelle Rime e restano
i soli casi in cui Alfieri abbia utilizzato l’endecasillabo sciolto,
37 Per le presenze mariniane nell’opera di Alfieri si rimanda al fondamentale
contributo di A. Fabrizi, Marino, in Id., Le scintille del vulcano. Ricerche sull’Alfieri,
Modena, Mucchi, 1993, pp. 85-144 e alle precisazioni di A. Di Benedetto, Marino
nel Settecento, «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXII (2000), p. 440.
38 Cfr. la descrizione della nascita dei primi tentativi in V. Alfieri, Vita. Vol. II,
a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, IV, 2, p. 152.
[ 12 ]
84 CHIARA CEDRATI
caratteristico della sua tragedia, nella poesia lirica. Accantonata subito
Quella che al tuo partir vedova, e sola, la lettera di «Fille calzolaia a Cecchino
canonico»39, come appartenente – assieme ad esempio alle due
Novelle in versi – alla vena comico-satirica in cui Alfieri si misurò sin
dalle prime prove letterarie, maggiori aspetti di interesse rivelano i
pur faticosissimi e incompiuti sciolti di Generoso corsier (Rime 399; ms.
BML Alfieri 3, c. 146), che secondo la didascalia che li accompagna
(«Cezannes Agosto 1775») datano ai mesi, fecondi di esperimenti lirici,
trascorsi a Cesana Torinese in compagnia dell’abate Jean Antoine
Ailliaud: i versi si segnalano soprattutto per essere i primi dedicati a
un cavallo, uno dei motivi più cari alla musa lirica alfieriana e più
autentici per spontaneità di ispirazione.
Ci sembrano invece senza dubbio debitori, più che agli sciolti narrativi
del Parini o del Cesarotti, alla canzone alla maniera del Frugoni
Nell’ora appunto, in cui Morfeo diffonde (Rime 402) e Opra, che alla ragion,
forse nemica (Rime 410), che si leggono uno di seguito all’altro alle cc.
149-152 del ms. BML Alfieri 3. Il primo, datato «Torino 9.bre 1775», è
un sermone di 144 versi dall’andamento narrativo ed è accompagnato,
nell’angolo superiore destro di c. 149r, da un sommario/traccia in
prosa che probabilmente servì da guida nel corso della stesura del testo40.
Crediamo che gli sciolti, di impronta marcatamente dantesca dal
punto di vista stilistico e lessicale, siano memori per quanto riguarda
situazioni e immagini di quelli frugoniani ad Aurelio Bernieri (Bernier,
su quest’Aurora, i’ non so, come) che nella raccolta approntata dal Bettinelli
seguono immediatamente i versi per il Bajardi appuntati tra le
carte alfieriane. L’imitazione è evidente a partire dalla somiglianza
dello spunto iniziale, peraltro rafforzata da alcuni echi diretti: mentre
Comante avvia la sua meditazione sulla gloria letteraria riferendo
all’amico poeta di essersi svegliato contro la sua abitudine prima
dell’alba e di essersi trovato a riflettere sui modi in cui «desiosa d’onor
schiera d’ingegni» possa «poggiar […] sul canoro Monte» dimora di
Apollo e delle Muse, Alfieri racconta di come, immerso nel dormiveglia
«Nell’ora appunto, in cui Morfeo diffonde / Il suo vapor tenacce
39 Si legge in V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit., p. 222.
40 «Sonno, in cui, mi si presenta Apollo | che conducendomi in Parnasso, mi
lusinga | di buon successo, ma le muse, m’ordinano di ricondurre l’amico sul
sentier di | Pindo, dicendoci ad entrambi, di non | spaventarci dei poeti, che
c’hanno | preceduti, che ci sono ancora Allori | vergini, e intatti, che a noi s’aspettano
».
[ 13 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 85
in su le stanche / Nostre palpebre»41, fosse rimasto a lungo a ragionare
sui «Mille fantasmi […] / Dal suo robusto immaginar concetti»42 e
sul suo desiderio «di salire in Pindo» «infino all’alta cima / Del sacro
monte», finché il sonno non lo avrebbe colto portandogli una visione.
Visione che, a partire dall’apparizione dinanzi a Vittorio del dio43, è
forte delle figurazioni apollinee e dell’armamentario mitologico che
ricorrono abbondanti negli sciolti frugoniani e che qui si mescolano
come si accennava a palesi reminiscenze dantesche44, specialmente
nella sezione dedicata alla descrizione della turba di «impotenti
cigni»45 che si affaticano invano per giungere «al buon sentier» di Parnaso
su cui Apollo sta conducendo il poeta, autorizzato ad affacciarsi
al tempio delle Muse grazie al vincolo di amicizia che lo lega al loro
figlio prediletto. Analogamente a quelli frugoniani, anche questi sciolti
hanno infatti un destinatario implicito che può forse essere identificato
nel conte Agostino Amedeo Tana (1745-1791), assieme al Paciaudi
uno dei due «Santi Protettori» del poeta «nella feroce continua
battaglia»46 per la conquista di una lingua poetica. Riconosciuto come
indiscusso maestro anche nella Vita, è qui presentato da Apollo come
un «amico» del poeta e, soprattutto, come un autore di tragedie: risaliva
infatti al 1770 la sua Sofonisba, seguita a distanza di qualche tempo
da La congiura delle polveri (che Alfieri satireggiò in due epigrammi del
178447), Fedima e Coriolano. Se gli sciolti aspirano ad essere innanzi tut-
41 Cfr. Frugoni, Bernier, su quest’Aurora, i’ non so, come, in Versi sciolti…, cit., p.
XII, vv. 8-10: «[…] Su le mie palpebre / Vapor tenace di soave sonno / Dai papaveri
suoi Morfeo diffonde».
42 È forse reminiscenza dei vv. 146-147 di Dea, che scendesti di Liguria ai lidi, ivi,
p. CXXIII: «Io tacerò, s’egli potea co’ i voli / del suo robusto immaginar […]».
43 Cfr. ad es. l’apparizione della musa Euterpe in Perché si tarda, qual più so, ti
vergo, ivi, pp. LXXV-LXXVI.
44 Si noti ad es. ai vv. 72-73 («Ma ohimè, che il riso adulator tornommi / In
pianto amaro con i detti sui») la citazione di If XXVI, v. 136. L’immagine del seguire
le orme altrui dei vv. 80-81 è frequente in tutta la Commedia: cfr. If XVI, v. 34; Pg
V, v. 2 e IX, v. 60; Pd XII, vv. 115-116.
45 Per l’esercizio poetico come «volo» e il riferimento, frequente nel Frugoni, ai
poeti come «cigni» cfr. Bernier, su quest’Aurora, i’ non so, come, in Versi sciolti…, cit.,
p. XIV («[…] e su le proprie penne / Libero, e novel Cigno a i Numi alzarsi», vv.
50-51); ai vv. 56-57 si accenna per contrapposizione proprio alla «imitatrice immensa
turba / Del maggior Tosco».
46 Vita. Vol. I, cit., IV, 1, p. 186.
47 Queste tue polveri è compreso nelle Rime magginiane (Rime 206); A voler mordere
si legge in M. Sterpos, Per una nuova edizione delle “Rime” di Vittorio Alfieri, in
Id., Il primo Alfieri e oltre, Modena, Mucchi, 1994, pp. 223-224.
[ 14 ]
86 CHIARA CEDRATI
to un riconoscimento dettato dalla gratitudine al magistero dell’amico,
che viene invitato da Melpomene ad abbandonare lo studio delle
scienze naturali a cui si sarebbe rivolto per dedicarsi nuovamente alla
tragedia in cui aveva già dato alte prove, non manca però nel testo una
componente autorappresentativa e autobiografica, secondo la ben nota
tendenza alfieriana a misurare ogni cosa sul metro della propria
individualità. Nel dipingersi già come un trageda provvisto non solo
di belle speranze ma anche di talento, nonché separato dagli altri «cigni
» dall’aspirazione a riconoscersi in un ideale altissimo della letteratura,
Alfieri dimostra qui una consapevolezza di sé nelle vesti di poeta
ben più precoce rispetto a quanto emerge dalla ricostruzione dell’apprendistato
letterario fornita nella Vita. Nell’ora appunto non è comunque
il solo testo poi relegato tra i primi tentativi che sia stato ispirato
dal desiderio di ringraziare un «vate amico». È questo infatti il fine
dell’incompiuto Ingrato vate, ingrato, alto dicea (Rime 408), che a c. 169r
reca la nota «Febbrajo 1776» corretta in «1777» e nel quale ritroviamo
significativamente, seppure il metro scelto sia in questo caso l’ottava,
la medesima figuratività degli sciolti, con la descrizione dell’avvicinamento
del poeta al tempio della dea Gratitudine che sola si fregia «del
volgo gli incensi aver a sdegno»48.
La paternità di Opra, che alla ragion, forse nemica, che è compreso nel
ms. tra testi del 1775 e che perciò Maggini data per congettura al medesimo
anno degli sciolti al Tana, è discussa: mentre l’editore attribuisce
senza incertezze il testo all’Astigiano49, Branca lo considera spurio50
sulla base del tono e di una nota a c. 151r51. Il fatto che il testo sia
probabilmente incompiuto e la presenza, oltre che di alcuni piccoli
disegni vergati presumibilmente dal poeta, di pentimenti immediati e
di numerose correzioni autografe spingono tuttavia a dubitare che
possa trattarsi di versi altrui magari ricopiati per esercizio e ci portano
48 Cfr. Frugoni, Muse, Figlie di Giove, ancor la fonte, in Versi sciolti…, cit., p.
CXLII, vv. 72-73: «Né le sembianze mie, che mal conosce, / Al vaneggiante vulgo
aprir mi degno»; cfr. anche, ad es., «Ben sordo a le sue note il Vulgo ignaro / Rado
intese» (Da la sempre frondosa arbor vivace, ivi, p. III, vv. 8-9); «Misero Vulgo, sai chi
debba in sommo / Pregio tenersi […]?» (Me, che volea l’armoniose corde, ivi, p. LIV,
vv. 102-103); «Ne questa, invido vulgo, è di soverchio / Favoloso lodar vana lusinga
» (Non io, se move da i superni giri, ivi, p. LXXXVIII, vv. 39-40).
49 Cfr. Rime, cit., p. 348n.
50 V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit., p. 217.
51 «Non mi posso più | ricordare, 25 anni dopo, | se questi versacci siano miei,
| né cosa fossero, se una | traduzione, o altro. Ma | quali che sono, son degni di |
star qui. [tra le «Cose Liriche di rifiuto»] | Firenze 1799.».
[ 15 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 87
invece a sospettare che il componimento sia originale. Nei 58 versi di
cui il testo si compone viene faticosamente sviluppata una riflessione
sul rapporto tra il «vero», già oggetto del poema frugoniano dove è
qualificato come amante delle Muse e dei poeti52, e la «ragione». Il
cardine della riflessione è enunciato ai vv. 10-24: il valore dei «necessarj
errori», che furono base «d’ogni virtù, d’ogni grand’opra», si contrappone
alla «ragione», che pur essendo vera in se stessa, è però nemica
al «vero / uttil di società». I «felici inganni» dell’antichità, esemplificati
dalle imprese gloriose ma leggendarie di «Eroi» e «Semidei»,
avevano consentito ai Greci e ai Romani di distinguere tra bene e male
e di dare senso al «ben oprar» a dispetto dell’originaria natura animalesca
dell’uomo; i valori positivi («debolezza, beltà, giustizia, onore»)
vigevano senza che ci fossero leggi per proteggerli. Nell’età dei lumi e
della ragione («sì schiarita etade», i «tempi, ove ragione hà vinto»),
cantare di «favolosi Eroi» sarebbe però opera «ardita e stolta» per
chiunque aspirasse ad attenersi al vero. Il poeta si ripropone perciò di
parlare di «altri Eroi», presumibilmente i grandi greci e romani, il cui
valore si fondava su errori fecondi. Il «secol rio» impedisce invece
all’uomo contemporaneo di seguire il loro esempio: quando altri valori
«più infelici» si avvicendarono a quelli degli avi dediti solo alla «fama
immortal», il vero onore scomparve, sostituito da una vita oziosa
e molle, e oggi, seppellito nella tomba assieme alla sua fama, l’uomo
non può in alcun modo strapparsi al suo destino di morte.
Gli sciolti, che a questo punto si interrompono, si radicano intimamente
nelle idealità che saranno espresse in modo organico di qui a
qualche anno nei due trattati e fanno propri alcuni motivi centrali del
pensiero alfieriano più maturo che ritroviamo peraltro già espressi in
altri testi di metro narrativo degli anni 1775-1777, come ad esempio il
capitolo Perché, crudel Fortuna ognor nemica scritto nel «Febbrajo 1777
Per Tana Arduino, che si | ruppe la gamba cadendo dal | suo Cavallo
Cervo» (Rime 409; ms. BML Alfieri 3, c. 171r). L’elogio dell’amico Arduino
Tana di Verolengo (1748-1828) viene svolto attraverso una contrapposizione
di fortuna e virtù che ebbe forse presente – sottoponendola
a un rovesciamento di segno – quella sviluppata nelle stanze dedicate
agli eroi romani nella «grandiosa» ode La Fortuna (Una donna
superba al par di Giuno) di Alessandro Guidi, che tanto avevano trasportato
il poeta in una delle sere trascorse a Lisbona con il Caluso nel
52 Frugoni, Muse, Figlie di Giove, ancor la fonte, in Versi sciolti…, cit., pp. CXXXIX
segg.
[ 16 ]
88 CHIARA CEDRATI
corso dell’inverno 177153: nella seconda parte del testo la virtù dimostrata
da Arduino in occasione del sanguinoso incidente viene accostata
a quella di Marco Bruto e Catone, che la scelsero come loro dea
deludendo attraverso il suicidio «l’iniqua sorte» che li avrebbe voluti
sconfitti. La descrizione della Fortuna con cui si apre il capitolo appare
a sua volta debitrice di un passo dei già ricordati versi frugoniani al
Bajardi54.
È invece certamente memore di un felice sonetto di Comante più
che dei suoi sciolti il capitolo elegiaco Stavami un dì, sopra l’alpestre cima
(Rime 397), che, secondo la nota autografa55, risale come a Generoso
corsier all’estate trascorsa a Cesana, «a’ piedi del Monginevro, dov’è
fama che Annibale varcasse l’Alpi»56. Il testo prende le mosse proprio
dalla notizia storica appena accennata nell’autobiografia: a partire dal
monologo del condottiero cartaginese che si accinge a scendere in Italia
per distruggere «Roma Audace, e schiva d’ogni laccio» (v. 18), vi è
sviluppato il tema della virtù e della libertà latina contrapposta al presente
stato di schiavitù che il poeta rileva guardando a sua volta la
penisola dall’«alpestre cima, / Donde mirando l’African guerriero, /
Italia a’ suoi mostrò qual spoglia opima» (vv. 1-3). Rivolgendosi direttamente
agli abitanti d’Italia, l’autore ne critica gli attuali costumi
molli e servili, invitandoli allo stesso tempo a scuotere il «giogo» che
li opprime e a farsi degni eredi dei loro avi e della gloria romana. Nella
conclusione Alfieri si rivolge a un «egregio amico», che «dopo fiera
zuffa» è riuscito ad aprirsi un varco «nel pelago immenso, in cui s’attuffa
/ Naufrago il volgo» (vv. 104-105) e a raggiungere il poeta sulla
cima del colle. Grazie al riferimento all’«occhio antico» e allo «sguardo
pudico» che si volge in preghiera verso il Cielo, si può forse identi-
53 Cfr. Vita. Vol. I, cit., III, 12, pp. 131-132. Una copia delle Poesie di Alessandro
Guidi, non più raccolte con la sua vita nuovamente scritta dal signor canonico Crescimbeni
[…]. In Venezia, Presso Giacomo Tommasini, 1730 corredata dell’ex-libris «Vittorio
Alfieri Romae 1782» si trova sotto la segnatura 34249 alla Médiathèque di
Montpellier.
54 «Perché, crudel Fortuna ognor nemica / Mostrar ti suoli a chi con forte
aspetto / Al par t’accoglie avversa, al pari amica [?] / Dea ben lo so ti noma il
volgo inetto: / Ma non ti stima tal, ne tal t’incensa / Picciolo stuol di veri saggi
eletto.», vv. 1-6; cfr. Versi sciolti…, cit., p. VI, vv. 85-89: «In cui [nelle sante Virtudi]
non ha parte Colei, che Dea / Fan sciocche genti, e su volubil rota / Sognan, che i
lieti, ed i sinistri eventi / A suo piacere alterni e tutto regga / Il vasto moto de le
umane cose […]». Per il riferimento al «volgo inetto», cfr. nota 48.
55 «Cezannes Agosto 1775»; ms. BML Alfieri 3, c. 138r.
56 Vita. Vol. I, cit., IV, 1, p. 182; per un altro accenno all’impresa, cfr. ivi, IV, 12,
p. 250.
[ 17 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 89
ficare nel destinatario sconosciuto l’abate Ailliaud presso il quale il
poeta era ospite. La fonte diretta dell’episodio incipitario è identificabile
in Livio (XXI, 35), che secondo la Vita Alfieri avrebbe tuttavia ripreso
in mano, dopo il periodo dell’«ineducazione» trascorso in Accademia,
soltanto nel maggio 177757. Negli anni precedenti la redazione
del capitolo l’aneddoto aveva però conosciuto una rinnovata fortuna:
la rappresentazione a Torino durante il carnevale 1771 dell’Annibale in
Torino musicato da Giovanni Paisiello su libretto del piemontese Iacopo
Durandi58 era stata preceduta nel 1767 dalla composizione da parte
del Frugoni del sonetto Ferocemente la visiera bruna, la cui vasta e immediata
circolazione manoscritta è testimoniata tra l’altro dalla sua
presenza nell’autografo alfieriano contenente l’Estratto di Dante. Il testo
non è peraltro il solo dedicato da Comante ad Annibale, che nel
secondo tomo delle Opere curate dal Rezzonico figura quale protagonista
di altri cinque sonetti59, ma che ritorna nelle vesti di «lui, che
l’Alpi superò primiero» (v. 13) anche in un altro dei componimenti
copiati da Alfieri nel manoscritto della Bibliothèque de l’Institut,
Quando il gran Scipio dall’ingrata terra60. È quindi probabile che la fonte
primaria dell’Annibale alfieriano, seppure tratteggiato diversamente
rispetto al condottiero dipinto dal Frugoni61, sia proprio da identificare
nell’incarnazione datane da Comante, in un sonetto la cui forte impronta
“teatrale”62 non poteva non colpire profondamente l’immaginazione
del poeta. La permanenza della memoria alfieriana del ciclo
di sonetti pittorici sul cartaginese trova conferma nella presenza ricorrente
del personaggio nelle rime degli anni seguenti: mentre nel gen-
57 Cfr. ivi, IV, 4, p. 201.
58 Sull’opera, in cui viene dato ampio spazio alla scena liviana di Annibale che
rimira l’Italia dalle Alpi, cfr. A. Rizzuti, “Annibale in Torino”: una storia spettacolare,
Torino, EDT, 2006.
59 Per la serie, Opere poetiche del Signor abate Carlo Innocenzio Frugoni …,
cit., t. II, pp. 185-190, sonetti VII-XII.
60 Ivi, p. 192.
61 L’odio minaccioso verso Roma che caratterizza l’eroe nel sonetto frugoniano
risulta stemperato nel capitolo al punto da spingere Agostino Tana a far notare
nelle chiose da lui apposte al testo l’eccessivo tratto filoromano dell’Annibale alfieriano
(ad es. «Pare che Annibale si lagni seco stesso di non essere Romano»; «Con
tai pensieri non avrebbe giurato sull’ara un odio così fatale a’ Romani»).
62 «[…] l’eroe cartaginese è rappresentato in una posa teatrale, mentre dall’alto
delle Alpi contempla l’Italia che si accinge a invadere […] sicché, più ancora che a
un personaggio storico, sembra di trovarsi innanzi a un attore, alquanto gigione,
che recita la parte di quel personaggio». B. Maier, Rimatori d’Arcadia, Udine, Del
Bianco, 1972, p. 70.
[ 18 ]
90 CHIARA CEDRATI
naio 1795 ne rievocherà analogamente al Frugoni il tremendo giuramento
nel misogallico Odio all’emula Roma acerbo eterno63, nell’agosto
1786 lo raffigurerà in “Il peggio è viver troppo”; e il sepper molti (Rime
171) nell’atto di darsi la morte, prestando particolare attenzione, come
già Comante in Quando la gemma al dito Annibal tolse, ai suoi ultimi
pensieri e parole, ma alterando il ritratto che il Frugoni aveva dato del
condottiero alla luce della riflessione sul significato del momento del
trapasso sviluppata nel medesimo periodo anche in Sublime specchio di
veraci detti (Rime 167).
Pur avendo riposizionato lo studio dello sciolto frugoniano nel
quadro della ricerca in campo lirico piuttosto che ai fini della tragica,
la nostra rapida panoramica sulle prove degli anni immediatamente
successivi alla conversione letteraria conferma il disagio nei confronti
dell’ode in sciolti che Alfieri dichiara nella lettera al Caluso. Come
denunciano la povertà numerica e qualitativa dei risultati e lo stigma
di «Cose Liriche di rifiuto» che li colpì, i tentativi con lo sciolto furono
nel complesso insoddisfacenti e, assieme alla deludente sperimentazione
su forme metriche lunghe quali il capitolo elegiaco, le stanze e la
canzone perseguita al principio della carriera alfieriana, condussero
alla scelta del sonetto quale forma privilegiata per l’espressione lirica.
Ci sembra d’altra parte che le difficoltà incontrate dal poeta in erba nel
cercare di riprodurre, al di là della semplice ripresa del metro e di alcune
immagini, la lussureggiante e pomposa maniera frugoniana nei
due sermoni maggiormente debitori di Comante si manifestino soprattutto
dal punto di vista dello stile. Il passaggio, forse guidato dal
desiderio di una più stretta imitazione del modello, dal tono medio di
Nell’ora appunto al più solenne e insieme più stentato andamento di
Opra, che alla ragion, forse nemica non si traduce infatti in un risultato
migliore, ma piuttosto in quella stessa «fatica» che le movenze tipiche
dello sciolto frugoniano avrebbero generato nell’Alfieri maturo. Ciò
non impedì comunque al poeta, nel concepire per porre degna fine
alle rime la sottovalutata Teleutodia, di adottare sì il metro dell’ode pindarica
per «fare anche un po’ il grecarello»64 sull’onda degli studi senili,
ma di “riempirlo” al contempo con le figurazioni – il sogno, la
visione del dio che vaticina sul futuro, la riflessione sulla scrittura letteraria
– che aveva già esperite negli sciolti di Nell’ora appunto, in cui
Morfeo diffonde e per le quali aveva attinto direttamente agli esempi di
63 V. Alfieri, Scritti politici e morali. Vol. III, a cura di C. Mazzotta, Asti, Casa,
d’Alfieri, 1984, p. 233.
64 Vita. Vol. I, cit., IV, 27, p. 320.
[ 19 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 91
Comante. Seppure il nome del caposcuola non figuri nel carteggio che
accompagna l’autografo dell’ode65, nel momento in cui fu necessario
«grandeggiare», ovvero perseguire uno stile retoricamente sostenuto
e figurativamente ricco come richiesto dal genere, l’eco dello studio
giovanile del Frugoni quale «pomposo galleggiante scioltista» poi rinnovato
sulle edizioni acquistate negli oltre vent’anni successivi tornò
inevitabilmente (inconsciamente?) a farsi sentire.
Sempre nel contesto della definizione della poetica matura e della
progressiva affermazione del sonetto si collocano le prove – le prime
che avessero incontrato l’approvazione del «censore» Tana – sul sonetto
pittorico, del quale Frugoni fu iniziatore e maestro con le serie di
testi di argomento sacro o sulle antichità romane che si leggono nelle
Opere. Seppure Alfieri conoscesse direttamente esempi di Comante, la
Vita riconduce i primi saggi in questo genere alla lettura del «frugonianissimo
»66 poeta modenese Giuliano Cassiani (1712-1778) e in
particolare del sonetto Diè un alto strido, gittò i fiori, e volta che «gli era
stato dato in Modena nel ritornare di Toscana»67. Il fortunato68 componimento,
per il quale il Foscolo parlò per primo di «esattezza pittorica»69
«nel senso affatto empirico che la sua poesia ha somiglianza con opere
che si chiamano di pittura, benché intrinsecamente non sia dato distinguere
a rigore poesie da pitture o poesie da sculture»70, raffigura
come in un tableau vivant il momento culminante, di maggiore evidenza
plastica e figurativa, del mito del rapimento di Proserpina, che Cassiani,
rifacendosi «non senza ingegnosa destrezza»71 a Comante, dipinge
poeticamente dividendo il testo in quattro singoli quadri in cui
l’attenzione del poeta e del lettore si focalizza su un dettaglio della
rappresentazione raffigurato in tutto il suo dinamismo. Gli elogi ricevuti
dall’amico Tana per il suo Volea gridar, fuggir volea, ma vinto (Rime
1), fatto esplicitamente «a imitazione dell’inimitabile del Cassiani»72,
avrebbero spinto Alfieri a comporre altri due sonetti, Braccia con brac-
65 BML Alfieri 12, cc. 6-16; si legge in V. Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, cit.,
p. 236.
66 C. Calcaterra, Storia della poesia frugoniana, cit., p. 442.
67 Vita. Vol. II, cit., IV, 3, p. 154.
68 Cfr. A. Fabrizi, Marino, cit., pp. 99-100, nota 16.
69 U. Foscolo, Vestigi della storia del sonetto italiano, in Id., Prose politiche e letterarie,
dal 1811 al 1816, a cura di L. Fassò, Firenze, Le Monnier, 1933, p. 144.
70 B. Croce, Sonetti pittorici, in Id., La letteratura italiana del Settecento, Bari, Laterza,
1949, p. 178.
71 C. Calcaterra, Storia della poesia frugoniana, cit., p. 375.
72 Cfr. Vita. Vol. I, cit., IV, 3, pp. 197-198.
[ 20 ]
92 CHIARA CEDRATI
cia in feri nodi attorte (Rime 2) e Avviticchiati, ignudi, e bocca a bocca (Rime
3). Collocati in apertura dell’edizione di Kehl, furono copiati in prima
battuta in quanto degni di essere preservati a c. 72 del ms. BML Alfieri
13, dove sono tutti datati al dicembre del 1776.
Se il primo verso di Volea gridar denuncia subito, ricalcando la
struttura in tricolon dell’incipit del modello («Volea gridar, fuggir volea,
ma vinto» contro «Diè un alto strido, gittò i fiori, e volta»), la derivazione
dal testo sul ratto di Proserpina, la presenza nella breve serie
di reminiscenze da altri sonetti del Cassiani73 spinge a ipotizzare che
Alfieri conoscesse non uno solo ma più componimenti del modenese,
che nel 1770 aveva visto stampare a cura dell’allievo Girolamo Lucchesini
un suo Saggio di rime74, poi seguito da altri edizioni postume.
Non è possibile appurare se già nel 1776 Alfieri possedesse il volumetto,
ma in una lettera del febbraio 1795 il poeta scriveva a Luigi Cerretti,
autore nel 1779 di un elogio del poeta, per «ringraziarlo del Cassiani
da lui favoritogli»75: si tratta non dell’edizione venuta alla luce a Mantova
in quello stesso 179576, ma di una copia del Saggio di rime che si
conserva oggi a Montpellier (segnatura 11017(1)) con la nota manoscritta
«Vittorio Alfieri Firenze 1794 dal Cerretti».
Dimostrando di cogliere e apprezzare il senso dell’operazione del
Cassiani – riprodurre il nucleo fondamentale del mito non come una
raffigurazione statica, ma come sequenza di gesti, senza il ricorso alla
parola diretta caratteristico dei sonetti dei mesi successivi – Alfieri descrive
la scena nel suo divenire, come una serie di azioni; ma se lo
schema generale e i soggetti trattati sono ricalcati sugli esempi del
Cassiani, secondo quanto ha dimostrato Angelo Fabrizi la fonte di immagini
ed espressioni è da individuarsi piuttosto nell’Adone marinia-
73 Rime 1, v. 3 («l’Ideo garzon») riprende l’espressione «l’ebreo Garzon» del v.
1 del sonetto sulla moglie di Putifarre Vien, qui siedi: all’ebreo Garzon diletto. Rime 2,
v. 14 («ei giace») è forse memore dell’«ei giacque» che si legge in fine del v. 13 nel
sonetto su Icaro Poiché del Genitor la via non tenne. In Rime 3, il v. 6 («ciglio tremulo
umidetto») e il v. 7 («l’igneo petto») guardano di nuovo rispettivamente ai vv. 7-8
(«l’umidetto […] tremulo ciglio») e al v. 5 («l’eburneo petto») di Vien, qui siedi:
all’ebreo Garzon diletto. Alcuni echi erano già stati individuati da A. Fabrizi (Marino,
cit., pp. 100-102), che per primo ipotizzava la conoscenza da parte di Alfieri di altri
sonetti del Cassiani.
74 Saggio di rime del signor Giuliano Cassiani […] date in luce da un discepolo
amico delle Muse. In Lucca, appresso Giuseppe Rocchi, 1770.
75 V. Alfieri, Epistolario. Vol. II, a cura di L. Caretti, Asti, Casa d’Alfieri, 1981,
p. 157.
76 Poesie scelte di Giuliano Cassiani. Mantova, s.n., 1795, da cui qui si cita.
[ 21 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 93
no. Così in Volea gridar, fuggir volea, ma vinto (ms. BML Alfieri 13, c. 72r)
il poeta mostra di seguire da vicino Die’ un alto strido sia imitandone la
struttura e l’andamento, sia scegliendo un soggetto omologo (il rapimento
di Ganimede da parte di Giove), ma l’episodio appare ripreso
dalle ottave 32-44 del canto V del poema77. Anche i sonetti successivi,
l’uno sulla lotta tra Ercole e Anteo e l’altro sugli amori di Venere e
Marte, guardano come il primo alle narrazioni di analoghi episodi
tratti dall’Adone – la lotta tra Satirisco e Corteccio (XX, 130-135) e la
trappola congegnata da Vulcano per cogliere sul fatto i due amanti
(VII, 192-224) – rispetto ai quali si evidenziano anche analogie tematiche
e linguistiche78. A differenza del primo, nel quale l’ultima terzina
è dedicata alla chiosa e vede il poeta rivolgersi al tremante Ganimede
per biasimarne la paura, i due sonetti successivi si dimostrano tuttavia
più aderenti allo schema proposto da quello sul ratto di Proserpina:
in entrambi i casi l’ispirazione “pittorica” resta infatti costante per
tutto il componimento, interamente incentrato sulla rappresentazione
degli atteggiamenti e delle azioni dei personaggi.
Al trittico, che costituisce a detta di Alfieri stesso un microgruppo
omogeneo dal punto di vista cronologico, tematico e stilistico, ci sembra
possa essere affiancato anche un quarto sonetto, Casta e bella del
par, né pur parole (Rime 15), che alla c. 77r di BML Alfieri 13 figura sotto
la data «1776 X.bre»79. Sebbene compaia nell’edizione di Kehl come
quindicesimo dei sonetti, fu quindi composto nello stesso periodo dei
tre appena analizzati, rispetto ai quali presenta a nostro giudizio tali
affinità da poter essere considerato come il quarto dei sonetti pittorici
alfieriani. Tema del testo sono ancora una volta gli amori degli dei, con
Giove che, trasformatosi in cigno, seduce la ritrosa Leda come vuole il
mito più volte ricordato nell’Adone80. Oltre al soggetto, anche la struttura
del sonetto, condotto per quadri giustapposti e intessuto di reduplicationes,
parallelismi, dittologie e riprese a breve distanza, si rivela
affine a quella dei testi appena visti: nella prima quartina vengono
presentati i personaggi e la situazione di partenza, mentre nella seconda
il poeta si rivolge, come ai vv. 12-14 di Volea gridar, fuggir volea, a un
terzo personaggio, Amore, domandandogli con tre interrogative come
77 Cfr. A. Fabrizi, Marino, cit., pp. 101-102.
78 Per il dettaglio degli echi mariniani cfr. ivi, pp. 105-109.
79 La carta non appartiene al sesterno che va dalla c. 71 alla c. 86, ma è un foglio
aggiunto, oggi incollato sopra c. 78r contenente a sua volta testi del gennaio-agosto
1777.
80 Cfr. ad es. Adone, II, 149, vv. 1-4; XI, 48, vv. 7-8; XIX, 307, v. 6.
[ 22 ]
94 CHIARA CEDRATI
possa sopportare che Leda respinga un amante tanto potente. Introdotta
da «ecco»81, segue nelle terzine la svolta improvvisa con la raffigurazione,
scandita dai gesti dei protagonisti, del nucleo fondamentale
del mito: l’innamoramento di Leda per il cigno e l’amplesso, sotto
gli occhi di Amore che ride per l’inganno riuscito82, tra la donna e la
divinità in incognito.
Come abbiamo già ipotizzato accennando alla Teleutodia, la risonanza
dello studio delle esperienze liriche di Frugoni e dei frugoniani
all’interno delle rime alfieriane non si esaurì comunque con le prime
prove degli anni della formazione e, seppure perlopiù circoscritta ad
episodi isolati, continuò a incidere nell’ambito del successivo ventennio.
Un caso esemplare e noto è costituito da Ecco, sorger dall’acque io
veggo altera (Rime 56), redatto nel giugno 1783 «Alla vista di Venezia a
Pilistrina» e con tutta probabilità ispirato a Restar potessi ove tu guidi e
reggi83, il celebre sonetto di lode composto dal Frugoni alla sua partenza
da Venezia che anni dopo Alfieri trascrisse di proprio pugno nel
primo volume delle Opere. Il medesimo testo può forse essere chiamato
in causa anche per Nobil città, che delle Liguri onde (Rime 76), fatto
nell’ottobre seguente per l’arrivo a Genova e a sua volta, come Rime
56, caratterizzato da forti analogie con quanto delle due città si dice
nella satira I viaggi84. La celebrazione di Comante della «saggia» (v. 5)
Dominante «Forte d’Armi e di Navi e d’Auree leggi» (v. 8) viene tuttavia
da Alfieri totalmente capovolta di segno: il paragone con Atene e
Roma impostato dal modello è infatti messo in discussione confrontando
la libertà vantata dalla «canuta del mar saggia reina» (v. 2) con
quella «latina», mentre «la cagion vera» della sua potenza sono, «più
ch’arme, i ben oprati inganni» (v. 12) e un’accorta politica interna fondata
sulla paura e su una sollecita prevenzione.
Un notevole ritorno alle origini e ai primi esperimenti di imitazione
dei sonetti pittorici del Cassiani è rappresentato da Candido toro in
suo nitor pomposo (Rime 273)85, che nel 1794 si inserì nella linea dei pre-
81 «Già per un cigno Leda ecco si strugge» (v. 9). Cfr. «Ma chi contr’Ercol basta?
Ecco egli afferra» (Rime 9, v. 9); «Quand’ecco rete insidiosa scocca: / Ecco apparir gli
Dei» (Rime 3, vv. 8-9).
82 «Ride Amor», v. 13; cfr. Rime 3, v. 12: «Ridon gli Dei; ride Vulcan, ma a stento
».
83 Sonetto CLIV in Opere poetiche del signor abate Carlo Innocenzio Frugoni…,
cit., t. II, p. 332.
84 Satira I Viaggi, I, vv. 13-21 e 103-117, in Scritti politici e morali. Vol. III, pp. 128-
133.
85 Rime 273; ms. BML Alfieri 13, c. 50v: «20 Decembre. [1794] Sotto Fiesole».
[ 23 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 95
cedenti del lontano 1776 anche per la scelta dell’episodio mitologico
raffigurato: un’altra delle metamorfosi e delle seduzioni di Giove – in
questo caso il celebre episodio ovidiano86 del rapimento di Europa –
attraverso la quale Alfieri entrò nuovamente in gara con il testo-modello
sul ratto di Proserpina. Come i precedenti, il componimento si
apre con la presentazione dei due protagonisti, per poi ospitare nelle
terzine la descrizione dell’azione vera e propria con lo svelamento finale
del dio, analogo a quello di Casta e bella del par, né pur parole87.
L’ideazione del sonetto, che secondo Fabrizi fu composto «a gara col
Marino» guardando alle ottave 59-63 del canto VI88, deve essere probabilmente
messa in relazione con le esibizioni fiorentine del dicembre
1794 della celebre improvvisatrice lucchese Teresa Bandettini
(1763-1837), per la quale il poeta scrisse Ed io pure, ancorché dei fervidi
anni (Rime 276). Come ci informano tre missive non datate di un dottor
Luigi Piccioli di Firenze all’allora giovanissimo Giovanni Rosini (1776-
1855)89, nel dicembre 1794 Alfieri avrebbe presenziato a tre spettacoli
di improvvisi in cui si esibì anche la Bandettini. In occasione della
prima accademia, svoltasi come una sfida tra Fortunata Sulgher-Fantastici
e la stessa Amarillide Etrusca, il poeta non sarebbe rimasto spettatore
silenzioso, ma, arrogandosi il ruolo attivo che, secondo la prassi
consueta, i letterati di professione erano invitati ad assumere per arricchire
lo spettacolo, parlò per suggerire quale tema proprio il ratto
d’Europa90. Alla luce del documento è forse possibile instaurare un
legame tra il sonetto pittorico Candido toro in suo nitor pomposo e l’accademia.
Non è difatti improbabile, nel caso in cui sia stato composto
prima dello spettacolo di improvvisi, che il testo stesso abbia suggerito
al poeta, desideroso forse di paragonare le sue capacità con quelle
di Amarillide attraverso un soggetto recentemente esperito, il tema da
86 Ov. met. lib 2, vers. 833-875. Per un cenno al mito, cfr. Satira L’Antireligionería,
in Scritti politici e morali. Vol. III, cit., p. 111, vv. 55-57.
87 «Finchè dal tauro esce il Rettor del Polo», v. 14; cfr. Rime 15, v. 14: «Ride
Amor; Giove è il cigno, e il sen le ha pieno». Tra i due sonetti si riscontra anche la
ripresa delle parole rima sugge-si strugge: cfr. Rime 273, vv. 6 e 8 e Rime 15, vv. 9 e
12.
88 Cfr. A. Fabrizi, Marino, cit., pp. 124-125.
89 Per le lettere cfr. A. Di Ricco, Un’Accademia di improvvisazione di fine Settecento,
«Rivista di letteratura italiana», III (1985), 2-3, pp. 413-431.
90 «Fù chiesto il tema, e tutti in silenzio. Alfieri dal suo angolo disse: “Bene via,
il ratto d’Europa”. […] Fù cantato dopo dalla Bandettini il tema d’Alfieri. Amico è
incredibile quello che disse. Che vive descrizioni. Ella dipinse un Toro più bello di
quello d’Ovidio. Era una descrizione che non si fà a tavolino.». Ivi, pp. 424-425.
[ 24 ]
96 CHIARA CEDRATI
proporre per l’improvvisazione, oppure al contrario che lo stesso sonetto
pittorico alfieriano sia nato successivamente all’esibizione della
Bandettini, sull’onda del desiderio di emulazione descritto in Ed io
pure, ancorché dei fervidi anni. La volontà di gareggiare indirettamente
con la poetessa e con l’arte misteriosa e invidiabile dell’improvvisazione
su cui Alfieri riflette in Rime 276 e 277 spinse forse l’Astigiano a
proporre nell’occasione successiva proprio uno dei soggetti dei suoi
antichi sonetti pittorici: come infatti riferisce il Piccioli, «Fù dato il primo
tema da Alfieri: “Ercole e Anteo”»91.
Più che gli scarni giudizi sull’opera del Frugoni, è la persistenza
nella scrittura lirica delle letture giovanili poi rinnovate sulle edizioni
acquistate nel corso degli anni a darci la reale misura del debito che,
pur non potendo o sapendo farne realmente propria la maniera, Alfieri
contrasse con Comante e che volle al contempo ridurre d’importanza
se non rimuovere tout court. Rimozione che è specchio di un rapporto
quantomeno problematico non soltanto con il modello misconosciuto
a cui ci siamo qui dedicati, ma più in generale con la lirica e i
lirici a lui contemporanei, nei riguardi dei quali il poeta mostra di provare
curiosità ma sente d’altra parte l’esigenza di prendere le distanze.
È interessante notare a questo proposito come il modo in cui Alfieri
guarda a “poeti forti” come Petrarca o Dante sia invece improntato
a una piena adesione e a un’affettuosa consonanza di sentimenti che
lo spingono ad imitarli in modo manifesto e, proprio in conseguenza
di questa imitazione di modelli sublimi, a nutrire la speranza di essere
ammesso nel pantheon di sommi delineato nel sonetto dei Quattro gran
Vati. In questo senso Alfieri, pur non esente dall’ovvia necessità di
crearsi uno stile individuale anche se largamente – e amorevolmente
– plasmato su quello dei poeti del canone di eccellenza, sembra non
conoscere, almeno per quanto riguarda la lirica, quell’“angoscia
dell’influenza” nei confronti dei propri “precursori forti” che Harold
Bloom individua invece quale cifra distintiva dei poeti postilluministi,
sempre più annichiliti dal peso di coloro che li hanno preceduti92. Al
contrario, nel caso di Frugoni come più in generale delle esperienze
liriche contemporanee (ma la riflessione, che esula dalla portata di
questo contributo, potrebbe essere utilmente ampliata anche alla poetica
tragica), l’ansia alfieriana appare significativamente rivolta a negare,
censurando il reale impatto dello studio e dell’appropriazione
91 Ivi, p. 428.
92 Si fa naturalmente riferimento a H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria
della poesia, trad. it. di M. Diacono, Milano, Feltrinelli, 1983.
[ 25 ]
ESPERIENZE FRUGONIANE NELLA LIRICA DI VITTORIO ALFIERI 97
dei loro modi lirici, ogni influsso o debito nei confronti dei “colleghi”
e delle poetiche coeve.
Seppur recalcitrante e talvolta ingrato nei confronti di numerose
fonti della sua vena lirica, l’Alfieri «poeta in erba» e poi pienamente
maturo non avrebbe comunque potuto prescindere, nella ricerca di
forme espressive per dar voce alla sua sfaccettata interiorità, dal confrontarsi
– anche e soprattutto per superarlo – con quell’indiscusso,
discusso «caposcuola» che Frugoni fu per la lirica del suo secolo.
Chiara Cedrati
(Università di Milano)
[ 26 ]
MARGHERITA DI FAZIO
Ombrelli e ombrellini nell’immaginario artistico
fra Ottocento e Novecento. Un primo percorso
di lettura
In the framework of a research on the relationships between literary
texts and clothing accessories, the present work investigates the
presence of the umbrella in the European, and particularly Italian,
novels and tales of the 19th and 20th centuries. In some cases, representations
from contemporary paintings is considered as well, to
underline parallel situations and new points of view.
Continuando la nostra ricerca sui rapporti fra testi letterari e accessori
dell’abbigliamento1 – questi elementi del vestire che, pur presentandosi
solo come completamento e aggiunta dell’abito, possono assumere
grande rilievo e importanza nel dispiegarsi del gioco narrativo
– analizziamo ora la presenza dell’ombrello nei romanzi e racconti
dell’Ottocento e del Novecento europei, soprattutto italiani. Uno
sguardo è volto anche alla rappresentazione pittorica, per individuare
situazioni parallele o nuovi punti di vista.
Notizie introduttive
L’ombrello è un accessorio del nostro abbigliamento che fornisce
riparo contro gli agenti atmosferici. Ci protegge dall’ardore del sole
(di qui il termine “parasole”, sostituito spesso da “ombrellino”),
funzione oggi alquanto disattesa; e ci protegge dalla pioggia (di qui
i termini, un tempo molto in uso, di “parapioggia” e “paracqua”).
La parola “ombrello” viene adoperata anche in senso figurato, con
1 Abbiamo studiato finora il “guanto”, gli “occhiali”, il “ventaglio”, il “bottone”,
il “cappello”, l’“accessorio incorporato”. I saggi sono stati pubblicati in diverse
sedi dal 2007 («Critica letteraria», XXXV, n. 136) al 2012 (Abito e identità. Ricerche
di storia letteraria e culturale, a cura di C. Giorcelli, vol. XII, Palermo-Roma- S¥ao
Paulo, Mazzoni Editori).
OMBRELLI E OMBRELLINI 99
riferimento alla funzione protettiva (un ombrello aereo) e con riferimento
alla forma (l’ombrello del fungo).
L’ombrello è un oggetto di impiego pratico e comune, pur avendo
origine da utilizzazioni cerimoniali e da antichi miti2. Proviene dal
mondo orientale (Cina, India, Egitto) ed è collegato alla rappresentazione
simbolica del potere, sia politico che religioso. Ad esempio, in
Cina, fin dal secolo XII a.C., l’ombrello da cerimonia apparteneva alle
insegne dell’Imperatore, situazione che si prolungò per trentadue secoli,
fino alla scomparsa del Celeste Impero. In Egitto nasceva la rappresentazione
della dea Nut che, quasi ombrello gentile, si mostrava «con
il corpo arcuato a coprire la terra, in atto di protezione e di amore»3. In
Grecia, passiamo quindi al mondo occidentale, l’ombrello, che fa la sua
comparsa nel secolo V a.C., era legato da una parte al culto di Dioniso
e, dall’altra, a quello di Pallade e di Persefone, divinità femminili, celebrate
soprattutto dalle donne, le quali, nei giorni di festività in onore
delle dee, si adornavano con parasoli. Questi usi passarono poi al mondo
romano, dove l’ombrello si affermò anche come oggetto di uso comune,
riservato alle classi nobili; con forme e materiali estremamente
raffinati soprattutto presso le matrone. Le quali, con l’adozione di questo
accessorio, ebbero la necessità di provvedersi della “pedissequa”, la
schiava che lo reggeva sul loro capo. Il parasole perciò «da strumento
utilitario [diventa] pretesto di lusso e grandigia
»4.
Considerando la sola area occidentale, vediamo che la presenza
dell’ombrello non è continuativa. Nel Medio Evo l’ombrello individuale
quasi scompare per ritornare ad affermarsi nel Cinquecento5, mentre,
2 Qui e più avanti, abbiamo tratto le informazioni attinenti alla storia dell’ombrello
da: R. Levi Pisetzky, Ombrelli, «L’Illustrazione Italiana», LXXIII (1946) n. 40,
pp. 215-217; L’ombrello. Contributo alla Storia della Moda e del Costume, a cura di G.
Morazzoni e C.E. Restelli, Milano, Görlich, 1956; R. Levi Pisetzky, Il costume e la
moda nella società italiana, Torino, Einaudi, 1978; Museo dell’ombrello e del parasole di
Gignese, edizione 1989, pubblicato dalla Regione Piemonte e dal Comune di Gignese,
a cura degli Amici del Museo (ove la descrizione del Museo è preceduta da una
breve storia dell’ombrello e da notizie sugli ombrellai di Gignese); G. Vergani,
Dizionario della Moda, Milano, Baldini & Castoldi, 2003; Enciclopedia della Moda,
voll. 2, Roma, Istituto Enciclopedia Treccani, 2005.
3 Museo dell’ombrello e del parasole di Gignese, cit., p. 9.
4 L’ombrello. Contributo alla Storia della Moda e del Costume, a cura di G. Morazzoni
e C.E. Restelli, cit., p. 20.
5 Ricordiamo una pratica che riguarda il nostro paese: in questo periodo, in
Italia, l’ombrello era molto usato dagli uomini per difendersi dal sole nei viaggi a
cavallo, come attestano alcune raffigurazioni. Ad esempio, il Libro di modelli per
sarti (databile al 1580) presenta il disegno a colori di Monsignor della Trinità men-
[ 2 ]
100 MARGHERITA DI FAZIO
come accessorio dell’abbigliamento, fa la sua apparizione a Corte, nella
Francia di Luigi XIV, dapprima solo presso le dame, poi anche presso
gli uomini, per diffondersi, in seguito, negli altri paesi europei e in
tutte le classi sociali6. Fino a Novecento inoltrato, si distingueva fra il
parapioggia (o ombrello) tipicamente maschile, e il parasole (o ombrellino)
di uso femminile. Ma poi, con l’affermarsi dell’indipendenza
della donna – che si abitua sempre più a stare all’aperto, senza paura
per l’abbronzarsi del viso – l’ombrello o parapioggia diventa un accessorio
utile per entrambi i sessi, mentre il parasole cade in disuso.
Dalla presenza continua e diffusa dell’ombrello nella nostra vita
quotidiana nascono frasi di uso proverbiale, modi di dire, aforismi. Alcuni
riguardano l’esperienza atmosferica e stagionale: “Marzo pazzerello,
guarda il sole e prendi l’ombrello”, con molte variazioni (“A marzo,
pur se il tempo è bello, non uscir senza l’ombrello”, ecc.); “Natale
senza pioggia e Capodanno con l’ombrello”; “Con il bel tempo porta
sempre l’ombrello, anche se non hai fame porta con te sempre il cibo”;
“Quando la rondine vola basso, se non hai con te l’ombrello, allunga il
passo”; “Dicembre troppo bello promette un’estate con l’ombrello”;
ecc. Altri attengono a esperienze varie: “Piove allo stesso modo sui ricchi
e sui poveri. Solo che i ricchi hanno l’ombrello”; “Un banchiere è
uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo vuole indietro appena
incomincia a piovere” (è una frase di Mark Twain). Sull’amicizia
sono presenti riflessioni antitetiche: “L’amico è come un ombrello: in
caso di bisogno non ce l’hai”; ma anche “L’amicizia è come un ombrello
nella tempesta. Se lo saprai tener con cura ti riparerà per tutta la vita”.
L’ombrello e i testi
Per meglio individuare il rapporto fra la rappresentazione dell’ombrello7
e i testi letterari e pittorici, è bene sottolineare la struttura stestre,
armato di tutto punto, si avvia a cavallo alla giostra in onore di Filippo, erede
al trono di Spagna. Porta aperto un grande ombrello per impedire che i raggi solari
arroventino l’armatura di acciaio (Enciclopedia della Moda, cit., vol. I, p. 585). E su
questo uso tutto italiano concordano alcune testimonianze di viaggiatori anglosassoni
(Museo dell’ombrello e del parasole di Gignese, cit., pp. 11-12).
6 In Francia, nel 1709, «un Monsieur Marius inventa un ombrello pieghevole
o “tascabile”, come informa il suo biglietto pubblicitario, oggi conservato al Museo
di Nottingham». Dall’etimologia del nome si pensa che questo personaggio
fosse di origine italiana (Ivi, p. 11).
7 Osserveremo soltanto l’ombrello-accessorio dell’abbigliamento, lasciando
da parte gli altri suoi usi: ad esempio, quello legato ai riti religiosi.
[ 3 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 101
sa dell’ombrello, questo oggetto di complessa e ingegnosa architettura.
Esso ha due posizioni fondamentali: è aperto, quando deve svolgere
la sua funzione protettiva; è chiuso quando questa sua opera non è
necessaria. È costituito da varie parti. Un’asta sostiene una raggiera di
stecche su cui è tesa una copertura che, quando l’ombrello è aperto, ha
la forma di una calotta. L’asta termina, a un’estremità, con un puntale
e, all’altra estremità, con un manico. Là dove le stecche si congiungono,
è fissato il dispositivo meccanico che permette l’apertura e la chiusura.
Su questi elementi base, uguali per tutti gli ombrelli, si costruisce
una grande varietà di esemplari, che si differenziano per le dimensioni,
per la scelta dei materiali, per la diversa interpretazione formale
delle singole parti. Per le dimensioni: si va dagli ombrelli grandi e
molto grandi, a quelli piccoli e molto piccoli. Per i materiali: stoffa
(cotone, seta, fibra sintetica, tela cerata8), un tempo anche pelle, per la
calotta, che si presenta di vario colore, a tinta unita oppure a disegni
anche molto originali. Legno o metallo per l’asta. Legno, avorio, corno,
tartaruga, metallo (anche argento) per il manico. Metallo o legno
per il puntale. Per la interpretazione formale: l’ombrello può essere
rigido o pieghevole quando l’asta si rinchiude a cannocchiale9; la ca-
8 Nella toponomastica di Roma, alcune strade sono intitolate a varie categorie
artigiane: Via dei Barbieri, Via dei Sediari, Via dei Canestrari, ecc. Vi lavoravano (e
in alcuni casi lavorano tuttora) gli specialisti dei singoli settori. Per gli ombrellai
dobbiamo fare un’aggiunta. La pubblicazione dell’Assessorato all’Agricoltura della
Regione Lazio (Via dei Fienili è ancora là…il segno dell’aratro nella toponomastica di
Roma, a cura di F. Capranica e C. Pieretti, s. l., Edizioni C. Lindbergh & P., s. d.),
quando a p. 28 presenta Via degli Ombrellari, dà un’informazione particolare: questi
artigiani furono sistemati tutti insieme perché la lavorazione della tela cerata, in
quel tempo la materia più diffusa per confezionare le cupole degli ombrelli, veniva
fatta con prodotti che esalavano odori nauseabondi. La notizia ci viene data anche
da P. Staccioli e S. Nespoli in Roma artigiana (Roma, Newton & Compton, 1996,
p. 54) e da C. Fedi che, sempre a proposito degli ombrellai, parla addirittura di
«residenza coatta», per volere delle autorità (C. Fedi, Vicolario romano, Roma, Palombi,
2009, p. 22).
9 Ricordiamo che nel 1835 apparve la novità degli ombrellini brisés. Essi, mediante
una molla, potevano essere piegati a metà dell’asta e orientati verso il sole.
Un cappietto permetteva di sospenderli al polso, come si faceva con i ventagli (R.
Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, cit., pp. 302-303). Un grazioso
esemplare è visibile nella Vetrina 1 del Museo dell’Ombrello e del Parasole (cfr.
Museo dell’ombrello e del parasole di Gignese, cit., p. 24): la cupola ha perline di vetro,
motivi geometrici e floreali, colori rosa e azzurro su bianco; l’impugnatura, in avorio,
è a uncino.
[ 4 ]
102 MARGHERITA DI FAZIO
lotta può essere più o meno curva o schiacciata, semisferica o poligonale;
può, addirittura, imitare la cupola di Santa Maria del Fiore,…; il
manico può essere dritto o ricurvo, alcune volte zoomorfo (può raffigurare
una testa di pappagallo, o di paperella, ecc.).
Un’ultima osservazione. Mentre alcuni accessori sono in contatto
diretto con il vestito (come la cintura o i bottoni…), oppure con la persona
che li indossa (il cappello, i guanti, le scarpe, le calze…), l’ombrello
appartiene a quegli accessori che sono in contatto solo con la
mano che li impugna (il ventaglio, la borsa, il bastone …). Ma, mentre
il ventaglio la borsa il bastone rimangono a livello della mano o del
braccio, l’ombrello – quando, per esplicitare la propria funzione, viene
aperto – assume un movimento ascensionale. La cupola, allora, si eleva
al disopra delle teste, sovrastando, potremmo dire orgogliosamente,
le persone che si affidano alla sua protezione. E, se qualcuno vuole
guardare il proprio ombrello aperto (per verificarne l’integrità o per
trovare la via da percorrere fra gli ombrelli altrui in una strada affollata,
ecc.), deve levare gli occhi in alto, deve rivolgerli al cielo (da dove,
del resto, cade la pioggia).
A una prima indagine si evince che tutti questi elementi costitutivi
dell’ombrello (anche il rapporto con il cielo) sono sottolineati e resi
significativi dalle narrazioni e dai dipinti, che, evidenziando ora questo
ora quell’aspetto, creano situazioni varie e molteplici. Vediamone
alcune.
1. L’ombrello e l’intreccio
Nell’intreccio narrativo l’ombrello entra con modalità differenti10.
Entra “mimeticamente” a seconda delle necessità, come tutti gli
altri elementi della vita quotidiana e spesso non viene quasi avvertito
da noi lettori, in quanto fa parte di scenari abituali e ovvi. Sia se l’episodio
si svolge all’interno, in un caffé ad esempio, come si legge
10 Citiamo qui di sfuggita la presenza banalizzante dell’ombrello in La pioggia
sul cappello, i versi che Luciano Folgore scrisse parodiando La pioggia nel pineto di
Gabriele D’Annunzio. L’armonia dannunziana che accompagna il cader delle gocce
(anzi, gocciole) su alberi e piante, la rarefatta musicalità di un mondo mitico
intriso d’acqua salvifica si scontrano, e scompaiono, di fronte alla dimenticanza
inopportuna di Ermïone, che «scord[a] a casa l’ombrello /nei giorni di mezza stagione
». (L. Folgore, La pioggia sul cappello, in Poeti controluce, Foligno, Campitelli,
1922, pp. 41-48).
[ 5 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 103
nell’Innamorata della Contessa Lara11; sia se si svolge all’esterno, nel
dipanarsi della vita cittadina. In una strada affollata, mentre piove,
due passanti – che occupano più spazio del solito a causa dell’ombrello
aperto – possono urtarsi, soprattutto se uno dei due cammina in
preda allo sconvolgimento e all’angoscia12. Oppure, guardando la folla
del Corso, si possono notare i pedoni costretti a incedere in processione,
alzando e abbassando gli ombrelli, presumibilmente per farsi
strada in uno spazio invaso dalle cupole di tanti parapioggia13.
Altre volte, invece, la presenza dell’ombrello acquista rilievo per la
situazione particolare in cui viene inserita. Leggiamo Gli indifferenti di
Moravia. È la sera in cui vi sarà il primo incontro d’amore fra Leo
(l’amante di Mariagrazia, avido e vizioso, che frequenta la donna per
usufruire dei suoi beni) e Carla (la figlia di Mariagrazia, irretita dall’uomo
che vuole a tutti i costi possederla). Fra un’ora Leo verrà a
prendere la ragazza al cancello. Carla è nella propria camera come
sbigottita, assonnata, straniata in una insuperabile abulia. Forse pensa
(e qui parafrasiamo la riflessione del fratello, Michele, quando si recherà
a casa di Leo per ucciderlo14): bisognerebbe “darsi” senza accorgersene.
Giunge l’ora. Carla, quasi automaticamente, si avvia alla porta
per andare all’appuntamento:
Pioveva con abbondanza, la notte era nera e umida, da ogni parte arrivava
il rumore monotono del diluvio. Carla discese la scala di marmo
dell’ingresso e aprì l’ombrello con un gesto familiare che la stupì, come,
pensò, se in certe straordinarie circostanze ogni cosa andasse fatta
in modo diverso dal consueto15.
L’ombrello rappresenta, quindi, l’elemento della quotidianità che,
contrastivamente, s’inserisce nella straordinarietà degli eventi.
In un episodio di un’altra narrazione, I Malavoglia, la presenza
dell’ombrello, benché solo accennata, è ancor più significativa. Luca è
chiamato al servizio di leva (e troverà la morte nella battaglia di Lis-
11 «Un cameriere gli si avvicinò rispettosamente, lo aiutò a infilarsi la pelliccia
e gli porse i fiori e l’ombrello» (Contessa Lara, L’innamorata (1892), Roma, Avigliano,
2007, p. 130).
12 Ivi, p. 190.
13 Ivi, p. 128.
14 Come si sa, il delitto non avviene, perché Michele ha dimenticato di caricare
la pistola. Durante la strada, il ragazzo pensa: «Bisognerebbe ucciderlo senza accorgersene
». Cfr. A. Moravia, Gli indifferenti (1929), Milano, Bompiani, 1997, p.
258.
15 Ivi, p. 149.
[ 6 ]
104 MARGHERITA DI FAZIO
sa). L’ultima immagine del ragazzo, per la madre e per noi lettori, è
quella di lui che lascia la casa del nespolo per andare a svolgere il proprio
compito. Va via mentre piove e la stradicciola è tutta una pozzanghera.
E, in questa patetica figurina che si allontana al riparo dell’ombrello,
e proprio a causa della pioggia e dell’ombrello, sembra configurarsi
tutto il dramma del giovane e della sua famiglia16.
E infine, l’ombrello è posto in primo piano diventando, a diverso
titolo, protagonista della narrazione. Vedremo via via alcuni esempi.
Ora consideriamo solo un caso particolare: l’ombrello è presentato da
un punto di vista “straniato” (L’ombrello di San Pietro di Kálmán Mikszáth).
Gli abitanti di un povero e isolato villaggio ungherese, Glogova,
trovano aperto sulla culla di una bambina (la sorellina del parroco),
lasciata allo scoperto senza alcuna protezione contro la pioggia
sopraggiunta improvvisa, «un grande ombrello rosso tutto sbiadito e
tutto toppe. Appena appena vi si distingueva, sull’orlo in giro, un disegno
a fiorami, come una volta usava»17. È caduto dal cielo? No, dice
il campanaio, lo ha portato un vecchio. Lo ha portato San Pietro, decidono
tutti. Ma perché questa “santificazione”? Perché per gli abitanti
di Glogova l’ombrello ha qualcosa di prodigioso: non ne hanno mai
non solo posseduto uno, ma neanche visto uno. Il campanaio (e chissà
quanti come lui) addirittura non capisce la parola “ombrello”. Il parroco
mette il parapioggia in un angolo per poterlo restituire al proprietario
semmai si presentasse. Ma, dopo alcuni giorni, durante un
funerale (quello della moglie di Michele Gongoly, uno dei più agiati, o
meno poveri, abitanti della zona), lo manda a prendere per ripararsi
da un violento temporale. Ed ecco come i paesani vivono l’episodio:
16 G. Verga, I Malavoglia (1880-81), Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1961,
pp. 240-241. Questo sentimento doloroso è accentuato dalla successiva notazione,
in cui si sottolinea il rammarico che assale la Longa, quando viene a sapere della
tragedia: «[…] le rimase quella spina che l’aveva lasciato partire con la pioggia, e
non l’aveva accompagnato alla stazione» (Ivi, p. 241).
17 K. Mikszáth, L’ombrello di San Pietro (1895), Milano, Rizzoli, 1960, pp. 29-30.
Nella nota introduttiva, Alfredo Jeri dà la notizia che dal romanzo fu tratto il film
Ultimamente, nel 1959. La narrazione è costruita su due scansioni temporali e spaziali,
che sembrano giustapporsi come due episodi completamente separati: la storia
qui riportata – che si svolge a Glogova e ha come protagonisti il parroco, la
piccola Veronica, l’ombrello e gli abitanti del paese – e quella che si svolge in un
altro luogo, a Besztercze, che ha come personaggi principali, oltre a vari parenti e
amici, Paolo Gregorics e il suo ombrello (ne parleremo più avanti). Solo in ultimo
il testo ci svela l’unità delle due narrazioni. Ciò che le collega è proprio l’ombrello,
l’ombrello rosso, che si presenta, con tutta la sua importanza, sia nella prima che
nella seconda parte.
[ 7 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 105
[…] “sua riverenza”, fra l’ammirazione di tutti, e con un solo moto
della mano, fece diventare [l’ombrello] largo, tondo, sì da sembrare
fatto di più ali di pipistrello saldate l’una con l’altre. Dopo di che, tenendolo
per il manico, lo sollevò sopra il capo, e procedette lento, dignitoso,
senza subire per niente la poggia: le gocce battevano furiose
sullo strano congegno, ma, non potendo arrivare al sacerdote, sfilavano
tranquille a terra torno torno18.
La cosa, però, non finisce qui. Vi è una seconda morte considerata
importante (si spegne Giovanni Srankó) e si deve celebrare un altro
funerale. La vedova – pur essendo una bella giornata con un sole caldo
e splendente, senza la più piccola nuvola nel cielo – costringe il
parroco a portare sulla testa, anche questa volta, «il coso rosso». La
propria famiglia non è da meno di quella dei Gongoly. Durante la cerimonia
si verifica un incidente. Un portatore della bara scivola, anche
gli altri cadono, la bara si rompe, si scoperchia il cadavere e… prodigio
dei prodigi, Giovanni Srankó risulta essere vivo. Potere dell’ombrello?
Comunque sia, l’ombrello rosso è considerato miracoloso. La
sua fama si sparge all’intorno e molti pellegrini vengono da lontano
per vederlo. Il parroco e il paese cominciano a godere di una inaspettata
prosperità.
2. Puntali, cupole, manici
Le narrazioni non sempre mettono in scena l’ombrello nell’interezza
della sua architettura, ma spesso ce ne danno una visione “frammentata”,
diciamo così. Ora è il puntale a convogliare l’attenzione, ora
la cupola, ora il manico.
Il puntale, per la sua forma “appuntita” e per il suo materiale spesso
metallico, può essere visto come strumento di offesa.
Il testo, a volte, non si dilunga su questo aspetto, ma lancia soltanto
l’idea e poi tace. Oppure lancia l’idea e la sviluppa, rimanendo,
però, sempre nel campo non dell’attuazione ma dell’argomentazione.
Vi è solo un verbo per esprimere la negatività del puntale in Madame
Bovary. Emma, pur essendo sposata da poco, sente tutta la noia di
una vita assolutamente monotona, vissuta accanto a un uomo la cui
«conversazione [è] piatta come un marciapiede, vi [sfilano] le idee più
comuni nella loro veste più ordinaria, senza suscitar la minima commozione,
d’allegria o di sogno»19. Emma vorrebbe vivere le passioni
18 Ivi, pp. 36-37.
19 G. Flaubert, Madame Bovary (1856), Milano, Garzanti, 1994, p. 33.
[ 8 ]
106 MARGHERITA DI FAZIO
di cui ha letto in tanti romanzi, ma non accade nulla. Deve accontentarsi
di fare, tutta sola, qualche passeggiata e guardare la campagna
con le digitali, le viole gialle, i ciuffi d’ortica d’intorno ai grossi sassi,
le macchie di lichene…, fino a che «si [siede] per terra e, tormentando
l’erba intorno con la punta del suo ombrellino, si [ripete]: “Dio mio,
ma perché mai mi sono sposata?”»20. Tormentando l’erba. Non viene
aggiunto altro. Ma in quel verbo è racchiusa (anche se in questo caso
le vittime sono solo vegetali) tutta la sofferenza che il puntale può
infliggere.
Pur se indiretto e sfumato, più argomentato è il cenno che troviamo
nella novella verghiana Fantasticheria. La narrazione è il ricordo di
un incontro-scontro fra due mondi lontani. Il narratore si rivolge alla
giovane donna che, guardando dal finestrino del treno, aveva visto
scorrere le immagini per lei incantate di Aci-Trezza – le sue casupole,
il mare, gli scogli – e ne era rimasta affascinata. Allora aveva voluto
vedere tanta bellezza da vicino e si era recata fra quelle case e in quelle
stradicciole con il desiderio di fermarsi un mese. Ma non aveva resistito
più di quarantotto ore – lei raffinata cittadina, abituata al lusso
e ai piaceri di intense relazioni sociali – in quel paesino di pescatori
dove la vita, ai suoi occhi, era rudimentale, povera, quasi animalesca.
Il racconto, che accenna alle vicende dei Malavoglia nei loro tratti essenziali,
presenta il paese siciliano visto dall’esterno, da uno sguardo
inconsapevole e assolutamente impreparato, com’è quello della superficiale
e bella forestiera. Questa visione “straniata” permette di sottolineare
la distanza che separa un mondo dall’altro – quello di Aci-
Trezza da quello cittadino – e, nello stesso tempo, permette di fornire
spiegazioni e riflessioni su un sistema di vita, quello dei pescatori, che
ubbidisce all’«ideale dell’ostrica»: quando il tifo, il colera, la malaria
sembrano spazzar via «quel brulicame», ecco che esso torna a ripullulare
nello stesso luogo, non si sa «come, né perché».
Per rendere più chiaro questo “ideale”, viene introdotto un paragone
molto efficace, attraverso la descrizione di un episodio che, in
effetti, non si è verificato, ma che avrebbe potuto verificarsi:
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un
esercito di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo
ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline
sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi
di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di via-
20 Ivi, p. 36.
[ 9 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 107
vai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro ponticello
bruno21.
Ecco qui il nostro ombrellino e il nostro puntale, o meglio “ghiera”.
È vero che sono inseriti in un accadimento non realizzatosi ma soltanto
ipotizzato; è vero che gli esseri danneggiati non sono persone ma
formiche; tuttavia la notazione negativa è presente ed è al centro
dell’azione. E, variabile molto significativa, l’effetto di sofferenza non
è determinato dalla volontà umana, ma è conseguenza inconsapevole
di un gesto distratto. Ci sembra che venga sottolineata, così, una violenza
non esterna, ma insita nella natura dell’oggetto, insita nel puntale
e nella sua forma.
A volte il puntale diventa addirittura un’arma impropria, usata in
maniera violenta, tanto da portare a conseguenze mortali. Come avviene
nel romanzo Il mistero dell’ombrello assassino di François Barcelo22,
opera lontanissima, sotto ogni aspetto, dal romanzo di Flaubert e
dalla novella di Verga, ma utile per ampliare i punti di vista sull’argomento.
La narrazione è interamente basata su questo uso improprio
dell’ombrello. È un ombrello da donna, nero, con il manico di corno,
che viene spinto violentemente nella bocca di una vecchia signora,
degente in ospedale. Il puntale le si conficca internamente, squarciando
i tessuti e provocandone la morte immediata. Chi ha commesso il
delitto? È accusato il nipote, un ragazzo undicenne che, pur essendo
innocente, viene rinchiuso in riformatorio. Quando ne esce, a diciotto
anni, si dà alla ricerca del vero assassino e scopre che, a uccidere, è
stato il padre: per motivi economici, egli ha assassinato la propria madre
con il complice silenzio degli altri familiari (la moglie e un secondo
figlio). Come si vede, la narrazione si muove su toni piuttosto crudi
e violenti, anche se vi sono parti di approfondimento psicologico e
affettivo. Il puntale dell’ombrello svolge la medesima funzione di
qualsiasi arma che s’incontra nei romanzi polizieschi, non lontano da
quanto accade, talvolta, nella vita reale23. In questo caso, la negatività
dell’oggetto si somma alla negatività delle intenzioni.
21 G. Verga, Fantasticheria («Fanfulla della Domenica», agosto 1879, poi nel
volume Vita dei campi, Milano, Treves, 1880), in Id., Tutte le novelle, a cura di C.
Riccardi, vol. I, Milano, Oscar Mondadori, 1981, p. 123.
22 F. Barcelo, Il mistero dell’ombrello assassino (1994), Firenze, Barbès, 2009.
23 Ricordiamo il famoso “ombrello bulgaro”, un ombrello dal puntale avvelenato,
preparato e usato per uccidere (colpendolo al piede) lo scrittore dissidente
bulgaro, Gorge Malkov, a Londra, il 7 settembre 1978. La stessa arma avvelenata è
usata nel film che s’intitola, appunto, Ombrello bulgaro (prodotto in Francia con la
[ 10 ]
108 MARGHERITA DI FAZIO
Anche la cupola può essere al centro della narrazione. Consideriamo
l’Ombrello di Guy de Maupassant24. La vicenda si svolge attorno a
un ombrello, appunto. Il marito, il signor Oreille, primo impiegato al
Ministero della Guerra, ne vorrebbe uno nuovo, bello ed elegante, in
quanto quello che possiede ormai da due anni è tutto rappezzato ed è
causa delle prese in giro da parte dei colleghi. La moglie, che regge i
cordoni della borsa ed è fondamentalmente gretta e avida, tutta protesa
al risparmio – benché la coppia abbia una solida posizione economica
– dapprima tergiversa, perché le sembra una spesa inutile. Quando
poi si decide, ne prende uno molto dozzinale, in offerta in un grande
magazzino. In tre mesi è ridotto fuori uso. Le burla diventano generali
e viene composta addirittura una canzone, che si ode dal mattino
alla sera, e da cima a fondo per tutto il ministero. Oreille, esasperato,
riesce una buona volta a imporsi alla moglie, che gli compra, infine,
un ombrello di seta pura, da diciotto franchi. Il problema sembra risolto.
Ma non è così. Perché, quando l’uomo ritorna a casa dall’ufficio –
dove ha sfoggiato tutta la bellezza del nuovo acquisto – i due coniugi
si accorgono che l’ombrello è rovinato: vi è una bruciatura nella cupola,
un buco rotondo grande come un centesimo. Una bruciatura di sigaro.
Ad opera di chi? Il testo non lo dice direttamente, ma è facile
intuirlo. La signora Oreille, dopo una furiosa scenata, rappezza la
stoffa danneggiata con un ritaglio del vecchio ombrello, che era di colore
diverso. L’indomani sera il guaio è ancora peggiore: la cupola è
tutta foracchiata da piccoli buchi, bruciature come se vi fosse stato
rovesciato il fornello di una pipa accesa. Si giunge così all’acme della
tragedia, ma il terribile episodio viene superato per l’intraprendenza
della donna che, con un sotterfugio, riesce a farsi rimborsare la ricopertura
dell’ombrello dalla Compagnia di Assicurazione.
La cupola dell’ombrello, dunque, è il fulcro della narrazione, l’oggetto
intorno a cui si svolge tutta la vicenda, il dispositivo che fa scattare
azioni e reazioni, mettendo in luce i caratteri dei personaggi: debole
e sottomesso quello di Oreille; volitivo e gretto quello della moglie;
superficiali e crudeli quelli dei colleghi. Superficiali e crudeli,
certo. Sono loro che fanno precipitare la vicenda, senza che nessuno si
dissoci dal comportamento generale, per un senso di sopraggiunto
regia di Gérard Oury, nel 1980). Non preparata, ma dovuta alla concitazione del
momento, fu la morte avvenuta, sempre ad opera di un puntale, nella metropolitana
di Roma, il 27 aprile 2007.
24 G. de Maupassant, L’ombrello, in Id., Le sorelle Rondoli (1884), Milano, Rizzoli,
2008.
[ 11 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 109
rimorso e di personale vergogna, come avviene, invece, nel racconto
gogoliano La mantella25.
A volte la cupola dell’ombrello estende la sua funzione di copertura:
non esercita soltanto quella consueta (riparare dagli agenti atmosferici),
ma anche una inconsueta (riparare dagli sguardi altrui).
Ad esempio, Agata – chiusa nell’amara solitudine di chi si sente respinta
da tutti, di chi si riconosce grumo di odio e cattiveria (e, proprio
per questo riconoscimento, potrà un giorno forse guarire) – la
gobbina protagonista di una novella di Grazia Deledda, ci viene così
presentata:
Aveva un grande ombrello di seta verde, a fiori, non veramente di moda,
ma ottimo per ripararla dal sole a picco e dalla cattiva curiosità del
prossimo e lo teneva rasente alla testa come un vasto cappello26.
Altre volte la cupola non esercita affatto la sua funzione solita, ma
è presente soltanto con un uso particolare, possiamo dire improprio,
legato a una determinata circostanza. Il testo individua questa “deviazione”
e la sottolinea, come avviene in Ragazzi di vita di Pasolini. Il
Riccetto bighellona per le strade di Roma, soffermandosi prima in un
luogo, poi in un altro, poi in un altro ancora… È l’estate del 1946. Dopo
l’esperienza bellica, tutto è ancora provvisorio: le persone, soprattutto
giovani e ragazzi, s’incontrano, chiacchierano, bevono un bicchiere,
si lasciano, si danno a furti di materiale industriale rimasto incustodito,
si tuffano nel Tevere, in una fluidità di esperienze che vanno
man mano costruendo un nuovo sistema di vita. All’angolo di via delle
Zoccolette il Riccetto vede, sotto la pioggia, un gruppo di tredici o
quattordici persone raccolte intorno a un ombrello. Era
[…] un ombrello molto più grande del comune, nero, con sopra messe
in fila tre carte, l’asso di denari, l’asso di coppe e un sei. Le mescolava
un napoletano, e la gente puntava sulle carte cinquecento, mille e anche
duemila lire27.
Il «pischello» capisce che quel gioco può essergli utile e rimane fino
alla fine (l’ombrello viene chiuso, le carte vengono messe in «saccoccia
»). Quando tutti si sono allontanati, il Riccetto fa amicizia con il
25 N. Gogol, La mantella (1842), Roma, Salerno Editrice, 1991, pp. 39-40.
26 G. Deledda, Il piccione, nella raccolta La vigna sul mare, in Ead., Romanzi e
Novelle, vol. III, Milano, Mondadori, 1959, p. 729.
27 P.P. Pasolini, Ragazzi di vita (1955), Milano, Garzanti, 1976, p. 25.
[ 12 ]
110 MARGHERITA DI FAZIO
napoletano, si fa spiegare il gioco e, in seguito, diventa suo complice
nella piccola truffa. Ciò che ci sembra interessante per il nostro discorso,
è l’uso dell’ombrello, o meglio, della sua cupola: essa, nell’insieme
della narrazione, viene a far parte di quella provvisorietà che il romanzo
mette in scena (più tardi, infatti, quando le cose andranno bene,
l’ombrello verrà sostituito da un banchetto) e concorre alla costruzione
del significato.
Dalla rappresentazione realistica passiamo a quella fantasiosa. Nel
racconto I funghi in città di Calvino, la presenza dell’ombrello, e della
pioggia insieme, diffonde una sensazione di normalità, pur nell’ansia
che pervade il protagonista. Niente di più tranquillizzante per osservatori
esterni come possiamo essere noi lettori – quando è piovuto e il
tempo resta ancora umido e incerto – della visione dei cittadini che
aspettano il tram, «con l’ombrello appeso al braccio». Ma l’astuzia di
una trama surreale fa sì che le cupole dei parapioggia vengano meno
alla propria funzione e, capovolte, diventino cesti capienti per la raccolta
dei funghi, funghi che crescono lì intorno, «nella striscia di terra
sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale», e che, per l’incitamento
dell’ingenuo e stralunato Marcovaldo, vengono colti, cotti,
mangiati, senza che sorga preoccupazione di sorta per la loro commestibilità28.
Il manico, talvolta, appare dotato di grande importanza, sì da assumere
una posizione di primo piano nella trama del racconto. Come
nel romanzo L’ombrello di San Pietro di Kálmán Mikszáth, che abbiamo
già citato29.
Paolo Gregorics, un ricco possidente, durante le guerra d’indipendenza
si mette a fare la spia, andando da un esercito all’altro – piccolo,
mingherlino, mal messo – con un grande ombrello rosso sotto il braccio.
Si mormora che, nel manico, egli porti importanti messaggi. Ritornato
in paese, Besztercze, lo si vede trafficare in giro sempre armato
dell’ombrello. Immerso in vari e fruttuosi affari, pensa di lasciare al
28 I. Calvino, I funghi in città, in Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, in Id.,
Romanzi e Racconti, vol. I, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, I Meridiani,
Mondadori, 1991, pp. 1067-1070. La novella fa parte della serie pubblicata sull’
«Unità» a cominciare dal 1952 e, in seguito, edita in volume più volte. La prima
edizione, dal titolo Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, apparve per i tipi di Einaudi
nel 1963.
29 K. Mikszáth, L’ombrello di San Pietro, cit. La narrazione, come abbiamo detto
nel paragrafo L’ombrello e l’intreccio, è costruita su due scansioni temporali e spaziali.
Della prima abbiamo parlato. Ora accenniamo alla seconda.
[ 13 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 111
figlio illegittimo tutti i beni che ha cumulato. Per timore delle reazioni
parentali, comincia a vendere quanto possiede, dicendo che impiega il
denaro per comprare proprietà in un altro paese. In effetti non compra
nulla, ma conserva le somme ricavate: infine le converte tutte in un
assegno bancario che nasconde… nel manico dell’ombrello. Perciò
non si separa mai dal suo parapioggia, e lo impugna strettamente anche
sul letto di morte, aspettando l’arrivo del figlio così da potergli
trasmettere l’eredità30. In questo racconto il manico aggiunge alla propria
funzione (di impugnatura) quella seconda di “nascondiglio”.
E che dire del manico dell’ombrello di Mary Poppins31? Possiamo
affermare che è molto appariscente, perché non ha la forma solita
(dritta o ricurva), ma è configurato come la testa di un pappagallo.
Particolare che viene fatto notare sempre, ogni volta che c’è la presentazione
del personaggio. Leggiamo una di queste descrizioni:
Così Mary Poppins infilò i suoi guanti bianchi e mise l’ombrello sotto
braccio, non perché piovesse, ma perché aveva un così bel manico che
era impossibile lasciarlo a casa.
Come potreste voi lasciare a casa l’ombrello se avesse per manico una
testa di Pappagallo?32.
Mary Poppins è molto soddisfatta di sé e del suo abbigliamento,
tanto che, spesso, sente il bisogno di ammirarsi:
Si fermò presso un’automobile vuota per mettersi dritto il cappello,
specchiandosi nel vetro dello sportello, si assestò la camicetta e rialzò
30 Il figlio non arriva in tempo per salutare il padre morente, e nulla viene a
sapere del parapioggia. Solo più tardi ricostruisce la vicenda e si mette alla ricerca
dell’ombrello rosso, seguendone gli spostamenti da un luogo all’altro. Lo ritrova,
infine. È quello di Golgova. Ma il manico originale, divenuto troppo vecchio e
malandato, è stato bruciato e sostituito da uno d’argento. Il giovane, perciò, non
riesce a trovare il tesoro (c’era veramente?), ma, in questo pellegrinaggio compiuto
per motivi economici, trova un tesoro ancora più grande: l’amore di una fanciulla
bella e gentile.
31 Il personaggio vive nelle narrazioni di Pamela Lyndon Travers (pseudonimo
di Helen Lyndon Goff). Il primo romanzo è Mary Poppins, 1935; ne furono
pubblicati poi, fino al 1988, altri sette volumi. Da queste narrazioni, nel 1964, fu
tratto il film Mary Poppins, diretto da Robert Stevenson e interpretato da Julie Andrew.
Nel 2004 vi fu la trasposizione in musical, sempre con il medesimo titolo
(produzione Disney e Mackintosh).
32 P. Lyndon Travers, Mary Poppins, vol. I, Milano Bompiani, 1965, p. 19 (questa
edizione italiana ha quattro volumi: Mary Poppins; Mary Poppins ritorna; Mary
Poppins apre la porta; Mary Poppins nel parco).
[ 14 ]
112 MARGHERITA DI FAZIO
l’ombrello sotto il braccio in modo che il manico, o piuttosto il pappagallo,
potesse essere veduto da tutti33.
L’ombrello fa parte, dunque, dell’abbigliamento di Mary Poppins
(e la giovane donna ne ha la massima cura, tanto che sente il bisogno
di lucidarne il manico con la cera), ma, nello stesso tempo, ha una
propria individualità che lo rende un oggetto a se stante: ha un posto,
anzi un angolo, tutto suo in casa; ha la capacità, ad opera del becco di
pappagallo, di ripulirsi le pieghe dalle stelle colorate che vi si sono
impigliate; può assumere uno «sguardo sbarazzino», sottobraccio a
Mary Poppins, mentre lei si allontana con aria soddisfatta; parla perfino
con una forte voce chioccia, autonominandosi boriosamente Loreto.
E questa individualità gli deriva proprio dal possedere un manico
così particolare che, da uno fra i vari elementi che compongono il parapioggia,
ne diventa l’elemento fondante e distintivo. L’ombrello diviene,
così, da accessorio che Mary Poppins porta con sé, un suo compagno
e alleato, addirittura lo strumento con cui si compie l’impresa
più straordinaria: quella del volo.
3. Verso il cielo
Sì. L’ombrello può volare. E vola. Dapprima per un piccolo tratto,
allargando «le sue ali di seta nera come un uccello» e producendo
«uno schiamazzo pappagallesco»34. Ma poi vola in modo esemplare,
trasportando Mary Poppins, che lo regge per il manico, lontano dalla
terra e in alto verso il cielo, in alto sempre più in alto35. Finché entrambi,
donna e ombrello, scompaiono sottraendosi agli sguardi angosciati
dei bimbi che, così, rimangono soli. Hanno sempre i propri genitori, la
propria casa, il parco e i personaggi che lo popolano… ma si sentono
soli senza Mary Poppins.
Anche in altre narrazioni – rimaniamo nell’ambito della letteratura
per l’infanzia – l’ombrello vola. E il suo volo acquista prerogative particolari,
come possiamo leggere in L’Ombrello Verde di Carlo Luigi
33 Ivi, p. 20. E l’autocompiacimento fa sì che Mary Poppins esclami di se stessa:
«“Perfetta davvero!”. Ecco, era la definizione esatta. Perfetta nel suo cappotto azzurro
dai bottoni d’argento, perfetta con la sua catenina d’oro intorno al collo e
l’ombrello con la testa di pappagallo sotto il braccio» (Ivi, vol. II, p. 249).
34 Ivi, vol. III, p. 24.
35 Nei quattro volumi citati, il movimento dell’ombrello è solo ascensionale, al
contrario di quanto avviene nel film.
[ 15 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 113
Zanni36. Innanzi tutto vediamo che, in questo romanzo, l’Ombrello
viene scritto con l’iniziale maiuscola, perché non è un oggetto e un
accessorio dell’abbigliamento, ma è un personaggio, anzi il vero protagonista
dell’intera vicenda, come, del resto, possiamo desumere dalla
titolazione. È l’Ombrello che conosce e domina le fila del racconto.
Parla, dà ammonimenti e consigli, corre in salvo dei ragazzi, sempre
in continuo movimento. E il suo movimento è il volo. Un volo spaziale,
che tocca luoghi fra loro lontani e lontanissimi. Ma anche temporale.
Infatti, trasporta Berto dall’anno 1955, in cui ha inizio il romanzo,
addirittura all’anno 49 a.C., rendendo il ragazzo contemporaneo di
Cesare e dei suoi legionari. Per poi ritornare nel 1955, quando appare
all’amico di famiglia cui Berto vuole raccontare le proprie avventure.
E questo passaggio, presente-passato/passato-presente, viene compiuto
con un movimento rotatorio ora lento, ora velocissimo.
Alcune azioni dell’Ombrello possono essere collegate alle funzioni
proppiane37, soprattutto a quella intitolata al “mezzo magico”, che
aiuta l’Eroe (in questo caso Berto) nelle sue imprese. E la sequenza in
cui il l’Ombrello si presenta può essere definita, sempre con l’aiuto di
Propp, l’“apparizione”:
[…] nell’alzarmi dalla sedia per andare a prendere non so quale libro
da uno scaffale, mi accorsi che quasi in mezzo alla camera era un robusto
ombrello verde, di quelli campagnoli con il manico di legno grezzo.
Non potei fare a meno di notarlo, quantunque sia spesso distratto, perché
l’ombrello era aperto e girava su se stesso piano piano38.
Un rapporto con il cielo s’instaura anche per l’ombrello che appare
nell’omonima novella di Pirandello39. Protagoniste sono una giovane
36 C.L. Zanni, L’Ombrello Verde, Roma, Editrice Totem, 1993.
37 V. Ja. Propp, Morfologia della fiaba (1928), Torino, Einaudi, 1966. È chiaro che
non possiamo leggere un romanzo per ragazzi, scritto negli anni Novanta, applicando
gli schemi proppiani che riguardano le fiabe di magia del folklore russo. Ma
ci sembra utile azzardare qualche paragone, che ci permette di sottolineare la presenza
di situazioni narrative “topiche” in corpus differenti.
38 C.L. Zanni, L’Ombrello Verde, cit., p. 10. In questo brano, posto nelle pagine
iniziali, il narratore racconta di aver visto un ombrello nel mezzo della camera e
scrive la parola con la lettera minuscola. Subito dopo, però, dice: «L’Ombrello (mi
tocca scriverlo con la maiuscola) prese a parlare». E userà la maiuscola fino alla
fine della narrazione. Anche nel titolo? Così parrebbe (e così noi abbiamo interpretato),
ma è difficile dirlo con sicurezza, perché le lettere, che compongono le due
parole, sono tutte maiuscole, sia in copertina che nel frontespizio.
39 L. Pirandello, L’ombrello (novella pubblicata in «Novissima», IX, 1909, poi
[ 16 ]
114 MARGHERITA DI FAZIO
madre e le sue due bimbe. La donna, rimasta vedova da poco, si trova
in ristrettezze economiche per la prima volta nella vita. Tenta di farcela
con la pensioncina del marito e con il lavoro che riesce a procurarsi,
ma le spese sono tante e tutto diventa per lei molto difficile. La narrazione
coglie i suoi dubbi; le sue incertezze; il piacere che prova, ma che
non si permette di individuare con chiarezza, nell’attrarre gli sguardi
maschili; il desiderio – che sopraggiunge di tanto in tanto ma che viene
messo subito a tacere – di risposarsi prima che sia troppo tardi e
che la bellezza scompaia, offuscata dal passare degli anni; i suoi sentimenti
per le figliolette, materni e amorosi certo, ma influenzati (anche
se lei fa di tutto perché ciò non avvenga) dalla personalità e dal comportamento
delle due bambine. Mimì, la più piccina, – «di carattere
gaio e aperto», dai mille «vezzi infantili» – ha il potere di rasserenarla,
di infonderle speranza e fiducia. Dinuccia, invece (buona e saggia,
sempre pronta a comprendere l’umore della mamma, timorosa di subirne
il biasimo; si presenta «come una vecchina, seria e precisa»; mostra
«un viso pallido silenziosamente vigile», e volge alla mamma
«sguardi attoniti e seri»), la intristisce e le impedisce di sfuggire alla
gravità e alla pesantezza della vita.
La novella s’incentra sul bisogno che hanno le bambine di avere
capi d’abbigliamento adatti ad affrontare le piogge e i rigori dell’inverno.
Occorre comprare due loden, due paia di calosce, due ombrelli.
Ma i costi sono molto alti e la madre riesce ad acquistare tutto, tranne
un doppio parapioggia. Ne compra uno solo, che le sorelline dovranno
condividere. Fin dentro il negozio stesso, comincia la lite fra Dinuccia
e Mimì, perché ciascuna delle due vuole avere il privilegio di portare
l’ombrello aperto sotto la pioggia. Lite che continua per tutta la
strada di ritorno e anche dentro casa. Le bimbe si mostrano così irragionevoli
che la madre si sente costretta a punire Dinuccia che andrà
a dormire senza cena.
Dinuccia non sta bene. L’indomani sta ancora peggio e non può
andare a scuola. Anche Mimì è costretta a rimanere in casa («Che peccato!
Pioveva così bene») e si diverte a indossare i capi nuovi e ad
aprire l’ombrello sulla testa, ombrello che, ormai, lei considera suo.
Passano cinque giorni, giorni di pioggia continua e scrosciante. La
malattia di Dinuccia si prolunga e si aggrava, mentre l’inconsapevole
Mimì continua a giocare con loden, calosce e ombrello. Fino a quando
raccolta in Id., Terzetti, Milano, Treves, 1912), nella sezione Il viaggio di Novelle per
un anno, a cura di M. Costanzo, vol. III, t. I, Milano, I Meridiani, Mondadori, 1997,
pp. 281-294.
[ 17 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 115
le viene detto: «[…] il Signore la vuole per sé. Se ne va in cielo Didì…».
Allora la piccola corre di là e ritorna con «quell’ombrellone più grosso
di lei sulle braccia», balbettando (e con queste parole la novella si
chiude): «L’ombrello… a Didì… in cielo…piove».
L’ombrello, dunque, anche se non vola come accade nei racconti
per ragazzi, mostra tuttavia un suo legame diretto con il cielo.
4. Dame e ombrellini
Nella letteratura e nella pittura del periodo che stiamo esaminando,
quando in estate le dame si trovano all’aperto – in giardino, in
campagna, a passeggio nelle vie assolate della città – hanno un leggiadro
e fedele compagno: l’ombrellino. Esso è sempre presente con grazia
e civetteria, fragilità e delicatezza. E spesso, alla funzione principale
di proteggere dai raggi del sole, aggiunge una funzione seconda,
che varia da situazione a situazione.
Facciamo almeno un esempio. Nelle prime pagine del romanzo
verghiano Eros viene presentata Velleda, una giovane donna, bella e
affascinante, che rivela, al di là della eleganza delle vesti e del portamento,
un’altera consapevolezza di sé, insieme a grande forza di carattere
e indipendenza di giudizio:
[…] era infatti una magnifica bionda, aristocratica e delicata beltà, modellata
come una Venere, e leggiadra come un figurino di mode, dalle
folte e morbide chiome cinerine, dai grand’occhi azzurri e dalle lebbra
rugiadose; sotto i suoi guanti grigi celava unghie d’acciaio, colorate di
rosa; il suo stivalino sembrava animato da fremiti impazienti, e con
quel suo tacco alto, con quella sua curva elegante, avea l’aria di gentile
arroganza, come se sentisse di render beata l’erba che calpestava; il
sorriso di lei era affascinante, lo sguardo profondo ed un po’ altero,
l’accento carezzevole, il vestito avea artificiose semplicità, e la blonda
pudiche civetterie40.
L’abbigliamento segue felicemente la moda, smussando e in parte
offuscando gli aspetti diciamo “energici” della personalità di Velleda.
E il parasole, che appartiene appunto all’area vestimentaria, al campo
cioè in cui si insegue gradevolezza e piacevolezza, ha come sua seconda
funzione quella di sottolineare il fascino “femminile” della giovane,
vivacizzando il colore del suo incarnato: quando Alberto incontra
Velleda in giardino, per la prima volta sola, fra i particolari che lo col-
40 G. Verga, Eros (1875), Milano, Oscar Mondadori, 1975, p. 35.
[ 18 ]
116 MARGHERITA DI FAZIO
piscono nel suo aspetto vi è anche «il viso colorito dai rosei riflessi
dell’ombrellino
»41.
Molto spesso l’ombrellino fa parte di vere e proprie descrizioni
dell’abbigliamento,
non così superflue per la nostra ricezione come
può apparire. Esse ci forniscono infatti informazioni preziose perché
sottolineano il gusto del personaggio e ci fanno capire alcuni aspetti
della sua personalità. Vediamo due esempi scelti fra stili di vita molto
diversi.
Nel romanzo dannunziano L’innocente, Giuliana – che sta vivendo
con il marito un rapporto molto difficile, ed è venuta, con lui, alla solitaria
Villa Lilla in un pellegrinaggio della memoria – «[porta] un abito
di panno grigio chiaro ornato di trine più oscure, un cappello di
feltro grigio, un ombrellino di seta grigia a piccoli trifogli bianchi»42.
L’insieme dell’abbigliamento – con questa descrizione molto breve
ma accurata, anche per quanto riguarda la stoffa dell’ombrello – si
presenta come un fine completo da mattina, adatto a una signora altoborghese
dal gusto elegante e delicato. Una signora che segue i canoni
della moda, in maniera così precisa potremmo dire, da averli fatti suoi.
La personalità della giovane donna si esprime proprio in questo non
voler creare e innovare, ma nello scegliere, all’interno di un sistema
vestimentario comunemente accettato, ciò che più le sembri adatto a
lei e alla circostanza in cui viene a trovarsi.
Passiamo al personaggio proustiano Odette de Crecy. Circondata
da una vera e propria corte maschile, la dama appare – agli occhi incantati
di Marcel – nell’Avenue du Bois:
Ad un tratto, sulla sabbia del passeggio, tardiva, lenta e lussureggiante
come il fiore più bello e destinato a schiudersi in pieno solo a mezzodí,
la signora Swann compariva, spiegandosi attorno un vestito sempre
diverso, ma ch’io ricordo soprattutto color malva; poi, al momento in
cui più splendeva la sua bellezza, innalzava ed apriva in cima ad un
lungo stelo il padiglione di seta d’un largo ombrello che, come il suo
abito, aveva una sfumatura di petali caduti43.
E più avanti:
[…] per conoscere il turbamento nuovo della stagione, non c’era biso-
41 Ivi, p. 60.
42 G. D’Annunzio, L’innocente (1892), Milano, Oscar Mondadori, 1978, p. 139.
43 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto (1913-1927). Precisamente, All’ombra
delle fanciulle in fiore, Torino, Einaudi, 1963, p. 225.
[ 19 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 117
gno che alzassi gli occhi più su del suo ombrello. Aperto e teso come
un altro cielo più prossimo, rotondo, clemente, mobile e azzurro44.
Odette, la bella incantatrice, si presenta dunque, sempre agli occhi
di Marcel, come un fiore prezioso, protagonista assoluta di uno spettacolo
superbo e ineguagliabile. E i suoi ombrellini fanno parte di questo
gusto sontuoso, che si afferma con prepotente individualità, pur
all’interno di un codice condiviso.
Ed ecco – ne diamo solo un cenno – i tanti ombrellini della pittura,
soprattutto impressionista45. Ricordiamo, ad esempio, quelli delle dame
di Claude Monet, fra i cui dipinti ha particolare rilievo La signora
in giardino a Sainte-Adresse46. La giovane donna, dall’abito chiaro e dal
piccolo delicato ombrello, reso quasi trasparente dai raggi solari, spicca,
eterea e luminosa figura, contro il verde scuro degli alberi e il rosso
vivace dei fiori, trionfanti nell’aiuola centrale. È un tripudio di bagliori
e riflessi così intenso, da rendere l’ombra fra gli alberi più cupa,
quasi a nascondere un imperscrutabile segreto.
D’altra parte, come già abbiamo ricordato, quando nell’Ottocento
e nel primo Novecento (ma anche precedentemente: cfr. Idillio sulla
spiaggia di Giovanni Battista Piazzetta e Il parasole di Francisco Goya;
in quest’ultimo quadro è il cavaliere a reggere aperto l’ombrellino sul
capo della giovane donna47) si dipinge una dama in luoghi esterni, il
parasole c’è sempre, o nella situazione canonica che abbiamo ora visto
(aperto a fare ombra contro i raggi del sole); o in posizione di riposo
su di una panchina, insieme al cappello di paglia e a tre volumi per il
momento abbandonati, accanto alla giovane donna che siede con disinvolta
eleganza, immersa in lontani pensieri (Vittorio Corcos, Sogni)
48; oppure, è vero, viene portato aperto dalla dama che cammina in
44 Ivi, p. 227.
45 Ricordiamo che l’attenzione degli impressionisti, ovviamente, è volta non
solo agli ombrellini, ma anche agli ombrelli. Un solo efficace esempio: P.-A. Renoir,
Gli ombrelli (Les Parapluies) 1881-1886, London, National Gallery. Dipinto affascinante
per il suggestivo gioco di curve e di riflessi.
46 C. Monet, Dame dans un jardin 1867, Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
(l’anno precedente Monet aveva dipinto due quadri, entrambi intitolati Donna con
parasole, che raffigurano una dama con parasole, appunto, immersa nel verde. In
un dipinto la dama mostra il suo lato destro; nell’altro quello sinistro. Entrambi
sono al Musée d’Orsay di Parigi).
47 G.B. Piazzetta, Idillio sulla spiaggia (databile al 1740), Colonia, Wallraf -Richartz
Museum; F. Goya, El Quitasol 1777, Madrid, Museo del Prado.
48 V. Corcos, Sogni 1896, Roma, Galleria Nazionale di Arte Modena.
[ 20 ]
118 MARGHERITA DI FAZIO
un campo (in un parco?); viene portato aperto ma non nella posizione
usuale. Esso è rovesciato. La cupola dispiegata non è rivolta verso l’alto,
ma protesa verso il basso, come se la circostanza, che rende superflua
la funzione dell’ombrellino, non sia considerata sufficientemente
durevole (tanto da consigliare la chiusura del parasole), ma solo temporanea,
pronta a svanire da un momento all’altro. Il grazioso accessorio,
lasciato in quella posizione, potrà essere così sveltamente rialzato
(Giovanni Boldini, The Summer Stroll)49.
E l’ombrellino continua il suo cammino nell’immaginario artistico
fino ad arrivare in pieno Novecento. Che importa se le signore lo trovano
superfluo, contente di protendere il viso ai raggi del sole! Nella
Scalinata di Massimo Campigli è ormai fissata per sempre la regale
centralità della dama che discende i gradini della scala monumentale
di Piazza di Spagna, inalberando, unica fra le altre, il suo parasole,
armonicamente coeso con la geometria della rappresentazione50.
Spostato rispetto alla posizione canonica (ma in modo diverso da
quello rappresentato da Boldini), è anche l’ombrellino della dama di
Magritte51. La signora, tenendo il manico con la mano destra (la sinistra
accompagna il gesto con un tocco leggero), appoggia l’asta alla
spalla, così come i militari fanno con il loro fucile durante una marcia.
Sicché la cupola si apre non sulla testa, ma dietro la testa. D’altra parte
non vi è strettamente bisogno della sua ombra, perché la protezione al
pallore della carnagione viene da un grandissimo cappello lussureggiante
di piume e da un mazzolino di violette che nasconde il volto.
Anzi, non lo nasconde, ma lo copre del tutto, quasi sostituendolo. Un
mazzolino di violette, ed è questo il particolare stupefacente, che si
“autoregge”, perché le mani della dama sono entrambe poste sull’ombrellino.
Lo spettatore si trova di fronte, anche qui come per altri quadri
di Magritte, a persone e oggetti rappresentati realisticamente (le
violette, ad esempio, sono raggruppate in forma tondeggiante fra le
foglie contrastivamente verdi, così come le preparano i fiorai), ma,
nello stesso tempo, raffigurati attraverso lo spiazzamento e la contraddizione
(il mazzolino, inopinatamente, rimane sul volto della dama
per virtù propria).
49 G. Boldini, The Summer Stroll 1873, collezione privata.
50 M. Campigli, Scalinata. Trinità dei Monti 1954, Macerata, Museo Palazzo
Ricci.
51 R. Magritte, La grande guerra (La grande guerre 1964), collezione privata. Il
titolo, alcune volte, viene citato diversamente, con uno spostamento di genere,
nell’articolo, dal femminile al maschile: Il grande guerra (Le grande guerre).
[ 21 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 119
Affrontiamo ora un interrogativo: perché il quadro, così ricco di
particolari attinenti all’eleganza femminile, s’intitola La grande guerra?
Possiamo ritenere che il collegamento con la guerra del 1914-18 derivi
dal modo con cui la dama regge l’ombrellino, modo che, abbiamo detto,
fa pensare ai militari e ai loro fucili. È questa una nostra interpretazione,
ovviamente, ed è limitata a questo solo dipinto. Nell’avanzarla,
ci siamo attenuti alla riflessione comune, che vede il rapporto titolotesto
attuarsi mediante precise modalità, che sta a noi lettori leggere e
comprendere52.
È vero che Magritte sembra non accettare i procedimenti usuali e,
essendo convinto che il titolo non sia la spiegazione del quadro e il
quadro non sia l’illustrazione del titolo (ricordiamo, inoltre, che spesso
i titoli erano dati a posteriori e molte volte non dall’autore ma da
altri), ci presenta titolazioni fortemente spiazzanti. Tuttavia, pur di
fronte a questa volontà di rottura, riteniamo che sia valido anche qui
quanto si verifica in tutte le altre situazioni: nel momento in cui una
parola o una frase diventano il titolo di un determinato testo o dipinto,
in quel momento si viene a creare un’area contestuale in cui gli
elementi presenti interagiscono e significano insieme. Perciò il loro
rapporto può e deve essere da noi indagato, indipendentemente dalle
intenzioni dell’autore.
Il problema diventa ancor più complesso e interessante, se osserviamo
un altro dipinto di Magritte che si accosta facilmente a questo
della dama con ombrellino, sia per la modalità di rappresentazione (il
signore con bombetta53 ha il volto nascosto da una mela che si autoregge
proprio come il mazzolino di violette si autoregge sul viso della
dama), sia per la coincidenza della titolazione (La grande guerra è il titolo
di entrambi i quadri). Per una interpretazione che mette in parallelo
le due opere, citiamo il critico Domenico Quaranta. Egli ci dice che
il titolo «[…] accenna alla guerra fra le immagini scatenate dalla rivolta
di due oggetti insignificanti [la mela e il bouquet], che contendono
52 Le modalità si possono ridurre fondamentalmente a quattro: il titolo è estremamente
generico perché non vuole rivelare i segreti del testo; è la sintesi estrema
del testo, indicandone il tema fondamentale; è una conferma parziale del testo, in
quanto rivela un solo aspetto e ne sottace altri; contraddice il testo per un desiderio
di nascondimento e depistaggio… Per una più ampia trattazione dell’argomento
e, soprattutto, per una discussione su vari esempi, cfr. M. Di Fazio, Dal titolo all’indice.
Forme di presentazione del testo letterario, Parma, Pratiche, 1994 e Appendice, in
M. Di Fazio, Fra immagine e parola. Esercizi e prove di scrittura, Roma, Edizioni Associate,
2004.
53 R. Magritte, La grande guerra (La grande guerre 1964), collezione privata.
[ 22 ]
120 MARGHERITA DI FAZIO
la condizione di “visibilità” ai volti dei due personaggi»54; e, più avanti,
considera il riferimento all’evento bellico anche dal punto di vista
storico: «Peraltro, è difficile che Magritte abbia assegnato questo titolo
senza pensare all’evento reale che evoca, la Grande Guerra appunto:
una guerra di trincee, di uomini che diventano numeri e che vengono
spazzati via da oggetti non meno insignificanti di una mela e di un
mazzo di fiori. Una guerra che ha operato un annullamento della personalità
di cui la cancellazione dei lineamenti del volto è efficace
metafora»55.
5. Sorprese di equilibri. Incongruità di oggetti
Continuiamo ancora con Magritte e con i suoi destabilizzanti punti
di vista. Ci troviamo di fronte a un quadro: Le vacanze di Hegel56. Vi è
dipinto – in maniera completamente realistica e con una tecnica simile
a quella usata per un cartellone pubblicitario – un ombrello. Il classico
ombrello da uomo, nero, mediamente grande, che tutti i signori, soprattutto
impiegati, avevano sempre con sé. Non solo quando pioveva,
ma – sottobraccio o a mo’ di bastone – anche quando non pioveva57.
Guardiamolo. Vi è qualcosa di inconsueto, anzi di molto incon-
54 D. Quaranta nella sezione I capolavori, in Magritte («I classici dell’arte. Il Novecento
») con Presentazione di M. Foucault, Milano, Rizzoli/Skira, 2004, p. 164.
55 Ibidem.
56 R. Magritte, Le vacanze di Hegel (Les vacances de Hegel, 1958), collezione privata.
57 Ricordiamo che nell’Ottocento e negli anni iniziali del Novecento, era tanto
usuale il parapioggia (definito «simbolo della prudenza borghese»: cfr. R. Levi
Pisetzky, Ombrelli, cit., pp. 215-217) che, quando un impiegato dello Stato, un poliziotto,
parla di sé nelle sue memorie, così si esprime: «Mi si poteva vedere dappertutto
e non vi era mercato di campagna, feste di borgo, case sospette, tutti infine
i labirinti del vizio e della colpa, che non mi vedessero comparire col cilindro in
testa e l’ombrello sotto il braccio, divenuti poi tradizionali». E sulla copertina del
libro (Memorie del Maggiore Cav. Domenico Cappa, Milano, Fratelli Dumolard, 1892),
vi è una piccola immagine del poliziotto, con la redingote, il cappello in testa e,
appunto, l’ombrello sotto il braccio. Cfr. l’articolo di G.V. Omodei Zorini, Domenico
Cappa «segugio» nella Torino dell’Ottocento. Il poliziotto con l’ombrello, in Almanacco
piemontese di Vita e Cultura, Torino, Viglongo, 1996, pp. 121-128. La riproduzione
della copertina delle Memorie è a p. 121. Ma quest’ombrello nero, serio, tradizionale,
nell’immaginario filmico non è appannaggio solo degli impiegati statali. Anche
uno scanzonato Gene Kelly – che canta e balla per le strade di Parigi sotto una
pioggia scrosciante – ha come compagno d’avventura proprio un ombrello siffatto
(cfr. Cantando sotto la pioggia, 1952, con la regia di Stanley Donen e Gene Kelly). E,
per rimanere nella produzione di Magritte, notiamo come questo tipo di ombrello
[ 23 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 121
sueto in questa immagine, che si può descrivere, ma non certamente
comprendere appieno. Ed è un’immagine che ci attrae proprio perché
ci mostra l’esistenza di qualcosa che non potrebbe esserci; anzi, che
non può esserci.
L’ombrello è aperto, come se piovesse. Ma non c’è nessuno a reggerlo.
Non c’è una mano a impugnare il manico. E allora? Come fa
l’ombrello a stare ritto senza pencolare, o rovesciarsi, da una parte o
dall’altra? Il suo equilibrio è sorprendente.
E sulla cupola, anzi, al centro della cupola, poggia un bicchiere,
anch’esso reso in maniera realistica, simile a quelli che qualsiasi osteria
ha in dotazione. È un bicchiere quasi pieno (o pieno per tre quarti)
di un liquido trasparente, il quale non può non essere che acqua. Il
bicchiere se ne sta tranquillo là in alto, in una placida immobilità. Anche
il suo equilibrio è sorprendente.
Siamo alla presenza, dunque, di un doppio equilibrio, raggiunto –
separatamente – da due oggetti fra loro lontanissimi, sia per funzione,
sia per campo d’azione. La loro unione sembra incongrua. Sappiamo
bene che l’incongruità è uno degli elementi base del pensiero e della
pittura metafisica (di un de Chirico, ad esempio58) e della riflessione
surrealista, che fa scrivere a Lautréamont, a proposito del personaggio
Mervyn, la frase, variamente ricordata e variamente presente nel pensiero
di molti autori: «Il est beau […] comme la rencontre fortuite sur
une table de dissession d’une machine à coudre et d’un parapluie!»59.
sia presente anche nella sua forma originaria, senza le contrapposizioni e le contraddizioni
del dipinto che stiamo osservando. Ci riferiamo al quadro Il buon esempio
(Le Bon Exemple, 1953), Parigi, Musée national d’Art moderne, Centre Georges
Pompidou. È il ritratto di Alexandre Jolas, il gallerista newyorkese che aveva curato
il lancio commerciale di Magritte negli Stati Uniti: vi è dipinto un signore – in
piedi, quindi a figura intera – con cappotto, bombetta, e un ombrello, impugnato
chiuso e volto verso il basso, in modo semplice e tradizionale (la contraddizione
s’incontra, invece, fra l’immagine e la frase dipinta al di sotto dell’immagine: «Personnage
assis»). A questo proposito cfr. D. Quaranta, in Magritte, cit., p. 146.
58 Per l’impatto dell’arte di de Chirico su Magritte e gli altri pittori surrealisti,
cfr. L. Spagnoli, Lunga vita di Giorgio de Chirico, Milano, Longanesi, 1971. Anche
sulla scorta di quanto scrive Patrick Waldberg, veniamo a sapere che Magritte, alla
vista del Canto d’amore mostratogli da Marcel Leconte, fu preso da una tale emozione
che si mise a piangere.
59 Lautréamont (comte de), pseudonimo di I. Ducasse, Les chants de Maldoror,
in Oeuvres Complètes, Paris, Librairie Jose Corti, 1956, p. 255. Fra i vari riferimenti
a questa frase di Lautréamont, ne citiamo uno che appartiene a un ambito
molto diverso (e, appunto per questo, utile per ampliare il nostro discorso), quello
della musica leggera. Il titolo di una canzone di Franco Battiato è, infatti, L’ombrel-
[ 24 ]
122 MARGHERITA DI FAZIO
Ma, a ben riflettere, l’unione di ombrello e bicchiere, nel dipinto
che stiamo osservando, non è così incongrua come a prima vista appare.
Sì, perché ombrello e bicchiere sono fra loro collegati, seppur in
maniera antitetica, da uno stesso elemento: l’acqua. L’ombrello la respinge,
il bicchiere la contiene.
Da qui, pare, deriverebbe il titolo del quadro: Les vacances de Hegel.
Perché questa unione-contraddizione è così stravagante che, secondo
l’opinione dello stesso Magritte, avrebbe senz’altro divertito Hegel. Divertimento
simile a quello offerto dalle vacanze, appunto. Ma potremmo
tentare anche noi un’interpretazione. Se si leggesse il nome vacance
non legato al campo rasserenante del divertimento e del piacere, ma a
quello – originario e più inquietante – dell’assenza, della mancanza,
della privazione, poiché consideriamo Hegel come il filosofo di un sistema
onnicomprensivo del sapere, costruttore di argomentazioni razionali
e conclusioni logiche (tesi-antitesi-sintesi), potremmo giungere a
questa interpretazione: nell’immagine qui dipinta mancano Hegel e ciò
che lui rappresenta; mancano cioè razionalità e logica, con tutte le certezze
che ne derivano (il controllo assoluto della conoscenza, il netto
confine fra dentro e fuori, visibile e invisibile, reale e non-reale)60. La
banalità del quotidiano diventa la straordinarietà dell’illogico.
Ancora una riflessione. Il titolo non ci dice La vacance de Hegel. Il
titolo ci dice Les vacances de Hegel. E il plurale di un sostantivo, nell’accezione
proposta in genere usato al singolare, sottolinea non una posizione
permanente e immutabile, ma il verificarsi di situazioni multiple,
temporalmente definite, intermittenti. Con un aggravarsi della
precarietà e dell’incertezza.
6. Un sogno
E infine – chiudiamo qui il nostro discorso – l’ombrello può esserci
compagno in un sogno colorato, in una fiaba serena e surreale, in un
mondo infantile dalla incantata sorridente precisione, come in Sole di
Aldo Palazzeschi:
lo e la macchina da cucire (1995). Il primo verso suona così: «Ero solo come un ombrello
su una macchina da cucire» (l’accostamento incongruo dei due oggetti non
è fine a se stesso, immerso in un vuoto diciamo metafisico, ma serve a renderci il
senso di una solitudine che nasce dallo straniamento).
60 E. Maurizi, Réné Magritte ovvero l’ironia del quotidiano, Pinacoteca Comunale
di Macerata, 1982; A.C. Scardicchio, Il cielo in una stanza: psicosomatica ed educazione
tra Magritte e Battiato, Bari, Stilo, 2005.
[ 25 ]
OMBRELLI E OMBRELLINI 123
Vorrei girar la Spagna
sotto un ombrello rosso.
Vorrei girar l’Italia
sotto un ombrello verde.
Con una barchettina,
sotto un ombrello azzurro,
vorrei passare il mare:
giungere al Partenone
sotto un ombrello rosa
cadente di viole61.
Margherita di Fazio
(Università di Roma Tre)
61 A. Palazzeschi, Sole nella raccolta Poesie (1930), in Poeti italiani del Novecento,
a cura di P.V. Mengaldo, Milano, I Meridiani Mondadori, 1981, p. 79.
[ 26 ]
AMEDEO BENEDETTI
L’attività napoletana di Francesco D’Ovidio
This paper reconstructs the biography and works of the philologist
and literary critic Francesco d’Ovidio (1849 – 1925), who was for almost
fifty years professor of comparative literature at Naples University.
He wrote important essays on Alessandro Manzoni, Dante
Alighieri, and Torquato Tasso. He was a member of Accademia della
Crusca, president of the Accademia dei Lincei, and served as senator
in the Italian Senate. The study was carried out above all through an
examination of his unpublished correspondance with scholars and
literary’s historians as G.I. Ascoli, M. Barbi, A. D’Ancona, D. Gnoli,
E. Monaci, F. Novati, R. Renier, O.Tommasini, and others.
Il giovane filologo Francesco D’Ovidio tornò a Napoli – città nella
quale era cresciuto ed aveva compiuto i suoi studi prima di recarsi
alla Scuola Normale Superiore di Pisa – alla fine del 1876, dopo una
curiosa girandola di decisioni ministeriali, che lo avevano destinato
dapprima alla cattedra di Lingue e letterature neolatine di Roma (per
la quale era in corsa anche Ernesto Monaci); poi a Pisa, con un curioso
ripensamento volto a favorire Monaci a cui fu concessa la cattedra
nell’Ateneo della capitale; e infine, per riparare al danno provocatogli,
lo si accontentò inviandolo a Napoli, attribuendogli la cattedra di
“Storia comparata delle lingue e letterature neo-latine” che avrebbe
retto per tutta la sua lunga vita accademica. D’Ovidio si trasferì quindi
nel capoluogo partenopeo, dove risiedé dapprima in Strada Nuova
S. Maria Ognibene 351, e poi in Ventaglieri 742.
Nel gennaio 1876 scrisse quindi una cartolina di saluto / giustificazione
a D’Ancona, che era stato evidentemente sorpreso dal rifiuto del
suo allievo a prestar servizio nell’Ateneo pisano:
1 F. D’Ovidio (D’Ov.), lettera s.d. [prob. fine 1876] ad Alessandro D’Ancona,
Biblioteca della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481, n. progr. 186.
2 D’Ov., lettera del 20 febbraio 1877 a Domenico Gnoli, Biblioteca Angelica di
Roma, Fondo Gnoli (58/2).
Meridionalia
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 125
Caro Professore, Spero non abbia meco alcun rancore. Saprà (anzi sa di
certo, ché il B.[onghi?] venne subito a Pisa) ch’io son finito a Napoli, ed
è stato per la mia famiglia, anzi per le mie famiglie, ancora più utile.
[…] Per Pisa io non pretendo nominare il successore, come il papa, tanto
più che colla mia violenza ho demeritato; ma pur non so tenermi dal
raccomandarle un giov. tedesco d’origine e di studj, italiano di lingua
e di dimora, che fu anche a lungo in Rumenia, ed è praticam. dottiss.
di lingue e lett. romanze, e potrebbe unirvi anche l’indirizzo scientifico
se lo incaricassero costì. È Arturo Graf 3.
Nella replica, D’Ancona non si mostrò convinto delle qualità di
Graf (anche perché autore di versi e novelle), e D’Ovidio insistette ulteriormente,
senza successo4. In febbraio prese anche la cavalleresca
iniziativa di scrivere al suo incolpevole avversario Monaci, preferitogli
per la sede di Roma:
Caro collega, È egli vero che vogliate lasciar morire d’inedia la vostra
Rivista romanza? Non vi pare anzi che ora che siam saliti al potere potremmo
fare qualche cosa per tenerla su? Le nostre stesse scuole (qui ci
ho sette od otto giovani) dovrebbero avere un organo. L’Archivio è
troppo aristocratico e troppo circoscritto. Bisognerebbe avere qualcosa
di più alla buona e di più capriccioso e libero. Che pensate di fare? Vi
saluto come un vecchio amico5.
La replica di Monaci fu ancor più calorosa ed amichevole:
Carissimo collega ed amico! Permettetemi, prima che risponda alla vs.
cartolina giuntami testè, di dichiararvi quanto mi è caro l’aver ricevuto
un segno della vostra stima e della vostra amicizia per me. D’Ancona
me n’aveva assicurato scrivendomi l’altrjeri, ed io già mi preparavo
a ringraziarvene, quando ho ricevuto i vostri caratteri. Grazie, carissi-
3 D’Ov., lettera del 16 gennaio 1876 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della
Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona (in data 16 giugno 2010 conservata tra le
carte di Graf; in data 21 febbraio 2011 giustamente trasferita tra quelle di D’Ovidio,
al n. 29 bis). D’Ovidio aveva conosciuto Graf a Roma, ed aveva già scritto in suo
favore al ministro Bonghi, in data 4 gennaio 1876 (cfr. S. Miccolis, Antonio Labriola
intermediario per Arturo Graf, «Belfagor», LV (2000), 1, p. 78.
4 Cfr. D’Ov., lettera del 18 febbraio 1876 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481. Nella missiva scriveva di
Graf: «Egli legge da più tempo le due crestomazie del Bartsch con la stessa disinvoltura
con cui legge George Sand o Musset. Creda che io non esagero».
5 D’Ov., lettera del 15 febbraio 1876 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/1).
[ 2 ]
126 AMEDEO BENEDETTI
mo amico. Tenetemi fra i vostri più intimi, e ve ne sarò sempre obbligato6.
L’amicizia tra i due studiosi divenne saldissima e durò per l’intero
arco della loro esistenza7. Dal 23 febbraio D’Ovidio fu per pochi giorni
a Roma, per una commissione compilatrice dei programmi ginnasiali
e liceali8, per poi passare a Campobasso una settimana. Nel viaggio di
ritorno a Napoli, la carrozza postale in cui era lo studioso, «rotolò»,
ma D’Ovidio fortunatamente non fu tra i feriti9. Nell’ottobre rispose
negativamente all’invito di D’Ancona al collaborare alla sua rivista,
forse ancora seccato dalla parte avuta da D’Ancona nel descritto dirottamento
di cattedra:
Alla Rassegna settimanale, che conosco benissimo, non potei finora
mandar nulla, perché da un pezzo non ho più l’animo disposto a scriver
cenni bibliografici, ecc. Ma spero che la voglia mi torni10.
Nel marzo 1877 lo studioso fu allietato dalla nascita di una bambina11.
L’anno successivo pubblicò i Saggi critici (Napoli, D. Morano),
dove esponeva i propri principi metodologici, cercando di mediare –
come sempre cercò di fare – la sensibilità estetica con il positivismo,
l’insegnamento del De Sanctis con quello degli esponenti della “Scuola
storica”:
L’ideale della critica intera e perfetta non può essere che questo: che da
un lato ogni fatto letterario, appreso o ricercato o scoperto, non resti un
fatto bruto, non resti l’apprendimento o l’accertamento materiale di
una pura notizia, ma sia inteso e spiegato, e riconosciuto in tutte le sue
intime relazioni con lo spirito e con l’animo umano, che insomma il
fatto non sia solo saputo, ma capito; e dall’altro lato, che il giudizio
estetico,
l’osservazione psicologica, il concetto sintetico, abbian la più
6 E. Monaci, lettera del 16 febbraio 1876 a Francesco D’Ovidio, Biblioteca della
Scuola Normale Superiore di Pisa, Fondo D’Ovidio (b. 257).
7 La storia dei rapporti tra D’Ovidio e Monaci è sviluppata in A. Benedetti,
Francesco D’Ovidio nel carteggio con Ernesto Monaci, «Archivio Storico per le Province
Napoletane», vol. CXXIX (2011), pp. 239-250.
8 Cfr. D’Ov., lettere del 18 febbraio 1876 ed altra s.d. (n. progr. 32) ma probabilmente
dei primi di marzo 1876 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della Scuola
Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
9 D’Ov., lettera s.d. (n. progr. 32) ma probabilmente dei primi di marzo 1876 ad
Alessandro D’Ancona, ivi.
10 D’Ov., lettera del 1° ottobre 1876 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
11 D’Ov., lettera del 5 aprile 1877 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
[ 3 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 127
larga base possibile di fatti e di nozioni positive, risultino non tanto da
una cotale intuizione o divinazione, la quale, se può esser felice e dar
nel segno, può anche riuscire a meri abbagli, quanto da una meditazione
prudente non meno che geniale, che si eserciti sopra una massa di
fatti abbondante e piena. Ma questa critica intera, che da un lato ricerca
e raccoglie il maggior numero di fatti letterarj, e dall’altro sa spremerne
il maggior succo ideale, non è da tutti. Può la pazienza delle indagini
non andar unita all’acume del giudizio e viceversa. Donde nasce che
vi sieno critici abili all’accertamento dei fatti, ma mediocri nei giudizj
estetici e filosofici intorno ad essi, e critici acuti di cui i giudizj han
troppo spesso bisogno di essere riveduti, verificati, corretti, ma illuminano
intanto le menti12.
In autunno D’Ovidio venne interessato da D’Ancona ad appurare
presso Antonio Ranieri (Napoli, 1806 – Portici, 1888) la verità di alcune
notizie riguardanti Giacomo Leopardi. Nell’epistolario leopardiano, il
poeta recanatese risultava chiedere spesso nelle lettere al padre da Napoli
– nell’ultimo periodo della sua vita – denaro per il proprio alloggio,
sebbene Ranieri avesse affermato di aver sempre ospitato presso
di sé l’infelice poeta, che pareva difficile immaginare come bugiardo13.
Ranieri ad un emissario di D’Ovidio confermò di aver ospitato Leopardi
dal primo all’ultimo giorno della sua permanenza a Napoli: Leopardi
aveva scritto diversamente al padre solo perché in caso contrario
non avrebbe ottenuto nulla dall’arcigno conte Monaldo14.
Nel dicembre, spazientito per i ritardi che la “Nuova Antologia”
infliggeva ai suoi articoli, D’Ovidio rispose con tono sottilmente ironico
ed apparentemente distaccato a Domenico Gnoli, intenzionato a
mantenere la preziosa collaborazione:
Avete detto bene al Protonotari che io non ho rancori. Non sarà perché
io abbia spirito, come mi avete creduto di dirgli; ma sarà almeno perché
ho un po’ di cuore, e rifuggo dagli astii e dai musi lunghi e dai pettegolezzi
di ogni sorta. Se avessi dunque qualcosa di buono per l’Antologia
lo manderei subito, con tutto il cuore. Ma ora non ne ho. Io ho
fatto il proposito di ritrarmi sempre più dalla letteratura, per consacrarmi
tutto ai miei studj filologici. Sono dunque in un cattivo momento
per dare articoli a una rivista di coltura generale.
Ho pubblicato ieri un volume di Saggi critici, che vi mando. Questo è
12 D’Ov., Saggi critici, Napoli, Domenico Morano, 1878, pp. XII-XIII.
13 Cfr. D’Ov., lettera del 27 ottobre 1878 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
14 Cfr. D’Ov., lettere del 27 ottobre 1878 e 11 febbraio 1879 ad Alessandro D’Ancona,
ivi.
[ 4 ]
128 AMEDEO BENEDETTI
il mio blocco letterario, e con esso intendo uscir dalla letteratura. Però
questi propositi sapete che non sono mai troppo assoluti nel fatto, e chi
sa che non mi venga qualche soggetto per l’Antologia. Ditelo al Prot.
[onotari] salutandolo per me, e avvertendolo che il Franchetti vuole
scrivere un articolo sui miei Saggi nella N.[uova] Antol.[ogia]15.
Nel febbraio del 1879 D’Ovidio venne nominato cavaliere. Almeno
a parole, comunque, lo studioso non sembrò dare eccessiva importanza
all’onorificenza; al professor Graziadio Isaia Ascoli, nume tutelare
della glottologia italiana, scrisse infatti:
Il mio cavalierato mi piovve dal cielo, senza che lo prevedessi. Il buon
Coppino16, non so perché, mi ha sempre voluto molto bene. [
] Del resto,
devo confessare che avendo l’onore di essere, p. es., uno dei cinque
o sei collaboratori dell’Archivio, non mi può far ringalluzzire il pensiero
di essere uno dei 19.702 cavalieri della Corona d’Italia, e d’esser divenuto
collega di molte creature dell’on. Nicotera17!
Nel corso dell’anno pubblicò, in collaborazione con l’amico Monaci
un fortunato manuale di cui nelle Università italiane si avvertiva la
mancanza: l’Introduzione agli studi neo-latini. Spagnolo (Napoli, a spese
degli autori). Alla fine di settembre D’Ovidio fece da guida a Giosue
Carducci, mostrandogli le bellezze di Napoli, unitamente a Bonaventura
Zumbini18. Nel febbraio 1880, nuovamente irritato con la «Nuova
Antologia», D’Ovidio tornava a rispondere a Gnoli con le solite ironiche
motivazioni, ma anche sottolineando l’avvenuto cambiamento
della propria produzione scientifica:
Grazie della tua lettera. Ringrazia anche il prof. Protonotari. Ma il restringermi
alla filologia, alla quale consacrai tutto me stesso fino ai
vent’anni, ai quali son tornato oramai tutto, e devo rimaner fedele per
dovere d’ufficio, è mia necessità e un dovere. Se qualcosa di letterario per
caso mi uscirà dalla pennaccia, o se qualcosa di filologico presentabile
in una rivista generica (come l’articolo che feci sull’Enfer del Littré) mi
capitasse di fare, l’offrirei volentieri alla prima rivista d’Italia; salvo
naturalmente il rischio di sentirmi dir di no, come lo sentii dire per alcuni
di quei saggi critici, che tu dici parrebbero scritti apposta per l’An15
D’Ov., lettera del [13?] dicembre 1878 a Domenico Gnoli, Biblioteca Angelica
di Roma, Fondo Gnoli (58/2).
16 Michele Coppino, all’epoca ministro della Pubblica istruzione.
17 D’Ov., lettera del 6 aprile 1879 a Graziadio Isaia Ascoli, Biblioteca dell’Accademia
dei Lincei di Roma, Fondo Ascoli (144/121).
18 Cfr. M. Biagini, Giosuè Carducci, Milano, Mursia, 1976, pp. 410-411.
[ 5 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 129
tologia (e alcuni anzi furono scritti apposta per essa!). Grazie ad ogni modo
della tua cortese insistenza19.
Nello stesso anno vide la luce il primo dei grandi studi manzoniani
del D’Ovidio: La lingua dei Promessi sposi nella prima e nella seconda edizione
(Napoli, Morano). Il luglio fu interamente passato dallo studioso
a Perugia, come regio commissario agli esami liceali20. Il periodo fu
assai tormentato per D’Ovidio, che ebbe quasi in fin di vita a Perugia
la prima figlia, in pericolo di vita a Napoli la madre, e la moglie seriamente
malata21. Inoltre un piccolo incidente domestico ferì lo studioso
al viso ed a un braccio22.
Intanto l’Introduzione agli studi neo-latini. Spagnolo suscitava le aspre
critiche di Giacomo Richeri, professore di portoghese al Circolo Filologico
di Torino, cosa che mortificò non poco Monaci23. A rincuorarlo,
pensò D’Ovidio, che gli scrisse in questi termini:
Ho avuto anche da altra parte l’articolaccio contro di noi. E che ce
n’importa? Forse tu, novello Otello, vorresti per le calunnie d’un Jago
qualunque strozzare la nostra Desdemona, i nostri manualetti, non
pubblicandoli
più?!! O uomo modicae fidei! Io sono un Otello, che preferisco
strozzare Jago, e fra giorni spero di mandarti stampata nella Perseveranza,
una risposta ben pepata a quel maligno briccone ed asino di
critico! Io son sicuro, te lo confesso, che non praevalebunt. Io non presumo
di saper molto di spagnuolo, praticamente. E tu sai che ti ho fatta
già la confessione. Me nel mettere assieme qualche grammatichetta ho
avuto tanto scrupolo, tanta diligenza, che non ho scritto parola che non
mi fosse assicurata che due o tre autorità indiscutibili. E difatti che ha
19 D’Ov., lettera dell’8 febbraio 1880 a Domenico Gnoli, Biblioteca Angelica di
Roma, Fondo Gnoli (58/2). Nel prosieguo della lettera D’Ovidio trovava modo di
riprendere garbatamente Gnoli per il contenuto di un suo recente accenno contro
la scuola napoletana: «Leggo le tue cose sempre. E anzi a questo proposito, ti par
proprio che la critica napoletana abbia abbujato il Leopardi anziché chiarirlo?».
20 Cfr. D’Ov., lettera del 28 giugno 1880 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
21 Cfr. D’Ov., lettera del 2 agosto 1880 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
22 Cfr. D’Ov., lettera del 29 settembre 1880 a Graziadio Isaia Ascoli, Biblioteca
dell’Accademia dei Lincei di Roma, Fondo Ascoli (145/14). Nella missiva lo studioso
scriveva: «Il giorno 25 mi scoppiò in faccia la macchina del caffé. Gli occhiali
mi salvarono gli occhi: ma il resto della faccia restò un po’ abbruciacchiata e più
il polso del braccio destro, che ora è lievemente piagato, e mi fa veder le stelle».
23 Tali appunti furono peraltro avallati anche da Arturo Graf: cfr. D’Ov., lettera
del 16 novembre 1880 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi di Roma, Fondo
Monaci (9/5).
[ 6 ]
130 AMEDEO BENEDETTI
potuto rinfacciarmi quel bestione? Un mucchio di inezie scipite: da cui
si vede che egli non ha capito nulla! Io dunque non ritiro, come pare
che tu m’insinui (bricconcello che sei!), la gr. pg. [grammatica portoghese];
te ne mando anzi altre due cartelle da aggiungerci24.
Nel 1881 infatti, sempre in collaborazione con Monaci, D’Ovidio
pubblicò un altro volumetto didattico, l’Introduzione agli studi neo-latini.
Portoghese (Imola, Ignazio Galeati e figlio). In marzo lo studioso fu
attaccato da un articolo apparso su «L’Opinione» a firma di Luigi Gelmetti,
allievo di Morandi (che accusava esageratamente D’Ovidio di
plagio)25. Nell’estate lo studioso iniziò ad avvertire seri problemi di
salute, come confidava all’amico Monaci: «Sono stato e sono tuttora
ammalato della malattia mia solita: l’angina reumatica»26; ed ancora:
«Ho avuto in un mese due angine, e da 40 giorni ho una tosse che mi
abbatte. Ma ho anche un forte mal di capo»27. Lo studioso sembrava
anche poco entusiasta del tipo di vita che conduceva a Napoli:
Ma qui non vedo nessuno, e mi annojo e mi affliggo; e quando non ho
lena di lavorare guai. […] Mi ricordo a Milano, dove passavamo le serate
al caffè Gnocchi con Rajna, Giussani e alcuni medici, filosofi, pubblicisti,
ecc.28
Agli inizi del 1882 proseguivano gli strascichi polemici con Gelmetti
e Morandi, acuiti da una recensione sul Gelmetti apparsa nella
«Rassegna Letteraria»29. Nel corso dell’anno, intervenendo con posizione
mediatrice nel forte contrasto tra le teorie linguistiche del Manzoni
e quelle di Graziadio Isaia Ascoli, lo studioso pubblicò uno dei
suoi testi più noti: Le correzioni ai Promessi sposi e la questione della lingua
(Napoli, D. Morano, 1882). La posizione di D’Ovidio (di «pratico buon
senso», come riconobbe Benedetto Croce), fu quella di adottare come
norma il fiorentino, come sosteneva l’ammiratissimo Manzoni, ma
corretto
dalla lingua della tradizione letteraria. A metà luglio D’Ovi-
24 D’Ov., lettera del 4 novembre 1880 ad Ernesto Monaci, ivi (9/4).
25 D’Ov., lettera del 9 marzo 1881 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della
Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
26 D’Ov., lettera del 23 giugno 1881 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/24).
27 D’Ov., lettera del 9 agosto 1881 ad Ernesto Monaci, ivi (9/26).
28 D’Ov., lettera del 17 agosto 1881 ad Ernesto Monaci, ivi (9/27).
29 Cfr. D’Ov., lettera del 4 febbraio 1882 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
[ 7 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 131
dio fu a Montecassino come commissario per gli esami liceali30. Nella
primavera del 1883 ebbe ulteriori problemi di salute, come confidò a
Monaci:
Sto male, caro mio, assai male. Soffro di palpitazione e d’intermittenza,
e benché il medico dica che è cosa non organica, dice pure che il disturbo
funzionale è forte, e che va corretto con tanto più di cura, in quanto
l’umor gottivo, di cui sono affetto, potrebbe gettarsi al cuore, ed è incamminato
già forse a ciò. Ho smesse le lezioni, lo studio tutto. Non avendo
altro in mira che di guarire presto per ricominciare a far qualcosa31.
In agosto lo studioso partì con la famiglia per un periodo di vacanza
a Castellammare di Stabia32. A partire dal 1884 lo studioso iniziò a
patire di forti disturbi alla vista, che lo avrebbero tormentato per il
resto della sua vita33. In primavera cambiò abitazione, passando a Largo
Latilla, 634. Cambiò pure il luogo di vacanza, e l’agosto fu passato
dallo studioso a Casamicciola35. Nel novembre rassicurava D’Ancona
riguardo alle sue condizioni di salute, visto che nel Napoletano imperversava
un’epidemia di colera36.
A partire dal gennaio 1885 D’Ovidio fu costretto per i forti disturbi
alla vista a dettare le lettere, ed a farsele leggere37. Nell’anno pubblicò
il volume Manzoni e Cervantes (Napoli, Tipografia e stereotipia della R.
Università), dove esaminava il rapporto tra i due illustri romanzieri.
Nell’estate fallì l’ennesimo tentativo di cura della grave affezione agli
occhi dello studioso, che – sconsolato – così scriveva a Monaci:
Sono stato 23 giorni all’oscuro cogli occhi bendati, poiché mi s’era fatto
credere che ciò mi avrebbe giovato assai. Invece, sbendatomi, mi son
30 Cfr. D’Ov., lettere del 7 e 23 luglio 1882 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/34 e 35).
31 D’Ov., lettera del 23 marzo 1883 ad Ernesto Monaci, ivi (9/47).
32 D’Ov., lettera del 31 luglio 1883 ad Ernesto Monaci, ivi (9/53).
33 I disturbi peggiorarono, tanto che nella primavera del 1885 lo studioso fu
costretto a pesanti cure. Scriveva: «Degli occhi sto peggio. Un oculista s’è messo a
farmi iniezioni di pilocarpina, la quale produce profusi sudori da cui può venire la
guarigione. Ma la prima iniezione, forse troppo scarsa, non m’ha fatto sudare e
m’ha fatto gonfiare la tempia e l’occhio. Come son fortunato!» (D’Ov., lettera del 20
aprile 1885 ad Ernesto Monaci, ivi, 9/62).
34 Cfr. D’Ov., lettera del 17 maggio 1884 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
35 Cfr. D’Ov., lettera del 23 agosto 1884 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
36 Cfr. D’Ov., lettera del 19 novembre 1884 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
37 Cfr. D’Ov., lettera del 26 gennaio 1885 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
[ 8 ]
132 AMEDEO BENEDETTI
trovato spaventosamente peggiorato, e ridotto così male come non ero
stato nei peggiori momenti della malattia. Ora dovrò lavorare per tornare,
se ci riuscirò, dov’ero un mese fa38.
L’anno seguente videro la luce, in collaborazione con Ludwig Sailer,
anche le Discussioni manzoniane (Città di Castello, Lapi, 1886) nelle
quali lo studioso analizzava le influenze europee e italiane su Manzoni
(specie ad opera di Cervantes, Walter Scott e Carlo Porta). Lo studioso
passò le vacanze estive a Posillipo, alla Villa Alicorno39. Nel periodo
intervenne per favorire la pubblicazione di uno scritto (Bagni di
Pozzuoli) del giovane Erasmo Percopo, che provò a proporre all’«Archivio
» di G. I. Ascoli, ottenendone un rifiuto. Lo inviò allora a Monaci
(che dirigeva gli «Studj di Filologia Romanza»), che accettò il contributo
del giovane, ma a patto che intervenisse sul testo con tagli e modifiche
sostanziali. Alle motivazioni del docente di Roma, Percopo rispose
con una lettera che D’Ovidio accluse ad una sua all’amico Monaci,
in cui – sia pur tra mille cautele – scriveva: «[…] mi sei parso
troppo severo dove dici che il suo scritto come ora è un titolo
negativo»40. La replica di Monaci – dal tono secco e deciso – fu circostanziata,
rivelando il momento di attrito nell’amicizia tra i due studiosi:
Carissimo, mentre rimando il suo ms. al sig. Percopo, non posso fare a
meno di dirigere alcune altre righe a te sullo stesso argomento. È troppo
l’affetto e l’amicizia che ci lega, perché io possa rassegnarmi a veder
“chiuso l’incidente” in questo modo, mentre tu, girandomi la lettera
del sig. P., mostri di non esser persuaso abbastanza sulla ragionevolezza
dei consigli che desideravo vedere accolti da lui. […] Ti par possibile
che in una rivista, la quale non sia specialmente destinata agli ammalati
di rammollimento cerebrale, si possa pubblicare simili cose come
note filologiche? Via via, spero che non mi obbligherai a discuterne41.
L’agosto 1888 vide D’Ovidio recarsi a S. Salvatore Telesino, in provincia
di Benevento, dove si sottopose a bagni sulfurei, da cui si aspettava
un qualche miglioramento per la malattia agli occhi42. In quel
38 D’Ov., lettera del 7 agosto 1885 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi di
Roma, Fondo Monaci (9/67).
39 Cfr. D’Ov., lettera del 27 luglio 1886 ad Ernesto Monaci, ivi (9/71).
40 D’Ov., lettera del 7 novembre 1886 ad Ernesto Monaci, ivi (9/72).
41 E. Monaci, minuta di replica alla lettera del 7 novembre 1886 di D’Ovidio,
ivi.
42 D’Ov., lettera del 9 agosto 1888 ad Ernesto Monaci, ivi (9/79).
[ 9 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 133
periodo, grazie all’interessamento di D’Ancona, Novati stava cercando
di farsi trasferire da Palermo all’Università di Genova quale professore
straordinario; ma del tentativo venne a conoscenza Ascoli, che
riuscì inizialmente a far saltare il trasferimento43. D’Ancona scrisse
chiedendo spiegazioni a D’Ovidio, che a parer suo aveva informato
Ascoli della manovra. La risposta di D’Ovidio è interessante per l’opinione
che lo studioso aveva su Novati:
Informare l’Ascoli dopo che lei me l’avea rappresentato così avverso al
Novati, del disegno da lei fatto a pro di costui, sarebbe stato o una
goffa ingenuità o una spensieratezza fanciullesca o una vergognosa
slealtà. Di questa terza cosa non sono mai stato capace in vita mia;
dalle altre due mi tengono ormai al sicuro i miei anni parecchi, e la
dura esperienza della vita. […]
E son cinque anni, dall’ottobre dell’83, che non vedo l’Ascoli. In conclusione,
nulla io so del modo com’egli è venuto a sapere dell’affar del
Novati, e di scrivergliene io mi sarei sempre astenuto per un onesto
riguardo a tutti, l’Ascoli compreso. Mi duole che il trasferimento a Genova
sia venuto meno, ed auguro di cuore che il N. possa al più presto
trovare una collocazione sul continente. Ma finalmente anche a Palermo
c’è modo di lavorare, o se non altro di studiare, che è poi cosa
troppo perduta di mira da noi moderni […]. Il bisogno p. es. di una
buona coltura glottologia per un romanista, sia pure dedito alle letterature,
è grandissimo; e forse dal non sentirlo il N. abbastanza, nasce
un pochino lo scontento dell’Ascoli. Anche una persona assai benevola
al N. mi assicura che nel Tristan vi sieno curiosi errori linguistici. Io ho
il libro ma non l’ho letto.
Il N., secondo mi dicono, è ricco, e i ricchi, anche studiosissimi, sogliono
facilmente avere negli studii una certa renitenza a sforzarsi di farsi
piacere certi studii per cui non hanno molta inclinazione; come hanno
molta ripugnanza a rassegnarsi al sagrifizio di passar qualche anno in
una residenza a loro antipatica. […]
Lei che vuol molto bene al N. e ha su di lui molta influenza, dovrebbe
far di tutto per persuaderlo che un uomo così eletto com’egli è, e così
paziente in un certo genere di cose, ha anche l’offizio morale di costringer
sé stesso a ingojare pillole non prive di amarezza44.
L’equivoco venne poi risolto in pochi giorni. Nella prima parte del
43 Su tale avverso atteggiamento di Ascoli nei confronti di Novati, cfr. A. Benedetti,
Francesco Novati nei carteggi con gli amici letterati, «Archivio Storico Lombardo
», (in corso di pubblicazione).
44 D’Ov., lettera ad Alessandro D’Ancona s.d. [ma del 2 dicembre 1888], Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481, n. progr. 200.
[ 10 ]
134 AMEDEO BENEDETTI
1889 D’Ovidio si dedicò principalmente a comporre una grammatica
spagnola45. Con decreto del 30 giugno entrò inoltre a far parte del Consiglio
Superiore della Pubblica Istruzione46. Contrariamente al solito,
passò le vacanze estive in campagna, vicino a Bologna, senza tuttavia
mostrarsene molto soddisfatto:
Qui ho sospeso ogni lavoro per riposarmi, ma poco gusto il riposo.
Sono stanco e mi sento, oltre le malinconie motivate dai soliti guai,
anche una malinconia spontanea e intima la quale mi dice che io invecchio47.
Nel 1890 D’Ovidio si trovò in una situazione di notevole imbarazzo.
Un certo Calenda, suo studente dell’Università di Napoli, si recò
con un espediente a Roma per sostenere il difficile esame di Letterature
neolatine con Monaci. Carpendo la buona fede di Monaci, sostenne
come D’Ovidio non avesse trattato durante l’anno la storia letteraria,
sottraendosi così alla parte più ostica dell’esame. Superata la prova, si
era poi restituito all’Ateneo napoletano. D’Ovidio, resosi conto della
scorrettezza dello studente, a quel punto intervenne, chiedendo al
Rettore dell’Università di Napoli ed al Ministro della Pubblica Istruzione
l’annullamento dell’esame. In tale domanda Monaci risultava –
sia pure non esplicitamente – aver tenuto un comportamento ingenuo.
Quando il docente di Roma venne a conoscenza dell’accaduto (D’Ovidio
non l’aveva avvisato), chiese naturalmente all’amico spiegazioni,
prontamente fornite48. D’Ovidio cercò di riparare con una nuova lettera
al Rettore in cui specificava che il suo intervento non doveva assolutamente
essere «interpretato nel senso di un lamento mosso […]
contro al prof. Monaci»49.
Le vacanze del 1891 furono passate parte ai bagni sulfurei di Telese,
parte nella città nativa di Campobasso50. In dicembre, trasferitosi a
Pavia il professor Merlo, D’Ovidio ebbe anche l’incarico per la cattedra
di Grammatica greca e latina51. D’Ovidio passò l’agosto 1892 a
45 D’Ov., lettera del 16 giugno 1889 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/81).
46 Cfr. «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», 1889, pp.
992-993.
47 D’Ov., lettera del 19 settembre 1889 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/84).
48 Cfr. D’Ov., lettera del 27 gennaio 1890 ad Ernesto Monaci, ivi (9/88).
49 D’Ov., lettera del 30 gennaio 1890 ad Ernesto Monaci, ivi (9/89).
50 D’Ov., lettera dell’11 settembre 1891 ad Ernesto Monaci, ivi (9/107).
51 Cfr. D’Ov., lettera dell’8 dicembre 1891 ad Ernesto Monaci, ivi (9/112).
[ 11 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 135
Castellammare di Stabia, «a bere le acque antigottose»52; ma la vacanza
curativa andò «male in complesso», con peggioramento della vista53.
Nel giugno 1893 rinunciò ad un impegno già preso con D’Ancona
di fornire una recensione ad una sua rivista, atto di difficile interpretazione:
Carissimo professore, Le do la consolante notizia, che messomi attorno
alla tesi del Ramorino, al solito, mi sono ingolfato tanto nel soggetto,
che, dopo avere scritto più di trenta cartelle, m’accorgo che la recensione
non la posso più fare. È un’infelicità questa mia, di cui sento tutto il peso
e da cui vedo derivare una grande inettitudine a far cosa grata a un
giornale bibliografico, a qualche autore, a me medesimo. Ma d’infelicità
la mia vita fisica e intellettuale è tessuta. […] Credo che il Rajna o il Monaci
sarebbero più acconci e più competenti di me in questa faccenda54.
L’epidemia di colera che colpì anche Napoli l’estate del 1883 spinse
D’Ovidio, dopo l’agosto trascorso a Telese, a rifugiarsi a Sora55. L’agosto
1894 fu passato da D’Ovidio a S. Salvatore Telesino56. In dicembre
lo studioso si trovò alle prese con la richiesta inviatagli da vari discepoli
dell’insigne professor Adolfo Mussafia, desiderosi di celebrare il
loro maestro con una apposita pubblicazione. L’imbarazzo in cui
D’Ovidio venne a trovarsi è palese in una interessante lettera inviata a
Monaci, a cui subito si rivolse:
Per me sarei pronto a fare ogni sforzo per contentare il Mussafia, o
meglio i discepoli suoi che vogliono onorarlo. Temo però che sia oramai
troppo corto il tempo che ci rimane, e che altre difficoltà non mancherebbero.
Suppongo che l’Ascoli direbbe di no, per adesso almeno.
Forse se un volume dei tuoi Studj fosse d’imminente pubblicazione, si
potrebbe farlo un po’ più pingue del solito, con articoletti di ciascun di
noi, e dedicarlo al Mussafia. Giacché altrimenti trovare un editore, impiantare
una cosa del tutto nuova, ce ne mancherebbe se non altro il
tempo. Bada che la mia proposta non è che un’escogitazione figlia del52
Cfr. D’Ov., lettera del 30 luglio 1892 a Graziadio Isaia Ascoli, Biblioteca
dell’Accademia dei Lincei di Roma, Fondo Ascoli (11/19).
53 Cfr. D’Ov., lettera del 30 agosto 1892 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/121).
54 D’Ov., lettera del 17 giugno 1893 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della
Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
55 Cfr. D’Ov., lettera del 6 settembre 1893 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/131).
56 Cfr. D’Ov., lettera del 20 agosto 1894 a Domenico Gnoli, Biblioteca Angelica
di Roma, Fondo Gnoli (58/2).
[ 12 ]
136 AMEDEO BENEDETTI
l’imbarazzo; e che è subordinata a centomila se; poiché fra le altre cose
non ignoro che in questi ultimi anni i sentimenti di molti italiani verso
il Mussafia sono, non senza ragione, ritornati un po’ simili a quelli che
furono finché durò la dominazione austriaca in Italia. Una proposta
come quella che ci vien fatta ora, vent’anni fa sarebbe stata accolta con
ben altro entusiasmo. […] Ti ho aperto tutto l’animo mio, e voglio da te
un consiglio senza riguardi. Per ora ho risposto vagamente. Devo poi
avvertirti che, se mai ci fosse da far trattative con l’Ascoli, io non mi
sentirei in grado di avervi alcuna parte57.
L’iniziativa si rivelò in breve impraticabile, e tutto si risolse in una
serie di telegrammi di felicitazione che da ogni Facoltà di lettere sarebbero
stati inviati al Rettore dell’Università di Vienna il 15 febbraio
189558. E proprio nel febbraio 1895 Monaci offrì a D’Ovidio di passare
all’Università di Roma. Lo studioso abruzzese rispose alla proposta
dell’amico in questi termini:
Quanto io ti sia grato del sentimento fraterno che ti ha mosso a farmi la
proposta che m’hai fatta, io non te lo potrei dire, ma tu puoi e devi bene
immaginartelo. […] Lasciare questa città che dall’ottavo anno di mia vita
ho sempre avuta in uggia, dove sono stato sempre per dovere e non per
elezione, dove non son nato e dove non vorrei morire; venire a codesta
Roma che m’è sempre piaciuta tanto, ed è tanto più conforme alla mia
regione nativa; venire vicino a te; era tutto un bel sogno da non potervi
dire addio senza esitazione e sgomento! Ma d’altra parte, alla mia età
cambiar di residenza, cambiare d’Università; con la mia salute ammettere
che mi sopporti una scuola diversa da quella a cui ho almeno dati gli anni
più belli; lasciare i molti parenti che ho qui e che hanno bisogno di consiglio
e d’aiuto; lasciare alcuni colleghi carissimi a me resi più cari dall’esser
come compagni di sventura; son tutte cose superiori alle mie forze, e che
vorrebbero troppo egoismo da parte mia. […] Sicché in conclusione devo
rassegnarmi a tirar avanti come posso qui dove sono già avvezzo a tollerarmi
qual sono, dove i miei rimorsi sono continuativamente neutralizzati
dall’abitudine. E non mi resta che di ringraziarti vivamente di questa
nuova prova d’affetto fraterno che tu m’hai voluto dare59.
Nella primavera D’Ovidio venne rieletto nel Consiglio Superiore
della Pubblica Istruzione60, con R.D. del 12 maggio 1895.
57 D’Ov., lettera dell’8 dicembre 1894 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/146).
58 Cfr. D’Ov., lettera del 19 dicembre 1894 ad Ernesto Monaci, ivi (9/148).
59 D’Ov., lettera dell’11 febbraio 1895 ad Ernesto Monaci, ivi (9/150).
60 Cfr. D’Ov., lettere del 24 marzo e del 6 maggio 1895 ad Ernesto Monaci, ivi
[ 13 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 137
Nell’autunno 1897 lo studioso, proponendo al «Giornale storico
della letteratura italiana» un suo lavoro, respinse l’imposizione all’abbonamento
che gli venne prospettata dalla rivista; lo fece peraltro indicando
anche come sapesse di trattamenti speciali fatti ad altri, e che
forse avrebbe avuto ragione di aspettarsi anch’egli, pur se disinteressato
ai compensi. Rodolfo Renier, condirettore con Novati del prestigioso
periodico, non trattò la cosa col dovuto tatto, e rimise a D’Ovidio
una lettera della casa editrice in cui gli veniva seccamente detto
che le condizioni erano quelle, e se non gli stavano bene, ritirasse pure
il manoscritto61. D’Ovidio, convinto di aver fatto la figura del postulante,
se ne dolse sia con Renier, sia con Novati, che reputava più ragionevole62.
Nel periodo entrò in crisi la lunga amicizia di D’Ovidio
con Monaci. Lo studioso abruzzese ne ricordò così le motivazioni, in
una successiva lettera a D’Ancona:
Quanto al Monaci, è una storia dolorosa. Due o tre anni fa, per un certo
premio dei Lincei, egli uscendo dalla sala mi aggredì violentemente,
credendomi consenziente a certe osservazioni che aveva fatto in seduta
l’Ascoli – c’entra sempre quando c’è qualche malanno! –: io gli risposi
avergli detto che non si operava così con un amico di più di vent’anni.
La cosa rimase lì. L’anno scorso lo trovai ancora ai Lincei, mi avvicinai
a lui, gli stesi la mano, me la porse freddamente, e poi voltò il
capo a discutere con altri. Vidi in ciò un proposito deliberato di romperla.
[…] Rividi lui col Tommasini a Firenze alla adunanza del Comitato
della Società Dantesca, cui non volli mancare d’intervenire sebbene
cadesse pochi giorni dopo la mia disgrazia; ci scambiammo poche
parole di circostanza, e basta. E così è rimasta una amicizia di un quarto
di secolo! Pazienza63!
Nella primavera del 1899 D’Ovidio fu coinvolto dalla lotta all’interno
dell’Accademia dei Lincei per accogliere o respingere Francesco
Novati. D’Ovidio, con Domenico Comparetti64, fece il possibile per favorire
lo studioso cremonese, ma incontrò la fiera e implacabile oppo-
(9/153, 155). Le motivazioni che D’Ovidio diede alla propria candidatura sono
chiaramente espresse in ID., lettera del 2 febbraio 1855 ad Alessandro D’Ancona,
Biblioteca della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
61 Cfr. D’Ov., minuta di lettera del 9 novembre 1897 a Rodolfo Renier, Biblioteca
Braidense di Milano, Carte Novati, b. 823/13.
62 Cfr. D’Ov., lettera del 10 novembre 1897 a Francesco Novati, ivi, b. 823/14.
63 D’Ov., lettera del 15 giugno 1899 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della
Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
64 Alessandro D’Ancona, che era stato il mentore di Novati, era assente alla
seduta.
[ 14 ]
138 AMEDEO BENEDETTI
sizione di Graziadio Isaia Ascoli, che riuscì a bloccare la candidatura
di Novati65, non facendosi scrupolo di riferire all’orecchio di alcuni
presenti notizie sulla presunta omosessualità di Novati66. Il carteggio
di quel periodo tra D’Ovidio e D’Ancona mostra l’indecisione dei due
studiosi circa il rivelare all’amico Novati le vere motivazioni del suo
respingimento, o evitare di sollevare una questione dai risvolti difficilmente
controllabili67. Infine, D’Ovidio scrisse al Novati tacendo le pesanti
insinuazioni avanzate da Ascoli:
Nessuna obiezione fece che intaccasse la Sua onorabilità. Il principale
argomento era che sarebbe stato uno scandalo rimanessero indietro uomini
come Lattes, Graf, Zumbini. […] Se in privato abbia insinuato nulla,
naturalmente non lo posso sapere. Per fortuna discorsi privati non
ne corrono più tra noi due, e gli altri vedendomi riscaldato per Lei non
avrebbero fatto pettegolezzi. Giova dunque credere che non abbia passato
il segno. […] Badi bene che in ogni caso non metterebbe mai conto
di raccogliere le sue censure, alle quali nessuno crede. Se ottiene [Ascoli]
l’effetto pratico a cui mira egli è perché insiste tanto e in modo così fuor
dell’ordinario che la gente per non esser più seccata gli concede tutto68.
Pochi giorni dopo, in una lettera ad Ernesto Giacomo Parodi,
D’Ovidio ribadiva il suo immutato credo nella cosiddetta “Scuola storica”,
e la sua disapprovazione nei confronti della Scuola napoletana
di Settembrini e De Sanctis:
È pur troppo vero quel che Lei dice, che anche l’amico S. nuoce ormai
al metodo con la bizzarria delle sue ipotesi. Bizzarria simpatica e ingenua,
senza i cupi propositi di quell’altro, ma bizzarria resa pericolosa
dalla grande e meritata autorità e dalla bontà vera dell’uomo. I loro
criterii sentono di antiquato, non c’è che dire; e credo ci contribuisca il
loro scorrazzare nel celtico o in altri territori; dove la supposizione cervellotica
è più coonestata dai materiali frammentari e misteriosi. Nel
campo romanzo si può meglio mantenere una vera sanità di criterio, e
bisognerebbe portar questa in altri campi, non già infettare il neolatino
con fantasticherie altrove perdonabili e quasi necessarie. […] Se a me i
mali miei non mettessero tante catene, vorrei scrivere un lungo articolo
65 D’Ov., lettera del 6 maggio 1899 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della
Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
66 D’Ov., lettera del 9 giugno 1899 ad Alessandro D’Ancona, ivi.
67 Cfr., ad esempio, D’Ov., lettere del 18, 26, 29 giugno, 7 luglio e 9 agosto 1899
ad Alessandro D’Ancona, ivi.
68 D’Ov., lettera del 15 giugno 1899 a Francesco Novati, Biblioteca Braidense di
Milano, Carte Novati, b. 823/22.
[ 15 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 139
contro i falsi e pericolosi avviamenti venuti di moda recentemente che
minacciano di compromettere la schietta serenità della scienza del
Diez, e la fanno regredire anziché progredire e finir di liberarsi di certe
storture inevitabili nel primo costituirsi d’una disciplina. Il Diez fu il
buon senso elevato a genio, e il suo nobile esempio è seguito da molti,
ma non da tutti69.
Le vacanze estive furono nuovamente passate da D’Ovidio ai bagni
di San Salvatore Telesino, e quindi – dal 20 agosto a tutto settembre
– a Sora70. Nel marzo 1901, Monaci – preoccupato per il possibile
arrivo all’Università di Roma di Giovanni Pascoli – cercò di convincere
nuovamente D’Ovidio a spostarsi nella capitale:
Caro Ciccio, hai visto la notizia della petizione per chiamare il Pascoli
alla cattedra dantesca di Roma? E dovremo rassegnarci anche a quest’ultimo
disastro? anzi – peggio che disastro – umiliazione? E tu non
pensi dunque mai a Roma? E sei sempre fermo ad essere dei napoletani?
Svegliati, sannita! Considera che siamo in un momento decisivo. Se
mi fai sapere che accetteresti la cattedra dantesca in Roma, credo che
troverò concorde la maggioranza dei colleghi per fare subito una mozione.
Ma non bisogna perder tempo. Rispondimi per telegrafo sì da
poter mostrare ai colleghi la risposta71.
D’Ovidio rifiutò ancora una volta, adducendo questa volta motivi
d’ordine economico:
Lasciar Napoli vorrebbe dire per me perdere 2.000 lire che ho per l’incarico
e 850 che ne ho dall’Accademia, e io povero padre di famiglia a
codeste circa 3.000 lire annue non posso rinunziare, aggiungendovi
per sovrappiù le spese straordinarie per il trasferimento72.
Nel corso dell’anno lo studioso raccolse vari saggi danteschi nel
volume Studii sulla Divina Commmedia (Milano-Palermo 1901), con capitoli
dedicati a vari personaggi del poema: Sordello, Ugolino, Guido
69 D’Ov., lettera del 29 giugno 1899 a Ernesto Giacomo Parodi, Biblioteca Umanistica
di Lettere di Firenze, Fondo Parodi.
70 Cfr. D’Ov., lettere del 9 agosto e 8 ottobre 1899 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481; lettera del 30 luglio
1899 a Francesco Novati, Biblioteca Braidense di Milano, Carte Novati, b.
823/23.
71 E. Monaci, lettera del 30 marzo 1901 a Francesco D’Ovidio, Biblioteca della
Scuola Normale Superiore di Pisa, Fondo D’Ovidio (b. 257).
72 D’Ov., lettera del 31 marzo 1901 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/193).
[ 16 ]
140 AMEDEO BENEDETTI
da Montefeltro, Guido Cavalcanti, oltre a varie sottili – e talvolta eccessivamente
minuziose – questioni (sulle tre fiere, sulla data di composizione
della Commedia, sui criteri per stabilire il destino delle anime
adottati da Dante, sull’autenticità dell’epistola a Cangrande della Scala,
ecc.)73, questioni che ironicamente Croce chiamava «“d’ovidiane”,
e non “dantesche”»74. Il volume comprendeva anche due capitoli dedicati
a Dante e la magia, di cui Rodolfo Renier, nella recensione che
ne fece, scrisse indicativamente:
Questi due studi in cui sono pagine veramente eloquenti, segnano il
73 Nella prefazione dell’opera, D’Ovidio indicava come finalità del suo lavoro
(un poco generiche e tautologiche, a dir il vero), il «trovar cose nuove in una materia
trita e ritrita; scegliere, fra tante opinioni, la più giusta; rendere omaggio al vero
e a predecessori più o meno disconosciuti; sgombrar il terreno da tradizionali o
recenti errori; riconoscere i segni più grandiosi, o i più delicati, d’un’arte così potente
e squisita; contemplar da vicino il fulgore d’un intelletto così eccelso; risentire
entro di sé i palpiti d’un cuore tanto generoso; pregustare la gioia che ogni parola
sull’opera di lui sarà accolta quasi dall’universale interesse che trova pronto
chiunque mette il discorso su un grave affare di stato, su un fatto che commuove
tutti o che eccita la curiosità e la conversazione di tutti» (D’Ov., Studii sulla Divina
Commedia, Milano-Palermo, Sandron, 1901, p. XIII). Croce, che riportava nella sua
Letteratura della nuova Italia lo stesso brano, concludeva: «Quanti diletti, in cambio
di quello solo, che è di vivere con Dante!».
74 Il giudizio globale di Croce su D’Ovidio fu ancora più severo: «Il vecchio
letterato italiano amava soprattutto la letteratura, nello stile le parole, nell’organismo
le parti sciolte dal loro nesso. Come all’arte, così era anche indifferente o avverso
a ogni profondo studio della filosofia e della storia, della vita religiosa, politica
e morale, non turbato dalle tempeste che queste sogliono suscitare. D’altro
canto, possedendo egli lo strumento della forma […], essendo assai esperto dei
segreti dello stile e del lessico italiano, provava il bisogno di esercitare questa sua
perizia; e discettava perciò, secondo le occasioni, di storia e di politica, di arte e di
religione, di filosofia e di morale, ossia di tutte quelle cose che non l’avevano mai
profondamente interessato; ne discettava, tenendosi sulle generali, o ripetendo comuni
e applauditi pregiudizi, o gironzolando attorno alle cose. Ma la sua naturale
disposizione d’animo, la sua verace tendenza, si manifestava in tutta la sua forza,
quando gli accadeva di toccare una sorta di questioni, che si chiamano questioni
accademiche
[…], e che sono appunto questioni di particolari sciolti dal loro nesso
e privati perciò del loro valore di relazione. Privati di questo valore in duplice
modo: o perché si conferisce importanza a quelle che sono inezie; o perché, trattando
i particolari per sé, si dà origine a dissertazioni incapaci di ritrovare il loro
centro e aberranti, per tal modo, all’infinito. Dissertare all’infinito, avvolgere di
molti e molti involucri di carta un piccolo confetto, era appunto quel che il letterato
desiderava; suo ideale, il discorso accademico, che dagli stessi letterati e accademici
ebbe l’appropriato nome di “cicalata”» (B. Croce, La letteratura della nuova
Italia, vol. III, Bari, Laterza, 1915, pp. 299-300).
[ 17 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 141
vertice a cui può giungere la critica congetturale, maneggiata da penna
abilissima. Essi impongono l’ammirazione, anche se non inducano nel
convincimento75.
Nel settembre D’Ovidio fece un lungo giro nel Sannio e negli Abruzzi76.
Nell’agosto 1902 Monaci partecipò all’amico abruzzese la propria
gioia per l’annuncio delle imminenti nozze della figlia di D’Ovidio,
Carolina, con il professor Manfredi Porena77. Nello stesso mese lo studioso
si sottopose ad un lieve intervento chirurgico, pienamente riuscito78,
anche se alla fine di novembre D’Ovidio zoppicava ancora79.
Nel 1903 D’Ovidio pubblicò il volume Rimpianti (Milano-Palermo-
Napoli, Remo Sandron), dove ricordava con notevole capacità ritrattistica
e finezza psicologica importanti figure con cui aveva avuto in
passato consuetudine, come Ruggero Bonghi, Silvio Spaventa, Francesco
De Sanctis, Niccolò Tommaseo, Vittorio Imbriani, Giosuè Carducci,
uniti nel rimpianto per un periodo – quello della loro frequentazione
– che l’insoddisfazione per il presente amplificava. In primavera,
il filologo e dantista Ernesto Giacomo Parodi si recò a Napoli per
una conferenza su un canto della Divina Commedia. Il relazionarne
all’amico Michele Barbi fu occasione di descrivere le impressioni dello
studioso genovese sull’ambiente culturale napoletano, e su Francesco
D’Ovidio in particolare:
Fui a Napoli, dove ebbi accoglienze gentilissime dal Torraca, Croce,
Percopo, Colagrosso, […] Cimino Gentile e da qualche altro; gentili in
apparenza anche dal D’Ovidio. La conferenza dicono che sia piaciuta
moltissimo, anzi dicono che, oltre ad una del Persico, sia la sola veramente
piaciuta; anche il D’Ov. fece fiasco. […]
Il D’Ovidio lo vidi alla Conferenza, come direttore generale: cercò di
darmi prima di essa dei consigli, che forse accolsi con qualche impazienza
(«Pensi che qui non si vuole la conferenza, ma la spiegazione
del canto». Ed io «C’è tutto, professore, conferenza e spiegazione del
canto; vedrà.»). Poi mi legò a sé pel resto della serata e m’invitò a pran-
75 R. Renier, rec. a D’Ov., Studii sulla Divina Commedia, cit., «Giornale Storico
della Letteratura Italiana», vol. XXXVIII, p. 433.
76 Cfr. D’Ov., lettera del 28 settembre [prob. 1901] ad Ernesto Monaci, Biblioteca
Monteverdi di Roma, Fondo Monaci (9/324).
77 E. Monaci, lettera del 10 agosto 1902 a Francesco D’Ovidio, Biblioteca della
Scuola Normale Superiore di Pisa, Fondo D’Ovidio (b. 257).
78 Cfr. D’Ov., lettera del 1° settembre 1902 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/201).
79 Cfr. D’Ov., lettera del 25 novembre 1902 ad Ernesto Monaci, ivi (9/202).
[ 18 ]
142 AMEDEO BENEDETTI
zo, e finalmente volle condurmi da Gianturco. Ma nota: appena finita
la mia lettura, mentre tutti mi facevano i convenevoli, egli non mi disse
una parola, non una, né in male né in bene; cosicché ho ancor da sapere
se gli sia piaciuta o spiaciuta. Questo contegno mi urtò un poco, e
due o tre giorni dopo, non sapendo tacer fino all’ultimo, ne parlai con
Torraca e Croce, mi pare; e mi risposero ch’era troppo naturale, perch’io
non lo avevo neppur ricordato una volta, mentre credeva ormai fosse
un diritto acquisito di avere in ogni lettura un preambolo o una coda
tutta per sé. […]
In conclusione: la voce pubblica, rappresentata specialmente da Torr.
Croce Percopo Savj, dice che il D’Ov. è quasi isolato a Napoli; che ha
allontanato tutti da sé col suo fare e colle sue continue gelosie e prepotenze
e col suo egoismo; che ha rotto le scatole a tutto il mondo col suo
Porena [il prof. Manfredi Porena, filologo, genero di D’Ovidio] che egli, e
più ancora le donne, cacciano innanzi in modo sfacciato. Relata refero.
[…] Tutto sommato, quell’uomo diventa un matto pericoloso80.
Dal 1904 D’Ovidio fu vicepresidente dell’Accademia dei Lincei. In
agosto lo studioso fu a Telese, salvo qualche giorno passato a Casamicciola81,
dove fu afflitto per oltre un mese da un’affezione gottosa82.
Nel febbraio 1905 D’Ovidio spese la sua influenza nel tentativo che
la cattedra di letteratura italiana Bologna lasciata dal Carducci non finisse
a Giovanni Pascoli (sostenuto da Pullè e da Puntoni), come invece
accadde83. Nel corso dell’anno venne edita, in collaborazione con
Wilhelm Meyer Lübke, la Grammatik der italienischen Sprache (Strassburg,
Trubner)84. Nell’agosto, lo studioso fu nuovamente a S. Salvatore
Telesino85.
Il 3 dicembre 1905 D’Ovidio venne nominato senatore. Nei primi
mesi del 1906 uscì il primo volume di una nuova serie di saggi danteschi,
dal titolo Nuovi studi danteschi (Milano, S. Landi), con contributi
su Ugolino, Pier delle Vigne, i Simoniaci. Il volume, negli ambienti
80 E. G. Parodi, lettera del 22 marzo 1903 a Michele Barbi, Biblioteca della
Scuola Normale Superiore di Pisa, Fondo Barbi, b. 31, 360/43.
81 Cfr. D’Ov., lettera del 17 settembre 1904 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/206).
82 Cfr. D’Ov., lettera del 14 novembre 1904 a Francesco Novati, Biblioteca Braidense
di Milano, Carte Novati (823/40).
83 Cfr. D’Ov., lettera del 7 febbraio 1905 a Michele Barbi, Biblioteca della Scuola
Normale di Pisa, Fondo Barbi (15/391).
84 La pubblicazione della traduzione italiana dell’opera seguì l’anno successivo:
Grammatica storica della lingua e dei dialetti italiani (Milano, Hoepli, 1906).
85 Cfr. D’Ov., lettera del 4 agosto 1905 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/215).
[ 19 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 143
della Società Dantesca, non suscitò grandi entusiasmi. Parodi (a cui,
come si è visto, D’Ovidio non era molto simpatico) ne scrisse così a
Barbi:
Sto leggendo il libro del D’Ov., e Vandelli ha milioni di ragioni: il primo
capitolo, sul preludio del Purg., benché ci sieno, come si capisce,
delle cose buone, è troppo lungo d’una buona metà, con un abuso uggiosissimo
e, non solo antiartistico, ma volgare, di sofisticherie logiche.
Anche lui s’imagina che D. abbia proprio fatto il viaggio, e ragiona di
conseguenza. Scrissi a Rossi se me ne fa la recensione: vedendolo, tu
incoraggialo86.
Nella primavera, in una lettera ad Ascoli, D’Ovidio precisava il suo
stato di salute fisica e morale:
La salute, […] non mi manca, quantunque non sia scevra d’incomodi
cronici, oltre quello che oramai è la mia croce abituale. Il buon umore
pure l’avrei, anzi l’ho intero nelle molte ore di lavoro, ma mi scarseggia
quando son costretto a volgermi alle tante e tante brighe che mi sono
state buttate addosso e quando rivolgo la mente alle misere condizioni
della cosa pubblica. L’Italia, che ha fatto tanti progressi negli studii e in
altro, ha sempre poco da rallegrarsi delle sue condizioni politiche e del
suo valore internazionale87.
Nell’estate, per le ormai consuete cure termali, lo studioso si recò a
San Pellegrino88, per poi passare in settembre a Montecatini89. Le condizioni
di salute di D’Ovidio non erano buone, e nella cittadina termale
toscana costringevano lo studioso a rimanere in albergo a Montecatini
Alta, come ricordava a D’Ancona:
…ma tale è la situazione di questa mia dimora in cima alla collina, e
tale la presente ritrosia dei miei occhi per il sole, che non oso nemmeno
scender giù ai Bagni, e mi fo portare quassù i fiaschi colle acque, e fo la
cura (intendo la parte attiva di essa!) in questa stessa stanza dove dormo
e donde Le scrivo, e donde non esco se non quando il cielo si vela
o il sole tramonta90.
86 E. G. Parodi, lettera del 16 aprile 1906 a Michele Barbi, Biblioteca della Scuola
Normale Superiore di Pisa, Fondo Barbi, b. 31, 360/64.
87 D’Ov., lettera del 13 maggio 1906 a Graziadio Isaia Ascoli, Biblioteca dell’Accademia
dei Lincei di Roma, Fondo Ascoli (32/10).
88 Cfr. D’Ov., lettera del 28 dicembre 1906 a Graziadio Isaia Ascoli, ivi (42/14).
89 Cfr. D’Ov., lettera del 22 settembre 1906 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/220).
90 L’albergo era la “Pensione Ristorante L’Appennino”.
[ 20 ]
144 AMEDEO BENEDETTI
L’anno seguente venne edito anche il secondo volume dei Nuovi
saggi danteschi (ivi, 1907), riguardante questa volta il Purgatorio. Nel
1908 furono poi pubblicati i Nuovi studi manzoniani (Milano, Ulrico
Hoepli), che comprendevano tra l’altro un raffronto di natura filologica
tra la prima e la seconda versione dei Promessi sposi.
Nell’agosto 1909 lo studioso si recò con la famiglia per le consuete
vacanze estive a Chitignano nel Casentino, ma per la «dimora singolarmente
incomoda», abbandonò il luogo per Perugia, dove dimorò
all’Albergo Belle Arti91.
Del febbraio 1910 fu l’uscita del testo Versificazione e arte poetica medioevale
(Milano, Hoepli). Il ponderoso volume recava in appendice
anche uno studio su Cielo d’Alcamo, ultimato il 16 ottobre 1909, che
avrebbe costituito a lungo un importante punto di riferimento per tutti
gli studiosi del poeta medievale siciliano92. Di tale appendice, D’Ovidio
scrisse a Monaci precisando:
È un testo critico del Contrasto, non colla pretesa di trovarne la forma
originaria, ma di ripulire il testo diplomatico delle sue più sicure mende.
Tutti quelli che l’han riprodotto non hanno profittato abbastanza
della tua bellissima eliotipia. Ho tirato fuori un testo piano, scorrevole,
e certo più vicino all’originario. Ci ho apposto un lungo commento
perpetuo, di note critiche e ermeneutiche93.
L’aver perduto l’«appetito, il sonno, e le forze» e la grande fiducia
nelle consuete cure termali, portarono lo studioso nell’agosto del 1911
a Chianciano, con sua buona soddisfazione94, per poi passare in settembre
a Montepulciano95.
Nel luglio 1912 D’Ovidio, da Chianciano dove si era recato per cure,
manifestava in una lettera a Francesco Novati la sua insoddisfazione
per l’andamento dell’Accademia dei Lincei:
Lo specchietto dei voti dei Lincei mi giunse proprio sul punto che lasciavo
la mia casa per venire qua [a Chianciano, n.d.a.]. Se non ricordo
male, nove voti sono stati per Lei, sicché il primo della terna è riuscito
91 Cfr. D’Ov., lettera del 6 agosto 1909 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/235).
92 Cfr. D’Ov., lettera del 17 ottobre 1909 ad Ernesto Monaci, ivi (9/238).
93 D’Ov., lettera del 23 luglio 1909 ad Ernesto Monaci, ivi (9/246).
94 D’Ov., lettera del 10 agosto 1911 ad Ernesto Monaci, ivi (9/252).
95 Cfr. D’Ov., lettera del 6 settembre 1911 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca
della Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
[ 21 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 145
con lieve maggioranza. È un ottimo studioso, ma credo che finiremo col
dover dire, come nel Fraa Zenever: Che util ghe n’havun de lu el convent?
Anche per questo, il mio ultimo voto (quello di semplice socio votante
a domicilio) è stato per Lei. L’Accademia è ora piena d’incarichi gravosi,
per via dei premii, e i socii troppo dediti a studii più che peregrini e
troppo peregrinanti all’estero per iscavarsi cimeli, vengono ad essere
meramente decorativi. […]
Però tutto sommato, queste ultime elezioni mi hanno lasciato assai
scontento, e come presidente, assai preoccupato. I migliori amici, con
la coscienza irretita da mille scrupoli, mi han dato poco o nessun aiuto.
E questo prevalere dell’anzianità perfino nell’Accademia, come
nell’istruzione secondaria, come in tante altre cose, e come nel personale
dei ferrovieri e dei tranvieri, mi accora, e mi fa sempre più rimpiangere
il buon tempo antico96.
Passò invece l’agosto ed il settembre a Campobasso97, nella villa di
un cugino98. Nell’autunno lo studioso abruzzese pubblicò un’altra importante
opera di carattere filologico-linguistico: Il ritmo cassinese, in
«Studi romanzi» (Roma, Società Filologica Romana). L’autore non se
ne mostrava però molto soddisfatto: «Questo lavoro, più lo leggo, e
meno mi piace: non per la sostanza, ma per la forma, veramente,
nell’insieme, infelice»99. Anche le proprie condizioni di salute erano
all’epoca fonte di preoccupazione per D’Ovidio, che scriveva:
Ho avuto l’influenza, che mi ha lasciato non indebolito fisicamente, ma
con accresciuta prostrazione d’animo. Sono parecchi mesi che una tale
prostrazione è giunta ad un grado che mi scoraggia100.
Nell’estate del 1913, irritato per il silenzio di Novati su una sua
opera, cercando di ottenerne un giudizio scrisse allo studioso cremonese:
Sin dal principio dell’anno Le spedii raccomandato il mio Ritmo Cassi-
96 D’Ov., lettera del 25 luglio 1912 a Francesco Novati, Biblioteca Braidense di
Milano, Carte Novati (busta 824/5).
97 D’Ov., lettera del 3 agosto 1912 a Francesco Novati, ivi. Della sistemazione
non sembrò però essere totalmente appagato: «Son qui in campagna, quasi a confino,
poiché vivo in continua smania di recarmi in città; ma avendo a ciò mezzi
scarsi e difficili» (D’Ov., lettera del 3 agosto 1912 a Francesco Novati, ivi, busta
824/6).
98 Cfr. D’Ov., lettera del 18 agosto 1912 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/267).
99 D’Ov., lettera del 21 luglio 1912 ad Ernesto Monaci, ivi (9/265).
100 D’Ov., lettera del 2 novembre 1912 ad Ernesto Monaci, ivi (9/275).
[ 22 ]
146 AMEDEO BENEDETTI
nese, ed ho sempre nutrito il desiderio e la speranza che Ella mi scrivesse
francamente se in questa o quella parte avesse alcun che a ridire, o
anche a rimproverarmi: quantunque la coscienza mi dice che io non ho
sentito altro impulso che di essere giusto e riguardoso. Ma non un rigo
da parte sua. Siccome io di tali silenzii ne commetto centomila all’anno,
e quindi non mi sento punto in diritto di lamentarmi del silenzio
altrui, così La prego di non prender questo mio a Lei come un lamento.
Ma soltanto voglio dirle che non mi defraudi di nulla, neanche di quel
che meno piace agli autori di sentirsi dire. Da Milano nessuno mi scrive,
e solo in dicembre da un rigo del Salvioni seppi l’esito della curiosa
faccenda di cui Ella mi parlò a Roma101.
Le condizioni degli occhi dello studioso andavano intanto peggiorando102.
Agli inizi di giugno del 1914 D’Ovidio fu a Roma per due
settimane per gli impegni senatoriali, a cui prese parte visto il delicato
momento politico. Nel suo breve resoconto al D’Ancona si trova una
delle poche valutazioni politiche dello studioso:
Ecco le conseguenze, aspettate e temute da noi e dagli altri simili a noi
[…] della balorda ed egoistica politica che dopo la caduta del Crispi ci
ha funestati. Spero che l’ottimo e sapiente uomo che ora ci governa, e
del quale io conosco da circa quarant’anni l’alto ingegno e l’alto animo,
riesca a rimetterci per una via migliore, a far coraggio a tutti i buoni, a
farsi ardito lui stesso103.
Alla fine dell’anno D’Ovidio intervenne presso Gnoli, per evitare
che la pubblicazione parziale di un suo scritto potesse prestarsi ad
equivoci in un particolare momento storico, qual era quello immediatamente
precedente alla prima guerra mondiale:
La tua cortese lettera mi mette in un grande imbarazzo perché, mentre
non posso se non aggradire che qualche tratto del mio Discorso sia riprodotto
nel tuo giornale, d’altro canto però mi riuscirebbe molto spiacevole,
o addirittura doloroso che il pubblico mi attribuisse un’opinione
parziale per la Germania e contro la Francia, mentre io ho voluto
massimamente
riuscire equanime verso tutti i popoli combattenti.
101 D’Ov., lettera del 25 giugno 1913 a Francesco Novati, Biblioteca Angelica di
Roma, Fondo Gnoli (busta 58/2). Non mi è stato possibile accertare per quali motivi
la lettera a Novati si trovi tra le missive inviate a Gnoli, e non alla Braidense di
Milano, dove sono conservate le lettere da D’Ovidio scritte a Novati.
102 Cfr. D’Ov., lettera del 27 dicembre 1913 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/282).
103 D’Ov., lettera del 18 giugno 1914 ad Alessandro D’Ancona, Biblioteca della
Scuola Normale di Pisa, Fondo D’Ancona, 14/481.
[ 23 ]
L’ATTIVITÀ NAPOLETANA DI FRANCESCO D’OVIDIO 147
Quel che tu mi proponi, cioè di tornare a scrivere sull’argomento, mi è
impossibile, occupatissimo come sono, e ripugnandomi di ripetermi.
Orbene, non mi resta che pregarti di non far nulla di quello che volevi
fare: salvoché tu non avessi la pazienza di riassumere brevemente e
con scrupolosa fedeltà il mio Discorso, anche là dove è amorevole alla
Francia. Ti manderei io stesso un riassuntino, da pubblicarsi integralmente
e senza alcun ritocco, se io avessi un’idea del modo in cui tu
intenderesti riprodurre quelle mie pagine che fanno per la tua tesi104.
A partire dal maggio 1916, D’Ovidio – in qualità di vicepresidente
dei Lincei – si trovò coinvolto dall’imbarazzante episodio di Davidsohn,
emerito studioso di storia fiorentina (membro della Crusca e dei
Lincei), che appena scoppiata la guerra aveva scritto un articolo su
una rivista bavarese («Suddeutsche Monatshafte», fascicolo «Italien»),
fortemente critico e derisorio nei confronti degli Italiani. Il Ministero
della Pubblica Istruzione aveva pertanto diramato una nota alle due
prestigiose Accademie italiane, attirando la loro attenzione sul caso.
D’Ovidio, si sintonizzò sull’orientamento del presidente dei Lincei
Blaserna e del Ministro, decisi a lasciar correre105.
Nel luglio Monaci, socio da tempo dell’Arcadia, propose alla benemerita
accademia romana la cooptazione di D’Ovidio, che vi fu acclamato106.
Alla fine del mese lo studioso si recò a Castellammare di Stabia,
per l’abituale cura delle acque, ma incorso in una febbre viscerale,
si spostò nel settembre a Torre del Greco107. Sempre nel 1916, in dicembre,
venne eletto Presidente della prestigiosa Accademia dei Lincei.
Nell’agosto 1917 D’Ovidio scelse ancora come luogo di cura e villeggiatura
Chianciano108.
Nel 1920 lo studioso pubblicò il saggio Sulla più antica versificazione
francese (Roma, Tip. della R. Accademia dei Lincei):
Tra i molti scritti qui riportati, sono particolarmente rilevanti quelli
sull’origine dei versi, sugli usi metrici nella poesia italiana dei primi
secoli, sulla metrica delle Odi barbare di Carducci, a proposito della
quale espresse un giudizio negativo registrato dal poeta, che manifestò
104 D’Ov., lettera del 15 dicembre 1914 a Domenico Gnoli, Biblioteca Angelica
di Roma, Fondo Gnoli (busta 58/2).
105 Cfr. D’Ov., lettere del 26 [maggio], 1, 5 e 14 giugno [1916] ad Oreste Tommasini,
Biblioteca Vallicelliana di Roma, Fondo Tommasini, D XVII/9, 10, 11, 5.
106 Cfr. D’Ov., lettera del 3 luglio 1916 ad Ernesto Monaci, Biblioteca Monteverdi
di Roma, Fondo Monaci (9/296).
107 Cfr. D’Ov., lettera del 17 settembre 1916 ad Ernesto Monaci, ivi (9/297).
108 Cfr. D’Ov., lettera del 18 agosto 1917 ad Ernesto Monaci, ivi (9/299).
[ 24 ]
148 AMEDEO BENEDETTI
sempre stima nei suoi confronti, con bonario e lievemente ironico distacco.
I saggi più importanti sono ritenuti quelli intitolati rispettivamente
Il ritmo cassinese (XIII, pp. 1-145) e Il Contrasto di Cielo Dalcamo
(ivi, pp. 169-335)109.
D’Ovidio passò poi l’ottobre a Campobasso110.
Negli ultimi anni lo studioso continuò a proporre i propri articoli,
specie di argomento dantesco, badando a che la pubblicazione seguisse
velocemente, e che i contributi fossero adeguatamente retribuiti,
come mostra una sua lettera del 1923 a Michele Barbi:
Intanto Le scrivo per chiederle se la Sua collezione di Studi Danteschi
continuerà a pubblicarsi. Io ho un bel manipolo di sei Note dantesche
varie, e in altri momenti gliele avrei senz’altro offerte. Ma ora devo
domandarle prima se è il caso di parlarne, e dato pure che sia il caso, a
che tempo s’arriverebbe. Stante la mia vecchiaia, non possono attender
molto. Inoltre al Giornale Dantesco testé rinnovato pare a Lei (me lo dica
in un orecchio) che potrei convenientemente rivolgermi? Non ne ho
visto che un estratto […] e non so se abbia acquistato credito. E sa se e
quanto pagherebbero un articolo111?
Nel 1925 venne solennemente giubilato nell’Università di Napoli.
Fu l’ultima grande soddisfazione dello studioso. Francesco D’Ovidio
morì pochi mesi dopo, a Napoli, il 24 novembre 1925.
Amedeo Benedetti
(Convitto Nazionale “C. Colombo”, Genova)
109 L. Strappini, D’Ovidio Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.
41, Roma, Istituto Enciclopedia Italiana, 1992, p. 585.
110 Cfr. D’Ov., lettera del 2 ottobre 1920 a Michele Barbi, Biblioteca della Scuola
Normale di Pisa, Fondo Barbi (15/391).
111 Cfr. D’Ov., lettera del 12 marzo 1923 a Michele Barbi, ivi.
[ 25 ]
MAURO MARROCCO
Schede sulla Gelosia del Sole (1519)
di Girolamo Britonio: temi e tradizione del testo
The essay proposes a general analysis of Petrarchist canzoniere
Gelosia del Sole by Girolamo Britonio, whose first edition was printed
in Naples in 1519. The first part of the essay proposes a thematic
and structural analysis of the canzoniere, with an interpretation of
the peculiar plot of the book; the second part is devoted to the analysis
of some textual variants in the editio princeps of the work, according
to the principles of textual bibliography; the last part is finally
devoted to the analysis of some aspects in the tradition of
Britonio’s poems in sixteenth century anthologies.
1. Note per una lettura della Gelosia del Sole
La Gelosia del Sole (da ora GdS) del lucano Girolamo Britonio1, stampata
una prima volta a Napoli nel 1519 e, in un’edizione descripta della
1 Natio di Sicignano degli Alburni (1490/1), dopo esser stato al servizio di
Roberto ii Sanseverino principe di Salerno e di Eleonora d’Aragona principessa di
Bisignano, giunse alla corte ischitana degli Avalos intorno al 1512, dove, probabilmente
tra il ’13 ed il ’19 completò la Gelosia del Sole (Napoli, Sigismondo Mayr,
1519, poi ristampata a Venezia, Marchiò Sessa, 1531), che resta la sua opera principale.
Dopo la morte del marchese di Pescara (1525) lo si ritrova attivo a Roma
sotto i pontificati di Paolo III e Giulio III, ove divenne prevalentemente scrittore
latino. Punto di riferimento essenziale per la ricostruzione della vita di Britonio è
ovviamente la voce, non esente da inevitabili incertezze, dedicatagli da G. Ballistreri,
in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
vol. XIV, 1972, pp. 347-349. Fondamentali, oltre agli stessi scritti del poeta, le
informazioni desumibili dalla coeva breve biografia che l’umanista veneto Francesco
Pescennio Nigro introdusse nella sua Cosmodystychia (ms. Vat. lat. 3971), opera
nel 1513 dedicata a Leone X, che ora si legge in G. Mercati, Ultimi contributi alla
storia degli umanisti, vol. II, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1939,
pp. 30*-31*, e dalla scheda biografica di G. M. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia,
II, 4, Brescia, G. B. Bossini, 1753-63, pp. 2112-2114, che si limita a riportare un ampio
brano della biografia manoscritta desunta dall’Historia delle vite de’ poeti italiani
(ms. Marciano it. X 118) di Alessandro Zilioli (1600 ca.).
Contributi
150 MAURO MARROCCO
princeps, a Venezia nel 1531, è opera di un certo rilievo prospettico
nella storia del petrarchismo meridionale in quanto canzoniere a
stampa in un periodo sostanzialmente regressivo dell’editoria volgare
napoletana2. Difatti, uno sguardo al catalogo editoriale testimonia
l’esilità della produzione volgare finita in tipografia nel primo trentennio
del secolo a Napoli, la quale esilità diviene quasi completa assenza
nel caso della lirica, che tra le Opere (1509), contenenti la definitiva
forma dell’Endimione, di Cariteo e i Sonetti e Canzoni (1530) di Sannazaro
annovera unicamente, nel 1519, proprio la GdS. L’origine di
questa assenza della lirica e del generale arretramento della letteratura
volgare è comunemente fatta risalire alla crisi della corte aragonese
della seconda metà del XV secolo travolta dalle traumatiche vicende
di inizio Cinquecento, ciò che non poteva ovviamente non condizionare
gli esiti di una letteratura elettivamente connessa alle strutture
della corte, in un periodo in cui l’intellettualità napoletana recuperava
più forti ragioni identitarie nel culto pontaniano e nella conseguente
«nuova moda del latino»3.
2 L’opera, dopo le segnalazioni di C. Dionisotti, Appunti sulle rime di Sannazaro,
«Giornale storico della letteratura italiana», CXL (1963), pp. 161-211, pp. 198-
199 e E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, in I sentieri del lettore, Bologna,
Il Mulino, 1994, vol. I, pp. 315-353 (già in Atti del Convegno Internazionale sul
tema Premarinismo e Pregongorismo [Roma, 19-20 aprile 1971], Roma, Accademia
Nazionale dei Lincei, 1973, pp. 95-123), pp. 317-318, ha goduto negli ultimi anni di
una certa attenzione critica volta a chiarirne la peculiarità nel quadro della storia
del petrarchismo meridionale: la sua prima organica lettura, cui si rimanda per
una analisi più particolareggiata dei diversi temi dell’opera, si deve a M. Grippo,
La Gelosia del sole di Girolamo Britonio, «Critica Letteraria», XXIV (1996), fasc. I, pp.
5-55, mentre sono attualmente in lavorazione due edizioni critiche, per le quali cfr.
rispettivamente M. Romanato, Per l’edizione della Gelosia del sole di Girolamo Britonio,
«Italique: Poésie Italienne de la Renaissance», XII (2009), pp. 33-71 e G. Britonio,
Gelosia del Sole. Edizione critica, tesi dottorale di Mauro Marrocco discussa
presso la “Sapienza” Università di Roma il 19 maggio 2011. Entrambi i lavori presentano
ovviamente un incipitario che ci si esime dal riproporre in questa sede.
3 Cfr. C. Dionisotti, Appunti sulle rime di Sannazaro, cit., p. 191. Per un quadro
d’insieme della letteratura napoletana di inizio Cinquecento, essenziali, anche se
per lo più pertinenti al biennio 1530-50, gli studi confluiti in T. R. Toscano, Letterati
corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli,
Loffredo, 2000 e, con qualche escursione nella seconda metà del secolo, Id., L’enigma
di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Napoli,
Loffredo, 2004; cfr. anche N. De Blasi, A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in
Letteratura Italiana, Storia e geografia, vol. II L’età moderna, t. I, Torino, Einaudi, 1988,
pp. 235-325, in part. pp. 290-315; T. R. Toscano, Linee di storia letteraria dal regno
aragonese al viceregno spagnolo, in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Storia e civiltà
della Campania. Il Rinascimento e l’Età Barocca, Napoli, Electa, 1993, pp. 413-439.
[ 2 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 151
La stessa adozione della “forma canzoniere” da parte della GdS,
stampata «per volontà e cura dell’autore»4, differentemente dalla reticenza
dei lirici meridionali a licenziare alle stampe le proprie opere
liriche, si rivela peculiare in quanto contraria alla tendenza della seconda
decade del secolo, anche al di fuori di Napoli, a strutturare i libri
di rime secondo forme più aperte, antologiche5. Se al fondo della
abiura, con modalità differenti, del canzoniere amoroso da parte di
Cariteo e Sannazaro s’è vista la più generale napoletana «crisi del genere
lirico»6 in seguito alla crisi della società cortigiana aragonese del
XV secolo, sulla quale, «come un rampicante»7, quella letteratura si
era sviluppata, la rinata fiducia nelle possibilità del canzoniere amoroso
testimoniata dalla GdS sta ad indicare che in parte quel tessuto si
era ricomposto, che un possibile pubblico era stato riconosciuto nella
corte ischitana, cui Britonio fu legato nei suoi anni napoletani al servizio
di Francesco Ferdinando d’Avalos e nella quale si consuma quasi
per intero la sua esperienza di poeta lirico. Di conseguenza l’opera,
dedicata a Vittoria Colonna, riflette gli ideali di una casata, quella degli
Avalos, ambiziosa di affermarsi quale grande centro di fruizione ed
elaborazione di modelli culturali e che si proponeva perciò come
«punto di riferimento e di riaggregazione […] dei quadri intellettuali
letteralmente disorientati (Sannazaro insegna) in seguito al tramonto
4 M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., p. 17. Per la mappatura
geografica e cronologica dei volumi volgari stampati a Napoli, cfr. I. Pantani (a
cura di), La biblioteca volgare, vol. 1 Libri di poesia, in Biblia. Biblioteca del libro italiano
antico, diretta da A. Quondam, Milano, Editrice Bibliografica, 1996; P. Manzi, La
tipografia napoletana nel ’500. Annali di Sigismondo Mayr – Giovanni A. De Caneto –
Antonio De Frizis – Giovanni Pasquet De Sallo (1503-1535), Firenze, Olschki, 1971; T.
R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà del Cinquecento
(1503-1553), Napoli, E.DI.SU., 1992; esclusivamente per la lirica N. Cannata,
Il canzoniere a stampa (1470-1530). Tradizione e fortuna di un genere fra storia del libro e
letteratura, Roma, Bagatto, 2000, oltre a EDIT 16. Censimento delle edizioni italiane del
XVI secolo, a cura dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane
e per le informazioni bibliografiche, http://edit16.iccu.sbn.it/web_iccu/ihome.
htm, in linea dal marzo 2000.
5 Cfr. N. Cannata, Il canzoniere a stampa (1470-1530), cit., pp. 93-124. Giustamente
M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., p. 22 si sofferma
sull’estrema rilevanza del fatto che l’autore definisca «libro» la propria opera, «sia
nella dedica a Vittoria che nelle didascalie che indicano la divisione della Gelosia in
due parti».
6 Cfr. M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo
Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 296-341.
7 C. Dionisotti, Appunti sulle rime di Sannazaro, cit., p. 194.
[ 3 ]
152 MAURO MARROCCO
della dinastia aragonese […]»8; la GdS, che non si esime dal denunciare,
in un tempo avvertito ostile per l’attività letteraria, la propria “nostalgia
aragonese”9, non manca così di celebrare Ischia quale nuovo
Parnaso, luogo ricostitutivo, grazie al mecenatismo di Vittoria, dell’età
aurea delle lettere10. (Un discorso a parte qui meriterebbe la posizione
di punto di riferimento per i poeti della sua cerchia assunta da Vittoria
Colonna, posizione che sembra riconoscerle anche la GdS11.) La corte
8 T. R. Toscano, Due “allievi” di Vittoria Colonna: Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos,
in Id., Letterati corti accademie, cit., p. 112. Preziose le indicazioni sulle ragioni
ideologiche del progetto ischitano, canonizzato da Paolo Giovio (Dialogo sugli uomini
e le donne illustri del nostro tempo, a cura di F. Minonzio, Torino, Aragno, 2011),
contenute in T. R. Toscano, Tra corti e campi di battaglia: Alfonso d’Avalos, Luigi Tansillo
e le affinità elettive tra petrarchisti napoletani e spagnoli, «e-Spania», 13, juin 2012,
pp. 1-17, in particolare pp. 10-11; cfr. inoltre C. Vecce, Paolo Giovio e Vittoria Colonna,
«Periodico della Società Storica Comense», LIV (1990), pp. 67-93.
9 Un manifesto di questa britoniana “nostalgia aragonese” può essere il son.
386, che per l’appunto distanzia in un’epoca sentita fatalmente altra la possibilità
di un vero sviluppo della poesia: «Ben fur le stelle al ver contrarie e false, / sotto
le quai cantò mia pura Euterpe, / che ’l mal sormonta e ’l ben per terra or serpe, /
ch’a’ mortai sol di quello un tempo calse. / Allor tua sacra lira, Apollo, valse, /
mentre rifulse l’Aragonea sterpe, / la cui fama non fia che ’n tutto esterpe / que’
che ’n sua clade in pregio, e non pria, salse. / O felice Pontano, Azzio et Albino, /
Altilio e Cariteo con l’altre schiere / che vissero cantando in sì bel tempo. / Ai!,
spietata Natura! empio Destino! / Perché spiacque alle Parche ingiuste e fiere /
ch’io mai qui non nascesse o più per tempo?»
10 «Vanne, Gravinio, e con fervente affetto, / nel bel scoglio ch’el mar bagna e
circonda, / segui Nettuno e l’aura a te seconda, / che non poco è conforme al tuo
concetto. / Ivi tu chiar vedrai, con vero effetto, / che sol quel luogo d’ogni grazia
abonda / e pregio argumentare ogni erba, ogni onda / conveniente al tuo sincero
petto. / Ivi risorgon l’acque chiare e conte / del bel Cefiso e la più ascosa vena /
del Caballino e consacrato fonte. / Così invaghito d’aria più serena, / dirai Vettoria
aver converso il monte / un novo a noi Parnaso, un’altra Atena.» (GdS, 174) Per
una prima ricostruzione storica della corte ischitana di Vittoria Colonna, cfr. A.
Giordano, La dimora di Vittoria Colonna a Napoli, Napoli, Tipografia Melfi & Joele,
1906; S. Thérault, Un cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna
châtelaine d’Ischia, Firenze-Parigi, Edizioni Sansoni Antiquariato-Librairie Marcel
Didier, 1968; C. Ranieri, Vittoria Colonna e il cenacolo ischitano, in La donna nel Rinascimento
meridionale. Atti del convegno internazionale, Roma 11-13 novembre 2009,
a cura di M. Santoro, Pisa-Roma, Serra, 2010, pp. 49-65.
11 «Quando odo il vostro stil di tanta istima / tal meraviglia intorno l’alma
infonde / ch’io dico e con silenzio meco: “or donde / piove in cor feminil sì dolce
rima? / Ben da Parnaso in l’una e l’altra cima / ebbe costei tal grazia e non altronde,
/ dove le Muse placide e gioconde / nudrita l’hanno da l’età sua prima.” / Ma
il cor, che nota il suon delle parole, / dentro arde e tace e per troppa dolcezza / si
strugge quasi, come un ghiaccio al sole. / Poi s’empie d’amorosa alta vaghezza /
e per vero idol suo v’adora e cole, / per ingegno non men che per bellezza.» (GdS,
[ 4 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 153
di Ischia si presenta così come orizzonte socioculturale privilegiato
della GdS, e sono naturalmente diverse le rime di dedica ai consorti
marchesi di Pescara ed alla societas a loro collegata. Ad essa si affianca,
però, l’eletto consorzio umanistico, ivi diffusamente presente, ora come
sfondo memoriale di una comune appartenenza culturale, ora come
diretto interlocutore di riferimento del sicignanese. Tra i corrispondenti
del canzoniere figurano diversi umanisti: ovviamente Sannazaro,
ma anche Girolamo Carbone, Scipione Capece, Pomponio Gaurico,
Benedetto di Falco, Girolamo Angeriano. Insomma, anche per Britonio
il mondo dell’Accademia, seppur vissuto probabilmente in una
posizione marginale, diviene un ancoraggio per affermare la propria
identità di letterato all’interno di un’istituzione stabile e prestigiosa.
Per strutturazione metrico-tematica la GdS, situata ad un’altezza
strategica nel processo di canonizzazione del classicismo volgare, si
pone ad un livello di elevata assunzione del modello dei Rerum Vulgarium
Fragmenta (da ora RVF), seppur talvolta vissuto ad uno stadio di
esteriore velleità mimetica più che profondamente risentito. È però da
sottolineare il peso che un’analisi complessiva delle modalità liriche
della GdS assegna, integralmente con l’imitazione del modello petrarchesco,
all’assorbimento largo della tradizione petrarchista del Quattrocento,
soprattutto per quanto riguarda i cortigiani Tebaldeo, Serafino
Aquilano, oltre ai tre grandi aragonesi Caracciolo, Cariteo e Sannazaro.
Come è d’altronde noto, una certa volontà distintiva rispetto al
forte modello del classicismo bembiano segna anche le esperienze del
più maturo Cinquecento napoletano, nel quale Bembo è «assunto e inteso
attraverso Sannazaro, senza che ne derivi poi una chiusura assoluta
nei confronti dell’esperienza quattrocentesca che si scioglie nella
sua opera di poeta»12. Basti per ciò pensare alla riflessione linguisticogrammaticale
meridionale della prima metà del Cinquecento, tesa a
sottolineare la volontà di non ridurre il codice del poetabile all’opzione
bembiana, ma di renderlo inclusivo di esperienze anche più vicine nel
tempo e nello spazio, tra tutte quella, appunto, di Sannazaro13.
276). Per T. R. Toscano, Schede sul noviziato poetico napoletano di Vittoria Colonna, in
Id., Letterati corti accademie, cit., pp. 13-24, che affronta il problema della ricostruzione
dell’attività poetica di Vittoria Colonna prima del 1525, data ufficialmente
assunta quale principio della sua poesia, il sonetto britoniano è la «prima testimonianza
diretta sull’attività poetica di Vittoria Colonna» (Ivi, p. 16).
12 E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, cit., p. 324.
13 Per una ricostruzione della parabola che va dall’olopetrachismo di Gesualdo
da Venosa al bembismo temperato di Luca Peto e Paolo del Rosso cfr. P. Sabbatino,
La grammatica della letteratura volgare a Napoli nel Cinquecento, in Id., L’idioma
[ 5 ]
154 MAURO MARROCCO
Una cifra stilistica peculiare, soprattutto per quanto riguarda la
fortuna della poesia britoniana, è una certa tendenza alla «locuzione
artificiosa» rilevata particolarmente a proposito della tecnica del sonetto,
per l’appunto lodata da Federico Meninni per la «cultura e tessitura
delle rime dei ternari», in linea con la tendenza (non solo) meridionale
all’evoluzione epigrammatica del metro14. La chiusa del sonetto
diviene così il luogo di maggior condensazione degli artifici tipici
della scrittura di marca petrarchesca, che procede per strutture binarie
o plurimembri, sia nella costruzione del verso che nelle cellule
sintagmatiche, ciò che è ottenuto principalmente tramite il ricorso ad
antitesi e dittologie15. La GdS presenta inoltre soluzioni avanzate, soprattutto
per quanto riguarda il sonetto (in realtà spesso malcerta è la
tenuta del discorso lirico nei metri lunghi, che risultano di gran lunga
di minor interesse), nel rapporto metro-sintassi: difatti, se il periodo
britoniano si attesta, per lo più, sul rispetto delle partizioni metriche,
non mancano casi di complicazione sintattica con la possibilità di
svincolare il discorso lirico dalle rigide strutture del metro16.
volgare. Il dibattito sulla lingua letteraria nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1995, pp.
13-74; una sintesi della vicenda è anche in M. Marrocco, Modernità implicata: antichi
e moderni nella riflessione linguistica e grammaticale del primo Cinquecento napoletano,
in Moderno e modernità: la letteratura italiana. Atti del XII Congresso nazionale
dell’ADI (Associazione degli italianisti Italiani), Roma 17-20 settembre 2008, Sapienza
Università di Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia/Facoltà di Scienze Umanistiche,
a cura di C. Gurreri-A. M. Iacopino-A. Quondam, redazione elettronica
di E. Bartoli, http://www.italianisti.it/fileservices/Marrocco%20Mauro.pdf.
Sintomatiche alcune tappe intermedie di questo percorso verso un’accoglienza
temperata del classicismo bembiano, penso in particolare al Rimario di di Falco,
con il suo canone «sorprendentemente e splendidamente giusto» (C. Dionisotti,
Appunti sulle rime di Sannazaro, cit., p. 125) di autori anche moderni, ed alla bizzarria
elencatoria del canone degli autori da imitare del Vocabulario di Luna.
14 La citazione proviene dal giudizio sulla tecnica britoniana del sonetto di F.
Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, a cura di C. Carminati, Lecce, Argo,
2002, vol. I, p. 62. Per il sonetto-epigramma ed il suo peculiare sviluppo nella poesia
meridionale, cfr. E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, cit., pp. 339
segg.; per l’analisi degli esiti di elevato tecnicismo formale in direzione manieristica
della lirica meridionale del secondo Cinquecento restano fondamentali G. Ferroni,
A. Quondam (a cura di), La locuzione artificiosa: teoria ed esperienza della lirica
a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973 e A. Quondam, La parola nel
labirinto: società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975.
15 Su tali aspetti dello stile petrarchistico, cfr. ovviamente D. Alonso, Petrarca
e il petrarchismo, «Studi petrarcheschi», VII (1961), pp. 73-120.
16 Per l’analisi di tali aspetti in Sannazaro cfr. P. V. Mengaldo, La lirica volgare
del Sannazaro e lo sviluppo del linguaggio poetico rinascimentale, «La rassegna della
letteratura italiana», LXVI (1962), pp. 436-486. Sul rapporto metro-sintassi cfr. ora
[ 6 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 155
Già la selezione e la distribuzione dei metri individua il forte impegno
strutturale, in direzione dell’emulazione dei RVF, della GdS: 345
sonetti, 43 canzoni, 20 sestine di cui 7 doppie, 37 madrigali, 7 ballate,
2 terze rime di cui 1 con settenario al mezzo17, metri di tradizione petrarchesca
tra di loro alternati (si veda, per contrasto, la distribuzione
omometrica e la relativa povertà dei metri nelle rime del contemporaneo
Colantonio Carmignano, vicino all’ambiente napoletano, seppur
attivo per lo più fuori del Regno18).
A proposito delle ballate, le 7 da me contraddistinte sono quelle a
schema classico, mutuato da Petrarca19, ma resta un margine di discrezionalità
legato alla sostanziale confusione tra ballata e madrigale nel
Cinquecento: il madrigale può infatti assumere caratteri della ballata,
A. Soldani, La sintassi del sonetto. Petrarca e il Trecento minore, Firenze, Edizioni del
Galluzzo, 2009.
17 Per quanto riguarda la distribuzione percentuale dei metri il modello petrarchesco
è seguito nella preminenza del sonetto (GdS: 76%; RVF: 86,6%), che però
registra nella GdS una sensibile flessione a vantaggio della canzone (GdS: 9,47%;
RVF: 7,9%), della sestina (GdS: 4,4%; RVF: 2,5%) e, soprattutto, del madrigale (GdS:
8,15%; RVF: 1,1%), la terza tipologia metrica nel canzoniere britoniano, il metro
meno usato nei RVF, dato che si allinea alla particolare fortuna del metro nelle rime
di Sannazaro (7,8% tenendo conto delle Disperse) e Dragonetto Bonifacio
(40%).
18 La sequenza dei metri nelle opere di Carmignano: Le cose vulgare (1516): 85
sonetti, 20 capitoli, 1 sonetto, 4 ecloghe alternate con intercalate 1 canzone e 2 sestine,
10 sonetti spirituali, 1 composizione in rimalmezzo; Operette (1535): 98 sonetti,
20 terze rime, 1 sonetto, 4 ecloghe con alternate 1 canzone e 2 sestine, 1 sonetto,
15 terze rime, 36 sonetti, 1 terzina, 1 canzone, 2 terze rime, 1 ecloga, 13 terze rime
(alla prima segue una prosa), 3 sonetti, 3 terze rime, 1 componimento con rimalmezzo,
1 ecloga con alternata 1 canzone, 5 terze rime, 28 sonetti, 3 terze rime, 11
sonetti (una prosa dopo il primo), 1 componimento con rimalmezzo, 3 terze rime,
2 sonetti; in entrambe le edizioni si intervallano ai componimenti poetici passi in
prosa (3 nelle cose vulgare, 5 nelle Operette); per i dati cfr. C. Mauro, Le cose vulgare
(1516) e le Operette (1535) di Colantonio Carmignano: un primo confronto, «Critica
letteraria», XXVII (1999), fasc. II (103), pp. 225-246; Id., Colantonio Carmignano: strategie
organizzative dalle Cose vulgare (1516) alle Operette (1535), «Critica letteraria»,
XXVII (1999), fasc. IV (105), pp. 627-673; su Carmignano cfr. anche la voce dedicatagli
da C. Mutini nel Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, vol. XX, 1977, pp. 423-426.
19 GdS, 45: XyYX ABCBAC CdDX (RVF, 11); GdS, 59 e 169: XyY AbAbByY
AbAbByY (RVF, 59); GdS, 64 e 80: XYyX ABCBAC CDdX (RVF, 14); GdS, 158: X(x)
YyX AbbCAbbCCDdX (RVF, 149); GdS, 281: XYY ABABBYY (RVF, 55). Sulla ballata
petrarchesca cfr. G. Capovilla, Le ballate del Petrarca e il codice metrico due-trecentesco,
«Giornale storico della letteratura italiana», CLIV (1977), pp. 238-60; ovviamente
essenziale resta L. Pagnotta, Repertorio metrico della ballata italiana: secoli
XIII e XIV, Milano-Napoli, Ricciardi, 1995.
[ 7 ]
156 MAURO MARROCCO
come la presenza di rime dislocate lungo tutto il componimento, che
ne favoriscono proprio l’esecuzione musicale, e la ballata svolgersi, in
direzione madrigalesca, prescindendo dalle tradizionali partizioni in
mutazioni e volta20. Le convergenze strutturali dei due metri ingenerano
interferenze che possono sfociare in soluzioni ibride, che non
mancano nella GdS, la quale presenta schemi vicini a quelli definiti
«madrigale a ballata» (92: AbbAACaACaDEDEFggF) e «ballata madrigale
» (290: ABbABCAACDCDdA)21.
Il canzoniere è diviso in due parti con 357 testi nella prima e 97
nella seconda; una piccola sezione autonoma è costituita dai primi 9
testi, tutti con metri lunghi (terzarima, sestina e canzone), della seconda
parte, che una rubrica individua quali «solitari continuati
ragionamenti»22. Le due parti del libro sono caratterizzate da una non
omogenea distribuzione dei testi di corrispondenza: essi ricoprono infatti
il 12,6% della prima parte, mentre arrivano quasi al 30% nella
20 Cfr. F. Bausi, M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere,
2000, p. 49.
21 Per la definizione di «madrigale a ballata», cioè i tipi metrici aBB cddc cEE,
aBB CdE DcE e FF e le loro combinazioni, cfr. D. Harràn, Tipologie metriche e formali
del madrigale ai suoi esordi, in Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri,
Bologna, il Mulino, 1988, pp. 95-122, in part. pp. 102-103; per la «ballata madrigale
», cfr. invece C. Vela, Il primo Canzoniere del Bembo (ms. Marc. It. IX 143), «Studi
di filologia italiana», XLVI (1998), pp. 163-251, p. 166 n., che ne riconosce la tipologia
nella bembiana La mia leggiadra e candida Angeletta, schema ABBA cDdEEcFfcAA
(XYYX aBbC CaDdaXX). Per l’analisi dello sviluppo storico del madrigale
resta fondamentale G. Capovilla, Materiali per la morfologia e la storia del madrigale
«antico», dal ms. Vaticano Rossi 215 al Novecento, «Metrica», III (1982), pp. 159-252. R.
Girardi, Incipitario della lirica meridionale e repertorio generale degli autori di lirica
nati nel Mezzogiorno d’Italia (secolo XVI), Firenze, Olschki, 1996 (cfr. anche Id., Modelli
e maniere. Esperienze poetiche del Cinquecento meridionale, Bari, Palomar, 1999, p.
51) considera ballate, oltre alle 7 da me segnalate, anche 52 (aABCbCCDeDEfFCe),
100 (AbCACACADDCeeCEC), che considero madrigali seppur caratterizzati dalla
dislocazione delle stesse rime lungo il testo, e 290, che sopra ho in effetti assimilato
alla «ballata madrigale». M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio,
cit., p. 46, esclude invece la presenza di ballate nella GdS, non indicata nemmeno
in M. Romanato, Per l’edizione della Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., pp.
53-9; all’origine dell’errore può esserci la mancata indicazione delle ballate nella
tavola metrica in fondo alle edizioni cinquecentesche, non esente peraltro da altre
imperfezioni. La tavola indica infatti: 345 sonetti, 45 canzoni, 20 sestine, 41 madrigali,
che danno la somma di 451 e non 454; non sono inoltre segnalate le due terze
rime, con ogni probabilità contate tra le canzoni.
22 La rubrica segnala la «fine» della sezione a c. CLXIXv della princeps.
[ 8 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 157
seconda che risulta così maggiormente digressiva rispetto al vettore
principale del canzoniere, la storia amorosa23.
Il proemio è chiara variazione a partire da RVF, 1:
Qualunque ascoltarà miei vari danni,
miei vari accenti sparsi in versi e ’n rime,
miei vari ardor non fia ch’a pien non stime
quante ebbi varie pene e vari affanni.
E però spero ch’altri non condanni
o biasme il suon delle mie voci prime,
perché non ebbi il dir chiaro e sublime
come il sol che abbagliommi da’ prim’anni,
ne’ quai vissi in tormenti e tanti e tali,
che ’n poco spazio in quella età divenni
essempio d’infiniti e vari mali.
E ben dir posso che dal dì ch’io venni
in questa vita, morte de’ mortali,
altro che doglia al cor mai non sostenni.24
Il sonetto tende a “laicizzare” il modello petrarchesco stemperandone
la forte tensione morale in direzione mondana, come, ad esempio,
nelle terzine finali: il sonetto britoniano, lungi dalla ricusazione
della vanità del «breve sogno» dei desideri deliranti dell’uomo, più
topicamente (ma anche banalmente) si sofferma sul dolore come elemento
inscindibile dalla passione amorosa. La reclamata solidarietà
affettiva con il lettore si svolge allora non nella ricerca di «pietà», di
comprensione da parte di chi conosce i fallaci sentimenti umani, ma
nella preoccupazione riguardo alla fortuna delle proprie rime e nel
timore dell’inadeguatezza rispetto al loro oggetto, la donna celebrata.
Il lessico petrarchesco, ovviamente ripreso e variato, subisce l’inevitabile
depotenziamento semantico, come l’uso banalmente inflazionato
di «vario» rispetto al «vario stil» di RVF, 1, 5, oppure al v. 2 l’accenno
ai «vari accenti sparsi in versi e ’n rime», assolutamente altro rispetto
23 Continuando a ragionare sui numeri, una notazione curiosa è offerta dalla
considerazione che se ai 357 componimenti della prima parte si aggiungono i 9
della compatta sezione dei «solitari ragionamenti» di inizio seconda parte si ha il
totale di 366, forse non casuale richiamo ai RVF.
24 I testi sono stati ridotti all’uso moderno tramite distinzione tra u e v, soppressione
di h iniziale e intermedio non conservato nella grafia moderna, risoluzione
di ti + vocale in zi o z, di ph in f etc., sostituzione di et con e, tranne dinanzi a
vocale per evitare ipometrie, introduzione della punteggiatura, degli accenti e degli
apostrofi secondo l’uso moderno, normalizzazione dell’uso delle maiuscole.
[ 9 ]
158 MAURO MARROCCO
alle «rime sparse» petrarchesche; già nell’incipit, d’altronde, «ascoltarà
» si pone quale «memoria automatica dell’esordio petrarchesco Voi
ch’ascoltate…»25.
All’origine della passione c’è l’assalto primaverile di Amore al protagonista
(quattordicenne, come rivelato in 118) per mezzo della bellezza
della donna, che sola riuscì a vincerne il cuore in passato tetragono
(3-8), secondo la fenomenologia topica di RVF, 2. Dopo l’esposizione
proemiale, il son. 9 introduce la vicenda della “gelosia del Sole”
che il canzoniere, dopo altre diverse allusioni (9; 17; 21), espone per
esteso nella canz. 30: la donna amata, che soltanto in un sonetto a Sannazaro
(217) si rivela essere Clizia26, ha in passato ceduto all’amore del
Sole, dal quale è stata però tradita per «menor beltade» (GdS, 9, 13),
motivo per il quale ella ora disdegna le rinnovate lusinghe dell’antico
amante fedifrago:
Questo [il Sole] a guisa d’acceso e fido amante
scendendo in giù, fuor del suo proprio regno,
con sua mentita fiamma
lusingando mi fo sempre davante;
ma poi che a torto il fei del mio amor degno,
senza curar più di mia vita dramma
25 R. Gigliucci (a cura di), La lirica Rinascimentale, Roma, Istituto poligrafico e
zecca dello Stato, 2000, p. 439. La premura metapoetica di Britonio avvicina il testo
di esordio di Sannazaro che recrimina la possibilità sprecata, proprio a causa dei
«sospir» e «affanni» (Sonetti e canzoni, 1, 4, in Opere volgari, a cura di A. Mauro,
Bari, Laterza, 1961) cui s’è ridotta la sua musa, di assurgere all’immortalità poetica.
Si sofferma sulla funzione di “sfogo” della poesia l’incipit degli Amori (per l’edizione
degli Amori di Giovan Francesco Caracciolo, cfr. tesi di dottorato di Barbara
Giovanazzi discussa presso l’Università degli studi di Trento, a. a. 2008/2009, consultabile
all’indirizzo http://eprints-phd.biblio.unitn.it/209/1/Tesi_dott_B_Giovanazzi.
pdf), mentre Cariteo apre il suo Endimione (B. Gareth detto il Cariteo,
Rime, a cura di E. Percopo, Napoli, Accademia delle Scienze, 1892) dichiarando la
legittimità, in una valutazione positiva della passione, del suo desiderio amoroso
e, dunque, del suo canto.
26 «Se come al tuo pensier rispira e canta / sovente Febo, in simil guisa ancora
/ fosse per me, lodar s’udria talora / l’amata Clizia mia con Amaranta.» (217, 1-4).
A tratti potrebbe sembrare la stessa Vittoria Colonna la donna amata, anche se,
come già indicava M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., p. 40, il
nome di Vittoria, talvolta evocato con topico gioco di parole (cfr. 411, 9: «Vittoria,
di sua nitida Colonna» etc.), «compare in genere solo nelle rime più propriamente
celebrative, dunque di materia non amorosa». Qualche dubbio può semmai lasciarlo
il son. 282, in cui la donna, dinanzi alla quale Amore perde la sua baldanza,
è definita «non pur d’Amor vittrice, ma Vittoria»; anche qui potrebbe però trattarsi
di una lode non propriamente inserita nel racconto amoroso.
[ 10 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 159
mancando alla sua fé mi prese a sdegno.
Né fuggitivo errante
cervo fuggì giamai veltro né laccio,
né fiero ingannator con false larve
s’ascose mai con sì veloci passi,
né dianzi il suo splendor unqua non sparve,
quando è nel Tauro, ancor pruina o ghiaccio,
come ei per monti e sassi,
lasciando la mia vita a morte in braccio,
né di sua fé gli increbbe o d’altrui impaccio.» (GdS, 30, 65-80)
Il Sole è così avversario del poeta amante, onde l’intreccio di gelosie
e sospetti su cui si costruisce la vicenda: il soggetto lirico è geloso
del Sole (226; 327 etc.) ed aborre il giorno perché arreca il suo odiato
rivale (55; 97; 109 etc.), in una radicale eliofobia che lo porta a desiderare
la notte (49; 109 etc.)27 – e la predilezione per i notturni lunari è
uno dei motivi maggiormente diffusi nel canzoniere; ma anche il Sole
è geloso del soggetto amante e, invidioso, ostacola il poeta intento a
mirare la comune amata (39; 162; 244 etc.), oppure giunge, in un vertice
concettistico, a prestare i suoi raggi alla sorella luna per poter spiare
la donna anche di notte (231). La stessa donna amata è alle volte oggetto
della stizza del poeta amante, che le rimprovera, allorché ella
mostri segni di cordialità nei confronti del rivale, l’abbandono dello
sdegno dovuto al fedifrago (247; 307)28. Una risoluzione della vicenda
si legge nella riepilogativa terza rima (357) che chiude la prima parte
del libro. Il motivo della “gelosia del Sole” è meno dispiegato nella
seconda parte, in cui il poeta ricorda al rivale, invitandolo a desistere
dal suo costume di inseguire, come già fu per Dafne, amori impossibili,
l’ormai irreparabile disprezzo della comune amata nei suoi confronti.
Non tutti i testi sono però perfettamente coerenti con la trama succintamente
esposta; parte di essi dispiega infatti una più canonica allocuzione
lirica del poeta-amante alla donna amata, insomma un
amore a due protagonisti. La diegesi poetica si muove tra stasi contemplative
della bellezza muliebre, petrarchescamente declinata, e
27 «Son animai che aborren tanto il lume, / che sol apparen qualor vien la notte;
/ son i’ di lor, ch’io vo fuggendo il raggio / del sole e seguo il tuo, gradita luna:
/ nel dì m’ascondo, ove non ho mai tregua, / poi esco fuor con la notturna nebbia.
» (49, 49-54) etc.
28 «Ogni vostro atto a lui cortese e puro / è morte a l’alma, al core empie quadrella
/ e tosco al viver mio sì acerbo e duro.» (247, 9-11) etc.
[ 11 ]
160 MAURO MARROCCO
analisi degli stati interiori del poeta, oscillanti tra l’accettazione (più o
meno piacevole) delle pene e la disperazione, nell’ineluttabile realtà
ossimorica della passione amorosa. Un andamento narrativo è naturalmente
garantito dai cronotopi della vicenda che ne fissano alcune
tappe anniversario: oltre ai già riferiti marcatori dell’innamoramento
primaverile e dell’età del poeta, il soggetto lirico indugia sul «decim’anno
» (31; 362) della passione e ne offre una breve cronistoria in
450, dove, con spunti che risultano finanche parodici Britonio sostituisce
alla rievocazione della vita di Laura del modello metrico RVF, 325
(vv. 61 sgg.) quella del soggetto amante, qui giunto all’età di ventotto
anni ed al quattordicesimo anno dall’innamoramento; se ne ricava che
l’inizio della passione amorosa dovrebbe cadere intorno all’aprile del
1504 («altiera donna in abito gentile / / prese il mio core in mezzo un
lieto aprile» GdS, 320, 1 e 3)29. Diversi gruppi testuali predicano il poeta
lontano dalla donna (37-38; 132-134; 176-179 etc.), lontananza, che
può essere dall’amante colmata con il ricordo o il pensiero (185; 220
etc.); ma è sovente il sogno l’unico possibile momento di incontro con
l’amata (176; 349; 367 etc.). Nella sequenza di componimenti che alternano
diversi temi si offrono gruppi che indugiano su singoli motivi,
quali il ritratto (154-155 e 342-344) o il pianto della donna (211-213),
insieme ad altri che, sempre autorizzati da Petrarca, trovano notevole
diffusione nella lirica cortigiana, come il motivo del velo (cfr. 27; 34;
126 etc.), dello specchio (163), dell’uccellino (137; 148 etc.)
L’amante deluso e sconsolato per la crudeltà dell’amata (358), si
ritira in luoghi solitari per sfogare, al di fuori del consorzio civile, le
proprie pene. Il tema, diffuso nel canzoniere, ove spesso gli elementi
del paesaggio, evocati per il tramite dell’accumulo ossessivo, divengono
gli interlocutori delle pene del soggetto lirico (cfr. 112; 131 etc.)30,
monopolizza l’intera sezione dei «continuati solitari ragionamenti» ad
inizio seconda parte (358-366), «sorta di canzoniere nel canzoniere»31.
La risoluzione della passione non è però nella prospettata elegia soli-
29 Alla stessa conclusione era già giunta M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo
Britonio, cit., p. 26.
30 «O fastiditi già del pianger mio, / arbori, acque, animali, aure, erbe e fronde,
/ boschi, ombre, antri, onde spesso a me responde / quella al cui stato simil son
fatt’io; / colli, fior, piagge, mar, corrente rio, / vaghi augelletti, pesci e tremole
onde, / lieti spirti invisibili, che asconde / il bel luogo u’ pria nacque bel disio; /
sol, luna, stelle, tronchi, stecchi e rami, / terra, aere, nubi, venti, poggi e sassi, /
valli, paludi, amena e verde riva, / ditemi: conven pur ch’io tema et ami, / e perda
invan le voci, i prieghi e i passi / e lagrimando ognior morendo i’ viva?» (313)
31 M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., p. 21.
[ 12 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 161
taria, ma nel pentimento e nella rivalutazione morale della vicenda
amorosa che concludono il canzoniere con una sezione (449-454) che
culmina nella preghiera alla Vergine, riproduzione fedele, fin nei più
particolari dettagli metrici, di RVF, 366. Tale chiusa risulta particolarmente
significativa alla luce della rarità, sotto quest’aspetto, della sequela
dei RVF da parte dei libri di rime rinascimentali, che al «punto
Omega» prediligono sì la canzone, «non però, come si è tentati di credere,
[…], una canzone alla Vergine»32. Come è noto, è invece oggetto
della preghiera finale, per lo più, il Signore, come in Boiardo, Bembo,
Della Casa33.
La sicura peculiarità dell’impianto narrativo della GdS reclama
qualche finale considerazione sulle possibili matrici della trama che
coinvolge il soggetto amante in un amore triangolare. È di sicuro possibile
ipotizzare che dietro il racconto vi sia un’allusione, ovviamente
sublimata, all’amore di Britonio verso Vittoria Colonna ed all’inevitabile
gelosia nei confronti del marito Francesco Ferrante. D’altronde, le
cronache non mancano di offrire un’immagine di facile libertino del
marchese di Pescara, ciò che giustificherebbe il racconto del tradimento
del Sole/Ferrante ai danni della donna/Vittoria34. Forse però, più
che un movente narrativo – la cronaca, più o meno sublimata, della
corte di Ischia –, ciò che ingenera il dubbio che potesse essere da Ferrante
accettato un dileggiamento tanto scoperto da parte di un suo
cortigiano che gli tributa peraltro lodi nel resto del canzoniere (379;
411 etc.), sembra più attiva nella costruzione della diegesi della GdS la
propensione ad una modalità lirica caratterizzata da arditezza metaforica
e concettistica tendente a drammatizzare nuclei metaforici presi
«alla lettera» e piegati ad illustrare «una breve situazione», insomma
32 Cfr. G. Gorni, Il libro di poesia nel Cinquecento, in Id., Metrica e analisi letteraria,
Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 193-203, in part. pp. 199-201; la citazione a testo è a p.
199.
33 In ambito napoletano le cose non sono molto differenti: non hanno una chiusura
prettamente penitenziale gli Amori di Caracciolo e l’Endimione, che inizia e
finisce con un discorso sulla poesia; i Sonetti e canzoni di Sannazaro, al di là dei
correlati problemi filologici, registrano nella sezione finale un capitolo (99), preliminare
ai due ultimi ternari funebri, di lamentazione sul corpo di Cristo; con un
gliommero al crocifisso chiude entrambe le edizioni delle proprie rime Colantonio
Carmignano; una canzone alla Vergine “per la salute e sanità” del principe di Capua
è invece il penultimo testo delle Rime di De Jennaro.
34 «[…] in un sottile gioco metaforico, il sole potrebbe anche essere Francesco
Ferrante, e allora il poeta sarebbe geloso proprio del consorte di Vittoria e viceversa
» (M. Grippo, La Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., p. 36).
[ 13 ]
162 MAURO MARROCCO
a creare quadretti narrativi a partire da emblemi35. Da questo punto di
vista, ad ispirare il racconto britoniano, oltre al motivo petrarchesco
dell’invidia del sole per la maggiore luminosità della donna (cfr. RVF,
37, 82-83; 156, 5-6 etc.), tema ovviamente presente nella GdS (166; 409),
sembra lo stesso mito dafneo. Si prenda, ad esempio, GdS, 9:
Costei c’or meco, Apollo, onori et ami
fu pria tua donna, or t’è crudel nemica,
che per memoria della ingiuria antica
conven che ’l mio amor pregi e ’l tuo disami.
Indarno a lei mercé piangendo chiami,
che, come quella del tuo mal fia amica,
la cui membranza ancora in te rintrica
l’arbor che fior non perde mai né rami,
quanto a te fu pietosa in l’altra etade
tanto or vedrassi qui risorta in vita
albergo inespugnabil d’onestade.
Che speri più, se fu da te schernita,
non per più degna, ma menor beltade,
quando col sommo onor spense la vita?
Alla base pare esserci, assiologicamente ribaltata, la situazione di
RVF, 34: Apollo, nel testo petrarchesco esortato a sgombrare l’aria «dal
pigro gelo e dal tempo aspro e rio» (5) per difendere «l’onorata e sacra
fronde» (7), nella ricerca, all’insegna dell’unico comune amore Dafnelauro-
Laura, d’una solidarietà affettiva tra il dio ed il poeta, è qui, invece,
invitato a prender coscienza dell’inimicizia che la donna ormai
gli porta, in quanto traditore della sua fede. La visione antagonistica
del Sole, alla base di questo sonetto e di tutta la GdS, è d’altronde supportata
dalla stessa mitopoiesi petrarchesca:
35 G. Parenti, Benet Garret detto il Cariteo, Firenze, Olschki, 1993, p. 88. Sempre
sulla tensione ad un’esasperazione cronachistica degli emblemi petrarcheschi, ma
nel contesto del concettismo di fine XVI secolo, si veda il seguente giudizio di A.
Martini, Ritratto del madrigale poetico fra Cinque e Seicento, «Lettere italiane», XXXIII
(1981), 4, p. 544: «in fondo la lirica concettista e lo stesso Marino spesso si limitano
a prendere alla lettera i traslati del Petrarca, anche i più diffusi, e a svilupparne
tutte le possibilità logiche, con un’indifferenza palese verso il loro senso, portandoli
fino al grottesco e al surreale. Le metafore e le antinomie petrarchiste […]
dominano sempre la poesia lirica, ma prendono una strana consistenza fisica, del
tutto in disaccordo con la natura intellettuale assai astratta della lingua poetica del
Petrarca». In ambito partenopeo può essere esemplificativo di tale procedimento
l’adozione del senhal Calamita da parte di Carmignano a partire dall’epiteto di
RVF, 135, 30 «dolce calamita» (cfr. C. Mauro, Colantonio Carmignano, cit., p. 632).
[ 14 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 163
In mezzo di duo amanti honesta altera
vidi una donna, et quel signor co lei
che fra gli uomini regna e fra li dèi:
et da l’un lato il Sole, io da l’altro era.
Poi che s’accorse chiusa da la spera
de l’amico più bello, agli occhi miei
tutta lieta si volse, e ben vorrei
che mai non fosse inver’ di me più fera.
Subito in allegrezza si converse
la gelosia che ’n su la prima vista
per sì alto adversario al cor mi nacque.
A lui la faccia lagrimosa et trista
un nuviletto intorno ricoverse:
cotanto l’esser vinto li dispiacque. (RVF, 115)
La tendenza della GdS a mediare Petrarca con il petrarchismo
Quattrocentesco,
che può essere riconosciuta come una modalità dello
stile lirico di Britonio, sembra qui attiva nell’estremizzazione dello
spunto petrarchesco dell’ultima terzina del sonetto precedente, che
genera così tutta una serie di reazioni del Sole di fronte allo scorno
della donna che gli preferisce il rivale:
Quel per cui spesso dentro il cor m’adiro
di tanta invidia un giorno si raccese
che in corpo umano irato qui discese,
lasciando di sé voto il quarto giro,
e vista quella in ch’io bramo e sospiro
ver’ lui sdegnosa e sol ver’ me cortese,
sparve, pensando a l’aspre antiche offese,
vinto da scorno e da maggior martiro.
Madonna a me si volse, e ’l suo bel viso
fermo in me tenne, come allor dicesse:
«di quanto alto gioir t’ho fatto degno».
Gli occhi inchinai; poi, lei mirando fiso,
facendole d’onore onesto segno,
una eterna memoria al cor m’impresse. (GdS, 17) 36
36 Significativo in questo contesto un sonetto sannazariano che interpreta fenomeni
metereologici quali reazioni del cielo geloso dell’amante che contempla la
donna: «Stando per meraviglia a mirar fiso / quel sol che mi consuma in fiamma e
’n gelo, / ratto un tuon folgorando uscì dal cielo, / per farmi privo ond’era sì diviso.
/ Qual nova invidia è nata in paradiso, / acciò che inanzi tempo io cangi il
pelo? / Or non basta la guerra del bel velo, / che sì spesso me vieta gli occhi e ’l
viso?» (Sonetti e Canzoni, 77, 1-8). Cfr. anche P. J. De Jennaro, Rime, 2, 53 (in Rime e
lettere, a cura di M. Corti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1956); Nic-
[ 15 ]
164 MAURO MARROCCO
In estrema sintesi, la “gelosia del Sole” pare originarsi da un’estenuazione
cronachistica degli sviluppi possibili a partire dalla costellazione
mitologica dafnea, soprattutto per quanto riguarda la possibilità
di una visione antagonistica di Apollo/sole (come in RVF, 115), e dalla
metafora topica del sole invidioso dello splendore della donna; ciò
unitamente all’adozione del senhal e del mito di Clizia, una Clizia rediviva
e non più disposta all’antico errore, come il poeta stesso ricorda
al rivale:
Ben devresti esser del suo amor disciolto
pensando al duro passo ov’ella advenne,
sadisfatto al tuo amor, s’ingrato e stolto;
e se poi in vita sua beltà rivenne,
qual ragion vuol che t’ame, rimembrando
il duro strazio che per te sostenne? (GdS, 357, 85-90)
2. Forme tipografiche e varianti interne 37
Come ho già anticipato nella prima parte di questo lavoro, la seconda
edizione veneziana (da ora V) della GdS risulta sostanzialmente
descripta della princeps napoletana (N), anzi, meglio, essa è descripta
degli stati delle forme tipografiche dell’esemplare di N usato in tipografia
come antigrafo. Già solo a livello macroscopico, V mantiene
inalterate la successione dei testi, le partizioni interne dell’opera, la
dedica a Vittoria Colonna, perfino la canzone celebrativa dell’elezione
di papa Leone X che, nel 1531, doveva risultare con tutta evidenza
anacronistica. Anche ad un livello di analisi più particolareggiato, V si
rivela essere tendenzialmente fedele a N, come testimonia un certo
numero di errori congiuntivi, tra i quali rientrano diverse lezioni segnalate
e corrette nell’errata corrige della princeps (assente in V), ma
ripresentate nella versione errata dalla stampa veneziana38. V riporta
colò da Correggio, Rime, 298 (in Opere, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari,
Laterza, 1969); M. M. Boiardo, Amorum libri tres, 157 (nell’edizione a cura di T.
Zanato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003).
37 Cfr. C. Fahy, Forme tipografiche e varianti interne: appunti bibliografici e filologici,
in A. Sorella (a cura di), Dalla textual bibliography alla filologia dei testi italiani a
stampa, Pescara, Libreria dell’università Editrice, 1998, pp. 37-65.
38 Ad es., in 4, 9 sia N che V riportano la lezione «scherno» già sanata in «schermo
» nell’err. corr. della princeps, in questo caso, come in diversi altri, ignorata da V.
Più complesso il caso di 238, 45, dove N riporta la lezione, che non dà senso, «finché
l’arco suo scocchi», erroneamente corretta in «finché l’arco suo non scocchi»,
[ 16 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 165
inoltre in molti luoghi lezioni peggiorative di N39, mentre in pochi casi
apporta correzioni alla princeps, spesso proprio accogliendo le proposte
correttorie dell’err. corr., o presenta lezioni adiafore. La più rilevante
è quella di 30, 13-16:
N V
venea con l’aurei crini al vento sparsi
al vago suon de l’onde,
gli quai mirando sì vaghi e desparsi
di voglia desir fiamma e d’amor arsi.
venea con l’auree chiome al vento
[sparse
al vago suon de l’onde
qual tosto ch’a questi occhi stanchi
[apparse
di voglia disir fiamma e d’amor m’ar-
[se.
Con la premessa che qualsiasi ipotesi potrebbe essere inficiata dalla
presenza della lezione così come si legge nell’edizione veneziana
nell’esemplare, ora non individuabile, usato in tipografia come antigrafo
di V o in un gruppo di esemplari di N da me finora non esaminati
o addirittura smarriti, la lezione di V, senza scomodare per forza
l’autore, può, per le considerazioni sopra fatte, benissimo essere attribuita
al curatore o ai curatori della ristampa veneziana.
Rimandando ad un’altra occasione la discussione approfondita dei
risultati della collazione tra le due edizioni, voglio qui ora soffermarmi
su N, con tutta evidenza il testo base per l’edizione critica dell’opera:
N = OPERA VOLGARE / DI GIROLAMO / BRITONIO / DI SICIGNANO
/ INTITOLATA / GELOSIA / DEL SOLE
Col. 2r n.n.: ’ Impresso in Napoli: della Stampa di Maestro Sigis- /
mondo Mair Alemano; del Mese d’Aprile. / MDXIX. / Con Privilegio
del Illustrissimo Signor Vicere: et Lo / cotenente generale: della Catholica
Maiesta: Che per / anni.x. simile opera non si possa imprimere: ne
verso ipermetro, da V, che ignora l’err. corr. di N che riporta la lezione corretta
«finché l’arco non scocchi».
39 Una tipologia diffusa, ad es., è la mala interpretazione di spazieggiature erronee
della princeps che originano in V lezioni quali «n’ol» (244, 12) a partire da «n
ol» di N, oppure «c’haltrove» (410, 8) a partire da «c haltrove» (che possono essere
considerati quasi alla stregua di errori congiuntivi). Tra gli altri, sono presenti errori
nella stessa misura del verso che in V può presentarsi ipermetro (26, 12: N
«grato m’è ’l duol l’acerbo aspro martiro» / V «grato m’è ’l duol l’acerbo aspro mio
martiro») o ipometro (30, 70: N «senza curar più di mia vita dramma» / V «senza
curar di mia vita dramma»).
[ 17 ]
166 MAURO MARROCCO
im- / pressa altrove portarsi: sotto la pena che in detto Privilegio si
contiene’
4° in 8: A-2D8 [$4 segnate (GIIII segnata come ‘GIII’)]; cc. 214 num., I-II
III-CLXXI CLXXII CLXXIII-CCXIV (XXIX segnata come ‘XXV’; XLIIII
come ‘XLIII’; LXXVI come ‘LXVIII’; CXXXII come ‘CXXX’; CXXXIV come
‘CXXIX’; CXLVII come ‘CXL’; CL come ‘CLI’; CLIII come ‘CLII’;
CLXIII come CLXVII; CLXXVIII come ‘CLXX’), 2 n.n.; cm. 21,4 ×14,3.
Contenuto: cc. IIv-IIIr: dedica ‘ALA ILLUSTRISSIMA / MADONNA
VITTORIA: / DAVALA: DI COLONNA: / MARCHESANA DI / PESCARA:
/.G. / BRITONIO:’; c. IIIv: titolo interno ‘SONETTI ET /
CANZONI / DI / BRITONIO’; cc. IVr-CXIv: testi; cc. CXIv-CXIVv:
‘CANZONE DI GIROLAMO / BRITONIO / IN LAUDE DI PAPA /
LEONE /.X.’; cc. CXIVv-CLIr: testi; cc. CLIr-CLIVr: ‘TERZARIMA /
AGGIUNTA’; in fine ‘FINE / DELLA PRIMA PARTE / DEL PRIMO
LIBRO / DI.G. / BRITONIO.’; c. CLIIIIv: rubrica ‘SECONDA ET ULTIMA
/ PARTE / DEL PRIMO LIBRO / DELLA / OPERA VOLGARE /
DI.G. / BRITONIO / DI SICIGNANO: / INTITOLATA / GELOSIA
DEL / SOLE’; cc. CLVr-CLXIXv: testi; in fine ‘FINE DE GLI CONTINUATI
/ SOLETARI RAGIO / NAMENTI. / DI BRITONIO.’; cc.
CLXXr-CCXIIIIr: testi; in fine ‘FINE.’; XXXVIII cc. CCXIIIIv-1v n.n.: ‘
Errori che stampando si son fatti.’; c. 2r n. n.: tavola metrica ‘ Sonetti.
CCC. XLV. / Canzoni. XLV. / Sextine. XX. / Doppie. VII. /
Non doppie. XIII. / Metricali. XLI.’; ‘Registro. / […] / Tutti son Quaterni.’;
cc. 1v-2v bianche.
Tipi: nel frontespizio il titolo in caratteri capitali; carattere tondo nel
testo; spazi bianchi con iniziali di guida.
Data l’oggettiva poca praticabilità, per le dimensioni dell’opera e
per il relativo alto numero di esemplari esistenti – ne sono stati localizzati
27 in Italia e all’estero –, di una collazione integrale della princeps,
si è finora lavorato su di un campione significativo di essi. Ho per
questo proceduto alla collazione integrale di 5 esemplari:
Baf = Roma, Biblioteca Paolo Baffi, “Salottino del Governatore” 62
Bun = Napoli, Biblioteca Universitaria, RARI 0015
Cas = Roma, Biblioteca Casanatense, C xiii 2 (già P. xiii 2)
Cla = Ravenna, Biblioteca Classense, DEMICHELIS F.A. 021
Cors = Roma, Biblioteca Corsiniana, 130 F 18,
ed a quella per loci (riguardante, cioè, solo i fogli di stampa interessati
da varianti di stato) di 3 esemplari:
Bnn = Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, LVI B 2
Bra = Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, AB XI 1
Marc = Venezia, Biblioteca Marciana, 92 C 192.
[ 18 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 167
Le forme tipografiche, omogeneamente distribuite nel volume, che
presentano varianti di stato sono 28, più della metà delle forme complessive,
5440. In un buon numero di casi (6 fogli) c’è identità tra gli
esemplari con lo stato scorretto di entrambe le forme del foglio, segno
che qui «le varianti sono state introdotte simultaneamente, o quasi, in
entrambe le forme durante un intervallo nel lavoro tipografico, dopo
la stampa in bianca e volta (cioè, su entrambe le facciate) di una parte
della tiratura»41. Le varianti di stato rilevate attengono in buona parte
a fenomeni grafici, come oscillazioni nella spazieggiatura, alternanza
di minuscola e maiuscola ad inizio parola, a fenomeni accidentali come
il capovolgimento della u in n e viceversa etc. Ma non mancano
più significative varianti di lezione, che possono coinvolgere singole
parole o interi versi. Anche in questi casi sono di un certo rilievo le
indicazioni che possono giungere dall’err. corr. in coda alla princeps; si
danno infatti luoghi in cui alcuni esemplari riportano già a testo le
correzioni lì suggerite, ad es.:
fascicolo E, foglio esterno forma interna (78, 16)
Baf Bnn Bra Cas Cla al parlar
Bun Cors Marc = err. corr. a parlar
fascicolo I, foglio interno forma esterna (165, 81)
Bnn Bun Cas Cla altro vaga
Baf Bra Cors Marc = err. corr. altra vaga
Nei casi sopra citati, una volta completata parte della tiratura e redatta
l’err. corr., si è provveduto alla correzione degli errori individuati
prima di riprendere la stampa; ciò che ha naturalmente generato
un’opposizione tra forme di stampa recanti la lezione scorretta e for-
40 Si ricorda che la forma tipografica, l’«insieme di caratteri tipografici disposti
in pagine e serrati in un telaio, necessari per stampare un foglio su una delle facciate
» (C. Fahy, L’Orlando furioso del 1532: profilo di una edizione, Milano, Vita e
pensiero, 1989, p. 140), è l’unità minima per l’analisi delle varianti di stato. Per la
comprensione dei dati riportati è fondamentale tener presente che il formato della
princeps, un quarto in otto, presenta due fogli di quarto, uno inserito dentro l’altro,
per fascicolo: uno esterno, che contiene la prima pagina del fascicolo, ed uno interno;
ciascun foglio è a sua volta costituito da due forme, la forma esterna, che contiene
la prima pagina del foglio, e quella interna, secondo lo schema: foglio esterno,
forma esterna: cc. Ir IIv VIIr VIIIv; foglio esterno, forma interna: cc. Iv VIIIr
VIIv IIr; foglio interno, forma esterna: cc. VIv IIIr IVv Vr; foglio interno, forma interna:
cc. IIIv VIr IVr Vv.
41 Ivi, p. 163.
[ 19 ]
168 MAURO MARROCCO
me che invece già riportano la lezione corretta secondo le indicazioni
dell’err. corr.
Tra le varianti di maggior rilievo si registrano interventi correttori
su vistose irregolarità metriche:
fascicolo Y foglio esterno, forma esterna (366, 93-4)
Bra Baf Bnn Bun Dirò: «deh, quando a me sarà concesso / veder mia spene
e ’l guardo onesto et santo»
Cas Cla Cors Marc Dirò: «fia mai concesso /a me sperar nel guardo onesto
et santo»
Qui la variante di Cas Cla Cors Marc garantisce il corretto svolgimento
dello schema metrico della canzone che esige al v. 93 un settenario
e non un endecasillabo, come è invece nel primo gruppo di
esemplari. Un’irregolarità metrica ancora più grave è sanata nel seguente
caso, che coinvolge la stessa canzone (ma una diversa forma di
stampa), in cui la variante testimoniata dal secondo gruppo di esemplari
ripristina il regolare numero di 15 vv. della stanza, che risulta di
14 in Cas:
fascicolo X foglio interno, forma esterna (366, 12-15)
Cas a questa aspra mia sorte / che far si die se
non per men tormento / cercar morendo
uscir da questa morte
Baf Bnn Bra Bun Cla Cors Marc a rinovar piu incendio acerbo e novo, / o
mia malvagia sorte, / che far si die, nel fin
dov’or mi trovo / se non cercar morendo
uscir di morte
La forma di stampa appena commentata offre inoltre modo di rilevare
che anche su di un testo come la GdS gli interventi in tipografia
siano plurimi: l’analisi bibliografica porta ad ipotizzare almeno due
interventi sul primo stadio (testimoniato da Cas)42.
Un caso particolarmente interessante è rappresentato dal foglio in-
42 Difatti Cas si contrappone agli altri esemplari, oltre che in quella esaminata,
in tutte le varianti riscontrate nella forma, tranne che in quella di 362, 76 dove
coincide con Baf Bnn Bun Cors nella lezione «Figliuol» rispetto alla variante «figliol
» di Bra Cla Marc. Si deve perciò ipotizzare che Baf Bnn Bun Cors testimonino
il secondo stato della forma, rispetto al quale Bra Cla Marc, testimoni del terzo
stato, si differenziano per la lieve variante di 362, 76. La forma in questione non è
comunque l’unica a presentare più stati, dandosi casi di forme con una storia redazionale
con tre o quattro, addirittura cinque stati.
[ 20 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 169
terno del fascicolo G di Cas: in luogo della normale successione delle
carte vi è la ripetizione delle cc. LI e LIV e l’assenza delle carte mediane
del foglio LII e LIII. Le carte ripetute mostrano inoltre segni evidenti
di ricomposizione della forma di stampa, per cui la situazione del
foglio si presenta così:
G foglio interno, forma esternaa (= Casa): cc. LIr, LIIIIv;
G foglio interno, forma internaa (= Casa): cc. LIv, LIIIIr;
G foglio interno, forma esternab (= Casb): cc. LIr, LIIIIv;
G foglio interno, forma internab (= Casb): cc. LIv, LIIIIr.
Le varianti, che anche negli altri esemplari esaminati investono solo
il foglio in questione e non l’altro del fascicolo, quello esterno, riguardano,
oltre a questioni grafiche, come l’oscillazione tra maiuscola
e minuscola ad inizio parola, o a differenze nella spazieggiatura, diverse
varianti di lezione, tra le quali risulta dirimente per stabilire la
successione degli stati quella di 122, 53:
fascicolo G foglio interno, forma esterna
Baf Bra Casa Cors Marc d’altro parlare
Bnn Bun Casb Cla = err. corr. d’altro parlar
In questo caso, come in altri precedentemente visti, la correzione
riguarda una lezione segnalata nell’err. corr. che risulta sanata già a
testo in alcuni esemplari. Cas presenta visibile questa situazione recando
sia il cancellandum (Casa) che il cancellans (Casb): la sostituzione
ha erroneamente investito il mezzo foglio non interessato dall’intervento
correttorio (cc. LII e LIII), lasciando invece al suo posto, accanto
al nuovo mezzo foglio corretto, quello che nelle intenzioni avrebbe
dovuto essere sostituito.
3. Note sulla tradizione antologica cinquecentesca della Gelosia del Sole
La tradizione antologica cinquecentesca della poesia lirica di Britonio
è per lo più relativa a testi della GdS, con la presenza, però, di 3
estravaganti; inoltre, in due antologie si leggono testi della GdS (qui
contrassegnati da *) con notevoli varianti rispetto a N e V tali da configurarli
quali nuove redazioni:
LUNA = VOCABULARIO. di cinq; / mila Vocabuli Toschi no(n) men
oscuri / che utili e necessarij del furioso, / Bocaccio, Petrarcha e Dante
[ 21 ]
170 MAURO MARROCCO
/ nouame(n)te dechiarati e raccolti / da Fabricio Luna per, al / fabeta
adutilita dichi / legge, scrive e / fauella […]. [Colophon] Stampato in
Napoli per Giovanni Sultzbach Alema- / no apresso alla Gran Corte
dela Vicaria / adi 27. di Ottobre 1536 […].
Contiene: GdS, 198 (c. SIVv) e 424 (c. DDivr).
Rd3 = LIBRO TERZO / DE LE RIME / DI DIVERSI NOBILIS- / SIMI
ET ECCELLENTIS= / SIMI AVTORI / NVOVAMENTE RACCOLTE.
// IN VINETIA AL SEGNO DEL / POZZO. M. D. L. [colophon] In
Vinetia appresso Bartholomeo / Cesano. M. D. L.
Contiene alle cc. 162r-167v: GdS, 365, 278*, 73*, 196*, 172; estrav. 1; GdS,
433*; estrav. 2; GdS, 68*.
TEMPIO = DEL / TEMPIO ALLA DIVINA / SIGNORA DONNA GIOVAN-
/ NA D’ARAGONA, FABRICATO / da tutti i più gentili Spiriti, &
in / tutte le lingue principali / del mondo, / PRIMA PARTE // IN VENETIA,
PER PLINIO / PIETRASANTA, M. D. LV.
Contiene alle pp. 190-94: GdS, 379*.
Rs2 = IL SECONDO VOLUME / DELLE RIME / SCELTE / DA DIVERSI
ECCELLENTI / Autori, nouamente mandato in luce. // IN VINEGIA
APPRESSO GABRIEL / GIOLITO DE’ FERRARI. / M D
LXIII.43
Contiene alle pp. 509-31: GdS, 4, 6, 7, 10, 13, 17, 18, 21, 26, 27, 32, 34, 39,
51, 61, 63, 66, 71, 72, 90, 95, 99, 104, 112, 125, 129, 131, 162, 164, 172, 180,
189, 195, 196, 201, 206, 211, 263, 271, 313, 398, 413, 434, 435, 438.
RTosc1 = DE LE RIME / DI DIVERSI NOBILI / POETI TOSCANI, /
Raccolte da M. Dionigi Atanagi. / LIBRO PRIMO. // IN VENETIA. /
Appresso Lodovico Avanzo. / M. D. LXV.
Contiene alla c. 93r: estrav. 3.
Rs22 = IL SECONDO / VOLUME / DELLE RIME / SCELTE / DI DIVERSI
AVTORI, / DI NVOVO CORRETTE, / E RISTAMPATE. // IN
VENETIA, / APPRESSO I GIOLITI. / M. D. LXXXVI.
43 Se ne trovano copie della stessa tiratura con data 1564, 1565, 1566, in quanto
le date furono cambiate «nell’atto stesso della prima tiratura de’ frontespizi dei
due volumi, […], perché il libro paresse dell’anno corrente durante un quadriennio,
spazio di tempo che si presagiva occorrere per smaltire l’edizione, forse fatta
in larghissimo numero di copie» (S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari, Roma,
presso i principali librai, 1890, vol. I, p. 189). Lo stesso discorso vale per Rs22
che, seguendo una logica analoga, presenta «copie identiche cogli anni 1586 (che
fu quello veramente della stampa) 1587, 1588, 1589, 1590. Il cambiamento si fece
nell’atto della prima tiratura» (Ivi, vol. II, p. 407). Nel presente lavoro si tiene conto
della collazione degli esemplari della Biblioteca Corsiniana, coll. 132 H 15 con data
1564 e coll. 131 H 19, con data 1587.
[ 22 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 171
Contiene alle pp. 485-507 le stesse rime, secondo la medesima seriazione,
di Rs2.
Per quanto riguarda la tradizione della GdS risultano dunque particolarmente
interessanti, più da un punto di vista documentario che
testuale, Rd3 e TEMPIO; la prima si segnala anche per la presenza di
2 estravaganti, tra i quali non rientra però Lavor malvagio che ’l sereno
aspetto, che è invece una nuova redazione di GdS, 27844:
GdS Rd3
Invido legno, che ’l sereno aspetto
contendi agli occhi miei sì spesse volte
e tiemmi quelle oneste luci ocolte
che Amor scolpite m’ha ne l’intelletto;
o d’ogni mio disir molesto obbietto,
per cui tutte speranze mi son tolte,
cagion ch’io più, qual soglio, non ascolte
il ragionar che impiaga e sana il petto;
ai, lasso, omai che non ti movi e pieghi
ai miei martir? Ma dove non è senso
che giovano mortali e giusti prieghi?
Già con vendetta il tuo livor compenso,
ch’al meglio un dì che lei m’ascondi e nieghi
forse sarai da’ me’ sospir accenso.
Lavor malvagio che ’l sereno aspetto
contendi agli occhi miei sì spesse volte
e tiemmi quelle oneste luci occolte
ch’Amor pur manda dentro l’intelletto;
o del mio bel desio molesto oggetto,
per cui l’alte speranze mi son tolte,
cagion ch’io più, qual soglio, non ascolte
il ragionar ch’impiaga e sana il petto;
ai, miser me! che non ti muovi e pieghi
al mesto suon? Ma dove non è senso
che puon giovare umani e giusti prieghi?
Ma segui contra me pur l’odio immenso,
che forse un dì che lei m’ascondi e nieghi
ratto sarai da’ miei sospir accenso.
Sempre in Rd3, l’unica delle Rime di diversi a contenere testi britoniani,
ma anche la prima delle interpolazioni di altri editori nella serie
inaugurata da Giolito, si segnalano due sonetti nei quali è esplicitato
il nome dell’amata, Clizia, senhal una sola volta usato nel canzoniere,
ma che risulta fondamentale, come si è visto nella prima parte del
presente lavoro, per la comprensione del macrotesto:
GdS Rd3
68, 6 nel carcer, di cui diesti altrui la
chiave
nel carcer del qual tien Clizia la
chiave
196, 10 ch’altri il sa ben, ma lo contrario
infinge
ben Clizia il sa, ma lo contrario
infinge
44 Tra gli estravaganti lo colloca invece M. Romanato, Per l’edizione della Gelosia
del sole di Girolamo Britonio, cit., pp. 47-48.
[ 23 ]
172 MAURO MARROCCO
L’unica delle antologie giolitine in cui compare Britonio è, invece,
Rs2, dove potrebbe aver avuto un ruolo importante la mediazione di
Terminio, «che pare che fosse il vero raccoglitore ed editore del volume
stesso»45, oltre che l’autore ivi più rappresentato con ben 132 testi46.
L’antologia giolitina riporta, con lievissime varianti, i componimenti
britoniani nella veste testuale di N e V, anche per quanto riguarda
l’unico in comune con Rd3, 196, lì invece in redazione sensibilmente
diversa.
La “finezza”, soprattutto per quanto riguarda Rd3, delle varianti
indurrebbe ad attribuirne allo stesso Britonio la responsabilità (sempre
con la considerazione che esse potrebbero essere testimoniate in
qualche esemplare smarrito di N o di V usato quale antigrafo dal compositore
dell’antologia). Del resto, il poeta sicignanese segnala un suo
interesse alla revisione della propria produzione poetica proprio intorno
al 1550:
così in alcuno di tempo intervallo alquanto oblivioso, gl’altri miei più
giovenili e amorosi componimenti, com’elli ancora saranno, e i quali
sono tre corpi, oltre alcuni altri, mi sforzerò, altro contrario accidente
non impedimento dandomi, pure dar fuora, con l’aita di chi tutto concede,
conciosiaché in quanto mi è stato possibile, e con ispazio d’etade
e d’anni, oltre l’ottimo giudizio e l’ordine del venosino lume, loro ho
dato l’ultima lima47.
Certo, resta difficile individuare con esattezza, ad eccezione della
GdS ovviamente, i «tre corpi» dei «giovenili e amorosi componimenti»
a cui il sicignanese ha sovrabbondantemente applicato la norma oraziana
del nono anno48. Fatto sta che la testimonianza certifica che a
45 S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito, cit., I, p. 189. Sul ruolo di Terminio in Rs2
cfr. T. R. Toscano, Antonio Terminio da Contursi poeta umanista del XVI secolo, pref.
di A. Quondam, Contursi Terme, Il Fauno edizioni, 2009, pp. 57-58. Per una ricognizione
della storia editoriale delle antologie giolitine e della rivalità, in particolare,
con Ruscelli, cfr. almeno L. G. e W. G Clubb, Building a Lyric Canon: Gabriel
Giolito and the Rival Anthologists, 1545-1590: Part I, «Italica», LXVIII (1991), 3, pp.
332-344.
46 Cfr. Antologie della lirica italiana – raccolte a stampa, al sito web: www. http://
rasta.unipv.it.
47 G. Britonio, Cantici e i ragionamenti; e quelli del pontefice, in fauore della santissima
Romana Chiesa, Venezia, Baldassar Constantini, 1550, c. 4v.
48 Tra gli «amorosi componimenti» può rientrare la romana, scritta in un anno
imprecisato del pontificato di Paolo III, Nuoua elegia volgare […]; altre opere volgari
in versi di Britonio: Vesione edita per Britonio de Sicignano in la inmatura morte de lo
illustrissimo prencipe di Salerno suo patrone, e per alcuni soi amici (Roma, non dopo il
[ 24 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 173
quella altezza cronologica Britonio era interessato ad intervenire, nonostante
i suoi sessanta anni e la sua carriera volta ormai prevalentemente
al latino, sulle proprie rime giovanili.
Tra gli estravaganti, quello di RTosc1 rientra in pieno nell’economia
dell’antologia di Atanagi, che si prospetta quale «scelta consapevole
di quanto può testimoniare, in particolare in modo originale ed
inedito, la storia poetica del secolo»49; difatti, uno dei criteri dell’antologia
è proprio la presentazione di diversi autori canonici tramite, però,
testi inediti, ciò che ovviamente rispondeva a ragioni di opportunità
editoriale. L’inedito britoniano è inserito in un gruppo di testi, che,
scritti in occasione della morte della gentildonna romana Faustina
Mancini (1543), Atanagi recuperò, sorta di tributo ad una tappa importante
della sua carriera, nell’antologia insieme ad altre testimonianze
della Roma di Paolo III50.
Per quanto attiene alla tradizione manoscritta51, in realtà di poco
conto ai fini dell’edizione del testo, risulta particolarmente curiosa la
riscrittura spirituale di numerosi testi della GdS antologizzati nelle
«Rime Mille / in lode di Maria Vergine / immacolata Madre / di Dio
vero» del Vat. Lat. 7547, miscellanea del frate minore Francesco Gaio
da Civita Castellana. I componimenti britoniani sono oggetto di accomodamenti
tesi all’adeguata collocazione all’interno della celebrazione
di Maria alla base della raccolta, come la quasi sistematica sostituzione
di “donna”, “madonna”, pronomi femminili etc. con “Vergine”
(GdS, 21, 10 «donna»>Vat. Lat. 7547 «Vergine» etc.) o “Maria” (GdS,
22, 3 «costei»>Vat. lat. 7547 «Maria» etc.), ciò che coinvolge la stessa
1513), Trionfo nel quale Partenope sirena narra e canta gli gloriosi gesti del gran marchese
di Pescara (Napoli, Evangelista di Presenzani, 1525), Elegantissimo dialogo pastorale e
marittimo e ninfale […], Roma, Antonio Blado, 1535.
49 S. Bigi, Le Rime di diversi a cura di Dionigi Atanagi, in M. Santagata, A.
Quondam (a cura di), Il libro di poesia dal copista al tipografo, Ferrara, Panini, 1989,
p. 241.
50 Ivi, pp. 241-242, dove si avanza l’ipotesi che il gruppo di testi in morte della
Mancini, «raccolta […] iniziata per suggerimento del Caro e del Tolemei, come testimoniano
alcune lettere, con l’intenzione di dedicarla ad un Farnese, ed in seguito
[…] abbandonata», sia da ritenersi il «punto di riferimento per la raccolta» (Ivi,
p. 241).
51 Sono debitore in questa sezione dell’ottima recensio di M. Romanato, Per
l’edizione della Gelosia del sole di Girolamo Britonio, cit., pp. 48-51 (cui si rimanda
per la descrizione dettagliata dei manoscritti citati e per i riferimenti bibliografici),
che risolve, tra l’altro, in favore di Britonio diverse rime adespote. Non mi sono
naturalmente astenuto dal verificarne e correggerne i dati riportati ove necessario.
[ 25 ]
174 MAURO MARROCCO
Vittoria Colonna (GdS, 380, 1 «Vittoria»>Vat. lat. 7547 «Maria»)52. Più
sensibili mutamenti, che però non diventano del tutto sistematici,
comporta la traslazione assiologica dall’amore petrarchistico a quello
religioso: ess. GdS, 22, 4 «sendo d’onestà albergo e di beltate»>Vat. lat.
7547 «d’onestà albergo essendo in ogni etate»; GdS, 286, 5 «Amor, che
con lusinghe il cor m’appristi»>Vat. lat. 7547 «Amor, che con prudenza
il cor m’appristi»; GdS, 2, 7 «l’alma, ch’è volta in versi a lamentarsi»>Vat.
lat. 7547 «l’alma, ch’è volta in carne a lamentarsi» etc.
Appendice
La zona meno chiarificata della biografia di Girolamo Britonio è di
sicuro quella successiva alla morte di Francesco Ferdinando d’Avalos
(1525): se testimoniata da numerose opere è la sua presenza a Roma
sotto il pontificato di Paolo III, non mancano elementi negli scritti britoniani
che riconducono al suo successore, Giulio III, Giovanni Maria
Ciocchi del Monte, eletto papa il 7 febbraio 1550 ed incoronato il 22,
ciò che obbliga a posporre quella che era ritenuta, in assenza di ulteriori
documenti, l’ultima attestazione in vita del poeta, la dedicatoria
firmata il 2 novembre 1549 in testa ai Cantici et i ragionamenti53. Difatti,
in una ecloga ed in un’epistola in distici elegiaci al gentiluomo mantovano
Benedetto Agnello l’orizzonte di riferimento non è più la Roma
di papa Farnese, ma quella di Giulio III54. Ciò che trova esplicita conferma
in un epigramma latino ed in un sonetto, che si leggono in coda
all’Epistola ad Agnello nel volume della Biblioteca Alessandrina di Roma,
coll. O. e. 32 (c. 14r-v) (contenente anche i Cantici e i ragionamenti e
l’Ecloga […] Delphilla):
Exclusum dubia me vita iure tenebas,
namque illa exclusus non nisi nuper eram,
dum minus in laetis conceptibus ipse manebam,
52 È inevitabile qui pensare all’operazione, ben più radicale e con tutt’altro esito,
di Girolamo Malipiero nel suo Petrarca spirituale, per cui cfr. A. Quondam, Riscrittura,
citazione, parodia. Il “Petrarca spirituale” di Girolamo Malipiero, in Id., Il naso
di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991,
pp. 203-262.
53 G. Britonio, Cantici, cit., c. 4v.
54 Cfr. G. Britonio, Ecloga, cuius titulus est Delphilla, Venezia, Bartolomeo Cesano
(?), 1550, c. A3v; Id., Epistola cuius titulus est Agnellus, ad Benedictum Agnellum,
Venezia, Giovanni Griffio il vecchio, 1550, cc. 10v sgg.
[ 26 ]
SCHEDE SULLA GELOSIA DEL SOLE (1519) 175
qui variae tantum semina mortis habent.
Verum in tam laetos ubi post te propter abivi,
iure tuo referor numine vivus ego,
auspicibusque Deis videor iam Virbius alter,
nunc quibus hinc grator, grator et inde tibi.
Aetheria ergo aura dum per te vescor, Iule
Maxime, ut ante, precor fac modo ne moriar;
magnus honos homini recidiva levare potenti
est alere at maior quae recidiva facit.
Son vivo, e n’abbian lode l’alme stelle,
poi siete or voi, dal sol del sommo chiostro,
assiso al seggio, ove anco il gran zio vostro
fu già vicin, per opre e sante e belle;
e’ mi par che ’n me ognor si rinovelle
l’età canuta, ed in vergar più inchiostro
che mai si deste, e ’n dir del secol nostro
ch’oltre tutti altri avvien lieto s’appelle,
e canti: «ove non giunse sol per morte
il buon primier Montan, d’ogni onor degno,
giunse ’l secondo, ch’è quel quasi istesso.
O ben nato legnaggio a sì gran sorte:
quel di Piero a la sedia fu sì presso,
questi, in sua vece, n’ha lo scettro e ’l regno.»
Certo, proprio il motivo di un Britonio risorto, altro «Virbio», può
indurre il dubbio si tratti di una prosopopea parodica, ed il sicignanese
non sarebbe nuovo a subire tali dileggi55, ma gli altri riferimenti a
Giulio III sopra accennati fanno propendere per l’autenticità dei due
testi.
Mauro Marrocco
(Università Sapienza – Roma)
55 Come riporta F. Glénisson-Delannée, Une veillée Intronata inédite (1542) ou
le jeu littéraire à caractère politique d’un diplomate: Marcello Landucci, «Bullettino Senese
di storia patria», CXVIII (1991), pp. 63-101, pp. 75-76, 83, 85-86, in una veglia di
Marcello Landucci del 1542, un Britonio mimetizzato in una lingua meridionale e
preso in giro a proposito della GdS è deriso in quanto inopportuno rispetto alle
regole del gioco.
[ 27 ]
FABIO PREVIGNANO
Cesare Pavese: la collina e l’infinito
For Pavese the hill, mythical entity par excellence, is a metaphor of
being: it is “what is”, in opposition to history, which is “what happens”.
If history is the realm of the contingent and transient, the hill
refers to an “other”, to the Eternal. It is a passage to infinity, and
Pavese projects on it his aspiration to eternity. This paper intends to
focus specifically on the dimension of “sense” represented by the
hill in Pavese, with particular regard to the author’s obsessive
thought: death.
Da sempre l’uomo è alla ricerca di un “varco” – per usare un termine
caro a Montale – che gli dischiuda il senso ultimo delle cose, il
senso in cui trovino risposta gli interrogativi fondamentali sul bene e
sul male, sul perché della violenza, del dolore e della sofferenza, sul
disperato bisogno di pace, libertà e verità. Nel buio a volte fitto, la
letteratura può essere una sorta di bussola: gli scrittori infatti – come
afferma Ezio Raimondi in un libro significativamente intitolato Il senso
della letteratura – «continuano a invocare il loro potere disarmato di
raccontare e di spiegare, per inseguire la traccia fragile ma tenace di
un senso»1.
In questa ricerca di senso assume un certo rilievo in letteratura (basti
pensare al già citato Montale) il tema del paesaggio, «in quanto
contenitore di miti, sogni ed emozioni, in quanto accumulatore di metafore
per capire le contraddizioni e i problemi del nostro tempo»2. Per
addentrarsi meglio nel concetto (non facilmente definibile) di paesaggio,
occorre però innanzitutto distinguerlo da quello di natura. I due
termini, spesso confusi o usati come sinonimi, non sono in realtà sovrapponibili:
come chiarisce Michael Jakob in un recente studio sul
1 E. Raimondi, Il senso della letteratura, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 21.
2 M. Quaini, L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, Reggio
Emilia, Diabasis, 2006, p. 12.
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 177
tema, con “natura” si deve infatti intendere un «fenomeno oggettivo,
misurabile ed esistente di per sé», e con “paesaggio” «qualcosa che
nasce in virtù dell’azione dell’uomo e che da questi dipende».3 In altre
parole, perché si possa parlare di paesaggio è necessaria la presenza di
un soggetto che abbia un’esperienza estetica della natura – estetica in
senso etimologico, con riferimento alla parola greca αἴσθησις, che indica
la “percezione coi sensi” – e sia “consapevole” di vivere questo
tipo di esperienza (aspetto “percettivo” e aspetto “metacognitivo” sono
intimamente connessi4).
Il paesaggio, in definitiva, non è un elemento “naturale”, ma «qualcosa
di culturale», si potrebbe dire addirittura di «spirituale», che va
considerato sempre e soltanto «in relazione all’uomo»5. Il paesaggio si
pone in «rapporto esclusivo con l’intimo, con l’io»6, anzi, «senza un
coinvolgimento più o meno esplicito e totalizzante dell’io non esiste
possibilità di paesaggio»7. Nell’ambito della letteratura piemontese
del Novecento si dimostra ben consapevole di ciò Pavese, che durante
il confino a Brancaleone Calabro scrive nel diario (in data 10 ottobre
1935):
Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse
non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico,
quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero
in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro
un significato. Che viene a dire come il primo fondamento della poesia
sia l’oscura coscienza del valore dei rapporti, quelli biologici magari,
che già vivono una larvale vita d’immagine nella coscienza prepoetica8.
3 M. Jakob, Paesaggio e letteratura, Firenze, Leo S. Olschki, 2005, p. 9.
4 Per l’aspetto “percettivo” e l’aspetto “metacognitivo” nella riflessione sul paesaggio
si veda in particolare E. Malaspina, Quando il paesaggio non era ancora
stato inventato. Descriptiones locorum e teorie del paesaggio da Roma a oggi, in Lo sguardo
offeso. Il paesaggio in Italia: storia geografia arte letteratura, Atti del convegno internazionale
di studi, 24-25 settembre 2008 – Vercelli, 26 settembre 2008 – Demonte, 27
settembre 2008 – Montà, a cura di G. Tesio e G. Pennaroli, Torino, Centro Studi
Piemontesi-Ca dë Studi Piemontèis, 2011, pp. 45-85.
5 L. Bottani, Cultura, natura e paesaggio, in Id., Cultura e restanza, Vercelli, Mercurio,
2004, p. 201.
6 G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale,
presentazione di G. L. Beccaria, Novara, Interlinea, 2000, p. 116 (prima edizione:
1999).
7 E. Soletti, Memoria e paesaggio in Pavese, in Lo sguardo offeso. Il paesaggio in
Italia: storia geografia arte letteratura, cit., p. 222.
8 C. Pavese, Il mestiere di vivere. 1935-1950, edizione condotta sull’autografo, a
[ 2 ]
178 FABIO PREVIGNANO
Pavese si rende ben presto conto che «la forza della creazione poetica
risiede nella capacità di saper fondere l’oggettività geografica-fattuale
con la soggettività culturale-umana, elementi che si completano
a vicenda e che ci trasmettono appunto il senso del luogo che racchiude
in sé tutto il nostro passato»9. E il luogo per eccellenza, per Pavese, è
la collina. Se è vero che esiste – come egli scrive in Del mito, del simbolo
e d’altro, uno dei testi “teorici” di Feria d’agosto – un’«immagine o ispirazione
centrale, formalmente inconfondibile, cui la fantasia di ciascun
creatore tende inconsciamente a tornare»10, un’immagine alla
quale «il creatore […] torna sempre come a qualcosa di unico», e che
costituisce «il fuoco centrale non soltanto della sua poesia ma di tutta
la sua vita»11, ebbene, per Pavese questa immagine – insieme alla «figura
dello scappato di casa»12 – è certamente rappresentata dalla collina.
Ciò è già stato ampiamente sottolineato dalla critica13, ma vale
forse la pena soffermarsi ulteriormente sull’istanza di “senso” di cui la
collina si fa portatrice in Pavese, in modo particolare in relazione al
pensiero ossessivo dell’autore: la morte.
È doveroso, allora, ripercorrere alcuni passi dell’opera pavesiana,
a partire dal celebre incipit de La casa in collina, in cui l’attacco memorialistico
stabilisce «una connessione immediata tra l’io narrante e la
realtà simbolica della collina»14:
Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la
boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non
era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere.
Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche
cura di M. Guglielminetti e L. Nay, nuova introduzione di C. Segre, Torino, Einaudi,
2000, pp. 10-11.
9 G. Romanelli, Realtà e finzione, storia e mito nella geografia letteraria di Cesare
Pavese, in Un viaggio mitico. Pavese intertestuale: alla ricerca di se stesso e dell’eticità
della storia. Sesta rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana, a cura di A. Catalfamo,
Santo Stefano Belbo, Ce.Pa.M, 2006, p. 85.
10 C. Pavese, Feria d’agosto, introduzione di E. Gioanola, Torino, Einaudi,
2002, p. 154 (prima edizione: Torino, Einaudi, 1946).
11 Ibidem.
12 Id., Il mestiere di vivere, cit., p. 17 (10 novembre 1935).
13 A riguardo si veda, in particolare, E. Gioanola, La collina come essere e altrove:
da Feria d’agosto a La luna e i falò, in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio,
Milano, Jaca Book, 2003, pp. 11-60, di cui riprendo molte osservazioni in questo
saggio.
14 E. Soletti, Memoria e paesaggio in Pavese, in Lo sguardo offeso. Il paesaggio in
Italia: storia geografia arte letteratura, cit., p. 227.
[ 3 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 179
dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e
serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni15.
Attorno all’immagine della collina ruota l’intero racconto-confessione
del protagonista Corrado (alter-ego dell’autore): le colline sono
l’alfa e l’omega del viaggio che egli compie, non soltanto nello spazio
(dalle colline torinesi a quelle originarie delle Langhe), ma anche e
soprattutto «dentro se stesso alla ricerca della propria identità»16. Un
viaggio che è lungo e faticoso percorso di maturazione, di acquisizione
di consapevolezza, metaforicamente evidenziato dall’atto del salire,
che ricorre in modo particolare nel primo capitolo («Ci salivo la
sera», «Di nuovo stasera salivo la collina») e nell’ultimo («salgo e scendo
la collina e ripenso alla lunga illusione da cui ha preso le mosse
questo racconto della mia vita»17).
L’“affinità” tra l’io e la collina («mi piaceva la grossa collina, serpeggiante
di schiene e di coste»18) è alimentata dal fatto che la campagna,
connotandosi come spazio a sé stante, isolato e lontano dalla storia,
appare – perlomeno all’inizio del romanzo – luogo di vita in opposizione
alla città, esposta ai mortali pericoli della guerra (come è noto,
della dicotomia tra città e campagna Pavese ha fatto «la sua forza, la
sua ossessione, il suo mito, la sua lingua»19):
Allora camminavo tendendo l’orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari,
fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella
notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni,
le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali20.
La sicurezza e la calma rassicurante della collina, in opposizione ai
rischi e alle minacce della città, compaiono già nel racconto Il fuggiasco,
che de La casa in collina può essere considerato un cartone preparatorio:
15 C. Pavese, La casa in collina, Torino, Einaudi, 1990, p. 3 (prima edizione: insieme
a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1948).
16 G. Romanelli, Realtà e finzione, storia e mito nella geografia letteraria di Cesare
Pavese, in Un viaggio mitico. Pavese intertestuale: alla ricerca di se stesso e dell’eticità
della storia. Sesta rassegna di saggi internazionali di critica pavesiana, cit., p. 92.
17 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 121.
18 Ivi, p. 5.
19 G. Lagorio, Città e campagna: tema di esilio e di frontiera, in Cesare Pavese oggi,
Atti del convegno internazionale di studi, San Salvatore Monferrato, 25-26-27 settembre
1987, a cura di G. Ioli, s.l., s.e., 1989, p. 38.
20 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 3.
[ 4 ]
180 FABIO PREVIGNANO
In alto, sulla collina, avevo ritrovato quella speranza, quella libertà, e
capivo che per viverla bastava pensarla reale. Qui non c’erano le case,
le soffitte e le piazze dove il pericolo guatava all’angolo. Qui nessuno
mi aspettava a un appuntamento mortale. Qui non c’era che terra e
colline e bastava appiattirsi alla terra per vivere ancora21.
In realtà, neanche le colline sono uno spazio remoto e separato dalla
storia, anzi, sono anch’esse tragicamente colpite dalla guerra e dalla
morte. Pure su di esse «si è sparso il sangue», come recita una delle
poesie de La terra e la morte (scritte tra il 27 ottobre e il 3 dicembre 1945,
e quindi a guerra da poco conclusa), in cui è fatto un impietoso confronto
tra chi ha sacrificato la propria vita combattendo e chi (come
l’io poetante) ha vilmente rinunciato alla lotta partigiana:
Tu non sai le colline / dove si è sparso il sangue. / Tutti quanti fuggimmo
/ tutti quanti gettammo / l’arma e il nome. Una donna / ci guardava
fuggire. / Uno solo di noi / si fermò a pugno chiuso, / vide il
cielo vuoto, / chinò il capo e morì / sotto il muro tacendo. / Ora è un
cencio di sangue / e il suo nome. Una donna / ci aspetta alle colline22.
Anche ne La casa in collina Corrado viene a contatto con la terribile
realtà del sangue sparso:
Quanto sangue, mi chiesi, ha già bagnato queste terre, queste vigne.
Pensai che era sangue come il mio, ch’erano uomini e ragazzi cresciuti
a quell’aria, a quel sole, dal dialetto e dagli occhi caparbi come i
miei23.
Proprio il sangue sparso mette però in luce l’essenza rigeneratrice
della collina. Il sangue infatti non va perduto, ma viene riassorbito
dalla terra, che in un eterno ciclo genera nuova vita: «Il sangue sparso
era assorbito dalla terra. Le città respiravano. Soltanto nei boschi nulla
mutava, e dove un corpo era caduto, riaffioravano radici»24 (viene in
mente l’uccisione di Gisella in Paesi tuoi, che costituisce simbolicamente
«un tributo offerto alla terra, di cui alimenta l’eterno vitalismo»25).
La collina non solo genera nuova vita («In collina, sotto le foglie
21 Id., Il fuggiasco, in C. Pavese, Tutti i racconti, a cura di M. Masoero, introduzione
di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2002, p. 792.
22 C. Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1951, p. 16.
23 Id., La casa in collina, cit., p. 109.
24 Ivi, p. 33.
25 L. Nay, G. Zaccaria, Nota introduttiva a C. Pavese, Paesi tuoi, Torino, Einaudi,
2001, p. XVII.
[ 5 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 181
fradice, dovevano spuntare i primi fiori. Mi ripromisi di cercarli»26),
ma vive essa stessa di vita propria27: «l’antico indifferente cuore della
terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte»28
(ciò è detto ancor più esplicitamente ne Il diavolo sulle colline: «C’era il
piacere di […] sentire ai nostri piedi, da ogni parte, la collina segreta
che viveva la sua vita»29; «Stamattina prendevo il sole alla grotta, e mi
pareva che la collina avesse un sangue una voce, vivesse…»30). La collina
è vita che si rinnova nell’eterno avvicendarsi delle stagioni, contro
cui nulla possono le violenze degli uomini:
Entro due mesi al più, sarebbe stata primavera, la collina si sarebbe
vestita di verde, qualcosa di nuovo, di gracile, sarebbe nato sotto il
cielo. La guerra si sarebbe decisa»31.
Se la storia è “ciò che avviene”, la collina è “ciò che è”: la prima
rappresenta il contingente, la seconda l’eterno. La collina è «metafora
efficace dell’essere»32 in opposizione a tutto ciò che è transeunte: di
qui nasce il desiderio di carpirne la vita segreta («È bello girare la collina
insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le
radici, le tane, le forre, le vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere
delle scoperte»33), di coglierne l’essenza anche tramite i sensi, dall’olfatto
(«a me piace salire in collina. Mi piacciono gli odori della terra»34)
alla vista («Veniva voglia di saltare di collina in collina, di abbracciar
tutto con lo sguardo»35).
Alla collina è associata un’idea di perennità, di durata e di continuità
cui lo stesso Pavese aspira, come conferma la nota del diario del 19
26 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 84.
27 Nella lettera a Fernanda Pivano del 27 giugno 1942 Pavese scrive: «Descrivere
poi paesaggi è cretino. Bisogna che i paesaggi – meglio, i luoghi, cioè l’albero,
la casa, la vite, il sentiero, il burrone, ecc. – vivano come persone, come contadini,
e cioè siano mitici» (cfr. C. Pavese, Vita attraverso le lettere, a cura di L. Mondo, Torino,
Einaudi, 2004, p. 180).
28 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 5.
29 Id., Il diavolo sulle colline, postfazione di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi,
1997, p. 84.
30 Ivi, p. 96.
31 Id., La casa in collina, cit., p. 81.
32 E. Gioanola, La collina come essere e altrove: da Feria d’agosto a La luna e i falò,
in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 30.
33 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 4.
34 Id., Il diavolo sulle colline, cit., p. 15.
35 Ivi, p. 50.
[ 6 ]
182 FABIO PREVIGNANO
gennaio 1949, in cui, ripensando alle favorevoli recensioni di Emilio
Cecchi, Giuseppe De Robertis e Arrigo Cajumi a Prima che il gallo canti,
egli scrive: «Non volevo soltanto questo. Volevo continuare, andar oltre,
[…] diventare perenne come una collina»36. L’aspirazione alla perennità
si scontra però col pensiero, sempre ricorrente in Pavese, della
morte: Già nella nota del diario del 28 gennaio, successiva a quella
appena citata, si legge: «Insomma, quand’è che vivi? Che tocchi il fondo?
Sei sempre distratto dal lavoro. Giungerai alla morte senza
accorgertene»37. E il nesso tra la terra e la morte, tra l’eterna durata e il
nulla, viene affrontato in maniera definitiva nell’ultimo romanzo.
La luna e i falò è costellato di morti, da quelli che, sotterrati nella
campagna,
di tanto in tanto affiorano nelle rive, come il tedesco e le
due spie repubblichine, al Valino e le sue donne, periti nell’incendio
della Gaminella, fino ad arrivare a Santa, uccisa e bruciata dai partigiani.
Di fronte alla morte che sembra imperante si erge però la collina,
qui più che mai caratterizzata dagli attributi dell’immutabilità («a
guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane
sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre
uguale»38), dell’atemporalità («sulle colline il tempo non passa»39) e
della vastità incommensurabile («io mi vedevo Gaminella in faccia,
che a quell’altezza sembrava più grossa ancora, una collina come un
pianeta»40; «La vedevo bene […] digradare gigantesca verso Canelli
»41). Attributi che contribuiscono a fare della collina il «luogo mitico
per eccellenza»42, il luogo unico, assoluto e sacro in grado di assurgere
a riserva di senso.
La collina dà un senso anche alla morte. Se morire significa tornare
alla terra, farsi terra, diventare “collina” (e cioè durata, continuità, perennità),
allora «il morire, paradossalmente, non è morire, ma assimilarsi
all’eterno durare»43. È questa la verità – paradossale, appunto –
cui approda Anguilla. Solo morendo è possibile «farsi terra e paese»,
fare in modo che la propria «carne valga e duri qualcosa di più che un
36 Id., Il mestiere di vivere, cit., p. 362.
37 Ivi, p. 363.
38 Id., La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950, p. 27.
39 Ivi, p. 44.
40 Ivi, p. 55.
41 Ivi, p. 8.
42 G. L. Beccaria, Introduzione a C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi,
2000, p. IX.
43 E. Gioanola, La collina come essere e altrove: da Feria d’agosto a La luna e i falò,
in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 55.
[ 7 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 183
comune giro di stagione»44. Tramite la collina, la morte appare «come
difesa dall’autentico e personale dover morire, nel rovesciamento
drammatico dell’intuizione esistenzialistica dell’essere per la morte
nel suo contrario: la morte per essere»45.
Se nel finale de La casa in collina Corrado si poneva una domanda
(«E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?»46) alla quale non era
in grado di dare una risposta («Io non saprei cosa rispondere. Non
adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno
unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero»47),
alla fine de La luna e i falò Anguilla, dopo avere appreso da Nuto la fine
di Santa, non ha più interrogativi da porsi. L’interrogativo fondamentale,
lui se l’era posto all’inizio, e riguardava la sua origine («Chi può
dire di che carne sono fatto?»48). Alla fine, semplicemente, egli si appresta
ormai a ripartire, e non perché il suo ritorno al paese si sia risolto
«nell’impossibilità di ritrovare le proprie radici, all’insegna della
delusione e dello scacco»49, ma perché, quasi riassumendo in sé l’esperienza
di tutti gli altri grandi personaggi pavesiani, ha ormai pienamente
compreso che l’approdo vero e autentico non può coincidere
con nessun luogo determinato, e sa che soltanto il morire può costituire
«l’estrema forma del ritorno, il vero senso del paese».50
Ne La luna e i falò vi è un passo particolarmente rivelatore dell’istanza
di senso di cui la collina si fa portatrice nei confronti della morte. Si
tratta del finale del capitolo VIII, in cui il Cavaliere mostra ad Anguilla
le proprie terre, parlandogli del figlio morto suicida:
Eravamo arrivati al gomito della strada, sotto le canne. Si fermò e balbettò:
– Lei sa com’è morto?
Feci cenno di sì. Parlava con le mani strette al pomo del bastone. – Ho
piantato questi alberi, – disse. Dietro le canne si vedeva un pino. – Ho
44 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 7.
45 E. Gioanola, La collina come essere e altrove: da Feria d’agosto a La luna e i falò,
in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 56.
46 C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 123.
47 Ibidem.
48 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 7.
49 G. Zaccaria, Dal mito del silenzio al silenzio del mito: sondaggi pavesiani, in La
retorica del silenzio, Atti del Convegno internazionale, Lecce, 24-27 ottobre 1991, a
cura di C.A. Augieri, Lecce, Milella, 1994, p. 350 (ora anche in Id., Cesare Pavese,
percorsi della scrittura e del mito: con alcuni riscontri fenogliani, Vercelli, Mercurio,
2009, p. 141).
50 E. Gioanola, La collina come essere e altrove: da Feria d’agosto a La luna e i falò,
in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 55.
[ 8 ]
184 FABIO PREVIGNANO
voluto che qui in cima alla collina la terra fosse sua, come piaceva a lui,
libera e selvatica come il parco dov’è stato ragazzo…
Era un’idea. Quella macchia di canne e, dietro, i pini rossastri e l’erba
sotto, rigogliosa, mi ricordavano la conca in cima alla vigna di Gaminella.
Ma qui c’era di bello ch’era la punta della collina e tutto finiva
nel vuoto51.
Particolare attenzione merita la «punta della collina». Nel corso del
romanzo la cima è sempre connotata come un lontano, indefinito e
quasi irraggiungibile “altrove” («La collina di Gaminella, […] un pendio
così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in
cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri –»52; «la
collina del Salto, oltre Belbo, con le creste, coi grandi prati che sparivano
sulle cime»53). Nel passo citato si dice inoltre che «tutto finiva nel
vuoto». “Vuoto” è parola ricorrente nell’opera pavesiana, e allude talvolta,
con valenza nichilistica, al nulla oltre la morte: così ad esempio
nella poesia de La terra e la morte citata precedentemente, in cui il partigiano
muore vedendo il cielo vuoto («vide il cielo vuoto, / chinò il
capo e morì»). O come ne L’inconsolabile, forse il più famoso dei Dialoghi
con Leucò, in cui Orfeo, ripensando alla propria discesa nell’Ade
per ritrovare Euridice, afferma: «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che
avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel
sangue»54. Nel passo in questione de La luna e i falò, però, alla parola
“vuoto” va attribuito tutt’altro significato. E per comprenderlo meglio,
occorre rifarsi ad altri punti dell’opera pavesiana in cui tale termine
compare.
Nelle due famose lettere a Fernanda Pivano del 25 e del 27 giugno
1942, ad esempio, Pavese chiama «strada del salto nel vuoto» la via
attraverso le colline che lo ha condotto alla (ri)scoperta dell’infanzia55
51 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 36.
52 Ivi, p. 8.
53 Ivi, p. 9.
54 ID., Dialoghi con Leucò, introduzione di S. Givone, Torino, Einaudi, 1999, p.
77 (prima edizione: Torino, Einaudi, 1947).
55 «Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia e mi riguardo
con cautela le grandi colline – tutte, quella enorme e ubertosa come una grande
mammella, quella scoscesa e acuta dove si facevano i grandi falò, quelle ininterrotte
e strapiombanti come se sotto ci fosse il mare – e sotto c’era invece la strada, la
strada che gira intorno alle mie vecchie vigne e scompare, alla svolta, con un salto
nel vuoto.
Da questo salto non ero mai passato; […] ma presentivo al di là del salto, a
grande distanza, dopo la valle che si espande come un mare, una barriera remota
[ 9 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 185
e alla consapevolezza della necessità del mito come alimento della poesia56.
Ma è nei racconti di Feria d’agosto che la parola “vuoto” ricorre
più frequentemente: spesso associato al cielo, come nel racconto intitolato
Il campo di granoturco («Dietro il campo, una terra in salita, c’era
il cielo vuoto»; «di là dagli steli alti ficcavo lo sguardo al vuoto del
cielo»57), il vuoto è «uno dei nomi che si può dare al jenseits der Dinge,
l’al di là dell’oggetto»58 («al cielo tra gli steli bassi do un’occhiata furtiva,
come chi guarda di là dall’oggetto quasi in attesa che questo si
sveli da sé»59). È, in altre parole, uno dei nomi che si può dare all’“infinito”
leopardianamente inteso, come risulta evidente dal racconto
Stato di grazia (in cui il richiamo a Leopardi è peraltro esplicito):
So di un uomo che una semplice finestra di scala, spalancata sul cielo
vuoto, mette in stato di grazia. Forse ci furono nella sua vita più finestre
di scala che in un’altra? Perché di tutte le possibili figure d’infinito,
scelse proprio questa? Ognuno è sensibile all’idea d’infinito, e già il
Leopardi ne ha chiarito l’operazione, ma perché una finestra invece
che una fuga di piante o il profilo di una balaustra sul mare?60
L’immagine della finestra, anch’essa assai ricorrente nell’intera
opera pavesiana61, in Feria d’agosto è associata in particolare proprio
alle colline, come ne Il campo di granoturco («le colline, basse tant’erano
remote, trasparivano come visi a una finestra») o ne La vigna (in cui il
(piccina, tanto è remota) di colline assolate e fiorite, esotiche. Quello era il mio
Paradiso, i miei Mari del Sud la Prateria, i coralli, l’Ophir, l’Elefante bianco ecc.
E allora, stamattina, che non sono più un ragazzo e che il paese in quattro e
quattr’otto l’ho capito, mi sono messo per questa strada e ho camminato verso il
salto e ho intravisto le colline remote e ripreso cioè la mia infanzia al punto in cui
l’avevo interrotta.» (C. Pavese, Vita attraverso le lettere, cit., p. 179).
56 «Andando per la strada del salto nel vuoto, capivo appunto che ben altre
parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un
mito. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente
quest’esperienza che è il mio posto nel mondo.» (C. Pavese, Vita attraverso
le lettere, cit., p. 180).
57 C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 13.
58 E. Gioanola, Introduzione a C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. VIII.
59 C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 12.
60 Ivi, p. 158.
61 Per il tema della finestra in Pavese cfr. B. Basile, La finestra socchiusa. Ricerche
tematiche su Dostoevskij, Kafka, Moravia e Pavese, Bologna, Patron, 1982. Per le reminiscenze
leopardiane del tema si veda anche E. Gioanola, Feria d’agosto: alle origini
della prima volta», in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., pp. 117-
119.
[ 10 ]
186 FABIO PREVIGNANO
colle su cui sorgono i filari dell’uva è «come una stanza in cui da tempo
non entra nessuno e la finestra è aperta al cielo62»). Metaforicamente
connotate come finestre (o anche come «porta magica»63) spalancate
sul vuoto, le colline appaiono quindi come un varco verso una dimensione
“altra”, anzi, verso l’«altro in assoluto»64. Fondendosi e confondendosi,
di fronte allo sguardo dell’“io”, col cielo in cui si innalzano
(«A me basta quell’occhiata furtiva che ho detto, e il cielo vuoto si
popola di colline e di parvenze»65), le colline paiono perdere ogni consistenza
concreta per trasfigurarsi in qualcosa di metafisico, in «una
promessa di vita ignota» (esemplare, in questo senso, risulta ancora Il
campo di granoturco):
Ogni volta che avevo osato un passo dentro la selva gialla, il campo
doveva avermi accolto con la sua voce crepitante e assolata; e le mie
risposte erano state i gesti cauti, a volte bruschi, con cui scostavo le
foglie taglienti, mi chinavo ai convolvoli, e di là dagli steli alti ficcavo
lo sguardo al vuoto del cielo. C’era in quel crepitío un silenzio mortale,
di luogo chiuso e deserto, che schiudeva nel cielo lontano una promessa
di vita ignota, impervia e seducente come le colline66.
Al campo di granoturco, «luogo chiuso e deserto» connotato da un
«silenzio mortale», si contrappone infatti l’infinito «vuoto del cielo»,
in cui si dischiude «una promessa di vita» definita, non a caso, «impervia
e seducente come le colline». Una promessa di vita che il “vuoto”
del cielo offre in risposta al “vuoto” dell’uomo, in cui si cela un’inesauribile
sete di infinito («siamo tutti inquieti, […] e dentro di noi c’è
un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda»67, si legge in un
altro racconto di Feria d’agosto, intitolato Piscina feriale). Alla luce di
ciò, si può meglio comprendere perché ne la luna e i falò Anguilla, visitando
le terre del Cavaliere e pensando al figlio di lui morto suicida,
dica: «qui c’era di bello ch’era la punta della collina e tutto finiva nel
vuoto». La vetta della collina pare simbolicamente segnare il passaggio
dalla morte alla vita, e mettere in comunicazione il transeunte con
62 C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 165.
63 Nel racconto La vigna si legge: «Una vigna che sale sul dorso di un colle fino
a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e
profonde appaiono una porta magica» (Ibidem).
64 E. Gioanola, Feria d’agosto: alle origini della prima volta», in Id., Cesare Pavese.
La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 121.
65 C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 14.
66 Ivi, p. 13.
67 Ivi, p. 105.
[ 11 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 187
l’eterno, il finito con l’infinito: chi muore, tornando alla terra e “diventando”
collina, si (ri)congiunge con l’infinito («s’infinita»68, verrebbe
da dire riprendendo un’espressione montaliana). Un infinito che, per
Pavese, altro non è se non quella dimensione fuori dallo spazio e dal
tempo in cui infanzia e mito vengono a coincidere69.
Si comprende allora anche il desiderio del protagonista, più volte
ribadito nel corso del romanzo, di raggiungere la vetta della collina
per eccellenza, quella della Gaminella («Da ragazzo fin lassù non c’ero
mai potuto salire […]. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva
esserci qualcosa, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine
sperdute. Che cosa poteva esserci?»70; «Un giorno, pensai, bisogna che
saliamo lassù»71). Il romanzo si conclude proprio con la lenta ascesa di
Anguilla, accompagnato e guidato verso la cima da Nuto, «“rustico”
Virgilio»72 («Riprese a condurmi su quei pianori. […] E la collina saliva
sempre: avevamo già passato diverse cascine, e adesso eravamo fuori
»73), fino al raggiungimento della sommità74:
Nuto diceva queste cose a voce bassa, si soffermava ogni tanto guardandosi
intorno; guardava le stoppie, le vigne vuote, il versante che
riprendeva a salire; disse «Passiamo di qua». Il punto dove eravamo
arrivati adesso, nemmeno si vedeva dal Belbo; tutto era piccolo, annebbiato,
lontano, ci stavano intorno soltanto costoni e grosse cime a
distanza. – Lo sapevi che Gaminella è così larga? – mi disse75.
Pavese aveva sottolineato l’essenza mitica del «campo nudo e tremendo
in vetta al colle più alto»76 nella già citata lettera a Fernanda
68 Si tratta della poesia degli Ossi di seppia intitolata Casa sul mare (vv. 22-23):
«[…] forse solo chi vuole s’infinita, / e questo tu potrai, chissà, non io» (E. Montale,
Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, A. Mondadori, 1984, p. 93).
69 In Del mito, del simbolo e d’altro si legge: «Il mito […] avviene sempre alle
origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo. […]. Genuinamente mitico è un
evento che come fuori del tempo così si compie fuori dello spazio» (C. Pavese, Feria
d’agosto, cit., pp. 150-151).
70 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 37.
71 Ivi, p. 55.
72 I. Calvino, «Avanti!», 12 giugno 1966.
73 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 126.
74 Nei “Fogli sparsi di appunti” per La Luna e i falò (compresi nel faldone che
contiene anche il manoscritto del romanzo), Pavese scrive che «salire sull’altura è
un modo di sfuggire alla storia, di tornare davanti all’archetipo» (di qui il costante
ricorrere di questo tema nella sua opera, fin da I mari del Sud in Lavorare stanca).
75 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 130.
76 «La grande collina-mammella dovrebbe essere il corpo della dea, cui la not-
[ 12 ]
188 FABIO PREVIGNANO
Pivano del 27 giugno 1942 e nell’ultimo dei Dialoghi con Leucò, intitolato
Gli dèi («Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario
e che i tuoi occhi risalendo si fermassero in cielo. L’incredibile
spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore»77). Ma è nelle ultime
pagine de La luna e i falò che la miticità della vetta della collina
viene definitivamente sancita. Proprio in prossimità della cima Anguilla
viene infatti a sapere la verità su Santa. Lì si è compiuto il sacrificio
della ragazza, bruciata e trasformata in cenere. Miticamente trasfigurata
nell’ottica della collina, la vicenda di Santa non appare però una
vicenda di morte, ma, paradossalmente, di vita. Nella cenere, infatti,
«si può leggere la distruzione, ma anche il rientro nell’assoluto inconoscibile
della terra»78, e farsi terra, diventare collina, come già si è avuto
modo di dire, significa «assimilarsi all’eterno durare»79. Segni non di
morte, ma di vita sono, inoltre, anche i falò e il fuoco: i primi «risvegliano
la terra e rendono possibile ricominciare»80, nel secondo «si annida
un principio di distruzione ma anche di rinascita e, in potenza, di
speranza»81. Una religio mortis82 che si trasfigura dunque, se letta in
questo senso, in una religio vitae, di cui la collina si fa emblema.
Se uno dei desideri più profondi e più radicati nell’animo dell’uomo
è il desiderio di «restanza», di «perduranza oltre i limiti della
finitezza»83, in Pavese tale desiderio si fa sentire con la massima urte
di San Giovanni si potrebbero accendere i falò di stoppie e tributare culto. La
dolce vetta a crinale, in fuga verso il salto nel vuoto, sarebbe la strada seguita
dall’eroe civilizzatore (un Ercole, un Adone) quando, dopo beneficata la gente,
parte per un’impresa ignota. Il campo nudo e tremendo in vetta al colle più alto,
desolato, di là dagli alberi e dalle case, una specie di altare dove scendono le nubi
e si dànno ai loro connubî con i mortali più intelligenti» (C. Pavese, Vita attraverso
le lettere, cit., pp. 180-181).
77 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 169.
78 A. M. Mutterle, L’ultima passeggiata, in Id., I fioretti del diavolo. Nuovi studi su
Cesare Pavese, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003, p. 147.
79 E. Gioanola, La collina come essere e altrove: da Feria d’agosto a La luna e i falò,
in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, cit., p. 55.
80 A. M. Mutterle, L’ultima passeggiata, in Id., I fioretti del diavolo. Nuovi studi su
Cesare Pavese, cit., p. 147.
81 Ibidem.
82 Per il concetto di “religio mortis” cfr. F. Jesi, Pavese, il mito e la scienza del mito,
«Sigma», nn. 3-4, dicembre 1964, pp. 95-120 (poi ripubblicato in Id., Letteratura e
mito, Torino, Einaudi, 1968, pp. 129-160) e Id., Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard
(Appunti per una lezione), «Il lettore di provincia», nn. 25-26, 1976, pp. 7-18. Si veda
anche D. Suardi, La “religio mortis” di Cesare Pavese, «Levia Gravia», n. 10, 2008, pp.
65-87, e D. Pantone, Una lettura dei “Dialoghi con Leucò”, ivi, pp. 89-103.
83 L. Bottani, Cultura e restanza, cit., p. 9.
[ 13 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 189
genza: «Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve –
morire con valore, con clamore, restare insomma»84, scrive nel diario in
data 23 marzo 1950, a pochi mesi della morte. E ad assurgere a metafora
di “restanza”, nella sua opera, è insomma la collina. Il voler «diventare
perenne come una collina» si traduce allora, nello scrittore, in
aspirazione a farsi memoria, a farsi ricordo, come testimonia la nota di
diario del 10 aprile 1949: «In fondo, tu scrivi per essere come morto,
per parlare da fuori del tempo, per farti a tutti ricordo».85 Una nota cui
si può accostare la lucida sentenza di Circe nel dialogo Le streghe:
«L’uomo mortale […] non ha che questo d’immortale. Il ricordo che
porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo».86 Con i suoi
attributi di perennità, durata e continuità, la collina diventa dunque
metafora anche della memoria e, di riflesso, della poesia che rende
eterno il ricordo, nel segno di una immortalità «concepita in termini
tutti terreni e immanenti»87; significativamente, in uno degli ultimi
Dialoghi con Leucò, intitolato Le Muse, il poeta Esiodo paragona a un
colle Mnemòsine, madre delle Muse e personificazione, appunto, della
memoria:
Hai la voce e lo sguardo immortali. Sei come un colle o un corso d’acqua,
cui non si chiede se son giovani o vecchi, perché per loro non c’è
il tempo. Esistono. Non si sa altro88.
Per farsi memoria, per diventare ricordo duraturo, è però necessario,
paradossalmente, morire. Se «gli uomini non hanno la fissità della
natura»89, solo la morte permette, agli occhi di Pavese, di raggiungere
tale fissità, solo la morte consente di entrare nella dimensione dell’immobilità
e della perennità, costituendo «l’unica possibilità di vivere il
mito, di riappropriarsene interamente»90, l’unico modo per rivivere
l’attimo aurorale e virginale della “prima volta”, l’unica via per ricongiungersi
in maniera definitiva con l’infanzia91, col silenzio delle origi-
84 C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 393.
85 Ivi, p. 367.
86 Id., Dialoghi con Leucò, cit., pp. 116-117.
87 E. Corsini, Orfeo senza Euridice: i «Dialoghi con Leucò» e il classicismo di Pavese,
«Sigma», nn. 3-4, dicembre 1964, p. 132.
88 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 164.
89 Id., Il mestiere di vivere, cit., p. 386.
90 G. Zaccaria, Tecnica narrativa e teoria del mito, in Id., Cesare Pavese, percorsi
della scrittura e del mito: con alcuni riscontri fenogliani, cit., p. 82.
91 Infanzia intesa nel senso etimologico del termine, come stagione che viene
prima della parola (dal latino infans, “che non parla, muto”).
[ 14 ]
190 FABIO PREVIGNANO
ni da cui sgorgano ogni parola e ogni cosa92. Vagheggiata da sempre
(«Aspiri all’immobilità naturale, al silenzio, alla morte»93, scrive ancora
all’inizio del fatidico anno 1950), la morte diventa scelta concreta
nel momento in cui appare anche unica risposta possibile alle delusioni
sentimentali («Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide
perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria,
inermità, nulla»94) e, più generalmente, come liberazione dai travagli
che il “mestiere di vivere” comporta («C’è una pace di là dalla
morte. Una sorte comune»95).
Ecco allora che, dopo essersi scontrato – come Leopardi prima di
lui – con l’immane difficoltà di dire l’indicibile, di esprimere poeticamente
l’infinito («di cercar la parola che lo traduca tutto quanto, fino
ai fili dell’erba, fino al sentore, fino al vuoto»96, come scrive in Mal di
mestiere), fieramente consapevole, tuttavia, di essere riuscito a donare
poesia agli uomini, Pavese si accinge a compiere l’ultimo viaggio. Nell’intraprenderlo,
egli si appella, ancora una volta, alle sue amate colline,
le Langhe, come testimonia la celebre e discussa (ma autentica,
seppur lievemente alterata) lettera a Davide Lajolo97:
Visto che dei miei amori si parla dalle Alpi a Capo Passero, ti dirò soltanto
che, come Cortez, mi sono bruciato dietro le navi. Non so se troverò
il tesoro di Montezuma, ma so che nell’altipiano, a Tenochtitlàn,
si fanno i sacrifici umani. Da anni, molti, non pensavo più a queste
cose: scrivevo. Ora, probabilmente, non scriverò più: con la stessa testardaggine,
con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio
nel regno dei morti.
Resta, al riguardo, un ultimo labile interrogativo, riassumibile nel-
92 Nel dialogo Le Muse Mnemòsine dice a Esiodo: «Ogni gesto che fate ripete
un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che
non sgorghi dal silenzio delle origini» (cfr. C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p.
166).
93 C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 386 (9 gennaio 1950).
94 Ivi, p. 394 (25 marzo 1950).
95 Id., Dialoghi con Leucò, cit., p. 85 (dialogo intitolato L’uomo-lupo).
96 Id., Feria d’agosto, cit., pp. 317-318.
97 La lettera non fu scritta, come aveva voluto far credere l’autore del Vizio assurdo,
il 25 agosto 1950, un giorno prima della morte di Pavese, ma costituisce la
seconda parte di una lettera del 15 maggio dello stesso anno. Al riguardo si veda,
per visualizzarne la copia fotostatica da cui è tratto il passo riportato, M. Pietralunga,
«An Absurd Vice»: la biografia di Pavese in inglese, in Cesare Pavese oggi, cit.,
pp. 238-239. E si veda anche A. Dughera, Gli inganni di «Ulisse», «Studi Piemontesi
», vol. XV, fasc. 2, novembre 1986, pp. 305-310.
[ 15 ]
CESARE PAVESE: LA COLLINA E L’INFINITO 191
le parole di Umberto Eco: «Pavese è morto d’estate. Ma era un’estate
in città. Chissà se Pavese avrebbe compiuto il suo gesto finale tra le
colline. Guardando queste colline, sappiamo solo che non l’ha
fatto»98.
Fabio Prevignano
(Università del Piemonte Orientale)
98 U. Eco, Colline, nebbia e città. L’ultima estate di Pavese, «La Repubblica», 29
agosto 2011.
[ 16 ]
FERNANDA PALMA
Leonardo futurista, tra De Robertis e Marinetti
The present work, starting with an article by Marinetti (published
in «La Gazzetta del popolo» on 25th January 1939), focuses on the
paradoxal fortune (and misfortune) of Leonardo da Vinci and his
works among the Futurists, in a perspective that has not yet been
taken into account by Leonardo’s scholars.
Nel febbraio del 1939 Giuseppe De Robertis esordiva nella critica
vinciana con un articolo comparso sulle pagine del «Corriere della Sera
» dal titolo La difficile arte di Leonardo.1 Più che una recensione della
celebre antologia di Leonardo “omo sanza lettere”2 di Giuseppina Fumagalli,
si trattava di ‘un’indicazione metodologica’ per un’analisi scientifica
e obiettiva della pagina leonardiana in toto conforme all’indole
del maestro. Il punto di partenza era stato la pubblicazione della Fumagalli,
alla quale De Robertis pur riconoscendo indiscussi meriti,
rimproverava «troppa industria» nell’imponente apparato esegetico,
«troppa sottigliezza» e «certe estetizzanti quisquilie» che avevano
“corrotto” la lettura della Fumagalli rendendola ‘troppo impressionistica’
e poco obiettiva.3 Per il critico l’accostamento della prosa vinciana
alla lirica leopardiana, scaturito da una lettura frammentaria del
corpus vinciano, era stato un po’ troppo audace e non rispecchiava
l’«inquietissima e demonica inventiva» propria della natura vinciana.
De Robertis sottolinea perciò la necessità di riscattare quegli scritti
‘dall’accusa di asistematicità’; infatti il loro carattere frammentario e
provvisorio oltre ad aver indotto la critica letteraria a sottovalutare ‘la
materia scrittoria vinciana’ perché considerata un ‘accumulo disorga-
1 G. De Robertis, La difficile arte di Leonardo, «Corriere della Sera» (Milano), 18
febbraio 1939, p. 3.
2 G. Fumagalli, Leonardo “omo sanza lettere”, Firenze, Sansoni, 1938.
3 Cfr. G. De Robertis, La difficile arte di Leonardo, cit., p. 3.
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 193
nico di appunti’, aveva nel tempo incentivato molteplici interpretazioni,
tra le più disparate. Ed è proprio a queste “fantasiose esegesi”, scaturite
da “impressioni” e non da analisi obiettive e attente della pagina
vinciana, che De Robertis contrappone il suo Leonardo, “un Leonardo”
da leggere tutto ‘d’un fiato’, per intero perché: «Se lo frammenti
troppo, lo frantumi, ciò che è vivo smuore, e non gli circola più l’aria
intorno».4
Tuttavia, nonostante l’ampia disamina dell’intero volume e in particolare
del vasto apparato esegetico, Giuseppina Fumagalli non è l’unico
bersaglio della lettura critica di De Robertis che, subito dopo aver
introdotto il Leonardo “omo sanza lettere”, prosegue in questo modo:
Ora Leonardo, con le sue illuminazioni, le sue folgorazioni, le sue visioni,
proporrebbe da una parte antiche prove della poesia ermetica,
dall’altra creerebbe, e l’ha dichiarato perentoriamente e con brusca
chiarezza Marinetti, l’antecedente primo e glorioso della poesia futurista.
Marinetti giorni sono proclamava: che Leonardo “è stato il grandissimo
futurista (senza chiusure stagne e con la massima elasticità
espansiva) del suo tempo ossessionato dal bisogno quotidiano d’inventare
profondità psicologiche di pitture macchine aeree fortezze canali
carri di assalto belletti per restaurare il viso delle donne ecc.”; che
Leonardo “predisse e invocò l’attuale nostra simultaneità parolibera”;
che Leonardo “è l’avo meraviglioso dei giovanissimi ventenni o venticinquenni
poeti futuristi Buccafusca Pattarozzi Pennone Veronesi Averini
Ganzaroli Forlin” ecc. ecc. ecc. Noi, dal canto nostro, che cosa
avremmo da opporre? Una cosa sola, un’osservazione quanto mai modesta.
Che, sì, Leonardo potrebbe per tanti aspetti e apparenze far pensare
ai futuristi. Solo che c’è in lui, oltre l’inquietissima e demonica
inventiva, una strapotenza d’ingegno e d’esperienza che proprio dà
valore a quelle sue invenzioni, e dà, direi, una qualità rapinosa. In Leonardo,
noi troviamo, sì, frantumi e scaglie; ma hanno una loro forza
drammatica, portano i segni d’una fatica. Nei futuristi non portano
nessun segno; sono frantumi e scaglie di nulla. E facciamo credito ai
venti e venticinque anni dei Buccafusca Pattarozzi Pennone Veronesi,
che sono sempre una bella età.5
Emerge in questo passo un aspetto dell’articolo di De Robertis
non ancora affrontato dalla critica vinciana: l’attacco a Filippo Tommaso
Marinetti e al ‘Leonardo futurista’, per mezzo di brevi ma significative
citazioni da un articolo da poco comparso su «La Gazzetta
4 Ibidem.
5 Ibidem.
[ 2 ]
194 FERNANDA PALMA
del Popolo».6 Sebbene l’intervento marinettiano possa sembrare del
tutto occasionale, in realtà rappresenta l’epilogo del contraddittorio
‘sodalizio’ del movimento futurista e in particolare di Marinetti con
Leonardo da Vinci e la sua opera, evidente in tutta la sua complessità
già nel testo del primo Manifesto del futurismo e nelle successive pubblicazioni.
Nell’articolo pubblicato su «La Gazzetta del Popolo» di Torino il 25
gennaio 1939, inserito nella sezione Invito alla biografia, Filippo Tommaso
Marinetti scriveva che semmai avesse dovuto redigere la biografia
di «un grande italiano del passato», avrebbe scelto di occuparsi di
Leonardo da Vinci, per le sue innumerevoli qualità futuriste.7
Leonardo «caratterizza e glorifica il genio inventivo della razza italiana
e la sua ostinata eroica volontà di futuro cioè di non mai udito
mai visto mai toccato con le mani». È «l’inventore dell’aviazione», ma
soprattutto è stato un «grandissimo futurista (senza chiusure stagne e
con la massima elasticità espansiva) del suo tempo ossessionato dal
bisogno quotidiano d’inventare profondità psicologiche di pitture
macchine aeree fortezze canali carri di assalto belletti per restaurare il
viso delle donne ecc.». Marinetti non si limita a definire Leonardo futurista,
ma proclama che l’uomo di Vinci può essere considerato persino
un precursore del movimento avanguardista in quanto
predisse e invocò l’attuale nostra simultaneità parolibera quando criticava
la poesia del suo tempo in questi termini “Nelle bellezze di qualunque
cosa finta dal poeta per essere le sue parti dette separatamente
in separati tempi la memoria non riceve alcuna armonia. O poeta, dammi
cosa che io la possa vedere e toccare e non che solamente la possa
udire. Non sai che la nostra anima è composta d’armonia e armonia
non s’ingenera se non in istanti nei quali la proporzionalità degli obbietti
si fan vedere o udire? Non vedi che nella tua scienza non è proporzionalità
creata in istante, anzi l’una parte nasce dall’altra successivamente,
e non nasce la succedente, se l’antecedente non muore?”8
Leonardo è considerato, a tutti gli effetti, un caposcuola della corrente
futurista o, meglio, il primo futurista italiano, ragion per cui,
6 Cfr. F. T. Marinetti, [Leonardo da Vinci], «Gazzetta del Popolo» (Torino), 25
gennaio 1939, p. 3, [risposta all’Invito alla biografia]; pubblicato in M. D’Ambrosio,
Le “Commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti, Napoli, Liguori Editore, 1999, pp.
17-8 e cit. in D. Cammarota, Filippo Tommaso Marinetti, Bibliografia, Milano, Skira,
2002, p. 129.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
[ 3 ]
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 195
dopo aver descritto ‘la sua indole futurista’, Marinetti sposta l’attenzione
sulla generazione contemporanea alla ricerca di peculiarità leonardesche:
i giovani poeti futuristi Buccafusca, Pattarozzi, Pennone,
Veronesi, Averini, Ganzaroli e Forlin «nella loro vita e nelle loro opere
sommano leonardescamente intrepidità squadrista e aviatoria con allenamento
sportivo arte chirurgica qualità plastiche e arte stilistica». Il
«grande poeta futurista» Paolo Buzzi si caratterizza per la sua «Leonardesca
elasticità».9 Egli «ha condotto per molti anni parallelamente
una perfetta vita d’amministratore della Provincia di Milano e una
temeraria vita creativa d’immaginifico».10 Leonardeschi sono «il poeta
futurista e chirurgo operatore sotto il fuoco delle mitragliatrici abissine
Pino Masnata» ed anche il volume «“Studenti fascisti cantano così”
del testé laureato in medicina e chirurgia poeta Emilio Buccafusca
pubblicato dall’editore Casella di Napoli» e conclude «Per queste ragioni
italianissime e d’alto gusto letterario inizierò la biografia di Leonardo
da Vinci».11
Paradossalmente Filippo Tommaso Marinetti, fervido assertore
dell’innovazione e del progresso, ostinato demolitore del passato, riconosce
in Leonardo da Vinci, definito per l’appunto “grande italiano
del passato”, un maestro e un illustre precedente a cui ricorrere per
nobilitare il proprio pensiero.
In effetti, i riferimenti all’opera e alla figura di Leonardo compaiono
sin dal primo Manifesto, pubblicato nel 1909 a Parigi. Marinetti,
dopo aver sintetizzato in nove laconici punti gli obiettivi del Futurismo,
sferra un duro attacco all’illustre passato letterario e artistico italiano,
“venerato” all’interno di biblioteche e musei. L’intellettuale italo-
francese si scaglia maggiormente contro i musei definiti, «cimiteri»,
«dormitori pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati
e ignoti», «assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi
ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese» ed è
a questo punto che compare la Gioconda, celebre opera vinciana:12
Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto
nel giorno dei morti…ve lo concedo. Che una volta all’anno
sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo…
Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Marinetti e i Futuristi, a cura di L. De Maria con la collaborazione di L. Dondi,
Milano, Garzanti, 1994, p. 7 (De Maria).
[ 4 ]
196 FERNANDA PALMA
musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa
inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire?
E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione
dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere
opposte al desiderio di esprimere il suo sogno?… Ammirare un quadro
antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria,
invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione.
13
Il passo desta non poche perplessità. Se da un lato il dipinto in
quanto oggetto di culto venerato nei musei e perciò simbolo per eccellenza
del “passatismo” è da schernire, dall’altro canto però Marinetti
potrebbe risparmiarlo proprio perché opera leonardiana. Di quest’ultimo
parere sono Marinella Cantelmo e Giusi Baldissone. Il celebre
dipinto leonardiano non è solo l’emblema “di quella profondità psicologica”
che Leonardo ha sempre perseguito nelle sue “invenzioni pittoriche
e scientifiche” e, che Marinetti loderà nell’articolo del ’39, ma è
anche espressione di «un’estetica della modernità dinamica e funzionale
fondata sul culto di una bellezza mai appagante né rasserenatrice,
bensì perturbante e rischiosa»: 14
Dante e La Gioconda di Leonardo rappresentano – per Giusi Baldissone
– le sole eccezioni della tradizione a cui Marinetti rende omaggio,
come dire, separato: da una parte, il riconoscimento della grandezza
intrinseca, dall’altra il disprezzo verso i glossatori e turisti di massa
che assumono il passato come il baluardo contro il futuro e annullano
l’“aura” dei grandi come dirà poi Walter Benjamin. Se pensiamo, del
resto, al carattere innovatore dei due Maestri “salvati” Dante e Leonardo,
possiamo ben comprendere come Marinetti potesse vederli in una
prospettiva quasi futurista15.
Non si possono però trascurare né i toni provocatori e irruenti che
caratterizzano le produzioni marinettiane della prima stagione, cosiddetta
«eroica», né i trascorsi simbolisti del poeta italo-francese ed in
particolare le snervanti e morbose interpretazioni a cui la Gioconda era
stata sottoposta dalla letteratura di fine Ottocento. Il futurismo sin dal
primo Manifesto si pone innanzitutto come «apologia della rottura e
13 Ibidem.
14 M. Cantelmo, Mitologia classica e mitopoiesi novecentesca nei manifesti di fondazione
del futurismo, «Rivista di letteratura italiana», XXIV (2006), n. 2, p. 176.
15 G. Baldissone, Beatrice e Marinetti, ne Il personaggio nelle arti della narrazione,
a cura di F. Marenco, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007, p. 131.
[ 5 ]
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 197
dell’inedito. […] Tutto quello che precede o che porta le tracce del
passato è da condannare: “Perché dovremmo guardarci alle spalle?”,
proclama Marinetti»16. Ma quale passato è da sradicare? Innanzitutto
i suoi trascorsi simbolisti e decadenti. Scrive in Noi rinneghiamo i nostri
maestri simbolisti ultimi amanti della luna del 1911:
Noi abbiamo sacrificato tutto al trionfo di questa concezione futurista
della vita. Tanto, che oggi odiamo dopo averli immensamente amati, i
nostri gloriosi padri intellettuali: i grandi geni simbolisti Edgar Poe,
Baudelaire, Mallermé e Verlaine17.
Ed a proposito di D’Annunzio, poeta decadente italiano, scrive:
Per troppo tempo l’Italia ha subito l’influenza estenuante di Gabriele
D’Annunzio, fratello minore dei grandi simbolisti francesi, nostalgico
come questi e come questi chino sul corpo ignudo della donna.
Bisogna ad ogni costo combattere Gabriele D’Annunzio perché egli ha
raffinato, con tutto il suo ingegno, i quattro veleni intellettuali che noi
vogliamo assolutamente abolire:
la poesia morbosa e nostalgica della distanza e del ricordo; 2. il sentimentalismo
romantico grondante di chiaro di luna che si eleva verso la
Donna-Bellezza ideale e fatale […].18
Proprio contro le letture decadenti e in particolare contro D’Annunzio
si scaglia Marinetti. La necessità di liberarsi dal suo passato
simbolista e decadente, “immensamente amato” durante i suoi anni
giovanili, e nel frattempo l’ambizione «di soppiantare D’Annunzio, il
maestro-rivale che domina il panorama letterario italiano»19 e porsi
come valida alternativa sia in Italia sia in Francia, induce Marinetti
alla pubblicazione nel 1908 a Parigi di Les Dieux s’en vont, D’Annunzio
reste20 e di La Ville Charnelle21, terza ed ultima parte di una «trilogia
prefuturista», aperta da La Conquête des étoiles nel 1902. La Ville Charnelle
è un chiaro capovolgimento della poesia decadente e dannunziana.
Se inizialmente Marinetti sembrerebbe condividere la medesima
16 T. Cescutti, La Ville Charnelle (1908) di F. T. Marinetti o le modalità di attraversamento
della poesia di D’Annunzio, «La Rassegna della letteratura italiana», CXIII
(2009), n. 2, p. 431.
17 De Maria, p. 220
18 Ivi, p. 222.
19 T. Cescutti, La Ville Charnelle (1908) di F. T. Marinetti o le modalità di attraversamento
della poesia di D’Annunzio, cit., p. 431.
20 F. T. Marinetti, Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste, Paris, E. Sansot, 1908.
21 Idem, La Ville Charnelle, Paris, E. Sansot, 1908.
[ 6 ]
198 FERNANDA PALMA
«tensione dannunziana verso l’artificiale», tensione per giunta di derivazione
decadente, rimprovera duramente «l’aspetto formalista o artigianale
» del lavoro poetico in favore
di una concezione protofuturista del poeta, il quale deve adoperarsi a
fare della propria opera un oggetto dinamico, animato da vitalismo
sensoriale, capace di liberarsi da ogni dogma estetico da ogni forma
circoscritta.22
I trascorsi decadenti e simbolisti e dannunziani lascerebbero supporre
anche una conoscenza del mito leonardesco. Non sarebbe perciò
azzardato ipotizzare che a essere attaccata non sia l’opera leonardiana,
prova tangibile dell’ingegno dell’artista, ma la Gioconda protagonista
delle molteplici letture decadenti. Del resto Monna Lisa comincia a
brillare di luce propria in seguito alle molteplici interpretazioni decadenti
e simboliste di fine Ottocento, divenendo un’attrattiva “charmante
et dangereuse”, “etre étrange”, “Sphynx de beauté” caratterizzata
da un fascino corrotto e malato, letture giunte in Italia proprio
attraverso le pagine dannunziane. Nel primo Novecento il dipinto
vinciano godeva già di un’indiscussa notorietà, che diviene “morbosa”
nel 1911. Il furto del dipinto avvenuto nell’agosto del 1911 ad opera
dell’imbianchino Vincenzo Peruggia suscitò un grande scalpore
nell’opinione pubblica francese: Apollinaire e Picasso erano stati arrestati
perché sospettati di essere i mandanti del furto, mentre D’Annunzio
aveva subito un interrogatorio. Ritrovata in Italia nel 1913, la
tela venne esibita in tutta Italia e non mancò la reazione di Marinetti,
non però contro il dipinto, ma contro la «folla imbecille [che] ha fatto
processione per vedere la ‘Gioconda’»23. Anche Ardengo Soffici qualche
anno più tardi non nasconderà la sua insofferenza verso l’eccessiva
ed estenuante popolarità della Gioconda, espressa nel suo «Giornale
di bordo»:
Vedo scritto su un muro a grandi lettere bianche su sfondo blu: Gioconda
Acqua purgativa italiana. E poi giù la faccia melensa di Monna
Lisa. Finalmente! Ecco che si comincia anche da noi a far della buona
critica artistica.24
22 T. Cescutti, La Ville Charnelle (1908) di F. T. Marinetti o le modalità di attraversamento
della poesia di D’Annunzio, cit., p. 437.
23 Marinetti e il futurismo a Milano, Roma, De Luca, 1995, p. 28.
24 A. Soffici, Giornale di bordo, Firenze, Vallecchi, 1915, pp. 147-8.
[ 7 ]
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 199
La Gioconda è senz’altro un riferimento non casuale. Paradossalmente
nella visione futurista o, meglio, marinettiana si riflette proprio
quell’ambiguità, quella tensione degli opposti che la letteratura decadente
riconosceva nell’immagine della Monna Lisa.
Sebbene nel testo Noi rinneghiamo i nostri maestri simbolisti ultimi
amanti della luna Marinetti proclami di aver seguito
l’opera illuminante dei quattro o cinque grandi precursori del Futurismo.
Alludo a Emilio Zola, a Walt Whitman, a Rosny aîné, autore del
Bilatéral e della Vague Rouge, a Paul Adam, autore del Trust, a Gustave
Kahn, creatore del verso libero, a Verhaeren, glorificatore delle macchine
e delle città tentacolari25,
ne Le Futurisme mondiale, conferenza tenuta alla Sorbonne nel 1924,
Marinetti annovera Leonardo, come «le plus grand futuriste»:
Le futurisme est une loi, un dogme, une militarisation du cerveau et
bien d’autres choses encore; le futurisme a existé chez tous les novateurs
du monde. Un grand, un énorme, un merveilleux Italien des temps
anciens a été le plus grand futuriste: Léonard de Vinci. Il suffit de
connaitre son oeuvre pour se persuader que chez lui le futurisme était
vital et profond. Je tiens à citer une de ses phrases qui me semble une
sorte de guide pour cette conférence. Il dit en termes plus précis que
tout artiste au monde ne doit pas être la prolungation de la main de
l’homme mais de la main de Dieu. Il ajoute que la monstruosité, le
monstre, la chose épouvantable et inconcevable est le faux, toujours et
le plagiat et que dans la copie et dans le plagiat n’existe pas que la mort
de tout.26
Leonardo è “l’homme représentatif et accompli futuriste”, in grado
di esplicare con la sua opera e la sua vita l’impeto del pensiero futurista.
È da un lato “l’artista-demiurgo” coraggioso e audace che rivolge
il suo sguardo verso l’ignoto futuro, che permette all’umanità “di entrare
nei domini sconfinati della libera intuizione” e dall’altro “l’uomo-
demone” che vince la natura attraverso la tecnica e l’inventio. Leonardo
non immagina, ma realizza non contempla la sua natura umana,
ma s’ingegna per oltrepassarla: se in pittura oltrepassa il limite
della “superficie piana” attraverso “l’artificio” dell’ombra e della pro-
25 De Maria, pp. 222-3.
26 Futurisme: manifestes, documents, proclamations, a cura di G. Lista, Lausanne,
L’âge d’homme, 1973, p. 97.
[ 8 ]
200 FERNANDA PALMA
spettiva, nei suoi studi scientifici progetta, disegna e probabilmente
sperimenta quindi costruisce. È dunque
l’Uomo moltiplicato per opera propria, nemico del libro, amico
dell’esperienza personale, allievo – e signore – della Macchina, coltivatore
accanito della propria volontà, lucido nel lampo della sua ispirazione,
munito di fiuto felino di fulminei calcoli, d’istinto selvaggio,
d’intuizione, di astuzia e di temerarietà.27
Sono soprattutto i disegni di «macchine aeree» ad entusiasmare
Marinetti, del resto Mafarka, re della città di Tell-el-kabir, abdica per
diventare costruttore di uccelli meccanici. Basti pensare al paragone
tra un’automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia e la Vittoria
di Samotracia, ritenuto da Maurizio Calvesi un parallelo non casuale28.
In effetti, la Nike, che nell’immaginario collettivo «colle sue
ampie vesti gonfie di vento e le ali spiegate, sembra – proprio – essere
l’espressione del movimento stesso, del mitico protendersi nel vuoto
superando tutti gli ostacoli del volo»29 è rimpiazzata brutalmente da
un’automobile ruggente:
L’immaginazione non ha più bisogno né di ali e né di un ipotetico vento
per potersi realizzare, giacché sono le forze stesse dell’uomo, la sua
volontà e il potere di manipolazione, che creano il sogno della suprema
trasvalutazione del desiderio nell’assoluta certezza della macchina.
30
Leonardo è insomma alla maniera di Péladan «le maitre de demain,
s’il y a place pour un maitre chez les hypertrophiés de
l’individualisme».31
Gli anni ’23 e ’24 sono anni cruciali per il futurismo: Marinetti dopo
aver preso le distanze dal partito fascista nel 1920, nel 1924 in occasione
del Congresso futurista di Milano, si riavvicina a Benito Mussolini
per poi non allontanarsene più, pur cercando di conservare una sua
autonomia.
27 De Maria, p. 39.
28 M. Calvesi, Il futurismo, Milano, Fabbri, 1970, p. 9.
29 G. B. Nazzaro, Introduzione al futurismo, Napoli, Guida Editore, 1984, pp.
157-8.
30 Ivi, p. 158.
31 J. PÉladan, La dernière leçon de Leonard de Vinci à son Académie de Milan, 1499,
précédée d’une étude sur le maître, Paris, E. Sansot, 1904, p. 7.
[ 9 ]
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 201
Il fascismo assorbirà di fatto il futurismo neutralizzandone ogni elemento
anarchico ed eversivo: venuto meno l’impulso totalitario, la
possibilità effettiva di mantenere vitale nella teoria e nella prassi del
movimento quell’ideologia globale, e quindi anche politica, che ha caratterizzato
sin dall’inizio e così fortemente il movimento, il futurismo
riprende il rango di scuola letteraria e diviene palestra per le esercitazioni
parolibere di una folta schiera di epigoni.32
Ha inizio così un’estesa elaborazione dei canoni della poesia futurista
in cui Leonardo non è solo l’illustre italiano a cui ricorrere per
nobilitare il proprio pensiero, il “costruttore di macchine aeree” in
grado di poter esaltare il “genio italico”, ma diviene un autore chiave
o, meglio, un alter ego con cui dialogare, misurarsi e confrontarsi. Al di
là delle ‘inclinazioni alla tecnica e alla scienza’ che rendono Leonardo
un ‘avanguardista’, l’autore del Trattato della pittura diviene persino il
primo teorico della poesia futurista. Punto di partenza sono le citazioni,
estrapolate proprio dal Trattato, e poste come epigrafi al volume
Tavole Parolibere33 di Pino Masnata, edito nel 1932. I laconici passi leonardiani
riproposti appartengono ad un contesto ben più complesso:
“l’allegra disputa” tra poesia e pittura, che si conclude con ‘la vittoria’
del pittore. Tutta la trattazione vinciana infatti è strutturata su questo
continuo raffronto attraverso il quale Leonardo mira ad evidenziare le
molteplici qualità dell’immagine. Masnata capovolge la prospettiva
vinciana, focalizzando la sua attenzione sui limiti della parola rispetto
all’immagine. Rileggendo le citazioni così come appaiono e calandole
in un’ottica futurista è possibile ripercorrere gli aspetti fondamentali
del movimento: “le parole in libertà” e “la simultaneità parolibera”:
Qual poeta con parole ti metterà innanzi la vera effige della tua idea
con tanta verità qual farà il pittore?
La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca.
Nelle bellezze di qualunque cosa finta dal poeta, per essere le sue parti
dette separatamente in separati tempi, la memoria non riceve alcuna
armonia.
O tu, poeta, perché non rappresenti con le tue parole cose, che le lettere
tue, contenitrici d’esse parole, ancora non siano adorate?
O poeta dammi cosa che io la possa vedere e toccare e non che solamente
la possa udire. Non sai che la nostra anima è composta d’armonia,
e armonia non s’ingenera se non in istanti, nei quali la proporzionalità
delli obbietti si fan vedere o udire? Non vedi, che nella tua scien-
32 De Maria, p. XIV.
33 P. Masnata, Tavole parolibere, Roma, Edizioni futuriste di poesia, 1932.
[ 10 ]
202 FERNANDA PALMA
za non è proporzionalità creata in istante, anzi l’una parte nasce dall’altra
successivamente, e non nasce la succedente, se l’antecedente non
muore? 34
Il poeta contemporaneo non è in grado di fornire la “vera effige
della sua idea” in quanto il flusso lirico è sottoposto a restrizioni sintattiche
e prosodiche, «strangolatori dell’ispirazione».35 Ecco perché la
necessità in un primo momento del “verso libero” e successivamente
la teorizzazione delle “parole in libertà” che si «trasformano naturalmente
in auto-illustrazione, mediante l’ortografia e tipografia libere
espressive»36. Marinetti propone perciò un’espressione poetica capace
di liberarsi da ogni dogma estetico e da ogni forma circoscritta, ripulita
dal “prisma del sentimento” o da norme stabili, ma anche visiva,
attraverso «l’uso di tre quattro colori diversi d’inchiostro ed anche 20 caratteri
tipografici se occorra. Per esempio corsivo: per una serie di sensazioni
simili e veloci grassetto tondo per le onomatopee violente, ecc.»37
In effetti,
Le parole in libertà iniziate da Marinetti sono la logica parallela delle
ricerche pittoriche. Il loro carattere principale non consiste perciò tanto
nel riportare il lirismo alla sua purezza esclamativa o primitiva (se
vuoi onomatopea) quanto nel trasmettere in un influsso d’immagini
poetiche le complesse impressioni che noi riceviamo simultaneamente
e che le vecchie forme letterarie non potevano dare che come successione
nel tempo.38
Le parole in libertà «orchestrano i colori, i rumori e i suoni, combinano
i materiali della lingua e dei dialetti, le formole aritmetiche e
geometriche, i segni musicali, le parole vecchie, deformate o nuove, i
gridi degli animali, delle belve e dei motori», mentre la simultaneità,
logica conseguenza della modernità e della macchina, consente
all’espressione lirica di conservare la sua immediatezza e spontaneità.
39
«La lirica parolibera» di Masnata, però, come nota anche Marinetti,
«è spiritualmente affine alla plastica del Boccioni», e non ha alcun
34 Ivi, p. 17.
35 P. Masnata, Tavole parolibere, cit., p. 5.
36 De Maria, p. XV.
37 P. Masnata, Tavole parolibere, cit., p. 9.
38 De Maria, p. 284.
39 Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori,
1973, p. 253.
[ 11 ]
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 203
punto di contatto con «le tavole parolibere del mio “Zuang-tumbtumb”
e del mio “Mots en liberté futuristes”» poiché l’autore accentua
la peculiarità visiva.40 Le sue tavole sinottiche sono «paesaggi disegnati
o costruiti tipograficamente, ogni parola suggerisce mediante la
sua tipica architettura plastica pensieri, sentimenti e sensazioni che si
innalzano, si snodano con un vigore lirico originalissimo sonoro
plastico».41 «Le tavole sinottiche» di Masnata «sono di colpo individuate
dal lettore, percepite nel loro valore di assieme» proprio attraverso
«un solo sguardo sintetico».42 Si tratta dunque di «poesia prevalentemente
plastica» e simultanea.43
Più fedele al pensiero leonardiano e meno aderente alla teoria futurista
è perciò Pino Masnata. Laureatosi in Medicina a Pavia, probabilmente
ha conosciuto Leonardo durante gli anni universitari e forse
proprio attraverso i suoi disegni anatomici in cui parola e immagine si
fondono a tal punto da creare dei veri e propri anagrammi.44 Fondamentale
a tal proposito è Poesia visiva45, opera inedita dell’autore e
pubblicata da Mario Verdone, in cui Masnata si pone come obiettivo
di ricerca proprio lo studio di «ogni componimento la cui scrittura
(vecchia nuova o personale grafia) contenga valori di poesia apprezzabili
solo attraverso la vista e che perciò non possono essere trasmessi
con la voce»46. Leonardo non è per Masnata solo “colui che ricercò
un linguaggio pittografico”, ma anche un interlocutore con cui confrontarsi
e “anticipatore dell’audiovisualismo”. Scrive:
Nel mio volume io cito Leonardo da Vinci: “Nelle bellezze di qualunque
cosa finta dal poeta per essere le sue parti dette separatamente in
separati tempi la memoria non riceve alcuna armonia. O poeta dammi
cosa io possa vedere o toccare e non che solamente la possa udire”.
Le mie tavole parolibere rispondono a Leonardo e forse ancor di più le
mie ultime esperienze […]47.
40 P. Masnata, Tavole parolibere, cit., p. 13
41 Ibidem.
42 Ibidem.
43 Ibidem.
44 Cfr. Il tempio dell’anima: l’anatomia di Leonardo da Vinci fra Mondino e Berengario,
ventidue fogli di manoscritti e disegni nella Biblioteca Reale di Windsor e in
altre raccolte nell’ordinamento cronologico, a cura di C. Pedretti, con un saggio
introduttivo di P. Salvi, Foligno, Carte & Bianchi, 20072.
45 P. Masnata, Poesia visiva. Storia e teoria con un percorso iconografico, presentazione
di M. Verdone, Roma, Bulzoni, 1984.
46 Ivi, p. 7.
47 Ivi, p. 183.
[ 12 ]
204 FERNANDA PALMA
Ed è proprio questa citazione vinciana ad essere riproposta, sebbene
ampliata, da Marinetti ne Il poema africano della divisione “28
ottobre”48, che «nelle intenzioni confesse dell’Autore – avrebbe dovuto
– segnare la vittoria definitiva delle parole in libertà sul verso tradizionale
non solo, ma anche sul verso libero»49:
Leonardo da Vinci servendosi della parola armonia invece della parola
simultaneità scrisse: «Nelle bellezze di qualunque cosa finta dal poeta,
per essere le sue parti dette separatamente in separati tempi, la memoria
non riceve alcuna armonia.
O poeta dammi cosa che io la possa vedere e toccare e non che solamente
la possa udire. Non sai che la nostra anima è composta d’armonia
e armonia non s’ingenera se non in istanti, nei quali la proporzionalità
delli obbietti si fan vedere o udire? Non vedi, che nella tua scienza
non è proporzionalità creata in istante, anzi l’una parte nasce dall’altra
successivamente, e non nasce la succedente, se l’antecedente non
muore?».50
In effetti nei suoi ultimi studi Marinetti concede molta attenzione
al ‘Leonardo precursore della simultaneità parolibera’, argomento che
ritorna anche nell’articolo Simultaneità parolibera nella Divina Commedia:
15 aprile data di nascita del primo pensatore pittore ideatore di macchine
aeree Leonardo da Vinci il quale ossessionato di sorprendente
novità e di originalità spirituale e fisica come noi futuristi preferiva la
pittura alla poesia poiché questa era secondo lui priva di quella sognata
armonia di tempo-spazio chiamata da noi simultaneità. 51
Il flusso poetico deve essere espressione del divenire incessante
della realtà contemporanea, diviene necessario per l’artista e il poeta
futurista
[…] elaborare un complesso di norme operative che corrisponde a ciò
che può esser definita una percezione veloce e simultanea degli oggetti,
sia come movimento interno alle cose, come forza cioè che s’irradia
48 F. T. Marinetti, Il poema africano della divisione “28 ottobre”, Milano, Mondadori,
1937.
49 P. Buzzi, Futurismo Scritti Carteggi Testimonianze, a cura di M. Morini e G.
Pignatari, II t., Milano, Biblioteca comunale, p. 162.
50 F. T. Marinetti, Il poema africano della divisione “28 ottobre”, cit., p. 16.
51 Idem, Simultaneità parolibera nella Divina Commedia, in F. T. Marinetti futurista.
Inediti, pagine disperse, documenti e antologia critica, a cura di ES, Napoli, Guida,
1977, p. 64-5.
[ 13 ]
LEONARDO FUTURISTA, TRA DE ROBERTIS E MARINETTI 205
dal nucleo degli oggetti nello spazio che occupano, e sia come punto di
vista dello spettatore che guarda le cose non da fermo ma per così dire
a bordo di un’automobile.52
Se Leonardo è
un antenato che Marinetti riconosce volentieri in quanto ha emesso un
oracolo fra eloquente e misterioso: “Dammi, o Poeta, cosa ch’io la possa
vedere o toccare e non che solamente la possa udire”53,
per Pino Masnata il rapporto con l’artista di Vinci è sicuramente più
complesso. Il medico-poeta “risponde a Leonardo con la sua opera”,
non teorizza, ma crea vere e proprie ‘effigi poetiche’ con le sue tavole
parolibere, anticipando il dibattito novecentesco incentrato sul rapporto
di parola e immagine in Leonardo.
Fernanda Palma
Appendice
F. T. Marinetti, [Leonardo da Vinci], «Gazzetta del Popolo» (Torino), 25
gennaio 1939, p. 3 [risposta all’Invito alla biografia; pubblicato in M. D’Ambrosio,
Le “Commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti, Napoli, Liguori Editore,
1999, pp. 17-8 e cit. in D. Cammarota, Filippo Tommaso Marinetti, Bibliografia,
Milano, Skira, 2002, p. 129].
Le inchieste del «Diorama»
Invito alla biografia
Abbiamo rivolto agli scrittori italiani questa domanda:
«Se vi incaricassero di scrivere la biografia di un grande italiano del passato,
quale personaggio scegliereste? Perché?».
Ecco la risposta di S. E. Marinetti:
Se mi pregassero di scrivere la biografia di un grande italiano del passato
sceglierei Leonardo da Vinci
Perché caratterizza e glorifica il genio inventivo della razza italiana e la
sua ostinata eroica volontà di futuro cioè di non mai udito mai visto mai toccato
con le mani
Perché è l’inventore dell’aviazione
Perché è stato il grandissimo futurista (senza chiusure stagne e con la massima
elasticità espansiva) del suo tempo ossessionato dal bisogno quotidiano
52 G. B. Nazzaro, Introduzione al futurismo, cit., p. 201.
53 P. Buzzi, Futurismo Scritti Carteggi Testimonianze, cit., p. 162.
[ 14 ]
206 FERNANDA PALMA
d’inventare profondità psicologiche di pitture macchine aeree fortezze canali
carri di assalto belletti per restaurare il viso delle donne ecc.
Perché predisse e invocò l’attuale nostra simultaneità parolibera quando
criticava la poesia del suo tempo in questi termini
«Nelle bellezze di qualunque cosa finta dal poeta per essere le sue parti
dette separatamente in separati tempi la memoria non riceve alcuna armonia.
O poeta, dammi cosa che io la possa vedere e toccare e non che solamente la
possa udire. Non sai che la nostra anima è composta d’armonia e armonia non
s’ingenera se non in istanti nei quali la proporzionalità degli obbietti si fan
vedere o udire? Non vedi che nella tua scienza non è proporzionalità creata in
istante, anzi l’una parte nasce dall’altra successivamente, e non nasce la succedente,
se l’antecedente non muore?»
Perché egli è l’avo meraviglioso dei giovanissimi ventenni o venticinquenni
poeti futuristi Buccafusca Pattarozzi Pennone Veronesi Averini Ganzaroli
Forlin che nella loro vita e nelle loro opere sommano leonardescamente intrepidità
squadrista e aviatoria con allenamento sportivo arte chirurgica qualità
plastiche e arte stilistica.
Leonardesca elasticità quella del grande poeta futurista Paolo Buzzi che
ha condotto per molti anni parallelemente una perfetta vita d’amministratore
della Provincia di Milano e una temeraria vita creativa d’immaginifico
Leonardesco il poeta futurista e chirurgo operatore sotto il fuoco delle mitragliatrici
abissine Pino Masnata
Leonardesco e futurista è il volume «Studenti fascisti cantano così» del
testé laureato in medicina e chirurgia poeta Emilio Buccafusca pubblicato
dall’editore Casella di Napoli
Per queste ragioni italianissime e d’alto gusto letterario inizierò la biografia
di Leonardo da Vinci
F. T. Marinetti
[ 15 ]
Poeti del Dolce stil novo, a cura di Donato
Pirovano, Roma, Salerno,
2012, pp. 798.
Il volumetto, in preziosa confezione,
si presenta subito come estremamente
utile per studiosi e colti lettori:
basti dire che l’unica edizione ancora
consultabile del corpus degli “stilnovisti”
era quella storica di Mario
Marti, oltre a quella parziale di Contini
e collaboratori per i Poeti del Duecento.
Quindi anche solo l’aggiornamento
bibliografico e problematico,
puntualissimo ad opera di Pirovano,
fa di questo libro un libro “aureo”,
come si dice.
Dal punto di vista testuale non ci
sono apporti innovativi (se non anche
qui l’aggiornamento agli allestimenti
più attendibili, come illustrato
nella Nota ai testi), ma ciò non è richiesto
dalla collana e dal target
dell’opera, che si presenta come un
commento completo, ricco di dati interpretativi
ed esegetici, di tutte le
poesie degli autori in questione, accreditandosi
così come lo strumento
ora di riferimento per chi voglia avere
un quadro ammodernato del problema
“Dolce stil novo”.
Pirovano, in sede introduttiva, non
sfugge a questo problema, anzi lo affronta
di petto e ne analizza gli aspetti
con sicurezza e dominio. La partenza
è dalla dicotomia di chi leggeva
lo stilnovo come una scuola e di
chi ne negava l’esistenza (il Favati,
ad es.). Dopo una disamina fitta delle
vicende e dei testi più esemplari, la
conclusione è che alla domanda «si
può ancora parlare di “Dolce stil novo”?
» è dato rispondere: «direi che si
possa ancora parlare di Dolce stil novo,
tanto più che la tradizione manoscritta
conferma la novità di questa
poesia […]. Esclusa l’idea di una
“scuola” – essa sì veramente inventata
dai posteri –, non c’è motivo nemmeno
di modificare la tradizione editoriale
» (pp. XXXIII-XXXIV).
La posizione di Pirovano è equilibrata,
e forse è la più giusta, anche se
qualcuno di noi avrebbe insistito
maggiormente sull’arbitrio autoreferenziale
di Dante che inventando la
storia della poesia italiana antica inventa
in realtà la propria storia, o
meglio espone il proprio individuale
manifesto di poesia. E che questa poesia
sia grandissima lo dimostra il
fatto che il suo paradigma idiosincratico
è diventato paradigma storiografico.
Ma Pirovano non dimentica
di rammentarci che se «dolce stil novo
» è una coniazione purgatoriale
dantesca in bocca a Bonagiunta, la
dittologia «dolce e novo» è anche ciniana
(p. XXVI) ecc. Insomma una
nuova poesia tra fine due e primo
Trecento esiste, ed è una poesia sottile
ma anche piana (dittologia questa
cavalcantiana), cioè densa di implicazioni
di pensiero ma anche chiara,
luminosa (pp. XXII-XXIII). Con tutte
le varianti individuali del caso: per
ogni rappresentante del “gruppo”
Pirovano offre un cappello introduttivo
ricco, e per ogni componimento
un commento davvero ampio e in
dialogo con la più recente letteratura
critica.
Naturalmente il nodo centrale resta
soprattutto lo scambio di sonetti
fra Bonagiunta (Voi ch’avete mutata la
mainera) e Guinizzelli (Omo ch’è sag-
Recensioni
208 RECENSIONI
gio). Qui Pirovano tiene conto ovviamente
delle più recenti acquisizioni
critiche, innovative e talora pure coraggiose,
da Giunta a Rea, per fare
due nomi soltanto. Il problema dell’
«alta spera»: Pirovano glossa «l’alto
sole dell’autentica dottrina amorosa»
(p. 55), non distanziandosi troppo da
Claudio Giunta che chiosava «l’amore
cantato da Bonagiunta» ovvero «la
poesia stessa di Bonagiunta» (La poesia
italiana nell’età di Dante, Bologna,
il Mulino, 1998, p. 113), ma rammenta
anche l’esegesi che vi vede la lucentezza
superiore della donna amata.
Insomma, in linea con l’ermeneutica
più recente, che rifiuta l’identificazione
della «spera» con un qualche
poeta-maestro che non sia al limite
Bonagiunta medesimo. Altra crux: la
«forsa di scrittura» conclusiva. Pirovano
rimanda a Gorni, e alla lettura
scritturale in senso biblico del sintagma,
e non può fare altrimenti. Certo
il dubbio che forsa possa significare
semplicemente ‘asperità, durezza’
quindi ancora ‘difficoltà’ rimane
nell’aria, a nostra opinione (Giunta
invece rimandava a un’espressione
identica di Sordello, op. cit. p. 95).
Quasi certo resta poi il fatto che il sonetto
di Bonagiunta alluda alla canzone
Al cor gentil, la cui novità d’altra
parte non era tanto nella subtilitas eccessiva,
già praticata anche da poeti
siciliani. Tuttavia di novità si trattava,
evidentemente, e comunque un
poeta della dulcedo come il lucchese
aveva tutti i motivi per opporvisi.
E la replica di Guinizzelli sarà veramente
il sonetto responsivo? Una
risposta non per le rime, ma eccezionalmente
questo poteva darsi. L’incipit
sembra proprio una parodia di
Bonagiunta (di cui cfr. Omo, ch’è sagio
ne lo cominciare, ma anche Dev’omo a
la fortuna con coragio, Qual omo è su la
rota per ventura). Ma il resto è davvero
in qualche modo contro-argomentativo?
Pirovano risponde in modo
esauriente, per quanto possa in un
cappello al componimento (p. 56). E
probabilmente il primo Guido replicava
deridendo il sonettismo morale
del lucchese, o poco più. Ma qualche
dubbio resta.
Roberto Gigliucci
Il poeta e il suo pubblico. Lettura e commento
dei testi lirici nel Cinquecento.
Convegno internazionale di studi (Ginevra,
15-17 maggio 2008), a cura di
Massimo Danzi e Roberto Leporatti,
Genève, Droz, 2012 («Travaux
d’Humanisme et Renaissance n°
CDLXXXII», «Textes et Travaux de la
Fondation Barbier-Mueller pour
l’Etude de la poésie italienne de la
Renaissance N° 2»), pp. 560.
Il Cinquecento è stato, tra le altre
cose, anche The Age of Criticism, come
recita il titolo di un fortunato libro
del critico statunitense Baxter Hathaway
del lontano 1962, che con A History
of Literary Criticism in the Italian
Renaissance di Bernard Weinberg, del
1961, ha dato il via a questo importante
filone di studi. Forse perché
considerato un prodotto minore, occasionale
e asistematico rispetto a
questo più nobile indirizzo, il commento
non ha goduto nel XVI secolo
di altrettanta considerazione e neppure
ha attirato la curiosità che ci si
sarebbe potuto attendere dalla critica,
se si considera la pletora di letture
ed esegesi di opere contemporanee
che il Cinquecento ha prodotto. Sicché
i due modi in cui si espresse la
RECENSIONI 209
riflessione sul letterario in quel secolo
si presentano come due sfere non
comunicanti e raramente si dà che la
lettura di un’opera poetica si coniughi
con un livello speculativo più generale.
Conseguenza di ciò è che, rispetto
all’esprit de système imperante nel criticismo
letterario, il commento presenta
grande duttilità e libertà metodologica,
da cui discende una rappresentazione
concreta dei fenomeni,
delle tensioni che si agitano dentro e
attorno al testo, di come esso parlava
alla sensibilità dei contemporanei.
Non è casuale che il rigoglio del commento
interessi nel Cinquecento soprattutto
il genere lirico, quello considerato
“minore” dalla teoresi (rispetto
ai generi canonizzati ab antiquo
come il poema epico, la tragedia, la
commedia e le loro derivazioni) e invece
ad elevato indice di consumo da
parte di un pubblico non per forza
avvezzo a disquisizioni teoriche. Con
queste premesse Il poeta e il suo pubblico
si propone come qualcosa di più
di una panoramica di letture di testi
lirici del XVI secolo e va letto, oltre il
perimetro dell’esegesi dei singoli testi
poetici, come una indagine in più
direzioni sugli indirizzi letterari che
hanno caratterizzato il secolo.
Nel saggio con cui si apre il volume,
Il commento attraverso le immagini:
poesie e ritratti, Lina Bolzoni si sofferma
su alcuni modi in cui si manifesta
il rapporto tra testo scritto e testo figurato:
raffigurazione di versi in un
quadro, citazione di un frammento
lirico in rapporto a un’immagine con
il fine di qualificare quest’ultima, poesie
sul ritratto dell’amata, trasferimento
su un oggetto esterno del valore
simbolico espresso nella metafora
poetica (il caso dei celebri “sonetti
dello specchio” di Baldassarre Castiglione).
Il dialogo instaurato tra immagine
e testo lirico suggerisce modi
di guardare e usare quest’ultimo che
rientrano a tutti gli effetti nel dominio
del commento e ne costituiscono
una componente dalla quale non si
può prescindere per una esatta comprensione
storica dei testi.
All’utilizzo di spazi atipici offerti
dalla forma tipografica del libro di
rime si rivolgono tre interventi. Maria
Antonietta Terzoli (Le dediche nei
libri di poesia del Cinquecento in Italia)
illustra le diverse funzioni svolte dai
testi liminari, in prosa o in versi, e
mostra come il cosiddetto paratesto
si elevi da una funzione di mero contorno
per interagire con i testi che
introduce, proponendo un modello
di fruizione del quale si deve tenere
conto per la storia della ricezione dei
testi e per una esatta definizione delle
poetiche che li accompagnano.
Mikaël Romanato (Indicatori di lettura
a stampa nelle edizioni di poesia dei
secoli XV e XVI) e Antonio Rossi (Indicatori
di lettura nelle opere di Olimpo
di Sassoferrato) spostano l’attenzione
su un campo finora poco esplorato
per i libri di poesia, quello delle postille
marginali a stampa, essendo
andata tradizionalmente l’attenzione
dei critici e degli editori alle postille
autografe. La divisione sobria proposta
da Romanato tra indicatori “di
struttura” e “di commento” non rende
giustizia alle sfumature che il saggio
mette in luce negli esempi presi
in esame; al di là di ciò, conta l’osservazione
metodologica, secondo la
quale uno studio delle postille tipografiche
in edizioni di libri di poesie
è legato a una discussione sui genere
poetici.
L’analisi di Rossi non si limita ai
210 RECENSIONI
marginalia, ma si estende ad altre forme
paratestuali che corredano le
stampe delle opere di Olimpo da
Sassoferrato e di cui si deve ritenere
responsabile in prima istanza l’autore
(dediche, marginalia, versi proemiali,
excusationes, note editoriali,
autopromozioni pubblicitarie). Ne
risulta un poeta coinvolto direttamente
nella stampa e interessato ad
attivare un dialogo con il lettore attraverso
una serie di indicatori a latere
del testo, attraverso i quali orientare
la lettura. Ciò rivela una sensibilità
scaltrita verso il mezzo tipografico
da parte di Olimpo, che, è bene rammentare,
poeta profano e talora lascivo
morto nel 1523, fu frate domenicano.
Con Massimo Danzi (Dante a Ferrara.
Le glosse di Celio Calcagnini alla
Commedia aldina del 1502), si ritorna
sul terreno della postilla manoscritta.
Danzi pubblica parzialmente le postille
dell’esemplare della Commedia
aldina del 1502 conservato nella Biblioteca
della Fondazione Barbier
Mueller dell’Université de Genève.
A confronto con la diffusione di
esemplari annotati della Commedia,
che ebbe il suo centro di incubazione
specialmente in Toscana, le postille
in oggetto rappresentano un prodotto
modesto. Tuttavia, le chiose calcagniniane
si dimostrano al centro di
un movimento culturale che vede a
Ferrara e in altri centri settentrionali
letterati di formazione umanistica rivolgersi
al volgare con una notevole
apertura. Divise tra “interventi testuali”
e “glosse dichiarative” le chiose
studiate da Danzi rivelano un Calcagnini
indifferente a quanto sta al
centro del più fortunato tra i commenti
danteschi dell’epoca, quello di
Cristoforo Landino (interpretazione
allegoria, disquisizioni filosofiche,
excursus di ogni tipo), e attento interprete
del dettato, dove un vocabolo o
una locuzione richieda una glossa
per dipanarne il senso, ovvero dove
si tratti di restituire una lezione non
convincente nel testo Landino (prezioso
il riscontro eseguito da Danzi
sugli altri principali commenti per
misurare il quoziente di originalità
delle restituzioni calcagniniane).
Virginia Cox (Un microgenere senese:
il commento paradossale) si concentra
sulla tipologia di commento che
si esercita su un testo espressamente
mediocre e privo di spessore letterario,
al quale il commentatore si applica
con l’intento di costruirvi sopra
significati più elevati, in una sorta di
virtuosismo creativo per cui il commento
perde la sua funzione ancillare
e prende il sopravvento sul suo
oggetto (si tratta nei due casi esaminati
di una canzone popolare). Dunque
un esercizio intellettuale raffinato,
implicitamente portatore di ironia,
che non a caso in uno dei due
testi poco noti su cui Cox si sofferma
si attua nella cornice ludica di una
veglia giocosa: il commento di Marcello
Landucci si svolge in forma di
dialogo, per giunta guidato da una
donna. L’altro, a firma di Bartolomeo
Carli Piccolomini, ha la forma più
tradizionale di una lezione accademica,
ma si presenta comunque come
riproposta di una precedente discussione
fatta per gioco.
Converge con il saggio di Cox l’altro
intervento mirato sulla realtà senese,
quello di Matteo Residori. Il
sonetto tassiano oggetto della lezione
tenuta nel 1582 nella senese Accademia
dei Filomati da Iacopo Guidini
è Chi chiuder brama a’ pensier vili il
core, edito nelle Rime degli Accademici
RECENSIONI 211
Eterei (1567) e perciò allora piuttosto
datato. La lezione di Guidini non si
limita all’esegesi del testo, ma piuttosto
si propone come occasione di una
raffinata e colta socialità letteraria,
che aggrega intorno all’interpretazione
della poesia una collettività (quello
degli accademici, ma prima la comitiva
di donne e uomini che, di
nuovo, si era applicata a discutere
del sonetto durante una veglia e dei
cui ragionamenti la lezione si presenta
in larga parte come il resoconto),
di modo che l’esercizio del commento
si traduce in qualcosa che va oltre
il testo, come spunto per ulteriori
prove creative (l’invenzione di imprese)
o per fissare codici di comportamento.
È quanto emerge, mutato quel ch’è
da mutare, anche dal saggio di Monica
Bianco (Il canzoniere postumo come
vita filosofica. Modelli pitagorici nella
Venezia del Cinquecento), dedicato a
una particolare stagione del petrarchismo
cinquecentesco che si può far
coincidere con il cenacolo chi si riunì
a Venezia intorno a Domenico Venier
negli anni Sessanta. Cifra dell’esperienza
accademica di “Ca’ Venier” fu
il carattere che legava i suoi adepti in
un circuito esclusivo, nel quale i primi
destinatari delle rime erano gli
stessi accademici, lettori e interlocutori
della ricerca lirica avviata in comune.
In questa cornice il commento
«non è concepito come appendice
statica al testo, ma come ‘macchina’
capace di produrre nuovo testo, nuove
costellazioni di senso» (p. 212). Le
Rime di Giacomo Zane (Venezia, D. e
G.B. Guerra, 1562), su cui si concentra
l’analisi di Bianco, presentano
una vita dell’autore composta da Gerolamo
Ruscelli, per la quale il biografo
si attenne al modello della Vita
pitagorica di Giamblico. Con questa
forte spinta alla monumentalizzazione
della memoria, la biografia diventa
il luogo dove prosegue il dialogo
dell’autore con i compagni di esperienza
e il viatico nel momento in cui
l’affidarsi al libro tipografico rendeva
indispensabile corredare i versi di
un profilo di colui al quale essi erano
inscindibilemente legati.
Altro saggio di pertinenza tassiana
è quello di Vercingetorige Martignone
(Esemplarità e distacco: l’autoesegesi
tassiana alle rime d’amore). L’autocommento
alla tarda scelta delle Rime
(Mantova, F. Osanna, 1591), offre una
singolare prova di come lo spazio
della interpretazione del testo possa
divenire, al contrario di quanto ci si
aspetterebbe, luogo di fuga da una
proposta forte di lettura. Il commento
alle Rime è stilato in terza persona
e instaura perciò una finzione di distacco
da parte dell’autore verso i
propri versi. Ne risulta, invece, piuttosto
che una lettura compiuta e in
qualche misura definitiva, l’esatto
contrario di un poeta che sfrutta lo
spazio offerto dal commento come
luogo per esaltare la polisemia del
testo e avanzare, in maniera assai curiosa,
ipotesi di lettura differenti, interpretazioni
aperte, addirittura varianti
testuali alternative al testo a
stampa, con un risultato assai congeniale
all’immagine che Tasso ha lasciato
ai posteri di poeta eternamente
insoddisfatto, incapace di fissare la
propria volontà in forma definitiva.
A porre un riparo a scarti di questo
tipo dal compito istituzionale che ci
si attende da un commento interviene
la prova su cui si sofferma Andrea
Roncaccia (Castelvetro lettore di Petrarca.
«Mai non vo’ più cantar com’io
soleva» (Rvf 105)), che arriva dal criti212
RECENSIONI
co cinquecentesco più tenacemente
(talora cavillosamente) votato alla
interpretazione razionale e al perfetto
equilibrio tra istanze formali e
portato semantico racchiuso nel testo.
La canzone 105, come è noto, ha
dato filo da torcere agli interpreti antichi
e moderni per la sua atipicità
metrica (priva di congedo, con coblas
capcaudadas che neutralizzano la divisione
in stanze regolari e perciò variamente
definita “frottolata”, “canzone-
frottola” o “frottola” tout-court)
e per il suo contenuto ai limiti del
nonsense,
appunto affine all’andamento
precipitoso e sintatticamente
uniforme della frottola. Nel suo commento
al Canzoniere Ludovico Castelvetro
riesce a ricostruire un significato
convincente della canzone, di cui
Roncaccia evidenzia la tenuta anche
nelle connessioni intertestuali con altri
passaggi delle Nugae petrarchesche.
Al lotto petrarchesco del volume si
ascrivono le Osservazioni sul commento
di Vellutello a Petrarca di Simone Albonico.
Il portato più rilevante all’edizione
commentata del Canzoniere
allestita da Alessandro Vellutello
(1525), a lato di quelli condivisi in
misura variabile con gli altri commenti
coevi (l’esegesi puntuale, l’annotazione
linguistica, l’inquadramento
storico, l’analisi metrica), è la
diposizione dei fragmenta secondo
un ordine differente da quello del
Vat. lat. 3195. Proposta non accettabile,
che, tuttavia, Albonico ritiene non
si debba archiviare come caduca eccentricità
ermeneutica. Essa si basa
su una lettura minuziosa del libro di
rime, che fa emergere legami tra avvenimenti,
luoghi, personaggi, occasioni
sui quali esso è costruito e che
la sistemazione d’autore talvolta cela
o scompiglia, sottraendoli a una percezione
limpida. Tutto ciò procedendo
con un metodo di lettura che Albonico
riassume in una «sorta di
schema argomentativo» (p. 65), quasi
una ricetta esegetica, con cui Vellutello
procede nei meandri del Canzoniere
mettendo ordine a cominciare
dalla macrostruttura, che scorpora
dalla abituale bipartizione in vita e in
morte un terzo raggruppamento di
rime dedicate ad altri soggetti.
Laura Paolino (Un «assai copioso
commentario». Vincenzo Carrari da Ravenna
annotatore di Petrarca) si occupa
del poco noto commento del letterato
ravennate alla canzone extravagante
Quel ch’à nostra natura in sé più
degno, ben nota ai lettori cinquecenteschi
per essere apparsa a stampa
fin dal 1503. Il contenuto politico della
canzone e l’interesse prevalente
per la storiografia del pur versatile
Cartari orientano il commento verso
una lettura in chiave politica ed encomiastica
che ne segna la storia: nato
come «commento per tutti» e destinato
in origine a una lettura estesa
a tutta la produzione di Petrarca, poi
non realizzata, diviene «commento
di corte» (p. 149) quando è dedicato a
una discendente dell’Azzo da Correggio
protagonista della canzone.
A partire dalle cosiddette “canzoni
sorelle” sugli occhi Victoria Kirkham
(Petrarca, Rvf 71-73: la «sorellanza
» lirica nella tradizione dei testi e
commenti da Bembo a Tasso), ricostruisce
una tradizione di componimenti
incatenati (quasi sempre canzoni),
che contempla una lunga scia di autori
di prim’ordine (Bembo, Luca
Contile, Agnolo Bronzino, Sebastiano
Erizzo, Benedetto Varchi, Giovan
Battista Pigna, Torquato Tasso), impegnati
a rinnovellare l’archetipo in
RECENSIONI 213
un percorso che contempla per forza
di cose il binomio poesia-commento,
con esiti rilevanti sul piano dell’elaborazione
di una poetica originale,
come nel caso delle importanti Considerazioni
sopra tre canzoni di M. Gio.
Battista Pigna intitolate le Tre sorelle
del giovane Tasso.
Con il saggio di Matteo Refini
(«Come il Petrarca fa molte volte». Esercizio
critico ed esperienza lirica nella lettura
padovana di Alessandro Piccolomini
(1541)) ci troviamo dinanzi alla
forma forse più istituzionale di commento
a un testo lirico, quello realizzato
da Piccolomini nella lettura tenuta
nell’Accademia degli Infiammati
sul sonetto della poetessa senese
Laodamia Forteguerri Hora te ’n
va’ superbo, hor corre altero, indirizzato
a Margherita d’Austria, cui la Forteguerri
fu legata da intensa amicizia.
Il rango delle due donne rende il
sonetto a priori un prodotto di alto
livello, che il cimento esegetico di
Piccolomini esalta ulteriormente grazie
all’erudizione investita attingendo
alle numerose discipline coltivate
dal commentatore (fisica, geometria,
astronomia, meteorologia). Così il
breve testo lirico si trova a compendiare
un sapere molto vasto, al di là
della normale attrezzatura retorica e
metrica richiesta a un lettore di poesia,
necessario per penetrare fino in
fondo il senso e renderlo partecipe di
un movimento intellettuale che proprio
gli Infiammati avvertono agitarsi
intorno e dentro la lirica volgare.
Andrea Donnini (Bembo esegeta e
revisore) sposta il discorso su un’accezione
di commento che si configura
piuttosto come impressioni di lettura,
da parte però di un letterato
coltissimo e autorevolissimo, il che
conferisce rilievo sistemico a quelle
che si presentano in origine come note
sparse. Donnini propone una rassegna
dei passi dell’epistolario bembiano
che riguardano il giudizio o
l’interpretazione di poesie di altri autori.
Oltre al corredo di dati e osservazioni
offerto per ciascuna occorrenza,
ciò che più importa sono alcune
formae mentis che guidano il ragionamento
bembiano, come ad esempio
il principio di imitazione, laddove
Bembo eccepisce su termini volgari
o latini che non gli risultano attestati,
ma non ha difficoltà a concerderli
all’autore allorché sia accertato
tale requisito. Viene fuori, nel complesso,
un Bembo assai diplomatico,
attento a non urtare la suscettibilità
dell’interlocutore, ma prodigo di
giudizi, non pochi dei quali riprovatòri,
squisitamente aderenti al dettato.
Nel teatro dell’epistolario Bembo
si impone insomma come il maestro
di stile che fu per i letterati della sua
generazione.
Giuliano Tanturli si dedica alle Postille
di Iacopo Corbinelli a rime del Casa,
che il letterato fiorentino esule
depositò su due importanti testimoni
delle rime casiane (Montpellier,
Bibliothèque interuniversitaire, 354;
Vat. Chigiano L IV 133, entrambi considerati
dal critico autografi sia nel
testo sia nelle note). Il commento corbinelliano
si impone all’attenzione
per essere «l’annotazione più ricca,
estesa […] a tutto il corpus poetico
volgare» del Casa (p. 521) prima della
comparsa di quella di Sertorio
Quattromani (1616) e per l’orientarsi,
piuttosto che alla elucidazione del
testo, verso la costruzione di una fitta
trama di rapporti intertestuali, in
cui Corbinelli riversa la sua formazione
umanistica. L’attenzione è rivolta
specialmente ai classici greco214
RECENSIONI
latini e moderni, mentre risultano
pressoché assenti i poeti della generazione
di Casa, il che riconduce all’orizzonte
fiorentino e giovanile
dell’esule Corbinelli, mentre resta
fuori la stagione della lirica rinascimentale
di baricentro romano, cui
Della Casa fu per diversi aspetti collegato.
Tre i contributi dedicati al settore
burlesco: Paolo Procaccioli, Goliardi
in cathedra; Danilo Romei, Ricezione
della poesia del Cinquecento: la «fortuna
editoriale»; Chiara Lastraioli, Commentar
grossamente e per burla. La ricostruzione
proposta da Procaccioli
individua le ragioni di una produzione
siffatta nell’esigenza avvertita
dagli scrittori di una certa stagione
della cultura cinquecentesca di utilizzare
in chiave parodica una forma
aulica e prestigiosa, che fin lì si era
imposta come indispensabile corredo
e tramite fra i testi e i loro fruitori.
Il discorso di Procaccioli mostra come
l’inclinazione a commentare per
burla aleggi in parecchi autori – non
necessariamente quelli che si applicarono
in prove del genere: Berni,
Caro, Grazzini, Cecchi, il misterioso
Grappa, per attenersi al canone –, ma
affiori in leterati grosso modo inquadrabili
nella vecchia categoria storiografica
dell’anticlassicismo, di cui, in
verità, proprio i commenti in oggetto
mostrano l’inadeguatezza, vista la
programmatica contaminazione tra
serio e comico che mettono in scena e
che impedisce di ridurli a rumoroso
controcanto della letteratura come si
deve.
L’intervento di Romei insiste sulla
fortuna tipografica del filone della
lirica burlesca (così si circostanzi il
“poesia” del titolo) e si mantiene in
equilibrio tra testi poetici e loro commenti,
per forza di cose dialoganti
per continuità cronologica, ambientale
e spesso per identità degli autori
che firmano gli uni e gli altri. Un importante
punto di convergenza tra
Procaccioli e Romei credo consista
nel separare l’archetipo delle esegesi
burlesche del secolo, l’autocommento
di Berni al Capitolo della primiera, e
il più fortunato del genere, quello di
Annibal Caro al capitolo In lode dei
fichi di Molza. Tanto «inventivo e cooperativo
» quest’ultimo quanto «elusivo
e irritante, defilato e ostile»
quello berniano (così Romei p. 282),
del quale, confessa Romei, ancora si
stenta a venire a capo.
Lastraioli si applica a uno dei due
commenti che vanno sotto il nome
del Grappa, quello sulla Canzone del
Firenzuola in lode della salsiccia (l’altro
riguarda Rvf 78, Poi che mia speme è
lunga a venir troppo). Persuasiva è la
ricognizione che Lastraioli conduce
sulle fonti, illustrando l’orizzonte assai
vasto che concorre nell’operetta e
fa del Grappa una delle presenze più
colte tra i commentatori per burla del
secolo (nient’affatto grosso, come lascia
intendere il titolo). Meno convincente
– ma è anche la parte su cui
meno investe l’autrice – l’ipotesi di
ricondurre il Grappa all’ambiente
dell’Accademia
piacentina degli Ortolani
con una convergenza sul personaggio
di Giovan Battista Boselli,
per la cui candidatura non mi pare
emergano prove positive, mentre
credo di avere dimostrato (nell’edizione
che ho dato di entrambi i testi
grappiani, Manziana, Vecchiarelli,
2009) che la loro genesi sia da ricondurre
all’ambiente padovano prossimo
all’Accademia degli Infiammati.
Due i saggi che si applicano alla
corrente più robusta della forma
RECENSIONI 215
commento rinascimentale, quella che
affonda le radici nella concezione
platonica e concepisce il testo poetico
come veicolo per trasmettere un contenuto
filosofico. Da qui il rapporto
di complementarità tra poesia e commento,
dato che quest’ultimo esplicita
il messaggio insito sotto il velame
dei versi, rendendo comprensibile al
discorso razionale quanto, affidato a
immagine suggestive nella poesia, si
intuisce in maniera imperfetta. È
quanto illustra Teresa Chevrolet
(«Sous le voilement des vers etrangers»
ou la philosophie en chantier), sottolinenando
però che a Firenze la maniera
platonica di leggere la poesia si complica
con una tendenza sincretica ben
visibile nell’opera di Giovanni Pico,
nonché con elementi della tradizione
(i commenti alla canzone di Guido
Cavalcanti Donna me prega di Dino
Del Garbo e dello pseudo-Egidio Colonna).
Di un respiro polyphonique (p.
371), opposto al monosémantisme del
commento neoplatonico, la studiosa
parla espressamente per il commento
di Pompeo Della Barba al sonetto,
rimasto senza autore, L’ombra a gli
amati corpi ognora intorno (Firenze, L.
Torrentino, 1554), nel quale confluiscono
gli interessi eterogenei coltivati
dall’autore, letterato versatile ed
eclettico, aggirando la rigidità ermeneutica
dell’esegesi platonica stricto
sensu.
Roberto Leporatti (Girolamo Benivieni
tra il commento di Pico della Mirandola
e l’autocommento) ricostruisce
la parabola culturale compresa tra il
commento di Pico alla Canzone d’amore
di Benivieni, composto dal filosofo
nel 1584, in pieno clima neoplatonico,
e l’autocommento redatto da Benivieni
per la Canzone dell’amore celeste
et divino secondo la verità della religione
christiana, nella quale, probabilmente
nel terzo decennio del XVI secolo,
contrappose alle posizioni neoplatoniche
giovanili tesi aderenti alla
dottrina cristiana. L’operazione è
emblematica della preoccupazione
costante in Benivieni di affiancare ai
propri versi un’annotazione che assicurasse
una comprensione corretta.
Tale esigenza, quasi maniacale, di
elucidare minuziosamente il testo
emerge con evidenza nel Commento
che Benivieni allestì per le proprie
rime edite nel 1500 (una seconda redazione
più agile, rimasta manoscritta,
risale agli ultimi anni di vita). Il
Commento avvolge il testo con «una
specie di glossa continua» (p. 385),
che ripercorre quasi sempre tutto il
dettato, illustrando instancabilmente
singole parole e sintagmi, senza soprassedere
su espressioni banali e
non problematiche.
Spicca a sé nel volume il contributo
di Maurizio Perugi, «Sepolta nella
mia anima». Storia, filologia e ricezione
di un’immagine camoniana (Camões, sonetto
VII). Lo studioso muove dal sonetto
camoniano per ricostruisce il
percorso del topos della sepoltura
dell’amata nel cuore o nella mente
dell’amante in un sapiente dialogo
tra i diversi indirizzi critici indicati
nel titolo del saggio e in un panorama
che non solo muove in avanti
dall’avatar camoniano, con particolare
approfondimento alla fortuna dell’immagine
in clima barocco, ma risale
alle letterature antiche e romanze
e si inoltra fino a quelle moderne.
Ne risulta uno studio di alta erudizione,
nel quale i concetti di ricezione
e interpretazione, che sono ubi
consistam del commento, si aprono in
un largo movimento di lettura inter216
RECENSIONI
no della intera tradizione lirica occidentale.
Resta, infine, da ricordare l’Introduzione,
che perlustra con spirito di
acuto pillage la bibliografia esistente
sul commento, non solo rinascimentale,
e si propone perciò come breve
essai a sé stante. Muovendo da queste
premesse, la fatica dei curatori
non può dirsi pioneristica; a consuntivo
si deve invece riconoscere loro
che il volume, a prescindere dal valore
intrinseco dei singoli contributi,
allarga in misura cospicua l’orizzonte
dei fenomeni e dei metodi con cui
occorrerà d’ora in avanti misurarsi
affrontando questo ambito della letterarietà
cinquecentesca.
Franco Pignatti
Giancarlo Pionna, Giambattista Pagani,
un amico lonatese di Alessandro
Manzoni, Milano, Centro Nazionale
Studi Manzoniani – Desenzano del
Garda, Associazione di studi storici
“Carlo Brusa”, 2011, pp. 278.
Nel volume, promosso e realizzato
di concerto dal Centro Nazionale
Studi Manzoniani e dall’Associazione
di Studi Storici “Carlo Brusa” di
Desenzano del Garda, Giancarlo
Pionna ricostruisce attraverso un’ampia
documentazione la biografia sinora
poco esplorata del lonatese
Giambattista Pagani (1784-1864), oggi
noto quasi esclusivamente in virtù
del suo legame con Alessandro Manzoni,
che nel periodo trascorso insieme
al collegio barnabita Longone
strinse con lui – sono parole di
quest’ultimo – un’«antica inalterabile
amicizia». Esaurita in gioventù
l’esuberante vivacità intellettuale che
aveva spinto l’amico Vincenzo Monti
a descriverlo al Manzoni come «una
perla» e, figlio di un borghese benestante
di forti tendenze filonapoleoniche,
lo aveva eletto ad animatore
del piccolo gruppo di compagni formato
tra gli altri anche da Ermes Visconti,
Luigi Arese e Ignazio Calderari,
Pagani dedicò infatti il resto
della sua lunga vita al tranquillo
esercizio della professione di funzionario
e a un’instancabile attività di
pubblicista.
Gli anni successivi alla comune
esperienza in collegio e la storia stessa
ribaltarono inevitabilmente le gerarchie
ideali di un rapporto che aveva
visto l’estroverso, brillante Pagani
vegliare protettivo sul più giovane e
riservato «Sandrino» incoraggiandone
il precoce talento poetico. Rapporto
che, mai davvero interrotto, andò
incontro a un fisiologico sfaldamento
al separarsi dei due amici, ma soprattutto
dovette far fronte alle incomprensioni
connesse alla sconfessione
manzoniana delle intemperanze
e degli ideali libertari di gioventù
che Pagani, suo ispiratore, continuò
invece a professare malgrado il mutare
dei tempi. Se infatti il trasferimento
a Parigi e il ricongiungimento
con la madre Giulia, ben decisa a
guidare personalmente i passi del figlio
in altra direzione, segnarono fatalmente
l’allentarsi del legame di
Manzoni con i vecchi compagni, a segnare
uno spartiacque decisivo nell’amicizia
con Pagani fu l’inopportuna
dedica a Monti – già ammiratissimo
da entrambi – premessa motu
proprio dal suo promotore all’edizione
Destefanis del carme In morte di
Carlo Imbonati (1806) che l’autore
aveva
da poco pubblicato a Parigi
presso Didot. Il chiarimento e la veRECENSIONI
217
rosimile ammissione di colpa che dovettero
seguire alle proteste del poeta
offrirono forse al ventunenne Manzoni
l’occasione per riconoscere la
diversità di modelli e ideali che ormai
lo separava dall’amico più caro.
La pigrizia nello scrivere lettere che
li accomunava e la conversione religiosa
faticosamente maturata dallo
scrittore a dispetto dell’influenza
dell’altro, irriducibile anticlericale,
fecero probabilmente il resto.
Divenuto avvocato, Pagani trascorse
gli anni successivi – anni che
Pionna dipana lungo l’arco della vita
del Manzoni illuminandone così
indirettamente ma significativamente
alcuni episodi – prima a Brescia e
poi a Lonato, dove da generazioni
risiedeva la famiglia paterna. Impegnato
nell’adempimento coscienzioso
del suo incarico di conservatore
delle ipoteche,
nelle attività della locale
loggia massonica e nelle sedute
dell’Ateneo
bresciano, oltre a dedicarsi,
seppure in ambito tecnico, alla
scrittura in proprio Pagani non mancò
di seguire da lontano la carriera
letteraria del compagno di collegio
al quale, riconoscendo presto le sue
capacità, aveva preannunciato sicuri
successi. Mentre non si conservano
suoi giudizi sul romanzo, sappiamo
che all’uscita del Carmagnola nel
1820 e dell’Adelchi nel 1823 Pagani
sostenne apertamente (forse più per
amicizia che per una specifica conoscenza
dei due drammi) la poetica
tragica manzoniana, accolta al contrario
con molta perplessità da buona
parte del mondo letterario. Destinatario
del sermone Perché, Pagani,
de l’assente amico, che Manzoni compose
per lui nel 1804 e che in seguito
disconobbe assieme ad altri scomodi
componimenti giovanili, il lonatese
fu inoltre geloso possessore di alcuni
preziosi autografi dell’amico, come
il sonetto-autoritratto, l’ode Qual
su le Cinzie cime e soprattutto il poemetto
Del Trionfo della Libertà, redatto
ai tempi del collegio Longone e
molto apprezzato dai compagni: su
pressanti richieste da parte di Pagani,
nel 1805 l’autore, ormai ventenne,
avrebbe ceduto all’amico la sola
copia di suo pugno oggi esistente
(edita soltanto nel 1878 per volere
degli eredi), corredandola tuttavia
della famosa postilla con la quale intese
prendere parzialmente le distanze
dall’appassionato componimento
dalla marcata impronta montiana.
Ad eccezione di qualche breve
contatto, come lo scambio legato alla
pubblicazione del Cinque Maggio, il
silenzio tra i due antichi amici durò
fino alla fine del quinto decennio del
secolo, quando gli appelli rivolti
all’ormai celebre scrittore da un Pagani
angustiato dalle sue precarie
condizioni di salute e soprattutto da
una quasi completa mancanza di
mezzi non ottennero il risultato sperato.
Punto di partenza per la documentata,
appassionata indagine di Pionna
sulla biografia del suo concittadino
è stato il fortunato rinvenimento
di un manoscritto databile agli anni
Venti del Novecento che offre nuovi
spunti di riflessione e ricerca sulla
giovinezza del Manzoni, sui rapporti
di quest’ultimo con il Pagani e, inaspettatamente,
sulla genesi di uno
dei personaggi principali del romanzo.
Per redigere le ottanta pagine
manoscritte
interamente edite in appendice
al volume, l’autore, anonimo
e tuttora sconosciuto, attinse naturalmente
alla bibliografia a stampa e
alle carte Pagani oggi conservate alla
218 RECENSIONI
Biblioteca Queriniana di Brescia, ma
la presenza di notizie particolari e di
episodi non documentati in altra
fonte spingono Pionna a sospettare
che il compilatore del “manoscritto
di Lonato” si sia avvalso anche dei
ricordi di un parente oppure di un
amico intimo della famiglia Pagani.
Dopo aver narrato la nascita dell’amicizia
tra Pagani e Manzoni soffermandosi
sulla visita al Longone di
Vincenzo Monti e sul suo colloquio
con il giovanissimo Alessandro, l’Anonimo
dedica buona parte del suo
scritto a rievocare l’incontro, avvenuto
a Brescia nell’ottobre 1803, tra il
lonatese, accompagnato dalla sorella
e da un’amica di lei, e il Manzoni in
viaggio per Venezia, dove sarebbe
stato ospite del cugino Giovanni fino
all’estate seguente. In questa occasione,
oltre a discutere dell’idillio Adda
(cosa che avrebbe tra l’altro spinto il
giovane scrittore a esprimere un giudizio
negativo intorno alle continue
«imitazioni rifritte dei classici recenti
o remoti» in nome di un nuovo modo
di fare poesia), il gruppo avrebbe
incontrato al caffè del Granarolo un
anziano nobile, soprannominato, a
seguito di una spavalda impresa, il
Conte del Sagrato. Dopo averne descritto
la personalità ribelle, il prestigio
indiscusso, l’assoluta volontà di
indipendenza, Pagani avrebbe annunciato
all’amico il ritrovamento
«nell’archivio del Comune» (di Brescia?)
di un «prezioso segreto» di cui
lo avrebbe presto messo a parte, offrendogli
così «l’argomento d’uno
degli episodi più toccanti» in vista di
«un grande e magnifico poema». Notizia
davvero strepitosa, che l’Anonimo
discute ampiamente nella terza
parte del manoscritto, contrapponendo
alla figura di Bernardino Visconti
che Cantù identifica come il
modello per l’Innominato quella, indicata
in realtà un po’ cripticamente,
del conte bresciano Alemanno Gambara.
A consentire l’individuazione
del vecchio nobiluomo incontrato a
Brescia dal Manzoni viene chiamata
in causa la testimonianza di Clara
Maffei, spettatrice nel 1829 di un
dramma del figlio del Gambara,
Francesco: chiaramente ispirato all’episodio
del rapimento di Lucia,
aveva al suo centro la figura di Uberto
da Fiesole, nome dietro al quale
l’autore avrebbe celato il padre Alemanno.
Seppure non sia possibile né convincente
sovrapporre tout court al
profilo del conte bresciano quello del
personaggio manzoniano, sicuramente
influenzato – come proverebbe
anche una piegatura “strategica”
nella copia della Historia patria appartenuta
al Manzoni – dal Ripamonti,
il ritrovamento del misterioso
autografo lonatese può senza dubbio
aprire, a partire dall’approfondita indagine
dei rapporti tra lo scrittore e
«il veterano de’ suoi amici» sviluppata
da Pionna, nuove prospettive di
indagine su un autore che, presentando
al compagno i suoi precocissimi
versi, lo spingeva a presagire il
suo avvenire di «alimento vitale e sostanziale
dei cervelli o dei pensatori
della generazione futura».
Chiara Cedrati
Lina Iannuzzi, Sul Primo Verga, Pescara,
Ianieri, 2012, pp. 204.
È una sfida nuova con il consueto
sguardo attento e meticoloso rivolto
alla storia della critica quella che proRECENSIONI
219
pone Lina Iannuzzi all’editore Ianieri
che annovera nel suo ricco catalogo
per la prima volta un saggio sull’autore
siciliano. Una lucidissima analisi
del primo Verga, dopo gli studi passati
sul Teatro inedito di Verga, Giovanni
Verga: prove d’autore (1995), La
rima gigante del Verga (1997) che corona
il percorso di studi verghiani della
studiosa leccese.
Un percorso circolare, se vogliamo,
che torna ab origine, ai rudimenti, alla
prima educazione alle letture formative
fino agli esordi della scrittura
caratterizzati da una precisa linea di
fonti e fresche reminiscenze da intraprendere
con alterne fortune negli
esiti e nelle vicende editoriali. Dai romanzi
storici I Carbonari delle Montagne
e Sulle Lagune (1863) alla prima
fase della drammaturgia con una
puntata dritta alle possibili concordanze
nascoste o poco battute delle
fonti di Mastro Don Gesualdo.
L’analisi diacronica delle varianti
sul manoscritto dei Carbonari della
Montagna rivela un’adesione politica,
nemmeno troppo convinta, a posteriori,
quando, invece, il romanzo
era stato pensato con altre finalità
che non fossero propriamente corrispondenti
alle vicende storiche della
resistenza antifrancese in Calabria al
tempo di Murat dopo l’armistizio di
Villafranca. La spiegazione convincente
che dà la Iannuzzi della topografia
‘stravolta’ chiama in causa la
storiografia che aiuta a capire perché
in Calabria si collocassero Monte
Corno e Maiella, cime degli appennini
abruzzesi.
Sembra concludersi qui la parentesi
politico-storicistica di Verga – se
non consideriamo i futuri accenni alla
lotta di forze giustapposte nel periodo
postunitario rappresentate in
Libertà, la novella delle Rusticane –
che non trova riscontri immediati nel
secondo romanzo, Sulle Lagune, ambientata
nella lontana Venezia: una
terra sentita lontana, anche culturalmente
da Verga, ritratta su suggerimenti
provenienti dall’Orazione pavese
foscoliana, dai nuovi dettami
narrativi del «Crepuscolo» di Carlo
Tenca, ma, con prove provate, anche
attraverso gli echi delle letterature
nordiche con le loro tinte noir come
The Monk di Lewis, creando un tessuto
complesso su cui si muove il giovane
catanese.
Il teatro, poi, frutto della nuova
esperienza di vita con Capuana a Firenze
prima e a Milano poi, trova il
suo pieno contesto interpretativo solo
se si valicano i confini nazionali:
«L’attenzione dei critici» – scrive la
Iannuzzi a p. 71 – si è concentrata finora
principalmente sulle tematiche
e sul rapporto tra Verga e il teatro nazionale
ignorando, quasi sempre,
quel fenomeno di osmosi culturale
tra l’Italia e i Paesi oltremontani che
coinvolse anche lo scrittore catanese
». È Milano, la città italiana a più
respiro europeo, dove Verga respira
a pieni polmoni aria nuova: «la
grand’aria è la vita di una grande città
» scriverà a Capuana il 13 marzo
1874. Così tra le chiacchierate al Caffè
Biffi e l’impegno costante a riformare
il «teatro del vero» sotto lo
sguardo degli amici colleghi Capuana,
Giacosa, Sacchetti per arrivare a
trionfare a Parigi con Cavalleria Rusticana
nel 1888 e raccogliere qua e là,
dopo In portineria e Drammi intimi,
appunti sparsi che saranno la base
del suo teatro inedito e che la Iannuzzi
torna a riproporre non come
un’occasione mancata ma all’interno
di un laboratorio in perenne working
220 RECENSIONI
progress: Mistero, Commedia dell’Amore
ovvero A Villa d’Este sono esperimenti
su carta che Verga conduce alla
maniera di D’Annunzio il quale da
un lato respingeva e dall’altro teneva
sott’occhio, come conferma la biblioteca
di via Sant’Anna, 8, a Catania,
opportunamente fornita delle opere
del Vate.
La Iannuzzi poi intraprende la
strada applicativa dell’ermenutica e
della tecnica espressiva di Malavoglia
orientata dagli studi di Wido Hempel
(e con lui Devoto, Fubini, Spitzer)
adottando il processo della “rima gigante”
e della “macroripetizione”
con i Carbonari e conseguendo da ciò
notevoli risultati sulla base di riscontri
diretti citazionali: secondo un collaudato
metodo il cadenzato ritmo
con cui Verga ripropone stilemi, situazioni
e azioni, profili e particolari,
crea armoniose sezione narrative
concatenate da incipit e chiuse quasi
più conformi ad un componimento
poetico che ad un testo narrativo.
Per tali ragioni Sul primo Verga va
annoverato tra quei saggi che dicono
«cose nuove» nei suoi quattro capitoli-
articoli – come avverte Umberto
Russo nella prefazione – e che dunque
giustamente non può e non deve
temere anatemi da parte dei possessori
della verità, evitando così il rischio
di suscitare irritate risposte per
lesa maestà.
Mirko Menna
Malcolm Angelucci, Words against
words. On the Rhetoric of Carlo Michelstaedter,
Leicester, Troubador, 2011.
Com’è noto l’oeuvre scritta di Carlo
Michelstaedter, questa figura singolare
mitteleuropea morta suicida
nel 1910, si colloca al confine tra filosofia
e letteratura e questo non solo
perché Michelstaedter ha scritto sia
trattati filosofici (tra cui il suo folgorante
La persuasione e la rettorica) che
poesie – il tutto pubblicato, grazie alla
cura di Sergio Campailla, dagli anni
1980 in avanti da Adelphi – ma
soprattutto perché anche i suoi scritti
filosofici hanno qualità letterarie, il
che li rende difficili da classificare.
Proprio questa «oddity» stilistica è il
punto di partenza del libro di Malcolm
Angelucci, ricercatore alla facoltà
di Arts and Social Science dell’University
of Technology a Sydney.
La domanda principale di Angelucci
è «Why write this way? What has
this way of writing to do with the
philosophy with which it is concerned
and inextrinsicably entangeld?»
(p. 21) Anche se potrebbe sembrare
una domanda ovvia, fatto sta che
non era mai stata posta con tale radicalità
nel corso di più di cent’anni di
ricezione di Michelstaedter, anche se
negli ultimi anni il focus fu indirizzato
più volte in questa direzione sia
da Thomas Harrison che da Francesco
Muzzioli e Giovanna Taviani. La
domanda di Angelucci non solo colma
una lacuna nella ricerca sul pensiero
di Michelstaedter ma la risposta
che trova anche propone una soluzione
a una delle problematiche più
note in tale campo: la filosofia di Michelstaedter,
secondo il dictum fino
ad Angelucci più o meno unisono
della comunità scientifica, si incentra
su un nucleo paradossale e tragico
poiché cerca di dire con parole (e allora
«retoricamente») che le parole (e
la «retorica» oppure la «rettorica» come
Michelstaedter chiama poi il suo
concetto ontologico) mentono semRECENSIONI
221
pre – pensiero che fa sì che Michelstaedter
venga sia storicamente che
analiticamente collocato vicino al
primo Wittgenstein e al giovane Lukács.
Anche Angelucci menziona
(come
prima di lui Massimo Cacciari,
Daniela Bini e molti altri) questa
affinità, senza però poi proseguire ad
approfondire tale analogia filosofica.
Angelucci legge il «philosophical
text […] through the light of literary
criticism» (p. 1) e perciò non cerca di
tracciare il pensiero di Michelstaedter
sulla retorica (nel quale non si
puó che arrivare a paradossi), ma indaga
come il «narrator» stesso de La
persuasione e la rettorica (PeR) agisca
retoricamente. Ciò che trova è «firstly,
that ‹inadequate› rhetorical language
in Michelstaedter is intended
also as an instrument that can be
used in order to overcome itself, as
the motto ‹con le parole guerra alle
parole› (PR 134) seems to programmatically
advertise; secondly, that
the stylistic practices of the text are
consonant with the represented philosophy
of language and subsequent
poetic.» (p. 18)
Angelucci analizza minuziosamente
in cinque capitoli le diverse
voci del/dei narratore/i, i diversi generi
del testo – p.e. la PeR è a prima
vista un trattato scientifico, ma le
«parodic and sarcastic strategies of
the narrator of PeR […] undermine
[the] philosophical/ideological position
and reveal it as an example of
‹rhetoric›.» (p. 107) – l’uso di intertesti
e singoli elementi stilistici e retorici
concludendo che il testo opera come
«permanent parabasis» (p. 166):
la PeR è, secondo l’analisi di Angelucci,
un testo «ironico» nel senso
postmoderno ma anche romantico
della parola, anche se, come annota,
non è chiaro se Michelstaedter conoscesse
le teorie dei romantici (p.
147).
Grazie ai diversi generi e alle diverse
voci, il testo «looses its stable
center» (p. 122); lo «academic writer
», distinguibile per lo stile e i modi
di fare (p.e. l’uso delle note) è solo
una tra molte altre voci (p. 118). Angelucci
propone anche un’interpretazione
delle Appendici critiche in questa
direzione: La PeR si conclude con
la condanna del mondo accademico
per poi annettere le Appendici Critiche,
Angelucci teorizza, come esempio
e quindi come parodia dello stile
accademico (p. 133). Si può sicuramente
discutere su questo punto, ma
il passo importante compiuto da Angelucci
è che egli proponga una lettura
delle Appendici che prende atto
della loro funzione corrispondente
alla prima parte e non le tratti, come
spesso succede, indifferentemente
dal testo principale. Angelucci guarda
noti problemi sotto una nuova ottica
e sa porre domande interessanti,
che varrebbe la pena indagare più a
fondo. Una di queste è la seguente:
nell’archivio a Gorizia ha trovato, oltre
alla seconda prefazione, poi pubblicata
da Campailla nell’edizione
della PeR da Adelphi, anche una prima
prefazione che fino ad allora non
era mai stata pubblicata. Angelucci
la trascrive e poi non si limita a interpretarla
o concordarla con il contenuto
della PeR ma si chiede perché
fosse stata cancellata da Michelstaedter
nella versione finale. La stessa
domanda si pone poi con la seconda
prefazione – la nota lista dei persuasi
(che Angelucci interpreta diversamente)
– che è stata altrettanto cancellata
da Michelstaedter nella versione
definitiva del manoscritto (cioè
222 RECENSIONI
presente in A ma non in C). Angelucci
chiede: «[I]n what way was it more
inacceptable than the thesis itself?»
(p. 38), una domanda cruciale che
fin’oggi non ha trovato risposte convincenti.
Interessante anche l’analisi dell’uso
delle citazioni, che è da sempre campo
di discussione: il narratore di PeR
cita moltissimo, ma quasi mai nel
senso accademico. L’uso stesso delle
citazioni «puts the very core of the
‹argument of authority› at stake. It is
highly unlikely that the immediate
readers, the panel of professors in
Florence, would have recognized
those proposed ‹authorities› as such.
The ‹attention› for the reader, in this
sense, seems to go in the direction of
shock and displacement: shock for
the absence of secondary sources and
extensive quotes from Plato and Aristotele;
displacement for the overwhelming
presence of Presocratics,
Ecclesiastes and the New Testament.
» (p. 91-92) Il narratore di Michelstaedter
fa implodere il sistema:
le citazioni autorevoli sono un mezzo
della retorica e dovrebbero perciò
non essere ammesse per Michelstaedter,
che però ha trovato un modo
per usarle e nello stesso momento discreditarle.
Anche la loro funzione
viene constrastata: non servono per
captare benevolentia ma per creare disturbo.
Le citazioni non servono come
academic proof, ma fanno parte
di un bachtiniano gioco con intertesti
(p. 93). Tuttavia il narratore non riesce
del tutto a sfuggire dal paradosso
(p. 97); anche questo però fa, secondo
Angelucci, parte del programma: il
narratore così si rivela una «relativized
voice», come dice il titolo del
quarto capitolo.
Queste sono solo alcune delle tante
minuziose considerazioni di quest’analisi
poststrutturalistica. Il testo
distrugge i suoi stessi fondamenti (p.
196) e si spinge così oltre Wittgenstein
e Lukács. Nonostante questo
anche Angelucci, come prima di lui
Daniela Bini, conclude che la salvezza
finale per Michelstaedter avrebbe
potuto solo essere nell’arte, ma Michelstaedter
era «not enough of an
artist» (p. 197).
Lo studio di Angelucci, la prima
lettura di Michelstaedter sotto un’ottica
poststrutturalistica, è coerente e
convincente. Il programma che si pone
con successo è il seguente: «La
Persuasione e la Rettorica, in its quest
for the impossible (PR: 43), and despite
its aporia, can be considered a
battlefield in which different strategies
for overcoming the problem of
rhetorical language are employed,
and fail. The challenge […] is to trace
the routes of these failures in relationship
with the poetic of ‹persuasion›
to what it delivers, in order to
map the position of La Persuasione e la
Rettorica with regard to itself.» (p. 23)
Si potrebbero tuttavia evidenziare alcune
piccole mancanze: in parte (ma
raramente) mancano i riferimenti alle
pagine (p.e. a De Man a p. 77; a
Brianese a p. 147) e meno note avrebbero
aumentato la leggibilità – talvolta
ci sono addiritura due note per
un unica citazione (p.e. il riferimento
a Gadamer a pagina 151). Alcuni
tratti argomentativi vengono ripetuti
troppo spesso. Ma questo non pesa
molto di fronte ad uno studio che ha
aperto nuovi campi per la ricerca su
Michelstaedter e che sarà un riferimento
obbligato per tutta la ricerca
futura.
Yvonne Hütter
RECENSIONI 223
Giorgio Orelli, La qualità del senso.
Dante, Ariosto e Leopardi, Bellinzona,
Casagrande, 2012, pp. 100.
La mia prima lettura del 2013 è un
dono. Erano i giorni del salone della
piccola e media editoria, che si svolge
a Roma ai primi di dicembre, in
un luogo che, per la sua vuota monumentalità
(siamo al Palazzo dei Congressi
all’EUR) rilascia dosi di tristezza
controllata. Ma la grande distesa
di libri, banco per banco, è allegra
e ricca di ghiottonerie. Questa
fiera può essere anche occasione di
incontro. Vado con questo scopo allo
stand della casa editrice ticinese Casagrande
(con sede a Bellinzona) dove
so di trovare Matteo Terzaghi, che
di persona non avevo mai conosciuto
e con il quale anni addietro avevo
avuto un amichevole scambio di letture:
nel senso che avendo letto un
suo saggio, I meriti del linguaggio, trovato
in modo abbastanza casuale e
molto apprezzato, gli avevo scritto
qualche osservazione e gli avevo fatto
avere il mio libro Calvino e i corpi.
Un po’ di amicizia c’era e andava
rinnovata. Fatto sta che lui, nel momento
dei congedi, mi porge queste
ultime passeggiate di Giorgio Orelli
nella selva dei suoni poetici.
Frequento poco la poesia e ancor
meno i poeti che fanno critica, così
ho preso il dono come un invito a un
percorso inusuale e a una piccola sfida.
L’ambiguità del titolo mi attraeva
abbastanza, con quel senso che non
sai se riferirlo al significato o alla
sensazione, e quella misteriosa parola
dal sapore filosofico e dismesso,
qualità, cosa di cui nessuno parla più
senza imbarazzo. Non sai mai se una
qualità di una cosa dipenda dai vari
accidenti che la caratterizzano o
piuttosto
dipenda dalle virtù intrinseche,
se non diversamente ancora
dalla rispondenza di un prodotto alle
aspettative (controllo di qualità).
Fatto sta che apro questo libro incerto.
Non so quel che troverò, perché
sapevo del continismo orelliano e ricordavo
di averne frequentato una
prova in qualche pagina di un libro
dedicato a Montale, Accertamenti
montaliani, di parecchi anni fa (Bologna,
Il Mulino, 1984). Incerto invece
sul poterlo seguire, e non dico capire
per non ardire.
Giorgio Orelli dedica questa ultima
silloge critica ad alcuni gruppi di
versi o autonomi componimenti di
tre grandi riferimenti e interpreti della
nostra memoria poetica (Dante,
Ariosto, Leopardi); e a prima vista/
orecchio sembra accadere che i tanti
compromessi tra scrittura e voce, tra
suono e immagine abbiano una felice
interruzione.
Leggere e ascoltare, in un solo atto,
è un esercizio difficilissimo (per me),
ed è un bene (non solo per me, credo)
che un maestro della poesia italiana
indichi percorsi sonori all’interno dei
testi: bisogna lasciarsi prendere per
mano, così come suggerisce la copertina
del libro che, rielaborando un
disegno di Botticelli, isola e coglie la
reciproca prossimità di Dante e Virgilio
fuori da ogni contesto infernale
o purgatoriale; e anche per le orecchie,
come sarebbe più opportuno.
Vedere nelle lettere il suono (con
sinestesia non decorativa), e nella
phoné il senso, e ancora aggrappato
al senso il significato, sono una lunga
catena di gesti dissociativi di qualcosa
che si fa senza pensare (e quindi
neppure capire né ricordare). Ma insomma,
anche le regole della grammatica
e della sintassi si apprendono,
224 RECENSIONI
sebbene accada sempre che, una volta
consolidate, non si faccia più caso
ad esse. Tuttavia si studiano, sia per
avere conforto alle incertezze che dovessero
sopraggiungere leggendo e
scrivendo, parlando e ascoltando, sia
per dare a ciascuno la possibilità di
essere mentore (se non vate) delle
varie competenze che la lingua richiede.
Ma esiste una qualche regola d’uso
della memoria sonora del verso? Pensando
ai valori fonosimbolici, subito
viene in mente la vivace discussione
che coinvolge i linguisti, se cioè ci sia
una naturalità fisiologica e psicologica
nel modo in cui i fonemi si legano
alla semantica oppure se non siano
piuttosto il prodotto di un complesso
sistema di convenzioni. A proposito
della memoria poetica, questa discussione,
che possiede alcune importantissime
implicazioni filosofiche,
non è del tutto pertinente; è vero
tuttavia che la conduzione di questo
“gioco” – scovare le trame sonore
che migrano e si richiamano tra testo
e testo, tra autori e lettori anche a distanza
di secoli e di culture e magari
anche di generi testuali, visto che
non si è mai memori di un solo linguaggio
e di una sola lingua – sconfina
appropriatamente in un campo di
indagine nel quale si testa la tenuta
della memoria, più che della tradizione.
A leggere i raffinatissimi passaggi
tra i testi che Orelli riesce a compiere,
rimango impressionato dalla memoria
eccellente, saldissima e vastissima,
che dimostra di avere. Una memoria
sonora che da una parte è parcellizzata
nei tratti più minuti di ciò
che compone un verso (i gruppi di
fonemi), mentre dall’altra è agganciata
al significato, alla narrazione,
all’immagine dei contesti versificati.
Direi che l’aggettivo esatto per questo
genere di lettura è seducente. Così
sono le pagine dedicate all’Infinito leopardiano,
che nel cercare/dimostrare
la vicinanza tra “parola” e “canto”,
diventano un’occasione per scovare
in altre parti dei Canti il ripercuotersi
di certi suoni essenziali presenti in
quel componimento; ricostruendo
un continuo sonoro nella mente di
Leopardi cui non è molto facile accedere.
Divertente sarebbe invece l’aggettivo
per le pagine dedicate ad
Ariosto, cioè all’Orlando furioso, del
quale fa apprezzare il ritmo schioppettante
e festoso in ben tre occasioni
versificatorie e narrative: l’ottava iniziale,
dove l’intreccio tra guerra e
amore diviene sonoro; certi altri versi
(I, 42-43) dove la /i/ fa le veci di uno
strumento acuminato per pungere; e
alcune altre stanze del VI canto (35-
36) dove i pesci (tristemente muti)
rivelano tutte le proprie sonorità dei
nomi. Argute, infine (ma siamo all’inizio)
le pagine dedicate a Dante (che
sembrano diventare anche occasione
di poesia petrarchesca) nell’inseguire
le evoluzioni tra le voci in /ura/ (dura,
paura, oscura) e quelle in /ire/
(dire, ire, dritta), incroci sonori che
fanno sentire la poetica dantesca della
poesia come viaggio, come cammino
dal buio alle luce.
Dato che la mia dichiarazione di
insufficiente competenza alla lettura
di questo libro non dissimulava alcunché,
posso dire che affrontarla
almeno mi ha tolto un’ingenuità, che
come tutte le ingenuità covavo inavvertitamente.
Per tutto il tempo mi
sono chiesto se la ricchezza dei legami
sonori tra i testi e gli autori, e tra o
suoni e le parole di ciascuno, così
com’erano evidenti fossero altrettanRECENSIONI
225
to verificabili: se fosse verificabile
cioè che la memoria di Petrarca facesse
proprio riferimento al suono
dantesco, o quella di Leopardi a
quello lucreziano o petrarchesco, e
così via. Possiamo dare per scontato
che ognuno di questi autori ricordasse
e riscontrasse perfettamente ogni
eco delle parole che pensava o suonava
in qualcuno dei grandi, dei
grandi maestri? Mi chiedevo. Ma che
ne fossero consapevoli o meno non
avrebbe nessuna importanza: perché
ciascuno di loro, evidentemente, poetò
per una grande memoria condivisibile
(sebbene sempre troppo poco
condivisa) che si chiama lingua italiana.
Fabrizio Scrivano
LIBRI RICEVUTI
Acocella Silvia, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura
italiana tra Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori, 2012, pp. XIV-150.
Addesso Cristiana Anna, Emilio Mastriani, Rosario Mastriani,
“Che somma sventura è nascere a Napoli!” Bio-bibliografia di Francesco Mastriani,
Roma, Aracne, 2012, pp. 400.
Aveto Andrea, Incontri liguri di Elio Vittorini (1931-1943), Novi Ligure,
Città del silenzio edizioni, 2012, pp. 112.
Aveto Andrea, Un capitolo della biografia di Giovanni Boine, Novi Ligure,
Città del silenzio edizioni, 2012, pp. 106.
Balbis Giannino, La Marchesa del Cairo e il suo circolo poetico. Minerva
in Val Bormida nel secondo Seicento, Savona, Fondazione De Mari, 2012,
pp. 190.
Barucci Guglielmo, “Simile a quel che talvolta si sogna”. I sogni del Purgatorio
dantesco, Firenze, le Lettere, 2012, pp. 230.
Bellorini Giuliano, Il Magnifico Signor Cavallier Luigi Cassola Piacentino.
Edizione critica dei Madrigali. Censimento e indice dei capoversi di
tutte le rime, Firenze, Olschki, 2012, pp. XVI-220.
Buonaiuti Ernesto, Lezioni di storia ecclesiastica. Il medioevo, a cura di
Francesco Mores, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 312.
Caputo Vincenzo, “Ritrarre i lineamenti e i colori dell’animo”. Biografie
cinquecentesche tra paratesto e novellistica, Milano, Franco Angeli,
2012, pp. 218.
De Robertis Giuseppe – Piccioni Leone, Carteggio 1944- 1963, a cura
di Emanuela Bufacchi, Fondazione Premio Letterario Basilicata, Potenza,
Erreci edizioni, 2012, pp. 560.
Di Giovanna Maria, Studi su Girolamo Brusoni, Caltanissetta-Roma,
Salvatore Sciascia, 2012, pp. 172.
Filologia e critica nella modernità letteraria. Studi in onore di Renzo Cremante,
a cura di Andrea Battistini, Arnaldo Bruni, Irene Romera
Pintor, Bologna, Clueb, 2012, pp. 556.
Filosa Elsa, Tre studi sul De Mulieribus claris, Milano, LED, 2012, p.
202.
Galanti Giuseppe Maria, Scritti giovanili inediti. Edizione critica a
cura di Domenica Falardo, con un saggio di Sebastiano Martelli, Napoli,
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2012, pp. CXXII-334.
Giannantonio Valeria, Tra angeli e dèi. La parabola dell’amore e del sacro
nella poesia barocca napoletana, Lecce, Pensa, 2012, pp. 282.
Greco Paolo, La complementazione frasale nelle cronache latine dell’Italia
centro-meridionale (secoli X-XII), Napoli, Liguori, 2012, pp. 252.
Il guscio della chiocciola. Studi su Leonardo Sinisgalli, a cura di Sebastiano
Martelli e Franco Vitelli con la collaborazione di Giulia Dell’Aquila
e Laura Pesola, 2 voll., Salerno, Edisud/Forum Italicum Publishing/
Stony Brook New York, 2012, pp. 440+426.
Manferlotti Stefano, Dal “Mattino”. Note per la letteratura 1989-2011,
Napoli, Tullio Pironti editore, 2012, pp. 192.
Marini Giovan Ambrogio, Il Calloandro fedele, vol. II, a cura di Anna
Maria Pedullà, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. 280.
Mocan Mira, L’arca della mente. Riccardo di San Vittore nella Commedia
di Dante, Firenze, Olschki, 2012, pp. XXII-316.
Montefoschi Paola, Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento
letterario italiano, Roma, Carocci, 2012, pp. 272.
Oliva Gianni, Pascoli. La mimesi della dissolvenza, Lanciano, Rocco Carabba,
2012, pp. 136.
Piromalli Antonio, Letteratura e cultura popolare, con un saggio introduttivo
di Toni Iermano, Roma, Edizioni del Fondo Antonio Piromalli
Onlus, 2012, pp. 278.
Rico Francisco, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Roma-Padova,
Editrice Antenore, 2012, pp. 160.
Riflessi della storia nella letteratura italiana, a cura di Giuseppe Rando e
Rosalba Todaro, Messina, Edas, 2012, pp. 270.
Salsano Roberto, Michelstaedter tra D’Annunzio, Pirandello e il mondo
della vita, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 102.
Scotto di Carlo Assunta Claudia, “Il vissuto e il narrato”. I Recuerdos
de niñez y de mocedad di Miguel de Unamuno, Pisa, Ets, 2012, pp. 388.
Terrusi Leonardo, I nomi non importano. Funzioni e strategie onomastiche
nella tradizione letteraria italiana, Pisa, ETS, 2012, pp. 272.
«Tutto è degno di riso…». Declinazioni del tragico nella letteratura italiana
tra Ottocento e Novecento, a cura di Antonio Saccone, Napoli, Liguori,
2012, pp. 178.
Valente Isabella, Michele Tedesco. Taccuini, Rionero in Vulture, Calice
editore, 2012, pp. 208.
Vecchi Galli Paola, Petrarca e Boccaccio nella poesia del Trecento, Roma-
Padova, Editrice Antenore, 2012, pp. 120.
Villani Paola, Un mistico ribelle. A-teologia e scrittura in Guido Morselli
con l’inedito Teologia in crisi, Napoli, Graus editore, 2012, pp. 318.